COMMEDIE DEL CINQUECENTO

A CURA DI IRENEO SANESI

VOLUME PRIMO

PROPRIETÁ LETTERARIA

GL'INGANNATI

DEGLI ACCADEMICI INTRONATI DI SIENA

RECITATORI DELLA COMEDIA

GHERARDO vecchio VIRGINIO vecchio CLEMENZIA balia LELIA fanciulla SPELA servo di Gherardo SCATIZZA servo di Virginio FLAMMINIO innamorato PASQUELLA fante di Gherardo ISABELLA fanciulla GIGLIO spagnuolo CRIVELLO servo di Flamminio Messer PIERO pedante FABRIZIO giovinetto figliuolo di Virginio STRAGUALCIA servo del pedante AGIATO oste FRULLA oste FANCIULLINA figliola della balia.

PROLOGO

Io vi veggio fin di qua, nobilissime donne, meravigliare di vedermivi cosí dinanzi in questo abito e, insieme, di questo apparecchio come se noi avessimo a farvi qualche comedia. Comedia non vi dovete pensare: ché, infin l'anno passato, voi poteste conoscere che l'Intronati avevano il capo ad altro che alle comedie; e poi vedeste, l'altro giorno, qual fusse intorno alle cose vostre l'animo loro e che non volevano piú vostra pratica né venirvi piú dietro, come quelli che non gli piaceva piú essere morsi, rimenati per bocca e tocchi fino al vivo da voi. E però abbruciarono, come voi vedeste, quelle cose che gli potevano far drizzare la fantasia e crescer l'appetito di voi e delle cose vostre. Ora vi voglio cacciar questa meraviglia del capo. Questi Intronati, a dirvi 'l vero (e crediatemi, ch'io gli ho sentiti), si dolgono strettamente d'essere entrati in questo farnetico ed hanno una gran paura che voi, come quelle che avete di che, non pigliate quella lor facenda per la punta di modo che, per l'avvenire, voi glie ne teniate la lingua e gli voltiate le spalle ogni volta che gli vedrete. E, per questo, m'hanno spinto qui per imbasciadore, oratore, legato, procuratore o poeta, pigliatel come v'entra meglio nella memoria. Io mi truovo il mandato ampio, in buona forma. Prestatemi la fede vostra; altrimenti gli è forza ch'io vel mostri, ché l'ho portato meco. Dico ch'io so' qui a posta per far questa pace e rappiccarvi insieme con loro, se ne sète contente; ché, a dirvi il vero, le lor facende, senza voi, son fredde e presso che perdute e, se non ci si ripara, se ne vanno in un zero. Fatelo, eh! fatelo, donne; ché ve ne metterá bene. Voi conoscete pur la natura loro: che, se voi gli volgete una volta gli occhi un poco pietosi, e' si lasceranno maneggiare, portar per bocca (da voi, però, non da altri, ché non starebbon forti) e straziare, toccar nel vivo con le parole, coi fatti, star di sopra a ogni cosa e esser sempre le prime voi. O che volete? sète contente? faretelo o no?… Voi non rispondete? Non lo negando, questo è buon segno. Mirate s'elli hanno voglia di farlo, questo accordo! che, quasi in tre dí, hanno fatto una comedia; e oggi ve la voglion far vedere e udire, se voi vorrete. Ecco che voi sapete ora quel che vuol dire questo apparecchio, chi io sono e quello ch'io vi faccio d'intorno. Questa comedia, per quanto io ne abbia inteso, la chiamano L'ingannati: non perché fusseno mai ingannati da voi, no, ché mai non l'ingannaste e vi conoscan pur troppo bene (ma ben gli avete sforzati sempre né se ne son possuti guardar tanto che basti); ma la chiamano cosí perché poche persone intervengono nella favola che, nel compimento, non si trovino ingannate. Ma e' ci son degli inganni, tra gli altri, d'una certa sorte che volesse Iddio, per il mal ch'io vi voglio, che voi fusse ingannate spesso cosí, voi, ed io fussi l'ingannatore! ché io non mi curarei di rimaner sotto all'ingannato. La favola è nuova e non altronde cavata che della loro industriosa zucca onde si cavorno anco, la notte di beffana, le sorti vostre; per le quali vi parve che l'Intronati vi mordesser tanto in su quel fatto del dichiarare e diceste che gli avevan cosí mala lingua. Ma e' si par ben che voi non l'avete assaggiate; ché forse non direste cosí, ma gli difendereste e terreste la parte loro da buone compagne in tutti quei luochi che bisognasse. So ben che non ci mancherá chi dica che questa è una insalata di mescolanza. A questi tali io non voglio, io, rispondere, perché, come ella si sia, gli basta ch'ella piaccia a voi sole: alle quali essi, con ogni loro studio, si sono ingegnati sempre di piacere principalmente; e questo pensano che gli verrá fatto di leggero e maggiormente se ce n'è tra voi delle pregne a cui soglion spesso piacere, non pur di questi cotali spettacoli, ma i carboni pesti, la cocitura dell'accia, la polver dei mattoni, i calcinacci e cosí fatte cose. Agli uomini non importa ch'ella piaccia o no, perché l'Intronati hanno ordinato un modo che nissun di loro la potrá né vedere né udire, se giá non son ciechi. E però, se qualche sacciuto maligno, tirato dal desiderio che gli ha d'apontarci, avesse una gran voglia di vederla o udirla, cavisi gli occhi perché altrimenti non la corrá. Io so che vi parrá strano che i ciechi la vegghino. E pur sarà vero; e intendarete come, se voi arete tanta pazienzia ch'io vel mostri.

Quanto ha di bello il mondo, senza dubbio, è oggi in Siena; e quanto ha di bel Siena si truova al presente in questa sala. Questo non si può negare; perché quelle che non ci sono non poss'io credere che sieno né belle né appresso, poi ch'elle fuggono il parragon di voi altre. Come volete voi, adunque, che costoro stieno a mirar scene o comedie o sentino o vegghino cosa che noi faciamo o diciamo, essendoli voi dinanzi? Che piú bel giuoco, che piú bello spettaculo, che cosa piú piacevole o piú vaga si può veder di voi? Certo, nissuna. Ora eccovi mostro come gli uomini non vedranno né udiranno questa comedia, se non son ciechi; che giá vi pareva ch'io avesse detta cosí gran pappolata. Ma voi, donne, la vedrete e odirete benissimo perché, in vero, non vi conosciamo tanto cortesi che vi siate per perdere o uscir di voi stesse nel mirarci. Né si pensin questi che fanno tanto il bello, questi acconci, questi spelatelli che, per aver una bella barba, per calzar bene uno stivale o per fare una riverenzia di beretta accompagnata con un sospiro che si senta fin da Fonte Becci, voi abbiate a lasciar questa cosa per attendere a loro: ché ne restarebbeno ingannati e cosí torrebbeno il nome alla nostra comedia. E' potrebbe bene essere che uno spagnuolo, che voi vedrete venire, vi rompesse un poco la fantasia e che non pigliasse cosí bene la nostra materia. Ma io v'insegnarò un bel colpo. Non vi curate di lui, ché, non avendo voi la lingua sua, non vi potete intendere insieme; e attendete a questi, che son tutti taliani: e, prestandoli voi la vostra attenzione, non perderete cosa che ci si dica e sará bello e fatto. Ma, poi ch'io veggio questi uomini cosí intenti a mirarvi che non sentan ciò ch'io mi dica, mi giova di ragionar con voi un poco in sul sodo e domesticamente. È possibil però, ingrate che voi sète, che questi Intronati s'abbin sempre a lamentar di voi e che, sempre, in ogni luoco, vi s'abbi a ritoccare il medesimo e che le tante fatiche che duran per voi e 'l tanto studio che vi mettano intorno per lodarvi non vi possa piegare a fargli, un tratto, un piacere? Oh! Ponetevi una volta giú, col nome di Dio; e chiamateli tutti ad uno ad uno; e vogliate intendere quel che dicono e quel che cercano da voi: ché so certo che quel che vogliono è una frascaria e voi ne sète tanto copiose e ricche che, senza perdern'oncia, ne potreste dare, non solo a loro, ma a tutta questa cittá. Ditemi, per vostra fé: che credete però che voglino? E' non cercano altro da voi che la grazia vostra; e che vogliate conoscere gli ingegni loro, chi l'ha grosso e chi l'ha sottile; e diciate:—Questo mi piace—e—Questo non mi piace,—acciò che quelli che non v'aggradaranno possin volgere il pensiero altrove e attender dietro ad altro studio. Ma gli è una gran cosa che voi gli vogliate tener sempre in questo cimbello e non vogliate risolvervi, un tratto, a questo benedetto «sí»! Sapete quel ch'io vi vo' dire? Guardatevi di non li fare, un tratto, disperar da vero; e tenete a mente ben le mie parole, ch'io so quel ch'io me dico. Voi ne li perderete, una volta, a fatto; e non gli potrete poi tanto andare a versi che ci sia ordine a porvi riparo; e ve ne dorrete, quando non sarete piú a tempo. E tenete questo per fermo: che non si sta sempre a un modo. E questo basti. Oh! Or ch'io mi ricordo: non v'aspettate altro argomento perché quello che ve lo aveva a fare non è in punto. Fatevi senza, per ora. E bastivi sapere solamente che questa cittá è Modana, per questo anno, e le persone che intervengono nella favola sono, i piú, modanesi. Però, se facessino qualche errore nel muover della lingua, non sará gran fatto perché non l'hanno ancora cosí ben presa. L'altre cose, io penso che voi siate cosí capaci che la materia v'entrará per se stessa senza troppa fatica. Due ammaestramenti sopra tutto ne cavarete: quanto possa il caso e la buona fortuna nelle cose d'amore; e quanto, in quelle, vaglia una longa pazienzia accompagnata da buon consiglio. Il che due fanciulle, con il lor saper, vi mostraranno; il quale se, seguendolo, poi vi giovará, arete questo obligo con esso noi. Questi uomini, se non aranno piacere delle cose nostre, assai ci aranno da ringraziare, ché, per quattr'ore al manco, gli daremo commoditá di poter contemplare le vostre divine bellezze. Ma, perch'io veggo duo vecchi ch'escon fuore, mi partirò, benché mal volentieri, da mirar sí belle cose; ancor ch'io penso che vi tornarò a vedere. Addio tutti.

ATTO I

SCENA I

GHERARDO e VIRGINIO vecchi.

GHERARDO. Fa' adunque, Virginio, se desideri in questa cosa farmi piacere, come hai detto, che quanto piú presto sia possibile si faccino queste benedette nozze; e cavami una volta di cosí intrigato laberinto nel quale non so come disavedutamente son corso. E, se pur qualche cosa ti tenesse, come il non aver danari per le veste (ché ben so che 'l tutto perdesti nel miserabil sacco di Roma) e paramenti per la casa, o per aventura ti trovasse male agiato di proveder per le nozze, dimelo senza rispetto: ché a tutto provederò io; né mi parrá fatica, pur che questa cosa segua un mese prima, per cavarmi questa voglia, spendere un dieci scudi piú, ché, per grazia di Dio, so dove sono. E ben cognosci tu che ormai niun di noi è piú erba di marzo, ma sí ben di maggio e forse… E quanto piú si va in lá piú si perde tempo. Né ti maravigliar, Virginio, che tanto te ne importuni, ch'io ti do la mia fede che, perch'io sono entrato in questa girandola, non dormo la metá della notte; e, che sia vero, guarda a che ora mi son levato questa mattina e sappi che, prima ch'io venissi a te per non destarti, avevo udita la prima messa a duomo. E, se forse avessi mutata fantasia e paresseti che con gli anni di tua figliuola non s'affacesseno i miei, che giá sono agli «anta» e forse gli passano, dimmelo arditamente: perché a tutto provederò, voltando i pensieri altrove; e te e me liberarò, in un punto, di fastidio, ché ben sai s'io son ricerco d'imparentarmi con altri.

VIRGINIO. Né questo né altro rispetto mi terrebbe, Gherardo, se fusse in arbitrio mio di poterti fare oggi sposar mia figliuola, ch'io non lo facesse; e, avenga che quasi ogni mia facultá perdesse nel sacco (ed insieme Fabrizio, quel mio benedetto figliuolo), per grazia di Dio, mi è rimaso ancor tanto di patrimonio ch'io spero poter vestire e far le nozze di mia figliuola senza gravare alcun che mi sovenga. Né pensar ch'io mi sia per mutare di quel ch'io t'ho promesso, quando la fanciulla se ne contenti; ché ben sai tu che non sta bene a mercatanti mancar di quello ch'una volta promettono.

GHERARDO. Cotesta è una cosa, Virginio, che piú si sente in parole che non si truova in fatti fra' mercatanti de' nostri tempi. Ben credo che non sia tu di quelli. Non di meno il vedermi menar d'oggi in domane e di domane nell'altro mi fa sospettar non so che; né ti cognosco io per cosí da poco che, quando vorrai, non facci far tua figliuola a tuo modo.

VIRGINIO. Ti dirò. Tu sai che m'accadde l'andare a Bologna per saldar la ragione d'un traffico che aveamo insieme messer Buonaparte Ghisilieri, il cavalier da Casio ed io. E perch'io sono in casa solo, ed abitavo in villa, non volsi lasciar mia figliuola in man di fantesche; ma la mandai nel monister di San Crescenzio, a suor Camilla sua zia: ove è ancora, ché sai ch'io tornai iersera. Ora io ho mandato il famiglio a dirgli che la torni.

GHERARDO. Sai tu certo ch'ella sia nel monistero e ch'ella non sia altrove?

VIRGINIO. Come s'io il so? dove vuo' tu ch'ella sia? che domanda è questa?

GHERARDO. Dirotti. Son stato certe volte lá per mie facende ed honne domandato; e mai non l'ho potuta vedere; e alcune mi hanno detto ch'ella non v'è.

VIRGINIO. Gli è perché quelle buone madri la vorrebon far monaca per redare, dopo la morte mia, questo poco di resto. Ma non per questo gli riuscirebbe il pensiero, ch'io non son però sí vecchio ch'io non sia atto ad avere un par di figliuoli, quando io tolga moglie.

GHERARDO. Vecchio? Oh! Ti prometto ch'io mi sento cosí bene in gambe ora come quando io ero di vinticinque anni; e massimamente la mattina, prima ch'io pisci. E, s'io ho questa barba bianca, nella coda son cosí verde come il poeta toscano. E non vorrei che niun di questi sbarbatelli, che van facendo il bravo per Modena col pennacchio ritto alla guelfa, con la spada alla coscia, col pugnal di dietro, con la nappa di seta, mi vincesseno in cosa nissuna, eccetto che nel correre.

VIRGINIO. Tu hai buono animo. Non so come le forze riusciranno.

GHERARDO. Vorrò che tu ne domandi Lelia, come sará, la prima notte, dormita con me.

VIRGINIO. Or, col nome di Dio, ti bisogna avergli discrezione, perché l'è pure ancor fanciulla e non è buono, in principio, d'esser cosí furioso.

GHERARDO. Che tempo ha?

VIRGINIO. Quando fu il sacco di Roma, ch'ella ed io fumo prigioni di que' cani, finiva tredici anni.

GHERARDO. Gli è appunto il mio bisogno. Io non la vorrei né piú giovane né piú vecchia. Io ho le piú belle veste e' piú bei vezzi e le piú belle collane e' piú bei finimenti da donne che uom di Modena.

VIRGINIO. Sia con Dio. Son contento d'ogni suo bene e tuo.

GHERARDO. Sollecita.

VIRGINIO. Della dote, quel ch'è detto è detto.

GHERARDO. Credi ch'io mi mutassi? Addio.

VIRGINIO. Va' in buona ora. Certo, che ecco la sua balia: che mi torrá fatica di mandarla a chiamare perché accompagni in qua Lelia.

SCENA II

CLEMENZIA balia e VIRGINIO vecchio.

CLEMENZIA. Io non so quel che si vorrá indovinare che tutte le mie galline hanno fatto, questa mattina, sí fatto il cicalare che pareva che mi volesser metter la casa a romore o arricchirmi d'uova. Qualche nuova cosa m'interverrá oggi; ché non mi fanno mai questa cantèppola che, quel dí, non senta o non m'avvenga qualche cosa mal pensata.

VIRGINIO. Costei debbe testé parlar con gli angeli o col beato padre guardiano di Santo Francesco.

CLEMENZIA. Ed un'altra cosa m'è avvenuta, che anco di questo non so che me ne indovinare: ben ch'el mio confessore mi dica ch'io fo male a por mente a queste cose e dar fede alli augúri.

VIRGINIO. Che fai, che tu parli cosí drento a te? Egli ha pur passata la befania.

CLEMENZIA. Oh! Buon dí, Virginio. Se Dio m'aiuti, ch'io mi venivo a stare un pezzo con voi. Ma voi vi sète levato molto per tempo. Voi siate il ben venuto.

VIRGINIO. Che dicevi cosí fra' denti? Pensavi forse di cavarmi di mano qualche staiuol di grano o qualche boccal d'oglio o qualche pezzo di lardo, come è tua usanza?

CLEMENZIA. Sí certo! Oh che liberalaccio da cavargli di mano! E forse che fa massarizia pei suoi figliuoli?

VIRGINIO. Che dicevi adunque?

CLEMENZIA. Dicevo ch'io non sapevo pensare quel che si volesse dire che una gattina bella, ch'io ho, che l'ho tenuta quindici dí perduta, questa mattina è tornata; e, poi ch'ella ebbe preso un topino nel mio camarin buio, scherzando con esso, mi riversciò un fiasco di tribiano che me lo aveva dato il predicator di San Francesco perch'io gli fo le bocate.

VIRGINIO. Cotesto è segno di nozze. Ma tu vuoi dir ch'io te ne desse un altro, è vero?

CLEMENZIA. Cotesto è vero.

VIRGINIO. Or vedi s'io so' indivino! Ma che è di Lelia, la tua allieva?

CLEMENZIA. Eh! povera figliuola, quanto era meglio ch'ella non fusse mai nata!

VIRGINIO. Perché?

CLEMENZIA. Perché, dici, eh? Gherardo Foiani non va dicendo per tutto che gli è sua moglie e che gli è fatto ogni cosa?

VIRGINIO. Dice il vero. Perché? Non ti par forse ch'ella sia bene allogata, in una casa onorevole, a un ricco, ben fornito di tutti i beni, senza avere niuno in casa, che non avrá a combattere né con suociara né con nuora né con cognate che sempre stanno come cani e gatte? E trattaralla da figliuola.

CLEMENZIA. È cotesto il male: ché le giovani vogliono essere trattate da mogli e non da figliuole; e voglion chi le strazi, chi le morda e chi l'accenci ora per un verso e ora per un altro, e non chi le tratti da figliuole.

VIRGINIO. Tu credi che tutte le donne sien come te? ché sai che ci conosciamo. Ma e' non è cosí; benché Gherardo ha un buono animo di trattarla da moglie.

CLEMENZIA. E come, che ha degli anni passati cinquanta?

VIRGINIO. Ch'emporta cotesto? Io so' pur quasi al medesimo; e tu sai pur s'io son buon giostrante o no.

CLEMENZIA. Oh! De' par vostri se ne trovan pochi. Ma, s'io credesse che voi glie la desse, prima l'affogarei.

VIRGINIO. Clemenzia, io perdei ciò ch'io avevo. Ora mi bisogna fare il meglio ch'io posso. Se Fabrizio, un dí, si trovasse ed io avesse dato ogni cosa a costei, si morrebbe di fame; che non vorrei. Ora io la marito a Gherardo con condizione che, se Fabrizio non si truova infra quattro anni, abbi mille fiorini di dote; se ritornasse, ne abbi aver solamente dugento; e, del resto, la dota egli.

CLEMENZIA. Povera figliuola! So che, se la fará a mio modo…

VIRGINIO. Che n'è? Quant'ha che tu non l'hai veduta?

CLEMENZIA. Son piú di quindici giorni. Oggi volevo andarla a vedere.

VIRGINIO. Intendo che quelle monache la voglion far monaca e dubito che non gli abbin messo qualche grillo nel capo, come è lor costume. Va' fin lá, tu, e digli da parte mia che ella se ne venga a casa.

CLEMENZIA. Sapete? Vorrei che mi prestasse due carlini per comprare una soma di legna, ché non n'ho stecco.

VIRGINIO. Diavolo, empiela tu! Orsú! Va', ché te le comprarò io.

CLEMENZIA. Voglio andare prima alla messa.

SCENA III

LELIA da ragazzo chiamata per finto nome FABIO e CLEMENZIA balia.

LELIA. Gli è pure un grande ardire il mio, quando io 'l considero, che, conoscendo i disonesti costumi di questa scorretta gioventú modanese, mi metta sola in questa ora a uscir di casa! Oh come mi starebbe bene che qualcun di questi gioveni scapestrati mi pigliasse per forza e, tirandomi in qualche casa, volesse chiarirsi s'io son maschio o femina! E cosí m'insegnasseno a uscir di casa, cosí di buona ora. Ma di tutto questo è cagione l'amore ch'io porto a questo ingrato e a questo crudel di Flamminio. Oh che sorte è la mia! Amo chi m'ha in odio, chi sempre mi biasma; servo chi non mi conosce; ed aiutolo, per piú dispetto, ad amare un'altra (che, quando si dirá, nissun sará che lo creda) senza altra speranza che di poter saziare questi occhi di vederlo, un dí, a mio modo. Ed infino a qui mi è andato assai ben fatto ogni cosa. Ma, da ora innanzi, come farò? che partito ha da essere il mio? Mio padre è tornato. Flamminio è venuto ad abitar nella cittá. E qui non poss'io stare senza esser conosciuta: il che se avviene, io resto vituperata per sempre e divento una favola di tutta questa cittá. E, per questo, sono uscita fuora a questa ora; per consigliarmi con la mia balia, che da la finestra ho veduta venire in qua, ed insieme con lei pigliarci quel partito che giudicaremo il migliore. Ma prima vo' vedere s'ella in questo abito mi conosce.

CLEMENZIA. In buona fé, che Flamminio debbe essere tornato a stare in Modena, ch'io veggio l'uscio suo aperto. Oh! Se Lelia lo sapesse, gli parrebbe mill'anni di tornare a casa di suo padre. Ma chi è questo fraschetta che tante volte m'attraversa la strada, questa mattina? Ché pur mi ti metti fra' piei? ché non mi ti levi dinanzi? ché pur ti vai attorniando? che vuoi da me? Se tu sapesse come i tuoi pari mi piacciono…

LELIA. Dio vi dia il buon dí, mona Scrocca-il-fuso.

