VERSO LA CUNA DEL MONDO.
Guido Gozzano. GUIDO GOZZANO
Verso la cuna del mondo
LETTERE DALL'INDIA (1912-1913)
Con prefazione di G. A. Borgese e il ritratto dell'autore
MILANO Fratelli Treves, Editori 1917.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
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Copyright by Fratelli Treves, 1917.
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Milano, Tip. Treves.
INDICE
Prefazione
È bene che il lettore, chiuso questo libro del nostro caro morto Guido Gozzano, indugi un poco prima di giungere ad una conclusione sul suo significato e sul suo valore.
Udrà allora molti suoni fievoli e sordi comporsi in una triste armonia seduttrice; vedrà molte macchie di colore, che parevano buttate a caso, connettersi pei margini e formar quadro. Le tinte, elementari e franche, parevano, finché leggevamo, giustaposte. Il ricordo le modula, così come fa la distanza per certe tele del Segantini o del Previati.
Da principio non si vede altro ordine e legge che quelli della curiosità esotica. Si pensa a un De Amicis meno colto e ardito, a un Barzini meno esperto e potente. L'Italia deve molto a questa strana categoria di scrittori, tutta italiana. Dopo secoli di piè di casa, di provincialismo non senza odore d'aglio, ecco l'Italia nuova e avida di novità, un po' giapponese per l'ansietà d'avvenire, un po' americana per il disdegno delle catene tradizionali. V'è già un accenno di futurismo in questo viaggiare per viaggiare, così diverso dai viaggi intimi e psicologici dei romantici, in queste esplorazioni del settentrione e dell'Oriente, delle capitali brumose e dei fronti di battaglia. Sciami di circumnavigatori e di grandi reporters, ritornando in patria, non contribuivano soltanto a introdurvi il whisky and soda e il rasoio automatico; ma anche un certo numero d'impressioni fresche e d'idee elastiche, utili per mettere bene a fuoco l'obbiettivo dell'attenzione nostra; ed anche un certo numero di parole giovani, d'immagini acri, di temerità sintattiche, delle quali la tecnica sperimentale delle nuove scuole poetiche ha fatto un'orgia, ma che daranno qualche buon frutto nella poesia di domani. Lo stesso d'Annunzio dell'inno ad Ermes, il d'Annunzio di Corrado Brando e degli Ulissidi, si ricollega, almeno in parte, a questa tendenza, ch'era già preannunziata nel Carducci innografo della locomotiva.
Il Gozzano del viaggio in India desume le occasioni e i metodi da questa scuola. Ma, dentro di sé, è assai più romantico e sentimentale, con molto maggiori affinità ai viaggiatori sterniani. In India cercava soprattutto se stesso, il se stesso fisico e morale: un po' di buona salute, un po' di quiete e d'oblio promessigli dalla dottrina vagamente intravveduta del nirvana, e forse un ampliamento del suo dolce orizzonte canavesano. Cercava anche le farfalle — ch'egli adorava, egli così magro e fragile e occhiuto, egli così simile a una povera farfalla dall'ali bruciate —: le farfalle sotto archi anche più grandi che quello di Tito.
I suoi tentativi d'interessarsi alle cose esterne, quali sono realmente, non mancano: ma scissi, deboli, abbandonati ben presto quasi col gesto pallido e febbrile con cui l'incurabile rifiuta la pozione accostata alle labbra in una velleità di speranza. Né la salsedine può rifabbricargli i polmoni, né le lontananze esotiche possono nutrirgli l'anima che ha ormai compiuto il suo ciclo e si consuma in sé medesima. Non ignora certo Kipling, eppure non lo ricorda mai, perfino temendo la vicinanza di quell'imperiale britannico appetito di esistere; e i suoi occhi, già colmi di penombra, non sostengono le policromie fragorose che Gauguin cercava pei mari australi. Ammira gl'inglesi conquistatori e organizzatori, senza che questa ammirazione oltrepassi l'accento giornalistico e tocchi la soglia della storia. Ha appreso lì per lì, non senza sazietà e noia, le alcune cose che ci riferisce; e a lui, così vicino al gelo dell'eternità, la storia non è ormai che una lacrimevole commedia di equivoci in uno scenario orpellato. E tale gli era parsa, anche prima, immutabilmente; e non v'è nulla che neghi il carduccianesimo epico quanto l'Amica di Nonna Speranza: obbiezione nichilistica pronunciata con tanto più radicale decisione quanto più semplice e cordiale vi è la modestia del discorso. Perciò quasi non gli costa fatica la lealtà di confessare che, prima di sbarcare in India, confondeva i Parsi coi Paria. Nessuna dissimulazione d'ignoranza, nessuna pretesa di sapienza. Le cose che guarda sono spesso «buffe ed assurde». «Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest'automobile e noi che sostiamo su questo pendio come dinanzi ad un aereodromo, a un ippodromo occidentale...» Tra l'incomprensibile passato e l'impossibile avvenire egli vacilla in un'ondulazione inconsistente — che è il ritmo lirico di queste sue prose — come uno che vada innanzi, su una passerella tarlata, certo in cuor suo che da un istante all'altro cadrà nell'abisso.
Poi tornò in Italia. E vennero i giorni di questa immensa rappresentazione storica. Bisognava credere nella realtà della storia, o sparire. Ma egli, Gozzano, già da tanto tempo amava le farfalle, il simbolico animale della rinunzia nel fuoco trasfiguratore. Già da tanto tempo aveva detto addio alle donne, agli amici, alle immagini care. Partì silenzioso — per un viaggio più lungo — verso il mitico buio Occidente, questa volta, ove tramonta il desiderio.
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Anche allora, in India, aveva sperato questa pace. Sapeva delle dottrine orientali, vagamente. Ma era troppo stanco e sfiduciato per un pellegrinaggio ascetico; e, in fondo, soffriva troppo per imporsi penitenze. Nella terra ove fu rinnegata «la ruota delle cose» e fu celebrato il silenzio, udiva invece il frastuono di una barbarica idolatrica polifonìa. E doveva oscuramente riconoscere d'essere troppo artista perché gli riuscisse facile la condanna dei sensi.
Un odore di sensualità esotica circola qua e là per queste pagine. Ma ha qualcosa di chiuso, di stantìo, ed è come punteggiato da acredini di preziosa putrefazione. «Mi sono avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto; strani frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere e da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee che ho dinanzi; petali di lacca policroma, polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell'interno iridescenti come le tinte intraviste nei toraci aperti delle bestie macellate; il fascino dà l'incubo della peste e del malefizio, e nell'afa pomeridiana emana un odore fetido insostenibile». Senza ambizioni metafisiche, per associazioni forzose e istintive cui vediamo seguire sul suo viso un pallore madido, una contrazione di agonizzante, appanna anche altre volte il desiderio della vita con l'alito della corruzione. Ecco la danza della Devadasis, ed ecco le due misere cortigiane francesi che vorrebbero prostituirsi al Gran Mogol, morto trecent'anni prima. Ecco nudità intravvedute, così perfette che il poeta s'esalta, riconoscendosi puro e immune di lascivia: od ecco lo stridulo ricordo di Madame Angot.
La volontà di vivere era già quasi esausta, e il desiderio di morire tardava ancora. Lo vedo tutto freddoloso e rattrappito, povero caro fanciullo esangue, davanti al focherello malcerto della sua vita, come già lo vidi, in una giornata di nevischio, davanti al camino della salle à manger, in un alberghetto di montagna, ove, prima che in India, era venuto a cercare un po' di salute.
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Lo ricordo ancora altrimenti, come lo vidi in un giorno d'agosto 1913, in riva al mare ligure. La memoria del bene che mi volle e della stima ch'ebbe per me (gli parevo un luminare di scienza: caro, umile, timoroso fanciullo che temeva i còmpiti e riveriva i professori e i primi della classe!) è fra le cose buone e nobili che m'ha date la vita. Era venuto per vedermi e parlarmi. Aveva ancora il volto abbronzato dal lungo viaggio, con una maschera illusoria di floridezza. Parlava piano, fissando la lontananza e il queto Occidente che s'oscurava, con uno sguardo leopardiano. Progenie di Leopardi, aveva varcato la siepe, aveva navigato verso l'infinito. Era freddo, deluso, risoluto.
Credeva nelle farfalle, per la sua gioia; nella pellicola cinematografica, pel suo pane; in qualche amico. Anche, soprattutto nella poesia; ma in una poesia fatta sibi et paucis, stampata in pochi esemplari non venali, condotta fino all'ultima nudità d'espressione, ridotta a sé medesima: senza risonanza pratica e senza gloria. Mi parlò delle poesie, candide e ignude, che aveva scritte in India: e che non conosco.
In questo volume non mancano echi di canto. Vi è il Tai-Mahal coi suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto (un po' di quel «soprannaturale» che sperava di trovare in India); vi è Giaipur («nessuna cosa è più inutile di questa grande città color di rosa» — «mi ricorderò di Giaipur...»); e quella pagina dei frutti e dei fiori; e il conquistador di Goa (p. 54). E v'è «la demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti», e, sulla fine, il gracidìo conclusivo dei corvi: «l'altro romore che è la nota acustica dell'India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare o dei torrenti: il gracidìo dei corvi così monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio; inno alla putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai! ». E v'è, soprattutto, quell'occulta accentuazione lirica che sorregge tutta questa prosa piana; ma l'una e gli altri, la musica occulta e gli echi percettibili, indipendenti dalla volontà dello scrittore, permeati nella quieta e modesta prosa quasi suo malgrado. Giacché non amava più (non aveva forse mai amato) questi intarsî equivoci, e spregiava, senza indignazioni oratorie, le cose brillanti da bazar. Qui voleva dare notazioni semplici e opache, diarî di curiosità forestiere, per molti lettori: un po' di buona cinematografia, se si vuole. La poesia doveva essere altrove, nella sua anima e nel suo cassetto, per il poeta e per pochi cari. Doveva essere, ormai, tanto più schiva quanto più veritiera: una nudità pudica che non si mostra in piazza, una lealtà che non ricorre all'enfasi, perché non le giova di persuadere le folle.
Ho già detto pocanzi la parola lealtà per Gozzano. E non mi dolgo della ripetizione. Soprattutto per questo egli è e rimane un maestro: per avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del riferire l'esperienza interna qual'è, del collocare il valore poetico nell'accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell'emozione e la lealtà della parola.
Parigi, aprile 1917.
G. A. Borgese.
Le grotte della Trimurti.
Garapuri: «città degli antri o Deva Devi, isola degli Dei»: è forse la più bella gita che offra Bombay, certo quella che unisce in minimo spazio i motivi esotici più interessanti pel forestiero. Ma difficilmente un inglese, un nativo tanto meno, la propone al suo ospite; trova di miglior gusto condurvi alla spettacolosa sala di skating (sì, hanno il coraggio di darsi a questo sport, con una temperatura minima di trenta gradi), o all'unica matinée che dà la Cleo De Merode, di passaggio per Bombay alla volta del Siam, con un plutocrate innominato, o al gigantesco teatro cinematografico dell'Esplanade, dove al soffio — ohimè! vano — di trenta ventilatori la vostra nostalgia d'italiano sussulta vedendo apparire a sfondo di qualche film poliziesco il Canal Grande, il Pincio, il Valentino. Ma veramente non si viene in India per questo. Non è facile l'arte del Cicerone perfetto, del duca ideale nel proprio paese; le cose vicine, anche bellissime, non si vedono più; e l'inglese non pensa a farvi vedere l'isola d'Elefanta, come noi italiani esitiamo prima di proporre la baedekeriana gita a Capri, a Monreale, a Superga. Gli inglesi vanno ad Elefanta per due cose soltanto: mangiare e fare all'amore. Il vaporino che supera le sei miglia di mare dall'isola di Bombay all'isola d'Elefanta, è in gran parte occupato da famiglie merendanti e da coppie amorose: viaggio al paese di Cuccagna, embarquement pour Cithère....
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Ma oggi non è domenica, e lo steam-lunch è quasi deserto. Non è domenica, e l'immensa rada di Bombay non è paralizzata dall'inesorabile riposo festivo, offre tutta la policromia gaudiosa, la bellezza varia della sua attività. Dobbiamo attraversare il porto della grande metropoli asiatica; la lancia passa come un moscerino ronzante tra i fianchi delle navi: navi di tutta la terra: inglesi, francesi, olandesi, giapponesi, australiane, americane; di tutti i tempi: colossali alcune, nuove, intatte, saggio imponente dell'ultima civiltà; altre di forma arcaica, di età non definibile, zattere immense con una sola grande vela, che osano attraversare l'Oceano Indiano dall'Africa all'India, affidandosi per lunga esperienza a quel dato soffio di monsone in quel dato giorno stabilito: velieri decrepiti che fingono di ignorare ancora l'istmo di Suez, poichè la tassa di transito che si paga a Porto Said varia dalle trenta alle cento e più mila lire, e ripetono il loro viaggio secolare circumnavigando l'Africa, l'Arabia, la Persia; velieri panciuti, d'una tinta uniforme di vecchio legno fradicio, dalle vele gialle a sbrindelli e a rattoppi, così decrepiti che fanno pensare alle galee portoghesi che ripararono per la prima volta in Buona-Bahia (Bombay), ai negrieri, ai pirati che furono per tanti secoli i signori indisturbati di questi mari e di queste terre.
Non è leggenda: tutta la popolazione marinara e peschereccia di Bombay, che vive nelle isole vicine, in capanne minuscole, sotto l'ombra dei cocchi eccelsi, è discendente di pirati; l'isola di Colaba, che si disegna verdeggiante oltre la foresta delle antenne e delle vele, era abitata ancora al principio del secolo scorso da cacciatori di naufraghi: i suoi villaggi, si dice, sono costrutti interamente con rottami di navi. Barbarie pittoresca e civiltà vittoriosa, tutte le razze e tutti gli idiomi, tutte le linee e tutte le tinte si contendono, stridono in questo convegno del Mondo, che offre tante cose rare all'amatore dell'anacronismo e del paradosso.
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Avanziamo lungo un piroscafo inglese giunto da poco: la parete curva, nera, vertiginosa s'alza su di noi come il fianco d'un cetaceo colossale; dagli infiniti sportelli aperti giungono voci, s'affacciano volti impazienti; lungo una scaletta troppo fragile scendono i viaggiatori in una lancia d'approdo; quattro indu ignudi ricevono i bagagli, aiutano i fanciulli, i malsicuri nel balzo. Una signora biondissima si rifiuta al passo, i viaggiatori l'incalzano alle spalle, l'incoraggiano, protestano; un gigante di bronzo l'afferra senz'altro, la solleva in alto, la passa ad un altro gigante ignudo, che la depone delicatamente, la siede incolume nella barca tra i suoi bagagli ordinati: strida convulse della signora, risa degli astanti. Quella biondezza e quelle braccia candide avvinte disperatamente alle spalle barbare mi hanno fatto pensare una romana della decadenza, una flava coma contesa da due schiavi nubiani un poco irriverenti....
Tutto il porto dà il senso della schiavitù, ma non è un senso penoso: i dominatori sanno sfruttare l'uomo fino all'ultima energia, comandano con alterigia, ma con giustizia. Sulle navi, da nave a nave, su corde tese, su scale pendule, su palafitte è un brulichio di forme nere; tutti indu di bassa casta, che vanno, vengono in file ordinate ed opposte come le formiche, o si passano dall'uno all'altro, in catena, le gerle di carbone, le balle di cotone, i caschi di banane, le casse di spezie. È strano come questa misera, infima gente abbia innata la scienza della grazia, l'armonia del passo, del gesto, dell'atteggiamento. Tutti cantano lavorando, com'è costume nelle città orientali. È una melopea a denti chiusi, che nell'attimo dello sforzo o dell'intesa si accentua con un ritmo più forte e produce nell'insieme l'effetto di una orchestra ronzante, monotona, non priva di dolcezza. Ci sono donne tra quegli infelici, sono ignude, con un panio alle reni, ma si stenta a riconoscerle; quasi tutte son vecchie; il tempo, la fatica hanno riassorbito il seno, fatte angolose le spalle, rudi le braccia, maschile tutta la persona. Infelici? Forse no; certo meno infelici, dacchè l'europeo li ha emancipati dalla crudeltà delle caste. Poichè quasi tutti sono paria, cioè «non salvabili», da meno dei corvi e dei cani, creature che si potevano uccidere impunemente, poichè fuori del ciclo evolutivo, escluse per l'eternità da ogni speranza, dannati in vita e in morte per la sola colpa di essere nati. Ora la maggior parte ha sul petto di bronzo la scapolare, ha nel cuore, rozza ed incerta, ma consolante, l'idea di una possibile salvezza, la speranza di poter pretendere dalla morte ciò che non ha dato la vita.
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Il porto interminabile ci resta a poco a poco alle spalle: dirada la selva dei piroscafi, dei velieri, delle giunche; qualche zattera vaga ancora sul mare di stagno, sul quale emergono frequenti le pinne dorsali degli squali o balzano improvvisi, a frotte, i pesci volanti. Cielo e mare si confondono in una calma eguale, senza limiti, incolore. Si ha l'impressione di navigare nel vuoto; al tempo delle origini, quando i mari caldi nutrivano i germi dei pleosauri e delle felci colossali, le acque e i cieli immobili dovevano avere questo silenzio d'attesa.
Ma d'improvviso, come sospesa nello spazio, disegnata sopra una parete di cristallo, si profila l'isola di Elefanta, tutta verde, e dopo l'isola la fascia fulva della terra ferma coronata dalla catena dei Gati: il Bor-Ghat, una muraglia eccelsa di basalto sanguigno intagliato dalla natura a torri, a spalti guerreschi.
Sono le dieci del mattino. Il caldo è tale, che la corsa della lancia non dà refrigerio. Il sole, pure attraverso la doppia tenda, si fa sentire sulla fronte, contro le gote, con l'ardore di un braciere troppo vicino. Un boy, armato d'una pompa, irrora d'acqua marina l'intavolato e le tende, ma i disegni scompaiono subito evaporati dall'ardore di questo dicembre tropicale. Mai come in questi climi mi sono rallegrato delle mie non molte carni: l'India è un soggiorno veramente infernale per le persone anche appena fiorenti.
Il caldo provoca i miraggi, scompone l'aria, la fa vibrare, oscillare all'orizzonte col tremolio del rivo sulla sabbia; l'isola d'Elefanta, già prossima, s'addoppia, si riflette quadrupla, s'avvicina, s'allontana, scompare.
Quando riappare, siamo giunti.
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Approdiamo su grandi cubi di granito, viscidi d'alghe rosse e azzurre, abbandonate dall'alta marea, pendule come capigliature di sirene sconosciute. La collina s'innalza ripida sul mare: due cose sono interessanti in quest'isola: non il lunch e l'amore degli inglesi domenicanti, ma la vegetazione e i templi famosi. Per la prima volta, dacchè sono a Bombay, vedo in libertà selvaggia la flora tropicale. I magnifici scenari verdi del Vittoria Garden, delle ville dell'Esplanade, e del Malabar-Hill sono meditati da giardinieri esperti su modelli inglesi, e ogni albero reca sul tronco una targa ovale col nome in corretto latino: Cinnamomum canphora, Vanilla aromatica, Ficus elastica, Strychnos nux vomica, Tamarindus indica, ecc., ecc., pessima consuetudine che dà alla poesia d'un giardino esotico un sentore farmaceutico e tutta la prosa d'una rivendita di droghe e coloniali.
Qui è la natura soltanto, la flora demente, senza freni e senza nome. La spiaggia è fiancheggiata da pandani colossali che immergono nell'acqua le loro radici multiple, sollevano in alto la corona delle foglie, e fanno pensare a candelabri capovolti o a buffi trampolieri vegetali. Si sale la collina lungo una scala ripida scavata nel basalto da un brahamino, per ex-voto, a beneficio dei visitatori. A tratti la vegetazione s'intreccia sul nostro capo, forma un corridoio verde, dove il sole giunge tremulo come nei paesaggi sottomarini. Tra i fusti bianchi e flessuosi dei cocchi, tra i fusti neri, diritti come colonne delle palme-palmira, è il groviglio delle liane che allacciano d'albero in albero tutta la foresta, e fanno dell'isoletta un fascio di verzura emerso dal mare.
Vorrei uscire dal sentiero, internarmi sotto gli alberi, nel refrigerio della notte verde, ma i boys e gli amici si oppongono recisamente: è l'ora calda, l'ora dei cobra, e i cobra abbondano nell'isola sacra.
A metà della collina s'apre il tempio famoso. È un ipogeo, che ricorda le costruzioni egizie e consta di varie grotte scavate in una pietra nera, simile al porfido. Le colonne si moltiplicano all'infinito, pendono spezzate dalla volta tenebrosa o s'innalzano monche come stalattiti. Il tempio è lavorato con un'arte pazientissima nei particolari, qualche volta mirabili, ma noncurante delle proporzioni e dell'armonia dell'insieme. Sebbene mutilato dai millenni, dalle infiltrazioni e dalle frane, dal fanatismo mussulmano e portoghese, presenta ancora una sintesi completa e imponente dell'olimpo brahamino; olimpo complicatissimo, difficile a chiarire per chi non ha speciali attitudini nel collegare le parentele numerose. Domina nella grotta principale un altorilievo di forse quindici metri, raffigurante un corpo formidabile a tre teste, la Trimurti famosa: Siva che crea, Visnu che conserva, Rudra che distrugge. Ma questa trinità s'incarna all'infinito, si trasforma nei bassorilievi dei porticati semibui in mille altre figure del simbolismo pazzesco. Ed ecco Siva che cavalca un toro e si fa maschio e femmina ad un tempo, col simbolo maschile linga, e femminile joni, circondato da infinite figure: elefanti, tigri, serpenti, da saggi, rhisi, da apsare, uri dell'olimpo brahamino, da Indra, da Brahma adagiato sul loto e portato da quattro cigni, Visnu sorridente, altovolante sull'avvoltoio dalla testa umana. È ancora Siva, la scultura divina dalla cui fronte sgorgano i tre grandi fiumi, Gange, Jamma, Sarasvati; Siva che passa a giuste nozze con Parvati, la Dea dalla vita sottile, dal seno enorme, che con l'una mano abbraccia lo sposo, con l'altra strozza non so quale rivale in forma di mostro femminino. E intorno è scolpita una turba di Dei e Semidei, parenti e convitati, devoti e servi, che offrono cibi e rinfreschi. Un altro bassorilievo rappresenta un giardino: il paradisiaco monte Kaillasa, pieno di saggi e di donne in letizia, poichè dall'unione di Siva con Parvati è nato Ganesa, il Dio della Sapienza, mostro dalla testa di elefante, dal corpo umano, piccolino, tondeggiante, panciuto. È ancora Siva in un bassorilievo che ritrae le più desolanti e borghesi rappresaglie di famiglia che possano affliggere un nume. Siva ha sposato una seconda moglie: Durga, figlia di Daksha, figlio di Bhraham e genitore di sessanta figliuole; Daksha dà un convito rituale, aduna tutti gli Dei e dimentica sciaguratamente il suocero Siva e consorte. Questa interviene al rito, e, non attesa, male accolta, si getta sulle fiamme dell'ara. Compare Siva, al quale nel furore si moltiplicano le braccia, e taglia la testa al genero, alle cinquantanove figlie, ai convitati con lo spaventoso congegno delle molte braccia roteanti; intorno è un turbinare di teste mozze....
Una grotta è dedicata a un lingam inghirlandato di fiori gialli: in giorni speciali migliaie d'indiane vengono in pellegrinaggio, s'inginocchiano, siedono sul rozzo obelisco di pietra, girando più volte: e la cerimonia assicura la fecondità. In tutto il tempio domina sovrano il Civa-Lingam, ed è strano questo simbolo procreatore in una religione dove il supremo bene è il non essere nati, o essendo nati annichilirsi al più presto. Ma è certo il mio cervello profano d'occidentale che non comprende l'occulto senso della pietra scolpita. Queste figure, ad esempio, che ricorrono su tutte le arcate d'ingresso e rappresentano uomini armati recanti il sesso nella mano protesa, e al posto del sesso un teschio che ride, dànno veramente un brivido d'orrore e il senso del più tragico pessimismo. L'impressione tuttavia di questo ipogeo troppo vasto, umido, oscuro, non animato che dallo squittire dei pipistrelli e dallo stillicidio delle infiltrazioni, è tetra, non religiosa. Quelle figure, che sembrano balzare dalle pareti, precipitarsi furibonde contro i poveri mortali, armate di clave, di lancie, di braccia multiple per meglio ferire, dànno il senso dell'idolatria paurosa; vien fatto di domandare a questi numi il perchè di tanto furore e quale guaio riserbano ai miseri mortali peggiore della vita, peggiore della morte. Certo lo studioso, anche il dilettante soltanto, che viene d'Europa dopo aver sfogliato i sacri testi indiani e aver chiesto qualche ora di conforto alle sublimi speculazioni dei Veda e degli Upanesed, resta deluso e sdegnato dinanzi a questa teogonia barbara e selvaggia. Ma è il destino fatale di tutte le religioni, che diventano culto, di tutte le fedi che si fanno pietra, metallo, colore, forma: idolatria.
A queste malinconie certo non pensano i visitatori dell'ipogeo d'Elefanta: sulle trenta mammelle della dea Dassavi, sulla tiara delle Apsare, sulla fronte ampia, elefantina di Ganesa, la matita, il temperino ha segnato nomi, date, cuori trafitti, ghirlande di rose all'amore che passa. Precisamente come da noi.
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Si esce all'aperto, nel tripudio verde dell'isola paradisiaca. Si passa dall'ombra alla luce, dalla barbarie alla civiltà, dal passato decrepito al presente vittorioso. Tutta Bombay è disegnata sull'orizzonte con la sua rada, il suo arcipelago, le sue penisole. Da nessuna altura si può meglio capire la topografia mirabilmente equilibrata di questa metropoli asiatica. E si pensa non senza orgoglio al miracolo che l'attività occidentale ha fatto in poco più di mezzo secolo in queste paludi febbricose.
«Due monsoni dura la vita di un uomo» dicevano gli indigeni agli europei che approdavano. Oggi Bombay è tra le città più salubri dell'India, certo superiore a Calcutta, a Goa, a Madras. Ma quale sovvertimento ciclopico ha dovuto operare la forza dell'uomo! Due secoli or sono, alla foce del fiume Ulas, si prolungavano in mare, lontane dalla costa, le creste parallele di due colline sommerse; l'intervallo era occupato da laghi salmastri, da jungle popolate di belve. Gli esploratori portoghesi giudicarono quell'acquitrino insanabile. Giovanni IV di Portogallo diede l'arcipelago di Bombay quale dote — trascurabile — di sua figlia Caterina, sposa di Carlo II. La Compagnia delle Indie l'ebbe da Carlo II per la cifra incredibile di lire 250 annue. Se ne fece un luogo d'asilo, si cercò di popolare la plaga umidiccia ed infuocata. Ma solo con l'annessione definitiva all'Inghilterra, cominciò a delinearsi sull'arcipelago insalubre la futura città. Le paludi e le jungle furono prosciugate e distrutte, le due colline parallele si congiunsero, formarono l'isola d'oggi. Alcuni grandi giardini conservano esemplari di teck, di palme centenarie, superstiti di quella flora selvaggia: la civiltà le rispettò come rispetta le colonne dei templi indiani, formò giardini intorno ai tronchi venerabili, costrinse in gabbia le belve. Dove sorgevano paurosi paesaggi antidiluviani verdeggiano aiuole ben pettinate, corrono babies biondi dagli occhi ceruli, seguiti da un' aia indigena, da una mamma, da una sorella che sfoggia l'ultimo figurino europeo; un'orchestra scelta risponde con una melodia verdiana o wagneriana al ruggito delle tigri prigioniere.
Dall'alto di quest'isola d'Elefanta — tomba del passato — si contempla l'isola di Bombay — cuna dell'avvenire — e nessun contrasto è più profondo e più significativo. La filosofia orientale e la filosofia occidentale con le loro conseguenze opposte: un tempio tetro, pauroso, idolatra, una metropoli fiorente, colma di tutte le abbondanze. E penso all'ammonimento dei simboli fallici e macabri: meglio non esser nati....
Meglio non esser nati. Certo. Ma essendo nati.... adagiarsi nella vita con tutti i beni che la vita può dare....
Le Torri del Silenzio.
Non è il titolo di un volume di versi decadenti.
The Towers of Silence: è la passeggiata che propone qualunque Cook's boy di Bombay al viaggiatore incerto sulla sua mèta. La Torre del Silenzio: anzi, le Torri, poichè sono cinque le Dakmas, dove i Parsi espongono i cadaveri agli avvoltoi. Io le credevo un'invenzione di quei romanzi di avventura, già cari alla nostra adolescenza, dove, per gli occhi languidi della figlia di un Marajà, un esploratore giovinetto era narcotizzato a tradimento, avvolto in un lenzuolo ed esposto agli avvoltoi dell'edificio favoloso, ma veniva salvato da un servo fedele e unito a giuste nozze con l'oggetto dei suoi desiderî.
Le Torri esistono invece e sono intatte, come mille anni fa; tutto è intatto in quest'India britanna, tutto è come nei libri e nelle oleografie: danze di bajadere, templi colossali, ciurmerie di fakiri; e guai per chi soffre la ripugnanza dei luoghi comuni, o la nostalgia delle cose inedite; qui il letterato è esposto di continuo al rammarico acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita la letteratura; non c'è altra salvezza che uscire dall'albergo senza guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa dagli edifici a ogive, a terrazze, a verande, a scalee, coronate di fiori e di palme; edifici di uno stile gotico inglese, illeggiadrito dalle esigenze del clima, immuni dal lercio stile liberty che appesta le metropoli europee; edifici che appaiono come tanti castelli della Bella Addormentata e sono invece il Demanio, l'Archivio, il Lazzaretto, il Tribunale, la Posta, ecc. E allora si trova il nuovo nelle piccole cose della strada: il cipay, che si mette sull' attenti se lo richiedete di un'informazione, e ha gli occhi dipinti di azzurro, prolungati sino alle tempia, contro i malefizi degli sconosciuti; lo chauffeur, che porta sotto la visiera di celluloide, disegnato in rosso vivo, il tridente di Wisnu; un tram zeppo di passeggieri indigeni, che siedono invariabilmente sulle calcagna incrociate, così che si ha l'illusione penosa di veder passare carrozzoni elettrici interamente occupati da infelici senza gambe; un ramo di orchidee malefiche, che si protende dalla cancellata di un giardino; due bimbi Indu, che sono venuti alle mani per una latta di sardelle vuota; un santo, che medita, seduto sui gradini del monumento alla Regina Vittoria; i bengalini minuscoli, che nidificano nell'elsa della spada di Re Edoardo....
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I miei amici di Bombay si adoperano invece per farmi vedere dell'India le cose che si lessero nei libri e che si videro dipinte. Esistono anche queste. Così, per cortesia di Monsieur Lebaut, l'agente famoso del famoso Hagembeck, assisterò, forse, ad una caccia alla tigre; per i buoni offici del dottor Faraglia, il medico italiano notissimo di Bombay, vedrò una danza di bajadere in una famiglia bramina tra le meno accessibili all'europeo. Da tre giorni mi si vuol condurre alle Torri del Silenzio. Ma non muore nessuno.
