GRAZIA DELEDDA

DOPO IL DIVORZIO

ROMANZO

E dopo che lo avranno flagellato lo uccideranno.....

Ed essi nulla compresero di tutto questo.....

Luca, XVIII, 34. 1902 Casa editrice Nazionale ROUX E VIARENGO TORINO-ROMA

PROPRIETÀ LETTERARIA

(2447)

PARTE PRIMA

I.

1904. In casa Porru, nella camera dei forestieri, c'era una donna che piangeva. Seduta per terra, vicino al letto, colle braccia sulle ginocchia rialzate e la fronte sulle braccia, ella piangeva singultando, scuotendo la testa come per significare che non ci era, non c'era più alcuna speranza. Le sue spalle rotonde, il suo dorso ben fatto, coperto dal panno giallo d'un corsetto stretto, s'alzavano e si abbassavano come un'onda.

Intorno era quasi buio: la camera non aveva finestra; la porta spalancata sopra una loggia di mattoni s'apriva su uno sfondo di cielo cenerognolo che andava sempre più oscurandosi. Su quello sfondo brillava una piccola stella gialla lontana, lontana; e nel cortile s'udiva un grillo zirlare e la zampa d'un cavallo, di tanto in tanto, sbattersi sulla pietra.

Una donna bassa e grossa, in costume nuorese, con un gran volto di vecchio grasso, apparve sulla porta, con in mano una candela di ferro a quattro becchi, in uno dei quali ardeva un lucignolo nuotante nell'olio.

— Giovanna Era, — disse con voce grossa e rude, — che fai lì al buio? Sei lì? Che fai? Mi pare che tu pianga! Tu sei matta, in verità mia, tu sei matta!

L'altra cominciò a singhiozzare convulsivamente.

— Ah! Ah! Ah! — disse la donna grossa, avanzandosi, come meravigliata e scandolezzata. — Lo avevo detto io che piangevi! Perchè piangi? Tua madre è giù che ti aspetta, e tu piangi lì come una matta che sei.

L'altra continuò a piangere più forte. La donna grossa appese il lume ad un lungo chiodo sul muro, si guardò attorno e cominciò a girare attorno alla piangente, cercando invano parole per confortarla. Non riusciva a dirle altro che:

— Ma sei matta, Giovanna, sei matta!

La camera dei forestieri (così è chiamata a Nuoro la stanza che in tutte le famiglie all'antica viene conservata per gli amici ospiti dei paesi vicini), era vasta, bianca, rozza, con un gran letto di legno, un tavolino coperto da un tappeto di percalle e adorno di chicchere e tazze di vetro; con moltissimi quadretti appesi in alto sulle pareti, quasi vicini al soffitto di legno non tinto. Dalle travi del soffitto pendevano grappoli d'uva raggrinzita e di pere gialle che piovevano una sottile fragranza. Bisaccie di lana, colme, dritte, stavano qua e là per terra.

La donna grossa, che era la padrona di casa, prese una di queste bisaccie, la portò più in là, poi la riportò sul posto donde l'aveva presa.

— Ecco, finiscila, — disse ansando per lo sforzo fatto, — che cosa vuoi farci? Non bisogna poi disperarsi; che diavolo, colomba mia; se il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati, non vuol dire che i giurati siano cani rabbiosi come lui...

L'altra continuò a piangere e scuoter la testa, e fra i singulti gridava:

— No... No... No...

— Sì! Sì! Ti dico che è sì! Alzati o chiamo tua madre, — gridò la donna, gettandosele sopra. E le sollevò a forza la testa.

Apparve un bel viso tondo e rosso, circondato da folti capelli neri scarmigliati, con due occhi neri gonfi e lucenti di pianto, e due sopracciglia nere foltissime, congiunte, arruffate.

— No! No! — gridava Giovanna, dibattendosi. — Lasciatemi pianger sulla mia sorte, zia Porredda mia...[1].

— Che sorte o non sorte! Alzati.

— Non mi alzo! Non mi alzo! Lo condanneranno a trent'anni per lo meno. Voi non capite dunque che lo condanneranno a trent'anni?

— Questo sta a vedersi. Eppoi, cosa sono trent'anni? Ma tu sembri un gatto selvatico, sai?

L'altra strillava, si strappava i capelli, colta da un accesso di disperazione selvaggia. E gridava:

— Trent'anni! Cosa sono trent'anni? La vita di un uomo, zia Porredda mia! Voi non capite niente, zia Porredda! Andatevene, andatevene, lasciatemi sola, per amor di Cristo, andate via...

— Io non vado via! — protestò zia Porredda. — Un corno! Sono in casa mia, io! Alzati, figlia del diavolo, finiscila, che ti fa male! Aspetta a domani a strapparti i capelli, chè tuo marito non è ancora ai lavori forzati.

Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore.

— Costantino mio, Costantino mio, — diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, — tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!

Davanti al dolore di Giovanna zia Porredda si commosse, ma non sapendo più che fare, uscì sulla loggia e chiamò:

— Bachisia Era, vieni su, chè tua figlia sta diventando matta!

S'udì un passo per la scaletta esterna; zia Porredda rientrò e dietro di lei venne una donna alta, tragica, vestita di nero, col capo avvolto in una benda nera, nel cui cerchio spiccava un viso giallo d'uccello rapace, con due punti verdi brillanti per occhi, infossati e circondati da sopracciglia nere selvaggie e da cerchi lividi.

La sua sola presenza parve dare una calma rigida alla figliuola.

— Alzati! — disse una voce rauca.

Giovanna si alzò: era alta, grossa eppure svelta, con dei fianchi stupendi. Le sottane di orbace con una fascia di porpora intorno ai fianchi, orlate di panno verde, cortissime, lasciavano vedere i piedi piccoli, calzati da stivalini elastici, e il principio di due gambe modellate.

— Perchè dài tanto fastidio a questa brava gente? — chiese la madre. — Finiscila un po', scendi giù a cena e non spaventare le ragazze e non turbare la gioia di questa brava gente.

La gioia di quella brava gente consisteva nel ritorno, per le vacanze, del figlio studente in legge, arrivato quella sera.

Giovanna parve capire e si calmò: si tolse dal capo il fazzoletto di lana, scoprendo una cuffia di vecchio broccato dalla quale scaturivano ondate di capelli nerissimi, e andò a lavarsi in un catino d'acqua deposto sopra una sedia. Zia Porredda guardò zia Bachisia, si strinse le labbra fra l'indice e il pollice della mano destra, accennando di far silenzio, e andò via senza far rumore.

L'amica obbedì; non disse parola, attese che Giovanna si fosse lavata e rimessa, poi entrambe scesero silenziose la scaletta esterna. S'era fatto notte, una notte calma, calda, profonda: alla piccola prima stella gialla erano seguite migliaia di astri argentei: la via lattea passava come un gran velo trapuntato di scintille, e un profumo aspro di fieno secco gravava nell'aria.

Nel cortile i grilli cantavano nascosti nel pergolato, e il cavallo ruminava sbattendo la sua zampa ferrata. In lontananza udivasi un canto melanconico.

La porta della cucina e quella d'una camera terrena, che per l'occasione serviva anche da stanza per pranzare, davano sul cortile ed erano spalancate. In cucina, accanto al focolare acceso, si vedeva zia Porredda intenta a condire dei maccheroni; e una bambina vestita con un signorile abitino nero, bionda, scarmigliata, scalza, che litigava con un bimbo vestito in costume, molto grasso e rosso come la nonna.

La bimba imprecava maledettamente, nominando tutti i diavoli; il bimbo cercava pizzicarla alle gambe.

— Finitela, — diceva zia Porredda. — Ah, ah, volete finirla, figli cattivi?

— Mamma Porru, questa ragazzina impreca, mi dice: al diavolo chi ti ha fatto nascere.

— Ah, ah, Minnìa, tu andrai all'inferno viva e sana, — rispose la nonna, senza voltarsi, rimescolando i maccheroni.

— Egli mi pizzica, mamma Porru, ahi, ahi, come mi pizzica!... Che tu sii scorticato, immondezza, se ti afferro ti dò tanti schiaffi quanti capelli hai sul capo...

— Minnìa, che parlare è questo?...

— Egli mi ha rubato il portamonete, quello che ci ha il papa dipinto, quello che mi ha portato zio Paolo...

— Non è vero, no! Non mi far parlare, Minnìa, — gridò il bambino minaccioso, — in quanto a rubare...

La bimba tacque come per incanto; ma dopo un po' il bimbo prese un bastone e col manico ricurvo cominciò ad afferrarle una gamba, e Minnìa si mise a piangere; la nonna si voltò col mestolo in mano.

— In verità, io vi batto col mestolo, cattivi figliuoli. Aspettate, aspettate. — Li rincorse, ed essi scapparono nel cortile, andando ad urtare contro Giovanna e la madre.

— Che c'è, che c'è?...

— Ah, mi fanno disperare, essi sono indiavolati!... — disse zia Porredda dalla porta di cucina.

In quel punto una figurina nera si staccò dal portone socchiuso e disse con voce commossa:

— Essi tornano, nonna, eccoli qui.

— E lasciali tornare. Faresti bene, Grazia, a dar attenzione ai tuoi fratelli, che si azzuffano fra loro come pulcini.

Grazia non rispose, ma poco dopo prese dalle mani di zia Bachisia il lume di ferro, lo spense e andò a nasconderlo dietro la panca di cucina, dicendo a bassa voce:

— Dovreste vergognarvi di queste candele, nonna, ora che c'è zio Paolo.

— Ma che zio Paolo; credi che egli sia stato allevato nell'oro?

— Egli viene da Roma...

— Un corno! A Roma lumi come questi non ce ne sono, perchè l'olio lo comprano a soldi, mentre noi ne abbiamo delle olle colme.

— State fresca voi se credete ciò, — disse la ragazza, e saltò nel cortile palpitando nell'udire la voce del nonno e dello zio.

— Giovanna, salute, zia Bachisia come state? — diceva la voce calda dello studente. — Io bene, grazie al Signore! Oh, mi dispiace tanto la vostra disgrazia: coraggio, chissà? è domani la sentenza?

Entrò nella stanza ov'era apparecchiata la tavola, seguìto dalle donne e dai bambini che la sua presenza intimoriva e divertiva nello stesso tempo.

Egli era piccolo e zoppicava alquanto, perchè aveva un piede più piccolo e una gamba un po' più corta dell'altra. Perciò lo chiamavano dottor Pededdu (piedino), ed egli non se n'aveva a male, perchè, diceva, val meglio avere un piede più piccolo dell'altro che avere la testa più piccola di quella degli altri.

Il suo visino roseo e tondo con due piccoli baffi biondastri, sorrideva sotto un gran cappello nero a cencio. Egli dicevasi socialista.

Entrato nella stanza si mise a sedere sul letto, a gambe sospese, e attirò accanto a sè, uno per parte, il nipote e la nipotina che lo guardavano a bocca aperta, stringendoli a sè, senza badarvi, dando attenzione al racconto doloroso che gli faceva zia Bachisia. Però di tanto in tanto osservava Grazia, la cui figurina tredicenne alta e angolosa, in formazione, veniva viepiù deformata da un vestitino nero troppo stretto. Gli occhi di lei, chiari e metallici, fissavano ostinatamente, avidamente lo zio.

— Ecco, — diceva zia Bachisia con la sua voce rauca, — il fatto andò così: Costantino Ledda aveva uno zio carnale, fratello del padre; si chiamava Basile Ledda soprannominato l'Avoltoio (Dio l'abbia in gloria, se non è fra le granfie del diavolo), tanto era avido di denari.

«Era un tristo, un avoltoio giallo, Dio l'abbia perdonato: basta, si dice che abbia fatto morire la moglie di fame. Ecco, Costantino restò sotto la sua tutela; aveva qualche cosa, il bimbo; lo zio gli mangiò tutto, poi lo bastonava, lo legava tra due pietre, in campagna, e lo lasciava al sole ed alle api che gli pungevano persino gli occhi.

«Basta, arrivò un giorno che Costantino scappò di casa; aveva sedici anni. Mancò tre anni: egli disse d'essere stato a lavorare nelle miniere, io non so, egli disse così.

— Sì, sì! Egli è stato a lavorar nelle miniere! — proruppe Giovanna.

— Non so! — disse la madre, stringendo la bocca in atto dubbioso. — Basta, fatto sta che durante l'assenza di Costantino fu su Basile l'avoltoio sparato un colpo di fucile mentre stava in campagna. È vero che egli aveva dei nemici. Quando Costantino tornò, confessò che era scappato per sfuggire alla tentazione di ammazzare lo zio, che aveva odiato a morte; ora però il giovane cercò e ottenne di far pace con l'avoltoio... Ora senti, Paolo Porru...

— Dottor Porru! Dottor Pededdu! — gridò il nipotino, correggendo l'ospite. Questa lo guardò con ira e fu per dargli uno schiaffo, un piccolo schiaffo; Giovanna si mise a ridere.

Nel veder ridere l'ospite addolorata, che aveva lo sposo in carcere e che quindi appariva circondata da un'aureola romantica, anzi tragica, la pallida e scarna Grazia si mise anch'essa a ridere nervosamente; anche Minnìa rise, anche il piccolo paesano e lo studente risero. Zia Bachisia si guardò attorno con occhi fosforescenti. Perchè ridevano? Erano matti? Alzò la mano gialla e magra, ma mentre stava per lanciare uno schiaffo, non sapeva bene se a sua figlia od al bimbo, ecco zia Porredda coi maccheroni fumanti.

Dietro di lei veniva zio Efes Maria Porru, uomo grosso, imponente, col petto molto stretto nel velluto turchino del giustacuore. Egli era un contadino che posava a letterato: aveva un faccione grigio che pareva un mascherone di marmo vecchio, con la corta barba a riccioli, le labbra grosse spalancate, e gli occhi grandi e chiari.

— Presto, presto a tavola! — disse zia Porredda, sbattendo il piatto in mezzo alla tavola. — Ah, voi ridete? Il piccolo dottore vi fa ridere?

— Io stavo per dare uno schiaffo a vostro nipote, — disse zia Bachisia.

— Perchè, anima mia? Venite dunque a tavola. Giovanna qui. Dottor Porreddu, venga qui.

Lo studente si gettò supino sul letto, stese le braccia, sollevò le gambe per aria, le riabbassò, si rialzò, balzò giù in piedi, sbadigliando.

E i ragazzi e Giovanna ricominciarono a ridere. Egli disse:

— Un po' di ginnastica fa bene. Oh Dio, come dormirò stanotte! Ho tutte le ossa slegate. Come ti sei fatta grande, Grazietta; sembri una pertica.

La ragazza arrossì e chinò gli occhi; zia Bachisia sporse il muso, scandolezzata perchè lo studente pensava a tutt'altro che alla storia da lei narrata, e perchè gli ospiti tutti facevano poco caso della disgrazia di Costantino. D'altronde anche Giovanna sembrava dimenticare, e solo quando zia Porredda le ebbe messo davanti una enorme porzione di maccheroni rosei fragranti di sugo, la giovine si rifece scura in volto e rifiutò di mangiare.

— Ve l'avevo detto io! — esclamò zia Porredda, meravigliata. — Essa è matta, in verità mia è matta! Perchè non mangiare ora? Che c'entra il mangiare, ora, con la sentenza di domani?

— Via, — disse zia Bachisia, non senza un po' d'acredine, — non far sciocchezze; non disturbar la gioia di questa brava gente.

E zio Efes Maria si mise signorilmente il tovagliuolo sotto il mento, e sputò la sua sentenza letteraria.

— Cuor forte contro la sorte, dice Dante Alighieri. Via, Giovanna Era, dimostra che tu sei un fiore delle montagne, più forte delle pietre. Il tempo appianerà ogni cosa.

Giovanna cominciò a mangiare, ma con un singhiozzo in gola che le impediva d'ingoiare le vivande.

Paolo stava zitto, curvo sul suo piatto: e questo era già pulito quando Giovanna arrivò a ingoiare il primo maccherone.

— Sei un vento, figlio mio, — disse zia Porredda. — Che fame da cane hai tu! Ne vuoi altri? Sì; e altri ancora? Sì?

— Oh bravo! — disse zio Efes — parrebbe che nella Città Eterna tu non abbia visto mai roba da mangiare.

— Eh, l'ho detto io, — affermò zia Porredda, — luoghi belli, se volete, ma là tutto si compra a soldi contanti. Io l'ho sentito dire, in verità mia: nelle case non ci sono provviste, come da noi, e quando nella casa mancano le provviste, voi sapete bene che non ci si sazia mai...

Zia Bachisia annuì, perchè purtroppo ella sapeva ciò che è una casa senza provviste.

— È vero o non è vero, dottor Porreddu?

— È vero, — egli diceva, mangiando e ridendo, e agitando le mani larghe e bianche dalle unghie lunghissime.

— Perciò egli è diventato una sanguisuga, un vampiro! — osservò zio Efes Maria, rivolto alle ospiti. — Non mi lascia una stilla di sangue nelle vene. Corpo del demonio, si mangia denaro a Roma!

— Ah, se sapeste, — sospirò Paolo, — tutto, tutto è così caro! Una pesca venti centesimi. Ah, ora sto bene!

— Venti centesimi! — dissero tutti ad una voce.

— Ebbene, zia Bachisia, e poi? Quando Costantino tornò?... — chiese Paolo.

— Ebbene, Paolo Porru... ah, io continuo a darti del tu, sebbene tu sii fra poco dottore, perchè quando eri ragazzino ti ho dato persino qualche scappellotto...

— Non ricordo; andate avanti, — disse il giovine, mentre le narici di Grazia fremevano per la stizza.

— Ebbene, ti dissi che Costantino mancò tre anni e che...

— Stette nelle miniere; benissimo, poi ritornò e fece pace con lo zio.

— Ed ecco che vide Giovanna mia, questa ragazza, e s'innamorarono: lo zio non voleva, perchè la ragazza è povera. Ricominciarono ad odiarsi; Costantino lavorava per l'avoltoio, e l'avoltoio non gli dava un centesimo. Allora Costantino venne da me e disse: — io sono povero, non ho denari per comprare i gioielli alla sposa e per fare la festa e il banchetto delle nozze cristiane, e anche voi siete povere: ebbene, facciamo così, sposiamoci soltanto civilmente, per ora; lavoreremo assieme, accumuleremo la somma necessaria per la festa e ci sposeremo poi con Dio. — Siccome molti usano far così, lo facemmo anche noi. Si fece in silenzio il matrimonio civile e vivemmo assieme d'accordo. L'avoltoio schiantava dall'ira; egli veniva ad urlare persino nella nostra strada, e provocava da per tutto Costantino. E noi lavoravamo. Dopo la vendemmia, l'anno scorso, mentre preparavamo i dolci per le nozze, Basile Ledda fu trovato ammazzato nella sua casa. La sera prima Costantino fu visto entrare da lui: era andato per annunziargli le nozze e chiedergli pace. Ah, povero ragazzo! egli non volle fuggire come io gli consigliai. E fu arrestato.

— Perchè era innocente... mamma... mia...

— Ecco che quella sciocca ricomincia a piangere. Se non taci, io non dico più nulla, ecco. Ebbene, Costantino fu arrestato, ed ora si fa il dibattimento ed il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati. Ma è un cane quel pubblico ministero? Ci son delle prove è vero, fu visto entrare Costantino di notte, in casa dello zio, che viveva solo come un uccello selvatico che era; si ricordò il passato: tutto questo è vero, ma prove non ci sono. Costantino si mostrò pieno di contraddizioni e di rimorsi: egli dice sempre queste parole: è il peccato mortale. Perchè devi sapere che egli è un buon cristiano, e crede d'essere stato colpito dalla sventura perchè visse con Giovanna prima di essersi sposati religiosamente.

— Ma ditemi una cosa...

— Aspetta. Aggiungi che sposati religiosamente, poi, si sono. In carcere, sì, in carcere, anima mia, figurati che cosa orrenda. Non ricominciare a piangere, Giovanna, altrimenti ti butto in faccia questa saliera. Eccola lì la sciocca! Tutti dicevano: no, no, non sposarlo; se egli è colpevole e viene condannato tu potrai sposarne un altro...

— Ah, come siete vili!... — urlò la giovine, con occhi fiammeggianti; ma lo sguardo acuto della madre si fissò sul suo ed ella tacque di nuovo.

— Lo dicevo io, forse? — chiese zia Bachisia. — No, lo dicevano gli altri, e lo dicevano per il tuo bene.

— Il mio bene, il mio bene, — si lamentò Giovanna, nascondendo il viso fra le mani. — Il mio bene è finito, è finito, è finito.

— Avete figli? — le chiese Paolo.

— Sì, uno. E se non ci fosse lui guai. Guai! Se Costantino verrà condannato e il bimbo non ci fosse, guai! guai! — E si ficcava le dita entro i capelli, al di sopra della fronte, e scuoteva la testa come una pazza.

— Tu ti ammazzeresti, cuor mio? — chiese la madre con ironia. Lo studente credette vedere qualche cosa di finto nel moto di Giovanna: la rassomigliò ad una famosa attrice, in una commedia francese, e parole scettiche gli uscirono dalle labbra, davanti al dolore della giovine donna.

— Ecco, — egli disse, — del resto ora è approvata la legge sul divorzio: ogni donna che ha il marito condannato può tornar libera.

Giovanna non parve neppure capire quelle parole, e continuò a scuoter la testa fra le mani; zia Porredda disse convinta:

— Sì, un corno! Neppure Dio può disfare un matrimonio!

Zio Efes Maria osservò, un po' beffardo:

— Già! L'ho letto sul giornale. Questo divorzio ora! Lo faranno in continente, dove, del resto, uomini e donne si maritano molte volte, senza bisogno di prete e di sindaco; ma qui, oibò!...

— No, babbo Porru, non è in continente, è in Turchia, — osservò Grazia.

— Anche qui, anche qui! — disse zia Bachisia, che aveva capito tutto.

Appena ebbero cenato, le Era uscirono per andare dall'avvocato.

— Dove le farete dormire? — chiese Paolo. — Nella camera dei forestieri?

— Sicuro. Perchè?

— Perchè veramente volevo starci io lassù: qui si soffoca. Qual migliore forestiero di me?

— Abbi pazienza fino a domani, figliolino mio. Esse sono povere ospiti...

— Oh Dio, che barbari costumi, quando finiranno? — egli chiese indispettito.

— Lo chiedo anch'io, — disse zio Efes Maria, che s'era messo a leggere il giornale. — Mi rompono le scatole queste donne. Ebbene, cosa ne dici tu del nuovo Ministero?

— Io me ne infischio, — egli rispose ridendo, perchè ricordava quel personaggio della Dame chez Maxim, delizia del teatro Manzoni, del quale egli era un habitué.

E andò a guardare certi libri che aveva riposti in una nicchia in fondo alla stanza. Minnìa e il fratellino erano usciti nel cortile; Grazia, seduta davanti alla tavola, coi pugni nelle guancie, guardava sempre lo zio. Ed egli le si rivolse:

— Tu leggi romanzi, non è vero?

— Io no, — diss'ella arrossendo.

— Ed io ti dico che se ti trovo io, leggendo certi libri, te li scaravento sul capo...

Le labbra di lei tremarono: per nascondere il suo pianto s'alzò ed uscì fuori, e sentì che i fratellini litigavano ancora a proposito del portamonete col papa.

— In quanto a rubare, — diceva il bambino, — tu stai zitta, perchè tu con quell'altra che è lì, quella pertica, oggi voi avete venduto del vino e vi siete tenute i soldi...

— Ah, bugiardo! — disse Grazia andandogli sopra, e lo picchiò mentre piangeva amaramente.

Intorno cantavano i grilli; il cavallo ruminava sbattendo la zampa sul selciato, le stelle piovevano un barlume latteo sul cortile caldo e fragrante di fieno secco.

— Essa è una povera orfana, non maltrattarla, — diceva zia Porredda a suo figlio, difendendo Grazia, (i tre ragazzi erano figli del figlio maggiore dei Porru, ricco pastore, e di una giovane morta un anno prima) — e se vuol leggere lasciala leggere.

— Sì, lasciala leggere! — affermò solennemente zio Efes Maria. — Ah, perchè non lasciarono leggere anche me quando era giovinetto? Sarei diventato astronomo, istruito come un prete.

Astronomo, per zio Efes Maria, era uomo coltissimo, savissimo, come a dire filosofo.

— Hai visto il papa, figlio mio? — chiese zia Porredda, per associazione d'idee.

— No.

— Come, tu non hai visto il papa?

— O che credete voi? Il papa sta dentro una scatola, e per vederlo bisogna pagare, pagare molto.

— Oh va! — ella disse — tu sei un miscredente.

E uscì nel cortile, dove i nipotini si bastonavano: piombò in mezzo a loro, li divise, li gettò uno per parte del cortile, gridando:

— In verità mia che siete tanti pollastri. Eccoli i pollastri, che Dio vi salvi. Cattivi figliuoli! Tutti cattivi!

I bambini singhiozzavano fra lo stridìo dei grilli, nella notte serena.

II.

L'indomani mattina Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un roseo barlume d'aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.

Appena svegliata, la giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono fortissimo l'avvolgesse. Ricordava.

Quel giorno doveva decidersi il destino del suo sposo. Ella aveva la certezza della condanna di Costantino, ma si ostinava a sperare ancora. Che egli fosse o no colpevole ella non pensava affatto, e forse non aveva pensato mai: solo la conseguenza del fatto, la separazione forse eterna da quell'uomo giovine, dalle forme svelte e forti come quelle d'un veltro, dalle mani liscie e le labbra ardenti, la martoriava. E nel ricordare sentì tanta angoscia che balzò incoscientemente dal letto e cominciò a vestirsi, dicendo con voce anelante:

— E tardi, è tardi, è tardi...

Zia Bachisia apri i suoi piccoli occhi di lucciola, ed anch'essa si alzò; ma sapeva bene ciò che doveva accadere quel giorno e il giorno dopo e un anno e due e dieci anni dopo, per non scalmanarsi. Si vestì, intinse le mani nell'acqua e se le passò sul viso una sola volta; poi s'asciugò e avvolse la benda sul capo con somma cura.

— È tardi, — ripeteva Giovanna. — Dio mio, è tardi...

Ma la calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di recar da mangiare all'accusato), mise tutto in un canestro e s'avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.

Le vie erano deserte; il sole, appena sorto sulle cime granitiche dell'Orthobene, inondava l'aria di pulviscoli d'oro roseo; il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l'aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa, non ancora animato dalla gente e dal suono delle campane. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione (presso cui abitavano i Porru) conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati come un enorme diadema d'ametista sull'orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l'aria piena di profumi selvatici, pensava alla sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.

La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e nella luminosità mattutina la sentinella immobile e muta pareva una statua: un cespuglio verde sorgeva accanto al muro del carcere, accrescendo la tristezza del luogo. Il portone verdognolo che di tanto in tanto si socchiudeva come la bocca d'una sfinge, s'aprì per inghiottire le due donne. Tutti là dentro, nell'antro orrendo, conoscevano le due sventurate; dal capo-guardiano, rosso e imponente, che sembrava un generale, all'ultima guardia pallida dai baffi biondi ritti, che aveva pretese d'eleganza.

Nell'andito buio e fetente si sentiva già tutto l'orrore dell'interno: le due donne non procedettero oltre; ma il guardiano pallido ed elegante venne a prendere il canestro, e Giovanna gli chiese sottovoce se Costantino aveva dormito.

— Sì, egli ha dormito, ma sognava, sognava. Diceva: Il peccato mortale.

— Ah, quel suo peccato mortale, che egli vada al diavolo!... — disse zia Bachisia. — Dovrebbe finirla!

— Mamma mia, perchè lo imprecate? Non è egli abbastanza maledetto dalla sorte? — mormorò Giovanna.

Ritornate fuori, le due donne attesero l'uscita dell'accusato. Quando Giovanna vide i carabinieri che dovevano condurlo alla Corte, cominciò a tremare convulsivamente, sebbene anche i giorni avanti l'avesse visto uscire fra di loro. I suoi occhi neri s'allargarono, fissando il portone con uno sguardo pazzo. Minuti d'attesa spasmodica trascorsero: la bocca della sfinge si socchiuse ancora e fra i gendarmi dal viso grigio di granito e i lunghi baffi neri, apparve la figura di Costantino. Era alto ed agile come un giovane pioppo: due bende di capelli neri, lucidi e lunghi, incorniciavano il suo viso sbarbato d'una bellezza femminea, sbiancato dalla prigionia; aveva due grandi occhi castanei e una piccola bocca di fanciullo innocente. E la fossetta sul mento: sembrava un giovine Apollo.

Appena vide Giovanna, sebbene anch'egli aspettasse quel momento, si fece ancora più bianco e si fermò resistendo ai soldati. Giovanna gli si precipitò davanti e singhiozzando gli strinse la mano incatenata.

— Avanti, — disse un carabiniere, con voce dolce, — tu sai che non è permesso, buona donna.

Ma anche zia Bachisia s'era avvicinata, saettando il gruppo con lo sguardo dei suoi piccoli occhi verdi. I carabinieri si fermarono un istante, Costantino disse con voce ferma, quasi lieta:

— Coraggio! coraggio! — ed ebbe la forza di sorridere a Giovanna.

— L'avvocato ti aspetta là, — disse zia Bachisia mentre i carabinieri respingevano dolcemente le due donne.

— Buone donne, andate via, andate, — dissero, trascinando via l'accusato. Egli sorrise ancora a Giovanna, mostrando i denti bianchissimi fra le labbra fresche ma pallide, e s'allontanò fra le due figure che sembravano di granito.

Zia Bachisia a sua volta trascinò via Giovanna, che voleva seguire il marito; e la ricondusse in casa Porru per far colazione prima di recarsi alla Corte. Il sole inondava il cortile; sui pampini lucenti del pergolato, da cui pendevano lunghi grappoli d'uva acerba che parevano scolpiti in marmo verde, le rondini cantavano guardando il sole, e zio Efes Maria, montato sul suo cavallo baio, disponevasi a partire per la campagna. Che luce e che festa in quel cortile, cinto soltanto da un piccolo muro di pietre, e dal quale godevasi un vasto orizzonte! I bambini mangiavano la loro zuppa di caffè-latte seduti sul limitare della porta di cucina; Grazia era andata a mangiar la sua in un cantuccio, forse per non essere veduta dallo zio studente in quella prosaica operazione, mentre egli, in maniche di camicia, in piedi in mezzo al cortile, divorava il suo grande scodellone di zuppa. E zia Porredda gli lustrava le scarpe, tutta meravigliata per i racconti che andava narrandole il figliuolo.

— Come è grande San Pietro? (Bisogna spiegare che Paolo era stato solo quell'anno a Roma). Ebbene, è grande quanto una tanca. Non si può neppure pregare. Come si può pregare in una tanca? Gli angeli sono grandi come quella porta, gli angeli più piccini, sapete, quelli che sostengono la pila dell'acqua santa.

— Ah, allora bisogna metter la scala, per prender l'acqua.

— No, perchè essi sono inginocchiati, mi pare. Datemi un altro po' di caffè-latte, mamma. Ce n'è?

— Sicuro che ce n'è. Sei tornato ben affamato, piccolo Paolo mio: sembri un pesce-cane.

— Sapete quanto costa una zuppa così a Roma? Una lira, non meno. E il latte è acqua.

— Che sieno benedetti! È spaventevole ciò!

— Ah, sapete! Ho visto i delfini, in mare. Oh, come erano curiosi! Ah, ecco le ospiti. Buon giorno. Cosa avete fatto?

Giovanna raccontò l'incontro col marito, e voleva ricominciare a piangere, ma zia Porredda la prese per mano e la condusse in cucina.

— Oggi tu hai bisogno di forze, anima mia; mangia, mangia, — le disse, presentandole una gran tazza di caffè-latte.

Poco dopo le due donne uscirono per andare alla Corte d'Assise, e Paolo promise loro di raggiungerle.

— Coraggio! — disse zia Porredda, congedandosi da Giovanna.

Ella sentì già la condanna di suo marito nella voce dell'ospite, e andò via a testa bassa, come un cane frustato. Paolo la seguì con gli occhi, poi andò verso sua madre, zoppicando come un pulcino ferito, e le disse una cosa strana:

— Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.

— Cosa dici, dottor Pededdu? — gridò la donna, che quando s'arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. — In verità mia, tu sei matto.

— Oh, mamma, io ho attraversato il mare! — disse egli. — Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato!

— Quel giovinetto! — diceva Giovanna a sua madre, mentre scendevano un ripido viottolo, — mangia come un cane, che Dio lo salvi.

Zia Bachisia camminava pensierosa, e rispose a denti stretti:

— Sarà un buon avvocato; rosicchierà i clienti fino all'osso: anzi li divorerà vivi e buoni.

Detto ciò tacquero entrambe. Ad un tratto zia Bachisia inciampò in un sassolino, e mentre inciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato di sua figlia.

Erano le otto quando giunsero davanti la cattedrale, al cui fianco le piccole finestre del Tribunale riflettevano nei vetri la luminosità del mattino.

Nella piccola piazza di granito le due donne ritrovarono molti compaesani, testimoni del processo, alcuni dei quali le circondarono ripetendo la solita parola:

— Coraggio! coraggio!

— Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! — disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò diritta all'aula triste e fatale.

Giovanna la seguì, seguirono i compaesani, uomini quasi tutti barbuti ed in rozzi costumi, ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.

I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro banchi; uno aveva un enorme naso aquilino, due con barbe folte e occhi selvaggi sembravano banditi, tre, aggruppati, con le teste vicine, ridevano leggendo un giornale.

Apparve il presidente, dal viso roseo circondato d'una scarsa barba bianca; il pubblico ministero, giovine, con baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente; il cancelliere, l'usciere: nelle toghe nere a Giovanna essi parevano maghi, feroci maghi venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.

Egli stava nella gabbia, come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso Giovanna, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s'offuscavano di terrore.

Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.

L'avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con vocina stridula e femminile. La sua difesa era stata già abbastanza disgraziata: ora egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d'acqua in un gran vaso senza eco.

Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria insolente; qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l'accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l'avvocato parlava più si sentivano perduti.

Qualche altra persona giungeva, ponendosi dietro Giovanna, che ogni tanto volgevasi vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all'accusato.

Quando l'avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.

— Ecco..., ecco... — disse con voce incerta, additando il difensore, — il signor avvocato ha parlato... mi ha difeso... ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io... non ha detto, ecco, non ha detto...

Si fermò anelante.

Il presidente disse:

— Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.

L'accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po' convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.

— Ecco, — cominciò a voce bassa, — io, io,... — Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l'avvocato e gridò con voce tonante:

— Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!

L'avvocato mosse una mano accennandogli di calmarsi; il presidente sollevò le sopracciglia come per dire: — ma se egli lo ha detto cento volte; è colpa nostra se non possiamo crederci? — e un singulto di donna fremette per la sala.

Era Giovanna che piangeva: zia Bachisia la trasse fuori riluttante e piangente, e tutti, tranne il pubblico ministero, diedero uno sguardo alla lotta delle due donne.

Poco dopo la Corte si ritirò per deliberare.

Zia Bachisia, seguita da due compaesani, trasse Giovanna sulla piccola piazza, ed invece di confortarla si mise a sgridarla. Che era pazza del tutto? Voleva che la cacciassero via con la forza?

— Se non stai zitta ti dò tanti pugni, in fede mia, — concluse.

— Mamma mia, mamma cara, — singhiozzava l'altra, — me lo condannano, me lo perdono, che essi siano maledetti, ed io non posso far nulla, io non posso far nulla...

— Cosa volete farci? — disse un compaesano. — Non potete far nulla come è vero che son vivo. Abbiate pazienza. E del resto aspettiamo ancora un po'...

In quel momento apparvero tre figure nere, una delle quali rideva e zoppicava. Era Paolo Porru fra due giovani preti suoi amici.

— Eccola là, — disse lo studente. — Pare glielo abbiano già condannato.

— In mia coscienza, osservò uno dei preti — pare davvero una puledra: e dà anche dei calci, pare...

L'altro cominciò a guardar Giovanna con curiosità; poi tutti e tre i giovani amici si avvicinarono alle Era, e Paolo chiese se il dibattimento era finito.

Uno dei preti chiese:

— È quello che ha ucciso lo zio?

L'altro continuava a guardar Giovanna che andava calmandosi.

— Egli non ha ammazzato nessuno! — disse fieramente zia Bachisia, — Assassini sarete voi, corvi neri.

— Se noi siamo corvi, voi siete una strega, — rispose il giovine prete.

E qualcuno dei presenti rise.

Intanto Giovanna, che alle esortazioni di Paolo s'era calmata, promise di non far scene se la lasciavano rientrare nella sala. Rientrarono tutti assieme; mentre i giurati riprendevano i loro posti, dopo breve deliberazione.

Un silenzio profondo gravò sulla sala calda e cupa: Giovanna udì una mosca ronzare intorno ad un ferro della finestra; poi le parve che tutte le sue membra s'appesantissero, che lungo il corpo, lungo le gambe, lungo le braccia le si infilzassero delle spranghe di ferro gelido.

Il presidente lesse la sentenza con voce bassa e indifferente, mentre l'accusato lo guardava fisso, col respiro sospeso. Giovanna udiva sempre il ronzar della mosca, e provava un impeto d'odio verso quell'uomo roseo dalla barba bianca, non per ciò che leggeva, ma perchè leggeva con voce bassa ed indifferente. E quella voce bassa e indifferente condannava a ventisette anni di reclusione l'omicida che aveva premeditato lungamente il delitto e lo aveva compiuto sulla persona d'uno zio carnale suo tutore.

Giovanna era tanto sicura d'una condanna a trenta anni che ventisette le parvero assai di meno; ma fu un istante: subito calcolò che tre anni, in trenta, contavano niente, e si morsicò le labbra per non urlare. La vista le si ottenebrò, con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi di lui velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era già diviso da lei per l'eternità. Era morto, essendo ancor vivo. E l'avevano ucciso quegli uomini grossi e pacifici che stavano ancora lì indifferenti, in attesa d'un'altra vittima. Ella sentì smarrire la ragione: all'improvviso udì grida selvagge echeggiare per la sala, qualcuno l'afferrò e la trascinò fuori nella piazza gialla di sole.

— Ma possibile, figlia mia? Ma tu sei pazza? Tu urli come una bestia; — disse zia Bachisia, trascinandola pel braccio. — A che pro poi? C'è l'appello, ora, c'è la cassazione, anima mia, sta' quieta!

Tutto questo accadde in pochi istanti. Tutti i testimoni, l'avvocato, Paolo Porru, circondarono le due donne e cercarono consolarle. Giovanna piangeva senza lacrime, con singhiozzi aridi che le tagliavano il petto: parole sconnesse, di tenerezza per Costantino, di minaccia per i giurati, le uscivano dalle labbra tremanti.

Pregò la lasciassero almeno assistere all'uscita del condannato, e attese. Egli apparve, infine, fra i due carabinieri freddi e impassibili; livido, curvo, con gli occhi infossati, improvvisamente invecchiato.

Giovanna gli si precipitò innanzi, e siccome i carabinieri non si fermavano, procedette alcuni passi di sghembo, rivolta al condannato, sorridendogli, dicendogli che la cassazione avrebbe rimediato tutto e che ella venderebbe anche la camicia pur di salvarlo. Egli la guardava con occhi spalancati pieni di stupore, e siccome i carabinieri lo spingevano ed uno di essi diceva:

— Va' via, buona donna, va' via, abbi pazienza; — anch'egli disse:

— Va' via, Giovanna: cerca di ottenere il colloquio prima che mi portino via: e... porta il bimbo..., e fa coraggio.

Ella ritornò con sua madre in casa degli ospiti. Zia Porredda abbracciò le due donne e si mise a piangere; poi parve arrabbiarsi della sua debolezza e cercò rimediarvi.

— Ebbene, ventisette anni che sono essi? E se lo condannavano a trenta non era peggio? Voi volete partire? Con questo sole? Voi siete matte, in verità mia, io non vi lascerò partire.

— No, — disse zia Bachisia, — partiamo, perchè partono anche gli altri compaesani che ci terran compagnia. Ma Giovanna, se non vi disturba, tornerà fra qualche giorno col bambino.

— Che voi siate benedette: la nostra casa è la vostra.

Si misero a tavola, ma Giovanna non mangiò, pur tenendosi calma: per due o tre volte zia Porredda tentò parlare di cose indifferenti, chiese se il bambino aveva messo i primi dentini, osservò che forse gli nuocerebbe farlo viaggiare con quel sole, poi chiese se al paese delle Era la raccolta dell'orzo era stata abbondante.

Una gran pace regnava nel cortile, pieno di sole qua e là ricamato dall'ombra del pergolato. Le rondini venivano e volavano, cantando. — Paolo leggeva il giornale e mangiava: Grazia e Minnìa (il fratellino era andato via col nonno) coi loro abitucci neri stretti, scarmigliate, a metà del pranzo socchiudevano già gli occhi, colte dalla sonnolenza del meriggio, e le parole di zia Porredda cadevano nel vuoto, in quel silenzio, in quella pace luminosa, dove la figura tragica di zia Bachisia e il muto dolore di Giovanna sorgevano solenni.

Appena finito il pranzo le due donne sellarono il loro cavallo, prepararono le loro bisaccie e si congedarono. Paolo promise di sollecitare il loro avvocato per il ricorso in cassazione, e appena esse furono scomparse si mise a giocare con Minnìa per scuoterla dal sonno invadente, facendo il pazzo: rideva sfrenatamente, scuotendosi tutto, ed all'improvviso taceva, diventava cupo, con gli occhi fissi, poi ricominciava a ridere.

Le ragazze si divertivano; cominciarono anch'esse a ridere pazzamente, e tutto il cortile luminoso, e tutta la casetta tranquilla, liberata dalla presenza tragica delle ospiti addolorate, echeggiò di letizia nella gran pace del meriggio.

III.

Le Era viaggiavano sotto il gran sole di luglio. Dovevano scendere la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi ascendere le montagne violacee che chiudevano l'orizzonte, ove i picchi selvaggi svanivano nel cielo reso d'una chiarezza cinerea dai vapori estivi.

Era un triste viaggio. Le due donne cavalcavano su uno stesso cavallo, mansueto e melanconico; dei compagni di viaggio chi precedeva e chi seguiva, sbandati, oppressi dal caldo, dal silenzio, dal dolore. Essi soffrivano per la condanna di Costantino, quasi quanto le due donne; tacevano rispettando l'angoscia muta di Giovanna, e se osavano parlare, la loro voce si smarriva senza vibrazioni, nel gran silenzio dell'ora e del paesaggio. Cammina cammina, la valle scendeva giù verso un torrente essiccato, per sentieri non precipitosi ma selvaggi, tracciati appena su chine inaridite, fra roccie, macchie polverose, stoppie gialle e melanconiche. Alberi strani, selvaggi e solitari come eremiti, sorgevano a grandi intervalli, muti e immobili su sfondi di una lucentezza desolante: la loro ombra cadeva per terra come l'ombra di una nuvola solitaria, smarrita, spaventata dalla luce immensa che interrompeva. E qualche strido di uccello selvatico sorgeva da quell'ombra, ed anche quel grido, prima acuto, pareva poi affievolirsi, vinto dal silenzio che interrompeva.

I grandi fiori dei cardi, d'un violetto vivo, le campanelle rosee dei vilucchi, le stelle color lilla delle malve, sfidanti il sole, accrescevano il senso di desolazione della valle. E giù e su serpeggiavano lunghe, infinite muriccie di pietra coperte di musco secco giallastro, saettate dal sole: campi di frumento non ancora mietuto, le cui spighe gialle parevano mazzi di spine, chiudevano la tacita lontananza. E cammina, cammina, Giovanna sentiva ardere la sua testa sotto il fazzolettone di lana bruciata dal sole, e lagrime silenziose le rigavano il volto. Ella sforzavasi di non farsi sentire a piangere da sua madre, che stava a cavalcioni in sella, mentre ella sedeva sulla groppa del cavallo — ma zia Bachisia vedeva, zia Bachisia udiva anche a spalle voltate, e oramai non ne poteva più.

— Senti, anima mia, — disse ad un tratto, mentre attraversavano il fondo della valle, fra grandi macchie di oleandri fioriti, — non potresti fare la carità di finirla? Perchè piangi? Non lo sapevi forse da molti e molti mesi?

Invece di finirla, Giovanna singhiozzò forte: allora zia Bachisia vedendo che i compagni di viaggio erano tutti lontani, si sfogò con voce bassa, rauca, che a Giovanna arrivava come da lontano, sfumata nel gran silenzio del luogo.

