LA DONNA FIORENTINA
DEL BUON TEMPO ANTICO

La donna fiorentina del buon tempo antico

affigurata da ISIDORO DEL LUNGO

Nei primi secoli del Comune — Da Dante al Boccaccio — Beatrice — La donna ispiratrice — Nel Rinascimento e negli ultimi anni della libertà — Una madrefamiglia del cinquecento — Un'altra lettera dell'Alessandra Macinghi Strozzi.

R. Bemporad & Figlio — Editori FIRENZE 1906 Filiali: MILANO, ROMA. TORINO: S. Lattes e Cº. — NAPOLI: Società Commerciale Libraria.

PROPRIETÀ LETTERARIA DEGLI EDITORI R. BEMPORAD E FIGLIO

1905 — Firenze, Tipografia della Biblioteca di cultura liberale.

INDICE Alla mia EDUVIGE, e alle tre nostre battezzate in San Giovanni CAROLINA, ROMILDA, ALBERTINA

Palazzina, 17 ottobre 1905.

NEI PRIMI SECOLI DEL COMUNE

Alla Società per l'istruzione della donna, in Roma il 13 marzo, e al Circolo Filologico di Firenze il 25 aprile, del 1887.

Conservo a questo e ad altri degli scritti che compongono il presente volume la forma con la quale mi nacquero, di pubblica lettura. Bensì la materia, che qui si distende quant'occorreva alla trattazione dell'argomento, fu in quelle letture contenuta entro limiti di tempo e di discrezione.

Signore e Signori,

Più volte mi è occorso pensare, che si potrebbe ritrarre, così in punta di penna, la vita antica fiorentina, delineandola per figure femminili: dalle donne casalinghe de' tempi di Cacciaguida alle madrifamiglia dei primi tempi medicei; poi da queste alle popolane e gentildonne animose e gagliarde degli ultimi anni repubblicani. Io mi son provato ad abbozzare il ritratto della donna nel primo di que' due periodi, cioè dai principî del Comune sino ai tempi dell'oligarchia prevalente nella seconda metà del secolo XIV. La donna fiorentina di questo periodo può considerarsi nella realtà storica, nelle leggende, nella idealità poetica. Mi fermo ai due primi capi; realtà storica, leggende; e sotto di essi raccolgo (nè altro prometto al mio cortese uditorio) alcune imagini e figure dal vero.

Ma una cosa, innanzi di procedere, giova che sia avvertita. Alla libertà fiorentina, da' primordî del Comune sino alla distruzione degli ordini repubblicani nel 1530, la donna non recò il tributo di atti virili ed eroici, come fu in altre città d'Italia. Non ha Firenze, nè dalla storia nè dalla leggenda, la Cinzica de' Sismondi, che salva Pisa dalla notturna aggressione dei Saraceni; non ha Stamura, che col ferro e col fuoco affronta impavida l'esercito imperiale assediante la sua Ancona; nè Caterina Segurana, a cui Nizza pose una statua sulla porta Peiroliera da lei difesa contro Turchi e Francesi; nè madonna Cia degli Ubaldini, la forte donna romagnola, «guidatore della guerra e capitana de' soldati»,[1] che sostiene Cesena contro le masnade sanguinarie del cardinale d'Albornoz, resistendo con pari fermezza e alle armi nemiche e ai consigli di resa che le vengono da valorosi uomini di guerra; nè, se vogliamo aggiungerla, Caterina Sforza Riario, che, nella ròcca di Forlì, calpesta la fede data e la vita stessa de' figliuoli, per assicurare la vendetta dell'ucciso marito; madre poi, e non fa maraviglia, di Giovanni delle Bande Nere. Nè sono fiorentine, ma della terra e del tempo dei Vespri, le donne che aiutavano la difesa della patria contro l'angioino oppressore; e il popolo ne faceva la canzonetta, che Giovanni Villani[2] avrebbe dovuto conservarci intera:

Deh com'egli è gran pietate

delle donne di Messina,

veggendole scapigliate

portare pietre e calcina!

Eroismo rinnovato, bensì con tutta la pompa del sec. XVI, dalle gentildonne e popolane senesi, che distribuite in squadre con divise a tre colori, violetto rosa e bianco, lavorarono alle fortificazioni di quell'ultimo baluardo della democrazia toscana; e meritarono che un gentiluomo francese, il Montluc,[3] rendesse loro l'omaggio dei prodi. Non ebbe eroine Firenze, o le ha dimenticate. Ma che perciò? La donna non ismentisce nella storia la propria natura e l'ufficio commessole dalla Provvidenza: la istoria sua è (salvo eccezioni, così nell'ordine de' fatti come del pensiero) storia senza nomi, ma di tutti i giorni e di tutte le ore, perchè nessun giorno e nessuna ora passano senza lacrime umane, ed è lei che le raccoglie o le dona; nè senza bisogno di conforti alle battaglie della vita, e dal sorriso di lei ci vengono i più efficaci. Rintracciare tale storia è invero malagevole; ma non più di altre ricerche morali e psicologiche intorno alle umane vicende. E se non le mancano pagine nel mondo antico, dove l'individuo era sì gagliardamente assorbito nella pubblica cosa; se in ciò che di benefico ebbe, contro quella tirannide dello Stato, la violenza barbarica, uno dei simboli della individuale libertà e della umana coscienza rivendicata è appunto la donna; sarebbe illogico, che la storia di lei, nel senso e contenuto suoi veri, scarseggiasse in secoli di civiltà e libertà cristiane, e a noi tanto più vicini e di tanto più agevole investigamento; per modo che dovessimo limitarla alla genealogia delle case feudali o principesche o magnatizie, che sarebbe quasi un abolirla del tutto dai gloriosi annali delle nostre repubbliche. Ben altramente hanno pensato della storia femminile menti elette o sovrane. Il Tommaseo[4] scrisse, che «se prendessimo a considerare la donna quale ce la dipingono via via tutti i poeti gli storici i moralisti, de' varii luoghi e de' tempi, troveremmo in lei quasi l'ideale del secolo»: nè egli era facile adulatore di nessuna potenza. Il Guasti,[5] raccogliendo le lettere d'una madre fiorentina del Quattrocento, spera aver provato con quelle, che «nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo». E il più grande Poeta dell'evo moderno questa idealità della donna, immanente nella storia, raccolse in una vigorosa astrazione chiamandola «l'eterno Femmineo»; i cui splendori un Poeta nostro[6] ha salutati sopr'una fronte regale, che ha corona invidiabile nell'amore unanime del popolo suo.

I.

Della donna fiorentina ne' secoli XI e XII, sul cominciar del Comune italico, non potremmo desiderare più autentica imagine nè più efficace. Nella mirabile rappresentazione che, tra i fulgori del cielo di Marte, Dante fa del vecchio Comune fiorentino, ponendone sè ascoltatore devoto e commosso dalla bocca di Cacciaguida degli Elisei, cavaliere e crociato; alle memorie cittadine, ai titoli gentilizi, ai desiderî ai rimpianti della vita civile, antecedono le ricordanze casalinghe, gli affetti soavi della famiglia, le santità della culla e della tomba: e su tutte queste figurazioni, che fanno di quel canto del Paradiso[7] un vero idillio domestico, diffonde la sua luce, mite e modesta regina, la donna. E non la donna idealizzata dall'amore e dall'ingegno: Beatrice in quell'episodio si sta in disparte, e solo accompagna con benigno sorriso il colloquio fra l'Alighieri e il trisavolo;[8] ma la donna del focolare, la compagna della vita, quella che con l'uomo, suo amore ed orgoglio, partecipa le gioie e i dolori, che gli guarda l'avere, gli educa i figliuoli, lo conforta al bene e ne lo fa degno, lo affida nelle avversità e nei pericoli, soccombente lo incora, nelle vittorie lo affrena, gli fa quieta e riposata la casa perchè la patria lo abbia cittadino operoso. Alla custodia di lei sono commesse le due virtù che il Poeta pone come principali del viver sociale, parsimonia e pudore:

Fiorenza, dentro dalla cerchia antica,....

si stava in pace sobria e pudica.

Non cerca sfoggio d'ornamenti,

che fosse a veder più che la persona.[9]

È allegrezza e consolazione della casa dov'ella è nata, e che non muterà con quella dello sposo, se non a tempo debito, e contentandosi, essa e l'uomo che riamato ama lei, di dote ragionevole; cosicchè «nè il tempo nè la dote faranno al padre paura». L'austerità del costume le risparmia le frivole cure e gli artifizi procacciativi di bugiarda bellezza: ella «vien dallo specchio senza il viso dipinto»; e «contenta al fuso e al pennecchio», prepara di propria mano le semplici vestimenta al marito. Un solo amore comprende nell'anima sua la convivenza non interrotta con esso, e il luogo del comune estremo riposo nella dolce terra nativa: sentimento che il Poeta chiama «la certezza della sepoltura», e «Oh fortunate!» esclama con una di quelle note che insegna l'esilio. La giovine sposa «veglia a studio della culla», e acqueta e sollazza la sua creatura; mentre la nonna, filando, racconta ai grandicelli le luminose leggende delle origini italiche e della potenza latina,

favoleggiando con la sua famiglia,

de' Troiani, di Fiesole e di Roma:

però che essa, la donna del Comune italiano, indovina e sente che questo è l'erede e il rinnovatore legittimo di quel glorioso passato; e nel nome augusto di Roma, che i fanciulli imparano dalle labbra materne a chiamar madre della loro città, sublima il concetto della patria in quelle tenere menti, e ve lo impronta non cancellabile.

Dico, la donna del Comune italiano: e quel che dalla storia di Firenze verrò, di figure femminili, delineando e colorendo, s'intenda che sia in gran parte com'un ritratto della donna italiana nella vita de' nostri liberi Comuni.[10] Però che anche rispetto a questa gentile imagine del nostro passato, le diversità e le contingenze regionali sottostanno alle ragioni di somiglianza, anzi alla identità di certe generali condizioni storiche, entro le quali si rimase involuto fino ai giorni presenti il benaugurato germe della unità nazionale. Se non che la storia di Firenze è forse la più ricca di qualsiasi altra delle città nostre, rispetto a notizie e documenti di carattere particolare e domestico; è altresì quella, dove, per le ragioni della lingua, anche tale ordine di fatti e di cose sia stato rappresentato con maggior larghezza, e sia più universalmente noto, per opera di storici, di novellatori, di trattatisti, di poeti, di comici, che la città non tanto ha avuti quanto dati alla nazione.

II.

Quella donna fiorentina de' secoli XI e XII, nella cui soave ricordanza Cacciaguida si esalta, e le congiunge la memoria della madre sua «ch'è or santa», e i travagli di lei partoriente con la invocazione di Maria; non ha un nome, perchè essa era nella mente di Dante un universale, comprensivo e cumulativo delle figure individue concorse a formarlo. Quella gentile, non d'altri splendori luminosa che della fioca e carezzevole luce delle pareti domestiche, invecchiò presto: poichè poco più d'un secolo separa la realtà storica di lei dal rimpianto che ne suona, come di cosa ormai remota, nei versi del fiorentino proscritto. Ma già ell'era vecchia, e di secoli pur quando generava

a così riposato, a così bello,

viver di cittadini, a così fida

cittadinanza, a così dolce ostello;

perchè in lei, quale questa divina poesia[11] l'ha scolpita, ritroviamo, immutata lungo il corso delle età procelloso, l'antica madrefamiglia, sulla cui tomba il massimo della lode è che fu da casa e filò la lana ( domum servavit, lanam fecit ). Questa parte delle tradizioni latine era affidata a lei, che la mantenesse, incontaminata dalle orgie e dalle ebbrezze imperiali, poi fra le vendette sanguinose della barbarie, nella silenziosa desolazione successa all'immensa caduta, infine nei mescolamenti delle razze sopravvenute addosso al volgo innominato e disperso, ma conservatore tenace, finchè gli rimane una famiglia, e della famiglia, vigile e sospettosa e, occorrendo, fiera custoditrice la donna. La donna del secolo XII, adunque, piuttosto che da quello al successivo invecchiata, può dirsi aver finito la parte sua, e andar cedendo alle condizioni, che intorno a lei si atteggiano così diversamente, di vita politica, di costumanze, di pensieri e propositi. Nella civiltà nuova — della quale è resultato e compendio, istituzione lentamente elaborata, il Comune — troppi elementi, fin allora latenti più o meno e costretti, si svolgono alle aure di libertà, cosicchè anche la vita domestica, e le relazioni di questa con la civile, possano sfuggire ad una mutazione. Nè fa maraviglia che tale mutazione non piaccia a Cacciaguida. Egli si ricorda de' bei tempi, quando, lui giovinetto, vivevano ancora i cittadini della «picciola Firenze divisa per quartieri, cioè per quattro porte», delle quali Porta del Duomo era stato, dice la cronica, «il primo ovile e stazzo della rifatta Firenze» (rifatta, nessun Fiorentino ne dubitava, da Carlo Magno imperatore e dai Romani), «e dove tutti i nobili cittadini di Firenze la domenica facieno riparo e usanza di cittadinanza intorno al duomo», cioè al San Giovanni, «e ivi si faceano tutti i matrimonî e paci, e ogni grandezza e solennità di Comune».[12] Cacciaguida ha vissuto di questo Comune l'età, com'a dire, inconscia e imperfetta, senza nè la potenza nè le burrasche che poi sopravvennero: la pacifica età consolare, durante la quale la cittadinanza si è venuta ordinando quasi estranea ai contrasti fra Chiesa ed Impero, che ha lasciati combattere ai Marchesi di Toscana, alle contesse Beatrice e Matilde, la cui nominale supremazia non pesò mai di fatto, neanche della grande e popolare Contessa, sulla indipendente città. Scarse relazioni esterne, sia di commercio sia di politica; qualche passata imperiale, fatta quasi sempre innocua dallo spontaneo omaggio e dall'essere la Toscana tenuta abitualmente fuori dell'itinerario strategico di cotesti Cesari e di ciò che si moveva con loro; qualche soggiorno di papa profugo; qualche guerricciuola di contado: ecco gli episodi di quella vita tranquilla, che menavano gli uomini de' quali Cacciaguida ricorda la parsimonia e la modestia. Cavalieri con semplici cintole di cuoio e fibbie d'osso, non d'argento e perle: cittadini con rozze sopravvesti di pelle di camoscio, non co' mantelli e le guarnaccie di scarlatto foderate di vaio; case strettamente misurate agli abitatori; nessun lusso, nessuna delicatezza, nessuna corruzione. La sacra maestà dell'Imperatore era ospitata e festeggiata come in famiglia; da Corrado il Salico, «che si dilettò assai della città di Firenze, e molto l'avanzò, e più cittadini di Firenze si feciono cavalieri di sua mano, e furono al suo servigio»,[13] venendo, per lo spazio di quei due secoli, a Ottone IV, del quale sentiamo pure ciò che racconta, molto a proposito nostro, la cronica.[14] «Quando lo 'mperadore Otto quarto venne in Firenze, e veggendo le belle donne della città che in Santa Reparata per lui erano raunate, questa pulcella» (Gualdrada di messere Bellincion Berti de' Ravignani) «più piacque allo 'mperadore. E 'l padre di lei dicendo allo 'mperadore ch'egli avea podere di fargliela basciare, la donzella rispose che già uomo vivente non la bascerebbe se non fosse suo marito. Per la quale parola lo 'mperadore molto la commendò: e 'l conte Guido, preso d'amore di lei per la sua avvenentezza, e per consiglio del detto Otto 'mperadore, la si fece a moglie, non guardando perch'ella fosse di più basso lignaggio di lui, nè guardando a dote. Onde tutti i conti Guidi sono nati del detto conte e della detta donna». Costei Dante chiama, in altro luogo del Poema, «la buona Gualdrada», e quel «buona» valeva quanto «saggia e valente»; e per bocca di Cacciaguida lodando nel padre di lei la semplicità del costume, ce lo conferma tale uomo quale nella ingenua narrazione del Villani apprendiamo a conoscerlo. In siffatta cittadinanza, piccola di numero e della purezza del suo sangue gelosa, è vissuto Cacciaguida; e da tale comunanza ben si usciva degni di cingere, come egli avea fatto, la spada per Cristo, e armato cavaliere dalle mani imperiali morire da valoroso in Terrasanta. Ahimè quanto diversa da quella, di mezzo alle cui miserie il Poeta era asceso allo spiritale viaggio, nella sede dei beati, sollevandosi

all'eterno dal tempo.........

e di Fiorenza in popol giusto e sano![15]

E un dramma femminile è designato pur da Cacciaguida come punto di separazione fra le due età. Buondelmonte che, per aver ceduto slealmente alle istigazioni d'una Donati e alla bellezza d'una figliuola di questa, paga col sangue lo spergiuro alla fidanzata Amidei, è la vittima che dee segnare in Firenze gli estremi anni di pace:

vittima nella sua pace postrema.[16]

Storico certamente nella sostanza, è sia pur leggendario nei particolari, quel dramma ritrae mirabilmente la vita fiorentina sul cominciare del secolo XIII. La comunanza dell'«ovile di San Giovanni»[17] è turbata: si è cominciata battaglia tra gli Uberti, sangue germanico (o, com'altri vogliono, da Catilina), e la signoria, latina, de' Consoli. Gli umori imperiali e chiesastici son già penetrati fra i cittadini, vi serpeggiano insidiosamente, hanno ormai disposti gli animi alla divisione: la consumeranno la bellezza d'una fanciulla, l'interessato zelo materno, la leggerezza e slealtà d'un giovine. Nessuna di siffatte cause avrebbe saputo così sinistramente operare nella sobria e pudica Firenze del buon tempo antico, a cui terza e nona, che le batteva la campana della vecchia Badia del marchese Ugo,[18] segnavano giorni di pace virtuosa fra cittadini l'uno all'altro affezionati e ossequenti. «E di ciò fu cagione in Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de' Buondalmonti, avea promesso tôrre per sua donna una figliuola di messer Oderigo Giantruffetti» (degli Amidei). «Passando dipoi un giorno da casa i Donati, una gentile donna chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a' balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole, e disseli: — Chi ài tu tolta per moglie? io ti serbavo questa. — La quale guardando molto li piacque, e rispose: — Non posso altro oramai. — A cui madonna Aldruda disse: — Sì, puoi, chè la pena pagherò io per te. — A cui Buondalmonte rispose: — E io la voglio. — E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta e giurata».[19] Il padre della tradita se ne duole coi consorti; deliberano di vendicarsi: ferirlo? ucciderlo? Il Mosca de' Lamberti pronuncia la mala parola: «Cosa fatta capo ha». Buondelmonte, la mattina di Pasqua del 1215, mentre si reca a impalmare la Donati, è ucciso sul Ponte Vecchio, a piè della statua di Marte; di dentro al cui idolo i vecchi e savi fiorentini riconoscono operarsi dal diavolo, per vendetta, la distruzione della cristiana città,

che nel Batista

mutò il primo padrone; ond'ei per questo

sempre con l'arte sua la farà trista.[20]

Un'antica cronichetta[21] rappresenta, come in funebre fantasmagoria, il corpo sanguinoso esser portato per la città fra i pianti e le grida, e nella stessa bara, col capo in grembo, starsi tutta in lacrime la seduttrice fatale, o forse vittima innocente ella stessa delle suggestioni domestiche. Certo è che cotesta figura di donna, sott'ogni rispetto sciagurata, ritrae dal vero e in sè bene raccoglie i tanti e varî e ignorati patimenti che, per tanti anni appresso di cittadine battaglie, si accumularono sulla donna fiorentina:

.... infelici....

che il duol consunse; orbate

spose dal brando; vergini

indarno fidanzate;

madri che i nati videro

trafitti impallidir.[22]

Quel «nobilissimo e feroce leone» del quale racconta la cronica che si teneva pel Comune nella piazza di San Giovanni, — e uscito della sua stia, correndo verso Or San Michele, afferra un fanciullo, e «tenealo tralle branche»; e la madre, «che non ne avea più» se non questo che «le rimase in ventre» quando le fu ucciso il marito, «come disperata, con grande pianto, scapigliata, corse contro il leone, e trassegli il fanciullo delle branche, e il leone nullo male fece al fanciullo nè alla donna, se non ch'egli guatò e ristettesi»;[23] — e' rendeva, il leone, i figliuoli alle madri: ma il Comune, del quale egli era superbo simbolo, li divorava senza pietà. Altre madri sulle vie di Firenze imitarono quella d'Orlanduccio del Leone; ma esse chiedevano pietà agli uomini, e agli uomini di parte! «Deh quanto fu la dolorosa madre de' due figliuoli ingannata!» (una madre di Guelfi Bianchi de' tempi di Dante) «che con abbondanza di lagrime, scapigliata, in mezzo della via, ginocchione si gittò in terra innanzi a messer Andrea da Cerreto giudice, pregandolo, con le braccia in croce, per Dio s'aoperasse nello scampo de' suoi figliuoli. Il quale rispose, che però andava a palazzo: e di ciò fu mentitore, perchè andò per farli morire».[24] Oh se nell'attraversare oggi quel tetro maestoso cortile, nel salire le lunghe erte scale di quel Palazzo del Podestà, studiosi e commossi visitatori delle reliquie del nostro passato, pensassimo di quanto sangue furono bagnate quelle pietre più che sei volte secolari, dovremmo dire che a cancellarne la traccia, non ci voleva meno delle lacrime tante che quel sangue è costato!

III.

Tutta ravvolta in questi foschi vapori di scellerato odio fraterno, attraversa la donna fiorentina il secolo XIII, compagna de' forti mercatanti ed artefici che lavorando e combattendosi, non meno alacremente l'una cosa che l'altra; e senza tuttavia rimanere insufficienti ad altre faccende, — soggiogare i magnati, osteggiare i Comuni vicini, resistere all'Impero, tenere in rispetto la Curia Romana; — fondano la guelfa democrazia. Arti e mestieri, nonostante la intestina guerra, fioriscono; e con essi, i commerci e le industrie; la ricchezza muta i sentimenti e i costumi; l'arte del bello, figurato e scritto, comincia ad ingentilirli. Bensì lentamente. Siamo al primo di quegli ordinamenti popolari, a quello che fu chiamato «il primo popolo» o «popolo vecchio», del 1250; e la cronica[25] nota «che al Tempo del detto popolo, e in prima e poi a grande tempo, i cittadini di Fiorenza viveano sobrii e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi vestieno loro e le loro donne, e molti portavano le pelli scoperte senza panno, e colle berrette in capo, e tutti con gli usatti in piede, e le donne fiorentine co' calzari senza ornamento; e passavansi, le maggiori, d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro o di Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale all'antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne vestite d'uno grosso verde di Cambragio per lo simile modo. E lire cento era comune dota di moglie, e lire dugento o trecento era a quegli tempi tenuta isfolgorata; e le più delle pulcelle aveano venti e più anni anzi ch'andassono a marito».[26] Ma soggiungendosi poi che «di sì fatto abito e di grossi costumi erano allora i Fiorentini, ma erano di buona fe' e leali tra loro e al loro Comune», — il che quanto a «lealtà tra loro» cioè concordia cittadina, non poteva dopo il 1215 dirsi più, — mostra che molto della descrizione appartiene di più stretto diritto ai tempi anteriori, dai quali il cronista stesso ha dichiarato di muoverla. È insomma la descrizione d'una età di passaggio, dove, da un canto, le «pelli scoperte» e gli usatti ci ricordano i contemporanei di Cacciaguida

andar contenti alla pelle scoperta;

mentre i nomi di que' panni francesi e inghilesi delle gonnelle fiorentine, lo scarlatto d'Ypres o di Cam, il panno di Cambrai, ci fanno avvertiti esser passati i tempi nei quali

ancor nessuna

era per Francia nel letto deserta.[27]

E passati, altresì, quelli ne' quali i matrimonî a matura età conciliava non isforzato l'amore, che durante il decimoterzo secolo addivennero anch'essi arme e instrumento, manco male che di difesa, alle animosità civili. Tarda età da marito diventarono i venti anni od anche i diciotto; «grande etade e fiorita» i quindici; quando si affrettava la collocazione delle figliuole nelle case, o de' consorti per raffermare i vincoli di parte, o degli avversarî per suggello di pace: e talvolta anche il Comune stesso vi cooperava.[28] Si faceva il parentado, essendo tuttora fanciulli gli sposi; e bastava l'età di dodici o tredici anni, perchè la fidanzata fosse poi condotta all'altare e divenisse moglie. Uno degli antichi commentatori di Dante dice: «le maritavano nella culla».[29] Guido Cavalcanti, il gentilissimo de' nostri antichi rimatori, fu ammogliato così; datagli dal padre a otto o nove anni, e datagli perchè Guelfi, la Bice degli Uberti figliuola del magnanimo Farinata, piccola ghibellina di forse cinqu'anni o sei, che sopravvisse poi lungamente co' figliuoli al marito, morto giovine nel 1300.[30] Forse così anche fu conciliato il matrimonio di Beatrice Portinari, giovanissima, con messer Simone de' Bardi.[31] Matrimonî che avevano, nè poteva essere diversamente, i loro drammi. Ma la elegia di coteste giovinezze tiranneggiate è notabile che ci rimanga appunto nell'unico saggio di poesia femminile, offertoci, di molto probabile autenticità, dal secolo XIII, e poesia fiorentina, nei tre sonetti d'una donzella che nasconde il suo nome (la Compiuta Donzella di Firenze, la chiama l'antico Codice Vaticano che ce li ha conservati),[32] la quale, dopo aver salutato col frasario provenzale de' rimatori dugentisti la primavera,

la stagion che 'l mondo foglia e fiora,

soggiunge:

ed ogni damigella in gioi' dimora,

e a me n'abbondan smarrimenti e pianti:

chè lo mio padre m'à messa in errore,

e tenemi sovente in forte doglia;

donar mi vuole, a mia forza, signore.

Ed io di ciò non ò disio nè voglia,

e 'n gran tormento vivo a tutte l'ore:

però non mi rallegra fior nè foglia.

Ed ecco poi, nella triste sua realtà, il dramma. Una Buondelmonti, di famiglia guelfa, «molto valente e savia e bella», va il 1239 sposa negli Uberti a un fratello di Farinata: che è quanto dire, parentado fra le due famiglie, capo ciascuna di parte. Alcuni anni dipoi, in un agguato, alcuni degli Uberti sono trucidati dai Buondelmonti: la città è tutta in armi e sossopra. Messer Neri degli Uberti rimanda la donna alla casa paterna, dicendo: «Io non voglio generare figliuoli di genti traditore.» La poveretta, che lo ama, obbedisce e lo lascia. Il matrimonio è annullato: peggio ancora; è dissimulato dal padre di lei, in un altro trattato di nozze che egli conchiude con un conte della maremma senese. Il sacrificio è compiuto: ma la vittima, rimasta sola col nuovo marito, gli dice: «Gentile uomo, io ti priego per cortesia, che tu non mi debbia appressare nè fare villania, sappiendo che tu se' ingannato, ch'io non sono nè posso essere tua moglie, anzi sono moglie del più savio e migliore cavaliere della provincia d'Italia, cioè messer Neri delli Uberti di Firenze». Il conte, gentiluomo davvero, la rispetta, la conforta, la restituisce padrona di sè: e quella nobile creatura ritorna alla sua Firenze, ma per vestirsi monaca in Monticelli, e quivi sparire dal mondo, che oggi ignora perfino il suo nome.[33]

Il monastero riparò molte di queste infelicissime; il monastero, del quale la Compiuta Donzella cantava:

Lasciar vorria lo mondo, e Dio servire,

e dipartirmi d'ogni vanitate:

..... marito non vorria nè sire,

nè star al mondo per mia volontate.

Membrandomi ch'ogni uom di mal s'adorna,

di ciaschedun son forte disdegnosa,

e verso Dio la mia persona torna.

Lo padre mio mi fa stare pensosa,

chè di servire a Cristo mi distorna,

nè saccìo a cui mi vuol dar per isposa.

Ma neanco il monastero fu talvolta asilo sicuro alla loro innocenza, alle loro sventure, alla libertà dell'anima loro. Dio solo, ha detto Dante, conobbe que' misteriosi dolori:

e Dio si sa qual poi mia vita fusi.[34]

Poichè a chi di voi non precorre qui alla mente la celestiale figura di Piccarda, che rimpiange la dolce chiostra dove giovinetta era fuggita dal mondo, e l'ombra delle sacre bende che ella ed altre indarno sperarono conservare sul capo canuto, e si compiace che

non fur dal vel del cuor giammai disciolte?

Gli antichi commentatori raccontano che ella «fue bellissima donna, sorella di messer Corso Donati: stata questa donna nel monistero, occorse a messer Corso di fare un parentado in Fiorenza: non avea nè chi dare nè chi tòrre: sì che fue consigliato di trarre la Piccarda del monistero, e fare tal parentado.... Sforzatamente la trasse del monistero, e maritolla».[35] Con siffatti auspicî entrò Piccarda nei Della Tosa: ai quali, sebbene famiglia guelfa e legatissima con la Chiesa e con l'episcopato fiorentino, sembra fossero familiari, forse perchè più facilmente impunite, siffatte violenze contro i monasteri; poichè nel 1304, quando i Guelfi Bianchi fuorusciti tentarono armata mano il ritorno, uno dei Tosinghi si gettò, narrano i contemporanei,[36] nel monistero di San Domenico, alla preda di due sue ricche nipoti. Le quali cose ricordando di cotesta possente famiglia magnatizia, che l'Alighieri pone fra le ingrassate a spese della Chiesa fiorentina,[37] occorre altresì alla mente un'oscura pagina, o piuttosto un curioso enigma, di storia, che risguarda e loro e la donna fiorentina del secolo XIII: dico una cena che il reverendo capitolo della Basilica di San Lorenzo dava il giorno di calen di maggio, ossia il dì delle feste primaverili, non si sa a quali convitati, ma con abbondante imbandigione, e che si chiamava «la cena delle maladette donne de' Tosinghi».[38] Resta, ripeto, a sapersi il perchè di questa maledizione, e dell'esservi mescolate le donne di quella casa, e dello intitolarsi da una maledizione di donne una cena imbandita per cura e a spese d'un capitolo di canonici. Forse Dante potrebbe dircene qualche cosa per bocca d'una delle donne del suo Poema, monna Cianghella della Tosa; il cui nome egli lancia, con quella potenza di vitupero ch'ei sa, come un ideale femminile.... di tutto quel che non era Cornelia romana:

Saria tenuta allor tal maraviglia

una Cianghella............

qual or saria....... Corniglia.[39]

Ma che sulla donna pesasse duramente la maledizione di quelle discordie, è certo pur troppo. Era già dura servitù la inferiorità civile nella quale era tenuta dalle leggi, con subordinazione non pure della sua personalità giuridica ma sottomissione della sua volontà al mundualdo o procuratore che quelle le assegnavano, e senza la «parola» del quale ella non poteva nè obbligarsi nè sciogliersi, insomma non fare un passo. Ponete caso; anzi sentitene uno da autentico documento per man di notaro:[40] due donne si accapigliano l'una con l'altra, monna Fiore e monna Puccia; si battono di santa ragione; poi fanno la pace: ma per fare la pace, e perchè monna Fiore, la più gagliarda, sia liberata dalla condanna di lire 275 di piccioli inflittale dal Potestà, occorre prima, che un notaio dia loro il mundualdo, il quale poi dinanzi a un altro notaio autorizza e fa valida la loro pacificazione. Tale la condizion giuridica: le civili discordie poi, con gli esilî, con le violenze, con gli odî mortali col vincolare gli affetti, col calcolare a stregua di parte i parentadi, distruggevano alla donna ciò che per essa è tutto, la vita domestica. Si pensa mai, quando si legge di quelle vendette premeditate per dieci, venti, trent'anni, trasmesse in sanguinoso legato da padre a figlio, le quali si sapeva, dall'una parte e dall'altra, pesar com'un debito che era forza non meno agli uni esigere che agli altri pagare, si pensa quante trepidazioni materne e coniugali, di figliuole, di sorelle, di fidanzate, quante lacrime di tenere creature impotenti a rompere que' giuramenti di sangue, quanti sentimenti repressi, quante vite spezzate, coteste atroci storie si trassero seco? Alcune anime sensitive e ferventi, gittate in età ancor quasi di bambine in quel vortice, ne contraevano lo spavento d'ogni cosa del mondo, cominciando, triste a dirsi!, dalla famiglia. La Chiesa, consacrando con la canonizzazione il distacco di tali donne dalla vita esteriore, quali una Cerchi, una Falconieri (anche Piccarda nel Calendario fiorentino, come nel Paradiso dantesco, è, ma col nome di suor Costanza, tra i Beati),[41] può dirsi abbia non solamente coronate virtù miti in età feroce,[42] ma retribuito dolori ineffabili. Umiliana de' Cerchi, sposa e madre a sedici anni, vedova d'un brutal marito a venti, sfiduciata dell'avvenire de' suoi figliuoli in quella società di crudeli, torna alla casa paterna, e conforta la precoce vedovanza con la carità verso i poveri e i reietti: aborrente da nuove nozze che le si minacciano, spogliata con inganno della sua dote, le esce di bocca questo pietoso lamento:[43] «Com'io veggio, non è fede in terra, perocchè il padre inganna e toglie alla figliuola. Abbiami dunque il mio padre quinci innanzi me non per figliuola, ma per fante e serva.» E si rinchiude più in sè, facendo della casa sua monastero; si ritira nella torre del palagio, la quale è a lei oratorio, dice la leggenda, anzi quasi una carcere. L'umano, anche nelle sue più care e sacre attinenze, le si allontana viepiù sempre: «Al tempo dell'orazione, i vostri figliuoli vi sieno lupi, e la camera l'alpe di Montalpruno», dice ella a delle buone madri che si accusano di essere distratte dal pregare «per la occupazione della masserizia e de' figliuoli»; ma essa medesima poi con lacrime chiede a Maria la vita della piccola Regale, sua figlia, un giorno che la poverina, dinanzi alle asprezze di quella penitenza, le cade a' piedi come morta: «Abbi misericordia di me, e rendimi questa mia figliuola». Presto la sua vita si va consumando. Sul capo suo, dalla torre del padre, imperversa la guerra civile; i mangani e i trabocchi grandinano pietre; si appicca il fuoco alle case: per Umiliana tutto questo non è che il trionfo del diavolo, il quale viene a lei dicendo: «Leva su, figliuola, e vedi la città che tutta si consuma ed arde». A ventisett'anni, nel 1246, ella muore. Doveva passare ancor più d'un secolo, perchè Firenze e l'Italia ammirassero in una vergine senese gli affetti umani non spenti ma santificati dal fervor religioso; carità di prossimo, di famiglia, di patria, di Chiesa, avvivarsi come fiaccola alle procelle del mondo; l'amore allearsi allo sdegno in ardimenti virili con femminile modestia; e Caterina rimanere nella memoria degli uomini, ha scritto un suo devoto che propugnò con Daniele Manin la libertà di Venezia, rimanere «donna di consolazione e di lagrime, fanciulla ed eroe, Clorinda ed Erminia dell'eterno poema d'Italia».[44]

IV.

Se non che agli uomini del secolo XIV erano ormai antiche, e da non poter più rinnovarsi, quelle atroci battaglie che desolavano, da un momento all'altro, l'intera città; quelle proscrizioni che schiantavano dalla cittadinanza la metà dei cittadini; que' ritorni di sbanditi, che alle porte della patria esiliatrice si presentavano col ferro in mano e col fuoco. A esiliare pur troppo si seguitò; la condanna del padre colpì i figliuoli anche nelle culle: ma la donna fu rispettata; potè la donna rimanere nelle case vedovate, e serbarle ai ritorni con dolorosa preghiera, nelle chiese della patria, dinanzi alle madonne di Giotto, invocati. Diamo invece un ultimo sguardo al secolo XIII, a questa forte età che nel grembo travaglioso conteneva pure i germi della civiltà moderna. Ripensiamo la prima cacciata di Guelfi nel 1249, che per estremo atto nella patria, celebrano, tutti armati, le esequie del loro portansegna messer Rustico Marignolli, lo depongono in San Lorenzo, poi essi e le famiglie si partono e si disperdono pel Valdarno: i Ghibellini distruggono le case deserte («maledizione del disfare» che cominciò allora, dice la cronica),[45] e d'una torre, che dal vecchio cimitero intorno a San Giovanni prendeva nome di Guardamorto, vogliono «con maggiore empiezza», parole sempre della cronica, vogliono far rovina addosso alla chiesa e battistero, come guelfa anche lei, perchè ritrovo ab antico, e fonte di vita e riposo in morte, di Guelfi. E nella seconda cacciata, dopo Montaperti, «arriva in Fiorenza», lasciamo ancora parlare la cronica,[46] «la novella della dolorosa isconfitta; e tornando i miseri fuggitivi, si leva il pianto d'uomini e di femmine sì grande, che va sino al cielo; imperciocchè non avea casa niuna in Fiorenza, nè piccola nè grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso.... I Guelfi, sanza altro comiato, colle loro famiglie, piagnendo, uscirono di Fiorenza e andaronsene a Lucca....»: fu una città che si riversava in un'altra. I vincitori, con le masnade tedesche, rientrano in patria, e dentro e fuori delle mura la demoliscono mezza. Strappano perfino rabbiosamente dalle chiese le arche sepolcrali e le ossa dei Guelfi: e se oggi un Aldobrandino Ottobuoni, cittadino integerrimo che ai nostri vecchi parve l'imagine del «buono romano Fabrizio», non ha più la sua tomba in quella che allora era Santa Reparata, si deve a quei sacrilegî;[47] a omissione, non a reverenza, si deve, che del portansegna Marignolli sia rimasta in San Lorenzo con le ceneri la pietra del sepolcro domestico.[48] Se Fiorenza non fu «tolta via» tuttaquanta,[49] ognun sa che fu virtù e gloria di un uomo. Ma a quei rifugiati in Lucca, che strazio l'udire, impotenti a ripararvi, la rovina delle loro case, delle loro memorie, dell'avvenire de' loro figliuoli! che furore negli uomini! che lacrime cocenti si saranno serrate nel cuore quelle misere donne![50] Poi, rivolta fortuna, successero le vendette guelfe, meno atroci ma più lente, più intime, più continuate, poichè durarono quanto durò la repubblica, dove il nome ghibellino rimase all'odio comune anche quando più non sussisteva la cosa. Confiscati, distribuiti, dispersi gli averi, i possessi delle famiglie ghibelline, come si distrugge il nido d'una bestia feroce; gli Uberti, votati a esilio perpetuo, e nelle orazioni de' Guelfi supplicato Dio che si degni di sradicarli;[51] i Santi stessi, se del loro sangue, rimossi dall'altare;[52] vietato di contrar matrimonio coi conti Guidi e altrettali signori di contado, e i figliuoli di siffatte unioni sentenziati bastardi:[53] insomma, una scomunica dalla convivenza sociale, che accompagna l'anatema con che la Chiesa li separa dal suo grembo. Sotto questa bufera di persecuzione, i più de' Ghibellini cedevano, e, per ritornare o rimaner cittadini, si facevano Guelfi. Quasi soli i discendenti di Farinata rimasero fedeli alla parte degli avi loro:[54] portarono superbamente per le terre d'Italia la propria condanna e la propria fermezza; pagarono intrepidi, sotto la mannaia guelfa, il debito, com'essi stessi lo chiamarono, lasciato loro da' padri; «non mutarono aspetto, non mosser collo, non piegarono costa», quale Dante, fra le tombe di Dite, avea veduto giganteggiare il loro avo magnanimo, co' suoi eretici ghibellini, col suo imperator Federigo.

Ma come in quel canto sublime, allato a cotesta figura di bronzo, vediamo «in ginocchion levata» l'ombra affettuosa e piangente d'un padre che cerca il figliuolo; così alle persone di quei profughi, che pure erano figliuoli e padri e sposi e fratelli, noi congiungiamo l'imagine delle povere, deboli creature, che dietro a loro trascinavano il tormentoso desiderio della patria e della casa perdute. E quando leggiamo[55] che in una di quelle illusorie pacificazioni, tornati per pochi giorni in Firenze anche gli Uberti, fra la gente che venne loro incontro, furono viste donne, i cui vecchi erano stati ghibellini, baciar l'arme degli Uberti sui palvesi di quei proscritti; noi sentiamo, a distanza di secoli, quel memore bacio, e l'alito che ne spira di affetti consacrati dal pianto e dal sangue.

Appartengono a quelli anni del trionfo e della concordia dei Guelfi, le feste del Calendimaggio che i cronisti e il Boccaccio[56] descrivono; le corti bandite, con apparati allegorici d'amore;[57] la poesia toscana che, rotto il circolo siculo provenzalesco, prende nome dal «dolce stil novo»,[58] della quale può esser gentile imagine quel vascelletto incantato, nel quale l'uno de' due maggiori rimatori di cotesta scuola, Dante, affigura sè e Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, insieme con le loro donne, mollemente cullati dall'onde del mare tranquillo.[59]

Ma presto si scatenò la bufera. Siccome il flagello di quelle discordie si rivolgeva contro coloro stessi che lo impugnavano, i vincitori Guelfi, presto gli uni con gli altri guerreggianti, fecero della città conquistatasi e delle case loro lo scellerato teatro di altri disordini. Si cominciò col non credere più oltre sicuro il trionfo del popolo guelfo artigiano, senza la oppressione, anzi l'annientamento dei Grandi: e i terribili Ordinamenti della Giustizia rinnovarono, per le vie di Firenze guelfa, il triste spettacolo dei disfacimenti ghibellini. Or pensate voi che possa essere stata disfatta pur una di quelle case, senza che le donne di essa sentissero a uno a uno nel cuore i colpi di quelle demolizioni? Pochi anni dipoi, Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, papa Bonifazio VIII e Carlo di Valois, si aggruppano personaggi sinistri d'una tragedia mossa dalle Erinni familiari, la quale ebbe fin d'allora storico e poeta degni in Dino e in Dante. Raccogliamo brevemente, al proposito nostro, da quelle linee sparse, la imagine della città caduta nel novembre del 1301 in mano del paciaro francese, che al disprezzo dell'Alighieri non parve meritare nemmeno il rinfaccio d'aver lacerato con la spada il seno di Firenze; egli, disse il Poeta, «le aveva, pontando la lancia di Giuda, fatto scoppiare la pancia».[60] Furono sei giorni di saccheggio e di desolazione:[61] ogni uomo fece male a chi volle, a amico e a nemico: da tutte le parti era un nascondersi, un trafugar roba, un fuggire: qua e colà, ogni tanto, un palagio che bruciava: ruberie di botteghe e di case, uomini posti alla corda, ferimenti, omicidî: in contado andar le gualdane, rubando, ardendo, ammazzando. Non rispettato l'onor delle donne: i meno tristi imporre ad esse e alle famiglie forzati matrimonî; fuggiti gli uomini, rimanere donne e fanciulli alla discrezione de' nemici; sentite come! e cuori di donna misurino il dolore di quelle poverette, a vedere così iniquamente violato il santuario domestico: «Vennero in casa nostra in Mercato Vecchio, di notte; rubaron quello che vi trovarono: ben l'avevamo la sera passata sgomberata delle più care cose. Noi uomini non v'eravamo, ch'eravamo cessati la sera dinanzi. In quella medesima notte, ci venne in casa un'altra masnada, e rubarono di quello che v'era rimaso. E dopo rubato, i Tosinghi e i Medici si mandavano profferendo alle nostre donne. E non voglio che rimanga nella penna, che quella notte furono lasciati ignudi i fanciulli, maschi e femmine, in sul saccone, e portaron via la roba e' panni loro; che non fu fatto in Acri per li Saracini così fatte opere e pessime».[62]

Del resto, in quella divisione di parte Guelfa tra Bianchi e Neri, anche le donne si erano più forse che in alcun altra simile occasione, mescolate. Nè è da maravigliarne: perocchè questa volta la discordia si cacciava tra famiglie congiuntissime per vincoli di parte, di consorteria, di vicinanza; e perciò turbava relazioni anche più intime, che non da Guelfi a Ghibellini: nè a tale turbamento poteva rimanere estranea la donna. Dice un cronista,[63] con parole nella loro semplicità pittoresche: «Si divise la città di Firenze, e fecero di loro due parti per modo, che non fu nè maschio nè femmina, nè grande nè piccolo,» (intendasi di condizione) «nè frate nè prete, che diviso non fosse». E un novelliere,[64] toccando specialmente di questo parteggiar delle donne, e lodando a paragone la bontà di altri tempi: «Ora che diremo dello ingegno della malizia femminina? Più acuto hanno l'intelletto e più subito; e a fare e a dire il male assai più che gli uomini, sono fatte parziali: chè a buon tempo elle averebbono ripresi i mariti loro, oggi li confortano a combattere per parte. E per questo da loro è disceso assai male nel mondo....».

Noi possiamo assistere a qualche singolare episodio di cosiffatte guerricciuole a porte chiuse. Siamo in casa (l'ho raccontato altra volta)[65] di messer Vieri de' Cerchi la mattina de' 23 aprile del 1300, pochi giorni avanti che la discordia guelfa prorompa in sanguinose violenze. È imbandita la mensa per un suntuoso convito: e madonna Caterina, una Bardi moglie di messer Vieri, dispone a' lor posti i convitati. Una Donati è da lei messa accanto a una gentildonna pistoiese de' Cancellieri; e il marito, con poco prudente zelo, l'ammonisce: «Non far così, chè non sono d'uno animo: tramezza chi che sia». «Messere,» gli dice la Donati, che ha sentito, «voi fate una gran villania, a far me e i miei di parte o nimici di persona: ed ho voglia andarne di fuori». La Cerchi irritata risponde lei: «E tu te ne va'». Il marito, dolente dello scandalo, fa le sue scuse e trattiene la gentildonna con garbata violenza; ma il rimedio è peggior del male, ch'ella lo rimprovera, come di scortesia, di questo porle addosso le mani. Allora egli impazientito, «contuttochè fosse savio cavaliere», esclama (chiedo scusa per messer Vieri al mio gentile uditorio): «Bene sono il diavolo le femmine!» E lascia, non si sa se andare o stare, la furiosa Donati: ma il diverbio seguitò fra gli uomini; e poche ore dopo co' ferri alle mani: «perocchè erano sì vicini, che l'uno sempre era a casa l'altro».

Varchiamo soglie più segrete e gelose, quelle di San Pier Maggiore: chiesa di monache benedettine antichissima, andata miseramente in isfacelo un cento anni fa. La quale non può qui nominarsi, senza ricordare che in essa i Vescovi fiorentini, quando facevano il loro solenne ingresso, si recavano prima che altrove, e con cerimonie, di cui ci rimangono minutissime descrizioni, inanellavano, fra riti e pompe nuziali, la reverenda madre abbadessa, che in persona della Chiesa fiorentina convitava e ospitava per ventiquattr'ore il novello sposo. E ciò, dicono gl'instrumenti, «per antica e ferma consuetudine da tanto tempo quanto è di là da memoria d'uomini».[66] Al monastero pertanto di San Pier Maggiore, un giorno di gennaio del 1299, si presenta Lisa di ser Guidolino da Calestano, venturiero lombardo che fu poi cagnotto attivissimo dei Guelfi Neri,[67] e chiede di esser ricevuta monaca. La badessa, suor Margherita, risponde che il numero è completo, e ch'ella non può senza offesa delle costituzioni ricevere la Lisa. Allora questa esibisce lettere del Santissimo Padre papa Bonifazio VIII, che ingiungono senz'altro alla madre abbadessa l'accettazione della nuova religiosa. Ma la badessa prorompe: «Che di' tu Papa? che santissimo Padre? Bonifazio non è papa altrimenti, sibbene il diavolo in terra tribolator de' Cristiani; ma il Signore Iddio darà tanto potere ai Colonnesi di Roma, ch'e' faranno di lui e de' parenti suoi quel che egli fece di loro contro diritto e giustizia». E le porte del monastero si chiudono strepitosamente dietro l'iraconda e, diciam pure, dantesca badessa; alla quale, del resto, non sembra che mancasse nè la parola tagliente nè il dono della profezia: perchè la trista violenza de' Colonna sul pontefice in Anagni la predisse anche Dante,[68] ma a cose fatte; la badessa, quattro anni prima che avvenisse. Questa volta però là qualificazione di «diavolo» investiva ben altro che femmine, e non per bocca d'un cavaliere: una sentenza della Curia vescovile a cui la Lisa, impenitente nella sua vocazione, immediatamente ricorse, imponeva «perpetuum silentium» a lei e al suo procuratore; con grande consolazione, non solamente delle pinzochere fiorentine, che appunto di que' giorni mandavano a loro spese fantaccini a crociarsi nella guerra papale contro «i perfidi Colonnesi»,[69] ma altresì del Comune, pel quale un processo addosso a quel Monastero di San Pier Maggiore non sarebbe stato, com'oggi parrebbe, una cosa da poco, anzi una gravissima briga da non aggiungersi volentieri alle molte, che in quelli anni funesti travagliavano l'umoroso e mal disposto corpo della cittadinanza. Suor Margherita (aggiungo in parentesi) si trova, a piccola distanza di tempo, aver ceduto ad un'altra il seggio abbaziale, che teneva fin dal 93; poichè nelle nozze episcopali, ch'ebbero a rinnovarsi nel maggio del 1301, ella è bensì fra le assistenti al rito, ma non essa la sposa. Aggiungo ancora che quand'ella fu eletta, due delle monache elettrici, agli scrutatori curiali che raccoglievano i voti, avevano risposto che per consentire nel nome di qualsiasi delle suore volevano innanzi consigliarsene col padre e con gli altri della casa: eccezione dagli scrutatori respinta come disonesta e contro diritto, e a noi evidente esser suggerita da rispetti e legami di parte, i quali avvincevano dunque anche le donne, e quelle stesse che ogni vincolo mondano avevano professato d'infrangere.[70]

Alle donne fiorentine di cotesti anni, mordendone con parole acerbissime i disordinati costumi, minaccia Dante,[71] per bocca dello spirito d'uno dei Donati, che i peccati di Firenze attireranno anche su di esse la meritata punizione del cielo: avanti che siano adulti i pargoletti i quali ora fanno la nanna sulle loro ginocchia, Dio le farà triste, e avranno a «urlare» sui mali delle loro famiglie e della loro città. Allusione indubitabile, ragguagliando le date, — o alla rotta dei Guelfi sotto Montecatini, nel 1315, della quale un rimatore contemporaneo[72] cantava:

Non vi ricorda di Montecatini,

come le mogli e le madri dolenti

fan vedovaggio per li Ghibellini,

e' babbi e' fratri e' figliuoli e' parenti?

— o piuttosto alle vendette imperiali che nel 1312 Dante con gli altri Bianchi sperò e invocò da Arrigo VII sui Guelfi Neri.[73] È, a ogni modo, notevole in relazione col nostro tema, che anche per Dante, come per gli altri grandi interpetri dell'ideale umano, un disastro di guerra, un civile rovescio, si concretino, nella loro più dolorosa forma, in lutto e pianto di donne. Così presso Omero, le matrone troiane guidate da Ecuba veneranda sollevano con alti pianti le mani a Minerva; e nella morte di Ettore, ai lamenti della moglie e della madre e di Elena fatale, rispondono i gemiti di tutto il popolo; e nella caduta della città, sente, fra il crosciar delle armi e degl'incendî, il disperato gridar delle donne la pietosa anima di Virgilio;[74] a tenore delle cui imagini, nell'assalto di Rodomonte a Parigi,[75]

sonar per gli alti e spazïosi tetti

s'odono gridi e feminil lamenti:

le afflitte donne, percotendo i petti,

corron per casa pallide e dolenti,

e abbraccian gli usci e i genïali letti

che tosto hanno a lasciare a estranie genti....

Nell'Omero fiorentino del medio evo la figurazione è meno plastica, ma forse più potente; e la satira mesce nell'epica intonazione la sua stridula nota:

Ma se le svergognate fosser certe

di quel che il ciel veloce loro ammanna,

già per urlare avrian le bocche aperte;

chè, se l'antiveder qui non m'inganna,

prima fian triste, che le guance impeli

colui che mo' si consola con nanna.[76]

Se non che gli spiriti, al cui vaticinio confidava Dante i rammarichi e le ire dell'ingiusto esilio, non antividero che quella esaltazione di guelfismo, nella quale i Neri avevano trascinato il Comune, e da cui i più onesti e temperati fra i Guelfi, come esso l'Alighieri, avevano rifuggito, anche a costo di perder la patria; doveva ormai' quella esaltazione guelfa, rimanere durevol forma del concetto politico a cui avrebbe seguitato a ispirarsi, pe' suoi settant'anni di secolo XIV, il Comune democratico, e in quella la perpetua «inferma» dell'Alighieri «trovar posa in sulle piume» del letto suo doloroso.[77] Così fu; nè qui accade discorrerne le varie e molteplici cagioni: fatto sta, che la storia fiorentina del Trecento, nel cui ultimo scorcio l'oligarchia prevalse, non offrì quelle fortunose vicende di reggimenti e di fazioni, di disfatte e di esilî, di vincitori e di vinti, per le quali la continua mutabilità dello stato rese alla donna così procelloso e malfido il porto della famiglia durante il secolo XIII: dagli esodi alternati di Ghibellini e Guelfi fra il 48 e il 67, all'ostracismo di Giano della Bella nel 95 sbandeggiato co' suoi compresavi la figliuola Caterina;[78] dai disfacimenti vandalici di mezza la città sotto il piccone de' Ghibellini,[79] alle sillane proscrizioni bandite dai Guelfi Neri contro i loro stessi compagni di Parte condannati a divenire «ghibellini per forza».[80] Gli uomini del Trecento raccolsero da que' feroci contrasti la tradizione democratica artigiana, che atteggiò la vita interna del Comune a una progressiva espansione verso la plebe; espansione inefficacemente combattuta dalle Arti maggiori, e che fece capo al governo de' Ciompi: — ne raccolsero la tradizione guelfa francese, che in quello stesso secolo finì con l'attirare sulla libera città l'abietta e sconcia tirannide del Duca d'Atene, e dispose incorreggibilmente la Repubblica a una parzialità lusinghevole e pericolosa, i cui estremi danni sentì Firenze nel 1530, quando a ripararli non si era più a tempo: — ne raccolsero infine la sola forma di magistrato fiorentino che abbia avuta durata ferma, i Priori e il Gonfalonier di Giustizia, la cui insegna popolare piantata da Giano della Bella, trasmessa dall'una all'altra di quelle mani gagliarde, fu, dopo quasi due secoli e mezzo, il vessillo della patria nelle ultime battaglie della libertà.

V.

Il Trecento, adunque, è nella storia di Firenze, comparativamente all'età che lo precede, secolo di confermamento e di stabilità. «Nuovo popolo», come dicevano, non si fa più. Non mancano le grandi commozioni, i grandi pericoli, i grandi rovesci eziandio: la città è assediata da Arrigo VII; minacciata da Uguccione, e più gravemente da Castruccio; stremata del suo miglior sangue nelle battaglie di Montecatini e dell'Altopascio; le calate imperiali del Bavaro, di Carlo IV, mettono alla prova il senno e la borsa de' suoi mercatanti; questa è munta gagliardamente dai sovrani quasi di tutta Europa; i reali di Francia e di Napoli vengono a spadroneggiarci in casa; un loro venturiero crede di essercisi insediato signore e duca; la travagliano, con le armi e con le cupidigie, Scaligeri e Visconti, i Papi Avignonesi e le Compagnie di ventura; le epidemie, ed una sopra tutte spaventevole, la disertano; la tirannide guelfa turba l'equilibrio delle Arti, e provoca gli eccessi della demagogia: ma lo Stato rimane pur sempre saldo a tutti questi urti, fra tutte queste burrasche; saldo tanto, che il rivolgimento verso l'oligarchia si compie senza mutazioni, nè di forma nei magistrati, nè di sostanza nella politica del Comune. E così può Firenze, durante questa età gloriosa, svolgere nelle forme più ampie e sino a' più alti gradi la civiltà sviluppatasi faticosamente dalle tenebre dei bassi tempi; d'industrie e commerci alimentarla, afforzarla, propagarla nel mondo; farle ministre le arti del bello figurato, che Arnolfo, Giotto e l'Orcagna, maestri e operai del Comune, improntano di quella gentil compostezza che d'ora innanzi si chiamerà toscana; ai dispersi elementi dell'eloquio latino, che di regione in regione italica vennero atteggiandosi a lingua di popolo, dare Firenze la forma, farne il verbo della nazione, anzi già il valido istrumento d'una letteratura, che, intorno a un altro grande triunvirato fiorentino, si afferma italiana.

Di questa vita, tanto più spirituale e civile quanto meno agitata e procellosa, la donna, resa quasi ad aere più spirabile, partecipa, com'è naturale, e ne gode largamente. Nella istoria di lei, il dramma fa luogo alle contingenze, or liete or tristi, del familiare e cittadino consorzio; è finalmente ai tesori della bellezza e della tenerezza sua, ispiratrici, ricomposto il nido domestico, com'era a tempo delle avole buone, ma ora la ricchezza e l'arte gareggiano in adornarlo: e i mercatanti di Calimala e di Por Santa Maria, quasi a consolarla de' lunghi abbandoni, serbano a lei le primizie de' panni che recarono d'oltremonte, e che trasformati e triplicati di pregio rivarcheranno le alpi ed il mare.

Ed ella non sarebbe donna, se di quella ricchezza, di quelle appariscenze, che son poi infine lieto testimonio della forza e della prosperità del Comune, la non si compiacesse, e non se ne circondasse volenterosa. Ed hanno un bel gridare i religiosi dal pergamo; e Dante anche questa voce del tempo suo (e quale gliene sfugge?) ha raccolta; hanno un bell'ammonire e minacciare e interdire, e aggiungere le «spiritali» alle altre «discipline»,[81] che correggono e frenano i mondani splendori e il trascorrere nelle pompe e nel lusso.... Ma sono così belli, sotto il raggio meridiano del sole di primavera o ne' rosei tramonti autunnali, quelli svariati colori, quegli arienti, quell'oro, su quelle teste bionde, intorno a que' candidi colli, a prova con lo scintillare di que' neri occhi pensosi! paion fatti apposta que' fini broccati per disegnare le vite snelle e flessuose che aspettano di essere abbracciate pel ballo! quelle perle e pietre preziose, e i segni e lettere nella cui forma sono disposte, che significato e qual valore avrebbero, se fossero risparmiate a que' petti esuberanti di giovinezza e d'amore?

Ed ecco che il Comune, rigido ed inflessibile mantenitore de' proprî diritti, arma l'Esecutor della legge, di capitoli e statuti suntuarî[82] severissimi «contra i disordinati ornamenti delle donne di Firenze»; le quali piegano crucciose il capo, e di mala voglia obbediscono: siamo nel 1324. Ma son passati appena due anni; e tolta occasione dalla venuta del duca di Calabria, chiamato al solito esercizio di signoria angioina sulla guelfa repubblica, le donne si fanno attorno alla duchessa sua moglie, che è una francese, Maria di Valois; e ottengono sia loro reso «uno loro spiacevole e disonesto ornamento» (è la borghesia che brontola per bocca di Giovanni Villani)[83] «di trecce grosse di seta gialla e bianca, le quali portavano in luogo di trecce di capelli dinanzi al viso...., ornamento disonesto e trasnaturato....: e così il disordinato appetito delle donne vince la ragione e il senno degli uomini». Una corte ducale,[84] quel codazzo cortigiano e francese, operano, ne' pochi anni che Firenze se li gode, il proprio effetto: e i Fiorentini, per calen d'aprile del 1330, «tolgono tutti gli ornamenti alle loro donne», e, si può ben dire con una parola di stampo adatto al caso, le disabbigliano da capo a piè. Sentite![85] «Essendo le donne di Firenze molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d'oro e d'argento, e di perle e pietre preziose, e reti e intrecciatoi di perle, e altri divisati ornamenti di testa di grande costo; e simile, di vestiti intagliati di diversi panni e di drappi rilevati di seta, e di più maniere, con fregi e di perle e di bottoni d'ariento dorato ispessi, a quattro e sei fila, accoppiati insieme; e fibbiati di perle e di pietre preziose al petto, con diversi segni e lettere; e per simile modo facendosi conviti disordinati per le nozze delle spose, ed altri, con più soperchie e disordinate vivande; — sopra ciò si provvede e si fanno ordini, che niuna donna non possa portare nulla corona nè ghirlanda, nè d'oro nè d'ariento nè di perle nè di pietre nè di seta, nè niuna similitudine di corona nè di ghirlande, eziandio di carta dipinta; nè rete nè trecciere di nulla spezie, se non semplici; nè nullo vestimento intagliato nè dipinto con niuna figura, se non fosse tessuto; nè nullo addogato nè traverso, se non semplice partita di due colori; nè nulla fregiatura, nè d'oro nè d'ariento nè di seta, nè niuna pietra preziosa, nè eziandio ismalto nè vetro; nè potere portare più di due anella in dito, nè nullo scheggiale nè cintura di più di dodici spranghe d'argento; e che d'ora innanzi nulla si possa vestire di sciamito, e quelle che l'abbiano il debbano marcare, acciò che l'altra nol possa fare; e tutti i vestiri di drappi di seta rilevati sian tolti e difesi; e che nulla donna possa portare panni lunghi dietro più di due braccia, nè iscollato di più di braccia uno e quarto il capezzale; e per simile modo siano difese le gonnelle e robe divisate a' fanciulli e fanciulle, e tutti i fregi, ed eziandio ermellini, se non a' cavalieri e a loro donne; e agli uomini tolto ogni ornamento e cintura d'argento, e' giubbetti di zendado o di drappo o di ciambellotto. E nullo convito si possa fare di più di tre vivande, nè a nozze avere più di venti taglieri,» (che val quanto non più d'una quarantina di convitati) «e la sposa menare sei donne seco e non più; nè a' corredi di cavalieri novelli più di cento taglieri di tre vivande; e a corte de' cavalieri novelli non si possano vestire per donare robe a' buffoni». Sopra i detti capitoli, continua la cronica, feciono uficiale forestiere a cercare e uomini e donne e fanciulli delle dette cose diviete con grandi pene. E impongono norme e tariffe alle arti e allo spaccio delle derrate: e curano insomma l'interesse e la masserizia delle famiglie, senza darsi pensiero del danno che ne sentono specialmente «i setaiuoli e orafi», costituenti una medesima Arte, «che per loro profitto ogni dì trovavano ornamenti nuovi e diversi». Conchiude la cronica:[86] «I quali divieti fatti, furono molto commendati e lodati da tutti gli Italiani; e se le donne usavano soperchi ornamenti, furono recate al convenevole: onde forte si dolsono tutte, ma per gli forti ordini tutte si rimasono degli oltraggi» (cioè da quelli eccessi); «e per non potere avere panni intagliati, vollono panni divisati e istrangi i più ch'elle poteano avere, mandandogli a fare infino in Fiandra e in Brabante, non guardando a costo. Ma però molto fu grande vantaggio a tutti i cittadini in non fare le disordinate spese nelle loro donne e conviti e nozze, come prima faceano; e molto furono commendati i detti ordini, perocchè furono utili e onesti; e quasi tutte le città di Toscana, e molte d'Italia, mandarono a Firenze per esempio de' detti ordini, e confermargli nelle loro città».

Ma chi dovette trovarsi a disagio, proseguiremo noi, furono quelli «ufficiali forestieri», deputati dal Comune all'applicazione della legge, ossia a combattere per essa contro il malumore e l'astuzia delle donne fiorentine, congiurate per la difesa del loro abbigliamento. Delle tante grottesche figure, in cui la gaia novella borghese ha atteggiato quei poveri potestà e capitani, cavalieri e giudici, notai e famigli, che le città guelfe di Lombardia e delle Marche mandavano per rettori a Firenze; e sui quali si motteggiava proverbialmente: «Se tu hai niuno a chi tu vogli male, Mandalo a Firenze per ufficiale»;[87] non ve n'è forse nessuna così argutamente comica, come quella disegnata da Franco Sacchetti[88] d'uno «iudice di ragione» (de' suoi tempi die' egli, ma al dabben giudice non mancarono di certo predecessori anche in questa tribolazione, e Statuti suntuarî fiorentini ne possediamo fin del 1306, e testimonianza di essi fin dal 1290),[89] il quale messosi di buona lena, egli ed un suo notaio, ad eseguire certi nuovi ordini, al solito, «sopra gli ornamenti delle donne», l'effetto n'è, e i cittadini ne fanno le giuste meraviglie presso i Signori, che «l'oficiale nuovo fa sì bene il suo oficio, che le donne non trascorsono mai nelle portature, come al presente fanno.» Or ecco la risposta di messer Amerigo al rimprovero de' signori Priori: «Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione; e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla: perocchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come sono quelli ch'elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E' si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio. Il notaio mio dice: Ditemi il nome vostro, perocchè avete il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo becchetto, che è appiccato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice ch'egli è una ghirlanda. Or va' più oltre, truovo molti bottoni portare dinanzi. Dicesi a quella che è trovata: Questi bottoni voi non potete portare. E quella risponde: Messer sì, posso, che questi non sono bottoni, ma sono coppelle: e se non mi credete, guardate, e' non hanno picciuolo; e ancora, non c'è niuno occhiello. Va il notaio all'altra che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate gli ermellini. E la vuole scrivere. La donna dice: Non iscrivete, no; chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi. Dice il notaio: Che cosa è questo lattizzo? E la donna risponde: È una bestia.» I magnifici signori Priori, che conoscevano le loro donne meglio di messer Amerigo da Pesaro, dicono l'uno con l'altro: «Noi abbiamo tolto a contender col muro. Me' faremo attendere a' fatti che portano più. Chi vuole il malanno se l'abbia.» E infine esclama uno, dicerto il più dotto della orrevol brigata: «Io vo' che voi sappiate, ch'e' Romani non poterò contro le loro donne: che vinsono tutto il mondo; ed elle, per levar gli ordini sopra gli ornamenti loro, corsono al Campidoglio, e vinsono i Romani, avendo quello che voleano». E cita Tito Livio, e vi dissertano sopra. E a messer Amerigo dicono, faccia quello ch'e' può, e tiri via, e lasci correre le ghirlande e le coppelle e i lattizzi; e così, d'allora in poi, narra il novelliere essere stato fatto, conchiudendo che l'uomo propone e la donna dispone, proverbio (come sentite) assai antico, e che le donne fiorentine, senza studiare giurisprudenza, hanno saputo portare le loro fogge a dispetto delle leggi e de' dottori di queste.

Del resto, quelle severità suntuarie di cui possediamo documenti bellissimi per la storia sì del costume e sì della lingua;[90] le quali limitavano la misura de' corredi nuziali, o come dicevano delle «donora», che la sposa portava al marito; e proporzionavano alla dote il longobardico morgincap, o dono del mattino, che questi faceva a lei la mattina dopo il matrimonio; e frenavano, com'abbiam sentito, il lusso e l'abbondanza delle feste e dei conviti; sarebbero oggi per noi violazioni di libertà individuale e quasi di domicilio. Eppure un alto concetto democratico animava anche coteste disposizioni, in quanto si voleva per esse, che il festeggiare de' cittadini fosse il più possibilmente pubblico anzichè privato. «Un sentir comune voleva comuni piaceri: le spese del ricco dovevano sempre avere qualche cosa di popolare; fatte a pubblico benefizio e spettacolo, dovevano essere un godimento per tutti. Nei palazzi, ciò che poi furono i salotti, allora era, aperta alla vista di tutti, la loggia. Per tal modo un paio di nozze rallegravano l'intera città: il ricco pagava le feste al povero per goderle insieme con lui: i giovani armeggiavano, le donne ballavano, sulle piazze, all'aria aperta, non al fumo di candele, nell'uggia de' salotti». Queste cose, di quella età democratica del Comune fiorentino, scriveva nel 1836 un giovine patrizio; il quale doveva poi da vecchio, a tutta Italia anzi alla civile Europa venerando, essere il degno storico della nostra Repubblica: il marchese Gino Capponi.[91]

Altra materia, che di siffatte osservazioni morali, non è da aspettarsi ci offra, intorno alla donna, come già dissi, la storia fiorentina di quel secolo: non la storia de' fatti politici, per le ragioni che vedemmo; non la storia della cultura, in tempi ne' quali i limiti di questa erano tracciati così rigidamente, che la denominazione di uom colto era «cherico», e gran mercè se alla donna rimaneva posto fra il laicato. La Compiuta Donzella, se è, come pare, «non ombra, ma donna certa», rimane un'eccezione, come tutte le regole hanno la sua: nè della cultura della donna in Firenze dal Due al Trecento altre testimonianze sapremmo indicare, all'infuori di qualche volgarizzamento dal latino che vedesi fatto a loro istanza, come quello delle Eroidi d'Ovidio (che chiamavano «Libro delle donne»), a istanza di madonna Lisa Peruzzi condotto da ser Filippo Ceffi notaio;[92] o, più spesso, i volgarizzamenti che religiosi o altre persone spirituali, pure ad istanza di donne, facevano di testi sacri od ascetici.[93] E dovremmo poi dire che il precettor cortigiano che la donna fiorentina di quella età ebbe in Francesco da Barberino, mostra evidente che di qualunque virtù più che di cultura preme a lui che la sua donna ideale si addobbi; fino a porre in dubbio (tutto ben considerato, anche i pericoli) se sia bene o male ch'ella sappia «lo leggere e lo scrivere», ancorachè sia di grande condizione; e sole eccettuando, manco male, le destinate a monacarsi.[94] Ma oltre la storia politica e la storia della cultura, noi possiam pure interrogare una storia, le cui pagine, scritte senza intenzione d'arte anzi non per un pubblico qualsiasi, a null'altro quasi hanno servito sin oggi che a documento di lingua, e sono le Croniche o Ricordanze domestiche: ed una di queste,[95] che proprio comprende nel suo bel mezzo il Trecento, offre al nostro studio, non geste e imprese di certo, bensì più d'una fisionomia femminile.

