INDICE
I I RIMATORI PISTOIESI
A CURA DI GUIDO ZACCAGNINI
I MEO ABBRACCIAVACCA
CANZONI
I
Amore non è cagione di pene, ma di gioia.
Sovente aggio pensato di tacere,
mettendo in obrianza
d'esto modo parlare intendimento,
ma poi mi torna, punge e fa dolere
la sovraismisuranza
5
di quei c'han ditto d'aver sentimento
de l'amoroso, dolce e car valore,
nomandolo signore,
ch'ard'e consumma di gioi' la verdura
del suo fedel: servendolo soggetto,
10
sempre li dá paura:
vantaggio 'i tolle, ch'avemo da fèra.
Eo ne faccio disdetto:
se simil dissi mai, cangio carrera.
Ché non par vegna da molto savere
15
chi sente sua fallanza,
se non volve con vero pentimento.
Né l'altrui troppo si dé' sostenere,
che pare un'acordanza,
come chi dice: stande l'om contento.
20
Unde move adistato lo mio core
d'essere validore,
se posso, difendendo la drittura
d'amor, che solo in gioi' have l'assetto
e di gioi' si pastura,
25
non avendo giá doglia sua rivera.
E, se vo' par defetto,
non è d'amor, ma d'odio è pecca intera.
Poi conoscenza ferma lo piacere,
venendo disianza,
30
l'omo s'alegge ad esso per talento,
e non è, se poi dole, in nel volere,
ma, tardando, li avanza,
soffrendo disioso lo tormento.
Donque n'ha torto ciascun amadore,
35
che si biasma d'amore,
ch'è solo volontate chiara e pura,
che nasce, immaginato lo diletto,
che porge la natura
de la vita, montando in tal mainera,
40
come fa lo 'ntelletto
che di gioi' chere sempre la sua spera.
Amor nell'alma credo uno podere
che si prende d'amanza,
poi lo saver ne fa dimostramento
45
ne le cose partite da valere,
over la simiglianza,
non dicernendo tutto il compimento.
E, se nell'acquistar vene dolore,
non s'ama tal sentore.
50
Come calore incontra la freddura,
cosí la pena l'amoroso affetto.
Ma tanto monta e dura
del plagere avisar la luce clera,
poi che v'aggia sospetto,
55
l'omo affannando segue sua lumera.
Dett'ho parte, com' so, del meo parere,
credo fòr la 'ntendanza
dei piú, c'han ditto ch'amor bene ha spento;
né questionar di ciò m'è piú calere,
60
ché pesami dobblanza,
poi non sostene amor lo valimento
di quei che 'l contra, né sa suo vigore;
perciò istá in errore,
biasmando a torto, non ponendo cura,
65
né chi rincontra lui non l'ha dispetto.
Nonde voi' piú rancura:
vaglia nel saggio e nell'altro si pèra,
ché io nel mio cospetto
tegno che solo ben sia d'amor cèra.
70
Amor, tuo difensore
so' stato: so non è poco ardimento
ver' lo forte lamento,
ch'è quasi fermo per la molta usanza.
75
Mostr'ormai tua possanza,
facendo tuo guerrer conoscidore.
II
Nella donna, piú che la beltá, è da stimare la saggezza.
Madonna, vostr'altèra canoscenza,
e l'onorato bene,
che 'n voi convene — tutto in piacimento,
mise in voi servir sí la mia 'ntenza,
che cura mai non tene,
5
né pur sovene — d'altro pensamento;
e lo talento — di ciò m'è lumera.
Cusí piacer mi trasse in voi compíta,
d'ogni valor gradita,
di beltade, e di gioia miradore,
10
dove tutt'ore — prendeno mainera
l'altre valente donne di lor vita.
Perciò non ho partita
voglia da intenza di star servidore.
Star servidore a voi non sería degno,
15
ma voi, sovrapiagente
in vostra mente, — solo nel meo guardo
conoscete che 'n cor fedele regno,
e ch'eo presi, servente
di voi, tacente — l'amoroso dardo.
20
Per mevi tardo — palese coraggio
fatto sería: sacciatelo per certo.
Perzò mostrare aperto
vorria vostro sentir, dico d'aviso:
vedreste priso — me di tal servaggio,
25
per la qual donna mai fôra scoperto.
Tanto scur ho proferto,
ch'odio, servente in core, amore 'n viso.
Viso sovente mostra cor palese
30
d'allegrezza smirata,
perch'a la fiata — monta in soverchianza;
ma quello di piacere over d'ofese
covra voglia pensata.
Perché, doblata, — grav'è la certanza,
donque dobblanza — tenete 'n sentire.
35
Perciò vo' dico, amanti: non beltate
solo desiderate,
ma donna saggia, di beltate pura;
né di natura — signoria soffrire
alcun di pari pregio no' stimate,
40
ma di grand'amistate
che poggia d'onor quanto chin' d'altura.
D'altura deggio, dir come poss'eo,
lo guigliardon sovrano
benedir sano — di vostra 'ntenzione.
Donna, ch'avete sola lo cor meo,
45
ricevestemi 'n mano:
ah! non istrano — d'altro guigliardone,
ché di ragione — mi donaste posa
d'affanno, di disio, d'attessa forte.
50
Sed eo prendesse morte
a vostro grado, me ne plageria,
si 'n meretria — voi d'alcuna cosa.
Poi che m'avete tolto e preso in sorte,
non dubitate, tort'è,
55
di mio coraggio, ch'esser non poría.
Essere non poría, che 'l core vòle
istar dove valor ha
la sua dimora — di gioioso stallo;
e, se 'l cor pago giá nente si dole,
60
dunque 'l partire fôra
solo mez'ora — sovra ogn'altro fallo.
Cosí intervallo — non sento potesse
nel mio servir fedel porger affanno,
né 'n voi alcuno inganno.
65
Ché 'l gran valore prima si provede
che dia merzede, — che poi non avesse
loco né presa, che trovasse danno.
Ché molti falsi stanno
coverti, pronti parlando gran fede.
70
III
Fra i tormenti d'Amore si rallegra, pensando alla virtú della sua donna.
Considerando l'altèra valenza,
ove piager mi tene,
'maginando beltate, lo pensero
sovenmi, di speranza e di soffrenza
ne le gravose pene,
5
di disianza portar piú leggero.
Cá lo dispero — non have podere
ne l'autro mio volere,
acciò ch'a lo signor di valimento
non falla vedimento
10
di provedere li leai serventi;
unde m'allegro, stando nei tormenti.
Dunqu'allegrando selvaggia mainera,
natura per potenza
di figura piacente muta loco.
15
Che 'ntendimento in anche cosa clera
turba sentire intenza
ne la vita d'ardente coral foco.
Ed eo ne gioco. — Non deggi' obbriare
quella, che sormontare
20
mi face la natura, modo ed uso.
Quasi dato nascoso
sono a ubidir mia donna fina,
com'al leon soggetta fèra inchina.
En dir assai fedel, mia donna, paro
25
in core innamorato;
ma ciò, pensando, fall'esser poría,
ché spesso viso dolze core amaro
tene: poi ch'è provato,
nente si cela a mostrar che disia.
30
Però vorria — vi fuss'a plagere
me servendo tenere;
ché sí mi trovereste in cor síguro
leal com'oro puro,
che, non guardando mia poga possanza,
35
mi donereste gioi' di fine amanza.
Prendendo loco parlando talento,
in voi, gentil sovrana,
ragione porterea tal convenensa.
Ma, divisando, tem' e' 'l valimento
40
c'avete venir piana
mia disianza, sí mi veo 'n bassenza.
Poi che temenza — n'aggio, sí conforto:
che non será diporto
tant'adunato parte per natura,
45
for pietate: non dura
orgoglio in gentil cosa sí finita,
ma l'umeltá fiata onne compíta.
Como risprende in iscura partuta
cera di foco apprisa,
50
si m'ha 'llumato vostra chiara spera.
Ché, prim'eo 'maginasse la veduta
de l'amorosa intisa,
non era quasi punto piú che fèra.
55
Ora, ch'empera — mevi amore 'n core,
sento ed ho valore,
e ciò che vaglio tegno dall'altura,
complita in voi figura
d'angelica sembianza e di merzede,
60
per cui la pena gioi' lo meo cor crede.
SONETTI
I
A fra Guittone
Se possiamo spegnere gli stimoli della generazione, non astenendoci dal bere e dal mangiare.
Se 'l filosofo dice: — È necessaro
mangiar e ber, e luxuria per certo: —
parmi che esser possa troppo caro
lo corpo casto, se 'l no sta 'n deserto.
Ché nostri padri santi apportâro
lor vita casta, como pare aperto,
erba prendendo ed aigua, refrenâro
luxuria, che ci fier tropp'a scoperto.
Ché, per mangiare e ber pur dilicato,
nel corpo abonda molto nodrimento,
che per natura serve al gennerare.
Vorrea saver, da saggio regolato,
como s'amorta cosí gran talento,
non astenendo il bere ed il mangiare.
II
Al medesimo
Tornato di Francia, espone le sue miserie.
Vacche né tora piò neente bado,
che per li tempi assai m'han corneggiato:
fata né strega non m'hav'allacciato,
ma la francesca gente non privado.
Se dai boni bisogno mi fa rado,
doglio piò se ne fosse bandeggiato.
Signor, non siate ver' me corucciato,
ché lo core ver' voi umile strado.
Sacciate, nato fui da strettoia:
quanto dibatto piò, stringe, non muta
la rota di Fortuna mio tormento.
Non son giá mio, né voglio mia sentuta:
se mi volless', arei tristo talento,
e di quello che vòl mia vista croia.
III
Al medesimo
Se Dio possa usare misericordia verso di lui peccatore.
Onesto e savio religioso frate Guittone, Meo Abracciavacca. A ciò che piú vi piace e' son sempre con volontá di servire.
S'amore crea solo di piacere, e piacere solo di bono, temo di convenire a vostra contanza, perché non è fòr d'amore amistate, ned amore fòr simile di vertú infra li amici. Mò, sostenendo veritá, conoscenza e bono desio, sono costretto a desiderare per ragione; unde conforto che 'l sano di voi gusto sosterrà lo mio amaro cibo: ché non fôra benignitá scifare bono volere d'alcuno che l'have in servire, ma pare dirittura di sovenire a colui che si vòle apressare a quello che porge e sovene a privadi e a strangi. Perciò vi dimando che sia brunito lo mio ruginoso sentore de la quistione di sotto per sonetto hovvi scritto.
Poi sento ch'ogni tutto da Dio tegno,
non veggio offensa, ch'om possa mendare,
ché alma e corpo e tutto mio sostegno
mi die' per lui servendo fòr mancare.
Ed eo contr'esso deservendo vegno,
di che non saccio u' lui deggia pagare:
aldo mi drá misericordia regno,
perché lo credo nol posso avisare.
Però che pur Dio è somma iustizia,
misericordia contra me par sia,
ch'omè opra ver' me salute nente.
Ditelmi saggio, e poi de lor divizia,
chi tene inseme Dio per sua balía
assettata ciascuna e 'n sé piacente.
IV
Al medesimo
Sul medesimo argomento.
Onesto e savio religioso frate Guittone, lo Meo Abracciavacca, ch'è vostro, vi si racomanda.
Se veritá cannoscenza sostene e bono amore, convene che ogni fine elezione da canoscenza mova ed amore lo confermi. Dunque, se, per vera dimostranza di bono, sento me apriso d'amore, e poi diletto disiando servir e veder voi, non meraviglio, ma laudo, conoscendo ciò ch'amare ed elegere si dee in esta parte, e purificando e sanando. Amore, non in ozio, ma in continua operazione regna. E quinde intendo vostra benignitá, sovenendo e svegliando me, ne la grave e fortunosa aversitade, in gioia alcuna, di che fue alquanto brunita la ruginosa mia intenzione. Ora sperando sanare la mente in veritá, mò vo' dimando risposta di fina sentenzia di ciò ch'i' ho dubbio, mandandolovi dichiarando per lo sonetto di sotto scritto. Consimil è la lettera e 'l sonetto a l'autro in sentenzia, ma non in voce.
Pensando ch'ogni cosa aggio da Dio,
non so di che mendar lui possa fallo;
ché alma e corpo e vita e mondo 'n fio
mi die' per lui servire a fermo stallo.
Ed eo 'l diservo, in che tegna disio,
non sento di che dica: — Esso disfallo. —
Aldo misericordia dir: com'io
creder lo possa, non veo, sí n'avallo.
Ché pur somma giustizia è fòr defetto.
Al vero Dio misericordia come
chede contr'essa e m'opera salute
vorrial sapere; e poi di loro assetto,
avendo pieno ciascuna su' nome
dal Signor nostro, ch'è tutto vertute.
V
A Bindo d'Alessio Donati
Rimprovera l'amico d'essersi perduto in vizi carnali.
Amico Bindo, Meo Abracciavacca ciò che piú ti sia bono.
L'amistá fredda, celata d'amici lungiament'è veduta: però convene ad essa socorso di parole, almeno visitazione. Unde pesamevi non poco non di tuo stato inteso per te alcuna cosa, e ponderosa via piú mi grava odita quasi di pubrica voce non bene aconcia in tuo pregio. Di che bono comincio torna, per sentenzia di troppo avacciata natura, lá dove pregio montato avalla, poi suo podere nol sostene. Di che fôra minore assai male no aver cominciato che partir di bono comincio. Ché rasa scrittura di carta peggio poi loco si scrive, e cosí pregio istinto nel core peggio ralluma. Ahi come pare laido ditto, dicendo: — Quei fu giá bono! — Ahi, carnal desiderio, quanti nobili e grandi hai nabissati! Forsi sembrati scusa s'avete vinto? No, ma defensione piú laude porta. Onne operazione vòle misura, e fòr d'essa vizio si trova; e quanto meno ende fori, meno have vizio podere. Donque, se misurare omo non puote volontá carnale, apressi quanto pote a misora. E se mi dici: — Gioventute forte m'asaglie, — dico: — Difendi con ragion vecchia c'hai. — Ché gioventude s'intende in due modi: quanto al tempo e quanto in costumi. E, se ragione loco resistere non pote, fuggi, ché fuggire s'intende prodezza, lá dove convene.
Se pronto ti pare mio detto, reputane d'ira furore; e, se ti piace, mi scrive quello che la tua coscienza giudica di te dirittamente, e al sonetto di sotto risponde con paraule e con operazione.
Non volontá, ma omo fa ragione,
perché soverchia vantaggiando fèra;
e qual sommette a voglia operazione,
torna di sotto, lá dove sopr'era.
Perciò chi have saggia oppinione,
porta dinanzi di ragion mainera,
e di sé dritta d'om fa elezione,
unde li surge poi di gioi' lumera.
E dunque, amico, c'hai d'omo figura
razional, potente, bono e saggio,
come ti sottopon vizio carnale?
Pensa per che è l'umana natura,
che di tutti animai sovr'ha barnaggio:
non vorrai, credo, poi vita bestiale.
VI
A Dotto Reali
Come mai l'anima, che è formata da Dio, possa essere sopraffatta da altre cure[1].
A scuro loco conven lume clero,
e saver vero — nel sentir dubbioso,
per ciò ch'omo si guardi dall'ostrero,
ch'è tutto fèro — dolor periglioso.
Donque chi non per sé vede lumero,
véneli chero — fare al poderoso;
unde dimando a voi, che siete spero
palese altèro — d'onni tenebroso.
Io son pensoso; — dico: l'alma vene
dal sommo Bene, — donque ven compita:
chi mai fallita — pò far sua natura?
S'è per fattura — de vasel che tene,
perché poi pene — pate ed è schernita,
da che sua vita — posa 'n altrui cura?
VII
Al medesimo
Si lamenta che gli sia stato risposto oscuramente circa la questione esposta nel sonetto che precede.
Messer Dotto frate, Meo Abracciavacca salute di bono amore.
Da lume chiaro di natura prende scuro, e non da scuro chiaro lume, perché nond'abisogna vostro mandato. Credo che assai prova intelletto vostra operazione; perciò temendo parlo. Dico che ogni opera umana solo da volontá di posa move, e mai per omo in esto mondo non trovare si pò; e ciò è la cagione che 'l core non si contenta. Poi dico che ogn'altra criatura naturalmente in esto mondo tanto trova sua posa; e, se omo maggiormente nobile creatura fo formato, come non sovra l'autre criature have perfezione di posa avere? Nente ragion lo vòle che lo 'ntelletto posi ned aggia affetto u' non è sua natura, e ch'elli non è creato come corpo si crea in esso loco; ma have del sommo e perfetto compimento, cusí pur di ragione altra vita intendo, ove intelletto posi e sia perfetto. E voi, intendo, siete omo razionale, ch'avete presa via di ritornar al perfetto principio per fina conoscenza. Se volontate varia per istati diversi, non vari operazione d'avere verace spera, venendo a fine fine. In ciò che mandasteme lettera e sonetto, perché risposta avete di mio sentire, rispondo; e, se vostra intenzione non si pagasse, riputatene il poco saver mio, che volontá pur aggio di sodisfare ad onne piacer bono: per compimento volontá prendete. A frate Gaddo e a Finfo, come imponesteme, il mostrai e diei scritto.
Parlare scuro, dimandando, dove
risposta chiere veder chiaro l'orma,
non par mistero che sentenzia trove,
ma del sentir altrui volere norma.
A ciò che 'ntendo dico mezo sove
di primo fine, e di fine storma
qual nel mezo difetto fine strove:
dunqua per fine ten piú vizi a torma.
Cosí bono tornare pregio chine
di monte 'n valle del prefondo male,
a ciò bisogna di ragione cura.
Voi conoscete da la rosa spine,
seguir convene voi a fine tale,
che 'l primo e 'l mezo di lod'agi'altura.
VIII
A Monte d'Andrea
Eviti le pene d'amore, mutando luogo.
Vita noiosa pena soffrir láne,
dove si spera fine veder porte
di gioia porto posandovi, láne
con bono tempo fôra tale porte.
Ma pena grave perder còi e lane,
e credensa piò doglia fine porte,
ogne ramo di male parmi láne:
me non sopporre, ma ben vorria porte.
Chi sta nel monte reo vada 'n nel vallo,
e chi nel vallo simel poggi a monte,
tanto che trovi loco meno reo.
Ché bono non è che dir possa: — Vállo,
ch'i' sento loco fermo ch'aggio, Monte, —
cavalieri, baron, conte, né reo.
IX
Amore gli renda più pietosa la sua donna.
Poeta.
Amore amaro, a morte m'hai feruto:
tuo servo son, non ti fi' onor s'i' pero.
Amore
. Ver è, ma vedi ben che l'ha voluto
quella da cui son nato e per cui fero.
Or ell'ha di valor pregio compiuto
e di beltá sovr'ogne viso clero:
e però guarda non gli aggi falluto
di vista o di parlare o di pensero.
Poeta
. Merzede! Amor, non dir: tu lei m'hai dato;
e sai piú di me che non sacc'eo:
fálli sentir per certo ciò ch'eo sento.
Forse ch'avrá pietate del mio stato:
al colpo periglioso del cor meo
dara'li cura: giá non vi sie lento.
II SI. GUI. DA PISTOIA
I
A Geri Giannini da Pisa.
Si compiace dell'amicizia offertagli da Geri.
Tanto saggio e bon poi me somegli,
me e 'l mio e 'l me' piacer t'assegna,
non per merto di tu' don (ch'i' non quegli
son che 'l possa sodisfar, né s'avegna),
ma per lo tu' valor, che m'ha pres'egli,
il faccio, ch'amor me far ciò si degna.
Deo! com'el tu' don a me piac'egli,
che, fòr dimando, mel desti 'n insegna,
piena d'amor e senz'alcuna giostra.
Or qual è dunque l'om che 'l tuo conseglio
lassasse? Non so, sed elli 'n ben pesca.
Unde mi piace l'amistá, poi giostra
tanto con le du' l'una per pareglio,
fresch'e veglia fra noi sia con bon' ésca.
II
Prega Dio che lo liberi dal dolore che l'affanna.
Del dolor tant'è 'l soverchio fero,
che l'alma e 'l corpo e 'l core mio sostene,
che, lasso! qual fusseme piú crudero,
se 'l vedesse, cordoglio avria di mene.
Ahi Deo! perché fuste me piagentero,
donando voi me gioi' con ogni bene?
Che però il dolor m'è troppo altero:
chi piú gioi' ha, poi doglia li è piú pene.
Vorria ch'al vostro piacere piacesse
pietade, per merzé; sí che la doglia
mia crudel oramai tranquilla avesse.
Ed è ragion; ché 'l core ho in bona voglia,
como di prima era, nelle duresse:
Padre pietoso, di pena lo spoglia.
III LEMMO ORLANDI
CANZONE I
Si duole con Amore che la sua donna, da benigna, sia ora diventata con lui crudele.
Gravoso affanno e pena
mi fa' tuttor sentire,
Amor, per ben servire
quella, di cui m'ha' priso e servo dato.
Tutta mia forza e lena
5
ho misa in te seguire;
di lei fermo ubidire
non son partito, ma leale stato.
E tu pur orgoglioso
ver' me spietato e fèro
10
se' mostrato e crudero,
poi che 'n bailía avesti lo mio core.
E' convensi a signore
d'essere umile in meritar servente:
tu pur di pene mi fai star sofrente.
15
Sono stato sofrente,
e son, di gran tormento,
Amor, poi che 'l talento
di quella ch'amo cangiasti per vista
ver' mei; ché primamente
20
facesti mostramento
di far meo cor contento
di lei, di quella gioi' ch'or disacquista.
Sí che, per tal sembianza,
misi 'l core e la mente
25
a servir fermamente
tua signoria, Amor, pur'e leale.
Ma non è stato tale
ver' me 'l suo cor, come mostrar sembianza
tu mi facesti, Amor; und'ho pesanza.
30
Amor, merzé ti chero,
poi che son dimorato
in sí gravoso stato,
com' mi tenesti, sí lunga stagione.
Non si' ver' me sí fèro,
35
ch'assai m'hai affannato
e forte tormentato,
seguendot'a tuttor fòr falligione.
Mòvet'ormai merzede,
lei voler, che disvole
40
(unde 'l meo cor si dole),
fa' 'l meo servir, ché sol ciò ti dimando.
E, se, merzé chiamando,
tu non m'aiuti, Amor, altro non saccio
ch'aitar mi possa che la morte avaccio.
45
Donna, mercé dimando
a voi, che di beltade
fior e di nobeltade
siete, sovr'onni donna, e di piagenza,
ch'agiate provedenza
50
sovr' al mio stato grave e doloroso:
in ciò, mercé! sia 'l vostro cor pietoso.
CANZONE II
Adducendo il triste esempio di se medesimo, che, senza saper perché, fu abbandonato dalla sua donna, esorta chi voglia aver ricompensa del proprio amore, di scegliere una donna piacente e saggia.
Fèra cagione e dura
mi move, lasso! a dir quasi forzato
lo doloroso stato,
nel qual m'ha miso falsa ismisuranza;
non giá per mia fallanza,
5
ma per quella di cui servo mi misi,
e per cui mi divisi
di tutt'altro volere e pensamento,
dandomi intenzione
che, fòr di falligione,
10
dovesse lei amar, leal servendo,
la cui vista, cherendo — meo servire,
mi fe' servo venire
de la sua signoria disideroso.
Poi che servo divenni
15
de la sua signoria e disioso
del dilett'amoroso
che nel meo cor di lei immaginai,
addesso mi fermai
in tutto d'ubidir lo suo comando,
20
per vista dimostrando
me ch'era su' fedel serv'ubidente.
Und'ella per sembianza
mi fece dimostranza
ch'allegrezza mostrava 'n suo coraggio,
25
poi che 'n suo signoraggio — m'era miso;
und'è che 'n gioi' assiso
i' fui manta stagion, sol ciò pensando.
Dimorando 'n tal guisa,
perseverando in lei servir tuttora,
30
non fu lunga dimora,
ch'eo viddi che sua vist'era cangiata,
ver' me quasi turbata,
non sostenendo me solo guardare.
Credetti che provare
35
volesse me com' fusse 'n su' amor fermo.
Allor presi conforto,
isperand'a bon porto
lo meo fermo servir mi conducesse,
e che tornar dovesse — pietosa:
40
ed ella d'orgogliosa
mainera ver' di me mai sempr'è stata.
Però forte mi dole,
poi veggio che servendo ho diservito
in loco, 've gradito
45
credetti esser per certo fòr fallenza.
Ma via maggior doglienza,
quasi mortal, mi porge 'l suo fallire,
ché per suo folle dire
fe' manifesto in parte meo pensero,
50
lamentandosi forte
di me, che quasi a morte
la conducea in farl'increscimento;
e sí fèro lamento — fece, a tale
che gravoso poi male
55
n'ha dato lei con gran doglia sovente.
A ciascun ch'amar vòle
dico che deggia, se pòsi, guardare
di vana donna amare,
gioven troppo di tempo e di savere.
60
Ché grave 'n lui dolere
prende chi l'ama, doloroso tanto,
non si porea dir quanto,
per qual s'avesse piò 'n pena d'amore.
Ma elegga 'n sé, certo
65
chi amar vòle e merto
di suo servir, donna piagente e saggia,
che benigno cor aggia — fermo e puro,
e poi será siguro
di non perder di lei gioia, servendo.
70
Di gioven signoraggio,
quale sovra ditt'aggio,
leal servendo, merit'aggio avuto.
Vorríam'esser partuto, — ma non posso;
ché, poi 'l piager è mosso,
75
è legato l'om servo e 'l partir greve.
III
È combattuto dalla necessità di partire e dal dolore di dover lasciare la sua donna.
Lontana dimoranza
doglia m'ha dato al cor lunga stagione:
or mi dobla cagione
di piú grave dolor nuovo partire.
D'assai lontano gire
5
isforzami di ciò senn'e ragione,
contro all'opinione,
piena di voluntade e di pietanza,
con grande smisuranza
che non alungi me contr'al volere,
10
piú che sia del piacere
vostro, di cui amor servo mi tene.
E pietanza mi vene
di voi, ch'avrete del partir dolere.
Cosí del rimanere
15
e dell'andare son diverse pene.
IV PAOLO LANFRANCHI
I
Esorta il re d'Aragona a prepararsi a difendersi dal re di Francia.
Valenz senher, rei dels Aragones,
a qui prez es honors tut jorn enansa
e membre vus, senher, del rei franzes,
queus venc a vezer e laiset Fransa,
ab dos sos fillz es ab aquel d'Arles:
hanc no fes colp d'espaza ni de lansa,
e mainz baros menet de leur paes;
jorn de lur vida sai n'auran menbransa.
Nostre senhier faccia a vus compagna,
per que en re nous qual duptar:
tal quida hom que perda que gazainha.
Seigner es de la terra e de la mar,
per quel rei engles e sil d'Espangna
ne varran mais, sei vorres ajudar.
II
Ricorda a un uomo, superbo della sua ricchezza, l'instabilità della fortuna.
De la rota son posti esempli assai,
che gira e volge e non dimora in loco,
e mette in bono stato quel c' ha poco,
al poderoso dá tormenti e guai.
Or' a che no' tel pensi, po' tu 'l sai
che piccola favilla fa gran foco?
non t'allegrare troppo né dar gran gioco,
ché non se' certo come fenirai.
Se alcun è che tu veggi in malo stato,
in quel medesmo tu pòi avenire,
ch'a te né lui Dio non l'ha giurato.
Aggio veduto per li tempi sire,
che la ventura l'ha sí governato,
che piú che vita desira morire.
III
Risveglio doloroso.
Un nobel e gentil imaginare
sí mi discese ne la mente mia;
in veritá (ch'eo allora dormia)
el me paria con la mia donna stare
in un giardin, baciare ed abbracciare,
rimossa ciascun'altra villania.
Ella dicea: — Tu m'hai in tua bailía:
fa' di me, o amor, ciò che ti pare. —
In quel giardin si avea da l'un canto
un rosignol, che dicea in so' latino:
— Securamente per vostro amor canto. —
I' mi svegliai che sonava matino:
considerando il bene ch'avea tanto,
venme voglia deventar patarino.
IV
Amore gli dona in sogno un fiore della sua donna.
L'altrier, dormendo, a me se venne Amore,
e destatomi disse: — Eo so' messaggio
de la tua donna che t'ama di core,
se tu, piú che non suôi, se' fatto saggio. —
Da la sua parte mi donò un fiore,
che parse per semblant' il so visaggio.
Allor nel viso cangiai lo colore,
credendo el me dicesse per asaggio.
Però con gran temenza il dimandai:
— Come si sta la mia donna gentile? —
Ed el me disse: — Ben, se tu ben stai. —
Allora di pietá devenni umile.
Egli sparío; piú non gli parlai;
parvemi quasi spirito sottile.
V
Amore manifesti alla sua donna le sue pene.
Poeta
. Dimme, Amore; vorestù tornare
da la mia parte a la donna mia?
Amore
. Sí, se tu vogli, ma ell'è follia:
ché talor nòce lo troppo adastare.
Poeta
. E lo meo core vi vòl pur andare,
e ti demanda en sua compagnia.
Amore
. Di presente me meterò en via
dapo' ch'eo veggio ch'a lui e te pare.
Or me di' ciò che tu vòi che gli dica:
che tu non fini clamare mercede?
Perzò non è bisogno andarne mica,
per aventura ch'ella non ti crede.
Poeta
. Sí fa'; che di me vive e se nutríca;
e 'l cor non pò durar, se no' la vede.
VI
Amara delusione.
L'altrier pensando mi emaginai
mandare Amore a la donna mia;
ed a lui piacque per sua cortesia
andar a lei; tanto ne'l pregai.
Poi retornò e disseme: — Che fai?
tutta l'ho misa ne la tua bailía:
I' ti so a dire, ch'ell'è a mezza via,
e vien a te, se tu a lei non vai. —
Po' me venn'un penser da l'altro lato,
e fortemente me represe e disse:
— Amico meo, tu hai folle pensato.
Or credi tu ch'ella con te venisse?
E tu anderesti a lei? Se' tu in istato? —
Parveme allor che l'alma se partisse.
VII
Lamenta l'avversa fortuna che gli fa fare sempre il contrario di quel che vorrebbe.
Ogni meo fatto per contrario faccio,
e di niente d'intorno mi guardo:
l'estate so' più freddo che no el ghiaccio,
l'inverno per il gran calor tutto ardo.
Se ho lettera de gioia, sí la straccio,
se di dolore, la repogno e guardo;
chunque è mio amico, sí i' lo minaccio,
se mi saluta, sí me fier d'un dardo.
Credo che Dio ensieme e la natura
erano irati quando mi creâro,
che trasformôrmi d'ogni creatura.
Però il lor non gittarono en paro,
e l'alma che mi deron clara e pura
giammai no' l'averanno en suo reparo.
VIII
Vicende di fortuna.
Quattr'omin son dipinti ne la rota
per la ventura dello esemplo dato:
e l'altro sta di sopra incoronato,
e l'uno in su valentemente nota.
E 'l terzo se tien le mani a la gota,
ed è vilanamente trabucato,
e 'l quarto sta di sotto riversato,
e d'ogni estremità li dá sua dota.
Io fui quel che lá su andai montando
intorno intorno la rota girata,
e fui di sopra a tutto il mio comando;
poi la testa mi fo incoronata.
Or son caggiuto d'ogni ben in bando,
nel finimento de la mia giornata.
V MEO DI BUGNO
Coscienza netta non cura farneticar di gente.
Tutto el tempo del mondo m'è avenuto,
e sempre me n'andrò con questa norma,
che lá, 've non pongo 'l piè, faccio l'orma,
non so qual de' demòni m'ha veduto,
che, sendo santo, non serò creduto,
anzi me sgrideria la gente a torma.
Unde el conven ch'eo vegli e poco dorma,
da tante parte me veggio asseduto.
Ma non mi muto per altrui parlare:
ben è vertá ch'io ne son pur dolente,
e come bestia lasso ogn'om belare.
Om che si sente iusto ed innocente,
a faccia aperta pò securo andare,
e non curar ferneticar di gente.
NOTA
I MEO ABBRACCIAVACCA
Meo di Abbracciavacca di Guidotto de' Ranghiatici pare che appartenesse a una famiglia di cambiatori pistoiesi, perché tale fu suo padre, che fu console dei cambiatori nel 1237, e un suo figlio, Forese, fu nel 1304 nella banca degli Ammannati. Suo padre, e forse altri della sua famiglia, furono di parte ghibellina. Meo visse assai a lungo, perché era ancora vivo nel dicembre del 1300, quando, in un atto notarile di quell'anno un altro suo figlio, Iacopo, è detto: « Dominus Pucius (Iacobuccius) Bargomei (sic) Abraciavache de Pistorio » (vedi nei miei Rimatori pistoiesi, p. XLIV e sgg., negli Studi e ricerche di antica storia letteraria pistoiese, nel Bull. stor. pist., XII, 38 sgg., e in Per la storia letteraria del sec. XIII nel Libro e la stampa, VI, 78-79).
È dunque un vero fossile della maniera guittoniana, perché forse poetava ancora dietro le orme del dittatore, quando giá in Pistoia si udivano le dolci note della poesia di Cino. È il piú arido e il piú oscuro dei rimatori del gruppo pistoiese. Egli si aggira sempre nel circolo delle idee della poesia cortigiana; riproduce, piú o meno fedelmente, concetti e forme provenzali, che abbiamo udite le mille volte in altri poeti del suo tempo o a lui di poco anteriori; adopera tutti gli artifizi della scuola, come le rimalmezzo, le rime imperfette, spezzate, equivoche, i sonetti a dialogo, i sonetti con due sole rime ed altre consimili preziositá; e soprattutto è oscuro, pesantemente oscuro, tanto da rivaleggiare in questo col piú oscuro dei guittoniani, Panuccio del Bagno. Di questo rimatore specialmente e di fra Guittone d'Arezzo si mostra caldissimo ammiratore e imitatore: del primo infatti rimaneggiò una canzone: «Di sí alta valenza ha signoria», in quella sua: «Considerando l'altèra valenza»; col secondo tenzonò su vari argomenti, e a lui diresse tre epistole in prosa. Se mai qualche peculiaritá si voglia trovare in questo oscuro e faticoso rimatore, è, a mio parere, l'esagerazione dei difetti della scuola, e l'imitazione cosí pedissequa de' provenzali, da non muovere un passo nelle canzoni, se non dietro le orme di quelli; cosicché si avvertono facilmente, or qua or lá, imitazioni da Bernardo di Ventadorn, da Peirol, da Gaucelm Faidit, da Peire Vidal, da Blacasset e da altri ancora.
Il testo delle poesie dell'A. è condotto sull'edizione che giá ne feci nel 1907 nei Rimatori pistoiesi, e quindi sul Laurenziano-Rediano (L), e per la canz. III anche sul Palatino 418 (P): l'ho migliorato in alcuni punti, giovandomi delle osservazioni che mi furono fatte da coloro che ebbero occasione di recensire il mio lavoro, e adattandolo alle norme stabilite per questa collezione.
E ciò s'intenda detto di tutta questa edizione dei Rimatori pistoiesi[2].
Canz. I, v. 3. Veramente L ha «d'esto mondo»; ma mi sembra che qui «mondo» non significhi nulla. Credo che voglia dire: «Spesso ho pensato di tacere, abbandonando il proposito di parlarne in questo modo».
v. 28. L, veramente, ha «pena»; ma di questa lezione non riesco a persuadermi. Intendo: «Non è colpa intera d'amore, ma d'odio».
v. 31: «ad esso». Cosí credo debba sciogliersi «adesso» di L, riferendo «esso» a «piacere».
v. 31. Il Casini, nell'ediz. diplomatica che fece del Laurenziano-Rediano 9, lesse «fa legge»; ma, oltreché codesta frase non dá un senso soddisfacente, è proprio scritto «s'alegge».
v. 57. «Con so» manca in L; ma giustamente ve lo aggiunse il Casini.
v. 61. «dobblanza». Cosí correggo la mia edizione, poiché mi pare che in tal modo corra meglio il senso, e perché anche nella seguente canzone al v. 35 si dice: «Dunque dobblanza tenete in sentire». Vuol dire: «Mi pesa anche il dubitare (dobblanza = dubitanza, dubbio) di ciò».
Canz. II, v. 11. «Prendendo» ha L; ma non dá alcun senso, quindi bene il Gaspary lesse «prendono».
v. 15. L ha «per servire»; ma, poiché ogni strofa incomincia riprendendo le ultime parole della strofa precedente, è certo che qui si deve leggere «star servidore».
v. 55. Il Nannucci volle leggere «torte», e intese che fosse un avverbio «a torto»; ma, oltreché codesta sarebbe una forma inconsueta, è da credersi che si debba sciogliere in «tort'è», anche perché l'Abbracciavacca prediligeva queste rime imperfette.
v. 57. L ha «porea»; ma, poiché la strofe precedente termina con «poría», per la sopraddetta ragione deve leggersi «poría».
v. 65. Nella ediz. del 1907 scrissi «né voi»: ma deve correggersi, com'é in L, «né in voi».
Canz. III, v. 3. Il Biadene, che già pubblicò questa canzone, unisce «pensero» con «piager» del v. 2 e ne forma un concetto solo, quello di «piacevole pensiero»: credo invece di dover togliere l'«e» dopo «beltate» e la virgola che avevo posta dopo «pensiero», e cosí piú facilmente si può intendere: «Lo pensiero soviemmi», cioè «mi torna in mente».
v. 19: «non deggi'». Ho aggiunto l'«i» per ragioni fonetiche.
v. 29: «ch'è». Io stesso nella mia vecchia edizione ed anche il Biadene abbiamo lasciato «che»; ma certo è meglio intendere cosí: «Poiché è provato, cioè si è visto, che sotto viso dolce si nasconde cuore amaro, allora non si cela piú...».
v. 39: «ragione». Cosí scrivo, seguendo il Biadene ed L, sebbene P abbia «rasone».
v. 42: «bassenza». Cosí correggo «bassansa» di P., seguendo, per ragioni di rima, L.
Son. I, v. 2: «e luxuria». Nella mia precedente edizione avevo creduto aggiungere un «è» innanzi a «luxuria»: ma la risposta di fra Guittone fa presupporre una triplice necessità affermata dall'Abbracciavacca.
Lettera I a Fra Guittone. È in L.
Son. III, v. 4: «Ed eo». Cosí è in L, e non «ecco», come errando lesse il Bottari ( Lettere di fra Guittone d'Arezzo, Roma, 1745, p. 76).
v. 7: «Regno»: non «segno», come avevo creduto di leggere, per aver un senso più chiaro, nell'ediz. del 1907. «Regno» dice veramente L.
Lettera II a Fra Guittone. È in L, da cui la riproduco. Fu già pubblicata dal Bottari ( Lettere citt., p. 77).
Son. IV, prima terzina. Com'è in L, questa terzina non dà senso. L'ho rabberciata, sciogliendo il «che» in «ch'è» nel primo verso e aggiungendo la congiunzione «e» nel terzo. Il senso allora corre spedito: «Me ne scoraggio, perché anche la giustizia di Dio è senza difetto. Vorrei sapere come misericordia chiede contro di essa al vero Dio o mi dà la salvazione dell'anima».
Lettera a Bindo di Alessio Donati. È in L, da cui la traggo, correggendo l'ediz. cit. del Bottari.
Son. V, v. 8: «unde». Cosí ha L, non «onde», come lesse erroneamente il Bottari.
v. 12: Tolgo l'«e», che avevo creduto di aggiungere, ma che non è in L, e sciolgo il «perché» in «per che». Leggo quindi «per che è», giacché nel ms. è anche questo «è».
v. 13: «animai». Veramente L ha «animali»; ma in tal modo non tornerebbe più il verso.
Son. VI, v. 12: «S'è per». Attenendomi ad L, correggo cosí la mia antica edizione, e il senso è chiaro: «Se è per colpa della fattura del corpo che contiene l'anima».
Lettera a Dotto Reali. È in L. La riproduco dall'edizione che ne ha data il Monaci nella Crestomazia del primo secolo della lingua, con lievissime modificazioni grafiche.
Son. VII, v. 4: «volere». L ha «voler»; ma, per necessità di verso, ho aggiunta un «e» finale.
v. 8: «ten». Cosí ha L, e non «tien», come, rabberciando, lesse il Bottari.
v. 14: «di lod'agi'altura». Il Bottari: «di loda gialtura».
Son. VIII. Nell'altra mia ediz. ho invertito l'ordine dei vv. 11-2 e 13-4, perché lo schema di questo son. corrispondesse a quello di Monte Andrea: «Languisce il meo spirto», di cui è risposta a rime obbligate; ma le giuste osservazioni, che altri mi ha fatte, m'inducono a rimaner fedele a L, anche perché mi sembra che ci si guadagni di chiarezza.
v. 13: «Monte». Mi pare che qui si tratti del vocativo di Monte Andrea. Infatti non è presumibile che il rimatore abbia voluto far rimare con «monte» del v. 10 proprio la stessa parola nel medesimo significato. Intendo: «Chè non v'è buono che possa dire: — Io discendo a valle, perché sento, o Monte, che vi posso trovare luogo fermo. — Né cavalieri, né baroni, né conti, né re possono dire ciò».
Son. IX, v. 10. Tolgo il «via», che avevo messo nella precedente ediz., perché, oltre che non necessario pel senso, non è in L.
v. 14: «dará li cura». Non occorre allontanarsi da L, che ha «dara li cura», per render piú chiaro il senso e cambiare «li» in «la», come feci nell'ediz. del 1907. Ma, prendendo «li» come pleonasmo, il senso corre assai bene.
II SI. GUI. DA PISTOIA
Nonostante le piú diligenti ricerche, non ho potuto rintracciare chi mai sia questo antico rimatore: forse è Simbuono o Siribuono giudice, da Pistoia, a cui qualche cod. attribuisce due canzoni: «Spesso di gioia nasce ed incomenza» e «S'eo per cantar potesse convertire?». Certo è che il nome di Siribuono non è raro nei documenti pistoiesi.
I due sonetti sono nel Laurenziano-Rediano 9.
Son. I, v. 2: «el me' piace». Correggo la mia vecchia ediz., attenendomi ad L e intendendo: «Ciò che mi piace [il mio piacere] t'assegna me e il mio».
Son. II, v. 2. Mi attengo fedelmente ad L, correggendo la mia ediz.
vv. 1-5. Anche qui credo che bisogni attenersi ad L, perché chiaro corre il senso: «Perché, Iddio, ti compiacesti di donarmi gioia con ogni bene?».
III LEMMO ORLANDI
Lemmo di Giovanni d'Orlando appartenne a famiglia popolana pistoiese derivata da Carmignano, castello che i pistoiesi avevano tolto ai fiorentini. Nacque da un Giovanni di Rolando di Oddo intorno al 1260. Nel 1283 condusse in moglie una certa Sobilia, da cui ebbe due figli, Vanni e Frosina. Fu, a quel che pare, a Bologna con alcuni mercanti, per la maggior parte toscani, nel 1284. Morí, poco più che trentenne, non molto prima del 6 gennaio 1294 (v. i miei Rimatori, p. LV sgg. e Per la storia letter. del secolo XIII, nel Libro e la stampa, VI, fasc, IV e VI ).
Assai meno oscuro e artificioso di Meo Abbracciavacca, egli, pur ritenendo ancora della scoria guittoniana, provenzaleggia talvolta; ma si fa piú chiaro, meno prezioso. Delle sue rime deve esser piaciuta assai a' suoi tempi la cobbola «Lontana dimoranza», e ciò prova non solo il fatto che non son pochi i codici che la contengono, ma l'averla messa in musica Casella. Le due prime canzoni sono nel Laurenziano-Rediano 9, la terza è nel Vaticano 3214 e nel Riccardiano 2846.
Canz. I, vv. 2-4: «fa'» e «ha'». Cosí interpetro, poiché è certo che in tutta la strofa il poeta parla in seconda persona ad Amore.
v. 13: «e'». Ho aggiunto l'apostrofo, perché è qui molto naturale questo «e'» = «egli» pleonastico.
v. 20. Pongo un punto e virgola dopo «mei» e muto il «che» in «ché», perché è certo che il senso cosí corre meglio.
v. 34: «com'». Muto pel senso il «con» di L in «com'».
v. 39. Com'è in L, il verso è falso: «Movet'ormai a merzede».
v. 48: «fior' e di nobeltate». Cosí L, e, anche per cagione di senso, mi attengo a questo codice.
Canz. II, vv. 34-5. Ho adottata la punteggiatura del Valeriani, perché in tal modo il v. 34 spiega come «sua vista era cangiata» verso di lui.
v. 56: «n'ha dato lei». Cosí ha L, e cosí credo si debba leggere, e non «n'ha dato a me», come posi nella mia antica ediz., tratto in errore dal Valeriani, che aveva rabberciato il passo con un «m'ha dato».
v. 61: «Ché grave 'n lui». Pongo dinanzi a «lui» un «'n», che è in L e che avevo soppresso nella mia precedente edizione.
Canz. III, v. 10. Per questo verso adotto, sebbene non sia nei codici, la buona lezione data dal Nannucci nel suo Manuale.
v. 14: «dolere». Cosí deve certamente leggersi per necessità di rima.
IV PAOLO LANFRANCHI
Un Paolo Lanfranchi da Pistoia, che è certamente il rimatore, perché nessun altro di questo nome apparisce in documenti pistoiesi, fu dal febbraio all'ottobre del 1282 a Bologna; vi era ancora il 21 gennaio del 1283 (v. il mio art. cit. nel Libro e la stampa, p. 144). Di lá, molto probabilmente, visitò insieme con Guiraut Riquier e Folquet de Lunel la corte di Pietro III d'Aragona nel 1283 o nel 1284. Alla corte di quel re, e precisamente fra il 1283 e il 1285, anno in cui morí Pietro III, scrisse il sonetto in provenzale: Valentz segneur. Piú tardi, dalla Spagna fece ritorno in Pistoia, donde fu bandito per violenze private nel 1291 (v. i miei citt. Studi e ricerche, estr. dal Bull. stor. pist., XII, 44). Pare che fosse ancora a Bologna nel 1295 (v. nel Libro e la stampa, nell' Appendice ). Appartenne a una famiglia di mercanti.
Degno di particolare attenzione è il suo sonetto provenzale, perché esso e i due di Dante da Maiano, sono i soli che si abbiano in quella lingua.
Nelle poesie italiane rifugge dagli artifici, e fa versi facili e talvolta anche armoniosi. Nel son. «Un nobel e gentile imaginare» si sente sincero, sebbene crudo, il realismo della poesia popolare. Qualche sonetto è di argomento politico: pare che vi si alluda alla caduta della fortuna di Carlo d'Angiò: cosicché da questi suoi versi sembrerebbe che il Lanfranchi fosse stato di parte ghibellina.
Il sonetto provenzale è nel Laurenziano XLI, 42 (L), i sonetti italiani sono nel Barberiniano XLV, 47 (oggi Vaticano 3953) (B) e due nell'Estense X, B, 10 (E).
Son. II, v. 2: «gira e volge». Correggo cosí la mia antica ediz., mantenendomi fedele a B.
v. 5. Credo bene attenermi a B, abbandonando la lezione data dal Baudi de Vesme, che per il primo stampò questi sonetti: soltanto tolgo il «che» di B dinanzi a «tu 'l sai», e pongo «ora» e non «or» per necessità di verso.
v. 7. Anche qui mi attengo a B, che dá un senso piú chiaro della lezione da me seguita nella precedente edizione.
Son. III, v. 8. Veramente B ha «fa de mio amore, eo»: ma credo che, dividendo opportunamente, si debba leggere «de mi, o amore», e, correggendo la forma veneta «de mi» in «di me», venga fuori la lezione semplice e chiara «fa' di me, o Amor, ciò».
Son. IV, v. 10. Come è nel ms., il verso manca d'una sillaba: per compierlo v'aggiungo il «si» innanzi a «sta».
Son. VI, v. 2. Tolgo il «de», che avevo creduto di aggiungere in principio del verso, come non necessario.
v. 12: «con te». Veramente B ha «cum ti», che è forma veneta (si ricordi che quel codice fu scritto da Niccolò de Rossi trivigiano), la quale agevolmente si può correggere in «con te».
Son. VII, v. 3: «no el ghiaccio». Cosí mi permetto di correggere leggermente B, per ottenere la misura del verso.
v. 11: «transformormi». Cosí correggo, accettando la proposta fatta nella sua recensione alla mia ediz. dal De Geronimo; intendendo come egli dice: «Dio e la natura erano irati, quando mi crearono e mi fecer diverso da ogni creatura».
v. 12. Anche qui accetto la spiegazione del De Geronimo: «Il rimatore, indispettito che Dio e la natura l'abbiano forse creato, in un momento d'ira — Il loro — ei dice — quel ch'essi poteano non gittarono in egual misura di quel ch'io possa gettar via, e l'anima, che mi dettero chiara e pura, non la riavranno essi giammai». —
Son. VIII, v. 4: «nota». Sospetto che debba dire «rota», cioè s'affatica seguendo il girare della ruota per arrivare al sommo di essa.
V MEO DI BUGNO
Pare sia stato figlio di un Bugno di Napoleone, che nel 1284 fu bandito da Pistoia e che, tornato dall'esilio, fu nel 1287 del Consiglio del popolo per il quartiere di Porta S. Andrea; e credo sia proprio l'antico rimatore quel « Muccius (o Bartromuccius ) filius Bugni Napoleonis », che il 21 marzo 1282 fu condannato per essere entrato a viva forza in una casa in Ripalta (v. i Rimatori, pp. LXVI-LXVIII e gli Studi e ricerche, pp. 40-41).
Il suo unico sonetto ha qualche sapore di poesia popolare: è un sonetto di «noia» e vi si lamenta delle sue disavventure. È nel Barber. XLV, 47, oggi Vaticano 3953 (B) e nel R. Archivio di Stato di Venezia, Deliberazioni del Maggior Consiglio, Comune I. Io mi sono attenuto a B., correggendo il testo dato dal Gualandi ( Accenni alle origini della lingua e della prosa italiana, p. 17).
