1844
Or l'opre mie non son che esperïenze, Non son che bozze, e un far di fantasia Göthe.
Con pochi timori e senza pretese, io presento al publico questo lavoro più presto adombrato che compiuto. Il fatto storico, a mio credere, assai curioso sul quale è tessuto, e qualche utile idea che domina in esso, mi consigliarono a darlo fuori così come sta e senza farne altro, dal momento che non mi poteva bastare il tempo a condurlo a quell'ultimo termine che pure avrei desiderato.
Un altro lavoro di simil genere che, per molte cagioni, tutta attrasse la mia attenzione e il mio amore, volle che di presente io servissi a lui solo il più perfettamente che fosse possibile, piuttosto che con meno di accuratezza a due in una volta.
I
LA GOLA DEL LEONE.
In una sala del palazzo ducale di Venezia, le cui pareti, tutte coperte di rasce nere, venivano debolmente rischiarate da una sola lampada a sei becchi pendente per tre catene dalla volta; una notte d'agosto del 13… stavano sedute intorno ad una gran tavola diciassette persone; dieci senatori, il doge e sei consiglieri. Era l'eccelso consiglio così detto dei Dieci, raccolto in sessione. Colà dentro facevasi un perfetto silenzio, non interrotto che dal fruscio de' fogli d'alcuni codici che venivano di quando in quando svoltati, da qualche sommessa parola che alcuno dei senatori diceva al suo vicino, e lontano lontano dal romore indistinto, ma incessante di grida e di suoni. Dopo qualche po' d'ora che si continuò in una profonda quiete, uno de' senatori entrò finalmente a parlare:
«Centomila ducati d'oro ci costò la vittoria riportata contro i Genovesi. Ecco qui: i bilanci dei commessari sono di una straordinaria esattezza.»
«Centomila ducati d'oro? è una bella somma.»
«Ma il ricavo del cotone quest'anno ci renderà altrettanto e più: una mano lava l'altra.»
«Sì davvero, possiamo lodar la sorte che ci ha fatti cadere in piedi.»
«Voi dite benissimo, ma se quest'ultima guerra non si fosse protratta tanto tempo, sarebbe stato assai meglio.»
«L'ammiraglio non poteva far diversamente.»
«Lo poteva.»
«Il senator Barbarigo ha ragione, si è temporeggiato inutilmente.»
«Le tre navi grosse che furono incendiate nel golfo della Spezia, hanno stremenzita oltremodo la cassa dell'arsenale.»
«In verità che Candiano fu imprudente.»
«Ottenne la vittoria però.»
«Con troppo scapito della Serenissima.»
«Considerate che Genova è ridotta a mal termine; che la sua flottiglia è dispersa, e che per anni parecchi non ci resta più a temerla.»
«Questo lo credo anch'io, ma Candiano….»
Qui l'interlocutore veniva improvvisamente interrotto da una esclamazione di maraviglia; l'aveva mandata un senatore che stava ripassando alcune carte.
«Che cosa avete letto?»
«È assai strano,» rispondeva quel senatore, «sentite: è uno dei fogli trovati stasera nella gola del leone.»
«Un'accusa?»
«Un'accusa.»
«Contro chi?»
«Sentite.—Se l'eccelso consiglio dei Dieci avesse a suo tempo tenuto d'occhio a ciascun passo del glorioso ammiraglio, a quest'ora ne saprebbe di belle.»
«Oh!… questa è curiosa!»
«Non c'è altro?»
«No.»
«Il caso è molto strano.»
«Ora io domando, chi mai può aver scritte queste parole.»
«È ciò appunto che non si può sapere.»
«Ma che cosa può essere?»
«Forse una vendetta d'un nemico di Candiano.»
«Chi sa?»
«Ad ogni modo ci convien stare all'erta.»
«Faremo chiamare qualcuno de' nostri: come chiamarli?»
«Non importa: stasera parlerò all'Apostolo Malumbra; egli mi saprà scovar fuori alcun che di più chiaro.»
«Va bene, Barbarigo: a dar spaccio a questa faccenda ci penserete voi.»
«Candiano, il fiore de' prodi, il patrizio di cui la Serenissima ebbe sempre a lodarsi; che sotto la corazza d'acciaio ha il valore il più indomito, e sotto la casacca il cuore il più benefico; l'ammiraglio Candiano, che oramai è presso ai settant'anni, mi sembra, illustrissimi senatori, troppo superiore a queste accuse.»
«Il glorioso Candiano è ben fortunato d'avere un sì nobile difensore.»
Attendolo Barbarigo non aveva pronunciate che queste parole, ma il modo con che le avea pôrte, era cosparso di una così fina e gelida ironia che l'ottuagenario doge dovette comprenderlo troppo bene.
«Io ho sessantasette anni,» continuava il Barbarigo, «nacqui il 2 gennaio del 13… il dì in cui nacque Candiano. Abbiamo percorsa una strada medesima sino al punto ch'egli prese il largo in mare, ed io mi chiusi in queste quattro mura. Io lo udiva quando la bollente anima sua si versava quale e quant'era nelle sue parole. Nessuno può conoscere Candiano meglio di me.»
«E così?»
«E così ricordo le parole dell'illustre avo mio:—La Serenissima Republica ha da guardarsi specialmente dagli uomini che portano troppo alta la fronte e troppo confidano di sè stessi.»—
L'ottuagenario doge anche a questo punto fu per pronunciare alcuna parola in difesa di Candiano, ma non osò; qualunque atroce accusa poteva essere pronunciata impunemente in quel luogo. Una parola di scusa era sospetta, e il vecchio tacque.
Dopo qualche tempo uno de' senatori spiegando un foglio sulla tavola:
«L'arsenalotto Tritto,» disse, «continua a tempestarci colle sue suppliche: qui ce n'è una.»
«Questo vecchio è veramente importuno.»
«Bisognerebbe mandarlo allo spedale di San Lazzaro.»
«Benissimo.»
«Ma che cosa domanda?»
«Che si costringa il giovane patrizio Attilio Gritti a passargli un'annua pensione.»
«E perchè?»
«Sapete bene che il Gritti in un momento di mal umore gettò da Rialto in canale il giovane figlio di Tritto che per caso rimase ucciso.»
«Lo sappiamo, ma se fu il caso, il Gritti non ci ha a pensare; d'altronde è voce che sia stato a buona difesa.»
«Dite benissimo, Barbarigo.»
«Se mai si venisse a dare questa soddisfazione al vecchio Tritto, il popolaccio entrerebbe in troppa baldoria.»
«Io so che ieri sera il vecchio si presentò all'ammiraglio.»
«Che lo accolse assai benignamente e gli diede molte speranze.»
«Ciò vuol dire che la sua borsa ci provvederà.»
A questo punto tutti si tacquero.
La sessione essendo presso al suo sciogliersi, si dovevano leggere i processi stesi in quella sera; la qual cosa venne fatta da uno dei consiglieri del doge. Dopo si passò alla lettura delle sentenze di prigionia e di morte; in ultimo alle sottoscrizioni.
Quando ad un orologio a campana suonarono due ore di notte, tutti si alzarono e uscirono l'un dopo l'altro. Accompagnato il doge ne' suoi appartamenti, i sedici personaggi, passando in mezzo agli alabardieri della Republica, discesero per quella scala così nota, sulla quale rotolò la testa di Maria Faliero, chiamata la scala de' Giganti, e attraversato il cortile usciron fuori sulla piazza. Le sedici gondole che li stavano aspettando presso la riva, si videro presto prendere il largo nella laguna e sbandarsi chi per l'una chi per l'altra parte.
Verso mezzanotte, quasi in fondo al canale della Zueca, le finestre e i balconi di un palazzo riboccavano di luce. Era quello il palazzo del senator Barbarigo. A chi guardava stando ad una delle finestre di quell'edificio si presentava una delle più pittoresche scene di Venezia. Presso alla riva erano raffermi alcuni grossi navili che colle vele spiegate ed erette al cielo proiettavano ombre giganti sulle muraglie delle case e de' palazzi; a diverse distanze molte barche pescherecce che riflettevano nelle acque la fiamma alimentata sulla tolda;—come lucciole vaganti che or brillano del lor fuoco fatuo, ora si perdono per ricomparire poi tosto allo sguardo, le gondole illuminate di fanaletti correnti e ricorrenti a miriadi sulla vasta superficie dell'onda inargentata sparsamente e chiazzata dai raggi lunari. E intanto che la vista si deliziava della fantastica scena, canti popolari che, a seconda dei soffi più o men forti del vento, or giungevano distinti all'orecchio, ora in tuoni decrescenti andavano smorendo lontano, e suoni di sistri, di chiarine, di cimbali, che insieme confusi facevano echeggiar l'aria di un romore indistinto, ma continuo.
Agli scaglioni di quel palazzo ingombri di gran moltitudine di maschere, e d'altre persone che salivano incessantemente, eran volte le prore di quasi tutte le gondole che solcavano il canale. Giunte vicino agli scaglioni vi rigurgitavano ad onde gentiluomini e gentildonne che entravano nel palazzo.
Alcuni della folla se ne stavano oziando intenti a quel gran concorso.
«Stanotte pare che Venezia voglia insaccarsi intera nel palazzo del signor Barbarigo.»
«È dalle tre ore di notte che le gondole han cominciato a gettar gente su questi scaglioni, nè pare che si vogliano rimanere.»
«Guarda un tratto.»
«Chi è?»
«Chi arriva?»
«Dà il passo presto; è l'illustrissimo signor Attilio Gritti. Dà il passo, che se mai lo toccassi col mio corpo, mi appoggerebbe tal nespola sulla testa che non mi rialzerei così presto.»
«Lascia, ch'egli è già passato.»
«Io non ho mai conosciuto giovane al mondo più superbo e presuntuoso di costui.»
«Nè si comprende come lo sopporti la Serenissima Republica.»
«Taci che ho veduto gironzare qui presso il Malumbra.»
«Chi è il Malumbra?»
«Giacchè non lo conosci fa di non averlo a conoscere mai.»
«Il Malumbra è un onesto mercante. Io lo conosco benissimo.»
«Ti consiglio però a condurre le cose in maniera ch'egli non t'abbia mai nè a comperare nè a vendere.»
«Ciò mi riesce nuovissimo.»
In questo mentre molte grida e voci d'acclamazione e d'applauso partirono dal punto più lontano della Zueca, là dove l'onda si svolge nel canal Somenzera; dieci o dodici fanaletti che luccicavano in quel fondo, avvisarono che molte gondole si venivano avanzando di conserva, e mano mano che venivano innanzi, si facevano più forti le grida e i battimani. A breve distanza si poterono chiaramente comprendere le parole: Viva Candiano! Viva Candiano! e di lì a poco la gondola nella quale trovavasi l'ammiraglio delle galere, fu presso alla riva. La folla che stava in sulle scalee si divise allora in due per dare il passo all'ammiraglio, rispondendo essa pure con acclamazioni e battimani alle grida che partivano dalle gondole.
Un vecchio di alta e complessa corporatura con tôcco in testa di sciámito riccio, vestito di una zimarra di velluto pavonazzo, dalle cui aperture traspariva la sottoveste di seta color fuoco, mise il piede a terra, volgendo intorno un occhio ancor pieno di fuoco e di sicurezza. L'incedere ritto e speditissimo della persona con certe mosse repentine e piene di energia, mostravano che in quel vecchio era una forza di temperamento che sarebbe stata straordinaria anche in un giovane.
Salutata a dritta e a sinistra la popolaglia che non rifiniva dall'applaudirgli, entrò esso pure nel palazzo Barbarigo.
Messo il piede nelle sale dove ferveano le danze, anche colà venne accolto da un subbisso d'applausi: Viva Candiano, il vincitor de' Genovesi! V'era però un uomo in quel palazzo, al quale quelle voci d'applauso giungevano tutt'altro che gradite. Quest'uomo era il senator Barbarigo che se ne stava tutto solo su di un terrazzo, e avvolto nella sua cappa, porgeva orecchio a quelle grida, accusando di stupido entusiasmo la moltitudine che faceva tanta festa all'ammiraglio. Nel punto che stava agitando codesti pensieri, gli comparve innanzi un uomo.
«Oh sei tu, Apostolo?»
«Son io. Mi avete mandato a chiamare, e non ho tardato a venire.»
«Hai fatto bene.»
«E tanto più che mi sembrò d'aver indovinata la causa per cui mi avete fatto chiamare.»
«La causa? e come puoi tu saperla?»
«Questa sera nella bocca del leone furono trovate due righe che parlavano dell'ammiraglio Candiano.»
«Come sai tu questo?»
«Questo ed altro e, senza dubbio, più di quello che fu detto in quello scritto….»
In questa la moltitudine che soverchiava nelle sale, venne ad occupare anche il terrazzo dove trovavansi i due interlocutori: allora il Barbarigo visto che quello non era il tempo di venire a stretti colloqui, quantunque la curiosità il tormentasse forte, pensò togliersi di là, e detto al Malumbra si fermasse in palazzo fino al termine della festa, recossi nelle sale.
Le poche parole del Malumbra aggiunsero tuttavia un'allegria insolita al senator Barbarigo, il quale era un uomo molto singolare.
Entrato nelle sale, e girato l'occhio per vedere dove fosse l'ammiraglio, gli si recò da presso, e dettegli molte cortesi e gentili parole, mostrò desiderio di far secolui una partita agli scacchi. L'ammiraglio accettò, i due vecchi uscirono.
Intanto alcuni giovani gentiluomini che attendevano, riuniti in un crocchio, a discorrere le varie avventure del dì, come è costume farsi in simili circostanze e in simili luoghi, continuavano un discorso incominciato da qualche tempo intorno all'ammiraglio Candiano.
«Oggi abbiamo applaudito al suo valore. Ma una volta si applaudiva al suo valore e alla bella sua figlia.»
«E la sua comparsa destava due grate sensazioni in una volta.»
«È vero, Steno, io la penso come tu, e la povera Valenzia quando veniva accompagnata da suo padre, a riflettere la bellissima sua figura in uno di questi specchi…. mi ricordo che ciascheduno di noi si contendeva questa leggiadra conquista.»
«Povera Valenzia!»
«Quand'io ci penso, non mi par vero.»
«Se quando venne in Venezia quel nemico di Dio, si fosse affondata la barca che lo portava, forse anche adesso quella bellissima tra le fanciulle ci rallegrerebbe la vista.»
«E in vece….»
«Non ne parliamo più.»
«E in vece colla morte di Valenzia la Serenissima Republica comprò l'alleanza dei Visconti.»
«Chi mai poteva sospettare che il figlio del Visconti dovesse chiedere in isposa la figlia dell'ammiraglio?»
«Oh parliamo di Candia; ma taciamo di questo fatto.»
«E fu strano in vero.»
«Più doloroso che strano.»
«Chi avrebbe mai creduto che la notte in cui tanto sfolgoreggiò la sua bellezza nelle sale dei Mocenigo, quella sarebbe stata l'ultima volta che noi l'avremmo veduta?»
«E fu proprio l'ultima.»
«Tre dì dopo, mi pare ancora di sentire la voce del mio gondoliere:—Questa sera a ventiquattr'ore, la signora Valenzia Candiano è passata all'altra vita.»
«E all'alba del dì prossimo doveva recarsi in San Marco dove il Visconti l'avrebbe impalmata.»
«Pur troppo, e v'andò di fatto, ma in vece dell'alba fu a vespro, e la bara tenne luogo alla lettiga.»
«Dio sa qual effetto le produsse nell'animo il pensiero di quelle nozze.»
«L'effetto è chiaro. Ella morì.»
«E tutta Venezia ne fu sconsolata.»
«Soltanto il vecchio Candiano mostrossi impassibile a tanta sventura, e mi pare ancora vederlo fermo e ritto colla sua gigantesca figura sulle scalee di palazzo colle braccia incrocicchiate sul petto, starsi ad osservare il convoglio delle gondole mortuarie che gli passavano innanzi.»
«E Alberigo Fossano?»
«Ti ricordi di Alberigo Fossano?»
«Me ne ricordo assai bene; perchè è difficile a dimenticare il valore del suo braccio e la virtù del suo canto. D'altra parte praticava assai spesso nella casa dell'ammiraglio, e il dì che il bel corpo della Valenzia fu trasportato sulla bara, io lo vidi piangere come piange un ragazzo.»
«E dopo ch'ella fu seppellita a San Cristoforo della Pace, dove sono le tombe dei Candiano, quel giovane cavaliere non fu mai più visto in Venezia.»
Ad ascoltare questi discorsi s'era avvicinato al crocchio quell'Attilio Gritti che già abbiamo conosciuto quando metteva il piede in palazzo; e sentito parlare di Alberigo Fossano,
«Amici,» entrò a dire, «se mai vi piacesse saper la cagione del gran pianto di quel povero Lombardo, ch'io pure mi ricordo benissimo, vi dirò ch'egli ebbe la sciocchezza d'innamorarsi di Valenzia. Sì, signori, quel povero cavalieruzzo che altro non possedeva al mondo che la spada e il suo liuto, ebbe l'ardire di guardare in volto ad una figlia di San Marco. Ditemi voi se si può dare di peggio. Ma se questo mistero mi si fosse palesato prima che quel buon giovane si partisse da Venezia, io gli avrei fatto uscire del capo tanta pazzia.»
«Un duello m'imagino, com'è uso tuo.»
«E presto l'avrei mandato a ritrovare la bella Valenzia. Ma chi sa? dice il proverbio—che chi non muore si rivede,—e s'egli m'avesse a capitare tra' piedi un'altra volta vi faccio sicuri che allora farò quello che non ho ancor fatto.»
«Era voce però che la lama della sua spada fosse di durissima tempra, e che il braccio d'Alberigo non cedesse alla sua lama.»
«Spezzerò la lama e romperò il braccio. State tranquilli, amici cari, e fate soltanto ch'io possa rivederlo.»
«Ai cinque del mese passato io lo vidi a Milano.» Tutti si volsero a queste parole.
«Oh! ecco il nostro Apostolo Malumbra.»
«Quando sei ritornato?»
«Ieri, illustrissimi, sono stato a Milano; ho veduto a far prigione il Barnabò, ho guardato ben bene la faccia di quel galantuomo di suo nipote; ho sentito i lamenti de' poveri Milanesi. Del resto feci assai bene le mie faccende, ed ho portato con me alcuni bellissimi pugnaletti delle migliori fabbriche di quella città. L'illustrissimo senator Barbarigo, che si degna darmi accesso alle sue camere, ne ha comperato uno che è una vera maraviglia.»
«Domani saremo tutti da te, e cambieremo i nostri ducati co' tuoi pugnali.»
«Amici carissimi, vi faccio osservare che nell'altra sala si beve il vin di Cipro, intanto che noi ci perdiamo in queste inutili parole.»
«Bravissimo, andiamo; faremo nel frattempo una partita alla zecchinetta.»
«Viva la zecchinetta!»
«Viva il vin di Cipro!»
«Viva il senator Barbarigo che ci è largo di tante delizie!»
In una delle camere contigue, seduti ad uno scacchiere, senza pronunciare parola, attendevano al giuoco il senator Barbarigo e l'ammiraglio Candiano.
Chi avesse voluto dall'aspetto d'ambedue quei vecchi dedurre il carattere di ciascheduno, avrebbe detto non potersi dare al mondo due così manifesti contrari. I lineamenti grandiosi ed aperti del volto di Candiano davano a divedere franchezza e lealtà; là dove gli occhi piccoli e fondi del senator Barbarigo, i labbri stretti, la tinta cinericcia del volto, e in tutto il corpo un non so che di tremolo e d'irrequieto, davano a conoscere pur troppo che in quell'animo vi doveva essere qualche cosa di cupo e di tenebroso.
Per certe vecchie ruggini che erano state tra l'una e l'altra famiglia, per certe gare insorte quando cominciarono ad entrare ai servigi della Republica, sapevasi da tutta Venezia che quei due patrizi non erano gran fatto amici tra loro, e tanto più quando corse la voce avere il Barbarigo avversato a Candiano, allorchè in pieno consiglio fu preso il partito di eleggerlo ammiraglio della Serenissima. Dopo le molte vittorie però che Candiano aveva riportate a pro della Republica, e contro le quali non si poteva parlare, il Barbarigo aveva pensato bene infingersi, ed al Candiano offerse amicizia che fu accettata colla buona fede propria a tutti coloro che, essendo di rette intenzioni, non possono sospettar male d'altrui.
Però mentre l'ammiraglio se ne stava seduto rimpetto al suo coetaneo, non aveva neppure un dato per sospettare di che sorta fossero i pensieri che in quel momento ronzavano nella testa del Barbarigo, il quale, co' labbri sempre aperti ad un mezzo sorriso e con una tranquillità e pacatezza veramente senatoriale, metteva le pedine sullo scacchiere.
A sturbare l'attenzione dei due illustri giuocatori, entrarono per caso in quella camera una frotta di giovani che facevano corona all'Attilio Gritti alterato dal bere, e mandavano grandissime risa ad ogni sua parola.
«La Serenissima, mi capite, non mi lascia uscir facilmente de' suoi confini, e qualche cosa bisogna pur fare. Siamo giovani, non ho più che trent'anni. Per Dio… i vini del senator Barbarigo zampillano largamente, e le fanciulle guizzano ch'è una vera maraviglia.»
«A proposito di fanciulle, come sei riuscito a spuntarla colla figlia del Bertuccio che sta in piazza San Giovanni e Paolo.»
«Oh così e così. La ragazza mi piaceva, il padre non voleva e faceva uno scalpore di casa del diavolo. Voi sapete che questi uomini non vanno alla mia natura, e però bisognava che me lo togliessi dinanzi.»
«E come hai fatto?»
«Non mi ricordo bene. Ma so che adesso il buon uomo è allo spedal di San Lazzaro. Alla fanciulla poi ho fatte grandissime promesse, ed ella mi martella dì e notte per sapere quando la sposerò.»
«E quando la sposerai?»
«Appena che avrò pagato i tremila ducati all'ebreo che sta qui in sul canto.»
«E la figlia dell'arsenalotto Tritto?»
«Sappiamo che quel povero vecchio guaisce appena che ti sente a nominare.»
Intanto che si facevano questi ribaldi discorsi, il senator Barbarigo continuava a giuocare colla sua imperturbabile freddezza, poco o nulla badando alle parole d'Attilio Gritti. Non così Candiano, che ad ogni parola di lui si agitava manifestamente, e vi fu un punto che il suo pugno battè con gran forza sullo scacchiere a collocarvi la pedina.
«Ammiraglio, non v'alterate,» dicevagli il senatore, non sapendo indovinare la vera cagione di quel subito sdegno, «il giuoco non va sempre a seconda. Perchè vi alzate, ammiraglio?»
All'udire alcune parole di scherno che il Gritti aveva pronunciate contro il povero arsenalotto a cui aveva ucciso il figlio e tentato disonorare la figlia, l'ammiraglio era di fatto balzato in piedi e fattosi in mezzo a que' giovani che con tanta lena ridevano a quelle ribalderie del Gritti, e movendo intorno la severa pupilla che brillava sotto al folto suo sopracciglio,
«I giovani d'oggidì,» prese a dire, «si danno al bello spirito, a quanto ho potuto sentire. Ma se la memoria non mi tradisce, v'è una legge che ci obbliga, quanti siam figli della Serenissima, a indennizzare coloro a' quali s'è fatto alcun danno.. È una legge del secolo XI, sancita da que' nostri buoni antenati ch'erano specchio di probità e di valore.»
«Le corazze e i morioni di quel secolo,» rispose Attilio, volgendosi a guardar Candiano con un fare tra lo sbadato e beffardo, «sono appese alle muraglie dell'arsenale, e tanto sono irrugginite che non v'è chi più vi badi. Pensate, ammiraglio, che quella legge del secolo XI, è un ferro vecchio da appendersi insieme a quelle corazze e a que' morioni.»
«Torno a ripeterlo. I giovani d'oggidì si son dati al bello spirito. Ma se la Serenissima non vi permette d'uscire, quando il volete, da' suoi confini, v'è anche taluno che avrà forza da farvi stare entro i confini della giustizia. Per Dio, non c'è da ridere, cari miei. Questi giovinotti d'oggidì ridono per un nonnulla, è una vera sciocchezza.»
«Questa parola, se non l'avesse pronunciata l'ammiraglio, avrebbe fatto uscire questa spada dal suo fodero.»
«Sta quieto, mio prode, a miei tempi il milanese Battista Mandello dava lezioni di scherma in arsenale, e fece ottimi scolari. Vorrei sapere se i giovani d'oggidì valgono i giovani d'una volta.»
A queste parole l'Attilio Gritti, che per costume non aveva rispetto di chicchefosse uomo del mondo, e per soprappiù era alterato dal vin di Cipro, voltosi a suoi compagni, e dando in uno scoppio di riso,
«A colui, disse, che ricorda così bene i provvedimenti della Serenissima Republica, è uscito di mente che in riva al canal San Secondo, fu eretto uno spedale pei vecchi cadenti. A colui bisognerebbe rammentarlo.»
Candiano, a quest'ingiuria, non potè durare nella dignitosa sua calma. Il volto gli si accese, e le parole gli borbogliarono sulle labbra senza che potesse pronunciarle intere. Stato così per qualche tempo,
«I vecchi,» rispose, «che hanno ricordata la legge del secolo XI, i vecchi la faranno osservare ai giovani che son privi di memoria. Ho sentito dire di un tale che in cinque anni ha ucciso un gran numero di cavalieri in duello.»
«E quel tale sarei forse io.»
«Benissimo,» continuava Candiano, «occhio acuto e braccio forte fanno il miglior schermidore. A miei tempi lo fui anch'io; però anche di presente, che conto sessantasette anni, il mio occhio sa fissare il sole, e il mio braccio può ancora rattenere la fuga di una corvetta nemica. Questo ve lo dico perchè tutti lo sanno, e anche tu lo dovresti sapere.» E in così dire venne squassando con sì gran forza il braccio d'Attilio, che il giovane se lo sentì intormentire; però, volto al vecchio pieno di livore e d'odio,
«Ringraziate Dio e san Marco,» disse, «che abbiate trentasette anni più di me; che altrimenti i vostri eredi avrebbero riso domani.»
Il parlar alto del giovane Gritti fece che in quella camera s'affollasse gran parte delle persone che trovavansi a quella festa per vedere e sentire di che cosa mai si trattasse. Il Candiano non pensò già di tacere in faccia a coloro. Anzi con voce più alta e con modi più severi e solenni, così prese a dire:
«Giacchè mi costringi a parlarti più chiaro, o meschino beffardo, sappi che le mie parole non saranno senza effetto. Tu hai offeso la povera famiglia di Tritto, e dopo avere attentato all'onore dell'innocente sua figlia, hai ucciso il prode fratello di lei, unico sostegno della miserabile famiglia. Quel vecchio è venuto a supplicarmi perchè io m'interponessi al suo vantaggio, e un momento fa chi aveva commessa tanta ingiustizia, se ne gloriava irridendo le lagrime del vecchio desolato. Per Dio, mi penso che codeste tristizie facciano orrore agli stessi Barbari, a cui facciamo la guerra, e de' quali parlasi fra noi con tanto disprezzo. Però in faccia a tutta questa buona gente ti chiamo vile e infame, e così sempre ti chiamerò infino a tanto che non avrai obbedito a quel che vuole la legge.»
«Senator Barbarigo,» disse Attilio per risposta a quelle parole, sforzandosi a celare lo sdegno sotto l'apparenza dell'ironia, «sarete persuaso che questa sera il vostro vin di Cipro ha fatto male a qualcheduno.»
«Stolto beffardo,» proruppe allora Candiano, «in faccia a queste illustri persone non mi degno ora più di risponderti con parole. In faccia a queste persone io ti do quel solo che meriti. Prendi, e va sfregiato per tutta la vita.» E così dicendo d'un manrovescio percosse la guancia al giovane Gritti.
La mano di Attilio, in men che non si può dire, brandì lo stiletto, e fece per gettarsi sul corpo di Candiano. Per buona ventura si era esso ritratto a quella furia del giovane, e di traverso afferratolo per la mano, lo sforzò colle potenti sue strette ad abbandonare quell'arme, intanto che molti fra gli astanti s'erano fatti intorno al Gritti per rattenerne la furia. Nè si può con parole dipingere al vero come colui si venisse contorcendo vedendosi chiuso il campo ad una subita vendetta, basti il dire che a versar fuori quello spasimo di rabbia che lo aveva invaso, s'era per tal modo stretto co' denti il labbro inferiore che ne fece spricciar vivo sangue.
«Per ora è bene che tu sappia,» continuava Candiano, «che il mio palazzo è in canal grande, che in Venezia vi son molti luoghi remoti per ribattere un'ingiuria, se mai tu ti credessi offeso, e che a me non pesano ancora i miei sessantasette anni. In quanto alla famiglia del povero Tritto ci provvederò io medesimo…..» E senza più altro si tolse di là.
Dopo que' primi soprassalti d'ira, il Gritti aveva subito una specie d'atonia, che lo fece durare immobile nel mezzo della camera per molto tempo. Non parea vero al borioso e spavaldo giovane d'aver potuto sopportare una sì grave offesa; intorno a lui frattanto ogni cosa erasi rimessa in calma, chè tutti gli astanti, ad uno ad uno, l'aveano abbandonato, non osando più rivolgergli una parola; e il senator Barbarigo, fin dal punto ch'era cominciata la contesa, avea pensato uscire di quella stanza.
Vi ritornò per altro di lì a qualche tempo. Fermatosi in prima a riguardare il Gritti ed accostatosi a lui,
«La campana di Sant'Elmo,» disse, «suonò dieci ore. Quasi tutta la gente è dileguata dal mio palazzo, i doppieri più non brillano, ed è un'ora buonamente che tu stai qui solo ritto, immobile e cogli occhi a terra. Che cosa pensi?
«Se nel vostro vin di Cipro,» rispose Attilio scuotendosi d'improvviso, «aveste gettato polvere d'arsenico, penso che io avrei dovuto ringraziare mille volte la mia fortuna.»
«I morti non seppero mai vendicare le offese ricevute.»
«Chi mi parla qui di offesa, chi ardisce ricordarmela? Senator Barbarigo, non mi traete in furore, e se vi fu taluno che in faccia a tutta Venezia osò svillaneggiarmi, svillaneggiar me che non ho mai patito sopruso da chicchefosse uomo del mondo, è tal cosa che ciascuno dovrebbe fingere di non sapere in faccia me.»
«Un'ingiuria che dev'essere vendicata, deve essere ricordata, Attilio.»
«Questo lo credo anch'io.»
«Dunque?»
«Dunque, io sono sì sprofondato che non vorrei mai più veder luce, nè uscire mai più fuori all'aperto: pure se mi venisse in pensiero qualche atroce modo a vendicarmi, qualche cosa di straordinario, d'inaudito, di orribile, penso che tosto lo manderei ad effetto.»
«Lascia fare al tempo, Attilio, e a rivederci domani.»
Queste parole di congedo furono pronunciate dal Barbarigo, quando sentì bussare alla porta della camera.
Attilio si tolse di là, mentre entrava Apostolo Malumbra.
Il suono de' sistri era cessato, il romore dalle sale era passato ai piedi del palazzo, e sulle gondole partivano le persone ch'erano intervenute alla festa.
Il senator Barbarigo, chiusa allora la porta della camera a chiavistello,
«Siamo soli,» disse al Malumbra, «ora tu puoi parlare liberamente. Raccontami tutto;» e si gettò a sedere su di un ampio seggiolone.
«Prima vorrei pregare la signoria vostra illustrissima a farmi degno di dirle due parole con libertà.»
Il senatore gli accennò che parlasse.
«Io so che la Serenissima Republica dà trecento ducati di premio a chi sa svelarle alcuna cosa di grave importanza.»
«E tu avrai i trecento ducati dalla Serenissima, e qualche cosa di più ti verrà dato dalla mia borsa particolare. Ti dirò poi quando tu debba presentarti innanzi al consiglio dei Dieci.»
«Va bene, ora udrete da me tali cose che in mille anni mai non avreste imaginate le simili.»
Erano le ultime ore della notte, le sole ore di profonda quiete in Venezia. Il vecchio Barbarigo, colla testa china e colle mani incrocicchiate sul petto, si pose ad ascoltare le parole del Malumbra.
Siccome questi nel fare il suo racconto dovette di ragione tacere assai cose che il Barbarigo già sapeva, ma che per la chiara intelligenza del tutto, al nostro lettore deve importar di conoscere, così noi medesimi ci faremo a narrare la storia del fatto, al quale non ci sovviene d'aver trovato mai caso che rassomigli in alcuna parte; che se dessa parrà un po' strana e maravigliosa, preghiamo il lettore a non volerla poi tacciare d'inverosimile, ed a considerare in vece che ci fu tramandata da un cronista contemporaneo agli avvenimenti che imprendiamo a narrare; che appunto perchè alquanto maravigliosa, fu scelta ad argomento di queste pagine, non mettendo conto di raccontare ciò che siam usi a vedere in ogni incontro della vita comune; che l'essere il fatto straordinario, e l'esservi implicati uomini d'una tempra per certo qual modo straordinaria ci aprirà forse il campo a scoprire alcun nuovo rapporto tra le cose di questo mondo ed a svolgere qualche piega intentata dei cuore umano.
II
IL PADRE E LA FIGLIA.
Il lettore si ricorderà delle poche parole che già sopra si sono dette intorno all'ammiraglio Candiano e ad una sua figlia chiamata Valenzia, che, incontrata una sventura per lei insopportabile, ne dovette poi morire.
Quattro anni prima della notte a cui siamo con questo racconto, nel palazzo ducale, la metà di Venezia era intervenuta per udire un cavaliere lombardo che diceva maravigliosamente all'improvviso, e che aveva inoltre assai buon nome nell'arme. Erasi esso recato a Venezia nella sua qualità di cavaliere aureato, per accompagnare l'ambasceria del Conte di Virtù. Appena il giovane comparve nella sala, l'avvenenza della persona e il decoro de' suoi modi, come suole intervenire, cominciò a disporre così bene gli animi di tutti coloro che già avevano sentito a dire di lui tante meraviglie, che uno scoppio d'applausi, alzatisi spontaneamente da tutte le parti, fu il primo saluto che gli fu reso. Come adesso, anche allora era costume che gli uditori dessero i temi del canto, ed egli per guisa li venne svolgendo, accompagnandosi col liuto che toccava mirabilmente e spiegando una voce soave con tanta virtù e tant'arte, che l'aspettazione di tutti non solo fu appagata, ma superata di lunga mano. La maraviglia del dire all'improvviso, se tu l'accompagni coll'incanto delle noti vocali, ha tale un fascino che può facilmente mettere impressioni profonde in un cuore sensitivo. Una fanciulla che di poco aveva passato i diciassette anni, che fino a quel dì tra le cure tranquille dell'età sua s'era sempre mostrata d'una gaia e festosa natura, quando uscì di quel palazzo, e saltata nella gondola, venne ricondotta tra le donne e i servi nella sua casa, si sentì oppressa improvvisamente, e quasi che ella medesima non ne sapesse indovinare la causa, di un'arcana molestia che la faceva tutta pensosa, e non le lasciava più bene. La bella e florida giovinetta era la figlia dell'ammiraglio Candiano, che in quel tempo trovavasi colle galere sul Mediterraneo. Il volto del giovane cavaliere, il muovere degli occhi di lui, quella sua voce piena d'una mesta ed ineffabile dolcezza, per tal guisa le si erano fitte nell'animo, che per il resto della notte non potè mai liberarsi affatto affatto di quel pensiero, e provava un'agitazione, un'inquietezza, una specie di desolazione, ma di un genere particolare, e pur mista ad una fantastica ebbrezza che di quando in quando le faceva provare certi repentini soprassalti che mai non le permisero di chiuder occhio interamente. La mattina un forte pensiero, assalendola d'improvviso, le fece provare un così acuto dolore che quasi era prossimo a disperazione. Come mai la passione, in così breve giro di tempo, aveva potuto invadere il cuore di Valenzia, con tanta forza da farle venire in mente la legge inesorabile che vietava le nozze tra una figlia di San Marco ed uno che non fosse patrizio se veneto, o non fosse re o figlio di re, se straniero? Come mai codesta legge aveva potuto recarle già tanta molestia da farle maledire la sorte che l'avea fatta nascere in Venezia? Il fatto è così appunto, e all'ingenua fanciulla potè venire in mente un simile pensiero. Passarono così alcuni giorni, nè alla giovane intervenne mai cosa che potesse confortarla di qualche speranza, giacchè con accanto di continuo la severa sua governante, alla quale per nessun conto avrebbe voluto che fosse trapelato nulla di quel suo affetto, e chiusa per lo più nelle stanze del proprio appartamento, vedeva bene che era troppo difficile ch'ella venisse mai ad incontrarsi un'altra volta in quel giovane cavaliere. Per buona, o meglio per mala fortuna il caso volle secondarla troppo bene. Il suo padre Candiano, col grosso delle galere, era tornato nel porto di Venezia. L'arrivo di quell'uomo, che tanta parte aveva nelle publiche vicende, fece che per tutta Venezia si parlasse di lui, e, d'uno in altro discorso, anche dell'unica e bellissima sua figlia. In un crocchio di giovani dove soleva praticare Alberigo Fossano, che tale era il nome del cavaliere lombardo, si venne appunto a parlare della Valenzia, e tanto bene si disse rispetto alla maravigliosa avvenenza e virtù di lei, e aggiungi il prestigio dell'esser figlia a quel glorioso uomo, che ad Alberigo, così come suol prendere vaghezza ad un giovane, venne voglia di vederla. L'arrivo dell'ammiraglio Candiano a Venezia, illustre per una recente vittoria riportata contro la flottiglia pisana, fece che in que' dì ad altro non si pensasse che a feste e luminarie. Venne la volta sua anche al Candiano, che volle invitare tutta Venezia ed una gran festa nel proprio palazzo. Come è facile a credere, Alberigo vi fu invitato per dare una prova dell'arte sua, e di buon grado egli v'intervenne. Così l'avesse potuto impedire qualche caso impreveduto, che si sarebbe spezzato il filo di tante sventure che la sorte allora cominciava ad ordire a que' due poveri giovani. Lasciamo pensare al lettore che effetto producesse nell'animo di Valenzia la notizia che quel cavaliere, che tanto l'avea fatta maravigliare nelle sale del doge, sarebbe venuto la sera nel suo medesimo palazzo. Basti il dire che il medesimo suo padre Candiano, lontano com'era le mille miglia dal congetturare ciò che passava nella mente della sua figliuola, dovette tuttavia accorgersi di qualche cosa di nuovo che erale entrato nell'animo. Non ne fu nulla però, che, pieno com'era egli di cure assai più gravi, ben presto fu divagato ad altro. Venne la sera. Alberigo mise il piede nelle sale dell'ammiraglio. Vide la figlia di lui…. le parlò. Ch'egli siasi accorto di aver destato nell'animo della fanciulla alcuna simpatia di sè, è troppo facile il crederlo; e tra per questa circostanza che in lui destò quel senso indefinito di gratitudine che uom prova quando sa che una donna si prende alcun pensiero di lui, tra che la bellezza veramente straordinaria della fanciulla fortemente lo colpì, egli sentissi pure trascinato, forse suo malgrado, ad amare quella giovinetta.
I pericoli che incontrava un gentiluomo straniero se mai osasse mettere gli occhi su di una figlia di San Marco, la legge che vietava ad una veneziana il maritarsi fuorchè ad un patrizio veneto o ad un re o principe straniero, tutto era ben noto anche al giovane Alberigo. Ma troppo spesso l'ingegno dell'uomo si irrita delle difficoltà e le vuol vincere, e quando il segno è reputato impossibile a raggiungere, è allora appunto ch'egli s'intesta di rivolgervi le proprie mire. Così è appunto. Vedeva inoltre che tra i giovani patrizi veneziani era una gara per rapirsi uno sguardo di quella fanciulla; vedeva che ciascheduno avrebbe ascritto a propria gloria il poterne vincere gli affetti; ed egli già era certo d'aver ottenuto quello che gli altri non potevano che desiderare, Venuto in quella sera a stretti colloqui col Candiano medesimo, egli seppe comportarsi così bene parlando con quell'uomo pieno d'onore e di virtù, e per sua parte fu tanto maravigliato dai modi affabili e sinceri dell'illustre ammiraglio, che presto nacque tra loro una stretta amicizia. Quando poi Alberigo fu al punto di dovere dar prova dell'arte sua, tra per i vari affetti da cui l'animo suo era agitato, tra per quell'esaltazione di spirito che ne è la naturale conseguenza, seppe dare tanta forza e tanta verità e tanta magia al suo canto che tutta l'adunanza ne fu scossa al punto che anch'essa pareva invasata dell'esaltazione di lui. La figlia di Candiano, che assai teneva della sincera indole del padre, e che oramai non poteva più rattenere in sè l'impeto dell'amore, per quella medesima ingenuità che non sa trovar una colpa nelle impetuose passioni del cuore, disse ad Alberigo parole di tanta dolcezza e tanta bontà che egli se ne sentì fin nel più intimo dell'animo suo. In quel momento nè l'una nè l'altro pensarono più alla legge inesorabile della Republica. Essa non era già la figlia di San Marco, ned egli uno straniero. In faccia l'uno dell'altro non erano più che due esseri liberi di sè e non dipendenti che dalla legge dell'amore. Non pensarono i due giovani ai mali che avrebbe partorito l'inconsiderata loro passione, sorta improvvisa nei loro cuori quasi per virtù di magia. Nè poteva pensare il prode Candiano che in quel momento i destini preparavano la rovina della sua casa e di lui.
I due giovani però, quantunque abbastanza sapessero ciò che passasse a vicenda negli animi loro, non ne tennero mai chiare parole in proposito; ma come Alberigo, avendo stretta amicizia col Candiano, trovò modo a frequentare, più spesso che non avrebbe potuto, la casa di lui; colla continua pratica, tanto si vennero riscaldando l'uno dell'altro che più non potevano oramai senza pena vivere un solo momento distanti. Nè di nulla se n'era addato il Candiano, nè altri che praticavano con lui, perchè il pensare che la Republica aveva sancita quella legge, e che gravissimo delitto ei fosse il contravvenire ad essa in una minima parte, rintuzzava tosto i sospetti quando mai avessero potuto sorgere nella mente di taluno. E i giovani d'altra parte si comportavano sì decorosamente che, se non impossibile, era difficile certo l'intravederne qualche cosa. Di questo tenore passò buonamente un mese senza che mai caso intervenisse nè a scemare nè ad accrescere la felice loro condizione.
Di quel tempo Bernabò Visconti, messo continuamente alle strette dalle armi temporali del Santo Padre, per tacere delle spirituali, aveva pensato accostarsi all'amicizia de' Veneziani, ed a ciò spedì a Venezia il suo secondogenito Carlo insieme a due oratori della sua corte.
L'arrivo a Venezia di un figlio di quel potente e terribile signore, la cui fama, o infamia che si voglia dire, era sparsa per tutta Italia, fu senza dubbio un avvenimento che fermò l'attenzione di tutta la città. Del resto alla Republica, quando udì le proposizioni del Visconti, parve avere buonissimi patti, onde non fu lenta a venire all'accordo, tanto più che già da gran tempo ella desiderava confederarsi a quel potente signore.
E in quanto al popolo veneziano, che sapeva troppo bene le atrocità di quella casa, s'affollava intorno al figlio del Visconti ogni qual volta ei compariva in publico. E l'aspetto di lui era tale che se non accresceva l'idea terribile che ognuno s'era fatto di quella famiglia, certo non l'attenuava. Giovane di ventott'anni e poco più, era assai vantaggioso della persona, ma nel suo incedere, ne' suoi moti, in ogni suo gesto era un tal misto di selvaggio, di crudele e di beffardo che metteva in ciascuno che lo vedesse, un senso di paura e di disgusto indicibile. Tenente assai del padre, aveva barba folta e rossiccia che gli copriva tutto il mento, e non gli lasciava scoperti che i labbri; di belle linee nel resto della faccia, di una tinta assai forte e rubizza. Ma non è parola che possa ritrarre al vero quella scintilla d'astuzia e di ferocia che gli brillava tra ciglio e ciglio, quasi che in lui si fossero congiunte le due nature della volpe e del leopardo. E davvero che quando parlasi di quel ceppo monstruoso dei tre Visconti, Matteo, Galeazzo e Bernabò, a renderne meglio che si possa il ritratto, è proprio forza istituire il confronto co' bruti e colle belve, chè anche, a volerne rintracciare le somiglianze tra i selvaggi dove la natura umana è più viziata e più eccezionale, se ne vien sempre a dare una debole imagine.
Bernabò, a stringere l'alleanza con legami più sodi, aveva consigliato al figlio Carlo chiedesse alla Serenissima Republica in isposa la figlia di uno di que' patrizi; ma egli dopo essersi guardato attorno ben bene, ned essendosi incontrato in nessuna che le piacesse, pensava già partire di Venezia senza farne altro; quando in una delle ultime notti ch'egli se ne doveva rimanere in Venezia, essendo stato invitato ad una delle più splendide feste che mai potesse offrire il doge a principe straniero, colà gli venne veduta la figlia dell'ammiraglio Candiano. La sensazione ch'egli ne provò quando la vide, non fu già quella che suole comunemente invadere chi sentesi trascinato ad amare qualcheduno. Amore, nel senso più bello della parola, non era certamente il suo, ma era tuttavia alcuna cosa che gli si accostava: un desiderio di padroneggiarla, di possederla; una rabbia al solo pensare che altri mai avesse a poterla chiamare sua donna. Quella notte medesima pensò accostarsi a quella fanciulla, e la balda e feroce sua natura parve si venisse mitigando un tratto quando si fece a rivolgerle alcuna parola. E in quanto alla Valenzia che aveva sentito a raccontare così atroci istorie del padre suo e di lui, che sin dal primo momento che l'avea veduto in una gondola a passare sotto le sue finestre, forse perchè era stata così malamente prevenuta, sentì tutta invadersi di un senso indefinito di ribrezzo, pareva trovarsi su carboni ardenti e peggio, finchè fu costretta a rispondere alle domande di lui, e ad ogni tratto si rivolgeva a cercare cogli occhi o il padre o la governante o le sue amiche perchè la togliessero di quel tormento. Nè certo le parole che il Visconti le diceva valevano a rassicurarla punto, che dopo quella prima sfioritura di cortesia con che s'era sforzato a far velo al proprio selvaggio talento, la baldanza delle sue espressioni con certe occhiate procaci e penetrative, altro non fecero che mettere assai più di diffidenza nell'animo della giovinetta. Un vago terrore, di cui non sapeva bene rendersi ragione, fu a lei compagno in quella notte, e quando si fu ridotta nella stanza segreta della sua casa, nel mentre lasciavasi andare alle tenere e soavi illusioni dell'amore che troppo l'avea legata ad Alberigo, e vedeva pur sempre coll'occhio della calda fantasia la bella figura di quel giovane, d'improvviso le s'intrometteva fra que' pensieri dorati la cupa e terribile figura del Visconti. Davvero che nell'uomo è alcuna cosa talora che gli fa presentire, quantunque in confuso, ciò che il suo destino gli vien preparando, giacchè qual motivo poteva avere la Valenzia di corruciarsi tanto pensando al figlio del Bernabò, se ella non aveva neppure una ragione per temerlo?…
La mattina del giorno che susseguì a quella notte, l'ammiraglio Candiano ebbe invito di recarsi dal doge. Colà v'era il figlio del Visconti, v'erano i senatori, v'erano i procuratori di San Marco. Con parole abbastanza dolci in apparenza, ma che racchiudevano in realtà il più stretto comando, gli fu domandato se in quanto a lui non si rifiutava a concedere la sua figlia in isposa al Visconti. L'ammiraglio Candiano, come lo avrebbe dovuto ciascun altro dell'indole sua e delle sue virtù, abborriva e detestava apertamente il nome di Bernabò; però, come udì una simile proposta, si senti tutto avvampare di sdegno, che non si versò per altro nelle sue parole, e stette per qualche tempo perplesso e in grandissima agitazione prima di rispondere. Ma gli occhi de' senatori erano fissi in lui, e volevano dire che al partito ch'era stato preso, non era autorità paterna che si potesse opporre. L'ammiraglio Candiano senza parlare chinò la testa soltanto, e tutti mostrarono prendere quell'atto come una decisa risposta.
La notizia di quegli sponsali non tardò a spargersi per tutta Venezia. Alle mense del senator Grimani, dove Alberigo era stato invitato, si parlò, com'era di ragione, di quell'avvenimento, e il giovane non seppe dominarsi così che nulla trapelasse del repentino suo turbamento. Quantunque fosse preso del più sviscerato e sincero amore per Valenzia, non aveva tuttavia mai osato sperare potesse mai giungere a congiungersi in nozze con lei, che ben sapeva come le leggi della Republica fossero di ferro; ma senza pensare a nulla che non fosse l'amore per Valenzia, illudevasi e lasciava andar le cose a beneficio di fortuna Alcuna volta bensì, in uno di quei momenti che la passione si lascia un tratto padroneggiare dalla ragione, aveva pensato che un dì o l'altro quella che tanto amava, avrebbe pur dovuto andar sposa a qualcheduno. Ma codesto fatto riferivasi allora ad un tempo indeterminato, e il pensarvi non poteva essere gran che doloroso. Or si consideri la condizione del povero Alberigo, quando egli si trovò gravato di quella sventura che aveva temuta lontana.
