Traduzione dal francese.

TOMO I.

ITALIA 1817.

INDICE

INTRODUZIONE.

La storia c'insegna che il carattere dei popoli, le virtù o i vizj, l'energia o l'indolenza, i lumi o l'ignoranza non sono quasi mai l'effetto del clima o della particolar razza, ma l'opera del governo e delle leggi: che tutto dalla natura vien dato a tutti, ma che il governo conserva questa comune eredità al suoi soggetti, o ne gli spoglia.

Tale verità, più che da qualunque altra, viene luminosamente dimostrata dalla storia d'Italia. S'avvicinino le diverse razze d'uomini che successivamente abitarono questa terra di grandi memorie; si confrontino le loro qualità caratteristiche, la moderazione, la dolcezza, la semplicità dei primi Etruschi, l'austera ambizione, il maschio coraggio de' coetanei di Cincinnato, l'avidità e l'ostentazione de' partigiani di Verre, la mollezza e la viltà dei sudditi di Tiberio, l'ignoranza de' Romani de' tempi d'Onorio, la barbarie degl'Italiani soggiogati dai Lombardi, la virtù loro nel secolo dodicesimo, lo splendore del quintodecimo e finalmente il decadimento de' moderni Italiani[1]. Eppure lo stesso suolo alimentò questi esseri di così diverso carattere, lo stesso sangue circolò nelle loro vene; perciocchè le barbare nazioni che vi si frammischiarono, perdute, per così dire, nel vasto mare degl'indigeni, non hanno potuto in verun modo modificare la fisica costituzione degli uomini che l'Italia produceva. Ma se la natura rimase la medesima per gl'Italiani d'ogni tempo, cambiò frequentemente il governo, e le sue mutazioni precedettero sempre o accompagnarono le mutazioni del carattere nazionale; e le cause non furono mai tanto evidentemente legate agli effetti.

Gli Etruschi, che precedettero i tempi romani, sono i primi popoli d'Italia di cui la storia abbia fino a noi tramandate poche ed incerte memorie. Le maremme, oggi deserte, erano allora sparse di borgate[2], e la terra, sempre fertile in ragione del travaglio, era per loro una sorgente inesausta di ricchezze in greggie ed in grani. La lunga prosperità di cui godettero avendo loro permesso di occuparsi delle scienze e delle arti, se non furono superiori ai Greci, li precedettero almeno nella gloria letteraria. I poeti chiamarono età dell'oro il regno di Saturno nell'Etruria, e non si scostarono affatto dalla verità.

Avevano gli Etruschi adottato il governo della prosperità e della libertà, il governo federativo[3]. Diasi lode ai popoli liberi, i quali, non lasciandosi sedurre dall'ambizione, preferiscono alla potenza ed alla gloria il migliore d'ogni bene, la libertà: essi chiedevano al loro governo non conquiste novelle, ma universale amore e moderazione. Onoriamo le nazioni libere che preferiscono ad ogni altro governo il federativo, non tanto perchè si limita a difendersi dalle straniere aggressioni, ma più ancora perchè non si lascia affascinare dai prosperi avvenimenti, o sedurre da ambiziosi progetti.

Nè gli Etruschi erano allora i soli popoli federati d'Italia; che anzi i Sabini, i Latini, i Sanniti, i Bruzi, e quant'altre nazioni guerreggiarono contro Roma, ebbero tutte un governo federativo. Tali leghe non fecero, è vero, splendide conquiste, ma seppero solidamente stabilirsi; perciò che non soggiacquero alla romana possanza che dopo una lunga prosperità. Queste nazioni sì poco conosciute, e così degne della comune ammirazione, scomparvero[4], e con loro perdette l'Italia la felicità, le ricchezze, la popolazione, la vera libertà. Il popolo romano, quel popolo re, sagrificò tanti beni allo splendore d'un gran nome, alla perniciosa gloria delle conquiste.

Che se le federazioni dovettero finalmente cedere al fato di Roma, l'ostinata lotta che sostennero nel corso di tre secoli prova abbastanza che la debolezza non è un difetto intrinseco delle costituzioni federative: esse dovettero succumbere perchè non è dato, specialmente ai governi liberi, d'avere troppo lunga durata, e la felicità è un bene così sfuggevole, così straniero, per così dire, all'umana specie, che niuna istituzione è valevole ad assicurargliene il possesso. Se una di quelle calamità, che sempre minacciano la nostra specie, investe una nazione libera, se la peste condensa gli uomini nei sepolcri, se una lunga guerra impoverisce lo stato, se scarseggiano i prodotti della terra, se languisce il commercio, se manca il travaglio ai lavoratori, i mali presenti, il timore dell'avvenire, bastano a sovvertire un governo paterno, tutta la di cui forza essendo posta nell'amore de' sudditi, non può mantenersi se non quanto dura la loro felicità. La tirannia per lo contrario prende vigore e consistenza in mezzo alle calamità generali, imperciocchè quanto più grandi sono le sventure che l'opprimono, tanto meno una nazione può far fronte all'oppressione; anzi non trova miglior consiglio per resistere a nuove sciagure, che quello di porre tutte le sue forze in arbitrio del governo. Le federazioni italiane soggiacquero a quelle sventure dalle quali verun governo può guarentire le popolazioni; e colle federazioni ebbero fine gli sforzi dell'Europa per l'indipendenza. Quando i Sanniti furono oppressi, il mondo intero non potè più resistere alla potenza romana.

Questo gran popolo, la di cui gloria riverbera ancora su l'Italia, riconobbe le sue conquiste e le sue virtù dal primo governo, che altro non era che una nascente aristocrazia, la quale per essere nuova doveva necessariamente essere fondata sulla preminenza del merito, ed invece d'avvilire gli ordini inferiori del popolo, li rendeva più intraprendenti cogli stessi sforzi che faceva per sottometterli.

Più tardi il lusso e la cupidigia dei Romani, lo spopolamento delle campagne, l'avvilimento della plebe furono l'effetto necessario delle loro vittorie, delle vaste conquiste, dello stabilimento della monarchia universale, e di quello stesso governo che loro diede la propria eccessiva potenza.

Allo stabilimento del despotismo tenne dietro sotto gl'imperatori la perdita di tutte le virtù. A sovrani militari portati sul trono dai delitti non dalla nascita o dalle virtù, non potevano ubbidire che gli schiavi più vili ed abbietti. Costretti a valersi sempre della forza, distrussero la pubblica opinione, ch'era in addietro il principale incoraggiamento e la più cara ricompensa della virtù.

Il despotismo ricondusse la barbarie, la quale fece poi a vicenda rinascere il valore e la libertà. Il tanto celebrato e glorioso secolo d'Augusto fu l'epoca fatale in cui gli uomini avviliti perdettero il coraggio, l'energia, il talento. Augusto raccolse, è vero, i frutti della libertà e della repubblica; ma cinque secoli di vergogna e d'avvilimento furono le tristi conseguenze del suo regno, e del mutato governo. Non vi vollero meno di altri cinque secoli di barbarie per far dimenticare agli uomini le funeste lezioni del despotismo, per restituir loro l'energia, per creare presso de' medesimi i soli elementi onde può formarsi una nazione.

Questa nazione uscì finalmente di mezzo al caos che pareva avesse inghiottito il mondo; il cuore degl'Italiani si riaprì di nuovo all'amore della patria e della libertà, e non mancò loro il coraggio necessario per acquistare e conservare questi preziosi beni. A lato alle grandi virtù non tardarono a svilupparsi ancora i grandi talenti; le scienze e le arti coltivaronsi felicemente, di modo che, quando Costantinopoli cadde in potere degli Ottomani, l'Italia trovavasi preparata a ricevere il prezioso deposito della greca letteratura, che conservatasi in mezzo alle rovine delle province, poteva succumbere sotto quelle della capitale. L'Europa deve alle repubbliche italiane la ricca eredità dell'antica sapienza. Ed appunto questa seconda epoca delle virtù, dei talenti, della libertà, della grandezza, è quella che mi sono proposto di far conoscere.