— Non lo sapevi tu, anima mia? possibile che tu sia così sciocca? Ha egli sì o no ammazzato l'avoltojo crudele? Sì, egli lo ha ammazzato...

— Egli non ha mai detto ciò — osservò Giovanna.

— Mancava soltanto che egli fosse così matto da dirlo, anche! Guarda un po', anima mia, mancava ciò soltanto! D'altronde io ero certa che egli, un giorno o l'altro, avrebbe schiacciato l'avoltojo come si schiaccia la vespa che ci ha punto. Tu dici che Costantino è un buon cristiano? Anima mia, ora tu sai un po' cosa sia l'odio. Ammazzeresti tu, sì o no, gli uomini che hanno condannato Costantino? Ebbene, egli ha ammazzato l'avoltojo, ed io lo compatisco, fino a un certo punto, perchè io conosco il cuore umano. Ma non gli ho perdonato, e non gli perdonerò mai la sua imprudenza. Ah, questo no, per amor di Dio! Egli aveva moglie e figlio, egli doveva far la cosa con prudenza, se voleva farla. E ora basta, e ora finiscila. Tu sei giovine, Giovanna, anima mia; figurati che egli sia morto.

— Ah, egli non è morto! — disse Giovanna con disperazione.

— Ebbene, allora appiccati. Ecco, vedi là quell'albero? Va e appiccati là. Ma non tormentarmi oltre! — esclamò zia Bachisia, alzando la voce. — Sei stata sempre il mio tormento. Se tu avessi sposato Brontu Dejas avresti fatto bene. No, tu hai voluto quel mendicante. Ebbene, ora va e appiccati.

Giovanna non rispose. In fondo anch'ella credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna, e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d'un loro simile. Ah, come ella odiava la loro misteriosa potenza! La odiava come odiava i fantasmi terribili, mai visti ma spesso sentiti, che popolavano le notti di tempesta.

E cammina cammina, si risalì la valle, si cominciò a salir le montagne; il sole calava, l'orizzonte si apriva, il cielo intenerivasi, il paesaggio perdeva la sua crudele desolazione. Lunghe ombre calavano dalle cime, stendendosi come tappeti sulle basse macchie cenerognole dove fioriva ancora qualche rosa canina: spiravano soffi di vento, pieni di odori selvatici. L'anima si consolava in quell'improvviso refrigerio di ombra e di frescura. Un compagno di viaggio s'avvicinò alle due donne e cominciò a raccontare una storiella di non so quali avventure strane capitate una volta, in quelle vicinanze, ad un suo amico: e ad un certo punto la storiella diventò così amena che Giovanna sorrise vagamente.

E cammina cammina, venne il tramonto, e dall'alto delle montagne si vide il mare, steso come una fascia di vapori azzurrognoli nel chiaro orizzonte. Al di là delle brughiere, formate di macchie così potenti che resistono ai pazzi venti invernali ed alle saette del solleone, sugli altipiani melanconici, sorgenti come isole sconosciute in un mare di luce e di solitudine, sta il paesello delle Era, Orlei, nido di gente bella, forte e selvatica, dedita alla pastorizia e alla coltivazione del grano e del miele. I pascoli verdi, intersecati di roccie, in primavera folti di asfodelo e fragranti di menta e di timo, e i campi di frumento raggiungono e circondano il piccolo gruppo delle casette costrutte di pietra schistosa, lucente come argento brunito; e grandi alberi ombreggiano qua e là quel nido di quaglia posato fra il grano: in lontananza si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.

Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.

I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.

Qua e là sulla spianata, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. La spianata, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.

Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa ed il bimbo, che le veniva incontro col piccino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse fra le braccia, e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla del bambino. Ora il suo pianto era calmo, d'una disperazione profonda: le pareva che il dolore sino allora provato fosse nulla in confronto al dolore che provava ora. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po' ruvido e due piccoli occhi violacei lucenti, con una cuffia dura, rossa, circondata di frangie che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:

— Ah, aah, aaah...

— Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto... — disse Giovanna piangendo.

La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche essa. Zia Bachisia sopravvenne, spinse Giovanna entro casa e pregò la parente d'aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:

— Siete pazze, davvero. C'è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d'uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male...

— No, — disse la parente, — essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d'aver sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.

— Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D'altronde, — soggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, — essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.

Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s'ingannava assai credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.

— Ecco, — disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, — fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.

La parente prese subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò verso la casa bianca. Questa casa, che i Dejas avevano acquistato pochi anni prima all'asta, espropriata ad un mercante fallito, era grande e comoda, preceduta da un portico quasi signorile, dove zia Martina lasciava passeggiare i majaletti e le galline. Non era una casa per pastori selvatici come i Dejas, e il rozzo arredamento delle stanze, composto di letti di legno, altissimi e duri, di arche rozzamente scolpite, di sgabelli e sedie pesanti, lo dimostrava.

Zia Martina stava nel portico, e filava ancora (ella sapeva filare anche al buio) quando Maria Chicca le ricondusse il cavallo. La casa era completamente deserta, perchè Brontu ed i servi erano in campagna, e zia Martina non aveva domestiche. Ella aveva altri figliuoli e figliuole maritate, coi quali viveva in continuo dissidio a causa della sua avarizia. Quando in casa c'era molto lavoro chiamava persone del vicinato, spesso anche Giovanna e sua madre, compensandole malamente con derrate avariate. Queste persone erano tanto povere che si contentavano di tutto.

— Ebbene, come è andata? — chiese, deponendo il fuso e la piccola conocchia sul sedile del portico. Aveva una voce sottile e nasale, due occhi rotondi, chiari, vicini, su un naso finissimo e aquilino, e la bocca ancora fresca e rossa. — Tu piangi, Maria Chicca? Ho visto tornare le due povere donne, ma non ho osato avvicinarmi, perchè stanotte ho sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.

— Me lo avete già detto, zia Malthina. Ah, no, lo hanno condannato a ventisette anni...

Zia Martina parve contrariata, non perchè odiasse Costantino, ma perchè credeva infallibilmente ai suoi sogni. Prese la briglia del cavallo, e disse:

— Se posso vado dalle Era questa sera stessa, ma non so se potrò andarci perchè aspetto un uomo, già servo di Basilio Ledda, che deve entrare al mio servizio. Egli è stato testimonio; credo però sia già tornato da Nuoro.

— Credo, — disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.

Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.

— Senti dunque — disse poi a Giovanna — ella verrà forse stasera.

Giovanna non rispose, non si mosse.

— Non odi dunque, anima mia? — gridò la madre stizzita. — Verrà stassera.

— Chi? — domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.

— Malthina Dejas.

— Ebbene, che essa vada al diavolo!

— Chi deve andare al diavolo? — domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —

— Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!

Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?

Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.

— Sia fatta la volontà di Dio, — disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. — Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio...

— Voi sapete? — chiese Giovanna.

— Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.

— Ah, zio Isidoro, — disse Giovanna, scuotendo il capo, — non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.

— Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era...

Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri uomini ancora.

In breve la casetta fu piena di gente, e Giovanna, sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credè suo dovere singultare e strillare disperatamente.

Zia Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.

— Malthina Dejas ti aspetta, — gli disse zia Bachisia. — Va.

— Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, — rispose Giacobbe, — ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.

— Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, — disse una voce sonora.

— Ah, siete lì, zio Isidoro, — disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. — Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?

Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:

— Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.

— Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.

E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.

— Zia Bachisia, — disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), — fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, — disse poi agli astanti, — facciamo una cosa, andiamocene via.

A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.

— Va a letto, — le impose la madre.

Ella guardò la porta e mormorò:

— Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo...

— Va a letto, va a letto... — disse la madre, con voce viepiù rauca.

La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.

E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.

Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.

Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere; e s'arrabbiava contro il dolore di Giovanna, ma nello stesso tempo anch'essa finalmente piangeva.

IV.

L'indomani a sera, — un sabato, — Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato da cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei mostravasi amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto nero e molto magro, di media statura, con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando conversava con donne sorrideva continuamente per mostrarli.

Rientrando di campagna, il sabato sera, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine egli era un lavoratore, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato egli rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d'un pezzente.

— Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane — diceva, scaricando il cavallo. — Accendete dunque il lume, almeno, chè non ci si vede neppure per imprecare. Che c'è da mangiare? — chiese poi.

— Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza — disse zia Martina. — Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent'anni?

— A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perchè non lo buttate alle galline? Alle galline! — ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

Zia Martina rispose tranquillamente:

— Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

— Ci siete stata voi da quelle donne? Ah! ora saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, — diss'egli con curiosità; ma appena la madre ebbe detto che c'era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli, e che zia Bachisia le aveva fatto capire d'essersi pentita di non aver affogato la figliuola prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

— Perchè ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

— Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! (Zia Martina, pretendeva di essere caritatevole). C'era anche prete Elias, questa mattina; sì, egli andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io dicevo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere.

— Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti egli è un uomo sterile, — disse Brontu, che odiava i preti, perchè un suo zio, parroco del paese prima che da Nuoro venisse mandato prete Elias Portolu, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

— Cosa dici tu, scimunito? — disse, anche questa volta segnandosi. — Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

— Allora è un bel santo! — osservò Brontu, poi insistè per avere particolari sulla disperazione delle Era. — Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre il resto, ora l'avvocato e le spese di giustizia l'avrebbero cacciata nuda anche di casa.

Il giovine ascoltava con viso intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza egli era semplicemente feroce.

— Ecco, — disse poi zia Martina, — Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio da domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiar a ufo?

— San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia...

— Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga, e per vivere ce ne vuole!

— E quelle due donne, come faranno? — chiese Brontu, dopo un po' di silenzio, sedendosi davanti ad un canestro di asfodello, dove zia Martina aveva deposto il pane e le uova.

— Ebbene, andranno a cercar chiocciole! — rispose zia Martina con ironia. Ella aveva ripreso il fuso e filava vicino alla porta aperta. — T'interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

Silenzio. S'udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e al di fuori, al di là del portico, lo zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della notte incipiente, il grido melanconico dell'assiuolo.

Brontu si versò il vino, prese il bicchiere e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le forbì col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

Ed ecco un suono di scarponi nella spianata. Zia Martina, sempre filando, s'avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell'armadio.

Entrando, Giacobbe s'accorse dell'atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

— Scommetto, — disse, portandosi un dito al naso — scommetto che parlavate di me.

— No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

— Ah, sì, povera creatura! — disse Giacobbe, facendosi serio. — E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

Brontu si mise in posa, accavalcando le gambe, rovesciandosi un po' indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

— Le opinioni sono varie! — disse con voce nasale. — Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

— O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

— Bè, fa lo stesso. Parliamo di noi.

— Parliamo di noi, — disse Giacobbe, accavalcando anch'egli le gambe.

Parlarono e conclusero l'affare del servizio di Giacobbe, poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola. Giacchè egli non era avaro, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava splendido. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubbriacarono.

Usciti poi nello stradale buio e silenzioso, dove spandevasi il profumo aspro dei campi inariditi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.

— Va' al diavolo! — gridò Giacobbe. — Tu sei un uomo senza cuore.

— Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

— Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

— Egli non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l'ho voluta. Se l'avessi voluta, ella mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

— Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

— Io? Io... non... sono... una... serva! — gridò Brontu, staccando le parole. — Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

— Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! — gridò anche Giacobbe.

Le loro voci risuonarono nella notte silente; ma poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle, che incoronavano di fiori d'oro i profili di sfinge delle montagne nere, l'assiuolo batteva sempre il suo grido melanconico.

E ad un tratto Brontu si mise a piangere; uno strano pianto d'ubriaco, senza lagrime nè singhiozzi.

— Ebbene, che hai? — chiese l'altro a voce bassa. — Sei ubriaco?

— Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

L'altro si offese, perchè non era stato mai non solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione, e fu preso da un vago timore. Disse, sempre piano:

— Tu diventi matto; che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

Allora l'altro si sfogò, lamentandosi come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

— Si pigli pure la mia anima il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! — disse poi; e rise, con un riso stridente e fanciullesco, più desolante del pianto di poco prima. — Io sposerò Giovanna.

Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente sentiva.

— Io sono come un uomo affogato! — disse. — Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

— Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? C'è una legge che alle donne, il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permette di riprendere marito.

Giacobbe aveva già sentito parlar di ciò, ma nessun caso di divorzio legale e tanto meno di nuovo matrimonio erasi ancora avverato in Orlei; tuttavia per non mostrarsi stupido disse subito:

— Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

— È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, parlagliene domani.

— Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c'è da ridere per sette mesi...

— Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! — disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. — Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

— E sposala, uccellino di primavera! — rispose l'altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme per lungo tratto di via, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

— Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? — gli chiese Giacobbe. — Sono ben punte le vostre gambe?

— Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, — disse l'altro, avvicinandosi. — Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

— Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? — chiese Brontu, minaccioso. — Tu non ti ubriachi perchè non hai con che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana...

Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

— Stupido, — disse Giacobbe a bassa voce. — Egli può farti l'ambasciata; è amico di Giovanna.

— Ebbene, — cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, — vieni, vieni! Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

— E dunque! — gridò ancora l'ubriaco, balbettando un po', — ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto...

Ma Isidoro s'allontanava a passi silenziosi.

— Non dirgli così, che modo è questo? — mormorò Giacobbe.

Allora Brontu cambiò metodo.

— Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica... ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora:

— Giacobbe Dejas!

— Che volete, anima mia? — chiese il servo con voce sarcastica.

— Fallo ta...ce...re! — disse Isidoro in tono di severo comando.

Non seppe perchè, Giacobbe provò un brivido nel sentire quella voce e quelle due parole, e tosto prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorandogli:

— Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera.....

— Non me l'hai detto tu?

— Io? Tu vacilli. Io non sono matto.

E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s'accorse tosto che il figlio era ubriaco, ma non gli disse niente, perchè sapeva che contrariandolo, quando egli si trovava in quello stato, montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n'era.

— Ah, non c'è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! — Egli cominciò a urlare. — Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

— Sì, sì, tu la sposerai, — disse zia Martina per calmarlo. — Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse vicino. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.

V.

Circa quindici giorni dopo, una domenica mattina, tutti i nostri personaggi si trovarono riuniti alla Messa officiata dal prete Elias che, dicevano quelli del paese, quando celebrava pareva avesse le ali.

Mancava solo Giovanna, e mancava per due ragioni: anzitutto perchè la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo, che la costringeva a non mostrarsi fuori di casa, tranne che il bisogno di lavorar fuori non glielo imponesse; e poi perchè ella era caduta in una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare. Già, buona cristiana ella non era stata mai: soltanto prima del dibattimento di Costantino aveva fatto qualche voto, come quello di recarsi a piedi, scalza, a capelli sciolti, fino ad una lontana chiesa di montagna, e se Costantino veniva assolto, di trascinarsi sulle ginocchia dal punto ove appena scorgevasi la chiesa, fino alla chiesa stessa, cioè per due chilometri circa.

Ora non pregava, non parlava, non mangiava. Anche il bimbo le era diventato quasi indifferente, e zia Bachisia doveva nutrirlo con latte e pane masticato per tenerlo su. Qualcuno diceva che Giovanna stava per impazzire, ed infatti, se ella usciva dalla sua atonia, durante la quale stava ore ed ore accoccolata in un canto con gli occhi vitrei fissi nel vuoto, era per dare in escandescenze, strapparsi i capelli, urlare parole insensate. Dopo il suo ultimo colloquio con Costantino, al quale aveva portato il bimbo, ella non pensava ad altro che alla scena avvenuta, e la ripeteva ad intervalli, con l'accento incosciente dei monomaniaci.

— Egli era là e rideva. Era livido e rideva. Dietro l'inferriata. Malthineddu si attaccò all'inferriata e lui gli toccò le manine. E rideva. Cuore mio! Cuore mio! Non ridere così, che mi fai male, tanto lo so che il tuo riso è il riso dei morti. E i guardiani stavano lì come arpie. Prima erano buoni questi guardiani di carne umana, ma dopo, dacchè Costantino è condannato, son diventati cattivi. Cattivi come cani. Malthinu nel vederli aveva paura e piangeva. E il padre rideva, capite? Il bambino, la creatura innocente, piangeva: capiva che suo padre era condannato e piangeva. Cuore mio! Cuore mio!

Zia Bachisia sbuffava, non ne poteva più, e diceva:

— In verità mia, tu sembri una creatura di due anni, Giovanna, anima mia. Ha più giudizio tuo figlio di te, sciocca.

E minacciava persino di bastonarla; ma tutto, preghiere, conforti, minaccie, tutto riusciva inutile.

Intanto da Nuoro giunse notizia che in attesa dell'appello Costantino era stato trasportato alle giudiziarie di Cagliari; poi venne una sua lettera breve e triste. Diceva d'aver fatto buon viaggio, ma che a Cagliari si soffocava per il caldo, e che certi insetti rossi ed altri di vario colore lo tormentavano notte e giorno. Mandava un bacio al bambino, pregando Giovanna di allevare Martineddu nel santo timor di Dio. E salutava anche il suo amico Isidoro.

Finita la Messa, zia Bachisia attese che il povero pescatore terminasse di cantare con la sua voce sonora le laudi sacre, per passargli i saluti di Costantino.

Prete Elias rimase inginocchiato sui gradini dell'altare, pregando, col volto pallido estasiato; Isidoro continuava a cantare, ma la gente cominciò ad andarsene.

Davanti a zia Bachisia passò zia Martina col suo passo fiero di cavalla vecchia ma ancora indomita: passò Brontu, vestito di nuovo, coi capelli lucidi di grasso (egli parlava male dei preti, ma la domenica andava alla messa) e passò Giacobbe, con un paio di calzoni di tela nuova, rude, non lavata, che puzzavano ancora di bottega.

Isidoro continuava a cantare.

La chiesa finì col restare quasi deserta ed egli cantava ancora. La sua voce sonora risuonava fra le bianche pareti polverose, sotto il tetto composto di travi e di canne, fra gli altari umili, coperti di rozze tovaglie, adorni di fiori di carta, su cui guardavano melanconici santi di legno colorato.

Quando zio Isidoro finì di cantare non c'era più nessuno tranne il sacerdote e un ragazzo che finiva di smorzare i lumi, zia Bachisia e un vecchio cieco.

Isidoro dovette ripetere da solo il ritornello delle laudi, poi si alzò, depose il campanello del quale si serviva per segnare le poste del rosario, e s'avviò. Zia Bachisia l'aspettava vicino alla porta; uscirono assieme ed ella gli diede i saluti di Costantino, poi gli chiese un favore; di pregare prete Elias perchè si degnasse d'andare a trovar Giovanna e farle una predica onde distoglierla dalla sua disperazione.

Egli promise e zia Bachisia si allontanò; nello stradale fu raggiunta da Giacobbe Dejas che era rimasto sull'alta spianata della chiesa guardando il villaggio ed i campi gialli inondati di sole.

— Come state? — chiese il servo a zia Bachisia.

— Ah, Dio mio, stiamo male senza esser malate! E tu come ti trovi coi nuovi padroni?

— Ah, ve l'ho già detto! Son caduto dalla padella nella brace. La vecchia è avara come il diavolo; vorrebbe che mi cascassero le viscere a furia di lavorare, e mi permette di tornare in paese, appena per ascoltar la Messa, ogni quindici giorni.

— E il padrone?

— Ah, il piccolo padrone? È un animale, ecco tutto!

— Cosa dici tu, Giacobbe?

— Ecco, dico la verità, uccellino di primavera. Egli si arrabbia come un cane per ogni piccola cosa, si ubriaca, ed è bugiardo come il tempo. Ecco, anzi Isidoro Pane vi avrà detto...

Egli tacque, sospeso, e zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi, pensando che se egli parlava tanto male del padrone aveva uno scopo.

— Ecco, — egli riprese, — Isidoro Pane vi avrà detto... sì certo, ve lo avrà detto... che Brontu era ubriaco quella sera. Qui, ecco, proprio qui, egli s'è messo a gridare: «Dirai a Giovanna Era che se fa divorzio, io la sposo!» Una bestia! Proprio una bestia! Egli beve l'acquavite a barili.

Di tutto questo zia Bachisia capì soltanto che Brontu aveva detto: «Se Giovanna Era fa divorzio la sposo». I suoi occhietti verdi scintillarono. E disse con fierezza:

— E tu, Giacobbe, tu non vorresti?

— Io? Che importa a me, uccellino di primavera? Ma voi dovreste vergognarvi di dire simili cose, zia nibbio, appena dopo due settimane...

— Io non sono un nibbio... — strillò la vecchia, offesa.

E l'altro rise, ma la donna capì che egli schiantava di rabbia.

— Aspettate almeno che arrivi l'appello, — disse Giacobbe. — E poi divorate Costantino come si divora l'agnello immacolato; divoratelo pure, ma Giovanna sposerà una botte di acquavite e voi, finchè vivrà Martina Dejas, morrete di fame peggio di prima...

— Ah, cocuzzolo spelato... — cominciò a gridare zia Bachisia; ma l'altro si allontanò rapidamente, ed ella dovette contentarsi di borbottargli dietro un mondo di vituperi.

Nonchè essa pensasse già di far divorziare la figlia, Dio ne liberi, mentre il povero Costantino era ancora sotto appello, chiuso in una fornace ardente, divorato da immondi insetti, no... ma perchè quel vile servo parlava così? che importava a lui del padrone? Zia Bachisia si fissò in mente che Giovanna piacesse a quel vecchio corvo spelato, e facendo di questi maliziosi pensieri rientrò a casa.

Voleva raccontare ogni cosa a Giovanna, ma per la prima volta, dopo quindici giorni, la vide a lavarsi e pettinarsi tranquillamente i lunghi capelli scarmigliati, che le cadevano in gran quantità, e non osò dirle niente.

VI.

E il tempo passò: venne l'autunno e venne l'inverno. Il ricorso di Costantino, come accade sempre, fu respinto; ed egli una notte fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Essi andavano. Dove? Non sapevano dove. Tacevano e non sapevano perchè tacevano. Li condussero al mare, li fecero salire su un lungo piroscafo nero, li chiusero in una gabbia. Sempre come bestie. Intorno il mare di cristallo verde-cupo rifletteva i fari di rubino e di smeraldo, le cui colonne di luce slanciavansi lontane, serpeggiando fra le onde come drappi fosforescenti di perle verdi e sanguigne. E sopra, sopra l'infinito anello del mare, il cielo di cristallo azzurro-cupo incurvavasi come una immensa valle silenziosa, tutta fiorita di stelle gialle. Sulle prime Costantino non provò impressioni disgustose. Egli andava verso l'ignoto, verso il suo crudele destino; ma aveva in fondo al cuore la certezza che verrebbe presto liberato, e non disperava mai. L'andirivieni del personale di bordo, il rumore delle catene, il primo ondular del piroscafo, gli diedero un'impressione di curiosità fanciullesca. Non aveva mai viaggiato in mare. Da ragazzo scorgendo all'orizzonte la linea cinerea del Mediterraneo, talvolta sfiorata dall'ala delle vele, egli, ritto fra i cespugli selvaggi della montagna natìa, aveva sognato di attraversare quelle onde lontane, verso paesi ignoti, verso le città d'oro del continente. Egli sapeva leggere e scrivere; nel suo libro c'era dipinto S. Pietro di Roma, e nella parte riguardante la Storia Sacra un'incisione rappresentava l'antica Gerusalemme.

Ah, Gerusalemme! Verso Gerusalemme, che secondo lui era la città più grande e bella del mondo, avrebbe voluto viaggiare, allora, quando ritto fra i cespugli di monte Bellu guardava la linea cinerea del Mediterraneo. Ora egli attraversava il mare, ma come diversamente dal suo sogno! Eppure il concetto che egli conservava ancora di Gerusalemme era così lusinghiero, che se l'avessero portato là, anche legato e condannato, ad espiare la pena, si sarebbe sentito felice.

E il piroscafo rullava, ondulava, andava, tra un fragore incessante di torrente. I condannati bisbigliavano fra loro, alcuni scherzavano e ridevano.

Costantino si assopì e sognò, come sempre gli avveniva, di trovarsi a casa sua. L'avevano liberato da poco, — egli sognava, — ed era tornato a casa senza far sapere nulla a Giovanna, preparandole così una sorpresa di indicibile gioia. Ella diceva: — ma questo è un sogno, questo è un sogno! — Le spese di giustizia avevan portato via di casa tutto, tutto, anche il letto. Non importava niente, però. Tutti i beni del mondo erano nulla in confronto alla gioia della libertà, alla felicità di vivere con Giovanna e con Malthineddu. Però Costantino era stanco, stanco, e s'era coricato nella culla del bambino, e questa culla ondulava da sè, sempre più forte, sempre più forte. Giovanna rideva e diceva: — Bada che cadi, Costantino mio, agnello caro! — e la culla ondulava ancora più forte.

Sulle prime anch'egli si mise a ridere, ma ad un tratto si sentì male, provò un capogiro e cadde dalla culla inclinatasi fino al suolo. Si svegliò col mal di mare. Il mare era mosso; il piroscafo saliva e scendeva da montagne d'acqua; l'acqua saltava fino sopra i passeggieri di terza.

Tutti i condannati soffrivano: alcuni cercavano ancora di scherzare, altri imprecavano; uno, il compagno di Costantino, un uomo dal viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.

— Oh, — diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, — io sognavo di essere a casa, ed ora... ed ora!... San Francesco bello, abbiate pietà di me...

Costantino, nonostante l'angoscia fisica e morale che provava, ebbe pietà del compagno.

— Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d'essere a casa...

— Ah, mi pare che mi sfugga l'anima, — disse un altro. — Cosa diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! — e taluni ebbero forza di ridere per il paragone.

La tempesta proseguì. In certi momenti a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, ma nello stesso tempo sentiva un dolore immenso della vita.

La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch'egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell'udire la sentenza di condanna egli aveva provato una disperazione simile. Cominciò anch'egli a gemere ed imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.

— Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato... — diceva; e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli inondava la bocca e tutta l'anima.

Verso l'alba la tempesta cessò; ma Costantino, anche dopo passatogli il male, non ritrovò pace; gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.

Il piroscafo non si fermava mai: oh, si fosse fermato almeno un momento! Un momento di tregua, pareva a Costantino, sarebbe bastato per ridonargli le forze smarrite, ma quel continuo procedere, quel continuo rullìo e quel continuo fragore di onde violentemente infrante, gli comunicavano un continuo tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, dando a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente egli potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando Costantino si svegliò, il piroscafo pareva muoversi appena; nel gran silenzio dell'ora antelucana udì una voce dire al di fuori:

— Quella è Procida...

Egli rabbrividì di freddo, e si domandò se lo conducevano a Procida, sembrandogli d'aver sentito dire che colà vi era la galera. Anche il compagno si svegliò, rabbrividì, sbadigliò lungamente.

— Siamo giunti? — domandò Costantino. — Come stai?

— Non c'è male! Siamo giunti?

— Non so: siamo vicini a Procida: c'è la galera là?

— No. È a Nisida. Ma noi non siamo galeotti! — disse l'altro con fierezza: poi tornò a sbadigliare.

— Oh, cosa sognavo... — aggiunse, ma non proseguì raccogliendosi nel ricordo del sogno; e Costantino non parlò oltre.

I condannati vennero sbarcati a Napoli, e chiusi subito in un carrozzone nero e giallo che sembrava un sepolcro ambulante.

Costantino ebbe appena la visione di un gran tratto d'acqua ferma, verde, ombreggiata da enormi piroscafi, con barche piene di uomini luridi che gridavano cose incomprensibili; intorno alle barche, sull'acqua verde, galleggiavano erbaggi, scorze di arancia, carte, immondezze. Edifizi immensi si delineavano su un cielo profondamente azzurro.

A Napoli i condannati furono separati: Costantino fu condotto al reclusorio di X. e non rivide più il suo triste compagno di viaggio dal viso giallo e sottile.

Giunto al suo destino, il condannato fu messo in cella, dovendo scontare sei mesi di segregazione. La cella misurava appena due metri di lunghezza e sei palmi di larghezza: ci stava appena uno strano lettuccio piegabile, che di giorno veniva chiuso e fermato alla parete. Dal finestrino scorgevasi soltanto il cielo.

Fu il tempo più triste della condanna di Costantino. Egli restava ore ed ore immobile, seduto, con le gambe accavalcate, le mani intrecciate intorno al ginocchio; ma, cosa singolare, non disperava mai, non si ribellava mai. Era convinto di espiare il «peccato mortale», come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla religiosamente. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l'altro, finita l'espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato.

Intanto, se non disperava, soffriva: e contava i giorni, le ore, i minuti, nella continua e snervante attesa di un cambiamento di cose che non arrivava mai, preso da una nostalgia accorata che lo istupidiva. E giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, viveva col pensiero vicino a Giovanna ed al bambino, ricordando con precisione profonda tutti i più minuti particolari della casa, della vita passata, delle gioie vissute. E oltre che del suo dolore soffriva per il dolore di Giovanna. Impeti di tenerezza per lei, più che per il bimbo, lo scuotevano dalla sua immobilità pensosa: allora balzava in piedi, camminava a grandi passi, e siccome questi passi erano due o tre, si fermava di botto, appoggiava e sfregava forte la testa sul muro, quasi volendolo abbattere. Erano i suoi momenti più disperati.

Poi tornava a sperare, a intrecciar nella mente sogni fantastici di liberazioni romanzesche, subitanee. Ogni volta che il guardiano entrava, Costantino si sentiva battere il cuore, aspettando la lieta novella.

Qualche volta giocava da sè alla morra, dandosi il gusto di perdere o di vincere; e dopo rideva fra sè, come un bambino: altre volte contemplava a lungo la palma della mano aperta, figurandola una grande pianura divisa in tancas[2] coi muri, i fiumi, gli alberi, gli armenti, i pastori, ai quali creava una vita di avventure emozionanti.

E poi pregava, contando sulle dita, e cantava le laudi a voce alta, provandosi anche ad improvvisare dei versi religiosi.

Così compose una lauda di quattro strofe dedicata a San Costantino, dove specialmente raccomandava al santo i condannati innocenti. Il ritornello infatti diceva:

Santu Costantinu pregade,

Pro su condannadu innocente.

La composizione di questa lauda lo occupò completamente per molti giorni, rendendolo quasi felice: e quando la ebbe finita ne provò una gioia profonda. Subito sentì il bisogno di far sapere a qualcuno che aveva composta una lauda. Ma a chi dirlo? Il guardiano, un piccolo uomo napoletano, calvo, sbarbato, con un naso schiacciato e all'insù, che pareva il naso d'uno scheletro, qualche volta parlava col condannato, ma non era in grado di capir la lauda.

Nell'ora di aria era proibito assolutamente al condannato in segregazione di rivolgere la parola ai compagni. Allora egli chiese di confessarsi, per poter recitare la lauda al confessore. Il confessore, cioè il cappellano dello stabilimento, era giovine e intelligente; un settentrionale dai movimenti rapidi; alto, scarno, svolazzante, con vivissimi occhi neri. Ascoltò pazientemente Costantino, si fece tradurre la lauda; poi gli chiese se, volendosi confessare per poter recitare quei versi, non avesse peccato di vanità. Costantino arrossì e disse di no. Il confessore sorrise benevolmente, lo confortò, lodò i versi, e lo mandò via assolutamente beato.

Dopo pochi giorni il condannato chiese nuovamente di confessarsi.

— Ebbene, avete composto un'altra lauda? — chiese benevolmente il cappellano.

— No, — disse il condannato, con gli occhi bassi. — Ma vengo a chiederle una grazia.

— Qual grazia? Sentiamo.

Costantino rimase un momento col respiro sospeso, pauroso di quanto stava per chiedere; poi disse rapidamente:

— Ecco. Mandare la lauda al mio paese.

— Ah, — disse il cappellano. — Io non posso far ciò. D'altronde come potreste voi scrivere la lauda?

— Oh, io so scrivere! — esclamò il condannato, sollevando i limpidi occhi.

— Sì, ma non dico questo, fratello mio. A voi non è permesso di scrivere.

— Oh, io mi arrangerei in quanto a ciò...

— Bene, bene, ma io non posso.

Costantino prese un'aria desolata e per poco non si mise a piangere; poi si confessò, chiese se non era meglio intitolar la lauda ai Santi Pietro e Paolo, che erano stati carcerati, e chiese perdono al confessore se aveva osato fare quella tal domanda.

Il giovane cappellano diede l'assoluzione, e pregò a lungo ad alta voce, mentre il condannato pregava silenziosamente: poi si passò una mano sul capo e disse, piano, lentamente:

— Sentite. Scrivete pure la lauda, se vi riesce. E fate da bravo.

Un impeto di gioia assalì il condannato; e da quel momento egli non ebbe altro pensiero che di riuscire a scriver la lauda.

— Io ho studiato, — disse al guardiano, — ma so fare anche le scarpe. Volete che ve ne faccia un paio? O ve ne accomodi...

— Tu desideri qualche cosa, — rispose l'ometto, in napoletano. — Tu non puoi far niente.

— Siate buono, zio Serafino. Pensate all'anima immortale.

— Io penso all'anima, ma ti ho già detto che non sono tuo zio. Tu hai ammazzato tuo zio.

— Ebbene, non importa. Noi chiamiamo zio le persone importanti.

Don Serafino, però, voleva il suo titolo, che Costantino non riusciva a dargli, perchè in Sardegna appartiene solo ai nobili; e per quel giorno non si concluse nulla.

L'indomani il condannato ritornò alla carica, disse che era di famiglia nobile, che aveva studiato, che suo zio, quello della cui morte lo accusavano, dopo avergli mangiato un grosso patrimonio, lo costringeva a lavorare, a far le scarpe, rinchiudendolo in una stanzetta buia, e che una volta gli aveva scorticato interamente un piede.

E voleva farlo vedere; ma don Serafino scuoteva il capo, con segni di raccapriccio, e imprecava a bassa voce contro il morto crudele.

Così Costantino riuscì ad avere un foglio di carta, e col suo sangue e con un fuscellino scrisse le laudi per la protezione dei condannati.

L'inverno passò, e un giorno di marzo venne alla cella di Costantino una ispezione guidata da un grosso uomo che aveva due grandi occhi d'un azzurro latteo, rotondi e immobili, e il mento così corto che due baffi biondi lo coprivano interamente.

— Ehi là, — gridò al condannato, — cosa sapete fare, voi?

C'era anche don Serafino, che volgeva al condannato il suo viso di scheletro; e il condannato, ricordando tutte le fandonie narrate al guardiano, rispose che sapeva fare le scarpe.

— Ehi là, — disse l'uomo grosso dagli occhi immobili, — voi avete ammazzato vostro zio.

Il suo accento non ammetteva repliche, e Costantino aprì le braccia come per dire:

— Ehi là, io ho ammazzato mio zio, se così piace alla Vossignoria.

L'ispezione andò via, e poco dopo don Serafino fece sapere a Costantino che in breve l'avrebbero tolto di cella, diminuendogli così di più d'un terzo la segregazione. Costantino pensò di dover questa grazia alla sua buona condotta, ma don Serafino gli confidò d'aver interceduto per lui presso persone potenti, dicendo loro che il condannato era di famiglia nobile, che aveva un piede scorticato e che sapeva far le scarpe.

Pochi giorni dopo Costantino fu messo in camerata e cominciò a lavorar da calzolaio assieme ad altri condannati. Inoltre in quegli stessi giorni potè mandare sue notizie a Giovanna, essendogli permesso di scrivere ogni tre mesi. Queste circostanze lo resero momentaneamente felice. E poi veniva la primavera ed i condannati, che avevano sofferto intensamente il freddo, prendevano un'aria allegra. Nella camerata ove Costantino lavorava si scherzava quasi sempre. Solo vi erano due fratelli, due abbruzzesi, che dopo aver chiesto in grazia di esser messi a lavorare assieme, litigavano sempre per certi interessi da accomodarsi dopo la loro condanna, cioè fra dieci anni. Un giorno si bastonarono ed uno fu portato via; scontarono due settimane di cella, poi, quando si rividero all' aria, cioè nell'ora di libertà che i condannati passavano nel cortile, si accapigliarono ancora.

Durante l'ora d' aria Costantino potè conoscere un suo compatriota, un sardo, che veniva chiamato re di picche, forse perchè aveva una figura triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto, pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo.

Era un ex-maresciallo dei carabinieri, condannato per peculato: dicevasi parente d'un cardinale, il quale era segretamente amico del re e della regina. Perciò il re di picche s'aspettava di giorno in giorno la grazia, non solo, ma prometteva di far graziare altri condannati che gli regalavano sigari, denari e francobolli. Egli era addetto all'ufficio degli scrivani; potendo quindi comunicare con l'esterno favoriva certe corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e riusciva ad introdurre nello stabilimento danari, tabacco, francobolli, liquori, profittandone largamente.

A Costantino offrì subito la grazia sovrana e gli chiese se voleva mandare qualche lettera al suo paese.

— Sì, disse il giovine — ma io non ho nulla da darle: sono povero.

— Ebbene, non importa, siamo compatrioti, — disse generosamente l'altro. E subito gli raccontò le sue prodezze da maresciallo: aveva ammazzato più di dieci banditi, aveva dieci medaglie, e una volta era stato a Roma e il re lo aveva invitato al suo palco in teatro. Infine era un eroe. Però non raccontava mai la sua ultima prodezza; solo diceva di esser in reclusione per opera dei suoi nemici invidiosi. Sulle prime Costantino gli prestò fede e gli pose una forte simpatia nonostante la sua losca figura; ma siccome di giorno in giorno i racconti del maresciallo variavano e diventavano sempre più iperbolici, anch'egli (come tutti gli altri condannati che disprezzavano il re di picche, ma lo adulavano per servirsene) gli perdette la stima.

Del resto s'accorse che tutti là dentro, compresi i guardiani, erano bugiardi e felini. I condannati avevano bisogno di nascondere il loro vero essere, di immaginarsi cose fantastiche per il passato e per l'avvenire, d'ingrandirsi agli occhi dei compagni di sventura. Il destino che li aveva, contro loro volontà, riuniti in quel luogo d'odio, non destava e non lasciava destare in loro alcun affetto reciproco.

Costantino osservò con meraviglia che i condannati a pene maggiori erano i meno cattivi, sebbene i più vani e bugiardi. Dei meno delinquenti alcuni si odiavano, erano vili, facevano la spia; gli altri si servivano a vicenda finchè potevano ritrarne utile, tradendosi se occorreva, amandosi mai. Il re di picche diceva a Costantino:

— Una profonda corruzione rode quasi tutti i condannati, molti dei quali sono veri delinquenti rotti ad ogni vizio. L'aria stessa è pestifera. L'uomo che viene tolto dalla società, privato della libertà, nel luogo del castigo s'infracidisce completamente, perde ogni avanzo di senso morale, diventa bugiardo, vile, feroce, corrotto fino all'incoscienza della corruzione.

E gli raccontava cose spaventevoli.

— Secondo me, — proseguiva, — di onesti qui dentro ci siamo noi due, il Collo d'anitra e il Delegato. Tutti gli altri sono delinquenti. Guardati da loro, Costantino, caro compatriota; questo è un covo di banditi peggiori di quelli che io ho mandato a farsi benedire.

Talvolta Costantino si spaventava, pensando che se la sua onestà rassomigliava a quella del re di picche c'era poco da stare allegri. Collo d'anitra, poi, era uno studente siciliano, tisico, coi capelli bianchi, un collo lungo e un corpo da fanciullo. Leggeva sempre, era d'aspetto timido, non parlava quasi mai, ma s'abbandonava qualche volta a eccessi di collera violenta, per cui doveva subire gli amplessi di Ermelinda, come i condannati chiamavano la camicia di forza. Aveva ammazzato un professore. Anche il Delegato era meridionale, condannato per ricatto; sembrava un gentiluomo, con un gran petto sporgente e una nobile testa con un gran naso greco e il labbro inferiore sporgente e spaccato. Un'aria di sdegno gli animava il viso: ad avvicinarlo invece era affabilissimo, servile. Anch'egli, a suo dire, contava grandi e potentissime protezioni, ma era anche perseguitato da persone altolocate, e specialmente da un ministro.

Da qualche tempo, dopo aver letto varii libri di scienza, prestatigli dallo studente, s'era accinto a scrivere una grande opera scientifica, poichè anche egli apparteneva all'ufficio degli scrivani e poteva lavorare segretamente per conto suo.

Il re di picche ne diceva meraviglie.

— Ecco, — raccontava a Costantino. — Quell'uomo lì sarà la nostra fortuna. Ci scriviamo ogni giorno ed abbiamo un frasario convenuto. Ma dobbiamo esser cauti, altrimenti guai, rovineremmo tutta l'opera sua, la quale è una vera scoperta scientifica. Posso dirtene i sommi capi. — Come si è formata l'atmosfera: cioè l'aria. — Come si è formato l'oceano, cioè tutti i mari. — Origine del mondo organico. — Dimostrazione ragionata dell'esistenza d'un continente primordiale nella plaga centrale dell'oceano Pacifico. — In questo continente avrebbe avuto origine l'umanità, la cui infanzia si sarebbe svolta in quelle regioni tropicali. — Immigrazione nell'Africa e nell'Asia. — Scomparsa di questo continente per opera di un grande cataclisma. — Identificazione di questo cataclisma col diluvio biblico. — Emersione degli altri continenti. — Poi: Fine dell'atmosfera. — Fine dell'oceano. — Fine della luna. — Fine della terra.

— E fine della reclusione? — chiese sorridendo Costantino, che ne capiva poco, e credeva che il re di picche al solito raccontasse fandonie.

Ma l'altro aveva bisogno d'esser ascoltato e proseguiva tranquillo:

— Aspetta. Gli altri capitoli sono: ampliamento della dottrina evoluzionista oggi accettata. — Evoluzione della nostra specie di scimmie antropomorfe. — Cause della inclinazione dell'asse dei pianeti; meno Saturno. — Ragioni di codesta anomalia. — Macchie solari, ecc.

— Va al diavolo! — pensava Costantino, sbadigliando. E a voce alta, guardandosi attorno per il cortile asciutto, dove zampillava una fontana: — E la gazza, oggi? — chiedeva. Accennava ad una gazza addomesticata che viveva nello stabilimento, rimpinzata di cibo dai condannati, grassa e sonnolenta, che quando aveva fame chiamava a nome, con una strana voce nasale, certi condannati.

— Ebbene, sarà crepata! — disse il re di picche. — Che ti può importare di un uccello? Sei come i bambini, Costantino; tu non puoi capire l'importanza che avrà l'opera del Delegato. Indirettamente io ho avuto una magnam parte in queste sue scoperte, giacchè sono io che l'ho messo in corrispondenza col Collo d'anitra. Un sunto dell'opera siamo riusciti a mandarlo fuori, ed abbiamo scritto al primo ministro del Re d'Italia. Tu però sta zitto, sai! Vi è stato un grande scienziato che dopo aver letto il sunto disse: «È la più alta manifestazione del genio italiano». Credi pure, Costantino, caro compatriota, il Delegato è assorto ad altezze vertiginose. Egli ha amici potenti che si sono recati a Roma appositamente per ottenergli la grazia, ma anche nemici potentissimi. Però la sua opera gli otterrà presto la libertà.

I discorsi del compagno annoiavano Costantino, ma egli fingeva ascoltare il re di picche per tenerselo buono, giacchè aspettava la risposta di una lettera mandata a Giovanna.

Questa risposta giunse in maggio e riempì di gioia il condannato. Giovanna scriveva che il bambino era stato un po' ammalato, forse perchè gli affanni sofferti le avevano guastato il latte: ma ora stava bene. Isidoro Pane aveva ricevuto le laudi a San Costantino, scritte col sangue, e aveva pianto, ed ora le cantava in chiesa, accompagnato da tutto il popolo. Non si sapeva di chi fossero i versi, e Isidoro diceva di averli avuti da un vecchio con una lunga barba candida, vestito di bianco, che gli era apparso un giorno in riva al fiume. Si credeva fosse San Costantino, oppure Gesù Cristo in persona.

E Giacobbe Dejas aveva preso servizio presso i suoi ricchi parenti; e l'avvocato di Nuoro aveva espropriato la casetta del condannato, lasciandovi le donne per un piccolo fitto. I ricchi Dejas davano spesso del lavoro a zia Bachisia ed anche a lei, Giovanna, e così esse andavano avanti. Era morto di carbonchio Pietro Punia: s'era sposata Annicca detta Spalle d'argento, avevano arrestato un vecchio pastore per un furto di alveari.

Quasi tutta la lettera di Giovanna era piena di queste piccole notizie, che riempirono di soddisfazione, di piacere e d'interesse l'anima di Costantino. Gli parve respirare l'aria del suo paese; rivedere le pietre, le macchie selvaggie, le persone, le cose a cui il suo cuore era attaccato tenacemente.