GLOSSARIO
adastare — stare, rimanere.
adesso — subito (prov. ades ).
adistato — eccitato.
aggio — ho.
aigua — acqua.
aldo — audo, odo (lat. audio ).
alegge (s') — elegge (s').
alungi — allunghi, allontani (prov. alonger ).
apprisa — presa.
asaggio — saggio, assaggiamento.
asizo — posto (prov. asiz ).
asseduto — assediato.
attessa — affanno, tormento.
autro — altro.
avallo — cado in valle, m'abbasso, mi scoraggio.
avegna — avvenga.
aviso — avviso, opinione; dico di aviso — cosí mi sembra.
barnaggio — baronaggio, signoria.
bassenza — bassezza.
caggiuto — caduto.
certanza — certezza.
cherere — chiedere (lat. quaerere ).
chero (sost.) — domanda.
chi, chine — che.
clamare — chiamare (lat. clamare ).
clero — chiaro; cosa clera — il viso dell'amata.
coi — cuoi.
comando (sost.) — chi comanda (l'astratto per il concreto).
como — come.
compagna — compagnia.
coraggio — cuore (prov. coratge ).
coral — che viene dal cuore (agg. da core ).
corneggiato — colpito con le corna.
crudero — crudele.
desirare — desiderare (prov. dezirer ).
dimoranza — dimora.
dimostranza — dimostrazione.
disacquista — perde ciò che aveva acquistato.
disdetto — ritrattazione.
diservire — mal servire.
disfallo — libero dal fallo commesso.
dispero (sost.) — disperazione.
doblata — raddoppiata (prov. doblar ).
dobblanza — doppiezza, infingimento, incertezza.
dolze (agg.) — dolce.
dota — dote. Al v. 8 del son. III del Lanfranchi: «e d'ogni estremitá li dá sua dota», intenderei: «ad essa (la ruota della fortuna) regala («li dá sua dota») ogni estremo male».
dra — contrazione da derá, dará.
emaginare — immaginare.
fallenza — fallo (prov. falhensa ).
falligione — fallo, errore.
fedele — fidente, sicuro.
fenire — finire.
ferneticare — farneticare.
fier — ferisce.
fio — feudo.
fini — finisci.
finimento — fine.
for' — senza; for' fallenza — senza fallo.
guardo — custodisco.
guigliardon — guadagno.
inanza — avanza (prov. enantir ).
in nel — nel.
intensa (anche intendimento ) — inclinazione amorosa (prov. entensa o entendemens ).
intervallo — momentaneo allontanamento.
intiza — persona amata.
ismisuranza — dismisura.
istrano — m'allontano.
iusto — giusto (lat. iustus ).
lane (avv.) — lá.
larga (è da) — è lontano.
leai — leali.
leggero (avv.) — leggermente.
loco (avv.) — qui.
lui (dat.) — a lui.
maginare — immaginare, aver nella mente.
mainera — maniera; prender mainera — prender norma.
mano ('n) — in balía.
membre (da membrare) — ricordivi.
meretria — meriterei; merteria voi — meriterei presso di voi.
messaggio — messaggiero.
meve — me.
mevi — a me.
mezore — maggiore.
miradore — specchio, esempio (prov. mirador ).
mistero — mezzo.
natura — naturale sentimento.
nobel — nobile.
nonde — non ne.
norma — modo, regola.
obbriare — obliare.
obrianza — oblianza, oblío.
ostrero — nemico, demonio.
pagentero — benigno.
pareglio — pari, simigliante.
paro — paio, sembro.
partuta — parte.
patarino — paterino (eretico).
persò — perciò.
piacere — volontà.
pietanza — pietà.
piò — piú.
plagere (sost.) — piacere.
plageria — piacerebbe.
poderoso — colui che può, e anche possente, ricco (prov. poderos ).
poggia d'onor — fa maggiore onore, sale in onore.
poi — poiché.
poi che — sebbene.
porea — potrebbe.
porte — porto.
posi — si può.
prefondo — profondo.
priso — preso.
privado — familiare.
proferto (ho) — mi sono espresso.
quida — quieta.
rancura — dolore.
regno (verbo) — duro (prov. renhar ).
reo — re.
reparo — riparo.
risprende — risplende.
rivera — stanza.
saggio (avv.) — saviamente.
scur (avv.) — oscuramente.
sembianza — apparenza.
semblante (per) — per somiglianza (prov. per semblansa ).
sentenzia — spiegazione.
sentore — sentimento.
sentuta — sentimento; non voglio mia sentuta — non son padrone del mio sentimento.
será — sará.
siguro — sicuro.
smirata — smisurata.
soffrenza — sofferenza, paziente attesa.
sofrente — sofferente.
somegli (me) — mi sembri.
sormontare — innalzare.
sove — sovviene, soccorre.
soverchianza (montare in) — diventare orgoglioso.
spera — speranza.
spero — specchio.
stallo — dimora; a fermo stallo — in dimora ferma, fermamente, immutabilmente.
stande — starne.
storma — s'allontana dalla torma, s'allontana.
strado — esco di strada.
Strettoia — immaginario nome di paese, che vuole alludere alle strettezze in cui il poeta si trovò a Pistoia.
strove — trova.
suoi — suoli, sei solito.
tardo (avv.) — tardi.
torma — schiera.
trabuccare — traboccare, cadere.
turba (verbo) — produce turbamento.
tuttora — sempre.
vallo — valle.
veduta — oggetto che si vede, figura, immagine.
veggi — vedi.
veglia — vecchia.
venegli — convenegli, gli conviene.
venme — vennemi, mi venne.
veo — vedo.
vertá — veritá (prov. vertatz ).
visaggio — viso.
visii — cose vedute.
vo' — voi, a voi, vi.
vorestu — vorresti tu.
vorrea — vorrei.
II RIMATORI LUCCHESI
A CURA DI AMOS PARDUCCI
I BONAGIUNTA ORBICCIANI
CANZONI
I
È colpito dalla sventura; ma non perciò tralascerá di cantare la gioia che gli viene a mancare.
Avegna che partensa
meo cor faccia sentire
e gravozi tormenti sopportare,
non lasseragio sensa
dolse cantare e dire
5
una cusí gran gioia trapassare.
E rallegrare — altrui cosí feraggio
del meo greve damaggio,
per pianto in allegressa convertire;
siccome la balena
10
di ciò che rende e mena
la parte lá, u' dimora, fa gioire.
La gioi', ch'eo perdo e lasso,
mi strugge, mi consuma,
come candela ch'al foco s'accende.
15
E sono stanco e lasso;
meo foco non alluma,
ma quanto piú ci afanno men s'apprende.
E non risprende — alcuna mia vertude:
avanti si conchiude,
20
siccome l'aire quando va tardando;
e come l'aigua viva
ch'alor è morta e priva
quando si va del corso disviando.
Disvio sí che bene
25
sentor di me no aggio,
non saccio com'eo vivo sí gravozo.
Oh Deo! che non m'avene
com'al leon selvaggio,
che tutto tempo vive poderozo
30
e odiozo — sensa pietate,
acciò che 'n veritate
lo meo greve dolor mostrar potesse
e la mia pena agresta
per opra manifesta,
35
perché la gente mei me lo credesse?
Credo che non feráe
lontana dimoransa
lo core meo, che tanta pena dura:
mentre che viveráe
40
será fòr di speransa
d'aver giamai solasso né ventura.
Ma se natura, — che nd'ha lo podere,
n'avesse lo volere,
appena mi poría donar conforto.
45
Como l'augel che pia,
lo me' cor piange e cria
per la malvagia gente, che m'ha morto.
Morto fuss'eo pertanto
o nato non fuss'eo
50
o non sentisse ciò ch'eo veggo e sento;
perché 'l meo dolse canto
amar mi torna e reo
e in erransa lo innamoramento!
Ma 'l bon talento — ch'aggi' e 'l cor gioioso
55
plagente ed amoroso,
como la uliva non cangia verdura,
non cang'eo per ragione
di fina 'ntensione,
ancor mi sia cangiata la figura.
60
II
Rinasce all'amore, perché la donna sua lo esorta a sperare.
Fina consideransa
m'ha fatto risentir, ch'avea dormuto,
de lo gioiozo meo innamoramento.
Com'omo mentre avansa,
che cela lo procaccio e stanne muto
5
non s'atutasse per dimostramento,
eo non lo celeraggio in tal mainera
ch'io n'aggia riprendensa per ragione,
ma sí che 'n allegransa lo meo dire
si possa convertire.
10
celando per l'autrui riprensione,
canteragio de la mia gioia intera.
Acciò, se in allegransa
e 'n gran conforto e in gioi' mi rimuto,
non è contra diritto insegnamento;
15
ché l'omo fòr d'eransa,
sentendosi di gran guiza arriccuto,
ben dé' portar gioiozo lo talento.
E io porto gioiozo core e cèra,
e corpo e mente e tutta pensagione
20
per quella ch'amorozo mi fa gire,
in cui si pòn gradire
bellesse di sí gran divizione,
como l'oscuro in verso la lumera.
Cosí la disiansa
25
verrá compíta, e non será smarruto
lo mio acquistar per folle pensamento,
ché la dismizuransa
(ed ha lo core tanto combatuto)
non mi dará gravozo movimento.
30
E se la gioia non torna guerrera,
faraggio ricca la mia intensione
e tutto tempo giammai non partire:
cosí sensa fallire
seraggio fòre de la condissione,
35
ch'a li amadori è forte crudera.
Ed è la sua plagensa forte e fèra
di gran guiza, che fra la pensagione
ne nasce erransa e fálla dismarrire,
vedendola partire,
40
e me medesmo dá per istagione
una semblansa, che mi pare spera.
III
Sulla natura dell'onore e del piacere.
Similemente onore
como 'l piacere,
al meo parere,
s'acquista e si mantene;
e ambur hano un core
5
e un volere,
como savere
a li bon si convene.
Donqua dirá l'on: — Come
amburo han piú d'un nome,
10
da poi che 'nsieme
son d'una speme
e d'un volere e d'uno intendimento? —
Però che son du' cose
in un voler conchiose:
15
dal piacer vène
in prima 'l bene,
und'onor cresce, ch'è suo compimento.
In prima che 'l piacere
è l'obedire,
20
unde 'l servire
si move ogna stagione;
e non è alcun savere
da piú saglire
sensa 'l sufrire
25
per nessuna cagione.
Che 'l sofferire è tale,
e tanto monta e vale,
che fa compire
ogni volire
30
e d'ogni bene è somma e sentensa.
Chi non è sofferente
non può esser piacente,
né può montare
in grande affare.
35
Cotanto vien da fina canoscensa!
Cannoscensa si move
da senno intero,
corno dal cero,
quand'arde, lo sprendore,
40
e tutte cose nòve
di stato altèro
di le' nascêro
e nasceno a tutt'ore.
A la sua signoria
45
si regge cortezia,
tutta larghessa,
tutta prodessa,
pregio e leansa e tutto valimento.
Quel corpo lá u' si cria
50
giammai non falleria
né per ricchessa,
né per grandessa,
tanto lo guida fino insegnamento.
Tant'è l'om da pregiare
55
di canoscensa
e di valensa
quant'opra per ragione;
e tant'è da blasmare
quant'ha potensa
60
e intendensa
e non fa messione
per venire in orransa,
in lontana contansa,
e per potere
65
tra i bon capére
e conquistar l'onor, che s'abandona
per la dismizuransa
de la malvagia uzansa,
che fa valere
70
poco d'avere
piú che bontá u pregio di persona.
Se l'onor vi parlasse,
signor, ch'andate
e cavalcate
75
a guiza di maggiori,
non sría chi l'aspettasse,
se ben guardate
quel ch'operate
ver' lui nei vostri cori.
80
. . . . . . . . .
. . . . . . . . .
IV
Si consola per aver ottenuto ciò che desiderava.
Fin amor mi conforta
e lo cor m'intalenta,
madonna, ch'io non penta,
di voi s'io innamorai.
Membrando ciò che porta,
5
la vita n'è contenta,
avegna ch'io ne senta
tormenti pur asai.
Ca primamente amai
per ben piacere al vostro signoragio
10
d'aver fermo coragio,
a ciò ch'io per fermeze non dottasse
che'l meo lavor falsasse;
ché ch'incomenza mez'ha compimento,
se sa perseverare lo suo adoperamento.
15
Ed io perseverando
la ricca incuminzanza,
condutt'ho la speranza,
al giorno ch'io sperava.
Non credo dispresiando
20
che voi contra onoranza
cometesse fallanza,
ch'io no la domandava;
ca ciò ch'io disiava
non era fòr di bono intendimento,
25
ma vostro acrescimento.
Né a bona donna non si disconvene,
s'amor la sforza bene;
ché tal val molto che nulla varia,
per innamoramento di donna, che golía.
30
Und'eo no mi dispero
di ciò ch'amor mi face,
ca guerra no ha pace
né amor conoscimento.
Se non ho ciò che chero,
35
farò come chi tace
la cosa che li spiace
per fino intendimento.
E si serò contento
cosí del male e de le gravi pene
40
come sería del bene;
ch'Amor ha in sé ben tanto signoragio,
che mi pò dar coragio;
e l'ire e l'ane e le pene e la noia
mi poría ritornare a suo piacere in gioia.
V
Lodi della sua donna.
Novellamente amore
d'una donna piacente
mi rallegra e mi conforta,
da poi che 'l suo valore
mi s'ha fatto servente;
5
che cotanto preso porta
d'esser la meglio acorta — tuttavia
di null'altra che sia,
la cui alta piacensa
divisando non si pensa.
10
Ell'è quella c'ha morta — villania,
l'orgoglio e la follia;
e senno e caunoscensa
da colei prende crescensa.
La beltá, che mantene,
15
se pare in nulla parte.
ogn'altra beltá dispare;
chi piú mente la tene,
piú fatta par per arte,
tuttora piú bella pare.
20
E lo suo risguardare — gaio e gente,
cui colpa, cuoce e sente
di sí dolce ferita
che nde cresce gioia e vita;
e piú per lo parlare — suo piacente
25
'nnamora tutta gente;
cosí è ben partita
ch'a dir non sería finita.
Per lo piacer m'ha vinto,
per lo parlar distretto,
30
per l'operare conquiso,
per la beltá m'ha cinto,
che 'l core da lo petto
pare che mi sia diviso,
com'albore succiso — con catene.
35
La sua vertute bene
vive in tale manera
ca, vivendo, par che pèra.
Ma l'amoroso viso, — che mi tene
in sospiri e in pene,
40
non credo che soffèra
che per lui morte mi fèra.
VI
Ama la sua donna, della quale loda le virtú; ma non ha coraggio di manifestarle il suo amore.
Gioia né ben non è senza conforto
né senza ralegranza,
né ralegranza sanza — fino amore:
rason è chi venir vole a bon porto
de la sua desianza
5
che in amoranza — metta lo suo core;
ché per lo flore — spera l'omo frutto
e per amor ciò ch'è disiderato.
Perché l'amore è dato
a gioia e a conforto senza inganno;
10
ché, se patisse inganno, — fôra strutto
lo ben d'amor, che tanto è conservato,
né fôra disiato
s'avesse men di gioia che d'afanno.
Tant'è la gioia, lo preso e la piacenza,
15
la 'ntendenza — e l'onore
e lo valore — e 'l fino 'nsegnamento,
che nascon d'amorosa caunoscenza,
che differenza — amore
no è prenditore — da vero compimento.
20
Ma fallimento — fôra a conquistare
senza affanare — cosí gran dilettanza,
ca per la soverchianza
vive in erranza — quel che s'umilia.
Chi gio' non dia — non pò gioia aquistare,
25
né bene amare — chi non ha in sé amanza,
né compir la speranza
chi no lassa di quel che piú disia.
Perché sería fallire a dismisura
a la pintura — andare
30
chi pò mirare — la propria sustanza;
ché di bel giorno vist'ho notte scura,
contra natura, — fare
e traportare — lo bene in malenanza.
Unde bastanza — fôra, donna mia,
35
se cortesia — mercede in voi trovasse,
che l'afanno passasse
e ritornasse — in gioia e in piacere,
ché troppo sofferére — mi contraría;
com'om, ch'è 'n via — per gir, che dimorasse
40
e 'nanti non andasse
né ritornasse — contra suo volere.
Volere agio e speranza d'avanzare
lo meo cominciamento
per tal convento — ch'eo voi sia in piacere.
45
E ben volesse a reto ritornare,
contra lo meo talento,
né valimento — n'agio né podere.
Cosí mi fère — l'amor, che m'ha priso
del vostro viso — gente e amoroso,
50
per cui vivo gioioso,
e disioso — sí ch'eo moro amando!
E ciò ch'eo dico nullo dir m'è aviso,
sí m'ha conquiso — e fatto pauroso
l'amore, ch'agio ascoso,
55
piú ch'eo non oso — dire a voi, parlando.
VII
Dopo aver parlato della lotta, che combatte per la sua donna disserta sul ben fare e sulla follia.
Sperando lungamente in acrescenza
trar contendenza — d'alto signoragio,
che mi dá tal coragio
ch'ogn'altr'om i' ne credo sovrastare,
di ben servir mi dona caunoscenza,
5
che da ubidenza — nat'è per lignagio.
E non è alcun paragio,
che a l'ubidir si possa asimigliare,
però che fa l'om fin preso aquistare
e 'navanzare, e nascende onoranza
10
e ricca nominanza.
Servire e ubidenza
vegnon da cognoscenza;
di caunoscenza non è dubitato
che nasce per fin senno ed è provato.
15
Da senno ven largheza, e cortesia
oblia — torto, orgoglio e scaunoscenza
e tutt'altra fallenza,
che per rasion potesse dispiacere.
E chi ben fa non usa villania,
20
né follia — comporta sofferenza;
ed è matta credenza
che l'un coll'altro possa sofferére,
però che son diversi di valere;
ché l'un val pregio, unde s'aquista amore,
25
e l'altro disamore.
Però han diversitate
e contrarietate;
ché l'un contrar' per l'altro si disvia,
come per morte vita tuttavia.
30
VIII
Lodi dell'amore: prega madonna che lo voglia amare.
Uno giorno aventuroso,
pensando in la mia mente
com'amor m'avea inalzato,
i' stava com'om dottoso,
da che meritatamente
5
non serve a chi l'ha onorato.
Però vòlsi cantare
lo certo affinamento,
perché l'amor piú flore
e luce e sta 'n vigore
10
di tutto piacimento,
gioia tene in talento
e fa ogn'atro presio sormontare.
Montasi ogne stasione,
però fronde e fiore e frutta,
15
l'afinata gioi' d'amore;
per questa sola rasione
a lui è data e condutta
ogne cosa, c'ha sentore:
sí come par, li auselli
20
chiaman sua signoria
tra lor divisamente
tanto pietosamente,
e l'amorosa via
commenda tuttavia
25
perché comune vòlse usar con elli.
Donqua, la comune usanza
ha l'amor cosí agradito,
che da tutti 'l fa laudare.
Gentil donna, pietanza
30
inver' me, che so' ismarito
e tempesto più che mare.
Non guardate in me, fina;
ch'eo vi son servidore:
tragete simiglianza
35
da l'amorosa usanza,
che da piciolo onore
ingrandisce talore,
e 'l ben possente a la stasion dichina.
IX
Si rallegra pensando alla gioia che spera d'avere.
Infra le gioi' piacenti
considerando sono
a ciascuno amadore
li dolci intendimenti,
unde si move dono,
5
che merita l'amore.
Ed io n'agio lo core — cosí temente
per voi, che 'nfra la gente
siete como diamante precioso,
fra l'altre gieme tanto grazioso.
10
Sí graziosa appare
a la mia percepenza
la gio', che 'l core spera,
deo considerare
con senno e con piacenza
15
sí com'eo l'agia intera,
e no lassar maniera — che sia laudata
per me, ch'è straniata.
Sí fort'è l'amoroso intendimento
ch'eo nol pozo celar com'eo lo sento.
20
Sentomi sí gioioso
quando mi penso bene
la gio', ch'eo degio avere,
vivonde coragioso
ch'a lo core mi vène
25
un sí fèro volere,
che mi tolle'l savere — e l'entendanza;
cotant'è l'abondanza
de l'amoroso foco, che m'incende,
membrando l'alta gio', che 'l core atende.
30
Atendo di compire,
e vado sogiornando
in questo mio viagio;
e s'eo per tosto gire
potesse, come stando,
35
compier lo meo coragio,
farea questo passagio — in tal manera,
che falcon di rivera
apena credo ch'avanti mi gisse
per fin che 'l meo viagio si compisse.
40
Compíta, amorosa,
avenente, cortese
donna delle migliori,
per cui mi è gioiosa
la contrada luchese,
45
apareno li fiori
inver' li nostri amori, — che son cotanti;
li amorosi sembianti
continuati son di gio' compíta,
che no mentisce l'amorosa vita.
50
X
Non ha l'amore della sua donna e vorrebbe dimenticarla: non essendogli ciò possibile, invoca da lei la fine dei suoi mali.
Quando apar l'aulente fiore,
lo tempo dolze e serino,
gli auscelletti infra gli albóre
ciascun canta in suo latino:
per lo dolze canto e fino
5
si confortan gli amadore,
quegli ch'aman lealmente.
Eo lasso no rifino
per quella che 'l meo core
va pensoso infra la gente.
10
Per quella, che m'ha in ballía
e m'ha d'amore conquiso
vo pensoso nott'e dia,
per quella col chiaro viso:
co' riguardi e dolce riso
15
m'ha lanciato e mi distringe
la piú dolze criatura.
Lasso! quando m'ebe priso
d'amor tutor mi s'infinge,
pare di me non ha cura
20
Cogli sguardi m'ha conquiso,
parlando ond'io mi doglio,
lasso! quando m'ebe priso;
or mi va menando orgoglio.
Adunque partir mi voglio
25
d'Amore e di suo servire
e de li falsi riguardi,
e fare ciò ch'io non soglio
. . . . . mantenire
per quella, che tuto m'ardi.
30
Ben me ne voría partire
s'unque lo potesse fare;
m'adoblaran li martíre,
non ne poría in ciò campare.
Adunqua mi conven stare
35
a la sua dolze speranza
e non essere argoglioso,
ma tutor merzé chiamare:
forse ne verá pietanza
quella, c'ha 'l viso amoroso.
40
Canzonetta dolze e fina,
va', saluta la più gente;
vann'a quella, ch'è regina
di tuti gl'insegnamente.
Da mia parte t'apresente,
45
e si le chiama merzide
che non degia piú sofrire
ch'io patisca esti tormente:
ca rimembrando m'auzide
e d'amor mi fa languire.
50
XI
Credeva di non essere amato; ma ha avuto torto. E n'è lietissimo.
Ben mi credea in tutto esser d'Amore
certamente allungiato;
sí m'era fatto selvaggio e stranero.
Or sento che in erranza era 'l meo core;
ché non m'avía ubliato,
5
né riguardato il meo coraggio fèro.
Poiché servo, m'ha dato, per servire,
a quella, a cui grandire
si può somma piacenza
e somma conoscenza;
10
che tutte gioie di biltate ha vinto,
sí come grana vince ogn'altro tinto.
Tant'allegrezza nel meo core abbonda
di sí alto servaggio
che m'ha e tiemmi tutto in suo volere,
15
che non posa giá mai, se non com'onda,
membrando il suo visaggio
ch'ammorza ogn'altro viso e fa sparere
in tal manera che lá 've ella appare
nessun la può guardare,
20
e mettelo in errore.
Tant'è lo suo splendore
che passa il sole, di vertute spera,
e stella e luna ed ogn'altra lumera.
Amor, lo tempo ch'era senza amanza,
25
mi sembra in veritate,
ancor vivesse, ch'era senza vita;
ch'a viver senza Amor no è baldanza
né possibilitate
d'alcun pregio acquistar di gioi' gradita.
30
Onde fallisce troppo oltra misora
qual uom non s'innamora,
ch'Amore ha in sé vertode:
del vile uom face prode,
s'egli è villano in cortesia lo muta,
35
di scarso largo a divenir lo aiuta.
Ciascuna guisa d'Amor graziosa,
secondo la natura
che vien da gentil luoco, ha in sé valore,
come arbore quand'è fruttiferosa.
40
Qual frutto è piú in altura
avanza tutti gli atri di savore.
Onde la gioia mia passa l'ottíma,
quant'è più d'alta cima;
di cui si può dir bene
45
fontana d'ogni bene;
ché di lei sorge ogn'altro ben terreno,
come acqua viva che mai non vien meno.
Dunque m'allegro certo a gran rasione;
ch'io mi posso allegrare,
50
poi sono amato ed amo sí altamente.
Anzi servir, mi trovo guiderdone
sí soave umiliare
ver' me, per darmi gioia, l'avvinente.
Però più graziosa è la mia gioia
55
ca l'aggio senza noia;
ché non è costumanza
cosí gran dilettanza
ch'Amore giá mai desse a nullo amante.
Però m'allegro senza simigliante.
60
Considerando tutto quel ch'è detto
a quel ch'è a dir rispetto,
è l'ombra, al meo parere;
ché non mi par sapere,
se di sua forma parlare volesse,
65
che solo un membro laudare compiesse.
DISCORDI
I
Invita pulzelle e maritate a darsi alla gioia e all'amore.
Quando vegio la rivera
e le pratora fiorire,
e partir lo verno ch'era,
e la state rivenire,
e li auselli in schiera
5
cantare e risbaldire,
no mi posso sofferire
di non farne dimostranza;
ch'io agio odito dire
ch'una grande allegranza
10
non si pò bene covrire,
se cotanto s'innavanza!
E l'amanza — per usanza,
c'ho de la frescura,
e li alori, — che de' fiori
15
rende la verdura,
sí m'incora — e innamora
che mi disnatura.
Und'io trovo novi canti
per solazo degli amanti
20
che ne canti — tutti quanti.
Chi trova casione
fa contra rasione,
ch'or'è la stasione
di far messione;
25
a ciò che sia conforto
lo tempo, ch'è passato,
di quelle, c'han diporto
di core innamorato,
che non degia esser morto
30
chi di bon cor è amato.
Voi, pulzelle,
novelle,
sí belle,
issa vo' intendete;
35
maritate,
ch'amate
istate
lungamente sète;
dalli amanti
40
davanti
cotanti
piú non v'atenete.
Rendete le fortesse,
ché noi vegnán per esse:
45
non state piú in duresse.
Che l'altesse
son duresse,
che voi dimostrate;
e feresse
50
e crudellesse,
quando disdegnate.
Se paresse
a voi stesse,
or non v'amantate;
55
e vivete — in allegranza
e compiete — la speranza
di color, che n'han fidanza,
per l'altèra — primavera;
ché 'l tempo è gaudente,
60
e la spera — e la cèra
chiara de la gente.
II
Si lamenta della durezza della donna sua, che un tempo lo aveva fatto sperar bene: ha fiducia però ch'ella un giorno muti pensiero.
Oi, amadori, intendete l'affanno
doglioso, che m'avene,
che mi convene — una donna servire
ed ubidire — sovente;
però ch'io l'ho 'n talento
5
e penaci la mente
e 'l cor ne sta in tormento;
e li tormenti e li gravosi dogli,
ch'io per suo amor patisco.
Non mi faría l'om tanta guisa noia,
10
s'io da lei gioia — avesse
in vista od in sembiante;
ma mostrami duresse
quando le son davante.
Davante che 'l meo core s'aprendesse
15
del suo dolze piagere,
mostravami di darmi intendimento.
Or m'ha messo 'n arsura,
sí ch'io non ho possanza;
di me non mette cura.
20
Vede se fa fallanza!
Ma non falla tanto
quella per cui canto,
ca s'io fosse santo,
sanza il suo volire,
25
ch'io no lasasse
per ella non pecasse,
s'ella m'amasse
o mostrasse — piacire.
E messire — Ivano
30
e 'l dolze Tristano
ciascun fue sotano
ver' me di languire.
S'io languisco,
non perisco,
35
ma nodrisco — in disianza;
vo penando
e pensando
e chiamando — pietanza:
come nave,
40
che, soave,
che sta in grave — tempestanza.
Cotanto amo,
che pur bramo
d'incarnare infra l'amore:
45
sto ne' ramo
piú ch'Adamo
per lo pome de l'erore.
Né non dico,
né disdico,
50
né non faccio dimostranza
né amico,
né nemico
per la mia dolze speranza.
S'eo la sguardo,
55
'ncendo ed ardo,
tanto temo no le spiaccia;
sí ne 'mbardo
ca tuto ardo,
par che tuto mi disfaccia.
60
Muovi, dansa,
per amansa
di quella gentil donzella:
di' che cansa
la speransa,
65
se da me piú si rubella;
ché mi tiene
'n tante pene
ch'io non posso piú durare;
ma la spene
70
mi mantiene,
per ch'io spero di cantare.
BALLATE
I
Non si vantino le proprie virtú. Dio disperda chi male amministra la giustizia.
Molto si fa biasmare
chi loda lo su' afare
e poi torn' al niente.
E molto piú disvia
e cade in gran falenza
5
chi usa pur folia
e non ha canoscenza:
qual om ha piú balía
piú dé' aver soferenza
per piacer a la gente.
10
Molti son che no sanno
ben dir, né operare:
sed han buon prescio un anno,
non è da curuciare;
ché tutto torna a danno.
15
Falso prescio durare
non pora lungamente.
Qual om è laldatore
de lo su' fatto stesse
non ha ben gran valore
20
né ben ferme prodesse;
ma l'uom, ch'è di buon cuore,
tace le su' arditesse
ed ède piú piacente.
Valor no sta celato,
25
né prescio, né prodessa,
né omo inamorato,
né ben grand'alegressa:
come 'l fochio lumato,
quando la fiam'ha messa,
30
si mossa grandemente.
Strugga Dio li noiosi,
falsi iscanoscienti,
che viven odiosi
di que' che son piacenti;
35
dinanzi so' amorosi,
dirieto son pungenti,
com'aspido serpente.
Sieden su per li banchi
facendo lor consiglio:
40
dei driti fanno manchi,
del nero bianco giglio,
e nonde sono istanchi;
und'e' mi meraviglio
come Dio lo consente.
45
Balata, in cortesia,
ad onta de' noiosi,
saluta tuttavia,
conforta li amorosi:
e di' lor ch'ancor fia
50
li lor bon cor gioiosi
seranno tostamente.
II
Varie e tante son le bellezze della donna sua.
Donna, vostre belleze,
ch'avete col bel viso,
m'hanno sí priso — e messo in disianza,
che d'altra amanza — giá non agio cura.
Donna, vostre belleze,
5
ch'avete col bel viso,
mi fan d'amor cantare.
Tante avete adorneze,
gioco, solazo e riso,
che siete fior d'amare.
10
Non si poría trovare
né donna, né donzella
tanto bella — che con voi pareggiasse,
chi lo mondo cercasse — quant'el dura.
Dura 'l meo core ardore
15
d'uno foco amoroso,
che per voi, bella, sento.
Tanto mi dá sprendore
vostro viso gioioso,
che m'adasta il talento.
20
S'eo languisco e tormento
tutto in gio' lo mi conto,
aspettando quel ponto — ch'eo disio
di ciò ch'io — credo in voi, gentil criatura.
Maritate e pulzelle
25
di voi so' 'nnamorate,
pur guardandovi mente.
Gigli e rose novelle
vostro viso aportate
sí smirato e lucente.
30
Ed eo similemente
'nnamorato son di vue
assai piú che non fue — Tristan d'Isolda:
meo cor non solda — se non vostr'altura.
III
Se il poeta è rimeritato del suo affetto, sará il piú felice tra gli amanti.
S'eo sono innamorato e duro pene
secondo che m'avene — sia meritato.
Se meritato son per bene amare
o per servir l'amore interamente,
infra gli amanti giá non avrò pare
5
d'aver gio' con disio interamente,
ch'eo sono messo tutto in voler fare
ciò che pertene a signor bon servente;
und'eo spero non essere obliato.
Se m'obliaste giá non fôra degno
10
voi, cui tant'amo e cui servo m'apello;
che serviragio voi el cor ve pegno:
partir non pò da voi, tanto gli è bello.
E tanto li agradisce il vostro regno
che mai da voi partire non dé' ello,
15
non fosse da la morte a voi furato.
Gioia aspetto da voi e voi la chiero;
merzé, or non vi piaccia mia finita,
ch'eo fui, sono e sempre d'esser spero
vostro servente tanto ch'avrò vita.
20
E se tardate piú, saciate eo pèro,
tant'ho nel core affanno, pena e vita:
non pò, se no da voi, esser sanato.
IV
L'innamorata arde d'amore e prega l'amante, se ha intenzione di continuare nella sua fierezza, di volerla piuttosto uccidere.
Tal è la fiamma e 'l foco
lá 'nd'eo incendo e coco, — o dolze meo sire,
che ismarrire — mi fate lo core e la mente.
Ismarrire mi fate la mente e lo core,
sí che tutta per voi mi distruggo e disfaccio,
5
cosí come si sface la rosa e lo fiore
quando la sovragiunge fredura né ghiaccio.
Cosí son presa al laccio
per la stranianza nostra imprumera,
come la fèra — amorosa di tutta la gente.
10
Tant'è 'l foco e la fiamma, che 'l meo core abonda,
che non credo che mai si potesse astutare;
e non è nullo membro, che no mi si confonda,
e non vegio per arte ove possa campare,
com' quel che cade al mare,
15
che non ha sostegno né ritenenza
per la 'ncrescenza — de l'onda, che vede frangente.
Se mi sète si fèro com' parete in vista
e noioso secondo la ria dimostranza,
ancidetimi adesso ch'eo vivo più trista
20
che quand'eo fosse morta; tant'ho grande dottanza!
Se la bona speranza,
ch'eo agio di voi mi rinfrangesse,
s'eo m'ancidesse, — serestene poi penetente.
Io non v'oso guardare né 'n viso né 'n ciera
25
né mostrarvi sembianti, come fare solía,
ché mi faite una vista mortale e crudera,
com'eo fosse di voi nemica giudía.
Ed esser non dovria
perch'io ci colpasse; ché la casione
30
de l'ofensione — non fue che montasse niente.
V
Calda e viva esaltazione dell'onore.
Fermamente intenza
. . . . . . . . . [-enza]
. . . . . . . . . [-enza]
. . . . . . . . . [-era]
. . . . . . . . . .
5
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
10
E tutto quanto 'l bene,
per lei si mantiene:
se non donasse pene,
ben fôra gioia intera.
. . . . . . . . . .
15
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
20
. . . non si trova
se non vera prova.
Diversamente giova
in ciascuna manera.
O signori onorati,
25
poderosi e caunoscenti,
non siate adirati
ad esempro di serpenti:
quanto son piú incantati,
allora stan piú proventi
30
a la lor natura.
Con buona ventura
per la vostr'altura
risprende la rivera.
Cosí come nel mondo
35
non ha corpo senza core;
e come non ha fondo
a contar la gioi' d'amore,
cosí nessuno pondo
par né simil è d'aunore
40
a ben conquistare
e perseverare.
Donque chi comprare
la vòl, conven che pèra.
Ché no si pote avere
45
per aver né per tesauro,
senza bono volere,
chi mettesse tutto l'auro.
Chi ben vuole piacere
serva e no aspetti ristauro
50
se non da l'onore,
per lo cui amore
fatt'è servidore
di ciascun che lo 'mpera.
E l'onor li daráe
55
sí compiuto guiderdone,
che si ricorderáe
quando fie di lui menzione,
quelli che piú nd' aráe
piú fie ricco per rasione
60
di quella riccheza,
onde nasce grandeza
e tal gentileza
ch'è diritta e vera.
SONETTI
I
Al Guinizelli
Disputa sulla nuova maniera di poetare.
Voi, ch'avete mutata la mainera
de li piacenti ditti dell'amore
de la forma, dell'esser, lá dov'era,
per avansare ogn'altro trovatore;
avete fatto come la lumera,
ch'a lo scuro partito dá sprendore,
ma no quine ove luce l'alta spera,
la quale avanza e passa di chiarore.
E voi passat'ogn'om di sottigliansa;
e non si trov'alcun, che ben ispogna,
tant'è iscura vostra parlatura.
Ed è tenuta gran dissimigliansa,
ancor che 'l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scrittura.
II
L'uomo deve resistere fortemente ai colpi di fortuna.
Dev'omo a la fortuna con coragio
istar piú forte quando incontra gli ène,
e quanto piú gli cresce e fa damagio,
alora piú conforta la sua ispene.
E questo agio veduto per usagio:
che 'l bene e 'l male l'uno e l'altro avene;
per me lo dico, che provato l'agio:
chiunqua sé sconforta, no fa bene.
Ben ce dovemo de lo mal dolire,
tempo aspetare e prendere conforto,
sí che lo male no tanto rincresca.
Eo, disiando, pensaimi morire:
ventura m'ha condutto a sí bon porto,
che tute le mie pene in gioi' rifresca.
III
Sebbene ferito, tacerá, perché cosí spera di vincere la durezza della donna sua.
Feruto sono e chi di me è ferente
guardi che non m'alcida al disferare,
ch'i' ho veduto perir molta gente,
no nel ferire, ma nel ferro trare.
Però feruto, voglio istar tacente,
portar lo ferro per poter campare,
ché per sofrenza diviene om vincente,
ch'ogna cosa si vince per durare.
Però chero mercé a voi, mia spera,
dolce mia donna e tutto mi' conforto,
non disferate mia mortal feruta.
Mercé, per Deo, non vi placia ch'i' pèra,
per soferenza tosto aspetto porto:
per lunga pena 'l mi' cor non si muta.
IV
Chi ha la fortuna favorevole non si rallegri troppo.
Qual omo è su la rota per ventura
non si ralegri perché sia inalzato,
ché, quanto piò si mostra chiara e pura,
alor si gira ed hallo disbasato.
E nullo prato ha sí fresca verdura,
che gli suoi fiori non cangino istato;
e questo saccio ch'avien per natura:
piú grave cade chi piú è montato.
No se dev'omo troppo ralegrare
di gran grandeza né tener ispene,
ché gli è gran doglia alegressa fallire.
Anzi si deve molto umiliare,
non far soperchio perch'agia gran bene,
ché ogna monte a valle dé' venire.
V
Non basta cominciare bene: perseverare bisogna.
Omo, ch'è sagio ne lo cominciare,
molto gran bene ne gli può seguire;
acciò che saccia ben perseverare,
chi ben comincia dovria ben fenire.
Non vale incominciar senza durare,
né guadagnare sanza ritenire:
agio veduto om molt'aquistare
in poco tempo tutto impoverire.
Per me lo dico, a cui è dovenuto
ch'agio perduto, per ma' ritenere,
quel ch'aquistai in picolo termíno.
Lasso taupin, non val se son pentuto;
chi vòl durare dé' misura avere
e atenenza di bon senno e fino.
VI
È come il fanciullo, che torna al fuoco ove s'è bruciato.
A me adovene com'a lo zitello,
quando lo foco davanti li pare,
che tanto li risembla chiaro e bello
che stendive la mano per pigliare.
E lo foco lo 'ncende e fallo fello,
ché no è gioco lo foco tocare;
poi ch'è pasata l'ira, alora e quello
disia inver' lo foco ritornare.
Ma eo, che trago l'aigua de lo foco;
e no è null'omo, che 'l potesse fare;
per lacrime, ch'eo getto, tutto coco,
chiare e salse, quant'aqua di mare:
candela, che s'aprende senza foco,
arde e incende e non si pò amortare.
VII
Giuoca intorno alla parola «fiore».
Tutto lo mondo si mantien per fiore:
se fior non fosse, frutto non sería;
per lo fiore si mantene amore,
gioie e alegreze, ch'è gran signoria.
E de la fior son fatto servidore,
sí di bon core che piú non poría;
in fiore ho messo tutto 'l meo valore;
si fiore mi falisse, ben moría.
Eo son fiorito e vado piú fiorendo,
in fiore ho posto tutto il mi' diporto,
per fiore agio la vita certamente.
Com' piú fiorisco, piú in fior m'intendo;
se fior mi falla, ben sería morto;
vostra mercé, madonna, fior aulente.
VIII
Piú la ama e piú ella non cede.
Dentro da la nieve esce lo foco,
e, dimorando ne la sua gialura,
e' vincela lo sole a poco a poco;
divien cristallo l'aigua, tant'è dura.
E quella fiamma si parte da loco
e contra de la sua prima natura;
e voi, madonna, lo tenete a gioco:
com' piú vi prego, piú mi state dura.
Ma questo agio veduto pur istando
l'acerbo pomo in dolce ritornare,
ma giá vostro core non s'inamora.
La dolce cèra vede pur clamando,
li augelli vi convitano d'amare,
amar convene la dolce criatora.
IX
Senza sapere, i signori possono perdere la signoria.
Saver, che sente un piciolo fantino,
esser devria in signor, che son seguiti;
schifa lo loco, ov'ello sta al dichino,
e teme i colpi, i quagli ha giá sentiti.
Chi sí non fa, pò perder so dimíno
e li seguaci trovasi periti;
però muti voler chi no l'ha fino
e guardi a' tempi, che li son transíti.
Ca pentimento non distorna il fatto;
megli' è volontá stringer che languire:
chi contra face a ciò ch'eo dico, sente.
Lo saggio aprende pur senno dal matto;
om, c'ha piú possa, piú dé' ubidire:
catel battuto fa leon temente.
X
Ella ha in sè ogni cosa piacente, ogni valore, ogni conoscenza.
Vostra piacenza — tien piú di piacere
d'altra piacente; però mi piacete.
E la valenza — avete in piú valere
d'altro valor; però tanto valete.
Se caunoscenza — avete in caunoscére,
che caunoscenti cose cognoscete,
non è parenza — ch'al vostro parere
s'aparegiasse; sí gaia parete.
Altèra sovra l'altre inalturate,
lo meo volere vòl ciò che volete;
cosí vostra volenza a sé mi trai.
Chera sovra l'altre rischiarate,
d'uno sprendore sprendente isprendete,
che piú risprende che del sol li rai.
XI
Molti amano non ricompensati, e il poeta è fra questi; ma sarebbe cortesia che il suo amore fosse un giorno veramente compreso.
Ne l'amoroso foco molti stanno
a grande 'nganno — per la vanitate,
per li amorosi detti lor che fanno
e nulla sanno — de la veritate.
E molti son, che non dicon né dánno;
e molti stanno — sanza pietate;
ed io son d'esti molti, ch'a ciò vanno
con grand'afanno — e con diversitate.
E son perseverato in questo ardore
con fermo core — e non son meritato,
ché lung'usato — m'ha fatto natura.
Ma ben sarebe cortesia d'amore
se 'l gran calore, — ond'io sono alumato,
fosse incarnato — sí com'è 'n figura.
XII
Si sente lieto, ché, per ben servire, otterrá l'amore di lei; ma non ne fa mostra.
Per fino amore — lo fiore — del fiore — avragio
perch'a l'usagio — ch'agio — sí convene,
del gran dolzore — sentore — al core — ched agio
in segnoragio — sagio — mi ritiene.
Del meo calore — splendore — de fòre — non tragio:
senn'e vantagio — per legnagio — vène;
rendo aunore — laudore — in core, — e 'n visagio
per tal coragio — non cagio — di spene.
Cosí lo bene — vène — in acrescensa,
presgi' e valensa — in caonoscensa — regna,
disvia sdegna, — spegnasende — orgoglio.
La fede spene — tene — per plagensa,
valensa — pensa — che lausor la tegna.
Chi vive a 'ngegna — pèra — di cordoglio!
XIII
1
Di un anonimo a Bonagiunta
Come farsi riamare dalla sua donna.
Eo so ben ch'om non poría trovar sagio
sí come voi, maestro Bonagiunta.
Però del meo saver levate sagio
e lá ove bisognasse fate giunta.
Per mal parlar perdéla tal ch'io sagio:
par di belleze no la vede om giunta.
D'amor mi meritava. Or dite s'agio
vita tenebrosa 'n esta giunta.
Consiglio chero al vostro gran savere,
che mi dichiate, se si può savere,
com'eo mi degia partir d'esto amare.
Per questo aportator mi fate dire,
per cortesia, com'io le mandi a dire
ta' motti ch'ella torni a me amare.
2
Risposta di Bonagiunta
Il vero amore cresce per il servire e per il tacere, e non per il parlare.
Però che sète paragon di sagio
e d'ogni caonoscenza fina giunta,
a voi mi racomando, non per sagio
né per maestro, ma per Bonagiunta.
E prego Dio che 'l mio frutto agia sagio,
che v'intalenti ne la prima giunta:
lo vostro detto nobile non sagio,
ch'eo non vidi unque cosa sí ben giunta.
E non mi si conven tanto savere
ch'io consigli lo vostro gran savere
di cose, che cotanto sono amare.
Ma dicovi ch'i'agio audito dire
ca fino amante non vince per dire,
ma serve e tace, e quindi cresce amare.
XIV
1
Di un anonimo a Bonagiunta
Domanda se debba o no manifestare alla donna il suo amore.
Poi di tutte bontá ben se' dispári
tu, Bonagiunta, di noia rimondo,
di far piacere a li buon tutti pari,
e sa' lo fare me' ch'om si' a esto mondo.
Di ciausir motti Folchetto tu' pari
non fu, né Pier Vidal, né 'l buon Dismondo.
Però m'inchino a te, sí com' fe' Pari
a Venus, la duchessa di lor mondo.
E prego che 'l tuo presgio, che le ale
miso 'n alt'ha che lá unque volo;
lo 'ntendo da presgiati che ben sallo;
un consiglio mi dá che sia leale
d'una donna ch'amo e gran ben vòlo:
si le 'l dirò or no? ch'anco non sallo.
2
Risposta di Bonagiunta
Vero amore è quello che è noto tanto all'uomo quanto alla donna.
Lo gran presgio di voi sí vola pari,
che fa dispári — ad ogni altro del mondo,
qualunqu'è que', ch'avanti a voi si pari
è pari — come rame a l'oro mondo.
Però chi vòl valere, da voi impari
gli apari — che del mal fan l'om rimondo,
che 'n voi commendan li due, che son pari,
ma piú che pari — Folchetto né Smondo.
E 'l vostro prescio è quello, che le ale
miso in alt'ha e hanno fatto gran volo,
sí che gran parte de li buoni sallo.
E però dico con detto leale
che dichiate con senno e non con volo,
ch'amor non è s'ambur parti non sallo.
XV
Si rifletta prima di operare e di dire.
Chi va cherendo guerra e lassa pace,
ragion è che ne pata penitensa:
chi non sa ben parlar me' fa se tace,
non dica cos'altrui sia spiagensa.
Chi adasta lo vespaio follia face,
e chi riprende alcun sanza fallensa,
e' fra cent'anni si trova verace,
chi ha invidia di sé, d'altrui mal pensa.
Se vo' saveste quel ch'i' so di voi,
voi n'avereste gran doglienz'al core
e non direste villania d'altrui.
Però ne priego ciascuna di voi,
sapete 'l mal? tenetelo nel core;
se non volete udir, non dite altrui.
XVI
Vuol salire in alto sulla sedia del comando.
Movo di basso e vogli'alto montare,
come l'augel, che va in alto volando;
stendo le braccia, sí voglio alto andare,
come la rota in su mi va portando.
Nell'alta sedia mi voglio posare
a tutta gente signoria menando;
nulla persona mel pò contradiare,
ché la ventura mi ven seguitando.
In cima della rota . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
e a me data la sua signoria.
Ben aggia chi m'ha messo in tale stato,
ch'unque miglior non lo pori' avere,
ch'aggio tutto lo mondo in balía.
XVII
Loda le bellezze di lei.
Gli vostri occhi ch'e' m'hanno divisi
li spiriti, che son dentro nel core!
E escon fuor con sí grande tremore,
ch'i' ho temenza che non sieno ancisi.
E poco stando, un sospiro sí mi si
parte, ch'ahi! mess'ha l'anima in errore,
e ben sembra ne la virtú d'amore
guardando gli atti suoi cosí assisi.
Ella è saggia e di tanta beltate,
che qual la vede convene che allora
mova sospiri di pianto d'amore.
Però lo dico chi ha gentil core
che tegna mente sí com'ella onora
ciascuna gente, c'ha in sé nobiltate.
XVIII
Per quanto abbia pregato la Madonna, non ha potuto levar gli spiriti malvagi da alcuni sonetti.
Con sicurtá dirò, po' ch'i' son vosso,
ciò ch'adivene di vossi dettati,
ch'i' nd'ho sonetti in quantitá trovati,
che di malvagi spiriti hanno adosso.
Per la pietá de' quali i' mi son mosso
e da la Nossa Donna gli ho menati
e con divozion raccomandati
e raccomando sempre quanto posso.
Ma non son certo perché s'adovegna
che per mei preghi partiti non sono;
se peccato, che sia in lor, non nòce,
o perché mie preghiera non sie degna;
però vi prego, se nde fate alcono,
che li facciate il segno della croce.
SONETTO DI DUBBIA AUTENTICITÀ
Spera di ritornar lieto.
Nel tempo averso om dé' prender conforto
e con francheza inardir lo su' core,
che vilitate no gli dia isconforto,
perché perisca per troppo temore.
Neiente val chi sé giudica morto,
se non contrasta, quanto pò, 'l martore;
ché 'l tempo muta ispessamente porto
e torna in alegreza lo dolore.
Cosí spero in alegreza tornare
e per sofrenza vincer lo tormento,
ch'aggio patuto e pato per sofrire.
L'aulente fior, che solea sormontare
ogn'altra di fin pregio e valimento,
su' sfogliamento omai dé' renverdire.
II TENZONI
I
Tenzone fra Gonnella Antelminelli, Bonagiunta e Bonodico
I
Gonnella a Bonagiunta
Perché il ferro si lima col ferro?
Una rason, qual eo non sacio, chero:
ond'è che ferro per ferro si lima?
è natura di vena o di tempèro?
o molleza di quel che si dicima?
Cresce e dicresce, corrompe e sta 'ntero,
per sua natura, sí com' fue di prima?
Parlára più latin se non ch'eo spero
che tutto sa chi è dottor di rima.
Sentenza aspetto e di ciò mi confido:
per essa provarò per argomento
che senno e natural rasion non falla.
D'ogn'arte de l'alchima mi disfido
e d'om che muta parlar per acento;
non trae per senno al foco la farfalla.
II
Risposta di Bonagiunta a Gonnella
L'un ferro vince l'altro per forza dell'acciaio.
De la rason, che non savete vero,
di rasion è che 'l mio parer dé' stima.
L'un ferro vince l'altro per aciero,
ciò è lo flor del ferro, che si sprima
per foco, finch'è blanco ch'era nero;
e mettesi dal taglio e da la cima,
e cresce in de lo stato primero
sí ch'altro ferro da lui non strima.
Sentenza dia l'aucel, che fece il nido
quando la gran fredura fi col vento;
ca per lo caldo ciascun ride e balla.
Io sacio che di giorno in giorno grido
lo contrario del nostro piacimento:
se no m'amollo, tal voler m'avalla.
III
Risposta di Bonodico a Gonnella
Il ferro corrode il ferro per artifizio.
Non so rasion, ma dico per pensero:
però lo ferro per ferro si strima
che sua vertute per artificero
per piú dureza di quel ch'è dirima.
Tolle, perde, muta e sta primero,
la sua manera per atto si sprima.
Latino, come sento, respondèro:
ben sa chi omne, ch'è accidente, stima.
In cui è la sentenza mi raffido
che sia prova d'ogna provamento:
lo ver sempre verace non si malla.
Per arte molte campane saucido,
d'altrui no m'asicuro né spavento:
per allumar lo parpaglion si calla.
IV
Risposta di Gonnella a Bonagiunta
Perché vera arte non si può imparare?
Pensávati non fare indivinero,
sí com' tu fáme, che vòi che si sprima
per aventura e non per maestero
lo tuo risposo e t'ange ch'io 'l riprima.
Poich'eo sperava non esser fallèro
tal senno, che si dice che sublima:
chi bene intende pò dar di legero
risposa, che per lui si diprima.
Ingegno aiuta l'arte, e ciò dicido,
unde natura apprende affinamento:
folle fôra chi cher rasone e salla!
Ma sai che chero e sovente mi strido:
ver'arte und'è che non ha prendimento?
Acel di monte pelle equo di stalla.
V
Risposta di Bonagiunta a Gonnella
L'arte corregge la natura; ma, mentre vuol sollevarla, non cerchi d'opprimerla.
Naturalmente falla lo pensero,
quando contra rason lo corpo opprima,
como fa l'arte, quand'è di mistero;
vòle inantir natura, si part'ima.
Perché natura dá ciò ch'è primero
e poi l'arte lo segue e lo dirima;
e sa piú d'arte chi è piú 'ngegnero
e meno chi piú sente de l'alchima.
Unde l'alchima verace non crido,
perch'è formata di transmutamento:
di sí falsi color tra' le metalla!