La storia della repubblica romana scritta da tanti eccellenti ingegni antichi e moderni è di tutte la meglio conosciuta; e non senza ragione si alimenta la gioventù collo studio delle cose spettanti ad un popolo così grande, così glorioso, i di cui destini fissarono, per così dire, quelli del mondo. Quel vivo interesse che avea eccitato la repubblica romana, ci condusse altresì a studiare le rivoluzioni dell'impero, quando ancora, perduta la libertà, il valore, l'energia, protraeva una vergognosa esistenza nel vizio e nella schiavitù. Quantunque nojosa riesca la storia d'ogni altro governo dispotico in decadimento, si segue fino alla sua totale dissoluzione quello dell'impero d'Occidente. Dopo dieci secoli d'oscurità torna l'Italia ad essere ben conosciuta dal cominciamento del sedicesimo secolo. Dal regno di Carlo V in avanti, tutti gli stati d'Europa formano come una vasta repubblica, le di cui parti sono talmente connesse, che non è possibile di separarle per seguire la storia d'una sola popolazione; di modo che studiando la storia d'una nazione s'impara altresì quella di tutto il mondo incivilito. Queste due epoche rispetto all'Italia, ugualmente illustrate da egregi storici, sono divise dal mezzo tempo, nome con cui vengono precisamente indicati i dieci secoli che scorsero tra la caduta di Roma e di Costantinopoli. La storia d'Italia de' mezzi tempi, di que' tempi che lo storico più grande dell'età nostra[5] chiamò i secoli del merito sconosciuto, formerà il soggetto della presente opera.

Questa storia deve terminare coll'anno 1530 quando Fiorenza, l'ultima delle repubbliche de' mezzi tempi, fu soggiogata dalle armi spagnuole e papaline, onde innalzare sulle di lei rovine la dinastia de' Medici[6]. Le tre altre repubbliche italiane, che protrassero la loro esistenza oltre l' età di mezzo, cambiarono all'epoca della caduta di Fiorenza la loro costituzione, di modo che ebbe allora fine la libertà d'Italia; e la sorte di così bella contrada, fatta preda a vicenda di vicini ambiziosi e potenti, o della perfidia di piccoli principi, non altro sentimento può eccitare nell'animo nostro, che quello della compassione.

L'età di mezzo incomincia precisamente l'anno 476, epoca in cui Odoacre, dopo aver fatto perire il patrizio Oreste, e ridotto in ischiavitù l'imperatore Augustolo, pose fine all'impero d'Occidente[7].

Ma non è propriamente la storia d'Italia che noi abbiamo proposto di scrivere, bensì quella delle repubbliche italiane. L'oppressione ed il guasto d'una sventurata provincia, ove più non rimane alcuno spirito nazionale, alcun vigore, alcun sentimento virtuoso e sublime, può ben formare un quadro da presentarsi utilmente allo sguardo degli uomini, onde far loro conoscere le funeste conseguenze di un governo corruttore; ma non può essere il soggetto d'una perfetta storia. La ripetizione degli stessi atti di crudeltà e di bassezza affatica lo spirito, rattrista il cuore del lettore, ed avvilisce il carattere di quell'uomo che ne facesse troppo lungo argomento de' suoi studi. Non è già la storia de' paesi che noi amiamo di conoscere, ma quella delle popolazioni; e questa non incomincia che collo sviluppo di quel principio di attività che le costituisce nazioni. La storia dell'Italia sotto la dominazione dei barbari è piuttosto quella delle nazioni conquistatrici, che quella dei popoli sottomessi.

L'Italia rinvigorita dall'unione del suo popolo coi popoli settentrionali, scossa da una scintilla di quella libertà che più non conosceva, resa energica dalla dura educazione della barbarie e della sventura; l'Italia, dopo essere stata lungo tempo una debole e mal difesa provincia dell'impero romano, diventò, non già una nazione, ma un semenzajo di nazioni. Ogni sua città fu un popolo libero e repubblicano; ed ogni città del Piemonte, della Lombardia, della Venezia, della Romagna, della Toscana meriterebbe una storia parziale; ed ognuna in fatti può presentare una biblioteca di cronache e di scritture nazionali. Grandiosi caratteri svilupparonsi in questi piccoli stati, e vi germogliarono le più vive passioni, coraggio, eroismo, virtù ignote alle grandi popolazioni condannate per sempre all'indolenza ed all'obblìo.

Le repubbliche italiane de' mezzi tempi le quali si resero gradatamente libere dal decimo al dodicesimo secolo, ebbero, durante la loro indipendenza, grandissima parte all'incivilimento, alla prosperità del commercio, all'equilibrio della politica d'Europa. Pure sono sconosciute alla maggior parte degli uomini mediocremente versati nello studio della storia, perchè l'intera vita appena basta alla lettura delle parziali loro storie, non essendosi finora trovato chi si prendesse l'incarico di riunire sotto un solo punto di vista una storia generale. Si è potuto scrivere la storia della Svizzera perchè la loro federazione presentava un punto centrale; si potè fare lo stesso della Grecia, perchè la gloria d'Atene richiamava tutti gli sguardi sopra di sè, e permetteva di collocare, quasi accessorj del quadro, nelle parti meno illuminate, i popoli suoi rivali o sudditi. Ma l'Italia ne' tempi di mezzo presenta un tale labirinto di stati uguali ed indipendenti, che a ragione si teme di smarrire il filo. Noi non ci dissimuliamo quest'essenziale difetto dell'argomento che abbiamo preso a trattare, ma speriamo che, quand'anche i nostri sforzi non venissero coronati da prospero successo, il lettore vorrà saperci buon grado di ciò che abbiamo fatto per ottenere l'intento[8].

Divideremo in due parti presso che uguali quel periodo di quasi undici secoli che divide la storia dell'impero d'Occidente dal regno di Carlo V: i primi sei secoli precedettero e prepararono le nostre repubbliche; i cinque ultimi abbracciano i tempi della loro durata. Tratteremo sommariamente il primo periodo, consacrando, quasi introduzione, i primi sei capitoli dell'opera a dare contezza di que' tempi che nascondono tra le loro tenebre il rinascimento delle virtù pubbliche in seno alla barbarie e lo sviluppo del carattere nazionale. Col settimo capitolo soltanto entreremo di proposito nella nostra storia[9]; e dalla pace di Worms conchiusa tra la Chiesa e l'Impero l'anno 1122, seguiremo passo passo le nostre repubbliche, tenendo conto degli sforzi che fecero per assicurarsi l'indipendenza e di quanto operarono sia nella guerra della libertà che sostennero contro Federico Barbarossa, sia ne' posteriori tempi, quando l'una appresso l'altra, cedendo alla forza o al tradimento, caddero in podestà di qualche principe.

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE

CAPITOLO I.

Mescolanza degl'Italiani coi popoli settentrionali dal regno di Odoacre fino a quello d'Ottone il grande.

476 = 961.

In sul declinare del quinto secolo, Romolo Augustolo, imperatore d'Occidente, figliuolo d'un patrizio che di que' tempi era forse il solo generale nato romano, fu deposto da' suoi soldati, che gli sostituirono Odoacre, uno de' capitani delle guardie imperiali, d'origine Erulo o Scita[10]. Questo usurpatore soppresse per modestia il nome d'impero occidentale, e si accontentò del titolo di re d'Italia. Allora la sovranità di Roma fu per la prima volta trasferita alle nazioni settentrionali.

Un signore italiano, Berengario marchese d'Ivrea, fu cinque secoli dopo coronato da' suoi compatrioti re d'Italia, e poco dopo dai medesimi deposto. Allora i grandi feudatarj chiamarono dalla Sassonia Ottone re d'Allemagna, ed a lui volontariamente si sottomisero, aggiungendo alla dignità di re di Lombardia il titolo d'imperatore, che gli Occidentali avevano fatto rivivere due secoli prima in favore di Carlo Magno, e lasciato poi cadere in dimenticanza. E per tal modo con una strana rivoluzione, della loro patria indipendente ne formarono una provincia dell'impero germanico, quantunque assai lontana dalla sede del governo.

Queste due rivoluzioni che sostituirono il nome di monarchia a quello d'impero, ed il nome d'impero a quello di monarchia, determinano la durata delle sventure che travagliarono l'Italia avanti che potesse riprendere il carattere e l'energia di nazione libera. Tali rivoluzioni che presentano alcuni rapporti di circostanze generali, si rassomigliarono assai più negli effetti. La prima che sembrava aver posto il colmo all'ignominia di Roma, fece poc'a poco ripullulare tra gl'inviliti Italiani le virtù ed il coraggio, che aveva distrutti il dispotismo dei Cesari. L'ultima che si credette dover porre l'Italia nella vergognosa dipendenza dei Tedeschi suoi antichi nemici, fu quella invece che ridestò negl'Italiani il desiderio della libertà, e fu la cagione immediata del risorgimento de' governi repubblicani.

Incerte ugualmente ed oscure sono le storie d'Augustolo e di Odoacre, di Berengario e di Ottone; e dense tenebre ricuoprono que' tempi di profonda ignoranza. Grandissima non pertanto è la diversità che passa tra gl'Italiani del quinto, e quelli del decimo secolo. Nella prima epoca troviamo la nazione caduta in quell'estremo avvilimento, cui il più insultante dispotismo possa ridurre un popolo civilizzato; quando nella seconda andava ripigliando quell'energia, quell'indipendenza di carattere, che una lunga serie di traversie può dare ad un popolo barbaro.