Le parole di messer Donato Velluti, che io riferirò testuali e dal manoscritto suo autografo, vi faranno qui rivivere coteste donne, quali egli, nella casa propria o de' consorti, le vide: «care e buone» le più; testimonianza affettuosa, e troppo in quelle schiette sue pagine frequente,[96] cosicchè io non debba ripeterla, anche a compenso di giudizi sulla donna, e del Trecento e dell'Ottocento, non sempre benigni. Sceglierò tipi diversi. E prima, poichè abbiamo avuto testè a parlare di fogge e mode, sia d'una alla quale l'avere il capo ben assettato giovò a qualche cosa. «Monna Diana fu una bonissima donna, e molto amore mi portava...., e assai mi teneva a Bogoli quando era fanciullo. Portava molto in capo: intanto che essendo una volta al palagio vecchio de' Rossi, dirimpetto a Santa Filicita, ove oggi è l'albergo, e cadendo d'in sul palagio una grande pietra, e cadendole in capo, non la sentì, se non come fosse stata polvere venuta giù per razolire di polli: onde ella, sentendosi, disse: — Chisci, chisci; — e altro male non le fece, per cagione de' molti panni ch'avea in capo». Resistente, del resto, e gagliarda, era soprattutto la fibra, non meno di quelle donne, che degli uomini loro; e sentite come guardavano in faccia la morte: «Sopravvenne la mortalità del 1348: ed essendo già morti il detto Gherarduccio e sua figliola e le serocchie, et essendo il detto Cino», l'ultimo rimasto di tre fratelli, «e sua donna in contado al detto podere dal Poggio, infermarono; et essendo infermi, deliberarono di venire», cioè alla città. «Ed essendo presso i fratelli della moglie, gli feciono fare testamento.... E poi si partirono: e la donna ne fu recata in istanghe, e giunta l'andai a visitare; e egli ne venìa a cavallo in sella, e uno gli era in groppa. Di che dopo la detta visitazione, essendo io ito in Borgo San Iacopo a la sepultura di Bernardo Marsili, il quale era morto essendo de' Priori,» (e lo stesso, di morire essendo de' Priori, in Palagio, toccò allo scrittore ventidue anni appresso) «e tornando, essendo in capo del chiasso, vennono due a una ora, e l'uno disse: — Monna Lisa è morta; — e l'altro disse: — Cino è morto a l'Olmo da San Gaggio, a cavallo, venendo di villa. — Fecili sotterrare.....». Ritratto di due buone ragazze, invecchiate in casa co' fratelli: «Le dette Cilia e Gherardina non si maritarono: stettono un grande tempo pulcelloni, con speranza di marito; poi fuggita la speranza per non potere, si feciono pinzochere di San Spirito. Guadagnavano bene, e francavano la loro vita, e più, dipanado lana; sanza che, non fece mai bisogno a' detti fratelli tenere fante. Erano amorevoli molto, e grandi favellatrici. Morirono per la detta mortalità del 1348, essendo ciascuna d'età di quaranta anni e più». Ma ben altra donna una madonna Gilia, che in casa dei fratelli ritorna da vedova, e piena d'affari e di brighe, e «consumò molto in piatire, nel quale molto si dilettava, però che era et è molto astuta e rea; e tanto vi consumò, che non vogliendo vendere delle possessioni, vilmente vivea e vestiva, tutto dì cercando Firenze....., e oggi vive in mendicume». Ma ecco qua due figure simpatiche: di una donnina da casa, «monna Lisetta, piccola della persona, ma savia e buona donna», che dopo la morte del marito rimane in casa co' figliuoli, onestamente vivendo, e governando i detti suoi figliuoli», che le muoion giovanissimi, ed ella pure nella mortalità del 1363; — e di una bella sposa, di quelle che, guardate negli affreschi o nelle tavole de' nostri maestri, ci fanno non solamente ammirare ma pensare, «monna Ginevra Covoni, più bella e maggiore di niuna sua serocchia, e sanza vergogna delle altre, fu delle vertudiose savie e facenti donne che io vedessi mai, e quella che per l'amorevolezza sua e piacevolezza e bontà si facea volere bene a ogni persona». Finalmente la madre del cronista e la moglie: «Monna Giovanna, mia madre, fu savia e bella donna, molto fresca e vermiglia nel viso, e assai grande della persona onesta e con molta virtù. E molta fatica e sollecitudine durò in allevare me e' miei fratelli; considerato, che si può dire non avessimo altro gastigamento, e spezialmente di padre, però che quasi del continuo nostro padre stette difuori: per la qual cosa ella fu molto da lodare, e lodata fu, di sua onestà e vita, essendo bella, e stando il marito tanto di fuori. Di carnagione e freschezza fui molto somigliato a lei. Fu grande massaia; e bisogno ebbe di ciò fare, avendo nostro padre poco come avea, poi si divise da' fratelli, e avendo grande famiglia.... E la cagione della morte sua fu, che essendo nostro padre in Tunisi, avendo noi ricevuto in pagamento.... uno podere...., e essendovi ella andata a stare là di state, tornando poi qua, e essendo salita a cavallo..., si mosse il cavallo, e corse un pezzo, e gittolla in terra; di che si sconciò la gamba. Soprastette alcuno dì là su, e non si fece trarre sangue; e poi essendo recata in Firenze in stanghe, si rincannò la gamba: e stando così uno dì di San Martino nel letto, ed essendo con lei molte donne, e favellando e cianciando, subitamente dicendo O me!, passò di questa vita. Iddio abbia la sua anima; chè così dovè essere, essendo buona e cara donna, e essendosi confessata il dì dinanzi....». E la moglie, monna Bice Covoni: «La quale fu piccola e non bella; ma savia, buona, piacevole, amorevole, costumata, e d'ogni vertù piena e perfetta, e la quale si facea amare e volere bene a ogni persona: e io molto me n'ò lodare, chè me amava e desiderava con tutto quore. Era bonissima dell'anima sua: ed è da credere che Nostro Signore Iesù Cristo l'abbia ricevuta nelle sue braccia, faccendo buone e ottime operazioni, limosiniera e d'orare e visitare la chiesa.... Vivette meco in santa pace, e accrebbe il mio assai di grazia onore e avere.... Ebbe grandissima infermità per la mortalità del 1348, e campò di quello che non ne campò una nel centinaio. Fu grazia di Dio e in iscampo di me, chè di certo ho per opinione, che s'ella fosse morta, io non sarei scampato, per gli accidenti m'avvennono, che che di quella infermità non sentissi.... Morì di luglio 1357: sì che vivette meco da diciassette anni. Iddio abbia la sua anima.»

VI.

Tale, nella realtà dei fatti, la donna che i Fiorentini dei primi secoli ebbero compagna della vita, a tutto il periodo schiettamente democratico del Comune; fermandoci sul declinare del Trecento, quando, sfuriati i Ciompi, l'aristocrazia borghese piglia campo, e paladini del popolo, pericolosi paladini, si fanno avanti i Medici. Tale la donna di quella antica Firenze: austera e gentile figura, che a sè dice della gloria di cotesta età tanta parte esser dovuta, quanta fu quella ch'ella prese nella operosità, nei dolori, ne' virili propositi, ne' luminosi concetti, ne' passionati traviamenti, d'un popolo forte, d'una democrazia degna veramente di tal nome, perchè senza declamazioni operante con gagliardia e per sentimento di cose grandi.

Se non che la realtà è solo un aspetto della storia nè sempre il più agevole a risapersi e a ritrarsi; e che anche quando si dà a divedere con sufficiente larghezza, lascia pur sempre luogo da un lato alla leggenda, dall'altro alle idealità dell'arte, trasformatrice quella, imitatrice questa, del vero, di cui la realtà è la identificazione. Ma se vasto è il campo nel quale la donna fiorentina potrebbe considerarsi, in relazioni più o meno strette, più o meno dirette, con le idealità della poesia e delle arti nei secoli iniziali della moderna cultura, altrettanto angusto, è, come in ogni altro ordine d'idee e di fatti fra noi, così anche in questo, il dominio della leggenda. È già stato osservato da parecchi, che la fioritura leggendaria, nelle età che l'avrebber portata, scarseggiò in Italia; e ciò perchè, lo dirò con le parole d'un critico tedesco,[97] «gl'Italiani avevano dietro a sè un'epoca di grande cultura nell'antichità, le cui traccie non si erano mai interamente perdute, essi non uscirono da un tempo di barbarie: e quindi mancavano loro appunto.... tradizioni, la origine delle quali risalisse a tempi oscuri e mitici». Siffatta condizione storica rivolse verso fonti oltramontane il naturale appetito delle plebi al maraviglioso, originando quella poesia romanzesca, la quale solamente fra noi doveva inalzarsi a creazioni d'arte grandiose e squisite; siffatta condizione storica, anche per altri o cicli tradizionali, o temi individui di leggenda, fu causa che il remoto e l'esotico apparissero quasi essenzial condizione perchè un soggetto addivenisse leggendario. Ciò premesso, sembrerà piuttosto troppo che poco, trovare circonfusa del nimbo della leggenda qualche figura di donna fiorentina, e non dai due primi secoli del Comune, sibbene da quelli della sua piena maturità.

Al secolo XIV sembra invero appartenere, se si considerano le circostanze dei fatti, il soggetto della novella, fin dal XV popolare, e tale conservatasi, specialmente nella sua forma metrica, fino a' di nostri, di Ippolito e Lionora;[98] una delle tante versioni sotto le quali si è perpetuata la leggenda dell'amor contrastato, da Piramo e Tisbe agli amanti veronesi che Guglielmo Shakspeare e Vincenzio Bellini hanno resi immortali. Ma nella leggenda fiorentina mancano e la catastrofe tragica, conchiudendosi l'amore con lieta fine, e quasi la forma stessa di leggenda, alla cui scarna semplicità subentrano le forme tornite e conversevoli della novella. Ippolito de' Buondelmonti ama la Lionora, o Dianora, de' Bardi, e n'è riamato, nonostante la nimicizia che, sebben guelfe ambedue, divide le loro famiglie. Disperato del proprio amore, il giovane si consuma e ne inferma; e alla madre, che piangendo lo interroga, rivela la segreta cagione del suo languire. L'amore materno spinge le donne, non avvisando altro mezzo, a pregare una zia di Lionora, abbadessa nel convento di Monticelli, che procuri di far trovare insieme i due amanti. Il che avuto effetto e giuratasi fede di sposi, e stabilito come rivedersi con maggior agio nella casa di Lionora, nel recarvisi Ippolito nottetempo, è fermato dalla famiglia del Potestà. Egli, per salvare l'onore della donna amata, si dà per ladro, e tale persiste a dichiararsi, nonostante l'onta e la desolazione de' suoi; tacendo, a quel che sembra, le donne, per ispavento che, risapendosi il vero, le due famiglie e respettive consorterie non s'arrovescino l'una contro l'altra, e prima vittima sia lo stesso Ippolito. Il giovine generoso, condannato a ignominiosa morte, prega, per la salvezza almeno dell'anima, «che vi piaccia, nel mandarmi alla giustizia, che io faccia la via alla casa de' Bardi, acciò che gli possa domandare perdono dell'odio che io come inimico ho portato loro»; ma in realtà, «solamente per vedere una volta Lionora, prima che morisse». Gli è concesso; e il lugubre corteggio, a suon di trombe e con lo stendardo della giustizia alla testa, s'incammina: Lionora si fa alla finestra, e gli sguardi de' due sposi s'incontrano: allora ella «come furiosa discende la scala, a malgrado di tutte le donne di casa...., si gitta fuori della porta, afferra per la briglia il cavallo del cavaliere del Potestà, e grida: Finchè la vita mi starà nel corpo, tu non menerai Ippolito alla morte, la quale lui non ha meritata.» E si gitta nelle braccia del condannato. Il cavaliere non sa che si fare, la gente romoreggia; la Signoria chiama a sè i due giovani: «Ippolito, legato con la corda intorno al collo, e Lionora scapigliata e piangente, seguendoli gran copia di popolo». La giovine si fa innanzi e domanda ragione: «cioè, che voi mi rendiate il mio marito e sposo; altrimente io appello a Dio ed al mondo, chiamando vendetta di tanta ingiustizia, pregando Dio che con i suoi giusti occhi riguardi le vostre inique sentenze e malvagi giudizi.» La Signoria, verificati i fatti, chiama i padri de' due sposi: «li quali intendono la cosa per dritto modo, e quivi in presenza de' Signori e del popolo, fermano il parentado. E dove già duecento anni i Buondelmonti e i Bardi erano stati inimici a morte, divennero amicissimi per il parentado che tutti parevano d'uno sangue.» Vedete, o Signore gentili, che la leggenda ha pur voluto dare la sua eroina a Firenze, e l'ha chiesta all'amore.

Amorosa pure è la leggenda della sepolta viva; che il suo rozzo cantastorie quattrocentista riferisce al 1393. Ginevra degli Amieri (Almieri, per corruzione popolare) è amata da Antonio dei Rondinelli, ma dal padre sposata invece a Francesco degli Agolanti. Infermatasi e tramortita è, in que' sospetti di morìa, creduta estinta, e la seppelliscono da Santa Reparata. Ritorna ai sensi dentro la tomba, si accorge dell'atroce suo caso, si raccomanda alla Vergine, e guidata da un debole raggio di luna che trapela da uno spiraglio del sepolcro, sale una scaletta, riesce a smuovere la pietra testè murata; ed ecco la sua bianca figura, che rasente al Campanile, pel chiasso che poi da lei si vorrebbe essere stato chiamato della Morte, incamminasi alla casa del marito. Batte, ed è il marito stesso che si affaccia alla finestra;

Chi è la? chi batte? — Io son la tua Ginevra.

Non m'odi tu?...

Il marito spaventato si fa il segno della croce, promette a quella pover'anima errante orazioni e messe, e si ritira. Ginevra prosegue alla casa paterna, in Mercato Vecchio. Bussa; e si affaccia la madre.

Aprite.... io son la vostra figlia. —

Va' in pace, anima benedetta.... —

E riserrò la finestra con fretta.

La sventurata

fece del cor ròcca, e tirò via

sempre piangendo, misera dolente:

e incontra la stessa accoglienza sotto la casa d'un suo zio. Allora si ricorda del virtuoso amante; va alla sua casa: egli, pur credendola spirito,

vuol veder se tal spirito gli nuoce:

scende, la raccoglie, chiama la madre e le altre donne di casa; la confortano, l'assistono, la salvano. Ella vuol esser come morta al marito che l'ha seppellita, e passare a seconde nozze con l'uomo pel quale è rivissuta. Sostiene la sua causa dinanzi alla curia vescovile, e la vince. L'Amore questa volta (bene è stato detto da chi illustrò criticamente la leggenda)[99] l'Amore trionfa della Morte.

Ma, non che antica, antichissima sarebbe, e non di amore ma civile e patriottica, una tradizione che risale nientemeno che a' tempi di Totila; se però non si avesse piuttosto a tenere come una postuma trovata del popolo. Il re barbaro, entrato per inganno in Firenze, si è insediato nel centro della piccola città romana, nel palazzo del Campidoglio. E volendo toglier di mezzo «li maggiori e più possenti caporali della terra, li fa uno giorno richiedere a suo consiglio in grande quantità. E come giugnevano in Campidoglio, passando ad uno ad uno per uno valico di camera, gli faceva uccidere e ammazzare, non sentendo l'uno dell'altro, e poi i corpi gittare negli acquidocci».[100] Una trecca di mercato, che ha la sua botteguccia accanto alla chiesa di San Pietro lì presso, entrata in sospetto, avverte i cittadini «guardino bene, chè, come ha quella favola d'Esopo, di quanti vi sono entrati, niuno se n'è veduto uscire». Il che salva la vita a molti, e guadagna alla chiesa il nome di San Pier Bonconsiglio;[101] ma non impedisce la distruzione della città per mano del barbaro. La trecca e Totila poi si sono convertiti, e ciò a' dì nostri, egli nel più aborrito fantasma di tirannide che sia rimasto nella memoria del popolo fiorentino, il Duca d'Atene, ed essa nella Cavolaia di Firenze; il Consiglio de' maggiorenti al Palazzo del Campidoglio è addivenuto una veglia in maschera, con annessi trabocchetti, nella residenza ducale; e la maggior campana del Duomo, che d'inverno suona per l'ultima volta a sera inoltrata, e che al buon tempo dei nostri nonni, quando si andava a letto presto per alzarsi all'alba, faceva segno della cessazione delle veglie, è per la plebe la campana della Cavolaia, e rammenta come per opera di questa brava fiorentina la veglia micidiale del Duca finisse (nessun istorico lo sapeva) con la sua ignominiosa cacciata. La Cavolaia di Firenze, eroica moglie di Stenterello, divide oggi gli onori del teatro popolare fiorentino con la Ginevra degli Almieri, della quale il suddetto Stenterello è pur diventato non so se dissotterratore o che altro. I suoi personaggi la plebe, una volta attiratili a sè, li avvolge nelle spire di simpatie secolari, che si modificano, si trasformano, ma morire del tutto, non muoiono mai.

E un altro amore tradizionale del popolo fiorentino è, pure in questa età del Comune democratico, monna Tessa, la virtuosa fantesca di Folco Portinari, che per consiglio e cominciamento principalmente di lei si vorrebbe avesse fondato lo spedale di Santa Maria Nuova.[102] Al popolo, che vede scolpita in marmo la imagine della caritatevole donna sul limitare della grande casa, ospitale alle sue infermità e alle sue miserie, vano sarebbe, se già non fosse una pedanteria crudele, ammonirlo che la tradizione di monna Tessa, attestata sotto quel marmo da una iscrizione del secolo XVII, è tanto dubitabile quanto è, a ogni modo, evidente che cotesto mezzo rilievo, posteriore almeno di un secolo ai tempi ne' quali ella sarebbe vissuta, e che anticamente era collocato in una delle cappelle della chiesa, non è se non la effigie o d'una benefattrice del luogo pio, o d'una delle oblate addette ad esso. La tradizione poi, è molto probabile che avesse occasione od appiglio da una iscrizion del Trecento, che scolpita in rozzi caratteri gotici era sulla mensa dell'altare di quella medesima cappella, e vi rimase almeno fino al 1647, e dove si raccomandava l'anima d'una monna Tessa, moglie di Tura bastaio, la quale aveva fatto costruire cotesto altare.[103] Oltre a ciò, riescirebbe malagevole attribuire tanta potenza di effetti all'opera d'una femminella di condizione servile, in tempi ne' quali tale condizione rimaneva tuttavia molto prossima alla schiavitù; e schiave infatti le chiamavano, e dall'Oriente ne condussero e tennero effettivamente di tali.[104] Ma non è egli bello che il popolo lasci tutto questo, ed altro ancora, alla nostra saccenteria, e si tenga per sè la imagine cara della sua monna Tessa, fantesca poveretta; e di questa umile donna che sarebbe uscita da lui, esperta del suo patire, passata nel mondo fra i medesimi dolori, faccia egli a sè come l'angelo consolatore di questi dolori, la confortatrice di quei patimenti? Certo, io credo, non sarebbe mai una donna, per dottissima ch'ella fosse, che aspirerebbe alla gloria di combattere l'autenticità di monna Tessa. Più facile invece, che qualche rappresentatrice ingegnosa di quel vero, il quale, fuor d'ogni contingenza di persone e di tempi, è suggello perpetuo dell'essere umano, la ritragga nelle case dei Portinari, tutta intesa alle faccende domestiche, abbellire di carità la vita rassegnata e paziente, e disporre al soccorso dei poveri l'animo del ricchissimo messer Folco e della moglie sua madonna Cilia de' Caponsacchi: e pargoletta sulle ginocchia della povera serva, la loro figliuola, la predestinata Beatrice.

Nel nome di Beatrice, le realtà della storia e le fantasie della leggenda si congiungono con le idealità superbe a cui l'arte del bello solleva la manifestazione del bello più eletta fra le create, la donna. Ed io tocco i limiti che ho assegnati alla mia lettura. Non potrei lasciarvi con nome di donna fiorentina che suoni più alto e più soave. Da nessun'altra delle tombe della vecchia Firenze, alle quali abbiamo richiesta la donna del nostro antico glorioso Comune, da nessuna la donna fiorentina si solleva irraggiata di tanto splendore. E se, come di Folco,[105] fosse a noi rimasta la tomba di Beatrice Portinari, c'inchineremmo su quella forse con non minor reverenza che sul sepolcro dell'esule amante in Ravenna.

VII.

Il più solenne monumento della democrazia fiorentina, Santa Maria del Fiore, ha distese le braccia immense su molte di quelle tombe de' secoli XIII e XIV, con altre insieme più antiche, fin da quando le basi poste alle navate di Arnolfo e del Talenti, alla mole aerea di Giotto, alle tribune su cui poi voltò la cupola il Brunelleschi, coprirono l'antichissimo cimitero di Santa Reparata; esultanti, è da credere, le anime de' sepolti, che le loro lapide sparissero e le ossa si confondessero nelle fondamenta del tempio che a Dio inalzavano i forti loro figliuoli. Un prezioso Obituario[106] ci ha conservato i nomi dei sepolti e nell'antico cimitero e poi presso alla nuova chiesa: e su quelle pergamene, ingiallite dai secoli, leggendo i nomi, nella pace della morte congiunti, di Uberti e Buondelmonti, Lamberti e Adimari, Cavalcanti (e vi è Guido il poeta) e Donati, Abati e Brunelleschi; dei combattenti a Montaperti (e vi è Farinata magnanimo), e dei giustiziati dai Guelfi Neri, e degli uccisi nelle zuffe cittadine; e poi nomi di artisti, specialmente di addetti ai lavori della chiesa, e nomi di loro donne, primo Arnolfo e madonna Perfetta la madre sua, invidiabile madre per tale figliuolo e per tal sepoltura;[107] e poi anche i nomi di tanti ignoti che pur fanno, anzi fanno perchè ignoti, fantasticare la mente; siam tratti a ripensare e meditare tutta la storia d'un'età che ci è sopravvissuta ne' mirabili monumenti del suo pensiero e del cuor suo. E i nomi tanti di donne, molti de' quali al nostro orecchio novissimi, per esempio (e taluni hanno del longobardico) Bellantese, Bellamprato, Bellatedesca, Berricevuta, Ringraziata, Dolcedonna, Altadonna, Donnetta, Buona, Moltobuona, Dibene, Piubbella, Rimbellita, Belcolore, Macchiettina, Vezzosa, Ruvinosa, Leggiera; altri di storica ricordanza, sia pe' loro casati, sia per sè medesimi come le molte Tesse e Contesse, tributo onomastico alla Matelda famosa; tutti cotesti nomi, quanta ignorata storia di affetti non racchiudono, addormentati per sempre sotto quel sacro terreno!

Mai non t'appresentò natura ed arte

piacer, quanto le belle membra, in ch'io

rinchiusa fui, ed or son terra sparte:

sono i versi[108] ne' quali Beatrice, pure in grembo al divino, si ricorda di quando fu donna; e perciò da potersi inscrivere anche sulla tomba di ignote.

Signore e Signori,

Fra pochi giorni, su quel terreno che la religione e l'arte hanno fatto sacro all'Italia e al mondo civile, converrà da tutte le nazioni, alle solenni fratellanze del pensiero, un devoto unanime pellegrinaggio. Santa Maria del Fiore avrà avuto, dopo quasi seicent'anni dalla prima pietra, il suo compimento.[109] Ma i nostri vecchi, lasciando questa gloria al secolo che ora tramonta, non potettero prevedere, nè avrebbero osato augurarsi, che la pietra ultima sarebbe stata consegnata alle fondamenta dalla mano invitta di Colui che la patria italiana doveva salutare suo unificatore, suo padre, suo re;[110] che le feste dell'opera degnamente compiuta avrebbero inauguratori i figli di lui, il Re la Regina i Principi d'Italia; dell'Italia finalmente pacificata e concorde in tutte le sue terre, di nazione storica rivendicatasi a nazione vivente, e del l'avvenire affidata dalla coscienza del proprio diritto, e dal valore de' suoi soldati che combattono e muoiono, senza contare i nemici, nel nome di lei e del dovere.[111] Santa Maria del Fiore si apparecchia a dischiudere le sue porte ai sovrani benedetti da Dio e dal popolo; e di sotto ai novelli marmi del suo limitare fremeranno in quel giorno le ossa, e per gli spazi delle arcate severe si affolleranno invisibili, intorno agli Eletti della nazione, i magnanimi spiriti dell'antica Firenze. Il difensore a viso aperto e tutelatore della patria, l'Uberti, «si ergerà col petto e con la fronte» dalla tomba sua vera,[112] drappellando nel cospetto del Re prode e leale la vecchia insegna del popolo fiorentino, la Croce, oggi per virtù di Casa Savoia insegna di popolo e di re. Ma a Guido Cavalcanti, nel suo riaffacciarsi dal sepolcro al «dolce lume» del sole, «ferirà gli occhi» una visione gentile, come quelle da lui già idoleggiate nella sdegnosa fantasia, e gli farà ripetere li amorosi suoi versi,[113] per entro a' quali trepida, interrogando, l'affetto:

Chi è questa che vien, ch'ogni uom la mira,

e fa di chiarità l'aer tremare?

E mille voci concordi risponderanno a quella sospirosa melodia d'oltretomba, acclamando il nome dell'Augusta Donna, alle cui speranze materne è raccomandata tanta e sì cara parte delle speranze d'Italia.

NOTE

1. Matteo Villani, Cronica, VII, LXIV.2. Giovanni Villani, Cronica, VII, LXVIII.3. Commentaires de messire Blaise de Montluc, mareschal de France; Lyon, 1593; pag. 176.4. La donna; Milano, Agnelli, 1868; a pag. 41.5. Lettere di una Gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli pubblicate da Cesare Guasti; Firenze, Sansoni, 1877; a pag. XLIV: «Che le lettere familiari sono la prima fonte storica, è cosa nota; ma che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo, vorrei averlo mostrato io con questo volume». Lo stesso Guasti altrove ( Opere; Prato, Succ. Vestri; I, 596) osserva che «gli storici fiorentini non sono molto larghi nel darci tipi di donna; ma quelle che ci mettono dinanzi agli occhi, son proprio degnissime di poema non che di storia.»6. Giosuè Carducci, Alla regina d'Italia, XX novembre MDCCCLXXVIII. A pag. 858-860 delle Poesie, Bologna, Zanichelli, 1902. E in Confessioni e Battaglie, vol. IV delle Opere (Bologna, Zanichelli, 1890), a pag. 333-357, eterno Femminino regale. — Su l'uso e l'abuso, e la interpretazione critica, della frase goethiana «das Ewigweibliche» è da vedersi un bellissimo saggio di Michele Kerbaker, L'eterno Femminino e l'epilogo celeste nel Fausto di W. Goethe; Napoli, Pierro, 1903. «Per l'eterno Femminino, cioè l'eterna femminilità, nel senso più ovvio, chi non abbia riguardo al passo del Fausto, potrebbe intendersi la potente ed arcana attrattiva che la donna esercita sui sentimenti dell'uomo, mediante le speciali prerogative congenite alla sua complessione fisica e morale.» Ma dall'esame critico dell'epilogo celeste nel Fausto il Kerbaker conchiude, che quella «femminilità eterna» è «l'essenza stessa dell'indole femminile riguardata come una legge costante e provvidenziale della natura, in contrapposizione alla Mascolinità, e di cui la Beata Vergine, Madre di Dio e Regina dei cieli, è un simbolo». In quanto però la frase si presti, come s'è anche troppo compiacentemente prestata, a interpretazione astrattamente umana, non credo aver da pentirmi di quella che, in relazione col mio tema, a me venne fatto di darle: «idealità della donna, immanente nella storia».7. Il canto XV, primo della trilogia fiorentina che il poeta svolge intorno alla figura luminosa del suo trisavolo Cacciaguida degli Elisei.8. Io mi volsi a Beatrice; e quella udio

pria ch'io parlassi, ed arrisemi un cenno

che fece crescer l'ali al voler mio.

Poi cominciai così....

XV, 70-73

Vincendo me col lume d'un sorriso

ella mi disse: Volgiti ed ascolta,

non pur ne' miei occhi è paradiso.

XVIII, 19-21

9. XV, 97-99 e segg.10. Al geniale argomento appartengono: La donna genovese del secolo XV, di Carlo Braggio; Genova, dal Giornale ligustico, an. XII, 1885: — La donna nel Medio Evo a Venezia, di B. Cecchetti, Venezia, dall' Archivio veneto, an. XVI, 1886; e La storia di Venezia nella vita privata, di P. G. Molmenti, Torino, Roux, 1885: — gli studî di Lodovico Frati su La vita privata di Bologna dal secolo XIII al XVII; Bologna, Zanichelli, MDCCCC (dello stesso autore, anche La donna italiana secondo i più recenti studi; Torino, Bocca, 1899): — una Conferenza di Guido Biagi, La vita privata dei Fiorentini, fra quelle su La vita italiana nel Rinascimento; Milano, Treves, 1893 — una di Lodovico Zdekauer, La vita privata dei Senesi nel Dugento, e una di Eugenio Casanova, La donna senese del Quattrocento nella vita privata, fra quelle tenute dalla Commissione senese di Storia patria; Siena, Lazzeri, 1895-98; — La storia di Pescia nella vita privata, di Carlo Stiavelli; Firenze, Lumachi, 1903 — e nel libro La donna italiana descritta da scrittrici italiane in una serie di Conferenze tenute all'Esposizione Beatrice in Firenze (Firenze, Civelli, 1890), quelle specialmente di Maria Savi Lopez, La donna italiana nel Trecento; di Filippina Rossi Gasti, Le donne nella Divina Commedia; di Alinda Bonacci Brunamonti, Beatrice Portinari e l'idealità della donna nei canti d'amore in Italia.11. Parad. XV, 130-135; XVI, 34-39.12. G. Villani, IV, X,13. G. Villani, IV, IX.14. G. Villani, V, XXXVII. «Ma se nel 1209 accadde la venuta di Ottone in Firenze, il racconto è favola; chè.... diciannove anni avanti, Gualdrada e Guido eran congiunti, e fin dal 1196 avevano figliolanza»: nota il Guasti, Opere, I, 71. Ciò nonostante, il valor morale della gentile tradizione rimane intatto.15. Parad. XXXI, 38-39.16. Parad. XVI, 145-147.17. Parad. XVI, 25.18. Parad. XV, 97-99.19. Dino Compagni, I, II.20. Inf. XIII, 143-145.21. «Allora lo romore fue grande; e fue messo in una bara, e la moglie istava nella bara, e tenea il capo in grembo fortemente piangendo; e per tutta Firenze in questo modo il portarono». Cronica fiorentina compilata nel secolo XIII; a pag. 234 del vol. II, P. Villari, I primi due secoli della storia di Firenze; Firenze, Sansoni, 1894.22. Manzoni, Adelchi, IV, I.23. G. Villani, VI, LXIX; Cronica malispiniana, CLXIV.24. Dino Compagni, II, XXIX.25. G. Villani, l. c.26. Una di quelle «doti isfolgorate» di lire dugento, sappiamo oggi essere stata la dote che la Gemma di messer Manetto Donati portò a Dante Alighieri. L'illustratore di questo Nuovo Documento concernente Gemma Donati ( U. Dorini, nel Bullettino della Società Dantesca italiana, N. S., IX (1902), fasc. 7-8, pag. 181-184) ha potuto sopra altri documenti fiorentini consimili rilevare che fra il 1276 e il 1316, sopra sessantasei doti, dieci vanno dalle 50 alle 200 lire o poco più, quattordici dalle 250 alle 500, quindici dalle 500 alle 700, tredici dalle 700 alle 1218, sei da fiorini 100 a 300, otto da fiorini 300 a 560. E si seguitò per questa via. Guido Biagi ha pubblicato (per nozze Corazzini-Brenzini; Firenze, 1899) Due corredi nuziali fiorentini (1320-1493), da un libro di Ricordanze dei Minerbetti, istituendo confronti su «ciò che fosse la vita fiorentina e nei primi del Trecento, quando non era ancor fatta la roba, e sul declinare di quel secolo decimoquinto, in cui la squisitezza del gusto raffinava e ammolliva il costume». Nel matrimonio del 1320 la dote è di 325 fiorini d'oro, e 35 fiorini d'oro le «dónora» ossia il corredo. Nel 1493, fiorini 800 la dote, fiorini 240 le «dónora stimate» con altre assai non stimate, e poi per fiorini 340 di «cose consegnate e date» agli sposi dai genitori dello sposo. Un altro matrimonio, d'una Valori a uno Strozzi nel 1485, porta ( Scritta di parentado ec. pubblicata da G. O. Corazzini per nozze Ciampolini-Magagnini; Firenze, 1894) fiorini duemila di suggello fra dote e dónora, delle quali segue la lista. Vorrei poter riferire quelle liste, preziosa testimonianza anche alla storia del costume. Consimili documenti di tempi ulteriori ha pubblicato Carlo Carnesecchi nel suo opuscolo Donne e lusso a Firenze nel secolo XVI. Cosimo I e la sua legge suntuaria del 1562; Firenze, Pellas, 1902.27. Parad. XV, 112-120.28. Vedi appresso, nel mio Studio su Beatrice.29. Ottimo, III, 355 ( Parad. XV, 103-105).30. Vedi il mio libro Dino Compagni e la sua Cronica; Firenze, Succ. Le Monnier, 1880-87; I, 1113.31. Vedi il citato mio studio su Beatrice; ed ivi anche ciò che concerne il matrimonio stesso dell'Alighieri con la Donati.32. Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, pubblicate per cura di A. D'Ancona e D. Comparetti; Bologna, 1875-1888; n. i DX, DXI, CMX. L'autenticità e realtà della «compiuta donzella di Firenze», che io, fin da quando (1887) scrivevo queste pagine, propendevo a sostenere contro gli assalti della critica dubitatrice, mi paiono ora validamente confermate nel bello Studio di Liborio Azzolina, La Compiuta Donzella di Firenze; Palermo, 1902; dove e quelle e altre (d'argomento amoroso) rime del Codice Vaticano ad essa comecchessia attinenti, sono esaminate con finezza di osservazione critica e con appropriata dottrina di storia e d'arte.33. Cronica fiorentina cit. in nota 21 a pag. 235-236.34. Parad. III, 108.35. Commento alla D. C. d'Anonimo fiorentino III, 51.36. Dino Compagni, III, X.37. Parad. XVI, 112-114.38. Pro coena maledictarum dominarum de Tosingis, riferisce il canonico P. N. Cianfogni ( Memorie istoriche della basilica di S. Lorenzo; Firenze, 1804) essere intitolata, nel libro di Entrata e Uscita del Capitolo di San Lorenzo, sotto l'1 Maggio 1306, la spesa di quella imbandigione, «consistente in due capretti, due ventri di vitella, cinque paia di pollastri e altrettante di piccioni, un ventre di castrato, tre caci, otto dozzine e mezzo di pani, vino, frutte, pomaranci, treggea, spezie e lardo, colla spesa, in tutto, di otto lire, quattro soldi e sei danari» (vedi, qui subito appresso, il conteggio, di poco superiore, del Borghini). E poi lo stesso canonico Cianfogni soggiunge: «Chi fossero queste donne maledette, le quali dalla quantità delle vivande si vede che erano di un numero non indifferente, io non ho potuto rinvenirlo; siccome neppure si sa se questo fosse un obbligo del Capitolo, perocchè non vi sono libri anteriori, e dal 1307 fino al 1343 mancano tutti; e in quelli che seguono, di questa cena non se ne vede più fatta menzione». Io non sarei d'avviso che la cena fosse imbandita a donne, cioè non crederei che le «maledette» fossero le commensali e consumatrici: parecchia gente, osserva pure il Cianfogni, se si guarda la lista delle pietanze. Direi piuttosto che le «maledette» dessero, come di certo l'occasione e l'origine, così anche il nome alla cena; ma che questa poi fosse ammannita a tutt'altre persone che donne e Tosinghi, ma o a poveri o a religiosi, o altro che di simile: e ciò per un lascito nel cui titolo le «maledette donne dei Tosinghi» rimangono per noi un mistero. Mi capacita poco, che una casa come i Tosinghi, così fiera e burbanzosa e potente, volesse mandar le sue donne a quella periodica impinzatura di calendimaggio, accompagnata poi da quella amorevole denominazione. Peccato non usino più i romanzi storici, per ricamarvi un po' sopra! Il gran maestro di antichità fiorentine, Vincenzio Borghini ( Autografi magliabechiani, X, 98, c. 57), pare vegga nella denominazione di «maledette» non altro che una imprecazione de' canonici all'indirizzo delle Tosinghe, seccati di dover tutti gli anni per cagion d'esse metter mano alla borsa e registrar quella spesa; imprecazione raccolta dal camarlingo, e sopravvissutaci in cotesta come motteggevole intestatura della partita: « Pro coena maledictarum dominarum de Tosinghis. Erano parenti del Vescovo, e dovevano farsi fare questa cena per piacevolezza: ma questi buon preti non ci avevano pazienza, chè spesono in tutto lire 8. 9. 10, che erano più di 3 lire delle nostre». Ma questa volta io non consentirei al maestro. In quel «maledette» della cena laurenziana commemorativa, mi par di sentire alcun che di consono al grido misterioso che aleggia fra gli alberi del sesto girone del Purgatorio dantesco: «Ricòrdivi, dicea, de' maledetti....»

È stato popolare in Firenze, fino ai dì nostri il «lunedì dell'unte», cioè delle tessitore, che era il penultimo, o l'antepenultimo, lunedì del carnevale, giorno di scialo per coteste donne dei nostri camaldoli, con tavole apparecchiate anche su la strada: e doveva essere antichissimo, quanto forse la cena (tutt'altra cosa) delle «maledette».

39. Parad. XV, 127-129.40. Protocollo di ser Uguccione di messer Ranieri Bondoni, B. 2126 dell'Archivio antecosimiano dei Contratti, nell'Archivio fiorentino di Stato. A c. 130 t., 11 aprile 1304.41. G. M. Brocchi, Le vite de' Santi e Beati fiorentini; Firenze, 1742-61; II, 339 seg. Vedi anche L. Santoni, Diario sacro ecc. con l' Elenco di tutti i Santi, Beati e Venerabili che sono nati domiciliati e morti in Toscana; Firenze, 1853; pag. 105. Piccarda, o col suo nome francescano suor Costanza, Donati è sotto il 17 ottobre. (La data de' «17 ottobre, a pag. 105» dell'Elenco di L. Santoni, è erronea. La vera è «17 dicembre, a pag. 128» del medesimo Elenco; dove anche altre cose, oltre quel doppione, sarebbero da raddirizzare.)42. Questo concetto fermai in una iscrizione pel Centenario di Santa Margherita da Cortona (1897), che qui ripubblico siccome non aliena dal carattere del presente mio libro:

Coronazione di virtù miti in secolo feroce fu l'aureola della santità sulla fronte della donna medievale. Ma di eroica redenzione dalle abiezioni del peccato voluta e combattuta e vinta, ma di rivendicazione dello spirito immortale alla sua libertà, è confortevole simbolo anche nei mutati tempi la santità tua, o Margherita, o bella penitente, o consigliatrice di pace ai potenti del mondo, o iniziatrice di carità dagli abbienti ai poveretti; Maddalena dell'età fosca e luminosa, a cui Francesco ebbe nelle stigmate dell'amore universale rinnovato il dolce crocifisso Gesù.

43. Leggenda della beata Umiliana de' Cerchi; Firenze 1827; a pag. 23, 34, 94, 50.44. N. Tommaseo, Lo spirito, il cuore, la parola di Caterina da Siena; premesso alle Lettere di lei (Firenze, Barbèra, 1860), a pag. CLXXXVI.45. G. Villani, VI, XXXIII: Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze; Firenze, Barbèra, 1875; I, 29-30.46. G. Villani, VI, LXXIX.47. G. Villani, VI, LXII.48. Il sepolcro in chiesa nella cappella di San Matteo. La pietra (con lo stemma, e figurazioni guelfe, e la scritta Sepulchrum filiorum de Marignolle. A. D. MCCLVIIII. Restauratum A. D. MCCCCCV ), che serviva di dossale all'altare ( Richa, Chiese fiorentine, V, 73, 33-34), fu trasferita nel chiostro della Canonica, a man destra appena entrati, nel 1739 per cura degli Ubaldini novelli patroni della cappella. E così deve correggersi un accenno del Capponi, l. c.49. Inf. X, 92.50. Dramma ritratto con veracità d'arte possente, in una lirica del Tommaseo: a pag. 374-377 delle Poesie, Firenze, Succ. Le Monnier, 1872 e 1902.51. Vedi nel mio libro Dino Compagni e la sua Cronica, II, 519.52. Vedi nel citato mio libro, II, 457-58.53. Statuti fiorentini, III, CLXXIX: «Di non contraere parentado co' conti Guidi e altri ( conti Alberti, Ubertini, Pazzi di Valdarno, Ubaldini ), e di pagare la gabella pe' contraenti matrimonio con alcuno Signore confinante col territorio fiorentino.... E coloro e' quali di tale matrimonio nascesseno, come bastardi a successione d'alcuno venire non possano, ma da la successione s'intendano per essa ragione schiusi, in quel modo ch'e' bastardi sono eschiusi.» Disposizioni che dai più antichi Statuti si veggono perdurare fino in quelli del 1415: ed erano spada sempre tagliente, sospesa sul capo delle famiglie ribelli; come ne danno pietoso esempio due gentildonne del primo Quattrocento: una Bardi negli Alberti, e una Alberti nei Corsini (vedi C. Carnesecchi, Madonna Caterina degli Alberti Corsini, Notizie inedite; nell' Archivio Storico Italiano, 1892, X, 116-122).54. Dino Compagni, II, XXI; G. Villani, VIII, XXXV.55. Dino Compagni, III, VII.56. Dino Compagni, I, XXII: «In tal sera, che è il rinnovamento della primavera, le donne usano molto per le vicinanze i balli.» G. Villani, VII, CXXXII; VIII, XXXIX: «Ogni anno per calen di maggio, si faceano le brigate e compagnie di gentili giovani....; e simile di donne e pulcelle, ec.» G. Boccaccio, Vita di Dante, III: «Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi frondi la fa ridente, era usanza nella nostra città e degli uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno, e in distinte compagnie, festeggiare.»57. «Nell'anno 1283, del mese di giugno per la festa di San Giovanni, essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo, e tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti e artefici, e massimamente per gli Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece nella contrada di Santa Felicita oltrarno, onde furono capo e cominciatori quegli della casa de' Rossi con loro vicinanze, una compagnia e brigata di mille uomini o più, tutti vestiti di robe bianche, con uno Signore detto dell'Amore. Per la qual brigata non s'intendea se non in giuochi e in sollazzi, e in balli di donne e di cavalieri e d'altri, popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme in desinari e in cene. La quale corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai fosse nella città di Firenze o in Toscana; alla quale vennero, di diverse parti e paesi, molti gentili uomini di corte e giocolari, e tutti furono ricevuti e provveduti onorevolmente.» G. Villani, VII, LXXXIX.58. Purg. XXIV, 50, 57.59. Rime, ediz. Fraticelli, pag. 74.60. Purg, XX, 70-75.61. Dino Compagni, II, XIX segg.62. Neri Strinati, Cronichetta; Firenze, 1753, pag. 115-116.63. Istorie pistoiesi, pag. 1.64. Franco Sacchetti, Nov. CLXXIX.65. A pag. 49-51 di Dante ne' tempi di Dante, Ritratti e Studi; Bologna, Zanichelli, 1888. I particolari dalla Cronica di Marchionne Stefani, CCXVII.66. Vedi qui appresso, La donna fiorentina nel rinascimento ecc.67. Curioso inedito episodio di storia fiorentina, che io ebbi occasione di raccontare nel cit. mio libro Dino Compagni e la sua Cronica; I, 1086-88.68. Purg. XIX, 85-90.69. Monna Giovanna di Buonaccorso del Velluto, donna della Penitenza delle Vestite di Santa Croce, manda (14 maggio 1298) Michele del fu Orlando, servigiale delle monache di Monticelli, a stare per sei mesi nell'esercito del venerabile padre messer Bonifazio sommo Pontefice e di Santa Chiesa contro i perfidi (intendi, miscredenti) Colonnesi e qualsisiano altri inimici e rubelli di detta Chiesa e Pontefice; con riportare a suo tempo pubblico instrumento, o lettere sigillate papali, del servizio fatto e relativa indulgenza, lucrata per tal mezzo da essa monna Giovanna. Vedi il mio Commento alla Cronica di Dino, II, ii, 6.70. L'episodio monastico di suor Margherita, dico quello della sfuriata profetica contro papa Bonifazio, è consegnato a un atto dei 23 maggio 1299, pubblicato da D. Moreni ( Contorni di Firenze, VI, 77 seg.) che è fra le pergamene dell'Archivio fiorentino di Stato, insieme con altri (del 25 maggio e 23 luglio successivi) pur concernenti il bizzarro episodio. Dei contrasti poi, diciam pure politici, per la sua elezione a badessa nel 1291, ci dà i particolari un altro atto dei 5 gennaio di cotesto medesimo anno, e che è altresì, col corredo di altri, fra le pergamene dell'Archivio fiorentino. In quella elezione a badessa di suor Margherita, che succede a una Giovanna, le elettrici in numero di sette, convengono nel nome di suor Margherita, eccetto due, suor Petronilla e suor Giovanna, delle quali la prima dice che non vuol consentire in nessun nome, finchè non abbia l'assentimento del proprio padre e degli altri di casa sua, e perciò chiede dilazione; e suor Giovanna, parimente, dichiara di voler prima l'assenso degli zii. Gli scrutatori non l'accordano, protestando che la causa, per la quale le due monache fanno tale richiesta, è riprovevole e disonesta e contro il diritto e i buoni costumi. A dì 8 il vescovo Andrea dei Mozzi conferma l'elezione. Ho cercato inutilmente, a quali famiglie fiorentine appartenessero e suor Margherita e le due elettrici che, in nome e nell'interesse del respettivo parentado, facevano quelle eccezioni partigiane.

Nell'Archivio fiorentino di Stato (Sezione del Diplomatico) sono, oltre gl'indicati, anche i documenti dello sposalizio episcopomonacale, così di quello del 1301 come di altri.

71. Purg. XXIII, 98-111.72. Folgore da San Gimignano; II, 194, dei Poeti del primo secolo; Firenze, 1816.73. Vedi, nell'Appendice al mio Commento alla Cronica di Dino, la XVII.ª delle Note dantesche, pag. 624-27.74. Iliade, lib. VI e XXIV. Eneide, II, 790-97, nella traduz. del Caro: S'ode più dentro un gemito, un tumulto,

un compianto di donne, un ululato,

e di confusione e di miseria

tale un suon che feria l'aura e le stelle.

Le misere matrone spaventate,

chi qua chi là per le gran sale errando,

battonsi i petti, e con dirotti pianti

danno infino alle porte amplessi e baci.

75. Orlando furioso, XVII, 13.76. Purg. XXIV, 106-111.77. Purg. VI, 148-151.78. Caterina della Bella, moglie di Galassino Castellani: esiliata col padre nel 1295, prosciolta dal bando nel 1317.79. Vedi a pag. 66-73 del mio libro Dal secolo e dal poema di Dante, Altri Ritratti e Studi; Bologna, Zanichelli, 1898.80. Vedi delle cit. mie Note dantesche la XVª Del ghibellinismo di Dante, pag. 604-610; e gli Atti della proscrizione dei Guelfi Bianchi, fra i Documenti al mio Discorso Dell'esilio di Dante; Firenze, Succ. Le Monnier,1881.81. Purg. XXIII, 103-105.82. G. Villani, IX, CCXLV.83. G. Villani, X, XI.84. Nel protocollo notarile di ser Lapo Gianni (Archivio antecosimiano dei Contratti, nell'Archivio fiorentino di Stato) occorre un atto dei 2 gennaio 1328, risguardante condottieri e milizie a soldo, intestato così: «Actum in ducali Palatio Florentie, presentibus testibus ecc.».85. G. Villani, X, XI.86. G. Villani, l. c.87. G. Carducci, Rime antiche da carte di archivî; nel Propugnatore, vol. XXI (an. 1888), pag. 8.88. Nov. CXXXVII: «Come le donne fiorentine, senza studiare o apparare leggi, hanno vinto e confuso già con le loro legge, portando le loro fogge, alcuno dottor di legge.»89. Al 1306 mostrano risalire gli Ordinamenti intorno agli sponsali ed ai mortorî ( P. Emiliani Giudici, Storia dei Comuni italiani, III, 149-170), in quanto si connettano con la istituzione fatta nel 1306 dell' Esecutore degli Ordinamenti di giustizia. E in un Consiglio del 1290 si discuteva dello «scrivere le vestimenta», cioè far l'inventario degli ornamenti femminili; e fra i consulenti era ser Brunetto Latini ( Alla biografia di ser B. L. contributo di documenti per I. Del Lungo; a pag. 251-52 della Monografia di T. Sundby, tradotta da R. Renier, Della vita e delle opere di B. L.; Firenze, Succ. Le Monnier, 1884). Vedi poi la cit. Conferenza di G. Biagi, La vita privata dei Fiorentini, §§ VI, VII, pag. 100 segg.90. Chi voglia gustare un saggio del bel volgare di quei documenti, può vedere i citati Ordinamenti intorno agli sponsali e ai mortorî, e altri Ordinamenti del 1388 pubblicati e illustrati da D. Salvi a pag. 221-237 della Regola del governo di cura familiare del beato Giovanni Dominici fiorentino; Firenze, 1860.91. Scritti editi e inediti; Firenze, Barbèra, 1877; I, 409-410.92. Da quell'Ovidio «delle donne» vedi curiosi saggi di psicologia femminile in alcune pagine del cit. mio libro su Dino Compagni ec., I, 418 seg.93. Esempio insigne Fra Domenico Cavalca, Volgarizzamento della Epistola di S. Girolamo ad Eustochio (Roma, 1764), pag. 356: «Volendo per utilità di molte donne religiose e altre oneste vergini, e ancora molte altre persone che non sanno grammatica, recare in vulgare quella bella Pistola la quale San Girolamo mandò ad Eustochio nobilissima vergine di Roma, inducendola ad amare e ben guardare la santa verginità, e a bene renunciare lo mondo tutto; do ad intendere a ciascuno che legge, che ecc94. Documenti d'Amore; Roma, 1640. — Del Reggimento e costumi di donna; Bologna, 1875. — Sulla precettistica femminile del Barberino, vedi qui appresso, pag. 81 segg. Il quesito circa «lo leggere e lo scrivere» è nella seconda delle indicate opere, a pag. 40-42.95. Cronica domestica, secondo il titolo col quale io la ho preparata per le stampe sull'autografo, che si conserva presso i signori Velluti-Zati. Vedine notizia e saggi nel Manuale della letteratura italiana di A. D'Ancona e O. Bacci; vol. I (ediz. 1903), pag. 572-78. La edizione, unica sinora, fatta da D. M. Manni, fu condotta sulle copie, ed è difettosa per troppi rispetti, e improprio il titolo: Cronica di Firenze dall'anno 1300 in circa fino al 1370. Ai passi, che qui adduco di sull'autografo, corrispondono nella edizione del Manni le pagine 14, 25, 26, 36, 56, 132, 53, 129.96. Rilevata come popolare da Vincenzio Borghini (postille al Sacchetti, ediz. Le Monnier, Nov. LXXXV ): « Delle care, delle compiute e dell'oneste donne della nostra città: è nostro modo di dire, et ha sapore di comparativo o presso che superlativo.»97. A. Gaspary, La scuola poetica siciliana del secolo XIII; Livorno, Vigo, 1882; a pag. 5.98. Istoria d'Ippolito e Lionora, o Istoria d'Ippolito e Dianora; così in prosa come in ottava rima: stampata e ristampata, ormai da più di quattro secoli, in libercoli di edizione popolare.99. A. D'Ancona, nella edizione critica che di sulle popolari, moltiplicatesi fin dai primi tempi della stampa, ne fece nel 1863 (Pisa, Nistri): La storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta viva in Firenze, di Agostino Velletti, riprodotta sulle antiche stampe. E criticamente ne ha discorso P. Rajna, in Romania, vol. XXXI (an. 1902), pag. 62-68.100. G. Villani, II, I.101. «Ma del nome del Buonconsiglio, egli è noto quel che ne porta attorno la fama comune: che andando liberamente e senza sospetto i cittadini chiamati da Totila nel palazzo del Campidoglio, dove egli gli mandava invitando per ammazzargli, furono avvisati da una donna che stava a vendere accanto a quella chiesa, che guardasser bene, chè, come ha quella favola d'Esopo, di quanti vi erano entrati niuno se n'era veduto uscire. Donde vogliono che e' si salvasse la vita a molti per lo buon consiglio di quella trecca. Ma io non veggo che si abbia a fare o riferire alla chiesa il fatto di questa feminella; però, se vale a indovinare, credo che più si appressi al vero il pensiero di coloro che..... pensano che, come..... alcuna volta ed in certi casi nel tempio di Giove Capitolino ( in Roma ) si ragunava il Senato, così si ragunasse in questo, ne' primi tempi, il Consiglio della città.» V. Borghini, Discorsi, I, 143-144.102. Il documento storico di quella fondazione vedilo, con un mio tentativo di versione in antico volgar fiorentino, a pag. 115-134 del mio volumetto Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII; Milano, Hoepli, 1891.103. Vedasi, di tuttociò, a pag. 285-288 della Storia degli Stabilimenti di beneficenza ec. della città di Firenze (Firenze, Le Monnier, 1853) di Luigi Passerini. Della leggenda di monna Tessa, sfatandola, parla anche un antiquario settecentista G. B. Dei ( Memorie di famiglie, XXXVII, 89; nell'Archivio fiorentino di Stato), raccogliendo notizie sui Portinari.104. G. Biagi, a pag. 90-94 della cit. Conferenza su La vita privata dei Fiorentini.105. Vedi appresso, Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII.106. L'Obituario di Santa Reparata, nell'Archivio dell'Opera di Santa Maria del Fiore.107. Vedi a pag. 339, vol. IV (Prato, Succ. Vestri, 1897) delle Opere di Cesare Guasti.108. Purg. XXXI, 49-51.109. 12 maggio 1887: inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore.110. 22 aprile 1860.111. In Affrica, a Dogali, il 26 gennaio 1887.112. Inf. X, 35, 69.113. Guido Cavalcanti, Rime (ed. P. Ercole, Livorno, 1885), pag. 266.

DA DANTE AL BOCCACCIO

Nella solenne adunanza della Società Colombaria, tenuta il 21 maggio 1887 nel Palazzo del Presidente, principe don Tommaso Corsini.

Colleghi egregi, Signore e Signori,

Fu cortese desiderio del meritissimo Presidente e del Consiglio degli Anziani della nostra Società, che fra i lettori designati, secondo le Costituzioni, per l'anno presente, io trattenessi oggi per breve tempo l'udienza, invitata alla Relazione, che con la consueta nobiltà di pensieri e schiettezza affettuosa di forme, ci avrebbe fatta ascoltare il Segretario[114] nella fratellevole allegrezza di questo, come i vecchi dicevano, nostro annuale. A più modesta adunanza veramente che a questa, la quale celebriamo in città tuttavia festeggiante e all'ombra di quell'ospitalità di cui il patriziato fiorentino si onorò sempre verso gli umani studi, a più modesta adunanza riserbavo io le osservazioni, piuttosto accennative che dissertative, le quali sono per leggervi, sulla idealità femminile nella letteratura fiorentina da Dante al Boccaccio: nè dell'adunanza, in cui si è voluto che io le rechi, intendo occupar con esse altro luogo che una estrema linea e come d'appendice. Appendice forse non disadatta, per l'argomento, alla genialità del convegno odierno; appendice altresì e compimento di altra mia recente lettura;[115] trovino presso di Voi, come questa ebbe presso altri gentili, accoglienza benevola: e in ogni caso, lo avere non altro che obbedito valga e a scusarmi e insieme a liberarmi dalla taccia di quel Cherilo oraziano, che batteva sempre sulla medesima corda; e male, per giunta.[116] Io, fidato nella vostra bontà, rinunzierò volentieri alla difesa che potrei trarre da una sentenza del Machiavelli: «Se niuna cosa diletta o insegna nella storia, è quella che particolarmente si descrive.»[117] Lo dice egli della storia, con piana applicazione, com'è di tutti i suoi lucidi e appuntati aforismi: nella critica, l'equivalente di questo mi sembra essere, che non si trascuri alcun ordine di fatti, così dall'ideale come dal reale, i quali appartengano alla illustrazione d'un dato argomento. Nè a me, studiando la Donna fiorentina nei primi secoli del Comune, parve poter trascurare, dopo mostrato ciò ch'ella fu nei fatti e nelle tradizioni, un sommario cenno a quale ella ci vive tuttora presente, nelle perpetuatrici pagine dei grandi effigiatori e assimilatori del vero; quale ella informò di sè, per virtù de' proprî naturali effetti, i cuori e le menti de' sovrani atteggiatori del pensiero nell'adolescente e pur già virile parola italiana. Ma sempre, avvertasi bene, con relazione, anche questa parte del mio Studio, a ciò che chiamerei la personalità fiorentina della donna; per circoscrivere col linguaggio de' giuristi un tema, che potrebbe svolgersi in àmbito ben altramente ampio di principî e di applicazioni.

* * *

In quel giovine mondo, del cui risvegliarsi con entusiasmo alla vita è simbolo, ormai tradizionale, l'affrancamento dalle più o meno millenarie paure della distruzione delle cose, molte e svariate cause concorsero a far potenti e benefici gl'influssi della femminile bellezza; ma non altrove forse così singolarmente quelli influssi operarono, nè con effetti sì alti, come in questa città e in quel tempo, in cui agli angeli di Cimabue (non più linee bizantine ma umane figure) succedevano quasi immediatamente i profili eloquenti, le passionate espressioni, del suo discepolo Giotto; e l'eco dell'artificiata poesia di quei graziosi bizantini della parola che poi infine furono i Provenzali, si era appena ripercosso nelle colline di Fiesole e di Maiano, sede non disacconcia a «pastorette» e a «tenzoni», che già, dal cuore della vecchia Firenze, una voce vera di uomo, e quale uomo!, disperdeva fra concetti di schietto e profondo sentimento quella musichetta di seconda e terza mano, e «cominciatore del dolce stil nuovo», un giovine degli Alighieri, scriveva «a dettatura d'Amore», e «secondo le interne spirazioni di lui, andava significando» non vuoti suoni ma cose: «amoroso canto», a cui dava note potenti Casella.[118] Se gentile atomo della terrena polvere» è stata chiamata Firenze da un grande innamorato di lei,[119] a nessuna parte forse di Firenze si addice meglio tal nome, che a quel breve tratto fra le case dei Portinari nel Corso e la vecchia Badia, nel quale si svolse la soave storia d'amore, che ebbe idillio ed elegia nella Vita Nuova e poema in uno de' più grandi concepimenti d'ingegno mortale. E noi vorremmo, cotesto piccol nido di cose grandi, poterlo ripopolare delle gentili figure di quelle «sessanta fra le più belle donne della città», che il giovine poeta ci narra[120] avere enumerate e disposte «in una epistola sotto forma di serventese»; della cui perdita mal ci compensano il Serventese delle belle donne del 1335, scritto da Antonio Pucci nel suo ruvido stile (salvo il cominciamento, ch'è assai garbato,

Leggiadro sermintese, pien d'amore,

cercando va', per la città del fiore,

tutte le donne più degne d'onore,

in tal maniera),

e un posterior frammento consimile che si volle attribuire al Boccaccio.[121] Ma quell'omaggio che alla bellezza delle sue concittadine rendeva Dante; non il macro e doloroso meditatore della Commedia divina, sibbene Dante giovine e innamorato, a cui non ancora la morte aveva tolto la donna sua, nè l'esilio la patria; quell'omaggio trovadorico, del quale null'altro, e da lui stesso, conosciamo, se non che sessanta erano le belle, e come «componendolo, maravigliosamente addivenne, che in alcuno altro numero non sofferse il nome della sua donna stare, se non in sul nono», mistico numero; andò disperso nel fragore battagliero delle parti. Così al cozzo delle spade, alle grida di «Arme, arme! Ammazza, ammazza!», si sgominarono i balli di donne e di cavalieri, festeggianti pel calendimaggio il rinnovamento della primavera o per il San Giovanni la maggior solennità cittadina; si dispersero le brigate allegoriche, vestite di robe bianche «con uno Signore detto dell'Amore», che tenevan pubblicamente corte bandita, imitando con larghezza popolana le feudali magnificenze.[122] Il poeta che ventenne si era deliziato nei sogni d'amore, immaginando sè con gli amici e poeti Guido Cavalcanti e Lapo Gianni e le loro donne, naviganti in un mare tranquillo entro un vascello incantato;[123] respinto prima dalla morte dell'amata sua nelle aspre realtà della vita, ebbe poi a sostenere il peso delle pubbliche sventure, de' civili disinganni, e di suoi proprî traviamenti ed errori. Per tal modo,

le dolci rime d'amor, ch'ei solea

cercar ne' suoi pensieri,[124]

cedetter luogo, nell'anima ravveduta e percossa, allo sdegno che purifica, al dolore che ispira, alla meditazione che gli obietti esteriori trasforma, quelli che per degnità ne son suscettivi, in mere idealità. La dominante scolastica accrebbe (e il Convivio ne fa espressa testimonianza) impulso ed estensione al procedimento di quell'austero intelletto verso l'ideale: cosicchè non solamente la donna che

si era partita dalla sua veduta,

divenne spirital bellezza grande,[125]

sibbene tutta la realtà della vita, tutta, come dicevano, la vita attiva, scomparve agli occhi suoi contemplanti, e le si sovrappose, infinito e sovrumano, e solo esso vero, l'ideale. Ma gli occhi di Beatrice anche in quella regione sconfinata, raggiano sempre,

dal primo giorno ch'ei vide il suo viso.

in questa vita, insino a quella vista;[126]

gli occhi amorosi, che per le feste primaverili nella casa del padre, ai banchetti nuziali, passando per le vie, nella chiesa pregando a Maria (non faccio che ricordarvi le realtà della Vita Nuova;[127] e nessun altro libro nè ha di più spiritualmente adombrate), si sono volti verso il Poeta: anzi, se lo sguardo di lei donna lo confondeva e lo «sconfiggeva»,[128] sono ora gli occhi di lei «salita a spirto e cresciuta di bellezza e di virtù»[129] che lo attraggono, per virtù miracolosa, di cielo in cielo alla visione suprema dell'Ente:

Beatrice in suso, ed io in lei, guardava.[130]

E nessuna lode, fra le adulazioni tante di che è stata (fin che è usato rispettarla) caricata la donna, nessuna fu mai lode più alta di questa.

Di Beatrice, quanto indubitabile la realtà, suggellata in quel verso potente[131]

guardami ben; ben son, ben son Beatrice,

altrettanto è poco o punto contornata storicamente la figura, non dico nel Poema, dov'ella è spirito e simbolo ma nella stessa Vita Nuova, dov'ella è donna che ispira affetti e che muore. Può anzi dirsi che la Beatrice della Vita Nuova, sebbene donna vivente, è in sì alto grado angelicata, che i lineamenti femminili si perdono in quell'aureola ond'è circonfusa la

cosa venuta

di cielo in terra a miracol mostrare:[132]

e piuttosto nel Poema, dove la creatura celeste è discesa «dal suo beato scanno, per soccorrere quei che l'amò tanto»,[133] spesso assume aspetti e atteggiamenti di vita reale ed umana, sia che[134] non senza lacrime parli a Virgilio del pericolo di Dante; sia che a questo rimproveri le mondane infedeltà, e lo umilii fino a rompere in pianto; sia che lo affidi pei mistici lavacri a Matelda; sia che sorrida de' suoi smarrimenti di creatura impotente a sostenere il fascio del divino che opprime i deboli sensi; sia che, perfino, maliziosamente

ridendo, paia quella che tossìo

al primo fallo scritto di Ginevra.

Nella Vita Nuova hanno cercato a che punto della narrazione Beatrice, da Portinari, diventi de' Bardi, poichè, si è detto, «il matrimonio di lei con un altro uomo doveva muovere gagliardamente l'anima del giovine e innamorato poeta.»[135] Io non lo credo: e che l'amore di Dante, «la reverenza che s'indonnava di tutto lui pur per B e per ICE»,[136] sia stato amor di poeta medievale per la donna del pensiero, e non altro, lo stimo asserto da poter sostenere il cimento anche de' luoghi più appassionati di quella psicologica confessione.[137] Del resto, è argomentazione molto probabile quella su tal proposito stata fatta,[138] che Beatrice andasse sposa a messer Simone de' Bardi in giovanissima età: e volentieri questo parentado di Portinari, alcuni de' quali Ghibellini, con Bardi famiglia guelfa de' Grandi, io lo porrei com'uno di quelli che la pace del cardinale Latino, nel 1280, conciliò tra famiglie delle due parti. Similmente, che quello fra Donati e Alighieri, pel quale Dante, sposando la Gemma di messer Manetto, s'imparentò col grande agitatore di parte guelfa messer Corso, sia stato principalmente un parentado di «vicini», nel senso storico di «quasi consorti» che tal parola ci deve da que' tempi richiamare alla mente, è cosa non certa per documenti,[139] ma troppo più probabile del tanto che sul matrimonio di Dante e, povera donna, sulla sua moglie, hanno o ricamato o stillato biografi ed eruditi, dal romanzo del Boccaccio alle bizzarrie presuntuose di critici odierni. Tanto più, che il terribile messer Corso, in maneggiar parentadi di sua casa con mire di parte, fu tale da disgradarne la peggio intrigante femmina, aggiuntovi poi l'audacia e la violenza che per lui principalmente attirarono alla sua famiglia il triste soprannome di Malefa' mi: o si trattasse di strappare al chiostro la sorella bellissima; o a sè medesimo, non più giovine, dare la terza moglie, dopo una Cerchi della cittadinanza guelfa e una Ubertini del contadiname feudale ghibellino, in una figliuola del ghibellino venturiero Uguccione della Faggiuola. Corse voce, intorno a quella prima sua moglie, la Cerchi, che morisse per veleno dal marito stesso propinatole: doppiamente orrendo a pensarsi, se cupidigia di nozze partigiane trascinava quel sinistro uomo a moltiplicarle.[140] E a tutto ciò riflettendo, quanto più cara e pietosa addiviene, là dentro a quelle infauste case de' Malefa' mi, la soavissima figura di Nella! la vedova virtuosa dello scapestrato Forese Donati, compagno a Dante nel breve periodo giovanile, che questi pur ebbe, di vita mondana;[141] «la Nella mia», dice Forese nel Purgatorio,[142] «che piange e prega per me, soletta in bene operare fra quella gente selvaggia dov'io l'ho lasciata». Ad amare di simile affetto la madre de' suoi molti figliuoli, ad amarla in patria, ad amarla esule, io penso che il culto ideale per Beatrice non dovesse a Dante fare impedimento veruno; non più che a Guido Cavalcanti, marito di Bice degli Uberti, la servitù amorosa per monna Vanna. Nè credo, come alcuni interpreti della Vita Nuova han voluto,[143] che la «donna gentile» vicina di casa dell'Alighieri, e che «da una fenestra riguardava molto pietosamente» al dolor suo nella morte della Portinari, fosse appunto la Donati, che di quel tempo gli era forse già moglie.[144] In quella donna gentile altri volle ravvisare la Matelda del Paradiso terrestre: alla quale, meglio che il serto della contessa famosa, meglio che le bende di non so qual monacella alemanna, furon creduti addirsi — poichè ragioni all'accennata identificazione non mancherebbero[145] — lo schietto vestire, il dimestico e natural contegno, di semplice donna fiorentina: le cui più graziose imagini, di donna che coglie fiori, di donna che muove il picciol passo a ballare, di vergine che gli occhi onesti avvalla, ritornano, certamente dai giovanili ricordi, dinanzi all'apparizione di lei, nella fantasia del Poeta.[146]

* * *

Ma nulla pur troppo di fiorentino potevano i giovanili ricordi ispirare all'altro de' grandi idealizzatori della donna in quel secolo, al Petrarca, a cui dalle maledette fazioni fu conteso in Firenze il nascere e l'educarsi alla vita, come a Dante l'invecchiarvi e il morire. Nè sappiamo se con preparazione e condizioni diverse di vita, la tempera dell'animo suo e dell'ingegno sarebbe stata altra da quella che fu, e sulla quale la realtà de' fatti operò tanto poco, e con tanta poca coerenza d'impressioni, quanto invece fu molteplice e indefesso il lavorio interno dello spirito e l'accentramento nel proprio sè delle percezioni e de' sentimenti a queste congiunti. Checchè potesse esser di ciò, nel Petrarca, quale lo abbiamo, non solamente Laura è donna non fiorentina, ma ell'è la donna semplicemente; e quel che il Poeta le appone è tutto attinto da sè medesimo, dal suo sentimento squisitissimo e alcun poco morboso, pel quale il Petrarca bene è stato detto[147] precorrere in parte ed anticipare i grandi poeti moderni dell'affetto e del dolore universale e infinito.