Ma se ver'arte no s'aprende, fido
che sia peccato contra, parimento;
ché non è frutto se non è di talla.
II
Tenzone fra Bartolomeo e Bonodico
I
Bartolomeo a Bonodico
Se donna gentile debba amare amante baldo e ardito o incerto e dubbioso.
Vostro saver provato m'è mistieri,
poi mi so' in tutta dubitanza.
Di dui amanti molto piacentieri,
ch'aman di fino core un'alta amanza,
l'un ha baldeza e mostra volentieri
ciò che gli avèn per lei con arditanza;
l'altr'è dottoso e biasma li parlieri,
ch'a la sua donna contan lor pesanza.
A cui degia donar so intendimento
la gentil donna, che di ciò è sagia?
Ch'io no nd'ho caunoscenza in veritate.
Però vi prego claro intendimento
per vostra bontá tostamente n'agia,
scrivendomi di ciò la veritate.
II
Bonodico a Bartolomeo
Donna valente deve amare colui che a lei piaccia.
Giá non sète di senno sí legieri
che v'abisogni il meo per far certanza;
ma piaquevo per mettervi 'n penseri
di ciò che dite d'altrui innamoranza.
S'eo vi rispondo co' nd' agio sentieri,
rason, ch'è 'n voi, damende baldanza,
poich'amor nasce, regna per piaceri
e per altra vertú non fa mutanza.
Amar non pò contra 'l suo piacimento
donna valente, col fin amor sagia:
voi ne savete 'l ver, che mi negate.
Altro non vo' dichiaro, ch'eo non sento:
non richerete in me piú ch'eo non n'agia;
s'eo vi discrivo fallo, voi mendate.
III GONNELLA DEGLI ANTELMINELLI
STANZA
Come deve contenersi il franco amatore?
Certo, non si convene
presiar donna, s'amore
no la vince o merzede.
Donqua, com' si mantene
lo leale amadore,
che vòl servire in fede?
Ché per laudar menzogna non dé' dire,
e ben fôra fallire
donna laudare, cui no stringe amanza
o per bon ciasimento o per pietanza.
IV FREDI
CANZONE
È caduto dall'altezza primiera, ma spera di risollevarsi.
Dogliosamente con gran malenanza
conven ch'io canti e mostri mia graveza,
ché per servire sono in disperanza,
la mia fede m'ha tolta l'alegreza.
Però di canto non posso partire
5
poich'a la morte mi vado apressando,
sí come 'l cecen, che more cantando,
la mia vita si parte e vo' morire.
Partomi di sollazo e d'ogne gioco,
e ciascun altro faccia a mia parvenza,
10
ché dentro l'aigua m'ha brusciato il foco,
mia sicurtate m'ha dato spavenza.
Fui miso in gioco e frastenuto in pianto,
sí falsamente mi sguardao so sguardo,
sí come a lo leone lo lupardo,
15
ch'a tradimento li levao l'amanto.
Per tradimento sono dismaruto,
di qual null'omo potesi guardare;
e son sí preso e sí forte feruto,
ch'agio dottanza di poter campare.
20
Poiché le piaque a quella, c'ha in podere
la rota di Fortuna permutare,
però le piaccia di me ralegrare:
cui ha saglito, facialo cadere.
Facia 'n tal guisa che naturalmente
25
vadan le doglie, che ho non pe' rasone,
ché non è gioco d'essere servente
a chi è meno di sua condizione.
E rason porta di punir li mali,
però si guardi chi mi tene a dura,
30
ché la pantera ha in sé ben tal natura,
ch'a la sua lena tragon li animali.
S'eo trago a voi non voi' piú star tardando,
ch'io non saccia in che guisa mi trovo:
ardo, consumo e struggo, pur pensando
35
com' son caduto e unde e com' mi trovo.
Però ciascun faccia di sé mutanza
e agia in sé fermeza e novo core:
lo fenix arde e rinova megliore,
non dotti l'om penar per meglioranza.
40
Però la sesta faccia movimento,
ancor che paia altrui disordinato,
e faccia mostra per avedimento
che ciascun guardi chi siede in mio stato.
Ché ciascun d'alto potesi bassare,
45
se regimento non ha chi 'l difenda:
lo leofante null'omo riprenda,
se quando cade non si può levare.
V DOTTO REALI
CANZONE
Privazioni e disagi, che sostiene per causa d'amore.
Di ciò che 'l meo cor sente,
inver, neente — taccio:
saccio; — però fo laccio
per prender amore.
Vero è, non disdico:
5
s'eo dico — vento — spento,
contra talento — sento
sí alto valore.
Provo — novo — trovare:
parlare — d'amare — mi face
10
amore, ch'è verace.
Aggio — saggio — veduto
compiuto — che muto — non tace,
né per natur' ha pace.
Però di dir non lasso,
15
né passo — ditto — dritto:
in ch'io son fitto, — gitto
mio greve pensero.
Ca quei che piú par gioia
m'è en noia: poco — foco
20
in loco — pare gioco,
crescendo par fèro.
Quale — male, — s'uzansa
l'avansa, — bassansa — può avere,
se non per astenere?
25
Tempo — ben pò — fuggire
soffrire... — , d'audire
di ciascun c'ha savere.
Ché ciascuna vertude
conclude — fede; — crede
30
omo che vede; — chiede
ch'è ciò che vòl; tene
non ch'è fé per credensa,
sentensa — spera — vera,
ch'è luce intera — clera,
35
per cui vita vene.
Morte — forte — disdegna:
spegna — non segna — fallire,
ma dá fallo fuggire.
Arte — parte — per pianto,
40
di tanto — o quanto — ben dire
si può sensa finire.
Oh quante pene passa
chi lassa — voglia! — Doglia
da sé dispoglia, — scoglia,
45
como fa serpente.
Seguirla no è vita
nodrita, — ch'ira — tira
lo core, gira. — Mira:
male chi non sente!
50
Molte — volte si sferra
chi serra — ... — chi caccia
visii, vertú allaccia.
Fama — chiama — chi pensa;
non tensa, — offensa — non faccia
55
omo tal, che sé isfaccia.
Però di dir non tardi,
ma guardi — danno, — c'hanno
quei che non sanno: — stanno
in vita penosa.
60
In ciò saver si loda:
chi mod'ha, — cura — pura
con mizura: — dura
in cui senno posa.
Ésca — pesca — chi prende:
65
sé vende — chi rende — penseri
assai piú leggeri.
SONETTI
I
A Meo Abbracciavacca
Domanda schiarimenti perché egli abbia cuore scontento e volontá imperfetta.
A te, Meo Abracciavacca, Dotto Reali, menimo frate dell'ordine dei cavalieri di beata Maria, manda salute.
Pensando che lo cor dell'omo non si chiami contento in de lo stato là' u' si trova; e sí come sono divizi li stati e le condissioni dell'omo, cosí sono divize le volontadi. E per le volontade, che sono diverse in del corpo de l'omo, perfessione non si trova in intelletto, ma parte de le cose si puon sentire per esperiensa e per ingegno; e ciò giudica ragione umana. E io, conoscendo in me simile core e volontade per defettiva parte del mio sentire, mi movo per fare me chiaro del mio difetto. E, accioché scuritate riceva lume da quella parte che dar lo pò, mando a te questo sonetto per tutte quelle cose che di sopra son ditte. E risponsione mi manda di ciò che senti. E mostralo a frate Gaddo e a Finfo.
Similimente canoscensa move
lo cor dell'om, che spesso si disforma,
sí come l'aire face quando plove,
che per contrario vento si riforma.
E venta puro e mostra cose nòve
in occhio d'om per parer non per forma.
A simil, parlo per intender prove
del meo defetto da ciò che piú forma.
E ciò è mezzo di principio fine,
e di fine principio naturale,
ch'assai paleze mostra, in cui figura
qual d'esti dui piú sente, e chi di fine
intenda, non che porti naturale,
per sé manda per compier la figura.
II
Allo stesso
Sulla questione: Se l'anima viene compíta da Dio, com'è che può fallire?
A piò voler mostrar che porti vero
non magistero — di ciò sta nascoso,
e di ciò spesso me medesmo chero
e sí mi fero — ch'eo vivo doglioso.
Qual per natura pò sentire intero
ciò ch'è mistero, — di che non dire oso?
Per me comune piò che 'l lume cero
non mi dispero — e faccio risposo.
A intelletto volontá pertene,
perché convene — che l'alm'aggia vita
e sia finita, — ben discenda pura.
Ché suo vazel tal natura — mantene,
qual li adivene — da quella ch'è unita,
ancor ch'aita — sia d'altra fattura.
NOTA
Si ripubblicano qui quei Rimatori lucchesi del secolo XIII, che eran comparsi or non è molto nella Biblioteca storica della letteratura italiana (n. VII, Bergamo, 1905) diretta da F. Novati[3]. Il patrimonio poetico di Gonnella Antelminelli[4], Bonodico[5], Bartolomeo, Fredi e Dotto Reali riman sempre lo stesso; qualche leggera variazione si ha invece per quello di Bonagiunta Orbicciani. Il son. XI «In prima or m'è noveltá bona giunta», che a noi primamente era sembrato potersi attribuire all'Orbicciani, per quanto adespoto nell'unico cd. antico che lo conteneva (Pal. 418[6] ), bisognerá toglierglielo addirittura. Non tutto è piano e chiaro; ma il «ser Bonagiunta» del v. 7 è un vero e proprio vocativo. Sí che non può essere autore del sonetto colui, al quale esso viene indirizzato[7]. Cosí, per le buone ragioni messe innanzi specialmente dal Rossi[8], va ritenuto spurio il son. «Chi se medesmo inganna per neghienza», che era stato collocato fra le rime di «dubbia autenticitá»[9].
In compenso, per merito di un noto valente studioso, acquista sicuramente la ball. «Fermamente intenza» (n. V )[10]; e noi ora gli assegnamo senz'altro la canz. «Ben mi credea in tutto esser d'Amore» (n. XI ). Un tempo, è vero, ci era sembrata l'opera di un falsificatore, sebbene abilissimo, anche perché conservataci solo dalla Raccolta giuntina del 1527 ( IX, 108)[11]. Ma recenti studi han dimostrato la estrema attendibilitá di quella silloge[12]. Che tale canzone poi derivi da un ms., che potrebbe anche essere il Pal. 418, ha reso evidente, a parer nostro, F. Pellegrini[13]. Qui si aggiunge a rincalzo della derivazione manoscritta che «addivenir» del v. 36 va manifestamente corretto in «a divenir». I Giunti si trovaron dinanzi ad uno di quei raddoppiamenti cosí frequenti nelle antiche scritture fiorentine «a ddivenir», e non lo seppero intendere.
Quanto al tempo, con gli spunti di «dolce stil nuovo» che lascia intravedere[14], deve con molta verisimiglianza riportarsi agli ultimi anni del rimatore[15].
Le osservazioni, che la prima edizione ispirò a una critica acuta e sagace, han giovato non poco alla presente ristampa. Alla quale apportammo anche di nostro tutti quei miglioramenti, che consigliavano i progressi ulteriori degli studi e l'attenta riesamina del testo[16]. Tenendo ben presente il pubblico, al quale ora ci rivolgevamo, fu nostra massima cura di render sempre chiaro, per quanto era possibile, il pensiero di questi rimatori e di dar la esatta corrispondenza moderna di vocaboli ed espressioni antiche. La disposizione del testo è sempre quella; soltanto fu introdotta una leggera trasposizione per le tenzoni, ché parve opportuno, a meglio e piú prontamente intenderle, ravvicinar fra loro i vari sonetti di «proposta» e di «risposta». Naturalmente anche i criteri, con cui fu messo insieme, son rimasti gli stessi: tuttavia la voce dei cdd. diversi da quello, su cui il componimento veniva esemplato, fu piú spesso tenuta presente ed ascoltata.
Di regola, però, quando la lezione del cd. esemplato vada bene per il senso, si adotta, anche se l'accordo degli altri cdd. dov'è alquanto diversa possa invitare a sostituirla. Evidentemente alcune volte, nei cdd. meno antichi, la parola è ammodernata: c. II, 14 «gioia», 18 «dee»; ball. III, 9 «ond'» etc.; talvolta non c'è nessuna ragione perché Bonagiunta, nella condizione speciale in cui si trovava[17], non abbia scritto cosí come il cd. porta: c. I, 6 «cusí», III, 14 «du'»; ball. II, 18 «sprendore», 24 «criatura», 30 «smirato», III, 19 «sono», ecc. Certo, non si esclude che in qualche parte la vera lezione possa nascondersi negli altri cdd., se anche sieno in lieve disaccordo: cfr., ad es., c. III, 13 «sentire, sentore», ecc.
Anche dal punto di vista della metrica, questa edizione si trova avvantaggiata[18]. Dopo lo studio del Parodi, è indubitato il trionfo della rima siciliana di fronte alla cosí detta rima impropria: l'accolgo, quindi, nei casi, in cui egli ebbe giá ad indicarla per i nostri rimatori[19]. Solo nei due son. VIII, 11-14 «inamora: criatora» e XVIII, 10-13 «sono: alcono», la forma con «o» mi sembra preferibile (cd. «criatura» e «alcuno») perché l'«u» in «o» ha l'appoggio di un altro testo lucchese[20]: «alcono» è inoltre forma guittonesca[21] e, per conseguenza, possibilissima in Bonagiunta. Per la stessa ragione, in c. XI «misora» 31 e «vertode» 33[22]. Se non che, fino a che ulteriori studi non ci avran meglio chiariti sulle abitudini metriche degli antichi rimatori, sará prudente ed opportuno non spingersi piú oltre. Ché si corre il rischio di giudicare della metrica del sec. XIII — per necessitá di cose imperfetta — secondo criteri affatto moderni[23].
In altra parte di questo volume sono esposte le norme relative alla grafia adottata[24]. Con tutto ciò qualche incongruenza resta. Minuzie. Senza dubbio! Ma il far diversamente avrebbe richiesto una serie di piccole ricerche, a cui non era qui il caso di sottoporsi. Quello che importa è che niente è stato toccato, che possa in qualche maniera aver relazione col dialetto di questi rimatori o trovi una qualche rispondenza nella realtà fonica toscana.
Poche aggiunte, e d'importanza minima, debbo fare alla bibliografia.
Codici.
a ) Vaticano 4823. Per quanto ci riguarda, non è che tarda copia (sec. XVI ) del Vat. 3793[25]. Contiene: di Bonagiunta c. IV (129 v ), V (129 r ), VI (128 r ), VIII (127 v ), IX (284 r ), X (124 v ); disc. I (125 v ), II (126 v ); son. I (401 r ), XI (342 r ), XII (342 r ) XIII, 2 (400 v ), XIV, 2 (401 r ) — di Fredi c. I (106 v ) — di Dotto Reali son. I (6 r )[26].
b ) Chigiano L. IV, 131: di vario tempo e di varie mani[27]. La maggior parte dei componimenti che contiene deriva dal Pal. 418[28]. Tali sono: di Bonagiunta c. IV (p. 85), V (p. 120), VI (p. 90), IX (p. 102); disc. I (p. 115); ball. I (p. 81), III (p. 15), IV (p. 35). I due son. I (p. 839) e IV (p. 849)[29] invece si trovano in quella sezione, sulla cui provenienza si discute[30]. Essi certo non derivano dalla raccolta di rime antiche pubblicate dal Corbinelli in fine de «La bella mano»; la collazione da me istituita permette di affermare la strettissima relazione di questo testo con quello del Mediceo-Laurenziano pl. XC inf. 37[31]. Sí che l'ignoranza di questo cd. nessun danno produsse alla primitiva costituzione della lezione dei due sonetti.
Stampe.
α) V. Nannucci, Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana, Firenze, 1843, I, 187 sgg. Contiene di Bonagiunta c. VI e XI; ball. II; son. III, IV, VIII[32].
β) H. Knobloch, Die Streitgedichte im Provenzalischen und Altfranzösischen, Breslau, 1886. Contiene il son. di Bartolomeo «Vostro saver provato m'è mistieri» (p. 68).
γ) B. Wiese, Altitalienisches Elementarbuch, Heidelberg, 1904. Contiene di Bonagiunta c. X (p. 208).
Seguono alcune osservazioni intorno ai singoli componimenti.
BONAGIUNTA CANZONI
I, 10-2. Il paragone trae la sua origine dalla credenza che trovasi riferita, ad es., in un antico poemetto francese, nel quale appunto, a proposito della «balena» « Qui de biens est farsie et plainne » si dice fra l'altro: « Quant elle est prise et atrappée — Mieus en vaut toute la contrée »: cfr. G. Raynaud, Mélanges de philologie romane, Paris, 1913, p. 137. Altrimenti spiega quest'allusione G. Bertoni, in Zeitsch., XXXVI, 569-71.
I, 55-60. «Ma per ragione di buona speranza, come l'oliva non cangia la verdura, cosí io non cangio il mio buon volere e il cor gioioso, piacente e amoroso, per quanto mi sia cangiato l'aspetto».
II, 24. «Come l'oscuritá è diversa dallo splendore».
II, 33. «Non partire» dipende da «faraggio» del v. p. Tutto il verso mi pare poi debba intendersi: «non partirò giammai»; «tutto tempo» è lo stesso che «giammai», da cui è rinforzato.
III. Per quanto riguarda lo schema metrico, in relazione a quello proposto, è probabile che nella seconda «volta» della prima strofa (specialmente vv. 14-5) si debba trattar d'assonanza; ma la seconda «volta» della seconda strofa (vv. 32-3) è certo errata: cfr. in contrario Wiese, Archiv cit., CXVII, 217. Il Wiese, invece, ha ragione quando afferma che gli ultimi otto versi (73-80) appartengono ad una nuova strofa, non al commiato. La canzone è dunque incompiuta.
III, 36. Il sogg. di «vien» è «sofferire», che si rileva da quanto precede.
III, 77. La corr. «ria» (cd. «seria») è del Wiese, Archiv cit., CXVII, 217.
IV, 12-3. «acciocché, per la mia fermezza, fossi sicuro di non render vana la mia fatica».
IV, 20. «Io non credo — ciò che sarebbe offensivo — ».
V, 36-8. Per la correz., cfr. Rossi in Gior. st. d. l. it., XLIX, 382. Sulla lezione di questi e dei sgg. vv. riportata nella Poetica del Trissino da un cd., che forse era l'archetipo del Pal. 418, cfr. Massèra, Una ballata cit., pp. 2-3 dell'estr. Quanto al significato, «sua» del v. 36 si riferisce a «core» del v. 33.
VI. Riguardo allo schema metrico, ci pare di dover sostenere ancora quanto dicemmo ne I Rimatori lucchesi cit., pp. 111-2. Le proposte del Wiese, Archiv cit., CXVII, 218, ci allontanano troppo dai cdd. e non sembrano interamente accettabili.
VI, 12. Per aver la rimalmezzo, come nei vv. corrispondenti delle altre strofe, si ha da correggere il «tanto» dei cdd. in «tutto»?
VI, 19-20. «che amore non è diverso da vera perfezione».
VI, 53. «E quel che io dico mi sembra un dir nulla». Manca la rimalmezzo: la proposta del Wiese, Archiv cit., CXVII, 218 («mando») urta contro la lettura dei mss.
VII, 1-6. «Sperando da lungo tempo di trarre a mio vantaggio la contesa impegnata con la mia donna, la quale mi dá tal coraggio ch'io credo sovrastare ogni altro uomo, conoscenza, che proviene da obbedienza, mi consiglia a ben servire».
VII, 10. La rimalmezzo è casuale, mancando nel verso corrispondente dell'altra strofa.
VII, 14-5. «Non è dubbio che conoscenza nasce da senno fino; e ciò è provato».
VII, 23. «che l'una cosa (il «ben fare» e il «comportar sofferenza» = esser sofferenti) possa stare insieme con l'altra («usar villania» ed «esser folli»).
VII, 29. «contrar'.». La lieve correzione (cd. «contrario») è voluta dalla metrica. Per i molti esempi nei rimatori antichi di simili troncamenti, fra i quali è citato pur questo, cfr. Nannucci, Teoria dei nomi della lingua italiana, Firenze, 1858, p. 632.
VIII. Il dubbio sulla sua autenticitá, espresso dallo Zaccagnini in Rass. crit. cit., XI, 37-8, non ha fondamento.
VIII, 24-6. «e (l'amore) raccomanda continuamente di seguire la via amorosa, perché volle stare insieme con loro (con gli uccelli)».
IX, 2-3. «sono da considerare da ciascuno amatore».
IX, 14. Sottintendi «che».
X, 13. Meglio col cd. «pensos'a nott'e dia»?
X, 21. «m'ha conquiso». Per la correzione (cd. «mi comquise») cfr. Wiese, Archiv cit., CXVII, 219.
X, 29. Il cd. legge «osmantenere». Il Wiese, Altitalienisches Elementarbuch cit., p. 209 propone: «A fin [di pietanza] ottenere».
X, 42 sgg. Il Parodi, Rima siciliana cit., p. 124 n., si domanda — cosa che a me non sembra necessaria — se le finali in «-ente» di questa strofa non sieno da trasformare in «-enti», trovandosi in «gente» l'«-i» finale per «-e» del siciliano.
X, 43. «ch'è regina». La correzione era prima dubitativamente proposta in nota ne I Rimatori lucchesi cit., p. 115. Diversamente pensa il Parodi, Rima siciliana cit., p. 128 n.
XI. Riunisco qui le varianti. 4. Hor, 5. hauia, 27. Anchor, 30. alchun, 31. misura, 32. huom, 33. uertude, 34. huom, 36. addiuenir, 37. Ciaschuna, 53. humiliare, 56. Ch'allaccio, 61. ché detto, 62. ché á dire.
XI, 1. Nella stampa, è lasciato un po' di spazio per la iniziale grande, che manca: c'è invece una b minuscola.
XI, 52-4. «Prima di servirla, mi trovo che l'avvenente, per darmi gioia, umilia verso di me guiderdone (= ricompensa) si soave».
XI, 56. La correzione è del Pellegrini: cfr. Rass. bibliogr. cit., XXI, p. 19.
DISCORDI
I, 1-12. A considerare la prima parte della strofa di ottonari, anzi che di settenari, come giá mi parve, mi ha indotto e il piú attento esame della lezione dei cdd. (cfr. specialmente i vv. 1-2) e il confronto con la seconda parte.
I, 62. Secondo il v. 60, sottintendi «è», che si riferisce a «spera» e «cèra».
II. Relativamente alla ricostruzione metrica, ora mi pare che l' Appel abbia ragione (cfr. in contrario I Rimatori lucchesi cit., p. LXVI, n. 2) per quanto riguarda i vv. 43-8, che egli collega alla strofa sg. D'altra parte, non so rinunziare a vedere fra le varie strofe quel cotal legame, su cui cfr. Biadene, Il collegamento delle stanze mediante la rima nella canzone italiana dei secoli XIII e XIV, Firenze, 1885, p. 13: cfr. V. 15 «Davante», v. 22 «falla», v. 34 «languisco». Certo, nella quarta strofa, che comincia appunto al v. 43, questo legame manca. Io ho l'impressione che ciò provenga da un trascorso del rimatore. Manca ancora, è vero, nell'ultima strofa: v. 61 sgg. Se non che, essa ne sará priva perché considerata stante a sè, come una specie di commiato.
II, 42. «che». È un «che» ripetuto, come si ritrova in antico italiano e anche in provenzale: Nannucci, Analisi critica dei verbi italiani, Firenze, 1843, p. 91, n. 6.
II, 46-8. «(e intanto) sto nascosto piú di quello che non stesse Adamo, quand'ebbe mangiato il frutto proibito».
II, 53-3. Sottintendi «a».
BALLATE
I, 17. Sia permesso riferir qui le due strofe, che nel cd. Pal. 418 seguono a questo verso e che ritenemmo interpolate (cfr. anche Wiese, Archiv cit., CXVII, 220): cfr. I Rimatori lucchesi cit., pp. 117-8.
a ) Radice è di viltade b ) Nessuno è più ingannato
c'a tucti ben dispiace ke de la sua persona:
lodare on sua bontade; ké tal si tien biasmato
e prodeza ki face, ke Dio li dá corona,
quei ke la fa ne cade, e tal si tien laudato
e quei che la tace ke lo contraro dona
ne cresce fermamente. a llui similemente.
I, 51. Sottintendi «che».
II, 29. «vostro viso» equivale evidentemente a «in vostro viso»; l'accordo dei cdd. non mi autorizza a proporre: «'n vostro viso».
II, 32-3. «vue» è correzione del Wiese, Archiv cit., CXVII, 220; il Parodi, Rima siciliana cit., p. 124 n. proporrebbe: «vui»: «fui». Per la correzione, piú propriamente, del v. 33, cfr. Rossi in Gior. st. d. l. it., XLIX, 383.
III, 10-1, «degno voi» = degno di voi.
III, 22. «vita» deve certo esser sostituita da qualche altra parola (cfr. anche quanto possono apprendere i cdd.); ma non riesco a trovarla. Forse un lucch. «lita» = «lite?».
IV. Il tipo composito della strofa è da mettere in relazione con quelli, di cui parla il Casini, Studi di poesia antica, Cittá di Castello, 1914, p. 40 sgg.
IV, 5. La correzione «tucto» dei cdd. in «tutta» è indispensabile.
V. Seguo la ricostruzione del Massèra (cfr. sopra); me ne allontano solo, oltre che in qualche lieve ritocco d'interpunzione, al v. 64, dove, col cd., ammetto lo iato ( Massèra: «ke è diricta e vera)».
V, 34. «la rivera»: è il Serchio, sotto il qual nome, per metonimia, è da intendere Lucca stessa.
SONETTI
I. Il son. di risposta del Guinizelli «Omo ch'è saggio non corre leggero», essendo ben noto, è superfluo riprodurlo qui: cfr. Casini, Rime dei poeti bolognesi del secolo XIII, Bologna, 1881, p. 40.
I, 2. «piacenti»: l'accordo della maggior parte dei cdd. mi ha indotto a preferire questa lezione a «amorozi».
II, 4. Cd. «ispeme».
IV, 10. «ispene». La maggior parte dei cdd., che hanno «spene», autorizza la correzione.
V, 10-13. Sarebbe pur possibile una rima siciliana in «ire»: cfr. Parodi, Rima siciliana cit., p. 124 n. e 131.
VII, 4. Cd. «gioie ed».
VIII, 12. «(Il vostro cuore) vede il mio volto che ciò non ostante implora».
IX, 5. «Chi sí non fa». Cioè: chi non cerca di aver «sapere».
IX, 14. «Il cagnolino battuto fa temere il leone».
XI, 1-4. «Molti, come appare dai versi amorosi che scrivono senza saper niente della verità, stanno nel fuoco d'amore, ma sono innamorati ingenui e che si fondan su nulla».
XII, 7-8. «In cuore le rendo onore e lode; e, tale essendo il mio cuore, non cado in dimostrazione esteriore di speranza (= nascondo sul volto la speranza)».
XII, 11. «(il pregio e il valore) rimuovono gli sdegni, e (per essi pregio e valore) si spenge l'orgoglio».
XII, 12-4. «La mia fede spera per il suo servire, il mio senno pensa che la lode sia il fondamento della speranza. Chi vive con inganno perisca di cordoglio!».
XIII, 1. Il son. è nel cd. Vat. 3793 — unico che ce lo tramandi — e precede immediatamente (n. 781) il son. di B. — Raccolgo qui le varianti: 1. bene... omo nom... trouare 3. sauere 4. bisongnasse 5. male parlare... tale 6. pari... omo 7. amore 9. comsilglio 11. partire 12. aportatore.
XIV, 1. Il son. è nel cd. Vat. 3793, che pure unico ce lo tramanda, e precede ancora immediatamente (n. 783) la risposta di B.: vedilo pure in Monaci, Crestomazia italiana, p. 308. — Ecco le varianti: 1. bem 2. rimonddo 3. fare piaciere... buoni 4. omo... monddo 5. ciausire 6. nom... pieto uidale... buono dismonddo 7. come 8. loro monddo 10. alti (per la corr. cfr. il passo corrispondente in XIV, 2, v. 10) 11. bene 12. vm comsilglio 12. bene.
XIV, 2, 6. «fan». La correzione (cd. «fa») è del Wiese, Archiv cit., CXVII, 221.
XIV, 2, 7-8. «I quali lodano in voi i due che son fra loro eguali, anzi egualissimi, Folchetto e Dismondo».
XVI, 14. Se lo iato sembri troppo ardito, si corregga: «in mia balia», come propone il Wiese, Archiv cit., CXVII, 221.
XVIII, 1-4. «Con tutta sicurezza, poiché son vostro, dirò ciò che avviene de' vostri versi, fra i quali ho trovato un certo numero di sonetti, che hanno addosso spiriti malvagi».
XVIII, 12. «o perché» (cd. «perké»): la correzione mi par sicura, anche per ragioni metriche.
I di d. a., 5 «val»: cd. «vale».
TENZONE FRA GONNELLA ANTELMINELLI, BONAGIUNTA E BONODICO
I, 3-4. «L'un ferro lima l'altro, perché l'uno dei due è piú forte, perché cosí proviene dalla miniera o per la tempera ricevuta? Oppure l'uno dei due si lascia limare a causa della sua maggiore dolcezza?».
I, 5. Il soggetto è il «ferro».
I, 9. «Aspetto la soluzione e confido di ottenerla».
I, 14. Per riaffermar che gli alchimisti e coloro che mutano ad ogni parola il loro discorso sono stolti, conchiude: «la farfalla trae al lume stoltamente (non per senno)».
II, 1. «Che» = di cui.
II, 3-8. «L'un ferro vince l'altro per forza dell'acciaio, che è come il fiore del ferro, il quale vien fuori per opera del fuoco, quando il ferro è divenuto bianco da nero che era, e l'acciaio si mette dalla parte del taglio e sulla punta, e il ferro acquista piú forza nel suo stato primiero, sí che altro ferro non porta via nulla da lui».
II, 9-11. Rispondono alla «natural rasion» del v. 11 del s. 1 del Gonnella.
II, 12-4. Rispondono al «senno» del v. 11 del son. 1 del Gonnella: Bonagiunta non è stato lieto del complimento, che il Gonnella gli aveva rivolto.
III, 2-4. «Il ferro si corrode per mezzo del ferro, perché la sua virtú, per artifizio, si muta in maggior durezza di quel che era».
III, 14. «per allumar» = quando si accende il lume.
IV, 1. «Pensavo che tu non facessi l'indovino».
IV, 8. «che per lui si diprima» = decisiva.
IV, 14. «Asinello di monte (animale allo stato di natura) supera cavallo di stalla (animale, su cui ha agito l'arte)». Parrebbe un proverbio.
V, 4 «vuole avanzare la natura e invece è a grande distanza da lei».
V, 12-4. «Ma se vera arte non si apprende, credo che si pecchi anche in senso contrario, ugualmente (cfr. i vv. 13-4 del son. IV): perché gli alberi da frutto vengono dalla propagazione artificiale».
TENZONE FRA BARTOLOMEO E BONODICO
II, 3 «piaquevo» = vi piacque (di rivolgervi a me).
FREDI
I, 41 sgg. Non mi è chiara l'allusione.
DOTTO REALI
CANZONE
1. «Di quello che il mio cuore prova, davvero non taccio niente. Ma io son savio; per questo adopero mezzi insidiosi per prender l'amore. Vero è, non lo nego: s'io dico che l'amore è come un vento estinto, giudico di sí alto valore contrariamente al mio modo di sentire. Io ho una nuova maniera di far versi: ché il mio verace amore mi fa parlar d'amore. Del resto, ho veduto un perfetto sapiente che non tace, standosene muto, né è naturalmente quieto.
2. Per questo non tralascio di far versi, né trascuro il canto: manifesto il mio grave pensiero, in cui son fitto. Ché quegli che piú mostra gioia m'annoia: un piccolo fuoco, a suo luogo, è piacevole; ma se cresca, è increscioso. Qual male, se la consuetudine lo rende piú grave, può diminuire, se non ci se ne astenga? Il tempo ben può allontanare il dolore, secondo ch'io odo da ciascuno che sia saggio.
3. La fede comprende in sé tutte le virtú: uomo che vede, crede; domanda che avvenga ciò che vuole; tiene ciò che è fede non per credenza (= senza rendersene ragione), ma spera vera sentenza, che è luce intera, chiara, da cui vien la vita. Egli disdegna fortemente la morte, la quale cancella, non registra, il fallo, permette anzi di fuggirlo. — Ma per il dolore l'arte mi vien meno: su tale argomento si posson far versi infinitamente.
4. Oh, quante pene evita colui che non segue il suo talento! Egli allontana da sé il dolore, se ne libera, come il serpente si libera della sua pelle. Seguire il proprio talento è vita infelice, ché l'ira strazia il cuore e l'offende. Sta' attento: fa male chi non ascolta! Molte volte ci rimette (= perde il ferro) chi serra... chi allontana i vizi, afferra le virtú. Chi pensa, cerca fama; non faccia tenzone, non faccia offesa chi non val nulla.
5. Per questo chi ha senno non tardi a far versi, ma consideri il danno che hanno gli stolti: essi vivono penosamente. In ciò si loda il sapere: nell'aver moderazione e cura pura con misura: chi ha senno non varia. Chi prende l'èsca, pesca, e chi ha pensieri troppo leggeri si lascia ingannare».
I, 27. Il passo è corrotto (anche la metrica è offesa); ma non so presentare una proposta soddisfacente.
I, 41. La correzione ( I Rim. lucch.: ben dir di tanto — o quanto) è del Wiese, Archiv cit., CXVII, 222.
SONETTI
I. La «risposta» vedila in Zaccagnini, I Rimatori pistoiesi dei secoli XIII e XIV, Pistoia, 1907, p. 34, e ora in questo vol., p. 15.
I, 6 «per parer non per forma»: «che sono apparenza, non sostanza».
I, 8 «defetto da ciò che piú forma»: «difetto proveniente dall'intelligenza».
I, 9-10. «E l'intender la ragione del difetto è mezzo ch'è fine del principio ed è, a sua volta, principio naturale del fine».
I, 11-14. Quest'ultimi versi non mi son chiari.
II. La «proposta» in Zaccagnini, I Rimatori pistoiesi cit., p. 32 e ora in questo vol., p. 15.
II, 1-2. «A voler maggiormente dimostrare che tu apporti veritá, non esiste una dottrina recondita».
GLOSSARIO
[B. = Bonagiunta; G. = Gonnella; Bo. = Bonodico; Ba. = Bartolomeo; F. = Fredi; D. R. = Dotto Reali — t. = tenzone; c. = canzone; d. = discordo; b. = ballata; st. = stanza; s. = sonetto; s. d. d. a. = sonetto di dubbia autenticitá.
La cifra romana risponde al numero del componimento; l'araba al verso.
Quando il rinvio è fatto senza alcuna indicazione di autore, s'intende sempre che la voce appartiene a Bonagiunta.
Qualche leggera infrazione all'ordine strettamente alfabetico è dovuta alla necessità di non separare voci, che riposano sulla stessa base etimologica. Es. «insegnamento», «'nsegnamento»; «disianza», «desianza»; ecc.]
abondare. (che 'l meo core) abonda (b. IV, 11) — che sopraffa il m. c.
Acel G. (t.) (s. IV, 14) — asinello.
acento (per) G. (t.) (s. I, 13) — ad ogni parola.
aciero B. (t.) (s. II, 3) — acciaio.
a ciò (s. XJ, 7) — perciò.
Acciò (c. II, 13) — perché.
acrescensa (vene in) (s. XIJ, 9) — cresce.
acrescenza (trar in) (c. VIJ, 1-2) — trarre a vantaggio.
acrescimento (c. IV, 26) — lode, innalzamento.
adastare. (m)'adasta (b. II, 20) m'eccita; adasta (s. XV, 5) — irrita.
adivenire, adivene (s. XVIIJ, 2) — accade; D. R. (s. II, 13) — proviene.
adoblare. (m)'adoblaran (c. X, 33) — addoppieranno.
adorneze (b. II, 8) — ornamenti.
adovenire, adovene (s. VI, 1) — accade; (s)'adovegna (s. XVIIJ, 9) — accada.
Adunqua (c. X, 35 ecc.) — dunque.
afare (loda lo su') (b. I, 2) — si loda.
affinamento (c. VIIJ, 8) — perfezionamento.
afinata (c. VIIJ, 16) — perfetta.
agradito (ha) (c. VIIJ, 28) — ha reso gradito.
aigua (s. VJ, 9 ecc.) — acqua.
aire (c. I, 21 ecc.) — aria.
aita D. R. (s. II, 14) — opera, lavoro.
albóre (c. X, 3) — alberi.
árbore (c. XJ, 40) — albero.
alchima G. (t.) (s. I, 12 ecc.) — alchimia.
alcidere. (m)'alcida (s. III, 2) — mi uccida.
ancidere. ancidetimi (b. IV, 20) — uccidetemi; (m)'ancidesse (b. IV, 24) — m'uccidessi; ancisi (s. XVIJ, 4) — uccisi.
allacciare. allaccia D. R. (c. 53) — afferra, prende col laccio.
allegransa (e. II, 9 ecc.) e
allegranza (d. I, 10) e
alegressa (b. I, 28 ecc.) — allegrezza.
allumar Bo. (t.) (s. III, 14) — accendere il lume.
allungiato (c. XI, 2) — allontanato.
alori (d. I, 15) — odori.
altera (d. I, 59) — bella; (s. X, 9) — alta (in senso buono).
altero (c. III, 42) — alto (in senso buono).
altesse (d. I, 47) — altezze.
altura (b. II, 34; b. V, 33) — altezza (in senso morale), eccellenza.
altura (in) (c. XJ, 41) — in alto.
alumato (s. XJ, 13) — acceso.
amadore (c. X, 6) — amanti.
amansa (d. II, 62) e
amanza (c. VJ, 26 ecc.) — amore; (c. XJ, 25) — donna amata; un'alta amanza Ba. (t.) (s. I, 4) — una donna di nobil condizione.
ambur (c. III, 5 ecc.) — ambedue.
amollare. (m)'amollo B. (t.) (s. II, 14) — mi piego, cedo.
amoranza (metta in) (c. VI, 6) — metta in amore.
amortare (s. VJ, 14) — smorzare.
ane (c. IV, 48) — affanni.
aparegiare. (s)'aparegiasse (s. X, 8) — si potesse paragonare.
apari (s. XIV, 2, 6) — insegnamenti.
aprendersi. s'aprende (s. VJ, 13) — prende.
ardere. (m)'ardi (c. X, 30) — mi infiamma (d'amore).
arditanza (con) Ba. (t.) (s. I, 6) — arditamente.
arditesse (b. I, 23) — arditezze.
argoglioso (c. X, 37) — orgoglioso.
artificero Bo. (t.) (s. III, 3) — artifizio.
asimigliare (c. VIJ, 8) — paragonare.
aspido (b. I, 38) — aspide.
assisi (cosí) (s. XVIJ, 8) — in tale stato.
astutare (b. IV, 12) — spengere, mitigare.
atenenza (avere.... di) (s. V, 14) — possedere.
atenere. (v)'atenete (d. I, 43) — vi astenete.
atri (c. XJ, 42) — altri.
atro (c. VIIJ, 13) — altro.
atto Bo. (t.) (s. III, 6), — azione.
atutare. (s)'atutasse (c. II, 6) — dileguasse, svanisse.
aucel B. (t.) (s. II, 9) — uccello.
auselli (d. I, 5) — uccelli.
aulente (s. VIJ, 14 ecc.) — olezzante.
aunore (b. V, 40; s. XIJ, 7) — onore.
auro (b. V, 48) — oro.
autrui (c. II, 11) — altrui.
auzidere. (m)'auzide (c. X, 49) — m'uccide.
avallare. (m)'avalla B. (t.) (s. II, 14) — mi vince, mi abbatte.
avanti (c. I, 20) — anzi.
avansare (s. I, 4) — sorpassare; avansa D. R. (c. 24) — rende piú grave.
baldeza Ba. (t.) (s. I, 5) — baldanza.
balía (b. I, 8) — forza, potere.
bassansa (può avere) D. R. (c. 24) — può diminuire.
bassare F. (c. 45) — cadere in basso.
bastanza (fôra) (c. VI, 35) — sarebbe assai.
ben (c. VJ, 46) — quand'anche; D. R. (s. II, 11) — benché.
brusciato F. (c. 11) — bruciato.
Ca D. R. (c. 19) — che.
càggere. cagio (s. XIJ, 8) — cado.
callare. (si) calla Bo. (t.) (s. III, 14) — si cala.
cannoscensa (c. III, 37) e
canoscensa (c. III, 36; D. R. s. I, 1) e
canoscenza (b. I, 7) e
caonoscensa (s. XIJ, 10) e
caonoscenza (s. XIIJ, 2) e
caunoscensa (c. V, 13) e
caunoscenza (c. VJ, 18 ecc.) e
cognoscenza (c. VIJ, 13) — conoscenza, sapere.
cansare. cansa (d. II, 64) — allontana.
casione (d. I, 22) — pretesto; (b. IV, 30) — causa.
catel (s. IX, 14) — cagnolino.
caunoscenti (s. X, 6) — sagge; (b. V, 26) — saggi.
caunoscére (s. X, 5) — conoscere.
cecen F. (c. 7) — cigno.
cèra (c. 11, 19 ecc.) — volto, viso.
certanza (far) Bo. (t.) (s. II, 2) — esser sicuro.
chera (s. X, 12) — chiara.
cherère. chero (s. III, 9 ecc); chiero (b. III, 17) chiedo, domando — cher G. (t.) (s. IV, 11) domanda — cherendo (s. XV, 1) cercando.
chi F. (c. 46) — che, il quale.
chiunqua (s. II, 8) — chiunque.
ciasimento G. (st. 10) — discernimento, scelta.
claro Ba. (t.) (s. I, 12) — chiaro.
clera D. R. (c. 35) — chiara.
co' Bo. (t.) (s. II, 5) e
com' G. (t.) (s. IV, 2 ecc.) e
como B. (t.) (s. V, 3) — come.
colpare. colpa (c. V, 22) — colpisce.
colpare. (ci) colpasse (b. IV, 30) — ci avessi colpa.
compimento (c. VJ, 20) — perfezione.
compire (c. IX, 31) — giungere a termine.
compita (c. IX, 41 e 49) — perfetta.
compiuto D. R. (c. 13) — perfetto.
comune (usar.... con) (c. VIIJ, 26) — stare insieme con.
concludere. (si) conclude (c. I, 20) — si oscura, si annera; conclude D. R. (c. 30) — comprende.
contansa (c. III, 64) — rinomanza.
contendenza (c. VIJ, 2) — contesa.
contradiare (s. XVJ, 7) — contrariare.
convento (per tal) (c. VJ, 45) — per tal patto, in maniera tale.
convitare, (vi) convitano d'amare (s. VIIJ, 13) — vi invitano ad amare.
continuati (c. IX, 49) — pieni.
coragio (c. IV, 11 ecc.) — cuore; (c. IX, 36 e XI, 6) — desiderio.
corrompere. corrompe G. (t.) (s. I, 5) — si corrompe.
cortezia (c. III, 46) — cortesia.
costumanza (c. XJ, 57) — costume, abitudine.
credensa D. R. (c. 33) — credenza.
crescensa (prende) (c. V, 14) — acquista pregio.
crescere. (gli) cresce (s. II, 3) — lo assale con violenza — cresce G. (t.) (s. I, 5; B. (t.) s. II, 7) — acquista più forza.
criarsi. si cria (c. III, 50) — si trova.
criatora (s. VIIJ, 14) e
criatura (b. II, 24) — creatura.
cridere. crido B. (t.) (s. V, 9) — credo.
crudellesse (d. I, 51) — crudeltá.
crudera (b. IV, 27) — crudele.
cuocere. coco (b. IV, 2; s. VI, 11) — brucio; cuoce (c. V, 22) — scotta.
damagio (s. II, 3) — danno.
dare. (né) dànno (s. XJ, 5) — né fanno doni.
defetto D. R. (s. I, 8) — difetto.
dettati (s. XVIIJ, 2) — rime, versi.
detto (s. XIV, 2, 12) — parola; (s. XIIJ, 2, 7) — rime, versi.
ditto D. R. (c. 16); ditti (s. I, 2) — rime, versi.
dichinare. dichina (c. VIIJ, 39) — umilia, avvilisce.
dichino (sta al) (s. IX, 3) — è disprezzato.
dicidere. dicido G. (t.) (s. IV, 9) — decido.
dicimare. (si) dicima G. (t.) (s. I, 4) — si spunta, si lascia corrodere.
dicrescere. dicresce G. (t.) (s. I, 5) — diminuisce, perde di forza.
dilettanza (c. XJ, 58) — diletto.
dimino (s. IX, 5) — signoria.
dimostranza (far) (d. I, 8; d. II, 51) — far dimostrazione, dimostrare; dimostranza (b. IV, 19) — apparenza.
diporto (d. I, 28; s. VII, 10) — diletto.
diprimere. (si) diprima G. (t.) (s. IV, 8) — si vinca.
dire D. R. (c. 41) — far versi; (non) dicon (s. XJ, 5) — non fanno versi.
dirieto (b. I, 37) — dietro.
dirimere. dirima B. (t.) (s. V, 6) — distingue, differenzia; Bo. (t.) (s. III, 4) — si muta.
disbasato (s. IV, 4) — messo in basso.
discrivere. discrivo Bo. (t.) (s. II, 14) — scrivo.
disdire. disdico D. R. (c. 5) — nego.
disferare (s. III, 2) — trarre il ferro: (non) disferate (s. III, 11) — non traete il ferro.
disfidare. (mi) disfido G. (t.) (s. I, 12) — diffido.
disformare. (si) disforma D. R. (s. I, 2) — prende forme diverse.
disiansa (c. II, 25) e
desianza (c. V, 5) — desiderio.
dismaruto F. (c. 17) — smarrito.
dismizuransa (c. II, 28) — mancanza di misura.
dispári (che fa.. ad) (s. XIV, 2, 2) — che si distingue da.
disperanza (sono in) F. (c. 3) — son disperato, sono in disperazione.
dissimigliansa (s. I, 12) — stranezza.
distornare. distorna (s. IX, 9) — cancella.
distringere. (mi) distringe (c. X, 16) — mi ritiene.
diversitate (s. XJ, 8) — stranezza.
divizione (c. II, 23) — diversitá.
dogli (d. II, 8) — dolori.
doglia D. R. (c. 44) — dolore.
doglienz(a) (s. XV, 10) — dolore.
dolire (s. II, 9) — dolere.
dolze (b. IV, 2) — dolce.
dolzore (s. XIJ, 3) — dolcezza.
donare. (mi) dona (c. VII, 5) — mi consiglia.
Donqua (c. VIIJ, 27 ecc.) — dunque.
dottanza (b. IV, 21; F. c. 20) — timore.
dottare. dotti F. (c. 40) — dubiti, esiti.
dottor (di rima) G. (t.) (s. I, 8) — poeta.
dottoso (c. VIIJ, 4; Ba. (t.) s. I, 7) — che teme, timido.
dovenuto (s. V, 9) — accaduto: cfr. adovenire.
driti (b. I, 41) — dritti.
dubitanza (so' in tutta) Ba. (t.) (s. I, 2) — sono nel dubbio piú assoluto.
dura (tene a) F. (c. 30) — tiene duramente.
durare. dura (b. II, 14) — si estende; dura (b. II, 15) — sostiene, soffre.
duresse (non state piú in) (d. I, 46) — non siate piú dure; duresse (d. I, 48, d. II, 13) — durezze.
entendanza (c. IX, 27) — intendimento.
equo G. (t.) (s. IV, 14) — cavallo.
eransa (c. II, 16) — affanno.
erransa (torna in) (c. I, 53-4) — mi è sventura.
erranza (c. XJ, 4) — affanno amoroso.
erore (d. II, 48) — errore.
errore (c. XJ, 21; s. XVIJ, 6) — affanno, travaglio.
esempro (ad) (b. V, 28) — ad esempio, come.
esporre. ispogna (s. I, 10) — dichiari, interpreti.
falenza (b. I, 5) e
fallanza (c. IV, 22 ecc.) e
fallensa (s. XV, 6) — fallo.
fallero G. (t.) (s. IV, 5) — fallace.
fallimento (c. VJ, 21) — fallo.
fallire (s. IV, 11) — perdere; fallisce (c. XJ, 31) — erra; falla (s. VIJ, 13) — manca; falisse (s. VIJ, 8) — mancasse.
fantino (s. IX, 1) — fanciullo.
fede (in) G. (st. 6) — fedelmente.
fello (fallo) (s. VJ, 5) — lo irrita.
fenire (s. V, 4) — finire.
fenix (lo) F. (39) — (la) fenice.
feresse (d. I, 50) — fierezze.
feruta (s. III, 11) — ferita.
feruto (s. III, 1 e 5; F. c. 19) — ferito.
fi B. (t.) (s. II, 10) — fu.
fidanza (d. I, 58) — fiducia.
figura ('n) (s. XJ, 14) — finto.
fina (c. VIIJ, 33) — perfetta.
fin(o) (s. XIJ, 1 e XIIJ, 2, 13); Bo. (t.) (s. II, 10) — perfetto; (s. IX, 7) — come si deve; Ba. (t.) ( I, 4) — fino core, perfetto amore.
fine (di) D. R. (s. I, 12) — finamente.
finita (b. III, 18) — morte.
finita D. R. (s. II, 11) — imperfetta.
fior (la) (s. VIJ, 5) e
flor B. (t.) ( II, 4) e
flore (c. VJ, 7) — fiore.
fiorere. fiore (c. VIIJ, 15) — fiorisce.
florere. flore (c. VIIJ, 9) — fiorisce.
fochio (b. I, 29) — fuoco.
forma (c. XJ, 65) — fattezze.
forsa (s. I, 14) — forza.
fortesse (d. I, 44) — fortezze.
frangente (b. IV, 17) — tempestosa (l'it. antico conosce la parola come sostantivo, nel significato di «onda», «tempesta»).
frastenuto F. (c. 13) — trattenuto.
fredura B. (t.) (s. II, 10) — freddo.
frondire. fronde (c. VIIJ, 15) — frondeggia.
fruttare. frutta (c. VIIJ, 15) — fruttifica.
fruttiferosa (c. XJ, 40) — fruttifera.
gente (c. V, 21 ecc.) — gentile.
gialura (s. VIIJ, 2) — gelo.
girare. gira D. R. (c. 49) — offende.
gittare. gitto D. R. (c. 17) — manifesto.
giudía (b. IV, 28) — giudea.
giunta (s. XIIJ, 2, 2) — aggiunta, (s. XIIJ, 2, 6) — arrivo, (s. XIIJ, 2, 8) — arrivata.
goliare. golia (c. IV, 30) — brama, desidera.
gradire (c. II, 22) — apprezzare.
grandire (c. XJ, 8) — esaltare.
graveza F. (c. 2) — dolore.
graziosa (c. IX, 11) — benigna.
guerrera (c. II, 31) — nemica.
guisa (tanta) (d. II, 10) — in tanta guisa.
ima B. (t.) (s. V, 4) — a grande distanza.
imbardare. (ne) 'mbardo (d. II, 58) — ne innamoro.
imperare. lo 'mpera (b. V, 54) — comanda a lui.
imprumera (b. IV, 9) — primiera.
inalturate (s. X, 9) — poste in alto (in senso morale).
inantir B. (t.) (s. V, 4) — avanzare.
inardir (e) (s. d. d. a., 2) — rinfrancare.
incarnare (d. II, 45) — raggiungere (il fine). Questo significato secondario deriva, certo, dalla espressione «incarnare i falconi» ammaestrarli a ghermire: cfr. Petrocchi, N. D. ad v. — incarnato (s. XJ, 14) — vero.
incendere. (lo) 'ncende (s. VJ, 5) — lo brucia — incende (s. VJ, 14) — brucia.
incuminzanza (c. IV, 17) — incominciamento.
indivinero G. (t.) (s. IV, 1) — indovino.
infinger(si), mi s'infinge (c. X, 19) — mi si mostra restía.
innamoranza Bo. (t.) (s. II, 4) — amore.
innavanzare. (s)'innavanza (d. I, 12) — s'esalta.
insegnamente (c. X, 44) — insegnamenti.
insegnamento (c. II, 15) — ragione; (c. III, 54) — sapere.