Uscito il più presto che gli venne fatto dalle sale dei Grimani, che colà dentro gli si era fatta insopportabile l'allegria baccante che lo circondava, saltò in una gondola, e dalle ventitrè ore fino a notte chiusa, seduto nel fondo e colla testa appoggiata alle palme, corse e ricorse per quei canali facendo mille pensieri e maledicendo continuamente la propria fortuna. Quando a tutti gli orologi suonò la prim'ora di notte, per caso egli venne a trovarsi in canal grande, e alzando un tratto la testa e veduta la nera massa del palazzo di Candiano, tentato ancora da una vaga speranza che le nozze della Valenzia col Visconti fossero al tutto una finzione, prese il partito di salire negli appartamenti dell'ammiraglio.
Confuso com'era e alterato da mille affetti che tumultuavangli nell'animo, senza punto domandare a' servi se gli era permesso l'accesso, entrò, come lo sospingeva la passione, nelle sale dove di solito soleva ridursi il Candiano. Era la prim'ora di notte, attraversa due o tre sale oscure, passa in un'altra; ode un singhiozzo continuato e straziante, si ferma ad ascoltar meglio. Nella stanza vicina la lampada ch'era accesa, mandava un po' di lume anche in quella dove trovavasi Alberigo. I singhiozzi continuano, poi ode a parlare. Conosce che è Valenzia, e dal contesto delle parole piene di un dolore e di una disperazione indicibile, viene a comprendere che trovavasi con suo padre. La pietà che gli si gettò improvvisamente nel cuore, a quel pianto, a quelle parole, fece sì che anch'egli non potè dominarsi tanto da trattenere le lagrime.
In un momento che nella sala contigua si fece un profondo silenzio, il suono del suo pianto si udì troppo bene, ed al Candiano che se ne stava ritto e immobile, confuso esso pure dall'enormità della disgrazia e dall'angoscia straziante della povera sua figlia, che, gettatasi a' piedi di lui e strettegli le ginocchia, non aveva mai voluto rilevarsi, parve di sentir qualche cosa, ed entrato in sospetto e svincolatosi dalla fanciulla che facea forza a tenerselo stretto, entrò dove trovavasi Alberigo. «Chi è qui?» disse Candiano, e nel fare questa domanda ravvisò tuttavia in quel barlume di luce la figura del Fossano. Un momento prima la figlia aveagli confessato com'ella fosse presa d'amore per quel giovane, e il buon Candiano che amava l'unica sua figlia di una tenerezza straordinaria, e che non seppe trovare alcun delitto in quella innocente passione, non seppe neppure adirarsi trovandosi d'aver presso colui, pel quale vedeva pur troppo che dovevasi andare incontro a dolorosissime vicende. Nel frattempo Valenzia, a seguire il padre suo cui voleva costringere a prometterle non l'avrebbe giammai sagrificata concedendola al Visconti, entrò essa pure nella stanza dove trovavasi Alberigo. Mandò un grido represso alla vista di lui, e dovette appoggiarsi alla parete per reggersi sulle gambe che male la sostenevano. Tutti e tre stettero per molto tempo in un perfetto silenzio. Il vecchio Candiano, ritto nel mezzo della camera colle braccia incrocicchiate sul petto, la testa china e gli occhi fissi quasichè osservasse un oggetto con attenzione; la povera Valenzia che guardava di sottocchio il padre suo come per ispiare quel che venivasi svolgendo nell'animo di lui, e di quando in quando guardava Alberigo, il quale, fuori di sè, teneva costantemente gli occhi su di lei. E quantunque stessero muti, pure ciascheduno di loro comprendeva troppo bene quel che passava nell'animo dell'altro. Al tristo silenzio di que' tre personaggi, al cupo dolore che variamente li atteggiava, alla smorta luce che li vestiva, faceva poi un troppo sentito e doloroso contrasto il romore festante che udivasi al piede del palazzo sulla laguna, e le grida e i canti dei gondolieri. Non v'è cosa che più accresca il dolore di che uno può essere compreso dell'istantaneo confronto che ei fa coll'altrui gioia. Il considerare che di quella spensieratezza giuliva che ne circonda, noi pure potremmo godere se non fosse venuto a sturbarci un ordine inaspettato di cose, e ciò che accresce a più doppi il peso della sventura che ci ha assalito.
Dopo esser durato gran tempo in quella posizione Candiano a un tratto si scosse, e accostatosi a Valenzia presala per la mano seco la condusse fuori di quella stanza, lasciando solo il Fossano. Ma dopo pochi momenti rientrò. «Tu l'hai veduta,» disse, accostandosi al Fossano che gli alzò in volto gli occhi con tale atto che pareva si destasse allora da un sonno profondo. «Tu l'hai veduta, e chi la rese così infelice, tu lo sai;» e tacque per un poco.
«Se al consiglio de' Dieci potesse mai trapelare ciò che è passato nel tuo cuore e nel cuore di quella povera sventurata, credilo a me che c'è da inorridire pensando a quel che avverrebbe di noi tutti. Io non ho con te rancore di sorta però… tu non ci hai colpa. Ma vattene con Dio; e non mettere mai più il piede in questa mia casa. A quella povera fanciulla intanto provvederà Iddio, che in quanto a me non posso più nulla per lei.»
Il Fossano fece per rispondergli qualche parola, ma il Candiano lo pressò ad uscire, onde all'infelice giovane senza più altro convenne partirsi.
Quando il Candiano si trovò solo, ritrattosi nella sua stanza, si gettò su di un ampio seggiolone, e colà stette vegliando gran parte della notte.
Egli era scrupoloso osservatore delle leggi, ed anche a' suoi soggetti le faceva osservare con estremo rigore. Essendo però tanto più ligio alle leggi della sua patria, quanto più aderivano alle eterne della natura, lo scrupolo dell'osservanza in lui veniva scemando qualora in una legge creata da un bisogno fittizio della società, ci fossero gli elementi dell'assurdità e dell'ingiustizia, e non seppe mai acconciarsi ad ammettere che le leggi relative potessero per nessun caso opporsi alle assolute.
E se gli accidenti della sua vita fossero sempre stati tali da non metterlo nella condizione appunto di dover sottostare ad una di quelle leggi, noi non avremmo a narrare la presente storia, e il nome di Candiano forse sarebbe registrato ne' fasti dei dogi veneziani. Ma l'aver egli avuta troppo spregiudicata la mente, l'animo troppo generoso, e il cuore troppo buono, fu causa d'ogni sua rovina. Ma non preveniamo gli eventi.
In quella notte egli stette pensando e ripensando ai mezzi di poter liberare la diletta sua figliuola dalle mani del Visconti, ma per quanto colla sua mente sagace si sforzasse rintracciarne alcuno, non gli venne però mai trovato. Anzi quanto più durava in questa idea, tanto più vedeva che il caso era assolutamente disperato, e che in vece di provvedere al modo di liberarsene conveniva pensare a darsi pace ed a confortare più che si poteva Valenzia ad accettare quel che voleva la Republica. Ma il dolore, le lagrime, le preghiere della sua figliuola, troppo le stavano nella memoria e nel cuore. E in quanto a lui non reggeva all'idea che la sua figlia fra poco dovesse andar nuora di quel Bernabò, le cui atrocità, magnificate d'aggiunta anche dalla fama, lo aveano sempre fatto inorridire. Amante com'egli fu sempre della patria sua, a tale da mettere la propria vita in qualunque occasione per la difesa di lei, egli aveva sempre ascritto a sua fortuna e gloria l'essere cittadino e patrizio di Venezia; pure in quella notte, per la prima volta, sentì con vera molestia il peso di essere veneziano, e maledisse a chi aveva sancita quella legge assurda e spietata.
Alberigo intanto, veduto come assolutamente si fosse chiuso l'orizzonte ad ogni sua speranza, che in quanto a lui non avrebbe mai più riveduta la povera sua Valenzia, che l'abborrito Visconti l'avrebbe trascinata con sè, si sentì oppresso da un'angoscia così intensa che desiderò di morire. Si ridusse ad una sua casetta che aveva verso il lido, si chiuse nelle sue camere, e gettato l'occhio ad una daghetta acuta che teneva appesa al capezzale, dispose con quella aprirsi le vene e così lasciarsi morire oncia ad oncia. Ma d'uno in altro pensiero, nel fervore della sua aberrazione, pensò che, giacch'egli aveva stabilito uccidersi, gli conveniva dapprima prendere un partito risoluto e impedire, coll'ammazzare il Visconti, che la povera Valenzia avesse ad essere sua sposa. Così fermato, giacchè fra due settimane dovevano compiersi quegli sponsali in San Marco, stabilì mandare a compimento il suo disegno prima di quel termine, e fisso in questo passò la notte mezzo vegliando tra sogni sinistri. Ma un'altra notte lo attendeva assai più funesta di quella. Alcuni dì dopo, in sulle ventiquattro, uscito della sua casa, e recatosi in piazza San Giovanni e Paolo, incontrasi in un servo dell'ammiraglio Candiano: ambedue si fermano.
«Dove vai così di fretta?» gli disse il Fossano.
«Corro pel prete, messere: lasciatemi andare, che non è alcun tempo da perdere.»
«Pel prete, hai tu detto?»
«Dunque non sapete nulla, messere?»
«Nulla io so.»
«Alla signora Valenzia venne stanotte un malore di sì fiera natura che in questo breve spazio di tempo me l'ha ridotta in termine di morte.» E visto che il Fossano rimaneva impietrito a quelle parole, ma pensando più in là e stretto dal tempo, lo lasciò in mezzo della via e corse dritto in San Marco.
Per molto tempo stette là il Fossano più stordito che altro a questo nuovo colpo. Ma poi, più non pensando alle parole di Candiano che gli avevano proibito di metter piede nel suo palazzo, senza saper bene quel che si volesse fare, volle recarsi colà. Vi giunse nel momento che il prete, accompagnato dal servo, saliva sulle scalee del palazzo.
«Messere, siete arrivato troppo tardi,» dissero alcune voci a quel sacerdote. «Ella è passata in questo punto medesimo. Altro non vi rimane che pregare per quell'anima benedetta.»
Il Fossano giunse in punto da potere udire con chiarezza queste parole, e il gondoliere che, scarico di pensieri, batteva il suo remo sulla placida laguna, sentì afferrarsi dalla mano tremante del Fossano che proferì, battendo i denti, queste precise parole: «Hai tu udito, ho io compreso bene?» E il suo volto si venne sfigurando di maniera che il gondoliere, maravigliato a quelle parole e a quell'atto, si ristette pensoso a riguardarlo per qualche tempo, e congetturò il vero: accompagnato di poi il giovane sino alla soglia della casa ove alloggiava, e visto che l'apparenza di lui continuava ad essere peggio sparuta che mai, lo accompagnò coll'occhio, mentre colui saliva la scala, e crollava il capo dicendo:—Dio gliela mandi buona, ma questo giovane è a malissimo partito. —E come uomo assai bonario e pietoso, visto uscire di quella casa un fante che sapeva essere al servigio del cavaliere lombardo, lo chiamò a sè raccomandandogli vegliasse bene attorno al suo padrone, il quale aveva bisogno di soccorso, e soprattutto si guardasse bene dall'abbandonarlo. E assai gli giovò quell'avviso, che il Fossano, pensando che per lui non era più a far nulla in questo mondo, aveva determinato mandare ad effetto in quella notte medesima ciò che non aveva voluto fare alcuni giorni prima. Nell'ora infatti che tutto è quieto in Venezia, uscito il Fossano della sua stanza, e visto che il servo dormiva, pensò ch'era venuto il momento opportuno, e pian piano ritornò nella sua camera. Al fante, che vegliava ad occhi chiusi, diede sospetto quella visita di Alberigo, e visto che non era tempo di starsene a giacere, pensò recarsi all'uscio della camera ove stava il padrone, e origliarvi attento. Dopo qualche momento gli parve udire a parlare. Accresce l'attenzione, ode una fervorosa preghiera, poi alcune parole senza costrutto, in fine un silenzio profondo quasi non vi fosse anima nata. Allora, come gli venne in fantasia, e fu gran ventura, bussa all'uscio, e l'uscio cede, chè, per caso, il Fossano non l'avea chiuso. Il lume era stato spento; chiama il Fossano.—Chi è qui?—Son io, non abbiate alcun timore,—gli risponde il fante.—Esci presto di qui, e va a dormire,—gli ingiunge il Fossano, ma con tanta insistenza che era facile comprendere che ci dovea esser sotto qualche cosa. E il fante uscì di fatti, ma ritornò col lume. Rientrato vide ciò che per quanti sospetti avesse, non si aspettava tuttavia di vedere. I lenzuoli del letto dove il Fossano s'era gettato a giacere, erano in una parte inzuppati di sangue.—Che cosa avete fatto!—gli grida il servo. Il Fossano si era proprio, come aveva meditato alcuni dì prima, con quell'acutissima sua daga, aperta una vena e lasciatone uscire il sangue liberamente. Vedendosi scoperto in quel modo il Fossano si rimase come avvilito, e alle domande del servo non volle rispondere mai nulla. Vergognava d'essersi lasciato cogliere; ma a toglierlo di quella vergogna fu soprappreso, pel molto sangue ch'era già uscito, da un deliquio che lo fece ricadere sul letto. Il servo non tardò a fasciargli strettamente la ferita, e sedutosi presso al capezzale e spruzzata la fronte con dell'acqua all'amato suo padrone, stette a spiarne continuamente i moti, e ad aspettare che si risentisse. Entrava già la prima luce del giorno per le finestre della stanza, quando il giovane aprì gli occhi scuotendosi dal lungo letargo; fu bisogno di molto tempo prima che potesse acquistare la chiara intelligenza delle cose. Ma finalmente con un sospiro amarissimo avvisò il servo ch'egli s'era risovvenito della lagrimevole sua situazione. Dopo una mezz'ora che il sole era sorto, trasportati dal vento sino a quel luogo, si cominciarono ad udire i lenti rintocchi della campana di San Marco. Era la campana de' morti.
Dopo il lungo deliquio che Alberigo aveva sofferto, per la natura indebolita, le impressioni che riceveva non potevano essere di quell'impeto subitaneo che sospinge a partiti disperati, bensì di quella tristezza profonda e inesplicabile che solleva ed aiuta talvolta le angosce colle lagrime. E i rintocchi di quella campana inondandogli l'anima di una tristezza senza pari, gli fecero pensare che in quel giorno sarebbesi data la sepoltura alla povera sua Valenzia. Uno scoppio di pianto successe infatti a quel pensiero, e senza mai dire una parola, durò di questa maniera quasi tutta la giornata con gran maraviglia e compassione del servo che mai non volle abbandonarlo. Verso sera volle uscire e promesso al servo sul proprio onore, il quale rifiutavasi a lasciarlo andar fuori, che non avrebbe mai più attentato alla propria vita, e però vivesse sicuro, si recò al palazzo Grimani dove alloggiavano i legati del Conte di Virtù per avere da loro licenza di ritornarsene a Milano, ciò che facilmente potè ottenere. Appena messo il piede fuori di quel palazzo, nel punto che stava per saltare nella gondola, vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere. A un tiro di balestra del palazzo Grimani, era il palazzo dell'ammiraglio Candiano: dinanzi agli scaglioni di quello, si vedevano quattro gondole in fila, sulle quali risplendevano molti cerei che si riflettevano nell'onda. Nelle due prime erano i frati della regola che cantavano il Miserere; nelle altre uomini e donne che pregavano. Le gondole si avviarono un momento dopo giù per il canal verso San Marco. Ma ciò che fece maravigliare il Fossano, a mal grado della passione insopportabile che lo faceva tremar verga a verga e piangere, con grandissimo stupore degli astanti, fu il vedere la persona dell'ammiraglio ritta e immobile sulle scalee del suo palazzo a vedere la processione mortuaria. La folla delle gondole e delle persone che erano sul canale traendo dietro a quella, in breve tempo il canale fu deserto al tutto. Il Fossano, per ritornare al suo alloggio, doveva passare innanzi al palazzo Candiano, e confuso e addolorato com'era, lasciò che il gondoliere vogasse per là. Quando fu vicino al palazzo, l'ammiraglio che se ne stava ancora immobile sulle scalee, appena lo vide lo chiamò per nome, e accennò al gondoliere di fermarsi.
«Esci un momento della gondola.» Queste furono le prime parole che Candiano volse ad Alberigo.
«Che cosa volete?» gli domandò questi con voce tremante, e saltò a terra.
Trascinato dalla mano dell'ammiraglio, entrò con lui nel palazzo.
«Se la fortuna non t'avesse portato qui, io t'avrei cerco egualmente;» gli disse Candiano.
«Che cosa avete a dirmi, ammiraglio?»
«È bisogno che tu esca di Venezia per non tornarvi mai più.»
«È ciò che ho pensato di fare. Un momento fa ho preso licenza dagli illustrissimi legati.»
«Sia dunque lodato Iddio che tu abbia prevenuto il mio consiglio.»
«Ma perchè mi dite questo?»
«Il perchè un'altra volta; ora mi dî per quando hai stabilito di partire?»
«Stanotte o domani.»
«È meglio stanotte.»
«Ma io son muto di maraviglia, ammiraglio! Perchè desiderate ch'io mi parta sì presto?»
«Avrei bisogno che per domani tu fossi a Padova; ne avrei grandissimo bisogno.»
«Io sarò a Padova.»
«Va bene così: posso dunque confidare nella tua parola?»
«Ma che volete?»
«Aspetta; calato il sole farai di trovarti presso il convento de' Francescani,»
«Io sarò là.»
«Ora mi bisogna un'altra cosa.»
«Ed è?»
«Che anima nata non sappia, nè giunga a saper mai ciò che ora ti ho detto. Addio.» E senza più altro Candiano sparì lasciando il solo Fossano in un mar d'incertezze.
Per quanto le parole di Candiano fossero state oscure, non doveva però il Fossano stare in forse nel prendere una risoluzione; e di fatto, ridottosi alla sua casa, stabilì partire in quella notte medesima. Verso le quattr'ore, senza aver detto addio nè ai suoi colleghi; nè a' suoi amici, entrato nella gondola che aveva noleggiato, oltrepassava la laguna, e giù per la Brenta si dirigeva alla volta di Padova, fermando il proposito di non mettere più il piede in Venezia. Ma così potesse l'uomo mantenere i propositi a sua posta che a molte sventure potrebbe anche sfuggire.
In quella medesima notte, ad ora tarda, a ciel chiuso, un'altra gondola con rapidissimo remo usciva di Venezia. All'imboccatura della Brenta dovette passare nel mezzo di molte barche che pure andavan su pel fiume. Al luccicare delle torcie che splendevano su quelle, si potè conoscere che appartenevano al figlio di Bernabò, il quale, finite le sue pratiche colla Serenissima Republica, se ne tornava verso Milano. Sulla barca che correva in testa alle altre, seduto sulla tolda si potè vedere lo stesso Visconti, rischiarato com'era dalla fiamma del fanale che lo illuminava di sotto in su. Intorno a lui erano alcuni senatori e il procuratore di San Marco, che lo accompagnavano un tratto per onore. Nella gondola che come un luccio guizzò rapida nel passare vicina a quella barca, erano due persone che, vedendo la cupa figura del Visconti e le facce severe dei senatori, si sentirono a gelare il sangue nelle vene, temendo d'aver dato in un trabocchetto. Ma la gondola rapidissima passò innanzi, e l'avanzò di tanto che coloro che seco portava, non ebbero più a temere di poter essere raggiunti.
Fuggite, fuggite, che non sempre così, pur troppo, vi sarà favorevole la sorte! Godete i momenti che il destino vi concede, mentre sta meditando l'estremo vostro danno. L'aura propizia dell'istante sia compenso alle future angosce che egli vi ha preparato, e a cui, infelici, non vi sarà dato sfuggire, che il filo stretto a cui vi lascia svolazzare, è lungo ma infrangibile.
Il dì dopo, sulla piazzetta del convento dei Francescani in Padova, quando a tutte le chiese della città suonavano i tocchi dell'avemmaria, trovavasi il Fossano. L'impazienza e l'incertezza lo travagliavano per modo ch'egli, senza accorgersi, correva a rapidi passi innanzi e indietro per la piazza. Guardava di tratto in tratto una striscia di sole che indorava un cumignolo di torre, perchè, a mitigare la propria impazienza, aveva prefisso, come a termine del suo tanto aspettare, il momento che quella striscia sarebbe scomparsa del tutto. Ma il sole tramontò affatto, sopraggiunse la notte, e nessuno ancora compariva. Allora tornava col pensiero alle parole di Candiano, le ricordava ad una ad una per vedere se mai avesse dato loro la giusta interpretazione, e assicuratosi che in quanto a sè stesso non aveva fatto errore di sorta, gli veniva il dubbio non avesse il Candiano parlato a sproposito alterato come doveva essere dalla desolazione del momento. Per buona ventura nel punto che stava facendo simili pensieri, e crollava il capo quasi disperando di tutto, sentì chiamarsi per nome. Si volse e vide l'alta figura di Candiano a due passi da lui. Aveva il vecchio nascosta la testa in un capuccio che gli scendeva fino agli occhi, a tale che il Fossano, se non fosse stato in aspettazione di lui, non l'avrebbe altrimenti conosciuto.
«Iddio ti benedica,» disse Candiano all'Alberigo. «Il tutto andò a buon segno, ed io ne ho felice augurio. Or io ti dirò il che e il perchè d'ogni cosa.»
Il Fossano se gli strinse vicino per ascoltare.
«Vedi là quell'edificio?»
«Lo vedo, è il monastero di Santa Francesca.»
«Vedi quella finestra là in fondo che risponde in sugli orti.»
«La vedo.»
«Ora ti consiglio a star bene in guardia con te stesso, che le mie parole ti potrebbero far piegare le ginocchia.»
«Io son ben sicuro di me: parlate.»
«In quella stanza; non dare un respiro, o Fossano; in quella stanza è la mia Valenzia viva e rigogliosa, più rigogliosa di prima.»
Il Fossano a quelle inattese parole fece un movimento che non si può descrivere, e stette per qualche tempo muto e immobile.
«Sì, o giovinetto, ella è là; e se il tuo cuore non s'è cangiato in questi ultimi giorni, io la tolsi al Visconti e a Venezia per serbarla per te, giacchè non sarà ch'io disgiunga ciò che l'ingenua natura ha voluto unire.»
Il Fossano cadde a terra fuor di sè per la gioia, abbracciando tutto tremante le ginocchia al generoso vecchio.
«Alzati, che alcuno potrebbe vederci qui: alzati, e mi segui.»
Ambedue si mossero.
Giunti in vicinanza di quell'edificio, il Candiano, detto al Fossano che aspettasse, v'entrò senza aspettar altro: dopo qualche tempo il romore dei passi e lo stropiccío di una gonna fecero sperare al giovane che fosse presso la sua Valenzia. Era essa di fatto. Uscita che fu, quantunque il padre suo Candiano l'avesse preparata a quell'incontro, pure non potè reggervi, e si lasciò cadere, prima di poter proferire un saluto al suo Alberigo, nelle braccia paterne.
Disse allora Candiano al giovine: «Va tu in vece mia a quel convento là dirimpetto. Suona la campana, e ti verrà aperto. Domanderai di frate Lorenzo. Egli verrà qui.»
Frate Lorenzo era un vecchio ottuagenario che godeva meritamente riputazione di santo. L'ammiraglio Candiano, avendo fatta con lui stretta conoscenza fin dai primi anni giovanili, avea messo gli occhi sopra di lui in quei pericolosi momenti; nè certo avrebbe osato mettere in atto il difficile disegno, se non avesse confidato specialmente nell'aiuto di quel buon religioso, che di fatto non si rifiutò ad assecondarlo nell'urgente bisogno.
Essendo Candiano arrivato a Padova all'ora nona di quel dì medesimo, aveva fatto chiamare il frate, il quale dapprima fece che Valenzia alloggiasse per quel dì nella foresteria del monastero di San Francesco, poi udito il resto da Candiano, e assicuratolo del più stretto segreto, gli promise che avrebbe fatto il voler suo, giacchè non era cosa che fosse nè contro la giustizia, nè contro il volere di Dio. Quando udì poi ch'egli aveva potuto con tanta fortuna deludere la vigilanza della Republica, e, dato un sonnifero a bere alla figlia, far credere a tutti ch'ella fosse morta per poi trafugarla ad agio suo,
«Qui c'è il dito di Dio,» disse più volte il frate. «Egli non volle permettere che la fanciulla dovesse andar sposa al figlio dell'empio Bernabò. Egli volle aiutare il tuo paterno disegno.»
Quando Valenzia si risentì, Alberigo Fossano era tornato con frate Lorenzo. Un'ora dopo, in una cappelletta della chiesa di San Francesco, Alberigo e Valenzia, inginocchiati sulla predella dell'altare, vennero da lui congiunti coi nodi indissolubili del matrimonio. La notte medesima Candiano ritornò a Venezia per non ingenerare alcun sospetto di sè colla lunga assenza. I due sposi volsero il loro cammino verso Lombardia.
La maggior parte di queste cose raccontò Apostolo Malumbra al senator Barbarigo che stette il tutto ascoltando con muta e sempre più crescente maraviglia. Egli, per quanto avesse percorso tutti i possibili, non avrebbe giammai potuto nè tampoco imaginare un così strano avvenimento, e quando il Malumbra ebbe finito di raccontare,
«Io sono così compreso di stupore,» disse, «che non so in vero, nè che pensare, nè che risolvere.»
«Non fa molto tempo,» continuava il Malumbra, «io ho veduto in Milano il cavaliere Alberigo Fossano.»
«Gli hai parlato?»
«A lui no, bensì m'affiatai con un suo servo, e siccome fin da quando morì la figlia dell'ammiraglio, o almeno fu creduta morta, essendo nati in me certi strani sospetti, fin d'allora mi posi a frugare in tutti que' luoghi ove mi pareva potessi far buona raccolta, e ne spiluccai tanto che poteva bastare per poter dire, che in quel torbido c'era tuttavia da pescar chiaro; arrivato a Milano, e saputo che il Fossano era alla corte del Conte di Virtù, tanto feci finchè ho potuto accostarmi a quel suo servo che sopra v'ho detto, e messolo così in sul raccontare, senza dargli sospetto che io fossi di questi paesi, lo condussi a dirmi qualche cosa del suo padrone, e d'una in altra, mi raccontò gran parte de' fatti che già vi ho narrati.»
«E la Valenzia…. l'hai tu veduta?»
«È ciò appunto che mi rimarrà a fare appena che tornerò a Milano. Ma io mi scordavo dirvi ciò che assai importa di sapere.»
«Ed è?»
«Saprete che i Francesi, per far la guerra al Conte di Virtù, minacciano calare in Italia condotti dal conte d'Armagnac.»
«So tutto: prosegui.»
«Questo conte d'Armagnac è parente strettissimo di quel Carlo Visconti figlio del Bernabò che dovea sposare la Valenzia.»
«Ebbene?»
«Carlo Visconti ha voluto precedere il conte, e dicesi che siasi messo a far delle scorrerie sul lago Maggiore, non ad altro che per vessare la gente del suo cugino, il Conte di Virtù, che vi ha terre e castella.»
«Questo non ci deve importare più che tanto.»
«Io la penso diversamente, perchè so che in una di quelle terre vive celata al mondo la figlia dell'ammiraglio Candiano.»
Il senator Barbarigo balzò in piedi a questa notizia.
«Se il Visconti,» continuava Apostolo, «avesse mai a rivedere la Valenzia; egli che si era fieramente invaghito di lei, ed ora la crede morta da un anno…. Quel che potrebbe nascere dalla combinazione di tante cose, lo lascio pensare a voi, illustrissimo.»
«Tutto va bene, Apostolo, ma converrebbe che queste combinazioni venissero accresciute dall'arte; e la Valenzia, l'Alberigo, il Visconti, potessero ancora tornare a queste lagune….»
Il Malumbra stette un momento pensando, poi soggiunse:
«Si potrebbe anche tentare, e allora….»
«Allora tu dovresti andar subito a Milano…»
«Anche in questa notte, ma….»
«Ti ho compreso.»
Il senatore uscì di quella camera, e ritornò di lì a poco. Diede quattro rotoli al Malumbra, dicendo: «Qui ci sono quattrocento ducati d'oro, e tu partirai domani.»
«Benissimo. Ora io posso andare.»
«Senti: prima di partire verrai ancora da me.»
«S'intende….»
«E dovresti andare anche dall'ammiraglio.»
«A far che?»
«Domani io stesso mi troverò presso all'ammiraglio a mezzodì. Tu ci verrai verso quell'ora. Gli parlerai di Alberigo Fossano, e condurrai il discorso in modo da fargli cangiare il colore del volto.»
«Io sarò là.»
«Ora puoi andare.»
Il Malumbra uscì, e il senatore si ritrasse nelle sue stanze interne a pensare a quegli avvenimenti straordinari, pieno di una compiacenza così perfida e così completa quale non aveva ancora provata in tutta la sua vita.
III
APOSTOLO MALUMBRA.
Un'ora dopo, quando già cominciava ad albeggiare, dalla finestra d'una delle case che danno in sulla saliciata di San Lio, sporgeva il capo una donna.
«Ehi…. Marta! Marta!»
Trascorso qualche momento, «Chi mi comanda?» si sentiva rispondere… e dalla finestra vicina vedevasi sporgere un'altra testa di donna.
«Buon dì Marta, avete sentito a batter l'ore a San Marco?»
«Ho sentito: suonarono undici ore. Ma cosa è che stamattina vi siete alzata così per tempo.»
«Sto aspettando il marito mio che se n'è andato alle feste dell'illustrissimo signor Barbarigo, e può badar pochissimo a tornare.»
«Oh! Il signor Apostolo Malumbra s'è posto anch'egli a filare del gran signore, Ghita mia.»
«Che cosa volete: dopo ch'egli s'è messo a commerciare di proprio, la fortuna s'è cangiata un pochino nella nostra povera casa. Voi ben sapete quanto un tempo ci stringeva il bisogno, e a cinque figliuoli, che tanti ne aveva, non c'era propriamente da dar pane la mattina. Ma ora, sia lode a Dio, possiamo far più che altri, e si vivono giorni dal più al meno tranquilli.»
«Ne ho gran piacere, Ghita mia, che tanto mi seppe male quando ho sentito dire ch'egli così ingiustamente era stato cacciato dal banco del signor Morosini.»
«E si dovette penare un anno intero, che nessuno non gli volse più dare avviamento, e non si pensava alla moglie e ai cinque figliuoletti che morivano di fame.»
«Ah, pur troppo il mondo è assai tristo.»
«Lode a Dio per altro che non l'ha avuto il piacere di vederci languir sempre d'inedia, e venne il nostro buon tempo anche per noi.»
«Torno a dirvi ch'io ne godo nel fondo dell'animo, e per verità io non ho mai conosciuto altr'uomo al mondo che più meritasse fortuna, del signor Apostolo Malumbra, e mi sento movere a sdegno quando sento alcuno a dir male del marito vostro.»
«In Venezia, sapete bene, che non ci fu mai penuria di chi si dilettasse a dir male d'altrui.»
«Davvero ch'ella è così, e ieri l'altro ebbi una lunga contesa colla Spadaccini che sta in Merceria, la quale osava nientemeno di sostenere…. dite un po'… Ghituccia..?»
«Dio mio, chi può mai indovinare che cosa possa mai aver detto quella donna?»
«Cose di fuoco! Ma io ho ben saputo mandarle in gola tutto il veleno che versò fuori da quella sua bocca maligna. La è così, cara Ghituccia mia; osava di sostenere niente di manco che il signor Apostolo Malumbra ora può scialarla e stare in sul grande, perchè serve l'eccelso consiglio dei Dieci in qualità di spione; figuratevi, Ghituccia mia, se ciò può stare.»
«O Santa Maria! che cosa mi tocca mai di sentire! S'egli lo sapesse, vi so dir io che morirebbe di crepacuore al solo pensarvi. Egli che ha sempre avuto in orrore quell'abbominevole mestiere. Ma non gli dirò nulla, nulla di certo, perchè m'avvedo che nascerebbero di brutti guai. In quanto poi alla signora Spadaccini, sapete bene, dovrebbe tacere colei…. che non porterebbe nè il guarnello di broccato, nè gli orecchini a perle, nè quelle ricche trine, se non fossero i begli occhi della sua figlia. Già saprete anche voi che l'illustrissimo signor Attilio Gritti ha la pratica di quella casa.»
«E chi non lo sa, Ghituccia. Ma, se non sbaglio, mi pare di vedere laggiù il marito vostro che se ne venga verso casa.»
«È lui; è lui. Ecco, egli è qui presso: corro ad aprirgli. Addio, Marta.» E se ne andava.
Poco di poi l'Apostolo Malumbra metteva il piede nelle sue stanze.
«È un pezzo che ti stava aspettando, Apostolo.»
«Hai fatto male; te l'ho pur detto che io sarei ritornato a mattina; ma io mi sento addosso un tedio mortale, e muoio di sonno.»
«Ebbene va a dormire.»
«Alla campana di mezzodì verrai a svegliarmi.»
«Va benissimo.»
«Ora hai da sapere….»
«Che cosa?»
«Che stasera… o tutt'al più domani mattina ho a tornare a Milano.»
«A Milano?»
«Sì, Ghita: del resto ho qui quattrocento ducati d'oro; vedi; son quattro rotoli che danno piacere alla vista.»
«Mi ricordo… quando i figli avevan fame… e non si aveva neppure un grosso da comperare del pane. Ora è ben altra cosa.»
«Certo… è ben altra cosa.»
«Ti ricordi del povero Anselmuccio?»
«Mi ricordo, Ghita.»
«È morto in tre dì…»
«Pur troppo… per aver patita la fame,»
«Questo io ti dico perchè tu debba ringraziar mille volte la tua sorte che s'è voluta mutare. Ed ora… guarda come son floridi i nostri quattro figli che ci rimasero; guarda con che pace sfiorano l'ultimo sonno.»
Il Malumbra gettava un'occhiata sui letticini dove dormivano i piccoli suoi figli, e mentre li guardava, la sua faccia subiva un'espressione particolare.
«Ora dormirò anch'io,» soggiunse poi; «lasciami solo.» E recavasi in una stanza vicina.
Solo che fu, si spogliò la zimarra e il giustacuore, e accostatosi al letto stette un pezzo fermo su' due piedi colle braccia incrocicchiate al petto, e cogli occhi rivolti su que' quattro rotoli di ducatoni d'oro che aveva deposti su d'una tavola vicina; stato così qualche po' d'ora… «Oh sono pazzo io,» uscì a dire, «poniamoci a dormire; alla fin fine ebbero essi alcuna pietà per me?…. Buttiamoci a dormire, i miei figli non avranno più a morir di fame.» Dette queste parole così fra labbro e labbro si pose a giacere, e un momento dopo dormiva profondamente.
Come il lettore si sarà bene accorto, l'Apostolo Malumbra era proprio uno spione al servigio del consiglio dei Dieci. Sotto colore di viaggiare per commercio nelle varie città soggette al dominio Veneto e più lontano ancora, andava raccogliendo tutte le notizie che meglio potevano importare alla Serenissima Republica, per poi rigurgitarle innanzi al consiglio dei Dieci o a qualche individuo che v'appartenesse. Scopriva trame, frugava nel pensiero altrui, teneva dietro a certe fila lunghissime e tortuose, fino a tanto che riusciva a sapere dove andavano a metter capo, per poi renderne perfettamente istrutti coloro a cui spettava. Era alla società come l'insetto impercettibile che rode e guasta, come il mal sottile in un corpo apparentemente rigoglioso e sano. Se si avesse a raccontare la storia delle centinaia di vittime ch'egli col suo sordo e lento, ma continuo lavoro, aveva condotto all'ultima rovina, sarebbe una vera pietà.
Del resto il lettore non voglia già credere che codesto Malumbra fosse dotato di quelle misteriose e quasi magiche virtù, onde piacque sin qui comporre l'esistenza di tutti gli spioni che servirono la Republica veneziana; imperocchè intorno a codesta razza d'uomini, vi sono tuttavia molte false idee a rettificare.
Gli sgherri, i delatori al soldo della Republica veneta, erano certamente esseri un po' misteriosi; ma il mistero che li copriva, non era già nel senso col quale e fu descritto e fu inteso da tanti scrittori e lettori che parlarono e s'occuparono di quella terribile oligarchia. L'essere uno spione spettatore di tutto col privilegio di rimanere poi sempre invisibile altrui, l'entrare nelle case, il conoscerne i più intimi penetrali, eziandio assai più di chi ne era l'abitatore; il sapere per filo tutte le azioni di un uomo del quale siasi messo sulle tracce, e talmente da conoscerne anche i pensieri i più interni; sono cose che la sciocca credulità popolare ha ammesse, che la storia destituita di criterio ha perpetuato, che la fantasia de' poeti ha afferrata per surrogare nelle creazioni dell'ingegno una nuova macchina, un nuovo maraviglioso all'antico col fine di abbagliare le povere menti pronte tanto più ad applaudire, quanto più sembra che un fatto si dilunghi dal procedimento comune della vita pratica. Il Malumbra adunque era un tristo che aveva a sangue freddo sagrificato un numero grandissimo de' suoi concittadini, ma era un tristo umanamente, nè mai aveva fatto cosa che avesse richiesto poco più di un'astuzia e simulazione volgare. Bensì, prima d'essersi dato a quell'infame mestiere, il Malumbra era stato un uomo che non aveva avuto bisogno di tormentare altrui per sostentare sè stesso, nè le circostanze della sua vita non erano mai state così potenti da far sviluppare in lui quel germe di perfidia che la natura aveagli dato; però ch'egli è da credere che, siccome le occasioni fanno emergere gli ingegni e le virtù straordinarie, le quali, abbandonate a sè, sarebbero forse state mute eternamente, così le prave tendenze sviluppano improvvise appena che l'occasione dia loro quel tanto che si vuole a farle crescere.
Fino all'età di trent'anni egli era stato a' servigi di un negoziante veneziano, il quale trovandosi a un tratto mancare una grossa somma di denaro, nè sapendo al primo congetturarne il colpevole, pensò essere buon partito quello di licenziare tutti i suoi agenti. Fra costoro si trovò il Malumbra che senza avere una colpa al mondo si trovò solo, abbandonato a sè, privo di speranza di trovare un pane, che nessuno avrebbe voluto averlo a' suoi servigi con quel poco di sospetto che si aveva di lui. Egli era innocente, eppure non è da biasimare chi lo aveva scacciato da sè, e tutti coloro che si erano rifiutati a dargli pane non erano per verun modo degni di riprensione. Ma un'ingiustizia tuttavia erasi commessa, e il Malumbra ne era stato la vittima. Che un uomo soffra il disprezzo, sopporti la miseria, patisca la fame, e si disperi, è un fatto così minuto, così impercettibile, che la società nella continua e vorticosa sua faccenda o non può, o non sa, o non vuole accorgersene. Ma l' individuo, per quanto sia misero, ha pur fatto un mondo in sè, e così prepotente è in lui il bisogno della conservazione che, a lungo andare, tenta di sostenersi a spese di quella società medesima, e cogli ingegnosi sofismi chiamando le male arti necessità della vita, si dispone lentamente a vendicarsi della crudele noncuranza che lo circonda. Non è sventura al mondo, non è patimento che valga a sradicare la virtù da chi veramente l'ha in sè inviscerata. Questa è sentenza comune, è sentenza secolare, è sentenza che la società fa suonar alto a propria discolpa. Ma posto ancora ch'ella sia vera, non è egli del più grave momento il preservare i corruttibili dal veleno della tentazione?
E in quanto al Malumbra non si sarebbe certo indotto a recar tanto danno altrui, s'egli nel mondo avesse potuto percorrere la sua strada senza ostacoli e senza patimenti. Certo che anche in una prospera condizione la sua mano non si sarebbe aperta così facilmente a beneficare il suo simile; e la sua patria, nei pericolosi momenti, non avrebbe trovato in lui il più valido puntello: ma dall'essere inutile all'esser dannoso è immensurabile distanza, e pare che la società non consideri che il numero degli eroi è di una pochezza desolante su questa terra.
Del resto nella persona del Malumbra si potevano ravvisare quasi due uomini diversi: l'uomo del mondo, l'uomo della famiglia; nel primo era pessimo; nel secondo, come forse abbiamo potuto accorgerci, era ottimo; che anzi tutte le buone qualità di che manifestamente era dotato nel seno della propria casa, erano quelle appunto che lo intristivano appena che il padre ed il marito trasmutavansi in uomo della società. Strana contraddizione, ma più apparente che reale, imperocchè, che cosa mai sarebbe stato della moglie e de' figli, se colui, nella desolata condizione in che la fortuna avealo gettato, fosse stato l'amico universale! Così la società, in mezzo a cui viveva, e che meritamente lo avrebbe caricato d'obbrobrio e peggio, se appena avesse in lui scoperto il proprio nemico, non s'accorgeva ch'ella medesima era colpevole della di lui colpa, e che a guisa dell'insetto, il quale s'introduce tra pelo e pelo, e vessa e martoria impunemente il corpo immane della belva che prima aveva minacciato schiacciarlo, egli celatamente s'era introdotto tra uomo ed uomo per vendicarsi di chi prima lo aveva con indifferenza crudele e ributtato e calpesto.
Qui potrà forse domandare taluno, se a raggiungere il detestabile suo fine, non avrebbe potuto avviarsi per altro sentiero, scegliere altri mezzi più atroci forse, ma meno vili assai. E certo che, se fosse stato solo al mondo, se non fosse nato in Venezia, e, più che tutto, se la natura avessegli dato più coraggio che acutezza, in vece di suggere i segreti agli uomini che avvicinava, li avrebbe aspettati al varco ascoso dietro la siepe. In quei giorni che, scacciato e svergognato, provò la miseria senza la speranza d'umano soccorso, e tosto lo arse il desiderio di operare alcuna cosa al danno della società, pensò al modo di aggiungere a questo fine rimanendo ciò non pertanto al sicuro d'ogni pena legale, che diversamente la famiglia avrebbe dovuto soccombere con lui. Allora, dopo essersi guardato ben d'attorno, un dì che nel palazzo ducale osservava così a caso quella bocca terribile del leone, che pareva dicesse: Denunziate! denunziate! gli balzò un pensiero alla mente, e conobbe che pur v'era un mezzo di gettarsi a man salva sugli uomini, non lasciando loro possibilità di difesa senza che perciò dovesse vivere in timore delle leggi; e coi sofismi giunse a persuadersi che egli, buttandosi al mestiero dello sgherro, veniva anzi a servirle più che altri, e in certo modo a ben meritare della patria, svelando le trame che erano in onta alle sue istituzioni, e a dividere la gloria del difenderla col prode che metteva la vita a rintuzzare i suoi nemici. Così accorciando d'un tratto l'immensurabile distanza che è tra la gloria e l'infamia, raccostando queste due cose sì opposte in modo da fonderle in una, potè indursi a credere che l'obbrobrio di cui caricavasi uno sgherro dei Dieci, altro non era che un pregiudizio, e appena gli si presentò occasione, gettò innanzi al consiglio una denunzia, e n'ebbe il prezzo. La prima sua vittima fu quel medesimo Morosini che avealo scacciato dal suo banco, poi altri che, povero, lo avevano ributtato; per un pezzo continuò a dar la caccia a tutti coloro che direttamente lo avevano offeso; per un pezzo la vendetta fu la spinta e la susta d'ogni sua opera, e all'oro che gli fruttava, univa la voluttà dell'ira saziata. A poco a poco però, cessati gli odi, gli rimase il nudo mestiero; cessate le gioie della vendetta non gli restò che l'oro. Non ebbe più nemici diretti; tutto il mondo fu suo nemico. Ciò non pertanto, anche dopo aver fatto il callo a tanta perfidia, di quando in quando, e specialmente se fosse il caso di recar danno a qualche dabben uomo, sentiva in sè qualche cosa che somigliava ad un rimorso, e di fatto, allorchè nella gola del leone mise l'accusa contro il Candiano, e ne raccontò la misteriosa istoria al Barbarigo, sentì in fondo del cuore una simile puntura, ma che tosto dileguò come dileguarono, coi sogni di quel mattino, le triste imagini che glieli aveano conturbati.
Quando suonò la campana del mezzodì, la moglie del Malumbra fu presta a destarlo; ed egi, rivestitosi così di fretta e, uscito di casa, si recò al palazzo Candiano.
Il senatore e l'ammiraglio stavano confabulando tra loro, quando il Malumbra fu annunciato.
«Ditegli che aspetti un momento,» diceva Candiano al fante: «adesso, come vedete, sto coll'illustrissimo senatore.»
«Oh! fatelo entrare, ammiraglio, è un uomo dabbene che non si vuol rimandarlo.»
«Benissimo, senatore; fatelo dunque entrare.»
Il lettore sa che la notte prima il medesimo Barbarigo aveva ingiunto all'Apostolo Malumbra, che intorno a quell'ora facesse di trovarsi nelle stanze dell'ammiraglio.
«Buon dì, Malumbra,» disse il Candiano a colui, appena ebbe messo il piede nella sala, e lo disse con quella franca e sincera bonomia, che tanto gli era abituale; e continuava poi mezzo sorridendo: «io ho poi a lamentarmi di te.»
«Di me?»
«Che non sii venuto a farmi vedere quelle belle fogge d'armi che tu hai comprate a Milano.»
«Vi chiedo perdono, illustrissimo, ma stamattina per questo appunto io son venuto da voi; così, dovendo io tornare questa notte medesima a Milano, spero mi vorrete far degno de' vostri ordini.»
«Bene, bene.»
«Questo diavolo di Malumbra,» entrava a dire il senatore, «si gode il mondo assai più che altri.»
«Lo so bene.»
«Egli viaggia e fa buon sangue coi ducatoni de' nostri patrizi. Ma a proposito di Milano, tu ci dovresti ora far contenti di qualche notizia intorno a quel paese.»
«Buone notizie, illustrissimo, e per verità che quei poveri Milanesi possono ora rifarsi qualche poco, chè il Conte di Virtù concede loro di respirare un po' più liberamente.»
«Quel Bernabò era un gran tristo; e dopo tante vicende, e tante guerre, e tanti interdetti e scomuniche, non ha mai saputo imparare a starsene tranquillo.»
«Dio lo avesse voluto, illustrissimo, ma d'aggiunta quand'egli era tormentato dalla podagra, e non poteva pensare al resto, v'era il suo secondogenito, Carlo, che, se non era peggiore di Bernabò, non gli stava indietro di certo.»
«Non pronunciare un'altra volta il nome di Carlo, ed abbi rispetto al dolore di un padre;» dicendo queste parole, il senatore accennava a Candiano, il quale chinava la testa, ed aggrottava le ciglia.
«Io ci ho rispetto senza dubbio, e tacerò… ma mi resta sempre tuttavia a confortarmi seco pensando che ogni sventura è nulla, se si confronti a quella di aver per genero quel terribile Visconti.»
«E a te non intervenne mai nulla viaggiando per que' paesi quando ancora dominava il Bernabò?» soggiungeva Candiano a dare una svolta al discorso.
«A me no, sino a questo punto, ma ne portai però sempre con me la paura, e vi so dire che n'aveva di mestieri, che sotto Bernabò dalla vita alla morte, dal desco alla forca, il passo era assai breve colà, e non si aveva rispetto a nessuno; nè ci poteva giovare l'esser figli della Republica, che voi ben sapete quel che avvenne a Sua Santità. Però, quando trovavami entro le mura di Milano, me ne stava quasi sempre ne' quartieri dove allora aveva le ragioni il Conte di Virtù, che, per verità, vi si vivea un po' più tranquillamente. Adesso poi non c'è più ad avere un timore, e Gian Galeazzo, se non è tutt'oro di zecca, è le mille volte più umano del Bernabò.»
«Questo furbo di Malumbra la sa lunga.»
«La vita preme a tutti, illustrissimo. Ed anche i signori gentiluomini e i cavalieri aurati non istavano gran fatto meglio colà, che se non s'acconciavano al volere de' principi, non potevano più contare d'essere nè gentiluomini, nè cavalieri. In somma…. la caduta di Bernabò, fu la buona ventura per tutti, e….»
Qui si fermava qualche poco come a richiamarsi in mente alcuna cosa, poi continuava:
«Però, a quel Carlo Visconti non cadde l'animo affatto, ch'egli dopo essersene stato in Francia per più d'un anno, tornò di nascosto nelle terre del Conte, e in proposito; ho sentito a narrare colà una terribile ventura… e non mi fuggì di memoria perchè n'era oggetto nientemeno che quel povero Alberigo Fossano, il quale avrebbe fatto pur meglio a starsene qui all'ombra della cupola di San Marco.»
Gli occhi penetrativi del senator Barbarigo si volsero di celato ad esplorare il volto di Candiano, che, come tutti gli uomini sinceri ed aperti, mal sapendosi dominare, aveva dato un crollo a quel nome del Fossano.
Il Malumbra seguiva a dire:
«A quel giovane cavaliere venne in testa di fare ciò che buon per lui se non avesse fatto; voglio dire che ha dato l'anello ad una bella fanciulla, una bellezza straordinaria.»
«Chi era questa fanciulla?» domandava il Barbarigo.
«Il nome non me lo domandate, chè anche colà è un mistero per tutti; ma per dirvi ciò che io so in breve, quantunque il Fossano si fosse nascosto colla bella moglie in un suo castello fuori del milanese, la fama della bellezza di lei giunse all'orecchio di quel demonio dell'inferno, voglio dire di Carlo Visconti…»
«Chi te lo ha detto, Malumbra?»