CLEMENZIA. Va'. Dállo pure a chi tu debbi aver dato la buona notte.

LELIA. Se ad altri ho data la buona notte, a voi darò il buon dí, se lo vorrete.

CLEMENZIA. Non mi rompare il capo, ché tu mi faresti, questa mattina… ti so dir io.

LELIA. Sète forse aspettata dal guardian di San Francesco? o pure andate a trovar fra Cipollone?

CLEMENZIA. Doh! che te venga la febre ben ora! Che hai a cercar tu i fatti miei né dov'io vo né dov'io stia? che guardiano? che fra Cipollone?

LELIA. Oh! Non v'adirate, mona Molto-mena-e-poco-fila.

CLEMENZIA. Per certo, io conosco costui; e, non so dove, mi pare averlo veduto mille volte. Dimmi, ragazzo: e dove mi conosci tu, che vuoi saper tanto delle cose mie? Levati un poco questa cappa dal volto.

LELIA. Orsú! Fai vista di non mi conoscere, eh?

CLEMENZIA. Se stai nascosto, né io né altri ti conoscerá.

LELIA. Tirati un poco piú in qua.

CLEMENZIA. Ove?

LELIA. Piú in qua. Ora cognoscimi?

CLEMENZIA. Se' tu forse Lelia? Dolente a la mia vita! Sciagurata a me! Sí, che gli è essa. Oimè! Che vuol dir questo, figliuola mia?

LELIA. Di' piano. Tu mi pari una pazza, a me. Io m'andarò con Dio, se tu gridi.

CLEMENZIA. Parti forse che si vergogni? Saresti mai diventata femina del mondo?

LELIA. Sí, che io son del mondo. Quante femine hai tu vedute fuor del mondo? Io, per me, non ci fu' mai, ch'io mi ricordi.

CLEMENZIA. Adunque, hai tu perduto il nome di vergine?

LELIA. Il nome no, ch'io sappi, e massimamente in questa terra. Del resto si vuol domandarne gli spagnuoli che mi tenner prigiona a Roma.

CLEMENZIA. Questo è l'onor che tu fai a tuo padre, a la tua casa, a te stessa ed a me che t'ho allevata? che ho voglia di scannarti con le mie mani. Entrami innanzi, veh! ch'io non voglio che tu sia piú veduta in questo abito.

LELIA. Oh! Abbi un poca di pazienzia, se tu vuoi.

CLEMENZIA. O non ti vergogni d'esser veduta cosí?

LELIA. So' io forse la prima? N'ho vedute a Roma le centinaia. E, in questa terra, quante ve ne sono che, ogni notte, vanno in questo abito ai fatti loro!

CLEMENZIA. Coteste son ribalde.

LELIA. Oh! Fra tante ribalde non ne può andare una buona?

CLEMENZIA. Io vo' saper perché tu vi vai e perché sei uscita del monistero. Oh! Se tuo padre il sapesse, non t'uccidarebbe, povara te?

LELIA. Mi cavarebbe d'affanni. Tu credi forse ch'io stimi la vita un gran che?

CLEMENZIA. Perché vai cosí? Dimmelo.

LELIA. Se m'ascolti, io tel dirò; e, a questo modo, intenderai quanta sia la disgrazia mia e la cagion per ch'io vada in questo abito fuor del monistero e quel ch'io voglio che in questa cosa tu faccia. Ma tirati piú in qua: ché, se alcun passasse, non mi conoscesse, per vedermi ragionar con teco.

CLEMENZIA. Tu mi fai consumare. Di' presto, ch'io morrò disperata. Oimè!

LELIA. Sai che, dopo il miserabil sacco di Roma, mio padre, perduta ogni cosa e, insieme con la robba, Fabrizio mio fratello, per non restar solo in casa, mi tolse dai servizi della signora marchesana con la quale prima m'aveva posta; e, costretti dalla necessitá, ce ne tornamo a Modana in casa nostra per fuggir quella fortuna ed a viver di quel poco che avevamo. E sai che, per esser mio padre tenuto amico del conte Guido Rangone, non era molto ben veduto da alcuni.

CLEMENZIA. Perché mi dici tu quel ch'io so meglio di te? E so che, per questa cagion, andaste a star di fuore al vostro podere del Fontanile; ed io ti feci compagnia.

LELIA. Ben dici. Sai anco quanto, in que' tempi, fu aspra e dura la mia vita e, non pur lontana dai pensieri amorosi, ma quasi da ogni pensiero umano: pensando che, per essere io stata in mano di soldati, che ognuno m'aditasse; né credevo poter vivere sí onestamente che bastasse a far che la gente non avesse che dire. E tu 'l sai, ché tante volte me ne gridasti e mi confortasti a tener vita piú allegra.

CLEMENZIA. Se io lo so, perché mel dici? Segui.

LELIA. Perché, se questo non t'avesse ridetto, non potresti saper quel che segue. Avvenne che, in que' tempi, Flamminio Carandini, per esser de la parte che noi, prese stretta amicizia con mio padre; e, ogni giorno, ogni giorno, veniva in casa; e, alcuna volta, molto segretamente mi mirava, poi, sospirando, ancora abbassava gli occhi. E fusti cagion tu di farmene accorgere. A me cominciorono a piacere i suoi costumi, i suoi ragionamenti e i suoi modi molto piú che da principio non facevano; ma non però pensavo ad amore. Ma, durando la pratica del suo venire in casa, ed ora uno atto ed ora un segno amoroso facendomi, sospirando, sollecitando, mirandomi, m'accorsi che costui era preso di me non poco: tal che io, che non avevo mai piú provato amore, parendomi egli degno dov'io potesse porre i mie' pensieri, m'invaghii sí fieramente che altro ben non aveva che di vederlo.

CLEMENZIA. Tutto questo ancor sapevo.

LELIA. Sai ancor che, essendo partiti li soldati di Roma, volse mio padre tornar lá per veder se niente del nostro fusse salvato ma, molto piú, per veder se nuova alcuna sentiva del mio fratello; e, per non lassarmi sola, mi mandò a stare alla Mirandola, fin che tornava, con la zia Giovanna. Quanto mal volentieri mi separasse dal mio Flamminio tu lo puoi dire, che tante volte me ne asciugasti le lagrime! Alla Mirandola stei uno anno. Poi, essendo tornato mio padre, sai ch'io tornai a Modena e piú che prima innamorata di colui che, essendo il mio primo amore, tanto mi era piaciuto, pensandomi che ancor egli m'amasse come prima aveva mostrato.

CLEMENZIA. Pazzarella! E quanti modanesi hai tu trovati che durin d'amare una donna sola un anno e che un mese non dien la berta a questa e un mese a quell'altra?

LELIA. Trovailo che tanto apponto si ricordava di me quanto se mai veduta non m'avesse; e, ch'è peggio, ch'ogni suo animo, ogni sua cura ha posta in acquistar l'amor d'Isabella di Gherardo Foiani come quella che, oltre ch'è assai bella, è unica a suo padre, se quel vecchio pazzo non piglia moglie e faccia altri figliuoli.

CLEMENZIA. Egli si crede certo d'aver te; e dice che tuo padre te gli ha promesso. Ma questo che tu m'hai detto non fa a proposito del tuo andar vestita da maschio e del tuo essere uscita del monistero.

LELIA. Se mi lassi dire, vedrai che gli è a proposito. Ma, rispondendo a quel di prima, dico che me non averá egli. Tornato che fu mio padre da Roma, gli accadde il cavalcare a Bologna per certi intrighi di conti; e, non volendo io piú tornare alla Mirandola, mi messe nel monistero di San Crescenzio in compagnia di suor Amabile, nostra parente, fin che tornasse, che si pensò di tornar presto.

CLEMENZIA. Tutto questo sapevo.

LELIA. Ivi stando, né d'altro che d'amor ragionare sentendo a quelle reverende madri del monistero, m'assicurai ancor io di scoprire il mio amore a suor Amabile de' Cortesi. Ella, che ebbe pietá di me, non finò mai ch'ella fece venire piú volte Flamminio a parlar seco e con altre acciò che io, in questo tempo, che nascosta dopo quelle tende mi stava, pascesse gli occhi di vederlo e l'orecchie d'udirlo; che era il maggior desiderio ch'io avesse. Venendovi un dí, fra gli altri, sentii che molto si rammaricò d'un suo allievo che morto gli era e molto diceva delle lode e ben servire suo; soggiungendo che, se un simile ne trovasse, si terrebbe piú contento del mondo e che gli porrebbe in mano quanto teneva.

CLEMENZIA. Meschina a me! Io dubito che questo ragazzo non mi facci vivere scontenta.

LELIA. Subbito mi corse nell'animo di voler provare se a me potesse venir fatto d'esser questo aventuroso ragazzo (e, partito ch'ei si fu, conferii questo pensiero con suor Amabile) e, poi che Flamminio non stava per stanza a Modena, veder se seco per servidore acconciar mi potesse.

CLEMENZIA. Nol diss'io che questo ragazzo… Disfatta a me!

LELIA. Ella me ne confortò; e amaestrommi del modo ch'io avevo a tenere; e accommodommi di certi panni che nuovamente s'aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l'altre fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi. E cosí, una mattina per tempo, me ne uscii in questo abito fuor del monistero che, per esser fuor della terra come gli è, mi die' molto animo e fu molto a proposito. E anda'mene al palazzo ove Flamminio abitava, che sai che non è molto discosto dal monistero; ed ivi mi fermai tanto che gli uscí fuora. E, in questo, non posso se non lodarmi della fortuna perché subito Flamminio mi voltò gli occhi adosso e molto cortesemente mi domandò se alcuna cosa domandavo e d'onde io era.

CLEMENZIA. È possibil che tu non cadesse morta della vergogna?

LELIA. Anzi, aiutandomi Amore, francamente gli risposi ch'io ero romano che, per essere rimasto povero, andavo cercando mia ventura. Mirommi piú volte dal capo ai piedi tal che quasi ebbi paura che non mi cognoscesse; poi mi disse che, se mi fusse piaciuto di star seco, mi terrebbe volentieri e mi trattaria bene e da gentile uomo. Io, pur vergognandomi un poco, gli risposi di sí.

CLEMENZIA. Io non vorrei esser nata, sentendoti. E che util ne vedesti, per te, di far questa pazzia?

LELIA. Che utile? Part'egli che poco contento sia d'una innamorata veder di continuo il suo signore, parlargli, toccarlo, intendere i suoi segreti, veder le pratiche che gli ha, ragionar seco ed esser sicura, almeno, che, se tu nol godi, altri nol gode?

CLEMENZIA. Queste son cose da pazzarelle; e non è altro ch'agiugner legna al fuoco, se non sei certa che, facendolo, piaccino al tuo amante. E di che 'l servi tu?

LELIA. Alla tavola, alla camera. E conosco essergli venuta, in questi quindici dí ch'io l'ho servito, in tanta grazia che, se in tanta gli fusse nel mio vero abito, beata a me!

CLEMENZIA. Dimmi un poco: e dove dormi tu?

LELIA. In una sua anticamara, sola.

CLEMENZIA. Se, una notte, tentato dalla maladetta tentazione, ti chiamasse ché tu dormisse con lui, come andarebbe?

LELIA. Io non voglio pensare al mal prima che venga. Quando cotesto fusse, ci pensarei e risolvereimi.

CLEMENZIA. Che dirá la gente, quando questa cosa si sappia, cattivella che tu sei?

LELIA. Chi lo dirá, se non lo dici tu? Or quello ch'io vorrei che tu facesse è questo (perch'io ho veduto che mio padre tornò iersera e dubito che non mandi per me): che tu facesse sí che, fra quattro o cinque giorni, non ci mandasse; o gli desse ad intendere ch'io sono andata con suor Amabile a Roverino e, fra questo tempo, tornarò.

CLEMENZIA. E questo perché?

LELIA. Ti dirò. Flamminio, com'io ti dissi poco fa, è innamorato d'Isabella Foiani e spesso spesso mi manda a lei con lettere e con imbasciate. Ella, credendo ch'io sia maschio, si è sí pazzamente innamorata di me che mi fa le maggior carezze del mondo; ed io fingo di non volerla amare, se non fa sí che Flamminio si levi dal suo amore; e ho giá condotta la cosa a fine. Spero, fra tre o quattro giorni, che sará fatto e che egli la lasciará.

CLEMENZIA. Dico che tuo padre m'ha detto ch'io venga per te; e ch'io voglio che tu te ne venga a casa mia, ché mandarò pe' tuo' panni; e non voglio che sia veduta cosí, se non che dirò ogni cosa a tuo padre.

LELIA. Tu farai ch'io andarò in luogo che mai piú mi vedrete né tu né egli. Fa' a mio modo, se tu vuoi. Ma non ti posso finir di dire ogni cosa. Sento che Flamminio mi chiama. Signore! Aspettami fra un'ora in casa, ché ti verrò a trovare. E sai? abbi avertenzia che, domandandomi, mi chiami Fabio degli Alberini, ché cosí mi fo chiamare; sí che non errare. Vengo, signore! Addio.

CLEMENZIA. In buona fé, che costei ha veduto Gherardo che viene in qua; e però s'è fuggita. Or che farò io? Di costei non è cosa da dire al padre e non è da lasciarla star qui. Tacerò fin che di nuovo gli parli.

SCENA IV

GHERARDO vecchio, SPELA suo servo e CLEMENZIA balia.

GHERARDO. Se Virginio fa quanto m'ha promesso, io mi vo' dare il piú bel tempo ch'uom di Modena. Che ne dici, Spela? Non farò bene?

SPELA. Credo che molto meglio fareste a far qualche bene ai vostri nepoti, che stentano, e a me, che v'ho servito tanto tempo e non mi so' pure avanzato un par di scarpe; ch'io ho paura che questa moglie non vi mandi qui o che la vi faccia… So ben io.

GHERARDO. Vorrò che tu vegga s'ella si terrá ben pagata da me.

SPELA. Credolo: ché, dove un altro la pagarebbe di grossi e di cinquine, e voi la pagarete di doppioni e di piccioli.

GHERARDO. Ecco la sua balia. Taci, ch'io voglio astutamente domandare che è di Lelia.

CLEMENZIA. Oh che bel giglio d'orto da voler moglie sí tenera! Credi che fusse ben condotta, quella povera figliuola, nelle man di questo vecchio rantacoso? Alla croce di Dio, che io la strozzerei prima che voler ch'ella fusse data a questo vieto, muffato, baboso, rancido, moccioso. Io ne voglio un poco di pastura. Lassamigli accostare. Dio vi dia il buon dí e la buona mattina, Gherardo. Voi mi parete, questa mattina, un cherubino.

GHERARDO. E a te ne dia centomila e altri tanti ducati.

SPELA. Cotesti starebbon meglio a me.

GHERARDO. O Spela, quanto sarei stato contento s'io fusse costei!

SPELA. Perché avreste, forse, provati molti mariti, ove non avete provato se non una moglie? O pur il dite per altro?

CLEMENZIA. E quanti mariti ho io provati, Spela? che Dio te faci spelar da le mosche! Hai tu forse invidia di non esser stato un di quelli?

SPELA. Sí, per Dio! ché la gioia è bella, almanco.

GHERARDO. Tace, bestia, ché non lo dico per cotesto, io, no.

SPELA. Perché lo diceste adunque?

GHERARDO. Perché arei tante volte abbraciata, baciata e tenuta in collo la mia Lelia dolce, di zuccaro, d'oro, di latte, di rose, di non so che mi dire.

SPELA. Oh! ohu! Padrone, andiamo a casa. Sú! presto!

GHERARDO. Perché?

SPELA. Voi avete la febbre e vi farebbe male lo star qui a questa aria.

GHERARDO. Io ho il malan che Dio ti dia. Che febbre! Io mi sento pur bene.

SPELA. Dico che voi avete la febbre: lo conosco ben io, certo; e grande.

GHERARDO. So ch'io mi sento bene.

SPELA. Duolvi il capo?

GHERARDO. No.

SPELA. Lasciatemivi toccare un poco il polso. Duolvi lo stomaco o pur sentite qualche fumo andare al cervello?

GHERARDO. Tu mi pari una bestia. Vuo' mi far Calandrino, forse? Io dico ch'io non ho altro male che di Lelia mia, delicata, inzuccarata.

SPELA. Io so che voi avete la febbre e state molto male.

GHERARDO. A che te ne accorgi tu?

SPELA. A che? Non vi accorgete che voi sète fuor di gangari, farneticate, affannate e non sapete che vi dire?

GHERARDO. Gli è Amor che vuol cosí, non è vero, Clemenzia? Omnia vincit Amor.

SPELA. Ohu! Che bel detto da napoletani! Facetis manum, brigata. Mai piú fu detto.

GHERARDO. Quella crudelina, traditorina di tua figliana…

SPELA. Questa non sará febbre, ma scemamento di cervello. Ohu! Povero a me! come farò?

GHERARDO. O Clemenzia, mi vien voglia d'abracciarti e di baciarti mille volte.

SPELA. Qui bisognaranno le funi, dissi ben io.

CLEMENZIA. Di cotesto guardatevi molto bene, ch'io non voglio esser baciata da vecchi.

GHERARDO. Paioti cosí vecchio?

SPELA. Che credi? Al mio padrone non sono ancor caduti gli occhi fuor di bocca; volsi dire, i denti.

CLEMENZIA. In ogni modo, non avete il tempo che si crede, veggo ben io.

GHERARDO. Dillo a Lelia. E sai? Se mi metti in sua grazia, ti vo' donare un mongile.

SPELA. Ehi, liberalaccio! E a me che darete?

CLEMENZIA. Tanto fusse voi in grazia del duca di Ferrara quanto voi sète in grazia di Lelia, che buon per voi! Ma sí! Voi la dileggiate: ché, se voi gli volesse bene, non la terreste in queste trame né cercaresti di tuorgli la sua ventura.

GHERARDO. Come torgli la sua ventura? Io cerco di darglila, non di torgliela.

CLEMENZIA. Perché la tenete, tutto questo anno, in su le pratiche di volerla o di non volerla?

GHERARDO. Che! Pensasi Lelia che rimanga da me, adunque? S'io non sollecito ogni dí suo padre, se non è la maggior voglia ch'io abbi al mondo, s'io non volesse che si facesse piú presto oggi che domane, che tu mi vegga, fra pochi dí, sovr'una bara.

CLEMENZIA. E questo non mancará, se a Dio piace. Io gli dirò ogni cosa. Ma sapete? La vi vorrebbe vedere andare altramenti; ché cosí gli parete un pecorone.

GHERARDO. Come «un pecorone»? che gli ho io fatto?

CLEMENZIA. No. Ma perché voi andate sempre avviluppato ne le pelli.

SPELA. Sará buon, dunque, che per amor suo si faccia scorticare o che, almanco, corra ignudo per questa terra. Ha' veduto?

GHERARDO. Io ho piú be' panni ch'uom di Modena. Ho caro che me l'abbi detto. Vorrò che, di qua a un poco, mi vegga altrimenti. Ma dove la potrei vedere? quando tornerá dal monistero?

CLEMENZIA. Alla porta Bazzovara. Or ora voglio andare a trovarla.

GHERARDO. Ché non mi lassi venir con te, che andarem ragionando?

CLEMENZIA. No, no. Che direbben le genti?

GHERARDO. Io muoio. Oh amore!

SPELA. Io scoppio. Oh bastone!

GHERARDO. Oh beata a te!

SPELA. Oh pazzo che tu se'!

GHERARDO. Oh Clemenzia avventurata!

SPELA. Oh bestia mal cignata!

GHERARDO. Oh latte ben contento!

SPELA. Oh capo pien di vento!

GHERARDO. Oh Clemenzia felice!

SPELA. Oh! in culo avestú una radice!

GHERARDO. Orsú, Clemenzia! Addio. Viene, Spela, ch'io mi voglio ire a raffazzonare. Ho deliberato di vestirmi altrimenti per piacere alla mia moglie.

SPELA. L'andará male.

GHERARDO. Perché?

SPELA. Perché giá cominciate a fare a suo modo. Le brache saran pur le sue.

GHERARDO. Vanne alla buttiga di Marco profumiere e comprami un bossol di zibetto, ch'io voglio andare in su l'amorosa vita.

SPELA. I denari ove sono?

GHERARDO. Eccoti un bolognino. Va' presto. Io m'avvio a casa.

SCENA V

SPELA servo e SCATIZZA servo di Virginio.

SPELA. Se ad alcuno venisse voglia di racchiuder tutte le sciocchezze in un sacco, mettivi il mio padrone, ché sará fatto a punto quanto e' vuole. E magiormente, or che gli è entrato in questa frenesia d'amore, egli si spela, si pettina, passeggia intorno alla dama, va fuor la notte a' veglini con la squarcina, canticchia tutto 'l dí con una voce rantacosa, ribalda e con un leutaccio piú scordato di lui. E èssi dato infino a far le fistole (che gli venghino!) e i sognetti e i capogirli, gli strenfiotti, i materiali e mill'altre comedie: cosa da far creppar di ridere gli asini, non che i cani. Or vuol portare il zibetto. Al corpo di Dio, che c'impazzerebben le palle. Ma ecco Scatizza che debbe tornar da le monache.

SCATIZZA. Ti so dir che questi padri che fan le lor figliuole monache debbono esser di que' buoni uomini del tempo antico di Bartolommeo Coglioni. E forse che non si credono ch'elle stien sempre dinanzi al Crocefisso a pregare Iddio che facci del bene a chi ve l'ha messe? È ben vero che pregano Dio e 'l diavolo; ma che gli faccia rompare il collo a chi è cagion ch'elle ci sieno.

SPELA. Voglio intender questa novella.

SCATIZZA. Com'io bussai alla ruota, subito tutta la stanza s'empí di suore; e tutte giovane e tutte belle come angeli. Comincio a domandar di Lelia. Chi ride di qua, chi sghignazza di lá; tutte si facevan beffe del fatto mio, come se io fusse stato un zugo melato.

SPELA. Addio, Scatizza. E donde si viene? Oh! Tu hai delli zuccarini. Dammene.