Sotto gli ultimi imperatori la nobiltà di Roma più capace non era di grandi e generose passioni. Resa straniera alle cariche politiche e militari, erasi spento nel cuor de' patrizj perfino il desiderio della gloria; ed avrebbero creduto di avvilirsi col servire allo stato. Se la storia ricorda ancora di quando in quando i nomi delle antiche generose famiglie, non è che per parlare delle loro ricchezze e delle loro sventure. Poteva la storia raccontare quanti preziosi arredi avevan preso i barbari nei loro palazzi, e di quante migliaja di schiavi spogliati i loro poderi; ma niente dir poteva di uomini affatto incapaci di grandi azioni, i quali, senza talenti e senza virtù, passavano confusi colla plebe abietta non lasciando alcuna traccia di sè medesimi. Il rimanente della nazione, se fosse stato possibile, ancora più vile dei patrizj, si nasconde affatto alle nostre ricerche. Osservando le armate composte soltanto di stranieri e le campagne popolate di schiavi, si domanda invano alla storia ov'erano allora gl'Italiani. Quando leggiamo gli annali degli ultimi regni dell'impero d'occidente, quasi non ci avvediamo che trattasi ancora d'un vastissimo stato: le armate ridotte ad un pugno di uomini, il tesoro incapace di sostenere le più piccole spese, l'impero mal difendersi dal più ignobile aggressore, il popolo ed il senato permettere che un capitano delle guardie dia e tolga a sua voglia il diadema a persone straniere, niun ordine della nazione avere un sol uomo capace di prendere coraggiosamente le redini del governo; tutto ci farebbe credere che trattisi d'un ignobile feudo, anzichè della nazione erede del nome e della grandezza di Roma[11].

Ma allorchè la corona d'Italia passò ad Ottone il grande, molti nobili fieri indipendenti bellicosi cercavano con entusiasmo la gloria ed il potere; nè avrebbero senza indignazione tollerato che persone straniere alla loro classe, fossero i giudici, i generali, i ministri del re, i difensori della patria. I minori vassalli non lasciavano, benchè meno potenti, di mostrarsi al par dei primi energici ed audaci. Non potendo aspirare alla signoria, combattevano per l'indipendenza: fortificavano le loro rocche, addestravano all'armi i loro paesani, e volevano intervenire alle assemblee nazionali, rifiutando di sottomettersi alle leggi e ai tributi, cui non avessero data la sanzione col loro preventivo assenso. D'altra parte i borghigiani, resi forti dalla loro riunione nelle città, riclamavano la conservazione delle leggi e delle costumanze municipali, e chiedevano di partecipare a quella libertà, che non doveva essere l'appannaggio esclusivo d'una casta privilegiata, ma appartenere a tutti gli uomini che sanno rendersene degni col coraggio e colle virtù. E per tal modo l'intera nazione, animata dal medesimo principio di vita, s'andava agitando per ogni lato, e facendo sperienza delle proprie forze: e quando ancora non aveva trovato l'arte di valersene in sua difesa, e per la propria felicità, pronunciava oscuramente le grandi cose di cui mostrerebbesi un giorno capace.

Così notabile cambiamento nel carattere d'una intera nazione basta a render degno della più grande attenzione questo primo periodo dell'età di mezzo: una nazione ringiovenita dopo esser giunta all'estremo grado di decrepitezza, è un fenomeno singolare, che altrove la storia non ci presenta. Ma i cinque secoli, nel corso de' quali si rifuse il genere umano, sono coperti da così dense tenebre, che le più accurate indagini non dissiperanno giammai interamente. Verun monumento, veruno storico abbastanza esatto ci rimane di que' tempi in cui tre popolazioni settentrionali, i Goti, i Lombardi, i Franchi, s'incorporarono successivamente agl'Italiani resi loro soggetti: troppo erano avviliti gli ultimi avanzi della popolazione civilizzata; troppo ignoranti i conquistatori per iscrivere la storia de' loro tempi. Le poche cronache contemporanee ne conservarono bensì i nomi dei re, le guerre che sostennero, e le rivoluzioni che frequentemente li balzavano dal trono, ma non ci danno veruna notizia dei popoli, onde giudicar si possa dei costumi e dello sviluppo delle sue facoltà. Altronde la storia de' principi è affatto straniera al nostro scopo, quando non ci fa conoscere le cagioni che diedero origine alle nostre repubbliche. E per tal modo forzati di rinunciare al pensiero di dare una soddisfacente storia di questi tempi d'oscurità, ci limiteremo ad indicare sommariamente il modo con cui i settentrionali frammischiaronsi alle nazioni del mezzodì, per richiamare poi separatamente ad esame alcuni oggetti, che in particolar modo richiedono la nostra attenzione; cioè l'origine, i progressi e lo scioglimento del sistema feudale, la storia della città e della chiesa di Roma dopo la caduta dell'impero occidentale, la storia delle città greche del mezzo giorno d'Italia, quelle delle città marittime, e finalmente quella della formazione di tutti i municipj che diventarono governi liberi. Così procedendo, potremo spargere qualche lume sui primi secoli dell'età di mezzo, senza obbligarci ad una cronologica nomenclatura di nomi barbari, che il lettore può facilmente trovare in altre opere.

(476) Allorchè fu distrutto l'impero d'occidente, la civilizzazione si ridusse entro i limiti dell'impero d'Oriente[12]. I sovrani di Costantinopoli contavano ancora tra le loro provincie la Grecia, la Tracia, parte dell'Illirico, l'Asia minore, la Siria e l'Egitto: ma in quest'epoca l'impero occidentale fu tutto diviso in brani tra le nazioni del settentrione. I Franchi stabilironsi nelle Gallie, gli Anglo-Sassoni nella Brettagna, i Visigoti nella Spagna, nell'Africa i Vandali, ed Odoacre ebbe il regno d'Italia.

(476 = 493) Sotto il dominio d'Odoacre non vennero in Italia popolazioni nuove, e soltanto vi si fissarono più stabilmente que' mercenari stranieri, che da molti anni formavano essi soli l'armata dell'impero. Questi mercenarj sotto il comando d'un loro compatriotta si arrogarono tutti i poteri dell'impero, siccome coloro che ne formavano tutta la forza. Diedero al loro capo il titolo di re; e dal nuovo re domandarono ed ottennero una distribuzione di terreni, per cui la terza parte delle campagne d'Italia passò in proprietà de' barbari[13].

Il governo de' mercenarj, ed il regno di Odoacre durarono diecisett'anni[14]: fu questo il passaggio del governo romano al governo de' barbari. Odoacre si caricò agli occhi de' popoli dell'odiosa memoria d'aver distrutto il nome ancora riverito dell'impero, ed avvezzò gl'Italiani a risguardare in appresso come loro monarca uno de' conquistatori settentrionali, che fino allora avevano considerati come nemici, o come soldati mercenarj.

(489) Quattordici anni dopo che Odoacre fu fatto re, Teodorico re degli Ostrogoti entrò in Italia, consentendolo Zanone imperatore d'Oriente, ed intraprese la conquista del regno di Odoacre, che terminò colla presa di Ravenna l'anno 493. Teodorico che in gioventù era stato più anni alla corte di Costantinopoli, univa alle virtù de' popoli barbari il sapere delle nazioni civilizzate[15]. Egli intraprese di riunire e rendere felici le due nazioni a lui soggette: chiamò gl'Italiani agl'impieghi civili, i Goti alla milizia, e facendo rispettare l'Italia dagli altri popoli barbari, fu il primo che ispirasse alcun poco di confidenza nelle proprie forze agli avviliti Romani, che probabilmente incominciarono dopo il regno di Teodorico ad avere in qualche pregio le antiche virtù.

Ma se l'unione coi popoli settentrionali era utile al rigeneramento de' Latini, altrettanto l'esempio di questi poteva snervare il valore de' barbari. Nella stessa guisa quando si mischiano assieme due fluidi di diversa temperatura, l'uno acquista il calore con pregiudizio dell'altro: perciò i primi conquistatori dell'Italia perdettero in poco tempo il natio valore. La dominazione Gota in Italia durò soltanto sessantaquattr'anni[16], e gli ultimi diciotto anni della loro monarchia furono impiegati in una sanguinosa guerra contro i Greci; durante la quale Belisario, poi Narsete, conquistarono due volte l'Italia, e distrussero il fiore di quella nazione che cinquant'anni prima faceva tremare i Greci a Costantinopoli.

