ARCHEOLOGIA E STORIA DELL'ARTE
ITALICA, ETRUSCA E ROMANA

MANUALI HOEPLI

I. GENTILE — S. RICCI

ARCHEOLOGIA E STORIA DELL'ARTE

ITALICA, ETRUSCA E ROMANA

TESTO

Con 96 Tavole Illustrative

ULRICO HOEPLI EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO

MANUALI HOEPLI

TRATTATO GENERALE

DI

Archeologia e Storia dell'Arte

ITALICA, ETRUSCA E ROMANA

3ª edizione interamente rifatta

SULLA 2ª DEL PROFESSORE

IGINIO GENTILE

con introduzioni bibliografiche ed appendici sulle ultime scoperte e questioni archeologiche illustrata da novantasei tavole aggiunte ed inserite nel testo

PER CURA DEL PROF. DOTT.

SERAFINO RICCI

Conservatore Aggiunto al R. Gabinetto Numismatico di Brera in Milano, Libero docente di Antichità ed Epigrafie classiche presso la R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, e di Archeologia presso la R. Università di Pavia.

ULRICO HOEPLI EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO — 1901

PROPRIETÀ LETTERARIA

TIP. A. LOMBARDI di V. BELLINZAGHI MILANO — 7. FIORI OSCURI 7. — MILANO

A VOI

GIOVANI ALUNNI DEI LICEI DELLE ACCADEMIE, DELLE ALTRE SCUOLE SUPERIORI E SECONDARIE DI MILANO CHE VOLONTEROSI E DILIGENTI SEGUISTE IL PRIMO CORSO PUBBLICO

DI

ARCHEOLOGIA E STORIA DELL'ARTE

CONCESSO DALL'EX-MINISTRO BACCELLI per Voi CONFERMATO DAL MINISTRO GALLO PER TUTTI I LICEI D'ITALIA AUSPICE ENRICO PANZACCHI

INTERPRETE DEL PENSIERO, DEL DESIDERIO

DI

IGINIO GENTILE

QUESTA TERZA EDIZIONE DEL SUO MANUALE BENE AUGURANDO DEGLI STUDI CLASSICI DELL'ARTE ITALIANA OFFRE IL VOSTRO PROFESSORE ED AMICO

PREFAZIONE

Questo volume, secondo i criterî dell'illustre e compianto prof. Gentile, non dovrebbe avere introduzione, perchè questa sta dinanzi al II volume per l'archeologia e per l'arte greca. Ma ragioni di opportunità indussero l'editore comm. Hoepli a far precedere nella stampa questo volume, quantunque anche l'altro sia già consegnato manoscritto e pronto per la stampa, anzi possa dirsi ormai in lavoro.

Occorre quindi che, se non una introduzione, qualche parola di prefazione si premetta per presentare questo secondo volume al lettore prima del primo, e sotto una veste, come ognun vede, alquanto diversa da quella della precedente edizione.

Il fine dell'editore fu di supplire alla lacuna di una terza edizione del testo esaurito, lasciando l'Atlante relativo com'era al tempo della seconda edizione. Quindi non si doveva mutare il criterio generale di disposizione del lavoro del Gentile, ma d'altra parte bisognava completare le lacune e del testo e dell'Atlante. Ricevendo io pertanto il delicato incarico dalla fiducia dell'editore, ebbi costante scrupolo di mantenere del Gentile quanto potevasi mantenere, e, pur adattandone il testo alla nuova edizione, alterarlo solo per quel tanto ch'era necessario per metterlo in luce maggiore.

Certe divisioni in periodi, certi paragrafi sottolineati ed ampliati con le dovute note bibliografiche, non tutte riunite, come usava il Gentile, alla fine di un intero periodo, ma a fine pagina, secondo che suggerisce il testo o la necessità di ricerche più profonde, erano modificazioni divenute ormai necessarie per far meglio conoscere il lavoro coscienzioso e sotto ogni rapporto lodevole di quella mente colta e veramente gentile, che scriveva bene italiano e sentiva quel che scriveva, senza lasciarsi sopraffare dalla troppa erudizione, troppo spesso straniera.

Per questa parte del lavoro non voglio paternità, ma la riconosco dal Gentile, essendo quasi totalmente formali le mie modificazioni. Ciò che posso dire mio sta nelle aggiunte, non col fine di migliorare il testo, perchè non sento di arrogarmi questa abilità, ma con quello di aggiungervi quei particolari che il Gentile non poteva conoscere, perchè furono il risultato di scavi e di ricerche posteriori alla sua seconda edizione. Non sono dunque queste aggiunte un biasimo o uno sfregio alla memoria del Gentile, ma un complemento doveroso, che il Gentile stesso avrebbe aggiunto, in modo più completo e perfetto di me, se non fosse stato tolto troppo presto alla stima e all'affetto dei colleghi e dei discepoli.

Sono quindi mie molte delle note a pie' pagina, le appendici, e tutte le tavole scelte, compilate e fatte riprodurre non solo a schiarimento del testo, ma a complemento indispensabile di un atlante che, così com'è oggi, non risponderebbe neanche debolmente allo scopo. Per agevolare la consultazione dell'Atlante e i confronti con le tavole aggiunte ho unito un indice di queste ultime e, per quelle dell'Atlante, un elenco comparativo tra le citazioni del Manuale della seconda edizione e quelle del testo riveduto e corretto di questa terza, che ora presento ai lettori. Così aggiunsi nella nuova edizione i riferimenti alle tavole vecchie e nuove; testo e atlante formano nell'ultima edizione un tutto più organico ed omogeneo, che non può non giovare maggiormente alla coltura e alla pronta consultazione di chi legge.

La parte da me rifatta ed ampliata, sulla quale desidero di richiamare soprattutto l'attenzione degli studiosi, è quella paletnologica, o più propriamente preromana, che, anche dopo la pubblicazione del Bullettino di paletnologia italiana e dell'opera magistrale del Montelius, era rimasta monca e insufficiente, nè poteva ricevere luce dal lavoro speciale del Regazzoni sulla Paleoetnologia (Milano, Hoepli, 1885), poichè quest'opera è quasi totalmente priva di quelle illustrazioni che sono indispensabili a ben distinguere e a ritenere le differenze fra età ed età, fra tecnica e tecnica; per questa parte presi appunto a modello le belle tavole del Montelius.

Un altro contributo non meno utile e forse più interessante è dato dai ritrovamenti sul Foro Romano e a Pompei. Tanto per la parte preistorica, quanto per quest'ultima dell'Impero Romano mi aiutò efficacemente l'intelligente ed opportuna liberalità del comm. Hoepli, che sa conciliare sempre bene l'interesse del pubblico e proprio con le esigenze più moderne della scienza e dell'arte, non indietreggiando mai, qui, nella sua patria d'adozione, dinanzi a lavori che, nel dare lustro alla sua Casa, siano opera italiana e meglio riuscita. A lui noi italiani dobbiamo, più che a molti altri, il rispetto che gli stranieri hanno ancora per buona parte della nostra produttività scientifica e letteraria.

Ben novantasei tavole furono aggiunte, quali inserite nel testo, quali doppie fuori testo, a questo volume dell'archeologia e della storia dell'arte italica, etrusca e romana, e sono appena sufficienti — ognuno dei competenti lo può riconoscere — a rendere una idea approssimativa della grande epoca e della grande arte che vi si tratta.

* * *

Ed ora una parola non al pubblico degli studiosi e dei dilettanti, che apprezzano la divulgazione scientifica ed artistica in qualsiasi modo sia fatta, purchè sia divulgazione utile al maggior numero di persone, ma una parola a quelli fra gli specialisti che, pel solo fatto che trattasi di un Manuale Hoepli, non fanno buon viso anche a lavori fatti con ottimi intendimenti e con novità e serietà di trattazione. Gran bella cosa senza dubbio è la scienza pura, ma non meno bella e forse più utile è la scienza applicata alle cognizioni pratiche, e che diventa pel gran pubblico mezzo potente di istruzione e di educazione intellettuale e morale. Un Manuale utile deve saper conciliare i progressi della scienza e dell'arte con la loro funzione sociale. Ora, nella difficoltà di raggiungere insieme i due fini, io cercai di presentare un Manuale il più possibile facile, esatto, completo per il maggior numero dei lettori, che possono leggerlo d'un fiato, come si suol dire, prescindendo da tutte, o quasi le osservazioni e le critiche; ma collocai nelle note, nelle appendici, nella bibliografia tutto quel repertorio scientifico, che è indispensabile per attingere da fonti maggiori e dirette una preparazione più estesa e più profonda intorno ad ogni singolo argomento. Per questo appunto ho diviso gli indici bibliografici in generali e particolari, sicchè lo studioso già iniziato nelle discipline archeologiche trovi nell'uno o nell'altro ciò che più gli conviene per le sue ricerche.

E per questo ho bisogno — il lettore se lo imagina da sè — di tutta la benevolenza del pubblico dotto, se in citazioni così minuziose e talora di difficile controllo per la mancanza della pronta consultazione siano sfuggite inesattezze e anche errori di lingua e di stampa; a tutto sarà rimediato nella revisione più calma e più agevole di un'altra edizione. Per conto mio, per quanto io abbia cercato di usare quella scrupolosa esattezza che in lavori di tal genere non è mai troppa, preferisco, per mio carattere personale, di aggiungere qualche nota, o qualche nome d'autore di più, il quale schiuda alle menti giovanili nuovo campo di ricerche, che non poche notizie troppo speciali, o vagliate allo staccio di una ipercritica talora più dannosa che utile.

Che se alcuno trovasse eccessiva la bibliografia premessa alla parte romana, pensi alla vastità e quantità dei temi proposti, e alla imprescindibile necessità, col progresso odierno degli studî, di tener calcolo di tutti i lavori dei dotti, specialmente stranieri, prima di accingersi alla trattazione di un argomento qualsiasi. La bibliografia, in questo caso, è come la face indispensabile al metodo storico, perchè questo irradii nuova luce di verità e di bellezza sulle questioni archeologiche e artistiche dei nostri tempi.

Di questo Manuale vorrei soprattutto facessero tesoro i giovani studenti dei licei d'Italia, come già ne fecero in parte tesoro, con la guida delle mie lezioni di storia dell'arte, quelli de' licei di Milano, ai quali dedico il lavoro, augurandomi che il loro buon senso e buon gusto, il loro amor patrio per i tesori d'arte italiani facciano riconoscere meglio delle circolari ministeriali e degli insegnamenti complementari la necessità dello studio dell'archeologia e dell'arte come complemento agli studî classici, che solo alla luce dei ritrovamenti archeologici e dei capilavori d'arte potranno far rifluire nuova vena feconda di produzioni letterarie ed artistiche in questo antico sangue latino, occupato nelle cure più urgenti della patria e della società, e troppo dimentico, in quest'ultimo periodo, delle nobili tradizioni classiche italiane e dell'intatto patrimonio di tesori artistici che gli avi ci consegnarono.

A voi, giovani, tocca non solo il conservare questo patrimonio, ma il farlo rifiorire. Possano gli sforzi dell'autore e l'infaticabile attività dell'editore riuscire in questo intento, che certo desidera pure dal suo meritato soggiorno di riposo l'anima candida e virtuosa di Iginio Gentile!

Milano, Febbraio 1901.

Serafino Ricci.

Indice del Testo

Pag.

Prefazione VII

Indice del testo XIII

Indice delle tavole inserite nel testo XXI

Indice generale delle tavole contenute nell'Atlante del Gentile per l'Archeologia e la Storia dell'Arte italiana, etrusca e romana , con le citazioni delle pagine di testo corrispondenti alle tavole della II edizione, confrontate con quelle della III edizione XXVII

Indice dei periodici principali di archeologia XXXI

I. ARTE ITALICA 1-102

Bibliografia 1-9

Opere di carattere generale 1-4

Antichità preistoriche dell'Italia Settentrionale. Civiltà transpadana 4-5

Terremare e abitazioni lacustri 5-6

La civiltà di Felsina e di Villanova, e, in genere, del Bolognese e dell'Etruria 6-7

Il Lazio e le sue necropoli — Corneto-Tarquinia 7

Este e le necropoli euganeo-atestine 7-8

Civiltà paleo-etrusca — Antichità di Marzabotto, di periodo etrusco 8

Antichità preistoriche dell'Italia Meridionale e delle isole 8

Osservazioni generali intorno lo stile italico 9

I. Introduzione 10-14

Appendice I. Le varie età preistoriche e i loro periodi 14-17

II. L'arte italica nelle terremare 17-27

III. La civiltà e l'arte a Felsina 28-41

Appendice II. Dell'importanza delle fibule come dato archeologico nelle età preistoriche, e loro cronologia 41-45

Appendice III. Confronto tra la situla della Certosa e lo scudo d'Achille 45-47

IV. La civiltà e l'arte a Villanova 49-52

V. La civiltà e l'arte nelle necropoli del Lazio 52-56

VI. La civiltà e l'arte nelle necropoli euganee-atestine 56-66

Appendice IV. Diffusione delle situle italiche di bronzo e di terracotta in Italia 66-67

Appendice V. Elenco delle ciste a cordoni e delle situle istoriate, e loro distribuzione geografica. 67-70

1. Ciste a cordoni 67-69

2. Situle istoriate 69-70

Appendice VI. La distribuzione dei periodi di civiltà nelle necropoli atestine 70-71

VII. La civiltà e l'arte nell'Agro Chiusino e a Corneto-Tarquinia 71-76

VIII. Conclusione sulla civiltà e sull'arte umbro-felsinea, e prisca latina 77-78

IX. Civiltà ed arte etrusca alla Certosa e a Marzabotto 78-88

1. Antichità della Certosa 78-82

2. Antichità di Marzabotto 82-88

X. Osservazioni generali intorno allo stile italico 89-99

Appendice VII. Della decorazione geometrica, degli altri motivi e delle varie tecniche artistiche importate in Italia nel periodo protoitalico 99-101

Appendice VIII : Osservazioni intorno ai Pelasgi e ai loro monumenti 101-102

II. ARTE ETRUSCA 103-168

Bibliografia 105-108

Opere generali e speciali sulla topografia, sui monumenti e sull'origine degli Etruschi 105-107

Architettura e scultura etrusca 107

Pittura etrusca 108

Ceramica, specchi e arti minori presso gli Etruschi 108

I. Origine e carattere dell'arte etrusca. — Suoi rapporti con l'arte italica 109-113

Appendice I. Sulla provenienza degli Etruschi 114-119

Le tre grandi divisioni dell'arte etrusca 120-168

A. Architettura degli Etruschi 120-131

I. Architettura civile e militare 120

II. Architettura privata 122

III. Architettura religiosa 123

IV. Costruzioni di forma singolare 130-131

B. Plastica degli Etruschi 131-143

I. Arte figurativa 132

Appendice II. Osservazioni intorno all'arte plastica degli Etruschi 143-146

II. Toreutica etrusca 146

1. Osservazioni generali 146

2. Candelabri 147

3. Specchi 148

4. Le ciste a cordoni 149-154

C. Pittura etrusca 154-166

I. Osservazioni generali 154-157

II. Le due scuole pittoriche principali 157-160

III. Ceramica etrusca 160-166

1. Osservazioni generali 160-161

2. Vasi toscanici 161

3. Vasi d'imitazione greca 161

4. Vasi detti buccheri 162-164

5. Vasi aretini 164-166

Appendice III. Le ultime ricerche sugli Etruschi e la fondazione del Museo topografico dell'Etruria a Firenze 166-168

III. ARTE ROMANA 169-331

Bibliografia.

I. Opere di carattere generale.

Architettura e Archeologia generale 171-172

Plastica 174-178

Pittura 178-179

II. Opere di carattere speciale.

Architettura, Archeologia e Topografia 179-182

Plastica 182-186

Pittura e Mosaico 186-187

I. Osservazioni generali 188-196

II. Storia dell'arte romana e greco-romana, e divisione nei suoi periodi 196-197

Primo Periodo dell'arte romana

I. Architettura

A. Parte I del Primo Periodo 198-213

1. I monumenti di Roma monarchica 198-202

2. Il tempio di Giove Capitolino 202-206

3. Il tempio e i tre ordini architettonici secondo l'uso romano 206-209

4. Monumenti funerarî e di pubblica utilità in Roma 209-210

5. L'introduzione dell'arco e della vôlta nell'architettura romana 210-211

6. La derivazione delle acque: acquedotti, terme, fontane 211-213

7. La sistemazione delle strade e della viabilità 213

B. Parte II del Primo Periodo.

I. L'arte in Roma sotto l'influenza greca 213

1. Osservazioni generali 213-216

2. Colonne ed archi onorarî in Roma 216-217

3. Le basiliche 217

4. I teatri e i circhi 218

5. I monumenti sepolcrali 218-219

II. Plastica.

1. Osservazioni generali 219-221

2. La plastica romana applicata alle ciste istoriate 221-224

III. Pittura 224-226

Secondo Periodo dell'arte romana

Osservazioni generali 227

Le opere greche importate in Roma 227-230

A. Architettura 230-310

I. Le principali classi di monumenti 231-232

1. I teatri e gli anfiteatri in Roma 230-234

2. I circhi e gli anfiteatri. I ludi gladiatorî 234-235

II. I monumenti degli imperatori della “Gens Iulia„ 235-238

1. Il Foro d'Augusto 238-242

2. Il Pantheon 242-248

3. Il Mausoleo D'Augusto 248-249

4. L'obelisco di Monte Citorio e altri monumenti di stile egizio 249-252

5. I monumenti sepolcrali: i “Columbaria„ 252-253

6. Gli archi trionfali 253-254

III. I monumenti degli imperatori della “Gens Claudia„ 254

1. L'“Aqua Claudia„ e l'“Anio Vetus„ a Roma 254-255

2. La “domus aurea„ di Nerone 255-256

IV. I monumenti degli imperatori della “Gens Flavia„ 256-267

1. L'Anfiteatro Flavio, o “Colosseo„. — La sua struttura 256-259

2. Le terme di Tito 259-264

3. L'arco di Tito 264-265

4. Opere dell'imperatore Domiziano. I “Fora„ minori 266-267

V. I monumenti degli imperatori Trajano ed Adriano 267-280

1. Il “Foro Trajano„ e i suoi monumenti 267-271

2. La “Colonna Trajana„ 271-272

3. Opere dell'imperatore Trajano 272-274

4. Il gran tempio di Venere e Roma sotto Adriano, detto templum Urbis 274-275

5. La Villa d'Adriano a Tivoli 275-277

6. La “Mole Adriana„, o Mausoleo dell'imperatore Adriano 277-278

7. Opere minori dell'imperatore Adriano 278-280

VI. I monumenti degli Antonini e dopo gli Antonini 280-283

B. Plastica.

I. Osservazioni generali 284-287

II. Artisti greci in Roma 288-289

1. Pasitele, Stefano e Menelao 288

2. Arcesilao 288

3. Zenodoro 289

III. Artisti romani (Coponio e Decio) 289

IV. L'arte delle personificazioni nella plastica romana 290

V. L'arte del ritratto in Roma 290-295

1. I ritratti della Repubblica 292

2. I ritratti dell'Impero 292-293

3. I “simulacra iconica„ e le statue idealizzate 293-295

4. Statue equestri 295-296

VI. La scultura storica in Roma 296-302

1. Osservazioni generali 296-298

2. I bassirilievi della Colonna Trajana 208-300

3. Altri bassirilievi storici in Roma 300-302

VII. La scultura sepolcrale in Roma. I sarcofaghi 302-303

VIII. Arti minori 303-306

C. Pittura.

I. Osservazioni generali. — Pittori greci 306-307

II. Pittori romani della Repubblica e dell'Impero 307-309

III. I dipinti celebri a noi rimasti 309-318

1. Le Nozze Aldobrandine 309

2. I dipinti delle terme di Tito 309-311

3. I dipinti della Villa di Livia a Prima Porta 311

4. Gli affreschi murali d'Ercolano e di Pompei 311-313

5. Dei quadri “di genere„ 313-317

Terzo Periodo dell'arte romana

I. Architettura 318-329

1. Il Settizonio 318-319

2. L'arco di Settimio Severo 319

3. L'Arco di Costantino 319-323

4. Le Terme di Caracalla e di Diocleziano e le loro opere d'arte 323-324

5. Le rovine di Palmira 324-326

6. Il palazzo imperiale a Spalato (o Spâlatron) 326-329

II. Plastica 329-330

III. Pittura 330-331

APPENDICE.

Degli scavi e delle scoperte recenti sul Foro Romano 332-346

Metodo ed estensione degli scavi recenti 332

La “Sacra Via„ 332-334

Il “Comitium„ e il “Niger Lapis„ 334-339

La stele inscritta del Comizio 336-340

Il tempio di Vesta e la “Domus„ delle Vestali, secondo le recenti esplorazioni 340-343

Altri centri minori d'escavo 343-346

La “Cloaca Maxima„ 346

INDICE delle Tavole inserite nel Testo

I. — ARTE ITALICA.

Pag.

Tav. 1. Torbiera di Mercurago (Arona) 13

Tav. 2. Torbiera di Cazzago Brabbia (Varese) 16

Tav. 3. Palafitta di Peschiera 19

Tav. 4. Terramare di Castione de' Marchesi (Parma) 22

Tav. 5. Oggetti vari provenienti dalle provincie al Nord del Po 23

Tav. 6. Necropoli di Golasecca 26

Tav. 7. Necropoli di Castelletto Ticino 27

Tav. 8. Veduta generale della Porta detta dei Leoni a Micene 29

Tav. 9. Pietra scolpita centrale della Porta detta dei Leoni a Micene 30

Tav. 10. Porta antichissima di Bologna 31

Tav. 11. Necropoli della Provincia di Milano (Bazzano) 34

Tav. 12. Necropoli di Bologna (Periodo Benacci I) 35

Tav. 13. Necropoli di Bologna (Periodo Benacci I) 38

Tav. 14. Necropoli di Bologna (Periodo Benacci II) 39

Tav. 15. ( doppia ). La fibula in bronzo lavorata a sbalzo dalla Certosa di Bologna 40-41

Tav. 16. Necropoli di Bologna (Periodo Benacci II) 42

Tav. 17. Necropoli di Bologna (Periodo Benacci III) 43

Tav. 18. Necropoli a incinerazione di Bismantova 48

Tav. 19. Necropoli di Villanova (Bologna) 51

Tav. 20. ( doppia ). Suppellettile di due tombe atestine 58-59

Tav. 21. Antichità di Villa Benvenuti presso Este 60

Tav. 22. Antichità del Fondo Baratela presso Este 62

Tav. 23. Antichità del Fondo Baratela presso Este 63

Tav. 24. ( doppia ). La situla lavorata a sbalzo di Watsch nella Carniola, e frammenti d'altre situle 64-65

Tav. 25. ( doppia ) Motivi ornamentali di vasi fittili atestini ottenuti con le borchie di bronzo confitte nella loro terra ancor molle 66-67

Tav. 26. Scavi della Certosa di Bologna (Periodo etrusco) 80

Tav. 27. Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna. Periodo etrusco) 83

Tav. 28. Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna. Periodo etrusco) 84

Tav. 29. Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna. Periodo etrusco) 88

II. — ARTE ETRUSCA.

Tav. 30. ( doppia ). Maschere, canopi e seggi cinerarî in bronzo e in terra cotta d'uso funebre e di lavoro etrusco 132-133

Tav. 31. Frammenti di una statua fittile di Apollo (dal frontone del tempio di Luni ) 135

Tav. 32. Chimera in bronzo, ritrovata ad Arezzo, nel 1554, di lavoro etrusco 140

Tav. 33. Carro con cavalli alati (stile cipriota) 144

Tav. 34. La celebre cista Ficoroni 150

Tav. 35. Oreficeria etrusca (Museo del Louvre) 152

Tav. 36. ( doppia ). Danza bacchica e caccia 154-155

Tav. 37. ( doppia ). Pitture chiusine, rinvenute nell'anno 1833 154-155

Tav. 38. Testa di un Citaredo (dalla tomba del Citaredo a Corneto) 156

Tav. 39. Testa di una danzatrice (dalla tomba del Citaredo a Corneto) 156

Tav. 40. ( a-b ). Danza bacchica 158

Tav. 41. Dalla tomba dall'Orco a Corneto (Ritratto di Arnth Velchas ) 159

Tav. 42. Vasi etruschi in bucchero di varie forme (provenienti da Chiusi) 163

III. — ARTE ROMANA.

Tav. 43. ( doppia ). Pianta del Colle Palatino e dei suoi edifici con gli ampliamenti del periodo imperiale 198-199

Tav. 44. Il tempio di Vesta al Foro Romano 200

Tav. 45. Ruderi delle Mura Serviane 201

Tav. 46. ( doppia ). Tempio della Fortuna Virile in Roma 202-203

Tav. 47. La Cloaca Maxima al punto di confluenza nel Tevere 203

Tav. 48. Il Teatro minore di Pompei 233

Tav. 49. Il Circo Massimo a Roma (ricostruzione) 236

Tav. 50. La Aedes Concordiae Augustae a Roma (ricostruz.) 237

Tav. 51. I Rostra d'Augusto sul Foro Romano (ricostruz.) 239

Tav. 52. Il Foro di Augusto a Roma 240

Tav. 53. Il Foro di Augusto a Roma (ricostruzione) 241

Tav. 54. Il Mausoleo di Augusto a Roma (ricostruzione) 247

Tav. 55. La Piramide di C. Cestio a Roma, fuori di Porta San Paolo 250

Tav. 56. L'Isola Tiberina a Roma 251

Tav. 57. La casa dei Vettii a Pompei: il cortile 261

Tav. 58. ( doppia ). La casa dei Vettii : il fregio degli amorini orafi 260-261

Tav. 59. La casa dei Vettii a Pompei. Parete dipinta nel piccolo oecus 262

Tav. 60. ( doppia ). Vasi di metallo per diversi usi 262-263

Tav. 61. Vasi in metallo ritrovati a Pompei e ad Ercolano 263

Tav. 62. Il Foro di Nerva a Roma: il Portico di Minerva 265

Tav. 63. Il Foro Trajano a Roma (Colonna Trajana) 268

Tav. 64. Il Foro Trajano a Roma (Pianta della Basilica Ulpia) 269

Tav. 65. Il Ponte Elio e il Mausoleo di Adriano in Roma 276

Tav. 66. Il tempio di Antonino e Faustina 279

Tav. 67. La Colonna onoraria a Marco Aurelio in Piazza Colonna a Roma 281

Tav. 68. ( doppia ). Bassirilievi marmorei dell'età di Augusto. L'Ara Pacis Augustæ 296-297

Tav. 69. ( doppia ). Bassirilievi dei plutei marmorei, o anaglypha , dell'età di Trajano 298-299

Tav. 70. Rilievo marmoreo dell'età di Adriano 299

Tav. 71. Rilievo marmoreo dell'età di Adriano 301

Tav. 72. Dipinto della casa di Livia (Io liberata da Ermes) 308

Tav. 73. Dipinto pompeiano (Amazzone seduta) 310

Tav. 74. ( doppia ). Parete dipinta di una casa romana: la villa Farnesina 310-311

Tav. 75. ( doppia ). La Battaglia d'Isso. Musaico di Pompei 312-313

Tav. 76. ( doppia ). Scene della vita di palestra. Musaico di Frascati 312-313

Tav. 77. ( doppia ). Parete dipinta nella casa della “Parete nera„ a Pompei 314-315

Tav. 78. ( doppia ). Scena di paesaggio antico: dipinto rinvenuto sull'Esquilino 314-315

Tav. 79. Pianta della casa dell'edile Pansa a Pompei 314

Tav. 80. Pianta della casa dell'edile Pansa a Pompei (Sezione longitudinale) 315

Tav. 81. Atrio della casa di Sallustio a Pompei 316

Tav. 82. Il Septizonium di Settimio Severo 318

Tav. 83. Pianta del Circo di Massenzio a Roma 321

Tav. 84. Pianta delle Terme di Caracalla a Roma 322

Tav. 85. Pianta del Palazzo di Diocleziano a Spalato 325

Tav. 86. L'Arco di Giano Quadrifronte all'ingresso del Foro Boario a Roma 327

Tav. 87. Pianta della Basilica di Costantino a Roma 328

Tav. 88. La Sacra Via del Foro Romano durante gli scavi recenti a Roma 331

Tav. 89. Veduta esterna del niger lapis scoperto a Roma negli scavi recenti sul Foro Romano 333

Tav. 90. Il cippo inscritto rinvenuto sul Foro Romano 335

Tav. 91. ( doppia ). L'iscrizione della stele del Comizio, rinvenuta negli scavi del Foro Romano (con trascrizione) 336-337

Tav. 92. Veduta delle differenti strutture, che costituiscono il rudere del Sacrario di Vesta 339

Tav. 93. Base dell'ara della Basilica Iulia , recentemente scavata sul Foro Romano 342

Tav. 94. La Regia e un tratto della Sacra Via durante gli scavi recenti del Foro Romano 344

Tav. 95. Scavi recenti sull'area della Regia al Foro Romano 345

Tav. 96. Rilievo grafico generale dell'area degli scavi recenti sul Foro Romano 346

INDICE GENERALE

delle tavole illustrative contenute nell' Atlante del Gentile per l'archeologia e la storia dell'arte italica, etrusca e romana, con le citazioni delle pagine di testo corrispondenti alle tavole nella II edizione, confrontate con quelle della III edizione, ove si descrive e si esamina le singole tavole.

Citazione delle pag. di testo corrispondenti alle tavole

ARTE ITALICA. nella II ediz. nella III ediz.

Pag. Pag.

Tav. I. 1. Freccie di selce; 2. Sezione verticale di marniera 2, 5, 6 12

Tav. II. 1. Fusaiole d'argilla; 2 e 3. Freccie ed ascia di selce 7, 8 21

Tav. III. 1. Paalstab di bronzo; 2. Stoviglia a manico lunato; 3. Frammento di vaso con principii di ornato 7, 8, 9 20-21

Tav. IV. Tomba di Villanova 22 49

Tav. V. Suppellettile funebre delle tombe di Villanova 23-24 50

Tav. VI. 1. Cista a cordoni; 2. Vaso cinerario di Villanova 18, 22 36, 50

Tav. VII. Urna-capanna laziale 28-30 55

Tav. VIII. 1. Dolmen con urna capanna (a Marino nel Lazio); 2. Tomba a cassetta nella necropoli d'Este (periodo II euganeo) 31-33 55, 58

Tav. IX. Vaso-tomba euganeo atestino (periodo III) 34-35 59

Tav. X. 1. Ossuario d'argilla con borchiette (periodo II); 2. Ossuario a zone (periodo III) 32-34 58, 61

Tav. XI. Oggetti delle tombe euganeo-atestine 32-35 64

Tav. XII. Tomba a pozzo di Corneto Tarquinia 41 74

Tav. XIII. Ossuario o ciotola di Corneto Tarquinia 41-43 74

Tav. XIV. Urna capanna di Corneto Tarquinia 43 75, 123

Tav. XV. Tomba a pozzo di Marzabotto 51 82

II. ARTE ETRUSCA.

Architettura.

Tav. XVI. 1. Frammenti di colonna etrusca; 2. Pianta di tempio etrusco 80-81 124

Tav. XVII. Tempio etrusco; restorazione 81-82 125

Tav. XVIII. Porta di Volterra 78 121

Tav. XIX. Tumulo etrusco 83-84 126

Tav. XX. Camera sepolcrale, detta “Grotta dei Tarquini„ presso Cervetri 87 127, 129

Tav. XXI. Camera sepolcrale etrusca presso Corneto Tarquinia 83-84, 87 129

Tav. XXII, XXIII e XXIV. Camere sepolcrali della Grotta Campana — 127

Plastica.

Tav. XXV. Coppia di sposi defunti, sopra sarcofago 95-96 138

Tav. XXVI. Fanciullo col papero 98 142

Tav. XXVII. Statua dell'Aringatore 98 142

Tav. XXVIII. Marte etrusco 98 140

Tav. XXIX. 1. La lupa capitolina; 2. La Chimera d'Arezzo 99 143

Tav. XXX. Candelabro 100 147

Tav. XXXI. Specchio 101 149

Pittura.

Tav. XXXII. Pittura parietaria etrusca, in una tomba di Vulci 107 155

III. ARTE ROMANA.

Architettura.

Periodo I.

Tav. XXXIII. 1. Ordine dorico-romano; 2. Ordine ionico-romano 145 208

Tav. XXXIV. Ordine Corinzio-romano 145 208

Tav. XXXV. Tempio romano 143-144 207

Tav. XXXVI. Tempio di Nimes; esempio di prostilo pseudoperiptero 143 207, 209

Tav. XXXVII. Il tempio di Vesta a Tivoli 144 207

Tav. XXXVIII. Acquedotto. Porta Maggiore in Roma 135 212

Tav. XXXIX. Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato 142 219

Periodo II.

Tav. XL. 1. Pianta di teatro romano; 2. Pianta del teatro di Marcello in Roma 139-161 218, 232, 242

Tav. XLI. Esterno del teatro di Marcello 165 218, 242

Tav. XLII. Tempio rotondo con atrio prostilo (pianta del Pantheon) 165-170 208, 242

Tav. XLIII. Pantheon (sezione) 165-170 208, 242

Tav. XLIV. Pantheon (interno) 165-170 208, 242

Tav. XLV. Tomba di Cecilia Metella; Colombario dei liberti di Livia 163-172 232, 253

Tav. XLVI. Colosseo (pianta) 175-179 258

Tav. XLVII. Colosseo. Parte interna ( cavea ) — e parte della cinta esterna 176-179 234, 258

Tav. XLVIII. Foro romano — 270

Tav. XLIX. Colonna Trajana 184 272, 298

Tav. L. Pianta del tempio di Venere e Roma 187 274, 275

Plastica.

Tav. LI. Busto di Scipione Africano maggiore 201 292

Tav. LII. Busto di Marco Giunio Bruto 201 292

Tav. LIII. Busto di C. Giulio Cesare 201 292

Tav. LIV. Statua di C. Giulio Cesare 202 292

Tav. LV. Busto di Marco Antonio triumviro 202 292

Tav. LVI. Busto di Marco Tullio Cicerone 202 292

Tav. LVII. Busto di Marco Vipsanio Agrippa 202 292

Tav. LVIII. Busto di Cesare Augusto 202 293

Tav. LIX. Testa di Tiberio, imperatore 202 293

Tav. LX. Statua di Tiberio, imperatore 202 293

Tav. LXI. Testa di Caio Caligola, imperatore 202 293

Tav. LXII. Busto di Servio Sulpicio Galba, imperatore 202 293

Tav. LXIII. Statue togate 204 294

Tav. LXIV. Statua thoracata (in abito militare) di Augusto imperat. 204-205 295

Tav. LXV. Statua equestre di Marco Aurelio 206 296

Tav. LXVI. Agrippina minore 205 295

Tav. LXVII. Arco di Tito 180, 207 264

Tav. LXVIII. Bassorilievo dell'Arco di Tito 207 264, 297

Tav. LXIX. Bassorilievo della Colonna Trajana 184, 208 272, 298

Tav. LXX. Monete imperiali 212 303

Tav. LXXI. Cameo d'Augusto 212 204

Pittura.

Tav. LXXII. Nozze Aldobrandine; pittura murale 215 309

Tav. LXXIII. Sagrificio d'Ifigenia; affresco pompeiano 219 313

Tav. LXXIV. Demeter (Cerere) 219 313

Tav. LXXV. Paesaggio decorativo pompeiano 219 313

Tav. LXXVI. Decorazioni architettoniche 219-220 317

Tav. LXXVII. Scena bacchica con decorazione architettonica 219-220 317

Architettura.

Periodo III.

Tav. LXXVIII. Arco di Costantino 222 321

Tav. LXXIX. Terme di Caracalla 222 321

INDICE dei periodici principali di archeologia

I. — Periodici italiani.

Monumenti antichi, pubblicati per cura della R. Accademia dei Lincei. — È uscito il nono volume nel 1897.

Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali: pubblicazione periodica. Vol. IX (1900).

Notizie degli scavi, comunicate alla R. Accademia dei Lincei.

Le Gallerie nazionali italiane. Roma, anno V (1900).

Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma, anno XXVIII (1900).

Nuovo Bullettino di archeologia cristiana, vol. VI, 1900.

Bullettino di archeologia e storia dalmata. Anno XXIII, 1900.

Bullettino di Paletnologia italiana, diretto dall'illustre prof. Pigorini, direttore del Museo Preistorico, Etnografico di Roma. Anno XXVI (1900).

Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Si pubblicò il vol. VII nell'anno 1900.

Bullettino della Consulta archeologica di Milano. Si pubblica insieme con la Relazione dell'Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti di Milano e della Lombardia, come appendice all'Archivio storico lombardo.

Studi e materiali d'Archeologia e Numismatica, diretti dal ch. prof. L. A. Milani. Firenze, I puntata, 1899.

Rivista italiana di Numismatica. Milano. È giunta al volume XIV (1901).

L' Arte (già l' Archivio storico dell'arte ), diretta dal ch. prof. A. Venturi. Roma, anno III (1900).

Contengono inoltre spesso lavori archeologici gli Atti dell'Istituto lombardo di scienze e lettere; l' Atene e Roma, diretta dall'illustre sen. Comparetti, la Nuova Antologia, la Rassegna nazionale, l' Archivio storico lombardo, l' Emporium di Bergamo, la Rivista di storia e d'arte per la Provincia di Alessandria ed altri periodici minori.

II. — Periodici francesi.

Revue archéologique, III serie, vol. XXXV (1900).

Bulletin de Correspondance hellénique, anno XXIV (1900).

Mélanges d'archéologie et d'histoire, edite dall' École française de Rome. Comprendono già venti volumi (1900).

Annales de la Société archéologique de Bruxelles. Giunti al XIV volume col 1900.

Mémoires de la Société nationale des Antiquaires de France. Volume LIX (1900). L'ultimo fascicolo del 1897 uscì nel 1899.

Contengono lavori archeologici anche il Bulletin de la Société nationale des Antiquaires de France, il Bulletin de la Société des Amis de l'Université de Lyon; l'Ami des Monuments, già giunto al XIII volume con l'anno 1899, gli Annales du Musée Guimet, che conta pure quasi una trentina d'anni di esistenza; l' Anthropologie ed il Bulletin de la Société d'Anthropologie di Parigi; la Revue des études anciennes, sorta solo da due anni, e la Revue des études grecques, che risale all'anno 1889.

III. — Periodici tedeschi.

Mittheilungen des kaiserlich deutschen archäologischen Instituts. La Athenische Abtheilung, che esce ad Atene, tratta di scavi, scoperte e ricerche sul suolo ellenico, risale a venticinque anni fa; la Römische Abtheilung, che si occupa di archeologia e di antichità romana, si pubblica invece a Roma, sotto la direzione dell'Istituto archeologico germanico, ed entra ora nel suo sedicesimo anno di vita.

Jahrbuch des kaiserlich deutschen archäologischen Instituts. Il volume XV è del 1900. Si pubblica a Berlino insieme con l' Archäologischer Anzeiger d'appendice, contenente le notizie più recenti intorno alle scoperte archeologiche e una copiosa rassegna bibliografica.

Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses. Vol. XXI (1900).

Anzeiger für schweizerische Altertumskunde. Neue Folge II (1900).

Mittheilungen der K. K. Central-Commission für Erforschung und Erhaltung der Kunst- und historischen Denkmale. Sono giunte al volume XXVI coll'anno 1900. — Cfr. talora per alcuni articoli le Archäologische und epigraphische Mittheilungen aus Oesterreich.

Römische Quartalschrift für christliche Alterthumskunde und für Kirchengeschichte, iniziata già dall'anno 1887.

Mittheilungen aus dem Verbande der schweizerischen Altertumssammlungen.

Anzeiger des germanischen Nationalmuseums (1889).

Centralblatt der Bauverwaltung. Anno XX (1900).

Contengono inoltre lavori e articoli archeologici specialmente la Neue Jahrbücher für das klassische Altertum; i Neue Heidelberger Jahrbücher, i Preussische Jahrbücher, l' Hermes, il Rheinisches Museum, il Philologus, la Wochenschrift für klassische Philologie, la Byzantinische Zeitschrift, il Centralblatt für Anthropologie und Urgeschichte, ed altre Riviste di minor importanza.

IV. — Periodici inglesi ed americani.

The Journal of hellenic studies. Entra nel XXI anno di vita.

The Annual of the British School at Athens. Anno V (1898-99).

The archaeological Journal. Già se ne contano 57 volumi.

The Journal of the British Archaeological Association. Col vol. VII inizierà l'anno 1901.

American Journal of Archaeology. È uscito il volume IV della seconda serie nell'anno 1900.

The american Antiquarian and oriental Journal. È già al XXII volume (1900).

Contengono lavori archeologici molto frequentemente anche the Athenaeum, the Numismatic Chronicle, the Antiquary, the Academy, the Architect, the Builder, the Classical Review, the Journal of the anthropological Institute of Great Britain and Ireland. Vol. XXIX (1900).

V. — Altri periodici archeologici stranieri.

O archeologo Português. L'anno 1900 è uscito il vol. VI.

Ἐφημερὶς ἀρχαιολογική. περίοδος τετάρτη (1900).

Διεθνὴς Ἐφημερὶς τῆς νομισματικῆς ἀρχαιολογίας ( Journal international d'archéologie numismatique.) È giunto col 1900 al volume III.

Revista de archivos, bibliotecas y museos. Tercera época. Año IV (1900).

Revista de la Asociación Artistico-Arqueológica Barcelonesa. Año IV (1900).

Akadémiai Értesítö, dal 1890, pubblicato a Budapest, in ungherese. — Cfr. pure di Budapest e in ungherese l' Archaeologiai Értesítö, una specie di archaeologischer Anzeiger.

Hunyadmegyei történeti és régészeti társulat Evkönyve. È pubblicato in ungherese, a Déva, fin dal 1890.

I. ARTE ITALICA

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I.

Arte italica.

I. — Introduzione.

Per mezzo della raccolta e della comparazione dei molti residui d'oggetti appartenenti alle prime società umane, e per mezzo del confronto con quelli che ancora usano le selvaggie tribù d'Africa e d'Oceania, la scienza potè riconoscere la condizione dell'umana società nei tempi primordiali, e, movendo da questi, seguirne il graduale svolgimento a condizione civile, distinguendo quel lungo periodo della vita umana, che antecede ad ogni ricordo storico, in tre età, determinate dal materiale usato per gli strumenti e per le armi, cioè: l'età della pietra, distinta in un periodo più antico, con rozza lavorazione della selce (archeolitico), e in un altro meno antico, con migliore lavorazione e pulimento degli strumenti silicei (neolitico); l'età del bronzo; e infine l'età del ferro, la quale si suddivide in tre periodi, l'ultimo dei quali coincide coi tempi storici. La scienza che studia le reliquie di queste età è la Paleoetnologia.

Gli oggetti lavorati di selce, e specialmente le punte di freccia, che sono fondamento alle ricerche della condizione primitiva dell'umana società, non furono sconosciuti agli antichi, ma creduti, come oggi ancora dal volgo, prodotti dal fulmine ( cerauniae gemmae, cerauniae lapides; punte di saette). Pure presso gli antichi vi furono alcuni raccoglitori, fra i quali l'imperatore Augusto[1], che intuivano quegli oggetti quali reliquie di età remotissime, e li supponevano armi degli eroi. L'uso degli strumenti di selce si prolungò anche in tempi storici presso popoli inciviliti, specialmente negli usi religiosi, che mantengono la rigida osservanza delle forme antiche; così, presso i Romani, i Feciali, percotevano la vittima lapide silice anche durante l'Impero. Contemporanei a popoli civili vivevano poi, come vivono oggidì, popoli in condizione barbara, i quali usavano strumenti ed armi di selce (ved. Atlante di arte etrusca e romana, Milano, Hoepli, tav. I ).

Le ricerche rigorose d'investigazione e di confronto, che si proseguono, dànno sempre conoscenza più chiara dell'infanzia della società umana, della quale gli antichi ebbero per intuizione quella vaga imagine che Lucrezio nel suo poema ha lumeggiato di vivi colori (l. V. v. 925 seg.). Appena un quarto di secolo prima d'oggi, negli studî degli antichissimi popoli d'Italia, potevasi affermare la penisola italica assai povera di documenti di quelle epoche primitive, nelle quali l'uomo giacevasi in condizione di selvaggio, vivendo della caccia e della pesca, foggiando strumenti ed armi di pietra, tentando i primi rozzi lavori d'argilla. Oggi invece i documenti di tale età abbondano; nello spazio di meno d'un trentennio, per assidue ricerche di geologi, naturalisti, paletnologi ed archeologi, s'è raccolta, e ogni dì più si va accrescendo, gran copia d'oggetti dei tempi detti preistorici, dall'età della pietra a quella del ferro.

Nelle caverne della Liguria, delle Alpi Apuane, del Vicentino, del Teramano, degli Abruzzi, della Terra d'Otranto, della Sicilia si trovarono testimonianze della vita e della industria primitiva italica, quando sulla terra nostra l'uomo abitava fra animali ora da questa scomparsi, quali l'orso speleo, il bue primigenio, il castoro. Nelle torbiere, sulle sponde dei laghi di Lombardia, si trovarono vestigia dell'umana società nei tempi nei quali raccoglievasi ad abitare le stazioni lacustri, in capanne di vimini, di paglia e di frondi costrutte sulle palafitte, (ved.tav. 1-3 ) e aveva mosso un gran passo a più civile condizione con la conoscenza dei metalli, e dell'agricoltura. Di questo periodo primitivo delle popolazioni italiche dànno testimonianza i residui disseppelliti dalle marniere, o terremare, dell'Emilia (ved. Atl. cit., tav. I ), in quella bella e fertile distesa di regione, che giace fra il Po e l'Appennino e va dall'Agro piacentino all'imolese. Traccie di questa età si sono riconosciute in varie altre regioni d'Italia, e singolarmente intorno al Tevere e all'Aniene, sull'Esquilino e sul Gianicolo, nella pianura del Lazio, alle falde dei Monti Albani, nei luoghi dove insomma sorse la potenza romana.

Torbiera di Mercurago (Arona).

( Età del bronzo — Palafitte ).

(Ved. MONTELIUS, La civil. prim. en Italie, Atl. B, 1).

Tavola 1.

N. 1, spaccato della palafitta. — 2, piano d'una parte della palafitta, cosparsa di pali. — 3-6, selci. — 12, 13, 20, oggetti in legno, conservati nella torbiera successa alla palafitta antica. — 14, fusaiola di terra cotta. — 15-19, vasi di terra. — 7-11, oggetti in bronzo.

A queste antichità si collegano i monumenti di età più avanzate e civili, rinvenuti nelle necropoli di Villanova, del territorio Felsineo, d'Este, di Marzabotto, di Corneto-Tarquinia. Mercè gli studî e le collezioni ordinate e illustrate da uomini insigni nelle scienze paletnologiche, (quali Gastaldi, Chierici, Pigorini, Ströbel, Issel, Lioy, Concezio Rosa, Regnoli, Michele Stefano De Rossi, Gozzadini, Conestabile, Zannoni, Brizio, Barnabei, Orsi, Castelfranco e altri più giovani), s'è venuta rischiarando con testimonianze di monumenti alcuna parte della storia nostra primitiva, della quale non si conosceva nulla di certo, e, collegandola coi risultati degli studi archeologici e linguistici, la si è venuta ricostruendo su basi molto più sicure di quelle offerte dalle tradizioni classiche[2].

APPENDICE I. Le varie età preistoriche e i loro periodi.

Per chi è alquanto lontano da questo genere di studî, aggiungerò che lo scienziato, il quale distinse più nettamente i varî periodi antichissimi dell'uomo, è il De Mortillet ( La préhistorique antiquité de l'homme. Parigi, 1863). Quest'autore, dopo un'ampia introduzione, nella quale delimita i confini della scienza preistorica e paleoetnologica, e i loro rapporti con la geologia da una parte e la storia dall'altra, divide la trattazione in tre parti, comprendendo nella prima l' uomo terziario, nella seconda l' uomo quaternario, nella terza l' uomo attuale. La maggior ampiezza di trattazione è data alla seconda parte, nella quale il De Mortillet distingue, dal nome di centri speciali caratteristici per dati fenomeni geologici e fossili, un periodo chelléen, mousterien, solutréen, magdalenien nell'età litica; un periodo di Robenhausen nell'età neolitica; un periodo bohémien nell'età del bronzo, suddiviso in quello del fonditore (o morgien ) e del martellatore (o laurnaudien ). Segue poi naturalmente l'età del ferro nei suoi tre grandi periodi universalmente riconosciuti. In sèguito ai risultati degli scavi della seconda metà del nostro secolo, si ampliò il quadro dei resti umani nelle età preistoriche, e si determinarono i varî periodi dalle varie forme di costruzioni entro l'età della pietra (archeolitica e neolitica), l'età del bronzo (eneolitica, enea), e l'età del ferro (divisa in tre periodi). I nomi e le suddivisioni adottate recentemente dal ch. prof. E. Brizio nella sua Epoca preistorica (Milano, Vallardi, 1899), come introduzione alla Storia d'Italia, sono:

  • 1. Caverne (abitazioni e sepolture).
  • 2. Villaggi a fondi di capanne e loro necropoli .
  • 3. Palafitte (o abitazioni sui laghi).
  • 4. Terremare e loro sepolcreti .
  • 5. Necropoli felsineo-laziali .
  • 6. Necropoli venete .
  • 7. Città, colonie e necropoli etrusche .
  • 8. Città e necropoli pelasgiche .
  • 9. Necropoli picene .
  • 10. Necropoli galliche .
  • 11. Sepolcreti dell'Italia Meridionale .
  • 12. Stazioni e necropoli sicule .

Quanto alla determinazione etnica di questi varî centri della vita preistorica, in mezzo alle varie e molte incertezze che agitano ancòra i dotti, specialmente intorno ai Pelasgi e agli Etruschi, possiamo però raggruppare le varie stirpi italiche e non italiche secondo alcuni dati archeologici comuni, nel modo seguente:

Sarebbero appartenenti ai Liguri i cavernicoli e gli abitatori di capanne, le necropoli picene, le necropoli diverse del territorio di Sibari e dell'Italia Meridionale in genere, nonchè i centri antichissimi occupati dai Siculi, perchè questi usavano, come i Liguri, di deporre il cadavere umato rannicchiato nella fossa, come incontriamo nella necropoli di Remedello del Comasco.

Torbiera di Cazzago Brabbia (Varese), N. 1-11.

Torbiera di Polada (Desenzano), N. 12-24.

( Età del bronzo — Palafitte ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 4).

Tavola 2.

N. 2-4, 13, 14, selci. — 1, 18, pietra. — 5, 17, 20, 21, 22, 23, 24, terra. — 6, osso. — 7, 11, 16, bronzo. — 19, dente d'orso. — 12, legno e selce.

Formerebbero invece il substrato dei Protoitalici propriamente detti gli abitanti del gruppo delle necropoli felsineo-laziali, e forse i Veneti o Istro-illirici nelle necropoli venete ed euganee, non avendo nulla in contrario per ammettere una differenza sostanziale di stirpe negli abitanti del primo e più antico periodo delle necropoli atestine, anche dopo gli studî del Prosdocimi e del Ghirardini sulle necropoli e le antichità della collezione Baratela di Este. Protoitalici sarebbero pure gli abitanti delle terramare, se vi sosteniamo presenti gli elementi di una civiltà affatto nuova; in ogni modo, nel periodo più antico si sarebbero loro uniti anche dei Liguri, resto della popolazione delle caverne e dei fondi di capanne.

Farebbero parte a sè i Pelasgi, di cui vedasi più innanzi; gli Etruschi, di cui pure vedasi nella parte etrusca, e i Galli, cioè quell'unione di elementi etnici che, dopo gli Etruschi e prima dei Romani, prepararono le necropoli galliche.

II. — L'arte italica nelle terremare.

Troppo scarsi sono gli indizî e i residui, troppo rozzi gli oggetti che corrispondono a un bisogno della vita, non dell'arte, in questo periodo.

Alcuni però considerano come punto di partenza nel gusto dell'ornamentazione, nello sviluppo del senso artistico gli oggetti che si rinvengono nelle antiche reliquie di abitazioni umane.

Infatti in esse, oltre i primi saggi di disegno ornamentale sulle stoviglie, si osservano i primi tentativi della plastica in frammenti di rozze figure d'argilla, che nella loro pesantezza e goffaggine accennano ad imitazione di figure di animali[3].

Ne abbondano sulla riva destra del Po, ed anche s'incontrano sulla sinistra, dove quei primieri abitatori stanziarono, movendo poi oltre il fiume a porre nuove stazioni sull'opposta sponda. Queste abitazioni sono dette terremare (emiliana alterazione di terre marne, da cui anche marniera ), e sono certi cumuli di terra argillosa, commista con carboni e ceneri, e quantità di avanzi animali e vegetali e residui di materie lavorate, ammassatisi nelle stazioni dei primi abitatori del paese per tutta l'età del bronzo fino all'età del ferro.

Tali stazioni, poste presso fiumi o ruscelli, consistevano di un argine di terra di forma quadrangolare, cinto intorno da fossa. Dentro questo recinto, che formava come un bacino, sorgeva un'impalcatura di travi e graticci, superiormente pavimentata di sabbia e ciottoli, e su questo suolo erano edificate le abitazioni, senz'opera di cemento o di laterizi, ma in forma di rozze capanne di vimini, di giunchi e di paglia. I residui dei pasti, gli avanzi del lavoro e le immondizie delle capanne venivano gettati nel bacino sottostante, accessibile alle acque derivate da vicino torrente, e là si accumularono. Mercè l'esplorazione di questi cumuli, (per cui le terramare furono paragonate ai kiokkenmoedings danesi), si è potuto ricomporre l'imagine della vita degli abitatori di quelle stazioni, o terramaricoli. Essi praticavano la pastorizia, avevano bovini, maiali, capre, pecore, cavalli e cani, andavano alla caccia del cervo, del cinghiale, dell'orso, sebbene i resti di questi animali in proporzioni inferiori ai nominati antecedentemente lascino argomentare non fosse la caccia la principal fonte di sostentamento. I residui vegetali provano ch'era praticata l'agricoltura, coltivandosi orzo, fave, lino; forse era conosciuta la vite, ed erano gustati i frutti del melo, del pruno, del ciliegio, delle nocciole; ma allo stato silvestre, essendo ancora ignota l'orticoltura. Macinavasi il grano schiacciandolo fra due sassi, cuocendolo forse, non in forma di pane, ma di poltiglie. Coltivavasi il vino, e conoscevasi l'arte di filare e di tessere. Era giunta a un certo grado di sviluppo l'industria, però in ancor bassa condizione. Lavoravasi l'argilla, formandosi vasi, pigne, scodelle, tazze, ma semplicemente a mano, senza cognizione del tornio, e indurivansi i fittili al sole o al fuoco, ma in luogo aperto, non in fornace. I vasi hanno qualche varietà di forma, muniti di manichi per gran parte terminanti a mezzo cerchio, a modo di luna falcata (ved. Atl. cit., tav. III ), onde il nome di anse lunate, caratteristiche dei fittili delle terramare; spesso il corpo del vaso porta alcun fregio od ornato graffito a punta, e talora rilevato nell'argilla ancor fresca, a linee, a triangoletti, a cerchielli; non si esce però mai dal carattere generale dell'ornamentazione (ved. le nostretav. 6 e7 ).

Palafitta di Peschiera.

( Età del bronzo ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit, Atl. B. 5).

Tavola 3.

N. 1, spaccato della palafitta. — 2-17, oggetti tutti in bronzo. — 2, ascia ad orli diritti. — 3-5, ascie ad alette o paalstabs. — 13-17, rasoi diritti (cfr. quelli lunati in Atl. di arte etrusca e romana, tav. XI, n. 5).

D'argilla si trovano anche in gran numero certi oggetti a forma di pallottole o di piccoli coni tronchi, perforati per il mezzo, dei quali, secondo alcuno, armavasi l'estremità del fuso, perchè fosse più agevole a prillare, e diconsi perciò fusaiuole (ved. Atl. cit., tav. II e le nostretav. 1, 14;2, 20); ma il loro numero talora considerevole induce a credere che servissero per varî usi, non escluso quello di pesi per le reti e chicche per collane.

Si trovano fondi di vasi d'argilla bucherellati, che sembrano aver servito come colatoi alla preparazione del cacio (ved.tav. 2, 24). Non mancano prove dell'industria dell'intrecciare canestri e panieri di vimini.

Conosciuto era l'uso del bronzo, che però i terramaricoli non fondevano essi dai nativi elementi dello stagno e del rame, ma ricevevano già formato in barre, o lingots, da genti più civili. Similmente erano importati i più degli oggetti di bronzo; tuttavia la fusoria del metallo greggio era praticata in queste stazioni, com'è chiaramente dimostrato da forme, o stampi di pietra ritrovati in questi cumuli. Di bronzo facevansi utensili ed armi, quali ascie ( paalstab ), falci, coltelli, punteruoli, punte di lancia, giavellotti, chiaverine, cuspidi di freccie (ved. Atl. cit., tav. II, n. 4, 5, 6; tav. III ), e oggetti d'ornamento e di toletta, come pettini, lame ricurve, che si credono rasoi, aghi crinali, e certe rotelline a più raggi, che forse venivano innestate agli aghi crinali come capocchia ornata[4]. Ma il bronzo era tuttavia cosa rara e preziosa, e quindi continuavasi la lavorazione di strumenti e d'armi di pietra, foggiandosi di selce ascie, freccie, raschiatoi, e di osso facendosi punte da armar asticciuole, punteruoli, aghi crinali e pettini. Per ornamento si usarono conchiglie marine infilate a collana, e forse anche, sebben rara, l'ambra; e quelle conchiglie, come pur l'ambra, provano che i terramaricoli avevano scambî e commerci con genti d'altre regioni. Nelle terremare non è certo che si abbiano sicure reliquie d'oro e d'argento. Il ferro si trova in quegli strati superiori che accennano agli ultimi momenti delle abitazioni di queste stazioni, se pure in quegli strati non sono i residui di posteriori stanziamenti, sovrapposti in luoghi dove già furono le abitazioni primitive.

Il lavoro e l'industria di questi primi popoli, secondo ce li possiamo figurare dai frammenti e residui delle marniere, trovansi a quel grado di sviluppo in cui le esercitavano le stirpi indo-europee, e più propriamente le genti del ramo italo-greco, quando dall'Oriente emigrarono nelle due penisole europee. La linguistica comparata offre prove che il costruire le case, il filare, il tessere, e forse il primo lavorare dei metalli già erano proprî della stirpe aria, quando i progenitori dei Greci e degli Italici stavano uniti e costituivano una sola famiglia. E tali risultati della comparazione linguistica concordano con quelli della paletnologia ed archeologia preistorica, e da queste ricevono conferma.

Terramare di Castione de' Marchesi (Parma).

( Età del bronzo ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 12).

Tavola 4.

N. 1, veduta di una parte della terramara. — 2, piano di una parte della terramara. — 3, costruzione in legno della figura 2 a. — 4-17, legno.

Oggetti varî provenienti dalle provincie al Nord del Po.

( Età del bronzo ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 32).

Tavola 5.

N. 1-6, 10-13, bronzo. — 7-9, legno: 1 coltello da Castellazzo (Brianza), 2 id. da Aosta. — 5-6, spilli di bronzo, il N. 6 da S. Giovanni di Bosco (torbiera di S. Martino d'Agliè presso Ivrea). — 7-8, remi. — 9, piroga dalla citata torbiera di S. Martino. — 10. braccialetto dalla torbiera di Brenno (Varese). — 11, id. massiccio da Montenotte. — 12-13, id. da Aosta.

Si deve adunque, o almeno si può concludere, che gli abitatori di queste stazioni fossero di razza italica, forse le prime propaggini della stirpe aria, forse, secondo altri, Liguri od Umbri. Poco interessa al principiante, studioso dell'arte romana, di indagare queste lontane origini dei popoli italici, perchè egli è ormai avezzo a considerare l'arte romana come una trasformazione della greca; ma interessa invece molto allo scienziato di sapere quali elementi artistici fossero già ingeniti e sviluppati spontaneamente nei popoli italici, prima della venuta del popolo degli Etruschi, ancora avvolto da un velo misterioso, sceso, credesi, dalle Alpi retiche nella valle del Po, e formante ivi quella federazione di città che storicamente si chiama Etruria Circumpadana. Naturalmente importa di sapere quali elementi artistici abbiano potuto aggiungere gli Etruschi alla cultura dei terramaricoli, molto più che un altro popolo, che non è nè quello dei terramaricoli, nè quello degli Etruschi, cioè il popolo dei Celti[5] si sovrappone agli uni e agli altri, passando oltre il Po, verso Oriente, e scendendo lungo il litorale adriatico.

Prescindendo pertanto dalla questione etnografica, che interessa più la linguistica e la storia che non l'archeologia, e che, per essere questione ancòra dibattuta fra i dotti, esce dai limiti di un trattato elementare, diremo solo che i terramaricoli, anteriori agli Etruschi e ai Celti, siano essi Liguri od Umbri, ci mostrano una civiltà primitiva, in cui l'industria fittile e metallurgica, ancor bambina, mal risponde appena ai bisogni della vita, e non ha quindi criterî e fini artistici, mentre i popoli loro sovrapposti degli Etruschi e dei Celti sembra abbiano avuto con loro relazione soltanto negli ultimi tempi, e solo per via di una scarsa importazione, come mostrerebbero gli strati superiori di alcune terremare. Pare, del resto, che la configurazione stessa della valle del Po non favorisse occupazioni tranquille od artistiche, essendo essa ancòra tutta coperta di boscaglie, incolta, salvo in pochi spazî intorno alle stazioni, dove la mano dell'uomo, dissodate le prime zolle e sparsevi le sementi, riportava le prime vittorie nella lotta contro la natura[6].

Necropoli di Golasecca.

( Età del ferro — Rito dell'incinerazione ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 43).

Tavola 6.

N. 1, recinti sepolcrali in pietre grezze. — 2, tomba a cassetta con ossuarî. — 3-15, ceramica in terra cotta con decorazione geometrica a rombi e a denti di lupo.

Necropoli di Castelletto Ticino (Golasecca).

( Età del ferro — Rito dell'incinerazione ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 45).

Tavola 7.

N. 1, tomba a ciottoli con l'ossuario nel mezzo. — 2, fibula in bronzo. — 3, fibia di centurone in bronzo. — 4-17, ceramica fittile. — 18, coppa in bronzo con decorazione a sbalzo di carattere orientale. — 19, cista in bronzo a cordoni (cfr. Atl. d'arte etrusca e romana cit., tav. VI), e in questo volume in alcune delle tavole seguenti.

III. — La civiltà e l'arte a Felsina.

Maggiori elementi per formarci un concetto almeno approssimativo dell'arte prisca italica ci offrono le necropoli dell'Italia Centrale, che, per essersi rinvenute nella regione occupata dagli Umbri e dove sorgeva Felsina, si conoscono comunemente col nome di necropoli umbro-felsinee. In queste, oltre alcuni monumenti importanti per la loro rarità, abbiamo una suppellettile funebre così numerosa, che possiamo indurne delle considerazioni sul grado dei progressi dell'arte presso quei nostri prischi antenati. Traccie sicure e non iscarse reliquie degli Umbri si raccolsero da poco più di un decennio, specialmente in Bologna e nel suo dintorno.

Venuti per la via delle Alpi, gli Umbri, o a dir meglio gli Itali o gli Italioti (che si distinsero oltre Appennino nei due grandi rami di Latini ed Umbri, con questi i Marsi, Sabelli, Sanniti ecc.) vinti i Liguri, si stabilirono nella valle del Po, e fecero sede di loro dominazione Felsina. Ivi, procedendo nello svolgimento di quei principî d'industria a cui già erano giunte le famiglie arie, cioè la lavorazione dell'argilla e del bronzo, e l'arte del tessere, specialmente nei sacri riti sepolcrali, fecero dello stanziamento di Felsina, luogo della moderna Bologna, centro di lavoro e di commercio. Ivi furono trovate traccie di abitazioni umbre, che si argomenta fossero non più che rozze capanne isolate, o aggregate a gruppi di tre o di quattro, fatte di rami, di frasche e intonacate di argilla. Un monumento che ha carattere d'arte, e che ascrivesi all'età degli Umbri, è un blocco di calcare, scolpito sulle due faccie con figure di animali (vitelli?) ritti, come rampanti, che posano le zampe anteriori sopra una colonna posta nel mezzo, che ricorda la porta dei leoni di Micene, e che forse ornò alcuna porta di Felsina Umbra, quando già erasi ingrandita e fatta possente[7].

Tavola 8.

Veduta generale della porta detta del Leoni a Micene (cfr.tav. 9 pel particolare del fastigio scolpito).

Tavola 9.

Pietra scolpita centrale della porta detta dei Leoni a Micene[8].

Le maggiori testimonianze però ci vengono date dalle tombe, coll'esuberante suppellettile che, per le idee religiose e per l'affetto di cui ogni popolo accompagna la memoria dei morti, essi deponevano accanto all'estinto. I sepolcreti umbri trovansi dentro e fuori di Bologna, Porta S. Mamolo e Castiglione, nei predî Benacci, De Lucca, Tagliavini, Arnoaldi e nello stradello della Certosa. La quantità di oggetti adunati dentro queste tombe, con la diversità della materia, della forma e dell'abilità tecnica, dànno argomento a distinguere quei sepolcreti in due classi, una di tempo antichissimo o arcaica (predio Benacci), l'altra di tempo posteriore (predio De Lucca, stradello della Certosa ed Arsenale, e più tardi i predî Tagliavini ed Arnoaldi).