SCATIZZA. Il cancar che ti venga, a te e quel pazzo di tuo padrone!

SPELA. Lasciame andare e tira a te. Donde vieni?

SCATIZZA. Dalle monache di Santo Crescenzio.

SPELA. Or be', che è di Lelia? È tornata a casa?

SCATIZZA. La forca tornará per te! Pò fare Iddio che quel mentecatto di tuo padrone se la crede avere?

SPELA. Perché? Non lo vuole?

SCATIZZA. Credo di no, io. Parti ch'ella sia carne da' suo' denti?

SPELA. Ella ha ragione, in fine; ma che dice?

SCATIZZA. Niente non dice. Che vuoi ch'ella dica, quando io non l'ho potuta vedere? ché, come io gionsi lá, e domanda' la, quelle sgherracce di quelle monache volevan la pastura di me.

SPELA. Altro volevan che la pastura! Piú presto il pastorale. Tu non le conosci bene.

SCATIZZA. Le conosco meglio di te, cosí gli venisse il cancaro! Vo' che tu vegga. Chi mi domandava s'io ne sto male; chi s'i' la torrei per moglie; chi diceva ch'ell'era in molle in dormentorio, che s'asciugava; chi ch'ell'era in soppresso nel chiostro. Un'altra mi disse:—Tuo padre ebbe figliuoli maschi?—Oh! Io fui per dire:—Ebbe un ca…cameto.—Tanto che pur m'accorsi che m'uccellavano, ché non volevano ch'io le parlasse.

SPELA. Tu fosti un da poco. Dovevi entrar dentro e dir che la volevi cercar tu.

SCATIZZA. Cancaro! Entra dentro solo! Va' lá, va' lá: tu mi conciaresti! Oh! Non c'è stallone in Maremma che ci regesse col fatto loro, solo. Monache? Cancaro! Ma io non posso star piú con te; ché ho da rispondere al mio padrone.

SPELA. Ed io ho a comprare il zibetto a quel pazzo del mio.

ATTO II

SCENA I

LELIA da ragazzo sotto nome di FABIO e FLAMMINIO giovene innamorato.

FLAMMINIO. Gli è pure una gran cosa, Fabio, che, in fino a qui, non abbi potuto cavare una buona risposta da questa crudele, da questa ingrata d'Isabella. E pur mi fa creder il vederti dare sempre grata audienzia e l'accoglierti sí volentieri ch'ella non m'abbi in odio; però ch'io non gli feci mai cosa, ch'io sappi, che le dispiacesse. Tu ti potresti accorgere, ne' suoi ragionamenti, di ch'ella si dolga di me? Ridimmi, di grazia, Fabio: che ti disse ella, iersera, quando v'andasti con quella lettera?

LELIA. Io ve l'ho giá replicato vinti volte.

FLAMMINIO. Oh! Ridimelo un'altra volta. Questo che importa a te?

LELIA. Oh! Che m'importa? Importami: ch'io veggo che voi ne pigliate dispiacere; il che cosí duole a me come a voi. Essendovi, com'io vi sono, servidore, non doverei cercare altro che di piacervi; ché, forse, di queste risposte ne volete poi male a me.

FLAMMINIO. Non dubitar di questo, il mio Fabio, ch'io t'amo come fratello. Conosco che tu mi vuoi bene e però sia certo ch'io non so' per mancarti mai; e vedra' lo col tempo. Prega Iddio e basti. Ma che diss'ella?

LELIA. Non ve l'ho detto? che il maggior piacere che voi le possiate fare al mondo è di lasciarla stare e non pensar piú a lei, perché l'ha vòlto l'animo altrui; e che, insomma, la non ha occhi con che la vi possi pur guardare; e che voi perdete il tempo e quanto fate in seguirla, perché, alla fine, vi trovarete con le mani piene di vento.

FLAMMINIO. E pare a te, Fabio, che queste cose le dica di cuore o pur ch'ella abbia qualche sdegno con esso me? Ché pur soleva, qualche volta, farmi favore, da un tempo in lá; né posso creder ch'ella mi voglia male, accettando le mie lettere e le mie imbasciate. Io so' disposto di seguirla fino alla morte. Ben vo' vedere quel che n'ha da essere. Che ne dici, Fabio? non ti pare?

LELIA. A me no, signore.

FLAMMINIO. Perché?

LELIA. Perché, s'io fusse in voi, vorrei ch'ella l'avesse di grazia ch'io la mirasse. Forse ch'a un par vostro, nobile, virtuoso, gentile, delle bellezze che sète, mancaranno dame? Fate a mio modo, padrone. Lasciatela e attacatevi a qualcun'altra che v'ami; ché ben ne trovarete, sí, e forse di cosí belle come ella. Ditemi: non avete voi nissuna che avesse caro che voi l'amasse, in questa terra?

FLAMMINIO. Come s'io n'ho? Ve n'è una, fra l'altre, chiamata Lelia, che mille volte ho voluto dire che ha tutta l'effigie tua, tenuta la piú bella, la piú accorta e la piú cortese giovane di questa terra (che te la voglio, un dí, mostrare), che si terrebbe per beata pur ch'io le facesse una volta un poco di favore; ricca e stata in corte; ed è stata mia innamorata presso a uno anno, che mi fece mille favori, di poi s'andò con Dio alla Mirandola. E la mia sorte mi fece innamorar di costei: che tanto m'è stata cruda quanto quella mi fu cortese.

LELIA. Padrone, e' vi sta bene ogni male perché, se avete chi v'ama e non l'apprezzate, è ragionevol cosa che altri non apprezzi voi.

FLAMMINIO. Che vuo' tu dire?

LELIA. Se quella povera giovane fu prima vostra innamorata, e anco piú che mai v'ama, perché l'avete abbandonata per seguire altri? Il qual peccato non so se Iddio ve lo possa mai perdonare. Ahi, signor Flamminio! Voi fate, per certo, un gran male.

FLAMMINIO. Tu sei ancora un putto, Fabio, e non puoi conoscere la forza d'amore. Dico ch'io son forzato ad amar quest'altra ed adorarla; e non posso né so né voglio pensare ad altri che a lei. E però tornagli a parlare e vede se gli puoi cavare di bocca destramente quel ch'ella ha con me, ch'ella non mi vòl vedere.

LELIA. Voi perdete il tempo.

FLAMMINIO. E perder questo tempo mi piace.

LELIA. Voi non farete nulla.

FLAMMINIO. Pazienzia!

LELIA. Lasciatela andar, vi dico.

FLAMMINIO. Io non posso. Va' lá, ch'io te ne prego.

LELIA. Io andarò; ma…

FLAMMINIO. Torna con la risposta, subito. Io andarò fino in duomo.

LELIA. Com'io veggo el tempo, non mancarò.

FLAMMINIO. Fabio, se tu fai questa cosa, buon per te!

LELIA. A tempo si parte, ché ecco Pasquella che mi viene a trovare.

SCENA II

PASQUELLA fante di Gherardo e LELIA da ragazzo detto FABIO.

PASQUELLA. Io non credo che nel mondo si truovi il maggior affanno né il maggior fastidio che servire, una mia pari, una giovane innamorata; e massimamente a quella che non ha d'aver timore di madre, di sorelle o d'altre persone, quale è questa padrona mia: che, da certi dí in qua, è intrata in tanta frega e in tanta smania d'amore che né dí né notte ha posa. Sempre si gratta il petinicchio, sempre si stroppiccia le cosce, or corre in su la loggia, or corre a le finestre, or di sotto, or di sopra; né si ferma altrimenti che s'ella avesse l'ariento vivo in su' piedi. Gesú! Gesú! Gesú! Oh! I' so' pure stata giovana ed innamorata la mia parte, ed ho fatto qualche cosetta; e pur mi posavo, talvolta. Almanco si fusse messa a voler bene a qualche uomo di conto, maturo, che sapesse fare i suo' fatti e gli cavasse la pruzza! Ma la s'è imbarbugliata d'un fraschetta che a pena credo che, quando gli è sdilacciato, si sappia allacciare, s'altri non gli aita. E, tutto 'l dí, mi manda a cercar questo drudo come s'io non avesse che fare in casa. E forse che 'l suo padrone non si crede che facci l'ambasciate per lui? Ma gli è, per certo, questo che viene in qua. Ventura! Fabio, Dio ti dia il buon dí. Vezzo mio, ti venivo a trovare.

LELIA. Ed a te mille scudi, la mia Pasquella. Che fa la tua bella padrona? e che voleva da me?

PASQUELLA. E che ti credi che la facci? Piagne, si consuma, si strugge, ché stamattina non sei ancor passato da casa sua.

LELIA. Oh! Che vuol ch'io ci passi innanzi giorno?

PASQUELLA. Credo ch'ella vorrebbe che tu stesse con lei tutta la notte ancora, io.

LELIA. Oh! Io ho da fare altro. A me bisogna servire il padrone; intendi, Pasquella?

PASQUELLA. Oh! Io so ben che a tuo padron non faresti dispiacere a venirci, non. Dormi forse con lui?

LELIA. Dio il volesse ch'io fusse tanto in grazia sua! ch'io non sarei ne' dispiaceri ch'io sono.

PASQUELLA. Oh! Non dormiresti piú volentieri con Isabella?

LELIA. Non io.

PASQUELLA. Eh! Tu non dici da vero.

LELIA. Cosí non fusse!

PASQUELLA. Or lasciamo andare. Dice la mia padrona che ti prega che tu venga tosto fin a lei, ché suo padre non è in casa e ha bisogno di parlarti d'una cosa ch'importa.

LELIA. Digli che, se non si leva dinanzi Flamminio, che perde il tempo: ché la sa ben ch'io mi rovinarei.

PASQUELLA. Viene a dirgliel tu.

LELIA. Io dico che ho altro da fare. Non odi?

PASQUELLA. E che hai da fare? Dacci una corsa; e tornarai subito.

LELIA. Oh! Tu mi rompi il capo, ora. Vatti con Dio.

PASQUELLA. Non vuoi venire?

LELIA. Non, dico: non m'intendi?

PASQUELLA. In buona fede, in buona veritá, Fabio, Fabio, che tu sei troppo superbo. E sai che ti ricordo? che tu sei giovinetto e non conosci il ben tuo. Questo favore non ti durerá sempre, no. Ne verrá la barba; non arai sempre sí colorite le gotuzze né cosí rossette le labbra; non sarai cosí sempre richiesto da tutti, non. Allora conoscerai quanto sia stata la tua pazzia; e te ne pentirai, quando non sarai piú a tempo. Dimmi un poco: quanti ne sono, in questa cittá, che arebben di grazia ch'Isabella gli mirasse? E tu par che ti facci beffe del pane onto.

LELIA. Perché non gli mira, donque? E lasci star me che non me ne curo.

PASQUELLA. Oh Dio! Gli è ben vero che i giovani non han tutto quel senno che gli bisognarebbe.

LELIA. Orsú, Pasquella! Non mi predicar piú, ché tu fai peggio.

PASQUELLA. Superbuzzo, superbuzzo, ti mancará questo fumo! Orsú, il mio Fabio caro, anima mia! Vien, di grazia, presto; se non, mi rimanderebbe un'altra volta a cercarte né crederebbe ch'io t'avesse fatto l'ambasciata.

LELIA. Orsú! Va', Pasquella, ch'io verrò. Burlavo teco.

PASQUELLA. Quando, gioia mia?

LELIA. Presto.

PASQUELLA. Quanto presto?

LELIA. Tosto. Va'.

PASQUELLA. T'aspettarò all'uscio di casa, veh!

LELIA. Sí, sí.

PASQUELLA. Uh! Sai? Se tu non vieni, m'adirarò.

SCENA III

GIGLIO spagnuolo e PASQUELLA fante.

GIGLIO. Por mia vida, que esta es la vieia biene avventurada que tiene la mas hermosa moza d'esta tierra per sua ama. Oh se le puodiesse io ablar dos parablas sin testigos! Voto a la virginidad de todos los prelatos de Roma que le hará io dar gritos como la gatta de heniero. Mas quiero veer se puedo, con alguna lisonia, pararme tal con esta vieia vellacca alcahueta que me aga alcanzar algo con ella. Buenos dies, madonna Pasquella galana, gentil. Donde venís vos tan temprana?

PASQUELLA. Oh! Buon dí, Giglio. Io vengo dalla messa. E tu dove vai?

GIGLIO. Buscando mi ventura, se puedo toppar alguna muger che me haga alguna carizia.

PASQUELLA. Oh sí! In buona fé, che vi mancano a voi spagnuoli! ché non ce n'è niun di voi che non n'abbi sempre una decina a sua posta.

GIGLIO. Io verdade es che ne tiengo dos; mas non puedo andar á ellas senza periglo.

PASQUELLA. Che! Son gentildonne, forse, di casa porcina, eh?

GIGLIO. Sí, á fé. Mas io queria trovar una madre que me blancasses alguna vez las camisas e me rattopasses calzas y el giuppon y que me tenesse por fiolo; e io la serviria di buona gana.

PASQUELLA. Cerca, cerca, ché non te ne mancará, no; ché chi ha le gentildonne, come tu, non gli mancan le fantesche.

GIGLIO. Ya trobada sta, se voi volite.

PASQUELLA. Chi è?

GIGLIO. Voi misma.

PASQUELLA. Eh! Io son troppo vecchia per te.

GIGLIO. Vieia? Voto alla Virge Maria di Monsurat que me parecceis una moza di chinze o veinte annos. Vees, non le digais mas, per vostra vida, que non le puedo soffrir. Vedite piú presto se volite farmi qualche piazer, que vederite se vos trattaré da giovane o da vieia.

PASQUELLA. No, no. Galli, via. Non mi voglio impacciar con spagnuoli. Sète tafani di sorte che o mordete o infastidite altrui; e fate come il carbone: o cuoce o tegne. V'aviam tanto pratichi oramai che guai a noi! E vi conosciamo bene, Dio grazia; e non c'è guadagno coi fatti vostri.

GIGLIO. Guadagno? Giuro a Dios que piú guadagnarite con á mi que con el primo gentil ombre de esta tierra; y, aunque vos paresque cosí male aventurade, io son de los buenos y bien nascidos ydalgos de toda Spagna.

PASQUELLA. Un miracolo non ha detto signore o cavaliere! poi che tutti gli spagnuoli che vengon qua si fan signori. E poi mirate che gente!

GIGLIO. Pasquella, tomma mia amistade, que buon por á ti!

PASQUELLA. Che mi farai? signora, eh?

GIGLIO. Non quiero se non que seays mia matre. E io quiero ser vostro figliolo y, allas vezes, aun marido, se vos verrá bien.

PASQUELLA. Eh lasciami stare!

GIGLIO. Reióse: eccha es la fiesta.

PASQUELLA. Che dici?

GIGLIO. Que vi voglio donare un rosario para dezir quando es la fiesta.

PASQUELLA. E dove è?

GIGLIO. Veiolo aqui.

PASQUELLA. Oh! Questa è una corona. Ché non me la dái?

GIGLIO. Se volite ser mia madre, io vos la daré.

PASQUELLA. Sarò ciò che tu vuoi, pur che tu me la dia.

GIGLIO. Quando podremos ablar giuntos una hora?

PASQUELLA. Quando tu vuoi.

GIGLIO. Dove?

PASQUELLA. Oh! Io non so dove.

GIGLIO. Non teni in casa algun logar donde me possa poner io á questa sera?

PASQUELLA. Sí, è; ma se 'l padron lo sapesse?

GIGLIO. E que! Non saprá nada, no.

PASQUELLA. Sai? Vedrò stasera se ci sará ordine. Tu passa dinanzi a casa e io ti dirò se potrai venire o no. Or dammi la corona. Oh! Gli è bella!

GIGLIO. Orsú! Io starò avertido allas vintiquattr'oras.

PASQUELLA. Or sí, eh! ma dammi i paternostri.

GIGLIO. Io los portarò con me quando verrò agliá, que les quiero primiero far un poghetto profumar.

PASQUELLA. Non mi curo di tante cose. Dammegli pur cosí; io non gli voglio piú profumati.

GIGLIO. Vedi á qui: esto stocco sta gasto. Io ci harò metter un poco de oro; e questa sera ve los darò. Vòi tu altro se non que sará la tuya?

PASQUELLA. Mia sará quand'io l'arò. È da far gran fondamento nelle parole degli spagnuoli, alla fede! Non diss'io che voi sète formiche di sorbo, che non uscite per bussare?

GIGLIO. Que dezis, matre?

PASQUELLA. Io voglio andare in casa, ché la padrona me aspetta.

GIGLIO. E spera un pochitto! Vos teneis una gran priessa. Que teneis de azer con vostra padrona?

PASQUELLA. Oh! che ti credi? Che 'l diavol mi porti, se le fanciulle d'oggi non son prima innamorate che gli abbino asciutti gli occhi e se prima non volesseno il punteruolo che l'aco.

GIGLIO. Que quereis dezir?

PASQUELLA. Chiachiare? E' non son miga chiachiare! La vorrebbe far da vero.

GIGLIO. Pos dimmi, de grazia. De quien es innamorada? que non es possibile, que es aun troppa gioven.

PASQUELLA. Cosí non fusse o almen si fusse messa con un par suo!

GIGLIO. Dimme, por tu vida: quien es?

PASQUELLA. E' non si vuol dire. Vedi: fa' che tu non ne parli. Non cognosci quel ragazzo di Flamminio de' Carandini?

GIGLIO. Quien? aquel mucciaccio qu'es todo vestido de blanco?

PASQUELLA. Sí, cotesto.

GIGLIO. Valeme Dios! Es possibile? Que quiere azer d'aquel, ch'es megior per ser sanado que per sanar?

PASQUELLA. E tu odi.

GIGLIO. Y el mucciaccio quiere ben á la gioven?

PASQUELLA. Eh! Cosí, cosí.

GIGLIO. Mas el patre d'ella non s'accorge d'esta trama?

PASQUELLA. Non pare, a me. Anzi, l'ha trovato due volte in casa; ed hagli fatto mille carezze, presolo per la mano, toccato sotto 'l mento, come se fusse suo figliuolo. E dice che gli par che s'assomigli a una figliuola di Virginio Bellenzini.

GIGLIO. Ah reniego del putto, vieio puerco, vellacco! Ya, ya. Sé io lo que quiere.

PASQUELLA. Uh! Tu m'hai tenuta troppo; me ne voglio ire.

GIGLIO. Mira que verrò, á esta nocce. Non te scordar della promessa.

PASQUELLA. Né tu di portar la corona.

SCENA IV

FLAMMINIO, CRIVELLO suo servo e SCATIZZA servo di Virginio.

FLAMMINIO. Tu non sei ito a veder se tu vedi Fabio; ed egli non viene. Non so che mi dire di questa sua tardanza.

CRIVELLO. Io andavo; e voi mi richiamaste indietro. Che colpa è la mia?

FLAMMINIO. Va' adesso: e, caso che ancor fusse in casa d'Isabella, aspettalo fin che gli esca e fallo poi venir subito.

CRIVELLO. Oh! Che saprò io se v'è o se non v'è? volete forse ch'io ne domandi alla casa di lei?

FLAMMINIO. Mira che asino! Parti che cotesto stesse bene? Credelo a me ch'io non ho servidore in casa che vaglia un pane altro che Fabio. Iddio mi dia grazia ch'io gli possa far del bene. Che borbotti? che dici, poltrone? non è vero?

CRIVELLO. Che volete ch'io dica? Dico di sí, io. Fabio è buono, Fabio è bello, Fabio serve bene, Fabio con voi, Fabio con madonna… Ogni cosa è Fabio; ogni cosa fa Fabio. Ma…

FLAMMINIO. Che vuol dir «ma…»?

CRIVELLO. …non sará sempre buona robba.

FLAMMINIO. Che dici tu di robba?

CRIVELLO. Che non è da fidargli cosí sempre la robba. Sí, ché gli è forestiero e potrebbe, un dí, caricarvela.

FLAMMINIO. Cosí fidati fusse voi altri! Domanda un poco lo Scatizza, che è lá, se l'avesse veduto. E io sarò al banco de' Porrini.

CRIVELLO. Scatizza, addio. Ha' tu veduto Fabio?

SCATIZZA. Chi? quella vostra buona robba? Oh cagnaccio! Tu ti dái il bel tempo.

CRIVELLO. Ove andavi?

SCATIZZA. A trovare il mio grimo.

CRIVELLO. Gli è passato di qui or ora.

SCATIZZA. Dove è andato?

CRIVELLO. In qua sú. Viene, ché 'l trovaremo. Eh viene! ché t'ho da contare una facezia, che m'è intervenuta con la mia Caterina, la piú bella del mondo.

SCENA V

SPELA servo di Gherardo, solo.

Può esser peggio al mondo che servire a un padron pazzo? Gherardo mi manda a comprare il zibetto. Quando lo domandai al profumiere e dissi ch'io non avevo piú d'un bolognino, cominciò a dire ch'io non avevo tenuto a mente e che Gherardo doveva aver detto un bossol d'onguento da rogna: ché n'aveva bisogno; ché sapeva che non usava zibetto. Comincia' gli a dire, acciò che egli mel credesse, di questo suo amorazzo: e fu per crepar di ridere con certi gioveni che eran lí; e voleva pur ch'io gli portasse un bossol d'assafetida; tal che, cosí dileggiato, me ne partii. Or, se 'l padrone il vuole, diemi piú quattrini.

SCENA VI

CRIVELLO, SCATIZZA, LELIA da ragazzo e ISABELLA.

CRIVELLO. Or hai inteso; e, se tu vuoi venire, mi basta l'animo di trovarne una per te ancora.

SCATIZZA. Fa' un poco di pratica, ch'io ti prometto che, se tu trovi qualche fantesca che mi piaccia, che noi ci daremo il piú bel tempo del mondo. Io ho la chiave del granaio, della cantina, della dispensa, delle legna; e, s'io avesse dove poter scaricar le some a piano, mi bastarebbe l'animo che noi faremmo una vita da signori. In ogni modo, da questi padroni non se ne cava altro.

CRIVELLO. Io t'ho detto: io 'l vo' dire a Bita, che ti provegga di qualche cittona acciò che tutti a quattro insieme possiam darci buon tempo in questo carnovale.

SCATIZZA. Oh! Noi siamo all'ultimo.