Le parole che Candiano aveva pronunciate erano queste precisamente; ma l'atto con che le aveva accompagnate, fu così repentino e furibondo che chicchessia se ne sarebbe maravigliato. Non si maravigliarono per altro nè il Malumbra, nè il senatore.
Quest'ultimo soltanto, con un sorriso che gli serpeggiava pelle pelle, e gli faceva tremolare di compiacenza la pupilla che in quel punto vibrava più luccicante del solito,
«All'ammiraglio,» disse, «fa male questo nome di Carlo. Te l'ho pur detto, Malumbra, di tacerlo alla sua presenza.»
«Davvero, Barbarigo, che questi Visconti mi guastano il sangue,» rispose Candiano sforzandosi a smorzare l'ira che di subito gli si era accesa nell'animo; «tuttavia continua il tuo racconto, Malumbra.»
«È presto finito; colaggiù a Milano si parla di un fatto… d'una sventura avvenuta non son molti mesi alla donna del Fossano, ma il resto s'ignora.»
Il vecchio Candiano abbassò la testa senza più aggiunger parola. Intanto il senator Barbarigo, alzatosi, e fatto d'occhio al Malumbra, si dispose ad uscire.
«Ammiraglio,» disse, «io son costretto a lasciarvi, che prima di nona si ha a votare nel gran consiglio: stasera ci rivedremo dai Malipieri.»
«Va benissimo, ci rivedremo.»
Il Candiano e il Malumbra si trovarono soli, passò molto tempo senza che nè per l'una, nè per l'altra parte si dicesse una sola parola: ma il Malumbra, avendo parlato finalmente per licenziarsi, fece alzare un momento il capo all'ammiraglio che gli disse d'aspettare.
«Malumbra, ascoltami,» e sì dicendo si alzava dalla sua seggiola, e gli posava una mano sulla spalla; «ascoltami: tu l'hai veduto a Milano quel giovane?»
«Chi?»
«Alberigo Fossano.»
«L'ho veduto, ma non gli ho parlato però.»
«Malumbra, tu m'hai detto che vai a Milano?»
«Parto questa medesima notte.»
«Io ho bisogno che tu riveda Alberigo Fossano.»
«Converrà ch'io ne vada in cerca.»
«Ho bisogno che tu gli parli, cioè… aspetta, prima di partire fa di venire da me stasera.»
«Ci verrò senz'altro.»
«Ti darò una lettera che tu consegnerai ad Alberigo.»
«Farò quel che volete.»
«Prendi, Malumbra, io ti sarò eternamente obbligato,» e gli donava la borsa: «questa sera avrai altrettanto: ma ricordati di venire, che guai se tu manchi.»
«Non dubitate.»
«A vespro.»
«Benissimo, a vespro,» e senza aggiunger più nulla si licenziò dall'ammiraglio Candiano il quale, manifestamente sconcertato dalle parole del Malumbra, si gettò di bel nuovo nel suo seggiolone fisso in mille e terribili pensieri.
Il Malumbra nell'uscire di quel palazzo pensava alla virtù e bontà straordinaria dell'ammiraglio Candiano, pensava all'oro che ne aveva ricevuto in compenso, pensava che la vita di quel prode vegliardo era preziosa più di quella di ciascun altro Veneziano, e fu un momento, un fuggitivo momento, in cui pensò di non farne altro, e ingannare il senator Barbarigo e la Serenissima Republica; ma i secondi pensieri l'avvisarono che ciò non gli poteva convenire per nulla, e che per fare il vantaggio di un uomo dabbene, forse avrebbe corso pericolo di far male a sè; crollò il capo e disse: «A chi tocca tocca; quand'io non trovava nemmeno un grosso a comprar pane, nessuno mi ebbe riguardo, e più d'una volta ebbi a dormire alla fresca e a stomaco vuoto. Ch'io fossi o no un galantuomo, nessuno mostrò nemmeno pensarci. I gondolieri non cessarono il loro canto; i patrizi continuarono nella loro vita scioperata; le fanciulle non si rimasero dai pensieri d'amore; la zecchinetta continuò ad ingoiare fiorini. A chi tocca tocca, anch'io continuerò la mia strada.»
A vespro si recò al palazzo di Candiano, ed ebbe la lettera; e di quella lettera, prima che il Malumbra si partisse di Venezia, il senator Barbarigo sapeva benissimo il contenuto.
IV
LA ROCCA D'ANGERA.
Mentre il Malumbra viaggia verso Milano, noi, lasciandolo addietro qualche buon tratto, vi entreremo addirittura per tosto mettere il piede nel palazzo dove risiedeva il Conte di Virtù.
Se lo storico, incontratosi in questo personaggio che occupa sì luminosa parte negli annali della patria nostra, dovesse pronunciare un giudizio, non avuto riguardo nè alla condizione dei tempi in cui uscì a primeggiare fra i potenti, nè a' personaggi che lo precedettero e lo susseguirono nel governo della Lombardia, certo che dovrebbe lasciar correre assai libera la parola al vituperare, e tanto più se, svestitolo della sua clamide ducale, si facesse a considerare in lui non altri che l'uomo. Ma quando in vece si voglia considerare questo personaggio, in mezzo a quella mostruosa corona di principi atroci Galeazzo II, Matteo, Bernabò, Giovanni e Filippo Maria Visconti, giovato dal vicino confronto, tanta luce viene a posare su di lui, e le scarse sue virtù spiccano di tanta forza che lo storico potrebbe quasi venir tentato a metterlo nel novero di quelli a cui la patria e gli uomini sono debitori di alcuna gratitudine; tanto più poi se si voglia esaminare le vita publica del duca disgiunta affatto da quella dell'uomo privato.
La dissimulazione e la perfidia sono le qualità che gli storici han raccontato costituire principalmente il carattere del Conte di Virtù, e certo che son esse assolutamente così abbominevoli che ci vuol una certa audacia, per trovar modo a scusarle. Al mondo per altro sembrano assai meno vili e basse nelle cose di stato che non nei rapporti ordinari della vita privata, e nella parola politica pare che, sebben tacitamente, siano sottintese queste arti delle quali il Conte di Virtù era mirabilmente fornito. Tutti gli storici, e con ragione se si guardi da una parte, gli hanno rimproverato il tradimento fatto allo zio Bernabò, e l'avere arbitrariamente invase le città che appartenevano al suo dominio. Ma chi troppo bestemmia la simulata perfidia del Conte di Virtù, e troppo compiange la sventura dello zio di lui, pare non si senta gran fatto commosso pensando alla condizione dei sudditi del feroce Bernabò che, angariati, tormentati, sotto il dominio di lui, si sentirono improvvisamente sollevati alla sua caduta.
Innanzi alle atroci insidie di cui un potente ha voluto far uso per sottometterne un altro, il quale è stato per troppo lungo tempo lo spavento degli uomini, lo storico chiuda un occhio, e respiri anch'esso colla povera umanità che fu confortata un istante.
All'epoca a cui siamo con questo racconto, il Conte di Virtù già da qualche anno era assoluto signore di Milano, ed estendeva il suo dominio su altre ventuna città. Già da qualche anno i poveri milanesi avevano potuto riaversi dalle lunghe e feroci oppressioni; non già che il Conte di Virtù potesse vantare le virtù di Tito e di Antonino; non già che a Milano fossero del tutto rallentati i ceppi; ma egli, se non altro, aveva retto criterio ed ingegno, e le pene che s'infliggevano a' cittadini non erano più dettate nè dal caso, nè dalla pazzia, nè dalla ferocia.
Tra un tristo d'ingegno e un tristo di ottusa intelligenza e di stupidi sensi, è grandissima la differenza. Chi serve al primo potrà sempre in certo qual modo regolare le proprie azioni e dirigerle ad uno scopo certo, mentre a chi serve il secondo non rimane che tremare e affidarsi in tutto al caso. Si dirà forse da taluno che la colpabilità è assai più del primo, ma quando gli effetti che produce sono i meno cattivi, noi lasciamo che della sua coscienza si prenda il pensiero lui e tiriamo innanzi.
Fin da quando nel castello di Pavia fingendosi uom fiacco e inferiore alla sua condizione stava spiando ogni mossa del terribile Bernabò, e aspettava l'occasione, a fuggir la noia di una vita senz'azione ed il tormento del desiderio combattuto dall'incertezza e dalla speranza s'era dato a studiare le cose che costituivano la sapienza di quei tempi. Da questi studi s'era venuto ingenerando in lui l'amore per le lettere e per le arti, e la stima per quelli che decorosamente le professano, a tal che godeva intrattenersi con essi, e manifestamente li proteggeva. Fra i molti che il Conte di Virtù guardava con occhio di stima e d'amore, eravi anche il cavaliere Alberigo Fossano.
In una stanza su in alto del palazzo ducale di Milano, tutto intento ad osservare la prim'alba d'un giorno d'agosto, stavasi il nostro Alberigo seduto vicino ad un finestrone. Aveva presso una tavola, su cui stavano molti fogli scritti, appesa alla parete la sua spada, su di un tavoliere il suo liuto. Chi avesse posto il piede nella sua stanza, senza saperne altro, avrebbe al certo potuto indovinare chi egli fosse e che facesse. La sera prima, nella gran sala ducale dove erano intervenuti tutti i cortigiani del Conte di Virtù, il fiore de' cavalieri e delle gentildonne milanesi, egli s'era fatto applaudire col suo liuto e col suo canto. Aveva ottenuto ciò che in que' tempi era difficile, per non dire impossibile, ad ottenere: ammirazione all'ingegno ed all'arte.
Avendo intraveduto i pensieri del Conte che mirava ad estendere il proprio dominio, il Fossano ne lusingava di solito col canto l'ambizione, non per il fine esclusivo di farselo amico sempre più, ma perchè, amantissimo com'era della propria patria, vedeva che coll'estendersi il dominio del Conte, veniva ad accrescersi anche l'importanza politica di lei. Per queste particolari sue doti, a voler tacere delle altre, il Visconti l'avea carissimo, e fattolo alloggiare presso di sè, non era cortesia che non gli usasse. Il Fossano adunque, dotato com'era di tante virtù, ammirato e festeggiato da tutta la sua patria, osservato con compiacenza dalle più belle lombarde, distinto da quel potente Visconti, doveva sentire le vere gioie dell'esistenza. Eppure a vedere con che trista gravità, in quella sua cella solitaria, volgeva gli occhi come passando di pensiero in pensiero, e li fermava poscia, quasi fissandosi di preferenza in uno di essi, non pareva che di quella felicità egli gustasse punto.
Già era alcun anno ch'egli era fuggito di Padova con Valenzia. Siccome allora viveva ancora Bernabò, e d'aggiunta a' cinque suoi figli aveva già assegnato il governo dei distretti che tra loro aveva divisi, senza toccar Milano s'era ritirato in una sua terricciuola che aveva sul lago d'Orta, perchè appartenendo que' luoghi al Conte di Virtù, non poteva temere che Valenzia venisse per nessun modo ad essere riconosciuta nè molestata dal figlio di Bernabò. La lunga dimora ch'egli dovette fare colà, l'assoluta solitudine nella quale aveva dovuto vivere, quantunque insieme alla sua Valenzia non dovesse avere altri desiderii, la profonda malinconia di che essa fu assalita appena che passarono i primi giorni dell'effervescenza della passione, gli avevano per tal guisa fatta noiosa quella dimora che appena gli giunse a notizia la cattura di Bernabò, risolse insieme a Valenzia venirsene a Milano, Qui giunto, s'accorse che non era per essi luogo migliore, dachè per la continua affluenza de' gentiluomini che seguitavano l'ambasceria veneziana, Valenzia correva troppo pericolo di essere alla fine riconosciuta, a meno che non si fosse risoluta a chiudersi nelle sue stanze per non uscirne mai più. Veduto che assolutamente non potevano acconciarsi a quel nuovo tenore di vita, mosso dalle preghiere di Valenzia, che temeva per la vita del padre suo, e però desiderava star celata agli occhi di tutti, pensò ritornarsene ancora a quelle sue terre.
Per caso, essendo di quel tempo capitato a Milano un gran principe, al quale volle il Conte di Virtù mostrare tutta la magnificenza della propria corte; il nostro Alberigo ebbe espresso ordine d'intervenire ad una delle feste che all'ospite suo offeriva il Visconti, il quale, maravigliato dell'ingegno di Alberigo, volle ad ogni conto che il giovane venisse ad alloggiare nel palazzo ducale; di qui non era via d'uscire, e quando ogni cosa era già disposta per la partenza, il Fossano dovette a mal suo grado accogliere quel partito e rimanersi. Si oppose bensì Valenzia per un pezzo a questa determinazione, pregando Alberigo che, senza più, mettesse innanzi dei validi pretesti ad ottenere licenza; ma il Fossano non seppe farla contenta, e soltanto la provvide di un alloggio fuori del palazzo ducale, per tenerla, più che fosse possibile, celata altrui. Parecchi mesi passarono senza che avvenisse cosa che meritasse venir notata; ma una sera mentre il Fossano e Valenzia passeggiavano per una delle contrade di Milano, due gentiluomini fermatisi a guardare Valenzia, che era di una bellezza straordinaria, pronunciarono queste formate parole:—L'hai tu veduta?—Sì l'ho veduta;—parole che in fondo non volevano dir nulla, e che soltanto potevano significare la meraviglia di che que' due gentiluomini erano stati presi alla vista di quella non comune bellezza. Ma tanto bastò perchè Valenzia, che benissimo udì quelle parole, s'intestasse di essere stata riconosciuta, e però detto ad Alberigo che a lei non conveniva per nessun modo il rimanere ancora in Milano, tanto fece che quella notte medesima si partirono per la riviera d'Orta. Colà fermatosi per qualche giorno anche il Fossano, alla fine gli convenne tornare a Milano dove era aspettato dal Conte di Virtù, e Valenzia tutta sola, se tu ne tolga la compagnia di una fante e di due servi, a cui Alberigo raccomandolla caldamente, si rimase a vivere i suoi dì, recandosi spesso nella chiesa di San Giulio a pregar Dio per Alberigo, per Candiano e per sè.
Se quando fuggirono di Padova alcuno avesse loro profetato i dì venturi, certo che, senza aspettar altro, que' due giovani si sarebbero divisi per sempre, e Valenzia, qualora le fosse stato possibile, sarebbe ritornata con suo padre a Venezia. Il lettore che forse si aspettava di assistere alla più intensa felicità di que' due giovani, così miracolosamente uniti, non si rimanga troppo sorpreso all'udire che, dopo un anno d'intervallo, una tristezza noiosa e senza pari fu il frutto ch'ebbero raccolto da quella loro passione.
Valenzia era pur sempre piena del pensiero del suo Alberigo ma quella sua vita claustrale, il silenzio non mai interrotto delle eterne ore del giorno, quel non so quale sgomento di un avvenire incerto e sventurato che l'assaliva di tratto in tratto, la lontananza del padre suo, che le si era più e più fatto caro appunto per la disperazione di poterlo rivedere; in una parola una ragione di vita così opposta a quella che aveva vissuto nella brillante e romorosa Venezia, dove non era stanza per quanto segreta e interna, nella quale non pervenisse un'onda di frastuono ad indicare l'esistenza e l'operosità di tante migliaia d'uomini, aveva per tal modo cambiata la direzione delle sue idee, per tal modo sconcertata la sua sensibilità, che il più delle volte senza sapere il perchè, piangeva per delle ore parecchie, e pregava, ed errava di pensiero in pensiero, ma pur troppo senza mai trovar pace.
Ad Alberigo poi in tutto quel tempo che visse lontano da Valenzia, si era assai freddato quel primo amore. Quella malinconia assidua della quale aveva visto esser presa Valenzia, quel suo facile acconciarsi a vivere lontana da lui, gli parve fossero indizi ch'ei le fosse venuto a noia. Pensava tuttavia che la colpa era più propria che di lei, in quanto egli avrebbe dovuto rifiutarsi a vivere in corte, ed essere compagno indivisibile di chi lo aveva con tanto ardore amato una volta, allora fermava di presentarsi al duca, e prendere da lui licenza, e volare presso alla Valenzia per non spiccarsene mai più; e in quei lucidi intervalli lo prendeva una tenerezza spasimata di lei, se la figurava innanzi bella di tutte le più care doti che l'adornavano; si richiamava in mente il primo istante in cui l'avea veduta, le prime parole ch'eran corse tra loro, e provava un cotal rimorso considerando che il suo cuore oramai batteva troppo lentamente per lei. Ma tosto che dalla sua stanza usciva in publico, che nelle splendide feste del duca sentivasi fatto segno d'interminati applausi, e il suo occhio veniva abbagliato dalla lusinghiera e incomparabile beltà delle fanciulle lombarde, l'imagine della sua Valenzia gli si ritraeva in fondo in fondo della memoria, vicinissima a solversi in nulla, e allora perfino un pentimento lo assaliva……….
Chi mi legge, se male non mi appongo, è già dispettoso della delusa sua aspettazione, e in vece di questo Alberigo avrebbe voluto un tipo di eterna immarcescibile costanza, uno di quegli uomini che per mutar di vicende giammai non si mutano, e tanto più che pareva promettere di dover riuscire uno di costoro appunto. Ma pur troppo laddove è più d'ingegno e più di passione, dove l'anima è più procellosa, dove la fibra è più sensibile alle esterne sensazioni, queste colpevoli incostanze si verificano il più delle volte; e i lettori forse avvezzi a vedere ne' libri quegli invariabili ideali, non sapranno acconciarsi a tener dietro ai passi di un uomo di sì diversa natura. Ma appena si considera che il cuore umano è un labirinto in cui troppo facilmente smarrisce chi ne vuol tentare i recessi, che i caratteri degli uomini non possono essere sempre immutabili come le teste dei re sui nummi e sulle monete, che più c'è da imparare dove è più il vario, che la penosa lotta tra i desiderii e i doveri, che i tardi ma generosi pentimenti meritano pure di essere considerati d'appresso, se non altro per raccogliere larga messe di lezioni d'esperienza, è a sperare si vorrà tener dietro a ciascun passo del nostro Alberigo.
A raffreddare ancora più l'affetto ch'egli aveva per la sua Valenzia, a dare il crollo alla bilancia, un mese prima del momento in cui abbiam trovato il Fossano nella sua stanza solitaria, eragli intervenuto un caso inaspettato.
La contessa Giulia M….. di Milano che, appena uscita del monastero senza che punto venisse interrogato il cuor suo, era stata sposata al marchese T…, uomo sessagenario, non avendo essa tocchi neppure i diciott'anni, introdotta a corte, messa nel numero delle dame che facevano il corteggio di Caterina Visconti, aveva veduto e udito il nostro Alberigo. Il confronto tra lui ed il sessagenario marito, è troppo ragionevole che sia stato a danno dell'ultimo. Ma la giovinetta appassionata, inesperta e un cotal po' leggiera, di tanta forza si sentì presa del giovine cavaliere, che non potendo tenere in sè il segreto di quella sua passione, si lasciò condurre a palesarla ad un'amica sua, la quale non essendo donna che peccasse per soverchia rigidezza di pensamenti e di costumi, risolse far contenta la povera contessa Giulia, e vendicarsi del marchese T…. che certamente doveva averla offesa in qualche duro modo. Una sera, prima che cominciassero le feste, un paggetto di palazzo si reca alle stanze del cavaliere Alberigo, e le dà una lettera. Quella lettera non era sottoscritta da nessuno, ma diceva queste precise parole: «Stanotte alle due, nel gabinetto verde, siete aspettato.» L'Alberigo quantunque non sapesse che si pensare a quelle parole, tuttavia fu puntualissimo, e all'ora indicata si trovò nel gabinetto indicato. Egli vi si trovò solo, e stette aspettando per qualche tempo; alla fine ode lo stropiccio de' piedi e di una gonna: entra la bellissima contessa Giulia.
Ella non sapeva nulla della lettera, ma in quel gabinetto l'avea mandata l'amica sua dicendole esservi taluno che le voleva parlare. L'Alberigo alla di lei comparsa se ne sta fermo e tacito; ella s'arresta, e non osa dire una parola. Quella confusione però e il vivo rossore della bella contessa, misero in sospetto il giovane Fossano, che parlò il primo, e fatto animoso della lettera che interpretò alla vera foggia, le volse parole a cui l'appassionata e inesperta sposa rispose assai bene. Da quella notte cominciò la novella tresca che lo fece troppo alieno della povera sua Valenzia. Col continuare di quella pratica però s'accrebbe sempre più l'amaro della sua vita, perch'egli è certissimo che gli uomini non possono nè potranno mai gustare con pace sincera i frutti vietati.
Di quando in quando gli arrivavano lettere di Valenzia piene di una dolce ed amorosa mestizia, ma se pure lo facevano per un istante pentito del suo trascorso, non valevano a riaccendergli in cuore colla primitiva forza, il suo affetto per lei. La bontà poi, la generosità incomparabile di Candiano, che a lui aveva affidata con tanta sicurezza la propria figlia, lo colpivano di sì gran forza che non trovava modo a scusare la propria condotta.
Quella mattina, mentre se ne stava guardando il sorgere dell'alba, pensava appunto a queste cose, ed aveva l'anima così arrovesciata che mai non aveva provato un momento più pesante, più noioso, più molesto di quello in tutta la vita, e per quanto procurasse, dirò quasi, artificiosamente accrescere i meriti di Valenzia col figurarsela innanzi nella forma la più lusinghiera, non gli veniva già fatto il suo desiderio; si era come ottuso in lui, quasi per morbo, l'impeto de' suoi più generosi affetti…. e soltanto quando la sventura, l'ultima sventura lo incalzerà dappresso, quando gli eventi gli contenderanno di più avvicinarsi a Valenzia, allora, proprio allora che non sarà più in tempo, torneranno a sboccargli nel cuore con un impeto improvviso e senza pari; ma saranno tormentosi, ma saranno esacerbati dal rimorso. Di tal guisa troppo spesso i crudi destini raggirano l'uomo fra le ambagi di questa vita mortale.
A toglierlo da quella sua attonitaggine, gli entrò nella stanza un paggetto di corte ad avvisarlo che la cavalcatura era pronta, e che già tutto il corteggio era abbasso per accompagnare l'eccellentissimo Conte di Virtù in villeggiatura. Il Fossano, che più non si ricordava di questo, s'alzò di volo, si gettò il mantello sulle spalle, e copertosi il capo con una berretta di velluto riccio, discese lesto le scale in compagnia di quel paggio. Discese in quella, che anche il Conte di Virtù usciva del vestibolo, e da due scudieri gli veniva condotto innanzi il giannetto, sul quale tosto salì aiutato da due bellissimi paggi che gli tenevano la staffa.
In una magnifica paravereda, messa a velluto e ad oro, trovavasi l'eccellentissima Caterina sua moglie colla Violante Visconti, e in un momento il tutto fu all'ordine, e il corteo si mosse. Lo formavano ventiquattro cavalieri aurati fra' quali il Fossano, dodici dame al servigio di Caterina e della Violante, e trenta labarde comandate da un Dal Verme, fratello del gran capitano. Attraversata la città uscirono dal portello del castel di porta Giovia.
Ogni anno soleva il Conte di Virtù recarsi a villeggiare verso il mese di settembre, alla rocca d'Angera per indi recarsi a fare una visita a tutte le terre ch'egli aveva sul lago Maggiore. Anche questa volta il suo viaggio era diretto a quel paese, ed altre cause, assai più gravi che quella non è del dilettarsi, lo avevano spinto a recarvisi allora segnatamente.
Già da qualche tempo parlavasi d'una calata di Francesi in Italia, a ciò sobillati dai Fiorentini, che vedevano malvolontieri l'ambizione fortunata di Galeazzo, il quale, in pochi anni, aveva tanto disteso il suo dominio da far temere che presto l'Italia non sarebbe bastata intera alle sue mire. Il duca di Savoja, quantunque fosse strettissimo suo parente, pure temendo per sè, ed avvisato dalla sventura di altri piccoli sovrani, che furono sacrificati dal Visconti con un'astuzia e freddezza senza pari, s'era segretamente unito ai Fiorentini, ed aveva promesso lasciar libero il passaggio ai Francesi. A tener lontano il pericolo di un'invasione, ed a scemare nei suoi nemici le troppo agili speranze, Galeazzo aveva mandate sull'ultimo confine dei suoi possedimenti in Piemonte, gran parte delle sue truppe comandate dal celebre Dal Verme.
Ultimamente poi un uomo di Francia, che era stato al servigio del conte d'Armagnac, venuto segretamente a Milano, aveva fatto noto al Visconti, colla speranza di un grande compenso, che Carlo, il secondogenito di Bernabò, il quale dopo la morte paterna erasi rifugiato in Francia, ed aveva dato l'anello alla sorella del conte d'Armagnac che presto morì, partito di là aveva preceduto l'esercito francese, ed erasi già introdotto ne' di lui stati; però se ne guardasse, chè colui era pronto a tentare un partito disperato. Dopo qualche tempo ebbe notizia dal suo castellano di Arona che una notte, una barca di alabardieri, la quale scorreva pel lago alla visita dei posti, inseguita per un pezzo una barchetta, che alla lor vista s'era data a rapidissima fuga, non avevan potuto raggiungerla; ma però per molti indizi avevan potuto capire trovarsi in quella persone d'altissimo affare. Per tutte queste cose aveva il Conte di Virtù fatti raddoppiare i presidii in tutte le rocche che aveva sul lago Maggiore e aveva stabilito recarsi egli medesimo ad Angera, col fine di allontanare coloro che per avventura si fossero rifugiati in que' paesi; in quanto poi alla propria sicurezza, teneva sempre intorno a sè dodici fidatissime labarde, che toglievano di speranza chiunque avesse voluto tentar su di lui qualche violento disegno.
Quando il Fossano sentì parlare di Carlo Visconti che segretamente erasi introdotto negli stati di Galeazzo, e da quella notizia del castellano si venne a congetturare potesse mai essersi celato in una di quelle terre del lago Maggiore, a tutta prima, come è ben naturale, quantunque fosse tutt'altro che d'animo vile, temette per sè e per Valenzia. Ma considerando poscia che egli non era conosciuto di persona dal figlio di Bernabò, il quale d'altra parte non sapeva i pericolosi suoi segreti, e risguardava Valenzia siccome morta, tosto mise l'animo in pace, nè vi pensò altro.
Mentre viaggiava però, tenendosi un po' discosto dagli altri, perchè non desiderava, triste com'era, di venire importunato da inutili parole, venne così per caso ad incontrarsi in quel pensiero, e tra per aver l'animo già troppo inclinato a credere il peggio, tra che in quella mattina, senza che sapesse comprenderne il perchè, Valenzia non le poteva uscire di mente, il timore che alcuni dì prima aveva scacciato come una pazzia, lo invase di tal maniera che tenne per certo il figlio di Bernabò fosse appositamente venuto in Italia per Valenzia. L'affetto antico che un'ora prima inutilmente erasi sforzato a risuscitarsi in cuore per lei; al pensiero di quella terribile sventura gli risorse improvviso, e di tanta forza che già traevasi a maledire il suo signore, per accompagnare il quale egli doveva viaggiare con tanta lentezza, egli che in quel momento avrebbe voluto trovarsi già nella sua casa ad Orta, ed assicurarsi del vero. Ma quegli impeti sbollirono presto, e appena una più fredda considerazione tornò a mostrargli che il suo timore era pazzia, appena che il sole erompendo improvviso da quella zona di nubi che avea resa un po' fosca la mattina, rallegrò la faccia della terra, e per un fenomeno quanto vero altrettanto incomprensibile, rallegrò anche i pensieri dell'uomo; appena che la contessa Giulia, che faceva parte del corteo del duca, gli si avvicinò dicendogli parole piene d'amore e di lusinghe, e abbagliandolo colla sua bellezza, che in quella mattina sfolgoreggiava più dell'usato, tutti i tristi pensieri svanirono, e con loro pur troppo si dileguò la pallida figura di Valenzia.
Giunti che furono a Legnano, tutti alloggiarono nel palazzo dell'arcivescovo Ottone Visconti.
È inutile che noi descriviamo a minuto tutto il viaggio fatto dall'eccellentissimo Conte di Virtù col suo corteggio. Ci basterà il dire che v'impiegarono tre giorni interi fermandosi lungo il cammino in tutte le castella presso cui passavano.
All'alba del terzo dì arrivarono a Sesto; da quel paesello ad Angera avrebbero potuto avviarsi per terra, ma per essere le strade incolte, deserte, disagiate, tali insomma da rendere a più doppi lungo e noioso il viaggio, vollero in vece prender la via del lago. A quest'uopo in un seno entro terra, stavano colà rafferme dieci barche fatte allestire il dì prima dal maggiordomo ducale. Come tutta la gente del duca si fu in esse raccolta, si volsero le prore alla volta d'Angera. Veleggiando quasi terra terra avveniva che quando passavano innanzi ad alcun paesello sparso per la riviera, i villeggiani accorrevano a vedere il magnifico corteggio, e battevano palma a palma accorgendosi ch'era quello del Conte di Virtù. La barca ove questi trovavasi insieme a Caterina Visconti sua moglie, portava un baldacchino di velluto rosso e frange d'oro; i sedili erano coperti di cuscini di seta d'oro e d'argento, e alcuni drappi di peregrina stoffa e stupendo lavoro, gettati intorno intorno sull'orlo della barca a coprire la rozzezza del legno, lasciavano cadere i lembi dorati che s'immergevano nelle acque. Nelle altre barche messe con minor magnificenza risplendevano le ricchissime vesti, gli ornamenti d'ogni sorta delle dame e dei cavalieri. Il sole, sorto da qualche ora, mandava già alcuni fasci di raggi su quel tratto di lago che le barche percorrevano, e rifranto in mille modi brillava tremolando sulle gemme, sugli ori, sulle corazzine, sull'else; tutti quelli oggetti poi che al guardo apparivano l'uno dall'altro così distinti, riprodotti capovolti nel lago, si venivano a confondere insieme rendendo stranissime forme, e sempre varie per l'agitarsi continuo delle acque, ed a produrre una tal mistione di colori che nessuna tavolozza di pittore saprebbe rendere degnamente. La bella apparenza del tempo, la calma serena dell'ora, la ridente prospettiva della fertilissima riviera, aveva messa tanta alacrità e vivezza negli animi, che di barca in barca volavano lepide parole, e frizzi, e risa, e gentilezze d'ogni sorta, e un romorio, un cicaleccio incessante rompeva la quiete del lago. Soltanto nella barca ove trovavasi Galeazzo e Caterina Visconti, la calma era inalterabile.
Appoggiato così a sdraio su d'un cuscino, il Conte di Virtù pensava, e ripensava a' propri dominii, al modo d'estenderli sempre più, agli ostacoli che si frapponevano, alle vittime che avrebbe dovuto sagrificare, e, conseguenza finale di tutto, alla corona di re, desiderio e tormento assiduo di quell'ambizioso principe. E allora mentre pensava che Bernabò era morto, che il durissirno degli ostacoli era tolto, volgevasi a guardar di sott'occhio Caterina, che forse incontratasi essa pure in quel momento nella ricordanza orribile della morte paterna, posava gli sguardi su lui con un fremito ascoso. Così, senza mai volgersi una parola, in poche ore giunsero ad Angera.
Nella parte più alta di questo contado, ergesi ancora la rocca dove allora entrò il duca Galeazzo. In una grandissima sala abbandonata, ancora si vedono pregevoli dipinti che rappresentano le gesta dell'arcivescovo Ottone Visconti, e che allora erano di poco tempo stati eseguiti per ordine del medesimo Conte di Virtù. In un brolo di quella rocca, le molti iscrizioni che vi si vedono, tra le quali segnatamente quella di C. Metilio Marcellino, ci attestano l'antichità di quel paese, intorno al quale alcuni dottissimi uomini, forniti di una imaginazione veramente prodigiosa, raccontano cose che forse saranno vere, ma che per noi sono incredibili, basti il dire che un certo Anglo, nipote del pio Enea, la edificò e la volle dedicata ad Angerona, la quale è nientemeno che la dea del silenzio.
E se in quel dì le campane della chiesa di San Pietro e Paolo, non avessero suonato a festeggiare l'arrivo del duca, e a loro non avessero risposto con pari lena le campane degli altri innumerevoli paeselli sparsi su pel lago; la dea Angerona non avrebbe avuto a muovere un lamento.
Ma per tutto quel giorno in vece fu uno scampanare così continuo e così disteso, che a molte miglia di lontananza si venne a sapere che l'eccellentissimo duca era arrivato.
E si accorse anche colui che più di tutti aveva interesse a quell'arrivo.
V
CARLO VISCONTI.
Il sole era già scomparso dalle cime de' monti che circondano Vall'Intrasca. I valleggiani s'erano già ritirati ne' loro abitacoli, e al tacere di una campana che suonava a brevi intervalli, e si faceva ripetere dall'eco delle montagne, era un silenzio profondo, universale. Sulla riva del fiume San Giovanni, solitaria e pressochè interamente nascosa da tre grossi castagni, sorgeva una capannaccia piuttosto ampia; nessun segno dava indizio che vi abitasse persona; e infatti quando la notte fu del tutto buia, due uomini si fermarono innanzi ad essa, e data una forte spinta ad una portaccia che subito cesse, misero il piede in quel luogo deserto. Entrati, un di loro accese l'esca, diè fuoco a delle stoppie che stavano accatastate su d'una pietra nel mezzo della stanza, e in breve crepitò la fiamma a rischiarare le faccie dei due, che il lettore non ancora conosce. Erano essi Carlo Visconti, figlio di Bernabò, e un avventuriero savoiardo. Nessuno però avrebbe potuto conoscere l'esser loro, travestiti come erano, e se il medesimo Galeazzo fosse stato introdotto a vedere il suo cugino, forse non l'avrebbe ravvisato, tanto era diverso da quel d'una volta. Dopo due anni di sventure, di patimenti, di speranze, di continua incertezza, d'odii a stento repressi, d'ingiurie invendicate, di livore e d'invidia per tutti coloro ch'erano più felici di lui, e tutto il mondo poteva esserlo (che l'altezza della sua caduta nessuno l'aveva misurata); colle sue idee che avevano al tutto cambiato direzione, anche il suo volto aveva cangiata espressione; ferocia e fermezza non erano però ancora venute meno in quelle sue robustissime membra. Vestito anch'esso come il suo compagno da montanaro savoiardo, aveva brache di pelle strette alla carne con scarpe grosse, indossava un gabbano pure di pelle con cappuccio che gli copriva la testa. Veduto alla luce di quella fiamma che gli riverberava con molta forza sul viso ad accrescere il terribile della sua pupilla e ad indorare la tinta della sua pelle con certe ombre che gli alteravano notabilmente le linee della faccia, mostrava avere quarant'anni e più, quando non ne contava che trenta.
Stati per qualche tempo senza proferir parola nè l'uno nè l'altro, alla fine entrò a dire il Savoiardo:
«E così cosa pensate di fare?»
Il Visconti si scosse a quelle parole, e squadrato il compagno d'alto in basso, come solea fare con tutti,
«Per ora non so,» rispose.
«Il vostro cugino è qui presso.»
«La sua venuta mi è di buon augurio, io volevo andare a trovar lui, egli è venuto a trovar me; questo è destino, e mi pare ci sia da sperar bene.»
«E a me pare in vece ci sia da temer tutto.»
«Vadano all'inferno i vigliacchi,» disse il Visconti saettando l'altro colla feroce sua pupilla. «Va! va nell'altra stanza a dormire che sarai stracco; ho bisogno di star solo, va.»
Solo che fu, gettossi a sedere in un canto della stanza dov'era uno stramazzo di foglie fradicie, e colà si mise ad agitare migliaia di partiti senza che neppur uno gli si offrisse che potesse fargli raggiungere i suoi disegni; ma quei disegni erano immaturi, erano difficili, per non dire impossibili, e a nessun altro che ad uomo disperato potevano venire in mente. Quand'egli s'era trovato fuggiasco in Francia, ogni tentativo per quanto audace ed arrischiato, gli era sembrato molto agevole a mandarsi ad effetto, ma di presente, che era vicinissimo al momento dell'azione, che vedeva con chiarezza, con troppa chiarezza, qual fosse veramente la propria condizione, quale in vece quella del cugino Galeazzo, quantunque volesse tacerlo a sè stesso, capiva che altro non gli rimaneva che ritirarsi, se non fosse per altro, per far salva la vita propria. Il coraggio e la virtù ferrea di Carlo Visconti, tanto somigliante in ciò al padre suo, era ben diverso dal coraggio e dalla virtù di un Romano antico.
Questi, a fare una vendetta, sarebbe andato incontro a morte sicura, e sarebbe morto contento perchè vendicato, senza che avesse altre mire. Il Visconti in vece avrebbe esposto la propria vita sì, ma la vendetta non gli bastava, voleva raccogliere anche l'utile per sè, e gli volevano molti gradi di probabilità ad ottenerlo. anzi che volesse esporre la vita ad un pericolo; alle decisioni del fortunoso evento poteva sottoporsi, la certa rovina lo atterriva e lo faceva desistere da qualunque impresa. In quanto poi al desiderio di vendicare l'ombra paterna, questo era un pretesto che certamente avrebbe messo fuori ad onestare il suo colpo in faccia al mondo, ma non era mai stato il più forte motivo della intrapresa, il cui pensiero da qualche tempo aveagli potuto in parte confortargli l'esiglio, ma che ora già minacciava abbandonarlo al disinganno.
Ad ora tarda, alzandosi di quel giaciglio, s'era accostato alla pietra che stava nel mezzo stanza per rinfuocare la bragia e ridestarvi la fiamma che sola poteva rischiarare la camera. Annoiato di star seduto, si diede a passeggiare a rapidi passi, fermandosi di tratto in tratto quasi ad ascoltare il rumore che faceva l'onda impetuosa del fiume San Giovanni: finalmente, fermato un mezzo disegno, si recò nella stanza vicina, e chiamò:
«Bronzino!»
Colui russava della grossa, ed era assai maldisposto a rispondere.
«Bronzino!» tornò a replicare il Visconti avvicinandosegli e scuotendolo con atti di molta impazienza.
E colui si destò, scrollatosi un poco come per cacciarsi di dosso il sonno;
«Che cosa c'è, messere?»
«Alzati, presto.»
Il figlio di Bernabò era di que' caratteri impazienti che non sanno sopportare indugio di sorta, e siccome gli era venuto in mente un pensiero, non pativa d'averlo a tener chiuso in sè fino alla prim'alba.
Il Bronzino, alzato che si fu:
«Che cosa avete a comandarmi a quest'ora?»
«A quest'ora, nulla ho a comandarti, ma ho pensato che per domani tu debba recarti presso al luogo dove ora se ne sta il carissimo mio cugino, e colà, introducendoti tra gli uomini della sua famiglia, scovar fuori ciò che potrebbe far luce a' nostri tentativi, hai tu capito?»
«Ho capito.»
«Tu non sei conosciuto, e in nessuno di loro potrà nascere alcun sospetto di te.»
«Questo va bene, ma la mia andata non gioverà a nulla, e non potrò sapere un iota di più di quanto io so ora. Se voi avrete la pazienza di aspettare la calata dei dodicimila francesi e d'unione col conte d'Armagnac, il vostro cognato, mettervi alla testa di quelle truppe e combattere da pari vostro, allora forse vi verrà fatto provvedere assai bene ai vostri interessi. Ma in quanto al tentar voi solo l'impresa coll'accostarvi al Conte dovreste persuadervi una volta che ciò è al tutto impossibile; in prima il Conte ha sempre intorno a sè una siepe di labarde, che nè a voi nè al diavolo può bastar la vista di sorpassare…. e poi…. se mai aveste a riuscire ad ammazzare il Conte…. gli alabardieri ammazzeranno voi.»
Il Visconti si rannuvolava, e stato un pezzo colle braccia incrocicchiate sul petto senza parlare: «Oh,» disse finalmente con un sospiro che pareva un mugghio, «che mi sia chiusa ogni via? che la provvidenza….»
«La provvidenza non c'entra qui per niente. Volete voi tornare ad esser duca, od esser amico di Dio?»
«L'una e l'altra cosa insieme.»
«Volete troppo, illustrissimo, l'una delle due vi rimane a scegliere; diversamente temo non vi verrà fatto alcun che di buono.»
«Bene, come vorrà il destino. Ma io ho fermo che tu abbia ad uscire domani mattina di questa valle, e recarti dove ti ho detto. Qualche cosa potrai sempre raccogliere.»
«Ed ogni fuscello è un puntello, come dice il proverbio.» soggiunse Bronzino ridendo.
«Io andrò aggirandomi per questa valle finchè tu ritorni, o finchè mi avrà morto la noia che oramai non posso più sopportare. Alla sera verrò a raccogliermi ancora qui in questa capanna; a meno che non fossi invitato ad uscire, se mai ritornasse qui chi n'è il vero possessore.»
«Questi buoni villeggiani son tutti assai ospitali. State tranquillo, che non vi verrà fatto insulto.»
«Dunque hai capito; per adesso continua a dormire.» E senz'altre parole lo lasciava solo, ed egli tornava nell'altra stanza.
E gettavasi ancora su quel giaciglio di paglia mezzo fradicia, e si adattava intorno il gabbano col fine di dormire infino a tanto che spuntasse il dì. Ma sonnecchiato un poco, tosto si ridestava, che quand'uno è martellato da un pensiero assiduo, e che tutta gli occupi la vita, non è possibile che abbia a dormire a lungo. E allora colla memoria tornando molt'anni addietro, pensava alla potenza della propria famiglia, e alla terribile grandezza del proprio padre in mezzo a quella corona di figli prodi e coraggiosi, che per anni ed anni promettevano farla fiorire sempre più, e mano mano percorrendo i fatti memorabili successi nella propria casa, e le lunghe guerre sostenute dal padre contro il pontefice, e le vittorie, e le sconfitte, e le paci, e le crudeltà di cui era stato assai spesso o spettatore o esecutore si fermava colla memoria al momento in cui gli giunse la notizia che Bernabò era stato condotto nelle prigioni di Trezzo, e che a lui e a tutti i suoi fratelli era stato tolto il dominio e la patria e tutto; il sangue gli tornava allora a ribollire, come si trovasse tuttavia in quell'istante medesimo; quando improvvisamente gli si generarono nella mente idee affatto opposte a quelle che gli erano sempre state abituali; l'idea ch'egli era posto al livello e più sotto ancora di tutti gli altri uomini;—che, miserabile, sarebbe stato spettatore dell'altrui grandezza;—che, avvezzo fino allora a farsi rispettare e temere da tutti, egli da quel momento avrebbe dovuto vivere in continua paura di sè. Allora gli si rinfuocava in petto d'una maniera terribile l'odio contro al cugino Galeazzo, e non pensava più ai mezzani partiti, ma alla decisa vendetta, alla morte dell'abborrito parente…. Così passò quasi tutta quella notte, finchè spuntò l'alba ad alleggerirgli il peso della sua condizione. Il Bronzino gli comparve innanzi, sentì rinnovarsi l'ordine di andare a far da esploratore dove trovavasi il duca Galeazzo, e senz'altro, detto addio al suo signore, si procurò una barca, e recossi ad Angera, che, durante il viaggio, aveva sentito dire che in quella rocca s'era ridotto il duca a villeggiare.
Ora, lasciando ir libero costui per qualche tempo, torneremo un tratto a trovare Alberigo Fossano. In quella mattina medesima gli era stata annunciata una visita di un certo tale che aveva a consegnargli alcun che d'importanza; e quel tale era nientemeno che l'Apostolo Malumbra, il quale, viaggiato il più frettolosamente che potè, giunto a Milano, e sentito che la corte erasi recata alla rocca d'Angera, senza por tempo in mezzo, vi si era tosto trasferito. Il Malumbra, intromesso alla presenza del cavaliere, «Io sono,» gli disse, «un mercante di Venezia, assai conosciuto dall'illustrissimo ammiraglio Candiano, che mi degna della sua fede; ed è lui appunto che mi manda a voi per consegnarvi questa lettera.»
Il Fossano, presa la lettera e rottine i suggelli, con segni di molta ansietà si poneva a leggerla.
«Diletto figlio!
«Io vivo in una terribile incertezza; il portatore della presente, che è un onesto mercante di Venezia, mi ha raccontate certe storie che correvano in Milano, intorno a te e a tua moglie, e qualmente il figlio di Bernabò, che s'è intruso negli stati del duca, sia venuta a vessarla con ogni sorta d'astuzie ed atrocità. Io non comprendo come ciò siasi potuto far publico per tutta Milano, e conducendomi l'esperienza mia a dubitare che ciò sia al tutto una falsa diceria, ti prego a confidare al portatore della presente ciò che ti parrà meglio a scarico d'ogni mio timore.
«Addio.»
Il Fossano, letta questa lettera, guardò per un pezzo in viso al Malumbra non comprendendo bene quanto gli scriveva Candiano, chè a nessuno di Milano egli aveva detto nè tampoco d'aver moglie, se non ad un suo buon servo, di cui si valeva per le sue più segrete bisogne; comprendeva molto meno quell'imbroglio del figlio di Bernabò, del quale, per fortuna, il dì prima aveva potuto capacitarsi non esserci nulla a temere, ed alla Valenzia non essere intervenuto danno di sorta; però così disse al Malumbra:
«In questa lettera mi si parla di voi, e di certe istorie che avete udite in Milano, e che io ignoro affatto. Ma in prima mi piacerebbe udire da voi medesimo, come e quando avete sentite quelle strane dicerie delle quali in questa lettera mi vien parlato.»
Il Malumbra non aveva pensato che il Candiano di ragione avrebbe scritto ad Alberigo ciò che aveva sentito da lui medesimo, per cui si rimase sconcertato un poco alle parole del Fossano, ricordandosi tutt'a un tratto di quanto aveva narrato all'ammiraglio, col fine di farlo tutto riscuotere alla presenza del senator Barbarigo; tuttavia, come assai abituato a simili incontri, con quattro parole a modo suo si cavò d'ogni imbroglio, e conchiuse dicendo: «Io dissi ciò che ho sentito dire, senza forse comprender bene; del resto non so nulla.»
«Allora farete piacere a riportare all'illustre Candiano che riposi tranquillo stante che nessun danno mi è intervenuto in questi anni.»
«E anch'io ne godo nell'animo, messere. Ma l'illustre ammiraglio mi diede un'altra incombenza…. forse ne sarà scritto alcun che in quella lettera medesima.»
«Qui non c'è altro,» rispondeva il Fossano dando un'altra scorsa alla lettera.
Il Malumbra stette dubbioso un momento, se mai dovesse far credere al Fossano di essere a parte d'ogni segreto, oppure fare infinta di nulla, e procurare di vedere la Valenzia all'insaputa di lui. Ma pensò prendere il primo partito.
«L'illustre ammiraglio,» allora disse, «mi ha raccomandato procurassi io stesso di vedere la moglie vostra, perchè gli riporti con esattezza la condizione in cui si trova, lo stato di sua salute e tutto.»
Il Fossano a queste parole seguitava a guardarlo con segni di gran maraviglia, onde il Malumbra, che benissimo s'accorgeva di quanto passava nell'interno dell'animo altrui, pensò tenere un discorso molto ambiguo e scaltro, il quale potesse condurre al suo intento, e senza dire egli stesso di saper tutto e di essere a parte di tutto, potesse far parlare il Fossano senza alcun riguardo a lui, come ad uomo che già fosse in cognizione d'ogni segreto.
«Davvero che il signor Candiano,» continuò, «vi ha preso ad amare come non si potrebbe meglio un figlio, ma ciò è ben ragionevole.» E lo guardava intanto con una finezza sua propria, e senza aggiunger altro in proposito. «Una cosa poi mi raccomandò di dirvi, ed è che non vogliate affidare alcuna vostra cosa a nessuna lettera, e piuttosto vogliate incombenzar me di tutto.»
Il Fossano tornò a leggere la lettera di Candiano, per vedere d'assicurarsi meglio, e quantunque in quella fosse detto assai poco sul conto del Malumbra, pure, pensato e ripensato un pezzo, concluse che alla fine la lettera era veramente di Candiano, e che a persona di cui non si potesse fidare interamente, non l'avrebbe nè tampoco consegnata, nè messolo nell'occasione di trovarsi a contatto di chi poteva farlo venire in cognizione di tutto. La conclusione era ragionevole, ned egli volle prendersi altre cautele.
«Io me ne posso andare,» disse il Malumbra, «a fare una scorsa qui d'intorno per oggetto della mia professione. Tornerò a Venezia per doman dopo. Se non vi dispiace sarò qui stasera a ricevere i vostri ordini.»
«Bene…. e adesso che ci penso, fate di venire un po' prima di vespro che ci recheremo ad Orta.»
«Ad Orta?»
«Sì….Valenzia è là,» soggiunse Alberigo a bassa voce.
Il Malumbra non disse nulla, chinò la testa, e se ne usci.
Allora il Fossano, chiamato quel suo servo che era a parte d'ogni segreto, lo prese ad interrogare con modi assai gravi, per sapere s'egli avesse mai palesato a qualcheduno ciò che tanto premeva tener nascosto. Ma quel buon servo che, molti mesi prima a Milano, era stato indotto a raccontar tante cose sul conto del suo padrone, dal troppo vino che gli aveva accresciuta la parlantina, e dalle astute domande del Malumbra; parte non si ricordava bene dell'avvenuto, parte non voleva farsi conoscere per da poco e peggio, e così con belle parole rassicurò il proprio padrone al tutto.