La storia degli Ostrogoti forma parte di quella del basso impero[17]; ma non può riguardarsi come parte di quella che noi scriviamo, se non in quanto i Goti furono i primi popoli barbari che s'incorporarono cogl'Italiani. Le due nazioni soggette agli stessi padroni si unirono strettamente: l'origine settentrionale de' Goti fu dai Latini dimenticata; e da quell'epoca in poi non furono che un solo popolo. Forse quest'unione non avrebbe avuto perfetta consistenza sotto la Greca dominazione; ma questi non rimasero lungo tempo padroni dell'Italia. Narsete che l'aveva conquistata e saviamente governata sedici anni, fu richiamato a Costantinopoli dalla gelosa diffidenza dell'imperatrice. Il vecchio generale, abbandonando il suo governo, affidava la cura di vendicarlo ad Alboino (567) re de' Lombardi, che segretamente invitava a scendere in Italia[18].

(568) Tra le nazioni germaniche quella dei Lombardi aveva nome d'essere la più brava, la più fiera, la più libera. I Lombardi credevansi usciti dalla Scandinavia[19]; e da oltre quarant'anni abitavano la Pannonia, che cedettero gli Unni loro alleati, quando essi rinforzati da un considerabile corpo di Sassoni, si avviarono alla volta d'Italia[20].

Malgrado la loro bravura, ed il loro numero, i Lombardi non ottennero di occupare tutta l'Italia. L'immatura morte d'Alboino dopo il breve regno di tre anni e mezzo, e l'anarchia che ne fu la conseguenza, arrestarono le loro conquiste. Un popolo indipendente, fattosi forte nelle lagune di Venezia, si sottrasse alla schiavitù lombarda. Roma col suo territorio, che allora cominciò ad aver il nome di ducato, si tenne fedele agl'imperatori d'Oriente sotto la protezione dei Papi[21]. L'Esarcato di Ravenna, non che la Pentapoli che formava parte della Romagna, e le città marittime dell'Italia meridionale furono dalle armi greche difese contro i Lombardi: finalmente un principe lombardo, resosi quasi affatto indipendente dai re della sua nazione, erasi stabilito nel centro delle Provincie ond'è oggi formato il regno di Napoli, e vi regnava col titolo di duca di Benevento. Intanto Alboino, ed i suoi successori avevano stabilita in Pavia la sede del regno, che stendevasi dalle alpi fin presso Roma.

In tal maniera la conquista de' Lombardi fu per certi rispetti cagione del risorgimento delle nazioni italiane. Principati indipendenti, comuni, repubbliche, s'andavano agitando per ogni verso, e questa contrada da tanto tempo addormentata incominciò a risvegliarsi. Poichè nel susseguente capitolo avremo esaminata l'interna forma del regno lombardo di Pavia, procederemo separatamente, e partendo sempre dalla stessa epoca, a parlare del ducato e della repubblica di Roma, del principato di Benevento, delle repubbliche d'Amalfi, di Napoli, di Gaeta, di Venezia, e finalmente di tutte le popolazioni che si videro allora acquistare un'esistenza politica.

(568 = 774) La monarchia de' Lombardi durò abbastanza gloriosa duecento sei anni[22]; nel quale spazio di tempo ebbe ventun re[23], e tra questi molti egregi ed illustri principi, come ne fanno prova le savissime leggi che diedero al loro regno. Ma i Lombardi non s'unirono agl'Italiani come fecero i Goti loro predecessori. Entrando in Italia avevano più crudelmente abusato della vittoria[24], di quel che facessero i Goti, per cui le due nazioni rimasero divise da un implacabile odio, anche lungo tempo dopo la caduta della monarchia di Pavia. Ascoltiamo il vescovo di Cremona Luitprando di origine lombarda: «Noi altri Lombardi, egli dice, siccome i Sassoni, i Franchi, i Lorenesi, i Bavari, gli Svevi ed i Borgognoni, disprezziamo di sorte il nome romano, che, in istato di collera, non sappiamo proferire maggior ingiuria contro i nostri nemici, che chiamandoli Romani; giacchè in questo solo nome comprendiamo tutto quanto vi può essere d'ignobile, di timido, d'avaro, di lussurioso, di menzognero, e per dirlo in una parola, tutti i vizj[25].» I Romani dall'altro canto, non è a dubitarsi che non avessero maggiore antipatia pei loro oppressori. Ma la razza de' Lombardi prosperava in Italia; mentre quella de' Romani s'andava gradatamente estinguendo. I corrotti ed effeminati costumi degli ultimi li tenevano nel celibato; mentre l'attività, il desiderio di perpetuare ne' loro discendenti col proprio nome la gloria ch'eransi acquistata, consigliava i Lombardi al matrimonio. I pochi Italiani ancora bastantemente ricchi abbandonavano un paese, che ogni giorno diventava per loro sempre più straniero, e si riparavano nel ducato romano, nell'Esarcato, nella Calabria greca, o nelle lagune veneziane, dove trovavano concittadini nemici dei loro oppressori. L'indipendenza di queste provincie, che i Greci abbandonavano quasi totalmente a se medesime, la loro piccolezza, i continui pericoli cui trovavansi esposte, ridestavano nel cuore degli abitanti l'amor di patria.

I popoli stranieri, esposti alla corruzione, ne furono la vittima prima dei popoli civilizzati. Benchè i Lombardi conservassero fino alla dissoluzione della loro monarchia la costituzione libera che si erano data; benchè il codice delle loro leggi fosse migliore assai di tutti quelli de' popoli barbari; benchè la forma irregolare delle loro frontiere accrescesse, proporzionatamente all'estensione dello stato, i punti di contatto coi loro nemici, e che questa stessa irregolarità, chiamandoli a più frequenti guerre, dovesse più lungo tempo tener vive le abitudini militari; pure l'influenza del clima, la fecondità delle terre, la servitù de' popoli della campagna, snervarono anco i Lombardi. Nel tempo de' loro ultimi re non avevano più il valore de' Franchi, o dei Tedeschi; da lungo tempo non avevano guerreggiato che cogl'Italiani e coi Greci; e quantunque superiori a tutti, avevano pure adottato il loro modo di combattere[26][27].

La lunga inimicizia de' Lombardi coi Greci e coi Romani cagionò la caduta della loro monarchia. Luitprando aveva conquistato l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli; ma i di lui successori Astolfo e Desiderio, volendo occupare inoltre il ducato di Roma, costrinsero i Papi a porsi sotto la protezione de' principi Francesi[28]. L'anno 755 Pipino obbligò Astolfo a rendere, o piuttosto a promettere al Papa la possessione dell'Esarcato, e delle provincie conquistate a danno de' Greci. Del 774 Carlo Magno, chiamato in Italia da Papa Adriano, conquistò la Lombardia, fece prigioniere Desiderio, e si pose in capo la corona de' Lombardi[29].

Gl'Italiani risguardarono tale conquista come una nuova invasione barbarica: se non che i talenti e le virtù di Carlo Magno compensarono in alcun modo il brutale impeto de' suoi sudditi[30]. Questo monarca assoggettò quasi tutta l'Italia alla sua dominazione. I Lombardi lo riconobbero loro re, e col nome di Patrizio ebbe pure la signoria dell'Esarcato, e del ducato romano; ed in fine anche Arigiso duca di Benevento fu forzato di riconoscere la sua supremazia, e di rendergli omaggio. All'Italia così riunita, diede uno de' suoi figliuoli per re, ma il giorno di Natale dell'800 ricevette egli medesimo, per acclamazione, dai grandi e dal popolo di Roma il titolo d'imperatore. E per tal modo ripristinò egli l'impero occidentale che si trovò composto di tutta l'Allemagna, della Francia e dell'Italia, la quale, benchè dichiarata regno di suo figlio, non fu, rigorosamente parlando, che una provincia del nuovo impero. La famiglia de' Carolingi occupò il trono d'Italia dal 774 in cui la conquistò fino all'espulsione di Carlo il Grosso accaduta l'anno 888.

(774 = 814) Carlo Magno, uno dei più grandi caratteri de' mezzi tempi, non tardò ad acquistare sui suoi coetanei l'influenza d'un uomo straniero al suo secolo. E come v'ebbero prima di lui alcuni uomini straordinarj, che coll'energia d'un carattere mezzo barbaro signoreggiarono un popolo civilizzato; così un uomo che ne aveva prevenuto l'incivilimento ebbe intero dominio sui barbari per la forza del suo spirito, de' suoi lumi, de' suoi talenti. Carlo Magno accoppiando alle qualità del legislatore quelle del guerriero, il genio creatore alla prudente vigilanza che conserva e mantiene gl'imperj, si trasse dietro sulla strada della civilizzazione le nazioni allemanne, e finchè visse le rese capaci di giganteschi passi. Con un solo legame riunì i Barbari ed i Romani sotto un solo impero, i vincitori ed i vinti. Finalmente egli pose i fondamenti d'un nuovo ordine di cose per l'Europa, d'un sistema che appoggiavasi essenzialmente sopra le virtù d'un eroe, e sopra il rispetto e l'ammirazione che ispiravano le sue virtù.