Soltanto gli dispiacque che Giovanna andasse a lavorare dai Dejas; egli sapeva della passione di Brontu, della domanda respinta, ed ebbe un primo indefinito senso di timore. Giovanna gli mandava tre lire entro la lettera, ed egli, pensando che forse quel denaro proveniva da casa Dejas, lo toccò con disgusto. Poi offerse due lire al re di picche, e credeva che il compatriota li rifiutasse; ma il compatriota le prese, dicendo che servivano per la persona che s'incaricava della corrispondenza clandestina.

In un altro momento Costantino si sarebbe arrabbiato; ma in quell'ora egli sentiva un tal bisogno di scrivere a Giovanna, di corrispondere col suo piccolo mondo lontano, che avrebbe dato metà della vita purchè il re di picche lo favorisse.

Lesse e rilesse la lettera fino ad apprenderla tutta a memoria: di giorno la teneva nascosta nella suola della sua scarpa che di notte scuciva e ricuciva: e mentre lavorava taciturno, pensava continuamente alle vicende e alle persone del paesello lontano.

Talvolta s'immedesimava tanto nei suoi pensieri che dimenticava la realtà. Vedeva il vecchio pastore introdursi nel recinto degli alveari, cauto, col viso e le mani coperte di stracci. Il luogo era deserto, soleggiato. Campi verdi, costellati di fiori, di rose canine, di succhia miele, di pisello odoroso, si stendevano intorno a perdita d'occhio. E nel gran silenzio, tra i profumi fortissimi e irritanti dei puleggi selvaggi e delle erbe aromatiche, le api ronzavano.

Costantino seguiva quasi ansioso l'opera del vecchio ladro, che staccava dalle pietre piatte, su cui poggiavano, i piccoli alveari di sughero, li riuniva, li legava con una corda, li metteva in un sacco e li portava fuori del recinto... Qui Costantino non sapeva come il ladro avrebbe fatto, e mentre fantasticava intensamente, ecco, udiva una strana voce nasale, stridula, pronunziare nel cortile:

— Cos-tan-tì! Cos-tan-tì!

Egli si svegliava allora dal suo sogno, tornava alla realtà: la gazza saltellava lentamente nel cortile, grassa, tonda, starnazzando le ali azzurre.

Di notte il condannato metteva la lettera sotto il capo e riprendeva il filo dei suoi sogni. E udiva la voce sonora del suo amico pescatore cantare le laudi e qualche volta pensava se davvero Isidoro non avesse visto in riva al fiume, fra gli oleandri curvati sotto il dolce peso dei mazzi di fiori rosei, la figura di un vecchio vestito di bianco, con la lunga barba candida come la lana d'un agnellino appena nato.

Ah, era il Santo Protettore, il buon San Costantino (che egli figuravasi vecchio e candido come un patriarca, sebbene la statua del Santo nella chiesa del paesello rappresentasse un guerriero dal volto nero) che appariva a Isidoro per dirgli che pensava ai condannati innocenti. E il vecchio Santo gli avrebbe presto concesso la libertà. Ah, San Costantino bello, che voi siate benedetto!

Poi il quadro cambiava. Era il portico dei ricchi Dejas, dove si ordiva la lana filata, riducendola a lunghe matasse pronte ad esser tessute. Giovanna andava e veniva col gomitolo enorme fra le mani. E c'era Brontu seduto sul limitare della porta di cucina, a gambe aperte, e fra queste gambe stava ritto, mal fermo, ridente, il piccolo Malthineddu. Ah, ciò era orribile! Ma subito Costantino ricordava che Brontu non stava mai in paese nei giorni di lavoro, e si svegliava di soprassalto col cuore nuotante in un sentimento confuso di dolore e di gioia.

VII.

Ritornò l'estate.

— Come passa presto il tempo, — diceva zia Martina, filando sotto il portico. — Pare ieri che tu, Giacobbe, sia entrato al nostro servizio, ed eccoti lì che ritorni per rifare il contratto. Ah, come passa il tempo per noi poveri padroni! Tu hai messo a parte trenta scudi d'argento e cominci a fabbricarti una casa. Ed a noi che resta?

— Che una palla vi trapassi il fuso! Sapete parlar bene, voi. E il mio sudore, uccellino di primavera, il mio sudore conta niente? — rispose il servo, che ungeva col sevo una corda di cuojo.

— E ciò che mangi non lo conti? Ah, ciò tu non lo conti?

— Che vi mangino i corvi! — pensò Giacobbe, e avrebbe voluto imprecare ad alta voce, ma non osò. Odiava addirittura i padroni, la vecchia avara e il giovine collerico, che lo tormentava sempre col suo progetto di sposar Giovanna se ella faceva divorzio, — ma gli premeva rinnovare il contratto e taceva.

Unta ben bene la correggia, Giacobbe la attortigliò, la appese in cucina, e chiese alla vecchia il permesso di recarsi a sbrigare un suo affaruccio. Ella glielo concesse a malincuore.

Scendendo verso la casetta delle Era, il servo vide il piccolo Malthineddu che cavalcava un cavalluccio di canna, tutto tentennante nel suo guarnellino bianco sporco, con le gambuccie e le braccine ignude, dorate dal sole. Il servo si chinò, aprì le braccia e impedì la strada al bambino.

— Dove andiamo? — gli chiese, vezzeggiando. — C'è il sole, non vedi? Ahi, ahi, che viene Maria Petténa col suo pettine di fuoco[3], per rapirti e portarti dall'orco. Torna a casa.

— Nooo, noooo! — strillò il bambino, dibattendosi sulla sua cavalcatura.

— Ebbene, uccellino di primavera, — disse allora Giacobbe, abbassando la voce e con un occhio socchiuso accennando il portico. — Là c'è zia Malthina che per non mangiar pane mangia i bambini. La vedi?

Il piccino parve convinto, e si lasciò ricondurre a casa, ma ostinandosi a camminare sul suo cavallo di canna.

Giovanna cuciva dietro la porta: era grassa, rosea, fresca, come se niente di doloroso le fosse mai accaduto. I capelli lucenti e ondulati le bendavano la fronte graziosa. Vedendo Giacobbe col bimbo alzò la testa e sorrise.

— Eccolo, — disse il servo, — ve lo riconduco. Egli stava al sole, andava verso zia Malthina che per non mangiar pane mangia bambini.

— Eh via! — disse Giovanna. — Non si dicono queste cose ai bambini.

— Ma io le dico anche ai grandi. Perchè zia Malthina mangia anche i grandi. Badate che non vi mangi, Giovanna Era, tanto più che sembrate una mela cotogna matura; ah! no, la mela cotogna è gialla, no, sembrate una, via una...

— Un fico d'India! — diss'ella, ridendo.

— E zia Bachisia? È da molto tempo che non avete notizie di Costantino?

Giovanna divenne seria, e disse con aria di mistero che non da molto aveva ricevuto notizie del condannato.

— Ah, — proseguì l'altro, senza insistere su queste notizie, — sapete dirmi se Isidoro Pane è in paese? Devo parlargli.

— È in paese, — diss'ella, rimettendosi a cucire seria seria.

Egli andò via pensieroso, scese per lo stradale e s'avviò alla casa, se così vogliamo chiamarla, di Isidoro Pane, il quale abitava dall'altra parte del villaggio.

Isidoro che, bisogna dirlo in suo onore, pescava anche trote e anguille quando gli si presentava l'occasione, accomodava una rete seduto nella lunga ombra projettata dalla sua casa. Questa casa, un po' discosta dalle altre, verso i campi, era una costruzione preistorica fatta di piccoli frammenti di schisto (forse dal tempo nel quale gli uomini, non sapendo neppure ancor tagliar le pietre, fabbricavano con quelle già tagliate naturalmente), e coperta di canne e di tegole su cui cresceva una vegetazione rugginosa.

Il sole calava, dopo un meriggio ardente; non muovevasi una foglia degli alberi polverosi immobili sul villaggio arso e deserto; l'altipiano giallo, solcato da rade ombre oblique, assopivasi nella luminosità sanguigna del tramonto, e le strane montagne, quasi pavonazze, come enormi sfingi rosse coperte di veli violacei, sorgevano su un cielo di rosa ardente. Nel gran silenzio udivasi un merlo fischiare in lontananza. Piante incolte di fichi dalle foglie dure quasi nere, una siepe di robinia selvatica, alla quale s'intrecciavano alte ortiche pelose e juscujami dalle foglie biancastre, circondavano la casa del pescatore; dalla porta, ove egli stava seduto, scorgevasi uno sfondo di orizzonte lontano, solitario e vaporoso come il mare. Un forte odore di stoppia e di asfodelo secco invadeva l'aria: sterpi, paglia, foglie secche coprivano il suolo, talchè Giacobbe potè avvicinarsi silenziosamente, senza che Isidoro sollevasse la testa dal suo lavoro.

— Cosa facciamo? — gridò il servo. L'altro sollevò gli occhi senza alzare il capo, guardò con curiosità il servo, e non rispose.

Giacobbe gli si sedette vicino, per terra, a gambe incrociate, e cominciò a guardare il lavoro di Isidoro, il quale accomodava la rete con dello spago infilato ad un grosso ago un po' arrugginito.

— In mia coscienza, — disse ridendo Giacobbe, — qui i pesciolini entreranno ed usciranno a loro piacere.

— Lasciali entrare ed uscire a loro piacere, uccellino di primavera, — rispose il pescatore, imitando il modo di dire di Giacobbe. — Perchè stai in paese? Sei fuori di servizio?

— Ohibò! Ho ripreso servizio presso quelle piattole dei miei ricchi parenti. Ho da parlarvi di cose serie, zio Sidore; ma prima, ditemi, come vanno le vostre gambe? È da molto tempo che non v'è apparso San Costantino in riva al fiume?

Il vecchio aggrottò le sopracciglia, perchè non amava si parlasse con irriverenza delle cose sacre, e disse a voce bassa:

— Se sei venuto per chiedermi ciò, puoi bravamente andartene.

— Ebbene, non offendetevi. Ecco, vi dirò ora perchè son venuto...: sì, è un affare importante. Del resto, se sto diventando pagano lo devo al piccolo padrone che parla male dei santi. Salvo poi ad aver paura in punto di morte. Ah, sentite, l'altra notte abbiamo veduto una stella muoversi, calar giù per il cielo, dritta come un fuso d'oro, con una lunga coda: pareva scender sulla terra. E Brontu si gettò faccia a terra gridando: «Se questa è la nostra ultima notte, abbi misericordia di noi, Signore!» E rimaneva per terra. Sulla mia coscienza[4], volevo dargli un calcio.

— E tu non avevi paura?

— Io no, uccellino di primavera! Ho visto subito sparire la stella.

— Ah, ma appena l'hai vista, di' la verità, hai avuto paura?

— Ebbene, sì, andate al diavolo! Ecco, io sono venuto appunto per parlarvi del mio padrone. Se lui non è matto, nessuno al mondo è matto. Egli vuole che voi andiate da Giovanna Era per proporle di fare divorzio e di sposarsi a lui.

Isidoro lasciò di lavorare; un'ombra gli velò i buoni occhi sereni: intrecciò le mani, vi depose il mento e cominciò a scuoter il capo.

— E tu, — disse con voce sonora, — tu non sei matto, chè vieni a dirmelo? Ah, capisco, tu non vuoi perdere il tuo pane. Come sei vile!

— Ohè! — gridò l'altro, offendendosi comicamente. — Ohè, vi credete con le vostre sanguisughe?

— Ah, tu scherzi? Sarebbe tempo di finirla. Di' al tuo padrone che sarebbe tempo di finirla. Tutto il paese sa la cosa e mormora.

— Ah, caro mio, siamo al principio soltanto e voi parlate di finirla? Io ne ho le tasche piene: giorno e notte non fa altro che parlarmi di ciò, quel barile d'acquavite! Gli ho dovuto promettere di venir da voi, ed ecco che vengo, ma non certo per favorirlo. Una sola persona può far tacere questo scandalo: Giovanna. Andate, ditele che faccia tacere quel cane appestato; io non ne posso più.

Isidoro lo guardava fisso, con occhi velati, ma pareva non ascoltarlo; poi si rimise al lavoro e cominciò a mormorare:

— Povero Costantino, povero agnello, che hanno fatto di te?

— Sì, egli è innocente, — disse Giacobbe, — e da un giorno all'altro può tornare. Bisogna impedire che quella cosa ideata da Brontu non accada. Ah, c'è zia Bachisia che è pronta come un avoltoio sulla preda.

— Povero Costantino, povero agnello, cosa hanno fatto di te? — continuava l'altro, senza dare ascolto a Giacobbe.

Allora costui si adirò, e alzò la voce, che vibrò in quel gran silenzio rosso, nella solitudine protetta dai fichi e dalle siepi selvatiche.

— Gli hanno fatto un corno! Perchè non mi date ascolto, vecchia immondezza? Bisogna andar là, subito. La giovine è allegra, è rossa, e alla prima proposta cade come una mela matura; ma non è cattiva di cuore e se voi la predisponete bene, se le fate intendere il suo dovere, forse si eviterà ogni guaio. Andate, che andiate alla forca! muovetevi, fate miracoli se è vero che siete un santo come dicono gli scimuniti.

— Ah! Ah! Ah! — esclamò tre volte il vecchio, e si alzò in piedi. La sua alta figura, recinta di stracci eppur maestosa, si delineò nell'aria rossa, in quello sfondo di erbe selvatiche, di orizzonte solitario, come quella d'un vecchio eremita.

— Andrò, andrò! — disse sospirando. E Giacobbe si sentì cadere un peso dal cuore.

Allora i due uomini cominciarono la loro opera misericordiosa verso il condannato lontano; ma avevano da lottare contro tre forze unite e attive e contro la passività di Giovanna. Le tre forze erano: la passione bruta di Brontu, l'avidità di zia Bachisia, il calcolo di zia Martina. Poichè costei non vedeva di malocchio il progetto del figlio: Giovanna era povera, ma sana, frugale, senza pretese, e lavorava come una bestia; una donna benestante avrebbe recato il disordine e la dissipazione in casa, e le nozze avrebbero portato ingenti spese, mentre Giovanna la si sposava quasi segretamente e veniva in casa come una schiava gratis. Furba zia Martina!

Il tempo continuò la sua corsa, sul villaggio di schisto, sulle montagne desolate, sull'altipiano giallognolo come un deserto: e venne l'autunno, talvolta tiepido e melanconico, quando il mare fumava all'orizzonte e le nuvole gonfie e scure come enormi ragni passavano sul cielo latteo tessendo sottilissimi veli grigi; talvolta lucido, diafano e freddo come un'acqua limpida.

In quelle sere, quando sul cristallo del cielo, ad oriente, spiccava simile ad un'isola in un mare tranquillo qualche lunga nuvola violetta, e il vento portava il profumo dei timi bruciati dai contadini che dissodavano la brughiera per seminare il frumento, Brontu beveva lunghi sorsi d'acquavite per riscaldarsi; e si coricava in fondo alla capanna, e sognava, tutto caldo e beato come un gatto, con gli occhi fissi alla nuvola violetta dell'estremo orizzonte. Fuori, intorno alla capanna, per distese grandissime, le tancas dei Dejas ondulavano deserte al lucido crepuscolo; fra l'oro bruno delle stoppie scoppiava la terra gonfiata dalle pioggie autunnali, e l'erba chiara e i violacei fiori d'autunno esalavano umidi profumi. Stormi di uccelli selvatici, grandi corvi d'un nero metallico, frusciavano volando, sgorgando dai cespugli di assenzio che sembravano tumuli di cenere, nascondendosi nei boschetti di cisto e nelle macchie di corbezzoli dalle foglie lucenti e dalle bacche acerbe di oro pallido.

In una delle tancas due contadini, servi dei Dejas, incendiavano le macchie, dissodando la terra per seminare l'orzo ed il frumento; le fiamme crepitavano, ancor pallide nella luce, diafane come vetro giallo, spinte dal vento; il fumo svaniva, basso e chiaro, carico di odori come fumo d'incenso. Le siepi delle mandrie, secche e spinose, diramavano un ricamo violaceo nell'aria argentea; le greggie s'erano ritirate, e solo qualche cavallo, scuro, col muso a terra, pascolava ancora. Udivasi la voce di Giacobbe dietro la capanna, qualche tintinnìo di campanaccio, l'urlo rauco e lontano di un cane, il grido rauco e lontano di un corvo.

Entro la capanna, disteso su pelli e pannilani caldi, come un beduino, Brontu seguiva il suo invincibile sogno: il liquore ardente gli bolliva entro il petto, inondandogli il cuore d'una dolcezza calda e profonda.

Ah, come l'acquavite piaceva al giovane proprietario! Gli piaceva, più che per il sapore acuto e l'odore selvaggio, per la dolcezza che, dopo bevuta, gli infondeva nel cuore. Guai però a molestarlo in quei momenti: la dolcezza si cambiava in umor verde e amaro come il fiele; non sapeva perchè, ma gli sembrava che i cani, allorquando si pesta loro la coda mentre dormono, debbano provare ciò ch'egli provava se lo molestavano nelle ore di ebbrezza. E si arrabbiava e non vedeva più nulla.

Ah, sì, l'acquavite gli piaceva molto; ed anche il vino gli piaceva, ma non come l'acquavite. Anche il padre di Brontu aveva amato l'ardente liquore: tanto che una volta, dopo averne bevuto assai, era caduto sul fuoco, e in modo tale, Dio ne liberi, che per le bruciature sofferte era morto. Basta, lasciamo questi pensieri melanconici, ora si è più avveduti e non si cade sul fuoco. Eppoi Brontu, per equilibrarsi, aveva anche l'altra passione per Giovanna. Ah, l'acquavite e Giovanna! Le cose più belle, più ardenti, più inebbrianti del mondo. Però Brontu Dejas era timido con Giovanna quanto era ardito con l'acquavite; tremava al solo pensiero di avvicinarla, di parlarle. Nei giorni in cui sapeva che ella lavorava presso zia Martina, egli spasimava dal desiderio di tornare in paese, di vederla in casa sua, di guardarla, ma non osava muoversi dalla tanca. Ma il tempo passava, e il giovine si sentiva divorato dall'attesa e da una inquietitudine profonda; aveva paura che Giovanna, s'egli tardava ancora, lo rifiutasse un'altra volta. Egli voleva dimostrarle la sua premura, dirle che per confortarla avrebbe voluto sposarla subito, appena condannato Costantino. Infine, egli pensava un po' diversamente dagli altri; ma era fatto così e non poteva cambiarsi. In fondo egli era di buon cuore, come tutti gli ubriaconi, e di costumi onestissimi; la sua unica passione, dopo quella per i liquori, fin dall'adolescenza, quando la sua famiglia era venuta ad abitare nella casa nuova, era stata Giovanna. Essa allora aveva quindici anni; era d'una bellezza e d'una freschezza ammirabili. Ogni volta che la vedeva, Brontu arrossiva fin sulle mani, ed ella se ne accorgeva e non si offendeva; ma egli taceva sempre, e quando finalmente s'era deciso a mandar sua madre dalla madre di Giovanna, il posto era preso. In quei tempi Giovanna, fiera ed ardente come una puledra, non sapeva il valore del denaro, e come avrebbe sposato Brontu Dejas soltanto per i suoi bei denti, non avrebbe tradito Costantino neppure per il Vicerè, se in Sardegna vi fosse stato ancora.

Il crepuscolo addensavasi. Il cielo diventava sempre più cristallino, profondo quanto uno specchio, e la nuvola violetta prendeva un color lividognolo, opaco, lunga e squamata come un enorme pesce di bronzo. Le voci degli animali e delle cose si facevano più intense nel grave silenzio dell'ora; ed a Brontu parve sognare, udendo, in quel luogo ed a quell'ora, la voce di zia Bachisia.

Santu Iuanne Battista meu, — esclamava la voce, rude e dolente nello stesso tempo. — Se non mi sbaglio tu sei Giacobbe Dejas?

— Per servirvi, — tonò alquanto meravigliata la voce del servo. — Chi vi ha fatto piovere da queste parti, uccellino di primavera?

— Ah! Ah! Finalmente! Dove è Brontu Dejas?

Brontu balzò fuori della capanna: gli tremavan le gambe, la testa gli girava, e vide a pena la figura nera di zia Bachisia, che teneva le scarpe in mano e un involto sul capo.

— Zia Bachisia, — cominciò a chiamare, commosso, — sono qui, venite qui, venite, buona sera.

Ella gli si precipitò quasi addosso, — seguita premurosamente dal servo.

— Ah, Brontu Dejas, caro figliuolo, se non sono morta stasera non muoio più. Son tre ore che cammino. Mi sono smarrita. Ho bisogno di parlarti, abbi pazienza.

Altro che pazienza! Egli era commosso fino alle lagrime; la prese per mano, la condusse entro la capanna. Giacobbe capì che non poteva prender parte al colloquio e ritornò dietro la capanna, tendendo l'orecchio, aggirandosi intorno a sè stesso come una belva rinchiusa.

Non udì nulla. D'altronde il colloquio fu breve e zia Bachisia non volle neppure sedersi. Diceva di essersi smarrita, in cerca dell'ovile di Brontu, e che Giovanna doveva aspettarla ansiosamente, credendo che fosse andata nei campi per cogliere erbe mangerecce. Pur troppo, sì, erano costrette a vivere di erbe, tanto la povertà le stringeva; e zia Bachisia veniva per chiedere a Brontu dei denari in prestito. Sì, Dio sia lodato, in prestito. Se non potevano restituirglieli, ella e Giovanna avrebbero lavorato per conto dei Dejas fino a scontare il debito. Erano più mesi che non pagavano il fitto di casa, della casa loro, e l'avvocato minacciava di sfrattarle.

— Dove andremo noi, Brontu Dejas, — diceva zia Bachisia, giungendo le mani adunche e gialle, — pensa dove andremo noi, Brontu, anima mia!

Egli si sentiva tremare il petto; avrebbe voluto abbracciare la vecchia e gridarle: — Verrete a casa mia! — ma non osava.

Egli non aveva denari con sè, ma decise di ritornare subito in paese, tanto più che voleva accompagnare la vecchia; e uscito fuori gridò a Giacobbe di sellargli il cavallo.

— Che è accaduto? — chiese il servo. — È morta tua madre, Dio l'abbia in gloria?

— No, — rispose Brontu, senza alterarsi, — non è accaduto nulla che t'importi.

Giacobbe cominciò a sellare il cavallo, mentre smaniava dalla curiosità di sapere perchè zia Bachisia era venuta e perchè Brontu tornava in paese.

— Che ella voglia del denaro? Egli non ne ha qui, e ritorna per procurarselo e darglielo. — Senti, Brontu? — chiamò, e quando l'altro gli fu vicino gli disse:

— Se quella donna vuole del denaro e tu qui non ne hai, te lo do io...

— Sì, ella vuole in prestito del denaro, — rispose Brontu a voce bassa, tutto allegro. — Ma io ritorno, e se anche ne avessi qui, ritornerei lo stesso, perchè stasera posso veder Giovanna, posso entrare in casa sua. Voglio parlare finalmente. Farò da me ciò che voi asini non avete saputo fare.

— Uomo! — esclamò Giacobbe, irritato, — tu diventi pazzo!

— Ebbene, lasciami diventar pazzo. Ecco, stringi quella cinghia. Ah, tu gonfi la pancia, cavallino, — disse poi, rivolto al cavallo; — non ti va un viaggio di sera? Che dirai quando la vecchia siederà in groppa?

— Anche ciò? — gridò Giacobbe.

— Anche ciò, si, che t'importa? Non è mia suocera?

— Tu corri troppo, in verità: bada di non romperti il collo, uccellino di primavera... Ah! Ah! Ah! Tu vuoi davvero far sul serio? — cominciò a borbottare il servo. — Tu vuoi sposare quella pezzente, quella donna maritata? Tu che potevi sposare un fiore? E Costantino Ledda è innocente. Ah, ma egli tornerà, ti dico io che tornerà.

— Lasciami tranquillo, Giacobbe. Pensa ai fatti tuoi. Metti una bisaccia sulla groppa. Zia Bachisia?

Giacobbe corse dentro la capanna, e urtò nella donna che veniva fuori.

— Vergognatevi! — le disse egli, tremante. — Siete peggio d'una pezzente! Ah, parlerò io con Giovanna, parlerò io...

— Tu sei pazzo, — rispose zia Bachisia, e poi pronunziò a bassa voce una atroce insolenza. E uscì fuori.

Poco dopo ella e Brontu partirono. Giacobbe li vide allontanarsi nell'estrema luce della tanca solitaria, via via pel sottile sentiero, dietro i cespugli, dietro le macchie, dietro il fumo della brughiera incendiata. Preso da un impeto di rabbia impotente si strappò dal capo la berretta e la buttò lontana, poi andò a riprenderla, poi bastonò il cane, che cominciò a guaire lamentosamente, riempiendo d'una voce stridula e straziante l'immenso silenzio della sera. L'eco ripeteva quella voce indescrivibile, che sembrava il pianto di un fantasma disperato.

E la notte calò. Giacobbe andò a coricarsi sul giaciglio poco prima lasciato da Brontu; sentì l'odore dell'acquavite, si alzò, cercò il fiaschetto del padrone e bevette. Poi tornò a coricarsi, ed anch'egli sentì qualche cosa bollirgli entro il petto, inondargli il cuore, salirgli gorgogliando al capo, bruciargli le palpebre. L'ira gli cadde dal cuore, ma un sentimento di tristezza lo vinse tutto. Dall'apertura della capanna vedeva il chiarore sanguigno delle macchie bruciate vincere gradatamente l'ultimo barlume azzurro del crepuscolo: fusi assieme i due chiarori assumevano una tinta violacea d'una indescrivibile tristezza. Il cane, di tanto in tanto, guaiva ancora. Ah, che dolore, che dolore! Perchè aveva egli, Giacobbe, bastonato il povero cane? Che gli aveva fatto? Nulla. Ne provava un rimorso acuto, tenero e inconcludente; un rimorso da ubbriaco; e nello stesso tempo il guaire del cane lo irritava, dandogli il desiderio di alzarsi e bastonare ancora la povera bestiola.

Ad un tratto si ricordò di Brontu e di zia Bachisia, che da qualche momento aveva dimenticato, e trasalì tutto. Che sarebbe accaduto quella sera? Avrebbe Giovanna dato il suo consentimento? Ah! Ah! Ah! Uccellino di primavera! Perchè quel cane guaiva ancora? Pareva la voce di un morto. La voce di zio Basilio Ledda, del vecchio avoltoio assassinato. Poh! Poh! I morti non parlano più. Quello era l'urlo d'un cane, null'altro che l'urlo d'un cane.

Giacobbe rise piano piano, fra sè, cominciando ad addormentarsi; le palpebre pesanti gli si chiusero, non videro più quello sfondo violaceo e opaco che gravava come una tenda sull'apertura della capanna. Gli parve che un sacco colmo d'una materia molle ma pesante gli cadesse addosso; non poteva più muoversi, ma quell'immobilità aveva un non so che di dolce e di gradevole. Poi cominciò a far mille sogni confusi: fra le altre cose sognò di esser morto a causa d'un morso di vipera, e la sua anima era entrata nel corpo d'un cane e questo cane, piccolo, scarno, giallo, s'aggirava nella cucina di zia Bachisia in cerca d'ossa. Costantino sedeva accanto al focolare; era vestito di rosso, con una grande catena ai piedi: ad un tratto vide il cane e gli lanciò la catena; la testa dell'animale rimase presa, cerchiata stretta da un anello di ferro, e Giacobbe invaso da terrore si sforzò di parlare per farsi riconoscere. Si svegliò sudato, gridando:

— Uccellino di primavera!

La notte regnava. La tanca deserta, sotto il limpido cielo pieno di grandi stelle gialle, rosseggiava tutta nel chiarore delle macchie incendiate.

Giacobbe stette a lungo senza riprender sonno, voltandosi e rivoltandosi; la piccola sbornia gli era passata lasciandogli la bocca salata e arida. Si alzò e bevette; poi ricordò che la sera prima non aveva mangiato e stette a lungo ritto, pensieroso, sull'apertura della capanna, col viso illuminato dal chiarore dell'incendio.

— Mangiare, non mangiare? — si domandava senza accorgersi della sua domanda. Guardò le stelle. Era vicina la mezzanotte. Che aveva concluso quella piccola bestia del padrone? Giacobbe fu ripreso da un impeto d'ira specialmente contro zia Bachisia che era impudentemente arrivata fin lì per sollecitare il pazzo progetto del giovane proprietario. Giacchè, si capiva bene, il prestito non era che una scusa della vecchia arpia per attirare Brontu, per deciderlo e convincerlo. Ah, era odiosa quella donna. Non aveva coscienza? Non credeva in Dio? A queste domande Giacobbe Dejas si rifece pensieroso: poi tornò a coricarsi chiedendosi se aveva fame e se doveva mangiare.

No. Non aveva fame, nè sete, nè sonno. Non poteva trovar pace nè coricato, nè seduto, nè in piedi; e per distrarsi alquanto cominciò a sbadigliare forzatamente ed a parlare a voce alta dicendo cose inconcludenti. Pensava però ostinatamente a quella cosa. Era orribile, orribile! Maritare una donna già maritata! E se Costantino tornava? Chi sa: tutto nel mondo è possibile. E anche se il condannato non tornava, ebbene, e il figlio? che avrebbe detto il figlio, giunto alla età della ragione, sapendo che sua madre aveva due mariti? Chi aveva fatto quella legge? Ah! Oh! Erano ben stupidi gli uomini della legge! Giacobbe rise in alto; ma dentro, ben dentro il cuore ebbe tutt'altra voglia che di ridere.

Tornò ad alzarsi, riprese il fiaschetto dell'acquavite e pensò:

— Se Brontu chiede chi ha bevuto l'acquavite, peggio per lui, gli dirò che l'hanno bevuta i sorci. Ah! Oh! Ah!

Rise di nuovo, bevette, tornò a coricarsi. Si riaddormentò e sognò di trovarsi presso una sua sorella, alla quale raccontava il sogno del cane, di Costantino, della catena.

Si svegliò che il sole era già sorto sul confine dell'altipiano, dietro una linea di vapori azzurrognoli. Il mattino era un po' freddo e velato; tutte le macchie, i cespugli, le stoppie, le erbe tenere e chiare scintillavano di rugiada ai raggi obliqui del sole; e di nuovo gli uccelli frusciavano fra i cespugli, cantando, slanciandosi a gruppi, volteggiando elegantemente per l'aria vaporosa. Talvolta il loro canto susurrante e compatto diveniva così intenso che sembrava uno scroscio cristallino di pioggia metallica. Qualche fischio acuto, qualche strido rauco di corvo risuonava sullo sfondo di quel coro tremulo e metallico come un velo d'argento; poi tutto svaniva nell'intenso silenzio del piano.

Giacobbe uscì, stiracchiandosi e sbadigliando. Sbadigliava talmente che le sue mascelle scricchiolavano; tutto il suo viso nudo si raggrinziva intorno al circolo della bocca spalancata, e gli occhietti obliqui, gialli al sole, lagrimavano come quelli d'un cane.

— Ebbene, — pensò, stringendosi le mani allo stomaco, — mi sento dei crampi qui: che ho fatto iersera?

Andò e aprì le mandrie: l'ariete dalle corna ritorte uscì, fiutando il suolo, e un gruppo giallognolo di pecore lo seguì, incalzandosi e fiutando il suolo. Altri gruppi seguirono; le mandre si vuotarono, ma Giacobbe restò immobile, aspettando pensieroso, vicino alla siepe.

— Sì, ier sera non ho mangiato. Ho bevuto l'acquavite del padrone ed ho sognato. Ah, sì! sì! Costantino, il cane, mia sorella Annarosa. Ebbene, che egli sia dannato, perchè non torna, il piccolo rospo? — pensò scuotendosi. — Mi sono ubriacato come una bestia. L'uomo ubriaco, — pensò poi, ritornando presso la capanna, — è come una bestia; non si accorge più di nulla, dice a voce alta i suoi pensieri. Ciò è dannoso, Giacobbe Dejas, cocuzzolo spelato, mettitelo bene in mente. Ah no, no, non berrò mai più, che il Signore mi castighi.

Poco dopo ritornò il padrone: Giacobbe lo guardò fisso e sorrise. — Ah, — disse andandogli premurosamente incontro. — Tu hai una ciera da uomo bastonato. Cosa ti è accaduto, uccellino di primavera?

— Niente. Levati di lì.

Ma l'altro non l'intendeva così; e cominciò ad aggirarsi intorno a Brontu, carezzevole e saltellante come un cane, chiedendo, insistendo per sapere. E il giovane si sfogò, tanto più che ne aveva gran bisogno. Ebbene, sì, Giovanna lo aveva scacciato come si scaccia un pezzente molesto; gli aveva chiesto se non sapeva che ella aveva un figlio il quale un giorno poteva sputarle in volto dicendole: «Perchè hai due mariti?»

— Anima mia, lo sapevo! — gridò Giacobbe trasalendo di gioia.

— Che sapevi tu?

— No, che ella ha un figlio.

— E questo lo sapevo anch'io. Ecco, ella mi ha scacciato, ecco tutto. Dalla strada ho sentito madre e figlia litigare acerbamente.

Dopo di che Brontu cercò il suo fiasco di acquavite. Giacobbe si sentiva allegro, aveva voglia di ridere.

— Ecco, — disse, — stanotte i sorci hanno bevuto la tua acquavite: ah! ah! ah! Ma ce ne deve essere ancora. Ce n'è ancora.

Brontu bevette avidamente, senza rispondere; poi gettò irosamente il fiasco contro il servo, che lo prese a volo. E come Brontu aveva bevuto per dolore, Giacobbe bevette per gioia.

VIII.

Circa tre anni dopo la sua condanna, una mattina in sul finir dell'estate, Costantino si svegliò di cattivo umore. Il caldo era opprimente e nella camerata gravava un odore nauseabondo. Un condannato russava sbuffando come una pentola in ebollizione.

Costantino aveva dormito con l'ultima lettera di Giovanna sotto il capo; e questa lettera era laconica e triste in sommo grado: diceva che Giovanna e sua madre si trovavano in grande povertà e che il bambino stava gravemente malato.

Costantino non pensava neppure che era ben crudele scrivergli in quel modo: egli voleva la verità, fosse pur triste, e gli sembrava che dividere i dolori di Giovanna e spasimare per la disperazione di non poterla soccorrere, fosse uno dei suoi doveri. Dovere sterile, ahimè, egli lo sentiva, e ciò aumentava il suo dolore.

Egli s'era fatto abile nel lavorare da calzolaio, e lavorava alacremente, ma guadagnava pochissimo, e tutto il guadagno, — tolto ciò che pretendeva il re di picche per i suoi buoni servigi, — lo mandava a Giovanna.

— Parola d'onore, — gli diceva l'ex-maresciallo, — tu sei un babbeo. Mangiateli, i denari. Dovrebbero mandartene loro.

— Sono così povere.

— Eh, no! Hanno il sole, loro. Che vogliono di più! — diceva l'altro. — Se tu mangiassi e bevessi faresti opera di carità. Sei uno stecco, vedi, caro amico. Poco male io. Eh, io, mio caro, io ingrasso. Il mio lardo è fatto di vento; fa nulla, ma ingrasso.

Infatti egli oramai sembrava una pallottola; ma la sua pinguedine era vuota, cascante, gialla. Costantino invece s'era fatto scarno, con gli occhi infossati e le mani quasi trasparenti.

— Il sole! — pensava con amarezza. — Ah, sì, esse hanno il sole! Ma a che serve anche il sole quando non si ha da mangiare, quando si è malati e si soffre in tutti i modi?

Era una stupidaggine, sì, ma egli qualche volta pensando così piangeva come un fanciullo.

Eppure sperava sempre. Gli anni passavano, i giorni cadevano lenti ed eguali, uno dopo l'altro, come goccie d'acqua in una grotta, dalla pietra sulla pietra. Quasi tutti i condannati, specialmente quelli che scontavano pene non troppo lunghe, speravano nella grazia, si divagavano contando i giorni passati e da passare, con chiarezza sorprendente, senza mai sbagliarsi di un giorno.

Alcuni spingevano la loro abilità fino a contare le ore. Costantino diceva che ciò era una cosa stupida, e sorrideva pensando che si poteva morire o si poteva venir liberati prima dell'ora. Tutto stava nelle mani di Dio. Del resto anche egli contava d'esser liberato prima dell'ora, ma quest'ora era così lenta, così lenta a venire! Lo sentì bene quella mattina, allo svegliarsi palpando la carta calda della lettera di Giovanna.

Si alzò e si vestì sospirando. Il suo compagno di destra cessò di russare, aprì un occhio velato e stette a guardare Costantino come se non lo riconoscesse. Poi richiuse l'occhio.

— Ti senti male? — chiese, udendo Costantino sospirare. — Ah, è vero, tu hai il bambino malato. Perchè non lo dici al Direttore?

— Perchè devo dirlo al Direttore? Egli mi metterebbe in cella, ecco tutto, se sapesse che ricevo notizie così.

— Ed a pane e pollastro — disse una voce ironica. Voleva dire a pane ed acqua.

Un altro rise. Costantino sentì tutta l'indifferenza di quelli uomini tra cui viveva, e gli parve di esser solo, smarrito in un deserto ardente, dall'aria nauseabonda.

Andò al lavoro, aspettando con ansia l'ora dell' aria per poter parlare col re di picche. Quell'uomo grasso e giallo, che egli non stimava per nulla, gli era tuttavia indispensabile. Era il suo solo conforto. Egli solo lo capiva, lo compassionava, lo aiutava. Si faceva pagare, è vero, ma che importava? Ciò non toglieva ch'egli fosse indispensabile a molti condannati, e specialmente al suo compatriota, il quale pensava già con egoistico dolore all'ora in cui il re di picche, scontati i suoi anni di pena, se ne sarebbe andato.

Quel giorno fu introdotto nella camerata dei calzolai un nuovo condannato, un settentrionale sottile e lungo, dal viso grigio tutto rugoso e due piccoli occhi bianchi. Era di un'età indecifrabile, ma i compagni risero quando egli disse di avere ventidue anni. Subito si lamentò del caldo e della puzza di pece che ammorbava l'aria.

Ah, egli non era un ciabattino, no. Era figlio unico d'un ricco negoziante di scarpe all'ingrosso: infine anch'egli era un signore. E subito cominciò a raccontar la sua storia dolorosa: aveva ucciso un suo rivale in amore; era stato provocato e gli aveva sparato addosso; null'altro. La donna, causa prima del delitto, era malata di petto ed ora, per il dolore, moriva. Moriva; null'altro. Ah, c'era poi questo, che il condannato aveva lasciato un figlio, un bambino di pochi anni, suo e della donna malata. Se ella moriva, il bimbo restava orfano e derelitto.

Costantino trasalì, non perchè il racconto del condannato lo commovesse, ma perchè quel bambino e quella donna gli ricordavano Giovanna e Malthineddu ammalato.

Il nuovo venuto, che subito aveva cominciato a lavorar destramente tagliando un paio di suole, taceva finalmente, a capo chino, intento al lavoro, col labbro inferiore scosso da un tremito, come i bambini che stanno per piangere. Costantino lo vide e pensò che quell'uomo doveva soffrire assai. Ma come gli altri restavano indifferenti al suo dolore, così egli non poteva prendere parte al dolore altrui. Soltanto si sentì ancora più triste, più smanioso di uscire.

Quando vide il re di picche lo attirò presso il muro caldo, in un angolo d'ombra, ma non seppe dirgli nulla di ciò che soffriva. A che pro?

Gli raccontò invece la storia del nuovo condannato; l'altro alzò le spalle, poi si voltò, sputò sul muro e disse:

— Se vuole può scrivere anche lui, ma raccomando prudenza. C'è qualcuno che fiuta l'aria.

— Come faremo, — chiese poi Costantino, pensieroso, — come faremo quando lei non sarà più qui?

— Tu vorresti che io restassi sempre qui, cialtrone? — disse l'altro scherzando.

— Dio me ne liberi! No. Io anzi le auguro di andar via presto, domani...

Il re di picche sospirò. — Ahimè! i suoi nemici — egli diceva, — scovavano sempre nuove arti diaboliche per tenerlo dentro. Non sperava più nella grazia, ma ad ogni modo il tempo della liberazione s'avvicinava. Allora, — proseguiva, — egli sarebbe andato dal re, gli avrebbe raccontato come stavano le cose. Il re ordinerebbe subito la revisione del processo e al re di picche, riconosciuto innocente, verrebbe subito ridonato il posto. Chissà, forse anche una medaglia, da tener compagnia alle altre.

Inoltre egli prometteva a tutti, e specialmente a Costantino, di farli graziare appena ritornato in libertà.

— E va bene! — concludeva, approvandosi da sè. A furia di far promesse finiva col credere di doverle mantenere.

— Domani! Magari fosse! Sarebbe un bene per tutti.

— Bene o male! — rispose Costantino.

— D'altronde, — proseguì l'altro, — quando io sarò fuori tu forse non avrai più bisogno di me.

Tosto si pentì di quelle parole, ma vide Costantino scuotere il capo dubbioso, pensò: — forse egli crede che io alluda alla grazia, — e lo guardò con sincera compassione.

— Ma tu sei innocente, tu sei veramente innocente? — gli chiese. — Oramai puoi dirmi tutto, amico caro. Ricordati che quando te lo chiesi la prima volta tu mi dicesti: ch'io non possa riveder mio figlio se sono colpevole!

— Questo è vero! Ed ora lei vuol dire che forse non rivedrò mio figlio? Sia fatta la volontà di Dio, ma io sono innocente.

Il re di picche si volse nuovamente verso il muro, sputò ancora.

— Abbi pazienza, mio caro, abbi pazienza. Abbi pazienza, — disse a Costantino. E la sua voce era calda e sincera.

Il re di picche si credeva uomo superiore, e aveva una grande stima di sè stesso perchè stimava le persone oneste: per tale ragione aveva preso ad amare a modo suo Costantino, conoscendolo tanto buono, dall'anima semplice, fatta d'un metallo così puro che neppure la grande corruzione del penitenziario poteva intaccarla.

Orbene, l'ex-maresciallo si permetteva di leggere le lettere che gli pervenivano per il condannato. Ultimamente gliene era arrivata una, anonima, scritta malissimo, con certi grandi caratteri che sembravano insetti e piccoli mostri. Ma quegli insetti velenosi e quei piccoli mostri incutevano terrore; dicevano che Giovanna, la moglie del condannato, si lasciava corteggiare da Brontu Dejas, e che zia Bachisia voleva fare un viaggio a Nuoro per proporre ad un avvocato la causa di divorzio di sua figlia.

L'ex-maresciallo s'arrabbiò come un cane, e il suo amico Delegato, che lavorava intorno alla sua grande opera, l'udì mugolare gonfiando enormemente le guancie giallognole.

— Essi sono stupidi. Stupidi! Sardi asini! — pensava il re di picche. — Perchè glielo scrivono? Che può far egli se non battere la testa contro il muro?

Non consegnò la lettera, ed ogni volta che vedeva il condannato lo guardava con profonda compassione, felice, per conto suo, di sentirsi così buono.

Il bambino morì tre giorni dopo, e Costantino ne ricevette direttamente la notizia. Pianse in silenzio, nascondendosi, e davanti ai compagni di lavoro e di sventura volle mostrarsi forte. Arnolfo Bellini, quello che aveva l'amante ammalata, saputa la disgrazia del condannato sardo, cominciò a piangere in modo strano, con certi strilli da gallina; e il suo visetto grigio di bambino vecchio era così ridicolo nel pianto, che l'abruzzese, quello che litigava sempre col fratello, si mise a ridere. Un altro condannato punse con la lesina la coscia dell'abruzzese. Costui cessò di ridere e trasalì, disse — ahi! — e non protestò.

Costantino guardò meravigliato il Bellini, scosse il capo, si mise a lavorare. Tutti tacquero, e il settentrionale si calmò perfettamente. Sotto la volta bassa biancheggiava una luce cruda, proveniente dal cortile ombreggiato: il caldo intenso traeva un acuto odore dal cuoio, dalle mani sudate e dai piedi dei condannati.

Questi condannati erano tredici, continuamente sorvegliati da un guardiano alto, dai baffi rossi, che non parlava mai. Per la divisa, per i capelli ed il viso raso, per la stessa espressione un po' attonita del volto, i condannati si rassomigliavano, parevano fratelli o almeno parenti; eppure mai come in quel giorno Costantino si era sentito più estraneo, più lontano dai suoi compagni di pena.