Quest'oggi Lady Harvet, una signora attempata e bellissima, tutta bianca, vestito, volto, cappello, capelli, con non altro di colorito che gli occhi azzurri, entra esultando nella sala di lettura del Majestic Hôtel: — È morto! — E seguìta dal figlio e dal dottor Faraglia, tutti esultanti: — È morto! È morto, ieri sera, un parsi di qualche importanza, l'architetto Donald-Antesca-Cabisa; i funebri saranno oggi, alle 18: siete fortunato; abbiamo il tempo di fare una gita sull'Esplanade e di salire alla collina di Malabar per assistere alla cerimonia; faremo il lunch nel Tower's Garden; abbiamo le provviste con noi....
Ed eccoci in auto a tutta corsa, — io che vado così volentieri a piedi, lentamente, gustando in questi primi giorni la gioia di premere la nuova terra, — e la città ci sfugge ai lati come una film svolta troppo vertiginosamente. Ecco l'Esplanade, dove l'ansare delle automobili, lo scalpitìo degli equipaggi, si fonde col vociare di una folla composta di dieci razze diverse e il suono di venti bande militari. È la passeggiata, il Bois de Boulogne di Bombay: interessante, misto, illogico, come un quadro futurista: tutti i veicoli: carrozzelle indigene, tirate da zebu gibbosi, dalle corna dorate, elefanti gualdrappati fino a terra di velluti ricchissimi, dai quali non emergono che i quattro zoccoli enormi, le zanne tronche, la proboscide, gli orecchi agitati di continuo come due ventagli; carrozze dai cavalli candidi precedute da araldi ansanti e vocianti: e dentro è adagiata la moglie, la figlia di un funzionario inglese, e la biondezza della signora, stilizzata secondo l'ultimo figurino europeo, fa uno strano contrasto con la magnificenza esotica ed arcaica dell'equipaggio, con i turbanti e i velluti dei cocchieri, con la nudità bronzata degli araldi. L' auto di un ricco Parsi, l' auto del Vescovo di Bombay, che sorride fra due prelati e benedice con la mano alzata di continuo la folla che s'inchina o s'inginocchia riverente.
In quest'ora di grande animazione, non ostante le rotaie, le automobili, le vesti parigine, la città ricorda Babilonia ed Alessandria, Roma e Bisanzio, i tempi favolosi; dà un senso di ricchezza e di abbondanza; dà un senso d'invidia inevitabile, fanciullesca, di rancore ingiusto, contro questi Inglesi, così forti e così ricchi, padroni di mezza la Terra....
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I secondi padroni di Bombay, dopo gli Inglesi, sono i Parsi. I Parsi, da non confondersi con gli Indu (io li confondevo addirittura con i Paria: è desolante l'ignoranza di chi muta d'improvviso venti gradi di latitudine senza qualche studio preventivo), da non confondersi con i Maomettani, gli Afgani, dai quali differiscono come un tedesco da un arabo. I Parsi sono i discendenti degli antichi Persiani emigrati dalla Persia in India, dopo la conquista di Maometto. È veramente biblico e grandioso il destino di questi seguaci di Zoroastro, che, per non rinnegare il Sole, loro divinità, abbandonarono, dodici secoli or sono, la patria, giunsero raminghi e perseguitati in India, rifugiandosi prima a Diu; poi a Tabli; trattando con i Marajà per avere un'ospitalità non molestata. Furono, invece, molestatissimi per quasi un millennio, e la loro pace e la loro floridezza non data che dalla conquista degli Inglesi, i quali riconobbero le loro qualità, li incoraggiarono e li protessero. Oggi sono nelle mani dei Parsi i più grandi capitali di Bombay. Dipende dai Parsi gran parte del movimento politico, escono dai Parsi i migliori commercianti e i migliori laureati. Eppure, nessuno è più del Parsi ligio al suo passato, nessuno è meno di lui affetto da anglomania. Molti Indu vanno in tuba e in isparato. I Parsi vestono come mille anni fa, quando vennero profughi da Persepoli; gli uomini con una larga zimarra bianca, sul capo un'alta tiara nera simile ad una mitra (la cosa che più colpisce l'europeo sbarcato da poco); le donne si avvolgono di sete a vivi colori, giallo-zolfo, gridellino, rosso ciliegia, verde-salice, che dànno rilievo ai capelli nerissimi e al pallore ambrato del volto. Come alle loro foggie millenarie, così sono ligi alla loro fede e ai loro riti: la dottrina di Zoroastro, ispirata alla religione degli elementi creatori e conservatori, il Sole prima di tutto, e il Fuoco, imagine del Sole sulla Terra. L'Inghilterra, che tollera tutti i riti, tollera anche la Torre del Silenzio e le usanze funebri dei Parsi, che sono certo le meno conciliabili col nostro sentimento occidentale.
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Si sale lungo il Colle di Malabar; la città si abbassa rapidamente, si offre tutta allo sguardo che la domina e ne gode come si gode di Napoli dall'altura di Posillipo: una Napoli tripla, adagiata tra le montagne del Dekan, il Borg-Hat, il Golfo di Bak-Baj e l'Oceano Indiano; coronata da una vegetazione barbara, inconciliabile col nostro clima, immersa in una luce intollerabile sotto il nostro cielo. L'automobile ascende lungo la strada rossiccia, corre all'ombra dei cocchi, dei baniam: gli alberi dalle radici multiple, ascendenti, discendenti, moltiplicanti i tronchi all'infinito. Si riesce all'aperto, si scende in un giardino lindo, fra grandi ajuole di rose del Bengala. Prendiamo posto sotto una veranda intrecciata di grosse campanule strane, e subito son tolte dall'automobile la tavola portatile, le provviste, che Lady Harvet dispone in un grande vassoio: quei vassoi, che sono la tavolozza gastronomica dell'invidiabile appetito inglese, contenenti venti prodotti di tutti i climi: latte, miele, thè, marmellate indigene ed europee, canditi, sott'aceto, salati, e frutti tropicali.... Spolpo un frutto, un mangustani, che si mangia nella sua corteccia come un sorbetto, mitigando col succo di limone la sua dolcezza troppo aromatica; guardo intorno: il giardino ridente domina tutta Bombay, ma è deturpato dalla Società del Gaz, che ha insediato tra gli alti fusti delle palme-palmira un serbatoio colossale.
— Un gazometro? È la Torre del Silenzio, la maggior Torre; quelle altre sono le Dakmas minori, usate in caso di pestilenza.
La mia delusione è grande. Tower of Silence: il nome shelleyano mi prometteva non quel cilindro imbiancato a calce, ma quanto di più fantastico ha scolpito nella pietra la poesia della morte.
Un vallo senz'acqua circonda la torre e due ponti vi sono sospesi, che dànno ad una porticina ovale, minuscola, unica apertura nella mole bianca. Ed ecco fra il candore dell'edifizio e l'azzurro del cielo un'enorme forma nera e sinistra: il primo avvoltoio; poi un secondo, un terzo; poi sei, sette coronano la Torre, dànno al suo squallore un tetro motivo ornamentale. Questi grifoni funerari superano veramente l'orrore di ogni aspettativa; si direbbe che la Natura li abbia foggiati secondo il loro tetro destino; hanno ali immense, possenti al volo, fatte per gli abissi del cielo, ma che nel riposo lasciano pendere lungo il corpo, trascinano nella polvere con una sconcia stanchezza, artigli formidabili, ma senza la linea nobile dell'aquila, artigli fatti per affondare nella carne putrida, non per lottare con la preda viva. E alla base del petto, sopra una collarina di piume fitte, si innesta un altro animale, un tronco di serpente ignudo, gialliccio, grinzoso, dalla testa calva, con un becco oscuro ed occhi dallo sguardo insostenibile, dove s'alterna la ferocia ingorda alla viltà e alla malinconia.
La Dakma si corona di avvoltoi, non più calmi nel loro pensoso atteggiamento consunto, ma frementi, con i colli serpentini protesi verso una cosa nuova. Lungo la strada, a mezza costa della collina, biancheggia tra la polvere fulva e il verde del fogliame, il corteo funerario. È tutto candido; strana usanza opposta alla nostra, che ammanta di veli bianchi il dolore dell'ultimo addio.
— Entreremo anche noi nella Torre? — domando, non senza inquietudine d'una tale proposta.
— Nessuno, nemmeno l'Imperatore, potrebbe penetrarvi; soltanto una speciale setta di necrofori e il dastur accompagnatore, possono entrare.
— Il modello è molto semplice. — E il dottore mi disegna a matita un anfiteatro, diviso in tre circoli concentrici, suddiviso da raggi che formano tante cellette aperte: — Ecco: il cerchio interno, dalle celle minori, è per i bimbi, il mediano per le donne, l'esterno per gli uomini. Questo è il pozzo centrale, dove si raccolgono le ossa ignude, che un acquedotto sotterraneo trasporta al mare. La logica della barbara usanza? E barbara, perchè? Per i Parsi il fuoco è la manifestazione divina, anzi, la divinità stessa, come per il cristiano l'Ostia Consacrata. Rifuggono dunque dall'abbandonare il cadavere al rogo, come fanno gli Indu, per non offendere con la putredine la divinità; rifuggono dall'inumazione, perchè l'Avesta, il loro testo sacro, proibisce di lasciare alla decomposizione lenta della terra quel corpo, che fu l'agente di un'anima. Gli avvoltoi, gli uccelli sacri per rito millenario, sono forse i più adatti ad annientare la misera sostanza morta e a ritornarla nel ciclo vitale....
Ecco il corteo. Forse venti persone, interamente vestite di bianco, con la testa, il volto velati di veli candidi. Quattro portatori recano il cadavere resupino, coperto da un sudario leggiero, sotto il quale traspaiono le spalle aguzze, il profilo fine, le gambe scarne. I seguaci si tengono uniti a due a due con un fazzoletto attorto: il crati funerario, emblema di alleanza nella sventura. Il quadro è molto semplice e molto grandioso, quasi non triste; ricorda certe teorie cimiteriali sculpite nel marmo. Al primo ponte tutto il corteo si arresta, come per intesa, e solo qualche figura bianca segue il cadavere; parenti più consanguinei, la madre, il padre, un fratello. La barella è deposta dinanzi alla porticina aperta; i seguaci sostano pochi secondi dinanzi al cadavere, forse per una preghiera di addio. Di fronte è il dastur, il sacerdote Parsi con due addetti. Non altri, non altro; nessun gemito, nessuna lacrima, nessun gesto tragico; forse anche nella religione dei Parsi, come in quella dei Bramini e dei Buddisti, è cancellato il senso che noi occidentali abbiamo dell' io, e la loro filosofia millenaria attenua lo strazio del distacco senza ritorno. La barella è scomparsa nella porticina, che si è chiusa silenziosa, le ombre candide ritornano a due a due, unite sempre dal lino funerario, si allontanano senza volgersi indietro, come il rito prescrive, dispaiono fra i tronchi dei palmizi.
Ma in alto, nell'aria, è il turbinio fitto, spaventoso delle ombre nere. Dalle profondità dell'azzurro si avvicinano, ingrandiscono, precipitano con la velocità della pietra che cade, i grifoni funerari; sull'azzurro del cielo, sul candore della torre, le ali fosche sembrano attratte e respinte da un turbine avverso, fanno pensare alle grandi ali degli angeli maledetti. Ma nessun grido, nessuna lotta, uno stridìo querulo e sommesso, quasi timoroso di svegliare un dormiente.
Io ho un tremito leggiero, ho l'orrore dello strazio che non vedo.
— ... Un ottimo giovine. Prometteva di farsi un architetto valoroso, aveva vinto il concorso per il palazzo del Museo di Igiene. Suo zio l'avvocato Makalla....
Un architetto, un avvocato: uomini come noi, dunque, che hanno studiato i nostri libri, assimilate le nostre formule e le nostre idee, e le hanno potute conciliare con sentimenti remoti, ripugnanti dal nostro sentire, come quelli del selvaggio più sanguinario. E l'abisso tra uomo e uomo mi appare sempre più terribile ed incolmabile, e il mondo sempre più stridulo e buffo ed assurdo. Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest'automobile e noi che sostiamo su questo pendìo come dinanzi ad un aereodromo, un ippodromo occidentale....
— ... Nessuno strazio. Il cadavere è finito in venti minuti, — mi spiega il dottor Faraglia, addentando un terzo sandwich, — ed è spolpato con una delicatezza veramente religiosa; lo scheletro resta intatto nella sua cella, composto come se preparato per un gabinetto anatomico. Con un sol colpo di becco il cranio è aperto dove l'osso frontale s'incastra alla nuca....
— Ma il vostro amico non mangia, non beve, — osserva cortesemente Lady Harvet. — Non sopporterete il clima di Bombay se non raddoppierete i vostri pasti.
Goa: «la Dourada».
Oceano Indiano. A bordo del Pedrillo. 14 dicembre 1912.
Nessuno ha voluto seguirmi a Goa. Gli amici sono rimasti a Bombay, già presi dalle varie dolcezze della metropoli ospitale. Andare a Goa, perchè? I perchè sono molti, tutti indefinibili, quasi inconfessabili; parlano soltanto alla mia intima nostalgia di sognatore vagabondo. Perchè Goa non è ricordata da Cook, nè da Loti, perchè nessuna società di navigazione vi fa scalo, perchè mi spinge verso di lei un sonetto di De Heredia, indimenticabile, perchè pochi nomi turbavano la mia fantasia adolescente quanto il nome di Goa: Goa la Dourada.
Oh! Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica, con l'atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l'istmo di Suez e il Mar Rosso, l'Oceano Indiano, ora circumnavigando l'Africa su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar.... Mi seguiva nel mio pellegrinaggio un compagno che non ho più rivisto da allora, e che aveva tutti i diritti a bordo della mia fantasia: aveva un fratello missionario a Goa: un fratello che non vedeva da anni, che quasi non ricordava, ma al quale doveva l'abbondanza invidiabile di francobolli coloniali e certe lettere che parlavano del Malabar e dei Gati, di tigri e di San Francesco Saverio e certe fotografie della Cattedrale e della missione tra i cocchi svettanti. Francobolli, lettere, fotografie, il nome di lui: Vico Verani: tutto m'è impresso nella memoria, come se visto da un'ora, anzi v'è impresso questo soltanto; e il viaggio sull'atlante mi pare la realtà viva, e pallida fantasia mi sembra questo cielo e questo mare: cielo e mare di stagno fuso, limitato da una fascia di biacca verde: la costa del Malabar....
Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di pochi semi deposti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell'infanzia prima. Termina oggi il viaggio intrapreso a matita sull'atlante di vent'anni or sono, termina a bordo di questa tejera sobbalzante, una caravella panciuta, lunga trenta metri, alla quale è stata senza dubbio aggiunta la prima caldaia a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente poetico e mi compensa della vuota eleganza dei grandi vapori moderni dalle cabine e dalle sale presuntuose di specchi e di stucchi Impero e Luigi XV, dall'odore di volgarissimo hôtel, dove è assente ogni poesia marinaresca, ogni senso della cosa nuova e dell' avventura. Qui tutto è poetico, e la mia nostalgia può sognare d'essere ai tempi di Vasco De Gama, di navigare alle Terrae Ignotae, alle Insulae non repertae....
Dormo in una cuccia dall' oblock a telaietti come una finestra settecentesca. Scorpioni, blatte, termiti in abbondanza, ma in compenso ho intorno immagini e statuette di santi: da Nostra Signora del Soccorso a San Francesco Saverio: con strane preghiere in portoghese, per l'ora del naufragio....; e il legno della cabina sa di salmastro e di decrepitudine, e stride, di notte, al rodio ritmico dei tarli.
Pochi viaggiatori a bordo; qualche mercante Goanese, e cinque monaci che ritornano a Goa dalle Missioni del Nord. Ho sperato subito di aver notizie del missionario sconosciuto:
— Sì, vado a Goa per vedere il fratello d'un mio amico. Vico Verani, Vielha Citade...
Ma i cinque monaci non sanno:
— Noi siamo del Convento di Pandjim; Pandjim è la Goa nuova. Ma conosco tutti i Monaci della Citade, le farò una presentazione per Padre Jacques della Chiesa di Bom Jesù, un'altra per la Cattedrale....
Strani questi Monaci Goanesi dal volto angoloso e terreo, dal sorriso larghissimo, dagli occhi piccoli, neri come scaglie d'onice incastonate sotto i sopraccigli enormi e baffuti: figure di Zuloaga, esagerate dal clima e dall'incrocio; vivacissimi nel riso, nello sguardo, nel gesto, opposti in tutto alla rigida biondezza degli Inglesi confinanti....
15 dicembre.
Oggi sono sceso nella stiva. Quanta merce disparata abbiamo con noi! Pianoforti, macchine da scrivere, biciclette, balle di cotone a fiorami vivacissimi per le belle dei coloni, tre casse enormi, dove viaggia, diviso in tre parti, una statua gigantesca di San Francesco Saverio, omaggio del vescovo di Bombay a non so quale convento portoghese, e un'infinità di sacchi pieni di cocci: cocci di stoviglie raccattati in tutti gli spazzaturai occidentali, frantumi a colori vivi, ricercati dai musaicisti goanesi che ne fanno pavimenti a disegni complicati, di bellissimo effetto.
Ho avuta una gradita sorpresa. In cucina, tra un casco di banani e una latta di conserve, ho trovato un libro: Os Lisiades, le Lusiadi il poema immortale di Camoens: un'edizione arcaica sucidissima, con in calce la real alvaira: la licenza dei superiori. Non conosco il portoghese e non mi giova ad avvicinarmi il poco spagnuolo che so, ma i versi sono così armoniosi, così perfette le rime che alla fine d'ogni strofe capisco esattamente ciò che il poeta ha voluto dire. Mi aiuta, d'altra parte, il cuoco, lo sguattero di bordo, qualunque marinaio: il poema è popolare tra gli illetterati come da noi Bertoldo o i Reali di Francia: con questa variante che il libro è tra i capolavori più completi che il Rinascimento abbia dato alla letteratura europea. È l'opera nazionale portoghese, quanto sopravvive, ohimè, di tutta la grandezza coloniale dei giorni splendidi. Non per nulla, e non indegnamente, Camoens fu detto il Tasso del Portogallo. Tutti gli elementi delle grandi epopee sono ricordati intorno alla figura dell'eroe: Vasco De Gama, e intorno alla sua gesta: la scoperta delle Indie Orientali. Eppure non so leggerlo senza un sorriso d'irriverenza. La figura dell'Ulisside portoghese è così grottesca, camuffata secondo l'ossessione classicheggiante del tempo: sembra di vedere gli stivali, il robone logoro d'un pirata medioevale spuntare sotto la corazza, il casco clipeato delle reminiscenze omeriche e virgiliane. Tutto l'Olimpo Pagano e Cristiano presiede alle gesta. La Vergine Maria da una parte — una Vergine troppo paganeggiante — e Venere dall'altra — una Venere che sa di sacrestia e di Santa Inquisizione — si contendono a volta a volta l'eroe navigatore. Il poema s'apre con una bufera d'antico stile, quando Vasco De Gama piega il Capo delle Tempeste: Bacco lo perseguita, Venere lo protegge. Sbarco a Melinda, accoglienza del Re e della figlia, ed ospitalità generosa, a sdebitarsi della quale Vasco riassume in tre lunghi canti gli annali del Portogallo, le sue glorie passate e future; la filastrocca oratoria di tutti gli eroi antichi quando giungevano alla Reggia ospitale.... Ed ecco Didone camuffata da Ines de Castro, e il quadro commovente della partenza di Vasco con la sua flotta, e il Ciclope, parodiato dal gigante Adamastorre. E tra queste reminiscenze omeriche e virgiliane Vasco giunge a Goa, la espugna, s'impossessa di tutta l'India e non dimentica con i vari Rahja un formale contratto di commercio, in belle ottave armoniose. I navigatori ritornano in patria trionfalmente e sono accolti in un'isola incantata, paradiso allegorico dove le ninfe di Teti, ferite da Venere, li compensano d'ogni dura fatica. I santi del Paradiso Cristiano assistono plaudendo — che libro buffo! — alle cose che si fanno sull'erbetta accademica di questo giardino d'Armida.
Che libro buffo! Ma pieno di bellezze, ed è certo il viatico poetico più adatto per il sognatore che naviga verso Goa leggendaria, il più adatto per ingannare le ore di torpore tropicale, resupini sul ponte, sotto la doppia tenda, nella monotonia d'un viaggio che sembra non dover finire più mai....
Vasco De Gama: nome tra i più favolosi che io conosca: tanto che non riesco a vedere l'uomo fuori della favola, non lo so pensare vivo, mortale, su questo mare, sotto questo cielo che furono i suoi! E pure la sua flotta navigava forse queste acque quando ospitava a bordo, in gran pompa, il Negus complice ed alleato. E l'Imperatore d'Etiopia e il Capitano portoghese erano chini sulla carta a meditare un'impresa degna dei Ciclopi, una vendetta da semidei: deviare il corso del Nilo, costringerlo ad una nuova foce sul Mar Rosso, inaridire così tutta la valle del Delta, annientando per sempre l'Egitto rivale; forse le navi di Vasco seguivano questo stesso solco, avevano d'innanzi questo stesso orizzonte, quando l'esploratore giunse un'ultima volta alla terra della sua gloria e del suo tormento, già vecchio, misconosciuto, agonizzante, e — turbandosi la calma dell'Oceano Indiano per un maremoto improvviso — il morente impose coraggio alla ciurma allibita, gridando con voce ferma: Non temete! È il mare che trema d'innanzi a noi!
16 dicembre.
Ohimè! il mare non trema d'innanzi a noi. Da tre giorni quadro invariabile. Cielo e mare di stagno fuso, con emerso qualche tratto nero: le pinne degli squali, con sempre all'orizzonte, unica traccia concreta, la fascia sottile ondulata di biacca verde: la costa del Malabar....
17 dicembre.
Sono salito sul ponte all'alba. Si costeggia la terra. Il verde s'è innalzato come una cortina che si prolunga all'infinito. Sono i cocchi, gli alberi che regnano le coste di tutto il Malabar, di Ceylon, della Papuasia: compatti, monotoni, abbarbicati fin sulla sabbia, tanto che l'alta marea inghirlanda i loro tronchi d'alghe e di attinie. Sono i cocchi, la nota visiva dominante di queste contrade, le palme selvaggie che dànno al tropico quel suo profilo nostalgico. E non so come un mio compagno di viaggio li possa chiamare datteri, confonderli col dattero africano dal tronco a colonna, fatto di scaglia e di stoppa, dalle foglie di latta rigida, arido compagno del deserto e della piramide. Il cocco è l'amico della pagoda, il figlio dell'ombra umida e calda. I tronchi si profilano bianchi sulla compagine verde, obliqui, sottili come steli di gramigne favolose, lancianti a venti, a trenta metri nel cielo il razzo verde delle foglie espanse, gigantesche, ondeggianti con una grazia infinita sul tronco troppo gracile. Appoggiato al parapetto del ponte, col mento chiuso tra le mani guardo da un'ora quell'unico scenario di creature vegetali. La loro bellezza m'incanta....
17 dicembre, pomeriggio.
E non immaginavo una città cristianissima sepolta sotto l'ombra selvaggia.
Il Pedrillo ha risalito l'estuario della Mandavj, ci ha deposti sull' imbarcadero malfermo della Vielha Citade, ed è ripartito in tutta fretta verso la Nova Citade, prima che la bassa marea lo paralizzi su queste rive.
Da due ore m'aggiro per la più strana, la più triste delle città morte. L'Oriente è pieno di città che furono. Ma risalgono a millenni, nella notte delle origini buddiche e bramine, ce le fa indifferenti l'abisso del tempo, della razza, della fede. La nostra malinconia ritrova invece a Goa lo spettro di cose nostre: conventi, palazzi, chiese del Cinquecento e del Seicento: una vasta città che ricorda a volte una via di Roma barocca o una piazza dell'Umbria: una città che fu suntuosa e ricca, sorta per imposizione della croce e della spada, città che conteneva trecentomila abitanti ed ora ne conta trecento: tutti monaci o guardiani dei palazzi e delle chiese crollanti, testimoni indolenti che non ristorano una pietra, rassegnati all'opera implacabile del clima e della foresta. Per le cose come per gli uomini il tropico è deleterio; e sotto questo cielo di fiamma e d'uragano i secoli contano per millenni. La città è vastissima, ma sono pochi gli edifici completi. Avanzo a caso, senza una mèta, senza una commendatizia, scortato da un monello vivace che m'interroga sulla mia scelta: — Palazzo dell'Inquisizione? Chiesa di San Francesco Saverio? Cattedrale di Nostra Signora degli Elefanti? — E comincia a considerare il mio vagabondaggio trasognato con qualche inquietudine. Un edificio m'attira, un palazzo del Seicento, imponente, dalle grate panciute, dai balconi a volute aggraziate, recanti al centro, in corsivo, un monogramma o uno stemma padronale; e lo stemma è riprodotto in pietra sul vasto androne d'ingresso. Il cortile è circondato da un doppio loggiato barocco, a colonne spirali; ma il loggiato è crollato per una buona metà e s'apre sopra la campagna selvaggia. Seguo il portico a caso, entro nella vasta dimora. Ohimè! Vedo il soffitto; e, attraverso il soffitto, larghe chiazze azzurre: il cielo del tropico. Dei tre ripiani, delle fughe interminabili di sale e di corridoi, non resta più traccia, tutto è crollato, e il palazzo non è che una scatola, una topaja deserta, che serve di magazzino per le noci di cocco. In terra, fino a vari metri d'altezza, sono accumulati i grossi frutti chiomati che fanno pensare a piramidi di teste tronche. Esco all'aperto, mi siedo sotto il portico sopra un capitello infranto, mi disseto ad un cocco che il guardiano rompe e mi porge.
— Di chi è il palazzo?
— Dell'Abbazia.
— Ma chi l'abitava, chi l'ha fatto costrurre?
Il guardiano non comprende, mi guarda perplesso. Accenno allo stemma che traspare anche qui, sul selciato consunto. L'uomo non sa, fa un gesto d'indifferenza.
— Chi può sapere? Un conquistador, nei tempi dei tempi....
Ma quale conquistador? È mai possibile che tre secoli possano annientare a tal segno ogni memoria del nostro passaggio sulla terra? E la memoria di uomini possenti, di dominatori temuti ed invidiati che empirono il mondo delle loro gesta e del loro nome, che il loro nome imposero con la croce e con la spada, scolpirono in marmo ed in ferro sui loro palazzi magnifici. Fu un Diego Lajnez? Un Alfonso Dequero? Un Manrico Tizzona? Forse ne ho già incontrati gli occhi sopraccigliuti in qualche galleria europea, in una tela di Velasquez o di Van Dyck, uno di quei conquistador mezzo mercanti, pirata, guerriero, esploratore che s'avanzano in tutta la pompa delle sete, delle piume, dei velluti, recando la consorte per mano, una pingue signora a riccioli simmetrici, sorridente nonostante il ferreo busto ad imbuto, la gorgiera crudele; e la prole segue in bell'ordine, già tutta imbustata e corazzata come i genitori, e un servo negro reca una scimmia sulla spalla e un pappagallo nell'una mano, sollevando con l'altra una cortina di velluto, e tra le due colonne appaiono le galee potentissime, d'innanzi al porto d'una città favolosa: Goa. Goa la Dourada, Regina dell'Oriente, orgoglio dei figli di Luso, quando sui dominii portoghesi il sole non tramontava mai. «Chi ha visto Goa non ha più bisogno di veder Lisbona».
Ancora una volta tocco l'ultimo limite della delusione, sconto la curiosità morbosa di voler vedere troppo vicina la realtà delle pietre morte, di voler constatare che le cose magnificate dalla storia, dall'arte, cantate dai poeti, non sono più, non saranno mai più, sono come se non siano state mai!
Strade interminabili, alternate di palazzi cadenti, vuoti come teschi, di verzura selvaggia sopravanzante alti muri massicci, di torrioni rivestiti di capillarie pendule, di liane gonfie, maculate come pitoni; e chiese, ruine religiose più tristi delle ruine profane. Sosto nella frescura ombrosa d'un frammento di vòlta a sesto acuto, rimasta in piedi per prodigio, poichè sorretta da un solo muro superstite. La mia nostalgia s'illude per un attimo d'essere in una chiesa diroccata della Romagna o dell'Abruzzo. Ma tre scimmie oscene — vero simbolo apocalittico di Satanasso — occupano il vano dell'abside, una frotta di pappagalli minuscoli corre sulle quattro ogive; non l'edera, non la lucertola amica animano la pietra morta, ma uno strano rampicante dai fiori sogghignanti, e i camaleonti diabolici, dagli occhi strabici.... Dall'alto un cocco ha introdotto nella chiesa una foglia immensa e l'agita lento, proiettando in terra l'ombra di una mano che benedica.
La malinconia della città morta è tutta nel contrasto di questo medioevo europeo, di questo passato nostro, sepolto sotto un cielo d'esilio, in una terra selvaggia.
Non ho altra mèta, altra indicazione in questa solitudine di piante e di ruine che il nome di un italiano non conosciuto mai: e lo ripeto a tutti i rari passanti; ma nessuno sa indicarmi il suo convento. I conventi sono molti e passo dall'uno all'altro inutilmente; nessuno conosce Vico Verani e senza il suo nome religioso sarà difficile la ricerca; e non ricordo quel nome. Mi consigliano di rivolgermi alla Cattedrale dov'è la Direzione Ecclesiastica con tutti i registri....
Affretto il passo, seguìto dal monello goanese che si interessa a quella ricerca con grandi esclamazioni grottesche, e agitar d'occhi e di braccia: una mimica eccessiva che rivela il rampollo di razza bastarda. Si arriva nel centro di Goa: solitudine, silenzio, morte anche qui. Formidabile come una fortezza il Palazzo della Santissima Inquisizione: inquisizione più spaventosa di quella europea, causa prima della decadenza d'un dominio coloniale che non ebbe l'eguale in grandezza.
Ecco la Cattedrale, chiesa abbaziale delle Indie, moschea trasformata in tempio cristiano da San Francesco Saverio. Ed ecco la chiesa del Bom Jesù su di una piazza deserta, ombrata di palme. Visito la tomba del Santo, suntuoso mausoleo barocco di giada, di marmo, d'argento. Il corpo del Santo fu ufficialmente dichiarato Vicerè delle Indie e Luogotenente generale; il vero governatore che giungeva dal Portogallo doveva chiedere il permesso alla salma idolizzata, e ancora al principio del secolo XIX egli veniva in gran pompa a questa chiesa prima di prendere il suo posto: il rito voleva che ritornasse a colloquio con le sante reliquie, prima d'ogni decisione importante....
Il monaco mi fa passare nelle sacrestie: attraversiamo un cortile interno, vasto e murato, dove lo stile tozzo d'altri tempi, la malinconia secolare fanno uno strano contrasto con la verzura ed il cielo abbagliante. Si sale al primo piano; nella biblioteca sono presentato al Padre Superiore. Il monaco m'accoglie benevolo, fa togliere dagli scaffali tre, quattro registri di epoche diverse, sfoglia con rapidità accurata, appuntando sulla carta giallognola l'indice gemmato d'una grossa pietra violacea. Nel silenzio considero quella tonsura grigia ed occhialuta, la persona massiccia nella tunica nera e bianca, e l'altro compagno silenzioso, scarno, irrigidito, addossato ad un planisferio antico recante a figure di belve e di selvaggi i confini portoghesi. E dietro le spalle del padre, dietro l'alta sedia a bracciuoli, s'apre la vetrata, appare un cortile alberato dove una schiera di monelli indigeni, dai volti più foschi nel camice bianco, fanno esercizi ginnastici accompagnati da una specie di canto liturgico. Odore d'incenso putrido, di tabacco aromatico, di tempo e di santità, odore di fiori sconosciuti e di miasmi tropicali. Ho l'incubo. Guardo con impazienza ansiosa l'indice che scorre sul vasto registro. Il silenzio mi pare eterno. E mai avrei pensato di tanto desiderare l'incontro d'un italiano, sia pure il fratello sconosciuto di un amico dimenticato.