Il tipo generale di queste tombe è una fossa, ora quadrangolare ora poligonale, internamente rivestita di ciottoli a secco, senza cemento, ovvero formata di lastre a modo di cassa, cioè quattro laterali, una nel fondo e una per coperchio; talvolta la fossa ha un semplice lastrone per coperchio. Alle fosse spesso è sovrapposto un sasso, come cippo o segno esterno. La misura media delle fosse è di m. 0.80 per 0.40. Dentro la fossa sta sempre deposto un vaso a forma di cono a larga base, o più propriamente formato in basso d'una rozza semisfera, su cui insiste un tronco di cono, e nel punto di congiunzione formasi l'espanso ventre del vaso, munito solitamente di una sola e piccola ansa orizzontale, meno spesso di due anse; la bocca del vaso è coperta con una ciotola o scodella sovrappostavi rovesciata, anch'essa solitamente munita d'un solo manico (tav. 12, 10, 11). Questo vaso è l'ossuario o vaso cinerario, che conteneva i residui del cadavere combusto, giacchè in questo antichissimo periodo il rito della cremazione appare generale e costante, e forse è proprio delle stirpi arie, che dall'Oriente portarono le funebri costumanze. Nelle tombe umbre-felsinee, che sommano a più centinaia, s'incontra qualche esempio di cadavere umato, ma in minima proporzione, cioè appena del 4 per 100, e i caratteri craniologici di questi sembrano indicare davvero una razza diversa dagli Umbri.

Tavola 10. — Porta antichissima di Bologna.

Ricostruzione intorno la pietra centrale, scolpita, rinvenuta in via Maggiore (Ved. REINACH-BERTRAND, Les Celtes, op. cit., a pag. 165).

In questa suppellettile funebre abbiamo elementi certi d'arte. Gli ossuarî sono spesso esternamente ornati a graffito, con linee di meandri, triangoletti, zig-zag, cerchielli (ved. tav. cit.), segnati con una punta nella argilla ancor molle; gli stessi elementi ornamentali alcune volte sono tracciati a colore con una tinta biancastra, o anche a rilievo con leggiera striscia di pasta biancastra riportata sul vaso.

Nella fossa, intorno all'ossuario, stavano sparsi oggetti, cioè utensili, armi e ornamenti di bronzo, non mai di ferro, nelle tombe del periodo arcaico: grandi fibbie o fibule con arco, ardiglione e staffa, liscie od ornate di anellini e dischetti d'osso o di pasta di vetro; spilloni, braccialetti a spirale, nastri di bronzo ritorti, forse per ricingere la testa: ciondoli a sferetta con catenelle; coltelli, lame ricurve supposte essere rasoi; morsi da cavalli, cinturoni di lamina di bronzo (tav. 13 ), ornati di bulle a rilievo con lavoro a sbalzo, e di cerchielli segnati a compasso. Gli stessi motivi ornamentali proprî dei vasi si ripetono anche sulla suppellettile funebre di bronzo. C'è poi la serie delle stoviglie accessorie con altri oggetti ornamentali d'osso, di vetro, di avorio, di ambra ecc.

Necropoli della Provincia di Bologna (Bazzano).

( Età del ferro ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 94).

Tavola 11.

N. 2, ansa bipartita di un ossuario. — 4, 14, di terra, col segno della svastica. — 6, vaso cilindrico fittile uso la cista a cordoni, con cerchietti d'ornamento a stampa, — 7-14, ceramica e frammenti di fittili varî. — 15-16, accette votive di terra a imitazione di quelle di bronzo. — 17-19, fibule varie in bronzo. — 20-21, id. con ornamenti di pasta vitrea.

Necropoli di Bologna.

( Età del ferro — Periodo Benacci I ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 75).

Tavola 12.

N. 1, fibula con disco ritto. — 2-6, 8-9, altre fibule in bronzo. — 7. id. con globetti di vetro sull'arco. — 10-11, ossuarî tipo Villanova. — 12, 13, 14, ciotole relative in terra cotta.

Ma questa suppellettile funebre aumenta in quantità, in pregio della materia e di lavoro nelle tombe Arnoaldi. La fossa rimane nel tipo descritto; lo stesso tipo d'ossuario, ma con forme sviluppate; allato all'ossuario varie e più belle forme di fittili (bicchieri, vasetti, ciotole e tazzine, coppe sostenute da alto piede, alcune con pendagli e catenelle di terra cotta) (ved.tav. 11,14 ). Gli ornati non sono più graffiti, ma anche impressi a stampo, e, sia sui fittili, sia sugli oggetti di bronzo, gli ornati non constano soltanto di elementi lineari e geometrici, ma anche di elementi vegetali e animali, quali rosette, palmette, foglie, serpentelli, anitrelle, colombe, cavalli, cervi, finchè appare la figura umana, prima con semplice contorno come decorativa, e poi in composizione con altre figure animali ed umane, come vera rappresentazione di un concetto. S'aggiungano i progressi nella metallo-tecnica; vasi di bronzo, uso ossuarî, ad imitazione dei fittili, cofanetti a forma cilindrica, di lamina ripiegata e congiunta con borchiette (ved.tav. 17 ), ornati all'esterno con una serie di linee rilevate a modo di cordoni, tutto in giro al corpo del vaso, da cui il loro nome di ciste a cordoni (ved. Atl. cit., tav. VI; cfr.tav. 17, 1, 8 di questo Manuale ). Fra l'uno e l'altro cordone l'intervallo è ornato di puntini, di cerchielli, alternati con qualche figura d'anitrella. Di lamina di bronzo s'incontrano secchielli o situle, a forma di cono rovescio, con manichi mobili; bicchieri e tazze semisferiche con manico ricurvo. Abbondano le fibule, di tipo assai vario, alcune congiunte con catenelle, ciondoli e con istrumenti di toletta, quali cura-orecchi, mollette, palettine. Molte fibule nell'arco prendono figura di animali, cani, cavalli, (ved.tav. 11,16 ). Non mancano armi di bronzo, ma il più delle armi, spade, pugnali, aste, accette, e anche freni e morsi, sono di ferro, che appare abbondante negli utensili ed anche negli ornamenti in queste tombe, mentre manca in quelle del periodo arcaico.

In questo periodo le tombe incominciano a presentare anche oggetti di importazione orientale. In un sepolcro umbro-felsineo si raccolsero una fibula e due armille d'oro di lavoro fenicio, un vasettino conico di vetro azzurro, e un amuleto egizio. E da sepolcri del predio Arnoaldi vennero fuori una testina umana di lavoro orientale, una pietra incisa, di quelle a forma di scarabeo, proprie degli Egizi, tre piccoli balsamari o vasettini da unguento di vetro azzurro, oggetti che da contrade orientali erano in Italia importati da trafficanti fenici, e per il commercio fra le genti italiche pervenivano a Felsina. La presenza di questi prodotti della civiltà orientale invitava all'imitazione, e per questa venivano a prendere vita e sviluppo, con introduzione di nuovi elementi, le arti del disegno.

Felsina provvedeva largamente anche al commercio di esportazione, a cui ben rispondeva la sua posizione topografica; e forse viene dalle officine felsinee parte di quegli oggetti di bronzo, di carattere italico, che si raccolsero e si raccolgono intorno e al di là dei paesi alpini. Singolar prova di officine metallurgiche felsinee è un copiosissimo ritrovamento di oggetti di bronzo, fatto in Bologna. Nel gennajo del 1877, lavorando in piazza S. Francesco, si trovò un grande dolio, o vaso di terracotta, pieno fino all'orlo di oggetti di bronzo; altra grande quantità ne stava poi sparsa anche in terra intorno al dolio. Il numero di questi oggetti fra interi e spezzati somma a più di 14,000, e si classificano in ascie o paalstabs (in numero di 1500), lancie, spade, coltelli, cinturoni (cfr.tav. 13 ), fibule (3500), armille, spirali, rasoi, ciondoli, bottoni, pettini, falci, falcette, scalpelli, seghe, lime, ramponi, qualche vaso e molti pani greggi di bronzo ( lingots ), ritagli e bave di fusione. Tanta copia e varietà di oggetti, e la singolarità degli ultimi nominati sono sicura prova che essi siano i residui, raccolti colà, forse nella imminenza di un pericolo (ved. Oggetti della Fonderia[9] ) da una grande officina o fonderia, che, per l'analogia dello stile con gli oggetti studiati nelle tombe umbre, noi diremo umbra.

Necropoli di Bologna.

( Età del ferro — Periodo Benacci I ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 74).

Tavola 13.

Cinturoni varî in bronzo.

Necropoli di Bologna.

( Seconda età del ferro — Periodo Benacci II ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 80).

Tavola 14.

N. 1, anello in bronzo. — 2, disco id. — 3, selce. — 4, parte di finimento di cavallo. — 5, ciondolo in bronzo a forma di accetta, con ornati stampati agli orli e incrostazioni d'ambra. — 6, cavicchio in ferro. — 7, stimulus. — 8, fuso in bronzo con fusaiuola. — 9, braccialetto in bronzo. — 10, phalera id. — 11, coppa di terra cotta con catenelle id., imitata dal bronzo. — 12, due coppe in terra cotta sopra supporto id.

Ma le opere, che più delle altre dànno il carattere dell'attività artistica del periodo, sono le situle (o secchielli) di bronzo istoriate. Una di queste è stata raccolta in uno dei sepolcri della Certosa bolognese spettanti all'età etrusca, ma dal ch. prof. Brizio giudicata opera dell'arte umbra[10]. Tale situla è a forma di cono rovescio, alta metri 0.33, formata d'una lamina di bronzo ripiegata su sè stessa e ribattuta con chiodi; il corpo del vaso tutto intorno porta una rappresentazione lavorata a sbalzo ( au repoussé ), distribuita su quattro zone sovrapposte (tav. 15 ). Vi è raffigurata una processione, alla quale prendono parte gli ordini militari, civili e religiosi dell'antica Felsina. La prima zona mostra cavalieri e fanti con lancie e scudi; la seconda ministri sacri e victimarii, che conducono gli animali al sacrifizio, seguiti da donne recanti vasi; la terza rappresenta scene della vita giornaliera, preparativi d'un banchetto o d'un sagrifizio con suonatori; quindi un episodio di caccia ed uno della vita agricola, con un contadino che porta l'aratro e guida i buoi; la quarta zona chiude la rappresentazione con una serie di grifoni, chimere ed altri animali fantastici. Vi è cura e finezza d'esecuzione: la trattazione delle figure animali mostra un disegno più libero e più naturale che non quello delle figure umane, nelle quali si vede un'arte veramente ancora infantile. È monumento importante per la conoscenza dei costumi umbri; è prodotto dell'arte italica primitiva con accenni ad influenza orientale, e in certo qual modo richiama al pensiero la rappresentazione dell'omerico scudo d'Achille, che pure per mezzo di opere orientali viene illustrato[11].

La situla di bronzo lavorato a sbalzo della Certosa di Bologna. Tavola 15.

(Dallo Zannoni, Scavi della Certosa di Bologna. Atlante, tav. XXXV; cfr. Hoernes, Urgeschichte der bildenden Kunst in Europa, tav. XXXII).

APPENDICE II. Dell'importanza delle fibule come dato archeologico nelle età preistoriche, e loro cronologia.

(Ved.Tav. 16 ).

È tale la quantità e la varietà di questo oggetto d'ornamento che noi possiamo dalla sua forma, grandezza e tecnica indurre l'età degli oggetti archeologici in mezzo ai quali si trova. Il Montelius, già citato, compresa l'importanza storica, per così dire, di questo muto testimonio di età antichissime, tentò di riunirne ben 289 nel suo Atlante della Civilisation primitive en Italie, e di ricostruirne la cronologia. Quantunque non tutti siano d'accordo sull'attendibilità e sicurezza di tali dati, come osservò l'illustre Prof. Pigorini ( Boll. di Paletnologia Italiana, 1898), pure riportiamo qui a titolo di curiosità e di confronto l'abbozzo cronologico del Montelius.

Necropoli di Bologna.

( Seconda età del ferro — Periodo Benacci II ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 79).

Tavola 16.

Fibule in bronzo di varia struttura e di differenti stili.

N. 1, fibula ad arco rigonfio. — 2, 5, fibule con arco a forma di essere vivente. — 8 (superiore) e 3, bronzo e vetro. — 8 (inferiore) e 10, bronzo ed ambra. — 6, fibula ad arco piatto con ornamenti. — 8 (inferiore) fino a 16, fibule ad arco serpeggiante. — 7, id. a rettangolo.

Necropoli di Bologna.

( Seconda età del ferro — Periodo Benacci II ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 81).

Tavola 17.

N. 1, 8, ciste a cordoni: il n. 1 in terra cotta, il n. 8 in bronzo. — 2-4, vasi di terra cotta. — 5-9, vasi in lamine sottilissime di bronzo.

Nel suo capitolo d'introduzione al testo, ossia alla spiegazione scientifica delle tavole dell'Atlante (vol. II), intitolato: Evolution de la fibule en Italie, distingue nettamente due grandi classi di fibule, quelle a un sol disco o ad agrafe (tav. I-XX), e quelle a due o a quattro dischi (tav. XXI), che si trovano spesso nell'Italia Meridionale, e più propriamente nelle regioni centrali della Penisola, mancando invece interamente al nord degli Appennini.

Le fibule a un sol disco, che il Montelius poi studia diffusamente nell'Italia Settentrionale, sono da distinguere, secondo il loro grado evolutivo, in quattro serie:

1. Fibule ad arco semplice, non serpeggiante, a disco. Molla unilaterale (tav. I-III dell' Atl. Montelius).

2. Fibule ad arco non serpeggiante, ad agrafe. Molla unilaterale o bilaterale (tav. id., IV-XIII).

3. Fibule ad arco serpeggiante, a disco. Molla unilaterale (tav. id., XIV-XV).

4. Fibule ad arco serpeggiante, ad agrafe. Molla unilaterale (tav. id., XVI-XX).

Segue poi nell'introduzione citata del Montelius l'elenco dei centri archeologici scavati più o meno recentemente, e disposti in ordine cronologico, come segue.

S'incomincia dall'età del bronzo, cioè dal periodo dell'apparizione dei metalli, fra cui:

1. Età del bronzo, periodo III: la palafitta di Peschiera (tav. 5-9 dell' Atlante di Montelius).

2. Età del bronzo, periodo IV, prima parte: i tesori di Casalecchio (tav. id. 39), di Piediluco, di Goluzzo e di Montenero, nell'Italia Centrale.

3. Età del bronzo, periodo IV, seconda parte: le necropoli di Moncucco (tav. 42 dell' Atl. Montelius), di Bismantova (ved. la nostratav. 18 ), di Fontanella e di Verucchio al Nord degli Appennini, e di Vetulonia, Vulci, Bisenzio e Corneto (le tombe più antiche, però), nell'Etruria.

4. Prima età del ferro, periodo I: la necropoli di Bologna (Benacci I, tav. Mont. 73-75).

5. Prima età del ferro, periodo II: la necropoli di Bologna (Benacci II, tav. id. 76-81).

6. Prima età del ferro, periodo III: la necropoli di Bologna (Arnoaldi I, tav 82-86).

7. Epoca etrusca: la necropoli di Bologna (Arnoaldi, II, la Certosa, tav. id. 100-106).

8. Epoca gallica: le necropoli delle provincie di Como, di Bologna, ecc. (tav. id. 63-65; 111-113).

Conclude poi il Montelius con un prospetto approssimativo delle date cronologiche alle quali risponderebbero i varî tipi delle fibule, dalle età più remote fino all'età storica, distribuiti come segue:

1. I tipi più arcaici delle fibule decorrono dal XV secolo av. C. (ved. Atlante Mont. parte A, fig. 19), trovandosi nelle tombe greche contemporaneamente al re egiziano Amenofi III, che viveva in quel secolo.

2. Fibule del tipo della Certosa: da tombe più antiche molto verosimilmente del VI secolo av. C. È provato dalla loro presenza in tombe etrusche, contenenti vasi greci dipinti di quell'epoca (tav. 100-106).

3. Fibule del tipo più antico detto La Tène; quasi contemporanee alle fibule della Certosa, con cui hanno, escluso il tipo della molla, grandissima affinità (cfr. fig. 137 e 161 della parte A dell' Atl. Mont.).

Facendo tesoro di questi dati, il Montelius conclude che i tipi di fibule antiche compresi fra quelle ad arco semplice più arcaiche, e quelle della Certosa, sono state fatte fra il secolo XIV e VI av. C., aggiunge poi la conclusione, alquanto arbitraria che i cinque periodi intermedî delle differenti forme di fibule abbiano la durata medesima fra loro, e ne conclude un tratto di tempo di 150-200 anni per tipo e per periodo, fissati i quali, si può fissare anche la data dei ritrovamenti archeologici in cui si trovano fibule, badando esclusivamente al loro tipo.

Sulle conclusioni pericolose del Montelius si pronunciò contrariamente l'illustre Pigorini, al luogo citato: però le date fondamentali del Montelius, fissate nel suo precedente prospetto, si possono tenere per ferme, e servono di base per fissare date più particolari, entro i periodi intermedî.

Il Montelius aveva studiato a lungo i vari tipi delle fibule già dagli anni 1880-82, in cui pubblicò il libro: Spännen frau brons äldern och ur dem närmast utvecklade former. Typologisk studie nell'Antiquarisk tidskrift för sverige, e l'altro lavoro più accessibile agli studiosi: Les fibules de l'âge du bronze en Italie, nei Materiaux pour l'histoire de l'homme, XI (Tolosa 1880), pag 583.

Un bell'articolo sulle fibule è inserito nel Dictionnaire d'antiquité di Daremberg e Saglio, alla voce: Fibule.

APPENDICE III. Confronto tra la situla della Certosa e lo scudo d'Achille.

(Ved.tav. 15,21,24 ).

La situla istoriata degli scavi della Certosa non è sola, ma fa parte di una serie di situle a lamina lavorata a sbalzo, di cui parlerò più innanzi.

Per ora ricercandone la provenienza e la diffusione, mi limiterò a studiare la situla di Bologna in sè, tentando di spiegare la sua rappresentazione e le relazioni che presenta con l'arte omerica dello scudo di Achille.

Innanzitutto, malgrado le scoperte dello Schliemann, le verifiche del Dörpfeld e l'opera magistrale dello Helbig sull'epopea omerica, non si può ancòra ricostruire la tecnica dello scudo omerico, e sapere se sia o no in gran parte opera della fantasia di Omero. Dopo le discussioni di carattere negativo del Bursian e del Müller, Clermont-Ganneau, nella Revue critique del 1878, concludeva che i monumenti fenici e di lavorazione a tipo fenicio, quali la coppa di Palestrina, ci suggeriscono la possibilità della ripetizione delle azioni rappresentate in quadri successivi e variati. Il Milchhöfer, però, nel 1833, nel suo bel libro: Die Anfänge der Kunst, mostrò però l'impossibilità che il lavoro dello scudo omerico sia su una lamina a repoussé, ossia a sbalzo, e quindi ci allontana dal confronto di esso con la nostra situla e dalla determinazione di una vera e propria imitazione omerica in quest'ultima.

L'Helbig, nella seconda edizione dell' Homerische Epos (1887, traduz. francese, pag. 415), conclude che lo scudo, nel suo complesso, è l'opera della fantasia poetica, ma che les descriptions des scènes particulières ont souvent été suggérées par des représentations figurées, e bisogna riconoscervi l' intervention du souvenir d'oeuvres grecques, dans lesquelles l'esprit national s'était déjà élévé à une expression individuelle.

Fu primo, però, il Brunn a mettere in rilievo nel 1887 l'analogia molto stretta fra lo scudo d'Achille e le situle dell'Italia Settentrionale ( Über die Ausgrabungen der Certosa, Monaco, 1887, pag. 26-170), concludendo che il n'existe pas un second groupe de monuments que l'on pût utiliser aussi directement pour la restitution du bouclier homérique, que les situles de Bologne et de Watsch. Passa poi a considerare la questione se si possa dire umbra la civiltà rappresentata della situla, dicendo che tale opinione viene da quella che ritiene gli Umbri sconfitti, annientati poi dagli Etruschi, se non che le scoperte e gli studî nella Carinzia, offerti dal Meyer nel lavoro: Gurina im Obergailthal, Dresda, 1885 (cfr. Orsi, Bull. di Paletn. Ital., XI, 1885), inducono a credere piuttosto che alcune popolazioni illiriche, spinte dalle spiaggie orientali del Mar Adriatico verso il Nord e l'Ovest, per via di terra siano pervenute nell'Italia Settentrionale, portandovi così ricordi, tendenze artistiche greche. Le coppe d'arte fenicie erano pasticci, per così dire, a cui l'arte egiziana ed assira diedero gli elementi, e l'arte micenea offre parecchi confronti, cosicchè si può concludere che queste situle istoriate siano imitazioni degenerate di modelli micenei. Così la tradizione epica non solo, ma anche l'artistica della Grecia micenea, introdotta in Cipro prima della introduzione fenicia, si diffonde a Creta, e nell'Europa Occidentale, sulle rive del Bosforo Cimmerio e dell'Adriatico. Il Brunn, nella sua Griechische Kunstgeschichte, mette in rilievo le analogie del lavoro artistico fra lo scudo d'Achille e le situle celto-illiriche, come fra queste e l'opera romana conosciuta sotto il nome di Sedia Corsini. Certamente, come osservavo nel 1897 in un mio lavoro a proposito di una lamina a sbalzo istoriata di Rovereto, che illustravo pel Museo di Torino (ved. Nuovo Archivio veneto, XVI, parte I, pag. 10 e segg., dell'estratto), “certamente non si può ammettere qui in Italia un passaggio repentino dallo stile geometrico paleoitalico, quale vediamo nella ceramica e nei manufatti della età del bronzo e della prima età del ferro, allo stile figurativo e artistico delle situle e della nostra lamina, senza ammettere un elemento nuovo, estraneo, che fu creduto dal Deschmann l'etrusco, da altri il fenicio, ma fu già fin dal 1888 riconosciuto dal ch. Ghirardini come più verosimilmente greco arcaico, quale si vede nei bronzi sphyrelata di Dodona e di Olimpia, e che si intravede tanto nel gruppo greco-bolognese, quanto in quello atestino ed illirico„. E mi sono sforzato di dimostrare, con lo studio specialmente della situla della Certosa e il confronto di quella di Watsch (cfr. le nostretav. 15,24 ), che vi è in queste situle un elemento generale, che è il greco-arcaico coi suoi animali decorativi orientalizzanti, con la composizione distribuita a zone, lavorata a sbalzo, con la rappresentazione delle processioni sacre, come, p. es., le panathenes, e il concetto di una rappresentazione descrittiva di una narrazione veramente omerica dei periodi e delle azioni principali della vita reale.

Oltre questo elemento generale ve n'è uno particolare, indigeno, che è dato “da certa libertà di distribuzione di fatti e di ornamenti, da certe forme negli elmi, nei seggi, nei carri, nella bardatura dei cavalli che rappresentano, nei costumi del tempo, elementi, che furono trovati in natura a Watsch, a St. Margarethen, e che appartengono a un periodo non molto differente da quello delle tombe in cui le situle si trovarono„ (op. cit., pag. 12).

Questi particolari indigeni, per così dire, nell'arte delle situle, indicherebbero che, importati i modelli e studiata la tecnica allo sbalzo dagli artisti locali, vi sia stata poi una produzione in parte, con motivi indigeni, tolti dalla vita paesana, di questo genere d'opere d'arte.

Una riprova di questo si avrebbe nella copiosa riproduzione, che nei centri maggiori di diffusione delle situle in questione noi riconosciamo costante, riproduzione in terracotta degli originali in bronzo, con la così detta imbullettatura di borchie di bronzo, immesse nella pasta ancor molle, a ricordo dell'uso di vere borchie o rigonfiamenti negli esemplari in bronzo.

Malgrado quanto siamo venuti osservando, non tutti sono d'accordo, non solo per le situle istoriate, ma in genere anche per la decorazione geometrica delle opere d'arte italiche, circa il viaggio che avrebbero compiuto gli oggetti e i motivi artistici dall'Oriente in Italia, e, pure stando ferme quelle analogie e quelle conclusioni a cui siamo venuti circa l'imitazione omerica, la questione dev'essere ritrattata più ampiamente.

Necropoli a incinerazione di Bismantova.

( Età del Bronzo ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 41).

Tavola 18.

N. 1, scalpello in bronzo. — 2, rasoio semilunato. — 3, spillo in bronzo con capocchia di vetro. — 4, ciondolo in bronzo. — 5, braccialetto in bronzo. — 7, arco di fibula in bronzo. — 8, fusaiuola in steatite. — 9-10, vetro. — 11-12, tubetti di bronzo. — 13, fibula a tre spirali semplici in bronzo. — 14-15, id. ad arco semplice. — 16, tomba di pietre squadrate. — 17-21, ossuarî in terra cotta, il n. 17 con relativa ciotola sovrapposta. — Bismantova segna il passaggio alla civiltà di Villanova (cfr.tav. 19 ).

IV. — La civiltà e l'arte a Villanova.

(Ved.tav. 19 ).

Il rito funebre, le forme dell'ossuario, gli oggetti della suppellettile funeraria delle tombe arcaiche di Felsina trovano riscontro in tombe di Villanova nel Bolognese, della Campagna Laziale presso i Monti Albani, di Este nell'antica sede degli Euganei, e di Toscana, nei dintorni di Chiusi e in Corneto-Tarquinia.

La necropoli di Villanova rappresenta per alcuni il periodo di transizione fra la dominazione umbra e il principiare dell'etrusca nella valle del Po (Sec. X-IX a. C. per il Gozzadini)[12].

Le scoperte di Villanova, paese a poca distanza da Bologna presso il Fiume Idice, datano dall'anno 1853. Sono ben più di duecento sepolcri, fatti a semplice fossa, di forma ora rettangolare ora cilindrica, alcuni rivestiti intorno di ciottoli a secco senza cemento, altri di lastre di calcare (ved.tav. 19, 10); sopra le fosse sonvi mucchi di ciottoli. Dentro, sono deposti gli ossuarî d'argilla (ved. Atl. cit., tav. IV ); ma talvolta il cadavere vi sta umato. Gli ossuarî d'argilla sono maggior parte rossi e neri, ad una sola ansa (ved.tav. 19, 1, 2, 6, 7, 8), di diverse dimensioni, con un'altezza che varia da 19 a 39 centim., colla tipica forma di due tronchi di cono congiunti per la base nel modo già descritto per le tombe di Felsina, con la ciotola capovolta, ad un sol manico per coperchio (ved. Atl. cit., tav. VI, 2; cfr. la nostratav. 19, 8). Il corpo del vaso solitamente è ornato di graffiti nella fresca argilla, con linee, triangoletti, circoletti concentrici, o cerchielli, con iscrittavi una croce (detta svastica ) meandri, ecc. alle forme geometriche si mescolano a zone alternate figure di anitrelle e di serpentelli, e anche figure umane tracciate imperfettamente. Dentro l'ossuario erano ceneri ed ossa combuste; intorno stoviglie accessorie; ceneri e residui di rogo involgevano l'ossuario e gli altri fittili, e fra le ceneri erano oggetti di bronzo, di ferro, d'ambra, d'osso, di vetro ed anche ossa di animali, forse avanzi della cena funebre ( silicernium ) (ved. Atl. cit., tav. V ).

Necropoli di Villanova (Bologna).

( Età del ferro ).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 93).

Tavola 19.

N. 1, vaso con piede ad ansa. — 2, ossuario a un'ansa. — 3, vaso senz'ansa. — 4, con tre rilievi conici. — 5, id. con piede. — 6, id. con un'ansa caratteristica per Villanova come il n. 2. — 6, 7 e 8, ornamento a Meandro. — 10, tomba di Villanova con ossuario.

Le stoviglie accessorie presentano varietà di forme, e molte sono di elegante lavoro, con impasto di finissima argilla, colle pareti leggiere e sottili. Fra gli oggetti fittili abbondano le fusaiole coniche, perforate per il lungo, e segnate di ornati geometrici, che il ch. Gozzadini, illustratore della necropoli di Villanova, opina fossero pesi per tener ferme le vesti. Abbondano anche i cilindretti d'argilla, terminati a doppia testa o capocchia, pur essi con ornati graffiti, quali s'incontrano in altre tombe. Di bronzo sono ornamenti ed armi, e pezzetti informi di varie dimensioni, che si credono i primi rappresentanti dei valori per mezzo del metallo, o primi saggi della moneta ( aes rude )[13]. Fra gli ornamenti abbondano le fibule, varie e ornate, con infissivi globetti di vetro colorato, di grani d'ambra, o bottoni a rilievo; aghi crinali con capocchie a pomelli di pasta di vetro o d'ambra; spirali di bronzo per ornamento delle chiome; braccialetti o massicci, o leggieri da portare anche alla parte superiore del braccio, come è provato da alcuni trovati al braccio di scheletri; anelli, bottoni di lamina di bronzo. Armi ed utensili sono ascie o paalstabs, simili a quelli delle terramare; coltelli di bronzo e di ferro; lame lunate (o rasoi)[14]; e certe lamine di bronzo, come nelle tombe arcaiche felsinee, a sezione di campana, trovate insieme con asticciuole terminate a bottone a modo di martelletti o battaglini, che alcuni crederebbero strumenti da suono o tintinnabuli, mentre altri, come lo Zannoni[15], li ravvisa per oggetti d'ornamento. Chiodi messi nelle tombe hanno significazione religiosa, come emblema del fato compiuto, irrevocabile. Vi si trovò anche qualche rozzo saggio di plastica, due cavallini di bronzo ed un idoletto[16].

V. — La civiltà e l'arte nelle necropoli del Lazio.

Documenti dell'antichità preistorica, nei due periodi archeolitico e neolitico furono trovati, come abbiam detto, nel dintorno di Roma, dove pure, sull'Esquilino, si rinvennero nel 1872 oggetti della primitiva industria dell'età del bronzo, che hanno evidenti analogie con quelli delle terramare. Tali oggetti sono punte di freccia silicee, fusaiole d'argilla con ornati di punteggiature, pendagli da collane, pesi da reti, aghi crinali d'osso e di bronzo, fibule di bronzo, denti di jena e d'orso forati per farne ornamento, vasi di terracotta lavorati a mano, ornati con impressioni o solchetti fatti nella fresca argilla, disposti a striscie intorno al corpo.

Trascurando i ritrovamenti sporadici e più antichi, di qualità analoga e di periodo contemporaneo alle terramare già studiate, fatti nel territorio di Roma e sull'Esquilino l'anno 1872, passiamo a considerare i ritrovamenti più abbondanti in istrette relazioni con quelli dei sepolcri umbro-felsinei e di Villanova. Sonvi nel Lazio traccie di primitive stazioni, e nel dintorno d'Albano, di Grottaferrata e di Marino si scoprirono tombe, appartenenti forse ai prischi Latini. È cosa notevole che le reliquie di queste tombe siano, per gran parte, sepolte nel peperino, ossia sotto gli ultimi strati delle eruzioni dei vulcani laziali. Sono fosse, dentro le quali sta deposto il vaso ossuario, contenente ceneri ed ossa combuste, e coperto da una ciotola capovolta. I fittili sono rozzi, lavorati a mano, di imperfetta cottura, non di molto più avanzati di quelli dei terramaricoli; presentano sul corpo ornamentazione geometrica a varie combinazioni di linee graffite e di impressioni fatte nell'argilla fresca con cerchielli e talora con conchiglie; nelle tombe e dentro lo stesso vaso cinerario sono frequenti le fusaiole.

Ciò che riveste un certo qual carattere artistico è la tecnica degli oggetti di bronzo, che pur trovansi nelle tombe laziali: aghi crinali ed ascie, con fibule e spirali per ornamento, mancanti nelle terramare e frequenti invece nelle tombe di Villanova. In questa industria degli oggetti della necropoli albana possiamo distinguere due sezioni, l'una coi caratteri arcaici, al Nord, l'altra, verso Sud, coi caratteri di una tecnica più sviluppata. Questo sviluppo maggiore è dovuto ad influenze straniere, e forse anche è rappresentato da oggetti d'importazione straniera; la quale deve spiegare anche il fatto della superiorità della metallotecnica nella parte settentrionale della necropoli laziale, in contrasto con la bassa condizione dell'industria ceramica. Secondo il ch. Helbig, questa necropoli, nella sua sezione arcaica, è monumento primitivo del ramo latino della razza indo-europea; in essa le industrie latine sono limitate ancòra all'eredità ariana, non per anco tocche da influenze trasmarine; insomma sono le tombe dei prischi Latini[17].

Le affinità degli oggetti in queste raccolti con quelli di stazioni padane sarebbero quindi originarie di un medesimo ramo della stirpe aria, cioè degli Italioti od Umbri-Latini, secondo il Conestabile[18].

Se neanche le necropoli albane presentano opere d'arte, posseggono però degli oggetti così caratteristici per lo studio dell'etnografia e della civiltà italica che non si possono passare sotto silenzio. — Così dicasi di certi fittili foggiati a capanna, che, avendo servito come ossuari, dalla loro forma e dall'uso prendono nome di urne-capanne (ved. Atl. cit., tav. VII ). Piacque al pensiero degli Italici primitivi di chiudere i resti del defunto dentro vasi simulanti la casa dei vivi. La prima di tali urne-capanne fu scoperta nel 1817; e parve per qualche tempo esemplare singolarissimo; ma per ulteriori scoperte altre parecchie ne vennero in luce. Si credettero pure un prodotto ed un costume tutto proprio del Lazio primitivo; ma nell'anno 1882 parecchie altre se ne furono scoperte nelle tombe di Corneto-Tarquinia.

Tali urne-capanne stanno deposte nella fossa dentro un vaso capace, ovvero rinchiuse dentro un piccolo recinto di lastre di sasso, ritte e coperte da un lastrone orizzontale, mentre il suolo è formato da ciottoli. Di tal forma, che ricorda i dolmen gallici, sono due tombe, scoperte presso Marino, in una delle quali era un esemplare assai bello di urna-capanna (ved. Atl. cit., tav. VIII, 1), nell'altro molti vasi fittili. Queste urne-capanne presentano senza dubbio l'aspetto della primitiva casa italica[19]; una capanna di forma rotonda, con tetto acuminato, con linee rilevate concorrenti nell'alto, che ricordano un'armatura di pali sostenenti la copertura di paglia e di canne; hanno una larga apertura per porta, con uscio e indicazioni di spranghe e di stipiti reggenti la porta; in quella, per ultimo ricordata, del dolmen di Marino apparirebbero indicate due colonne su ciascun lato della porta. In alcun esemplare vedesi anche segnata sulla parte del tetto un'apertura a forma triangolare. Questi vasi spesso hanno intorno delle linee ornamentali graffite, a meandro, a zig-zag, e con queste frammischiata la croce gammata o cantonata.

Rotonde, fatte di pali e di vimini, con intonaco d'argilla, coperte di stoppie, di canna, di paglia, dobbiamo pensare che fossero le primitive abitazioni fin da un tempo anteriore alle ultime eruzioni dei vulcani laziali, come lo provano gli oggetti sepolti nel peperino fino agli ultimi tempi della monarchia; ricordando Livio centri eruttivi quali lapidibus ruit, vox ingens e luco et summo montis cacumine, e trovandovisi l' aes grave fuso librale[20].

Così era nelle stazioni del settentrione d'Italia come nelle regioni dell'Appennino e nelle pianure del basso Tevere, al tempo della vita pastorale ed agricola degli Italioti. Così erano fabbricate Alba-Longa e le città latine; così Roma nelle sue origini; in tali capanne abitarono i progenitori italici, genti che usavano utensili di selce e di bronzo e rozze stoviglie d'argilla. Questo ha sua riprova nelle tradizioni e nelle reminiscenze storiche.[21]

VI. — La civiltà e l'arte nelle necropoli euganee-atestine.

(Ved.tav. 20-25 )

Un nuovo e ricco contributo per la conoscenza della primitiva civiltà italica diedero le tombe degli antichi Euganei, scoperte fra gli anni 1876 e 1880, nel dintorno della antica città di Ateste, la moderna Este, dove, cogli antichi oggetti in gran copia raccolti da quelle tombe, s'è formata una collezione di antichità preromane ricca ed importante.

Le tombe e la copiosa suppellettile funebre in quella collezione deposte mostrano l'agro estense, in antico occupato da popolazione numerosa ed industre, che in questi suoi monumenti funerarî lasciò traccie del graduale suo sviluppo di civiltà, segnando la successione di età diverse nello svolgimento delle facoltà d'uno stesso popolo. Partendo dagli strati più profondi e più antichi, si può seguire questa successione; essa incomincia da una età euganea primitiva, passa ad una più sviluppata, e mostra quindi un'età euganea con influenze greche ed etrusche, per finire in un'età, in cui la civiltà euganea si unisce e poi si confonde con la civiltà romana.

Primo Periodo. — Dell'età euganea primitiva sono caratteristiche le tombe a semplice fossa o buca, sormontate da masse informi di trachite, a modo di cippi; dentro la buca è l'ossuario, e intorno a questo residui di rogo. L'ossuario è di argilla grossolana e di rozza fattura, con sopra graffiti degli ornati geometrici, le cui incisioni, o solcature sono riempite di color bianco; di forma l'ossuario atestino eguale a quella dell'ossuario di Villanova, del predio Benacci ed Arnoaldi-Veli, e dei bronzi della Certosa. Gli ornati sono a triangoletti, a circoletti, a linee ricorrenti, a meandri con croci gammate.

Coll'ossuario s'accompagnano stoviglie, rozze anch'esse d'impasto e di lavorazione, di color naturale, raramente tinte di nero con grafite. Fra gli oggetti fittili di questo più antico strato uno ve n'ha in forma d'augello, vuoto nell'interno, sostenuto da quattro rotelle, ed esternamente segnato di ornati geometrici con croci gammate, che vuol essere ricordato come esempio dei primissimi tentativi di figura animale[22]. Dentro e dintorno all'ossuario sono pendagli da collana e fibule di bronzo coll'arco segnato di linee ornamentali.

Suppellettile di due tombe atestine.

(Vasi, fibule, braccialetti, collane, lamine lavorate, oggetti varî).

Tavola 20.

Ved. Ghirardini, La situla italica primitiva studiata specialmente in Este, in Monumenti antichi, VII, tav. 1.

Secondo Periodo. — Un maggior progresso mostrano le tombe della seconda età, detta a cassetta (ved. Atl. cit., tav. VIII, 2), perchè la buca o cavo, di forma quadrangolare o poligonale, è internamente rivestito di lastre di tufo calcare, con sovrapposti, come segni esterni, dei grossi ciottoloni. Dentro posa l'ossuario, nella solita forma di due tronchi di cono congiunti alle basi, di tipo analogo a quello di Villanova, come nel primo periodo. Gli ossuari sono lavorati al tornio con miglior fattura e più fino impasto dei precedenti. S'accompagnano coll'ossuario stoviglie accessorie, e così quello come queste hanno borchiette di bronzo infisse nell'argilla ancor fresca a disegni di linee, di circoletti, di meandri, di spirali ricorrenti, di croci gammate; i quali disegni, con le lucide capocchie delle borchiette, dovevano spiccare con bell'effetto sul fondo scuro del vaso (ved. Atl. cit., tav. X, 1). Questo modo d'ornamentazione, creduto caratteristico solo di queste tombe, ha trovato oggi riscontro in alcuni altri luoghi, come nella terramara di Casinalbo e nelle tombe arcaiche Cornetane. S'aggiunga una miglior industria metallurgica: abbondano le fibule, delle quali una nell'arco presenta tre figurette di cavallini appaiati con due goffe imaginette di cavalieri: abbondano gli aghi crinali, i fermagli, le spirali; s'incontrano perle di vetro, ambra, osso, corallo, e piccoli tubetti di bronzo forati pel lungo e rivestiti di foglia d'oro da infilarsi per collane: inoltre pezzetti informi di bronzo come rappresentanti della moneta ( aes rude ). Fra le armi, che però scarseggiano, s'incontrano esemplari di ascie ( paalstabs ), coltelli di bronzo con manico di osso, punteruoli di ferro, e lame ricurve, o rasoi. La suppellettile di questa seconda età mostra lo sviluppo d'una industria locale, prettamente euganea.

Terzo Periodo. — Un nuovo progresso, determinato però da influenze straniere, per opera di contatti e di relazioni commerciali, si presenta nella terza età, che ha analogia con tombe etrusche-felsinee; nella quale età le tombe, che pur sono a cassetta, hanno costruzione più regolare, lastre meglio squadrate e commesse con cemento, sormontate non più da ciottoloni, ma da cippi piramidali a quattro faccie, talvolta con scrittura; l'ossuario non è soltanto d'argilla, ma talvolta di bronzo. In questa terza età si hanno anche altre forme d'ossuario, come quella d'un gran vaso d'argilla, liscio e lavorato al tornio, d'un'altezza che varia da 40 ad 80 cm. e d'una circonferenza nella parte più espansa che va da 1 fino a 2 metri (ved. Atl. cit., tav. IX ). Stanno questi vasi deposti, dentro buca, con intorno residui di rogo, o contengono in sè l'ossuario od altre stoviglie accessorie, quasi fossero vasi-tombe, come di fatto si chiamano.

Antichità di Villa Benvenuti presso Este (Padova).

(Terzo periodo euganeo — Sepoltura a incinerazione).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 54).

Tavola 21.

N. 1, 11, situla in bronzo di Villa Benvenuti, lavorata a sbalzo con tre zone figurate. — 2, coppa in terra cotta. — 3, fibula in bronzo con ciondoli spiraliformi. — 4-9, altre fibule varie in bronzo. — 10, collier di perle di pasta vitrea di varî colori, e di pezzetti di corallo, con sette paia di ciondoli triangolari in bronzo, derivati verosimilmente dalla forma delle accette votive. — 12, disco in bronzo a sbalzo, coperto di foglia dorata. — 13, bastone in legno coperto di una lamina di bronzo ornata a sbalzo.

Gli oggetti che in questi vasi-tombe si trovano, sono scarsi di numero e di valore, e se ne inferisce, anche per la stessa maniera della tomba, che siano queste le sepolture di gente povera. Le stoviglie che trovansi nelle sepolture della terza età si distinguono dalle altre per varietà ed eleganza di forme, per finezza di lavoro. L'ornamentazione a borchiette è più rara, ma, dove s'incontra, mostra disegno meglio sviluppato di quello dell'età antecedente. Molti dei cinerarî ed altri vasi sono colorati con ocra e grafite a zone rosse e nere alternate (ved. Atl. cit., tav. X, 2), o hanno ornati geometrici a color bianco. Cominciansi a vedere in disegno e in plastica figure di animali e figure umane; l'imagine d'un cavallo è graffita su un frammento di vaso; un cavallino con cavaliere, di lavoro puerile, fu trovato nella tomba d'un bambino; forse era un giocattolo. Tra i fittili abbondano le fusaiole e i cilindretti. Insieme coi prodotti dell'industria ceramica locale sono frammisti esemplari di vasi dipinti greci ( lekythoi, kylices, specie di cantharoi ), probabilmente provenienti dal commercio con la vicina Adria: il che ci farebbe risalire a un periodo che tocca il V secolo a. C.; questi vasi certamente contribuirono a sviluppare l'industria locale, come sembra vedersi provato da certi vasi d'imitazione greca, riconoscibili per l'inferiorità dell'impasto, del lavoro e della colorazione, e che, collocati in uno strato posteriore a quello dei vasi genuini, accennano ad un momento intermedio, o ad un passaggio da questa terza ad una quarta età.

Antichità del Fondo Baratela presso Este (Padova).

(Dal tempio — Età gallica).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 61).

Tavola 22.

N. 1-5, 8-14, statuette in bronzo, la maggior parte con la base da inserire e fissare sui piedestalli. — 1-3, uomini con lancia e pàtera. — 2, guerriero con pugnale alla cintola. — 4, id., galeato e armato. — 7, cavallo in bronzo. — 9-11, donne. — 12, uomo galeato. — 13, Minerva galeata. — 14, donna, o meglio sacerdotessa con pàtera e vasetto ( oinochoe ). — 15, placchetta figurata in bronzo.

Un grande progresso si mostra anche nella lavorazione della copiosa suppellettile di bronzo. Oltre molti vasi con imitazione delle forme dei fittili, si incontrano anche ciste e situle, o vasi di bronzo destinati a contenere l'ossuario fittile. Sono fatti di lamina di bronzo ripiegata e insieme unita per rivolgimento dei margini con borchiette e chiodini. Intorno al corpo di queste situle vediamo svolgersi l'arte figurativa, perchè sono ornate non solo con semplici elementi geometrici, ma con vere rappresentazioni di figure animali ed umane, con lo sviluppo d'un concetto; le figure sono lavorate a sbalzo, o come dicesi, con stile empestico (ved.tav. 21 ).

Antichità del Fondo Baratela presso Este (Padova).

(Dal tempio — Età gallica).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 60).

Tavola 23.

N. 1, placchetta con donna. — 2, id. di rivestimento con guerrieri. — 3, guerriero galeato con scudo. — 4-6, 12, 13, 15, altre placchette id. lavorate a sbalzo. — 7, mano pesante di bronzo fuso. — 8, 10, placchette stampate. — 11, 17, stili iscritti. — 14, placchetta con iscrizioni scolpite (sillabario) in alfabeto detto nord-etrusco, o euganeo.

Fra le situle estensi va ricordata quella che dal possessore del fondo dove fu rinvenuta dicesi situla Benvenuti (ved.tav. 21, 1 e 11), ornata di tre zone di figure, con scene campestri e guerriere, e con serie di animali alati, che rammentano quelli dell'arte orientale e dei vasi corinzî. Un'altra situla ornata di zone animali è quella detta Capodaglio, ove sono cervi, colombelle, lepri seguentisi o affrontatisi, e che alle loro estremità, becco, coda, zampe, hanno per appendice dei cirri o ghirigori; in un lato di questa rappresentazione è aggiunta una figura umana vestita.

In questi primi saggi di disegno le figure animali già mostrano qualche vivezza e naturalezza di forme e di movimento, rivelando intelligenza della natura e sviluppo di disegno, mentre la riproduzione della figura umana è ancora rudimentale. Un medesimo modo d'ornamentazione s'incontra su piastre o placche di cinturoni, ora quadrangolari ora ovali; sopra cinturoni, o panziere di lamina di bronzo, con disegni d'augelli e fiorami a zone concentriche, così pure su guaine di bronzo di coltelli, delle quali una porta nel mezzo una figura di guerriero. Il progredire dell'arte nelle sue prime applicazioni all'industria appare manifesto anche negli altri oggetti d'ornamento, nelle armille terminate a testa di serpe, nelle grandi fibule con catenelle da cui pendono piccoli strumenti da toletta, nelle collane di tubetti di bronzo dorato, di chicchi d'ambra, di corallo e di pasta di vetro (ved. per alcuni oggetti Atl. cit., tav. XI ).

La situla lavorata a sbalzo di Watsch, nella Carniola, e frammenti d'altre situle. Tavola 24.

La figura centrale e quella superiore indicano la situla di Watsch; dei due frammenti a destra il superiore è da St. Marein (Carniola), l'inferiore e gli altri due a sinistra da Matrei (Tirolo). (Dallo Hoernes, Urgeschichte der bildenden Kunst in Europa, tav. XXXV).

Oltre che ad Este troviamo resti del Terzo Periodo a Caverzano, presso Belluno, ove esiste una vasta necropoli euganea con traccie della civiltà etrusca ed orientale[23].

Ma non tutto è paesano in questa età. — L'influenza straniera si dimostra coi vasi di tipo greco, e coi bronzi, i quali hanno analogie con bronzi etruschi del suolo bolognese, in tombe posteriori alle umbre. Notevole è che di tali bronzi, quali le ciste e le situle, si trovano esemplari nei paesi alpini e anche oltre le Alpi, in Val di Cembra, a Matrei, ad Hallstadt, a Moritzing presso Bolzano; a Watsch e a Sanct-Marein, nella Carniola; a Kuffarn, nella Stiria (ved.tav. 24 ); e si riguardano come monumenti della più antica arte italica, prodotti che dai centri industriali italici — e Felsina era tra questi — si spandevano nelle regioni settentrionali, seguendo forse quella via per cui dalle contrade nordiche era stata importata l'ambra in Italia[24].

Quarto Periodo. — Nelle tombe ascritte alla quarta età si vedono traccie d'occupazione celtica (ved.tav. 22 e specialmente23 ), armi di ferro, quali si trovano anche nell'agro felsineo, dove la dominazione etrusca fu dall'invasione celtica distrutta. Nelle tombe euganee si vedono poi, e sempre crescenti, le vestigia dell'occupazione romana. Coi Romani gli Euganei furono in contatto fino dall'anno 224 av. C., e a loro furono sottomessi quando nell'anno 184 av. C. si ebbe la dedizione dei Veneti a Roma. Nelle tombe euganee-romane s'incontrano monete d'Augusto, d'un tempo che sta fra l'anno 708 e il 742 di R. (45-11 av. C.); cosicchè si può concludere che il Quarto Periodo si estenda dal IV al I secolo av. Cristo.

Sepolcri con rito di cremazione, con vasi, frammenti di situle, con fibule, perle d'ambra e di vetro, od altri arredi od ornamenti affini alla suppellettile delle tombe euganee, si vengono scoprendo a Caverzano presso Belluno, dove dalle reliquie d'una vasta necropoli si rivela una civiltà analoga a quella delle tombe euganee del Terzo Periodo, con indizî d'attinenza con la civiltà etrusca e d'influenza dell'arte orientale[25]. Si confronti con la suppellettile di due tombe atestine illustrate nella tavolan. 20, pag. 58-59.

APPENDICE IV. Diffusione delle situle italiche di bronzo e di terracotta in Italia.

Dopo che il ch. Prosdocimi riconobbe quattro periodi archeologici in Este, in sèguito agli scavi fortunati in quella provincia (ved. Notizie degli Scavi, 1882), e il ch. Ghirardini ritrattò con studio più profondo ed esauriente l'argomento, riconoscendo nelle antichità di Este tre periodi principali: l'italico, il veneto e il gallico (ved. Notizie degli Scavi, 1888), lo stesso prof. Ghirardini trattò a parte l'argomento della situla italica primitiva, studiata specialmente in Este (ved. Monumenti antichi pubblicati per cura della R. Accademia dei Lincei, vol. II, 1894, col. 161 e segg., Iª parte; vol. VII, col. 1 e segg., IIª parte), trattando nella Iª parte Dell'origine e propagazione della situla in Italia, e nella IIª parte Della sua ornamentazione geometrica negli esemplari in bronzo, e negli esemplari di terracotta, aggiungendovi molte ricerche sull'ornamentazione a borchie (o imbullettatura) di bronzo dei vasi fittili (ved.tav. 25 ). Motivi ornamentali di vasi fittili atestini, ottenuti con le borchie di bronzo confitte nella loro terra ancor molle. Tavola 25.

Ved. Ghirardini, La situla italica primitiva studiata specialmente in Este in Monumenti antichi, vol. VII, tav. 2ª. Ved. testo a pag. 58 e 66. Cfr. pel medesimo uso nel Territorio Falisco: Barnabei in Monumenti Antichi vol. IV (1894), col. 229 e segg.

Incomincia il Ghirardini a dividere le situle dell'Italia Settentrionale in quattro gruppi:

1. Cispadano, o umbro etrusco (situle bolognesi).

2. Transpadano orientale, o veneto (situle atestine).

3. Transpadano occidentale, o ligure-celtico (situle di Golasecca e di Trezzo).

4. Alpino, o reto-illirico (situle del Trentino e del Tirolo, del Bellunese e del Cadore, di Gorizia e dell'Istria).

Studiate le situle più note dei varî gruppi, l'A. ricerca l'origine del nome, del tipo, dell'uso della situla. La situla è una vera secchia, a forma di tronco di cono capovolto; la sua tecnica è quella comune dei vasi di bronzo della prima età del ferro a lamine tirate col martello e riunite con chiodi. Sulle stesse situle si vedono altre situle tenute da persone ivi rappresentate, il che mostra che le rappresentazioni sono prese dalla vita del tempo in cui erano fabbricate (ved. vol. II dei Monumenti cit., col. 195-200, figg. 1, 2, 3, 4). Secondo il Ghirardini, l'invenzione di questo tipo di vasi è dovuta all'Oriente; ai Fenici si deve l'introduzione di esso in Italia. Se ne son trovati di simili fra quella serie di vasi che sono rappresentati nelle pitture murali della celebre tomba di Rekhmara, intendente di Thoutmes III (1591-1565 av. C.), e che rappresentano il tributo dei Kefa, cioè dei Fenici, ai Faraoni, specialmente in opere metalliche.

Studiata poi la situla particolarmente nei singoli centri sopraccennati, e diffusosi specialmente a parlare della situla in Este e della sua decorazione geometrica, il Ghirardini conclude che “nella Lombardia e nelle Alpi la situla è pervenuta, non v'ha dubbio, per un influsso esercitato dalla civiltà del tipo di Villanova e di Este, ma in ambedue le contrade si localizzò, e nella seconda massimamente trovò importantissime sedi di fabbricazione, siccome dimostra il grandissimo numero degli esemplari alpini registrati nella statistica„.

Fra i sepolcreti del gruppo alpino primeggia per lo straordinario numero delle tombe quello di S. Lucia, la cui esplorazione si deve al dott. Marchesetti: a S. Lucia si ebbe il maggior centro di produzione di questo genere di vasi dopo Bologna ed Este. Tanto nella Lombardia, quanto nelle Alpi le situle fungevano di consueto da vasi cinerarî; e in ambedue le regioni se ne fecero molte riproduzioni in terracotta, nello stesso modo che si fecero a Bologna e ad Este.

APPENDICE V. Elenco delle ciste a cordoni e delle situle istoriate e loro distribuzione geografica.

I. — CISTE A CORDONI.

Tolgo dagli studî del Reinach sulla Géographie des cistes à cordons (ved. Bertrand-Reinach, Les Celtes dans les vallées du Pô et du Danube. Parigi, Leroux, 1894, pag. 213 e segg.) le citazioni delle ciste a cordoni più importanti.

I. ITALIA:

Sesto Calende ( Biondelli, Di una tomba gallo-italica scoperta a Sesto Calende, in Memorie del R. Istituto Lombardo, X, 1867, tav. II, fig. 1 e 2).

Golasecca e Castelletto-Ticino ( Castelfranco, Notizie degli Scavi, 1886, pag. 113; cfr. anche Annali Istituto, 1880, pag. 242).

Caverzano, presso Belluno ( Annali, 1880, 242).

Este ( Scavi e scoperte nei poderi Nazari di Este di pag. 41; cfr. Archéol. celt. et gaul., 2ª ediz., pag. 309).

Rivoli, presso Verona ( Atti R. Istituto Veneto, VI serie, tom. III, tav. 24, 3).

Bologna, da varî sepolcreti (ved. Gozzadini in Monumenti antichi, II, pag. 170-173).

Castelvetro (Modenese; Annali, 1882, pag. 68).

Marzabotto ( Gozzadini, Ulteriori scoperte, tav. II).

Tolentino ( Annali, 1880, pag 241; 1881, pag. 219).

Vulci ( Annali, 1884, pag. 267).

Allifae (Sannio; Annali, 1884, pag. 267).

Cuma, presso Napoli ( Annali, 1880, tav. IV, 3; cfr. Verhandlung berl. Gesell. XIX, pag. 558).

Nocera ( Minervini, Bullett. Napolit., 1857, tav. III).

Altri esemplari di minor conto a Fraore (Parmigiano), Orvieto, Rugge presso Lecce, Taranto; cfr. Tröltsch, Fundstatistik der vorrömischen Metallzeit, e Ghirardini, op. e loc. cit..

II. SVIZZERA:

Grauholz (Cantone di Berna; ved. Bonstetten, Recueil d'antiq. suisses, Supplem., I, tav. XV).

III. AUSTRIA-UNGHERIA:

Byciskala, presso Blansko (Moravia; ved. Much, Atlas, tav. LXXV).

Hallstatt (Bassa Austria; ved. Tröltsch, cit., pag. 60; Sacken, Grabfeld v. Hallstatt, tav. XXII).

Kurd (centro di Tolna in Ungheria; Ungarische Revue, 1886, pag. 316; Mittheilungen di Vienna, 1886, pag. 48).

Frögg (Carniola; ved. Much, Atlas, tav. L, 4).

Santa Lucia, presso Tolmino (Istria; ved. Marchesetti, Scavi nella necropoli di Santa Lucia, 1893, tav. II).

Moritzing (Tirolo; ved. Tröltsch, Fundstatistik, pag. 60).

Aquileia (Istria; San Daniele (ibidem) in Mittheilungen di Vienna, 1886, pag. 49; Vermo (ibidem) nelle stesse Mittheilungen e nelle Verhandlungen der berl. Gesellschaft, XIX, pag. 547).

IV. GERMANIA:

Panstorf, presso Lubecca (Meclemburgo; ved. Congrés de Pesth., pag. 689).

Meyenburg (Brandeburgo; ved. in Verhandl. der berl. Ges., VI, pag. 162).

Suttum, presso Verden (Annover; ved. Lindenschmit, Alterthümer, II, 3, 5, 8; Annali, 1880, pag. 243).

Nienburg (Annover; Verhandl. cit., VI, pag. 141).

Mayence ( Lindenschmit, op. cit., II, 3, 5, 7).

Doerth (Prussia Renana; in Dictionnaire de la Gaule, art. Doerth ).

Belleremise (presso Ludwigsburg nel Wurtemberg; v. Tröltsch, Fundstatistik, pag. 60).

Hundersingen nel Wurtemberg (ved. Tröltsch, op. cit.).

Klein-Aspergle (presso Ludwigsburg nel Wurtemb.; v. Tröltsch, ibid.; Lindenschmit, op. cit., III, 12, 4, 3).

Uffing (Baviera; ved. Tröltsch, op. cit., pag. 61).

Fridolfing (Baviera; ved. Tröltsch, op. cit., pag 61).

V. BELGIO E OLANDA:

Eggenbilsen (Tongres; ved. in Revue archéolog., 1873, tav. XII, 4).

VI. FRANCIA:

Monceau-Laurent (Magny-Lambert; Costa d'Oro; ved. in Archéol. celt. et gaul., 2ª ediz., pag. 304).

Gommeville (Costa d'Oro; ved. in Archéol. citata).

Reuilly, presso Orleans (Loiret; ved. Boucher de Molandon e A. de Beaucorps, Le tumulus de Reuilly-Orléans, 1887).

Chaunoy (Comune di Subdroys Cher; ved. O. Roger e H. Ponroy, Ciste en bronze découverte en 1889 a Channoy, Bourges, 1890).

Dames (Comune di Saint-Éloy de Gy, presso Bourges, Cher; ved. op. cit. di Roger e Ponroy, pag. 10).

II. — SITULE ISTORIATE.

Le principali situle poste fra loro a confronto dallo Zannoni ( Scavi della Certosa, Bologna, 1876), dal Reinach ( Les Celtes dans les vallées du Pô et du Danube, Parigi, 1894), e dallo Hoernes ( Urgeschichte der bildenden Kunst in Europa von den Anfängen bis zum 500 vor Chr. Vienna, 1898) sono le seguenti in ordine di tempo del loro ritrovamento:

Klein-Glein (Stiria, 1844 (?); ved. Matériaux, XVIII, p. 307, fig. 182; Much, Atlas, XLII, fig. 2 e 3).

Matreï (Tirolo, 1845; ved. Revue Archéolog., 1883, II, tav. XXIII 3; Much, Atlas d. Centralcom., tav. XIV, n. 127, fig. 4).

Trezzo (Milanese, 1846; ved. Caimi, Bullett. d. Consulta archeol. di Milano, 1877).

Hallstatt (Norico, 1866; ved. Sacken, Hallstatt, tav. XXI, 1, p. 96).

Sesto Calende (Milanese, 1867; ved. Rev. arch., 1867, II, tav. XXI, 8).

Moritzing (Tirolo, 1868; ved. Mon. dell'Inst., 1874, vol. X, tav. VI; Annali, 1874, pag. 164; Much, op. cit., tav. LXVIII, 155; cfr. Mittheil. di Vienna, 1891, p. 84; Hoernes, op. cit., tav. XXXIV; cfr. Fr. R. Wieser, Die Bronze-Gefässe von Moritzing. Insbruch, 1891).

La Certosa (Bologna, 1876; ved. Zannoni, Scavi, tav. XXXV; Martha, L'art étrusque, fig. 84, 85; Mittheil. de la Soc. d'Anthrop., di Vienna, XIII, tav. XXI; Bull. Paletnol. ital., VI, tav. VI, 8; cfr. Hoernes, op. cit., tav. XXXII).

La Certosa (Bologna, Cista Arnoaldi; rinvenuta contemporaneamente alla grande cista Benvenuti, e alla cista più piccola Capodaglio in Este, 1879-80. Per la cista Arnoaldi, ved. Zannoni, Scavi della Certosa, tav. XXXV; Revue archéologique, 1885, II, tav. XXV: Matériaux, XIX. pag. 179. Per le situle di Este, ved. Notizie Scavi, 1882, 1888, e il lavoro speciale del Ghirardini nei Monumenti antichi pubblicati per cura della R. Accademia dei Lincei, vol. II, 1893 e vol. VII, 1897).

Watsch (Carniola 1882; ved. Tischler, Die Situla von Watsch in Correspond. Blatt d. deutschen Gesellschaft für anthrop. Ethnolog. u. Urgesch., XII, 1882; cfr. Orsi, La situla di Watsch, Modena, 1883. Gli altri lavori del Deschmann e dello Hochstetter sono citati nel mio studio sulla lamina in bronzo lavorata a sbalzo proveniente da Rovereto, Venezia, Nuovo Archivio Veneto, XIV, parte Iª, pag. 6-7. Cfr. Hoernes, op. cit., tav. XXXV).

Sanct-Marein (Carniola, 1883; ved. Rev. arch., 1883, II, tav. XXIII, 6; cfr. Much, Atlas der Centralcomm., tav. LIV, n. 127, fig. 6).

Caporetto (Istria, 1886; ved. Verhandl. berliner Gesellschaft für Anthropolog., XIX, pag. 548).

Kuffarn (Stiria, 1891; ved. Mittheilungen di Vienna, vol. XXI, pag. 68; Anthropologie, 1893, pag. 182; cfr. Karner, Hoernes, Szombathy, Über eine Bronzesitula bei Kuffarn in Niederösterreich. Estratto dalle Mittheilungen citate).

APPENDICE VI. La distribuzione dei periodi di civiltà nelle necropoli atestine.

(Ved.tav. 20-25 ).

Il Ghirardini nel lavoro citato a pag. 66, nota 1 ( Notizie Scavi, 1888) prende occasione dall'illustrazione della collezione Baratela di Este, da lui descritta, per riprendere in esame tutto il lavoro del Prosdocimi sull'argomento, e, aggiungendovi i fatti nuovi, venire a conclusioni più chiare ed esaurienti.

Riunendo il II e III periodo del Prosdocimi in un solo grande periodo, il secondo propriamente detto veneto o atestino, il Ghirardini distingue tutta la civiltà atestina in tre grandi periodi principali: 1. l' italico; 2. il veneto; 3. il gallico (opera citata, pag. 378-380).

L' italico è contrassegnato dalla civiltà di Villanova e dalle necropoli bolognesi dei fondi Benacci e De Luca; non v'è scrittura, non v'è metallotecnica sviluppata — la ceramica stessa è di forme alquanto rudimentali.

Il periodo veneto, il più importante, corrisponderebbe alla civiltà italica, quale si presenta alla Certosa di Bologna; vi appare la scrittura su stele, placchette, bastoni, oggetti, una scrittura dubbia, euganea, che si riconosce appartenente all'epigrafia greco-italica (ved. tav. 1-VI); si aggiunge un'altra novità, quella delle lamine figurate, che si rannodano con l'arte greca orientale. È particolarità del II periodo il tipo del vaso cinerario; all'urna di Villanova è sostituita la situla riprodotta in terracotta e con graziosa curvatura del vaso.

Nella ceramica si ha l'imitazione dei fittili dal bronzo, con decorazioni fatte per mezzo dell'imbullettatura, o applicazione sui fittili di borchie di bronzo (ved.tav. 25 ), ad imitazione dei bottoni a sbalzo dei vasi enei, e per mezzo della coloritura a zone rosse e nere alternate (ved. Montelius, La civilisation primitive en Italie. Atlante, tav. 58).

Questo periodo presenta anche progressi nella metallurgia, perchè la suppellettile ornamentale è accresciuta per mezzo delle fibule e delle armille, e inoltre si vedono cinturoni e situle figurate.

VII. — La civiltà e l'arte nell'Agro Chiusino e a Corneto-Tarquinia.

Nuove analogie con questa condizione di civiltà delle primitive popolazioni italiche ci richiamano ancora oltre Appennino, nella regione fra l'Arno e il Tevere, dove stirpi italiche, e, secondo la tradizione, propriamente le genti umbre, eransi stanziate numerose e prosperanti.

A Poggio Renzo, nell'agro di Chiusi, furono scoperte (1875) molte tombe, dette dalla loro forma tombe a pozzo. Sono fossette o pozzi allineati, scavati ad una profondità media d'un metro, e rivestiti internamente di ciottoli a secco. Ciascun pozzo conteneva un ossuario di bucchero o di argilla nera, ora liscio, ora ornato di disegni geometrici, graffiti a punta di stilo, con una sola ansa, o meglio mancanti d'una delle due anse per uno strano uso simbolico, osservato in queste e in altre tombe italiche, di deporre i cinerari dopo aver spezzato una delle anse. Gli ossuari lisci e rozzi sembrano proprî di tombe più antiche. Dentro l'ossuario erano oggetti di bronzo, cioè lastrine da ornamento (forse pettorali), fibule e catenelle, e lame ricurve (rasoi o novaculae ), il cui manico, pur di bronzo, è unito alla lama per mezzo di bullette, e non è con quella saldato, come invece incontrasi nelle tombe meno antiche. Non vi è oro nè argento, non ambra nè avorio; non disegno di figure viventi sui vasi, salvo in un solo caso, in cui sul coperchio di un ossuario sono rozzamente abbozzati due uomini abbracciantisi.

Corrispondono perfettamente a queste tombe a pozzo altre, che furono scoperte intorno allo stesso tempo a Sarteano[26], borgo presso Chiusi, con ossuarî identici, e con stoviglie accessorie di forma e di lavoro primitivo, salvo alcune, che da frammenti apparivano lavorate al tornio, colorate a striscie alterne, rosse e brunastre, come si vede nella necropoli atestina ed albana, sull'acropoli di Atene e nell'isola di Cipro. Insieme con l'ossuario erano rasoi col manico imbullettato, fibule e catenelle.