CRIVELLO. Daremcelo questa quaresima, mentre ch'i padroni saranno alla predica a vagheggiare. Ma sta', ché l'uscio di Gherardo s'apre. Tirate un poco piú qua.

SCATIZZA. Perché?

CRIVELLO. Oh! Per buon rispetto.

LELIA. Orsú, Isabella! Non vi dimenticate di quanto m'avete promesso.

ISABELLA. E voi non vi dimenticate di venirmi a vedere. Ascoltate una parola.

CRIVELLO. S'io fusse in questa fregágnuola, so che 'l padrone mi perdonarebbe!

SCATIZZA. Mangiaresti i polli per te, eh?

CRIVELLO. Che ne credi?

LELIA. Or volete altro?

ISABELLA. Udite un poco.

LELIA. Eccomi.

ISABELLA. Ècci nissun costí fuora?

LELIA. Non si vede anima nata.

CRIVELLO. Che diavol vòl colei?

SCATIZZA. Questa dimestichezza è troppa.

CRIVELLO. Sta' a vedere.

ISABELLA. Udite una parola.

CRIVELLO. Costor s'accostan molto.

SCATIZZA. Che sí! che sí!

ISABELLA. Sapete? Vorrei…

LELIA. Che vorreste?

ISABELLA. Vorrei… Accostatevi.

SCATIZZA. Accostati, salvaticaccio!

ISABELLA. Mirate se v'è niuno.

LELIA. Non ve l'ho detto? Non si vede persona.

ISABELLA. Oh! Io vorrei che voi tornasse dopo disinare quando mio padre sará fuora.

LELIA. Lo farò; ma, come passa il mio padron di qui, di grazia, fuggite e serrategli la finestra in fronte.

ISABELLA. S'io non lo fo, non mi vogliate piú bene.

SCATIZZA. Dove diavol gli tien la man, colei?

CRIVELLO. Oh povero padrone! Che sí, che sí, ch'io sarò indivino!

LELIA. Addio.

ISABELLA. Udite: vi volete partire?

SCATIZZA. Basciala, che ti venga il cancaro!

CRIVELLO. L'ha paura di non esser veduta.

LELIA. Orsú! Tornatevi in casa.

ISABELLA. Voglio una grazia da voi.

LELIA. Quale?

ISABELLA. Entrate un poco dentro a l'uscio.

SCATIZZA. La cosa è fatta.

ISABELLA. Oh! Voi sète salvatico!

LELIA. Noi sarem veduti.

CRIVELLO. Oimè! oimè! O seccareccio, altrettanto a me.

SCATIZZA. Non ti diss'io che la baciarebbe?

CRIVELLO. Or ben ti dico ch'io non vorrei aver guadagnato cento scudi e non aver veduto questo bacio.

SCATIZZA. Il veggio. Cosí fusse tócco a me!

CRIVELLO. Oh! Che fará il padrone, come egli 'l sappia?

SCATIZZA. Oh diavol! Non si vòl dirglielo.

ISABELLA. Perdonatemi. La vostra troppa bellezza e 'l troppo amar ch'io vi porto è cagion ch'io fo quello che forse voi giudicarete esser di poca onesta fanciulla. Ma Dio lo sa ch'io non me ne son potuta tenere.

LELIA. Non fate queste scuse con me, signora; ché so ancor io come io sto e quel che, per troppo amore, mi son messo a fare.

ISABELLA. E che cosa?

LELIA. Oh! Che? A ingannare il mio signore, che non sta però bene.

ISABELLA. Il malan che Dio gli dia!

CRIVELLO. Vatti po' fida di bagasce! Ben gli sta. Non è maraveglia che 'l fegatello confortava il padrone a lasciar questo amore.

SCATIZZA. Ogni gallina ruspa a sé. In fine, tutte le donne son fatte a un modo.

LELIA. L'ora è giá tarda ed io ho da trovare il padrone. Rimanete in pace.

ISABELLA. Udite.

CRIVELLO. Ohi! e due! Che ti si secchi, che ti faccia il mal pro!

SCATIZZA. Al corpo di Dio, che m'è infiata una gamba che par che la voglia recere.

LELIA. Serrate. Addio.

ISABELLA. Mi vi dono.

LELIA. Son vostro. Io ho, da un canto, la piú bella pastura del mondo di costei che si crede pur ch'io sia maschio; dall'altro, vorrei uscir di questa briga e non so come mi fare. Veggio che costei è giá venuta al bacio; e verrá, la prima volta, piú avanti; e trovarommi aver perduta ogni cosa: tal che forza è ch'e' si scuopra la ragia. Voglio andare a trovar Clemenzia di quanto gli par ch'io faccia. Ma ecco Flamminio.

CRIVELLO. Scatizza, il padrone mi disse aspettarmi al banco de' Porrini. Vo' dargli questa buona nuova. Caso non mi creda, fa' che non mi facci parer bugiardo.

SCATIZZA. Io non ti posso mancare. Ma, facendo a mio modo, te ne starai queto e arai sempre questo calcio in gola a Fabio per poterlo far fare a tuo modo.

CRIVELLO. Dico ch'io gli vo' male, ché m'ha rovinato.

SCATIZZA. Governatene come ti piace.

SCENA VII

FLAMMINIO e LELIA da ragazzo.

FLAMMINIO. È possibil, però, ch'io sia tanto fuor di me e mi stimi sí poco ch'io voglia amare a suo dispetto costei e servir chi mi strazia, chi non fa conto di me, chi non mi vuol pur compiacer sol d'uno sguardo? Sarò io sí da poco e sí vile ch'io non mi sappi levar questa vergogna e questo strazio da dosso? Ma ecco Fabio. Or ben, che hai fatto?

LELIA. Nulla.

FLAMMINIO. Perché sei stato tanto a tornare? Tu vorrai diventar un forca, sí?

LELIA. Io ho indugiato perch'io volevo pur parlare a Isabella.

FLAMMINIO. E perché non gli hai parlato?

LELIA. Non mi ha voluto ascoltare. E, se voi facesse a mio modo, pigliaresti altro partito e vi risolvaresti de' casi vostri: ché, per quel ch'io n'ho potuto comprendere insino a qui, voi vi perdete il tempo; ché la si mostra ostinatissima a non voler far mai cosa che vi piaccia.

FLAMMINIO. E, se 'l dicesse Iddio, l'ha pure il torto. Non sai che, or ora, passando di lá, si levò subito, come la mi vidde, dalla finestra con tanto sdegno e con tanta furia come s'ell'avesse visto qualche cosa orribile o spaventosa?

LELIA. Lasciatela andar, vi dico. È possibil che, in tutta questa cittá, non sia un'altra che meriti l'amor vostro quanto lei? Non vi è piaciuta mai altra donna che lei?

FLAMMINIO. Cosí non fusse! ch'io ho paura che questo non sia la cagion di tutto 'l mio male: perché io amai giá molto caldamente quella Lelia di Virginio Bellenzini di ch'i' ti parlai; e ho paura ch'Isabella non dubiti che questo amor duri ancora e, per questo, non mi voglia vedere. Ma io gli farò intendere ch'io non l'amo piú; anzi, l'ho in odio e non la posso sentir ricordare. E gli farò ogni fede ch'ella vorrá di non arrivar mai dove lei sia. E voglio che glie lo dica tu, a ogni modo.

LELIA. Oimè!

FLAMMINIO. Che hai? Par che tu venga meno. Che ti senti?

LELIA. Oimè!

FLAMMINIO. Che ti duole?

LELIA. Oimè! Il cuore.

FLAMMINIO. Da quanto in qua? Appoggiati un poco. Duolti forse il corpo?

LELIA. Signor no.

FLAMMINIO. E forse lo stomaco ch'è indebilito?

LELIA. Dico ch'è il cuore che mi duole.

FLAMMINIO. Ed a me, forse, molto piú. Tu hai perduto il colore. Vattene a casa: e fatti scaldare qualche panno al petto e far qualche frega dietro alle spalle; ché non sará altro. Io sarò or ora lá e, bisognando, farò venire il medico che ti tocchi il polso e vegga che male è il tuo. Dá' qua, un poco, il braccio. Tu sei gelato. Orsú! Vattene pian piano. A che strani casi è sottoposto l'uomo! Non vorrei che costui mi mancasse per quanto vale tutto 'l mio: ch'io non so se fusse mai al mondo servidor piú accorto, meglio accostumato di questo giovanetto; e, oltre a questo, mostra d'amarmi tanto che, se fusse donna, pensarei che la stesse mal di me. Fabio, va' a casa, dico; e scaldati un poco i piei. Io sarò or ora lá. Di' che apparecchino.

LELIA. Or hai pur, misera te, con le tue propie orecchie, dall'istessa bocca di questo ingrato di Flamminio, inteso quanto egli t'ami. Misera, scontenta Lelia! Perché piú perdi tempo in servir questo crudele? Non ti è giovata la pazienzia, non i preghi, non i favori che gli hai fatti; or non ti giovan gl'inganni. Sventurata me! rifiutata, scacciata, fuggita, odiata! Perché serv'io a chi mi rifiuta? perché domando chi mi scaccia? perché seguo chi mi fugge? perché amo chi m'ha in odio? Ah Flamminio! Non ti piace se non Isabella. Egli non vuole altro che Isabella. Abbisela, tenghisela; ch'io lo lasciarò o morrò. Delibero di non piú servirli in questo abito né piú capitargli innanzi, poi che tanto m'ha in odio. Andarò a trovar Clemenzia che so che m'aspetta in casa; e con essa disporrò quel che abbi da essere della vita mia.

SCENA VIII

CRIVELLO e FLAMMINIO.

CRIVELLO. E, se non è cosí, fatemi impicar per la gola; non tanto tagliar la lingua. Vi dico che gli è cosí.

FLAMMINIO. Da quanto in qua?

CRIVELLO. Quando voi mi mandasti a cercar di lui.

FLAMMINIO. Come andò? Dimmelo un'altra volta, perché egli mi niega d'averle oggi potuto parlare.

CRIVELLO. Sará buon che vel confessi! Dico che, aspettando io di vedere s'egli dava di volta intorno a quella casa, lo vidi uscir fuore. E, volendosi giá partire, Isabella lo richiamò dentro: e, guardando se fuore era alcuno che gli vedesse, non vi vedendo persona, si baciorno insieme.

FLAMMINIO. Come non vider te?

CRIVELLO. Perch'io m'era ritratto in quel portico rincontro, e non me potevan vedere.

FLAMMINIO. Come gli vedesti tu?

CRIVELLO. Con gli occhi. Credete forse ch'io gli abbi veduti con le gombita?

FLAMMINIO. E basciolla?

CRIVELLO. Io non so s'ella baciò lui o egli lei; ma io credo che l'un basciassi l'altro.

FLAMMINIO. Accostorono il viso l'uno a l'altro tanto che si potessen baciare?

CRIVELLO. Il viso no, ma le labbra sí.

FLAMMINIO. Oh! Possonsi accostar le labbra senza il viso?

CRIVELLO. Se l'uomo avesse la bocca nelle orecchie o nella cicottola, forse; ma, stando dove le stanno, credo che no.

FLAMMINIO. Guarda che tu vedesse bene, che tu non dica poi:—E' mi parve—; ché questa è una gran cosa che tu mi dici.

CRIVELLO. Maggiore è il Mangia che sta in cima alla torre di Siena.

FLAMMINIO. Come vedesti?

CRIVELLO. Vegliando, con gli occhi aperti, stando a vedere né avendo a far altra cosa che mirare.

FLAMMINIO. Se questo è vero, tu m'hai morto.

CRIVELLO. Questo è vero. Lo chiamò, se gli accostò, l'abbracciò, lo basciò. Or, se tu vuoi morir, muore.

FLAMMINIO. Non è maraviglia che 'l traditor negava di non esservi stato! Or so perché il ribaldo mi confortava a lasciarla: per goderla lui. Se io non fo tal vendetta che, fin che questa terra dura, sará essempio ai servidori che non sieno traditori a' padroni, non voglio esser tenuto uomo. Ma, in fine, se altra certezza non n'ho, io non tel vo' credere. So che tu sei un tristo e gli debbi voler male; e fai perch'io me lo levi dinanzi. Ma, per quel Dio che s'adora, ch'io ti farò dire il vero o t'ammazzarò. Di' sú! Hailo veduto?

CRIVELLO. Signor sí.

FLAMMINIO. Baciolla?

CRIVELLO. Baciârsi.

FLAMMINIO. Quante volte?

CRIVELLO. Due volte.

FLAMMINIO. Ove?

CRIVELLO. Nel suo ridotto.

FLAMMINIO. Tu menti per la gola. Poco fa, dicesti in su l'uscio.

CRIVELLO. Volsi dir vicino all'uscio.

FLAMMINIO. Di' il vero!

CRIVELLO. Ohi! ohi! M'incresce d'avervel detto.

FLAMMINIO. Fu vero?

CRIVELLO. Signor sí. Ma io mi so' scordato ch'io avevo un testimonio.

FLAMMINIO. Chi era?

CRIVELLO. Lo Scatizza di Virginio.

FLAMMINIO. Vidde egli ancora?

CRIVELLO. Come me.

FLAMMINIO. E se egli nol confessa?

CRIVELLO. Ammazzatemi.

FLAMMINIO. Farollo.

CRIVELLO. E s'egli il confessa?

FLAMMINIO. Amazzarò tutt'e due.

CRIVELLO. Oimè! Perché?

FLAMMINIO. Non dico te; ma Isabella e Fabio.

CRIVELLO. E che voi abbruciate quella casa, con Pasquella e con chi v'è dentro.

FLAMMINIO. Andiamo a trovar lo Scatizza. S'io non nel pago, s'io non fo dir di me, se tutta questa terra non lo vede… Ne farò tal vendetta!… Oh traditore! Vatti poi fida.

ATTO III

SCENA I

PEDANTE, FABRIZIO giovine figliuol di Virginio e STRAGUALCIA servo.

PEDANTE. Questa terra mi par tutta mutata poi ch'io non vi fui. Vero è ch'io non vi fui se non per transito con li oratori d'Ancona; e alloggiammo al «Guicciardino». Pur vi stemmo da sei giorni. Tu ricognoscine cosa alcuna?

FABRIZIO. Come mai piú non l'avessi veduta.

PEDANTE. Credotelo, perché te ne partisti sí piccolo che non è maraviglia. Or pur conosco la strada dove siamo. Quello è il palazzo de' Rangoni; qui sotto passa il canal grande; quel che vedi lá in capo è il duomo. Hai tu sentito dire «Sarestú mai la potta da Modana?» o vero «Gli pare esser la potta da Modana»?

FABRIZIO. Mille volte. Mostratemela, di grazia.

PEDANTE. Vedila sopra il duomo.

FABRIZIO. È quella?

PEDANTE. Quella.

FABRIZIO. Oh! Questa è una baia!

PEDANTE. Tu vedi.

FABRIZIO. Ho sentito ancor dire «Tu hai tolto a menar l'orso a Modana». Che vuol dire? dov'è questo orso?

PEDANTE. E' son dettati antiqui de quibus nescitur origo.

FABRIZIO. Certo, maestro, che questa terra par che mi venga di buono.

STRAGUALCIA. Ed a me vien di migliore, ch'io sento qua presso uno odor d'arosto che mi fa morir di fame.

PEDANTE. Oh! Non sai quel che dice Cantalicio? «Dulcis amor patriae». E Catone: «Pugna pro patria». Hoc. Insumma, e' non c'è la piú dolce cosa che la patria.

STRAGUALCIA. Io credo che sia molto piú dolce il tribiano, maestro. Cosí n'avess'io un boccale! ch'io sono spallato, a portar questa valigia.

PEDANTE. Queste strade paion fatte di nuovo. Quand'io ci fui, eran tutte sordide e fangose.

STRAGUALCIA. Aviamo a contare i mattoni? Ci sará facenda! Vorrei che noi andassemo piú presto in qualche luogo che facessemo colazione, io.

PEDANTE. Iandudum animus est in patinis.

FABRIZIO. Che arma è quella di quei succhielli?

PEDANTE. Quella è l'arma di questa communitá e chiamasi la Trivella. E, come a Fiorenza si grida: «Marzocco! Marzocco!» e a Vinegia: «San Marco! San Marco!» e a Siena: «Lupa! Lupa!», cosí qui esclamano: «Trivella! Trivella!».

STRAGUALCIA. Io vorrei piú tosto che noi gridassemo: «Padella! Padella!».

FABRIZIO. Quella la conosco. È l'arme del duca.

STRAGUALCIA. Maestro, vorrei che voi portasse un poco questa valigia, voi. Io ho sí secche le labbra ch'io non posso parlare.

PEDANTE. Orsú, che ti cavarai la sete poi!

STRAGUALCIA. Quand'io son morto, fatemi un brodetto agli archi.

FABRIZIO. Basta che, ne la prima gionta, questa terra mi piace assai. E a te, Stragualcia?

STRAGUALCIA. A me pare un paradiso, ché non vi si mangia e non vi si beve. Orsú! Non perdiam piú tempo a veder la terra, ché la vedremo a bello agio.

PEDANTE. Tu vedrai qui il piú solenne campanile che sia in tutta la machina mondiale.

STRAGUALCIA. È quello al qual i modanesi volevon far la guaina? e che dicono che la sua ombra fa impazzar gli uomini?

PEDANTE. Sí, cotesto.

STRAGUALCIA. Io so ch'io non uscirò di cucina, per me. Chi ci vuole andar ci vada. Or sollecitiam d'alloggiare.

PEDANTE. Tu hai una gran fretta.

STRAGUALCIA. Cancaro! Io mi muoio di fame e non ho mangiato altro, stamattina, ch'una mezza gallina che v'avanzò in barca.

FABRIZIO. Chi trovarem noi che ci meni a casa di mio padre?

PEDANTE. Non. A me pare che noi ci andiamo a metter prima in una ostaria, e quivi assettarci un poco e con commoditá poi investigarne.

FABRIZIO. Mi piace. Queste debbono esser l'ostarie.

SCENA II

L'AGIATO oste, FRULLA oste, PEDANTE, FABRIZIO, STRAGUALCIA.

AGIATO. Oh gentili uomini! Questa è l'ostaria, se volete alloggiare. Allo «Specchio»! allo «Specchio»!

FRULLA. Oh! Voi siate i ben venuti. Io v'ho pure alloggiati altre volte. Non vi ricorda del vostro Frulla? Entrate qua dentro, ove alloggiano tutti e' par vostri.

AGIATO. Venite a star con me. Voi arete buone camere, buon fuoco, buonissime letta, lenzuola di bocata; e non vi mancará cosa che voi aviate.

STRAGUALCIA. Di cotesto mel sapevo.

AGIATO. Volsi dir che voi vogliate.

FRULLA. Io vi darò il miglior vin di Lombardia, starne tanto larghe, salciccioni di questa fatta, piccioni, polastri e ciò che voi saprete domandare; e goderete.

STRAGUALCIA. Questo voglio sopra tutto.

PEDANTE. Tu che dici?

AGIATO. Io vi darò animelle di vitella, mortatelle, vin di montagna; e, sopra tutto, starete dilicati.

FRULLA. Io vi darò piú robba e manco dilicatura. Se venite con me, trattarovvi da signori e 'l pagamento sará a vostro modo; ove, allo «Specchio», vi mettará a conto fino le candele. Fate voi.

STRAGUALCIA. Padrone, stiam qui, ché gli è meglio.

AGIATO. E fate a mio modo, se volete star bene. Volete che si dica che voi siate alloggiati al «Matto»?

FRULLA. È cento mila volte meglio il mio «Matto» che non è il tuo «Specchio».

PEDANTE. Speculum prudentia significat iusta illud nostri Catonis «Nosce teipsum». Intendi, Fabrizio?

FABRIZIO. Intendo.

FRULLA. Veggasi chi ha piú osti: o tu o io.

AGIATO. Veggasi dove van piú uomini da bene.

FRULLA. Veggasi ove son meglio trattati.

AGIATO. Veggasi chi tien piú dilicato.

STRAGUALCIA. Che tanto «dilicato, dilicato, dilicato»? Io vorrei, una volta, empire il corpo meglio e star manco dilicato, per me, io; ché tanta delicatezza è cosa da fiorentini.

AGIATO. Tutti cotesti alloggian con me.

FRULLA. Alloggiavano; ma, da tre anni in qua, tutti vengono a questa insegna.

AGIATO. Garzon, pon giú quella valigia; ché m'avveggo che la ti spalla.

STRAGUALCIA. Non ti curar di questo, tu; ch'io non voglio alleggerir la spalla, s'io non veggo di caricar prima il ventre.

FRULLA. Bastarannoti un paio di capponi? Porta qua. Questi son per te solo.

STRAGUALCIA. Non, eh! Ma gli è per uno antipasto.

AGIATO. Guardate che prosciutto, se non pare un cremisi!

PEDANTE. Questo non è cattivo.

FRULLA. Chi s'intende di vino?

STRAGUALCIA. Io, io, meglio che i franzesi.

FRULLA. Assaggia se ti piace: se non, te ne darò di dieci sorti.

STRAGUALCIA. Frulla, al mio parer tu sei piú prattico di questo altro che prima ci mostra il modo da far bere che sappia se 'l vin ci piace. O padrone, gli è buono. Tolle, tolle questa valigia.

PEDANTE. Aspetta un poco. Tu che dici?

AGIATO. Dico che i gentili uomini non si curan d'empire il corpo di tanta robba; ma di poca, buona e dilicata.

STRAGUALCIA. Costui debbe essere spedaliere o oste d'amalati.

PEDANTE. Non parli male. Che ci darai?

AGIATO. Domandate.

FRULLA. Ed io mi maraveglio di voi, gentiluomini. Quando c'è de la robba assai, l'uom può mangiar quel poco o quel molto che gli piace; il che del poco non accade. Poi, come l'uomo comincia, l'appetito cresce e bisogna empirsi il corpo di pane.

STRAGUALCIA. Tu sei piú savio delli statuti. Io non viddi mai uomo che intendesse meglio il mio bisogno di te. Va', ch'io ti vo' bene.

FRULLA. Va' un poco in cucina, fratello, e vede.

PEDANTE. Omnis repletio mala, panis autem pessima.

STRAGUALCIA. Pedante poltrone! Ti rompo, un dí, la bocca, s'io vivo.

AGIATO. Venite, gentiluomini, ché lo star fuore al freddo non è cosa da savi.