Se non che una donna fiorentina, Eletta Canigiani, fu pure sua madre; la quale datolo alla luce in terra d'esilio, da Arezzo infante di sette mesi lo portò seco all'Incisa, e poi con lui ed un altro minor fìglioletto segui il marito in Provenza, e morì, che il giovinetto Francesco aveva appena quindici anni, ella non più che trentotto. E trentotto esametri latini il giovinetto consacrò alla memoria materna: nè chi conosce, quale poi si svolse, quella natura isterica d'umanista, si meraviglia di tale aritmetica metrica applicata all'amor filiale. «Porgimi ascolto, o madre mia santa, se virtù premiata in cielo non isdegna altri onori. Anima eletta di nome e di fatto, cittadina del paradiso e quaggiù eternamente memorabile per onestà e alta pietà, dignità d'animo, e castità nel tuo bel corpo da' primi anni continuata sino alla morte, tutti debbono venerarti, io piangerti sempre, chè lasci me e il fratel mio giovinetti nel bivio fra il bene e il male, in mezzo al turbine delle cose mondane: ma teco viene e ti accompagna nel sepolcro la fortuna e la speranza della derelitta casa ed ogni nostro conforto, e a me par d'essere sotto il tuo medesimo sasso». E le promette più lunghe lodi e maggiori, dopo aver pianto sul suo feretro e di lacrime aver bagnate le fredde membra; e che il nome della madre vivrà ne' suoi versi, insieme col nome di lui, augurando, se questo è destinato a perire, che quello di lei sopravviva. Ma tutto questo dolore in latino, misurato in trentotto versi,[148] io dico schietto non valere menomamente, nè[149] quell'ansiosa figura di madre, sebbene appena sbozzata, che è in uno de' suoi tanti sonetti per Laura,

Ne mai pietosa madre al caro figlio....

diè con tanti sospir, con tal sospetto,

in dubbio stato, si fedel consiglio....;

e molto meno quell'affettuoso e virile concetto nell'immortale Canzone agl'Italiani, pel quale amor di patria e di famiglia sono fatti com'una cosa sola:

Non è questo il terren ch'i' toccai pria,

ove nudrito fui sì dolcemente?

non è questa la patria, in ch'io mi fido,

madre benigna e pia,

che cuopre l'uno e l'altro mio parente?

Di aver dati al Petrarca «i cari parenti e l'idioma», il Cantore dei Sepolcri ha esaltata, con versi degni,[150] Firenze: ma che l'idioma appreso sulle sponde dell'Arno rimanesse, nonostante la proscrizione paterna, nonostante l'irrequieto pellegrinare di paese in paese, su «quel dolce di Calliope labbro» ond'ebbe veste pudica l'amore; vi rimanesse potente ad esprimere i più delicati sentimenti, mercè una mirabil signoria delle più fine e riposte proprietà e, direi quasi, fragranze del parlare toscano; quanto merito non ne dovesti aver tu, oscura esule fiorentina, che in quella sua precoce adolescenza, fra una pagina e l'altra di Cicerone e di Livio, in mezzo al gaio intertenersi nell'amorosa lingua de' trovatori, fra le sonorità dell'eloquio cortigiano della Babilonia avignonese, riportasti intermessamente all'orecchio del figliuol tuo le armonie gentili del linguaggio nativo! Che se di tal benefizio, di questa quasi seconda maternità, il laureato capitolino, il conversante coi classici e gli eroi antichi, il dispregiatore di questo anche per sua opera divino volgare, non si accòrse mai dover esserti grato, è vecchia istoria delle madri, che esse non chiedano compenso del loro amore, che esse cerchino il sacrificio, e in quello appagate adagino la bianca testa veneranda, come sul guanciale del loro riposo.

* * *

La Provenza fu terra ospitale a molti di quei proscritti fiorentini; e uno di essi, Azzo Arrighetti, fu colà il progenitore di una stirpe più tardi famosa, Riquetti de Mirabeau. Paese gentile la Provenza, di clima come il nostro benigno, agevole ai traffici italiani, e, durante poi cotesto secolo, paese papale. Ma le donne nostre che, come la Eletta Canigiani, colà o balestrava l'esilio od altra ventura portava, le mogli de' mercatanti de' notai degli artefici fiorentini, come si saranno assuefatte, e quali saranno esse parse, a quella società feudale, tanto da' nostri reggimenti a popolo diversa? nel paese de' baroni e de' trovatori, de' tornei e della gaia scienza, fra la nobiltà dalle grandi tradizioni cavalleresche, accanto alle dame che anc'oggi piace immaginare atteggiate a formular gravemente i loro giudicati nelle Corti d'Amore, applicando a' casi controversi quello o questo, de' trentuno articoli che ne compongono il codice?[151] Le schive concittadine della buona Gualdrada, che la tradizione esaltava d'essersi pubblicamente ricusata al bacio imperiale di Ottone IV, che cosa avranno esse detto o pensato, assistendo in Avignone a quella festa, che meritò un Sonetto del Petrarca, dove l'altera la castissima Laura porse al bacio del giovane principe, che fu poi Carlo IV, la fronte e quegli occhi, che il Poeta dovè contentarsi d'aver cantati?[152] od anche solamente leggendo in una novella del Decameron,[153] che Pietro d'Aragona, il cavalleresco re de' Vespri, alla giovine fiorentina che in Palermo s'innamora di lui, confortatala invece a savie nozze borghesi, in queste intervenuto di persona, dinanzi ai genitori e allo sposo, «presole con amendue le mani il capo, le bacia la fronte»? Che avranno, di queste baciature imperiali e reali, le nostre care donne pensato? Risponde per loro, e proprio da Avignone, un Fiorentino di due secoli appresso, che da Virgilio ritraeva la poesia dell'Api e da Sofocle e da Euripide la tragedia, il quale agli amici di Firenze annunziava, pieno delle memorie di madonna Laura, che in quel gaio paese «gli erano leciti i baci come costì gli sguardi»; «baci», aggiunge, «senza lo scoppio», de' quali egli stava imparando, insieme col parlar francese, il segreto:[154] «baci», aveva già prima detto il Pulci[155] «alla franciosa», che «ogni volta rimanea la rosa».

La letteratura fiorentina del Trecento ebbe uno scrittore (che fu pure, notisi, per alcun tempo in Provenza), il quale sentì quella semplicità o, come poteva sembrare, rozzezza della nostra donna, della donna del Comune democratico, appetto alla donna gentilesca e addestrata della società feudale, e si argomentò di venirle in soccorso. La utopia (chè altro nome non le si addice) di messer Francesco da Barberino prese forma in due de' più singolari libri di quella letteratura, i Documenti d'Amore e Costume e Reggimento di donna, in forma sentenziosa e di stampo addirittura gnomico: di che è bensì da avvertire, che non in lunga e formata opera, come queste, ma in componimenti lirici, e più specialmente canzoni, come quelle di Bindo Bonichi, il Trecento porge altri notabili esempi.

Il Costume e Reggimento di Donna,[156] specialmente, è un completo galateo femminile, dove, per ciascun grado e condizione sociale, da fanciulla a vedova, da madre di famiglia a romita, da regina, contessa, duchessa, principessa, a borghese, monaca, ancella, balia, fruttaiuola, e persino barbiera, non omesse le treccole e le accattone, si danno ammaestramenti alla donna, e se ne forma un modello ideale, al quale ahimè quante poche rispondenze avrà dovuto trovare, anche dopo la diffusione de' suoi libri, quel buono messer Francesco, fra le allegre gentildonne e le graziose fanciulle e le saccenti comari che per le case e per le piazze di Firenze gli si movevano attorno! E notisi che i doveri femminili della vita regale[157] comprendono ben cinquantaquattro capi, senza contare una dozzina di «cautele» preliminari, e le speciali prescrizioni concernenti i casi di reggenza: complesso di leggi, regole, norme, ammaestramenti, insegnamenti, ammonimenti, consigli, che bastava esso solo a fare strabiliare, salmisìa, non che le donnette spicciole, ma anche le gentildonne, della nostra libera e sciorinata cittadinanza. Il recente storico della Repubblica, signor Perrens, ha certamente esagerato nell'aggravare di volgarità la vita quotidiana dell'antica donna fiorentina, contessendo, con francese vivacità, d'episodietti dai nostri novellieri una serie d'imagini e di fattispecie,[158] che pare uno spoglio, o piuttosto, un inventario, dai romanzi d'Emilio Zola. Tuttavia ci è forza dubitare assai, per modo di esempio, che molte delle leggitrici del Reggimento e Costume di messer Francesco abbiano saputo osservare i precetti co' quali egli si confida regolar l'atteggiamento che la fanciulla dovrà prendere nel ricevere l'anello di sposa:[159] stare con «gli occhi chinati, fermi li membri» (e fin qui pazienza), ma inoltre «sembrar paurosa»; e in questo era lecito a molte non riuscire abbastanza bene. Così alla dimanda fattale del consenso, «aspettare l'una o le due»; e la terza volta, «faccia soave e piana sua risposta»: manco male con l'avvertenza, che e la paura e l'aspettare e la vocina sottile possano essere un po' meno, se la sposa non è delle più giovinette. E sempre dai precetti nuziali:[160] mangiar poco al banchetto; ma perchè lo stomaco non soffra, aver preso innanzi qualche cosa in camera sua: così pure, essersi lavata le mani, per non intorbidar troppo l'acqua al bacino della mensa; e giova ricordare, come di que' tempi la forchetta è, nelle ricerche erudite, un arnese di molto controversa esistenza, e, per gentili e nobilissime che fossero, il cibo solido lo portavano alla bocca le mani. Tutti poi i precetti del Barberino sono corredati di esemplificazioni o novellette, spesso graziose assai, ma quasi tutte di personaggi stranieri, di Provenza, di Normandia, d'Inghilterra, di Castiglia, e cavalieri, conti baroni, re di corona; e spesso alla esemplificazione è premessa qualche sentenza o concetto di trovatore. L'intero trattato è altresì dominato per lungo e per largo da un esercito di figure femminili allegoriche (come nel Romanzo della Rosa ), in persona di questa e quella virtù (taluna anche con la sua «cameriera»[161] o col «fante»), Onestà, Pazienza, Castità, Speranza, Cautela, Cortesia, Religione, e poi Voluttà, Penitenza, Eterna luce, ed altre, subordinate tutte a Madonna che è la Sapienza; la cui conversazione con lo scrittore dà come il filo a tutto il libro; ed è cosparso largamente da descrizioni e moralità, il cui colorito mena tinte calde e risentite, e lo stile, a motti e come a sprazzi, in endecasillabi ballettanti i più sulla quarta e la settima, non ha forse riscontro in altra opera dell'antica nostra poesia, e quasi arieggia le moderne riproduzioni a freddo dell'oro e azzurro medievale.

Non vi dispiacerà, io credo, gustarne alcun poco. Una casa principesca in giorno di nozze:[162]

Suonan le trombe e li stormenti tutti;

canti soavi e sollazzi dattorno.

Frondi con fiori, tappeti e zendali

sparti per terra,

e grandi drappi di seta alle mura,

argento ed oro, e le mense fornite,

letti coverti e le camere allegre.

Cucine pien' di varie imbandigioni;

donzelli accorti a servire, ed ancora

più damigelle giovani tra loro,

armeggiando pe' chiostri e per le vie.

Fermi balconi e le loggie coverte,

cavalier molti e valorosa gente,

donne e donzelle di grande beltate.

. . . . . . . . . . . . . . . .

Vengono i vini e confetti abondanti;

là son le frutte in diverse maniere.

Cantan gli augelli in gabbia, e per li tetti

. . . . . . . . . . . . . . . .

Giardini aperti, e spandesi l'odore

. . . . . . . . . . . . . . . .

Bei cucciolini spagnuoi con le donne,

più pappagalli per le mense vanno,

falcon, girfalchi, sparvieri ed astori

. . . . . . . . . . . . . . . .

Li palafren corredati alle porte,

le porte aperte, e partite le sale,

come conviene alla gente venuta

. . . . . . . . . . . . . . . .

Surgon fontane di fonti novelle;

spargon là dove conviene, e son belle.

. . . . . . . . . . . . . . . .

Le molte donne allocate a sedere

novellan tutte d'amore e di gioia

. . . . . . . . . . . . . . . .

Ride dal sol la primavera in campi;

non è pareti che tengan la vista.

. . . . . . . . . . . . . . . .

E questo distico di mirabile effetto nel descrivere il cessar d'una festa notturna con l'alba:[163]

Suona la sveglia, l'aurora apparisce,

bassa il romore, e la gente s'addorme.

Quanto, e di che, debba la donna pregare Iddio:[164]

... è meglio assai

orar fervente e poco,

che molte orazïoni,

de le quai poche si movon dal cuore.

Dio non va cercando

pur romper di ginocchia,

ma ben save' che va cercando i cuori.

Egli è scritto che breve orazione

è quella che il ciel passa:

folle è chi dunque in pur cianciar si allassa.

Ma qui ti guarda sempre, che s'intende

dell'orazione fervente e ordinata,

con la dimanda licita e onesta:

chè sono alquante, che pregan ch'Idio

mantenga loro il color nel visaggio,

e che le dia a star bella tra l'altre,

e che mantenga biondi i lor capelli,

o che dia lor la bella fregiatura.

Onde per questo non v'affaticate,

c'allora il provocate contro a voi.

Distrazioni amorose:[165]

Va una donna a filare a finestra:

passa uno amante, ed ella si volge;

le man rattiene il filato ingrossa,

e muta l'esser ch'ella à 'ncominciato.

Così ancor chi a finestra cuce

spesse fïate si cuce la mano,

quand'ella crede sua veste cucire.

Parsimonia negli ornamenti:[166]

E se ghirlanda porta,

lodo che sia pure una

gioliva e piccoletta;

chè, come voi savete,

grossa cosa è tenuta

portar fastella in luogo di ghirlande.

E quanto ell'è più bella,

tanto minor la porti;

però che non ghirlanda,

ma piacer, fa piacere;

nè fa l'ornato donna,

ma donna fa parer lo suo ornato.

Capriccetti (che oggi chiameremmo romantici) delle ragazze:[167]

Ora vi vengo a un vizio

che regna spessamente

in queste donzellette,

lo qual vorria, s'io potessi, sturbare.

E' ne son molte, che quando per vezzi,

e tal fïata per una sciocchezza,

ch'àn voglia di vedere

com'elle sono amate da lor gente;

e talora per alcuno disdegno

d'alcuna paroletta

ch'odon, ch'a lor non piace;

e tal fïata perch'altri le lasci

poi fare a lor senno;

tale s'infìnge che le duole il fianco,

e tale lo dente,

e tale la testa,

e tal dice mattezze,

. . . . . . . . . . . . . . . .

E tal comincian questo,

non credendo durar gran tempo in questo;

ma poi ch'àn cominciato

van pure innanzi,

temendo ch'altri non dicesse poi:

«Vedi che s'infingea».

Altrove[168] si propone un punto, intorno al quale lo scrittore «ha trovate molte varie usanze, e di molte openioni», circa i saluti e gl'inchini della novella sposa, cavandosene col consigliarla che ella

dimandi della sua terra l'usanza

e del paese dov'ell'è menata,

e quella servi com' può temperata.

E basti ormai per conchiudere che chi in libro siffatto (nè guari diversa intonazione ha l'altro dello scrittor medesimo, i Documenti d'Amore ) non voglia vedere il deliberato proposito, da me sopra indicato, d'ingentilire i costumi popolani con una teorica, poeticamente ideata, di signoril vivere e cortigiano,[169] dovrebbe spiegarci come mai un Fiorentino, e dimorante in Firenze, e vissuto quando gl'influssi poetici provenzali e siculi erano oramai trapassati, come potesse, naturalmente e senza un preconcetto disegno, provenzaleggiare e franceseggiare con tanta e sì passionata intensità, «mescolando» (dic'egli in un luogo,[170] ma troppe volte è piuttosto un sovrapporre o addossare) «il volgare toscano ad alcuni volgari consonanti con esso», e fissare in un tipo così ricisamente foggiato sopra realtà, per lo meno, non immediate la donna che l'etica amorosa del tempo soleva comporre (e ne abbiamo graziose testimonianze) con elementi svariatissimi, ove si mescolavano «la galanteria provenzale e cavalleresca, la sensualità pagana, la prosaicità borghese, l'austerità e ruvidezza ascetica, elementi del Rinascimento che contrastano insieme, e sono sul divenire qualche cosa che non vorrebb'essere nessuno di essi».[171]

* * *

Nè di tali mescolanze, chi sottilmente indagasse, mancherebber forse riscontri nelle realtà della vita d'allora: ma di siffatte realtà troppi documenti, per la loro natura essenzialmente intima, fu inevitabile che di que' secoli andassero perduti. Dirò tuttavia che almeno uno, e assai grazioso, ne possediamo in un carteggio coniugale, di poche e brevi lettere, scritte da una Fiorentina della seconda metà del Trecento, Dora Del Bene, al marito mentr'egli era Vicario pel Comune in Val di Nievole.[172] Ella scrive di campagna, e lo informa delle faccende villerecce, degl'interessi domestici, della salute delle figliuole: i figliuoli sono col padre, avvezzandosi così per tempo, o ne' traffici o nel governo, i giovinetti a imparare la vita operosa in servigio sì della famiglia e sì del Comune, e a conoscere il mondo, in tante parti del quale portavano poi il nome fiorentino e d'Italia. Ora in codesto carteggio, la reverenza affettuosa al marito, che nelle soprascritte è chiamato «savio e discreto uomo, carissimo uomo, reverendissimo uomo», e perfino «venerabile», è accompagnata da certi urbani motti, i quali provano come alle donne fiorentine non isgradisse mostrarsi verso i loro mariti, secondochè ad esse raccomandava un anonimo espositore di Ovidio,[173] «non villane femine, che nulla altra cosa sappiano fare se non lana carminare», ma savie e cortesi, e «mostrare il suo bene e li suoi sollazzi e sue cortesie, tali che il suo marito non possa altra femina trovare, che tanto gli possa piacere o fare suo talento». Scrive la Dora: e premetto che nessuno certamente può chiedere a quelle austere e robuste nature le espansioni fremebonde della nostra età malaticcia. Scrive ella dunque: «Istiamo tutti bene, lodato Idio: ma meglio ci parrebbe istare se fussimo teco. Addio; t'accomando la Dora tua. Salute mille». E altrove: «Tu mi scrivi che non puo' dormire la notte, per pensieri che hai dell'Antonia....»; cioè della figliuola che pensavano a maritare. «Ma l'Antonia non è quella che ti toglie el sonno. Ma quando non potrò più, assalirotti che non te n'avvedrai, e non verrò se non solo per garrire». Scherzi, come si sente, simulanti gelosia; e di quella gelosia che il solito espositor d'Ovidio dice venire «da buono amore, «quando la donna ama il suo diritto signore», e la distingue da un'altra gelosia ch'egli dice venir da «follia». Questo medesimo linguaggio ritroviamo nei rimatori e nostri e provenzali, e in una frase di Dante «il folle amore», una delle molte, che i commentatori non riconoscono, da lui non trovate, ma appropriatesi del comune parlare e sentire del tempo suo.[174] Quelle lettere della Del Bene sono talvolta datate così: «Fatta dì XVIII d'aprile all'Avemaria.... Fatta addì VIII di maggio. Dopo vespro sotto la loggia.... Fatta addì XIX maggio dopo l'avemaria nella loggia;» con ricordo amorevole, al marito e padre, dell'«ora che volge il disio», e del luogo che raccoglieva sulla sera la famiglia a geniale riposo dalle giornaliere fatiche, che infine si conchiudeva con la preghiera. L'ultima poi di esse lettere, quella della gelosia, è sottoscritta: «la Dora tua nimica»; ossia col linguaggio, nè più nè meno, de' rimatori verso le loro signore e tiranne. Questa figura di donna vera non mi sembra scomparire poi troppo, e sia pure men compassata e meno irreprensibile, appetto alle donne modello effigiate da messer Francesco da Barberino.

* * *

Una sola condizione di vita femminile ebbe in Firenze, non cortigiani, ma popolani precetti: la vita coniugale; consacrati in quelli Avvertimenti di maritaggio, de' quali, in prosa o in verso d'ottava rima, ci rimane più d'un testo; formulati in dodici o quattordici regole, con le quali la madre accompagna la figliuola all'altare. Anche i teologi casisti aggravarono di cautele la vita matrimoniale, mettendo in volgare anche ciò che era meglio rimanesse latino.[175] Io qui, volgendomi a quelle altre più gentili e, ripeto, veramente popolane scritture, riferirò da una di esse il preambolo e il commiato materni:[176]

«Carissima mia figliuola, Molto ti prego, e ancora comando, che tu non ti turbi perchè io t'abbi maritata, e convengati partire da me; acciocchè non si adiri il tuo novello sposo al quale io t'ho sposata. Bella mia figliuola, s'e' fosse lecito di starti meco infino alla mia fine, non ti partiresti da me, tanta dolcezza d'amore ti congiunge meco. Ma la ragione il concede, e l'onore nostro il vuole, e la tua condizione e il tempo lo richiede, che tu sii oggimai accompagnata, acciò che il tuo padre e io e i parenti nostri ricevino allegrezza di te e de' tuoi figliuoli, i quali, alla speranza di Dio, avrai. Ora ti traggo dal mio seno; ora escirai della signoria del tuo padre e andra' ne al tuo marito e signore, onde non solamente gli sarai compagna ma serva e ubbidiente. E sopra tutto, acciò che tu sappi come te gli converrà esser serva e ubbidiente, intendi i miei ammonimenti, e ricevili in luogo di comandamento; imperocchè, se bene gli manterrai, in amore e grazia del tuo marito e di tutte le altre genti verrai».

Questo il preambolo. E queste altre poche parole, che paiono sfiorar lievi lievi con tocco d'ala il velo nuziale della vergine, sono il commiato: «Allora la gentil madre e savia donna benedisse e segnò la benigna figliuola e mansueta pulzella, e raccomandolla a Dio, e pregolla teneramente che sempre osservasse i suoi comandamenti, e che sopra tutto avesse cara l'anima sua».

* * *

Cotesti avvertimenti erano legislazione che veniva dal cuore e dalle realtà della vita; non come quella del Barberino, dal paese d'utopia.

Francesco da Barberino moriva in tarda età nel 1348. Ma la pestilenza che portò via, con tanti altri, anche il precettor cortigiano delle donne fiorentine, doveva ispirare, ben altramente ascoltato, un altro e ben più potente ingegno. Quel furore di godimento che inebriò, come Matteo Villani ci attesta,[177] i sopravvissuti alla strage e al terrore, ebbe il suo interprete in Giovanni Boccaccio: nella cui arte il lussureggiar dei colori, la morbidezza ridondante delle linee, la vistosità degli atteggiamenti, e pur troppo anche la depressione del senso morale, accusano origine siffatta. Poca o nessuna idealità può rinvenirsi nelle sue donne, in quanto idealità significhi attinenza, più o meno visibile, che la figura ha con un tipo vagheggiato dall'artista; ma efficace mirabilmente e profonda è nel borghese fiorentino la rappresentazione drammatica del reale.[178] Non parlo delle sue immaginarie raccontatrici, che Santa Maria Novella non vide mai certamente incontrarsi sotto le sue volte sublimi, a profanare con propositi da brigate la santità dell'infinito, e nessuna delle nostre colline ospitò in ozio vile coi giovani vagheggianti, mentre giù al piano la gente moriva: coteste donne, quelle Pampinee, quelle Elise, quelle Fiammette, non dissomigliano guari, e taluna ha comune anche il nome, alle figure dei suoi giovanili romanzi in prosa od in verso: ninfe o donne, e talvolta un che di tramezzato dell'una e dell'altra, ma sempre, anche quando donne vere come nel romanzo della Fiammetta, figure tirate fuor dell'orbita reale e storica delle cose, in posa, più o men classica, di dolore o d'amore, di sconforto o di gelosia, non mai però sollevate sino a quella regione dove vivono immortali le creature del pensiero, da Beatrice alla promessa sposa di Renzo, da Laura a Margherita, da Erminia e Fiordiligi a Tecla Wallenstein ad Ermengarda. Le figure femminili che il Boccaccio ha propriamente dato all'arte sono le figure operanti nei brevi drammi di quel libro che a buon dritto, in contrapposto al dantesco, è stato chiamato l'Umana Commedia: delle quali forse una sola, che il Petrarca distinse come «di gran lunga dissomigliante alle altre», contiene una idealità preconcetta, ed è quella virtuosissima Griselda, la plebea degnata di nozze e poi sottoposta a prova dal signor feudale; mito di storia e di moralità, come altri ha giustamente rilevato,[179] e onorata di popolarità, nella tradizione e nell'arte. Ma le più vivaci sono senza dubbio quelle che messer Giovanni ritrasse dal vero del costume fiorentino: gentildonne e borghesi, della città e del contado, allegre o maliziose ed anche talvolta nobili figure, che egli o foggiava secondo i viventi modelli o evocava da tombe da non molti anni dischiuse. In queste figure di sul vero, non trasformate da nessun procedimento ideale, non alterate di proporzioni per nessuna simpatia affettiva, si sente che il Medio Evo, l'età mistica e contemplante, l'età dei grandi concepimenti interiori nel seno fortemente travagliato, sta per morire: la realtà mondana trionfa, e offre l'ignudo corpo alle vesti eleganti e sinuose che l'umanismo prepara per adornarla, ed anche per travestirla.

* * *

Ma noi, quando vogliam rivivere l'età de' padri nostri lontane, torniamo, non che volentieri, ma naturalmente e come ricondotti inconsapevoli, al Medio Evo: e le paganità del Rinascimento, che incontriamo per via, potranno sodisfare curiosità acri, lusingare istinti vivaci, avvivare genialità fantastiche di erudita incubazione; bensì il cuore nostro riman chiuso, e insodisfatto il sentimento che ci spinge a ricongiungere il presente col passato. Una pagina di Dante, anche torturato dai grammatici o abbuiato dagli allegoristi, risponderà sempre a più dimande del nostro spirito, acqueterà più intimamente il cuor nostro, che non possano mai la Mandragora o la Calandra galvanizzate co' più squisiti artifizi sulle scene moderne. Di che molte sono le cagioni; e principalissima, che dove troviamo maggiori rispondenze ai sentimenti nostri migliori, ivi l'animo più volentieri si acqueta. Ma io credo altresì, perchè tutta la civiltà della quale siam figli ci ha assuefatti a cercare nelle opere d'arte effigiatrici della vita, cercare e proseguire secondo i concetti spiritualmente umani del Cristianesimo, la idealità femminile, che il Rinascimento (le cui benemerenze grandi non ci debbono far dimenticare i suoi torti e mancamenti) o disconobbe, o non valse a conservare in quelle altezze dove l'avea portata, per tacer d'altri, il grande sintetizzatore poetico del pensiero medievale.

La nostra letteratura ebbe per base un Poema, che da una donna primigeniamente ispirato, tre donne ha, moventi l'azione, le quali dall'alto de' cieli la preparano in terra, da svolgersi pe' regni eterni e ne' cieli far capo: Maria misericordiosa, Lucia veggente, Beatrice lode vera di Dio come specchio e dichiarazione delle opere sue e de' misteri.[180] Se l'uomo, soccombente ai travagli della vita, può, per le vie ardue della contemplazione, incamminarsi a salvezza, sono le «tre donne benedette» che «curano di lui nella corte del cielo»:[181] se Virgilio, dai sacri «luminosi» penetrali della sapienza, si muove in aiuto di quel pericolante, è «Beatrice che lo fa andare»:[182] del nome e delle virtù di Maria tutto il Purgatorio è, per segni visibili o suoni o visioni soprannaturali, improntato:[183] sulla vetta del sacro monte, sede della umana smarrita felicità, egli sogna in Lia e in Rachele le armonie della vita operativa con la contemplativa;[184] e già prima, sognando sè trasportato dall'imperiale aquila, è stato da Lucia di sulla valle fiorita trasferito alla soglia del Purgatorio:[185] nel Paradiso Terrestre è da Matelda iniziato alla misteriosa trasfigurazione degli ordinamenti politici e religiosi della società; da Matelda guidato verso Beatrice; da Matelda, mercè le mistiche abluzioni in Lete e in Eunoè, da Matelda figura di gentile umanità che ai poeti parla «donnescamente», dispogliato dell'uomo antico, e rinnovellato e fatto abile all'ascensione pei cieli:[186] son gli occhi di Beatrice sua, che di questa ascensione gl'infondon virtù:[187] e infine per entro alla rosa de' Beati,[188] le tre donne salvatrici e liberatrici dell'uomo tengon seggio di gloria nella luminosa rappresentanza della cristiana umanità; e a' piedi di Maria divina sta Eva la creatura bellissima, fra il peccato e la redenzione comprenditrici e consumatrici della storia universa. Tanta parte, e siffatta, ha la donna nel fondamental concetto del Poema dantesco! E di su tale libro alzando la mano stanca il Poeta, ben poteva, alla figliuola di Folco che dalle soglie dell'eternità gli accennava aspettante, ripetere con l'esultanza del voto disciolto le estreme parole della Vita Nuova[189] arcanamente promettitrici: «Io ho detto di te quello che mai non fu detto d'alcuna».

NOTE

114. Augusto Alfani.115. La Donna fiorentina nei primi secoli del Comune.116. «.... chorda qui semper oberrat eadem» Ep. ad Pisones, v. 356.117. Istorie fiorentine, proemio. E il Gioberti, Rinnovamento, II, 462-63: «Il vivo della storia versando nei particolari, e solo da questi potendosi raccòrre la notizia fruttuosa delle leggi che girano le vicende umane, i racconti speciali sono i soli che giovano; laddove le storie universali, pogniamo che rechino istruzione speculativa e piacere, sono di poco o nessun profitto per la pratica».118. Purg. XXIV, 49-54; II, 91-114. Sul «dolce stil novo», e la sua storia, si vedano specialmente i belli studi di Giulio Salvadori ( La poesia e la Canzone d'amore di Guido Cavalcanti; Roma, Soc. ed. Dante Alighieri, 1895: Sulla vita giovanile di Dante; Roma, Soc. ed. D. A., 1901), e quello recente ( Il dolce stil nuovo; Palermo, Reber, 1903) di Liborio Azzolina.119. Tommaseo, Il Duca d'Atene; Firenze, 1879; pag. 58: «A te, gentile atomo della terrena polvere, popolato d'anime e di memorie immortali, conservatore d'un'immortale parola....»120. Vita Nuova, § VI.121. Vedi l'uno e l'altro nel Commento del D'Ancona alla Vita Nuova (Pisa, 1884), l. c., pag. 45 segg.122. G. Villani, VII, LXXXIX. Dino, I, XXII, 5.123. Rime, ediz. Fraticelli, pag. 74. — Vanna (Giovanna) con Guido, Lagia (Adelasia) con Lapo, e Bice con Dante, secondo la Volgata di quel Sonetto, il quale non è tra le Rime di Vita Nuova. Ma sulla traccia dei manoscritti si fa strada un ragionevole dubbio, che non Bice, ma un'altra donna gentile, forse la prima «dello schermo» di Vita Nuova, sia l'una delle tre fantasticate per l'amorosa comitiva. Vedi Un Sonetto e una Ballata d'amore dal Canzoniere di Dante, per cura di M. Barbi; Firenze, 1897.124. Rime, pag. 186.125. Rime, pag. 123.126. Parad. XXX, 28-29.127. §§ II (cfr. ediz. D'Ancona, p. 6-7), III, V, XIV.128. §§ XVI, XVIII.129. Purg. XXX, 127-128.130. Parad. II, 22. L' Esame della bellezza e del riso di Beatrice e della facoltà visiva di Dante di Teodorico Landoni ( Dichiarazioni al Paradiso ec., Firenze, Le Monnier, 1859) è gentile scrittura, da non doversi dimenticare.131. Purg. XXX, 73.132. Rime, pag. 108.133. Inf. II, 112, 104.134. Inf. II, 116; Purg. XXXI, 19-21; XXXIII, 127 segg.; Parad. I, 95; II, 52; III, 25, e altrove; Parad. XVI, 13-15.135. G. Todeschini, Scritti su Dante; Vicenza, 1872; I, 329.136. Parad. VII, 13-14.137. Vedi, qui appresso, il mio Studio su Beatrice.138. Da quel valentuomo del Todeschini, Scritti cit., I, 328 segg. Cfr. il Commento del D'Ancona alla Vita Nuova, pag. 28-30, e 76-77. E vedi il mio Studio su Beatrice.139. Mi compiaccio di conservare queste parole così come le dissi e le pubblicai nell'87, perchè oggi il documento si ha: vedi il citato mio Studio su Beatrice.140. Intorno a questi malauspicati matrimonî di Corso Donati, ho avuto a dire in più luoghi del mio libro su Dino ec.: vedili indicati a pagina 52 del vol. III. E cfr. lo Studio di Guido Levi su Bonifazio VIII e il Comune di Firenze; Roma, 1882; pag. 20 segg.141. Vedi la Tenzone di Dante con Forese Donati, a pag. 435-461 del mio Dante ne' tempi di Dante; Bologna, 1888.142. Purg. XXIII, 85-95.143. Vita Nuova, §§ XXXVI segg. Vedi nel Commento del D'Ancona (pag. 236-37) accennata, e non accettata, questa e alcun'altra interpetrazione della «donna gentile».144. Vedi ancora, qui appresso, l'indicato luogo del mio Studio su Beatrice.145. Vedile svolte egregiamente da R. Fornaciari ne' suoi Studj su Dante (2ª ediz.; Firenze, Sansoni, 1901), pag. 180 segg., e accettate dal D'Ancona (l. c.). E a me, quando pubblicai la prima volta queste mie pagine, pareva che la più comune interpetrazione della dantesca Matelda per la Matilde contessa famosa fosse la meno accettabile. E accennavo alle ipotesi di A. Lubin e di G. Preger, dietro le quali si continua da alcuni a trovare analogie tra la Matelda e questa o quella Matilde, religiose e misticografe tedesche. E poi dicevo che, tutto ben considerato, dovesse prevalere il principio, che la realtà di questa figura, la quale nel Poema ha sì stretta relazione e vicinanza con la simbolica Beatrice del Paradiso terrestre, s'abbia a cercare fra le donne che nella Vita Nuova sono poste in altrettal vicinanza con Beatrice Portinari. E adducevo, a tal concetto ispirata, la recente ipotesi di A. Borgognoni, il quale ravvisava la Matelda in altra donna pur della Vita Nuova (§ XVIII), premurosa interrogatrice del Poeta intorno all'amor suo; rilevando una giusta osservazione di lui, sulla opportunità, in quell'ordine d'idee, di trovare, fra le gentildonne fiorentine di quel tempo, una veramente chiamata Matelda o Matilde: e che io avevo già tentata qualche indagine, la quale altro resultato non mi aveva offerto, se non che nella famiglia dei Ricci (dalle cui case in Por San Piero, non è improbabile che potesse «una gentil donna da una fenestra riguardare» verso quelle degli Alighieri) ricorre nella prima metà del Trecento il nome di Telda. Del resto, soggiungevo, non esser tanto vero, che dopo la celebre contessa il nome di Matelda fosse comune in Firenze (una Telda dei Bardi è nella Battaglia delle donne del Sacchetti, I, 18); perchè il nome che in onor suo ebbe voga, e fu davvero comune, fu propriamente quello di Contessa e popolarmente Tèssa. E la persona storica della Contessa credo io oggi, specialmente dopo i validi studi di L. Rocca ( Matelda, nel volume Con Dante e per Dante; Milano, Hoepli, 1898) e di A. Bertoldi ( La bella donna del Paradiso terrestre; Firenze, 1901) e di G. Picciola ( Matelda; Bologna, Zanichelli, 1902), e una genialissima lettura di Emma Boghen Conigliani ( Il canto XXVIII del Purgatorio; Brescia, 1902), debba senz'altro restituirsi e confermarsi nella figura ideale della Matelda dantesca.146. Purg. XXVIII, 40-69.147. B. Zumbini, Studi sul Petrarca; Napoli, 1878, pag. 68. Vedasi poi la fina analisi che del Carattere del Petrarca, e delle relazioni fra il Petrarca e Laura, fa il Bartoli nel VII volume della sua Storia della Letteratura italiana; Firenze, Sansoni, 1884.148. Non mi sembra inopportuno qui riferirli, con qualche cura della lezione (cfr. Opera omnia F. Petrarcae; Basilea, 1554, pag. 1338-39: F. Petrarchae, Poemata minora, ed. D. Rossetti; Mediolani, 1834, III, 100-105; B. Zumbini, op. cit., pag. 62-63). Breve panegiricum defunctae matris. Suscipe funereum, genitrix sanctissima, cantum,

atque aures averte pias, si praemia coelo

digna ferens virtus alios non spernit honores.

Quid tibi pollicear, nisi quod, velut alta Tonantis

regna tenes, Electa Dei tam nomine quam re,

sic quoque perpetuum dabit hic tibi nomen honestas

Musarum celebranda choris, pietasque suprema,

maiestasque animi, primisque incoepta sub annis

corpore in eximio nullam intermissa per horam

tempus ad extremum vitae notissima clarae

cura pudicitiae, facie miranda sub illa?

Iam brevis innocuae praesens tibi vita peracta

efficit, in populo maneas narranda futuro,

aeternum veneranda bonis, mihi flendaque semper.

Nec quia contigerit quicquam tibi triste dolemus,

sed quia me fratremque, parens dulcissima, fessos

Pythagorae in bivio et rerum sub turbine linquis.

Tu tamen instabilem, foelix o transfuga, mundum

non sine me fugies, nec stabis sola sepulchro.

Egregiam matrem sequitur fortuna relictae

spesque domus, et cuncti animi solatia nostri:

ipse ego iam saxo videor mihi pressus eodem.

Haec modo pauca quidem, pectus testantia moestum,

dicta velim: sed plura alias; tempusque per omne

hac tua, fida parens, resonabit gloria lingua.

Has longum exequias tribuam tibi: postque caduci

corporis interitum, quod adhuc viget, optima sub quo

vivis adhuc genitrix, cum iam comprenserit urna

hos etiam cineres, nisi me premat immemor aetas,

vincemus pariter, pariter memorabimur ambo.

Sin aliter fors dura parat, morsque invida nostram

extinctura venit fragili cum corpore famam,

tu saltem, tu sola, precor, post busta superstes

vive, nec immerito vocent oblivia Lethes.

Versiculos tibi nunc totidem, quot praebuit annos

vita, damus; gemitus et caetera digna tulisti,

dum stetit ante oculos feretrum miserabile nostros,

ac licuit gelidis lacrymas infundere membris.

Per le questioni che si sono fatte sulla madre del Petrarca (riassunte e conchiuse da G. O. Corazzini, La madre di Francesco Petrarca; Firenze, 1903, seconda ediz.), ha in questi versi molta importanza la interpetrazione, alla quale nessuno ha posto mente, della frase «Pythagorae in bivio» nel v. 17. Cotesta frase, nel linguaggio del tempo, significava nè più nè meno che l'età di quindici anni; e così ci è dichiarata da un dugentista, frate Salimbene da Parma, il quale nella sua Chronica (pag. 10), rimpiangendo la morte immatura d'un giovinetto «qui, cum pervenisset ad bivium pythagoricae litterae, ultimum diem clausit», soggiunge: «idest finitis tribus lustris, quia tria lustra complent cyclum Indictionum»; dal che sembra che l'indizione s'indicasse anche con la lettera Y, nella qual lettera biforcata aveva Pitagora simboleggiato il bivio delle due strade che si aprono, sul cominciare della giovinezza, verso il bene e verso il male. Dunque il Panegiricum matris fu scritto dal Petrarca a quindici anni, nel 1319; nel quale anno, di lei trentottesimo (vv. 35-36), morì la madre sua Eletta Canigiani (nata dunque nel 1281) prima moglie di ser Petracco, che in seconde nozze sposò Niccolosa di Vanni Sigoli.

149. Le Rime, CCLXXXV e CXXVIII.150. Foscolo, Sepolcri, vv. 175-79.151. Pio Rajna, Le Corti d'Amore; Milano, Hoepli, 1890.152. Le Rime, CCXXXVIII. Il bacio a madonna Laura, che dà argomento a quel Sonetto, fu magistralmente illustrato da Giovanni Mestica ( Nuova Antologia, fasc. del 1º aprile 1892).153. X, VII.154. Lettera di Giovanni Rucellai da Avignone, il 13 maggio 1506, a Lorenzo di Filippo Strozzi in Venezia; a pag. 243-44 delle Opere di Giovanni Rucellai per cura di Guido Mazzoni; Bologna, Zanichelli, 1887. Anche Giambatista Marino, descrivendo nel 1615 le usanze francesi, e ancor egli come il Rucellai facendo tirocinio di quella lingua, scriveva da Parigi: «Le signore non fanno scrupolo di lasciarsi baciare in publico; e si tratta con tanta libertà, che ogni pastore può dire alla sua ninfa commodamente il fatto suo». ( Lettere; Venezia, 1627; pag. 181).155. Morgante, XXV, 301.156. Vedi la edizione, fedelissima alla lezione dell'antico testo Barberiniano, procurata dal conte Carlo Baudi di Vesme per la R. Commissione de' Testi di lingua; Bologna, 1875.157. Nella parte quinta e sesta, a pag. 100-165, 174-188, 230-235, della citata ediz.158. Histoire de Florence par F. T. Perrens; tomo III (Paris, 1877), pag. 339 segg. Questa e alcun'altra esagerazione, e qualche inesattezza, non tolgono però il suo pregio a quel capitolo su la vie privée in Firenze tra i secoli XIII e XIV.159. A pag. 118-119.160. A pag. 119-120, 125-126.161. La «cameriera» era pe' Fiorentini del Trecento personaggio da corti: tantochè il Borghini, trovando in certi registri di popolazione sul principio appunto del secolo XIV una «cameriera di Guido Benzi» annotava: «Ci è alcuna volta questa voce cameriera. Non so se è il medesimo che servigiale ec.; chè non mi pare che quel tempo usasse molte delicatezze e varietà di servitori» (a pag. 232 del quadernetto Il Fornaio di Vincenzio Borghini; nell'Archivio fiorentino di Stato, Manoscritti varî, n.º 482). Infatti le donne fiorentine delle dieci Giornate, sebbene «reine», non hanno «cameriere» ma «fanti»; così le due che attendono alla cucina, come le altre due che «al governo delle camere delle donne». ( Decameron, Introduzione).162. A pag. 123-125.163. A pag. 139.164. A pag. 62.165. A pag. 173-174.166. A pag. 31-32.167. A pag. 71-72.168. A pag. 120-121.169. Vedi, a tale proposito, alcune pagine (117-24) del mio Studio La gente nuova in Firenze nel volume Dante ne' tempi di Dante: Bologna, Zanichelli, 1888. Cfr. G. Melodia, Dante e Francesco da Barberino, Venezia, Estr. dal Giornale dantesco, 1896: A. Thomas, Francesco da Barberino et la littérature provençale en Italie au moyen-âge; Paris, 1883: O. Antognoni, Un contemporaneo di Dante e i costumi italiani, a pag. 59-79 del Saggio di studi sopra la Commedia di Dante; Livorno, Giusti, 1893.170. A pag. 15.171. Mi sia lecito ripetere parole mie, e indicare la illustrazione che mi occorse fare d'alcuni documenti letterarî fiorentini d'etica amorosa, appartenenti a quell'età. Vedi Dino Compagni e la sua Cronica, I, 418 segg.172. Stanno a pag. 46-55 di Alcune lettere familiari del secolo XIV pubblicate da Pietro Dazzi, nel fasc. XC delle Curiosità letterarie; Bologna, Romagnoli, 1868.173. Di queste chiose detti saggio nel libro e luogo testè indicati in nota 58.174. Parad. VIII, 2. Vedi nella Crusca (Vª imp.), s. v. Folle, il § VII.175. Vedi le Regole della vita matrimoniale di frate Cherubino da Siena ristampate per cura di F. Zambrini e di C. Negroni; Bologna, 1888, disp. CCXXVIII delle Curiosità letterarie.176. Vedi il libretto Strenne nuziali del secolo XIV (Livorno, Vigo, 1873), pubblicato da O. Targioni Tozzetti. «Popolani precetti» ho detto, sebbene in alcune di quelle scritture figurino a darli alla loro figliuola un re e una regina: contaminazione che ha un po' del barberinesco. Di quella, fra le dette scritture, che non ha in scena codesti fantocci, e dalla quale ho già addotto il preambolo e il commiato, credo far cosa grata alle gentili lettrici, abbellendone per disteso almeno quest'angolo del mio libro sulla Donna fiorentina. A pag. 37-40 delle cit. Strenne nuziali: ma mi son valso anche del testo che pel primo ne dette F. Trucchi, in un opuscoletto di 15 pagine (Firenze, Tofani, 1847) dedicato «alle gentili donne italiane». Come dee dire la madre alla figliuola quando la manda a marito

Carissima mia figliuola. Molto ti prego, e ancora comando, che.... (ved. a pag. 89)

Il primo comandamento si è, che tu ti guardi da tutte quelle cose per le quali egli si potesse adirare o ragionevolmente crucciare. E guardati di non stare allegra nè ridere, quando lo vedi crucciato; e similmente di non stare crucciata, quando lo vedi allegro; e quando egli è turbato, o carico d'ira e di pensieri, non te gli ficcare sotto; arrecati da parte, insino che si rischiari.

Il secondo comandamento si è, che tu sia sollecita di sapere qual cibo più gli piaccia al desinare e alla cena, e fa' che diligentemente gli sia apparecchiato: e avvegnadio che talora non ti piacesse quella tale vivanda, voglio che mostri pure che la ti piaccia; però che molto è convenevole che la donna sappia condiscendere al piacere del suo marito.

Il terzo comandamento si è, che quando il tuo marito fussi affaticato per debolezza, o per fatica, o per altro accidente, ed egli si dormisse, guardi di non lo svegliare senza legittima ragione: e se pure tel conviene chiamare, guarda di non destarlo subitamente, nè in fretta, ma piano e suave lo sveglia, acciò che teco non s'adirasse; imperò che di cotal cosa gli uomini se ne sogliono molto sdegnare.

Il quarto comandamento si è, che tu sia fedele a guardia del tuo onore e del suo; e non gli trassinare nè cassa, nè borsa, nè altro luogo ove lui tenga i suoi denari, acciò non prenda sospetto di te; e se per avventura ti venisse ciò fatto, o per altra ragione, non gliene tôrre veruno, ma ripongli saviamente; e a veruna persona in verun modo del suo non dare, senza sua licenzia, e non prestare; però che egli è in tal modo tuo signore, che per l'amor di Dio, non che per altro modo, del suo non puoi dare ai poveri, senza sua richiesta: onde con sommo studio t'ingegna di guardare il suo; chè siccome l'uomo è lodato d'esser largo, così la donna è lodata per salvare le cose del marito.

Il quinto comandamento si è, che tu non ti mostri troppo volenterosa di sapere le credenze e secreti del tuo marito; e se addiviene che lui te le dica, guarda che tu non lo ridica a veruna persona. E ancora ti guarda di ridire fuori della casa tua le parole dette familiarmente in casa tua, qualmente che sieno di piccolo valore; però che troppo è villana cosa che altri sappi i fatti della tua famiglia, principalmente per la tua bocca; e la donna di ciò n'è tenuta mentecatta e sciocca, e il marito l'ha in odio.

Il sesto comandamento si è, che tu ami e porti fede, come si conviene, a' servidori e alla famiglia, e principalmente a coloro che sono in amore del tuo marito; e che per leggiere cagioni non gli biasimi e non gli accomiati, però che sempre ne saresti odiata, e potresti per loro e per la famiglia esserne abbominata di tale infamia, che quasi mai non ti cadrebbe il biasimo, e agevolmente ne potresti venire in odio del tuo marito e dell'altre genti.

Il settimo comandamento si è, che tu non facci per lo tuo senno alcuna grande cosa senza il consentimento del tuo marito, qualmente che quella cosa ti paresse da fare; e guarda che tu non gli dichi, per alcuno modo: «Il mio consiglio era migliore che 'l tuo», eziandio che fosse bene migliore; perciò che il condurresti agevolmente in grande sdegno verso te e in grande odio.

L'ottavo comandamento si è, che tu non richiegghi di cosa il tuo marito, che non si convenga, e che gli fusse troppo malagevole a fare; e massimamente cosa tu creda che gli dispiaccia, e che sia contro al suo onore, acciò che tu non sia cagione di suo male, danno, o struggimento.

Il nono comandamento si è, che tu t'ingegni di mantenere la tua persona fresca e bella e adorna e netta, in forma e modo che sia onesta, senza alcuna cosa disonesta o brutto adornamento: imperò che quando il tuo marito ti vedesse disonestamente ornare oltre al suo piacere, leggermente ti potrebbe avere a sospetto; chè tenendoti onestamente adorna, te ne amerà e terrà più cara.

Il decimo comandamento si è, che tu non sia troppo domestica colla tua famiglia nè troppo inchinevole, spezialmente a quelle persone che ti dovrebbono servire, o donzello o servigiale che sia, servo o serva: però che troppa dimestichezza importa vizio, e troppa familiarità ingenera sdegno; onde troppo è meglio essere un poco verso di loro altiera e signorile: imperò che non è già buon segno vedere la serva in superbia inverso la madonna; onde volgarmente dice la gente: la serva signoreggia, se la madonna folleggia.

L'undecimo comandamento si è, che tu non sia troppo randagia, nè che tu non vada troppo fuori di casa tua; imperò che la donna che sta costantemente a casa, e va poco a torno, è allegrezza del marito suo, siccome dice Salomone, che 'l seppe bene: chè all'uomo bisogna provvedere a' fatti di fuori di casa, per fare quelli di dentro alla casa: e così conviene che la donna provvegghi a' fatti della famiglia e della masserizia: i quali giammai non faresti bene, figliuola mia, se tu randagia fussi. Ancora voglio e cornandoti, che tu ti guardi di favellare troppo; però che il poco parlare principalmente sta bene nelle donne, e significa onestà; chè se la donna fusse bene sciocca, e ella parli poco, è tenuta savia. Ancora ti comando, che sia modesta, cioè che non vogli sapere troppo, nè dar fede a indovine, nè a loro fatture o incantazioni: perciò che molto è sconvenevole alle donne voler sapere come gli uomini nell'operare degli uomini.

Il duodecimo comandamento, e maggiore che io ti possa fare e onde io più ti gastigo, si è, che tu non facci cosa, per opere o per parole o per sembianti, onde il tuo marito possa entrare o incorrere in alcuna gelosia; però che quello è quella cosa che più tosto ti potrebbe il suo amore tòrre che altra cosa, e sempre ne verresti a sospetto, e lui faresti stare in ardente fiamma, e tu verresti non solamente nel suo odio ma ancora in quello de' parenti e degli amici; e tale infamia t'assalirebbe, per modo che mai non ti cadrebbe: però che questo fallo porta tal macchia, che mai non si può lavare. E questo ti sia sopra tutti i comandamenti; certificandoti, che la moglie in nessun modo può far cosa al marito che tanto gli sia cara, com'ella sia onesta di suo corpo: e così per l'opposto. Che però ogni onore, ogni riverenza, secondo che s'avviene sia sollecita di rendergli: e quando egli torna a casa, sempre gli fa' buona ricoglienza: e lietamente fa' onore a' parenti suoi, maggiormente che a' tuoi, però che così farà egli a' tuoi. Che se per avventura, nell'avvenimento d'alcuna altra onorevole persona, tu facessi alcuna opera vile della masserizia di casa, incontanente riponi la rócca e il fuso, nascondi l'opera servile, qualunque si sia; acciò che non pai allevata in villa. Nelle opere amorevoli non ti partire dall'onestà, secondo gli atti che io ti ho detti i quali tra me e te abbiamo ragionati, acciò che troppa amorosa voglia innanzi al tempo non ti togliesse il suo affetto: e per sì fatto modo il guarda, che amore, e non sdegno, sia cagione della sua guardia: e lascialo sempre un pochettino quasi usare un'amorosa forza; imperò che quella amorosa forza ritorna in tua onestà.

Facendo adunque le dette cose sarai corona d'oro del tuo marito.

Allora la gentile madre e savia donna benedisse e segnò.... (vedi a pag.89 ).

177. Cronica, I, iv.178. Vedi, con brevi ma acconcissime parole, svolto questo pensiero da R. Fornaciari, nel suo Quadro storico della letteratura italiana nei primi quattro secoli; Firenze, 1885; pag. 88-90.179. Felice Tribolati nel IVº de' suoi eleganti Diporti letterarii sul Decamerone; Pisa, 1873; pag. 160-62. Vedi ivi anche il giudizio del Petrarca sulla Griselda, la quale egli tradusse in latino: e cfr. le Senili del Petrarca, date dal Fracassetti, II, 541 segg.180. Inf. II.181. Inf. I e II.182. Inf. II e IV.183. Purg. X-XXVI.184. Purg. XXVII.185. Purg. IX.186. Purg. XXIX-XXXIII. Di quel «donnescamente» dantesco, che s'interpetra comunemente per «con grazia e gentilezza femminili», o simile, mi sembra singolare e vera la dichiarazione che nel suo latino esplicativo ne fa un frate del Quattrocento ( Giovanni da Serravalle, Translatio et Comentum totius libri Dantis Aldigherii; Prato, 1891; pag. 813): « dominabiliter, scilicet more suavis et nobilis dominae »: insomma «signorilmente»; con attinenza al bello e possente significato della parola «donna» per «signora», abbracciato sì dai poeti e sì dal popolo nelle locuzioni «la mia donna» e «madonna». E a cotesto «donnescamente», rintegrato (com'io credo) nel senso che volle imprimergli il Poeta, porge illustrazione e conferma il verbo «donneggiare», cristallizzatosi in un antico proverbio che ammoniva le «signore» di poco savia condotta, le quali si lasciano, diremmo oggi, pigliar la mano dalla servitù: «Quando madonna folleggia, la fante donneggia», cioè fa lei da signora, diventa lei la padrona. Proverbio, la cui efficace dicitura o guastano o snervano i lessicografi che a «donneggia» o sostituiscono, o aggiungono come variante, «danneggia». La quale, o sostituzione o variante, che sia da rigettare senz'altro, se anche non lo dicessero l'orecchio e il buon gusto, lo imporrebbe il raffronto di quella trecentistica scrittura fiorentina degli Avvertimenti di maritaggio testè riferiti in una delle precedenti note; nel decimo dei quali (pag. 102) abbiam letto: «Troppa «dimestichezza» della padrona verso la «famiglia», cioè verso la servitù, «importa vizio, e troppa familiarità ingenera sdegno; onde troppo è meglio essere un poco verso di loro altiera e signorile: imperò che non è già buon segno vedere la serva in superbia inverso la madonna; onde volgarmente dice la gente: — La serva signoreggia, se la madonna folleggia».187. Parad. II, 19-30; V, 86-93; ecc.188. Parad. XXXI e XXXII.189. § XLIII.

BEATRICE NELLA VITA E NELLA POESIA DEL SECOLO XIII

Questo Studio fu pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia nel giugno del 1890, sesto centenario della morte di Beatrice.

Fu ristampato, con appendice di documenti ed altre illustrazioni, in Milano, Hoepli, 1891. I Documenti dell'edizione Hoepli sono: I, Testamento di Folco Portinari. II, Atto di fondazione dell'Ospedale di Santa Maria Nuova per Folco Portinari. III, Magistrature di Folco Portinari, e altre indicazioni su lui. IV, Documenti militari fiorentini, ai §§ IX-X della Vita Nuova. V, Dai libri mercantili dei Bardi. VI, La Canzone di messer Cino a Dante per la morte di Beatrice.

I.

A dì 15 gennaio del 1288, in una chiesa e convento suburbani a Firenze, fra le mura del secondo o penultimo cerchio, e quella che era allora pendice boscosa (cafaggio, dicevano) di dolce salita verso i colli fiesolani, ed è oggi la parte più elevata e forse la più ridente della città che anche il suo cerchio terzo ha varcato e distrutto, si accoglievano i religiosi di quel convento e chiesa di Sant'Egidio, frati denominati della Penitenza di Gesù Cristo, intorno ad un ragguardevole cittadino, che in presenza di essi dettava al notaro il suo testamento. Folco di Ricovero di Folco dei Portinari, famiglia anticamente ghibellina, consolare, delle «discese giù da Fiesole»,[190] e che la mercatura avea fatte ricche e popolane e guelfe, assicurava con quell'atto i perenni effetti di una sua splendida beneficenza, quale era stata la fondazione d'uno spedale da lui medesimo pur allora costruito presso il detto convento. «Raccomando umilmente l'anima mia» così scriveva le parole di Folco il notaro Tedaldo Rustichelli «a Dio vivo e vero, e mi eleggo la sepoltura nella cappella del mio spedale di Santa Maria Nuova. Offro a Dio, al Signore Gesù Cristo, alla Beata Vergine Maria madre di lui, il detto spedale e cappella ovvero chiesa per rimedio delle peccata mie e de' miei, e in servigio de' poveri infermi. I miei eredi lo mantengano e ne siano i patroni. A religiosi e poveri lascio....»; seguivano in lunga lista fraterie, monasteri, spedali della città e del contado. Disponeva poscia per la famiglia, nominandoli capo per capo. Prima, la moglie: madonna Cilia dei Caponsacchi, altra di quelle famiglie «nel mercato discese giù da Fiesole», questa però rimasta ghibellina e de' Grandi; poi una sorella sua naturale, Nuta, alla quale assicura che le sia continuato nelle case de' Portinari la dimora e il mantenimento. Ma innanzi di venire a' figliuoli, vuol designate quelle che sono case de' Portinari, dalle quali esclude, perchè nei Portinari rimangano, qualsiasi successione o diritto di femmine. E prima, la vecchia casa di famiglia, nel popolo di San Procolo, ristaurata da lui insieme con altri consorti: poi una casa nel popolo di Santa Maria in campo, lì presso alle mura; e il palagio di sua abitazione, con torre, posto nel popolo di Santa Margherita; e altre case e casolari. Dopo di che nomina le figliuole: delle quali, quattro sono fanciulle, Vanna, Fia, Margherita, Castoria; e avranno dote di ottocento lire a fiorini, ciascuna: due maritate, madonna Bice nei Bardi, madonna Ravignana nei Falconieri. Lascia a madonna Bice lire cinquanta a fiorini: di madonna Ravignana, che è morta, ricorda un figlio Nicola, e a lui assegna la medesima somma. Eredi istituisce i figliuoli: Manetto, Ricovero, Pigello, Gherardo, Iacopo; in minore età questi ultimi tre; e ne affida la tutela, come delle figliuole che sono nella stessa condizione, ai due altri maggiori, ed inoltre a messer Vieri di Torrigiano de' Cerchi, a messer Bindo de' Cerchi, e a due de' suoi proprî consorti.

«Sano, la Dio grazia, di mente e di corpo» è detto il testatore; nè forse era molto innanzi con gli anni, se in quella figliolanza copiosa di ben undici, due soli de' maschi avevan toccata l'età maggiore, due sole delle sei femmine erano andate, e solevano andare così giovinette, a marito; e di esse un sol figliuolo la Ravignana, e nessuno apparisce averne la Bice. Pochi mesi dipoi, il 23 giugno, egli medesimo con solenne atto fondava il suo diletto ospedale, assegnandogli terre, suppellettili, paramenta e utensili sacri, facendosene dal vescovo di Firenze Andrea de' Mozzi investire patrono, sè e suoi discendenti, e insediandovi il primo rettore, a suon di campane e cantandosi nella nuova chiesetta il Te Deum. Un anno e mezzo ancora; e il buon Folco mancava a' suoi figliuoli e ai suoi poveri, il dì ultimo del 1289. Il suo sepolcro in pietra, con l'arme gentilizia (la porta, arme parlante; e dalle bande due leoni rampanti) e con iscrizione in lettere gotiche, durò in quella sua chiesetta, più secoli; vegliato dall'imagine di Maria, che egli stesso avea collocata sull'altare in una tavola di Cimabue, alla quale successero ne' tempi, prima una Annunziata di Andrea del Castagno, poi di Alessandro Allori una Vergine madre circondata da Sante. Oggi nè la cappella nè il primitivo spedale, che finì col nome di Spedale di San Matteo, più non esistono; e sull'uno e sull'altra, e sulle ossa di Folco e della moglie e de' figliuoli di lui, si è adagiato co' suoi innumeri e farraginosi protocolli l'Archivio notarile de' Contratti. Ma delle tombe di essi Portinari, quella di Folco è, non senza giusto destino, sopravvissuta; e fu modernamente trasportata e ricomposta, con pietosa industria, nella chiesa di Sant'Egidio, cioè nell'attual chiesa dell'Arcispedale di Santa Maria Nuova. Così al pio luogo non è venuta meno la presenza del genio suo tutelare. Tuttavia pochi sanno di quel monumento o, come può dirsi ormai, cenotafio, sul quale si seguita a leggere: «Hic iacet Fulchus de Portinariis qui fuit fundator et edificator [h]uius ecclesie et ospitalis S. Marie Nove et decessit anno MCCLXXXIX die XXXI decembris. Cuius anima pro Dei misericordia requiescat in pace». Non sono pervenute fino a noi, ma durarono qualche secolo, le sepolture, che erano pure in San Matteo, del figliuol suo Manetto, morto il 28 agosto del 1334, e di Accirito figliuol di Manetto, morto il 17 giugno 1358.[191]

Alla vita di Folco, che dalle cose accennate può indursi non lunga, darebbero già altissima lode la carità e la bontà, che informano i suoi estremi voleri: ma altri atti ci attestano altre sue civili benemerenze. Il suo nome è nei ruoli d'ambedue i magistrati, coi quali, fra il 1280 e l'82, si fondò saldamente la democrazia fiorentina: prima i Quattordici buoni uomini, insediati dal cardinale Latino a suggello della pace fra Ghibellini e Guelfi; e poi i Priori delle Arti, coi quali il popolo artigiano incominciò il suo sormontare nello stato. In ambedue i magistrati è Folco: de' Quattordici, nel marzo dell'82; de' Priori, nell'agosto con la prima normale elezione che ne fu fatta in numero di sei, uno per Sesto e per una delle Arti maggiori. Folco vi era pel Sesto di Porta San Piero, e per l'Arte de' Mercatanti. Il nome di Folco in coteste liste, e così in altri due priorati de' quali egli fece parte, del 1285 e dell'87, è uno di quei nomi che rappresentano sì l'elemento magnatizio, il quale si acconciava come alla mercatura così ai magistrati della città, e sì l'elemento ghibellino, che modificatosi progressivamente nella seconda metà del secolo, anche innanzi allo stabile trionfo guelfo del 1267, venne in quell'ultimo trentennio sceverandosi fra Ghibellini puri e avversi al reggimento popolare, e Ghibellini moderati che accettavano del reggimento e della mercatura la utile comunanza col popolo e coi Guelfi. Su tale terreno si disegnava la nuova divisione della cittadinanza. Popolani e Grandi «purchè fossero mercatanti»,[192] dall'una parte: e Grandi inflessibili e intransigenti, dall'altra: e questa partizione gli Ordinamenti della Giustizia nel 1293 statuirono, consacrarono. E parimente ed insieme: dall'una parte. Ghibellini condiscendenti ai Guelfi, Guelfi benevoli ai Ghibellini, perchè concordi Guelfi e Ghibellini nell'amare o nell'accettare reggimento di popolo: e dall'altra Ghibellini immutati, e questi ebbe dispersi l'esilio; o Guelfi radicali, e questi, l'anno 1300, furono i Guelfi Neri, nel nome di Guelfi Bianchi confondendosi quei Guelfi e Ghibellini sotto l'auspicio popolare amicatisi. Dei Guelfi Bianchi non fu a tempo, morendo nell'89, ad essere Folco: ma tra i Guelfi Bianchi rimase, co' suoi figliuoli e consorti, il suo nome; vi rimase, anche tra le vittime della violenza e del trionfo dei Neri. Il giovinetto Pigello morì avvelenato dai Neri, da un prete;[193] e nella Riforma di messer Baldo d'Aguglione, del 1311,[194] fra i reietti dalla cittadinanza, ristrettasi a Guelfa Nera, sono i Portinari: vi sono con Dante.

Basta, del resto, quanto siam venuti dicendo (se pur non fosse stato altrove dimostrato ampiamente[195] ), per comprendere che Parte Bianca preesistè, in fatto, di alquanti anni al proprio battesimo: e il testamento stesso di Folco non è senza importanza per cotesta, direi quasi, preistoria delle due fazioni. La tutela de' figliuoli egli commette con pari fiducia a' consorti suoi Portinari e ai Cerchi, compagni suoi di traffico, i futuri capi di Parte Bianca; e fra i designati tutori è messer Vieri di Torrigiano, quello stesso che nelle gare tra Cerchi e Donati bilancerà, con la potenza mercantile e l'autorità di gran cittadino, le feroci ambizioni di messer Corso Donati, finchè queste prorompano in aperta violenza, che appoggiata da papa Bonifazio, trionferà. E delle due figlie maggiori, la Ravignana, nome di antico stampo che ricordava la famiglia di Bellincion Berti de' Ravignani; «dell'alto Bellincione»,[196] nel cui palagio, fatto comitale dai Guidi, erano i Cerchi signorilmente successi; la Ravignana, Folco l'ha maritata a Bandino Falconieri, che sarà uno de' maggiorenti di Parte Bianca, e dei più favellatori nei Consigli del Popolo: l'altra, la Bice, a messer Simone de' Bardi, famiglia di Grandi, ma altresì cambiatori e banchieri de' più poderosi, e Grandi guelfissimi, e che saranno de' Neri.[197] Parentadi, l'uno e l'altro, che tra i Portinari, in origine ghibellini, e quelle famiglie guelfe; tra i Portinari grandi, e i Falconieri popolari; tra i Portinari aderenti ai Cerchi, e i Bardi partigiani de' Donati; ci appariscono subito come parentadi politici, di quelli che suggellavano le paci della cittadinanza, o che il Comune stesso, anche a proprie spese, procurava, per ovviarne, quant'era possibile, le scissure e le guerre. Nei quali matrimonî, si avverta bene (e con questo avviciniamoci al soggetto del presente Studio), l'amore non entrava per nulla; ed invero il più delle volte se ne stipulavano gli atti di promissione, essendo gli sposi, non che giovinetti, ma ancora fanciulli. Oltredichè, anche quando non si trattasse di matrimonî così fatti a secondo fine civile, la sposa era «data»; non essa avea disposto del suo cuore e della sua mano: la dava il padre; il marito la riceveva, anzi «la menava»,[198] a lui stesso consentita innanzi o designata dal proprio padre, piuttostochè cercata e sospirata per dolce e faticosa conquista d'amore.

All'amore si faceva volentieri in versi. Non dico che non si facesse anche in altra maniera: ma l'«amore per rima» era, ciò che oggi non è certamente, una costumanza, un andazzo; potremmo dire, scomodando un grosso vocabolo, un'istituzione. Alcun che di simile fu pure il serventismo nel Settecento. E come in questo la donna astraeva, in sè medesima, la persona sua coniugale e quella di dama servita dal cavaliere; così la donna dei nostri antichi rimatori non aveva nulla che fare con la donna toccata loro veramente compagna, ed anche compagna (se a Dio era piaciuto) carissima, della vita. La loro «donna mia», la loro «donna gentile», la donna del sonetto e della ballatetta, rimaneva fuori della casa e della famiglia: nella casa e nella famiglia l'uomo era ben altro che facitor di rime amorose: era mercatante, era lanaiuolo, era cambiatore, era giurista; e poi era magistrato, era partigiano, era milite di cavallata, era ambasciatore del Comune, andava rettore nelle altre terre d'Italia: ed oltre tutto questo, era diligentissimo padrefamiglia, che alla donna sua vera, alla moglie, commetteva in fidata custodia la casa, alle mani di lei valenti raccomandandone la masserizia, e nella prole, per solito numerosa, assicurando in vario modo le speranze e i disegni che i loro vecchi avevano accolto nell'animo quando li avevano congiunti marito e moglie.

Questa vita, così severamente pratica, laboriosa, procacciante, e nella quale alla formazione della famiglia soprintendevano l'autorità dei genitori e gl'interessi domestici o cittadini, versava nelle rime d'amore quanto di affettive idealità rimaneva in essa impedito o compresso. E vien subito pensato che in tali condizioni reali, la donna di rime originate in quel modo, questa donna affatto esteriore all'orbita delle cose attualmente e operativamente amate e curate dall'uomo di quei tempi, fosse, anzi dovesse senz'altro essere, donna ideale, una figura poetica, il tema: il tema fittizio dei dolci sospiri, dei desiri dubbiosi, degli sconforti, delle confidenze soavi, che di necessità mancavano a quelle destinazioni senza scelta, a quel possesso senza contrasti. Ma non era così; anzi, ribatteremo, non poteva, per quelle stesse condizioni e qualità psicologiche di vita reale, non poteva esser così. Quella praticità di abitudini, positività d'intendimenti, ripugnanza in checchè si facesse dall'astratto e non determinato, era cagione che cotesti uomini, se gentilezza di cuore e di mente li portava a dir parole di amore in rima, volessero una donna alla quale indirizzarle; una donna viva e vera, col suo nome e cognome; volessero, questo loro «rimare sopra materia amorosa», questo «cotal modo di parlare, trovato per dire d'amore, farlo intendere» in buon volgare «a donna alla quale era malagevole intendere i versi latini»; secondochè, nella Vita Nuova,[199] con imagini e locuzioni, come sentiamo, quanto più desiderar si possa nette e positive, ci è significato da Dante.