Egli cuciva, cuciva, curvo, con una scarpa fra le gambe, sul grembiale di cuoio. Di tanto in tanto guardava attentamente la scarpa, poi tornava a cucire, tirando lo spago con ambe le mani, quasi rabbiosamente. Ah, sì, bisognava lavorare, ora che il bambino era morto. Aveva egli amato molto il bambino? Non sapeva; forse non molto. L'aveva veduto una volta sola a Nuoro, attraverso la rete metallica della stanza dei colloqui, in braccio a Giovanna piangente. Il bambino aveva un visetto rosso, un po' scabroso come certe albicocche mature, e gli occhietti lucenti e violacei come due acini d'uva, velati dalla frangia dello scuffiotto. Durante il colloquio aveva pianto e strillato, pauroso dei guardiani immobili e rigidi, e di quella rete metallica alla quale si aggrappavano le sue manine rosee convulse.

Costantino non serbava altro ricordo del figliuolino. Gli anni erano passati, ed egli se lo immaginava sempre piangente, rosso, con gli occhietti violacei nascosti dalla frangia dello scuffiotto rosso. Ma aveva sempre pensato all'avvenire, quando Malthineddu sarebbe stato grande e avrebbe saputo condurre il carro, montare a cavallo, seminare, mietere; conforto ed aiuto della madre sua. Ah! egli, il condannato, sperava sempre di tornar presto al suo paese; ma se qualche volta sentiva che questa speranza era vana, pensava tosto a suo figlio. E lo amava per amor di Giovanna più che per quell'affetto egoista che nasce dall'abitudine e dalla vicinanza.

Ora il bimbo era morto. Il sogno morto. Sia fatta la volontà del Signore. Ma Costantino soffriva profondamente pensando al dolore di sua moglie.

Il re di picche, quando quel giorno rivide il suo caro compatriota, all'ombra calda del muro, s'avvide subito che Costantino soffriva più per sua moglie che per la morte del bimbo. Ma, strano conforto, cominciò a dirgli con ironia:

— Ebbene, mio caro, tu sei pazzo a desolarti così. Pensa a te, pensa che se il Signore, come tu dici, ha richiamato a sè l'anima innocente, lo ha fatto forse per il suo bene.

— Perchè? — chiese Costantino, col capo curvo, le braccia penzoloni e le mani aperte. — Perchè era povero?

Quel giorno il re di picche voleva filosofare e disse che la povertà non era un male, tutt'altro, forse anzi un bene, anzi un bene addirittura.

— Ci sono altri mali, caro amico. Pensa a te; tua moglie si conforterà.

— Ah già, essa ha il sole! — disse Costantino, chiudendo le mani. — Questo sole che scotta! Ah, che se ne farà essa del sole, ora?

— Pof! Pof! Pof! — canterellò l'altro, gonfiando tre volte le guancie grasse e giallognole; poi si distrasse, si guardò bene bene l'unghia del dito mignolo destro, e infine disse a voce alta:

— Dimmi tu, caro amico, e se tua moglie prendesse un altro marito?

Costantino non comprese bene, tuttavia le sue braccia s'irrigidirono.

— Ella farebbe bene a non dirmi queste cose, oggi — disse con voce accorata.

— Pof! Pof! Pof! — ricantò e rigonfiò l'ex-maresciallo.

Breve silenzio. Poi:

— Ecco, caro compatriota, tu non mi hai capito bene. Tua moglie è onesta, non ne dubito. Ma io dico: se riprendesse marito davvero? Tu non capisci ancora? Questo cristiano è d'una semplicità sorprendente! Parola d'onore, tu sembri un uomo libero, tanto sei ancora innocente. Possibile, — gridò poi, — che tu non sappia che ora c'è il divorzio? Una donna che ha il marito condannato a più di dieci anni di pena può fare divorzio e sposarsi con un altro uomo.

Costantino sollevò il capo; i suoi occhi infossati s'aprirono rotondi, grandi; ma subito tornarono a socchiudersi.

— Giovanna non lo farà, — disse.

Un altro breve silenzio.

— Giovanna non lo farà! — ripetè fra sè il condannato; ma intanto sentì una cosa strana, come se un freddo coltello gli tagliasse il cuore in due parti. Ed una di queste parti sentiva un dolore atroce e l'altra urlava: — Non lo farà! — Entrambe le parti, poi, s'erano completamente dimenticate del bambino morto.

— Non lo farà! — urlava sempre una parte del cuore. L'altra si lasciò convincere; si riunì all'altra e insieme tornarono a ricordare il precedente dolore.

— Ecco, — diceva il re di picche, — credo anch'io che non lo farà. Ma dimmi una cosa, carissimo amico, ora che il figlio è morto, ora che la madre non ha più speranza nè in lui nè in te, non farebbe bene a far quella cosa? Ecco, io dico che sarebbe stupida se le si presentasse l'occasione e non la facesse.

— Brontu Dejas! — pensò Costantino, ma ripetè: — No, non lo farà.

— Ma tu sei un cretino, mio caro. E se ella lo facesse non sarebbe giusto?

— Ma io tornerò.

— Cosa ne sa lei?

— Ma io glielo scrivo sempre, glielo scriverò sempre.

Il re di picche ebbe voglia di ridere, ma s'arrabbiò contro sè stesso per questa sua voglia, e rimase pensoso; poi disse, come rispondendo ad una sua intima domanda:

— È una sciocchezza.

— Sì! — rispose pronto Costantino. Ma intanto pensava a Brontu Dejas, alla sua casa col portico, alle sue tancas e alle sue greggie, alla miseria di Giovanna; ed ahimè, entrambe le parti del suo cuore, ora, sentivano il dolore della ferita.

La notte stessa egli scrisse a Giovanna, confortandola, ripetendole che egli sperava sempre nella misericordia divina. «Forse Dio — scriveva egli, col suo buon senso, — ha voluto provarci ancora, togliendoci il frutto che noi avevamo concepito nel peccato. Sia fatta la sua volontà. Ma ora un presentimento mi dice che si avvicina l'ora della mia liberazione».

Poi meditò lungamente, chiedendosi se doveva scrivere di quella cosa orribile accennata dall'ex-maresciallo. Ma no. Egli si credeva abbastanza furbo per non accennarla neppure; Giovanna doveva ritenere che egli ignorasse persino l'esistenza di quella legge infernale.

Dopo averle scritto fu più tranquillo; ma un piccolo tarlo inesorabile cominciò a rodere e stridere nel suo cervello, e dopo quel giorno il re di picche con pietà crudele non cessò di instillargli nel sangue il terribile veleno.

— Bisogna che si abitui, — pensava l'ex-maresciallo, — altrimenti quest'anima semplice muore di crepacuore.

Qualche volta pensava che forse era meglio lasciarlo morire, poi ricordava d'avergli promesso la grazia, e sembrandogli di poter arrivare ad ottenergliela, tornava a tormentarlo per impedirgli di morire allorquando Giovanna avrebbe chiesto il divorzio. Era certo che ella pensava già a ciò, e si stizziva quando Costantino parlava amorosamente di lei.

— Caro, carissimo, — gli disse sbuffando, un giorno d'ottobre. — Tu non conosci le donne. Anfore vuote, ecco, null'altro che anfore. Una volta io sono stato fidanzato. Ti pare impossibile? Sì, pare impossibile anche a me, guarda! E poi? Ecco tutto, ella mi tradiva già, ancora prima di sposarla. Ecco tutto. Tu mi fai stizzire, del resto: ora tua moglie trovasi in un caso diverso, è povera, è giovine, ha del sangue nelle vene. Ha sì o no del sangue nelle vene? Se questo Dejas la vuol sposare, ella è un'oca a non prenderselo.

— Chi, Dejas? Chi le ha detto?... — domandò Costantino maravigliato.

— Oh, non me lo hai detto tu?

A Costantino pareva di non averne parlato mai. Ma aveva le idee tanto confuse, da qualche tempo in qua! Oh Dio buono, o San Costantino bello! Come aveva fatto a parlare di colui?

— Ebbene sì, — proruppe, — ho paura. Egli le ha fatto la corte, la voleva in isposa. Ah, è un ubbriacone, scipito come il fango. No, essa non farà mai quella cosa orribile. Parliamo d'altro, per carità.

E parlarono d'altro, sempre in dialetto sardo per non farsi capire dagli altri condannati; parlarono dello studente tisico che andava sempre più avvicinandosi alle porte dell'altro mondo, di Arnolfo Bellini che piangeva stupidamente ogni volta che vedeva lo studente, del Delegato che passeggiava intorno alla fontana, della gazza che dimagriva e perdeva le piume per vecchiaia.

Pettegolezzi, odii, rancori, amori, vigliaccherie, scherzi, stringevano, univano, spingevano i condannati, fra loro, coi guardiani, coi superiori. Costantino rimaneva insensibile a tutto. Egli, lo studente e il Delegato, parevano vivere in disparte da tutti gli altri, avvicinandosi soltanto all'ex-maresciallo, che era il pernio di quasi tutti gli avvenimenti segreti del penitenziario, e che rimaneva superiore a tutti, indispensabile a tutti.

Molti invidiavano la famigliarità che egli concedeva a Costantino, e pregavano costui d'interporsi presso il re di picche per certi favori. Il condannato alzava le spalle. Alcuni gli offersero denaro, ed egli fu tentato di prenderlo, vinto dalla smania angosciosa di sovvenir Giovanna il più che potesse: non pensava ad altro.

Il re di picche, con le sue continue insinuazioni, pungenti come spilli, gli diventava sempre più odioso: un giorno litigarono sul serio, e per qualche tempo non si scambiarono il saluto. Ma Costantino si sentiva soffocare; gli pareva di essere in cella, diviso per sempre dal mondo esteriore: e fu il primo ad umiliarsi, chiedendo pace.

L'autunno s'inoltrava; l'aria s'era rinfrescata, il cielo sembrava di velluto azzurro, tenero, lontano, dolce come un sogno. Qualche giorno il vento recava un profumo di frutta mature.

Costantino si sentiva meno oppresso, ma pieno di melanconia; cominciava a diventar anemico perchè si privava di tutto per mandare i denari a Giovanna, e mentre tutti gli altri condannati ricevevano denari, chi più chi meno, egli soltanto si privava anche dei soldi che guadagnava.

— Io non capisco, — diceva l'ex-maresciallo, — tu diventi rosso e pare che ringiovanisca; ma sei trasparente, mio caro.

Talvolta Costantino si sentiva ardere il viso e il sangue tuonargli entro il capo: poi cadeva in prostrazione e soffriva la nostalgia come neppure il primo anno l'aveva sofferta. Vedeva il grande altipiano addormentato nella quiete autunnale, giallo sotto il cielo chiaro; e le montagne battute dal tiepido sole; e sentiva la fragranza delle poche frutta e delle vigne che tardavano a maturare in quel paese di pastori e di api. Vedeva le volpi, le lepri, gli alveari, gli uccelli selvatici, i cavalli, le siepi coperte di more, tutte le cose che avevano interessato e riempito la sua infanzia infelice, ribelle, eppure rallegrata da gioie selvaggie. Ricordando lo zio, il vecchio avoltoio crudele, che l'aveva tormentato in vita, ed anche dopo morte lo tormentava così, sentiva un impeto d'odio contro il morto; poi pensava: — ora non esiste più nulla! — e si pentiva e pregava per l'anima sua.

Altri non odiava; nessuno, nessuno: neppure il vero assassino, neppure Brontu Dejas, al quale del resto non aveva ancor nulla da rimproverare; neppure il re di picche che lo martoriava continuamente. Non aveva forza di odiare. Sentiva una dolcezza triste nel sangue, come uno che sta per addormentarsi, e da questa dolcezza triste e snervata sorgeva solo un sentimento d'amore, tenero, dolce, vellutato, melanconico come il cielo d'autunno. E quel sentimento era tutto per lei, era lei. Egli pensava sempre a lei, sempre a lei, sempre a lei.

Più il tempo passava, più egli sentiva di amarla: essa era la patria lontana, la famiglia, la libertà, la vita: tutto, tutto era in lei; la speranza, la fede, la forza, la serenità, la gioia di vivere. Era l'anima sua.

Quando il crudele re di picche gli minacciava quella cosa orrenda, lo minacciava di morte. Pur di non perder Giovanna egli sarebbe rimasto volentieri quarant'anni in reclusione; e nello stesso tempo anelava la libertà appunto per non perder Giovanna.

Quell'inverno soffrì assai il freddo; aveva il volto livido, le unghie livide: nelle ore di aria si metteva al sole e batteva i denti come un vecchierello. Voleva confessarsi spesso, e diceva al giovine cappellano tutte le inquietudini che provava.

— Chi vi ha messo in testa queste idee, caro figliuolo? — chiese il confessore; e gli occhi neri lampeggiavano.

— Un mio compatriota, l'ex-maresciallo Burrai, il re di picche infine.

Che Dio te strabenediss... — mormorò il cappellano, facendosi pensieroso. Egli conosceva bene il re di picche!

Cercò di confortare il condannato, poi gli chiese se e cosa Giovanna gli scriveva. Ahimè, essa ora scriveva raramente, poche righe. Dopo la morte del bimbo pareva non avesse più nulla da dire. Ultimamente aveva scritto che al paese faceva gran freddo: la neve era caduta due volte e l'ultima volta un uomo era morto assiderato attraversando le montagne. Inoltre, aggiungeva Giovanna, una grande carestia opprimeva il paese.

Tutto ciò dava a Costantino un'angoscia insopportabile. Spesso sognava d'esser condotto a Nuoro e liberato: di là s'avviava a piedi al suo paese; egli aveva freddo, non poteva andar oltre, moriva, moriva... E si svegliava gelato, col cuore oppresso da un'angoscia suprema.

Il confessore gli disse:

— Voi siete tanto debole, caro fratello; è la debolezza che vi fa venire questi brutti pensieri. Vostra moglie è una buona cristiana; non vi farà mai alcun torto, via, levatevi di mente le brutte idee. Avete bisogno di rafforzarvi; mangiate, bevete qualche cosa. Guadagnate?

— Un poco; ma mando tutto a mia moglie: è così povera. Oh, io mangio abbastanza. No, non sono debole. Bere, poi, non mi piace; mi nausea.

— Ebbene, state tranquillo; parlerò io col Burrai... Vi lascierà tranquillo.

Egli infatti parlò col re di picche e lo rimproverò per le idee melanconiche che metteva in capo al Ledda.

— È un povero ragazzo, è anemico; lasciatelo in pace o si ammalerà.

Il re di picche lo guardò tranquillo, coi piccoli occhi porcini socchiusi furbescamente; poi sbuffò; infine scosse il capo e disse:

— Lo faccio per il suo bene.

— Macchè bene! Macchè bene! Voi...

— Io dico, ecco, caro amico, pardon; per questo inverno ancora c'è poco da temere, riguardo alla giovine, perchè fa freddo assai. Per ora, mi immagino, sarà soltanto la vecchia, la suocera di Costantino, che sbraiterà consigliando alla figlia, anzi imponendole di acciuffar la fortuna. Ma poi verrà la primavera, ecco tutto.

Il cappellano faceva il viso lungo, s'agitava tutto, non capiva, mentre l'altro, continuando a guardarlo con gli occhietti porcini pieni di malizia, credeva opportuno spiegargli la cosa in termini più chiari, descrivendogli l'avidità della suocera, la gioventù della moglie, i pericoli della primavera... Il cappellano si stizzì sul serio.

Catt... — disse, balzando di qua e di là, battendo le mani, fiammeggiando negli occhi, — voi siete insopportabile! Perchè andate a immaginarvi queste cose? Perchè tormentate quel povero ragazzo? Perchè la donna ebbe un pretendente vuol dire che...

— Caro amico, non vada in collera, ecco! — disse il re di picche. E gli fece vedere la lettera anonima giunta dal paese di Costantino.

Il cappellano si fece serio; pregò l'ex-maresciallo di lasciargli la lettera; poi gli chiese:

— Voi prendete denaro dal Ledda?

— Certo: qualche piccola cosa. È forse disonesto? Non arrischio io la cella col favorirlo?

— E voi credete compiere il vostro dovere facendo ciò che fate?

— Cosa è il dovere? Se far del bene al prossimo è il nostro dovere, io lo faccio.

L'altro rileggeva attentamente la lettera.

— Io lo faccio; e questo è niente. Quando sarò libero, se le persone influenti di cui dispongo non mi faranno rimettere al mio posto, conto di occuparmi appunto della corrispondenza clandestina di tutti i condannati d'Italia. Una specie di agenzia...

— Non tarderete a ritornar qui...

— Eh! Eh! farò le cose a dovere: agenzia segreta, caro amico. E poi...

— Le grazie anche! — disse l'altro, ripiegando la lettera. — Perchè lusingate così questi poveri disgraziati?

— Le grazie anche! — rispose freddamente il Burrai. — Ebbene, anche fosse soltanto una lusinga, se è loro di conforto, non è opera buona? Che altro abbiamo noi se non la speranza?

— Allora, — disse l'altro, con voce raddolcita, — fatemi il piacere di non tormentare oltre quel povero ragazzo: fatelo piuttosto sperare; altrimenti finirà con l'ammalarsi.

L'ex-maresciallo promise, ma a malincuore. Ah, quel metodo non gli sembrava buono.

— Egli morrà d'un colpo, in fede mia! — pensava. — Oh, verrà la primavera! Oh, allora si vedrà se chi conosce il mondo ha o no ragione. — E si metteva una mano sul petto.

Quando si incontrarono, Costantino gli chiese sorridendo se aveva visto su preideru (il prete) come fra loro chiamavano il cappellano, e cosa gli aveva detto. L'ex-maresciallo stava appoggiato al muro scuro ed umido, con le mani sulla schiena, ed imprecava in sardo, a bassa voce, non si sa contro chi.

Balla chi li trapasset sa busacca, brasciai... (che una palla gli trapassi la saccoccia, volpe...).

— Che ha? Con chi l'ha?

— Ebbene, niente. Sì, ho visto il prete, mi ha sgridato come un bimbo. Che bimbo grasso! Un porcellino, un porcellino addirittura. Ma il lardo è giallo, rancido. Sai, ho letto che in Russia è pregiato il lardo rancido.

— Che le ha detto, mi dica...

— Cosa mi ha detto? Mi ha detto... chi se ne ricorda più! Ah, sì, mi ha detto che quella cosa è una mia fantasia. Sì, io ho la fantasia ricca... Sì, caro amico, perdonami; tua moglie non ti tradirà mai, come è vero che siamo qui.

Costantino lo fissava avidamente. No, quell'uomo non lo burlava, no, non lo burlava affatto. Diceva la verità.

— Ah, lo ha sgridato dunque! Oh, bella!

— Questo muro, — disse il re di picche, scostandosi e guardandosi le mani rossastre solcate di pieghe per la compressione della schiena, — vedi, mio caro, questo muro sembra di cioccolato. È umido e caldo. Fosse almeno! Avremo due vantaggi: rosicchiarlo e scappare. Ah, hai tu mangiato mai cioccolato?

— E come no? Sì, piaceva assai a Giovanna. Ma è caro, tanto caro. Ebbene?...

— Ebbene? — gridò l'altro. — Tu mi fai arrabbiare. Sì, ti aspetterà per altri ventitre anni, non dubitare!...

— No, io uscirò prima. E poi, caso mai... (e canzonava alquanto) non andrà dal re, lei, non mi farà la grazia?

— Sì, dal re. Proprio dal re! Tu non ci credi? Io andrò dal re: egli riceve tutti gli ufficiali; ed io non sono un ufficiale? Egli ama l'esercito: egli è giovine; ho letto che si è ingrassato. Ah, ma non ingrasserà come me... — E rise.

Costantino tornava sempre sul suo argomento; l'altro sfuggiva sempre; ad ogni modo però non lo tormentò più.

In quei giorni furono deposte cinque lire sul libretto di Costantino.

— È lui, è lui! — disse il condannato, — È il prete. Che uomo buono! Ma io non le voglio. No. Non le voglio.

— Tu sei stupido come un montone, — gli rispose il re di picche. — Prendile, altrimenti egli si offende. Non le voglio! Si risponde così ai benefizi?

— Ma io ho vergogna. E poi che devo farmene?

— Bere, mangiare. Ne hai di bisogno, credilo pure. Tu vorresti mandarle là, laggiù, che il diavolo ti liberi? Se fai quella bestialità ti sputo sul viso. Vedi, essa non ti scrive più, neppure...

— Che ha da scrivermi? — disse Costantino, cercando rassicurarsi. — Ora avrà del lavoro, l'inverno finisce.

— Ah, sì, finisce! E verrà la primavera! gridò l'altro, quasi minaccioso.

— Verrà.

— Verrà!

— Quando comincia il caldo al tuo paese? Da noi, in marzo fa già caldo.

— Oh, da noi in giugno. Allora è tanto bello, da noi. L'erba si fa alta, alta; si tosano le greggie, le api fanno il miele.

— Che idillio! Ah, tu non sai cosa vuol dire idillio? Ebbene, vuol dire... ... un corno! E aspettiamo giugno! È da molto che non ti confessi?

— Sì. Da quindici giorni.

— È da molto davvero! Ah, come sei cretino, mio caro! Io non mi sono confessato mai: ho la coscienza pura come specchio. Ecco, — disse poi, additando lo studente, che aveva il viso cereo e i capelli rasi così bianchi che sembravano incipriati, — quello ha davvero bisogno di confessarsi. Egli batte alle porte dell'eternità.

Infatti poco dopo lo studente fu messo nell'infermeria e morì agli ultimi di marzo. Il Bellini, quello dell'amante tisica, s'informava ansiosamente dello stato dell'infermo, e quando lo studente morì, pianse puerilmente tutta la giornata. E piangeva non per il povero morto, ma per l'amante malata. Poi si confortò, e non vedendo più lo studente e non udendo più parlare di lui, pensò meno alla malattia della donna amata. La morte dello studente mise nell'anima del re di picche una strana melanconia. Egli cominciò a filosofare sulla vita, sulla morte, e intavolò lunghe discussioni col Delegato, nelle quali quest'ultimo rispondeva a voce bassa, stralunando gli occhi. Con Costantino, poi il Burrai s'abbandonava ai ricordi nostalgici della patria lontana.

— Sì, — diceva, — una volta io passai vicino al tuo paese, o nei dintorni, non so. C'era un bosco di soveri, di cisti e di corbezzoli; su questi pareva fosse piovuto del sangue. E un odore, caro mio, un odore così forte che pareva di tabacco. Bada, c'è una croce sopra una pietra; si vede il mare lontano.

— Ah, ecco, è la foresta di Cherbomine[5]. Ah, se la conosco! Una volta un cacciatore vide là dentro un cervo con le corna d'oro. Sparò, l'ammazzò. Nel morire, il cervo mise un grido umano e disse: La penitenza è finita. — Si crede avesse in corpo un'anima umana che, dopo morte, scontasse così grandi delitti. Fu messa la croce.

— E le corna, mio caro?

— Dicesi che il cacciatore, avvicinatosi, s'avvide che le corna s'erano fatte nere.

— Pof! Pof! Come siete sciocchi voi altri paesani! Ah, ecco che la primavera viene! — disse poi il re di picche guardando il cielo. — A me la primavera dà ai nervi. Sì, una volta ero anch'io cacciatore.

— Oh!

— Cacciavo negli stagni, vicino a Cagliari: ah, gli stagni! Parevano i frantumi d'uno specchio buttati qua e là dall'alto. Intorno c'erano tanti gigli violetti. E i fenicotteri passavano in lunghe file sul cielo così splendente che non si poteva guardare. Io chiudevo un occhio. Pum! Pum! Cadeva un fenicottero. Gli altri continuavano a volare, silenziosi, in fila. Io mi buttavo anche in mezzo allo stagno per prendere il fenicottero. Ero agile, sai, agile come un pesce: avevo diciotto anni.

— A che servono i fenicotteri?

— A niente: s'imbalsamano: hanno le gambe lunghe e sembrano di velluto. Hai tu veduto quei paesi? Ah, sì, è vero, tu sei stato nelle miniere e sei passato per Cagliari. Io tornerò laggiù per morire in santa pace.

— Lei è malinconica questi giorni!

— Che vuoi, caro amico? È la primavera; è così triste passar la Pasqua in prigione! Quest'anno farò il precetto pasquale.

— Io l'ho già fatto.

— Ah, tu l'hai già fatto!

Dopo di che i due condannati tacevano e ricordavano.

E passò aprile, maggio, giugno: i desolati muri del carcere tornarono a infocarsi, gli insetti immondi e tormentosi si svegliarono ricominciando l'opera crudele di tortura sopra i condannati; odori nauseabondi ricominciarono a infettare l'aria, e nella camerata dei calzolai, sempre vigilata dal guardiano taciturno e rosso, il cuojo, la pece ed il sudore esalarono un puzzo acuto.

Costantino, sempre più anemico, cominciò a patire assai per le punture degli insetti: gli altri anni dormiva profondamente e non si accorgeva delle punture, ora invece aveva il sonno leggiero e certe trafitture lo svegliavano di soprassalto, dandogli un brivido per tutta la persona: allora cominciava l'insonnia, o un dormiveglia peggiore dell'insonnia, che talvolta assumeva i caratteri dell'incubo. Punture acute, e non sempre di insetti, gli trafiggevano tutta la persona; egli si voltava e rivoltava, soffocava, gemeva. Era una cosa orribile. Spesso la luce aranciata dell'aurora giungeva prima ch'egli avesse potuto chiuder occhio; allora veniva colto da un grande spossamento, da un sonno invincibile, e doveva alzarsi!

Giovanna non gli scriveva più: soltanto, agli ultimi di maggio, aveva scritto pregandolo di non mandarle più denari, poichè guadagnava abbastanza per vivere discretamente. Poi più nulla.

Ma oramai egli era tranquillo sulla fedeltà di lei: quell'ultima lettera gli era sembrata anzi una prova di affetto.

Il re di picche ogni giorno, all' aria, lo aspettava con certa ansia; lo fissava coi suoi occhietti diabolici, scintillanti in quel grosso testone raso, tutto giallo; gli chiedeva con premura: — che nuove? — e siccome Costantino si meravigliava di questa domanda, anche l'ex-maresciallo si meravigliava, non diceva di che. Solo osservava:

— Fa caldo.

— Sì, fa caldo.

— La primavera è passata.

— Altro che passata!

— La carestia al tuo paese sarà cessata, ora.

— Sicuro che è cessata. Mia moglie non vuole che le mandi più nulla.

— Ah! Lo so bene, caro amico.

L'ex-maresciallo non sapeva che pensare, e quasi quasi si stizziva che la sua profezia non si avverasse.

Ma un giorno Costantino non venne all' aria. L'ex-maresciallo, saputo che il suo compatriota si trovava all'infermeria, si sentì stringere il cuore in modo strano, e siccome la vecchia gazza svolazzava intorno, e quando si posava scuoteva la testolina mezzo spelata, mezzo arruffata, chiamando con voce nasale: — Cos-tan-tì — Cos-tan-tì... — il re di picche le rispose a voce alta:

— Su Costantino è caduto un fulmine.

Tutti i condannati gli si aggrupparono intorno, curiosi di sapere; ma egli stese le mani avanti, facendo atto di respingerli e disse:

— Io so nulla. Lasciatemi stare.

Fino alle nove, — disse il Bellini, — Costantino aveva lavorato con loro: poi un guardiano era venuto a prenderlo, non si sapeva perchè: egli s'era alzato di botto, con gli occhi spalancati, pallido; aveva seguìto il guardiano e non era più tornato.

Per quanto visse, Costantino ricordò quel giorno. Era una mattina calda, annuvolata, e l'ombra delle nubi pareva gravasse sulla camerata dei calzolai, gettando fino alla metà delle pareti una cupa penombra. I condannati emergevano lividi da quella penombra, coi grembiuli di cuojo puzzolenti; ed erano di cattivo umore.

Uno di essi, che aveva paura dei morti, raccontava che nel suo paese si vedevano, nelle notti scure, correre entro l'acqua del fiume lunghi fantasmi liquidi e biancastri, e chiedeva al Bellini se egli ne avesse visti mai.

Mi no! Io non credo a queste stupidaggini!

— Ah, tu le chiami stupidaggini? — disse l'altro con voce monotona, guardando entro la scarpa che lavorava.

Un altro disse, piano, lavorando:

— Testa di montone...

Allora quello che credeva ai morti sollevò il viso e s'arrabbiò, offeso; ma l'altro protestò.

— Oh che non posso parlare fra di me? Posso dire: testa di montone, testa di vitello, testa di cane... Chi ti cerca? Non posso parlare con la scarpa?

Giusto in quel momento venne il guardiano che chiamò Costantino. Costui, che aveva passato una brutta notte insonne, spalancò gli occhi assonnati, s'alzò di botto e impallidì.

— Chi mi vuole? — domandò, e seguì il guardiano.

Fu condotto in una stanza polverosa, ingombra di scaffali pieni di cartaccie: i vetri sporchi eran chiusi; dietro i vetri s'incrociava una inferriata rossa; dietro l'inferriata si vedeva il cielo nuvoloso che pareva pur esso coperto di polvere. Nella stanza, seduto davanti una scrivania alta e polverosa, un uomo scriveva. Aveva tante, tante carte davanti; spariva quasi fra le carte e la polvere. Vedendo il condannato sollevò il viso, un corto viso roseo col piccolo mento interamente coperto da due spioventi baffi biondi. Fissò Costantino con gli occhi grandi, d'un azzurro latteo, rotondi ed immobili, ma parve non vedere il condannato perchè si rimise a scrivere rapidamente.

Costantino, che conosceva già quell'uomo, rimase in piedi, col cuore che gli batteva forte forte. Nella sua inquietudine ricordava la storia dei fantasmi entro il fiume, la voce del condannato che diceva: testa di montone e si domandava se l'altro s'era offeso a torto od a ragione. Nella stanza udivasi solo lo stridìo della penna sulla carta aspra.

I due occhi rotondi e chiari fissarono nuovamente il condannato, e tornarono ad abbassarsi: Costantino trasalì, si guardò attorno, stette in ansiosa attesa.

L'uomo scriveva sempre. Il condannato si sentì battere il cuore con veemenza; mille pensieri bui, quasi direi afoni, deformi, gli passavano per la mente come una torma di nuvole incalzanti. L'uomo scriveva sempre. Ad un tratto, improvvisamente, nella mente di Costantino, quei mille pensieri bui, informi, svanirono come nuvole per dar posto ad uno splendore così abbagliante che faceva male.

— Che si riconosca la mia innocenza?

Era questo lo splendore. Passò, ma lasciandosi dietro una vaga luce. E l'uomo scriveva sempre, e continuando a scrivere domandò con voce alta e grossa:

— Vi chiamate?...

— Costantino Ledda.

— Di dove?

— Di Orlei in Sardegna, provincia di Sassari.

— Benissimo.

Silenzio. L'uomo scriveva sempre. Ad un tratto raschiò forte, sollevò il volto roseo, fissò il condannato coi grandi occhi chiari, rotondi, immobili. Costantino abbassò i suoi occhi.

— Va bene. Avete moglie?

— Sì.

— Figli?

— Ne avevamo uno ed è morto.

— Volete bene a vostra moglie?

— Sì, — rispose Costantino, e sollevò gli occhi spauriti. Vide nella mano grassa e rosea del signore un anello con pietra violetta; e fra l'indice e il pollice la punta della penna nera, girante, ritta. Non sapendo dove posar gli occhi smarriti, Costantino fissò il movimento della penna: e sentì qualche cosa di supremamente angoscioso, come quando in sogno si aspetta un cataclisma. La voce grossa ora parlò in tono basso, lentamente.

— Voi sapete bene che vostra moglie è stata da voi rovinata. Giovine, bella, innocente, ella dovrebbe trascorrere la sua vita in lutto continuo, piangendo. Nulla più le sorride nella vita, ed ella non ha commesso mai alcun male. Pazienza quando aveva il figliuolo. Sperava in lui. Ma ora che il bimbo è morto che più le resta? Quando voi tornerete, se Dio vi concederà tale grazia, sarete vecchio, affranto, inabile. Anch'ella sarà tale. Ella quindi vede davanti a sè un terribile avvenire: dolore, vergogna e miseria. Una vecchiaia orribile. Andrà a mendicare: la sua vita, in tal guisa, è una pena peggiore della vostra...

Costantino, pallido come un morto, ansante, sofferente, voleva protestare, dire che sperava tornare presto; ma non poteva parlare, e d'altronde l'altro proseguiva, suggestionandolo con quei due occhi tondi, chiari, immobili: — ... peggiore della vostra. Voi dovreste pensare a ciò e disperarvi, e doppiamente pentirvi del vostro delitto. Ehi là! (L'uomo sospirò, raschiò ancora, cambiò tono di voce). La legge, però, oramai provvede a questa enorme ingiustizia. Voi sapete bene che c'è il divorzio, il quale rende libera la donna il cui marito ha una certa condanna. Se vostra moglie... sedetevi, state tranquillo... se vostra moglie chiedesse il divorzio sarebbe vostro dovere accordarlo subito. So che voi, dopo tutto, siete o dimostrate di essere un buon cristiano...

Costantino s'era appoggiato alla tavola, e tremava, senza sforzarsi alla calma.

— Lo ha già chiesto? — domandò.

— Sedetevi, sedetevi, ehi là! — esclamò l'altro, e con la penna gli faceva atto di sedersi. Voleva continuar la predica, ma Costantino disse con voce ferma, che contrastava col tremito di tutta la sua persona:

— So il mio dovere. Non darò mai il mio consentimento, perchè devo tornare fra poco in libertà, e mia moglie si pentirebbe...

Due solchi profondi sollevarono le guancie rosee del signore; un atroce sorriso gli animò gli occhi immobili: poi si fece pensoso.

— Sentite. Il consentimento del condannato viene richiesto solo per formalità. Suo dovere è darlo, e si tiene conto della sua buona intenzione. Ma fa lo stesso, anche se egli non lo dà... ehi là! Che... che... che... avete?...

Costantino svenne, cadde al suolo come uno straccio.

Fine della parte prima.

PARTE SECONDA

IX.

1908. In casa Porru, nella «camera dei forestieri», Giovanna rimetteva in ordine certe stoffe acquistate quel giorno a Nuoro. Ella s'era ancor più ingrassata e aveva perduto un po' della sua aria giovanile, conservandosi però bella e fresca.

Guardava attentamente le tele e le stoffe, voltandole e palpandole con aria preoccupata, come scontenta della scelta fatta; poi le piegava accuratamente, le avvolgeva con giornali e le metteva entro una bisaccia.

Erano i preparativi del suo corredo, giacchè, ottenuto già il divorzio, ella doveva sposarsi presto col Dejas.

Ella e sua madre erano venute appositamente a Nuoro per le compre. Il denaro l'avevano preso in prestito, con gran segretezza, da zia Anna-Rosa Dejas, sorella di Giacobbe, una donnina che voleva molto bene a Giovanna perchè aveva aiutato zia Bachisia ad allattarla.

Era nel cuor dell'inverno; ma le due donne avevano coraggiosamente sfidato la noia del viaggio faticoso per recarsi a Nuoro e provvedersi di tela, panno, fazzoletti, stoffe.

Le nozze, puramente civili, dovevano farsi con gran segretezza, peggio che nozze di vedova; ma ciò non importava; zia Bachisia voleva che sua figlia entrasse nella nuova casa provveduta di tutto, come una sposa giovinetta di buona famiglia.

Il paese non aveva finito di meravigliarsi e mormorare per lo scandaloso avvenimento, ma dicevasi che un'altra coppia di sposi pensava già di chiedere di comune accordo il divorzio. Molte persone guardavano di mal occhio le Era, qualcuno mormorava esser Brontu malintenzionato verso Giovanna. Giacobbe Dejas, Isidoro Pane, altri amici, non erano più tornati dalle Era, dopo aver loro fatto delle scene quasi violente. Giacobbe aveva urlato come un cane, minacciando, pregando; ma zia Bachisia l'aveva messo fuor della porta.

Anche zia Porredda, a Nuoro, sebbene suo figlio avesse patrocinato la causa del divorzio di Giovanna, accolse le amiche con freddezza. Invece il «Dottore», come ella chiamava suo figlio, si mostrò cortese e premuroso verso le ospiti.

E Giovanna riponeva le sue cose lentamente, pensierosa. Ma tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni erano per quegli stracci: ecco, le pareva che nella tela l'avessero un po' imbrogliata, il fazzoletto di tibet nero a grandi rose cremisi aveva le frangie troppo corte: in un nastro c'era una macchia. Ah, tutto ciò era ben grave!

Calava la sera, come l' altra volta, ma le cose intorno, e il tempo e il cuore, tutto era mutato. Tutto taceva.

La «camera dei forestieri» ora aveva una bella finestra dai cui vetri penetrava la luce viva e fredda del crepuscolo invernale. I mobili nuovi, ancora odorosi di legno verniciato, luccicavano lievemente di uno splendore biancastro, come velati di brina. La porta dava sulla loggia coperta, dalla quale una scala nuova, di granito, scendeva all'antico cortile. Tutta la casa era stata rinnovata. Il «Dottore» faceva affari. Possedeva uno studio nella parte più frequentata della città; era ricercatissimo tanto in civile come in penale; le cause più indiavolate, i delinquenti più vili, tutte le persone che maggiormente temevano i codici, s'affidavano a lui.

Giovanna finì di ripiegare, avvolgere, riporre le tele, le stoffe, i fazzoletti: la bisaccia era colma da ambe le parti, e la giovine la sollevò e la scosse perchè i pacchi calassero meglio a fondo. Poi si mosse, seria, le sopracciglia aggrottate; uscì e scese lentamente la scala, ficcando le mani entro due brevi aperture che la sua gonna d'orbace, come tutte le gonne dei costumi sardi, aveva sul davanti, dalla cintola in giù.

La sera di gennaio era limpida, ma freddissima: sul cielo d'un azzurro vitreo qualche stella argentea pareva tremasse di freddo. Attraversando il cortile, Giovanna vide, dietro i vetri illuminati della stanza da pranzo, il viso bianco e gli occhi ardenti di Grazia, che teneva in mano un giornale di mode. La fanciulla s'era fatta alta e bella: vestiva all'ultima moda, con quelle certe grandi ali di merletto, allora in voga, che si partivano dalla sommità delle spalle, dietro le maniche, costringendo le donne a passar di traverso in un uscio semi-aperto, ma in ricambio assomigliandole a tanti angeli non ancora decaduti.

Grazia vide l'ospite e la salutò con un sorriso, ma non si mosse. L'ospite entrò in cucina. Anche questo ambiente era stato rinnovato: le pareti bianche, i fornelli di mattoni lucidi, una lampada a petrolio pendente dalla volta.

Zia Bachisia non saziavasi di guardare intorno, coi due punti verdi brillanti nel suo viso giallo d'uccello rapace, cerchiato dalla benda nera. Ah, no, essa non era cambiata, la vecchia strega! Sedeva accanto al fuoco, vicino alla serva, una ragazzaccia poco pulita, scarmigliata, che rideva forte mostrando i denti sporgenti. Zia Porredda cucinava e sgridava la serva per quel suo modo di ridere. Ecco, la padrona cucinava e la serva sedeva accanto al fuoco e rideva. Che volete farci? miserie del mondo. Eppoi la brava donna non poteva stare un solo momento in ozio, sebbene ora fosse madre d'un avvocato di grido.

Giovanna si sedette lontana dal fuoco, un po' curva, sempre con le mani entro le aperture della gonna.

— Ecco — disse zia Bachisia, con accento d'invidia — questa cucina sembra una sala. Tu dovrai far accomodare così la tua cucina.

— Ah, sì — ella rispose distratta.

— Anima mia, sì, sicuro! Comare Malthina è avara, ma bisogna che tu le faccia capire che i denari sono fatti per essere spesi. Ecco, una cucina così! È un paradiso, anima mia; questa è la vita!

— Perchè dite sempre anima mia? — chiese la serva sciocca.

— Se ella non vorrà spendere, padrona! — disse Giovanna. — I denari son suoi. — E sospirò.

La serva rise ancora, ma zia Porredda, che non voleva immischiarsi nei discorsi delle ospiti, si volse severa e le impose energicamente di grattare il formaggio pei maccheroni. La serva obbedì.

— Che hai? — chiese zia Bachisia alla figlia, che sospirava.

— Ah, ella ricorda! Non è possibile che ella non ricordi. Dopo tutto è una cristiana, non è un animale! — pensava zia Porredda.

Giovanna disse rabbiosa:

— Ebbene, ecco, ci hanno imbrogliato. La tela non è buona, il panno è macchiato. Ah, quella macchia!

— Anima mia! — esclamò la serva, imitando la voce di zia Bachisia. E grattava, grattava il formaggio.

Zia Porredda sfogò sopra la ragazzaccia tutta la sua ira, tutto l'orrore che le ospiti le destavano: le diede i nomi che avrebbe voluto dare a Giovanna, la chiamò svergognata, vile, miserabile, ingrata, e minacciava di percuoterla con la mestola. Per la paura la servetta si grattò un dito e scosse in alto la mano sanguinante. In quel momento rientrò zoppicando lievemente il giovine avvocato, avvolto in un lungo e larghissimo soprabito nero, che pareva un mantello con le maniche: il suo piccolo viso roseo e tondo, dai baffetti biondastri, esprimeva una contentezza egoista da bambino lattante.

Domandò subito cosa c'era da mangiare, poi si degnò sedersi presso zia Bachisia, e chiacchierò fino all'ora della cena.

Dopo di lui rientrò, rossa, ansante e scarmigliata, la nipotina Minnìa, che andò a buttarsi seduta presso la serva (l'altro bambino era morto da tre anni), vestiva benino, di flanellina rossa e nera, ma aveva le scarpe rotte, le mani sporche. Ritornava da un orto attiguo, ove scorrazzava tutto il giorno; e subito cominciò a confabulare con la serva, confidandole qualche cosa con voce bassa e ansante.

— Anima mia! — rispondeva la serva sullo stesso tono.

Poi rientrò zio Efes Maria col suo faccione di marmo vecchio e le grosse labbra aperte, e volle andar subito a cena. Nella stanza da pranzo scintillavano due alte credenze di legno giallo: l'ambiente era discretamente signorile, con corsie sul pavimento, stufa, ecc. Zia Porredda, coi suoi grossi piedi dalle scarpe ferrate ci si muoveva a disagio: zio Efes Maria non rifiniva di guardarsi attorno con compiacenza; Grazia, alta, elegante, si seccava ogni volta che i parenti penetravano là, ove ella leggeva avidamente la Moda Unica, la Piccola Parigina e la parte mondana, anzichenò immoraletta per i cattivi sogni che fomentava, di un giornale per le famiglie. Ah quegli abiti scollati, ricamati di capelli, quelle giacchette a thait trapuntate d'oro, quelle camiciette con le grandi ali di merletto d'argento e di brillanti chimici simili alla rugiada, ah quei cappelli di frutta, e i lunghi boa di fiori, e le trine per sottane, a trenta lire il metro, e i guanti dipinti, ed i ventagli di pelle umana!... ah come tutto ciò era bello, orribilmente bello, terribilmente bello! Ecco, leggendo quelle cose si provava come un sogno spasimante, tanto erano belle. Dopo aver letto ciò, tutto il resto pareva brutto, e la buona nonna, dal viso di vecchio grasso, e il nonno imponente che si guardava intorno con contadinesca compiacenza, erano semplicemente seccanti.

Come in una sera lontana, zia Porredda entrò portando in trionfo i maccheroni fumanti. E tutti si sedettero attorno alla mensa ospitale.

Zia Bachisia sedette all'ombra delle ali di Grazia, e ricominciò a far le sue meraviglie appunto per quelle ali.

— No, da noi non se ne sono viste mai; già che signore non ce ne sono, da noi. Qui sembrate tutte angeli, le signore...

— O pipistrelli... — disse zio Efes Maria. — Eh, la moda, cari miei! Ecco, una volta, mi ricordo, quando ero bambino, le signore erano grandi e rotonde, che sembravano capanne. Ce n'erano poche allora, signore. La moglie dell'intendente, le dame...

— E poi quella cosa dietro... — interruppe zia Porredda — ah, mi ricordo, pareva una sella. Ebbene, sì, voi non lo credete, in fede mia, ricordo che una volta uno ci si sedette sopra...

— L'ultima volta che venni — disse zia Bachisia — queste ali erano piccine. Ora crescono... crescono...

Grazia mangiava e pareva non udisse nulla.

Il «dottore» mangiava anch'egli a due palmenti e guardava la nipote con quella sua aria di bambino beato, sorridente. Disse:

— Crescono, crescono... Fra poco spiccheranno il volo... — Grazia alzò le spalle, o meglio le ali, e non rispose e non sollevò gli occhi. Ecco, ella trovava insopportabile il suo giovine zio, il suo primo antico sogno: e poco male insopportabile, lo trovava ridicolo, qualche volta.