FABRIZIO. Eh! Noi non siam cosí gelosi, no.

FRULLA. Sapiate, signori, che questa ostaria dello «Specchio» soleva esser la megliore ostaria di Lombardia. Ma, come io apersi questa del «Matto», non alloggia, in tutto uno anno, dieci persone; e ha piú nome questa mia insegna, per tutto il mondo, che ostaria che sia. Qui vengon francesi a schiera, todeschi quanti ne passano.

AGIATO. Non dici il vero, ché i todeschi vanno al «Porco».

FRULLA. Qui vengono i milanesi, i parmigiani, i piagentini.

AGIATO. Alla mia vengono i veneziani, i genovesi e i fiorentini.

PEDANTE. Ove alloggiano i napoletani?

FRULLA. Con me.

AGIATO. Lasciatevi dire. Alloggian, la piú parte, all'«Amore».

FRULLA. E quanti ne alloggian con me?

FABRIZIO. Il duca di Malfi dove alloggia?

AGIATO. Quando alla mia, quando alla sua, quando alla «Spada», quando all'«Amore», secondo che ben gli mette.

PEDANTE. Dove alloggiano i romani? perché noi siam da Roma.

AGIATO. Con me.

FRULLA. Non è vero: non trovarete un che v'alloggi in tutto l'anno. Vero è che certi cardenali antichi, per usanza, vi sono alloggiati; ma tutti questi novi dan del capo nel «Matto».

STRAGUALCIA. Io non mi partirei di qui, s'io ne fusse strascinato. Vadin costoro dove vogliono. Padrone, son tante pignatte intorno al fuoco, tanti pottaggi, tanti savoretti, tanti intengoli, spedonate di starne, di tordi, di piccioni, capretti, capponi lessi, arrosto e miramessi, guazzini, pasticci, torte che, s'egli aspettasse il carnovale o la corte di Roma tutta, gli bastarebbe.

FRULLA. Hai tu bevuto?

STRAGUALCIA. E che vini!

PEDANTE. Variorum ciborum commistio pessima generat digestionem.

STRAGUALCIA. Bus asinorum, buorum, castronorum, tatte, batatte pecoronibus! Che diavolo andate intrigando l'accia? Che vi venga il cancaro a voi e quanti pedanti si truova! Mi parete un manigoldo, a me. Padrone, entriam drento.

FABRIZIO. Dove alloggian gli spagnuoli?

FRULLA. Io non m'impaccio con loro. Cotesti vanno al «Rampino». Ma che bisogna piú cose? Non c'è persona che vada a torno che non alloggi a questa insegna. Dai sanesi in fuora, che, per esser quasi una cosa medesma coi modanesi, non giongan prima in questa terra che truovan cento amici che se gli menano a casa loro, signori e gran maestri, poveri e ricchi, soldati e buon compagni, tutti corrono al «Matto».

AGIATO. Io dico che i dottori, i giudici, i frati virtuosi, tutti vengono alla mia insegna.

FRULLA. Ed io vi dico che passan pochi giorni che qualcun di quelli che sono alloggiati allo «Specchio» non eschino fuore e non venghino a star con me.

FABRIZIO. Maestro, che faremo?

PEDANTE. Etiam atque etiam cogitandum.

STRAGUALCIA. O corpo mio, fatti capanna; ch'io so che, per una volta, alzarò il fianco.

PEDANTE. Io penso, Fabrizio, che noi aviam pochi denari.

STRAGUALCIA. Maestro, io ci ho veduto un figliuol dell'oste bello come uno angiolo.

PEDANTE. Orsú! Stiam qui. In ogni modo, tuo padre, se lo troviamo, pagará l'oste.

STRAGUALCIA. Parti che 'l cimbel fusse a tempo per far calare il tordo? Io ho giá bevuto tre volte e ho detto una. Io non mi partirò di cucina, ch'io assaggiarò ciò che v'è; e poi dormirò intorno a quel buon fuoco. E cancar venga a chi vuol far robba!

AGIATO. Ricordati, Frulla, che tu me n'hai fatte troppo e, un dí, ci spezzarem la testa; e bene.

FRULLA. A tua posta. Non posso piú presto che ora.

SCENA III

VIRGINIO vecchio e CLEMENZIA balia.

VIRGINIO. Questi sono i costumi che tu gli hai insegnati? Questo è l'onore ch'ella mi fa? Oh sfortunato a me! Per questo ho io campato tante fortune? per veder la mia robba senza erede? per veder la mia casa disfatta, la mia figliuola una puttana? per diventare una fabula del vulgo? per non piú potere alzar la fronte fra gli uomini? per esser mostrato a dito da' fanciulli, deleggiato dai vecchi, messo in comedia dagli Intronati, posto per essempio nelle novelle e portato per bocca dalle donne di questa terra? E forse che non son novelliere! forse che non gli piace di dir male! Giá credo che si sappia per tutto; anzi, ne son certo, ché basta ch'una sola il sappia che, fra tre ore, va per tutta la terra. Disgraziato padre! misero e doloroso vecchio troppo vissuto! Virginio, che farò io? che pensiero ha da essere il mio?

CLEMENZIA. Farai bene di farne manco romore che puoi e veder di proveder, meglio che si potrá, che la torni a casa senza che tutta questa cittá se ne accorga. Ma tanto avesse ella fiato, suor Novellante Ciancini, quanto io credo che sia vero che Lelia vada vestita da uomo! Guarda che elle non dichin cosí perché la vorrebbeno far monaca e che tu gli lassi tutta la robba tua.

VIRGINIO. Come non dice il vero? Ella m'ha per infin detto ch'ella sta per ragazzo con un gentiluomo di questa terra e che egli non s'è ancora accorto ch'ella sia donna.

CLEMENZIA. Potrebbe essere ogni cosa; ma, per me, non lo posso credere.

VIRGINIO. Né io non lo posso credere che non la conosca per donna.

CLEMENZIA. Non dico cotesto, io.

VIRGINIO. Il dico io, ché mi tocca: bench'io stesso mi feci il male, dandola a nutrire a te che sapevo chi tu eri.

CLEMENZIA. Virginio, non piú parole. S'io son stata una trista, m'hai fatta tu. Sai bene che, prima che tu, non mi ebbe altri che il mio marito. Io dico che le fanciulle si voglion trattare altrimenti. Non ti vergognavi di volerla maritare a un vecchio rantacoso che le potrebbe esser nonno?

VIRGINIO. E che hanno i vecchi, manigolda? Son mille volte meglio che i giovani.

CLEMENZIA. Tu sei uscito del sentimento: e però fa bene ognuno a scorgerti e darti ad intender le ciaramelle.

VIRGINIO. S'io la truovo, la strascinarò a casa pe' capegli.

CLEMENZIA. Farai pur come colui che si toglie le corna di seno e se le mette in capo.

VIRGINIO. Non me ne curo. Tanto se ne saria. Basti ch'io me le tagliarò.

CLEMENZIA. Govèrnate a tuo modo, ché non ti dorrá la testa.

VIRGINIO. Io ho avuti i segnali come la va vestita. Tanto la cercarò ch'io la trovarò. Poi bastisi.

CLEMENZIA. Fa' come tu vuoi, ch'io mi vo' partire; ch'io perderei il tempo a lavar carboni. Ma…

SCENA IV

FABRIZIO giovinetto e FRULLA oste.

FABRIZIO. Mentre che questi due miei servidori si riposano, io andarò a vedere la terra. Come si levan, digli che venghino verso piazza.

FRULLA. Per certo, padron mio, che, se io non vi avesse veduto vestir questi panni, io giurarei che voi fusse un giovinetto, servidor d'un gentiluomo di questa terra, che veste come voi di bianco e tanto vi s'assomiglia che quasi parete lui.

FABRIZIO. Saria forse qualche mio fratello?

FRULLA. Potrebbe essere.

FABRIZIO. Direte poi al maestro che cerchi di colui che sa.

FRULLA. Lasciate l'impaccio a me.

SCENA V

PASQUELLA fante e FABRIZIO giovinetto.

PASQUELLA. In buona fé, che eccolo. Avevo paura di non aver a cercar tutta questa terra prima ch'io 'l trovassi. Fabio, che tu sia il ben trovato. Ti venivo a cercare; tu m'hai tolto fatica. Amor mio, dice la padrona che, per una cosa ch'importa a te e a lei, che tu venga or ora a trovarla. Non so giá quel che si sia.

FABRIZIO. Chi è la tu' padrona?

PASQUELLA. Tu lo sai ben, tu, chi ella è. In buona fé, che l'uno e l'altro s'è attaccato bene!

FABRIZIO. Io non son però attaccato; ma, s'ella vuole, ci attaccaremo, e presto.

PASQUELLA. Perché sète due da pochi. Vorrei esser giovine per potere ancor io tôrmene una corpacciata; e so che, s'io fusse in voi, avrei giá posti i sospetti e i rispetti da canto. Ma bene il farete, sí.

FABRIZIO. Eh madonna! Voi non mi conoscete. Andate, ché voi m'avete còlto in iscambio.

PASQUELLA. Oh! Non l'aver per male, Fabio mio, ch'io 'l dico per farti bene.

FABRIZIO. Io non ho per male niente; ma io non ho questo nome e non so' chi voi credete.

PASQUELLA. Or fate pur fra voi due a vostro modo. Ma sai, figliuolo? Delle sue pari, cosí ricche e cosí belle, in questa terra ne son poche. E vorrei che voi cavasse le mani di quel che s'ha da fare; ché andar dinanzi e di dietro, ogni giorno, e tôr parole e dar parole dá che dire alle genti, senza util tuo e con poco onor di lei.

FABRIZIO. Che cosa nova è questa? Io non l'intendo. O che costei è pazza o che m'ha còlto in iscambio. Vo' pur veder dove la mi vuol menare. Andiamo.

PASQUELLA. Oh! Mi par sentir gente in casa. Fermati un poco qui intorno, ché vederò se Isabella è sola. Accennaroti che tu entri, se non vi sará alcuno.

FABRIZIO. Voglio stare a vedere che fine ha d'avere questa favola. Forse costei è serva di qualche cortigiana e credemi fare stare a qualche scudo; ma gli è male informata, ch'io son quasi allievo di spagnuoli e, alla fine, vorrò piú presto uno scudo del suo che dargli un carlin del mio. Qualcun di noi ci sará incòlto. Lasciami scostare un poco da questa casa e por mente che gente v'entra ed esce per saper che razza di donna sia.

SCENA VI

GHERARDO, VIRGINIO e PASQUELLA.

GHERARDO. Tu mi perdonarai. Se gli è cotesto, te la renuncio. E lasciamo stare ch'io penso che, se la tua figliuola ha fatto ciò, l'abbi fatto perché la non voglia me. Ma penso anco ch'ella abbi tolto altri.

VIRGINIO. Nol creder, Gherardo. Credi ch'io tel dicesse? Ti prego che non vogli guastar quel che è fatto.

GHERARDO. Io ti priego che non me ne parli.

VIRGINIO. Oh! Vòi mancar della tua parola?

GHERARDO. A chi m'ha mancato di fatti, sí: oltra che tu non sai se la potrai riavere o no. Tu mi vòi vendere l'uccello in su la frasca. Ho ben sentito, quando tu ragionavi con Clemenzia, il tutto.

VIRGINIO. Quando io non la riabbia, io non te la vo' dare; ma, s'io la riaverò, non sei contento che le nozze si faccin subito?

GHERARDO. Virginio, io ho avuta la piú onorata moglie che fusse in questa cittá e ho una figliuola che è una colombina. Come vòi ch'io mi metta in casa una che s'è fuggita dal padre e va per questa casa e per quella vestita da maschio, come le disoneste donnacce? Non vedi ch'io non trovarei da maritar mia figliuola?

VIRGINIO. Passato qualche dí, non se ne ragionará piú. Che credi che sia? E' non vi è altri che tu e io che lo sappi.

GHERARDO. E poi ne sará piena tutta questa terra.

VIRGINIO. E' non è vero.

GHERARDO. Quant'è ch'ella è fuggita?

VIRGINIO. O ieri o questa mattina.

GHERARDO. Dio 'l voglia. Ma che sai ch'ella sia in Modena?

VIRGINIO. Sollo.

GHERARDO. Or truovala e poi ci riparleremo.

VIRGINIO. Promettimi di pigliarla?

GHERARDO. Vedrò.

VIRGINIO. Or dimmi di sí.

GHERARDO. Nol dico, ma…

VIRGINIO. Or dillo liberamente.

GHERARDO. Adagio! Che fai costí, Pasquella? Che fa Isabella?

PASQUELLA. E che! Sta in ginocchioni dinanzi al suo altaruccio.

GHERARDO. Benedetta sia ella! Io ho una figliuola che sempre sta in orazione. È la maggior cosa del mondo.

PASQUELLA. Oh quanto ben dite! La digiuna tal vigilia che Dio vel dica; dice l'officio, come una santarella.

GHERARDO. Somiglia quella benedetta anima di sua madre.

PASQUELLA. Dice il vero. Oh quanto ben faceva quella meschina! Eran piú le discipline ch'ella si dava e i cilici ch'ella portava che non è quanto bene l'altre fanno oggi: limosiniera per la vita; e, se non fusse stato per amor di voi, non capitava né frate né prete né povarello a quello uscio che non ricettasse e non gli desse ciò ch'ella aveva.

VIRGINIO. Coteste eran buone parti.

PASQUELLA. Vi dico piú oltre che la si levò dugento volte, una e due ore innanzi dí, per andar alla prima messa de' frati di San Francesco, ché non voleva esser veduta né tenuta una pòrchita come fanno certe graffiasanti ch'io conosco.

GHERARDO. Come «pòrchita»? Che vuo' tu dire?

PASQUELLA. Pòrchita, sí; come si dice?

VIRGINIO. Cotesta è una mala parola.

PASQUELLA. So ch'io sentivo dir cosí a lei.

GHERARDO. Tu vuoi dire ipocrita, tu.

PASQUELLA. Forse. Ma vi dico che sua figliuola sará ancor piú di lei.

GHERARDO. Dio il voglia.

VIRGINIO. Oh Gherardo, Gherardo! Questa è colei di che aviam ragionato. Oh scontento padre! Forse che si nasconde o che si fugge per avermi veduto? Accostiamoglici.

GHERARDO. Vedi di non far errore, ché forse non è essa.

VIRGINIO. Chi non la conosceria? Non vegg'io tutti i segnali che m'ha dati suor Novellante?

PASQUELLA. La cosa va male. Che sí ch'io n'arò le mie!

SCENA VII

VIRGINIO, GHERARDO e FABRIZIO giovinetto.

VIRGINIO. Addio, buona fanciulla. Parti che questo sia abito conveniente a una tua pari? Questo è l'onor che tu fai alla casa tua? Questo è il contento che tu dái a questo povero vecchio? Almen fuss'io morto quando io t'ingenerai! ché non sei nata se non per disonorarmi, per sotterarmi vivo. Oh Gherardo! Che ti par della tua sposa? parti ch'ella ci facci onore?

GHERARDO. Cotesto non dich'io. Sposa, eh?

VIRGINIO. Ribalda, scelerata! Come ti starebbe bene che costui non ti volesse piú per moglie e non trovasse piú partito! Ma ei non guardará alle tue pazzie; e ti vuol pigliare.

GHERARDO. Adagio!

VIRGINIO. Entra costí in casa, sciaurata! che fu ben maladetto il latte che tua madre ti porse il dí ch'io t'ingenerai.

FABRIZIO. O buon vecchio, avete voi figliuoli, parenti o amici in questa terra a' quali appartenga aver cura di voi?

VIRGINIO. Guarda che risposta! Perché dici cotesto?

FABRIZIO. Perché mi maraviglio che, avendo voi tanto bisogno di medico, vi lascino uscir di casa; ché, in ogni altro luogo che voi fusse, vi terreben legato.

VIRGINIO. Legata dovevo io tener te, che mi vien voglia di scannarti! Portami un coltello.

FABRIZIO. Vecchio, voi non mi conoscete bene; e ditemi villania, forse pensando ch'io sia forestiero. Ed io son cosí ben da Modana come voi e figliuol di sí buon padre e di sí buona casa come voi.

GHERARDO. Gli è bella, in fine. Se non c'è altro errore che quanto si vede, io la vo' pigliare.

VIRGINIO. E perché ti sei partita da tuo padre e dal luogo dove io t'avevo raccomandata?

FABRIZIO. Me non raccommandaste voi mai, ch'io sappia; ma il partir mi fu forza.

VIRGINIO. Forza, eh? e chi ti sforzò?

FABRIZIO. Gli spagnuoli.

VIRGINIO. E adesso donde vieni?

FABRIZIO. Di campo.

VIRGINIO. Di campo?

FABRIZIO. Di campo, sí.

GHERARDO. Non ne sia fatto nulla.

VIRGINIO. Oh sventurata a te!

FABRIZIO. Questo sia sopra di voi.

VIRGINIO. Gherardo, di grazia, mettiamola in casa tua, ch'ella non sia veduta cosí.

GHERARDO. Non farò. Menala pure alla tua.

VIRGINIO. Per mio amore, fa' un poco aprire l'uscio.

GHERARDO. Non, dico.

VIRGINIO. Ascolta un poco. E voi aviate cura che costei non vada altrove.

FABRIZIO. Io ho conosciuti molti modanesi pazzi li quali non contarei per nome; ma pazzi come questo vecchio, che non stesse o legato o rinchiuso, non viddi alcuno mai. Guarda che bello umore! È impazzato in questo, per quanto mi sono accorto: che i gioveni gli paion donne. Oh! Questa è molto piú bella pazzia che quella che il Molza disse della donna sanese che gli pareva essere una vettina: essendo piú propio delle donne aver poco cervello che de' vecchi che, per mille ragioni, deveno essere savissimi. E non vorrei per cento scudi non poter contar questa pazzia alle veglie, al tempo dei carnovali. Or vengono in qua. Vediamo quel che dicono.

GHERARDO. Io ti dirò il vero. Da un canto, mi pare; dall'altro, no. Pure, se gli può domandare un poco meglio.

VIRGINIO. Vien qua.

FABRIZIO. Che volete, buon vecchio?

VIRGINIO. Tu sei ben trista, tu.

FABRIZIO. Non mi dite villania, ch'io non comportarò.

VIRGINIO. Sfacciata!

FABRIZIO. Oh! oh! oh! oh! oh! oh! oh!

GHERARDO. Lascial dire: non vedi che gli è scorrucciato? Fa' a suo modo.

FABRIZIO. Che vuol da me? che ho da far né con voi né con lui?

VIRGINIO. Ancor hai ardir di parlare? Di chi sei figliuola, tu?

FABRIZIO. Di Virginio Bellenzini.

VIRGINIO. Volesse Dio che tu non fusse! ché tu mi farai morir innanzi tempo.

FABRIZIO. Innanzi tempo muore un vecchio di sessant'anni? Tanto vivesse ognuno! Morite a vostra posta, ché sète vissuto troppo.

VIRGINIO. Tua colpa, ribalda!

GHERARDO. Eh! Lasciate queste parole. Figliuola mia e sorella mia, non si risponde cosí al padre.

FABRIZIO. Lascia andare i colombi, e' s'appaiano. Tutt'a due questi peccano d'un medesimo umore. E che bel caso! Ah! ah! ah! ah! ah!

VIRGINIO. Ancor ridi?

GHERARDO. Questo è un mal segno, a farsi beffe del padre.

FABRIZIO. Che padre? che madre? Io non ebbi mai altro padre che Virginio né altra madre che Giovanna. Voi mi parete una bestia. Che vi credete, forse, ch'io non abbi alcun per me?

GHERARDO. Virginio, sai che dubito? che, per maninconia, non abbi a questa povera giovane dato volta il cervello.

VIRGINIO. Trist'a me! ch'io me n'accorsi fino al principio, quando vidi che con sí poca pazienzia mi venne innanzi.

GHERARDO. No: questo poteva proceder da altro.

VIRGINIO. E da che?

GHERARDO. Com'una donna ha perduto l'onore, tutto 'l mondo è suo.

VIRGINIO. Io dico che l'ha qualche pazzia nel capo.

GHERARDO. Pur, si ricorda del padre e della madre; mentre par che non ti conosca.

VIRGINIO. Faciamola entrare in casa tua, poi che gli è qui vicina, ché alla mia non la potrei far condurre senza farmi scorgere a tutta la terra.

FABRIZIO. Che se consegliano quei rimbambiti, fratelli di Melchisedec?

VIRGINIO. Facciamo in prima con le buone tanto che noi la conduciamo dentro; poi, per forza, la serraremo in camara con tua figliuola.

GHERARDO. Che si faccia.

VIRGINIO. Orsú, figliuola mia! Io non voglio star teco piú in còlora. Ti perdono ogni cosa, pur che attendi a viver bene.

FABRIZIO. Vi ringrazio.

GHERARDO. Cosí fanno le buone figliuole.

FABRIZIO. Ecco l'altro rosto fresco.

GHERARDO. Orsú! Non v'è onore esser visti ragionar fuore in questo abito. Entratevene in casa. Pasquella, apre l'uscio.

VIRGINIO. Entra, figliuola mia.

FABRIZIO. Cotesto non farò io.

GHERARDO. Perché?

FABRIZIO. Perché non voglio entrar per le case d'altri.

GHERARDO. Costei sará una Penelope, beato a me!

VIRGINIO. Non diss'io che la mia figliuola era bella e buona?

GHERARDO. L'abito 'l mostra.

VIRGINIO. Ti vo' dir solamente una parola.

FABRIZIO. Ditela di fuore.

GHERARDO. Eh che non sta bene! Questa casa è la tua; tu hai da esser la mia moglie.

FABRIZIO. Che moglie? Vecchio bugia… bugiardo!

GHERARDO. Tuo padre mi t'ha pur promessa.

FABRIZIO. Che pensate ch'io sia forse qualche bagascia che si faccia, eh?…

VIRGINIO. Orsú! Non la far corrucciar. Odi, figliuola mia. Io non vo' far se non quel tanto che tu vorrai.

FABRIZIO. Eh, vecchio! Mi conoscete male.

VIRGINIO. Ode una parola qui dentro.

FABRIZIO. Dieci, non tanto una: ho forse paura di voi?