Non si creda però, malgrado lo splendore di tante conquiste, che il regno di Carlo Magno contribuisse alla felicità degli uomini. Carlo Magno è colpevole in faccia all'umanità; del regno de' suoi successori; dei più malvagi secoli della storia dell'universo, il nono ed il decimo; delle guerre civili dei Carlovingi; delle insultanti invasioni de' barbari; della universale debolezza; della totale sovversione dell'ordine, e del ritorno d'una barbarie più grande assai di quella del secolo ottavo, nel nono e nel decimo[31].

Carlo Magno fondò una monarchia quasi universale, ma non ha potuto, come i Romani, consolidarla colle successive conquiste di sette secoli, e temprare saldamente le catene che attaccavano l'una appresso l'altra le nazioni vinte alla vincitrice, ed identificarle di maniera le une colle altre, che venissero a formare un solo corpo. I sudditi di Carlo Magno, sottomessi soltanto per il corso d'una vita, erano più tosto attaccati alla sua persona che alla sua nazione. La feroce indipendenza di que' popoli barbari si era prostrata innanzi a lui. Durante la loro sommissione avevano perduto lo spirito nazionale, la forma propria del loro governo, e tutto quanto poteva porli in situazione di mantenersi o di difendersi; ma non avevano nemmeno preso ad amare una monarchia affatto nuova; e l'idea del diritto e della giustizia era affatto straniera a così violente istituzioni. Invano l'autorità sovrana determinava tra i principi le successioni e le divisioni; questa autorità mancante della sanzione de' secoli, cedeva a fronte degl'interessi particolari, e dava luogo alle contese dei figli di Luigi il buono. Gli ordini civili e militari non erano rinforzati da veruno spirito nazionale, da veruna affezione dei popoli per un governo che aveva sovvertiti tanti altri governi: e di qui ebbero origine le invasioni de' Normanni e dei Saraceni, di qui la debolezza di un vasto impero popolato da valorosi soldati, e non pertanto incapace di far fronte ai più spregevoli nemici[32].

Vero è che i successori di Carlo Magno furono tutti uomini senza talenti; ma tale è pure l'ordinario andamento delle cose, e non era da supporsi che il conquistatore dell'Europa, il fondatore d'una nuova dinastia, dopo un regno glorioso di quarant'anni, avesse in oltre un successore erede de' suoi talenti e delle sue virtù. Se ciò fosse accaduto, se due o tre uomini come Carlo Magno avessero successivamente occupato il trono dei Franchi, la monarchia universale sarebbesi probabilmente mantenuta; ma l'Europa avrebbe perdute le prerogative che la distinguono: sarebbesi forse più presto civilizzata, ma sarebbe ancora rimasta in seguito stazionaria come la China, senza energia, senza forza, senza genio, senza virtù.

Effettivamente Carlo Magno figurò solo sulla scena del suo secolo; i suoi Paladini non esistono che ne' romanzi; tra i suoi contemporanei, e nella susseguente generazione, non sorse verun personaggio distinto. Il secolo che lo precedette non mancò di grandi uomini; e tutti i popoli soggiogati da Carlo, ebbero, come i Lombardi, capi meritevoli di essere registrati nella storia. Almeno prima di lui la metà della specie umana non era subordinata ad un solo capo, nè mossa dal capriccio d'un solo uomo.

(814 = 888) Morì Carlo l'anno 814, e la sua famiglia non conservò che settantatre anni la monarchia da lui fondata. Dopo alcuni regni vergognosi e miserabili, Carlo il Grosso, l'ultimo de' Carlovingi, fu deposto in novembre dell'ottocento ottanta sette, e morì due mesi appresso. La storia de' Carlovingi non appartiene all'Italia, ma a tutta l'Europa; e noi abbiamo la fortuna di poterci dispensare dal tenerle dietro in mezzo alle scandalose guerre de' figliuoli contro il padre, de' fratelli contro i fratelli, che ne formano la principale orditura. Durante questo periodo di tempo l'Italia fu alquanto meno infelice degli altri regni subordinati ai successori di Carlo, perchè governata ventisei anni da Lodovico II principe virtuoso, nè senza talenti, nè privo di bravura[33]; e fu appunto specialmente sotto il di lui regno, che l'esempio del valor francese fece rinascere l'amore delle armi, e la riputazione della milizia italiana. Le campagne d'Italia incominciarono allora a ripopolarsi, e le città desolate dalle precedenti invasioni ricuperano i loro abitanti[34].

Sotto il debole governo de' Carlovingi il patto sociale perdette ogni forza: i re nelle guerre di famiglia furono obbligati di comperare i soccorsi dei loro sudditi coll'accordar privilegi che resero nulla l'autorità reale. Occupati nella difesa degli stati contro i nemici stranieri, o resi deboli dalle loro guerre civili, eransi lasciati pregiudicare in tutte le loro prerogative, sicchè appena ne' vasti loro stati rimaneva qualche città o castello che non avesse un altro padrone. Le province appartenevano ai duchi o marchesi, le metropoli ai vescovi, le altre città ai conti; il re era senza autorità, quantunque i suoi diritti non fossero mai passati in mano dei popoli.

(888) Gli avvenimenti ch'ebbero luogo dopo la deposizione di Carlo il Grosso vogliono essere più attentamente considerati in quanto che si avvicinano all'origine delle repubbliche. Appartengono in oltre più strettamente alla nazione italiana che si trovò allora di nuovo governata da un monarca italiano. Le rivoluzioni del trono, accadute nel periodo di sessantatre anni dall'espulsione dei Carlovingi fino all'incoronazione d'Ottone di Sassonia, posero in movimento, fissarono il carattere nazionale, e svilupparono quella tendenza alla libertà repubblicana, che ben tosto vedremo prender piede nelle città.

I Lombardi avevano divisa la loro monarchia in 30 principali feudi col titolo di ducato, de' quali dovremo parlare con maggiore estensione nel seguente capitolo, ove tratteremo del sistema feudale. Sotto la dinastia de' Carlovingi furono i feudi ridotti a minor numero, non già, per quanto sembra, in forza di alcuna legge, ma o col riunire più feudi sotto un solo padrone, oppure dividendo un ducato in molte contee. Perciò, allorchè fu deposto Carlo il Grosso, non eranvi in Italia che cinque o sei grandi signori a portata di comandare alla nazione e di disputarsi il trono. I grandi feudi di cui erano proprietarj, avevano quasi tutti indifferentemente il titolo di ducato o di marchesato. Il vocabolo di Mart indicava presso i Franchi ed i Tedeschi i confini degli stati; ed in fatto i soli grandi ducati conservati erano posti alle frontiere dell'Italia, affinchè il loro signore potesse, ancora senza essere soccorso dal monarca, difendere il regno dalle straniere invasioni.

Il più potente de' grandi feudi d'Italia era quello di Benevento, fondato da Zenone l'anno 568, e formato di quasi tutte le province che oggi appartengono al regno di Napoli. Nel quarto capitolo, tracciando la storia delle repubbliche dell'Italia meridionale che furono sempre in guerra coi duchi di Benevento, dovremo con qualche accuratezza tener dietro alla loro dinastia. Nel nono secolo erasi questo ducato diviso in tre principati indipendenti, Benevento, Salerno e Capoa, che poi s'indebolirono reciprocamente con ostinata guerra. È cosa notabile, che que' signori non facessero mai alcun tentativo per ottenere la corona d'Italia.

Uguale moderazione manifestò Adalberto conte di Lucca e marchese di Toscana. Quel signore possedeva la bella provincia, che pare dalla natura destinata a formare uno stato indipendente, avendola con una linea di montagne separata dal resto dell'Italia. Fino ai tempi di Carlo Magno trovansi memorie di certo Bonifacio duca di Toscana[35]. I suoi discendenti continuarono a governare quella provincia un secolo e mezzo, e la loro corte aveva credito d'essere la più splendida e magnifica delle feudali.