Altre tombe isolate e sparse nel territorio chiusino consistono d'un semplice orcio di terra cotta, toscanamente detto ziro, talvolta alto fino a due metri, deposto sotterra in buca[27]. Fra lo ziro e le pareti della buca erano residui di rogo; dentro allo ziro le ceneri del defunto, e frammistivi oggetti in maggior copia e di maggior fattura di quelli delle tombe a pozzo; fusaiole d'argilla o pesi da tessitore; rasoi col manico saldato alla lama, o con questa gittato di un sol pezzo; armi di bronzo, anelli d'oro, d'argento, di ferro, con pietre incise e scarabei; orecchini d'oro pallido ( elektron ). Vi si trovarono anche vasi cinerarî di bucchero, o terra nera, in forma di canòpo, cioè terminati da testa umana, che fa da coperchio, o sormontati da qualche statuetta rozzamente modellata. Lo ziro era coperto da lastra di pietra, sopra la quale stavano deposte stoviglie accessorie; la bocca della buca era chiusa da una seconda lastra.

Nuove tombe a pozzo vennero in luce recentemente negli scavi di Corneto-Tarquinia degli anni 1881 e 1882, in numero di ben più che trecento, delle quali però appena una terza parte erano intatte, le altre già state manomesse. Esse tengono del tipo di Poggio-Renzo e di Villanova, e delle arcaiche umbro-felsinee. Constano di pozzi rotondi, scavati verticalmente nella roccia di calcare; il pozzo, a circa due terzi di sua profondità, si restringe, ed ivi il masso è lavorato in maniera da cingere il buco con un margine circolare, formando un angusto pozzetto inferiore. Tali pozzi, che distano l'uno dall'altro circa mezzo metro, variano in profondità da m. 1.25 a 2.50. Nel fondo del pozzetto sta l'ossuario, la cui deposizione è di due modi: 1.º il vaso sta collocato nel fondo del pozzetto; sull'ossuario è una lastra di nenfro (pietra forte di natura vulcanica di Toscana), che posa sul margine circolare del restringimento, o pozzetto inferiore; 2.º l'ossuario sta raccolto dentro una cassetta di nenfro, di forma ora cilindrica ora quadrilunga, chiusa da coperchio concavo a foggia di calotta; intorno alla cassetta stanno ceneri e materiali del rogo. Questo modo sembra proprio delle tombe più ricche (ved. Atl. cit., tavole XII e XIII ).

Gli ossuari nell'uno e nell'altro modo di deposizione hanno una forma tipica costante, identica a quella degli ossuarî di Villanova, delle tombe arcaiche felsinee, e di Poggio-Renzo, cioè di due tronchi di cono congiunti per la base, che dànno forma panciuta al corpo del vaso, restringendosi verso la bocca e al piede. Hanno una sola ansa orizzontale, adattata alla parte più rigonfia. Sono di argilla grossolana rossastra, lavorati a mano, generalmente di due o tre zone di disegni geometrici, graffiti nella fresca argilla, o con impressioni di cerchietti. Le ciotole che fanno da coperchio sono pure ad un sol manico, ornate anch'esse di graffiti. Intorno all'ossuario s'accolgono varie stoviglie accessorie; e dentro l'ossuario sono oggetti d'ornamento, qualche fusaiola, fibule e catenelle. Queste tombe nella parte superiore sono coperte e chiuse con terra ammassata; esse sono tutte di cadaveri combusti; ma commescolati con le tombe a pozzo si trovarono anche alcuni cadaveri umati, o in fossa, o deposti dentro cassetta di nenfro.

La suppellettile funebre di queste tombe, composta, al solito, di fittili e di bronzi, in generale è scarsa; ma più abbondante e più ricca s'incontra quella dell'ossuario in cassetta di nenfro. Nel valore tecnico della suppellettile devesi distinguere la fattura grossolana e rozza dei fittili dal lavoro bello e finito dei bronzi, dal che potrebbesi argomentare che i fittili siano prodotti di un'industria locale, i bronzi invece siano importati da fabbriche d'un popolo più civile. I prodotti fittili sono gli ossuarî con le ciotole e le stoviglie accessorie, alcune a barchetta, altre composte di due o tre vasetti insieme riuniti da un sol manico, che talvolta ha rozza figura umana. Non mancano le fusaiole; v'hanno di terra cotta dei candelabri a foggia di tronco d'albero, con più rami, ma di rozza fattura; e, piccol saggio di plastica, un animaletto quadrupede d'argilla.

Notevoli sono parecchi esemplari d'ossuario a forma di capanna, simili alle urne-capanne della necropoli laziale (ved. Atl. cit., tav. XIV ), con le travature del tetto in rilievo, le cui estremità si incrociano, terminate a modo di becchetti, con linee ornamentali graffite, o tracciate a color bianco; un esemplare di tali urne ha traccia di decorazione a borchiette, sul tipo del secondo periodo atestino.

Di bronzo si hanno ossuarî della medesima forma di quelli d'argilla, ed anche altri vasi. Sono di lamina battuta a martello, ripiegata per sovrapposizione, non con saldatura ma con bullette, cioè con l'antica tecnica detta σφυρήλατον, e con ornamentazione risultante di punti e di linee lavorati a sbalzo ( au repoussé ). Di tal lavoro sono un gran vassoio, sostenuto da specie di tripode, una tazza di bronzo con manico, un vaso a foggia d'incensiere con catenelle, un cinturone, o panciera a bottoni rilevati con linee serpeggianti e circoletti: forse un ornamento militare. Abbondano fibule con dischi d'osso, braccialetti, tubetti da infilare a formar monili; s'incontrano rasoi lunati. Singolare è un animaletto di bronzo sostenuto da quattro ruote, analogo ad altro di terra cotta rinvenuto nella suppellettile atestina.

Fra gli arredi guerreschi notevoli sono parecchi elmi, alcuni a forma del berretto sacerdotale romano ( apex ), e due sormontati da crista, o cimiero ornato di bottoncini rilevati; spade di bronzo con elza lavorata, o con lama di ferro e guaina di bronzo ornata coi soliti disegni geometrici; morsi di cavallo, cuspidi e puntali di lancia.

Non manca, ma è rarissimo l'oro; dischetti di bronzo coperti di lamina d'oro si trovarono in una tomba con l'ossuario in cassetta di nenfro, ricca assai di ornamenti muliebri, ed ancòra in altra tomba, ma di cadavere umato, dove giaceva uno scheletrino, e che designasi col nome di tomba della bambina; in questa si trovarono pure dischetti d'ambra.

Importazioni di prodotti da lontani paesi, per via del commercio, oltre che dell'ambra, sono provate da alcuni idoletti egizî di smalto verde, con un foro da appenderli al collo a modo di amuleto, da scarabei di smalto con geroglifici, e da conchiglie del genere cypraea isabella, propria dei mari orientali[28].

VIII. — Conclusione sulla civiltà e sull'arte umbro-felsinea, e prisca latina.

Nelle stazioni sopra descritte si deve cercare il legame fra le civiltà preistorica e storica, essendovi analogie talora rilevanti fra le prime e le seconde forme di tombe e di ornamenti. I nuclei italici più antichi sarebbero rappresentati da Umbri, Osci, Latini, Sabelli, Sanniti, Marsi e altri popoli finitimi. — Se alcuni pretendono di far risalire ai Pelasgi la proprietà delle tombe di Villanova, per un trattato elementare, che non può contenere una discussione particolareggiata sull'argomento, è preferibile, finchè la questione è adhuc sub iudice, di chiamare questa civiltà ed arte complessiva, precedente a quella propriamente etrusca, civiltà ed arte prisca italica, non escludendo che gli Umbri, ultimi a raccogliere il patrimonio dei predecessori italici, si trovarono a contatto con gli Etruschi, che alla fine li soggiogarono.

Ora le analogie delle scoperte archeologiche al di qua e al di là dell'Appennino sembrano accennare a popoli di un medesimo grado di civiltà, i quali, nelle manifestazioni dei loro usi e nei prodotti delle loro industrie, fatta ragione delle variazioni locali, dimostrano una fondamentale affinità d'origine, cioè risalgono a un popolo italico primitivo, umbro nella regione felsinea e toscana, prisco latino nei dintorni di Roma e di Alba. Le affinità dei loro usi, della loro condizione di vita hanno la medesima ragione delle affinità delle loro lingue, umbra e latina, cioè la comune loro origine.

Appunto per questa comunanza d'origine certe affinità si estendono più largamente, cioè agli strati più antichi della necropoli atestina, e anche a località transalpine, dove furono popolazioni di stirpe indo-europea, con quel comun fondo di civiltà che le ricerche etnologiche e linguistiche mostrano proprio di quella stirpe.

IX. — Civiltà ed arte etrusca alla Certosa e a Marzabotto.

(Ved.tav. 26-29 ).

La dominazione umbra, estesasi al di qua e al di là dell'Appennino, viene combattuta e cacciata dentro più brevi confini dagli Etruschi, che nella valle dell'Arno e in quella del Po posero le loro sedi: e la dominazione etrusca a sua volta poi viene nella valle Padana distrutta dall'invasione dei Celti, che, stendendosi più giù fra l'Appennino e l'Adriatico, restringono dentro termini ancor più brevi l'occupazione degli Umbri, già tanto oppressi dagli Etruschi.

Del passaggio d'una in altra e della successione di queste dominazioni, chiare ed abbondanti traccie si conservarono nel territorio felsineo, e particolarmente alla Certosa di Bologna e nel vicino borgo di Marzabotto.

1. Antichità della Certosa. — Nella Certosa, sontuoso cimitero monumentale di Bologna moderna, a datare dall'anno 1869, incominciò una serie di scavi e di scoperte importantissime, che, sotto il terreno delle tombe moderne, svelarono l'esistenza d'una vasta necropoli antica.

Gli scavi alla Certosa e in terreni contermini, sapientemente condotti sotto la direzione del ch. ing. A. Zannoni, e i numerosi oggetti raccolti e da lui stesso illustrati, hanno sparso nuova luce non solo sulla storia antichissima di questa regione, sul passaggio della dominazione umbra all'etrusca, quando la città di Felsina era a capo della federazione padana, ma ancòra nel successivo passaggio della dominazione etrusca alla celtica, e di questa alla romana.

Le tombe della necropoli etrusca della Certosa sommano a ben quattrocento, e si distinguono in quattro gruppi principali, che sembrano disposti intorno ad una via suburbana, che dipartivasi da una porta della città. Le tombe contengono o cadaveri umati, o resti di cadaveri combusti; sono di semplice fossa rettangolare, o di fosse rivestite di ciottoli a secco, od anche di pozzi circolari pur rivestiti di ciottoli, o infine di fosse, che dovevan contenere una cassa di legno, come sembra provato da chiodi di ferro rinvenutivi. Ammonticchiati sopra le fosse erano ciottoli a strati orizzontali; molte poi avevano per segno esterno o grandi ciottoli di forma ovoidale, ovvero stele di pietra calcare a forma ovoidale, od anche a ferro di cavallo, alcune liscie, ed altre ornate di figure a rilievo, con rappresentazioni funebri. Probabilmente queste stele portavano dipinto anche il nome del defunto. Predomina il rito dell'umazione, essendo le tombe di scheletri incombusti in numero assai maggiore di quelle con residui combusti. Gli scheletri giacevano supini, coi piedi a levante, avendo a sinistra la suppellettile funebre; i residui della cremazione, raccolti in ossuarî fittili, in ciste o in situle di bronzo, giacevano deposti dentro la fossa, o pozzo con altre stoviglie ed oggetti (ved.tav. 26, 2).

Scavi della Certosa di Bologna.

(Periodo etrusco).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 101).

Tavola 26.

N. 1, parte della Certosa durante gli scavi. — 2, 4, 10, 11, tombe. — 3, chiodo votivo di ferro. — 5-9, stele in pietra di varia forma e grandezza.

L'abbondantissima suppellettile funeraria della Certosa si rivela innanzitutto come prodotto d'una industria e d'un'arte locale o nazionale, poi vi si aggiungono prodotti importati da un'arte forestiera, e infine appaiono i prodotti d'una fusione delle due attività, nazionale ed estera. In questi prodotti è rappresentata l'attività dell'etrusca Felsina per lo spazio di un secolo e mezzo.

La plastica è ancor bambina, ma perciò non meno importante. Vi sono stele sormontanti molte tombe, o in forma di grossa sfera posante su base parallelepipeda, i cui angoli sono ornati di teste d'ariete (ved.tav. 26 e28 ), o di grosse lastre di forma lenticulare o circolare, istoriate a bassorilievo con figure a zone sovrapposte, talora su una, talaltra su due faccie della lastra, offrendo rappresentazioni utili non solo per lo stile dell'arte, ma ancòra per il contenuto della rappresentazione stessa, che ci fa conoscere credenze e idee degli Etruschi sulle condizioni dei defunti nella vita futura. Mostrano queste stele uno stile arcaico, con figure di proporzioni tozze e con rigidi atteggiamenti. Fu raccolta in una di queste tombe la situla di bronzo istoriata, che, secondo il ch. prof. Brizio, si deve collocare tra gli oggetti metallotecnici degli Umbri[29].

Fra i molti bronzi primeggiano una cista cilindrica con ornati di fogliami ed ovoli graffiti, posante su tre peducci di figure animalesche; alcuni candelabri d'alto fusto sormontati da figure o di donna, o d'arciero, o di discobolo; vari specchi a forma di disco, ma nessuno ornato di rappresentazioni figurate. Si aggiungano a completare la ricca suppellettile funebre molte fibule, orecchini, anelli d'oro; unguentarî d'alabastro, di vetro smaltato, orientali; molti pezzi informi di bronzo ( aes rude ), o impressi con segni ( aes signatum )[30].

Nei fittili v'ha una copiosa serie di vasi di varie forme, senza ornamenti, d'argilla grigia o brunastra, raramente scritti, prodotti di fabbriche locali. Una serie pur abbondante v'ha di vasi greci dipinti a figure nere in campo rosso, a figure rosse in campo nero, con rappresentazioni mitiche, eroiche, familiari[31].

2. Antichità di Marzabotto. — Altri monumenti etruschi d'un periodo di tempo e di civiltà in parte prossimo a quello della Certosa sono a Marzabotto, borgata poco lungi da Bologna, presso il corso del Reno, sulla via che per gli Appennini conduce a Pistoia. Ivi, a cominciare dall'anno 1865, si scoprirono molte tombe, ricche di bella suppellettile, sebbene già anticamente frugate e manomesse[32].

Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna)

(Periodo etrusco).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, tav. 107).

Tavola 27.

N. 1, parte della città antica, via principale e quattro vie secondarie con le fondamenta delle case adiacenti. — 2, 4-7, tegole e frammenti di tegole di varia forma in terra cotta. — 3, capitello di colonnetta in terra cotta, con ornamenti. — 8, tubo in terra cotta. — 9-10, antefisse in terra cotta. — 11, forno da vasaio. — 12, spaccato di un muro con tubi d'argilla. — 13, pezzi di pietra calcare. — 14-15, piano e spaccato del tempio dell'acropoli nella città, e ruderi del medesimo. — 16, Puteal ornato di terra cotta, che circonda l'apertura di un pozzo.

Le tombe sono di varie forme:

1.º Pozzi sepolcrali, scavati perpendicolarmente, di varia profondità, rivestiti di ciottoli a secco, salvo il fondo, che è scavato nel terreno (ved. Atl. cit., tav. XV ); sono analoghi, quantunque maggiori, ai pozzi sepolcrali di Villanova, con gli scheletri ritti o rattrappiti, sopra i quali stavano ammucchiati ciottoli, e, insieme a tutto questo, vasi d'argilla e di bronzo, grandi urne fittili, poste nel fondo, oggetti di bronzo, cocci di vasi e di tegole, quantità d'ossa di animali.

2.º Tombe a cassa quadrilunga di quattro o di sei lastre di tufo calcare, sormontate e chiuse da lastre piane, o a doppio piovente, come una casa, o con due massi sovrapposti e di grandezza decrescente, formanti base di due gradini ad un sasso sferico, ad un tronco di colonna, o ad una stele con membrature architettoniche e anche con rilievi, certamente appartenenti a persone ricche. Questi erano segni esteriori per indicazione della tomba; dentro erano scheletri, o dolî fittili con ossa combuste.

A nessuno sarà sfuggito lo sviluppo architettonico e l'arte progredita di Marzabotto. I monumenti sepolcrali hanno basi, cimase, listelli, veri elementi architettonici; antefisse di terra cotta figurate, ed embrici dipinte a meandri, scacchi, palmette (ved.tav. 27 ).

Oltre le dette antefisse con volti umani, si ha una base di stele con testa di montone a ciascuno dei quattro angoli, ed un'intera stele con ornato di palmette e con bassorilievo di figura di donna veduta di profilo, vestita di lunga tunica, in atto di far libazione; forse il ritratto della defunta con tutti i caratteri dell'arte arcaica (ved.tav. 28 ).

Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna).

(Periodo etrusco).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, n. 108).

Tavola 28.

N. 1-2, spaccati di pozzi circolari, rivestiti di ciottoli a secco, con base conica nel tufo, senza rivestimento. — 3, sommità di una stele marmorea, in forma di pigna di marmo. — 4, id. con base quadrata ornata di bassirilievi figurati (teste di arieti). — 5, stele piatta in pietra con figura umana in bassorilievo. — 6, fascia ornamentale della pigna n. 3. — 7-10, tomba in pietra di varia forma e grandezza, i nn. 7 e 9 in forma di casa.

Fra i prodotti dell'arte ceramica s'incontrano ancòra le fusaiole, o quei cilindretti a doppia testa ricordati nelle terramare e in Villanova; ma vengono a mancare i vasi rozzi ad ornamentazione geometrica, per essere sostituiti da vasi di tipo greco, figurati e dipinti. Singolarmente importante è un frammento di vaso con la scritta..... κρυλιον ἐποίες...., in caratteri arcaici; l'inscrizione fu dal Boeckh completata col nome di Κακρύλιον, figulinaio e pittore, ricordato in vasi etruschi, e vivente nella prima metà del V secolo av. C.[33].

Fra i bronzi abbondano le fibule, molte dei tipi medesimi di Villanova, molte altre di forme più eleganti. In buon numero vi sono aghi crinali, anelli, ciondoli, stili da scrivere, chiavi. S'incontrano pure specchi di bronzo a forma di disco manubriato, i quali però, come quelli già ricordati della Certosa, non hanno sulla lamina speculare nessuna figura incisa, ma sono lisci, con qualche fregio ornamentale solo nel contorno estremo. Notevoli alcune situle o secchielli, e alcune ciste a cordoni, del tipo già ricordato nelle tombe umbro-felsinee, cioè cofanetti o scatole cilindriche di lamina di bronzo col corpo segnato da più striscie o cordoni rilevati, oggetti che, dopo essere stati forse cofanetti di toletta, vennero usati per raccogliere le ceneri dei defunti.

Di tali ciste molti esemplari si trovarono nei dintorni di Felsina, in varie e opposte regioni d'Italia, presso il Lago Maggiore, a Belluno, ad Este, nel Modenese, nel Parmense, a Tolentino, a Cuma, a Nocera ed anche oltre le Alpi in Austria, Francia e Belgio. Da archeologi italiani, quali il Cavedoni, Conestabile, Gozzadini, le ciste a cordoni furono considerate come proprî prodotti di fabbriche etrusche circumpadane. Archeologi stranieri, quali Genthe, Lindenschmit, Wirchow le fanno opere etrusche in genere. Alcuni altri le riconoscono come prodotti di origine e d'importazione celtica. Contro queste opinioni, lo Helbig suppone le ciste, e con esse anche altri bronzi arcaici, opera invece della metallotecnica greca, delle colonie calcidesi stanziate in Campania, opere che per il commercio si diffusero in Italia ed in Europa; fondandosi per questo sul ritrovamento di una cista e di altri bronzi arcaici in una tomba greca di Cuma. Da siffatte ciste primitive poi, secondo il Conze, sarebbesi sviluppato il tipo delle ben note ciste prenestine, di cui parleremo[34].

Molte statuette di divinità, forse di Dei Lari, si rinvennero a Marzabotto fin dall'anno 1839, di stile arcaico, tanto negli occhi sporgenti, nel tipico sorriso delle labbra, nei piedi interi e rigidi al suolo, quanto nelle pieghe degli abiti diritte e parallele fra loro.

Ma non mancano oggetti artistici di stile non arcaico, come, p. es., una piccola testa di bue; un piccolo gruppo di guerriero con donna, vestita di lunga tunica e di peplo (forse Marte e Venere), bellissimo per la composizione, per l'atteggiamento, per la trattazione del nudo e per una certa dolce espressione dei volti. Imitazione dal vero appare in una figuretta ignuda d'un Etiope, che reca sulla spalla sinistra un'anfora (ved.tav. 29, 6-9); bella modellazione in una piccola gamba, forse un dono votivo, ben proporzionata e riuscita nelle sue parti.

Non parliamo poi di ornamenti di metallo prezioso, fibule d'oro e d'argento, oggetti d'oro laminato e lavorato a filigrana, fra cui una collana di sedici grani d'oro, e un paio di pendagli d'oro a fogliette e fiorellini, di finissima lavorazione; nonchè molti anelli lisci o con pietre incastonate. Si aggiungano i soliti pezzi d'ambra lavorati a figurette, paste di vetro colorate, conterie, ecc.; segno del commercio attivo anche con l'estero.

Scavi di Marzabotto (Provincia di Bologna).

(Periodo etrusco).

(Ved. MONTELIUS, Op. cit., Atl. B, 110).

Tavola 29.

N. 1, statuetta virile in piombo. — 2, id. in bronzo. — 3, placchetta in bronzo a rilievo (Ercole che combatte Cycnos). — 4-5, statuette femminili in bronzo. — 6-7, gruppo di due statuette (verosimilmente Marte e Venere). — 8, particolare della testa galeata dei nn. 6 e 7. — 9, statuetta in bronzo rappresentante un etiope nudo, portatore d'anfora.

X. — Osservazioni generali intorno allo stile italico.

Se i monumenti della Certosa, insieme con quelli di Marzabotto, sono indubbiamente etruschi, essi rivelano però una civiltà meno ricca e meno sviluppata di quella dell'Etruria propria, o, a dire più esattamente, una civiltà che non potè conseguire lo sviluppo suo pieno come nell'Etruria al di là dell'Appennino, per esser stata arrestata o tronca a mezzo dall'invasione e dal dominio gallico; questo fatto, e insieme con esso certi altri elementi, quali i vasi dipinti e i caratteri del loro stile, sono argomento a determinare che i monumenti etrusco-felsinei possono avanzarsi fino al V e al principio del IV secolo av. C.. Questi monumenti, e specialmente le stele e i bronzi, sono le testimonianze dell'antichissima arte etrusca, o meglio dicasi arte italica, in quanto che gli Etruschi meglio che sviluppare un'indole propria, forse presero ad esercitare un'industria ed un'arte già in svolgimento presso i popoli italici, in mezzo ai quali poi si stabilirono; arte ch'essi più tardi portarono a matura perfezione, ma non per isvolgimento di proprie ed intime forze, bensì per effetto di straniere influenze, e più propriamente di influenze greche.

I più antichi gradi di sviluppo di quest'industria italica, da cui l'arte poi nasce, si possono seguire con lo studio degli oggetti delle terremare per l'età del bronzo; con quello dei primi strati delle necropoli umbro-felsinee, laziali ed euganee, nelle tombe di Poggio Renzo, Sarteano e Villanova, e con lo studio delle arcaiche Cornetane per la più antica età del ferro; infine con quello della Certosa e di Marzabotto per l'età che deve dirsi propriamente storica; onde è in questi punti che il nesso fra l'età preistorica e la storica classica può essere cercato e studiato. Nè a questo punto s'arrestano i documenti dell'antichissima storia della regione felsinea, giacchè ai monumenti della civiltà etrusca seguono le tombe dei Galli Boi, che in quella regione posero loro stanza, ed infine, come conclusione dei rivolgimenti etnici e storici di questa parte d'Italia nell'evo antico, sopra si stendono le reliquie della dominazione romana.

In quegli antichi monumenti, che finora siamo venuti descrivendo, si possono studiare i rudimenti dell'arte, cioè i principî del disegno e i primi inizî dello stile. Parlando delle terremare, s'è detto che i vasi portano i primi indizî di disegno con linee graffite o impresse; poi più volte si è ricordata la ornamentazione geometrica degli oggetti delle arcaiche necropoli, in cui quei primitivi segni grafici si compongono in un sistema decorativo regolare, con combinazioni di linee, di punti, di circoli, di meandri, di croci gammate, di spirali, ossia di elementi geometrici, a cui si frammescolano figure di uccelli acquatici e di serpentelli. Questi elementi ornamentali non sono proprî soltanto dei fittili e dei bronzi italici; essi corrispondono all'ornamentazione di vasi antichissimi greci trovati a Melos, Thera, Camiros, Atene, Micene, i quali si ascrivono ad un primitivo periodo greco, anteriore a quello dell'industria che già sente l'influenza dell'arte orientale (ved. vol. I, pag. 13 ); e si riscontrano anche in oggetti del centro d'Europa, trovati nella Stiria, nella Carinzia, nella Boemia, e più a settentrione fino nella Scandinavia. Ora questa conformità, ed anzi comunione di sistema di elementi geometrici decorativi è lo sviluppo d'un principio originario comune a varî popoli di una medesima stirpe; è il primo germe del disegno già posseduto dalle stirpi indo-europee od arie.

I popoli presso i quali quelle analogie e conformità s'incontrano sono geograficamente disgiunti, ma etnograficamente affini ed uniti; come essi hanno in comune gli elementi costitutivi della lingua, delle istituzioni sociali, così hanno pure in comune gli elementi e gli intuiti dell'arte, o almeno il sentimento artistico. Gli studi intorno alla civiltà ariana a cui appartiene il gruppo italo-greco, nel tempo che, per immigrazione, dall'Oriente diramaronsi nell'Europa, portano a stabilire che già fossero conosciute le arti tessili, l'industria ceramica e la fusoria dei metalli. Sarebbe appunto nelle arti tessili da cercare la prima manifestazione del disegno, la prima applicazione d'un concetto ornamentale, che poi si trasportò alla ceramica ed alla metallotecnica, producendo quello stile, che dal Conze è detto tessile-empestico[35]. Si concluderebbe adunque che di quelle analogie delle prime forme ornamentali, ossia degli elementi dell'arte, così largamente diffuse in Europa, la spiegazione sia nella comune origine dei popoli arii, e nel propagamento di una loro primitiva coltura industriale ed artistica identica nel concetto e nella forma. I monumenti in cui si addimostra l'arte in questo periodo potrebbero chiamarsi arii, o con più comune denominazione pelasgici, se si vuole determinare più propriamente i monumenti simili di Grecia e d'Italia, da attribuire a quel popolo pelasgico, che la tradizione mostra diffuso nell'una e nell'altra penisola, e che probabilmente è un nome complessivo dato alle immigrazioni italo-greche.

Vi sarebbe adunque un periodo primitivo, rudimentale dell'arte italica, che si stende nell'età del bronzo e che è, se vuolsi cercare una determinazione cronologica, anteriore forse all'XI secolo av. C.; al quale periodo succede poi quello di un'arte di maggiore sviluppo, quando il disegno di semplice decorazione geometrica dà luogo alle forme vegetali, animali ed umane, con mescolanza di elementi e d'influenze orientali; in questo periodo appunto sorgono gli albori dell'arte etrusca.

Si avrebbero così nell'arte italica, come nella greca, due distinti periodi:

I. — Il periodo dell'arte italica primitiva, derivata dallo sviluppo di concetti comuni a popoli di stirpe aria, che può dirsi periodo di arte pelasgica, cioè, secondo il Conestabile, di arte preetrusca. Lo stile tessile-empestico di questo periodo si estese in Italia e in altre parti dell'Europa, ma, mentre in Italia scompare nel successivo sviluppo dell'arte, nelle regioni europee settentrionali, chiuse in sè e lungi da contatti coi popoli civili, si continuò fino ai tempi del cristianesimo.

II. — Il periodo dello stile orientalizzante, che alla semplice decorazione geometrica sostituisce un'ornamentazione di tipo asiatico, con elementi vegetali, figure animali di lioni, pantere, sfingi. È questo lo stile che si manifesta per influenza dei commerci orientali, per importazione di prodotti assiri, egizî, specialmente mediante il commercio dei Fenici; questo stile orientalizzante nell'epica greca serve di base alla descrizione di oggetti d'arte figurata; ed è il periodo iniziale dell'arte etrusca.

In questa distinzione di due periodi sembra non cader dubbio; ma invece s'incontra dissenso d'opinioni nella spiegazione del primo periodo.

Che i popoli di stirpe aria al tempo di loro immigrazione verso occidente possedessero in comune le arti tessili e la fusoria, e con esse i primi elementi di disegno, non tutti riconoscono[36]. Quel primo periodo, determinato dallo stile tessile-empestico, è bensì proprio degli Italo-greci, ma anch'esso presenta accenni d'importazione orientale[37] nei prodotti delle industrie asiatiche; in Italia vedesi predominare in oggetti raccolti con altri oggetti propriamente orientali, conchiglie come la cypraea isabella del Mar Indico, e scarabei incisi. Si vorrebbe adunque concludere da qualche dotto che i due primi periodi siano tutti d'origine orientale; mentre altri, abbandonando il concetto di uno stile delle stirpi indo-europee, ravviserebbero nel tessile empestico la maniera d'ogni gente nel primo stadio d'uno sviluppo artistico, specialmente in Europa, nella gran massa della popolazione indoeuropea[38].

A questo primo periodo succede il secondo, che concordemente è riconosciuto d'influenza orientale.

In ogni modo, qualunque sia la pertinenza etnografica del primo periodo artistico dei popoli italici, siccome l'arte si svolge spesso intorno ai sepolcri ed ai riti relativi di umazione e di cremazione, studieremo brevemente qualche particolare intorno a questo argomento del rito funebre.

Nell'età della pietra fu usata dai cavernicoli la sola umazione dei cadaveri; ma, al passaggio nell'età del bronzo, subentrò e si fece generale l'uso della cremazione durante anche l'età del ferro, che già si rivela presso gli abitanti delle palafitte e delle terremare del Veronese, del Mantovano, del Modenese e del Bolognese.

Le tombe quivi consistono di rozzi vasi di terracotta, disposti a fianco gli uni degli altri, con entro ceneri ed ossa combuste. Contemporaneamente, però, durano in altre tombe traccie di umazione. Si deve dunque supporre che le popolazioni immigrate dall'Oriente in Europa, e quindi con esse quelle genti italiche che prime vennero dal Nord ad occupare la penisola, avessero il rito della cremazione in comune con quelle genti affini, di stirpe aria, che stettero nell'Asia ed occuparono la penisola dell'Indostan, cioè gli Arii-indiani, ai quali l'incenerimento fu sempre il modo preferito di sepoltura; modo naturale per pastori erranti e guerrieri conquistatori, ai quali era così permesso di portar seco le reliquie dei padri. E di questo darebbe conferma la linguistica[39].

Il rito della cremazione è, del resto, quasi esclusivo nelle tombe laziali, nelle arcaiche felsinee (dei predî Benacci), nelle euganee, in quelle di Villanova, nelle tombe a pozzo di Poggio-Renzo, di Sarteano, di Corneto-Tarquinia, nei quali luoghi tutti, se pur s'incontrano cadaveri umati, essi sono in minima e veramente insignificante proporzione in rispetto a quelli combusti[40].

Nella più avanzata età del ferro, invece, che è l'età etrusca, i due riti si trovano coesistenti e usati promiscuamente, ma forse con qualche prevalenza dell'umazione, almeno per le tombe etrusche-felsinee, dove due terzi dei sepolcri contengono scheletri, ed un terzo residui combusti. Questa commescolanza di riti vedesi anche nelle tombe dell'Etruria propria nei periodi seguenti.

Mentre, però, le scoperte mostrano il rito della cremazione come proprio dei più antichi stanziamenti italici, la tradizione mostrerebbe invece che, almeno nel Lazio e in Roma, l'uso primitivo fosse dell'umazione, a cui solo posteriormente seguì, facendosi generale, quello della cremazione[41].

Virgilio accenna adunque all'esistenza d'un periodo di sistema misto, il quale appare anche dalla tradizione dei primi tempi di Roma. Secondo Plutarco, il re Numa fu sotterrato presso il Gianicolo, avendo egli stesso proibito d'essere arso; e questo implica che già allora, nel primo cinquantennio di Roma, la cremazione fosse in uso, secondo è confermato anche dalla notizia di Plinio ( h. n., XIV, 14), che lo stesso re Numa avesse proibito lo spargere il vino sui roghi, e dalla citazione della legge delle XII tavole (tab. X, hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito ), che ammette la contemporaneità dei due riti.

Siccome però le memorie della tradizione non risalgono al più lontano periodo, ma arrivano all'età etrusca, che è il principio dell'età storica, quando è in uso la promiscuità presentata da Virgilio, e implicita nelle tradizioni riferite da Cicerone, da Plinio e da Plutarco, non si può inferirne contraddizione fra questa tradizione storica e le scoperte archeologiche, che, in questo modo, ci dànno il rito antichissimo preesistente, la cremazione, a cui si svolge collaterale, forse per distinzione di usi d'altre genti, la umazione[42].

Ma, se lo studio dei prodotti delle industrie e degli oggetti, la maggior parte del rito funebre, rinvenuti negli scavi, ci dà notizia delle stirpi e dei costumi dei popoli preistorici del periodo arcaico, però nulla ancòra ci dà l'indirizzo e l'intuito dell'arte di quel periodo, o per lo meno del senso estetico nell'arte dei nostri antenati. E per ciò è più profittevole lo studio delle costruzioni architettoniche. Se non che questo ci implica in un'altra grossa questione ancòra discussa, quella dei monumenti pelasgici, poichè con questo nome si designano le costruzioni più antiche degli Italici, quelle anteriori ad ogni influenza orientale.

Monumenti designati col nome di pelasgici, o attribuiti ai Pelasgi, si hanno ancòra in più luoghi d'Italia.

Chi sono questi Pelasgi? In un luogo di Dionigi D'Alicarnasso (I, 13) abbiamo conservata la tradizione di un antico storico greco, Ferecide, secondo il quale i Pelasgi sarebbero genti venute di Grecia in Italia, in quella parte estrema della penisola dov'era l'Enotria; e poi, in altro passo (I, 28), troviamo la tradizione d'altro storico, Ellanico, secondo il quale i Pelasgi dalla Tessaglia passarono in Epiro, e di qui, attraversando l'Adriatico, approdarono a Spina, presso le foci del Po, da dove poi si distesero verso il centro e verso il mezzodì d'Italia, fin oltre il Tevere, nel territorio di Rieti; guerreggiarono coi Siculi e cogli Umbri, e, fusi coi Tirreni, fondarono città, e si dissero Pelasgi Tirreni. Tale è pur la tradizione di Plinio ( h. n., III, 8, cfr. anche Dionisio, I, 17). I Pelasgi, poi, per cause soprannaturali, per ira divina (cioè per isconvolgimenti e fenomeni tellurici), perirono, e scomparvero senza lasciar traccia di sè, senza nemmeno lasciar col loro nome designata una regione alcuna.

Questi popoli, ai quali vorrebbesi connettere le colonie di Evandro Arcade e di Ercole Argivo, stanziate dove poi fu Roma, apparirebbero, secondo la tradizione, ampiamente distesi in Italia intorno al XV secolo av. C. Ma questo popolo che, dopo esser stato tanto diffuso in Italia, scompare al tutto, esistette realmente, ha esso un vero valore storico? O piuttosto non è esso (come ormai si ammette per i Pelasgi di Grecia), altro che una complessiva designazione data ai più antichi, ai primi immigrati nella penisola italica? Essi sarebbero “gli antichi, i vecchi„, secondo una delle meno improbabili etimologie dello stesso nome greco Πελασγοί (cioè οί πάρος γεγαῶτες, prisci, da un tema che è in παλαιός; etimologia che troverebbe riscontro in quella del nome Greci, Γραϊκοί, da γεραιός, γραῖος, che pur direbbe “gli antichi„). Questi Pelasgi sarebbero forse prodotti dalla supposizione d'un tal popolo primitivo da parte dei primi storici e logografi, per spiegarsi le molte affinità greco-italiche.

I monumenti così detti Pelasgici sono gigantesche e rozze mura, appartenenti a città scomparse, o fortificazioni, o recinti sacri eretti sulle alture; costruzioni di grandi massi di pietre a poligoni irregolari, senza lavoro di scalpello, connessi senza opera di cemento, ma per sola sovrapposizione; opere di gigantesca semplicità e di solidità portentosa, che trovano analogia in numerose costruzioni di Grecia e delle isole, di luoghi dell'Asia Minore, e perfin della Spagna, e che, appunto per conformità alle greche costruzioni, che presentano quei caratteri di struttura, si denominano anche ciclopiche (ved. Atlante di arte greca. Milano, Hoepli, tav. I ).

Sorgono esse in Italia nel paese degli Aborigeni e dei Casci, cioè nella Sabina, nelle regioni degli Ernici e dei Volsci, avanzandosi a settentrione fino a Cortona, e a mezzodì fino al paese dei Marsi, alla Campania ed al Sannio. Esse sono opera degli Italici primitivi; e assai probabilmente furono i luoghi di riunione, sia per il culto della divinità sia per la difesa, che in comune avevano gli abitanti di parecchi villaggi, o cantoni sparsi nel dintorno; erano le cittadelle ( arces ), centro di riunione di genti sparse in singole stazioni della regione circostante. Grandi vestigia di questi recinti si trovano ancòra presso Rieti, sul Promontorio Circello, a Terracina, a Fondi, a Setia, ad Atina dei Volsci, ad Arpino, dov'è una cinta murale di acropoli con indizî di grossolane sagomature; ancor più grandi sono le mura di Alatri negli Ernici, dove sono traccie di rozzi bassirilievi; a Ferentino, che ha mura con due porte; a Signa, che pure ha porta con stipiti inclinati sormontati da architrave monolitico (cfr. la porta di Micene); a Cora, a Norba, a Tuscolo, ad Alba Fucense, a Spoleto, a Cortona. Non mancano vestigia di tali mura in Sicilia, dove la favola dice che Dedalo, venutovi fuggendo da Creta, fu architetto di opere colossali[43].

APPENDICE VII. Della decorazione geometrica, degli altri motivi e delle varie tecniche artistiche importate in Italia nel periodo proto-italico.

Si possono ridurre a tre le varie opinioni sull'origine della decorazione geometrica e sulla sua diffusione in Italia nella civiltà italica:

1.ª La decorazione geometrica è un trovato proprio delle stirpi ariane, che ne portarono i germi nella loro emigrazione in Europa, e li svilupparono poi nelle rispettive sedi. La tesi è sostenuta dal Semper nel suo lavoro Der Stil, dal Conze nel suo Zur Geschichte der Anfänge griech. Kunst, e dal Conestabile nella dissertazione: Sopra due dischi di bronzo antico italici del Museo di Perugia, già altrove citata.

Quest'opinione è insostenibile, essendo la decorazione geometrica estranea precisamente al periodo più arcaico della civiltà italica indigena.

2.ª La decorazione geometrica, sorta e sviluppatasi in Grecia, fu poi di là trasportata in Italia. La tesi è rappresentata dal Rayet ( Histoire de la céramique grecque ), dal Loeschcke e dal Furtwängler ( Mykenische Vasen ), dal Böhlau ( Zur Ornamentik der Villanova Periode ), nonchè recentemente dal Collignon nella sua bella Histoire de la sculpture grecque. Il Martha nella sua Art etrusque, e lo stesso Böhlau citato cercano poi di dimostrare la diffusione in Italia di questa decorazione greca, e ciò che noi riferiamo a tal genere di decorazione possiamo estenderlo in genere a tutte le opere d'arte del periodo italico, riconosciute come indigene. Quest'opinione, però, per la decorazione geometrica non è accettata dal ch. profess. Ghirardini ( Monumenti antichi, VII, col. 62-63 e segg.), perchè nell'Etruria Marittima, ove si trovano i primi saggi della decorazione geometrica, manca qualsiasi prodotto di suppellettile, cui si possa attribuire origine greca, cosa provata anche dallo Helbig, che dimostra impossibile l'ammettere rapporti dei Greci con l'Italia nell'età delle tombe a pozzo tarquiniesi, ove sono pure bronzi lavorati a sbalzo e fittili con ornati geometrici, mentre vi appaiono chiari gli indizî del commercio fenicio.

3.ª Esclusa l'opinione di una provenienza greca della decorazione geometrica, rimane l'altra che questa sia sorta tanto in Grecia, quanto in Italia per efficacia dell'arte e dell'industria orientale, come dimostrano lo Helbig negli Annali (1875), e nel Das Homerische Epos, 2ª ediz., nonchè il Dumont e il Chaplain ( Les céramiques de la Grèce propre ), il Pigorini ( Bull. di paletn. ital., XIII, 1887), lo Gsell nei suoi Fouilles dans la nécropole de Vulci, e il Ghirardini che l'accetta, fatte le debite restrizioni, per gli oggetti di lamina battuta e per altri prodotti dell'arte e dell'industria, poichè si trovano indubbiamente insieme con oggetti d'origine orientale importati dai Fenici.

Rimane la questione intorno al passaggio seguìto dall'arte orientale per venire in Italia. L'ipotesi dello Helbig ( Das homerische Epos, 2ª ediz., pag. 83), propugnata anche dallo Schumacher (nel suo lavoro Eine praenestinische Cista im Museum zu Karlsruhe ), di relazioni fra l'Italia e la Penisola Balcanica per via di terra attorno al Golfo dell'Istria, per spiegare la presenza nella civiltà italica della prima età del ferro di certi tipi d'utensili corrispondenti ad esemplari scoperti in Grecia, non è pienamente condivisa dal Ghirardini ( Monumenti ant., vol. II, col. 225 e segg.). Poichè questi, trovando che, quanto più dal centro d'Italia si sale al settentrione e nelle regioni alpine e austriache, dove, per es., la situla istoriata e la cista sono diffuse, tanto più tardi si presentano le situle e le ciste del tempo in cui appaiono nei più arcaici cimiteri bolognesi, conclude di dover ammettere un viaggio dal Sud al Nord, non dal Nord al Sud, e che la situla e la cista, giunte nel gruppo bolognese di Villanova dall'Etruria Marittima, si siano diffuse poi nella vallata del Po e nel paese dei Veneti e degli Illirici in un periodo più tardo delle necropoli bolognesi, e quando si era già svolta nelle regioni settentrionali la prima civiltà italica.

Questo è confermato dal Ghirardini col fatto che “abbondano nella zona austriaca gli esemplari delle situle figurate, appartenenti ad un tempo in cui si era svolta questa maniera di decorazione, che nel fiorire della pura civiltà di Villanova è sempre ignota„ (op. cit., col. 227-228). Il primo grande centro di produzione delle situle fu Bologna, il secondo Este, il terzo più specialmente Santa Lucia nell'Istria.

Il Ghirardini però non vuole assolutamente escludere la possibilità di un primitivo contatto per via di terra fra Greci e Italici nel periodo anteriore al definitivo stabilirsi d'entrambi i popoli nelle loro sedi rispettive, ma, per lo meno per la propagazione della situla, egli non crede finora di poter ammettere questa opinione, che forse per altri oggetti in parte non è del tutto da escludere, o per lo meno non è da tener collaterale e contemporanea alle altre, che sostengono le relazioni fra i popoli per via di mare.

APPENDICE VIII. Osservazioni intorno ai Pelasgi e ai loro monumenti.

Recentemente si riaccese la disputa sulla provenienza e sulla diffusione dell'elemento pelasgico nell'Italia preistorica e protostorica, e si interessò vivamente il Ministero dell'Istruzione perchè si facessero ricerche e si stabilissero scavi sistematici nelle regioni che dai ruderi rimasti si arguisse fossero occupate dai Pelasgi.

Il ch. Brizio, nel suo riassunto etnografico intorno ai popoli dell'Italia antichissima, intitolato Epoca preistorica della Storia d'Italia (edita dal Vallardi, p. IV), sobriamente così riassume il risultato delle indagini intorno ai Pelasgi:

“Opere architettoniche, le quali presentano taluni punti di contatto con quelle etrusche, ma serbano una impronta anche più arcaica, sono le mura poligonali esistenti nelle parti montuose e meridionali del Lazio, occupate poscia dalle forti popolazioni degli Ernici e dei Volsci.

“Una tradizione antica le attribuiva ai Pelasgi d'Italia, respingendone la costruzione ad un millennio circa avanti Cristo. Alcuni critici moderni, rifiutando un'antichità così veneranda, le giudicarono posteriori, e di più secoli, alla fondazione di Roma.

“Quantunque i dotti non siano ancòra d'accordo, neppure sul nome del popolo a cui riferire quelle costruzioni, pure esse meritano per la loro antichità di essere incluse in una rassegna dei monumenti primitivi italici, perchè certo sono dovute ad una delle genti più civili che abbiano abitato la nostra penisola, approdatevi anch'esse, con molta probabilità, dal Tirreno.

“Perchè quelle mura poligonali, fitte e numerosissime sul versante appenninico centrale, che prospetta il Tirreno, mancano sull'opposto versante adriatico, il quale era stato occupato, dai tempi più remoti, fino quasi all'epoca storica, dalle popolazioni picene„.

Si comprende, pertanto, come sia interessante ed utile la ricerca e lo studio di questi testimonî antichissimi delle remote età. L'illustre Pigorini, a questo proposito, ripetendo nel suo Bullettino di paletnologia italiana (serie III, anno XXV, n. 7-9, pag. 201, nota) ciò che aveva già stampato nel Bullettino medesimo, anno XXII, pag. 71, rammenta che il Ministero dell'Istruzione aveva stabilito delle esplorazioni sistematiche nelle città dette pelasgiche del Lazio, incominciando da Norba. Rileva poi giustamente ciò che Salomone Reinach nell' Anthropologie (X, pag. 313-14) aveva esposto, citando a sua volta l'opinione di Petit Radel sull'opportunità di tali ricerche per rischiarare il periodo delle origini di molte antichissime città italiche. Il Pigorini si associa al voto del Reinach, che lodava l'iniziativa del Ministero italiano, conferma che si debbano fare finalmente degli scavi sistematici nel territorio delle varie città dette pelasgiche, poichè se ne attendono grandi risultati, ma conclude che, per riuscire a qualche buon esito, è indispensabile che i dotti abbiano libertà d'azione, per volgerla dove e come occorre nell'interesse stesso della scienza.

II. ARTE ETRUSCA

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A. Melani, Manuale di architettura italiana antica e moderna. Milano. Hoepli, terza edizione rifatta, pag. 6 e segg.

Id., Manuale di scultura italiana antica e moderna. Milano, Hoepli, seconda edizione rifatta, pag. 5 e segg.

Pittura etrusca.

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Inghirami, Pitture di vasi etruschi per servir di studio alla mitologia ed alla storia degli antichi popoli. Firenze, 1852-53.

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Boissier, Les Étrusques de Cornéto in Revue des deux mondes. 1882.

A Melani, Pittura italiana antica e moderna. Milano, Hoepli, seconda edizione rifatta, pag. 6 e segg.

Ved. anche nelle opere generali sulla pittura antica poste nell'elenco bibliografico della Parte III: Arte romana.

Ceramica, specchi e arti minori presso gli Etruschi.

Gerhard, Etruskische Spiegel. 7 volumi, Berlino, 1839.

O. Jahn, Die Ficoronische Cista. Lipsia, 1852.

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F. Lenormant, Les vases étrusques de terre noire in Gazzette archéologique. V anno, 1879.

F. Barnabei ed altri: Antichità dell'Agro Falisco in Monumenti antichi pubblicati per cura della Regia Accademia dei Lincei. Vol. IV, (1894).

II.

Arte etrusca.

I. — Origine e carattere dell'arte etrusca. Suoi stretti rapporti con l'arte italica.

Con la dominazione del popolo etrusco in Italia, dalla valle del Po alle pianure della Campania, l'arte italica prende un largo sviluppo, di cui ci sono conosciute le condizioni ed i caratteri per molteplici monumenti, anzi può dirsi che veramente al dominio dell'arte spetti, per massima parte, quello che del popolo etrusco conosciamo; nelle sue tombe, nelle sculture, nei dipinti e negli arredi che le adornano, esso ha lasciato di sè molte memorie, che nella storia andarono, si può dire, perdute.

Sebbene ancòra non si possa con certezza affermare se il popolo etrusco abbia comunanza d'origine colle stirpi italiche, l'arte sua si può chiamare arte italica, perchè non solo questa si sviluppò quando la nazione etrusca crebbe prosperosa nella penisola, ma ancòra perchè l'arte italica diede essa stessa in molta parte i germi artistici, che poi, sviluppatisi presso gli Etruschi, fecero sorgere l'arte che noi diciamo ora arte etrusca. Dico in molta parte, perchè vedremo fra poco quanta parte vi abbiano anche l'elemento orientale e greco.

Se non che, per riconoscere l'entità di questi due elementi, bisognerebbe sapere quale sia l'elemento indigeno degli Etruschi, bisognerebbe aver un concetto chiaro, non solo intorno alle origini, ma anche intorno alle regioni dalle quali vennero in Italia.

Invece, pur troppo, le origini degli Etruschi s'avvolgono tutt'ora in molto mistero. La tradizione li fa di origine asiatica, dicendoli Lidî, per via di mare emigrati in Italia, secondo la leggenda tramandataci da Erodoto (I, 94); ma su questa leggenda l'antichità stessa esercitò l'esame critico, e Dionigi d'Alicarnasso (I, 26 e 30) volle confutarla, concludendo che gli Etruschi siano autoctoni, cioè aborigeni italici. La lingua degli Etruschi, della quale non pochi documenti nelle tombe ci furono conservati, ancòra non è spiegata, e muta resiste ai tentativi della filologia; la critica moderna etnografica e storica altro non ha potuto fare fuorchè comporre in nuove ipotesi gli sparsi elementi di tradizioni o di antiche notizie storiche.

E, siccome in queste si trova memoria che degli Etruschi o Raseni erano vestigia nelle Alpi Retiche (T. Liv., V, 33; Plin., h. n., III, 24; Giustin., X, 5, 9), e questo da scoperte archeologiche fatte in Val di Cembra, in Val di Non, in Valtellina, ecc. ebbe ampia conferma, modernamente s'è formata una opinione che gli Etruschi siano, o interamente o in gran parte, un popolo arrivato in Italia non per via di mare, ma bensì dal Settentrione, movendo dalle interne regioni d'Europa. Non importa alla trattazione nostra di esporre le varie ipotesi proposte da Niebuhr, da C. O. Müller, da Micali, da Schwegler.

Comunque gli Etruschi giungessero nella penisola, il fatto importante è che qui coll'armi, coll'industria, coll'agricoltura crebbero prosperosi e possenti: Sic fortis Etruria crevit; prima ancòra che Roma sorgesse, avevano esteso dominio nell'Italia Centrale fra l'Arno, l'Appennino e il Tevere; nell'Italia Settentrionale fra il Po, il Ticino e le Alpi; nella Meridionale per le pianure della Campania. Secondo poi la tradizione, questa potenza erasi mossa ed allargata dalla città di Tarquinii, che sembra esser stata il più antico ed il principal centro di sviluppo politico della nazione etrusca.

Se noi ora vogliamo fare un po' di storia dei caratteri peculiari all'arte etrusca, dobbiamo riconoscere che uno sviluppo originalmente etrusco non si può affermare senza restrizione; nelle prime sue forme pare s'identifichi con lo sviluppo delle industrie di carattere artistico dei popoli italici. Poi, anche nei monumenti che spettano ad un periodo antichissimo, si fanno manifeste due influenze operose, le quali dànno carattere distintivo a due grandi periodi dell'arte etrusca. La prima è l'influenza orientale; la seconda, meno antica ma più efficace e al tutto prevalente, l'influenza greca.

L'influenza orientale si dimostra non solo in certi elementi dell'arte, ma anche in gran parte delle etrusche costumanze. Le tombe, siano quelle esistenti, sia alcuna delle descritte da autori antichi (p. es. la tomba di Porsenna), hanno analogie con quelle asiatiche, specialmente della Frigia. Così la porpora e l'aquila, insegne regali etrusche, hanno relazioni con emblemi lidî e persiani; alcune foggie del vestire, le danze e i giocolieri ( ludiones ), le forme della divinazione, il vivere molle ed effeminato degli Etruschi sembrano pure accennare a costumanze asiatiche. Che queste analogie od affinità siano conseguenza di costumanza d'origine, o solo di contatti e di relazioni commerciali, quali mostrano gli abbondanti prodotti delle industrie orientali nelle tombe etrusche, non si può con certezza affermare.

L'influenza greca è corroborata dalla leggenda di Demarato, che, esulando da Corinto, riparò a Tarquinî di Etruria, conducendo seco gli artisti Eucheir, Eugrammos e Diopos, nomi che sono, se ben si osservi, una sintetica personificazione delle varie abilità artistiche. Il fatto che Demarato abbia lasciato Corinto, quando vi si stabilì la tirannia dei Cipselidi, e che da lui sia derivata la stirpe dei Tarquinî, dominatrice di Roma, permette di assegnare alla introduzione della influenza greca nell'arte e nella vita etrusca un'età che corre fra gli anni 664 e 660 av. C.

Questa influenza greca è fatta derivare direttamente dalla Grecia propria; ma invece è lecito ammettere che in buona parte venisse anche dalle colonie della Magna Grecia, con le quali gli Etruschi ebbero scambî e commerci continui, principalmente quando fu formata la federazione etrusca meridionale.

L'arte nelle sue origini è sempre connessa col culto religioso, anzi ne è una parte. Nello sviluppo storico d'un popolo v'è un periodo nel quale ogni festa, ogni spettacolo, ogni manifestazione del sentimento estetico sono un atto religioso; intorno alla divinità, nell'istituzione del tempio, l'arte si forma. Allora i vari modi d'espressione del sentimento del divino e del bello si compongono in un tutto; la danza, la musica, il canto, gli ornamenti del tempio, l'imagine del nume mirano concordi a uno scopo e creano l'arte. Viene poi, col progresso della tecnica, un momento in cui quelle parti, divise, si costituiscono per sè sole, ma quasi, più desiderose di godimento estetico, si estendono a tutta la vita. È questo il periodo in cui l'arte consegue il suo libero sviluppo, mentre prima, obbligata alle forme religiose, teneva un carattere di stabilità, di rigidità ieratica. Questo processo di svolgimento, che nell'arte greca è manifesto, vuol essere riconosciuto anche per l'arte etrusca.

Ma gli Etruschi non ebbero in nessun modo la gentilezza, il senso della misura, la eleganza dei Greci; un non so che di barbarico e di feroce, anche nella loro vita molle, sembra propria alla loro natura, e si dimostra nei loro spettacoli; i ludi gladiatori, introdotti per tempo nella Campania, poi in Roma, sono cagione non lieve di una sensibilità artistica meno fine e delicata. Agli Etruschi mancarono condizioni di natura, perchè l'arte avesse uno sviluppo spontaneo e nazionale; mancò loro l'intimo e puro senso del bello, il pensiero che in sè avesse capacità artistica feconda. Gli Etruschi, più disposti a ricevere che a dare nell'arte i motivi, presero dai Greci non solo le forme originarie, ma anche il contenuto delle rappresentazioni, cioè le leggende e i miti; ed acquistarono valore solo nella esecuzione, nell'abilità tecnica[44].

APPENDICE I. Sulla provenienza degli Etruschi.

Ciò che il Gentile espose nella 1ª edizione di questo Manuale intorno alla questione ancor dibattuta dell'origine e della provenienza degli Etruschi, e che ora, con quelle mutazioni solo indispensabili, rivede la luce in questa seconda edizione, è troppo poco, perchè possa soddisfare ai desiderî dei lettori colti, ora che la questione stessa, se non ha raggiunta la sua soluzione, vi si è di molto avvicinata.

Credo quindi indispensabile di esaminare meglio le varie opinioni, e di concludere più brevemente e chiaramente possibile. E la conclusione è tanto più importante, in quanto non si deduce da scoperte filologiche e linguistiche, poichè la lingua etrusca è ancòra, in parte, ribelle ad ogni tentativo di interpretazione, ma si deduce piuttosto, oltrecchè da ragioni molteplici che analizzeremo, soprattutto da ragioni artistiche e archeologiche. Io credo per fermo, che, fino al ritrovamento di altre iscrizioni bilingui, che diano la chiave del gran problema della lingua, lo studio dell'arte etrusca è ancòra quello che conferma meglio d'ogni altro argomento la teoria erodotea dell'origine lidia, e, in generale, orientale, degli Etruschi.

Per limitare il quesito ai punti principali, dirò che la questione dev'essere trattata in base:

I. Ai fonti storici.

II. Alla lingua.

III. Alla religione e ai costumi.

IV. Ai monumenti archeologici e ai ritrovamenti recenti, nonchè alla critica delle opere d'arte.

I. Fonti storici. — Si possono dividere in quattro classi, che rappresentano quattro opinioni diverse:

1. Ellanico identifica gli Etruschi con i Pelasgi.

2. Erodoto, e con lui la maggior parte degli scrittori antichi, ammette la loro provenienza dalla Lidia e la loro immigrazione per mare, dal Tirreno.

3. Anticlide d'Atene opina che gli Etruschi siano Pelasgi, ma, cacciati dalla penisola ellenica, si siano uniti a quella parte della migrazione lidia che era condotta da Tyrrhenos.

4. Dionigi d'Alicarnasso contraddice l'opinione di Erodoto, per il fatto che lo storico Xanto, che era di Lidia, non fece parola di questa migrazione, e perchè la lingua e i costumi dei Tirreni differiscono da quelli dei Pelasgi: conclude che la razza tirrena dev'essere autoctona[45].

Era facile che la differenza già nell'antichità di queste opinioni che si possono ridurre a due, l'una favorevole all'origine lidia l'altra sfavorevole, inducesse anche gli storici moderni a dividersi in due gruppi.

L'uno di questi, rappresentato prima dal Micali poi dal Niebuhr, dal Mommsen e dallo Helbig, è contrario all'origine lidia e favorevole a credere gli Etruschi in relazione coi Reti, anzi una cosa sola con essi, e provenienti per parte di terra dalle Alpi; l'altro gruppo è rappresentato dal Brizio, che fin dal 1885, negli Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per la Romagna, sostenne che la tradizione erodotea doveva avere in mezzo ai particolari leggendari, anche un nucleo di vero, e che molti fatti confermavano l'origine lidia e la provenienza marittima, orientale degli Etruschi.

All'opinione degli avversari della teoria erodotea si accosta in molti punti anche il Pais ( Storia della Sicilia e della Magna Grecia ), quantunque sia molto più prudente degli altri, come il Mommsen, il quale sostiene la provenienza per via di terra degli Etruschi, ma non la loro identificazione di stirpe coi Reti. All'altra opinione, del Brizio, s'accosta in taluni punti il Von Duhn. Ammetto innanzitutto col Brizio che questa identificazione, sostenuta prima di tutto dal Niebuhr, poggia su una interpretazione falsa di un passo di Livio (Libro V, cap. 33), poichè se ne deve concludere che anche i Rezî traggono la loro origine dai coloni etruschi, mandati dal Mediterraneo al di là del Po (non che gli Etruschi fossero dei Rezî), e che i luoghi stessi ov'erano i Rezî avevano imbarbarito i Rezî (non già che questi avessero conservato la primitiva barbarie degli Etruschi).

Queste conclusioni sono poi confermate da Plinio, Giustino, e da altri autori, che il Brizio cita a conforto delle sue tesi[46]. Esclusa pertanto la fonte più importante a sostegno della tesi niebuhriana, rimane da vedere se la tradizione erodotea, sfrondata della parte leggendaria e favolosa, possa reggere alla critica storica, e sia confermata da altre ragioni; poichè l'obiezione di Dionigi, che si schiera dietro il silenzio di Xanto di Lidia, non solo è insufficiente, ma infantile, non potendo esser noi garanti di ciò che un autore abbia o non abbia creduto di dire. La conclusione poi, a cui verrebbe Dionigi, che gli Etruschi fossero autoctoni, già per sè stessa toglie fede al suo autore e ai suoi sostenitori.

Dunque dobbiamo dimostrare che, non essendo gli Etruschi la medesima cosa dei Rezî, essi vennero dall'Oriente e penetrarono in Italia dalla costa del Tirreno, non già per terra attraverso la Rezia: dove invece sarebbero pervenuti nella loro diffusione più tardi.

II. Lingua. — Osserviamo se il secondo argomento principale, la lingua, ci possa servire.

Il Martha[47], per la ragione suesposta, che la lingua etrusca non ha mai rivelato sè stessa, crede di dover rinunciare completamente alla conclusione storica della provenienza degli Etruschi; egli però indirettamente mostra di inclinare per l'opinione dello Helbig e dell'Undset (che riassunse le scoperte archeologiche del suo tempo nel lavoro L'antichissima necropoli tarquiniese[48] ), cioè della provenienza degli Etruschi dal Nord (op. cit., pag. 28); perchè, se da un lato non ha per sè le fonti storiche che lo confermano, dall'altro egli non crederebbe alla verità di queste, perchè non si perita a dire: “je doute que les Grecs contemporains d'Herodote ou les Romains de l'Empire aient jamais eu des notions justes sur les grands monuments de peuples, dont le monde méditerranée avait été le théâtre plusieurs siècles auparavant„.

Così si creò anche recentemente un tale scetticismo intorno ai fonti, o per trascuranza o per mala interpretazione, o per sfiducia, che obbliga a cercare altronde la soluzione del problema.

Il peggio sta in ciò che nemmeno la lingua, la quale è la fonte etnografica più diretta e più esatta, ci può aiutare, poichè finora, malgrado gli sforzi poderosi di dotti stranieri e italiani, quali il Müller e il Corssen prima, il Deecke, il Pauli e il Lattes poi[49], quella sfinge non ha trovato ancòra il suo Edipo.

La scuola del Lattes, che procede prudente e non rileva che fatti indiscussi, riesce a provare l'affinità che passa fra l'etrusco e il latino, sceverando, cioè, ciò che è chiaro da ciò che è oscuro. Egli intanto afferma un periodo di fusione tra Etruschi e Latini, e rileva una latinizzazione della lingua etrusca; ma pur troppo rimane una parte nella lingua che non si può spiegare, e che induce a dimostrare un nucleo non latino, non occidentale della lingua stessa nel periodo anteriore alla migrazione degli Etruschi in Italia[50]. “C'è una parte che sarà sempre un enigma„, diceva lo stesso Mommsen l'anno scorso a Milano.

Oltre le acute conclusioni a cui giunge il dottissimo Lattes, la scoperta linguistica più importante finora è quella del 1885 a Lemno, in cui la celebre iscrizione colà rinvenuta dimostrò che la lingua etrusca è affine a quella che parlavano i Pelasgi tirreni di quell'isola, e portò inaspettatamente una conferma alla tradizione d'Anticlide, che i Tirreni d'Italia fossero un ramo dei Pelasgi di Lemno e di Imbro.

III. Religione e costumi. — S'aggiungono gli argomenti in favore della provenienza degli Etruschi dall'Oriente, tolti dai loro costumi, quali il nome dato alla prole, che è della madre e non del padre, e l'usanza delle fanciulle, poco morale invero (però non solo sanzionata dalle leggi, ma anche santificata, per così dire, dal rito religioso), di procurarsi con la prostituzione la dote: usanza diffusa fra le fanciulle lidie, fenicie, armene e babilonesi, ed essenzialmente d'origine orientale, anzi spiegabile soltanto con le idee orientali.

Nè si deve passare sotto silenzio il rito dell'umazione, proprio degli Etruschi e degli orientali, di cui si ha la prova nelle tombe a umazione, succedentisi a quelle a pozzo, tipo Villanova, e costituite da camere sotterranee, o grandi tumuli circolari sotto terra, o ipogei, con una o più camere a volta o ad arco, che ricordano il costume dei sepolcri e delle camere funerarie egiziane, nonchè il monumento d'Aliatte di Lidia e simili.

Se a questi argomenti favorevoli alla tesi sostenuta dal Brizio, e alla quale m'associo fino alla luce di nuove scoperte, per la profonda convinzione che della verità di questa tesi mi viene dallo studio dell'arte etrusca, se a questi argomenti, dico, uniamo i risultati di una critica severa alle ragioni dei dotti che sostengono la tesi opposta, questa appare tanto debole da non potersi davvero sostenere.

Sfatata la teoria dell'affinità coi Rezî, comprovante per alcuni l'origine della provenienza degli Etruschi dal Nord d'Italia, e sfatata tanto più che della civiltà etrusca non v'è nel centro dell'Europa e dell'Istria alcun vestigio, come appare dagli studî dello Hoernes, si trovano deboli anche gli altri argomenti dei sostenitori della tesi contraria, cioè quello che le città non sono alla costa, come parrebbe naturale che fossero per popoli marittimi; che la tradizione leggendaria di Erodoto non può avere valore storico, e che piuttosto col Lepsius e col Pais si deve ammettere la venuta dal lato dell'Adriatico e identificare gli Etruschi coi Pelasgi.

In primo luogo le città non furono costrutte alla costa, se non per difenderle dai pirati, di cui sarebbero state facile preda; gli Etruschi sopraggiunti dovevano vincere gli Umbri, i quali erano in città fortificate dell'interno: assaliti gli Umbri nelle loro acropoli, ponevano le proprie sedi sul luogo identico dei vinti, le città dei quali servivano loro di nucleo fondamentale. — Siccome le più antiche città sorsero dalla parte del Mar Tirreno, mentre dalla parte dell'Adriatico non c'è che Adria, la quale anticamente sorgeva presso il mare, è da escludere l'arrivo degli Etruschi dall'Adriatico piuttosto che dal Tirreno, presso la costa del quale sorsero invece molti centri abitati.

Il ch. Brizio determina questo molto chiaramente, aggiungendo che il paese esteso oltre la Fiora, per parecchio tempo, continuò ad essere posseduto dagli Umbri, anche dopo lo stanziamento degli Etruschi a Cere e a Tarquinia, come dimostrano alcuni nomi geografici di radice umbra, e la tradizione costante del così detto tractus Umbriae. La prevalenza talora degli Umbri in certe località prova del resto molto chiaramente che gli Etruschi non vennero in gran numero e si dispersero in proporzioni relativamente piccole.