La «donna» del rimatore, dunque, esisteva; esisteva in tutta la sua realtà femminile, compresovi il non saper di latino: a una donna pensavano, a una donna parlavano, i «dicitori per rima»;[200] a una donna, la cui bellezza potesse il rimatore visibilmente ammirare, allietarsi del sorriso, per la lontananza sua sospirare, dei suoi lutti attristarsi, piangere sulla sua tomba, custodirne pia e ispiratrice la ricordanza. E pur tuttavia, nell'omaggio che ella riceveva, nulla era da ingelosirsene nè il marito di lei, nè la moglie del rimatore: aveva nome e cognome; ma questo cognome poteva anche, e senza veruno scandalo, essere quello che un valentuomo le avesse dato a portare e onorare: poteva per altre cagioni (di quelle per le quali potè sempre e può anc'oggi), ma non per questa dei versi d'amore, essere la quiete coniugale turbata. Fra le tante, per le quali quella gente fiera e riottosa veniva al sangue così di leggieri, non si ha memoria, essere mai stato uno di tali amori poetici, che abbia fatto arrotare nel cupo silenzio della vendetta, o sguainare nei furori delle mischie improvvise, i ferri fratricidi. Nessun codice, dei tanti che riboccano di rime amorose, potrebbe essere registrato fra i documenti infausti delle nostre discordie cittadinesche. La quale, se così vuolsi chiamare, impunità, non toglieva bensì, che il rimatore facesse de' suoi sospiri un mistero gentile, e mostrasse custodirlo segretamente, cosicchè al fior dell'affetto amoroso non mancasse neanche questa sua più delicata fragranza. Quindi, e lo schermirsi con le apparenze d'un altro amore, per nascondere quello vero;[201] e alle altrui inchieste negar di rispondere;[202] e ne' serventesi enumeratívi, a uso provenzale,[203] delle più belle donne della città, il nome di ciascuna non andar congiunto con altro che con quello del suo «diritto signore», cioè del marito;[204] e la «donna mia» del sonetto e della ballata o non avere altra personale designazione che quella (se il nome vi si presta) di qualche concettosa perifrasi onomastica, od anche il nome stesso, ma rigorosamente spoglio da qualsiasi allusione al cognome o ad altra caratteristica gentilizia o domestica.

I cognomi, del resto, son materia ribelle al linguaggio poetico, quanto arrendevole alle indagini e controversie critiche. Cosicchè, anche solo per ciò, dovevano codeste donne poetiche, nel trasmettersi fino a noi, lasciar per istrada quel loro storico distintivo, e non rimanerne alcuna espressa testimonianza nella poesia da esse ispirata. Nessuno anzi ne avrebbe, è da credere, fatta questione, se la figura sopravvissutaci d'una di quelle ispiratrici non avesse portato seco, non pure, come le altre, intorno alle bionde o nere chiome, i gentili ma tenui raggi d'una poesia tutta e solamente e soggettivamente d'amore, per quanto ideale e fantastico, sibbene, sulla fronte regalmente superba, la splendida aureola che emana dalla poesia d'un grande poema, d'un concepimento oggettivo de' più laboriosi e comprensivi e solenni che siano mai usciti da umano ingegno. Circondata da questa aureola, la figura che è donna nella Vita Nuova, angelo e simbolo nella Divina Commedia, risorge dal suo sepolcro, oggi dopo seicent'anni; e nel linguaggio che le ha appropriato l'immortale amico suo, anche a noi, nè forse con diverso intendimento, ripete

Guardami ben; ben son, ben son Beatrice.

Non con diverso intendimento; se a Dante atteggiato di vergogna e di pentimento dinanzi a lei, là sul verdeggiante ripiano della sacra montagna, ella rinfacciava, con quelle parole, d'averla dimenticata e, o per altre imagini di bello e di buono, o per realità mondane, sconosciuta e postergata;[205] e se a noi, che ci trasciniamo faticosamente dietro alle imagini o alle parvenze del passato, seguendo la tormentosa ricerca del vero, ella volesse (pentiti o no che la critica, sola ormai nostra, ahimè! poco amabile, «donna», ci permetta di essere) rimproverare di non aver saputo nella figura della donna e dell'angelo riconoscere la Bice che nacque de' Portinari e andò sposa nei Bardi.[206]

II.

Tutti sanno che questa identificazione risale al Boccaccio, e che da lui l'accettarono e fecer propria altri antichi. Ciò che nei soavi e sfumati adombramenti della Vita Nuova è semplice «apparimento» di fanciulla «in giovanissima etade», primo incontro di quell'«angiola giovanissima»,[207] addiviene, sotto l'abbondante colorito del gran novelliere,[208] il calendimaggio festeggiato nelle case d'un vicino degli Alighieri, «uomo assai orrevole in quei tempi tra i cittadini»: e quest'uomo è Folco Portinari. In quel calendimaggio del 1274, Beatrice apparisce al garzoncello Alighieri, «non credo primamente», dice sempre analitico, il geniale biografo, che pensa e provvede a tutte le possibilità storiche dell'argomento propostosi, ma la prima volta che fosse «possente ad innamorare».

Nella Vita Nuova, «alli occhi di Dante appare per la prima volta la gloriosa donna della sua mente», il cui nome è Beatrice anche in bocca di coloro i quali «non sanno che si chiamare», cioè non sanno che cosa chiamino, ignorano quanto ad essa si convenga quel nome, quanto ella abbia in sè di beatitudine, a quale e quanta ella sia riserbata. La fanciulla è «vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta ed ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenía»; è «quasi dal principio del suo anno nono», e Dante quasi in sulla fine pur dei nove anni, cioè nel 1274. D'allora in poi, Amore «signoreggia l'anima sua», e più volte, pure in quella sua puerizia, gl'impone di «andare cercando di lei»;[209] finchè, passati altri nove anni, nè più nè meno, «questa mirabile donna appare a lui vestita di colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne di più lunga etade», gli appare «passando per una via», e «lo saluta molto virtuosamente», tanto che a lui «pare allora vedere tutti li termini della beatitudine».[210] Da quel momento, — il quale, secondo la cronologia che Dante stesso ha incardinata sul mistico nove, appartiene all'anno 1283, — secondo novennio, incominciano i pensieri e i turbamenti amorosi, le fantasie, le visioni.

Nella narrazione del Boccaccio,[211] «Dante, il cui nono anno non era ancor finito, siccome i fanciulli piccioli, e spezialmente ai luoghi festevoli, sogliono li padri seguitare», va col padre, in una splendida giornata di primavera fiorentina, al calendimaggio dei Portinari. «Avvenne che quivi mescolato tra gli altri della sua etade, de' quali così maschi come femmine erano molti nella casa del festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola età poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare. Era infra la turba de' giovanetti una figliuola del sopraddetto Folco, il cui nome era Bice (comecchè egli sempre dal suo primitivo nome, cioè Beatrice, la nominasse), la cui età era forse di otto anni, assai leggiadretta e bella, secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedeva; e oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti. Costei, adunque, tale quale io la disegno o forse assai più bella, apparve in questa festa.... agli occhi del nostro Dante....». E a siffatte premesse corrisponde il rimanente di questa parte della boccaccevole narrazione fino alla morte di Beatrice; massime in questo, dico o ripeto, che quanto è nella Vita Nuova delineato a man leggiera, e quasi paurosa della materia che tocca, quanto ivi è per imagini spiritualissime affigurato, con accenni sfiorato appena, velato con perifrasi, sollevato e quasi alienato dalla vita reale tanto che talvolta è lasciato addirittura che se ne interpretino o controvertano le relazioni con questa; invece nel Trattatello, come il Boccaccio altrove lo chiama,[212] in laude di Dante, è lumeggiato e colorito sensibilmente, con le realtà della vita mescolato e coordinato, e per giunta moraleggiato in sentenze sul bene e il male di questa correlativamente alla vita dell'Alighieri.

«Passioni ed atti» è, nella Vita Nuova, frase piena d'idealità, sotto la quale Dante omette i particolari di quel primo novennio amoroso, all'«esempio» del già narrato, cioè dello apparimento, riferendoli tutti come a suo tipo. «Puerili accidenti», con frase ben altramente positiva, li chiama il Boccaccio, e ancor egli li omette; omette, che dobbiam dire? di raccontarli quali fossero accaduti, o di inventarli quali egli avrebbe, certo ingegnosissimamente, saputo? Subito appresso, nella Vita Nuova, si travalica all'83, all'episodio del saluto, al sonetto della visione di Madonna addormentata fra le braccia d'Amore, e da lui pasciuta del cuore del Poeta.[213] E da quelle prime visione e rima (la quale, fra tutte le dantesche, ha, forse più che alcun'altra, del trovadorico e occitanico) si dipartono e succedono, con altre visioni e rime intessendosi, gli episodî dell'amore di Dante: episodî, con tenue filo congiunti alla realtà esteriore, e questa (sia essa o una via della città, o la chiesa, o il mortorio dell'amica di Beatrice, o uno sposalizio, o il mortorio del padre[214] ) è fuggevolmente accennata, descritta non mai; alle occorrenze poi della vita civile dell'Alighieri una volta sola, per quanto io vegga, collegati, della quale dirò or ora espressamente. Molto più franco e sicuro e meglio informato il Boccaccio, il quale non ha certamente agio di fermarsi in particolarità e molto meno in formali episodî; ma per le generali e molto ricisamente sa dirci, non solamente questo: che «con l'età multiplicarono le amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei»; ma quest'altro ancora, che Dante «ogni altro affare lasciando, sollecitissimo andava là dovunque potea credere vederla, quasi del viso e degli occhi di lei dovesse attignere ogni suo bene ed intera consolazione». Segue una digressione morale sugl'inconvenienti che reca l'amore nella vita, specialmente degli studiosi; inconvenienti, osserva il Boccaccio, che nel caso di Dante, alcuni vogliono siano stati ammendati dallo avergli l'amore per Beatrice ispirate le rime: ma, soggiunge, «l'ornato parlare» non è termine o mèta di eccellenza assoluta, non è la «sommissima parte d'ogni scienza»; nè ad altro che a «ornato parlare» fu incitator di Dante l'amore per donna: or le cose «leggiadramente nel fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, fatte da lui», compensano esse il danno che possa essergliene venuto «alli sacri studi e all'ingegno»? Parole, per quanto sonore, tuttavia d'incredibil grettezza, chi ripensi alla parte che Beatrice, la Beatrice pur della Vita Nuova, ha in quel Poema, la cui grandezza il Boccaccio mostrò nel Comento di sentire e pregiar degnamente.

III.

E qui fermiamoci alla frase «ogni altro affare lasciando». Secondo la quale, la giovinezza di Dante, dai diciotto anni ai venticinque, o sarebbe tutta trascorsa in un assiduo corteggiare la donna desiderata, e a tutte le cose del mondo, anche alle doverose, anteposta, proprio com'uno de' volgari femminieri del Decamerone; o, poichè il Boccaccio stesso si affretta a dichiarare che «onestissimo fu questo amore» e scevro d'ogni «libidinoso appetito», dovrebbe la narrazione de' patemi amorosi, appartenenti alla nuova vita di Dante, essere accettata siccome positiva e puntual narrazione di fatti estrinsecatisi proprio ne' termini in che vengon posti; ossia dovremmo credere effettivamente, che e' passasse quelli anni dal saluto alla morte di Beatrice, che è quanto dire dal 1283 al 90, in visioni, in lacrimazioni, nello scrivere il giorno quel che sognasse la notte, in soliloquî, in languori, sottraendosi del tutto alla vita civile fiorentina, la quale appunto in quelli anni dal cuore e dall'opera de' cittadini migliori attingeva al suo spirito artigiano la più vigorosa espressione che mai abbia avuta un reggimento democratico. Potremmo noi, vorremmo, concepire siffatta la giovinezza di Dante? abbandonare non ai nobili silenzî, alla severa solitudine, d'una meditazione feconda, ma agli ozî isterici d'una passione che sarebbe stata fine, e vacuo fine, a sè stessa, gli anni della sua vita più vigorosi e più caldi? Tutta la metafisica medievale sulla precellenza della vita contemplativa alla vita attiva non salverebbe dal ridicolo il Dante amoroso della Vita Nuova interpetrata alla lettera, cioè diversamente da quel che debba interpetrarsi un libro d'amore non pur del secolo XIII, ma altresì (e la Fiammetta equivale, sotto questo aspetto, alla Vita Nuova[215] ) del XIV.

Ma v'ha di più. Io ho poc'anzi accennato, e vediamo ora quanto preziosamente faccia al caso ed assunto nostri, quel collegamento che una sola volta, com'ebbi a dire, ma una volta è pur fatto, in una pagina della Vita Nuova, tra le idealità amorose e la realtà della vita civile di Dante.

In tale interpetrazione, dopo averne diversamente opinato e dubbiato,[216] mi fermo oramai di quel passo dove il Poeta accenna ad una sua cavalcata da Firenze, lungo un fiume, fatta in compagnia di molti, ma di mala voglia pel «dilungarsi da la sua beatitudine» verso un luogo di non grande lontananza, e, pare, essendo egli su' venti anni, cioè nel 1285. «Mi convenne» egli dice[217] «partire de la sopradetta cittade,» ( gli convenne: andata, dunque, doverosa ed imposta) «ed ire verso quelle parti» ( nelle parti di Valdarno, di Casentino, di Romagna, di Lombardia, era la frase usuale e costante a designare andate o militari o politiche di cittadini in servigio del Comune[218] ) «verso quelle parti», prosegue, dove trovavasi una gentildonna fiorentina, alla quale altresì era, come ha scritto poco innanzi,[219] «convenuto partirsi de la sopradetta cittade», ma per luogo assai più lontano, e donde non sarebbe tornata per un pezzo: Dante invece mostra di porre a breve distanza di tempo la propria «ritornata»;[220] parola, anche questa, della quale, come del suo correlativo «andata», l'uso militare è negli antichi frequente.[221] Io non dubito che, spogliando del solito adombramento i fatti che in questi due luoghi si accennano, i fatti sian questi. Una gentildonna fiorentina è stata condotta dal proprio marito in una delle città d'Italia, più facilmente in una città guelfa: potevano essere Perugia, Orvieto, Bologna, Lucca, Genova, od altra alla quale meglio si adatti la designazione, che è nel testo, «paese molto lontano» da Firenze. Invero non sempre la donna di que' mercatanti «era per Francia nel letto deserta»;[222] talora ella seguiva in que' venturosi commerci il marito: oppure, come qui crederei più probabile, alcuna volta, e fosse pur raramente, «menava seco la donna»[223] il cittadino che, con licenza del proprio Comune, andava Potestà o Capitano di alcun'altra città,[224] per trattenervisi almeno un semestre, e spesse volte un anno, e dunque per «non rivenire a gran tempi» (cioè per lungo spazio di tempo, per un pezzo), come della gentildonna scrive, a confronto dell'andata propria in quella cavalcata, il Poeta. Verso quella stessa città, ma per fermarsi ad assai minor distanza da Firenze, è diretta la cavalcata, della quale «è convenuto» far parte a Dante; il quale, pochi capitoli appresso,[225] è da osservare che assai men determinate parole appropria ad altro suo, com'ei dice, «passare per un cammino», fuori della città, «lungo il quale correva un rivo chiaro molto»: e questa può essere una semplice passeggiata a diporto, o per cagion di poco rilievo e tutta personale. Là invece si tratta di una vera e propria «cavalcata»:[226] la quale se, come dalla cronologia della Vita Nuova par che resulti, fosse da riferire al 1285, avviciniamo un poco il testo dantesco ai documenti, ossia ai Consigli fiorentini del 1285 (e si noti che, come di quell'anno, così potremmo ai Consigli di altri anni), e al documento chiediamo la interpetrazione del testo dantesco.

«Questo è il modo di fare la oste pel Comune di Firenze contro i Pisani, trovato per li mercatanti fiorentini per lo migliore e più utile stato e comodo della città di Firenze e degli artefici e delle Arti, e di tutta la Mercatanzia, della sopradetta cittade di Firenze». E il modo era questo: chiudersi le botteghe; sonare a martello la campana del Comune; cittadini e contadini fornirsi per l'oste; scriversi liste, ciascuna di cinquanta nomi, dai quindici ai settant'anni, e di essi l'una parte andare in oste, l'altra, ma pagando, rimanere a custodia della città: in sulla metà del mese (era il giugno) il Potestà, e in sua compagnia cavalcheranno dugento cavalieri cittadini fiorentini, moverà le insegne per andare in terra di nimici. I duecento cavalieri menavano seco ciascuno un compagno bene armato e con cavallo coperto.

Ora, che in quelle liste delle cinquantine, come in altre simili di cotesti anni,[227] dovess'essere il nome del ventenne Alighieri, è certo: che alla custodia della città si ritenessero i più teneri e i più gravi di anni, e che i gagliardi dai venti ai cinquanta fossero prescelti a cavalcare contro il nemico, dovrà altrettanto sembrar ragionevole. Dunque la interpetrazione di quel capitolo sarebbe già fatta..., se non dovessimo avvertire che quella oste contro i Pisani nell'85 non ebbe poi effetto altramente, essendo, a quel che pare, prevalse le pratiche ed istanze del Papa perchè così andasse a finire.[228] Ma ciò, prima di tutto, non infirma la convenienza che abbiamo rilevata fra le circostanze e locuzioni del testo dantesco e i particolari determinati e le forme adoperate nel documento militare: cosicchè sta sempre che quelle si adattano benissimo ad una spedizione militare fiorentina, quandochessia e per dovecchessia avvenuta; nè la cronologia della Vita Nuova è ancora, se pur potrà esserlo mai, così tassativamente fermata, che non sia lecito riferire quel capitolo ad altro anno che all'85. In secondo luogo, poi, anche non avendo avuto effetto nell'85 una vera e propria oste del Comune contro i Pisani, tale da lasciar traccia di sè nella storia come fu per quelle di pochi anni appresso,[229] rimane tuttavia la possibilità d'una semplice fazione, od anche semplice cavalcata, delle tante che di certo sono sfuggite a qualsiasi menzione di storico, a qualunque testimonianza di documento; cavalcata di militi cittadini verso il Valdarno pisano in quella medesima estate. Anzi alcuni di que' documenti del giugno 1285, ai quali io attingo, contengono questa proposta: che all'oste generale contro Pisa si sostituisca «un'andata particolare di cavalieri e pedoni», «i meno che si possa»; tanto per non mancare agli obblighi della Taglia Guelfa, pur dando sodisfazione alle interposizioni del Papa; e quest'altra ancora, che l'andata sia libera, «senza che alcuno sia costretto», ma si bandisca che «chi vuole andare si faccia scrivere». E nulla impedisce di credere, che questa o qualche consimil proposta non abbia infine, dopo tutto quel dibattere di più settimane, avuto, senza troppo strepito, che non si cercava, il proprio effetto.

Del resto, spedizioni fiorentine contro questo o quel Comune, o in aiuto di questo o quell'altro contro altri, non facevano pur troppo difetto: e sul cadere di cotesto medesimo anno 1285, dopo consultar lungo e vario, cinquanta cavalieri, «buoni e gentili uomini della città», ciascuno con «un compagno e due cavalli armigeri», erano effettivamente «in oste pel Comune di Firenze» in soccorso de' Senesi contro gli Aretini per una guerricciuola intorno ad un forte castello di loro frontiera, Poggio Santa Cecilia. Aiuti fiorentini (di genti a soldo, o delle vicaríe del contado, o di cittadini) erano inviati per le parti del Valdarno di sopra, da Montevarchi; altri dal vicariato del Chianti. I cittadini, designati Sesto per Sesto a tale servizio, erano costretti ad andare: cogantur ire: tal e quale il dantesco «mi convenne partire, ed ire....». Dall'oste guelfa scriveva messer Corso Donati al Comune, «sperando del tutto battaglia». La guerricciuola e l'assedio finirono in aprile con la vittoria de' Guelfi.

Ma o pisana o aretina, la spedizione guelfa per la quale a Dante «sia convenuto partire de la sua cittade» ed «ire verso queste o quelle parti», sia scendendo sia risalendo il corso del suo Arno; o in quell'anno 85, vuoi nell'estate vuoi nell'inverno, ovvero in altro anno; cotesta, insomma, qualsiasi spedizione ha qui per noi un'importanza del tutto secondaria; questo invece importandoci, che se paragoniamo il contenuto e la forma di quel capitolo al fatto reale che in esso è adombrato, noi intenderemo tanto bene, quanto forse su nessun altro punto della Vita Nuova potremmo, in quali termini Dante, scrivendola, si collocasse fra la realtà storica e le idealità o misticità, che dir si vogliano, dell'amor suo.

Paragoniamo. Ecco il fatto. Le cavallate fiorentine procedono lungo il corso dell'Arno, al loro cammino: Dante è co' suoi compagni d'arme, giovane tra giovani, nella baldanza de' suoi vent'anni, e del suo sentimento di guelfo magnate che presta al Comune la spada degli Alighieri, esercitata già onoratamente in Montaperti da' suoi maggiori, morti appiè del Carroccio. Dinanzi son date al vento le bandiere di questo Comune glorioso; e il Giglio vermiglio, e la Croce del Popolo, e in lettere d'oro il dolce nome Libertas, annunziano Firenze. — Ed ecco il racconto della Vita Nuova. A Dante è «convenuto partire de la cittade, ed ire verso quelle parti, ecc.». La cagione del partirsi, la qualità e forma dell'andata; le condizioni della città, ne' cui Consigli noi oggi, leggendone gli atti, crediamo di rivivere; tutto, in questo racconto, sparisce. «Avvenne cosa per la quale mi convenne partire»: quella cosa è la guerra guelfa; è la lega di Firenze, Genova e Lucca contro l'odiata emula ghibellina; è Porto Pisano, le cui catene saranno spezzate e trascinate come spoglia di guerra; è l'ambizione d'Ugolino della Gherardesca, la cui atroce fine sarà immortale nella poesia di questo giovane milite, che oggi cavalca pensando rime d'amore. Oppure: è, verso altra parte di Toscana e contro altro nemico, pur sempre la guerra guelfa. Arezzo e Siena rimuginano, anch'esse alla lor volta, i maligni umori cittadini: ghibellina Arezzo col suo Vescovo battagliero, ma guelfi i suoi fuorusciti e gli aderenti loro in città, vanamente aspiranti a un governo popolare sullo stampo di quello fondato in Firenze: Siena, voltabile d'anno in anno, guelfa ora con Firenze: son corsi appena venticinque anni da Montaperti; e fra soli altri quattro sarà Campaldino. Ma nel racconto che abbiamo dinanzi, queste realtà solenni e tragiche svaniscono, e sottentrano ad esse i fantasmi ideali del romanzo d'un'anima. Dante «è a la compagnia di molti»: i suoi compagni perdono ogni personalità individua; sono i «molti», e basta: le cavallate cittadine, i cavalieri gentili uomini, co' loro compagni e i cavalli coverti, sono una «compagnia» non specificata: Dante non è solo; nient'altro. Anzi, anche questo è troppo: non è solo, «quanto a la vista», esteriormente, in apparenza; ma nel segreto dell'anima sua egli è solo, solissimo, perchè sola sua, sola degna, compagnia sono i suoi pensieri d'amore. Il paradosso del maggiore Affricano, — quand'io non fo nulla, è quando fo di più; mai non mi trovo men solo, che quando son solo,[230] — si adatta, con singolare vicenda, non più ai romani pensamenti del vincitore d'Annibale, ma alla medievale psicologia dei trasognati servi di Amore. E tale invero Dante descrive in quella cavalcata sè stesso: «Tutto ch'io fossi a la compagnia di molti quanto a la vista, l'andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l'angoscia che il cuor sentìa, però ch'io mi dilungava da la mia beatitudine». Ma potete voi credergli? Vi riesce uno di quei fieri uomini del Dugento, sotto le bandiere del suo Comune, figurarvelo, storicamente, così? — Era poeta. — Sì: ma poeta, che il giglio della sua Firenze cantò non dover mai essere per man di nemici «posto a ritroso»; il poeta che allo stemma delle grandi famiglie assegna come il fregio più bello l'essere stato portato nelle imprese della patria; «.... e le palle dell'oro Fiorian Fiorenza in tutti i suoi gran fatti»; il poeta che nella ghiacciaia infernale, sul traditore della bandiera, Bocca degli Abati, inveisce ferocemente non pur con le parole, ma e con le mani e co' piedi.[231] Questo il poeta vero, e nel poeta l'uomo. Nella Vita Nuova, dove (a rovescio) l'uomo è il rimatore, sull'ordito dei fatti reali è intessuta la fittizia prammatica dell'amore per rima, son ricamate le gracili malinconiose imagini di essa; e se n'ha un libro il cui fondo è reale, ma il colorito, le figure, l'azione, sono interamente fantastici.

Tanto fantastico, quindi, quel Dante sospiroso fra i cavalieri di cavallata, quanto il personaggio che, invisibile a tutti fuori che a lui, si aggiunge alla comitiva, e chiama il Poeta, e gli favella e lo istruisce di schermi e infingimenti amorosi, e gl'ispira un sonetto. Il personaggio è Amore, il quale, vestito con poveri panni di pellegrino, viene da quella più lontana città dov'è ita la gentildonna. Egli è sbigottito, con gli occhi a terra, un poco sogguardando le acque lucenti dell'Arno. Non però che l'Arno sia nominato altramente che siccome «uno fiume bello, corrente e chiarissimo, il quale sen gìa lungo questo cammino là ove io era», per il solito scrupoloso e perifrastico astrarre dalla storica realtà. Come della mescolanza di essa coi fantasmi psicologici segno caratteristico è ciò; che questa d'Amore sia chiamata apparizione («ne la mia imaginazione apparve.... disparve questa mia imaginazione»); anzi la stessa figura dell'iddio pellegrino finisca col diventare un mero sentimento del Poeta;[232] ma ciò non toglie, che sin che è figura ella sia rappresentata riguardosa della gente con la quale il Poeta è accompagnato: «E sospirando pensoso venìa, Per non veder la gente, a capo chino». Sparito ch'egli è, Dante seguita a cavalcare e a sospirare: «e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno, pensoso ed accompagnato da molti sospiri». E noi con quelli lo lasceremo oramai.

IV.

Ma dopo esser venuti alle conchiusioni che volevamo, e che abbiamo già enunciate dicendo essere la Vita Nuova un libro, il cui colorito, le figure, l'azione, e di questa gli accidenti e le vicende, sono fantastici, ma il fondo è reale. Reale ne' fatti e nelle circostanze della vita quotidiana, ai quali figure e azione e tutto quell'amore per rima si collegano; reale nei personaggi. Reale in lui, Dante Alighieri, e in Beatrice: nelle due gentildonne dello schermo o difesa,[233] siano esse questa cosa solamente, o altresì due giovanili passioncelle del rimatore: realtà i mortorî dell'amica e del padre di Beatrice;[234] e l'amicizia del fratello di questa con Dante,[235] nè più nè meno che l'amicizia di Dante con colui al quale la Vita Nuova è diretta, e che Dante stesso, pur tacendo quello come qualunqu'altro nome, ha indubitabilmente identificato in Guido Cavalcanti:[236] vere e vive donne della città di Firenze, le donne che aveva enumerate nel serventese delle belle,[237] fantasticamente poi e in vario modo operanti nella psicologia del racconto: realtà la donna gentile vicina di casa degli Alighieri, e amore episodiaco del fedele di Beatrice:[238] realtà i romei che passano da Firenze:[239] realtà la ispirazione del Poema, indeterminatamente concepita in una celeste glorificazione di Beatrice,[240] la cui persona di donna viva e vera, come le altre, e fiorentina, astratta dapprima (pel solito procedimento de' rimatori) in donna ideale, è poi, questa volta, trasfigurata e sollevata alla sublimità luminosa di simbolo per opera di un grande Poeta, il quale, quando avrà determinato e fatto scienziale quel primigenio concepimento, «dirà di lei ciò che mai non fu detto d'alcuna».

Dinanzi a queste conchiusioni, che c'impongono la realtà storica di Beatrice, si ha l'affermazione del Boccaccio, ch'ella fosse de' Portinari, e figliuola di Folco. Quale autorità può concedersi alla sua affermazione? Distinguiamo. Altro è dire che il Trattatello di messer Giovanni amplifica e lumeggia retoricamente, come abbiamo veduto, od anche inventa, le circostanze dei fatti per creare intorno ad essi il colorito descrittivo; altro è dire, che quand'egli afferma una cosa, quella cosa non gli si debba credere. La retorica qui non entra per nulla; il colorito locale o personale, nemmeno. C'entra invece, ed è da considerarsi, che un cittadino fiorentino, il quale afferma, non più tardi del 1363 o 64,[241] questa ed altre cose di fatto; e questa la concreta in un cognome di famiglia fiorente allora e notissima, indicandone una donna di cui vivono in Firenze, per lo meno, i nipoti di fratello o sorella, e che i vecchioni della città potrebbero riconoscere come Dante Ciacco, perchè «fatti prima che essa disfatta»; non può questo cittadino tirare in ballo piuttosto quel cognome e quella donna, che un altro ed un'altra, se la verità non fosse che proprio Bice Portinari fu la Beatrice dantesca, e che ciò egli scrive davvero, come esplicitamente dichiarò pochi anni dipoi nel Comento,[242] «secondo la relazione di fededegna persona, la quale la conobbe e fu per consanguinità strettissima a lei». Quella persona, quel Portinari, noi oggi non potremmo che cercarlo per indovinamento lungo le aride rubriche de' Sepoltuarî, o tra il frondame delle tavole genealogiche: ma i contemporanei di messer Giovanni non avevano che a guardarsi attorno, per dimandare quale fosse dei Portinari a quei dì; e se non fosse stato nessuno, e insussistente la notizia data sulla sua fede, — Che frottole ci venite voi a contare? — avrebber detto a messer Giovanni, che qui in Santo Stefano di Badia esponeva loro di viva voce «el Dante»;[243] lo esponeva per solenne provvisione decretata ne' Consigli del Comune, facendo larga parte alle memorie cittadine: fra le quali sarebbe stata peggio che stoltezza piantare, così a capriccio e senza che nulla vel costringesse, non un abbellimento retorico, non un'amplificazione esornativa, ma una falsità; non un fiore de' suoi lussureggianti giardini, ma un'insipida carota dell'orto altrui.

Non è, del resto, solamente una piccola giunta ch'io faccio alla biografia del gran Certaldese, ma altresì una notizia non disutile al nostro tema, questa: che nel banco dei Bardi,[244] fra i tanti interessati come «fattori» all'azienda, fu, dal 1336 al 1338, «Boccaccio Ghellini [Chellini] da Certaldo»: e fattori pure dei Bardi, e cointeressati, furono Portinari parecchi, della discendenza e consorteria di Folco; un Andrea, un Ricovero di Folchetto, un Sangallo di Grifo, un Lorenzo di Stagio, un Ubertino di Gherardo di Folco che stava pei Bardi a Parigi e colà mori nel 1339: nipote, quest'ultimo, di Beatrice Portinari. Non mancarono, come si vede, al figliuol di Boccaccio occasioni di aver ragguagli domestici concernenti sia Bardi sia Portinari: e da un parente strettissimo della Beatrice dantesca, dichiara egli aver avuta la identificazione di lei in Beatrice Portinari, che poi il testamento di Folco ci fa tutt'una con quella madonna Bice, al cui fiorentinesco vezzeggiativo lo stesso Alighieri non rifuggì dal render testimonianza[245] fra gli splendori delle sfere celesti, e pur significando «la reverenza che s'indonna Di tutto me pur per B e per ice ».

Egli è noto che un'altra testimonianza, e di grande peso, del tutto indipendente dalla testimonianza del Boccaccio, e che anzi le è anteriore di qualche anno, si è aggiunta recentemente a confermare l'identità della Beatrice dantesca nella figliuola di Folco. Un leale impugnatore di tale identità, Adolfo Bartoli, annunziò egli pel primo pubblicamente, al più strenuo difensore di essa, Alessandro D'Ancona, la osservazione d'un valente discepolo e benemerito degli studî danteschi, di quelli in particolare sugli antichi Commenti, il quale nel Commento di Pietro Alighieri, secondo la nuova lezione che ce ne offre un autorevolissimo codice tornato fra gli Ashburnhamiani in Italia, leggeva[246] quanto appresso (traduco fedelmente da quel piano latino): «È da premettere che in fatto certa nominata madonna Beatrice, molto insigne per costumi e bellezza, nel tempo dell'autore fu nella città di Firenze, nata della casa di certi cittadini fiorentini che si dicono i Portinari; della quale questo autore Dante fu, mentre ch'ella visse, vagheggiatore ed amatore, e in laude sua molte canzoni compose; e poi che fu morta, per celebrare il nome di lei, sì volle in questo suo poema assumerla le più volte sotto l'allegoria e carattere della Teologia». Così là in Verona, dove viveva giudice riputatissimo, scriveva verso il 1360 il figliuolo di Dante. Il cui autentico testimonio (del tutto indipendente, giova ripeterlo, da quello di messere Giovanni) ci riconduce esso pure a colei che Folco Portinari nel testamento del 1288 designava, «madonna Bice, figliuola sua, e moglie di messer Simone de' Bardi».

Quel testamento ha forse il torto d'essersi fatto conoscere troppo presto, e che fino dal 1759 lo abbia pubblicato di sull'original pergamena, illustrando le Chiese fiorentine, il gesuita Giuseppe Richa.[247] Se alle più o men legittime suspicioni su Beatrice i dantisti, dal Biscioni a oggi, avessero avuto per solo argomento e pascolo l'affermazione del Boccaccio, echeggiata dai posteriori biografi; e che da nessun angolo storico, vuoi di sepolcreto vuoi di penetrale domestico, fosse stato ripercosso quel suono, a parola autentica e positiva di documento; io giuro che non sarebbe mancato, fra gl'impugnatori, chi avesse detto: — Noi crederemo al Boccaccio, e agli assertori dell'asserito da lui, la lor Beatrice Portinari, quando avremo un documento dell'esistenza di questa donna! — E allora, pognamo caso che in quest'anno di grazia, e (se a Dio piace, e perchè in Italia non se ne perda l'usanza) di centenario, fossi oggi venuto io con la mia brava pergamena in saccoccia, e al mio fianco l'ombra di quel buon sere che la distese; e avessi annunziato: — Eccolo qua il sospirato o temuto documento, o signori; e voi, ser Tedaldo Rustichelli per autorità imperiale giudice e notaro, tornando dopo anni più che seicento alla vostra professione onorata, rogatevi qui dinanzi a noi e certificate, che madonna Beatrice Portinari a suo tempo, et quidem al vostro, veracemente fu donna, — se tutto questo io lo avessi potuto far accadere; il documento, tale e quale lo abbiamo, ma venuto a tempo, salirebbe, come un valor di borsa in rialzo, di non saprei quanti punti; e la mia critica per man di notaio, non sarei io stesso degli ultimi a portarmela in palma di mano.

V.

Invece al sesto centenario della donna che, secondo il racconto della Vita Nuova,[248] muore nel giugno del 1290, — cioè in piena misticità novenaria, perchè nella nona diecina del secolo, nel nono giorno del mese pel calendario arabico, e mese nono pel calendario siriaco, — io non posso recar altro di nuovo, se non alcune osservazioni di fatto sullo stato coniugale di madonna Beatrice figliuola di Folco Portinari e moglie di messer Simone de' Bardi; le quali spero non siano senza valore per confermare l'identità di essa con la Beatrice dantesca.

Del marito di Beatrice i dantisti, che se lo sono, in certo modo, trovato lungo la strada, dicono[249] che egli nel 1290, durante la guerra guelfa contro Arezzo, era consigliere del Comune presso messere Amerigo di Nerbona condottiero della Taglia in nome del re Carlo d'Angiò; che nel giugno del 1301, partecipava, mediante certe mene guerresche coi conti Guidi, a un tentativo dei Neri per sormontare, come poco dopo venne lor fatto, sui Bianchi, e ne veniva condannato; e che nell'ottobre del 1302, compiutasi la vittoria de' Neri, era ufficiale del Comune sulle libre e prestanze. Vere le due prime cose, e ben rispondenti alla qualità di magnate e cavaliere: non sussistente la terza, perchè quello era ufficio di popolano. Se a ciò avessi ripensato, avrei interpretato più dirittamente il documento, sul quale fui io il primo ad attribuire cotesto ufficio popolare a messere Simone.[250]

In altri documenti, i quali aspettano uno studio degno della loro importanza, libri mercantili de' Bardi, che la cortesia del marchese Carlo Ginori mi ha concesso di esaminare, le mie ricerche, diciam così, coniugali mi condussero per primo resultato alla scoperta sotto l'anno 1310 d'una nidiata di almen cinque figliuoli: «Puccino, Masino e Gieri fratelli, figliuoli che fuoro di Simone di messer Iacopo [de' Bardi], manovaldi di Vannozzo e di Perozzo loro fratelli». Altro che «la steril Beatrice»! dovetti, a prima giunta, col divulgato settenario carducciano,[251] esclamare: e stavo per comunicare al poeta ed amico la prosperosa novella; se non che, seguitando a sfogliare quelle spaziose e crepitanti membrane, ebbi a dire, «non dopo molte carte», Adagio a' ma' passi!

In una ricordanza, di bella forma volgare, quale corre di pagina in pagina per tutti quei voluminosi registri, risguardante una madonna Nente di messer Nepo dei Bardi, enumerandosi sotto il medesimo anno 1310, quelli della famiglia e consorteria i quali, per testamento del padre di lei, dovranno «dicernere» di certi denari che possano spettarle, io leggevo: «Cino, Bartolo, Gualtieri e messer Lapo fratelli, figliuoli che fuoro di messer Iacopo; messer Nestagio di Bardo; messer Simone di Gieri; e Puccino di Simone ». Dunque, fra il XIII e il XIV secolo, i Bardi ebbero due Simoni, come da altri di quei documenti potei porre in sodo.[252] L'uno, Simone di messer Iacopo, fratello di quei Cino, Gualtieri, messer Lapo e Bartolo; uomo, cotesto Bartolo, di molta autorità nel popolo e in Parte Guelfa:[253] e questo Simone, ufficiale delle Prestanze nel 1302 e, possiamo aggiungere, stato de' Priori nell'87, e consigliere del Comune nel 78,[254] nel 1310 era morto, e negl'interessi di quella gigantesca ragione mercantile de' Bardi sono inscritti per lui i figliuoli suoi «Puccino e fratelli». L'altro, messer Simone di Geri, cavaliere, consigliere nell'oste guelfa presso Amerigo di Nerbona, partigiano donatesco, cioè de' Guelfi Neri, e per essi brigatore presso i conti Guidi, suoi molto intrinseci: e questo messere Simone di Geri, le cui memorie scendono, per quanto io veggo, sino al 1315, rimanendomene dubbia una del 1329,[255] è certamente il messer Simone de' Bardi ricordato nel testamento di Folco siccome marito di madonna Bice de' Portinari. Un Simone dunque, e un messer Simone: un Simone di messer Iacopo, e un messer Simone di Geri. Perchè il titolo di messere non era un titolo che si desse per complimento o non desse, a capriccio: non si dava a chi non fosse o giudice (cioè dottore in legge), o cavaliere, o costituito in dignità ecclesiastica; e così non lo ha, nè in quel testamento nè su' Prioristi nè altrove, Folco Portinari; non lo ebbe mai Guido di messer Cavalcante Cavalcanti; non lo ebbe Dante: si dava religiosamente a cui, per alcuna di dette ragioni, spettasse, e il titolo trasformava addirittura la persona agli occhi della gente. Scrive un cronista domestico:[256] «Castellano Frescobaldi, che poi fu messer Castellano»: e poco dipoi racconta, che «s'andò a fare cavaliere a Napoli per le mani del re Ruberto»; quello che faceva anche i poeti.

I cinque figliuoli, pertanto, di Simone (e per altre testimonianze[257] parrebbe non fossero i soli; come due, forse, le mogli sue, un'Acciaiuoli e una Gherardini) mi si accertavano per figliuoli di Simone di messer Iacopo, quello de' Priori nell'87 e delle Prestanze nel 1302, morto prima del 10: a messer Simone di Geri, veniva a mancar quella, nè altra testimonianza di prole da nessun altro documento gli sopraggiungeva: e madonna Beatrice ritornava «sterile».[258]

La figliuola adunque di Folco, la quale nel 1288, al testamento del padre, o non aveva avuto figliuoli o non le eran campati, non ne ebbe nemmeno, o non le camparono, fra quel gennaio 88 e il giugno 90 ch'ella morì. Nel giugno del 1290 morì? Questo afferma espressamente della sua Beatrice l'autore della Vita Nuova. Della Bice Portinari, sia pure che documenti non lo confermino; ma nemmeno ve n'ha che vi si oppongano, poichè l'unico che di lei parli, cioè il testamento paterno, la fa viva nel 1288, e moglie di messer Simone, il quale non apparisce aver avuto figliuoli: e tal mancamento di prole dal Bardi e dalla Portinari, è evidente quanto bene si addica alla donna, la cui morte, nella cronologia della Vita Nuova, è a distanza di soli due anni e mezzo da quel testamento. Certo è poi che nella Vita Nuova la morte di Beatrice è effettivamente la morte avvenuta in Firenze, d'una gentildonna fiorentina, in un dato giorno d'un mese dell'anno: data di giorno, mese ed anno, che l'Autore non foggia a capriccio, ma riceve dalla realtà dei fatti; e su questa realtà, che egli non può mutare, sottilizza e si dicervella per iscovare in ciascun elemento di quella triplice data il mistico numero nove, nel quale, in quel medesimo paragrafo, finisce con l'identificare addirittura «la donna della sua mente», conchiudendo ch'«ella era un nove, cioè un miracolo, la cui radice è solamente la mirabile Trinitade». Analizza su tre calendarii (su tre, radice del nove) la data dell'anno, e osserva che il 1290 si compone delle prime nove diecine dei cento anni del secolo; analizza la data del mese, e scuopre che il giugno, nel quale essa è morta, è il nono mese del calendario siriaco; analizza la data del giorno, e «secondo l'usanza d'Arabia» (com'è indubitabilmente l'autentica lezione di quel passo[259] ) trova sul calendario musulmano, essere il dì 9 del mese di Giumâdâ secondo, dell'anno dell'Egira 689, quel che nel calendario nostro fu il 19 di giugno 1290: la quale è, insomma, la data che l'Alighieri ci ha non inventato ma conservato, della morte di Beatrice.[260] Ora se Beatrice fosse stata soltanto «la donna della sua mente», ossia una qualunque delle tante cose che gl'impugnatori della realtà femminile di lei han voluto che fosse, chi impediva a Dante di farla morire sotto la data più squisitamente novennale novimensuale e novendiale del calendario nostro cristiano, senza che, per compicciare tal data, gli bisognasse trascinar a contributo Maometto e la Siria?

Moglie, Beatrice, nel 1288, da quando? Quando fu che la fanciulla abbellitrice, col suo sorriso, dei calendimaggio nel Sesto di Porta San Piero, passò nelle guernite case dei Bardi, fra le cupe mura di quei forti arnesi da guerra cittadinesca, là oltr'Arno «presso a Rubaconte»? Non lo sappiamo: ma io ebbi già ad accennare che quei parentadi li conciliava, e le più volte per tempissimo, l'interesse domestico e cittadino.[261] Erano due casate che si congiungevano, piuttostochè una fanciulla ed un giovine; erano interessi di vicinanza o di consorteria che si raffermavano, erano secolari e sanguinose discordie che si pacificavano, o si tentava di pacificare, coi matrimonî. Tale io credo questo di Bardi e Portinari, tale l'altro di Alighieri e Donati;[262] e che al tanto dissertare fattosi in questi ultimi anni su madonna Bice e madonna Gemma sia mancato, soprattutto, il senso storico di quella vita reale, e che nello stesso difetto cada la interpetrazione di certi passi della Vita Nuova, che si vorrebbero mettere in relazione col matrimonio di Beatrice o con quello di Dante. La Beatrice che Dante ritrae nella Vita Nuova «donna della sua mente» fin da quando nel 1274 gli apparisce fanciulletta sul nono anno, questa Beatrice, allorchè nove anni appresso, nell'83, si raffaccia agli occhi suoi, «mirabile donna.... in mezzo di due gentili donne, le quali erano di più lunga età», io non esito a crederla già maritata; e che ella sia già quella «monna Bice», alla cui condizione coniugale rendono testimonianza espressa, e da non doversi lasciar passare inosservata, due luoghi delle Rime;[263] «E monna Vanna e monna Bice poi», «Io vidi monna Vanna e monna Bice». Perocchè la qualificazione di monna o madonna era anch'essa, come già rilevammo per l'altra di messere, riserbata a una data condizione o stato civile, mancando il quale mancava altresì al nome proprio femminile l'apposizione suddetta.[264] Io son d'avviso che il matrimonio di Beatrice, come il matrimonio di Dante, siano l'uno e l'altro, e per le ragioni che sopra esposi a suo luogo, fatti assolutamente esteriori estranei e indifferenti al dramma tutto psicologico, all'amore per rima, della Vita Nuova. Vano quindi il cercare allusioni a cotesti due fatti in questo o quell'episodio del libro, come pur si è tentato massime per il matrimonio di Dante, che si voleva collegare con l'episodio della «donna gentile» e consolatrice, vicina a lui di casa, la quale interviene negli ultimi capitoli, e poi è di nuovo affigurata nel Convivio come simbolo della Filosofia. Donna vera e fiorentina anche quella, io ho per fermo; sebbene ormai impossibile forse ad essere storicamente riconosciuta,[265] ma non la Donati di certo, non la madre (fin d'allora forse, già madre) de' figliuoli di lui. Perchè, insomma, nella Vita Nuova è ben da distinguere storia e psicologia. Alla narrazione psicologica, la quale si compone di fatti atteggiati secondo la scolastica dell'amor medievale, e prescindendo dalla realtà, e quindi anche dalla verità, appartengono non solamente le visioni, i sogni, lo interloquire degli spiriti e spiritelli amorosi, ma altresì e in pari modo le iperboliche descrizioni degli effetti che la vista di Beatrice produce sul Poeta e sugli altri, le sue proprie (com'e' le chiama) trasfigurazioni o tramortimenti, e intorno a sè in quello stato l'atteggiamento delle donne gentili e pietose, o motteggiatrici e beffarde, le questioni di casistica o dommatica amorosa qua e là interposte, la desolazione de' cittadini e la epistola deploratoria per la morte di lei.[266] Quando s'impugna la possibilità storica di coteste e simili altre cose, io credo che la s'impugni a buon diritto, sia rispetto alle condizioni dell'umana natura in sè stessa, sia, e più, rispetto a quel ch'ella era nella Firenze di quei tempi; ma non già che se ne debba concludere, tutta la Vita Nuova essere deficiente di storica verità, e Beatrice non essere donna viva e reale. Si dica, sì, che in quel libretto, il quale per la sua singolarità si sottrae alle norme della comune esegesi, ben poco è di storico: ma quel poco non si può, senza ingiuria, distruggere. Nè io intendo qui enumerarlo compiutamente, ma soltanto accennare, per esempio,[267] la morte dell'amica di Beatrice, la partenza da Firenze della gentildonna del primo schermo o difesa, la cavalcata per la guerra guelfa, l'assistenza che essendo Dante infermo gli presta (quale sembra che sia) la sorella, l'amicizia con Guido Cavalcanti e col fratello di Beatrice, probabilmente Manetto; e poi,[268] rispetto a Beatrice, le positive indicazioni dell'età di nove e diciotto anni, la data della morte fermata sui tre calendari, la morte del padre. La data che nella cronologia della Vita Nuova viene ad avere questo ultimo avvenimento, collima con la data della morte di Folco Portinari, 31 dicembre 1289: ma ciò non è tutto, anzi è meno assai di quest'altro. Del padre di Beatrice scrive Dante che «egli, sì come da molti si crede e vero è, fu buono in alto grado». Ora io non so, queste parole nella semplicità loro così belle ed espressive, — e che non siano più esplicite e personali, lo impedisce l'astrattezza perifrastica impostasi come dicemmo, dall'Autore, — queste parole, nelle quali la verità dei fatti e la pubblica opinione sono concordate in un reverente omaggio ad un'anima buona, e la lode del bene operare vi è così schiettamente significata; non so su quale tomba più degnamente potrebbero scriversi che su quella dell'uomo, la cui bontà si è tramandata a' suoi cittadini in un'opera di carità perenne e inesausta quanto la miseria umana e il dolore; dell'uomo, di cui fu potuto dire doversi a lui lo Spedale, come a Beatrice sua figliuola il Poema.[269]

Il riprendere lo studio di tutta la Vita Nuova sotto questo doppio aspetto, psicologico (o se più atto vocabolo si trovi) e storico, eccede l'assunto e i confini e l'agio di queste mie pagine; e mi terrei pago che altri se ne incorasse. Con ciò si verrebbe altresì, da un lato, ad alleggerire la biografia del Poeta di tutto quanto, in quel giovanile periodo, non appartenga ai fatti della vita reale, e dall'altro a ridurre al loro valore le affermazioni che di sul Boccaccio furono ripetute tradizionalmente. Una delle quali è, che il matrimonio di Dante con la Gemma di messer Manetto Donati (del matrimonio di Beatrice non si cura egli far menzione veruna) fosse dai parenti di lui procurato per consolarlo della morte di Beatrice. Questo è confondere que' due ordini di cose, separati del tutto e l'uno dall'altro indipendente.[270] Rispetto a quel che ne sappiamo, come pure rispetto alla psicologia della Vita Nuova il matrimonio di Dante potrebbe anche antecedere alla morte di Beatrice. A ciò qualche altra cosa, invece, si oppone: e prima di tutto, l'affermazione del Boccaccio; secondochè ad altro proposito distinguemmo, non potersi le sue affermazioni di fatti venir rifiutate alla stregua delle sue amplificazioni descrittive di quelli. Poi, certi documenti, alquanto a dir vero spiacevoli, ma positivi se altri mai, della vita mondana di Dante, cioè i Sonetti appartenenti alla Tenzone con Forese Donati,[271] e a que' loro anni di vita scapestrata ai quali egli allude nell'incontrare il pentito sposo della buona Nella fra gli espianti del sesto balzo.[272] Se quel sensuale obliamento di sè medesimo va posto tra le aberrazioni delle quali egli poi nel XXX e XXXI del Purgatorio si accusa a Beatrice d'essersi reso colpevole dopo la morte di lei, que' Sonetti vengono ad esser posteriori al giugno del 90: ora in essi, che sono, com'è noto, un palleggio d'ingiurie fra i due sonettieri, mentre non mancano le mordaci allusioni di Dante alle infedeltà coniugali di Forese, queste non sono da Forese, come invece sono le altre, ribattute a martello in faccia dell'avversario; anzi da uno di que' Sonetti[273] può arguirsi piuttosto la convivenza di Dante con un fratello ed una sorella. Se non che questa stessa condizione di cose, mentre confermerebbe nel Boccaccio la data matrimoniale posteriore al 90, ossia l'affermazione del fatto, infirmerebbe, al solito, l'amplificazione retorica del fatto stesso, in quanto quel suo Dante lacrimoso e desolato, e confortato dai parenti alle dolcezze e alla santità della compagnia coniugale, apparirebbe, in realtà, sviato dietro ad altre, alquanto diverse, compagnie e consolazioni.

Insomma il matrimonio di Dante, sia che si dovesse o volesse crederlo anteriore al 1290, o, sulla fede del Boccaccio, debba aversi siccome avvenuto poco di poi, nulla ha che lo colleghi con la morte di Beatrice, con quella che Dante già nemmen denomina morte, ma un «essere chiamata a gloriare sotto la 'nsegna di quella reina benedetta Maria»;[274] nè sa attribuirla a cagione fisica morbosa, «Non la ci tolse qualità di gelo Nè di calor, sì come l'altre face»,[275] precisamente all'opposto del Boccaccio, il quale al racconto di essa morte proemia con una specie di aforismo ippocratico, che «un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo (lasciando stare gli altri accidenti infiniti e possibili), da essere a non essere senza difficoltà ci conduce», e così pianamente fa morire «nel fine del suo vigesimoquarto anno» anche «la bellissima Beatrice». Seguono nel Trattatello,[276] letteralmente interpretati e descritti, i pianti, i sospiri, le disperazioni della Vita Nuova, con più quello che la Vita Nuova non ha. Ciò sono, le consolazioni dei parenti, che dopo lungo resistere Dante finalmente ascolta: allora, perchè «non solamente de' dolori il traessino, ma il recassero in allegrezza», succede il loro «ragionare insieme di dargli moglie; acciocchè, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fusse la novamente acquistata. E trovata una giovane, quale alla sua condizione era dicevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E acciocchè io particolarmente non tocchi ciascuna cosa, dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento segui l'effetto: e fu sposato». E qui, conchiusione a dir vero che non ci aspetteremmo, una fierissima tirata contro il voler dare moglie agli uomini di studio, i quali quel censore rigidissimo scomunicava (come vedemmo[277] ) anche dall'amore; e sul capo della povera madonna Gemma (manco male ch'e' non la nomina), lanciata quella retorica sentenza di moglie, per lo meno, incomoda, che nulla di quel poco, pur troppo, che sappiamo della Vita di Dante, concorre a giustificare.

VI.

Di consolazioni a Dante nella morte di Beatrice rimane documento molto invero diverso da quelli che porterebbe il racconto del novellatore biografo. La consolazione è d'un poeta al poeta, di amatore ad amatore; con imagini gentilmente intrecciate a quelle delle rime amorose di Dante; trasportata l'azione dalla terra al cielo; attori, pur da una di quelle rime,[278] due personaggi fantastici, la Pietà e l'Amore. Il consolatore, l'amico, il poeta, è messer Cino da Pistoia. La cui Canzone a Dante per la morte di Beatrice, falsamente, e a cagione d'un materiale equivoco, attribuita da alcuni al Guinicelli, tornò a luce in questi giorni, emendata sui manoscritti, ornata di antichi caratteri e di miniature, offerta dalle gentildonne fiorentine alla prima gentildonna d'Italia.[279] Il nome augusto della nostra graziosa Regina fregia degnamente questo documento poetico, nel quale le ragioni della storia e della idealità amicamente si consertano.

L'«amoroso messer Cino»,[280] il poeta che divise con Guido Cavalcanti e col fratello di Beatrice i più caldi sentimenti d'amicizia nel cuore di Dante, si scusa con lui di non essersi prima d'ora rivolto a quei due benigni iddii, la Pietà e l'Amore, che vengano a confortarlo. Pensa tuttavia che egli è sempre nel lutto del cuore e dell'anima, per l'andata in cielo di quella veramente beata gioia, come il nome stesso diceva. Desidera rivederlo; nè sa quando. Intanto, finchè dura il suo lutto, giungeranno sempre opportuni i conforti. E così, a dettatura d'Amore, — Voi avete torto — lo ammonisce — ad accorarvi che dalla miseria di questa vita Beatrice sia volata alla compiuta gioia del cielo. Voi stesso avevate cantato che un Angelo l'aveva chiesta a Dio, come la sola cosa bella che mancasse al paradiso: ed ora ella è lassù, fra i Santi e le Virtù celesti, dinanzi alla suprema Salute, alla Divinità. L'oggetto dell'amor vostro, quello nel quale la mente e l'intelletto vostro si fissavano, ora lo avete nel regno celeste: e i vostri spiriti affettivi Amore li indirizza lassù. Perchè dunque dolervi? Confortatevi, rallegratevi nel cuore e nell'aspetto; perchè, sebbene collocata da Dio in paradiso, ella è pur sempre con Voi. Ai conforti che Amore vi porge, si aggiungono quelli della Pietà, la quale vi scongiura che cessiate di piangere. Ascoltatela, deponete il vostro lutto; pensate che il dolor disperato priva l'anima della grazia di Dio; e che in tal modo Voi sareste crudele verso l'anima vostra, e verso la speranza che questa ha di rivedere un giorno Beatrice nel paradiso e riposare nelle braccia di lei. Dunque vi piaccia accogliere speranza di conforto. E già fin d'ora Voi potete fissar gli occhi nell'eterna beatitudine, dove dimora la vostra donna che fra i beati è coronata: così la speranza vostra è in paradiso, l'innamoramento vostro è santificato, contemplando l'anima di Beatrice fatta celeste! Or com'è che il cuor vostro non si dà pace, avendo pure in sè medesimo dipinte quelle beate sembianze? Beatrice è colassù la medesima meraviglia che era nel mondo, anzi maggiore, perchè ivi è dalle intelligenze celesti conosciuta compiutamente. E con quanta festa l'abbiano gli angeli ricevuta, Voi medesimo, i cui spiriti fanno spesso quel viaggio, lo avete riferito nelle vostre rime. Essa, parlando di Voi con gli spiriti beati, ricorda le lodi di che l'avete onorata in vita; e prega il Signore, che vi conforti, come ormai Voi stesso dovete desiderare.

Dante non dimenticò la Canzone di messer Cino: e fra le citate dell'amico suo pistoiese nel libro di Volgare Eloquenza, è, col primo suo verso, anche questa.[281] Le allusioni che essa sparsamente contiene alle rime dell'Alighieri, possono più specialmente riscontrarsi nella prima, nella seconda e nella ultima fra le Canzoni della Vita Nuova.[282] Nè questo confronto può farsi senza pensare altresì, che anche sulla tomba di Dante, e già prima su quella del loro imperatore, dell'«alto Arrigo», la voce del fedele amico e compagno di parte recò il tributo della poesia toscana.[283] Di Arrigo rapito (così egli dolorosamente) «alle speranze degli esuli», cantò che aveva raggiunto nel cielo la virtuosa sua moglie, Margherita di Brabante, morta anch'essa in quella infelice spedizione italica. Per Dante, pregò Dio che «lo ricoverasse nel grembo di Beatrice», e imprecò all'«iniqua setta» che aveva arricchito Ravenna del tesoro che Firenze aveva perduto.

Pochi anni appresso, uno de' primi e più autorevoli a commentare la Commedia, l'Ottimo, ricordò la Canzone consolatoria di Cino a Dante insieme con le Rime di questo in onore di Beatrice «in quanto ella fu tra' mortali corporalmente».[284] Più tardi, i nomi dei due poeti e delle loro donne congiungeva, nel gentil vincolo della idealità amorosa, il Poeta dell'amore Francesco Petrarca:[285] «Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia, ecco Cin da Pistoia»; appagando, in altro modo, il desiderio, anzi il rammarico, di Cino, il quale avrebbe voluto che nel paradiso dantesco la sua Selvaggia avesse avuto un seggio di gloria accanto a Beatrice.[286]

VII.

Questi di messer Cino, poetici, non i romanzeggiati domesticamente dal Boccaccio, furono i conforti che Dante ricevè per la morte della «donna della sua mente». E se proprio li ricevè in mezzo a quel giovanile traviamento, è da credere che non saranno stati senza efficacia a risvegliare entro lui, nel nome di Beatrice, la coscienza delle nobili e gentili idealità che egli veniva atteggiando a fantasmi dell'«alta visione» d'oltretomba. Ma rispetto alla realtà delle cose, come il poeta amatore di Selvaggia Vergiolesi bene avrebbe potuto mandargli que' versi anche se già marito, anche se padre di alcuno dei figliuoli che a lui dette madonna Margherita degli Ughi, così il poeta amatore di Beatrice Portinari avrebbe potuto riceverli al fianco di madonna Gemma Donati vegghiante a studio della culla, in mezzo a' figliuoli che dovevano un giorno commentare il Poema del padre. Così Guido Cavalcanti, dalle maremme del confino, mandava l'ultima sua ballatetta,[287] «leggera e piana», di nascosto dalle persone grossolane, «dritta alla donna sua», pur sapendo che a casa lo aspettavano la moglie e i figliuoli (una Uberti, figlia di Farinata) e, fra le braccia loro, la morte. E quando anche Dante fu, ma per sempre, travolto nell'esilio, e per «primo strale di questo arco» senti il dolore di «lasciar ogni cosa diletta più caramente»,[288] la moglie rimase fida custode della casa vedovata, mentr'egli conduceva seco fra le dure realtà della vita, le sue idealità affettive e intellettuali, e superbo mistero dell'anima sua, il concetto del Poema divino.

In quel concetto regnava Beatrice. Vi regnava con altre ideali, ma ad un tempo reali, imagini di donna: Rachele e Lia, Lucia, Nostra Donna, imagini sante; imagini umane, Matelda e Beatrice. L'azione del Poema dantesco incomincia dal compianto di quella Donna gentile e divina e dalla pietà di Lucia, verso l'uomo perduto fra i triboli della vita reale; e nel trionfo di Maria, e nella preghiera degli uomini a Lei, per la bocca dei Santi, si conchiude. Nel mezzo di quest'azione stanno le altre due figure Matelda e Beatrice; sovrana, Beatrice: ambedue, ministre della grazia di Dio nella conversione di Dante, cioè dell'uomo, dalle miserie dai mancamenti dalle colpe dalle fallacie della vita attiva, alle sublimi e consolatrici verità dello spirito. Dinanzi a Beatrice, trascorsi dieci anni dal 1290 luttuoso, e dopo ch'ella è fatta celeste simbolo della maggiore altezza a cui possa ascendere l'umano mediante la contemplazione del divino; dinanzi a Beatrice, «gloria della gente umana»;[289] Dante si accusa con lacrime delle sue infedeltà. Infedeltà alla donna poetica, anche alla donna forse; infedeltà al simbolo: l'uno e l'altra in Beatrice inseparabili. Ma quella donna ha un nome: e il nome di Beatrice Portinari non si cancella ormai più nè dalla storia del suo secolo nè dalla poesia perenne dell'umanità.

Firenze, nel giugno del 1890.

NOTE

190. Parad. XVI, 121.191. Vedi Il R. Arcispedale di S. Maria Nuova. I suoi benefattori. Sue antiche memorie. XXIII giugno MDCCCLXXXVIII secentesimo anniversario della fondazione. Firenze, 1888, pag. 7-8.192. Marchionne di Coppo Stefani, Istoria fiorentina; III, CLVIII.193. Vedi nel mio Commento alla Cronica di Dino; I, XX, 14.194. Da me integralmente pubblicata fra i Documenti all' Esilio di Dante; Firenze, Succ. Le Monnier, 1881. Vedi a pag. 138, «de domo de Portinariis», e poco appresso «Dante Alleghierii», fra i proscritti «de Sextu Porte Sancti Petri.»195. Vedi il cap. V del mio libro Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII. Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante. Milano, Hoepli, 1899.196. Parad. XVI, 94-99.197. Questi e altri personaggi di quelli anni, puoi vedere ritratti, come ho saputo meglio, in più d'una delle citate Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante.198. Dell'antico linguaggio nuziale fiorentino, vedi illustrazione d'alquanti esempî in alcune pagine (I, 1103-1107) dell'altro mio libro Dino Compagni e la sua Cronica.199. § XXV, secondo la comune divisione primamente introdotta da A. Torri. Le edizioni del Witte (1876) e del Casini (1885, 1891) l'hanno in alcune parti modificata.200. § cit.201. Vedasi Vita Nuova § V, e l'illustrazione di A. D'Ancona (edizione pisana del 1884) a quel §. Vedi anche M. Scherillo, Alcune fonti provenzali della Vita Nuova di Dante; Napoli, 1889: e l'VIII e il X de' suoi Capitoli della biografia di Dante; Torino, Loescher, 1896.202. Vita Nuova, § IV.203. Vedi le illustrazioni del D'Ancona al § VI della Vita Nuova.204. Per questa frase del tempo, vedi il cit. mio libro su Dino Compagni, I, 420 e 337.205. Purg. xxx.206. Di questa sovrapposizione dell'ideale al reale, nella poesia amorosa de' nostri antichi, è cenno — cenno, com'egli suole, di largo gesto comprensivo — in una bella pagina di Gino Capponi ( Scritti editi ed inediti; Firenze, Barbèra, 1877; I, 141-142); e l'addurla qui, non dissonante da' concetti miei, mi è sommamente caro e prezioso: «.... la Giovanna di Guido Cavalcanti, o la Beatrice di Dante, o la Selvaggia di Cino, o la Laura del Petrarca. Intorno ad esse noi disputiamo lite impossibile a risolvere, fatti incapaci come noi siamo a insieme congiungere e comprendere in un pensiero solo la forma terrena e una ideale bellezza, e ad innalzare l'affetto senza attenuarlo, svanito fuori d'ogni realtà, sì ch'esso divenga concetto sterile della mente. Collocò Dante la Beatrice sua ne' più alti seggi del Paradiso, accanto alle donne che sono a noi più venerande; dunque era donna la sua Beatrice: ma ell'era insieme viva immagine di quell'idea per cui la vista dell'alta bellezza diviene affetto pei sommi veri, idea che non ha quaggiù riflesso di sè più degno che in un bel volto a cui s'affacci una pura anima di fanciulla. Nel sommo cerchio del Paradiso un seggio vuoto era per Arrigo, perchè dall'uomo in cui sperava, Dante saliva a quell'idea che nell'ordine politico era la cima de' suoi concetti. Questo continuo trapassare che facean gli animi più elevati dalle sensibili alle astratte e di qui alle divine cose, fu la poesia di quell'età».207. § II.208. Vita di Dante, § III.209. § II.210. § III.211. Vita di Dante, § III.212. Comento sopra la Commedia, lez. I.213. §§ II, III.214. §§ II, V, VII, XIV, XXII.215. Questo pensiero di Iacopo Burckardt fu svolto da Rodolfo Renier nel suo Studio critico, La Vita Nuova e la Fiammetta; Torino, Loescher, 1879.216. Vedi a pag. 161-162 del mio libro Dante ne' tempi di Dante; Bologna, Zanichelli, 1888.217. § IX.218. Vedi, nella edizione Hoepli di questo Studio, alcuni dei molti esempî che ne offrono gli Atti consiliari fiorentini di quelli ultimi anni del secolo XIII.219. § VII.220. § X.221. Vedine pure gli esempî nella cit. edizione Hoepli di questo Studio222. Parad. XV, 118-120.223. Vedi nel mio Comento alla Cronica di Dino; I, XVI, 19.224. Vedine esempî nella cit. edizione Hoepli di questo Studio.225. § XIX.226. La interpetrazione, diciam così, militare di quel § IX della Vita Nuova fu proposta e tenuta dal Todeschini, dal Witte, dal d'Ancona; ed io la rafforzai e determinai, anche contro le obiezioni di altro autorevole dantista Tommaso Casini, nella edizione Hoepli di questo Studio.227. Vedi a pag. 172 e 164 del libro poc'anzi citato, Dante ne' tempi di Dante.228. F. T. Perrens, Histoire de Florence; Paris, Hachette; II (1871), 281 e segg.229. Dopo il 1288, e quasi d'anno in anno fino alla pace del 1293. Vedi Una famiglia di Guelfi pisani ec. nel cit. libro Dante ne' tempi di Dante, pag. 273-286.230. Riferito da Cicerone nel De officiis (III, I ) e nel De re publica (I, XVII ).231. Parad. XVI, 151-154, 110-111; Inf. XXXII.232. «... disparve questa mia imaginazione subitamente, per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sè».233. §§ V, IX, X, XII.234. §§ VIII, XXII.235. § XXXII.236. §§ III, XXIV, XXV, XXX, XXXII.237. § VI.238. § XXXV.239. § XL.240. § XLII.241. Vedi il cap. VI della Introduzione di Francesco Macrì-Leone alla sua edizione della Vita di Dante scritta da G. Boccaccio; Firenze, Sansoni, 1888.242. Lezione VIII.243. «... ad legendum librum qui vulgariter appellatur el Dante, in civitate Florentiae, omnibus audire volentibus.» Così nella petizione e provvisione del 1373 per la lettura pubblica della Divina Commedia: fra i Documenti (pag. 163-169) al cit. Discorso Dell'esilio di Dante.244. Indicherò, poco appresso (cfr. pag. 134), la fonte, cortesemente dischiusami, di queste notizie attinenti ai Bardi. — Ciò che i biografi del Boccaccio già sapevano da documenti, era che il padre di lui, Boccaccio di Chellino, stava pei Bardi a Parigi nel 1332. Vedi V. Crescini, Contributo agli studi sul Boccaccio; Torino, Loescher, 1887; pag. 10.245. Parad. VII, 14. E «monna Vanna e monna Bice» in due luoghi (uno ora dubbio: vedi a pag. 95 di questo volume, nota 10) del Canzoniere dantesco: Sonetti, «Io mi sentii...» e «Guido, vorrei...» Alla contrazione di «Beatrice» in «Bice» dovette pur conferire, che la forma del nome intero, come attestano instrumenti notarili, era anche «Biatrice» e «Bietrice».246. Luigi Rocca, Del Commento di Pietro di Dante alla D. C. contenuto nel codice Ashburnham 841: nel Giornale storico della letteratura italiana; vol. VII, an. IV (1886), pag. 366-385. Vedi poi quanto sul Commento di Pietro lo stesso prof. Rocca ha scritto nel suo libro (pag. 343 e segg.), Di alcuni Commenti della D. C. composti nei primi vent'anni dopo la morte di Dante; Firenze, Sansoni, 1891.247. Notizie istoriche delle Chiese fiorentine; VIII, 229-233.248. § XXIX.249. Vedi uno Studio di Ferdinando Gabotto: Il marito di Beatrice; Bra, 1890.250. Nel Dino Compagni, dove pure detti le altre notizie intorno a messer Simone: I, 68, 194; II, 114.251. Denuda, o vereconda, il casto petto;

dischiudi, o bella, il tuo più santo riso:

il pargoletto, affiso

ne la tua vista, i novi affetti impari.

O de le semplicette alme sovrana

gentile, o pia de' cuori informatrice,

la steril Beatrice

ceda a te, fior d'ogni terrena cosa.

Talamo e cuna è l'ara tua.....