Intanto il Malumbra, il quale non sapeva che fare in quel dì, erasi, a fuggir tempo, recato sulla piazza d'Angera; per esser giorno di mercato, v'era colà gran quantità di popolo, e così camminando tra gente e gente, attese a baloccarsi per qualche ora. Tra tutte le faccie però di que' montanari, dalle quali traspariva la sincerità, la rettitudine e quella buona fede che divien tanto più preziosa, perchè più rara tra le mura delle città, il Malumbra che, per le incombenze dell'arte sua, aveva dovuto fare, come si suol dire, l'occhio esperto, notò la faccia di un tale che faceva una decisa dissonanza con tutti gli altri che gli stavano intorno. Anche la foggia del vestire di colui si scostava qualche poco dalla comune, ma a questo non avrebbe osservato gran che, se quegli occhi fondi piccoli e muoventisi di continuo, e quella scialba pallidezza che non può accordarsi alla vita serena del montanaro e all'aria pura de' monti, non lo avessero messo in sull'avviso. E davvero che l'astuto Malumbra non erasi ingannato, in quanto che l'uomo che lo aveva tanto colpito, era nulla meno che il Bronzino, il compagno del Visconti. Il caso poi volle che in quel dì s'incontrassero molte volte, e d'aggiunta si dessero a vicenda molte occhiate, forse per quell'istinto medesimo che fa al gatto sentir l'odore del gatto. Dando però a questi scontri fortuiti il valore che si conveniva, il Malumbra verso le sedici ore si recò ad un'osteriaccia che dava sul lago. Ma quando entrò nel cortile, guardando ove si potesse collocare, vide che da un'altra parte era entrato l'uomo nel quale erasi scontrato tante volte.
Dopo molte ore d'ozio e di noia voleva pure attendere a qualche cosa che appartenesse all'arte sua, ed essendogli entrato il desiderio di sapere chi fosse colui, gli si recò appresso per tentare di appiccar seco alcun discorso; il Bronzino dal canto suo, come si vide alle costole il Malumbra, lo guardò un tratto ridendo a mezzo, poi così gli disse:
«Oggi, amico caro, ci siamo incontrati troppe volte, perche io possa credere che sia al tutto effetto del caso.»
«È il mio pensiero questo che voi dite. E per la pura verità, è la quarta volta per lo meno che voi venite su miei passi.»
«Avete voluto dire che voi vi trovate sui miei.»
«Come vi piace, amico mio; ma se la cosa non è effetto del caso, è senza dubbio effetto del destino.»
«Del resto io non trovo che noi abbiamo a fare alcuna cosa insieme.»
«Chi lo può dire? a buoni conti siamo in sull'osteria, e se non c'è altro ci rimane a pranzare ad una tavola medesima.»
Qui il Malumbra, chiamato l'oste, che gli si fece innanzi con mille inchini,
«Si vorrebbe mangiare un boccone,» gli disse.
E domandandogli l'oste se aveva a preparare per ambedue, allora il Malumbra, facendo le viste che molto non gl'importasse della compagnia dell'altro, soggiunse:
«Per questo messere, col quale ci siamo incontrati, non so.»
Ma il Bronzino avendo presto detto all'oste: «Prepara pure anche per me, chè pranzo coll'amico;» senza più altro, l'uno rimpetto dell'altro, si posero a desco.
Preso un pane, spezzatolo, e ingollatine alcuni bocconi, come per passatempo, intanto che si aspettava si mettesse in tavola, il Malumbra con quel suo fare sbadato e freddo che gli era abituale, cominciò a mettere innanzi alcune parole.
«Il tempo continua innanzi ch'è una maraviglia; ma in quest'anno non c'è qui molta affluenza dei signori del piano, ed alle mie merci non c'è modo di far prendere il volo.»
«È la prima volta che capitate in queste parti?»
«Qui la prima volta; ma in Milano ci venni assai spesso, e quest'anno essendovi capitato quando la corte se n'era già andata, e avendo sentito che il duca era venuto quassù a villeggiare, ho detto tra me:—Andiamo, che di ragione verranno colà tulli i gentiluomini della città, ed io troverò di far bene.—Ma, pur troppo, amico caro, mi sono ingannato. Sono però assai contento d'aver visto il duca; e in vero, ha un viso che mi va per la fantasia.»
«Siete di buon gusto, amico caro,» rispose il Bronzino con un sorriso che appena gli si vedeva tra labbro e labbro. «Quella sua barba che finisce in punta, è tal cosa che certamente può dare nel genio a chicchessia.»
«In quanto alla barba, avete ragione, non è la miglior cosa. Ma quel che mi piacque tanto in lui è quell'apparenza di bonarietà.»
«Di che cose vi dilettate a far mercato, se è lecito?»
«Come c'entra questa domanda?»
«Volevo dire che se mai aveste l'occhio tanto acuto nel giudicare gli oggetti e le merci che togliete a comperare per rivendere, come nel giudicare gli uomini, vi consiglio a stare in guardia, che i fallimenti vengono via di fretta, e tra le cose meno difficili, c'è quella di sculacciar la pietra che sta sulla piazza del mercato.»
«Capisco che mi siete amico, dal momento che mi date dei pareri; in quanto poi all'eccellentissimo duca….»
«Cosa volete dire?»
«Questo bel paesello è suo; e le picche che fanno la guardia alla porta del castello, servono a lui, e l'oste che ci dà a pranzare, paga i balzelli a lui….»
«Certamente….»
«Dunque, credete a me, che il duca è l'uomo più buono di questo mondo.»
«Adesso capisco,» e sorridendo vuotava un altro bicchiere di vino. «Ma voi non siete già di Lombardia?»
«No, son della terra di San Marco.»
«Vi si capiva infatti al parlare.»
«E voi?»
«Io, a dir la verità, credo di esser nato a Chambery, che è un paesello della Savoja. Ma a dirvi tutto, ho viaggiato tanto, che ci vuole una bella memoria a ricordarsi della patria.»
«Avete moglie?»
«Credo bene d'averne, con cinque o sei figli salv'errore; ma è così gran tempo ch'io vo errando pel mondo, che oramai non saprei più riconoscerli se mi capitassero innanzi.»
«Ma….»
«A voi non par giusto, non è vero? eppure la cosa è appunto come vi dico.»
«Ed io se avessi a disertar moglie e figliuoli, non saprei più trovare il che ed il perchè di questo nostro vivere.»
«E a me in vece venne una gran voglia di gettarmi da un burrato, come mi vidi intorno quella nidiata di figli, tanto che un bel dì, avendo fatto molto cammino, nè piacendomi ritornare, tirai innanzi, e l'un passo dopo l'altro mi trovai a Milano.» E vuotava un altro bicchiere di vino che certo non sarà l'ultimo.
«E avete potuto far bene colà?»
«Benissimo.»
«Intorno a che anno vi siete trovato a Milano?»
«Nell'ottant'uno, quando….»
«Quando il Bernabò fu preso….»
«A tradimento.»
«Zitto….»
«Capisco che voi parlate per paura che qualcheduno ci possa udire, ma state pur certo che nessuno ci ascolta. Fatemi dunque piacere a confessare che quello fu un tradimento, e dei negri se ve n'ha.»
«Come volete, alla buon'ora; ma voi siete molto amico del Bernabò.»
«Io?… Non state a crederlo; non gli sono nè gli fui mai amico. Bensì vi dirò una cosa, già qui non è alcuno che ci ascolti, e di voi mi posso fidare. Mi fanno compassione i figli di lui.»
«Viaggiando da Milano a questa parte, m'incontrai in un crocchio di persone che mi raccontarono una strana cosa.»
«Ed è?»
«Che Carlo Visconti trovasi celato in uno di questi paesi.»
«Oh diavolo!»
«Vi dico il vero, ch'ei mi piacerebbe a rivederlo quello sventurato giovane; a rivederlo, mi capite, perchè quand'egli capitò a Venezia, io lo vidi più d'una volta, E se avessi ad incontrarmi in lui, avrei a dirgli qualche cosa che gli farebbe inarcare le ciglia per lo stupore.»
Bronzino facevasi attento, il Malumbra aguzzava gli occhi.
«Egli doveva sposare una patrizia veneta.»
«Lo so; ma la patrizia veneta morì, ed egli si sposò in vece alla sorella del conte d'Armagnac che morì anch'essa,»
«Voi la sapete lunga; ma io la so lunga più. di voi.»
«Come sarebbe a dire?»
«Che la patrizia che morì, per un vero miracolo di Dio è risuscitata, e di presente è fresca e sana meglio di me e di voi.»
Bronzino scrollò la testa, poi disse:
«Fantasie, amico caro, fantasie. Queste cose io le posso sapere meglio di voi certo.»
«Lo credete?»
«Pensate un tratto se la Republica di Venezia, alla quale premeva assai di quel tempo l'amicizia di Bernabò Visconti, avrebbe voluto ingannarlo di tal maniera.»
«E la Republica infatti non ingannò, ma fu ingannata: e se ora il figlio di Bernabò potesse mai per caso rifugiarsi alla laguna, la Republica lo accoglierebbe a braccia aperte, e lo rifarebbe dell'inganno e…. io sono veneziano, e queste cose le so molto bene.»
Il Bronzino quando sentì dire che la Republica accoglierebbe il Visconti a braccia aperte, per quanta poca fede avesse nell'altro, pensò tuttavia che non era cosa da tacersi al suo padrone, e si rimase un pezzo senza parlare come consultando i propri pensieri. Il Malumbra al quale non isfuggivano queste mezze tinte, e sempre gli era ronzato in capo un certo sospetto intorno a quel galantuomo, e tanto più dopo aver sentito come gli stessero a cuore i figli di Bernabò, e come ne sapesse ogni loro vicenda, quantunque non potesse così di volo indovinare la verità interamente, pure le si accostò tanto da porla per ipotesi, e da costruire su di essa la tela del discorso che volle continuare.
«Ora che abbiam mangiato questo boccone, dovremmo uscire di qui e passeggiare un buon tratto per una di queste stradicciuole che lambiscono la falda del monte.»
«Benissimo, andiamo.»
E dopo pochi momenti uscirono, continuarono un pezzo il loro cammino senza parlare, finalmente il Malumbra cominciò a dire:
«Scusate la libertà, amico, ma voi non dovreste essere gran fatto ricco.»
«Pur troppo non ho quest'onore, caro mio, e vi siete apposto.»
«Voi, a quanto ho potuto sentire, siete assai pratico di questo lago.»
«Anche in questo avete indovinato, ma non capisco come l'una delle vostre domande possa stare coll'altra.»
«Lo capirete.»
«Fin qui mi siete sembrato un uomo assai misterioso.»
«Vedrete che vi siete ingannato.»
«Allora parlate più chiaro.»
«Ebbene, vi dirò: la Republica di Venezia vorrebbe che il Visconti avesse a rifugiarsi presso di lei. Ma questo suo desiderio non l'ha da saper nessuno, e molto meno questo Conte di Virtù. Se il Bernabò Visconti potesse però sapere questa volontà de' Veneziani, sto certo che vorrebbe approfittarne.»
«E così?»
«E così, voi che siete così pratico di questi siti, dovreste andare guardandovi attorno continuamente per vedere se mai vi venisse fatto scovarlo fuori.»
Il Bronzino, quantunque per il molto vino bevuto fosse diventato più fidente di prima, pure, a quelle parole del Malumbra, gli alzò in volto due occhi penetrativi e pieni di sospetto.
«Sì, scovarlo fuori, e fargli sapere il desiderio della Republica di Venezia; tutto sta che voi abbiate il coraggio di accostarvi a quell'uomo che, senza dubbio, vivrà in sospetto di tutto e di tutti, e però chi tenta avvicinarsegli non sarà certo il meglio arrivato. Ma perchè mi guardate con tanto stupore? Siete voi suddito del Conte? No, dunque le mie parole non vi devono riuscir strane per niente. D'altra parte si tratterebbe di guadagnare….»
«Quanto?»
«Non meno di cinquanta ducati, e forse di più.»
«Ma quando si potrebbero contare?»
«Quand'io potessi sapere di certo ch'egli, il Visconti. se n'è andato a Venezia.»
Il Bronzino cominciava ed esser capace, perchè dalle ultime parole del Malumbra si vedeva non esservi nè tradimento nè inganno sotto, tuttavia rispose girando sempre largo:
«Io son ben pratico di queste terre e di questo lago, però non mi costa gran che l'andarmene vagando per esso. Io ci andrò e subito, giacchè s'ha da fare, e se mai potessi scoprir qualche cosa (ma già, veggo che sarà tutto tempo gettato), volevo dire che vi saprò riportar alcuna notizia. Ditemi intanto: dove abbiamo a ritrovarci?»
Qui il Malumbra alla sua volta diventava sospettoso e pauroso per sè, che in fine non sapeva bene chi fosse quell'altro, e l'apparenza inganna; tuttavia rispose:
«Tutti i giorni verso quest'ora fate di trovarvi qui, solo, io vi vedrò e ci parleremo.»
Cosi rimasti, il Bronzino pensò bene di affrettarsi, e visto che a riva era un battello con due rematori, fatta l'intesa, vi saltò dentro e via pel lago.
E il Malumbra quel dì medesimo se ne tornò ad Angera, poichè, come aveva stabilito col Fossano, sarebbero andati insieme all'isola d'Orta.
VI
VALENZIA.
Quasi nel mezzo dei lago d'Orta il più tranquillo, il più silenzioso, il più malinconico lago di Lombardia, è l'isoletta di San Giulio, assai rinomata per la vigorosa difesa che Uilla, moglie di Berengario, vi fece nel secolo X. Al lembo estremo di quell'isola, quasi dirimpetto al monte detto la Colma, sorgeva un palazzotto costruito a mo' di castello. In un'altra parte dell'isola eravi la chiesa di San Giulio con bei pavimenti a musaico, e due colonne di serpentino che sostengono la tribuna. Dalla sponda del lago vi si saliva su grandissimi gradini formati di sasso indigeno. Presso alla chiesa era allora un monastero che fu demolito, ed ora non se ne serba traccia. In fuori di questi edifici e delle casupole de' pochi isolani che vi abitavano, non era altro a vedersi in quell'isola; bensì poteva occupare gli sguardi la prospettiva delle acque, dei paeselli, che, a non molta distanza, sorgevano sulla riviera, e de' monti, che vietando alla vista di estendersi molto, rendevano cupe e malinconiche le acque in cui riflettevansi, appena che il cielo si adombrasse di qualche nubi, o calasse la sera senza addio di sole.
Ad una finestra su in alto del palazzotto posto rimpetto al monte della Colma, intenta ai fenomeni che presenta il tramonto del dì, giacchè non era altra cosa della vita esterna che la potesse occupare, se ne stava Valenzia una sera del mese di settembre di quell'anno 13…. Volgeva lo sguardo ora alle nuvole dorate che man mano ricevevano una tinta più oscura, ora alla montagna cosparsa in vetta di mille tinte tutte varie, e che non portan nome, ora al lago che faceva specchio a tutto quanto si vedeva. L'attenzione però che Valenzia prestava a quegli oggetti, non era tale che potesse fermare nella sua mente il corso di mille altri pensieri.
Già la sua floridezza giovanile aveva subita un notabile cambiamento, e il suo bel volto s'era venuto affilando, di maniera che non era difficile il comprendere che un assiduo patimento morale l'avea presa. Sola tutte le ore del dì, e lontana da chi più le stava sul cuore, e senza speranza che quell'ordine di vita si potesse cambiar così presto; una profonda malinconia mista ad un tedio mortale, e talora a certi impeti d'impazienza che non le facevano aver bene un istante, era stata per gran tempo la sua compagna indivisibile. Ma da tre giorni una cosa più prepotente, più procellosa, meno monotona della malinconia, le si era introdotta nel cuore, la gelosia.
L'arrivo del Conte di Virtù ad Angera subito si seppe anche all'isola di San Giulio, e chi aveva portata quella notizia aveva recata anche l'altra dell'arrivo di Fossano, e ciò non solo, ma la tresca di lui con la bella contessa Giulia. La povera Valenzia potè, per sua vera sciagura, ascoltare un dialogo tra un barcaiolo ed un suo servo, che le mise nell'animo il veleno mortale del sospetto; e a questo dava peso il considerar che ella faceva essersi le visite del suo Fossano all'isola man mano sempre più diradate: in quella sera poi mentre guardava le scene circostanti, pensava che da tre giorni egli era giunto sì presso, e non ancora lasciavasi vedere, ch'ella di fresco aveagli scritto una lettera alla quale non era stato risposto.
E non è a dire se queste idee la colpissero di forza nel più intimo del cuore, e più di tutto il pensiero della crudele ingratitudine di Alberigo, la quale le pareva così impossibile che quasi s'induceva a ricredersi de' propri sospetti.
Ma nel mentre stava considerando queste cose un punto nero, che apparve a molta distanza sul lago, e che s'avanzava con velocità, attrasse lo sguardo di lei; non poteva essere che un battello, ed ella sforzavasi quasi a render più acuta la pupilla per veder meglio, intanto che un moto indefinito di speranza cangiava d'improvviso la direzione a tutte lo sue idee. Chiamò la fante, il servo: entrarono ambidue, ed il servo precorse le domande di Valenzia dicendo: «Madonna, è qui l'illustrissimo cavalier Fossano.»
«Egli è qui! dunque non mi sono ingannata.»
E uscita in fretta di quella stanza, discese lesta per la scala, si fece agli scaglioni del palazzo, su cui sbatteva l'onda del lago.
Dopo alcuni momenti la barca fu alla proda, Alberigo saltò a terra e con lui il Malumbra.
Le prime parole di Valenzia furono un rimprovero.
«È da tre dì che t'aspetto, Alberigo: da qui ad Angera è così breve tragitto, perchè hai tardato?»
«Non fu mia colpa,» rispondeva freddo e riservato il Fossano, a cui la coscienza del proprio cuore scemava forza alla parola: «ma appena arrivati ad Angera dovetti accompagnare il duca nella sua gita ai castelli del lago, ed ora che ho potuto…. sono venuto qui. Ma guarda un tratto questo buon messere che ha voluto venire con me: egli mi ha recato una lettera di tuo padre, e tien l'ordine da lui di venire a vederti per potergli dire in che condizione t'ha trovata.»
E dicendo queste parole guardava a parte a parte la figura di Valenzia, che gli sembrava impallidita e smagrita oltremisura; pure era tanta la sua bellezza, accresciuta tanto più da quell'aria di languore e di mollezza indefinibile, che facendo i rapidi confronti tra lei e la contessa Giulia, si accorse come l'ultima fosse di lunga mano inferiore alla sua Valenzia, e in quel momento la strinse a sè con tanto affetto, che ella dovette pentirsi d'aver sospettato un momento solo.
E forse all'ingenua anima sua non si sarebbe mai più appreso un simile sentimento, se non fosse intervenuto un fatto che il Fossano, percorrendo tutti i possibili, non avrebbe giammai saputo imaginare.
La bella contessa Giulia s'era di tal modo venuta impigliando nell'amore d'Alberigo, che oramai non poteva vivere un dito discosto da lui con iscandalo di tutta la corte, e dispetto della eccellentissima duchessa Caterina Visconti, che saggia com'era, mal si poteva acconciare a permettere que' palesi amorazzi. Quando Alberigo partì pel lago d'Orta, pensò bene non dir nulla alla contessa, e di queto si tolse alla rocca d'Angera; ma tutto fu inutile, e la contessa avendone chiesto a tutti, giunse a sapere ch'avea noleggiata una barca per l'isola d'Orta, ove egli aveva un suo castello.
Appena venne in cognizione di ciò, eccitata da quell'astuta sua amica, che per una mezzana non v'era la migliore, s'intestò recarsi anch'essa a dispetto di mare e di vento, e più ancora del sessagenario marito, sulle traccie dell'amante, e così di fatto, all'insaputa della duchessa Caterina e del consorte, le sole persone che la mettevano in qualche trepidazione, in compagnia di quella sua amica e di quattro servi, si recò al lago d'Orta.
Giunta alla riviera verso la bass'ora del dì vicino, non volle perder tempo, e quantunque il lago fosse un po' grosso, prese una barchetta e volò all'isola. Approdato a non molta distanza del palazzo di Alberigo, e chiesto di lui a chi primo incontrò, gli fu da que' buoni isolani additato il palazzo che non le era lontano più d'un trar di balestra.
La contessa Giulia, come tutti coloro che facevan parte della corte del Conte di Virtù, ignorava al tutto che il Fossano fosse maritato. E per questa circostanza verrebbe a scemarsi la colpa della bella contessa, alla quale, se fosse mai trapelato com'era la cosa veramente, sarebbesi sforzata a rintuzzare fin dal suo primo nascere quella malaugurata passione che sentì per Fossano, e certo vi sarebbe riuscita.
Ma credendo in vece che Fossano fosse assolutamente libero di sè, e lontana le mille miglia dal sospettare che la più bella gentildonna gli fosse consorte; assai lieta di potergli fare una sorpresa, entrò di volo nel palazzo. Con quella balda sicurezza che è propria delle indoli avventate, ella, senza domandar altro, sali le scale, e già stava per metter piede nelle camere, quando le si fe' per caso incontro una fante a domandarle di chi cercava.
«Cerco del cavalier Fossano,» rispose la contessa non badando più che tanto alle parole della fante.
«Adesso…. per adesso, il cavaliere non c'è; ma non potrà badar molto a tornare. Intanto potete entrare nelle stanze di madonna.»
Quella semplice parola madonna, fu bastante per scompigliare in un momento tutti i pensieri della contessa, e
«Chi è questa madonna?» chiese subito alla fante.
«Ho voluto dire la moglie di messer Fossano,» quella rispose.
I primi movimenti che fa una persona quando d'improvviso è côlta da ciò che non si aspettava, e che al tutto è in opposizione allo stato dell'animo suo sono impossibili a rendersi con parole, d'altra parte que' movimenti della persona, que' contorcimenti dei viso sono così eterocliti, così strani, così opposti alle teorie del bello, che, quand'anche si sapessero rendere con esattezza del dagherrotipo, non meriterebbero poi la pena di essere conservati. E la povera contessa Giulia fece appuntò uno di que' movimenti, talchè le bellissime fattezze del suo florido volto si sconciarono un poco a quell'inaspettata notizia; e stava dubbiosa la poveretta di quanto dovesse fare, quando, chiamata dal suono delle voci che abbastanza s'eran fatte udire, entrò Valenzia medesima in quella camera.
A lei subito si volse la fante dicendole:
«Questa gentildonna aspetta di parlare al signor cavaliere.»
La Valenzia si trovò alquanto sconcertata vedendosi innanzi quella dama in così sfarzoso apparato, sconcertata tanto più per la paura di venire scoperta; pure, come cortese, «Voi siete la benvenuta,» le disse, «Alberigo non può star molto a ritornare, frattanto vogliate riposarvi un poco.» E con modi assai gentili la invitava a metter piede in un'altra camera.
La contessa Giulia, sopraffatta e attonita, entrava accompagnata da quella sua amica, che guardava di sottocchio la bella e geniale figura di Valenzia.
Questa, intanto che intrattenevasi in parole colla contessa, com'era ben ragionevole, le domandò con chi aveva il bene di conversare, e quando udì quel nome che tre dì prima così ingratamente le era suonato all'orecchio, si sentì per tutto il corpo scorrere un gelo con certe strette ai cuore che la resero più pallida la metà.
In quel momento per mala ventura entrava il Fossano, il quale, quantunque fosse stato avvisato dalla fante ch'egli era atteso da una dama d'alto affare, pure, lontano com'era dall'aspettarsi quella visita, entrò fidentissimo e desideroso soltanto di vedere chi fosse. E a tutta prima durò fatica per credere ai propri occhi, e si rimase sul sogliare dell'uscio perplesso ed esitante, ora guardando la Giulia ora la Valenzia, che, leggendo in quel momento sul volto del Fossano tutte le passioni che in gran contrasto allora gli tumultuavano in cuore, fu ridotta alla misera condizione di chi sente d'aver perduta ogni cosa al mondo.
Quella scena continuò così muta per qualche tempo. Alla fine si alzò la contessa Giulia, che dei tre non era già quella che si trovasse a miglior partito; tuttavia le bastò l'animo di dire queste parole al Fossano: «Mi chiamo assai fortunata, cavaliere, d'aver fatta la conoscenza della gentile vostra moglie, di cui non mi avete parlato pur una volta.» Le parole furon queste precisamente, ma nel suono della voce che tremava nel pronunciarle, era un misto di sdegno, di sarcasmo e d'angoscia con un tal quale singhiozzo, che era presso a mutarsi in pianto. Alberigo nulla rispose; passarono alcuni altri momenti di silenzio. La contessa Giulia uscì coll'amica; il Fossano e Valenzia rimasero soli.
La notte era sopraggiunta, e nella camera si era fatto buio del tutto; il Fossano, sbalordito e confuso, stette pur molto ancora senza parlare, poi scuotendosi un poco, e sentendo il respiro un po' affannoso di Valenzia, pensò accostarsele, e così, come gli parve, la toccò leggermente colla mano…. A quell'atto, come balestra che scocca, rispose Valenzia con uno scoppio di pianto, che le sgorgò improvvisamente, poscia singhiozzi a furia che minacciavano affogarla, e che destavano una pietà indicibile…. Il Fossano la udì, la tenerezza lo vinse, e di tal guisa che lo rese convulso per tutte le membra; le lagrime intanto calde calde gli cadevano dagli occhi, bagnandogli i labbri che aguzzandosi davano tremiti continuati.
Oh! era troppo duro ch'egli sviasse per sempre da quella dolce e gentile creatura, troppo cara l'idea che dovesse riabbracciarla pentito, e l'anima sua infatti si è d'improvviso sprigionata dalla colpa in quel momento, e da quel momento la povera sua Valenzia non doveva mai più uscirle dal cuore, mai più; ma sventurati tuttavia e ancor peggio. Pianto così in segreto una mezz'ora buonamente, il Fossano, lei che tuttavia piangeva chiamò per nome con una dolcezza della quale forse non aveva mai fatto uso prima d'allora. A Valenzia si rallentarono un momento i singhiozzi…. e lenta le uscì poi la parola dai labbri, e interrotta e piagnolosa,—Ah! Fossano!—e nessun'altra ne aggiunse, e tutto disse con quella.
Entrava allora la fante a recare i lumi nella camera, che di nulla potè accorgersi, e se ne uscì tosto.
Rimasti soli per la seconda volta senza muover parola, si guardarono a vicenda; il Fossano alla fine prese una mano alla sua Valenzia, che, vinta dall'aspetto contrito di lui, gliela concesse. Ma strana cosa ell'era che nè l'uno nè l'altro volesse affidare alle parole quel che loro era passato e passava tuttavia nel cuore. Vergognava il Fossano di confessare la propria colpa, quantunque vedesse che tutto era noto alla sua donna; e questa per un istinto di femminile dignità e superbia, vergognava sdegnarsi con lui perchè l'avesse posposta ad un'altra.
Alla fine il Fossano le si aprì con questi detti:
«Egli è già un anno, Valenzia, che tu te ne vivi qui sola e senza un sollievo al mondo, e a me bastò l'animo di vivere lontano da te….»
Valenzia, a queste parole, gli alzava in volto gli occhi, e li riabbassava tremando in tutta la persona per un improvviso soprassalto.
«O Valenzia,» continuava il Fossano, stringendola a sè, «che io non possa avere mai più bene nè vivo nè morto, se per mia maledetta sorte potessi mancare alla formata promessa che ti do in questo punto.» E qui, alzando la fede con modi concitati e con un'esaltazione di spirito straordinaria: «Per l'avvenire tu non vivrai più sola, io sarò sempre con te, noi vivremo all'amore, nella pace di quest'isola solitaria, lontani dal mondo dove non si raccoglie che pentimento e dolore. Le nostre anime non saranno mai più offuscate dai torbidi sospetti, e in quanto a me non vorrò pensare ad altro che ad accrescere la tua felicità, se mi sarà dato.»
«O Alberigo,» le rispondeva allora Valenzia, balzando dalla sua sedia come per un moto di gioia repentina, e lasciandosegli andare addosso con una confidenza piena di passione e di languore; «o Alberigo, faccia Iddio che le parole che tu dî siano sincere, che guai, se mi avessero a trarre in inganno un'altra volta…. Vivi dunque all'amore, giacchè tu stesso l'hai promesso il primo, vivi per me, che dopo tanta solitudine sì a lungo gemuta, io possa gettarmi sicura una volta nelle tue braccia per non istaccarmene mai più, mai più, giacchè i resti del mio vivere gioiti compiutamente con te, da questo momento e per sempre appena varranno a compensarmi le dubbiezze, le angosce e gl'insopportabili tormenti a cui non so come sopravvissi.»
«O mia Valenzia, che ogni tuo desiderio sia esaudito colla più scrupolosa osservanza, e che tu per lo innanzi abbi a lodarti di me tanto, che debba benedire quell'affanno che ti fu scala al bene di che godrai in appresso; questo io ti prometto, e Iddio ti benedica.»
Abbracciati strettamente quelle due giovani creature, stettero guardandosi in volto per assai tempo tacite, pensose e intenerite. Oh! la sorte potesse conceder loro di radicarsi eternamente in quel posto, come un gruppo d'indistruttibile marmo, che guai se alcuno si frapporrà a dividerle un istante; quell'istante sarà tutto, non si riuniranno mai più.
Al primo spuntare dell'alba vicina, il Fossano ripartiva, per quel giorno soltanto, dall'isola di San Giulio, giacchè, come aveva detto la notte prima a Valenzia, doveva recarsi ancora alla rocca d'Angera dov'era il duca Galeazzo, per prendere licenza da lui, e ottenere il permesso di vivere lontano dalla corte milanese. Si salutarono i due sposi, dicendosi a vicenda. Ci rivedremo domani;—e la Valenzia, nel momento che il Fossano stava per saltare nel battello, gli disse non so che parola all'orecchio, a cui l'altro rispose col porsi la mano sul cuore quasi a rinnovarle un giuramento.
Il Malumbra ripartiva esso pure con Alberigo, e Valenzia il pregò portasse a Candiano i sentimenti d'amore ch'ella nutriva pel generoso padre suo e le sue felicitazioni; e il tristo uomo, mentre, chinando la testa in atto di ossequio, rispondeva che avrebbe fatto, pensava già al miglior mezzo che gli rimaneva per condurre a fine i disegni del senator Barbarigo.
Di lì a poco la barchetta animata da un vento impetuoso volava sul lago, e la Valenzia dalla riva stette a guardarla, aguzzando sempre più la vista in fino a tantochè il battello toccò la riviera opposta.
Il viaggio da Orta ad Angera non era di molte ore. però, essendosi affrettati un poco, vi giunsero prima del mezzodì. Nell'intervallo della loro assenza aveva già avuto luogo un intermezzo che merita di essere qui ricordato.
La bella contessa Giulia, partita che si fu dalla presenza di Fossano e di Valenzia, tanto dolore e vergogna la prese, tanta disperazione, che maledisse mille volte a quella sua amica che non aveva saputo sconsigliarla dal recarsi ad Orta, e lungo il viaggio fu un continuo contrasto di lamenti e di scuse.
«Io ve'l diceva ch'egli era un passo troppo ardito e vergognoso; ma voi avete proprio voluto spingermi a tanto.»
«Io non ho secondato che il voler vostro; la mia colpa è tulta qui.»
«Ma perchè dirmi ch'egli aveva un suo castello a quella malaugurata isola di San Giulio, e che erasi colà recato?»
«Non l'ho fatto che a tener lontana la noia del vostro continuo tempestarmi per saper notizie di quel caro ed aggraziato cavaliere.»
«Oh maledetto il dì e l'ora ch'io misi il piede in quella stanza dove, mal mio grado, mi avete mandata, e dove, senza ch'io me l'attendessi, mi son trovata faccia a faccia con quel tristo….»
«Io non ci ho colpa nessuna.»
«Se voi non foste stata, io non sentirei adesso salirmi sul volto il rossore della vergogna, io non soffrirei queste pene d'inferno.»
Giunta ad Angera, volendo evitare le occasioni di trovarsi ancora col Fossano, erasi presentata all'eccellentissima duchessa Caterina Visconti, supplicandola, col mettere innanzi motivi di salute, le volesse concedere di tornare a Milano; la qual cosa non essendole stata rifiutata, la contessa Giulia era già in pronto di partire, nel punto che il Fossano arrivò. Tra le gravissime dame che formavano il corteggio e gli illustri cavalieri, non mancò chi parlasse a lungo di quell'improvvisa risoluzione, e ne ridesse anche un poco, tanto che il Fossano ebbe ad indispettirsi, considerando ch'egli pure tra breve sarebbesi presentato al duca per impetrare ciò che la bella contessa aveva già domandato ed ottenuto.
Il Malumbra intanto, sempre fingendosi altro da quello che era veramente, non cessava di raccomandare al Fossano, si guardasse dal mettere sotto la vista di tutti la sua Valenzia, che continuando a vivere in quell'isola di San Giulio, non avrebbe potuto esimersi dal ricevere molte visite che in breve avrebbero propalato chi era la donna sua e mille altre cose, di cui era assoluta necessità continuare a far mistero; però misurasse le parole nel domandare la licenza al duca, e piuttosto che affrettarsi col rischio di destare sospetti, tirasse la cosa d'oggi in domani finchè si presentasse la bella opportunità di allontanarsi dalla corte.—Il Fossano aveva, durante il viaggio, detto al Malumbra che bramava di condursi a vivere lontano dal mondo colla sua Valenzia, e quel dì medesimo voler trarre a fine il suo desiderio.
Verso sera seppe il Malumbra dal Fossano che per quel giorno non aveva mai potuto trovare il momento opportuno di parlare al duca, che però l'avrebbe potuto quella sera medesima, e che sperava ritornerebbe il dì dopo all'isola per non partirne mai più. Il Malumbra fece suo pro dell'avviso; avendo già da qualche tempo fisso un suo disegno, aveva tutto in pronto perchè nulla potesse mancare quando i momenti fossero per incalzare. Una cavalcatura l'attendeva a tutte le ore, una barca sul Verbano era continuamente a sua disposizione; e un'altra pure sul lago d'Orta; quella sera alle ventitrè si partì d'Angera, e a notte chiusa fu di ritorno all'isola di San Giulio.
VII
INSIDIA.
Qui c'è forza rifarci indietro un momento. La sera prima quando il Malumbra toccò, per la prima volta, l'isola di San Giulio, anche il Bronzino metteva il piede in Vall'Intrasca, difilato all'abitacolo, dove sapeva trovarsi il suo signore, e contento d'avere a riferirgli qualche cosa che forse gli sarebbe tornata ad utile. Carlo Visconti, essendo già calata la notte, pieno d'impazienza, era stato costretto a ridursi in quel covo miserabile, e pensava ai motivi che potevano aver fatta ritardare la venuta del Bronzino, quando sentì un colpo alla porta, e un momento dopo se lo vide innanzi.
«E così?» gli domandò il Visconti volgendogli un viso più pallido del solito.
«E così,» rispose il Bronzino, «se non ho fatta buona caccia di fagiani, ho però qualche cosa nel carniere.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che;… già in quanto all'eccellentissimo vostro cugino, adesso per adesso vi conviene lasciarlo in vita, e l'occasione non è ancora venuta.»
«Prosegui.»
«Mi sono però incontrato in un galantuomo veneziano, il quale….»
«Che cosa può avere a fare il veneziano nelle faccende nostre?»
«Forse moltissimo; egli mi ha dato carico di venire sulle vostre traccie colla promessa di cinquanta ducati, che sono ben poca cosa per dire la verità.»
«E ciò mi dici con tanta pacatezza?»
«State tranquillo…. Quel galantuomo mi disse che se voi aveste a rifuggirvi in Venezia, colà sareste il ben raccattato…. e che…. già è facile ad indovinare che a quella gelosa Republica non possono piacer molto le conquiste dell'eccellentissimo vostro cugino….»
«E dunque?»
«Dunque, dovreste aver già fatta una risoluzione. Se voi state qui ad aspettare che faccian la calata del monte que' buoni Francesi, i quali se sono i primi a promettere, son poi gli ultimi a mantenere, vi avviso che quand'anche le labarde del Galeazzo non potessero trovarvi così presto, la noia vi farà prima morire. Se voi in vece ve ne andate a Venezia, gli è certo per lo meno che non vi potrà intervenire male di sorta, e poi sono d'avviso che il vostro destino ha da mutarsi colà. Risolviamo dunque, e senza por tempo in mezzo usciamo di questi luoghi maledetti dove ci mette in fastidio anche lo stormire delle frasche.»
«Io penso in vece che per uno stolido malaccorto, tu sii quel tale.»
«Io non vi comprendo.»
«Ti vengono offerti cinquanta ducati d'oro per venire sulle mie traccie, e tu credi che ciò sia per procurare il mio meglio…. e forse preso all'amo da quell'astuto che ti si mise intorno, gli hai confessato….»
«Di confessioni, sapete bene che non mi son mai preso cura gran fatto, e molto meno questa volta.»
«Parla più chiaro adunque.»
«Quel tale non sa nè chi mi sia, nè dove siate voi; ma ho tutte le buone ragioni per credere che Venezia lo abbia mandato espressamente fuori in traccia di voi, e si capisce che la Serenissima ha tutta la buona volontà di fare le vostre vendette per eseguire le sue; in conseguenza di che, vi consiglio a partire questa notte medesima…. Ora poi mi ricordo di un'altra cosa che mi raccontò quel veneziano: prima di tutto, è vero che voi già foste a Venezia, e che siete stato a un dito di dare l'anello ad una patrizia di colà? e l'avreste anche sposata se non fosse morta?»
«Perchè mi domandi questo?»
«Vi ho chiesto, o illustrissimo, se ciò è ben vero?»
«Verissimo.»
«E siete anche certo che sia morta la pulzella?»
«Certissimo.»
«Ho il piacere di dirvi che siete in un grande errore.»
«Si capisce che oggi non hai sofferta penuria di vino, e il cervello ti ha dato di volta.»
«In quanto al vino…. siccome ad Angera ve n'è del pretto…. così non ho voluto lasciar fuggir l'occasione…. ma in quanto al cervello state pure di buona voglia che non ha sofferto per niente…. del resto ciò non toglierebbe che quella tal fanciulla non fosse viva.»
Il Visconti, come udì queste parole, subito rispose:
«Di questo nuovo imbroglio, sia desso vero, o una fantasia al tutto, mi farò chiaro un'altra volta; ma ora considerando un po' meglio il resto, io vedo pure assai probabile che in Venezia possa trovare alcun valido appoggio, e quand'anche il tuo veneziano, che hai detto, non ti avesse mai parlato di questo, sarei venuto io medesimo nella risoluzione d'andarmene colà.»
«E così?»
«E così, giacchè si ha da fare, partiremo questa notte medesima.»
«Questo si chiama parlar bene,» rispose Bronzino, «or voglia Dio che il barcaiolo che mi ha condotto qui, non si rifiuti a spiegare la sua vela di quest'ora, che per l'alba noi saremo a buon cammino.»
Ma dovettero in vece aspettare il dì dopo, e la barca che li doveva condurre a Sesto Calende, si staccò dalla riva intorno all'ora che il Malumbra entrava nelle stanze di Valenzia.
Partito che si fu il Fossano dell'isola, a Valenzia vennero certe ombre di malumore che le misero tanto amaro nel cuore, quanta dolcezza aveva provata la sera prima alle parole del suo Alberigo, ed a quella generosa promessa che ebbe la forza di spegnere in lei del tutto ogni ira gelosa, quantunque poco prima avesse dovuto accertarsi co' propri occhi di quello che era passato tra il Fossano e la contessa Giulia.
Per quanto sembrasse anche a lei ragionevole, che Alberigo prima di fermare al tutto la sua dimora nell'isola, dovesse presentarsi al duca Galeazzo per impetrarne la licenza, pure non sapeva vincere e scacciare il sospetto che dopo quelle prime parole d'amore pronunciate, forse più per trarla in inganno che per altro, egli avesse preso il pretesto di recarsi quella mattina medesima dal duca per potersi un momento allontanare da lei, e ritornare ove trovavasi la contessa Giulia. E questo pensiero la vessava di tal modo che non ne avrebbe saputo celar la smania a nessuno; in alcuni momenti di quella giornata, per quanto, richiamandosi in mente e gli atti, e le parole, e le soavi espressioni del suo Fossano, non potesse trovare alcun fondamento per crederlo infinto, si figurava di vederlo ancora vicino alla contessa Giulia, la cui bellezza, sebbene tentasse dissimulare a sè medesima, pure le stava sempre innanzi gli occhi. Allora l'assaliva una rabbia di un genere particolare che la traeva a maledire la propria sorte, ed era in que' momenti specialmente che le entrava in cuore quasi una certezza crudele che il suo Fossano non sarebbe tornato mai più. Allora nella soave e gentile anima sua (pur troppo talvolta le passioni quando son troppo veementi, portano il guasto ovunque) entrava il veleno dell'odio, odio per la bella contessa Giulia, della quale sì godeva ad imaginare qualche atroce modo a vendicarsi. Pur troppo quell'ingenua e pietosa creatura potè volgere in mente pensieri di vendetta, che l'amore ch'essa portava al suo Fossano, era di tanto impeto da non ammettere le mezze misure, e a più doppi le si era accresciuto in cuore dopo averlo saputo amato da un'altra, dopo aver veduto imminente il pericolo di perderlo.
E in questi pensieri stava appunto tormentandosi l'animo suo, quando le fu annunziato che un tale aveva bisogno parlarle.
Avendo il Malumbra pe' suoi buoni motivi cangiata la foggia e il colore alle sopravvesti, e adattatosi un cappuccio che gli copriva la testa fin oltre gli occhi, non era stato conosciuto dai servi di Valenzia, che non s'attentarono introdurlo nelle camere di lei.
Valenzia a quella chiamata discese lesta, ned ella medesima seppe riconoscere il Malumbra, quando se lo vide innanzi, e un po' turbata da quella sinistra apparenza, e accennando ai servi di non muoversi di lì,
«Chi siete?» gli disse, «chi vi manda?»
«Son io, madonna,» le disse allora il Malumbra, e volgendo il tergo ai servi che stavan presenti al colloquio, si levò un tratto il cappuccio della veste, col quale, com'era suo costume nelle occasioni straordinarie, aveva sempre tenuto a mezzo coperto il viso.
«Ah! ora vi conosco.»
«Zitto, madonna, parlate sommessa.» E avvolgendosi ancora nel cappuccio, e abbassando più che potè la voce, perchè non l'avessero ad udire i servi: «È necessario che nessuno sappia per ora ch'io son qui venuto.»
«Ma perchè vi siete travisato di questa guisa?» gli domandò sottovoce Valenzia.
«Mi manda a levarvi di qui l'illustrissimo cavalier Fossano, vostro marito, che mi raccomandò la più scrupolosa segretezza.»
La povera sentì tutta rimescolarsi il sangue per la gioia improvvisa, e ogni sospetto le si dileguò dell'animo.
«Si è già presentato al duca?» domandò poscia.
«No, madonna; ma essendo intervenuto un caso assai strano, egli ha pensato non farne altro col duca, e partire in vece di nascosto per riunirsi con voi: però mi ha dato incombenza di venirvi a prendere, che in quanto a lui ha dovuto già rifuggirsi in luogo ben sicuro, dove appunto io vi ho a condurre.»
«Ma è forse minacciato da qualche grave pericolo?» domandò tutta paurosa Valentia.
«No, no, state tranquilla e venite con me, egli è impaziente di avervi seco, e vi so dire che vi è mestieri far presto.»
«Vi avrà ben detto Fossano,» chiese Valenzia al Malumbra, «che io conduca con me anche questi miei buoni compagni,» e additava la fante e il donzello.
Il Malumbra stette un pezzo in forse senza sapere che cosa rispondere, poi non volendo destare sospetti:
«La fante potete bene condurla con voi; ma in quanto a quest'uomo, l'illustrissimo cavaliere lo manderà a levare quando sarà a tempo.»
«Ebbene, farò come voi dite.»
«Ma soprattutto fate presto, madonna.»
Il Malumbra era impazientissimo, e non ci voleva meno dell'assoluta buona fede di Valenzia, per non accorgersi che nelle parole e ne' gesti di quell'uomo, era qualche cosa d'irresoluto, d'impigliato, di poco sincero; ma la poveretta non pensava che al suo Fossano, e ridottasi nella sua camera a mettersi intorno le robe, che si volevano per quel notturno viaggio, e così fatto fare alla sua fante, in breve ambedue furono all'ordine.
Il Malumbra che, fermo sulla soglia del palazzo a guardare la prospettiva del lago, si mutava ora su d'un piede ora sull'altro, pel timore che mai un inciampo venisse a troncare a mezzo il suo disegno, sentì finalmente quella voce soave di Valenzia che diceva:
«Siamo in pronto, possiamo andare.»
E tutti e tre entrarono nel navicello, che spinto da due forti rematori, in breve toccò la riva, colà dove sorge il paesello di Bussone. Qui era pronta una lettiga con una cavalcatura; egli montò a cavallo, le due donne entrarono nella lettiga, e per una scorciatoia attraverso del monte, della quale il Malumbra, prima di recarsi ad Orta, aveva voluto pienamente farsi istrutto, calarono ad Arona. Qui era pronto un altro battello (bisogna confessare che quel tristo di Malumbra era uomo tutt'altro che impacciato), e col favore di una ventata piuttosto generosa, attraversarono quel tratto di lago che è tra Arona e Sesto Calende.
Al Malumbra nell'attraversare quel lago, sul quale pensava non avere a tornare mai più, venne in mente l'incontro fatto due dì prima con quell'uomo, la cui faccia astuta e scialba tanto il colpì sul mercato d'Angera, e le parole avute con lui. e l'incombenza datagli, e come si fosser data l'intesa di trovarsi ancora colà, se mai si fosse potuto scoprire la traccia del figlio di Bernabò. Ad appagare interamente il desiderio del senator Barbarigo, non bastava che egli potesse condurre a Venezia Valenzia e Fossano, ci voleva per terzo anche il Visconti; però il Malumbra che in quel dì, tutt'occupato com'era nel mandare a buon fine il suo tristo disegno, non aveva più pensato a colui, s'indispettì del non essere oramai più in tempo a gettare ed a stringere la rete anche per un altro, tanto più che, guardate combinazioni! egli aveva sperato moltissimo dopo il dialogo avuto col Bronzino.
—In ogni modo però,—diceva intanto tra sè e sè,—appena ch'io abbia messo in luogo sicuro questa augellina del becco gentile,—e volgevasi a guardarla con un tal atto di mezzo tra il compassionevole e il beffardo,—io potrei ancora tornarmene qui e cercare e frugare e fiutare infino a tanto che mi venga fatto di scoprire la traccia di quel birbone disgraziato…. e in quanto all'uomo a cui ho promesso trovarmi ad Angera, se mai ci venisse carico di notizie, e non mi trovasse, son persuaso che non gli recherei gran danno per questo, e tutt'al più a sfogare l'ira sua starà contento a qualche bestemmia che mi manderà dietro ad augurarmi il buon viaggio.
Valenzia dal canto suo intrattenevasi a parlare colla sua fante, e di quando in quando volgeva qualche parola al Malumbra, il quale tra per l'amicizia che aveva detto avere col padre di lei, tra per esser quello, che, come credeva la poveretta, la conduceva nelle braccia del suo Fossano, tra perchè nella sua persona era un'apparenza di bonarietà ch'egli sapeva benissimo colorire e farla sfoggiare all'occorrenza, aveva messo nell'animo ingenuo di lei tanta sicurtà che ella più d'una volta ebbe a dire alla fante:
«Quest'uomo lo amo perchè mi è di buon augurio; insieme a lui tornò sempre la pace nel mio cuore, e con lui io vado ad abbracciare il mio Fossano.» A chi le avesse detto nel momento che proferiva queste parole, chi era il Malumbra, dove la conduceva, e da chi era stato mandato, avrebbe la povera Valenzia voluto prestare alcuna fede? Oh pur troppo per una combinazione che si verifica sovente nell'umana vita, era tanto lontana dai sospetti, quanto era vicina al pericolo estremo. Qui la barchetta urtò alla riva di Sesto Calende, ove tutti discesero. Potevano essere otto ore di notte, e le donne si sentivano stanche. Valenzia domandò al Malumbra:
«Dove siamo adesso?»
«A Sesto, madonna, troppo vicino ad Angera perchè possiamo fermarci qui.»
«Ma ci rimane ancora molta strada a percorrere prima di arrivare dove ci aspetta il Fossano?»
«Non molte miglia, madonna, e attendete a stare di buon animo, che in breve saremo colà.»
Valenzia sostava un istante, e chinava la testa a queste parole, essendole d'improvviso entrato in mezzo alle sue idee gioconde un tristo pensiero che tosto tornò a svanire come ombra. Anche a Sesto era pronta una lettiga e una cavalcatura, come ad Arona, e così senza aspettar altro proseguirono il viaggio.