Quanto poi alla tradizione leggendaria di Erodoto, ormai la critica odierna insegna molto chiaramente che ogni leggenda ha il suo nucleo storico, intorno al quale lo storico antico, ut primordia urbis (vel gentis) augustiora faciat, non si perita a ricamare una tradizione ricca di elementi favolosi. Se questo dovesse far cadere ogni leggenda, non potrebbe sussistere nè quella di Ilion, nè quella di Argos e di Micene, che pure furono confermate dalle scoperte archeologiche dello Schliemann e del Dörpfeld.

Del quarto punto di trattazione, lo studio dei monumenti e dei ritrovamenti, discuterò a studio finito (cfr.pag. 149 ).

Le tre grandi divisioni dell'arte etrusca.

A. — Architettura degli Etruschi.

I. — Architettura civile e militare.

1. Le mura delle città. — Gli Etruschi nelle opere loro, che si credono più antiche, appaiono continuatori del gigantesco modo di costruire pelasgico, con lavoro più progredito, congiungendo cioè la regolarità della forma con la solidità.

Recingere di mura le città edificate, a differenza di popoli che abitavano in comunità aperte, fu proprio degli Etruschi, che dalle loro costruzioni sembrano aver preso il nome di Tirreni (Τυρσηνοί, Τυρρηνοί, da τύρσις, τύῤῥις, turris; come, p. es., i Burgundi, Burgunden, da Burg, fortezza).

Cinte murali, formate di grandi massi poligonali, sussistono nei luoghi dov'erano Saturnia od Aurinia, Cosa, Falerî; mura a piani orizzontali di grandi massi quadrati o rettangolari, posati a secco, si vedono a Populonia, Todi, Roselle, Cortona, Perugia, Veî, Fiesole. Tali mura alcuna volta portano scolpito qualche segno fallico; così si vede, p. es., in una ruina presso Terni.

2. Le porte della città. — Ciò che costituisce un carattere proprio dell'architettura etrusca, e che contribuì in sommo grado al suo sviluppo, fu l'uso dell'arco e della volta, che sembrano elementi italici, mentre hanno scarsissima applicazione presso i Greci. Grandi porte arcuate si hanno ancòra nelle più antiche mura etrusche. Due di tali porte ad arco pieno, formate a cunei concorrenti al centro, si vedono a Volterra nella cerchia delle sue mura antiche. Una di queste porte è ornata d'una gran testa, posta al sommo dell'arco, dov'è la chiave di volta; ed altre due simili teste stanno al sommo delle impostature, ossia degli stipiti (ved. Atl. cit., tav. XVIII ). Forse quelle teste rappresentano numi tutelari delle città; è dubbio se debbansi tenere tanto antiche quanto le mura; ma notevole è che una porta di simil forma, ornata con tre teste, vedesi riprodotta sul bassorilievo d'un'urna volterrana, dov'è rappresentato l'assalto d'una città[51]. Altra porta arcata, simile a quella di Volterra, vedesi nella cinta murale di Falerii (Santa Maria di Falleri). Due porte etrusche a Perugia, la porta Marcia e quella detta Arco d'Augusto, sono formate con grande arco di cunei di travertino.

3. Le opere idrauliche. — Del genio etrusco, inteso al solido costruire per pubblica utilità, fanno fede le memorie e le vestigia delle molte e grandi opere idrauliche. Gli Etruschi, con fosse e canali, risanarono la regione del delta padano, fra il fiume e le lagune di Comacchio; risanarono le valli dell'Arno, della Chiana, dell'Ombrone. Nelle vaste e funeste pianure delle maremme toscane, in quella regione dilettevole molto e poco sana, sorgevano popolose città; il terreno era risanato con molti lavori di condotta delle acque, dei quali ancòra appaiono traccie. Ma, caduta la potenza etrusca e abbandonata la cura di quelle opere, dilagate e ristagnate le acque, i miasmi e le febbri fecero intorno il deserto. Rutilio Namaziano, nel V sec. di C., viaggiando quelle contrade, esclamava mestamente: Cernimus exemplis oppida posse mori. D'un acquedotto con volta, formata dal graduato sporgere di massi sovrapposti (modo di costruzione analogo a quello del tesoro di Atreo), rimangono avanzi presso Tuscolo. Il maggior monumento di opere idrauliche etrusche è la cloaca maxima di Roma, fatta cominciare da Tarquinio Prisco, compita sotto Tarquinio Superbo, per raccogliere e scaricare nel Tevere le acque stagnanti delle bassure di Roma. L'arcata di volta di questo canale è formata di tre ordini di cunei, uniti fra loro senza cemento, come ancòra la si vede al suo sbocco, presso il tempio detto di Vesta.

II. — Architettura privata.

4. La casa etrusca. — Con gli Etruschi, o almeno nel tempo della civiltà etrusca sorge in Italia l'architettura, con quel carattere di grandiosità suo proprio, che la mantiene originale anche frammezzo alle molteplici e continue influenze greche. L'architettura civile, con la primiera forma della casa italica, sembra accennare a derivazione etrusca, almeno nel pensiero degli antichi, i quali derivarono il nome di atrium dall'etrusca Atria, e nei successivi mutamenti di questa parte della casa designarono la forma più semplice col nome di atrium tuscanicum. L'atrio fu la parte fondamentale della casa antica; formava lo spazio di mezzo, e in parte a cielo scoperto, col focolare il cui fumo usciva dall'apertura nell'alto dell'atrio ( impluvium ). Della casa italica, in cui l' atrium è la parte essenziale, credesi riprodotta l'imagine in un'urna cineraria etrusca, trovata a Poggio Cajella, che sembra un'esplicazione delle urne-capanne già ricordate (cfr.pag. 75, e ved. Atl. tav. XIV ).

Dell'architettura toscana, della forma degli edifizî, degli elementi e delle membrature architettoniche assai poco ci è noto, non rimanendo nessuna reliquia nè di tempio, nè di casa, nè d'altro edifizio, eretto sopra suolo. Quel poco che dell'architettura etrusca conosciamo deriva, oltrechè dalle scarse notizie di Vitruvio, dalle tombe, le cui interne camere, e spesso le facciate esterne presentano carattere architettonico etrusco.

III. — Architettura religiosa.

5. Il tempio etrusco. — Il tempio toscano è determinato dalla sua forma, dalle prescrizioni del rito augurale. Esso sorge sul terreno destinato e circoscritto per l'osservazione ed interpretazione di quei segni celesti, che nella credenza religiosa italica eran tenuti come manifestazioni della disposizione o volontà divina, rispetto agli avvenimenti umani. Questa osservazione ed interpretazione di segni forse in prima spettò al capo della famiglia, con potestà religiosa, poi passò a speciale ufficio dei sacerdoti. Per l'osservazione (il cui modo fu proprio delle stirpi italiche, sviluppato poi dagli Etruschi), eleggevasi un determinato luogo, circoscritto come luogo consacrato, in un quadrato ( templum, τέμενος), rispondente ad un'ideale limitazione dello spazio celeste, per mezzo d'una linea tracciata da oriente ad occidente ( decumanus ), intersecata da un'altra a questa perpendicolare, da settentrione a mezzodì ( cardo ). Nel punto di mezzo, o d'intersezione postavasi l'augure a far l'osservazione, guardando a mezzodì, e considerando come favorevoli i segni che mostravansi a sinistra, infausti quelli di destra. Per la linea del decumanus lo spazio del templum restava diviso in due parti pressochè uguali, un'anteriore ( pars antica ), l'altra posteriore ( pars postica ), e prendeva forma quasi quadrata (con una proporzione di 6 di lunghezza per 5 di larghezza); la pars postica costituiva la cella, la pars antica il pronao, divisi per mezzo d'una parete, con una porta collocata nel luogo di intersezione delle ideali linee di limitazione (ved. Atl. cit., tav. XVI, n. 2).

6. La colonna nell'architettura templare etrusca. — Questo quanto all'area templare. L'architettura poi del tempio, assai poco nota, si presenta come derivazione dal greco, riproduzione dell'ordine dorico, ma con notevoli modificazioni. La colonna ne è elemento principale; posa sopra una base, ha proporzioni più slanciate della dorica (cioè 7 diametri o 14 moduli); l'intercolunnio è assai ampio, rispondendo ad uno spazio di quattro diametri. Il capitello è simile al dorico con echino ed abaco. Sulle colonne posa l'architrave, non di pietra viva ma di legno, onde per la pochezza del suo peso si spiega il largo intercolunnio (v. Atl. cit., tav. XVI, n. 1). Le teste di travi sporgenti, poggiate sopra l'architrave, e al di sopra di queste la gronda (o cornicione), assai pronunziata, sostenevano un alto frontone con ornamenti di terracotta.

L'insieme dell'edificio templare largo e basso mancava dall'armonica severità dell'ordine dorico, e aveva invece un'apparenza greve e tozza. È probabile poi che, per l'ampiezza degli intercolonnî, per l'architrave di legno, per la qualità del materiale, in gran parte di terracotte, gli edifizî non avessero sufficiente saldezza da resistere al tempo, onde in parte si spiega come manchi reliquia di monumento sopra suolo, da cui possiamo riconoscere le forme architettoniche etrusche (ved. Atl. cit., tav. XVII ). Solo pochi resti di base, qualche frammento di capitelli si trovarono a Vulci. Colonne di carattere dorico si riconoscono in alcune tombe di Bomarzo; tombe con facciata a modo di tempio restano a Vulci e a Sovana; facciata di tomba con accenni a colonne, a trabeazione con ispartimenti di diglifi, con frontone ed acroteri vedesi a Norchia. E non mancano nelle edicole sepolcrali o nei sarcofaghi, forme di capitelli che ricordano l'ordine ionico ed il corinzio, con teste umane inserte tra il fogliame. Da alcuni avanzi di edifizî già ricordati parlando di Marzabotto, appare che le parti architettoniche s'abbellissero anche con la colorazione, e s'avesse quindi un'architettura policroma (cfr.pag. 149 e segg.).

Di edifizî etruschi quali curie, ippodromi, teatri, ecc., mancano le notizie letterarie, e poco significanti sono le scarsissime ruine; avanzi d'un anfiteatro si hanno a Sutri, e di un teatro a Fiesole e ad Adria, se pur queste non siano opere di tempo romano.

7. La religione dei defunti presso i popoli Etruschi. — Se perdute sono le storie del popolo etrusco, e distrutti gli edifizî che sopra il suolo essi avevano inalzato, le memorie sue si sono rifugiate, e in qualche parte salvate, nelle tombe. Fra le genti italiche assai religiose, religiosissima fu l'etrusca, che Livio disse dedita religionibus, e Arnobio genetrix et mater superstitionis. Nella religione etrusca la cura di onorare i trapassati di funerali, di tombe e d'amoroso culto ebbe parte principalissima. Gli Etruschi sembrano di continuo compresi dal pensiero del breve nostro vivere, ch'è un correre alla morte, e del destino che attende l'anima oltre la tomba. Alle tombe essi volgono il pensiero con fortissima persuasione di fede e con viva carità delle famiglie, quasi a perpetuare il ricordo della transitoria esistenza di quaggiù. Le anime dei morti credevansi diventar divinità, genî, Lari, veglianti sui luoghi che abitarono in vita; e le anime dei padri e degli avi coi nomi di Mani (Larve, Lemuri) aggiravansi talvolta come spiriti benefici, protettori dei figli e dei nipoti, talvolta come fantasimi terribili ai malvagi. Ad essi facevansi onori d'offerte e di sacrifizi; indi le feste e i riti funebri, e i molti monumenti che ancor sussistono ad ultimo ricordo della civiltà degli antichissimi abitatori d'Italia.

8. Le tombe etrusche e le loro varie forme. — La grandissima quantità di tombe etrusche, essendo scomparse quelle soprasuolo, sono sotterranee, scavate in vario modo, secondo richiede la natura del terreno, dove si allarga il piano; oppure sono superiori al piano dove fianchi di colline e di monte offrono opportuna occasione; talvolta scarpellate nel vivo masso, talaltra murate con grandi massi di pietre squadrate.

Le sotterranee sotto il piano sono camere, precedute solitamente da vestibolo, a cui si discende per via di scale. Talvolta le camere sotterranee sono sormontate da tumuli di terra, contenuti e cinti intorno da muri di grandi massi, ed erette sopra i tumuli erano torri rotonde, o quadrate, o costruzioni coniche, con forme di grande analogia con le tombe orientali di Lidia (ved. Atl. cit., tav. XIX, n. 2).

Le tombe scavate nel fianco del monte sono grotte sepolcrali con corridoi d'ingresso, che conducono al vestibolo ed alle camere mortuarie. Talvolta all'esterno hanno facciate di edifizî, analoghe pur queste a tombe scavate nel masso, che s'incontrano in Grecia, in Licia e in Frigia.

L'interno delle tombe, formate di una o di più camere, tende a rappresentare, o almeno a ricordare l'abitazione dei viventi, per un progressivo sviluppo di quel concetto che già si è veduto improntato nelle primitive urne-capanne. Sono camere, spesso sostenute da colonne o pilastri, con soppalco orizzontale, a volta, od a tetto, essendo nel soppalco scolpita nel vivo masso la travatura con cassettoni, ad imitazione di soffitto. Nelle pareti sono porte che mettono a camere contigue, ovvero anche porte finte, come anche vi sono finte finestre. Intorno alle pareti, scarpellati nel masso, sono sedili e letti funebri, con guanciali, e sopra distesi i cadaveri con loro vesti ed armi. Le pareti sono ornate di bassorilievi, o di grandi pitture murali, rappresentanti funerali e scene religiose, attinenti alle credenze intorno allo stato delle anime nella vita giornaliera, appesi alle pareti (ved. Atl. cit., tav. XX e XXIV ). Presso i cadaveri stanno deposti in quantità vasi o di bronzo o fittili, etruschi e greci; armi ed ornamenti, proprî e cari al defunto, ed utensili usati nel rito funebre o nella cena mortuaria.

Fra le tombe etrusche con monumento soprasuolo menzionasi solitamente il grande sepolcro, detto di Porsenna, che sorgeva presso Chiusi, e del quale abbiamo descrizione in Plinio[52]. Lo scrittore non vide quel monumento che già al tempo suo sembra non esistesse più, ma ne riferisce per tradizione ( fabulae etruscae ). Se ne diceva però tanto oltre il credibile, che Plinio si difende con l'autorità di Varrone, da cui prende la descrizione. Era un monumento di grandissima base quadrata; nell'interno aggiravasi un labirinto di corridoi e di camere; sopra la base si elevavano quattro piramidi, una per ciascun angolo, ed una quinta nel mezzo; e, al disopra di queste, altre quattro ancòra, e poi altre ancòra, con tale disposizione che assolutamente ha del fantastico; e fantastica è da molti giudicata quella descrizione, che sembra avere analogia col sepolcro d'Aliatte di Lidia[53].

Pur troppo conclusioni cronologiche sul tipo architettonico più o meno sviluppato non si possono stabilire, non potendosi riconoscere, contemporaneamente, un continuo sviluppo nelle singole località, e mancando spesso gli oggetti di arredo determinabili e databili.

Tombe sotterranee scavate nel tufo con scale, corridoi e vestibolo, con una o più camere, si hanno presso Vulci[54] (Pian di Voce, nel corso inferiore della Fiora), a Chiusi, a Volterra. Di tombe sormontate da tumuli, o scavate dentro un colle, che forma esso stesso un cumulo naturale, recinto intorno di massi a secco, insigni sono quella di Poggio Cajella e quella detta della Cocumella presso Vulci, tumulo incominciato ad esplorare fin dall'anno 1829, ma non interamente conosciuto. È quasi una collina, cinta intorno da muro di massi quadrati; sull'alto sorgevano torri quadrate e rotonde; intorno alla base e nell'interno del tumulo si trovarono bronzi, rappresentanti animali fantastici, sfingi, grifoni, chimere, forse ivi deposte in atto di vigilanza, di custodia del sepolcro.

Tombe scavate nel vivo masso abbondano presso Toscanella e a Cere, dov'è l'ipogeo detto della Volta piana, dalla foggia del soppalco orizzontale a cassettoni, simulante un soffitto con travature di legno; e dov'è pure la bella tomba Delle sedie, con un vestibolo e due camere laterali; il vestibolo conduce ad una gran camera principale, che per tre porte mette ad altre tre minori: intorno girano letti di pietra, e negli intervalli fra le porte sono scarpellate nel masso due sedie, da cui l'ipogeo prende nome. Fra le grandi camere sepolcrali con sostegno di pilastri nello stesso masso e con soppalco a travature, notevole è la Grotta dei Tarquinî, presso Cere, dove è inscritto il nome dei Tarquinii stessi: Tarchinas (ved. Atl. cit., tav. XXI ).

Tombe scavate nel masso con facciate simulanti prospetti di edifizî sono specialmente a Castel d'Asso (fra Viterbo e Corneto), dove vedonsi porte ornate con modanature ad orecchioni, di carattere egizio; tali porte sono però solo apparenti, come allegoria della chiusa, impenetrabile porta della morte, che separa per sempre l'uomo dalla vita terrena. Facciate di templi vedonsi a Norchia, a Sovana, a Bomarzo. Molteplicità e varietà grandissima di tombe, dalla semplice fossa alle grandi camere dipinte, sono a Corneto-Tarquinia, i cui sepolcri sono stati i primi ad essere conosciuti, illustrati ed anche depredati (ved. Atl. cit., tav. XX, e specialmente tav. XXII-XXIV ov'è disegnata la cosidetta Grotta campana ). Tombe formate di grandi massi, con volte fatte non ad arco, ma con la sporgenza delle pietre (come i θόλοι) sono ad Orvieto.

Insigne è il grande sepolcro dei Volunni a Perugia, composto di otto camere contenenti sarcofaghi grandi e belli; è monumento dell'età romana. Tombe etrusche trovansi anche oltre Tevere, ad Ardea; in quest'ultimo luogo si vedono camere sotterranee, con letti e cuscini intagliati nel masso, con soffitti a travature, con sarcofaghi, e traccie di pitture murali; forse quelle stesse che Plinio vide, e disse essere anteriori a Roma[55].

IV. — Costruzioni di forma singolare.

1. Nuraghi. — Sono questi monumenti, che per analogia con le costruzioni etrusche, e particolarmente con tombe, vengono da alcuni supposti opera del popolo etrusco. Sono torri a forma di cono troncato, costrutto con grossi sassi, maggiori alla base, decrescenti verso l'alto, informi, raramente lavorati, sovrapposti senza cemento. Alla base è la porta, assai bassa, ma che, alzandosi nell'interno, dà luogo ad un corridoio il quale introduce in una stanza terrena circolare, a volta, con un diametro medio di cinque metri. A questa è talvolta sovrapposta una seconda stanza, a cui si accede per via di scale praticate nello spessore del muro. Il monumento termina con una piattaforma, o terrazzo. La volta delle stanze interne è formata dallo sporgere dei massi con modo analogo a quello dei θησαυροί greci.

L'altezza dei nuraghi varia da 9 a 15 metri; alcuni, ora mezzo distrutti, giungevano sino a 20 m. Di queste torri alcune sono isolate, altre servono come centro a tre o quattro torri minori disposte all'intorno, e infine parecchi nuraghi si aggruppano insieme a poca distanza fra loro. In Sardegna se ne contano ben tremila.

Quanto alla loro destinazione, s'è disputato assai. Probabilmente furono tombe di capi tribù, le quali servirono poi ad uso sacro, come centro religioso della tribù che s'adunava a compiere i riti intorno alla tomba del suo eroe; e infine poi il centro religioso divenne anche centro di difesa e fortezza, con uno svolgimento di pensiero e di usi non diverso da quello delle acropoli greche. Non si deve dunque assegnare ai nuraghi una sola ed esclusiva destinazione, nè una sola età, ma bensì vedervi una successione di usi in un lunghissimo corso di tempo. A qual popolo spettano essi? Le affinità con le costruzioni etrusche non sono decisive: i caratteri di questi monumenti sono piuttosto pelasgici, quali si vedono nei θόλοι e nei θησαυροί; nemmeno la loro giacitura è favorevole a crederli opera di Etruschi stanziati nella Sardegna, poichè, scarseggiando dal lato che guarda l'Italia, abbondano sui lati opposti prospicienti l'Africa e la Spagna. Non potendo quindi determinare queste opere come certamente etrusche, si suppone siano eseguite da popolazioni libiche[56].

B. — Plastica.

(ved.tav. 30-41 ).

I. — Arte figurativa.

1. Osservazioni generali. — L'abilità artistica degli Etruschi si addimostrò specialmente nel lavoro delle terrecotte e dei metalli. Del primo, ossia della plastica in senso proprio, dice Plinio (XXXV, 45): Elaborata haec ars Italiae et maxime Etruriae; e sono menzionati in Roma come esistenti già dal tempo di Numa collegî di vasai, composti di artieri etruschi, essendo dai tempi più antichi in Roma assai pregiato il tuscum fictile. La plastica d'argilla prima ornò i templi italici, con antefisse, acroterî, bassirilievi e statue nei frontoni, e imagini divine adorate nelle celle del tempio.

Le opere antichissime di plastica etrusca, di terracotta, di pietra o di bronzo mostrano la durezza rigida e greve dello stile arcaico, in cui manca la intelligenza e la buona imitazione della natura.

I caratteri dell'arcaismo sono proprî dell'arte etrusca, non soltanto nel primo suo stadio, ma anche nella sua età fiorente, e lasciarono qualche traccia di sè in una certa gravezza di forme, o impaccio alla imitazione della natura, per cui l'arte etrusca non potè elevarsi ad una vera espressione del bello. Per le analogie dello stile arcaico con l'arte egizia si credette di nominare lo stile etrusco “stile egizio od egittizzante„, supponendolo derivato per via di relazioni degli Etruschi con l'Egitto; relazioni delle quali recentemente s'era creduto trovare documento storico nel nome dei Thursana, o Tirseni, o Tirreni, letto sopra monumenti egizî, ricordanti le imprese di Menepthah I, figlio di Ramesse II, della XIX dinastia (secolo XV-XIV a. C.). Ma quest'affermazione, accolta con favore in prima, oggi da nuovo esame della critica viene confutata ed esclusa. Del resto non si tratta di relazioni dell'Etruria con l'Egitto, ma piuttosto coi popoli orientali in genere. Di relazioni dell'arte, anzi della vita etrusca coll'orientale, i segni e le prove non mancano. Troviamo analogie di stile, di soggetti rappresentati, ed anche oggetti identici a quelli orientali, deposti nelle tombe etrusche, quali scarabei ed idoletti egizî, ed ova di struzzo graffite e dipinte, vasetti unguentarî od alabastri con caratteri geroglifici, e l'uso funebre dei canòpi e delle maschere (ved.tav. 30 ).

Maschere, canopi e seggi cinerarî in bronzo e in terra cotta d'uso funebre e di lavoro etrusco. Tavola 30.

Ved. L. A. Milani, Monumenti etruschi iconici d'uso cinerario in Museo Italiano di antichità classica, vol. I. tav. VIII; cfr. il nostro Manuale, p. 165.

La presenza di questi oggetti è conseguenza non di relazioni dirette, ma d'importazioni commerciali per parte dei Fenici, i quali comperavano nelle città litoranee d'Egitto articoli egiziani e li spargevano per le città del Mediterraneo. I Fenici poi avevano anche una propria produzione d'arte industriale, ma senza un loro proprio stile, lavorando e riproducendo per imitazione gli oggetti orientali più ricercati e più pregiati. Questo indirizzo delle industrie di Tiro e di Sidone ebbero anche le manifatture od officine dei Fenici occidentali, cioè dei Punici, o Cartaginesi. Di prodotti orientali e di prodotti dell'imitazione fenicia, cioè idoletti, amuleti, scarabei di smalto, e di pietra dura, vasi ed ornamenti d'argento e d'oro, erano inondati i mercati d'Italia, del Lazio e dell'Etruria, delle isole del Mediterraneo, e singolarmente della Sardegna[57].

Tali importazioni di prodotti dell'industria orientale ebbero influenza sull'arte etrusca, ed anche sull'arte italica in generale, per certe forme, certi elementi ornamentali, non già per lo stile nell'intima sua essenza. Non diremo adunque che lo stile arcaico etrusco sia effetto d'imitazione egizia; esso è un prodotto naturale del momento e della condizione dell'arte. “L'infanzia dell'arte è la medesima in ogni nazione, dice il Lanzi[58], come in ogni nazione i bambini sono gli stessi„.

Si aggiunga poi che lo stile rigido e duro dell'arcaismo ha un che di propriamente consentaneo alla disposizione artistica etrusca, tanto che esso, temperato da uno studio più attento della natura e da un maggiore sviluppo della tecnica, forma il carattere di quello stile toscanico, nel quale gli antichi scrittori trovavano analogia con l'arcaico greco, non pure dei tempi più antichi (come sarebbe lo stile dell'Apollo di Tenea), ma anche con quello più sviluppato della scuola eginetica di Callon, le cui opere a Quintiliano parevano duriora et Tuscanicis proxima[59].

Nei monumenti dell'arte etrusca noi vediamo in prima un arcaismo che è naturale condizione dell'arte infantile, con mescolanza di elementi di carattere orientale. Da questo arcaismo si svolge un'arte migliore, ma pur ancòra di stile arcaistico, nel quale pare che gli Etruschi per naturale condizione d'ingegno restassero limitati. Come dall'Apollo di Tenea o dalle metope di Selinunte nell'arte greca si passa ai marmi egineti, così in Etruria da certe figurine rozzissime si procede a miglior lavoro. Ma in Grecia l'arte con forte slancio si alza a somma perfezione; l'arte etrusca invece s'indugia in quel primo grado di sviluppo, mancandole impulso e spirito per assurgere ad altezza d'arte vera. Essa si viene modificando per dirette e continue influenze greche, la cui prima efficacia potrebbe datare, secondo la tradizione, dalla venuta di Demarato in Etruria, cioè dall'anno 660 circa av. C.; ma l'efficacia sua larga e piena è certamente di tanto posteriore, che per lo spazio di tempo precedente il secolo V di Roma, si potrebbe ammettere sviluppo di uno stile e d'un'arte toscanica propria. Vi sarebbero pertanto due periodi di svolgimento: uno dell'arte toscanica, nella quale sta rappresentato lo stile, il carattere nazionale etrusco, e che è il periodo dell'arte arcaica nazionale; l'altro il periodo dell'arte che si sviluppa e modifica per l'efficacia dell'influenza greca (ved.tav. 31 ).

Frammenti di una statua fittile d'Apollo, dal frontone del tempio di Luni. Tavola 31.

Ved. L. A. Milani, I frontoni di un tempio tuscanico scoperti in Luni in Museo ital. di antich. classica, I, tav. IV, frontone B, figura centrale.

2. Stele e bassirilievi in pietra. — Le cave del marmo di Carrara (Luni) furono prese a lavorare solo nel tempo d'Augusto. Lavoravasi marmo delle cave di Volterra, o il nenfro, o il peperino, e per i bassorilievi usavasi il tufo calcare o la pietra arenaria; in ogni modo non vi era a disposizione dell'Etruria un gran materiale.

In parecchie stele sepolcrali si trovano effigiati guerrieri di profilo, ritti in piedi in quelle posture e quelle forme tozze che si vedono, p. es., nelle stele di Sparta[60], anche con qualche carattere che ricorda la stele del soldato maratonomaco[61]. Analogie di stile sono con le metope di Selinunte; la figura della Gorgone sannita nei bassirilievi etruschi si ripete frequentissima con quegli stessi caratteri di orrido grottesco che ha nell'arte arcaica greca.

Ad intendere la diversa natura dello spirito greco dall'etrusco, e il diverso sviluppo nell'arte, parmi possa valere appunto il confronto dell'imagine della Gorgone, che, presso i Greci, dalla forma puerilmente orribile della metopa selinuntina per gradi giunge all'espressione della fiera, terribile bellezza divina, laddove s'arresta in quella prima forma presso gli Etruschi, i quali, nella rappresentazione delle divinità infernali, come, ad esempio, nel loro Charun (Caronte), non si discostarono mai da un tipo orrido e volgare, mostrando una certa predilezione al fantastico grottesco. In bassorilievi di are o di tombe si hanno larghe zone con rappresentazioni di combattimenti, processioni, banchetti, scene funebri, con disposizione di figure e con caratteri di stile che ricordano il meno rigido arcaismo dei rilievi del monumento delle Arpie[62] e dei vasi greci, dipinti a figure nere[63].

3. Urne cinerarie e sculture in pietra. — Una classe copiosa di monumenti della statuaria etrusca è data dalle urne cinerarie, alte in media un metro e mezzo, varie di forma e di materia (d'alabastro, di tufo calcare, di travertino o di terra cotta) spesse volte avvivate per mezzo di colorazione, adorne di sculture e di bassirilievi, e sormontate dall'imagine del defunto, che sta coricato, o recumbente sopra un letto; sotto l'imagine sta solitamente l'iscrizione col nome del defunto (ved. Atl. cit., tav. XXV ). Le statue e i rilievi di questi monumenti, che abbondano specialmente nei dintorni di Volterra, di Chiusi, di Perugia, per gli atteggiamenti, le proporzioni, per la trattazione del nudo, e i panneggi, per la composizione del soggetto e la distribuzione delle figure mostrano lo stile di un'arte pienamente sviluppata, e informata all'arte greca. Esse sono veramente opere dell'ultimo periodo dell'arte etrusca, com'è provato anche dalle iscrizioni latine, che si accompagnano con le etrusche. Sono opere del periodo romano imperiale, e probabilmente, per buona parte, dell'età degli Antonini; e così come vi è cambiato al tutto lo stile, cambiata pure è la materia delle rappresentazioni, tolta il più delle volte da miti ellenici, foggiati all'etrusca e misti con concetti propriamente toscanici, quali la grottesca figura di Charun, o i due genî del bene e del male.

Mentre per molti rispetti questi lavori mostrano d'appartenere ad un'arte pienamente sviluppata, hanno però nell'esecuzione alcun che di comune e di volgare, che rivela lo scalpello dell'artefice manuale; come pure l'esecuzione è inferiore d'assai al valore della composizione, e la trattazione delle figure mostra lo sforzo vano di riprodurre il bello dei modelli greci. Le figure recumbenti offrono schietti tipi etruschi, con viso grosso, proporzioni tozze e certa pinguedine del corpo da ricordare le proverbiali espressioni di pingues Tyrrheni, obesus Etruscus. Del resto queste sculture sono opere della decadenza etrusca, e per lo studio dell'arte hanno un valore limitato, mentre acquistano importanza quando sono in soggetti mitologici e con le scene della vita familiare, perchè allora rischiarano lo studio delle credenze e delle costumanze etrusche[64].

4. Scultura in bronzo. — L'arte etrusca toccò singolare maestria nel lavoro del bronzo; ma più ammirabile nella tecnica che non nella espressione del bello, specialmente in opere d'arte applicata all'industria, cioè nei vasi, nei candelabri, negli attrezzi domestici ecc. Volsinii ed Arezzo ebbero nella fusoria del bronzo un'attività non inferiore a quella d'Egina e di Corinto; fonderie celebri erano a Cortona, Perugia, Vulci, Adria. Rimproverasi ai Romani d'aver saccheggiato Volsinii per avidità di rapire le duemila statue di bronzo che l'ornavano. Di bronzo erano le porte che Camillo tolse a Veii.

Le prime imagini di bronzo poste in Roma furono di lavoro etrusco; e per via di Roma conosciamo il nome di un bronzista etrusco, il solo ricordato, cioè Veturio Mamurio, artefice degli scudi ancili e d'un'imagine di Vertunno[65]. Di lavoro etrusco fu la lupa lattante, posta presso il ficus ruminalis[66]. I bronzi toscani erano diffusi e pregiati anche in Grecia. Candelabri e vasi toscani ricordansi in Ateneo, che ai Tirreni dà l'appellativo di φιλότεχνοι, ed anche Plinio accennò al pregio ed alla diffusione dei bronzi toscani[67]. Un colossale simulacro d'Apollo di bronzo, meraviglioso lavoro etrusco, consacrò Augusto nella biblioteca del Palatino; detto appunto l'Apollo del Palatino. Orazio ricorda i Tyrrhena sigilla, lavoretti in piccolo, di gentile fattura, cercati a gran prezzo[68].

Quantità di lavori di bronzo si sono raccolti negli scavi e nelle tombe d'Etruria; in questi bronzi si vede il progredire dell'arte, per il quale dallo stile rigido, detto egizio, si passa ad una maniera meno secca e dura, prossima all'arcaismo eginetico, e infine ad un fare più libero, sebbene non mai perfetto. In questi lavori le figure d'animali sono trattate con migliore stile, con intelligenza e buona imitazione della natura, laddove le figure umane sono assai spesso scorrette nelle proporzioni e di non belle fattezze.

Bronzi di stile arcaico rappresentano spesso divinità ritte, ignude, con lunga cappelliera simmetricamente disposta, con gambe congiunte e braccia strette al corpo, nell'atteggiamento dell'Apollo di Tenea; ovvero vestite, specialmente le divinità femminili, di abiti talari, spesso con quell'atto di sollevare un lembo della veste, che è pur frequente nei bassirilievi arcaici greci, di cui si sente ad ogni tratto un'influenza, voluta riprodurre quasi inalterata; o rappresentano figure votive, con braccia stese in atto di oranti e di offerenti; ovvero guerrieri con grave armatura, con alti elmi cristati, in atto di vibrar la lancia[69].

Chimera in bronzo, ritrovata ad Arezzo, nel 1554, di lavoro etrusco.

(Museo etrusco di Firenze).

Tavola 32.

Dall'opera di Jules Martha, L'art étrusque, pag. 310, fig. 208; cfr. W. Amelung, Führer durch die Antiken in Florenz, Monaco, Bruckmann, 1897, n. 247, cfr. L. A. Milani, Museo topografico dell'Etruria, Firenze, 1898, pag. 3, e nota a pag. 134.

Fra i più insigni bronzi etruschi oggi posseduti ricordiamo: Il Marte della Galleria di Firenze, trovato negli scavi di Vulci (v. Atl. cit., tav. XXVIII ). È un guerriero con lo scudo imbracciato, con alto elmo, vibrante l'asta. — Il Marte di Todi, ivi trovato nell'anno 1835, con inscrizione sul lembo della corazza[70]. È un guerriero in tranquillo e nobile atteggiamento. Si confronti con questo l'altra statua di guerriero trovata a Falterona[71]. — Il fanciullo coll'oca del Museo di Leida (v. Atl. cit., tav. XXVI ). — Il fanciullo sedente, del Museo Gregoriano, nell'atto di sorgere da terra (forse dono votivo, significante il ricupero delle forze, il sorgere del convalescente). — La statua dell'arringatore, trovata presso il Lago Trasimeno nell'anno 1573, ed ora nella Galleria di Firenze; rappresenta uomo di nobile aspetto, vestito di tunica e di pallio, ritto in atto di allocutore; l'iscrizione incisa in un lembo del pallio lo dice un Aulo Metello, figlio di Velio, uno dei migliori documenti della perizia degli Etruschi nella fusoria, ed una delle migliori opere dell'arte etrusca nel pieno suo sviluppo, forse del V sec. circa a. C. (ved. Atl. cit., tav. XXVII ). — La Chimera d'Arezzo, ivi trovata nel 1534; è il mostro fantastico dalle forme di leone e di capra, notevole per la forte espressione del furore belluino e per la finita esecuzione (ved. Atl. cit., tav. XXIX, n. 2, e la nostratav. 32 ). — La lupa del museo Capitolino; si considera come il più insigne bronzo etrusco, sincero esemplare di stile toscanico; è la lupa sotto cui stanno lattanti i gemelli; le figurine di questi diconsi posteriore aggiunzione; mirabile nella fiera è la naturalezza delle forme, la vivezza dell'espressione; credesi la stessa statua che gli edili Ogulnî avevano fatto porre nell'anno 458 di Roma, presso il Lupercale, grotta dove la tradizione diceva allattati Romolo e Remo, a piedi del Palatino (ved. Atl. cit., tav. XXIX, n. 1)[72]. — S'aggiunge la scrofa del Museo di Leida, dove pure è notevole la vivace verità delle forme, il carattere naturalistico dell'arte etrusca.

APPENDICE II. Osservazioni intorno all'arte plastica degli Etruschi.

Si è veduto, nell'Appendice I, che anche l'arte, secondo il mio debole parere, contribuisce a far credere gli Etruschi provenienti dall'Oriente piuttosto che dall'Occidente, almeno fino a nuovi ritrovamenti archeologici e soprattutto linguistici.

Ma questo non si è ancor dimostrato; il che facciamo ora brevemente, come il luogo e la mole del lavoro ce lo permettono.

Vi è pertanto un assieme di fatti che non devono essere trascurati. La stessa grandiosità delle costruzioni etrusche, delle applicazioni fatte dagli Etruschi delle volte e delle armature, la stessa solidità e vastità di piani nell'architettura etrusca si direbbe alunna di quella egiziana, che fa meraviglia ancora oggi a quale perfezione sia giunta. L'uso poi della decorazione geometrica, l'horror vacui, la moda delle epigrafi incise direttamente sul monumento, il lusso delle oreficerie con pietre preziose (ved.tav. 35 ), la predilezione per gli ornamenti decorativi e pei vivaci colori, la frequenza di vasi a rilievo, già usati nei paesi greci, l'impiego dei motivi plastici e pittorici animaleschi, l'uso del Canopo o urna funeraria con ritratti e la presenza delle maschere funebri (ved.tav. 30 ), sono tutti indizi di affinità e di contatto prolungato con gli Orientali e coi Greci Asiatici, e collegano la civiltà etrusca con quella micenea ed omerica in genere.

C'è in tutta l'arte etrusca ed omerica quel convenzionalismo orientale che mantiene anche nei suoi periodi più avanzati la rigidezza arcaica delle mosse, la scelta dei tipi in piedi, senza moto e grazia, la preferenza per rappresentazioni figurate d'indole decorativa, e simbolica, mancanti della vera vita (ved.tav. 33 ).

Carro con cavalli alati (Bassorilievo d'avorio di carattere cipriota, analogo a una classe di lavori etruschi arcaici). Tavola 33. — Si rinvenne a Corneto, e si trova ora al Louvre (Parigi).

Ved. Melani, Manuale di scultura italiana antica e moderna, Milano, Hoepli, 2ª edizione, tav. I.

Nell'applicazione poi dei tipi e dei motivi dell'arte etrusca si vedono i caratteri dell'importazione marittima, come di popoli venuti dal mare, non per via di terra. Nulla ci suggerisce la civiltà del centro d'Europa, che non ammette assolutamente quegli elementi orientalizzanti e d'importazione, che noi troviamo nella civiltà etrusca, fino al punto in cui si assimila la civiltà greca e romana, trasformandole entrambe.

Se noi, però, ci soffermiamo a considerare il valore intrinseco di quest'arte etrusca, troviamo (d'accordo col Martha, com'egli esprime in un'appendice al suo lavoro magistrale sull'arte etrusca), che mancavano agli Etruschi l'invenzione e il sentimento artistico, mentre non si può loro negare un certo spirito di realismo, e una forza di imitazione e di assimilazione dei varî elementi artistici non minore di quella dei Romani. — Questo spirito di verismo è però tale che impedisce di aggiungere anche il menomo lato ideale alle rappresentazioni artistiche, ammettendovi invece l'orrido più osceno e sgradito, purchè risponda al concetto che essi se ne fecero, o se ne vogliono fare. Ciò non toglie che nella pittura e nella plastica bisogna concedere agli Etruschi una certa originalità pel ritratto e per la rappresentazione delle scene intime, familiari. E difatti nel ritratto furono maestri ai Romani, come lo furono nella predilezione per quei grandi bassirilievi di processioni funerarie, o trionfali, che diedero ai Romani l'idea di ornare i loro archi e monumenti dei noti bassirilievi storici, nonchè di alcuni ritratti parlanti per somiglianza e vivezza di tratti fisionomici.

Se gli Etruschi dovettero dibattersi tra la forma convenzionale dell'Oriente e quella troppo ideale della Grecia, se non ebbero tempo di immedesimarsi sempre e perfezionarsi negli elementi estranei coi quali venivano a contatto, non si può negare alla loro arte, oltre l'intuito della natura, del ritratto, del bassorilievo, anche il gran merito di aver fatto riconoscere ed apprezzare ai Romani l'ellenismo nelle sue varie forme, in modo che non si può studiar bene l'arte greca in Roma, nè l'arte stessa romana senza rilevare la parte avuta dagli Etruschi nel diffondere gli elementi dell'ellenismo nelle varie città del Lazio e dell'Etruria.

Pur riconoscendo, però, che l'arte etrusca ha familiarizzato, per così dire, Roma con l'ellenismo, è doveroso riconoscere pure che, per la mancanza del senso estetico, venendo meno agli artisti etruschi il concetto delle proporzioni esatte delle parti del corpo, il che è fondamento della vera bellezza, non potè mai l'arte etrusca inalzarsi a quelle sfere ideali e perfette che ammiriamo nell'Ellade e in Roma. Lo stesso carattere, la stessa costituzione fisica, le abitudini, le aspirazioni del popolo contribuivano a dare un'impronta tutta speciale all'arte loro. Infatti gli Etruschi ebbero presto il concetto della ricchezza, del fasto, e, per natura inclinati al piacere, sotto la sua forma più grossolana, crearono un'arte materiale, verista al sommo grado, lottante per di più con le superstizioni e le credenze demoniche, molto vive nel popolo, e tali da ispirare un certo timore e ribrezzo per quello che credevano utile di fare a vantaggio della famiglia o dello Stato.

Gli Etruschi, venendo in Italia, portarono seco un patrimonio artistico relativamente misero, che accrebbero immensamente a contatto coi Greci asiatici e del continente, e coi Fenici. Ma nemmeno questo scambio di idee, di costumi, di aspirazioni valse a togliere dall'arte etrusca quell'impronta di rigidezza, di goffa asprezza, di sproporzione, che essa presenta anche nei momenti dell'arte libera.

Tanto il Martha citato (ved. Art étrusque ), quanto l'Amelung ( Führer durch die Antiken in Florenz ) rilevano, però, come vi fosse negli Etruschi, in compenso della mancanza del sentimento estetico e della facoltà dell'invenzione, oltre il principio di assimilazione e di verismo citati, anche una gran cura e quasi uno sfoggio nel ritrarre i particolari dei vestiti, degli ornamenti, delle decorazioni, e un gran culto per l'arte greca, che essi imitano, diffondono, e fanno apprezzare, come s'è detto, anche ai Romani.

II. — Toreutica.

1. Osservazioni generali. — Abbiamo già notato che gli Etruschi riuscirono più valenti nell'arte applicata o industriale, che non in quella pura. La parola toreutica veramente indica il lavoro di cesello (τορευτική, lat. caelum, caelatura ), ma il vocabolo si estese con più largo senso alle varie forme di lavoro di incisione, di rilievo, o di commessione dei metalli (oro, argento e bronzo). Lavori di toreutica si hanno in gran numero nelle raccolte d'antichità etrusche, perchè erano dei rami più produttivi e più sviluppati. Opere di industria così fiorente erano candelabri, lampadari, tripodi, bracieri, coppe, varie foggie di vasi, specchi, cofanetti o ciste, patere, anelli, e le così dette bulle, che erano un ornamento portato dai fanciulli, a guisa d'amuleto, d'origine e d'uso propriamente etruschi, passato poi ai Romani; insomma ogni guisa d'ornamenti femminili, fornimenti di cavalli, o phalerae, armi, utensili domestici. La quantità di queste opere, mirabili per la ricchezza della materia e la finitezza del lavoro, è prova della prosperità e dell'inclinazione al lusso della nazione etrusca.

2. Candelabri. — Celebrati erano i candelabri tirreni di bronzo, cesellati con varietà di figure e d'invenzioni ornamentali, e destinati all'uso domestico e religioso. Di queste opere l'arte industriale etrusca faceva esportazioni. Un frammento di Ferecrate, comico dei tempi di Pericle[73], cita un candelabro tirrenico come un capolavoro. Candelabri si trovarono nei sepolcri insieme con altri arredi sacri o domestici. Constano generalmente di un'asta su base, con punte in cima da infiggervi le candele, o con piattello o bacinetto per la lucerna ( lychnuchus ). La grande varietà e l'eleganza delle forme sono prova dell'ingegno inventivo degli Etruschi. Le basi sono o di piedi belluini, o di ben composte forme umane od animali; le aste o fusti raffigurano colonne, o alti steli terminati in capitelli varî, in fiorami, in bacini, o coppe ornate. Su per il fusto sono spesso figure rampanti d'animali, talora figure umane in vario atteggiamento fanno da sostegno, ed altre si ripetono sull'estremo dell'asta (ved. Atl. cit., tav. XXX ).

I lampadarî pendenti dall'alto, con più fiamme, con ricchi ornati usati dagli Etruschi, e in genere dagli Italici, nelle case signorili e nelle tombe, sono designati col nome di lychni[74]. L'esemplare più insigne di questa classe è il lampadario rinvenuto a Cortona nell'anno 1840, e ancòra conservato in quella città, mirabile per grandezza, per figurazione assai ricca e variata, e per isquisita finezza di lavoro a cesello in alto e basso rilievo[75].

3. Specchi. — Una classe singolare e assai importante di bronzi etruschi è costituita dagli specchi; sono dischi piatti, con un leggiero rialzo all'ingiro, con manubrio, lisci da un lato, ornati di disegni nell'opposto, solitamente incisi o graffiti a punta, più raramente fatti a rilievo. Si rinvennero nelle tombe etrusche, e dapprima si chiamarono col greco nome di φιάλαι, o col romano di paterae, cioè tazze da libazione nel sagrifizio; poi Inghirami li riconobbe come specchi, loro attribuendo però un significato ed un valore religioso e mistico; a questo dava special motivo il fatto di trovarli frequentemente dentro cofanetti, o ciste, anch'esse qualificate per mistiche. Oggi però è accettata l'opinione che siano specchi comuni, come lo sono le ciste e la loro suppellettile muliebre. L'uso di questi dischi come specchi comuni è comprovato dal vederli rappresentati in mani femminili sui bassorilievi e sui vasi dipinti. Le rappresentazioni incise a punta, e spesso accompagnate da inscrizioni dichiarative delle figure, sono assai importanti per lo stile dell'arte, per il contenuto mitologico, e per i nomi che vi sono inscritti.

Il contenuto delle rappresentazioni è solitamente di miti greci nazionalizzati etruschi. Frequenti sono le figure alate senza inscrizioni, che soglionsi dichiarare per imagini della Fortuna etrusca, il cui culto passò poi a Roma. Tali rappresentazioni della Fortuna con suoi attributi si riferiscono allo scongiuro del fascinus, o della jettatura, diffusissima superstizione italica. Con la Fortuna si hanno imagini di altri Dei averrunci, quali, p. es., i Penati. Le rappresentazioni di scene della vita comune sono rare. Il progresso dello stile vedesi negli specchi, come negli altri rami dell'arte etrusca. Alcuno ve n'ha con rappresentazione di stile arcaico, che mi sembra prossimo a quello delle situle estensi (ved., per es., specchio etrusco di Castelvetro, illustrato dal Cavedoni[76] ). I più hanno uno stile diligente, ma stentato e penoso, e nelle figure scorretto. In questi monumenti, come nelle urne o sarcofaghi, vedesi l'arte etrusca, che tenta di ravvivarsi con la greca, o forse l'arte greca che si corrompe in mano di artefici etruschi. La maggior parte degli specchi ornati di figure viene dalle tombe dell'Etruria propria; parecchi, ma con qualche differenza di carattere, da tombe del Lazio, e specialmente da Preneste; pochi, e per lo più lisci, sulle due faccie, salvo qualche leggier fregio di ornato, provengono dall'Etruria Circumpadana (v. Atl. cit., tav. XXXI )[77].

4. Le ciste a cordoni. — Parlando delle scoperte felsinee si sono ricordate le ciste a cordoni, deposte in tombe per contenervi ceneri, ma effettivamente prima oggetti da toletta. La forma a cordoni è la più antica, la primitiva per tali ciste; le quali per la maggior abbondanza di ritrovamenti in regioni padane, a cominciar dalla prima scoperta a Monteveglio, nel Bolognese, l'anno 1817, si credettero opera degli Etruschi settentrionali. Altro genere di ciste, o a dir meglio, ciste lavorate in tempo d'industria e d'arte assai più progredite, e fornite quindi d'un maggior pregio intrinseco, ma derivanti dal tipo primitivo della cista a cordoni, sono le ciste trovate in tombe dell'Etruria propria, a forma di vaso cilindrico riposante su peducci lavorati, chiuso da coperchio, ornato di rappresentazioni figurate, incise a punta, o fatte a rilievo. Il passaggio dalla forma primitiva a questa più sviluppata parrebbe rappresentato da una cista trovata a Vulci, che ha il corpo ornato di quattro cordoni rilevati ed è sostenuta da peducci ad unghia forcuta sormontati da testa di Medusa[78].

La celebre cista Ficoroni, ora al Museo Kircheriano in Roma. Tav. 34. — Per l'epigrafe ved. Serafino Ricci, Epigrafia latina. Milano, Hoepli, 1898, tav. LII, e relativa bibliografia intorno alla cista Ficoroni.

A questi cofanetti si volle attribuire un carattere religioso, come destinati a qualche speciale uso nelle misteriose funzioni di Bacco, e perciò le chiamarono ciste mistiche. Ma, come già si è detto, gli oggetti in esse solitamente contenuti, spettanti al mundus muliebris, cioè specchi, vasetti da unguento, fibule, aghi crinali, pettini di metallo, di osso o di legno, strigili, ecc., e perfino un ricciolo di capegli posticci (tanto è antico l'inganno delle belle chiome!) dicono chiaramente che son scatole o nécessaires de toilette, senza che tuttavia resti assolutamente esclusa la possibilità anche d'una sacra destinazione. Le più delle ciste non si trovarono nell'Etruria ma bensì nella città latina di Preneste, onde la denominazione di ciste prenestine; esse valgono come antichi esempî dell'arte latina con influenza greca; e quindi se ne riparlerà più avanti.

La singolare perizia degli Etruschi nel lavoro dei metalli, la particolare loro disposizione non ai grandi concetti artistici, ma al lavoro minuto e diligente, si rivela nei molti oggetti preziosi d'ornamento, finissimi lavori d'oreficeria e di glittica. Di oro sono collane, armille, corone di varissime foggie, fibule, bulle, anelli, con varietà grandissima di invenzioni decorative e con perfezione non mai superata. Buona parte di tali oggetti in tombe antichissime hanno caratteri di gusto e di stile orientale, fenicio e babilonese, con figure di sfingi, leoni, mostri alati, e collane con pendagli formati di idoletti egizî (ved.tav. 35 ).

Oreficeria etrusca (dal Museo del Louvre). Tav. 35. Bijoux di varia dimensione, forma e fattura; dall'opera di J. Martha, L'art étrusque, tav. I. — N. 3, orecchino con granate. — 4, collier con scarabei di cornalina. — 1, 9, 10, orecchini in filigrana d'oro con oggetti d'ornato in smalto.

Del pazientissimo e difficile lavoro d'intagliare in un incavo le pietre dure, che il Vasari disse “un lavoro al buio„, gli Etruschi lasciarono esemplari ammirabili. Sono pietre incastonate in anelli, o varie forme di amuleti da appendere al collo, specialmente quelli all'egizia foggia di scarabei, cioè globuli d'agata, d'onice, di sardonia (ved. tav. cit.35 ), bucati per il lungo, figuranti nella parte superiore il sacro scarabeo colle elitre chiuse, e nell'inferiore una faccia piana, incisevi con microscopica minutezza figurine ed inscrizioni. Gli scarabei sono superstizione egizia, che considerava quest'animaluzzo quale divinità, simbolo del principio virile. Queste pietre incise, che trovansi nelle tombe etrusche più antiche, in parte sono di importazione orientale, fenicia, in parte vera lavorazione degli Etruschi, che per religiose superstizioni amavano ornarsi di tali amuleti. L'esemplare più perfetto d'intaglio etrusco è una sardonice orientale nel cui piccolissimo campo è rappresentata con esimio lavoro una scena di guerra, cioè due soldati che sorreggono un compagno ferito[79].

C. — Pittura etrusca.

I. — Osservazioni generali.

La pittura fu molto esercitata dagli Etruschi, ma limitata alla decorazione. La compiacenza nella vivacità del colore si mostra nell'uso di colorire le parti architettoniche, dipingere i rilievi dei sarcofaghi e perfino le statue. Questa predilezione per la policromia tiene ancora qualche cosa dell'infantile, mostrando inclinazione all'effetto, senza intelligenza o cura di naturalezza. Così ad esempio, in pitture etrusche si vedono bizzarrie d'animali, metà di un colore e metà di un altro, cavalli rossi con criniera azzurra, o cavalli interamente azzurri con unghie rosse o verdi. La pittura etrusca vincolata quindi dal simbolismo ieratico, limitata ad arte decorativa, non ebbe libero sviluppo; manchevole la composizione delle figure; mediocre il disegno, senza chiaroscuro, senza rilievo dei corpi; il colorito convenzionale, inteso all'effetto, o voluto da una significazione simbolica.

Danza bacchica e caccia.

(Tomba della Querciola presso Corneto ).

Tavola 36.

Ved. Melani, Manuale di pittura italiana antica e moderna. Milano, Hoepli, 2ª ediz. tav. II.

Pitture chiusine rinvenute nell'anno 1833.

I. Danze e ludi varî. — II. Corse di bighe.

Tavola 37.

Ved. Monumenti inediti pubblicati dall'Istit. di Corr. Archeol. di Roma, vol. V. (1849-53), tav. XXXIII; cfr. E. Braun in Annali Ist. Corr. Arch. 1851, p. 268-278.

Dai grandi dipinti murali nelle tombe noi abbiamo i migliori documenti della pittura etrusca; questi dipinti risalgono in parte a remota antichità, ma forse non come farebbe credere Plinio anteriori alla fondazione di Roma[80]. Le rappresentazioni solitamente si riferiscono ai riti funebri e alla condizione delle anime dopo la morte, banchetti funebri con uomini e donne sedenti su triclinî, incoronati con musiche e danze, quasi a indicare la beatitudine dell'anima dopo la morte; caccie, corse, ludi gladiatorî, scene mimiche e comiche (ved.tav. 36 e37 ), a propiziazione in favore dell'estinto per divinizzarlo, come il cristiano con le preghiere e con le funzioni pei defunti ha fede di contribuire alla sua beatitudine eterna (vedi Atl. cit., tav. XXXII; Achille sacrifica ai Mani dell'amico Patroclo ). Si hanno inoltre rappresentazioni di anime discendenti all'Averno, condotte da genî buoni e da genî mali; soggetti infernali tolti alla mitologia come la tomba dell'Orco a Corneto; genî e divinità infernali fra cui Charun, col naso adunco, lunghi denti, serpi attorgigliati al corpo, carnagione verde. Si aggiungono animali e mostri fantastici, disposti sopra il fregio fra l'incorniciatura e le volte, con fascie di ornamentazione spesso assai belle. La colorazione era anche applicata alle figure scolorite sui sarcofaghi, ornati spesso di pitture a tempera sullo stucco, simulanti l'effetto del bassorilievo[81]. Talvolta nel mezzo delle pareti sono dipinte porte chiuse che, simboleggiano l'ingresso al mondo delle anime, non più rivarcabile, e insieme dividono in due campi la rappresentazione. Le figure staccano con le tinte chiare delle carni, coi colori vivaci delle vesti sul fondo or bruno, or rossastro delle pareti a stucco, e stanno allineate, con poca prospettiva, e con rari particolari, come tra figura e figura frondi e rami (ved.tav. 40 a e b ), allusivi talora agli alberi dei giardini d'Eliso. Le figure sono disegnate a contorno, gli spazi interni riempiti di colore; nella colorazione c'è ricerca di effetto.

Dalla tomba del Citaredo a Corneto. Tavola 38. — Testa di un citaredo.

Ved. Ann. Ist. Corr. Arch. di Roma, 1863, tav. d'agg. M, e dall'opera di Jules Martha, L'art étrusque, pag. 438, fig. 289.

Dalla tomba del Citaredo a Corneto. Tavola 39. — Testa di una danzatrice.

Ved. Ann. Ist. Corr. Arch. di Roma. 1863, tav. d'agg. M, e l'opera di Jules Martha, L'art étrusque, pag. 438, fig. 290.

II. — Le due scuole pittoriche principali.

Come si è veduto nella plastica, così nella pittura etrusca vi sono due periodi e due scuole o maniere: l'arte arcaica nazionale o toscanica; l'arte etrusco greca. Queste due scuole hanno avuto una successione cronologica, e poi vissero anche insieme. Nelle pitture del periodo arcaico vi è la solita rigidezza di disegno, durezza di atteggiamenti e di mosse, con sforzo d'imitazione della realtà; le figure non mancano di rilievo, ma stanno allineate; manca la viva espressione dell'azione, mancando l'accordo fra il concetto e l'esecuzione artistica.

Succede un periodo intermedio fra l'arte nazionale e l'arte di scuola greca, in cui c'è un arte più libera ed agile. Infine nel seguente periodo dello stile compreso nell'influenza greca, vi è un passo alla maniera propriamente pittorica (ved.tav. 38 e39 ); l'artista padroneggia gli strumenti dell'arte; traduce copia maggiore d'idee, mostra sentimento del bello, piena intelligenza delle forme; sollevandosi oltre la stretta imitazione della realtà, tende a nobilitare i soggetti; i volti prendono espressione e tengono del profilo greco (ved.tav. 41 ); le vesti seguono le movenze con leggerezza di pieghe e di svolazzi (ved.tav. 40 b ). È probabile che tale influenza venisse dalle scuole surte nel tempo dei Diadochi.

Danza bacchica.

(Tomba del Triclinio a Corneto).

Tavola 40 a.

Ved. Melani, Manuale di pittura cit., 2ª edizione, fig. 1.

Danza bacchica.

(Tomba del Citaredo a Corneto).

Tavola 40 b.

Ved. Melani, Manuale di architettura cit., 2ª ediz., fig. 12.

Dalla tomba dell'Orco a Corneto. Tavola 41.

Ritratto di Arnth Velchas.

Ved. Monumenti, IX, tavola XIV; Jules Martha, L'art étrusque, cit. pag. 398, fig. 271.

Non sempre però si può dire che un dipinto di stile toscanico sia d'età anteriore ad uno di stile con influenza greca, giacchè o per condizioni locali o per individualità dell'artista, eravi un arcaismo di maniera, protratto oltre il periodo di suo naturale sviluppo, v'era la scuola dei pittori toscanici, che continuavano a lavorare nel proprio stile arcaico[82].

III. — Ceramica etrusca.

1. — Osservazioni generali.

I vasi fittili di foggie e dimensioni variissime, dipinti a figure nere su fondo chiaro, giallastro, o rosso, ovvero a figure chiare e rosse su fondo nero, che uscirono dalle tombe etrusche, e principalmente da Vulci in gran copia, e che si raccolsero in luoghi dell'Etruria Settentrionale, ad Adria, a Marzabotto e nella necropoli della Certosa, come già si è detto[83], sono prodotti di fabbriche greche, importati nell'Etruria, dove, come doni e funebre suppellettile, erano assai pregiati. Che tali vasi servissero ad ornamento è dimostrato dall'esser tuttavia nuovi, senza vernici interne che impedissero l'assorbimento dei liquidi, e spesse volte anche senza fondo. Importati in Etruria dalle fabbriche di Corinto, Atene, Egina, e più tardi da fabbriche italo-greche campane ed apule di Nola e di Ruvo, questi prodotti diedero luogo al sorgere di officine ceramografiche etrusche imitanti le greche. Così, mentre da suolo etrusco vengono vasi che rappresentano i varî momenti e le varie maniere della ceramografia greca, si hanno poi anche vasi dipinti propriamente etruschi, che in parte sono prodotti originali etruschi, e in parte imitazioni di prodotti greci.

2. — Vasi toscanici.

Sono da classificare fra i prodotti ceramografici etruschi certi vasi policromi, che per disegno e colorazione ripetono i caratteri dell'arcaismo e certe peculiarità della pittura toscanica[84]. Sono vasi di fondo nericcio, con figure umane e d'animali, di puerile disegno e di bizzarra colorazione. Uno di essi porta il disegno di due grandi occhi, quali vedonsi anche in vasi dipinti greci contro il fascino, ossia il mal occhio, significato della figura gorgonica da Luciano detta ἀποτρεπτικὸν τῶν δεινῶν, ed anche delle figure falliche, talvolta occhiute.

3. — Vasi d'imitazione greca.

Nella numerosa classe dei vasi dipinti al modo greco è facile di riconoscere quelli di lavorazione propriamente etrusca; e i principali criterî distintivi sono: le qualità delle rappresentazioni, riferentisi a costumi etruschi, o a miti ellenici etruscizzati coll'intervento frequente dei genî infernali e di Charun; lo stile del disegno specialmente inferiore al greco, e con certi suoi caratteri d'ineleganza, di sproporzione già accennati per le pitture sepolcrali e per gli specchi; la qualità dell'argilla è meno fina e meno buona delle vernici greche; infine le iscrizioni sono etrusche[85].

Secondo il Micali, fu copioso e vario l'uso dei vasi dipinti presso gli Etruschi dal I al III sec. di Roma; migliorò la loro fattura nel sec. IV; durò nel V e nel VI; ma al tempo di Cesare e di Augusto quei vasi già parevano antichi, e cercavansi come oggetti d'antichità nei sepolcri di Corneto e di Capua.

4. — Vasi detti buccheri.

(Ved.tav. 42 ).

Ma più antichi dei vasi dipinti sono i vasi etruschi di terra nera, che si trovano in tombe, quasi non mai insieme con vasi dipinti, a Vulci, a Corneto, a Cere, ed in maggior abbondanza a Chiusi, dove forse fu il principal centro di tale fabbricazione, per il che diconsi anche vasi chiusini; generalmente sono conosciuti col nome di buccheri. Sono d'argilla nera, non cotti ma seccati al sole, con la superficie di certa lucentezza metallica; hanno dimensioni e foggie assai varie, talora belle, ma ricercate e bizzarre, assai lontane dall'eleganza greca. Sono ornati di figure a rilievo assai basso, fatte a stampo, con rappresentazioni allusive a misteri religiosi ed a riti funerarî, con imagini di divinità infernali, con animali e mostri fantastici di carattere orientale, quali vedonsi su vasi dipinti della maniera più antica. Le proporzioni delle figure umane sono tozze, lo stile del disegno è primitivo. Antichissimi, questi vasi forse vengono sùbito dopo la ornamentazione geometrica. Helbig suppone che siano una riproduzione dei vasi metallici, ed il loro stile un'imitazione dello stile metallotecnico; li crede anche d'importazione forestiera, poichè se ne sono trovati altri esemplari a Cuma ed anche a Cameiros[86].

Vasi etruschi in bucchero di varie forme, provenienti da Chiusi. Tavola 42. — Dall'opera di Nöel des Vergers, L'Étrurie et les Étrusques, tavola XIX.

5. — Vasi aretini.

Vasi d'altra forma, alabastri, canopici.

Un gran centro d'industria ceramica era Arezzo, detta la Samo d'Italia. Ma i suoi prodotti sembrano di un periodo meno antico, rispondente all'ultimo secolo della Repubblica romana ed ai primi dell'Impero. Gli aretina vasa, tanto spesso ricordati, sono d'un bel rosso corallino, con vernice, e spesso con eleganti rilievi; da scoperte di tali vasi fatte in altre località s'arguisce che fossero molto diffusi, o facessero anche altrove sorgere fabbriche imitanti i prodotti aretini. Difatti noi li troviamo in gran copia nelle tombe di varie località anche settentrionali e meridionali d'Italia, come suppellettile funebre comune, nè tutti hanno la leggerezza e finezza della pasta, nè la lucentezza ed eleganza dei veri vasi aretini[87].

Si raccolsero nelle tombe etrusche vasetti unguentarî e balsamarî, che solitamente si denominano alabastri, dalla materia di cui molti di essi sono fatti, e la maggior parte erano fatti antichissimamente. Sono vasetti da contenere profumi, essenze e balsami, generalmente di forma cilindrica, arrotondati alla base con bocche a piccolo imbuto. Ve n'ha d'alabastro, di vetro, d'argilla dipinta. Se ne trovano in tombe asiatiche, greche ed italiche. Alcuni già ne abbiamo ricordati, trovati in stazioni dell'Etruria propria; terminano a forma di testa o anche d'intero busto femminile, con foggie e attributi orientali, e sono certamente d'importazione fenicia[88].

S'incontrano pure nei sepolcri etruschi i vasi che diconsi canopici, destinati a contenere le ceneri del defunto, e terminati o sormontati nel coperchio da testa umana, o anche da busto con mani alzate o ripiegate sul petto, ritraente le fattezze di colui le cui ultime reliquie stanno nel vaso raccolte, secondo il costume seguito normalmente dagli Egizî (ved.tav. 30 ).

Nella grande copia di vasi usciti da tombe etrusche vogliono essere ricordati alcuni assai rari e belli, inargentati, ornati di teste in rilievo, e di composizioni d'ottimo stile greco rappresentanti la pugna delle Amazoni, Ercole col leone Nemeo, Socrate a colloquio con Diotima. Trovati alcuni di essi a Orvieto ed a Bolsena, sono nuovi documenti d'importazioni greche nell'Etruria, giacchè tali li dimostra non solo lo stile, ma anche l'analogia di altri simili casi di officine italo-greche di Apulia, e si sono diffusi tanto in tutta Italia, da ritrovarne perfino nel Piemonte. Un bellissimo esemplare, p. es., c'è al R. Museo delle antichità in Torino, nella sala dei cimelî piemontesi sotto il dominio romano[89].

APPENDICE III. Le ultime ricerche sugli Etruschi e la fondazione del Museo topografico dell'Etruria a Firenze.

Molte scoperte delle antichità etrusche non vi furono in questi ultimi anni, ma piuttosto vi fu coordinamento scientifico di quelle già esistenti. Le varie scoperte sono state pubblicate sulle Notizie degli scavi, della R. Accademia dei Lincei in Roma: gli studî più importanti furono continuati nella parte archeologica ed epigrafica dal Gamurrini, dal Milani, dal Ceci e da pochi altri[90], nella parte glottologica soprattutto dall'illustre prof. Elia Lattes, di cui si è già parlato[91].