'nsegnamento (c. VI, 17) — sapere.
intalentare, (v)'intalenti (s. XIIJ, 2, 6) — vi piaccia.
intendensa (c. III, 61) e
'ntendenza (c. VJ, 16) — intendimento.
intendersi. (in fior m)'intendo (s. VIJ, 12) — m'innamoro del fiore.
intendimenti (c. IX, 4) — attenzioni.
intendimento (d. II, 17) — speranza: Ba. (t.) (s. I, 9) amore; Ba. (t.) (s. I, 12) — spiegazione.
intenza (b. V, 1) — intenzione, intelligenza, contrasto (?).
ira (s. VJ, 7) — dolore.
iscanoscienti (b. I, 33) — villani.
isfare. (se) isfaccia D. R. (c. 56) — che si disfaccia, che sia debole, che non valga nulla.
ispene (tener) (s. IV, 10) — sperare.
issa (d. I, 35) — ora, adesso.
laldatore (b. I, 18) — laudatore.
lanciato (c. X, 16) — ferito.
latin G. (t.) (s. I, 7) — chiaro.
latino Bo. (t.) (s. III, 7) — chiaro; in suo latino (c. X, 4) — in suo linguaggio.
laudore (s. XIJ, 7) e
lausor (s. XIJ, 13) — lode.
leansa (c. III, 49) — lealtá.
legero (di) G. (t.) (s. IV, 7) — facilmente.
legieri Bo. (t.) (s. II, 1) — leggero.
lena F. (c. 32) — alito.
leofante F. (c. 47) — elefante.
lontana (c. III, 64) — molto estesa.
lumato (b. I, 29) — acceso.
lumera (c. II, 24; c. XI, 24) — splendore; (s. I, 5) — lume.
lupardo F. (c. 15) — leopardo.
ma' (s. V, 10) — malamente.
maestero G. (t.) (s. IV, 3) — abilitá.
magistero D. R. (s. II, 2) — dottrina.
mainera (c. II, 7 ecc.) e
manera (c. V, 37 ecc.) — maniera.
malenanza (c. VJ, 34) — male; F. (c. I ) — affanno, doglia.
mallare. (si) malla Bo. (t.) (s. III, 11) — si nasconde.
mantenere. mantene (c. V, 15) D. R. (s. II, 12) — possiede, ha.
martire (c. X, 33) — tormenti.
martore (s. d. d. a., 6) — martoro.
me' (s. XV, 3) e
mei (c. I, 36) — meglio.
meglioranza F. (c. 40) — miglioramento, il divenir migliore.
menare. signoria menando (s. XVJ, 6) — signoreggiando.
mendare. mendate Bo. (t.) (s. II, 14) — correggete(lo).
mente (pur guardandovi) (b. II, 27) — pur guardandovi (?). O è una tmesi?; mente (la tene) (c. V, 18) — la considera.
mentire. mentisce (c. IX, 50) — smentisce.
meritare. merita (c. IX, 6) — compensa, rimerita — meritato (s. XJ, 10) — ricompensato.
merzé (b. III, 18) e
merzide (c. X, 46) — mercede.
messione (far) (d. I, 25) — esser liberali; non fa messione (c. III, 62) — non è liberale.
messire (d. II, 30) — messere.
metalla B. (t.) (s. V, 11) — metalli.
mettere. mettesse (b. V, 48) — spendesse.
miso (s. XIV, 2. 10; F. c. 13) — messo.
misora (c. XJ, 31) e
mizura D. R. (c. 63) — misura.
mistero (di) B. (t.) (s. V, 3) — misteriosa, arcana.
mistieri (m'è) Ba. (t.) (s. I, 1) — mi fa d'uopo.
mod(o) D. R. (c. 62) — moderazione.
molleza G. (t.) (s. I, 4) — dolcezza.
mondo (s. XIV, 2, 4) — schietto, puro.
montare. monta (c. III, 28) — importa, è pregiato — montasi (c. VIIJ, 14) — si accresce — montare in grande affare (c. III, 34-5) — essere altamente pregiato.
mossare. (si) mossa (b. I, 31) — si mostra.
movere. move D. R. (s. I, 1) — agita.
movimento (c. II, 30) — commozione.
mutanza (non fa) Bo. (t.) (s. II, 8) — non muta, non fa mutamento — (faccia di sé) mutanza F. (c. 37) — cambi, muti, faccia mutamento.
'ncrescenza (b. IV, 17) — il crescere, il sopravanzare.
nd' (c. I, 43 ecc.) e
nde (c. V, 24 ecc.) — ne.
nessuna (c. III, 26) — alcuna.
'ngegna ( a ) (s. XIJ, 14) — con inganno.
'ngegnero ( chi è piú ) B. (t.) (s. V, 7) — chi ha piú ingegno.
niente (torn'al) (b. I, 3) — non val niente — niente (non fue che montasse) (b. IV, 31) — non fu di nessuna importanza.
neente D. R. (c. 2) e
neiente (s. d. d. a., 5) — niente.
nieve (s. VIIJ, 1) — neve.
nodrire. nodrisco (d. II, 36) — mi nutro.
Nossa Donna (s. XVIIJ, 6) — Nostra Donna, la Madonna.
Novellamente (c. V, 1) — da poco tempo.
'ntensione (c. I, 59 e II, 32: int.) — speranza.
odiozo (c. I, 31) — infesto, nemico.
odito (d. I, 9) — udito.
ofensione (b. IV, 31) e
offensa D. R. (c. 55) — offesa.
ogna (s. III, 8 ecc.) — ogni.
omne Bo. (t.) (s. III, 8) — ogni cosa.
onoranza (c. IV, 21 ecc.) — onore.
or (s. XIV, 1, 14) — oppure.
ore (a tutt') (c. III, 44) — continuamente.
ottima (c. XJ, 43) — ottima, la più perfetta.
paleze D. R. (s. I, 11) — palese.
paragio (c. VIJ, 7) — stato, condizione.
pararsi. ch'avanti a voi si pari (s. XIV, 2, 3) — che si paragoni con voi.
pareggiare. pareggiasse (b. II, 13) — stesse al paragone.
parenza (s. X, 7) — apparenza.
parere. pare (s. VJ, 2) — appare; pare D. R. (c. 19) — mostra.
pari (s. XIV, 2, 4) — simile.
parimento B. (t.) (s. V, 13) — parimente, ugualmente.
parlatura (s. I, 11) — modo di parlare.
parlieri Ba. (t.) (s. I, 7) — ciarloni.
parpaglion Bo. (t.) (s. III, 14) — farfalla.
partita (ben) (c. V, 27) — perfetta nelle sue parti.
partito (s. I, 6) — parte.
parvenza (a mia) F. (c. 10) — come me, a mia somiglianza.
passare. passa D. R. (c. 43) — evita.
patire. pata (s. XV, 2) — patisca; patuto (s. d. d. a., 11) — patito.
pegnare. pegno (b. III, 12) — do in pegno.
péllere. pelle G. (t.) (s. IV, 14) — supera, vince.
penetente (serestene) (b. IV, 24) — ne portereste pena.
penitensa (s. XV, 2) — penitenza.
pensagione (c. II, 20 e 38) — pensiero.
penseri (per mettervi 'n) Bo. (t.) (s. II, 3) — perché dubitavate, per il dubitare che voi facevate; penseri D. R. (c. 66) — pensieri.
pensero B. (t.) (s. V, 1) — pensiero; per pensero Bo. (t.) (s. III, 1) — secondo quel che mi sembra.
per B. (t.) (s. II, 3) — per forza.
percepenza (c. IX, 12) — percezione.
pertenere. pertene (b. III, 8) — appartiene, si addice; pertene...a D. R. (s. II, 9) — dipende da.
pesanza Ba. (t.) (s. I, 8) — affanno, tormento.
piacensa (c. V, 9) e
piacenza (c. XI, 9; s. X, 1) — bellezza; (c. VJ, 15) — piacere; (c. IX, 15) — gentilezza.
plagensa (c. II, 37 ecc.) — bellezza.
piacentieri Ba. (t.) (s. I, 3) — gentili, che dánno piacere.
piaceri Bo. (t.) (s. II, 7) — piacere.
piacimento (sta 'n vigore di tutto) (c. VIIJ, 10-1) — ha in sé tutti i diletti; piacimento B. (t.) (s. II, 13) e Bo. (t.) (s. II, 9) — piacere.
piare. pia (c. I, 46) — Si dice degli uccelli «che cantano in amore» ( Petr. ).
pietanza (c. VIIJ, 30 ecc.) — pietá.
pintura (c. VI, 30) — pittura, quadro.
piò (s. IV, 3); D. R. (s. II, 1 e 7) — più.
plovere. plove D. R. (s. I, 3) — piove.
ponto (b. II, 23) — punto.
pratora (d. I, 2) — prati.
mutilaprendimento (non ha) G. (t.) (s. IV, 13) — non si apprende.
prescio (b. I, 13 ecc.) e
presgio (s. XIV, 2, 1) — pregio.
presiar(e) G. (st. 2) — pregiare.
preso (c. VJ, 15; c. VII, 9) — pregio.
primero B. (t.) (s. II, 7) — primiero; B. (t.) (s. V, 5) — la materia prima; sta primero Bo. (t.) (s. III, 5) — resta com'era prima.
priso (b. II, 3) — preso.
priva (c. I, 23) — priva di vita. È sinonimo di «morta» che precede.
procaccio (c. II, 5) — guadagno.
prodessa (b. I, 26) — prodezza.
prodesse (b. I, 21) — prodezze.
propria (c. VI, 31) — originale.
provamento Bo. (t.) (s. III, 10) — prova.
proventi (stan piú) (b. V, 30) — piú obbediscono.
quagli (s. IX, 4) — quali.
quine (s. I, 7) — qui.
ralegranza (c. VI, 2 e 3) — allegrezza.
rasion(e) (c. XI, 49 ecc.) e
rason(e) B. (t.) (s. II, 1 ecc.) — ragione.
regimento F. (c. 46) — sostegno.
renverdire (s. d. d. a., 14) — rinverdire.
reo (c. I, 53) — crudele.
reto (c. VJ, 46) — dietro.
ricca (c. IV, 17) — bella; faraggio ricca (c. II, 32) — appagherò; (c. VII, 11) — grande.
rifinare. rifino (c. X, 8) — cesso (di cantare).
rifrescare. rifresca (s. II, 14) — rinfresca.
riguardato (c. XJ, 6) — protetto.
riguardi (c. X, 15, 27) — sguardi.
rinfrangere. rinfrangesse (b. IV, 23) — si spezzasse.
riprendensa (c. II, 8) — riprensione.
riprimere. riprima G. (t.) ( IV, 4) — reprima.
risemblare. risembla (s. VJ, 3) — sembra.
risentire (de lo) (c. II, 2) — ridestare a.
risposa G. (t.) (s. I V, 8) e
risposo G. (t.) (s. IV, 4) e D. R. (s. II, 8) — risposta.
risprendere. risprende (s. X, 14) — risplende.
ristauro (b. V, 50) — ristoro.
ritenenza (b. IV, 16) — ritegno.
ritenire (s. V, 6) — ritenere.
rivera (d. I, 1; b. V, 34) — riviera.
saggiare. sagio (s. XIIJ, 1, 5; XIIJ, 2, 7) — provo, misuro.
sagio (s. XIIJ, 1, 1) — sapiente; (s. XIIJ, 1, 3) saggio; (s. XIIJ, 2, 1) saggezza; (s. XIIJ, 2, 3) — poeta; (s. XIIJ, 2, 5) — gusto.
saglire (c. III, 24) — salire; saglito F. (c. 24) — salito.
saucido Bo. (t.) (s. III, 12) — ?.
scarso (c. XJ, 36) — avaro.
scaunoscenza (c. VIJ, 17) — difetto di conoscenza, ignoranza.
schifare. schifa (s. IX, 3) — scansa, sfugge.
scogliare. scoglia D. R. (c. 45) — muta la pelle, si libera.
scrittura (s. I, 14) — studio.
sdegna (s. XIJ, 11) — sdegni.
seguiti (son) (s. IX, 2) — hanno seguito.
sensa D. R. (c. 42) — senza.
sentensa (c. III, 31) — soluzione; D. R. (c. 34) — sentenza.
sentenza Bo. (t.) (s. III, 9) — senno; Go. (t.) (s. I, 9) — soluzione.
sentieri (agio) Bo. (t.) (s. II, 5) — sento, ho sentore.
sentire (c. I, 2) — dolere D. R. (s. II, 5) — conoscere; sento D. R. (c. 7) — penso; sente (c. V, 22) — fa male; B. (t.) (s. V, 8) — piú sente de l', piú è versato nell'; sente (s. IX, 11) — se ne accorgerá; D. R. (c. 1) — prova.
serino (c. X, 2) — sereno.
sfogliamento (s. d. d. a., 14) — lo sfogliarsi.
sguardare. sguardo (d. II, 55) — guardo.
signoragio (c. IV, 10 ecc.) — signoria, potenza.
simil (a) D. R. (s. I, 7) — in tale condizione, cosí essendo le cose.
similemente (b. II, 31) e
similimente D. R. (s. I, 1) — similmente.
smarruto (c. II, 26) — smarrito.
smirato (b. II, 30) — limpido.
so (s. IX, 5); F. (c. 14) — suo.
soferenza (s. III, 13) e
sofrenza (s. III, 7; s. d. d. a., 10) — tolleranza.
sofferére (e. VIJ, 23) — sopportare.
soldare. solda (b. II, 34) — soddisfa, appaga.
soperchio (far) (s. IV, 13) — esser tracotante.
sormontare (c. VIIJ, 13) — avanzare; (s. d. d. a., 12) — soverchiare.
sotano (d. II, 32) — inferiore.
sottigliansa (s. I, 9) — sottigliezza.
sparere (c. XJ, 18) — perder di pregio.
spavenza F. (c. 12) — spavento.
spegnare. spegnasende (s. XIJ, 11) — se ne spenge; spegna D. R. (c. 38) — cancella.
spene (tene) (s. XIJ, 12) — spera.
spera (c. XJ, 23) — specchio; (s. I, 7) — sole.
spera (d. I, 61; s. III, 9) — speranza.
spiagensa (s. XV, 4) — dispiacere.
sprendere. isprendete (s. X, 13) — splendete; isprendente (s. X, 13) — splendente.
sprendore (b. II, 18 ecc.) — splendore.
sprimare. (si) sprima B. (t.) (s. II, 4) — vien fuori; Bo. (t.) (s. III, 6) — cambia, muta.
sprimere. (si) sprima G (t.) ( IV, 2) — si esprima.
stagione (ogna) (c. III, 22); stasione (ogne) (c. VIIJ, 14) — sempre; a la stasion (c. VIIJ, 39) — talvolta.
stare. (pur) istando (s. VIIJ, 9) — col tempo.
stesse (b. I, 19) — stesso.
stranero (c. XJ, 3) — strano.
stranianza (b. IV, 9) — inesperienza.
straniata (c. IX, 18) — allontanata.
stridere. (mi) strido G. (t.) ( IV, 12) — mi chiedo gridando (dall'assillo del pensiero).
strimare. strima B. (t.) (s. II, 8) — assottiglia, porta via; si strima Bo. (t.) (s. III, 2) — si assottiglia.
stringer(e) (s. IX, 10) — costringere, dominare.
strutto (c. VI, 11) — distrutto.
sublimare. sublima G. (t.) (s. IV, 6) — vola cosí in alto.
succiso (c. V, 35) — tagliato, strappato.
talento (l'ho 'n) (d. II, 5) — mi piace.
talore (c. VIIJ, 38) — talora.
taupin (s. V, 12) — tapino.
temenza (s. XVIJ, 4) e
temore (s. d. d. a., 4) — timore.
tempestanza (d. II, 42) — tempesta.
tempestare. tempesto (c. VIIJ, 32) — sono in tempesta.
tenere. (la) tegna (s. XIJ, 13) — sia il fondamento della.
tensa D. R. (c. 55) — tenzone.
termino (in piccolo...) (s. V, 11) — in poco tempo.
tesauro (b. V, 46) — tesoro.
tinto (c. XJ, 12) — tintura.
tirare. tira D. R. (c. 48) — strazia.
togliere. tolle Bo. (t.) (s. III, 5) — diminuisce, si assottiglia.
tormente (c. X, 48) — tormenti.
traier (canson) (s. I, 14) — far canzoni; trare (s. III, 4) — trarre; tragio (s. XIJ, 5) — traggo; trai (s. X, 11) — trae.
transiti (s. IX, 8) — passati.
transmutamento B. (t.) (s. V, 10) — cambiamento.
traportare (c. VJ, 34) — cambiare.
tremore (s. XVIJ, 3) — trèmito.
trovare D. R. (c. 9) — modo di far versi.
tutor (c. X, 19, 38) — sempre.
tuttavia (c. VIIJ, 25) — continuamente.
u (c. III, 72) — o.
ubidenza (c. VIJ, 6, 12) — obbedienza.
unque (c. X, 32 ecc.) — mai.
usagio (s. II, 5; XIJ, 2) — uso.
usato (lung'...) (s. XJ, 11) — paziente, longanime.
uzansa D. R. (c. 23) — consuetudine.
valensa (c. III, 57; s. XIJ, 10) — valore, virtú; (s. XIJ, 13) — senno.
valenza (s. X, 3) — valore, virtú.
valimento (c. III, 49; c. VJ, 48) — virtú; (s. d. d. a., 13) — valore.
vazel D. R. (s. II, 12) — piccolo vaso, il corpo.
ventare. venta D. R. (s. I, 5) — spira.
vertode (c. XJ, 33) — virtú.
vilitate (s. d. d. a., 3) — viltá.
visagio (non cagio'n) (s. XIJ, 7-8) — non cado in dimostrazione esterna.
visaggio (c. XJ, 17) — viso.
visii D. R. (c. 53) — vizi.
vo' Bo. (t.) (s. II, 12) — vi, a voi.
volenza (s. x, 11) — volere.
volo (con...) (s. XIV, 2, 13) — alla sfuggita, affrettatamente, senza pensarci.
vossi (s. XVIIJ, 2) — vostri.
vosso (s. XVIIJ, 1) — vostro.
zitello (s. VI, 1) — fanciullo.
III I RIMATORI PISANI
A CURA DI GUIDO ZACCAGNINI
I GALLO o GALLETTO
I
Ha ricevuto da madonna una rosa e molto spera per questo lusinghiero principio.
In alta donna ho miso mia 'ntendanza,
in quella c'ha 'n bailía
gioi' e solazzo e tutto insegnamento.
Lo meo core in altezza s'inavanza;
piò che io non solía,
5
conforteraggio lo mio 'ntendimento.
Ché ben conosco e aggiolo provato
che ogne bon servire è meritato,
chi serve a bon signore a piagimento.
A piagimento, con fina leanza,
10
lo mio cor s'umelía,
e servo lá 'v'è tutto addornamento.
Li amadori lo sacciano 'n certanza
ch'i' ho ciò ch'e' golía;
ch'io servo l'alta donna a suo talento.
A dirlome mandao per suo celato,
15
ch'ogni meo bon servir li è tanto in grato,
ch'a pro d'essa verrand'a perdimento.
A perdimento perdei mi' allegranza;
per ciò ch'io mi dolía,
mi fa sbaudir, poi so a comandamento
20
di quella che mi tiene 'n sua possanza.
Senz'ella non valía,
or vivo in bona spene e gioi' sento.
Tal forz'ha l'alta donna dal su' lato,
che lo vil omo fa esser pregiato
25
e lo mutulo torna in parlamento.
In parlamento e 'n gioco e 'n allegranza,
piú ch'eo non solía,
viviamo insembre senza partimento.
Li mai parlieri, che metteno scordanza
30
in mar di Cicilía
possan 'negare, e viver a tormento;
ca per li fini amanti è giudicato:
«Launque è mal parlier sia frustato».
A l'alta donna piace esto convento.
35
Convento mi donao di su' amanza
un giorno ch'io sallía
a lo giardino in suo difendimento.
Una rosa mandaomi per simiglianza;
piú ch'altro fiore aulía;
40
und'io lo tegno bon cominciamento.
Dall'alta donna, che 'n m'ha sigurato
col su' aulente fior che m'ha donato,
bon cominciare aspetta compimento.
II
CANZONE EQUIVOCA
Si lagna che da piú d'un anno sia caduto in servitú di lei e ne loda le bellezze.
Credea essere, lasso!
como quei che si parte
da ciò che piò gli è danno.
Or son caduto, oi lasso!
loco non ebbi parte,
5
trapassat'è piò d'anno,
com'este ad esser servo
de voi, donna, cui servo
de bon cor, ciò m'è viso.
Sí siete adorna e gente,
10
faite stordir la gente,
quando vo' mira 'n viso.
Ed eo, ponendo mente
la vostra fresca cèra
ch'è bianca piú che riso,
15
feristemi a la mente,
und'ardo como cera:
levastemi lo riso.
Le man vostre e la gola
cogli occhi mi dan gola,
20
tanto a veder, s'io miro,
mostran che l'autre membra
vaglian piò, ciò mi membra;
pur de tanto mi smiro.
Volea veder non pare
25
nessuna donna roma
quanto voi bella sia;
non trovai vostra pare,
cercat'ho infin a Roma;
grazia e mercé vo' sia.
30
Le vostre beltá sole,
che lucen piò che sole,
m'hano d'amore punto,
ch'eo n'era sordo e muto;
or me ne vesto e muto
35
e cantone ogni punto.
Lo meo cor non fa fallo,
se da me si diparte
e saglie in voi al pè:
mai mio conforta fallo,
40
no' 'n loco né 'n parte,
e piò ch'arcione in Alpe
m'ha 'l piè legato e serra,
e poi mi stringe e serra
e non vòl ch'eo sormonte
45
lo vostro amor, ch'è colpa
a meve sanza colpa,
fam'esser pian di monte.
Lo vostro amor mi cura,
di vano amor m'ha mondo,
50
e son piò fermo e saggio
poi che 'n voi misi cura,
sovrana d'esto mondo,
che d'amor siete saggio,
s'al vostro amor m'aresto.
55
A assai piò sottil resto
si lega saggio e matto.
Di bella donna gallo,
ch'amo, ben dico Gallo,
ch'a ciascun ne do matto.
60
II LEONARDO DEL GUALLACCA
A GALLO
Brutti lacci quelli d'Amore, e quanti affanni esso procura!
Sí come 'l pescio al lasso,
ch'è preso a falsa parte,
son quei ch'a amor s'adanno;
peggior gittan che l'asso.
Salamon, che sepp'arte,
5
disse lo mal ched'hanno.
Al suo senno m'aservo:
con amor non conservo,
che fe' fallir Daviso,
lo profeta piagente;
10
pogo no 'n fo piangente
fòra di paradiso.
Se lo scritto non mente,
per femmina treccera
si fo' Merlin deriso;
15
e Sanson malamente
tradil una leccera;
Troia strusse Pariso
per Alèna pargòla,
sí che mai non par gola;
20
sí la strusse la miro.
Quando d'Eva mi membra,
null'altr'al cor mi membra:
di lor opre mi smiro.
Chi vòl da lor campare,
25
tagli la lor paròma,
ch'è piena di falsía.
Mentre che pòn trappare,
allor dicen ch'a Roma
creden vogar van sia.
30
Ed io però lassòle;
ciascuna è tal qual sòle,
d'esto senno no spunto,
né non me ne rimuto
né 'n versi ne rimuto;
35
sempre piò ci propunto.
Chi s'innamora in fallo,
odit'ho in saggia parte,
mant'ha di male palpe.
Chi bon senn'ha, rifallo,
40
e chi ben si comparte,
vive come 'n mar salpe.
Foll'è chi quivi serra;
chi saglie 'n alta serra
uop' è ch'abasso smonte;
45
cui amor fier, mal colpa,
tanto val ch'a me scolpa
amor, e guai chi amonte.
La chiar'aire fu scura
a Gilio e Fioresmondo;
50
lo lor detto fals'aggio:
e chi vi s'asicura,
guardin a quei ch'al mondo
ne dan d'amor lo saggio.
Serventese, a dir esto
55
va', che per serv'i' resto
piò puro ch'oro matto,
a quei c'ha nom di Gallo;
se Dio di mal tragállo,
non crea a vista né ad atto.
60
Qual om è d'amor preso,
arivat'è a mal porto,
alor non è in sua báglia.
Dal tersolett' ho apreso,
a sua guisa mi porto.
65
S'alcuna mi si báglia,
prendo del su' mistero
quello che m'è mistero,
e per altro non l'amo;
per vista che me faccia,
70
né per beltá di faccia,
piò non abocco a l'amo.
III PANUCCIO DEL BAGNO
I
È contento di servire madonna.
Madonna, vostr'altèro plagimento
e la gran conoscenza
e la valenza — che 'n voi tuttor regna,
e stat'han preso altèro a compimento
con sí vera potenza
5
ch'ognor crescenz'ha — in altura degna,
han conceduto in me, servo di voi,
perfezione, in coi
han messo di voler propio fiso,
d'ogni penser diviso,
10
di voi solo 'n servir la signoria
fermato, e ciò meo cor solo disia.
Del vostro signoraggio, donna, sono
con compiuto volere
e col podere — intero in vui servire;
15
e mai che solo ciò nente ragiono,
né giá d'altro piacere
pori' avere, — potess'unde gioire!
Unde sovrana aver dunque gioi' deggio,
quasi poi certo veggio
20
che non v'è solo meo placer servire,
ma stimo, al mio sentire,
ch'amor tanto di voi in me procede,
che degno in tanto sia meo cor non crede.
Degn'esser quanto so' non fôr amato
25
da voi, donna piagente,
sí veramente, — com'eo credo fiso;
ma voi pur degna siete che sia dato
amor chi fermamente
per voi servente — di voi è assiso.
30
E come veramente, donna, e' degno
diven', ché 'lor che segno
vedeste per sembianza ch'io v'amava
e servir disiava,
el meo cor conosceste sí com'era
35
di voi per vostra conoscenza altèra.
Poi certa, donna, vi fe' conoscenza
del meo e vostro core,
ch'era d'amore — di voi, siccom'è, priso,
fu 'l vostr'altèr de sí nobile essenza
40
che mi donò sentore,
quasi colore — di ben a voi commiso,
dandomi quasi ferma intenzione
ch'è vostra oppenione
per sembianza vi dovesse amare,
45
servire e onorare;
ed eo sí fo, und'ho magn'alegrezza,
poi m'ha degnato a servo vostr'altezza.
Senz'alcun quasi par sono 'n gran gioia
poi ferm'aggio voglienza
50
servir, flor di plagenza, — vostr'altura;
né giá mai non credo alcuna noia,
pesanza, né doglienza,
poi la mia intenza — in voi solo dimora,
considerando che d'ogne vertude
55
siete, u' si conchiude
fontana e di saver pregi' e orranza,
senz'alcuna fallanza,
regnando in voi per sè ciascuno bene,
a perfezion con voi tuttor convene.
60
Donna, po' immaginai
la piagente di voi nel cor figora,
è stata mia dimora
in chiarezza lucente in parte 'v'era;
ché, prima ciò fusse, era
65
in tenebra d'errore, in parte scora,
ove giá alcun'ora
di ben non mi sovenne quasi mai,
ma poi ch'a voi fermai,
servendo, pien di gio' so' stato intera,
70
om' tornato di fèra,
da voi sí so' allumato, poi v'amai.
II
È contento di soffrire gravi pene per lei.
Di sí alta valenz' a signoria,
uv'i' son 'maginando,
m'ha dato Amor, tuttor servo, piacere,
che, sua considerando alta bailía,
e che, pregio montando,
5
li avanza ognor servire, und'ho volere,
e costringo 'l meo cor di sofferenza
ne la gravosa pena,
la qual di su' altezza, avendo fede,
intera mi procede,
10
ché giá non manca a di sí gran valenza
signoria provedenza
di proveder ciascun leal servente,
unde m'allegro in pene sofferente.
Rallegrando isperanza il mio coraggio,
15
simiglia sostenendo,
grave ognor pene, credo udendo dire,
ma la potenza, di cui so' 'n servaggio,
e la figur'avendo
'maginata nel core ad ubidire,
20
parte natura e muta di suo loco,
disnaturando prende
di selvaggia mainera tanta possa;
und'è che non si' mossa
giammai, sperando quasi di conforto,
25
la speranza di porto,
poi sempr'a voglia di servir s'inchina
sormontando 'l meo core e mai non fina.
Servire in me non fina voglia pare
d'amoroso; sí ha preso
30
lo meo cor di disio volere fiso.
E divisando che temo d'amare
ch'i' sia di lei ripreso,
com'om' d'altezza ch'è 'n tutto diviso,
tutto temenza n'aggio, sí conforto,
35
isperando tuttore,
considerando la sua canoscenza:
unde i' fosse piagenza,
mantenendo vorria mevi servente;
che sí lealemente
40
fermo mi troverebbe in cor siguro,
simile quasi como l'oro puro.
Servente puro me trovando e vero
di lei fermo tenesse
vorria, né piú disio mantener pregio:
45
e me trovando come sono e spero,
quasi tem'e' di me, se
tanto di virtú lei valere i' pregio.
La quale, come sòle us' e natura,
che non giá punto viso
50
in opera di lei manchi 'n alcuna;
ma in lei tuttor s'aduna,
che non guardando di suo ben volere
il mio pogo podere,
mi derea gioia e mia poga possanza
55
con tutto ognor valore in lei amanza.
Quasi como chiarezza in parte scura
di foco chiaror rende,
sí m'ha chiarito 'l suo piagente viso;
ché prima vista avesse mia dimora
60
lei, che chiarezze stende,
era 'n tenebre quasi in lor compriso;
ma poi ch'io lei amando, 'maginai
la sua forma 'n figura,
onni valore, s'i'ho, da lei mi venne,
65
né mai cura non tenne
che sol di lei servir meo cor di cosa;
sperando, in ciò posa,
fermo, solo di lei ogni mercede,
e se pen'or sostene, gioi'aver crede.
70
Sofferenza vertú, und'eo rallegro,
in pene sembra, poi tal modo ho priso;
che non giá guaire priso
quale soffrenz'ha in ben, ché non giá grande
virtú di lui si spande,
75
com'om' soffrenz'ha in pene e 'n gran doglienza:
und'ho soffrir voglienza,
isforzandom' ognor, in ciò non pigro.
III
Si lagna d'aver perduto la gioia che prima aveva avuto, amando madonna.
Sí dilettosa gioia
non cred'om'nato sia giammai portasse,
di che si contentasse;
ch'altro maggior disio li dá rancura,
u' port'alcuna noia,
5
non potendo complir sua disianza:
ché ciascun giorno innanza
e monta in piú voler d'omo natura;
und'el non mai si paga né contenta,
ché suo voler non lenta,
10
ma cresce disiando maggior cosa,
unde non prende posa,
né perfetta di gioi' port'allegranza,
ché quant' ha piú voler, d'aver piú 'nnanza.
Sí perfett'allegranza
15
e compimento portai d'ogni bene:
se considero bene,
sovrano 'n gioia fui...
... e 'n benenanza,
ch'avea da quella di cui son servente;
20
che li fosse piagente
parea per sua mostranza il meo servire
né cos'altra di lei piú disiando
che leal solo stando
in lei fermo servire, e 'n ciò che m'era,
25
che mi donava intera
di gioia benenanza e compimento,
nè piú d'aver mi montava talento.
E poi com' alcun tempo
portai sí intera e dilettosa gioia,
30
via maggiormente in noia
son stato doloroso e 'n grave pena,
ché partire no men pò
isperanza di tal gioia passata;
ché chi ha gioi' portata,
35
partendo d'ella, pena a morte mena.
Però che 'l male avante benenanza
non grev'è a simiglianza,
quasi nente ver' bene aver sentito:
ché poi il ben è fallito,
40
appresso pena dá confusione
e maggiormente grav'è per ragione.
La dolorosa pena,
ove sono distretto interamente,
la qual mi dá sovente
45
morte passional, tuttor vivendo,
e ch' un' or' non m'allena,
da quella ch'i' amo in me ognor discende,
che ciascun' ora accende
gravoso in me languir, lasso, dolendo;
50
ché crudeltá mi mostra in sua sembianza
e con fer' orgoglianza,
servendo lei, disdegna il meo servire,
unde 'n fèro languire
piú ch'alcun altro sono e doloroso,
55
sostenendo tormento ogni gravoso.
Fèra ragion m'apporta
di sí grave tormento tal cagione,
poi senza offensione
tal' ho comis'alcuna 'n lei doglienza,
60
ma sempr'è stat'accorta
e presa di voler l'anima mia
servir, poi 'n signoria
di lei fui servo intero a sua potenza;
und'è che la mia vita quasi è morte:
65
in tanta pena forte
mi dá tormento e 'l meo servire isdegna
e la morte m'assegna.
Mi fòra vita, in cor perché finita
sería mia doglia e l'angosciosa vita.
70
Mia canzon, or ti parte
e mostra 'l gran tormento, il qual eo sento,
avegna il compimento
non ho potuto dir quanto m'abonda;
ché, sí com'è in mar l'onda,
75
no n'aggio posa, né d'alcun ben parte
a quella per cui son in sí rea parte.
IV
Si lagna delle pene in cui si trova per servire madonna.
Poi contra voglia dir pena convene
a me, quasi dolendo
per soverchia montanza in cui sormonta,
ne la qual falso diletto mi tene,
u' mi mise vogliendo
5
l'anima un disio col cor congionta
di quella, in cui piacer era coverto,
quando parea piú vero,
ch'amor cognosco di falso colore,
del qual m'ha priso, poi fumi proferto:
10
immaginandol clero
da lei, di conoscenza fui 'n errore,
perch'io l'elessi a mio proprio signore.
Non conoscendo, falsezza stimando
del piager, ma pur fiso
15
dell'alma imaginai il suo diletto,
e concedette amore in lei fermando,
d'ogn'intenzion diviso,
fui a sua signoria servo soggetto
d'amore 'n atto, distretto 'n potenza:
20
di lei sua forma prese,
al suo voler per lui i' foi congiunto,
e sommisili arbitro e mia voglienza,
di lei servire accese,
u' conoscendo, mai non fallai punto;
25
or d'allegrezza m'ha tutto digiunto.
Fermato a perfezione a suo volere,
di me non forz'avendo,
in ardente mi mise coral foco;
ma ciò mi porge, lasso! piú dolere,
30
per difetto sentendo
di conoscenza aver pene non poco;
ché poi mi mostrò, lasso, la sembianza
de la sua opinione,
la quale, aviso, in lei tuttor regnava
35
di piacer contra, und'ho gran malenanza
in vita e confusione;
ché 'l meo servir gradisse lei pensava,
or mortalmente conosco fallava.
Fallando in conoscenza, in signoria
40
di morte sono ognora,
né morir posso e 'n morte ognora vivo.
E porge tal cagione in me sí ria
pena, che fòr misora
grav'è. Sembro aver vita sí pensivo,
45
per ch'io non parto giá d'intenzione,
ché, se mi fusse danno
la morte, in vita solo un'or' regnasse,
ma, tormentando, di vita ho cagione,
e piú mi monta affanno
50
che s'a morte lo spirto mi mancasse,
e qual piú pregiudicio mi portasse.
La principal del meo dolor cagione
aggio costretto a dire
ne la fine per piú dolor mostrare,
55
e dico piú mi dá confusione
d'ogni greve languire
la reprension che pote in lei montare,
considerando l'altèra valenza
di natura discesa
60
e lo suo gentil core inganno tegna,
unde, in alcuna guisa, di fallenza
di vertú sia ripresa;
perché maggior di ciò pena in me regna,
considerando in lei cosa non degna.
65
Se 'n alcuna mainera giá potesse
da la follia presente dipartire,
isforzereimi a valere alquanto,
però ch'assai piú manto
fall'è, cernendo, in mal perseverare,
70
che non giá fôra stare
nel mal, non conoscendo. Ma non posso;
ché voler non s'è mosso;
und'e', di ragion om, fatto son fèra,
seguitando carrèra
75
dal piager falso, c'ha in me pene messe.
V
Ancora mostra il suo dolore per la crudeltá di lei.
La dolorosa e mia grave doglienza
conven ch'eo dica in canto,
com'altri lo piacere e l'allegrezza,
distringendomi a ciò la mia voglienza,
avegna me' sia pianto,
5
como m'ha preso, lasso! 'n cor fermezza,
e la chiarezza — di ciò è sembianza
ch'eo mi somisi intero in signoraggio,
fermo avendo coraggio
d'altèra donna di servir natora,
10
u' solo un'ora — mai feci fallanza,
poi per piacer mi strinsi in suo servaggio,
und' ho greve dannaggio,
ché mi disdegna e dá pena su' altora.
Perfetto in signoria mi misi servo,
15
senn'e voler congiunto
ad un disio, il suo pregio servendo,
e conservendo ciò, com'or conservo,
d'ogni penser digiunto
sono, 'n ciò servo, 'ntera voglia avendo,
20
ed attendendo ne in parte diletto,
il qual per lo piacere imaginai;
e perché mi fermai
sotto sua signoria interamente,
sol che servente — fusse lei soggetto,
25
piacer disio e tal voglia portai,
e piú non disiai,
nel primo: ed or desio simelemente.
Non disiando che solo servire,
di ciò contento fui,
30
in alcun'ora: quasi per sembianza
dimostrando ver' me fusse in gradire
gioi' lei servisse in cui
di ciò sorrise con gran benenanza.
Ma poi in fallanza — mea vista tornando,
35
viddi in tutto lo contraro aperto,
quasi di ciò isperto,
poi sua vista fermata m'è in disdegno,
ed io tal segno — per vero approvando,
di gio' m'ha miso tale in pena certo,
40
di ciascun ben diserto
e fermo in vita amara e 'n morte regno.
Regnando in morte, sono in suo podere
nascoso e forse pare;
tanto ne l'alma mia monta dolore,
45
che, sostenendo 'n pena sí piacere,
non sí grav'è penare,
ma grave è piú via troppo e monta ardore,
ch'io tuttore — contrar me' voler porto,
poi miso in parte m'ha sí dolorosa,
50
ove pena gravosa
m'abbonda ciascun'or, com'aigua in fonte,
ch'el del monte — di gioi' m'ha indi sporto,
unde la pena m'è via piú dogliosa,
poi di gioi' dilettosa
55
m'ha miso in pene piú ch'io non ho cónte.
Contat'ho parte di mia pen'alcona,
ma non quante in me regna
per non potenza a dire avendo intera;
ché 'l core e 'l dir mi manca e abandona,
60
e, come foco in legna
s'apprende, pianto in lui simel mainera,
und'è che fèra — tal ho 'n pena vita:
poi, disiando servir fermo intero,
son di ciascun ben vero
65
e di speranza d'aver gioi' luntano;
ma' non istrano — di doglia 'nfinita,
ov'io consomo com'al foco cero,
né cosa mai ispero
mi possa, disdegnand'ella, far sano.
70
D'altèra signoria
'maginando beltate e piú valore,
mi misi servidore,
ov'io son servo, quando a lei gradisse,
né mai so ch'io fallisse;
75
ma per bassezza me forse disdegna,
ma perciò ch'io mai vegna
quant'ho di voler manto non m'è viso,
ma tuttora strò fiso,
né per tormento alcun mutando via.
80
S'umeltá con fermezza
nel suo scendesse disdegnoso core,
ogni pianto e dolore
di me mi parrea gioi' ed allegrezza.
VI
Si lamenta ancora di dover tanto soffrire per essere servo d'Amore.
Considerando la vera partenza
c'ho fatta intera d'ogni vano amore,
e 'l gravoso dolore
ch'aggio sentito 'n sua star signoria,
pòte di gioia aver meo cor essenza,
5
poi che disfatto lui ho, meo guerrero,
e preso in disamore
ogni d'amanza sua cosa e poi via,
la qual quando seguía,
porgea tristizia in me d'ognunque pene,
10
non resentendo bene
d'alcun piacer, ma greve ogni doglienza;
unde miso a perdenza
avea mia mente, corpo, alma e core,
su' poderato essendo in me furore.
15
E quanto d'altro piú fui doloroso,
ciascun dolor di lui, lasso! sentendo,
tanto dico, gioiendo,
deggio portar via più d'altr'allegrezza,
poi che 'n vertá sono vero amoroso,
20
e, partito d'amore, amor prendendo
e diritta seguendo
d'anima voglia, che fu in iscurezza,
la qual giunse gravezza,
e reformando in lei iroso male,
25
imperciò ch'è penale
possa seguir diritta e torta intenza,
ma, or che dipartenza
ho di lui fatto, seguo ogni memòra
e quant'ontai con esso senza mora.
30
Non sentimento mai ebbi di gioia,
seguendo in lui voler fer' ed ontoso,
né mai ebbi riposo
per isperanza d'alcun ben che sia:
e che sembrav'a me bene, era noia
35
e ogni vero bene, oltra gravoso,
per che sempre angoscioso
viveva dimorando in tal follia.
Unde perduto avía
ogne vertú che mise in me natura,
40
sí che solo figura
mantenea d'omo e non punto scienza
e l'alta canoscenza
de la ragion, la qual or non tutt'aggio,
unde vivea ferale oltra selvaggio.
45
Del dolor che porgea in me mainera
chero ferma cagione adimostrare,
e volendo contare
com' riformava in me suo gran tormento,
non tormentava me di doglia fèra,
50
come sensibil corpo in dar penare,
ma solo in disiare,
tardando ciò che m'era piacimento;
ché non pò far contento
alcuna cosa u'om' non porti amanza,
55
tuttor sia 'n sua possanza,
e dove porti giá non possa avere.
Ah! che grev'è 'l dolere
u' solo perda alquanto d'ella viso:
dico tormenta, se disira fiso.
60
E non sentiva per lo su' operare,
ma cagion era in ciò ch'era operato,
unde segondo stato
di natura mi dava isvariamento;
farmi voler che non potea 'cquistare
65
e perder che gradivo avea 'cquistato
e 'n ciascun d'esti grato
porgiami svariato sentimento.
E tal suo creamento
adoperava in me diversa offensa,
70
e dico: — Om' per potenza
ciò ch'ha 'quistato amando u' prende gioia,
sed ei perde, poi noia
gli abbonda maggio che non fé il deletto,
per che nostra natura è in defetto. —
75
Com'operava in mevi il suo sentire,
tutto languir diviso ogni piacere,
al desentir dolere
da me diviso d'ognunque suo male,
e dammi noia in che ferm' ho gradire
80
e fammi che volea tutto isvolere
ed el desio podere
ch'era costretto a desiar infinale
e diverso, giá quale
non potea aver mai compimento
85
ed il suo potimento
diliberato in tutto aver disio,
sí che mis' ho in obrío
ogni sentir di lui fermo e ricordo,
stando a membranza di lui, mai sempre ordo.
90
Se disdegnanza Amore alcuna ha presa,
volendo apporre offesa,
ch'e' fui'n sua signoria, or ne son fòra,
di colui che restora
il tormento c'ha avuto ogni mio fallo
95
e che per vero sallo,
ni vorrea senza stato esser sua doglia,
per la qual credo in me piú gioi' s'acoglia.
Anco maggio difensa,
la qual misura sostien di ragione,
100
ha maggi' offensione,
ch'om non seguir dea mal tutto deletto,
né senta ov'ha defetto
maggiormente non donque ov'ha 'frissione
e corporale eterna confusione.
105
VII
Si lamenta delle prepotenze e ingiustizie che commetteva in Pisa la parte che spadroneggiava al governo della cosa pubblica.
La dolorosa noia,
ch'aggio dentro al meo core,
che non mostri di fòre
non posso: tanto sostener m'avanza,
montando malenanza
5
e soverchiando me da tutte parte,
poi che tra gente croia
(come non saggi, alpestri,
ch'aver degni capestri
lor serian, distringendo come fère,
10
quale piú son crudère),
dimorar mi convene e stare 'n parte,
e non solo dimor con loro usando,
ma mi convene stando
sotto lor suggezion quasi che muto,
15
di che son dipartuto
d'ogni piacer, poi lor signoria venne:
e come ciò sostenne
venisse, u' sosten regno, eo meraviglio
Dio, poi comunitá mis'ha 'n disguiglio.
20
Mis'hanno in disguiglianza
ragione e conculcata
e per loro scalcata,
li lor seguendo pur propi misteri
e i malvagi penseri
25
seguitando, non punto in lor ragione.
Lá ch'era comunanza
hanno sodutta in parte,
ed han miso in disparte
li valorosi e degni e bon rettori,
30
per li quali e' maggiori
con parvi dividían onor comone;
ora l'hanno condutto in propietate,
perché la volontate
lor tanto fèra il senno ha suggiugato,
35
e giá non è mostrato,
ch'è sol voler per lor fer' e mortale,
il quale ha miso a male
ed a danno, volendo, loro terra
e perdute castella e piano in guerra.
40
E quei ch'erano degni,
e che 'n vero son anco,
mis' han dal lato manco,
crescendo onor, rettori ed avanzando
e non quasi mancando
45
per lor ragion, ma sol era ben retta,
di che si vên gran segni:
giustizia conservata
era per lor montata,
sí che mal fare alcun non quasi ardía,
50
perché 'l mal si punía,
la terra d'ogni scuso era ben retta.
Or giustizia è deserta, ond'è caduta,
con ragione perduta,
ché piú ladroni son che mercatanti,
55
e quasi certo i santi
son dirubbati e no solo i palagi,
ed a ciascuno adagi
par de' detti signor, ma ciò non sono,
ché l'un perisce e l'altr'ha 'n mal perdono.
60
Portano perdonanza
i lor propi 'n mal fare,
e piú che meritare
è intra loro alcun che l'òr vorria,
però che la lor via
65
la fine e 'l primo e 'l mezzo è propio a male;
ed altri, s'è 'n fallanza,
greve sostegnon pena,
e chi lor guerra mena
quant' a lor terra son siguri 'n tutto
70
e riprendon condutto
di ciò che volno in lor cittá, el quale
e le terre, che son tante perdute,
non giá l'hanno volute
difender, ma perdute sian lor piace,
75
e, divietato, han pace,
solo a confusion d'omin di parte.
E ciò fatt'hanno ad arte,
unde procederá in loro gran danno,
ché non sofferrá Dio sí grande inganno.
80
Se mi distringe doglia,
non certo è meraviglia,
ma crudeltá somiglia
a cui non prende doglia e pena monta,
veggendo che si ponta
85
alcuna parte in mal far quanto pòte,
e quei che piena voglia
aviano 'n bene ovrare,
e tutto il lor pensare
solamente era in ciò, sono a nente
90
per sí smodata gente,
und'onni gioi' per me son vane e vòte,
ché sento in tutto morta ora giustizia
ed avanzar malizia
e 'l mal ben conculcare, somettendo
95
e montando e crescendo
islealtate, inganno e disragione,
di che mia 'ntenzione
non è che lungo tempo Dio il sostegna,
che non soffrir vorrá cosa sí 'ndegna.
100
Seminato nel campo fer' han seme
e seme simel sé ciascun arende,
und'è folle chi attende
di seminato gran piggior che gioglio,
perché non tanto doglio
105
che frutto e seme cosa una fi' 'nseme.
Per soverchi'abondanza
ch'avea ed ho di gravosa doglienza,
m' have la mia voglienza
sommosso a conto far di sí gran torto,
110
il qual greve m'ha porto
cagion dogliosa e fèra di dolere,
poi che 'l bene a podere
sento perire e 'l mal tuttora avanza.
VIII
Vorrebbe trovar rimedio contro le pene d'amore, ma non sa come.
Dolorosa doglienza in dir m'adduce,
non potendo celar, tacendo, 'l core:
tanto m'avanza ognor pen'e dolore
che pregio men che nente vita u' regno.
Considerando, lasso!, son ritegno
5
d'ogni languire, avendo mia vita agra
e di ciascun plager lontana e magra,
avendo di vertú perduta luce.
Poi del mio cor disio metter soffersi
in seguitar, perdendo ragion vera,
10
e sommettendo arbitro 've non era,
ciò è servaggio di natura umana,
u' non guardai avendo mente sana;
ma or somiso aver non vorea dico,
ché d'allegrezze, di gioi' son mendíco,
15
ritegno di dolor fonte diversi.
Disnaturando natura, seguendo
di sottometter voglia altrui 'n servaggio,
ché chiar conosco che l'uman lignaggio
d'aver fugge signor naturalmente,
20
ma diviso da ciò diversamente,
regnando in me avendo gran diletto
d'essere servo di cui son soggetto,
in seguitare affanno sostenendo.
E poi congiunsi mevi a tal desire,
25
non mai d'intenzion tal fei partenza,
ma misi 'ngegno a ciò e tutta potenza
e d'altro in me poder giá non ritenni
che sol servendo u' manco lei non venni,
e che i fosse piager fece mostranza,
30
siccome quasi me parv'accordanza,
und'alquanto mi fe' gioia sentire.
Dimorando plager tal quasi un'ora,
se piú non manto fu, se bene e' membro,
presente a ciò sua vista mevi sembrò
35
piú che dir non poría, crudele e fèra,
e visai la sua voglia ch'era intera
di darmi pene, u' son, sí dolorose
che sostenerle alcun tanto gravose
parva in vita serea sua dimora.
40
Ed avanzando in me piú 'l dolor monta
e quasi dico nente ver' ch'io celo,
ché corpo alcun, non credo, è sotto 'l celo
che regni 'n vita, un'or' vi dimorasse
e che senza dimora noi' fallasse;
45
ma per penare piú vit'ho languendo
e soccorso di scampo non attendo,
poi non d'aver per me mai ben si conta.
Se, com'eo dico, u' piú mi stringe pena
di tal cagione, piú deggio dolere,
50
poi veggio e sento che nel me' podere
non si riten di ciò che dipart'omo,
ciò è ragion da fèra: o lasso! como
ne son diviso e tralassato intero,
e seguitando voler tanto fèro,
55
quale tuttor seguir mi' alma pena!
Per che mia vita, dico, è piú ferale
che d'animale alcun, perché natura
segue, ma pure in me tanto ismisura
che fuggo e lasso lei, seguendo 'l contra.
60
E d'aver signoria non giá fui contra,
somettendoli arbitro e mia franchezza;
unde, piú ch'aggio ditto, in me gravezza
di greve pene agiunt'anche ogne male.
Poiché mi sembra e che 'l conosco fallo
65
perché non, lasso, in ciò, rimedio prendo?
E no m'ofender piú ove m'ofendo,
partir mia voglia di tal signoria?