Tutta la città affermava che zio e nipote dovevano sposarsi: e lui, il «dottore», interrogato non diceva nè sì, nè no.

Per un bel poco si parlò di cose inconcludenti; ogni tanto zia Porredda s'alzava di tavola e usciva e rientrava: ogni tanto la conversazione moriva, e un silenzio quasi impacciato regnava. Come l'altra volta si cercava evitare l'argomento che più interessava le ospiti, e queste, dopo tutto, non se ne trovavano scontente. Ma fu la stessa zia Bachisia che, senza volerlo, provocò l'ingrata conversazione, domandando se era vero ciò che tutti affermavano: il matrimonio del «dottore» con la nipote.

I Porru si guardarono l'uno con l'altro, mentre Grazia curvava vie più la faccia sul piatto, — e risero, piano, piano.

Paolo guardò la fanciulla, e disse con ironia non del tutto allegra:

— Eh no! Ella sposerà l'illustrissimo signor sottoprefetto.

Ella sollevò e riabbassò rapidamente la faccia, aprendo le labbra; si videro i suoi occhi lampeggiare e la sua fronte arrossire. — È vecchio! — disse Minnìa. — Io lo conosco, sì; passeggia sempre alla stazione. Ih! ha una lunga barba rossa. E il cilindro.

— Ah, anche il cilindro?

— Sì, il cilindro: è vedovo.

— Chi è vedovo? Il cilindro?

— Tu stai zitta — disse energicamente la fanciulla, volgendosi alla sorella.

— No, io non sto zitta! Eppoi è anche un frammassone: egli non battezzerà i figli, non sposerà in chiesa. No, è così! In chiesa non ti sposerà.

— La signorina è bene informata! — disse zio Efes Maria, sempre pulito.

E allora zia Porredda, che ascoltava intenta, e che aveva a stento rattenuto un grido alla parola «frammassone», agitò le braccia e proruppe:

— Sì, un frammassone! Sì, di quelli che pregano il demonio; sì, in fede mia, mia nipote sarebbe disposta a prenderselo lo stesso! Siamo tutti in perdizione. Ebbene, Grazia legge i cattivi libri, i giornali indemoniati, e non vuole più confessarsi. Ah, quei libri proibiti! Io perdo il sonno pensandoci. Ebbene, ecco cosa voglio dire; Grazia legge i libri cattivi: Paolo, lo vedete, quello lì, dottor Pededdu, quello lì ha studiato in continente, dove non si crede più in Dio: sta bene, cioè sta male, ma si capisce un poco perchè queste due creature non credano più in Dio. Ma noi che non sappiamo niente di libri, noi che non siamo stati mai in ferrovia — quel cavallo del demonio — perchè non crediamo più in Dio, nel nostro Signore buono che è morto per noi sulla croce? Perchè, domando io, perchè? Ma perchè? Perchè tu, Giovanna Era, vuoi sposarti civilmente con un uomo, mentre hai un altro marito?

Le parole di zia Porredda caddero intorno, sulla testa degli astanti, come pesanti palle di ferro.

Grazia, che sorrideva per le parole della nonna, giocherellando con pezzetti di pane, sollevò il volto, fattosi serio. Paolo, che intrecciava le punte della forchetta col coltello, sorridendo per le parole della madre, fece un atto brusco, e zio Efes Maria, col viso atteggiato a mascherone tragico, guardò acutamente Giovanna.

Giovanna arrossì, ma disse cinicamente:

— Io non ho marito, zia Porredda mia: domandatelo a vostro figlio.

— Io non ho figlio; quello è figlio del diavolo! — disse la donna, arrabbiata.

Ah, quasi quasi pareva che Giovanna desse la responsabilità dei suoi atti a Paolo, perchè questo aveva patrocinato la causa del divorzio!

Allora tutti risero della stizza di zia Porredda, tutti, compresa Minnìa, compresa la servaccia, che entrava portando il formaggio.

Nonostante la sua collera, zia Porredda prese il formaggio e lo passò gentilmente a zia Bachisia.

— Anima mia, — disse costei, tagliando attentamente una fetta di formaggio (e la sua voce era dolente) — voi siete buona come il pane, ma voi state bene a casa vostra, voi siete ricca, avete una casa che sembra una chiesa, avete un marito forte come una torre (eh! eh! raschiò zio Efes Maria), siete circondata da una corona di stelle, eccole; ed ecco perchè voi parlate così! Ah, se voi sapeste cosa è la miseria; e il pensare di dover mendicare, alla vecchiaia! Capite, alla vecchiaia!

— Brava! — disse Paolo. — Datemi un coltello pulito.

— Questo non importa, Bachisia Era! — replicò zia Porredda. — Voi diffidate della divina provvidenza, appunto perchè non credete più in Dio. Cosa ne sapete voi se mendicherete o sarete ricche? Non tornerà Costantino Ledda?

— Mendicherà anche lui! — disse freddamente zia Bachisia.

— Eppoi Dio sa se tornerà! — osservò brutalmente l'avvocato, prendendo il coltello che la serva gli porgeva per la punta.

Si sapeva che Costantino era malato, si diceva anzi fosse tisico.

Per parer commossa, e forse lo era, Giovanna nascondeva il viso fra le mani: due volte disse, eccitata:

— Del resto, se io sposo soltanto civilmente, è perchè... — e si interruppe.

— Ebbene, dillo pure! — esclamò Paolo. — Sposi soltanto civilmente perchè i preti non ti vogliono sposare religiosamente. Essi non capiscono, non arrivano a capire, come non arrivate a capire voi, mamma Porredda! D'altronde, che cosa è il matrimonio? È un vincolo fatto dagli uomini, e che conta soltanto davanti agli uomini. Il matrimonio religioso è nullo...

— È un sacramento! — gridò disperata zia Porredda.

— ... È nullo — proseguiva Paolo — come, del resto, un giorno sarà nullo anche il matrimonio civile. L'uomo e la donna devono unirsi spontaneamente, dividersi quando non vanno d'accordo. L'uomo...

— Ah, tu sei un animale! — gridò zia Porredda, sebbene non fosse quella la prima volta che suo figlio parlasse così. — È il finimondo, questo. Ah, Dio è stanco, ed ha ragione. Egli ci castiga e farà venire il diluvio: già, ho sentito dire che c'è il terremoto.

— Il terremoto c'è sempre stato — osservò zio Efes Maria, che non si sapeva se propendesse dalla parte della moglie o da quella del figlio. Forse intimamente propendeva per la moglie, ma non voleva dimostrarlo per non scapitare nella stima del figlio «letterato».

Paolo tacque, già pentito di quello che aveva detto; voleva troppo bene a sua madre per farla arrabbiare inutilmente.

Giovanna si tolse le mani dal volto e parlò, con dolcezza umile:

— Ecco, quando ci siamo sposati, con quel disgraziato, ci siamo sposati soltanto civilmente, e se egli non veniva arrestato, chi sa quando avremmo celebrato il matrimonio religioso. E perciò non eravamo marito e moglie? Nessuno diceva niente, e Dio, che vede le circostanze della vita, non si offendeva...

— Ma vi ha punito! — disse zia Porredda.

— Questo sta a vedersi — strillò zia Bachisia, che cominciava a schizzar fiele. — O per questo o per la morte di Basilio Ledda.

— In tal caso avrebbe castigato soltanto Costantino...

— Ebbene? — disse la strega dagli occhi verdi trionfanti. — Non vuol dire che il castigo di Giovanna mia è finito, se Dio le manda la fortuna di sposarsi ad un giovine che le vuol bene, che le farà dimenticare ogni dolore sofferto?

— E ricco! — osservò zio Efes Maria. E non si sapeva se parlasse sul serio o per sarcasmo.

Giovanna aveva perduto il filo del suo discorso, ma volle concludere lo stesso, con voce dolce ed umile:

— Ah, zia Porredda mia! voi non sapete! Dio vede i cuori: Egli mi perdonerà, se vivrò in peccato mortale, perchè la colpa non sarà mia. Io vorrei ben sposare religiosamente, ma non si può.

— Perchè sei già sposata ad un altro, figlia del diavolo!

— Ma se questo è come morto, ditemi voi? Se questo non può aiutarmi a vivere! Se gli uomini della giustizia, che sono istruiti e sentono le necessità della vita, sciolgono il matrimonio civile, perchè gli uomini di Dio non potrebbero sciogliere il matrimonio religioso? Possibile che non la capiscano? Anche quel prete Elias Portolu che è da noi, che è tanto buono, voi lo conoscete, — che parla come un santo e non s'arrabbia mai, ebbene anche lui dice: no, no, no! Il matrimonio deve essere soltanto sciolto dalla morte! — E andate a farvi benedire, allora, se non comprendete la ragione! Vivere bisogna, sì o no? E quando non si può vivere, quando si è poveri come Giobbe? Quando non si ha lavoro, non si ha nulla, nulla, nulla? Ma ditemi voi, zia Porredda, e se in me fosse stata un'altra donna? E se non ci fosse stato il divorzio? Ebbene, che sarebbe accaduto? Il peccato mortale; sì, allora sarebbe accaduto il peccato mortale!

— Il peccato mortale! E poi la miseria, nella vecchiaia — ripetè zia Bachisia.

La serva portò la frutta: uva passa nera e lucente, pere raggrinzite gialle come foglie d'autunno.

La vecchia padrona porse il cestino delle frutta alla vecchia ospite, e la guardò con indicibile sguardo di compassione. Ecco, tutta la sua collera, il suo sdegno, il suo disprezzo cadevano davanti alla vile debolezza di quelle due donne. Disse mentalmente: — San Francesco bello, perdonatele perchè sono ignoranti, perchè sono selvatiche e vili.

Poi disse con voce raddolcita:

— Siamo vecchie, Bachisia Era: ed anche tu diventerai vecchia, Giovanna Era. E ditemi una cosa, ora. Cosa c'è dopo la vecchiaia?

— La morte.

— La morte. Sicuro, c'è la morte. E dopo la morte cosa c'è?

— L'eternità — disse Paolo, ridendo piano, piano, mentre mangiava l'uva passa come un bimbo goloso, accostandosi il grappolo alla bocca e strappando gli acini coi piccoli denti.

— L'eternità. Sicuro, c'è l'eternità. Perchè te ne vai Minnìa? resta lì... (Ma la ragazza, annoiata, andò via). Cosa dici tu, Giovanna Era, c'è o no l'eternità? Bachisia Era, c'è o no?

— C'è — risposero le ospiti.

— C'è, ma voi intanto non pensate all'eternità.

— È inutile pensarci... — disse Paolo, alzandosi e pulendosi la bocca col tovagliuolo. Egli doveva andarsene; s'era indugiato troppo per quelle due donne che, dopo tutto, lo interessavano soltanto perchè dovevano ancora pagarlo.

— C'è gente che mi aspetta nello studio, c'è gente. Ci rivedremo; voi non partirete.

— Domani mattina all'alba...

— Macchè! Voi resterete... — diss'egli con voce indifferente, indossando il suo immenso soprabito: e quando egli ebbe indossato il soprabito, zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi e pensò che il piccolo dottore, con quel paludamento, pareva una magìa, cioè una di quelle figurine ridicole eppur terribili che le maliarde fabbricano a scopo di magìa.

Egli andò via, e dopo di lui uscì dalla camera anche la signorina Grazia, che non aveva mai parlato durante la cena, e zio Efes Maria si accomodò di traverso sulla sedia, accavalcò le gambe e cominciò a leggere la «Nuova Sardegna».

In cucina s'udirono le ragazze ridere forte: e fra le tre donne, che mangiavano tre pere, regnò un grave silenzio. Qualche cosa pesava su di loro; sì, anche su zia Porredda che con la sua intuizione primitiva sentiva che l'anima delle selvatiche ospiti e l'anima dei suoi civili discendenti era ammorbata dallo stesso male.

X.

L'indomani all'alba, come in un altro giorno lontano, Giovanna fu la prima a svegliarsi, mentre zia Bachisia, che ogni notte, come tutte le vecchie, tardava ad assopirsi, dormiva ancora un sonno leggero e respirava forte.

L'alba invernale, fredda ma nitida, biancheggiava dietro i vetri appannati. Giovanna, che la sera prima s'era addormentata alquanto triste, più seccata che commossa per le osservazioni di zia Porredda, guardò verso i vetri e si sentì allegra indovinando una bella giornata e quindi un buon viaggio.

Sì, la sera prima ella s'era addormentata un po' triste pensando a Costantino, all'eternità, al suo bambino morto, a tante altre cose melanconiche.

— Il mio cuore non è cattivo — ella pensava — e Dio vede il cuore, e giudica più le intenzioni che le azioni. Io ho pensato a tutto, a tutto. Io ho voluto bene a Costantino ed ho pianto finchè ho avuto lagrime. Ora non ne ho più; ora io penso che egli non tornerà mai più, o tornerà quando saremo vecchi, e non posso piangere più. Che colpa ne ho io se non posso piangere più, pensando a lui? D'altronde penso che io sono una creatura di carne e d'ossa, come tutte le altre, che sono povera, soggetta alle tentazioni ed al peccato. E per sfuggire le une e l'altro prendo il posto che Dio mi assegna. Sì, zia Porredda mia, io penso all'eternità, ed è per salvarmi l'anima che io faccio ciò che faccio... No, io non sono cattiva; il mio cuore non è cattivo.

Quasi quasi pensava che il suo cuore era buono e generoso, o almeno, se precisamente non pensava così nella profondità sincera della coscienza — in quella profondità che non mentisce mai — e dalla quale sgorgava quel senso di tristezza che la avvolgeva, — lo pensava con la mente calcolatrice. Così, confortata, si addormentò.

Ora l'alba nitida batteva ai vetri della camera ospitale le grandi ali diafane, fredde e pure come il ghiaccio, e Giovanna pensò al sole e si rallegrò.

Anche la vecchia si svegliò e guardò subito i vetri.

— Ah, farà una bella giornata! — disse soddisfatta.

Si alzarono. Zia Porredda era già in cucina; cortese e premurosa servì il caffè alle ospiti, e le aiutò a sellare e caricare il cavallo. Pareva non ricordasse affatto il discorso della sera prima, ma appena le due donne furono uscite, fece in aria un piccolo segno di croce, sembrandole che con loro fosse andato via il peccato mortale.

— Alla buon'ora. Buon viaggio, e il Signore vi aiuti — pensò zia Porredda, chiudendo il portone.

Nel silenzio cristallino dell'ora i galli cantavano con rauchi gorgheggi, vicini, lontani, più lontani ancora, e la piccola città dormiva sotto il cielo di vetro azzurro.

Questa volta le Era viaggiavano sole; dovevano scender la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi salire le montagne grigie all'alba, i cui picchi coperti di neve, d'un bianco metallico, si disegnavano crudamente sull'orizzonte.

Faceva freddo; non spirava vento, ma l'aria era tagliente, e un silenzio indescrivibile regnava nella grande valle selvaggia, accresciuto, anzichè rotto, dalla voce monotona di qualche torrente. L'erba invernale, corta e d'un verde intenso, incipriata di brina, copriva le chine di qua e di là dai sottili sentieri bruni; il musco umido odorava sulle roccie, e le macchie verdi stillavano brina: una freschezza selvaggia ringiovaniva la valle; ma i radi alberi contorti e brulli sorgevano, a grandi intervalli, come eremiti nudi, espostisi per penitenza al freddo e alla luce dell'aurora. Nei seminati la terra era nera, umida; e la linea delle muriccie, lunga, infinita, coperta di musco, saliva e scendeva serpeggiante: guardata dall'alto sembrava un enorme verme verde. Cammina, cammina, le due donne, con le mani, il volto e i piedi gelati, attraversarono il torrente in un guado ove l'acqua passava larga, bassa e silenziosa, risalirono la valle e cominciarono a salir le montagne. Il sole era spuntato, vivido ma freddo, e le montagne della costa sorgevano azzurre sul cielo d'oro: il vento, ora, passava fra le basse macchie, recando un odore di roccie umide.

Le due donne viaggiavano silenziose, assorte: in un avvallamento ombreggiato dalle chine sovrastanti, candide di brina, incontrarono un uomo di Bitti che viaggiava a piedi; si salutarono, sebbene sconosciuti, e passarono oltre.

A mano a mano che salivano, il sole s'avvivava e le riscaldava: esse pensavano alla mèta che s'avvicinava, alle robe che tenevano entro la bisaccia, alle cose che dovevano fare appena arrivate al paese. Zia Bachisia pensava a zia Martina e alla soddisfazione che la vecchia avara proverebbe vedendo il corredo di Giovanna: e Giovanna pensava a Brontu ed alle cose curiose che egli diceva quando era ubriaco; ma entrambe, quando videro la chiesa di San Francesco, bianca al sole, adagiata a mezza china, fra le macchie lucenti, pensarono a Costantino e dissero un'Ave-Maria per lui. Arrivarono poco dopo mezzogiorno. Ad Orlei, nella cerchia dei campi umidi, sotto l'alito gelato delle grandi sfingi con le cime fasciate da bende di neve, il freddo era più intenso che a Nuoro, e il sole riusciva appena a riscaldare l'erba dei viottoli melanconici. I tetti erano rugginosi, ed alcuni coperti di gramigne; i muri neri di umido, gli alberi nudi, resi rossastri dal freddo; qualche spira di fumo livido saliva sul cielo chiaro, d'una solitudine infinita. Come sempre, il paesello taceva e sembrava deserto, abbandonato; sui muri apriva le sue piccole coppe di carne verde l' ombelico di Venere, le lucertoline screziate prendevano il sole, le lumache e gli scarafaggi lucenti salivano di pietra in pietra.

Zia Martina filava sotto il portico, ove penetrava il sole, e vedendo tornare le sue vicine fu assalita dalla smania di sapere ciò che esse recavano entro la bisaccia, ma non si mosse e rispose contegnosa al loro saluto.

Verso sera rientrò Brontu, che ogni tre giorni visitava la fidanzata, e la madre volle accompagnarlo, curiosa di sapere ciò che le Era avevano portato da Nuoro.

Un magro fuoco di legno di ginepro ardeva sul focolare di zia Bachisia, proiettando lunghi sprazzi di penombra rossastra sul pavimento e le pareti terrose della cucina. Giovanna voleva accendere la candela, ma i Dejas glielo impedirono: zia Martina per istinto, Brontu perchè così nella penombra poteva meglio guardare la fidanzata.

Era mirabile il contegno di Giovanna davanti alla futura suocera ed a Brontu; ella diventava dolce dolce, la sua voce pareva quella d'una bimba, pur pronunziando parole savie e profonde; lo sguardo si velava, le lunghe ciglia s'abbassavano; ella sembrava una fanciulla di quindici anni, innocente e buona; e tutto ciò succedeva, non per voluta finzione, ma per istinto. Brontu ne era pazzamente innamorato, tanto che ora, quando s'ubriacava, correva da lei, s'inginocchiava, e cantava certe preghiere puerili imparate nella sua infanzia. Poi piangeva perchè si accorgeva di essere ubriaco, e giurava che non avrebbe bevuto mai più, mai più.

Quella sera, però, era perfettamente sano, e parlava tranquillo, avvolgendo Giovanna con un continuo sguardo appassionato. Sorrideva, e i suoi denti splendevano al riflesso del fuoco.

Zia Bachisia cominciò a raccontare le avventure del viaggio; parlò del paletò dell'avvocato, delle ali che usavano le signore, della cucina dei Porru, dell'uomo sconosciuto incontrato per istrada, ma non toccò la discussione avuta con zia Porredda, nè parlò delle compre fatte, sebbene indovinasse la smania e la curiosità di zia Martina, e ardesse anch'essa dal desiderio di mostrare le belle cose acquistate.

— E tu cosa dici, Giovanna? — chiese Brontu, frugando il fuoco col suo bastone. — Sei pensierosa stassera: che hai?

— Sono stanca — ella rispose; e improvvisamente chiese notizie di Giacobbe Dejas.

— Quel matto? Mi tormenta di continuo. In verità, finirò col dargli una pedata. Già egli non ha più bisogno di fare il servo.

— Io non so — disse zia Bachisia — prima era un uomo tanto allegro; ora ha casa, bestiame, e dicono che stia per prender moglie anche lui, ma è d'un umore!... Voi sapete che voleva bastonarci.

— Qui non è più tornato?

— Mai più.

— E neppure Isidoro Pane — disse Giovanna con voce monotona.

— Mi pareva averlo veduto ieri passare di qui... — osservò zia Martina. Giovanna sollevò vivamente la testa, ma non disse niente, mentre Brontu esclamava ridendo:

— Voi non avete bisogno delle sue sanguisughe...

— Ebbene — chiese zia Martina, dopo un breve silenzio — non mi avete recato alcun regalo da Nuoro? Lo fate ben sospirare! — Le due donne, che infatti le avevano portato un grembiale, finsero sorpresa e mortificazione.

— Ah, davvero, non ci siamo ricordate... Ah, davvero!...

Zia Bachisia rise, con uno strillo da falco, ma tosto ridiventò seria vedendo che Giovanna non usciva dalla sua melanconia.

— No, non ci siamo ricordate. Ma Giovanna vi farà vedere qualche cosa che abbiamo comprato...

Giovanna si alzò, accese la candela e andò nella camera attigua. Brontu la seguì con gli occhi ardenti, zia Martina capì che ella andava a prendere il regalo. Passarono varii minuti e Giovanna non tornava.

— Che fa di là? — chiese Brontu.

— Chi lo sa?

Passò un altro minuto.

— Io vado a vedere — egli disse alzandosi e avviandosi.

— No, no, che fai? — disse zia Bachisia, ma così debolmente che zia Martina si scandolezzò e richiamò il figlio con degli energici:

— Zsss... Zsss...

Ma egli andò oltre, in punta di piedi. Giovanna, ritta davanti al cassetto aperto, rileggeva una lettera che, rientrando dal viaggio, madre e figlia avevano trovato sotto la porta, introdotta nella fessura durante la loro assenza. Era una lettera straziante di Costantino: coi suoi rozzi e semplici caratteri, egli supplicava Giovanna per l'ultima volta di non fare ciò che ella stava per fare. Le ricordava i giorni lontani del loro amore, le prometteva il ritorno, le giurava la sua innocenza. «Se non vuoi aver pietà di me — concludeva — abbi pietà di te stessa, dell'anima tua; pensa al peccato mortale, pensa all'eternità».

Ah, le stesse parole di zia Porredda, le stesse, le stesse! La lettera doveva averla introdotta zio Isidoro, giacchè Giovanna, da lungo tempo non riceveva più direttamente notizie del condannato. Le lagrime le velavano gli occhi: e chi sa? forse ella si commuoveva più al ricordo del passato che al pensiero dell'eterno avvenire. Ad un tratto sentì l'uscio girare lievemente ed una persona entrare furtiva; si chinò rapida, fingendo frugare entro il cassetto, con le mani tremanti e gli occhi velati.

Brontu le fu dietro, a braccia aperte, la cinse per le spalle, ed ella finse spaventarsi e si scosse.

— Che fai, che fai? — egli chiese con voce sommessa, commossa.

— Ah, cerco... cerco... il grembiale per tua madre. Non so dove l'abbia messo! Lasciami! Lasciami! — ella disse, cercando di liberarsi dalle braccia di Brontu; ma volgendosi vide i denti di lui splendere fra le labbra sorridenti, rosse e lucide come ciliege; e subito sentì la mano di lui dietro la testa, e quelle labbra rosse, lucide e ardenti come il fuoco, toccarono le sue.

— Ah, noi non pensiamo all'eternità... — disse con voce ansante, appena egli l'ebbe baciata.

Ma poco dopo, ritornati in cucina, ella cominciò a ridere con un riso fresco e puro di giovinetta, mentre Brontu la guardava con l'aria speciale che egli prendeva quando era ubriaco.

L'inverno passò. Gli amici di Costantino non cessarono un momento di intrigare e lottare perchè il maledetto matrimonio non si avverasse. Invano. In quell'occasione i Dejas e le Era sembravano gente fatata; erano invulnerabili, non si lasciavano scuotere nè da preghiere, nè da minaccie, nè da pettegolezzi.

Il sindaco, anche il sindaco, un pastore che rassomigliava a Napoleone I, pallido e fiero, era contrario a quel matrimonio del diavolo; e quando Giovanna e Brontu andarono in gran segretezza a richieder le pubblicazioni, egli li trattò con freddo disprezzo, sputando per terra ogni due secondi. La gente minacciava scandali. Finchè s'era trattato del divorzio, la gente s'era meravigliata, ma non scossa; finchè s'era parlato dell'amoreggiamento di Brontu e Giovanna, la gente aveva mormorato, ma, in fondo, s'era compiaciuta di aver uno scandalo sul quale intrattenersi; finchè s'era trattato d'un matrimonio che sembrava impossibile, la gente aveva riso, ma aveva sperato che Brontu si burlasse delle Era; ed ora, ora la gente non avrebbe forse detto più nulla nè avrebbe più riso se Brontu e Giovanna si fossero uniti così, in peccato mortale (non sarebbe stato nè il primo nè l'ultimo caso; e Giovanna poteva scusarsi, data la sua gioventù e la sua povertà), ma sposarsi, una donna che aveva già marito, sposarsi! questo la gente non poteva sopportarlo. Che volete? La gente è fatta così. Eppoi era una cosa orribile, un peccato, uno scandalo inaudito. Si temeva che Dio castigasse tutto il paese per la colpa di quei due; e qualcuno minacciava di fare scandalo, di gittar pietre, di fischiare, di bastonare gli sposi il giorno delle nozze. Ed essi lo sapevano: Brontu si arrabbiava, zia Bachisia diceva «Lasciate fare a me» e zia Malthina sollevava la testa come un puledro che sente l'odor della polvere da sparo. Ah, lei voleva combattere e vincere; lei si sentiva invecchiare, era stanca di lavorare e voleva in casa una serva gratis. Giovanna le piaceva, e Brontu doveva prenderla. E che la gente schiantasse d'invidia.

La sera del giorno in cui furono fatte le pubblicazioni, zio Isidoro Pane lavorava nella sua catapecchia, alla luce vivissima e purpurea d'un gran fuoco. Almeno un gran fuoco zio Isidoro poteva permettersi, giacchè le legna le portava egli stesso dai campi, dalle rive del fiume, dal bosco. Durante l'inverno egli intesseva corde di pelo di cavallo: sapeva far di tutto, cuciva, filava, cucinava (quando aveva di che), rattoppava le scarpe: eppure non usciva mai di miseria.

Ad un tratto s'aprì la porta, nel cui vano apparve un lembo di notte marzolina, chiara ma velata, e Giacobbe Dejas venne a sedersi silenzioso accanto al fuoco.

La cucina del pescatore pareva un quadretto fiammingo dalle figure nitide nella luce rossa che profilava gli oggetti lasciando neri gli sfondi: e in quegli sfondi neri si scorgeva una tela di ragno, cinerea, col ragno nel mezzo; nell'angolo del focolare un'ampolla di vetro colma d'acqua fino al collo, con le sanguisughe nere nuotanti; un cestino giallo appeso al muro, e poi le figure dei due uomini addolorati e la corda di pelo nero sfrangiata fra le dita scarne e rossastre del vecchio pescatore.

— Ed ora come si fa? — chiese Giacobbe.

— Come si fa? Come si fa? — ripetè l'altro. — Io non lo so.

— Hanno fatto le pubblicazioni — riprese Giacobbe, e pareva parlasse a sè stesso — ma, è tutto fatto, proprio tutto! L'ubriacone oggi non è venuto neppure all'ovile: ed io pure son ritornato in paese. Ebbene, che gliele rubino pure le pecore, io me ne infischio assai. Sono venuto: bisogna fare qualche cosa, Isidoro Pane. Ehi, Isidoro Pane, lasciate la vostra corda ed ascoltatemi. Bisogna... fare... qualche cosa... Avete inteso?

— Ho inteso. Che possiamo fare? Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare. Abbiamo gridato, pregato, minacciato. Si è intromesso il Sindaco, il segretario, prete Elias.

— Bello quel prete Elias! Che ha fatto lui? Ha predicato, ma con lo zucchero. Egli, egli doveva minacciare; doveva dire: io prenderò i libri santi e vi maledirò, vi scomunicherò; voi non vi sazierete mai d'acqua, nè di pane, nè d'altra cosa; voi vivrete l'inferno in vita. — Vedevate allora l'effetto; ma no, colui è stupido, colui è un prete di latte cagliato, non ha fatto il suo dovere. Non nominatelo o mi arrabbio.

Isidoro lasciò stare la corda.

— È inutile che tu t'arrabbi. Prete Elias non doveva minacciare e non ha minacciato. Ma credi pure, la scomunica cadrà lo stesso su quella casa.

— Ah, io me ne andrò via, sì, me ne andrò via; non voglio più quel pane maledetto! — disse Giacobbe, e tutta la sua faccia espresse un amaro raccapriccio. — Ma prima voglio prendermi il gusto di bastonare gli sposi del diavolo.

— Tu sei matto, uccellino di primavera! — disse Isidoro con un sorriso accorato, imitando Giacobbe.

— Sì, sono matto. E quando fossi matto, a voi non dovrebbe importar nulla; ma anche voi non avete fatto niente per impedire questo sacrilegio. Ah, che cosa schifosa! Io ho perduto la mia allegria...

— Ed io sono invecchiato di dieci anni.

— ... la mia allegria; penso sempre a quello che Costantino dirà di noi che non abbiamo saputo impedire... E vero che egli è malato?

— Ora no. Lo è stato. Soltanto è disperato — disse zio Isidoro scuotendo il capo. Poi riprese ad intrecciare la corda, e mormorò:

— La scomunica... la scomunica...

— Io mi arrabbio talmente che mi vien la bava sulle labbra — riprese Giacobbe, alzando la voce — come i cani, sì, come i cani! Ah, no, non lascerò quella casa, a costo di crepare: voglio assistere alla scomunica che piomberà sopra di loro. Sì, Dio castiga in vita ed in morte, questo è certo; ed io voglio assistere al castigo. Ma cosa lavorate voi?

— Una corda di pelo.

— Ah, una corda di pelo!

Tacquero. Giacobbe guardava la corda, e i suoi occhi nuotavano in un sogno di dolore e d'ira.

— A chi le vendete quelle corde?

— Le porto a Nuoro e ne vendo anche qui ai contadini che le adoperano per legare i buoi. Perchè la guardi così? Vorresti appiccarti?

— No, uccellino di primavera, vi appiccherete voi, se Dio vorrà. Dunque — riprese alzando la voce — si sono fatte le pubblicazioni.

Tacquero ancora; poi Isidoro disse:

— Chi lo sa? Io, vedi, spero sempre che il matrimonio non si faccia. Spero in Dio, spero in un miracolo di San Costantino.

— Giusto, un miracolo! — disse l'altro con voce ironica.

— E perchè no? Se, per esempio, in questi giorni venisse a morire il vero assassino di Basilio Ledda, e confessasse? Ecco che il divorzio sarebbe nullo.

— Sì, giusto! In questi giorni! — rispose l'altro, sempre ironico. — Siete innocente come una creatura di tre anni, in fede di cristiano!

— Chi lo sa? O potrebbe venire scoperto.

— Sì, giusto! in questi giorni! Eppoi, cosa ne sappiamo noi? Chi potrebbe scoprirlo? Come?

— Chi! Io, tu, un altro...

— Siete innocente non come una creatura di tre anni, ma come una chiocciola prima che esca dal guscio. Come possiamo scoprirlo? E d'altronde, a parte tutto, ecco, siamo noi poi sicuri che non sia stato proprio Costantino?

— Ah, noi ne siamo sicuri! — disse Isidoro. — Tutti possiamo esserlo stati, fuorchè lui. Posso esserlo stato io, puoi esserlo stato tu...

Giacobbe s'alzò per andarsene.

— Che si potrebbe dunque fare?... C'è un rimedio?... Ditelo voi.

— ... Fuorchè lui! — ripeteva zio Isidoro, senza sollevare il capo. — Un rimedio c'è. Rimettersi nelle mani di Dio.

— Ah, come mi fate arrabbiare! — gridò l'altro, muovendosi per la stamberga come una belva rinchiusa. — Domando se c'è un rimedio e voi mi rispondete così, come uno sciocco. Ah, io vado e strangolo Bachisia Era, ecco tutto!

E andò via come era venuto, senza salutare, arrabbiato sul serio; zio Isidoro non sollevò neppure il capo; solo dopo qualche istante, avendo Giacobbe lasciato la porta aperta, s'alzò per chiuderla e s'affacciò al limitare.

La notte di marzo era tiepida, lunare, ma velata. Si sentiva già una fragranza umida di verzura rinascente: intorno alla catapecchia del vecchio le siepi e le vegetazioni selvatiche parevano addormentate in quella luce misteriosa di luna invisibile; nello sfondo dell'orizzonte, tra i vapori lattei diffusi, serpeggiava a zig-zag una linea sottile di cielo limpido che sembrava un fiume azzurro scorrente in una pianura, con qualche fuoco notturno alle rive.

Isidoro chiuse la porta e tornò a lavorare, sospirando.

XI.

Era la vigilia dell'Assunzione; un mercoledì caldissimo e nuvoloso.

Zia Martina filava sotto il portico, e Giovanna, incinta, mondava il grano. Mentre di solito per questa faccenda occorrono due donne, ella doveva compierla da sola, rimescolando il grano nel vaglio per toglierne le pietruzze, e poi mondandolo attentamente sopra un pezzo di tavola posato entro un gran canestro. Giovanna sedeva per terra, davanti al canestro, con a fianco una corba piena di grano color d'oro polveroso: invece d'ingrossarsi, la «moglie dei due mariti», come la chiamavano in paese, s'era dimagrata: aveva il naso un po' gonfio e rosso, gli occhi cerchiati, e il labbro inferiore sporgente pieno di disgusto. Alcune galline arruffate, che di tanto in tanto si scuotevano lasciando per terra molte piume, assediavano il canestro arrivando talvolta a ficcarvi il becco. Giovanna gridava e imprecava per allontanarle, ed esse scappavano un po', ma stavano attente, pronte, con una zampa sollevata, e tornavano all'assalto appena la giovine si distraeva.

Ed ella distraevasi spesso: aveva gli occhi tristi, o piuttosto indifferenti, come di persona egoista che pensa soltanto ai suoi malanni. Caschi il mondo, ella non può occuparsi che di sè e delle proprie cure. Era anche scalza e discretamente sudicia, perchè zia Martina lesinava il sapone.

Le due donne non discorrevano, ma zia Martina teneva d'occhio Giovanna, e quando questa non arrivava a tempo a scacciar le galline, era la vecchia che gridava per allontanarle.

Una volta una delle moleste bestiole ardì salire sull'orlo della corba e piluccarvi dentro.

— Ah! aaah! — gridò zia Martina; Giovanna si volse bruscamente, la gallina starnazzò le ali e volò portandosi addietro un piccolo nembo di grano.

Giovanna ebbe paura che la suocera la sgridasse, (aveva sempre paura di ciò) e si protese per raccogliere i chicchi del grano, lamentandosi.

— Come sono fastidiose!

— Ah, davvero, sono tanto fastidiose, — disse zia Martina con voce dolce: — no, non allungarti così, figlia mia, ti farà male. Vengo io.

Infatti ella lasciò il fuso, andò e raccolse chicco per chicco tutto il grano sparso, mentre una gallina piluccava la lana della conocchia.

— Che tu sii spelata! — gridò la vecchia, accorgendosene: e la fece allontanare, mentre le altre galline procuravano di aiutarla nella raccolta dei chicchi.

Giovanna vagliava il grano, a capo chino, muta, assorta.

Dal portico si scorgeva lo spiazzo deserto, la casetta di zia Bachisia livida nella luce grigia vivissima del pomeriggio nuvoloso: un lembo di paese deserto, i campi gialli deserti, l'orizzonte di metallo.

Nuvole sopra nuvole gravavano sul cielo, piovendo un gran caldo e una quiete troppo intensa. Davanti al portico passò un ragazzo alto e scalzo, che conduceva due piccoli buoi neri: poi passò una donnina, scalza anch'essa, che guardò Giovanna con due grandi occhi chiari; poi passò un cane bianco e grasso, col muso per terra: niente altro interruppe il silenzio, l'afa grave e minacciosa.

Giovanna vagliava e mondava il grano sempre più lentamente; si sentiva stanca, aveva fame ma non di vivande, aveva sete ma non d'acqua, provava un bisogno fisico inesprimibile di qualche cosa introvabile.

Finito il suo lavoro si alzò e scosse le vesti, si curvò e cominciò a rimetter il grano dal canestro nella corba.

— Lascia, lascia, — disse premurosamente zia Martina — ti farà male.

Giovanna voleva portare ella il grano alla macina (una mola girata da un asinello, che macinava un ettolitro di grano ogni quattro giorni), ma la suocera non glielo permise e andò ella stessa.

Rimasta sola Giovanna entrò nella cucina, si guardò attorno, poi frugò qua e là: nulla, nulla, non frutta, non vino, non un sorso di liquore che potesse saziare la brama inesprimibile che la tormentava. C'era solo un po' di caffè ed ella ne scaldò un pochino mettendovi dentro un pezzetto di zucchero che teneva in saccoccia: poi ricoprì con cura il fuoco.

Ma quel po' di bevanda calda parve aumentarle la sete. Giovanna avrebbe voluto bere un liquore fresco e dolce, che non aveva bevuto mai, che non berrebbe mai. Un'ira sorda e muta la prese; i suoi occhi si animarono. Andò verso l'uscio della dispensa e lo scosse, sebbene lo sapesse chiuso a chiave, e con le labbra un po' livide mormorò un'imprecazione.

Poi uscì; così scalza come era, attraversò lo spiazzo a passi silenziosi, e chiamò sua madre.

— Vieni — disse zia Bachisia dall'interno della cucina.

— Non posso. La casa è sola.

Allora zia Bachisia uscì, guardò il cielo e disse:

— Stanotte piove: farà uragano.

— Ebbene, che piombino tutti i fulmini del cielo! — disse Giovanna con voce rude: poi aggiunse raddolcendosi: — ma sia salvo ciò che io porto in seno...

— Ah! tu sei di malumore, anima mia! Dove è andata la strega? Ho visto che mondavi il grano.

— È andata a portarlo alla macina. Ha avuto paura di lasciare andar me: temeva gliene rubassi.

— Abbi pazienza, figlia. Non sarà così.

— Oh, è così, è così! Io non ne posso più. Che vita è questa? Ella ha il miele sulle labbra e il pungolo in mano. «Lavora, lavora, lavora!» Ella mi incalza come un bue da soma. E pane d'orzo, ed acqua e sudiciume, e buio di sera, e piedi scalzi quanto ne voglio.

Zia Bachisia l'ascoltava impotente a consolarla: d'altronde quelle lamentazioni erano affare d'ogni giorno. Oh, anch'ella, zia Bachisia, era ben scornata: ora doveva lavorare più di prima, ma non si doleva di ciò; solo le dispiaceva lo stato veramente miserando di Giovanna.

— Abbi pazienza, abbi pazienza, anima mia; verranno tempi migliori, l'avvenire non te lo ruba nessuno.

— Ah, che importa? Sarò vecchia, allora, se prima non muoio di rabbia. A che serve star bene quando si è vecchi? Allora non si gode più nulla.

— Eh, no, anima mia, — disse l'altra, con occhi furbi, verdi come due lucciole di notte. — Io godrei bene anche ora. Eh, eh, star senza far nulla; mangiare carne arrostita, pane molle, trote, anguille; bere vino bianco e rosolii e cioccolata...

— Finitela! — gridò Giovanna con spasimo: e raccontò come non aveva trovato nulla da soddisfare la sua indicibile brama.

— Abbi pazienza: è causa del tuo stato: anche se tu trovassi le cose più buone del mondo ed i liquori che beve il re non ti sentiresti soddisfatta.

Giovanna guardava sempre verso il portico, con occhi tristi e con la bocca piena di disgusto.

— Stanotte pioverà, — ripetè la madre.

— Lasciate che piova, dunque.

— Brontu tornerà?

— Sì, tornerà; e stasera glielo voglio dire; ah, sì, glielo voglio dire.

— Che gli vuoi dire tu, anima mia?

— Gli voglio dire che non ne posso più, che se mi ha preso per fargli la serva e null'altro, si è ingannato, e che... e che...

— Tu non gli dirai niente! — disse con energia la vecchia. — Lascialo in pace; anch'egli lavora, anch'egli vive come un servo; perchè vuoi tormentarlo? Egli potrebbe cacciarti via, sposar in chiesa un'altra donna...

Giovanna tremò di spasimo, si raddolcì, le vennero le lagrime agli occhi.

— Egli non è cattivo, — disse, — ma si ubbriaca sempre, puzza d'acquavite come un lambicco, e mi rivolta lo stomaco. E poi si arrabbia senza ragione. Ah, è schifoso, è veramente schifoso. Ebbene, sì, era meglio... ah, era...

— Ebbene, cosa era meglio? — gridò fieramente zia Bachisia.

— Niente.

Sempre così. Giovanna ricordava Costantino, così buono, bello, pulito e gentile, e rimpiangeva il passato. Una tristezza profonda, più amara della morte, le avvolgeva l'anima: e il pensiero della maternità non leniva, anzi accresceva mostruosamente il suo dolore.

La sera calava, grave e grigia come una visione di granito; non un filo di vento ne interrompeva la quiete afosa.

Giovanna andò a sedersi sul muricciolo sotto il mandorlo immobile, e la madre le si mise vicina: per un po' tacquero, poi Giovanna disse, come proseguendo un discorso:

— Sì, certo, come nei primi tempi della condanna. Come allora io sogno ogni notte il suo ritorno e, cosa curiosa, non ho mai paura, sebbene Giacobbe Dejas dica che se Costantino ritorna mi ammazza. Non so, il cuore mi dice ch'egli tornerà davvero; prima non ci credevo, ma ora ci credo. Oh, è inutile che mi guardiate così. Vi faccio io forse un rimprovero? No, no, no. Io piuttosto dovrei temere i vostri rimproveri. Che godete voi del mio stato? Nulla; voi non venite più neppure a trovarmi in quella casa — e sporgeva il labbro per indicar la casa bianca, — perchè mia suocera ha paura che voi portiate via la polvere coi piedi. Io non vi posso dar nulla. Nulla, capite, nulla, neppure il mio lavoro. Tutto è chiuso. Io sono la serva.

— Ma io non voglio nulla, cuore mio. Perchè ti addolori per queste sciocchezze? Io non ho bisogno di nulla, — disse zia Bachisia con voce dolce. — Non pensare a me. Mi affligge solo il debito verso Anna-Rosa Dejas. Io non riuscirò mai a pagarlo; ma ella avrà pazienza.

Giovanna arrossì di stizza, si torse le mani e alzò la voce.

— Sì, questo io voglio dire stasera, a quell'animale immondo; gli dirò: pagate almeno gli stracci che io indosso: pagateli, pagateli, che una palla vi trapassi il cuore.

— Non alzar la voce, non arrabbiarti, anima mia. È inutile, vedi, arrabbiarti. Perchè arrabbiarti? Egli potrebbe cacciarti via.

— Ebbene, che egli mi cacci pur via. È meglio. Almeno lavorerò per me, per voi, non per quella gente maledetta. Ah, eccola che ritorna! — disse poi, abbassando la voce, poichè la figura nera di zia Martina appariva sullo sfondo livido dello spiazzo. — Ora mi sgriderà perchè ho lasciato la casa sola: ella ha paura che le rubino i denari. Ella ne ha tanti, e non li conosce neppure; non distingue i biglietti, e neppure le monete. Ha dieci mila lire, sì, mille scudi...

— No, anima mia, duemila.

— Ebbene, duemila scudi nascosti. Ed io non un sorso di bevanda che mi rinfreschi, che mi tolga questo ardore che ho dentro.

— Saran tutti tuoi, — diceva zia Bachisia, — abbi pazienza, sta attenta, quando gli angeli verranno a portarla in paradiso, e saranno tutti tuoi.

Giovanna tossì, si graffiò la nuca, e riprese con cupo ardore:

— Che mi caccino pure, non me ne importa. Ecco, il segretario comunale dice che io sono la vera moglie di Brontu, ma a me sembra di viver con lui in peccato mortale. Ricordate come ci siamo sposati? Di nascosto, al buio, senza un cane, senza dolci, senza niente. Giacobbe Dejas, che egli sia strozzato, rideva e diceva: «ora viene il bello». Ed il bello è venuto.