Di questi tempi venivano spogliati dei loro feudi i marchesi di Fermo e di Camerino, i quali governavano le due piccole province che ancora adesso chiamansi le Marche, e che altra volta erano i confini che i Lombardi dovevano difendere dalle aggressioni dei Greci. Il marchese d'Ivrea possedeva una provincia del Piemonte, che altra volta formava la barriera de' Lombardi contro i Franchi: ma due più potenti principi disputaronsi soli la corona; Berengario marchese del Friuli, ossia della Marca Trivigiana, e Guido marchese di Spoleti, ossia dell'Umbria. Gli stati del primo stendevansi dalle Alpi Giulie fino all'Adige: a lui spettava la custodia del passaggio delle Alpi, il solo che dia facile accesso in Italia, e quello in fatti per cui eranvi entrati tutti i popoli barbari nelle precedenti invasioni. Berengario discendeva dall'antica famiglia dei duchi Lombardi del Friuli; e poichè Carlo Magno s'impadronì dell'Italia, questa famiglia aveva contratto parentado colla casa imperiale. Berengario era figliuolo del duca Eberardo e di Gisla sua consorte figliuola di Luigi il buono[36].

D'altra parte Guido duca di Spoleti aveva aggiunte ai suoi dominj le Marche meno considerabili di Fermo e di Camerino, e Guido I suo Avo, approfittando delle guerre civili ond'era travagliato lo stato di Benevento, ne aveva acquistata gran parte, o più tosto erasene impadronito a tradimento[37]. Guido, da tale conquista reso uno de' più potenti principi, era originario Francese, ed alleato della real casa de' Carlovingi, come che non se ne conosca il modo. Dopo avere assoggettata la Chiesa Romana a molti tributi, erasi riconciliato, ed era stato adottato da Papa Stefano V. Oltre la rivalità di potenza, Berengario e Guido avevano altro particolar motivo di vicendevole odio. Guido poc'anni prima era stato per ordine di Carlo il Grosso messo al bando dell'Impero[38], e Berengario aveva accettato il non agevole incarico di muovergli guerra, e spogliarlo de' suoi stati[39]. Questi due principi, pari in potenza, aspirarono al regno d'Italia tostochè l'impero di Carlo Magno s'andava dividendo fra diversi padroni. Imperciocchè lo stesso anno che Arnolfo, bastardo della razza Carlovingia, impadronivasi della Germania, Luigi, figliuolo di Bosone, faceva lo stesso del regno d'Arles; Rodolfo, figlio di Corrado, dell'alta Borgogna, ed Eude, conte di Parigi, della Francia occidentale.

Siccome tutti i principi d'Europa risguardavansi allora quali principi francesi, tutte le guerre prodotte da questo smembramento assunsero il carattere di guerre civili; guerre promosse dalla sola ambizione de' grandi, cui il popolo non prende veruno interesse. Di qui ebbe origine, in mezzo ad una nazione valorosa, la strana debolezza della monarchia, e quella dissoluzione sociale che doveva alla fine ridurre tutte le città a provvedere alla propria difesa ed a governarsi da loro.

(888 = 894) Intanto Berengario e Guido andavano sollecitando l'assemblea degli stati, o più tosto i vescovi d'Italia, a dar loro la corona. Questi due principi, a vicenda vincitori e vinti, comperarono, allorchè ebbe luogo qualche rivoluzione, i voti degli elettori con novelle concessioni; e si videro spogliare la corona di tutti i suoi privilegi, senz'aver perciò ottenuto il sicuro appoggio dei loro partigiani. I feudatarj abbracciavano sempre la parte del vinto, perchè il vincitore richiedeva ubbidienza; lo che pareva loro cosa dura ed obbrobriosa[40].

(888 = 894) In sessant'anni che durarono le guerre civili, Berengario regnò trentasei anni, prima col titolo di re d'Italia, e gli ultimi nove con quello d'imperatore; il quale, dopo aver domati i principi della casa di Spoleti suoi primarj rivali, rivolse le armi contro gli altri competitori, che gli suscitarono i suoi sudditi, Luigi di Provenza e Rodolfo di Borgogna; onde la lotta che sostener dovette per il trono, durò quanto il suo regno; «imperciocchè, osserva uno storico quasi contemporaneo[41], gl'Italiani vogliono aver sempre due padroni onde contener l'uno col terrore dell'altro[42]

Il regno di Berengario, reso celebre dalle guerre civili dell'Italia, fu pure l'epoca sventurata dell'invasione dei popoli nomadi del nord e del mezzogiorno, gli Ungari ed i Saraceni, che pel corso di cinquant'anni continuarono le loro devastazioni, cambiando i costumi degl'Italiani coll'obbligarli ad adottare un nuovo sistema di difesa.

(888 = 924) La debolezza di Luigi, figliuolo d'Arnolfo re di Germania, aprì le porte della Germania e dell'Italia agli Ungari, nazione barbara ancor pagana, che, uscita come gli Unni dai deserti della Scizia, ne aveva seguite le tracce per la rovina degli Occidentali, spopolando le province, e forzando i Greci, i Bulgari, i Tedeschi, a redimersi dalle loro devastazioni con vergognosi tributi. Questi feroci popoli furono principale cagione che si prestasse fede all'opinione dell'avvicinamento della fine del mondo; ed i teologi discussero gravemente la quistione, se questi popoli erano coloro che la scrittura indicava coi nomi di Gog e Magog[43]. Pareva che questi barbari si compiacessero di versare il sangue umano, e non avessero le loro irruzioni altro oggetto che quello di distruggere. Scorsero l'Italia e la Germania fino alle loro estremità, incendiando le città aperte, e lasciando ovunque orribili tracce del loro passaggio. Ma quantunque l'Europa rimanesse quasi affatto abbandonata al loro furore, non fecero veruna stabile conquista: quell'armata che aveva portato la desolazione a traverso dell'Italia fino a Capoa, ed a traverso dell'Allemagna fino a San Gallo, dopo essersi dissetata di sangue, si affrettava, senza che niuno la sforzasse, di rinselvarsi nelle foreste della Pannonia, trasportandovi le ricche spoglie che aveva raccolte[44].

Quando accadde la prima invasione degli Ungari l'anno 900, Berengario, cui era perfino ignoto il nome di questo popolo, e che lo vedeva avanzarsi fin sotto le mura di Pavia dopo aver rovinata la Marca Trivigiana, riuniva frettolosamente tutti i vassalli della corona, e formava un'armata tre volte più numerosa di quella dei barbari, contro de' quali si mosse. Gli Ungari spaventati, e non conoscendo ancora il paese, ritiraronsi fino al di là della Brenta, facendo nello stesso tempo offerte di pace, e chiedendo la permissione di ritornare senza ostacolo ai loro focolari non portando con loro le prede che avevano fatte. Ma Berengario, lusingato di poterli castigare in modo che più non pensassero ad invadere i suoi stati, li forzò di venire a battaglia. Egli non aveva abbastanza calcolata l'energia che suol dare la disperazione, nè le segrete discordie che indebolivano il suo esercito, e fu pienamente disfatto. Gli Ungari vittoriosi rientrarono nelle province interne dell'Italia, che corsero senza incontrar resistenza; perciò che la disfatta di Berengario aveva scoraggiata di maniera tutta l'Italia, che verun capitano non ardiva porsi a fronte di così feroci nemici[45].

Prima di quest'epoca i Saraceni, altri barbari non meno feroci, eransi già fortificati alle due estremità d'Italia. Avevano costoro dall'827 all'851 tolta ai Greci la Sicilia[46]. Erano di là passati nel regno di Napoli, ov'eransi stabiliti dopo l'839; e verso i tempi in cui Berengario salì sul trono, avevano occupate altre terre de' Latini, e procuratisi nuovi asili. Avevano in particolare fortificato un castello, o accampamento sul Garigliano, di dove facevano frequenti scorrerie nella Terra di lavoro e nella campagna di Roma fino alle porte di quest'antica capitale del mondo.

Altri Saraceni di diversa setta saccheggiavano il Piemonte. Una barca di corsari musulmani sortiti dalla Spagna aveva fatto naufragio a Frassineto presso di Nizza sulle frontiere della Liguria e della Provenza. Questa barca, se crediamo allo storico Luitprando, era montata da soli venti soldati, che invece di scoraggiarsi, approfittando delle scoscese rupi su cui erano stati gettati dalla burrasca, vi si fortificarono[47]. Le prime trincee non furono che siepi di spine: ma trovarono questo loro asilo abbastanza sicuro per farlo centro delle nuove piraterie sulle coste e villaggi vicini. I pirati della loro nazione, avvertiti dai segni esposti, popolarono ben tosto il nuovo stabilimento in modo, che osarono di avanzarsi fino nelle pianure del Piemonte, saccheggiando Acqui: e traversando una volta il monte s. Bernardo, s'impadronirono della città di s. Maurizio nel Vallese.