Dico che 'n farlo in me non ho bailía,
poich'a ciò falso plager mi congiunse,
70
che d'anima e da cor vertú digiunse
e ciascuna potenza senza fallo:
perché 'mpossibil m'è farne partenza,
ché 'l mio volere a ciò è sottoposto,
e di maniera tale son disposto
75
che d'alcun qualsia bene i' non ho segno:
e conosco a ragion di ciò son degno.
Ma non mi dol però meno 'l tormento
ch'eo doloroso pur languisco e sento
e che porti conven cor di doglienza.
80
Provato folle, me dico, simiglia
chi segue 'l suo dannaggio e ha 'l pro contra:
e 'n me quel che contat'ho sovra 'ncontra,
perch'alcun sia piú ch'eo folle non credo,
poich'eo non presi, allor potea, rimedo,
85
e di quel ch'ora seguo maggiormente
poi son disposto tanto malamente,
che s'alcuno, com'i', è gran meraviglia.
Meo cordoglio e lamento, ora te move
e te presenta avante a cui ti mando
90
e cerne 'l meo dolor tutto nomando,
non voglia contar lui el mio tormento
e di' che sguardi ben s'a ragion sento
e corregga tuo fallo e comendi ove.
IX
Dice d'esser tutto preso dall'amore di lei e di non avere altro pensiero.
Vero è che stato son manta stagione
senza d'amanza alcun far prendimento,
potendo elegimento
di tal fare, in cui ver' ben fosse appriso;
e ho fedel ver' ciò misa intenzione,
5
saver, penser non lento e provedenza,
né mai feci prendenza.
Pertanto cauto in ciò fatt'ho, diviso,
perciò ched'è diviso
del mi' cor fermo sempre ogne volere,
10
che non solo piagere
come ne li altri in me confermi amanza,
ma sí sempre possanza
di piagimento, gentilezza e bene:
per ciò che non disvene
15
en nei gentil virtú senza fallanza.
Non fei prendenza d'amanza in desire,
perciò ch'ove ho trovato esser plagenza,
non trovato ho potenza
d'altre virtú che son sovramagiore;
20
ma or l'ho priso, a ciò ch'aggio sentire
di tale in cui piacere e virtú trovo,
e non solo io l'aprovo,
ma suoie operazion, suo gran valore;
ché eo quasi un colore
25
cerno di suoie virtú quanto a sembianza.
Che se far dimostranza
volesse, in dir, del suo gran valimento,
daría conoscimento
a ciascun chiaro di lei fermamente,
30
per ciò che veramente
altra no ha ver' lei mai parimento.
Come a la sovra sua cara valenza
non pote altra aver mai simiglianza,
cusí senza fallanza
35
non pò mio amore alcun altro semblare;
ch'eo no ho solo in lei d'amor voglienza,
ch'è, in altrui, voler con seco om bene;
ma mia voglienza è bene
in suo piager lo mio sempre di fare;
40
e ciò deo certo fare,
ch'ella m'ha fatto quel che in me non sono:
ché per suo caro dono
del suo remiro tanto virtuoso
m'ha fatto grazïoso
45
in sua potenza, nel mio cor passando,
ove mise formando
del suo degno sentir fermo riposo.
Preso ha riposo in me suo pensamento
e l'alma forma di sua simiglianza,
50
la qual dato ha mutanza
a l'ofuscato mio primero stato
per suo gran virtuoso operamento:
ché miso ha dignità nel cor non degno,
e 'l suo valor sí degno
55
ha l'esser mio nel suo giá trasformato:
ché per mio vero grato
e sua virtú, son fatto un altro lei.
Vero è ch'ella non mei,
perché può fare assai piú ch'io non posso,
60
ha ciò ch'eo son commosso,
ov'ell'è sempre 'n sua magna virtute,
poiché mi die' salute
del suo sentire, assai piú che 'n dir mosso.
Non mostro in dire quanto in cor mi posa
65
sua benvoglienza e suo caro pensero;
perciò che sería fèro
poterlo a lingua alcun' sí divisare,
ché 'l cor non pò pensar tanto gran cosa:
ché quando a ciò pensar provando intende,
70
certo adesso 'l comprende
ismarimento che 'l fa svariare.
E se 'n sé vòl tornare,
conven che solo stia tanto al sentire;
e quel po' sofferire,
75
perché tal sentimento è virtuoso:
ché 'l suo vero riposo
ha d'alegrezza in sé spiriti vivi,
li quai son sí gradivi
che fanno in tutto mio esser gioioso.
80
Va', mia nova canzone,
tutto quanto conven non forse degna,
a quella in cui cor regna
quanto si sa di ben piú divisare.
E 'ntende a lei mostrare
85
come sua gran virtú, sua gran carezza
m'hanno dato fermezza
di sua amanza, che è senza aver pare.
X
RINTRONICO
Consiglia a soffrire le avversitá con rassegnazione, sperando d'averne un giorno lenimento.
Magna medela a grave e perigliosa
del tutto infermitá so che convene,
ché parva parvo so dá curamento;
e chi infirma greve e ponderosa
a possibile far cherenza dene,
5
e non cui falla punto potimento;
ché non ha valimento
picciula cura gran piaga sanare,
né poi pot'om' trovare
guerenza in quello dal quale divia.
10
Stolti, è grave via
poter sanare u' tutta è violenza,
e non queta l'om' mai sua essenza.
Per che mia voglia sre' desiderosa
che d'altra parte aver conforto e spene
15
desiderato avessi e stettamento;
perché di lui m'è via onne stremosa
referendol del tutto, e aspra ène,
unde, parlando, dir quasi pavento:
ché dare spiramento
20
è dificile me, e mitigare,
però che se penare
mettesse 'n ciò, sre' vano al tutto pria,
appresso poi seria
la fine ad onta, diviso, aderenza,
25
unde aliena sre' me' provedenza.
Però l'omo en cui è poderosa
aversitade, dea potenze e lene
metter: creando vigore sia 'ntento;
né de' sua voglia esser nighettosa,
30
né di vilezza le suoie opre piene,
né ira fare in lui occupamento;
ma levar, sanamento
se de' isperando da colui che pare,
siccome vero pare,
35
no ha, ni ebbe, ni mai aver dia,
il qual sempre desia
prosperitá a om' dare e valenza
e vòle e pò per sua magna eccellenza.
Prova vera vertú vertudiosa
40
colui ch'aversitá fermo destene,
per sua valenza a farne occultamento,
e 'n tal mainera de' lui graziosa
esser, dico, se vero ei cerne bene;
ché, come purga metallo elemento,
45
cosí ho credimento
che sia d'aversitá 'l propio purgare,
vincere e conculcare
di ciascun vizii che parato stia
voler, che noi' sería
50
fòr d'altro frutto: e ciò è pacienza
che dá vertú in cui fa su' aderenza.
Tant'è magna di Dio e valorosa
la potenza, che cose onne sosténe,
ch'a' monti pò legger dar mutamento,
55
e chiara cosa far ch'è tenebrosa
e diletto tornar, tormento s'éne,
e qual piú vivo par dar finimento.
Dunque dischiaramento
e libertá pòn servo seguitare,
60
e ciò hae sperare,
ché disse santo di filosofia,
in cui non fu falsía:
«S'avesse om' fede, o vera intelligenza,
fare' mover li monti a sua indigenza».
65
Donqu'è provedimento
per fede e spera voler seguitare
e retto in lui sperare
aver ch'è quello che cotidio cria
remedi, e quai pensria
70
animo mai, sí pog'ha percepenza,
ma ei bensí in cui somm'è prudenza.
XI
Non potendo piú reggere alle amare pene che lo affliggono, si risolve a parlarne, ma in forma coperta, perché non lo intenda un tal Corso.
Di dir giá piú non celo,
poi tante pene ho possa.
Doglia m'è 'n cor ripresa,
ch'è alcun non sotto 'l celo
ch'om' di tal vertú possa.
5
Donque 'l dir non ripresa
che di tai pene regno
fusse, con quale io regno,
over pur che di parte
in rea non fusse parte,
10
ch'altro sostenere omo
no le porea quale ho mò.
Dunque, se 'n dir disovro,
biasmo in me non giá monta
a cotal pena fèra
15
ché ad ognor' om' credo sovro
son di doglia tal monta,
che nol sofferea fèra,
e poi nel meo cor aggio
a lui voler coraggio
20
con pura contar fede,
unde mi scende fede,
se non poder mi manca,
ver' mia ragion sia manca.
Rappresento ove servo
25
sommisi il meo potere,
non giá per mia ignoranza,
uvi 'n cor sono e servo,
come cert'ho potere,
seguir sua magn'oranza.
30
E per piager che porto
fo d'ella in me un deporto,
imaginandol pena
a darmi affanno 'n pena:
a cosí mortal passo
35
son lá dovunqu'i' passo.
Che poi chiaro nel viso
la mia conobbe essenza,
fu ver' me adesso contra,
e in un'ora diviso
40
fui mai di gio' e senza,
poi fu pena mi contra.
Tanto crudel fu' punto
di dardo, il qual m'ha punto,
che giá alcun no di pare
45
fu sí como mi pare,
ch'ognora in morte vivo,
se par' voi piú vivo.
Se dir vòle soccorso
alcuno aver di porto,
50
u' gioi' potesse avere,
rispondo: — Sí son corso,
che non venire a porto
per mio spero savere;
ma se giá avenire,
55
se ciò farmi venire
poria, volesse tale,
che m'ha condutto a tale,
per creder parto nome,
cui sovra scritto ho nome.
60
Lo meo palese dire
ho, per non voler dire,
in parte scura messo,
e che a non dir sia me' so
a ciascun lo meo corso,
65
ché no' lo intenda Corso.
XII
Anche qui parla chiuso, per dare sfogo al dolore che lo affanna.
Poi che mia voglia varca
sofferenza, convene
tutto che sento ch'apra;
perché nel meo cor varca
sua forza e sí convene,
5
ma 'n parvo dir n'ho capra,
perché non con voglia empia,
ma pur chiara e che m'empia
quella sperando u' servo,
il meo dir cui reservo,
10
se di fallo avesse ombra,
perché 'l meo cor no' ombra.
Cui amoroso isguardo,
de l'alma porto forma:
come sol valca vetro,
15
come figura isguardo,
entrò 'n me en so' forma,
cui seguí mai non vetro;
sí forte ha miso destra
me che 'n guisa ogni destra
20
lei servir chero e larga
nell'affannarmi larga.
Vita di gioia magra,
ch'altro savor no m'agra!
Considerando sovra
25
di tutte l'autre donne
come pur or v'è 'n petra,
ché non giá mai si sovra
d'ovra di pregio donne,
quale maggie omo 'mpetra;
30
che, come in fonte surge
aigua, sí 'n lei si surge
virtú che 'n lei poi regna.
Donque, s'ella mi regna,
esser sovra in gioi' parmi,
35
perché nullo è par' mi.
Lo ver plager, che porto
della diva lor magna,
piú è, pensando solo,
che d'ogni vertú porto,
40
ed ho nel suo cor magna,
siccome fo, ché solo
per sua sembianza porta
mevi che 'n vertá porta
per considranza in mente.
45
Quando 'n ciò tegno mente
ch'a ciascun'or' mi membra,
di gioi' pien'è ogni membra.
Per non potere aggio orma
come celar non saggio
50
cernita del meo bene;
tanto voler vinto or m'ha;
ma pur ver dirò saggio
che 'l conto vero bene;
ché s'avesse sol pena,
55
ed invan la mia pena,
servendo, fusse i contra,
sí m'è gran gioia contra.
pur che lei ami e serva
e piú sua voglia serva.
60
Lo meo dir parlo chiuso,
perché quello in lui chiuso
vidivi quasi fiore,
se di pregio onne fiore
in lui contensi e conta
65
sovra ciascuna conta.
So che porea dire omo
me: — Perché parlat'ha' mò,
voi non sentendo folle? —
Dico 'n ciò, come folle
70
venta, quando si mena;
cusí voglia mi mena.
XIII
L'anima viene pura dall'alto; ma si guasta poi e si travia, come quella del poeta, che ha dato a madonna l'impero del suo cuore.
Lasso, sovente — sent'e' — che natura
vene d'altura — pura — a la mia mente,
che pria saccente — mente — alto procura,
d'om criatura — cura — finalmente.
E poi seguente — gente — i dá drittura,
d'ogni misura — fura — vil nocente,
poi, se piagente — sente — in lui bruttura,
seguir rancura — dura — malamente.
Ed eo dolente — chent'è — il mi' operare?
Pure 'n fallare — pare — , e ciò è clero,
che sia del vero — però — bene spento.
E ciò contento — sento — mevi amare,
vertú affondare, — dare — a vizio altèro
sor mev'impero: — pero, — se non pento!
XIV
Instabilitá della fortuna.
Se quei che regna e 'n segnoria empera,
avesse vera — 'n suo stato fermezza,
serea giá questo, al mio viso, mainera
d'avere spera — aver non mai altezza
omo ch'è basso, ma d'aver misera,
5
e serea fèra — -sua vita 'n gravezza;
ma noi veggiam che piú grandezz'altèra
conven pur pèra — e piú affondar s'appressa.
Perché di rota ha 'l mondo simiglianza
che non posanza — ha mai, ma va volgendo,
10
saggio, temendo, — vive alto mutanza.
Però chi bass'è, no stia in disperanza,
faccia mostranza, — fortuna salendo,
sé contenendo, — allegro in gran possanza.
Sed alcun folle se trova ne l'alto,
15
senza defalto — su cred'esser fermo,
poi vesi, sper' mo, — far di sotto 'l salto:
chi è 'n grande assalto — non cre' regni guer' mo.
XV
Conforta un amico d'un grave dolore che lo affanna.
Dolendo, amico, di gravosa pena
d'affanno, il quale in te, aviso, regna,
dolor portando, il qual giá non m'alena,
(u' doglia amico doler cosa è degna),
mia volontá m'ha somosso e mi mena
a dir cosa, conforto unde te vegna,
se giá porò; e 'n ciò meo cor se pena
e si travaglia, perché ciò divegna.
Virtute, amico, di saggi'om' piú pare
affanno periglioso portar retto,
che allegrezza, u' ciascun si contene.
Ché non è vero pregio comportare
ciò che comportan tutti, ma star retto,
ov'ogn'om cade: tal'è pregio bene.
XVI
Dice ad un amico come giá da tre anni sia servo d'amore, e gli domanda consiglio.
Rapresentando a canoscenza vostra
meo doloroso mal, grave, diverso,
sono mosso, facendo vo' alcun verso,
responsion volendo vi dia giostra,
a ciò che la vertú che 'n voi enchiostra,
mi dia consiglio in che dir vogli' or verso,
ché conobbi per vero bianco il perso,
per ingannevil fatta mi fu mostra.
Ciò fu sembianza ria, la qual vi mostra
il meo dir da diritto fu isperso,
unde diletto immaginai e postra
de la 'maginazion ebbi il rio verso,
ch'eo mi legai di sua potenza in chiostra,
somettendo mi' arbitro, ann'è ben terso.
XVII
Esorta altri a mostrare, ch'è tempo, il proprio valore, per togliersi dal basso stato, ov'è caduto.
Preg'a chi dorme ch'oramai si svegli,
e nel su' core — ingenneri vigore,
e quanto può, pugnando, s'aparegli
gir'avanzando, — conquistando onore.
Tutto d'esser non sian gli omin paregli,
5
ma quei che men si tragga 'nver' valore,
non si neghisca 'n essenzia, ove 'nvegli,
che sia divisa da vero labore,
perché col tempo ovrar, dico, è savere:
donque chi sente sé 'n tempo, sti' accorto
10
in solicito stato avere altèro.
E quei che ciò non fa, degn'è d'avere
su' stato in valle, di ciascun ben corto,
e chi ciò segue, signoria e 'mpero.
Ciascun om' general che dico intenda,
15
la cui dimorazion nel vallo è posta,
intendimento d'alto montar prenda,
no stia tuttor la sua valenza ascosta.
XVIII
Discopre le sue pene per essere in signoria d'Amore.
Piggiore stimo che morso di capra,
ov'Amor fier d'artiglio e dá di becco;
ché quasi sembro lui albore secco,
quale 'n cui regni, e bene in lui non capra.
Ma dico che conven su' cor che s'apra,
5
a perder sa vertú rimane istecco,
ché non fa frutto, e 'n falso dir non pecco,
ché per me 'l provo e per altrui si saprá.
E poi fu' in signoria di suo soperchio,
mis'ha 'n tormento di mia vita il corso,
10
di greve affanno e di piager sí magra.
Tant'è sua signoria diversa ed agra,
chi sottoposto è lei, va a morte a corso:
per languir ch'ho di lui, ciò discoperchio.
Del mal diritto al contraro fa cerna,
15
perché chi non è ad esso sottoposto,
di ben a perfezion venir pò tosto.
XIX
Si lamenta di vedere abbandonata la giustizia e trionfare la slealtá.
Lasso di far piú verso
son, poi veggi' ogn'om' manco
d'amore far tuttor del dritto inverso,
ché qual ten om' piú franco
di lealtate, perso
5
tosto fa sé veder, se pò, del bianco:
ché donna, né converso
non sol cor aggia stanco
di ciò pensare e fare, und'è ben perso —
sicché: Vertú non branco —
10
pò dire, — anzi l'avverso —
leal om': sí l'ha preso per lo fianco
islealtat'e inganno, ch'ognor monta
e lo mondo governa,
sicch'a quella lanterna
15
vol gire ogn'omo e in ciò far si ponta;
tanto ch'obbriat' hanno la superna
membranza, dove l'onta
e 'l ben d'ogn'om' si conta,
e di ciascuno han merto in sempiterna.
20
XX
Ogni sua volontá, ogni diletto è in piacere a lei.
Sovrapiagente mia gioia gioiosa
e nova vita senza cui son morto,
passato ho 'l mar di mia vita angosciosa,
e te eletta sola ho per mio porto:
e ho fermato in te tutta mia posa,
et se' tutto diletto e mio diporto.
Eo partit'ho teco ogne mia cosa:
senza 'l mi' cor cre' tu ch'i' gía nel porto?
Quel che teco ho partito, è la mia vita:
ché dato ho te di mio viver l'essenza
e me tenuto tuo aggio in parere:
unde tanto per me cosa è gradita,
quanto gradisce a te e in te m'agenza,
ch'io altro non ho piú che 'l tuo volere.
XXI
Amore ha preso tutta la sua anima ed è porto d'ogni sua virtú.
Amor s'ha il mio voler miso di sovra;
s'ovra — non falla, giammai non diviso
che sua virtú da me sia punto sovra,
s'ovra — sí forte lo parer diviso.
E l'alma ha vinta ognor, se poso o s'ovro,
s'ovro, — è da me non mai punto e' diviso,
tutto non com'elli è tanto sovro,
s'ovro, — da me astenne saetta di viso.
E quello amore in me, che tanto porto,
porto — è d'onne virtú, non sol di parte
parte — , da cui non mai lei tanto regna,
in che pensando benenanza porto;
porto — sentir di lei m'è d'onne parte,
parte — di ben di sé vero in cui regna.
XXII
Ha la graziosa immagine di madonna fissa sempre in cuore.
Non posso proferir quant'ho voglienza
di te sempre servir, mia gentil cosa,
per ciò ch'appena pò pensar mi' intenza
quanto tu' amore in meve prende posa.
Amor s'è priso in me sovrapotenza,
e sua virtú che par forsi nascosa,
ha la figura di tua gran piagenza
formata nel mi' core sí graziosa,
ché se 'l sol pare, over che 'l sia nascosa,
se corro u poso, — ovonque io sempre sia,
tua forma nel mi' cor piagente sguardo.
E quando te vedo, lasso, non oso,
né veder posso; miro, in fede mia,
dentro al mio core, ove io te porto e guardo.
IV BETTO METTEFUOCO
Si mostra lieto di essere in servitú d'Amore per una donna avvenente.
Amore, perché m'hai
distretto in tal misura,
ch'eo non posso contare
ben le mie pene a chi mi fôra 'n grado?
Ardir non poss'ormai
5
di dir, tant'ho paura!
Cusí mi fa' dottare
di perder quell'und'eo allegro vado.
Molt'ho grand'allegrezza
de la dolse 'contezza
10
ch'agio co' l'avenente,
che par che i sia piagente — mia contanza.
Però 'nde temo forte,
e paur'ho di morte,
che no le dispiacesse
15
s'eo piú su le dicesse — ch'aggio usanza.
Se vo' vegno, e non veggo
o sprendïente viso
che sguardi con pietanza
e parli dolcemente con placire,
20
tuttor con voi mi reggo
e non ne son diviso.
Vivendo in isperanza,
son gai' e fresco e raffino 'n servire;
né lo meo pensamento
25
non può escir di tormento,
pensando a farv'onore,
donna di gran valore, — pienamente:
ca per lo vostro bene
mi pare escir di pene,
30
cusí forte mi piace,
piò che lo meo non face — fermamente.
Or dunqua com' faraggio,
poi la mia malatia
non oso adimostrare
35
a chi mi può guerir e far gioioso?
Ben so che ne moraggio
di corto qualche dia:
nonde porò campare,
se no m'aiuta 'l viso grazïoso,
40
per cui piango e sospiro
tuttor, quando la smiro,
e dico 'nver' di mei:
— Lasso! Perché colei — eo amai tanto?
Possa riprendo 'l dire
45
c'ho fatto e dico: — Sire
Deo, cotal fenita
facesse la mia vita — e fôra santo! —
Madonna, penso forte
de la mia natura
50
che passa l'assessino
del Veglio de montagna disperato;
che per metersi a morte
passa in aventura;
e gli è cosí latino,
55
nol gli è gravoso, ch'egli è ingannato,
ché 'l Veglio a lo' 'mprimero
lo tene in del verdero,
e fái parer che sia
quel che fa notte e dia — di bono core.
60
Ma io, ched ho veduto
lo mondo e conosciuto,
agio ferma credenza
che la vostra potenza — sia magiore.
S'eo sono inamorato
65
cosí in dismisuranza,
e' credo fare acquisto
due cose: quelle ond'io fallo e son saggio.
Saggio son: ché fermato
so senza dubitanza
70
lá 've compose Cristo
bellezze tante, ch'altrui fann'oltraggio;
che son sí sprendiente,
ch'io non posso neiente
contarle bene e dire:
75
ché fa tutto avenire — a chi la guarda.
Fallo: ch'amo l'altezza,
somma di gentilezza
al meo parer che sia,
in cui tutto m'avía — arimembrando.
V CIOLO DELLA BARBA
Chiede a madonna, poiché è in tutto servo di lei, che si mova a pietá del suo amore.
Compiutamente mess'ho intenzïone
di forza e di podere
che d'una cosa agiate disidranza:
di non far tanto ch'om'agia ragione
di vedermi dolere,
5
perché nel mondo non corre un'usanza.
Ché se Ventura de rota ha fermezza
in de l'altezza — di voi che mostrate,
in ciò considerate — ch'io son vostro,
piú che nel mio cantare non vi mostro.
10
Se non vi mostro le pene e la doglia
che per amor patisco,
temendo eo veo e sonde pauroso
ch'enver' di me non vi si sforzi voglia
del penar ch'io norisco.
15
Inorando voi, sonde dubitoso;
ma so che possedete canoscenza,
di che s'agenza, — tutta benenanza:
onde la mia speranza — si conforta,
com' fenice per rinovar s'amorta.
20
Morir meglio mi fôra naturali,
pensando li martiri
ch'i' ho patuto e pato nott'e dia,
con altre cose che non mi son 'guali
de li mïei desiri,
25
come compresi di voi, donna mia.
Non l'auso dir, ché la mente ho raminga,
né da la lingua — no 'm pò pervenire,
potendomi salire — se v'è 'n piagenza,
come l'aringhe fan contro a corenza.
30
A tale corso mi donao natura,
no mi n' posso partire:
partire me m' potesse voi dimora,
da ch'io 'n voi vegio tanta diritura
di somma di savire,
35
che sovr'a l'altre vinde porto onora
Poi che m'avete tutto in vostra baglia,
ora vi caglia — di me, che v'ho fede,
prendendoven mercede — , se vo' membra
ch'io non fenisca com' la fior tembra.
40
VI PUCCIANDONE MARTELLI
I
Si lagna delle pene che gli dá Amore e chiede a madonna che si mova a pietá del suo dolore.
Lo fermo intendimento, ched eo aggio,
porto 'nfra vene sí celatamente,
che quei che da me piú creder lo sente,
ne sa altrettanto quanto 'l piú selvaggio.
E regna in me sí vertudiosamente
5
Amore, che 'n tal loco, u' lo cor aggio,
mi fa stare, ché certo non saggio
sería, se stesse senza forza niente.
Tal è lo convenente.
O bona gente, per Dio non guardate
10
d'Amor, ché 'n veritate
pien è d'erro', che 'n gio' m'ha dato pene,
e di tale mi tene — innamorato,
che eo da lei son neente amato:
signor senza pietate,
15
che giá non è tra cui mi ten servente
e grave senza colpa penetente.
Tant'è savere in lei con grande onore,
e gran beltá ch'affina canoscenza,
ed umiltá ch'adorna la piagenza,
20
che non si cred'ella che per amore
ma' metta sua vertú a mia potenza,
a voler prender loco in tale core,
che non si vòle a compagna valore:
ha 'n tale core Amor sua convenenza.
25
Certo non ha valenza,
né gentilezza, come dicen manti,
che vòle usare avanti
ignoranza ch'entrare in cor gentile:
troppo tornerá a vile — gran carezza,
30
ed in bassanza la sua grande altezza.
Ben doveriano erranti
andar li boni, poi che 'n sconoscenza
tornano Amor, che fu lor mantenenza.
Però di questo tanto mi dispero,
35
ch'eo no so' bon per nessuna mainera,
e le mie pene nente m'alegera,
e fami stare in tal loco crudero
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
40
. . . . . . . che sovente vi fèro,
com'a nemico m'è mostrata cèra:
ché, meglio che non era
in qua dirieto Amor gentile e puro,
per certo m'asicuro
45
ch'egli sería, se in madonna intrasse,
ed in gio' ritornasse — le gran pene
..... che lo meo cor sostene.
Ed eo altro non curo
se non di lei servir, ch'è luce e spera,
50
che 'n tutto de l'amor no mi dispera.
Entra in madonna, Amor, ch'è 'n gentil loco
e pártiti da volontá non fina,
di tutto bella troverai regina,
e sí n'afinerai com'oro al foco:
55
ché noi vedem che d'om' che s'ataupina,
giá no li piace solazzo né gioco,
e chiamasi contento d'uno poco:
tale natura ha volontá meschina,
e sí ti parrá fina.
60
Amore, se risurgi la mia mente,
cosí forte seguente
ti parraggio, che farai acordanza
con lei di darmi amanza. — D'ella faccio
non folle pensare a star selvaggio,
65
di lei nascosamente,
che mi diven com'omo che camina,
che cela l'ora a tal che seco mina.
Tal non credea che fosse convenenza
che in voi m'intendesse sí corale
70
e ben savesse come Amor m'assale:
giá non sa bene di me riprendenza,
ch'eo non sono innamorato tale,
ch'eo da voi mai faccia partenza.
Mercé, madonna, aggiate provedenza
75
d'alleggiar lo meo gravoso male,
da che poco mi vale
lo pur tanto chiamare voi merzede.
S'eo fosse om' senza fede
dovreste aver mercede — .....
80
alquanto de lo molto meo tormento.
Ben aggio speramento — non fi' grave,
ché lo meo cor crede
fará acordanza Amor fina 'guale
d'intrare in vostro core naturale.
85
II
Della gioia che prova a guardar lei.
Tuttora aggio di voi rimembranza
e disianza, — donna mia valente.
Tuttor mi membra e disio vedere
la piacente beltá, donna amorosa,
che 'n voi fa porto con tutto savere,
5
cèra avenente, fresca e grazïosa.
La rimembranza tenemi in piacere,
e lo disio in gran pena angosciosa,
s'eo non vi veo, disiato amore,
in cui lo core — tegno con la mente.
10
Quando vi veo, donna, in cui speranza
tegno, con tutta fina benvoglienza,
aggio allegranza, gioia e beninanza
e donami valor con gran piacenza
la vostra sovrangelica sembianza,
15
che 'nver' me faite, senza percepenza
de li noiosi e de li mal parlieri,
che..... — parlan malamente.
Poi de' sembianti tant'aggio allegrezza:
ben averia, se osass'ella mostrare.
20
Lo mio disio fermat'ho 'n tale altezza,
che di gran gio' viverò senza pare.
Pregovi per la vostra gentilezza
che non vi spiaccia lo meo innamorare.
Quanto mi donerete piú podere,
25
meglio servére — vi porò sovente.
Entr'a lo cor m'intrao con tal dolzore
lo primo isguardo di voi, donna mia,
che m'infiammao di tanto fino amore,
che monta in me cosí ciascuna dia,
30
che in nulla guisa, donna di valore,
a compimento contar lo poría
lingua che parli; tant'aggio abondanza,
servando amanza — ver' voi lealmente.
Ben mi laudo d'Amor, che m'ha donato
35
voler cotanto altèro intendimento,
che m'ha di tale donna innamorato,
ched è somma di tutto piacimento.
Poi che sí altamente m'ha locato,
faccia che piaccia lo meo servimento
40
a quella ched in sua balía mi tene,
e la mia spene — v'aggio interamente.
III
Si lagna che madonna lo faccia tanto soffrire.
Signor senza pietanza, udit'ho dire,
deve tosto fallire
e vana divenir sua signoria.
Senza pietá, mia donna, siete e sire.
Penser'ho di partire
5
me' cor e mente da tale follia;
ché solo v'ingegnate me schernire,
tempestar e languire
e tormentar mi faite nott'e dia.
Talor mostranza faitemi 'n servire,
10
ma non pote granire,
sí come fior che vento lo disvia.
L'albor e 'l vento siete veramente,
ché faite 'l fior, potetelo granare,
poi faitelo fallare
15
e vana divenir la mia speranza.
Deo vi lassi trovar miglior servente
e me signor che faccia meritare,
ché tropp'è greve amare
lo mio, se per servir ho malenanza.
20
IV
Si lamenta che Amore lo abbia ingannato e lo prega a far sí che madonna abbia pietá di lui.
Madonna, vo' isguardando senti' amore,
che dentro da lo core
mi fue molto piacente,
cotanto umilemente
inver' me si mostrao.
5
Ver' lui mi misi a gir con gran baldore,
credendo aver bonore
da lui, al meo vivente.
Ello veracemente
di voi m'innamorao,
10
e bene m'onorao
di tanto, che 'n altura
mise in me la mia cura;
e, quando m'alacciao,
credetti che facesse a voi volere
15
ciò che mi fosse gioia e gran piacere.
Da poi ch'Amor non vòlse ch'io avesse
da vo' grande allegresse,
né gioco né solaccio,
meraviglia me faccio
20
che m'ha cosí ingannato.
Ora ver' me vi fa mostrar feresse
e grandi crudelesse:
e no mi fe' minaccio,
quando mi mise il laccio,
25
und'eo sono allacciato,
e sí preso e legato,
che giá mai, al ver dire,
no mi poría partire,
tanto m'ha innamorato,
30
che a lo mio vivente soffriraggio
lo male e 'l ben che da voi, donna, avraggio.
Amor, poi ch'a madonna tormentare
mi fai come lo mare,
quando, di gran tempesta,
35
a la nave non resta
di dar gravoso afanno,
altrui non aggio, cui mi richiamare,
se non te, che scampare
mi puoi d'esta molesta
40
e darmi gioia e festa
di tutto lo meo danno;
ché certo grande inganno
ha' dimostrat'e fatto.
Ma poi mi n'ha' trasatto,
45
ristaurar come fanno
li bon signori a li lor bon serventi,
che guigliardonan li lor servimenti.
Da cui lo nom' è, Amor, tanto avenente
(e tuttor manta gente
50
aggi' odito laudare)
non mi dovresti fare
mostrar tant'argoglianza.
A la mia donna, che cura neente,
però che 'la non sente
55
de le mie pene amare,
falline, Amor, saggiare,
ch'aggia di me pietanza
e mostrimi sembranza
d'alcuna benvoglienza;
60
ché da la mia intendenza
aggio bona speranza,
poi m'arai ristaurato de le pene
e tutto lo meo mal tornato in bene.
Amor, merzé, a madonna sentire
65
fa' lo travaglio e l'ire
che per lei aggio e sento:
forse mi dará 'bento,
ch'ará di me pietade;
ched io per me non aggio tanto ardire
70
ch'eo li le faccia dire:
tant'aggio ismarrimento,
dubitanza e spavento
con gran diversitade,
e le sue gran beltade
75
temo di riguardare,
per non voler mostrare
altrui mia volontade.
Se tua vertude, Amor, no mi n'aiuta,
d'ogn'altra parte ho mia rason perduta.
80
V
In madonna è ogni bellezza e gentilezza, ed è onorato chi ha fermezza in amar lei.
Similemente, — gente — criatura,
la portatura — pura — ed avenente
faite plagente — mente — per natura,
sí che 'n altura — cura — vo' la gente.
Ch'allor parvente — nente — altra figura
non ha fattura — dura — certamente:
però neente — sente — di ventura
chi sua pintura — scur'ha — no presente.
Tanto doblata — data — v'è bellessa
e adornessa — messa — con plagensa,
ch'ogn'ha che i' pensa — sensa — permirata.
Però, amata — fata, — vo' 'n altessa,
ché la fermessa — d'essa — conoscenza
in sua sentenza — ben sa — onorata.
VII BACCIARONE DI MESSER BACONE
I
Stolti coloro che lodano Amore, fonte di tanti mali.
Nova m'è volontá nel cor creata,
la qual compresa l'alma e 'l corpo m'have,
volendo proferisca e dica 'l grave
crudele stato ch'è 'n amor fallace.
Però ch'alquanto giá fui su' seguace,
5
vòl che testimonia rendane dritta,
a la gente veder faccia sconfitta
che seguen lui, com'ell'è denudata
d'onor, di prode e d'alegrezza totta,
e come dal piè veste 'n fin al capo
10
tutto 'l contrar. S'eo ben dir lo sapo,
dironn' un poco, poi no 'l cor mi lascia
e come grave a portar son soi' fascia,
e com' sre' mei', cui ten, tenessel gotta.
Ora dico chi 'l segue com'ei concia,
15
che, disconciando loro e i loro e 'l loro,
gridan né punto no ne fan mormòro,
ma si rallegran com'òr acquistasse.
Parmi di tai son lor le vertú casse,
non piú che vist'han d'omo razionale;
20
poi prenden gioia e del lor cantan male
e dánno laude a chi tanto li sconcia,
cioè Amor, che non stanchi si veno
di coronarlo impero d'ogni bene,
e senza lui non mai nullo pervene,
25
dicon, a cosa poss'avere onore:
unde cotal discende loro errore
di lassarsi infrenar di sí reo freno.
Non venosi gecchiti di laudare
il folle e vano amor, d'ogni ben nudo,
30
li matti che si covren del su' scudo,
il qual manch'è che di ragnuolo tela
e che li porta isportando a vela.
Mettonsi 'n mar, creden giunger a porto;
poi s'è che nel pereggio gli have accorto,
35
alma fa, corpo e aver, tutto affondare.
D'onne, donque, reo male è fondamento.
Poi tutto tolle bono e 'l contrar porge,
come la gente non di lui s'accorge
a prender guardia dei suoi inganni felli,
40
ch'a Dio li fa ed al mondo ribelli?
Meraviglia grand'è com'ei no è spento.
Tai laudator lor pòn far plager reo
di donar pregio ad un cotale Amore,
che tutto trappa bene e dá dolore;
45
non giá me coglieranno a quella setta.
Alcuna fiata fui 'n sua distretta,
non sí disposto, che m'avesse acchiuso
ch'eo non potesse giú gire né suso,
né suo serv'era, né signor ben meo:
50
unde m'accorsi del doglioso passo,
ove m'avea condutto e conducía,
che parenti ed amici avea 'n obbría
e quasi Dio venía dimenticando.
Per che nel tutto gli aggio dato bando,
55
non piú dimorovi né prendo stasso.
Parmi diritta dar possa sentenza
chi servito signor ha in sua magione,
s'è giusto, come comanda ragione;
u, se 'l contraro di ciò il disforma,
60
e chi non dimorato loco forma,
di sua condizion have neiente;
ma tanto com'a voce de la gente,
che mante fiate del vero fa 'ntenza.
Perché d'amor deo saver far saggio,
65
com'omo che del suo sentí tormento,
d'ogne, dico, tristor è munimento;
colpi di toni quasi son soavi
a paraggio dei soi, tanto son gravi
ed empi, non pensar porea 'l coraggio.
70
Nighettoso fa l'omo il suo defetto
a tutte oneste e profittabil cose,
ed a seguir l'enique ed odiose
prunto, ardito, viziato 'l corregge:
cotal d'Amore è sua malvagia legge!
75
Ma assai che è da dosso me l'ho spento,
ed in tal guisa, in veritá, che pento
lo suo mi turberea veder tragetto.
Non piú triaca mi fará parere
veneno, e fino lo venen triaca,
80
ché d'esto far di neun tempo vaca
ai denudati c'hano in lui gran fede.
Cotal decreto in sua corte possede,
se i suoi, non gran fatt'è, falli cadere.
Al passo ditt'ho che m'addusse forte,
85
di sua sentendo suggizione spersa,
e dico come fémi parer persa
qual aspra piú e pungent'era ortica,
e come mi facea parer nemica
cui di nomar mi piace tacer ora,
90
senza la qual de vita serea fòra,
'brobbriosa sofferendo e crudel morte.
Ché lá, u' tutta gent'hami fallita,
e piú chi di me piú mostrava festa,
chi dett'ho, non lassatasi la vesta,
95
per potersi a la persona dar campo,
per pioggia né per vento né per lampo
di pensar ciò né far vesi gechita.
Poi me condusse in sí crudele errore,
che mi facea del corpo il cor odiare,
100
un'uncia non avendo del cantare
di suo gravoso e sprefondato pondo:
or dé' ben dirupare 'n nel profondo
chi di tal carco addoss'have la soma
e cui afferrat'ha ben per la chioma,
105
si' certo ch'onni i' tolle c'ha valore.
Miri, miri catuno e ben si guardi
di non in tal sommetersi servaggio,
ch'adduce noi' e spiacer e dannaggio
e tutto quanto dir puosi di male,
110
che questa vita tolle e l'eternale.
Oh quanto assaporar mei' fôra cardi!
O miseri dolenti sciagurati,
o netti d'allegrezza e di piacere,
fonte d'onni tristizia possedere,
115
o spenti di vertú tutt'e di luce,
ponendo cura bene, o' vi conduce
il vostr'amore, c'ha 'l malvagio conio,
odiar via piú l'areste che demonio;
ma non tanto potete, sí v'ha orbati.
120
Se de la mente gli occhi apriste bene
e lo 'ntelletto non fussevi tolto,
vedreste chiaro il loco 've v'ha 'nvolto,
ch'è tanto laido e disorrato e reo:
non savrest'altro dir che: — Merzé, Deo, —
125
sí doloroso è tutto che i' tene!
Amor (ti chiamo per lo nome, quanto
per l'operare parmi ben so chente),
di che ditt'ho se gravato ti sente,
e vuoi apporre di te vegna gioia,
130
piacemi farlo sentenziare a Troia,
a cui adosso il tuo affibbiasti manto.
II
Si lagna di Amore, che con tante pene lo tormenta, e chiede perdono a Dio d'essersi fatto schiavo di lui.
Sí forte m'ha costretto
doglia, di che, penando, doler deggio,
siccomo sento e chiar conosco e veggio
che d'ogne 'l corpo meo parte tormenta;
ch'i' son, saccio, 'n dispetto
5
del Signor nostro dibonaire Deo
per lo spiacente, che fei, fallo e reo,
und'è ragion che mortai pene senta:
ché non giá del fallir posso far menda:
unde 'l viso mi benda,
10
in guisa tal, quando ben penso cioe,
che parmi noe
ad esto mondo onor mai poss'avere,
di che finar non mai deo plangére,
oi Deo m'ha in displagere,
15
e tutta per me orranz'è fallita
in esta vita,
e lo contraro temmi ed ha 'n podere.
Poi ch'a tanta perdenza
solo m'have condutto il meo follore,
20
ch'al mondo sono e a Dio 'n disamore,
como sperare alcun mai posso bene?
Ma deo aver voglienza
che la vita mi falli di presente,
e de la morte deggi' esser temente,
25
perc'ha l'alma mertato eternai pene.
Lo viver, donque, e 'l morir mi contrara:
or ecco post'amara,
che la follia del meo fallo m'ha dato!
Perché fui nato,
30
poi dovea di me esser micidiale?
Ché tanto piagat'aggiomi corale,
che la piaga è mortale
da no sperarne giammai guerigione.
Ahi che fellone
35
demonio a far tal mi condusse male!
Assai piú è ontoso
e pien di crudeltá, ch'eo non diviso,
lo fallo che sí fort'hami conquiso,
come sovra nel meo contat'ho dire:
40
ché chi era amoroso
piú di null'altra di me criatura,
tanta bestial sommessemi 'smisura
ch'a 'ncontradir suo plager èi ardire;
e la mainera fu certo di folle,
45
qual legger piú si volle:
unde confesso che l'onta e 'l dispregio
dèsi dir pregio
per me, e cosa che piú fiata spico:
e di ragion ben anche stammi dico
50
che di Dio sia nimico,
fòr cui impero nente e rege tene
che sia di bene;
ma quanto piú ha sensa, piú è iníco.
Tuttora in vita moro
55
del doloroso, ch'addoss'aggio, assedio;
poi non vi poss'alcun prender remedio,
ché difesa mi val né render lasso.
Sed eo forte doloro,
certo neun si dé' meravigliare,
60
poi d'ogni parte sí mi veggi'odiare:
ma è miracol com'eo non impasso;
ché di tal non torment' 'lcun mainera
ch'è senza viva spera,
e se pur isperato in tutto ène,
65
poi morte bene
del male aspetta c'ha fatto 'n lui porto;
unde la morte gli è quasi un conforto.
Ma eo d'esso m'ho torto,
ché vita m'odia e morte mi minaccia,
70
e ciò mi caccia
d'onni loc' u' sperar possa diporto.
Ahi, signor Deo, com' faccio,
Padre del tutto, fòr nullo par bono,
ché non ardisco a chiedervi perdono
75
del fallo meo, che sí forte v'ho offeso!
Di che ora mi taccio
a non parlar volerne piú avante,
ché parlat'aggio e dittone sembiante,
che alcun mi pote ben aver inteso.
80
Unde voi' fine a ciò far oramai,
tuttoché non assai
a tal ofesa dir eo porea sovra,
né tal far ovra
che ne potesse giá mai esser mondo,
85
se Dio mi perdonasse il fallo e 'l mondo.
A ciò cosí rispondo
che la colpa, launque son, mi vede,
sempre mi féde
in quella parte, ove piú mi nascondo.
90
Fòr di man petra, e di bocca parola,
d'arco saetta, scòla
no è di saver tal, che 'l penter poi
vaglia ad altroi
in guis'alcuna mostrar possa 'l vero.
95
Non in tal srei, se ciò fusse, dispero;
ma molto fôra clero
che mi varrea, però che 'n cielo stelle,
né 'n mar candelle
d'aigua, quant'eo, no ha, in tal pentèro.
Te va', dogliosa mia canzon, mostrando
100
e mettendomi in bando
di tutte parte, u' pregio ed onor regna,
e ti sovegna
d'esto far: mai gir sempre seguitando.
III
Esprime il dolore che sente a veder governata Pisa da tali che non curano il bene e fanno strazio della patria.
Se doloroso a voler movo dire
lo desplagire — che mec'ha contanza,
non alcun delmi tornar a fallanza,
ché soverchianza — ciò mi fa scovrire.
E, pur volendo, non poria covrire
5
l'angoscia, che 'l meo cor doglioso serra,
ché d'ogne parte gioi' mi veggio torto,
e sempre accorto — a darmi 'l contrar erra.
Dico isperato di mai son gioire,
e de languire — grand'ho siguranza,
10
poi tien no' gente di tanta arroganza
in doloranza — ch'eo ne voi' morire.
Chi di guardar no' non solia né ardire
avere 'n parte di mar né di terra,
or assai men ch'un om' pregiamme morto:
15
sí gran conforto — in esta pres'han guerra.
E chi ne ha fatto ciò? Il ben fuggire
e 'l mal seguire — di quei che possanza
piú 'n Pisa avíano di menar la danza?
No l'arditanza — né 'l saver ferire
20
di chi ditt'ho, senza cioè fallire.
Perché montati in alta furon serra,
che non mai vis'è lor falli diporto,
né disconforto — non, dicon, li sterra.
Unde noi, c'hanno e tienno in lor podire,
25
noi' fan sentire — e tanta malenanza,
che 'l mondo dovereane aver pesanza
e pïetanza — chi del tutto è sire;
ch'a pace non giá volno consentire,
credendone far albergar sotterra,
30
e pensat'han di farne fare 'l porto
dentr'a lo sporto, — mentre ciò averrá.
Merzé, Signore Deo, di non soffrire
sia vo' 'n plagire — tale soverchianza,
né tant'odiosa e fera disianza,
35
come speranza — lor è di complire;
ma di farli vo' piaccia ripentire
e 'l poder vostro, che tutto diserra,
qual piú ferm'è, mostrate 'n lor di corto:
non mai scorto — vesi, altro no sferra.
40
VIII GERI GIANNINI
I
A Natuccio Cinquino
Si duole della sua dolorosa vita e chiede pietá a Dio.
Meo fero stato — nato — è sí forte,
non credo morte — sia con piú dolore,
ché d'ogni lato — dato — sommi sorte,
e non giá corte, — piene di malore.
Viv'affannato, — pato — male storte;
5
oimè! che porte — tienmi d'amarore
non ben agiato — fiato, — di che tort'è!
Cotale scorte — son date al meo core!
Che gran fallire — dire — posi 'ntero
è del nochero — c'ha esta balanza,
10
se piú tardanza — fa, tanto 'l desiede.
Al sommo Vero — chero — sua mercede
con pura fede, — ne lo quale spero,
me partagerò — d'esta malenanza.
Conforto — porto — alcuno non par Deo,
15
ch'eo tegno 'n feo — la mia vita scura
ed ho paura — non mai viver meo.
II
Risposta di Natuccio Cinquino
Comporta il dolore che ha, sperando che abbia una volta a finire.
Poi sono stato — convitato — a corte
da quei che port'è — di chiarir errore,
e ha mostrato — per suo dittato — forte
ch'entr'a le porte — tene lui l'angore;
ed è peccato — ch'è dannato — in torte,
5
sí che isport'è — d'onni gran tristore.
Piò se' pregiato, — e maggior grato — e sorte,
e piú onor t'è — con vero sprendore.
Da gradire — è chi 'n dire — fassi clero,
ed a l'altèro — sommo umilianza
10
con pietanza — magna ver' lui chede,
che 'l faccia gire — ov'è piacire — intero;
possa lumero — con tutta bastanza
ed allegranza — somma tosto vede.
Comporto — a torto — lo dolore che ho,
15
da possa veo — al mondo nulla dura,
dunque rancura — non deggio portar eo.
III
A Si. Gui. da Pistoia
Se preferisca che la loro amicizia invecchi o sia sempre fresca.
Magna ferendo me tuba 'n oregli
d'orrato ch'ognor in te pregio regna,
lo cor mi stringe pur volendo vegli
com'eo pensando tuo conto devegna,
e con onni argomento m'aparegli
pugnando ch'ad amico t'aggia e tegna,
in guisa ch'amistá mai non envegli,
ma fra noi sempre fresca si contegna.
Und'ho pensato de l'acontar mostra
il dir sia pria, che 'n ciò vegliat'ho e veglio,
parendo me grand'amistanza n'esca.
E perch'ho ditto de l'amistá nostra,
responsion chero, qual ti sembra meglio,
veglia tuttor la mantegnamo, u fresca.
IX NATUCCIO CINQUINO
Tenzoni fra Natuccio e Bacciarone
I
1.
A Bacciarone di Messer Bacone
Perché il dolore e la gioia siano date all'uomo sempre per il suo meglio.
A cui prudenza porge alta lumera
di ver sentire in de l'occulte cose,
dar al nescente pò vera mainera
e chiarir fermo de le piú dubbiose.
Ed eo da voi discreto ho ferma spera
di chiar savere ciò ch'è 'n me ascose:
ch'i'aldo a saggi dire in voce vera
che ciò ch'aven piacente over dogliose,
cioè cose nel mondo a l'om che regna,
sia per miglior di lui senz'alcun fallo;
e come sia, non viso è per mia 'ntenza:
ché, s'alcun om' resede in vita degna,
fôra lui vita mei' che morte stallo:
se da ciò poi si parte, e' va a perdenza.
2
Risposta di Bacciarone
Nel dolore l'uomo impara a soffrire, e nelle prosperitá apprende ad esserne grato a Dio.
Chi nel dolore ha bona sofferenza,
vera prudenza — regna in tale core
ed in prosperitate canoscenza
che tal sentenza — vegna dal Signore.
Di tali si pò dir fòr di temenza,
a mia parvenza, — ch'è per lor migliore
ciò che avène, bon over doglienza:
e chi ben pensa — no i' parrá errore.
Che se piacere avèn lor, hanne gioia
e de la noia — dánsi pace 'ntera:
und' han lumera — e fuggon maggior pene.
Ma quei, ch'orgoglio e baldanz' hano croia,
e volno moia — umilitate vera,
la lor mainera — contrar'è di bene.
II
1.
A Bacciarone di messer Bacone
Perché il peccato sia piú amato che fare e dire il bene.
Aldendo dire l'altèro valore,
che 'n vostro core — regna a compimento,
distringemi d'averne acontamento
per dicimento — o per altro labore.
E conoscenza aggio che 'n me fiore
no è lo core — d'aver ciò talento;
ma volontá mi dona movimento
ch'apparimento — faccia all'alto fiore.
Unde dimando vo': — Perché 'l peccato
è piò amato — che 'l ben fare o dire,
poiché di gir — savemo a perdizione? —
E ciò credo sia senza questione,
qual è cagione — che ciascun, ch'è nato,
par ch'obbriato — aggia 'l sommo Sire.
2.
Risposta di Bacciarone
Il peccato è amato piú del bene a causa dell'abitudine, che è piú forte della natura e della ragione.
Tua scritta intesi bene lo tinore:
conoscitore — bon sarei contento
esser di ciò che fu tuo piacimento
dimandamento — farmi del follore,
che 'n dei piú regna d'esser facitore
contr' al signore, — non hano spavento:
parlo 'n comuno d'esto marrimento,
no ched eo sento, — di ciò guardatore.
Unde rispondo a te c'hai dimandato:
— Saggio se' nato, — se ben sai finire,
là u' 'l fallire — e il ben fa locagione.
Usanza vince natur' e ragione,
perché fellone — fa 'l malvagio usato
'om ordinato — pur a ben seguire. —
X LOTTO DI SER DATO
I
Loda la bellezza e la virtú della sua donna e le chiede scusa se non sa celebrarla come essa merita.
Fior di beltá e d'ogni cosa bona,
sí forte lo mio cor immaginat'ha
l'alte vertú che fan dimora e stata
in de la vostr'onorata persona,
che ardente mi dona
5
desiderio a farne mostramento,
senn' e conoscimento
quando obbrío e seguo volontate.
E certo in veritate
so nente dir poriane a simiglianza
10
ver' che grand'abondanza
in voi soggiorno fanno e per ragione.
Tanta bellezza manten lo suo viso
con sí lucente chiaritá innaurato,
che la sua cèra par d'angel provato.