— Senti, — disse zia Bachisia, con voce bassa ma energica, — tu sei sempre matta. In fede mia, tu lo sei stata sempre e lo sarai sempre... Perchè ti disperi? Per delle sciocchezze. Tutte le nuore povere devono vivere come vivi tu. Verrà anche per te il tempo della raccolta: abbi pazienza, sii obbediente, vedrai che tutto passerà. D'altronde, vedrai che appena nascerà il bambino le cose muteranno.

— Non muteranno affatto. E almeno, almeno... non avessi fatto dei figli! Essi mi legheranno a questa pietra che mi trascina e mi schiaccia. Ebbene, volete sentirlo! Il mio vero marito è Costantino Ledda...

— Tu vacilli, anima mia! Taci, od io ti turo la bocca...

— ... e se anche torna io non potrò riunirmi a lui perchè avrò dei figliuoli...

— E io ti turo la bocca! — ripetè zia Bachisia, fremente, alzandosi in piedi, stendendo la mano, come per eseguire l'atto; ma non ce ne fu bisogno, perchè Giovanna vide la suocera attraversare lo spiazzo, e tacque.

Zia Martina camminava e filava, e s'avvicinò lentamente alle due donne.

— Al fresco? — disse, guardando sempre il suo fuso girante.

— Bel fresco! Si muore dal caldo. Ah, stanotte però pioverà, — rispose zia Bachisia.

— Pioverà certo. Purchè non tuoni: io ho tanta paura dei tuoni. Il diavolo scarica i suoi sacchi di noci, allora. Speriamo che Brontu torni presto. Che faremo da cena, Giovanna?

— Ciò che volete.

— Tu stai lì? Non ti farà male? Forse ti farà male.

— Che volete che mi faccia?

— L'aria della sera è sempre nociva. È meglio star dentro; così, intanto preparerai da cena. Ci son delle uova, figliuola mia, uova con pomi d'oro. Ebbene, preparale per te e per tuo marito; io non ho appetito. Ah, davvero, — proseguì, rivolta a zia Bachisia, — non ho appetito, tutti questi giorni. È il tempo, forse.

— È il diavolo che ti fora la schiena: è l'avarizia che non ti permette di mangiare, — pensò l'altra. Giovanna taceva e non si muoveva, assorta in un cupo sogno.

— Domani avremo il panegirico, dunque, alle undici: è un'ora incomoda, in verità. Ci andrai tu, Giovanna? Gli altri anni lo facevano alle dieci.

— Io non andrò, — rispose Giovanna con voce monotona. Ella, ora, si vergognava di andare in chiesa.

— Sì, a quell'ora fa assai caldo; è meglio che tu non vada. Ma, se non mi inganno, piove, — disse poi zia Martina, e tese la mano. Una grossa goccia d'acqua sporca cadde e si sparse sui peli del dorso livido della sua mano. Tic, tic, tic, altre goccie caddero sul mandorlo immobile e per terra, scavando piccole buche sulla rena dello spiazzo. Nello stesso tempo il cielo parve rischiararsi, mandando una luce giallognola: sullo sfondo delle nuvole bronzee passava una grande nuvola gialla a macchiette d'un giallo più scuro, che pareva una enorme spugna pregna d'acqua.

Le donne si ritirarono, e subito cominciò a piovere dirottamente, ma una pioggia dritta, sonora, d'una violenza solenne, senza vento nè tuoni, che durò dieci minuti soltanto, ma allagò il paese.

— Oh Dio, o San Costantino, o Santissima Assunzione! — gemeva zia Martina. — Se Brontu è per via s'inzupperà come un pulcino.

E guardava disperatamente il cielo, ma non smetteva di filare, mentre Giovanna cominciava a preparar da cena. Ascoltando il fragore della pioggia anch'essa sentivasi inquieta, non per il marito, ma per qualche cosa di indefinibile come un pericolo ignoto. Ad un tratto il chiarore giallo che aveva accompagnato la pioggia si fuse ad una luce azzurrognola che veniva dall'occidente: la pioggia cessò di botto, le nuvole s'aprirono, si divisero, se ne andarono, le une sulle altre, le une dietro le altre, come gente che si disperde dopo una grande riunione; per l'aria rinfrescata si diffuse un bagliore glauco, un odore di terra e di erbe secche bagnate, e risuonarono canti di galli che credevano fosse l'alba. Poi silenzio. Zia Martina filava sempre nel portico, nera sullo sfondo glauco del crepuscolo; Giovanna accendeva il fuoco, curva sul focolare, quando udì un nitrito venire per l'aria con un tremore che le si comunicò stranamente: tremando ella si rialzò e guardò fuori. Brontu tornava ed ella aveva paura; di che? di tutto e di niente.

Nella casetta di zia Bachisia s'era acceso un punto giallo, e scorgevasi la vecchia ricacciar con una scopa di ginestra l'acqua che aveva inondato il limitare. L'orizzonte, dietro i campi giallognoli, pareva una linea di mare, verde tranquillo; e su tutte le cose, anche sull'orizzonte, dominava il mandorlo, bagnato, stillante. A fianco del mandorlo, all'ultimo barlume del giorno, apparve Brontu sul suo cavallo; entrambi, cavallo e cavaliere, neri, fumanti, lenti, come gonfiati e resi pesanti dall'acqua che li inzuppava.

Le due donne uscirono sullo spiazzo, dando in esclamazioni di dolore, ma di un dolore forse un po' ironico. L'uomo, però, non parve badare a loro.

— Diavolo, diavolo, diavolo... — mormorava. Trasse il piede dalla staffa, lo sollevò. — Diavolo, diavolo, al diavolo chi ti ha cotto... — E fu in piedi, tutto bagnato. — Ecco, ora arrangiatevi, — disse irosamente, avviandosi alla cucina. Le due donne dovettero scaricare il cavallo, poi Giovanna rientrò e subito Brontu chiese da bere, per asciugarsi.

— Cambiati, — ella disse.

Ma egli non voleva cambiarsi; voleva soltanto bere per asciugarsi — ripeteva, — e si arrabbiò perchè Giovanna insisteva. Poi finì col fare tutto ciò che essa volle; si cambiò, non bevette, e in attesa della cena si asciugò accuratamente i capelli con uno straccio e li pettinò.

— Che acqua, che acqua! — ripeteva. — Un mare addirittura. Ah, questa volta mi ha ben rammollito la crosta. (Fece una risatina). Come va, Giovanna? Va bene, eh? Tanti saluti da Giacobbe Dejas. Egli ti può vedere come il fumo negli occhi.

— Tu dovresti frenargli la lingua, — disse zia Martina. — Così tu sii buono a mangiare come sei buono a farti rispettare da queste immondezze di servi.

— Io gli frenerò altro che la lingua! Intanto stasera voleva ritornare. No, rimani lì e crepa. Tornerà domani mattina.

— Ah, domani mattina! Ma neppure domani mattina! Ah, figlio mio, tu ti lasci derubare impunemente. Sei buono a nulla.

— Dopo tutto, — diss'egli, alzando la voce, mentre continuava a pettinarsi, — domani è l'Assunzione, e Giacobbe è nostro parente. Finitela. Ecco, Giovanna, ora son bello.

Le sorrise, mostrando i denti. Era bello infatti, pulito, coi capelli lucenti. Giovanna si sentì intenerire; ed egli si mise a cantarellare una canzonetta puerile che i bimbi cantano quando piove.

Proghe, proghe,

s'achina cochet

e' i sa icu[6].

Poi cenarono tutti lieti e contenti: zia Martina, con la scusa che non aveva appetito, mangiò pane, cipolle e formaggio, — cibo del quale, d'altronde, ella era ghiotta, — ma ciò non ruppe la buona armonia della cena. Dopo cena Brontu volle che Giovanna uscisse con lui a far due passi, e andarono a zonzo, senza meta, per le viuzze deserte del paesello: il cielo s'era fatto limpidissimo, qualche stella filante lanciava il suo filo d'oro sull'orizzonte di cristallo, e nell'aria ondeggiava l'odore dell'erba secca e delle pietre bagnate. Le viuzze erano piene di rena e di fango, ma Giovanna usava le gonne cortissime e le scarpe così grosse che traevano un eco metallico dalle pietre. Brontu se la prese sotto braccio e cominciò a raccontarle delle bugie, come usava spesso per divertirla.

— Zanchine (era uno dei contadini che lo servivano) ha trovato, sai che cosa ha trovato? Un bambino.

— Quando?

— Ma oggi, credo. Zanchine sta estirpando un lentischio quando sente gnuè, gnuè. Guarda. È un bambino di pochi giorni. Ciò poco male; ma ora viene il bello. Ecco una piccola nuvola avanzarsi per l'aria e piombare, ingrandendosi, su Zanchine e rapirgli il bambino. Era un'aquila... Sì, quest'aquila doveva aver rubato il bambino in qualche posto, lo aveva nascosto nella macchia, e vedendo Zanchine che toccava il bambino è piombata, e...

— Va! — disse Giovanna. — Io non ti credo più.

— Che tu possa vedermi ricco se non è vero...

— Va! Va! Va! — ella ripetè un po' irritata. Brontu sentì ch'ella, invece di divertirsi, diventava di malumore, e le chiese se aveva fatto cattivi sogni. Ella ricordò il sogno avuto, e non rispose. Così giunsero all'altra parte del paese, cioè vicino alla casetta di Isidoro Pane. Uno spettacolo di dolcezza indescrivibile copriva la terra: la luna s'affacciava come un grande volto d'oro sull'oriente d'un celeste argenteo; e la terra nera, gli alberi bagnati, le casette di schisto, le macchie e tutta la pianura selvaggia, fino alle ultime linee dell'orizzonte, brillavano come animate da un sorriso pieno di lagrime.

I due giovani passarono rasente alla casetta del pescatore, e udirono la voce di Isidoro che cantava. Brontu si fermò.

— Andiamo, — disse Giovanna, tirandolo per il braccio.

— E aspetta! Anzi voglio battere a quella che sarebbe la sua porta.

— No! — ella disse, fremendo. — Andiamo, andiamo. Andiamo o ti lascio solo...

— Ah, è vero, tu ti sei bisticciata con lui. Ma io no. Io batto alla sua porta.

— Ed io me ne vado.

— Egli canta le laudi di San Costantino, quelle che gli diede il Santo in riva al fiume... ah, ah, eh! — disse Brontu raggiungendola. — È matto quel vecchio.

Ella sapeva chi aveva composto quelle laudi, e si sentì triste e irritata. Brontu la riprese sotto braccio, e ricominciò a raccontare frottole ed a scherzare: era di buon umore, ma doveva rider da solo perchè Giovanna taceva costantemente.

Qualche persona che li vide passare, udendo gli scherzi ed il riso di Brontu, pensò che, dopo tutto, Giovanna era una donna ben fortunata. Ed ella intanto pensava a Costantino.

XII.

L'indomani verso le dieci cominciarono in chiesa le funzioni religiose. Cominciavano così tardi perchè s'era dovuto aspettare l'arrivo di un giovine sacerdote nuorese, amico di prete Elias, che veniva per fare, gratis, un panegirico al popolo di Orlei. Questo panegirico costituiva un grande avvenimento: quindi alle dieci la chiesetta era già gremita di folla variopinta. Già la chiesa per sè stessa vibrava dei più vivi colori: fascie d'un turchino stridente solcavano le pareti rosee; il pulpito era in legno giallo, i santi, dalle nicchie rosee, splendevano biondi e rossi come santi teutonici. Soltanto San Costantino, il santo Protettore, vestito da guerriero, aveva un viso bruno e severo; e nel paese esisteva la leggenda che quest'antica statua, alla quale si attribuivano dei miracoli, era stata scolpita da San Nicodemo.

Dalla porta spalancata su uno sfondo d'azzurro abbagliante penetrava un torrente di luce violenta che passava sulla folla inondandola di pulviscolo luminoso. In fondo l'altare restava quasi buio, nonostante un'M di ceri ardenti, le cui fiammelle immobili parevano freccie d'oro sorgenti da bastoni di legno bianco. Prete Elias celebrava la messa; ed il suo piccolo amico, in camice di merletto, e con un visetto bruno da bambino furbo, cantava a gola spiegata. Il popolo si meravigliava che il piccolo prete cantasse pur dovendo far la predica; molti erano venuti apposta per sentirlo, e tutti, poi, a dir la verità, ascoltavano la messa con poca divozione, chiacchierando e guardandosi curiosamente a vicenda. Bisogna però aggiungere che un caldo soffocante e innumerevoli invisibili insetti molestavano la folla. Ad un tratto prete Elias, dopo aver cantato il Vangelo, volse al popolo il viso pallido e tranquillo, e le sue labbra si mossero.

Giusto in quel momento apparve sull'azzurro fiammante della porta la figura di Giacobbe Dejas. Il suo viso satirico aveva un'aria trionfante.

Vedendo che il sacerdote parlava, il servo si fermò sul limitare della porta, con la lunga berretta nera fra le mani; ma non udì niente. Allora si avanzò e domandò a bassa voce ad un vecchio dalla barba gialla:

— Cosa ha detto?

— Io non ho sentito, — rispose il vecchio irritato. — Fanno chiasso come si trovassero in piazza.

Un giovine, roseo, dai capelli neri dritti e dal naso greco, si volse, guardò Giacobbe, e vedendolo vestito a nuovo, pulito, trionfante, sorrise malignamente.

— Ecco, — disse, — credo che prete Elias abbia detto che l'altro prete ora fa il panegirico.

— L'hai sentito tu? — chiese il vecchio irritato.

— Io non ho udito niente.

Giacobbe andò avanti, ficcandosi fra gli uomini, che si voltavano a guardarlo. Improvvisamente un gran silenzio si fece nella folla: gli uomini si ritirarono verso le pareti; le donne sedettero per terra. E nel mezzo della chiesa, nel fiume di luce perlata che la attraversava, apparve una specie di letto di legno azzurro, vigilato da quattro angioletti rosei con le ali verdi che parevano quattro farfalle. Entro questo letto, sopra cuscini di broccato, posava distesa una piccola Madonna con gli occhi chiusi. Anelli d'oro, orecchini e collane brillavano sul suo vestito di raso bianco. Era l'Assunta.

Sul pulpito apparve il visetto bronzino e furbo del piccolo prete. Giacobbe Dejas lo guardò fisso, poi si volse di fianco, parando l'orecchio destro per sentir meglio.

— Abitanti di Orlei, fratelli e sorelle, — disse una voce infantile ma sonora, — chiamato a farvi un piccolo discorso in questo giorno solenne, io...

A Giacobbe piacque questo esordio, ma siccome ci sentiva benissimo anche senza parar l'orecchio, tornò a voltarsi e cominciò a esaminar la gente ed a parlare fra sè, pur non perdendo una parola della predica.

— Ecco là Isidoro Pane; che il diavolo gli tiri le orecchie, è vestito di nuovo anche lui. Che pensi ad ammogliarsi anch'egli? Eh, oh! Quel giovinetto rosso, là in fondo, ha riso di me, vedendomi allegro e vestito di nuovo, perchè si dice che io voglia prender moglie. Ebbene, e se la voglio prendere? Che vi importa, cani rognosi? Non la posso prendere? Ho una casa, ora, e del bestiame[7]. Ed anche voi avete del bestiame, ma soltanto in testa. Eh, eh! Mia sorella morrà senza eredi, che Dio la benedica, eccola là; è piccola e rosea e lucente come una pupattola. Chi direbbe che è più vecchia di me? Essa vuole che io mi ammogli. Sta benissimo, mi ammoglierò; ma con chi? Io sono di difficile contentatura; eppoi ho paura. Ho paura, ho paura, con questa nuova legge; che il diavolo vi scortichi, uomini della giustizia, chi oramai si può più fidare nel mondo? — Ecco là il mio giovine padrone, eccolo là, col suo viso di peccato mortale. Che viene a fare qui? Perchè non lo bastonano? Perchè non lo cacciano via come un cane? Ed anche quell'uccello rapace di sua madre, la vecchia cavalla, è lì, è lì! Perchè non li cacciano via?

« — Ah, — pensò poi, — è giusto; se si dovessero cacciar via tutti coloro che hanno peccato, la chiesa resterebbe vuota. Ma quelli lì! Ah, quelli lì! Io li odio, io li bastonerei a sangue. Eppure io non sono cattivo, ecco, oggi son tornato tardi perchè prima ho riparato i danni che l'acquazzone di ieri sera ha recato all'ovile. Poi son tornato: trovo Giovanna che prepara il pranzo: è sporca, sofferente, melanconica. Per lei non c'è festa. Madre e figlio sono usciti: ella, la serva, rimane in casa e lavora. Ben ti sta, crepa, donna perduta! Eppure mi fa pietà quella donna, ecco, che Dio mi assista, mi fa pietà. Io le ho detto delle male parole: ella non rispose. Eppure, dopo tutto, ella è la padrona ed io il servo. Uccellino di primavera, che colpa ne ho io se ti insulto? Non ti posso vedere, eppure mi fai pietà, ecco tutto. Oh, ascoltiamo ciò che predica questo prete che sembra un passero. Sì, un passero che canta sul nido, eccolo là».

— Fratelli, sorelle carissimi, — con quel molle dialetto logudorese che somiglia allo spagnuolo, diceva il giovinetto sacerdote agitando le piccole mani pallide, — la fede in Nostra Signora è la più sublime ed ideale delle fedi. Ella, la soavissima donna, figlia, sposa e madre di Nostro Signore, salì al cielo, radiosa e fragrante come nuvola di rosa, e siede gloriosa fra gli angeli e i serafini...

— Ecco là prete Elias, — pensava Giacobbe, volgendo verso l'altare i suoi occhietti obliqui che nella luminosità della chiesetta parevano di metallo, — eccolo là con le mani giunte, eccolo là quel prete di latte cagliato. Egli non sa far altro che predicar la bontà; eppure egli possiede i libri sacri e potrebbe fulminare la gente. Ah, se egli avesse minacciato Giovanna Era! Pare che egli sogni, ora...

— ... nessuno mai disse di non aver ottenuto la grazia chiesta con vera fede a Nostra Signora Santissima. Ella, il giglio delle valli, la mistica rosa di Gerico... — proseguiva il piccolo predicatore, ritto sul pulpito giallo.

Ma la gente cominciava a stancarsi; le donne, raccolte per terra come ranuncoli e papaveri sparsi al suolo, s'agitavano, si voltavano, non davano più retta: il giovine prete capì e terminò la predica benedicendo quel popolo di pastori che aveva ascoltato la parola di Dio pensando ai propri affari ed a quelli degli altri.

Allora prete Elias si scosse dal suo sogno e riprese la celebrazione della messa. Egli soltanto e Isidoro Pane, forse, avevano ascoltato intensamente la predica; e finita la messa il pescatore cominciò a cantar le laudi con la sua voce sonora, che sembrava un torrente d'acqua limpida scorrente fra le balze solitarie, rosee di fiori di musco.

Il giovine predicatore ascoltava estatico quella voce sonora e intonata, e la figura di Isidoro, di quel vecchio dalla lunga barba e dagli occhi dolci, col rosario d'osso intrecciato alle dita nodose, gli ricordava certe figure di pellegrini del Both che egli aveva visto a Roma.

Lo volle conoscere, e prete Elias fermò il pescatore all'uscita di chiesa. Giacobbe guardava: vedendo l'amico fermo coi sacerdoti ne provava un'invidia da non dirsi. Lo attese in mezzo alla piazza e gli disse:

— Che una palla vi trapassi le ghette, cosa vi hanno detto quelli lì?

— Mi volevano a pranzo con loro, — disse Isidoro non senza una certa vanità.

— Ah, vi volevano a pranzo con loro? Uccellino di primavera, siete diventato un personaggio, a quanto pare! Ecco, venite con me...

— Dai Dejas?... Mai! — disse Isidoro, spaventato.

— No; oggi io non mangio le patate di quelle pelli del diavolo. No. Io mangio in casa mia! Venite.

Lo portò a casa della sorella. Era mezzogiorno passato: il sole bruciava le straducole ove il fango s'era disseccato; gli alberi svaporavano sull'azzurro ardente del cielo e degli sfondi selvaggi. La gente tornava a casa; il passo pesante dei pastori risuonava sui ciottoli, i bimbi vestiti a festa guardavano dai muricciuoli; dalle porte spalancate si scorgevano interni scuri di cucine dove riluceva, come medaglia enorme, qualche casseruola di rame. Spire di fumo giallognolo serpeggiavano sull'aria ossidata; il suono straziante di un organetto usciva a tratti da un cortile, di solito disabitato, e pareva un suono che sgorgasse di sotterra, prodotto dallo strumento di una vecchia fata melanconica.

Tutto il paesello aveva una insolita aria di festa, eppure quell'aria di festa, quelle porticine spalancate, quelle spire di fumo, quei bimbi impacciati nei vestitini nuovi, quel suono d'organetto, le casette senz'ombra, in quell'ora di luce ardente, avevano qualche cosa di supremamente melanconico.

Giacobbe condusse il pescatore dalla sorella, e pranzarono assieme. La donnina, vedova e senza figli, adorava il fratello, anzi lo chiamava ancora «fratellino mio». Del resto ella amava tutto il prossimo, e i suoi occhi, un po' obliqui, di colore incerto, liquidi e puri come due piccolissimi laghi illuminati dalla luna, parevan gli occhi di un bimbo lattante. Ella non ignorava il male, ma si spaventava al solo pensiero che gli uomini potessero commetterlo. Uno dei suoi più grandi dispiaceri era stato il divorzio e il nuovo matrimonio di Giovanna, un po' sua figliuola di latte, alla quale tuttavia aveva prestato i denari per il corredo. Suo fratello la burlava sempre.

— Ecco il nostro amico Isidoro che vuol prender moglie: è venuto per consigliarsi con te, — le disse.

— Che tu sii benedetto, Isidoro Pane, è vero che tu vuoi ammogliarti?

— Andate là! Andate là! — rispose bonariamente il pescatore.

— Ah, voi non volete ammogliarvi? — gridò Giacobbe, strappando coi denti ancora forti un pezzo d'arrosto che teneva con ambe le mani. — Siete un animale immondo. Ecco, germana mia, egli ha delle amanti.

— Questo non lo credo.

— Che tu mi veda in cielo se mento. Sì, egli ha delle amanti che gli succhiano il sangue...

La donna e Isidoro risero, — un riso da creature innocenti, — comprendendo che Giacobbe accennava alle sanguisughe.

Il servo cominciò a tagliuzzare la carne col suo coltello affilato, tenendola fra i denti e la mano sinistra, e dicendo che sembrava l'orecchia del diavolo tanto era dura. E quei due, ora che avevano cominciato, ridevano per ogni piccola cosa. Giacobbe, però, non rideva: non sapeva perchè, ma il buon umore di due ore prima era passato.

— Dopo vi condurrò a vedere il mio palazzo: fra giorni sarà finito e se volessi affittarlo avrei già gli inquilini. Ma io non l'affitto. No: andrò ad abitarlo io.

— Tu lascerai il servizio, dunque?

— Io lascerò il servizio, sì. Fra poco. Ho lavorato abbastanza. Sono quarant'anni che lavoro, sapete? Sì, quarant'anni. Nessuno dirà che ho rubato i denari coi quali vivrò la vecchiaia.

— Tu ti ammoglierai?

— Poh, chi mi vuole? Io stesso sputerei la donna giovine che mi accettasse. E vecchie non ne voglio, no. Bevete, Isidoro Pane.

— Tu mi farai ubbriacare? Ebbene, sì, è festa. Alla salute degli sposi.

— Di quali sposi?

— Di Giacobbe Dejas e di Bachisia Era! — disse il pescatore, che diventava allegro.

Giacobbe fece atto di gettarglisi sopra. — Io vi accoppo! — gridò, con gli occhietti verdi d'ira.

— Ah! Ah! Ah! Assassino!

— Silenzio, sss... non son cose da dirsi, — disse zia Anna-Rosa.

Giacobbe bevette due bicchieri di vino e cominciò a ridere un po' forzatamente, guardando la sorella e il pescatore.

— Ecco, maritatevi voi due! Isidoro Pane, mia sorella è ricca; eppoi non vedi come è fresca? Sembra una bacca di rosa selvatica. Dicono che ella abbia trovato un'erba meravigliosa e ne faccia un decotto che tiene fresca la pelle.

— Che Dio ti benedica; tu sei così curioso! — disse la donnina.

— Sì, maritatevi. Io voglio. Mia sorella è ricca. Ciò che è mio è suo, perchè io morrò prima di lei. Non so perchè, credo che morrò presto: credo che debbano ammazzarmi...

— Va là; è il vino che oggi comincia ad ammazzarti...

— Fratellino mio, che dici tu? Per le animuccie del Purgatorio, cosa dici tu? — esclamò atterrita la sorella.

— Tu non hai nemici, — osservò il pescatore. — Eppoi perisce di ferro soltanto colui che di ferro ha ferito.

— Io ho ferito, — rispose Giacobbe, con accento grave, affondando la bocca in una fetta d'anguria: — quante creature innocenti! Ah, voi non capite? Pecore e agnelli! — poi sollevò il viso, rorido del roseo sangue dell'anguria, e rise.

Dopo andarono a veder la casa nuova: era ad un piano, oltre il terreno; in tutto quattro camere vastissime, una cucina e una stalla, ma ciò bastava perchè Giacobbe, e tutti quelli del paese, la chiamassero palazzo.

— Ecco questo, ecco quell'altro, — diceva Giacobbe, additando ogni buco; ed il suo viso liscio, senza sopracciglia, ridiventava gioviale.

— Prendetevi mia sorella per moglie, — ripeteva. — Questa casa sarà sua...

— Tu mi deridi, — rispose il pescatore; — perchè sono povero tu mi deridi.

Egli camminava timidamente sul pavimento di legno; Giacobbe invece batteva il tacco ferrato, compiacendosi a destar l'eco nelle grandi stanze vuote, odorose di calce fresca.

Un momento i due uomini si affacciarono ad una finestra, il cui davanzale di pietra ardeva al sole: e siccome la casa stava in alto, apparve la visione del paesello bruno, come un mucchio di carboni spenti, sotto il velo verde degli alberi; la pianura gialla, le grandi sfingi d'un grigio violaceo dritte sul cielo ardente. La campana della chiesetta suonava, suonava, e nella quiete del meriggio, azzurro e ardente come fiamma, quel suono saltellante, fra di pietra e di metallo, pareva venir da lontano da lontano, dal cuore di quelle sfingi, ove un gigante spaccapietre lavorasse annoiato e sonnolento.

— Perchè dunque non volete sposare mia sorella? — riprese Giacobbe, affacciato goffamente al davanzale. — Questa casa sarà sua, questa sarà la camera da dormire; qui, in questa finestra, vi potrete affacciare, uccellino di primavera, potrete fumare la pipa...

— Io non fumo. Lasciami in pace, — disse Isidoro con impazienza, poichè le parole del servo cominciavano a fargli male.

— Io non scherzo, vecchia lucertola, — proruppe Giacobbe. — Ma voi siete così pezzente che non potete neppure pensare che io non scherzo.

— Senti, — disse Isidoro, — oggi tu mi hai dato da mangiare, e per così poco vuoi spassarti alle mie spalle. Ebbene lasciami tranquillo, se vuoi che io ti resti grato.

Giacobbe lo guardò fisso, si mise ancora a ridere e gli disse:

— Andiamo a bere, ora.

Uscirono: Giacobbe s'avviò alla bettola, ma Isidoro non volle seguirlo, dicendo che doveva recarsi in chiesa.

Il servo andò alla bettola e vi trovò Brontu ed altri che giocavano alla morra con le braccia tese nervosamente, gridando i numeri con quanto fiato avevano in gola.

Prima delle cinque, ora nella quale doveva cominciare la processione, tutti erano ubbriachi. Giacobbe lo era più di tutti; pure s'arrogò il dritto di prender sotto braccio il padrone, sembrandogli che Brontu dovesse di momento in momento cadere. Poi invitò tutti quelli che si trovavano nella bettola ad andar nel suo palazzo per veder la processione.

Poco dopo le grandi stanze vuote risuonarono di voci rauche, di risate incoscienti e di passi malfermi; le finestre si spalancarono e si riempirono di visi barbuti, rossi, selvaggi.

Giacobbe e Brontu s'affacciarono alla finestra dove s'era appoggiato il pescatore: il sole era calato, ma il davanzale restava caldo; e sotto e davanti la visione del paesello, della pianura e delle montagne, appariva solcata da ombre sempre più allungantisi.

— Cu cu — gridò Brontu, arrotondando e sporgendo gli occhi.

Tutti lo imitarono, gridando a chi più poteva; le stanze echeggiarono, la strada si popolò di curiosi, ed in breve una battaglia di pietruzze, di sputi e di male parole si ingaggiò fra gli ubbriachi delle finestre e gli ubbriachi della via. Ma improvvisamente si fece silenzio. S'udiva una cantilena grave e melanconica avvicinarsi: ed ecco una doppia fila di fantasmi candidi apparve in fondo alla strada, e sull'aria azzurra brillò una croce argentea.

Gli uomini della strada si attaccarono in fila al muro, i visi delle finestre si abbassarono; tutti gli astanti si tolsero la berretta.

Uno dei confratelli vestiti di bianco — per lo più erano ragazzi, ai quali, finita la processione, si davano tre soldi e una fetta d'anguria, — picchiò alla porta della casa nuova e passò oltre. Gli altri, che venivano dietro, lo imitarono.

— Che voi siate maledetti, — disse Giacobbe, sporgendosi dalla finestra, — maleducati! E vanno alla processione! — Voleva sputare su loro, ma Brontu gli disse che non conveniva.

Ed ecco lo stendardo di broccato verdolino con cento nastri variopinti e il bastone dorato: ed ecco la Madonnina Assunta nel suo letto portatile, con gli occhi chiusi, con la veste coperta di collane e d'anelli che parevano collane ed anelli dell'età del bronzo, vigilata dai piccoli angeli verdi.

Ai quattro lati camminavano, oltre i portatori, quattro uomini in tunica bianca, con quattro bambini vestiti da angioletti, quattro graziose creature, due bionde e due brune, che chiacchieravano fra loro, gridando per intendersi. Uno, solleticato sotto il ginocchio dall'uomo che lo portava, rideva contorcendosi, con un'ala penzoloni.

Giacobbe, Brontu, i compagni, piegarono le ginocchia e si fecero il segno della croce, guardando con tenerezza i quattro bambini.

Anche questi guardarono in su; uno riconobbe un suo zio alla finestra e gli gittò un confetto rosso che ricadde sulla strada.

Prete Elias ed il piccolo sacerdote nuorese, vestiti di broccato e di merletti, pallidi e belli al riflesso delle stoffe preziose che indossavano, con le mani giunte e il viso composto, cantavano in latino.

— Che il diavolo ti fori la saccoccia, ecco quell'immondezza di Isidoro Pane, — disse Giacobbe, agitandosi — ecco, sembra il padrone della processione! Io lo sputo.

— Ferma! — impose Brontu.

Giacobbe raschiò per richiamare l'attenzione del pescatore, ma costui non sollevò neppure gli occhi. Egli intonava le preghiere e la folla rispondeva ad una sola voce.

Una massa di popolo variopinto riempì la strada, mentre la croce argentea dileguavasi sullo sfondo: uomini a capo scoperto, teste calve lucide di sudore, capelli neri unti, capelli neri ricciuti e lanosi, — teste di donne coperte da grandi fazzoletti di lana fioriti, — un fondo nero a macchie gialle, a righe rosse, a chiazze verdi, — il candore delle camicie sui petti delle donne, — volti rosei, — mani rosee, — occhi scintillanti, — labbra che si muovevano, — poi un vecchio zoppo, — una donna con due bambine, — tre vecchie, — un fanciullo con un fiore giallo in bocca, — riempirono la strada, — s'allontanarono, — dileguarono coll'ondulare melanconico e grave della cantilena orante. Un gatto mostrò le sue zampine, poi sporse il visetto bianco dai grandi occhi azzurri, poi saltò e guardò sul muro in faccia alla casa di Giacobbe.

— Troppo tardi! — gli disse Brontu, facendogli un cenno di saluto.

Tutti cominciarono a ridere e urlare: Giacobbe li pregò di andarsene, e siccome gli amici non l'obbedivano, finse scacciarli con un bastone sporco di calce. Allora quegli uomini fieri, robusti, selvaggi, cominciarono a correr qua e là per le stanze, per la scala, spingendosi per le spalle, rotolando, gridando, producendo un chiasso infernale, ridendo come bambini; e proseguirono il giuoco anche nella strada, dopo che Giacobbe ebbe chiuso a chiave la porta del suo palazzo: poi, tutti assieme, ritornarono nella bettola.

Brontu ed il servo rientrarono a casa sull'imbrunire, sostenendosi a vicenda.

Zia Martina stava nel portico, sola, con le mani sotto il grembiule: recitava il rosario. Vedendo i due uomini non si mosse, non disse nulla, ma scosse leggermente il capo, stringendo le labbra come per dire:

— Siete belli davvero!

— Dov'è Giovanna? — gridò Brontu.

— È da sua madre.

— Ah, da sua madre? Dalla vecchia arpia? È sempre là, maledetta!

— Non gridare, figlio mio!

— Io grido, perchè sono in casa mia! — egli urlò. E voltosi verso lo spiazzo cominciò a gridare: — Giovanna! Giovanna!

Giovanna apparve sulla porta della casetta e si avviò attraverso lo spiazzo con un'aria spaventata; ma a misura che ella si avvicinava, il suo viso prendeva un'espressione di sprezzo e di disgusto.

Giunta davanti ai due uomini, li guardò con uno sguardo d'odio: Giacobbe rideva fra sè e sè; Brontu aveva le orecchie rosse per l'ira.

— Che hai? una colica? — disse Giovanna.

— Può darsi che gli venga più tardi! — esclamò Giacobbe.

Brontu mosse convulsivamente le labbra, ma non riuscì a dir nulla, e l'ira gli passò come era venuta, senza ragione.

— Ecco, ti voglio con me... — balbettò, — oggi non ci siamo veduti per nulla... Cosa facevi da tua madre? Chi c'era?

— Nessuno, per l'anima mia! Chi vuoi che venga da noi? — diss'ella con pungente amarezza.

— Può venire San Costantino... aaa daarvi unaaa poesiaaa... — canterellò Giacobbe, con le labbra bavose. — Ah, tu non l'hai visto San Costantino? Ebbene, ecco come è pazzo Isidoro Pane: non la vuole... non la vuole... eeee...

— Zitto tu! — disse zia Martina. — Ed intanto l'ovile rimane abbandonato! Così tu fai gli affari del padrone? Ah, razza maledetta! Ladroni! — Giacobbe si alzò, pallido, rigido: Giovanna ebbe paura che egli si gettasse contro la vecchia, e le si pose davanti.

Giacobbe tornò a sedersi, senza aprir bocca; ma egli aveva destato tale terrore in Giovanna, che la giovine rimase vicina alla suocera in atto di difesa.

Allora toccò a Brontu prendersela con la madre.

— Che modi son questi? — le disse, — voi trattate la gente come... come... fossero bestie... tutti. Oggi, oggi, sì, oggi era festa. E se colui s'è voluto ubriacare? Cosa ve ne importa?

— Io sono ubriaco di veleno! — disse Giacobbe.

— Sì, di veleno! E anch'io! — riprese Brontu. — Oramai sono stufo; sono stufo di madri, di mogli, di... di... tutto, ecco. Io me ne vado, ecco. Vado a stare nel suo palazzo. Dopo tutto siamo parenti, e... e...

— E dillo dunque! — urlò Giacobbe. — Tu conti sulla mia eredità! Ah! Ah! Eh! Oh!

Ricominciò a ridere, un riso urlante, per dir così, che destava orrore. Ed anche Brontu si mise a ridere; e voleva imitare il servo, ma il suo sghignazzare pareva l'urlo d'una bestia allegra nel mese di maggio.

Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che rivoltavasi ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.

Zia Martina s'alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò per la cena. Cenarono tutti assieme, e per un po' stettero tranquilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva visto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva, e volle accarezzare la moglie.

Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa era passata più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s'era neanche cambiata di vesti; e nel solo momento che s'era permessa di recarsi nella casetta dove aveva tanto sofferto, ma dove pure aveva intensamente goduto, la avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.

Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch'era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu. Costui gridò:

— Perchè ridi, cane rognoso?

— Potrei risponderti che la tua rogna è molto ma molto peggiore della mia. Però... però... voglio dirti che rido... ecco... rido perchè ne ho voglia.

— Allora rido anch'io.

Castigati![8] — disse Giovanna con sprezzo. — Fate schifo.

Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.

— Che hai? — chiese a Giovanna, con voce sorda. — Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?

Giovanna diventò livida.

— Perchè? — disse con voce sibilante: — non basta che io sia la serva, qui?

— Sì, la serva. Resta dunque la serva. Che vuoi altro, femmina?

Gli occhi obliqui di Giacobbe scintillavano. Giovanna si alzò, e ritta, livida, tragica, vuotò tutto il veleno che aveva nell'anima, ingiuriando il marito e la suocera: li chiamò aguzzini, minacciò di andarsene, di ammazzarsi; maledisse l'ora che era entrata in quella casa, urlò rivelando il debito verso la sorella di Giacobbe.

Allora il servo ricominciò a ridere fra sè e sè, mormorando paroline di comico rimprovero contro la sorella: ad un tratto però tacque, cupo in viso, vedendo la figura nera di zia Bachisia apparir nel vano della porta.

Ella aveva udito sua figlia urlare nel silenzio della notte serena, ed era venuta.

— Ecco, — disse zia Martina, perfettamente calma, — vostra figlia diventa matta, a quanto pare.

Brontu, rientrato in sè, annaspava l'aria e faceva cenni alla suocera perchè si avanzasse e calmasse Giovanna; e zia Bachisia si avanzò; ma ecco Giacobbe saltar in piedi, tutto d'un pezzo, col viso contratto come una maschera d'odio.

— Via di qui! — gridò puntando l'indice verso la porta.

— Sei tu il padrone? — chiese zia Bachisia, non senza ironia.

— Via di qui! — egli ripetè, e siccome zia Bachisia avanzava sempre, le corse addosso.

Ella scappò: il servo uscì nel portico e si sedette. Si sedette e volle ridere ancora; ma, cosa strana, invece di ridere si mise a piangere convulsivamente, senza lagrime.

XIII.

Il tempo continuava a passare; il cielo e la natura mutavano secondo la volontà delle stagioni, ma non mutavano aspetto le persone e le cose del paesello. In inverno Giovanna diede alla luce una bambina rachitica, livida, che piangeva sempre. Venne da Nuoro, appositamente per tener a battesimo la povera creaturina, il dottor Porru, o dottor Pededdu come continuavano a chiamarlo.

Quando egli arrivò, in carrozza, tutto intabarrato che pareva un fagotto, col visino roseo sorridente, molte persone corsero a vederlo. Egli distribuì saluti e sorrisi quanti ne vollero; a varii amici di Brontu, andati ad incontrarlo, disse di averli veduti a Nuoro, di che essi si compiacquero assai: uno però disse di non esserci mai stato.

— Fa lo stesso, — rispose il piccolo avvocato, — ci verrai anche tu.

Era un brutto augurio, perchè per lo più quegli uomini andavano a Nuoro per affari di giustizia; tuttavia l'amico di Brontu si compiacque.

Quando zia Bachisia vide l'avvocato, ritornò nella sua antica idea ch'egli assomigliasse ad una magìa; e quando il giovane si tolse il tabarro, lo scialle e le altre cose che lo involgevano, la vecchia cliente gli disse che s'era ingrassato assai.

— Questo è niente! — egli disse: e tutti risero come matti.

Il battesimo fu fatto con gran pompa. Forse unica volta in vita sua, zia Martina aveva slargato i cordoni della borsa, facendo venire da Nuoro vini e dolci squisiti; ma la notte non dormiva, ed il giorno viveva in ansiosa attenzione, per la paura che qualcuno toccasse la roba.

Il giorno del battesimo Giovanna si alzò ed aiutò la suocera a fare i maccheroni per il pranzo d'uso: poi tornò a letto, ma vi rimase seduta, appoggiata ai cuscini, con la coperta fino alla cintola, e dalla cintola in su vestita della camicia e del corsetto da sposa. Aveva anche la cuffia di broccato ed il fazzoletto da sposa; era un po' esangue, ma bella, con gli occhi più grandi del solito.

Nella camera fu apparecchiata la mensa, per la quale zia Martina trasse dall'arca le tovaglie di lino che non avevano più visto la luce dopo che erano state acquistate.

Il battesimo si fece verso le undici, una mattina freddissima e nebbiosa. Dal cielo candido cadeva, intorno intorno al paesello, un fitto velo bianco; le straduccie erano deserte, sparse di pozzanghere agghiacciate che sembravano frantumi di vetro sporco: un silenzio indescrivibile regnava sullo spiazzo davanti la casa dei Dejas, dove il mandorlo disegnava la venatura nera dei suoi rami nudi sul candore vaporoso della nebbia.

Ma d'un colpo lo spiazzo si animò; una torma di monelli infagottati in pelli e stracci, con certe cuffie rosse frangiate, con vecchie scarpe più grosse dei corpicini dei personaggi che le calzavano, si sparse per lo spiazzo; qua e là apparvero gruppi di persone, specialmente di donnine freddolose che starnutivano, tossivano e puzzavano di fumo e di fuliggine.

Apparve il corteo del battesimo.

Precedevano due bambini che sostenevano con grave importanza due ceri intorno ai quali fiammeggiavano dei nastri rossi. Poi veniva una donna che teneva fra le braccia la neonata, coperta da scialli e da un drappo di broccato verdolino simile allo stendardo di San Costantino. E poi il padrino, col suo pastrano e lo scialle bianco e nero dal quale emergeva il visetto roseo, inalterabilmente beato. La madrina, una delle figlie di zia Martina, giovine altissima dal viso lungo lungo, che pareva un'ombra di persona nell'ora del tramonto, doveva curvarsi per parlare col padrino. A fianco veniva Brontu, sbarbato, felice. Dietro seguiva un gruppo di parenti ed amici, che camminavano a passo di marcia, producendo uno scalpitìo da cavalli: ed in ultimo, freddolosa, con un vassoio sotto il braccio e le mani entro le spaccature della gonna, di tanto in tanto tirando fuori la lingua per leccarsi un umor acqueo che le calava dal naso livido, veniva la servetta della madrina.

I monelli fecero ala al corteo, aspettando, guardando avidamente il padrino. Anch'egli cominciò a guardarli, sorridendo, salutandoli comicamente.

— Da bravi, da bravi! Che cercate, animalucci invernali?

— È zoppo! — disse un ragazzo.

— Sta zitto; altrimenti non dà nulla.

Il corteo passava; il viso dei ragazzetti s'allungava: alcuni s'irritavano, altri stavano lì lì per piangere.

— Zop... — cominciò a gridare uno, ma non finì. Il padrino aveva lanciato in aria un pugno di monetine di rame. Tutti i monelli si gettarono sopra le monete, urlando, aggruppandosi, incalzandosi, pestandosi, cadendo per terra, travolgendo la servetta che cominciò a imprecare ed a distribuire calci e pugni più numerosi delle monete. La pioggia di rame ed in conseguenza l'assalto dei monelli, che crescevano sempre più di numero, proseguì fino all'arrivo del corteo alla chiesetta, dove prete Elias aspettava, scambiando qualche parola col sagrestano vestito di rosso.

Costui aveva paura che prete Elias, con la sua nota indulgenza, accompagnasse a casa la neonata, mentre nel paesello usavasi far ciò solo quando i genitori del battezzando erano uniti anche col vincolo religioso; e lo incitava ad esser severo con Brontu Dejas, coi padrini, con tutti.

— La vossignoria, — diceva, — non accompagnerà certo a casa la bambina. No. È quasi una bastarda; non deve ricevere onori.

— Va a guardare se giungono, — disse il prete.

— Non si vedono, no. La vossignoria non andrà?

— E tu andrai? — chiese il prete con un fine sorriso.

— Il mio è un altro affare: io vado per avere i dolci, non per fare onore a quella gentaglia.

Poco dopo arrivò il corteo, e la cerimonia cominciò: la bambina, appena le fu denudata la testolina calva e rossa, cominciò a piangere con un belato di capretto rauco: il padrino teneva il cero acceso e sorrideva, cercando di rammentarsi bene il Credo, perchè Giovanna l'aveva scongiurato di recitarlo coscienziosamente onde il battesimo riuscisse valido.

Quasi tutti i monelli erano penetrati in chiesa, producendo un brusìo da topi; scacciati silenziosamente dal sagrestano uscivano e rientravano. La servetta col vassoio e la donna che aveva recato la bambina sedettero sui gradini di un altare, aspettando ansiose la mancia del padrino.