Arrivati presso a Crugnoga, che è un paesello non molto distante del lago, al confluente di una stradella, s'incontrarono in due uomini a cavallo, e fu così rapido e inaspettato quello scontro che l'uno de' cavalcatori fu addosso alla lettiga, e nel momento che tirò a sè le briglie per iscansarla, potè vedere così alla sfuggita le due donne che stavano dentro, senza però poterne distinguere i volti; bensì Valenzia, che, per essere chiusa e all'oscuro, vedeva meglio chi stava fuori, potè in quel fuggevole istante vedere il viso di colui che le era passato così presso, e senza indovinarne la cagione, provò una sensazione di terrore, e le sorsero in mente mille sparse ricordanze che non sapeva come raccapezzare, e intanto lo scalpito de' cavalli che sentiva ancor vicino, continuava a stringerla di spavento. E vôlta al Malumbra che in quel momento le stava da canto:
«Avreste mai, per caso, conosciuto chi sieno costoro?»
«Io no, madonna, non ho potuto guardarli in volto.»
«Non vorrei fosser uomini di malavita che vanno attorno la notte per recar danno a' viandanti.»
«Non è possibile.»
«Eppure….»
«Guardate come se ne van difilati per la via loro; non fa così chi ha ribaldi disegni.»
«Ma adesso han rallentato il corso, mi pare.»
«Scacciate codeste fantasie dal capo, e siate sicura che non c'è un pericolo al mondo.»
In questo momento i due uomini che avanzavano di qualche passo Valenzia, attendevano essi pure a parlare tra loro:
«Mi dà molta noia il far la via di conserva con questa gente.»
«Eppure non è a temer nulla da un uomo solo che viaggia insieme a due donne.»
«Chi t'ha parlato di timore? Sai bene chi son io, se mai si trattasse di menar le mani; ma qui ci conviene tirar via dritto, che tutto il nostro pericolo sta nell'essere conosciuti.»
«Voi dite benissimo.»
«Dunque?»
«Dunque lì c'è un altro sentiero, e dilunghiamoci un tratto da costoro.»
«Purchè non si corra l'altro pericolo di sviare.»
«Perciò basta che ci teniam volti un poco a que' monti, e non faremo contrario cammino.»
Allora dato di sprone a' ronzini presero per una viuzza che s'apriva attraverso le campagne. e scomparvero alla vista de' nostri viaggiatori.
Del resto lo spavento che aveva assalito Valenzia alla vista d'uno di que' viandanti, era ben ragionevole, e se il volto di quell'uomo suscitò in sua mente sparse e terribili ricordanze, gli era perchè quell'uomo l'avea veduto infatti più d'una volta. Era esso il figlio di Barnabò accompagnato dal fidato suo Bronzino,
Arrivati a Sesto qualche ora prima del Malumbra, avendo voluto percorrere le strade assai fuori di mano, di tanto prolungarono il cammino che si lasciarono raggiungere da chi era partito dopo. Così Valenzia e il figlio di Bernabò si trovarono a un passo di distanza, e fu gran ventura se non successe altro.
Ma intanto che i nostri viaggiatori continuavano alacremente il loro cammino, sorse la prim'alba, spuntò il sole, e ai campanili dei paeselli vicino a cui passavano, si sentivano di tratto in tratto a batter l'ore…. il tempo camminava veloce, nè ancora si sostava; venne il mezzodì, e quantunque la stagione autunnale non desse gran caldo per sè, pure la sferza del sole intorno a quell'ora bruciata, diede tanta noia e tanto affanno a Valenzia che, non usa a quelle corse, sentivasi d'aggiunta indolenzite le membra per la notte vegliata e trascorsa a malagio; andava tempestando il Malumbra perchè si fermassero a riposare un momento in qualche luogo; ma troppo premeva a lui il tirarsi assai lontano dal lago, e con belle parole d'uso in altro paese, giunsero verso l'imbrunire presso Olgiate Olona.
A noi che siam usi ai mezzi di trasporto così facili e rapidi d'oggidì, deve parer strano che si dovesse impiegare tanto tempo per percorrere così breve cammino; ma le strade erano così cattive ed ardue, e in que' luoghi principalmente non molto frequentati, che a' cavalli, quasi sempre, conveniva andare di passo. Quando furono tra Castel Seprio e Appiano, parve al Malumbra che fosse sufficiente distanza per non avere a temere una sorpresa, e veduta un'osteria pensò alloggiarvi colà le donne.
La spossatezza eccessiva in cui era caduta Valenzia, l'oscurità della sera sopraggiunta tutt'a un tratto, la sinistra apparenza di quell'osteria con certe cameracce basse basse e sucide qualche poco, l'avevan messa di così pessimo umore, che tutto quello che un dì prima gli era stato causa di grandissima gioia, nella fantasia ottenebrata le divenne causa di timori e peggio. D'aggiunta non poteva farsi ragione delle risposte che lungo il viaggio il Malumbra aveva dato alle sue domande, dacchè non erale riuscito sapere precisamente da lui in che luogo si trovasse il Fossano. E allora tornavale in mente che Alberigo le aveva promesso sarebbe tornato lui all'isola di San Giulio. Ma quella promessa ricordandogli il perchè era stata fatta, tornava a pesarle sull'anima il pensiero della contessa Giulia, e quel repentino pentimento del Fossano non le pareva potesse esser sincero. Qui un brivido di raccapriccio la coglieva per tutte le membra, e pensava non vi fosse mai qualche mistero sotto; e recatasi per svagarsi un momento ad una finestretta che dava su di una landa incolta, interminabile; quell'apparenza deserta e monotona, quel velo cinericcio di vapore che si stendeva a coprire tutta quanta la campagna, e in fondo in fondo si confondeva col cielo di un bigio pallido, e più di tutto una monotona cantilena che di quando in quando si sentiva a non molta distanza, le serrarono il cuore di maniera che pareva le si fosse in quel momento svelato tutto l'orribile della sua condizione.
Intanto il Malumbra passeggiando pel cortile dell'osteria, e sopravvegliando perchè a' suoi cavalli si desse orzo e fieno quanto poteva bastare per rifarli del lungo e continuato viaggio, vide due altri cavalli ancora insellati e tumidi di sudore.
«Son cavalli di forastieri?» domandò ad un uomo dell'osteria così come suol farsi più per passatempo che per altro.
«Sì, messere, e arrivati qui di fresco, e pare che debbano aver fatto molto cammino, che ancora sbattono i fianchi.»
«Quando si viaggia torna assai meglio far presto che adagio.»
«Ma questo è il modo d'ammazzar le povere bestie; se si trattasse di scappare, pazienza!»
«Tu parli bene, ma alle volte anche senza scappare occorre far presto.»
«Sarà come voi dite messere.»
E quel buon uomo, a cui pochissimo importava d'uscir vittorioso della discussione, senz'altre parole lasciò solo il Malumbra.
Ma questi ricordandosi dei due cavalcatori che aveva incontrati la notte prima, e pensando fossero quei medesimi che avevano tanto stancati i loro cavalli, e di presente si fossero fermati in quell'osteria, gli venne una gran voglia di vederli in volto.
Tra le cose infinite che cospirarono a spingere il Malumbra a quel suo tristo mestiere, ci siam dimenticati parlare dell'organo della curiosità, ch'egli aveva pronunciatissimo, e pel quale era sempre stato uno dei bisogni della sua vita il domandare, il frugare, l'inquisire. Senonchè non ebbe questa volta a durar molta fatica nelle sue indagini; e mentre si disponeva a quell'impresa, nell'uscire da una porta, e nel mettere il piede in un andatoio comune si trovò faccia a faccia col Bronzino: un oh! di maraviglia fu pronunciato da ambidue in quel momento, e si fermarono.
«Si capisce che tu mantieni assai bene la parola, amico,» gli disse il Malumbra, «a quest'ora io ti credevo a cavalcione di qualche barca sul lago.»
«Benissimo, ed io ti credevo a quest'ora fermo ad aspettarmi sulla piazza d'Angera.»
Il Malumbra sorrise e soggiunse:
«In somma m'avvedo che i cinquanta fiorini ti toccano assai poco la fantasia.»
«Ed è gran ventura, giacchè m'accorgo che tu non eri gran che disposto a snocciolarmeli.»
«Sei di buon umore, amico.»
«E tu non mi sembri gran fatto tristo.»
«Del resto, tornando a noi, io ti dico che il tiro non ti ha colto al segno, giacchè se tu sei uomo d'onore, m'avrai presto a sborsare i cinquanta fiorini che hai promesso.»
«Davvero?»
«Non ischerzo.»
«Dunque che cosa hai a raccontarmi.»
«Che l'amico viaggia verso Venezia.»
«Chi?»
«Lui.»
«Il Visconti?»
«In carne ed ossa.»
«Io non ti posso credere, se non me ne dai le prove.»
«Vai a Venezia tu?»
«Io?… non così presto…. ma ci andrò.»
«Serba adunque i cinquanta fiorini, che ci rivedremo là senz'altro.»
«Certo che li serberò; ma ora fammi chiaro di una cosa sola?»
«E che cosa?»
«Questa notte tu galoppavi allegramente sulla via di Cusnedo.»
«Io?»
«Tu stesso, e in compagnia d'un altro; ma perchè ti spiccasti così presto dal tuo lago? perchè non mi hai aspettato? perchè sei qui? chi è quel tuo fidatissimo amico?»
«Io mi ricordo che a Milano quando ho dato nelle labarde del duca che facevan la ronda per la città; press'a poco mi si fecero queste inchieste; ma prima di risponderti ti voglio un tratto interrogare.»
«Sentiamo?»
«Questa notte io t'ho visto cavalcare adagino adagino accanto di due belle signore; perchè non aspettarmi ad Angera? perchè viaggiar di notte con donne? chi sono quelle donne? Rispondi tu ora.»
Il Malumbra tacque, e stette pensando la risposta; ma in quella fu chiamato dalla fante di Valenzia che lo tolse all'imbarazzo. Risalì la scaletta pensando alla stranissima combinazione di quel quinto incontro col medesimo uomo, e ridendosene fra sè; mentre queste idee gli ronzavano per la testa, e fermavasi un tratto sul pianerottolo d'una scala di legno, vede una riga di luce attraverso alle imposte malconnesse d'un uscio.
Per un'abitudine propria del suo mestiere mette l'occhio a quella cruna e guarda. Il figlio di Bernabò Visconti stava seduto innanzi ad una tavolaccia colle braccia incrocicchiate sul petto, la testa ritta e incappucciata e l'occhio fisso; quantunque non l'avesse veduto che due o tre volte a Venezia, molt'anni prima, pure quella fisonomia al tutto caratteristica gli si svolse intera innanzi agli occhi, e lo riconobbe. Si diè mille volte dello stolido per non aver saputo indovinare che l'uomo della faccia astuta era un addetto di colui, e più d'una volta ebbe a dire che non altri che il demonio poteva aver prodotta quella combinazione straordinaria, considerando la quale egli non sapeva credere a sè stesso. Ma a que' pensieri subito tenner dietro degli altri; ed uno segnatamente, al quale non potè dar passo così di fretta; sentendo che saliva qualcheduno per la scala, si ritrasse ricordandosi allora che la fante l'aveva chiamato, ed entrò nella stanza dove trovavasi Valenzia.
Ella, volgendogli un viso assai pallido e pieno di accoramento, gli disse:
«Io m'avvedo che voi volete tenermi nascosta qualche grave sciagura toccata al Fossano, giacchè mi traete d'oggi in domani, e passa il tempo e mai non si viene a capo di nulla: per carità vogliate dirmi il vero, e vi giuro ch'io saprò essere più ferma di quello si abbia a pretendere da donna, e assoggettandomi a qualunque disgrazia che a Dio fosse piaciuto mandarmi, io non vi darò nessuna noia con inutili lamenti, e prima di tutto, giacchè sino a quest'ora me ne avete voluto fare un mistero, ditemi in che luogo mai si trova adesso il mio Alberigo, e dove precisamente mi avete a condurre.»
Il Malumbra che sino a quel punto non aveva mai detto nessuna cosa a Valenzia dalla quale si potesse cavare un costrutto, a togliersi per sempre la noia d'altre domande, le disse di suo capo, tanto per acquetarla, un nome di luogo dove avrebbe veduto finalmente l'illustrissimo cavalier Fossano, e in quanto alle sventure delle quali mostrava aver tanto sospetto, la tranquillò con sì bei modi ch'ella parve assicurarsi un poco e darsi pace. Auguratale allora la buona notte, e raccomandatole stesse preparata a svegliarsi presto, chè alla prim'alba si sarebbero rimessi in viaggio, le si tolse dinanzi ed uscì.
Discese nel cortiletto dell'osteria, e agitando molti partiti si diè a passeggiarlo in lungo e in largo. Se sino a quel momento non era stato molto difficile l'ingannare Valenzia, vedeva bene che quanto più si progrediva innanzi, e quanto più di tempo si consumava, si sarebbe trovato in così difficile posizione che non ci sarebbe via d'uscirne col pericolo di non raggiungere l'intento suo che era quello di condurla a Venezia; però cominciò a tentarlo il diabolico pensiero di lavarsene le mani, e giacchè il caso aveva fatto capitare in quel luogo il figlio di Bernabò, condurre le cose in modo ch'egli potesse vederla, e quindi condurla seco a Venezia.
Questo partito per altro, a dir tutto, appena gli venne in mente gli sconvolse un po' l'animo di raccapriccio, e quel suo istinto di tenerezza pe' suoi figli che sempre lo aveva fatto crudele cogli altri uomini, questa volta gli fece pensare al dolore del padre di lei, alla disperazione del Fossano, allo strazio troppo crudele di Valenzia, alla quale più che ogni altra sventura sarebbe stato insopportabile la perdita della propria dignità e del proprio cuore, scena straziante di famiglia che gli toccò la sola corda sensibile e generosa del suo cuore; ma d'altra parte il pensiero di una larghissima ricompensa per parte del senator Barbarigo, che certo avrebbe avuto assai obbligo a lui dell'avere così felicemente condotte le cose a quel termine, arrestò tutt'in un tratto quell'oscillazione pietosa, e allora fu per fermare assolutamente il partito.
Si tolse di là, recossi nella stanzaccia dell'osteria, e si accostò al Bronzino, che se ne stava seduto ad una tavola.
«Hai pensato la risposta?» gli domandò il Bronzino ridendo.
«Tu sei pazzo, amico; ma com'è che tu sei qui solo, e non fai compagnia al tuo signore?»
«Al mio signore?»
«Non occorre che tu faccia le maraviglie, tra noi non ci devono essere più segreti, e in quanto al tuo signore mi pare piegato per nulla dalle sue sventure.»
Il Bronzino si alzava alquanto turbato, e guardava in volto il Malumbra con un'espressione particolare.
Ma il Malumbra si mise a ridere, e continuò:
«In verità che non vi so comprendere, amico caro, e non mi pare dobbiate avere di me un timore al mondo, giacchè fin qui abbiam sempre fatto le cose d'accordo.»
«D'accordo! va bene, ma non state ora a guastare le cose mie.»
«Guastarle? voglio anzi che vadano a miglior cammino; e però devi farmi un piacere.»
«Quale?»
«Condurmi innanzi al Visconti.»
Bronzino guardò un pezzo il Malumbra, poi disse:
«Questo non sarà mai.»
«Eppure io dirò tal cosa al tuo signore che lo farò rinascere, e se darà la mancia a me, non vorrà lasciar te colle mani vuote.»
«Ma cosa devi dirgli?»
«Usciamo un tratto di qui, e conducimi da lui.» Ma nell'istante che uscivano, al Malumbra venne un altro pensiero che lo sconsigliava del suo infame attentato. Intanto che il tristo uomo se ne sta irresoluto, a noi tocca ritornare ancora al silenzioso lago d'Orta.
La sera del giorno prima il Fossano, come già aveva detto al Malumbra medesimo, si era presentato all'eccellentissimo duca Galeazzo, e seppe così bene mettere innanzi la sua preghiera, che il duca, quantunque con moltissimo suo dispiacere, gli dovette concedere di assentarsi per qualche tempo dalla corte. Così dispose partire per il dì dopo, se non che avendo dovuto accompagnare il duca ad Arona, e fermarsi colla corte colà sino alle diciott'ore circa, dovette protrarre sin quasi verso sera la cavalcata ad Orta, onde finalmente, colma l'anima di quella contentezza che troppo rare volte prova l'uomo in questo mondo, si fece condurre all'isola. Il suo amore per la bella contessa Giulia, come il lettore può benissimo essersi accorto, non aveva giammai invaso interamente il cuore d'Alberigo; s'era trovato preso dall'artificio di una donna, e d'altra parte per quella cedevole bontà che, quando è soverchia, è causa talvolta di grandi errori, non seppe mostrarsi scortese a quella calda profferta d'amore che gli era stata fatta. Ma la sua passione, come quei frutti cresciuti d'inverno al calore della stufa, e per nulla giovati dalla feconda vampa del sole, era sempre stata una certa cosa così a mezzo a mezzo, ed alla quale non è facile trovare il vero nome. Non si deve dunque durar molta fatica a farsi capace di quel suo rapido ritorno all'amor vero che con tanta forza già aveva sentito per Valenzia, e che soltanto per quegli alti e bassi che sono nell'umana natura, aveva potuto freddarsi un momento. Con un ardore indicibile egli stesso in quella sera diè mano al remo per giungere più presto all'isola, e intanto pensava:—No, non avrò più a vivere in timore di te, Valenzia mia, io ti veglierò sempre da vicino nè speri d'averti mai il tristo figlio di Bernabò, se avvisato dell'esser tuo da qualche spia d'inferno, è venuto per te appunto in questi paesi.—
Questo pensiero gli venne spontaneo alla mente pel gran discorrere che in quel dì s'era fatto di Carlo Visconti, atteso che una delle labarde che stavano al servigio del duca in un forte che questi possedeva presso Ascona, aveva assicurato d'aver veduto co' propri occhi il figlio di Bernabò, e però s'era statuito d'armare appositamente una mano d'uomini, i quali si mettessero sulle traccie di lui in fino a tanto non lo avessero catturato. Arrivato all'isola, gettati i remi nel battello, saliti i gradini dello scaglione che mettevano al suo palazzotto, v'entrò. Il servo che stava in un cortiletto a confabulare con alcuni di que' buoni isolani, s'alzò appena che vide il suo padrone, senza dirgli nulla però, credendo non facesse mestieri, e lasciò che salisse nelle stanze superiori. E il Fossano sicuro tanto di trovar la sua Valenzia in quell'ora seduta appresso il finestrone che dava sul lago come della propria esistenza, disse ad alta voce:
«E così, attenni io bene la mia promessa, Valenzia?»
In quella batteva l'ora di notte al campanile della chiesa di San Giulio, e l'onda di suono che penetrò fin entro a quella stanza generata dall'oscillazione della campana, fu l'unica risposta alle sue parole; s'accorge finalmente che in quella stanza non c'è nessuno, e va oltre, e così d'una in altra, ma, come è inutile a dire, senza mai trovare chi cercava; non gli prese però alcun fastidio di questo tanto era lontano dal benchè minimo sospetto, e ridiscese e domandò ai servo:
«Dov'è Valenzia? dove se n'è andata?»
Quel buon servo a tutta prima non comprese bene, poi sentendosi replicare la medesima domanda alzò in volto al Fossano due occhi pieni di maraviglia senza però rispondere ancora. Il volto sicuro e lieto del servo non potè nemmeno in questo momento fargli nascere neppur ombra di timore, soltanto gli aggiunse un po' d'impazienza che gli fe' ripetere per la terza volta;
«Ma in somma dov'è Valenzia?»
«Ma non l'avete mandata a prender voi, messere?»
«Cosa dici?»
«L'uomo che venne a levarla di qui, non fu mandato da voi espressamente per questo?»
«Ma che uomo! per la croce di Dio, parla più chiaro!»
«Io non so chi fosse, ma bisogna pure che fosse un vostro conoscente, giacchè madonna non esitò a riconoscerlo.»
«Ma, e tu non l'hai veduto mai altra volta?» gli domandò il Fossano con una voce così alterata, e facendo un viso così stravolto che anche il servo cominciò a pensar male e a temere fosse accaduta qualche grave sventura…. però, come a trovare qualche filo per venire a capo di qualche cosa,
«Io non so bene,» continuò a dire, «ma quel messere che venne qui con voi l'altro dì, ha qualche cosa di somigliante all'uomo che venne qui ieri.»
«E quando venne qui?»
«Intorno a quest'ora.»
«Parlò a lungo con te?»
«No.»
«L'hai tu ben guardato in volto tanto da ricordartene precisamente com'era fatto?»
«No, a dir vero.»
«Che fosse quel medesimo che venne con me qui?»
«In questo caso non saprei che dire, ma voi dovete conoscere colui, e….»
Qui un'idea terribile balzò alla mente del Fossano, e con voce nella quale sentivasi un ira furibonda mista a paura e a spavento:
«Ch'ei fosse uno spione dei Dieci.» E si percosse la fronte col pugno, e si scontorse per tutta la persona, e fece mille gesti in un momento…. poi si lasciò cader le braccia, e stette ritto su due piedi immobile colla pupilla tesa e pallido come un morto.
Quando si scosse non disse nulla, uscì delle stanze, discese le scale, sì recò sugli scaglioni del palazzo. Il servo che lo aveva sempre seguito,
«E così,» gli disse «cosa avete in animo di fare?»
«Andarmene,» rispose Fossano così sopra pensiero e con una voce bassa e languida un cotal poco.
«L'ora è troppo tarda, io vi consiglio a fermarvi qui, per questa notte.»
«Per questa notte!» replicava Fossano così macchinalmente e stato un pezzo irresoluto: «oh, notte d'inferno!…» proruppe alla fine, e disceso sull'ultimo gradino saltò nella barca.
«Ma pensate d'andarvene così solo? a quest'ora? Aspettate che venga anch'io.»
«No, tu hai da star qui… piuttosto chiamami qualchedun'altro.»
Venne un altro servo, saltò esso pure nella barca, e si partirono. La condizione dell'animo e della mente di Fossano, era quella che è più prossima alla pazzia.
La sventura inaspettata che lo colpì allora, appunto che l'animo suo era inclinato alle più belle speranze ed alla gioia; l'incertezza insopportabile in cui si trovava a tal che non sapeva nemmeno che partito prendere in quella sua dolorosa situazione; l'amore per la sua Valenzia che gli sboccò nel cuore con un impeto procelloso che non gli lasciava requie, ed a rendere più insopportabili tutte codeste punte, uno sgomento ineffabile di una sventura inaudita: Candiano e Valenzia accusati al tribunale dei Dieci, tutto valse a produrre in lui una così violenta confusione d'idee da non saper più dove ei si trovasse veramente, e sulla prora della barchetta seduto, colla pupilla aperta e come intenta al gioco che faceva l'acqua nel frangersi, mostrava quell'attonita tranquillità che tanto muove a compassione.
VIII
IL DOGE
Quindici giorni dopo, la campana grossa di San Marco in Venezia batteva tocchi gravi e frequenti, che spandevano un suon lugubre per gran tratto all'intorno. Innanzi al palazzo ducale se ne stava stivata un'immensa moltitudine di popolo. Era un parlare sommesso, un bisbiglio, un susurro incessante, un domandare, un rispondere continuo. Il doge, vecchio novantenne, aveva il dì innanzi resa l'anima a Dio, e di questo avvenimento era piena in quel dì tutta Venezia.
Un secolo prima dell'anno in cui ci troviamo con questa storia, la salma mortale del doge sarebbe già stata trasferita nella chiesetta di San Giovanni e Paolo senza apparato di sorta, e il popolo veneziano in vece di starsene colà innanzi al palazzo e sparso sulla gran piazza di San Marco a discorrere dell'evento, a raccontare i fasti dell'illustre trapassato, a pensare chi mai sarebbe stato il suo successore, sarebbe in vece entrato tumultuante nel palazzo ducale, ed avrebbe messo a sacco ed a ruba tutte le suppellettili del doge defunto, facendo schiamazzi e gettando altissime grida quasi si fosse trattato di una publica baldoria. Così aveva voluto la barbara rozzezza dei tempi; ma forse alla morte di qualche doge che assai avesse meritato della patria col mettere la propria vita alla sua difesa, la moltitudine percossa dalla sventura, intenerita per la gratitudine, rispettosa alla virtù del trapassato, di sua spontanea volontà avrà derogato a quel barbaro costume. Così il doge fu da quell'ora considerato alla sua morte pari almeno a tutti gli altri uomini, e si pensarono a rendere anche a lui quegli onori dovuti a chi non è più. Man mano poi si pensò a rendergli tributi pari alla sua dignità, e in ragione che questa, col volgere del tempo, venne sempre più acquistando di splendore, anche la funzione dei funerali del doge aggiunse una magnificenza grado grado sempre più sfarzosa.
A' tempi a cui si riferiscono queste pagine, allorchè si annunzìava la morte del doge, venivano chiusi i tribunali e le giudicature, e temporariamente il governo della città passava nelle mani della quarantia criminale, e così erasi fatto in quel dì. Innanzi alla porta del palazzo ducale stavano a far guardia quattro arsenalotti, i quali di quando in quando lasciavano libero l'accesso ad un gruppo di persone a cui era permesso d'entrare negli appartamenti ducali a vedere la salma del doge, che vestito con tutti gli abiti della sua dignità, e col corno ducale in capo, stava esposto nella sala detta dello scudo, sopra un letto di parata. Poco mancando all'ora di vespro, entrarono in quella sala molti arsenalotti con torcie accese, e quando scoccarono le ventiquattro trasportarono il doge nella sala del publico, detta volgarmente del piovego; e lo deposero sovra di un gran catafalco. Per lo spazio di tre giorni doveva restare esposto colà, e due nobili in veste rossa e i canonici di San Marco, vi dovevano assistere fino al quarto dì nel quale si ordinava la sepoltura.
Se la sovranità del doge di Venezia non fosse stata elettiva, ma di successione, la morte di lui non avrebbe causato ne! popolo quella specie di tumultuosa incertezza che doveva nascere fra i cittadini, pensando a chi mai sarebbe stato il successore del doge. Ma appena in vece che si propalò la morte di lui, per non essere possibile verun'altra scossa essendo stato colui null'altro che un buon vecchio, dal quale Venezia non aveva raccolto nè troppo bene, nè troppo male, la prima parola che corse fra tutti i ceti fu:—Chi sarà ora il doge?….—e fra i senatori, e fra i membri del gran consiglio specialmente.
L'opinione del popolo però, che veniva mosso da una molla medesima, presto fu concorde. Come i selvaggi che associano l'idea della divinità al sole, pel solo motivo che s'accorgono di ricevere da lui i vantaggi più immediati e più necessari, così il popolo per lo più nella bisogna di un'elezione, volge di preferenza lo sguardo a colui che più nel corso della vita gli ha dato nell'occhio, a colui del quale ebbe a riconoscere i più segnalati servigi, e appena fu pronunciata quella parola:—Chi sarà ora il doge?….—molte voci risposero ad una: «Che gran ventura sarebbe s'ei fosse Candiano. Senza di lui forse i Genovesi e i Pisani sarebbero ora qui in Venezia; senza di lui chi sa quante volte il Turco ci avrebbe messi a mal partito.»
«Viva Candiano! se lui sarà il doge, bene sarà per Venezia, bene per tutti.»
«Viva Candiano, tanto buono, quanto prode, e che tratta il più povero di Venezia come se fosse un suo pari, e che è liberale del suo con tutti!»
«Se i destini volgono propizi per Venezia, il doge sarà Candiano.»
Queste opinioni, queste voci metteva fuori il popolo minuto; ma ben diversamente avveniva tra i senatori e i membri del gran Consiglio e i procuratori. Il popolo non aveva avuto riguardo che al publico interesse senz'altra mira, poichè sapeva che nessuno tra' plebei avrebbe potuto essere il doge. Ma i senatori e gli altri patrizi rivestiti di alcuna carica, erano mossi da passioni diverse, e da qui la diversità delle loro opinioni e de' loro giudizi.
Il senator Barbarigo, il quale, per essere uno de' più anziani de' senatori, era quello per lo più a cui si rivolgeva l'attenzione de' suoi colleghi allorchè trattavasi determinare alcuna cosa, quando fu in segreto interpellato intorno all'opinione sua, non fece altro che alzar le spalle, e far quell'atto di chi non ha ancora fermo il suo partito, e quando sentì com'era concorde l'opinione publica per Candiano, ed anche fra gli stessi suoi colleghi, e che dopo una lunga discussione i due terzi de' voti furono per l'ammiraglio, non disse mai parola nè favorevole nè contraria, e da cui potessero trapelare i suoi pensieri; essendo però assai conosciuta la cattiva disposizione dell'animo suo rispetto a Candiano, ognuno dovette credere ragionevolmente ch'egli anche in quest'occasione, come sempre, avrebbe dato il voto contrario.
Una sera nel suo palazzo medesimo, dove per caso vennero a trovarsi assieme gran parte de' senatori, s'era parlato a lungo di quella publica bisogna, e alcuni s'eran fatti leciti a richiedere palesemente il Barbarigo del suo consiglio, e il discorso era stato condotto in modo ch'egli si trovò nel punto di dover dare una decisa risposta. E, presa finalmente una risoluzione, già stava per parlare, quando un paggio gli si avvicinò ad annunciargli che un uomo gli voleva parlare. A quell'annunzio balzò in piedi il Barbarigo assai contento che per quell'improvviso accidente potesse ancora tener chiuso il proprio avviso sul conto dell'ammiraglio Candiano, e dette alcune parole di scusa agli onorevoli suoi colleghi, si recò nella stanza dove egli era aspettato.
Assai lontano dal credere chi dovesse capitargli innanzi a quell'ora, si rimase assai maravigliato quando in quell'uomo ravvisò il Malumbra:
«Sei tu!» gli disse, «e così?»
«E così, sono arrivato in questo momento a Venezia….»
«Ma che notizie mi porti, dî presto.»
«Ottime, illustrissimo, e qualcosa meglio che semplici notizie.»
«Cosa vuoi dire?»
«Valenzia è in Venezia.»
Il Barbarigo fu a un punto di abbracciare il tristo sgherro, e
«Come ti riuscì?….» gli domandò.
«Con qualche poco d'astuzia, e più che un po' d'oro si riesce a tutto, illustrissimo. Del resto ci furono molti pericoli e molti ostacoli, talchè ebbi sempre a vivere in qualche timore fino a che non toccai Venezia.»
«E dove hai tu nascosta codesta Valenzia?»
«È in luogo sicuro e ben guardato; ma temo che la poveretta non possa durar lungo tempo contro all'angoscia che non le lascia un'ora di bene.»
«Hai potuto comprendere se a lei sia trapelato nulla di quanto sappiam noi sul conto suo?»
«Con belle promesse e belle speranze io le feci percorrere gran tratto del viaggio; ma alla fine non volle più credere alle mie parole, e cominciò a disperarsi, a piangere, a scongiurarmi, poveretta, e non vi saprei narrare lo spavento da cui fu assalita quando potè accorgersi ch'io la conduceva per gli stati veneziani. E allora mi parve che le sia balenato qualche cosa in mente, quantunque io abbia adoperato ogni mezzo per farla riavere da que' timori e da quella disperazione.»
«Hai fatto bene sin qui; ed ora farai il resto.»
«Come volete, illustrissimo.»
«Siccome converrà ch'ella stia ancora nascosta per alcuni giorni, così tu la condurrai subito dove io ti dirò; e in luogo che sarà certamente più sicuro del tuo.»
«Va bene; ora vi dirò qualche cosa del Visconti.»
«Che! è forse qui esso pure?»
«No, ma ci verrà senz'altro.»
«Gli hai forse parlato?»
«No, illustrissimo, ma gli feci giungere a notizia che la Republica di Venezia lo avrebbe ospitato volentieri. E pare che questa notizia non gli sia dispiaciuta molto, che subito si mise in cammino, e forse in questo momento potrebb'essere anch'egli in Venezia.»
«È facile a comprendere che il diavolo ti ha dato il suo valido aiuto in questa circostanza!» diceva il Barbarigo quasi esaltato della gioia.
«Credo bene che la sia così, perchè io solo non poteva bastare a far tutto.»
«E il Fossano? Non mi hai detto ancor nulla di lui.»
«Del Fossano, per dirvi la verità, da quando l'ho salutato ad Angera, non so nè poco nè molto; ma s'egli è così preso di Valenzia da non saperne vivere discosto un momento, e sol che sappia fiutar da lontano, scommetterei la testa che non passerà gran tempo, e lo vedremo in qualcuna delle nostre gondole.»
«Dovrebbe succedere così appunto; ma quand'anche non ci capitasse, non è già di lui che abbiamo il maggior bisogno. Ora io ti darò un ordine scritto, e condurrai tosto Valenzia nel convento di Santa Brigida.»
E scritto l'ordine contò al Malumbra alquanti ducati d'oro, e raccomandatogli si lasciasse veder presto, ritornò nella sala dove aveva lasciati i suoi colleghi impazienti di una risposta. Se in tanti giorni non aveva mai saputo determinarsi a far chiaro il suo avviso, lo potè in quel punto, e contro all'aspettazione universale, e probabilmente contro anche quella de' nostri lettori, riuscì a dire che in quanto a lui credeva doversi assolutamente acconciarsi col voto de' più, e che l'ammiraglio Candiano gli pareva il solo che fosse degno di vestire la clamide del doge.
Alcuni giorni dopo il senato fu convocato solennemente per l'elezione del doge, e l'ammiraglio Candiano fu quegli appunto che ebbe la maggiorità de' voti. Ciò non bastava però perchè egli fosse definitivamente eletto; bisognava che il gran consiglio in solenne assemblea approvasse la proposizione del senato, al far che dovevano interporsi, com'era l'uso a que' tempi, molti giorni ancora.
Le cose in Venezia erano a questa condizione, quando vi capitò il figlio di Bernabò Visconti col Bronzino: noi lo abbiamo lasciato nelle vicinanze di Castel Seprio, timorosi che il Malumbra volesse rimettere nelle sue mani la sventurata Valenzia. Ma il tristo sgherro dopo aver molto pensato e ripensato su quello che gli restava a fare, alla fine considerò che non gli conveniva tentare quel partito, che gli ordini del senator Barbarigo erano di condurre a Venezia tanto Valenzia quanto il Visconti, ciò che forse non sarebbe avvenuto se mai lo avesse messo al possedimento di quella che avrebbe dovuto essere sua consorte. In conseguenza di questa determinazione, avendo data una svolta al discorso, quand'era venuto a far parole col Bronzino, ed assicuratosi che colui nulla aveva sospettato nè della sua condizione nè delle donne che aveva con sè, prima che spuntasse l'alba se n'era uscito di quell'osteria, e d'uno in altro inganno con belle parole, come sa il lettore per bocca del medesimo Malumbra, aveva condotto Valenzia a Venezia.
In tutto questo tempo Alberigo Fossano, dopo aver frugato per ogni terricciuola del lago, e tentato tutto che gli era parso atto a metterlo sulle traccie della sua donna, messosi in mille sospetti, e in quello soprattutto che il Malumbra, spedito dal Candiano, fosse stato inviato dalla Republica veneziana a tendere insidie alla sua Valenzia, e non vedendo altra via per venire a capo di qualche cosa, pensò ridursi a Venezia egli stesso per sincerare il tutto, e recarsi dall'ammiraglio, e domandargli di sua figlia se mai per sua volontà fosse ritornata a Venezia o in qualche luogo presso; perchè ad escludere il terribile pensiero che ci avessero mano i Dieci, e che tutto fosse scoperto. pensiero che non bastava a sopportare, s'era acconciato con una certa compiacenza al credere che il buon Candiano, fatto istrutto dalla medesima Valenzia della trista condizione di lei e delle ingiurie patite, mandato il Malumbra sotto finti colori, avesse voluto richiamare a sè la figlia diletta. Pur troppo, codesto pensiero che pure è facile a credere quanto gli dovesse riuscire molesto, gli era tuttavia un conforto, un rifugio dell'orribile sospetto che al consiglio dei Dieci fosse stato rivelato il fatale segreto.
IX
TRAMA INAUDITA.
Verso la metà del mese d'ottobre, intorno alle ore di sera, una piccola barca entrava nella veneta laguna. Era il cielo tutto bigio, eran le acque di un color cupo, e tirava un vento di tramontana così forte, che già pareva fosse inverno. Tutto avvolto in un mantello stavasi il nostro Alberigo seduto in quello schifo dalla parte di poppa; entrava in quella città, dalla quale, quattr'anni prima, erane uscito giurando non vi sarebbe tornato mai più. Era l'istess'ora, lo stesso canale, gli stessi edificii che lo circondavano, ed il cuor suo era pure in gran tempesta come allora. Quel continuo stato d'incertezza, di ansia, di crepacuore che da un mese il tormentava, gli traspariva intero nel volto d'una pallidezza mortale e così affilato, che pareva gli fosse entrato nelle vene un morbo di maligna natura.
Man mano che avanzavasi nella laguna, gli si accresceva l'affanno, gli si accresceva quel caldo febbrile che di solito si apprende a chi è travagliato dalla dubbiezza dell'evento.
Quattro anni prima usciva di là sbalordito dall'enormità della sua disgrazia, se ne usciva senza più una speranza, ma tuttavia godeva di quella tranquillità che dà l'attonitaggine e la sicurezza di non avere più nulla in questo mondo; però in que' momenti aveva pensato non esservi più sventure contro le quali potesse spezzarsi l'animo suo, e quasi si rideva del mondo e degli uomini che non avevano più armi per ferir lui. Questi confusi pensieri, che, trascorso quell'istante, non gli erano mai più tornati in mente, lo assalirono di tutta la forza adesso che ritornava in que' luoghi.
Ad uno ad uno rammentava i tormenti assaporati in quel punto con una certa voluttà misteriosa, se non che, sentendo le dure ed acute fitte dell'angoscia presente, vedeva che quelli non erano stati che fiori in confronto:—pur troppo era così. Allora gli tornava in mente le parole di Candiano,—Padova, il monastero di Santa Francesca, dove era viva, ancor viva, quella che aveva pianto come morta…. e innanzi innanzi, di fatto in fatto, ricordava l'isola di San Giulio, i suoi trascorsi, quel pianto, quella soave reintegrazione d'amore, e la notte che venne dopo, e……. Qui sentiva più e più crescersi il caldo, qui l'opprimeva l'affanno quasi gli fosse posto un enorme peso sul cuore, e una grossa goccia di pianto, che un pezzo gli era tremolata nell'occhio senza che pur egli se ne accorgesse, gli sgorgava improvvisamente, gli cadeva sulla guancia, ed egli ne sentiva la riga infuocata.
Il motivo per cui il Fossano se ne tornava a Venezia, era quello di recarsi da Candiano per vedere se colui avesse, per avventura, alcuna notizia di Valenzia. Ma quand'anche in fondo del cuore potesse nutrire un'ombra di speranza, che quando la mente vaga di dubbio in dubbio, a proprio conforto, si sforza a mettere per probabile anche ciò che è impossibile al tutto; pensi il lettore con che animo doveva presentarsi innanzi a Candiano, a domandargli conto di colei che con tanta generosità era stata affidata interamente all'amor suo, alle sue cure. Ma di questo terribile momento, per quanto pensasse, non vi essendo via d'uscire, volle affrontarlo tosto, e così, senza attender altro, si volse difilato al palazzo di Candiano. Quando però mise il piede su quegli scaglioni, un no imperioso si attraversò d'improvviso a tutt'i suoi pensieri, e fu per tornare addietro e non farne altro; ma per sua sventura un servo dell'ammiraglio, che usciva in quella del palazzo, riconosciutolo lo invitò ad entrare, e a lui non fu più possibile ritrarsi.
«Saprà bene, messere, la gran novità di che oggi si parla per tutta Venezia.»
Il Fossano, a queste parole, pensando che forse si riferivano ad un avvenimento che il potesse toccar da vicino, si sentì tutto rimescolare, e rispose:
«Che novità?»
«La novità che oggi in senato si votò per l'elezione del doge.»
«Del doge? È morto l'Orseolo?»
«È morto, e l'ammiraglio Candiano sarà il suo successore.»
«L'ammiraglio?»
«Sì, messere, e tutta Venezia è ben lieta di questa elezione.»
Queste parole poterono un tratto confortare il Fossano, il quale pensò che la Serenissima Republica non si sarebbe mai più indotta ad eleggere doge il Candiano, se avesse mai saputo di che colpa era esso reo; breve conforto però, che pur sempre rimaneva l'incertezza amara intorno alla condizione di Valenzia. Con questi pensieri salì lo scalone del palazzo, e con un batticuore che gli toglieva il respiro, mise il piede su quella soglia che in lui risvegliò tante memorie, e gli confisse il petto di tante punte acutissime.
L'ammiraglio Candiano avendo sentito alcuni dì prima dalla bocca del Malumbra, che la moglie del Fossano era in buonissimo stato, e che gli mandava le sue felicitazioni, racquetato per quella parte, che l'animo schietto non gli consentiva di sospettare di nessuno, aveva potuto in quegli ultimi giorni sentire con molta compiacenza che il voto universale designava lui doge di Venezia.
Qui c'è qualche cosa, che parrà forse non affarsi appunto a quella tempra del carattere di Candiano, assai più amico della vera virtù che del fasto e dello splendore apparente; di Candiano che avvezzo al libero comando in mezzo al mare, doveva essere insofferente naturalmente a quella specie di schiavitù vestita di tutte le apparenze della grandezza e del potere. Ma, a tacere che in ciascun uomo, per quanto sia eguale e conseguente a sè stesso, v'ha pur sempre alcuna lieve contradizione; anche il settuagenario Candiano, quantunque i suoi desiderii non avessero mai trasceso i limiti, e l'anima sua fosse dotata di quel semplice candore che non ci fa invanire della fortuna di questo mondo, pure al sentire quegli applausi di tutta Venezia nella quale intera si spiegava la gratitudine di tanta popolazione verso lui, al pensare che nel senato la maggior parte dei voti erano stati a suo favore per l'elezione al dogato; gli colmò l'anima di tanta compiacenza, che quel giorno fu uno dei più felici della sua vita.
Per quell'indole sua aperta e sincera non trovando modo veruno ad infingersi pur un momento, e versandosi interamente la sua gioia in ogni suo gesto, in ogni sua parola, quando gli fu annunciato l'arrivo del cavalier Fossano, desideroso com'era, di rivederlo e di sentire da lui medesimo notizie della dilettissima figlia, gli mosse incontro con un fare di sì gioconda bonarietà e benevolenza che la maggiore non era da sperarsi da chicchefosse uomo del mondo. Le prime parole di Candiano ad Alberigo furon volte a chiedergli notizie di Valenzia, ciò ch'è facile e ragionevole a supporsi.
Il Fossano, mentre stava ascoltando l'ammiraglio, potè accorgersi del giocondo esaltamento dell'animo di lui; e pur troppo, codesta circostanza che doveva essere anche al Fossano di grandissimo contento, lo afflisse per tal modo che si sentì l'un cento più misero di quando non si era ancor presentato a Candiano. Gli parve quasi avere a commettere un grave delitto col domandare all'ammiraglio notizia della sua figlia, col funestare d'una guisa così terribile la pace di quel generoso e prode vecchio, in uno de' momenti più belli della sua vita. E tanto questo pensiero lo vinse che quando l'ammiraglio gli domandò notizie di Valenzia, egli non stette un momento in dubbio su quello che gli doveva dire, e non esitò a rispondere:
«Valenzia sta bene.»
Ma arrossì nel dir questo, e il rapido confronto che dovette fare in quel momento tra le parole che aveva pronunciate e la nuda verità, gli serrarono il cuore di una maniera orribile, e fu a un punto che non cadesse privo di sentimento. Di nulla però s'accorse l'ammiraglio, e quando entrò il valletto a dirgli che la gondola l'aspettava.
«Tu verrai con me dal Morosini,» disse ai Fossano. «Quel caro amico mio, a rammemorare il dì ch'io riportai la vittoria contro i Pisani, or fanno tre anni, ha voluto questa notte dare una festa nel suo palazzo. Tu ci verrai con me, e ti so dire che sarai il benvenuto, che tutta Venezia si ricorda assai bene della straordinaria tua virtù nel canto, e converrà che anche in questa notte voglia intertenerci dell'arte tua.»
«Permettete, ammiraglio, ch'io non venga per oggi; ho gettata più d'una notte, e dalla fatica del viaggio sono così spossato che è al tutto impossibile ch'io sia atto a far nulla non che a cantare. Lasciate, ammiraglio, ch'io mi ritiri, e abbiatemi per iscusato se non so acconciarmi ai vostri desiderii.»
«Non mi state a negare sì poca cosa, messer Fossano, che per un uomo che ha provata la polvere de' campi, come siete voi, e deve all'occasione essere disposto a fatiche ben maggiori di qualche notte vegliata, non deve mettere innanzi mai per iscusarsi dai far qualche cosa, il bisogno di riposarsi. Diversamente mi convincerete che più non avete la virtù d'una volta, e soltanto vi è rimasto l'effeminato costume de' cantori che vanno a zonzo per le corti, e non sanno far altro al mondo.»
Queste cose il Candiano le veniva dicendo con un fare così faceto e brillante che avrebbe messo di buona voglia chicchessia; ma al povero Fossano erano tormentose fitte nel cuore, ed assalendolo ancora il sospetto che il consiglio dei Dieci fosse in cognizione di tutto, sentiva una compassione per l'ammiraglio, tanto più profonda quanto più l'animo di Candiano appariva pieno di gioia; e, per quanto si schermisse, dovette accompagnare l'ammiraglio al palazzo Morosini.
Entrarono ambidue nella gondola, e non sì tosto questa s'avanzò tra le altre, che i battimani echeggiarono d'ogni dove, e il nome di Candiano era da tutti innalzato alle stelle.
Fossano silenzioso e tristissimo dava orecchio a quelle grida, a quegli evviva, e guardava con occhi di sincera commiserazione il Candiano che era lo scopo di tanti applausi.
Nè l'aver sentito dal servo dell'ammiraglio, il quale gli si era fatto incontro sugli scaglioni, che Candiano sarebbe stato eletto al dogato, bastava a toglierlo da' suoi timori, che la politica tenebrosa di Venezia, della quale forse non s'accorgeva interamente chi era nato sulle lagune, era nota assai fuori de' confini di San Marco, che anzi, per non esservi quelli che chiudevano la bocca a chi parlava, veniva dipinta con colori foschi e terribili più di quello forse che comportasse il vero.
La gondola, pervenuta alla scalea del palazzo Morosini, mise a terra Candiano e Alberigo, il quale rischiarato improvvisamente da quell'onda di splendore che riboccava dal palazzo, s'accorse allora solo che non aveva indosso le vesti più acconcie per una festa dove aveva a intervenire il fiore de' patrizi e delle gentildonne di Venezia, e veduto che quella poteva essere una scusa più forte per ritirarsi e tornare addietro, mostrò al Candiano quell'acconciatura da viaggio, dicendo:
«Ora direte anche voi che non m'è assolutamente possibile di entrare nelle sale.»
L'ammiraglio guardatolo ben bene e riso un poco,
«Perchè no?» disse, «così spiccherai meglio tra gli altri.» E di forza presolo per un braccio, lo condusse dentro.
Ai due che entrarono preceduti da un valletto di casa Morosini che li annunciò, venne incontro il senator Morosini colla moglie e gran parte dei gentiluomini e gentildonne che già erano intervenute alla festa.
Candiano presentò il Fossano al senatore dicendo che incontratolo allora appunto che arrivava in Venezia, senza por tempo in mezzo, l'aveva condotto seco, sperando far cosa grata a tutti.—E al Fossano, che tosto venne riconosciuto, furon volte da tutti parole di tanta gentilezza e cortesia, che ciascun altro se ne sarebbe tenuto e n'avrebbe gioito; ma lo poteva egli?
In mezzo a coloro però che furon cortesi di tante belle parole a Fossano, trovavasi anche quello spavaldo d'Attilio Gritti, che in vece di parlare gli volse due occhi torvi e beffardi. In quell'anima rozza e vulgare, avvolta in quel corpo di patrizio; poteva allignar mai simpatia per chi, oltre al decoro dell'avvenenza, andava adorno di mille altri pregi? Tutt'altro: che anzi, senza poter trovare la giusta ragione, non sapendo mai le anime rozze il che ed il perchè delle loro azioni; sin dal primo momento che ebbe veduto il Fossano, e sentì la virtù straordinaria di lui, ne provò una così decisa avversione, che Alberigo stesso dovette accorgesene, quando, per caso, s'era trovato a far qualche parola con lui; e di presente poi, appena rivide il Fossano, del quale l'ammiraglio mostrava avere tanta cura, quell'antipatia gli si accrebbe a cento doppi. Di quanto odio egli odiasse il Candiano dopo la sanguinosa offesa, non è mestieri che venga ridetto; svergognato in faccia a tanti, non aveva però mai potuto vendicarsi di lui, perchè tutti, anche gli amici suoi medesimi, ne lo avevano sconsigliato; anelava però ad una occasione di poter far dispiacere a quell'uomo che tanto abborriva, e col maligno ingegno tuttodì andava pensando a qualche bel modo di ottenere l'intento: ed un pensiero gli balenò alla mente appena che ebbe veduto il Fossano.
Gli amici di lui, a' quali piaceva spesso instigare il suo feroce talento,
«Oh! guarda, Attilio,» gli dissero, «che egli è ritornato, colui che tu desideravi tanto.»