Il padre s'arresta, legge finalmente:
— Padre Miguel, al secolo Vico Verani, convento di Santa Trinidad, insegnante di teologia dal 20 settembre 1884, ordinato nel 1891 e....
Il padre alza il volto, mi fissa con occhi placidi:
— È morto il 22 ottobre 1896.
Un silenzio.
— Si dura poco, sotto questi climi, caro signore.
La solitudine mi par più completa, più vivo il desiderio di andarmene, ora che so di aver seguita la traccia d'un morto nella città morta. I monaci m'offrono ospitalità, insistono; ci sono dieci chilometri prima di arrivare a Pandjim, la Nova Citade dove posso trovare un albergo; la notte mi accoglierà a mezza via. Poco importa. M'accomiato; salgo su un trespolo a zebu, un veicolo che ricorda una bara o una bigoncia, dove il viaggiatore si adagia quasi supino, sollevando e abbassando sul volto una specie di paracuna. E si parte di gran corsa verso la Goa moderna.
Goa moderna: ma sembra una città di provincia dei tempi andati, una capitale di qualche Republica dell'America Centrale, sul finire del secolo XVIII. Passo la mia sera nel modo più banale, pur di convincermi di vivere ancora, di essere sempre ai giorni nostri. Entro in un cinematografo. Passo in un caffè, tra questa folla numerosa, così diversa dalla corretta eleganza degli Inglesi e dalla grazia dignitosa degli Indu, folla di meticci portoghesi che si riprodussero come la gramigna sotto questo cielo, sopravvissero alle ruine, più tenaci della pietra, e che si chiamano pomposamente Toupas, cioè europei «che portano il cappello», ma che d'europeo non hanno più nulla, con quelle spalle gracili, le gambe smilze, il volto olivigno, angoloso, dagli occhi vivi, ma scimmieschi sotto la fronte depressa; e hanno atteggiamenti grotteschi di cavalleria, sono lisciati, impomatati, portano in giro sigari enormi e compagne languide, che sfoggiano i figurini di dieci anni or sono, il ritagliume che loro invia qualche fondo di magazzino europeo.
Sorseggio un bicchierino d' arach, il liquore nazionale, il massimo commercio della colonia. Tra il vociare aspro e sconosciuto che m'assorda e il fumo che m'accieca e mi soffoca, ricordo con qualche cartolina illustrata qualche amico d'Europa. E osservo che i francobolli recano ancora l'effige di Don Carlos; la florida ciera del monarca trucidato mi sorride sotto la correzione violenta a grossi caratteri neri: Republica. Sic transit. Non so perchè questo particolare chiude con un'ultima tristezza questa sosta portoghese, giornata malinconica tra le più malinconiche del mio pellegrinaggio.
Esco dal caffè, passeggio pei giardini, m'allontano lungo il mare fin dove cessano i fanali a gas ed appaiono tutte le stelle del cielo tropicale, dominate dalla Croce del Sud; s'ode nel buio il crepitìo caratteristico che fanno le foglie dei palmizi fruscanti tra loro, alla brezza marina. E tento di ricordare e di ripetere come una preghiera sulla tomba della città defunta un sonetto di De Heredia, per la patria lontana.
Morne Ville, jadis reine des Océans!
Aujourd'hui le requin poursuit en paix les scombres
Et le nuage errant allonge seul des ombres
Sur la rade où roulaient les galions géants.
Depuis Drake et l'assur des Anglais mécréants,
Tes murs désemparés çroulent en noir décombres
Et, comme un glorieux collier de perles sombres
Des boulets de Pointis montrent les trous béants.
Entre le ciel qui brûle et la mer qui moutonne,
Au somnolent soleil d'un midi monotone,
Tu songes, ô Guerrière, aux vieux Conquistadors;
Et dans l'énervement des nuits chaudes et calmes,
Berçant ta gloire éteinte, ô Cité, tu t'endors
Sous les palmier, au long frémissement des palmes.
Più che nel tronfio accademico poema di Camoens, Goa «la Dourada» è chiusa in questo miracolo di quattordici versi!
Un Natale a Ceylon.
Adam's Peak. Ceylon, 25 dicembre.
Lento martirio del risveglio sotto questi climi!
La coscienza, intorpidita dall'atmosfera di serra calda, si ridesta penosamente come una ribalta che s'illumini a scatti successivi ed improvvisi; si direbbe che nel sonno essa abbia abbandonato il corpo, si sia involata verso la patria lontana e debba ora riguadagnare in pochi secondi la spaventosa distanza, ritrovarsi la via tra lobo e lobo del cervello; la ragione, invece, già vigile e desta, assiste a quel tormento, indaga, commenta, deride:
«È vano che tu m'illuda, o vagabonda notturna! Sono a Ceylon; so d'essere a Ceylon! È vano che tu mi porti ad ogni risveglio un lembo di paesaggio ligure o canavesano, il sorriso d'un amico, il profilo di mia madre.... So di sognare. Questo suono fioco di campane che tu fingi per ricordarmi la patria, imita assai bene il clangore natalizio quando la bufera di neve lo investe turbinando. Ma non è vero. Vero è soltanto il coro assordante e rauco dei pappagalli e delle scimmie sul tetto del mio bungalow. Fra pochi secondi mi sveglierò a Ceylon, nel mio rifugio solitario, in piena foresta tropicale....
Mi sveglio. Sono a Ceylon. Ho gli occhi bene aperti, vedo attraverso il velo bianco gli arredi della stanza, la figura di Patrick in piedi, che attende col vassoio del thè; sono ben desto; ma, attraverso il coro della foresta, continua il clangore fioco delle campane; scosto la zanzariera, balzo dal letto con tale sorpresa che il vecchio boy cingalese s'inquieta.
— What is the matter with you, Sir? — Niente, caro. Sto benissimo, ma che cosa è questo suono?
— Christmas! Il Natale! È la messa delle sei, alle Missioni di Kandy....
Fin quassù giunge, nell'aria immobile, il suono di Kandy, lontana sei ore, in fondo alla valle....
Patrick è cristiano. Benchè porti i radi capelli grigi avvolti in trecciuole sotto il pettine cingalese di tartaruga ricurva, benchè non abbia altra veste che il gonnellino muliebre a scacchi rossi ed azzurri, egli ha sul petto ignudo, appesi tra gli amuleti contro i veleni, i cobra, i malefizi, uno scapulare di celluloide e una crocetta d'argento. È un puro ariano, dalla nobile faccia socratica che mi ricorda terribilmente un mio illustre insegnante di Università, tanto che ancora non riesco a vincere una certa esitanza, quando devo ordinargli di prepararmi il bagno o di lucidarmi i gambali....
— Christmas, Christmas! Sentite le campane?
È Matthew, l'altro boy, che entra esultando, con tutti i suoi denti bianchi, abbaglianti nel bronzo del viso. È giovanissimo Matthew, ha vent'anni e parla sette lingue; è un buon cacciatore e un ottimo cuoco; nessuno sa meglio di lui rammollire e friggere il legno della traveller-palm o cucinare la carne del pangolino squamoso o del vampiro-rossetta.
Con questi due compagni e il guardiano del bungalow — appena sufficienti in questi climi dove il lavoro è frazionato per età e per caste — abito da quasi un mese l'ultima rest-house offerta al viaggiatore dalla mirabile previdenza britanna. A Colombo, a Kandy, fra le gaie lusinghe degli hôtels cosmopoliti, ho sciupato molto tempo e danaro (troppo danaro per un letterato entomologo, non lautamente munito dalle patrie lettere e dai patrii musei) e devo ai buoni uffici del Console d'Olanda presso il governo cingalese questo rifugio beato, favorevole più di ogni altro alle mie ricerche.
È minuscola e modesta questa rest-house sul Picco d'Adamo, e non m'inorgoglisce il pensiero che v'ha pernottato il Kronprinz, lo scorso anno, quando venne a Ceylon, per la caccia all'elefante. Ohimè, la dimora non è imperiale! Ha una lindezza squallida di stazione ferroviaria e di casetta nipponica a un solo piano, come tutte le costruzioni dei tropici, circondata da una veranda a colonnette bianche, dal tetto ampiamente proteso; a sera si abbassa una grata a saracinesca che si chiude intorno premunendoci contro le visite dei felini. In Europa gli uomini mettono le tigri in gabbia, qui sono le tigri che costringono in gabbia gli uomini; non la tigre, veramente, che manca in queste foreste, ma il leopardo e la pantera nera cingalese, temibilissima. Le stanze sono disposte attorno a un cortiletto, un piccolo patium centrale, e sono di una malinconia indescrivibile, in muratura bianca di calce fino a mezza parete, dalla metà in su in legno traforato a giorno e aperto, così, al minimo soffio ristoratore; v'entrano liberamente i piccoli alati della jungla, i passeri bengalini, con la fiducia incredibile che hanno per l'uomo gli animali dell'India....
Una camera da letto d'una semplicità da certosino, una sala con qualche pretesa europea, una cucina e una vasta dispensa che ho adibita a laboratorio con le mie casse e i miei barattoli; dinanzi alla casa un giardinetto derisorio, con un'aiuola triangolare dove il guardiano cura con grande amore alcuni grami gerani d'Europa, storditi dal clima e umiliati dalla flora circostante. In quest'eremo mi raggiunge stamane il clangore remotissimo delle Missioni.
E per la prima volta, dacchè sono lontano dalla patria, sento in cuore una trafittura leggera, appena percettibile, ma insistente e importuna come il primo rodìo del dente cariato: è la nostalgia! Ed io mi vantavo d'esserne immune! Ohimè, ci si può illudere d'essere un Robinson e un cenobita buddista, ma non si può scomporre la nostra sostanza prima, la quale è non soltanto per ciò che è, ma per ciò che è stata; e non si eliminano dal mistero della nostra psiche millenni di evoluzione europea e venti secoli di cristianesimo.... La nostalgia, il male tremendo e indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili all'ansia e al rimorso!
Esco all'aperto, ristorato dal bagno, per distrarmi al risveglio della foresta, delizia e meraviglia sempre nuova ai miei occhi europei. Seguo un sentiero appena tracciato nella densità del verde, ma per la prima volta questa natura paradisiaca m'appare ostile, inquietante come un paesaggio antidiluviano, sul quale debba profilarsi un pleosauro o un iguanodonte. Attraverso l'intrico della flora demente, dalla profondità delle valli, giunge ancora una volta il suono delle campane delle Missioni, poi tace e mai mi son sentito così solo, benchè Patrick e Matthew mi seguano recando il fucile, le reti, le pinze. Ma quest'oggi non uccideremo. È nato nella mia terra il fratello di Gautama: la Bontà Suprema, che ogni tanti millennii s'incarna e culmina in un uomo, s'è «destata» un'altra volta in uno «svegliato».
Avanziamo in questi stretti sentieri simili a corridoi nel verde, scavati dalle escursioni notturne degli elefanti selvaggi. Sono le otto del mattino; la mezzanotte è dunque imminente in Italia, le mense a quest'ora s'inghirlandano di vischio e d'agrifoglio, le finestre s'illuminano nelle tenebre glaciali, nevose della notte sacra. Qui è mattino estivo, una luce abbagliante che giunge mitigata dalle cupole delle felci arborescenti, come un verde tremolio sottomarino; è il tepore di serra calda che dura eterno su questa fascia equatoriale della terra, una quinta stagione senza nome ch'io chiamerei Euforia; la demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti. In questo tepore eterno, mitigato nella sera e nella notte da un'ora di pioggia torrenziale, la flora raggiunge misure, linee, tinte incredibili; e questa bellezza e questa stagione che non mutano, aggiungono alla mia nostalgia d'oggi un altro sgomento fatto di pensieri indefinibili; le primavere, dunque, le estati, gli autunni, gli inverni immortalati nei capolavori della poesia, della pittura, della musica europea, non sono che il prodotto d'una latitudine — tristezza, relatività di tutte le cose, anche di quelle che veneriamo come divine, ed immortali — tristezza ancora più profonda al pensiero che questa terra perennemente verde non è che la sottile zona d'un'estate eterna che copriva, all'inizio, tutto il nostro globo — sgomento puerile, ma invincibile al pensiero che la nostra patria è già immersa nella curva della terra che si spegne, che l'inverno, la notte glaciale e nevosa che l'avvolge in questo mio chiaro mattino, è già l'imagine della notte glaciale eterna che s'avanzerà nei tempi e guadagnerà i tropici e raggiungerà fin su questa zona privilegiata l'ultimo esemplare dell'umanità moribonda....
Non è gaio il mio Natale, e la flora che mi circonda non è consolatrice, mi ricorda di continuo la spaventosa distanza dalla patria; l'illusione non è possibile nemmeno limitando lo sguardo in terra; il piede s'avanza ora fra muschi, licheni mostruosi simili a polipi o a masse madreporiche, ora passa sul tappeto cinerino della mimosa azzurra cingalese, e il passo lascia una strana impronta che s'allarga in pochi secondi, con la contrazione dolorosa del mollusco offeso. Ai lati, in alto, è il tripudio della flora vegetale e della flora vivente; strani insetti ( fasmidae, phillum, ecc.) imitano i rami e le foglie, farfalle enormi abbagliano nel volo, come una brace verde e azzurra, e, posate, si chiudono in un grigiore di foglia morta; fiori strani, petali di carne rosea e sanguigna, di porcellana candida o azzurra, fiori che nessuna parentela hanno con i nostri, foglie più belle dei fiori, a cuore, a calice, a scudo, lobate, dentate, frangiate, bianche venate d'azzurro e di rosso, rosse venate di bianco e di violetto, felci arboree agili come zampilli verdi, felci nane, capillarie fluttuanti nell'aria, come in fondo ad un acquario; e tutto è immutato, come ai tempi delle origini, quando non era l'uomo e non era il dolore....
.... Le undici; il sole è quasi a picco; il paesaggio favoloso si scompone nelle lontananze verdi, al gioco dei miraggi; i tronchi serpeggiano nell'aria che si dissolve tremando come l'acqua d'un rivo. Rientro nel bungalow. Ma sulla soglia Matthew che mi precede s'arresta con alte grida di paura e di giubilo:
— Cobra! Cobra! The best wish for you! Il migliore augurio per voi!
Strana fantasia dell'India, che ha simbolizzata la speranza gioiosa in questo messaggero di morte certa! — Tkatura — Tka: «ancora — sette — passi» lo chiamano i cingalesi, perchè, si dice, la vittima barcolla sette passi ancora, poi cade irrigidita. È certo tra i rettili più micidiali, ma la sua apparenza non è formidabile. Questo che m'accoglie nel mio giardino è grosso poco più d'una biscia e fuggirebbe volentieri se il boy non gli balzasse intorno impaurendolo con le grida e con la rete; il cobra s'è raccolto a spire, erigendosi a mezzo il corpo con la gola gonfia, espansa dall'ira, e la piccola testa triangolare dagli occhi rossi come rubini, dalla lingua bifida dardeggiante, gira intorno, su sè stessa, vigilando l'uomo, pronta alle difese.
Ma l'uomo lo lascia e il rettile si snoda, s'allunga, dispare nel folto; sia grazie anche a lui in questo giorno di Natività....
A tavola, solo. La saletta mi dà qualche illusione d'Europa, illusione che accresce, non mitiga la mia nostalgia. È singolare il contrasto fra la lindezza tropicale, le pareti bianche di calce, traforate a mezzo, fino al soffitto, e la pesantezza presuntuosa e vetusta dello scarso arredo che ricorda le sale d'aspetto di certi dottori o di certi curati; quattro sedie in giunco, un divano esalante da troppe ferite l'anima di stoppa, una mensola Impero con sopra un pendolo Robert di qualche pregio, uno scaffale con una Bibbia enorme, alle pareti un'oleografia moderna dei Reali d'Inghilterra e due incisioni antiche: Amsterdam del secolo XVII; cose tolte a qualche vecchio bungalow e giunte a Ceylon al tempo della dominazione olandese, quando i mercanti fiamminghi giungevano all'isola favolosa, non anco ben definita sugli atlanti, dopo un anno d'avventure su velieri mal fidi, circumnavigando l'Africa e l'India....
Patrick e Matthew vengono e vanno silenziosi, vigilando ogni mio gesto con quello zelo devoto che è la grande virtù dei servi indiani e la meraviglia di tutti i viaggiatori. Matthew ha posto in mezzo al tavolo, dentro una latta per conserve, un fascio enorme d'orchidee, raccolte nella gita di stamane, e un piatto di manghi enormi. Mi sono avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto; strani frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere e da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee che ho dinanzi; petali di lacca policroma, polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell'interno iridescenti come le tinte intravviste nei toraci aperti delle bestie macellate; il fascino dà l'incubo della peste e del malefizio, e nell'afa pomeridiana emana un odore fetido insostenibile. Faccio allontanare il mazzo favoloso che a quest'ora, in una sala europea, sarebbe omaggio non indegno d'una principessa, e quanto volentieri lo cambierei con un ramo natalizio di agrifoglio spinoso a bacche rosse o con un ciuffo di vischio perlato!
Ed è l'ora dell'afa pomeridiana, della siesta tropicale sulla sedia a sdraio, e l'ora del silenzio favorevole alla vista dei bengalini.
I passeri minuscoli, rossi o verdognoli spruzzati di bianco irrompono in fretta da una parte della sala, l'esplorano, l'attraversano a volo, rientrano; il mio braccio bruscamente proteso per prendere un libro, li inquieta, irrompono in cucina, ritornano impauriti dallo sfaccendare dei boys, turbinano due volte nella sala da pranzo, si dispongono nei trafori delle pareti, in attesa; alcuni, più audaci, considerano che non mi decido ad andarmene, scendono, si posano sulla spalliera delle sedie, sugli scaffali, in terra, a beccare le briciole della colazione, e ad uno ad uno scendono tutti, saltellano con un pigolio sommesso, ormai fiduciosi nell'uomo vestito di bianco. Avanzo un braccio, getto un giornale per vedere fino a qual segno giunga la loro audacia, e i piccoli temerari si scostano appena.
Nell'afa silenziosa quel cinguettio tracotante s'accorda col tic-tac del vecchio Robert che ha segnato le ore di tante vite in esilio, s'accorda col canto in sordina dei boys.
Patrick e Matthew non sfaccendano più.
Sono distesi in terra con le spalle al muro, dormono e cantano. Il loro sogno indolente si traduce per sè stesso, attraverso i denti chiusi, in una musica sonnolente e bizzarra: azione riflessa, commento delle cose, parafrasi della solitudine e dell'esilio, del caldo e del silenzio...
Da Ceylon a Madura.
A bordo del Bangalore, 3 gennaio 1913.
E anche l'isola abbagliante diventa un ricordo, cade nel passato. Tutti sono sul ponte a dirle addio. Turisti londinesi che fanno sino a Colombo la loro corsa di due mesi, mercanti olandesi e belgi di cannella e di perle, tamili che ritornano in India dopo il lavoro annuale nelle piantagioni cingalesi di thè e di caffè, tutti sono sul ponte, con occhi fissi alla terra verdeggiante e con un diverso rimpianto; la nave lascia il porto, già beccheggiando al primo corruccio del largo.
E l'isola si vela d'improvviso, quasi per troncare la malinconia degli addii. Dal Picco d'Adamo alle foreste del litorale tutto è avvolto in pochi secondi da una cortina di nubi tondeggianti, cupe e concrete come se scolpite nel marmo livido, mentre il cielo intorno e sul nostro capo resta azzurro e tranquillo; nella cornice fosca, simile all'ovale di nubi artificiose di certi Inferni e di certi Diluvii, guizzano, s'intrecciano lampi azzurri e violetti, e lo scenario interno s'accende di un riverbero sanguigno, profilando in nero i palmizi scapigliati; un'acquata torrenziale, ignota ai nostri climi, appare di lungi, riga il centro del quadro di striature oblique di cristallo; un rombo indescrivibile accompagna l'uragano equatoriale, simile all'orchestra di mille gonghi formidabili.
La nave s'allontana nel sereno, ma il mare è agitato. L'onda freme di continuo in questo Stretto di Manaar che, per fortuna, attraverseremo in una notte soltanto. E domattina, prima dell'alba, sbarcheremo a Tuticorin, la città più meridionale dell'Industan.
4 gennaio.
È l'alba, ma la terra non è in vista. Il mare è furente.
Immune, per mia fortuna, dal mal di mare, ma stordito dalla notte insonne, dolente per le cinghie di sicurezza, sono disteso nella mia cabina, e sento i lagni dei vicini, gli ordini recisi degli ufficiali e il rombo dell'elica, che a tratti turbina nel vuoto. Poi anche l'elica tace; la nave s'arresta; salgo sul ponte, barcollando. — Il Bangalore «ha stoppato» — mi spiega un ufficiale della British India, che s'ostina a parlarmi italiano, — perchè si attende il rimorchio. — Siamo nell'Arcipelago perlifero, tra banchi malfidi, non conosciuti che dai pescatori indigeni.
È il mare che dà le più belle perle del mondo; lo pensavo diverso, ricco di bagliori e di tinte vive, sotto un cielo di fiamma; sembra, invece, un mare nordico o meglio un oceano primordiale, quando l'acque ed i continenti non avevano ben divisi ancora i loro confini; l'orizzonte sembra di stagno fuso, agitato non dal vento, ma dalla corrente che pulsa e ripulsa nei bassifondi e qua e là spumeggia e ribolle come se sconvolta dalla mole colossale di un mostro sottomarino; il cielo afoso e torbido, dal quale il sole proietta i suoi raggi a fasci disuguali, accresce l'illusione malinconica di oceano antidiluviano. Veramente si aspetta di veder emergere il dorso immane, l'alto collo serpentino, la piccola testa vorace d'un Itiosauro. Biancheggiano all'orizzonte, circondate di spume più furiose, le isolette che collegano Ceylon alla parte meridionale dell'Industan: così vicine e regolari che, a bassa marea, servono per l'emigrazione degli elefanti sul continente. Formano per gli Indu il Ponte di Rama, quello che servì all'eroe vedico per irrompere dall'India all'isola dov'era la Principessa captiva; e formano per i cristiani l' Adam's Bridge: il ponte d'Adamo, che fu passato dal primo uomo piangente, cacciato con la sua compagna dalle valli incantate dell'Eden...
La nave ancorata su queste acque ribollenti e ripulsanti, s'agita in un beccheggio impaziente.
E il rimorchiatore non giunge.
Tuticorin, 5 gennaio.
Siamo approdati a Tuticorin in una specie di chiatta a vapore sulla quale ci hanno sbalzati ad uno ad uno, come balle di mercanzia, cogliendo l'attimo in cui l'onda innalzava il vaporetto all'altezza del piroscafo.
Tuticorin è la città famosa delle perle. Ma da tre anni la pesca è proibita dall'Inghilterra. Si depredavano i banchi perliferi senza metodo e senza tregua. Le valve aperte e gettate in una speranza mille volte delusa, formano bassifondi alti quindici, venti metri, tracciano nuove spiagge, modificano, nei secoli, il profilo del litorale.
E nella città delle perle, naturalmente, non troviamo una perla. Quelle che ci mostrano i mercanti girovaghi, troppo grosse e perfette, troppo nivee nella palma color di bronzo, m'hanno tutta l'aria d'essere fabbricate da un impresario tedesco in una vetreria di Calcutta o di Bombay. Quelle in vendita dai gioiellieri accreditati, che si cedono con regolare contratto e garanzia consolare, hanno prezzi favolosi e non sono bellissime. La merce migliore è interdetta al viaggiatore, e incettata per i grandi mercati di Londra e di Amsterdam.
Degno di nota il sobborgo degli intagliatori, raffinatissimi, per abilità ereditaria di casta, nel lavorare l'ebano, l'avorio e la madreperla: scolpiscono, cesellano elefanti, amuleti, idoletti secondo il modello immutabile nei millennii; un cieco ha intagliato sulla zanna intera di un elefante tutta la leggenda di Rama; e gli episodi si svolgono a spirale, in gruppi non privi di vivezza e di grazia, con un'arte che ricorda i nostri primitivi.
Lasciamo Tuticorin per Madura. Ed eccoci ancora in queste ferrovie indiane che hanno un fascino esotico indefinibile; grandi carrozzoni quasi quadri, a doppio tetto spiovente, dove la raffinatezza inglese stride con l'esotismo dei panka che pendono come immensi ventagli, alternati ai ventilatori elettrici, con le iscrizioni delle targhe, delle réclames in inglese, tamilo, arabo, cingalese, con i fiori strani delle mense del dininge-car, gli strani servi in camice bianco, scalzi e silenziosi e pure imponenti come sultani. Si viaggia verso Madura, «il cuore di Brama», chè così gli indigeni chiamano tutta questa parte meridionale dell'Industan formata dai tre stati di Travancore, Madura, Tanjore, dove il bramanesimo è intatto, immune dall'islamismo che ha dilagato nel Nord e nel centro dell'India e dal buddismo che impera nell'isola di Ceylon. Riconosco la città di Madura subito, da lontano, per il profilo ben noto delle sue piramidi tronche, che s'innalzano sul verdeggiare dei palmizi. Le immaginavo d'oro le alte gopuram di Brama; sono invece d'un color rosso sangue; e l'oro non appare che quando si è più vicini, alternato all'azzurro e al verde, a sottolineare le figure delle quali le immense moli sono coperte. Quando scendiamo alla stazione è troppo tardi per raggiungere il Tempio. Il giorno tramonta; il cielo s'arrossa per un istante e le stelle si accendono tutte insieme sullo scenario che annera d'improvviso, come una ribalta spenta.
Madura, 6 gennaio.
E in questa terra di Brama siamo ospitati dalle Missioni Belga dei Charmelitains déchaussés, presentati da una lettera del vescovo di Bombay. Mancano alberghi a Madura; quello della stazione è inabitabile per il servizio quasi indiano, il rombo e il fischio dei treni, il clamore dei pellegrini.
Mi sveglio invece in questa camera linda, aperta sopra un giardino tranquillo. Non è più la selvaggia flora di Ceylon. Esco tra le aiuole ben pettinate, dove le rose bengali s'alternano con ortaggi europei, tanto che in questo mattino di gennaio ho l'illusione di passeggiare in un giardino canavesano, nelle nostre più belle giornate estive; ma una frotta di pappagalli verdi, una farfalla troppo ampia e troppo abbagliante, inconciliabile col nostro cielo, mi ricorda il tropico, mi dà l'incubo, quasi, dell'estate sempiterna. Giunge di lontano un suono discorde e assiduo di tam-tam, di gonghi, di pifferi, che sovrasta il suono delle campane cattoliche, un'orchestra selvaggia che mi parla di misteri paurosi e d'idolatria.
— L'idolatria! — dice il missionario che m'accompagna, una figura ancora giovane di fiammingo indurito a tutte le fatiche e a tutte le prove — l'idolatria è la piaga insanabile di questi popoli. La loro stessa letteratura sacra, che contiene capolavori di filosofia edificante, ottima preparazione a ricevere la luce del cristianesimo, è ignota a questa gente, ignota ai loro stessi sacerdoti specializzati, per eredità di casta, in pratiche esteriori ed assurde. L'Indu vuole l'idolo. E siamo costretti a rivelare i simboli cristiani nella forma più concreta: l'immagine. Tutto ciò che è Vangelo, disciplina morale, cosa astratta non ha presa su questi spiriti, avvezzi al loro Olimpo dravidico popolato da migliaia di dei. Sono anime docili, pronte alla fede, ma una fede eretica che li fa appaiare sui loro altari la Trinità di Brama alla Trinità di Cristo, Maia-Devi a Maria Vergine, Mara a Satanasso. E Satana non è per loro il Male, ma una potenza terribile, quasi rispettabile, certo da ossequiare più della divinità, da placare con doni e ghirlande. Accettano Cristo, gli stessi sacerdoti l'accettano, ma per collocarlo tra Ganesa e Parvati, come un avatar, un'incarnazione di più. È forse più facile illuminare un Niam-Niam che questi cervelli ottenebrati da un'idolatria tre volte millenaria...
Passiamo nella Chiesa. La Messa volge al termine e la folla è al completo; devoti che assistono genuflessi, quasi carponi, con un raccoglimento ignoto fra noi. Ma vedo che le navate sono divise in tre reparti in muratura: divisione di casta, senza la quale i devoti si rifiuterebbero d'intervenire; perchè nessuna dimostrazione evangelica potrà mai indurre un indiano ad accostare un indiano di rango diverso; e accettano il paradiso promesso, ma a patto di suddivisioni di casta ben definite.
E il missionario mi fa notare sul collo bronzeo delle devote genuflesse i più strani amuleti pagani: zanne di tigre, idoletti, lingam fallici alternati a scapolari, crocette, medagliette di santi.
M'avvio verso la città per un viale alberato di baniam colossali che formano come una galleria di tronchi e di radici aeree. E fra i tronchi, ad intervalli, sono tempietti, tabernacoli d'un arcaismo remotissimo, che contengono idoli minuscoli, orridi e grotteschi, simili a feti sculpiti in metallo od in pietra; e grosse inferriate li custodiscono come se fossero belve feroci. Alternati ai tempietti noto certi alti scranni in granito, perchè le donne che passano sotto anfore enormi, fasci pesanti, possano deporre il carico e riprenderlo senza aiuto. Passano uomini, tamili foschi, razza aborigena di bassa casta, bramini dalla pelle chiara, sdegnosi di vesti e d'orpelli, ma dignitosi nella loro nudità completa, con non altro ornamento che la cordicella sacra simbolo battesimale d'alta casta, e il monogramma di Visnu, il tridente disegnato sulla fronte, sul petto; lo stesso tridente di Visnu che vedo dipinto sulle pareti delle case, sul tronco degli alberi, sulla fronte spaziosa degli elefanti.
Madura è la città sacra del bramanesimo, mèta di pellegrinaggi senza fine, luogo d'adorazione continua, dove la vita e la realtà non servono che alla contemplazione e alla preghiera. La città contiene quasi più templi che case, più sacerdoti che cittadini. La grande pagoda a Siva e a Minakshi «la dea dagli occhi di pesce» è per sè sola una città e un labirinto. Come tutti i templi bramini, non consiste in un edificio soltanto, ma in varie costruzioni chiuse in cortili concentrici, in recinti sempre più vasti, ed ogni recinto è sormontato da due gopuram, le cuspidi che innalzano a ottanta metri nel cielo il simbolismo pazzesco delle loro sculture. Nei cortili sono le abitazioni per i bramini d'alta casta, le piscine per le abluzioni dei fedeli, statue, idoli colossali, mercati coperti, tutto quanto concorre alla vita materiale e morale d'un popolo in adorazione.