Finita la cerimonia, data la mancia, rivestita la bambina, fuvvi un momento di inquieta attesa per parte di Brontu e degli amici. Prete Elias era andato in sagrestia a spogliarsi: sarebbe egli tornato? avrebbe accompagnata a casa la bambina?

Egli non tornò. Ed il corteo se n'andò alquanto melanconico, seguìto dal sagrestano trionfante, al quale Brontu aveva una pazza voglia di dare, invece dei dolci, una buona dose di calci.

La gente s'affacciava per vedere il corteo, e molti visi, specialmente di donne, sorridevano con malignità non vedendo il prete. Puh! pareva un battesimo da bastardo.

Giovanna, sebbene non aspettasse il sacerdote, si fece ancor più esangue quando il corteo invase la camera; e baciò tristemente la bambinuccia violacea, sembrandole che funerei augurii gravassero sulla povera creaturina.

— Ho ricordato il Credo dalla prima all'ultima parola, — disse il padrino. — Allegra, comare mia! La vostra bimba sarà un portento, alta come la madrina, e allegra come il padrino!

— Purchè sia fortunata come il padrino! — mormorò Giovanna.

— Ed ora a tavola! — esclamò il giovine avvocato battendo le mani. — Un bellissimo uso, questo, parola d'onore: bellissimo.

Battè ancora le mani, come si battono per richiamare i bambini; e subito tutti si misero a tavola, davanti ai maccheroni, ai quali seguì un magnifico porchetto arrostito che esalava aroma di rosmarino.

Pochi giorni dopo un avvenimento strano, però non insolito, succedeva ad Orlei.

Vicino alla casa di Isidoro Pane c'era un antico concio che il tempo aveva quasi pietrificato; strane erbe pallide, steli d'un verde quasi bianco, gramigne melanconiche lo coprivano; sembrava un rialzo qualunque e non esalava più odore.

Una sera sull'imbrunire, Isidoro Pane, mentre preparava la cena, udì del chiasso dalla parte del rialzo, — chiamiamolo così — e s'affacciò alla porticina per guardare.

Il crepuscolo era freddo, verdognolo e luminoso. Un gruppo di persone, per lo più donne, nere sull'aria limpida, s'avanzava verso il rialzo, suonando e cantando. Isidoro capì di che si trattava e andò incontro al gruppo. Le donne, una ventina tra vecchie e giovani, cantavano a mezza voce e con tono saltellante eppur melanconico, una bizzarra canzone, o meglio uno scongiuro contro il morso della tarantola, accompagnate dal suono monotono d'uno strumento primitivo, chiamato serraia, specie di cetra con la cassa formata da una vescica di maiale secca.

Un giovinetto mendicante, pallido e cieco, stranamente vestito con abiti da donna laceri e sporchi, suonava il bizzarro strumento.

Altri tre uomini si distinguevano nel gruppo, ed in uno di essi, dal volto acceso e febbricitante, con una mano fasciata, Isidoro Pane riconobbe Giacobbe Dejas.

Il pescatore si avanzò, si mischiò al gruppo, toccò con un dito la mano fasciata del servo, mentre Giacobbe lo fissava con occhi pieni di profondo terrore.

— Hai paura di morire? Per un morso di tarantola? che, che! — disse zio Isidoro sorridendo.

Le donne cantavano sempre: erano sette vedove, sette maritate e sette ragazze. Tra le vedove c'era la sorella di Giacobbe, che gli veniva a fianco, rosea e fresca nonostante il grave dolore che la opprimeva; la sua vocina sottile e stridente come il canto d'un grillo emergeva, saltellante, fremente, al di sopra di tutte.

— Egli sta male, — disse piano ad Isidoro uno degli amici che accompagnavano Giacobbe.

— Ah! — esclamò il pescatore, facendosi serio.

Le donne cantavano sempre questo strano scongiuro:

— Santu Pretu a mare andei,

Ses jaes nde li rughei;

E li rispondent Deu:

It' às, Pretu meu?

— A ssu pè m'at datu mossu,

A ssu coro, a ssu dossu.

— Lea s'ispina trista,

E ponebila pista,

E ponebila tres dies

Chi Petru sano sies.

Tarantula 'e panza pinta,

Chi fattesit fiza istrinta,

Fiza istrinta fattesit,

Una pro monte nde lassesit;

Una pro monte, una pro bbacu,

Mòlthu m'àsa e mòlthu t'àpo[9].

Intanto il gruppo s'era avvicinato al rialzo; i due uomini, che erano armati di zappe, cominciarono a scavare un fosso, e Isidoro rimase vicino a Giacobbe, fra le donne che cantavano e il cieco che suonava.

Giacobbe taceva e guardava l'opera dei due amici: Isidoro invece fissava il malato; gli sembrava un altro, tanto era cambiato, col viso rosso, infiammato, solcato da una espressione di sofferenza nervosa, e i piccoli occhi, già così furbi, sotto le sopracciglia nude, velati da una puerile paura della morte. Finito l'ultimo verso, le donne ricominciavano dal primo, e il suono della strana cetra ripigliava il motivo stridente e monotono, che assomigliava al ronzio di molte api volanti.

Aliti di vento gelato venivano dal lucido occidente, passando come lame taglienti sul volto delle persone radunate sul rialzo: il cielo era d'un azzurro violaceo, ma calava e stendevasi verdognolo come un lago dove il sole era scomparso. Una tristezza immensa riluceva nel freddo crepuscolo, sull'altipiano già nero, sul paesello nero, su quel gruppo di persone nere che compievano un rito superstizioso con fede da selvaggi idolatri[10].

I due uomini scavarono il fosso con alacre ardore; la terra veniva su nera, mista d'immondezze fracide, di cocci, di stracci: i due scavatori se la rigettavano sui piedi, sulle gambe; salivano sul mucchio, si curvavano sempre più, ansavano, sudavano, mentre le donne cantavano e il cieco suonava.

Scavato il fosso, Isidoro e zia Anna-Rosa, la cui boccuccia non cessava di aprirsi rotonda per emettere quel sottile e dolente canto di grillo, aiutarono il malato a togliersi il cappotto; poi lo presero per mano e lo condussero vicino al fosso. Egli vi saltò dentro d'un colpo. Spingendola con le mani, i due scavatori rimisero la terra entro il fosso, e Giacobbe rimase sotterrato con la testa in fuori.

Allora, intorno a quella testa, che pareva spiccata da un corpo e deposta per terra, su quel rialzo di immondezze, dove le erbe tremavano al vento come pervase da un brivido di angoscia, sotto il cielo immensamente triste, accadde una scena indescrivibile. In un attimo, mentre uno degli scavatori s'asciugava la fronte passandovi il braccio, e l'altro batteva le mani per togliere la terra che vi era appiccicata, le donne si disposero in cerchio attorno alla testa di Giacobbe, e fecero un giro di danza cantando sempre il loro scongiuro. Il cieco suonava, pallido, impassibile, con gli occhi bianchi rivolti ad un vuoto orizzonte. Tutto ciò durò cinque minuti, dopo i quali le donne cessarono di ballare, disfecero il cerchio, ma continuarono a cantare. I due uomini e Isidoro si gettarono per terra, e con le zappe e con le mani, in pochissimo tempo, dissotterrarono Giacobbe. Egli risorse, con le vesti piene di terra, il collo e il viso pavonazzi. Era tutto sudato e disse che gli era parso di soffocare. Si scosse tutto e introdusse un braccio, poi l'altro, nelle maniche del cappotto pórtogli dalla sorella.

— Ebbene, tu non morrai, uccellino di primavera! — gli diceva Isidoro, scherzando. Ma l'altro rimaneva cupo: il vento freddo gli aveva gelato il sudore, ed ora il suo viso s'era fatto pallido e i denti gli battevano forte. S'avviarono alla casa di zia Anna-Rosa, e Isidoro, che aveva completamente scordato la sua cena, seguì la strana compagnia.

— L'hai tu uccisa? — chiese al malato, ricordandosi che chi uccide la tarantola col dito anulare conserva la virtù di guarirne il morso col solo tocco dello stesso dito.

— No, — disse Giacobbe. Poi, fra il suono della cetra ed il canto delle donne, con poche parole incisive raccontò la sua disgrazia. — Io dormivo. Sento una puntura, come di vespa. Mi sveglio sudato. Ah, mi aveva punto; mi aveva punto la tarantola vile! La vidi io con questi occhi; ma era sul muro, già lontana. Ah, che il diavolo ti morda, mala femmina! E son tornato. Sentite, io ho paura di morire. È da tanto tempo che ho paura di morire.

— Noi morremo tutti, quando sarà giunta l'ora, — disse gravemente Isidoro.

— Sì, morremo tutti, — confermò uno degli amici. Ma ciò non confortò Giacobbe Dejas.

— Ho le gambe spezzate, — diceva egli, lamentoso. — E la schiena? Ah, la mia schiena pare sia stata colpita con la scure. Io morrò, io morrò...

La gente usciva sulle strade per vedere il gruppo, ma tutti guardavano in silenzio, come se passasse un funerale, e nessuno seguiva. Gli occhi di Giacobbe si velavano: ad un tratto egli barcollò e s'appoggiò ad Isidoro.

Le donne marciavano, trottavano come puledre; il canto melanconico saliva, spandevasi, dileguavasi come fumo nel freddo silenzio della sera, intorno al suono stridente della cetra, che aveva gemiti di bestiolina ferita abbandonata in una macchia.

Finalmente si arrivò alla casa della piccola vedova; nel focolare di schisto, al centro della cucina, ardeva il fuoco su un mucchio di brage estratte poco prima dal forno. Questo forno, rotondo e vasto, con un buco nel centro della volta per l'uscita del fumo, occupava un angolo della cucina, ed aveva un'apertura quadrata, per la quale poteva benissimo introdursi un uomo. Ebbene, Giacobbe Dejas si curvò ed entrò nel forno tiepido; sull'apertura apparvero le suola ferrate dei suoi scarponi, i cui chiodi consumati brillarono tenuemente al riflesso del fuoco.

Ritte, intorno al focolare ed al forno, le donne proseguirono il loro coro: il barlume rosso-violaceo del fuoco tremolava sulle loro persone, rischiarando i corsetti gialli e le camicie bianche. La boccuccia aperta e rotonda di zia Anna-Rosa pareva un forellino nero sul volto roseo e lucente. Il cieco aveva sentito il fuoco e vi si andava avvicinando a poco a poco, senza smettere di suonare. Arrivato sull'orlo del focolare mise il piede scalzo sulla pietra ardente.

— Zsss... — soffiò Isidoro, — bada che ti scotti, quel ragazzo!

Non aveva finito di dirlo, che il suonatore diede un balzo indietro, scuotendo il piede scottato. Per un momento egli cessò di suonare; tuttavia le donne proseguirono il coro; e pareva che esse, ritte e immobili intorno a quel forno, intonassero un coro funebre intorno ad un sepolcro preistorico.

— Esci — disse ad un tratto la vocina di zia Anna-Rosa.

Dal forno uscirono i grossi piedi di Giacobbe: nello stesso momento la porta si aperse ed apparve una figura nera. Prete Elias. Avvertito del caso egli era corso alla casa della vedova, per impedire almeno che Giacobbe venisse introdotto nel forno: ansava, era rosso, con gli occhi accesi.

Vedendolo una donna strillò; altre tacquero, altre accennarono a proseguire il coro. Giacobbe finì di uscire dal forno.

— Tacete! — impose il prete, con voce ansante. — Non vi vergognate? No?

Allora esse tacquero.

— Andate, egli riprese, spalancando la porta. E tenendola aperta con una mano, assistè allo sfilare delle donne; poi, quando esse furono uscite, si accorse della presenza di Isidoro, ed i suoi occhi si fecero tristi.

— Anche voi! disse con rimprovero. — Ma possibile? Non vedete come avete conciato quel povero uomo? Ma possibile, possibile! — ripetè come fra sè. Poi si animò ancora: — Presto, andate a chiamare il medico! E voi a letto. Avanti!

Giacobbe non chiedeva di meglio; aveva la febbre, il capo gli tremava, gli occhi non vedevano più. Isidoro uscì fuori e s'avviò verso la casa del medico. Si sentiva mortificato; ma nonostante il suo buon senso, la sua saviezza, la sua religione, non poteva spiegarsi che male c'era se si cercava di guarire il morso della tarantola coi canti, i suoni, i riti usati dai padri e dagli avi del villaggio sin dal tempo nel quale i giganti vivevano nei Nuraghes.

Per istrada le donnicciuole si erano sbandate, a gruppi di due o tre, e a bassa voce, nell'ombra, commentavano l'accaduto. Chi la prendeva sul serio, chi criticava il prete: una ragazza molto allegra si batteva le mani sulle anche canticchiando ironicamente:

Faladu m'est su tronu,

O mama de ranzolu[11].

Era la nenia che dovevasi cantare intorno al letto del malato, se non sopraggiungeva prete Elias. Alcune donne s'avvicinarono ad Isidoro; ma egli passò oltre, a lunghi passi, pensieroso: allora tutte se ne andarono, ed intorno alla casa della vedova regnò la sera fredda e verdognola. Le stelle parevano occhi d'oro velati di lagrime.

XIV.

La camera ove giaceva Giacobbe Dejas era di un'altezza straordinaria, e così vasta che il lume ad olio non riusciva ad illuminarne abbastanza gli angoli. Bisogna dire però che i mobili erano proporzionati: un guardarobe di legno rosso, sulla parete di fondo, raggiungeva il soffitto, ed aveva alcunchè di grave e pensoso; il letto di legno, attorno ai cui piedi girava una fascia di stoffa giallognola, era alto e maestoso come una montagna. Non so che di misterioso era in quella camera dagli angoli bui e dal soffitto alto e livido come un cielo nuvoloso; la minuscola figura di zia Anna-Rosa vi si smarriva come nell'immensità di una campagna: appena il suo petto arrivava alla sponda del letto.

Giacobbe Dejas sognava, su quel letto immenso. Aveva la febbre a 39 gradi. Gli pareva di essere ancora entro il fosso; ma i due uomini che l'avevano sotterrato continuavano ad accumulare la terra attorno alla sua testa, soffocandolo. Ed egli soffriva immensamente; ma lasciava fare, sperando di guarire più presto se lo sotterravano fin sopra la testa; e la sua testa era prete Elias, sul cui petto s'agitava la coda minuscola d'una tarantola. Nel sogno Giacobbe sentiva un pazzo terrore della morte.

Quando egli era entrato nel forno tiepido, aveva pensato che l'inferno poteva essere un forno acceso, entro il quale i condannati dovevano stare in eterno distesi.

Ora nel sogno gli si riproduceva esattamente quella impressione. Dal fosso, mentre la terra gli si accumulava attorno al viso, ed egli stringeva la bocca per non ingoiarne, vedeva un forno acceso. Era l'inferno. Egli provava un terrore tale che, anche nel sogno, anche nell'incoscienza febbrile dell'incubo, il suo istinto ebbe il bisogno prepotente di percepire che tutto era una illusione dei sensi. E si svegliò; ma svegliandosi provò l'impressione che, se fossero sensibili, dovrebbero provare le pietre in un incendio: sentirsi ardere e non potersi muovere, non poter sfuggire all'orrendo destino. Giacobbe Dejas provò qualche cosa di simile; come se stesse, fatto pietra, entro un mucchio di brage, entro un forno acceso, nell'inferno. E sveglio provò un terrore ancora più feroce di quello sentito in sogno. Diede un grido, un — ooh — sordo e grave, il cui suono lo confortò come una voce umana risuonante presso di lui nell'orrore dell'inferno.

Dalla cucina attigua zio Isidoro, — che era rimasto per aiutare in ciò che poteva la piccola vedova, — sentì quel grido nel sonno ed ebbe paura; si svegliò pensando che Giacobbe fosse morto; balzò su ed entrò nella camera. Avvicinatosi al letto vide il malato coricato supino, con la faccia stranamente allungata, e gli occhi, che sembravano neri, lucenti di lacrime.

— Sei sveglio? — domandò piano piano il pescatore. — Che cosa vuoi?

Gli toccò il polso, avvicinandovi l'orecchio come per sentirne il battito. Subito dopo Giacobbe vide dall'altra sponda del letto il visino di sua sorella, avvolto in un fazzoletto bianco.

Allora accadde una cosa strana: il viso del malato si accorciò, la bocca si allargò, gli occhi si strinsero; e un gemito lungo sibilò nella camera. La piccola donna rivisse in un tempo lontano, quando su quel medesimo letto Giacobbe bambino piangeva; protese quindi le braccia, accarezzò il malato, parlò fra dolce e irritata:

— Siano benedette le sante anime del Purgatorio, che cosa hai, cosa ti senti, fratellino mio?

Isidoro, stupito, continuava a tastare il polso del malato, cercando ora una vena, ora l'altra, e diceva:

— Oh! Oh! Questa è curiosa!

— Ebbene, che hai? Vuoi dirmi che cosa hai? Che cosa ha avuto, dillo tu, Isidoro Pane?

— Ma niente... ma niente... Ha gridato, ecco tutto. Forse ha fatto un cattivo sogno. Ora gli diamo un po' di acqua, ecco. Porta un po' d'acqua. Ecco, ora bevi. Eh, come bevi! Avevi sete? Capisci, è la febbre, ecco tutto.

Bevuta l'acqua Giacobbe, che s'era seduto, si calmò completamente. Egli indossava una vecchia maglia di cotone bianco, che gli disegnava il corpo piccolo, ma robusto; il petto coperto di fitto pelo nero contrastava con la testa e la faccia perfettamente rase. Rimase seduto, curvo in avanti, pensoso, passandosi la mano sana sul braccio malato.

— Sì, — disse ad un tratto, con la voce ansante e lamentosa dei febbricitanti — brutto sogno, ho fatto. Che caldo, San Costantino bello! Un caldo da forca. Ho sognato l'inferno.

— Che idee! che idee! che idee! — disse la sorella con rimprovero.

E zio Isidoro scherzoso:

— E c'era caldo, uccellino di primavera?

Il malato s'irritò alquanto:

— Non burlare, non dire più «uccellino di primavera». Mi fai arrabbiare. Io non lo dirò più, io non mi burlerò più di nessuno. Ascoltatemi, — disse poi, sempre a capo chino, palpandosi il braccio. — L'inferno è una brutta cosa. Io devo morire, e devo dirvi una cosa. Ecco, non spaventarti, Anna-Rosa, tanto io devo morire. E voi lo sapete già, zio Isidoro, quindi ve lo posso dire. Ecco, sono io che ho ammazzato Basile Ledda.

Zia Anna-Rosa spalancò gli occhi, spalancò la bocca, appoggiò il petto al letto e cominciò a tremare convulsivamente.

— Io non sapevo niente! — gridò Isidoro.

Allora Giacobbe sollevò il viso spaventato e cominciò anch'egli a tremare.

— Non mi farete arrestare? — disse, supplichevole. — Tanto io morirò. Lo direte poi? Io credevo che lo sapeste! Che cosa hai, Anna-Rò? Non aver paura, non mi farà arrestare.

— Non è ciò! — disse ella, rimettendosi alquanto. Le era parso ricevere un colpo di pietra sul capo. Ora l'impressione fisica svaniva; ma una cosa misteriosa accadeva entro di lei, come se la sua anima se ne andasse, e ne prendesse il posto un'altra anima che vedeva le cose, il mondo, la vita, il cielo, la terra, Dio, in modo diverso da quello dell'anima fuggente. E tutte le cose vedute dalla nuova anima erano piene di orrore, di oscurità, di caos.

— Io non dirò niente. No. No. Ma io non sapevo niente. Come potevo saperlo? — protestò Isidoro. Egli non sentiva orrore di Giacobbe, anzi ne provava pietà; ma nello stesso tempo gli desiderava la morte.

E subito tutti e tre i personaggi di quel dramma pensarono a Costantino, e questo pensiero non li abbandonò più un istante.

— Còricati, — disse Isidoro, battendo la mano sul cuscino.

Ma l'altro scosse il capo; e riprese, con la sua voce lamentosa e ansante, a volte supplichevole, a volte irritata:

— Io credevo che voi lo sapeste: ah, dunque non lo sapevate? Ah, vero! Come potevate saperlo? Io avevo paura di voi, però: credevo che mi leggeste negli occhi. Ecco, una notte, in casa vostra, mi diceste «puoi essere stato tu ad uccidere Basile Ledda». Io ebbi paura, quella sera. Poi un altro giorno, il giorno dell'Assunzione, qui, in questa casa, voi mi diceste «assassino!» Era uno scherzo, ma io ebbi paura, perchè avevo paura di voi. Ebbene, quando vi proponevo di maritarvi con mia sorella lo faceva sul serio: pensava di legarvi a me.

— Gesù Cristo mio! mio piccolo Gesù Cristo! — gemè la vedova.

Giacobbe la guardò un momento.

— Tu hai paura, eh? Perchè l'ho fatto, tu chiedi? Ebbene, perchè odiavo quell'uomo. Egli mi aveva bastonato. Egli mi doveva del denaro. Ma mi parve di morire quando condannarono Costantino Ledda. Perchè io non ho confessato allora? Voi dite così, voi! Eh, è facile dirlo; ma farlo era impossibile. Costantino è un buon ragazzo, io pensavo: morrò prima di lui, confesserò tutto. E ciò che fece Giovanna Era mi invecchiò di cento anni. Che cosa dirà Costantino quando ritornerà? Che cosa dirà? — ripetè sommessamente, come interrogando sè stesso. — Che cosa faremo ora?

Zia Anna-Rosa chinò la faccia sulla coltre e sospirò: le pareva sognare un orribile sogno.

Ma neppure un istante pensò che dovevasi occultare la rivelazione del fratello. E dopo?

Due cose parimenti orribili al suo cuore dovevano accadere: o la morte di Giacobbe o la sua condanna. Ella non sapeva quale scegliere.

— Ora ci corichiamo e riposiamo: domani penseremo al da farsi, — disse zio Isidoro. E battè nuovamente la mano sul cuscino. Giacobbe tornò a coricarsi supino e sollevata la mano sana cominciò a contare con le dita:

— Prete Elias uno; poi il sindaco, poi... come si chiama, Brontu Dejas. Sì, sì. Appunto lui. Li voglio qui, confesserò a loro.

— A Brontu Dejas? — chiese stupito zio Isidoro.

— Perchè egli più di tutti sarà creduto. Ma prima, tutti mi giurerete sul crocifisso che mi lascerete morire in pace. Io ho paura. Mi lascerete morire in pace, dunque?

— Ma sì! Sta tranquillo, ora. E voi, piccola comare, tornate a letto; riposatevi, dormite, — disse il pescatore con voce tranquilla, accomodando le coperte intorno al malato, che si scopriva sempre, si agitava, scuoteva la testa.

— Ho caldo, — diceva Giacobbe — ho caldo; lasciatemi stare. Come non vi meravigliate voi, zio Sidore? Ah, io rimasi servo per non dar dei sospetti. Ma voi sapevate. Sì, sì, sapevate.

— Non sapevo nulla, ti dico, figlio di Dio.

— E allora perchè non vi meravigliate?

— Perchè? — disse l'altro con voce grave. — Nel mondo ne succedono tante! Son cose del mondo. Ebbene, sta coperto e cerca di dormire.

La vedova, che pareva non avesse ascoltato quanto i due uomini avevano detto, sollevò il viso. Ed il piccolo viso s'era fatto giallo, pieno di rughe; pareva che tutti gli anni passati placidamente senza poter solcare quel volto, avessero preso la rivincita in un attimo.

— Giacobbe, — disse la donnina, — non ci sarà bisogno di testimoni. Non ci sarà bisogno di chiamar nessuno. Non basterò io?

Egli si sollevò ancora e guardò Isidoro. Isidoro guardò lui, ed entrambi dissero:

— È vero.

Dopo di che una gran calma parve spandersi nella camera giallognola e misteriosa. Il malato tornò a stendersi sul letto, tacque, si calmò, si assopì; anche la vedova acconsentì ai consigli di zio Isidoro ed andò a coricarsi. La faccia grave del guardarobe rossastro tornò a dominare pensosa nella penombra, ed il soffitto color nuvola gravò sul silenzio della camera come sopra una campagna deserta. Le cose tutte, calme, impassibili, parevano ripetere le parole di zio Isidoro:

— Cose del mondo!

Il medico condotto di Orlei, dottor Puddu, era una specie di bestia grossa e gonfia. Un tempo anche egli aveva avuto grandi ideali; ma la sorte lo aveva sbalzato in quel paesello solitario, ove la gente raramente ammalava, ed egli s'era dato a bere, prima di tutto per scaldarsi, — essendo egli meridionale, — poi perchè i liquori ed il vino gli piacevano immensamente. Ora egli era, oltrechè alcoolizzato, completamente incretinito, tanto che neppure gli abitanti di Orlei lo stimavano.

Giacobbe Dejas si lamentava di un dolore al fianco e dottor Puddu gli cauterizzava la mano ferita dalla tarantola, e gli diceva con voce rauca:

— Stupido. Non si muore di queste cose. D'altronde, se muori tu è come muoia un asino.

Zia Anna-Rosa lo guardava con ira e brontolava. Era diventata collerica, la povera donnina; si arrabbiava con tutti, tranne che col malato. E come sembrava vecchietta, ora! Dopo quella notte, il suo visetto era rimasto giallo e rugoso; non pareva più quello.

La rivelazione del fratellino l'aveva cambiata in modo strano, fisicamente e moralmente. Ella si chiedeva, con profondo stupore, come mai Giacobbe aveva potuto uccidere un uomo.

— Egli! Egli che era allegro e mansueto come un agnello. Come mai, animuccie sante del Purgatorio? Eppure nostro padre non era un ladrone, no; era un uomo di Dio, sempre allegro e così scherzevole che quando un amico si sentiva di malumore cercava la sua compagnia.

La donnina s'inteneriva pensando al vecchio padre defunto; ma, ecco, un'orrenda nuvola le oscurava la mente, e tutto il suo visetto si raggrinzava per l'orrore di un terribile pensiero:

— Che anche il vecchio allegro, il vecchio santo, avesse anch'egli commesso qualche delitto?

Non c'era più da fidarsi di nessuno, nè dei vivi, nè dei morti, nè dei vecchi, nè dei fanciulli. Poi zia Anna-Rosa piangeva, si batteva il petto col piccolo pugno, si pentiva dei suoi dubbi orrendi; e andava presso il malato, ed il malato, col suo viso solcato dalla sofferenza fisica e gli occhi pieni di spavento, che pareva supplicassero la morte di risparmiarlo, le destava una grande, infinita pietà, una tenerezza materna, un dolore senza nome.

Egli era più che mai il suo fratellino, così raggomitolato sull'immenso letto; così spaventato, così rimpicciolito dal male; e mentre tutte le cose, tutte le persone, e persino i morti più sacri, e persino i fanciulli innocenti, destavano in lei dubbi atroci, diffidenze amare, rancori profondi, egli solo, egli solo le destava pietà, tenerezza, amore, e una dolcezza struggente e calda come la cera accesa. Ed intanto doveva vederlo, lo vedeva morire, e doveva desiderargli la morte; e curandolo con tenerezza attenta, doveva desiderare che i medicamenti, che le cure, che tutto fosse inutile. E questa morte, questa cosa orribile che ella doveva desiderare al suo «fratellino», oltre il dolore profondo per sè stessa, doveva recarle un'altra cosa più orribile ancora: la denunzia del delitto.

Ma ciò che era più triste di tutte queste cose, per zia Anna-Rosa, era che il malato s'accorgeva dei sentimenti di lei.

Infatti, al terzo giorno della malattia, Isidoro portò con gran mistero una medicina prestatagli dal sagrestano. Questa medicina era composta d'olio d'oliva entro cui avevano galleggiato tre scorpioni, un centopiedi, una tarantola, un ragno, un fungo velenoso: guariva qualsiasi puntura. Zia Anna-Rosa unse subito la mano gonfia e livida del malato: ed egli lasciò fare, guardando attentamente la mano, ma poi disse con voce calma:

— Perchè mi curi, Anna-Rò? Non vuoi tu che io muoia?

Ella si sentì spezzare il cuore.

— Fatto anche questo! — disse poi Giacobbe, guardando Isidoro. — Ma se io non morrò, come farete voi?

— Dio ci penserà; sta tranquillo.

Egli tacque un poco, poi disse: — Andrete assieme dal giudice?

— Cosa?

— Dal giudice. Ora fa freddo, però: il viaggio è lungo. Ebbene, Anna-Rosa, non viaggiare a cavallo, sai? Va in carrozza, a Nuoro.

— Per che cosa? — ella chiese, irritata, fingendo non comprendere.

— Ebbene, per il giudice, ecco!

Ella lo sgridò, poi uscì in cucina e pianse amaramente.

— Ecco il tuo olio, — disse ad Isidoro, quando egli uscì per andarsene. — Potevi fare a meno di portarlo. Quando verrà prete Elias?

— Egli verrà stasera.

— Sì. Bisogna che Giacobbe si confessi. Il tempo vola, egli sta male. Stanotte non ha chiuso occhio. Ah, — disse poi, — egli mi sembra un uccellino ferito.

— Sono venuti i Dejas? — chiese l'altro.

— Sono venuti. Madre e figlio; anzi Brontu è venuto due volte. Sì, vengono, vengono tutti; ma a che serve ciò? — diss'ella con disperazione. — Non possono dargli nè la vita nè la morte.

— Son buone e cattive entrambe, per lui, — disse Isidoro, avvolgendo accuratamente nel suo fazzoletto rosso la bottiglina dell'olio.

— E per tutti — rispose la donna.

Poco dopo venne il medico, avvolto in un paletò stretto, col colletto unto. Egli era già ubbriaco; sbuffava, sputava di qua e di là, e qualche volta anche sopra sè stesso; e dalle labbra livide gli scaturiva un alito vaporoso, puzzolente di acquavite. Tuttavia si allarmò per lo stato di Giacobbe.

— Che cosa diavolo hai? — gli chiese rudemente. — Il fianco? Il fianco? Hai diavoli al fianco! Vediamo un po'.

Rigettò le coperte, scoprì il fianco velloso di Giacobbe, lo palpò, vi mise su l'orecchio.

— È un corno! Sei viziato come una creatura, — disse, ricoprendolo in malo modo. Ma quando zia Anna-Rosa lo accompagnò fino alla porta, egli si rivolse e la fissò.

— Donnina, — le disse, — fatelo adunque confessare perchè egli ha la polmonite.

Sull'imbrunire Giacobbe si confessò. Poi fece chiamare la sorella e disse:

— Anna-Rò, anche prete Elias verrà con te, dal giudice. Andrete in carrozza perchè fa freddo.

Infatti fuori nevicava: un barlume biancastro, di una infinita melanconia, penetrava ancora nella grande camera misteriosa, il cui soffitto sembrava un cielo grave di nuvole.

Prete Elias guardò zia Anna-Rosa, alla quale egli voleva un gran bene perchè rassomigliava alquanto a sua madre: ella s'era fatta ancora più piccina, tutta nera nella penombra triste del crepuscolo nevoso, e chinava la faccia, vergognosa del delitto del suo «fratellino». Prete Elias capì istintivamente tutto il dramma eroico di quella povera anima, e mentalmente la benedisse.

XV.

Era di maggio. La grande vallata dell'Isalle, di solito così severa, coperta di altissime erbe, di macchie fiorite, di campi d'orzo che ondulavano alla brezza come drappi d'oro verdognolo, rideva alla primavera, simile ad un vecchio selvaggio, ubbriaco di sole e di profumi, copertosi per ischerzo di fronde e di ghirlande.

Fischi acuti e liquidi di uccelli canori gorgheggiavano come note di flauto nell'immenso silenzio della valle, quasi fondendosi con la fragranza dei narcisi e delle ginestre. E narcisi e ginestre, i cui grandi cespugli fioriti pareva fossero stati immersi in un bagno d'oro liquefatto, s'abbandonavano sull'orlo dei ciglioni, come intenti a guardare il fondo della valle.

Una fata immensa era passata, stendendo tappeti di fiori violetti, fantasmagorie, fragranze. Certe praterie erbose, picchiettate di ranuncoli, da lontano parevano lembi di lago verde riflettente il cielo stellato. I radi alberi ridevano e bisbigliavano alla brezza.

Era appena tramontato il sole. Il cielo ad occidente aveva il colore della pesca matura, mentre ad oriente ed al nord le montagne posavano come enormi pietre preziose sopra una fascia di raso lilla.

Costantino Ledda, scarcerato poche ore prima a Nuoro, ritornava a piedi al suo paese, scendendo la valle senza affrettarsi, con una piccola bisaccia di tela sulle spalle. Qualche volta si fermava, guardando di qua e di là dal sentiero, e pensava:

— Oh, oh, — la valle mi sembra più piccola, ora. Sarà perchè ho visto il mare.

Egli era invecchiato, sbarbato, molto bianco in viso, ma non aveva affatto un'aria tragica come gli sarebbe convenuta. Ritornava solo ed a piedi perchè non aveva avuto modo d'indicare il giorno preciso della sua scarcerazione; altrimenti qualche parente o qualche amico non avrebbe mancato d'andargli incontro. Inoltre l'impazienza di rivedere il paesello lo urgeva.

Scendeva, scendeva. Era quasi allegro, forse perchè a Nuoro aveva bevuto del vino, provvedendosene anche per il viaggio. Nello scendere le gambe qualche volta gli si piegavano, ma egli non si turbava per così poco.

— Ecco, — pensava, — quando non ne posso più, mi sdraio e dormo. Ho del pane e del vino nella bisaccia. Che altro occorre? Io sono libero come gli uccelli. Ah! sì, sono celibe. Guarda che cosa curiosa! Una volta avevo moglie, ora sono scapolo.

Gli parve di ridere internamente. E scendeva e scendeva, ora guardando il sentiero giallognolo tracciato fra l'erba alta, ora guardando gli uccelli, che avevano destato il suo paragone e che volavano bassi, quasi sfiorando il suolo, ritirandosi nelle macchie per dormire. Ricordò la vecchia gazza del reclusorio e sentì qualche cosa scioglierglisi entro il petto.

Ebbene, perchè negarlo? Egli aveva provato dolore nel lasciare quel luogo di pene, quei compagni che non amava, quei muri orrendi, quel cielo che l'aveva per tanti anni oppresso dall'alto del cortile come una lastra di metallo.

Dopo la morte del vero colpevole giorni e mesi erano trascorsi prima che la giustizia avesse esaurito le sue formalità per liberare l'innocente. In quei mesi Costantino, informato di tutto, aveva smaniato ed i giorni gli erano parsi anni; eppure, nell'andarsene, aveva quasi pianto. Ed il suo intenerimento doloroso, che sembrava di pietà e di carità verso coloro che restavano, era invece per le cose che lasciava, per ciò che queste cose avevano assorbito della sua vita, del suo essere e del suo destino.

Ora anche questo dispiacere era passato. Tutto era passato. Anche il grande dolore per il procedere di Giovanna.

Tanto è vero che gli pareva di poterne ridere.

Scendeva, scendeva. Giunse in fondo alla valle e cominciò a costeggiare l'Isalle; la luce del tramonto era ancora vivissima e l'acqua brillava qua e là fra gli oleandri ed i giunchi, riflettendo il bagliore roseo-giallo del cielo; le ombrelle di merletto dei sambuchi e i bottoncini acuti di corallo scuro degli oleandri si disegnavano sull'aria lucida come sopra uno smalto d'argento. Costantino, già stanco, pensava che la valle non era poi così piccola come gli era parsa al primo rivederla.

— Dormirò bene in campagna, — pensava. — Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: — dun! dun! alla porta di Isidoro. — Chi è? — Io. — Chi, tu? — Ebbene, Costantino Ledda! — Che viso, quell'Isidoro! Chissà, egli canterà il rosario a quest'ora. Ed anche quelle laudi!... Sì, oh, guarda! Io ho fatto delle laudi. Che cosa curiosa!

Si meravigliava di certe cose passate, come i giovani si meravigliano di certe cose fatte o vedute da bambini. Ma Costantino si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio si meravigliava che fosse primavera, che la valle apparsagli così piccola fosse invece interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.

Camminava fra due campi di frumento, sul quale la luce gettava un velo d'oro e la brezza passava carezzandolo come una grande mano invisibile; e pensava:

— Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerta la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas; sai, è stato lui! — Ma io lo so già, diavolo, non hai altro da dirmi? — Ecco, tua moglie ha preso un altro marito. — Eh, lo so già, anche, questo. — Come, tu non piangi? — Perchè devo piangere? Ho già tanto pianto che ora non ne ho più voglia. O chi credi che io sia? Ora ho bene dell'esperienza: ho viaggiato, ho visto il mare, non sono più un ragazzo. Non m'importa più nulla.

Ma ecco, improvvisamente, mentre egli vantava la sua forza d'animo, o meglio il suo istintivo scetticismo, si sentì il cuore stretto da una mano fredda.

— Ah, ritornare là, nella piccola casetta; trovare Giovanna, il bambino, il passato!

— Non c'è più nulla, — disse a voce alta. — È passato il vento ed ha portato via tutto. Tutto... Tutto... Tutto... — Sul confine del campo di frumento si sedette soffocato dal dolore. Ecco cosa era. Il grande dolore era andato via, sì, da tempo, ma pareva si fosse nascosto sotto terra e camminasse là dentro, seguendo Costantino. Per lungo tempo egli non vedeva il mostro nascosto, ma v'erano poi certi momenti nei quali il mostro balzava su, squarciando il suolo col suo capo potente, e divertivasi a slanciarsi sulla vittima, azzannandogli la gola, spremendogli il cuore, soffocandolo. Poi tornava a nascondersi. Seduto sul confine del campo di frumento, Costantino trasse dalla sua piccola bisaccia una zucca secca piena di vino, e bevette arrovesciando il capo. La rimise e guardò il campo. Pareva d'essere sulla riva d'un lago, sul cui smeraldo dorato galleggiassero le macchie di sangue dei papaveri.

Poco dopo il reduce riprese il suo viaggio, e sembrava rasserenato, ma non camminava più con l'ardore di prima. Arrivare quel giorno, arrivare l'indomani valeva lo stesso, tanto non aveva nessuno che l'attendesse. E va, e va, le prime ombre della sera lo avvolsero mentre finiva di percorrere il fondo della valle. I grilli pareva segassero l'erba con piccole seghe di argento, i profumi dei fiori e dei cespugli gravavano tiepidi nell'aria; la brezza s'era spenta, gli uccelli tacevano, e solo i triangoli neri dei pipistrelli solcavano la cenere luminosa del crepuscolo.

Oh, la divina tristezza delle sere di primavera, che rattrista anche le anime felici! Non è forse essa la nostalgia atavica del paradiso terrestre, dei fiori e delle erbe e del tepore fragrante d'un'eterna primavera, per cui l'uomo fu creato e che egli ha perduta in eterno?

Costantino camminava e camminava; dopo lunghi anni di brutale oppressione, passati tra mura infette, fra uomini corrotti, in un cerchio ove l'aria stessa era imprigionata, egli attraversava lo spazio libero, calpestava l'erba, le pietre, ed a misura che saliva le montagne sorgenti dalla valle vedeva spalancarglisi più e più l'orizzonte, ed il cielo incurvarsi infinito e dolce come la libertà stessa; eppure giammai, nel carcere, aveva provato il senso profondo di tristezza che lo invadeva col cader delle ombre da quel libero cielo. Egli andava, ma perchè andava? dove andava? Era stato allegro al principio del viaggio, gli era parso di andare verso qualche posto ove avrebbe trovato delle cose liete. Ora si meravigliava di tutto ciò. Gli pareva, nell'incertezza del crepuscolo che velava le lontananze, che il suo viaggio fosse inutile, vano. Egli camminava invano: non aveva più patria, nè casa, nè famiglia; egli non sarebbe arrivato mai, mai a nessun posto. E gli sembrava di essere smarrito in un deserto infinito e cinereo come il cielo disteso sul suo capo, e dove le stelle che si accendevano sembravano fuochi di viandanti solitari, ignoti gli uni agli altri, smarriti come lui nella vana libertà del deserto.

Con tutto ciò egli non si rattristava pensando direttamente a Giovanna, alla felicità perduta per sempre, alle disgrazie che un ingiusto destino gli aveva mandato; queste tristezze gli avevano già tanto macerato l'anima ed il corpo che formavano il fondo stesso del suo essere, tanto che gli pareva di averle dimenticate, come si dimentica la veste che si ha addosso; ma ora lo rattristavano certi ricordi lontani, di cose materiali che aveva lasciato e che non ritroverebbe più.

Ricordava con intensità lo spiazzo davanti la casa di Giovanna, le pietre del muricciuolo dove si sedevano assieme nelle sere d'estate, e sopratutto ricordava il letto alto ed ampio dove riposava, vicino a lei, dopo la giornata faticosa. Ecco, gli sembrava di ritornare, stanco, dopo una di quelle lontane giornate. Ma ora non aveva più dove andare a riposarsi.

Sì, con tutta la tristezza struggente e indefinibile come le fragranze selvaggie delle brughiere che attraversava, si sentiva stanco ed aveva fame.

Giunto sull'alto d'una china sedette e aprì la bisaccia.

La notte era completamente scesa, ma chiara e diafana; sull'oriente, fra i monti che nascondevano il mare, dilagava l'alba lucida della luna; la via lattea varcava il cielo a guisa di una immensa strada bianca e deserta, l'occidente conservava un chiarore incerto di mare lontano.

Un albore magico circondava le montagne; si distingueva il sentiero, le macchie apparivano compatte e rotondeggianti come greggie nere; e nel silenzio immenso vibrava solo il singulto prolungato del cuculo.

Costantino mangiò e bevette; poi si arrovesciò sul ciglione e per un momento smarrì lo sguardo nella solitudine profonda di quella grande strada chiara che solcava il cielo. Poi chiuse gli occhi, provando il benessere del cibo, del vino e del riposo, e si sentì allegro come al principio del viaggio.

Ed ecco, appena chiusi gli occhi, rivide i suoi compagni di pena, e provò la sensazione fisica di trovarsi ancora a lavorare le scarpe. E sentì una gioia infantile pensando alle cose che aveva da raccontare ai suoi amici d'Orlei. Bisognava alzarsi, riprendere il viaggio, arrivar presto.

— Ora mi alzo e vado, — pensò, ma tosto rispose a sè stesso come un bambino imbizzarrito: — no, niente, rimango qui, dormo qui; ho sonno. No, bisogna andare, — riprese con pensiero vago, — Isidoro Pane m'aspetta. Gli dirò: eh, quanta gente ho conosciuto! Ho veduto il mare, ho un amico che si chiama il maresciallo Burrai, che mi farà dare un posto di calzolaio nella casa del re. Ecco, ora mi alzo e vado... vado... vado...

Ma non si mosse. Visioni confuse passarono davanti alla sua mente. Il re di picche cavalcava un asino e attraversava quella grande strada deserta tracciata sul cielo. Ad un tratto gittò uno, due, tre gridi, chiamando Costantino, che aperse un occhio velato, lo richiuse, lo tornò ad aprire.

— Stupido, è il cuculo, — pensò il viandante, — vado, sì... vado, vado...

E si addormentò.

Quando si svegliò, la luna già alta guardava sulle montagne, prona come un volto luminoso sul cielo di velluto argenteo. Con la sua luce azzurrognola calava la rugiada. Ombre immense come grandiosi veli neri coprivano certi fianchi delle montagne; ma ogni rupe, ogni macchia, ogni fiore, si disegnava nettamente sul terreno ove la luna batteva. Il cuculo ripeteva sempre i suoi gridi sottili e metallici come lame d'acciaio.

Costantino rabbrividì, si sentì umido di rugiada, s'alzò e sbadigliò: l'ahaa — prolungata del suo sbadiglio risuonò nel grande silenzio.

Il viandante guardò il cielo per indovinar l'ora; la stella, cioè Diana, non mostrava ancora al disopra del mare il suo grande smeraldo dorato. L'alba quindi era lontana e Costantino si rimise in viaggio, con la speranza di arrivare al paese prima che la gente si svegliasse.

Non voleva esporsi alla pubblica curiosità e temeva, sopratutto, di esser veduto da Giovanna o da sua madre. Egli contava di evitarle, non voleva vederle, non voleva passare davanti alla loro casa. A che serviva ciò? tutto era passato.

Si rimise dunque in viaggio. Saliva, scendeva, si arrampicava sui poggi illuminati dalla luna. Le macchie di cisto, l'asfodelo bagnato di rugiada, le roccie stesse, emanavano un odore umido e irritante; qualche filo d'acqua scendeva silenziosamente fra i puleggi fioriti.