VIRGINIO. Gherardo, ora che voi l'avete qui drento, ordiniamo di serrarla in camara con tua figliuola fino a tanto che si rimanda pei suoi panni.

GHERARDO. Ciò che tu vuoi, Virginio. Pasquella, porta la chiave della camera da basso e chiama Isabella che venga giú.

ATTO IV

SCENA I

PEDANTE e STRAGUALCIA.

PEDANTE. Egli ti starebbe molto bene ch'egli ti desse cinquanta bastonate per insegnarti, quando e' va fuore, a fargli compagnia e non t'imbriacasse e poi dormire, come hai fatto, e lasciarlo andar solo.

STRAGUALCIA. E voi doveria far caricar di scope, di solfo, di pece, di polvere e darvi fuoco per insegnarvi a non esser quel che voi sète.

PEDANTE. Imbriaco! imbriaco!

STRAGUALCIA. Pedante! pedante!

PEDANTE. Lassa ch'io trovi il padrone!…

STRAGUALCIA. Lasciate ch'io truovi suo padre!…

PEDANTE. Oh! A suo padre che puoi dir di me?

STRAGUALCIA. E voi che potete dir di me?

PEDANTE. Che tu sei un gaglioffo, un manigoldo, un infingardo, un poltrone, un pazzo, uno imbriaco, posso dire.

STRAGUALCIA. E io che voi sète un ladro, un giocatore, una mala lingua, un barro, un mariuolo, un frappatore, un vantatore, un capo grosso, uno sfacciato, uno ignorante, un traditore, un sodomito, un tristo, posso dire.

PEDANTE. Noi siamo conosciuti.

STRAGUALCIA. Voi dite 'l vero.

PEDANTE. Basta: non piú parole. Non mi vo' metter con un par tuo, ché non m'è onore.

STRAGUALCIA. Sí, per Dio! Tutta la nobilitá della Maremma è in voi! Sareste mai altro che figliuol d'un mulattiere? Non son io nato meglio di voi? Pare onesto a questo furfante, poi che sa dir « cuius masculini », di tener ognun sotto i piei.

PEDANTE. «Povera e nuda vai, filosofia». In bocca di chi son venute le povere lettere? D'uno asino.

STRAGUALCIA. L'asino sarete voi, se non parlate altrimenti; ché vi caricarò di legname.

PEDANTE. Sai che ti ricordo? Furor fit laesa saepius sapientia. Tu mi farai, un tratto, uscir del manico, Stragualcia. Lasciami stare, famegliaccio di stalla, poltrone, arcipoltrone!

STRAGUALCIA. Doh pedante, arcipedante, pedante, pedantissimo! Puossi dir peggio che pedante? trovasi la peggior genia? ècci la maggior canaglia? trovasi esercizio peggiore? Forse che non vanno gonfiati perché altri gli chiama «messer tale» e «maestro quale»? e che non rispondono con riputazione a una sbirettata discosto un miglio? Comanda, messer caca, messer stronzo, maestro squaquara, messer merda?

PEDANTE. Tractant fabrilia fabri. Tu parli propio da quel che sei.

STRAGUALCIA. Parlo di quel che vi piace.

PEDANTE. Vòimiti levar dinanzi?

STRAGUALCIA. Io non vi ci fui mai dinanzi: benché non è restato da voi.

PEDANTE. Al corpo di…

STRAGUALCIA. Al corpo ci… Guarda chi mi vuol dir villania! Sa che non fece mai tristizia ch'io non sappia e che, s'io volesse, il potrei fare ardere, e pur mi sta a rompere il culo.

PEDANTE. Ti menti per la gola, ch'io non son uomo da ciò.

STRAGUALCIA. Sarebbe forse il primo.

PEDANTE. Ho deliberato, Stragualcia, o che tu non starai in casa o ch'io non ci starò io.

STRAGUALCIA. È forse la prima volta che l'avete detto? Voi non ve ne partiresti, se altri ve ne cacciasse con le granate. Ditemi un poco: chi trovareste voi che vi tenesse a tavola seco, nello studio seco, a dormire seco, se non questo giovinetto che è meglio del pane?

PEDANTE. Per Dio, sí, mi mancarebbeno i partiti, quando io gli volesse! Ho tal che mi prega.

STRAGUALCIA. Oh la buona robba! Passate, passate.

PEDANTE. Vogliam far poche parole; e farai bene. Tórnatene a l'ostaria ed abbi cura alle robbe del padrone. Poi faremo conto insieme.

STRAGUALCIA. All'ostaria tornarò io volentieri e conto farò io a vostra posta; ma pensate d'avere a pagar voi. S'io non facesse qualche volta il viso dell'arme a questo sciagurato, non potrei viver con lui. Egli è piú vil ch'un coniglio. Com'io lo bravo, non fa parola; ma, s'io me gli mettesse sotto, mi squartarebbe, sí gross'ha la discrezione! Buon per me che lo conosco!

PEDANTE. Il Frulla m'ha detto che Fabrizio sará in verso piazza. E però sará buono ch'io pigli di qua.

SCENA II

GHERARDO, VIRGINIO e PEDANTE.

GHERARDO. De la dote quel che è detto è detto. La dotarò come tu vorrai; e tu aggiugni mille fiorini, quando tuo figliuol non si truovi.

VIRGINIO. Cosí sia.

PEDANTE. S'io non m'inganno, io ho veduto questo gentiluomo altre volte; né mi ricordo dove.

VIRGINIO. Che mirate, uomo da bene?

PEDANTE. Certo, questo è il padrone.

GHERARDO. Lascia mirar quel che gli piace. Debb'esser poco pratico in questa terra: ché, negli altri luochi, non si pon mente a chi mira come qui; ma si lascia mirar ognuno.

PEDANTE. S'io miro, io non miro sine causa. Ditemi: conoscete voi in questa terra messer Virginio Bellenzini?

VIRGINIO. Sí, conosco; e non potrebb'esser piú mio amico di quel che gli è. Ma che volete voi da lui? Se pensate d'alloggiar seco, vi dico che gli ha altre facende e che non vi pò attendere: sí che cercate pur altro oste.

PEDANTE. Voi sète per certo esso. Salvete, patronorum optime.

VIRGINIO. Sareste mai messer Pietro de' Pagliaricci maestro di mio figliuolo?

PEDANTE. Sí, sono.

VIRGINIO. Oh figliuol mio! Trist'a me! Che nuove mi portate di lui? ove il lasciaste? ove morí? perché sète stato tanto ad avvisarmi? ammazzoronlo quei traditori, quei iudei, quei cani? Figliuol mio! Era quanto bene io avevo al mondo! O caro maestro mio, presto! Ditemelo: ve ne prego.

PEDANTE. Non piangete, messer, di grazia.

VIRGINIO. Oh Gherardo, genero mio! Ecco chi m'allevò quel povero figliuolo mentre che visse. Oh maestro! O figliuol mio, dove se' tu sotterato? Sapetene nulla? ché non mel dite? ch'io muoio di voglia di saperlo e di paura di non intender quello ch'io intenderò.

PEDANTE. O padron mio, non piangete. Perché piangete?

VIRGINIO. Non piangerò io un cosí dolce figliuolo? cosí savio? cosí dotto? cosí bene allevato? che quei traditori me l'ammazzorono.

PEDANTE. Iddio ve ne guardi, voi e lui. Vostro figliuolo è vivo e sano.

GHERARDO. Mal per me, se questo è. Perdut'ho io mille fiorini.

VIRGINIO. Vivo e sano? Che? Se cosí fusse, saria ora con voi.

GHERARDO. Virginio, conosci ben costui, che non sia qualche barro?

PEDANTE. Parcius ista viris, tamen obiicienda memento.

VIRGINIO. Ditemi qualche cosa, maestro.

PEDANTE. Vostro figliuolo, nel sacco di Roma, fu prigione d'un capitano Orteca.

GHERARDO. State a udire, ché ora comincia la favola.

PEDANTE. E perché gli era a compagnia con due altri, pensando d'ingannarsi, secretamente ci mandò a Siena. Di lí a pochi giorni venn'egli dubitando che quei gentiluomini sanesi, che sono molto amici del dritto e del ragionevole e molto affezionati a questa nazione e sopra tutto uomini da bene, non glie lo tollesseno e liberasseno. Lo cavò di Siena e mandò a un castel del signor di Piombino; e per usque millies ci fece scrivere per mille ducati di taglia che gli avea posto.

VIRGINIO. Figliuol mio! Straziavanlo, almanco?

PEDANTE. Non certo; ma il trattavan da gentiluomo.

GHERARDO. Io sto con la morte alla bocca.

PEDANTE. Non avemmo mai risposta di lettere che noi mandassemo.

GHERARDO. Tu intendi. Che sí che ti cavará di man qualche scudo?

VIRGINIO. Segue.

PEDANTE. Or, essendoci condotti col campo spagnuolo in Corregia, fu questo capitano ammazzato; e la corte prese la sua robba e noi ha liberati.

VIRGINIO. E dov'è il mio figliuolo?

PEDANTE. Piú presso che non credete.

VIRGINIO. È forse in Modana?

PEDANTE. Se mi promettete il beveraggio, quia omnis labor optat praemium, io vel dirò.

GHERARDO. Or questa è la cosa, truffatore!

PEDANTE. Voi avete il torto. Truffatore io? Absit.

VIRGINIO. Prometto ciò che voi volete. Dove è?

PEDANTE. Nell'ostaria del «Matto».

GHERARDO. La cosa è fatta: i mille fiorini son giocati. Ma che mi fa a me? Pur ch'i' abbi lei, mi basta. Io son ricco d'avanzo.

VIRGINIO. Andiamo, maestro, ch'io non credo veder quell'ora ch'io 'l vegghi, ch'io l'abbracci, ch'io 'l baci e lo pigli in collo.

PEDANTE. Padrone, oh quanto mutatur ab illo! E' non è piú fanciullo da pigliare in collo. Voi non lo conoscereste. Gli è fatto grande. E so certo che non riconoscerá voi, cosí sète mutato! Praeterea avete questa barba, che prima non la portavate; e, s'io non vi sentivo parlare, non vi arei mai conosciuto. Che è di Lelia?

VIRGINIO. Bene. Gli è fatta grande e grossa.

GHERARDO. Come «grossa»? Se gli è cotesto, tientela; ch'io, per me, non la voglio.

VIRGINIO. Oh! oh! Io dico che gli è fatta giá una donna. O maestro, io non v'ho ancor baciato.

PEDANTE. Padrone, io non dico per vantarmi; ma io ho fatto per il vostro figliuolo… so ben io. E n'ho avuta cagione, ch'io non lo richiesi mai di cosa che subito egli non s'inchinasse a farla.

VIRGINIO. Come ha imparato?

PEDANTE. Non ha perduto il tempo a fatto, ut licuit per varios casus, per tot discrimina rerum.

VIRGINIO. Chiamatelo un poco fuore; e non gli dite niente. Vo' veder se mi conosce.

PEDANTE. Egli era uscito dell'ostaria poco fa. Veggiamo se gli è tornato.

SCENA III

PEDANTE, STRAGUALCIA, VIRGINIO e GHERARDO.

PEDANTE. Stragualcia! o Stragualcia! È tornato Fabrizio?

STRAGUALCIA. Non anco.

PEDANTE. Vien qua. Fa' motto al padron vecchio. Questo è messer Virginio.

STRAGUALCIA. Èvvi passata la còllora?

PEDANTE. Non sai ch'io non tengo mai còllora con te?

STRAGUALCIA. Fate bene.

PEDANTE. Or da' qua la mano al padre di Fabrizio.

STRAGUALCIA. Porgetemela voi.

PEDANTE. Non dico a me; dico a questo gentiluomo.

STRAGUALCIA. È questo il padre del nostro padrone?

PEDANTE. Sí, è.

STRAGUALCIA. O padron magnifico, a tempo veniste per pagar l'oste. Ben gionto.

PEDANTE. Costui è stato un buon servitore a vostro figliuolo.

STRAGUALCIA. Volete forse dir ch'io non gli son piú?

PEDANTE. No.

VIRGINIO. Che tu sia benedetto, figliuol mio! Pensa ch'io ho da ristorar tutti quelli che gli han fatto buona compagnia.

STRAGUALCIA. Voi mi potete ristorar con poca cosa.

VIRGINIO. Dimanda.

STRAGUALCIA. Acconciatemi per garzon con questo oste che è il miglior compagno del mondo e 'l meglio fornito e 'l piú savio e quel che meglio intende il bisogno del forestiero che oste che mai io vedesse. Io, per me, non credo che sia altro paradiso al mondo.

GHERARDO. Gli ha nome di tener molto bene.

VIRGINIO. Hai tu fatto colazione?

STRAGUALCIA. Un poco.

VIRGINIO. Che hai mangiato?

STRAGUALCIA. Un par di starne, sei tordi, un cappone, un poca di vitella; e bevuto due boccali solamente.

VIRGINIO. Frulla, dágli ciò che vuole; e lascia pagare a me.

PEDANTE. Or che vuoi?

STRAGUALCIA. Vi bacios las manos. A questo modo son fatti i padroni, maestro! Messer Pietro, voi sète troppo misero e volete ogni cosa per voi. Sapete da quanti v'è stato detto. Frulla, porta un poco da bere a questi gentiluomini.

PEDANTE. Non bisogna, no.

STRAGUALCIA. So che voi berete. Pagarò io. Che credete che sia? Due animelle, una fetta di salsiccione… Volete? Maestro, bevete voi ancora.

PEDANTE. Per far teco la pace, son contento.

STRAGUALCIA. Oh! gli è buono! Padrone, voi avete da voler bene al maestro che vuol meglio al vostro figliuolo che agli occhi suoi.

VIRGINIO. Dio gli facci di bene.

STRAGUALCIA. Tocca prima a voi e poi a Dio. Bevete, gentiluomo.

GHERARDO. Non accade.

STRAGUALCIA. Per gentilezza, entrate drento, tanto che Fabrizio torni; e, poi che la cena è in ordine, cenaremo qui, questa sera.

PEDANTE. Questo non è forse male.

GHERARDO. Io vi lasciarò, ché ho un poco di facenda a casa.

VIRGINIO. Abbi cura che colei non si parta.

GHERARDO. Non ci vo per altro.

VIRGINIO. Gli è tua; fanne a tuo modo; per me, te ne do licenzia.

GHERARDO. In fine, e' non si possono aver tutti i contenti. Pazienzia! Ma, s'i' veggo bene, questa è Lelia che sará uscita fuora. Quella da poco della fantesca l'ará lasciata fuggire.

SCENA IV

LELIA da ragazzo, CLEMENZIA balia e GHERARDO.

LELIA. Parti, Clemenzia, che la Fortuna si tolga giuoco del fatto mio?

CLEMENZIA. Dátene pace e lascia fare a me, ché trovarò qualche modo da contentarti. Va' cavati questi panni, ché tu non sia veduta cosí.

GHERARDO. Io la vo' pur salutare e intender com'egli è fuggita. Dio ti contenti e te, Lelia, sposa mia dolce. Chi t'ha aperto l'uscio? La fantesca, eh? A me piace ben che tu sia venuta a casa della tua balia; ma l'esser veduta in questo abito è poco onore e a te e a me.

LELIA. Oh sventurata! Costui m'ha conosciuta. Con chi parlate voi? Che Lelia! Io non son Lelia.

GHERARDO. Oh! Poco fa, che noi t'inserrammo con Isabella mia figliuola, tuo padre ed io, non confessasti tu d'esser Lelia? e, poi, credi ch'io non ti conoschi, moglie mia? Va' cavati questi panni.

LELIA. Tanto v'aiti Dio, io arei voglia di marito!

CLEMENZIA. Vanne in casa, Gherardo mio. Tutte le donne fan delle citolezze, chi in un modo e chi in un altro. E sappi che poche e forse niuna ve n'è che non scapuzzi, qualche volta. Pure, son cose da tenerle segrete.

GHERARDO. Per me, non se ne saprá mai nulla. Ma come è fuggita di casa mia, che l'avevo serrata con Isabella?

CLEMENZIA. Chi? costei?

GHERARDO. Costei.

CLEMENZIA. Tu t'inganni, ché non s'è mai oggi partita da me: e, per giambo, s'era testé messi questi panni, come fan le fanciulle; e dicevami ch'io mirasse se stava bene.

GHERARDO. Tu mi vuoi far travedere. Dico che noi la inserrammo in casa con Isabella.

CLEMENZIA. Donde venite voi adesso?

GHERARDO. Dall'ostaria del «Matto», che v'andai con Virginio.

CLEMENZIA. Beveste?

GHERARDO. Un trattarello.

CLEMENZIA. Or andate a dormire, ché voi n'avete bisogno.

GHERARDO. Fammi veder un poco Lelia prima ch'io mi parti; ch'io gli vo' dare una buona nuova.

CLEMENZIA. Che nuova?

GHERARDO. Gli è tornato suo fratello sano e salvo e che 'l padre l'aspetta all'ostaria.

CLEMENZIA. Chi? Fabrizio?

GHERARDO. Fabrizio.

CLEMENZIA. S'io 'l credessi, ti darei un bacio.

GHERARDO. Sí che la gioia è bella! Famel piú presto dare a Lelia.

CLEMENZIA. Io vo' correre a dirglielo.

GHERARDO. Ed io a darne un follo a quella sciagurata che l'ha lasciata partire.

SCENA V

PASQUELLA fante, sola.

Uh trista a me! Io ho avuta sí fatta la paura ch'io son uscita fuor di casa. E so che, s'io non vi dicessi di che, donne mie, voi nol sapreste. A voi lo vo' dire; e non a questi uominacci che se ne farebben le belle risa. Que' due vecchi pecoroni dicevan pur che quel giovinetto era donna; e rinserroronlo in camera con Isabella mia padrona; e a me dieder la chiave. Io vòlsi entrar dentro e veder quel che facevano: e trovai che s'abbraciavano e si baciavano insieme. Io ebbi voglia di chiarirmi se era o maschio o femina. Avendolo la padrona disteso in sul letto, e chiamandomi ch'io l'aiutasse mentre ch'ella gli teneva le mani, egli si lasciava vincere. Lo sciolsi dinanzi: e, a un tratto, mi sentii percuotere non so che cosa in su le mani; né cognobbi se gli era un pestaglio o una carota o pur quell'altra cosa. Ma, sia quel che si vuole, e' non è cosa che abbia sentita la grandine. Come io la viddi cosí fatta, fugge, sorelle, e serra l'uscio! E so che, per me, non ve tornarei sola; e, se qualcuna di voi non mel crede e voglia chiarirsene, io gli prestarò la chiave. Ma ecco Giglio. Io vo' vedere s'io posso far tanto ch'io gli cavi di man quella corona e uccellarlo; perché si tengon tanto accorti, questi spagnuoli, che non si credon ch'altri si truovi al mondo che loro che tanto ne sappi.

SCENA VI

GIGLIO spagnuolo e PASQUELLA fante.

GIGLIO. Agliá sta Pasquella. Ya penso que le paresca que muccio tardasse, per arta gana que tiene de ser con migo. Ya sape, la malditta, quanto valen los spagnuolos en las cosas dellas mugeres. Oh come se holgan de nos otros estas puttas italianas!

PASQUELLA. Io ho giá pensato in che modo ho a fare a farlo star forte. Lascia pur fare a me.

GIGLIO. Esta male aventurada lavandera sí se piensa ch'io gli desse el rosario. Renniego dell'imperador se io non quiero qu'ella hurti tanto á suo amo que me compri calzas y giuppon y camisas, de dos in dos. Holgaromme yo con ella á mio plazer y despues tommaré á mio rosario sin dezir nada; que ya me pienso que ya non s'accorda d'ello.

PASQUELLA. Se mi lascia una volta in mano quella corona, se la vede mai piú, cavami gli occhi. E, se mi dirá niente, gli farò fare un sí fatto spauracchio dal mio Spela che mai non n'ebbe un sí fatto.

GIGLIO. Oh que benditta sia quella bien aventurada madre que vi fezio e criò tan hermosa, tan bien criada, tan verdadera! Ya penso que me speravate.

PASQUELLA. Mira che dolci paroline che gli hanno! T'ho aspettato in su questo uscio piú d'una mezza ora, per veder se tu ci passavi; ché 'l mio padrone non era in casa e aremmo avuto tempo di stare insieme un pezzo.

GIGLIO. Rencrescime, per Dios, che ho tenuto que fazer. Mas entriamo.

PASQUELLA. Ho paura che 'l padron non torni, ché ha un pezzo che andò fuora. Ma tu ti debbi esser scordata la corona, eh?

GIGLIO. Non, madonna; que á qui sta.

PASQUELLA. Mostra. Oh! Tu volevi fare acconciare il fiocco. Perché non l'hai fatto?

GIGLIO. Io le farò acconciar otra volta: y, per dezir la verdade, io non me ne so accordado.

PASQUELLA. Oh! È segno che tu facevi un gran conto di me, feminaccio che tu sei! Mi vien voglia…

GIGLIO. Non vi corruzate, madonna, con vostro figliuolo; que ben sapite que non tengo otra amiga que vos.

PASQUELLA. Son stata molto a cògliarti in bugia! Poco fa tu dicesti che n'avevi due, delle gentildonne, per amiche.

GIGLIO. Io las ho lasciatas per á voi, que non voglio io otra que voi. Non m'intendite?

PASQUELLA. Or bene sta. Mostrami un poco se questa corona è rosario. La mi par molto lunga.

GIGLIO. Non so, io, quanti siano.

PASQUELLA. È segno che la dici spesso: nol debbi tu forse sapere il paternostro. Eh! Dágli un po' qua, ch'io gli conti.

GIGLIO. Tommala; mas vamo dentro en casa.

PASQUELLA. Sai? Guarda che tu non sia veduto entrare.

GIGLIO. Á qui non sta ninguno.

PASQUELLA. Entriamo. Uh trista a me! Le mie galline son tutte qui. Fermati, Giglio, un poco costí; ché, se fuggissero, non le giugnerei oggi.

GIGLIO. Facite presto.

PASQUELLA. Chino, chino, belline, belline, belline, iscio, iscio! Che ve rompiate il collo! Che sí che se ne fuggirá qualcuna? Para, para ben, Giglio.

GIGLIO. Donde stan estos pollos? Aquí non veo ni gallos ni gallinas.