Giungo nel Tempio quasi senza accorgermene, lungo una larga via fiancheggiata di case a veranda che ricorderebbero le costruzioni di Roma provinciale se le colonne classiche non fossero sostituite dalla colonna indiana, quadra, dal capitello a testa elefantina, a mostri sogghignanti. La via giunge fin sotto la prima piramide, prosegue dentro il tempio, ampia e popolata, attraverso un arco ciclopico che s'apre nella piramide stessa; e la città profana continua nella città sacra. Passo dalla luce abbagliante nella penombra religiosa, m'addosso alla parete di granito, per orizzontarmi, e sento che il granito palpita e cede; è uno degli elefanti sacri, un colosso decrepito che sembra scolpito nella pietra stessa del tempio, la sua proboscide mi sfiora le mani, il volto in una carezza indulgente; un altro è sdraiato e profila l'immensa groppa tondeggiante, ingombrando il bel mezzo della via, deviando il traffico e il transito dei devoti; tre elefanti novelli, minuscoli ancora, passano al trotto, con tinnito di sonagli, una mucca zebu s'avanza incerta ammusando gli erbaggi, i frutti offerti dai fedeli; mucche ed elefanti di questo recinto sono animali sacri, addetti a cortei religiosi, idoli viventi del tempio di Madura, e non si gettano come vili nemmeno i loro escrementi. Incombe su tutto il tempio un senso d'idolatria che mi fa pensare al feticismo dell'Africa più nera e non alle divine speculazioni dei Veda. Passa il corteo di Parvati, un rito che si ripete due volte al giorno, portando in giro l'immagine della moglie di Siva, in visitazione a tutti i tabernacoli del sacro recinto; il feticcio, pupattola d'oro massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi tondi d'onice incastonato sotto l'alta mitra ingioiellata, appare, dispare attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e di pifferi, incutendo nell'anima del forestiero un senso di paurosa diffidenza, di ripugnanza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel tempio famoso è la profusione di tesori e l'incuria più laida.
M'avventuro fino al secondo, al terzo recinto, passo dall'ombra alla penombra, alla luce, rientro sotto l'immense vòlte sepolcrali costrutte a blocchi monolitici di quindici metri di lunghezza, alzati, ordinati a formare un soffitto titanico che ricorda l'Egitto faraonico. Sotto la gopuram centrale le colonne si moltiplicano, si perdono nell'ombra, come tronchi centenari in una foresta d'abeti. Fuori è ancora la chiara luce del tramonto, ma qui è la notte completa costellata da un'infinità di lampade votive che disegnano, senza illuminarle, le colonne, le cancellate sacre, gli idoli colossali. L'occhio si abitua a discernere a poco a poco la folla di carne, di pietra, di metallo. Veramente non pensavo di trovare così intatta l'India favolosa, le forme imparate a conoscere fin dall'infanzia sulle incisioni e sui libri. Sono deluso invece nella mia attesa filosofica, nel mio amore per la più grande religione che abbia espressa l'umanità nel suo sgomento di dover nascere, di dover morire.
È questa la terra di Brama? Di Brama «l'ineffabile, colui che non dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente?» Ma qui il nome divino è feticismo immondo, praticato da un popolo forsennato che ha ridotto le speculazioni astratte ad un simbolismo pazzesco; un popolo che adora questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca e non sa chi, non sa che cosa.
M'avanzo nella penombra, sempre fra le colonne infinite, sotto le vòlte piatte e sono guidato da due indigeni che sollevano le fiaccole resinose; e le pareti s'illuminano un poco, e appaiono strane divinità, sempre chiuse in gabbie dalle sbarre robuste, come belve da custodire; e Ganesa, il Dio della saggezza che appare più frequente, con tutti i suoi congiunti a testa elefantina; o una divinità innominata dal corpo di mucca e dalla testa femminile: e il corpo bovino e gibboso, è imitato fedelmente sul modello degli zebu indigeni, e il volto femminile è scolpito sul tipo indiano, con gioielli alla fronte, agli orecchi, al naso, e un sorriso insostenibile di baiadera convulsa. Le fiaccole sollevate in alto turbano il sonno dei grandi pipistrelli-vampiro ed è uno squittire di sorci impauriti, un turbinare di ale silenziose che ci ventano in volto come grandi lembi di seta nera.
Si esce all'aperto, nel cortile centrale. E alla luce del tramonto appare la grande piscina del tempio, un rettangolo di cento metri di lunghezza, chiuso ai quattro lati da scalee di marmo, circondato da colonne leggiadre, evocanti la grazia d'un peristilio pompeiano. Dopo l'ombra tetra e le fiaccole gialle e gli idoli spaventosi, l'anima si ristora in riva a quest'acqua cristallina, liscia come uno specchio, dove il cielo riflette con un nitore preciso le nubi sanguigne, alternate all'azzurro cupo, e le prime stelle della notte che giunge. Intorno, vicine e lontane, s'alzano le gopuram, le cuspidi che dominano Madura, da tutte le parti. E prima del tramonto voglio salire sui fianchi della gopuram d'ingresso, vedere vicine, palpare le sculture famose. Non c'è spazio che non sia stato scolpito a fregi, a divinità, a mostri; e con altorilievo così audace che le figure sembrano gesticolare, staccarsi, precipitare verso il profano per farlo a pezzi con le loro venti braccia armate di scimitarra, con le loro coorti di tigri, di serpenti che salgono alla sommità dove la cuspide tronca sfida il cielo con venti lancie disuguali. È tutta una teogonia simbolica, una personificazione delle forze della Natura che lo spirito induista ha diviso, suddiviso con un'analisi tragica e grottesca che suscita lo spavento ed il sorriso. Dal fianco di questa gopuram si domina la città e la campagna, dove altre pagode s'innalzano sull'ondeggiare verde vivo dei cocchi; e molte pagode sono chiese cristiane: chiese costrutte nello stile Indu, e che sono più antiche delle nostre più antiche cattedrali. Poichè il cristianesimo fu predicato in questa parte dell'India da San Tommaso, e le Missioni seguirono le Missioni, indisturbate nei secoli, bene accolte dagli stessi sacerdoti, in questa terra indulgente per tutti i culti, purchè si adori, purchè si creda....
Qui dunque, si pronunciava il nome di Cristo quando l'Europa era ancora pagana! È un pensiero che dà quasi uno sgomento d'esotismo estremo, di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli. È un pensiero che sembra inconciliabile con questa piramide popolata di eroi e di mostri che danno la scalata al cielo di fiamma. E nel cielo che s'arrossa turbinano falangi di corvi e di pappagalli che ritornano ai loro nidi sospesi tra le sculture di quest'Olimpo furibondo. Allo stridìo dei pennuti, che giunge dall'alto, s'accorda lo stridìo dell'orchestra che giunge dal basso del Tempio, da tutti i templi vicini e lontani: tam-tam rombanti, pifferi striduli che parlano di furore selvaggio e d'idolatria....
La danza d'una “Devadasis„.
Madras, 9 gennaio.
Per i buoni offici del dottor Faraglia assisteremo questa sera alla danza d'una Devadasis: una bajadera d'alta casta, ospite in una famiglia indiana tra le più ligie al passato e le meno accessibili alla curiosità del forestiero.
Una bajadera: il nome suscita nella mia ignoranza occidentale una serie d'immagini assolutamente false: complici i libri d'avventura, le oleografie, i melodrammi, l'operetta. Bajadera, odalisca, uri, ecc. Una di quelle signore, insomma, di quelle signore d'Oriente, preferibilmente bruna, ma se occorre, se il soprano ha una bella chioma ossigenata, anche biondissima, da vestirsi «all'orientale» con quell'unico costume che la prima donna adatta serenamente a Thais e a Semiramide, a Cleopatra e a Salomè, vale a dire: due coppe gemmate, ottime per l'assenza e la presenza eccessiva, una guaina qualsiasi di tulle stretta alle reni e alle ginocchia da un impaccio d'orpello e sotto due gambe insolentemente europee, calzate di seta rosa e di due trampoluti stivaletti Luigi XV.... Bisogna rinunciare a questo figurino e bisogna sopratutto rinunciare al preconcetto che una bajadera non sia una signora per bene.
Una Devadasis (ancella della Dea) cioè una bajadera di casta bramina, vanta, anzitutto, una nobiltà millenaria, poichè non può essere che figlia di una bajadera come i suoi figli non possono essere che bajadere, se femmine, musici e letterati, se maschi. È facile comprendere come, anche per solo istinto ereditario, s'affini in una Devadasis l'arte del gesto, del passo, dell'atteggiamento, l'arte della voce e della maschera, l'attitudine letteraria a penetrare, commentare insuperabilmente i capolavori della poesia indiana.
Nata, cresciuta nel Tempio, educata con una regola inflessibile, essa non ha bisogno d'imparare le lingue sacre: il sanscrito, il pali, le sono famigliari sin dall'infanzia; le strofe dei Pouranas, i poemi storici e sacri indiani, cullano i suoi primi sonni; i suoi primi passi si muovono istintivamente ad un ritmo di danza, le sue prime parole ad un ritmo di canto e di poesia, i begli occhi tenebrosi si sono appena schiusi alla luce e riflettono per immagini prime la favolosa architettura del recinto sacro, gli Dei, gli eroi, i mostri di pietra e di metallo, la madre, le sorelle officianti e danzanti nelle cerimonie e nei cortei. Prigioniera nel tempio fino a quindici anni, essa limita l'orizzonte dell'universo tra lo stagno dei coccodrilli sacri e l'alte mura vigilate dagli elefanti di pietra. La sua carne, la sua anima s'accrescono esclusivamente di religiosità. Essa è nata e vive nella favola mistica. Tutta la sua educazione è intesa a fare di lei la viva scultura del tempio.
Il fiore della sua bellezza, appena pubere, può, deve anzi, essere raccolto da un protettore di stirpe nobile, un nabab che sarà legato a lei, ufficialmente, con un vincolo sacro e indissolubile. Costui deve dotare la bajadera di un patrimonio cospicuo, riconoscerla, beneficarla nell'eredità, subito dopo la moglie e prima dei figli, obbligarsi ad una offerta annua verso il tempio. Questo legame non esclude, anzi inizia da parte della bajadera un tenor di vita che a noi parrebbe della più spudorata infedeltà. Poichè da quel giorno essa è addetta al culto di Ramba-Devi, la Venere del Paradiso d'Indra, attende a cerimonie non descrivibili, ed è offerta dal sacerdote a tutti quei devoti — d'alta casta — che pagano un obolo adeguato, il quale obolo non va alla Devadasis, ma al tesoro del tempio....
Ohimè! A questo punto un occidentale non si ritrova più e pensa che nel suo paese un tempio, un sacerdote, una sacerdotessa di tal fatta corrispondono ad una nomenclatura assai meno arcana e meno rispettabile.
Ma tutto è questione di latitudine. Latitudine nello spazio e nel tempo. Sono i venti secoli di cristianesimo che dinanzi a tali consuetudini ci fanno arrossire di pudore o sorridere di malizia. Il bramino non arrossisce, nè sorride, come non sorrideva, nè arrossiva il pagano che giungeva in Pafo e in Amatunta e offriva l'obolo al tempio famoso. È risaputa l'identità di origine dei greci e degli indiani, la parentela che unisce la teogonia bramina alla teogonia ellenica. Ora Ramba-Devi, col suo Eros dal volto fosco, armato non di strali, ma di serpenti cobra, è la Venere del paradiso di Indra, la sorella certa della Venere greca che sopravvive nella terra di Brama mentre l'altra si è dileguata per sempre dinanzi all'avvento della nemica: la Vergine Madre.
Noi, devoti della Madre di Dio, affermazione dello spirito, negazione della carne, non possiamo comprendere un culto erotico; tutta la nostra intima essenza foggiata secondo una morale due volte millenaria, sussulta, si rivolta, vedendo ricomparire dalla notte dei tempi la sorella dell'antica avversaria.
Per questo non possiamo comprendere una Devadasis, nè definirla. Bisognerebbe aggiungere all'attrice somma, alla mima insuperabile, all'erudita, alla cultrice di poesia, la figura della sacerdotessa invasata, della menade folle.
Ma arrossiamo di pudore o sorridiamo di malizia.
*
Non ridere e non sorridere — non rifiutare la ghirlanda di gelsomini al collo e la essenza di rose alle mani — non tendere la mano al padrone di casa — non lodare al padrone di casa la bellezza della figlia e della consorte, ecc., ecc. Il dottor Faraglia ci espone tutto un decalogo contro ogni possibile sconvenienza, mentre si viaggia nella notte illune su carrozzelle indigene trascinate da zebù, i minuscoli, agilissimi buoi indiani, dalla pelle tatuata, dalle corna lunghe e ricurve, dipinte in oro. Siamo una quindicina d'europei. Si viaggia verso Calam, nei sobborghi di Madras, sotto la vòlta dei cocchi eccelsi che disegnano sul cielo nero il profilo più nero delle foglie frangiate; in alto, in basso, uno spolverìo, un tremolìo di stelle e di lucciole, un profumo acuto di fiori ignoti, un sentore di terra non nostra, abbeverata dall'uragano recente. È nell'aria di questa notte invernale l'afa pesante delle nostre più calde notti d'agosto. Una palizzata: si entra in un giardino preceduti da due servi che illuminano i viali con un gran fanale — un fanale ad acetilene! —; appaiono le foglie strane, a cuore, a lancia, a colori vivaci, la vegetazione di zinco, di latta dipinta, di velluto e di carne malefica, l'intreccio delle radici e dei rami serpentini; un giardino indiano il quale non si distingue dalla jungla che per le piante moderate dalle cesoie e per i viali sparsi di ghiaia a vari colori, disposta a disegni geometrici che i giardinieri pazienti rinnovano ogni giorno. In fondo la casa, che non si direbbe in verità la dimora d'un indu molte volte milionario; un edificio basso, imbiancato a calce, a verande spioventi, a colonnati in legno, un'architettura che ricorderebbe una nostra stazione di provincia se non le facessero cornice i flabelli verdi delle palme-palmira, gli zampilli vegetali dei cocchi. Siamo ricevuti nell'atrio, abbeverati con nostra gran meraviglia di champagne e whisky and soda che il padrone di casa ha fatto venire, con delicata ironia, dalla città lontana per dissetare gli impuri con le loro impure bevande: il padrone di casa che non accetterebbe da noi un bicchier d'acqua e collocherà certo in disparte, per altri europei, i calici dove abbiamo bevuto. Davvero non credevo di trovare l'India così intatta. Fuori delle grandi metropoli è Brama dovunque, Brama che domina come duemila, come quattromila anni or sono. Il padrone di casa, un indu sulla cinquantina, ci viene incontro seguito dal figlio, s'inchinano entrambi con le due mani alla fronte. Non sono vestiti che di un panio alle reni, ma traspare da tutta la persona ignuda una nobiltà che impone assai più dell'irreprensibile sparato degli alti funzionari europei. S'informano benevolmente sui casi nostri, non disdegnano qualche cortese parola inglese, sorridono, mostrando i denti abbaglianti fra le labbra rosse, le barbe bidivise e ricurve, ma gli occhi magnifici sono assenti, freddi, impenetrabili. Il figlio ci offre alcuni fogli stampati in caratteri industani, dove con gentile previdenza è stata.... dattilografata a tergo la traduzione del programma sacro.
Un servo ci versa l'essenza di rose sulle mani e sugli abiti, da certe lunghe ampolle d'argento cesellato, ci passa al collo le ghirlande di fiori intrecciate a fili e pagliuzze d'oro, come quelle dei nostri abeti natalizi. Sembra, questa, un'usanza favolosa ed è invece l'omaggio più frequente e più diffuso in tutta l'India, anche nelle grandi metropoli, anche nei ricevimenti quasi esclusivamente europei: delicata poetica usanza; ma certo questi lunghi boa di grosse magnoliacce odorose se stanno bene al collo d'una miss, fanno sorridere sullo smoking di un gentleman: danno, per esempio, al panciuto roseo, lucente console d'Olanda, non so che aspetto muliebre di suocera in caricatura....
Attraversiamo il giardino per andare al teatro: è tardi. I padroni non ci seguono: perchè? Perchè, mi spiega Faraglia, è la terza sera che la bajadera si produce, ed è la sera riservata a tutte le caste, anche le caste con le quali un bramino non può avere contatto. Capisco, per questo siamo stati ammessi. È molto lusinghiero per noi!
Questi indù — quelli veri, ligi al passato, immuni da anglomania — hanno l'arte d'opporre alla tracotanza europea un orgoglio ben più fiero ed implacabile, dissimulato da tutta l'etichetta della più cordiale urbanità.
Il teatro, in fondo al grande giardino, è una semplice, vasta tettoia, sostenuta dai tronchi vivi dei palmizi simmetrici, come da snelle colonne vegetali. Da tronco a tronco la diramazione del gas acetilene — anche qui! — intreccia nell'aria i suoi serpentelli di stagno. Molte panche zeppe di torsi bronzei, di capigliature corvine, molte stuoie in terra ed intorno: una povertà primitiva che ricorda non un edificio destinato a una bajadera pagata mille rupie (1600 lire) per sera, ma una tettoia magazzino per legnami o cereali.
La danza è già cominciata quando prendiamo posto nelle prime panche che ci furono destinate; ho la fortuna d'aver dinanzi, a pochi passi, la danzatrice famosa. M'aspettavo di vederla ignuda o quasi, invece è la più vestita tra questa folla seminuda; ed è certo più vestita di una nostra signorina per bene in una serata di famiglia. Una snellezza alla Rubinstein, non so se illeggiadrita o ingoffata da un costume singolarissimo, formato di sete, di velluti, di tulli sovrapposti, che lasciano ignude le spalle e le braccia; ma dalle spalle alla gola, dalle spalle alle mani è uno scintillìo d'oro e di gemme, oro e gemme autentici, poichè così è prescritto dalla regola monastica, tutto un tesoro che tremola e corrusca sulla fine epidermide bruna: oro giallo del Coromandel, perle di Manaar, rubini, smeraldi, zaffiri di Ceylon; e dalle stoffe, dall'oro, dalle gemme emergono ignudi soltanto la maschera del volto, le mani, i piedi perfetti. Il volto! Non ho più potuto distoglierne lo sguardo. In una razza dove tutti: uomini, donne, vecchi, bambini, sembrano scelti da una giuria artistica, passati e corretti in un istituto di bellezza, si può comprendere a quale prodigio d'armonia impeccabile giunga una bajadera, un esemplare che è il prodotto d'una selezione millenaria. E quel volto sarebbe in verità troppo bello, troppo grandi gli occhi, piccola la bocca, regolare il profilo, troppo simile a certe miniature indiane che credevo di maniera, se la maschera perfetta non fosse agitata, scomposta dai sentimenti dell'anima in tempesta. Il gioco mimico è così espressivo che io temo per qualche secondo che la donna sia furente contro di noi. Ma non è furore, è dolore, è ansia mortale che s'accresce viepiù, contrae la bella bocca, dilata le narici vibranti, increspa i vasti sopraccigli.... È il volto di un'agonizzante, contratto da una visione spaventosa.
Forse — ho letto sul programma l'intreccio dei vari brani cantati e mimati — la Devadasis ci rivela lo spasimo della Maharajna agonizzante che è portata nella sua lettiga d'oro verso il Gange sacro e vede la morte avanzarsi e teme di non giungere in tempo alle acque purificatrici.
La Devadasis non danza, s'avanza e retrocede con un ritmo prestabilito, seguendo la musica e le strofe. Alcuni musici infatti — io non li avevo nè visti nè uditi, tanto mi aveva preso il gioco di lei — stanno seduti sulle stuoie e suonano stromenti singolari; enormi mandole dal lungo manico ricurvo, flauti affusolati, strani tamburi oblunghi che agitano febbrilmente scuotendone una pietra interna. Ma l'insieme di quell'orchestra formidabile è lieve come un ronzìo, come un aliare di libellule e di falene. Nessuno canta, ma tutti, musici e spettatori, sillabano a mezza voce i versi del poema sacro che la bajadera ripete per conto suo, come per rammentarsi o per intesa. Ma più nulla si sente, più nulla si vede che la maschera ovale, il sorriso triangolare, gli occhi già troppo lunghi, prolungati dal bistro fin sotto la benda dei capelli compatti, lucenti come se scolpiti in un ebano raro; una maschera che sembra staccarsi dalla persona, far parte a sè come un'evocazione spiritica; e spettrali veramente sembrano le mani, come quelle che apparivano volanti nelle leggende bibliche e scrivevano sui muri la condanna dei tiranni. Le mani di questa Devadasis, all'estremità delle braccia immobili, s'agitano con un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra sconvolgere ogni legge anatomica; hanno — mi fu detto — un officio importantissimo: significa disegnare lo scenario e le didascalie. La sdegnosa povertà dell'allestimento teatrale di Shakespeare; il cartellino con the forest, the king's house; la foresta, la casa del re, è abolito, e le cose sono disegnate dall'arte digitale di due belle mani; disegnate nell'aria, ma restano impresse negli occhi di questi spettatori frementi che ne fanno sfondo invisibile all'artista; sulla misera cortina di stuoia appare la reggia favolosa, la riva del Gange, il paradiso di Indra. Il mio sguardo profano, ignaro di quell'arte, non può naturalmente godere dell'incantesimo, come non mi è dato di capire una sillaba del testo famoso, ma la sola mimica della donna basta a rivelarmi che in quell'istante, la regina agonizzante giunge sulla riva del fiume, scende nelle acque sacre. Il dolore, l'ansia, si trasmutano in una gioia che fa del volto contratto un mistero di delizia ineffabile. La morente rivive, invoca l'Eros dell'Olimpo bramano in una strofa erotica che certo non troverebbe veste decente in nessuna lingua europea, e la mimica si esprime con un'intensità che dà il brivido: brivido d'amore, brivido di morte. La donna arrovescia il capo, lo rialza; il suo volto è calmo, è uscita dalla ruota dell'esistenza, è giunta nel regno dell'impossibile: il non essere più; la grazia le è stata concessa nell'amplesso del Dio. Ancora una volta noto nell'arte indiana, letteratura, scultura, la predilezione d'avvicinare l'amore e la morte, facendo dei due simboli un simbolo solo: la felicità del non essere nati o essendo nati ritornare al non essere....
Il pubblico, un pubblico di forse mille spettatori, ha seguito ogni sillaba, ogni moto della Devadasis con un'attenzione sconosciuta nei nostri teatri europei. Ma non è attenzione soltanto: è passione, è religione, è trasporto di tutte queste anime verso il tesoro della loro poesia. Poesia! Io penso ad una qualche attrice nostra che comparisse dinanzi al nostro pubblico e avesse la crudeltà inaudita di infliggergli un canto d'Omero o di Virgilio; il nostro pubblico il quale — confessiamolo una buona volta — s'annoia mortalmente a sentir sillabare, sia pure da dicitori sommi, il non remotissimo Dante. Ora è meraviglioso il vedere come poemi di tre, di quattro mila anni or sono accendano di fervore tutta una folla, nessuno escluso: il mercante di spezie e il Marajà, il monello e la donnicciuola; tutti sono presi nello stesso cerchio magico, beneficati da un'illusione che non è letteratura, ma sentimento artistico, ereditario, che confina, si fonde con la fede più intensa. Arte e fede espresse dalla stessa armonia, una felicità che noi occidentali non conosceremo forse mai!
*
Dopo l'ultima sillaba la Devadasis raggiunge con un balzo il tappeto, si siede con un sospiro di sollievo come una scolaretta in riposo. Le siamo intorno rispettosamente, per osservarla, ma sul suo volto è la completa assenza spirituale; è cessata la musica e la fiamma e si ha veramente l'impressione di accostarsi ad una lampada spenta, ad uno stromento che ha finito di vibrare.
Poichè il dottor Faraglia — l'unico che conosca l' industani — le rivolge un complimento sulla sua arte, la donna tarda a comprendere, poi sorride, si copre il volto con l'avambraccio alzato, come un'educanda, alla quale un temerario dica cose inaudite: un gesto spontaneo di sincero pudore, che sbigottisce in una sacerdotessa di tal fatta. Io, che non so l'industani, le accenno alla gota sinistra che mi sembra tumefatta. Essa porta l'indice e il pollice alle labbra, ne toglie un bolo vermiglio, che mi porge affabilmente.
— Betel!
Poichè rifiuto la droga pessima, essa riporta il bolo alla bocca, passandolo dall'una all'altra guancia, battendovi sopra le due mani, per gioco, con un malvezzo di bimba screanzata.
— Le dica che deploro di non aver capito una sillaba dei suoi poemi. Le domandi in quanti anni potrei sapere il sanscrito, il pali, il giaïna....
La donna ascolta il dottore, poi mi fissa, ridendo, alza le dieci dita ben tese. Dieci anni! Ohimè, no! Non vale la pena improba. E penso che superata pur anche una tale fatica, padrone degli idiomi difficili, resterei estraneo all'essenza prima dei testi sacri. Mi divide da essi una barriera più insuperabile del linguaggio: ed è lo spirito diverso, la fede opposta. L'occidentale, che ritorna in India, non riconosce più la sua cuna.
So bene, questi Indu sono ariani del nostro ceppo, fratelli nostri, ma fratelli che rifiutano di tenderci la mano. Siamo troppo diversi. Ci dividono troppi millennii. Da troppo tempo ci siamo detti addio.
Le caste infrangibili.
Madras, gennaio.
«Prima l'Egitto, poi l'Arabia, poi l'India tutta: l'islamismo insorto sarà la miccia più sicura attraverso la potenza britanna». Nelle sfere politiche inglesi si pensa seriamente all'Egitto, ma si deve sorridere non poco sul possibile pericolo indiano. I maomettani dell'India ignorano la Turchia; il loro stesso islamismo è travisato dai secoli e dall'ambiente; la loro patria lontana è l'Inghilterra: Londra — e non Costantinopoli — è la capitale dei loro sogni e delle loro ambizioni.
Percorrete tutta l'India vasta, dalle nevi di Simla alle foreste di Colombo, interrogate un nativo qualunque: maomettano, bramino, parsi, buddista, di qualunque casta e di qualunque cultura: il facchino che vi porta i bagagli, l'albergatore che vi ospita, il filosofo incontrato nei musei, interrogatelo d'improvviso: «E voi, di che paese siete?». L'altro vi guarderà meravigliato e vi risponderà subito: « I am English! », con la stessa vivacità un po' risentita con la quale io e voi risponderemmo: «Sono italiano». L'indiano non dubita d'essere un inglese. L'anglomania è una delle sue debolezze ben note. Non per nulla la figura più buffa del teatro parsi è Katiba, una specie di bellimbusto, che si spaccia per baronetto londinese, mentre ha avuto i natali a Oodeypore, da un lenone maomettano. Per anglomania lo studente dell'Università di Bombay, di Calcutta si dà a sports nordici, intollerabili sotto il tropico, frena il suo gesto vivace, riduce la loquacità istintiva del suo dire alla più corretta freddezza; e se v'invita a prendere il thè, nella sua gaia stanza universitaria cercherete invano alle pareti i testi indiani: Avagoka e Kabir sono sostituiti da Kipling e da Shelley; e nel congedarvi, stringendovi la mano colla sua mano color di bronzo, non mancherà di raccomandarvi la poca confidenza coi nativi.... Per anglomania le figlie e le mogli del Maharaja s'imbiondiscono i capelli e s'imbiancano il volto, implorando dal marito o dal genitore — premio supremo — una season a Londra; una season a Londra con tutte le delizie della vanità esasperata: i ricevimenti a Corte, l'amicizia con mogli di lords e di baroni, i trafiletti mondani, le istantanee compiacenti a lato del Re e della Regina; istantanee e trafiletti da rimbalzare su tutti i giornali di Bombay, Madras, Calcutta. Per anglomania — e il probabile titolo di baronetto — i banchieri maomettani e parsi si quotano per uno, due milioni di rupie sulla lista d'un erigendo ospedale inglese. L'India è inglese, vuole essere inglese. È radicata nel cervello d'ogni indiano, intellettuale o analfabeta che sia, l'idea d'una patria lontana e necessaria, lassù, in Europa, nella curva nebbiosa della terra, una patria che è il cervello e il cuore del mondo.
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S'aggiunge alla fedeltà, ribadita ormai da un atavismo due volte secolare, un altro elemento importantissimo che forma la debolezza organica dell'India: le caste nelle quali l'India è divisa e che fanno di essa un colosso dove ogni vertebra è infranta. Che, altrimenti, non si potrebbe concepire la mansuetudine dell'impero sconfinato — più d'un quarto dell'Asia tutta — e che l'Inghilterra tinge del suo colore sulla carta immensa delle sue colonie. Ma se l'India dovesse colorirsi secondo le caste presenterebbe il più minuto mosaico. Dall'ultimo censimento inglese risultarono più di quindicimila caste nel solo Rayputana, la regione settentrionale dove l'influenza inglese ha maggiormente cancellato le consuetudini locali. Negli Stati bengali, nell'Industan, dove tutto è intatto come nei secoli andati, le caste sono infinite, divise e suddivise, ostili fra loro, conservate con rigidità millenaria. Due cose sono care all'indiano: l'Inghilterra e la sua casta. «L'India declina?....» — «Poco importa l'India, purchè sia salva la fede». — «Declina la fede....» — «Purchè sia salva la casta....». È il dialogo approssimativo con ogni bramino ben pensante. Per casta — è risaputo — s'intende la sanzione legale e religiosa delle disuguaglianze sociali, elevata a dogma attraverso i secoli. L'origine delle caste — per quanto i bramini le pretendano istituite dagli Dei in persona — va cercata nella diversità di razza e di mestiere; quando i popoli ariani si rovesciarono dai passi dell'Imalaja nelle pianure dell'India, lottarono con gli aborigeni che — vinti — ebbero il titolo di Dasyon ( impuri ), mentre l'appellativo di puri: Sudra, fu privilegio dei vincitori. Poi tra i vincitori stessi si delinearono le prime caste rivali ed avverse: la casta sacerdotale coi Bramini, la guerriera con i Kehatryas; poi la casta dei mercanti con i Vaisyo, suddivisi in infinite corporazioni ostili: Marvary-Bandiary-Baniak, ecc...., la casta degli agricoltori, dei pescatori, ecc.... Le caste, sotto questo aspetto, avrebbero dunque qualche analogia con le nostre guilde antiche, le nostre corporazioni d'arti e mestieri. Ma il medio evo nostro, anche ai tempi più feroci, non offre un parallelo adeguato con la barbarie insensata delle caste indiane.