Nei vasti orizzonti il cielo svaporava azzurro sopra montagne azzurre evanescenti, e tutte le lontananze si dissolvevano in una vaporosità cerulea di sogno. E l'uomo camminava, camminava. Sentiva la mente un po' assonnata, ma le membra agili e fresche. Ogni tanto faceva dei salti, passava per iscorciatoie ripide, e si fermava in alto, anelante, col cuore che gli batteva forte. La luna metteva scintille d'argento entro i suoi occhi limpidi.

Più procedeva, più riconosceva i luoghi; sentiva nell'aria la fragranza selvaggia della terra natia, riconosceva i salti melanconici seminati d'orzo e di frumento ancora verde, le brughiere di lentischio, i radi alberi selvatici mormoranti a qualche soffio di vento come vecchi dormenti che parlano in sogno; e più in là le grandi sfingi, azzurre alla luna, e più in là ancora la lama del mare, di quel mare che egli sentivasi superbo aver varcato, non importa come.

Giunto presso la chiesa di San Francesco sostò ancora, si scoprì il capo e pregò: e la sua preghiera fu sincera, perchè egli, in quel momento, sentiva tutta la gioia del ritorno, come non l'aveva ancora sentita.

Cominciava appena ad albeggiare quando Isidoro sentì picchiare alla sua porticina.

Da quindici, — da venti giorni, — da quattro mesi, — egli aspettava quel dun dun scricchiolante alla sua porticina: e balzò in piedi, ancor prima che il vecchio cuore cominciasse a balzargli in petto.

Andò ed aprì. Vide, o intravide, un individuo alto, che non indossava il costume del paese, ma vestiva un abito di fustagno duro come cuoio, ed aveva un viso lungo e pallido. Sulle prime non lo riconobbe.

Costantino si mise a ridere, un riso stridente che fece male al pescatore. Allora costui riconobbe il suo giovane amico, ma sentì un senso di freddo. Sì, quello era Costantino, ma non era più il Costantino d'una volta. Tuttavia lo abbracciò, senza baciarlo, e sentì il cuore fonderglisi in lagrime.

— Ecco, voi non mi riconoscevate! — disse Costantino, liberandosi della sua bisaccia. — Io lo sapevo.

Anche la sua voce ed il suo accento erano cambiati. Dopo il freddo, dopo la pietà, zio Isidoro provò un senso di soggezione.

— Perchè sei vestito così? Tu potevi attendere a Nuoro: io ti avrei portato il costume. Ed anche il cavallo. Sei tornato a piedi?

— No. San Francesco mi ha prestato il suo cavallo. Ecco, cosa fate, zio Isidoro? Io il caffè non lo voglio. Avete dell'acquavite?

Il pescatore, che si era messo a scoprire il fuoco, si rialzò turbato, confuso di non poter offrire altro che un po' di caffè.

— Io non sapevo... — disse, aprendo le mani, — ma aspetta, vado subito... Ecco, ti aspettavo e non ti aspettavo... — e s'avviò per uscire.

— Dove? Dove? — esclamò l'altro, rattenendolo. — Non voglio niente. L'ho detto per ischerzo. Sedetevi qui.

Isidoro sedette, cominciò a guardare timidamente Costantino, poi a poco a poco si fece coraggio e gli palpò i pantaloni, vicino al ginocchio, chiedendogli se rimaneva vestito così.

Dalla porta spalancata penetrava la luce dell'alba, ed il viso di Costantino appariva grigio e disfatto.

— Io rimarrò vestito così, sì, — disse, e rise ancora di quel cattivo riso. — Tanto dovrò andarmene fra poco.

— Tu dovrai andartene? Oh, e dove?

— Io ho conosciuto tanta gente, — cominciò Costantino, come recitando una lezione. — Eh, c'è della gente che mi aiuterà. Cosa volete che faccia qui?

— Ebbene, tu farai il calzolaio. Non mi hai scritto che volevi far ciò?

— Io conosco un maresciallo chiamato Burrai (per Costantino il re di picche era sempre un maresciallo). Egli ora vive a Roma e mi ha scritto. Egli mi farà dare un posto da calzolaio nella casa del re.

Zio Isidoro lo guardò con occhi pietosi. Ah, il disgraziato era un altro, era un altro!

— Perchè parla così, perchè dice sciocchezze, mentre abbiamo tante cose sanguinanti di cui parlare? — si domandò zio Isidoro.

Ma gli parve che Costantino fingesse, che si avvolgesse in un velo di falsa indifferenza. Ma perchè? Se non si apriva con lui, con chi si sarebbe aperto?

— Ecco, parliamo d'altro ora; parleremo poi di ciò, — disse. — Ma davvero, perchè non vuoi un po' di caffè? Ti farà bene.

— Di che volete parlare, dunque? — rispose l'altro con la sua voce monotona. — Io lo sapevo, che vi sareste meravigliato se non piangevo. Ho pianto tanto che non ne ho più voglia. Eppoi me ne andrò: non è possibile restar qui, dopo aver varcato il mare. Ebbene, datemi pure un po' di caffè. Ma chi è che passa? — disse poi, animandosi nell'udire un passo nella spianata. — Non voglio che mi vedano! — S'alzò e socchiuse la porta.

Quando si volse aveva il viso mutato, ed un tremito gli agitava il mento. Disse con voce sottile, sempre più sottile:

— Sono passato di là, venendo qui. Non volevo passarci, ma mi sono trovato là senza accorgermi. Come, come posso rimaner qui?... ditelo... voi!

E si strinse le tempia con una mano, scuotendo disperatamente il capo. Poi si gittò per terra e si contorse e pianse con urli soffocati d'una violenza indescrivibile, come un toro preso al laccio e marcato col ferro rovente.

Il pescatore impallidì alquanto; ma non disse parola per calmare quell'uragano di dolore. Ah, finalmente riconosceva il suo Costantino!

XVI.

Appena si sparse la voce del ritorno di Costantino, la catapecchia del pescatore si riempì di gente, e tutto il giorno fu un andirivieni di amici, di parenti, di persone che prima non avevano mai scambiato parola col poveretto, ed ora venivano, lo abbracciavano, gli offrivano la loro casa. Le donne piangevano, lo chiamavano «figlio mio», lo guardavano con occhi pietosi. Una vicina mandò pane e salsiccie.

Ebbene, tutte queste dimostrazioni di stima e di pietà stizzivano il giovane. Diceva ad Isidoro:

— Perchè hanno compassione di me? Cacciateli via: andiamo in campagna.

— Andremo, andremo, figlio di Dio, abbi pazienza, — rispondeva l'altro, curvo sul focolare a cuocer le salsiccie. — Ah, come sei diventato cattivo! Possibile?

Ecco, dopo lo scoppio di dolore avvenuto all'alba, zio Isidoro non aveva più soggezione di Costantino, anzi cominciava a prendersi delle libertà, sgridandolo come un bambino. Nei pochi momenti in cui restavano soli, cominciava e ricominciava a narrare i fatti: Costantino ascoltava avidamente, e si seccava quando la gente veniva ad interrompere il racconto.

Venne anche il sindaco, che era ancora quel pastore dal viso di Napoleone I. Questa visita, veramente, commosse Costantino.

— Noi ti daremo pecore e vacche, gli disse il sindaco, dopo essersi soffiato il naso con le dita. — Sì. Ogni pastore ti darà un pecus[12]. Se hai bisogno di qualche cosa dillo subito. Nel mondo siamo tutti fratelli, ma specialmente lo siamo nei piccoli paesi.

Costantino pensò a ciò che i fratelli del suo piccolo paese gli avevano fatto, e scosse il capo.

— Ah, — disse — i fratelli fecero a me ciò che Caino fece ad Abele. Non bastano vacche e pecore per ridonarmi vita e compensarmi!

— Ebbene, questo non importa, — riprese il sindaco, fisso nella sua idea. — Tu che hai viaggiato, dimmi, hai visto da un'alta montagna i paesi sparsi nelle sottostanti campagne? Ebbene, non sembra di vedere tante case, in ognuna delle quali vive una famiglia?

Costantino cominciò a seccarsi per i discorsi del sindaco, e rispose che voleva lasciare il paese, andarsene via, lontano, non tornare mai più.

— Tu non andrai via. No, non andare, — gli consigliò l'altro. — Dove vuoi andare? Devi restare qui, dove tutti siamo fratelli.

Poi venne il dottor Puddu, con un grande ombrello grigio-sporco, e andò a guardare cosa c'era dentro la pentola.

— Voi siete tanti delinquenti perchè mangiate delle porcherie, — cominciò a gridare con la sua voce rauca, picchiando con l'ombrello sulla pentola.

— Non la rompa! — disse Isidoro, — e scusi tanto che quella non è porcheria. Son fave e lardo e salsiccie.

— E il lardo non viene dal porco? Siete tutti porci, qui.... Tu dunque sei tornato, buona lana? — si rivolse a Costantino. — Io ho visto morire colui. — Chi? chi? — Giacobbe Dejas! Egli è morto di mala morte, come meritava. Tu ti prenderai una purga, domani. Dopo un viaggio è assolutamente necessaria.

Costantino lo guardava e taceva.

— Tu mi credi pazzo! — gli gridò il medico, andandogli addosso e minacciandolo con l'ombrello. — Una purga, capisci, una purga!...

— Ho sentito, — disse Costantino.

— Oh, meno male! Ho sentito anche io, che tu vuoi andar via. Viaaa! Va magari a casa del diavolo, ma va via. Prima, però, va al camposanto, a quel letamaio che voi chiamate cam-po-santo! E scava, scava come un cane, e roditi le ossa di Giacobbe Dejas.

Digrignò i denti, come rosicchiando delle ossa: era ridicolo e orribile, e Costantino tornò a guardarlo con stupore.

— Perchè mi guardi così? Tu sei stato sempre un cretino, caro mio, piccola bestia. Eccolo lì, tranquillo e pacifico come un papa! Ti hanno tolto tutto, ti hanno tradito, ammazzato, ti hanno percosso vilmente, come se percuotessero un cadavere, e tu stai lì istupidito e rimbambito. Ma perchè non ti muovi? Perchè non vai da quella mala femmina e da sua madre e da sua suocera, e le prendi per i capelli, e le attacchi alle code delle vacche che ti vogliono dare per elemosina, e metti fuoco alle loro sottane, e poi slanci le vacche per il paese, in modo che si incendi tutto? Tutto, capisci? Capisci, animale?

Gli urlava sul viso, emanando dalla bocca un pestilenziale odore d'assenzio, cogli occhi iniettati di sangue. Costantino indietreggiava, e le parole di colui lo facevano tremare.

Ma subito l'orribile uomo si allontanò, andò via, e volgendosi sulla porta agitò l'ombrello.

— Mi fai venire il desiderio di rompertelo sul muso, — disse. — Gli uomini come te meritano ciò che fu fatto a te. Ebbene, prenditi almeno la purga, stupidone.

— Quello lo farò! — esclamò Costantino. E rise; ma le parole del «dottore» gli lasciarono una profonda impressione. Ah, sì, in certi momenti sentiva impeti ardenti di disperazione; egli diceva di voler andar via, ma non sapeva precisamente ove sarebbe andato, e non sapeva che avrebbe fatto se rimaneva in paese. Pensava:

— Io non ho casa, io non ho nessuno. Oggi vengono a salutarmi, per curiosare, ma domani nessuno più si ricorderà di me. Io sono come un uccello senza nido. Che farò io?

Le parole del «dottore» gli rombavano nella mente. Andare, andar là, piombare come la folgore, distruggere quelli che avevano dissipato la sua vita.

— ... No, Costantino, essa non è felice, — ricominciò Isidoro, quando si misero a mangiare le salsiccie ed il pane bianco che la vicina aveva mandato in regalo. — Essa non è felice. Io non l'ho guardata più in faccia; e quando la vedo provo una cosa strana, come quando si vede la tentazione[13]. Eppure, vedi, io ho compassione di lei. Essa ha una figliuola che, mi dicono, rassomiglia ad una fava fresca, tanto è sottile e verde. Come possono esser belli i figli del peccato mortale? E la bambina è stata battezzata come una bastarda: il prete non l'accompagnò a casa, la gente sogghignava per la strada.

— Ah, ricordate il mio bambino? — chiese Costantino tagliando il lardo giallognolo e grasso. — Egli, no, non sembrava una fava. Ah, se egli fosse vissuto!

— È meglio che egli sia morto, — cominciò a filosofare il pescatore. — La vita è piena di miserie. Meglio morire innocenti, andare, volare lassù, al di là del cielo azzurro, nel paradiso disteso al disopra delle nuvole, al di sopra del vento, al disopra di tutte le disgrazie umane. Bevi, Costantino, — disse poi; questo vino non è buono, ma non è ancora aceto. Ecco, mi ricordo, l'anno scorso, il giorno dell'Assunzione, Giacobbe Dejas mi invitò a pranzo da lui. Egli aveva paura di me; credeva che io sapessi... e voleva darmi sua sorella in isposa! Se tu vedessi quella donna non rideresti più. Essa venne con me e col prete dal giudice, a Nuoro. Così il Signore mi assista nell'ora della morte, se io vidi mai una donna più coraggiosa: ella parve sollevarsi da terra. Poi ella s'è curvata, s'è raggrinzita, sai, come quei frutti che si disseccano sulla pianta prima di maturare. Io vado sempre a trovarla; per divertirla le dico: ebbene, vogliamo sposarci, granellino d'orzo? — Ella sorride, io sorrido; ma abbiamo voglia di piangere. Chi poteva mai pensarlo? Ecco dunque, volevo dire: Giacobbe sembrava felice e contento; arricchiva, pensava di prender moglie. Ed ecco ad un tratto — pum! egli cade a terra come una pera fracida. E così è la vita. Bachisia Era mercanteggiò sua figlia, credendo di cambiare stato, ed ora muore di fame peggio di prima: Giovanna Era fece quel che fece, credendo di raggiungere il cielo in terra, ed invece si trova come una rana infilzata viva in una pertica.

— Ma la bastona, colui? — domandò Costantino, cupo.

— Egli non la bastona, ma vi sono maltrattamenti peggiori delle bastonate. L'hanno presa per una serva, sai; per una schiava, anzi. Sai come gli antichi trattavano gli schiavi? Così ella vien trattata in quella casa.

— Ebbene, che crepi! Beviamo alla sua dannazione! — disse Costantino alzando il bicchiere.

Nell'udire che Giovanna era infelice, egli provava la gioia crudele, fatta di spasimo quasi fisico, che provano i bambini nel veder bastonato un loro compagno malvoluto.

Dopo pranzo i due uomini uscirono fuori e si coricarono all'ombra del fico selvatico. Il meriggio era caldo; l'aria immobile odorava di papaveri, l'orizzonte svaporava cenerognolo come nei meriggi estivi, e le api ronzavano suonando le loro piccole trombe monotone. Costantino, stanco, disfatto, s'addormentò subito; ma il pescatore non potè chiudere occhio. Una cavalletta verde saltava sull'erba e sui papaveri con un aspro tic-tic; ed Isidoro allungò il braccio e cominciò a darle la caccia, mentre pensava:

— Io so perchè egli vuole andarsene. Egli le vuole ancora bene, povero fanciullo: s'egli resta qui soffrirà come San Lorenzo sulla graticola. Eccolo lì, povera creatura. Sembra un fanciullo malato. Ah, cosa hanno fatto di lui! Lo hanno sbranato. Ecco che ti ho presa!

Ed una cosa curiosa avvenne in lui: mentre stava per sbranare la cavalletta, pensò che essa avrebbe sofferto come soffriva Costantino. E la lasciò andare.

Un'ombra apparve in fondo al sentiero; zio Isidoro riconobbe prete Elias, balzò in piedi, gli andò incontro, e lo attirò entro la catapecchia, non volendo svegliare Costantino; ma costui aveva il sonno leggiero, si svegliò, udì parlare, si alzò, e nell'avvicinarsi alla porta sentì che discorrevano di lui:

— È meglio che se ne vada — diceva il prete con voce grave. — È meglio. È meglio.

Costantino, non seppe perchè, si turbò nell'udire quelle parole.

Ma egli non se ne andò.

I giorni scorsero, la gente fini di molestare il reduce che cominciò a girare per il paese senza esser più oggetto di curiosità alle donnicciuole ed ai ragazzi. Coi denari guadagnati nella reclusione egli si provvide di cuoio, suola e spago, ma non si metteva mai a lavorare. Ogni giorno comprava carne, frutta e vino, mangiava e beveva molto, e pretendeva che Isidoro lo imitasse. Gli pesava l'ospitalità del pescatore, aveva paura che nel paese si credesse ch'egli vivesse di scrocco, e teneva a mostrarsi generoso con Isidoro e con tutti. Conduceva nella bettola frotte di conoscenti, li ubbriacava, si ubbriacava anch'egli, ed allora cominciava a raccontare la sua vita al reclusorio, e ingrandiva le cose in modo straordinario.

Così i suoi soldini se ne andavano, e quando Isidoro lo sgridava, egli diceva:

— Ebbene, io non ho figli, io non ho nessuno a cui pensare. Lasciatemi in pace.

D'altronde contava sull'eredità dello zio assassinato, eredità che i parenti promettevano di restituirgli senza ricorrere alla giustizia.

— Allora, — diceva, — venderò tutto, e me ne andrò. A voi darò cento scudi, zio Isidoro.

Ma il povero uomo non voleva niente. Voleva soltanto che Costantino ritornasse quello che era prima della disgrazia, buono, laborioso, non finto.

Perchè il vecchio sentiva che il disgraziato fingeva, e ne provava un dolore profondo: spesso però lo sorprendeva con le lacrime agli occhi ed allora il suo vecchio cuore sussultava di gioia.

— Che hai, figlio di Dio? — gli chiedeva. Ma Costantino si metteva a ridere mentre le lagrime gli solcavano le guancie. Ciò era orribile.

Qualche volta andavano assieme alla pesca delle sanguisughe, e mentre Isidoro stava con le gambe ignude immerse nell'acqua giallognola e morta, in un punto ove il ruscello stagnava, Costantino, sdraiato sui giunchi, raccontava storielle sulla vita dei compagni di pena, e guardava l'orizzonte con strana nostalgia.

Andarsene! Andarsene! Egli avrebbe voluto andarsene, perchè lassù, sotto quel cielo fatale, nella morta solitudine dell'altipiano, vigilata dalle sfingi immani delle montagne, si sentiva come stretto da un cerchio di ferro rovente. Tutte le cose, dai fili dell'erba crescente sulle straduccie, ai picchi delle montagne, gli ricordavano il passato. Ogni notte egli si aggirava cauto come una volpe intorno alla casa di Giovanna. Una sera vide la figura alta della giovine donna uscire dal portico e andare verso la loro casetta. Era la prima volta che rivedeva Giovanna, e la riconobbe tosto, nonostante l'oscurità umida della sera un po' annuvolata: il cuore gli battè violentemente, ed ogni pulsazione era un dolore diverso, un ricordo, un impeto disperato. Egli fu per precipitarsi addosso alla donna, abbracciarla, ucciderla. Poi non gli bastò vederla così, di nascosto, all'ombra: fu invasato dal desiderio di vederla e di farsi vedere alla luce del sole; ma ella non usciva mai, ed egli di giorno aveva paura di passare davanti alla casa bianca.

Un'altra sera, un sabato, udì il riso di Brontu risuonare nel portico, e gli parve udire anche il riso di lei. Gli occhi gli si offuscarono, e provò un'impressione simile a quella sofferta nella traversata da Cagliari a Napoli, quando s'era svegliato col mal di mare.

Intanto fingeva, non sapeva perchè; e tutti gli abitanti di Orlei gli sembravano odiosi. Tutti, anche zio Isidoro Pane.

Qualche volta si domandava meravigliato:

— Perchè sono tornato qui?

— Io me ne andrò, — diceva al pescatore, nella quiete infinita dell'altipiano, chiusa dagli sfondi dell'orizzonte d'un azzurro-carnicino, sui quali i selvaggi boschi di corbezzoli sorgevano come una nuvola verde. — Io ho scritto al mio amico Burrai. Egli può tutto, sapete: se anche fossi stato colpevole, egli mi avrebbe fatto graziare dal re.

— Questo me lo hai già detto, — rispose un giorno Isidoro, mentre stava con le vecchie gambe scarne e pelose entro l'acqua giallastra. — Ora sono seccato di sentirtelo ripetere; ma intanto colui non ti risponde.

— Egli cercherà il posto per me. Sì, me ne andrò. Ma ditemi la verità, perchè il prete vuole che me ne vada? Ha paura che io ammazzi Brontu Dejas?

— Sì, per ciò appunto.

— No, non è per questo. Io gli dissi: prete Elias, lei capisce che se avessi voluto ammazzare qualcuno l'avrei fatto subito. Ed egli ripete sempre: Vattene, vattene, è meglio. — Che cosa dite voi, zio pescatore: devo andarmene o no?

— Io non so niente, — disse l'altro con rimprovero. — Ciò che so è che tu sembri un cane accidioso. Perchè non lavori, dimmi, perchè pensi a questo tuo Burrai, cattiva lana, il quale, d'altronde, non pensa a te?

— Ah, egli non pensa a me? — disse Costantino offeso. — Ecco che io vi farò vedere se egli pensa o no a me. Ecco qui!

Si alzò, trasse una lettera dalla tasca interna della giacca, e cominciò a decifrarla; era del Burrai, il quale scriveva da Roma, dove aveva impiantato un piccolo spaccio di vini sardi. Naturalmente il re di picche ingrandiva le cose, diceva di essere proprietario d'un gran deposito di vini; offriva ospitalità a Costantino, rimproverandogli di non essersi fatto trasferire a Roma, e gli assicurava del lavoro. Gli occhi azzurri del pescatore s'aprirono, infantilmente meravigliati.

— Oh guarda, oh guarda! — cominciò a dire. — Perchè non lo dicevi prima? Perchè nascondevi la lettera? Quanto occorre per andare a Roma?

— Cinquanta lire, ecco tutto.

— E tu le hai?

— Io le ho, sicuro.

— Ah! allora va, va pure! — esclamò il vecchio, stendendo la mano verso l'orizzonte.

Tacquero un momento. Il pescatore curvò il viso verso l'acqua, fissando in fondo al ruscello i ciottoli bianchi come uova, e Costantino guardò con indifferenza avanti a sè. Al di là del ruscello la brezza curvava le alte erbe dorate della pianura; i lunghi steli d'avena tremavano sullo sfondo azzurro come in un velo d'acqua. Zio Isidoro credette giunto il momento di spiegare a Costantino perchè molti volevano che egli lasciasse il paese.

— Giovanna non ama il marito: tu e lei potreste rivedervi...

— E se ci rivediamo?

— Niente!... Potreste, ecco tutto...

— Ecco niente! — gridò Costantino, e la sua voce risuonò forte nel silenzio della riva. — Io disprezzo quella donna immonda. Io non la voglio...

— Tu non la vuoi! Ed intanto ti aggiri intorno alla sua casa come la mosca intorno al miele.

— Ah, voi sapete ciò, — disse Costantino colpito. — Non è vero... ebbene, sì, è vero. Io mi aggiro intorno alla sua casa. Che cosa vi importa?

— Niente. Tu devi andartene.

— Io me ne andrò. Vi sono di peso?

— Costantino! Costantino! — disse il vecchio con voce accorata.

Costantino strappò un ciuffo di giunchi, lo buttò via, tornò a guardare in lontananza. Il suo viso si mutava, come quel giorno del ritorno, dopo che egli aveva chiuso la porta di zio Isidoro; la fossetta del suo mento tremava. Inghiottì parecchie volte la saliva amara che gli riempiva la bocca, poi parlò:

— Ebbene, perchè anche il prete vuole che me ne vada? Non sono io il vero marito di Giovanna? Se ella tornasse con me, non sono io il suo vero marito?

— Se ella tornasse con te, caro mio, Brontu Dejas vi potrebbe ammazzare o mettere in carcere.

— Non abbiate paura; io non la voglio. Ella è per me una donna perduta. Io me ne andrò lontano, io sposerò un'altra donna...

— Tu non farai questo; tu sei un buon cristiano, — mormorò il vecchio con voce carezzevole.

— Io non farò questo... — ripetè Costantino, come suggestionato da quella voce carezzevole.

— Tu non farai questo... tu non lo farai... tu sei un buon cristiano... — ripetè il vecchio, e la sua voce diventò triste, perchè l'antica esperienza mormorava entro la mente dell'umile savio:

— Se egli non lo farà non è soltanto perchè egli sia un buon cristiano...

XVII.

La sera di luglio calava tranquilla come un gran velo azzurro. Costantino stava seduto sulla panca di pietra addossata alla casa del pescatore, e contava sulle dita, pensieroso.

Sì, da sessantaquattro giorni egli era ritornato. Da sessantaquattro giorni. Pareva ieri; pareva un secolo. L'abito di fustagno di Costantino s'era logorato, il viso di lui s'era fatto scuro; ed anche il suo cuore, ecco, anche il suo cuore, di giorno in giorno, d'ora in ora, logoravasi corroso dal dolore, dal rancore, dalla passione, e facevasi scuro come una cosa vicina a corrompersi.

Dalla reclusione egli aveva portato con sè l'abitudine di fingere; non sapeva perchè, ma non riusciva a confidarsi con nessuno, mentre ne sentiva il bisogno; e la finzione che lo stringeva acerbamente accresceva il suo dolore. Un vuoto infinito e gelido lo circondava, come un mare calmo ma senza rive circonda un naufrago. Da due mesi egli nuotava in questo mare; ed ora era stanco, stremato di forze: la sua anima, per quanto guardasse intorno, nelle desolate lontananze, non scorgeva riva, non vedeva la fine della sua inutile lotta: e l'acqua fredda e il gorgo del vuoto lo inghiottivano lentamente.

Ogni giorno parlava di andarsene e non se ne andava mai. Era una finzione come tutte le altre; egli sentiva che non se ne sarebbe andato mai. Perchè andarsene? Al di là o al di qua del mare per lui la vita era la stessa cosa. Non amava nessuno, non odiava nessuno: gli pareva di esser diventato vile come lo erano coloro che aveva lasciato nel luogo di pena. Zio Isidoro, verso il quale aveva da lontano conservato un vivo affetto, ora da vicino, nella comunanza della vita quotidiana, gli riusciva indifferente e qualche volta molesto. Quando il vecchio stava lontano, occupato nelle sue pesche e nei suoi viaggi (perchè doveva viaggiare per spacciare i prodotti delle sue piccole industrie), Costantino si sentiva come liberato da un peso; la vigilanza paterna del vecchio lo irritava e lo intimoriva.

Quella sera il pescatore non stava in paese, e Costantino provava appunto quel senso di liberazione. Oh, ecco che poteva fare quello che gli pareva e piaceva, senza udir prediche da nessuno, senza provare quell'istinto di timore e di irritazione, forse rimastogli impresso dalla vita del reclusorio, e che la presenza del vecchio bastava a ridestargli.

Aspettava una donna. Gli sembrava di disprezzare le donne, e realmente provava disgusto a star loro vicino; ma aveva stretto relazione con una ragazza un po' scema, che abitava poco discosto dalla casa di Giovanna, e che una notte, avendolo sorpreso vicino al portico dei Dejas, l'aveva attirato a casa sua.

Ella gli raccontava tutti i pettegolezzi di casa Dejas, ed egli andava da lei ogni volta che qualcuno lo scorgeva passare vicino alla spianata; oppure l'aspettava in casa di Isidoro, quando il vecchio stava assente; ma la disprezzava profondamente e le teneva dei discorsi strani.

Anche quella sera, quando ella venne, egli non si mosse dalla panca di pietra, e pretendeva che ella gli si sedesse vicino, al fresco.

— Dentro c'è caldo, ci son pulci, ragni, diavoli. Rimani qui, al fresco, — le disse, senza guardarla.

— Ma ci vedono! — ella rispose, con voce bassa e grossa.

— Ebbene, e se ci vedono? A me importa niente; ed a te che deve importare?

— M'importa assai, invece!

Egli alzò la voce.

— Che t'importa degli uomini, se essi ti vedono? Essi sono tutti peccatori. E Dio ci vede tanto dentro che fuori.

— Andiamo, tu hai bevuto! — ella disse senza alterarsi: ed entrò nella casetta. Accese il lume, guardò nel ripostiglio dei viveri, e siccome Costantino non entrava, si affacciò alla porta e disse:

— Se non vieni me ne vado. Bada ho da dirti una cosa.

Egli s'alzò di scatto, entrò e l'abbracciò: ella cominciò a ridere pazzamente, dicendo:

— Ah! Ah! Ecco che sei venuto... ah! Ti ho fatto venire subito, agnello scorticato! Ah! eh!... eh!...

Era alta, grossa, con una testa piccina piccina, un viso minuto, d'un bruno acceso, e la bocca rossa e gli occhi glauchi; non brutta eppure ripugnante. Non beveva mai, ma sembrava sempre ubriaca ed aveva la fissazione che tutti lo fossero. Continuò a ridere, e tornò a guardare nel ripostiglio.

— Non c'è niente, disse, proprio niente. Io ho fame, sai?

— Se aspetti un momento, vado a prendere qualche cosa. Ma prima bisogna che tu mi dica...

Ella gli si rivolse contro, e cominciò a spingerlo mettendogli una mano sul petto, e con l'altra dandogli dei pugni tutt'altro che scherzosi.

— Ah, tu vuoi sapere... oh, coccodrillo, tu vuoi sapere?... Perciò sei entrato subito? Va, ritorna al fresco, agnello magro! Tu vuoi sapere? Tu credi si tratti di Giovanna Era, eh? e sei entrato per ciò, non sei entrato per me!...

— Lasciami, — egli disse, prendendole la mano. — Tu picchi forte, che il diavolo ti picchi. Sì, sono entrato per ciò. Ebbene?

— Ed io non ti dico nulla, ecco!

— Mattea, non farmi adirare! — egli disse, con voce dolce. — Tu non sei cattiva. Ora vado... vado e compro quello che tu vuoi: cosa vuoi che compri? Che cosa?

Egli sembrava un bambino che si finge buono per ottenere ciò che desidera. Ed in quel momento desiderava acremente qualche cosa di acerbo, di crudele: desiderava la notizia che Brontu avesse bastonato Giovanna, o che ella si fosse fatto un male qualunque, o che una gravissima disgrazia fosse accaduta in casa Dejas. Rimase quindi poco contento quando Mattea gli disse, socchiudendo un occhio:

— Hanno loro rubato del bestiame; appena seppe la disgrazia, la vecchia è partita come una pazza per accertarsi del danno. Passerà la notte nell'ovile, e tua moglie è sola, comprendi, sola.

— Che m'importa? — egli disse.

— Stupido, tu puoi andare da lei: tu non andrai dunque? Io son venuta per dirtelo. Va, mi fa piacere, perchè ho pietà di te... Dopo tutto tu sei suo marito.

— Io non sono marito di nessuno, — egli disse alzando le spalle. — Ah, credevo avessi da dirmi tutt'altro! Dunque, cosa vuoi che compri? Fave, latte, lardo, ciliegie?...

— Sposa dunque me, se non sei marito di nessuno, — disse Mattea con la sua voce bassa, grossa e incerta da ubriaca.

Costantino raschiò e sputò.

Gli occhi di lei, di solito vaghi e stupidi, ebbero un lampo di intelligenza: la sua fronte bassissima si corrugò.

— Perchè sputi? — chiese con voce aspra. — Ella è forse migliore di me?

Egli arrossì; poi un velo di tristezza gli calò sul cuore.

— Tu, — disse — tu sei peggiore o migliore di lei.

— Come?

— Se in questo momento non mentisci, se non sei venuta per tendermi un'insidia col dirmi che ella è sola, sei migliore di lei.

— Perchè dovrei tenderti un'insidia? Io ho pietà di te. Ti giuro sopra la memoria dei miei morti che se tu vai da lei, stasera, non corri alcun pericolo.

— Chi vi può credere, femmine? Voi non rispettate neppure i morti.

Mattea accennò di andarsene, offesa ed irritata: egli la rattenne.

— Il cane vile! — disse lei con disprezzo. — Io ho pietà di te, e tu mi frusti. Che hai tu da rimproverarmi? Che cosa, dunque?

Sollevò la testa con fierezza, mostrando la fronte corrugata, e guardando Costantino con occhi limpidi, nuovamente pieni d'intelligenza. Egli la guardò, sbalordito che una simile donna parlasse così, che sollevasse la fronte, che osasse guardarlo in quel modo: poi si mise a ridere.

— Io vado, ora, — ripetè, — vado e torno subito. Prendo anche del vino, sebbene tu non beva. Aspettami. As-pet-ta-mi! — le impose brutalmente, vedendo che ella lo seguiva. — Non mi seccare.

Ella si fermò dietro la porta; egli uscì, ma aveva fatto pochi passi quando sentì la voce grossa di lei richiamarlo.

Tornò indietro fino alla porta socchiusa, nel cui spiraglio illuminato si vedeva il naso di Mattea ed uno dei suoi occhi ridiventati stupidi.

— Che vuoi, capra guercia?

— Se tu vai da lei è inutile farmi aspettare qui.

— Al diavolo chi ti ha fatto! — imprecò Costantino con voce sincera. — Io penso d'andar da lei quanto tu pensi d'andare in chiesa. Aspetta! Aspetta! — gridò poi stendendo la mano per afferrarle e tirarle il naso. Ma ella ritirò rapidamente il viso e chiuse la porta.

Costantino rientrò dieci minuti dopo, ma non trovò più la strana ragazza. Credette si fosse nascosta fuori e la cercò, chiamandola a bassa voce, dicendole che aveva comprato del pane e carne e frutta, ma s'accorse che ella se n'era andata. Un gran silenzio regnava intorno alla casetta: nella notte calata, completamente solo, le foglie nere del fico frusciavano misteriosamente sullo sfondo incolore dell'aria: parevano di stoffa metallica, scosse da una mano invisibile. Null'altro s'udiva e null'altro che le stelle vivissime scorgevansi distintamente nella notte calda.

Costantino si sentì molto contrariato per la sparizione di Mattea. Solo come un cane, che poteva fare per il resto della sera? Non aveva sonno, tanto più che nel pomeriggio aveva lungamente dormito; e non sapeva dove andare.

Si mise a mangiare ed a bere, e di tanto in tanto parlava con voce alta e dispettosa.

— Se ella crede che io vada da lei sta fresca.

Silenzio. Poi:

— Fresca come una rosa in primavera. È pazza, lei!

Ancora silenzio. Poi:

— Nè dall'una nè dall'altra. Mi fa schifo Mattea. Mi dà l'idea che sia una bestia. Ecco tutto.

Poi imprecò. Poi rise, di quel riso lieve e vago che si ride quando si è soli.

Intanto beveva a lunghi sorsi; ed ogni volta che finiva il bicchiere scoccava le labbra, esclamava — aaah! — e si passava più volte le mani sul petto, accennando il delizioso calare interno del vino. Dopo si sentì quasi allegro.

— Che essa vada all'inferno. Che essa vada al diavolo.

Così diceva di tanto in tanto, pensando a Mattea ed alla sua capricciosa sparizione; ma intanto s'accorgeva di pensar dispettosamente a lei per non pensare all'altra. Poi, uscito fuori e sdraiatosi sulla panca di pietra, s'abbandonò un po' ai suoi pensieri.

— Ella è sola, — pensava. — Ebbene, cosa mi importa? Io la disprezzo, e non andrei da lei anche se ella mi desse una cassa piena d'oro. Che ho da farmene dell'oro?

Egli si fece questa domanda con profonda tristezza; ma subito dopo si mise a canticchiare perchè gli avveniva una cosa che del resto gli accadeva spesso: fingeva con sè stesso, come fingeva con gli altri.

«Choricheddu, core amatu,

Chi t'isetto donzi die...

— Cando as a bider a mie,

Sa turulia at a tesser...»[14].

Per un po' la sua voce monotona e piana lo distrasse; ma poi i suoi pensieri ripresero il loro corso.

— Se io andassi là, ebbene, che accadrebbe? Un peccato, forse? Non sono io suo marito? Ma io non penso d'andarci. Macchè! Mi fa ridere zio Isidoro, il vecchio stupido. — Vattene! Vattene! Vattene! (Imitava fra sè la voce sonora del vecchio). — Vattene, altrimenti succede un guaio. Brontu Dejas vi potrebbe ammazzare o far mettere in carcere. — Ebbene, e poi?

Tornò a canticchiare: il fruscio delle foglie del fico, aspro come di vecchie lamine di ferro, accompagnava la sua voce piana e monotona.

«Cando as a bider sa ua

Chin fiore in gennargiu;

Cando as a bider porcargiu

Fattende casu porchinu......»[15].

Egli cambiò posizione, chiuse le palpebre pesanti; la sua testa dondolava alquanto sulla palma della mano che la sosteneva.

— Ebbene, e poi? — disse a voce alta. Spalancò gli occhi come spaventato dalla sua voce, li richiuse, parlò dolcemente fra sè: — No. Io non la vorrei più con me, come moglie. Per me ella è una donna perduta: ella è stata con un altro uomo e come è stata con lui può tornare a star con me e può andare a star con altri. Ella è come Mattea: io le sputo entrambe.

Riaprì gli occhi e sputò davvero, tanto era il disprezzo che in quel momento sentiva per Giovanna. Eppure, contemporaneamente, ricordi teneri e lontani gli passarono per la mente. Ricordò un bacio che aveva dato a sua moglie, un giorno, mentre ella dormiva: ed ella aveva aperto gli occhi, un po' spaventata, ed aveva detto: Credevo fosse un altro!

Ebbene, che sciocchezze andava egli ricordandosi? Era uno stupido, null'altro che uno stupido. D'altronde sapeva egli se Giovanna, caso mai egli andasse da lei, lo accogliesse o lo respingesse?

Ecco, egli non era un uomo evoluto, un'anima civile; ma in quel momento egli pensò e sentì come il più intelligente degli uomini. Desiderò che ella non lo accogliesse. Sentì che egli doveva vivere e soffrire ancora, ma che, se egli andava ed ella non lo accoglieva, forse un raggio di luce sarebbe ancora sceso nel vuoto gelido che lo circondava. Eppure egli la voleva, la desiderava ancora: dal giorno che gli era mancata, tutto il suo essere dolorava come un membro che siasi storto e spasimi, ma che viva e debba vivere ancora; però nel suo desiderio soffiava qualche cosa di spirituale, l'istinto dell'anima immortale che non si spegne neppure negli uomini più degradati. Egli sognava ancora una Giovanna onesta, perduta per sempre in questa vita terrena, ma riservata a lui nella vita eterna. Ora se ella tradiva anche il secondo marito, sia pure col primo, non era onesta. Così pensava Costantino, eppure...

Potevano esser le dieci ed egli stava da circa mezz'ora sdraiato sulla panchetta, quando un suono melanconico passò per l'aria. Era il giovine cieco che in lontananza suonava l'organetto, accompagnando una voce sonora ma monotona e triste come il canto d'un morto svegliatosi nella notte. Una nostalgia sovrumana, come quella che appunto devono provare i morti ricordando le poche ore felici della loro vita, piangeva nel canto e nel suono: sopratutto nel suono che ansava e gemeva e chiedeva la luce, la gioia, la felicità, le cose tutte che il cieco intravede e non giungerà mai a vedere, che il morto ha lasciato e non ritroverà giammai.

Costantino rabbrividì e si alzò.

Il canto ed il suono passarono, dileguarono lontani, più lontani ancora, cessarono.

Costantino sentì un'onda di tenerezza e di angoscia coprirgli il cuore. Nel buio, nel silenzio infinito e nella solitudine immensa che lo circondavano, sentì il bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita. E s'avviò.

Sul principio gli parve di camminare in sogno, sebbene udisse distintamente sotto i piedi il crepitìo delle foglie secche e della stoppia che il vento aveva adunato intorno alla casetta di Isidoro. Fregandosi le palpebre gli sembrò scorgere piccoli cerchi violetti, elettrici, volteggiare e svanire nell'aria; ma subito dopo gli occhi abituati al buio videro la linea chiara dello stradale, le casette nere, lo sfondo vuoto dell'orizzonte, ove le stelle oscillavano come goccie d'oro pronte a cadere. Avviandosi per lo stradale egli sapeva già dove precisamente voleva andare, e non esitò un momento solo.

Qua e là, sulle soglie delle casette dove la povertà non permetteva s'accendesse il lume, stavano gruppi di persone sedute a godersi il fresco. Qualche voce stridula di donna fendeva il silenzio, narrando piccole storie, pettegolezzi, miserie. In un angolo deserto Costantino scorse due figure d'innamorati; all'udire dei passi l'uomo cercò nasconder la donna, e questa volse la faccia verso il muro.

Costantino passò oltre, ma fatti una trentina di passi si volse e per spaventare i due giovani fu per gridare:

— Ora vado a dirlo a tuo padre!

Ma ebbe paura di gridare, di farsi conoscere, e andò oltre.

Quando distinse la massa nera del mandorlo affacciata sullo stradale, al di là della casa di zia Bachisia, il cuore gli si agitò un po' convulso, sembrandogli di scorgere una gran testa nera dai capelli selvaggi, intenta ad attenderlo ed a spiarlo in lontananza.

Egli era deciso di andar oltre, di attraversare lo spiazzo, penetrare nella casa dei Dejas, veder Giovanna: tutto ciò gli sembrava facile, ed egli si sentiva preparato a tutto, eppure aveva paura. Più che paura terrore. Udì una voce flebile di ragazza dire lentamente: — Per quanto tu dica non è vero...

Guardò attorno e non vide nessuno; andò oltre, ma ad ogni passo la sua ansia aumentava. Attraversando lo spiazzo guardò la casetta di zia Bachisia, poi la casa bianca, poi la casupola di Mattea. Il finestruolo di quest'ultima abitazione era illuminato: tutto il resto buio. Pensò ancora una volta che Mattea potesse averlo ingannato, o che zia Bachisia fosse presso Giovanna, o che costei dormisse già o non aprisse; ma senza esitare penetrò sotto il portico. E subito distinse la figura di Giovanna seduta sul gradino della porta.

Anch'essa riconobbe subito Costantino e balzò in piedi, rigida di terrore; ma la voce cauta e commossa di lui la rassicurò.

— Non aver paura. Sei sola?

— Sì.

Un secondo dopo si trovarono abbracciati.

FINE.

NOTE:

1. Porredda, femminile e diminutivo di Porru.

2. Pascoli chiusi, ma vastissimi.

3. Spauracchio estivo che i sardi minacciano ai bambini perchè non vadano al sole.

4. Modo di giurare.

5. Cervouomo.

6.

Piove, piove,

l'uva matura

e il fico...

7. Molti servi, in Sardegna, possiedono bestiame per conto loro; e lo mescolano a quello del padrone, — col quale in tal modo diventano soci, — o lo affidano ad altro pastore, col quale dividono la rendita.

8. Scemi.

9.

San Pietro al mare andò,

Le chiavi dentro gli caddero;

E gli risponde Dio:

— Che hai, Pietro mio?

— Al piè mi ha morsicato,

Al cuore, al dorso.

— Prendi la spina triste

( ispina trista o santa, della quale si fece la corona di N. Signore: le foglie di questa pianta in Sardegna sono dal popolo usate per medicamenti)

E mettitela pesta,

E mettitela tre giorni,

Talchè, Pietro, sii sano. —

Tarantola del ventre dipinto,

Che fece figlia stretta,

Figlia stretta fece,

Una per monte ne lasciò,

Una per monte, una per valle,

Ucciso m'hai e t'ho ucciso.

10. C'è un principio scientifico in questa strana usanza di sotterrare in un concio o di introdurre in un forno tiepido i morsicati dalla tarantola, il cui veleno produce una specie di intossicamento che si può scacciare facendo sudare abbondantemente il malato. Il sotterramento, i cattivi odori provocanti la nausea, il caldo del forno, fanno senza dubbio sudare il malato, ma il popolino, dimenticato il principio scientifico per la superstizione, converge in male ciò che forse un tempo riusciva in bene. Il caso qui riprodotto mi fu narrato come realmente avvenuto e pur troppo non unico.

G. D.

11.

M'è calato un fulmine,

O madre del ragno.

Vedasi il fascicolo III, anno I, della Rivista delle tradizioni popolari italiane. Roma, Forzani e C., 1894.

12. Capo di bestiame.

13. Il diavolo.

14.

«Cuoricino, cuore amato,

Che ti aspetto ogni giorno...

— Quando mi vedrai

Il nibbio tesserà...»

15.

«Quando vedrai la vite

Fiorita in gennajo,

Quando vedrai porcaro

Facendo cacio porcino...»