Ma uno dei fatti più importanti è quello di coordinamento delle antichità già esistenti, raccolte con cura intelligente e paziente a Firenze al Museo etrusco dall'illustre suo direttore professor L. A. Milani.

Già per merito dell'immortale abate Lanzi, dello Zannoni e del Migliarini si erano costituite le RR. Gallerie di Firenze, da un lato le prime collezioni egizie, dall'altro le prime collezioni etrusche, divise fin dal tempo del Lanzi per serie e per soggetti, perchè servissero alla storia dell'arte e allo studio intrinseco delle antichità.

Ma gli oggetti, per l'incremento dato alla collezione sotto la direzione generale del compianto Fiorelli, erano ormai pigiati nel locale angusto di via Faenza, e solo nell'anno 1879 per la tenace energia del R. Commissario prof. Pigorini trovarono più degna sede nel Palazzo della Crocetta, che è tuttora quello contenente il R. Museo archeologico di Firenze.

La distribuzione delle antichità era stata fatta seguendo il sistema pratico del Gamurrini, della distinzione per serie, adottando poi l'ordinamento geografico e topografico nel classare gli oggetti entro le singole serie.

Ma il Milani, riconoscendo l'utilità se non più pratica, però molto più scientifica (ed ora di capitale importanza per le indagini sulle origini e sulla propagazione della civiltà degli Etruschi), che era stata propugnata dal Genarelli, ebbe l'idea felice di attuarne l'ordinamento topografico, che fino allora era stato, per le ragioni suaccennate, messo in disparte e abbandonato.

Il Milani opportunamente cita nel suo magistrale lavoro sul Museo topografico dell'Etruria[92] i criterî che avevano determinato il Genarelli a proporre di preferenza la distribuzione geografica e topografica delle antichità etrusche, e tali criterî il Milani ripresenta come base del suo programma scientifico.

“Fermo il principio — scrive il Milani — che negli avanzi sculti e figurati compresi nel campo dell'archeologia, si ha una miniera di documenti atti a svelarci la vita, le costumanze, le fasi di prosperità o di decadimento di un paese o di un popolo, l'ordinamento più razionale e più utile di un Museo si è quello in cui i monumenti sieno disposti geograficamente, nè già divisi per serie generali; ma, al contrario, lasciata da parte la classe a cui appartengono per la forma, per la materia e per l'arte, si trovino riuniti insieme e sistemati in complesso tutti quelli che spettano ad un dato paese, il quale potrà solo in siffatta guisa essere, per mezzo della scienza archeologica, più sicuramente e più logicamente studiato e messo in evidenza„ (op. cit., pag. 14).

Conseguentemente a questi concetti, il Milani, avendo materiale archeologico a sua disposizione molto maggiore dei precedenti, ordinò i monumenti di provenienza etrusca nel pian terreno del Palazzo della Crocetta, in diciasette sale, ove figurano i principali centri della civiltà etrusca raggruppati intorno alle città rispettive.

I centri rappresentati nel Museo sono: Vetulonia sul Poggio di Colonna nelle prime tre sale: prima sala delle tombe a pozzetto, seconda sala delle tombe a circolo, terza sala del tumulo della Pietrera; Populonia (terza sala insieme con gli oggetti precedenti); Volsinii (quarta sala), comprendente le antichità di Orvieto e di Bolsena; Cortona, Arretium (Arezzo) con la celebre chimera in bronzo e la Minerva; Volaterra (Volterra), Chiusum (Chiusi) nella quinta sala, e Chiusi continua nella sesta sala, ove sono raccolti i monumenti iconici, specialmente i cosidetti Canopi chiusini (ved.tav. 30 di questo Manuale ), e nella settima, ove vi è disposta la Collezione Vagnonville.

L'ottava sala conteneva le antichità di Luna, l'antica Luni, e la nona quelle di Falerii, corrispondente a S. Maria di Falleri. Tuscania, corrispondente a Toscanella, ci presenta il suo bel leone di nenfro nella sala decima. Di Visentia, o Visentum sul luogo dell'attuale Bisentium si può seguire la storia e le tracce dalle origini fino al secolo V a. C., per mezzo soprattutto della ceramica nella sala undecima. La sala duodecima contiene i frantumi del tempio e le altre antichità minori di Telamone. Seguono poi le antichità di Tarquinii nella sala decimaterza, e da questa si passa molto più lontano nella decimaquarta, ove sono raccolti tutti i monumenti antichi, compresi, oltrecchè nell'àmbito della città di Volci (Vulci), anche nel territorio fra l'Albegna e l'Arrone, cioè la Pescia (romana) Succosa, Marsiliana, Poggio Buco, Pitigliano, Suana.

Seguono poi tanto nel Cortile, (XV), quanto nelle sale decimasesta e decimasettima le antichità di Florentia. Nel cortile vi sono esposti i resti architettonici, nella sala decimasesta la casa repubblicana e le terme attigue, mentre nelle ultime sale il Milani raccolse tutte le antichità primitive di Firenze, siano esse etrusche, siano anche romane, con le quali finisce la distribuzione topografica del Museo etrusco di Firenze.

III. ARTE ROMANA

BIBLIOGRAFIA

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III.

Arte romana.

I. — Osservazioni generali.

I Greci signoreggiarono il mondo antico e ancòra hanno effetto sulla vita moderna con l'arte, con le grazie e coll'espressione del bello; i Romani invece con la forza, con la sapienza civile e politica. Come nell'arte greca vi è uno sviluppo organico e continuo, dalle prime forme rudimentali alla pienezza del suo fiorire, così un vero sviluppo progressivo e naturale dagli ordinamenti comunali a quelli di vasto impero sta nella romana costituzione, perchè come ai Greci lo spirito artistico, così ai Romani fu congenito e proprio lo spirito politico.

Se però non si può affermare che i Romani fossero naturalmente propensi all'arte, perchè rivolsero la loro attività a imprese ch'essi dicevano di maggior momento, e furono difatti in principio causa del loro progresso, sarebbe però eccessivo se s'intendesse negata ai Romani ed agli antichi popoli italici in generale la naturale disposizione, l'intuito per l'arte. Le disposizioni estetiche erano sopraffatte da altre facoltà più vive e più impellenti, cosicchè quelle o stettero latenti od ebbero un lento sviluppo; e quando per condizione interna di maturità e per favore d'esterne circostanze poterono fiorire, allora vennero arrestate e sopraffatte da irresistibili influenze di un popolo che l'arte aveva portato alla massima esplicazione; come avviene d'un ruscello che, dopo lungo corso, alimentato per altri rivoli accolti, sta per divenire corrente, s'incontra in un maggior corso d'acqua, in quello immette e vi si confonde.

Mentre in Grecia nella più antica età la poesia è già meravigliosamente sviluppata con l'epica, e prepara la via all'arte figurativa con la chiara percezione delle imagini divine e dei tipi eroici, in Roma invece trascorre assai lungo spazio di sua storia prima che una poesia s'addimostri formata con chiara intelligenza di tipi e d'imagini, prima che le divinità cessino d'essere una confusa astrazione e con plastica evidenza diventino fonte d'ispirazione all'arte. Roma dai primi suoi tempi fino al VI secolo, tutta intenta a difendere l'indipendenza sua ed a svolgere gli interni suoi ordinamenti, non ha sviluppo e progresso d'arte. Con l'attività assorbita nella vita pratica, con lo spirito inteso all'utile ed alla realtà del momento, senza slancio verso l'idealità, senza vivace movimento del pensiero nelle imagini, il popolo romano rimane, per il rispetto artistico, in condizione inerte, passiva, pronto al ricevere, ma non già a produrre spontaneamente e con originalità di concetti. E le cause di questo? Se si sta alla leggenda delle origini, che dev'essere vera, altrimenti l'orgoglio patrio degli storici l'avrebbe negata, l'accozzo di elementi diversi, discordi, con tradizioni, credenze ed usi non fusi da tempo insieme impediva uno stato di vita propenso a ciò che è il fine d'ogni civiltà, il culto dell'arte.

Inoltre i Romani non ebbero tempo nei primi periodi di badare all'ornamento dell'intelletto, perchè erano costretti a pensare, come ho detto, all'ingrandimento e alla difesa della propria città e dell'attiguo territorio. Non bisogna poi escludere una causa fisica, cioè proveniente dalle condizioni del luogo e del clima, tanto diverso da quello dei Greci, specialmente atto a promuovere e ad eccitare nella bellezza e varietà della natura il sentimento del bello e del sublime naturale e dinamico. Infine senza dubbio vi influì la più recente origine di Roma, in modo che, quando questa era in condizione di fare di suo impulso e genio, si trovò di fronte una competitrice invincibile nell'arte, quale la Grecia, che l'ammaliò e la vinse col fascino della sua bellezza propria, allora, come si è detto poc'anzi, perfetta.

Perciò il popolo romano sùbito piega sotto l'influenza greca. Se non che un'altra influenza precedente, l'etrusca, aveva già modificati i caratteri ingeniti del popolo romano.

Parve a molti di poter mostrare il genio latino indipendente dall'influenza etrusca, ma questa non è così di leggieri negabile, sebbene sia da ridurre dentro più stretti limiti di quelli che prima le venivano assegnati. L'Etruria già sorgeva a grande civiltà quando Roma era appena nascente; dalla parte del Tevere e da quella del Liri e della Campania, dove un'etrusca federazione erasi formata (Etruria Meridionale o Campana), essa cingeva il Lazio. È possibile credere che uno stato nascente non risentisse della continua vicinanza d'uno stato salito a potenza, a florida civiltà? Può essere esagerata, ma infondata non è certamente la tradizione che lega di così stretti vincoli la sorgente società romana con l'etrusca. Ma d'altra parte però l'arte etrusca non aveva tale intima e sua propria vitalità da produrre una efficacia penetrante, decisiva. Un genio artistico creatore mancava alla gente etrusca, perciò pur essa a sua volta era facilmente soggetta ad influenze straniere; e già riceveva elementi dalla Grecia, e allo spirito ellenico s'inspirava, quando nel periodo storico che si assegna ai Tarquinî l'arte etrusca prese, secondo la tradizione, sviluppo e sèguito in Roma. Queste influenze prima etrusche e poi greche, che nei tempi antichissimi s'infiltravano nel Lazio, lungi dal cessare crebbero quando Roma, fatta potente, si sottomise le nazioni di lei più anticamente civili, alle quali essa avrebbe dato l'arte sua, così appunto come loro diede le sue leggi, se un'arte sua propria avesse potuto avere. Prima era l'influenza greca che per via di relazioni e di commerci s'insinuava nel Lazio; ma poi, quando la forza latina soggiogò le regioni dove la greca civiltà aveva fiorito, a questo pretesto si sottomise, e fu a sua volta il vincitore soggiogato dal vinto. Pongasi mente, per breve istante, al diverso tempo nel corso della civiltà greca e della romana. Si osservi come, al tempo dello splendido fiorire del pensiero e del sentimento greco, nel sec. V a. C. che prende gloria da Atene e nome da Pericle, Roma, ancora piccolo comune, guerreggiasse per la sua indipendenza contro Volsci, Ernici, Equi ed Etruschi, e nell'interno s'affaticasse nella penosa lotta della plebe col patriziato per l'eguaglianza dei diritti civili e politici. Si ricordi che, quando le città capitali dei regni sorti nell'Oriente dallo smembrarsi dell'impero d'Alessandro divennero centri vivi di studî nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, e si produceva quell'operoso movimento del pensiero antico che suolsi designare col nome d' ellenismo, allora Roma, fatta sicura contro gli assalti dei popoli più vicini al suo territorio, volgevasi un po' più lontano alle guerre coi Sanniti, alle prime relazioni coi popoli della Magna Grecia; ma era lungi dall'avere uno scrittore od un artista. La Grecia aveva ormai dato il meglio delle sue forze produttrici, già da lungo aveva trapassato il culmine del suo salire, e volgendo alla discesa ripensava e ripeteva sè stessa, quando Roma, compita la conquista d'Italia (266 av. C.), aggiuntasi la Sicilia (241 av. C.), legava le prime dirette sue relazioni con la Grecia propria. Nell'immediato contatto con la civiltà greca lo spirito romano fu interamente vinto e soggiogato.

Roma, che per più di sei secoli della sua esistenza non aveva avuto letteratura nè arte, o almeno avevale appena in germe, in facoltà ancòra latenti, fu allora commossa di spirito artistico, che penetrava nello spirito per esterno impulso. Quando nella conquista d'Italia i Romani venivano in relazione con le greche città del mezzodì, ammiravano, essi ancor rudi, le splendide opere d'arte per le quali quelle città erano ricche e belle. La presa di Taranto, e poi le legioni portate in Sicilia al tempo della prima guerra punica, le relazioni con la Grecia nel tempo della guerra illirica e dell'annibalica, la presa di Siracusa, città regina del mondo ellenico occidentale, resero i Romani sempre più familiari con la civiltà greca. Una nazione cui ancòra manchino letteratura ed arte, nuova allo studio del bel dire e della filosofia, nuova alla rappresentazione delle belle forme, la s'immagini messa in repentino contatto con l'altra nazione, che in tutto il dominio dell'arte, nella parola, nella musica, nella ritmica, nel disegno, nella plastica aveva toccato, anzi valicato il sommo della perfezione, e si pensi ciò che quel popolo ancor rude sia per risentirne. Le sue facoltà congenite, ma ancora incerte sono sopraffatte, e in loro luogo cresce e vigoreggia uno spirito nuovo, che in Roma fu l'ellenismo, il quale, dopo aver estesa la sua efficacia nel mondo orientale, ora conquista l'Occidente, e nella potenza romana, non che essere da essa spento, trova una forza che lo porta a nuova vita, a più larga diffusione.

Chi primo desta la vita letteraria romana è un greco, Livio Andronico, venuto a Taranto (a. 240 a. C.), che diede ai Romani una versione in versi saturni dell'Odissea, ed una prima azione drammatica di soggetto e di forma greca. Per impulso greco nasceva la poesia romana; Ennio impersona l'invadere della coltura greca nel Lazio, egli che in sè credeva trasmigrata l'anima d'Omero e ambiva di diventare l'Omero latino.

Al tempo della seconda guerra punica le greche muse a volo spiegato entrano nella bellicosa città di Romolo, secondo la bella imagine di Licinio nel distico citato da Aulio Gellio[93]. Il cittadino romano riconosceva il primato artistico della gente ellenica, e davanti a tanto splendore di civiltà confessava sè stesso rude ed agreste, e da quella civiltà richiamava gli inizî della propria, della Grecia, dicendosi fiero vincitore con l'armi, ma discepolo con lo spirito[94]. Ma a questa lodevole quiescienza accompagnava un chiaro e profondo sentimento della propria missione nel mondo, cioè l'unificazione delle genti nell'ordine di un forte e grande impero. Il diverso destino proposto alla nazione greca ed alla romana lo ha significato Virgilio con la solenne magniloquenza dei suoi versi immortali[95].

V'erano però parti più corrispondenti al genio romano, come quelle che concorrevano alla vita pratica, quali l'eloquenza, la storia, l'architettura, la scoltura storica; e queste, pur mantenendosi greche nel loro germe, svolgendo e variamente combinando i greci elementi, si fecero romane veramente, e adattate agli usi, alle condizioni del nuovo popolo, in sè portarono impressa la forza e la grandiosità di questo. Così all'architettura, combinando l'elemento etrusco o italico dell'arco e della volta, con gli elementi degli ordini greci, il genio romano compose l'eleganza con la grandiosità, compì opere la cui solidità attraversò i secoli, la cui bellezza innamorarono le menti; quindi può dirsi che l'architettura tutta risplenda l'originalità romana.

Bisogna però aggiungere sùbito che questa grande arte romana non divenne mai popolare, poichè, non essendo la manifestazione nativa e spontanea di popolari facoltà, divenne prerogativa, cura e diletto di una parte eletta della nazione, d'una vera aristocrazia intellettuale; e tale divenne quasi forzando la natura romana, non senza aver combattuto un forte contrasto contro il sentimento dei molti, che, tenendosi fedeli alle tradizioni della vita cittadina, agli ordinamenti patrî sociali e religiosi, vedevano nel nuovo spirito d'ideali speculazioni, negli intenti del pensiero alieno dalla vita reale e pratica, una minaccia, un pericolo di crollo delle patrie istituzioni. Catone seniore personifica in sè quest'opposizione dello spirito antico romano contro la novità dello spirito greco. Egli innanzi al popolo lamentava le ricchezze e il lusso dalla Grecia e dall'Asia introdotti in Roma; egli temeva ormai che il popolo romano conquistasse quelle ricchezze e magnificenze, ma da quelle fosse conquistato; dubitava infesti alla città gli artistici simulacri da Siracusa portati in Roma; per disgrazia della città molti ammirare gli ornamenti di Corinto e di Atene, e spregiare beffardi le vecchie imagini fittili dei tempî arcaici; le arti insomma essere illecebrae libidinum[96]. Ma Catone in sè offre anche esempio di quanto quell'opposizione cedesse vinta, quando egli in tarda età piegò la mente sua allo studio delle lettere greche, perchè da vero Romano, come era prima convinto del male che potessero portare e tenacemente le avversava, così, appena riconosciutane l'opportunità per il suo popolo vincitore, fu primo a disdirsi e a dare esempio di volontà virile nell'apprenderle.

Superate le barriere di quest'opposizione, le arti greche conquistano gli animi romani, e in questi si tramutano e si sviluppano, però sempre nel ristretto àmbito d'una parte della nazione, non già penetrando nel fondo del popolo; si ha un'arte pertanto aristocratica, arte in gran parte da principi, da Mecenati e da poeti.

La tradizione, l'esercitazione dell'arte, le idee dell'artistica rappresentazione restano greche, nella massima parte, modificandosi e svolgendosi secondo i nuovi bisogni e le mutate disposizioni di gusto dei Romani. Si ha quindi in parte riproduzione od imitazione delle antiche opere greche, o nuove combinazioni d'antichi elementi, nei quali l'attività artistica si svolge in un ordine di pensieri che possono essere anche romani; insomma un'arte più propriamente greco-romana.

II. — Storia dell'arte romana e greco-romana, e divisione nei suoi periodi.

La storia dell'arte romana e greco-romana si può distinguere in tre grandi periodi, cioè:

I. — Dalle origini di Roma alla presa di Corinto (754-146 a. C.); periodo nel quale si possono poi discernere due momenti, cioè: quello fino al cadere del III secolo di R., in cui si ha il lento sviluppo di un'arte latina con influenze etrusche, arte che a noi resta quasi del tutto ignota; e il tempo posteriore al III secolo, quando con Damofilo e Gorgaso, artisti scultori e pittori greci chiamati a lavorare in Roma, incomincia e di poi cresce la influenza greca, in luogo della toscana che prima dominava[97].

II. — Dalla presa di Corinto, da cui incomincia la massima efficacia dell'influenza greca, fino al principiare del III secolo dell'èra nostra, cioè all'età che segue gli Antonini (146 a. C.-192 d. C). È il periodo del pieno sviluppo dell'arte greco-romana, che, incominciato con la spogliazione delle città greche, tocca il massimo di sua attività nei primi due secoli dell'Impero con le fiorenti scuole dei tempi di Trajano e di Adriano, e col diffondersi dell'arte nel mondo assoggettato a Roma.

III. — Dal principio del secolo III dell'èra nostra alla metà circa del V secolo. È il periodo in cui l'arte greco-romana decade col decadere di tutta la vita antica, per effetto delle invasioni barbariche e dei mutamenti religiosi. Sulle rovine dell'arte classica sorge l'arte cristiana (292-476 d. C.).

PRIMO PERIODO

I. — ARCHITETTURA

A. — Parte Iª del Primo periodo.

1. I monumenti di Roma monarchica. — Per maggior chiarezza, divido lo studio di ogni singolo periodo nei tre rami principali dell'arte antica, l'architettura, la plastica e la pittura, come è stato fatto per la storia dell'arte greca. Le comunità del Lazio, quali Alba e Roma, erano nelle prime origini villaggi di capanne. Questo è detto nella storia e dimostrato dalle ricerche archeologiche. Le capanne, secondo il tipo delle urne-capanne laziali, erano rotonde; questa antichissima forma fu poi consacrata nei tempî di Vesta come forma architettonica rituale del sacro focolare. Abitavano queste capanne genti pastorizie ed agricole, che usavano di strumenti di selce e di bronzo, e di suppellettili d'argilla, quali si rinvengono nelle antiche stazioni laziali. Da questa popolazione agricola fu fondata Roma. La prima sua grande costruzione fu la cerchia di mura, che cingeva il Palatino e storicamente si disse, dalla conformazione di quel colle, Roma quadrata, con le due porte Mugionia e Romanula (ved.tav. 43 ).

Il Colle Palatino e i suoi edifici con gli ampliamenti fatti durante il periodo imperiale.

(Pianta degli scavi fino ai nostri giorni).

Tavola 43. — Ved. L. Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli 1897, pag. 328 e 329. (Cfr. A. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, IIIª ediz., tav. XX).

Romolo eresse i primi templi romani a Giove Feretrio ed a Giove Statore. Altri luoghi sacri a italiche divinità edificò Tito Tazio, quando furono in Roma congiunte le due stirpi latina e sabina. Sul Quirinale, dopo la morte di Romolo, eresse Numa il tempio a Quirino; questo re consacrò il tempio rotondo a Vesta (ved.tav. 44 ) ed altri templi alla Fede pubblica e a Giano. Altre costruzioni dei primi re furono il carcere Mamertino di Anco Marzio, la Curia di Tullo Ostilio; ma fu specialmente con la stirpe dei Tarquinî, secondo la tradizione d'origine greco-etrusca, che Roma s'ampliò e si abbellì di grandiose costruzioni.

Tarquinio Prisco pose i principî di molte opere che solo dopo di lui furono compiute. Servio Tullio, come aveva in nuova forma composta la cittadinanza romana nell'ordinamento civile e militare delle classi e delle centurie, così in nuova cerchia di mura raccolse la città, già ampliatasi, sui sette colli del Palatino, Aventino, Celio, Esquilino, Viminale, Quirinale, Capitolino. L' agger servianus era una cinta di grandi e robuste mura (ved.tav. 45 ), interrotta da torri, di cui alcuni avanzi si vedono recentemente scoperti tra il Viminale e l'Esquilino. Eresse Servio Tullio anche il tempio alla Fortuna virile (ved.tav. 46 ).

Il tempio di Vesta al Foro Romano. Tavola 44.

Ricostruzione del prof. Auer in A. Schneider, Das alte Rom, tav. III, (Cfr. Denkschr. d. k. Akad. d. W. zu Wien, phil.-histor. Kl. vol. 36, tav. VIII).

Ruderi delle Mura Serviane (parte interna con segni di scalpellino). Tavola 45.

Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. II, 3; cfr. O. Richter, Baumeister, alte Denkm. III, p. 1445 fig. 1591.

Le costruzioni incominciate dal primo Tarquinio furono condotte a compimento da Tarquinio Superbo, ultimo re di Roma, con molto sudore di popolo, secondo la tradizione narra. Fu allora finito il tempio alle maggiori trinità pagane di Giove, Giunone e Minerva sul Capitolino, detto prima Colle Saturnio; fu prosciugata la bassura di Roma con condotti affluenti nel gran canale della cloaca maxima, che dal Foro romano per il Velabro sbocca nel Tevere, come si vede nella parte che dopo tanti secoli ancora oggi sussiste (ved.tav. 47 ). L'avvallamento fra il Palatino, il Capitolino e il Quirinale, già da Romolo e da Tazio diboscato e in parte prosciugato perchè servisse di convegno alle due congiunte comunità romulea e sabina, fu dai Tarquinî recinto di edifizî; onde ebbe propria forma ed abbellimento quello che si disse il Forum, centro della vita politica di Roma.

A piedi del Palatino fu eretto il circus maximus per gli spettacoli e i giuochi romani (ved.tav. 49 ), i quali diconsi introdotti, insieme forse con le forme dell'edifizio a ciò destinato, dall'Etruria; da dove, sempre secondo la tradizione, vennero le insegne reali e il costume della pompa trionfale. Ma il Circo non fu allora probabilmente un vero e proprio edifizio, bensì solamente un terreno spianato e reso adatto alle corse, con intorno preparati i posti per gli spettatori. La tradizione, che fa i Tarquinî di origine etrusca, è a sè consentanea quando loro attribuisce opere di costruzione che, per indicazioni antiche e per loro carattere, sono da ritenere di lavoro etrusco. E noi non possiamo contraddire una tradizione così verosimile.

2. Il tempio di Giove Capitolino. — Etrusco di fondamento, di disposizione e di ordinamento architettonico era certamente il tempio Capitolino, che, incominciato da Tarquinio Prisco per voto nella guerra Sabina, fu costruito per mezzo di ingegneri ed operai chiamati dall'Etruria[98] da Tarquinio Superbo, consacrato solo dopo la cacciata di lui, dal console M. Orazio Pulvillo (510 av. C.). Similmente erano etruschi gli aruspici, che dal capo trovato nel porre i fondamenti del tempio avevano vaticinato la futura grandezza di Roma[99].

Tempio della Fortuna virile a Roma. Dedicato da Pio V. a S. Maria Egiziaca. Tavola 46.

Ved. A. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, IIIª ediz. pag. 91, tav. VII.

La Cloaca Maxima al punto di confluenza nel Tevere col rivestimento superiore di pietra. Tavola 47.

Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. II, n. 13. (Cfr. Levy-Luckenbach, Das Forum Romanum, pag. 6, fig. 2).

Sorgeva il tempio sul Capitolino, la cui sommità si divide in due vette, una rivolta a sud-ovest (dove ora è il palazzo Caffarelli) l'altra a nord-est (dove sorge la chiesa di S. Maria in Aracoeli). Le due vette sono separate da una interposta bassura, che oggi è la piazza del Campidoglio. Fu lunga controversia su quale delle due vette fosse posto il tempio, il più degli archeologi italiani inclinando a collocarlo sulla parte di nord-est, gli archeologi tedeschi invece su quella di sud-ovest; oggi si tiene generalmente questa ultima opinione[100]. Era il tempio disposto secondo l'orientazione templare etrusca, coll'ingresso o pronao volto a mezzodì. Nella sua forma primiera stette per più di 400 anni, fino al 671 di Roma (83 av. C.), nel quale anno fu distrutto da grande incendio, ma da Silla poi interamente rifabbricato sui medesimi fondamenti. Incendiato nuovamente al tempo della rivoluzione sotto Vitellio imperatore, fu restorato da Vespasiano; e danneggiato poi nuovamente, fu una terza volta rifabbricato e riconsacrato da Domiziano. Sebbene nelle età di queste ricostruzioni il sistema del tempio romano fosse grandemente mutato per l'influenza greca, pure il Capitolino, per rispetto religioso, stette mantenuto nelle antiche sue forme, salvo che fu adornato con più ricco materiale (Tacit. hist. III, 72 e IV, 53), come già s'era cominciato nella ricostruzione di Silla, che l'ornò di colonne tolte dal tempio di Zeus Olympios d'Atene. Una descrizione del tempio, qual'era dopo la restorazione sillana, ci ha lasciato Dionigi (IV, 61), ed è principal fondamento all'ideale ricomposizione dell'edifizio. Basato sopra una costruzione di grossi blocchi a più ordini di gradini, dentro una area di forma quasi quadrata (cioè con proporzione fra la profondità e la fronte come di sei a cinque, mentre pel tempio greco era di sei a tre) constava di due parti: una anteriore formante il pronao, ornato di un triplice colonnato, cioè con sei colonne sulla fronte, e perciò exastilo, e tre in profondità; l'altra parte posteriore formava la cella della divinità. Da due punti estremi della fronte si stendeva un'ordine di colonne sull'uno e sull'altro lato, in numero di sette. La parte del tempio propriamente detto, ossia la cella, era divisa dal pronao per una grande parete con tre porte conducenti a tre celle, delle quali la mediana e maggiore era quella di Giove, le due laterali minori erano sacre una a Giunone, l'altra a Minerva. Le colonne d'ordine toscanico, disposte a larghi intercolunnî sostenevano la trabeazione, su cui elevavasi il frontone. L'aspetto risultava alquanto greve e tozzo. Il timpano del frontone, secondo l'uso etrusco, era ornato di rilievi di terra cotta; di cotto erano anche una quadriga posta sul culmine del frontone, gli acroterî, e le stesse statue delle divinità nell'interno del tempio. Giove era raffigurato sedente col volto dipinto di minio, e probabilmente vestito con la tunica palmata e con la toga picta, costume dei trionfatori. Le altre due statue di Giunone e di Minerva erano figurate entrambe stanti, come almeno appare da rappresentazioni del tempio sopra monete di Vespasiano e di Domiziano[101].

Come il tempio di Giove Capitolino è la più antica opera architettonica di Roma, così anche quelle statue starebbero fra i primi monumenti plastici che dall'Etruria furono portati in Roma. Autore della statua di Giove e forse della rimanente ornamentazione fittile del tempio dicesi Turanius di Fregelle[102] (ma è assai contrastata lezione), il quale avrebbe fatto pure d'argilla una statua d'Ercole, detta appunto Hercules fictilis.

Si suppone che d'ordine toscanico fosse il tempio di Diana, eretto, secondo la tradizione, da Servio Tullio sull'Aventino come sacrario della lega romano-latina, dove le originali tavole del foedus latinum erano ancora conservate al tempo di Dionigi di Alicarnasso[103].

3. Il tempio e i tre ordini architettonici secondo l'uso romano. — Non si può ben comprendere l'architettura romana quale si presenta dopo queste prime costruzioni toscaniche senza intrattenersi a parlare tosto della forma del tempio quale i Romani riprodussero, modificando quello toscanico con l'influenza greca.

La forma del tempio greco pei Romani più rispondente alle condizioni del rito e della prima forma templare italica, è il prostylos, con questa modificazione che la parte anteriore (pronao) fu avanzata assai più, spingendosi oltre la cella di due od anche di tre ordini di colonne, in guisa che lo spazio occupato dal pronao, misurato dalla parete d'ingresso della cella alle colonne esterne della fronte, eguagliasse in estensione quasi la cella stessa, e la porta della cella, come luogo dell'augure nell'intersezione del templum, si trovasse quasi nel mezzo dell'edificio (ved. Atl. cit., di Arte romana tav. XXXV, n. 1 e n. 2). Questo può dirsi il tipo proprio del tempio romano. Tuttavia il prostilo di schietta, semplice forma greca, col pronao sporgente d'un solo colonnato, non è raro; come anche si ebbero esempi di prostilo pseudoperiptero, cioè con finto colonnato intorno al muro della cella, (ved. Atl. cit. tav. XXXVI ) cfr. Parte Iª Storia dell'arte greca, pag. 37-38; Atl. di Arte greca, tav. XXV-XXVI; LV.

Il tempio rotondo, che presso i Greci non trova ricordo se non di qualche esempio assai raro, fu invece una forma usata presso i Romani, giovando a ciò la volta, l'elemento architettonico proprio italico, che i Romani svolsero in tutta l'estensione del suo valore, come vedremo fra poco nell'applicazione di cupole, semicupole ed absidi. Il tempio rotondo sembra essere stato destinato non solo a Vesta, ma anche a Diana, ad Ercole, a Mercurio. Due specie ne distingue Vitruvio, il monoptero, formato da un semplice colonnato circolare sorreggente una trabeazione pure circolare, sulla quale posava il tetto a forma di cupola; e il periptero, formato d'una cella rotonda di muratura, sormontata dalla cupola, o di un colonnato che girava a porticato intorno alla cella stessa. Di tal forma erano il tempio di Vesta a Roma e quello bellissimo di Tivoli, dei quali esistono ancora ammirabili rovine (ved. Atl. cit., tav. XXXV, 3 e tav. XXXVII; cfr. la nostratav. 44 ).

Una terza forma di tempio rotondo, che però da Vitruvio non è indicata, è quella di un corpo d'edifizio circolare, sul cui davanti sporge un atrio a somiglianza del pronao di un tempio prostilo. È in questa forma che il genio architettonico romano sembra aver toccato il suo apogeo con la meravigliosa costruzione del Pantheon (ved. Atl. cit., tav. XLII-XLIV ).

I diversi ordini di colonne e di membrature architettoniche greche furono dai Romani adottati nei templi di stile etrusco o greco, e in altri edifizî; ma quei greci elementi ebbero modificazioni quali il gusto della nazione richiedeva, con senso artistico inferiore a quello dei Greci. Il dorico ed il jonico nella loro semplice eleganza poco furono pregiati, o vennero in qualche parte alterati, prendendosi il dorico probabilmente non dalla Grecia ma dall'Etruria con le modificazioni, che nei frammenti di dorico-etrusco si vedono compite, mettendo sotto la dorica colonna una base, variando con aggiunzioni di fregi e fiorami i capitelli, e producendone forme interamente nuove (ved. Atl. cit. tavola XXXIII n. 1 e 2).

Più assai del dorico o del jonico fu usato con predilezione il corinzio, che, più ricco e pomposo, meglio rispondeva al gusto d'una società ricca e fastosa, quale era la romana nell'età fra la Repubblica e l'Impero, ed era anche più adatto come ornamento d'una architettura fondata sulla grandiosità. Ma anche l'ordine corinzio, applicato nel maggior numero d'edifizî romani esistenti, non è più il corinzio genuino dei Greci, bensì con più ricchi viluppi di foglie d'acanto ed anche d'ulivo, frammischiativi altri ornati. Si combinò poi il corinzio con elementi del capitello jonico, cioè con le volute, le quali, nascendo dal ricco fogliame dell'acanto, uscivano, e si ripiegavano sopra questo, producendo quella nuova forma romana che si disse ordine composito (ved. Atl. cit. tav. XXXIV, n. 1 e 2). La colonna poi si combinò coll'arco, cessando d'essere essenzialmente un mezzo di sostegno, una parte organica dell'edifizio; perchè, essendo l'arco intimamente connesso con l'ossatura dell'edifizio, unito e sorretto da forti pilastri o da robuste murature, la colonna perdeva il suo ufficio di fulcro e prendeva solo carattere esterno ornamentale (ved. Atl. cit. tav. XXXVI, e la nostratav. 46 ).

Cessarono quindi gli ordini greci d'avere nel corpo dell'edifizio la loro ragione logica, cioè d'essere struttura ed ornamento insieme, per convertirsi in semplice decorazione, e si adattarono con esterna apparenza all'ossatura della fabbrica. Gli ordini di stile poi in un medesimo edificio vennero accoppiati e sovrapposti a più piani, facendo più serie di colonne con trabeazione, specialmente ad ornamento esterno di teatri e d'altri edifizî di pubblico spettacolo.

4. Monumenti funerarî e di pubblica utilità in Roma. — Monumento di carattere etrusco in suolo latino oggi ancòra esistente è quello volgarmente designato col nome di tomba degli Orazî, o, secondo altri, tomba di Arunte figlio di Porsenna, e che, senza essere di tanta antichità quanto la leggenda vorrebbe, è tuttavia probabilmente del tempo della Repubblica. Consiste di un basamento di forma cubica di belle pietre squadrate di peperino, su cui si elevavano cinque coni, uno per ciascun angolo ed uno centrale di maggiori proporzioni; due coni sussistono ancora; gli altri sono diroccati. L'interno è una camera sepolcrale. Questo monumento nelle sue linee generali ricorda la descrizione della tomba di Porsenna[104].

Se ora passiamo dalla considerazione dei monumenti sepolcrali a quella degli edifici di pubblica utilità, osserviamo che, nell'ultimo tempo della monarchia, Roma già sorgeva a grande città, aveva dominio su gran parte del Lazio; teneva testa contro gli Etruschi; aveva largo commercio, stendeva lontane le sue relazioni, come prova il ben noto trattato con Cartagine[105], che spetterebbe al primo anno della Repubblica; e ornavasi di grandi costruzioni.

Ma questo suo grandeggiare come centro di forte e prosperosa monarchia s'interrompe con la rivoluzione, che istituisce la Repubblica, e che mette Roma in gravi condizioni per ribellione di città soggette ed assalti di comunità vicine. In questo antichissimo periodo l'architettura in Roma era etrusca, com'erano etrusche le prime opere di plastica, almeno secondo le poche notizie conservate nella tradizione.

Così nei primi tempi come nel corso dell'età repubblicana, il genio pratico romano volse l'arte ad opere grandiose di pubblica utilità piuttostochè ad opere belle. Nessuna altra classe d'edifizî quanto quelli di pubblica utilità porta evidente, indelebile l'impronta di grandezza e di forza del carattere romano. La miglior parte delle ricchezze dello Stato non furono impiegate in costruzioni splendide e care all'orgoglio di un principe, ma bensì usate ad utile del pubblico, ai bisogni delle città e delle provincie, con grandi strade, acquedotti, ponti, porti, arsenali, terme. A tali grandi costruzioni si prestavano gli elementi architettonici italici, l'arco e la vôlta, la cui invenzione sembra propriamente italica.

5. L'introduzione dell'arco e della vôlta nell'architettura romana. — L'arco fu in uso in Etruria e in Roma nei primissimi tempi, mentre in Grecia dicesi introdotto nell'uso da Democrito filosofo e matematico in età relativamente tarda, cioè circa il 420 a. C. L'arco e la vôlta sono elementi fondamentali dell'architettura romana; per essi si ottenne lo sviluppo delle grandi proporzioni negate dalle leggi statiche e per limitazione di materiali alla disposizione orizzontale degli edifici greci. Con l'arco e con la sua combinazione a formare la vôlta, specialmente nelle costruzioni di mattoni, ottenevasi facilmente la solida congiunzione di opposti lati di vasti edificî, piloni o muri, che in nessuna altra guisa avrebbero potuto esser uniti; e quindi compivasi la conseguente riunione di parti d'edificio in un gigantesco complesso. Per questi fondamentali elementi si poterono coprire, senza bisogno di troppi sostegni mediani, vasti spazî murati, dove nessuna copertura a sistema piano avrebbe potuto bastare. In questa guisa gli spazî vuoti poterono acquistare una maggiore ampiezza, aumentando d'assai il comodo uso degli edifizî; di qui nell'arte romana uno sviluppo dell'architettura interna, quale la Grecia non aveva conosciuto. Aggiungi ancora che le serie degli archi, variate con le linee verticali e orizzontali d'altre membrature architettoniche, producevano anche un bell'effetto estetico, cosicchè si produssero nuove forme di edifizî della vita romana, quali i grandi acquedotti, i monumenti onorarî e trionfali, e le terme.

6. La derivazione delle acque; acquedotti, terme, fontane. — Roma difettava d'acqua potabile; le prime cure dell'ingegno costruttivo romano si volsero a provvedere la città di copiose e buone acque. L'arduo problema fu con tal sapienza risolto che Roma divenne ed è ancora la città più ricca d'acque salubri, divise per le pubbliche e private fontane, per laghetti, bagni e piscine. Le derivavano da luoghi lontani per mezzo di grandi condotti sotterranei, oppure acquedotti ad arco, talvolta anche a più arcate sovrapposte; così le acque venivano portate sui punti più elevati della città. I canali mettevano capo a serbatoi ( castella ), dove le acque dividevansi poi per le fontane pubbliche e per le private. In vicinanza della città le arcate di un acquedotto erano talvolta usate a sostenere due ed anche tre canali, provenienti da luoghi diversi, e parte dell'acquedotto prendeva forma monumentale di arco di trionfo o di porta, come vedesi ancora a Porta Maggiore; erano opere gigantesche, delle quali gli antichi a ragione gloriavansi, affermando non esservene altre maggiori al mondo, ed oggi ancora colle loro rovine sembrano umiliare la civiltà moderna (cfr. Atl. cit., tav. XXXVIII ).

Il primo acquedotto fu costrutto nell'anno 312 a. C. dal censore Appio Claudio Cieco, e prese nome di Aqua Appia. Seguì nell'anno 272 a. C. un altro, fatto incominciare dal censore M. Curio Dentato e finito da Fulvio Flacco, che portava in Roma le acque dell'Aniene prendendole a Tivoli, e si trova designato col nome di Anio vetus, a distinzione dell' Anio novus, che è altra derivazione d'acqua da Tivoli, fatta ai tempi degli imperatori Caligola e Claudio.

Terzo fu quello dell' aqua Marcia, così detta dal nome di Q. Marcio Re, che nell'anno 146 a. C. fece costruire l'acquedotto; è questa fra tutte l'acqua più copiosa, più limpida e salubre: clarissima aquarum la dice Plinio, annoverandola fra i doni che gli Dei concessero a Roma. Altri acquedotti si costruirono di poi fino al numero di nove, chè tanti ne conta Frontino, ingegnere dell'imperator Nerva, messo alla sopraintendenza delle acque, e scrittore del trattato de aquaeductibus. Ben osserva Frontino che innanzi ad opere di tanta mole e di tanta utilità perdono pregio le fastose piramidi egizie, e le opere più famose della Grecia. Procopio poi novera fin a quattordici acquedotti.

7. La sistemazione delle strade e della viabilità. — I Romani videro assai per tempo la necessità di numerose e comode strade per ragione dei commerci, ma più assai per ragion militare. E dalla città diramarono molte vie, che conducevano a varî punti d'Italia, e coll'estendersi dell'Impero si prolungarono oltre le Alpi nelle regioni occidentali e settentrionali d'Europa, vincendo ogni guisa di difficoltà coll'alzare terrapieni, coll'assodare terreni paludosi, colmando valli, buttando ponti robusti sui fiumi. Le grandi vie erano spesso tutte lastricate di massi poligonali di dura pietra, ed erano tutte segnate per mezzo di pietre miliarie che computavano le distanze. Sono ora queste pietre miliarie, che rinvenute in gran numero e controllate con i documenti dati dagli itineraria pervenuti fino a noi, ci permettono di ricostruire in gran parte le antiche stationes e mansiones dei Romani. Nelle prime di queste v'era fermata e cambio, se occorreva, di cavalli, per corrieri e per la posta sopratutto, nelle seconde v'era modo di manere, cioè pernottare, facendo riposare i cavalli.

B. — Parte IIª del Primo periodo.

I. — L'arte in Roma sotto l'influenza greca.

1. Osservazioni generali. — Quanto Roma avesse preso dai Greci nell'applicazione e nella trasformazione degli ordini architettonici si è già poco prima veduto. Ma la conquista agevolò e diffuse l'imitazione dell'arte greca in un periodo ancora relativamente antico.

Roma, incendiata dai Galli nell'anno 390 av. C. fu ricostrutta, ma senza regolare disegno, in gran fretta, senza ricchezza di edifizî pubblici e religiosi; i quali non incominciarono a sorgere se non coll'allargarsi dello Stato, con la conquista delle città d'Italia e più ancora poi di Sicilia e di Grecia, che Roma arricchivano di pingue bottino. Nel periodo che precede l'anno 146 a. C. furono inalzati molti templi, nei quali la fondamentale disposizione etrusca, o nazionale italica, certamente già era variata coi principî dell'architettura templare greca. Veramente la influenza greca si faceva sentire non pure nelle forme architettoniche dell'edifizio consacrato al Nume, ma anche nella stessa religione romana, variando la semplice religione italica con la ricca mitologia ellenica; onde probabilmente le modificazioni delle forme templari furono promosse da un'interna mutazione della religione stessa, o almeno seguirono compagne a tale mutazione, la quale è tanta che nel procedere di tempo si confondono miti greci e romani, e in Roma sono rappresentate tutte le forme dell'architettura templare greca.

Era però ancora di forma etrusca il tempio che Spurio Cassio dittatore dell'a. 493 a. C. dedicò a Cerere, Libero e Libera, presso il Circo Massimo, e che Vitruvio ricorda come esempio dell'ordine toscanico. Ma nella medesima occasione la greca influenza segnò pur essa un nuovo passo, perchè ad adornare quell'edifizio di pitture e di opere plastiche d'argilla furono chiamati dalla Magna Grecia Damofilo e Gorgaso, artisti di gran fama come pittori e scultori[106].

L'arte in Roma è importata per mezzo della conquista. Di opere greche, che M. Marcello aveva tolto alla splendida città di Siracusa, da lui espugnata, fu ornato il tempio della Virtù e dell'Onore, eretto nell'anno 207 a. C. fra il Celio e l'Aventino, presso Porta Capena, con disegno di Caio Muzio, che pare il più antico architetto romano, ma che certo lavorava ormai sui principî dell'arte greca, essendo quel tempio ricordato da Vitruvio, come esempio di peripteros. Marcello stesso poi, secondo Plutarco, amava l'arte greca e si gloriava d'averla con le sue vittorie insegnata ai Romani. Nè solo toglievansi statue per ornare templi e nuovi edifizî in Roma, ma perfino si distruggevano templi per usarne il materiale. Così fece il censore Q. Fulvio Flacco nell'anno 173 a. C., che, per erigere un tempio alla Dea Fortuna, fece diroccare il bellissimo tempio di Giunone Lacinia, sorgente fra Crotone e Sibari sul promontorio che dalle rovine è detto oggi Capo delle Colonne (od anche Capo di Nau dal ναός antico)[107]. Di statue di bronzo rappresentanti le Muse, tolte ad Ambracia nella guerra etolica, fu ornato il tempio di Ercole con le Muse, fatto erigere da M. Fulvio Nobiliore; col bottino della Guerra Macedonica Q. Metello nell'anno 149 a. C. eresse due templi, uno a Giove Statore, di forma peripteros, l'altro prostylos a Giunone, con disegno e lavoro d'architetti e di artisti greci. Autore di questi tempî era Ermodoro (o Ermodio) di Salamina; lavoratori delle colonne e di altre parti dell'ornamentazione erano Sauros e Batrachos lacedemoni, i quali, non potendo a quelle opere apporre il loro nome, lo significarono per un simbolo sculpendovi una lucerta (σαῦρος) e una rana (βάτραχος). Lo stesso architetto Ermodoro è ricordato come autore di un tempio di Marte presso il Circo Flaminio, eretto dopo l'anno 140 a. C. Gli stessi architetti romani in questo tempo erano tanto formati al gusto greco che uno di loro, Cossuzio, fu incaricato da Antioco, re di Siria, di compiere il tempio di Giove Olimpico in Atene, lasciato interrotto fin dall'età di Pisistrato.

Sono proprî di Roma e corrispondenti al suo carattere militare i monumenti onorarî e trionfali, che per decreto del popolo e del senato erano posti a ricordo di un fatto o ad onore d'un cittadino. Antichissimo e forse primo esempio di colonna onoraria è quella rostrata eretta nel Foro a ricordo della prima vittoria navale romana ottenuta a Milazzo contro i Cartaginesi dal Console C. Duilio nell'anno 260 a. C., e che stette come modello delle molte colonne rostrate o navali erette nei tempi seguenti. La base della colonna con la iscrizione, bel documento di latino arcaico, che conservasi ancora oggidì, non credesi sia l'originale, ma bensì una riproduzione posteriore[108].

2. Colonne ed archi onorarî in Roma. — L'arco trionfale potrebbe ad alcuno parere monumento di importazione etrusca, essendo di etrusca origine la pompa trionfale; ma non avendosi memoria od indizio d'arco trionfale etrusco, meglio è dire questa forma propriamente romana. La sua origine forse deriva da decorazioni provvisorie del festoso ricevimento di un generale vincitore, cioè trofei d'armi, ornamenti, festoni e ghirlande appesi con iscrizioni ad una porta d'ingresso della città, od anche ad un arco posticcio. Non però sempre gli archi furono eretti veramente per trionfo, molti furono posti come ricordo di altri avvenimenti anche non guerreschi; nè d'altra parte gli archi servivano tutti e sempre veramente alla pompa trionfale, ma il più delle volte venivano eretti dopo la celebrazione del trionfo, in ricordo di esso.

Quanto più cresceva la potenza, la grandezza e la popolazione di Roma, tanto più richiedevansi all'arte nuove forme d'edifizî corrispondenti alle nuove condizioni della vita, più ampie di quelle della vita greca. Luoghi di riunione per il popolo, per il senato, per i varî collegi dei magistrati; archivî, sedi per l'amministrazione della giustizia e per la trattazione degli affari di commercio; luoghi di convegno e dilettevole ritrovo, costruzioni per gli spettacoli pubblici aprivano un campo sempre più largo all'attività edificatrice ed artistica dei Romani.

3. Le basiliche. — Una classe speciale di edificî destinati al commercio, all'amministrazione della giustizia ed a ritrovo d'uomini d'affari fu quella delle basiliche, così dette non tanto dall'analogia con la βασιλικὴ στοά ateniese, quanto dall'aggettivo basilicus “sontuoso, reale„. Di tali edifizî nessuno fino all'anno 210 a. C.[109] era stato eretto in Roma; la prima basilica fu fatta edificare dal censore M. Porcio Catone (184 a. C.), nel Foro presso la Curia, e la si chiamò Basilica Porcia[110].

4. I teatri e i circhi. — Gli spettacoli pubblici non erano limitati alle corse dei cavalli e dei cocchi od alle lotte atletiche, che già dal tempo dei re erano state introdotte dall'Etruria e celebrate nei Circhi; e gli spettacoli teatrali non si riducevano a rozze rappresentazioni teatrali e a danze mimiche, etrusche o italiche, ma in Roma era sorta una letteratura drammatica d'imitazione greca[111].

E come di derivazione greca è il drama, così greca fu anche la forma dei teatri (ved.tav. 48 ). La costruzione di un teatro stabile in Roma data però solo dai tempi di Pompeo; nei tempi anteriori non si avevano se non temporanee costruzioni destinate a formare scena alla rappresentazione, mentre la folla degli spettatori intorno raccoglievasi in piedi. Fu nell'anno 154 a. C. che i censori Valerio Messala e Cassio fecero erigere un teatro stabile ( theatrum perpetuum ) con varî ordini di sedili; parve cosa dannosa al severo costume antico, e i sedili furono tolti e proibiti. Ma più tardi, dopo la presa di Corinto, introdotti drami greci con greci attori, s'imitarono le forme del teatro greco, costruendo scene e impalcati con sedili per gli spettatori; costruzioni posticcie e disfatte dopo la rappresentazione delle feste (ved. Atl. cit. di Arte romana, tav. XL - XLI ).

5. I monumenti sepolcrali. — Scarse sono le reliquie di questi monumenti dell'antico periodo repubblicano; uno dei più insigni dove si vedono applicati gli elementi greci ma con mescolanze etrusche, è il Sepolcro degli Scipioni, importante così nella storia dell'arte come in quella della lingua latina per le sue epigrafi arcaiche. Un monumento sepolcrale della famiglia degli Scipioni, ramo della gens Cornelia, è menzionato in Cicerone, in Livio e in altri autori come posto sulla via Appia, fuori porta Capena. E là fu trovato nell'anno 1780 un ipogeo sepolcrale, e in esso un sarcofago contenente i resti di L. Cornelio Scipione Barbato console nell'anno 298 a. C., con un'iscrizione in versi saturnî che ne ricorda le imprese[112]. Il sarcofago rettangolare di peperino è ornato nella parte superiore da un fregio dorico di triglifi con rosette inserite nelle metope, e sormontato da una cornice a dentelli e con le estremità a volute, come nell'ordine jonico. Il sarcofago è al Vaticano con altre iscrizioni e un busto, forse del poeta Ennio, rinvenuto nel medesimo ipogeo[113] (ved. Atl. cit., tav. XXXIX ).

II. — PLASTICA.

1. Osservazioni generali. — Presso gli Italici, come pure presso i Greci, le prime forme d'espressione del concetto divino furono semplici simboli, come pietre, alberi, armi, creduti avere in sè del divino[114]. Le prime vere imagini, secondo la tradizione e per effetto della civiltà più progredita, vennero in Roma dall'Etruria.

I simulacri fittili di Giove, Giunone, Minerva, e la quadriga sul frontone, e tutta la ornamentazione del tempio Capitolino, fu opera etrusca. Mancò ai Latini la creatrice potenza fantastica dei Greci, presso i quali, nella fantasia dei poeti e nella mente popolare il tipo divino, nelle varie sue attribuzioni, si formò e si porse bello all'arte figurativa. Se stiamo alle più antiche indicazioni di opere plastiche menzionate nelle fonti letterarie, troviamo già nell'età più antica opere di plastica raffiguranti persone e tipi individuali; la qual cosa sembra conforme allo spirito romano pratico anche nell'arte figurativa, e dà prova che quelle opere, o almeno l'arte che le compiva, non erano nate dal processo formativo dell'arte popolare, ma bensì erano prodotti di una nazione che l'arte già aveva bene sviluppata, cioè degli Etruschi. Tali opere non si possono ascrivere ai tempi a cui la tradizione le riferisce, ma da queste la tradizione fa incominciare l'arte plastica romana. Nessuno penserà di porre fra le opere dell'arte primitiva di Roma le statue d'Evandro, di Giano, di Romolo, di Tazio, di Numa, d'Anco Marzio, di Atto Navio, di Giunio Bruto, di Orazio, di Porsenna, e quella equestre di Clelia, ricordate da Dionigi, da Livio, da Plinio e da altri scrittori, statue certamente esistite e dagli scrittori vedute, ma opere di tempi posteriori.

L'arte figurativa per lungo periodo dell'antica età romana fu esercitata assai scarsamente. Mancò a Roma una religione che fosse come la greca un ricco centro poetico ed estetico. Le divinità propriamente italiche espresse nella statuaria sono poche, molte invece quelle italiche o romane grecizzate, e le divinità veramente greche introdotte in Roma. E l'insinuarsi del mito greco in Roma diveniva esso pure un mezzo efficace all'introduzione dell'arte greca. L'arte figurativa romana si sviluppò a poco a poco coll'ampliarsi della vita politica, della potenza dello Stato, quando o per nobile orgoglio delle famiglie, o per riconoscenza del senato e del popolo si ponevano in privato od in pubblico imagini d'uomini insigni.

Le imagines maiorum, che i nobili Romani conservavano negli atrî delle loro case, con aggiunte, inscrizioni, a forma quasi d'alberi genealogici, non erano statue, ma volti o maschere di cera, non opera d'arte ma tale da contribuire allo sviluppo dell'arte. Di statue poste a uomini insigni in tempi anteriori all'incendio gallico e di simulacri di divinità consacrati nei templi, e formati all'uso greco, con il ricavo del bottino di guerra, troviamo ricordi negli scrittori. Ma del concetto, del carattere artistico degli autori di tali opere mancano le notizie. Memorie d'una scuola di scoltura non troviamo, ma invece alcuni nomi latini su monumenti del VI secolo; per primo, p. es., quello di Novios Plautios inscritto sulla rinomata Cista Ficoroni[115], rinvenuta a Preneste ( Palestrina ) nel secolo passato e illustrata più volte (ved. la nostratav. 34 ).

2. La plastica romana applicata alle ciste istoriate. — Appartiene quest'opera a quella classe di monumenti detti ciste, il cui numero oggi si è venuto aumentando, e che, essendo abbondante nelle tombe di Preneste, diede nome alle ciste Prenestine; se ne noverano ben settantacinque. Come già s'è accennato, queste ciste sono vasi, o cofanetti di forma cilindrica, e talvolta anche ovali, fatti di bronzo, d'argento, o di bronzo con rivestitura d'una lamina d'argento, od anche infine d'una lamina di legno rivestita di metallo od anche di cuoio; muniti di coperchio con manico e sostenuti da tre peduncoli; quasi sempre forniti di catenelle per chiudere il cofanetto e portarlo. Vi si trovano specchi, strigili, balsamarî, aghi crinali, pettini, suppellettili di toletta. Il corpo della cista è ornato di disegni, graffiti nel metallo, come sugli specchi etruschi. Strano è che nel corpo del cofanetto così istoriato sono infissi di solito quattro o sei, ma talvolta fino ad otto o dodici anelli da tenere le catenelle, ma che, così disposti, spezzano e guastano il disegno. Sarebbero posteriori aggiunzioni?

I disegni di queste ciste hanno in generale un valore artistico assai ristretto, sono di carattere italico, cui manca il vivo spirito estetico greco; si ascrivono ad un'età non posteriore alla metà del VI secolo di Roma.

Per rilevare il posto che occupa la cista Ficoroni nella storia della plastica bisogna studiare le tre piccole figure con forme tozze e grossolane di stile italico formanti il manichetto, mentre sul corpo della cista sono disegni di ottimo stile greco, rappresentanti favole greche, quale l'approdar degli Argonauti alle spiaggie di Bitinia: abbiamo nella Cista Ficoroni, pertanto, due indizi di diverso indirizzo dell'arte in Italia: uno stile greco ed uno stile nazionale; doppio stile che appare spesso manifesto anche in monumenti dell'arte etrusca (ved.tav. 34 ).

Novios Plautios, greco, od osco di Capua, liberto della gens Plotia avrebbe lavorato in Roma e vi sarebbe divenuto celebre[116].

Altro nome d'artista latino è quello di Caius Ovius della tribù Ufentina, aggiunto ad un piccolo busto di Medusa in bronzo di alto rilievo, con l'inscrizione C. Ovius Oufentina fecit. La forma delle lettere accenna ad un alfabeto proprio di città meridionali, delle quali molte spettavano alla tribù Ufentina, che sembra essersi costituita nell'anno 317 av. C. Forse l'autore è di questa regione prossima alla Magna Grecia, e quindi più aperta alla greca influenza, manifesta in questo lavoro.

Un Caius Pomponius della tribù Quirina è autore d'una statuetta di bronzo, cui si diede nome di Giove, raffigurante un giovine imberbe col petto ignudo; e un mantello sul dorso; l'iscrizione dice C. Pomponi Quiri(na) opus, e dai caratteri paleografici si giudica dell'età intorno alla seconda guerra punica. Non mostra però questa statuetta tracce d'influenza greca, ma è di stile prettamente italico, o forse etrusco, se si giudica anche dalla sua provenienza da Orvieto.

Di artisti latini antichi non si hanno altri nomi, se non forse quello di un C. Rupius, nome inscritto sopra una statua di terra cotta, raffigurante giovane uomo (Ercole?) seduto, coperto d'una pelle di leone. Lo stile ha molto del carattere etrusco, ma è già libero e sciolto.

Opera dell'arte latina doveva essere certamente la statua di Giove imperante, tolta a Preneste e portata a Roma nel tempio Capitolino da Tito Quinzio dittatore, che vinse i Prenestini nell'anno 380 av. C. A questa statua era apposta un'iscrizione in verso saturnio[117].

Indizio dell'arte antica latina dànno anche le monete, massime dopo l'anno 271 av. C., in cui si cominciò a coniare l'argento; e specialmente le monete dette consolari, o le familiari, segnate coi nomi e coi tipi dei tresviri monetales, con l'effigie di Roma galeata, dei Dioscuri, ovvero con altri tipi. L'arte di questi conî è ancora rozza; l'impronta stanca; le figure tozze, il profilo di Roma non bello; ma i tipi a poco a poco vanno migliorando in progresso di tempo.

III. — PITTURA

La pittura in Roma sembra aver ricevuto, secondo le più antiche memorie, fin dalle origini impulso e norma dall'arte greca, in sèguito ai lavori di Damofilo e Gorgaso. Dopo questi stranieri troviamo menzionato un primo artista romano, Fabio, detto Pittore appunto dall'arte esercitata. Dipinse il tempio della Salute, edificato nell'anno 304 av. C., le cui pitture, ricordate da Plinio e da Dionigi, durarono fino ai tempi dell'imperatore Claudio. Dei soggetti rappresentati e della tecnica artistica nulla sappiamo; dal passo di Dionigi appare che le sue pitture fossero murali.

Pittore fu anche M. Pacuvio di Rudiae (Rutigliano), più conosciuto come poeta tragico, nipote di Ennio. Esercitò l'arte dipingendo il tempio di Ercole nel Foro Boario. Pacuvio è della Magna Grecia, e forse seguì nella pittura l'arte greca come nella poesia. Dopo di lui, dice Plinio, l'arte più non fu in Roma esercitata dalle mani di ingenuo cittadino, e ciò viene a valida riprova che l'arte, e la pittura specialmente, non trovavano nella cittadinanza romana un vero e spontaneo favore, restandone l'esercizio abbandonato a forestieri od a liberti.

La pittura in Roma ricevette impulso quando fu usata a rappresentare e a commemorare con imagini le grandi imprese di guerra, e ad ornare i trionfi dei capitani vincitori. Il più antico esempio di decorazioni pittoresche usate nei trionfi fu dell'anno 263 av. C., quando M. Valerio Massimo Messala fece esporre nella Curia Ostilia una rappresentazione della battaglia da lui vinta in Sicilia contro i Cartaginesi e contro Gerone di Siracusa. Seguì quest'esempio Lucio Scipione, che nell'anno 190 av. C. consacrò in Campidoglio una rappresentazione della sua vittoria sopra Antioco di Siria presso Magnesia; e nell'anno 146 av. C. L. Ostilio Mancino, che primo era entrato in Cartagine assalita e conquistata da Scipione, fece esporre nel Foro una rappresentazione a modo di piano topografico della città e delle opere d'assedio, dove il popolo poteva vedere ogni singolarità e del luogo e dell'impresa; e tanto fu il favore popolare per tale esposizione che Mancino ottenne per essa i voti al consolato[118].

Tali modi di rappresentazione ebbero una notevole efficacia, perchè da essi si svolse la rappresentazione plastica in bassorilievo di grandi ed estesi avvenimenti, quale appunto fu usata a decorazione di archi trionfali e d'altri monumenti onorarî. Per queste decorazioni trionfali, alle quali servivano abbondantemente oggetti rapiti alle vinte nazioni, si condussero in Roma anche artisti greci. Così fece Paolo Emilio, che nell'anno 168 av. C. da Atene condusse Metrodoro in Roma ad excolendum triumphum; ma Metrodoro non solo era pittore, ma anche filosofo insigne, e dagli Ateniesi proposto a Paolo Emilio come precettore dei figli di lui; onde in lui abbiamo un nuovo esempio della molteplice coltura degli artisti greci, e della diffusione dell'ellenismo in Roma.

SECONDO PERIODO

Osservazioni generali.

Le opere greche importate in Roma. — L'arte concentrata in Roma in questo periodo dà alla grande città tanti monumenti e tale artistica energia da bastare per tutti i secoli avvenire. Ma non è un'arte importata per conquista, per forza politica, essendone tolti dalle proprie sedi i più antichi e più splendidi prodotti; è il focolare dell'attività artistica trasportato a Roma. I conquistatori romani nei loro trionfi portano in Roma gli oggetti d'arte più preziosi delle città conquistate, come, con uno stesso sentimento ma in proporzioni incomparabilmente minori, fecero i Francesi invasori d'Italia sul finire del secolo passato. Prime ad essere spogliate furono le città di Magna Grecia e di Sicilia, poi quelle della Grecia e dell'Asia.

Nell'anno 212 av. C. M. Marcello conquistava Siracusa, ne traeva molte opere d'arte per decorare il tempio dell'Onore e della Virtù, fatto erigere presso Porta Capena. Nell'anno 210 av. C., Fabio Massimo, occupata Taranto, ne fece togliere per trasportarlo in Roma l'Ercole colossale, opera di Lisippo.

Nell'anno 197 av. C., T. Quinzio Flaminino, vincitore di Filippo di Macedonia, tolse grande quantità di statue di bronzo e di marmo, e vasi preziosi di finissimo lavoro alle città macedoniche e greche[119].

M. Fulvio Nobiliore, vincitore e trionfatore degli Etoli e dei Cefallenî nell'anno 589 av. C., portò in Roma ducento ottantacinque statue di bronzo e ducento trenta di marmo[120].

Nell'anno 168 av. C. il trionfatore di Perseo, Paolo Emilio, che seco conduceva dalla Grecia Metrodoro, portò in Roma ducento cinquanta carri di statue e di quadri; fra queste opere d'arte era una Athena di bronzo, lavoro di Fidia, posta poi nel tempio della Fortuna. Tante spogliazioni non esaurivano la Grecia; in Macedonia trovò molto da raccogliere ancora Metello Macedonico vincitore di Andrisco Pseudo-Filippo nell'anno 148 a. C.; nel bottino fu compreso il grande gruppo di Lisippo rappresentante Alessandro fra suoi generali alla battaglia del Granico.

Quasi potrebbe dirsi che queste spogliazioni fossero come primi assaggi in confronto alla quantità di opere onde si ornarono i trionfi seguenti, dopochè L. Mummio ebbe conquistata Corinto nell'anno 146 av. C. E innanzi a tali e tanti prodotti di una civiltà artistica così splendida, quale era la condizione di coltura e di sentimento dei conquistatori? Basta a dimostrarlo l'aneddoto riferito da Vellejo Patercolo (I. 13): L. Mummio console era tanto rozzo ed imperito che ai soldati trasportanti quadri e statue dei più insigni maestri greci, minacciava che, se mai avessero guaste o perdute quelle opere, le avrebbero dovute restituire. E a questo aggiungi ancora che Vellejo, scrittore dei tempi di Tiberio imperatore, ciò dicendo, pone quel dubbio, tutto proprio della mente romana, se cioè per Corinto meglio non fosse stato rimanersene rozza ed indotta, anzichè toccare il sommo nella coltura di arti corruttrici.

Nuovi e splendidissimi trionfi celebrarono poi Silla dopo l'espugnazione di Atene nella prima guerra contro Mitridate, l'anno 86 av. C.; e Lucullo nell'anno 68 av. C., vincitore della seconda guerra contro quel re; e Pompeo Magno, che in una terza guerra lo abbattè, ridusse in soggezione tutta l'Asia anteriore, e celebrò un meraviglioso trionfo nell'anno 61 av. C. E insieme con le antiche opere d'arte affluivano in Roma gli artisti delle nuove scuole greche di Rodi, di Pèrgamo, e d'altre città d'Asia, o come schiavi, o attràttivi dalle molte e grandi occasioni di lavoro e d'onore che là si offrivano. Le sculture, i quadri, i vasi e le relazioni con gli artisti destavano in Roma se non un intimo e sincero amore, certo una grande ammirazione per l'arte greca, che fu assunta come mezzo a render splendide le pompe trionfali, le feste, gli spettacoli, con cui ricchi e nobili cittadini cercavano guadagnarsi il favor popolare; o come mezzo per abbellire le private dimore e per soddisfare al gusto ed al fasto delle classi elette e colte della cittadinanza, cioè di coloro che designavano se stessi come intelligentes, e che, ellenizzando, distinguevansi da quelli che, fedeli al carattere nazionale romano, erano qualificati come idiotae.