L'europeo sbarcato da poco sbigottisce ad ogni istante. Nelle belle vie delle grandi capitali, sotto il riverbero delle lunule elettriche, la folla indiana s'avanza con uno sguardo ed un passo che non è soltanto preoccupato dai tram e dalle automobili. Che ha mai questa gente? Obbedisce a un ordine coreografico o teme il contagio di qualche epidemia? È semplicemente preoccupata di mantenere le distanze prescritte dal diagramma delle caste indiane. Quattro passi tra un bramino e un soldato, due tra un soldato e un contadino, tre tra un contadino e un paria, ecc.... Prima della dominazione inglese il paria non poteva comparire nel campo visivo d'un bramino o costui aveva facoltà di ucciderlo o di farlo schiavo. Perchè l'ombra del paria lascia una macchia sul passante, il quale non se ne può lavare che con un rito specialissimo. Il paria è il rifiuto dei rifiuti, non può piangere i suoi morti, non leggere i testi sacri, non pronunciare il nome di Brama; l'antiche leggi indiane non fanno cenno di punizione per chi ne libera la terra. All'altro estremo sta il Bramino, «il quale, per nascita, ha diritto a tutto ciò che esiste e lascia vivere gli uomini per pura generosità». Tra questi due estremi le caste si dividono e suddividono all'infinito. Il viaggiatore europeo vede il suo fedelissimo boy fermarsi sulla soglia d'un rivenditore di libri antichi, quasi impedito da una parete invisibile: «Il bookseller è di casta nakari: io sono kardy, non posso entrare.... Dovrei pagare dieci rupie al priest per rientrare nella mia casta...». E siete costretto ad attraversare, solo, il cortile e la piazza con dieci chili di libri e il vostro servo costernato non può venirvi in aiuto prima del limite prefisso. Ogni servo, poi, è specializzato in una sola occupazione casalinga: quella permessa dalla sua casta; le altre incombenze sono immonde; di qui la necessità di una servitù dieci volte numerosa e di salari — mal per loro — dieci volte ridotti. La vita d'un indiano è preoccupata, per quattro quinti, dalla paura di «macchiarsi», di «uscire di casta». E questo fanatismo è inestirpabile, sopravvive anche alla conversione religiosa. Mi raccontava un missionario anglicano di ottimi fedeli che si rifiutano di mangiare o di bere con il prete che li ha convertiti. Più buffo è il caso dei nobili soldati Nair che alle prese con prigionieri di casta inferiore li circondano con i fucili spianati, ma non possono agguantarli, per paura di macchiarsi le mani. Più buffo ancora è lo zelo degli onesti discendenti delle antiche corporazioni di malfattori, i quali fanno petizioni al Governo inglese per riavere il nome di casta che li distingueva nei tempi gloriosi e sono gelosissimi di appellativi come questi: « Cacciatore di naufraghi ». — « Jena del Dekkan ». — « Sciacallo del viaggiatore », ecc...., e gli uni guardano gli altri con infinito disprezzo, secondo che sono discendenti di ladri di terra o di mare, di assassini di pianura o di monte. Il fanatismo grottesco, incredibile, non s'attenua, anzi si fa più intenso nelle classi elevate ed abbienti dove il bisogno e la fame non impongono transazioni di sorta. Così v'incontrate ad una serata del Governatore, con un giovanotto affabilissimo, architetto laureato all'Università di Bombay. Egli vi parla dell'architettura indiana con una grazia che v'incanta. Per gusto di reazione gli chiedete che cosa pensi del Partenone, dell'Abbazia di Westminster. Non risponde. Parlate ancora; gli dite che sareste ben lieto, se il destino lo portasse in Europa, di fargli da cicerone a Roma, a Firenze.... Ma vi mozza la parola il suo voltafaccia improvviso, tra quel silenzio speciale che distingue una gaffe. «.... Ma non sapete che l'Ingegnere è cugino in sesto grado col Maharayalo del Travancore, Razza Lunare, capite, discendente da Rama; razza che non ha lasciato l'India mai, che non può lasciarla sotto pena di uscire di casta. Parlare dell'Europa all'Ingegnere è come mettere in dubbio i suoi titoli di nobiltà. Una sconvenienza imperdonabile!» Ohimè! Perdonabilissima. Chi poteva immaginare un pronipote di Rama in quel signore in marsina e monocolo? Chi poteva fiutare il sangue lunare in quelle sembianze semplicemente lunatiche?...
Episodi che si prestano alla celia. Ma non sorridete più se pensate che la tradizione di casta chiude milioni e milioni d'uomini, li asserva nella cerchia illusoria e pure infrangibile come un malefizio. Si tratta, in realtà, di un tragico millenario fenomeno di suggestione. Oggi, dopo tanti evi, la casta non si discute; si nasce dominati o dominatori come si nasce maschi o femmine, biondi o bruni. La casta è fatale come il destino.
Contro questa follia a nulla vale l'avveduta forza colonizzatrice degl'inglesi, l'illuminata parola degl'intellettuali indiani, a nulla valse la riforma di Gotamo. Il buddismo — reazione necessaria a tanta barbarie — passò sull'India senza lasciar traccia, ed è confinato ora a Ceylon e nella Cina. L'India è ligia alle caste oggi più che mai; e la casta s'estende a tutti: maomettani, parsi, cristiani: anche cristiani, poichè per mimetismo d'opportunità bisogna conformarsi all'ambiente, e le chiese cristiane sono divise in riparti numerosi e ben distinti, senza di che i fedeli non interverrebbero alla Messa....
Non solo, ma ogni nuovo mestiere introdotto dall'europeo crea una casta che oscilla in potenza secondo la floridezza dell'industria (the, cannella, pelli, indaco, ecc.): si direbbe che l'umanità, in India, non possa aggrupparsi che così, per misteriose tendenze etniche dell'ambiente, come certe sostanze non possono aggrupparsi che in cristalli.... Gl'indiani non formano un popolo e l'India non pensa e non può ribellarsi. È risaputa la risposta dei bramini a gl'intellettuali innovatori: «Poco importa essere oppressi. Pur che la casta avversa lo sia più di noi!».
Nemmeno è necessario il categorico: Divide et impera!
I tesori di Golconda.
Haiderabat, 14 gennaio.
In due giorni di corsa vertiginosa la Central India Railway mi ha portato dalla costa verdeggiante alle terre riarse, dall'India Indù all'India Maomettana. Tutto è mutato. Non più la freschezza dei palmizii e delle felci arboree, ma i cacti spettrali, le agavi dall'immenso fiore centenario, le euforbie a candelabro che sembrano reggere sui fusti altissimi e smilzi la vòlta sanguigna del cielo. Non si vedono più le bellezze di bronzo dal seno e dal volto ignudo, ma le donne maomettane rigidamente velate; non capigliature profetiche di asceti bramini e buddisti, ma turbanti di seta gialla, gridellina, celeste, barbe imbiondite all' henné, grandi brache e grandi scimitarre gemmate; non è più l'architettura leggiera dei bungalows anglo-indiani o la linea acuta delle pagode, ma le moschee e i minareti, i cubi candidi delle case maomettane, le finestrette ad ogiva multipla, difese da grate mirabili, fatte con una sola lastra di marmo sottile lavorato a giorno, raffigurante nel suo delicato traforo un albero con fiori e con frutti, una danzatrice, due paoni che si dissetano ad una vasca.
Haiderabat tutta bianca sotto il cielo di fiamma! Davvero non m'aspettavo una capitale così grande, così bella, così gaia in mezzo all'infinita desolazione dell'Industan; Haiderabat ben mussulmana, ma immune dalla decrepitudine sucida che distingue le altre capitali dell'Islam; e intatta come ai tempi di Mille e una notte, senza traccia di decadenza e senza traccia d'invasione europea! Se io fossi un sovrano di passaggio crederei davvero che questa folla si sia vestita nei suoi costumi dei tempi andati e si atteggi in parata per farmi onore, non già che essa viva della sua vita quotidiana.
La vita quotidiana è fatta di necessità. Ora questa gente non fa nulla di necessario. Tutti i negozi, sotto le arcate, ostentano le più deliziose cose inutili: gioielli, sete, velluti, vasi d'argento e di bronzo, babbuccie ricurve, scimitarre cesellate e gemmate, veli tinti pur ora e tesi ad asciugare al vento, leggeri come la nube che si sfalda, vivi di tutte le tinte più delicate; profumi, essenze contenute in alti vasi suggellati o in barattoli dalla forma singolare, segnati di lettere cabalistiche. E fiori, fiori in abbondanza, piramidi di magnolie, di ibischi, di rose decapitate che i mercanti vendono a peso, come i frutti, e che la folla infilza per via, improvvisando la ghirlanda quotidiana più necessaria del pane; strana folla che vive di colori, di profumi, di sogno, d'apparenza! Come siamo lontani da Bombay, da Calcutta, dalle grandi città della costa, dove già si sovrappone ed impera la nostra pratica attività occidentale!
L'Inghilterra concede al regno d'Haiderabat — un regno vasto tre volte l'Italia — l'illusione di un'esistenza indipendente. Ma quale indipendenza può godere uno stato continentale, custodito intorno da una cerchia di terre britannizzate, pronte all'invio d'un esercito sterminato! Il Nizzam, sovrano d'Haiderabat, sa che invece di armati, l'Inghilterra manda sacchi di grano e che la carestia — endemica ormai in questa zona sempre più riarsa — si farebbe sentire ogni anno senza l'illimitata generosità dei custodi accerchiati. E Haiderabat vive nella sua favola millenaria, intatta come dieci secoli or sono, bella di tutte le eleganze e le raffinatezze ereditate da Bagdad, da Persepoli, da Bisanzio.
Rientro nell'albergo abbagliato dalla troppa luce e dai troppi colori, umiliato da questa folla elegante tra la quale la mia figura occidentale in casco e gambali deve passare come il fantasma d'un mendicante. E cerco tra le commendatizie quella più importante: una lettera di presentazione a Xatar Nilgami, figlio del primo ministro del Nizzam. Poichè non sono venuto qui per Haiderabat, la città viva, ma per Golconda la città morta che dorme a pochi chilometri di distanza e della quale non si possono varcare le mura senza uno speciale permesso.
— Il primo ministro — mi fa osservare l'albergatore — è via con tutta la famiglia, ha seguìto il Nizzam a Londra....
— A....?
— A Londra, per la season — mi riconferma l'uomo sbigottito della mia ignoranza — potrete presentare la lettera ad altri della Corte....
Mentre si parla, un servo mi porge la carta d'un commensale che siede all'altra estremità della sala semibuia. Un professore di Monaco.
Mi presenta la sua signora, mi parla subito con entusiasmo del nostro Re. Speravo gli fosse dettato dalla bellezza della mia patria, non fosse che attraverso la divina esaltazione di Goethe, ma il professore non ha mai visitato l'Italia, non ha mai letto Goethe, ignora le Elegie romane, e in Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re della più Grande Italia, non vede che il signor di Savoia, uno dei primi collezionisti del mondo e suo collega invidiatissimo in numismatica.
Sono scandalizzato. Ma il professore è più scandalizzato di me quando s'accorge ch'io ignoro l'alto valore numismatico del mio Sovrano e non so rispondergli a quale volume sia giunto il Corpus Nummorum Italicorum, l'opera colossale che egli sta compilando.
— Io sono qui da cinque mesi, con la mia signora, per ricerche che possono interessare voi italiani: ho trovato due zecchini e un mezzo zecchino con l'effige del doge Ludovico Manin. La repubblica veneta, nei secoli andati, commerciava col centro dell'India meridionale, quando questa era sconosciuta al resto d'Europa....
Affido al professore la commendatizia e nel pomeriggio stesso giunge dinanzi all'atrio dell'Hotel una strana vettura di Corte, una victoria antiquata a grandi molle ovali, con a cassetta due cocchieri in turbante giallo e due staffieri ai lati, agitanti sui cavalli un lungo scacciamosche dorato: equipaggio strano fatto di vecchiume occidentale e di fasto orientale. È incredibile lo sfoggio di servitù che si ostenta nelle città indiane. Nessuna persona rispettabile può uscir sola, ma deve avere in ogni sua minima passeggiata un seguito di servi, di devoti, di clienti; primo dovere d'un signore verso l'ospite bene accetto si è di mettergli al fianco due seguaci, perchè gli facciano largo tra la folla, gridando alto il suo nome.
Prendiamo posto in vettura, attraversiamo tutta Haiderabat tra case candide, sotto un cielo fulvo, solcato da nugoli di corvi neri, di pappagalli verdi, di colombi tinti artificialmente a colori vivaci. Strada di Golconda è scritto in cinque, sei lingue sull'estremo sobborgo della città. Golconda! Quella che fu per tanti secoli la meraviglia dell'Asia, la città dei diamanti favolosi e delle regine sanguinarie, Golconda favoleggiata nei romanzi d'amore e d'avventura dei secoli andati, Golconda la grande guerriera e la grande voluttuosa, della quale recavano novelle incerte gli esploratori e i mercanti fiamminghi e veneziani. Come già per Tebe, per Micene, per tutte le città defunte troppo magnificate dalla favola, mi preparo ad essere deluso; so che andiamo verso un fantasma. Ma non sono deluso. La strada stessa che si percorre è degna d'un grande passato. Sotto il cielo ceruleo e fulvo, sorretto dai fusti diritti dell'euforbie, si stende in giro, fino all'ultimo orizzonte, un paesaggio che dà la sofferenza e la voluttà dell'incubo, un paesaggio non terrestre, fatto di pietra livida qua e là corrosa, qua e là dominata da certi cumuli di enormi macigni, curvi, lisci, simili ad otri giganteschi o a dorsi di pachidermi e di cetacei; sembra di percorrere una pianura selenica e veramente la natura ha fatto qui, con la pietra morta, uno scenario più fantastico delle vive foreste del Malabar. Via via che si avanza i macigni si fanno più frequenti e più colossali, si accatastano in piramidi di cento metri, arieggiano il profilo di colline inverosimili, qua e là traforati di spazi luminosi, come nei cumuli delle trincee. Esclusa, per evidenza geografica, la supposizione di massi erratici, non so davvero come i geologi possano spiegare l'accatastarsi dei macigni in questa pianura immensa; la leggenda indù li vuole caduti dal cielo; afferma che essi sono l'avanzo del mondo, rimasto tra le dita del Creatore e che egli arrotolò per gioco e precipitò sulla Terra. Certo il gusto dell'inverosimile, del fantastico, del colossale che domina nell'architettura indiana ha trovato in questa natura ciclopica i suoi modelli e le sue fondamenta.
Golconda! Al di là d'un gran fiume asciutto s'innalza il fantasma della città morta, con le sue mura ciclopiche, livide come il macigno circostante, merlate e traforate con arte singolare. Attraversiamo il letto del fiume; nel mezzo, in qualche pozza d'acqua superstite, una schiera d'elefanti lavoratori tenta invano il bagno quotidiano; i poveri pachidermi aspirano l'acqua con la proboscide e se ne irrorano i fianchi emersi. Giungiamo sulla riva opposta, ai piedi delle mura ciclopiche. Il genio guerresco ha trovata qui la collaborazione della natura, nè si può distinguere dove l'opera di questa finisca e cominci lo sforzo dell'uomo. L'uomo ha utilizzato macigni di cinquanta metri, rivestendoli di ammattonato, gettando dall'uno all'altro vòlte e terrapieni, unendoli con grate grosse come un braccio umano, armate di uncini difensori. Veramente Golconda doveva nascondere tesori favolosi se i Sultani pensarono a cingerla d'una difesa tanto formidabile. Si sale lungo la fortezza principale, un macigno multiplo che domina tutta la città morta ed è costrutto a gradi decrescenti, coronati alla sommità da un ciuffo d'alberi verdi che meravigliano in tanta desolazione e ricordano lo schema della commedia dantesca. Intorno sono macchine guerresche; cannoni arcaici, i quali attestano che la morte della città non è remotissima; Golconda fioriva ancora nella metà del settecento, quando era di moda in Europa il racconto d'avventure, le roman merveilleux, quando vi giunse profuga Madama Angot per tentare con la sua bellezza occidentale le stanche voglie dei sultani decrepiti.
Profanazione dei ricordi! La grazia tracotante della pescivendola parigina mi perseguita mentre il professore mi commenta le vicende epiche e i monumenti famosi.
— Quella moschea immensa è la Mecca, così chiamata, perchè è una copia esatta del santuario arabo che il Sultano Car-Alpur volle riprodotto nella sua città; quella che innalza i suoi minareti sul più alto contrafforte è la «Moschea dell'ultimo grido» perchè destinata alla preghiera disperata, quando i nemici avessero già invase le mura....
— Ma come si poteva espugnare una città come questa?
— Fu espugnata. Troppo si parlava delle ricchezze di Golconda. Aurangseb, imperatore di Delhi, le mosse guerra nel 1787 e l'espugnò nel 1790. La città fu saccheggiata, il popolo passato a fil di spada, ma, per ordine di Aurangseb, fu risparmiata la vita del Sultano. Bisognava strappargli il segreto ch'egli solo conosceva, sapere da lui il luogo dov'erano scomparse, durante l'assedio, le gemme favolose e i tesori dello Stato. Rubini dell'Oxsus, zaffiri del Tibet, perle di Ceylon, diamanti di Sam-Bal-Pur e di Carmur, lapislazzuli di Bavacan: si parlava di gemme profuse ad altezza d'uomo, in grotte sconosciute, murate con gli scheletri degli ultimi guardiani, per suggellare il silenzio. Il Sultano solo sapeva. Il disgraziato fu trascinato ad Aulabad, nella reggia del vincitore, e fu sottoposto alle più raffinate torture; uno stuolo di carnefici lo martoriava, uno stuolo di medici doveva ravvivarlo quando stava per agonizzare. Tutto fu vano; egli esalò l'anima improvvisamente, portando nell'eternità il mistero dei tesori accumulati....
Si sale lungo la fortezza, tra le moschee decrepite e i cannoni interrati a metà nella polvere. Si passa tra le ruine degli antichi palazzi, espugnati da poco più di un secolo e più distrutti che avanzi millenarii. Dalla sommità del forte si domina tutta Golconda; le mura ciclopiche e sinuose vanno da macigno a macigno, ancora formidabili, ancora intatte, ma vane ormai, poichè più nulla hanno da custodire, e nella vastissima cerchia tutto è rottame, pietra, polvere, morte. Alla morte è destinato il paradiso minuscolo che s'innalza alla sommità della fortezza. La riverenza indiana per le cose funebri mantiene miracolosamente verdeggiante questo cimitero dove sono le tombe di tutta la dinastia di Golconda, dal sultano Ibraim al sultano Abdul Asan, dalla bella indiana Bhima-Mati alla bella mussulmana Chanah-Shah, strane tombe cufiche dipinte in azzurro, a caratteri bianchi, ornate ognuna d'un porticato ad ogive e di quattro minareti minuscoli dalle cupole d'oro; intorno è una vegetazione cimiteriale: mirti, cipressi, palme nane, con certe aiuole di fiori malaticci, tenuti in vita dall'acqua che i devoti portano a secchia a secchia, dai pozzi lontani, come per gli incendi. Non è descrivibile l'infinita tristezza di questo cimitero esotico, campo della morte nella città della morte....
Ma ancora qui la mia malinconia è rallegrata dalla figura della pescivendola avventuriera. È veramente esistita quella che la leggenda chiama Madama Angot e fa pellegrinare ad Algeri, a Costantinopoli, a Golconda?
Illustre pescivendola — era Madama Angot.
Nel regno di Golconda — un giorno capitò;
il gran Sultan vedutala — se ne invaghì così
che a cinquecento mogli — lei sola preferì....
Ohimè, la sua tomba non è qui, tra queste sultane. Essa ritornò a Parigi, carica di quattrini e di gioielli, a godervi i ben meritati riposi.... Quali favolosi racconti doveva fare delle sue avventure e dei suoi pellegrinaggi alle illustri colleghe parigine, nelle veglie della sua vecchiaia venerabile!
Madama Angot.... È veramente esistita? In quest'ora, tra queste mura la sua gaia figura è più viva che mai, serve a consolare d'ogni troppo leopardiana tristezza. Dinanzi alle ruine troppo riverite è consigliabile l'irriverenza. Meglio schernire la fatalità che preme uomini e cose, canticchiando le strofe d'un melodramma giocoso....
L'Impero dei Gran Mogol.
24 gennaio 1913.
Il distacco tra l'India braminica e l'India islamitica si fa più intenso via via che si sale verso il Nord. Si direbbe che l'Islam prediliga in ogni parte del mondo le terre desolate, i deserti e le steppe; anche in India occupa l'immensa parte centrale e settentrionale e può servire a delineare i confini delle provincie riarse. Perchè è un preconcetto oleografico, una leggenda da libri d'avventura che l'India sia coperta da una vegetazione meravigliosa. Le foreste tropicali, dense, decorative come scenari da melodramma, occupano soltanto la costa del Malabar, l'isola di Ceylon, i monti Nir-Ghirli, le valli dell'Imalaya. Ma dove cessa il beneficio dei monsoni e delle pioggie periodiche, cioè in quasi tutto il Deccan e le pianure del nord, domina la magra vegetazione dell'Islam: scompaiono il cocco ed il banano, svelti compagni delle pagode, appaiono il palmizio rigido, il cipresso cimiteriale, compagni delle moschee e dei minareti.
Si viaggia da due giorni in queste ferrovie che chiudono in una rete fitta tutto l'Impero immenso, e che gareggiano con quelle americane in velocità vertiginosa. Ma il paesaggio, per giorni e giorni, resta invariato. L'immensa pianura fulva (il rosso della terra e il gracidìo dei corvi sono la nota visiva e auditiva di queste contrade) che durante la stagione delle pioggie rinverdisce in campi di riso e di miglio, è tutta riarsa in questi mesi di siccità. Le palme-palmira, gracilissime, s'innalzano nell'azzurro del cielo come caricature di palmizi, nibbi ed avvoltoi si librano nell'infinito abbagliante: all'orizzonte, sulla zona sanguigna, passano, come ombre cinesi, mandre velocissime di gazzelle. Fiancheggiano la linea grandi cacti a candelabro, tinti in rosso da una parte, dalla polvere sollevata dal vento della steppa, e alla sommità d'ogni fusto è appollaiato un avvoltoio meditabondo che al rombo del treno appena si degna di protendere il capo calvo sul collo serpentino o di distendere una delle immense ali macabre. Mandre di bufali e di zebù sollevano, voltano la testa indolenti, e falangi di corvi gracchiano sui loro dorsi gibbosi, s'avventurano fino alla bocca per beccarvi i tafani e le mosche. Si entra talvolta in foreste d'alberi enormi, dai tronchi nodosi e contorti: ma tutto è fulvo e riarso anche qui: i rami rivestiti di fronda arida, come le nostre quercie in dicembre, dànno al paesaggio una tinta invernale che stona col cielo implacabilmente estivo. Nella foresta morta spiccano zone di un bel verde biacca: miriadi di pappagalli minuscoli che ricordano le foglie vive, o fasci di brace azzurra e smeraldina: famiglie di pavoni appollaiati sugli alti rami. Poi si esce dalla foresta morta ed ecco ancora la steppa senza fine con i suoi cacti spettrali ed i suoi avvoltoi. Si divora lo spazio, il tempo passa, ma il paesaggio non muta.
E l'ora triste: l'ora in cui il viaggiatore si domanda a quale scopo ha lasciato l'Italia bella, anticipandosi questo paesaggio infernale. Distolgo lo sguardo dallo scenario triste. Siamo nel dining-car; indugiamo dopo il caffè, per avere intorno l'illusione di un po' d'Europa che viaggia con noi, l'illusione che emana dalle vernici, dagli specchi, dalle stoviglie, dai cibi stessi, dalle salse chiuse in barattoli inglesi. Very comfortable, queste carrozze ampissime, dal doppio tetto spiovente, aerate da un triplo ventilatore; ma il congegno si è guastato e funziona il panka, il ventaglio immenso appeso al soffitto, che un servo indiano agita con una corda dal fondo della carrozza. Tutte le tavole sono occupate: funzionari inglesi, commercianti parsi, dignitari afgani. Al tavolo vicino sono sedute due francesi incontrate a Bombay, conosciute per caso, leticando all'agenzia Cook, e ritrovate qui, ancora per caso, con reciproca effusione di schietta esultanza. Fra tanti sconosciuti di tutti i colori, fra tante orribili favelle, dove l'inglese degenere è l'unica intelligibile, il francese, sia pure sulle labbra ritinte di due «pellegrinanti esuli dame», ci suona dolce come una lingua di casa. Signore con le quali si allibirebbe di mostrarci in una via europea, tanto sono imbellettate, ossigenate, inorpellate, impennacchiate; ma che qui, nel cuore dell'India sacra, aggiungono al paesaggio uno stridore pittoresco. Madama Angot, che ho sognato a Golconda, rivive dunque ancora nelle pronipoti senza paura! Già a Bombay ci avevano raccontate le loro gesta e le loro disavventure. Giovani, una giovanissima, parigine entrambe — parigine di Marsiglia o di Bordeaux — e nate all'arte, votate all'arte, hanno pellegrinato come «duettiste» tutti i caffè chantants della Tunisia e dell'Egitto. A Port-Said un impresario le ha scritturate per le colonie dell'Africa orientale fino a Zanzibar. Da Zanzibar sono fuggite con due ufficiali inglesi riparando a Bombay. Sole, sperdute ancora una volta, hanno tentato la fortuna a Calcutta. Deluse si dirigono oggi a Simla, nel Cachemire, per cantare in un music-hall che s'inaugura con la stagione elegante. Disfatte dal clima e dai disagi, lasse per troppe soste in troppe guarnigioni fameliche, sanno tuttavia conservare nella parola arguta, nel gesto col quale alternano il sorriso alla sigaretta, nella civetteria del ginocchio sovrapposto, la grazia francese unica al mondo! E guardo ed ammiro queste due passere sbandite che portano fino in queste solitudini il loro sorriso intrepido e la loro gaia mercatanzia.
Delhi, 25 gennaio.
— Delhi, Agra: Le royaume du Gran Mogol! Le Gran Mogol, Madame, qui avait un penchant pour les jolies parisiennes. — Peut-on le voir, ce monsieur-là?
— È morto da trecento anni.
— Hélà! Nous arrivons toujours trop tard....
Ci liberiamo dalla folla policroma dell'immensa stazione indiana. Fuori, ad attenderci, i più pittoreschi mezzi di locomozione: i yinricksharws, le carrozzelle in lacca e bambù su ruote modernissime da bicicletta, tirate di corsa da indigeni vociferanti, carrozze strane, triangolari, che il cocchiere guida seduto in avanti, sul timone sottile, diligenze barocche sovraccariche di ori, di fiocchi, di sonagli, trainate da coppie di zebù, il bove indiano, minuscolo, gibboso, velocissimo; e campeggianti in disparte, disposti in ordine, gli elefanti da nolo, recanti ognuno un cartello in varie lingue indicante la mèta, come da noi le carrozze tramviarie. Si sale sopra uno dei colossi, attraverso una specie d'arrembaggio inclinato e si sta in otto nel castelletto ad ogive. Misero equipaggio e misera bestia da nolo, che ebbe certo i suoi giorni splendidi nella reggia di qualche Maharajah, cent'anni or sono.... Oggi la pelle si è raggrinzata sull'immensa carcassa, come la corteccia degli olmi secolari; e non servono a ringiovanirlo la gualdrappa logora frangiata d'oro stinto, nè la truccatura bianca rossa azzurra, a cerchi vivaci, intorno agli occhi ed alla proboscide.
— Les pauvres oreilles! On les dirait de feuilles rongées par les chenilles!
È vero. Le orecchie immense, zebrate di nero, agitate di continuo, sono logore dagli anni e dai malanni, qua e là tagliate a grandi lobi, come le foglie corrose dai bruchi. Ma quanta intelligenza negli occhi minuscoli, dove s'alterna la bontà e la scaltrezza, la mansuetudine ed il risentimento.
Il cornac, un giovinetto, sta seduto alla budda sul collo possente e dirige la mole immensa con l' ankus, un bastoncino ricurvo a gancio che preme sulla fronte silenziosa, con un grido sommesso d'intesa. Nessuna bestemmia, nessuna ingiuria come nelle nostre vie occidentali. La mole s'avanza sicura come un congegno e il rumore delle zampe enormi che giunge dal basso imita un poco il rombo ritmico di un motore primitivo. Passiamo per ampie vie modernissime: luce elettrica, tram, automobili; c'interniamo in viuzze tortuose, dalle case altissime in legno dipinto e traforato con uno stile da confettiere, con tutti i colori delle cose dolci, gonfie di miradors, di loggie minuscole; infinite gallerie coperte cavalcano le vie, allacciano l'una all'altra le case misteriose.
La nostra cavalcatura ci mette all'altezza del primo piano e l'occhio gode, d'attimo in attimo, attraverso le verande aperte, le scene più intime e più diverse: una madre che consola un bambino che piange, un ufficio di mercanti parsi, dove cinque scribi in mitra di tela cerata sono seduti a modernissime macchine da scrivere, una casa indù semplice e linda, con non altro alle pareti candide che le incarnazioni di Brama, una casa maomettana a tappeti sontuosi dove un vecchio scarno, occhialuto sotto il turbante immenso, sta ginocchioni in mezzo alla stanza, picchiandosi il petto contrito, una scuola indigena dove venti monelli, in assenza del pedagogo, si protendono al nostro passaggio con occhi vivaci e denti abbaglianti, scagliandoci le fiche e le ingiurie; e, molte cortigiane, bajadere di bassa casta, riconoscibili al volto ignudo, alle vesti e ai monili, alla casa più adorna e più appariscente: strane case così aperte sulla via dall'immensa veranda da inquietare seriamente la pudicizia dei visitatori. L'elefante, che ha incontrato un confratello che giungeva in senso opposto, s'arresta per attendere che l'altro retroceda fino al prossimo cortile, e sostiamo di fronte, vicinissimi, a due cortigiane sorridenti. L'una ravvia con uno strano pettine quadro ed enorme i lunghi capelli nerissimi e lisci come due bende di raso tenebroso, l'altra protesa quasi fuori della veranda, in piena luce, tiene nella mano uno specchietto tingendosi con la destra, accuratamente, i sopraccigli arcuati. Tutti, in questo paese, uomini, donne, bambini, hanno occhi splendidi, già troppo neri, già troppo grandi, e la consuetudine del bistro, imposta per religione, li fa smisurati, inverosimili, conferisce a questi volti quel loro sguardo d'idoli assenti.
— Vois-tu, ma chère, quelle ruse ont-elles à se farder? Elles maquillent seulement la paupière supérieure.
Si fissano alcuni secondi le orientali e le occidentali, poi l'elefante si muove e la scenetta dispare.
Si passa dalla città viva alla città morta quasi senza avvedercene. Finiscono le case abitate dagli uomini, cominciano quelle popolate dalle scimmie. Non più facciate policrome, verande fiorite, ma edifici vuoti come teschi, muri superstiti con loggie che guardano il nulla, o scalee, atrii sontuosi in granito ed in marmo che portano a palazzi che non sono più: tutto ciò che era legno è stato divorato dalla steppa. Ogni balaustro, ogni cimasa è coronata di code pendule o di faccie sogghignanti di quadrumani. E le ruine si prolungano all'infinito, tutta la steppa, fin dove l'occhio può giungere, e oltre, oltre ancora, è l'immenso ossario di una città morta e risorta dieci volte in quattro millenni, sotto dieci dominatori diversi. Ci si domanda per quale legge fatale e misteriosa una città debba evolversi come qualunque altra cosa viva, e rampollare qua e là sul suo ceppo decrepito, come la pianta che non vuol morire. Forse in nessuna parte del mondo l'archeologo trova un così vario tesoro d'architetture esposte. A Roma, in Egitto, in Grecia, in tutti i luoghi sacri al passato, risorge il fantasma di una civiltà sola che le esumazioni, i restauri, gli studi ci fanno vicina, certa, come una cosa presente. Qui è il caos dell'abbandono e dell'oblio, il convegno di tutte le ruine colossali e del tritume di ruine, un deserto di frantumi, così che l'archeologo ha la vertigine di essere sbalzato a cinquecento, a mille, a tremila anni nell'abisso del tempo: dall'ultimo splendore islamitico dei Gran Mogol al bramanesimo cupo, imponente delle prime costruzioni giaina e pali, nella notte delle origini vediche.
Ma dubito che gli archeologi soffrano di vertigini poetiche: dubito della sensibilità di coloro che sanno. In questa solitudine s'incontrano sovente figure biondiccie ed occhialute di studiosi russi, tedeschi, inglesi che osservano con fiero cipiglio, come sacerdoti indignati, la nostra gaiezza profanatrice. Siamo alla Porta d'Aladino, un'immensa porta superstite che dà un'idea della moschea smisurata che non è più. E la mole, di tale grandezza e di tale purezza architettonica che basterebbe a creare un modello perfetto di stile indo-moresco, appare lavorata, a chi s'avvicina, come uno stipo cesellato da un orafo: tutto il Corano con tutti i motivi più delicati dell'arte islamitica dei secoli d'oro adorna la grazia ogivale che s'innalza a più di trenta metri. Il vano è riempito dal più azzurro cielo dell'India, e il nostro elefante, immobile nella zona in ombra, quasi minuscolo sotto l'immensa ruina, completa quella bellezza armoniosa. Sente quest'armonia l'inglese eruditissimo — e scortese — che lavora in una baracca prossima e toglie misure e dirige tre scribi indigeni che disegnano e calcolano per non so che restauri governativi? Ho più fiducia nell'entusiasmo e nel buon gusto di queste meretrici di Francia; la più loquace delle due ha immagini adorabili.