«Egli deve al certo aver commesso qualche grave peccato, e il suo demonio, che non gli è amico, lo ha mandato qui in buon punto. Vivaddio,» soggiunse poi, «ciò che ho detto, farò, così la fortuna faccia nascere qualche bell'occasione.» E strabuzzava gli occhi della gioia sciocca e feroce ad una, e li saettava poi di traverso sulla veneranda persona del Candiano, dicendo fra sè:—Ci capiterai, vecchio invanito; il tuo sabato verrà anche per te.—E si allontanava nelle altre sale sempre in compagnia de' suoi scioperati amici, i soli che si adattassero a stare con lui dopo lo sfregio che aveva toccato dall'ammiraglio.
A questo intanto ed a Fossano s'era collocato vicino il senator Barbarigo, il quale, con grandissima maraviglia di tutti, aveva da qualche tempo rimesso assai di quella sua torbida ed accigliata natura, e si mostrava della più cortese e gaia indole del mondo. Seduto tra l'ammiraglio e Fossano, volgeva belle parole tanto all'uno che all'altro; ma si godeva principalmente nel guardare a parte a parte la figura del giovane cavaliere del quale, appena udì ripetersi intorno il nome, e come fosse arrivato a Venezia in quella sera medesima, non volendo credere a sè medesimo che in ogni incontro la fortuna gli si volesse mostrar sempre seconda, accorse per accertarsi del vero, e come lo vide co' propri occhi, sentì riardere ancora il sangue nelle vecchie sue membra, e disse fra sè:—Anche tu ci sei, giovinetto inesperto, ci siete tutti,—e si volse il primo a complir lui e l'ammiraglio.
Che un uomo traviato da condizioni eccezionali che talora intervengono nella vita, indotto da certe necessità fatali, spinto dal desiderio dell'oro, dalla rabbia di una vendetta covata troppo a lungo e sempre invano, possa condursi a tormentare il suo simile, a macchinare l'estremo suo danno, è cosa della quale ognuno può farsi capace; ma che un facoltoso, un uomo lusingato assai ne' rapporti dell'amor proprio e dell'ambizione, cancrena di chi non ha a litigare col pane, possa avere in sè tanto germe di perfidia, da potere tramare, con un'astuzia diabolica, la rovina d'un suo coetaneo pel solo motivo che gli dava noia il vederlo rimeritato dagli uomini e dalla fortuna, è tal cosa che difficilmente un'anima gentile può indursi a credere; eppure il Barbarigo era tale, ed i motivi di quel suo, diremo, monstruoso operare non si dovevano ripetere che dal desiderio che gli era entrato nell'animo, avesse il Candiano a stargli sempre sotto in faccia al mondo, e dal non aver potuto essere appagato. Il lettore avrà certo fatto le maraviglie, quando sentì che il Barbarigo medesimo, dopo la morte del doge Orseolo, costretto a metter fuori la sua opinione, manifestò che in quanto a lui avrebbe desiderato che il dogato toccasse all'ammiraglio Candiano, ed espose con tanta forza gli argomenti a provare non esservi scelta migliore di quella, che potè indurre tutti i colleghi ad essere dello stesso suo avviso.
Quel medesimo che quando trattossi di gridarlo ammiraglio, fu il solo che desse il voto contrario, che in tutte le occasioni era, se non il solo, tra i principali almeno, che trovassero a censurare e riprovare le azioni di Candiano, tutt'a un tratto s'era fatto il suo fautore, il suo difensore, l'amico suo più sviscerato; ma sarebbe stato egli così, prima che fosse venuto in cognizione del profondo mistero, che appena rivelato al mondo, bastava a schiacciare la testa del generoso ed improvvido vecchio?—avrebb'egli operato così prima di sapere ch'era in sua facoltà il rivelarlo? Ma perchè, si domanderà, appena lo seppe non lo volle manifestare? il lettore ha l'anima troppo ingenua per penetrare i recessi di quel cuore, e una simile domanda gli è ben naturale.
Quella rabbia ch'egli nutriva contro Candiano, si rivolse presto anche contro coloro che mostravano averlo in gran conto, e magnificavano le sue virtù, e lo applaudivano tuttogiorno, ed anche di costoro avrebbe voluto vendicarsi, se non fossero stati in troppo, se non fosse stata Venezia intera. Però un sol mezzo gli parve acconcio: fare in modo che ella profondesse a Candiano tutto quello che era in poter suo di dare, che tutte le ricompense ella concedesse a quel suo prediletto, fino al punto oltre il quale non era più possibile un passo, perchè così, al farsi manifesto il segreto, al publicarsi di quella colpa ch'egli credeva nera ed atroce come un assassinio e peggio, ed era infatti un delitto di stato, al cadere di quella bomba, lo scandalo fosse più romoroso, il risentimento di tante persone, per essere state troppo a lungo ingannate da chi avevano tanto favorito, fosse più attivo ed energico, e d'altra parte la caduta di Candiano da quell'ultima altezza, fosse più insopportabile, fosse più tormentosa. Per questo aveva condotto le cose in modo che il Candiano venisse assunto al dogato, per questo s'adoperava tuttavia, e con più energia di prima, ora appunto che il frutto pareva maturo, e tutte le fila della infernale sua trama venivano finalmente a convergere ad un punto solo. V'era in somma in quell'uomo coperto dalla toga senatoriale più di quanto basta a far torcere il viso pel ribrezzo.
Suonata intanto l'ora terza di notte, e cominciandosi in quel momento le danze, il Morosini, Candiano, Barbarigo ed altri senatori, a cui per nulla s'addiceva quel gioco della prima gioventù, si ritirarono in altre stanze. Il Fossano avrebbe voluto seguirli, ma il senator Morosini additatogli un gruppo di fanciulle:
«A voi tocca trasceglierne qualcuna, chè i sistri già preludiano alla danza,» e lo costrinse a fermarsi in quella sala.
Confuso più che altro da tutto quel frastuono, pieno di una inquietezza che gli rendeva insopportabile qualunque luogo, trovavasi pentito dell'esser venuto a Venezia, dell'essersi presentato a Candiano, prima d'aver pensato meglio a ciò che avrebbe dovuto fare. Mentre se ne stava così perplesso nel bel mezzo della sala, vide entrare il figlio di Bernabò Visconti; la tanta maraviglia che lo prese di quella inaspettata comparsa, diede, per un momento, una diversa direzione alle sue idee, per un momento solo, che tosto la presenza del Visconti, facendolo ritornare colla memoria a' quattr'anni addietro, quando lo vide la prima volta in quella sala medesima, e sentì tanta avversione per lui, lo richiamò tosto ai dolorosi pensieri.
Il figlio di Bernabò da quattro giorni era ospite della Serenissima Republica, la quale, accoltolo, come era dovuto a figlio di principe, intanto che stava deliberando se dovesse o no esaudire le domande ch'egli le aveva fatte, e il partito che le aveva posto innanzi di far la guerra al Conte di Virtù, nessuna cosa lasciava intralasciata che meglio potesse render accetto a quel principe scaduto il soggiorno di Venezia.
In quegli ultimi giorni, come suole spesso avvenire tra uomini malvagi, il Visconti e l'Attilio avevan stretta una tal quale amicizia, e in quella sera trovavansi accanto nella gran sala del Morosini. Quando il Fossano venne invitato da tutta l'adunanza a dire alll'improvviso, seppe il Visconti al tutto chi era quel giovane, e come altra volta fosse venuto a Venezia, per far parte dell'ambasceria del Conte di Virtù.
Il Visconti, appena sentì che il Fossano era una creatura dell'abborrito suo cugino, pensò sarebbe stata per lui grandissima compiacenza il poter trarre alcuna vendetta di lui, coll'offendere quegli che in qualche modo gli apparteneva, e quantunque pensasse che in faccia a tutta Venezia non gli conveniva offendere direttamente chi non gli aveva usata ingiuria di sorta, pure stabilì aspettare l'occasione; e sobillato anche dalle amare parole di Attilio Gritti, che nulla aveva intralasciato per rendergli odioso lo sventurato giovane, si compiacque meditando qualche modo a tormentare chi non gli aveva fatto un male al mondo. Se poi avesse saputo che il Fossano era il marito di Valenzia, che per lui era stato supplantato, che di presente trovavasi a Venezia sulle traccie di quella ch'egli pure aveva potuto amare, chi può sapere fin dove mai sarebbe arrivato il suo sdegno?
Quando il Bronzino gli riferì ciò che aveva saputo dal Malumbra, sul conto della figlia di Candiano, egli non aveva voluto prestare alcuna fede, e venuto a Venezia, pieno d'altre cure, non s'era nè tampoco ricordato di quel fatto vero o falso che fosse, e venuto alla presenza de' magistrati veneziani, non aveva, per le sue buone ragioni, detto nulla di ciò, e soltanto s'era limitato a richiedere la Republica di un valido soccorso contro il signore di Milano.
E in quanto al Malumbra, pentitosi d'avere in parte palesato al Bronzino quel mistero, quando in Venezia si incontrò di nuovo col compagno del Visconti, condusse il discorso in modo da toglierlo affatto da quel sospetto, che il Barbarigo avevagli severamente ingiunto tenesse il segreto di tutta quell'impigliata faccenda, fino a tanto che non gli avesse comandato di presentarsi al consiglio dei Dieci.
Il Fossano alle replicate istanze de' patrizii e delle gentildonne, che ancora volevano sentire la magia del suo canto e i soavi accordi del suo liuto, non potè in quella sera assolutamente mostrarsi cortese, come pure avrebbe voluto, che troppo era afflitto l'animo suo, e la mente aveva ingombra di troppo duri pensieri perchè la fantasia potesse somministrargli il modo d'intertenere quell'adunanza; con tanta insistenza poi era stato, più che pregato, importunato, che non bastando a trattenere entro di sè tutta l'amarezza che gli occupava il cuore, con parole alcun poco acerbe, che neppure non s'era accorto di dire, s'era rifiutato a fare il desiderio comune, con molta maraviglia di Candiano, il quale, non avendo mai veduta tanta ostinazione in lui, non sapeva che si pensare, e con grandissimo dispetto di tutti coloro che dopo averlo tanto pregato, s'erano trovati assai punti da quel duro rifiuto. L'Attilio Gritti, colto quel momento, alzò la sua voce in mezzo al bisbiglio universale, e non esitò a dire villania al Fossano, che gli rispose per le rime, onde quella naturale antipatia che era tra loro, si venne più e più esacerbando. Terminata per altro quella festa, se il Gritti e il Visconti non seppero dimenticarsi di lui, egli ben presto si dimenticò di loro, chè non poteva passare neppure un istante ch'ei non pensasse a Valenzia.
Quando, insieme all'ammiraglio si ridusse a palazzo, il suo aspetto, la sua faccia, tutto era così improntato di quell'amaritudine che dentro il martoriava, ed era così manifesto che un pensiero fisso lo teneva continuamente occupato, che il Candiano sospettò non ci fosse sotto qualche seria faccenda, e fu così forte il suo sospetto che tutta la gioia che lo aveva animato in quel giorno, disparve improvvisa, e lo lasciò più conturbato che mai.
Quando fu l'alba, il Fossano, a cui le ore della notte erano divenute eterne, uscì senza dir nulla a Candiano. Aveva saputo da lui che il Malumbra era tornato in Venezia, e che anzi avevagli riferito essere Valenzia in buonissima condizione; però essendosi intestato che colui non fosse quel che sembrava, e tremando all'idea che fosse mai uno sgherro e volendo sincerarsi, pensò darsi tanto attorno finchè s'incontrasse in quell'uomo.
Scorse quasi tutta la giornata, finalmente sull'ultim'ora passando, per caso, accanto al palazzo del doge, lo raffigurò a non molta distanza, gli si fece appresso colla velocità di una balestra, e a colui che si trovò colto all'improvviso, vide mutarsi il colore del volto. A quella vista, essendo il dubbio divenuto certezza, si sentì nel cuore un'acuta fitta quasi che la lama di uno stile lo avesse passato da parte a parte, e l'afferrò con una forza convulsa che non permise all'altro di svincolarsi, se ne avesse avuta la voglia. Qui, non guardando più che tanto alla moltitudine che si era affollata intorno, mise alle strette quel tristo, perchè gli svelasse ogni cosa; ma colui stava sodo, avendo assai più timore del consiglio dei Dieci che di lui, così che trasse il Fossano in sì gran furore, che gridò a tutta quella moltitudine che gli stava intorno:
«Guardatevi da costui, se mai vi avesse ingannato sino a questo punto, costui è uno sgherro; guardatevi.» E lo avrebbe anche passato con la daga, se un suo amico, che aveva seguito l'ambasceria di Milano, passato per di là e riconosciutolo, non gli avesse trattenuta la mano, e condottolo seco.
Il Malumbra sfuggito al pericolo guardossi intorno, e potè vedere sulle faccie di coloro che lo stavano osservando, quel misto di terrore e di odio che uom prova al cospetto di chi vive alla rovina degli altri, così che esso pure si tolse alla vista di tanta gente assai costernato.
La notte di quel dì medesimo, nella camera dei Dieci, si venne a parlare del fatto occorso al Malumbra, e come su lui pesassero i sospetti del popolo. Una voce si alzò, tra le altre a dire:
«Che cosa ci rimarrà ora a fare di costui?»
«A ciò provvederemo; ma è certo che costui non deve più servire l'eccelso consiglio.» Fu la risposta unanime.
Intanto si avvicinava il giorno che il gran consiglio avrebbe messa in esame la proposizione fatta dal senato, riguardo all'elezione dell'ammiraglio Candiano al dogato di Venezia. Essendo il gran consiglio composto, per tacere di molti altri magistrati, di quasi tutti i personaggi che costituivano il senato, quasi per una consuetudine tutto quanto era proposto colà, veniva approvato nella gran sala del consiglio; però tutta Venezia teneva oramai per cosa certa, d'avere fra pochi giorni a salutare doge il valoroso Candiano.
Il Barbarigo pensò che era giunto il momento opportuno, e senza più, stabilì di mettere in moto tutti i congegni che dovessero produrre l'ultimo risultato.
Il lettore si ricorderà che il consiglio dei Dieci aveva data a lui l'incombenza di chiarire quella strana accusa, trovata contro a Candiano: ma il Barbarigo alle loro inchieste aveva sempre risposto che di quell'accusa non era a far gran caso, e che non aveva scoperto nulla, tanto che il consiglio non ci aveva pensato altro.
Pensò inoltre a disporre le cose in maniera che i suoi colleghi non avessero ad accorgersi, aver lui per tanto tempo tenuto il segreto senza palesarlo. Ora, almanaccando un adatto modo, per non destar sospetti, attendeva la vigilia della straordinaria assemblea, che non tardò ad arrivare. In quegli ultimi giorni il Visconti e l'Attilio Gritti, rinfocando a vicenda ne' loro animi l'irragionevole odio che avevano contro il Fossano, ed avendo sentito da quell'astuto Bronzino, che egli era tornato a Venezia per tener dietro ad una donna della quale doveva fieramente essersi invaghito, come il Bronzino s'era indotto a credere, a passare la noia dell'atroce e scioperata lor vita, s'eran messi a tener dietro ad ogni passo del Fossano per potergli, all'occasione, recare alcuna ingiuria e peggio.
Adesso che sappiamo anche codesta circostanza, tralasciando di parlare di que' giorni che trascorsero ancora, senza che avvenisse alcuna cosa di qualche importanza, andiamo un tratto a ritrovare il Malumbra.
X
SPERANZA E DISPERAZIONE,
Il Malumbra, dopo l'incontro avuto coll'Alberigo Fossano, comprendendo assai bene d'esser venuto in odio all'universale, e che la società all'indifferenza aveva aggiunta anche l'offesa, anche egli sentì il bisogno di agguerrirsi più validamente per riuscire a star forte, solo com'era, incontro all'urto di tutti quanti; e presto l'anima gli si venne guastando di tal guisa, che se prima operava il male per un fine, per il guadagno, per la vita dei figli, allora avrebbe operato il male, come suol dirsi, per il male medesimo, per assaporare la vendetta, e l'esclusiva voluttà del martoriare gli altri; il veleno della sua trista natura più mortale che mai non fosse stato, si raddensò nel fondo dell'anima sua, press'a poco come interviene al crotalo, quando è provocato a guerra dagli avoltori e dai corvi. Ma sempre quel suo odio per gli uomini era misura della sua tenerezza pe' suoi figli, e di presente che, fuori dalle anguste pareti della sua casa, non gli era più concesso di trovare uno sguardo amico, senti a più doppi accresciuto l'amore per la sua famiglia; e quando, seduto a desco in mezzo a quelle sue creature tutte rigogliose e piene di salute, li contemplava con una compiacenza di un genere indefinibile, di sotto a que' pensieri, lenta gli usciva questa voce:—Alle vostre spese, io li mantengo, o uomini, che mi bestemmiate.—E tale idea era la sola che metteva qualche conforto nella sua esistenza guasta, diremo così, e putrefatta in ogni parte.
Ma qui finiva ogni sua gioia, e quella considerazione stessa ne portava seco mille altre, ma di un genere ben diverso; e pensando che egli appunto aveva dovuto far ciò che mai non avrebbe fatto, a sostentare la moglie e i figli, pei quali ci voleva pane e pane a rigore di termine, gli entrava tanta molestia addosso che lo traeva alla disperazione, e tanto più che di quando in quando gli veniva il sospetto non fosse mai per mancargli la liberalità della Republica; questo, per altro, era così amaro, così insopportabile, così rovinoso che la sua mente, rigettandolo come impossibile, sforzavasi in vece a fargli dar luogo a speranze di più largo compenso.
Una sera il Malumbra, dopo aver goduto alcun'ora meno infelice, in compagnia della moglie e dei figli, d'improvviso venne colto da questo sospetto: al solito provossi a scacciarlo; ma non gli riusciva, e non riuscivagli appunto perchè essendosi la mattina trovato col senator Barbarigo, aveva sentito da lui alcune parole che lo avevano messo sopra pensiero: considerando però che gli era stato ingiunto recarsi quella sera medesima al consiglio, la speranza che gli poteva venir data qualche nuova incombenza, mandò in dileguo il primo timore. Udito batter l'ora, in cui era solito recarsi a palazzo, si alzò e, ricevuti i saluti della moglie e dei figli, se ne uscì tosto di là.
Giunto in piazza San Marco, essendo l'ora che quasi tutta Venezia traevasi a passeggiare su quell'ampio spazzo, egli si fermò un momento a guardare. Passeggiavano, tra gli altri, e patrizi, e gentiluomini, e senatori, e dottori, e ricchi mercanti, tutta gente a cui il Malumbra soleva volgere assai spesso il suo occhio pieno d'invidia e di livore. Due patrizi gli passarono assai vicino, nel volto dei quali appariva, a chiarissimi segni, una beata vanità mista a molta alterigia. Ed egli potè notare che avvisatamente si erano scostati da lui; gli passarono appresso alcuni senatori, che in un corpo molto adiposo riassumevano le prove difficili a cui erasi messa la loro vita; lo avvicinarono alcuni mercanti ricchi sfondolati, dei quali non era muscolo che non dinotasse egoismo, apatia e peggio. Di tutti questi, coloro che lo conoscevano, saettandogli un'occhiata di traverso, procuravano cansarlo. Ed egli, mettendo il labbro sotto la stretta dei denti, s'accorgeva troppo bene in che conto era tenuto da tutti quanti, e per la stizza diceva tra sè e sè:
—Se la fortuna vi avesse lasciati mai sempre in balia di voi stessi, chi sa che trista canaglia sareste riusciti anche voi, che sulla faccia avete dipinta l'anima di fango! Ringraziate la vostra sorte, che se non vi avesse agguerriti di molt'oro, in benemerenza delle nude virtù che avete, forse a quest'ora, i piombi, i pozzi, i lacci, vi avrebbero detto quel che invero valete.—
Così quel tristo uomo sfogava l'interna ira sua, e a passi lenti, e pur guardando se alcuno lo notasse, si appressava all'adito segreto che metteva nel palazzo dov'erano i Dieci.
Entratovi, salite le scale, quando fu per introdursi nella sala vicina a quella dove i Dieci solevano deliberare, s'incontrò in due arsenalotti, il cui oficio era di condur le gondole della Serenissima Republica. Quantunque fosse a qualche distanza da loro, li udì tuttavia a parlare in questa maniera:
«Questa notte non ci resta a far lungo sonno, e d'ordine degli eccellentissimi a sei ore dovremo star pronti coi remi.»
«Sai tu dove dobbiamo andare?»
«Un tratto a Murano, al convento di Santa Brigida.»
«Che cosa ti diceva il procuratore?»
«Che il remo dovrà lavorare alla sorda, trattandosi di una bisogna straordinaria.»
«Sai tu che sia?»
«Precisamente no; ma ho potuto capire che si ha a condurre qui una donna.»
«Forse qualcuna di quelle buone suore!»
«Chi lo sa?»
Il Malumbra, quantunque in quel momento assai poco gli premesse di quelle parole, non avendo a cavarne alcun partito, pure le intese benissimo, e capì di che donna trattavasi. Diede così sopra pensiero un'occhiata a que' due arsenalotti, ed entrò nell'anticamera del consiglio dei Dieci.
Fermatosi un momento ad aspettare di venire introdotto innanzi ai Dieci, gli rallegrò la fantasia il pensare che in quella sera avrebbe ricevuto dell'oro in ricompensa di un'ultima sua delazione. Dopo molto aspettare finalmente venne chiamato.
Come fu alla presenza di quegli illustrissimi mascherati, sentì farsi molte interrogazioni a cui egli rispose ordinatamente. Dopo scorsero alcuni momenti di perfetto silenzio, ed egli, veduto che non gli si diceva altro, già s'era volto per ritrarsi.
«Aspetta,» gli disse allora una voce. Era la voce del senator Barbarigo, e fu pronunciata in modo che il Malumbra sperò gli venisse dato il prezzo dell'opera sua: dopo quella parola aspetta quei terribili personaggi continuarono a parlare per qualche tempo a sommessa voce tra loro.
Dopo che il Malumbra erasi smascherato in faccia a tutta Venezia, l'eccelso consiglio dei Dieci, veduto che di quell'uomo non era più a cavare alcun utile, ridotto com'era nella condizione di una vecchia caracca, che più non essendo atta a far vela in alto mare, la si spezza a cavarne tutt'al più schegge per ardere, in quell'istante statuiva appunto dargli licenza e rimandarlo per sempre.
Dopo qualche tempo infatti, gettata dalla mano del Barbarigo, cadde ai piedi del Malumbra una borsa che egli raccolse senza esitare, aspettando nuovi comandi.
Ma in vece dei nuovi comandi il Barbarigo soggiunse:
«Quelli che tu hai raccolto, sono gli ultimi danari che la Republica ti dà. Ella non vuol più valersi dell'opera tua: cercati un altro pane.»
Il Malumbra non disse parola….
Per quanto codest'uomo che abbiamo innanzi sia degno del più profondo disprezzo, e considerati i danni irreparabili che recò a tanti buoni, ne desti orrore e raccapriccio, pure sarebbe un dissimulare con noi medesimi, se si negasse che quest'uomo, come uomo, non possa destare alcun moto di compassione pensando alla sua condizione orribile. Ogni qualvolta che un cuore si spezza sotto i colpi di una sventura inaspettata, e lo spirito è disfatto da un'angoscia insopportabile, chiunque pur sia l'uomo, nel quale un simil fatto si verifica, avrà pur sempre diritto alla nostra pietà. Si dimentica in quel punto qualunque rapporto ch'ei possa avere con altri, la sua tristizia, i suoi delitti; tutto si dimentica, e non si vede che lui, creatura nuda ed infelice.
Il Malumbra non potè uscire da sè, un agente segreto di quel consiglio lo dovette condurre fuori. Disceso il Malumbra nel cortile, avanzatosi sulla piazza, respirato l'aria aperta, la mente fatta ottusa e buia a tutta prima, gli si rischiarò un tratto, s'accorse in quel momento della borsa che gli era stata gettata, e che egli, senza pure saperlo, aveva sempre tenuto stretta nella mano convulsa. Il pensiero che quelli erano gli ultimi danari, che dopo un mese di tempo o poco più, la miseria ancora avrebbe incalzato lui e la sua famiglia, che si sarebbe ancora trovato in quello stato per fuggire il quale non aveva sentito orrore dell'infame suo mestiere, che la fame avrebbe smagriti i corpi de' suoi figli, della cui floridezza cotanto si compiaceva, e in ultimo che alla miseria veniva compagno l'odio universale, lo fece venire in una terribile risoluzione.
Drizzò i propri passi, così furibondo com'era, alla riva del mare, sali su d'un sasso che sporgeva sull'acque, protese le braccia, guardò in giù, e…. s'arrestò tutt'a un tratto, rinculò, discese ratto, e si diede a fuggire come da un nemico che lo inseguisse. Arrivato sulla piazzetta di San Marco, forse per l'affanno insopportabile che gli coprì il cuore al tutto, cadde stramazzone sulle pietre, nè potè rialzarsi per allora.
Alla sua caduta alcuni accorrono; è riconosciuto.
«È il Malumbra,» si grida, «è qui che par morto.»
«Sia maledetta la mano che tenta rialzarlo!» dice uno.
«Se non è morto s'ammazzi,» grida un altro.
«No, nessuno lo tocchi, ch'egli è più contagioso della lebbra,» grida un terzo, e l'uno dopo l'altro tutti dileguarono, e il Malumbra fu lasciato là.
In questo frattempo Alberigo, che più non aveva potuto portar solo il doloroso suo segreto, erasi recato da un confidentissimo amico suo, che aveva stanza in Venezia come segretario dell'ambasceria del Conte di Virtù; a colui, richiedendolo di consiglio e d'aiuto, aveva narrati per intero i propri casi, e il pericolo in cui si trovava, e come non gli era mai bastato l'animo d'aprirsi coll'ammiraglio Candiano. Quel buon amico com'ebbe udita ogni cosa, fu tanta la maraviglia e lo spavento di che fu colpito, che in vece di trovar modo a confortare il povero Alberigo, gli fe' sentire com'era grave, più grave ancora di quello che egli medesimo potesse pensare, lo Stato in che si trovava.
«Va,» gli diceva, «corri tosto dall'ammiraglio, e narragli ogni cosa, che forse potrebbe trovare alcun provvedimento, e se tutto è perduto per la donna che tu dî, trovar modo di salvar te e lui, che guai se i Dieci vi raggiungono!»
«Credi tu dunque,» replicava il Fossano, «che la cosa sia così disperata?»
«Argomentando da quello che tu m'hai detto, è al tutto impossibile che qui non ci covi sotto qualche terribil cosa, e ti consiglio a far presto.»
Alberigo davasi a passeggiar per la camera, e,
«Tristo me,» andava dicendo, «a che dura condizione ho io mai trascinato costoro? Potessi almeno sapere dov'ella è di presente? Vederla, parlarle un momento, e poi avvenga pure quel che vorrà l'inesorabile sorte mia; ma parlarle un momento, e vederla.»
E allora si fermava cogli occhi vitrei e fissi come in un oggetto, e in tutti i muscoli del viso che gli guizzavano manifestamente, si dipingeva la lotta terribile de' suoi affetti. Ma l'amico non faceva che ripetere:
«Va a raccontar tutto all'ammiraglio, va e fa presto.»
Così che il Fossano dovette acconciarsi a ciò, e detto addio all'amico, e raccomandandogli il segreto, si tolse di là: deliberato di recarsi tosto dall'ammiraglio, uscito sulla piazzetta, e preso la diagonale per poi riuscire sulla gran piazza di San Marco, per caso venne ad inciampare nel corpo del Malumbra, che ancora era là disteso; ed egli toccando così all'oscuro, e sentito ch'era un uomo, quantunque avesse la mente e l'animo altrove, pure, come pietoso, pensò recargli alcun soccorso.
L'alzò adunque di peso, e per vedere chi fosse, lo venne strascinando presso una lampada che ardeva innanzi ad una statuetta di Nostra Donna. Quella scossa aveva fatto aprire gli occhi al Malumbra che già alcuni momenti prima s'era risentito, e nel momento che il Fossano, riconosciutolo, fu a un punto di lasciarlo cader stramazzone sulla nuda pietra, egli potè riconoscere il giovane che già movevasi per partire. Riconoscerlo e ritornare all'intera cognizione del proprio stato, e afferrargli il mantello a trattenerlo, fu un momento solo, e per quanto il Fossano procurasse sprigionarsi, pure la forza convulsa delle sue mani riuscì a fermarlo. Il Fossano d'altra parte colpito dalla pallidezza sepolcrale e dagli occhi stravolti del Malumbra, ristette un momento a guardarlo pensoso. Allora il Malumbra, con una voce che lentamente e come da un luogo fondo venivasi svolgendo,
«Aspettate,» gli disse, «aspettate.» E vedendo che Alberigo faceva tuttavia il potere per allontanarsi da lui,
«Valenzia,» disse, tanto per fermare più vivamente l'attenzione del giovane; «è da un mese che voi andate in cerca di lei, e sempre inutilmente; fermatevi dunque, ed io vi dirò tutto: da un'ora fa a questo punto si sono cambiate assai cose; fermatevi che ne avrete a benedire la vostra fortuna.»
Il Fossano, come il lettore può ben credere, non sapeva indursi a prestar fede alcuna al Malumbra, pure fosse la confusione della sua mente, fosse la disperata condizion sua che lo forzava a prendere qualunque partito, si fermò. Allora il Malumbra gli si fece più accosto, e presolo per un braccio con una pressione convulsa e quasi furibonda,
«La maledizione e i fulmini di Dio possano cadere una volta colà.» E ciò dicendo additava il palazzo ducale. «Iddio porti là dentro lo sterminio, e punisca gl'infami a cui è affidata questa sventurata Venezia e noi tutti; ma abbia pietà di voi, giovane sventurato, che per volere di que' tristi ho saputo strascinare in un'insidia d'inferno. Abbia pietà di me pure, e conceda che io possa prestarvi aiuto a salvare la donna vostra, che da due mesi io so dove se ne sta a piangere e a disperarsi.» E levata la mano destra trinciava l'aria come a dinotare un luogo lontano: «Là, nel convento di Santa Brigida a Murano,» soggiungeva indi a poi, «e in questa notte, Dio ci dia aiuto; da quel convento verrà condotta qui in una gondola, e passerà il Ponte dei Sospiri: se a voi: se a me non riesce trarla in salvo, non c'è più speranza, ella sarà condannata insieme a suo padre, e moriranno.»
Quest'ultima parola la pronunciò squassando il braccio ad Alberigo, che dal capo alle piante si sentì scorrere un brivido in quel punto, e tremò come per sensazione di freddo insopportabile. Passò così un momento di silenzio profondo in cui Alberigo, senza dir parola, guardava fisso il Malumbra, e questi guardava lui come in aspettazione di una risposta. In quella la campana di San Marco suonò sei ore, e l'oscillazione prolungata rimbombò nel ridato della piazzetta.
«Sono le sei,» disse allora il Malumbra, scuotendosi e traendo seco il Fossano. «Non è tempo a perdere. Andiamo.»
Quantunque Alberigo non avesse ancora potuto vincere al tutto il timore d'un'altra insidia, tuttavia le parole del Malumbra, le sue imprecazioni contro i Dieci, e l'accento pieno di furore onde le aveva pronunciate, l'avvisarono che doveva essere avvenuto un cangiamento notabile nell'animo di colui, e senza pensare più in là, come l'uomo che più non teme pericolo di sorta, si lasciò condurre fino all'ultimo lembo della piazza di San Marco. Assicurata ad un piccol molo, aveva il Malumbra colà una sua gondola. L'additò ad Alberigo, dicendo:
«Con questa ci recheremo a Murano: se la fortuna ci vorrà giovare, a voi non resta che menar le mani, e farvi largo con la spada e il pugnale. In quanto a me, vedrete che non mi manca coraggio.»
Pronunciando queste parole, saltò il primo nella gondola, e Alberigo gli tenne dietro così stupido e attonito, che, per verità, non sapeva veramente quel che si facesse.
Nel momento che la gondola si allontanava dalla riva, tre persone che per qualche tempo erano state ferme in crocchio in un canto della piazza, s'inoltravano verso la riva: erano il Visconti e il Gritti accompagnati dal Bronzino, che esciti allora allora dal palazzo di un patrizio, attraversavano la piazza.
Dice il Visconti al Bronzino:
«Li hai tu veduti? È ben egli il Fossano, colui che saltò in questo momento nella gondola?»
«Non vi siete ingannato; e l'altro sapreste voi chi sia?»
«Poco m'importa di saperlo.»
«È un galantuomo che si diletta a suggere i segreti altrui per poi rigurgitarli dove gli par meglio; del resto non so che cosa abbia a fare con quel giovane cavaliere, e come tra loro ci possa essere tanto accordo in questo momento, mentre l'altro dì fu il Fossano stesso che in faccia a tutta Venezia lo tamburò per ispione.»
«Messer Gritti,» disse allora il Visconti, «tu m'hai detto un dì che questo giovinastro non ti va niente niente per la fantasia, e che a vendicarti anche dell'ammiraglio, che lo ha caro più che gli occhi suoi, aspettavi un'occasione di segnarlo per tutta la vita; se l'occasione non vien per sè, bisogna farla venire, amico caro, ed oggi io sarei tentato di fargli uno sfregio.»
«Egli è una creatura dell'atroce Galeazzo.»
«Ed è per ciò che mi prendo pensiero di questo giovane: offendendo lui, faccio offesa anche a quel ribaldo di mio cugino.»
«Quand'è così, andiamo, e il destin faccia che questa sia la mala notte per colui, e per l'ammiraglio che gli vuol bene.»
Così fermato, senz'altre parole, messisi in uno schifo, presero anch'essi il largo sulla laguna.
La gondola intanto ove trovavasi il Fossano, correva rapida sulla superficie assai calma delle acque, nelle quali riflettevasi un bellissimo cielo d'un azzurro tutto stellato; il Malumbra lavorava col remo con sì potente e infaticabil lena, che pareva fosse il navicello sospinto da dieci braccia, anzichè da un uomo solo. E il desiderio di mandare a vuoto i provvedimenti dell'eccelso consiglio che lo aveva ributtato come inutile stromento, accresceva a più doppi le sue forze, nè il pensare che il Fossano era stato la prima cagione della sua caduta, lo faceva rimanere dal recargli quel sì potente soccorso, che in que' primi istanti l'intensità dell'odio che sentiva pei membri del consiglio, escludevano al tutto ogni altra passione. In quanto ad Alberigo, trascorso quel primo momento d'attonitaggine e maraviglia, essendosi fatto capace che nel Malumbra era una volontà sincera di giovargli, e dopo quasi due mesi trascorsi in una spasmodica incertezza, avendo sentito da lui per la prima volta ove trovavasi la sua Valenzia, guardava di tratto in tratto la figura del Malumbra con un certo senso di gratitudine, che lo faceva pentito dell'ingiuria fattagli alcuni dì prima. Versando in questi pensieri, dopo un quarto d'ora, giunsero in veduta di Murano.
La più bella luna che mai potesse splendere, rischiarava il monastero di Santa Brigida di guisa che un occhio acuto avrebbe potuto veder l'ore alla torre della chiesa vicina. Era mezz'ora dopo mezzanotte, il Malumbra drizzò la prora ad un seno che si apriva entro terra, e qui, puntando il remo, si fermò; la quiete dell'ora non era interrotta che da quel suono intermittente che fa il mareggio dell'onda, dal soffiare ineguale del vento, e di quando in quando da qualche rumore indistinto che veniva da lontano. Il Malumbra, che teneva l'occhio sempre volto al monastero, non udendo cosa alcuna che potesse dare indizio di quanto si attendeva, nè udendo nulla che pur si agitasse su quella vasta superficie, dubitò forte non avesse mal comprese le parole degli arsenalotti, e si morse le labbra pensando d'aver troppo detto al giovane che gli stava presso, il quale, di ragione, doveva tutto ripromettersi in quel momento.
Il Fossano in fatti non sapendo che si pensare, e colto da un impeto d'impazienza,
«E così,» disse, «che stiamo aspettando qui?» E nulla potendo rispondere il Malumbra. «Oh! il mare,» soggiungeva, «ne potesse ingoiare ambidue in una volta, e farla finita. Oh! dî, tristo, che cosa aspettiamo qui?»
Appena ebbe il Fossano cessato di parlare, in quel silenzio spiccaron nette, a qualche distanza, alcune voci, e mentre ambidue tendevan meglio l'orecchio, dalla parte anteriore dell'isoletta usciva lesta lesta una gondola.
«È quella senz'altro,» disse il Malumbra allora, con voce repressa. «Se avete coraggio, è tempo di farlo vedere. Andiamo, che in quanto a me sarà la prima azione della quale mi potrò lodare nella mia vita vituperata. Così là dentro un solo ci fosse, uno almeno di que' tristi ipocriti, che il mare non sarebbe troppo fondo per lui, e lo manderei all'inferno con un colpo solo.»
Nel pronunciar queste parole si spinge in alto per raggiungere la barca che si allontanava dal monastero. Chi stava alla direzione di essa, non avendo un sospetto al mondo, eseguiti come aveva punto per punto gli ordini del consiglio dei Dieci, quantunque vedesse che la gondola moveva alla loro direzione, pure continuava placidamente il suo viaggio. Pervenuti a poca distanza il Fossano potè vedere che quattro uomini con mantel nero e rosso giubbone trovavansi in quella barca. Due se ne stavano in piedi senza far nulla, gli altri attendevano al remo.
Dice al Malumbra:
«Sono essi?»
«Sì, facciam presto, assaliamoli a man salva, prima che s'accorgano di nulla.»
«Coraggio dunque.»
«Badate che la donna sarà sotto il felze.»
«Bene.»
«Ora attento, che con una remata me li porto appresso di slancio: fuori la spada.»
La prora della gondola del Malumbra urtò allora con molta forza nel fianco della barca della Republica: gli arsenalotti, i quali non si aspettavano quell'incontro, e credendo non fosse altrimenti che una remata data in falso, si volsero alzando la voce, si volsero in quella che il Fossano, colla spada in alto saltò nella loro barca gettando in mare con un potente punzone il primo che gli si parò innanzi, mentre il Malumbra percosso un altro con un remo in sul capo, lo stordì al punto da farlo cadere esso pure nel mare. L'assalto fu tanto improvviso, che i due che rimasero in piedi, non poterono per nulla opporsi al Fossano, il quale si cacciò con sì gran furia sotto il felze, che la Valenzia, (era proprio essa, nè avevano colto in fallo,) già intimorita com'era, mandò un grido acutissimo.
«Son io, Valenzia,» disse allora il Fossano, e senza più altro strettala fra le braccia, se ne usciva fuori colla spada in alto.
Tutto questo avvenne in men che non si dice, tanto che al Malumbra era rimasto il tempo di difendersi contro i due. Quando vide uscire il Fossano col corpo della donna fra le braccia, fe' girare a tondo la gondola, gridando:
«Fate presto, saltate qui.»
Ma gli si oppose col pugnale chi vegliava la barca. Il momento era terribile, che la Valenzia, svenuta alla vista del Fossano, gli pesava fra le braccia come morta, pure tutta la sua virtù raccolse in quel punto, e si venne aiutando così bene, che, riuscito a metter sotto chi gli si opponeva, saltò nella sua gondola a canto al Malumbra, il quale, senza pensare ad altro, si volse a rapidissima fuga.
I due arsenalotti che stavano nella barca, non si rimasero però, e arraffati i remi con una velocità straordinaria si diedero ad inseguirli.
«Mettete giù la donna,» diceva intanto il Malumbra con voce affannata al Fossano, «e prendete il remo voi pure: su presto, che quei tristi impiccati ci stanno alle coste. Va bene così.»
Ed erano così potenti i loro colpi, che anche per la gondola che li portava assai più leggiera della barca della Republica, venne lor fatto di allontanarsi per gran tratto dagli arsenalotti che tuttavia li seguitarono con una lena infaticabile. Durò quella gara un quarto d'ora buonamente, e gli uomini della Republica s'erano accostati di tanto che gli inseguiti temettero il peggio.
«Aspettate,» disse allora il Fossano, «fermiamoci di botto, e lasciamo che la barca ci passi accanto, Appoggerò intanto ad un di loro, che non se l'aspetta, tal colpo in sul capo che lo getterò in mare come l'altro.»
Così fece e l'intento gli riuscì con tanta fortuna, che la barca della Republica dovette fermarsi, ed essi poterono darsi ancora a rapidissima fuga.
L'arsenalotto, rimasto solo a quel modo, soprastette in forse di quel che si dovesse fare…. ma, per caso, in quel momento, gli venne veduta, a non molta distanza, una gondola che si moveva quetamente sul mare. Gridò al soccorso con quanta voce potè metter fuori, e per avventura essendo stato udito, presto la gondola gli si accostò.
Il Visconti e il Gritti, messisi in mare col fine di tener dietro al Fossano, ed a vedere dove s'avviasse di quell'ora, accompagnatolo a molta distanza, l'avevan perduto di vista, e già si ritornavano pensando di non farne altro, quando furono chiamati dall'arsenalotto; questi raccontò loro il tutto in breve e con parole che manifestarono assai bene a que' due ribaldi, che nella gondola fuggitiva si trovava appunto il Fossano col Malumbra.
«Vieni dunque con noi,» dissero all'arsenalotto, «e, sol che ci venga fatto rintracciare la gondola, riavremo quel che tu hai perduto.»
A molta distanza si vedeva spiccar nettamente come un punto nero sul mare assai ben rischiarato in quella notte dagli splendori lunari: grida l'arsenalotto:
«Guardate… è là… ma è troppo lontana.»
«Non abbastanza,» gridò l'Attilio, con una compiacenza infernale; «su, presto, cinque remi fanno assai più che due, e penso che a quest'ora dovran essere ben stracchi. Anche voi, Visconti, ecco il vostro remo.»
Così fu fatto, e quelle dieci braccia diedero una spinta sì veloce ai navicelli, che in poco tempo poterono distinguere assai bene la gondola del Malumbra che già volgevasi a riva….
La Valenzia s'era riavuta, e il Fossano non potè dominarsi così che non lasciasse cadere il remo, ad abbracciarla, a guardarla, a parlarle. Oh! quella consolazione inaspettata, immensa, suprema, avesse tanto agitate e scosse quelle due anime lassate da sì lunga angoscia, da farne durare l'oscillazione eternamente!… Ma il suono delle loro parole venne coperto da due voci terribili che li fecero gelare ambedue, e da un colpo di remo che cadde colla rovina di uno spadone a due mani, a fracassare il fianco della gondola. In quella la mano del Gritti aveva già afferrato il Fossano pel lembo della sua cappa, e il Visconti stese la sua sulla Valenzia, la quale, attaccata tenacemente al Fossano, non si potè dividere da lui, senza lo sforzo unito di più braccia. Il Fossano riconosciuto il Visconti e il Gritti, e accortosi d'essere assalito da cinque uomini, si tenne perduto: pure con un coraggio che solo può aggiungere la disperazione, si dispose a far testa a quegli assalitori: ma sendo la lotta troppo ineguale, nel momento che spossato dall'eccessiva stanchezza, rallentò la tensione del braccio con cui teneva stretta Valenzia, questa gli fu di un tratto strappata d'appresso, e portata di peso nella barca della Republica. Il Fossano allora mandò un grido di una tal natura, che fe' a tutti, anche al Gritti ed al Visconti, rizzare i capegli d'orrore in sulla fronte, e cadde di piombo sul fondo della gondola, come se qualcuno gli avesse in quel momento cacciata una daga in cuore, e fu nel punto medesimo che il Malumbra, avendo tentato un partito disperato, ebbe un colpo di remo sulla testa che lo fece ricadere esso pure a battere la testa sulla sponda della gondola, e, lasciatisi uscir di mano i due remi che caddero in mare e tosto furon tratti seco dall'onde, colà giacque come morto.
Gli assalitori, veduto che non era altro a fare, pensarono partirsi. La Valenzia che in quel trambusto non era stata raffigurata dai due ribaldi, fu messa sotto il felze, indi con quattro colpi di remo fatta muover la barca, si allontanarono di conserva. Il rumore dell'acqua, lo stridere dei fianchi delle barche, le grida lamentevoli e intermittenti di Valenzia, continuarono a farsi sentire per qualche tempo; ma come furono a una certa distanza, non s'udì più nulla, e in quel tratto di mare tornò a stendersi un profondo silenzio.
La gondola intanto ove trovavasi il Fossano e il Malumbra movevasi così in balia delle acque, e passò molto tempo prima che i due facessero un sol movimento. Il Malumbra si giaceva sul fondo, e il Fossano tenendo disperatamente gli occhi rivolti al cielo, se ne stava ginocchioni verso prora come trasognato.
L'espressione del suo volto e di tutta la sua persona in quel momento, la natura de' pensieri che gli cozzarono in mente allora, non sono cose che si possono descrivere, bisogna sentirle, bisogna immaginarle e nulla più.
Passato così qualche po' di tempo, il Malumbra cominciò a riaversi da quella potente percossa, e si veniva alzando sui gomiti rendendo immagine di chi si desta da un sonno profondo, e guardava attonito gli oggetti che gli stavano intorno, se non che il suo occhio cadde sul Fossano, e vi si fissò con una terribile immobilità, nè c'era verso che ne lo volesse rimovere un istante, e ciò che è stranissimo a credersi, quasi per virtù d'incanto, anche Alberigo attratto irresistibilmente da quella pupilla luccicante e immobile, cominciò a fissarvisi anch'esso, nè a lui pare era concesso di poternela sviare un momento. La luna intanto, placida e indifferente come il mondo che segue in suo viaggio, rischiarava quelle due pallide figure. Lo schifo si moveva così in balia dell'onda, e girava e rigirava intorno a sè senza che si allontanasse d'un punto da quel posto: non era un suono che dinotasse resistenza di un essere animato, soltanto udivasi un indistinto mugolío, e a qualche distanza come un monotono gorgheggio che accompagnato dal sordo mormorare dell'onde, rendeva un'armonia così tetra che mai la maggiore, ed era il chiurlo che dalla cima di uno scoglio rompeva i silenzi della notte colle sue triste cadenze; ma quelle due figure, le cui facoltà erano rimaste quasi sospese per qualche tempo, rinacquero a poco a poco, finchè, come la primissima favilla di luce che spriccia dal sole eclissato, scorso appena il momento dell'oscurità totale, le saettò improvviso il sentimento della loro sventura, e inabissò quell'anime in un dolore profondo, intenso, insopportabile, quale idea non sa comprendere.
E il trovarsi in quel momento essi soli in mezzo a tanto silenzio al cospetto l'uno dell'altro, mentre la loro condizione e i vicendevoli rapporti, e gli eventi avrebbero dovuto tenerli eternamente discosti, suscitò ne' loro animi tale un sentimento che li comprese di spavento e d'orrore. Ambedue erano in quello stato estremo di miseria e l'uno per colpa dell'altro a vicenda. Un odio implacato, un'ira di disperazione, un sentimento unico del quale non possiamo farcene idea noi che non fummo nei loro panni, li teneva disgiunti l'uno dall'altro, li respingeva con una spaventevole prepotenza; eppure a quell'odio, a quell'ira, a quel non so che così terribile e senza nome, si mesceva un tal senso di gratitudine per una parte, di compassione dall'altra, abbastanza forte perchè in tanta irosa disperazione non si gettassero l'uno su l'altro a sfracellarsi a vicenda. Il Fossano aveva perduta la donna sua per la tristizia del Malumbra; ma per opera di costui l'avrebbe pure ricuperata, se i destini fossero stati più secondi. E Venezia non avrebbe saputo chi era il Malumbra, nè i Dieci l'avrebbero così duramente licenziato, se il Fossano non l'avesse smascherato in faccia a tutti; ma egli pure l'aveva tratto nell'infernale insidia, e di presente il giovane era così infelice per lui, e per lui unicamente. Tutte queste idee in confuso miste alle più tormentose, alle più desolanti, rombavano nella mente attonita di quei miserabili; ambedue versavano allora in una di quelle lutte orribili dell'anima che bastano a depennare molt'anni dalla vita di un uomo. a fiaccare, a spezzare una esistenza di un colpo solo.
Alla fine il Fossano uscì gridando in alcune disperate parole che non avevan senso in sè stesse; ma che sole potevano esprimere la natura del suo dolore, poi chiamò iteratamente la Valenzia per nome, e le ultime sillabe di quella parola venivano ripercosse a molta distanza dalle mura del monastero, talchè pareva che quella sventurata gemesse una risposta abbandonata in quelle triste solitudini. Quando tutt'a un tratto, il Fossano, troncando quei lamenti, si voltò improvviso, come scagliandosi sul Malumbra,
«Per te,» gridando, «per te, o mostro, io soffro queste pene d'inferno. Ora va; tu mi metti orrore.» E afferravalo pel mantello quasi a gettarlo in mare.
Il Malumbra si riscosse a quell'atto; fino a quel punto egli era stato concentrato in un solo pensiero, nulla aveva udito dei lamenti, delle grida, delle imprecazioni d'Alberigo. Aveva pensato alla sua moglie, ai figli, alla miseria irreparabile che loro stava sopra, ai Dieci, a Venezia, a colui che era stato la cagione del suo danno.
La figura dell'Alberigo che aveva innanzi, allora gli si fece più orribile che mai. L'odio che un momento prima gli aveva fatto bestemmiare i Dieci, non pensando alla causa per cui l'avessero scacciato, gli si raddensò in cuore mutandone l'oggetto, e uno scoppio violento di sdegno lo sconvolse, lo tramestò in quel momento istesso che il Fossano gli si scagliava contro.