Poesie di Giosuè Carducci; Bologna, 1902; a pag. 305-306, Le nozze. — Gentili versi, che in una delle scaramucce polemiche sul centenario di Beatrice corsero su pe' giornali, insieme con alcune parole del Poeta (vedile ora a pag. 402 del volume XII delle Opere, sotto il titolo Beata Beatrice ), fastidito che si volesse la Beatrice simbolica «ridurla o tornarla alle proporzioncelle d'una sposina di secent'anni fa», a rischio di «peccare contro Dante, contro il medio evo, contro l'austerità toscana». E questo è sentimento di verità storica. E verità morale e d'arte è, che «i grandi poeti s'ispirano all'anima loro, alla patria, a Dio»; ed altresí, se vogliamo, che «non che le Beatrici facciano loro, son loro che fanno le Beatrici». Ma a tutto questo non ripugna, nè storicamehte nè idealmente, che si ammetta un primo affisarsi di Dante in una donna gentile, nella Beatrice, la quale egli idealizza e simbolizza a sè stesso, ma che non per questo cessa di essere donna viva e reale:

costei, cui donna il vulgo e Beatrice

chiama il poeta.....

e che è la «dolce beatrice del mio pensiero» a Francesco Petrarca; la «vera beatrice», la «mia beatrice», di poeti minori (vedi la voce «beatrice» nella V.ª edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca ). Trovo poi un cinquecentista ( Mattio Franzesi, in Rime burlesche, II, 127) scongiurare il Molza «per le Beatrici»: e quel plurale favorirebbe la impersonalità della ispirazione femminile poetica: ma chi sa che sorta di beatrici, quei verseggiatori di curia romana!

252. Vedili, con la ricordanza di madonna Nente, nell'edizione Hoepli di questo Studio.253. Vedi le cit. mie Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, pag. 136, 148, 154.254. Vedi nelle Note all'edizione Hoepli di questo Studio.255. Vedi nelle cit. Note alla cit. edizione.256. Cronica di messer Donato Velluti; pag. 44-45 dell'ediz. Manni.257. Vedi nelle cit. Note.258. Così scrivevo nel 90. Ma un terzo messer Simone, cugino del messer Simone di Geri di Ricco, venne a farsi conoscere da ulteriori ricerche sui Libri mercantili dei Bardi, per opera di D. Luigi Randi ( Il marito e i figliuoli di Beatrice Portinari, Lettera al prof. Isidoro Del Lungo; nella Rivista delle Biblioteche, an. IV, 1892, num. 37-38): un messer Simone di Giuliano di Ricco, che il Randi trova marito e padre, e lo vuole marito della Portinari. Dopo l'accertamento di quest'altro messere, la mia ragionevole esclusione del Simone non messere non era più sufficiente a far marito della Bice Portinari messer Simone di Geri; bensì rimaneva sempre, a mio avviso, che il «messer Simone di Geri» era, fra il Due e il Trecento, quello a cui, chi dicesse allora «messer Simone de' Bardi», doveva pensare: e di ciò si veda, nelle Note all'edizione Hoepli di questo Studio, pag. 97-99. Se non che e all'egregio Randi e a me (ristampando nel 91 dall'Hoepli ciò che avevo dato alla Nuova Antologia nell'anno centenario 1890) sfuggì una preziosa testimonianza sul marito di Beatrice, che e il Bandi ed io potevamo aver raccolta a pag. 57 del libro da Luigi Rocca pubblicato (cfr. qui nota246 ) nel 1891 sugli Antichi Commenti al Poema; in uno dei quali si legge: «mona Biatrice figliuola che fu [di] Folco de' Portinari di Firenze, e moglie che fue di [messere Simone] di Geri de' Bardi di Firenze». E questa è testimonianza positiva, la quale come rende superflue le mie argomentazioni, così invalida quelle del mio cortese contradittore. Il Rocca stesso ha richiamato l'attenzione degli studiosi su quella testimonianza, in una sua lettera a me ( Beatrice Portinari nei Bardi ), pubblicata nel Giornale dantesco, fasc. di luglio-ottobre 1903. Al Randi mi professo poi grato per qualche rettificazione, della quale non ho mancato di avvantaggiare la presente ristampa.259. § XXIX: «Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua nobilissima si partì nella prima ora del nono giorno del mese: e secondo l'usanza di Siria, ella si partì nel nono mese dell'anno perchè il primo mese è ivi Tisrin, il quale è a noi ottobre: e secondo l'usanza nostra, ella si partì in quello anno della nostra indizione, cioè degli anni Domini, in cui il perfetto numero nove volte era compiuto in quel centinaio nel quale in questo mondo ella fu posta; ed ella fu dei cristiani del terzodecimo centinaio.» Sull'autentica lezione «Arabia», non «Italia», di quel passo, e sulla interpetrazione (aiutatami dal collega Fausto Lasinio) della dicitura concernente il giorno del mese secondo il calendario arabico, vedi nelle Note all'edizione Hoepli di questo Studio.260. Di questa elaborata interpetrazione del passo dantesco mi fece dubitare il ch. dott. E. Moore ( Bullettino della Società dantesca italiana, Nuova Serie, Vol. II, 1895, pag. 57-58): cioè, se dal computo arabico intendesse Dante prendere addirittura il giorno nove di quel loro mese, com'io ho affermato; o semplicemente (come il Moore crede, confrontando il testo dantesco a un capitolo dell' Astronomia d'Alfragano) che Beatrice, morta la sera dell'8 giugno nostro a un'ora di notte dovesse, secondo quel computo, considerarsi come morta il 9, perchè gli Arabi incominciano il loro giorno dal tramonto del nostro precedente. Vedi anche Paget Toynbee, Ricerche e Note dantesche; Bologna, Zanichelli, 1899: pag. 54-57. Nella interpetrazione integrale del giorno e mese consentiva meco il Casini in ambedue le pregiate sue edizioni (Sansoni, 1885 e 1891) della Vita Nuova.261. Vedi sopra, a pag. 112; e più addietro, a pag. 16: e una pagina (1105) del mio libro Dino Compagni ec.: e nelle note all'edizione Hoepli (pag. 101) di questo Studio, lo stanziamento di lire duemila, fatto dal Comune per procurare matrimonî di pubblico interesse fra Tosinghi e Lamberti.262. Così scrissi parecchi anni fa (cfr. anche a pag. 75), e così ora conferma Un nuovo documento concernente Gemma Donati (pubblicato da U. Dorini nel Bullettino della Società dantesca italiana, N. S., IX, 1902, pag. 181-84), dal quale, nell'assegnarsi certo credito «domine Gemme vidue, uxori olim Dantis Allagherii et filie quondam domini Manetti domini Donati», risulta che la dote maritale, a cui era inerente il detto credito, le era stata costituita il 9 di febbraio (un altro 9 dantesco, ma questo tutt'altro che mistico) del 1277 [1276 s. f.], anno undecimo di Dante, e secondo la consuetudine, massime allora, dei matrimonî, men che undicesimo certamente di lei. S'intende bene che le nozze, in siffatti casi, si protraevano fino alla maturità dei coniugi. Ma ciò non toglie che nei due personaggi del romanzo psicologico di Vita Nuova la realtà storica ci offra, secondo ogni apparenza, in Beatrice una giovine sposa il cui matrimonio ha suggellato interessi guelfi tra Bardi e Portinari; e in Dante un giovine guelfo, al quale sin da' primi anni era destinata sposa, da famiglia di «vicini» guelfi, una di quelle che, sotto tali auspicî di parte, i genitori (cfr. qui a pag.16 ) «maritavano nella culla.»263. Nei sonetti «Guido, vorrei...» e «Io mi sentii...». Ma ora credo non si possa tener conto che del secondo, se nel primo, invece di «monna Bice» sia da leggere «monna Lagia»: vedi lo scritto di M. Barbi, qui cit. a pag. 95, nota123.264. Tanto che, per esempio, dicevano, come più largamente rilevai nelle note all'edizione Hoepli, «la Bice, poi monna Bice, figliuola di Bindo, fu maritata a Nolfo....»265. Vedi qui a pag. 76 e 96.266. Vedi, di tutta la Vita Nuova, il sommario fattone con diligenza e finezza squisita dal Casini appiè della citata sua edizione.267. §§ VIII, VII, IX, XXIII, XXXII, e gli altri che sono qui indicati a pag. 128-129.268. §§ I, II, XXVIII, XXII.269. J. Michelet, La mer, IV, VII: «Quand la divine Béatrix inspira Dante, son père fonda l'hospice de Santa Maria Nuova».270. Una gentile cultrice del bello, la signora Carlotta Ferrari da Lodi, che presedè alle onoranze centenarie a Beatrice ( vedi A Beatrice Portinari il IX giugno MDCCCXC, sesto centenario della sua morte, le donne italiane; Firenze, Succ. Le Monnier, 1890: e Commemorazione di B. P., Discorso letto a Firenze in Palazzo Vecchio il 16 giugno 1890, fasc. 9-12, an. IX, vol. XI, della Rivista La Cultura ), espose le ragioni del suo dissenso da questa mia opinione in uno scritto intorno a Dante, Beatrice, Gemma Donati e la donna gentile.... e le cagioni determinatrici dei maritaggi di quel tempo; Firenze, Rassegna Nazionale, 1897. Serbai copia di ciò che io, ringraziandola, rispondevo: «... Quanto Ella adduce intorno a quella distinzione, così difficile a delinearsi, tra la Beatrice persona e la Beatrice idea, tra l'amore di uomo a donna e quello che io chiamai amore per rima, è pensato con gravità di riflessione e squisitezza di sentimento. Io credo tuttavia che amor di poeta (dissi per rima, ripigliando il linguaggio d'allora), anche scevro dalle contingenze della vita reale, potesse, per ascensione da idealità ad idealità, pervenire sino alle altezze della visione, e, quando il poeta era Dante, questa visione essere la Divina Commedia. Ciò che delle contingenze reali mi danno le storie di cotesta età, non so alterarmelo in grazia di nessuna grandezza individuale: perchè gli uomini d'allora vivevano con tale intensità, di amori di emulazioni di odî, la vita l'uno dell'altro, che, in quanto uomini, non avrebbero saputo nè voluto, nè i grandi per conscienza di sè appartarsi, nè i minori per reverenza di loro ritrarsi, dal contrasto quotidiano delle comuni energie. Ora io affermai che anche i matrimonî facevan parte di questo conserto, mi lasci dire, di cose, al quale, in altra sfera, sorvolavan le idee: nè altramente che così, l'una collocata in quel mondo reale, l'altra sovrastante in quel mondo ideale, mi riesce figurarmi storicamente la Donati e Beatrice, che Ella, signora, atteggia l'una accanto all'altra, e, inevitabilmente, in mezzo ad esse, un po' dell'una e un po' dell'altra, il Poeta: io dico invece, l'uomo dell'una e il poeta dell'altra. È più duro, ma, credo, il solo vero....»271. Vedila da me illustrata a pag. 435-461 del cit. libro Dante ne' tempi di Dante.272. Purg. XXIII, 115-117.273. È il quarto; a pag. 450-451 del cit. mio libro: dove vedi anche a pag. 460-461.274. § XXVIII.275. § XXXI.276. § III.277. Cfr. pag. 119-120.278. Dalla prima delle Canzoni della Vita Nuova «Donne ch'avete intelletto d'amore». La Pietà e l'Amore personificati agiscono anche nel Sonetto di Cino «Muoviti, Pïetate, e va' incarnata...», e nell'altro «Deh com'sarebbe dolce compagnia...».279. Canzone di messer Cino da Pistoia a Dante per la morte di Beatrice. Riproduzione fototipica in CC esemplari del dono offerto a S. M. la Regina d'Italia dalle gentildonne fiorentine nella primavera del MDCCCXC sesto centenario. Testo riveduto sui manoscritti da I. Del Lungo. Illustrazioni e fregi in miniatura di N. Leoni. Firenze, fototipia Ciardelli. — Riprodussi, con nuove cure, il testo della Canzone di Cino fra i Documenti all'edizione Hoepli del presente Studio.280. Petrarca, Rime, III, IX.281. II, VI.282. Furono da me, dopo altri, rilevate nella cit. riproduzione della Canzone di Cino.283. Canzoni di Cino, Per la morte di Arrigo imperatore e Per la morte di Dante Alighieri.284. Commento dell' Ottimo, II, 539-540: al Purg. XXX, 121-123.285. Trionfo dell'Amore; IV, 31.286. Sonetto di Cino: «Infra gli altri difetti del libello, Che mostra Dante signor d'ogni rima...».287. «Perch'io non spero di tornar giammai, Ballatetta, in Toscana...»288. Parad. XVII, 55-57.289. Purg. XXXIII, 115. Come Virgilio «gloria de' Latini»; Purg. VII, 16.

LA DONNA ISPIRATRICE

Parole dette nella solenne distribuzione dei premî alle alunne del R. Istituto della SS. Annunziata di Firenze, il 9 settembre 1883.

Signore e Signorine gentili,

In quella pagina, che nelle Confessioni d'Aurelio Agostino è una delle più belle, dov'ei fa l'elogio della madre diletta, della madre santa, che gli è morta, si legge com'ella guadagnò il marito a Dio con la eloquenza dei costumi, e ne ottenne riverente amore e ammirazione. Altrove, questa medesima madre ci è ritratta piangente per la partenza del figliuolo, o per gli errori di lui: e dalle materne lacrime riconosce egli stesso in gran parte la propria conversione, e l'avviamento a quella che fu grandezza confermata dai secoli.[290] Il costume e l'affetto: tale è invero la doppia potenza, con che la donna è signora nella famiglia; quella è, nella storia umana, la parte che è sua.

Nè, ciò affermando, si nega già alle facoltà intellettuali della donna di potere non pur cooperare ma competere con le virili, nel dare effetto a quelle opere ond'è attestata la porzione divina di nostra natura. È anzi certo che la stessa delicatezza della fibra, tutt'altro che menomare o svigorire quelle facoltà, le acuisce e quasi le snoda a maggiore agevolezza e penetrazione: il che un antico nostro espresse acconciamente, con dire che le donne «più acuto hanno l'intelletto e più sùbito».[291] E il Parini, nell'Ode per laurea di donna:[292]

E so ben che il tuo sesso,

tra gli ufizi a noi cari e l'umil arte,

puote inalzarsi, e ne le dotte carte

immortalar sè stesso.

Ma nel mirabile ordine, con che le cose della natura tendono ai fini disegnati dalla Provvidenza, coteste facoltà, che l'uomo rivolge al conseguimento del vero, o all'utile applicazione dei dedotti principî, o all'imitazione di esso secondo gli eterni ideali, la donna le effonde nel sentimento, che è a lei scienza ed arte inconsapevoli. Così all'uomo si appartiene di provvedere con fatica alle più gravi e sostanziali necessità della vita domestica: alla donna, consolare di amorose cure tale fatica, addolcirla, premiarla. Questo per legge eterna, e contro ogni sorta di antiche o novelle utopie immutabile. Le eccezioni luminose a cosiffatta legge si chiamano nella storia d'Italia, alla quale mi giova restringer gli esempî, Caterina Benincasa, Vittoria Colonna, Selvaggia Borghini, Maria Gaetana Agnesi, Clotilde Tambroni, Maria Giuseppa Guacci, Caterina Franceschi Ferrucci: nelle quali, ben si avverta, quanto maggiore l'altezza dell'ingegno, tanto più strettamente vediamo custodirsi la gentilezza, la modestia, la pietà femminili.

Che l'esercizio di questo suo ufficio nella famiglia e nella civil comunanza, che il possesso di questa sua cara giurisdizione, li abbia alla donna rivendicati e fatti sicuri il Cristianesimo, non fu mai impugnato nemmeno da coloro, i quali rimpiansero, spesso anche con generosi intendimenti, le virtù della società antica, fra le cui rovine si aprì la strada il Vangelo: nè quelli stessi, pe' quali l'idea cristiana segna regresso e servitù, oserebbero disconoscere questa fra le altre sue benemerenze verso la umana libertà. Dove la civiltà cristiana fu contrastata o deviata, ivi la donna è rimasta schiava: ogni volta che nel mondo moderno le arti e le lettere, affascinate dagli splendori immortali della classicità, hanno in una forma o in un'altra paganeggiato, la donna ha disceso un gradino: ai dì nostri medesimi, una certa arte, una certa letteratura, non cristiane, sulla cui bandiera il Poeta d'Evangelina[293] leggerebbe qualche cosa di simile a un Più basso, Più in giù, nulla forse hanno di più caratteristico e di più essenziale, che la mancanza di rispetto alla donna.

Pel costume, adunque, e per l'affetto, quali è venuta educandoli quella civiltà che ormai da diciannove secoli governa gli umani destini, pel costume e per l'affetto, la donna ha nel mondo signoria sua propria; superiore di molto a quanta possano, e possono benissimo, conquistargliene l'ingegno, gli studî, la partecipazione alle opere virili. Pel costume e per l'affetto, la bellezza delle forme da fallace prestigio addiviene suggello e specchio della interiore bontà, da pericolosa attrattiva si muta in virtù salutare e benefica. E questa, vi dicevo, com'è la vita vera della donna e di lei degna, così n'è la storia reale e sua propria. Ma chi questa istoria racconta? chi ne raccoglie i documenti? o meglio, i documenti dove si trovano essi?

Imperocchè non sono i fatti esteriori, non sono i nomi, non gesta strepitose, non genealogie coronate, non tragici amori o ambizioni o eroismi o delitti, le testimonianze di questa continua e segreta azione, mediante la quale la donna asserisce efficacemente sè medesima. Nella istoria palese e visibile ha essa pure la parte sua, commisurata alla virile in proporzione delle respettive attitudini e condizioni. Ma di cotesta, della storia che si racconta e si scrive, che negli archivî si seppellisce e ne' libri si ravviva, la donna sarà sempre, in confronto del suo compagno, operatrice più parca. Alla storia delle battaglie e dei congressi, delle successioni e delle alleanze, delle prepotenze e delle frodi, del sospetto e dell'odio, la donna operatrice darà sempre, e mi pare che debba rimanerne contenta, scarso e inadequato contributo. Se però de' fatti umani potesse scriversi con eguale larghezza la storia interiore, se quella delle famiglie connettere con la storia della nazione, se da ciò che la creatura umana ha fatto si potesse sempre con sicurezza indurre ciò che ha pensato e sentito; nel campo di questa istoria, tutta affettiva, tutta morale, primeggerebbero, mie cortesi ascoltatrici, le vostre figure: la figura della donna che ispira.

Non s'ispira solamente i poeti: nè gli occhi di Beatrice si volgono solamente per muover Virgilio, nè solamente risplendono per sollevar Dante di sfera in sfera nelle immensità del Paradiso. Tutto quanto è cura affettuosa intorno a noi, ci è ispirazione al bene, conforto all'operare, sprone verso l'alto: e delle cure affettuose siete voi, madri, sorelle, spose, figliuole nostre, che avete il segreto. A quell'aureola che nella poesia del medioevo italiano circonda la donna, non tutti i raggi somministra l'«amor ch'a cor gentil ratto s'apprende» e che «a nullo amato amar perdona»: molta di quella luce è senz'altro dalla idealità femminile, da ciò che un altro grande Poeta ha chiamato l'eterno Femmineo, e di cui gli aspetti sono ben più che uno solo. Disputano oggi della personale realtà di quella nostra gentile che vi ho nominata: dubitandosi, se veramente fu la figliuola del buon Folco Portinari, a cui Dante pensasse narrando i melanconici amori della sua giovinezza, ed effigiandola divina nell'azione del sacro Poema; ovvero se alla Beatrice simbolica, quale nel Poema è di certo, manchi la persona di donna viva e vera, che le porge quel soavissimo fra tutti i libri, la Vita Nuova. Ma chi dimandasse piuttosto, se nella loro Beatrice, qualunque ella fosse, giovinetta o donna, vicina o lontana, per amichevole consuetudine di famiglie avvicinata o sospiratone pur il suon della voce, invocata a compagna o in altro stato senza colpevole desiderio ammirata; ma per ciò stesso, viva, innanzi tutto, e reale; non raccogliessero forse que' nostri grandi e buoni maggiori il fiore de' loro affetti verso la donna; degli affetti incerti e vaghi dell'età prima, de' disinganni, delle memorie, de' pentimenti; degli affetti raffermati e sanzionati nella famiglia, e dalle gioie del focolare e della culla e dai lutti della bara consacrati per sempre; chi, pur dubitando, dimandasse di ciò, parrebbe fantastico solamente a coloro, che di quella vita, nella quale la pratica sapeva alla fantasia e al cuore lasciare tanto e sì utile luogo; di quella età, i cui ultimi simboli furono le statue di Michelangiolo pensose; giudicano coi criteri della nostra, che ideale, oggimai non più soltanto della critica, ma anche a un po' per volta dell'arte, andiamo costituendo, in terreno arido e infecondo, il perchè e il percome.

La ispirazione ha segrete le vie, perchè sue sono quelle del cuore. E quando, fanno ora poche settimane, in un giorno, come oggi questo a Voi, di allegrezza ad altro egregio Istituto fiorentino, io sentivo rileggere, con voce tremante d'affetto, ad una cara giovinetta lombarda la ballata ultima di Guido Cavalcanti:

Perch'io non spero di tornar giammai,

ballatetta, in Toscana;

quel lamentevole addio alla patria, all'amore, alla vita; e pensavo che moglie di quell'uomo era stata una figliuola di Farinata degli Uberti, il ghibellino salvatore della guelfa Firenze; — sposa datagli (e si chiamava Bice), fanciulli ancora ambedue, in un istante di tregua alle cittadine fazioni, fra altri consimili parentadi sperati pegno di futura concordia; madre poi a lui di figliuoli, fra le cui braccia e della moglie potè, quasi appena tornato nella sua Firenze, morire in pace; — pensando io tutto questo di Guido, mi pareva non indegno, me lo perdonino i critici, che nell'antico amante di monna Vanna, quale fu il nome della sua donna poetica allorchè e' piangeva in quei versi, e li mandava alla «bella sua donna», la vena segreta e vera di tanta tenerezza, di tanto accoramento, di tanta pietà, fosse piuttosto il desiderio affannoso della patria insieme e della vedovata famiglia.

In queste ispirazioni il poeta sparisce, e rimane l'uomo; e all'uomo, non al poeta, si rivolge la donna; ed ogni donna gentile è, e sola la donna può essere, ispiratrice. Quando il Buonarroti, mortagli Vittoria Colonna, scrive quelle parole che, così semplici, uscite da tale anima, sono sublimi, «Mi voleva grandissimo bene, e io non meno a lei: Morte mi tolse uno grande amico»,[294] il divino artista e la gentildonna e poetessa, cantata unica dall'Ariosto,[295] ci paiono discendere dalle loro altezze, e farsi eguali ai tanti altri che nel mondo amano e soffrono, operano e muoiono. Ma per quelle parole, quanti versi amorosi, massime di quel secolo, si potrebbero lietamente gittare! saggio questi, più o men pregevole o curioso, d'arte, o troppo spesso d'artifizio; documento umano quelle, a cui la qualità delle persone accresce, ma non dà essa, il valore: nè tutte le figure retoriche di que' petrarchisti valgono quell'una grammaticale di Michelangiolo, «uno grande amico»; nè l'ardimento severo di questa figura saprebbero mai intendere gl'insidiosi pedanti che vanno oggi teorizzando su ciò ch'e' chiamano l'emancipazione della donna. Così le convulsioncelle de' cosiddetti moderni bozzetti, e i fremiti e i sussulti e le arroganti trivialità di certa che vorrebb' essere poesia d'amore, non una sola valgono di quelle pagine di prosa toscana, dove l'altro grande scultore, sulla cui tomba recente piange l'Italia, narra una di quelle istorie non destinate agli annali del mondo, nelle quali umile protagonista signoreggia la donna. La donna ispiratrice di Giovanni Duprè[296] fu una povera popolana del nostro San Piero, propriamente dell'antico sestiere dove aveano le case i Portinari, gli Alighieri, i Donati.

Di tale opera della donna nella vita intima delle famiglie, delle cittadinanze e delle nazioni; opera segreta, continua, universale, e a cui questi stessi caratteri tolgono ch'ella abbia altra istoria fuor della memore riconoscenza de' cuori bennati; conserva Firenze nostra testimonianze in un libro e fors'anche in un palagio de' suoi più belli e famosi. In fronte a quel libro, ben a ragione il valentuomo che lo compose, rivendicando agli archivî l'ufficio di servire alla storia anche del costume e dell'affetto, scrisse: «Alle donne italiane. Le quali prego leggano questo volume col cuore». Ma nella più nobil parte di quel palagio ben si addirebbe un ricordo di questa donna, che nel cuore de' figliuoli esuli, e distratti dai venturosi commerci in città e paesi diversi, tenne vivo con le sue lettere il desiderio della città nativa; con fanciulle fiorentine procurò il loro accasamento; con diligenza di padre, rimasta vedova ancor giovanissima, con senno virile, ne curò gl'interessi, e le piccole e travagliate sostanze custodì ad essere principio e base d'immensa fortuna; ne sollecitò coi voti e con le pratiche la revocazione dall'esilio, la quale ella chiedeva a Dio pel supremo conforto della sua vita; e ottenutala, morì madre consolata, suocera e nonna felice. Diciotto anni appresso, nel 1489, il maggiore de' figliuoli, divenuto oramai uno de' più grandi mercatanti di quel tempo, e cittadino in patria dei primi, gettava le fondamenta del palagio che vi ho detto. Chi sa forse se ciò sarebbe stato, senza quella buona pia vecchia che dormiva e dorme in pace sotto le volte di Santa Maria Novella! Libro prezioso coteste sue Lettere a' figliuoli,[297] scritte nella bella lingua che dal Trecento i quattrocentisti non letterati seppero raccogliere tuttavia pura e potente; prezioso per la sua schiettezza e originalità. Perchè, se del Giornale di una madre, scritto proprio giorno per giorno da una madre vera sui piccoli avvenimenti del suo figliolino, si rallegrava il Tommaseo[298] come di cosa opportunissima alle sue fine osservazioni di psicologia pedagogica, quanto più l'onorando uomo si compiacerebbe, per altri rispetti, di questa raccolta, unica che si conosca, di vere lettere materne! egli che fra i suoi ispiratori, accanto a Dante e a Virgilio, poneva la madre![299] Lettere materne: e non di una madre dotta o saccente, od anche soltanto osservatrice, ma di una buona mamma, d'una brava massaia, e null'altro; non solamente non scritte per essere pubblicate, ma da non poterlo nè essa nè i vissuti con essa, in pieno secolo decimoquinto, creder possibile mai; non documento di stile, ma di pensieri e di sentimenti, nudi d'ogni ancorachè tenue involucro letterario, anzi abbelliti (che nessun letterato ci senta!) da sgrammaticature efficaci; non componimento epistolare, ma puramente e semplicemente lettere: nelle quali, per bocca della gentildonna di Firenze ancora repubblicana, parla, come se noi proprio lo udissimo sulle piazze e per le vie d'oggi, il popolo fiorentino di quattrocent'anni fa. O giovinette, quelle tra Voi che rimarranno in Firenze, quando passano dinanzi a quel maestoso palagio, non ammirino solamente il Superbo cornicione, il cortile elegantissimo, architettati dal Cronaca, non sole le semplici e grandiose linee disegnate dal Maianese, e agli angoli le lumiere dell'ingegnoso Caparra; ma sia bello a Voi, giovinette, pronunziare in quell'ammirazione il nome di una madre, il nome di Alessandra Strozzi. E Voi che in altre regioni d'Italia nostra diletta custodirete entro il pietoso e gentile animo le ricordanze di questa, quando fra gli altri splendori della città di Dante, vi risovvenga di quel monumento, anche Voi benedite a quel nome; altere di esser donne, poichè alla donna Dio concesse di poter tanto, se vuole.

Di ricordanze s'intesse, ogni giorno che passa, l'umana vita: le quali v'ha chi le getta dietro le spalle, e campa alla giornata; ma i migliori gelosamente le raccolgono, e ne fanno cibo all'anima che anch'essa vuole il suo pane, e pel più eletto tesoro le trasmettono a chi vien dopo. Risalire per le ricordanze ne' tempi che furono, e con le anella de' fatti rannodare le tradizioni, è della storia il più bello e più morale attributo, e il più educativo. Ed io, ritraendo a Voi, giovinette, in questo luogo d'educazione, cose nostre antiche, tra le quali la ragione de' miei studî più caramente mi trattiene; e dalla storia domestica desumendo colori al concetto naturale delineatovi della donna; ho creduto corrispondere nel modo che migliore potessi al cortese ed onorevole invito di essere oggi il vostro oratore. Questo è a voi giorno di grande allegrezza; perchè da un lieto presente vi affacciate ad un avvenire, che pe' verginali animi vostri ha l'attrattiva dell'ignoto. Nella mia parola suona, co' suoi memori echi, il passato. O giovinette, avvezzatevi sin d'ora a ripensare, a ricordare! I misteri, dei quali è pieno l'avvenire, si schiudono meno improvvisi, men paurosi, a chi più avvisatamente li affronta: l'ora, il momento, che ci sfuggono nell'atto che li viviamo, fanno sentir meno rapida la loro fuga a chi non tutto in quelli si adagia. La meditazione del passato ci frutta esperienza, c'infonde forza e rassegnazione, ci fa giudici meno agli altri severi che a noi medesimi, ci raccomanda la carità, c'insegna la gratitudine.

E della gratitudine, che vi farà memorabile questa casa stata per sì dolci anni la vostra; dove Voi avete portato dal seno della famiglia caste aspirazioni a verità, bontà, bellezza, e ne ritornate, speranza e orgoglio dei vostri, adorne di utili cognizioni, di gentili discipline, di virtuosi propositi; della riconoscenza, che oggi più che mai sentite obbligarvi ai valorosi insegnanti, alle savie ed amorevoli educatrici, ai gentiluomini egregi che il Governo del Re deputò alla direzione di questo celebre Istituto; una parte, ahimè, di cotesta gratitudine è dovuta oggi a una tomba!

Un posto nella odierna solennità rimane qui vuoto: ed è quello che per ventun anno ha tenuto onoratamente, come tanti altri ufficî in servigio e decoro del suo paese, il commendatore Giuseppe Pelli Fabbroni. Uomo di quella generazione che accolse ed alimentò le speranze del nostro risorgimento, combattè per esso a Curtatone (balzano i cuori a questo ricordo di gloria italiana) e vi fu gravemente ferito. Alla operosità, al fervore pel pubblico bene, non conobbe confini; e parve moltiplicarsi, per sopperire agl'incarichi che la pubblica fiducia non si stancò di commettergli. Fra i più cari ebbe questo: e al miglioramento delle norme e degli ordini onde gli studî e l'educazione vostra sono regolati, attese indefesso: nè solamente con lo zelo ch'e' poneva in tutte le cose di dovere, ma con l'affetto scrupoloso d'un ottimo padre di famiglia.

Come a padre Voi ripenserete a lui, come benefattore lo ricorderete: e in tale sentimento, e nei somiglianti a questo, la vostra anima si conserverà quale gli educatori e i parenti vostri augurano e sperano che sempre si mantenga: buona e serena. Per siffatto modo, il bene frutta e perpetua il bene: perchè la voce amorevole di chi ci ha indirizzato a virtù, séguita, pur che noi prestiamo intento l'orecchio, a parlarci dal mondo eterno, e ci accompagna per le vie e fra gli ostacoli di questo, confortatrice fedele.

NOTE

290. Le Confessioni di Santo Aurelio Agostino volgarizzate dal canonico Enrico Bindi; Firenze, Barbèra, 1869.

Libro IX, cap. IX: «.... allevata nel pudore e nella sobrietà, e fatta da te, o Signore, docile a' genitori, piuttosto che da essi docile a te, come prima fu in età da ciò andossi a marito, al quale servì come a signore, e si studiò di guadagnarlosi coll'eloquenza de' costumi onde tu la facesti bella, e le cattivasti dal marito amore riverente e ammirazione.»

V, VIII: «.... dolorosamente pianse la mia partenza, e mi venne dietro infino al mare.... E che cosa ti chiedeva ella, mio Dio, con tante lacrime, se non che tu non permettessi la mia partenza?...»

III, XI: «E tu stendesti la tua mano dall'alto, e cavasti fuori l'anima mia della profonda caligine, mentre per amor mio piangeva dinanzi a te la madre mia, tua serva fedele, più che non piangano le altre madri la morte corporea de' loro figliuoli. Conciossiachè per la fede e lo spirito che le infondevi, ella vedeva la mia morte; e la esaudisti, o Signore. Tu la esaudisti, nè avesti a schifo le lacrime di lei, allorchè sgorgando bagnavano la terra sotto ai suoi occhi, dovunque ella si mettesse a pregare; tu la esaudisti....

«.... corsero un nove anni ne' quali seguitai a voltolarmi in quel fondo fangoso e in quel buio d'errore, provandomi spesso a levarmi su, e ricadendo più sconciamente: mentre frattanto quella casta, santa e mortificata vedova (come le vuoi tu), facendosi sempre di più viva speranza, ma non però men pronta al gemito e a' sospiri, non finiva mai nelle continue orazioni di piangermi dinanzi a te, e le preghiere di lei salivano nel tuo cospetto....».

291. F. Sacchetti, Nov. CLXXIX.292. Ode VIII, La laurea. A Pellegrina Amoretti d'Oneglia, laureata in ambe le leggi nell'Università di Pavia l'anno 1777.293. E di Excelsior, E. W. Longfellow.294. Le lettere di Michelangelo Buonarroti ecc. per cura di Gaetano Milanesi; Firenze, Succ. Le Monnier, 1875.295. Orlando furioso, XXXVII, 15-21.296. Pensieri sull'arte e Ricordi autobiografici di Giovanni Duprè; Firenze, Succ. Le Monnier: vedi i capitoli III e IV, e poi tante altre care pagine dov'è ricordata la sua Mariina.297. Alessandra Macinghi negli Strozzi. Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da Cesare Guasti. Firenze, Sansoni, 1877.298. Giornale scritto da una madre; a pag. 198-213 del volume La donna; Milano, Agnelli, 1868.299. «S'io dovessi a pochi ridurre il principal merito degl'insegnamenti che Iddio mi diede, e ch'io non ben seppi mettere a profitto, nominerei mia madre, Virgilio, Dante, e il popolo di Toscana». Dalle Memorie poetiche, a pag. 488 di Ispirazione e Arte, Studi di Niccolò Tommaseo; Firenze, Le Monnier, 1858.

NEL RINASCIMENTO E NEGLI ULTIMI ANNI DELLA LIBERTÀ

Alla Società fiorentina di pubbliche letture il 28 aprile, e per le Scuole del Popolo di Firenze il 26 maggio, del 1892.

Vedi l'avvertimento apag. 2.

I.

Pel San Giovanni del 1473, al consueto festeggiar cittadino si aggiungeva la solennità del ricevimento fatto, come la Repubblica artigiana soleva e i Medici favorivano, con principesca magnificenza a Eleonora d'Aragona figliuola del Re di Napoli, la quale andava sposa ad Ercole d'Este, duca di Ferrara e di Modena.[300] Entrata in Firenze il 22 giugno, ella trovava nel suo massimo sfoggio la mostra che delle proprie ricchezze avevano apparecchiata le botteghe dei mercatanti; assistè alla processione delle Compagnie co' fanciulli vestiti di bianco in forma di «agnoletti»; vide i «dificî» o macchine fantasmagoriche, che in sulla Piazza della Signoria rappresentavano Storie dell'Antico Testamento e del Nuovo; vide l'offerta che al tempio del Santo Patrono portavano la Signoria e gli altri magistrati del Comune e delle Arti, le Compagnie del Popolo coi gonfaloni, Parte Guelfa, e poi i Signori e Comuni sottoposti o raccomandati, recanti palii, ossia drappi, di gran pregio e bellezza e grandi ceri istoriati e fioriti; e con l'olivo in mano l'offerta de' prigioni e de' condannati (quella a cui Dante non si sottomesse); e finalmente, nel pomeriggio del dì 24, i barberi, già prima offerti ancor essi, che correvano il palio di San Giovanni, un palio ricchissimo di broccato d'oro, dal Prato su per la Vigna pel Mercato e pel Corso verso Porta alla Croce, tal quale noi che non siam più giovani possiamo ricordarci d'aver veduto. Ma nessun di noi potrebbe da' ricordi suoi giovanili evocare ciò che nel 1473 fu dato a godere, in quelle feste, a madonna Eleonora: un ballo là, su que' prati donde i barberi pigliavano le mosse, un ballo alla dolce aria profumata de' giardini e delle loggie, in uno de' palagi, quello de' Lenzi, dov'è oggi la Galleria Pisani, che fronteggiavano coteste estreme parti della città, la Vaga Loggia, verdeggianti lungo le rive dell'Arno. Tacciono di quel ballo i diarî: sulle cui aride pagine, a ogni modo, voi cerchereste inutilmente, Signore gentili, descriversi dal giornalista di quattro secoli fa gli abbigliamenti delle vostre antenate; e sotto quali colori d'abito e con qual dottrina di linee, presentassero esse al desiderio de' loro innamorati quelle bellezze, che all'ammirazione nostra sopravvivono nelle tavole del Botticelli e negli affreschi del Ghirlandaio. Un ballo fiorentino de' tempi del Rinascimento; non dominato e quasi sopraffatto dallo scintillio de' doppieri, ma lumeggiato soavemente dal sole che di là dal Pignone tramonta; nè turbinato fra le vorticose battute orchestrali, ma sposato, sulle corde flebilmente amorose del liuto e della viuola, alle gentili baldanze ottonarie della Canzonetta che appunto dal Ballo s'intitola; meritava cronista un poeta. Permettetemi ch'io vi traduca dal latino di Angelo Poliziano quel Corriere del mondo elegante d'allora: distici levigatissimi, dove le realtà della vita s'intrecciano con le concezioni dell'arte, il vero col fantastico, il fiorentino il cristiano con la classica paganità; circola l'aria che respiravano i letterati nella Firenze del magnifico Lorenzo.[301]

«Apollo con la rosea faccia ha menato il giorno che riconduce la festa del selvaggio Batista San Giovanni; quando alla città che fu colonia di Silla ferma le candide vestigia, per riposarsi dal lungo cammino, la figlia del Re, che, lasciata la città delle Sirene, va sposa ad Ercole. Festeggiano a gara il suo arrivo fanciulli, giovani e vecchi, e le matrone e splendide di fresca bellezza le spose: tutta la città si anima, d'ognidove rumoreggia l'allegria. V'è una strada che i Sillani» (i Fiorentini, parafrasati in latino) «chiamano Pantagia,» (Borgognissanti, ribattezzato in greco) «dove sorge splendido un tempio dedicato a tutti i celesti. Colà s'inalza superbo il palagio de' Lenzi: ivi presso ride la verde distesa de' prati, e de' colori primaverili si dipinge fiorito il terreno. Quivi, mentre i corsieri scalpitanti aspettano, in sulle mosse, il canoro segnale della tromba Tirrena, la regal fanciulla si abbandona ai sollazzi delicati della danza; ed ecco atteggiarsi le gentili donne al tempo misurato e all'intreccio de' balli. Innanzi alle altre ninfe risplende Albiera bellissima, e di sua bellezza sparge a sè dintorno il tremulo splendore. Mossi dal vento diffondonsi i capelli sulle candide spalle, i neri occhi raggiano di luce soave: pare, fra le sue compagne, la stella del mattino, il cui rossore purpureo vince gli astri minori. Giovani e vecchi ammirano Albiera: sarebbe di ferro chi non si commovesse a quella verginale bellezza: lietamente, plaudendo, col cenno, con gli sguardi, con la voce, tutti lodano Albiera.»

Albiera di Maso degli Albizzi era una giovinetta fra i quindici e i sedici anni, fidanzata a Gismondo della Stufa. S'ammalò, subito dopo quel ballo, e in capo a pochi giorni morì. «Ahi povera Albiera!» sentite ancora il suo poeta: «così giovinetta, rubata ai genitori, allo sposo! Va' ora, e confida nelle umane fortune! Ecco disfatte da morte crudele, o Albiera, le tue bellezze: disfatto il tuo viso di gigli e rose; i tuoi occhi gioiali, dove Amore accendeva le sue fiaccole; i capelli, che o scioglievi abbondanti, e parevi Diana cacciatrice, o raccoglievi in diadema d'oro, ed era l'acconciatura di Citerea: gli Amorini, le carezzevoli Grazie, ti facevano bella, senza che tu il sapessi: ogni virtù ti adornava, modestia e serietà di contegno, senno, pudore, lealtà, gioialità, bel costume, bel tratto, schiettezza: tutto ormai divenuto un pugno di cenere!»

In altre parti della elegia lunghissima è mitologizzata la malattia e la morte d'Albiera. La sua bellezza ha attirato il bieco sguardo di Nemesi, la dea che con misteriosi decreti governa le umane vicende. Ritirasi la giovinetta alle sue case, finito il ballo, in sull'annottare; nell'ora, o Signore, nella quale a voi, pe' balli vostri, cominciano appena le operazioni della toeletta. E coricata ch'ella è, si appressa al suo letto la Febbre, nume orribile, del quale e del suo corteggio vi risparmio la descrizione, e che Nemesi ha sospinto verso quella povera casa. I genitori, i fratelli, lo sposo, pendono per dieci giorni ansiosi dal viso dell'inferma, pallido e trasfigurito. Ella dà gli estremi addii a que' suoi cari e alla vita, che, incominciatale appena, sente sfuggirle; e muore fra il pianto disperato della sua casa. Il lutto e la pietà de' cittadini circondano il corpo inanimato. La morte ha ricomposto il suo volto a pace soave: pare che dorma. La «ninfa», vittima della dea Nemesi e della dea Febbre, ha esequie cristiane; e il distico ovidiano di messer Angelo colorisce anche quelle. Ecco il trasporto; ecco con la nera coltre la bara: ella distesavi su, coi capelli recisi, e in capo una umile ghirlanda. Le salmeggiano intorno i preti; le campane suonano a morto: segue, in veste di lutto, la cittadinanza; fra quella, lo sposo, che tutti si mostrano a dito, compassionando. La chiesa di San Pier Maggiore arde di ceri, è profumata d'incensi: si fa l'assoluzione e la benedizione: e le tombe degli Albizzi, in quella stessa chiesa, si aprono a ricevere la giovine fidanzata; forse, come si soleva, in abito di monacella: il che non dice il Poeta; ma que' capelli tagliati ce ne danno, a mio avviso, argomento più che probabile.

La musa latina dell'umanismo fiorentino consacrò, non con la sola elegia e con altri minori epicedî del Poliziano,[302] il nome d'Albiera: elegiaci e ricordanze su quella morte e quei funerali abbondano,[303] in copia anche maggiore che pei funerali della bella Simonetta, morta soli due anni dopo la fanciulla degli Albizzi. Ma alla Simonetta Cattaneo, genovese, venuta nel 69 sedicenne sposa in Firenze a Marco Vespucci pur sedicenne,[304] e mancata di mal sottile nel 76, l'arte dette anche in altre forme gli onori dell'apoteosi. E mentre delle fattezze verginali di Albiera non ci è rimasta testimonianza (salvo se qualche benemerito investigatore riuscisse a trovare il busto marmoreo nel quale sappiamo dal Poliziano[305] averla fatta rivivere lo sposo), per la Simonetta, invece, si è impacciati a scegliere fra più d'uno il ritratto vero: o vuoi quello che è nella Galleria de' Pitti, attribuito a Sandro Botticelli, di una bionda delicata, dal collo assai lungo, dal viso intento e gentilmente pensoso, in acconciatura modesta e casalinga, da riferirsi piuttosto a un mezzo secolo innanzi; — o vuoi l'altro, sotto il quale è stato apposto il nome di lei («Simonetta Ianuensis Vespuccia»), e che si conserva in Francia nella galleria di Chantilly, creduto del Pollaiuolo o di Piero di Cosimo, ed è essa pure una figurina delicata e gentile, ma di gaia e vivace bellezza, nudi il collo (anche di questa assai lungo) e il seno e le spalle, i capelli tirati all'indietro e avvolti in giri artificiosi con grande intrecciamento di perle e pietre, e pendente sul petto un monile intorno al quale si rigira un aspide; — o invece uno, di tutt'altra conformazione ed espressione, figura massiccia e baldanzosa, che nel Museo di Berlino vorrebbe pur essere «la bella Simonetta» del Botticelli; — o che dovessimo ravvisarla in una delle figure allegoriche di quella misteriosa Primavera, guidati da certi singolari riscontri che la composizione del fantasioso maestro offre con le Stanze del Poliziano, dove è ritratta e designata per nome (pur nell'atto di trasfigurarla in Ninfa delle più autentiche), e poeteggiata, con buona pace del marito Vespucci, come innamoratrice di Giuliano de' Medici, appunto la Simonetta Cattaneo; — o che infine, come par più probabile, la poetica coppia si sia trafugata nell'altro botticelliano, mal denominato «Venere e Marte», della Galleria di Londra, la cui figura femminile ricorda un'altra bella «ignota», del Museo di Francoforte, che sarebbe ancor essa, pur di mano di Sandro, la Simonetta.[306] Or qualunque di queste femminili figurazioni si fosse la giovane sposa, certamente bellissima, che nell'aprile del 76 moriva, basti a noi, pur lasciando d'altri suoi celebratori in latino e questa volta anche in volgare,[307] che il Poliziano facesse di lei la mitologica eroina delle sue Stanze;[308] che per la morte sua scrivesse pure epigrammi funebri, d'alcuno de' quali il magnifico Giuliano de' Medici, il bel «Iulio» delle Stanze, proponeva il concetto;[309] e che Lorenzo, a sua volta (il che mostra del tutto ideale e poetico il culto dei due fratelli alle bellezze della Vespucci), tragga, o finga d'aver tratto, dalla morte di lei il motivo a platonizzare poeticamente sull'anima ritornata alle stelle.[310] Lorenzo era a Pisa, e dai Vespucci medesimi riceveva di giorno in giorno le dolorose notizie.[311] Morta, un suo familiare gli scriveva:[312] «La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso come avrete inteso. Puossi ben dire, che sia stato il secondo Trionfo della Morte: chè veramente, avendola voi vista così morta come la era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fosse in vita. Requiescat in pace. » E Lorenzo, essendo (così ci racconta) una serena nottata primaverile, e andando con un amico a diporto, e parlando di quella morta, si affisa a un tratto in una stella che mai non gli par d'avere veduta così lucente, e «L'anima di quella gentilissima» esclama «o è trasformata in questa nuova stella, o si è congiunta con essa»; e un'altra volta, pure in cotesta primavera, passeggiando per una delle sue splendide ville, osserva il girasole, anzi Clizia, l'antica innamorata del Sole, «la sera restar col viso volto verso l'orizzonte occidentale, che è quello che le ha tolto la visione del sole, insino che la mattina il sole la rivolge all'oriente»; e ci vede una immagine del nostro destino quando perdiamo chi si ama, che è di rimanere «col pensiero rivolto all'ultima impressione» della «visione» perduta; ma l'orizzonte nostro occidentale, donde il tramonto non ha ritorno, è la morte.

È, del resto, notabile come in que' tempi che tante erano, e così vigorosamente svolte, e così spesso violente, le energie della vita, la morte circondasse di tanta poesia, sebbene caricata di tanta oziosa mitologia, agli occhi e al cuore di cotesti uomini l'ideale femminile: notabile come quei travestimenti di donne viventi in ninfe posticcie, pe' quali l'imitazione artistica del vero perdeva miseramente tanto tesoro di realtà, si arrestassero, cotesti travestimenti, o s'impacciassero dinanzi alla santità delle tombe; quando, secondo la figurazione polizianesca della morte della Simonetta,[313] l'amante, o il poeta,

vedea sua ninfa, in trista nube avvolta,

dagli occhi crudelmente essergli tolta.

In uno degli epigrammi funebri di messer Angelo per la Simonetta, e proprio in quello a cui dette il concetto Giuliano de' Medici,[314] «tranquilla in sul punto di morte, si volge, la ninfa, a Dio, in lui confidando»; curiosa ninfa, a dir vero, che si raccomanda l'anima: come singolar mortorio, altresì, quello che portava verso la chiesa d'Ognissanti, alla cappella de' Vespucci, la Simonetta, se intanto, strada facendo, Amore, proprio il figliuolo di Venere piovuto non si sa come in quell'accompagnamento, saettava tuttavia, standocene a un altro di cotesti epigrammi,[315] saettava da' chiusi occhi di lei pur col ricordo del loro splendore.

Meglio ispirato il Poeta mediceo faceva da un'altra tomba di sposa ventenne (cominciammo da un ballo, o Signore, e ci siam persi fra le tombe; ma il geniale argomento, ancorachè caduto, come vedete, nelle mani d'un conversamorti, ci ricondurrà, vi prometto, alle gioie e ai travagli della vita), da un'altra tomba di giovine sposa minor sorella dell'Albiera, e ancor essa bellissima, Giovanna degli Albizzi moglie a Lorenzo Tornabuoni, morta nel dare alla luce il secondo figliuolo, faceva il Poliziano uscire la voce di lei, così:[316] «Gentilezza di sangue, bellezza, un figliuolo, ricchezze, amor coniugale, ingegno, costume, animo, mi facevan felice: felicità, che la Parca perfida, a viepiù inacerbirmi la morte, mi addimostrò piuttosto che darmi.» Ma buona e pietosa forse possiamo noi oggi dire la Parca, che risparmiò a Giovanna di vedere soli nov'anni appresso, nel 97, ne' tempi del Terrore Piagnone, decapitato a ventinove anni il suo Lorenzo come cospiratore mediceo.[317] Memorie d'infinita pietà a chi guardi, sulle medaglie coniate in onore di lei, le sue forme gentili, e ne' rovesci simboleggiate le sue virtù, o con le tre Grazie, scrittovi intorno Castità Bellezza Amore, o con la figura virgiliana della ninfa cacciatrice;[318] a chi nella cappella che fu de' Tornabuoni, in Santa Maria Novella, la riconosce, nei meravigliosi affreschi di Domenico Ghirlandaio, in quella bionda giovanissima gentildonna, che riccamente vestita di broccato d'oro campeggia nella storia della Visitazione;[319] a chi potesse pur di Giovanna rivedere un altro ritratto, della stessa mano del Ghirlandaio, che col nome della madonna Laura petrarchesca da un palagio fiorentino trasmigrò ad altri lidi;[320] o a chi rimpianga certi preziosi affreschi, che in una villa suburbana del pian di Mugnone tornarono, pochi anni or sono, alla luce, solamente per esser divelti e travalicati e (sento dire) sciupati oltralpe.[321] Quanta gentilezza del Rinascimento fiorentino dovette accogliersi fra le pareti di quella villa che nei Tornabuoni rimase dal 1469 al 1541, e fu dunque villa di Giovanni Tornabuoni, quando questi e in Firenze e in Roma, quasi ambedue egualmente medicee, era forse il principale agente della fortuna sì mercantile e sì politica della poderosa famiglia; quando ei faceva nel 1490 scoprire quella magnifica sua cappella, e ci faceva scrivere dal Poliziano la data, «anno 1490, nel quale la città bellissima, nobile per ricchezze, vittorie, arti, edificî, godeva di abbondanza, di salute, di pace»;[322] quando nel giugno dell'86 le nozze del suo Lorenzo con la bella Giovanna, da Lorenzo stesso dei Medici conciliate, erano festa non pur domestica ma cittadina.[323] Veniva la sposa a Santa Maria del Fiore, in mezzo a un corteo di cento fanciulle delle maggiori famiglie, e di quindici giovinetti vestiti d'un'assisa: assistevano al darsi l'anello cavalieri così cittadini come di fuori, e un ambasciatore di Spagna al Pontefice. Un Guicciardini e un Castellani accompagnavano la sposa alle case de' Tornabuoni, presso alle quali la piazza di San Michele Berteldi (oggi piazza San Gaetano) era «messa a palco» per uso di festeggiamento e di ballo: e di là tornati gli sposi alle case degli Albizzi, s'imbandiva suntuosamente la cena, essendo messo il terreno del palagio egualmente a palco pel ballo, che a lume di doppieri si alternava, durante l'intera notte, co' virili giuochi d'una sfarzosa armeggeria. Più riposate dolcezze offriva ai giovani sposi la villa. Qui viene ad essi il Poliziano, tenerissimo del giovine Lorenzo fin quasi a ieri suo valente discepolo; il Poliziano[324] che con affetto quasi paterno si compiace d'ogni suo trionfo, così nelle lettere classiche, specialmente greche (delle quali spera che toccherà presto la cima); come nel poetar volgare, magari anche all'improvviso; come nelle giostre della piazza di Santa Croce: viene l'umanista dottissimo a intertenersi de' cari studî, a leggere que' suoi stupendi poemetti latini le Selve, una delle quali l' Ambra, d'argomento omerico insieme e mediceo, è dovuta a te (scrive dedicandogliela) per l'un titolo e l'altro: viene a esaminare e interpretare le antiche medaglie, della cui raccolta in casa Medici il numismatico erudito e diligente è appunto Lorenzo Tornabuoni: al quale, e al maestro suo, chi dubiterebbe (certi di ciò) d'attribuire, con altre, le medaglie fatte eseguire in onore della sposa diletta? Ma il vecchio Tornabuoni, che guarda con occhio d'immenso affetto que' giovani capi, ahimè destinati sì da presso alla morte, non pago che il Ghirlandaio li ritragga nelle mirabili storie della cappella, in un'altra di quelle meraviglie dell'arte li vuole, sulle mura di quella stessa sua villa, per mano del Botticelli, consacrati alla ricordanza de' secoli. «Dipignetemi, o maestro, questa sala a buon fresco; e il Poliziano nostro, qui, darà, come suole, il concetto d'alcuna di quelle esquisite allegorie nelle quali sì fieramente vi compiacete». E il Botticelli, in due storie sulla medesima parete della sala, come sulla medesima parete della cappella in due separate storie il Ghirlandaio, ritraeva i giovani sposi. Nell'una, il cui fondo è una selva assai folta, — che ricorda quello dell'altra allegoria di Sandro polizianesca, la Primavera, — Lorenzo Tornabuoni, vestito dell'abito civile fiorentino, con la folta e morbida capigliatura distesa, si avanza, condotto per mano da una donna di modesto e gentil portamento, verso un circolo di altre sette donne, acconciate (come anche l'introduttrice) fantasticamente, e che pe' varî emblemi di che ciascuna d'esse è fornita, simboleggiano certamente le sette Arti liberali; delle quali quella che alle altre sovrasta e par che presegga, fa a lui cenno di accoglienza amorevole. Nell'altra storia, Giovanna, cara figura delle più vivamente lumeggiate di verità bella che siano uscite da pennello di quattrocentista, con un viso che dice davvero quelle virtù che leggemmo scritte sul suo sepolcro, atteggiata a semplicità affabile e graziosa, porge con ambe le mani e le braccia protese un pannolino spiegato, nel quale quattro gentili giovinette, che si avvicinano a lei, sono per deporre fiori. E anche questa volta, vestita del costume fiorentino del tempo la persona della sposa; ma a fantasia le quattro che probabilmente son figurate per virtù proprie di lei. Ai piedi respettivamente sì dello sposo e sì della sposa, un bambino, che regge uno stemma: soave augurio nuziale all'avvenire della famiglia.

II.

In tali imagini il sentimento e l'arte, che da questo s'informa, effigiavano, mentre fioriva l'umanismo mediceo, la donna. Alla quale, nelle realtà della vita e dell'esser suo, sola, io credo, di tali omaggi era accessibile e gustata e compresa quella parte che prendeva consistenza in figure consacrate dalla religione, sotto le volte maestose delle chiese d'Arnolfo e di Brunellesco, piovente la luce misteriosa, per le grandi bifore da' vetri colorati in istorie, sugli affreschi e le tavole di Masaccio e di Benozzo, de' Lippi e de' Ghirlandai, d'Alessio Baldovinetti e di Piero di Cosimo, sui marmi e sui bronzi di Mino, di Donatello, del Ghiberti, del Verrocchio, del Pollaiuolo. Da quelle figure, genuflesse alla preghiera, o nel sonno della morte distese, o atteggiate vive all'azione delle leggende evangeliche, sollevavansi le pie e gagliarde anime femminili a ciò che nel tempo è di qua e di là dal momento che si vive; congiungevansi i ricordi, gli affetti, le glorie umane della famiglia, con le speranze immortali. E questa poesia, sentita nel cuore, sapeva anche trovar forma nella parola, la forma paesana e casalinga della Lauda e della sacra Rappresentazione, per opera di Antonia Pulci e di Lucrezia Tornabuoni ne' Medici. L'Antonia, nata dei Giannotti, moglie e cognata di poeti,[325] in famiglia che tutti erano cosa de' Medici, potè con madonna Lucrezia madre del magnifico Lorenzo conferire le sue ascetiche ispirazioni nell'atto di fermarle in quello stampo fra drammatico ed epico, pel quale la Rappresentazione ha corrisposto con tanta pienezza all'istinto plastico della fantasia popolare; e madonna Lucrezia, fra un canto e l'altro che Luigi Pulci le recitasse del suo Morgante, e altresì fra l'una e l'altra delle provvide cure per le quali casa Medici le dovè tanto, scriveva senza pretenzione di letterata le religiose canzonette pe' Laudesi, o riduceva in ottave o in ternarî le istorie bibliche, delle quali poi facevan delizia negli ozi fiesolani e di Careggi i suoi nipotini.[326]

Gentili donne non letterate, nello stretto senso professionale e (con vostra buona grazia, e senza che troppo debba rincrescervene) non femminile, della parola; le quali serbando nette d'erudizione le mani delicate, coglievano dall'arte il fior dell'affetto, e pur conversando coi dotti umanisti e coi barbassori che la caduta di Costantinopoli aveva addotto fra noi, si stavano col popolo nel vestire, delle forme che egli intende e crea, il pensiero e l'affetto; dalla realtà, quale il popolo per linea diritta la vede, cavar fuori e animare il fantasma. Le giovinette istituite nel latino e nel greco, non era difficile trovarle nelle case principesche o signorili di Lombardia e di Romagna: era una, fra le altre, delle splendidezze cortigiane di quelle regioni.[327] Una addirittura «meraviglia di donna» umanista, la trovò il Poliziano a Venezia: Cassandra Fedele; e la salutò entusiasticamente col virgiliano, O decus Italiae virgo![328] Ma i grandi cittadini della nostra Firenze, anche della oligarchia più elevata, e molto più i Medici che a combattere quell'oligarchia, e sulle ambizioni di lei insediare la propria, usavano artifizi democratici, rimasero (dico gli Albizzi, i Ricci, gli Strozzi, i Rucellai, ed essi i Medici), anche attraverso agli splendori dell'umanismo, principalmente e visibilmente mercanti: e la donna, nelle loro case, fu pur sempre e soprattutto la donna di grandi mercatanti, donna massaia, avvisata, e più che della libreria e del medagliere curatrice dell'azienda domestica, o, se volete anco, della credenza, del celliere (com'allora dicevasi), della colombaia, del pollaio.

Una letterata, anzi letteratissima (che però non ha lasciato libri), ebbe Firenze in quel secolo, ma non da alcuna delle grandi famiglie, sibbene nella figliuola d'un Cancelliere della Repubblica, venuto, come tanti altri, dal contado alla città, e qui arricchitosi e fatta fortuna. Ella fu la bella Alessandra di messer Bartolommeo Scala:[329] alla quale due di quei barbassori greci, il Lascari e il Calcondila, furon maestri; un altro, venuto in Italia umanista e soldato, Michele Tarcaniota Marullo, fu suo marito; e spasimato di lei il Poliziano (nonostante tutti i canonicati e priorati e pievanie, di cui poco degnamente lo rincalzavano i Medici; e nonostante, altresì, il suo collo torto e l'occhio losco e il naso sformato e gli anni ormai quasi quaranta), spasimato di lei, e per cagion di lei nemico feroce e con terribili giambi laceratore del marito e del padre.[330] Non vi meraviglierete che una passione amorosa fra persone di questo calibro si sfoghi in greco. Si rappresenta nientemeno che una tragedia di Sofocle, l' Elettra: protagonista, Alessandra Scala; cronista teatrale, con tutti addosso gli entusiasmi d'una passione, ahimè, non corrisposta, il povero Poliziano in sei distici di squisita fattura, che vi traduco liberamente: «Una mirabile Elettra, la giovinetta Alessandra: mirabile nel pronunziare, essa italiana, la lingua d'Atene, nella intonazione vera della voce, nel curare l'artificio della scena, nel ritrarre fedelmente il carattere, regolare lo sguardo, il gesto, il movimento; nel conservare al linguaggio della passione il decoro, nel suscitare col volto in lacrime la pietà degli spettatori. Tutti ne fummo percossi; ma oh che invidia sentii io nel cuore, quand'ella, stringendo al seno Oreste, gli dice, — T'ho io fra le braccia? — ed egli, — Oh così tu m'abbia sempre!» Un passo ancora, ossia un altro epigramma greco, e il critico drammatico, l'ammiratore entusiasta, si scuopre amante. «Ho trovata, ho trovata, quella che volevo, che sempre cercavo; l'amor mio sospirato, quella che vedevo ne' sogni: una fanciulla d'intègra bellezza, di adornezza non accattata ma naturale; una fanciulla, culta di greco e di latino, eccellente nella danza, eccellente nella musica; de' cui pregi, velati dalla modestia, contendono a gara le Grazie. L'ho trovata: ma a che pro, se appena una volta l'anno posso io, che di lei ardo, vederla?» Ma l'Alessandra era in grado, non solamente di ricevere omaggi in greco, sì anco in greco rispondere; e rispondeva così: «Nulla di più bello, che la lode d'un valentuomo: ed oh qual gloria a me dalla lode tua! Quanto ai tuoi sogni, bada, interpretali bene: tu non puoi aver trovato in me quanto dici. È sentenza del divino Omero: — Avvicina un Dio i consimili. — Or troppa è fra te e me la dissomiglianza. Imperocchè tu sei come il Danubio, che da occidente a mezzodì, e poi di nuovo verso oriente, diffonde largo corso di acque. Glorioso filologo, tu discacci le tenebre dai monumenti di più lingue: greca, romana, ebraica, etrusca. Ercole dell'erudizione sei a gara chiamato, per le tue fatiche intorno a testi di astronomia, di fisica, di aritmetica, di poesia, di leggi, di medicina. I miei scritti di fanciulla son cosette leggiere, come i fiori e la rugiada. Io accanto a te, perchè so un poco di lettere! Ma sarebbe com'a dire, secondo il proverbio, la zanzara accanto all'elefante, perchè han la proboscide tutt'e due; la gatta accanto a Minerva, per via degli occhi cerulei.» Che ve ne pare? Fu mai con maggior dottrina, o con più squisita crudeltà, rimesso al suo posto un adoratore stagionato? Non credete voi che messer Angelo abbia questa volta dovuto imprecare alle similitudini, alle perifrasi, alle antonomasie, e a tutto il resto dell'arsenale retorico? mandare al diavolo i proverbî greci, e magari anche le sentenze del divino Omero? Persiste tuttavia, come pur troppo avviene le più volte in simili casi; e persiste, il che è assai meno frequente, in greco: «Tu mi mandi, o Sandra, le pallide violammammole: e io nell'amore di te impallidisco e mi struggo. Fiori e foglie, imagine gentile della tua primavera; ma il dolce frutto io vorrei!» Al che Alessandra non risponde; anzi: «Nè vederti, o Alessandra, mi è permesso più, nè ascoltarti: ma almeno, due versi di risposta.» E finalmente (del buon gusto poi di questa pensata lascio a Voi, Signore e Signorine, il giudizio): «O giovinetta, gradisci per la tua chioma questo pettine d'osso: così potessi io avere i capelli del tuo bel capo.» I capelli d'Alessandra Scala, come già quelli dell'Albiera sul feretro che la portava in San Pier Maggiore, furono (questa credo non ve l'aspettereste) recisi più tardi sulle soglie di quello stesso convento, dove, rimasta vedova del suo greco, ella si fece monaca benedettina, e vi morì giovanissima nel 1506.

III.

Se non che l'arte, la poesia, non sono esse la poesia della vita: possono, della vita, adombrare con le loro imagini, o idealizzare, la realtà; ma quelle imagini dalla realtà si distaccano, hanno propria esistenza, alla quale la realtà rimane estranea od anco può contraddire. Beatrice è donna; addiviene angelo, simbolo, ente: Laura è moglie e madre; la poesia la restituisce, libera, alle idealità dell'amore. Le idealità del Trecento, paesane e cristiane, e umane almen tanta parte quanta è umano lo spirito, il Rinascimento le aveva, sin dove potè, sopraffatte con l'umanesimo della materia, con la sua mitologia, co' suoi ninfali, co' suoi baccanali, incominciando a svolgere dal dischiuso gomitolo dell'antichità classica quel filo che, sottile ma tenace, si continuò poi per tutta la poesia italiana, non pure sino alle Grazie d'Ugo Foscolo, che al rito delle sue Dee sugli «aerei poggi di Bellosguardo» consacrava sacerdotessa anche una gentildonna fiorentina,[331] ma sino all' Urania del Manzoni, che precedè gl' Inni sacri e i Promessi sposi. Nella poesia del Quattrocento, dal Boccaccio al Poliziano e a Lorenzo, le ninfe Simonetta e Ambra non sono che due figure spiccate dall'idillio fiesolano, nel quale messer Giovanni ha classicizzato e paganeggiato, con gli amori d'Affrico e di Mensola, le origini di Firenze.[332] Da Poggio a Caiano per Careggi e Montughi fino a Settignano e Maiano, lungo tutto questo nostro subappennino gentile, le Driadi e le Amadriadi, le Naiadi e le Napee, con tutta quanta la fauna del loro corteo mascolino, danzano allegramente alla luce misteriosa de' pleniluni, che pur si diffonde sulla Badia medicea di Brunellesco, e da' finestroni della vecchia cattedrale di Fiesole investe le animate sculture di Mino, lumeggia della cristiana aureola la Vergine e i Santi di frate Giovanni Angelico. Muore in una sua villa, forse a Quarto, una giovine gentildonna, che a prezzo della propria salva la vita al suo bimbo pericolante nel crollare d'una tettoia del contadino. E la cronaca cittadina, compilata sulla cetra dei latinisti, esalta questa devozione di madre alla sua creatura, sapete come? con inveire contro gli Dei Lari che non hanno sorretta quella tettoia, contro le divinità campestri le quali hanno attratta in villa la bella Alba (un'altra Albiera), che Venere avrebbe dovuto proteggere; con l'imprecare alle Parche, tuttavia non senza consolarsi pensando che laggiù, fra le ombre elisie, Alba, la più bella di tutte, usurperà il regno a Proserpina: e tutto questo pur descrivendo, e non senza efficacia, la madre presente all'eccidio della giovine figliuola, e che ne perde i sensi; e lo strazio del marito, che, lontano da Firenze, torna quando la sua povera moglie è ormai sotterra, e vuole a forza alzare la pietra di quella sepoltura, e che le care sembianze siano restituite una suprema volta al suo disperato dolore.[333] La famosa brigata delle gentili donne fiorentine, che fuggendo i dolori e i pericoli della pestilenza del 1348 è dal gran novelliere immaginata ritrarsi in una di quelle vallette fiesolane, ci perde i nomi con che sono state battezzate in San Giovanni, per divenire Pampinee o Neifili, e le loro fantesche Misia Licisca Stratilia, e Sisisco il cuoco, e Panfilo Filostrato Dioneo la fauna de' loro amatori:[334] con tanta verità, quanta ne è in cotesto calunniare la donna, sia di quello sia di qualunque altro secolo, apponendole che, dove si soffre e si muore ella se ne vada in campagna, invece di rimanere ferma e fedele al suo posto.[335] Tanta verità in ciò (Voi non mel concedereste se lo affermassi, o donne gentili), quanta nella bizzarria germogliata, non si sa come, in testa al buon Franco Sacchetti, d'una Battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie,[336] le giovani schierate sotto il gonfalone di Venere, le vecchie sotto quello dell'infernale Proserpina; il tutto in quattro cantàri d'ottave mal connesse, con volgare strazio d'ogni nobile affetto e un pocolino anche del buon senso, che informa invece così finamente le novelle di quel medesimo Franco. Tanta verità in coteste cose, quanta (per tacer d'altre volgarità siffatte) nella fantasia, incarnatasi bensì in una delle prose più belle di nostra lingua, Le bellezze delle donne; le quali bellezze don Agnolo Firenzuola immagina, in un'altra brigata boccaccevole, siano da quel suo Celso, che è poi lui stesso senza la cherica, analizzate pezzo per pezzo, più o meno velati, sulla persona di quelle sue (al solito sbattezzate) monna Lampiada, monna Amorrorisca, e Verdespina, e Selvaggia, ascoltatrici e interlocutrici: anatomia estetica, possibile forse ad eseguirsi laggiù nella Magna Grecia in servigio di Zeusi quando dipingeva la sua Elena, ma non già in Prato, nell'orto della badia di Grignano, l'anno di grazia millecinquecento tanti, in una veglia, quale quella vuole pur essere, di donne non dimentiche di sè medesime.[337]

IV.

Non era quella, nè poteva essere, la poesia della vita fiorentina fra il XIV e il XVI secolo. Fantasticata su' libri, e in libri foggiata, essa non attinge nè attiene alla vita vera di quell'età; nè vera è la donna che su quel mitico fondo, tutto romano e greco, nulla medievale, campeggia. Vera, invece, dalle descrizioni, o siano poetiche o meglio se in prosa schietta fiorentina, de' conviti nuziali, delle armeggerie, delle giostre, vera e viva ci sorride, e onestamente baldanzosa, e di quelle cavalleresche e cortigiane onoranze seco medesima sodisfatta e superba, la donna. Non mancano anche in cotesti suntuosi apparati lo iddio Amore, gli Amorini (convertiti bensì, il che ha un po' del trovadorico, in spiritelli), le Ninfe; sibbene come ornamento esteriore, fregio posticcio, parvenza fugace; non come espressione mitologica d'un sentimento, o quasi (direi co' filosofi) espressione essoterica d'una dottrina. Ma la figurazione dominante e caratteristica è dalla cavalleria medievale, e s'atteggia e si drappeggia nelle persone e nelle foggie di castellani e di principi, d'uomini d'arme, di donzelli, d'araldi e di paggi, di dame crudeli e di servi d'amore, con seco le grandi o gentili memorie delle crociate, de' passaggi imperiali, della «santa gesta» de' Paladini: le donne (ha cantato Dante[338] )

le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi

che ne invogliava amore e cortesia.