— J'ai toujours revé ce tableau là quand j'étais fillette, sur un coussin de ma tante Véronique! Et voilà qu'il y a vraiment une chose comme ça.
Poi trascinando la compagna più vicina all'immensa parete cesellata e palpando con mano voluttuosa l'intrico della scoltura:
— Il faut se rappeler cette broderie ici, pour une robe d'intérieur!
Avanziamo a piedi tra le ruine che non hanno confini. Una vegetazione senz'anima: di latta, di cuoio, di stoppa, una vegetazione che non è mai stata viva s'alterna con la pietra morta; e sui cipressi, sui baniam, nodosi e contorti come in uno spasimo d'arsura, tra la steppa sanguigna e il cielo di cobalto, mettono una nota gaia di vita i signori del luogo: i pappagalli, i pavoni, le scimmie. Come s'illeggiadrisce un capitello giaina, tozzo di quattro teste elefantine di Ganesa: il Dio della saggezza, se un pavone vi balza improvviso, inondandolo di una cascata di zaffiro e di smeraldo! E le grate di marmo candido, frastagliate con tutti i motivi dell'Islam, come si ravvivano per le chiazze verdi dei pappagalli nani, le comuni garrule colorite, che giocano al trapezio tra i santi trafori! File interminabili di scimmie stanno sedute a congresso e volgono la testa tutte insieme al nostro passaggio, seguendoci a lungo, fissandoci con occhi di malinconia desolata.
A tratti s'incontra un Jogi, un santo che ha scelto a suo rifugio una di queste ruine. Tutta l'India abbonda di queste figure singolari; non sono fachiri leggendari, non fanno miracoli; sono asceti, ridotti dalla vita contemplativa allo stato di cose: hanno preso il colore della pietra e dei tronchi morti. Completamente ignudi sotto il sole che arde e che abbacina, con le chiome, il volto impiastricciato di cenere e d'argilla, stanno seduti nella posa nirvanica, più indifferenti e più insensibili degli idoli millenari. La consuetudine religiosa favorisce queste sètte: ognuno ha vicino una ciotola, ricolma ogni giorno dalla pietà popolare. Ne interroghiamo qualcuno, offrendo un frutto, una moneta. Ma non rispondono alle nostre parole, non battono ciglio alla nostra mano protesa, ci lasciano passare senza volgere il capo, già perduti nell'increato, nella salvezza del non desiderare più, già affrancati dall'eterno ritorno, risanati per sempre nella carne e nell'anima. Sembrano, a noi, i più miserabili avanzi umani, e sono forse i soli uomini invidiabili, le sole creature che non debbano ormai più riconoscere alcuna potenza terrena: «.... Che puoi tu fare, o tiranno, che puoi tu fare a me che nei rigori dell'Imalaia o negli ardori del Deccan sono in perfetta letizia? Puoi percuotermi, o tiranno, puoi lacerarmi, ardermi, farmi morire, o tiranno, ma non puoi farmi male....».
Avanziamo nella tebaide.
Ed ecco fra tante cose morte, fra tante ruine senza nome, una cosa ben viva e ben nota, fresca di colore e di linea come se innalzata da ieri. Il minareto di Ktub. Ero preparato da fotografie e da stampe, anche prevenuto con una certa antipatia. È invece la più leggiadra cosa inutile che la noia d'un despota abbia scagliato al cielo. Una torre isolata alta trecento piedi, costrutta da un sultano e offerta alla figlia malata di malinconia, così come s'offre un gioiello. È veramente un gioiello che colpisce di lungi per l'altezza vertiginosa, dappresso per la squisita fattura.
Sembra un fascio di palmizi interminabili, legati, stretti a cinque altezze digradanti: così che l'insieme del fusto snello è tutto pieghettato come una gonna di seta; seta lucida e fine sembra la pietra rossa-salmone, intarsiata d'ornati di marmo bianco. Lavori di mole e di pazienza inconcepibili ai nostri giorni, possibili nel tempo andato, quando un popolo intero era stromento cieco e concorde del capriccio d'un despota. Forse avevano un po' tutti l'anima di Luigi di Baviera, questi sultani leggendari che profondevano tesori per concretare i loro sogni in moli di marmo e d'alabastro. Per gli occhi di una bella distruggevano la loro città, costruivano una città nuova, come il Maharajah Suvan-Ge-Sigg II che nel 1628 abbandonò Amber, l'antica capitale del suo regno, e fondò Giaipur, la città fantastica tutta color di rosa, eretta in poco più di tre anni! Costruivano palazzi, templi, giardini, e li abbandonavano talvolta, prima che fossero compiuti, già sazi del sogno che il popolo tardava a concretare in pietra.
Si sale lungo il fusto eccelso, sostiamo a riposare alla terza, alla quarta veranda circolare, in marmo traforato che ci spende nel vuoto e dà la voluttà della più acuta vertigine, e dall'alto la desolazione appare più disperata, occupa tutto l'orizzonte come un mare di lava e di scorie: si pensano veramente come eruzioni spaventose le invasioni delle orde giaina, pali, afgane, mongole che si riversarono dall'Imalaia e sovrapposero ruine a ruine sulla pianura maledetta da Dio. Poco lungi dal minareto di Ktub, fra sepolcri d'un tempo immemoriale, s'alza un obelisco che discorda con la grazia leggera e la tinta carnicina del cimelio moresco, un obelisco barbaro, tutto di ferro, elevato — dice l'iscrizione sanscrita — duemila anni fa dal Raya Dhava per celebrare con una cosa eterna la sua vittoria sulle tribù Valhihas. È alto quindici metri, fuso in un pezzo solo, documento misterioso di una civiltà spenta, quasi dimenticata e che pur possedeva i mezzi di gittare una mole di metallo che inquieterebbe la nostra industria modernissima.
Anche qui eruditi indigeni ed europei: archeologi, periti, architetti che prendono modelli e misure. L'Inghilterra s'accinge ad un'opera colossale: dissodare l'ossario delle città morte, restaurare le ruine, ordinarle decorosamente alla luce del sole. Opera degna, ma che non so quanto possa giovare alla poesia di queste memorie.... Certo ringrazio il cielo di visitarle oggi, nel loro abbandono desolato.
È l'ora torrida. Ed è anche l'ora del pasto. Le nostre compagne «qui ont soupé des ruines» ci ricordano che abbiamo le provvigioni con noi. Cosa provvidenziale perchè l'unica bettola nella Porta di Aladino ha un odore di concia che rivolta lo stomaco. Vi comperiamo soltanto un ananasso e uva moscata enorme, freschissima, giunta dai monti del Kabul in certe scatole fatte d'immense foglie coriacee cucite con lunghi fili di gramigna. Una delizia che disseta e consola sotto questo cielo di fiamma. E seguiti dai boys e dal cornac si cerca il rifugio meridiano; non si ha che l'imbarazzo della scelta regale: una moschea, un atrio moresco, una reggia pali, un tempio giaina. Scendiamo in un ipogeo conosciuto dai boys: un rifugio d'ombra e di frescura, che sarebbe tetro se non fosse di marmo candido. Grosse colonne quadre reggono il soffitto a cubi sovrapposti, e tutto è a blocchi monolitici, in uno stile incerto alla mia ignoranza, uno stile che ricorda le costruzioni egizie più antiche, o assire, o etrusche, o fenicie, quando tutte le architetture neonate si somigliavano un poco. Riceviamo luce da una porta triangolare e da quattro finestre triangolari, quali non avevo sognate mai, e poichè siamo nell'ombra e fuori è la vampa del meriggio tropicale i cinque triangoli si disegnano rossi come le aperture d'una fornace immane. E nella brace dei cinque triangoli si profilano figure di leggenda: aridi palmizi lontani, l'ogiva nitida della porta d'Aladino, una trina candida vicinissima: il balaustro di una moschea, il nostro elefante meditabondo, rigido sulle quattro zampe a colonna, immobile come i suoi fratelli di pietra....
Ora di sogno. Ristoro e sollievo della frescura e della penombra, piacere indefinibile di sedere con gli amici, in cerchio, al pasto singolare, voluttà un poco sacrilega di avere a compagne queste due profanatrici che dicono e cantano cose enormi tra le pareti sacrosante. Ora di sogno. La realtà scompare. Le cose si alterano, ingigantiscono, diventano favolose e magnifiche, come la noce, il sassolino, lo zoccolo toccati dalla bacchetta magica della leggenda. E dimentico. Vedo con occhi d'allucinazione grandiosa il tempio ruinato, il misero elefante da nolo, i poveri boys a mezza rupia, gli amici e il pasto frugale, e queste due vagabonde delle quali non oserebbe vantarsi uno studente occidentale.
Sono l'imperatore Acbar, il più possente dei Gran Mogol, e questo è il mio palazzo; questo è un banchetto servito da trecento schiavi ad ambasciatori della Serenissima; queste sono due «cristiane» rapite dai corsari sulle coste di Barberia, vendute al Negus d'Etiopia, donate dal Negus allo Scià di Persia e offertemi dallo Scià mio cugino, giunte vergini ed impuberi fino al mio serraglio; due cristiane bionde da aggiungere alle mie settecento concubine di tutti i colori....
Guai se non si completasse col sogno il magro piacere che la realtà ci concede!...
Agra: l'immacolata.
Agra, 27 gennaio.
Ad Agra, più ancora che a Delhi, si può rivivere un'ora nel passato favoloso dei Gran Mogol. Se l'ultimo di essi: Sha-Jehan s'alzasse dal suo mausoleo e prendesse per mano la sposa dilettissima: Montaz-i-Mahal, e uscissero entrambi dalla Reggia funeraria: il Tai-Mahal, ritroverebbero riconoscibile ancora la città dei loro splendori, e rispettati dal tempo e dagli uomini i loro palazzi magnifici. Palazzi uniti, sovrapposti, innalzanti a settanta metri il loro vario profilo, simili piuttosto ad un ammasso titanico di castelli feudali che ad una reggia di sogno. Ma la loro grazia leggera fiorisce in alto, dall'altra parte, verso il fiume Giumma, verso la pianura sconfinata. Dalla città vedo soltanto le basi di arenaria sanguigna, le mura ciclopiche, le torri possenti, destinate alla difesa e all'offesa. Questi forti che gli imperatori mongoli fondavano in India erano campi trincerati, d'una possanza, di una mole, di una magnificenza inconcepibile al tempo nostro, villaggi muniti e fortificati dove quei tiranni dall'anima di guerriero, di artista ed asceta, adunavano quanto potesse appagare i sensi e lusingare gli spiriti: dalla zenana voluttuaria alle sale di governo e di giustizia, dai bagni, dalle palestre alle moschee della purificazione, al mausoleo dell'ultimo riposo. Era una città regale sospesa sulla città del popolo, che serviva prono, abbacinato da tanto splendore.
Passiamo il vallo fortificato, le torri, le porte pesanti. Si sale per scalee fosche, sotto archi medioevali, si percorrono androni a feritoie e a casematte, e tutto è in arenaria sanguigna, tutto è tetro e massiccio, evocante nel suo silenzio l'urlo guerriero e il fragore delle armi. Dove poteva svolgersi la vita voluttuosa dei poeti in turbante e delle belle dagli occhi interminabili? Si sale, si sale nelle viscere oscure della mole millenaria, dove la luce non giunge che da ogive sottili, da feritoie scarse, dalle quali appare sempre più in basso la città sterminata, si sale, si sale nel labirinto tenebroso.
Ed ecco, con un moto istintivo ed improvviso, le mani si portano a difesa degli occhi feriti dalla luce abbacinante d'un nevaio. Siamo giunti nel regno dei marmi immacolati, nella città superna dei tiranni. Un terrazzo immenso, la sala delle udienze, candido come tutti gli altri edifizi, con non altro che un trono di marmo nero, per il Gran Mogol; intorno ricorrono arcate che danno l'illusione d'una grotta di latte congelato, a stalattiti geometriche, dove il candore è sottolineato da una linea d'onice nerissima. L'onice, l'oro, l'argento, la turchese, il porfido sono usati con scaltra leggerezza, in gracili motivi floreali o in linee che seguono il frastaglio complicato delle trine marmoree, all'infinito; così che non è menomato, ma accresciuto l'effetto candido dell'insieme. Tutto è di marmo immacolato, e l'eleganza si mostra soltanto nel traforo e nella cesellatura, portate all'ultimo limite d'un'arte inimitabile. Le sale da bagno, dalle vasche rettangolari, dove si discende per tre, quattro gradini, sembrano attendere nel loro candore levigato il flutto dell'acqua odorosa, le carni brune e bionde, le risa argentine delle sultane quindicenni che dormono da secoli nella pianura sottostante....
Avanziamo nell'infinito candore. Verso il fiume la mole degli edifici guarda a picco sul piano sottostante ed è una fioritura più intensa di trine marmoree, di loggie, di miradors, di specule dove le belle sognavano le cose cantate dai poeti del tempo, leggevano le strofe persiane a venti rime complicate come una formula algebrica, o le novelle licenziose, o su Corani alluminati pregavano per il ritorno d'un assente.
Si passa da sala in sala, e le sale sono senza porte, così che formano prospettive di sogno immacolato, allee di trine candide che si prolungano all'infinito. Stupisce la nitida freschezza di queste lastre sottili di marmo, traforate fino all'inverosimile; lastre che ricordano immensi ricami a giorno, tesi tra due colonne e non pareti concrete: la mano vi si appoggia con esitanza, meravigliandosi della rigidezza secolare. Il tempo che sfalda il granito, precipitando templi e obelischi, ha poca presa sul marmo. Questi miracoli di grazia sembrano fatti ieri. E certo gl'invasori ebri di saccheggio e di stupro che irrompevano spezzando e rovesciando ogni cosa, s'arrestavano dinanzi ai velari candidi, abbassavano la scimitarra e la clava, come dinanzi ad un incantesimo.
Sosto a lungo ad una delle specule dove le belle dei tempi andati portavano la loro malinconia. E la vita dei Gran Mogol è tutta nello scenario che ho d'intorno. La zenana, l'arem che occultava gelosamente i più bei fiori di carne, poi i terrazzi immensi delle udienze, le sale di giustizia dove il sultano e la corte, abbaglianti di stoffe vivaci e di gioielli, formavano sul marmo candido un quadro che abbacinava il popolo genuflesso, poi i vasti cortili delle giostre, per le lotte delle tigri e degli elefanti, acre voluttà sanguinaria che i tiranni alternavano a canti di giullari e a danze di devadasis, negli alti giardini pensili. E intorno, a picco, le mura ciclopiche, simbolo d'una potenza senza pari; da un lato, contenuta in una cerchia cupa, simile veramente ad una perla chiusa in uno stipo, la Moschea della Perla, bianca, translucida, semplice di linea e solenne; e là, in fondo alla città, candido nella sua cerchia di cipressi e di palme, il Tai-Mahal: il più puro esemplare di bellezza funeraria che la speranza umana abbia innalzato alla disperazione della morte.
Agra, 28 gennaio.
Oggi, costeggiando le rive del Giumma, contemplo dal basso il maniero ciclopico e stento a ritrovare con gli occhi le loggie, le verande di trina marmorea dove ieri ho sognato a lungo nel tramonto di brace. I palazzi di marmo incantato appaiono come un sottile frastaglio niveo alla sommità della mole rossigna, la quale esisteva già mille, due mila anni or sono, ai tempi delle origini braminiche, ai tempi dei re Giaina e Pali. I Gran Mogol, ultimo giunti, sovrapposero alla mole espugnata la loro dimora aerea, ed il granito fulvo della fortezza ciclopica fiorì di marmi candidi nell'azzurro del cielo.
Oggi i signori e le belle dormono al piano in un'altra reggia: quella dei morti, più meravigliosa della reggia dei vivi: il Tai-Mahal.
Il Tai-Mahal! M'avvio al miracolo dell'Oriente con la mia diffidenza consueta per le cose troppo magnificate dalla leggenda. E mi preparo alla delusione entrando nel vasto parco alberato di una vegetazione cimiteriale: palmizi e cipressi. I cipressi formano una galleria sul mio capo, giganti islamitici che fondono i tronchi e la fronda di bronzo quasi nero. Ed ecco, d'improvviso, la meraviglia unica del mondo. Poche volte la realtà ha superato la mia aspettativa, poche volte una bellezza m'ha investito così violentemente, mozzandomi la parola ed il respiro, forzandomi all'ammirazione ed alla riverenza completa.
Sullo scenario a due tinte: l'azzurro cielo e il bronzo cupo dei cipressi, s'innalza la più immacolata e gigantesca mole sognata da questi sultani amici del candore. Una semplicità che sfugge alla parola e all'indagine estetica. Sullo zoccolo immenso una cupola eccelsa, e ai lati quattro minareti scagliati al cielo: non altro. È il motivo classico dell'India islamitica, il motivo profanato da tutta la chincaglieria occidentale, esecrato negli scenari d'operetta, nei lavori ad uncinetto e nelle oleografie: ma divino nella verità del modello! Di marmo candido, eterno, e pure sembra fatto della sostanza labile e translucida delle nubi; le nubi a cumulo, tondeggianti, che s'alzano in questo momento dietro la cupola immacolata, quasi a gareggiare in grazia ed in candore, formano nel cielo di turchese un contrasto forse meno luminoso e meno immacolato. L'azzurro del cielo, il candore delle nubi e dei marmi, il bronzo cupo dei cipressi, tutto è riflesso in un gran lago tranquillo che addoppia il miracolo, con il candore preciso di certi smalti persiani.
Avanziamo quasi increduli, temendo dell'incantesimo creato da un negromante, di uno scenario che debba dileguare come la Fata Morgana; ed ora soltanto mi meraviglio della mole del mausoleo. Il tripudio dei colori m'aveva fatto smarrire il senso della misura. Ma una teoria di pellegrini che sale le scalee sembra una schiera minuscola d'insetti, così lenti nel giungere da un portico all'altro. Arriviamo anche noi alla mole che abbaglia. E da presso appare all'occhio abbacinato quanto l'arte costretta alla semplicità assoluta possa tuttavia fare nel marmo, e vediamo il Tai qual è veramente: una mole ed un gioiello, l'edificio d'un Titano e il capolavoro d'un cesellatore moresco, ottenuto con gli scarsi motivi islamitici: ornati geometrici, ghirlande di parole sacre, gracili motivi floreali. E anche qui l'onice nerissima, intagliata e immessa nel marmo con una tecnica sconosciuta al tempo nostro, segue ogni voluta, ogni traforo, aumenta il candore opalescente dell'insieme, come una striscia di kool, tracciata dal pennello sottile sotto la palpebra, aumenta il balenio perlaceo nell'occhio d'una baiadera.
Le porte d'argento — l'argento sul candore del marmo! — riproducono l'intero Corano, a parole scomposte e ricomposte, come in una cabala.
Entro nel mausoleo, m'avanzo verso i due mausolei dove dormono da tre secoli i coniugi amanti che vollero con l'amore vincere la morte. Poichè tutti sanno che il Tai-Mahal fu eretto dall'imperatore Shah-Zehan, disperato folle per la morte immatura della sposa: la bella Mahal che sorride ancor oggi, negli smalti e nelle miniature indo-persiane, morta nel 1618 non di mal sottile, come vuole la leggenda sentimentale di qualche viaggiatore, ma nel dare santamente la luce ad un settimo figlio. E non so dire quanto m'intenerisca quell'amore passionale e tragico in quel romanzo onestamente coniugale. Si racconta che il vedovo impazzito, s'aggirasse per le sale della reggia aerea, vivesse come se la sposa fosse sempre con lui, sorridendo, parlando, chiamandola a nome, indicandola ai figli e ai cortigiani allibiti. E la vita che visse ancora fu tutta un'allucinazione passionale, un'amorosa convivenza con il fantasma visibile a lui solo, che egli accompagnava per le terrazze e per i giardini, presentava nei banchetti e nelle feste ai cortigiani e al popolo impietosito.
Da quella demenza è sorto questo miracolo funerario. L'amore ha veramente vinto la morte. Il mausoleo tre volte secolare è intatto come se costrutto da ieri. I coniugi amanti dormono vicini, in eterno. Sotto la cupola eccelsa più di qualunque nostra cattedrale, luminosa, nell'ombra senza finestre, d'una luce sua propria, s'intrecciano con delicati motivi floreali le sentenze del Corano. Sentenze indecifrabili per me, ma che certo devono ripetere ai due amanti le parole che le religioni di tutta la terra dissero in ogni tempo all'amore e alla morte.
Fachiri e ciurmadori.
Agra, 30 gennaio.
Ci riposiamo dei giorni trascorsi, troppo intensi di emozioni estetiche, in curiosità più comuni. Visitiamo una fabbrica di tappeti. Belli i tappeti e singolarissimo il modo di fabbricarli. Una trentina d'operai, quasi tutti giovinetti, seminudi, stanno seduti al telaio, nell'afa di una lunga tettoia. E ad ogni operaio corrisponde un filo, una tinta della trama complicatissima. Il direttore, seduto su un alto scanno, all'estremità dei telai, tiene sott'occhio lo schema riassuntivo del lavoro con i numeri corrispondenti ai vari tessitori e li canta in note diverse; e al numero corrisponde il gesto del piccolo operaio che ripete la nota, con una voce prolungata d'intesa. Il lavoro prosegue così su di una nenia regolare e varia, non priva di una certa dolcezza musicale. Il direttore sembra dirigere un'orchestra di tinte delicatissime. Ed è veramente la sinfonia dei colori, sognata dai poeti decadenti. Ne risultano quei tappeti inimitabili, dove il pregio e l'origine si rivelano nella fattura raffinata e primitiva ad un tempo, nel disegno e nella tinta che s'alterano di tratto in tratto, ingenuamente, per il filo che vien meno o per la mano diversa, nella sofficità deliziosa, come se le dita si insinuassero sotto l'ala d'un cigno. Lavori magnifici, ma che m'attirano sotto questo cielo soltanto. E per non comperare dimezzo il prezzo. Ed è accettato. Lo dimezzo ancora. Ed è accettato. Scelgo tre tappeti. Altri mercanti escono dai loro negozi mentre passiamo nella città indigena, tentandoci con mille cose inutili; un budda, una trimurti in avorio, un elefante in ebano, raccolto sulle zampe posteriori e recante in alto, nella proboscide attorta, un gran vassoio d'argento, bronzi, rami lavorati a sbalzo, veli tenui come nubi tessute, tinti all'istante sotto i nostri occhi con tutte le tinte più delicate dei fiori e dei frutti, ed affidati a due bimbi che li fanno prosciugare correndo, amuleti, monili gemmati, ori massicci di bajadere. Cose che tentano, ma che compero senza fede, per qualche amico d'Italia. Non le amo nella mia casa. So quale malinconia d'esilio, quale stridore borghese acquistano sotto il nostro cielo, nelle nostre dimore modeste, tra uno scrittoio Luigi XV ed uno stipo dell'Impero. Ogni bellezza nella sua cornice. Due cose vorrei portare con me. La reggia dei Gran Mogol, il palazzo di trina immacolata, lassù, sulla sua mole rossigna, e il Tai-Mahal, con i suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto. Oggi sono ritornato, solo, a contemplare per lunghe ore il poema di marmo e di luce.... Quale rimpianto sarà nei miei ricordi!
Agra, 31 gennaio.
I giocolieri e i fachiri sono una delusione per chi viene in India mendicando un po' d'inverosimile, di soprannaturale. Ma aggiungono al paesaggio un motivo pittoresco. Oggi, dinanzi al tempio giaina, ho assistito alla lotta del cobra e della mangusta, lo spettacolo che gl'incantatori di serpenti offrono ad ogni forestiero per tre modeste rupie, il prezzo della vittima. Due indù, che sembrano usciti da un'illustrazione di viaggi, ignudi, fasciati alle reni da un panio sottile, fasciati in testa da un gigantesco turbante giallo, le barbe divise e uncinate, le orecchie adorne di anelli d'oro massiccio, siedono di fronte chiudendo ognuno tra le ginocchia un cesto coperto, e incominciano un preludio di richiamo, una specie di nenia dialogata, guardandosi con occhi di sfida, di minaccia, di paura, ora l'uno ora l'altro sollevando il coperchio ed abbassandolo subito, volgendo gli sguardi sul pubblico attento, come per consultarsi. Poi si decidono. Una delle ceste s'agita, il coperchio si solleva, ed appare la testa eretta d'un cobra che esce dalla prigione con lentezza flessuosa, si raccoglie, s'abbandona pigro sul tappeto come una gomena inerte, grigia a losanghe nere. Ed ecco balzare dall'altro cesto, d'improvviso, l'avversario diverso: un felino che ricorda il nostro furetto, fulvo, snello, ondeggiante, il muso e gli occhi rossi, la coda lunga due volte il corpo, villosa, dilatata dall'ira come un enorme scopino rossiccio. Il cobra s'erge a mezzo delle spire attorte, con la veemenza d'una molla a spirale, la gola espansa, con la figura delle lenti che si dilatano nel furore, il capo piatto, sottile, scosso dal fremito continuo d'una foglia agitata dal vento. E tra le grida incitatrici dei monelli e il rombo d'una musica assordante, i due avversari si preparano alla difesa e all'offesa: la mangusta correndo rapida attorno alle spire circolari, come attorno ad una fortezza, e il cobra girando su sè stesso come un'ansa mobile, vigilando la nemica da tutte le parti. Il cobra si tende, guizza come un dardo. La mangusta balza indietro, protetta dalla nube rossigna della coda accartocciata. Ritorna all'assalto. È respinta. Ritorna tre, quattro volte; per dieci, per venti minuti gli avversari temporeggiano. Poi è l'impeto furibondo, una miscela forsennata di spire livide e di pelo fulvo, finchè sul tappeto non appare più che un gomitolo enorme e palpitante. La mangusta è perduta. Eppure no: le spire s'allentano, due zampine rosee si liberano convulse, lo scopino della coda emerge improvviso; l'intera mangusta esce trionfante dall'intrico del rettile che si svolge inerte: il felino minuscolo ha divorato il cervello del nemico.
— It is not interesting. The cobra is dry.
Uno studente indiano che ho vicino si porta l'unghia del pollice ai denti incisivi, per significarmi che il rettile non aveva più veleno. Non mi stupisce, data la famigliarità di questi incantatori con il terribile intercessore di morte. Ma è noto che la mangusta affronta e distrugge i cobra intatti e selvaggi della jungla, ed è tenuta nelle case, avversaria vigilante e infaticabile d'ogni rettile intruso, come il gatto per i topi tra noi.
Qualche liceale color di bronzo, qualche borghese anglomane in solino rigido e con la mazza gemmata, si sofferma un attimo nella cerchia dei giocolieri, poi s'allontana con uno sguardo di commiserazione e di snob come da cosa « quite native », troppo indigena e troppo consueta. Io mi compiaccio invece di osservare nella realtà misera e cenciosa, ma pittoresca, le figure e le cose troppo lette nei libri. E trovo interessanti anche il famoso miracolo della pianticella di mango, un gioco di prestigio fatto con un'abilità senza pari. Uno degli indigeni fa visitare intorno un seme autentico di mango che solleva con le due dita, depone in una buca del terreno, ricoprendolo di terra e calpestandolo accuratamente; poi distende sulla seminagione un fazzoletto favorito da uno di noi. Allora inizia qualche altro gioco, per distrarre l'attenzione del pubblico. Ritorna poi, ad intervalli, al seme di mango, ed ogni volta la pianticella ha messe due, tre foglie di più, finchè al termine dello spettacolo raggiunge le dimensioni d'un arboscello con due frutti e qualche fiore. Uno sviluppo miracoloso che richiede una raccolta progressiva di non meno di cinquanta esemplari, sostituiti con un'abilità che sfugge ad ogni mia vigilanza.... E che mi ricorda le cinquanta parrucche progressive di quel tale parrucchiere calvo che simulava lo sviluppo di una chioma assalonica, alla corte di non so quale Luigi di Francia.
Ma quali simulatori consumati sono questi giocolieri! Con quale arte istrionica raffinatissima, sconosciuta ai nostri prestigiatori, illudono, deviano la nostra attenzione, con quale mimica seguono lo sviluppo del mango, fingendo l'incredulità nel prodigio, l'ansia dell'esperimento, la delusione del primo insuccesso, la meraviglia paurosa per la prima gemma, la gioia del trionfo!
Ma ecco i due s'altercano, s'ingiuriano con ira crescente. Credo in un litigio autentico. E non è che il preludio d'un altro gioco. I due tentano di strapparsi di mano un sacco cencioso, finchè l'uno riesce ad imprigionare l'altro con un rapido gesto traditore, e ve lo lega solidamente. Allora comincia la mimica della gioia crudele, la danza feroce sul povero prigioniero che s'agita e geme. L'avversario non pago prende un randello a clava e percuote l'involto fino ad appiattirlo, fino a farlo aderire vuoto e floscio sul terreno. Allora il forsennato slega, esplora il sacco. E comincia il monologo del dolore, del rimorso disperato, finchè la folla si fende e si vede ritornare lo scomparso, sano e salvo, non si sa come, non si sa di dove. Sorpresa, riconciliazione, abbracci fraterni e lacrime vere, abbondanti che brillano sulle labbra nere, quando i due girano intorno, invitandoci in corretto inglese all'offerta generosa.
— A little present, milord! We are so poor fellows!
Poor fellows! Poveri compari, ma di una abilità e di una scaltrezza inqiuetante, e tale da frodare dieci volte, in altre occasioni, il forestiero un po' trasognato! E non saranno certo costoro a darmi un po' del soprannaturale che speravo di trovare in India, un po' di inverosimile, un po' di miracolo....
Agra, 9 (?) gennaio.
Il miracolo è pur sempre uno solo. Il Tai-Mahal. Domani partiremo per Giajpur e oggi son ritornato alla meraviglia che lascerò prima d'esserne sazio. La meraviglia che ha il fascino non più di una cosa d'arte, ma di una bellezza naturale ed eterna: come il mare, come il cielo, come l'alte vette immacolate. Aveva il colore di certi nevai, oggi, mentre lo contemplavo per l'ultima volta. Poi è passato al rosa, al cerulo, al verde, all'ardore violaceo dell'acciaio nell'ora della tempra... E i cipressi di bronzo, il cielo di cobalto, le acque incantate che addoppiavano il miracolo, tutto m'è impresso nella palpebra interna come quando si guarda una cosa che abbaglia.
Fra sei mesi, fra un anno, perduto nelle vie delle nostre città settentrionali, nella nebbia e nel pattume d'un crepuscolo decembrino, potrò forse resuscitare tra le ciglia socchiuse un po' di questa luce e di questi colori, e consolare l'anima grigia....
Tai-Mahal! Poema marmoreo di Amore e di Morte, quale tormento, quale rimpianto sarai per il futuro!
Giaipur: città della favola.
Giaipur, 3 febbraio.