15
No è donna né om' sí fermo assiso
a ovrar, che deviso
nond'aggia sua 'ntenzion per riguardare
u' sente ch'ell'appare:
tanto i' simiglia nobel creatura.
20
Tutt'altra sua fattura,
di che parlarsi pote onestamente,
è sí addorna e gente,
non vi si porea apponer mancagione.
Lo parlar e l'andar e 'l far dimora
25
e li atti e li costumi e i reggimenti
umili son, cortesi e sí piacenti
e di tanta onestá fan covertora:
non guarderá un'ora,
né punto in parte o' senta gente sia.
30
Quando passa per via,
la ruga per miraglio al viso porta;
se saluta li è porta,
soavemente la rende, e ispande
per u' passa sí grande
35
odor, non si porea dir per sermone.
Di senno tanto assiso ha 'l suo coraggio
con canoscenza e con valore intero,
con cortesia e con fin pregio altero,
alcun om' nonde poteria far saggio;
40
perché d'uman lignaggio
non sembra sia, ma d'angelicale,
e tant'è bontá e tale,
e sí sottil lo suo intendiment'have;
nulla cos'è sí grave
45
ad apprender, no l'apprenda 'l suo core:
d'ogni cosa 'l Signore
onora e serve senza falligione.
A voi, madonna, cui fior conto e chiamo,
mercé dimando che 'l vostro perdono
50
concediate, se 'l meo dir no è bono,
a me che via piú molto che me amo.
Lo senno ch'ebbe Adamo,
conosco ben non poteria fornire,
volendo tutte dire
55
le virtú ch'han vostro core fornito.
Però molt'ho fallito
a cominciar, poi non so far finita;
ma par che mi dia vita
che 'l saggio conta a voglia operazione.
60
Fior d'ogni ben, com'è conto di sovra,
poi v'addorna di tante vertú Deo,
che tutt'altre passate, al parer meo,
pietá aggiate che per me il s'approva
e mettetela in ovra
65
ver' me, che tuttor so stato gecchito
di voi seguir, né quito
di voi cred'esser mai, vivo né morto.
Unde 'l vostro conforto
dimando che spandiate sovra mene,
70
che alcun altro bene
non m'ha savor per nessuna cagione.
II
Si lamenta della sua infelice vita e soprattutto di essere abbandonato dalle persone piú care.
De la fera infertá e angosciosa
radicata in diverse e forte pene,
la qual dentro e dintorn' al meo cor sento,
cura tal voi' pigliar per dilettosa,
qual fa lo 'nfermo, quando 'l gran mal mene,
5
che si compiange del suo sentimento,
e par ch'alleggiamento
alcun li sia, ed eo simil voi' fare;
le doglie dimostrare,
ch'eo soffero con grande compagnia,
10
in compianto vorria,
sí che, per gran pietá, chi ha potenza
di darne guerigion, vegna in voglienza.
Savem de certo ched alcuna cosa
tanto gentil nostro Signor non fene
15
quanto l'omo, né sí siali piacimento,
che poi l'ee fatto, fuli sí amoroso,
che li dé libertá di male e bene,
operar, quanto vole a suo talento.
E sí nond'è contento.
20
Noi sottoposti ci convene stare,
veder, né operare
cosa potem che diletto ne sia,
né avem signoria
di parlar a nessun che conoscenza
25
aggia con noi, e ciò n'è gran doglienza.
Ed anco maggior doglia e piú gravosa
aggiam che non di sovra si contene.
Conforto aremmo a ciò trapassamento;
ma, sperando d'aver nova gioiosa,
30
la contrara di gioia adesso vene
tal ch'al cor par voglia dar lungiamento:
tant'ha confondimento,
che contenti seremmo al trapassare,
anzi che dimorare
35
in esta vita sí crudele e ria,
non fusse che tal via
saven' nostr'alme terrèn ch'a perdenza
girèno senz'aver giammai redenza.
Piú greve pena assai e dolorosa
40
haven', ciò sono este fere catene,
che altra, und'io fatt'aggia mostramento;
ch'ell'è tanto crudele e sí noiosa,
che, se consolazion nulla ci vene,
tosto da noi li fa far partimento,
45
e lo grande tormento,
ch'haven' tuttor, ci fa rinovellare,
la noi' multiplicare,
ch'al corpo darci nullo non poria,
e a l'alma bailia
50
ha tolto: ché del mal far penitenza
non pònno aver, ben c'è gran cordoglienza.
E siam sotto signoria sí spietosa,
che giá nulla pietá di lor non vene
for' con di gente d'altro intendimento:
55
s'alcun l'avesse in cor, mostrar non l'osa;
ma quell'è leal detto che mantene
suo dire e opra a nostro increscimento.
Molto piò spiacimento
aven che lingua non porea contare,
60
e vedenci fallare
parenti, amici e mettere 'n obría.
Est'è la malatia,
di che fatt'ho compianto: gran fallenza
fan quei che 'n ciò potrèno dar guirenza.
65
A Pisa, meo lamento,
nostri tormenti deggi divisare:
per volere acquistare
e mantenere onore e signoria
aven' tal cortesia.
70
Consiglio ben chi di servirla ha 'ntenza,
guardisi non cadere a tal perdenza.
XI NOCCO DI CENNI DI FREDIANO
Si lagna che madonna gli abbia prima fatto sperare d'aver gioia del suo amore, e poi lo abbia ingannato.
Greve di gioia — pò l'om malenanza
far per forza mostranza
in vista ben, se 'l cor d'ess'è ripieno.
Simil di noia — far pot' allegranza
stando 'n fera dottanza
5
che pur le pene ch'ha sempre li stièno.
Siccome l'albor pò far ch'è silvaggio
frutto per sua natura
mai bon per sé tanto di su' lignaggio,
se non che 'nsetatura
10
ched è lui fatta, 'l fa ed el notrica;
donque non per sé mica
lo fa, ma su' calor; nasce 'l fior pria,
unde poi 'l frutto vene:
cusí giammai eo non poria mostrare
15
ch'avesse gioi' né bene,
mentre voi, donna, mi faceste stare,
com'ora, 'n tante pene;
ma datemi pur tanto un solo ramo
di quel frutto ch'eo bramo:
20
vedrete in gioi' montarmi e 'n frutto bono,
com'om' c'ha gioi' s'attene.
Lo frutto bono — da bon albor vene,
siccome gioi' da bene
nasce e da gioi' ven tutta allegranza,
25
avegnia sono — seme 'n dolce speme,
ch'amar' frutto n'avène;
ma ciò snatura per mala sembianza.
Simil l'amaro amore allo 'mprimera
mostra dolce 'l veleno,
30
cusí lo ingegna e tiene 'n tal maniera
ch'ha male e dice beno;
ma poi ch'assaporato trova amaro,
vuol lassar, parli caro,
e poi si pente per l'arra, ch'ha dato,
35
unde spesso dice: — Omè! —
Ma Amor, volendo, vidde non potea
lo simil for' voi farmi:
fecemi vista far che vi piacea
me e servire 'n voi darmi;
40
e io, vedendo ciò, dissi: — Bon frutto
da tal albor fia dutto. —
Credetti in voi lassarmi ed ei mi prese:
cusí per voi ingannome.
Saccio per vista assai d'albor venire
45
che 'n flor mostra gioire
e fanne assai e poghi a ben ne stende;
ma poi ch'acquista l'altr'anno in fiorire,
frutto per ben seguire,
ciò che dimostra in fiore 'n frutto rende.
50
Cusí, s'ei mostra di dar allegrezza
e poi la torna a noia,
convien, se pregio vuol, che tal gravezza
ristori per gran gioia;
e, se ciò non facesse, non sre' degno
55
arbor, mostrando segno
in fior di frutto fare e poi fallire;
ma sre' laida mostranza.
Cusí dir posso di voi, donna gente,
che da voi mi fu data,
60
in prima vista, d'aver gioi' piagente,
e doglia or m'è tornata.
Se voi ristoramento a me non date,
certo fallo operate,
perché, per viste di gioi', me venire
65
fatt'avete 'n pesanza.
Unde vi prego, donna, che mercede
vi stringa, per pietade,
a far considerar quant'ho 'n voi fede;
c'adesso, in veritate,
70
mi tornerete in gioi' onni dolore,
over di man d'Amore,
cui mi metteste, cavrete tornando
in mia primera essenza.
XII GERONIMO TERRAMAGNINO
I
Dice ad un poeta che è bene riflettere lungamente prima di parlare.
Poi dal mastro Guitton latte tenete,
assai, mi par, dovete
di vera conoscenza aver effetto,
e defettar da voi onni defetto
che non bon agia aspetto,
5
se di tal mastro bon saver avete.
O quanto, quanto e quanto esser dovete,
se bene il possedete,
glorïoso di tutto bono assetto!
E com' dovria il dir vostr'esser retto
10
e del contraro netto!
Se pensate che dico, cernerete
che la vertú si mostra in del parlare,
simel vizio v'appare,
unde, parlando, l'omo paragona
15
la sua propria persona,
perché guardar neun troppo si pò.
Or intendete ben il meo dir mo',
ch'a scoverto vo' do,
né scherm'alcun poteteci pigliare.
20
Dico: Bon è pensare,
anzi la cosa ditta, chi ragiona.
II DOCTRINA DE CORT
Proemi de doctrina de cort.
El nom de Dieu qu'es subiranz,
paire e fill e esperitz sanz,
e guidanz de totz pecadors,
fauc mon acort pels amadors,
ques amon saber ab drechura,
5
qals es aycella parladura
ques ha en chanz major plajensa
e may avinenment s'ajensa.
E si enten molt a estendre
mon dit, nuls ab drech reprendre
10
m'en deu hom, quar en pauche escrich
no podon ges caber gran dich,
e en breus ditz confusios
se concreja mantas sazos.
Mas si eu claramen dezir
15
e may mas paraulas dir,
obs es que mos ditz s'espanda
per drech'e per longa landa;
e s'afanz feira m'en mestreygir,
vigors mon coratg' enpeeygir,
20
car ben say que ses gran afan
hom no pot far obra prezan.
Eu voil que cascus q'a pretz rics
l'entende, no avols ni tritz.
Don ieu,
Teramaygnis de Piza
,
25
commenz en aquesta guiza.
Començament de doctrina provincial vera e de rahonable locucio.
Tot en aysi con le rubis
sobre totas peyras es fis
e l'aurs soblels metailz cars,
sobre totz razonatz parlars
30
parladura lemoyzina
es mays avinentz e fina,
quar il quays se razona
con la gramatica bona
per tots los nombres singulars
35
e per tots los plurals anars
e per cas e per drech genre
la deu dir qui l'am' apenre,
e per paraulas ajectivas
e per finas substantivas,
40
per comunas, oblichs e retz;
masculis genre e femnis dretz,
per personas e per temps
e per motz escriutz ensemps,
e per razon continuada
45
qui per obs no sia biaysada,
e per totas verayas parts
d'orazion qui grazid'artz
qui te lo sieu cami ubert
del parlar razonat per cert:
50
so es pels verbs e per los noms,
pels particips e pels pronoms,
averbis, prepozicions,
conjunsions, interjesions.
Perque vuoil sapchatz, amador
55
qui deziratz haver valor,
que totas paraulas bonas
substantivas genr' e personas
demostron puramen e genz
e sostenon grandamenz,
60
e sostengudas son vez tal
e substansi' han natural.
Las ajectivas son del nom,
del particip et del pronom,
qui no podon sens nom estar
65
e han plural e sengular,
e mostron calitat e gen
e person'en entendimen.
Des preposicions aqui
e des averbis atressi
70
e conjunsion, ieu vos dic,
e enterjession, amic,
quar singulars ni plurals han,
ni demostron genre, ni van
per personas ni per temps jes,
75
la lur parladura no es
sostenguda per alcun fach
ni sosten, tan ha flach contrac.
Las sustantivas aytals son:
«Emperayre», «reys» e «baron»,
80
e totas autras qui en ver
mostron substansa qui vezer
se pot o qui vezer nos pot.
Don ieu vos dich en cestui mot
qu'an nom per ço substantivas
85
car sostenon ajectivas;
e podets far oracion
ses ajectivas ab razon,
ab lo verb, aysi com ieu dic:
«Seigner suy del castell de Vic».
90
Encara: «Cavalliers melur
per jutge Ugolim de Galur».
Ajectivas hom appella,
aysi com «bos», «bels», «bona», «bella»
«fortz», «plazens», «sufrens» e «vils»,
95
«avinenz», «temenz» e «sotils»
e las autras per semblansa
qui mostron qual ses substansa,
o que cant, o que fay,
o que sofre, o can que vay;
100
ajectivas hom las clama
quar dreig entendimen brama
le lur lavors ses valedor
de la substantiva color.
De los ajectius parlars
105
de tres maneyras es l'afars:
masculin apeyla hom l'un,
l'autre femnin, l'autre comun.
Mascolis con «bos» e «blancs»,
«gays» e «beyls», e «larcs» e «francs»,
110
e tuyt cill qui mascle mostron.
Le femnis es tot aysi con
ieu divisi aqui: «franca»,
«bona», «bella», «gaya», «blanca»,
e tuyt acill qu'hom repauza
115
ges en la femnina cauza.
Le comuns es si con «sufrenz»,
«fortz», «vils» e «sotils» e «plazens»,
e tots ceyls de tal maniera
obs es q'hom comuns enquiera,
120
car los pot hom tan ben asir
ab mascle com ab femne dir.
Ara tot ayso voil sapchatz
que gramatica en vertatz
cinc genres razonatz fay:
125
masculin e femnin veray,
neutre, comu et omne cert,
mas, si con hay enanc proert,
las paraulas substantivas
e totas las ajectivas
130
son en chanz sotz masculinas
o comunas o femninas,
e en la lur entension.
Petitas e grandas son,
e hom las grandas asear
135
ben pot e breumen pauzar
enl sengular nominatiu
e encaras el vocatiu
pel neutre ques es tant adautz,
con dis d'
Aurenga Rembautz
:
140
«Assats m'es bel, que de novell»:
e con dic: «Mas mes q'has castell,
e ben m'es aupranar vas Piza».
Si van li autre d'aytal guiza.
Gramatica fay femnina
145
«arbres» e chanz mascolina,
e en chanz es femnin «amors».
en gramatica mascle «cors»
en gramatica neutre «amar»
e comuns es ditz en chantar.
150
Aysi totas autras del nom
paraulas masculinas son
o femninas o comunas,
que no ne romanen alcunas
enforas aycellas totas
155
de las quals bay fachas notas
qui per cert han breviamenz
pel neutre so sapcha, laienz;
e nos pot noms substantius
abreviar, mas l'ajectius.
160
Ben devetz tuyt saber ara
lo parlar qui non esgara
e celui qu'entendimen fin
ha de masclin e de femnin.
La parladura ajetiva
165
e tota la substantiva
s'alonga enls nombres amdos,
et dels ses cas es la razos;
so es dels singular retz rics
e de tots les plurals oblics,
170
quar ensemps tuit se resemblon;
e atressi s'abrevion
en tots los oblics sengulars,
encar en los rets plurals cas,
car se resemblo eyzamen;
175
don vos daray semblan parven
de totz retz e oblics complitz
con dis us trobayre grazitz,
e hac nom
Giraudos le Ros
:
«e qui es mos ‘amichs’ bos
180
mostren sa beyla semblança,
quar jur que longe sperança».
‘Amics’ es le nominatius
singulars, mas vocatius
es, con dis cell qui fes la cort:
185
«‘Amics’, q'has dich? no sabs confort
Son egieignos, e gallart
miey dich e miei sotil dart».
Encar escriu en aquest fueil
si con dis en
Pons de Capdueill
:
190
«‘Amichs’ Beutranz, lo trop amar
no vullatz ni lonc esperar».
E le pros en
Peyre Vidals
enls oblics plurals ditz motz tals:
«E mos cars filz le coms Henrics
195
ha destrutz totz sos enemics».
Ara vuoill dir dels plurals retz,
q'auzitz los sengulars havetz,
con dis
Andrians del Palais
,
trobayre bon e verays:
200
«Per qu'ieu part egalmenz
lo mal quim fay doler,
quel terc vuoll retener,
quar totz es trop cozenz.
L'autre terç per m'amor
205
partan tot entre lor
‘miei amich’ a lur taill;
qui no n'ha nos baraill».
Gauselm Fayditz
qui hac pretz fi
dis enl nominatiu aysi:
210
«Quan ‘dui amic’ s'acordon deu voler
so que l'us vol zo deu l'autre voler».
Del vocatiu plural retrayre
vuoill con dis n'Ucs, fis trobayre:
«‘Amic veray’, a vos me playgis
215
quar fin'amors no me refraygis».
L'oblic singular vos desveili
com dis en
Girautz de Borneil
:
«E ‘tot home’ qui ben ames
hag' robs qu'un bon amic trobes
220
en cuy no s'anen duptan».
E dis
Folquets
de pretz prezan
qui dis sobre tots chantars amoros:
«Mas trop servirs tendan mantas sazos,
quar ‘son amic’ en pert hom, so auch dir».
225
Per que ieu vuoill que deiatz presumir
e conoyser ben o may
lo parlar tot qu'ausy vay,
quar totz per aytal semblan
se parla con dic denan;
230
e per que mai entendimen
n'aiatz, dic son variamen.
Nominatiu, «hic amics»; genetiu, «amic»; datiu, «amic», acusatiu, «amic»; vocatiu, «amics»; ablatiu, «ab amic», «per amic», «del amic», «en amic», «ses e senes amich». E plural, «amic»; genitiu, «amics»; datiu «amics» acusatiu, «amics»; vocatiu, «amic»; ablatiu, «ab amics», «pels amics» «dels amics», «en amichs», «ses e senes amics», etc.
Dich ay con en aluoygnamen
es ditz e en abreviamen
le parlars ad retz mascolis,
235
ara diray dels feminis.
Parladura femmina
tals en «a» finis es declina,
aysi con «domna», «blanca», «bella»,
«gaya», «poma» e «isnella»,
240
e mantas de cestui anar
con savis hom pot esgarar,
e con dirai vai sos cors,
ses alcunaz autras colors,
e es breus els cars sengulars
245
e long els plurals variars.
Dels singulars vos dauc aytals
semblanç com dis
Peyre Vidals
qui no hac la valor manca:
«Car' ‘amia’ dos'e ‘franca’,
250
convinenz e ‘bell'’ e ‘bona’,
mos cors a vos s'abandona».
Encara dis
Fabres d'Uzes
le bos:
«Nom platz rics hom si no es amoros,
nim play ‘domna’ si gent no acuellis,
255
nin play donzelz si de gauch no servis».
Dic hay cons deu abreviar,
ara dich cos deu aluoignar.
D'en
Bernat de Ventadorn
, q'hac
pretz sobrels bos, ieu vos retrac
260
qar dis en sa chanson en ver:
«De la ‘domnas’ me dezesper».
Encara vos don semblanz
aysi con dis en
Andrianz
:
«Ay ‘domnas’ e seygnor
265
de Proens' e d'aillor».
Eu voil que vos dejatz garar
si con ieu vari son anar.
Nominatio, «franca»; genetiu, «franca»; datiu, «franca»; acusatiu, «franca»; vocatiu, «franca»; ablatiu, «ab franca»; e plural, «francas»; genetiu, «francas»; datiu, «francas»; acusatiu, «francas»; vocatiu, «o francas»; ablatiu, «ab francas», etc.
De la femnina qui en «a»
vay, dic hay segon mon tala,
270
ara vuos vuoill ieu dir ies
de ceylla qui fenis en «es»,
aysi con «sazos» e «amors»,
«calors» e «chansos» e «colors»,
e l'autre qu'es de simil guiza
275
en aysi com hom prims desguiza;
enls oblichs singulars breumen
es ditz, e en aluoygnamen
si deu dir en totz autres cas
per ver, e autramen no pas;
280
e diray vos en costui mot,
si com dis
Girbertz De si bo tot
:
«Ques dobla ‘valors’
de far ben e ‘honors’
lay on mestier han,
285
ans q'hom quera ni demann'».
Bernatz de Ventador
le gays,
qui motz avinentz retrays,
dis en son chan cizamen:
«Be es mortz qui d' ‘amor’ no sen
290
al cor qalqe dosa ‘sabor’».
Reigals de Berbezil
, q'honor
hac molt, dis en un dels sos canz:
«Mas ‘chansos’ er dorgumanz».
E dis en
Folquetz
de pretz bon:
295
«Tant mou de corteza ‘razon’
mon chan que no y puese fallir,
e manz i dei mell avenir».
Encara vos vuoil ieu mostrar
con dis en celui eis chantar:
300
«S'anc parley en ma ‘canson’»;
e dis:
«Per tal no m'abandon
qu'ieu sempharai auzit dir
que mensoygna nos pot cobrir
que no mora qualque ‘sazon’».
305
E tot aysi vay es espon;
e per que haiatz cor mellor
diray con sos variars cor:
Nominatio, «hec amors»; genetiu, «amor»; datiu, «amor» acusatiu, «amor»; vocatiu, «amors»; ablatiu, «ab amor», etc. E plural, «amors»; genetiu, «amors»; datiu, «amors»; acusatiu, «amors»; vocatiu, «amors»; ablatiu, «ab amors», etc.
Encara vuoill qe sapchatz
que i ha de paraulas assatz
310
qui en los nombres sengulars
se luoygnon e els plurals cars,
aysi con «ris» e «volentos»,
«cors», «solatz», «lais» e «delechos»,
e «bras», «glas», «vas», «nas» e «cas»,
315
«pres», «engres», «lus» e «fals» e «gras»,
«reclus», «claus», «repaus», «envers»,
«us», «romanz», «vers», «travers», «convers»,
e nom propri eizamen
de luecs han tal aluoygnamen,
320
con «Piza», «Luca», «Florensa»,
«Marseylla», «Jenova», «Plajensa».
Nominatio, «cors»; genetiu, «cors»; datiu, «cors»; acusatiu «cors»; vocatiu, «cors»; ablatiu, «ab cors»; et plural, «cors»; genetiu, «cors»; datiu, «cors»; acusatiu, «cors»; vocatiu, «cors»; ablatiu, «cors», etc.
Per aquestas las autras saber
podon li entendedor en ver.
Paraulas i ha encara,
325
aysi con hom prims esgara,
qui se luoygno ab drechura
sol per us de parladura
en totz los nombres, qar laienz
las ditz assatz may avinenz,
330
con «chantayritz» e «amayritz»,
«emperayritz» e «trobayritz».
Nominatio, «chantayritz»; genetiu, «chantayritz»; datiu, «chantayritz»; acusatiu, «chantayritz»; vocatiu, «o chantayritz»; ablatiu, «ab chantayritz», etc. Et plural, «chantayritz»; genetiu, «chantayritz»; datiu, «chantayritz»; acusatiu, «chantayritz»; vocatiu, «o chantayritz»; ablatiu, «ab chantayritz», «ses o senes chantayritz», etc.
E en aysi con dic hai
totz le lur variars vai.
Paraulas hi a qui luoygnar
335
se podon e abreviar
enls acuzatius singulars,
tant es avinenz lur atars,
con dit: per «pagat» ni has delleygn,
e ieu per «pagatz» mi teygn,
340
em teygn per «gays» e per «gay»;
aysi totz l'autre parlars vay
qui es de la lur mainiera;
per que ieus diray enquera.
E entendatz vos qui prim etz,
345
que «totz» en los singulars retz
es loncs e enls plutals oblics,
con dit
Arnaut de Maruill
rics
de pretz e de valor fin e grazida:
«Si con li peys han e l'ayga lur vida,
350
hay en amors e ‘totz’ temp lh'aurai».
Gauselms Fayditz
en son complanch retrai:
«fortz can es e ‘tot’ lo major dan».
Ara doni dels retz plurals semblan,
quar fan «tuit», con dis
Rigals
de valors:
355
«‘Tuit’ demandon qu'es devengud'amors,
e ieu a ‘totz’ en diray la vertat».
Avans dic en cestui mot
qu'enls oblics sengulars fay «tot»,
con dis
Peyre Vidals
en ver:
360
«Tant hai de sen e de saber
que del ‘tot’ say mon mell chauzir,
e say conoyser e grazir.
Mas encara vos vuoill donar
semblansa del sieu variar».
365
Nominatio, «tots»; genetiu, «tot»; datiu, «tot»; acusatiu, «tot»; vocatiu «totz»; ablatiu, «ab tot». Et plural, «tuyt»; genetiu, «totz»; datiu, «totz»; acusatiu, «totz»; vocatiu, «tuyt»; ablatiu, «totz».
Enl vostre cor sapchatz, aman,
q'aysi li ajectiu comun van
con «sotils», «vils», «temenz», «sufrenz»,
«fortz», «avinenz» e «plazenz»,
els singulars se luoygnon
370
e enls oblics s'abrevion,
enls retz plurals breviamen
han e els oblics luoygnamen,
e dezir dir verayamenz
con vay le lur variamen.
375
Nominatio, «sotils»; genetio, «sotil»; datio, «sotil»; acusatio, «sotil»; vocatio, «sotils»; ablatio, «ab sotil», «ses o senes sotil», etc. Et plural, «sotil»; genetio, «sotils»; datio, «sotils»; acusatio, «sotils»; vocatiu, «sotil»; ablatiu, «ab sotils», «ses o senes sotils», etc.
Enls primiers retz deu hom «us» dire
e en tots oblics «un» assire,
e en totz retz si deu dir «dui»
en totz oblics «doz» s'adui;
totz autres nombres true a mil
380
deu hom dir per aytal estil,
ses cen, quar sol d'una manieyra
es ops que cascuns l'enquera,
e per voler primamen far
dezir «un» e «doz» variar.
385
Nominatio, «us»; genetiu, «un»; datiu, «un»; acusatio, «un»; vocatio, «us»; ablatio, «ab un», etc. Nominatio, «dui»; genetio, «dos»; datio, «dos»; acusatio, «dos»; vocatio, «dui»; ablatio, «dos», etc.
Parlat vos hay de mascolina
parladura e femmina,
mas encara semblanz vos don
de las femnas quis ressemblon
els primiers retz, con «sor», «mi donz»,
390
«nessa», «gasca», «garza», «se donz»:
els primiers oblics «mi don»,
«soror», «neboda» e «si don»,
e «gascona» ab «garzona»;
395
e en totz plurals se razona
«sorors», «gasconas» e «mas domnas»
e «nebodas» e «sas domnas»,
e «garzonas», e aysi van
las autras de cestui semblan;
e per q'haiatz entelech fi
400
variaray «soror» aqui.
Nominatio, «sor»; genetio, «sor»; datio, «soror»; acusatio, «soror»; vocatio, «sor»; ablatio, «ab soror». Et plural, nominatio, «sorors»; genetio, «sorors»; datio, «sorors»; acusatio, «sorors»; vocatio, «sorors»; ablatio, «ab sorors», «ses o senes sorors», etc.
Dels mascolis noms diray
con fan els primiers retz oimai,
qui fan «Bos», «glotz», «compaygnos»,
«gasc», «baytes», «Uc», «Gui», e «Peyros»;
405
En totz los oblics sengulars,
encara els retz plurals cars,
fan «compaygnon», «Ugon», «Peyron»,
aysi li autre se varion
ents oblics plurals en «ons»,
410
con «fellons», «barons» e «Peyrons»;
e tuyt li autre se varion
en aysi com vari «baron».
Nominatio, «baros»; genetio, «baron»; datio, «baron»; acusatio, «baron»; vocatio, «baros»; ablatio, «ab baron». Et plural, «baron»; genetio, «barons»; datio, «barons»; acusatio, «barons»; vocatio, «o baron»; ablatio, «ab barons», etc.
Encar', amic, devetz saber
q'els primiers retz hom ditz «seygner»,
415
«hom» e «nebotz», «abas» e «coms»,
«prestres» e «pastres» e «vescoms»,
e tuyt li sengular oblic;
e li rech plural van cous dic,
si con: «home», «nebot» e «comte»,
420
«preveyre», «pastor» e «vezcomte»,
«seygnor» e «abat» e «enfan»;
li oblic plural con diray van,
con «coms» e «enfans» e «senyors»,
«homes», «preveres» e «pastors»;
425
e per que may saber n'haiatz
ieu vari «seygnor», so sabchatz:
Nominatio, «seygner»; genetio, «seignor»; datio, «seignor»; acusatio, «seignor»; vocatio, «seigner»; ablatio, «seignor». Et plural, «seignor»; genetio, «seignors»; datio, «senyors»; acusatio, «seignors»; vocatio, «seignor»; ablatio, «ab seignors».
Dels verbals nons sapchatz aqi
que de tres manieras son, si
con «trobayre» e «chantayre»,
430
«consirayre» e «amayre»
e «contrayre» e «mentire»
e «sufrire» e «jauzire»,
e encara «devineyre»
e «valeyre» e «condeyre»;
435
aysi con hai escrig adretz
fan tuit els singulars retz
e en totz los oblics primiers
e en los retz plurals en vers,
aysi fan tuit con «chantador»,
440
«mentidor» e «devinador»,
els plurals oblics en «ors»
fan aysi con fay «amadors»;
e per un mostraran si con
tuit li autre se varion:
445
Nominatio, «trobayre»; genetio, «trobador»; datio, «trobador»; acusatio, «trobador»; vocatio, «trobayre»; ablatio, «ab trobador». Et plural, «trobador»; genetio, «trobador»; datio, «trobadors»; acusatio, «trobadors»; vocatio, «trobador»; ablatio, «ab trobadors».
De los comuns ajectius,
vuoill dir e de lur cors honrius,
qui fan enls primiers retz, «mellers»,
«menres», «jensers» e «maers»
«pejers», «sordejers» e «bellayre»;
450
dels primiers oblics retrayre
vos dei, qi fan tuit en «or»,
si con «jensor» e «bellazor».
Eu plural hom los deu luoygnar
con s'eschai e abreviar,
455
segon que lur er ayziva
parladura substantiva;
per que ab la mascolina
parladura ysis declina:
Nominatio, «mellers»; genetio, «mellor»; datio, «mellor»; acusatio, «mellor»; vocatio, «mellers»; ablatio, «ab mellor». Et plural, nominatio, «mellor»; genetio, «mellors»; datio, «mellors»; acusatio, «mellors»; vocatio, «mellor»; ablatio, «ab mellors», etc.
Pois qu'eu vos hai parlat del nom,
460
razonar dezir del pronom,
e derrier del verb diray,
en aysi con mell sabray,
perque sapchas, amanz grazitz,
que en lo primier rech hom ditz
465
«aycel», aquel, e «el», «cel», «cest»,
«autre», «nos», «tos» e «aquest».
En los primier oblics s'adui
«luy», «celuy» e «cestui»;
enl rech plural ditz hom «il»
470
«aquil», «autre», «aquest» e «cill»;
enl oblics plurals ditz hom «els»,
«autres», «sos», «mos», «los» e «aquells»;
e tot aysi con «cel» declin
van tuyt li autre mascolin:
475
Nominatio, «cel»; genetiu, «celui»; datio, «celui»: accusatio, «celui»; ablatio, «celui». Et pluraliter, «cel»; genetio, «cels»; datio, «cels»; acusatio «cels».
Auzit havetz del mascolin,
araus diray del feminin
qu'el primier rech deu hom dir «il»,
«ma», «ta», «sa», «autra» e «cil»;
e tuyt li singular oblic
480
van en aysi com ieu vos dic:
«ma», «ta», «sa», «la», «cella», «cesta»,
«autra», «lei» e «aquesta»;
e en totz los plurals cas
van aysi com «mas», «tas», «las», «sas»,
485
encara «autras» e «cellas»,
«aquestas», «cestas» e «aquellas».
Enls singulars ditz hom «nostra»,
«sieua», «tieua» e «vostra»,
e en los plurals fay «sieuas»,
490
«nostras», «tieuas» e «mieuas»;
e per q'haiatz major membrança
ieu vos declin «il» ses duptansa:
Nominatio, «il»; genetio, «il»; datio, «lei»; acusatio, «lei»; ablatio, «ab ley». Et pluraliter, «ellas»; genetio, «ellas»; datio, «ellas»; acusatio, «ellas»; vocatio, «ellas», etc.
Las autras d'aytal conven
paraulas vay eizamen.
495
Oymai dels averbis vuoill
ieu parlar, e jes no m'en tuoill,
que tals hi a q'hom deu en ver
dir breus e loncs, segons q'obs er,
aysi con «mays» e «may»,
500
e «aillor» e «allors» n'ay
e «finamen» e «finamenz»;
l'autre van eizamenz.
L'autra tota parladura
de l'averbi, gay' e pura,
505
e de la preposition,
e tota la conjuntsion
ab la interjession hi es.
Totz hom qui prims e savis es,
si ben l'esgar, ha obs que sia
510
d'un sol semblan tota via.
Oymay els parlar acurs
del verb, per que es fortz e oscurs,
vuoill que ma obra s'espanda
per haver larguessa granda,
515
so es de «trac», «tras» e «trai»,
«retrai», «retras» e «retrai»;
encara «crei» e «cre»,
«recrei», «recres» e «recre»,
«mescrei», «mescres» e «mescrei» i es;
520
encara «sui», «es» e «es»,
e los quals parlars han fallit
mant bon trobador e grazit,
per ço car son may salvatge
a cells qui no han lo lengatge
525
adrech del provensal parlar
q'alcun autre q'auga contar,
e per aquo en lo prezen
de l'indicatiu veramen
«trac» e «retrac» variaray:
530
«ieu trac», «tu tras», «aquell trai».
«Retrac» es de guizas aytals,
mas i fayllic
Peyre Vidals
en aquest xan qu'es tan plazenz
«Ges car estius es bells e genz»;
535
e dis:
«Per qu'eu hai dol esmai
tant que per pauc los huoilz non ‘tray’»,
quar ell la tersa persona
el luec de prima razona,
e en luec de «trai» degra dir «trac»,
540
mas
Peyre
d'ayso gach no hac.
Bernatz de Ventador
valenç
dis, e fallic eizamenz,
en lo sieu chanz verai e fi
qui comensa e dis aysi:
545
«Qan ver la lauzeta mover;
d'aysos fay ben femna parer
ma domna, per q'eu li ‘retrai’».
Ma aquest es parlars malvay
qar tersa persona pauzet
550
en luec de prim' e razonec,
qar c'ell «retrac» hagues dich
nulls lh'agra jes contradich.
Ara dich aqi con vay «cre»:
«yeu crey», «tu cres», «aquell cre»,
555
«mescre» e «recre», aysi cor,
mas ditz
Bernatz de Ventador
may en cella sieua chanson:
«D'ayso quem destruy em confon
totas las autras en ‘mescre’».
560
Mas
Girautz de Borneyll
, qui be
passet totz los bons trovadors,
segon lo dich d'homes mellors,
fallich en la chanson, sai jeu,
q'aysi comensa: «Jen m'aten»,
565
e dis aysi con diray:
«Quem tray vas tal, ieu sai,
q'a la mia fe bem ‘cre’».
E ayso chascus savis ve.
Folquetz de Marseyla
le fis
570
fallic en sa chanson e dis:
«Aysi bem play e m'es jen
d'amic qu'en joi 's'aten'».
D'aquest chan en la cobla quarta,
si con dic en cesta carta:
575
«E nom semblon be
qu'ieu sai e pens e 'cre'».
E en un autre sieu chantar
lo fez aquest «cre» pecar,
e dis aysi:
580
«sai e ‘cre’,
ques cuciet far de me».
Encar en un autre son chan
fallic si con doni semblan:
«Que l'us autre mal i ve,
mas tan say ieu e ‘cre’».
585
E le valenç
Peyre Vidals
,
qui fo trobayre molt cabals,
faillic en «cre» eizamen,
si con diray a prezen:
«E doncs poys tan l'am e la ‘cre’,
590
la no i dei trobar mala fe».
En
Rembautz
qui d'Orenga fo
fallic en la seua chanso
q'aysi comenca en vertat:
«Eysamen hay guerrejat»,
595
en ceylla cobla qui ditz ies:
«Domna, be say si merces
quar no puesc far tan ric don cous cove
d'amic qu'ieu am, e per tant non ‘recre’».
E en
Rembautz
faillic encara
600
en sa chanson, e qui l'esgara
la ditz hom: «Nuls e re nom faill»;
e dis:
«Tan sufri grieu trabaill
qu'ieu a pauc nom ‘recre’,
mas aysom fay gran be».
605
Tuyt aquest trobador valen
yeu dic q'an fallic malamen,
qar en loc de prim'an parlada
tersa person 'e razonada,
q'hom deu dir «crey» e «recrey»,
610
en prima persona «mescrei».
Ara dic ieu es ieu vuoill dir,
per que nuls i puesca fallir,
qar ja mant trobador plazen
y han fallit eizamen,
615
qar il no han fach esqiu
de dir el endicatiu
del temps prezen en plural car,
si con auzirez razonar,
«son» la tersa persona
620
e luec de prima, qis razona,
«suy» el endicatiu prezen;
mas
Folquetz
le bos, malamen
fallic enl chantar que retray,
e en aysi con vos dirai:
625
«True que m'esfortz de far una chanson
qui me resit d'aquest turmen on ‘son’».
En luec de «son», «sui» devia dir.
So sapcha chascus ses fallir,
q'hom lo deu variar ies:
630
«Ieu suy», «tu es», «aquell es»,
plural «nos em», «vos etz», «cill son».
Qar ell vay d'aytal razon.
Ar vuoil dir de «grazi»,
«sufri», «parti», «trahi», «noyri».
635
Aysi en la persona prima
la deu dir cell qui s'aprima
del preterit perfech singular,
en l'endicatiu parlar;
e ayceil qui no vol fallir
640
deu en tersa persona dir:
«Partic», «sufric», «feric», «trahic»,
«grazic», «muric», «vic» e «noyric»;
mas en
Folquetz
, trobayre fis,
y fallic en son chan e dis
645
en una cobl'ab tal comensame:
«On trobaretz may tan de bona fe
quant mai nulls hom se meteys no ‘trai’
son e sieu com ieu quis seru ‘trai’».
Mas «trahic» deuri' aver retrach
650
si el volgues haver ben fach.
E si alcun er demandatz
con pot anar aquest fatz
pois que la rima cor en «i»
que puesca anar en «ic» aysi,
655
adone le prims deu respondre
q'alcuns no deu confondre
del parlar la drecha via
per rima qui obs li sia,
mas ell si deu percassar
660
de tal paraula trobar
que la rima cora en «i»,
aysi con fay «parti», «sufri»,
e qui no sia biaissada
ni en nombre desacordada,
665
ni en persona ni en temps,
poys li er le dretz ademps.
Ben say q'hai gran ardimen dich
d'ayso q'aytan hai contradich
lo dich q'aytan bon trobador
670
han dich, mas li entendedor
d'ayso qu'ieu hai dich m'amaran,
q'aytals paraulas aysi van;
e qui volgues ben esgarar
en tot l'autre grazit chantar
675
d'aquest meteys trobadors,
si fos dels prims entendedrs,
certanament majors falsuras
y trobera ab drechuras.
Si aytal trobador grazit
680
en lo lur chantar han fallit,
chascus en lo sieu cor albir
so q'hom pogues dels malvatz dir.
L'autra del verb parladura
no poyria dir sens rancura,
685
ni ses grans afan e pena,
mas esgaratz con si mena
per los trobadors verays
en totz los lur chantars gays.
E si trobaretz alcun motz
690
qui per vos no s'entenda tot
ab tot lo vari entendimen,
y metatz lo cor e la men;
e si vos no havetz poder
d'entendre celuy e vezer,
695
ya nous dovetz vergoygnar
de los plus sabis demandar,
que asatz deu haver major
vergoygna cel qu'a dezhonor
y es de demandar s'atrai
700
que aicel qui demandan vai,
car nuls es qui sapcha tan
q'us autre no sapch' atrestan.
Doncs chascus en la sa obra
per aytal razon se cobra,
705
quar cert ben fora fortz cauza
q' us hom hagues en cor clauza
tota l'esciens'ab lo sen;
mas ben crei que no ha talen
d'apenre qui no demanda
710
totas cellas res a randa
las qals per se meteys no sab,
e qui d'ayso tem alqun gab,
quar nulls pot saber per se sol
totas las res q'ama ni voi.
715
Per ço qu'aiatz major menbransa
vos donarai aytal semblansa
del parlar qui en doas rimas cor,
si con l'an dich li trobador,
si con «leial», «chascun», «talan»,
720
«fin» e «chanson» e «vilan»;
e pot hom dir encara isi:
«Leiau», «tala», «villa» e «fi»,
«chanso», mas aquest parlar jes
con le primiers adretz no es.
725
Ara chascus entendeyre
cui es sabers valeyre
deu ben saber uimay
si con aquest parlar vay,
e con si deu aluoignar,
730
abreviar e variar;
e chascus qu'es fis trobayre
nol deu de sa rima estraire,
ni de la sa drecha via
per rima qui obs li sia.
735
E si ell comensa chanson,
deu continuar sa razon
en aysi com le comensa,
si ell no vol far fallensa;
car may mi play e agrada
740
razos ben continuada
que mot qan alcus los entresca
ab rimas e entrebesca;
e si en la tersa persona
le comence, la razona
745
tota d'aycella maniera
que le comensa e l'enquera;
e si enl prim' o en segonda,
doncha ops q'aisi responda,
e celui nombre q'el en ver
750
y comensa deu mantener.
E nulls per proensal diga
alcun mot frances, qar eniga
es aytal parladura dir
ab la proensal, ses mentir;
755
e a chascun verb son conduch
y don segon que l'ha construch
per los oblics e per los retz
si con enquier lo sieu dretz,
con s'estay en aluoygnamen,
760
encara en abreviamen.
Eu voil qe visi barbarism,
no y meyta ni solecism,
tot que mant trobador prezat
y han en lur chantar pauzat,
765
mas per aqo s'en escuzon
qar qan alcus i fai lo son
chantan lo pot abreviar,
si con se tayn, e aluoygnar.
En vuoill qe en la scrichura
770
meta primamen sa cura.
Encara sia perceubutz
que meta los accens agutz
els greus si con s'esthai
en celui chantar qe fay,
775
en lonch chantar no se luoygn:
mas ieu ami que se poygn
de trobar razon tan gaya
e tan prima q'a totz playa.
Oymay chascus entendenz
780
deu saber verayamenz
qals es l'avinenz parlars
qu'es pro grazitz en chantars,
e si con lo deu retrar
le bos trobayre e menar
785
e si con se deu penre gach
enl trobar de celui empach
de cui hai dith e parlat
e mei q'ieu sai razonat.
E per ayso finiray
790
mon acort com mell sabray
en aysi con lo comensey,
qar, per cert, aysi far dey
si eu vuoill ies prezumir
de ben lo mieu lavor finir,
795
em torn vas lo seygnor Dieu
a lei d'ome de pecat grieu,
qar si diray o hay ren dicha
qui per luy sia contradicha,
lui prech qe m'en deja donar
800
lo sieu perdon e autrejar.
E sopley totz vos, aman,
que qan vos a mi don denan
seretz, dejatz clamar pro me,
qar ieu mi muer: Merce! merce!
805
e qar il mi donec conort
e gieygn de far aquest acord.
Acababa es la doctrina de cort provincial e de vera e rabonable locucio.
NOTA
Un'edizione critica dei rimatori che cantarono a Pisa nel secolo XIII sotto l'influsso guittoniano, non è stata finora tentata. Il lavoro, a dir vero, non era tale da invogliare; giacché, senza dire che le rime di quei rozzissimi poeti ci sono state tramandate in forma assai malsicura da pochissimi codici, e spessissimo dal solo Laurenziano-Rediano 9 (L), l'oscuritá regna siffattamente nei loro noiosi componimenti, che volere intender sempre il loro «dittato forte» è impresa disperata. Ciò valga a far perdonare le deficienze della presente edizione, la quale, senza alcuna pretensione di criticitá, vuol dare semplicemente un testo, quale lo stato odierno degli studi permette di esibire.
I GALLO O GALLETTO
Un Gallus iudex Agnelli notò il Gaspary ( St. d. letter. ital., I, 423) fra gli ambasciatori pisani al concilio di Lione nel 1275 (cfr. Muratori, RR. II. SS., XXIV, 682). In un documento pisano del 17 e 19 giugno 1282 sono ricordati la podesteria di Volterra di Gerardo d'Isacco pisano « et iudicatus Galli Agnelli de Pisis » ( Regestum Volaterranum dello Schneider, Regesta chartarum Italiae, p. 302, n. 896). E finalmente troviamo nel gennaio 1288 una provvisione fatta «a domino Gallo Angnelli » e da altri anziani di Pisa ( Bonaini, Statuti pisani, I, 692). Si tratta forse del nostro rimatore.
Riproduco per le due canzoni l'edizione del Monaci, Crestomazia dei primi secoli, con lievi modifiche d'indole grafica. La canzone I è in L e in V (Vaticano 3793).
Canzone I, v. 4: «s'inavanza». Correggo cosí il «s'avansa» di L, per la misura del verso.
v. 31: «Cicilía». L ha «seccelía». Seguo V, che ha la forma «Cicilía», corrotta in L.
v. 40: «aulía». Cosí in V: L ha «auliva».
Canzone II, v. 7: «com'este». Cosí in V: L ha «como ad esser».
v. 26: «roma». Cosí credo debba leggersi l'«aroma» di V: L ha al v. 26 «ruma», come al v. 29 «a Ruma». Ma è assai difficile capire che cosa abbia voluto dire il p. con la parola «roma», suggeritagli probabilmente dalla rima: forse «romana»?
v. 39: «e saglie». V «salsi»: ricavo la forma da me adottata da L che pure ha «saglisce».
v. 60: «ch'a ciascun». Cosí in V: L «che ciascun».
II LEONARDO DEL GUALLACCA
Diresse il suo serventese a Gallo, servendosi dello stesso schema metrico usato dal suo amico e delle stesse rime.
Anche per questa poesia (che è in L e in V) riproduco la cit. ediz. del Monaci, correggendola in qualche parte.
v. 1: «lasso». V «a nasso»; ma va conservato «lasso» di L, perché è anche nel v. 1 della canzone di Gallo.
v. 4: «l'asso». È noto che nel giuoco della zara o dei dadi si faceva un tiro infelice, quando si gettava l'asso.
v. 9: «Daviso». Sta per «David» per tirannia della rima. Il ricordo di Salomone, e soprattutto il v. 10: «lo profeta piagente», fanno congetturare che qui si debba intendere il «daviso» di L e V per «Daviso».
v. 35: «né 'n versi». Cosí in V: L non ha l'«'n», dopo il «né».
v. 37: «in fallo». V ha «ispallo» e L «isfallo»; ma credo che sia indispensabile la mia correzione. Il p. vuol dire: Chi s'innamora senza essere riamato («in fallo», «a vuoto»), ho udito dai saggi che si trova assai male.
v. 40: «rifallo». Cosí in L: V ha «a rio fallo». Forse vuol dire che l'esperienza del male rifá chi ha buon senso?
v. 43: «chi quivi serra». Cosí in L: V «chi vi serra».
v. 44: «chi saglie». Cosí in L: V «s'elgli».
v. 54: «ne dan d'amor». Congetturo che, pel senso, cosí si debba leggere, e non «vedran da lor lo saggio», com'è in L, o «vedran d'Amor lo sagio», com'è in V.
v. 60: «Non crea a vista né ad atto». V ed L hanno «né a matto»; ma l'assai facile correzione è suggerita dal senso.
v. 72: «abocco». Cosí in V: L ha «attoccho».
III PANUCCIO DEL BAGNO
Non fu egli dei Bagni di San Giuliano presso Pisa, come qualcuno ha creduto; ma d'una famiglia Del Bagno di Pisa. Infatti trovo che Rainerius de Balneo pel novembre e il decembre del 1297 è anziano a Pisa (v., nella Chronica antiqua conventus Sanctae Catharinae de Pisis, ed. da F. Bonaini, nell' Arch. stor. ital., 1ª serie, t. VI, il Breve vetus seu Chronica antianorum civitatis Pisarum ab an. Dominicae Incarnationis MCCLXXXIX ad an. MCCCCIX ). Pei mesi di novembre e dicembre del 1305 è fra gli anziani Puccius de Balneo (ivi).
In una sua canzone politica, «La dolorosa noia», si lamenta di certuni, «non saggi, alpestri», degni del capestro, che lo costringevano a stare dove non avrebbe voluto, in loro soggezione. Costoro avevan tolto dal governo «i valorosi e degni e buon rettori» e avevan tratte in loro potere tutte le cose del Comune, avevan conculcato ogni sentimento di giustizia «e perdute castella e piano in guerra». Si allude sicuramente alla cessione di castelli e di parte del piano di Pisa, che fu fatta dal conte Ugolino della Gherardesca e dagli uomini di sua parte dopo l'infelice battaglia della Meloria. Non mi pare vi sia alcun dubbio che in questa canzone Panuccio si lamenti della signoria ghibellina, che il conte Ugolino della Gherardesca impose a Pisa nel 1285.
Guittoniano puro, Panuccio è, tra i rimatori pisani, il piú oscuro e il piú artificioso: la sua poesia è tutta infarcita di forme e di reminiscenze provenzali.
Le sue rime sono quasi tutte soltanto nel Laurenziano-Rediano 9 (L), pochissime anche nel Vaticano 3793 (V). Sicuramente non appartengono a lui alcune canzoni: «Quant'aggio ingegno e forza in veritade» e «Chiar' ha 'n sé valore», «Lasso taupino, in che punto crudele», e il sonetto «Quando valore e senno d'om' si mostra» che il Valeriani ( Poeti del primo secolo, 1) gli assegnò: L li dá anonimi.
Canzone I, v. 4 «e stat'», ecc: Intendi: il «vostr'altèro plagimento e la gran conoscenza e la valenza» hanno preso tale stato altèro e perfezione, che, ecc.
v. 15: «vui». L ha «lui»: sostituisco «vui», voluto dal senso e riferito a «donna».
v. 25: «so'». L ha «fo», che non darebbe senso alcuno, né inteso per «faccio» né per «fu»; ma mi pare il senso corra, se si sostituisca «so'» = «sono». Intendi: Non sarei («fôr'» = fôra = sarei) amato, quanto son degno di essere.
v. 32: «diven'». Intendo «divengo» e spiego: E come io, o donna, veramente divengo degno d'essere amato...
v. 38: «del». L ha «dal».
v. 40: «altèr». L ha «altero», che non può stare per la misura del verso.
v. 42: «a voi». L ha «di voi», evidentemente errato.
Canzone II. Stampo questa canzone secondo l'ottima edizione che ne ha data Leandro Biadene, Canzone d'amore di un antico rimatore pisano, Pisa, Mariotti, 1904, per nozze D'Ancona-Cardoso.
v. 67: «di cosa». Il Valeriani mantiene «di cosa», e arzigogola intorno alla forma provenzale « de re » e a quella francese « de rien »; ma chi mai ha usato questa forma in tal significato? Il Biadene, p. 16, che ha ben capito il passo, costruisce: «Né mai meo cor non tenne cura di cosa che sol di servir lei», e spiega: «Manifestamente 'di cosa che' vuol dire 'di altra cosa che', oppure 'di cosa alcuna tranne che'».