PASQUELLA. Non gli vedi? Eccoli qui. Levati; lasciami un poco serrare l'uscio, tanto ch'io ce gli rimetta.

GIGLIO. Oh! Voi inserrate col fierro. Oh! Este porqué?

PASQUELLA. Perch'io non vorrei che questi polli l'aprisseno.

GIGLIO. Fazite presto, ché algun non vienga y desturbe nostra fazienda.

PASQUELLA. Venga pur chi vuole, ché qua dentro non è per intrare.

GIGLIO. Oh que malditta seas, vieia putta! Dizetemi: por que non aprite?

PASQUELLA. Giglio, sai, ben mio? Io vo' prima dir tutta questa corona. Tu pòi andartene, per istasera. E' non mi ricordavo ch'io ho anco a dire una orazione che non la soglio mai lasciare.

GIGLIO. Que trepparie son este? que corona? que orazion es esta?

PASQUELLA. Che orazione? vuoi ch'io te la insegni? Sai? È buona a dire. «Fantasima, fantasima, che dí e notte vai, se a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n'andrai. Tristi con tristi, in mal'ora ci venisti e me coglier ci credesti e 'ngannato ci remanesti. Amen».

GIGLIO. Io no intendo á esta vostra orazione. Se non volite aprire, renditemi mio rosario, que io me irò con Dios. Voto allos santos martilogios que esta vieia alcahueta, disdicciada, vellacca ingagnommi. Madonna Pasquella, aprite; presto, per vostra vida.

PASQUELLA. «Che fa lo mio amor ch'egli non viene? L'amor d'un'altra donna me lo tiene». Meschina a me!

GIGLIO. E que! Non faze, donna Pasquella, que á qui sta sperando que gli apriate.

PASQUELLA. «Non ti posso servir, signor mio caro». Oimè!

GIGLIO. Aze musiga esta male avventurada. Ya non se accuerda que á qui sto. Daré colpo in esta puerta, voto á Dios. Tic, tac, tic, toc.

PASQUELLA. Chi è lá?

GIGLIO. Vostro figliuolo.

PASQUELLA. Che volete? Il padron non è in casa. Bisogna che si gli dica niente?

GIGLIO. Una parabla.

PASQUELLA. Aspetate, ché non può stare a venire.

GIGLIO. Aprite, que aspettarò drento. Partióse. Do renniego de todo el mondo, se non bruso toda esta posada, se non mi rende mio rosario. Tic, tic, toc.

PASQUELLA. Olá! Ch'è da esser? Voi avete una poca discrezione, perdonatemi. Chi voi sète? Oh! Par che voi vogliate spezzar questa porta.

GIGLIO. Voto á Dios e a santa Letania che anco la brusciarò, se non mi rendide mio rosario.

PASQUELLA. Cercatevene pure altrove; ché in su l'orto non ce ne abbiam, de' rosai.

GIGLIO. Non dico se non mis paternostros.

PASQUELLA. Che n'ho io a fare, se voi non dite se non i vostri paternostri? Vorreste forse ch'io diventasse una marrana come voi e imparasse a dirgli ancor io?

GIGLIO. Oh reniego de la putta, vellacca! Aun me dizeis marrano?

PASQUELLA. Sai? Se tu non ti levi d'intorno a l'uscio, ti bagnarò.

GIGLIO. Ecciade l'agua; el fuogo porrò io a esta puerta. Malditta sea! Todo me ha mollado, esta putta, vellacca, viegia alcahueta, male aventurada! Oh reniego de todos los frailes!

PASQUELLA. Bagna'vi? Non me ne avviddi. Ma ecco il padrone. Se volete niente, domandatelo a lui e non mi rompete piú il capo.

GIGLIO. Se á qui me truova esto vieio, mil palos non mi mancan. Meior es de fuir.

SCENA VII

GHERARDO e PASQUELLA.

GHERARDO. Che facevi tu, intorno a l'uscio, di quello spagnuolo? Che hai tu da far con lui?

PASQUELLA. Domandava non so che rosaio. Io, per me, non l'ho mai inteso.

GHERARDO. Oh! Tu hai fatto ben quel ch'io ti dissi! Ho cosí voglia di romperti l'ossa.

PASQUELLA. Perché?

GHERARDO. Perché hai lasciato partir Lelia? Non ti diss'io che tu non gli aprisse?

PASQUELLA. Quando partí? non è ella in camera?

GHERARDO. È il malan che Dio ti dia.

PASQUELLA. So che la v'è, io.

GHERARDO. So che la non v'è; ché l'ho lasciata in casa di Clemenzia sua balia.

PASQUELLA. Non l'ho io testé lasciata in camara, in ginocchioni, che infilzavano i paternostri?

GHERARDO. Forse è tornata prima di me.

PASQUELLA. Dico che non s'è partita, ch'io sappi. La camara è pur stata serrata.

GHERARDO. Dov'è la chiave?

PASQUELLA. Eccola.

GHERARDO. Dammela: ché, se non v'è, ti vo' rompere l'ossa.

PASQUELLA. E, se la v'è, daretemene una camiscia?

GHERARDO. Son contento.

PASQUELLA. Lasciate aprire a me.

GHERARDO. No; voglio aprir io: tu trovaresti qualche scusa.

PASQUELLA. Oh! Io ho la gran paura che non gli truovi a' ferri. Pure, ha un pezzo ch'io gli lasciai.

SCENA VIII

FLAMMINIO, PASQUELLA e GHERARDO.

FLAMMINIO. Pasquella, quant'è che 'l mio Fabio non fu da voi?

PASQUELLA. Perché?

FLAMMINIO. Perché gli è un traditore; e io lo gastigarò. E, poi ch'Isabella ha lasciato me per lui, se l'ará come merita. Oh che bella lode d'una gentildonna par sua, innamorarsi d'un ragazzo!

PASQUELLA. Uh! Non dite cotesto, ché le carezze ch'ella gli fa gli le fa per amor vostro.

FLAMMINIO. Digli che ancora, un dí, se ne pentirá. A lui, com'io lo truovo (i' porto questo coltello in mano a posta), gli vo' tagliar le labbra, l'orecchie e cavargli un occhio; e metter ogni cosa in un piatto; e poi mandarglielo a donar. Vo' che la si sfami di baciarlo.

PASQUELLA. Eh sí! Mentre che 'l cane abbaia, il lupo si pasce.

FLAMMINIO. Tu il vedrai.

GHERARDO. Oimè! A questo modo son giontato io? a questo modo, eh? Misero a me! Quel traditor di Virginio, traditoraccio! m'ha pure scorto per un montone. Oh Dio! Che farò io?

PASQUELLA. Che avete, padrone?

GHERARDO. Che ho, ah? Chi è colui che è con mia figliuola?

PASQUELLA. Oh! Nol sapete voi? non è la cítola di Virginio?

GHERARDO. Cítola, eh? Cítola, che fará fare a mia figliuola de' cítoli, dolente a me!

PASQUELLA. Eh! non dite coteste parolacce! Che cos'è? non è Lelia?

GHERARDO. Dico che gli è un maschio.

PASQUELLA. Eh, non è vero! Che ne sapete voi?

GHERARDO. L'ho veduto con questi occhi.

PASQUELLA. Come?

GHERARDO. Adosso alla mia figliuola, trist'a me!

PASQUELLA. Eh! che dovevano scherzare!

GHERARDO. È ben che scherzavano.

PASQUELLA. Avete veduto che sia maschio?

GHERARDO. Sí, dico: ché, aprendo l'uscio a un tratto, egli s'era spogliato in giubbone e non ebbe tempo a coprirsi.

PASQUELLA. Vedeste voi ogni cosa? Eh! Mirate che gli è femina.

GHERARDO. Io dico che gli è maschio e bastarebbe a far due maschi.

PASQUELLA. Che dice Isabella?

GHERARDO. Che vuo' tu ch'ella dica? Svergognato a me!

PASQUELLA. Ché non lasciate andar or quel giovine? Che ne volete fare?

GHERARDO. Che ne vo' fare? Accusarlo al governatore; e farollo gastigare.

PASQUELLA. O forse fuggirá.

GHERARDO. E io l'ho rinserrato drento. Ma ecco Virginio. Apponto non volevo altro.

SCENA IX

PEDANTE, VIRGINIO e GHERARDO.

PEDANTE. Io mi maraviglio, per certo, che giá non sia tornato a l'ostaria; e non so che me ne dire.

VIRGINIO. Aveva arme?

PEDANTE. Credo de sí.

VIRGINIO. Costui sará stato preso: ché abbiamo un podestá che scorticarebbe li cimici.

PEDANTE. Io non credo però che a' forestieri si faccia queste scortesie.

GHERARDO. Addio, Virginio. Questo è atto da uomo da bene? questa è cosa convenevole a uno amico? questo è il parentado che volevi far con esso me? chi t'hai pensato di gabbare? credi ch'io sia per comportarla? Mi vien voglia…

VIRGINIO. Di che cosa ti lamenti di me, Gherardo? che t'ho io fatto? Io non cercai mai di far parentado teco. Tu me n'hai rotto il capo uno anno. Ora, se non ti piace, non vada avanti.

GHERARDO. Anco hai ardimento di rispondere, come s'io fusse un beccone? Traditoraccio, giontatore, barro, mariuolo! Ma il governatore saprá ogni cosa.

VIRGINIO. Gherardo, coteste parole non pertengono a un par tuo e massimamente con me.

GHERARDO. Anco non vuol ch'io mi lamenti, questo tristo! Sei diventato superbo perché hai ritrovato tuo figliuolo, eh?

VIRGINIO. Tristo se' tu.

GHERARDO. Oh Dio! Perché non son giovine com'io era? ch'io ne farei pezzi, del fatto tuo.

VIRGINIO. Puossi intender quel che tu vuoi dire o no?

GHERARDO. Sfacciato!

VIRGINIO. Io ho troppo pazienzia.

GHERARDO. Ladro!

VIRGINIO. Falsario!

GHERARDO. Menti per la gola. Aspetta!

VIRGINIO. Aspetto.

PEDANTE. Ah gentiluomo! Che pazzia è questa?

GHERARDO. Non mi tenete.

PEDANTE. E voi, messer, mettetevi la veste.

VIRGINIO. Con chi si pensa avere a fare? Rendemi la mia figliuola.

GHERARDO. Scannarò te e lei.

PEDANTE. Che cosa ha da far questo gentiluomo con esso voi?

VIRGINIO. Non so, io; se non che, poco fa, gli messi Lelia mia figliuola in casa, ché la voleva per moglie. Ora voi vedete. E temo non gli facci dispiacere.

PEDANTE. Ah, ah, gentiluomo! Non si vuole con l'arme! Con l'arme?

GHERARDO. Lasciatemi!

PEDANTE. Che differenzia è la vostra?

GHERARDO. Questo traditore m'ha disfatto.

PEDANTE. Come?

GHERARDO. S'io non lo taglio a pezzi, s'io non lo squarto con questa ronca…

PEDANTE. Ditemi, di grazia, come la cosa sta.

GHERARDO. Entriamo in casa, poi che il traditore s'è fuggito, ch'io vi contarò ogni cosa. Non sète voi il maestro di suo figliuolo, che veniste a l'ostaria con noi?

PEDANTE. Sí, sono.

GHERARDO. Entrate.

PEDANTE. Sopra la fede vostra?

GHERARDO. Oh sí!

ATTO V

SCENA I

VIRGINIO, STRAGUALCIA, SCATIZZA, GHERARDO e PEDANTE.

VIRGINIO. Venite con me quanti voi sète. Stragualcia, vien tu ancora.

STRAGUALCIA. Con l'arme o senza? Io non ho arme.

VIRGINIO. Tolle costí, in casa dell'oste, qualche arme.

SCATIZZA. Padrone, con targone bisognarebbe una lancia.

VIRGINIO. Non mi curo piú di lancia. Mi basta questo.

SCATIZZA. Questa rotella sarebbe piú galante per voi, essendo in giubbone.

VIRGINIO. No; questa copre meglio. Oh! Par che questo montone m'abbia trovato a furare. Ho paura che 'l non abbia amazzata quella povera figliuola.

STRAGUALCIA. Questa è buona arme, padrone. Io lo voglio infilzare con questo spedone come un beccafico.

SCATIZZA. Oh! Che vuoi tu far dell'arrosto?

STRAGUALCIA. Son pratico in campo; e so che, la prima cosa, bisogna far provision di vettovaglia.

SCATIZZA. Oh! Cotesto fiasco perché?

STRAGUALCIA. Per rinfrescare i soldati, se alla prima battaglia fusser ributtati indrieto.

SCATIZZA. Questo mi piace; ché ei avverrá.

STRAGUALCIA. Volete che, insieme insieme, infilzi il vecchio e la figliuola, i famegli, la casa e tutti come fegatelli? Al vecchio cacciarò lo spedone in culo e faroglielo uscir per gli occhi; gli altri tutti a traverso come tordi.

VIRGINIO. La casa è aperta. Costoro aran fatto qualche imboscata.

STRAGUALCIA. Imboscata? Mal va. Io ho piú paura del legname che delle spade. Ma ecco il maestro che esce fuora.

PEDANTE. Lasciate fare a me, ch'io vi do la cosa per acconcia, messer Gherardo.

STRAGUALCIA. Guardatevi, padrone: ché questo maestro si potrebbe essere ribellato e accordato coi nimici; ché pochi si trovan de' suo' pari che tenghino il fermo. Volete ch'io cominci a infilzarlo e ch'io dica «e uno»?

PEDANTE. Messer Virginio, padrone, perché queste arme?

STRAGUALCIA. Ah! ah! Non tel dissi io?

VIRGINIO. Che è della mia figliuola? Díemela, ch'io la vo' menare a casa mia. E voi avete trovato Fabrizio?

PEDANTE. Sí, ho.

VIRGINIO. Dov'è?

PEDANTE. Qui dentro, che ha tolto una bellissima moglie, se ne sète contento.

VIRGINIO. Moglie, eh? e chi?

STRAGUALCIA. Molto presto! Ricco, ricco!

PEDANTE. Questa bella e gentil figliuola di Gherardo.

VIRGINIO. Oh! Gherardo, testé, mi voleva amazzare.

PEDANTE. Rem omnem a principio audies. Entriamo in casa, ché saprete il tutto. Messer Gherardo, venite fuora.

GHERARDO. O Virginio, il piú strano caso che fusse mai al mondo! Entra.

STRAGUALCIA. Infilzolo? Ma gli è carne da tinello.

GHERARDO. Fa' metter giú queste arme, ché gli è cosa da ridere.

VIRGINIO. Follo sicuramente?

PEDANTE. Sicuramente, sopra di me.

VIRGINIO. Orsú! Andate a casa, voi altri, e ponete giú l'armi e portatemi la mia veste.

PEDANTE. Fabrizio, viene a conoscer tuo padre.

VIRGINIO. Oh! Questa non è Lelia?

PEDANTE. No; questo è Fabrizio.

VIRGINIO. O figliuol mio!

FABRIZIO. O padre, tanto da me desiderato!

VIRGINIO. Figliuol mio, quanto t'ho pianto!

GHERARDO. In casa, in casa, ché tu sappia il tutto. E piú ti dico, che tua figliuola è in casa di Clemenzia sua balia.

VIRGINIO. O Dio, quante grazie ti rendo!

SCENA II

CRIVELLO, FLAMMINIO e CLEMENZIA balia.

CRIVELLO. Io l'ho veduto in casa di Clemenzia balia con questi occhi e udito con questi orecchi.

FLAMMINIO. Guarda che fusse Fabio.

CRIVELLO. Credete ch'io nol conoscesse?

FLAMMINIO. Andiam lá. S'io 'l truovo…

CRIVELLO. Voi guastarete ogni cosa. Abbiate pazienzia fino ch'egli esca fuore.

FLAMMINIO. E' nol farebbe Iddio ch'io avessi piú pazienzia.

CRIVELLO. Voi guastarete la torta.

FLAMMINIO. Io mi guasti. Tic, toc, toc.

CLEMENZIA. Chi è?

FLAMMINIO. Un tuo amico. Viene un poco giú.

CLEMENZIA. Oh! Che volete, messer Flamminio?

FLAMMINIO. Apre, ché tel dirò.

CLEMENZIA. Aspettate, ch'io scendo.

FLAMMINIO. Com'ell'ha aperto l'uscio, entra dentro; e mira se vi è; e chiamami.

CRIVELLO. Lasciate fare a me.

CLEMENZIA. Che dite, signor Flamminio?

FLAMMINIO. Che fai, in casa, del mio ragazzo?

CLEMENZIA. Che ragazzo? E tu dove entri, prosuntuoso? vuoi intrare in casa mia per forza?

FLAMMINIO. Clemenzia, al corpo della sagrata, intemerata, pura, se tu non mel rendi…

CLEMENZIA. Che volete ch'io vi renda?

FLAMMINIO. Il mio ragazzo che s'è fuggito in casa tua.

CLEMENZIA. In casa mia non vi è servidor nissun vostro; ma sí bene una serva.

FLAMMINIO. Clemenzia, e' non è tempo da muine. Tu mi sei stata sempre amica, ed io a te; tu m'hai fatti de' piaceri, ed io a te. Or questa è cosa che troppo importa.

CLEMENZIA. Qualche furia d'amor sará questa. Orsú, Flamminio! Lasciatevi un poco passar la collera.

FLAMMINIO. Io dico, rendemi Fabio.

CLEMENZIA. Vel renderò.

FLAMMINIO. Basta. Fallo venir giú.

CLEMENZIA. Oh! Non tanta furia, per mia fé! ché, s'io fussi giovane e ch'io vi piacessi, non m'impacciarei mai con voi. E che è di Isabella?

FLAMMINIO. Io vorrei che la fosse squartata.

CLEMENZIA. Eh! Voi non dite da vero.

FLAMMINIO. S'io non dico da vero? Ti so dir che la m'ha chiarito!

CLEMENZIA. E sí! A voi giovinacci sta bene ogni male, ché sète piú ingrati del mondo.

FLAMMINIO. Questo non dir per me: ch'ogni altro vizio mi si potrebbe forse provare; ma questo dell'essere ingrato, no, ché piú mi dispiace che ad uom che viva.

CLEMENZIA. Io non lo dico per voi. Ma è stata in questa terra una giovane che, accorgendosi d'esser mirata da un cavaliere par vostro modanese, s'invaghí tanto di lui che la non vedeva piú qua né piú lá che quanto era longo.

FLAMMINIO. Beato lui! felice lui! Questo non potrò giá dir io.

CLEMENZIA. Accadde che 'l padre mandò questa povera giovane innamorata fuor di Modena. E pianse, nel partir, tanto che fu maraviglia, temendo ch'egli non si scordasse di lei. Il qual, subito, ne riprese un'altra, come se la prima mai non avesse veduta.

FLAMMINIO. Io dico che costui non può esser cavaliere; anzi, è un traditore.

CLEMENZIA. Ascolta: c'è peggio. Tornando, ivi a pochi mesi, la giovane e trovando che 'l suo amante amava altri e da quella tale egli era poco amato, per fargli servizio, abbandonò la casa, suo padre e pose in pericolo l'onore; e, vestita da famiglio, s'acconciò con quel suo amante per servitore.

FLAMMINIO. È accaduto in Modena questo caso?

CLEMENZIA. E voi conoscete l'uno e l'altro.

FLAMMINIO. Io vorrei piú presto esser questo aventurato amante che esser signor di Milano.

CLEMENZIA. E che piú? Questo suo amante, non la conoscendo, l'adoperò per mezzana tra quella sua innamorata e lui; e questa poveretta, per fargli piacere, s'arrecò a fare ogni cosa.

FLAMMINIO. Oh virtuosa donna! oh fermo amore! cosa veramente da porre in esempio a' secoli che verranno! Perché non è avvenuto a me un tal caso?

CLEMENZIA. Eh! In ogni modo, voi non lasciareste Isabella.

FLAMMINIO. Io lasciarei, quasi che non t'ho detto Cristo, per una tale. E pregoti, Clemenzia, che tu mi facci conoscer chi è costei.

CLEMENZIA. Son contenta. Ma io voglio che voi mi diciate prima, sopra alla fede vostra e da gentiluomo, se tal caso fusse avvenuto a voi, quello che voi fareste a quella povera giovane e se voi la cacciareste, quando voi sapesse quello che la v'ha fatto, se l'uccidereste o se la giudicareste degna di qualche premio.

FLAMMINIO. Io ti giuro, per la virtú di quel sole che tu vedi in cielo, e ch'io non possa mai comparire dove sien gentiluomini e cavalieri par miei, s'io non togliesse prima per moglie questa tale, ancor che fusse brutta, ancor che la fusse povera, ancor che la non fusse nobile, che la figliuola del duca di Ferrara.

CLEMENZIA. Questa è una gran cosa. E cosí mi giurate?

FLAMMINIO. Cosí ti giuro; e cosí farei.

CLEMENZIA. Tu sia testimonio.

CRIVELLO. Io ho inteso; e so ch'egli il farebbe.

CLEMENZIA. Ora io ti vo' far conoscer chi è questa donna e chi è quel cavaliere. Fabio! o Fabio! Vien giú al signor tuo che ti domanda.

FLAMMINIO. Che ti par, Crivello? Parti ch'io amazzi questo traditore o no? Egli è pure un buon servitore.

CRIVELLO. Oh! Io mi maravigliavo ben, io! Sará pur vero quello ch'io mi pensavo. Orsú! Perdonategli: che volete fare? In ogni modo, questa chiappola d'Isabella non vi volse mai bene.

FLAMMINIO. Tu dici il vero.

SCENA III

PASQUELLA, CLEMENZIA, FLAMMINIO, LELIA da femina e CRIVELLO.

PASQUELLA. Lasciate fare a me: ché gli dirò quanto me avete detto, ché ho inteso.

CLEMENZIA. Questo è, messer Flamminio, il vostro Fabio. Miratel bene: conoscetelo? Voi vi maravigliate? E questa medesima è quella sí fedele e sí costante innamorata giovane di chi v'ho detto. Guardatela bene, se la riconoscete o no. Voi sète ammutito, Flamminio? Oh! Che vuol dire? E voi sète quel che sí poco apprezza l'amor della donna sua. E questo è la veritá. Non pensate d'essere ingannato. Conoscete se io vi dico il vero. Ora attenetemi la promessa o ch'io vi chiamarò in steccato per mancatore.