Paese dell'imprevisto! Dopo tante città marmoree abbacinanti di candore, ecco una città tutta rosea: Giaipur. L'occhio stanco di troppa luce riverberata da pareti bianche si riposa su questi palazzi come sulla dolcezza di certe stoffe attenuate dal tempo. E la nostra fantasia trova finalmente la città della favola, sognata nell'infanzia prima. Doveva avere l'anima d'un fanciullo e d'un poeta quel Maraja Suvni-Ge-Sing II che nel 1670 abbandonò l'antica capitale: Amber, e ordinò che una città nuova gli fosse costrutta dal suo popolo, una città quale aveva visto nei sogni dell'oppio, nelle favole persiane o nelle leggende vediche. Tutto un popolo fu all'opera e la città sorse per incantesimo: vastissima, con vie lunghe tre, quattro chilometri, ampie e regolari come le nostre più belle vie europee, tracciate, ornate, colorite sul modello unico, secondo la dispotica volontà del sovrano. Giaipur è un'immensa città costrutta pel capriccio di un solo, come si eseguisce una veste, una collana, uno stipo. Tutto è color di rosa a delicati fiorami bianchi: rosa le case, gli archi, le cupole, i minareti delle moschee, le guglie delle pagode.
Dalla veranda dell'albergo osservo sbigottito e non so darmi pace. Siamo giunti da un'ora, dopo tre giorni di ferrovia, in mezzo all'India desolata, stanchi dall'ardore polveroso, rattristati dal paesaggio che si fa sempre più squallido, come un'infinita pianura di scorie avvolta da un'atmosfera non più terrestre, non più respirabile. Quale differenza dalla verzura, dalla fresca penombra degli Stati del Sud! Tutto muore negli Stati Rajputi: anche gli agavi, i palmizi-palmira, i cacti a candelabro, questa tenace vegetazione di stoppa, di cuoio, di zinco.
E sarebbe la carestia classica, la Fame dei tempi andati, la sorella del Colera e della Peste, quella che secondo il poeta «viene a tracciare in India sul libro mastro della natura il dare e l'avere, a grandi segni di matita bleu», sarebbe la fame classica se l'Inghilterra non avesse chiusa tutta l'India in una fitta rete ferroviaria, arterie nelle quali scorre, più vitale del sangue, con la velocità degli espressi americani, il grano giunto da tutte le parti del mondo. Grano, grano, infiniti sacchi tondeggianti che s'accumulano in piramidi colossali ad ogni stazione piccola e grande. E il vecchio ottuagenario e il bimbo di sei anni, la danzatrice ed il paria, tutti passano al dispensiere per la provvista quotidiana, senza nemmeno dir grazie, senza nemmeno capire da chi e perchè giunga quel bene. E quando ognuno ha ricevuta la sua misura di frumento o di farina candida attende all'occupazione prediletta: sognare. Chi ha un'ultima moneta: un'anna, mezz'anna si compera trenta rose, le rose che si vendono già decapitate, in piramidi irrorate di continuo, e le infilza su una cordicella d'argento per la ghirlanda quotidiana, o passa dal profumiere parsi per mezz'oncia di benzoino (tutti si profumano e s'infiorano in questo paese: anche i cocchieri, anche i bovari) o compera una pasticca di mastice o un grano d'oppio o un bolo di betel.
Città di sogno e popolo adorabile, che ha la poesia del superfluo e la scienza delle cose inutili. Nessuna cosa più inutile di questa grande città color di rosa. Certo mi ricorderò di Giaipur, se un giorno dovrò scegliere una patria alla mia pigrizia contemplativa. Il dolce far niente italiano è, al confronto, un vortice di attività spaventosa.
Dalla veranda dell'albergo guardo i palazzi che si succedono regolari, all'infinito, fasciati, si direbbe, dello stesso damasco color salmone a fiorami candidi. Non so darmi pace, scendo, attraverso la via, voglio vedere vicino, palpare con la mano le strane pareti. È una specie d'intonaco tre volte secolare, più duro, più liscio dello smalto; le case sono strette, contigue l'una all'altra, come i palazzi classici di Venezia, ma tutte intonacate dello stesso color di rosa sul quale i disegni soltanto variano all'infinito. Oh! I delicati motivi che si possono ottenere con un po' di bianco sul fondo gridellino! Motivi rievocanti le antiche stoffe dette indiane: losanghe minutissime, zebrature ondulate, mazzolini settecenteschi, ghirlande di nodi d' amour: ogni facciata varia all'infinito, pur fondendosi nell'armonia dell'insieme, e si ha l'impressione che debba cedere sotto la mano come un immenso lembo di stoffa tesa per un giorno di gala.
Rosa, tutto color di rosa per compiacere il gusto di un Re! E la folla che passa per queste vie si direbbe pur essa scelta, istruita, abbigliata per uno scenario coreografico. In nessuna città indiana, nemmeno ad Haiderabad, nemmeno a Delhi ho ritrovato così intatto l'Oriente di maniera. Non rotaie di tram, non automobili, non europei in casco e gambali, ma elefanti da nolo, dalle gualdrappe numerate, elefanti nuziali gualdrappati di rosso e d'oro, dipinti di tutti i colori più vivi come giocattoli di Norimberga, cammelli, dromedari che passano di corsa, col collo proteso, ricordando la figura e l'aire di certi polli spennati, muletti candidi dagli occhi rosei e dalle ciglia mansuete, e cavalli — i cavalli che mancano nell'India meridionale — cavalli bai, pomellati, bianchi: destrieri classici, dal tipo arabo, dalla criniera e dalla coda ondulata e prolissa, montati da cavalieri fantastici che si direbbero eroi cinematografici o comparse d'operetta se non si vedesse, se non si sentisse che sono veri: veri nonostante la scimitarra gemmata e lo scudo all'arcione, il casco — turbante adorno di penne svolazzanti, la barba imbiondita al hennè, i sopraccigli, le ciglia annerite con l'inchiostro di kool. Ma per chi, ma per che cosa questo abbigliamento scenico da principi di Mille e una notte? Forse non tanto per piacere alle loro donne mansuete, quanto per servire degnamente la Dea Illusione, la Dea Poesia, la Maja-Devi della teogonia indiana: quella che pone tra noi e le cose quali sono il velo delle cose quali devono apparire. Certo io penso con un sogghigno al nostro sommario vestito occidentale: un unito nero o bigio, un solino rigido, un cappello a cencio o a staio: non altro è concesso, non una tinta vivace, una penna, un velluto per illeggiadrire la nostra già sempre più scarsa avvenenza mascolina. Tutti hanno qui una eleganza principesca: principi e bovari; ma non per l'abbigliamento soltanto. Tutti hanno la pura bellezza del tipo ariano, hanno innata la grazia del gesto, del passo, dell'atteggiamento.
La bellezza e la grazia raggiunge nelle donne una perfezione forse eccessiva: si direbbe che avanzano per via a un passo di danza, avvicendando i piedi nudi e gemmati sulla stessa linea retta, il che fa ondulare le anche con un ritmo procace, mentre le braccia ignude, cerchiate di smaniglie, sono sollevate in alto ad equilibrare strane anfore di argilla variopinta o di rame. Sono vestite di stoffe e di veli vivaci, fasciate, inorpellate pudicamente fino alla gola: la scollatura, se così si può dire, traspare invece alla vita, dove il giubbino e la sottana disgiunti, s'allontanano talvolta scoprendo una buona parte del torso bronzeo e la base dei seni: una scollatura alla rovescia, che non dà nessun brivido sensuale, tanto l'atteggiamento è dignitoso, e perfetta la bellezza dei volti. Forse eccessiva, forse un po' monotona la bellezza di queste indiane raiputi: sembrano tutte sorelle. E tutte ricordano singolarmente la Vergine Maria: non la Vergine bionda della tradizione occidentale ma la Vergine nigra sed formosa dei musaici bizantini e degli smalti copti: l'ovale eccessivo, la bocca dal sorriso triangolare, il naso anche troppo minuscolo tra gli occhi lunghissimi, custoditi dai capelli ordinati con cura impeccabile, simili a due bende di raso nero e lucente.
Città della favola! Passano i veicoli più strani: vetture triangolari, semicircolari ricordanti la forma delle bighe, e l'auriga di bronzo ignudo grida ed incita, in piedi, non i cavalli, ma gli zebu, il bue indiano, piccolino, gibboso, dai garretti impazienti e velocissimi, dallo sguardo mansueto, fatto più dolce dalle lunghe corna ricurve ripiegate lungo la gobba, quasi col timore prudente di ferire qualcuno. Altre vetture passano, simili a piccole berline tutte d'oro, dalle cortine di broccato rosso; e passano portantine singolari, sormontate da una specie di guglia a pagoda, dov'è adagiato un ricco mercante parsi, una bajadera d'alta casta, un dignitario dal vestito e dalla barba candida, con non altro di nero che gli occhi imperiosi: ed ogni veicolo è preceduto e seguito da otto, dieci servi che avanzano su una canzone d'allarme, agitando a destra e a sinistra flabelli di palma dipinta o bastoni con un lungo pennacchio di seta candida e nera che è la coda di un'antilope di specie rara. Turbanti di tutte le forme e di tutti i colori: candidi enormi, fatti di tela rozza per i Camili e gli uomini di bassa casta, turbanti minuscoli piegati e pieghettati con arte sopra una forma interna come i cappellini delle nostre signore: circolari, triangolari, o rialzati audacemente da una parte, o scendenti a custodire le gote e adorni di fermagli gemmati, dai quali zampilla un' aigrette o una paradisea che farebbe la delizia delle nostre più raffinate mondane.
Città della favola! Avanzo lungo le belle vie spaziose, sui larghi selciati di marmo a figure geometriche, e sfioro a quando a quando con la mano i muri delle case color di rosa, sempre color di rosa, a delicati fiorami candidi. Quale meraviglia che in una città fantastica come questa si sia conservato intatto l'Oriente dei tempi andati? Ecco dignitari di corte, ecco scudieri, falconieri che passano ridendo, sollevando in alto i girafalchi incappucciati — avevo letto di questi, in guide sommarie e in descrizioni di pregio, ma non avevo creduto — ecco falconieri quali si potevano ammirare in Toscana o in Provenza, in un bel mattino del secolo XIV, ed ecco le tigri, le famose tigri del Maraja di Giaipur, delle quali tanto m'avevano parlato a Bombay e a Calcutta. Non sono tigri: sono pantere: non meno belle e formidabili; m'appaiono d'improvviso, al crocevia del Palazzo dei Venti, condotte al guinzaglio da una schiera di custodi: fanno parte delle belve che sfilano nei cortei di gala, pubblicamente. Per questo, per abituarle alla folla, sono condotte in giro ogni giorno, dopo i pasti abbondanti; sono cinque nel gruppo, tre color d'ocra a chiazze nero-pece, un'altra chiarissima, che si direbbe stinta, un'altra tutta nera, d'un bel nero lucente, dove le chiazze appaiono marezzate, come nel damasco. Camminano a scatti improvvisi come se avanzassero sopra una lastra di metallo rovente, ammusando a destra e a sinistra, con bonomia giocosa, i monelli ignudi che s'affollano intorno. Poichè m'arresto incuriosito e guardingo, a distanza prudente, uno dei custodi mi sorride, mi fa cenno cortese di avanzarmi senza esitare, m'accosta lui stesso la belva al guinzaglio; e sul suo esempio accarezzo la nuca folta, mentre la belva s'abbioscia, gli occhi obliqui socchiusi nella luce del giorno, il muso depresso e baffuto come certe maschere giapponesi. Altre pantere mi sono intorno, con i loro custodi, si strusciano ai miei gambali, con un ron-ron beato di grosse micione ben pasciute....
Giaipur, 5 febbraio.
Città dei colori! Si direbbe che il popolo abbia voluto ripagarsi dell'unica tinta imposta dal tiranno, sfoggiando tra queste pareti color di rosa tutte le tinte più vive: uomini, donne, principi e mendicanti: vestiti di cenci o di sete, di percalli o di velluti: passa per queste vie una fiumana incessante di colori inconciliabili sotto il nostro cielo, ma che si fondono con questo sole, su questo scenario, in una concordia discorde che è un vero tripudio visivo: giallo zolfo, giallo ocra, rosso, carminio, porpora, verde biacca, verde salice, azzurro, turchino.
Il sobborgo dei tintori è una delle cose più singolari di Giaipur. I tintori esercitano il loro mestiere all'aperto, con mezzi primitivi e raffinatezze secolari, sconosciute tra noi. S'aggirano seminudi tra le tinozze, i barattoli, i lambicchi fatti di grosse zucche e di noci di cocco unite con una storta di bambù, pestano i loro semi e le loro polveri in mortai millenari, di marmo o di bronzo, dov'è scolpita la testa elefantina di Ganesa o il sorriso di Parvati dagli occhi di pesce. E ne tolgono tele, tulli che appendono a corde tese al sole e affidano a garzoncelli che le fanno prosciugare correndo, gonfiandoli nella corsa come grandi aquiloni o turbinandovi dentro come in una danza serpentina.
A questo popolo il colore è necessario come la luce. Donne specialmente, donne d'ogni casta s'affollano intorno alle tintorie. E la giovinetta più povera trova sempre la monetina per far gettare nella tinozza tre metri di tulle stinto, che le è reso dieci minuti dopo, vivo della tinta che ama. Sull'unito del fondo l'artista sovrappone con meravigliosa sveltezza il disegno e la tinta preferita, adoperando certe spate di setola a spruzzo, o certi rulli di bosso o semplicemente le dita intinte: e ne risultano marmoreggiature, zebrature, disegni pomellati, o zone ondulate, delicatissime. E i tulli popolari, avvolti con una grazia che ricorda in queste donne Raiputi il ceppo comune, le remote sorelle di Atene, acquistano per trasparenza sovrapposta, per gioco del sole e del movimento una luminosità che moltiplica gli effetti come nei cristalli, e fa di queste creature sfamate quotidianamente dalla carità governativa tante principesse da leggenda.
Giaipur, 7 febbraio.
E anche i piccioni sono tutti ritinti come arlecchini dell'aria. Quasi non bastasse il verde naturale dei pappagalli, il bagliore dei pavoni, il nero lucente dei corvi. Così che le case color di rosa hanno il marmo candido delle cimase coronato da pennuti di tutti i colori.
Un'altra cosa non avevo osservato, che mi piace e m'intenerisce. Ad ogni crocivia è una specie di tempietto ad una colonna, dove la carità dei passanti depone il becchime per gli uccelli anch'essi affamati nell'intristire dell'ultime gramigne. Sotto le piccole cupole a pagoda è un vero turbinìo di pennuti minuscoli: cocorite, passeri bengalini che vengono, vanno trillando di letizia riconoscente. Anime delicate di fanciullo e di francescano, questi indù raiputi, che hanno la fame alle porte, e sentono la necessità d'un profumo e d'un fiore, e dividono il pugno di grano giunto d'oltremare con le piccole creature di Brama!
Giaipur, 10 febbraio.
I giardini del Maraja sono di una malinconia cimiteriale che pure ha il suo incanto sotto questo cielo non nostro. Le palme, i cipressi, gli aranci sono tagliati a forme geometriche, tra siepi di busso, di rose bengali, moderate secondo lo stile francese del secolo XVIII. Anche le piscine per gli elefanti, gli stagni per i coccodrilli e le testuggini hanno sagome Luigi XV; a questi motivi occidentali s'alternano, con bizzarria che non dispiace, le linee indiane: chioschi a guglia, cupole tre volte panciute, ponticelli di marmo traforato come trina che cavalcano stagni quasi asciutti dove intristiscono le ultime ninfee e gli ultimi papiri. Visitiamo il Palazzo Reale — la parte accessibile al forestiero — ed anche qui è l'anacromismo orientale e occidentale: sale parate di damasco europeo, sovrapporte settecentesche con episodi ellenici e pastorali, pendoli Robert, fiori sotto campana, alte finestre e telaietti; e si passa da questi appartamenti in corridoi dalle finestre ad ogiva moresca, a verande di marmo lavorato a stalattiti, a sale non arredate che di tappeti e di cuscini orientali, dalle pareti candide non decorate che di affreschi effigianti le incarnazioni di Brama. Si sale dall'uno all'altro piano di questi appartamenti di sogno in placidi ascensori elettrici costrutti a Manchester, mentre, per compenso, ci attende in giardino un elefante messo a nostra disposizione dal gran Cerimoniere della Maraja assente. Visitiamo i giardini vastissimi, ma dalla magra vegetazione senz'ombra. Sugli spalti della città, a grandi aranci dalle foglie accartocciate dall'arsura, s'alternano cannoni dorati e inargentati, inutili e grotteschi come le soldatesche che fanno i loro esercizi nel cortile sottostante: uomini alti e snelli come fanciulli, dalle strane divise miste di rigidezza britanna e di cenciosità orientale. Cose di una malinconia esotica intraducibile a parole.
E più malinconico di tutto il grande edifizio dell'Osservatorio Astronomico, fondato dal Maraja Ge-Sing, l'innamorato delle stelle, l'astronomo che diede alla scienza un contributo riconosciuto anche dalle società occidentali. Nel cortiletto interno, in mezzo ad una vasca senz'acqua, un immenso sferisterio sembra girare sulle spire arcuate del serpente in marmo che lo sorregge. E intorno sono attrezzi e costruzioni strane, in metallo ed in pietra, incise a formule misteriose non meditate più che dagli scoiattoli. In alto, il muro di una specula è tutto coronato di scimmie piccoline, strette l'una all'altra, freddolose al vento polveroso della sera. E i segni zodiacali s'alternano ad un'infinità di musetti pensosi e di code pendule.
L'olocausto di Cawnepore.
Cawnepore, 16 febbraio.
Remember Cawnepore!
Per anglomania, per rivalità d'infinite caste, per interessi naturali e morali l'India non vuole e non può sollevarsi. Guai se potesse, guai se volesse! La misura è già stata data una volta; la razza bionda sa quale sangue scorra nelle vene di questi indiani dal sorriso abbagliante di fanciulla timida, dallo sguardo mansueto sotto le ciglia tenebrose; e ricordano, come si ricorda nella calma dei secoli, il furore sotterraneo della terra malfida. E v'è un luogo fra tutti, in India, dove l'ansia d'ogni cuore britanno si volge come a un cratere. Come a un cratere e come a un mausoleo: il più tragico che la disperazione dei sopravissuti abbia elevato mai sull'ecatombe dei suoi fratelli caduti.
Remember Cawnepore! Non so staccare gli occhi dalla targa di cristallo che ha conservato, dopo cinquant'anni, le due parole disegnate da un highlander innominato sul cubo di granito. Il soldato era certo tra quelli che ebbero il còmpito tremendo — più tremendo che affrontare il nemico — di entrare nella casa della strage, di restaurare le pareti crollanti, di raccogliere i resti, di detergere il sangue «che saliva sino alle caviglie». Sopra un macigno sconnesso, dove il sangue aggrumato — sangue di bimbi biondi, di donne bionde! — offriva una pagina rossa, il soldato aveva disegnato, con la punta della spada, a grandi lettere accurate, le parole tragiche.
Remember Cawnepore! Nessuno ha dimenticato, ma certo l'umile soldato non immaginava che il cubo fosse più tardi rimosso e la sua iscrizione, tutelata dal cristallo, figurasse oggi nelle cripte del Fatal Well: il pozzo fatale. Il sangue ha preso col tempo una tinta di fuliggine, dove le due parole spiccano più chiare; e certo esse mi danno un brivido d'orrore, mi rievocano i giorni famosi assai più delle grandi lastre di marmo nero dove sono incisi in oro i nomi e le date delle varie campagne.
Per ricordare in tutta la sua tragica bellezza quella pagina rossa della storia Anglo-Indiana — sulla quale si profilano, vittime innocenti, tante soavi figure di donna — bisogna rivivere la notte del 14 maggio del 1857. Non invento: tolgo dalla raccolta del Times di quell'anno — sfogliata nella decrepita biblioteca del Queen's Hôtel — tolgo fedelmente dalla nuda esposizione dei fatti quanto ne emana di tragica poesia. È la notte famosa. Gran festa da ballo nel bungalow del colonnello Stanes, festa da ballo e serata diplomatica, consigliata dalla prudenza coloniale contro gli eventi. Gli eventi son gravi. Si è in piena rivoluzione; il fermento crepita, s'accende, si spegne, s'accende qua e là come una miccia non bene nutrita, ma inquietantissima. Sono in fermento gli Stati del Bengala, Bombay tumultua, Mirat è a ferro e fuoco, Delhi è in mano dei sepoys ribelli. Sono rimasti fedeli agli inglesi gli Stati del Pengjab, Madras, Baroda. La sorte oscilla. Ma il tumulto si propaga terribile. Compie ora il secolo dal giorno dell'occupazione sacrilega (1757-1857) predicano i Bramini; la profezia dei 100 anni sarà coronata dallo sfratto degl'infedeli e da un'India degli indiani. I reggimenti di sepoys si sollevano ad uno ad uno, per cause minime: la proibizione di portare i grandi cerchi d'oro agli orecchi o di ridurre le lunghe barbe uncinate, un nuovo tipo di carabina che comporta cartucce da rompersi coi denti: e le cartucce sono unte con grasso di bue o di maiale: il bue, animale sacro per gli Indù, il maiale, animale immondo per i mussulmani; cause occasionali: le cause concrete sono ben altre. Gl'inglesi annettono uno stato dopo l'altro alla Compagnia. Lord Dalhousie ha tolto di colpo l'immenso Stato di Ouda, rifiutando al Marhaja spodestato la pensione e gli onori. Quasi tutti i sovrani indigeni delle provincie del Nord sono in vedetta, sicuri del popolo, forti di ricchezze immense e di una speranza quasi certa: l'aiuto della Russia ferita dalla campagna di Crimea, la Russia in vedetta all'Himalaja.
L'Inghilterra provvede, combatte l'insurrezione con tutte le qualità sue migliori. Giunge a Cawnepore la notizia che a Mirat — a dieci miglia dalla città — i sepoys hanno ucciso gli ufficiali inglesi, e il colonnello Stanes apre le sue sale ad una festa da ballo, quella sera stessa, per consiglio del generale Hugh Wheeler, e tutta la Colonia è invitata in gran gala diplomatica: la guarnigione europea, tutti i gentiluomini, tutte le signore. Nulla si deve temere, nulla si teme a Cawnepore: la popolazione sappia ben questo. A Wood-House l'orchestra alterna i valzer al God Save the Queen. Si festeggia il genetliaco di Sua Maestà la Regina Vittoria. Eppure qualche voce corre tra gl'invitati, qualche voce corre nella folla. Un reggimento di sepoys s'è ammutinato quel mattino stesso, appena è corso l'annuncio dell'assedio di Delhi: poco importa: il reggimento fu internato. La folla è ostile, il distaccamento europeo non è che di trecento uomini: poco importa: il generale Wheeler ha avuto due giorni prima un lungo colloquio con Nana Sahib, ultimo peshawah di Poonah, fedelissimo dell'Inghilterra, alleato ultra modernista, il quale ha messo a disposizione del generale diecimila uomini suoi che già occupano gli edifici della Tesoreria e dell'Arsenale e difendono Cawnepore in una cerchia infrangibile. La città è in festa, nella bellissima notte tropicale. Le bionde ladies possono sfoggiare le loro spalle e i loro gioielli, gli ufficiali alternare le divise vermiglie alle immense crinoline di seta, nelle graziose volute delle contraddanze e dei lancieri. Li protegge il Marhaja generoso, li tutela dall'alto, in effige, la graziosa sovrana ventenne, biondo-cerula sotto la corona dove scintilla la gemma unica al mondo.
God save the Queen...: ma come si prolungan le salve dei cannoni e delle moschetterie: come s'innalza di lungi il clamore della folla — senza dubbio festante. — Il frastuono copre quasi la musica e le risa degli invitati. Ed ecco che Sir Hugh Wheeler fa un cenno e nel silenzio generale s'avanza nella gran sala e parla. La sua voce è come quella del capitano che annuncia all'equipaggio inconsapevole il naufragio imminente:
— Siamo perduti, — s'odono grida femminili, — siamo perduti, se c'è fra noi chi non sappia dominarsi. Tutti al Forte William. C'è mezz'ora di tempo. Gli ufficiali accompagneranno le signore ai rispettivi bungalows per provvedersi di roba e prendere i bambini. Fra mezz'ora non deve più restare un europeo in città. Fra mezz'ora tutti al forte se v'è cara la vita. Calma, ordine, silenzio! L'orchestra, — i musici si sono alzati precipitosi, — l'orchestra continui a suonare fino a mio ordine: laggiù si deve credere che la festa continui. Fra mezz'ora tutti al forte! Le ragioni le sapranno poi.
Le ragioni sono queste. Nana Sahib ha gettato la maschera; ha armato con tutte le munizioni e con tutte le artiglierie dell'arsenale i suoi diecimila demoni neri, i quattro reggimenti di sepoys ammutinati; i forsennati stanno per entrare in Cawnepore, non più difesa che da un gruppo di fedeli; otto ufficiali inglesi sono stati uccisi; tra mezz'ora la città sarà a ferro e fuoco ed ogni europeo passato a fil di spada. Non c'è rifugio che tra le mura tozze del Forte inglese.
— Al forte! al forte!
L'allarme corre la città. In mezz'ora tutti gli europei: uomini, donne, fanciulli — ottocento circa — sono al riparo: ma la difesa è derisoria: trecento soldati europei contro la falange furibonda! Eppure il manipolo resiste una settimana, due, tre, resiste fino alla morte per difendere le donne e i fanciulli che si stringono allibiti alle spalle. Le pareti decrepite crollano, sotto le granate, un bastione è aperto dal nemico: i difensori improvvisano trincee sotterranee; combattono nel fango. Comincia la stagione spaventosa delle pioggie tropicali. Donne, vecchi, bambini affondano nel paltume, si sviluppano il vaiuolo e la peste; nel cortile del forte si sotterrano i cadaveri; mancano le munizioni, mancano i viveri: le donne rifiutano il cibo per risparmiarlo ai bimbi e ai difensori: si vive di speranza: la notizia dev'essere giunta a Calcutta, ad Allahabad: la colonna liberatrice è forse alle porte.
Poi anche la speranza dilegua: è la disperazione, la morte certa: oggi, domani. Ed ecco il nemico farsi clemente. Nana Sahib propone al generale Wheeler una capitolazione; il generale si sdegna, rifiuta, ma la moglie, un'indigena, lo scongiura ad accettare; il generale esita; le donne, le madri implorano, impongono il consenso per i bimbi morenti di fame. E Wheeler accetta. Le condizioni, d'altra parte, sono accettabili: tutti avranno la vita salva e l'onore delle armi. I prigionieri saranno tutti imbarcati e condotti ad Allahabad, in terra pacifica. Viene il giorno della liberazione. Nana Sahib non ha mentito. Sul Gange, che scorre dietro il forte William, ventisette imbarcazioni attendono gli europei, delle quali due sono piccoli piroscafi a ruote: more comfortable — spiega il nemico — destinati alle donne e ai fanciulli. La flotta a remi, a vela, a vapore prende il largo sul fiume sacro. Ed ecco una cosa incredibile avviene. Sulle due rive, per una lunghezza interminabile, sono schierate tutte le truppe ribelli, tutta l'armata di Nana Sahib, con tutte le artiglierie tolte all'arsenale inglese, puntate sulla flotta che passa. È un saluto d'addio. No, è la carneficina ultima, sistematica, lo spettacolo infernale che Nana Sahib offre alla sua ferocia selvaggia. I proiettili s'incrociano dalle due rive più fitti, più micidiali d'un eruzione vulcanica; le imbarcazioni avvampano ad una ad una; le vittime balzano dai roghi galleggianti; molti annegano, quelli che raggiungono la riva sono respinti a colpi di lancia dai malebranche spietati: a morte! a morte! Carne da caimani!
E i caimani del Gange devono aver giubilato di tanta carne tenera e bianca: vero è che poco dopo, per mesi e mesi, si moltiplicava in carne più fosca e men tenera di sepoys....
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Ma la tragedia indescrivibile, quella per la quale Cawnepore è tristemente celebre, comincia appena. Tutti furono uccisi, fuorchè le donne e i bimbi — trecento circa — ricoverati sui due vaporetti che ritornarono a Cawnepore per ordine di Nana Sahib. Costui aveva bisogno d'un ostaggio contro la vendetta inglese che non poteva tardare e che sapeva tremenda, adeguata al delitto. I trecento superstiti inermi, folli di spavento e di dolore, dovevano subire una prima onta. Non furono restituiti al forte, ma vennero chiusi in una Be-Be-Ghar, parola intraducibile, tanto meno in inglese, un edificio basso e malsano; e là, nel luogo turpe, Lady Sotten, Lady Wheeler, Miss Kraty, tutte le fiere donne d'Inghilterra, le mogli, le sorelle, le figlie dei dominatori, quelle dinanzi alle quali i nativi parlavano a mani congiunte, languirono per venti giorni — venti secoli, venti età! — annichilite, inebetite dall'onta e dallo spavento, in attesa dell'aiuto che doveva giungere, ohimè — troppo tardi.
La grande colonna Inglese, comandata dal generale Haweloch s'avanzava da Calcutta verso Cawnepore, batteva i ribelli più volte, guadava il Bari-Naddu. Nana Sahib si vide perduto, si vide costretto a fuggire con tutti i ribelli, costretto a lasciare al nemico l'ostaggio delicato. No! Il nemico doveva trovare un carname! Fu dato l'ordine della carneficina immediata. I sepoys esitavano. Pietà, forse; forse viltà; poichè basta lo sguardo d'una donna inglese per far abbassare lo sguardo di cento nativi. I bruti uccisero senza fissare le vittime, uccisero a fucilate, attraverso le grate delle finestre, uccisero a colpi d'accetta, uccisero sfracellando i cranii infantili contro gli alberi del cortile, come si fa pei botoli malnati o bastardi. In mezz'ora la carneficina era compiuta. Morti, semivivi, feriti, tutti furono precipitati nella gran cisterna del cortile. Quando il giorno dopo irruppero nella Be-Be-Ghar le colonne salvatrici — i mariti, i padri, i fratelli delle vittime — delle trecento vittime non restava viva che un'indigena, l'aya (governante) dei due gemelli di Sir Sotten. E a lui che l'interrogava, che la scrollava alle spalle, perchè parlasse, essa rispondeva sghignazzando, abbracciando il tronco d'un palmizio sul quale s'alternavano ciocche bionde e grumi vermigli. La povera donna era demente.
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E delle cose atroci come delle cose oscene. La fantasia si ribella e la penna si rifiuta. Ma è pur necessario ricordare quell'ora per poter comprendere la misura alla quale salì la vendetta degli Inglesi, e per poter perdonare ad un popolo europeo le atrocità che seguirono: gl'indigeni «cannoneggiati» in massa, i bramini torturati e appiccati, dopo averli costretti a mondare con la lingua l'ultima traccia di sangue dal luogo del massacro. Ahimè, la vita è non solo soffrire, ma far soffrire; e la storia del mondo c'impone questo dovere crudele: fare agli altri il male che è fatto a noi. La repressione salì a tal segno che in Inghilterra stessa, alla Camera, vi fu chi si alzò gridando: — Ricordatevi che quelli erano turchi e bramini e che noi siamo cristiani!
E la pietà cristiana ha convertito in un giardino il luogo del massacro.