A. — Architettura.

I. — Le principali classi di monumenti.

Roma, divenuta dominatrice del mondo, s'abbelliva di nuovi e sempre più splendidi edifizî; tra il finire della Repubblica e il sorgere dell'Impero, l'architettura diffondevasi anche in altre città lontane, che, venute nel dominio romano, sorgevano a civiltà, nella Spagna, nelle Gallie; e con certo movimento di riflusso ripassava ad abbellire di nuove opere anche quelle città da dove l'arte era venuta in Roma, cioè le città di Grecia e d'Asia minore. Sul finire della Repubblica, Roma già aveva ogni genere di edificî pubblici e privati: templi, curie, basiliche, grandi e sontuosi edifizî e porticati recingenti piazze e fori, splendidi edifizî per gli spettacoli, magnifiche case private, e ville, e tombe grandiose. Non è qui possibile non pur di descrivere, ma nemmeno di noverare quanti e quanto sontuosi edifizî sorgessero in Roma dalla presa di Corinto al finir della Repubblica, di molti dei quali restano notizie negli scrittori ma scarseggiano, o più veramente in tutto mancano, le rovine, avendo le costruzioni dell'età repubblicana ceduto a quelle sopra edificatevi dell'età imperiale. Della magnificenza e dell'arditezza romana nelle costruzioni dànno saggio alcune notizie riferentisi ad edifizî teatrali d'un tempo, quando ancora si edificavano non stabili, ma solo per uso temporaneo e breve.

1. I teatri e gli anfiteatri in Roma. — Emilio Scauro aveva fatto erigere nell'anno 58 av. C. un teatro capace, dicesi, di ottanta mila spettatori. La scena era ornata di trecentosessanta colonne di marmo, e distinguevasi in tre piani con rivestiture di marmi, di mosaici, e di metalli; fra le colonne erano a più centinaja le statue. Tanta magnificenza e ricchezza per un edifizio di breve destinazione pare appena credibile. Plinio[121] narra cosa di non minore meraviglia parlando del teatro di C. Curione, eretto nell'anno 50 av. C., cioè quando già si aveva uno stabile teatro di pietra, edificato da Pompeo Magno[122]. C. Curione, celebrando i funerali del padre suo, fece costruire due grandissimi teatri di legno, l'uno accanto all'altro, e così fatti che ciascuno era sospeso e mantenuto in bilico mediante perni mobili. Alla mattina davansi in quei due teatri rappresentazioni sceniche. Poi improvvisamente eran fatti girare, così che l'uno venisse a trovarsi rimpetto all'altro, e, tolti i tramezzi e le tavole onde componevansi le pareti delle due scene e fatte combaciare le estremità delle file di sedili, risultava un doppio teatro, o anfiteatro, dove davansi spettacoli gladiatorî. Di qui appunto credono venisse l'idea dell' amphiteatrum, edifizio proprio dei Romani, come loro proprî furono i combattimenti di gladiatori e di belve.

Il primo teatro stabile fu eretto da Pompeo Magno, e inaugurato nel secondo suo consolato, (55 av. C.), non senza contrasto e biasimo di coloro che giudicavano questa opera contraria al costume patrio; cosicchè egli credette prudente di proteggerlo dandogli un carattere religioso con l'edificare nella parte superiore del teatro un tempio sacro a Venere vincitrice. Fu eretto in Campo Marzio, ed era capace di quaranta mila spettatori. Al teatro, oltre il tempio di Venere, andava connessa la Curia di Pompeo, dove il senato alcuna volta raccoglievasi, e dove Cesare fu ucciso. Formavasi così un vasto complesso di edifizî in uso della religione, della vita politica, degli spettacoli. Il disegno di questo teatro e di parte degli edifizî con cui era connesso vedesi nell'antica pianta di Roma dei marmi capitolini.

Da questa, ed ancora dalle descrizioni e da altri indizî, è provato che, come il dramma romano è d'origine e di forme greche, così il teatro romano altro non è se non la riproduzione, nelle linee generali, del teatro greco (ved. Atl. cit., tav. XL, N. 1)[123]. Principale differenza fra l'uno e l'altro stava in ciò che nel teatro romano erano più grandi e più robuste le costruzioni architettoniche, invece il teatro greco solitamente veniva costrutto a piè d'un pendio naturale del terreno con opportuna elevazione del luogo riserbato agli spettatori; mentre nel teatro di Pompeo, e in generale nei teatri romani, ordinariamente eretti dentro la città sopra terreno piano, era necessario un corpo d'edifizio o di substruzione, che sostenesse le gradinate decrescenti (ved. tav. 48 ), e il porticato che coronava il sommo dell'edifizio, come vedesi nel teatro di Marcello e nell'anfiteatro Flavio; perciò all'esterno il teatro presentava un edifizio di maggiore grandiosità, riccamente ornato, dove i tre ordini architettonici greci si sovrapponevano in piani diversi; al piano terreno il dorico, al primo piano l'ionico, al secondo il corinzio, e, se ve n'era un terzo, il composito (ved. Atl. cit., tav. XLVII ).

Il Teatro minore di Pompei (veduta interna). Tavola 48.

Ved. A. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, III ediz., tav. XIII.

Il teatro romano si divide in due parti principali, la cavea e la scena. La cavea (greco κοινόν) era luogo riserbato agli spettatori, con sedili disposti in file semicircolari concentriche, suddivise orizzontalmente in ordini ( moeniana e praecinctiones ), e verticalmente in iscompartimenti per mezzo di scale segnanti come raggi dalla periferia al centro ( cunei e scalae ). Dalle porte esterne per iscale e corridoi si giungeva agli sbocchi nella cavea ( vomitoria ). Di fronte alle gradinate era la scena (greco σκηνή). Fra la scena e le gradinate era lo spazio piano semicircolare detto orchestra (gr. ὀρχήστρα), dove nel teatro greco sorgeva l'altare di Bacco, e intorno disponevasi il coro, che era parte tanto importante della rappresentazione drammatica; invece nel teatro romano l'orchestra, divisa dalla cavea con un podium, conteneva i sedili per i magistrati, pei senatori e pei cavalieri. La scena chiudeva rettamente, come un diametro, tutto l'insieme della cavea e dell'orchestra, a cui essa si aggiungeva in forma d'edifizio quadrilatero. Essa era stabile, con tre grandi entrate, che dall'interno della scena ( postscenium ) mettevano sulla fronte, ossia sul davanti di essa ( proscenium ). Del teatro di Pompeo non rimangono rovine; esso sorgeva dove oggi è Campo di Fiori; in un vicino palazzo si sono trovate traccie delle substruzioni del teatro, ed una colossale statua di bronzo, raffigurante Ercole, oggi conservata nel Museo Vaticano.

2. I circhi e gli anfiteatri. I ludi gladiatorî. — Ma oltre gli spettacoli delle corse nel circo, e dei ludi scenici nel teatro, ebbero i Romani altro modo di sollazzo a loro prediletto, e che invece repugnò alla più umana e mite indole dei Greci; gli spettacoli gladiatorî, in cui i Quiriti si piacevano di vedere umano sangue e di gustare gli aneliti dei moribondi. Tale fierezza d'animo è per sè stessa una prova dell'indole romana, aliena dai puri godimenti dell'arte, che richiedono e producono gentilezza di costumi. Gli spettacoli gladiatorî, venuti in Roma dall'Etruria, si celebrarono nel Foro fino agli ultimi tempi della Repubblica, assistendovi il popolo da palchi o dalle loggie. Amavano, oltre i ludi gladiatorî anche le caccie delle fiere in recinto chiuso ( venationes ), le quali tenevansi nel circo (ved.tav. 49 ). Ma col crescere del gusto e della frequenza di tali spettacoli fu necessario uno special modo di edifizî anche per essi. E a ciò parve opportuna quella disposizione che prima credesi esser risultata dalla riunione dei due teatri di C. Curione, da cui sorse l'idea dell'anfiteatro. Con questo nome si designò una costruzione temporanea di legno eretta da Giulio Cesare; mentre il primo anfiteatro stabile fu edificato ai tempi d'Augusto, nell'anno 29 av. C., da Statilio Tauro[124].

II. I monumenti degli imperatori della “gens iulia„.

Augusto volse ogni sua cura ad abbellire Roma di nuovi e splendidi edifizî, e a questo fine diresse pure l'opera dei suoi ministri ed amici, volendo fare di Roma la vera e degna capitale del mondo. D'altra parte Roma riposava dalle lunghe guerre interne ed esterne, e, in una certa condizione di pace e di splendore si volgeva al culto delle arti.

Il Circo Massimo a Roma. Tavola 49.

Ricostruzione secondo A. Canina, Architett. rom. tav. 136. (Cfr. Guhl-Koner-Giussani, op. cit., II, pag. 207; Schneider, op. cit., XVI, 15).

La “Aedes Concordiae Augustae„ a Roma.

Ricostruzione in base ai ruderi di quella di Tiberio e di Druso dell'anno 10 d. C.

Tavola 50.

Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. VIII, 9. (Cfr. Canina, Edifizi, IV, tav. 35).

1. Il Foro d'Augusto. — Quest'imperatore restaurò la città prima di lui per incendî ed inondazioni danneggiata, e la abbellì nuovamente. Le molte sue cure, spese sempre a vantaggio della città, sono ricordate nel testamento di lui[125]. È noto il suo detto che, trovata Roma di mattoni, la lasciava di marmo[126]. Fece erigere Augusto un tempio a Marte Ultore presso il Foro romano (ved.tav. 52 ), chiudendolo in un grande peribolo di colonnati e di muraglie, di cui rimangono imponenti ruine, e decorandolo con molte statue de' più insigni capitani romani. Fu questo il Foro d'Augusto, a lato del quale sursero poi altri Fori imperiali ancora più sontuosi (ved.tav. 53 ).

Per opera d'Augusto furono eretti in Roma ben sedici templi, senza dire dei molti che furono restorati; splendido era quello d'Apollo sul Palatino, recinto da sontuoso porticato, con molte colonne di preziosi marmi africani e bellissime statue greche; il porticato comprendeva la biblioteca greca e quella latina.

In Campo Marzio Augusto fece edificare il Portico dedicato ad Ottavia, sua sorella; ed il teatro (detto di Marcello dal compianto nipote), del quale rimangono ancora ruderi bellissimi (ved. Atl. cit., tav. XL n. 2 e tav. XLI ).

I “Rostra„ d'Augusto sul Foro Romano. (Ricostruzione). Tavola 51.

Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. VII, n. 4. (Cfr. Richter in Jahrbuch, 1889 (IV), pag. 8).

Il Foro di Augusto a Roma. (Tempio di Mars Ultor ). Tavola 52.

Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tav. 8.

Il Foro d'Augusto a Roma. (Ricostruzione). Tavola 53.

Ved. Schneider, Das alte Rom, VII, 11, dietro schizzi dello Hülsen e del Rauscher.

Il Campo Marzio, vasta estensione di terreno che dalle pendici del Capitolino e del Quirinale si allargava fra il collis hortorum (Pincio) e il Tevere[127], destinato alle assemblee del popolo ordinato nelle centurie, agli esercizî ginnastici ed equestri della gioventù, era rimasto in gran parte libero fino ai tempi di Pompeo, che vi fece costruire il suo teatro, e di Giulio Cesare che vi edificò i Septa per le riunioni dell'assemblea del popolo. Sul finire della Repubblica, e principalmente ai tempi d'Augusto, sursero colà molti edifizî, che resero assai bella, nell'età imperiale, quella parte della città sulla quale si formò la Roma moderna. Ivi Cornelio Balbo edificò un teatro, che portò il suo nome, e Statilio Tauro, come s'è detto, il primo stabile anfiteatro che avesse Roma; ivi sorse quello che è il massimo monumento della romanità, cioè il tempio che M. Vispanio Agrippa, genero d'Augusto, eresse consacrandolo alle divinità della stirpe Iulia, Marte, Venere e al divo Giulio, e fu detto il Pantheon (ved. Atl. cit., tav. XLII (pianta) e tav. XLIII (sezione)). Unito con le terme d'Agrippa, formava con esse un gigantesco corpo d'edifizio in Campo Marzio non lungi dalla curia e dal teatro di Pompeo.

2. Il Pantheon[128]. — È questo il più bello e il meglio conservato dei monumenti romani; è la più grande e più completa opera d'architettura che può considerarsi come propriamente romana, appartenendo alla classe dei templi rotondi coperti di cupola, con atrio a forma del pronao di un prostilo, che è forma speciale dell'arte romana progredita.

a. Struttura del tempio. — Consta il Pantheon di due parti: la rotonda e l'atrio. La rotonda è formata di un grande e solidissimo muro circolare. Questo grande cilindro, o tamburo murale, è distinto in tre zone mediante tre cornicioni, sull'ultimo dei quali s'alza una serie di gradoni da cui spicca poi l'ardita cupola; nel mezzo di questa s'apre il gran lucernario dal quale piove abbondante la luce. Sul davanti dell'edifizio circolare sporge l'atrio, come una grande aggiunta, formato di un massiccio sporto murale, da cui s'avanzano quattro colonnati di tre colonne in profondità, che dividono l'atrio in tre grandi navate, e presentano una fronte di otto colonne di ordine corinzio-romano. La mediana delle tre navate è la maggiore e guida alla porta d'ingresso; le due laterali minori finiscono a due grandi nicchioni, dove erano poste le statue di Augusto e di Agrippa. L'atrio è sormontato da due frontoni, uno poggiante sullo sporto murale per cui l'atrio si connette al corpo rotondo; l'altro è posato sull'architrave, ed è veramente il frontone di prospetto, il cui timpano era ornato di bassirilievi. Sulla trabeazione c'è l'inscrizione M. Agrippa L. F. cos, tertium fecit, a grandi lettere, mentre un'altra iscrizione sotto questa, in lettere minori, ricorda la restorazione di quell'edifizio fatta da Settimio Severo e da Caracalla. Nell'interno il muro circolare non è liscio, ma, variato da otto grandi aperture, s'alterna la forma quadrata con la rotonda, cioè con nicchie o cappelle; di queste aperture una è l'ingresso. Ciascuna nicchia, o cappella è fiancheggiata da pilastri di stile corinzio, e nell'apertura di esse sorgono due colonne dello stesso ordine, eccetto nell'apertura d'ingresso e nell'altra di fronte a questo, quella della tribuna. Nell'intervallo da una nicchia all'altra sono applicate alle pareti delle edicole. Al disopra delle colonne è un cornicione, sul quale elevasi un attico, variato e ornato con incrostazioni di marmi preziosi. E infine da un altro cornicione incoronante l'attico si dispicca la grande vôlta della cupola, che misura 43 m. di diametro, ed è distinta in cinque zone concentriche di ventotto cassettoni ciascuna, che vanno decrescendo con mirabile effetto fin dove si apre il lucernario che illumina il tempio (ved. Atl. cit., tav. XLIV ). L'esterno era riccamente rivestito di marmi e di stucchi; l'interno di preziosi marmi colorati; il tetto dell'atrio era sostenuto da travi di bronzo; di bronzo è la porta antica ancora conservata; di bronzo è il cerchione che fascia l'occhio del lucernario misurante quasi nove metri di diametro; credesi che di lastre di bronzo fosse coperta l'intera cupola. Forse a questa grande e ricca opera di Agrippa pensava Virgilio, quando del tempio che costruiva Didone diceva

. . . . . . nexaeque

Aere trabes, foribus cardo stridebat ahenis[129].

Secondo l'iscrizione sulla fronte, il tempio data dal consolato d'Agrippa, nell'anno 27 av. C., secondo Dione[130] dal 25 av. C.: si intende che nel 27 fosse finito e nel 25 solennemente dedicato. Architetto, secondo Plinio, ne fu un Valerio Ostiense[131]. La ricchissima ornamentazione era opera di Diogene ateniese, il quale aveva scolpito figure di Cariatidi, che ornavano l'interno; forse erano disposte a sostenere le edicole erette fra gli intervalli dei nicchioni, alle quali furono poi sostituite in tempi posteriori colonnette di porfido e di giallo. Di queste Cariatidi si crede di riconoscere ancora alcune fra quelle conservate nel Museo del Vaticano e nel palazzo Giustiniani; presentano una grande somiglianza con le Cariatidi dell'Eretteo sull'Acropoli d'Atene[132]. Non pare che l'atrio o pronao entrasse nel primo concetto di questo edifizio, ma forse fu una modificazione del disegno. Secondo Dione, Agrippa voleva porre nell'interno la statua d'Augusto e denominare il tempio da lui; ma Augusto non volle, perciò nell'interno fu posta la statua di Cesare, e quella d'Augusto con l'altra del fondatore del tempio fu posta all'esterno nei nicchioni del pronao. Davanti al tempio stendevasi una piazza cinta da porticato; il tempio andava connesso con le terme; annessi a così grande complesso di fabbriche erano giardini, stagni, un euripo.

b. Storia delle vicende del tempio. — Dagli antichi ammirato come una delle più grandi costruzioni, il tempio d'Agrippa ha resistito all'opera distruttrice del tempo e degli uomini. Soffrì danni nel grande incendio del tempo dell'imperatore Tito; Domiziano lo restorò; percosso dal fulmine, regnante Trajano, ne riparò i danni Adriano. Nuove ristorazioni vi fecero Settimio Severo e Caracalla, come dice l'inscrizione soggiunta a quella d'Agrippa. Nell'anno 399 per la legge d'Onorio contro i templi pagani forse fu chiuso. Bonifazio IV nell'anno 609 lo consacrò al culto cristiano, intitolandolo a S. Maria ad martyres, perchè vi fu portata quantità d'ossa di martiri o credute tali, tolte dalle catacombe. Incominciarono poi le opere di spogliazione: Costante II, imperatore d'Oriente, nell'anno 663 saccheggiò Roma e fece togliere la copertura di bronzo dal Pantheon, che più tardi e a più riprese fu coperto di piombo. Urbano VIII Barberini nell'anno 1632 fece levare le travature di bronzo del pronao; quel metallo servì a formar le colonne coclidi dell'altare di S. Pietro, e ottanta pezzi d'artiglieria con cui fu guernito Castel S. Angelo[133]. Altri pontefici però cercarono di riparare ai guasti. Raffaello Sanzio ordinò nel testamento che a sue spese si ristorasse e s'abbellisse uno degli altari, scegliendolo come sua sepoltura, dove fu deposto il 6 di aprile dell'anno 1520. Col re dell'arte moderna riposano ivi Annibale Caracci, Pierin del Vaga, Giovanni d'Udine, ed altri artisti insigni. Ora il Pantheon è divenuto degna tomba del primo Re d'Italia una, Vittorio Emanuele, sepoltovi nel gennaio dell'anno 1878. Così la grande opera d'Agrippa traversa i secoli come monumento che la romana grandezza trasmette con lieto auspicio alla rinata Italia. Intorno al grande edifizio s'erano venute accalcando case, casette e botteguccie, togliendogli lo spazio in cui bellamente campeggiare. Si fecero più volte disegni e tentativi di allargamento; ma non ebbero esecuzione compita se non fra gli anni 1881 e 1883 per impulso del ministro Baccelli[134]. Fu isolato il monumento, trovate reliquie della sua ornamentazione, rimesse in luce le rovine delle terme d'Agrippa, e infine abbattuti gli orecchioni del Bernini.

Il Mausoleo di Augusto a Roma. (Ricostruzione). Tavola 54.

Ved. Schneider, Das alte Rom, tav. VIII, n. 14.

3. Il Mausoleo D'Augusto. — Degli edifizî sepolcrali del tempo d'Augusto, rimase famosa la sua tomba, o mausoleo, così detto per la grandezza e magnificenza sua, degna di quella della tomba eretta a Mausolo, re di Caria[135]. Sorgeva nell'ultima parte del Campo Marzio, tra la via Flaminia e il Tevere. Sopra una grandiosa substruzione quadrata posava un edificio rotondo, tutto di marmo che comprendeva le camere sepolcrali; e sopra questo un tumulo a cono, distinto a viali e terrazzi, con piantagioni di cipressi. In vetta al tumulo grandeggiava la statua di bronzo d'Augusto (ved.tav. 54 ). Il muro esterno circolare del corpo d'edifizio era variato da grandi nicchie. Sulla parte anteriore sporgeva, come nel Pantheon, un pronao exastilo con ampia gradinata. All'uno e all'altro fianco del pronao erano due obelischi egizî, che qui furono trovati nel sec. XVI e trasportati uno sulla piazza di S. Maria Maggiore, l'altro sul Quirinale, fra i due colossi di Montecavallo[136].

Dietro al Mausoleo stendevasi, un gran parco, nel cui mezzo l' ustrinum per la combustione dei cadaveri. In questa tomba sontuosa prima di Augusto furono deposte le ceneri di Marcello, Agrippa, Ottavia e Druso; e dopo Augusto vi riposarono Livia, Germanico e Agrippina seniore. Oggi rimangono rovine dei muri, e fanno parte dell'anfiteatro Corea[137].

4. L'Obelisco di Monte Citorio e altri monumenti di stile egizio. — Non lungi dal Mausoleo, Augusto fece collocare un grande obelisco di granito rosso, trasportato da Eliopoli a Roma, e destinato a nuovo uso di orologio solare ( solarium ), essendo sul terreno lastricato di travertino tracciata una meridiana. Spezzato e sepolto fra le immense ruine di Roma, fu raccolto e ricomposto, e sotto Pio VI nel 1792 collocato presso Monte Citorio. Di obelischi tolti all'Egitto abbondava Roma, dove le varie forme dell'architettura greca e dell'orientale erano rappresentate o da opere trasportatevi, o da nuovi monumenti eretti, e specialmente da templi costrutti per divinità orientali, poichè Roma accoglieva in sè liberamente ogni religione.

Molti obelischi ancora sorgono in Roma, dei quali il maggiore è quello di S. Giovanni in Laterano trasportato da Tebe, dove era stato eretto regnando il Faraone Toutmes IV. Un nuovo obelisco fu scoperto fra le ruine di un Iseo, o tempio d'Iside nell'anno 1883; è di mediocri proporzioni, ma assai ben conservato e ricorda il regno di Ramesse II, del XIV sec. av. C.[138].

La Piramide di C. Cestio a Roma fuori Porta S. Paolo (Porta Ostiensis). Tavola 55.

Ved. Schneider, Das alte Rom, tav. IV, n. 15.

L'Isola Tiberina a Roma. Tavola 56.

Sostruzioni in marmo a forma di nave nell'Isola nel Tevere. Ved. Annali dell'Instit. 1867, tav. d'Agg. K. 1.

Esempio di monumento di stile egizio, applicato a un monumento sepolcrale, è la piramide che sorge fuori di Porta S. Paolo ( Porta Ostiensis ) eretta dagli eredi di C. Cestio, magistrato romano. La piramide di mattoni rivestita di marmo misura ben 37 metri d'altezza; nel suo interno è la camera sepolcrale ornata con fregi di stucco, e con pitture, di cui appena restano traccie. La parte esteriore del monumento era una volta ornata di colonne e di statue, di cui intorno si trovarono frammenti (ved.tav. 55 )[139].

5. I monumenti sepolcrali; i “Columbaria„. — Di carattere prettamente romano sono invece gran parte dei monumenti sepolcrali che sorgevano fuori le porte di Roma, sulla Via Appia, che è come la Via dei Sepolcri a Pompei. La Via Appia da Porta Capena s'allontanava per un gran tratto tutta fiancheggiata di grandi sepolcri, tra i quali celebre quello ancora esistente a Cecilia Metella, figlia di Metello Cretico e moglie di Crasso (ved. Atl. cit., tav. XLV, 1).

Una particolare forma di monumento sepolcrale è il Columbarium dei liberti di Livia, moglie d'Augusto, sulla stessa Via Appia. Consta di parecchie camere, nelle cui pareti s'addentrano grandi nicchioni, e dentro questi sono praticate e ordinate in sette file sovrapposte moltissime piccole nicchie o fori, che dànno appunto l'aspetto d'una colombaia, come si vede in Roma anche in varî monumenti sepolcrali cristiani; dentro queste nicchiette sono deposte le piccole urne cinerarie ( ollae ); sopra ciascuna nicchietta è una targhetta col nome del defunto. In terra eranvi anche dei sarcofaghi grandi e ben ornati (ved. Atl. cit., tav. XLV, 2).

6. Gli archi trionfali. — Di monumenti trionfali dell'età d'Augusto credesi aver testimonianza nell'arco che sorge presso Porta S. Sebastiano e che denominasi da Druso, supponendosi sia l'arco trionfale eretto a Claudio Druso Germanico, figliastro d'Augusto e fratello di Tiberio, nell'anno 8 av. C., per le vittorie riportate contro i Germani. L'arco è di travertino rivestito di marmo, decorato di colonne; sull'attico erano trofei ed una statua equestre, come appare dal disegno di una moneta di Claudio imperatore[140]. Al di sopra di quest'arco venne poi fatto passare il canale dell'acquedotto che alimentava le vicine terme di Caracalla. È questo il più antico fra gli archi trionfali ancor esistenti[141].

Non solo Roma, ma anche le città d'Italia s'abbellirono di grandi e sontuosi edificî; poichè le provincie, sempre più strettamente legate con Roma, erano sotto l'Impero assai più civilmente governate che non sotto l'aristocrazia repubblicana, e quindi prosperarono nelle civili istituzioni. Con lo stabilirsi dell'Impero nella pace del mondo, incomincia un'età nuova, nasce un nuovo e miglior ordine di cose: magnus ab integro saeclorum nascitur ordo, come cantava Virgilio[142]. Il mondo riceve da Roma pace, ordine e leggi; è finito il tempo della conquista, comincia quello dell'unione nella civiltà romana, cioè della “romanizzazione„, e tanto l'arte quanto la scienza s'accordano nel mostrarlo. Allora Roma appare la mente ordinatrice del mondo; essa è l'unificatrice delle genti, come cantava il poeta:

Fecisti patriam diversis gentibus unam,.....

Urbem fecisti quod prius orbis erat.

III. I monumenti degli imperatori della “gens Claudia„.

1. L'“Aqua Claudia„ e l'“Anio Vetus„ a Roma. — Sotto gli imperatori della famiglia Claudia, almeno fino a Nerone, gli abbellimenti di Roma non continuarono con quella vivezza e abbondanza che ebbero sotto Augusto. Tiberio, severo e misurato amministratore, di carattere chiuso e alieno dalle dolcezze dell'arte, restorò qualche edificio, ma poco o nulla costrusse; e similmente Caligola. Claudio si volse a costruzioni di pubblica utilità, facendo fare il gran porto di Ostia, introducendo in Roma nuovi corsi di acque salubri ( Aqua Claudia, Anio Novus )[143] e facendo agire un canale scaricatore delle acque traboccanti del Lago Fucino. L'opera compiuta dall'imp. Claudio fu poi nuovamente distrutta. Il Lago Fucino (ora di Celano) non fu prosciugato se non ai dì nostri dopo un ventennio di grandi lavori dall'anno 1855 al 1875, per cura del principe Torlonia; il quale, come dice l'epigrafe della medaglia decretatagli dal re Vittorio Emanuele, compì aere suo opus imperatoribus ac regibus frustra tentatum[144].

2. La “domus aurea„ di Nerone. — Imperando Nerone s'ebbe il grande incendio di Roma (nel luglio del 64 d. C.), che durò lo spazio di più giorni e distrusse molta parte della città, incendio spaventevole di cui l'imperatore appose la colpa con terribili pene ai cristiani, e che la storia invece apporrebbe alla feroce pazzia dell'imperatore stesso[145]. I quartieri incendiati furono poi rifabbricati con un piano regolare, con larghe e diritte strade, fiancheggiate di case e di portici. Nerone, nello spazio che dal Palatino si estende al Celio ed all'Esquilino, costrusse un suo palazzo, a cui lo splendore di meravigliosa ricchezza acquistò nome di domus aurea. Architetti ne furono Celere e Severo, che già per lo stesso imperatore avevano formato arditissimo disegno di risanare le Paludi Pontine scavando un canale navigabile dal Lago d'Averno ad Ostia; palazzi, porticati, giardini, viali, praterie, canali e stagni si avvicendavano in questa immensa costruzione romana; nell'interno una delle sale girava ad imitare il movimento del mondo; dorature, marmi e materie preziose erano a profusione[146]. Ma tanta magnificenza non è veramente per sè sola una prova del valore dell'arte; e Nerone, che si vantava artista, forse lo era di cattivo gusto; più che al bello egli intendeva allo sfarzoso, allo straordinario, all'inverosimile.

IV. I monumenti degli imperatori della “gens Flavia„.

1. L'Anfiteatro Flavio o “Colosseo„. La sua struttura. — Il grande monumento dei Flavî è l'anfiteatro che eternò il loro nome. Si dice che Augusto avesse disegnato la costruzione nell'interno della città di un grande edifizio per gli spettacoli dei gladiatori e delle belve, la cui feroce passione cresceva in Roma e in Italia. Anfiteatri già avevano le città italiche e provinciali, o temporanei di legno, o stabili di pietra. Un anfiteatro di legno ruinò a Fidene, imperando Tiberio, e vi furono tra morti e feriti ventimila spettatori. Il pensiero di dare a Roma un grande anfiteatro fu rinnovato, ma non eseguito da Caligola. L'anfiteatro di Statilio Tauro erasi incendiato sotto Nerone. Vespasiano, ritornando al disegno d'Augusto, pose i fondamenti della grande opera a sud-est del Foro romano, nella bassura fra il Celio e l'Esquilino, dov'era un laghetto dei giardini di Nerone. L'opera fu compita da Tito nell'anno 80 d. C.; si disse l'Anfiteatro Flavio; il nome di Colosseo gli venne, pare, verso il secolo VIII, dalla colossale statua di Nerone che vi si trovava vicina.

Capace di ottantasette mila spettatori, constava d'una grande elissi (il cui asse maggiore misura 188 m., il minore 156), racchiudente un'elissi minore che forma l'arena (misurante 76 m. di lunghezza per 46 di larghezza). Lo spazio intermedio fra le due elissi comprendeva le gradinate per gli spettatori. La cinta esterna, alta 48 m., componevasi di tre ordini d'arcate sovrapposte, in numero di ottanta per ciascun ordine; il primo e più basso dei quali era ornato di colonne doriche, il secondo di colonne ioniche, il terzo di corinzie; sopra questo un quarto piano è formato d'un muro con aperture a modo di finestre, divise da pilastri di stile corinzio. Fra le arcate del secondo e del terzo ordine erano collocate statue, come appare da rappresentazioni dell'edifizio sopra monete imperiali di Tito e di Domiziano[147]. Le arcate del primo ordine, distinte con numeri dal I all'LXXX, davano adito alle scale ed ai corridoi interni.

Il piano generale dell'interno del Colosseo, come d'ogni anfiteatro, consisteva della cavea, luogo per gli spettatori, e dell' arena, luogo dei combattimenti. L'arena, sotto la quale erano androni e camere sotterranee per contenervi le fiere e gli attrezzi (questa parte sotterranea è specialmente evidente nell'anfiteatro di Capua), era recinta intorno dal podium, nel quale erano i posti per la famiglia imperiale, per i magistrati e per le vergini Vestali. Sopra il podio elevavansi tre sezioni di gradinate ( moeniana ) con scale che, convergendo dalla periferia verso il centro, tagliavano le gradinate a cunei. Le sezioni delle gradinate, o moeniana, erano distinte da larghi pianerottoli ( praecinctiones ) con muri di cinta ( baltei ), in cui erano aperte porte o sbocchi ( vomitoria ), che dagli androni interni mettevano alle gradinate. In alto, sopra l'ultima sezione di gradini ( summum moenianum ), correva tutto in giro un porticato destinato alle donne della plebe. Sopra il porticato elevavansi le antenne, a cui erano tese le corde per distendere l'immenso velarium, ombreggiante tutta la vastissima cavea. All'esterno nell'ultimo piano del Colosseo, vedonsi ancora le mensole di sostegno delle antenne. Tutta la parte d'edifizio compresa fra la linea obliqua delle gradinate e la verticale del muro esterno di cinta era occupata da scale, corridoi, passaggi per cui gli spettatori, muniti delle tesserae segnanti il posto di ciascuno, accedevano ai vomitoria, e di qui ai loro seggi. Questa è l'ossatura dell'anfiteatro Flavio, a cui l'immaginazione dovrebbe aggiungere la sontuosa decorazione; i muri divisorî dei moeniana, e specialmente quello più degli altri elevato fra il secondo e il terzo moenianum, erano riccamente ornati di preziosi marmi e di scolture; di fregi e di varie sculture erano ornate anche le balaustre dei vomitoria (ved. Atl. cit., tav. XLVI e tav. XLVII ).

b. Storia delle vicende del Colosseo. — Terminato e inaugurato da Tito, dicesi con spettacoli, nei quali si videro 5000 belve feroci, l'Anfiteatro Flavio ebbe nuove cure da Domiziano; di alcuni danni sofferti lo restorò Antonino Pio. Sotto Macrino s'incendiò nella parte superiore, dove nel summum moenianum e nel portico le gradinate erano di legno; per qualche tempo non vi si diedero spettacoli; ne incominciò la restorazione Eliogabalo, la compì Alessandro Severo. L'imperatore Filippo nell'anno 248 vi celebrò le grandi feste del millesimo anniversario natalizio di Roma. Onorio nell'anno 405 proibì gli spettacoli gladiatorî; ma caccie di fiere nel Colosseo si fecero ancora fino ai tempi di Teoderico. Nel Medio Evo il Colosseo servì di fortezza nelle lotte intestine delle fazioni romane. Poi la barbarie e la rapina lo convertirono in una cava di pietra; il palazzo della Cancelleria, i palazzi Farnese e Barberini furono per buona parte costruiti con pietre del Colosseo, tolte dalla demolizione del muro esterno; così quasi due terzi della grande costruzione furono distrutti.

Fra le costruzioni dei Flavî è da ricordare il tempio della Pace, intorno a cui allargavasi il Foro di Vespasiano. Il tempio ornato con opere tolte dalla domus aurea e con ricche spoglie della conquistata Gerusalemme avevasi per uno de' più sontuosi di Roma.

La casa dei “Vettii„ a Pompei. Il cortile. Tavola 57.

Ved. Arte italiana decorativa e industriale, diretta da Camillo Boito, anno IX (1900), n. 3, tav. 14, 1.

La Casa dei “Vettii„ a Pompei.

Il fregio degli amorini orafi.

Tavola 58.

Da una riproduzione cromolitografata posseduta dalla Società numismatica italiana in Milano. (Cfr. Arte decorativa industriale diretta da Camillo Boito, anno IX, 1900, n. 3, pag. 23, fig. 44.)

2. Le terme di Tito. — Poco lungi dal Colosseo, sull'estremo dell'altura dell'Esquilino, furono erette le Terme di Tito. Il bagno aveva una grande importanza nella vita romana, almeno nei tempi ultimi della Repubblica. Per l'importanza che presero i bagni caldi s'ebbero poi le thermae, edificî destinati non solo al bagno, ma a luogo di ritrovo e di piacere, con un carattere affine a quello dei ginnasî e delle palestre greche. Non la sola Roma, ma ogni città d'Italia o delle provincie, ancorchè piccola, ebbe le sue Terme[148]. Esse componevansi di vasti locali e camere poggianti sopra altre camere sotterranee ( suspensurae ), dove era la fornace ( hypocausis ) e tutto quanto risguardava il riscaldamento e la trasmissione delle acque calde e del vapore. Al di sopra distendevansi le sale e le celle da bagno, con variissima destinazione: il caldarium o sala per i bagni d'acqua calda, e il frigidarium per quelli d'acqua fredda; il tepidarium, sala per traspirazione mediante riscaldamento; il laconicum, per una più alta temperatura; l' apoditerium o spogliatoio; il destrictorium e l' unctorium per le frizioni del corpo e le unzioni; a cui poi sono da aggiungere cortili da passeggio, vasche da nuoto, sale da conversazione e ricreazione, biblioteche, gallerie. Tutti questi locali erano ornati d'opere d'arte, e non poche delle belle statue giunte fino a noi si raccolsero fra rovine di terme[149]. Le prime terme erette in Roma credonsi quelle di Agrippa; a cui prossime sorsero poi quelle di Nerone; e in terzo luogo quelle di Tito, delle quali ancor rimangono dei ruderi, dai quali si riconoscono anche tracce di parte degli edifizî della domus aurea. Le sale di queste terme erano riccamente dipinte, ed ornate di statue di grande valore artistico[150].

La casa dei “Vettii„ a Pompei. Parete dipinta nel piccolo “oecus„. Tavola 59.

Ved. Arte italiana decorativa e industriale, diretta da Camillo Boito, anno IX (1900) n. 3, tav. 13.

Vasi di metallo per diversi usi.

Ritrovati a Pompei e ad Ercolano, ora nel Museo Nazionale di Napoli.

Tavola 60.

Ved. Arte italiana decorativa e industriale, diretta da Camillo Boito, Anno IX (1900) tav. XVIII.

Vasi in metallo ritrovati a Pompei e ad Ercolano. Tavola 61.

Ved. Arte decorativa e industriale, diretta da Camillo Boito, anno IX (1900) n. 3, tav. 18.

3. L'Arco di Tito. — Dei monumenti onorarî dei Flavî è ancora sussistente e degno di ammirazione l'Arco di Tito, presso l'elevazione del Velia, al principiare della Via Sacra. Eretto dal popolo e dal Senato in memoria della presa di Gerusalemme, fu compìto e dedicato dopo la morte dell'imperatore, come appare dall'iscrizione in cui l'imperatore ha il titolo di divus, e dalla rappresentazione dell'apoteosi che fa parte dei bassi rilievi del monumento. L'arco ha un solo passaggio; i lati hanno quattro finte colonne, che sono uno dei più antichi ed anche dei più begli esempi d'ordine composito; sormonta a queste una trabeazione con fregio, sopra cui viene poi l'alto attico. Il disegno è semplice, ma assai elegante, e così per l'architettura come per la decorazione plastica è uno dei più bei monumenti dell'arte romana (ved. Atl. cit., tav. LXVII e LXVIII; cfr. la mia Epigrafia latina, tav. XXVIII[151] ).

Il Foro di Nerva a Roma.

Portico di Minerva, detto “Le Colonnaccie„.

Tavola 62.

Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tav. 29.

4. Opere dell'imperatore Domiziano. I “Fora„ minori. — Sotto Domiziano fu restorato il tempio di Giove Capitolino ed ampliato il palazzo imperiale sul Palatino; fu inoltre restorato il Foro, dove fu posta una colossale statua equestre rappresentante l'imperatore. Una sontuosa villa imperiale fu eretta a piedi del Monte Albano. Fu incominciato da Domiziano e condotto a compimento da Nerva il tempio di Minerva posto fra quello di Marte Ultore di Augusto e il tempio della Pace di Vespasiano.

Intorno al tempio di Minerva stendevasi un'area recinta da ricco colonnato, che costituì un nuovo Foro, detto di Nerva, e che, servendo di passaggio o di congiunzione fra il Foro di Vespasiano e quello d'Augusto, è indicato spesso anche col nome di Forum transitorium o Forum pervium. Era chiuso all'intorno da un gran muro di travertino, dal quale aggettavano colonne corinzie sorreggenti una magnifica trabeazione formante cornice tutto all'ingiro; al di sopra di questa alzavasi un attico. Di questo bellissimo recinto rimangono ancora poche ma assai belle vestigia, in due grandi colonne corinzie, per metà affondate nel terreno, dette le Colonnacce, con una parte d'architrave riccamente ornato di bassi rilievi figuranti donne che attendono a domestici lavori, sotto la protezione di Minerva operatrice (come l'ateniese Ergane ), la cui imagine vedesi in un alto rilievo dell'attico (ved.tav. 62 ). Il tempio della Dea è ancora in buona parte conservato su disegni del secolo XV; ma fu distrutto ai tempi di Paolo V (1605-1621), per usare del materiale in altre costruzioni.

V. Monumenti degli imperatori Traiano ed Adriano.

L'età in cui l'arte greca ebbe un ultimo splendore di rinnovamento nell'arte romana è quella degli imperatori Trajano ed Adriano; il primo dei quali ebbe consigliere e ministro delle sue grandi opere l'insigne architetto Apollodoro, e l'altro fu egli stesso artista. L'uno e l'altro nel momento in cui il mondo romano riposava in prospera pace arricchirono l'impero di costruzioni e di monumenti.

Apollodoro, artista greco orientale di Damasco, può dirsi l'ultimo grande architetto delle scuole greche. Saviamente Trajano lo prepose alla direzione delle nuove opere ch'egli in Roma non solo, ma anche in altri luoghi dell'Impero, edificava. Apollodoro disegnò e curò la costruzione di un teatro rotondo, detto Odeum, di un nuovo edificio di Terme, di un Circo per le corse dei cavalli, del gran ponte sul Danubio, il quale credesi rappresentato in alcuni rilievi e sopra monete dell'imperatore Trajano[152]; infine fece costruire il grande e splendidissimo Foro Trajano, di cui ancora rimangono alcune vestigie (ved.tav. 63 ). Apollodoro sembra aver avuto grandiosità di concetti congiunta col sentimento delle proporzioni e col gusto di una semplicità elegante e graziosa.

Il Foro Trajano a Roma. La Colonna Trajana e i ruderi della “Basilica Ulpia„. Tavola 63.

Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tav. 16.

Il Foro Trajano a Roma.

Pianta della “Basilica Ulpia„.

Tavola 64.

Ved. Melani, Architettura, 3.ª edizione, Milano, Hoepli, pag. 113, fig. 63.

1. Il Foro “Trajano„ e i suoi monumenti. — Il Foro Trajano, posto in continuazione di quello d'Augusto, fra il Quirinale e il Capitolino, fu il maggiore di tutti i Fori imperiali, i quali constavano di un'area con un tempio nel mezzo, recinta da un ricco peribolo (ved. Atl. cit., tav. XLVIII )[153]; quello di Trajano, destinato ad essere sede di trattazioni giuridiche e di relazioni scientifiche, artistiche e talora anche religiose, constava di un largo complesso d'edificî. A prepararne l'area fu necessario di spianare parte della pendice del Quirinale, per un'altezza segnata dall'altezza della colonna Trajana, secondo dice l'inscrizione di questa. Per un grande arco trionfale si accedeva ad un vasto spazio ( Area Fori ), a modo quasi di un grande atrio tutto recinto di porticato; in due lati di questo si allargavano due grandi absidi rotonde, e nel lato di fronte all'ingresso sorgeva la Basilica Ulpia (ved.tav. 64 ). Nel mezzo dell' Area grandeggiava la colossale statua equestre dell'imperatore. La Basilica formava come il corpo di mezzo del Foro, coperta di bronzo, ricinta da colonnati, e terminata essa pure da due absidi; aveva prossimi, nella parte opposta a quella dell' Area, due separati edifizî che formavano la Biblioteca Ulpia greca e latina; nello spazio fra l'una e l'altra biblioteca ergevasi la colonna onoraria dell'imperatore. Al di là di questa, allargavasi un altro spazio come peribolo di un tempio, che da Adriano fu consacrato al nome di Trajano. A disegno così grandioso corrispondeva una meravigliosa ricchezza di decorazione, della quale possiamo formarci alcun concetto parte con le notizie degli antichi scrittori, che celebrano quel forum come miraculum, e parte con la vista della colonna Trajana, che ancora sorge sul primitivo suo luogo[154]. L'imperatore Costanzo a Roma davanti a quell'opera, unica al mondo, degna dell'ammirazione fino degli stessi Dei, rimaneva attonito, guardando quelle gigantesche costruzioni che nessuna generazione di mortali più saprebbe rifare. Costanzo espresse allora il desiderio d'aver una statua equestre come quella di Trajano, posta in mezzo all'area del Foro. E Ormisda, un regale persiano ch'era con lui, accennando agli edificî circostanti, disse: “Sì, principe, ma al cavallo fa di preparare una stalla come questa„[155].

2. La Colonna “Trajana„. — La colonna inalzata fra le due biblioteche è ad un tempo monumento sepolcrale ed onorario, perchè, rappresentando nei grandi suoi bassirilievi le imprese di Trajano nella Dacia, serviva anche, dice la tradizione, come tomba all'imperatore, le cui ceneri trasportate dalla Siria, dove era morto, chiuse in un'urna d'oro, furono deposte nella cameretta sepolcrale che è nella base della colonna. Ma quando Sisto V nel 1585 fece aprire la camera appiè della colonna, la trovò vuota. S'eleva la colonna sopra un alto zoccolo quadrato; il fusto è formato di molti giganteschi rocci tamburi di marmo sovrapposti, e termina con gran capitello, sul quale ergesi il piedestallo che sostenne già la statua di Trajano, ed ora la statua di San Pietro fattavi porre da Sisto V. L'altezza totale della colonna è di m. 29; è vuota nell'interno, con una scala a chiocciola che mette fino alla cima. Siccome la colonna è riccamente istoriata dalla base fino al capitello, s'è dovuto supporre che gli edifizî vicini, forse le due biblioteche, avessero loggiati a più piani, prospicienti i lati della colonna, donde si potesse godere di quelle rappresentazioni plastiche (ved. Atl. cit., tav. XLIX e tav. LXIX ).

L'arco trionfale che, contiguo al Foro d'Augusto, formava ingresso al Foro di Trajano, è conosciuto solo per qualche rappresentazione sopra monete di quell'età[156]. La fronte era ornata di sei colonne, fra le quali s'incavavano nicchioni con statue, e sopra questi nicchioni grandi bassirilievi; l'attico portava l'inscrizione dedicatoria, e sull'alto ergevasi una sestiga circondata da vittorie e da trofei. Molte delle sculture dell'arco trionfale di Trajano furono trasportate ed adornano l'arco di Costantino.

3. Opere dell'imperatore Trajano. — Grandiose e importanti opere di pubblica utilità si compirono sotto l'impero di Trajano: fu ampliato il Porto d'Ostia, costruito il bel Porto d'Ancona, dove ancora sussiste ben conservato l'arco dedicato a lui e a Plotina sua moglie, e a Marciana sua sorella in memoria di quell'opera. Altro porto fu aperto a Civitavecchia, detto Portus Traiani; riparate le vie diramate per le regioni dell'Impero, e altre nuove costruite; restorata la via Appia, e diramatone da Benevento un nuovo tronco per Brindisi.

L'arco bellissimo di Benevento, detto Porta Aurea, fu eretto nell'anno 114 d. C. a memoria di questo savio e munifico imperatore[157]. Oltre il gran ponte sul Danubio, altro ne fu costrutto sul Tago ad Alcantara, sul quale si eleva anche un arco trionfale consacrato pur esso a Trajano. Questa grandiosa opera è dovuta a C. Giulio Lacero, architetto. Quanto impulso desse Trajano a quest'attività edificatrice che abbelliva le città dell'Impero appare dalla corrispondenza sua con Plinio juniore. A provveder i mezzi di tante costruzioni cooperò grandemente quel decreto dato regnante Trajano e noto col nome di Senato-consulto Aproniano, pel quale le città riconosciute come enti civili furono rese capaci di ricevere eredità e legati. E conviene osservare che il patriottismo municipale era allora assai più vivo ed efficace che non oggidì, e che allora non vi avevano congregazioni che attirassero a sè le liberalità dei morenti, onde le donazioni abbondanti fornivano modo alle città di arricchirsi di belle ed utili opere. Così le città dell'Impero da Trajano alla fine degli Antonini ebbero acquedotti, terme, teatri, basiliche, tempî, ponti, strade, e un meraviglioso fiorire di vita civile. Da Trajano veniva tanto impulso di attività ai pubblici lavori, che meritamente la storia lo riconosce[158].

Apollodoro sopravvisse a Trajano; ma fra lui, che sentiva il giusto orgoglio dell'artista, e l'imperatore Adriano, che aveva le pretensioni del dilettante, non poteva esser buona pace. Narrasi che, avendo Adriano al greco architetto presentato un suo proprio disegno del tempio di Venere e Roma, questi liberamente lo giudicò, in alcune parti acutamente criticandolo. L'imperatore ebbe facile rivincita contro l'artista, facendolo condannare a morte[159].

Se le arti potessero fiorire per protezione di principi, in nessuna età certamente sarebbesi avuto arte più prospera che nell'età d'Adriano. Egli amatore e cultore dell'arte, egli squisitamente formato allo studio della greca eleganza, egli veramente anima greca in toga romana, salito al dominio nel tempo in cui l'Impero era nella maggiore estensione di confini, nella ricchezza della pace, potè dare alle arti favore ed aiuto; ma non potè ad essa nè ispirare un soffio di vita nuova, nè prolungare oltre il termine d'un breve periodo quel rinvigorimento che avevale infuso; cosicchè con lui abbiamo il massimo, ma insieme l'estremo fiorire dell'arte greco-romana.

4. Il gran tempio di Venere e Roma sotto Adriano detto templum Urbis. — Una delle maggiori opere architettoniche dell'età d'Adriano è il gran tempio di Venere e Roma, dedicato nell'anno 135, e ricordato spesse volte col nome di templum Urbis, eretto tra il Foro romano e l'Anfiteatro Flavio. Era un doppio tempio pseudodiptero, decastilo, cioè un recinto templare chiuso da un porticato di tal larghezza da contenere un doppio ordine di colonne, le quali erano dieci sulla fronte e venti sui lati; la cella, che sorgeva nel mezzo di questo grandioso colonnato, era, a metà della sua lunghezza, distinta in due parti, ciascuna delle quali formava cella per se e terminava in due grandi absidi o nicchie circolari, coperte di semicupole ornate di cassettoni romboidali. Le due nicchie si opponevano toccandosi coll'estradosso, ed era posto in una il simulacro di Venere, nell'altra quello di Roma. Le due celle, coperte da volta a botte, avevano ciascuna un pronao a forma di tempio in antis, con quattro colonne fra i due pilastri estremi. Il tempio riccamente ornato di colonne, di lacunari, di fregi, di bassirilievi, di statue, ergevasi sopra un ampio terrazzo chiuso da un grande porticato. Oggi ne avanzano alcune maestose ruine, fra il Colosseo e Santa Francesca; e ancora sono visibili i resti delle due absidi con parte delle semicupole ornata di cassettoni romboidali (ved. Atl. cit., tav. L ).

5. La Villa d'Adriano a Tivoli. — Era questa villa prediletta dall'imperatore pel suo soggiorno; un palazzo imperiale con altri edifizî di nome e di stile straniero, specialmente greci ed egizî, quali un Liceo, un'Academia, un Portico Pecile (cioè ornato di varî dipinti) una Lesche (sala di riunione), una Palestra, un Canopo; ivi erano raccolte statue ed opere insigni dell'arte egizia e greca; come lo mostrarono i molti ritrovamenti. V'erano giardini e parchi con molte piante esotiche, con piani ed alture e corsi d'acque, il tutto disposto ad imitare paesaggi famosi, quali, ad esempio, la greca Tempe, il Peneo, l'Alfeo. Queste notizie sono chiara prova del carattere imitativo ed eclettico dell'arte al tempo di Adriano con tendenze verso il pittoresco e l'arte paesista. Ciò che l'imperatore aveva ammirato ne' suoi viaggi qui volevasi rappresentato, quasi in un microcosmo, in cui l'imperatore rievocava le soddisfazioni provate nel salir l'Etna, nel mirare dal Monte Casio la levata del sole.

Il Ponte Elio e il Mausoleo di Adriano in Roma (oggi Castel S. Angelo). Tavola 65.

Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. XII, 19.

Distrutta l'imperiale residenza di Tivoli nel secolo VI da Totila, oggi appena rimangono scarsissime vestigia di tanti sontuosi edifizî[160].

6. La “Mole Adriana„ o Mausoleo dell'imperatore Adriano. — Il Mausoleo d'Augusto, che aveva accolto le ceneri di molti della stirpe Iulia e Claudia, dicesi che per ultimo ricevesse anche Nerva; le ceneri di Trajano furono deposte sotto la sua colonna; Adriano volle a sè ed ai suoi preparare un monumento, che, eretto sulla sponda del Tevere opposto a quello di Augusto, non fosse a questo inferiore. La tomba d'Adriano, condotta a compimento da Antonino Pio e detta essa pure Mausoleo, od anche Mole Adriana, congiunta con la città per mezzo del ponte Aelius a cinque grandi arcate, il più bello fra i ponti romani, era conformata sul tipo del Mausoleo d'Augusto, ma di maggiori dimensioni. Una grande costruzione quadrata formava base ad una colossale rotonda di travertino, tutta rivestita di marmo greco; sulla rotonda sorgevano due ordini di colonnato degradanti a scale, con molte statue verosimilmente collocate fra gli intercolunnî; sembra che il monumento si coronasse d'un gran tetto conico sormontato da una colossale statua d'Adriano, ma secondo altri invece dalla grande pina che ancora si conserva nel giardino del Vaticano. Spogliato per gli assalti di Alarico, Vitige e Totila, il nucleo dell'edifizio sussistette a formare il maschio di Castel S. Angelo; parte delle colonne dei due portici circolari, di prezioso marmo orientale, credesi fossero da Onorio usate ad ornare la basilica di S. Paolo, e andarono poi distrutte nel grande incendio dell'anno 1823 (ved.tav. 65 ).

7. Opere minori dell'imperatore Adriano. — Adriano viaggiò accompagnato da una corte di architetti e di artisti, per ogni provincia dell'Impero, dall'Eufrate alla Senna, dal Danubio all'Atlante; a lungo soggiornò nelle città principali, che restorò ed ornò con nuovi edifizî. Moltissime sono le provincie e le città che fecero coniare monete in onore di Adriano con la leggenda restitutori (cioè all'imperatore che restora), in memoria dei benefizî ricevuti. Molte sono le opere di pubblica utilità che noi troviamo ricordate dal suo biografo Elio Sparziano, o sulle iscrizioni. Viaggiò con religiosa ammirazione la Grecia, a lungo e con amorosa compiacenza soggiornò in Atene, ch'egli pensava di far capitale del mondo ellenico; e gli Ateniesi, vedendo l'imperatore prender abito greco, esser liberale di benefizî, farsi loro cittadino, ragionare con gli artisti, ambire d'essere arconte, credettero la loro patria fosse per rinascere agli splendori dell'età di Pericle. Adriano fece restorare il vecchio tempio di Giove Olimpio; altro nuovo ne fece erigere a Giove Panellenio ed a Giunone, e costrusse portici e ginnasî, e sale da biblioteche, e in breve un intiero nuovo quartiere a lato alla vecchia città, il quale si disse Adrianopoli; al suo ingresso fu posto un arco, che ancora esiste; sul lato che guarda Atene è scritto: questa è la città di Teseo; sul lato del quartiere nuovo: questa è la città di Adriano. Altre città, dall'imperatore o fondate o rinnovate sulle antiche, presero il nome di Adrianopoli; Gerusalemme stessa fu mutata interamente in città romana, con foro, teatro e tempio di Giove, e con nuovo nome fu detta Elia Capitolina; donde il sentimento nazionale tanto s'accese, che gli Ebrei tentarono una ultima infelice sollevazione contro il dominio di Roma. Soggiornando l'imperatore nell'Egitto, Antinoo, il bellissimo suo favorito, annegò nel Nilo; fu divinizzato e nuovi templi ed una città intera, di stile greco, Antinoopoli, gli fu eretta in Egitto. Mai il mondo non vide una più alacre attività di costruzioni, una più ricca floridezza d'ornamenti; mai gli artisti ebbero un più potente e più amoroso fautore[161]. L'arte greca dalla mano d'Adriano era ricondotta a riabbellire le greche città, che, da lungo tempo decadute e impoverite, languivano; l'arte greca rinnovata dalla forza romana si distese fino agli ultimi termini dell'Impero, come fattrice di civiltà, nella florida pace mantenuta dal governo d'un principe intelligente e forte.

Il tempio di Antonino e Faustina

(oggi S. Lorenzo in Miranda a Roma).

Tavola 66.

Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tavola 16.

VI. I monumenti degli Antonini e dopo gli Antonini.

Tanto fervore d'operosità presto s'allentò sotto gli Antonini, che per massima parte s'accontentarono di restorare gli edificî danneggiati da incendî o da altri disastri. Pure un bell'edifizio abbiamo del tempo d'Antonino Pio, successore di Adriano, ed è il tempio che, eretto in onore della moglie sua Faustina, il Senato poi dedicò al nome anche dell'imperatore, dicendolo d'Antonino e Faustina; di esso ancor oggi rimane parte del muro della cella e il pronao con belle colonne, che racchiudono la chiesa di S. Lorenzo in Miranda (ved.tavola 66 )[162]. Il tempio era esastilo, d'ottimo stile corinzio, con ricca eleganza d'ornamenti; sull'architrave delle colonne è scolpito un frammento di fregio con bellissimi ornati di fiorami, di grifi, di candelabri, di vasi, che stettero come modello di stile classico e fondamento di continue variazioni nell'ornamentazione architettonica dei secoli seguenti.

La Colonna onoraria a Marco Aurelio (in Piazza Colonna a Roma). Tavola 67. — Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tav. 18; cfr. il nostro testo a pag. 282,nota 1.

Lucio Vero e Marco Aurelio alla memoria di Antonino eressero una colonna di granito rosso, trasportata dall'Egitto, della quale rimane, pregevole monumento per la storia della scoltura, la base. Resta ancora intera la colonna che il popolo e il Senato consacrarono a M. Aurelio, imitando quella di Trajano; forse sorgeva davanti ad un tempio consacrato all'imperatore. Anch'essa è tutta istoriata di rappresentazioni guerresche; ha nell'interno una scala che mette alla cima, sulla quale da Sisto V fu posta la statua di S. Paolo (ved.tav. 67 )[163].

Di un arco di M. Aurelio, pur esso eretto in memoria delle guerre contro i Marcomanni, rimanevano nell'anno 1600 ruine presso il Corso; alcuni suoi bassirilievi si conservano nel Museo del Campidoglio.

Dopo M. Aurelio e Commodo non cessarono le grandi e magnifiche costruzioni, anzi l'architettura romana, animata di una vera, propria e robusta vita, si prolungò assai più lontana che non altra delle arti sorelle; ma quanto al gusto e alla bellezza delle forme, incominciò la decadenza, sfoggiandosi tanto più in pompa e ricchezza quanto più perdevasi d'armonia e di semplicità. Grandi edifizî sorgevano in Roma, in Italia, nelle provincie d'Occidente, in quelle d'Asia e d'Africa, e in essi conservavasi sempre la grandiosa solidità romana; ma gli elementi architettonici venivano da nuove forme alterati, cessando d'esser parti integranti della costruzione per diventare semplici elementi ornamentali, e sovraccaricandosi di decorazione. La semplicità delle linee verticali ed orizzontali si volle variata con linee spezzate di cornicioni sporgenti e di nicchioni; la bella armonia delle proporzioni fu alterata per un continuo sforzo a conseguire effetti variati e nuovi ed una ricca apparenza. A questo fortemente contribuì il gusto orientale dei popoli asiatici assoggettati a Roma, quando una stirpe imperiale di origine siriaca ebbe il dominio dell'Impero, la stirpe discendente da Bassiano, sacerdote del Sole in Emesa, dai membri della quale vennero Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, madre di Caracalla e Geta, e Giulia Mesa, madre di Soemia e di Giulia Mammea, da cui nacquero poi Elagabalo e Alessandro Severo. Indi i culti orientali d'Iside, di Mitra e del Sole, che in Roma già s'erano insinuati, si fecero più diffusi e più splendidamente celebrati[164]; indi coi nuovi culti nuovi sentimenti, e novità di forme e strana pompa d'ornamenti nell'arte, e infine la decadenza di essa.

B. — Plastica.

I. Osservazioni generali.

È strano il dirlo, ma vero che noi dobbiamo in gran parte la conoscenza dei capilavori antichi alla depredazione delle opere d'arte nelle città greche da parte dei Romani, anche dopo la presa di Corinto (146 a. C.). Quando la romana Repubblica ereditò da Attalo le ricchezze del regno di Pergamo (133 av. C.), furono tolte di là molte opere d'arte della sua scuola[165]. Nuovo bottino si trasse da Atene, da Delfi, e da altri luoghi nei saccheggi al tempo della seconda guerra Mitridatica (86 a. C.), e dalle città asiatiche, quando, per la spedizione di Lucullo e per quella finalmente vittoriosa di Pompeo, la regione dell'Asia anteriore cadde in potere di Roma. Nè solo i conquistatori, ma anche gli annuali magistrati amministratori di provincie spigolavano avidamente quanto di bello fosse rimasto. L'esempio di Verre in Sicilia è prova eloquente della rapacità di tali dilettanti d'arte. Di greche opere riempivansi gli edifizî romani dell'ultimo tempo della Repubblica; sculture arcaiche di Bupalos e di Athenis, maestri di Chio, e con esse l'Apollo Citaredo di Scopa abbellivano il tempio e la biblioteca d'Augusto sul Palatino; statue di Hegias, di Mirone, di Fidia ornavano il portico d'Ottavia; il grande gruppo dei Niobidi, opera della giovane scuola ateniese, fu collocato nel tempio di Apollo Sosiano; il grande gruppo d'Achille colle deità marine, capolavoro di Scopa, era da Domizio Enobarbo consacrato nel tempio di Nettuno; Asinio Pollione, E. Scauro, M. Agrippa, Mecenate, Nonio Vindice formavano ricchissime collezioni artistiche; una galleria d'arte era necessario ornamento d'ogni ricca dimora romana. Caligola imperatore aveva spedito a un suo legato nelle città greche a racimolare quanto di bello possedessero. Nerone mandò simile legazione per ornare la domus aurea, e nella sola Delfo trovò ancora da rubare a centinaia le statue di bronzo: tanto meravigliosamente feconda era stata l'arte greca! Alla depredazione seguiva spesso la distruzione, o per accidentali sventure, quali gli incendi del tempo di Nerone, di Vitellio, di Tito; od anche per barbarico capriccio, come fu di Caligola, che fece decapitare molte statue greche per porre su quelle la propria effigie. Avvenne allora questo fatto degno di osservazione, che Roma, spenta la Grecia, e divenuta sacraria dei capilavori delle varie scuole greche, si formò come un gran museo e, quantunque dell'arte non avesse che il senso riflesso, divenne la capitale dell'arte[166].

Però, siccome questo fatto non proveniva da ingenita disposizione artistica, ma da avidità di conquista e brama avida di raccogliere, lo studio dell'arte vi diventò preziosa curiosità, lavoro da collezionisti, e ciò fin dalle conquiste nella Grecia e per tutto l'Impero. Già Cicerone, che pure pregiava ed intendeva l'arte greca, si scusa e quasi nasconde il gusto e l'intelligenza sua[167]. Ma quando poi tal ritrosia fu vinta, la conoscenza dell'arte greca divenne parte d'una ben finita educazione letteraria, ma ristretta ad un'intellettuale aristocrazia, con carattere di cultura storica e d'erudizione, di ostentazione di dottrina. La Grecia era meta del pensiero e del desiderio di ogni ben educato romano; Cicerone, padre e figlio, Virgilio, Orazio l'avevano visitata a scopo di studio; già era nata la poesia e la melanconia delle ruine; si facevano viaggi in paesi lontani e ormai spopolati solo per ammirarvi qualche capolavoro scampato alle mani dei depredatori; per null'altro era visitata Tespie di Beozia che per vedervi l'Eros di Prassitele; e l'Afrodite di questo maestro faceva accorrere gente a Cnido. Ma assai troppo spesso erano viaggi di lusso e di curiosità, per dire: “ho veduto„. Nè pare che il sentimento artistico della nazione romana se ne avvantaggiasse più di quello che s'avvantaggi il gusto estetico della gran massa della nazione inglese per i tesori del Museo Britannico, o per gli incessanti viaggi in Italia. Acquistar opere d'arte, aver una ricca collezione era moda, e per sola ostentazione molti profondevano in ciò patrimoni[168]. Indi le pretese d'intendersene, e il fare della finezza del gusto e dell'abilità della critica un pregio sommo[169]. A molte opere d'arte spesso davasi gran pregio, non per valore intrinseco ma per rarità storica; per questo rispetto estimavansi assai oggetti d'arte posseduti da uomini insigni, ed opere non finite, quando fossero lavoro di celebre maestro. È cosa evidente che tale passione si limitasse ad un ordine privilegiato di cittadini, ai ricchi dilettanti. Vuolsi tuttavia osservare che tanta copia di greche opere esposte in pubblico dovevano svegliare alcun amore e sentimento artistico anche nel popolo; e potrebbe esserne testimonianza il malcontento popolare contro Tiberio, quando aveva fatto togliere dalle Terme l' Apoxuomenos di Lisippo[170]. Ma era sempre un sentimento d'ammirazione per l'arte straniera, non già il destarsi d'un vero spirito artistico. I Romani ci si presentano non come continuatori dell'arte greca, ma come un popolo di Mecenati, che con la potenza e con la ricchezza diedero rinnovamento a quell'arte che nelle città di Grecia decadute e impoverite più non trovava alimento. L'arte greca, dunque, spenta, come ho detto, in Grecia, ebbe sua nuova sede in Roma; ma essa aveva allora già da assai tempo percorso ogni suo grado, aveva davanti a sè un cumulo di tradizioni e di prototipi, che, soffocando ogni nativa aspirazione, produceva un lavoro di riflessione e di riproduzione. La quantità d'opere raccolte in Roma rappresentava le varie scuole che producevano uno stile accademico, senza diretta ispirazione dalla natura, ma inteso alla rinnovazione e alla ricomposizione dei pregi delle scuole antiche.

II. Artisti greci in Roma.

1. Pasitele, Stefano e Menelao. — Della plastica greca rinnovata in Roma il rappresentante maggiore è Pasitele, nativo dell'Italia Meridionale, la cui attività artistica si estende dai tempi di Pompeo Magno ad Augusto. Egli e lo scolare suo Stefano, e Menelao discepolo di Stefano, sembrano avere con le opere loro cercato non l'espressione di nuovi concetti, ma piuttosto la manifestazione di belle forme secondo i tipi perfetti, lavorando sopra un canone riconosciuto, fusione del canone di Policleto con quello più slanciato di Lisippo, ma con tendenza alla semplicità.