I Saraceni e gli Ungari tenevano lo stesso metodo di far la guerra. Sì gli uni che gli altri non avevano che cavalleria leggiere, che batteva il paese a piccoli squadroni senza tentare conquiste, e senza occuparsi mai di difendersi alle spalle, o di assicurarsi la comunicazione col grosso dell'armata. Non si prendevano maggior pensiere dei viveri e dei foraggi, di cui provvedevansi ovunque colla violenza. La rapidità della marcia dava loro infinito vantaggio sulla cavalleria pesante de' gentiluomini, e sulle milizie a piedi delle città. E siccome non cercavano di combattere, ma di rubare, evitavano possibilmente di scontrarsi coi nemici. Non avendo altra patria che il piccolo loro accampamento, invece di ritirarsi in faccia a forze superiori, avanzavano il nemico in velocità, e si portavano sul di dietro a saccheggiar le province che avrebbe dovuto coprire. Nè i re, nè i grandi Feudatarj avevan perduto un palmo dei loro stati; ma in mezzo ai loro dominj, un nemico che non potevano mai raggiungere, saccheggiava, quando una e quando l'altra, tutte le loro province.

Gli Ungari spinsero talvolta le loro scorrerie fino a Capoa e fino ad Otranto, talchè scontraronsi talvolta coi Saraceni. Frattanto questi popoli nomadi dividevansi l'Italia; desolando (900 = 924) i primi tutto il paese al nord del Tevere, gli altri tutte le contrade al mezzodì di questo fiume.

Le guerre degli Ungari e dei Saraceni influirono immediatamente sulla libertà delle città. Prima di queste incursioni erano in Italia quasi tutte aperte e senza difesa; non prendevano veruna parte nel governo, nè avevano milizie; ed i borghigiani godevano di troppo scarsa considerazione perchè potessero credere d'avere una patria. Ma quando furono ridotti a doversi difendere colle proprie forze contro un assassinio, che stendevasi a tutta la contrada, senza che alcuna armata, alcun ordine pubblico pensasse a reprimerlo; trovandosi abbandonati, innalzarono a principio le mura, poi formarono le milizie, ed in seguito le magistrature[48]. Le inferiori classi del popolo furono ancor esse chiamate a parte della milizia e del governo, ed allora acquistarono quella energia di carattere, che doveva farli tra poco cittadini.

Per altro i popoli nomadi non influirono che colle loro ostilità a formare il carattere degl'Italiani, non mai coll'unione loro o coll'esempio. Gli Ungari che venivano creduti più rassomiglianti alle fiere che agli uomini, ispiravano troppo orrore e spavento, perchè alcuno pensasse ad imitarli, o ardisse di legarsi in amicizia[49]. Dall'altra parte i Saraceni, colonia militare dei mori d'Affrica, non si rassomigliavano in verun modo ai sudditi civilizzati dei Califfi. Coloro che desolarono le campagne d'Italia erano il rifiuto della nazione, non conoscevano che l'arte della guerra, o per dir meglio dell'assassinio, ed i loro costumi erano ancora più lontani dalla civiltà orientale, che dai costumi de' cristiani ch'essi attaccavano. Dopo due secoli la scuola di Salerno, il commercio col levante dei Pisani, de' Genovesi, de' Veneziani, e le crociate, procurarono agl'Italiani ed alla loro letteratura una leggiere tinta orientale: ma non fu che a questa più recente epoca che si manifestò il gusto arabo. Le bande erranti degl'Ismaeliti non v'ebbero alcuna parte: nulla avevan esse di romanzesco o di religioso, nulla che potesse lasciare profonde tracce nello spirito dei popoli.

Il regno di Berengario, cui doveva immediatamente tener dietro una rivoluzione, fu il più alto periodo della disorganizzazione dell'ordine sociale. Pure questo principe non era nè di talenti sprovveduto, nè senza virtù[50]. Benchè avesse più volte comperata la pace coll'oro, aveva altresì spesse volte saputo conquistarla colle armi: le sue imprese contro gli Ungari ed i Saraceni, benchè d'ordinario infelici, sono una prova dei suoi talenti militari e del suo coraggio, come della niuna disciplina delle sue truppe. I feudatarj che prodigavano ai loro sovrani il titolo di tiranno, lo trovarono meno de' suoi rivali colpevole. Tra questi il solo Luigi conte o duca di Provenza fu da lui crudelmente trattato per delitto di fellonia. In altre occasioni diede frequenti prove di clemenza e di generosa fiducia verso i suoi nemici: ed un tratto di eroismo gli costò la vita.

(921) Berengario aveva felicemente terminata una lunga guerra civile, e per la prima volta la pace regnava ne' suoi stati. Guido figliuolo d'Adelberto marchese di Toscana, un altro Adelberto marchese d'Ivrea, Lamberto arcivescovo di Milano, Olderico conte del Palazzo e maggiordomo del re, Gilberto potente conte, non sappiamo di quali stati; tutti da Berengario colmati di beneficj, e che erano a lui debitori del rango o della sede che occupavano, o del perdono de' loro delitti, congiurarono contro la sua vita. Offrirono la sua corona a Rodolfo re della Borgogna transjurana, e lo invitarono a scendere in Italia. Berengario, informato della cospirazione, credette di disarmare coi beneficj i suoi nemici. Guido duca di Toscana, e Berta sua madre, caduti poc'anzi in suo potere, ebbero tosto la libertà. Adelberto e Gilberto furono fatti prigionieri da una banda di Ungari assoldati da Berengario; il primo seppe deludere l'altrui vigilanza, e fuggì; ma l'altro dovette la propria salvezza soltanto alla clemenza del re. Berengario marciò in seguito contro Rodolfo, e lo vinse: ma reso dalla vittoria meno cauto, fu colto in un'imboscata, ed interamente sconfitto. Allora Berengario fu costretto di ritirarsi in Verona, ov'erasi più volte rifugiato prima. L'inseguirono i congiurati, e persuasero certo Flamberto nobile Veronese, cui l'imperatore aveva tenuto un figlio a battesimo, ad assassinarlo.

(924) N'ebbe sentore a tempo, e chiamato innanzi a sè quel signore, gli ricordò il proprio affetto, i beneficj accordatigli, l'enormità del delitto, e lo scarso vantaggio che doveva ripromettersene: quindi presa in mano una coppa d'oro: «Questa coppa, diss'egli, sia tra di noi il pegno dell'obblìo del vostro fallo e del vostro ritorno alla virtù: prendetela, e risovvenitevi che il vostro imperatore è il padrino di vostro figlio.» La stessa notte per mostrare d'essere superiore ad ogni sospetto, invece di rinserrarsi nel suo palazzo ch'era fortificato, andò a dormire senza guardie in una casetta posta in mezzo de' giardini. La mattina susseguente quando Berengario portavasi alla chiesa, gli si fece incontro Flamberto con alcuni uomini armati, fingendo di volerlo abbracciare, e lo pugnalò vilmente[51]. L'istoria non ci fece conoscere le cagioni di così feroce odio e di tanta ingratitudine; solamente c'informa che il primo e forse il più grande degl'imperatori italiani non rimase lungo tempo invendicato. Milone, conte di Verona, accorse in suo ajuto, troppo tardi per difenderlo, abbastanza a tempo per tagliare a pezzi i suoi assassini.

Nè i talenti, nè le virtù d'un sovrano potevano in questo sventurato secolo contribuire efficacemente alla prosperità dello stato: l'abitudine all'insubordinazione, il monarca senza mezzi di repressione, i vassalli, deboli contro i nemici, e forti contro il proprio re, il corpo sociale in dissoluzione, tutto era disordine e confusione. La perfidia e la violenza avrebbero potuto mantenere un tiranno su quel trono da cui doveva cadere un eroe.

Forse un tiranno era allora necessario alla nazione italiana per farle sentire il bisogno di una costituzione libera. La debolezza e l'insufficienza del potere cui era soggetta, facevanle desiderare un governo fermo e vigoroso che la sollevasse dall'anarchia. Ella conosceva i mali presenti dell'anarchia, e non quelli del governo che desiderava; tal che non potendo paragonare gli uni agli altri, non s'accorgeva che, ad uguale distanza dal dispotismo e dalla licenza, doveva chiedere la libertà. Due anni dopo la morte di Berengario (926) si vide montar sul trono de' Lombardi un uomo che ridusse alla più umiliante sommissione quegli altieri feudatarj già rivali del suo predecessore, e sostituì alla debolezza delle leggi la più sfrontata tirannia.