Siamo in piazza Santa Croce il 7 febbraio del 1468; e si fa la giostra[339] della quale Lorenzo de' Medici scriverà ne' suoi Ricordi: «Per eseguire e far come gli altri, giostrai in sulla piazza di Santa Croce»; e ne noterà la spesa in fiorini diecimila di suggello: «e benchè d'anni e di colpi non fussi molto strenuo, mi fu giudicato il primo onore, cioè un elmetto fornito d'ariento, con un Marte per cimiero.» Entrano in campo i giostratori: Medici, Pitti, Pucci, Vespucci, Benci, Pazzi, e altri molti; qual più qual meno riccamente forniti: con magnificenza più che regale, Lorenzo alla divisa de' gigli d'oro di Francia, e in sua compagnia il fratello Giuliano, coperti d'oro, d'argento, di perle, di pietre d'ogni sorta preziose: ciascun cavaliere accompagnato da trombetti e paggi e uomini d'arme, e giovani gentiluomini a cavallo tutti vestiti sfarzosamente alla divisa di quello; brigate per ciascuno di poco meno che un centinaio di persone; e ciascun cavaliere col suo stendardo, nel quale fra emblemi e segni diversi, e per lo più tra verde di prati e fiori di verzieri, la dama del cuore. Questa, leggermente velata di bianco, con ghirlanda di quercia in mano, e a' piedi legato con catene d'oro un leopardo; quella, in abito di ninfa, che riceve nel grembo le foglie d'un faggio battuto dalla tempesta, e le dà mangiare ad un daino; quell'altra, vestita di bianco e di verde, che le saette d'Amore infocate spenge nel fonte che scorre a' suoi piedi; un'altra, vestita di paonazzo, che quelle stesse saette fa in pezzi e ne semina il prato: ma la dama di Lorenzo, irraggiata dal sole traverso ai colori dell'iride, vestita di drappo alessandrino ricamato a fiori d'oro e d'ariento, coglie d'un ramo di lauro rinverdito sull'arido tronco, e ne fa ghirlanda, e ne sparge foglie all'intorno; il suo motto, in lettere di perle grosse da gioiellare, le tems revient. E molto lontano da Firenze, in Roma, nell'austerità baronale del palagio degli Orsini, pensava a lui in quel giorno una giovane donna, che non era nè forse le rincresceva di non essere la dama del suo stendardo, perchè si apparecchiava ad essere la madre de' suoi figliuoli. «Lorenzo è molto occupato in questa giostra, chè già da tempo non ò avuto sue lettere»; ha detto ella, la Clarice, un mese innanzi, a uno de' Tornabuoni venuto a recarle le nuove di lui: ed ora, appena corrono a farle sapere «come Lorenzo à fatto la giostra, e n'è uscito sano e con grandissimo onore», e che «s'è aoperato tanto degnamente quanto sia possibile di dire», e che «giammai fu paladino facessi quello à fatto Sua Magnificenza», risponde soavemente: «Ora che s'è fatto la giostra, non avrà più scusa da recare, che non venga a Roma questa quaresima.» E in occasione della quaresima, la madre le ha fatto «levare panno pagonazzo di Londra per una gonna a la romanesca», che crede quel fidato Francesco Tornabuoni «non istarà punto male»; e così si propongono, madre e figliuola, di «andare vicitando tutti questi perdoni, pregando Iddio per Lorenzo»: ma la madre insiste ch'e' venga, perchè «vuole che voi vegiate la vostra mercanzia, avanti l'abbiate a casa; la quale ogni giorno migliora»: della qual locuzione figurata non so se proprio si abbellisse il parlare della nobilissima matrona, o s'ella fiorisse spontanea nella lettera del mercante cliente al mercante magnifico.[340]

Un anno e quattro mesi dipoi, il 4 giugno del 69, le nozze di Lorenzo e di Clarice si celebravano in Firenze con grande solennità, la quale incominciava con due interi giorni di offerte a casa i Medici dal contado e dalle città di Toscana; offerte la cui consistenza sommò, per citar qualche cifra, a un centocinquanta vitelle, paia di capponi paperi e pollastri più di duemila, vini nostrali e forestieri a botti, e simili altre gentilezze, che Lorenzo partecipava largamente alla cittadinanza, anche prima d'imbandire, dalla domenica al martedì, ben cinque conviti, che empivano le loggie e i giardini del palagio di via Larga, con le mense distribuite fra giovani donne in compagnia della sposa («cinquanta giovani da danzare» dice l'informazione[341] ), e le donne di più età con madonna Lucrezia; e così in tavole separate i «giovani che danzavano» e gli uomini di più età. Dalla domenica mattina, quando la sposa, partitasi dalla casa degli Alessandri «a cavallo, in sul caval grosso che donò a Lorenzo il re di Napoli», entrava fra nobilissimo corteo nella casa maritale, mentre festeggiato di musica lieta si tirava su alla finestra il simbolico ulivo; sino alla mattina del martedì, quando «andò a udire messa a San Lorenzo», con in mano uno de' mille doni nuziali, «uno libriccino di Nostra Donna, maraviglioso, scritto a lettere d'oro in carta d'azzurro oltremarino, coverto di cristallo e d'ariento lavorato»; Clarice Orsini, trasportata avvolta sollevata in quel profumo di gioventù, di bellezza, di grazia, di forza; ricevuta nelle sale che Cosimo, Piero e Lorenzo avevano impreziosite dei tesori dell'antica arte e della risorta; circondata, sovraccarica, dagli splendori d'una ricchezza che, anche non ostentata anzi voluta dissimulare, tuttavia impacciava quasi sè medesima; regina degli omaggi che il fiore delle intelligenze di tutto il mondo tributava a questa famiglia, la cui potenza era soprattutto l'ingegno; potè ben comprendere ch'ella era venuta sposa al primo cittadino, non che di Firenze, d'Italia.

E lasciamo stare se a quella gaiezza un po' sbrigliata della città popolana, allo scetticismo elegante di quei letterati già bell'e cortigiani, a quelle transazioni fra il cittadino e il cliente che corrompevano intorno al patrono tanto vecchio sangue repubblicano, se a questo e ad altro che poi dovette offendere la sua romana alterezza e i suoi sentimenti di moglie e di madre,[342] ella ripugnò sin da principio, e ne contrasse quel malinconico cruccio che avvolse tutta la sua virtuosa esistenza domestica; lasciam pure che invece del Poliziano, il quale ella giunse perfino a cacciare di casa,[343] preferisse di vedersi intorno ser Matteo Franco, buona pasta di cappellano e di sonettiere faceto, nelle cui fiorentinissime lettere madonna Clarice, circondata da' suoi figlioletti, è viva e parlante figura;[344] ma non saprei tuttavia credere, che, giovinetta sposa, ella non abbia dovuto gustare, di quella popolana gaiezza, di quella eleganza addottrinata, di quei cortigiani ritrovi, quanto parlava così vivacemente ai sensi e alla fantasia, in feste, per esempio, simili a questa, che pochi anni avanti, nel 64, aveva empito del suo fragore gioioso una intera notte del carneval fiorentino.

«Notizia d'una festa fatta la notte di carnasciale, per una dama la quale fu figliuola di Lorenzo di messer Palla degli Istrozi. La detta festa fu fatta da Bartolomeo Benci, come innamorato di detta dama.»[345] Ve la riassumo, il più che potrò con le parole stesse della Notizia contemporanea, che sono una pittura. Bartolommeo Benci ha ordinato, con altri otto giovani di principali famiglie, un'armeggeria notturna, l'ultima notte di carnevale, in onoranza, prima alla dama sua, poi, come sentirete, a ciascheduna delle otto respettive dame de' suoi compagni. Ciascuno di essi otto è a cavallo, ricchissimamente forniti: ciascuno ha trenta giovani intorno a sè, vestiti alla propria divisa, con torchi in mano, e altri otto intorno alla briglia. Il Benci poi, col bastone di «Signore e Capitano della Compagnia», è «in su 'n uno cavallo che la natura nollo potre' fare più bello; con fornimento e sella e briglia tutto di chermisi, ricamato di molte argenterie tanto riccamente quanto fare si potè: e lui in su detto cavallo, con uno giubone di perle ricamato e gioie, con due alie alle spalle, d'oro e più altri colori. E intorno al detto Signore era quindici gentili giovani a piè; tutti con gonnellini di raso chermisi foderati d'ermellini, con calze pagonaze: a' quali esso Signore donò a ciascuno. E oltre a questo, aveva intorno detto Signore centocinquanta giovani, tutti vestiti a una sua divisa, cioè gonnellini e calze verdi, con falconi nel petto e di drieto, d'ariento, che gittavano penne per tutto el gonnellino: e' quali centocinquanta giovani ciascuno aveva uno torchio acceso in mano.» Portatori e pifferi circondano il Trionfo d'Amore, che è alla testa: un Trionfo «alto braccia venti, composto in modo che, guardandolo, si rimaneva abagliato: co' molti ispiritegli d'amore con archi in mano; e in alcune parti l'arme de' Benci, e in altri luoghi la divisa del padre di detta dama: co' molte campanellette e sonagli d'ariento, e varie cose. Era composto, detto Trionfo, d'alloro, mortina, arcipresso, abeto e scope, cose tutte verdi e calde, apropriate all'amore. E, per abreviare, in sulla cima di detto Trionfo era un cuore sanguinente, aceso in fiamme di fuoco, che del continovo ardevano; con certi razi» che a suo tempo dovevano esser lanciati. Muove la brigata (tutto ben computato, oltre un cinquecento persone) dalla Piazza de' Peruzzi, dopo una lauta cena in casa di Bartolommeo, e va alle case degli Strozzi da Santa Trinita: due Benci e due Strozzi regolano a cavallo l'andata. La Signoria ha fatto bandire, che nessuno quella notte giri a cavallo per la città, fuor di cotesta armeggeria; e che in essa o a cagion d'essa, «se per disgrazia alcuno fusse morto, chi l'ammazza sia sanza pena e sanza bando»: il che è detto «un obviare a' casi cattivi che potrebbero nascere». E così, «giunti a casa della dama, feciono la mostra. E apresso, ciascuno corse ritto in sulla sella, secondo uso d'armeggeria, con uno dardo in mano, dorato. E dipoi ancora, ciascuno corse con una lancia busa, dorata; e ruppono a piè della finestra dov'era detta dama. La quale si mostrava in mezo di quattro torchi acesi, con tanta graziosa onestà che una Lucrezia basterebbe. E fatto questo, el Trionfo era fermo sulla piaza, dirimpetto alla finestra dov'era detta dama: e al Signore fu ispiccate l'alie e gittate in sul Trionfo; e in quel punto, era ordinato che a detto Trionfo s'apiccassi el fuoco: e così arse, con tante grida e suoni che insino alle stelle andava el romore. E i razi che v'erano su erano artificiati in modo che pareva che quegli ispiritegli d'amore, ch'erano in su detto Trionfo, co' l'arco che gli avevano in mano gli saettassono. E così acesi, per l'aria volavano apresso alla dama: alcuno n'andava in casa della detta dama, che si istima glien'entrassi alcuno nel cuore, per compassione del detto amante. E fatto questo, el detto Signore Amante, partendosi con tutta la compagnia, per non volgere le spalle a detta dama, fece che sempre el cavallo andava indrieto, tanto che più nolla potè vedere. E partiti di quivi, andorono a rompere le lancie e armeggiare a casa le Dame di ciascuno de' suoi Compagni, cioè degli otto nominati. Dipoi tornorono tutti dalla Dama del Signore, e feciolle una mattinata co' molti suoni e gra' magnificenza; e questo si dice mattinata, perch'era presso a dì. E dipoi si partirono, e acompagnorono el Signore, cioè Bartolomeo Benci, a casa, nel modo e forma come s'erano partiti nel prencipio. E 'l detto Signore aveva ordinato molte confezioni, e fece tutti convitare co' gra' magnificenza». A chi poi rimanesse la curiosità (mi sia permesso, gentili ascoltatrici, supporla), se a que' nove armeggiamenti sotto le finestre delle nove case abitate dalle nove dame, corrisposero a suo tempo nove bei matrimoni, rispondo: che quanto ad alcuna delle amorose coppie, no certo, per la ragione molto stringente che il cavaliere aveva moglie, il che fa altresì lecito ammettere che anche qualcheduna delle respettive dame avesse, per ulterior respettivo, marito: quanto a qualche altra coppia, potrebb'anch'essere; ma a chiarirlo, bisognerebbe, come de' cavalieri, avere i nomi delle otto dame; e questi la Notizia, che vi ho riassunta, non ce li dà. Quanto poi alla coppia che più forse vi preme, mi rincresce dovervi notificare, che la Marietta Strozzi, nonostante tutta quella bersagliatura di razzi amorosi fra la quale le finì il carnevale del 1464, sette anni dopo andava sposa (e già aveva seguìta fuor di Firenze la madre) ad un Calcagnini di Ferrara; e l'anno appresso, nel 72, l'aligero, e poi spennacchiato, capitano Bartolommeo Benci sposava la Lisabetta Tornabuoni, una sorella di quel confidente a Roma tra la Clarice Orsini e Lorenzo de' Medici.

Molte dolci memorie, del resto, dovè lasciare la bella Marietta Strozzi nella città nostra,[346] lontano dalla quale il padre suo esule (come per lungo tempo, dopo il trionfo de' Medici, furono, di generazione in generazione, gli Strozzi) era morto di ferro, e per l'esilio di lui aveva dovuto pure starsene fuori la madre, virtuosissima e austera donna, Alessandra de' Bardi:[347] e in questa quasi orfanezza, la fanciulla si trovò forse più libera che alla condizione sua non convenisse:[348] almeno in quell'inverno del 64, nel quale, poche sere avanti l'armeggeria, sentite quest'altra sua avventura carnevalesca, e che cosa era possibile a farsi, senza scandalo, da una giovine fiorentina in que' tempi. Vi traduco (liberamente anche questa volta) da una lettera, elegantemente latina, di amichevoli confidenze giovanili tra Filippo Corsini e Lorenzo de' Medici:[349] «... E mentre ti scrivo, la neve cuopre quasi tutta la città: tedio per molti e cagion di starsene; ma per altri cagione di darsi moto e piacere. Sappi infatti che Lottieri Neroni, Priore Pandolfini e Bartolomeo Benci,» (daccapo il nostro allegro Capitano) «Cogliamo il destro, hanno detto, di usare qualche bel tratto. E subito, a due ore circa di notte, si son presentati alla casa della Marietta Strozzi, seguìti da una gran moltitudine accorsa da ogni dove, per fare a gettarsi la neve con lei. Gliene han data la sua porzione, e hanno incominciato. Immortali Dei, che spettacolo! e come descrivertelo, Lorenzo mio, con questa debole prosa? Gran pompa d'innumerevoli fiaccole; squillar di trombe, dolcezza di flauti; pubblico appassionato e plaudente. E che trionfo, quando alcuno degli assalitori riusciva a sparger di neve il viso, come neve candido, della fanciulla! Ma che dico sparger di neve? un vero e proprio trarre al bersaglio era quello, e di tiratori valentissimi! La Marietta poi, così leggiadra e destra in quel giuoco, bella come tutti sanno, ne uscì con immenso onore. Ma i gentili giovani non si partirono da lei, che prima non le donassero molto nobilmente per loro ricordo. E così, con grande contentezza di tutti, il piacevole giuoco ebbe fine.» Un epigramma del Poliziano (l'ultimo che vi citerò da quel florilegio aneddotico del Quattrocento fiorentino che sono, più assai che le volgari, le sue poesie greche e latine) dice così: «Neve sei, o fanciulla, e giuochi con la neve. Giuoca: ma deh, prima che la neve s'imbratti, fa' che si sgeli.»[350] L'erudito, che oggi legge questo complimento amoroso, ricorda i molti altri, d'antichi e d'umanisti, che sul medesimo argomento si contengono nell' Antologia latina, e l'ha per un'imitazione a freddo (è proprio il caso di dir così) dall'antichità classica. L'aneddoto che vi ho narrato mostra, invece, che questa almeno fra le tante imitazioni umanistiche aveva riscontro nel vero attuale; ossia, che quel bizzarro costume era spontaneamente rifiorito, come anche altre parti della vita antica, nell'allegra democrazia del Rinascimento: finchè la inamidata prammatica delle Corti, la Riforma protestante correggitrice e il conseguente reattivo disciplinamento della morale cattolica, più tardi infine la filosofia civile e la rivoluzione bandita e guerreggiata in nome di principii universali, non ebber mutata la faccia del mondo.

Ma finchè quelle gazzarre, quelle feste davvero popolari, que' fantastici apparati, que' simboli abbaglianti, ebber vita, nè corteo di spose, nè armeggiamento per dame, nè giostra di amorosi cavalieri, ebbe mai tanta cittadina solennità, quanta uno sposalizio, ben diverso da tutti gli altri d'allora e di poi: lo sposalizio dell'abbadessa di San Pier Maggiore; sposalizio che si ripetè tante volte (salve eccezioni) quanti Vescovi ebbe per secoli parecchi la Firenze e del Medioevo e del Rinascimento ed anche del Principato Mediceo, poichè lo sposo della badessa era ( honni soit qui mal y pense ) messere lo Vescovo.

Quella chiesa e monastero di San Pier Maggiore, che furono delle maggiori antichità sacre di Firenze, se, come pare, nella lor forma primitiva risalivano al secolo quarto; che detter nome a una porta e a un sestiere della città, abitato e maledetto da Dante; non sono più. Si restauravano nel secolo XI, e si afforzavano con addossarli alle mura del secondo cerchio: si abbelliva la chiesa, a mezzo il secolo XIV: si sconciava, come tante altre, mediante le cappelle patrizie a marmi e stucchi di tutti i colori, nei secoli del barocco. E tutto oggi è sparito. E il tempo, che «traveste l'uomo e le sue tombe»,[351] a malapena ha rispettato nell'Arco di San Piero il nome (salvo i possibili attentati onomastici dei moderni edili) il nome del titolare. Quali rovine, quali ossa, calpestiamo noi, passando da quell'arco! Delle nostre conoscenze d'oggi, le due belle Albizzi si sono fatte polvere colaggiù sotto: e si addormentò in pace con esse la monacella grecista, la quale, se morendo ancor ella giovine, non ebbe tempo di maturarsi, arcigna e rugosa superiora, per quelle nozze episcopali, potè bensì esercitare la sua mondana erudizione, ahimè non più sulle immortali pagine d'Omero e di Sofocle, ma sul grosso notarile latino degli autentici privilegi di coteste mistiche nozze, che risalivano (dicono que' notari) «a tanto tempo quanto è di là da memoria d'uomini». L'ingresso del novello sposo della Chiesa fiorentina si faceva ritualmente dalla porta di San Pier Gattolini, oggi Romana: due famiglie, di grandi e tradizionali attinenze (da Dante proverbiate) con la mensa vescovile, avevano, i Visdomini e i Tosinghi, il privilegio, siccome «vicedomini della sedia vacante», di riceverlo e accompagnarlo sino al monastero, dove, simbolo della Chiesa fiorentina, lo attendeva la badessa. Si celebravano, a istanza di lei, nella chiesa le nozze, inanellando il Vescovo la sposa con un ricchissimo anello, «un anello d'oro con uno zaffiro» nelle nozze del 1301: e a questo sembra si rimanesse, nel Rinascimento, la forma delle nozze più modesta. Ma nel secol di Dante, il vescovo saliva dalla chiesa, a braccio dei visdomini, sin proprio alla camera della badessa: dove gli era offerto in dono un letto suntuosamente montato; e la camera per quel giorno, durante intere ventiquattr'ore, uscendone lei, diveniva camera di lui, sin che, la mattina appresso, i soliti visdomini gli venivano incontro col clero, e lo conducevano in Domo e lo insediavano. Tutta Firenze accorreva a quello sposalizio.[352] Oltre le due ricordate famiglie visdominali, altre ancora, e delle principalissime, Albizzi, Pazzi, Strozzi, rivestite di privilegi e diritti in questa o quella parte del cerimoniale, avevano da quello sposalizio frequenti occasioni di contestazioni, di proteste, di gare.[353] Alla badessa rimaneva il cavallo col quale era venuto il vescovo: ai Bellagi un tempo, poi per eredità agli Strozzi con gran trionfo di tutto il parentado, la sella.[354] La Chiesa fiorentina aveva avuto il suo pontefice, e la città una festa di più, nella quale era toccata la sua parte, e che parte essenziale! alla donna.

V.

Ma traverso a tutte quelle ideali trasformazioni che l'arte le apponeva, e a questa vissuta poesia di festeggiamenti e di pompe, quale fu poi nel segreto della vita reale, tra le pareti domestiche, figliuola e sorella, moglie e madre, quale, nella Firenze di quell'età, fu la donna?

Scoperchiare i tetti delle case, e sorprendere senz'essere introdotti la gente che attende tranquillamente a' fatti suoi, e peggio poi le signore, si è creduto, fino a pochi anni fa, un privilegio di quel personaggio che sapete, le Diable boiteux, sollevato da Renato Le Sage alla cattedra d'uno de' più grandi e maligni professori di filosofia morale che il mondo abbia avuto. Fino a pochi anni fa, quando a me, sfogliando con paziente amore le carte dei Medici avanti il Principato, occorse di scoprire un'anticipazione del Diavolo zoppo di Le Sage nella persona d'un cortigiano de' più cari a Lorenzo e a' figliuoli suoi, e che con uno di questi, divenuto papa Leone X, finì cardinale di Santa Chiesa: l'autore della Calandra, il Bibbiena; che in un Prologo a cotesta sua famosa commedia, rimasto inedito[355] anzi fra le cancellature del primo getto, immagina di fare un giro da camera a camera femminili, invisibile per forza d'incanto, e mette al nudo una serie di scenette bizzarre che accadono in questa o in quella, sul punto del recarsi le donne a una veglia che si fa quella sera in Firenze. Rassicuratevi: io non voglio entrar terzo fra il giulivo Cardinale e il diavolo; se già non vi pare che sia ormai posto preso da messer Guido Biagi, quando l'altro giorno v'introdusse con sì garbata erudizione, e così intimamente, nelle segrete cose della vita privata dei nostri vecchi.[356]

E qui cade un'avvertenza e una dichiarazione. Quel tanto che la novella e la commedia fiorentina del Quattrocento e (molto più largamente) del Cinquecento potrebber dare al ritratto della donna, io credo contenga troppa meschianza o di classico, o di boccaccevole, o di idealmente satirico: nè ebbe quell'età, come nel Sacchetti ebbero il Due e il Trecento da Giano ai Ciompi, un novelliere storico. Io non so in verità, quanto a buon diritto si possano accettare anche solo come tipi della famiglia in un dato momento della storia di Firenze, i personaggi della Mandragora: ma è poi certissimo che la buona Marietta Corsini moglie di Niccolò Machiavelli nulla ebbe, povera donna, di simile con quella alla quale egli, nel suo Belfagor, fa sposare il diavolo, e poi ridurlo a tale disperazione, ch'e' se ne torna a rotta di collo all'inferno.[357]

E una leggenda di amor coniugale e materno, delle più poetiche e commoventi, parrebbe, se non fosse dramma pur troppo vero e dramma sanguinoso, il fatto di Annalena, che lo stesso grande istorico consacrò alla memoria de' posteri con parole di somma reverenza.[358] Giunge un messo alle case di Annalena Malatesta, oltrarno, là dove il popolo memore dice ancora «da Annalena», e le annunzia: «Madonna, il marito vostro messer Baldaccio lo hanno morto a ghiado nel Palagio de' Signori, e precipitato dalla finestra, e mòzzagli la testa come a traditore e malfattore». Ed ella, che al venturiero d'Anghiari, valoroso e brutale come condottiere ch'egli è, ha dato, sposa poco più che tredicenne, il cuore e la fede, e piegata sul suo petto di ferro l'alterezza gentilizia del sangue che le scende nelle vene da Paolo Malatesta, — il cognato a cui la poesia di Dante fa eterni l'amore e la pena, il bacio colpevole e l'amplesso infernale; — essa, l'Annalena, che da quel Baldaccio è già madre d'un bambinello; corre, povera donna, a' Signori, al magistrato crudele che l'ha vedovata, e per quella creatura innocente riesce a salvare, col pianto, da confisca i suoi beni. Poi quel figliuolo, il suo Guidantonio, nel quale tutta la vita della madre fanciulla si era raccolta, le muore; ed ella, ancor giovanissima, si trova sola, e già vissuta, nel mondo. E allora Annalena, fatta donna dal dolore, di quella sua casa in lutto fa chiostro, in quelle mura chiude per sempre e consacra il breve romanzo della sua giovinezza, le sue nozze e la sua maternità, le amorose imagini e le micidiali, i ricordi d'una culla e di due bare; nelle stanze stesse dove fu madre, ritorna vergine a Dio, e madre di vergini invecchia soavemente.[359] Affettuosa madre, e compassionevole agli splendori e alle lusinghe del mondo; se uno degli umanisti celebratori di Albiera,[360] proprio a lei, ad Annalena ormai quasi cinquantenne, rivolgeva una di quelle elegie latine, e le chiedeva la preghiera sua e delle sue monacelle per la morta degli Albizzi, «per la giovinetta» le dice «che tu hai amato come una tenera madre ama l'unico suo»: parole non so dire se pietose o crudeli, che il latinista forse scandiva senza pensarci su, ma che dal cuore della vecchia monaca avran fatte risalire agli occhi le lagrime della giovine madre. Il monastero d'Annalena, la quale morendo a sessantaquattr'anni lo raccomandava a Lorenzo de' Medici, fu sin da' suoi principii tutto cosa della potente famiglia: e nelle stanze abitate già dalla fondatrice, dalla vedova del condottiero, ebbe asilo e salvezza, ne' tempi grossi pel nome mediceo, un fanciullo che doveva essere il principe di quelli armigeri, Giovanni delle Bande Nere.

Ma se cerchiamo la donna, a cui la sventura non invidia nè rapisce la famiglia, la donna che della famiglia è ornamento e conforto, esempio e ispirazione, forza e provvidenza, la donna di casa, la moglie e la madre; alla storia di lei danno tipi ideali, però in necessaria relazione con la realtà, come pel medioevo più alto i libri di «reggimento o costume o castigamento» femminili,[361] così per questo secolo XV i trattati di Governo della famiglia: o con intendimento piuttosto civile e secolare, quale è nel libro che si abbellisce de' nomi di Agnolo Pandolflni e di Leon Battista Alberti,[362] e in quella parte che è didattica delle care pagine di Vespasiano cartolaio;[363] o con prevalenza del sentimento religioso, siccome nella Cura familiare del beato Giovanni Dominici, diretta a una valente gentildonna, Bartolommea degli Alberti.[364] Quel tipo ideale o, diciam meglio, tradizionale, e derivato dalle memorie delle «buone e care» delle «care compiute et oneste» donne,[365] che tanta fragranza di gentili virtù spargono nelle Cronache domestiche del Trecento,[366] Vespasiano lo effigiò, e anche con un po' di retorica a suo modo lo colorì, tra le figure illustri dell'età sua, in Alessandra de' Bardi,[367] la moglie di Lorenzo di messer Palla Strozzi, e madre della vispa Marietta. L'Alessandra è ritratta da Vespasiano[368] «bellissima e venustissima del corpo, quanto gnuna n'avesse la città di Firenze»; vantaggiata di statura tanto, da fare a meno delle «pianelle», supplemento prezioso, pare, per altre fanciulle men favorite di proporzioni: educata dalla madre sua «con ogni diligenzia» (maggiore, forse è da credere, che l'esilio del marito e le altre vicende della famiglia non consentissero poi a lei nell'educazione di quella sua figliuola) dall'«amare e temere Iddio indotta a uno moralissimo vivere»: avvezza a «mai perdere tempo che ella non fusse occupata», a «mai colle serve di casa non parlare, se non in presenza della madre»; e «la prima a levarsi la mattina in casa esser lei»: ammaestrata in «tutte le cose s'appartengono sapere a una donna, che abbia aver cura di famiglia; e massime a lavorare d'ogni cosa, e di seta e d'altro, come s'appartiene alle donne», e «imparare tutto quello che, bisognando, potesse viverne», e a «saper fare ogni cosa e sapere insegnare», dal leggere sino a «ogni minima cosa» attinente alle faccende domestiche. «Rarissime volte era mai veduta o a uscio o a finestra» (ah Marietta!), «sì perchè non se ne dilettava, e perchè occupava il tempo in cose laudabili. Menavala la madre, il più dei dì, la mattina a una grandissima ora a udire la messa, tutte col capo coperto, e col viso ch'appena si vedevano». Ma questa stessa, che comincia forse quasi a parervi una monachina di casa, fatta poi sposa, e venendo a Firenze una ambasciata imperiale, sentite se sapeva, come le faccende femminili, altrettanto far bene gli onori, non pur della casa, ma della città, e d'una città che si chiamava Firenze, la quale «in questo tempo» dice il buon Vespasiano «era abbondante e di virtù e di ricchezze, e la fama sua era per tutto il mondo»; città che «a quelli ambasciadori parve un altro mondo, rispetto alla grande quantità di uomini nobili e degni che v'erano in quel tempo, e non meno donne bellissime del corpo e non meno della mente; perchè, sia detto con pace di tutte le donne e terre d'Italia, Firenze in quel tempo aveva le più belle e le più oneste donne fussino in Italia, e di loro per tutto il mondo n'era «la fama». E descrive un ballo che a quei gentiluomini dell'Imperatore fu offerto dalla Signoria, in Piazza, sopra un palco dal lato del Palazzo verso Condotta, con grande apparato di spalliere, e pancali, e arazzi, e festoni; e i primi giovani della città, vestiti tutti a un'assisa di drappi verdi ricchissimi, e calzatura di pelle sino a' fianchi; e le fanciulle e le spose, con ricche vesti accollate fregiate di perle e di gioie. Alla onoranza di ciascun ambasciatore deputate due dame; che pel primo di essi sono l'Alessandra, maritata in quello stesso anno (era il 1432, ed ella n'aveva appena diciotto), e una Francesca Serristori. Dopo il ballo, si porta in giro la colezione: ed ecco l'Alessandra servire ella stessa gli ambasciatori, «con una tovaglina di rensa in sulla spalla..., con una ismisurata gentilezza..., facendo riverenza con inchini infino in terra, naturali e non isforzati, che pareva che non avessi fatto mai altro». Poi, ballo di nuovo; e infine, accompagnamento degli ambasciatori all'albergo, ciascuno d'essi dando di braccio alle due belle fiorentine, una di qua e una di là, Alessandra alla diritta: e giunti alla porta dell'albergo, «il primo ambasciadore si cavò uno bellissimo anello di dito, e donollo all'Alessandra; di poi se ne cavò un altro, e donollo alla compagna». Dopo di che, «salutati le giovani e i giovani gli ambasciadori», furono le giovani riaccompagnate alle case loro.

Il biografo quattrocentista, che sul declinare del secolo scriveva di questa e d'altre donne fiorentine della generazione antecedente (l'Alessandra morì nel 65), non finisce mai di far paragoni tra esse e le donne fiorentine del tempo suo, deplorando lo scadimento del costume e delle consuetudini più virtuose e severe. In questi lamenti, un po' di parte va fatta certamente all'abito che fu e sarà sempre di tutti i tempi, del rimpiangere, per questo o quel rispetto, il passato; un'altra poca, inoltre, alla disposizione di Vespasiano a trovar che ridire su troppe cose (figuratevi che una volta vuole e prescrive[369] che le donne «imparino a non parlare, massime in chiesa» egli dice; e poi, come se fosse poco, soggiunge «e in ogni altro luogo»): pur tuttavia, fatte queste eccezioni, e lasciando lo scherzo, io credo che que' suoi lamenti, specialmente quando li formula, com'è spesso, in osservazioni positive, attengano a condizioni reali; e propriamente a quella mutazione che anche nella vita domestica, di cui la donna è custode e gli atti suoi sono specchio, avevano indotto le splendidezze, a un poco per volta sempre più cortigiane, di quei Medici, la cui potenza attraeva oramai, volere o non volere, con l'interesse e la fortuna delle famiglie, anche gli affetti, le speranze, i disegni, che più disposta e inchinevole ad accogliere, in pro della famiglia, e fomentare è la donna.

«Ricòrdoti che chi sta co' Medici sempre ha fatto bene, e co' Pazzi el contradio; che sempre sono disfatti»: così scriveva (e s'era solamente al 1461, diciassette anni prima della sanguinosa congiura) un'altra Alessandra pur maritata negli Strozzi,[370] e che essa pure, come la Bardi, dagli esilii di quella famiglia ebbe lunghi dolori al suo cuore di moglie e di madre, ma altresì la consolazione, prima che morisse, di veder restituiti alla patria, e molto per la efficace materna opera di lei, i figliuoli, e il maggior d'essi gettare alla grandezza della sua famiglia quelle fondamenta delle quali è superbo monumento il loro meraviglioso palazzo: Alessandra Mancinghi negli Strozzi, alla quale un altro monumento con la pubblicazione delle sue Lettere ai figliuoli esuli, che io vorrei avere autorità di raccomandarvi e farvi care, o Signore, componeva, ne' dì nostri, Cesare Guasti, erudito e scrittore degno d'interpretare que' dolori, quelle consolazioni, quelle grandezze.[371]

Lo avvicinarsi ai Medici anime elette come quelle della Macinghi Strozzi, matrona del cui costume e pietà avrebber potuto compiacersi la bontà di Antonino arcivescovo o la fierezza di Girolamo Savonarola (e a qualche pratica durezza, piuttosto de' tempi che sua, conviene, ciò ripensando, essere indulgenti), lo avvicinarsi, dico, di tali anime e famiglie (ne cito un'altra, i Rucellai) ai Medici, mostra che l'opera di questi era stata non tanto di corruzione, quanto di acquistare potenza fra i cittadini, prendere dello Stato (è la frase del Machiavelli,[372] e del tempo) quanto a mano a mano ne veniva ad essi concesso, cosicchè la forza loro sormontasse invincibilmente su tutte le altezze, preponderasse su tutte le resistenze, schiacciasse quasi fatalmente tutto ciò che si levasse contro di loro. «Co' Medici, e non co' Pazzi!» A quell'affettuoso ammonimento materno risponde tragicamente, a breve distanza d'anni, nel maggio del 78, un'altra voce di donna, anzi lo schianto d'un cuore, d'un cuor di figliuola, ne' giorni che l'uccisione di Giuliano de' Medici e le ferite di Lorenzo erano, nel sangue de' congiurati e di chiunque paresse averli comecchessia favoriti, vendicate come delitti contro la patria. La figliuola d'uno di costoro, giovine sposa di vent'anni, Ginevra di Piero Vespucci (cognata della bella Simonetta; e Piero, uomo, del resto, di poco senno, era stato un tempo deditissimo a Lorenzo, e giostratore nel 64 in Santa Croce con lui, e armeggiatore col Benci sotto le finestre della Marietta), scrive, la Ginevra a Lorenzo, queste parole spezzate dal pianto. La lettera è inedita,[373] e sfuggita alle ricerche e curiosità erudite. «Amantissimo in luogo di buon padre. La cagione di questi dolorosi versi si è perchè ieri non vi potei parlare come desideravo, per potervi pregare e ricordare l'amore e benivoglienza avete portata in questa casa, e le parole e promesse fatte a me, e l'umanità dimostrami, quando mi chiamasti sorella: e però vi priego vogliate accettare e' mie' prechi, e ogni amore e promesse rivolgere in questo, e avere misericordia e compassion di noi tutti. Vorrei vi fussi di piacere considerare la condizione di mio padre, e specchiarvi in me, e non considerare quello che fa in ogni suo caso, chè non è solo in questo. E priegovi quanto più posso, mi facciate questa grazia; e questo si è, me lo rendiate senza altro segno, e che la penitenzia di questo peccato sia quella che à avuta: chè quando penso, della età che gli è e poco sano, come è stato buon pezo, e ora di nuovo, colla febbre, essere dove egli è, e avere e' ferri in piè; che quando ci penso, mi scoppia el cuore. Priegovi abiate pazienza se questi versi vi danno tedio, e priegovi per l'apportatore mi mandiate qualche buona risposta; però che chi misericordia fa misericordia aspetti: e priego Idio vi metta in cuore, me lo rimandiate istasera: e se io fussi con Voi, tanto vi pregherei me lo renderesti: e ora di nuovo ò inteso à avuta della fune. Priegovi non ci vogliate fare disperare più. Ginevra isventurata».

Invero, la vita di quelle donne, quale la rivelano e l'aureo volume del Guasti (che, potendo essere a mano di tutte, io mi son proposto di lasciare pressochè intatto alla curiosità del cuor vostro, Signore e Signorine[374] ) e le pubblicazioni che di altri documenti femminili si sono venute facendo, non solamente si vede essere tutta per la famiglia; ma che quelle poderose famiglie, Medici, Strozzi, Salviati, Rucellai, Guicciardini, Soderini, Ridolfi, debbono a coteste donne non piccola parte della forza che ebbero, a fare quello che fecero.[375] Il Savonarola, che sulla caduta della supremazia Medicea tentò costruire saldamente l'edificio del governo popolare, sentì quanto importasse al suo intendimento avere a ciò profonde basi nella famiglia: pensò, come la prima delle sue riforme, la riforma del costume; e si rivolse alle donne. E non tanto, intendo, alle mistiche, quali erano una Visdomini, una Gianfigliazzi, una anzi due Rucellai; com'a dire le Giacobine di quello che poc'anzi ho chiamato Terrore Piagnone; giacobine, bensì, che poi finivano monache, anzi una di esse Beata.[376] Ma alle madri proprio di famiglia, il Savonarola si rivolgeva:[377] alle donne e a' fanciulli, che è quanto dire alle forze dell'affetto materno, si rivolgeva, come a instrumenti politici, con la fede con cui l'avversario suo papa Borgia si appoggiava alla spada e al pugnale del suo Valentino. «O donne e fanciulli, la vostra riforma non è ancora vinta. Dite da mia parte alla magnifica Signoria, che questa non è cosa umana ma di Dio; e fateli questa imbasciata: che la racconcino se vi è cosa che non stia bene, e che gli diano la sua perfezione; e che se non lo faranno, e si faranno beffe delle opere di Dio o le contradiranno, che il Re gli punirà. E diteli che non sono Signori, ma ministri del Signore e del Re nostro Cristo.... A voi, padri e madri, dico: confirmate questa cosa a' vostri figliuoli, perchè non vi è dentro se non buon vivere. Altrimenti Dio ha apparecchiato la punizione a chi contradirà alle cose sue. Io ve lo dico certo, tenetelo a mente.»[378] Il magnanimo frate fu arso; e il profeta, smentito dai fatti: ma molta parte di quella generazione informata da lui rimase fedele a Popolo e Libertà, l'antico grido del Comune glorioso: e que' fanciulli, che nei carnevali de' Piagnoni avean ballato intorno al Bruciamento delle vanità (cotesto bruciamento altra cosa è approvarlo, ed altra intenderlo pel suo verso[379] ), que' fanciulli, fatti uomini, sostennero e combatterono, dalle mura di Firenze assediata, contro il Papa e l'Imperatore, le ultime battaglie della libertà italiana.

Un'egual gagliardia di sentimenti e di opere; un intenso sforzo di tutte le energie morali, e un cupo raccoglierle e quasi appuntarle alla vita pratica, al riuscire; durante que' trentacinqu' anni, che intercedono fra il rivolgimento del 1494 e la caduta della Repubblica nel 1530, animano del pari l'un campo e l'altro: gli eredi e rivendicatori della libertà manomessa; e gli eredi e sostenitori delle splendide ambizioni di chi la vuole ormai sopraffatta. Anche sulle manifestazioni dell'arte, e nella elaborazione del pensiero, incombe il travaglio dell'ignoto avvenire. Il giardino mediceo di San Marco, dove il Poliziano erudiva ne' miti ellenici i pittori e gli scultori, e nella storia carlovingia Luigi Pulci, e il Ficino cercava in Platone conciliazioni feconde tra la civiltà pagana e la fede di Cristo,[380] quel giardino è deserto. Ora è il Machiavelli che nelle conversazioni degli Orti Oricellarî[381] idealizza le togate figure di Roma antica, e ne entusiasma i giovani che congiureranno contro i Medici, mentr'egli da quella grande nostra storia romana dedurrà dottrina di Stato, destinata a chi, in tristi tempi con tristi mezzi, sappia far trionfare, per la salvezza d'Italia, un'idea generosa. Ma i Medici, ne' quali egli vagheggia il suo principe, muoiono giovani: e sulle loro tombe Michelangiolo scolpisce il Pensiero doloroso e la Notte. Ben diverso trionfo, e non generoso, alla fortuna della loro famiglia preparano, fattone strumento le somme Chiavi, Leon X e Clemente VII: ma per tutto cotesto periodo, di resistenza e di contrasto, durante il quale difesa, ritorni, congiure, cacciate, si alternano, per poi conchiudersi in quella caduta da eroi sulla quale irraggia la sua luce il Ferruccio, la vita civile e la domestica non sono più ne possono essere il gaio vivere, a sicura letizia intonato, nel quale, da Cosimo a Lorenzo, Firenze avea sorbito lentamente la dissuetudine dalla libertà. I carnevali del magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, come lo chiamano i contemporanei del nipote suo Lorenzo, che col ducato d'Urbino anticipa ai Medici il titolo ond'è per coronarsi in Firenze la loro secolar cupidigia, quei carnevali non tornano più: nè valgono a rattizzarli le Compagnie del Broncone e del Diamante, nelle quali, sotto le imprese e i motti e l'auspicio di que' passati splendori, si raccoglie a darsi piacere la gioventù pallesca.[382] I tempi non sono più quelli, nè per Firenze, nè pur troppo, dopo la calata di Carlo VIII, per tutto il resto d'Italia.

E la donna? Fedele custode delle sue tradizioni, in cotesta vita che è divenuta tutta una guerra guerreggiata di foschi interessi, essa ha vegliato e veglia agli interessi del focolare: specialmente la madre. Quando il magnifico Lorenzo perdette la sua, «Ho perduto» scrisse «non solamente la madre, ma un unico refugio di molti mia fastidii e sollevamento di molte fatiche, uno instrumento che mi levava di molte fatiche.»[383] «Tornate a vostra madre che con tanto desiderio vi aspetta»; scriveva la Macinghi Strozzi:[384] e ai figliuoli esuli la voce di quella valente vecchia era come la voce cara della patria, della patria che riapriva loro le braccia, per tanti anni sì crudelmente serrate. E così la Lucrezia come l'Alessandra hanno quasi con le loro proprie mani fatto i matrimonî de' loro figliuoli; sottoponendo al sindacato del loro occhio materno, nelle possibili nuore, tutto, dalla persona all'animo, ai costumi, al parentado, alla dote: e fra le passate in rivista dall'Alessandra è, con non troppo favore, la bella Marietta delle armeggerie e della neve.[385] Ora la Maria Salviati, vedova del gran capitano Giovanni delle Bande Nere, attende alla futura grandezza del suo Cosimo, che a diciott'anni improvvisamente duca di Firenze, saprà, educato da quella donna di alto animo,[386] sottomettere o schiacciare i nemici, se anche si chiamino Filippo e Piero Strozzi, deludere o respingere le pericolose ambizioni de' partigiani, se anche si chiamino Francesco Guicciardini. Al buon avviamento, prima, poi alla salvezza, del suo sciagurato figliuolo Lorenzino de' Medici, si adopera inutilmente la Maria Soderini: ed essa e le figliuole bellissime, entrate negli Strozzi, la Laudomia e la Maddalena, e dagli Strozzi entrata nei Ridolfi la Maria figliuola di Filippo, il gran gentiluomo del secolo, parteciperanno, con gli accorgimenti animosi e le ispirazioni de' loro cuori di madre, di sorella, di moglie, all'affaticarsi infruttuoso, non però ingeneroso, de' fuorusciti, contro l'afforzamento del principato mediceo.[387] Protesterà, contro la violenza e il tradimento che lo hanno insediato, la figliuola d'uno di quei fuorusciti, Giulia di messer Salvestro Aldobrandini; che nella corte d'Urbino richiesta da Fabrizio Maramaldo di ballare con lui, «Levatemivi dinanzi,» gli risponde «voi che ammazzaste così vigliaccamente il Ferruccio».[388] Ma tra le vittime del novello principe cadrà una gentile di quella schiera, Luisa Strozzi; sulla cui tragedia, e su quella che pochi anni appresso involge nel mistero la morte del padre suo Filippo,[389] aleggiano sinistramente le parole dell'ava veggente: Chi è contro a' Medici, sarà disfatto. Parole, del resto, che nella casa degli Strozzi non ha ascoltate una Medici stessa, la madre della Luisa, la Clarice moglie di Filippo e cospiratrice zelante alle fortunose ambizioni di lui; anima, piuttosto che di donna, d'uomo e dei più fieri di quel fiero Cinquecento; la quale ai giovinetti bastardi, nelle cui mani, sotto i non dissimili auspicii di papa Clemente, il moto popolare del 1527 trova le redini della signoria medicea, ha rinfacciato la passata grandezza de' suoi antenati, fondata sul favore del popolo; e in nome di questo, nel palagio de' Medici, essa una Medici autentica, ha loro additata e quasi intimata la via dell'esilio.[390]

Forti donne, alle quali può l'uomo di cui portano il nome commettere con fede le faccende domestiche, de' figliuoli e del patrimonio, della casa e della villa: come messer Luigi Guicciardini, mentr'è fuori Commissario pei Medici, alla sua monna Isabella, una massaia stupenda, che io mi onoro d'aver rivelata dalle sue lettere campagnuole:[391] commettere e raccomandare la custodia del palagio, e il decoro della casata; che alle mani della moglie di Pierfrancesco Borgherini, madonna Margherita, saranno sicuri.[392] E quando un Della Palla, incettatore per re Francesco di Francia di tesori artistici dalle case della nostra città, si presenta con mandato (pur troppo!) dei Priori alla casa di monna Margherita, a mercanteggiare una sua camera, meravigliosa pe' lavori di Iacopo da Pontormo, quella davvero nobilissima gentildonna lo riceve così: «Adunque vuoi essere ardito tu, Giovambattista, vilissimo rigattiere, mercantuzzo di quattro denari, di sconficcare gli ornamenti delle camere de' gentiluomini, e questa città delle sue più ricche ed onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia per abbellirne le contrade straniere ed i nemici nostri? Io di te non mi meraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria; ma dei magistrati di questa città, che ti comportano queste scelerità abbominevoli. Questo letto che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse e ingordigia di danari, come che tu vada il tuo mal animo con finta pietà ricoprendo,» cioè di conciliare a Firenze assediata la benevolenza del Re, «è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco per memoria di lui e per amore di mio marito, ed il quale io intendo col proprio sangue e con la stessa vita difendere. Esci di questa casa con questi tuoi masnadieri, Giovambattista; e va', di' a chi qua ti ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re Francesco di Francia presentare, vadano e sì gli mandino, spogliandone le proprie case, gli ornamenti e' letti delle camere loro. E se tu sei più tanto ardito che tu venga per ciò a questa casa, quanto rispetto si debba da' tuoi pari avere alle case dei gentiluomini, ti farò con tuo gravissimo danno conoscere.» La conservazione o, se anche vogliamo, l'amplificazione di queste generose parole di donna in una pagina del buon Vasari, mi pare debba riconciliarci alquanto con l'oratoria dei Cinquecentisti. Ma voi, quando nel Palagio del Podestà passate innanzi ad un mirabile cammino in pietra di Benedetto da Rovezzano, che da una sala appunto delle case che furono de' Borgherini colà trasferito, è ormai assicurato al patrimonio intangibile della nazione italiana, siate superbe, o gentildonne fiorentine, della vostra concittadina; e se mai occorresse, ricordatevi dell'esempio ch'ella vi ha dato.[393]

Che se la Margherita e l'Isabella favoreggiano, e la Maria Salviati Medici rappresenta essa stessa potentemente, quella parte medicea dalla quale, almeno in quel truce epilogo delle sue ambizioni, rifuggono le simpatie di noi tutti (compreso, senza dubbio, l'apologista dotto e sagace, per la cui eloquenza ha in questa sala rivissuto una genialissima ora di vita il magnifico Lorenzo[394] ); se la Clarice Medici Strozzi, e le gentildonne de' fuorusciti, agitano in petto, insieme con altre passioni più nobili, gl'interessi altresì e i rancori di ambizioni men della medicea fortunate; non mancano poi alla libertà che muore, non mancano dal popolo che per lei combatte senz'altra ambizione nè amore che non sia essa stessa la libertà, le sue eroine. Eroine anonime, come le dà la plebe, generosa de' nomi non meno che del sangue (così non ne fosse prodiga anche a chi la inganna e la sfrutta!); anonime, e nella veglia del malinconico inverno de' casolari affigurate in leggenda. Tale la Lucrezia Mazzanti figlinese, che nei gorghi del suo Arno cerca scampo alle brutali violenze della soldataglia imperiale e papale:[395] matura sposa quarantenne, ma che il popolo vuole restituita alla poesia dell'intatta giovinezza, mentre alla novella Lucrezia romana dedicano il loro latino gli ultimi umanisti del Rinascimento, che il Bruto cesaricida esalteranno in Lorenzino de' Medici.[396] E dalle popolari memorie, nella storia del tempo raccolte, effigiò modernamente il Guerrazzi, quando ne' duri anni della servitù d'Italia volle essere l'Omero della libertà fiorentina, quella che egli denominò monna Ghita setaiola in Borgo San Friano:[397] «alta della persona, magra, adusta dal sole, sicchè sembrava di colore del rame; i muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene turgide, le labbra vermiglie e, comunque tacessero, agitate; le narici ansose, gli occhi fulgidissimi, perpetuamente volgentisi da un lato all'altro; i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta»; una Parca di Michelangiolo: la quale, vedova e povera, dà alla difesa della patria le buccole d'oro delle dónora maritali, e il figliuolo unico; «il mio Ciapo di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare ne' diciassette come si arriva alla festa di San Zanobi»; dopo fattogli giurare sul Crocifisso il giuramento con che la Spartana consegnava al figliuolo lo scudo: O con questo, o su questo. Ultima espansione da cuore di madre popolana, dell'amor di patria nel sacrifizio della famiglia. Succederanno i tempi, ne' quali il popolo italiano dovrà dimenticare d'avere una patria, cercar nelle gride (povero Renzo!) il diritto d'avere una famiglia: e agli oppressi dalla doppia tirannide, politica e sociale, non rimarrà altra voce, se non il pianto di Lucia che dice addio ai suoi monti.[398]

VI.

La libertà repubblicana è caduta: e su quelle rovine han fatto le loro paci, la Chiesa di Roma, che per entro alla corruzione secolare e alle pagane eleganze ha giocata la sua unità, e il sacro Romano Impero, le cui idealità medievali son fatte cosa, una brutta cosa, nella greve signoria di Carlo V spagnuolo, del monarca su' dominii del quale il sole non tramonta. Splendori di corti, di pensiero, e di roghi, illumineranno l'età che incomincia, della quale il mio tema varca, sfiorando le soglie, e destinata o Signore, alle Conferenze del prossimo anno. Nei sozzi e atroci drammi coniugali dei duchi e granduchi Medici e de' loro cortigiani, ultima che ritragga dell'antico «femminile» fiorentino, bella, culta di lettere, esercitata nella poesia, nella musica, nell'uso di più lingue, del volgar nostro intendentissima, gentile d'animo, è l'infelice Isabella Medici Orsini.[399] Altre gentili ospita il chiostro; il chiostro, talvolta cercato e invocato, troppo più spesso destinato alla inconsapevole innocente fanciullezza da quelle tirannidi gentilizie, scellerate e codarde, delle cui vittime la Geltrude del Manzoni è vendetta immortale.[400] E nel chiostro, da uno ad un altro trafugandola gelosamente, i repubblicani fiorentini dell'Assedio avean custodita Caterina de' Medici: come utile ostaggio, speravano; e non sapevano di serbarla a ben altre fortune. «Andate e dite a que' miei padri e signori, che io intendo d'essere monaca, e di starmi in perpetuo con queste mie reverende madri»; mandava ella a dire alla Signoria:[401] l'aspettavano invece il trono di Francia, e le guerre civili di religione, e la Saint-Barthélemy.

Ma ai dolci silenzi della meditazione pietosa sulle umane colpe e sventure, agli entusiasmi verso Dio buono, ai terrori di Lui giusto, era nata Caterina de' Ricci, che in San Vincenzio di Prato si chiude giovanissima, negli anni duranti i quali per un'altra di quel casato, la Marietta Ricci Benintendi, duelli di non degno amore intermezzano le battaglie della libertà, e il nome d'un'altra Ricci, Cassandra, è vituperato fra le tresche e nel sangue.[402] Caterina nel chiostro ricovera le ultime tradizioni e gli affetti de' seguaci di frate Girolamo; appiè dell'altare, sul quale ella un dì sarà santa consacra la religione del martirio di lui: e dal chiostro, non ripudiata l'umana fraternità, a' suoi di casa parla, nelle Lettere, parole di pace, di conforto, d'amore; ai prelati suoi superiori, di reprensione reverente, ove occorra; agli uomini che tra le cure civili o mercantili si travagliano, parole di virtù operosa e che si affisa nell'alto; di giustizia, ai principi; di miti e caritatevoli affetti, alle donne; e delle due che furono le mogli di Francesco de' Medici, ama Giovanna d'Austria infelice, prega e fa pregare Dio per Bianca Cappello.

Nè con l'infoscarsi, sempre più cupo, de' tempi, col sempre più gravemente incombere sulla libertà politica e del pensiero la domestica e la straniera tirannide, manca nei chiostri, alla pietà verso chi rimane nel mondo, il cuor della donna: o l'abbiano esse lasciato, o esso il mondo le abbia allontanate da sè, quelle buone sentono e fanno suoi i dolori della famiglia alla quale appartennero. Sulla collina d'Arcetri si raccoglie a morire, quasi prigioniero, il grande liberatore del pensiero moderno, Galileo: ma presso alla villa del Gioiello, che oggi nel suo nome ci è sacra, vegliano su lui, dal convento di San Matteo, l'affetto e la preghiera d'una santa creatura, che data a lui dall'amore, egli è forse colpevole di avere, sin dalle fasce, destinata all'espiazione; della sua Virginia, che egli ha voluto sia suor Celeste: ed ora ella viene a lui, non potendo di persona, con le Lettere nelle quali quella cara anima è sopravvissuta anche a noi:[403] e si accuora dei suoi dolori, e trepida delle sue malattie; e si prostra reverente al suo divino intelletto che «penetra i cieli»; e in una rosa, che gli manda nel cuor dell'inverno, vuole intravegga, di là dal «breve e oscuro inverno della vita presente, la primavera dell'eternità»; e s'addossa ella le penitenze spirituali impostegli dal Sant'Ufìzio; e al ricevere un suo libro, o al sapere di onoranze resegli, esulta; e vorrebb'essere «in una carcere assai più stretta di quella in che si trova» per far libero lui; nè le duole di esser monaca, se non quando sente ch'egli è malato, per non potere assisterlo; e dovendo come le altre monache scegliere fra i Santi il Santo «suo devoto», non altri sa scegliere, con sublime profanità di figliuola, che il padre suo, il padre che prega Dio le sia conservato, «perchè dopo di lui non mi resta altro bene nel mondo». E quando cotesto martirio di amor filiale incarcerato ha il suo termine, e a trentatrè anni ella muore, il povero glorioso vecchio sentirà spezzato il più caro vincolo che ancora lo congiungesse col mondo; più dura e crudele gli pesa ora la guerra indegna che in lui è fatta ai diritti e all'avvenire dell'umanità: e di lì a breve, cieco, infermo, degnato di concessioni umilianti come a colpevole ravveduto, fattagli elemosina di licenze e di permessi come a tollerato dai potenti della terra, egli che ha rivelato i misteri del cielo, nel presentire la morte, «Mi sento» esclama «mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliuola!». Nè so se la donna abbia mai scritta nella propria storia una pagina che valga cotesto grido paterno, uscito dal cuore di Galileo.

VII.

Le libertà repubblicane caddero, e successero i tempi infausti della servitù: ma al terzo secolo da quella caduta il sepolcro si è dischiuso, e la libertà d'Italia risuscitò da morte. E la donna italiana, così da Firenze come da ogni altra città e villaggio e borgata della patria che è nostra, ha dato a quel risorgimento i dolori del sacrificio e del martirio, le ansietà delle trepidanti speranze, il pensiero e il lavoro degli uomini ch'ella ha amato e ispirato, la vita propria, il sangue de' suoi figliuoli: da Eleonora Fonseca a Teresa Confalonieri, dalla madre dei Ruffini alla madre dei Cairoli: all'Italia han dato il fior dell'ingegno, la Guacci, la Turrisi Colonna, la Ferrucci, la Brenzoni, la Paladini, la Percoto, la Milli, la Mancini, la Fusinato.[404] O madri toscane, o spose, o sorelle, o figliuole, che da Curtatone e Montanara alla rivendicazione di Roma le sante battaglie della libertà orbarono de' vostri cari; o gentildonne animose, o buone popolane, della nostra Firenze; la tradizione con le forti donne dell'antica nostra istoria è per voi ricongiunta.

Nè più tardi d'ieri, da una collina le cui vigne e gli uliveti ombreggiavano una tomba recente, è disceso un feretro, che da quella tomba trasferiva, così volendo la nazione, in Santa Croce, e restituiva al sepolcro degli avi suoi, de' Priori e Gonfalonieri della nostra Repubblica, la salma di Ubaldino Peruzzi, nella cui persona, il 27 aprile di trentadue anni fa, Palazzo Vecchio tornò al suo antico signore, il Popolo fiorentino. Pia custode di quella tomba gloriosamente vuota, è rimasta una Donna:[405] che tanto seppe, tanto potè, nei pensieri e negli affetti di lui; che lo animò, lo aiutò alle onorate fatiche, ne' dubbi lo consigliò, gli confortò i patimenti, gli consolò le ingiustizie, gli allietò i trionfi. Storia, che in tutti i paesi civili, in tutte le età, è la storia vostra, o Signore; che compendia i diritti e i doveri vostri verso le due grandi non distruggibili società, delle quali voi siete l'anima immortale: la famiglia e la patria.

NOTE

300. Ricordi storici de' Rinuccini; Firenze, 1840; pag. CXXI-XXII. Pei particolari delle feste di San Giovanni al tempo della Repubblica, vedi Cesare Guasti, Le feste di San Giovanni Batista in Firenze; Firenze, Loescher e Bocca, 1884.301. Nella VIIª fra le Elegiae del Poliziano, a pag. 238-248 delle sue Poesie latine e greche pubblicate per mia cura; Firenze, G. Barbèra, 1867.302. Vedi nel cit. volume delle Poesie latine del Poliziano, a pag. 145-147.303. Di Bartolommeo Scala, l'epitaffio in nome del padre di lei; che riferii, con altra epigrafe, nel cit. volume polizianesco a pag. 145. Di Naldo Naldi, Eulogium in Albieram Albitiam morientem, ad Sismundum Stupham eius sponsum, e una sequela di epitaffi. Di Ugolino Verini, in Albieram. Di Alessandro Bracci, Epigrammata in Albieram Masi Albitii filiam, puellam formosissimam, immatura morte peremptam. E adespoti, più altri epitaffi, epigrammi, ec. E poi in prosa, epistole consolatorie allo sposo, di Marsilio Ficino, di Carlo Marsuppini,.... Da farne, insomma, un volume, se meritasse la pena, compulsando i codici Laurenziani (sulla scorta del Catalogus del Bandini), e un Corsiniano 582, e i Carmina illustrium poetarum italorum (Florentiae, 1719-1726).

Nel Catasto fiorentino del 1470 ( San Giovanni, Chiave, c. 199) questa è la «portata» di «Maso di Luca di messer Maso, malsano, di anni 42: madonna Caterina sua donna, gravida, d'anni 30; Luca suo figliuolo, d'anni 14; Albera sua figliuola; Maria sua figliuola; Danora sua figliuola; Bartolomea sua figliuola; Lisabetta sua figliuola; Giovanna sua figliuola». E nel Libro dei morti dal 1457 al 1501: «L'Albiera di Tommaso di Luca degli Albizi, riposta in San Piero Maggiore, a dì 15 di luglio 1473». ( Archivio fiorentino di Stato ).

304. Quel giovenile matrimonio è registrato nel Catasto fiorentino del 1469-70 ( Santa Maria Novella, Unicorno, II, c. 213): «Marco di Piero di Giuliano Vespucci, d'età d'anni XVI. Simonetta di messer Guasparri Catani sua donna, d'anni XVI». Taluno ha dubitato dell'età di questo marito: ma il confronto con altre portate ai Catasti (del 58, dell'80, del 95) comprova che Marco Vespucci era proprio nato nel 1453. Dalla Simonetta non apparisce aver avuto figliuoli; sì dalla seconda moglie, che fu nel 1478 Costanza Capponi.305. Vivebam, fato sum rapta Albiera; coniux

Sismundus vitam reddidit en iterum:

Nam faciem et claram caelato marmore formam,

Ingenium et mores carmine, restituit.

306. Sui ritratti della Simonetta, non che sulla interpetrazione della Primavera del Botticelli, vennero riassunte autorevolmente le diverse e disputate opinioni da I. B. Supino, Sandro Botticelli (Firenze, Alinari-Seeber, 1900), pag. 31-37, 69-82. Cfr. anche E. Müntz, Histoire de l'Art pendant la Renaissance, II ( Italie, L'âge d'or ), pag. 636-38, 641; Paris, 1891.307. I soliti epitaffi, come per l'Albiera, ed epigrammi latini: di Piero Dovizi da Bibbiena, di Tommaso Baldinotti pistoiese, di Francesco Borsellini, nel cit. codice Corsiniano. E poi: una Elegia di Bernardo Pulci fiorentino, della morte della diva Simonetta, a Iuliano de' Medici; e dello stesso Bernardo un sonetto petrarchevole, La diva Simonetta a Iulian de' Medici; e di un veronese Francesco Nursio Timideo, pur terzine elegiache intitolate latinamente Carmen austerum in funere Symonettae Vespucciae florentinae, ad illustrissimum Alphonsum Calabriae ducem: da vedere nello scritto di A. Neri, La Simonetta, nel Giornale storico della letteratura italiana; vol. V, 1885, pag. 131-147, riassunto nell' Illustrazione Italiana, n.º 13 del 1886.308. Vedi La Giostra di Giuliano, nel mio libro Florentia (Firenze, Barbèra, 1897) a pag. 391-393.309. «In Simonettam», a pag. 149-150 della cit. mia edizione delle Poesie latine e greche. Quello nel quale «Iulii est sententia a me versibus inclusa» dice così: Aspice ut exiguo capiatur marmore quicquid

mortali possit a superis tribui.

Hic Simonetta iacet, cuius mortalia cuncta

concipere immensum non poterant animum:

quam neque mors potuit visa exterrere, Deumque

mox petiit cui se nympha dedit moriens.

310. Vedi Alcune prose di Lorenzo de' Medici per dichiarazione e storia de' suoi Sonetti e delle Canzoni, nel volumetto (Firenze, Barbèra, 1859) delle Poesie di L. de' M. per cura di G. Carducci; a pag. 35 e segg.311. Carte Medicee avanti il principato (nell'Archivio fiorentino di Stato), filza XXXIII: lettere da Firenze di Piero Vespucci, suocero della Simonetta, al magnifico Lorenzo a Pisa, che gli aveva mandato il suo proprio medico. 18 aprile 1476 — .... La Simonetta si sta quasi nelli medesimi termini che quando Voi partisti, et poco v'è di meglioramento. Attendevisi et per maestro Stefano et per ogni homo cum diligenzia, et così sempre si farà....

20 aprile. — .... Pochi dì fa vi scrissi e avvisa'vi del male di Simonetta; el quale, per grazia di Dio, e per virtù di maestro Stefano mediante Voi, è alquanto meglio, chè à meno febre e meno rimessione, ed à meno afanno del petto, mangia meglio e dorme meglio: e per quanto dicano e' medici, el male suo sarà lungo, e pochi rimedi ocorre fare, se none buono governo. E sendo stato cagione di questo bene, tutti noi e sua madre, che è a Piombino, asai vi ringrazia e ubrigati vi siamo della dimostrazione avete fatto di questo suo male; e non volendo peccare nella ingratitudine verso el maestro, di nollo tenere qui quanto potrebe durare el male, e anche nonn è molto neciesario, e anche perchè non potremo sodisfare con pagamento tale obrigo per la imposibilità nostra; e per tanto vi priego mandiate per detto maestro Stefano, e avisate quello se gli à a dare, che venerdì santo venne. E noi senpre siamo presti a fare ogni cosa dove richiede el debito nostro, e masime avendo riguardo a conservare ogni vostro onore, come questo e ogni altro. Aspetterò da voi aviso, e tanto seguiremo....

26 aprile. — Magnifice ac praestantissime vir, compater honorandissime ec. Scripsivi nelli giorni passati del melioramento della Simonetta, el quale invero non ha perseverato come io credetti et come saria stato nostro desiderio. Questa notte sono stati alla disputa maestro Stephano et maestro Moyse, di darle una medicina; la quale concluseno doverseli dare, et così le hanno data. Non si pò ancora comprendere che fructo farà: Dio voglia che facci quanto desideriamo! Et perchè altra volta io vi scripsi della incomodità mia circa alla mercè et salario di maestro Stefano, et da voi non ho risposta alcuna, non m'è parso pigliare partito alcuno; et ancora per otto giorni lo stare suo mi piace, chè pure in questo termine si doverà vedere quello debba sequire: benchè non limito detto termine, se non cum conditione che la intenzione vostra sia così; di che mi sarà caro due versi di risposta di vostro parere. Questi medici sono del male suo discordi: maestro Stephano dice, epsa non essere nè etica nè tisica, et maestro Moyse tiene el contrario: non so chi meglio sene vede. Raccomandomi alla M. V. Florentiae, xxij aprelis MCCCCLXXVI. M.tie V. quicquid est Petrus Vespuccius eques.

312. Sforza Bettini; Firenze, 27 aprile 1476 ( Carte medicee av. il princ., cit. filza XXXIII ).313. Stanze per la Giostra; II, 33.314. Cfr. nota 10.315. Dum pulchra effertur nigro Simonetta pheretro,

blandus et exanimi spirat in ore lepos,

nactus Amor tempus quo non sibi turba caveret,

iecit ab occlusis mille faces oculis.

Mille animos cepit....

316. Stirpe fui, forma, natoque, opibusque, viroque

felix, ingenio, moribus atque animo.

Sed cum alter partus iam nuptae ageretur et annus,

heu! nondum nata cum sobole interii.

Tristius ut caderem, tantum mihi Parca bonorum

ostendit potius perfida quam tribuit.

Ioannae Albitiae uxori incomparabili

Laurentius Tornabonus

Pos. B. M.

Poesie lat. gr. cit. pag. 154-155.

317. Quanta pietà, su que' cinque decapitati ma in particolare sul giovine Lorenzo, in questa linea di diario contemporaneo!: «.... de' quali ne 'ncrebbe a tutto el popolo.... E féciogli morire la notte medesima, che non fu senza lacrime di me, quando vidi passare a' Tornaquinci, in una bara, quel giovanetto Lorenzo, inanzi dì poco». Diario fiorentino di Luca Landucci, ed. Del Badia; Firenze, Sansoni, 1883; pag. 156-57.318. Due sono le medaglie in onore di Giovanna. Identico in ambedue il ritratto, scrittovi in giro, «Ioanna Albiza uxor Laurentii de Tornabonis»: e alla figurazione dell'un rovescio, «Castitas. Pulchritudo. Amor»; dell'altro, «Virginis os habitumque gerens et virginis arma». Vedi a pag. 442-43 dello scritto di E. Ridolfi, cit. nella seguente nota.319. Non Ginevra Benci, ma Giovanna Tornabuoni. Vedi Enrico Ridolfi, Giovanna Tornabuoni e Ginevra de' Benci nel coro di S. Maria Novella in Firenze; nell' Archivio Storico Italiano Ser. V, to. VI, an. 1890; pag. 448 segg.320. Lo ebbero i Pandolfini, per eredità dai Tornabuoni, nel loro palazzo di Via San Gallo, sino a quasi un cent'anni fa; ora è in Inghilterra: vedi a pag. 444-49 del cit. scritto di E. Ridolfi. Il quale alla descrizione della tavola del Ghirlandaio soggiunge: «Dietro la persona vedevasi appeso alla parete un filo di coralli ad uso di collana, sotto il quale in una cartelletta il seguente distico, che per la grazia sua potrebbe ben essere dettato dal Poliziano.... Ars utinam mores animumque effingere posset! Pulchrior in terris nulla tabella foret. 1488. »321. Affreschi della villa Lemmi, scoperti nel 1882. Vedi il cit. scritto di E. Ridolfi, pag. 439-42; e I. B. Supino, Sandro Botticelli, pag. 92-96; e Cavalcaselle e Crowe, Storia della pittura in Italia (Firenze, Succ. Le Monnier), VI, 1894, pag. 258-262.322. «An. MCCCCLXXXX, quo pulcherrima civitas, opibus victoriis artibus aedificiisque nobilis, copia salubritate pace perfruebatur.» Vedi a pag. 169 delle cit. Poesie lat. gr.323. I particolari della descrizione che segue sono forniti dall'Ammirato, riferito nel cit. scritto di E. Ridolfi, pag. 438-39.324. Vedi, nel mio cit. volume delle Poesie latine e greche la dedicatoria della IIIª fra le Sylvae: Ambra, in poetae Homeri enarratione pronuntiata; MCCCCLXXXV: pag. 333-335: ed ivi, dalle Epistolae pur del Poliziano, riferito ciò che risguarda Lorenzo Tornabuoni.325. Antonia di Francesco Giannotti fu moglie a Bernardo Pulci, fratello di Luca e di Luigi. Scrisse le Rappresentazioni sacre di Santa Guglielma, Santa Domitilla, il Figliuol prodigo, San Francesco. Vedi A. D'Ancona, Origini del teatro italiano; Torino, Loescher, 1891; I, 268-69: e F. Flamini, La vita e le liriche di Bernardo Pulci nel periodico Il Propugnatore, Nuova serie, vol. I (1888), pag. 224-25.326. Su madonna Lucrezia vedi Lucrezia Tornabuoni donna di Piero di Cosimo de' Medici, Studio di G. Levantini-Pieroni: Firenze, Successori Le Monnier, 1888: e Le Laudi di Lucrezia de' Medici per cura di Guglielmo Volpi; Pistoia, 1900. A lei a Careggi scriveva da Fiesole, nell'estate del 79, il Poliziano (a pag. 72 del cit. mio volume di Prose volgari e Poesie latine ecc.): «Madonna Lucrezia, o vero Lucrezia,» cioè la nipotina «aveva apparato a mente tutta la Lucrezia» cioè «laude e sonetti e ternarii» della nonna. In alcun altro di que' documenti della vita domestica medicea, è nominata fanciullescamente «Lucezia» quella che al Varchi ( Stor. fior., VI, XXXIX ) doveva parere «la più degna e la più venerabile matrona, che forse giammai per nessun tempo in alcuna città si trovasse». Ed enumera poi tutte le sue attinenze di sangue e di parentela; il che mostra com'e' sentissero la parte pur della donna nella storia civile: «figliuola di Lorenzo de' Medici, sorella carnale di papa Leone, cugina di Clemente, zia d'Ippolito cardinale de' Medici e di Lorenzo duca d'Urbino, moglie di Iacopo e madre di Giovanni Salviati cardinale, suocera del signor Giovanni [delle Bande Nere], avola materna del duca Cosimo».