2. Arcesilao. — Altro artista greco che lavorò in Roma, contemporaneo di Pasitele, è Arcesilao, del quale è ricordata da Plinio (XXXV, 155) una statua di Venere genitrice per il tempio a questa Dea consacrato da Giulio Cesare nell'anno 46 a. C.[171]. Significante per il carattere artistico d'Arcesilao è il soggetto d'un opera sua[172]. Aveva scolpito in marmo una leonessa imbrigliata da genietti o da amorini, dei quali alcuno traeva la fiera legata, altri la forzavano a bere versando da un corno, altri la calzavano di pantofole; soggetto che spetta alla classe delle rappresentazioni scherzose erotiche (ἰρωτοπαίγνια), e che dimostra ad un tempo la fantasia leggiadra e vivace dell'artista, e la franca abilità e leggerezza della sua mano, comprovata anche da altra notizia di Plinio, cioè che di Arcesilao, valentissimo nel plasmare, fossero ricercati e caramente pagati i bozzetti o modelli. Altra opera scherzosa ed erotica d'Arcesilao erano i centauri cavalcati da ninfe. Nel contrasto delle robuste ferine forme della leonessa e dei centauri con le forme graziose e morbide degli amorini e delle ninfe, e nella rappresentazione della forza selvaggia domata dall'amore, trovava l'artista leggiadria e festività di concetto, e opportunità di sfoggiare nell'esecuzione. Tali erotiche rappresentazioni sono proprie della poesia anacreontica; ma certamente Arcesilao primeggiò in questo genere leggiadro e festivo, donde tolsero tanti soggetti e tante ispirazioni i pittori delle case di Pompei, e i moderni imitatori dell'arte classica.

3. Zenodoro. — Un altro greco, Zenodoro, che aveva tentato con la statuaria colossale di rialzare l'abilità ormai decaduta della fusoria nel bronzo, aveva compito un gigantesco simulacro d'Apollo per una città della Gallia, e con questo aveva meritato d'esser chiamato ad eseguire il colosso di Nerone, collocato presso la domus aurea, dal quale pare prendesse poi nome il Colosseo.

III. Artisti romani.

Coponio e Decio. — Scultori di nome latino troviamo ricordati assai pochi; si possono menzionare Coponio, che ornò il teatro di Pompeo con quattordici statue, personificazioni di quattordici nazioni, forse quelle da Pompeo soggiogate; Decio, che sembra aver lavorato statue colossali. La statuaria di grandiose proporzioni aveva ripreso vigore sotto i Cesari, non più servendo, come nei tempi più belli dell'arte greca, all'elevazione dello spirito verso la grandezza del Nume, bensì ad un fine più terreno, ma non meno grandioso per lo Stato romano, alla glorificazione dell'immagine dell'imperatore.

IV. L'arte delle personificazioni nella plastica romana.

In mezzo a tante copie ed imitazioni di lavori greci antichi, che oggi conservansi nei musei in ripetuti esemplari, non si può però disconoscere originalità d'invenzione nell'arte romana tanto per le personificazioni di idee astratte e di cose naturali, quanto per i ritratti. Quanto alla personificazione di idee astratte, di concetti tradotti in forme umane, ( Aequitas, Fides, Pax, Securitas, Pudicitia, Annona ), o anche di ritratti idealizzati sotto forma d'alcuna virtù, come p. es., le donne delle famiglie imperiali, vi è sempre mirabile la convenienza degli attributi e delle espressioni.

Entrano in questa classe delle personificazioni anche le imagini di città, di popoli, di fiumi, di genî dei luoghi, usate quando nelle pompe e nei monumenti trionfali volevasi in modo visibile significare la potenza e la vittoria. Entrano in questo novero le quattordici nazioni di Coponio; e forse abbiamo un saggio di tali rappresentazioni nella statua di donna pensosa e mesta, conservata sotto la Loggia dei Lanzi a Firenze, che da alcuno fu creduta Tusnelda, moglie d'Arminio, da altri una Germania devicta. Rappresentazioni di sessanta nazioni galliche ricordasi che ornarono un altare eretto ad Augusto a Lione. Questo modo di rappresentazioni può segnare il punto di passaggio dall'arte greca ad un'arte più veramente romana, cioè alla scultura storica.

V. L'arte del ritratto in Roma.

1. I ritratti della Repubblica. — Ma la parte della plastica che si può dire più originale di tutte in Roma e che durò dai tempi più antichi della Repubblica fino al decadere dell'impero fu l'arte del ritratto, nella quale davvero i Romani furono maestri[173].

Rispondeva infatti il ritratto alla loro indole pratica e bramosa di gloria, e favoriva l'esaltazione storica delle imprese illustri degli imperatores della Repubblica e dell'Impero. Anche nei busti di uomini pubblici e privati s'ammira pienezza di vita e corrispondenza d'espressione fra il volto e il carattere morale. L'uso di porre imagini ad uomini insigni, ed anche a semplici privati cittadini, era in Roma assai diffuso, come s'è veduto, dai tempi più antichi, tanto che i censori dovettero alcune volte proibirle. Se nel tempo in cui era in vigore lo spirito repubblicano potè aver qualche freno la costumanza d'onorare di pubbliche imagini i cittadini, questa s'accrebbe invece col declinare degli usi antichi, quando l'imagine di Cesare, ancor vivente, fu impressa sulle monete, quando gli stessi suoi uccisori seguirono quell'esempio, e quando infine ai liberi ordinamenti succedettero la servitù e l'adulazione.

Allora si moltiplicarono le imagini erette in pubblico a persone appartenenti alla famiglia imperiale; ma dei tempi della Repubblica pochi sono i ritratti in forma di busto, o in forma di statua, a noi conservati; e per quelli che rappresentano persone dei tempi più antichi, se derivano da un tipo preso sul vero, forse però sono opere di tempi posteriori, poste ad ornare come ricordi storici i luoghi pubblici; così, ad esempio, di molte statue di grandi cittadini romani aveva Augusto abbellito il suo Forum. Fra i busti più antichi ricordiamo quello in marmo raffigurante Cornelio Scipione nel Museo Capitolino (ved. Atl. cit., tav. LI ), il busto in bronzo raffigurante Annibale; i busti di Mario, di M. Bruto (ved. Atl. cit., tav. LII ), di M. Antonio (ved. Atl. cit., tav. LV ); di M. Agrippa (ved. Atl. cit., tav. LVII ); di Cesare (ved. Atl. cit., tav. LIII ); di Cicerone (ved. Atl. cit., tav. LVI ). Oltre un bel busto del Museo Capitolino, di Cicerone si conserva uno creduto più antico e di maggiore autenticità nella Galleria di Madrid.

Fra i ritratti in forma di statua vuolsi ricordare la grande statua di Pompeo, di marmo greco, trovata nell'anno 1555 nel luogo dov'era il teatro nominato da lui, e conservata nel palazzo Spada. Raffigura il grande rivale di Cesare in aspetto eroico, cioè ignudo con la clamide avvolta sul braccio e con appesa al balteo la piccola spada ( parazonion ); tiene nella destra un globo, attributo del conquistatore glorioso; nel volto spira tranquillità dignitosa.

Si hanno statue rappresentanti Giulio Cesare, in aspetto eroico ed anche vestito della toga (ved. Atl. cit., tav. LIV ). Bella assai è la statua di M. Agrippa, del palazzo Grimani a Venezia; esso pure è figurato al modo greco eroico, con la clamide e il parazonion, appoggiato ad un delfino, attributo di sue imprese navali; può supporsi sia il tipo della statua posta ad Agrippa ancor vivo in uno dei nicchioni dell'atrio del Pantheon.

2. I ritratti dell'Impero. — La scultura dei ritratti ci ha lasciato un gran numero di monumenti dell'età imperiale, rappresentanti i principi che ressero il romano impero, e persone di loro famiglia (ved. Atl. cit., Tiberio a tav. LIX e tav. LX ). Queste opere, salvo eccezioni, sono contemporanee delle persone figurate. Vario è il loro pregio artistico. In quelle del tempo dei primi Cesari si ammira un aspetto magistrale, pieno di forza e di verità senza studiate finezze; di grandiosa semplicità, e di stile nobile, quali nella letteratura lo stile di Livio e di Tacito. Nelle teste giovanili d'Augusto spira una pensosa fierezza (ved. Atl. cit., tav. LVIII ); torvo e minaccioso è Caligola (ved. Atl. cit., tav. LXI ); buono ed equilibrato Trajano. Però gran parte di questi ritratti imperiali sono lavori manuali, di un carattere ufficiale, poichè provengono da municipî, da città provinciali, da piccole comunità, quali pubbliche imagini dell'imperatore e della sua famiglia.

3. I “simulacra iconica„ e le statue idealizzate. — Diversi sono i modi di rappresentazione, nei ritratti, sia per l'atteggiamento, sia per l'abito. Distinguiamo due classi: l'una di quei ritratti in cui l'individualità è resa netta ed intera, serbata la realtà dell'aspetto e dell'abito ( simulacra iconica ); l'altra invece è di quelli, nei quali la figura individuale è presentata sotto un aspetto idealizzato, cioè in sembiante di nume o d'eroe; sono queste le statue che per l'aspetto eroico troviamo da Plinio nominate Achilleae, delle quali già abbiamo ricordato esempio coi ritratti di Pompeo e di Agrippa.

Nelle statue di ritratti idealizzati vediamo una continuazione dell'arte greca, che in sembianza di nume aveva più volte rappresentato Alessandro Magno; così anche gli imperatori romani sono figurati come divinità, ignudi, con scettro o fulmine nelle mani, o stanti o sedenti, con atteggiamento che talvolta ha qualche rimembranza del Giove Olimpico. Qualche imperatore, o persona di sua famiglia prende sembianza di quel nume col quale aveva legami di religione o di favore; così, p. e., Nerone, citarista e cantore, rappresentato in aspetto di Apollo; Commodo in sembianza di Ercole con la pelle di leone; Antinoo, il bellissimo favorito d'Adriano, per la perfezione delle sue forme e per sentimento d'ossequio o d'adulazione all'imperatore, fu dagli artisti figurato in variissimi modi. Della grande quantità di statue consacrate a quel fiore di giovanile bellezza è prova il copioso numero che ancòra ne resta; fra tutte bellissima è quella ignuda del Museo Capitolino. Alcune sono in marmo colorato, e dànno esempio della tendenza alla vivacità dell'effetto, che è un carattere dell'arte figurativa di questa età. Talora più marmi diversi fra loro erano usati per distinguere le carni dal vestito, e il marmo colorato qualche volta aveva poi alcuna casuale relazione con la persona ritratta: così, p. es., sappiamo che in figura di marmo nero era rappresentato Pescennio Nigro.

Nella classe dei simulacra iconica, ossia dei ritratti riproducenti la persona nella sua realtà, si distinguono le statue civili habitu, o togatae (ved. Atl. cit., tav. LXIII ), che rappresentano l'imperatore od altro personaggio in costume di pace, e le statue thoracatae, in costume di guerra. Le statue togate rappresentano i personaggi romani, specialmente i magistrati e l'imperatore, nelle loro funzioni civili, oratori o presidenti del Senato. Alcuna volta la toga è alzata e ravvolta sopra il capo, a modo d'un velo, e mostra il personaggio nell'esercizio delle funzioni sacerdotali.

Le statue thoracatae presentano l'imperatore nell'abito di guerra, come condottiero degli eserciti, capo supremo dell'ordine militare, ora con la destra appoggiata ad una lancia, o reggente lo scettro con sembianza di vincitore, ora invece con la mano alzata nell'atto dell' adlocutio. Non solo l'atteggiamento era curato perchè la figura si presentasse in tutta la sua dignità, ma il lavoro delle armature, e specialmente della lorica e corazza, offriva nuovo campo alla maestria dell'arte, col raffigurarvi teste di Medusa, grifoni, vittorie, o più vaste rappresentazioni. Fra le statue thoracatae bellissima è quella d'Augusto trovata nell'anno 1863 poco lungi da Roma, a Prima Porta, fra le rovine d'una villa di Livia Augusta, ed ora ammirata in Vaticano. L'imperatore, alquanto maggiore del vero, veste solo la tunica e la corazza, ed una clamide che si ravvolge sul braccio sinistro; con la destra alzata è in atteggiamento dignitoso; la testa spira nobile espressione; la rappresentazione della corazza per il soggetto e per l'artistica esecuzione merita lode[174] (ved. Atl. cit., tav. LXIV ).

Anche delle donne della casa imperiale si conservano molte e assai belle statue; esse pure sono raffigurate ora nella realtà del loro aspetto e costume, ora in sembianza di divinità, o in personificazione di alcuna virtù che loro fosse propria od attribuita. Bellissima fra le statue femminili è quella di Agrippina seniore nel Museo Capitolino; sedente con quell'atto di abbandono e di altera virtù propria della moglie di Germanico. Le vesti scendono in artistiche pieghe, di minuta finitezza, che mirabilmente disegnano le belle linee del corpo (ved. Atl. cit., tav. LXVI ).

4. Statue equestri. — Una propria classe formano le statue equestri, le quali in gran numero ornavano i monumenti trionfali, poste nelle quadrighe o nelle sestighe sull'alto degli archi. Di queste ultime abbiamo solo rappresentazione in qualche bassorilievo e nelle monete imperiali. Poche sono le statue equestri conservate; a tutti conosciuta è quella di Marco Aurelio sul Campidoglio, uno dei maggiori monumenti dell'arte romana, e sta come modello delle statue equestri per l'arte moderna. Siede l'imperatore filosofo sul cavallo, con semplicissimo vestito, senz'armi, placido e sicuro; con espressione di maestosa dolcezza nel volto, stende la destra in atto di perdonare e di rassicurare i vinti nemici (ved. Atl. cit., tav. LXV ).

VI. La scultura storica in Roma.

1. Osservazioni generali. — Anche nelle grandi composizioni dei bassirilievi che ornavano monumenti storici, si rileva elevatezza di concetto e sicurezza di composizione artistica nella scultura romana; anzi si può affermare, senza tema di errare, che sono questi i documenti dell'arte per sentimento e per esecuzione veramente romani (ved. p. es.tav. 68 ). I grandi bassirilievi dei monumenti trionfali, archi o colonne, sono tutti dell'età Imperiale; essi hanno intima analogia di carattere con le grandi rappresentazioni pittoriche d'imprese guerresche, esposte in pubblico ad ornamento, come si vede, della pompa trionfale.

Bassirilievi marmorei dell'età di Augusto dell'ARA PACIS AUGUSTÆ.

Inalzati il 4 luglio dell'anno 23 a. C., dedicati il 30 gennaio dell'anno 9 d. C. (Villa Medici a Roma).

Tavola 68.

Ved. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, IIIª ediz. pag. 48 e 49, fig. 10 e 11; cfr. Petersen, Römische Mittheilungen, 1894. pag. 171-228; Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli, 1897, pag. 310 e 311.

Le grandi rappresentazioni di guerre, di pompe regali, di religiose cerimonie avevano esercitato l'attività dell'arte orientale, come vedesi nei monumenti Assiri. A questi erasi ispirata in parte l'arte greca, come vedesi, a cagion d'esempio, nei bassirilievi del monumento delle Nereidi[175]; ma invece di sviluppare la rappresentazione in grandi masse di figure, gli artisti greci amarono di dividere la composizione in singoli gruppi, con un carattere plastico più vero. Gli artisti romani invece si attennero piuttosto ad una forma pittorica di composizione estesa e continuata.

Fra i monumenti di scultura storica si devono citare per primi i bassirilievi dell'arco di Tito: constano di uno stretto fregio che corre al di sotto dell'attico, con la rappresentazione della pompa trionfale, e di tre grandi quadri nei lati interni e al sommo della volta dell'arco, rappresentanti altre scene del trionfo, e l'apoteosi dell'imperatore (ved. Atl. cit., tav. LXVIII ). Nel fregio sono scolpiti i tori ornati di infulae, condotti dai vittimarî; i sacerdoti e i ministri del sacrifizio con vasi ed utensili; cittadini con insegne militari; soldati, che sopra una barella portano la statua personificante il Fiume Giordano, emblema della vinta regione. L'invenzione e la composizione del soggetto mancano di spirito e di vivacità; le figure si seguono allineate, senza vita: più d'ogni discorso, a intendere la differenza dell'arte greca dall'arte romana, basterebbe mettere a raffronto i disegni del fregio dell'arco di Tito con quelli del fregio del Partenone.

Di maggior pregio artistico per concetto e per esecuzione sono i quadri di rilievo nell'interno dell'arco, dove, nella rappresentazione del carro trionfale dell'imperatore da una parte, e delle spoglie giudaiche portate dai soldati dall'altra, vediamo una viva e vigorosa animazione, una bella varietà di mosse e di atteggiamenti; quantunque per il soverchio agglomerarsi di figure la composizione prenda del carattere pittorico piuttosto che del carattere plastico. Sono questi rilievi da porre fra i più belli esemplari di scultura romana.

2. I bassirilievi della Colonna Trajana. — Una singolare estensione di rappresentazioni storiche svolgesi intorno al fusto della colonna Trajana, a modo di gran fascia spirale alta un metro e lunga ben duecento. È una storia figurata delle guerre di Trajano contro i Daci, illustrata in una serie di oltre cento rappresentazioni, con duemila e cinquecento figure umane, oltre quelle d'animali e di luoghi. L'impresa vi è illustrata in tutti i singoli momenti, marcie di legioni, passaggi di fiumi, costruzioni di ponti, e d'accampamenti, approvvigionamenti d'eserciti, battaglie, assedî e assalti (ved. Atl. cit., tav. LXIX; ved. tav. XLIX e la tav. XXVI del Manuale di scultura del Melani ), corti giudiziarie presiedute dall'imperatore, ambascerie, sottomissioni di vinti, sagrifizî; la figura dell'imperatore ora tiene l' adlocutio all'esercito, or guida la battaglia, o protegge donne e fanciulli[176].

In quest'immensa quantità di figure è una meravigliosa varietà di motivi, una singolare ricchezza di composizione, un felice studio per offrire la rappresentazione del soggetto nella sua realtà; varie e vivaci sono le espressioni dei volti di schietto tipo romano. Si vede un'arte che intende il vero, e sa esprimerlo con buone forme.

Bassirilievi dei plutei marmorei o “anaglypha„ dell'età di Trajano posti di fronte l'uno all'altro sul Foro Romano a N.-E. della Colonna di Foca, sul luogo ove ritornarono alla luce l'anno 1872. Tavola 69.

Il 1º bassorilievo, che è qui rappresentato in alto, significa l'abbruciamento della lista arretrata dell'imposta detta vigesima hereditatium; il 2º in basso la benefica istituzione di Trajano a vantaggio dei pueri et puellæ alimentariæ. (Ved. Brunn-Brückmann, Denkmäler griechischer und römischer Sculptur, tav. n. 404, cfr. Borsari, op. cit., pag. 248 e 249). Quanto alle sculture d'animali sul rovescio di questi plutei ved. l' Arte italiana decorativa industriale, diretta da Camillo Boito, Hoepli, anno IX (1900) n. 2, tav. VIII.

Rilievo marmoreo dell'età di Adriano.

(Palazzo dei Conservatori in Roma).

Tavola 70.

Ved. Brunn-Brückmann, Denkmäler griechischer und römischer Sculptur, n. 405 a.

I medesimi pregi si osservano in alcuni bassirilievi che dal distrutto arco di Trajano furono trasportati a quello di Costantino, ed anche in alcuni rilievi rinvenuti nel Foro, l'anno 1872, con rappresentazioni delle istituzioni alimentarie di Trajano, e del condono dei debiti delle città italiche verso l'erario imperiale (ved.tav. 69 ).

L'impero di Trajano segna il momento in cui l'arte storica romana fiorisce; mentre riceve poi un carattere più ideale dall'indirizzo greco del periodo d'Adriano. Quantunque operosa la buona scoltura romana anche sotto gli Antonini, presenta già segni di decadenza con un realismo più volgare, con un'aumentata confusione delle forme e delle proporzioni, con una certa durezza di disegno.

3. Altri bassirilievi storici in Roma. — Ad Antonino Pio avevano eretto una statua M. Aurelio e Lucio Vero, e se ne conserva la base con l'apoteosi dell'imperatore; in bassorilievo v'è raffigurata Roma dea, sedente; di fronte la personificazione del Campo Marzio, luogo della consacrazione, come giovane giacente che tiene un obelisco; nel mezzo il genio dell'eternità, con gli attributi d'un globo e d'un serpe, levasi a volo, e fra le sue ali siedono, in piccola figura, Adriano e Faustina, con due aquile volanti, simbolo dell'apoteosi. La invenzione è chiara, l'esecuzione buona, ma povera la disposizione delle figure, rigido l'atteggiamento del genio, il nudo non bene modellato. Inferiori ai rilievi della colonna Trajana sono quelli che adornano il fusto della colonna eretta dal popolo e dal Senato in onore di Marco Aurelio (ved.tav. 67 ).

Rilievo marmoreo dell'età di Adriano.

(Palazzo dei Conservatori in Roma).

Tavola 71.

Ved. Brunn-Brückmann, Denkmäler griechischer und römischer Sculptur, n. 405 b.

Rappresentano le imprese dell'imperatore contro i Marcomanni, le varie scene di guerra, i costumi delle genti germaniche. Per questa ragione l'opera ha singolare valore come illustrazione storica; ma come opera d'arte manca di varietà nella invenzione e nella composizione, mostra minore abilità nell'esecuzione di quella della colonna Trajana. Fra i molti episodi vi è storicamente importante quello che rappresenta l'ajuto del cielo (raffigurato come Giove Pluvio) ai Romani contro i Quadi, con un improvviso acquazzone suscitato dalle preghiere dei cristiani della Legio fulminatrix (cfr.tav. 70-71 ).

VII. La scultura sepolcrale in Roma. I sarcofaghi.

Una classe assai importante di monumenti scultorî dell'età degli Antonini sono i sarcofaghi, in cui deponevansi interi i cadaveri quando il rito della cremazione già cedeva luogo all'umazione. Sono anche di pietra capaci di uno o due corpi, sormontati di coperchio, sul quale è la figura del defunto; prendono talvolta forme architettoniche di casa, di tempio o d'altare, e si adornano di sculture sulla faccia anteriore e sulle due laterali minori, restando liscia la faccia posteriore addossata di solito al muro. Gli ornamenti plastici sono fiorami, festoni, frutti, puttini, medaglioni coi ritratti dei defunti e i nomi inscritti in tavolette sostenute da genietti; molti sarcofaghi hanno vaste rappresentazioni, ora di scene familiari, o mortuarie, ora di scene mitiche ed eroiche con simboliche relazioni ai funerali e alle credenze pagane d'oltre tomba, come, p. es., il mito di Endimione (significante il sonno seguito da un risveglio nella beatitudine celeste), o il mito di Amore e Psiche (simbolo della trasmigrazione dell'anima a più felice soggiorno, o dell'anima purificata dall'amore divino); ed altri tolti dal ciclo Dionisiaco, che però ha sempre riferimento in tal caso, al tripudio della vita d'oltretomba, sciolta dai dolori di quella terrena.

Tali rappresentazioni sono assai importanti come fonti per la conoscenza di nuove idee nella religione romana, e di nuove tendenze del sentimento.

Ma quanto all'arte questi sarcofaghi, salvo eccezioni, sono opera manuale o industriale; per lo stile molti accennano alla decadenza dell'arte, o sono lavori quasi inartistici e fatti alla lesta con figure affollate, scarsa varietà di motivi, esecuzione negletta, malgrado il ricordo nella composizione di classici modelli[177].

Noi qui non possiamo che tener conto di quelli eseguiti in buon stile, che risente ancora dello spirito artistico greco.

VIII. Arti minori.

La buona condizione dell'arte nell'età imperiale fino al tempo degli Antonini si rende manifesta anche in opere minori, applicate all'ornamentazione od all'industria, cioè nella toreutica, nel conio delle monete (ved. Atl. cit., tav. LXX )[178], nella glittica o lavoro delle pietre dure e nell'arte dei vetri. Nella glittica si ricordano come celebri Dioscoride, Erofilo, Eutiche, artisti di nome e d'origine greca, ed altri ancora. Bellissimi camei si conservano rappresentanti persone delle case imperiali Iulia e Claudia, quale è la gemma Augustea del Gabinetto di Vienna, con Augusto in sembianza di nume, in trono, circondato dalle personificazioni della Terra, dell'Oceano, dell'Abbondanza, colle imagini di Tiberio e di Germanico e con legionari romani e prigionieri barbarici (ved. Atl. cit., tav. LXXI ). Bellissimo è il cameo del Gabinetto di Parigi, che pur rappresenta Augusto assunto al cielo e accoltovi da Enea e dal divo Giulio, e più in basso sono figurati Livia, Tiberio, Germanico, Agrippina, Caligola, e genti barbariche significanti le vinte nazioni germaniche ed orientali. Si pone con questi il cameo Olandese, che rappresenta Claudio trionfante con Messalina, Ottavia e Britannico[179].

Per il lusso delle case e per la straordinaria ricchezza delle suppellettili la toreutica era in fiore[180]. Cercavansi a gran prezzo le opere degli antichi maestri greci, e da abili artisti si imitavano. I nomi degli artisti cesellatori, che di quest'età sono ricordati, sono greci, e di greco stile sono le migliori opere che ancora ci rimangono.

Sul finire della romana Repubblica la coniazione delle monete acquista carattere di artistica bellezza. Ma è specialmente nelle monete e nelle medaglie dei primi due secoli dell'Impero che si ammira la bellezza dei tipi, dal netto e fine contorno, dallo spiccato rilievo e dalla vivace espressione delle teste[181].

Dopo gli Antonini, con le agitazioni che portano al reggimento dell'Impero uomini africani ed asiatici, col prevalente influire d'elementi barbarici, coll'invadere di nuovi sentimenti ed ideali religiosi mediante i culti orientali e il grandeggiare del Cristianesimo, l'arte classica grandemente si altera nello spirito e nella forma, e piega a quella decadenza che è estinzione dello spirito e della tradizione antica e preparazione di concetti e di forme nuove. A preservar l'arte da questo interno lavorío di trasformazione e di disfacimento non valeva alcun sostegno od impulso esterno di liberali e possenti fautori; dei quali certamente non vi fu difetto; nei grandi edifizî imperiali anche dopo gli Antonini all'arte schiudevasi ancora largo campo in cui svolgere le sue forze. Ma questi favori ben potevano prolungare la senilità dell'arte classica, non ringiovanirne la vita, la quale si dissolveva per forza di due elementi, la prevalenza barbarica e la trasformazione religiosa.

C. — Pittura.

I. Osservazioni generali. — Pittori greci.

Come la plastica, così la pittura greca invase Roma con le conquiste, e portò seco il suo carattere speciale, che era quello delle scuole che sursero alle corti delle città orientali, cui piaceva la rappresentazione patetica ed erotica. Naturalmente greci erano anche gli artisti. Timomaco di Bisanzio, ultimo rinomato pittore di scuola greca, dipinse ai tempi di Cesare; di lui erano assai pregiate alcune tavole rappresentanti Ajace, Medea, Oreste ed Ifigenia, soggetti, tolti dal ciclo tragico[182]. Seguono poi artisti di nome romano dei primi tempi dell'Impero. Alcuni imperatori furono dilettanti di pittura, quale Nerone, ed anche Adriano, cui piaceva trattare il piccol genere di natura morta, per cui si racconta che l'architetto Apollodoro gli abbia detto con disprezzo: “Va a dipinger zucche?„ Anche M. Aurelio s'addestrò nel disegno, avendo avuto insegnamento da maestro greco, Diogneto.

II. Pittori romani della Repubblica e dell'Impero.

Se noi ora dalle considerazioni generali e dal favore imperiale dato alla pittura passiamo a trattare dei singoli pittori romani, vediamo pur troppo scarso il numero di essi, perchè scarse sono anche le notizie, anzi pare che i Romani abbiano contribuito, volontariamente o no, a questa scarsezza di notizie.

1. Ludio paesista. — Nei tempi d'Augusto venne in fama Ludio, pittore di prospettiva e di paesi, che ornava le pareti di vedute campestri e marine avvivate da piacevoli macchiette. Pare che egli abbia dato un nuovo e vigoroso sviluppo alla pittura decorativa.

2. Turpilio veneto, Titidio Labeone Narbonese e altri minori. — Sono citate in Plinio anche un veneto Turpilio, di cui ammiravansi opere in Verona; Titidio Labeone, magistrato nella Gallia Narbonese, rinomato per piccoli quadretti; Quinto Pedio, ed un Fabullo Amulio, che lavorò nella domus aurea di Nerone; Cornelio Pino ed Azzio Prisco, che dipinsero in un tempio all'età di Vespasiano[183]. Plinio aggiunge a quei nomi alcune notizie di curiosità, insignificanti per il valore artistico, e nulla più, cosicchè nulla sappiamo dello stile delle loro opere, nè dell'indirizzo dell'arte loro; pare però che la pittura di tavole, di veri quadri, in questo tempo fosse trascurata in confronto della pittura decorativa, richiesta dal lusso delle case e della vita, ed a cui ben rispondeva la scenografia, o pittura di prospettive con certo carattere fantastico, quale ancora si vede in alcuno dei dipinti pompeiani.

Dipinto della casa di Livia rappresentante Io liberata da Ermes.

(al Palatino, Roma).

Tavola 72.

Ved. Melani, Pittura. Milano, Hoepli 2ª. edizione, tav. IX.

III. I dipinti celebri a noi rimasti.

1. Le Nozze Aldobrandine. — Non molti, ma però scelti sono i dipinti che i monumenti ci hanno lasciato per giudicare della pittura in Roma. Fra questi tiene primo luogo il fresco conosciuto col nome di Nozze Aldobrandine, rinvenuto in Roma nell'anno 1606, posseduto prima dal cardinale Cinzio Aldobrandi, ed ora conservato in Vaticano (ved. Atl. cit., tav. LXXII ). Rappresenta i preparativi d'un ricco maritaggio, secondo il costume greco, e forse il dipinto è copia od imitazione di alcuna famosa opera greca non pervenuta fino a noi, come parrebbe far credere l'analogia fra la composizione dell'affresco e quella d'un basso rilievo sopra un'ara di Villa Albani rappresentante l'unione di Dioniso e Cora.

2. I dipinti delle terme di Tito. — Sono questi dipinti murali molto distinti che pare siano avanzi ancora intatti delle stanze della domus aurea di Nerone, con motivi ornamentali di festoni, meandri, intrecciamenti, dai quali dicesi che Raffaello togliesse il concetto dei bellissimi suoi fregi scoperti nelle Logge Vaticane. Buoni esempi di composizioni di soggetto mitologico, chiuse dentro riquadri architettonici ornamentali con intrecci di festoni e di fiorami, si hanno nelle stanze sul Palatino scoperte nell'anno 1869[184].

Dipinto pompeiano

rappresentante una Amazzone seduta.

Tavola 73.

Ved. Melani, op. cit., fig. 11, pag. 43.

Parete dipinta di una casa romana

messa allo scoperto nella Villa Farnesina (Museo Nazionale alle Terme).

Tavola 74.

Ved. Melani, Pittura, op. cit., 2ª ediz., tav. XI.

3. I dipinti della Villa di Livia a Prima Porta. — Buon saggio di pitture di verzure e di vedute, nel genere in cui fu perfetto Ludio, e forse anche opera di questo stesso artista, offrono le pareti della Villa di Livia a Prima Porta, scoperta nell'anno 1863. La pittura gira continua sulle quattro pareti d'una camera; questa pare fosse destinata a godervi la frescura nei caldi estivi, e quindi volevasi in essa produrre l'illusione d'un giardino, dipingendovi alberi da frutto, meli, melograni, alberi da ornamento, e uccelli che volano, cantano, covano nei nidi; manca la figura umana. Vi si ammira un tratteggio molto fine, un pennelleggiare largo e fermo, con giusta distinzione nella diversa qualità dei frondeggi (ved.tav. 74 per uno stile analogo al precedente nella villa La Farnesina)[185].

Altri dipinti di verzure e giardini che simulano d'esser veduti nell'incorniciatura di finte finestre furono scoperti sull'Esquilino, dov'erano gli Orti di Mecenate. In queste pitture decorative v'è pure pregio di mano esperta nel disegno, di correttezza delle forme e dei contorni, con un fino sentimento del valore e degli effetti del colorito; scarso pare l'effetto del chiaro scuro e quindi del rilievo, e l'arte è convenzionale, di maniera ornamentale, che non procede da profonda conoscenza della natura.

4. Gli affreschi murali d'Ercolano e di Pompei. — Dove però si può studiare con maggior messe di confronti la pittura greca in Roma è dagli affreschi d'Ercolano e di Pompei, che per buona parte oggi si conservano trasportati nel Museo nazionale di Napoli. Questi dipinti sono veramente prodotti dell'arte greca (ved.tav. 73 ), perfino in qualche caso i nomi dei pittori, o le iscrizioni sono greche. Di soggetti romani (fatta astrazione dalle scene della vita familiare) non si ha qualcuno se non in via di eccezione, cioè una pittura che si crede raffigurare Sofonisba e Massinissa, ed alcuna altra che sembra prendano motivo dall' Eneide; gli altri soggetti derivano tutti dal mito greco. Sono riproduzioni, o variazioni di modelli più antichi: il concetto e la composizione si mostrano spesso di un valore superiore a quello dell'esecuzione. Pompei non aveva pittori di singolare valore, ma artisti manuali di sufficiente abilità[186]. I modelli, sulla cui guida lavoravano i pittori di Pompei, sembra fossero le opere degli artisti della scuola fiorita nel tempo dei successori di Alessandro, detta alessandrina od ellenistica. La società romana tolse per sè i modi di ornamentazione greca, forse con più sontuosa ricchezza, ma con minor senso dell'arte. I soggetti preferiti dall'arte che facevasi elegante, graziosa, e dagli artisti, che avevano portato a perfezione l'abilità tecnica, erano i miti patetici ed erotici (ved.tav. 72 ), le scenette da idilio, le galanterie e gli amorini, soggetti che appaiono prediletti anche nella letteratura alessandrina per la correlazione evidente fra tutti i rami dell'arte, e specialmente fra i poeti e i pittori nella scelta di soggetti analoghi di linea e di pittura, p. es., l'episodio dell'abbandono di Arianna che risale a Callimaco, narrato da Catullo, ripetuto negli affreschi pompeiani. Se non chè, essendo questa pittura romana imitazione della greca nel concetto e nelle forme, non solo il dipinto veniva spesso da greca fonte letteraria, ma l'affresco pompeiano proveniva da celebre dipinto greco; come, p. es., dicesi di quello di Medea che medita l'uccisione dei figli, il quale deriva da una famosa tavola di Timomaco di Bisanzio; un altro rappresentante il sacrifizio d'Ifigenia offre i caratteri ben conosciuti del quadro di Timante (ved. Atl. cit., tav. LXXIII ); e altre pitture pompeiane possono essere illustrate da molti versi dell' Antologia greca dedicati alla descrizione di famosi quadri antichi. Oltre i soggetti tolti alla mitologia ed alle leggende greche, abbondano le scene della vita pompeiana, le vedute di paesi e di marine (ved. Atl. cit., tav. LXXV; cfr. la nostratav. 78 ), le pitture d'animali e di natura morta.

La Battaglia d'Isso (?) tra Alessandro Magno e Dario III di Persia, avvenuta nell'anno 333 a. C.

Musaico rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei, ed ora nel Museo nazionale di Napoli.

Tavola 75.

Ved. Melani, Pittura, Milano, Hoepli, 2ª ediz., tav. III.

Scene della vita di palestra

Dipinte in un pavimento a mosaico rinvenuto a Frascati (Tusculum).

Tavola 76.

Ved. Melani, Pittura, op. cit., 2ª ediz., tav. XIV.

Parete dipinta nella casa della “Parete nera„ a Pompei.

Motivo parietale del triclinio.

Tavola 77.

Ved. Melani, Pittura, op. cit., 2ª ediz., tav. XII.

Scena di paesaggio antico.

Dipinto rinvenuto sull'Esquilino (ora nella Biblioteca Vaticana a Roma).

Tavola 78. — Ved. Melani, Pittura, op. cit., 2ª ediz., tav. X.

5. Dei quadri “di genere„. — Nelle rappresentazioni di scene della vita reale, o, come si direbbe, nei soggetti di genere, si distinguono due modi: Alcune sono un abbellimento della realtà, una tendenza all'idealismo anche nella rappresentazione di cose volgari, (scene di vendemmia, di caccia, dell'esercizio dei mestieri di falegname, di panattiere, di calzolaio, ecc.), fatte per mezzo di genietti e di leggiadri amorini (ved.tav. 58 ), e questi sono opere più conformi allo spirito greco; altre pitture invece mostrano tipi comuni e reali, con carattere realistico; e queste sono rispondenti allo spirito ed al gusto romano. Comune poi ad entrambi gli indirizzi artistici è l'uso frequente appunto nei dipinti pompeiani di quadri architettonici, di fregi, arabeschi, ornamenti fantastici, intramezzati da figure grottesche e da piccole vedute, secondo l'uso invalso nell'età d'Augusto. Le pareti hanno un fondo monocromo, di rosso carico, di giallo, talvolta anche d'azzurro o di nero (ved.tav. 74-77 ); svelte colonnine, ghirlande e festoni a colori vivi segnano i riquadri; in basso corre una fascia a modo di zoccolo, e un'altra fascia a modo di fregio si estende in alto. Nel mezzo del campo così delimitato è dipinto il quadro, ovvero spiccano isolate figure volanti, leggiere, aeree di danzatrici, di Amori, di Ninfe, di Menadi, di Centauri, di Satiri, di donne spargenti fiori. Il colorito è chiaro, vivace; nel colorito, nella disposizione, nelle belle forme delle figure, nel vivo sentimento che spirano, v'ha un effetto gaio, armonico, il soffio e l'attrattiva d'una vita piacevole, gioconda qual era quella che i Greci godettero come vincitori, e poi come vinti, e insegnarono agli austeri Romani, a poco a poco ingentiliti e ammolliti in un gusto artistico di moda (ved. Atl. cit., tav. LXXVI-LXXVII )[187].

Casa dell'edile Pansa (Pompei). Tavola 79.

Ved. Melani, Architettura, IIIª. ediz., pag. 145 e fig. 73.

Casa dell'edile Pansa a Pompei.

(Sezione longitudinale)

Tavola 80.

Ved. Melani, Architettura, op. cit., IIIª. ediz., pag. 147, fig. 74.

Atrio della casa di Sallustio

a Pompei.

Tavola 81.

Ved. Melani, Architettura, op. cit., pag. 148, fig. 75.

Il “Septizonium„ di Settimio Severo.

Edificio decorativo sul Palatino ( ricostruzione ).

Tavola 82.

Il Settizonio fu distrutto sotto Sisto V. Ved. Schneider, Das alte Rom, XIII, 9; Cfr. 46º Berliner Winckelmannsprogramm. di Hülsen-Gräf (tav. IV). TERZO PERIODO.

A. — Architettura.

L'impero degli Antonini segna la decadenza delle arti in Roma. A volta si rianima anche dopo l'attività edificatrice nell'Impero romano; ma sempre maggiore è la deviazione dalle forme architettoniche antiche e l'introduzione di elementi nuovi, con prevalenza del pomposo e del ricco in luogo del semplice e del bello. Si moltiplicano le forme e gli elementi accessorî degli ornamenti, la chiarezza del pensiero architettonico si offusca; mensole a sostegno di statue, colonne per semplice ornamento posate su cornicioni sporgenti, colonne e pilastri finti, un moltiplicarsi di archi posanti sulle colonne dànno ricchezza e varietà agli edifizî, che rimangono ancora mirabili per solida e sontuosa grandiosità. Testimonianza di tali caratteri dànno le notizie e le ruine dei grandi edifizî posteriori agli Antonini, che in gran numero abbellirono Roma e le città dell'Impero.

1. Il Settizonio. — Settimio Severo a piedi del Palatino fece erigere il Septizonium, del quale rimanevano ancora grandi avanzi nel secolo XVII. Sembra fosse un edifizio sepolcrale di ricchissimo lavoro a sette ordini di colonne (ved.tav. n. 82 ).

2. L'arco di Settimio Severo. — Di varî archi costruiti sotto Settimio Severo esiste ancora quello trionfale, che all'imperatore ed ai figli suoi Caracalla e Geta fu eretto dal Senato e dal popolo a piedi del Capitolino, nell'estremo del Foro romano. Messo a confronto coll'arco di Tito dà prova evidente di quel gusto sontuoso che faceva deviare dalle norme della semplicità antica. Sono tre le arcate, una grande mediana fiancheggiata da due minori; ne risulta che il monumento ha proporzioni maggiori in larghezza che non in altezza, formando una massa grandiosa ma alquanto greve. Le due fronti sono ornate di quattro colonne d'ordine composito, su cui posa la sporgenza del cornicione; negli spazî intermedî fra le colonne s'inquadrano molti bassirilievi rappresentanti le vittorie riportate contro i Parti, gli Arabi, gli Adiabeni (ved. per l'epigrafe: S. Ricci, Epigr. lat. tav. XLIII ).

3. L'Arco di Costantino. — Le medesime forme e il medesimo stile vedonsi nell'arco di Costantino presso il Colosseo, che, eretto dopo l'anno 312 in ricordo della vittoria riportata da Costantino contro Massenzio a Ponte Milvio, può riguardarsi come il monumento che inaugura la ricognizione del Cristianesimo; straricco di statue e di bassirilievi, ma non genuino, perchè per la fretta del costruire, o per l'impotenza dell'arte, porta seco molte opere plastiche tolte dall'arco di Trajano; perciò nell'arco di Costantino, con un anacronismo strano, trovansi insieme raccolti i saggi di due momenti dell'arte romana, nei quali i buoni lavori dell'età di Trajano in confronto con quelli dell'età più tarda mostrano la decadenza dell'arte in Roma (ved. Atl. cit., tav. LXXVIII ); per l'epigrafe S. Ricci, op. cit., tav. XLIV-XLV[188].

Pianta del Circo di Massenzio a Roma

(conosciuto sotto il nome di “Circo di Caracalla„).

Tavola 83.

Ved. Melani, Architettura cit., pag. 123, fig. 67.

Pianta delle Terme di Caracalla a Roma. Tavola 84.

Ved. Melani, Architettura cit., pag. 121, fig. 66; cfr. idem. tav. XI ( “Frigidarium„ delle Terme di Caracalla a Roma, secondo una ricostruzione ideale ).

4. Le Terme di Caracalla e di Diocleziano e le loro opere d'arte. — Testimonianza dei grandiosi monumenti di quest'età dànno le rovine delle Terme di Caracalla, fra il Celio e l'Aventino, il più grande e più splendido edificio balneare che fosse in Roma (ved. Atl. cit., tav. LXXIX ). Alimentate dall'acqua che passava sull'arco di Druso, comprendevano le terme di Caracalla ampî spazî aperti e gran numero di vastissime e sontuose sale, e porticati destinati, oltrechè ai bagni, anche ad esercizî ginnastici, a giuochi, ad academie e a dotte riunioni. Tutti i porticati e le sale erano ornati con singolare ricchezza di opere d'arte, di grandi mosaici, e di sculture de' più insigni maestri dell'antichità (ved.tav. 84 ). Dalle rovine delle terme di Caracalla e da altri edifici si trassero il gruppo del Toro Farnese, l'Ercole di Glicone, il torso di Belvedere, per non dire di molte altre opere minori[189].

Ma nemmeno queste sontuose terme[190] non bastarono al lusso ed alla mollezza romana; altre nuove e ancor maggiori ne edificò Diocleziano; in una delle ampie sale di queste terme fu poi inalzata la chiesa di S. Maria degli Angeli[191]. E altre ancora ne costrusse Costantino.

Alle cause interne che alteravano o svigorivano lo spirito dell'arte ancòra se ne aggiungevano di esterne; già erano incominciate le invasioni barbariche oltre i confini dell'Impero, e ai tempi di Gallieno eransi spinte fino al settentrione d'Italia; in pari tempo l'Impero era scosso all'interno, come fu nella lunga contesa dei trenta tiranni. Per queste due cause di fatto cresceva ed estendevasi l'attività edificatrice, sia per munire con opere di difesa le città minacciate ed anche la stessa capitale, sia per abbellire nei lunghi respiri di pace queste ed altre città, che, o nello smembramento dell'Impero o per importanza strategica della loro posizione, erano elette a sede di principi. Ma in queste città gli elementi nuovi, le straniere o barbariche influenze acquistarono sopra le forme antiche una prevalenza sempre maggiore, e l'architettura romana, considerata nei suoi elementi estetici, alteravasi appunto con l'estensione maggiore. Al principiare del III secolo crebbero in importanza e s'abbellirono di molte opere Milano, Verona, Treviri, Cartagine, Nicomedia, Petra sul Mar Rosso, Antiochia ed Eliopoli, e Tadmor, o Palmira in Siria.

5. Le rovine di Palmira. — Quest'ultima città, fondata ai tempi di Salomone, cioè nell'XI sec. a. C., divenne un grande emporio commerciale, fu sede dell'Impero del re Odenato e della regina Zenobia, e venne da Aureliano conquistata l'anno 273 d. C.; fra le sue grandiose rovine sorgenti nel deserto ammirasi lo stile corinzio del III secolo.

Pianta del Palazzo di Diocleziano a Spalato. Tavola 85.

Ved. Melani, Architettura, cit., pag. 177, fig. 76.

6. Il palazzo imperiale a Spalato ( o Spálatron ). — Splendido esempio dell'architettura romana ai tempi di Diocleziano abbiamo nelle grandi reliquie del palazzo imperiale a Spalato (ved.tav. 85 ). Quello che già fu osservato per Adriano potrebbe ripetersi anche per Costantino, cioè che, se per favore di principe l'arte potesse rifiorire, nuovo splendore avrebbe trovato al tempo in cui, trasferita la capitale a Bisanzio, l'imperatore ornava la sua città di molti e grandiosi edificî, di fori, d'ippodromi, di terme, di circhi, d'archi e di colonne trionfali, affinchè degnamente rivaleggiasse con Roma, mentre restorava altre città dai danni patiti, e fondava scuole per lo studio delle arti. Ma invece con Costantino l'arte classica ha suo fine; nel IV secolo il mondo pagano in sèguito alla proclamazione del Cristianesimo si dissolve; nasce l'arte cristiana. Il tempio dell'antico politeismo più non risponde al nuovo pensiero religioso, e si costruisce la basilica cristiana, che non ha di comune con la pagana se non il nome, e si sviluppa e si forma per altri e ben diversi ufficî. Uno spirito nuovo informava l'arte, che non spezzava interamente il legame con l'antico, bensì tramutavasi con un lento e graduale svolgimento, poichè il pensiero animatore dell'arte mutava, ma le forme dell'espressione rimanevano ancora antiche, e, malgrado l'aborrimento dei Cristiani, era inevitabile che questi usassero materiale antico e pagano per riedificare ed ornare i nuovi monumenti. L'arte classica si spense col cessare di quelle forze che in Roma le avevano dato rinvigorimento di vita. La potenza politica romana trasse a sè la vita artistica del mondo ellenico; se non chè, siccome il centro della vita politica era spostato a Bisanzio, l'opera di spogliazione della Grecia continua, ma la preda è trasportata nella nuova capitale dell'Impero, dove Costantino e Teodosio cercano di dare nuovo impulso all'arte, e dove essa più da presso sente gli influssi orientali e barbarici, dai quali si sviluppa lo stile bisantino.

L'Arco di Giano Quadrifonte all'ingresso del Foro Boario a Roma (verosimilmente dell'età costantiniana). Tavola 86. — Ved. Strack, Baudenkmäler des alten Rom, tav. 32; cfr. Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli, 1897, pag. 371-372. Pianta della Basilica di Costantino a Roma. Tavola 87.

Ved. Melani, Architettura, pag. 115, fig. 64.

B. — Plastica.

Nelle opere di plastica dopo gli Antonini fino a Diocleziano splende spesso ancòra bellezza di forme e vigoria d'espressione. Le statue eroiche di Pertinace, di Alessandro Severo, di Elagabalo, e quelle di Giulia Mammea, di Giulia Soemia in aspetto di Venere, di Giulia Domna in sembiante di Pudicizia tengono i pregi di forza o di eleganza dell'arte classica. Ma le sculture dopo Diocleziano mostrano l'offuscamento del senso delle belle forme, dell'armonia delle proporzioni, della vigoria delle linee e del rilievo.

Non mancavano già all'arte cure e favori, chè anzi sappiamo come ai tempi di Libanio si disertassero le scuole di retorica e di filosofia per correre a quelle di disegno e di pittura; ma le alte mercedi ai maestri non dànno ispirazione all'arte, la quale ha i suoi momenti di decadenza o di transizione e di trasformazione, contro cui non vale opera alcuna di Mecenati.

La plastica antica fu una divinizzazione della bellezza corporea; ma la nuova religione prevalente nel mondo romano iniziò un'era nuova, e, aborrendo dalla bellezza corporea, esaltava soltanto la bellezza dello spirito, la quale non pareva, come parve agli antichi, rivelarsi nella bellezza esterna, bensì più viva rifulgere quando una bell'anima viveva in un corpo vile e deforme. La scultura dell'arte cristiana perdette quindi il pregio che viene dall'amore sentito per la forma, e quasi ne fu abbandonato l'esercizio, giacchè per l'ornamentazione delle chiese si diede preferenza alla pittura e al grande musaico[192].

C. — Pittura.

La pittura dell'ultima età classica non ci ha lasciato di sè documenti; cosicchè dalle pitture pompeiane passiamo ai dipinti delle catacombe, i quali nell'esecuzione e in certi elementi decorativi sono ancòra prodotti dell'arte classica, ma per il contenuto della rappresentazione sono documenti dell'arte cristiana. Assunta poi la pittura alla piena luce della basilica, perdette ogni memoria dell'antica tradizione artistica, e si trasmutò in quello stile secco e severo, a cui si estende, sebbene non propriamente, l'epiteto di bisantino. L'arte classica però non giacque spenta; risorse, e col suo rinascimento portò a nuova grandezza l'arte in Italia[193].

La “Sacra Via„ del Foro Romano durante gli scavi recenti a Roma. Tavola 88. (da fotografia).

APPENDICE. Degli scavi e delle scoperte recenti sul Foro Romano.

METODO ED ESTENSIONE DEGLI SCAVI RECENTI.

Già da molto tempo era stata riconosciuta dai dotti la necessità di iniziare degli scavi sistematici e strettamente scientifici sull'area del Foro Romano, perchè vi si potesse leggere la storia di Roma dal periodo della monarchia a quello del Basso Impero con sicurezza di dati archeologici ed epigrafici, ma solo per mezzo dell'intelligente energia dell'on. ex Ministro Baccelli e della rara competenza dell'architetto Boni poterono avere effetto e conclusioni scientifiche durature.

Il Boni, coadiuvato da un'eletta schiera di valenti archeologi ed epigrafisti, sorretto dalla fiducia e dall'aiuto dell'ex Ministro e del Governo, scelse come criterio archeologico di ricerca l'esame stratigrafico del Foro, saggiando sempre per mezzo della sezione verticale dei pozzi la successione degli strati archeologici e geologici, in modo da tener conto d'ogni minimo particolare sulla natura, sulla provenienza e sull'impiego dei materiali antichi, cosicchè questi, alla luce della storia e della critica archeologica, poterono essere meglio vagliati e studiati, e in base a questo studio poterono essere operati gli scavi definitivi.

Bisogna pertanto attendere dalle pubblicazioni ufficiali le notizie sicure sull'orientazione e sulla cronologia dei varî monumenti, con la nuova sistemazione dei quali è legato ormai indissolubilmente il nome dell'onor. Baccelli e dei benemeriti archeologi romani.

In poco meno di due anni, i risultati degli scavi del Foro furono notevolissimi, perchè misero alla luce il famoso niger lapis, o strato di pietra nera, di cui fu selciata parte del Foro, la stele ormai celebre per la difficoltà della sua interpretazione, i rostra del Comizio e l'ara di Cesare, le celle sotterranee del tempio di Vesta e la domus publica, la Regia, la nuova sistemazione delle cloache e il ritrovamento di una cloaca anteriore a quella maxima, e orientata diversamente da questa, nonchè la nuova direzione della Sacra Via non sempre identica a quella tradizionalmente creduta come tale.

LA “SACRA VIA„

Incominciamo da questa maggiore arteria del Foro. Se ne è modificata la direzione in sèguito allo sterro eseguito dinanzi la Basilica di Costantino; si è distinta la parte di costruzione dell'epoca imperiale da quella antichissima repubblicana, e si sono rinvenuti due muri di fondazione che intersecavano la Via Sacra e tra i due muri vestigia di edifici distrutti, di cui uno del periodo repubblicano, a costruzione reticolata (ved.tav. 87 ). Veduta esterna del “niger lapis„ scoperto a Roma negli scavi recenti sul Foro Romano. Tavola 89. (da fotografia). “La vita secolare e intensa del popolo che finì col dominare il mondo antico — scrive l'arch. Boni[194] — dovette mutare l'aspetto primitivo della piccola valle in cui sorsero il Comizio, il Foro e i Sacrarî di Stato, e la cui struttura geologica ha per certo influito nel distribuire i centri della vita religiosa, civile e politica romana, sul percorso della Sacra Via, che li collegava„.

Perciò si credette opportuno nell'eseguire il rilievo della Sacra Via di fare anche quello di tutti gli edifici adiacenti, nell'area compresa fra il Colosseum e il Tabularium, e questo rilievo fu eseguito nel maggio scorso[195] da quarantasei alunni del secondo corso della Scuola d'applicazione degli ingegneri della R. Università di Roma, divisi in cinque squadre, sotto la direzione del prof. Reina, coadiuvato da cinque assistenti della Scuola stessa[196], ed è qui riprodotto nella nostratavola n. 96.

Gli scandagli che intanto l'architetto Boni andava compiendo confermarono che “i ruderi visibili rappresentavano l'ultimo capitolo di uno dei più preziosi libri della storia umana, sepolto sotto selciati medioevali rifatti nel Cinquecento, o più di recente sofisticati; e sotto un fitto velo di terriccio e di lastrami di pietra, che dinanzi alla storia hanno il valore delle imbiancature che in certe chiese ricordano le pestilenze del Seicento, ma nascondono gli affreschi di Giotto„[197].

IL “COMITIUM„ E IL “NIGER LAPIS„.

Intimamente connesso con la Via Sacra è il Comitium, che l'architetto Boni sterrò alacremente, mettendo allo scoperto la parte anteriore della chiesa di S. Adriano fino al livello attribuito all'imperatore Diocleziano. Ritornò in luce dinanzi alla chiesa il pavimento del Comizio e un'importantissima iscrizione, che si reintegra c]uriam sen[atus. Oltre ritrovamenti di blocchi di travertino dell'età repubblicana e di molti pozzetti sull'area del Comizio, ciò che più interessa è il ritrovamento del niger lapis, che si credette sùbito la tomba di Romolo e fu oggetto di discussioni molte e vivaci (ved.tav. 89 ). Il cippo inscritto rinvenuto sul Foro Romano. Tavola 90.

Ved. Domenico Comparetti, Iscrizione arcaica del Foro Romano. Firenze-Roma. Bencini. 1900, fig. a pag. 7.

Da un lato il Boni, il Vaglieri ed altri dotti sostennero potersi il niger lapis riferire di fatto alla tomba di Romolo, dall'altro lato l'Hülsen in una conferenza all'Istituto archeologico germanico dimostrò doversi attribuire a Massenzio, restauratore come Costantino dell'antichità, e tanto l'Hülsen quanto il Pais più recentemente sostennero trattarsi di una dedica a Marte non a Romolo, per cui i dotti concluderebbero che il niger lapis possa essere un lastricato, fatto anche in tempo più tardo, ma a memoria del luogo sacro che, secondo le tradizioni antichissime, e forse per qualche scavo fortuito, era indicato quale tomba di Romolo: questo restauro verosimilmente si attribuirebbe a Massenzio.

LA STELE INSCRITTA DEL COMIZIO.

Sotto il niger lapis si rinvennero basamenti decorati con gola etrusca e congiunti da una striscia di tufo formante gradone e con altri oggetti e frammenti un cippo di tufo in forma di tronco di piramide quadrangolare a spigoli sfaccettati, con la iscrizione di dubbia interpretazione, che affaticò lo studio e l'ambizione di molti dotti (ved.tav. 90 ).

Riferire qui tutta la bibliografia relativa al niger lapis e soprattutto all'epigrafe in questione sarebbe assunto impari alla mole di questo Manuale e alle mie forze: basti dire che il chiarissimo prof. Tropea, che con sagace intendimento seguì e riunì tutti i lavori relativi alla stele arcaica[198], riunì la cronaca delle discussioni in tre articoli o parti, e l'argomento non è ancora esaurito.

Dirò soltanto che non solo gravi furono e sono tuttora i dubbi circa il significato e la interpretazione dell'epigrafe, ma anche circa la cronologia dell'epigrafe stessa, che molti vollero determinare con criterî puramente archeologici.

La rottura del cippo e la manomissione dei basamenti sarebbero dovuti, secondo il Boni (che ne fece insieme col Gamurrini e col Ceci una Relazione ufficiale[199] ), a un'opera di distruzione violenta e premeditata, che fu poi espiata con un sacrificio. Ora si credette, ben vagliando i detriti del sacrificio, di fissare la data, ma il Pais prima[200], il dott. Savignoni poi[201] riconobbero che il criterio della stipe votiva non dev'essere quello esclusivamente scientifico da seguire, in quanto che è incerto e abbraccia un periodo di tempo troppo esteso.

L'iscrizione della stele del Comizio, rinvenuta negli scavi del Foro Romano. Tavola 91. — Ved. D. Comparetti, Iscrizione arcaica del Foro Romano, tav. di fronte alla pag. 8.

N.B. — L'iscrizione è una riproduzione fototipica del disegno esatto di tutte le faccie dell'epigrafe, ridotte ad un sol piano, ed ha di fianco la trascrizione per agio degli studiosi. Le parentesi tonde segnano le lettere incomplete o incerte, le quadre segnano le complementari.

“In conclusione — scrive il Savignoni — abbiamo una suppellettile la cui cronologia varia dal VI secolo (e per qualche caso forse anche dal VII) al secolo I av. Cr.; per altro i gruppi più abbondanti sono il più antico e il più recente. Tutti gli oggetti descritti furono trovati confusi insieme nello strato di cenere e carboni, non già stratificati a seconda delle loro diverse epoche; sicchè si tratta evidentemente di un materiale, non già proprio di un deposito formatosi a mano a mano, ma lì trasportato da altra parte e tutto in una volta ad uso di riempimento. Il che viene confermato dal fatto che esso è un materiale in massima parte frammentario, e che degli oggetti più grandi ed importanti, come, p. es., del vaso greco con Bacco, abbiamo non già tutti o quasi tutti i frammenti, bensì il contrario, ossia solo qualche frammento.

“Il luogo che doveva essere ricolmato e coperto ha tutta l'apparenza di un luogo sacro; e non senza intenzione sarà stato adibito per ciò, prima d'ogni altra cosa, un materiale anch'esso evidentemente sacro, preso da una o più stipi votive, e frammisto ad abbondanti resti di sacrifici: il che, oltre a contribuire al rialzamento del suolo secondo le nuove esigenze topografiche, faceva sì che si conservasse, quasi sotto sigillo, alla divinità quello che la pietà romana le aveva dedicato.

“Ciò avvenne dopo che il luogo stesso era stato devastato, e dopo che più tardi fu sgombrato dai rottami dei monumenti venerandi, i resti dei quali sono rimasti nascosti da quel tempo fino ai dì nostri.

“Ma quando avvenne non è facile precisare; io mi limito a notare che per la soluzione del problema è d'uopo, a mio avviso, tener d'occhio piuttosto il materiale più recente che il più antico.„

Riconosciuto incerto il criterio della stipe, i più si volsero a spiegare epigraficamente e glottologicamente l'epigrafe. Primeggiano in questo lavoro, dopo la Relazione del prof. Ceci, i proff. Pais e Comparetti, i quali pubblicarono studî riassuntivi e geniali che fanno onore alla scienza italiana[202].

Ma l'Hülsen, il Milani, il Ceci, il Gamurrini, il Mariani, il De Cara, il De Sanctis e altri ancòra[203] non cessarono di aggiungere ciascuno osservazioni proprie alla critica altrui, e da tutta questa congerie di opinioni e di lavori ne venne la conclusione, fino a nuovi risultati esaurienti, che l'epigrafe della stele ha carattere sacro, e si riferisce al luogo ove sorge, e che l'area dove sorge era sacra a Marte, e quindi anche a Romolo, non escludendo che in tempo tardo abbiano voluto, con quei residui di stipe votiva e col selciato nero sovrapposto, meglio consacrare alla venerazione dei posteri un luogo consacrato già dalla tradizione patria. Per me l'iscrizione non è tanto antica, nè tanto recente quanto alcuni vorrebbero, ma è piuttosto del principio della Repubblica che non della Monarchia, o del tempo dell'incendio gallico, e contiene senza dubbio prescrizioni e divieti di carattere sacro, del genere così chiaramente esposto dal senatore Comparetti„ (ved.tav. 91 )[204].

Fra le varie e talora opposte opinioni che furono esposte in proposito un'altra merita di essere ricordata non solo per la sua originalità, ma anche per l'intima relazione che ha con tutto il complesso della religione, del diritto sacro e della storia prisca di Roma, l'opinione del ch. prof. Milani, direttore del R. Museo archeologico di Firenze e degli scavi di Etruria[205].

La scoperta quasi contemporanea di un simile locus sacer a Fiesole, della quale diede conto all'Accademia dei Lincei, rende la sua interpretazione evidente. Secondo un'ipotesi già emessa, il cosidetto sepolcro di Romolo sarebbe originariamente il mundus, o centro augurale della città, costituito etrusco ritu, di cui parla Dionigi d'Alicarnasso.

In Roma vi erano due mundi antichissimi, uno sul Palatino e l'altro nel Foro; quest'ultimo era stato coperto da un'ara, che il Milani riconosce nel postamento di tufo dietro le note basi sagomate. Questo postamento dell'ara sta probabilmente sopra un lastricato che copriva il mundus, detto lapis manalis, e questo lapis, di cui si coprì il mundus e il templum romuleum, venne naturalmente considerato nella tradizione popolare come l' heroon, ossia il sepolcro di Romolo.

Veduta delle differenti strutture che costituiscono il rudere del Sacrario di Vesta sul Foro Romano. Tavola 92.

Ved. Notizie degli Scavi di antichità, maggio 1900, 163, fig. 5.

L'importanza grande di cui parla il Milani starebbe anche nel fatto che il lapis manalis, il mundus romuleus, le basi sagomate, su cui stavano i duos leones, di cui parla Varrone, e su uno dei quali stava la pietra, simbolo aniconico e feticio di Tellus, dea della vita e della morte, tutto questo insieme monumentale costituisce il templum augurale etrusco, quale conosciamo da Marziano Capella e da un ricordato templum sacerdotale di Piacenza, ed ha riscontro e spiegazione nel rilievo monumentale coi leoni della porta settentrionale di Micene, che il Milani dichiarerebbe un emblema araldico della città micenea e un indice religioso dei sepolcri degli Atridi, trovati presso detta porta (ved.tav. 8 e cfr.tav. 9 ).

Quanto al Foro Romano, le cose sarebbero rimaste intatte finchè, per il naturale rialzamento del suolo e per le esigenze delle nuove fabbriche, secondo il piano regolatore del Foro di Giulio Cesare, furono obbligati a rialzare il livello del niger lapis di 60 centimetri.

Venendo poi alla epigrafe della stele piramidata, egli la dichiara dell'età regia e probabilmente serviana ( lex regia ); ma questa conclusione parte dall'analisi della stipe votiva, che non risponde a quella fatta dal dott. Savignoni.

Il Milani pertanto avrebbe ragione per conto suo, se rimanessero salde le basi cronologiche della stipe, da lui assegnata parte al secolo VIII e VII av. C. e parte al VI. “Nessun oggetto della stipe vera e propria esiste, secondo egli afferma in modo assoluto, che possa riferirsi ai secoli V, IV, III e II a. C. Esistono soltanto dei cocci eterogenei alla stipe del secolo IV e I a. C.; quelli del IV si riferirebbero al primo conseptum maceria, fatto per sostenere il lapis; quelli del I al tempo di Cesare.

E il Milani a questo proposito conclude eloquentemente che questi ultimi cocci del I secolo a. C. mostrano appunto “che vi è stato un rimaneggiamento e un rialzamento del lapis, riducendolo di proporzioni, ma curando che le sacre reliquie, raccolte intorno al mundus e al templum dei re di Roma, si conservassero intatte, là dove erano, tra i monumenti dei re„.

IL TEMPIO DI VESTA E LA “DOMUS„ DELLE VESTALI SECONDO LE RECENTI ESPLORAZIONI.

Su questo argomento così interessante per la storia di Roma, potè riunire tutti i risultati più importanti degli ultimi scavi lo stesso direttore di questi, l'illustre direttore Boni in uno dei fascicoli delle Notizie degli Scavi[206].

La aedes Vestae possedeva il focolare dello Stato e sorgeva al basso della falda settentrionale del Palatino: il fuoco veniva alimentato diebus noctibusque dalle vergini Vestali, con legname di quercia o d'altro albero.

Il rudere del Sacrario di Vesta aveva subìto squarci notevoli, e giaceva sotto il peso di ostinate definizioni, contro le quali si ristudiò con metodo e con scavi opportuni, facendo tornare in luce la favissa centrale o cella penaria, la platea circolare del podio, avanzi di sacrifici e confini del temenos, in modo da poter studiare le strutture di età diverse, e determinare l'ampiezza dell'edificio al quale appartengono i frammenti architettonici che si conoscono, che sono parte del tardo restauro imperiale.