«E tu,» disse, «tu sei un mostro. Piangi, grida e ti dispera, che l'angoscia tua non è la millesima parte di quella io vorrei che tu provassi. Ma i lamenti e le lagrime de' miei figli innocenti, che per te patiranno inedia e fame, ricadranno sul capo tuo, e tu vivrai, te lo predico, disperato per sempre.»
A questo scongiuro così intempestivamente proferito, il Fossano, esaltato da un pazzo furore, colla mano convulsa e aggranchita, impugnata la daga che aveva accanto, Dio gli perdoni il delitto, diede un colpo potente al Malumbra, che cadde arrovesciato. All'ira, al colpo, alla caduta, al lamento che mandò colui fu presto il pentimento nel buono Alberigo, e,
«Oh Dio!» disse, «che ho io fatto?» E cacciandosi le mani fra i capegli, tacque inorridito, e tutto ritornò in silenzio.
Un gruppo di nuvole, che un momento prima aveva coperta quella scena orribile, lasciò liberi i raggi della luna, che dardeggiarono sul corpo insanguinato del Malumbra, il quale, caduto colla testa sul fondo della barca, nè avendo forza di alzarsi, per un pezzo continuò a mandare singhiozzi gemebondi, poi tra l'uno e l'altro singhiozzo alcune parole tronche, smozzicate che non venivano a dare alcun senso. Ma come la vita fu alle ultime strette, ed egli tentò quegli sforzi, coi quali chi è all'estremo termine sembra che voglia divincolarsi dalla morte, saltatogli un forte delirio usci in alcune parole d'imprecazione e di bestemmia, che veniva emettendo interrottamente, e quando i singhiozzi e l'affanno gli lasciavano per un momento libera la voce:
«Io? perchè io?… perchè con me…. non tutti? Del male…. sì…. ne ho fatto…. l'hanno voluto però…. Sei mesi d'inedia, tre giorni di fame…. fame…. e colui si morde le mani per una donna perduta!»
E qui taceva e s'andava contorcendo, e faceva mille atti che non si poteva comprendere cosa volesse indicare, poi ripigliava con più di furore e delirio:
«La bocca del leone…. Oh! maledetta la sorte mia! Dico…. Nessuna pietà di me…. colui che mi scacciò…. ho accusato quel mostro…. il primo danaro…. ahi!… Cristo!… Maledetti i danari…. Ed io…. ahimè!» e replicatamente nominava i figli: «Piero, Margherita, Anselmo…. e non avran più pane fra poco…. e voi…. voi…. maledetto…. maledetto per sempre!»
E così continuò per un pezzo sino a che la vita lo abbandonò.
Il Fossano, finchè la facoltà del suo spirito rimasero così percosse, così ammortite, da non lasciargli comprendere dove si fosse, stette immobile nella gondola; ma poi, come si riebbe dalla sua stupida maraviglia, non potendo sopportare il ribrezzo di stare così vicino ad un corpo morto, tastò colle mani sul fondo della gondola per vedere se gli venisse mai fatto di trovare un remo. Tornatagli inutile questa ricerca, alla fine gli venne in mente di gettarsi a nuoto, e senza più mise in atto quel disperato suo disegno.
XI
RICONOSCIMENTO
Intanto che avvenivano queste cose, la barca della Republica s'affrettava verso la riva. Attilio ed il Visconti avevano adagiata la Valenzia su alcuni cuscini sotto il felze, quando era caduta priva di sensi: per l'affanno assiduo di più d'un anno e, in quegli ultimi giorni, per le ansie, gli spaventi e le angustie d'ogni sorta, avendo peggiorato a furia, la Valenzia s'era venuta assai mutando nelle sembianze, e il Visconti non aveva saputo riconoscerla. Bensì per que' resti di somiglianza, che a chi la guardasse a lungo, si venivano svolgendo anche sotto la sepolcrale pallidezza, il Visconti non sapeva un momento toglierle di dosso lo sguardo, gli pareva e non gli pareva, e preso il lampione ch'era appeso sotto il felze, lo accostò al volto della giovane per osservar meglio, e,
«Per verità,» proruppe, «che costei somiglia a Valenzia!»
«Ed è Valenzia di fatto,» gli diceva il Bronzino, che in quell'istante era entrato sotto il felze. «Voi non avete mai voluto credere alle mie parole, che costei non era già morta.»
«Oh! adesso comincio a credere;» ed alzava i capelli d'in sulla fronte della giovane.
«La notte che doveva essere trasportata nelle tombe di San Cristoforo della Pace, ebbe in vece l'anello da quell'Alberigo Fossano che testè abbiamo lasciato in mezzo alla laguna. Vi deste a credere ch'io v'avessi voluto vendere vesciche e menzogne; ma ora sarete ben capace del vero.»
«Dunque questa ipocrita Republica, che ora mi annoia con tante cortesie, volle farsi giuoco di me, e mi raggirò con indegnissimo inganno.» Qui il Visconti chiamava il Gritti che se ne stava fuori a prender l'aria della notte.
«Conosci tu questa donna?» gli disse il Visconti come se lo vide presso.
Il Gritti gettava gli occhi su Valenzia che già cominciava a risentirsi, e guardatala ben bene,
«Per san Marco,» disse, «che costei non mi riesce nuova alla vista…. ma pure io non so chi sia.»
In quel momento la Valenzia apriva gli occhi, e quella soave guardatura che tanto le era caratteristica, rischiarò nella memoria del Gritti le bellissime sembianze che una volta aveva cotanto fermati anche gli sguardi di lui, e se avesse saputo che Valenzia non era altrimenti morta, non avrebbe tardato un istante a dire:—Costei è la figlia di Candiano;—ma in vece, tornato a riguardare la sventurata, e dopo essersi affannato un pezzo a raccogliere delle sparse ricordanze,
«Costei,» tornò a ripetere, «non mi riesce nuova alla vista; ma pure non so chi sia.»
«Guardala meglio,» ripeteva il Visconti, «guardala meglio, e vedrai ch'ella è la figlia di Candiano.»
Il Gritti, a quelle inaspettate parole, fece un movimento che non si può descrivere, e tornò a guardare Valenzia, e allora gli parve di fatto che in quanto a somiglianza non ne scattasse un filo; ma soprastato un pezzo, e alla fine scrollato il capo:
«Sei pazzo, amico, il tempo de' miracoli è passato.» E faceva per uscire.
«Ti dico ch'ella è Valenzia, figlia dell'ammiraglio Candiano,» tornava a ripetere il Visconti, fermando il Gritti pel lembo della sopraveste. «Costui ti farà capace,» soggiunse additando il Bronzino, «solo mi pesa che la Republica abbia voluto prendersi un tristo giuoco di me; ma per l'anima del terribile padre mio, ne prenderò vendetta.»
In questo mentre, tornando a poco a poco il senso a Valenzia, la prima memoria che la percosse fu quella del Fossano…. del padre…. e le tronche ed interrotte parole che pronunciò così tra labbro e labbro, furono tali che poterono assicurare tanto il Visconti quanto il Gritti ch'essa era la vera figlia di Candiano.
Allora Attilio, associando insieme tante idee e tanti fatti sparsi, e ricordandosi di alcune misteriose parole che spesso il Barbarigo gli aveva dette sul conto di Candiano, le balzò in mente un'idea, e in parte potè congetturare com'era veramente il fatto. Una sola cosa non riusciva a comprendere, ed era l'elezione dell'ammiraglio al dogato, mentre il consiglio de' Dieci, dal momento che Valenzia veniva condotta in una barca della Republica, doveva pur sapere ogni cosa punto per punto; ma le parole misteriose del Barbarigo, che non aveva mai potuto comprendere, non avendo neppure un dato per rintracciarne il valore, ora che quel dato più non le mancava, le tornavano chiarissime alla memoria, e conobbe per intero la trama, e d'una gioia insolita senti tutto accendersi il sangue:
«E ci sei colto,» proruppe quasi gridando, «ci sei colto, o tristo; addio scettro, addio corno ducale, addio tutto.»
Il Visconti e il Bronzino si volsero a guardare maravigliati il Gritti, non comprendendo per niente il senso delle sue parole. Ma il tristo li seppe far capaci di tutto, e voltosi poi al Visconti:
«Io non comprendo perchè tu abbia a lagnarti della Republica, che ti è larga di tanti favori, e a credere opera sua un inganno che ella…. come potrai vedere, punirà con tutto il rigore. Non è già la Republica, ma l'ammiraglio Candiano che ha voluto farsi giuoco di te…. e il Candiano sconterà la pena della legge.»
Valenzia erasi oramai risentita abbastanza per comprendere quel che si diceva…. e sentito il nome del padre…. e la minaccia di una pena, si rizzò così sulle ginocchia, e si volse al Visconti e al Gritti in atto di supplicarli; ma la tinta assai truce di que' volti, le arrestò la parola sulle labbra, e guardato meglio il Visconti, e riconosciutolo, mandò un altro grido e ancora ricadde sul fondo della barca.
Questa intanto era giunta a poca distanza della riva, e l'arsenalotto s'affrettava coi remi a rimediare al molto tempo perduto.
Gli dice il Gritti:
«Dove hai da condurre costei?»
«Nella sala dei Dieci, messere.»
«Dove sei andato a prenderla?»
«Al convento di Santa Brigida.»
«Gli era un pezzo che costei trovavasi in quel luogo?»
«Di tutto questo non so nulla, messere, perchè il capo arsenalotto, che ci conduceva e aveva l'ordine scritto, ebbe un maledetto colpo di remo sul capo da quel tristo spione, che ho conosciuto benissimo, e cadde riverso nel mare.»
A queste parole che il Visconti potè sentire, comprese che Valenzia versava in gravissimo pericolo, e che sarebbe stata punita dell'avere, d'accordo col padre e col Fossano Alberigo, ingannato la Republica, e quantunque la pietà non fosse in vero delle sue doti la principale, se pure ne aveva ombra, tuttavia essendogli già piaciuto fieramente quel volto, troppo gli rincresceva che di presente gli sfuggisse ancora quella, che per un caso stranissimo eragli capitata fra le mani. D'altra parte gli restava ancora un mezzo a vendicarsi del Fossano, che tanto aveva in uggia, e di lei che così manifestamente aveva mostrato avere in odio il nome Visconti…. però voltosi al Gritti,
«E così,» gli domandò, «che provvedimenti prenderà per costei l'eccelso consiglio dei Dieci?»
L'Attilio si strinse nelle spalle, e rispose:
«Gravissimi provvedimenti; se la cosa è, com'io credo che sia, ella, in uno al padre suo, è rea d'aver tradita la patria.»
«La cosa è ben altro che da celia.»
«È da patibolo, caro mio, e non si vorrà andar per le lunghe, e tu sarai vendicato appieno.»
«In quanto a me,» rispose il Visconti, «non me ne importerebbe gran fatto…. e quando trattossi di vendette, mi è sempre piaciuto farle io medesimo.»
«E così?»
«E così trovomi pentito assai d'aver dato aiuto a queste cappe rosse….» e additava l'arsenalotto.
«Cosa avreste voluto fare?»
«Quello che farò ora.» E preso l'arsenalotto per la cappa, «Ferma,» gli disse, «e torna indietro.»
Il Gritti, non volendo credere a sè stesso, lo guardava maravigliato, poi disse:
«Sei tu pazzo?»
«Sta di buon animo ch'io son ora benissimo in cervello più che altri.»
«Dunque?»
«Dunque mi penso di non voler gettar questa grazia di Dio a quelle bocche ingorde dei signori Dieci, e giacchè si vuol vendicare un'ingiuria che io ho ricevuta, io ne li ringrazio di cuore, e a quel che sarà da fare ci penserò io stesso, e molto meglio di loro.» E con voce aspra molto, «Arsenalotto,» disse, «ti ho detto di tornare indietro. Obbedisci, o fa conto d'ire un tratto sott'acqua a trovare il compagno.»
Allora il Gritti preso da un impeto d'ira, e non avendo riguardo al Visconti,
«Va innanzi,» disse all'arsenalotto, «e fa il tuo debito.»
Ma quelle dispettose parole non le volle trangugiare il Visconti, e cavatosi la daghetta che aveva accanto e fattala balenare all'occhio dell'arsenalotto,
«Con questo,» gli gridò furibondo, «io ti scucirò la cappa e la pelle, se non dai retta a quel che voglio io.»
Il malcapitato arsenalotto guardava ora il Gritti ora il Visconti, in dubbio di quel che si dovesse fare.
«Se i signori Dieci,» continuava il Visconti parlando all'arsenalotto, «ti domandassero, come ti domanderanno certamente, quel che sia avvenuto di codesta donna, in prima racconterai l'incontro avuto con quei due ribaldi, poi dì pure che capitò in mie mani; e giacchè un'altra volta mi si condusse di camera in sala per poi lasciarmi colle mani vuote, ora ho pensato di tenerla in custodia io costei, infin che l'eccelso consiglio abbia fatto i suoi provvedimenti. Dunque m'hai compreso, ed è inutile al tutto che tu vada spiando i pensieri di questo amico mio,» e additava il Gritti, «il quale se mai si pensasse di avere a far star me, sarebbe indizio che quel poco senno che aveva, è uscito intero del suo cervello.»
Il Gritti in questo frattempo pensò molto bene a' fatti suoi, ricapitolò in quell'istante tutto ciò che aveva riguardo a lui ed al Candiano, del quale voleva vendicarsi in qualche modo terribile. Considerò che a buoni conti l'eccelso consiglio avrebbe cominciato a punire il vecchio…. qui una gioia diabolica gli scintillò tra ciglio e ciglio… e pensò di che affanno, di che disperazione sarebbe stato cagione al vecchio Candiano il sapere che la sua Valenzia era caduta nell'artiglio del Visconti.
Considerate ben bene tutte queste cose, e giacchè vedeva che non era quello il momento opportuno di venire alle mani col Visconti, il quale, se per caso fosse rimasto ucciso, l'eccelso consiglio avrebbe punito lui d'aver tanto osato contro un ospite, ch'essa manifestamente proteggeva, fece ogni sforzo a mandare indietro quell'impeto di sdegno che già lo aveva tramestato, e cambiando modi e sforzandosi a ridere,
«Fa egli bisogno di scalmanarsi tanto?» prese a dire. «Doveva io sapere che costei vi dovesse tanto stare in sul cuore? Adesso che lo so, è ben altra faccenda, e me ne lavo le mani. Sappiate per altro, amico mio, che tanto io che questo bravo uomo, getteremo la broda addosso a voi, che coll'eccelso consiglio non si scherza, e non ha un riguardo al mondo nè al patrizio, nè al plebeo.»
«Bene, benissimo, e direte ai signori Dieci che colei che già m'apparteneva per diritto, ora la tengo per forza.»
A qualche distanza passava in quella un gondoliere, il Gritti mandò un fischio.
«Attilio, che fai?» gli chiese il Visconti.
«Chiamo quel gondoliere perchè m'abbia a condurre dove mi parrà meglio. Io non debbo saper nulla nè di te, nè di quest'uomo. Patteggiate fra voi due, io me ne lavo le mani;» e replicava il fischio. La gondola s'accosta, e il Gritti dice al gondoliere:
«Non hai da servire altri per questa notte?»
«Messere, comandate ch'io sono a vostri ordini,»
«Bene, ti accosta….» E senza volgere un saluto al Visconti, nè una parola all'arsenalotto, saltò nella gondola e si allontanò con quella.
Accosto alla barca della Republica veniva la gondola del Visconti dove trovavasi il Bronzino e un altro uomo.
L'arsenalotto intanto stava pensando se gli convenisse far resistenza, o dar le mani vinte. Sapeva che quel Visconti era protetto dalla Republica vedeva che volendo opporsi non avrebbe potuto a lungo gioco resistere contro tre, essendo solo, e quel fante della Republica si trovò in così terribil bivio che avrebbe voluto piuttosto trovarsi sott'acqua insieme a' suoi due compagni che in quella situazione. Però non ebbe l'ardimento di opporsi al Visconti, il quale, alzata di peso Valenzia, che era ancor tramortita, la trasportò nella propria gondola, dove saltò esso pure, e detto all'arsenalotto che lo guardava perplesso: raccontasse pure ciò che voleva meglio all'eccelso consiglio, fece dare ne' remi e s'allontanò.
Quando furono a qualche distanza,
«Messere,» entrò a dire il Bronzino, «io non ci vedo ben chiaro in questa vostra pensata, e credo che voler cozzare colla Republica, sia per essere il più dannato mestiere di questo mondo.»
«Tu non sai nulla, costei doveva essere già mia.»
«Doveva, questo lo capisco; ma il fatto mi dice che adesso è donna d'altri, e vedrete che tempesta di guai ci coglierà presto.»
«Nasca pure ciò che saprà nascere, credo che a questo mondo io non abbia più nulla a perdere, così penso di non rifiutare quel poco di bene che la sorte mi getta innanzi. D'altra parte, come avrai sentito, egli era per vendicar me che fu fatta la cattura di questa poveretta; però la Republica non si sdegnerà poi tanto come tu dî.»
Il Bronzino stringevasi nelle spalle, e non aggiungeva altro; poco dopo la gondola, attraversato il canale della Zucca, si fermò a' piedi di un palazzetto. Per l'ora assai tarda non udivasi più batter remo sulla superficie di quelle acque, nè una voce, nè un canto. Quando la gondola urtò contro lo scaglione, si udì Valenzia a mandare un gemito.
«Pare che si risenta,» disse il Visconti.
«Sarebbe ben tempo, io la credevo già morta questa poveretta. Dal momento che la togliemmo di mano a quel suo Fossano svenne e si risentì più di quattro volte.»
«Dammi or mano a trasportarla in camera.» E il Visconti da capo e il Bronzino dei piedi, l'alzarono di peso, e la trasportarono nelle stanze interne,
«Recati un tratto verso la piazza di San Marco,» così stando dentro diceva il Visconti al Bronzino; «e appena che avrai potuto raccapezzar qualche cosa, che qualche cosa succederà di certo, fa di venir subito a darmene notizia.»
«Bene, bene….» E crollando il capo il Bronzino saltò ancora nella gondola, e vogò verso San Marco.
Il senator Barbarigo, che di tutta l'insidia che aveva tesa al suo antagonista e alla povera sua figlia, non aveva ancora palesato nulla a' colleghi, se ne stava intanto nella gran sala del consiglio a ripassare alcune carte impazientissimo, ed aspettando che la Valenzia Candiano venisse condotta alla sua presenza. Ma quando gli parve che fosse oltrepassata l'ora in cui gli arsenalotti avrebbero dovuto esser già di ritorno, fa preso da tale e tanta inquietezza che non potè più star seduto. Nella sala passeggiò per qualche tempo, poi uscì nelle anticamere del consiglio, e non sentendo alcuna pedata nè altro, dopo essersi anche colà indugiato assai tempo. alla fine più non gli bastando la pazienza, discese la scala del Gigante, e uscì fuori sulla piazza. S'accostò alla riva, si sforzò a render più acuta la facoltà visiva, e potè distinguere finalmente a qualche distanza una gondola; ma in ragione che veniva essa accostandosi, egli perdeva ogni speranza, ed alla fine potè accertarsi che non era altrimenti la barca della Republica. Quando la gondola fu all'approdo, vide uscirne un uomo e guardò: era Attilio Gritti. Il Barbarigo gli si accostò, non per altro, che per intertenersi un momento con lui a fuggir tempo, e lo chiamò per nome.
«Voi qui?» gli disse il Gritti assai maravigliato, e soprastava perplesso, e avrebbegli pur voluto dir tutto. Ma stando fermi ambidue, l'uno potè vedere nell'aspetto dell'altro manifesti indizi d'imbarazzo e di sollecitudine. Però prese a dire il Barbarigo pel primo:
«E donde vieni?» gli domandò.
Attilio stette ancora un momento senza rispondere, poi s'accostò al senatore, e con voce assai bassa,
«Voi,» disse, «state qui aspettando alcuno che vi deve premere assai.»
«Io?» rispose il senatore aguzzando gli occhi sul Gritti….e stava per aggiunger qualche cosa… ma si trattenne, e dando la svolta al discorso: «Stanotte ho la sopraveglianza in palazzo, sono uscito così un momento a respirare un po' d'aria libera.»
«Ma….» tornò il Gritti a riappiccare il discorso…. «voi state aspettando adesso chi non verrà così presto. Gli arsenalotti furono assaliti.»
Il senator Barbarigo diede due passi indietro a quelle parole, e fatto livido in volto,
«Chi?» disse, «come tu sai?…»
«La Valenzia è ora nelle mani del Visconti.»
«Del Visconti?…»
E in mezzo alla dispettosa maraviglia con che pronunciò quel nome, un occhio scrutatore avrebbe veduto a balenare una scintilla di gioia, che in quel rapido istante aveva già potuto pensare che quel contrattempo avrebbe dovuto accrescere la sventura di Candiano.
«Dimmi,» soggiunse poi: «come avvenne tutto questo?»
Il Gritti gli narrò come seppe meglio ciò che era avvenuto, poi disse:
«L'ammiraglio sa qualche cosa?»
«No, non sa nulla. Nell'istante che starà sognando il corno ducale, il fante della Republica andrà a dargli uno scrollo. Insieme a questa nostra patria, che quel vecchio imbecille ha offeso contravvenendo alle sue leggi, vendico anche la tua ingiuria.»
«Io vi ringrazio; ma qualche cosa vorrei fare anch'io.»
«E che vorresti far tu? bada a non rompere la rete; bada…. ora io vo. Addio….»
E quel vecchio settantenne, fatto agile a un tratto e assai presto, rientrò in palazzo quando il Gritti, più maravigliato ancora di prima, si mise di nuovo per la laguna.
Non appena il Barbarigo ebbe messo il piede nella sala del consiglio, chiamò i colleghi; e lor disse:
«Messeri, stanotte c'è necessario raccoglierci in sessione. Un affare d'importanza, della più grave importanza, ci resta a trattare; vi dirò tutto in breve: mandiamo intanto il fante del consiglio ad avvisare i nostri colleghi di venir qui sull'istante.»
Gli altri due rimasero stupefatti, però domandarono qual fosse quella così grave bisogna.
«Non è tempo da perdere, lo paleserò in pieno consiglio….» e chiamato il fante gli diede l'ordine d'ire a chiamare gli altri membri del consiglio, «Se non sono nelle case loro, si troveranno alla festa de' Malipieri,» diceva il Barbarigo a quel fante. «Va e fa presto.»
Rimasto solo cogli altri due senatori, questi cominciarono a tempestarlo di domande, alle quali egli non faceva che rispondere:—Parlerò in pieno consiglio.—E andava pensando e ripensando al modo di svolgere quel viluppo di cose che improvvisamente e all'impensata s'era venuto aggruppando. Da qualche giorno poi lo martellava il timore non venisse mai a chiarirsi in faccia a tutti i suoi colleghi la sua trama, giacchè non era facile a dare ad intendere ch'egli non avesse saputo la colpa dell'ammiraglio Candiano prima di dare il voto per l'elezione di lui al dogato. Nei primi momenti che gli balzò in pensiero il perfido e raffinato disegno, l'impeto della passione non gli avea permesso di vedere le possibili conseguenze, e di presente pensava al modo di poter celare altrui il basso e perfido fine che egli aveva, e al quale serviva di pretesto l'obbligo che gl'incumbeva di punire i colpevoli.
L'essere poi caduta Valenzia nelle mani del Visconti in quel momento che la presenza di lei era tanto necessaria, gli dava pure moltissimo a pensare, giacchè se l'ammiraglio, messo agli esami, non avesse voluto confessare al primo, tutto il congegno della sua trama avrebbe dovuto fermarsi per il momento, e infino a tanto che Valenzia non fosse in potere della Republica. Considerava però che il Visconti non poteva aver che un fine a conseguire, e quindi avrebbe di leggieri rimessa colei nelle mani dell'eccelso consiglio.
In quella notte nel palazzo del senator Malipieri a festeggiare le nozze di una sua figlia con un patrizio Veneto, tenevasi una sontuosissima festa alla quale era stato invitato anche il povero Alberigo Fossano, che vi sarebbe certo intervenuto se si fosse trovato in tutt'altra condizione d'animo.
L'ammiraglio Candiano vi si recò invece, e quantunque di ragione l'attenzione dovesse in quella notte rivolgersi ai due sposi felici, pure il prode vegliardo, sul quale, come sapevasi da tutti, il dì dopo avrebbe posato il corno ducale, era il vero eroe della festa. Non avendo il Fossano mai osato metterlo a parte dell'orribile sua sventura, e avendo anzi coll'assicurarlo che la Valenzia era in buonissimo stato, fatto dileguare dalla mente di lui quel dubbio orrendo che vi s'era messo per le ingannevoli parole del Malumbra, il Candiano era d'un umore così ingenuo, così gaio, così affabile, che tutti se ne consolavano pensando che sarebbe stato il doge colui nel quale, anche gli occhi acutissimi dell'invidia, non avrebbero potuto trovare una pecca.
Soltanto quando comparve nel bel mezzo della festa la giovinetta sposa Malipieri, sfolgorante di bellezza e di gemme, il buon vegliardo corse col pensiero alla sua Valenzia, e una nube coprì per un istante la faccia serena di lui. Quantunque si consolasse nell'idea ch'ell'era ancor viva, e in sicuro e forse felice, pure considerava ch'egli non l'avrebbe veduta mai più, che l'essere egli assunto alla dignità del dogato, impediva assolutamente di recarsi là dov'ella si trovava, e che Valenzia non avrebbe mai potuto venire neppure per un momento a Venezia, chè guai per lei e per tutti! e questa considerazione scemò per un momento quella fantastica gioia che aveva generato in lui il sapere d'aver potuto raggiungere quell'alto seggio a cui eran volti i desiderii, le virtù, i talenti, le fatiche, i sacrifici di tutti quanti i patrizi veneziani; lo accasciò il pensiero che non avrebbe mai più veduta la diletta sua Valenzia!
A quella festa trovavansi quasi tutti i senatori che formavano l'eccelso consiglio dei Dieci; e non vi mancava che il senatore Attendolo Barbarigo. Candiano, avendo saputo quanto in suo pro si fosse adoperato colui ch'egli aveva tenuto per suo rivale e peggio, e non sospettando che il Barbarigo si fosse rifiutato a intervenire a quella festa, pel dispetto di trovarsi faccia a faccia con lui che ora lo avanzava di tanto nella dignità della carica, ne chiese conto ai colleghi di lui:
«Stanotte gli è toccata insieme al Mocenigo, e al Tiepolo, la sopraveglianza nella sala dell'eccelso consiglio, però non ha potuto intervenire alla festa.»
«Si sa mai quello che può succedere, ammiraglio, e sapete bene che quando trattasi di servire la patria, non v'è altra cosa al mondo che possa distogliere il Barbarigo dall'oficio suo.»
«È suo debito,» rispose Candiano, «e quanti siam Veneziani dobbiamo fare così.»
«E poi, sapete bene, ammiraglio, quel che resta a farne domani, e quante cose si debbono apprestare prima di cingere la veste d'oro all'amico nostro dilettissimo.» E sorridendo i due che parlarono, strinsero cordialmente la mano al vecchio Candiano, che, assai grato di quelle cortesie, fece altrettanto con loro.
Poco dopo s'era ritratto con que' due a giocare a tavola reale, in una sala appartata.
Quando agli orologi suonò la mezzanotte, entrò in quella sala un servo del senator Malipieri, e accostatosi al tavoliere,
«Illustrissimi Senatori,» disse, «il fante dell'eccelso consiglio è qui fuori che aspetta; vorrebbe parlarvi.»
I due senatori furono colpiti a quell'annuncio, e si domandarono a vicenda:
«Che sarà mai? a quest'ora.» Poi volti al servo: «Avete dato codesto avviso,» gli domandarono, «anche agli altri nostri colleghi che si trovano qui?»
«Il fante m'ha ingiunto ch'io dessi avviso a tutti voi che siete chiamati a palazzo.»
Ogniqualvolta i membri dell'eccelso consiglio venivano nottetempo invitati a recarsi in palazzo, era indizio ch'era sopravvenuto d'improvviso una bisogna così grave e seria che non ammetteva dilazione di tempo. I due senatori, smettendo subito il giuoco, si alzarono tosto; i loro volti erano alquanto impalliditi.
«Vi lasciamo colla buona notte, ammiraglio.»
«Ammiraglio, a rivederci domani, che per questa notte sendo già ora assai tarda, non è facile che possiamo tornar qui.»
«Che cosa può mai essere intervenuto di sì grave, che possa fare necessaria una sessione a quest'ora?» domandò il Candiano alzandosi esso pure.
I due si strinsero nelle spalle, e nulla risposero.
Allora il Candiano, e fu cosa assai notabile, che al primo annuncio del servo non aveva tampoco dato segno di maraviglia…. cominciò a farsi pensoso, e disse:
«Per sant'Elmo! codesta improvvisa chiamata mi fa pensare il peggio: non vorrei?…»
«Cosa, ammiraglio?»
«Gli è dieci anni che l'eccelso consiglio dovette a quest'ora raccogliersi in seduta per deliberare, e se non vi ricorda, ci fu in quella notte annunziato che s'eran vedute sull'Adriatico le vele turche, non vorrei che qualche grave sventura stèsse sopra Venezia.»
«Non sarà, non sarà,» risposero i due senatori impalliditi il doppio, e uscirono di là lasciando solo il Candiano.
Ora, tornando a Carlo Visconti, nel quale il Barbarigo aveva riposte tutte le sue speranze, entrato che fu nella stanza dov'era la sventurata Valenzia, e fermato il chiavistello dell'uscio, già nella sua mente precorreva l'esito dell'infame tentativo cui stava per accingersi. Chiusa la porta, si fermò un istante gettando un'occhiata a colei, che, per sua sciagura, avendo ricuperati i sensi, comprendeva tutto il terribile della sua situazione. Nel momento che il Visconti s'era fermato, in quel silenzio generale che copriva tutte le cose intorno al suo palazzotto, non si sentì che il respiro intermittente e singhiozzante della poveretta. Egli stette fermo qualche tempo ancora, come se aspettasse qualche cosa. Finalmente, fatti alcuni passi, si avvicinò a Valenzia, la quale provando un ribrezzo invincibile all'avvicinarsi di quell'uomo, si ritrasse strascinandosi ginocchioni com'era, e mandando un tal gemito che non si può rendere con parole, poi lasciandosi cadere le braccia, e intrecciando le mani alzò la faccia come rapita dal fervore di una preghiera che in quel punto faceva mentalmente. Quel volto di Valenzia, sul quale era l'impronta di un dolore antico, accresciuto dalla desolazione del momento, conservava tuttavia la maravigliosa sua bellezza; se non che per que' segni di dolore, per quelle traccie di patimento, più non poteva suscitare le voluttuose sensazioni che, forse alcun anno prima, avrebbe potuto destare nella fantasia d'uomo avvezzo a servire al senso, ed anzi, tanta ne era la pallidezza, il languore, lo sbattimento che in vece di voluttà, avrebbe potuto destare, se non assoluto ribrezzo, certo alcuna cosa di simile. Fatto sta che quella prima idea colla quale il Visconti le si era avvicinato, svenne nell'istante medesimo che potè contemplarla bene, e la faccia di lui, sulla quale era un riso procace e disonesto, si appianò tutt'in un tratto conservando tuttavia ne' guizzamenti dei muscoli un certo che significante noia, malcontento, aspettazione delusa. E quella repentina mutazione d'idee, quello spostamento improvviso di sensazioni, anzi quel vacuo assoluto di pensieri che allora gli si fece in mente, non gli permise di metter fuori alcuna parola, e stette in silenzio un pezzo, e soltanto si accontentava di guardarla.—Valenzia intanto tutta tremante e ristretta in sè, per quanto fosse grande la confusione delle sue idee, pure riandando col pensiero le vicende già corse, rimontando quattr'anni indietro, quando per la prima volta aveva veduto l'uomo orribile che ora gli stava presso, quando sentì dal padre che colui gli era destinato in isposo, e via via le sue lagrime, la sua confessione a Candiano del proprio amore per Fossano, la fuga…. quella fuga in cui le parve di toccare il paradiso…. e più di tutto, le parole del suo Fossano:—Quel tristo figlio di Bernabò non ti riavrà mai più in eterno, in eterno.—Ed ora se lo vedeva lì presso… e le risuonava tuttavia nell'orecchio quel disperato grido che un momento prima il suo Fossano aveva mandato nel doverla abbandonare. Per l'azione di questo cocente pensiero, quello spavento misto all'atonia che le teneva come aggranchite le membra, si trasmutò in una tenerezza spasmodica per colui che da tanto tempo era il solo, l'assiduo pensiero di tutte le ore del dì e tutto l'angòre che le tramestava l'anima, si versò in uno scoppio di pianto che scosse il Visconti. E guardando a quelle lagrime, si maravigliava della propria irresolutezza che lo faceva restar lì sempre immobile a guardare colei che piangeva. Alla fine si ricordò che v'era ancora a sciogliervi un viluppo assai misterioso, che quantunque si vedesse innanzi viva e vera quella Valenzia di cui un tempo egli s'era sentito preso con tanta violenza, ancora gli rimaneva a sapere come era avvenuto il fatto, in che modo egli e la Republica erano stati ingannati; questa curiosità gli aprì il varco alle parole, e disse:
«È inutile il disperarvi tanto, nè l'esser qui alla mia presenza vi deve metter tanto orrore. Io non voglio farvi del male, d'altra parte sappiate che se voi a quest'ora non foste qui, sareste innanzi al signori Dieci, i quali, quando hanno messo il dente sulla preda, non fia che per nessun caso mai se la lascin sfuggire; dunque vi esorto a farvi coraggio.»
Le parole del Visconti erano queste…. ma il tuono con che le accompagnava era assai aspro, per cui pochissimo si potè confortare Valenzia.
«Soltanto,» continuava il Visconti, «ho gran desiderio di schiarire un mistero in questo momento…. e per l'anima del padre mio crederei bene d'aver qualche diritto a saperne più che altri, perchè, se la memoria non mi falla, voi eravate promessa a me.»
Valenzia mandò un guizzo per tutta la persona a queste parole.
«Del resto…. nel momento ch'io vi credeva morta da quattr'anni, vi rivedo ancor viva, e per aggiunta sposa d'altrui, vogliate dunque compiacervi a raccontarmi in breve tutta la storia dell'orribile inganno.»
Qui Valenzia, essendo malissimo disposta a narrare quella storia, non che a metter fuori una sola parola, mostrò di non aver sentito, nè tampoco il tuono della voce del Visconti, e continuò a mormorare fra' denti una sua preghiera. Però crebbe la stizza al Visconti, e in tuono più alto replicò quella domanda.
Valenzia, spaventata, cominciò allora a mandar fuori qualche sconnessa parola, e d'una in altra tra singhiozzi e sospiri potè dire abbastanza perchè il Visconti potesse farsi un'idea chiara di tutto quanto era avvenuto.
Valenzia intanto, a cui l'angoscia aveva in prima ottenebrata la mente, così da farle vedere in confuso la condizione delle sue vicende, coll'esser costretta a raccontare ordinandosele in mente in successione tutti i fatti avvenuti dalla fuga da Venezia in poi, per sua sventura rinacque alla chiara cognizione di tutto, e misurato il pericolo del padre e il proprio, vide come le cose fossero giunte al punto che più non era luogo a sperare, e che uscita dalle mani del Visconti sarebbe tosto ricaduta in quelle della Republica, ove avrebbe trovata l'estrema condanna. A questo pensiero, di ginocchio balzò in piedi esterrefatta: quella immobilità, quell'atonia in cui aveva durato qualche tempo, si trasmutò improvvisamente in un dolore prorotto che teneva della forsennatezza: chiamò ad alta voce per nome il suo Fossano, il padre, e fu presa da un così prepotente delirio che parlava singhiozzando a que' due suoi cari; quasi che le fossero presenti, e invocava Dio, la Vergine, i santi, e miste alla preghiera, le imprecazioni contro a Venezia, ai Dieci e a tutti coloro che nell'agitata fantasia credeva avessero causata la di lei rovina. Finalmente dopo quello sperpero di grida, di pianti, di preghiere, d'imprecazioni, e quel violentissimo lassamento di tutte le sue forze fisiche, nell'istante che volta al Visconti con una faccia tutta stravolta e terribile stava per imprecargli, il sangue le fuggì dal cuore, nel suo volto avvenne come un altro smagrimento repentino, i nervi le sussultarono dai capo alle piante, e per la quinta volta cadde abbandonata da' sensi.
Le lagrime, le preghiere, le furibonde grida, il delirio della povera Valenzia, arrivarono a ingenerare nell'animo del Visconti qualche cosa che poteva somigliare alla compassione, e gli somigliava abbastanza per giungere a scioglierlo del tutto da ogni basso tentativo. Si fermò a contemplarla un pezzo, poi disse:
«Ma infine…. cosa mi resterebbe a fare? Se io la lascio uscire di qui…. cadrà nelle ugne di tal belva, al cui confronto io le sarò parso assai più che padre e fratello.» E gettò un'altra occhiata sulla giovane infelice, e con ribrezzo ne sentiva i singhiozzi affannosi, e il rantolo strozzato nelle fauci, la compassione s'accrebbe a più doppii nell'animo suo, e pensò…. pensò se vi poteva essere qualche aggiustato modo per trarla in salvamento e alleggerire la sua sventura.
Ma come poteva venire in mente a quel tristo un simile pensiero?—Non era forse egli più il crudele, il feroce figlio di Bernabò?—Questa domanda è assai ragionevole, e anche noi durammo assai fatica a credere a un simile mutamento nell'indole sua. Ma una considerazione che ci sorse in mente, ne condusse, o ne parve almeno ci potesse condurre, alla soluzione di un fatto così strano. Se a Carlo Visconti, quattr'anni prima, quand'era ancora nel fiore della sua potenza il terribile Bernabò suo padre, ed egli non viveva che nell'aspettazione di un ricco e vasto dominio, fosse intravvenuto una simile avventura, si fosse trovato in una circostanza pari, avrebb'egli ceduto sì di leggieri a delle lagrime, avrebb'egli saputo comprendere l'angoscia di un cuore al punto da rimanersi dalla persecuzione? Tutto c'induce a credere che avrebbe fatto il contrario. Da quell'altezza su cui la sorte avealo fatto nascere, e da cui non era disceso un momento non avendo mai potuto porsi a paro un istante col resto degli uomini, non aveva mai potuto mettersi all'unisono col loro, nè per quanta sagacia potesse mai avere, la dura esperienza non gli aveva fatto conoscere ancora il che ed il perchè di tutte le cose. Non gli aveva ancor data la giusta misura per valutare nella loro interezza i dolori che possono straziare anima d'uomo, ma da quel momento che la sventura lo ebbe assalito, e il cuor suo sentì le potenti strette dell'angoscia e della disperazione, e provò le durezze dell'esiglio, le privazioni più tormentose della vita, e l'odio contro il suo persecutore, l'anima sua oscillò per migliaia di sensazioni che fino a quel punto gli erano rimaste al tutto sconosciute…. e da quel punto, senza ch'egli se ne fosse accorto, l'indole sua subì una forte modificazione, modificazione che però non s'era mai palesata, ed aspettò a mostrarsi intera allora che una scena di sventura e d'angoscia lo ebbe fortemente colpito. La prosperità guasta gli animi, la sventura li corregge, se non sempre, certo il più delle volte.
Alla Valenzia, così come gli poteva permettere l'abituale durezza de' suoi modi, spruzzò con acqua la fronte affine di farla riavere.
«Valenzia,» cominciò poi a chiamarla per nome, «Valenzia!»
«O Fossano, perchè mi lasci tu qui?»
«Destatevi su via, fate presto che meglio per voi.» La giovane si rizzava. «Se amate il vostro meglio, v'è mestieri di coraggio; alzatevi, presto.»
«O Fossano, vieni a togliermi di qui.»
«È inutile che sprechiate il vostro fiato a chiamare chi non verrà di certo.»
«Non verrà? perchè non può venire?»
«Oh! sentite, vorrei pregarvi a non darmi più noia con queste vostre parole, e torno a ripetervi che v'è mestieri far senno, e che vi converrà prendere qualche partito prima che battino alla porta i fanti del consiglio.»
«Oh, padre mio!» esclamò allora la Valenzia. e facendo forza a sè stessa, e volgendosi al Visconti: «Oh! ditemi, che è avvenuto del padre mio?»
«Io non so nulla; ma vi consiglio a pensare a voi medesima prima di tutto, diversamente senza fare il suo vantaggio, sarete causa del vostro danno.»
Valenzia, che un momento prima guardando la faccia del Visconti aveva potuto scorgere quanto fosse volto al male, ora non sapeva credere a sè stessa accorgendosi dell'improvviso mutamento ne' suoi modi; e disse:
«Signore, abbiate pietà di me, ditemi che è del padre mio; lasciate ch'io vada presso di lui. Dov'è il Fossano? dov'è? voi lo dovete sapere. Lasciatemi tornare dov'è lui; lasciatemi uscire di qui. Io non domando, io non voglio altro.»
XII
CONTRATTEMPO.
In questa s'udì battere alla porta. Il Visconti tende l'orecchio; Valentia ricade a terra ginocchioni tutta tremante, gridando:
«Chi sarà?»
Il Visconti aprì un'impannata; guardò fuori, e domandò:
«Sei tu, Bronzino?» Ma nel domandare, vide più barche che si erano fermate, e s'accorse ch'erano le barche della Republica.
«Sono il fante del consiglio,» dice una voce. «il quale vi prega vogliate recarvi da lui sull'istante, senza aspettar altro. Ho con me venti arsenalotti, incaricati d'accompagnarvi e servirvi fino a palazzo.»
«Cosa ha bisogno il consiglio di me?»
«Voi lo sapete meglio di tutti; ma vi esorto a far presto, che i signori Dieci non possono aspettare.»
Il Visconti pensò e ripensò a quel che dovesse fare; ma di lì non era via d'uscire. Quando s'era impadronito di Valenzia, avendo allora altro disegno in mente, non aveva pensato ridursi dove la Republica non avrebbe potuto raggiungerlo.
Valenzia, che tutto aveva sentito, disse:
«Ah! io sono perduta, Iddio mi abbia misericordia!» e piegava la testa quasi aspettasse l'estremo colpo della mannaia.
Il Visconti intanto discese, e aperto l'uscio, mostrossi al fante dicendogli:
«Io sono qui, andiamo.»
«Voi saprete,» soggiunse il fante, «perchè il consiglio v'abbia mandato a chiamare.» E stava attendendo una risposta. «La Republica sa troppo bene chi si trova di presente nelle vostre stanze: il consiglio vi prega a non voler interrompere il corso della giustizia. Vogliate adunque compiacervi a rimettere nelle nostre mani chi avete ricovrato presso di voi.»
Qui Carlo Visconti manifestò quanto tenesse del carattere del padre, il quale atroce e iniquo sempre, pure per ispirito di contraddizione, pertinacia e prepotenza, inducevasi qualche volta a fare un'azione che ne' suoi effetti poteva chiamarsi benefica.
«Io non so, nè comprendo nulla di quanto mi dite; ma s'egli è vero che qualcheduno è venuto a rifuggirsi presso di me, penso ch'io non sarò vigliacco e infame così da non mantenere ciò che ho promesso. Vi prego a riportare quanto vi ho detto all'eccelso consiglio.»
«Ebbene io riporterò le vostre parole; ma voi non uscirete intanto, e costoro staranno qui a farvi compagnia.»
Il Visconti, a guadagnar tempo, accettò il partito, e disse:
«Così sia fatto; andate e v'aspetto.»
Ciò detto richiuse l'uscio, e risalì ancora nella camera ove trovavasi Valenzia.
Questa s'era alzata, e se ne stava ritta su due piedi nel mezzo della camera. All'aspetto parve che avesse ricuperato tutte le sue forze, e una subita vampa di vivo rossore le aveva acceso il volto. Qualche cosa di maraviglioso e di sublime brillava in quel punto sulla purissima sua fronte; e quando il Visconti le comparve innanzi, gli disse:
«Io vi ringrazio, Iddio ve ne renda merito; ma pur troppo tutto quanto avete fatto non potrà produrre nessun utile al mondo. Pure non è per me ch'io trema adesso, è pel padre mio, che, a vedermi contenta e felice, osò tentare e condurre a fine ciò che nessun altri avrebbe saputo. Oh! ditemi… io non voglio che salvar lui.»
«Come lo potete?»
«Perdonate, ho la mente assai scompigliata, pure ditemi, voi lo dovreste sapere: il padre mio fu già accusato a quest'ora, è già comparso innanzi ai Dieci?»
«Ieri duecento voti lo elessero doge di Venezia, non fa un'ora che lo vidi io medesimo, e sul volto di lui ho potuto scorgere segni manifesti di gioia. Vivo sicuro ch'egli è assai lontano dal credere che tanta sventura gli stia sopra.»
«Ne siete sicuro?»
«Sicurissimo.»
«Oh! sia lodato Iddio e la Vergine santissima,» e ciò dicendo cadeva ginocchioni come fuori di sè per la gioia.
Il Visconti la guardava maravigliato non sapendo comprendere la causa di quell'improvvisa e fantastica allegrezza.
«Oh! abbiate compassione di me e del padre mio,» continuava la Valenzia; «oh! vogliate correr subito in traccia di lui.»
«E poi?»
«Il consiglio lo accuserà d'aver ingannata la Republica, col dire ch'io era morta.»
«È questa appunto la sua colpa.»
«Ebbene, volate da lui: ditegli che non abbi più timore di quest'accusa, e la rigetti perchè io son morta davvero.»
In quella camera era aperta una finestretta che guardava la laguna dalla parte opposta, ove si trovavano le barche della Republica. Valenzia, un momento prima, guardatosi attorno, s'era accorta di quella finestra, ed a tal vista erale spuntato in mente un terribile pensiero; però come ebbe pronunciate quelle ultime parole, si alzò da terra, si raccolse, fece una preghiera,
«Oh, mio Fossano! oh, mio Fossano!» disse ancora, e già….
In quella si sentì un gran colpo alla porta. Il Visconti dovette ancora uscire: Valenzia rimase sola.
Basta talora una sola spinta perchè l'uomo si determini ad azioni estreme e terribili; ma più cagioni, e tutte forti, avevano per tal modo assalita l'anima della povera Valenzia, che in quel momento non le parve possibile altro disegno, fu or quello di darsi la morte da sè medesima. La persuasione in cui era entrata, esser quello l'unico mezzo a salvare la vita del generoso suo padre; il pericolo di perdere in quel momento la sola cosa che i suoi crudi destini non le avevano ancora potuto rapirle, l'onoratezza, che quantunque avesse potuto accorgersi del mutamento ne' modi e nelle parole del Visconti, non aveva per nulla saputo vincere il timore che aveva in lui; ed a ciò si aggiunga quello scompiglio della mente, quel tedio mortale della vita dopo tanti affanni e tormenti, quella debolezza dello spirito a cui par sempre più grave, più insopportabile una sventura di quello che il sia realmente.
Uscito che fu il Visconti, ella fece alcuni passi per la camera, dando volte assai rapide. Al vedere i suoi atti, i suoi moti, l'alterazione delle sue sembianze, pareva in vero ch'ella più non respirasse codesta vita. V'era nella sua persona un non so che di fantastico, di trasumanato, e tal cosa che poteva destare religiosa venerazione, mista a un sacro orrore che non è possibile a definirsi con parole. Nel muoversi descriveva così a caso molti giri col pie' leggiero e a grado a grado sempre più vacillante; e questi giri, fosse caso o che altro si fosse, si venivano a ristringere ogni qualvolta li ripeteva, finchè si trovò vicinissima alla finestra.
S'udì in quella un romore abbasso e un suono di voci. Ella s'alzò sulla punta de' piedi con un tremito convulso di tutta la persona, e battendo i denti come per brividi. Quelle voci che prima erano abbasso, le suonarono assai più dappresso. Fece uno sforzo, si aggruzzò sul davanzale…. s'udì un gran fracasso come d'una porta spinta a battersi contro d'una parte…. e in quel momento s'udì ai piedi di quella finestra un tonfo nell'acqua…. la stanza rimase vuota.
Allora si sentirono assai chiare le voci del Visconti e del fante della Republica.
«Che volete?»
«Il consiglio mi ha comandato di entrare nelle vostre stanze.»
«A far che?»
«Non so nulla, io debbo obbedire la Republica.»
E nel punto medesimo che mandò fuori quella parola, il fante, insieme a dieci arsenalotti che tenevan chiuso nel mezzo il Visconti, il quale non potè opporsi con suo gran dispetto, entrò nella stanza dov'era Valenzia. Il fante, gli arsenalotti guardano, il Visconti anch'egli vi getta uno sguardo corruccioso di sembrare un vile agli occhi d'una donna; ma la stanza è vuota.—Per Dio, dice tra sè, dove se n'è andata?—Entra col fante nelle altre stanze; ma tutte son vôte. Il Visconti già qualche cosa aveva sospettato: torna nella stanza dove aveva lasciata Valenzia; s'affaccia a quella finestra, comprende al tutto ciò che dev'essere avvenuto, e se ne sta taciturno, e stupito e percosso nel mezzo della stanza.
Gli grida il fante:
«Ma insomma dove avete trafugata colei?»
«Chi?» gli risponde il Visconti.
«Valenzia, la figlia dell'ammiraglio, credo bene ch'ella fosse qui.»
«Ma io non so nulla, vi torno a ripetere, e qui non ci sta mai altri che io solo, amici cari.»