Delle letterine scritte dai bambini di casa Medici, e delle materne della Clarice moglie di Lorenzo, con altri documenti domestici, si potrebbe fare un bel mazzolino, chi lo legasse poi con garbo. Io raccolsi (per nozze Bemporad-Vita; Firenze, 1887) le Letterine d'un bambino alunno di messer Angelo Ambrogini Poliziano, cioè Piero de' Medici. Aggiungi: Nonna, Mamma e Nipotina. Lettere femminili di casa Medici (1477-1479); Firenze, Civelli, 1892. E Affetti di famiglia nel Quattrocento, Spigolature di Guglielmo Volpi; Firenze, 1891, estr. da Vita Nuova, II, 50.

327. Vedi I. Burckhardt, La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, trad, da D. Valbusa; Firenze, Sansoni, 1876; II, 166-69: e G. Voigt, Il Risorgimento dell'antichità classica, trad, da D. Valbusa; Firenze, Sansoni, 1888-97; I, 439-40, 589: e Vittorio Rossi, Il Quattrocento; Milano, Vallardi; pag. 41-42. E a pag. 291 del mio libro Florentia; Firenze, Barbèra, 1897.328. Così ne scriveva al magnifico Lorenzo, da Venezia il 20 giugno 1491: « Item, visitai iersera quella Cassandra Fedele litterata, e salutai ec. per vostra parte. È cosa, Lorenzo, mirabile, nè meno in vulgare che in latino: discretissima, et meis oculis etiam bella. Partì' mi stupito.... Verrà un dì in ogni modo a Firenze a vedervi; sicchè apparecchiatevi a farli onore.» A pag. 81-82 delle Prose volgari ec. da me pubblicate.329. Vedi nel mio cit. volume polizianesco di Poesie lat. e gr., a pag. 199-204, 214, 215; e V. Rossi, Il Quattrocento; Milano, Vallardi; pag. 275.330. Vedi nel cit. volume gli epigrammi In Mabilium (contro il Marullo), pag. 131-140: e a pag. 273-74 l'ode in Bartholomaeum Scalam.331. La prima delle tre, Eleonora Nencini. Le altre due: Maddalena Marliani Bignami di Milano, e Cornelia Rossi Martinetti di Bologna. Nell'Inno secondo dei Frammenti del Carme Le Grazie.332. Per l'Ambra, vedi nel cit. volume la IIIª delle Sylvae, intitolata Ambra, con allusione alla villa medicea del Poggio a Caiano; e fra i poemetti di Lorenzo (ed. Carducci, pag. 261-277) quello pure intitolato Ambra. Del Boccaccio poi vedi il Ninfale fiesolano, i cui protagonisti, Affrico e Mensola, finiscono tragicamente ne' due ruscelli così anc'oggi chiamati.333. La pietosa storia di questa sposa giovinetta ( puella; nel senso generico di donna giovine: come anche fanciulla, vedi il quinto Vocabolario della Crusca), di nome «Alba» o «Albiera», ma non sappiamo di chi figliuola nè a chi moglie, morta appena a vent'anni, è diluita negli slombati distici dei due umanisti fiorentini e medicei, Naldo Naldi e Ugolino Verini.

Canta il Verino (Cod. Laurent. XXXIX, XLII, c. 27-28):

De Albera puella quae sub porticu attrita est.

Tam dira heu miseris fati mortalibus instat

sors? heu quam magnum porticus ausa nefas!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Porticus annoso ligno subfulta vigebat,

quod carie attrivit longa senecta malo.

Rusticus hic imbrem atque aestus vitare solebat

nam tusca hanc quartus signat ab urbe lapis.

Venerat huc multis comitata Albera puellis,

infoelixque illic dum manet illa perit.

Porticus ingentem traxit collapsa ruinam:

pignora dum protegit, concidit ipsa parens;

occidit, et caro vitam servavit alumno,

carior et nati quam sua vita fuit.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quid lachrymae, quid vota, pii valuere mariti?

quid quod eras Scalae vatis amica tui?

E poi:

Epitaphium Alberae puellae

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vix me bisdenos numerantem, porticus, annos,

dum ruit, elysias compulit ire domos.

Alberae fuerat nomen mihi, lector amice:

ne pigeat tumulo collachrymare meo.

E Naldo Naidi (Cod. Laurent. XXXV, XXXIV ), che viva l'afiligge con ismaniosi elegiaci (c. 4-6, 7-9, 11, 18-20), nè può saperla andata in campagna a bagnarsi senza restarne in timore, che, mentre le faranno corteggio le ninfe aquatiche, non le abbiano a dar noia quelli sguaiati de' Satiri silvestri, canta egli pure l'

Eulogium in Albam morientem

Vos igitur mortis causas praebetis acerbae;

estis et exitio, rura, molesta gravi.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Nam dum rura colit, prima est abrepta iuventa,

dum ruit in tenerum trabs inimica caput.

Quid labor heu fuerat, fugeret dum cara puella,

labentem murum substinuisse Lares?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Nam dum forte cupis nimia pietate puellum

pellere ab extremis, Alba benigna, malis,

occidis infelix, fato moritura severo,

dum cadit in tenerum dira ruina caput.

Heu quis tunc matri, cernenti talia, sensus,

qualis in exangui corpore vita fuit,

candida cum natae morientia viderat ora,

ferre nec extremo tempore posset opem?

Et nisi quod subito stupuit devicta dolore,

in medio linquens languida membra solo,

non potuit tanto cernens superesse dolori,

sed fuit in natae morte casura, parens.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Nona dies aderat, crudeli funere rapta

cum iacuit gelido cara puella thoro,

cum venit absentis miseras ad coniugis aures,

uxorem fato succubuisse gravi.

Ut rediit tandem, rumore accitus amaro,

sensit et in tristi condita busta solo,

arserat impatiens uxoris membra pudicae

visendi subito, qualiacunque forent.

Instabant cuncti graviter ne vellet amici

flaccida iam longa membra videre mora:

attamen e nigro promatur ut illa sepulchro,

vicerunt miseri vota dolenda viri.

Ergo ubi dimotus, qui cygnea colla tegebat,

atque palam, gelidus, fecerat illa lapis,

qualia viventis patuerunt ora puellae,

candida nec turpi commaculata situ.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

An quoque te livor carpit, Venus aurea, divam,

et premit invidia pectora sancta gravi?

Sic est: heu carae nocuit pia forma puellae,

invidia superas nec caruisse deas.

334. Decameron, Introduzione.335. Non disdico quanto scrissi. È bensì vero, che nel medioevo, e suoi strascichi, la carità pubblica parve quasi respingere da sè la pietà femminile, relegata, spesso crudelmente, nei chiostri. Nella peste del 1630 e 33 in Firenze, l'uso che gli Ufficiali della Sanità facevano delle donne era di «rinchiuderle», cioè vietar loro d'uscire di casa, salvo che potessero andare in carrozza loro propria. E una di esse, che anche era una brava donna, se ne sfogava nientemeno che con Galileo: «Qua si fa la quarantena per noi altre povere donne, per la quale sono passati già venti giorni: e questa mattina è andato il terzo bando per altri dieci giorni, con speranza che S. Giovanni ci scarceri e dia libertà; ma purchè giovi: e sia fatta la volontà del Signore». Lettera de' 14 maggio 1633; la 2507 nel Carteggio galileiano (Edizione nazionale, to. XV, 1904, pag. 122): cfr. i n. 2477, 2479, 2503, 2511, 2534.336. Nel Saggio di Rime di buoni autori ec.; Firenze, 1825.337. Delle bellezze delle donne, Discorsi due; nel secondo de' quali si legge: «Ma ditemi il vero: non vi par egli che questa nostra dipintura ( della perfetta bellezza d'una donna ) sia riuscita, nella mente vostra, più bella con quattro di voi, che la famigerata Elena di Zeusi con cinque Crotoniate? E questo è un fortissimo argomento, che a Prato sono oggi molto piú belle le donne, ch'elle non erano in Grecia anticamente». Del resto, al trattato umanistico del Firenzuola avevano preceduto, intorno a quel leggiadro argomento, le graziose goffaggini medievali, di forma tra il popolano e il dottrinale. Vedi, per esempio: El costume de le donne, con un Capitolo de le XXXIII bellezze (per cura di S. Morpurgo ); Firenze, Libreria Dante, 1889. Della sede e scena dei dialoghi Firenzoliani dove oggi il Collegio Cicognini, vedi Cesare Guasti, Memorie di Giuseppe Silvestri; Prato, 1874; II, 5-6.338. Purg. XIV, 109-10; Inf. XXXI, 17.339. Vedi, per quanto qui riferisco sulla Giostra del magnifico Lorenzo, le indicazioni contenute a pag. 407-408 del cit. mio libro Florentia.340. Mi piace riferire (parte della prima, e della seconda l'intero) le due lettere di Francesco Tornabuoni al magnifico Lorenzo, dei 4 e degli 11 gennaio 1469 (le pubblicai per nozze Levi-Bondi: La fidanzata di Lorenzo de' Medici; Firenze, Landi, 1897)..... E' non manca mai giorno, che io non sia a vedere la vostra madonna Clarice, che mi fa impazare; che ogni giorno me ne pare meglio: lei bella, e piena di tutti i buon costumi, e à uno spirito mirabile; e sono circa viij giorni che l'à cominciato a imparare a ballare, c'ogni giorno à imparato un ballo: che non li è prima mostro, che l'à imparato. Maestro Agnolo l'avea pregata che la dovessi scrivervi di suo' mano, e per niente non lo volea fare: io l'ò tanto pregata, che per amore mio disse essere contenta farlo; ma ben mi disse che voi dimostravi essere molto occupato in questa giostra, chè dapoi è venuto Donnino non à avuto vostre lettere. Poi che voi non la potete vicitare con la persona, fatelo almanco con lettere spesso, chè gliene date gran consolazione. E in effetto, voi avete la più digna compagna d'Italia....

X.º Al nome di Dio, adi xj di febraio 1468 ( stil fior. ).

Magnifice vir et maior honorandissime. Questo dì c'è suto lettere di Giovanni Tornabuoni, come avevi fatto la giostra, e n'era uscito sano e con grandissimo onore V. M. La qual cosa subito ebbi intesa, l'andai a dire a la vostra madonna Clarice, e li portai una lettera di Giovanni, che non vi potrei dire la consolazione n'ebbe: che sono iiij giorni non s'è rallegrata se none oggi, perchè stava continovamente in sospetto di V. M. per rispetto de la giostra; e ancora à avuto un poco di doglia di testa, e subito intese questa nuova li passò la doglia, e sta tutta allegra. E di madonna Madalena non vi dico nulla, chè sarebbe impossibile a dirlo con quanta consolazione e allegreza sta, e solo li resta avere una consolazione: e questo ène, che voi vegniate fin qua questa quaresima, chè dice che vuole che voi vegiate la vostra mercanzia avanti l'abiate a casa: la quale ogni giorno migliora. In questa fia una lettera sua. Madonna Clarice non à voluto scrivere, e àmi detto che io vi scriva per suo' parte che v'à da dire un grandissimo segreto, e che non si fida di persona, nè lo vuol fare per lettera perchè dubita non ne fussi fatto mal servigio: e in effetto, vi chiama a più potere, e dice, ora s'è fatto la giostra, non arete più scusa da arecare. E a V. M. si raccomanda, e vi priega la raccomandiate al magnifico Piero e a madonna Contessina e a madonna Lucrezia e a la Bianca e a la Nannina e a Giuliano. Ieri levai panno pagonazo di Londra per una gonna a la romanesca, perchè questa quaresima vuol Madonna che la vadia a la romanesca, che credo non istarà punto male, e vuole andar vicitando tutti questi perdoni, pregando Iddio per voi.

Per questa terra non si fa altro che dire de la gran magnificenza avete fatto, e massimo de la persona, che si dice vi siate aoperato tanto degnamente quanto sia possibile di dire, e che giamai fu paladino facessi quello à fatto V. Magnificenza, che ciascheduno se n'è ralegrato grandemente, e massimo li amici vostri. Messere Giovanfrancesco figliolo del Marchese di Mantova si raccomanda a V. M., e per Dio se n'è molto rallegrato e avutone grandissima consolazione, confermandovisi sempre parato ai piaceri di V. M.

Per questa non m'accade a dire, se non che sempre mi raccomando a V. M., che l'altissimo Iddio di male guardi e la conservi in felicità.

Vostro Francesco di Filippo Tornabuoni in Roma.

La fidanzata scriveva a Lorenzo il 28 gennaio: e ne rispetto la grafìa, che è ben diversa in altre lettere della Clarice dopo fattasi fiorentina:

Magnifico consorte, recommandatione etc. Ho hauta una vostra lettera, e inteso quanto scrivete. Che a Voi sia cara la mia lettera me piace, como a collei che sempre desidera fare cosa che ve sia grata. Et più dite, che avete poco scritto: remagno contenta a tanto quanto vi piace, governandome sempre in bona speranza. Madonna mia matre ve benedice. Piacive recomandarme a vostru et mio patre, a vostra e mia matre, e a quelli altri che vi pare. Sempre me recomando a Voi. A Borna, die xxviii gennaio 1469. Vostra Clarice de Ursinis.

E il 25 febbraio, dopo che Lorenzo stesso le aveva scritto della giostra, rispondeva:

Magnifico consorte, recommandatione etc. Ho auta una vostra lettera, la quale a mi è molto grata, dove mi avi sate de la giostra, che havete hauto l'onore. A mi molto mi piacce che sia sodisfato l'animo vostro in quelo che v'è sì a piacere; et se le horationi mia sonno hesaudite in questo, me è caro, como a culei che desidera fare cosa che ve sii a piaccere. Pregovi me recommandate a mio patre Piero, a mia matre Lucretia, et a madonna Contissina, et tucti l'altri che ve pare. Io mi recommando a Voi. Non altro. In Roma, die XXV febr. 1469. Vostra Clarice de Ursinis.

Caratteristico de' costumi, non meno che squisito per pittura dal vero, è quanto, due anni prima, aveva scritto da Roma, nel marzo del 67, madonna Lucrezia al marito Piero de' Medici, dopo aver messo gli occhi sulla Clarice come buon partito pel loro figliuolo. Così le due letterine della fidanzata, come questa della Tornabuoni, le pubblicò Cesare Guasti ( Tre lettere di Lucrezia Tornabuoni a Piero de' Medici ed altre lettere, ec.) per nozze Uguccioni-Del Turco; Firenze, tip. Le Monnier, 1859.

.... Giovedì mattina, andando a San Piero, mi riscontrai in madonna Maddalena Orsina, sorella del Cardinale, la quale avea seco suo' figliuola, d'età d'anni 15 in 16. Era vestita alla romana, co'l lenzuolo; la quale mi parve, in quello abito, molta bella, bianca e grande: ma perchè la fanciulla pure era coperta, non la pote' vedere a mio modo. Accadde ieri che andai a vicitare il prefato monsignor Orsino, il quale era in casa la prefata suo' sorella, che entra in nella sua; quando, fatto per tuo' parte con suo' Signoria le debite vicitazioni, vi sopraggiunse la prefata suo' sorella colla detta fanciulla; la quale era in una gonna istretta alla romana, e sanza lenzuolo: e stemoci gran pezzo a ragionare; e io posi ben ment' a detta fanciulla. La quale, come dico, è di ricipiente grandezza, e bianca, et à sì dolce maniera, non però sì gentile come le nostre; ma è di gran modesta, e da ridulla presto a' nostri costumi. Il capo non à biondo, perchè non se n'à di qua ( cioè, a Roma non son comuni le bionde, che erano le più pregiate di bellezza ): pendono i suoi capegli in rosso, e n'à assai. La faccia del viso pende un po' tondetta; ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi pare un po' sotiletta o, a dir meglio, gentiletta. Il petto non potemo vedere, perchè usano ire tutte turate; ma mostra di buona qualità. Va col capo non ardita come le nostre, ma pare lo porti un po' innanzi: e questo mi stimo proceda perchè si vergogniava; chè in lei non vego segnio alcuno, se non per lo star vergogniosa. La mano à lunga e isvelta. E tutto racolto, giudichiamo la fanciulla assai più che comunale; ma non da comparalla alla Maria, Lucrezia e Bianca ( loro figliuole ). Lorenzo lui medesimo l'à vista: e quanto esso se ne contenti, tu lo potrai intendere. Io giudicherò che tutto che tu et lui ditirminerete sia ben fatto, e me n'accorderò. Lassiamne Idio pigliar il meglio partito.... Tua Lucrezia.

E in altro foglio di sua mano soggiungeva:

Come ti dico per letera di mano di Giovanni ( Tornabuoni, suo fratello ), noi abiàno vista la fanciulla, con buono modo e sanza dimostrazione; e quando la cosa nonn'abia avere effetto, non ci si metterà nulla del tuo, chè nallo ragionamento s'è avuto. La fanciulla à dua buone parti, ch'è grande e biancha: non à uno bello viso, nè rusticho; à buona persona. Lorenzo l'ha veduta: intendi da lui se la li piace; chè ci è tante altre parti, che s'ella soddisfacessi a lui, ci potremo contentare. El nome suo è Clarice. Lucretia tua.341. Delle nozze di Lorenzo de' Medici con Clarice Orsini nel 1409; Informazione di Piero Parenti fiorentino: Firenze, tip. Bencini, 1870.342. Vedi nel mio libro Florentia, a pag. 212 e 307.343. Vedi la XXIIIª delle lettere del Poliziano, da me date nelle sue Prose volgari.344. Vedi Un cappellano mediceo, a pag. 422 e segg. del mio Florentia.345. Nota dell'armeggeria fatta da Bartolommeo Benci alla Marietta degli Strozzi il 14 di febbraio 1464 in Firenze; Firenze, tip. Galileiana, 1876: pubblicata, per nozze Paoli-Martelli, da A. Gherardi con lettera dedicatoria illustrativa.346. «Ritrasse di naturale» scrive di Desiderio da Settignano il Vasari (IV, 228) «la testa della Marietta degli Strozzi; la quale essendo bellissima, gli riuscì molto eccellente»: e dal Boschetto degli Strozzi, fuor di Porta S. Frediano, è oggi nel loro palazzo in città. Altri ha creduto riconoscerla in un busto, pure strozziano, che è nel Museo di Berlino. «Ad Laurentium Strozam de Mariettae sororis laudibus» sono distici del solito eulogista mediceo Naldo Naldi, nel codice Laurenziano XXXV, XXXIV, c. 15-17.347. Fra le Vite di contemporanei scritte da Vespasiano da Bisticci, è anche quella dell'Alessandra Bardi Strozzi: ma vedi di lei anche nell'aureo libro di Cesare Guasti sull'altra degna donna entrata nell'altro ramo della grande famiglia, Alessandra Macinghi negli Strozzi: Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli; Firenze, Sansoni, 1877; pag. XII-XV.348. Nel cit. carteggio domestico pubblicato dal Guasti, si può vedere (pag. 589-90, 594-96) com'era giudicata la Marietta, quando si trattò di farne la moglie d'uno de' figliuoli dell'Alessandra, Lorenzo. A questo Lorenzo, che n'era innamorato fino a dare per certo che o lei o nessuna, il fratello maggiore Filippo scriveva nel 69: «Confessoti che sia da mettere per bella fanciulla, o vuoi dire donna, e che ha buona dota: ma in opposito mi pare vi siano tante parti, che pesono assai più che le buone. Di prima faccia, a chi lo sentirà parrà che noi vi manchiamo di riputazione, perchè la mercatanzia non va, tanto è soprastata e suta percossa» (allude a trattative d'altri matrimoni) «e costì e altrove; e l'essere trasandata di tempo, e sanza padre e sanza madre,» (era morta nel 65) «e fuori di casa sua, essendo bella, non sarebbe gran fatto che ci fussi qualche macchia. Poi penso, ec.»349. È del febbraio 64, a Lorenzo, giovine di diciott'anni, a Pisa, nell'Archivio fiorentino di Stato, Carte Strozzi Uguccioni, filza CIII, a c. 72. Questo e qualche altro po' del latino che, leggendo alle signore, tradussi, non disdice forse all'argomento umanistico.... nè ormai a leggitrici parecchie, che vengon sapendo di latino più di taluni laureati..... ea ad te scribam, quae neque ah amicitia nostra aliena sunt, simulque in legendo tibi aliquam voluptatem possint afferre. Cum enim haec scribebam, nix totam pene urbem oppleverat: quam aliis taedio atque languori, aliis exercitio atque voluptati, fuisse scias; sed in primis incredibili voluptati fuit Laucterio Neronio, Priori Pandolfino et Bartholomeo Bencio, spectatissimis sane nostrae civitatis hominibus. Hi enim, hac oblata rerum opportunitate, in id convenerunt, ut aliquid memoria dignum ederent. Quapropter, circiter secundam horam noctis, ante aedes Strozzae puellae, cum summa hominum frequentia, nam ad id undique populus confluxerant, se obtulerunt, scilicet parati et simul iacere atque recipere quasi ad invicem multam nivem. Partiti igitur sunt cum puella nivem. Quod spectaculum, Dii immortales! nam pro dignitate, et innumerorum funalium luminibus, et tubarum clangore atque tibiarum suavitate, exornatum erat. Hic autem vereor ne mea inculta oratione assequi possim quid ea nocte meis oculis conspicatus sum. Quid enim dicam de variis circumastantium studiis? quid de multorum applausu? Liceat haec breviter perstringere, mi Laurenti, cum assequi nostris verbis nequeamus. Quisque enim illorum aliquid egregium se adeptum putabat, si nive niveae puellae faciem conspersisset, adeo ut facile diceres, hanc totam rem non nivis ludum fuisse, sed potius sagittatorum certamen ad scopon, tanta gloria pugnabant! Ipsa vero puella ita se gessit, ob summam, quae in illa est, ludendi venustatem atque dexteritatem, non dicam ob pulchritudinem quae satis omnibus innotescit, ut probata ab omnibus atque commendata discederet. Adolescentes vero ii, qui tam liberaliter luserant, nullo pacto prius, quin digno munere eam afficerent, discedendum putarunt. Itaque discessum est, ut unusquisque sibi accumulatissime satisfecisse videretur...»350. Nix ipsa es virgo, et nive ludis. Lude; sed ante

quam pereat candor, fac rigor ut pereat. A pag. 143 delle cit. Poesie lat. e gr. Vedi ivi da me indicati altri consimili ghiribizzi nivali. Del resto si hanno, de' giuochi di neve, anche riscontri medievali popolari. Nei Sonetti di Folgore da San Gimignano ( Le Rime ec.; Bologna, 1880; pag. 5) per la Brigata spendereccia senese, uno de' divertimenti invernali dev'esser di

uscir di fora alcuna volta il giorno,

gittando della neve bella e bianca

a le donzelle che staran dattorno. E uno dei Canti carnascialeschi fiorentini (Firenze, 1559; pag. 61), dei tempi appunto della Marietta, è il Canto della neve, gentilissima cosa, come bastano questi versi a mostrare:

Chi vuol con questa neve trastullarsi,

o belle donne, ei non è tempo a starsi.

La bella neve, donne, oggi v'invita:

l'è oggi bianca, e doman fia fuggita;

e così fa la vostra età fiorita:

chè tosto è vecchia; e poi bisogna starsi.

351. Foscolo, Sepolcri, vv. 20-22.352. Delle nozze episcopali fiorentine ebbi a far cenno nella prima di queste monografie, a pag. 28. Sono descritte in un frammento di Cronaca del 1342, pubblicato dietro a quella domestica di Donato Velluti, da D. M. Manni (Firenze, 1731), che alcune pagine della sua prefazione al libro spende su questo argomento, riferendone autorità di scrittori e di documenti. Dal latino notarile di quei documenti e di altri, concernenti il matrimonio della badessa di San Piero, si atteggiano pittorescamente costumi e figure di coteste età singolari.

In quelle nozze del 1342, il vescovo novello viene (così descrivono memorie d'un Libro della famiglia Visdomini, riferite dal Manni) viene da Porta Romana. Gli vanno incontro «con tube e cennamelle e altra sorta strumenti» il Potestà e il Capitano con tutti i loro cavalieri e giudici, e grande popolo dietro: così pure, tutti i canonici e il clero e le fraterie, processionalmente. Alla porta i Visdomini e i Tosinghi (le quali due famiglie sono i «visdomini» del vescovato fiorentino, i proverbiati da Dante [ Parad. XVI, 112-114] del «farsi grassi» in sede vacante) scendono da cavallo, e «con serto e ghirlande in capo» aspettano 1 vescovo. All'arrivo di lui, che viene, «parato pontificalmente con mitra e piviale», e passa a cavallo la porta, quattro dei suddetti visdomini lo ricevono sotto un palio di drappo dorato retto su quattro bigordi o aste da giostra: altri due, in ufficio di «addestratori», prendono il freno del cavallo. E così, da Porta Romana la comitiva giunge a San Pier Maggiore. Scende il vescovo da cavallo: e i visdomini «lo ricevono nelle loro braccia, e con esso vanno all'altare»; e poi, mentr'e' si para, «sempre lo tengono fra le braccia», aiutandolo a vestirsi, e «vanno con esso fino alla camera, e dentro la camera, della badessa». Ivi il vescovo trova «un bellissimo letto che la badessa ha fatto fare per lui», e in quello si riposa a piacer suo. Poi esce di camera, e viene nel chiostro, dove si fa il banchetto. Il cavallo del vescovo resta alla badessa. Il giorno dipoi tornano i visdomini alla camera dov'è rimasto il vescovo; e al solito inghirlandati lo accompagnano in chiesa all'altare e lo insediano solennemente: poi viene il clero, vengono i religiosi, e lo conducono, scalzo, da San Piero a Santa Reparata, dove prende possesso.

Centoventuno anni dopo, il 27 agosto 1473, il vescovo (anzi allora l'arcivescovo) arriva a San Piero, siede pontificalmente; la badessa gli s'inginocchia dinanzi, supplicandolo di «essere da lui spiritualmente sposata»; egli «con ilare faccia» le dà l'anello; un Albizzi ha il privilegio di tenere il dito della sposa nell'inanellamento. Della camera, del letto, della notte nuziale, l'istrumento notarile non dice nulla.

Le nozze episcopali in San Piero le aveva anche Pistoia: vedi L'ingresso in Pistoia del vescovo Matteo Diamanti, e il suo sposalizio con la badessa di San Piero il 30 maggio 1400; Descrizione di un contemporaneo; pubblicata da C. Gigliotti (Camaiore, 1898) per nozze Rostagno-Cavazza.

353. Nelle nozze del 1301, lo stesso notaro che si roga dell'anello, ha testè ricevuto una protesta del sindaco e procuratore del monastero, con riserva di diritti ec., perchè al pranzo nuziale in San Piero sono stati ammessi, e delle due famiglie visdominali e de' canonici, più di quelli che soli n'avevano il diritto. La cerimonia del 1383 è accompagnata da tumulti e proteste, e seguita da un lodo di giurisperiti.354. Di questa sella, «anzi sella e freno», vedi le lettere XIVª e XVIª della Macinghi Strozzi, e relative annotazioni del Guasti. Ne' tempi dell'Alessandra pare che la cerimonia andasse un po' in disuso: ma non mancano testimonianze del secolo successivo. Una elucubratio su tale argomento, di Dionisio Lippi pievano di Castelfiorentino, ha occasione dall'ingresso del 1567.

Queste mie noterelle 352, 353, 354, si appoggiano a documenti dell'Archivio notarile, o contenuti nel così detto Bullettone o Libro dei visdomini, che si conserva nell'Archivio arcivescovile di Firenze.

355. Ora da me pubblicato in Florentia, pag. 357 e segg.356. Nella conferenza che ebbi occasione di indicare a pag. 56, nota 10.357. Vedi P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi; I, 393; III, 194-196.358. «E restata Annalena priva del figliuolo e del marito, non volle più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue case un munistero, con molte nobili donne che con lei convennero si rinchiuse, dove santamente visse e morì. La cui memoria, per il munistero creato e nomato da lei, come al presente vive, così viverà sempre». Istorie fiorentine, VI, VII.359. Vedi G. Zippel, Le monache d'Annalena e il Savonarola; nel fasc. di ottobre 1901 della Rivista d'Italia.360. Il solito Naldo Naldi: Ad Annalenam feminam castissimam (Codice Laurenziano XXXV, XXXIV ): Surge, liber; nigram tristis nunc indue vestem

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

atque Annae casta sacella pete.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quae surgunt fesulis .... suffulta columnis

candida tempia petes spirituamque domum.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

.   .   .   .   .   .   .   Annalenam .... visas

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vestales ........ spectabis in ordine castas,

fundentes sacras in sua vota preces.

E dopo avere fatto piangere e disperarsi, nel cenobio d'Annalena, quella sua poesia poveraccia, soggiunge:

...... non est minor ille supremum,

sit quamvis sapiens, quem capit Anna dolor.

Dicitur haec etiam lachrymas fudisse pudicas

Albitiae fato virginis acta gravi.

Nec mirum: sic Anna piam dilexit alumnam,

pignora sola velut anxia mater amat.

E conchiude che, tra la pia Annalena e la poesia di esso Naldo, faranno a gara, per l'Albiera, l'Annalena di pregare, e la poesia di cantare, per farla star meglio di là e di qua.

361. Come quello ch'ebbi altra occasione di citare (pag. 232, nota 38), pubblicato da S. Morpurgo, El Costume de le donne ec. Per tutta una letteratura medievale, italiana e francese, di «castigamenti» o «reggimenti» domestici o femminili, alla quale esso appartiene, vedi la recensione fattane da E. Gorra, nel Giornale storico della letteratura italiana; XIV, 269 segg.362. Quello che fu lungamente conosciuto per Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini, dialogizzante in esso co' figliuoli e nipoti, è oggi restituito, come libro terzo, all'opera Della famiglia di Leon Battista Alberti: e ciò specialmente dopo il bel libro di Girolamo Mancini, Vita di L. B. Alberti; Firenze, Sansoni, 1882.363. Vite di uomini illustri del secolo XV; ediz. L. Frati, Bologna, 1892-93. Al tema nostro più strettamente attiene la parte che il buon Vespasiano assegnò alle Donne illustri, scrivendo distesamente la Vita dell'Alessandra Bardi negli Strozzi, e incominciando il Libro, biografico insieme e didattico, delle lode e commendazione delle donne, mandato a madonna Maria donna di Pierfilippo Pandolfini: nella citata edizione, III, pagg. 245 segg. Non dissimilmente ispirata, sebbene in tutt'altre circostanze di vita civile, apparisce una Defensione delle donne (Bologna, Romagnoli, 1876) di anonimo, uomo di chiesa, di dicitura piuttosto toscana, ma che scriveva in Mantova pur in quella seconda metà del Quattrocento. Non appartengono, o ben poco, al tema di questo mio libro, ma pure si congiungono comecchessia a quella foggia di scritture, le Difese delle donne, la Nobiltà delle donne, e simili altre compilazioni cinquecentistiche, sulle quali vedi la dotta bibliografia di Salvatore Bongi, Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari (Roma, 1890-97), I, 246-49.

E qui anche ritorna (cfr. nota 38) il nome del leggiadro monaco Firenzuola, coi Ragionamenti d'amore premessi alle Novelle, e preceduti dalla Epistola in lode delle donne a messer Claudio Tolomei, sentenziatore che le donne siano «persone, alle quali più si converrebbe cercare quante matasse faccian mestieri a riempire una tela, che entrare per le scuole de' filosofanti». Ma la filosofia del Firenzuola era, invero, troppo più femminile che monastica. E così quando messer Giovanni Boccacci esalta ( Corbaccio, pag. 57-58) i colloqui spirituali con le Muse, quanto potrem noi credergli ch'ei li preferisse daddovero a quelli con le donne di questo mondo? sebbene e' metta a carico di queste la trivialità de' loro discorsi: «e quanta cenere si voglia a cuocere una matassa d'accia, e se il lino viterbese è più sottile che 'l romagnuolo, e se troppo abbia il forno la fornaia scaldato, e la fante lasciato meno il pane levitare, o che da provveder sia donde vegnano delle granate che la casa si spazzi, o quel ch'abbia fatto la notte passata monna cotale e monna altrettale, e quanti paternostri ell'abbia detti al predicare, e s'egli è il meglio alla cotale roba mutar le gale o lasciarle stare....»: il che tutto, o quasi tutto, non guasta a noi l'«ideale nella realtà» della donna di casa del buon tempo antico e di tutti i tempi.

364. Regola del governo di cura familiare, compilata dal beato Giovanni Dominici fiorentino de' Frati Predicatori; ediz. Salvi, Firenze 1860.365. Affettuoso abitual modo di ricordarle, che già rilevai a pag. 64, nota 96.366. Alle già fino dal Settecento date a stampa, di Donato Velluti, di Giovanni Morelli, di Bonaccorso Pitti, altre oggi e Croniche domestiche e Ricordanze si potrebbero aggiungere: incominciando dal ristampare, con migliori cure, quelle tre, e restituendole a quel loro vero titolo, di Croniche domestiche, che è quanto dire presentandole per ciò che veramente esse sono.367. Vedi qui a pag. 61, nota 95. Anche il Burckhardt (op. cit., II, 167) attribuisce tale significato e valore alla biografia della Bardi scritta da Vespasiano.368. Nella cit. ediz., a pagg. 257, 258, 259, 263, 266, 267, 268.369. «... la seconda regola» (di due, date da San Paolo) «della quale ell'hanno grandissimo bisogno, è questo, ch'elle imparino, e massime in chiesa, a non parlare. E io vi aggiungo, e in ogni altro luogo; perchè con questo mezzo del parlare favellano molti mali...» Proemio alla Vita di Alessandra Bardi, pag. 256.370. Nella XXVIª delle già citate Lettere, pag. 256.371. Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da Cesare Guasti; Firenze, Sansoni, 1877.372. Istorie fiorentine; IV, XVI.373. Archivio fiorentino di Stato; Carte Medicee avanti il principato, XXII, 347. Era la Ginevra moglie, da due anni, di Bernardo Bartolini Salimbeni.374. Mi è caro ricordare come una fra le gentili che mi ascoltavano, pubblicasse tre anni dipoi pagine nelle quali Cesare Guasti avrebbe potuto riconoscere non infruttuosa la dedica da lui preposta al suo libro: «Alle donne italiane — le quali prego — leggano questo volume — col cuore». Il libretto di quella gentile s'intitola: Giulia Franceschini, Le Lettere di Alessandra Macinghi Strozzi; Firenze, Stab. tip. fiorentino, 1895.375. Delle Donne di casa Medici avanti il principato (Contessina, Lucrezia, Clarice, Alfonsina, Maria Salviati) ha raccolto le memorie, dall'edito e dall'inedito, una studiosa alunna dell'Istituto Superiore fiorentino di Magistero femminile, signorina Berta Felice; ed io benauguro della non lontana pubblicazione. — La Macinghi Strozzi è rivissuta nel libro del Guasti. — Di Maria Salviati nei Medici, di Maria Soderini nei Medici, di Maria Strozzi nei Ridolfi, vedi qui appresso, note 87, 88. — Nella Isabella Guicciardini effigio io, in questo stesso libro, Una madrefamiglia del Cinquecento. — Ne' Rucellai, famiglia di gran valentuomini in quell'età di transito da repubblica a principato, e fra questo e quella ondeggiante, entrò la Nannina Medici sorella del magnifico Lorenzo, moglie di Bernardo uom di stato e umanista; e seguaci fervorose pur vi ebbe il Savonarola (vedi appresso nota 376).376. Vedi P. Villari, La storia di G. Savonarola; II, CXCIJ. E ne' Documenti e Studi intorno a G. Savonarola per cura di A. Gherardi (Firenze, Sansoni, 1887, a pag. 216) si legge che all'invito per la prova del fuoco, a provar vera, contro le scomuniche, la dottrina del Frate, erano «tanti che desiderano entrare in questo fuoco, che è uno stupore, così secolari come religiosi, come femine et giovanetti. In modo, che invitando iermattina in pubblico fra Domenico a questo, si levorono a un tratto molte donne gridando: Io, Io....»

Una di coteste donne è credibile fosse la «diletta in Cristo sorella, ancilla del Nostro Signore», alla quale, senza ne apparisca altramente il nome, fra Domenico Bonvicini, il più animoso dei seguaci del Savonarola e uno de' due suoi compagni di rogo, scriveva:

Sorella mia in Christo domino dulcissima. Le nostre cose sono da Dio: et se Voi starete umile, e non le comunicherete con molti, nè le direte se non forzata o per grande utilità, pregando il Signore che non vi lasci ingannare; se farete, dico, queste tre cose, non vi si mescolerà mai alcuno errore, e cresceranno in magior lume e grazia. Dunque pregate Dio che mi mandi uno demonio come egli ha mandato a Voi; ciò è di quella ragione spirito, della quale ragione avete Voi; perchè io vorrei essere spiritato come siete Voi. De', fate d'essere exaudita. Oh quanta cecità della Chiesa nel tempo presente! poi che e' ministri di quella non sanno discernere tra la luce e le tenebre qual differenza sia, cioè tra 'l pazzo e lo spiritato; e tra lo spiritato di Dio spirito santo, e lo spiritato del demonio spirito maligno. Ma io mi credo che la passione e disordinata affezione, e poca allegrezza del bene e della grazia del fratello, faccia a molti dire quel che per nessuno modo essi non credono. E basti....

Guido Biagi, Spigolature savonaroliane (per nozze Rostagno-Cavazza; Firenze, 1898), a pag. 9-10. È probabile che costei fosse monna Bartolomea Gianfigliazzi; «la quale avea sue divozioni e sua spiriti, secondo diceva»; così il Savonarola nel processo ( Villari, loc. cit.); «ma» soggiunge «a questa non prestava molta fede, perchè li pareva pazza.»

Le due Rucellai savonaroliane furono una Cammilla, venuta dai Bartolini Davanzi, e una Marietta entrata negli Albizzi (vedi L. Passerini, Genealogia e Storia della famiglia Rucellai; Firenze, 1861; pagg. 130-131). La Cammilla, scioltasi dalla vita coniugale (prima annuente, poi renuente, il marito), si fece terziaria domenicana col nome di suor Lucia; e nel Diario sacro ec. fiorentino, ch'ebbi occasione di citare a pag. 59, è sotto il 28 ottobre: «Beata Lucia Bartolini Rucellai domenicana». Se di tempra giacobina fosse costei, lo mostra una pagina del Processo savonaroliano ( Villari, II, CLXJV, CCXXVIJ ), che si riferisce al truce episodio (vedi sopra, nota 18) della condanna e decapitazione dei cinque Medicei nel 97: «Filippo Arrigucci, che allora era de' Signori, voleva gittare dalle finestre del Palazzo Bernardo del Nero, che era allora Gonfalonieri di Iustizia: e in quel tempo il ditto Filippo mandò a dimandare madonna Camilla de' Rucellai quello si aveva a fare allora; e lei gli mandò a rispondere che lei aveva avuto in revelazione, che gittassero dalle finestre Bernardo del Nero....».

377. Vedi fra i citati Documenti e studi del Gherardi, come scriva, il 25 maggio 1495, una Guglielmina della Stufa al marito Luigi Commissario per la Repubblica in Arezzo: «Fra Girolamo, stamani, ci à rafermo el bene che noi avemo avere che non mancherà per nulla, ma che prima abbiamo avere del male; e perchè el male sia meno, ci ha detto faciamo quaresima da qui a lo Spirito Santo, e stiamo in orazione; e che non dubita che messer Domenedio è piatoso, che ci alegerirà le nostre fatiche che avemo avere. Sì che qua ognuno stimo la farà. El simile devereste far Voi, a ciò che Dio ci liberasse da tanti affanni e tribulazione che si trova questa città e, per dire meglio, tuto el mondo».

Ma singolare documento savonaroliano e femminile è la Lettera di una Monaca a fra Jeronimo Savonarola, pubblicata (per nozze Carnesecchi-Bini; Firenze, 1898) da Guido Biagi; dove è sollecitata «la riforma delle donne» quasi con senso di gelosia, che il riformatore si occupi meno di loro, che «degli uomini e de' fanciulli».

✠ yhs.

Debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Ad Romanos, 8 cº.

Essendo noi, reverendissimo in Christo Yhesu padre diletto, debitori non alla carne, ma per mortificare le opere della carne collo spirito e vivere; e questo desiderando moltissime persone, e maxime le fanciulle, le quali zelanti e fervide che l'onore di Dio in loro sia magnificato, avuto più volte da Voi predicando consiglio e documenti si debbino reformare ad uno onesto e semplice vivere, e con ardente caritate e mirabile fervore eccitate a fare la reforma; pare a loro che, poi eccitasti et a reformare cominciasti li uomini et i fanciulli, delle donne non vi curiate. E benchè siàno manco degne, non è però che da Dio non siàno molto amate, poi che di donna volse nascere, e la Chiesa dice: Intercede pro devoto femineo sexu. Le quali vorrebbono, per zelo di iustizia, fussi pregato notificare e pubblicare questa reforma, acciò possino el desiderio nel quale si ritruovono perficere. E sapete non essere manco virtute il conservare lo acquistato, che il congregare: immo, più; come dice Jovanni Cassiano nelle sue Collazioni. Et avendo voi assai tempo laborato e ben seminato, è necessario provedere non venisse lo inimico omo per seminare la zinzania; e maxime che viene il tempo della state, e le fanciulle di nuovo si rivestono: vorrebon sapere che foggia e forma abbino a fare. Sapete che 'l senso tira: se non provedete con questa reforma, transcorreranno in troppa dilazione. Sì che, per caritate, siate contento più presto potete manifestarla. Non altro. Christo Yhesu sempre sia in vostra guardia. La nostra sorella et io, vostre sempre spiritual figliuole, vi preghiamo nelle vostre orazione di noi facciate memoria; e così tutta la casa nostra è al vostro comando. Addì 2 di maggio, l'anno di salute MCCCCLXXXXVI.

Per la Vostra in Christo spiritual figliuola Margarita di Martino.

378. Predica dei 15 maggio 1496; a c. 42-43 dell'edizione di Venezia, 1540.379. Vedi Villari, op. cit., I, 505-511; II, 95. In una Canzona (da me ripubblicata; Firenze, 1864) d'un Piagnone pel Bruciamento delle vanità nel carnevale del 1498, la quale al Tommaseo ( Dizionario estetico, pag. 910) parve palinodia insieme e parodia dei canti carnascialeschi Medicei, fra le cose che il fiorentino piagnone dice a Carnevale, mentre questi si accinge a tramutarsi da Firenze, convertita cristiana, a Roma curiale e pagana, è anche: Le tue donne vane e stolte

sonsi mai contra te volte,

che l'avevi fatte erede?

E Carnasciale risponde:

Ciascun m'ha per derelitto;

fin le donne m'hanno afflitto,

rinegando la mia fede.

380. Vedi in iscorcio quelle e altre figure in Mecenate e Cliente medicei, a pag. 206 segg. del cit. mio libro Florentia.381. P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi; III, 44 segg., 77, 136 segg.382. Vedi Carnasciale postumo, a pag. 412-421 del mio cit. Florentia; e Repubblica medicea, a pag. 143-149 delle mie Conferenze fiorentine (Milano, Cogliati, 1901).383. A pag. 68-69 del cit. Studio di G. Levantini-Pieroni su Lucrezia Tornabuoni.384. Lettera LIXª, de' 15 novembre 1465, a pag. 517: «.... l'angiolo Raffaello,.... come guardò Tubbiuzzo da pericoli e da inganni, e poi lo rimenò al padre e alla madre,.... così rimeni voi a vostra madre, che con tanto disiderio v'aspetta».385. Vedi sopra, a pag. 236-37, nota348.386. Anche questa madre fiorentina ci fu rivelata da Cesare Guasti, quando illustrò coi documenti Alcuni fatti della prima giovinezza di Cosimo I de' Medici (ora negli Scritti storici, vol. I delle Opere, a pagg. 91 segg.). Vedi poi L. A. Ferrai, Cosimo de' Medici duca di Firenze; Bologna, Zanichelli, 1882: Pierre Gauthiez, Jean des Bandes Noires; Paris, 1901.387. Anche in quel dramma finale della libertà fiorentina, la parte che, madre e sorella, figliuola e nuora, ha la donna, accennata già pur negli storici contemporanei, emerge oggi e rileva dalle belle monografie di L. A. Ferrai, Lorenzino de' Medici e la società cortigiana del Cinquecento, Milano, Hoepli, 1891; e di Pierre Gauthiez, Lorenzaccio, Paris, 1904.388. Questo Aneddoto della corte d'Urbino fu, con parole degne e della donna e della patria, tratto fuori dagli Opuscoli di Scipione Ammirato, e ravvivato, da Pietro Giordani; Opere, ed. Gussalli, VIII, 136-37.389. Le due tragedie strozziane sono state modernamente riprodotte, in un dramma, il Filippo Strozzi del Niccolini, e in un romanzo (qual ei si sia) di Giovanni Rosini, la Luisa Strozzi. Su «la fine della Luisa Strozzi, involta ancor oggi in profondo mistero, senza speranza di squarciare il fitto velo che la ricopre», vedi L. A. Ferrai, op. cit. pag. 146-49.390. Clarice, figliuola di Piero del magnifico Lorenzo de' Medici e dell'Alfonsina Orsini, rinnovava il nome della nonna. «Altiera e animosa donna» la ritrae il Varchi ( Stor. fior. III, V ), che alla vigilia della cacciata Medicea del 1527, va in lettiga, «come cagionevole» ch'ella era (e morì l'anno dopo) al palagio dei Medici; e rinfaccia ai due giovinastri, Ippolito e Alessandro, che ivi rappresentano indegnamente quel gran nome, come e quanto «i modi che essi hanno tenuti e tengono siano dissimili a quelli che hanno tenuti i loro maggiori»; e che «i suoi antenati avevano tanto potuto in Firenze, quanto aveva conceduto il popolo; e alla volontà di quello avevano ceduto, andandosene; e essendo richiamati dalla volontà di quello, erano altre volte ritornati: e così giudicava che fusse da fare al presente».

Col nome di Clarice Medici Strozzi è fra le Rime diverse di alcune nobilissime donne, raccolte da L. Domenichi (Lucca, 1559), questo madrigale patriottico a Firenze:

Flora, ninfa superba,

che di Dïana sprezzi

l'arco le reti le fontane e l'erba,

non viver tanto in vezzi;

chè, a te stessa increscendo,

cangi la propria forma in strani lezj.

Già, se il vero io comprendo,

poco stimi i pastor che t'ebber cara,

poco la libertà c'ognuno apprezza:

tal che, la tua bellezza

pigliando nova forma, or non più rara

sarai, nè altrui sì cara.

Di ciò mi doglio, e il mio dolor sia vano,

che l'amaro tuo fin non è lontano.

Madrigale che ne ricorda un altro, nel quale pur sotto imagine di donna amorosa, ma con ben altro vigor di linee e profondità di sentimento, Michelangiolo Buonarroti raffigura, com'è il titolo appostogli dal Guasti editore delle sue Rime (Firenze, F. Le Monnier, 1863), «Fiorenza e gli esuli fiorentini». Versi che in sè hanno alcun che di sacro mistero, da ricordare, dell'immortale artefice, le Laurenziane figurazioni dell'agonia della patria.

( Gli esuli fiorentini alla Patria )

Per molti, donna, anzi per mille amanti

creata fusti, e d'angelica forma.

Or par che 'n ciel si dorma,

s'un sol s'apropia quel ch'è dato a tanti.

Ritorna a' nostri pianti

il sol degli occhi tuoi, che par che schivi

chi del suo dono in tal miseria è nato.

( La Patria agli esuli ).

Deh! non turbate i vostri desir santi:

chè chi di me par che vi spogli e privi,

col gran timor non gode il gran peccato.

Chè degli amanti è men felice stato

quello, ove 'l gran desir gran copia affrena,

ch'una miseria di speranza piena.

391. Di villa, Lettere di Isabella Guicciardini al marito Luigi negli anni 1535 e 1542. Per nozze Guicciardini-Martelli. Firenze, Succ. Le Monnier, 1883. Vedi in questo volume qui appresso.392. Vasari, Vite, XI, 268.393. Ripeto, dopo alquanti anni, queste parole, con la speranza altresì che il Governo, ammaestrato da dolorose esperienze, cooperi efficacemente, mediante provvedimenti degni dell'onor nazionale, alla buona volontà e al sentimento gentilizio delle nostre antiche famiglie.394. Lorenzo il Magnifico, Conferenza d' Ernesto Masi; fra quelle su La vita italiana nel Rinascimento; Milano, Treves, 1893.395. Varchi, Stor. fior., X, XXVII. All'Incisa di Valdarno, un marmo ricorda: 1529, Lucrezia de' Mazzanti | donna d'alto cuore | plebea | dagli amplessi aborrendo | di soldato alla patria nemico | inviolata | qui nell'Arno | annegossi nè a lei | maggiore dell'altra Lucrezia | i tempi consentirono un Bruto | e la Repubblica fiorentina | periva. || Questa memoria | dopo 309 anni | Antonio Brucalassi | poneva. Egisto Sarri, pittore del cui nome Figline si onora, raffigurava, con fedeltà storica, nelle belle matronali forme di popolana nobilissima quel femminile eroismo, in un quadro che si conserva presso il cav. Giovanni Magherini Graziani. Il capitolo VI dell' Assedio di Firenze del Guerrazzi è intitolato «Lucrezia Mazzanti».396. Varchi, Stor. fior., XV, XXIII. Della iscrizione latina di esso Varchi per la «Lucrezia etrusca,» vedi nell' Assedio del Guerrazzi la Nota al cit. cap. VI.397. Nel cap. VII dell' Assedio, immaginando e colorendo di suo sopr'un accenno di Iacopo Nardi, Istorie di Firenze, VIII, LV.398. Promessi sposi, cap. VIII.399. Isabella Orsini duchessa di Bracciano, Racconto di F. D. Guerrazzi.400. Nei capitoli IX e X dei Promessi Sposi.401. Nardi, Istorie di Firenze; IX, I.402. Le Lettere spirituali e familiari di S. Caterina de' Ricci per cura di C. Guasti (Prato, 1861), e quelle alla Famiglia per cura di A. Gherardi (Firenze, 1890), hanno avvivato i lineamenti umani di questa donna fiorentina del buon tempo antico, inalzata agli onori della santità. Delle altre, ben diverse, due Ricci fa cenno il Guasti a pag. VI del Proemio al suo libro. E da Marietta de' Ricci, ovvero Firenze al tempo dell'Assedio, s'intitola un coacervato di romanzesco e di erudizione, di A. Ademollo e L. Passerini; Firenze, 1811 e 1845.403. Vedi il bel libro di Antonio Favaro, Galileo Galilei e Suor Maria Celeste; Firenze, Barbèra, 1891.404. Sulla tomba di Maria Alinda Brunamonti Bonacci, è oggi pio doveroso ufficio aggiungere anche il suo nome.405. Emilia Peruzzi nata Toscanelli: anche lei passata! Vedi E. De Amicis, Un salotto fiorentino del secolo scorso; Firenze, G. Barbèra, 1902 Nella cappella domestica della Torre all'Antella essa fece scrivere: Dal 9 Settembre 1891, | XLIº anniversario delle nostre nozze felici, | al 27 aprile 1892, | che Firenze memore ti richiese nella sua Santa Croce, | posasti qui presso la madre | alla pia ombra del sacrario domestico, | o mio Ubaldino. || Ma se disgiunte nell'estrema quiete le ossa, | la concorde anima d'Emilia tua | tornerà a te in quell'angelico tempio | che solo amore e luce ha per confine. Ma anche la lapide, che ora in quella cappella cuopre le ossa di Lei, aspetta d'essere sollevata; e il sepolcro gentilizio di Santa Croce l'attende.

UNA MADREFAMIGLIA DEL CINQUECENTO (ISABELLA SACCHETTI GUICCIARDINI)

I. Firenze, 5 luglio 1535.

Carissimo Luigi, Ho aute dua vostre: alle quali risponderò brevissimo, perchè sono occupata, chè domattina, a Dio piaccendo, andiamo a buona ora in villa: e sono soprastata per conto della Simona[406]... E così andréno a Popiano[407] col nome di Dio, che gli piaccia darci grazia vi stiàno sani. E di là come potrò vi scriverrò; e come arò ordinato le cose più necessarie, vi manderò el garzone colle cose chiedete: e bisognerà rimandarlo presto, per attendere alle faccende. E se manderete un altro buono asino, condurò biada in Firenze e delle altre cose, el più si potrà, pel verno.

Non altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi. Addì 5 di luglio 1535.

Isabella in Firenze.

La brigata di Messere[408] dice vuole venga sabato a otto.

(Fuori) Al magnifico signore Comessario d'Arezo Luigi Guicciardini consorte onorando in Arezo.

II. Poppiano, 6 agosto 1535.

yhs

Carissimo Luigi, Ho auta con piacere la vostra de' 29 del passato, che troppo mi pareva essere istata sanza vostre lettere. La stanza[409] qui è bella e piaceci; ma ci sono caldi grandissimi, e col sole non si può uscire di casa e poca via andare, che non si sudi forte.

El grano è inbucato la maggior parte, chè cominciava a riscaldare. Del venderlo, se n'è mandato el saggio a Firenze, e farassi quanto iscrivete: a Dio piaccia se ne pigli el migliore partito, che non mi pare punto la nostra usanza. Degli asini, userò colle parole diligenzia sieno ben governi, e con più destreza potrò m'ingegnerò che loro e 'l garzone perdino poco tempo, e con some che si mantenghino.[410] Le stoviglie di legno saranno utile, se ne provederete qualcuna, per le volte[411] di qui e di Firenze: arche,[412] per ora ci è abastanza.

Parmi discorriate bene di pensare prima alla Simona che a nessuna dell'altre faccende: e pensate che io non ho altro desiderio che vederla, a' dì vostri e mia, assettata dove ella ha a stare, e a Dio piaccia aiutarcela porre in luogo ne siamo consolati.[413] Se dopo questa faccenda ci avanzerà tenpo e denari, non ci mancherà che farne.[414]

Pensate che delle cose che io conoscerò che sieno utile, che io le ricorderò a' lavoratori; ma posso poco andare veggendo, rispetto a' caldi: e pensate che la vecchiaia fa el debito suo. Di questa settimana che viene, vedrò se io potrò avere uno, e comincerò a fare rassettare qualcuna di queste cosette de' viottoli e 'l vivaio.

La Simona dice vi scriverrà. Gli occhi sua non sono ben guariti: la mattina sono rossi e grossi più che l'ordinario negli orli loro; e tutto istimo venga da superfruità e superchio di sangue mal purgato.

De' pesci non si è presi co' ritrosi,[415] perchè mi paiono questi lavoratori tanto infaccendati da sera e mattina, che io non ho volsuto affaticargli. Come aranno finito rassettare queste aie, facciàno pensiero votare el lavatoio e farlo rimondare, e pigliare e' pesci più grossi, e rimetterenvi e' piccini, perchè infatti, come dite voi, portono pericolo.[416] E venerdì mattina passato mi parve avessino una mala burasca, e non ho potuto sapere da quello si venga. La mattina a buona ora v'andò una delle nostre serve, e trovòne fuori della fonte, e assai alle prode che si lasciavono pigliare e andavano boccheggiando per la acqua. Anda'vi io a vedergli, e parvemi vi fussi di be' pesci: pigliàmone circa a dua libbre, che furono buoni. Feci molto rimore, e dimandai e' lavoratori, e pareva che tutti si maravigliassino; e dicevono che pel caldo fanno alcuna volta così, per esser assai materia al tondo del lavatoio, e nel lavarvi temono: che forse potrebbe essere; e se ogni volta vi si lavassi avenissi così, lo crederrei; ma non hanno più fatto così, nè prima nè poi.

Piero dice che de' pistacchi se n'appiccò uno: de' pini n'andò uno in su, e poi fu roso da un baco: e' fighi e' peschi dice istanno bene.

Credo certissimo che la stanza mia costì[417] v'are' fatto avanzare qualche iscudo più; se non altro la spesa di qua: chè tenere la casa aperta come bisogna non si può fare senza ispesa, come vedrete. E la iscusa della casa costì accetto per averlo inteso da altri: benchè, secondo m'è stato detto, v'è stato più brigata che non siàno noi. Pertanto che io me lo reco per una vostra buona usanza; chè siate istato in luoghi capacissimi, di casa e d'ogni altra cosa, èssene istato el simile. Possomi dolere in questo caso della natura e della fortuna: e prima della natura, che non mi fece con quelle parte a voi sufficiente;[418] e poi della fortuna, acozarci insieme. Or sia come si voglia: tutto à fatto Idio, e a lui piaccia sia con salute della anima vostra e mia. Chè a poco altro che alla Simona e questo, penso: chè oramai mi veggo presso al tempo del rendere e' conti di questo viaggio presso a finito.

Bisogna lasciare passare questi terribili caldi, e intanto sarà finito rassettare questi grani, che domani si misurerà l'utimo[419] grano; e parmi sarà questo d'Andrea circa 12 o 13 moggia. Per la prima vi potrò dare lo 'ntero di tutto.

Ora bisognerà pensare alla vendemia. Bisogna ricerchiare qualche tino; e racconciarci le botte dello aceto che ce l'ò trovato tutto guasto, no so quello s'è volsuto dire; e fare segare quel ciriegio, che benchè molte volte l'abbi ordinato non s'è fatto. Vedrò ora condurre e ordinare queste faccende, se io potrò; ma dubito che la partita mia non impedisca: perchè l'ordinare e non ci essere, non riesce; e se io avessi visto e pensato a tante cose che io ci veggo da fare, non so se io m'avessi ordinata questa gita.[420] Veggo che voi n'avete voglia, e non vorrei iscontentarvene; e se io dovessi lasciare ogni cosa andare in perdizione, e voi diliberiate che io venga, lo farò: e non potrò passarvi 15 dì che io non ritorni qui, chè ci lascerò molte cose. Ciò che mi dà più noia che altro, si è che io non ci ò una serva da lasciarci, di tenpo,[421] per 15 giorni. Messere non mi pare vogli ci rimanga la Caterina, e lei non ci vuole rimanere, perchè gli parrebbe esser troppa sola quando non ci fussi Messere.[422] Andrànose, se io vengo, tutti, prima mi parta di qua. La Simona di Messere[423] gli parve troppo caldo, e per ancora non ci è venuta, e non penso altrimenti ci venga nè qui nè costì. Di mettere qui uno per queste faccende che ci occorreranno, non veggo persona a proposito.

Del cacio s'è condotto el migliore, cioè el primaticcio, in Firenze: quello mi trovo qui non è molto bello. Arei caro sapere quante coppie ne vorresti,[424] e così indigrosso quante libbre, che lo iscierò del meglio.

Io non pensavo più a quel male, perchè non ne dicevi più nulla.... E secondo mi disse maestro Lionardo,[425] non sono da darsene pensiero.

Duolmi abbiate tante brighe co' servidori. È cosa fastidiosa, e non siate solo; chè è così per tutto. Bisogna alle volte soportare qualche cosa. Dipoi avesti Ottaviano, mi pare senpre abbiate auto che fare; faceva così in casa: ha una mala lingua, e comettitore di scandoli, e bestiale, e sanza pensare a nulla. Siàno tutti pieni di difetti: bisogna soportarsi l'un l'altro, tanto che ci morréno.

Ho fatto l'anbasciata vostra a' lavoratori. E' fighi non hanno pidocchi: so' ispenti. E' melaranci sotto la grotta ve n'è parecchi che ànno messo: quegli de' nocciuoli v'è 2, gli altri sono secchi: hogli fatti alcuna volta anaffiare.

Io non dirò per questa altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi. Addì 6 d'agosto 1535.

Isabella a Popiano.

(Fuori) Al magnifico signore Comessario d'Arezo Luigi Guicciardini consorte onorando in Arezo.

III. Poppiano, 30 novembre 1542.

yhs

Carissimo Luigi, Ho auto tre vostre; una de' 7, e de' 13 e 18: risponderò a tutte le cose mi paranno di più inportanza.

E prima, quanto a' vini, n'è istato qui poco per tutto. Da Ripalto e 'l Mulino non potetti averne più, per la causa vi scrissi allora; e l'uno e l'altro sono molto poveri. Apaionmi legate persone;[426] e parmi che Giovanni abbi poco el capo a starvi: e pochi giorni sono mi disse che non era el bisogno suo el podere, che dura assai fatica, e per essere in sulla strada patisce assai danni da' pecorai; e che mi voleva aiutare trovare lavoratore, io gli aiutassi trovar podere. Io gli risposi non m'impacciavo d'allogare, e che gli aspettassi voi. Dissemi che ve lo iscrivessi, acciò che a bell'agio potessi assettarvi. Dissi non ve lo iscriverrei, perchè ora non era tempo. Non l'ò poi rivisto.

Quelle vite mostravano meglio che altrove. Non so poi come s'andassi. Usossi la possibile diligenzia.

Rileggete la mia lettera, e vedrete che io vi dissi che alla botte del vecchio erono iscoppiato e' cerchi. E così l'avessi io venduto tutto, che ne serbai tanto che io pensavo, e mi riusciva, averne per insino a Pasqua e dipoi; ci avevo una bottina di stretto, che l'avevo disegnato per la serva per insino a vebraio, e restavamene 12 barili. Ma sorte volse, che iscoppiò l'utimo cerchio della botte, e la mattina si trovò tutto in terra. Pensate se mi dolfe; chè era buono, e aronne a ricomperare qualche poco, e del vecchio ho compero qualche fiasco, e alcuna volta n'ò da Firenze.

Dispiacemi assai, vi stiate con tanto disagio e fastidio quanto mi scrivete. Bisogna facciate come iscrivete che io faccia io: pigliarsi queste faccende per piacere,[427] e non si straccare el manco sia possibile, e isperare nel tempo che vola. E per tutto dove uomo si truova, in questo mondo è iscontenti; e maximo nell'età nostra,[428] che ogni cosa c'infastidisce. El tutto istà, ci riposiàno nella futura vita.

Delle legne pel forno non ho ancora fatto tagliare, rispetto a questi tenpi, che mai ci è fatto altro che piovere poi tanto tempo; e sonci tante triste vie, che non si posson condure. Somi servita di quelle crono intorno a' Casini, e della sanza che non ho seco poco obrigo, e la quercie della strada, con qualche altre cose secche; tanto ci andiàn vivendo comodamente. Non ho fatto bucati, nè atteso a inbiancare accia come soglio. Se 'l tenpo istessi qualche dì, che si potessi, farei tagliare come mi scrivete.

L'olio rinviliò lunedì passato soldi 20, come da Messere penso arete inteso, chê a lui ne scrivo. Secondo che io intendo, oggi per la acqua non s'è passata la Pesa; e penso non vi sia istato mercato.[429] Bisognerebbe che voi dicessi, Com'è al tal pregio, datelo: perchè varia per mercato assai, e passa 2 mercati prima se n'abbi la risposta. Al fattoiano[430] ho detto quanto iscrivete; e quando el tenpo servirà,[431] non mancherà di quello potrà: chè non è mai rimaso libero di quella mano, e ispesso gli dà gran noia. Al Tozo parlai de' pali: dissemi che fra un mese vedrebbe provedergli. La gora e' pescaiuoli dal Mulino si fornì a' 21 del presente:[432] è poi venuto due piene: diconmi à provato benissimo quello s'è fatto. Ma, secondo m'è detto, quel mugnaio è tanto dappoco, che io dubito non vi mantenga quel luogo: perchè ispesso bisogna rassettar la gora; e non fa nulla. Voi arete inteso quanto sia parso a Bastiano da Enpoli da fare, circa al vivaio e la fossa.

Circa al portarsi e' lavoratori meco, non me ne posso per insino a ora dolere più che l'anno passato. E de' porci ànno conperati 3 per uno: Piero à ispeso 31 lire, e' Casini 35; sono maggiori e da farsi più grossi, a detto di questi contadini.[433] Le vostre inbasciate ho tutte fatte loro, circa le fosse e l'altre cose m'avete iscritto: e tutto mi dicon fare, e pare che loro desiderino partirsi vostro amico. Delle ghiande ci è poche per tutto: e quella[434] dal Mal fastello, che suole esser, quando n'è assai, coperta la terra, non ve n'ò mai viste un centinaio; e così quella da' capperi. Vagliono un grosso lo staio, e meglio. Io ho conperato un porcellino, che m'è costo lire 9 e soldi 12, per amazarlo questo carnovale, chi ci sarà. Chè m'è tocco di molte mele tanto cattive, che non sono da cavarne nulla; chè sono istate tanto disutile e istrane, che non sono se non per dare a' porci; e penso che le consumi, con parecchi istaia di ghiande che io ci avevo. E penso sia la carne per insalar qui; e per in Firenze potrete provedere voi, se costà sarà buono insalare.

E' tetti bisognava farli acconciare d'agosto. Poi che io ci sono, fatta fu la vendemia, mai ci è fatto altro che piovere; e non s'è ancora potuto fare s'acconcino, come el tenpo serve.[435] Gli usci non ho fatto acconciare. Nel prencipio che io ci fu', non potetti avere legnaiuolo; e poi m'è parso e' dì piccoli e male opere,[436] chè bisognava condurci legnaiuolo da Castelfiorentini o da Firenze. E bisognerebbe fare queste panche, uno uscio alla corte grande, tutte queste finestre inpannate, e molte altre cose, volendoci abitare come le persone:[437] e per sì piccola cosa[438] non m'è parso porti la spesa condurci un maestro, in questi tempi istrani. Se saréno questa istate sani, e si vegga poterci istare in pace, si potrà allora condurci un buon maestro, e a tutto dare opera; e ora avere pazienzia, come s'è fatto quest'altre volte.

Voi mi dite mandarmi iscritto di questi debitori, che dicono ànno avere; che l'arò caro: però non vo' pagare, se voi non mi dite che abbino avere. Quel di Vanozzo, intendo dice non esser pagato della vite s'ebbe da lui; da Benedetto Canbi intendo avesti non so che trave che non s'è pagata, adoperossi alla casina; Meo Giorli dice v'aiutò non so che opere, che non fu pagato: pertanto arò caro rivediate tutto, se potete; e quanto più presto, meglio, acciò possi ispedire tutte queste faccende.

Sapete che quando ci venne cotesto medico, che voi eri qui, che io vi dissi m'era parso uomo di buona qualità: e parmi esser certa che avendo e' medici nel prencipio cavato sangue a Messere, gli arebbe giovato assai, perchè l'orine sua erono rosse e torbide, e 'l viso rosso assai, e massimo come mangiava. Maestro Marcantonio istette sospeso e non volse. E' mia accidenti non accade vi dica, perchè gli sapete a punto. El lattovaro m'à fatto pigliare maestro Giovanbatista, si chiama mitridato istenperato nella malvagìa. Me l'ò trovato buono el purgarmi:[439] benchè nel pigliare isciloppi e medicine, pareva mi nocessi per allora; discostandomi poi dalle purgazione, ho visto m'erono istate buone. El mitridato ho usato la vernata; la state no.

Quanto alla vostra de' 12, non accade dirvi altro, se non el grano è cavato della buca iscema e istà bene: e l'ò tutto fatto vagliare, e porre in camera della casina, dispersé el vecchio e nuovo. Se voi volete si venda, avisate. Del vecchio s'arebbe 33 soldi, del nuovo 35. Del vecchio ve n'è qualche poco del bucato: parmi che el vagliarlo gli abbi giovato; par meglio assai. Francesco Caradori non ho visto se non una volta poi ci sono. La comessione de' pali detti al Tozo, come mi dicesti; e promisse provedergli. E' vini bianchi si sono mutati all'ordinario, e la vernaccia è quasi chiara: non mi pare molto buona quest'anno; fu anno assai migliore. El greco credo sarà buono: non è ancor chiaro.