Ho visitato i giardini delle Memorie (Memorial Gardens) e non è traducibile a parole il senso che si prova tra quelle ruine fiorite, la vibrazione che ha l'anima passando dal brivido dello sdegno a quell'indulgenza ineffabile che assolve di tutto. Vicino al forte William sorge la chiesa commemorativa, sacra al nome di tutte le vittime. Le ruine dell'edificio che fu prima un lupanare indigeno, poi un macello di donne e di bimbe inglesi, sono ora coronate di clematidi, di liane, d'orchidee, e custodite intorno da una ringhiera di ferro come i luoghi memorabili e sacri.
Il Fatal Weell, la cisterna ottagonale dove furono precipitati i corpi palpitanti, fu lasciata com'era, mascherata soltanto da un mausoleo di squisita fattura. L'edificio è ottagonale, com'è ottagonale la cisterna, a finestre ogivali e a guglie gotiche, sopra una base a grandi scalee, e farebbe pensare ad un angolo cimiteriale del Devonshire, se il giardino, intorno, non profilasse i tronchi multipli dei banani, simili ad immensi polipi capovolti, o gli svelti flabelli delle palme Palmira.
Sulla grande scalea che accede al mausoleo un immenso angiolo di marmo candido — Angel of the Resurrection — prega a capo chino, le mani congiunte, le immense ali incrociate; e sul cartiglio sono scritte le parole della Suprema Indulgenza, che non si possono leggere senza occhi lustri.
Traveller, pray for us and our murderers!...
(Viaggiatore, prega per noi e per i nostri carnefici!...)
Il fiume dei roghi.
Benares, 23 febbraio.
— Benares.... il Gange....
Devo ripetere i due nomi favolosi per convincermi che veramente risalgo in barca il fiume sacro, con dinanzi lo scenario della Città santificata.
— Il Gange.... Benares....
Devo liberarmi dal ricordo di troppe descrizioni — da quelle deliziosamente arcaiche di Marco Polo a quelle moderne e sentimentali di Pierre Loti — per rientrare nella realtà, vedere la cosa troppo attesa con occhi miei. Vano è scrivere, vano è leggere; una bellezza non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri. L'aforisma wildiano è giusto. Ma prima ancora di saper leggere, io sognavo di Benares. Se risalgo alle origini prime della mia memoria vedo la città sacra in un'incisione napoleonica, nella stanza dei miei giochi. E il ricordo è così chiaro che il sogno d'allora mi sembra realtà e la realtà d'oggi mi par sogno....
*
— Slowly! Adagio, più vicino, — ripeto di continuo al barcaiuolo frettoloso.
Benares va vista dal Gange, come la ribalta dalla platea. L'interno della città è un dedalo infinito di viuzze laide, degno vivaio di tutte le epidemie del mondo. La città fu costrutta sul Fiume, protende tutta la sua bellezza verso le acque deificate.
La mia barca costeggia i ghati: così si chiamano i gradi più bassi delle immense scalee. La stagione asciutta scuopre la città quasi alle fondamenta ed appaiono gli immensi cubi di granito, i templi tozzi, le teste elefantine dei Ganesa, le braccia multiple dei Siva, le statue massiccie destinate ad un'immersione annua di molti mesi e patinate ora da un limo rossiccio, di bellissimo effetto. La patina rossa colora la città fluviale, indica il regno delle acque fino all'altezza di venti e più metri; dopo comincia la città abitabile, dalla fantastica architettura. Duemila sono i templi di Benares eretti come una selva lungo i dieci chilometri che la città occupa sulla riva sinistra del Gange: templi a pagoda buddista, piramidi e guglie bramine, cupole panciute, minareti maomettani, chiese eurasiane, sinagoghe, tutto è tollerato in questa «Terra dell'Indulgenza» pur che si creda. Tu non dirai che la tua religione sia migliore delle altre. Colui che dice: io sono nella verità, colui non è nella verità....
Ecco il noto profilo dei templi e dei palazzi, con le scalee, le verande, le specule, le infinite finestre tutte rivolte verso il fiume, ecco le strane «cupole a pigna», così caratteristiche nella architettura indiana. Gran parte dei superbi edifici appartengono a marahja delle terre più lontane, sono residenze di espiazione. Come nel Medio Evo i principi andavano ad espiare i loro trascorsi in Terra Santa, così i signori indiani visitano Benares una volta all'anno o si ritirano in vecchiaia per esalare l'anima in cospetto del Fiume-Dio che assolve di tutto. È risaputa la credenza; colui che muore a Benares, lasciando le sue ceneri al Gange, foss'anche un infedele, è dispensato dal martirio d'ogni reincarnazione, raggiunge la felicità dell'Increato. Malati, diseredati, vecchi d'ogni genere giungono dalle contrade più remote, dalle foreste equatoriali di Ceylon, dalle vette nevose del Cachemire, per aver pace nel seno di Brama.
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Sono le sette, l'ora della preghiera mattutina. Il sole illumina obliquamente la zona più alta degli edifici; accende l'oro superstite delle cupole e delle guglie attorno alle quali nugoli neri, verdi, rossi di corvi, di tortore, di pappagalli, turbinano salutando la luce con un inno assordante. E tutto ciò che vive scende verso il fiume. Dalle scalette tortuose tra palagio e palagio, dalle immense scalee che danno alla riva del fiume non so che profilo assiro o babilonese, scende una folla varia, densa, incessante; uomini, donne, fanciulli, vecchi, giovani fachiri, pellegrini. E tutti recano ghirlande di fiori; grosse magnolie, gardenie, corolle sconosciute dal profumo acutissimo, infilzate come rosarii, e prima di scendere nell'acqua le gettano al fiume, pel rituale quotidiano. I turbanti, le sete, i velluti sono appesi a cespugli o sotto certi ombrelli immensi, senza nervatura, simili a funghi singolari; gli uomini entrano nell'acqua quasi ignudi, le donne conservano una lunga tunica che dopo la prima abluzione aderisce alla pelle e rivela più ancora l'ambra delle carni, l'armonia delle forme stupende. E tutti pregano e meditano. Meditano su che? La mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al di là, la loro anima è perduta negli abissi dell'ineffabile. Strana città dove tutti credono!
Perchè molti di costoro non sono fachiri, nè santi, nè pellegrini. Sono uomini di venti, di trent'anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti, soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, che rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al giorno, scendono nella morte, s'immergono nel fiume a colloquio con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile. Odioso confronto con i nostri uomini, con i nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell'anima, deridono ogni scienza dello spirito, bestemmiano Dio, ostentando un ateismo fatto più odioso dal vigliacco ravvedimento dell'ultim'ora!
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Turba infinita che sempre si rinnova, magnificenza di bronzi cupi, di bronzi chiari, di forme stupende! Ma non tutto è forza e giovinezza. Gli aspetti della vecchiaia, della malattia, della morte, così necessari alla perfetta meditazione buddista, offrono sotto questo cielo magico un contrasto non descrivibile. Poichè è bene ricordare che gran parte di questa folla è qui giunta per morire, per «morire in salute» come mi spiega con bisticcio atroce il buon rematore. Tutti i più crudeli martirii con i quali Siva distruttore ritorna al nulla la povera carne umana si son dati convegno sulle rive del fiume luminoso, offrendo al visitatore un campionario strano, interessante come la nuova flora, la nuova fauna: scabbie, lebbre, eczemi tropicali ( framboesia, albinite, ecc.), che disegnano le pelli bronzate di chiazze candide e regolari, di chiazze vermiglie come lamponi, di zebrature ondulate; piaghe orride, tumori che hanno corroso un torace, mettendo a nudo i precordi lividi o hanno corrose le gote scoprendo tutta la dentatura candida in un sogghigno che non si potrà dimenticare più mai; elefantiasi che tumefanno le gambe, il seno, le pudenze in modo incredibile, tanto che la vittima sembra scomparire tra otri immensi e non può muoversi senza il soccorso di qualche devoto, portatore del singolarissimo pondo. Un gruppo di questi miserabili è adunato intorno ad un santo ancora giovane, dalla bruna barba divisa, dallo sguardo di fiamma; che può mai predicare quel veggente per consolare tante miserie, per far tacere i gemiti di quel carname senza nome? Forse ripete a quei moribondi le parole dell'Illuminato: «.... il saggio si rallegra della sua carne che si sfascia, come il prigioniero impaziente si rallegra della prigione che si schiude. Beata la musica che si diparte per sempre dallo stromento, beata la fiamma che si diparte dalla fiaccola, beata l'anima che abbandona la carne...».
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Passiamo oltre. Il sermone non è per noi. Mai come oggi mi son sentito schiavo della apparenza, innamorato folle di tutto ciò che è forma, colore, ombra, luce: bellezza viva, preda della morte.
La città è interminabile: ancora templi, ancora torri, terrazzi, scalee. Intorno, sul fiume galleggiano infinite le ghirlande votive e le corolle vivaci, i gioielli, i denti, gli occhi abbaglianti, le chiome nere lucenti formano tra il riverbero dell'acqua e lo splendore del sole un musaico a chiazze vive come nelle tele di certi impressionisti. Lo sguardo si stanca. Passiamo in una zona d'ombra riposante, lungo i ghati interminabili. L'acqua lenta orla di bava sordida i cubi di granito decrepito. Un fetore sinistro di fiori maceri, di carne putrefatta, di umidità febbricosa e di pestilenza mi fanno ricordare — con un brivido — che da questo focolaio unico si dipartono a quando a quando, nei secoli, il colera, la peste, i peggiori flagelli del mondo.... E non meraviglia. Ecco un tronco di palma morta che ha fatto diga nel pattume e contro vi s'accumula una putredine varia: ghirlande di queste corolle carnose che l'acqua converte in viscidume fetido, buccie, carta, cenci, tizzi di carbone, rami, un osso candido, una tibia umana che il remo solleva lentamente: un misero avanzo sfuggito ad un rogo troppo povero. E poco oltre la Marayana di Kandaba fa le sue abluzioni sotto un baldacchino sorretto da quattro servi in turbante; intorno le sue donne reggono le vesti, le collane, l'immenso pettorale di gemme, mentre l'augusta sovrana — una pingue signora attempata — immerge nel fiume le carni vizze, fa coppa delle mani, beve l'acqua fetida alternando ogni sorso con un breve gesto d'offerta verso il Cielo.
Più oltre una frotta di bimbi corre ridendo, cerca nel pattume gli avanzi del legno e del carbone; oltre ancora alcune donne immergono le anfore di rame lucente, di classica forma, e equilibrandole sul capo con l'una mano, s'avviano verso la sponda, l'altra mano al fianco, onduleggiando le anche con un incedere di procace eleganza.
Proseguiamo, passiamo dinanzi ad un'altra piattaforma di roghi — sono molte, ma quasi tutte deserte in quest'ora — altri templi, altri palazzi dominanti il fiume dall'alto come castelli feudali. Strana città rimasta intatta nei millennii, intatta nella sua pietra e nella sua fede! Altre città favolose esistono al mondo, dinanzi alle quali si esalta la nostra fantasia; ma sono il fantasma di quelle che furono. Benares è oggi qual'era nella notte dei tempi ariani. Quando in Grecia si celebravano i riti dionisiaci, quando a Roma le feste arvali, quando Tebe offriva olocausto a Ita, Benares già splendeva sulla riva del Fiume-Dio, come oggi; come oggi la sua folla scendeva nelle acque sacre a meditare il mistero del divenire.
*
Un'altra piattaforma che si protende sul fiume: un'altra serie di roghi; ma son quasi deserti in questa stagione salutare. Quale carname in fiamme deve fornire a queste rive l'ora della peste!
Approdiamo. Due cadaveri sono in molle nel fiume, legati ad una corda. Fluttuanti nel sudario candido per l'ultima abluzione di rito. Un altro finisce di ardere, irriconoscibile ormai; solo i due piedi si protendono fuori delle fiamme, contratti, le dita divaricate come in uno spasimo estremo; saranno gettati nelle fiamme per ultimi, poichè è consuetudine di lasciare i piedi fuori del rogo, rivolti verso il fiume, simboleggianti l'ultimo avvio. Questi roghi non sono grandiosi.
La nostra fantasia immagina cataste eccelse, nubi avvolgenti ogni cosa in vortici odorosi, cerimoniali e preghiere solenni: i roghi dei martiri e dei poeti. Nulla di tutto questo. Una semplicità che sa lo squallore. I roghi sono piccoli, simili a lettucci, a fornelli in cemento, appena capaci d'un corpo umano, e il legno si direbbe misurato con parsimonia, in questo paese delle grandi foreste! E negli addetti, quale frettolosa indifferenza! Ecco: il cadavere è tolto dal fiume con una specie di barella a grate, è disteso sul letto di cemento tra due strati di legno sottile: un indù versa una piccola latta d'olio resinoso, un altro accende. Il rogo avvampa, e ai quattro lati i quattro necrofori in giubba e turbante candido vigilano la cremazione, armati ognuno di una lunga spatola ricurva con la quale respingono i tizzi crepitanti; lo spettacolo è misero, profanatore; i quattro messeri in bianco, chini sul braciere modesto, con quei cucchiai singolari, mi fanno pensare a quattro cuochi affaccendati, e non hanno nulla di tragico. Ma è qui, come altrove, la completa indifferenza degli indiani per la salma, la nessuna venerazione pel corpo quando l'anima s'è involata per sempre. Una sola cura frettolosa, darlo alle fiamme, ritornarlo al nulla al più presto. Intorno ad ogni rogo, poco distante, ricorre un sedile di granito ricurvo dove siede la famiglia del defunto. Ma nessuna lacrima, nessun commiato straziante; i congiunti assistono all'incenerimento per vigilare che il rito sia compiuto esattamente, che il legno sia sufficiente, che tutta la cenere sia data al fiume.
Un terzo cadavere è giunto. Un fanciullo di forse dodici anni, bellissimo, falciato dalla morte d'improvviso, poichè il volto ha la calma del sonno placido e il braccio oscilla pendulo e la testa dalle chiome bluastre s'arrovescia sulla spalla dei portatori non per anco irrigidita. Un uomo — il fratello forse — una donna ancora giovane — forse la madre — assistono all'opera, scambiano con gli addetti poche sillabe, discutendo certo sulla resina che la donna annusa e trova di qualità non buona. E il piccolo attende resupino sulla catasta, il profilo perfetto fatto più delicato dal sonno senza risveglio, le frangie tenebrose delle palpebre solcate dallo smalto candido dell'occhio socchiuso. Non so che dolore indefinibile mi stringa il cuore fissando quel volto adolescente, fissando l'altro volto di vegliardo che già le fiamme disfanno. Forse riconosco nell'uno e nell'altro — attraverso le remote analogie d'un'unica stirpe — i volti di fanciulli e di vecchi che mi furono cari. Noi amiamo il volto, questo specchio dell'io; amiamo le rughe, la canizie dei vecchi, i capelli biondi, gli occhi sereni dei bimbi. Non possiamo concepire il ritorno d'un caro defunto senza il suo volto, il suo sorriso, la sua voce. La nostra religione (con un dogma tra i più medievali e puerili, è vero, ma che mi piace non discutere), soddisfa questa nostra illusione promettendoci la resurrezione della carne.
Come costoro sono lontani da noi! Prima di nascere, prima di morire si sono già detto addio. Si sono rassegnati serenamente, dai tempi dell'origine ariana, a questa disperata certezza « Nulla è; tutto diviene ». L'io ed il non io sono il frutto d'una mera illusione terrestre. Perchè se così non fosse sarebbe mostruosa, rivoltante la calma di questa giovane madre che compone tra le braccia del fanciullo il piccolo elefante d'ebano, il mulino minuscolo, un rotolo di carte: preghiere forse, o forse quaderni di scolaretto diligente! E tutto questo fa senza una lacrima, senza che una fibra del suo volto abbia un sussulto! Certo costei è una bramina compiuta, migliore assai di quell'altra madre, quella Marayana citata nei sacri testi che si strappava le chiome, ululando sul cadavere del suo unico figlio. E i yogi — si racconta — cercavano invano di richiamarla alla verità, di strapparla al demone dell'illusione. E tanto era lo strazio della donna che, per il potere d'un fachiro, l'anima ritorna al cadavere già disteso sul rogo. E la madre si getta sul resuscitato, folle di gioia. Ma il principe giovinetto s'alza sulla catasta, respinge la donna con un gemito, si guarda intorno sbigottito, dice: «Chi mi chiama? Chi mi strazia? Dove sono? Chi ha spezzato in me l'armonia della Ruota? In quale delle innumerevoli apparenze del mio passato mi ebbi per madre questa forsennata? Portatela dall'esorcista! Mara, il tentatore, ulula in lei!». Così parlato il giovine ricade resupino e l'anima s'invola nell'ineffabile. La madre, la marayana Kritagma, fu quella che andò penitente fino ad Anuradhapura, nel centro di Ceylon, la Roma buddista, ed ebbe la grazia somma d'essere illuminata da Gotamo in persona, come racconta il poeta Kalidasa....
Il vivajo del Buon Dio.
I signori dell'India non sono gl'Indiani. E non sono nemmeno gl'Inglesi. I signori dell'India sono gli animali. I corvi, anzi tutto; è l'impressione visiva e auditiva che si ha subito, appena sbarcati in una delle grandi Capitali: Bombay o Calcutta, Madras, o Rangoon. Incredibilmente numerosi, più numerosi dei colombi di Venezia, i corvi brulicano, nereggiano ovunque: nel porto, tra le balle di cotone e di spezie, nelle belle vie alberate di cocchi, nelle grandi piazze moderne; si dissetano, si bagnano starnazzando nelle vasche monumentali, orlano di nerazzurro i capitelli, le cimase, le guglie della frastagliata architettura gotico-indiana. Se gli avvoltoi sono i necrofori, i corvi sono gli spazzaturai del vastissimo Impero. E ne sono anche i ladri, ladri fatti tracotanti dalla tolleranza millenaria, contro i quali non vi difende nessun policeman volenteroso.
Il viaggiatore, che è innalzato in lift ad una delle linde stanzette degli immensi hôtels tropicali, resta sbigottito dinanzi agli avvisi delle pareti: Guardarsi dai corvi. — Abbassare le grate prima di uscire. — Non abbandonare gioielli. — Il padrone non prende responsabilità di sorta, ecc. — Sembra incredibile, ma ci si ricrede il giorno stesso. Ecco, sono le quindici, l'ora della siesta e del torpore. La città immensa è addormentata: nessuno, nemmeno un indigeno, attraversa la grande piazza, dove il sole avvampa, abbaglia, trema, facendo fluttuare in uno strano paesaggio subacqueo i tronchi dei palmizii, il monumento alla Regina Vittoria, le guglie della Cattedrale. In ogni stanza dell'albergo un europeo sogna la Patria lontana, resupino sotto il refrigerio dell'immenso ventilatore. Silenzio. Non s'ode che il ronzìo del congegno e l'altro romore che è la nota acustica dell'India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare, o dei torrenti: il gracidìo dei corvi: così monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio; inno alla putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai!
— Sì! Lo sappiamo anche troppo, bestie dannate! E intanto si dorma....
Il sonno viene quasi subito, ma quasi subito ci sveglia una strano romore. E allora, attraverso le ciglia socchiuse, si assiste a questo curioso spettacolo: un corvo scosta la stuoia pendula della grande finestra, sosta sul davanzale, esplora la stanza tranquilla, balza leggiero sul pavimento; un altro ripete il gesto, un altro ancora. Quattro, cinque messeri saltellano cauti sull'impiantito. Sono corvi ( corvus splendens? ) più piccoli dei nostri, snelli, nerazzurri, con una penna bianca nell'ala estrema, così buffi di forme e di movenze! Saltellano, avanzano in fila, cauti, l'uno proteso in avanti, l'altro eretto verticale, in vedetta, l'altro claudicando, sbilenco, simili veramente alle caricature della favola, degni eroi di Esopo e di La Fontaine. Nelle cucine, nei magazzini, i corvi entrano per ingordigia, ma in queste stanze linde, odorose di ragia e di bucato, non li attira che il demone della curiosità, del rischio, del ladroneccio. E i cinque ladruncoli s'arrestano ammirati, fanno cerchio intorno alle bretelle pendule da una sedia, tentano coi becchi le fibbie lucenti, tirano concordi, finchè bretelle e calzoni precipitano e questi cominciano a pellegrinare sul pavimento, tirati a ritroso da cinque becchi robusti. Allora scagliate la ciabatta prossima, o il volume che s'era addormentato con voi, pensando uno starnazzar d'ali ed una fuga precipitosa; ma i corvi, prima che il proiettile giunga, si salvano con un balzo, s'innalzano silenziosi verso il soffitto, si posano in bell'ordine sull'asta somma della zanzariera. Aprite tutte le vetrate, li invitate ad uscire, li minacciate con l'ombrello — troppo breve! — ma quelli non si decidono, sanno benissimo che non siete nè un bramino, nè un buddista, e che, passandovi a tiro, spezzereste loro, senza rimorso, le ali od il cranio. Allora, disperato, suonate, chiamate il boy. Il boy sorride indulgente, vi prega di deporre l'ombrello, batte le palme protese e i cinque appollaiati — riconosciuto l'uomo che non uccide — attraversano ad uno ad uno la stanza, escono silenziosi.
Tutti gli animali hanno in India una incredibile familiarità con l'uomo. I passeri, le tortore, gli scoiattoli striati invadono i cortili e i giardini, scendono a prendere le bricie quasi dalle vostre mani, pieni di una francescana fiducia: ma nei corvi e nelle scimmie la famigliarità è fatta di tracotanza insolente, di calcolo ingordo; certo pensano che Bombay e Calcutta siano state edificate per loro e che l'uomo sia un bipede intruso, da tollerarsi con palese rancore. E l'uomo, a sua volta, tollera i corvi delle immense capitali; essi mondano le vie da ogni sozzura prima che questa si decomponga nel sole ardente, lacerando, inghiottendo tutto, anche la carta fracida, i cenci logori, i frantumi di vetro. Dopo qualche giorno diventano simpatici: offrono all'osservatore scene impagabili, strani motivi di psicologia animalesca. Certo nessun uccello è più scaltro; basta osservarne l'atteggiamento vario di fronte alle varie persone. Verso sera, quando il thè delle cinque anima di veli e di sete, di occhi azzurri e di capelli biondi ogni giardino pubblico e privato, ogni veranda d' hôtel e di bungalow, le falangi nere scendono da ogni parte, con un gracidìo querulo e sommesso, quale si conviene ad accattoni questuanti. Accerchiano i tavolini svolazzando, saltellando, tutti col becco proteso, abbastanza lontani per sfuggire alla mano, abbastanza vicini per ghermire a volo il biscotto o la buccia di banana. E intuiscono la buona o la mala accoglienza, non s'accostano dove ci sono uomini, mazze, ombrelli, prediligono i tavolini delle signore e dei bimbi.
Con gli indigeni tengono tutt'altro contegno, non sono accattoni, ma despoti; nelle native-towns che si estendono dopo le città europee, fanno vita quasi comune con l'uomo, entrano nelle case, noncuranti di qualche minaccia impaziente, ben certi del patto millenario: «non essere uccisi». Adorabili scenette dei sobborghi indigeni! Una bimba — un idoletto di bronzo ignudo, di non forse tre anni — esce da una bottega stringendo una coppa di riso bollito, corre verso la madre che l'attende sulla soglia della casa opposta. A mezza via venti corvi le sono sopra; punto impaurita dalla cerchia delle ali turbinose, la piccola si piega col petto sulla coppa, si piega chinandosi fino a terra, alzando nel sole, contro l'ingordigia dei nemici, una parte che non è precisamente la faccia. E la madre sopraggiunge, libera la bimba, disperde gli assalitori, non senza aver dato in offa una manciata di riso. Entrambe rientrano in casa, sorridendo tranquille, come allo scherno consueto di buoni amici. Altre volte la vittima non è un bimbo, ma una scimmia. I corvi turbinano in alto, spiando un gruppo di scimmie che ha rubato una noce di cocco sul mercato vicino; seguono quella più prepotente che l'ha tolta alle altre, e quando la ladra è riuscita a spezzarne il frutto legnoso, nell'istante in cui sta per portare alla bocca il gariglio candido, i corvi piombano su di lei, le strappano il tesoro, la lasciano ringhiosa, a mani vuote, tra lo schiamazzare delle compagne.
Le scimmie contendono ai corvi il dominio delle città indiane, ma non infestano come quelli i quartieri europei, vivono nei sobborghi, nelle città nere, nei templi ruinati. E dai coloni sono più detestate dei corvi. Una frotta quadrumane può in una notte scoperchiare una villa, togliendo, per gioco, tutte le tegole, passandole da mano a mano, andandole ad accumulare in fondo ad un sotterraneo o sulla sommità di un colle, a qualche chilometro di distanza; altre volte saccheggiano un giardino, lo spogliano di tutto: frutti acerbi, fiori, foglie, per solo malvagio istinto di distruzione. E sono le tiranne dei mercati, dove i fruttivendoli si rassegnano per esse ad una decima gravosa. Intorno alle grandi piramidi di banane, di manghi, di mangustani, di catie, s'aggirano le scimmie polverose, pronte ad allungare la mano, noncuranti della sferzata inflitta dal ragazzetto custode. A sera tutte le lunghe vie dei sobborghi hanno le grondaje ornate di code pendule; ma se passa un europeo, un'automobile, una cosa nuova qualunque, le code scompaiono, fanno luogo ad altrettanti musi protesi verso la via, con la bocca digrignante in uno spasimo di curiosità. È infinita la varietà di creature tollerate o protette o venerate in questo vivaio del Buon Dio. Sulle vetrate degli alberghi, anche eleganti, corrono certe lucertole gibbose, ruvide, dalle zampe a ventosa, aderenti al vetro e che l'albergatore vi prega di non molestare. I passeri bengalini, rossi spruzzolati di bianco argento, invadono a centinaia le verande e le sale, vengono a beccare le bricie sotto i tavoli del thè; le manguste, simili a faine fulve, passano guardinghe lungo i corridoi, vigilando — per un dono strano di immunità — le vite umane dall'ospite terribilissimo: la naja tripudians: il cobra dagli occhiali. Ed ecco le creature enormi, le più simpatiche di tutte: gli elefanti. Completano il paesaggio indiano, hanno una laboriosità, una bontà che commuove, una intelligenza che confonde. Elefanti di lusso, destinati a cortei nuziali o religiosi, tatuati a colori come vecchi cuoi di Cordova, gualdrappati di velluti, di sete pesanti, con non altro di libero che le zanne, la proboscide, le orecchie zebrate: elefanti da lavoro, più intelligenti ancora, vecchissimi alcuni: dalla pelle rugosa, logora, troppo abbondante per la mole dimagrita dalle fatiche d'un secolo e più, elefanti che hanno visto tre generazioni d'uomini e che lavorano oggi per le case degli usurpatori biondi. S'incontrano per le strade di campagna, a coppie, non accompagnati da nessun cornac, percorrono da soli, a piccolo trotto, dieci, quindici chilometri di strada ben conosciuta, trasportando sul dorso o tra le zanne e la proboscide tronchi colossali, colonne, cubi di granito; li depongono a destinazione, rifanno di corsa il lungo cammino per ricevere un altro carico. Il loro passo s'annunzia di lontano con un rombo sordo; se incontrano un europeo retrocedono, scendono ai lati della strada, lasciando libero il passo; e protendono — se l'hanno libera — la proboscide, con gesto di preghiera. Se ricevono una monetina — un' anna, mezz' anna — sostano alla prima bottega campestre, la depongono per avere in cambio dall'indù una focaccia di riso muffita o un casco di banane fracide. La loro intelligenza è inaudita, imbarazzante: nell'occhio microscopico, quasi perduto nella mole della testa, s'alterna un bagliore indefinibile di scaltrezza derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che comprendono ciò che dico, che intuiscono ciò che penso; e non so come dimostrare loro la mia fraterna simpatia: le mie mani giungono appena ad accarezzare la proboscide ruvida come un tronco, l'estremità delle orecchie logore, strappate come vecchie gualdrappe di cuoio.
E altre creature vi sono, ripugnanti e malefiche: e le più malefiche sono le più venerate. Il cobra, simbolizzato dalla teogonia bramina, divinizzato in marmo e in metallo in tutti i templi, è salutato con uno speciale rituale di riverenza e di scongiuro dal contadino indù che l'incontra attraverso un sentiero di campagna.
Ogni tempio ha negli stagni liminari legioni di testuggini e di coccodrilli decrepiti e venerati. Il pasto dei coccodrilli sacri è una delle grandi curiosità offerte al forestiero e che si ripete con rituale identico nei templi di Giaissur, di Ambex, di Tuadura. Un custode scende alle ultime scalee, seguito da un servo che reca un cesto di carne putrida; batte con un crescendo fragoroso un disco di rame, ed ecco sollevarsi pigramente le grandi foglie di ninfea e di nelumbo, ceco apparire tra i calici rossi dei nenufari i mostri spaventosi, simili a carcasse di vecchio metallo corazzato e borchiato, dai denti gialli, radi, aguzzi, oltrepassanti qua e là le mascelle formidabili. S'avanzano pigri, fanno cerchio dall'acqua intorno al custode, il quale lancia brani di carne legata ad una corda, perchè non venga ghermita a volo dai nibbi turbinanti intorno, attirati dal fetore nauseabondo.
L'Inghilterra che tollera tutto, tollera anche questo. Tollera anche l' Ospedale degli animali, in Bombay, che è il non plus ultra del genere, l'esponente massimo di questa filosofia bramina, così opposta alla nostra, educata al cristianesimo il quale riduce ogni divinità all'uomo soltanto e fa di tutto ciò che vive sulla terra una materia sorda, condannata senza speranza.
L'ospedale degli animali — un recinto-parco che costa centinaia di migliaia di rupie — accoglie tutti gli animali ammalati perchè possano guarirvi o morirvi in pace. Lo spettacolo (e il fetore!) è tale che l'europeo non s'indugia a lungo; falangi di bestie da soma: ronzini di piazza, bufali, zebù ischeletriti o idropici, sciancati, anchilosati, coperti d'ulceri e di piaghe, scimmie, cani, gatti ciechi, monchi, senza pelo: una parodia lacrimevole dell'Arca salvatrice. La nostra pietà occidentale insorge, domanda sdegnata perchè non si dà a quelle povere bestie il colpo di grazia, addormentandole con una doppia dose di cloroformio.
— Perchè non si ha il diritto di spezzare una vita, qualunque essa sia.
— Ma vivere a che?
— Per soffrire.
— E soffrire a che?
— Per divenire, per accrescersi, per allontanarsi sempre più dalla materia attraverso il peso della materia, per spegnere, nella ruota d'infinite incarnazioni, il desiderio di esistere: questo peccato che ci condanna a ritornare in vita.
E se fosse vero? Se veramente noi non fossimo il Re dell'Universo come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l'uomo non fossero che graduazioni varie dello spirito, della stessa forza immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che ignoriamo e che non è forse se non la pace dell'Increato?
Retorica elementare, fatta odiosa da tutti i trattatelli teosofici, ma che, esposta con brevi parole da questo guardiano dal volto ascetico come un San Francesco di bronzo, non ci può far sorridere come il nostro orgoglio occidentale vorrebbe.
FINE.
INDICE
Le grotte delle Trimurti Pag. 1
Le Torri del Silenzio 21
Goa: “la dourada„ 39
Un Natale a Ceylon 63
Da Ceylon a Madura 79
La danza d'una devadasis 99
Le caste infrangibili 119
I tesori di Golconda 133
L'Impero dei Gran Mogol 149
Agra: l'immacolata 171
Fachiri e ciurmadori 185
Giaipur: città della favola 197
L'olocausto di Cawnepore 215
Il fiume dei roghi 231
Il vivajo del Buon Dio 249
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