Il fante non seppe dire più nulla, discese, e non avendo alcun ordine scritto che determinasse com'egli dovesse comportarsi col Visconti, non prese altro partito, e ritornò cogli arsenalotti a palazzo.
Il lettore farà le maraviglie come l'eccelso consiglio dei Dieci non abbia pensato impadronirsi anche della persona del Visconti, il quale aveva recato una grave offesa alla Republica; ma lo stupore dovrà dileguare del tutto, quando si pensi che la Republica usa ad essere severissima co' propri sudditi e co' forastieri di basso conto che venissero a vivere sotto di lei, non s'attentava di far lo stesso cogli illustri e coi potenti. Ben è vero che offendendo la persona di Carlo Visconti, avrebbero fatto gran piacere al Conte di Virtù; ma i Dieci sapevan però ch'egli era assai protetto dalla Francia, e questa sicuramente lo avrebbe vendicato se mai gli si fosse fatta ingiuria di sorta.
Ora abbandoniamo per poco anche il Visconti, il quale, rimasto per qualche tempo sbalordito dalla miserissima fine di Valenzia, già volge in mente di recarsi al palazzo di Candiano per avvisare il buon vegliardo di tutto quanto era avvenuto, e facciamoci ancora col Gritti.
Costui, che per un mese era stato costretto a rattenere dentro di sè gl'impeti dell'odio, e a rintuzzare più che poteva la rabbia di vendetta, che non gli lasciava aver bene per aspettare l'occasione, come andavagli consigliando il Barbarigo ogni qual volta si avvenisse in lui, affrettava il gondoliere per quegli stretti canali di Venezia; e giacchè aveva potuto comprendere che il Candiano era tuttavia al tutto inconsapevole della sventura che gli stava sopra, con una sottigliezza d'ingegno veramente diabolica, pensò che avrebbe potuto trarre un'orribile vendetta del Candiano, coll'annunciargli per il primo la sventura in cui era caduto, e ad inasprire colla sferza dell'ironia e delle invettive quella ferita ch'egli per il primo avrebbe aperto in quell'uomo da lui tanto abborrito, da cui aveva dovuto patire uno sfregio così sanguinoso. Percorrendo il canal Grande, e radendo colla gondola, mentre passava, gli scaglioni del palazzo Candiano, vennegli perfino il pensiero di entrare colà, e di farsi annunciare all'ammiraglio: e ad un servo che se ne stava oziando sulla soglia della porta, domandò infatti se l'illustrissimo trovavasi in palazzo. E avendogli il servo risposto di no, senza più altro se ne andò dritto pel canale; giunto assai presso al palazzo Malipieri, pervenendo al suo orecchio l'onda de' suoni che partivano di là, e abbagliandolo lo splendore che riboccava dalle finestre e dai balconi di esso, si ricordò delle nozze della figlia Malipieri, e gli venne in mente potesse mai l'ammiraglio Candiano trovarsi colà. Si morse allora il labbro pel dispetto di non potervi entrare, giacchè è da sapersi che per certi contrasti, che qui è inutile raccontare, quel senatore gli aveva assolutamente vietato di metter piede nelle sue stanze; e volendo tuttavia incontrarsi quella notte col Candiano, pensando, poichè l'ora era tarda, che se colui vi si trovava, ne sarebbe uscito in breve, stabilì di scendere a terra, e d'aspettarlo colà a piè fermo.
Quando ad un orologio vicino scoccaron le otto ore di notte, il Gritti vide uscire gente dal palazzo Malipieri, e vi si accostò per guardare. L'andare ed il venire delle gondole, delle quali un servo che se ne stava sulla porta di palazzo, nominava il padrone; la processione continua di matrone, di fanciulle bellissime; il rumore, il frastuono, il cicaleccio di tante voci divertirono i pensieri del Gritti, che per qualche tempo, ravvolto nel suo mantello per non farsi riconoscere, non sentì la noia del dovere aspettare. Finalmente, quando già era scorsa una mezz'ora che egli se ne stava là, e già cominciava a sentire il tedio di una sì lunga fermata, vide uscire l'ammiraglio Candiano. Si sentì dare una picchiata al cuore, e senza pur muoversi d'un tratto stette spiando da qual parte quel vecchio volgesse i suoi passi. Accortosi che l'ammiraglio non aveva gondola che l'aspettasse, detto al proprio gondoliere che s'avviasse solo ad attenderlo verso San Marco, prese il partito di tenergli dietro finchè si fosse presentata l'occasione di rivolgergli una parola.
Percorsero tutto il tratto di via che dal palazzo Malipieri metteva a quel di Candiano. Quando furono a poca distanza da questo, il Gritti accelerò il passo per non lasciar tempo all'ammiraglio d'entrare in palazzo, e portatosegli di costa,
«Ammiraglio,» disse.
«Chi mi chiama?»
«In Venezia vi son molti luoghi remoti per ribattere un'ingiuria, se mai tu ti credessi offeso.—Vi ricorderete d'avermi dette queste parole.»
«Oh! sei tu, Attilio?»
«Son io….»
«Ebbene…. che vuoi tu ora da me?»
«Dovreste immaginarvelo.»
«È passato tanto tempo che oramai m'era sfuggito di memoria.»
«Non ho mai sospettato che aveste sì debole la memoria dal momento che vi ho sentito a ricordare le leggi di dugent'anni fa, cadute in disuso da tanto tempo.»
«Bravo Attilio, mi sembra d'averti già detto che mi piace il tuo spirito…. ma ora non faccio complimenti, e vorrei pregarti a spacciarti presto; se dunque vuoi da me quel che da tanto tempo dovresti aver preteso, dimmi il luogo dove hai stabilito di farla finita, che per le nove ore di notte vorrei già essermi corcato.»
«Badate che qualche scrollo importuno non abbia poi a destarvi presto.»
«Le troppe parole non mi piacciono, Attilio, nè mi garba lo star qui su due piedi a dar retta alle tue ciance.»
«Vorrei prima, ammiraglio, darvi una buona notizia.»
«Che notizia?»
«Tale che vi dovrà essere la più grata di tutte.»
«Poco me ne importa…. e se altro non hai nè a dire nè a fare, io ti lascio colla buona notte, e vado a letto.»
«Non andate così presto, ammiraglio, che quel letto vi potrebb'essere di spine, e vogliate sentir prima la buona novella.»
Il Candiamo che già s'era mosso per partire, ancora si fermò.
Il Gritti continuava:
«Io doveva vivere trent'anni, ammiraglio, prima di giungere a sapere non esser vero che i morti dormono eterno sonno.»
«Che?»
«Voglio dire che anche oggidì può rinnovarsi l'antico prodigio dei morti risuscitati.»
«Che? che vuoi tu dire?»
«Che voi avete portato il corrotto, e avete pianto per tant'anni inutilmente.»
Al vecchio Candiano cadde l'animo a quelle parole, e accostatosi all'Attilio e sbassando la voce,
«Che vuoi tu dire, o sciagurato?» gli domandò.
«L'avello di San Cristoforo della Pace si è scoperchiato. No, non vi prenda spavento, ammiraglio, quel che vi dico è la pura verità. La vostra Valenzia n'è uscita viva, lo l'ho veduta momenti sono; codesta è la buona novella che io vi do.»
Il Candiano non rispose parola, e guardò, come potè meglio tra quelle ombre notturne, per un pezzo il volto del Gritti, quasi tentasse penetrare nei più interni pensieri di lui, e preso da un brivido gelato diè da primo un guizzo per tutta la persona, poi a poco a poco si sentì assalito da un tremito convulso, che a grado a grado andò sempre crescendo al punto che pareva assalito da una paralisi universale.
Il Gritti, che ben s'accorgeva della condizione del povero ammiraglio, lo guardava fiso esso pure, affettando un sorriso tra labbro e labbro, e si compiaceva internamente nel far scontare al vecchio in quella durissima guisa l'ingiuria che un mese prima aveva da lui ricevuta.
Quando il Candiano, non sapendo a che appigliarsi, fece per rivolgergli una domanda, egli lo prevenne prorompendo in sarcasmi ed invettive, che al povero Candiano fecero abbassare la canuta sua testa.
«A voi che solete assumervi il carico di fare osservare con rigore le leggi della Serenissima Republica, a voi fra poco l'eccelso consiglio dei Dieci rammenterà una tal legge, che, forse per esservi crucciato troppo delle cose altrui, probabilmente vi siete dimenticato; fra poco, sì, che forse a quest'ora la vostra Valenzia è al cospetto del carissimo amico vostro il senator Barbarigo o in mani ancora peggiori, e se codesto è avvenuto, a me ne dovrete andar debitore, a me che l'ho fermata fuggitiva, e la strappai a chi l'aveva tolta di mano agli arsenalotti della Republica.»
Candiano fece un moto repentino. Quel suo tremito convulso cessò, lo sgomento, il terrore cominciò a cangiarsi in ira, e con uno sguardo saettò di tanto furore quel tristissimo Gritti, che pareva volesse farlo in frantumi, e continuava tuttavia a tacere.
«Un'altra cosa avrei a dirvi, illustrissimo.»
«Oh taci, io non posso attendermi qui d'avvantaggio con te, e nelle tue parole io non so coglier senso.»
In mezzo al terrore di che il Candiano era stato assalito, trovò pur strada un pensiero consolante, l'idea che il Gritti entrato soltanto in qualche sospetto, si attentasse di presente per trarlo all'ultimo danno, di fargli confessare il vero con ingannevoli parole. Questo pensiero gli aggiunse per un momento ancora quella sicurezza che un istante prima l'aveva del tutto abbandonato, e affettando calma e placidezza fece ancora per avviarsi.
Intanto che succedeva questo dialogo, dalla laguna, ove s'era gettato a nuoto, uscì a riva il Fossano così vestito com'era, e s'incamminò affannato verso il palazzo di Candiano. Corre, vede due persone, ravvisa l'ammiraglio, di slancio gli si reca vicino, e si ferma.
Il vecchio lo guardava spaventato, notò la disperazione ch'era nel volto del giovane, il disordine delle sue vesti tutte molli e inzuppate d'acqua, non aspettò che il giovane parlasse: tutto aveva compreso,—e di botto voltosi al Gritti, che a due passi pieno d'infernale compiacenza se ne stava a contemplarli ambidue,
«Ah! è dunque vero,» disse, e tornato a guardare il Fossano, e alternativamente volgendosi ora al Gritti, ora a lui, «Oh orrore!» proruppe finalmente, e si strinse all'Alberigo, che perplesso e attonito non aveva nè parole, nè lamenti, nè imprecazioni.
Il Gritti, come il genio della disperazione, era sempre là immobile a guardare i due sventurati, e ricordandosi in quel momento che il dì dopo l'ammiraglio sarebbe stato acclamato doge di Venezia, con una diabolica tristizia:
«Il manto, lo scettro ed il corno ducale vi attendono, ammiraglio. Io vi consiglio a non logorare gli ultimi avanzi della vostra vecchiaia. Però non date nè in furore, nè in pianto. Alla prim'alba le campane di San Marco suoneranno a festa per voi.»
Quelle parole furono come spruzzaglia d'aceto gettata su d'una piaga cancerosa. Il Fossano, riconosciuto il Gritti alla voce, tentò svincolarsi dalle braccia del vecchio Candiano, e gettarsi addosso a quel tristo, il quale, accortosi della sua intenzione, brandì uno stiletto per difendersi. Veduto poi che il vecchio, con quella tenacità di forze che dà la disperazione, si teneva ancora stretto il giovane, a rendere più compiuta la sua vendetta, a martoriare con più atrocità ancora gli animi già tanto sbattuti dei due miseri, uscì in queste parole:
«Mi scordava dirvi che intanto che l'eccelso Consiglio sta provvedendo ai fatti vostri, la bella e onesta vostra figlia è adesso nelle camere del Visconti, che non lascerà sfuggirsi così bella occasione, e saprà cavarsi ogni sua voglia.»
«Che?» rispondeva il Candiano scuotendosi agitatissimo.
«Morte e dannazione!» gridò il Fossano sciogliendosi dalle braccia dell'ammiraglio.
Questi ancora tentava rattenerlo.
«No, lasciatemi: ch'io vada a strapparla dalle mani di quell'infame uomo. Aimè che pur troppo era vero il mio presentimento. Oh provvidenza!» E senza più s'allontanò da Candiano, che stordito e muto lo accompagnò coll'occhio finchè scomparve affatto. Quando si volse vide ancora il Gritti innanzi a lui, ritto, immobile, orrendo, che brandiva ancora lo stiletto. Candiano restò immobile un pezzo; poco dopo il Gritti lo vide cader ginocchioni a terra.
Passarono alcuni momenti di assoluto silenzio, e l'ammiraglio pregava e pregava con un fervore veramente straordinario. Poco di poi s'alzò. All'angoscia, al furore, alla disperazione era in lui successa una calma maravigliosa, solenne e tuttavia terribile. Si volse al Gritti, e,
«Seguimi,» gli disse, «le nostre spade han da incrociarsi stanotte: uno di noi due fra poco spero che sarà morto.»
Attilio Gritti, per quanto fosse esacerbato dalla rabbia di vendetta, per quanto fosse coraggioso, per quanto fidentissimo di sè stesso, pure a quelle parole del vecchio venerando pronunciate con una gravita misteriosa, fu tanto quanto sconcertato, e provò una sensazione che poteva tenere assai della paura, forse perchè egli non s'era mai aspettato di dover riuscire a quel fine. Tuttavia non aggiunse parola, ed al Candiano che già s'era mosso, tenne dietro.
Presero per contrade, per chiassetti, per piazze; passarono su quasi tutti i ponti della laguna veneziana, e dopo molto cammino arrivarono finalmente in un luogo remoto e solitario.
«Questo è il luogo,» disse il vecchio Candiano con una voce fonda e terribile, fermandosi su quello spazzo di terra, «qui siamo noi due soli.»
«Ammiraglio,» rispose allora il Gritti con un accento di sprezzo e d'ironia profonda, «è questo un terreno assai sdrucciolevole per voi.»
«Per me e per tutti, ed anche per te, se lo vorrà Iddio;» e sfoderava la spada.
«Persistete dunque nel voler battervi con me?»
«Per verità ch'io non so se tu sii più infame o più vile.»
«Vile?!»
«L'ho detto, e ciò dovrebbe bastare a farti risolvere. Presto dunque, ti difendi.»
«Ma se rimarrà qui morto uno di noi due, chi avrà vinto potrebbe aver taccia d'assassino, non vi essendo testimoni, e ciò mi spiacerebbe assai.»
«Testimonio è Iddio, e può bastare.»
E senza aspettar altro prese ad incalzare il Gritti, il quale dovette pure pensare a difendersi.
Era certamente assai più prodigioso che raro che un vecchio a settant'anni potesse avere ancor tanto di forza e di destrezza da reggere incontro ad un giovane, ed anzi ad uno dei più formidabili spadaccini che avesse nome fra' patrizi veneti. E non solo seppe reggervi contro, ma dopo i primi assalti adoprò col ferro di tanta forza e bravura che il Gritti si morse le labbra pel dispetto di non aver saputo al primo disfarsi di quel vecchio; e codesto dispetto e la vergogna lavorò di maniera nella sua fantasia, e la rabbiosa smania di metter sotto l'avversario talmente lo travolse, lo accecò, che non gli venne più fatto un colpo sicuro, tanto una passione è forte da render nulle in un uomo anche le facoltà che sono al tutto fisiche……..
E Candiano seppe far suo pro di quella circostanza, e dopo un quarto d'ora che si combatteva, il corpo del Gritti, che stramazzò a terra come una massa di piombo, avvisò che quella sfida era finita.
Il vecchio allora scagliò lontano da sè la spada insanguinata, si allontanò da colui con ribrezzo, e ritrattosi sul margine estremo di quel lembo di terra, si gettò ginocchioni. La luna che gli era in faccia, vestiva della sua bianca luce quella dignitosa figura, e rendeva più veneranda la di lui canizie. Dopo una preghiera che non saprebbesi dire se fosse più fervorosa o più scompigliata, si alzò, e rifece la strada che aveva percorsa col Gritti. Ma in quel ritorno si sentì lassate tutte le membra per un abbattimento repentino, e nella sua mente fu un così duro e angoscioso e impetuoso tumulto di pensieri e di memorie, che in vero la sua testa non vi sapeva reggere. Tremava come canna, e per brividi gli stridevano i denti. Non si ricordò quasi più d'avere avuto un momento prima un duello col Gritti. Tutto l'orrore della sua condizione, che a primo tratto l'aveva più sbalordito che altro, allora lo investì da tutte le parti, e pensando che a quell'ora il fante del consiglio forse od era in giro per Venezia in traccia di lui, o stava attendendolo nel suo palazzo, affrettò il passo, e volò incontro all'estremo suo danno.
Il consiglio dei Dieci, raccolto già da qualche tempo, udita dalla bocca del Barbarigo con una maraviglia quasi incredula la storia misteriosa e l'inganno così ben riuscito all'ammiraglio Candiano, e mandato alla casa del Visconti, dove il Barbarigo, narrando l'accidente occorso in quella notte, aveva detto trovarsi Valenzia, stava in aspettazione di lei; che senza la presenza della figlia di Candiano non si sarebbe potuto procedere contro il medesimo, mancando la prova della di lui colpa se, per caso, persistesse a negare. Ritornò finalmente il fante della repubblica, e con doloroso stupore del senator Barbarigo narrò che aveva interrogato il Visconti sul conto di Valenzia, che colui era stato fermo a negar tutto, che però, costretto a metter piede nelle stanze di lui, dopo molte indagini non aveva trovato nessuno che fosse là celato. Allora il Consiglio chiamò ancora l'arsenalotto, che insieme agli altri suoi aveva avuta incombenza di condurre Valenzia da Santa Brigida a San Marco. Gli si domandò s'egli ha ravvisato colei. Il fante rispose che non sapeva niente di niente, che lui non aveva atteso che al remo, che la giovane l'aveva bensì veduta, ma non sapeva chi fosse.
Nel Consiglio successe un nuovo bisbiglio. Il Barbarigo, fortemente sconcertato e tutto pallido di timore, d'incertezza e di rabbia, propose di mandare al palazzo di Candiano una squadra di arsenalotti per arrestar l'ammiraglio, e condurlo in Consiglio.
«Non vorrei che ci avessero ingannato, Barbarigo,» prese a dire uno del Consiglio, «e il Candiano avesse a patire ingiuria la vigilia della sua elezione al dogato.»
«La giustizia deve andare innanzi a tutto, illustrissimo collega.»
«Se si trattasse della giustizia, Barbarigo; ma voi in fine non siete certo di nulla.»
«Io penso che la denunzia d'un solo in questo caso non possa bastare,» soggiungeva un altro.
«Anch'io porto la medesima opinione.»
«Ned io oserei pensare diversamente.»
«E mi farò lecito dirvi una cosa, Barbarigo; ch'egli è strano assai che ieri, quando i duecento voti proclamarono doge Candiano, non si sapesse niente di ciò; e s'aspettasse questa notte, che è la vigilia dell'incoronazione, che non si è più in tempo a disfare il già fatto, a sapere questa scandalosa colpa di Candiano.»
«È vero, gli è strano.»
«Se non c'è la persona viva e vera della Valenzia, penso non sia da farne altro col Candiano.»
Il Barbarigo non sapeva più l'attenere entro di sè la rabbia che lo soffocava all'udire che quasi tutto il consiglio gli era contro.
Il fatto straordinario e quasi misterioso di Valenzia non avendo potuto trovar fede nei membri del consiglio, questi per la prima volta che appartenevano a quell'eccelso magistrato, s'erano rifiutati a fondare una procedura su quella semplice accusa; se la colpa, se il delitto fosse stato dei più ovvii, anche la semplice denunzia li avrebbe resi inesorabili contro Candiano.
Il contrasto durò per lungo tempo nella sala del consiglio dei Dieci; ma vinti finalmente dalle parole del Barbarigo, che era eloquentissimo uomo, deliberarono chiamare in palazzo l'ammiraglio Candiano, interrogarlo sul proposito della sua figlia, ed affidarsi interamente alle sue risposte. E così appunto venne fatto.
Quando il Visconti, volendo recarsi da Candiano, era entrato appena in canal Grande, potè accorgersi che egli era giunto troppo tardi.—Innanzi al palazzo dell'ammiraglio erano ferme due gondole della Republica. Egli pensò accostarsi, e nel punto che lor passava vicino quasi radendole, vide in mezzo a due fanti uscire sugli scaglioni la gigantesca figura dell'ammiraglio. Assicuratosi di ciò che aveva temuto, subito retrocesse, e ritornò al proprio alloggio. Vi trovò il Bronzino, il quale, vistolo da lontano,
«Novità,» gli grida.
«Per ora credo di saperne più di te.»
«Dite un tratto.»
«L'ammiraglio è nelle mani della Republica.»
«Ciò non sapeva; ma io vi darò notizia per notizia: messer Gritti è morto.»
«Morto?»
«Per lo meno ferito mortalmente.»
«Ma in che modo?»
«Un duello.»
«Con chi?»
«Col medesimo ammiraglio.»
«E questo vecchio cadente potè metter sotto colui?»
«Lo potè.»
«D'ora innanzi vorrò credere anche ai miracoli.»
«E voi?»
«Cosa?»
«Voglio dire la Valenzia?»
«È morta.»
«Numero due. Ma come mai?»
«A proposito, voglio vedere un tratto dov'ella sia caduta; se il corpo suo fu trascinato via dall'acqua o no.»
«Ma in poche parole voi l'avete affogata.»
«Io no; s'è affogata da sè;» e raccontava l'avvenuto al Bronzino. «Ora seguimi un momento.»
Ambidue nella gondola si recarono da quella parte dei palazzo ov'era la finestra da cui erasi gettata Valenzia.
«Pesca un tratto col remo,» disse il Visconti al Bronzino, «se mai ci venisse fatto trovarla.»
«Io non sento nulla; ma certo l'acqua l'avrà portata con sè.»
«Eppure fra questi sassi dovrebbe essersi fermata.»
«Aspettate….. qui e' è alcun che di umano.»
«Dov'è?»
«Qui.»
«Ti pare?»
«Questo è un braccio.»
«Or come si fa a levarla di qui?»
«Ma non vogliate già credere ch'ella possa risuscitare.»
«Lo so bene; ma in ogni modo vo' cavarla di qui.»
«Bene: allora lasciate fare a me; ma è necessario un lume.»
«Va dunque a prenderlo, e torna presto.»
Il Bronzino saliva nelle stanze del Visconti, vi prese una lampada, e discese subito.
«Ecco il lume.»
«Ora come vuoi fare?»
«Vedrete.»
E con un suo spedito modo ghermì quel braccio, ed estratto così il corpo estinto di Valenzia, lo depose sullo scaglione che ricingeva il palazzo.
«Adesso che pensate fare?»
«Non penso di far nulla; ma costei meritava pure una tomba migliore di quella che si è data da sè.»
«Non vorrei che qualcheduno passando e vedendoci qui con questo corpo morto, ci pigliasse per assassini.»
«Si fa presto a gettar la broda addosso alla Republica.»
«Si fa presto e non si fa presto, messere.»
«Sai che se si avesse ad asciugare il canal Orfano, questo canale…»
«Sarebbe come la valle di Giosafat, lo so.»
«Eppoi questa notte medesima io penso di uscir tosto da Venezia, e non tornarvi mai più.»
«E farete benissimo, che non mi pare disposta a far nulla di buono per voi.»
«Dunque…»
«Dunque… ma queste sono voci umane…»
«Pare anche a me.» E il Visconti tese l'orecchio, che a qualche distanza s'udiva in fatti il suono di alcune voci.
«E questo è il tonfo misurato di due remi.»
«Lascia che passeranno oltre.»
«Fate a mio modo: allontaniamci un tratto di qui.»
E sentendo più vicino il remo, saltati ambidue nella gondola, e rovesciata la lampada che avevano collocata presso il corpo di Valenzia, si diedero a fuggire.
Il tonfo del remo intanto veniva sempre più appressandosi. Al fine comparve distinta una gondola che volgeva il suo corso direttamente al palazzo.
«A quest'ora sarà tornato,» diceva una voce: era quella d'Alberigo Fossano.
Quando erasi spiccato da Candiano per andare in traccia del Visconti nelle cui mani aveva sentito trovarsi Valenzia, si recò subito di fatto al palazzo di colui. Ma impaziente d'indugio, non avendovi trovato nessuno, si tolse di là, e andò per un pezzo vagando per le lagune quasi aspettando che il caso gli dovesse far trovare il Visconti. Tornato una seconda volta al palazzo di costui, aveva visto colà le barche della Republica, nè aveva osato avvicinarsi. Ora vi ritornava, e per sapere dal Visconti che fosse avvenuto di Valenzia e per vendicarsi di lui.
In quell'intervallo erasi recato al proprio alloggio per armarsi meglio e per condurre con sè il servo che s'imaginava gli dovesse tornar utile a qualche cosa.
Discese dalla gondola, salì le scalee di quel palazzo, e picchiò risolutamente alla porta. È inutile il dire che nessuno rispose.
La speranza di trovare quell'abborrito suo rivale, di trovare Valenzia, speranza che neppure la vista delle barche della Republica in quel luogo non aveva potuto sradicare del tutto, gli avevan messo addosso una balda esaltazione. Ma come s'accorse che non v'era nessuno in quel palazzo, sapendo che il Visconti non era colui da restarsene queto e celato per timore di lui, sentì chiudersi il cuore ad ogni speranza, ad ogni vendetta, a tutto; e rimase là stupidito e percosso.
«Era ben d'aspettarsi che il Visconti non sarebbe tornato qui,» disse il servo.
«Taci, taci,» rispondeva fuor di sè il Fossano. Gli era insopportabile il pensiero di durare lungo tempo in quell'amara incertezza senza avere a far nulla, senza poter far nulla; e se in quel punto avesse dovuto gettarsi sulla punta di dieci spade, l'avrebbe fatto volentieri piuttosto che rimanersi in quella spasmodica inazione.
Stato colà per qualche tempo irresoluto così, alla fine discese ancora nella gondola.
«Aimè,» disse, «temo pur troppo che tutto sia perduto. Or faccia Iddio ch'io possa sapere almeno quel che avvenne di quella mia poveretta…» e non potè finire, che un impeto di tenerezza gli aveva già trasmutate le parole in pianto.
E già col remo aveva data una spinta alla gondola, e senza sapere quel che si facesse radeva gli scaglioni del palazzo, quando nel momento che stava per prendere il largo nella laguna, al servo venne veduto come un fioco barlume di luce che guizzava a non molta distanza da loro, ed era la lucerna del Visconti, che, quantunque rovesciata, tuttavia mandava ancora una fiamma irresoluta. Dice al suo signore:
«Che cosa può essere quel fuoco?»
Il Fossano vi getta un'occhiata:
«Sia quel che vuol essere, a me non ne importa nulla; andiamo;» e tirava innanzi. Ma non poteva distogliere lo sguardo da quella fiamma: ed essendo vicina a spegnersi, divampò in quel momento più forte, e rischiarò la veste azzurra di Valenzia.
«Sì, c'è qualche cosa,» gli tornò a dire il servo.
«Per Dio, pare anche a me,» e senza saperne il perchè, a quella vista il petto gli volle scoppiare sotto il giustacuore.
E colla gondola girò intorno al palazzo finchè pervenne a quel punto.
La fiamma continuava ancora a mandare dei guizzi irresoluti e intermittenti, di guisa che quel luogo desolato ora era buio e tetro come la notte, ora era rischiarato come da un lampo fuggitivo. Il bel corpo di Valenzia steso colà colla testa piegata da una parte, con quelle umide vesti che aderivano alle membra, apparve un momento spiccato in mezzo a quella scena deserta. Il Fossano in prima vi gettò un'occhiata, e quasi per una forza d'istinto volse tosto la faccia altrove agitatissimo; ma quasi nel medesimo tempo tornò a volgervi gli occhi stravolti, e prorompendo in un grido che dovette sentirsi a molta distanza, cadde addosso al servo, che pure rimase atterrito a quella vista, a quel grido.
E il servo toccò il corpo di Valenzia. La scossa avendo fatto muovere un braccio della medesima, il Fossano balzò a quella vista tutto rimescolato, e dalla gondola saltato a terra si gettò sul corpo morto, e dileguato quel raggio di speranza che gli era balenato in pensiero, ricadde ginocchioni più costernato, più percosso ancora di prima, tenendo stretta la bianca mano di lei. Allora, volgendosi al cielo con un'espressione che destava terrore insieme e pietà,
«Oh, che t'ho io fatto?» disse, «che grave colpa è la mia? Quai delitti, quali orrori ho io commessi perchè tu debba straziarmi così?» E stringeva le pugna squassandole per aria, ed a mezzo e fra i denti affollò alcune parole di bestemmia. Se non che inorridito tacque, e diè un tremito per tutte le membra facendo tali moti che non si possono descrivere. Finalmente, quasi che in quello scompiglio straordinario di pensieri volesse tentare un partito, si alzò sui due piedi, ma ricadde quasi nel medesimo tempo sul corpo di Valenzia.
Quando si rialzò parve che avesse riacquistato intero l'uso delle sue facoltà, e con una calma terribile,
«Aiutami,» disse al servo, e pieno di venerazione scrupolosa rialzò quel diletto corpo da terra, se l'accostò, se l'adagiò fra le braccia come se fosse viva; senonchè quelle due bianche mani che spenzolavano inanimate, quella fronte purissima, e quei lunghi capegli sciolti e stillanti acqua davano indizio di ciò che era veramente.
Aiutato dal servo l'adagiò sul fondo della gondola, e tranquillo le si pose da canto. A un suo comando il servo spinse innanzi la gondola sinchè s'accostarono a riva; il luogo era deserto e assai lontano dal centro della città. Dice al servo:
«Tu scendi a terra; va dall'ammiraglio; portami qualche notizia di lui.» E veduto che il servo stava perplesso, quasi volesse rifiutarsi ad eseguire quel comando, «Scendi a terra,» gli replicò furibondo, balzando in piedi, «va.»
Il servo atterrito obbedì, e con voce quasi piangente disse addio al Fossano, il quale, cangiando in un subito l'ira in accorata tenerezza,
«Addio,» gli rispose con voce tremolante, «va, fa ciò che ti ho detto…»
E ritto in piedi nel mezzo della gondola e appoggiato al remo stette aspettando sin che il servo si perdette in una contrada.—Allora mise ancora i remi nell'acqua, e giù pei canali venne al porto, ne uscì, passò innanzi a Murano; passò altre terre, e su su sempre in alto.
XIII
CONCLUSIONE.
Già cominciava ad albeggiare. Alcune nuvole leggermente dorate passavano in fretta sulla faccia del ciclo. L'aria marina, fresca ed umidoccia, alitava leggera leggera intorno alla gondola di quello sventurato. Gli uccelli, spiccatisi a quell'ora dalle antenne delle navi, passavano a lambir l'onda placida colle ali, e gemendo intorno intorno alla gondola, svolavano a garrire in cielo.
Il Fossano, senza pure saperlo, guardò un momento a quegli spazi interminati del cielo e del mare, a quella calma ridente e serena; ascoltò quel placido mareggio dell'onda, quei garriti degli uccelli, quei mugolii lontani ed indistinti, poi di un tratto chinò la testa e lo sguardo sul corpo di Valenzia. Due grosse lagrime gli sgorgarono lente lente e come impietrite dagli occhi, lasciò cadere i remi nell'acqua e sè stesso sul corpo della Valenzia; e in quel silenzio mattutino si udì il fervido scoccare d'un bacio. La barca, stata un pezzo in balia dell'onda, alla fine si perdette dietro ad una scogliera.
Il servo del Fossano, corso intanto al palazzo dell'ammiraglio, e sentito come questi era stato condotto innanzi ai Dieci, senza pensarvi altro era tornato all'alloggio del suo padrone sperando trovarlo nelle proprie sue stanze; e di là alla casa dell'amico di lui, al quale raccontò ogni cosa in breve ed il proprio sospetto.
Furono spedite molte gondole per le lagune, poi per un gran tratto di mare. Ma dopo molto cercare, non essendosi potuto venir mai a capo di nulla, si tralasciò ogni indagine, e quel fedel servo stette colà più d'un anno sempre sperando di vedersi un dì o l'altro comparire innanzi l'amato suo signore. Ma aspettò inutilmente, e alla fine ritornò in Milano sua patria.
La notizia dell'arresto dell'ammiraglio Candiano dalla bocca de' suoi servi fra poco girò per tutta Venezia, con che maraviglia, con che malcontento, con che dicerie lo pensi il lettore; ma l'eccelso consiglio pensò presto a far tacere ogni voce.
L'istessa mattina che seguì a quella notte memorabile, in una stanzaccia dell'arsenale se ne stavano a passar tempo un cinquanta soldati delle galere, i più veterani della flotta veneta, quelli che sempre uniti sulla nave ammiraglia obbedivano al comando immediato di Candiano; tutta gente che da molt'anni divideva con lui le fatiche della guerra, che da vicino aveva potuto vedere quanto fosse il coraggio di quel maraviglioso vegliardo, che per l'assidua pratica e per la lunga abitudine di trovarsi quasi sempre con lui gli si era per tal modo affezionata che avrebbe senza dubitare pur un momento sagrificato volentieri la propria vita per salvare la sua.—Intanto che durava la pace, e per aver ricevuto le largizioni della Republica, non attendeva che a darsi buon tempo; e quella mattina facilmente sarebbesi potuto comprendere quanta era la gioia di quei prodi veterani, i quali, insuperbiti che il loro generale fosse stato eletto doge, non attendevano che a parlare di lui, della sua bontà, delle sue virtù, del suo indomabile coraggio, della forza del suo braccio, ed era una gara fra loro a ricordare i pericolosi momenti in cui s'era trovato il Candiano.
«Io l'ho pur sempre detto,» diceva uno di quei prodi, «che il destino è ben secondo a Venezia se pur dopo tanto tempo si è finalmente determinata a dare il corno ducale a chi in un'occasione la può difendere col proprio braccio.»
«E se la patria nostra vuol avere un uomo, ma di quelli che ne v'ha uno per mille, ha da venire a cercarlo qui in mezzo a noi, che noi siam quelli che provvediamo alla sua difesa, alla sua grandezza, alla sua gloria.»
«Amici e compagnoni miei, io credo bene di essere il più vecchio di tutti qui, ed ho servito sotto a quattro ammiragli, ma un uomo come questo Candiano io credo non ci sia mai stato al mondo.»
«E quante volte non dubitò mettere la sua vita in pericolo per salvare uno di noi che sull'orlo della nave ammiraglia minacciasse cadere in mare o nelle mani del nemico; e tu, Pierozzo, dovresti ricordartene, chi sa in che fonda scogliera te ne staresti adesso a macerar le tue carni, se Candiano, con quel suo braccio di ferro, non t'avesse sostenuto di tutto peso pel buricchetto nella giornata della Spezia.»
«Me ne ricordo benissimo, e non mi par vero d'essere ancora qui a contarla, e non desidero e non aspetto altro al mondo che di fare altrettanto al mio buon ammiraglio.»
«Viva Candiano, l'amico, il padre de' suoi soldati!»
«Viva il difensore di Venezia!»
«Viva il bravo dei bravi!»
«Che sentimento debb'essere il suo vedendosi ammirato e benedetto da tanta moltitudine.»
«Felice colui al quale è si bene meritato dalle sue virtù.»
«Chi non vorrebbe esser lui anche a patto di avere i suoi settant'anni sulle spalle?»
«Io, che appena ho tocchi i miei quaranta, e mi sento ancor forte di gioventù, non so che darei per diventar lui a un tratto.»
«Bravo Verezza, tu la pensi come la penso anch'io.»
«Gridiamo dunque tutti ad uno: Viva Candiano, viva il nuovo doge!»
«Ma tu che hai, Bertuccio, stamattina che te ne stai li colla testa china e tutto d'un pezzo, come se l'allegria comune non ti toccasse per niente?»
«Io?»
«Sì, tu.»
«Viva il nuovo doge! Ecco, l'ho detto ancor io; siete contenti ora?»
«Per fare quella brutta smorfia tanto n'avevi a non parlare, e pare che la parola abbia penato ad uscire intera dalla tua bocca.»
«Non ha penato niente, che non c'è nessuno di voi che possa vantarsi amar meglio di me il vantaggio e la gloria di Candiano, ma…»
«Cosa avresti a dire?»
«Che fra qualche ora quando in lui saluteremo il doge avrem perduto l'ammiraglio, e ciò, per san Marco e sant'Elmo, mi pesa forte e mi dà grandissima noia.»
A queste parole, come se d'improvviso si fosse gettata dell'acqua sopra una fiamma che crepitasse forte, svanì in un momento l'allegria in quel luogo, ed a tutte quelle grida, a tutti quegli evviva successe un assoluto silenzio.
«Per sant'Elmo che qui il Bertuccio ha detto il vero!»
«Il Bertuccio ha ben parlato.»
«Ha ben parlato, ma non tanto. E credo che allorquando Candiano sarà doge, questo non torrà che lui comandi alle galere, e in un'occasione lui sarà ancora il nostro generale, e vi ricordi di Enrico Dandolo.»
«Bravo Verezza; viva la gloriosa memoria di Enrico Dandolo!»
«E sia benedetto quel dì quando sulla nave ammiraglia ci stringeremo intorno al vecchio doge Candiano.»
«E obbediremo a' suoi comandi.»
«E come leoni combatteremo intorno a quel vecchio leone.»
«E i nemici di Dio e di Venezia al nostro ruggito fuggiranno spaventati.»
«Benedetto quel dì, e faccia san Marco ch'ei sia ben vicino.»
«Viva adunque Candiano, il nostro ammiraglio!»
«Il nostro doge!»
«Il nostro padre ed amico!»
E gli evviva e le acclamazioni tornarono ancora ad echeggiare in quello stanzone a volta.
Ma di mezzo al frastuono uscì improvvisa una voce assai alta a comandar silenzio, e sull'uscio di quello stanzone comparve un uficiale del consiglio accompagnato da sei fanti della Republica.
Quell'uficiale s'innoltrò nello stanzone, fece venire innanzi i sei fanti; l'uno dei quali portava un piccol sacco sotto il braccio, chiamò il caposquadra, e gli disse:
«La Republica vi manda cinquecento ducati per distribuire a questa brava gente.»
Un altro grido si alzò a queste parole.
«Zitto, ascoltatemi,» continuava l'uficiale; «è comando espresso dell'eccelso consiglio dei Dieci che quanti v'hanno soldati delle galere tutti si raccolgano quest'oggi nelle caracche, e si rechino a Malamocco. È pure espresso comando dell'eccelso consiglio che fra un'ora sieno spiegate le vele.»
A queste parole tutti si guardarono in viso maravigliati. In prima si fece un profondo silenzio, poi cominciò un bisbiglio che a grado a grado finì in un frastuono altissimo. Allora il caposquadra disse queste parole all'uficiale:
«Non vi maravigliate, messere, ma questa brava gente sperava quest'oggi, com'era ben ragionevole, di assistere all'incoronazione dell'amato lor generale.»
«E vi assisteranno quando sarà il dì;—per oggi non si fa nulla.»
«Nulla!»
«Nulla. Or fate in modo che l'eccelso consiglio abbia a lodarsi della pronta vostra obbedienza.»
Pronunciate queste parole l'uficiale del consiglio se n'andò.
Partito colui, quei cinquanta e più soldati che si trovavano colà si raggrupparono tutti in crocchio.
«Avete voi compreso bene?»
«Per me nulla affatto. però m'è entrato nell'animo un gran sospetto.»
«Oggi doveva essere coronato doge.»
«Così ho sempre creduto.»
«Ma la funzione è protratta…. e noi ci si manda a Malamocco.»
«Qui ci covan sotto altro che favole.»
«Avete sentito?» entrava subito a dire il caposquadra, per dare una svolta a quei discorsi; «non ci rimane che un'ora di tempo, e dovremo aver levate le àncore.»
«Pensiamo che codesto comando avrebbe dovuto venire dall'ammiraglio, e non dall'eccelso consiglio.»
«Per verità che non so nemmen io che mi pensare; del resto mi pare che vi siano cinquecento ducati da dividersi fra noi, ed è ciò che mi dà molto piacere.»
«Vino ed oro: il tuo mondo è in queste due parole.»
«Nè il mondo ha parole più belle di queste.»
«Ed io darei il tuo vino e il tuo oro pel piacere di veder in quest'istante medesimo il nostro ammiraglio.»
«Lo vedrei volentieri anch'io; ma penso tuttavia che se non lo vedremo oggi lo vedremo domani, e che non c'è da rusticarci tanto per questo.»
Nel salotto non rimanevano più che un dieci o dodici soldati, quando entrò uno dei loro che nella notte era stato assente dall'arsenale. Quel soldato era uno dei più vecchi; l'aspetto di quel buon uomo dava indizio di una cupa tristezza che assai teneva della disperazione. S'accosta tutto tremante a que' suoi colleghi, e,
«Una gran sventura, amici,» esclamò, «una gran sventura, la più dura, la più insopportabile che mai ci potesse venire addosso!»
«La tua faccia è pallida come quella di un morto. Se la sventura che tu dî è terribile come il tuo aspetto, ci protegga san Marco…. ma parla una volta.»
«Candiano è nella stanza dei Dieci; egli è accusato, e si racconta di lui un'incredibile avventura.»
Quei dodici prodi si guardarono in faccia esterrefatti, percossi.
«L'ammiraglio accusato?»
«Come v'ho detto. Io sono ancora compreso d'orrore.»
«Ma di che accusato?»
«Lo sa Iddio!»
«E proprio nel dì ch'egli doveva essere acclamato doge!»
«In questo dì appunto.»
«Ora ho compreso perchè l'eccelso consiglio ci manda a Malamocco.»
«Egli sa che Candiano è l'amato nostro ammiraglio.»
«E che se ingiustamente gli venisse mai torto un capello, queste braccia, che tante volte hanno saputo difendere la patria, saprebbero pure ad un'occasione…»
«Il mio pensiero s'è incontrato col tuo; ma tronchiamo a mezzo codesto discorso, che non è per recarci alcun utile.»
«Io so, Gazzella, che molti di codesti patrizi infingardi hanno sempre portato invidia e peggio al vecchio Candiano, e che al piacere di saperlo sconfitto e morto avrebbero i tristi sagrificato anche l'utile della patria comune.»
«Bertuccio mio, se mai l'accusa fosse una calunnia…?»
«Io fremo in pensarci… ma…»
«Ma a costo di morire di spasimo nella gabbia di San Marco, chi volle essere nostro padre ed amico, per l'anima mia che avrà in me più che un amico, più che un fratello, e lo vendicherò.»
Dicendo queste parole uscirono di là. In quel momento medesimo un fante della Republica, mostrandosi improvvisamente di dietro a un grosso pilastro che sorreggeva la volta dello stanzone, e guardandosi intorno con gran sospetto uscì esso pure rapidamente.
Il dì dopo l'eccelso consiglio mandò al caposquadra delle galere stanziate a Malamocco un ordine di spedire a rinforzare il presidio dell'isola di Cipro una caracca di arsenalotti, con espresso comando che segnatamente fosser mandati colà il Gazzella e il Bertuccio, e l'altro vecchio compagno col quale il dì prima avevano fatto quegli imprudenti discorsi.
Il lettore avrà ben compreso il perchè di tutte queste deliberazioni del consiglio, ed avrà dovuto ammirare la profonda e fina politica dei Dieci. Ma la sua ammirazione si cangerà presto in orrore quando sappia che in tutti quei dì che susseguirono alla cattura dell'ammiraglio Candiano, a sera, a notte chiusa alcune famiglie, alcune spose attesero in vano il padre, il marito, e lo attesero per un pezzo, nè mai loro comparve più innanzi.
Il consiglio dei Dieci non pativa che nessuno in Venezia parlasse dell'ammiraglio, molto meno che si tributasse una lode alla sua virtù, un compianto alla sua sventura. Ma sebbene i cittadini indovinassero con orrore la causa di quelle improvvise disparizioni, tuttavia il prode e buon vecchio aveva lasciato tanto amore e pietà di sè stesso, il caso di Valenzia sua figlia, del quale era pur corsa ovunque la storia genuina, aveva messa negli animi tanta maraviglia, che bisognava pure che in qualche modo se ne parlasse. Ma dal momento che l'ammiraglio fu condotto innanzi al tribunale dei Dieci, non si potè più sapere quel che avvenne di lui e della sua figlia, intorno alla quale correvano tante e sì disparate voci, e con misterioso terrore di tutta la città quel prode vegliardo e quella giovane infelice disparvero dalla scena del mondo senza che nè un atto pubblico attestasse la loro fine, nè un publico monumento i loro nomi.
Così la Serenissima Republica non ebbe scrupolo a sagrificare un uomo al quale andava debitrice di tanti segnalati servigi, e all'utile proprio antepose la stretta osservanza di una legge assurda che essa però aveva sancita nella supposizione che troncando ogni legame con chi non apparteneva a San Marco avrebbe cansati molti pericoli possibili. Soltanto alcuni anni dopo, quando si trovò impegnata in una lotta colla flottiglia di Pisa, e s'accorse mancarle l'uomo adatto a toglierla dal pericolo, s'avvide dell'errore, e il popolo in massa, che spesso ha un tatto squisito nel giudicare, accusò altamente l'improvvido consiglio che aveva segnata la sentenza di Candiano.
Del resto il considerare che quella legge assurda ed avente in sè gli elementi dell'ingiustizia ebbe un contravventore in quell'uomo appunto che più aveva d'equità e di senno, ne condurrebbe alla conseguenza che tutte le leggi di simil natura, se mai ve ne fossero, procurerebbero la rovina di quegli uomini dei quali è più forte il bisogno in questo mondo venendo in vece puntualmente osservate da quella numerosa folla, che obbedendo così alla cieca e senza convinzioni non han neppure le qualità che si vogliono a rendere in qualche modo utile l'uomo all'uomo.
Ma prima d'accommiatarci dal nostro lettore, dobbiamo ancora raccontargli una cosa, della cui riuscita forse egli stava in aspettazione.
Alcuni giorni dopo che il Candiano ed i suoi figli eran scomparsi dalla scena del mondo, sulla riva degli Schiavoni fu esposto un corpo morto alla publica vista perchè potesse venir riconosciuto dagli affini e dai consanguinei.
Era quello il corpo di Apostolo Malumbra che essendo rimasto là in mezzo al mare per tanti giorni, s'era sfigurato in modo da non più riconoscersi.
La donna sua, che da tanti giorni viveva in un'angustia terribile, nè mai erale venuto fatto rintracciar notizie sul conto del marito, passando una mattina a caso per quei luoghi, e vedendo gran folla che traeva a vedere il morto, anch'essa vi venne trascinata. Vi getta gli occhi, ne riconosce il gabbano, e senza dir parola cade a terra come piombo. I due piccoli figliuoletti che aveva condotti con sè, si danno a brancolare sul corpo della madre svenuta, a piangere, a gridare. La folla s'arresta. Grida uno del popolaccio:
«È la moglie del Malumbra.»
«Guardate un tratto,» dice un altro, «che il morto non sia il marito di costei.»
Tutti si avvicinano a guardar meglio. Quelli che prima non avevano saputo trovar traccia d'uom conosciuto in quel cadavere, ad una voce gridano:—È lui…—E a quella parola, come se in quel corpo si fosse scoperto il fatale gavacciolo d'un appestato, tutti dileguarono… e la povera donna svenuta ed i figliuoletti strillanti furono lasciati colà. Quando la moglie del Malumbra si risentì non si vide intorno più nessuno, e ritornò alla sua casa.
Passò qualche tempo, mancò ogni mezzo di sussistenza… gl'innocenti fanciulli tornarono a domandar pane affamati; ma in quella casa desolata non osò metter piede persona al mondo. Nè tutti coloro che poterono tener dietro ad ogni passo di quello sciagurato e tristo Malumbra, non seppero mai comprendere di chi era veramente la colpa, e senza neppur pensare che il bisogno è persuasore orribile di delitti e di colpa, lasciarono languire nella miseria anche i figli di lui, che pure erano innocentissimi.
Dice la cronaca che fintantochè furon fanciulli e deboli non fecero che piangere e patire; ma giunti all'età in cui l'uomo spiega tutta quella forza che natura gli ha conceduto, si condussero anch'essi verso la scesa del delitto. Due di essi fecero ciò che il padre loro non aveva saputo fare: s'appiattarono nelle macchie a svaligiare i passeggeri, e quando furono raggiunti dalle mani della giustizia, questa li consegnò al patibolo. Una folla numerosa accorse allo spettacolo orrendo: sapevasi di chi eran figli; ma a nessuno venne in mente che se il padre loro non fosse stato respinto da tutti e lasciato privo di pane senza che ne avesse colpa, forse i figli suoi sarebbero riusciti cittadini assai probi, e giovati un poco dalla fortuna, quegli stessi che il patibolo troncava, sarebbero forse stati l'oggetto della gratitudine e dell'amore universale.
Di molte sventure e molti delitti pur troppo talvolta è colpevole la società, non l'individuo; e spesso per una condanna precipitata, per un pregiudizio, per la fredda indifferenza, un uomo che Dio ha sospinto sulla via dei buoni, travia, e si perde irremissibilmente.
Così avessero queste pagine abbastanza pregi da fermare l'attenzione dei più, che forse la storia di Candiano e di sua figlia, la sciagura ed i delitti del Malumbra sarebbero potenti ad impedire qualche nuova ingiustizia e qualche nuova colpa.