Se Cavalcante[440] ci verrà, l'arò caro, per intendere di vostro essere: benchè, per quanto a questa mi scrivete, resto coll'animo posato, e di nuovo da Messere intendo esser seguitato el miglioramento; tanto che io penso siate al tutto libero: e così piaccia a Dio. Vero è che e' tenpi sono contrarii a riaersi, e maximo le persone di tenpo; e come dite, penso vi paia fare adagio: che è ragionevole.[441]

Quando Messere vorrà dalle monache quello mi scrivete, farò quanto bisognerà. Non posso pensare chi vi s'abbi inpedito che voi non abbiate di questa faccenda fatto a vostro modo, s'era di tanto utile quanto voi mi scrivete.

Ebbi la vostra de' 18 pel garzone andava a San Casciano; che mi fu di piacere assai, per intendere el vostro miglioramento esser seguitato tanto, che vi pare esser quasi ritornato nel vostro solito essere. Le cose mi ricordate m'ingegnerò tutte exequire, quelle potrò. Ho dipoi una altra vostra de' diciotto, che mostra partirsi Cavalcante a dì 19: el che penso pel tenpo contrario non si partissi; perchè non intendo sia arrivato.

El vivaio e la fossa non si sono cominciati, rispetto a' tenpi e l'openione di Bastiano da Enpoli, come da Messere e da lui penso arete inteso. A' lavoratori ho fatto tutte le 'nbasciate vostre, delle fosse aperte, e delle ulive si rassettino e guardino gli ulivi; ma ci è istato tanti tenpi molli e rovinosi, che non si sono per ancora tocchi ulive nè guatati e' pedali per còrre o ricòrre. Oggi, che siàno all'utimo del mese, ci è bellissimo tenpo, e trae buon vento: se reggerà, si vedrà; ma non ci ò fede, chè siamo presso all'utimo della luna.[442] Se la luna nuova tornassi con questo tenpo, mi parebbe d'averci buona isperanza: e andando dicenbre e gennaio di buon tenpo, si seminerebbe dimolte cose; e forse che e' pregi del grano e biade non farebbono altro. Qui ho auto qualche chiesta del grano, e a questi tenpi se ne sare' venduto qualche staio: el che non ho fatto, perchè e Messere e Gregorio mi consigliorono si stessi qualche mercato a vedere; e così s'è fatto. Arò caro intendere l'openione vostro[443] el più presto sia possibile, perchè siàno presso a Pasqua, e apressasi el tenpo da partirsi di qui. Delle fave s'è venduto e vendesi qualche istaio; che cominciai a darle a soldi 22, e ora l'ò vendute 29, ma poche staia.

Ser Antonio[444] vi bisogna avere per iscusato, perchè à una infermità tanto crudele, che ne increscerebbe alle pietre; e ispesso si sente gridare non altrimenti si facci una donna sopra parto; è iscuro e tanto tribolato, che ispesso chiama la morte. Getta per quelle vie dell'orina tanto sangue, che, secondo mi dice la sorella, va ispesso per insino al saccone. Alcuna volta dice messa, e va per casa; non se gli vede febre. Dice essersi fatto cercare,[445] e che gli è detto non pietra ma una fistola in quelle parte; ed è possibile viva in questo martoro qualche poco di tenpo. Idio gli dia pazienzia e forteza a soportare tanta tribulazione nella quale e' mi pare sia.

Io non vo' dirvi per questa altro, chè ci ò iscritto su più giorni. Rincrescemi pure questo tanto iscrivere, e a Messere, e la Simona,[446] e opere, e grani;[447] tanto che le mia faccenduze mi vanno in disordine, e me ne istracco troppo. Pertanto abbiatemi per iscusato, se io non vi scrivo ispesso, come forse vorresti e io ancor vorrei: ma non posso tanto. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi. Addì 30 di novenbre 1542.

Isabella a Poppiano.

(Fuori) Al magnifico Comessario di Castracaro Luigi Guicciardini consorte onorando in Castracaro.

IV. Poppiano, 12 e 13 dicembre 1542.

yhs

Carissimo Luigi, Ho auta una vostra de' 23 del passato, e una de' 5 del presente; e in questa risponderò all'una e all'altra quanto occorrerà.

E prima, quanto alla prima, abbiàno da ringraziare Idio siate riuscito a bene e assai presto della malattia mi contate avere auta, che non pare fussi di piccola inportanza.[448] Idio senpre ne sia ringraziato. Dell'orazione per voi, non si manca; pure che Idio l'accetti: bisogna l'aiuto vostro, e sanza quello credo che altro poco vaglia etc.

Circa la gora e' pescaiuoli, non vi sono istata e non posso dirvi a punto dove si sieno.[449] Solo vi dirò che io mandai per quel mugnaio da Castelfiorentini, che ispesso veniva in Firenze a voi, che à nome Michele e chiamasi Ispina d'oro sopranome, e parmi persona molto pratica con questi fiumi e dassai persona; e lui dette el disegno della gora e de' pescaiuoli: disse che per quest'anno non si pensassi facessi danno; e per due o tre piene, sono venute poi, ànno retto bene, e dicono che ànno fruttato bene, e riparato al danno che pareva volessi far l'acqua. Vero è che Bongianni[450] v'andò, e disse gli sare' parso da farne un altro nel mezo di dua vi sono fatti: e dipoi ebbi la vostra de' 5 del presente gliene parlai, parendomi desiderassi voi che se ne facessi un altro; e forse che lui ve n'aveva iscritto; e a lui pare che per ora non sia da fare altro e istare a vedere una altra piena. Sono testè l'acque molto girate, e' dì minori di tutto l'anno,[451] ed è da fare simili lavori per necessità. Quel maestro da Enpoli v'andò, e aprovò quello vi s'era fatto esser a proposito, e non ragionò vi bisognassi altro. Io non vi sono istata, chè sono istate le vie tanto triste, e troppo lunga a me a farla a piede. Ispesi 6 ducati d'oro d'opere e ferri e per tutto quello bisognò: e prima in dua volte ispesi 12 lire, che fu tutto gittato via; e non si può errare, avere in simil lavori parere da chi à pratica di quello che altrui à di bisogno.[452] Questo mugnaio è molto debolino d'animo d'ingegno e di cervello e di persona: e bisognerebbe tenervi uno che sempre rassettassi ora le pale e ora e' marmi; e non so come vi si pagherà, chè m'è detto è poverissimo. Io farò seco quello potrò.

Circa el grano della buca piena, sono forse 15 giorni che io la feci aprire, e cavossene tanto che v'entrò Pieretto e null'altro: cercossi tutto intorno intorno la paglia, trovossi asciutta; e andossi colle canne per insino al fondo, e per tutto si trovò asciutto. E così lo tenni 3 o 4 giorni, e ricercossi di nuovo; e trovandolo asciutto per tutto, rimessesi el cavato, e riturossi, e così s'è. Quel della buca iscema si cavò, e tutto lo feci vagliare, ed è in sul palco della camera della casina. Venduto non se n'è, perchè non ho auto bisogno di denari, e perchè e' non ci pareva perdessi istando qualche poco a vedere: arebbesene 32 e 33 soldi. Delle fave ho vendute qualche istaio, e così se ne vende, 22 soldi 28 e 26.

Sapete che io vi scrissi che Francesco di ser Cione non poteva darvi denari, e che vi darebbe terra: rileggete la mia prima lettera. Dal Pogna ebbi lire 6; da Gregorio ho auto lire 87; lire 27 ebbi da ser Antonio che gli aveva riscossi da Francesco di ser Cione, e 'l resto mi disse quanto di sopra è detto.

E' vini bianghi stanno bene: el maggior male ci sia è che sono pochi, e non buoni come sogliono. A' lavoratori ho fatto l'anbasciata vostra: dicono, gli aquai e ogni altra cosa istar bene, e che ànno cura e' bestiami no paschino dove dite. Attendono a ricòrre l'ulive; e da Sant'Andrea in qua ci è istato assai buoni tenpi: prima ci era acqua, nebbia e umido, come iscrivete esser costà.

E' lavoratori nuovi ci vennono per San Simone, che ci era Messere. Dipoi non ci è venuto quel de' Lotti; quel di Pieretto ci è istato 2 volte, e l'utima fu per Sa' Niccolò; che mi dissono fasciorono e' piantoni, perchè non temessino el freddo: dopo la vendemia seminorono certe biade usano in que' tenpi, che è vena: ora attendono all'ulive. De' poderi vecchi per ancora non ci fanno altro. Delle pere ci fu poche: toccòmene 2 bigoncie, vendute che furono le cosime.[453] Feci conto essermi tocco, di tutte le frutte, lire 34 e soldi 10. Delle mele m'è tocche circa 40 bigoncie; ma sono tanto triste e brutte, che se ne caverà poco: honne vendute un monticello a soldi 8 la bigoncia; non l'ò ancora misurate. Del mugnaio, cercando, forse si troverebbe qualche cosa; ma non vorrei entrare in queste ragione faccende, non ci sendo voi: e così ho detto a Giovanni da Ripalto. Del lavoratore che torna dove Piero, mi pare un bel promettitore, e fassi di buono animo a far bene ogni cosa: se riuscirà a fatti, andrà bene; e a questo voi ci sarete, a Dio piaccendo: se riuscirà, n'arò piacere assai. Questo de' Lotti parla poco, e poche volte io l'ò visto: par sensata persona. Bisogna giudicare alla giornata; come dice el proverbio, Non ti conosco se io non ti maneggio: e puossi male vedere se non si pruova. Delle ulive ci è poche; el fattoiano pensa ci sia un trenta barili d'olio in questi 2 poderi. A ser Antonio feci l'anbasciata vostra, che l'ebbe cara: vive, el poverino, co molto tormento. Se ci capiterà Francesco Caradori, gli dirò quanto iscrivete: non l'ò visto se non un tratto, poi ci sono.

Quanto alla vostra de' 5, m'è istato grato lo intendere siate dello stomaco e de altre vostre indisposizione quasi al tutto rettificato; che n'ò auto piacere. A Dio piaccia conservarvi, e voi sappiatevi riguardare. Cavalcante non ho visto, benchè io abbi inteso sia istato 15 giorni in Firenze: pensate se io l'arei visto volentieri! Parmi che vi rincresca molto le faccende e la stanza,[454] che v'andasti così con fastidio e malvolentieri, e penso v'abbi a rincrescere tutto questo tenpo: ma vorrei che voi facessi come voi dite a me che io facci io, che voi vi pigliassi coteste faccende per piacere. Pensate voi che io abbi un gran contento e ispasso, trovarmi qui co due fanticelle, e poco altri rivedere e con altri parlare, e 'l più del tempo iscrivere, e pagare opere, e vendere, e tener conti? e tutte queste faccende rincrescono alle persone di tenpo. Bisogna in questo mondo, chi ci vuole avere contenti, pigliarsi piacere delle cose che dispiacciano, altrimenti si starebbe senpre in tormento; e pensare che 'l tenpo vola, chè siamo già al terzo di questo camino. Io vo ispesso a vedere ser Antonio; e quando io lo veggo in quelle pene, mi pare essere una signora, pensando che posso dormire e mangiare e avere qualche riposo. Pertanto, quando siàno a questo, ringraziàno Idio.

La terra della fossa tutta seminorono e' lavoratori, come lo dissi loro: el bottino non si rienpie per esser seminato sopra la terra l'aveva a rienpiere; e se io l'avessi a fare, vi porrei qualche cosa in quella buca: e volendo voi pure che la fossa si facci, bisognerà lasciare ire el grano. La fonte getta dimolta acqua, quasi a bocca d'un mezo barile, e 'l lavatoio senpre trabocca, e pare istrano esser tanto basso, per esservi assai acqua; e 'l vivaio si mantiene pieno: credo che meglio si raccorrebbe la vena della acqua, quando non fussi tanta dovizia.

Quando Bongianni farà fare la buca iscrivete, pagarò l'opere. E' pali non si sono auti: el Tozo mi disse gli provederebbe, ma che non si tagliono per insino a gienaio; e così intendo dal fattore di Cavalcante, che n'à a provedere per Bongianni. Io non ho conperato legne, e ho fatto fare di queste pel podere, e quando si tagliò pe' pali di Vergignio[455] certi resti, e pel forno quelle mi scrivesti, e non patisco: chè el tenpo è in modo, si può ire a torno. Del vino, ho fatto venire da Firenze di quel di Paterno, che era bonissimo, e alcuna volta n'ò conperato a Montagnana: e ingegnerommi patire manco che io potrò.

E per questa non voglio dirvi altro: chè è tardi, e ancora ho a cenare. A voi mi raccomando. El Signore sano vi conservi. Addì 12 di dicenbre 1542.

Isabella a Poppiano.

La stima de' porci venduti si scontrò con quella mandasti. Per la vostra de' 7 di novenbre, mi dite mandarmi, come vi sentivi meglio, e' conti di questi che dicono avere aver da voi: che è questo di Vanozo per conto della vite; e intendo avete a pagare un legno s'ebbe da Benedetto Canbi, che si misse nella casina; Meo Giorli dice gli avete a pagare una opera; el fabro dice gli avete a pagare 2 libbre d'aguti e certo vino dette alla Maria, che è un pezo io pensavo l'avessi pagato. Arei caro intendere da voi se tutti questi ànno avere quanto vi scrivo: sono piccola cosa, e a tutti sodisfarò, chè penso sieno tutte cose dimenticate: e chi à avere la pensa forse altrimenti; e non è bene. Pertanto arei caro, el più presto potete me ne dessi notizia: perchè oramai sare' tempo di ritornare in Firenze; chè siàno a Pasqua, e le faccende sono presso a finite. Per di qui sabato saranno finito e' tetti; che erono condotti in modo, mi costerà 3 ducati o meglio questo lavoro, tra calcina, tegoli e mezane, e opere; ma staranno bene. Ser Antonio è istato da domenica in qua un po' meglio, e istamani à detto messa; e raccomandasi a voi.

A' 13 ho fatta questa agiunta.

(Fuori) Al magnifico signore Comessario di Castracaro Luigi Guicciardini consorte onorando in Castracaro.

V. Firenze, 9 gennaio 1543.

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Carissimo Luigi, Ho aute 3 vostre, che non risponderò per ora a quelle. Solo vi dirò come domani sarà otto giorni che io tornai da Popiano: e là su mi governai, co riposo e buona vita, con pollo pesto e istillato; e migliorai tanto che parve a Messere e a Bongianni che io ne venissi, pensando se l'accidente mi fussi ritornato, sarei istato in piggior grado.[456] E se ser Antonio fussi istato sano, o vi fussi istato un altro buon religioso apresso, mi mettevo a ristio ancora per qualche giorno: ma non vi esendo, mi lasciai consigliare. E pensate che el travaglio del partire, e la mutazione della aria, e molte visitazione, mi parse fermassi el miglioramento. E istommi così trista per camera, come molte volte m'avete vista, con deboleza di capo, occupazione di cuore (e non ci è ordine lo possi con nulla vincere), debilità di matrice; che el corpo la ganba e 'l cuore, tutto questo lato manco, mi sento travagliato; con poco gusto del cibo: el vino mi piace, e assai ne piglio conforto; e sono buoni, come da Cavalcante intenderete, che tutti di villa e di Firenze gli ha asaggiati, bianghi e vermigli. E quando lui arrivò a Poppiano, istavo bene, e meglio m'ero sentita che io fussi istata un pezo, come da lui intenderete; tanto che io ispesso pensavo che le natura facessi in questa età suo isforzo: caminavo legiermente, e dormivo benissimo e mangiavo, e così ogni altra mia operazione, assai meglio che l'anno passato. La sera che Cavalcante arrivò, la mattina tutta cominciai andar sozopra. Vero è che el tenpo si mutò, e féssi freddo grande; e benchè io avessi de' panni, lo sentivo assai al capo e tutta la persona.

Mandai per maestro Giovanbatista per dirgli e' mia difetti: e quando ci venne, disse volermi vedere cor un poco d'agio, chè aveva faccenda; per allora non volse badare, chè aveva faccenda: non l'ò poi visto, e non me ne sono curata, per tanto istia posata qualche dì, che possi meglio giudicare e' mia difetti. Farò che ci verrà: e se vedete costì el vostro medico, intendete da lui quello gliene pare. E così doverresti parlargli per conto della Simona e di Pierantonio; chè l'ò trovata sì grassa, che vi so dire l'acqua della Porretta non la disecca. Pierantonio si sta come si suole...

Voi mi dite v'avisi quello vale la carne; che n'ò parlato con Cecco dalle porte: dicemi costerà lire 10½ a tòrla dal beccaio. Pertanto che a me parebbe ne insalassi costì 4 peze più che so ne insalerete per voi, valendo quello m'avete iscritto. Mi pare migliore ispesa far così: per in villa s'insalerà quel porcello conperai, che sarà 150 libbre o circa.

El grano vecchio non se n'è venduto, e non se ne troverrà più che 24 e 25 soldi lo staio, perchè ogni cosa è rinviliato. L'olio Messere n'à venduto 20 barili, lire 7 soldi 2.

Non dirò per questa altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi e sano vi conservi. Addì 9 di gennaio 1542.[457]

Isabella in Firenze.

Ritenuta[458] per insino a stasera, che ho auta la vostra degli otto, che m'è istata gratissima: duolmi solo lo intendere abbiate auto iscesa[459] già 2 notte. Avisate ispesso come istate. Da Cavalcante intenderete di mio essere. E la Simona e la Caterina[460] ci sono istate da poi tornai. Io non insalerò qui carne, come da Cavalcante intenderete; e così del tagliare le legne a Poppiano: e darete aviso di quello vi paia da fare e quando. Non dirò altro. Attendete a riguardarvi, e così farò io. Idio ci dia grazia ci rivegiàno sani.

(Fuori) Al magnifico signore Comessario di Castracaro Luigi Guicciardini consorte onorando in Castracaro.

XXI NOVEMBRE MDCCCLXXXIII.

PER LE NOZZE DI Annetta de' conti Guicciardini COL NOBIL GIOVANE Carlo Martelli.

A chi ha letto queste pagine di carteggio familiare così schiettamente donnesche, sì urbanamente fiorentine, con tal semplicità assennate, con tanta dignità affettuose, se non dove un po' di malinconia talvolta le annebbia, chiedo di poter comunicare alcuno de' pensieri che a me, cavandole dagli originali,[461] si aggiravano per la mente. E prima lo chiedo a Lei, gentile Annetta, che non isdegnerà riporre questo libretto fra i preziosi ricordi della casa donde esce, figliuola e sorella dilettissima, per adornare del suo ingenuo sorriso, allegrare del suo tenero affetto, confortare della sua mite e serena bontà, la nuova famiglia, che alla sposa desiderata apre festeggiante le braccia. Le memorie della casa sono sacre ad ogni animo bennato: e il lustro del nome, la nobiltà dei natali, ne impongono più gelosa la custodia, quando esse non sono patrimonio solamente domestico ma cittadino. Pio culto, pel quale da secolo a secolo le tradizioni si rannodano, gli esempi rinverdiscono, e si avvicinano in certo modo e congiungono gli spiriti. Nè con altri intendimenti io ho quasi chiamata partecipe alla gioia delle sue nozze questa onoranda matrona dei Guicciardini, moglie di Luigi, cognata di quel Francesco il quale fra le glorie italiane è delle maggiori e che per volger d'età non tramontano.

E pensavo, trascrivendo per Lei queste lettere, quanto la Isabella ritragga in atto di quell'ideale di donna, che ne' loro libri di governo familiare delinearono i nostri buoni antichi. I quali, «avendo sopra tutte le cose per la più gioconda il far bene i fatti propri» (diciamolo con le parole dell'aurea fra quelle scritture), ma non per essi dimenticando il dovere di «attendere e servire alle cose pubbliche», volevano ripartiti acconciamente i carichi e le incombenze, e lodavano «chi alla donna sua lascia il governo della casa e delle cose minori, e per sè ritiene ogni faccenda virile e debita agli uomini»; di guisa che «l'uomo rechi a casa, la donna serbi e difenda le cose e sè stessa con timore e sospezione; l'uomo difenda la casa la donna e i suoi e la patria, non sedendo, ma esercitando l'anima e il corpo, con virtù con sudore e con sangue.» Così madonna Isabella, pel marito Commissario in Arezzo, in Romagna, in Pisa, in Pistoia, curava le faccende domestiche; e gliene scriveva di villa queste lettere, che tanto è a dolere non ci siano rimaste in maggior numero, quant'è certo che il marito, uomo di poco facil contentatura, le aveva carissime. «Quando sarai stata qualche dì a Poppiano, scrivimi come vi stanno le cose,» leggiamo in una sua «.... e se la frasconaia posta questo anno mette bene, et e' capperi et e' nocciuoli posti questo anno,.... e come mostrono li ulivi e le vite....». Ed ella medesima a lui: «Abbiatemi per iscusato, se io non vi scrivo ispesso, come forse vorresti e io ancor vorrei....».

Intendo le difformità che i mutati tempi pongono tra il vivere, anche domestico, di ora e di allora: leggi, costumanze, istituzioni, dissimili; differenza di sentimenti, impressioni, affetti; relazioni sociali altramente determinate; civiltà che dell'invecchiamento ha le migliorie e le magagne; agi alla vita procacciati dalle gloriose vittorie dell'umano ingegno sulla natura; animi e corpi diversamente temperati: nè Ella certamente ritornerebbe oggi di villa in città, nel modo che all'ava sua, ancorachè di salute mal ferma e di età inoltrata, pareva non disadatto, cioè «sulla mula», lasciando stare la lettiga come morbidezza troppo squisita. Nonostante tuttociò, sia lecito a noi poveri studiatori di carte antiche, vagheggianti a lume di lucerna gli splendori di quelle età, credere che anche nel pratico della vita, fatta pur ragione di quante diversità ed eccezioni si vogliano, le memorie de' nostri vecchi possano utilmente risuscitarsi; che possa qualche volta una gentildonna del secolo decimonono rammentarsi opportunamente di ciò che facevano e come facevano quelle che hanno portato il suo nome tre o quattrocent'anni fa. Al qual proposito mi sembra che in queste pubblicazioni nuziali dall'antico, delle quali è ormai invalsa la lodevole usanza, sarebbe gentil cosa si preferissero scritture, non dirò sempre di donne, ma che abbiano comecchessia del domestico: lettura più da sposi; e contributo alla storia, sì de' fatti e sì delle parole, non meno importante di qualsivoglia altro.

PIERO di Iacopo di Piero di Luigi 1454-1513 m. Simona di Bongianni Gianfigliazzi.

FRANCESCO 1482-1540 m. Maria d'Alamanno Salviati. DIANORA m. Giov. Arrigucci. GIROLAMO 1497-1555. Senatore nel 1551. m. Costanza de' Bardi. BONGIANNI 1492-1549 BONGIANNI † 1490 fanciullo.

IACOPO 1480-1552 oratore per la Repubblica e a quella rimasto devoto, m. Cammilla de' Bardi. MADDALENA m. a) Bartolommeo Nasi. b) Iacopo Vettori. COSTANZA m. Lodovico Alamanni. LUIGI 1478-1551. m. ISABELLA di Niccolò Sacchetti 1480-1559.

GUGLIELMETTA † 1509 fanciulla. MARGHERITA m. a) Francesco Tornabuoni. b) Piero Bini. PIERO 1511-1527 LORENZO 1505-1509 NICCOLÒ 1500-1557 m. Caterina di Lorenzo Iacopi. SIMONA m. Pierantonio de' Nobili.

SIMONA 1509-1512 SIMONA m. Piero Capponi. LUCREZIA LAUDOMIA m. Pandolfo Pucci. LISABETTA m. Alessandro Capponi. Cinque figliuoli, tra' quali una Isabella e un Francesco.

Nei fatti chi prendesse occasione d'entrare dal carteggio di Luigi Guicciardini, troppe cose avrebbe a mano; e lungo anche sol l'accennarle. Quella famiglia, de' cinque figliuoli di messer Piero,[462] aspetta uno studio, e darebbe materia importante a un volume: e della vita di Francesco e degli atti suoi temo non si darà con sicurezza un giudizio compiuto, se prima non si faccia, poichè lo possiamo, un tal libro. Il quale mostrerebbe in che modo e per quali vie, entro agli animi di alcuni cittadini, e de' più valenti, l'amore della libertà e della patria e della roba si contemperassero nella devozione alla fortuna, di lunga mano preparata e quasi casa per casa, de' discendenti di Cosimo e Lorenzo de' Medici; e darebbe delle ambizioni, che ci paiono oggi pressochè parricide, non di messer Francesco Guicciardini solamente ma anche di altri altrettanto famosi, le ragioni di fatto, se non la morale giustificazione. Di quel libro personaggio principale sarebbe Luigi; e documenti importantissimi, le lettere fra lui e il figliuolo messer Niccolò, nel quale la famiglia presumeva rinnovare (secondochè parve ai contemporanei) con la dignità di dottore la grandezza dello zio Francesco: ma da questa era Luigi, almanco per certe qualità, un po' meno lontano. Fiero uomo Luigi Guicciardini; ed ebbe occasione di dimostrarlo: con lode di valore e di fermezza, quando si trovò Gonfaloniere di Giustizia nell'aprile del 27 a reggere la città che si rivoltava contro i Medici; con biasimo di crudeltà, quando Commissario mediceo a Pisa nel 30, ricevuta la città dal suo predecessore per la Repubblica, fece lui morire fra' tormenti. Nè quelle sue lettere, che sono a stampa, scritte al fratello dopo caduta la libertà, discordano da tali atti; come la descrizione, ch'ei volle dedicata a Cosimo duca, del Sacco di Roma lo chiarisce avverso a quella prepotenza straniera o, come dicevano, di barbari, della quale i Medici avrebber voluto, e fu impossibile, non aver a valersi nell'assoggettamento della patria. Ma sarebbero da cercare i suoi dialoghi e trattati; che ne scrisse e di politici (in alcuno de' quali pare intendesse vendicarsi del Machiavello, che l'avea figurato, tra gli altri medicei, nell' Asino d'oro ), e di altro argomento intitolandoli dagli Scacchi. «Luigi se ne stava in villa,» scrive al Varchi il Busini, dandogli notizie della cittadinanza nel 27 ai tempi della libertà, «dove compose gli Scacchi, agguagliando quel giuoco a un buon padre di famiglia»: ma in effetto cotesto trattato (che si conserva fra i manoscritti Magliabechiani), dedicato a sua Eccellenza esso pure, è una «comparazione degli Scacchi all'Arte militare»; e mi par da rincrescerne, e da desiderare che il Busini non avesse sbagliato nell'attribuire a Luigi ciò ch'e' credette, al vedere, cosa da lui: perchè, invero, lassù in villa, cioè a Poppiano, nel vecchio riparo de' suoi maggiori, con la valente sua donna, erano luogo e compagnia adattissimi a scriver bene di quella materia familiare, come dimostrano le Lettere che io oggi do in luce.

Alle quali ogni discreto concederà volentieri il pregio delle parole: e parole vuol dire cose parecchie e importanti. Perocchè la parola, o la congegni il magistero d'uno scrittore o nel vivo de' fatti si atteggi spontanea, ha, come testimonianza storica, tanto grande valore morale, quanto forse nessun altro de' segni con che all'uomo è dato figurare il pensiero e l'affetto: massime se di secoli, come a noi i tre primi della nostra cultura, durante i quali lo scrivere, sì meditato e sì usuale, esemplava dalla consuetudine de' parlanti tuttavia incorrotta le schiette e native proprietà dell'idioma. Non so se cento, od anche meno, anni più tardi ci occorrerebbe in lettere di donna fiorentina una così graziosa pittura villereccia, come in queste di madonna Isabella, nè con tanto senso del vero. Leggendole, noi la vediam proprio, quell'accigliata massaia, tra le fantesche e i lavoratori, e i mugnai, e i maestri muratori, e i fattori, e gli opranti, assegnare, distribuire, pagare, registrar partite, riveder conti, conferire col cognato Bongianni, che di que' fratelli era come chi dicesse il castaldo; poi scrivere un po' per giorno, tra l'una faccenda e l'altra, le sue lunghe e particolareggiate lettere al marito, e riferirgli, e dimandare, e rammentare, e suggerire, e proporre: e il grano, e il vivaio, e la gora, e la vendemmia, e il vino e l'olio, e il forno e le legna, e il mercato a San Casciano, e le bestie da soma col garzon che le mena, e le provviste invernali compresovi un porcellino per insalare, e i lavori alla casa e alle fosse e al mulino; e poi le ragioni di chi dee dare e chi avere, e' contadini che lasciano i poderi e i nuovi che vi tornano, e chi son eglino, e i discorsi con loro che par di esserci presenti; e poi confortare il povero prete di Poppiano, afflitto da malattia disperata; e tribolarsi con le fanti, pur raccomandando al marito d'aver egli pazienza co' servitori; e dietro a tutto questo, «le sue faccenduzze», che teme per tanto lavorìo e tanto scrivere debbano «andarle in disordine». Ma ell'era donna da riparare a tutto, e da avanzarle tempo e lena per pensare e alla figliuola sua Simona, prima da maritare e maritar bene, in modo da «esserne consolati», poi allogata e da doverle mandar le nuove e riceverne; e al suo messer Niccolò, i cui fatti le importano, alla madre, più di ogni altra cosa del mondo; e al marito, cui consiglia della salute, o ammonisce di cose più alte, o lo rimbrotta che in quelle sue commesserie non gli piaccia portarla seco e far una casa sola, come e' farebbe (dice amaramente) se gli fosse toccata moglie più degna; ma in quella stessa lettera non crede poter lasciar la villa e le «molte cose» nemmeno per una visita promessagli di quindici giorni, salvo che proprio egli voglia così, chè allora verrà, anche se «dovessi lasciare ogni cosa andare in perdizione».

La vena del malumore trapela spesso da queste lettere, «essendo lei di natura» scriveva Luigi al figliuolo «che si accuora assai le cose che non li vanno per el verso»; ed ella stessa al marito, «Pensate che io non posso istare coll'animo in pace, chè sapete che io penso sempre al peggio»; e in quasi tutte essa fa un lungo discorrere de' suoi malori: ma come quelli non le impedirono di arrivar presso agli ottanta (nata de' Sacchetti nel 1480, morì, dopo una vedovanza di otto anni, e due dopo al figliuolo, nel 1559), così quella sua natura alquanto rubesta e inquieta e crucciosa non la faceva sdare nè rimetter punto della operosità di madrefamiglia e massaia. Del resto le lettere di Luigi mostrano che l'austerità de' loro caratteri non impediva l'amore. «Benchè sia vero» le scriveva una volta dalla Romagna «che io sia qui chiamato da ogniuno Signore, e che ciascuno mi stia inanzi senza nulla in capo, e che abbi quelli servidori voglio, e che secondo el paese non mi manchi le cose ragionevole, nondimeno hai a tenere per certo, che infiniti dispiaceri ci ho avuti d'animo per le cose di costì e qui, e che non ci ho una ora di riposo o consolazione alcuna, chè non che altro chi ordinariamente conversa meco non mi satisfa; e che arei più senza comparazione piacere potere vedere le cose mie, te e la brigata, e parlare alli amici mia, e vedere le cose di villa, che queste signorie e sberrettate, et altre cose ci sono qua e che ci posso avere. Però mi pare mille anni ogni ora, potere venire costì per 8 giorni almeno.» E altra volta, che ella da buona moglie e madre si sgomentava di certe grosse spese domestiche, così egli, anche allora Commissario, piacevolmente e con affettuosa confidenza la rassicurava: «Circa alle spese grande abbiamo avuto questo anno, e per l'advenire aréno ancora, per finire le muraglie e fornire le case, è verissimo; e se non fussi questa sorte abbiamo avuto, non aremmo potuto reggere a cosa alcuna, non che fare tutto; che penso si finirà ogni cosa e fornirà le case bene, e si porrà da canto qualche danaio, e più somma non pensi, per le cose che potessino accadere: e se non ho trovato qui una cavetta d'oro, come scrivi, ci ho trovato una certa vena che getta in modo dolcemente che col tempo comparisce; e sta' di buona voglia, chè a tutto si riparerà facilmente.... Stammi un tratto allegra, e pensa che questa volta siamo usciti del fango, e resteremo in modo che non ci potremo dolere della sorte; perchè le cose ragionevole non ci mancheranno, e presumi che questa vena che getta sopperirà a tutto. A Iddio piaccia possiamo goderci insieme lo stato nostro, e che noi siamo sani.» E tutto il carteggio di Luigi con la sua «carissima Isabella», o dove parla di lei, è improntato di affetto e stima e fiducia e reverenza grandi, con bizzarra mescolanza di altro, come per esempio le superstizioni astrologiche; secondo le quali e' le designa e prescrive i giorni e le ore a punti di luna e di stelle, per andare o stare, partire o tornare, e perfino sgomberare stanze, votar la cantina, far manipolare medicamenti dallo speziale.

Alcuni tratti di queste lettere di madonna Isabella ricordano la più viva e fiorita lingua de' comici e novellieri di quel secolo; in altri potrebbe il lessicografo abbellirsi di voci e locuzioni specialmente attinenti a cose di villa; ve n'ha infine che ci offrono pensieri e sentimenti espressi con singolare potenza. La discendente dai collaterali di Franco Sacchetti, la cognata di Francesco Guicciardini, non fa torto al suo sangue nè al suo parentado.

Quel mugnaio dappoco, che non ispira punta fiducia alla giudiziosa signora, ci par di vederlo: «molto debolino d'animo, d'ingegno, e di cervello, e di persona»: dove ciò che un valga, e per le facoltà morali e per le intellettive e per le animali e per le fisiche, è annoverato e distinto a capello, con proprietà inappuntabile. Piena di gentilezza, ed espressa come meglio non si potrebbe, è questa sentenza (da altra lettera, di quelle che lascio inedite) sul correr troppo a credere, massime se vi si mescola l'apprensione per coloro che ci son cari: «Sempre si dice e pensa più che non è; e chi sente e teme non può fare non gli dispiaccia». E in un'altra, più da giovane, del 1517: «Sapete che la mia condizione è, sempre pensare a quello che io non vorrei». E prima aveva detto che contro tali apprensioni ricorreva alla «orazione»: ma «el timore era maggiore, perchè mi pareva meritare ogni male»; con finir poi a riconoscere, lietamente e grata, «esser Iddio più misericordioso che giusto.» È parlante il ritratto di quel servitore che dà tanta briga al magnifico Commissario in Arezzo: «faceva così in casa: ha una mala lingua, e commettitore di scandali, e bestiale, e senza pensare a nulla»: e qui l'Isabella, senza di certo volerlo, danteggia garbatamente (vedi Inf. XXVIII, 35); cioè attinge anche questa volta (confronta a pag. 253) dalle medesime sorgenti popolari donde il Divino Poeta; come altrove gli rivendica una desinenza dalla tirannia della rima (vedi Inf., XXXIII, 120), quando ripetutamente scrive «fighi» e non «fichi». Rivendicazione più compiuta che non quella filologica del Nannucci ( Nomi, pag. 64), il quale di altre desinenze in igo per ico adduce esempi, ma non proprio di figo. (E nelle lettere del cognato Bongianni, grego; e qui a pag.269, 275, bianghi: bianchi, invece, a pag. 263). E que' suoi contadini? l'uno «un bel promettitore, e fassi di buono animo a far bene ogni cosa: se riuscirà a fatti, andrà bene» (e soggiunge modestamente, «a questo voi ci sarete, a Dio piacendo»); l'altro «parla poco, par sensata persona». E d'ambedue poi si rimette alla più antica sapienza del mondo: «Bisogna giudicare alla giornata; come dice il proverbio, Non ti conosco se io non ti maneggio; e puossi male vedere se non si pruova.» Così dov'ella descrive il vivaio de' pesci, toccatole non sa da chi: e alle sue grida e «molto rimore», i lavoratori «pareva che tutti si maravigliassino», e le dicono ragioni, ma non la persuadono. E dov'ella è tutta dolente per la «botte del vecchio» che s'è sfasciata: così «l'avess'ella venduto tutto! chè pensava, e le riusciva, averne per insino a Pasqua e dipoi, e era buono, e aranne a ricomperare....». E dove al marito ritrae sè medesima malaticcia, «così trista per camera, come molte volte m'avete vista»; e in altra lettera, delle inedite, «e così per casa mi sto tristerella»: quando poi a scrivere dei malanni proprî o degli altrui la si mette a distesa, ne fa relazioni da disgradarne il Redi.

Ma l'animo suo e la parola sanno, quand'ella vuole, levarsi in alto: anzi è osservabile, non meno del continuo inframezzare alle cure materiali i pensieri e gli affetti della famiglia, il temperare che ella fa talvolta alcuna di quelle sue uscite un po' acrimoniose con un quasi correttivo morale. Così a quel sinistro ritratto del servitore Ottaviano soggiunge subito: «Siamo tutti pieni di difetti; bisogna sopportarsi l'un l'altro, tanto che ci morremo». Di quel ch'ell'è malcontenta, se ne conforta sperando meglio da Dio; «a Dio piaccia se ne pigli il migliore partito, che non mi pare punto la nostra usanza»; da Dio, nel cui nome tutte le sue lettere incominciano e finiscono. E il sentimento di Dio e del dovere e della morte e dell'eterno empie di sè e annobilisce questi altri tratti: «Or sia come si voglia: tutto à fatto Iddio, e a lui piaccia sia con salute dell'anima vostra e mia. Chè a poco altro che alla Simona e questo penso: che ormai mi veggo presso al tempo di rendere e' conti di questo viaggio presso a finito.... — Bisogna facciate come iscrivete che io faccia io: pigliarsi queste faccende per piacere, e non si straccare el manco sia possibile, e isperare nel tempo che vola. E per tutto dove uomo si truova, in questo mondo è iscontenti; e massimo nell'età nostra, che ogni cosa c'infastidisce. El tutto istà, ci riposiamo nella futura vita.... — Dell'orazione per voi, non si manca; pure che Iddio l'accetti: bisogna l'aiuto vostro, e sanza quello credo che altro poco vaglia.... — Vorrei che voi facessi come voi dite a me che io facci io, che voi vi pigliassi coteste faccende per piacere.... Bisogna in questo mondo, chi ci vuole avere contenti, pigliarsi piacere delle cose che dispiacciono, altrimenti si starebbe sempre in tormento; e pensare che 'l tempo vola....». E in una delle inedite, al marito Commissario in Pistoia nel 37 per le stragi intestine di Cancellieri e Panciatichi: «A Dio piaccia por fine a tante discordie e tribulazioni, che sono causa de' pericoli successi. Confortovi istiate isvegliato con cotesti cervegli, e pensare a tutto quello possi nascere; e considerate donde sono nate tante loro angustie; e sopra tutto raccomandarsi a Dio, che ci mostri el lume e la via, chè mi pare siamo in tempi da avere bisogno dell'aiuto suo.» Ma l'aiuto di Dio quei valenti uomini e donne, nell'atto che l'invocavano, se ne facevano degni menando attorno gagliardamente le mani: «col suo aiuto aiutarci,» sono pur parole della Isabella «e isperare in lui».

Tale la gentildonna dei Guicciardini, il cui nome, le cui ricordanze, mi parvero buon auspicio alle nozze di Lei, Annetta gentile. Nomi e ricordanze di generazione in generazione si mutano e si rinnovano: ma ch'e' non passino com'ombra e fumo, e se ne conservi la tradizione e l'esempio, questa è la religione della famiglia. Degli Dei falsi e bugiardi, i Lari e Penati sono i soli che sopravvivono: pietà di figliuoli e di nepoti alimenta di soavi aromi, conforta di aure avvivatrici, la sacra fiamma di questo mito immortale.

San Donato in Collina, nell'ottobre del 1883.

NOTE:

406. Loro figliuola, indisposta di salute. Era l'ultima di sei. Gli altri: Margherita, maritata ne' Tornabuoni (1519), poi (1533) ne' Bini; Piero, morto giovinetto nel 27; Guglielmetta e Lorenzo, morti fanciulli nel 1509; e messer Niccolò, legista assai riputato e lettore poi nello Studio Pisano, senatore nel 1554, oratore a papa Paolo IV, commissario ducale a Pisa, dove morì nel 57.407. «Poppiano o Popiano nella Val di Pesa, castellare con villa signorile e chiesa parrocchiale.... Ebbe antica signoria in cotesto luogo di Poppiano la patrizia famiglia fiorentina de' Guicciardini, alla quale tuttora appartiene la ròcca ridotta ad uso di villa, con varî poderi intorno, oltre il giuspatronato della chiesa parrocchiale di Poppiano.» Così il Repetti ( Dizionario geogr. fis. stor. della Toscana ), il quale accenna inoltre alla tradizione, raccolta dal Verino nel suo poema genealogico, che i Guicciardini siano «originarî di cotesto Poppiano»; e ricorda che lassù pure, in una fattoria dello Spedale degl'Innocenti, villeggiò don Vincenzio Borghini.408. Nel carteggio domestico di Luigi è, col titolo di messere, che si dava propriamente ai dottori in legge, indicato egualmente e il fratello Francesco, il grande storico e statista, e (come qui) il figliuolo Niccolò. La brigata, intendi la famiglia di lui, che dal 1526 aveva in moglie la Caterina di Lorenzo Iacopi. Vedi a pag. 256.409. lo stare, il soggiorno.410. con some discrete, non troppo gravi, per modo che le bestie non si strapazzino.411. cantine.412. casse di legno, specialmente da riporvi grano o altre biade. Nel qual senso, non bene rilevato dai vocabolari, hanno arca il Boccaccio (IV, X ), l'Ottimo, e in locuzione figurata Dante ( Parad., XII, 120; XXIII, 131).413. Quell'affettuosissimo della Beatrice dantesca ( Inf., II, 69) «L'aiuta si ch'io ne sia consolata», suona in bocca di altre donne fiorentine: la Nostra qui, e d'un secolo innanzi l'Alessandra Macinghi negli Strozzi ( Lettere a' figliuoli pubblicate da C. Guasti, pag. 72): «Prego Iddio gli dia tal virtù e grazia, ch'io ne sia consolata»; e anch'essa parlando di figliuoli, consolazione suprema, davvero, o tormento.414. Del maritare la Simona così scriveva, pur di que' giorni (15 settembre 42 da Arezzo), Luigi al figliuolo Niccolò: «Circa alla Simona non dirò altro, se non che sono molto inclinato a Bernardo Vettori; perchè altri non truovo che mi piacci tanto per ogni conto quanto lui. Quello de' Ridolfi debbe avere el capo a gran dota, più che non doverrebbe essendo molto ricco. Se fussi vivo Pier Francesco Ridolfi, l'arei fatto tentar da lui, perchè era amico di Lionardo suo avolo: non ci essendo, bisogna pensare ad altri mezzi. Credo che l'essere mio costì gioverebbe: pure lo star qui non doverrebbe nuocere. La importanza è risolversi, e non guardare in 300 scudi più per acconciarla bene, essendo l'ultima. Però va' disegnando di qualcuno spicciolato e non così nominato, purchè sia ricco, non ignobile, et abbi cervello: chè essendo tu costì, «e parlandone con Piero Bini, non potrà essere non troviate, delli due sopradetti e quello de' Nerli, chi sia a proposito.» Ella sposò poi, come vedremo, Pierantonio di Pierfrancesco de' Nobili, uno spicciolato, ossia d'una di quelle minori famiglie che Luigi e gli altri, al pari di lui, appartenenti a famiglie, come dicevano, grosse o di consorteria, guardavano d'alto in basso (cfr. F. Guicciardini, Opere inedite; III, 130, 239).415. Cestella da pescare, della quale vedi la Crusca, che però ne ha solo un esempio del Burchiello.416. risicano d'esser presi da altri.417. il venire io e la famiglia a stare con voi costì in Arezzo. Dove Luigi era Commissario.418. con tali qualità che fossero sufficienti, adequate, ai vostri meriti. Lo dicevano volentieri di spose. Così la Strozzi, descrivendo le bellezze della figliuola fidanzata (pag. 6): «.... in verità non ce n'è un'altra a Firenze fatta come lei, ed ha tutte le parti». Dove l'editore di quelle Lettere, che l'hanno anche altrove, cita in raffronto ciò che della futura nuora scriveva (vedi in questo mio libro, a pag. 236) Lucrezia Tornabuoni ne' Medici: «La fanciulla à dua buone parti, ch'è grande e bianca....»419. ultimo; nè altramente anc'oggi in contado.420. se io avrei fissata questa gita ad Arezzo (per fargli una visita).421. attempata. Confronta a pag. 263 e 271: le «persone di tempo».422. Il figliuolo Niccolò e la Caterina Iacopi sua moglie: vedi la nota a pag. 252.423. Cioè una delle tre figliuole di messer Francesco l'istorico, maritata a Piero Capponi. Aggiunse di messere (confronta la cit. nota) nell'interlinea. Ambedue i fratelli avevano rinnovato in una figliuola il nome della propria madre, Simona di Bongianni Gianfigliazzi.424. Oggi si farebbe a forme: ma di que' secoli, anche la Strozzi ha «quattro coppie di marzolini»; e il Firenzuola, «una coppia di questo cacio»; e nelle lettere di Michelangiolo, «Io ho avuto i raviggiuoli, cioè sei coppie».425. Uno de' molti medici co' quali monna Isabella si consigliava. Confronta le lettere III e V.426. persone (i contadini di que' due poderi) da non sapersi trarre d'impaccio, di poca conchiusione, poco svelte. È in una lettera del Machiavelli a Francesco Guicciardini, parlandogli di uomo tardo a risolversi, irresoluto: «Io non mancai dimostrargli che quelli rispetti erano vani,... e combatte'lo un pezzo; tanto che se egli non fosse un uomo un poco legato, io ci arei drento una grande speranza».427. Sentenza, nientemeno che di Tacito: ma l'Isabella, che la ripete a pag. 271, l'aveva probabilmente imparata dal figliuolo dottore: vedi la lettera di lui a pag. 267. «Negotia pro solatiis accipiens», ha il grande Annalista (IV, XII ): e il nostro Davanzati, «pigliandosi per conforto i negozi»; tutt'altro che preferibile, mi pare, alla inconsapevole traduzione della sua concittadina.428. da vecchi.429. a San Casciano.430. Colui che dirige i lavori del fattoio, ossia del luogo dove si fa l'olio.431. quando sarà il tempo opportuno, quando ne sarà il tempo, a suo tempo. Quest'uso del verbo servire, che ricorre anche nella pagina seguente e a pag. 274 in nota, è nuovo ai Vocabolarî: vivo anc'oggi nel contado.432. Gora è propriamente Un canale pel quale si deriva l'acqua de' fiumi o torrenti, trattenuta e sollevata mediante pescaie, e se ne rivolge il corso ad uso di mulini od altro simile. I pescaiuoli poi sono Piccole pescaie costruite attraverso alla gora, per trattenere le acque di essa e così impedire le corrosioni dell'alveo e de' cigli. Qui si parla (vedi anche a pag. 272) delle acque del torrente Virginio o Vergigno, sulla cui destra sorge Poppiano; e ne aveva scritto a Luigi anche messer Niccolò, appunto dieci giorni innanzi, da Firenze: «Al Vergigno s'è acconcio la gora e quasi el resto.»433. di questa gente del contado. I contadini proprio del podere, sino ai tempi dell'Isabella si chiamavano, e così ella fa quivi stesso e in altri luoghi di queste lettere, lavoratori (vedi la Crusca, Vª impressione).434. quercia, sottintendi. Mal fastello è, come altri di sopra, nome di luogo in que' loro possessi; e consimile indicazione è pure la seguente, da' capperi. Noterò poi qui che io stampo ghiande, sebbene la penna, facile del resto a trascorrere, dell'Isabella abbia chiande; e lo stesso dico di pacherà, custo, ciornata, e cosiffatti. Ho rispettato altre sue grafie, dissuete ma che hanno ragion d'essere.435. secondo che il tempo sia opportuno a ciò, per quanto il tempo lo permetta. Confronta a pag. 260.436. i giorni corti; e perciò le opere, ossia il lavoro d'una giornata, scarso e mal adeguato alla mercede. Così nell' Agricoltura del Crescenzio (I, XIII ) il padrone «fa ragione col villano, ovvero castaldo, delle opere e de' dì»: schietta frase, che ricorda Esiodo.437. Cioè, con agio. Arguta frase, per ciò che sottintende: ma non credo che la gentildonna facesse più che pigliarla dal popolo.438. com'è la sola acconciatura degli usci.439. mi ha fatto bene quando mi sono purgata, quando mi è occorso prender purganti. Forse al purgarmi o in el purgarmi.440. Cavalcante Cavalcanti, tutto cosa di Luigi e della famiglia. È ricordato frequentemente nelle loro lettere.441. cosa naturale, e perciò da non isgomentarsene.442. Grande osservatrice delle fasi lunari era l'Isabella, sì per le faccende della villa e si pel governo della salute. In altra sua lettera, da Poppiano, al figliuolo: «... Ècci istato 2 giorni tenpo terribile di vento e freddo. Vedréno tenpo lascerà questa quintadecima ( luna piena ), e come tratterà me, e piglieréno qualche partito el quale migliore ci parrà.»443. Opinione di gen. masc. (nè l'Isabella ha mai altramente) fu comune agli antichi, massime nell'uso del popolo. Il quale in la opinione, pronunziato come si suole l'opinione, frantendeva l'art. masc. lo; e taluna di consimili confusioni fra articolo e prima sillaba del nome mantiene ancor oggi, specialmente nel contado.444. Il prete di Poppiano, che faceva anche gli affari del suo «onorando patrone», come si ha da una lettera che gli scriveva il 28 di ottobre di quello stesso anno. Vedi anche qui, a pag. 269.445. visitare.446. La figliuola, la quale si era maritata a Pierantonio de' Nobili.447. e segnare giornate d'opranti, e partite di grano.448. Di ciò gli scriveva anche la figliuola Simona: «yhs. Carissimo e onorando padre ec. Non risposi alla vostra de' 30 di settenbre, chè lasciai sopperire a Pierantonio, che allora so vi rispose lui; e dipoi non v'ò iscritto per non vi infastidire, chè, tra el male avete auto e l'altre faccende penso che v'abiate, avevi brighe troppe. Quanto sia istato el dispiacere abbi auto del male vostro, credo che apresso ve lo possiate pensare, e massimo essendovi tanto discosto, che con altro che co l'orazione vi potevo aiutare; e pensate che a questo non mancai di farne nè di farne fare: chè subito che intesi el male vostro, mandai a parecchi monasteri a far fare orazione per voi, e fra l'altre alle monache degli Angioli, che so ne fanno continuamente e con più amore che l'altre, perchè v'ànno più obrigo; che n'ebbono ancora loro dispiacere e grande. Pure ora per la grazia d'Iddio intendo voi stare benissimo, che a Dio piaccia mantenervi sano lungo tempo, acciò ci possiamo rivedere e godere, el tenpo che ci abbiàno a stare, in pace e con allegreza, che a me pare mil'anni che voi torniate; e così madonna Isabella, che è ancora in villa e non so quando si voglia tornare, che quest'anno v'à 'uta una cattiva stanza, rispetto al tanto piovere che à fatto: pure ora da 4 dì in qua s'è un poco diritto el tenpo, e non doverebbe ora indugiar troppo a tornare, perchè, di questo tenpo, non dura. Non dirò per questa altro, salvo che a voi del continuo mi raccomando, e così Pierantonio, che stiamo tutti bene: a Dio piaccia mantenerci, e così voi; e 'ngegnatevi di riguardarvi da tutte le cose sapete vi nuocono, acciò vi mantegniate sano. Nè altro. A voi di nuovo mi raccomando. Cristo di mal vi guardi. Di Firenze, il giorno 3 di dicenbre 1542. Vostra figliuola Simona.»

Messer Niccolò poi gliene aveva filosofato in questa forma, che lo ritrae mirabilmente con tutta quella dottorevolezza che i contemporanei gli attribuiscono: «.... Quanto al male, dice maestro Marcantonio (chè maestro Giovanni Batista non è ancora tornato) che del polso non tegnate molto conto, perchè Galeno ne' vecchi non ne tiene conto alcuno; e dell'altre cose vi andiate regolando più con la buona vita che con le medicine. Et a me pare savio consiglio, rispetto all'età vostra et a quella del medico che vi consiglia; che non vorrei facessi sperienzia su' casi vostri del cervello suo: e fidomi più su la prudenzia vostra che su la dottrina sua, chè uno medico ha bisogno di experienzia e prudenzia oltra la scienzia. Ma di questo non dirò altro, se non che il tedio dell'animo e del corpo el pigliare le faccende per piacere ve lo caverà assai, e sopra tutto el leggere qualche cosa sacra, che a me a cotesto difetto ha sempre molto giovato, e maxime la Bibbia. E Cornelio Tacito dice di Tiberio, quod summebat solatium a negociis. Pur che non abbiate troppa voglia di ringiovanire con e' rimedi, che da el lapide in fuora tutti vi invecchieranno. E se avete Marco Tullio de senectute, leggetelo; chè mi dilettò assai, leggendolo fanciullo, et a voi credo piacerà e diletterà assai, ma ingegnatevi intenderlo bene. Quanto alle cose di villa....» E qui viene alla materia della quale si dilettava tanto madonna Isabella, e poi alle cose pubbliche, intorno alle quali padre e figliuolo hanno un carteggio da dirsi veramente prezioso per la storia di quelli anni. Non però, che prima di finire la lettera (la quale è de' 20 novembre 42 da Firenze), non afferri altre occasioni di sentenziare e citare: «.... chè nemo dat quod non habet, e come dice la Canzona di Daniel, Ogni animal fa simil creatura....»; la quale ultima sentenza, a chiunque ella appartenga, doveva far paternamente compiacere di sì profusa dottrina il magnifico Commissario.

449. Vedi a pag. 260.450. Cognato dell'Isabella, e quello tra i fratelli Guicciardini, che tutto attendeva alle cure domestiche. Non ebbe moglie. Fra le sue lettere, che molte sono anch'esse villerecce e assai belle [ed io ne ho poi pubblicate col titolo di Lettere d'un campagnuolo fiorentino ], se ne hanno di que' medesimi giorni da Poppiano, a Luigi e a Niccolò.451. «.... e eravamo nel più basso tempo dell'anno» Dino Compagni, II, X. Vedi la lettera precedente, a pag. 261.452. Identica locuzione in uno degli antenati dell'Isabella ( Franco Sacchetti, nov. CCXIV ): «E non si può errare, che l'uomo in questa vita faccia col suo e lasci stare l'altrui». Noi oggi, con simile intendimento, diciamo, non si sbaglia; in costrutto con l'infinito, mediante la prep. a, come l'Isabella (che ve la sottintende), e altrove (nov. CLXXXVII ) lo stesso Franco: «E però non si può mai errare a porsi nel luogo del compagno, e fare la ragion sua come la sua propria; e così facendo, rade volte, vivendo, incontra all'uomo altro che bene».453. Sorta di pera autunnale.454. l'uffizio e la dimora, in Castrocaro di Romagna dov'era Commissario.455. Il torrente, del quale vedi a pag. 260 in nota.456. Questo suo male, che in altre lettere chiama «l'accidente grande», o «quel mal grande», e che ogni tanto l'assaliva con maggior violenza che «que' piccoli», le aveva disturbato gli ultimi giorni di villa. Sentiamolo da alcune delle lettere che ne scriveva, fra il 19 e il 25 dicembre, al figliuolo Niccolò in Firenze: «yhs. Carissimo figliuolo, Ieri vi scrissi di mio essere: dipoi mi so' istata all'usato, e istòmi volentieri nel letto calda; se io mi lievo, mi sento le ganbe debole; e' polsi s'alterano, e non potrei istar troppo levata; mangio bene e non dormo male. Da domenica in qua non ho auto accidente d'inportanza, salvo che in questo levarmi; chè se io istessi alla dura, dubito non venissi: e qualche volta mi sento, come altre volte ho fatto, certo freddo nel capo tra l'osso e 'l cervello. Io pensavo esser oggi guarita, e potere fare le mie faccende: e in fatti e' non mi riesce. Non so come farò; non posso indovinare quello s'abbi a essere: o indrieto o inanzi. Ma quando io penso esser ne' 62 anni, mi fa pensare a più cose. Qui è istato oggi un tenpo terribile, e 'l maggior vento mi paia mai averci sentito, e rotti tegoli enbrici e rovinato e iscomesso ciò che in 15 giorni s'era assettato; e bisognerà da capo rifarsi. El fattoiano mi dice che parendovi da dare l'olio per uno ducato, crede arebbe uno che lo torre' tutto; benchè a San Casciano non valse tanto: domani s'intenderà quello che farà. Non dirò altro. A voi mi raccomando, e pregate Idio per me. El Signore sano voi conservi. Addì 22 di dicenbre 1542. Isabella a Poppiano. ( Fuori: Egregio dottore messer Niccolò Guicciardini figliuolo carissimo, in Firenze).» E due giorni dipoi: «yhs. Carissimo figliuolo, Ebbi la vostra, e per quella mi dite che bisognando verrete voi, la Caterina, la Simona: e lo credo, e sonne certa, e tutti vi ringrazio, e bisognando vi si farà intendere. Dammi noia alcuna volta questo battito al cuore, e qualche triemito; e se non fussi questo freddo, mi starei alcuna volta levata. Se accadrà cosa che inporti, vi si farà intendere, se non fussi qualche cosa istrana che l'uomo non pensassi; io non so indovinare. Penso, se 'l tenpo mi serve, venirne presto, e farassi un poco di senprice cataletto, chè la lettina non sono usa; e forse potrei migliorare di sorte torrei la mula....» E in poscritta, non dimenticando mai la masserizia: «Voi non avete risposto dello olio.» Se non che la famiglia, inquieta, insisteva perch'ella si rimettesse in città. E la buona massaia, che pure aveva scritto «.... istommi così tristerella, e pensate che del tornare io me ne istruggo, e ch'io vorrei esser costì», a quelle insistenze, mezza scorruccita, replicava: «yhs. Carissimo figliuolo etc. È vero che ieri e oggi mi sono istata comodamente, come vi scrissi, e non bisognava pigliassi briga venire; perchè bisognando che io me ne venissi, ci è Bongianni e Cavalcante che tutto potrebbono ordinare; e benchè voi vegnate domani, mi sarà tranbusto e non piccolo, esser a ordine giovedì. E pensate che questo avere ogni dì a pensare a nuova fantasia e iscrivere, non mi giova niente. Io farò quello potrò, e Idio m'aiuti: di venire o non venire, la rimetto in voi. Sono tenpi freddi, e voi non siate molto gagliardo; non vorrei avessi disagio e malassi: chè infatti inporta più e' casi vostri che el mio. Io non posso sapere se 'l miglioramento s'andrà inanzi o indrieto, perchè di sana vedete come mi fa: e pensate che io arei più caro esser malata costì che qui: ma poi che la mia sorte vuole così, bisogna pigliare que' partiti che altri pensa sieno meglio, sanza tanto tribolarsi. Io non vo' più tanto iscrivere e leggere, e fate di me quel che vi pare; chè un sano, faccendo a questo modo, amalerebbe. Non altro. Cristo vi guardi. Addì 25 di dicenbre 1542. Isabella a Poppiano.» Ma il corruccio della massaia si sente, dalla lettera al marito, aver presto ceduto il luogo all'affetto materno, riconoscente verso le premure e le apprensioni del suo caro Messere e delle giovani spose, che l'avean rivoluta in Firenze.457. Di stile fiorentino.458. Ciò che segue è in foglio a parte o, come dicevano, polizzino.459. costipazione, infreddatura, reuma: e dicevano scesa, perchè si credeva che il catarro scendesse dal capo nelle altre membra.460. La figliuola e la nuora.461. Nelle Carte Strozziane del R. Archivio di Stato in Firenze. Vedine l' Inventario, pubblicato per cura della R. Soprintendenza degli Archivi Toscani.462. Vedi nella seguente pagina l'Alberetto, che non sarà inopportuno alla migliore intelligenza delle Lettere di madonna Isabella.

UN'ALTRA LETTERA DELLA ALESSANDRA MACINGHI STROZZI

Questa lettera (dall'originale autografo, nell'Archivio fiorentino di Stato, Carte Strozzi Uguccioni, filza 249) fu pubblicata per mia cura in Nozze Strozzi-Corsini (14 aprile 1890: edizione di CCC esemplari, col facsimile della lettera; Firenze, tip. Carnesecchi), e ripubblicata in Nozze Guasti-Boccardi (25 aprile 1892: edizione di C esemplari; Firenze, tip. Carnesecchi). All'edizione del 1890 premessi il cenno che qui riproduco:

«Cesare Guasti trascrisse, sfuggitagli, e noi sulla sua trascrizione confrontata all'originale esempliamo, questa Lettera da soggiungersi alla seconda fra le settantadue che della Alessandra Macinghi negli Strozzi egli pubblicò nel 1877; libro ormai noto e caro agli studiosi e ad ogni anima gentile.[463] E che sia questa una delle più belle, basti ch'ella è una delle più materne; e perciò di ottimo auspicio la sua pubblicazione nelle nozze di discendenti da quello che il Guasti chiamava «il più storico ramo degli Strozzi»,[464] e dava giusto merito alla veneranda gentildonna di averlo ella conservato a Firenze, opponendo contro le partigiane proscrizioni la costanza paziente di madre, e quella virtù soave a un tempo e gagliarda, per la quale, a' giorni tristi, più tenace nell'animo femminile è, come la fede nel meglio, così la speranza.

Di tali sentimenti e virtù anche questa lettera è documento nobilissimo: i personaggi della quale, Filippo, a cui è diretta, e Lorenzo primo e secondo geniti della valente vedova, e Matteo garzoncello che presto, poveretta!, doveva morirle, e Niccolò Strozzi cugino del padre loro e che di padre adempiva le parti, e Iacopo fratello di Niccolò, e la Caterina maritata a Marco Parenti, e la Alessandra che fu poi a Giovanni Bonsi, chi voglia conoscerli anzi come vive persone conversarli, cerchi il libro al quale ci pare aver qui dato breve, ma assai accettevole, appendice.

La lettera a cui questa vien dietro è quivi stesso indicata, «A dì 4 di questo ti scrissi»; e così alcune cose qui accennate ricevono luce da quella o dalle illustrazioni che il Guasti vi appose. Aggiungemmo, com'egli fece a tutto il volume, qualche noterella dichiarativa.»

A Filippo degli Strozzi, in Napoli.

Al nome di Dio. A dì 8 di novenbre 1448.[465]

A dì 6 di questo ebi una tua de' dì 16 del passato, alla quale farò per questa risposta.

Tu mi di' de' fatti di Matteo, come t'ha scritto una lettera di nostro istato: ed è vero; e stiàno ancora peggio che non dicie. Iddio lodato di tutto. E dell'aver mostro la lettera a Nicolò, a' fatto bene: però che lo stato nostro è noto alli strani, ben debb'esser noto a quegli che ci sono parenti e continovamente ci aiutano: chè Nicolò non à ora a dimostrare la buona volontà inverso di voi, chè senpre è stato di buon animo a farvi del bene; ed èciene di te tale isperienza, che ne so' chiara; e tu più di me ne deb'essere chiaro. Tu di' che, veduto che qua Matteo, sì per amore[466] della morìa, che porta pericolo a starci, e sì perchè e' perde tenpo e non fa nulla, Nicolò è contento[467] lo mandi costà, e ch'io lo metta in punto. Egli è vero che qua è cominciato la morìa, e chi à 'vuto d'andare in villa se n'è ito; e ancora pelle ville n'è morti, e quasi per tutto il contado ne muore quand'uno e quand'un altro; e la brigata si sta per ancora in villa; e credo, non faciendoci altrimenti danno, che torneranno ora a Firenze. Istimasi che questo verno non farà troppo danno, ma che a primavera comincierà a fare il fracasso: che Idio ci aiuti! e Matteo m'à sentito dire che, sendoci morìa, non ò danari da partirmi: ed è vero. Io non so come io me lo mandassi, chè è piccolo, ancora à bisogno del mio governo, ed io non so come mi vivessi; che di cinque figliuoli, rimanessi con una, cioè l'Alesandra, che ogni ora aspetto maritalla: che il più possa istar meco non sono du' anni; che quando vi penso, n'ò un gran dolore, di rimanere così sola. E dicoti che a questi dì andò Matteo in villa di Marco, e stettevi se' dì, ch'io non credetti tanto vivere ch'e' tornassi; e non avevo chi mi faciessi un servigio; che mi pareva esere inpacciata sanza lui, poi[468] mi scrive tutte le lettere. Da altra parte, ebbe in questa state un gran male, e credetti che morissi: ma il buon governo lo scanpò. E ragionando col maestro[469] dell'andar di fuori, mi disse: Voi l'avete poco caro, se lo mandate; però ch'egli è di gientile conpressione;[470] e se avessi un male fuor del vostro governo,[471] sì mancherebbe: sicchè, se l'avete caro, nollo partite sì tosto da voi. E per questo, e perch'io me ne vego bisogno, me n'uscì il pensiero. È vero che, or fa un anno, n'avevo voglia: ma avevo ancora la Caterina in casa, che non mi pareva eser sì sola. Ma poi senti' come Lorenzo si portava tristamente,[472] e che d'amendue avevo avuto tanto dolore, che sendo morti no n'arei avuto maggiore ch'i' ò, tra una cosa e l'altra, diliberai non ne mandar più fuori, se grande bisogno non vi era: e l'ò detto co Marco e con Antonio degli Strozi. Amendue mi dicono per ora nollo mandi: ma se pure a primavera ci sarà la morìa grande, come si stima, esendo migliorata a Siena e per tutto il camino per ensino a Roma, lo potre' mandare: chè sarebbe pazzia la mia a mandallo ora, chè ora siàno nel verno; chè diliberando mandarlo, nollo metterei per via: sicchè per ora non vi porre pensiero. So i' meglio di niuno il bisogno vostro; e che se voi non ve ne guadagniate, non bisogna istare a fidanza d'altro. Io per me m'ingegnerò, per ogni modo e masserizia, di mantenervi questo poco ch'i' ò, se 'l Comune non me lo toglie; chè non posso più difendermi. Idio sia quello che m'aiuti; e a voi dia virtù e santà, come disidero.

Del lino, istarò a tua fidanza;[473] e se me lo mandi, mandami drentovi libbre 10 di mandorle per la quaresima; che verranno bene nella balla del lino. Chiegotele perchè sento costà n'è buono mercato, e qua son care. Fa' di mandarmele, chè so è poca ispesa.

Di Marco, t'aviso ch'è buon giovane, e molto bene tiene la Caterina, e tutti se ne porta bene,[474] e molto me ne contento; chè è di buona virtù; ma à troppa gravezza, chè à da undici fiorini. Tutto à pagato per ensino a qui, e se non peggiora, ne sono molto contenta di lui: che Idio gli dia della suo' grazia. La Caterina non è per ancora grossa; che al tenporale che è, l'ò molto caro:[475] ma istà magra della persona, che somiglia suo padre. Idio la faccia pur sana.

A dì 4 di questo ti scrissi: manda' la sotto lettere[476] di Marco; e perchè il fante si partì prima ch'io non credetti; credo l'arai a un'otta con questa. E per quella ti scrissi della casetta di Nicolò Popoleschi, che s'è venduta a Donato Ruciellai, che ci è a confini, cioè in sulla corte, che per verun modo non si vole lasciare uscire di mano. Filippo, rispondi presto, chè lo voglio iscrivere a Iacopo a Bruggia.

Nè altro per questa. Idio di male ti guardi. Per la tua Allesandra fu di Mateo degli Strozi in Firenze.

Fa' d'esser ubidente a Nicolò, e di fare il debito tuo inverso di lui, e d'eser conosciente del bene che vi fa. Chè se così farai, anco io viverò contenta. Che Idio per sua misericordia te ne dia grazia. A questi dì iscrisse Matteo una lettera a Lorenzo a Vignone.

NOTE:

463. Più volte citato e indicato in questo mio libro. Alessandra Macinghi negli Strozzi. Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da Cesare Guasti. In Firenze, G. C. Sansoni editore, 1877.464. A pag. IX del Proemio.465. Ricevuta il 28 di novembre.466. per cagione.467. desidera, ha caro.468. poichè.469. col medico.470. complessione.471. fuori della vostra custodia; senz'essere custodito da voi.472. non stava bene di salute; era malato.473. mi rimetterò a quanto tu sia per fare.474. e si porta bene con tutti.475. Cioè che non sia incinta, essendo tempo di morìa.476. acchiusa in lettere.

INDICE

Nei primi secoli del Comune Pag. 1

Note 55

Da Dante al Boccaccio 67

Note 95

Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII 105

Note 149

La donna ispiratrice 157

Note 171

Nel rinascimento e negli ultimi anni della libertà 173

Note 225

Una madrefamiglia del Cinquecento 249

Un'altra lettera dell'Alessandra Macinghi Strozzi 293

ERRATACORRIGE

Pag. 46 Lionora;[88] correggi Lionora;[98]

» 50 di messer Folco » di Folco

» 57 di Manetto » di messer Manetto

» 59 nota[41] — La data de' «17 ottobre, a pag. 105» dell'Elenco di L. Santoni, è erronea. La vera è «17 dicembre, a pag. 128» del medesimo Elenco; dove anche altre cose, oltre quel doppione, sarebbero da raddirizzare.

» 132 si volle correggi sì volle

» 149 Dell'antico » [9] Dell'antico

» 154 Nei sonetti » [74] Nei sonetti

» 211 vendicati » vendicate

» 224 trionfi, Storia » trionfi. Storia