Canzone III, v. 18. Questo verso è certo lacunoso, perché dovrebbe essere endecasillabo: anche il v. 19 manca di due sillabe.
v. 25: «e 'n ciò che m'era». L ha «eccio».
v. 38: «grev'è a». L ha «grev'a».
v. 48: Il verso è evidentemente guasto in L: «in me pro scende». Arrischio la mia correzione come semplice congettura.
v. 50: «gravoso... languir». L ha «gravozi». Per la misura del verso tolgo l'«e» a «languire», com'è in L.
v. 69: «in cor». L ha «il cor». Intendo: E la morte, che m'assegna, mi sarebbe vita, perché sarebbero finite le pene nel mio cuore.
Canzone IV, v. 45: «grav'è. Sembro». Cosí correggo L, che ha «sembra», e intendo: Tal cagione mi dá ria pena, che è fuor di misura grave. Cosí pensieroso sembro aver vita...
v. 50: «e piú mi». L ha «piú enmi».
v. 51: «lo spirto». L ha «spirito», che non posso accettare per la misura del verso.
v. 52: «e qual piú pregiudicio». L ha «e qual piú progiudicio».
v. 64: «pena». L ha «pene».
v. 67: «dipartire». Per la misura del verso correggo L, che ha «partire».
v. 70. Vuoi dire che conoscere il male («cernendo») e perseverare in esso è fallo molto maggiore che essere nel male, cioè fallire, non conoscendolo.
Canzone V, v. 10: «natora». L ha «di natura»: il «di» probabilmente fu aggiunto per errore, a causa del «di», che è avanti a «servire».
v. 22: «per lo piacere». L ha «per lor piacere»: ma non saprei a che cosa riferire quel «loro». Intendi: Ed attendendone in parte diletto, il quale io immaginai per il piacere che ne provavo.
vv. 31-35. Passo assai oscuro. Pare voglia dire: Per qualche ora parve che mostrasse verso di me che le («i») gradisse la gioia con cui io le servivo.
v. 34: «di ciò sorrise». L ha «di ciò sormize». Correggo, intendendo: Di ciò, cioè della mia gioia in servirla, sorrise con gran benignità. Questo benigno sorriso era la dimostrazione che ella faceva «per sembianza».
v. 35: «mea vista». L ha «me vista».
v. 38: «poi». L ha «per».
v. 42: «'n morte». L ha «e morte»: la correzione mi è suggerita dal principio della strofa seguente: «Regnando in morte».
v. 50: «m'ha sí». Correggo L, che ha «usima».
v. 68: «com'al foco cero». L ha «col mal foco cero».
v. 69: «ispero». Intendi: Né alcuna cosa spero mi possa risanare, finché ella mi disdegna.
v. 70: «disdegnand'». L ha «desdignand'».
v. 77: «ma perciò». Il senso, a dir vero, richiederebbe «e perciò». Che si debba leggere proprio cosí?
Canzone VI, v. 6: «guerrero». Lo schema metrico delle strofe richiedeva qui una rima in «ore». Deve forse leggersi «guerrore» per «guerrero»? Può essere che il copista, trovando questa forma «guerrore» necessaria per la rima, l'abbia voluta correggere in «guerrero». Oppure il poeta s'è contentato d'una specie di consonanza?
v. 9: «quando». L ha «quanto».
v. 30: «senza mora». L ha «senza monora». Intendo: Ma ora che mi sono dipartito da lui, mi ricordo di tutto e ricordo quanto contrastai con lui («quanto ontai di lui») senza posa.
v. 38: «viveva dimorando». L ha «dimorava dimorando».
v. 59: «d'ella». L ha «ad ella». Intendo: Ahi! penso («aviso») che forte è il dolore, ove perda soltanto un poco di essa cosa».
vv. 76-79. Passo assai oscuro e difficile. Parmi si possa cosí intendere: Quando il suo sentire operava in me, penso («diviso») che ogni piacere languisse, quando io sentiva dolore senza che ne venisse a lei alcun male («diviso d'ognunque suo male»). Credo che forse, invece di «desentir», si debba leggere «resentir».
v. 80: «e dammi noia». L ha «e dammi gioia»; ma il senso è, mi pare: E mi dá dispiacere in ciò in cui credo invece d'aver piacere.
vv. 82-85. Pare voglia dire: Desidero («desio») potere quello che ero costretto a desiderare solo da ultimo («a disiar infinale») e ben diverso da quello che non poteva mai effettuarsi.
v. 93: «ch'e' fui». L ha «che 'n fui».
Canzone VII, v. 13: «e non solo dimor'». Cosí in L. Il Valeriani guasta il senso, per avere la misura del verso, e legge «dimorar»; laddove bastava leggere «solo» invece di «sol» com'è in L, perché il verso tornasse. v. 19: «venisse, u' sosten». Il Valeriani stampa «'ve Pisa sosten regno», ma non vedo che ci sia ragione di allontanarsi da L, che ha come noi stampiamo. Intendo: E mi meraviglio che Dio sostenne (tollerò) che ciò avvenisse in un paese ov'egli sostien regno (in paese di cristiani), poiché essi hanno messo in «disguiglio» il comune.
v. 20: «disguiglio». L ha «disviglio», che si corregge facilmente, se si pensa alla «disguiglianza» del verso seguente.
v. 33: «ora l'hanno». Correggo, per la misura del verso, L, che ha «or l'an».
v. 40: «piano». L ha «e periano». Accetto la correzione giá fatta dal Valeriani.
v. 42: «e che 'n vero». L ha «e che ver».
v. 53. Aggiungo un «è», che non è in L, ma che è indispensabile pel senso.
v. 55. L ha «ladron» e «mercanti».
v. 59. Intendi: E pare che dei detti signori adagi a ciascuno, cioè pare che tutti ne siano contenti.
v. 75: «sian lor piace». Intendo: E le terre che son tante perdute, non giá l'hanno volute difendere, ma piace loro che siano perdute. Il Valeriani invece legge: «Ma perdute difender si han, l'or piace», e non so quale senso da ciò potesse ricavare.
v. 76. Intendo: E, quando è loro vietato far ciò, allora fanno pace solo per far del male agli uomini di parte avversa.
v. 79: «procederà». L ha «procedrà».
v. 91: «smodata». L ha «smondata».
v. 108: «ed ho di gravosa doglienza». Accetto la correzione del Valeriani: L ha «ed di gravoza dogliensa».
Canzone VIII, v. 21: «diviso». Il Valeriani stampa «divis' è da ciò», e veramente L ha «divize da ciò»; ma, leggendo «diviso», il senso è chiaro: Ma penso («diviso») ben diversamente da ciò.
v. 37: «ch'era». Aggiungo «ch'», sebbene non sia in L, pel senso.
v. 41. Il Valeriani ha tralasciato questo verso.
v. 55: «fero». L ha «fera».
v. 70: «falso». Pel senso, congetturo che cosí si debba leggere, sebbene L abbia «valco».
v. 83: «'ncontra». L ha «contra». Il Valeriani non ha affatto inteso questo passo: malamente separa le parole di L, e legge «medico» invece di «me dico», e l'«enme» di L intende «emmi», «mi è». Cosí come lo stampo, mi pare che il passo dia un senso assai chiaro: Io dico («me dico») che somiglia a un pazzo sperimentato chi segue il suo danno ed ha contrario il bene: in me accade («'ncontra») quel che ho contato sopra.
v. 85: «allor». L ha «lor».
v. 92: «el mio tormento». L ha «en mia tormento».
Canzone IX. È soltanto nel Vaticano 3793 (V). Ho creduto però, anche per questa canzone, di seguire le forme grafiche di L, che piú si attengono all'uso del volgare pisano del secolo XIII.
v. 6: «lento». V «lente».
v. 7: «feci». V «fea».
v. 18: «ch'ove ho trovato». V ha «ch'aveo trovato». Il «trovato ho» del verso seguente suggerisce la correzione da me adottata.
v. 32: «parimento». V ha «parimente»; ma è facile la correzione, perché questa parola deve rimare con «conoscimento».
v. 38: «con seco om bene». Mi attengo a V, che ha «con seco hom bene», e correggo la lezione errata data dall'ediz. D'Ancona e Comparetti: «con se combene». Intendo cosí il passo: «Voglienza d'amore» in altrui consiste in volere uomo goder bene con seco (con la donna amata): invece in me consiste in «fare lo mio piagere nel suo».
v. 40: «di fare». Cosí, certamente, e non «disfare», com'è in V.
v. 52: «a l'ofuscato». Cosí correggo V, che ha «a lo fustato».
vv. 59-62. Interpungo e stampo diversamente dal D'Ancona e Comparetti, prima di tutto perché cosí si dá ad «ella» e a «mei» (me) il verbo «ha», che altrimenti mancherebbe; e poi torna meglio l'ordine grammaticale nel v. 61, che in V non dá senso alcuno: «c'acciò ch'eo son commosso». Intendo cosí: Vero è che ella non me (perché ha piú potenza di me) ha ciò per cui io sono commosso, ove ella è (V ha «eran» di facile correzione) sempre nella sua grande virtú.
v. 73: «vòl». Veramente V ha «sol»; ma il senso richiede questa correzione.
Canzone X. È soltanto in L, ed ivi è detta «rintronico», parola che pare sia una corruzione italiana della parola provenzale « retroencha », con la quale si voleva indicare piú la musica che la forma metrica del componimento.
v. 4: «infirma». L «infima». Intendi: Chi s'inferma gravemente, deve fare cherenza di medicina «ponderosa». Forse si dovrá leggere «poderosa», assai piú comune nell'antica poesia; tanto piú che il v. 6, «e non cui falla punto potimento», ci fa credere che il p. volesse dire «poderosa» e non «ponderosa». Tuttavia non ho voluto allontanarmi da L, che ha «ponderosa».
v. 11: «stolti». L ha «colti», che non dá senso. Intendo: Stolti coloro che aspettano a guarire del male d'amore: è difficile guarirlo, quand'esso è violentissimo.
v. 27: «l'omo». Non è in L; ma congetturo che possa mancare il soggetto del verbo «dea» del verso seguente, poiché il primo verso d'ogni strofa deve essere un endecasillabo, e questo, come è in L, mancherebbe di due sillabe: «Però en cui è poderosa».
v. 39: «eccellenza». L «eccilensa».
v. 40: «vertudiosa». L «verturioza».
v. 42: «a farne». Aggiungo un «a», che non è in L, ma che mi pare necessario.
v. 49: «vizi». L «visu». Penso che voglia dire: Credo che sia proprio dell'avversitá purgare, vincere e conculcare i vizi di ciascuno che stia pronto a volere, ché «l'avversitá» gli sarebbe di danno senza altro frutto, e ciò è pazienza che dá virtú a colui che sa pazientare.
v. 69: «Aver ch'è». L «averi den». Cosí correggo, intendendo: Dunque è buon provvedimento voler seguitare con fede e speranza («spera») e avere retto sperare in lui, che è quello che quotidianamente crea rimedi che non mai animo potrebbe escogitare eguali.
Canzone XI. È in L. Il p. parla oscuramente, in «dittato chiuso».
v. 4: «è alcun». Veramente L ha «c'alcun»; ma il senso è: Non è alcun uomo sotto il cielo con potenza di tal virtú.
v. 18: «che». L «o».
v. 31: «e». L «so».
v. 38: «conobbe». L «connove».
v. 55 e sgg. Gli ultimi versi di questa canzone sono un vero indovinello. Pare voglia dire: Ma se tale, che m'ha condotto a questo punto, volesse che giá avvenisse cosí, e se sapesse farmi avvenir ciò, divido («parto») il nome di lui, togliendone quella parte che gli sta innanzi, cioè separo «Corso» da Bonaccorso. Ma chi è mai questo Corso, col nome del quale si chiude la canzone?
v. 64: «me' so». Cosí separo «messo» di L e intendo: E so che è meglio a non dire a ciascuno il mio corso, perché non lo sappia Corso.
Canzone XII. È soltanto in L, ove è detta «quivica», «equivoca». Per capire qualcosa in questa oscura poesia, mi sono allontanato in parecchi punti dal testo datone dal Valeriani.
v. 6: «n'ho capra». Cioè non ho che cappia, capisca, entri: nello stesso significato è usata questa parola nel sonetto di Panuccio, XVIII, 4.
v. 22: «nell'affannarmi». L «nell'affaimarmi».
v. 26-7: «l'autre donne». L «l'autre e donne». Ma che cosa vuol dire? Forse si allude con «petra» al nome di madonna o al luogo dove ella era?
v. 41: Verso assai difficile ad intendersi. Vuol forse dire: Ed io ho nel suo cuore grande virtú?
v. 58: «si m'è». L «sí mi».
v. 63: «vidivi». L «visivi».
v. 68: «ha' mò». L veramente ha «homo»; ma è certo che qui vuoi dire che un uomo potrebbe domandargli: — Perché hai ora parlato, se anche voi in ciò pensate saggiamente? — Questo «voi» accenna forse alla persona cui è diretta la canzone?
Sonetto XIII, vv. 1-2. Il Valeriani scioglie «sente» di L in «sent'e'» (sento eo), e a «pura la mia mente», com'è in L, aggiunge un «a» dopo «pura». Credo che abbia ragione.
v. 6: «vii». Cosí correggo L, che ha «luil».
vv. 9-10. Come si vede, mi allontano affatto dal senso e quindi dall'interpunzione del Valeriani e intendo: Ed io dolente, quale è il mio operare? Si vede manifesto anche nel mio fallare.
Sonetto XIV. È in L. Anche per questo sonetto non ho tenuto alcun conto dell'errata lezione data dal Valeriani, il quale interpunge in modo da mostrare di aver malamente inteso il senso. Il quale per me è questo: Se colui che regna ed è signore fosse sicuro della sua signoria, ciò, a mio credere, sarebbe ragione per la quale un uomo, che è basso, non avrebbe mai speranza di salire in altezza, ma d'aver miseria.
v. 10: «volgendo». L ha «voglendo», erroneamente conservato dal Valeriani.
v. 17: «far». L «fa»; ma deve dipendere da «vesi», vedesi.
v. 18: «non cre'». L ha «non credo»; ma questa forma non può essere conservata per la misura del verso.
Sonetto XV. È in L.
Sonetto XVI. È in L.
v. 3: «sono». L ha «son», a cui aggiungo una sillaba per la misura del verso.
v. 11: «Postra». Cosí dice L; ma deve intendersi che questa strana forma sia stata adoperata per necessità di rima in luogo di «poscia».
v. 14: «terso». Si osservi che nel dialetto pisano si usava spesso «s» invece di «z», quindi sta per «terzo». Qui ed altrove, lo dico una volta per sempre, mantengo questa forma ortografica dell'antico dialetto pisano, per la rima. S'intende che, negli altri casi, mi attengo alle norme di questa collezione.
Sonetto XVII. È in L.
v. 10: «sé 'n tempo». Aggiungo questo «'n», che non è in L.
v. 16: «vallo». L «valle».
v. 18: Questo verso è aggiunto nel margine di L da mano piuttosto antica.
Sonetto XVIII. È in L.
v. 16: «chi non è ad esso». Veramente L ha «chi non già 'l meno sottoposto»; ma che cosa mai significherebbero queste parole? Congetturo che «ad esso» si possa sostituire a «meno», riferendo «esso» ad Amore, e si debba togliere «già», che guasta la misura del verso e non è necessario pel senso. Interpetro dunque: Perché chi non è sottoposto ad Amore può venire tosto a perfezione di bene.
v. 17: «di ben a perfezion». L «di bea perfession».
Sonetto XIX. È in L.
v. 11: «avverso». L «abbersa». Intendo tutta la strofe cosí: Ché non solo donna né uomo («converso») abbia core stanco di pensare e fare ciò per cui è perduto il bene, sicché ogni uomo leale può dire: — Non abbranco virtú, anzi il contrario («il male») — ...
Sonetto XX. È soltanto in V.
v. 11: «me tenuto tuo». Cosí deve correggersi V, che ha «me tenuto in suo agio il parere». Il senso allora è chiaro: E aggio tenuto me in tuo parere, cioè ho seguito la tua volontà.
v. 12: «cosa». L «certa», che non darebbe alcun senso.
Sonetto XXI. Anch'esso in V. È, come dicevano gli antichi, un «sonetto equivoco repetito», cioè ha le rime con le stesse voci (perciò «equivoco»); ma con significato diverso e ripetute al principio de' versi (perciò «repetito»). È difficilissimo ad intendersi.
Il ms. veramente lo reca in questa forma:
Amor sa il mio volere miso di non falla giammai non
\ / \
sovra \
/ \ \
Che sua virtú da me sia punto sí forte lo parere \
divizo
E l'alma avinta ognora se posoo e da me non mai punto e /
\ / /
sovro /
/ \ /
tucco non com elli e tanto da me astenne saetta
Et quella amore in me che tanta ed onne virtú non sol di
\ / \
porto parte
/ \ /
in che pensando benenenza sentir di lei me donne
da cui non mai lei tanto
/ \
regna
\ /
di ben di sé vero in cui
Sonetto XXII. È soltanto in V.
v. 10: «corro». V «curo».
IV BETTO METTEFUOCO
Ben poco sappiamo di questo rimatore, e nulla possiamo ricavare dall'unica poesia che ci ha lasciata. Una famiglia di questo nome era in Pisa sui primi del secolo XIV, ed ebbe qualche potenza, perché un Bindo Mettefuoco è notaro degli anziani pel gennaio e il febbraio del 1303 (v. nella cit. Chronica antiqua conventus Sanctae Catharinae de Pisis ).
Fortunatamente questa canzone è assai meno oscura e artificiosa di quelle di Panuccio, e quindi riesce piú facile darne un'edizione soddisfacente.
È in L e in V; ma nel primo è mutila (non ve ne sono che tre strofe): la terza strofa è invece la seconda in V.
v. 13: «'nde temo». V ha «ne dotto», che pare in parte correzione di L.
v. 14: «e paur'». V ha «che paura». Troppi «che» si susseguono; mi pare quindi preferibile la lezione di L.
v. 15: «no le». Cosí V: L ha «a lei non».
v. 17: «Se vo' vegno, e non veggo». L ha «se vo veggio non vegho», ove evidentemente è errato quel «veggio»; V «s'eo vengno e non vegio». Prendo da V «vegno», correggendo per tal modo l'errore manifesto di L.
v. 18: «sprendiente». Cosí L: V ha «splendiente». Preferisco la forma data da L, perché piú corrispondente all'uso antico pisano.
vv. 19-20: «sguardi... parli». Cosí L, laddove V ha «sguarda» e «parla». Il senso e la grammatica richiedono che qui ci sia il congiuntivo: Se io vengo da voi, e non vedo che il vostro splendente viso guardi con pietà e parli con dolcezza.... L'incompiutezza della canzone in L non detrae totalmente, a me pare, alla grande autorevolezza del codice.
v. 21: «reggo». Cosí L, ed è miglior lezione che il «tegno» di V, il quale non rima con «veggo».
v. 23: «vivendo». Cosí in L: V ha «servendo»: l'idea di servire è espressa nel verso seguente.
v. 30: «mi pare». Cosí in L: V ha «mi piace», che non può ammettersi in questo luogo, essendo «piace» proprio nel verso seguente.
v. 33: «or dunqua». Cosí in V: L ha «dumque».
v. 35: «non oso». Cosí in L: V ha «no' l'auso».
v. 37: «Ben so». Cosí in L: V ha «ben credo ne moragio».
v. 39: «nonde porò». Cosi in L, in forma certo piú antica e quindi piú genuina. V ha «e non credo campare». Si sente qui, come in parecchi altri punti, che lo scrittore di V ha rabberciato il testo che aveva dinanzi.
v. 40: «grazioso». V ha «lazioso».
v. 44: «eo». Non è in V.
v. 45: «possa». Cosí in L: V ha «e poi». Anche qui è evidente l'intenzione dell'amanuense di V di correggere il testo.
vv. 46-47: «Sire Deo». L ha «sire o Deo», e V «oi sire Deo».
v. 52: «de montagna». V ha un «la» fra «de» e «montagna», che guasterebbe la misura del verso.
v. 59: «e fái». V ha «falli»; ma l'ordine grammaticale richiede qui un «e», e mi pare allora naturale la forma antica «fái», i fa, gli fa.
v. 67: «e'». È indispensabile aggiungerlo per la misura del verso, sebbene non sia in V.
V CIOLO DELLA BARBA
Una famiglia Della Barba era in Pisa nel secolo XIII: infatti un frate Egidio Della Barba nel 1270 è ricordato nella cit. Chronica antiqua Sanctae Catharinae, p. 430. L'unica canzone, che ci rimanga di questo rimatore, è conservata soltanto da V, donde la pubblicò per la prima volta il Grion nel Propugnatore, III, 101. Poi la diedero in edizione migliore il D'Ancona e il Comparetti, nella Collez. di opere inedite o rare del Romagnoli, 1881, II, 71-76.
v. 3: «che». Non è in V; ma è indispensabile per la misura del verso.
v. 4: «ch'om' agia». V ha «com'agio»; ma il senso mostra evidente l'errore.
v. 7: «de rota». V ha «de la rota»; ma quel «la» v'è di piú, guastando la misura del verso.
v. 10: «piú che nel». V ha «piú che del».
v. 13: «e sonde». Aggiungo un «e», che mi pare richiesto dal senso: Temendo io guardo («veo», vedo) e ne sono pauroso...
v. 17: «possedete». V «presedete».
V. 20: «com' fenice». V ha «com' fa fenice»; ma anche qui il «fa», per la misura del verso, è di troppo.
v. 21: «naturali». Cosí è nel ms. «Naturali» per «naturale» è per necessitá di rima, dovendo rimare con «'guali» del v. 24; del resto questa forma di singolare in «i» era frequente nei volgari toscani.
v. 26: «come compresi». V ha «me ne comprese»; ma è evidentemente errato.
v. 38: «ora». V ha «or»; ma cosí non tornerebbe la misura del verso.
v. 40: «la fior tembra». Che cosa sia questo «fior tembra» non comprese bene il Grion. Il Targioni-Tozzetti ( Dizionario botanico, parte II, p. 212) dice che col nome di « timbra » o « timbro » intendesi la Satureia Iuliana, cioè la santoreggia del monte San Giuliano, che non è altro che la Micromeria Iuliana Benth., come m'informa il mio collega prof. Baroni, il quale mi avverte che codesta pianta ha la corolla caduca. Questa circostanza è importante per l'intelligenza del testo. Infatti il poeta termina invitando madonna ad aver pietà di lui, e a voler che non faccia come il fior «tembra», a cui cade la corolla.
VI PUCCIANDONE MARTELLI
Di Pucciandone Martelli fortunatamente si può attingere qualche notizia dalla cit. Chronica antiqua di Santa Caterina, dalla quale apparisce che prese parte alla vita pubblica di Pisa, specialmente nell'ultimo decennio del secolo XIII. Fu degli anziani per il gennaio e il febbraio del 1289, per il novembre e il decembre del 1292, per il gennaio e il febbraio del 1295, e infine per il maggio e il giugno del 1297. Forse è diretto a lui il sonetto CCXCI di Guittone che è in L e che incomincia: «Guelfo conte e Pucciandon la voce»?
La maggior parte delle poesie di questo rimatore sono soltanto nel Palatino 418 (P); solamente il son. «Signor senza pietanza udit'ho dire» è in L. Disgraziatamente in P mancano or qua or lá alcuni versi. Il Valeriani ha stampato le due canzoni e la ballata assai scorrettamente, non avendo capito nulla del metro in cui sono scritte.
La ballata ci prova che il Martelli risentí qualcosa dell'influsso della nuova scuola fiorentina. Quella ballata, oltreché nel metro, ha qualche agilitá e dolcezza nella forma, insolite fra i guittoniani.
Canzone I. È veramente da lamentarsi che il cod. P, che solo conserva questa canzone, l'abbia cosí guasta, da rendere difficilissimo raccapezzarne lo schema metrico. Certamente vi mancano or qua or lá dei versi. Dopo aver fatto vari tentativi, credo che lo schema possa essere questo: ABBA, BAAB | bCcD, EEcBB; ma, per ridurre le varie strofe a questo schema costante, sono stato costretto a rabberciare qua e lá i versi.
v. 2: «vene». P ha «'nfra meve»; ma mi sembra forma insolita per dire «in me», «dentro di me»: tutt'al piú il p. avrebbe detto «in meve». Congetturalmente quindi correggo «'nfra vene», fra le vene.
v. 3: «quei». P ha «quelli»; ma in questa forma non torna il verso.
v. 7: «saggio». P ha «sagio», come piú sotto «selvagio», «agio» ecc. Non credo di dovere accettare queste forme, le quali non si trovano in altri rimatori pisani e che probabilmente derivano dalla grafia particolare dell'amanuense.
vv. 14-15. Questi versi furono assai malamente stampati dal Valeriani, che dette il v. 15 cosí: «Son signor senza pietá», non accorgendosi che in tal modo mancava la rima con i vv. 10-11. Il mezzo migliore per rabberciarli era di trasportare il «son» nel v. 14.
v. 20: «ed umiltà». V ha «od».
v. 20: «adorna». Cosí in P: il Valeriani, non so perché, legge e stampa «a Donna piagenza».
v. 22. Il verso certamente in P è guasto. Credo bene pel senso di dover cambiare «a sua potenza» in «a mia potenza», e intendo: Non si creda che ella per amore mai («ma'») metta la sua virtú in mio potere, perché io prenda loco in tale cuore.
vv. 24-25. Il Valeriani li stampa lasciando perfino un «non» nel v. 25, e ponendo «aitale», senza accorgersi che bisognava sciogliere in «à 'n tale».
v. 31: «tornerá». P ha «a tornara», che il Valeriani cambia arbitrariamente in «ha tornata».
v. 31: «in bassanza». Ho trasportato queste parole dal v. 30, come sono in P, al v. 31, perché in tutte le strofe di questa canzone il verso quattordicesimo deve essere endecasillabo.
v. 35 e sgg. Tutta questa strofe è guasta ed è assai difficile ricostruirla. Certo è che, guardando allo schema metrico, non si può lasciare «crudele fero», che P ha al principio del v. 38: e, guardando pure allo schema metrico delle altre strofe, si capisce che manca una parte del secondo piede della fronte.
v. 45: «m'asicuro». P ha «m'asicura»; ma è evidente che debba correggersi, per aversi rima con «puro» del verso precedente.
v. 46. Son costretto ad aggiungere «egli» per la misura del verso.
v. 48. Veramente P ha «che lo meo cor sostene tuttavia»; ma, come si vede nelle altre strofe, questo verso deve rimare col precedente. Credo che debba leggersi: «che tuttavia lo meo cor sostene».
v. 49. P ha «faria ben ked io d'altro non curo»; ma è evidentemente un verso guasto, anche perché deve essere un settenario e non un endecasillabo.
v. 52 e sgg. Questa strofa è ancora piú guasta delle altre. Forse qualche verso può togliersi, senza guastare il senso; ed io mi sono sforzato, togliendo alcune parole, a ridurre la strofe allo schema delle altre. Veramente V ha: «Amore, se risurgi la mia mente cosí forte seguente ti parraggio, che farai acordanza con lei di darmi amanza di campare, di che d'ella faccio non folle pensare ma tuttor mi procaccio star selvaggio di lei nascostamente». Quale senso plausibile si può ricavare da queste parole? Senza dire che ne verrebbe fuori una strofe di 18 versi e con la sirima diversa da quella di tutte le altre strofe. Cosí come propongo di leggere, il senso è chiaro: Amore, se fai risorgere la mia mente, ti seguerò cosí fortemente, che t'accorderai con lei di concedermi amore. Faccio non folle pensare di lei a star selvaggio, a nascondermi a lei, che mi diviene come l'uomo che cammina, che cela la luce (cioè fa ombra) a chi va con lui. — Ma avrò proprio còlto nel segno? E poi quel «faccio» che rima con «selvaggio» non si dovrà forse leggere «faggio»?
v. 54: «regina». P ha «redina».
v. 60: «parrá». P ha «parerá»; ma cosí non può stare per la misura del verso.
vv. 70 e sgg. Anche questa strofa è assai guasta e mutila in qualche verso.
v. 81: P ha «dovreste aver mercede», senz'altro; ma deve mancare la parola finale, perché il verso dovrebbe rimare con «molto» del verso seguente, ov'è la rimalmezzo.
v. 83. Anche qui, per la misura del verso, credo necessario togliere il «che», che in P è innanzi a «non fi' grave».
Ballata II. È in P con qualche lacuna. Il Valeriani non comprese nemmeno che è una ballata.
v. 15. P ha: «la vostra angelica sembransa»; verso, come si vede, di nove sillabe: né tornerebbe ugualmente, se si leggesse, come fa il Valeriani, «angelicale». Credo che manchi una parola innanzi ad «angelica», che le dia valore di superlativo: congetturo quindi che manchi «sovra».
v. 18. Questo verso è certamente mutilo in P, perché quello a esso corrispondente nelle altre strofe è endecasillabo.
Sonetto III. È in L. È un sonetto doppio.
v. 18: «me... faccia». Il Valeriani prende «me» per «me'» (meglio). No: il senso è: Dio vi lasci trovare miglior servitore, e lasci che io trovi un signore che ricompensi.
Canzone IV, v. 18: «allegresse». Qui mantengo l'ortografia propria dell'antico dialetto pisano, per la rima con «avesse».
v. 51: «odito». P ha «odite».
v. 61: «intendenza». Non «intendanza», com'è in P, perché mancherebbe la rima con «benvoglienza».
Sonetto V. È in L. È un sonetto artificiosissimo per la doppia rimalmezzo che è in tutti i versi. Anche qui, a causa della rima, ho mantenuto le forme ortografiche pisane «bellessa», «adornessa», ecc.
v. 11. Verso assai difficile a intendersi. Pare voglia dire: Che vi trova meravigliosissimi («permirata») tutti i sentimenti («ogna sens'ha») che vi pensa («che i pensa»).
VII BACCIARONE DI MESSER BACONE
Anche di questo rimatore ben poco sappiamo. Fu amico di fra Guittone, che gli diresse una delle sue lettere, confortandolo a mostrarsi prode a vantaggio della sua patria. Quale fu l'occasione per la quale l'aretino cercò di stimolare a forti opere di guerra l'amico pisano? Dice fra Guittone: «Segondo la parvissima caritate, umanitate e bonitate mia, compassione di vostra passione presi; e non solo giá voi, ma pisani tutti compatiti e doluti ho quasi aretini, amore che porto essi me distringendo» ( Lettere, ediz. Bottari, p. 70). Egli dunque compiange gli amici pisani per qualche grave sventura pubblica. Poiché altrove abbiamo veduto Panuccio lamentarsi dello sgoverno dei ghibellini in Pisa nel 1285, mi pare assai probabile che a quei fatti si riferisca la lettera di Guittone. Il quale, in un altro passo della lettera, dice a Bacciarone che, tornato in patria, ben poteva provvedere con l'opera sua al bene di essa: «Tornando a casa vostra nell'agio vostro, buono parvo for magno sembrerá voi, e quasi soavissimo affanno grave, al buono parvo presente, ed al mal grande sovvenendo bene» (ivi, p. 71). A quale opera poteva il guelfo rimatore d'Arezzo stimolare il signore pisano e i suoi compagni, se non a quella d'osteggiare la prepotenza ghibellina? A questi stessi fatti mi par certo che si riferisca la canzone III. Le rime di Bacciarone sono solamente in L.
Canzone I, v. 16: «loro e i loro e 'l loro»: cioè danneggiando essi e i loro seguaci e i loro averi.
v. 52: «conducía». Cosí deve essere per la rima col seguente «obbría»; non «conducea», come ha L.
v. 96: «per potersi». Mi pare che il senso richieda che cosí si corregga il «poterm'» di L.
v. 120: «potete». L ha «potetava».
Canzone II, v. 23: «voglienza». L ha «veglensa».
v. 49: «fiata spico». L ha «fieta». Intendi: È cosa che odora («fiata») piú che spigo. Lo spigo poi ognun sa che è un'erba aromatica.
v. 54. Intendi: Quanto piú possiede senza Dio, piú è iniquo.
v. 62: «impasso», cioè impazzo. Anche qui conservo l'ortografia pisana per la rima con «lasso».
v. 74: «for' nullo par bono»: cioè fuori di cui non appare alcun buono.
v. 100: «in tal pentèro». L ha «pente pentero». Intendi: Non vi sono tante stelle in cielo, né gocce d'acqua in mare («candelle»), quante io non ho gocce (lacrime) in tal pentimento.
Canzone III, vv. 7-8. «Torto» qui sta per «tolto». Il senso è: Perché mi vedo tolta gioia da ogni parte; e il cuore sempre accorto erra a darmi il contrario della gioia, cioè il dolore.
v. 9: «isperato». L ha «sperato».
v. 13: «chi di guardar». L ha «che di guardarno
v. 17: «e chi ne ha». L ha «e chi 'n dá». Intendo: E chi ha fatto ciò, che si fugga il bene e si segua il male, tra quelli che piú avevano potenza in Pisa?
v. 22: «furon». L ha «fisson». Il senso è: Non l'ardire di chi ho detto nel saper ferire senza fallir colpo. Perché furon montati in alto monte («serra»), sembra loro («vis'è lor») non manchi diporto, né alcuno sconforto dicono li cacci dalla terra («li sterra»).
v. 26: «noi'» (noia). L ha «no»; ma il senso richiede questa correzione.
v. 31. Forse vuol dire: Hanno pensato di far fare il porto dentro la porta di Pisa, finché dura la guerra.
v. 32: «averrá». È una di quelle che si dicevano rime false.
VIII GERI GIANNINI
Questo rimatore tenzonò con un Si. Gui. da Pistoia (vedi sopra, nei Rimatori pistoiesi, p. 19) e con Natuccio Cinquino. Il Valeriani dá a lui un terzo sonetto «A quei ch'è sommo dicitore altèro»; ma in L, ove sono le rime che di lui rimangono, è di anonimo.
Sonetto I, v. 10. Il Valeriani stampa: «E del no chero, ch'ha esta balanza», ma queste parole non dánno senso. Il verso che segue: «se piú tardanza fa, tanto 'l desiede» fa capire che si parla di qualche cosa che tarda a venire. Intendo: Si può («posi») dire che è gran fallire del nocchiero che guida questa bilancia. E il nocchiero parmi che debba intendersi Amore. È un sonetto anche questo assai tenebroso.
v. 15: «par Deo». Non credo affatto si debba intendere, come vuole il Valeriani, «per Dio». Il poeta vuol dire: Non ho («non porto») alcun conforto pari a Dio, ossia pari a quello che mi viene da Dio, ché io tengo in servitú («'n feo», in feudo) la mia scura vita, e ho paura di non esser mai padrone di me stesso.
Sonetto II, v. 9: «chi 'n dire». L ha «chi 'n nire». La correzione è facile, se si pensa al verso corrispondente del Giannini: «che gran fallire dire posi 'ntero». Il Valeriani stampa «chi in ire».
Sonetto III. Si. Gui. da Pistoia gli rispose col sonetto «Tanto saggio e bon poi me somegli» (vedi nei Rimatori pistoiesi, p. 19).
IX NATUCCIO CINQUINO
Questo rimatore appartenne all'antichissima famiglia pisana dei Cinquini ( R. Roncioni, Delle famiglie pisane, in Arch. stor. ital., disp. XIII ter, t. VI, p. II, suppl. 2º, p. 947 sgg.). I Cinquini presero attiva parte alla vita pubblica in Pisa negli ultimi decenni del secolo XIII: un «Vannes Cinquina» è anziano per il settembre e l'ottobre del 1289, un «Guiscarduccius Cinquinus» è degli anziani per il marzo e l'aprile del 1289 e del 1290, e un «Bonaiuncta Cinquinus» per il settembre e l'ottobre del 1292 ( Chronica antiqua cit.). Credo che si debba identificare il rimatore con quel «Benenatus Cinquina», che è anziano per il settembre e l'ottobre del 1299 ( Chronica cit.). Per me Natuccio è lo stesso che Benenatuccio. È nuovamente anziano per il luglio e l'agosto del 1305 (ivi). Fu in corrispondenza poetica con Bacciarone e con Geri Giannini. I suoi sonetti sono soltanto in L.
Sonetto I, v. 11. Costruisci: «e non è viso (visto) per mia 'ntenza», cioè non vedo da me come ciò possa essere.
v. 12. Costruisci e intendi: «Se alcun uomo risiede in vita degna, fora mei (meglio) a lui vita che stallo (stanza, dimora) in morte; se da ciò (ossia dalla vita degna) poi si parte, e' va a perdenza».
Sonetto II. Risponde al sonetto di Natuccio Cinquino: «A cui prudenza porge alta lumera».
v. 11: «fuggon». L ha «fuggen».
Sonetto III, v. 6: «no è». Cosí in L e non, come vuole il Valeriani, «non è».
v. 9: «vo'». Cosí in L e non «voi», come legge il Valeriani.
Sonetto IV, v. 11: «e 'l ben». L ha «e ben»: aggiungo l'articolo, perché richiesto dalla grammatica e perché è innanzi a «fallire».
X LOTTO DI SER DATO
Rimangono di questo rimatore due canzoni, una delle quali: «Della fera inferta e angosciosa», è d'argomento politico e pare riferirsi al dominio della parte ghibellina in Pisa nel 1285. Sembra quindi che anche questa canzone si debba annoverare fra quelle poesie dei guelfi pisani che in quel tempo si lagnarono del mal governo dei ghibellini e del conte Ugolino della Gherardesca. Le due canzoni sono conservate soltanto da L.
Canzone I, v. 15: «cèra». L «chaira».
v. 17: «deviso». Intendi: Non v'è donna né uomo cosí fermo nell'operare che non abbia divisa (= distratta) la sua attenzione a riguardare lá dove sente che ella apparisce.
v. 32. Intendi: Ha per ispecchio la strada («ruga»), ossia ha gli occhi bassi a terra.
v. 60. L ha «che 'l saggio conta voglia opassione». Per me è evidente che il copista non vide il segno dell'abbreviazione nel «p» di «opassione», oppure, copiando, dimenticò di scriverlo. Il senso è, come dice il Valeriani: Ché il saggio pone in conto (anche al v. 49 il rimatore ha usato «conto» per «tengo in conto»), cioè a merito, la buona voglia che si ha d'operare.
Canzone II. Questa canzone ha nelle singole strofe lo stesso schema metrico della canzone che in L segue immediatamente a questa: «Magna medela a grave e perigliosa» di Panuccio del Bagno. È assai probabile che Lotto la indirizzasse a Panuccio e che questi gli rispondesse, cercando di confortarlo delle sventure della patria e della sua parte.
v. 17: «l'èe». L ha «lei».
v. 18. Intendi: Che, dopoché Dio ebbe fatto lei («quella cosa» cioè l'uomo), gli fu («fuli») cosí amorosa, cosí cara, che le die' libertá di fare il bene e il male.
v. 29. Intendi: Conforto a questo avremmo soltanto il «trapassamento» (la morte), parola che è qui nello stesso senso del «trapassare» del v. 34.
vv. 37-39. Intendi: Se non fosse che sappiamo che le nostre anime terrebbero («terren'») tal via, che girerebbero («giréno») a perdizione senza aver mai redenzione».
XI NOCCO DI CENNI DI FREDIANO
Furono in Pisa verso la fine del secolo XIII due notai che ebbero nome Nocco, un «Noccus de Avane», anziano per il luglio e l'agosto del 1289 e un «Noccus de Ceuli», anch'egli anziano nello stesso anno per il novembre e il decembre ( Chronica antiqua cit.). Ma se il rimatore debba identificarsi con uno di questi due, è assai difficile risolvere. Di lui non rimane se non una sola canzone, che è in L. Fu assai malamente stampata dal Valeriani, il quale ne comprese assai poco lo schema metrico.
v. 21. Il Valeriani stampa mutilo questo verso «vedrete in gio' montarmi», non essendosi accorto che L aveva anche «e 'n frutto bono».
v. 37: «ma Amor». L ha «m'amor».
v. 38: «for' voi». Intendi: Amore, pur volendo, vide che non potea fare a me lo stesso (cioè: come ho detto sopra), senza di voi.
v. 44: «ingannòme». L ha «ingegnome», mantenuto, senza ragione, dal Valeriani, il quale, per il senso, è poi costretto a spiegarlo con «ingannommi».
v. 45: «saccio per vista». L ha «aggio»; ma il senso mi pare richieda «saccio». Il Valeriani stampa «provista» = «provvista», non avendo compreso il senso, assai facile del resto, di «per vista», che vale «per averli veduti». Il senso è: So, per averli veduti, che crescono molti alberi.
v. 50: «'n frutto». L ha «che 'n frutto», ma il «che» è di troppo.
v. 73: «cavrete». Cosí in L: il Valeriani stampa invece «m'avrete». Il senso qui è chiaro: Ovvero mi caverete dalle mani d'amore, nelle quali mi metteste, tornandomi nel mio primiero stato.
XII GERONIMO TERRAMAGNINO
Il nome «Geronimo» si ricava dal v. 1 del sonetto di risposta, che in L segue all'unico che ci rimanga di lui: quel sonetto d'anonimo incomincia «Gieronimo, com' credo, voi sapete».
v. 9: «assetto». L ha «essetto», dal Valeriani cambiato in «effetto». Ma non credo che, sebbene Terramagnino fosse poco abile versificatore, si mostrasse però cosí imperito da non sapere trovare una nuova rima e ripetesse proprio la parola «effetto» del v. 3. Intendo: Glorioso di ogni buona provvista («assetto») di dottrina che avete fatta.
DOCTRINA DE CORT
Pubblico questo poemetto dal testo che ne ha dato Paul Meyer nella Romania, an. XIII, pp. 181 e sgg. da un codice madrileno. Lo riproduco con pochissime varianti: ho accettato nel testo alcune delle correzioni che il Meyer ha fatte in nota, perché mi è parso chiaro che gli errori fossero cosí grossolani da doversi attribuire, nella maggior parte dei casi, piú a negligenza di scrittura che ad ignoranza dell'autore. Molti altri errori sarebbe troppo arrischiato correggere, perché possono essere necessari effetti della scarsa conoscenza che Terramagnino aveva della lingua provenzale. Infatti dice il Meyer: « Terramagnino est un grammarien peu intelligent. Il ne comprend pas toujours son modèle et dans aucun cas il ne se montre capable de le perfectionner ». Il poemetto dunque ha assai poco valore come trattatello di grammatica e scarsa originalitá, poiché è un rifacimento delle Razos de trobar di Raimondo Vidal. Può avere qualche importanza per gli esempi, che assai spesso dá dei trovatori provenzali, soprattutto perché alcuni di questi poeti non sono noti per altra fonte. « Toute l'originalité de Terramagnino — continua infatti il Meyer — consiste dans le choix des exemples, en général tirés des poésies des troubadours, qu'il allègue pour justifier chacune des règles qu'il emprunte à R. Vidal, même en des cas où les faits sont tellement constants et fréquents qu'il n'est pas besoin de les justifier. Ces exemples ne sont jamais ceux de R. Vidal. Notre auteur semble s'être fait une loi de remplacer toutes les citations de son devancier; on vient de voir qu'il n'a pas toujours été heureux dans ses substitutions. La sèrie des exemples qu'il rapporte révèle des faits qui ne sont pas sans intérêt pour l'histoire de la poésie des troubadours... Terramagnino connaissait des poésies provençales qui ne nous sont pas parvenues, ou qui du moins n'ont pas été signalées jusqu'à ce jour: nous ne devons pas être surpris si, parmi les poésies d'auteurs connus qu'il cite, il s'en trouve que nos chansonniers ne contiennent pas ». Dal che si può scorgere come il trattatello grammaticale dell'oscuro rimatore pisano non sia inutile per la storia della letteratura occitanica e della diffusione di questa in Italia. A ogni modo, nonostante i molti errori dell'autore, inesperto della lingua occitanica, la Doctrina de cort ci prova come i nostri piú antichi rimatori avevano conoscenza vasta e diretta della lingua e della letteratura provenzale.
v. 1. Il ms. ha «en lo».
v. 4. Il ms. ha «faut mon acort per els».
v. 10. Il ms. ha «dic» e «mils»: quest'ultimo è certo un errore di scrittura per «nuls»; ma anche questo è errato per «negus». Il ms. ha anche «reprehendre».
v. 16. Il Meyer osserva che qui il verso è assai guasto; ma come correggere?
v. 36: «anars». Il ms. ha «en ars».
v. 42: «genre». Il ms. ha «jen».
v. 44: «escriutz». Il ms. ha «eseratz», che mi pare errore di scrittura.
v. 58: «genr'». Anche qui il ms. ha «jen».
v. 63: «nom». Il ms. ha «mon», errore certo di scrittura.
v. 67: «gen». Dovrebbe dire «genre»; ma allora non tornerebbe piú il verso.
v. 71: «jeu». Il ms. ha «ies».
v. 74: «genre». Il ms. ha «ien».
v. 78: «tan». Il ms. ha «can».
v. 84: «en cestui»: Il ms. ha «entestiu».
v. 85: «qu'an». Il ms. ha «qu'am».
vv. 91-2. Il passo è certamente guasto. Il ms. ha «o golim», che si può correggere con «Ugolim».
vv. 97-98. Anche qui il passo è guasto. Il senso richiederebbe che si dicesse: «E las autras qui per semblansa — mostron qualitat ses substansa»; ma questi versi non sarebbero più ottonari.
vv. 99-100. Il ms. ha «o que conta, o que fay — o que soste, o con vay»; ma, dice bene il Meyer, l'imitatore non ha ben compreso il testo di R. Vidal, che aveva dinanzi.
v. 105: «De los». Il ms. ha «dels»; ma cosí non tornerebbe nemmeno la misura del verso.
v. 131: «sotz». Forse voleva dire «totas».
v. 164: «masclin»... «femnin». Il ms. ha «mascolin» e «femenin»: ma allora non tornerebbe la misura del verso.
vv. 181-2. Alla fine di entrambi questi versi nel ms. è «mi desplay», che guasterebbe la misura dei versi.
v. 202: «quim». Il ms. ha «quin».
v. 203: «quel». Il ms. ha «qual».
v. 243: «vai». Il ms. ha «vas».
v. 268: «anar». Il ms. ha «amar».
v. 281: «cestui». Il ms. ha «testiu».
v. 286: «deman'». Dovrebbe dire «demana»; ma allora mancherebbe la rima.
v. 312: «cars». Il ms. ha «anars».
v. 313: «ris». Il ms. ha «nis».
v. 320: «luecs». Il ms. ha «luets».
v. 323: «las». Il ms. ha «lau».
v. 331: «chantayritz». Il ms. ha «caucayritz».
v. 397: «e sas». Il ms. ha «asas».
v. 455: «s'eschai». Il ms. ha «s'eschar».
v. 464: «amanz». Il ms. ha «emanz».
v. 470: «bom il». Il ms. ha «humil».
v. 493: «ieu». Il ms. ha «ies».
v. 506: «preposition». Il ms. ha «proposion».
v. 554: «con vay cre». Il ms., con evidente errore di scrittura, ha «ton vaycre».
v. 564: «jen». La rima richiede «jen» e non «jeu», come ha il ms.
v. 612. Questo verso è guasto nel ms.: «Ara desiu es es vuoill dir».
v. 613: «i». Il ms. ha «e», errore che mi pare da attribuirsi a svista di scrittura.
v. 642: «trahic». Il ms. ha «tric», errore anche questo che mi pare da attribuirsi al copista.
vv. 646-'47. Fra questi due versi manca la rima, forse perché il v. 647 non è di T., ma di Folchetto: altrove però il p. ha sempre trovato modo di rimare i suoi versi con quelli citati.
v. 687: «si mena». Il ms. ha «s'amena».
v. 699: «cel qu'a dezhonor». Avrebbe dovuto dire «cel e dezhonor».
v. 700: «y es». Anche qui v'è certamente errore. Forse doveva dire: «qui de demandar no s'atrai?».
v. 733: «de sa rima». Il ms. ha «desari ni»; ma per me qui non è dubbio che l'errore sia del copista.
v. 749: «donch a ops». Il ms. ha «tocha ops»; ma anche qui mi pare si possa credere ad un errore di scrittura.
v. 784: «e menar». Il ms. ha, col solito errore che per me è certo effetto di negligenza, «amenar».
v. 788: «sai». Il ms. ha «seu».
v. 791: «lo». Il ms. ha «ley».
v. 803: «seretz». Il ms. ha «secretz».
Correggo in fine il ms. che, certo per errore di scrittura, ha «d'acord», invece di «de cort». Non credo di dover correggere il «rahonable» del ms., sebbene forma catalana, perché Terramagnino, che forse era a mercanteggiare nella Catalogna, può aver introdotta, inavvertitamente, questa forma catalana in luogo di «razonal».
GLOSSARIO
acontamento — conoscimento.
acontanza — conoscimento, e anche avvicinamento.
acontare — conoscere.
acchiuso — chiuso ( Bacciar. di messer Bacone, I, 48).
accorto — accolto ( Bacciar., canz. I, 35).
adagi (verbo) accomodi, piaccia ( Panuccio, VII, 58).
adanno (s') — si danno.
aderenza — applicazione, adattamento? ( Panuccio, X, 25: «ad onta... aderenza» = nonostante che vi abbia applicato qualche conforto?)
adesso — subito (prov. ades ).
agensa (m') — m'aggentilisce, mi piace (prov. m'ajensa ).
agiuntare — aggiungere.
agra (agg.) — acerba, amara.
agra (verbo) — aggradisce? ( Panuccio, canz. XII, 24).
alcona — alcuna ( Panuccio, V, 57).
aldo — audo, odo (lat. audio ).
alegera (m') — m'alleggera, m'alleggerisce.
alena (verbo) — allevia, alleggerisce.
alieno — inutile ( Panuccio, X, 26).
alleggiare — alleggerire.
allegranza — allegrezza.
allenare — alleggerire.
allor — allorché.
altroi — altrui.
altura — altezza.
aigua — acqua.
amanza — amore.
amarore — amaro, amarezza.
amontare — salire ( Leonardo del Guallacca, 48).
amorta (s') — s'ammorta, s'uccide (prov. amortar ).
angore — angoscia (lat. angor ).
aparegli (m') — m'apparecchi.
arbítro — arbitrio.
arendere — rendere.
arimembrare — rimembrare.
argollianza — orgoglio.
arra — pegno, promessa, garanzia ( Nocco, 35).
ascosta — ascosa, nascosta.
aservirsi — asservirsi, obbedire ( Leon. del Guall., 71).
assessino — assassino.
assiso — fermo, costante ( Panuccio, I, 30), anche fornito ( Lotto, I, 37).
ataupina (s') — diventa tapino, misero ( Pucciand. Martelli, I, 57).
aulire — odorare.
autro — altro.
auso — oso (lat. audeo ).
avanza — giova.
aventura — avventura, fortuna: «passa in aventura» = si espone alla fortuna ( Betto Mettef., 54).
averrà — avverrá.
aviso — penso.
avraggio — avrò.
baglía — balía ( Ciolo della Barba, 37).
baglia (verbo) — «S'alcuna mi si baglia» ( Leonardo del Guallacca, 66) — S'alcuna cade in mio potere.
bailia — balía, potere.
balanza — bilancia, navicella.
baldore — baldanza.
bassanza — bassezza.
bastanza — sufficienza.
benenanza o beninanza — bene, felicità, benignità.
beno — bene ( Nocco, 32).
'bento — abento, pace, riposo.
benvoglienza — benevolenza (prov. benvolenza ).
blasmare — biasimare (prov. blasmar ).
bonore — bene.
branco (verbo) — abbranco.