Il Boni, nel lavoro magistralmente condotto che ho sopra citato, dopo averci dato l' aedes Vestae e i ruderi attigui, i quali appaiono da una sua fotografia fatta a 500 metri d'altezza con un pallone del Genio militare, e dopo avere rappresentato il Sacrario di Vesta quale si vede in un bassorilievo della Galleria degli Uffizi; stabilisce in due clichés distinti la veduta del Sacrario di Vesta nel 1898 e quella stessa, quale risulta dalle ultime esplorazioni, ben determinata nei suoi differenti strati archeologici corrispondenti alle differenti strutture, che costituiscono il rudere del Sacrario stesso (ved. tav. cit.92 ). Seguono la pianta e le sezioni: una traversa il cardo, l'altra traversa il decumanus.

Il calcolo di cinquanta piedi di m. 0,29574 per il diametro di m. 14,80 circa della muratura riposante sulla platea circolare del rudere confermò l'opinione più volte espressa dall'illustre Pigorini, che i terramaricoli, popolo divenuto italico prima degli Etruschi e dei Greci, avessero un'unità metrica corrispondente circa al piede romano di m. 0,2963, e che tracciassero le loro costruzioni in base a questa unica misura.

La parte più antica del rudere del Sacrario di Vesta si deve attribuire ai Flavî, come mostra l'analogia dell' opus quadratum con quello del templum Sacrae Urbis.

Il nucleo severiano è composto invece di scheggioni di tufo gialliccio, a struttura pisolitica; la favissa, o cella penaria stercoraria, ha pianta quadrangolare, quasi trapezoidale, e fa ricordare la forma della Roma quadrata, quella del niger lapis e della città dei terramaricoli, illustrate dal Pigorini. L'angolo acuto della favissa di Vesta è rivolto a nord-ovest, e si deve confrontare con l'angolo acuto dell' agger nelle terremare, il quale serviva come spartitore dell'acqua, che ne alimentava la fossa. È incerto l'uso della favissa, ma l'averla trovata senza aperture laterali, piena di resti di sacrificio e di vasi etrusco-campani, potrebbe far credere o al locus intimus, ove dovevano stare gli oggetti misteriosi (le sacra fatalia col Palladio e i Penati portati da Troia, che avrebbero trovato posto comune in quelle specie di sotterranei), oppure al luogo dove tenevansi custodite le spazzature e i rifiuti animali, finchè al 15 giugno si portavano alla Porta Stercoraria del Clivo Capitolino.

Base dell'ara della “Basilica Iulia„ recentemente scavata sul Foro Romano. Tavola 93. (da fotografia). Gli avanzi frammentosi del restauro Severiano e forse di un altro più tardo ancora, potrebbero venire rialzati a posto, qualora si avessero dati più certi del loro postamento e l'altezza dei piedestalli. I frammenti rimasti sono in marmo lunense e il Boni ne dà le riproduzioni in zincotipia.

La ricostruzione in ogni modo doveva essere di tempio circolare con tetto a cupola, di cui si scopersero pure frammenti, cosicchè noi possiamo ancora passare attraverso le modificazioni dei restauri architettonici al Sacrarium della Regia, contenente il fuoco sacro con la tradizionale arcaica forma dell'urna a capanna del periodo italico preromano, a pareti intessute di vimini e a pali ritti di legno per sbarrare la capanna e per aggiungerle una specie di portico coperto (cfr. Atlante cit., tav. VII ).

ALTRI CENTRI MINORI D'ESCAVO.

L'attività dell'architetto Boni e de' suoi bravi operai si rivolse inoltre al luogo del rogo di Cesare, ai rostra, dove si scopersero quattro gradini di fondamenta delle vestigia curvilinee che già conosciamo e alla Basilica Iulia (ved.tav. 93 ).

La Regia, questo centro religioso e politico di Roma monarchica, fu pure oggetto di cure speciali, che portarono al ritrovamento di una struttura quadrata in tufo con rialzo circolare nella superficie superiore, una specie di altare, o di sacrarium della Regia, forse il luogo di custodia delle tradizionali aste di Marte (ved.tav. 94-95 ).

La “Regia„ e un tratto della “Sacra Via„ durante gli scavi recenti del Foro Romano. Tavola 94 (da fotografia). Scavi recenti sull'area della “Regia„ al Foro Romano. Tavola 95 (da fotografia). Molto vi sarebbe a dire anche sulla Basilica Aemilia, per la quale rimando al lavoro esauriente dell'illustre prof. Lanciani[207]. Mi preme soltanto di far notare che si rinvennero le gradinate per le quali si accedeva a una specie di basamento rotondo, molto logoro, che si crede un sacello. Inoltre fu messa allo scoperto meglio di prima la grande aula della Basilica, col pavimento in marmo africano, porta santa e giallo antico.

Maggior luce venne inoltre con gli ultimi scavi alla storia della costruzione del templum Antonini et Faustinae, del quale uscì nella sua primitiva grandezza lo stilobate, e si potè studiare tutto il perimetro, essendo ora isolato.

LA “CLOACA MAXIMA„.

Una conseguenza non inaspettata, ma in ogni modo fortunatissima degli scavi sistematici del Foro Romano fu lo studio profondo e minuzioso di tutto il sistema stradale del centro della vita romana, nonchè di quello sotterraneo con lo scavo delle cloache e dei pozzetti che misero in luce la complicata canalizzazione della fognatura e dello scolo delle acque in Roma.

Mi limiterò solo ad accennare al fatto importantissimo, messo in luce dalle ricerche del Boni, che la cloaca maxima (ved.tav. 47 ), risulta costrutta di massi tolti da edifici repubblicani; non sarebbe stata opera dei re Tarquinii, ma lavoro dell'ultimo periodo della Repubblica, mentre l'antica cloaca che si attribuisce ai Tarquinii pare esista in un altro luogo, ove si vedono vestigia considerevoli più a levante della maxima. Quella prima grande cloaca sarebbe stata poi abbandonata quando i Romani costrussero la Basilica Aemilia.

FINE.

SACRA · VIA · ET · CONTINENTIA · AEDIFICIA

Tavola 96. — Rilievo grafico generale dello stato attuale del Foro Romano, risultante dalla connessione a penna nella scala di 1:500 dei rilievi altimetrici parziali, eseguiti l'anno 1900 dagli alunni della R. Scuola d'applicazione degli ingegneri in Roma nell'area compresa tra il Colosseo e il Tabularium. (Cfr. Notizie degli Scavi, giugno 1900, pag. 220 e segg.).

NOTE:

1. Ved. Marquis de Nadaillac: Moeurs et monuments des peuples préhistoriques. Parigi, Masson, 1888, pag. 4; Salomon Reinach, Le Musée de l'empreur Auguste ( Revue d'anthropol. di Parigi, Serie terza, IV, pag. 28-36); Ettore Regalia, Sul Museo dell'imperatore Augusto ( Arch. per l'antrop., XIX). Firenze, 1889.2. Le indicazioni bibliografiche intorno agli studî di paletnologia e di archeologia preistorica in Italia si trovano tutte raccolte, almeno quelle di opere pubblicate avanti al 1874, e diligentemente ordinate nelle due utili pubblicazioni del professore Luigi Pigorini, Bibliografia paleoetnologica italiana dal 1850 al 1871; e Matériaux pour l'histoire de la paléoethnologie italienne. Parma, 1874. — Dopo l'anno 1874 si consulti soprattutto il Bullettino di paletnologia italiana, diretto appunto dall'illustre Pigorini, pubblicazione che fa onore al nome italiano, e che contiene, oltre le relazioni sugli scavi varî e sui nuovi ritrovamenti, anche una bibliografia paletnologica molto accurata in ordine cronologico. Uno studio generale, ma abbastanza esatto, della paleoetnologia, si trova nel Manuale Hoepli di Innocenzo Regazzoni. Milano, 1885; più recente e dotto il bel lavoro d'indole generale del ch. E. Brizio, Storia politica d'Italia; epoca preistorica. Milano, Vallardi, 1899-1900.3. Esemplari vari e numerevoli di queste figure trovansi, p. es., al R. Museo di Antichità di Torino, nelle sale delle antichità preromane, provenienti da Lomello. Cfr. Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino.4. Molte e chiare riproduzioni grafiche di questi oggetti di uso e d'ornamento dei popoli preistorici d'Italia si trovano nel magistrale Album del Montelius, unito all'opera: Oscar Montelius, La civilisation primitive en Italie, depuis l'introduction des métaux: I Parte: Italie Septentrionale, Stokholm. Imprimerie royale, 1895 (Testo e Atlante). Da questo atlante riproduco qui qualcuna delle tavole più importanti inserite nel testo.5. Sull'esistenza di questo popolo nella vallata del Po scrissero un libro importantissimo gli archeologi Alessandro Bertrand e Salomone Reinach, Les Celtes dans les vallées du Pô et du Danube. Parigi, Leroux, 1894. Ved. per le antichità di Golasecca e Castelletto Ticino letav. 6 e7.6. Bibliografia sulle terremare: Sulla loro costituzione e sulla storia della loro scoperta ved. Pigorini, op. cit.; cfr. Nuova Antologia. 1870, pag. 347: Boll. Ist. Corr. archeol. di Roma, 1876, pag. 107: G. Chierici, Le antichità preromane della provincia di Reggio nell'Emilia, 1871; cfr. Boll. cit. di paletnologia ital., passim, specialmente le prime annate. — Sulla questione etnografica, si consulti, per l'opinione che i terramaricoli fossero Umbri: W. Helbig, Die Italiker in der Poebene, Leipzig 1879; per l'opinione che fossero piuttosto Liguri: E. Brizio, Nuova Antologia. aprile e ottobre 1880 ( Liguri nelle Terremare ); la Coltura, fasc. II, 1881. Oltre i lavori generali di Nicolucci, La stirpe ligure in Italia, e di Mariotti, Sugli scavi di Velleja, cfr. L. Schiaparelli, Le stirpi Ibero-Liguri nell'Occidente e nell'Italia antica, 1880.7. Ved.tav. 10 a pag. 31, e cfr.tav. 9 a pag. 30.8. Cfr. la figura qui di fronte, e Gozzadini, Di alcuni sepolcri della necropoli felsinea, pag. 20; cfr. Bertrand-Reinach, Les Celtes dans les vallées du Pô et du Danube. Parigi, Leroux, 1894. — Per Micene, Ved. anche Atl. di arte greca, Manuali Hoepli, tav. IV, e la figura a pag. 29 (tav. 8).9. Ved. Desor, Revue archéolog., 1871, pag. 409. L'opera esauriente sull'argomento è quella di Antonio Zannoni, La Fonderia di Bologna. Testo e Atlante. 1888.10. Circa l'opinione sostenuta precedentemente che l'opera appartenga alla civiltà etrusca, ved. Zannoni, Scavi della Certosa, Conestabile, “Compte rendu„ del Congresso di Bologna, 1871; pag. 272. Ved. oggetti funebri del periodo etrusco della Certosa in Bologna più avanti, nelle tavole che illustrano la parte etrusca.11. Per i sepolcreti umbro-felsinei, ved. E. Brizio, Monumenti archeologici della provincia di Bologna, nell'opera: Appennino bolognese, descrizioni e itinerarî, Bologna, 1881, pag. 208; G. Gozzadini, Sepolcri dell'Arsenale, Bologna, 1875, e Scavi Arnoaldi Veli, 1877; A. Zannoni, Scavi Benacci, nel Bollett. di Corr. Arch., 1875, pag. 177 e 299. Per gli oggetti di questi e di altri ritrovamenti, ved. il Museo Civico di Bologna, che ha una sala speciale pei Monumenti della necropoli felsinea, e cfr. il Catalogo scientifico del Museo dello stesso ch. prof. Brizio. Per la situla istoriata ved. specialmente Scavi della Certosa, atlante, tav. XXXV.12. Anzi per il Gozzadini Villanova è dei Proto-etruschi (sec. X-IX; ved. op. cit. a pag. 6, 52), mentre per lo Zannoni è di diverse genti in epoche successive ( Boll. Ist. Corr. Arch., 1875, pag. 46, 713); per il Desor e per il Brizio, degli Umbri ( Grotta del Farnè, pag. 46).13. Cfr. Fr. Gnecchi, Monete romane, Milano, Hoepli, 1896, 1ª ediz., pag. 15 e segg.; cfr. S. Ambrosoli, Numismatica, Milano, Hoepli, 1895, pag. 79.14. Che siano rasoi, crede lo Zannoni, Bollett. Ist. Corr. Arch. 1875, pag. 45; cfr. ibidem, pag. 14, l'opinione dello Helbig, che crede importato l'uso del radersi per mezzo del commercio (cfr. Atti Accad. Lincei, 1879-80, pag. 180) mentre pel prof. Lignana fu patrimonio comune degli Arii ( Boll. Ist. Corr. Archeol. 1875, pag. 16).15. Boll. Ist. Corr. Arch., 1875, pag. 51.16. Intorno alla necropoli di Villanova ved. Gozzadini, La nécropole de Villanova découverte et décrite. Bologna, 1890; cfr. Boll. Ist. Corr., 1875, pag. 270: A. Fabretti, Archivio Storico italiano, Nuova Serie, Tom. I, parte 1, pag. 220; tom. IV, parte 1, p. 227.17. Ved. Helbig, Boll. Ist. Corr. Arch., 1875, pag. 14 e 15.18. Compte rendu du Congrès de Bologne, 1871, pag. 195, 445 e segg.; cfr. Michele De Rossi, Boll. Ist. Corr. Archeol., 1867, pag. 5; 1868, pag. 116; 1871, pag. 247; cfr. Annali Ist. Corr. Arch., 1876, pag. 324.19. Intorno alle urne-capanne ved. Aless. Visconti, Atti Accad. rom. d'Archeol., parte 2ª; P. Nicard, Revue Archéologique, 1876, pag. 337; Lisch, Über die Hausurnen...., 1856; Ghirardini, Notizie degli Scavi, 1881, 1882; R. Virchow, Über die Zeitbestimmung der italischen und deutschen Hausurnen, Berlino, 1883; A. Taramelli, I cinerarî antichissimi in forma di capanna scoperti nell'Europa ( Rendic. della Accademia Lincei, V, vol. II, classe di scienze morali); O. Montelius, Zur ältesten Geschichte dés Wohnhausés in Europa, speciell in Nordin ( Arch. f. Anthrop., XXIII).20. Ved. Ann. Istit. Arch. 1871, pag. 34-53. Cfr. Gnecchi, op. cit., pag. 19 e segg.; Ambrosoli, op. cit., pag. 80 e segg.21. Ved. la casa Romuli del Palatino rispondente alle descrizioni di Dionigi (I, 78) e di Ovidio ( Inst. III. 183): Quare fuerit nostri, si quaeris, regia nati | Aspice de canna viminibusque domus.22. Si sono rinvenuti oggetti simili a questo, in bronzo a Corneto Tarquinia.23. Ved. Ghirardini, Notizie degli Scavi, febbraio 1883.24. Ved. A. Stoppani, L'ambra nella storia e nella geologia. Milano, 1886; Bull. di paletn. ital., XII (1886), pag. 47 e segg.; XIII (1887), pag. 21 e segg.; Helbig, Commercio dell'ambra, pag. 10; id., Das homer. Epos, 2ª ediz., p. 89; Blümner, Technologie, ecc., II, pag. 385; Barnabei in Monum. ant., IV, col. 386 e segg.; S. Ricci, Oggetti ornamentali provenienti dal territorio di Golasecca in Bull. di paletn., XXI (1895), pag. 89 e segg.; J. Szombathy, Zur Vorgeschichte des Bernsteins. Vienna, 1895; Klebs, Der Bernsteinsschmuck der Steinzeit; Hoernes, Urgesch. d. bild. Kunst. Vienna, 1898, pag. 21 e segg.; 124, 128, 316, 376.25. Ved. L. Benvenuti, Museo euganeo-romano di Este, 1880; Prosdocimi, Notizie degli Scavi, 1882, pag. 5 e segg.; Boll. Ist. Corr. Arch., 1881, pag. 70; Helbig, Bollett. Ist. Corr. Arch., 1882, pag. 74. Il Ghirardini completò e modificò alquanto nella maggiore e più chiara distinzione sua quella dei quattro periodi Prosdocimi in Notizie degli Scavi, 1888.26. Ved. intorno a queste scoperte interessantissime il lavoro dello Helbig, Boll. Ist. Corr. Archeol., 1875, pag. 233.27. Ved. Boll. Ist. Corr. Arch. 1835, pag. 216; cfr. Gamurrini e Conestabile, Sopra due dischi di bronzo italici, ecc. ( Memorie R. Accad. di Scienze di Torino, XXXVIII, 1876, serie II); cfr. il recente ed ottimo lavoro dello Gsell, Fouilles de Vulci. Parigi, 1891.28. Ved. su Corneto-Tarquinia: Ghirardini, Notizie degli Scavi, 1881, pag. 342; 1882, pag. 136: Helbig, Boll. Istit. Corrispond. Archeolog., 1882.29. Cfr.pag. 40 etav. 15.30. Cfr. Fr. Gnecchi, Monete romane. Milano, Hoepli, 1900. 2ª ediz., pag. 85-89.31. Per gli scavi della Certosa ved. specialmente l'opera dell'ing. A. Zannoni, Scavi della Certosa, descritti ed illustrati. Bologna, 1876; C. Conestabile, Compte rendu du Congrès, pag. 263; E. Brizio, Bollett. C. A., 1872, pag. 12 seg.; Monumenti archeologici della provincia di Bologna, 1881.32. Intorno a Marzabotto ved. C. Gozzadini, D'un'antica necropoli a Marzabotto, Bologna, 1865; Nuove scoperte a Marzabotto, Bologna, 1870; C. Conestabile, Rapport sur la Nécropole... in Compte rendu du Congrès..., pag. 242; cfr. G. Chierici, Antichità preromane della provincia di Reggio d'Emilia, in cui l'autore espone l'opinione, in parte dibattuta, che Marzabotto fosse un borgo abitato.33. Intorno a Cacrilio ved. Helbig, Die Italiker in der Poebene, pag. 125, con l'appendice del Löschcke su quel figulinaio.34. Ved. parte etrusca. Intorno alle ciste ved. Cavedoni, D'una cista di Castelvetro in Ann. Ist. Corr. Arch., 1842, p. 67 (cfr. 1847, pag. 71); Zannoni, in Memorie R. Accademia delle Scienze di Torino, 1876, vol. XXVIII, pag. 111; Helbig, Bronzi di Capua in Annali dell'Ist. di Corr. Arch., 1880, pag. 223, 240, ecc.; cfr. Annali Ist. Corr. Archeolog. 1881, pag. 214.35. Ved. Semper, Der Stil, citato nella Bibliografia che precede questo Manuale,pag. 9.36. G. C. Conestabile, Sopra due dischi di bronzo antico italici del Museo di Perugia in Memorie dell'Accad. delle Scienze di Torino, Tom. XXVIII (1876), serie II, pag. 26 e segg.; cfr. Conze, Zur Geschichte der Anfänge der Griech. Kunst, Vienna, 1870.37. Helbig, Sulla provenienza della decorazione geometrica in An. Ist. Corr. Arch., 1875, pag. 221 e segg.38. Ved. Conze, sostenitore più tardi di un primo studio di disegno e ornamento geometrico presso tutti i popoli in Ann. Ist. Corr. Archeol., 1877, pag. 354 e segg. (sopra oggetti di bronzo trovati nel Tirolo Meridionale).39. La voce greca che genericamente indica “seppellire„ cioè θάπτειν, nel valore primo della sua radicale ταφ, dice “ardere, abbrucciare„, ed ha per riscontro la rad. tep. di tep-eo e tep-idus nel latino, e per riprova τέθρα, “la cenere„ e l'uso della voce θάπτειν in senso d'incenerire i morti, presso Omero ( Iliade, XXI, 323: Odissea, XII, 12. XXIV, 417).40. Per es., nelle sepolture umbro-felsinee e di Villanova la proporzione sarebbe di 4 umati per 100 combusti.41. Questo risulta da esplicita dichiarazione di Cicerone nel de legibus (II, 22), ripetuta da Plinio ( h. n. VII, 54). Nel libro XI dell' Eneide, Virgilio descrive i funerali dei caduti nella battaglia fra Rutuli e Troiani: nel campo troiano tutti i morti sono arsi, nel campo italico molti arsi e molti sotterrati.42. Ved. J. Grimm, Über das Verbrennen der Leichen, in Atti Accad., Berlino, 1849, pag. 191; Biondelli, La cremazione dei cadaveri in Rivista italiana di Scienze e Lettere. Milano, 1874; J. Marquardt, Handbuch der römischen Alterthümer (B. VIII, Th. I), pag. 330 e segg.43. Sui Pelasgi ved. A. Vannucci, Storia dell'Italia antica, vol. I; L. Schiaparelli, I Pelasgi nell'Italia antica, Torino, 1879; Micali, L'Italia avanti il dominio dei Romani, I, pag. 181; II, pag. 157; Storia antica dei popoli italici, I, pag. 195; Petit Radel, ved. Il Museo pelasgico d'Italia e d'altre regioni (Biblioteca Mazarino a Parigi); cfr. Bollettino e Annali dell'Ist. Corr. Arch. di Roma, 1829, 1830, 1831; C. A. De Cara, Le necropoli pelasgiche d'Italia e le origini italiche, Roma, 1894; V. Di Cicco, Le città pelasgiche nella Basilicata (in Arte e Storia, gennaio, 1896); L. Mauceri, Sopra un'acropoli pelasgica esistente nei dintorni di Termini Imerese. Palermo, 1896; A. C. De Cara, Gli Hethei-Pelasgi in Italia. Opuscoletti varî tratti dalla Civiltà Cattolica, serie XVI, vol. XI-XII; E. Lattes, Di due nuove iscrizioni preromane trovate presso Pesaro in relazione cogli ultimi studî intorno alla quistione tirreno-pelasgica, con 3 tavole ( Rendic. d. Acc. Lincei, Classe di Scienze morali, Ser. V, vol. II e III). Cfr. Pigorini in Boll. di paletnol. ital., 1889, fasc. 7-9, pag. 201-202 ( Le città pelasgiche italiane ).44. Intorno agli Etruschi ved. C. O. Müller, Die Etrusker e nei Kleine deutsche Schriften, vol. I, pag. 129; G. Schwegler, nella Römische Geschichte, volume I; Micali, Storia dei popoli italiani, vol. I; Vannucci, Storia dell'Italia antica, vol. I; Nöel des Vergers, Les Etrusques. Ved. l'esposizione delle più recenti opinioni sugli Etruschi in uno studio del prof. Bertolini, Nuova Antologia (maggio 1872). — Per l'arte etrusca in generale ved. C. O. Müller, Die Kunst der Etrusker ( Kunstarchaeologische Werke, vol. 3º, pag. 118) e Lanzi, Saggio di lingua etrusca, 1824, vol. 2º; Cfr. Martha, Manuel d'archéologie étrusque et romaine. Paris Quantin, s. a.; L'arte étrusque. Parigi, Firmin, Didot, 1889.45. Per le citazioni classiche, ved. Nöel de Wergers, L'Étrurie et les Étrusques, 2 vol., 1862.46. E. Brizio, La provenienza degli Etruschi in Atti cit., e Nuova Antologia, 1890; ora, recentemente, in Storia politica d'Italia, Epoca preistorica, Milano. Vallardi, 1899-1900, pag. CXXXVIII-CXXXX.47. J. Martha, nell' Art étrusque, già citata.48. Ved. Annali, 1883, pag. 5-104.49. Ved. O. Müller, Die Etrusker; Corssen, Die Sprache der Etrusker, 1870-72; Deecke, Etruskische Forschungen; Deecke e Pauli, Etruskische Forschungen und Studien; Pauli, Altitalische Studien. Pei lavori del Lattes, cfr. la pagina seguente, not. 1.50. Ai lavori già citati dell'illustre Lattes (cfr. pag. 99 e 107), aggiungiamo qui alcuni altri dei principali, che mostrano chiaramente la sua attività e competenza nel campo dell'epigrafia e glottologia etrusca dal 1890 fino ad oggi (cfr. un mio cenno nella Rassegna Nazionale dell'ottobre 1895). — 1890: Iscrizione metrologica di un'anfora ( Rend. Ist. Lomb. ). — 1891: Epigrafia e note di epigrafia etrusca; La nuova iscrizione sabellica; La grande iscrizione del cippo di Perugia tradotta ed illustrata; Un'iscrizione etrusca alla Trivulziana ( Rend. Ist. Lomb. ) — 1892: Le iscrizioni paleolatine dei fittili e dei bronzi di provenienza etrusca ( Memorie Ist. Lomb. ); Primi appunti ermeneutici intorno alla Mummia di Agram ( Atti della Regia Accademia di Scienze, Torino ). — 1893: Saggi ed appunti intorno all'iscrizione etrusca della Mummia ( Memorie Istituto Lombardo ) — 1894: L'iscrizione etrusca della Mummia e il nuovo libro del Pauli intorno alle iscrizioni tirrene di Lemno ( Rendiconti dell'Istituto Lombardo ); L'ultima colonna della iscrizione etrusca della Mummia ( Memorie R. Accad. Scienze, Torino ). — 1895: Etrusca φui Fuimu per lat. fui, fuimus ( Rend. Istit. Lomb. ); Studî metrici intorno all'iscrizione etrusca della Mummia ( Memorie Ist. Lomb. ); Il vino di Naxos in una iscrizione preromana dei Leponzi in Val d'Ossola ( Atti R. Accad. Scienze, Torino ): I giudizi dello Stolz e del Thurneysen.... e i nuovissimi fittili di Narce ( Riv. di Filologia e d'Istruzione class. ). — Inoltre nei volumi IV, V e VII degli Studi italiani di Filologia classica il Lattes pubblicò varî lavori critici sugli otto fascicoli del nuovo Corpus Inscriptionum Etruscarum. — 1896: Recensione dei primi quattro fascicoli come sopra ( Riv. di Filologia e d'Istruz. class. ); Le iscrizioni latine col matronimico di provenienza etrusca ( Atti R. Accad., Napoli ); Ueber das Alphabet und die Sprache der Inschriften von Novilara ( Hermes, vol. XXXI). — 1899: Di un'iscrizione etrusca trovata a Cartagine; di due antichissime iscrizioni etrusche testè scoperte a Barbarano di Sutri; La iscrizione anteromana di Poggio Sommavilla; Il numerale etrusco θυ ecc.; Primi appunti sulla grande iscrizione etrusca trovata a S. Maria di Capua ( Rendic. R. Ist. Lomb. ). — Indagatore intelligente ed esatto è uno scolaro del Lattes, ex-allievo della nostra Accademia Scientifico-Letteraria, il dott. Bartolomeo Nogara, autore del libro Il nome personale nella Lombardia, il quale da parecchi anni inserisce nei nostri annuari dell'Accademia delle succinte Relazioni intorno ai suoi viaggi epigrafici nei centri italiani rappresentati da documenti epigrafici etruschi.51. Ved. Micali, Stor. dei pop. it., tav. CVIII. — Credo piuttosto che la prima origine di quest'uso sia provenuto dalla barbara costumanza di appendere le teste dei generali nemici fatti prigionieri ed uccisi, per spaventare il nemico stesso e in atto di tripudio per la vittoria ottenuta.52. Ved. Plinio, Natur. histor., XXXVI, 19.53. Ved. Erodoto, Stor. greca, I, 93.54. Cfr. Stéphane Gsell, Fouilles dans la nécropole de Vulci. Parigi, Thoia, 1891.55. Ved. Plinio, Natur. historia, XXXV, 6; cfr. A. Vannucci, Storia dell'Italia antica, vol. I, e la bibliografia relativa; cfr. L. A. Milani, Il Museo topografico dell'Etruria. Firenze, 1885.56. Sui Nuraghi ved. E. Pais, La Sardegna prima del dominio romano in Atti Accadem. dei Lincei, VII, 1880-81, pag. 277. Cfr. Regazzoni, Manuale di Paletnologia, Milano, Hoepli, 1885, pag. 159-165. — Ne parlano anche Sfano, Paleoetnologia sarda Alb. Lam, Cagliari, 1871; Alb. Lamarmora, Itineraire de l'Ile de Sardaigne, tom. II; Guido dalla Rosa, Abitazioni dell'epoca della pietra nell'Isola Pantellaria, Parma, 1871; Burton, Note sopra i Castellieri e rovine preistoriche nella penisola istriana, Capo d'Istria, 1877. Cfr. Bull. di Paletnol. ital., IX (1883), pag. 74, 77, ove sono citati altri lavori speciali sull'argomento.57. Ved. W. Helbig, Arte fenicia in Ann. Ist. Corr. Arch. 1876, p. 197.58. Ved. L. Lanzi, Saggio dello stile di scultori antichi, p. 18.59. Quintilianus, XII, 10; cfr. Overbeck, Die antiken Schriftquellen zur Geschichte der bild. Künste bei den Griechen. Lipsia, Engelmann, 1888, pag. 78-79.60. Cfr. vol. I, Arte greca, pag. 50, 51 della Iª edizione Gentile, tav. XXXIV.61. Cfr. vol. I, Arte greca id., pag. 69, tav. XLVI.62. Cfr. vol. I, Arte greca id., pag. 67, tav. XLI.63. Cfr. vol. I, Arte greca id., pag. 210, 214, 219, tav. CXXXVI-CXXXIX.64. Per le urne etrusche, ved. Micali nelle tavole aggiuntive alla Storia dei popoli italici, e nei Monumenti inediti: Uhden negli Atti dell'Accademia di Berlino, 1816, 1818, 1827-29; Brunn I rilievi delle urne etrusche, Roma, 1870.65. Ved. Properzio, IV, 2, 61.66. Ved. Dionis., I, 79.67. Ved. Plinio, Natur. histor. XXXIV, 16; Signa tuscanica per terras dispersa, quae in Etruria factitata non est dubium.68. Ved. Orazio, Epistole, II, 180.69. Ved. Micali, Storia dei popoli ital. antic., tav. XXII-XXXVII; e Monum. inedit., tav. XVII.70. Ved. Bollettino Istit. Corr. Archeol., 1837, pag. 7; Annali, 1837, pag. 26.71. Ved. Micali, Monum. inedit., tav. XII.72. Dionisio, I, 70. Cfr. Helbig, Führer, traduzione francese di Toutain ( Guide dans les musées d'archéologie classique de Rome, Lipsia, Baedeker, 1893, pag. 461, n. 618).73. Ved. Ateneo, Deipnosofisti, XV, 18.74. Ved. Virgilio, Eneide, I, 727;..... dependent lychni laquearibus aureis..... incensi.....75. Ved. disegni in Micali, Mon. ined. IX e X e pag. 72; cenno della scoperta in Boll. C. A., 1840, pag. 164, e studio di Abeken, negli Annali I. C. A., 1842, pag. 53.76. Cavedoni, Annali Ist. Corr. Arch., 1842, pag. 75.77. Per gli specchi etruschi ved. Gerhard, Über die Metallspiegel der Etrusker ( Abhandl. der koniglichen Akad. d. Wissensch. zu Berlin, 1836, pag. 323), e la maggior opera dello stesso autore, Etruskische Spiegel, 1840. Molti disegni e illustrazioni negli Annali e nei Monumenti dell'Ist. d. C. A.78. Boll. Ist. Corr. Arch., 1880, pag. 213. Ved. per la cista Ficoroni la nostratav. 34.79. Ved. Micali, Mon. ined., tav LIV.80. Ved. Plinio, N. H., XXXV, 6. Egli dice che i dipinti di Ardea, città per lo meno di occupazione etrusca, siano anteriori alla fondazione di Roma.81. Ved. p. es., Annali Ist. Corr. Arch., 1873, pag. 239.82. Intorno alla storia della pittura etrusca ved. Helbig, Ann. Ist. Corr. Archeol., 1863, pag. 336; Brunn-Helbig, ibid., 1866, 1870. Intorno alla policromia ved. Braun, Bollett. Ist. Corr. Archeol., 1841, pag. 2; Martha, L'art étrusque già più volte citata.83. Ved. questo nostro Manuale apag. 78 e segg.84. Ved. Micali, Monum. ined., tav. IV e V.85. Ved. p. es., Monum. Istit. Corr. Archeol. II, 8, 9, in cui sono rappresentati due vasi, l'uno con Atteone sbranato dai cani, e con Aiace che s'abbandona sulla spada; l'altro con Aiace che immola un uomo ignudo, assistito da Charun, faccia mostruosa che si rivede sullo stesso vaso con tre imagini femminili. Opera di pennello volgare e non antico, ma prettamente etrusco. Cfr. pei vasi greci l' Atl. d'arte greca, tav. CXXXVI e segg.86. Ved. Annali Ist. Corr. Arch., 1875, 98; cfr. Bollettino, 1874, pag. 241. — Circa la composizione dei buccheri, ved. Bollettino Ist. Corr. Arch., 1837, pag. 28; ibid., 1842, pag. 164, e recentemente l'ill. prof. Barnabei, che ritrattò la questione con nuovi esperimenti e copia di prove critiche e bibliografiche in Monum. Ant. della R. Accad. dei Lincei, IV, 1894.

Quanto ai disegni varî dei buccheri ved. Micali, cit., Monumenti ined., tavole XXVII-XXVIII, pag. 156; Nöel des Vergers, Atlante tav. XVII e segg..

87. Ved. A. Fabbroni, Storia degli antichi vasi fittili aretini. 1841.88. Ved. Micali, Mon. ined., tav. IV, 2, pag. 40.89. Ved. Klügmann, Annali Ist. Corr. Arch., 1871, pag. 1; Mon., vol. VIII, tav. 26.90. Molti scritti pubblica l'avv. Giuseppe Fregni di Modena sulle iscrizioni etrusche ed umbre, sulla Grotta di Corneto Tarquinia, sulla Colonna di Foca (1897-1900), ma lascio agli specialisti in materia il giudizio sul merito scientifico dei suoi lavori.91. Cfr.pag. 117-118.

Fin dal 1893 uno degli alunni del Lattes, il dott. Bartolomeo Nogara, già citato, (cfr.pag. 118 ), raccolse calchi e disegni di iscrizioni etrusche da lui fatti nel Museo di Perugia, (1º viaggio epigrafico 1893), e un primo manipolo di iscrizioni messapiche depositate con quelle etrusche presso la R. Accademia Scientifico-Letteraria nel 1895 (2º viaggio epigrafico). Incoraggito dai premi Lattes, il dott. Nogara continuò le sue ricerche e le sue collezioni di calchi e disegni per gli anni successivi in altre città dell'Etruria fino all'anno scorso (3º viaggio 1896; 4º, 1897; 5º, 1898; 6º-7º 1899); ved. Relazioni nell'Annuario della R. Accademia Scientifico-Letteraria, dall'anno 1894 fino al 1900.

92. L. A. Milani, Museo topografico dell'Etruria. Firenze-Roma, Bencini, 1898.93. Ved. Gellio, Nott. att., XVII, 21.94. Ved. Orazio, Epistol. II. 1, 156-57. Graecia capta ferum victorem cepit et artes Intulit agresti Latio.95. Ved. Virgilio, Aeneis, VI, 843-853.96. Ved. Livio, Stor. Rom., l. XXXIX, c. 4 (orazione di Catone per la legge Oppia).97. Su Damofilo e Gorgaso, che lavoravano al tempio di Cerere (493 a. C.), ved. Plinio, N. H., XXXV, 154: Ante hanc aedem tuscanica omnia in aedibus fuisse auctor est Varro. Quindi i due artisti greci sono per lo meno anteriori a Fidia e a Polignoto.98. Ved. Livio, I, 56: Fabris undique ex Etruria accitis.99. Livio, I, 55: Arcem eam imperii caputque rerum fore.100. Ved. intorno al tempio di Giove Capitolino la descrizione di Dionigi d'Alicarnasso, IV, 61, 3, 4, e la ricostruzione in Durm, Baukunst der Etrusker und Römer. Cfr. un suo disegno in un rilievo di Aureliano ( Durm, op. cit., pag. 45); B. v. Köhne, Der Tempel des kapitolin. Jupiter nach den Münzen, Berlino, 1870.101. Donaldson, Architect. num., pag. 6-11, tav. 3; Cohen, Méd. impér. I 2, Vespas. n. 409; Domiz. n. 174 (?); cfr. Ephem. epigr. VIII 1892, tav. II, 5 ( Dressel ).102. Su Turanius ved. Plinio, XXXV, 45.103. Sul foedus latinum ved. Dionis. IV, 26; cfr. S. Ricci, Epigrafia latina, Milano, Hoepli, 1898, pag. 160-161.104. Ved. per la tomba di Porsenna, Guhl-Koner-Giussani, op. cit. II, pag. 116.105. Il trattato ci è conservato da Polibio nella sua storia romana, III, 22.106. Cfr. pag. 196; ved. Plin., N. H., XXXV, 154.107. Ved. Livio, Stor. rom., XLII, 3, Populum romanum ruinis templorum templa aedificantem.108. Ved. S. Ricci, Epigrafia latina, Milano, Hoepli, 1898, pag. 144 e segg., tav. XXVI.109. Ved. Livio, Stor. rom., XXVI, 27.110. F. v. Quast, Die Basilika der Alten, Berlino, 1845; O. Mothes. Die Basilikenform bei den Christen der ersten Jahrhunderte. Lipsia, 1865: Holtzinger, Die römische Privatbasilika (in Repertorium für Kunstwerke): K. Lange, Excursus, II; Basilica Ulpia. — Lesueur, La basilique Ulpienne (Roma), Parigi, 1877; cfr. Donaldson, Architectura numismatica, 1859; utilissimo per lo studio delle monete rappresentanti basiliche romane.111. Ved. Tacito, Annali, XIV, 21.112. Ved. S. Ricci, Epigrafia latina, cit., p. 141 e segg. e tav. XXIII-XXV. A tav. XXV e pag. 143 si corregga “ quonoro per quorum „ sfuggiti per errore, in “ duonoro per bonorum „.113. Cfr. Sui sarcofagi romani in confronto coi greci e coi cristiani, ved. Guhl-Engelmann, Matz, Über den Unterschied der griech und römischen Sarkophage, dall' Archäol. Zeitung, XXV, pag. 16 e segg.; René Grousset, Étude sur l'histoire des sarcophages chrêtiens.114. Ved. Gentile, Storia dell'arte greca cit., pag. 43.115. Cfr. S. Ricci, Epigrafia latina cit., tav. LII. È ora nel Museo Kircheriano al Collegio romano in Roma. L'iscrizione in carattere del VI sec. di R. dice: Dindia Macolnia filea[i] dedit | Novios Plautios med Romai fecid. La dama prenestina Dindia Macolnia passò in regalo la cista alla figlia. Si corregga quindi al luogo cit. dell' Epigrafia latina la voce filea in filea[i], come richiede il senso. Ved. per la Cista Ficoroni inoltre: E. Braun, Die Ficoronische Cista, Lipsia, 1830; O. Jahn, Die Ficoronische Cista, 1852; cfr. Schône, in Ann. Istit. Corr. Arch., 1868, pag. 150; e inoltre Annali, 1864, pag. 356; 1866, pag. 357; 1876, pag 105.116. Le tombe prenestine sono abbondanti di ciste e d'oggetti d'ornamento muliebre. Fra le varie ciste una per la rappresentazione sua singolarmente importante è quella in cui pare raffigurata l'unione di Enea con Lavinia, onde sarebbe indicata la piena e diffusa esistenza della leggenda già nel VI secolo di Roma. Degli oggetti di toletta muliebre contenuti nelle ciste molti sono orientali, cioè vasetti d'alabastro, smalti, oreficerie, e provano le relazioni commerciali che fra il Lazio e i paesi transmarini erano mantenute da mercanti fenicî.117. Ved. Livio, Storia rom., VI, 29.118. Ved. Plinio, H. N. XXXV, 22 e segg.119. Ved. Livio, Stor. rom. XXXVI, 52.120. Ved. Livio, itid. XXXIX, 5.121. Ved. Plinio, N. H., XXXVI, 2; cfr. Guhl-Koner e Giussani, La vita dei Romani, Torino, Loescher, 1891; Borsari, Topografia di Roma, Milano, Hoepli, 1897, pag. 165, 271 e segg.; Friedländer, Sittengeschichte Roms, II, pag. 322 e segg. della 5ª ediz. (1881).122. Ved. Plinio, N. H., XXXVI, 24.123. Ved. sui teatri in generale: Fr. Wieseler, Theatergebäude und Denkmäler des Bühnenwesens bei den Griechen und Römern, Göttingen, 1851; Scip. Maffei, Dei teatri antichi e moderni, Verona, 1753; Öhmichen, Bühnenwesen nell' Handbuch di Iwan Müller; W. Dörpfeld-E. Reisch, Das griechische Theater, Roma, Loescher, 1895. Una bibliografia molto copiosa sui varî teatri ho cercato di riunire nel lavoro: S. Ricci, Il teatro romano di Verona, Venezia, 1895, Memorie dell'Istituto di Scienze, Lettere ed Arti.124. Sugli anfiteatri leggasi, dopo i lavori di Giusto Lipsio, Antwerpen, 1528 e di Poleni e Montenari, Vicenza, 1735, le osservazioni del Nissen, Pompejanische Studien, e del Friedländer, in Marquardt, Staatsverwaltung, III 2, 2, 556 e segg. — Sui circhi ved. G. L. Bianconi, Descrizione dei circhi, particolarmente di quello di Caracalla, Roma, 1789; cfr. Burgess, Descrizione del circo sulla Via Appia presso Roma, Roma, 1829; Friedländer, in Marquardt's, Staatsverwaltung, III 2, 504 e segg.125. Il testamento di Augusto essendo infisso su lastre di marmo del tempio d'Augusto e di Roma in Ancira, è detto il Monumentum Ancyranum: vedasi S. Ricci, Epigrafia latina, Milano, Hoepli, 1898, pag. 187, not. 1 e pagg. 195-203. L'opera capitale intorno a questo è del Mommsen, Res gestae divi Augusti ex monumentis Ancyrano et Apolloniensi, Berlino, Weidmann, 1883; alle pagg. 197-198 del mio Manuale precitato vi è unita tutta la bibliografia relativa.126. Ved. Svetonio, Vit. Aug., 29: Marmoream se relinquere quam latericiam accepisset.127. Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli, 1897, pag. 261-265.128. Oltre il nostro Atlante, sulle tavole qui sotto citate hanno illustrazioni del Pantheon, come anche dei principali monumenti di Roma imperiale, che saranno in sèguito descritti: H. Strack, Baudenkmäler des Alten Rom, Berlino, Wachsmuth, 1890; A. Schneider, Das alte Rom. Entwickelung seiner Grundrisse und Geschichte seiner Bauten auf 12 Karten und 14 Tafeln dargestellt. Per uso didattico sono abbastanza utili, i Kunsthistorische Bilderbogen, zusammengestellt del Dottor Menge. Il nostro Melani ha pure illustrazioni della parte romana nei suoi Manuali, con speciale trattazione delle piante e degli stili degli edifizî nel volume dell' Architettura; delle riproduzioni romane di capilavori greci in quello della Scultura; degli affreschi soprattutto pompeiani in quello della Pittura (Milano, Hoepli, 1900). Il prof. Archinti di Milano ha pure edito un volume sulla storia dell'Architettura e degli stili con molte e belle tavole (Milano, Vallardi, 1889), e il Melani un altro sull'ornamento artistico. Cfr. per altre opere il mio indice bibliografico generale e speciale.129. Virgilio, Eneide, I, v. 448-449.130. Ved. Dione, l. III. 27.131. Ved. Plinio, N. H., XXXVI, 24.132. Ved. Gentile, Storia dell'arte greca, Milano. Hoepli, 1892, vol. I, pag. 83, 115. Cfr. Atlante, tav. LVII, LIX, LXXXIII.133. Da questo fatto della fusione del bronzo per i pezzi d'artiglieria sorse il proverbio: Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini. I due piccoli campanili laterali che stettero un pezzo alla disapprovazione di tutti erano stati posti dal Bernini per ordine dello stesso papa Urbano VIII, ed erano detti gli orecchioni del Bernini.134. Ved. Lanciani, Notizie degli Scavi, 1881, anche per la bibliografia.135. Gentile, Storia dell'arte greca, Milano, Hoepli, 1883, pag. 87, 135-138, cfr. Atlante (parte greca) tav. LXIV-LXV; CV-CVIII.136. Cfr. F. Cerasoli, Documenti inediti medievali circa le terme di Diocleziano in Bull. Comm., archeol. comunale. Roma, 1895, pag. 301 e seg.137. Ved. Borsari, op. cit. pag. 87, 311-313; Cfr. Middleton, Ancient Rom II, 282, 288-292; Lanciani, Forma Urbis, t. 8.138. Ved. O. Marucchi, Gli Obelischi egiziani in Roma, in Bull. Comm. Arch. com. Roma, 1896.139. Ved. Guhl-Koner-Giussani, La vita dei Greci e dei Romani. Parte II, i Romani, pag. 120 e segg., fig. 101: Piramide di Cestio.140. Cohen, Médailles imperiales, I 2, pag. 252, 254, n. 25-29; 48.141. Ved. intorno agli archi Bellorius e De Rubeis, Veteres arcus Augustorum, triumphis insignes, Roma, 1690, 1824; L. Rossini, Gli archi di trionfo degli antichi Romani, Roma, 1836. — Gräf, Triumphbogen, inserito nel dizionario di archeologia e di antichità del Baumeister, Denkmaeler, III, pag. 1865 e segg.142. Ved. Bucoliche, Ecloga IV, 5.143. Ved. Gentile, Atl. cit. (Parte romana), tav. XXXVIII; Porta Maggiore in Roma (acquedotto di Claudio imperatore).144. R. Lanciani, Commentarii di Frontino intorno le acque ed acquedotti di Roma, Roma, 1880. In quest'opera è citata la bibliografia precedente, specialmente Raffaele Fabretti, De aquis et aquaeductibus veteris Romae, Roma, 1680; 2ª edizione, 1738; Castro, Corso delle acque antiche, Roma, 1757, 2 voll.; De Prony, Réchérches sur le systeme hydraulique de l'Italie; A. Secchi, Avanzi di opere idrauliche antiche nell'Alatri, Roma, 1865.145. Intorno all'opinione che l'incendio debba veramente attribuirsi ai Cristiani ved. G. Negri, Nerone e il Cristianesimo ( Rivista d'Italia, 1899, fasc. 8, 9); C. Pascal, L'incendio di Roma e i primi cristiani, Milano, 1900; A. Coen, La persecuzione neroniana dei cristiani ( Atene e Roma, 1900, n. 21-23).146. Ved. Tacito, Annali, XV, 425; Svetonio, Nerone, 31; cfr. per maggiori particolari Guhl e Koner cit. II, pag. 104 e segg.; Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli, 1897, pag. 130, 132, 143-145, 349.147. Ved. le monete con l'Anfiteatro Flavio in Cohen, Médailles impériales, vol. I 2, n. 399. È riprodotto anche su un conio del Padovanino; Cfr. C. Fontana, L'Anfiteatro Flavio, 1725; Haag, 1776; C. Wagner, De Flavii Anphithéatro, Marburg, 1829-31; cfr. anche A. Pompei, Studî intorno all'anfiteatro di Verona, Verona, 1877, che contiene ottime osservazioni per lo studio generale degli anfiteatri. Altri particolari sul Colosseo aggiunge il Borsari, op. cit., pag. 132, 134.148. Intorno alle terme romane in generale ved., oltre il lavoro di Baccio sulle terme libr. VII, Venezia, 1588: Andrea Palladio, Les thermes des Romains, ediz. di Londra 1732, Vicenza, 1785: Ch. Cameron, The baths of the Romains, Londra, 1772; Mirri, Le antiche camere delle terme di Tito, Roma, 1776; id. Descriptions des bains de Titus, Paris, 1786; Ant. de Romanis, Le antiche camere Esquiline dette Terme di Tito, Roma, 1822. Delle Terme di Tito e adiacenze si tratta anche in S. Ricci, La Ξυστικὴ Σύνοσος e la “Curia athletarum„ presso S. Pietro in Vincoli, Roma, 1891, ( Bullettino della Commissione Comunale di Roma: Lanciani, ibidem, 1891-1892).149. P. es., il celebre gruppo del Laocoonte, ora nel Vaticano, fu rinvenuto nell'anno 1566 in una nicchia di queste stesse terme di Tito; il così detto Toro Farnese, cioè il celebre gruppo di Zetos ed Anfione, Dirce ed Antiope, che ora si ammira nel Museo nazionale di Napoli, fu rinvenuto nell'anno 1546 nelle terme di Caracalla: ved. Gentile, Storia dell'arte greca; op. cit., pag. 171, 176; cfr. A. Häckermann, Die Laocoonsgruppe, Greifswald, 1856; Collignon, Histoire de la sculpture grecque, Parigi, Didot, II, 533.150. Si osservi qui per incidenza quanti utili cimelî per la conoscenza dell'arte e della vita si traggano dai monumenti dissepolti. Intorno alla vita dei Romani, specialmente privata, per es., basti rammentare quanti documenti autentici siansi tratti appunto dalle rovine di Ercolano e di Pompei, e quanto ancora si tragga intorno alla condizione della ricca civiltà romana del I secolo dell'Impero. Ved. per queste città e per gli scavi relativi: Overbeck-Mau, Pompei, citato nell' Indice bibliogr.

Di somma importanza per la storia della decorazione pittorica sono i ritrovamenti della Domus Vettiorum a Pompei, dei quali si occuparono, si può dire, tutte le Riviste d'archeologia e d'arte italiane e straniere. Cfr. A. Sogliano, La casa dei Vettii nei Monumenti antichi per cura della R. Accademia dei Lincei, VIII, 1898; Pasquale d'Amelio, Nuovi scavi di Pompei — Casa dei Vettii. Non meno importanti per gli affreschi e per l'uso di case alte più piani sono i ritrovamenti recentissimi di Boscoreale e di Ercolano (ved. tav. 57-61 ). Cfr. Mittheil. d. k. d. arch. Inst. Röm. Abth., 1894, p. 349 e segg.; 1896, pag 131-140, tav. III; A. Mau, Pompei in Leben u. Kunst, Lipsia, 1900.

151. Intorno all'Arco di Tito ved. S. Reinach, L'arc de Titus et les dépouilles du temple de Jerusalem, Parigi, 1890. Sugli archi trionfali, oltre le opere capitali del Bellorius e del De Rubeis, si studî quella già citata di L. Rossini, Gli archi di trionfo degli antichi Romani, Roma, 1836, e in particolare il lavoro del Mancini sull'arco d'Augusto a Fano, Pesaro, 1826; del Petersen sull'arco di Trajano a Benevento, Röm. Mittheil, VII, pag. 239 e segg.; del Massazza e del Ponsera sull'arco antico di Susa, Torino, 1750, 1841.152. Ved. Cohen, Médailles impériales, II 2, n. 545 fol., Circo; n. 542-544 pel ponte sul Danubio.153. H. Thédenat, Le Forum romain et les forums impériaux, Parigi, 1898. Cfr. Melani, Archit., 3.ª ediz., tav. X ( Ricostruzione ).154. Ved. Albertolli, Fregi trovati negli scavi del Foro Trajano con altri esistenti in Roma e in diverse altre città. Milano, 1838. Per la bibliografia intorno alla Colonna Trajana vedasi più innanzi; cfr. F. Cerasoli, I restauri alle colonne Antonina e Trajana ed ai cavalli marmorei del Quirinale al tempo di Sisto V, in Bull. comm. archéol. com. 1896, pag. 179 e segg.155. Ved. Ammiano Marcellino, Rerum gestarum XVI, 10.156. Ved. Cohen, Méd. impér., II 2, n. 167-170.157. Ved. A. v. Domaszewski, Die politische Bedeutung des Trajansbogen in Benevent in Jahresheft des österreisch. archäol. Instituts II, 2, pag. 173 e seg.; Frothingham, Der Trajansbogen in Benevent in Academie des inscriptions et belles lettres VII, 30.158. Si riferisce che Costantino anzi, ridendo, forse con mal simulata invidia, dicesse il nome di Trajano esser così benemerito e noto e ricordato dapertutto da parere l'erba parietaria che alligna sopra ogni parete.159. Ved. Dione Cassio, LXV, 4.160. Intorno alle ville romane ved. all'Indice nostro bibliografico speciale “Architettura„, i nomi Castell, Marquez, Moule, Mazois.161. Ved. Ch. Lucas, L'empéreur-architecte Adrien, Parigi, 1869.162. Ved. Borsari, Topografia di Roma antica, cit., pag. 241. Una delle opere più importanti nei lavori d'escavo del Foro Romano fu l'isolamento del tempio, dietro alla cui area si può ora liberamente passare fra il templum Sacrae Urbis e la Basilica di Costantino (Ved. l'Appendice sugli scavi del Foro romano).163. Intorno alla colonna di Marco Aurelio è uscito un lavoro esauriente per cura del Petersen e del Domazewski con le contribuzioni del Mommsen e del Calderini: Die Marcussäule auf Piazza Colonna in Rom, herausgegeben von E. Petersen und von Domaszewski, mit Beiträgen von Mommsen und G. Calderini, Monaco, Bruckmann, 1896. Cfr. R. Schröder, Germanische Rechtssymbolik auf der Marcussäule ( Neue Heidelberger Jahrbücher, VIII, 2 pag. 248 e segg.).164. Ved. C. Reichel, De Isidis apud Romanos cultu. Berlino, Schade, 1849; L. Preller, Les dieux de l'ancienne Rome, trad. Dietz, II partie: Cultes égyptiens: Isis et Sérapis; G. Lafaye, Histoire du culte des divinités d'Alexandrie (Sérapis, Isis, Harpocrate et Anubis), Parigi, Thorin, 1884; A. Veyries, Les figures criophores dans l'art grec, l'art gréco-romain et l'art chrétien. Parigi, Thorin, 1884.165. Sulla Scuola di Pergamo ved. Gentile, Storia dell'arte greca, Milano, Hoepli, 1883, pag. 164 e seg.; cfr. Atlante, id., tav., e Collignon, Histoire de la sculpture grecque, II, pag. 500.166. In questo volume non si tien conto che delle statue e delle opere d'arte più specialmente romane, riservando lo studio degli originali e delle copie dei capilavori greci al volume della Storia dell'arte greca, che si sta preparando interamente rifatto sull'edizione del prof. Gentile, (Milano, Hoepli, 1883), e che ha già a sua illustrazione un Atlante di 149 tav. (Milano, Hoepli, 1892).167. Cicerone in Verr., IV, 2.168. Ved. Orazio, Satire, 3, 64: Insanit veteres statuas Damasippus emendo.169. Occorre il detto di Trimalcione: Meum intendere nulla pecunia vendo, e l'osservazione di Stazio circa la bravura del riconoscere l'autore d'un'opera anche senza essere segnato: Silvae, IV, 6: Artificium veteres cognoscere ductus — et non inscriptis auctorem reddere signis.170. Ved. Gentile, Storia dell'arte greca cit., pag. 145. Cfr. Atlante id., tav. CXV.171. Ved. Plinio, N. H., XXXVI, 155.172. Ved. Plinio, N. H., XXXVI, 41.173. Ved. Bernouilli, Römische Ikonographie, nell' Indice bibl. e in altri autori, p. es. in Camillo Serafini, L'arte nei ritratti della moneta romana repubblicana in Bull. Comm. arch. com. di Roma 1897, pag. 3 e segg., tav. I. Pei confronti con lo stile dei ritratti greci, cfr. R. Foerster, Das Porträt in der griech. Plastik. Kiel 1882.174. Ved. Boll. dell'Ist. di Corr. Arch. di Roma, 1863.175. Ved. Gentile, Storia dell'arte greca, Milano, Hoepli, 1883, pag. 136 e segg., con la bibliografia a pag. 137-138. Cfr. M. Collignon, Histoire de la sculpture grecque. Parigi, Didot, 1897, II vol. pag. 215 e segg.176. Intorno alla Colonna Trajana. Ved. Alph. Ciacconi, columnae trajanae orthographia, Roma, 1773; Froehner, La colonne trajane. Parigi, 1872-74; F. Boucher, Die Charakterköpfe der Trajanssäule, 1893; C. Cichorius, Die Reliefs der Traianssäule, herausgegeben und historisch erklärt. Berlino, Reimer, 1896. I Tafelband: Die Reliefs des ersten dakischen Krieges (gran folio 57 tavole in eliotipia) — II Text-band: Commentär dazu (8 gr).177. Intorno ai sepolcri, ai sarcofaghi, ai monumenti sepolcrali in genere ved. all'Indice generale, Bianchini, Bartoli e Belloni, inoltre G. P. Campana, Illustrazioni di due sepolcri del secolo di Augusto scoperti tra la via Latina e l'Appia presso la tomba degli Scipioni, Roma, 1852, 2ª ediz. Per i monumenti sepolcrali etruschi ved. nell' Indice generale Bindseil e Orioli.178. Per errore è stato considerato dal Gentile (tav. LXX cit., n. 2) quale imperatore in piedi uno schiavo giudeo con le mani legate, e fu per svista ripetuto l'errore nella mia Epigrafia latina. (Tav. LX, n. 2).179. Intorno ai camei e alle gemme, ved. King, Antique Gems, their origin, uses, Londra, 1872; Chabouillet, Catalogue général des camées et pierres gravées de la Bibliothèque impériale. Quanto all'arte della vetreria, non si può tenerne special conto se non nell'archeologia propriamente detta: cfr. pertanto Deville, Histoire de l'art de la verrerie dans l'antiquité, Parigi 1873.180. Ved. sui bronzi Guillaume, La sculpture en bronze, 1868; Friederichs, Kleiner kunst und Industrie in Alterthum, Berlino, 1871; Longpérier, Notices des bronzes antiques du Louvre, 1879. Vedi per l'argenteria e la gioielleria, Quaranta, Di quattordici vasi d'argento dissotterrati in Pompei, Napoli, 1835; Arneth, Die antiken Gold und Silbermonumente der k. k. Münz- und Antiken Cabinettes in Wien, 1850; Michaelis, Das Corsinische Silbergefäss, 1859; Wieseler, Hildesheimer Silberfund, Gottinga, 1869. Intorno ai tesori di Boscoreale presso Pompei, ved. Notizie degli scavi, 1894, pag. 385; 1895, pag. 109, 207, 235; 1896, pag. 204, 230; 1899, pagina 14. Uno studio a parte meriterebbe la ceramica, ma a chi non vuol dar polvere negli occhi occorre uscire dal tema per trattarne degnamente. Si confronti la letteratura nella parte greca e si aggiunga: Von Rohden, Die Terracotten von Pompei, Stuttgart, 1880.181. Lavori d'indole generale sulle monete, i quali però possono dare un concetto esatto delle varie classi di monete antiche, sono: Mommsen, Histoire de la monnaie romaine, Parigi, 1865-1875, 4 volumi; Lenormant, La Monnaie dans l'antiquité, 3 vol., 1879; Imhoof-Blumer, Portraitköpfe auf römischen Münzen der Republik und der Kaiserzeit, Lipsia, 1879; Froehner, Les medaillons de l'empire romain, Parigi, 1878; Ch. Robert, Études sur les medaillons contorniates; S. Ambrosoli, Manuale di numismatica, Milano, Hoepli, 1895, 2ª ediz., pag. 79-145; Fr. Gnecchi, Monete romane, Milano, Hoepli, 1896. Di quest'opera è stampata ora la 2ª ediz. di molto accresciuta, anzi interamente rifatta dall'autore. Importantissimi articoli sulla numismatica romana sono anche inseriti nella Rivista italiana di Numismatica, diretta dai cavv. E. e Fr. Gnecchi. — Sulle relazioni che la storia dell'arte e l'architettura hanno con la numismatica, ved. Donaldson, Architectura numismatica, Londra, 1859, ove sono citati gli autori precedenti. Cfr. per le considerazioni d'indole artistica S. Ricci, Intorno all'influenza dei tipi monetari greci su quelli della repubblica romana. Introduzione al lavoro: L'arte greca nella numismatica romana della Repubblica e dell'Impero. Estratto dalle Mémoires du Congrès international de Numismatique del 1900, pp. 170-204.182. Di Timomaco scrisse F. Brandstätter, Timomachos' Werke und Zeitalter, Lipsia, 1889.183. Plinio, H. N., XXXV, 20.184. Léon Renier-Perrot, Les peintures du Palatin, in Rev. Archéol., serie XXI e XXII; F. Schwechten, Wanddekoration aus den Kaiserpalästen auf dem Palatin in Rom, Berlino, 1878.185. Ved. Alte Denkmäler, Vol. I, 11; cfr. Sittl, Archeöl. d. Kunst, pag. 739, nota 10. Cfr. per gli affreschi nella villa “La Farnesina„ i Monumenti cit., vol. XI. tav. 44-48. XII, tav. 5-8; 17-34; cfr. Wand- und Deckenschmuch eines röm. Hauses aus der Zeit des Augustus. Berlino, 1891.186. Degne di nota sono le opere del Mau intorno ai dipinti e agli scavi in genere di Pompei, le quali sono nella maggior parte inserite nella Römische Abtheilung delle Mittheilungen des deutschen. Archäolog. Instituts. Vi è anche una guida archeologica di Pompei curata recentemente dal Mau. Cfr. Presuhn, Die pompejanischen Wanddekorationen. Lipsia, 1882.187. Ved. per Pompei: W. Helbig, Wandgemälde der von Vesuv verschutteten Städte Campaniens, Lipsia, 1868; O. Donner, Abhanlung über die antiken Wandmalereie in technischer Beziehung; ibidem, Appendice al libro precedente. Cfr. G. Boissier, Revue des deux mondes, ottobre, 1879; Fiorelli, Relazioni sugli scavi, dall'anno 1861 all'anno 1872; Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio. (Ved. Annali Ist. Corr. Arch. ). A. Mau, Pompeji in Leben und Kunst, Lipsia, Engelmann, 1900. Per le varie piante e sezioni di case pompeiane, ved. tav. 314, 315, 316 ( tav. 79-81 ).188. Ved. E. Petersen, I rilievi tondi dell'arco di Costantino. Mittheil. d. k. d. arch. Instit.: Röm. Abtheil. vol. IV (1889), pag. 314-339, tav. XII. Cfr. A. Monaci, Le sculture aureliane sull'arco di Costantino in Bull. Com. arch. di Roma, 1900, pag. 75 e segg.189. Ved. Gentile, Storia dell'arte greca, op. cit., pag 171, 189, 190-91.190. Sulle terme di Caracalla ved. Blouet, Restauration des thermes d'Antonin Caracalla. Parigi, 1828. Su quelle di Diocleziano ved. E. Paulin, Les thermes de Diocletien (Restauration des mon. ant.). Cfr. gli studi su altre terme, come p. es., su quelle di Civitavecchia: G. Torraca, Delle antiche terme taurine esistenti nel territorio di Civitavecchia. Roma. 1761; su quelle di Pisa: C. Lupi, Nuovi studi sulle antiche terme pisane. Pisa, 1885; per Pompei: Terme stabiane, in Nissen, Pompejanische studien. pag. 140 e segg. Ved. S. A. Iwanoff, Aus den Thermen des Caracalla. Mit Erlaüterungen von Chr. Hülsen. Berlino, 1891.191. Cfr. Fr. Cerasoli, Documenti inediti medievali circa le terme di Diocleziano e il Mausoleo di Augusto, in Bull. Comm. arch. comun. di Roma 1895, pag. 301 e segg.192. Cfr. C. F. Mazzanti, La scultura ornamentale romana nei bassi tempi, in Archivio Storico dell'arte, s. II, anno II, fasc. 1 e 2 p. 33 e segg.; fasc. 3, p. 161-185.193. Tutto questo periodo dell'arte in Italia, che dalla decadenza dell'arte perfetta in Roma si estende fino al Rinascimento, è ora trattato egregiamente dall'illustre prof. Venturi nel suo recentissimo libro La Storia dell'arte in Italia (Milano, Hoepli, 1901), di cui è uscito il primo volume, che giunge fino a Giustiniano, opera ricca di tavole e di illustrazioni. Sono già in corso di stampa il secondo volume, che tratterà del periodo Dal tempo dei Longobardi all'inizio dello stile nazionale, e il terzo: Dal secolo XIII alla fine del Trecento.194. Ved. Notizie degli Scavi di antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei. Roma, giugno 1900, pag. 220 e segg.195. Ved. tavola allegata alle Notizie degli Scavi citate, a pag. 220-221: Sacra Via et continentia aedificia; cfr. Atti dei Lincei, Memorie della classe di Scienze mor., Serie 5ª, vol. VIII.196. Ved. Reina, Triangolazione della città di Roma in Rivista di topografia e catasto. 1896.197. Ved. l'arch. Boni, in Notizie degli Scavi, cit., pag. 229.198. G. Tropea, La stele arcaica del Foro Romano, cronaca della discussione. III. Messina, tip. della Rivista di storia antica e scienze affini. 1900. Cfr. Parte Iª e IIª nella Rivista medesima, 1892.199. Ved. Notizie degli Scavi di Antichità comunicate alla Regia Accademia dei Lincei, maggio 1889, pag. 151 e segg.200. Ved. Nuova Antologia. 1 genn. 1900; cfr. 16 nov. 1900.201. Ved. Notizie degli scavi, aprile 1900, pag. 143 e segg.202. Il Pais ne discusse in varie riprese e recentemente nell'articolo: Le scoperte archeologiche e la buona fede scientifica inserito nella Rivista di storia antica e scienze affini di Messina; il Comparetti invece pubblica un lavoro a sè, intitolato: Iscrizione arcaica del Foro Romano. Firenze-Roma, Bencini. 1900.203. A scanso di dimenticanze, ved. la cronaca citata dal prof. Tropea in op. e luogo citati.204. Queste opinioni espressi già a suo tempo, nell'articolo di divulgazione dell' Almanacco italiano pel 1901, trattando delle Recenti scoperte archeologiche di Roma negli scavi del Foro Romano (ved. pag. 372 e segg.).205. Da un articolo sul Popolo Romano del 23 maggio scorso il prof. Tropea trae un riassunto dei capisaldi dell'opinione del Milani, mentre si attende la sua pubblicazione nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei e nella seconda puntata dei suoi Studî e materiali di Archeologia e Numismatica.206. Notizie degli Scavi d'antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei. Roma, maggio 1900, pag. 159 e segg.207. Ved. in Bollettino della Commiss. archeologica comun. di Roma del 1900. Cfr. anche il Gatteschi nell'Indice bibliografico delle opere speciali. Nota del Trascrittore