FLAMMINIO. Io non credo che fusse mai al mondo il piú bello inganno di questo. È possibile ch'io sia stato sí cieco ch'io non l'abbi mai conosciuta?

CRIVELLO. Chi è stato piú cieco di me che ho voluto mille volte chiarirmene? Che maladetto sia! Oh! ch'io son stato il bel da poco!

PASQUELLA. Clemenzia, dice Virginio che tu venga adesso adesso a casa nostra perché gli ha dato moglie a Fabrizio suo figliuolo che è tornato oggi; e bisogna che tu vada a casa per metterla in ordine, ché tu sai che non vi sono altre donne.

CLEMENZIA. Come moglie? E chi gli ha data?

PASQUELLA. Isabella, figliuola di Gherardo mio padrone.

FLAMMINIO. Chi? Isabella di Gherardo Foiani tuo padrone o pure un'altra?

PASQUELLA. Un'altra? Dico lei. Flamminio, sapete bene che porco pigro non mangia mai pera marce.

FLAMMINIO. È certo?

PASQUELLA. Certissimo. Io son stata presente a ogni cosa; io gli ho veduto dare l'anello, abbracciarsi, baciarsi insieme e farsi una gran festa. E, prima che gli desse l'anello, la padrona gli aveva dato… so ben io.

FLAMMINIO. Quanto ha che questo fu?

PASQUELLA. Adesso, adesso, adesso. Poi mi mandorno, correndo, a dirlo a Clemenzia e a chiamarla.

CLEMENZIA. Digli, Pasquella, ch'io starò poco poco a venire. Va'.

LELIA. O Dio, quanto bene insieme mi dái! Io muoio d'allegrezza.

PASQUELLA. Sta' poco, ché io ancora ho tanto da fare che guai a me! Voglio ire adesso a comprare certi lisci. Oh! Io m'ero scordata di domandarti se Lelia è qui in casa tua; ché Gherardo gli ha detto di sí.

CLEMENZIA. Ben sai che la v'è. Vuol forse maritarla a quel vecchio messer Fantasima di tuo padrone? che si doverebbe vergognare.

PASQUELLA. Tu non conosci bene il mio padrone: ché, se tu sapesse come gli è fiero, non diresti cosí, eh!

CLEMENZIA. Sí, sí; credotelo: tu 'l debbi aver provato.

PASQUELLA. Come tu hai fatto il tuo. Orsú! Io vo.

FLAMMINIO. A Gherardo la vuol maritare?

CLEMENZIA. Sí, trista a me! Vedi se questa povera giovane è sventurata.

FLAMMINIO. Tanto avesse egli vita quanto l'averá mai. In fine, Clemenzia, io credo che questa sia certamente volontá di Dio che abbia avuto pietá di questa virtuosa giovane e dell'anima mia; ch'ella non vada in perdizione. E però, madonna Lelia, quando voi ve ne contentiate, io non voglio altra moglie che voi; e promettovi, a fé di cavaliere, che, non avendo voi, non son mai per pigliar altra.

LELIA. Flamminio, voi mi sète signore e ben sapete, quel ch'io ho fatto, per quel ch'io l'ho fatto; ch'io non ho avuto mai altro desiderio che questo.

FLAMMINIO. Ben l'avete mostrato. E perdonatemi, se qualche dispiacere v'ho io fatto, non conoscendovi, perch'io ne son pentitissimo e accorgomi dell'error mio.

LELIA. Non potreste voi, signor Flamminio, aver fatta mai cosa che a me non fusse contento.

FLAMMINIO. Clemenzia, io non voglio aspettare altro tempo, ché qualche disgrazia non m'intorbidasse questa ventura. Io la vo' sposare adesso, se gli è contenta.

LELIA. Contentissima.

CRIVELLO. Oh ringraziato sia Dio! E voi, padrone, signor Flamminio, sète contento? E avertite ch'io son notaio; e, se nol credete, eccovi il privilegio.

FLAMMINIO. Tanto contento quanto di cosa ch'io facesse giá mai.

CRIVELLO. Sposatevi e poi colcatevi a vostra posta. Oh! Io non v'ho detto che voi la baciate, io.

CLEMENZIA. Or sapete che mi par che ci sia da fare? Che ve ne intriate in casa mia, in tanto ch'io andarò a fare intendere il tutto a Virginio e darò la mala notte a Gherardo.

FLAMMINIO. Va', di grazia; e contalo ancora a Isabella.

SCENA IV

PASQUELLA e GIGLIO spagnuolo.

GIGLIO. Por vida del rey, que esta es la vellacca di Pasquella que se burlò de mí y urtommi mis quentas per enganno. Oh como me huelgo de topalla!

PASQUELLA. Maladetto sia questo appoioso! Ben mi s'è dato testé tra' piei, che possi egli rompere il collo con quanti ne venne mai di Spagna! Che scusa trovarò ora?

GIGLIO. Signora Pasquella!

PASQUELLA. La cosa va bene. Io son giá fatta signora.

GIGLIO. Vos me haveis burlado y mi tolleste mio rosario e non fazieste lo que me teniades promettido.

PASQUELLA. Zi! zi! zi! Sta' queto, sta' queto.

GIGLIO. Por que? es ninguno á qui que nos oda?

PASQUELLA. Zi! zi! zi!

GIGLIO. Io non veo á qui ninguno. Non m'engagnarete otra volta. Que dezite voi?

PASQUELLA. Tu mi vòi rovinare.

GIGLIO. Tu mi vòi ingagnare.

PASQUELLA. Va' via, lasciami stare adesso; ché ti parlarò otra volta.

GIGLIO. Renditeme mio rosario y despues parlate lo que volite, que non quiero que podiate dezir que m'engagnaste.

PASQUELLA. Tel darò. Credi ch'io l'abbi qui? Tu credi forse ch'io ne facci una grande stima? Mi mancará delle corone, s'io ne vorrò!

GIGLIO. Por que m'enseraste de fuore y despues aziades musigas y dizieste non so que «Fantasmas, fantasmas» y non so que orazion y non so que traplas?

PASQUELLA. Di' piano. Tu mi vuoi rovinare. Ti dirò ogni cosa.

GIGLIO. Que cosa? Que nol dezite?

PASQUELLA. Tírate piú in qua in questo canto, ché la padrona non vegga.

GIGLIO. Burlatime otra volta o no?

PASQUELLA. Ben sai ch'io ti burlo. Son forse avvezza a burlare, eh? Vero, eh?

GIGLIO. Hor dezite presto: que es esto?

PASQUELLA. Sai? Quando noi parlavamo insieme, Isabella, la mia padrona, era venuta giú pian piano e stava nascosta accanto a me e sentiva ogni cosa. Quando io volsi cacciare i polli, ella se n'andò in camera e da un buco stava a vedere quel che noi facevamo. Io, che me ne accorsi, feci vista di non l'aver veduta e d'averti voluto ingannare; tanto ch'io gli mostrai que' paternostri. Ella me gli tolse e, credendo che io t'avessi giontato, se ne rise e se gli messe al braccio. Ma io glie li torrò stasera e renderottegli, se tu non me gli vuoi aver dati.

GIGLIO. Y es verdade todo esto? Cata che non m'enganni.

PASQUELLA. Giglio mio, se non è vero, ch'io non ti possa piú mai vedere. Credi ch'io non abbi cara la tua amicizia? Ma voi spagnuoli non credete in Cristo, non che in altro.

GIGLIO. Hora, que non fazite quello que era concertado entra nos?

PASQUELLA. La mia padrona è maritata; e questa sera faciam le nozze; e ho da far tanto ch'io non posso attendere. Aspetta a un'altra volta. Uh come son rincrescevoli!

GIGLIO. Alla magnana, ah? Domattina, digo. Non es á si?

PASQUELLA. Lascia fare a me; ché mi ricordarò di te, quando sará tempo; non dubitare. Uh! uh! uh! uhimene!

GIGLIO. Voto á Dios que te daré escuccilladas per la cara, se otra veze m'engannes.

SCENA V

CITTINA figliuola di Clemenzia balia, sola.

Io non so che stripiccio sia drento a questa camara terrena. Io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni. Uhimene! Io ho paura, io. Oh! Io sento uno che par si lamenti; e dice piano:—Aimè! non cosí forte.—Oh! Io sento un che dice:—Vita mia, ben mio, speranza mia, moglie mia cara.—Oh! Non posso intendere il resto: mi vien voglia di bussare. Oh! Dice uno:—Aspettami.—Si debbono voler partire. Odi l'altro che dice:—Fa' presto tu ancora.—Che sí che rompon quel letto? Uh! uh! uh! Come si rimena a fretta a fretta! In buona fica, ch'io lo voglio ire a dire alla mamma.

SCENA VI

ISABELLA, FABRIZIO e CLEMENZIA balia.

ISABELLA. Io credevo del certo che voi fusse un servitor di un cavalier di questa terra che tanto vi s'assomiglia che non può esser che non sia vostro fratello.

FABRIZIO. Altri sono stati oggi che m'hanno còlto in iscambio: tanto ch'io dubitavo quasi che l'oste non m'avesse scambiato.

ISABELLA. Ecco Clemenzia, la vostra balia, che vi debbe venire a far motto.

CLEMENZIA. Non può esser che non sia questo, ché par tutto Lelia. O Fabrizio, figliuol mio, che tu sia il ben tornato: che è di te?

FABRIZIO. Bene, balia mia cara. Che è di Lelia?

CLEMENZIA. Bene, bene. Ma entriamo in casa, ché ho da parlare a longo con tutti voi.

SCENA VII

VIRGINIO e CLEMENZIA.

VIRGINIO. Io ho tanta allegrezza d'aver trovato mio figliuolo ch'io son contento d'ogni cosa.

CLEMENZIA. Tutta è stata volontá di Dio. È stato pur meglio cosí che averla maritata a quel canna-vana di Gherardo. Ma lasciatemi intrar drento, ch'io vegga come la cosa sta: ch'io lasciai gli sposi molto stretti; e son soli. Venite, venite. Ogni cosa va bene.

SCENA VIII

STRAGUALCIA a li spettatori.

Spettatori, non aspettate che costoro eschin piú fuore perché, di longa, faremmo la favola longhissima. Se volete venire a cena con esso noi, v'aspetto al «Matto». E portate denari, perché non v'è chi espedisca gratis. Ma, se non volete venire (che mi par di no), restativi e godete. E voi, Intronati, fate segno d'allegrezza.

FINE DEL VOLUME PRIMO.

NOTA

AVVERTENZE GENERALI

Per tutte le illustrazioni relative alle commedie che si raccolgono in questo e in altri successivi volumi rimando alla parte giá pubblicata della mia storia della Commedia italiana (Milano, Vallardi, 1911). Qui occorre solo avvertire che furono esclusi dalla presente raccolta tutti quegli scrittori (ad es. l'Ariosto e il Machiavelli) di cui dovranno ristamparsi le opere complete e quegli altri scrittori (ad es. il Cecchi e il Della Porta) la cui operositá drammatica fu cosí vasta e complessa da esigere una nuova edizione di tutto il loro teatro. La mia scelta si restringe a quei commediografi (o notissimi, come il cardinal da Bibbiena, o del tutto ignoti, come Niccolò Secchi) che non avrebbero potuto entrare per altra via, mentre di entrarvi avevano pur essi diritto, nella grande collezione degli Scrittori d'Italia. E, in tale scelta, mi sono attenuto a un doppio ordine di criteri: storici ed estetici. Ho badato, cioè, non solo all'intima bellezza delle commedie, ma anche a certe loro speciali caratteristiche o ai loro stretti rapporti con la vita e i costumi del Cinquecento o alla varietá delle tendenze che, pur senza uscire dalla tradizione classicheggiante, si manifestano in esse. Dalla Calandria del Bibbiena, composta in sugli inizi del secolo XVI, alla Donna costante del Borghini, venuta in luce al declinar del secolo stesso, v'è gran differenza di spiriti, se non di forme: ridanciana, quella, e giocosa, spensierata e cinica; questa, invece, seria, accigliata, lugubre, quasi preannunziatrice dei molto posteriori drames larmoyants. Per ciò, a rappresentare, in qualche modo, lo svolgimento storico del nostro teatro comico cinquecentesco, ho disposto le commedie che qui si pubblicano in ordine approssimativamente cronologico: solo approssimativamente, pur troppo, giacché di molte fra esse ignoriamo, fin ora, il preciso anno della composizione.

La punteggiatura, quanto mai arbitraria ed irrazionale nelle stampe del Cinquecento, ho rinnovato interamente. Del sistema ortografico nulla ho da dire perché è quel medesimo che fu adottato per tutti i volumi degli Scrittori. Piuttosto è necessario che io renda conto del come mi son comportato rispetto alle parti spagnuole o dialettali che si trovano assai di frequente nelle nostre commedie. Per questo lato (mi limito a discorrere dello spagnuolo, intendendosi che tutto ciò che dico di esso valga, benché in minor proporzione, anche per i vari dialetti italici), le stampe del Cinquecento ci offrono lo spettacolo di una scapigliata anarchia. Troviamo « io » e « yo »; « estoi » e « estoy »; « ablar » e « hablar »; « che » e « que »; « debaxo » e « debascio » e « debajo »; « magnana » e « mañana »; « engannar » e « engagnar » e « engañar »; « acer » e « hacer » e « azer » e « hazer » e « fazer »; « vieio » e « viejo »; « mui » e « muy »; « nocce » e « noche »; « allá » e « agliá »; « a » e « á »; « á chi » e « á qui » e « a qui » e « aqui » e « aquí »; « por que » e « porque »; « tan bien » e « tambien »; e cosí via discorrendo. Di fronte a tale moltiplicitá di espressioni grafiche che cosa dovevo fare? Dovevo ridurle tutte ad un'espressione unica e corretta e scrivere, per es., in tutti i casi, « yo », « hablar », « que », « mañana », « hacer », « muy », « noche », « allá »? oppure dovevo mantenere questo strano ma pur significativo disordine? Mi parve, in principio, che fosse miglior partito attenersi al primo sistema; poi, dopo avere assai dubitato e riflettuto, ho finito coll'appigliarmi al secondo. E le ragioni son queste. Innanzi tutto, le molte incertezze ortografiche possono esser proprie non tanto del tipografo quanto dello stesso autore e indicare la sua maggiore o minor conoscenza e la sua piú o meno esatta pronunzia dello spagnuolo; né è male, anzi è bene, che di questa sua conoscenza e pronunzia restino, anche nella nostra edizione, le tracce. In secondo luogo, può ben darsi che l'autore abbia inteso di usare promiscuamente parole italiane (per es. «io», «engannar») e parole spagnuole (per es. « yo », « engagnar » o « engañar »): sicché, quando si adoperasse una sola grafia, potremmo correre il rischio di allontanarci involontariamente dal suo stesso pensiero. Il Piccolomini, infatti, dichiara nelle sue Annotazioni alla Poetica d'Aristotele di avere «interposto», nell' Amor costante e nell' Alessandro, «qualche scena in lingua spagnuola italianata, accioché manco paresse straniera»[1]. Il quale italianizzamento dello spagnuolo, oltre che giovare a render piú intelligibile il discorso, era anche naturalmente suggerito dalla realtá; come possiam rilevare dalla seguente preziosa testimonianza del Bandello: «E queste parole ella disse mezze spagnuole e mezze italiane, parlando come costumano gli oltramontani quando vogliono parlar italiano»[2]. Ciò spiega, non pur le oscillazioni ortografiche di cui ho discorso fin ora, ma anche la presenza di scorrette forme grammaticali; che sarebbe, evidentemente, errore il voler correggere. Insomma, per questa parte, io ho creduto di dovere essere, quanto piú mi fosse possibile, conservatore: conservatore, dico, dell'anarchia.

Ciò non di meno, qualche modificazione o correzione è stata pur necessaria. Non potevano, per es., nella scena 3 dell'atto II degl' Ingannati rimanere un « lamas hermosas mozas » e un « ellacca ob alcatieta » che sono stati rispettivamente ridotti a « la mas hermosa moza » e « vellacca alcahueta ». E cosí, nell'uso degli accenti e del « h » iniziale, se ho rispettato di regola le antiche stampe da me poste a fondamento di questa nuova edizione, e se ho scritto indifferentemente « á » e « a », « hacer » e « acer » ecc., me ne son però allontanato ogni qual volta la mancanza dell'accento o del « h » potesse ingenerare confusioni ed equivoci. Per es., un « alla » o un « alli », che sembrano preposizioni articolate italiane mentre sono avverbi spagnuoli, ho creduto bene di accentarli (« allá, allí »); un « resucitare » o un « andare » o un « ire », che possono prendersi per infiniti mentre non sono che la prima persona singolare del futuro, li ho pure accentati (« resucitaré, andaré, iré »); e ho fatto precedere dal « h » un « e » che, invece d'essere la nostra congiunzione copulativa, sia la prima persona singolare del presente indicativo del verbo spagnuolo « haber » (« he »); e altre simili modificazioni ho introdotte quando mi sia parso opportuno. Ma ciò non infirma punto il general criterio di conservazione al quale, come piú sopra dissi, mi sono, nel maggior numero dei casi, rigorosamente attenuto.

1. Annotazioni di M. Alessandro Piccolomini, nel Libro della Poetica d'Aristotele; con la traduttione del medesimo Libro, in Lingua Volgare. Con privilegio. In Vinegia, presso Giovanni Guarisco, e Compagni [in fine l'anno: M.D.LXXV], p. 29.

2. Le novelle a cura di G. BROGNOLIGO, I (Bari, Laterza, 1910), 242 (nov. I, .16)

GL'INGANNATI

Questa commedia ebbe nel Cinquecento, precisamente come la Calandria, una ventina di edizioni; due altre ne ebbe sul principio del Seicento; poi non fu piú mai ristampata[1]. Eppure, anche nel rispetto artistico, essa può sicuramente annoverarsi fra le migliori del sec. XVI; e godé, ad ogni modo, di una cosí grande fortuna da esser conosciuta e imitata, non pure in Italia, ma anche in Francia, in Spagna ed in Inghilterra. Io pongo a fondamento della presente edizione la prima stampa veneziana del 1537: Comedia del Sacrifi- | cio de gli Intronati | da Siena MDXXXVII. | In Vinegia per Curtio Navo | et fratelli[e al termine dell'ultimo atto: Il fine della Comedia de gli Inganna- | ti In Vinegia Per Curtio | Navo, & Fratelli. | MDXXXVIII ]. Precede un'avvertenza di «Curzio alli lettori» che incomincia cosí: «Eccovi finalmente, o lettori, la tanto aspettata e desiderata comedia de gli Intronati, che io vi porgo: degna, per la invenzione, per la puritá della lingua e per l'arte con che è tessuta, d'esser da voi apprezzata e avuta cara forte tanto quanto altra che fino a questo di ne abbiate veduta». Segue all'avvertenza il testo poetico della festa cosí detta del «Sacrificio» (donde l'erroneo titolo stampato sul frontespizio e perpetuatosi, fino ad alcuni anni addietro, nei libri di bibliografia e di storia) che gli accademici Intronati di Siena celebrarono nel carnevale del 1531; viene poi la commedia, che fu rappresentata, come apparisce dal prologo, qualche giorno dopo la festa suddetta e che sola qui si ristampa; e, in ultimo, chiude il volumetto la Canzon nella morte d'una civetta «Gentil augello che dal mondo errante»[2]. Oltre a questa edizione, mi valgo, specialmente per le parti spagnuole, di quella compresa nella giá citata raccolta ruscelliana delle Comedie elette ove essa reca il seguente titolo: Il Sacrificio | de gl'Intronati, | celebrato ne i giuochi | d'un carnevale | in Siena. | Et | Gl'Ingannati, comedia | de i medesimi. | In Venetia per Plinio | Pietrasanta, | MDLIIII.—La stampa del 1537 ha quasi sempre «dinanci», «innanci» ecc.; ma anche, talvolta: «da hora innanzi» (a. I, sc. 3); «entrami innanzi» (ivi); «anzi l'ho in odio» (a. II, sc. 7); «vòimiti levar dinanzi?» (a. IV, sc. 1); «non vi ci fui mai dinanzi» (ivi). Io adotto, in tutti i casi, questa seconda forma.—A. I, sc. 5: «È ben vero che pregano Dio e 'l diavolo» (ediz.: «È ben che pregano…»)—Nell'a. IV, sc. 6, verso la fine, Pasquella minaccia lo spagnuolo di bagnarlo se non si decide ad andarsene; e Giglio, secondo l'edizione del 1537, risponde: « Testate l'agua, el fuogo porrò io a esta puerta » [precisamente cosí anche l'ediz. di Venezia, Giolito, 1560 e quella del 1538 che, all'in fuori dell'anno, è priva di ogni altra nota tipografica]. L'edizione, invece, del 1554 curata dal Ruscelli legge: « Heccia de l'agua, el fuego ponerò yo a esta puerta ». Ma né il « testate l'agua » né il « heccia de l'agua » dánno senso alcuno. Si avrá qui, come io penso, una forma del verbo « echar ». Per ciò, sopprimo il « h » di « heccia »; e, riunendo il « de » all'« eccia », scrivo: «_ecciade (italianizzamento di « echad ») l'agua_» = «gettate l'acqua». Per il rimanente, seguo, com'è naturale, l'edizione del 1537.—Al termine della commedia aggiungo l'indicazione «Scena VIII» sopra le parole «Stragualcia a li spettatori».

1. Vedi ALLACCI, Drammaturgia, col. 448; BRUNET, Manuel, III, 454; GRAESSE, Trésor, II, 236 e III, 427. Dico «una ventina di edizioni» senza determinarne il numero preciso perché non sempre le indicazioni dei bibliografi sono esatte; e l'inesattezza deriva, non di rado, da una doppia data che le antiche stampe recano: com'è appunto il caso di quella da me riprodotta che ha, in principio, il 1537 e, in fine, il 1538.

2. Dell'esistenza della stampa veneziana del Navo dubitò a torto C. LOZZI, Edizione del 1538 sconosciuta o non bene descritta d'una festa e comedia «degl'Intronati» sanesi in La bibliofilia, a. VII, disp. 1-2, pp. 33 sgg.; e a torto, per conseguenza, suppose che possa considerarsi come prima edizione quella, da lui descritta, del 1538 senza luogo di stampa né nome di stampatore.