'brobbriosa — obbrobriosa.
ca — che.
canoscenza — conoscenza, perizia, intelligenza (prov. coinossensa ).
capra — cappia, capisca, entri ( Panuccio, canz. XII, 6 e son. XVIII, 4).
carezza — pregio ( Panuccio, IX, 86 e Pucciandone Martelli, I, 36).
calessa — delicatezza, gentilezza.
catuno — cadauno, ciascuno.
'ccorto — accorto.
celato — confidente.
cerna — scelta.
cèra — viso, aspetto.
cerne — cerni, spiega ( Panuccio, canz. VIII, 91).
cernita — veduta? ( Panuccio, XII, 51).
chente — quale.
cherenza — chiesta.
cherere — chiedere.
clero — chiaro.
chiostro — luogo chiuso.
ciòe — ciò.
coi — cui ( Panuccio, I, 8).
colpa (verbo) — incolpa, colpisce, ( Leon. del Guallacca, 46).
compagna — compagnia.
complire — effettuare: «complir sua disianza» — realizzare il suo desiderio ( Panuccio, III, 6).
como — come.
comone — comune.
compimento (a) — a perfezione.
comuno — comune: «parlo 'n comuno» ( Bacciar., son. IV ).
condutto (riprendon) — riprendono il governo ( Panuccio, VII, 71).
conservire — restar servo ( Panuccio, V, 18).
considranza — considerazione.
consomare — consumare.
contanza — contezza, conoscenza (prov. coidansa ).
contezza — conoscenza, familiaritá, amicizia.
conta (verbo) — tiene in conto, apprezza.
conto (agg.) — gentile.
conto — raccontato.
contra (avv.) — contro.
contra (sost.) — il contrario.
contrara (la) — il contrario: «contrara di gioia» ( Lotto, II, 31) — il dolore.
convento — accordo.
converso — uomo, quando sia in contrapposizione a «donna». Vedi v. 7 della canz. XIX di Panuccio del Bagno: «ché donna, né converso».
coraggio — cuore (prov. coratge ).
corale (agg.) — in cuore, che viene dal cuore: «coral foco» ( Panuccio, IV, 29), fuoco nel cuore.
corale (avv.) — cordialmente.
cordoglienza — cordoglio, dolore.
corenza — corrente ( Ciolo della Barba, 30).
corto di ciascun bene — privo d'ogni bene.
covertora — copertura ( Lotto, I, 28).
cotidio — quotidianamente ( Panuccio, X, 69).
creamento — creazione, opera ( Panuccio, VI, 69).
cre' — credi.
credimento — credenza, fede.
criamento — creazione.
criare — creare.
croio — crudele.
crudero — crudele.
curamento — cura.
cusi — cosí.
dannaggio — danno (prov. damnatge ).
dea (verbo) — deva, debba.
defalto — fallo ( Panuccio, XIV, 16).
defetto — difetto.
deggi — devi.
deletto — diletto.
delmi — me lo deve ( Bacciarone, III, 3).
dene — ne de', ne deve ( Panuccio, X, 5).
deporto — diporto.
dési — devesi, si deve.
desentire — risentire? ( Panuccio, VI, 78).
desiedere — cadere di seggio? ( Geri Giannini, I, 11).
desplagire — dispiacere.
destene — distiene, trattiene? ( Panuccio, X, 41).
deritto — diritto.
dia — dí.
día (verbo) — deva, debba.
dibonaire — amorevole, buono.
dicimento — dicitura ( Natuccio Cinquino, II, 4).
difensa — difesa.
digiunto — disgiunto.
dilibberare — liberare.
dipartuto — dipartito.
dischiaramento — schiaramento, fortuna, felicitá ( Panuccio, X, 59).
disconciare — guastare, rovinare.
disconforto — disperazione, dolore.
discoperchio — discopro, scopro.
disformare — bruttare, guastare ( Bacciarone di messer Bacone, I, 60).
disguiglianza — disuguaglianza ( Panuccio, VII, 20).
disguiglio — disuguaglianza.
disidranza — desideranza, desiderio.
disnaturare — andare contro natura, cambiar natura ( Panuccio, II, 23).
disovro — vado sopra, esagero ( Panuccio, XI, 13).
disorrato — disonorato.
displagere — dispiacere.
dispero — disperazione ( Bacciar. di messer Bacone, II, 96).
disragione — sragionevolezza, torto ( Panuccio, VII, 97).
distretto — stretto, avvinto.
distringe (mi) — mi stringe, mi assedia.
disvene — disconviene ( Panuccio, IX, 15).
dittato — dettato.
diverso — strano.
diviare — disviarsi, allontanarsi ( Panuccio, X, 10).
diviso — penso (prov. devizo ): anche far capire ( Pan., canz. IX, 68) e far conoscere, annunziare ( Lotto, II, 67).
doblata — doppiata, doppia.
doglienza — dolore.
dolzore — dolcezza.
donqua o donque — dunque.
dovereane — ne dovrebbe.
drittura — dirittura.
dubitanza — dubbio.
dutto — tratto, ricavato ( Nocco, 42).
èe — ebbe ( Lotto, II, 17).
elegimento — elezione, scelta.
empera — impera ( Pan., XIV, 1).
enchiostra (verbo) — è chiusa ( Panuccio, XVI, 5).
ene — è.
eniquo — iniquo.
enver' — inverso, verso.
eo — io.
erro' — errore.
esta — codesta.
eternai — eternali, eterne.
faite (verbo) — fate.
fallanza e fallenza — errore (prov. falhensa ).
falli (verbo) — manchi.
falligione — fallo.
falsía — falsitá, errore.
faraggio — farò.
fascia — fasci, lacci ( Bacciar. di messer Bacone, I, 13).
fède — fiede, ferisce.
fene — fece.
fenire — finire.
fenita — finita, fine.
feo — feudo, servitú: «tegno 'n feo», tengo in servitú ( Geri Giannini, I, 16).
ferale — degno di fiera (detto della vita), non umano, che vive come una fiera ( Panuccio del Bagno, VI, 45).
fiata (verbo) — odora.
fiato — respiro, vita: «non ben agiato fiato» — vita non comoda, non felice ( Geri Giannini, I, 7).
fier (verbo) — ferisce ( Panuccio, XVIII, 2).
finare — finire.
finimento — fine.
fiore — punto ( Natuccio, son. II, 5).
fiso — fisso, fermo; «volere fiso» ( Pan., canz. II, 32): «credo fiso» — credo fermamente ( Panuccio, I, 27).
foi — fui ( Panuccio, IV, 22).
folle (sost.) — mantice ( Panuccio, XII, 70), dal lat. follis.
follore — follia.
for' — fuori, senza.
for' misora — senza misura.
fornire — bastare ( Lotto, I, 54).
forsi — forse.
franchezza — franchigia, libertá.
'frizzione — afflizione ( Panuccio, VI, 104).
fuli — gli fu.
fumi — mi fu.
gecchito — umile, abbattuto, stanco.
general (avv.) — generalmente.
gente — gentile.
gioglio — loglio.
giostra — briga ( Pan., son. XVI, 4).
girèno — girerebbero.
gola (verbo) — s'allegri (da un supposto golire ): «par gola» — pare che s'allegri ( Leonardo del Guallacca, 20).
gola — (sost.) — brama ( Gallo, II, 20).
golia (verbo) — agognava, bramava ( Gallo, I, 13).
gradivo — gradito.
granare o granire — sbocciare.
grato (sost.) — piacere ( Panuccio del Bagno, IX, 57).
greve — grave.
'guale — uguale ( Ciolo della Barba, vv. 24-5: «'guali de li miei desiri» — uguali, conformi a' miei desidèri).
gudire — guari ( Panuccio, II, 73).
guerenza o guirenza — guarigione (prov. guerensa, guirensa ).
guerigione — guarigione.
guerire — guarire.
guerrero (o guerrore, come richiederebbe la rima) — nemico ( Panuccio, VI, 6).
guer mò — guari mo' ( Pan., son. XIV, «non credo regni guer mò» — non credo rimanga ora a lungo).
guigliardone — guiderdone, guadagno.
i — le, a lei.
inchiarire — render chiaro, illuminare ( Panuccio, II, 49).
increscimento — rincrescimento, dispiacere ( Lotto, II, 58).
in de — nella: «in de l'altezza» ( Ciolo della Barba, 8).
indigenza — bisogno: «a sua indigenza — secondo il suo bisogno» ( Panuccio, X, 65).
infertà — infermitá ( Lotto, II, 1).
infinale — alla fine, finalmente ( Panuccio, VI, 83).
infirma (verbo) — s'inferma, s'ammala ( Panuccio, X, 4).
ingannevil — ingannevole.
inico — iniquo.
inorare — pregare ( Ciolo della Barba, 16).
innantire — avanzare (prov. enantir ).
innaurato — splendente ( Lotto, I, 14).
insegnamento — educazione, civiltá.
insembre — insieme.
insetatura — innestatura, innesto, ( Nocco, 10).
intendenza — inclinazione amorosa, amore.
intendimento — amore.
invegli — invecchi.
inverso — l'opposto: «far del dritto inverso» = far l'opposto del diritto, del giusto ( Panuccio, XIX, 3).
iscurezza — oscuritá.
isguardare — guardare.
isguardo — sguardo.
islealtate — slealtá.
ismarrimento — smarrimento.
ismisurare — essere fuor di misura ( Panuccio, VIII, 59).
isperso — sperduto.
isperto — esperto.
isporto — sporto: «si che isport'è» — cosicché è sporto, cosparso d'ogni gran male ( Geri Giannini, II, 6).
istecco — stecco, spogliato come uno stecco ( Panuccio, XVIII, 6).
istranare — uscire di strada, allontanarsi ( Panuccio, V, 67).
isvariamento — varietà ( Panuccio, VI, 64).
isvolere — disvolere, non volere.
labore — fatica (lat. labor ).
laido — brutto, disonesto.
lasso — laccio.
latino — facile.
launque — lá, ovunque.
leccera — leccona, ciana (ant. franc. lechiere ), becera ( Leon. del Guall., 17).
lei — a lei.
lena — fiato, respiro, le forze vitali ( Panuccio del Bagno, X, 28).
levare — alleggerire: «ma levar... no ha, ni ebbe, ni mai aver dia» ( Panuccio, X, 33-36) = ma non ha, né ebbe, né mai aver debba alleggerimento. «Levar» ha qui forza di sostantivo.
li — gli.
locagione (fa) — ha luogo, dimora ( Bacciarone, p. 211, 11).
loco — dove ( Gallo, II, 5, ecc).
'lor — allor.
lumero o lumera — lume.
lungiamento — allungamento, continuazione di dolore.
luntano — lontano ( Panuccio, V, 66).
maggio (agg.) — maggiore.
magno — grande (lat. magnus ).
mai che — fuorché (prov. mas que ).
mainera — maniera.
malenanza — male (prov. malenanse ).
malparlieri — sparlatori, diffamatori.
mancagione — mancanza, difetto.
manco (agg.) — manchevole.
mantenenza — mantenimento ( Pucciand. Martelli, I, 35).
manto — molto (prov. manto ).
marrimento — smarrimento.
matto (ne do) — Ne do scacco matto (l'immagine è tolta dal giuoco degli scacchi), cioè supero tutti ( Gallo, II, 60).
medela — medicina (lat. medela: Panuccio, X, 1).
me o mei — meglio.
mei — me.
memòrare — ricordare.
memóra — memoria ( Panuccio, VI, 29).
meno — me.
mevi — me.
mi — a me.
mina — mena (forma usata per la rima da Pucciand. Martelli, I, 70).
minaccio — minaccia (lat. minacium ).
miraglio — specchio.
miro — medico (ant. franc. mire: Leon. del Guall., 21).
mistero — mestiere, bisogno.
misera — miseria.
mò — ora (lat. modo ).
molesta — molestia ( Pucciand. Martelli, IV, 40).
monta (agg.) — montata.
montanza — aumento, sovrabbondanza.
montare — crescere.
mora — dimora, posa.
moraggio — morrò.
mormòro — mormorio.
mostranza — mostra.
munimento — difesa (lat. munimentum ).
mutanza — mutazione.
'mprimera (all') — da principio.
naturale (avv.) — naturalmente.
naturali (agg.) — naturale ( Ciolo della Barba, 21).
'ncontradire — contraddire.
neente o nente — niente.
neghire — inneghittire, poltrire.
nesciente — che non sa, che ignora.
neun — niuno, nessuno.
ni — né.
nighettoso — neghittoso.
nobel — nobile.
nocente — che nuoce, cattivo.
nochero — nocchiero.
nòe — no.
noia — affanno, dolore.
nome — forse per nomo ( Panuccio, XI, 58).
nonde — non ne.
norisco — nutrisco ( Ciolo della Barba, 15).
'nvegliare — invecchiare.
obbria (sost.) — oblio, dimenticanza.
obbriare — obliare.
obrio — oblio.
occupamento — offuscamento ( Panuccio, X, 32).
odire — udire.
offenza (anche offenzione ) — offesa, danno.
ognunque — ogni, qualunque.
oltragravoso — gravosissimo.
oltraselvaggio — piú che selvaggio.
ombra (verbo) — prende ombra ( Panuccio del Bagno, XII, 12).
onora — onore ( Ciolo della Barba, 36).
ontare — fare onta, ingiuriare, contrastare ( Panuccio, VI, 30).
ontoso — ingiurioso.
operamento — operazione.
oreglio — orecchio.
orgoglianza — orgoglio.
oranza — orranza, onore.
ordo (agg.) — orrido (sincope: ant. franc. orde ). Riferito ad Amore per le pene che apporta ( Panuccio, VI, 90).
ove (comendi) — Lo lodi, ove (se) lo meriti ( Panuccio, VII, 94).
ovi — ove.
ovra — opera.
ovra (s') — se opera.
paga (si) — s'appaga ( Panuccio, III, 9).
palpe — il Monaci intende che sia un cong. pres. di «palpare». Forse il v. 39 della canz. di Leonardo del Guallacca vuol dire: Molto ha di male da toccare, cioè gli toccherà molto male.
paraggio (a) — a somiglianza, a paragone, a confronto ( Bacciarone di messer Bacone, I, 69).
paraggio (verbo) — parrò.
paroma — canapo di cui si servono i marinai liguri per legare la nave ( Leon. del Guall., 26).
parato — pronto (lat. paratus ).
pare — pari, uguale.
pareglio — pari, simile.
parimento — uguaglianza ( Panuccio del Bagno, IX, 32).
parlamento — parlata, favella: «lo mutulo torna in parlamento» — il mutolo riprende la favella ( Gallo, I, 26).
parli — pargli, gli pare.
parrea — parrebbe.
partagerò — mi partirò ( Geri Giannini, I, 14).
partimento — partenza, fine ( Gallo, I, 29).
parvente — apparente.
parvenza (a mia) — a mio parere ( Bacciarone, V, 6).
parvo — piccolo (lat. parvus ).
pato — patisco.
patuto — patito.
penale — degno di pena, alla stessa guisa che «ferale» per «degno di fera»: «Imperciò ch'è penale» ( Panuccio, VI, 26) — perciocché è cosa degna di pena. Oppure si deve leggere: «Imperciò che pena l'è»?
pensamento — pensiero.
pensivo — pensieroso.
pensria — penseria, penserebbe.
pentèro — pentimento ( Bacciar. di messer Bacone, II, 99).
percepenza — intelligenza.
perdenza — perdita.
perdonanza — perdono.
pereggio — peleggio, puleggio, viaggio ( Bacciar. di messer Bacone, I, 35).
permirato — meraviglioso ( Pucciand. Martelli, V, 11), dal lat. permiratus.
persò — perciò.
perso — scuro, nero.
pesanza — noia, gravezza.
piacenza — piacere.
pietanza — pietá.
piggiore — peggiore.
pintura — pittura.
piò — piú.
piú via troppo — sempre piú ( Panuccio, V, 48).
plagente — piacente.
plagenza — piacere.
plagimento — piacere, bellezza che dá piacere a chi la mira.
plangére — piangere.
pò — può.
poderato — rinforzato, aumentato ( Panuccio, VI, 15).
poderoso — potente, forte.
podere — potenza, forza: «a podere» — a tutta forza ( Panuccio, VII, 113).
podire — potere.
pogo — poco.
ponta, (si) — si sforza.
porò — potrò.
portatura — portamento.
posa — sosta, dimora ( Panuccio, XX, 5).
possa — poscia ( Betto Mettef., 51): «da possa» — da poi che ( Geri Giannini, II, 16).
postra — poscia ( Pan. del B., XVI, 11).
potimento — potenza ( Panuccio, VI, 86).
potrèno — potrebbero.
poso — riposo ( Panuccio del B., III, 76).
possibile (a) — quanto piú può ( Panuccio, X, 5).
prendimento (anche prendenza ) — presa.
primero — primiero.
pro (sost.) — l'utile.
prode — valore.
profittabile — profittevole.
propunto (ci) — c'insisto ( Leon. del Guall., 36).
provedenza — provvidenza, avvedimento ( Panuccio, canz. II, v. 12).
prunto — pronto.
puosi — si può.
quito — quieto ( Lotto, I, 67): forma usata per necessitá di rima.
raffino — divengo piú fine: «raffino 'n servire» — divengo migliore nel servire a madonna ( Betto Mettefuoco, 24).
rancura — affanno, tormento.
redenza — redenzione ( Lotto, II, 39).
regnare — stare, dimorare.
remiro — aspetto.
reo — crudele.
resedere — risiedere ( Natuccio Cinquino, I, 12).
resto — resta (lat. arista ), spiga ( Gallo, II, 56).
risurgere — far risorgere: «se risurgi la mia mente» ( Pucciand. Martelli, I, 62).
ruga — strada (franc. rue ).
saluta — saluto ( Lotto, I, 33).
sapo — so (lat. sapio ).
sapra ( si ) — si saprá ( Pan., son. XVIII, v. 8).
savemo — sappiamo.
savire — sapere.
sbaudire — perdere baldanza ( Gallo, I, 20).
scalcata — soppiantata ( Panuccio, VII, 23).
sconoscenza — ignoranza, ingratitudine.
scora — scura, oscura ( Panuccio, I, 66).
scordanza — discordia.
segondo — secondo.
semblanza — sembianza, somiglianza.
semblare — assomigliare.
sensa — sensi, sentimenti ( Pucciandone, V, 11).
sentire — sentimento, opinione: «al mio sentire» — a mio avviso.
sentore — sentimento ( Panuccio, I, 41).
sería (anche serea ) — sarebbe.
serra — montagna ( Leon. del Guall., 43, ecc.)
servente — servitore.
servimento — servizio.
sguardare — guardare.
siccomo — siccome.
signoraggio — signoria (prov. senhoratge ).
siguranza — sicurezza.
sigurare — assicurare ( Gallo, I, 42).
silvaggio — selvaggio, inusitato, strano.
simel — simile.
simiglia — simili, pari ( Panuccio, II, 16).
smirare — rimirare.
snaturare — allontanarsi da natura ( Nocco, 28).
sodutto — sedotto; ma anche guasto, distrutto ( Panuccio, VII, 28).
sofferea — soffrirebbe.
sofferenza — paziente attesa.
sofferrá — soffrirá.
soffrenza — sofferenza.
soffriraggio — soffrirò.
soi — suoi.
sòl — suole.
solaccio — sollazzo (lat. solacium ).
sommiso — sottomesso.
somovere — muovere, spingere ( Panuccio, XV, 5).
sonde — ne sono.
soperchio — sovrabbondanza.
sormontare — salire in alto.
soverchianza — sovrabbondanza.
sovramagiore — grandissimo.
sovrapiagente — piacentissima.
sovro (verbo) — vado sopra, da un supposto sovrare ( Panuccio, XI, 16).
sovro (avv.) — sovra, sopra.
spera — speranza (prov. esper ).
spera — specchio. Anche oggi in Toscana si dice «spera» per «specchio».
speramento — speranza.
spiacimento — dispiacimento, dispiacere ( Lotto, II, 59).
spietosa — spietata, senza pietá ( Lotto, II, 53).
spiramento — ispirazione.
sporto — porto ( Panuccio, V, 53): da sporgere, porgere: v. nel De quinquaginta curialitatibus di Bonvesin da Riva, II, 56 «on sporze a verun altro ch'è tego in compania».
sprefondato — sprofondato.
sprendiente — splendente.
sre' — sarebbe ( Panuccio, X, 14).
stallo — stanza, dimora.
stasso — stanza ( Bacciar. di messer Bacone, I, 56).
stata — stato, stanza ( Lotto, I, 3).
stato — fine: «senza stato» — senza fine ( Panuccio, VI, 97).
sterra (verbo) — caccia fuori della terra ( Bacciarone, III, 24).
stettamento — lenimento? ( Panuccio del Bagno, X, 16).
storte — storture ( Geri Giannini, I, 5: «male storte» — disgrazie, contrarietá).
stremosa — estremitá, estremi mali ( Panuccio, X, 17).
strò — starò (sincope).
suggizione — suggezione, servitú.
suoie — sue ( Panuccio, IX, 24, 26).
svariare — cambiare.
tembra (la fior tembra) — ( Ciolo della Barba, 40): la santoreggia del monte San Giuliano.
terzoletto — anche terzuolo, una specie di vela: v. il Dizionario del Tommaseo-Bellini, che cita un esempio del Ciriffo Calvaneo.
testimonia — testimonianza.
tinore — tenore.
tormentare — agitare come in una tormenta, tempestare ( Pucciand. Martelli, IV, 33).
tormento (vivere a) — vivere in tormenti ( Gallo, I, 32).
torte — fasci, legami.
torte (avv.) — a torto: «dannato 'n torte» — dannato a torto ( Geri Giannini, II, 5).
torto — tolto ( Bacciarone, III, 7).
totta — tutta.
tragállo — trággalo, lo tragga ( Leon. del Guall., 59).
tragetto — tragitto.
tralassato — tralasciato, abbandonato.
trappare — acchiappare (franc. atraper: Leon. del Guall., 28).
trasatto — lasciato ( Pucciandone Martelli, IV, 45: «ma poi mi n'ha' trasatto», ove, anche per quel che precede, il senso mi pare questo: Ma poi tu, o Amore, m'hai lasciato un po' di pace).
treccera — ingannatrice (ant. franc. trichere ), falsa ( L. del Guall., 14).
tristore — tristezza, male.
tuba — tromba (lat. tuba ).
turberea — turberebbe.
tutto — tuttoché, sebbene ( Panuccio, II, 35).
tuttore — sempre: vale spesso anche «sebbene».
u — o, ovvero.
umelia (s') — s'umilia.
umeltá — umiltá.
unde — onde, ne, di cui.
usanza — uso, abitudine.
uso — esperienza.
uvi — ove ( Panuccio, XI, 28).
valca — valica, passa.
valenza — valore.
valimento — valore.
vallo — valle.
varco (sost.) — valico, passo.
veglio — vecchio.
veno (si) — si vedono ( Bacciar. di messer Bacone, I, 23).
ventare — dare vento, soffiare (Panuccio, xii, 71).
veo — vedo.
verdero — verziere, verde prato, giardino.
ver' — verso.
vero (avv.) — veramente.
vertá — veritá.
vertú — virtú.
vertudioso — virtuoso.
vertudiosamente — virtuosamente.
vesi — si vede.
vilezza — viltá.
vinde — ve ne ( Ciolo della Barba, 36).
visare — avvisare, esser d'avviso, capire.
vivente (al meo ) — in vita mia.
vizo — vizio.
voglia (portare) — aver voglia.
voglienza — voglia.
voi' — voio, voglio ( Bacciar. di messer Bacone, II, 81).
voito — vuoto.
volno — vogliono.
vorea e vorrea — vorria vorrei.
NOTE:
[1] Per la risposta di Dotto Reali, si veda fra i Rimatori lucchesi.[2] Mi corre l'obbligo di ringraziare vivamente il prof. Flaminio Pellegrini, che con la sua molta dottrina e con l'autorevole consiglio mi ha efficacemente aiutato in questa nuova edizione dei Rimatori pistoiesi e anche in quella dei Rimatori pisani[3] Furono presi in esame da: G. Bertoni, in Zeitschrift für rom. Philologie, XXX[1906], 342-5;
M. Pelaez, in Rassegna bibl. della letter. ital., XIV[1906], 292-4;
G. Zaccagnini, in Rassegna critica della letter. ital., X[1907], 34-8;
B. Wiese, in Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, CXVII[1907], 214-223;
V. Rossi, in Giornale storico della letter. ital., XLIX[1907], 373-383;
K. Vossler, in Literaturblatt für germ. und rom. Philologie, XXVIII[1907], 290-4.
[4] Osservò giá il Rossi, Gior. st. d. letter. it. cit., XLIX, 374 e n. I, che questo rimatore non è da ritenere come notaio: nei documenti egli è costantemente e unicamente designato come « iudex ».[5] Il prof. A. Zenatti cortesemente mi comunica che questo rimatore deve proprio chiamarsi «Bonodito», come giá noi congetturammo: cfr. I Rimatori lucch., p. XXXVII. Egli ne fornirá la prova.[6] Cfr. I Rim. lucch., pp. LXXIII-IV.[7] Cfr. pure Rossi in Gior. stor. cit., XLIX, 377 e Zaccagnini in Rass. crit. cit., XI, 37.[8] Gior. stor. cit., XLIX, 378. Cfr. pure Wiese in Archiv cit., CXVII, 214.[9] Il Wiese, Archiv cit., CXVII, 214, dubita anche della paternitá dei due sonetti «Gli vostri occhi ch'e' m'hanno divisi» (n. XVII ) e «Con sicurtá dirò po' ch'i' son vosso» (n. XVIII ); ma non adduce alcuna prova che confermi il suo dubbio. Lo stesso dicasi del Tommasini-Mattiucci, Bonagiunta Orbicciani nel canto XXIV del Purgatorio, Cittá di Castello, 1911, p. 20, n. 2: cfr. pure, per il son. XVII, Vossler in Literaturblatt cit., XXVIII, 291. E allora? Il loro valore nella produzione poetica di Bonagiunta fu rilevato nel nostro saggio, Sulla cronologia e sul valore delle rime di B. O. da Lucca, Messina, 1902, pp. 39-40. A tal proposito è massimamente prezioso il son. XVII «Gli vostri occhi»; per quanto anche il n. XVIII «Con sicurtá», pur dopo la nuova interpretazione, possa sempre offrire un appoggio alla nostra tesi. La quale, sia detto di passaggio, ha trovato un deciso avversario nel Tommasini-Mattiucci, Bonagiunta Orbicciani cit. Ma ad altri (vedili ricordati quivi stesso, pp. 28-9) non è parsa poi del tutto cosí ardita da doversi senz'altro metter da parte.[10] A. Fr. Massèra, Una ballata sconosciuta di Bonagiunta Orbicciani, in Rass. bibl. cit., XIV, 210 sgg. I vv. 11, 13, 23, 62, come settenari, apparrebbero veramente allontanarsi dallo schema metrico proposto: a 5 a 6 a 6 x 7; a 7 b 8 a 7 b 8; c 6 c 5 c 6 x 7. Ma è da notare che i vv. 11 e 62 comincian per vocale, e interviene pertanto un'elisione con la finale del v. pr. Nel v. 13, sintatticamente, è possibile anche la soppressione del se con cui comincia, se pure non è, come nel v. 23, una di quelle apparenti anomalie metriche, che la musica faceva scomparire, di cui non mancano esempi: cfr. A. Fr. Massèra, Il serventese romagnolo del 1277, in Archivio st. ital., 1914, disp. 1ª, p. 10, n. 1 dell'estr.[11] I Rim. lucch., cit., p. LXXVIII.[12] S. Debenedetti, Nuovi studi sulla Giuntina di rime antiche, Cittá di Castello, 1912. Cfr. poi, a proposito di tale pubblicazione, F. Pellegrini, in Rass. bibl. cit., XXI[1913], 12 sgg.[13] Cfr. Rass. bibl. cit., XXI, 18-9. La correzione del secondo passo: «Considerando tutto quel ch'è detto», ecc. è giá in Valeriani, I, 511.[14] Vedi anche I Rim. lucch., pp. LXXVIII-IX.[15] Il Bertoni proporrebbe una rivendicazione anche per le due canzoni «Oramai lo meo core» (per questa canz. vedi pure Pelaez, Rass. bibl. cit., XIV, 294) e «Sovente, Amore, aggio visto manti»: cfr. Zeitschrift cit., XXX, 344. Ma le sue argomentazioni non son riuscite a scuotere la nostra ancor come un tempo ferma opinione in contrario.[16] La prima edizione, con tutto l'apparato critico, mette in grado di rendersi conto di ogni piú piccola mutazione. Ogni nuova congettura fu esplicitamente avvertita.[17] Cfr. I Rim. lucch. cit., p. XCII.[18] Gli schemi che raggruppammo alle pp. LXVI-VIII de I Rim. lucch. cit., prima di esser citati, è necessario controllarli con quelli di questi nuovi testi.[19] Rima siciliana, rima aretina e bolognese, in Bull. d. soc. dantesca ital., XX[1913], 123, n. 1. A proposito di questo articolo cfr. tuttavia G. Bertoni, in Fanfulla della domenica, XXXVI[1914], 25 gennaio.[20] Cfr. Zeitschrift cit., XXXI, 178.[21] Parodi, Rima siciliana cit., pp. 136-8.[22] Il Petrocchi, Novo dizionario, ad v., registra questa forma per l'ant. ital.; ma non dá esempi.[23] È un difetto, in cui cade il Wiese, ad es., nella recensione citata. Per conto mio, lo iato, spesso dato anche dall'accordo dei cdd., giustifica sicuramente i vv. c. VIII, 2 e 14, IX, 41; dis. 1, 5, 6, 10; ball. I, 33; ecc.; sono da considerare, senz'altro, come bisillabi: «lui» nei son. II, 8 e IV, 8 della tenzone fra il Gonnella, Bonagiunta e Bonodico, «poi» nel son. I, 2 della tenzone fra Bartolomeo e Bonodico, e come trisillabo: «assai» in D. R. c. I, 67; né credo che, a causa della cesura, debbano modificarsi, ad es., c. VIII, 17 e ball. II, 13-4 e 23-4.[24] La misura del verso esige senza discussione «ciera» in ball. IV, 25.[25] Cfr. D'Ancona e Comparetti, Le antiche rime volgari, Bologna, 1875, I, p. XX e n. I. A proposito del son. I di Dotto Reali, che non è compreso nel Vat. 3793, cfr. sempre quivi.[26] Le canz. I e III di Bonagiunta, che sono nel Vat. 3793, non son quivi trascritte; ma per la I, a 284 r, a sinistra, nel margine, è notato: «Auegna che partensa. 294. Reale», e per la III, a 129 r, sempre nel margine, a sinistra: «Similen.te honor. 124. Reale», con richiami manifesti (294 e 124) al Vat. 3793.[27] Vedasi su di esso Barbi, Per un sonetto attribuito a Dante e per due codici di rime antiche, in Bull. d. soc. dantesca ital., XVII[1910], p. 255 sgg.[28] Barbi, Per un sonetto cit., p. 255. Dá anche come di Bonagiunta le due canz. «Donna amorosa» (p. 109 e «La mia amorosa mente» (p. 111), che nel Pal. 418 seguivano adespote alla ball. I dell'Orbicciani.[29] Il primo verso del son. I si trova pure riferito a p. 739; cosí il primo verso del son. IV è a p. 789.[30] Cfr. Barbi, Per un sonetto cit., p. 256 sgg.[31] Solo il v. 8 del son. I: «Che passa or sôma luce e di valore» — altre poche varianti non hanno alcuna importanza — se ne allontana alquanto. Ma dipende certo dal desiderio del trascrittore di dare un senso, suo, al passo tormentatissimo.[32] Il Nannucci pubblica anche come di Bonagiunta la canz. «Tanto di fino amore son gaudente», avvertendo che essa insieme con la ball. «Donna, vostre belleze» «dall'editore fiorentino [ Val., I, 433] sono assegnate al Saladino da Pavia; ma nel Codice Pucciano, in quello di Pier del Nero ed in altri, vanno sotto il nome del nostro Bonaggiunta» ( Manuale cit., I, 195). È certo una svista, perché si fatta canzone, in tutti i cdd. in cui si trova, è attribuita al Saladino: cfr. G. B. Festa, Bibliografia delle più antiche rime volgari italiane, in Romanische Forschungen, XXV[1908], 2, p. 596, n. 614.
ERRATA CORRIGE
p. 143 , v. 4: estat' corr. e stat'
p. 154 , v. 69: i' spero » ispero
p. 156 , v. 59: ad ella » d'ella
p. 179 , v. 10: aver » viver
INDICE DEI CAPOVERSI
A cui prudenza porge alta lumera, Pag. 209
Aldendo dire l'altèro valore, » 210
A me adovene com'a lo zitello, » 82
Amore amaro, a morte m'hai feruto, » 17
Amore, perché m'hai, » 181
Amor s'ha il mio voler miso di sovra, » 179
A piò voler mostrar che porti vero, » 105
A scuro loco conven lume clero, » 15
Avegna che partensa, » 49
Ben mi credea in tutto esser d'Amore, » 65
Certo, non si convene, » 97
Chi nel dolore ha bona sofferenza, » 210
Chi va cherendo guerra e lassa pace, » 87
Compiutamente mess'ho intenzione, » 185
Con sicurtá dirò, po' ch'i' son vosso, » 89
Considerando l'altera valenza, » 7
Considerando la vera partenza, » 155
Credea essere, lasso, » 137
De la fera infertá e angosciosa, » 215
De la rason, che non savete vero, » 92
De la rota son posti esempli assai, » 28
Del dolor tant'è 'l soverchio fero, » 20
Dentro da la nieve esce lo foco, » 83
Dev'omo a la fortuna con coragio, » 80
Di ciò che 'l meo cor sente, » 101
Di dir giá piú non celo, » 169
Dimme, Amore: vorestú tornare, » 29
Di sí alta valenz'a signoria, » 145
Dogliosamente con gran malenanza, » 99
Dolendo, amico, di gravosa pena, » 175
Dolorosa doglienza in dir m'adduce, » 161
Donna, vostre bellezze, » 73
El nom de Dieu qu'es subiranz, » 224
Eo so ben ch'om non poría trovar sagio, » 85
Fèra cagione e dura, » 23
Fermamente intenza, » 77
Feruto sono e chi di me è ferente, » 80
Fin amor mi conforta, » 55
Fina consideransa, » 51
Fior di beltá e d'ogni cosa bona, » 213
Giá non sète di senno sí legieri, » 95
Gli vostri occhi ch'e' m'hanno divisi, » 88
Gioia né ben non è senza conforto, » 57
Gravoso affanno e pena, » 21
Greve di gioia — pò l'om malenanza, » 219
In alta donna ho miso mia 'ntendanza, » 135
Infra le gioi' piacenti, » 61
La dolorosa e mia grave doglienza, » 152
La dolorosa noia, » 158
L'altrier, dormendo, a me se venne Amore, » 29
L'altrier pensando mi emaginai, » 30
Lasso di far più verso, » 178
Lasso, sovente — sent'e' — che natura, » 173
Lo fermo intendimento, ched eo aggio, » 187
Lo gran presgio di voi si vola pari, » 87
Lontana dimoranza, » 25
Madonna, vo' isguardando senti' amore, » 192
Madonna, vostr'altèra canoscenza, » 5
Madonna, vostr'altèro plagimento, » 143
Magna ferendo me tuba 'n oregli, » 206
Magna medela a grave perigliosa, » 167
Meo fero stato — nato — è sí forte, » 205
Molto si fa biasmare, » 72
Movo di basso e vogli' alto montare, » 88
Naturalmente falla lo pensero, » 93
Ne l'amoroso foco molti stanno, » 84
Nel tempo averso om dé' prender conforto, » 90
Non posso proferir quant'ho voglienza, » 180
Non so rasion, ma dico per pensero, » 92
Non volontá, ma omo fa ragione, » 14
Nova m'è volontá nel cor creata, » 195
Novellamente amore, » 56
Ogni meo fatto per contrario faccio, » 30
Oi, amadori, intendete l'affanno, » 69
Omo, ch'è sagio ne lo cominciare, » 81
Parlare scuro, dimandando, dove, » 16
Pensando ch'ogni cosa aggio da Dio, » 13
Pensávati non fare indivinero, » 93
Per fino amore — lo fiore — del fiore — avragio, » 85
Però che sète paragon di sagio, » 86
Piggiore stimo che morso di capra, » 177
Poi che mia voglia varca, » 171
Poi contra voglia dir pena convene, » 150
Poi dal mastro Guitton latte tenete, » 223
Poi di tutte bontá ben se' dispári, » 86
Poi sento ch'ogni tutto da Dio tegno, » 12
Poi sono stato — convitato — a corte, » 206
Preg'a chi dorme ch'oramai si svegli, » 176
Qual omo è su la rota per ventura, » 81
Quando apar l'aulente fiore, » 63
Quando vegio la rivera, » 67
Quattr'omin son dipinti ne la rota, » 31
Rapresentando a conoscenza vostra, » 175
Saver, che sente un piciolo fantino, » 83
Se doloroso a voler movo dire, » 202
Se 'l filosofo dice: — È necessaro, » 10
S'eo sono innamorato e duro pene, » 75
Se quei che regna e 'n segnoria empera, » 174
Sí come 'l pescio al lasso, » 139
Sí dilettosa gioia, » 148
Sí forte m'ha costretto, » 199
Signor senza pietanza, udit'ho dire, » 191
Similemente canoscensa move, » 105
Similemente, — gente — criatura, » 194
Similemente onore, » 52
Sovente aggio pensato di tacere, » 3
Sovrapiagente mia gioia gioiosa, » 179
Sperando lungamente in acrescenza, » 59
Tal è la fiamma e 'l foco, » 76
Tanto saggio e bon poi me somegli, » 19
Tua scritta intesi bene lo tinore, » 211
Tutto el tempo del mondo m'è avenuto, » 33
Tutto lo mondo si mantien per fiore, » 82
Tuttora aggio di voi rimembranza, » 190
Una rason, qual eo non sacio, chero, » 91
Un nobel e gentil imaginare, » 28
Uno giorno aventuroso, » 60
Vacche né tora piò neente bado, » 11
Valenz senher, rei dels Aragones, » 27
Vero è che stato son manta stagione, » 164
Vita noiosa pena soffrir láne, » 17
Voi, ch'avete mutata la mainera, » 79
Vostra piacenza — tien più di piacere, » 84
Vostro saver provato m'è mistieri, » 94
INDICE
I — RIMATORI PISTOIESI
I. Meo Abbracciavacca.
Canzoni.
I. Amore non è cagione di pene ma di gioia, p. 3
II. Nella donna, piú che la beltá, è da stimarsi la saggezza, » 5
III. Fra i tormenti d'Amore si rallegra, pensando alla virtú della sua donna, » 7
Sonetti.
I. A fra Guittone. Se possiamo spegnere gli stimoli della generazione, non astenendoci dal bere e dal mangiare, » 10
II. Al medesimo. Tornato di Francia, espone le sue miserie, » 11
III. Al medesimo. Se Dio possa usare misericordia verso di lui peccatore, » ivi
IV. Al medesimo. Sul medesimo argomento, » 12
V. A Bindo d'Alessio Donati. Rimprovera l'amico d'essersi perduto in vizi carnali, » 13
VI. A Dotto Reali. Come mai l'anima, che è formata da Dio, possa essere sopraffatta da altre cure, » 15
VII. Al medesimo. Si lamenta che gli sia stato risposto oscuramente circa la questione esposta nel sonetto che precede, » ivi
VIII. A Monte d'Andrea. Eviti le pene d'amore, mutando luogo, » 17
IX. Amore gli renda piú pietosa la sua donna, » ivi
II. Si. Gui. da Pistoia.
I. A Geri Giannini da Pisa. Si compiace dell'amicizia offertagli da Geri, » 19
II. Prega Dio che lo liberi dal dolore che l'affanna, » 20
III. Lemmo Orlandi.
Canzone I. Si duole con Amore che la sua donna, da benigna, sia ora diventata con lui crudele, » 21
Canzone II. Adducendo il triste esempio di se medesimo, che, senza saper perché, fu abbandonato dalla sua donna, esorta, chi voglia aver ricompensa del proprio amore, di scegliere una donna piacente e saggia, » 23
Canzone III. È combattuto dalla necessitá di partire e dal dolore di dover lasciare la sua donna, » 25
IV. Paolo Lanfranchi.
I. Esorta il re d'Aragona a prepararsi a difendersi dal re di Francia, » 27
II. Ricorda a un uomo, superbo della sua ricchezza, l'instabilitá della fortuna, » 28
III. Risveglio doloroso, » ivi
IV. Amore gli dona in sogno un fiore della sua donna. » 29
V. Amore manifesti alla sua donna le sue pene, » ivi
VI. Amara delusione, » 30
VII. Lamenta l'avversa fortuna, che gli fa fare sempre il contrario di quel che vorrebbe, » ivi
VIII. Vicende di fortuna, » 31
V. Meo Di Bugno.
Coscienza netta non cura farneticar di gente, » 33
Nota , » 35
Glossario , » 43
II — RIMATORI LUCCHESI
I. Bonagiunta Orbicciani.
Canzoni.
I. È colpito dalla sventura; ma non perciò tralascerá di cantare la gioia che gli viene a mancare, » 49
II. Rinasce all'amore, perché la donna sua lo esorta a sperare, » 51
III. Sulla natura dell'onore e del piacere, » 52
IV. Si consola per aver ottenuto ciò che desiderava, » 55
V. Lodi della sua donna, » 56
VI. Ama la sua donna, della quale loda le virtú; ma non ha coraggio di manifestarle il suo amore, » 57
VII. Dopo aver parlato della lotta, che combatte per la sua donna, disserta sul ben fare e sulla follia, » 59
VIII. Lodi dell'amore: prega madonna che lo voglia amare, » 60
IX. Si rallegra pensando alla gioia che spera d'avere, » 61
X. Non ha l'amore della sua donna e vorrebbe dimenticarla: non essendogli ciò possibile, invoca da lei la fine dei suoi mali, » 63
XI. Credeva di non essere amato: ma ha avuto torto. E n'è lietissimo, » 65
Discordi.
I. Invita pulzelle e maritate a darsi alla gioia e all'amore, » 67
II. Si lamenta della durezza della donna sua, che un tempo lo aveva fatto sperar bene: ha fiducia però ch'ella un giorno muti pensiero, » 69
Ballate.
I. Non si vantino le proprie virtú. Dio disperda chi male amministra la giustizia, » 72
II. Varie e tante son le bellezze della donna sua, » 73
III. Se il poeta è rimeritato del suo affetto, sará il piú felice tra gli amanti, » 75
IV. L'innamorata arde d'amore e prega l'amante, se ha intenzione di continuare nella sua fierezza, di volerla piuttosto uccidere, » 76
V. Calda e viva esortazione dell'onore, » 77
Sonetti.
I. Al Guinizelli. Disputa sulla nuova maniera di poetare, » 79
II. L'uomo deve resistere fortemente ai colpi di fortuna, » 80
III. Sebbene ferito, tacerá, perché cosí spera di vincere la durezza della donna sua, » ivi
IV. Chi ha la fortuna favorevole non si rallegri troppo, » 81
V. Non basta cominciare bene: perseverare bisogna, » ivi
VI. È come il fanciullo, che torna al fuoco ove s'è bruciato, » 82
VII. Giuoca intorno alla parola «fiore», » ivi
VIII. Piú la ama e piú ella non cede, » 83
IX. Senza sapere, i signori possono perdere la signoria, » ivi
X. Ella ha in sé ogni cosa piacente, ogni valore, ogni conoscenza, » 84
XI. Molti amano non ricompensati, e il poeta è fra questi; ma sarebbe cortesia che il suo amore fosse un giorno veramente compreso, » ivi
XII. Si sente lieto, ché, per ben servire, otterrá l'amore di lei: ma non ne fa mostra, » 85
XIII. 1. Di un anonimo a Bonagiunta. Come farsi riamare dalla sua donna, » ivi
2. Risposta di Bonagiunta. Il vero amore cresce per il servire e per il tacere, e non per il parlare, » 86
XIV. 1. Di un anonimo a Bonagiunta. Domanda se debba o no manifestare alla donna il suo amore, » ivi
2. Risposta di Bonagiunta. Vero amore è quello che è noto tanto all'uomo quanto alla donna, » 87
XV. Si rifletta prima di operare e di dire, » ivi
XVI. Vuol salire in alto sulla sedia del comando, » 88
XVII. Loda le bellezze di lei, » ivi
XVIII. Per quanto abbia pregato la Madonna, non ha potuto levar gli spiriti malvagi da alcuni sonetti, » 89
Sonetto di dubbia autenticitá.
Spera di ritornar lieto, » 90
II. Tenzoni.
I. Tenzone fra Gonnella Antelminelli, Bonagiunta e Bonodico.
I. Gonnella a Bonagiunta. Perché il ferro si lima col ferro, » 91
II. Risposta di Bonagiunta a Gonnella. L'un ferro vince l'altro per forza dell'acciaio, » 92
III. Risposta di Bonodico a Gonnella. Il ferro corrode il ferro per artifizio, » ivi
IV. Risposta di Gonnella a Bonagiunta. Perché vera arte non si può imparare?, » 93
V. Risposta di Bonagiunta a Gonnella. L'arte corregge la natura; ma, mentre vuol sollevarla, non cerchi d'opprimerla, » ivi
II. Tenzone fra Bartolomeo e Bonodico.
I. Bartolomeo a Bonodico. Se donna gentile debba amare amante baldo e ardito o incerto e dubbioso, » 94
II. Bonodico a Bartolomeo. Donna valente deve amare colui che a lei piaccia, » 95
III. Gonnella degli Antelminelli.
Stanza. Come deve contenersi il franco amatore?, » 97
IV. Fredi.
Canzone. È caduto dall'altezza primiera, ma spera di risollevarsi, » 99
V. Dotto Reali.
Canzone. Privazioni e disagi, che sostiene per causa d'amore, » 101
Sonetti.
I. A Meo Abbracciavacca. Domanda schiarimenti perché egli abbia cuore scontento e volontá perfetta, » 104
II. Allo stesso. Sulla questione: Se l'anima viene compíta da Dio, com'è che può fallire, » 105
Nota , » 107
Glossario , » 121
III — RIMATORI PISANI
I. Gallo o Galletto .
I. Ha ricevuto da madonna una rosa e molto spera per questo lusinghiero principio, » 135
II. Canzone equivoca. Si lagna che da piú d'un anno sia caduto in servitú di lei, e ne loda le bellezze, » 137
II. Leonardo del Guallacca.
A Gallo. Brutti lacci quelli d'Amore, e quanti affanni esso procura!, » 139
III. Panuccio del Bagno.
I. È contento di servire madonna, » 143
II. È contento di soffrire gravi pene per lei, » 145
III. Si lagna d'aver perduto la gioia che prima aveva avuto, amando madonna, » 148
IV. Si lagna delle pene in cui si trova per servire madonna, » 150
V. Ancora mostra il suo dolore per la crudeltá di lei, » 152
VI. Si lamenta ancora di dover tanto soffrire per essere servo d'Amore, » 155
VII. Si lamenta delle prepotenze e ingiustizie che commetteva in Pisa la parte che spadroneggiava al governo della cosa pubblica, » 158
VIII. Vorrebbe trovar rimedio contro le pene d'amore, ma non sa come, » 161
IX. Dice d'esser tutto preso dall'amore di lei e di non avere altro pensiero, » 164
X. Rintronico. Consiglia a soffrire le avversitá con rassegnazione, sperando d'averne un giorno lenimento, » 167
XI. Non potendo piú reggere alle amare pene che lo affliggono, si risolve a parlarne, ma in forma coperta, perché non lo intenda un tal Corso, » 169
XII. Anche qui parla chiuso, per dare sfogo al dolore che lo affanna, » 171
XIII. L'anima viene pura dall'alto; ma si guasta poi e si travia, come quella del poeta, che ha dato a madonna l'impero del suo cuore, » 173
XIV. Instabilitá della fortuna, » 174
XV. Conforta un amico d'un grave dolore che lo affanna, » 175
XVI. Dice ad un amico come giá da tre anni sia servo d'amore, e gli domanda consiglio, » ivi
XVII. Esorta altri a mostrare, ch'è tempo, il proprio valore, per togliersi dal basso stato, ov'è caduto, » 176
XVIII. Discopre le sue pene per essere in signoria d'amore, » 177
XIX. Si lamenta di vedere abbandonata la giustizia e trionfare la slealtá, » 178
XX. Ogni sua volontá, ogni diletto è in piacere a lei, » 179
XXI. Amore ha preso tutta la sua anima ed è porto d'ogni sua virtú, » ivi
XXII. Ha la graziosa immagine di madonna fissa sempre in cuore, » 180
IV. Betto Mettefuoco.
Si mostra lieto di essere in servitú d'Amore per una donna avvenente, » 181
V. Ciolo Della Barba.
Chiede a madonna, poiché è in tutto servo di lei, che si mova a pietá del suo amore, » 185
VI. Pucciandone Martelli.
I. Si lagna delle pene che gli dá Amore e chiede a madonna che si mova a pietá del suo dolore, » 187
II. Della gioia che prova a guardar lei, » 190
III. Si lagna che madonna lo faccia tanto soffrire, » 191
IV. Si lamenta che Amore lo abbia ingannato, e lo prega a far sí che madonna abbia pietá di lui, » 192
V. In madonna è ogni bellezza e gentilezza, ed è onorato chi ha fermezza in amar lei, » 194
VII. Bacciarone di messer Bacone.
I. Stolti coloro che lodano Amore, fonte di tanti mali, » 195
II. Si lagna di Amore, che con tante pene lo tormenta, e chiede perdono a Dio d'essersi fatto schiavo di lui, » 199
III. Esprime il dolore che sente a veder governata Pisa da tali che non curano il bene e fanno strazio della patria, » 202
VIII. Geri Giannini.
I. A Natuccio Cinquino. Si duole della sua dolorosa vita e chiede pietá a Dio, » 205
II. Risposta di Natuccio Cinquino. Conforta il dolore che ha, sperando che abbia una volta a finire, » 206
III. A Si. Gui. da Pistoia. Se preferisca che la loro amicizia invecchi o sia sempre fresca, » ivi
IX. Natuccio Cinquino.
Tenzoni fra Natuccio e Bacciarone.
I. 1. A Bacciarone di messer Bacone. Perché il dolore e la gioia siano date all'uomo sempre per il suo meglio, » 209
2. Risposta di Bacciarone. Nel dolore l'uomo impara a soffrire, e nelle prosperità apprende ad essere grato a Dio, » 210
II. 1. A Bacciarone di messer Bacone. Perché il peccato sia piú amato che fare e dire il bene, » 210
2. Risposta di Bacciarone. Il peccato è amato piú del bene a causa dell'abitudine, che è piú forte della natura e della ragione, » 211
X. Lotto di ser Dato.
I. Loda la bellezza e la virtú della sua donna e le chiede scusa se non sa celebrarla come essa merita, » 213
II. Si lamenta della sua infelice vita e soprattutto di essere abbandonato dalle persone piú care, » 215
XI. Nocco di Cenni di Frediano.
Si lagna che madonna gli abbia prima fatto sperare d'aver gioia del suo amore, e poi lo abbia ingannato, » 219
XII. Geronimo Terramagnino.
I. Dice ad un poeta che è bene riflettere lungamente prima di parlare, » 223
II. Doctrina de cort, » 224
Nota , » 251
Glossario , » 275
Indice dei capoversi , » 287