Costui era Ugo conte o duca di Provenza, cui gl'Italiani destinarono la corona dopo averla tolta a Rodolfo di Borgogna[52]. Ugo era fratello uterino d'Ermengardo marchese d'Ivrea, e di Lamberto marchese di Toscana. Egli non ebbe più i rivali de' suoi predecessori nei duchi di Spoleti e del Friuli, le di cui famiglie eransi estinte, o erano state spogliate de' loro feudi nel tempo stesso che perdettero la corona. I nobili inferiori, di cui sapeva mantener viva la vicendevole gelosia, onde l'uno dopo l'altro isolatamente opprimerli, non potevano far argine alla sua ambizione. Vero è che Ugo cercò invano, come vedremo in altro capitolo, di guadagnarsi un appoggio in Roma, sposando la famosa Marozia che n'era l'arbitra; ma la sua politica fu coronata da un più grande successo in Lombardia. Dirigendo costantemente i suoi attacchi contro le più distinte famiglie de' suoi stati, sacrificò l'un dopo l'altro senza pietà tutti i grandi che potevano dargli sospetto, non perdonando neppure a coloro che lo avevano fatto re, come suo fratello Lamberto marchese di Toscana[53], e suo nipote Anscarro figliuolo d'Ermengardo marchese di Spoleti e di Camerino[54]. Non risparmiava nemmeno i suoi clienti, che ben tosto trovava troppo potenti per vivere sotto di lui, e gli spogliava poco dopo averli arricchiti.

Nè i vescovi erano meglio trattati dei duchi, cacciando dalle loro sedi coloro che non sapevano guadagnarsi la sua confidenza, e sostituendo loro Borgognoni e Provenzali, che non avendo che il suo appoggio, erano necessariamente da lui solo dipendenti[55]. Molti suoi bastardi furono inoltre innalzati alle prime dignità della chiesa, o provveduti di entrate ecclesiastiche, come di abbazie le sue amanti. Insomma il patrimonio ecclesiastico era in sua mano l'oggetto d'uno scandaloso commercio, che gli fruttava immense ricchezze. Mentre i grandi ed il clero erano ridotti a così grande avvilimento, i signori, i conti, i comandanti delle città, non dovevano sperare d'essere più dolcemente trattati. Il diritto di successione ne' feudi, comecchè non si appoggiasse ad una legge dell'impero, era però sanzionato dall'uso di due secoli. Molti feudatarj del regno di Ugo erano stati investiti de' loro feudi sotto il regno di Carlo Magno, ed anche sotto quella de' re Lombardi, rimontando i diritti di taluno fino all'epoca dello stabilimento della nazione lombarda in Italia. Ugo non ebbe verun riguardo a questo tacito diritto, che, a dir vero, era contraddetto dalle formole legali d'investitura, e si arrogò la facoltà di dare e togliere i feudi, non solamente dopo la morte del beneficiato, ma anche in vita.

Il solo ordine della nazione che forse non si lagnava, era il popolo, non perchè meno maltrattato degli altri, ma perchè le sue sofferenze riputavansi cose di così leggiere importanza, che gli storici non credettero prezzo dell'opera il farne memoria. Ci dicono soltanto, come essendosi Ugo impadronito di Frassineto, invece di cacciare da' suoi stati i Saraceni che occupavano questa fortezza, li trapiantò nella Marca Trivigiana onde chiudessero il passaggio ai Tedeschi; e che per farsegli più affezionati, si astenne dal reprimere le loro violenze e saccheggi[56].

Sotto il licenzioso regno di Berengario e de' suoi predecessori, la libertà cui pretendevano gl'Italiani non trovavasi garantita da un potere nazionale indipendente da quello dei re. Il trono era il solo centro dell'autorità, cui per altro i popoli non erano attaccati da verun legame. Nè era per la forza della loro costituzione che i Lombardi fossero liberi, ma bensì per la sua debolezza. Da che il tiranno ebbe successivamente abbattuti i grandi feudatarj, ed innalzate le sue creature ai più ricchi beneficj della chiesa, la nazione si trovò schiava senza combattere. Per mancanza d'organizzazione politica, e non già di carattere, non aveva in sè medesima sufficiente appoggio per rialzarsi. Erale necessaria un'impulsione straniera, ed un soccorso straniero per abbattere l'usurpatore.

Tale soccorso le fu dato dalla Germania. A quest'epoca, per la prima volta, gl'interessi delle due nazioni e delle due monarchie si frammischiarono, e tale unione portò un re sassone sul trono di Lombardia.

Di quanti feudatarj ebbe l'Italia, un solo di questi tempi possedeva ancora l'eredità paterna, non per favore del sovrano, ma per la sua nascita, e per l'amore de' suoi soggetti: era questi Berengario marchese d'Ivrea, e nipote dal lato materno dell'imperatore di questo nome. La zia di Berengario Ermengarda era sorella di Ugo dai suoi maneggi portato sul trono d'Italia: onde per un residuo di riconoscenza per sua sorella, e per la fresca giovinezza del marchese, Ugo gli aveva lasciata la vita ed il governo d'Ivrea. Per altro, da che s'accorse che gli occhi degl'Italiani erano verso di lui rivolti (940), comprese ch'era tempo di perderlo; e tutto dispone per rapirlo colla sua sposa e per abbacinarlo. Berengario avvertitone segretamente, fugge con Gilla sua consorte, cui l'avanzata gravidanza non impedì di valicare il san Bernardo, che il tiranno credeva chiuso ancora dai ghiacci[57].

Ottone il grande regnava allora in Germania; il più potente come il più magnanimo de' principi ch'eransi divise le spoglie dell'impero de' Carlovingi. Le virtù sembravano ereditarie nella sua famiglia. Suo avo Ottone, duca di Sassonia, era stato dalla dieta l'anno 912 dichiarato re di Germania, ed egli aveva rifiutato tale onorificenza[58]. Suo padre Enrico I, chiamato l'uccellatore, aveva otto anni dopo accettata la medesima dignità offertagli dai voti unanimi de' Franchi, dei Bavari, de' Turingi, de' Sassoni; ed egli ne giustificò la scelta con un regno glorioso per le continue vittorie riportate sui Danesi, gli Slavi, e gli Ungari[59]. Ottone il grande che montò sul trono l'anno 937 proseguiva prosperamente la guerra contro i pagani, e le sue vittorie chiudevano agli Ungari la strada dell'Occidente che avevano saccheggiato sì lungo tempo. Il generoso monarca accolse alla sua corte il marchese d'Ivrea, permettendogli di riunire presso di lui gl'Italiani malcontenti; e senza soccorrerlo direttamente, gli permise di preparare quant'era necessario per abbattere il trono di Ugo.

(945) Infatti la rivoluzione si eseguì colle sole armi italiane. Berengario, seguito dalla sua piccola armata, calò in Lombardia attraversando la Marca Trivigiana, avendogli facilitato il passaggio delle Alpi e delle foreste il malcontento dei popoli. Di mano in mano ch'egli avanzava s'andò rinforzando talmente la sua armata, che Ugo non osò di affrontarla. Il marchese d'Ivrea convocò a Milano gli stati del regno, facendoli arbitri tra l'antico ed il nuovo monarca. Quell'illustre assemblea sentì d'aver ricuperata l'indipendenza, e per conservarla sforzossi di stabilire l'equilibrio dei poteri tra i due pretendenti al trono. Riconobbe re Lotario figliuolo di Ugo, e confidò poi l'intera amministrazione del regno a Berengario[60].

Non era possibile che le cose rimanessero lungo tempo in tale stato: vi si opponeva la mal soddisfatta ambizione di Berengario, il quale considerando che Lotario non aveva meritato col di lui padre l'odio degli Italiani, e che sua consorte Adelaide era adorata dai sudditi, aveva giusta cagione di temere che la confidenza degl'Italiani s'accrescerebbe ogni giorno per Lotario con suo pregiudizio: e Berengario fu creduto colpevole d'aver avvelenato il giovane re per non rimanere esposto all'incostanza del favor popolare[61]. Morto Lotario, chiese per suo figliuolo la mano della vedova Adelaide, e cercò, ma inutilmente, colle minacce e col trattarla duramente, di ridurla al suo volere. Egli non s'avvide che non era più il tempo di poter assicurare il dominio coi delitti, avendo egli col suo esempio avvertiti gl'Italiani, che trovavasi oltre monti un vendicatore dei delitti dei re lombardi. I popoli avevano veduta senza interesse l'incoronazione di Berengario, i prelati sentivano pietà d'Adelaide, i grandi temevano un despota nel re senza rivali. Di comune accordo ebbero ricorso ad Ottone il grande, supplicandolo di liberar l'Italia da quello stesso re, ch'erasi presentato come suo liberatore.

(951) Il grande Ottone entrò di fatti in Italia l'anno 951. La regina Adelaide che dal castello posto sul lago di Garda in cui era custodita strettamente, aveva potuto rifugiarsi nella fortezza di Canossa, divenne sposa d'Ottone, e fu dopo morte ascritta al ruolo de' beati. Giunto Ottone a Pavia senz'ostacolo, vi fu coronato re de' Lombardi; ma, richiamato in Germania dopo pochi mesi dalle guerre civili e dalle invasioni straniere, Berengario ne approfittò per pacificarsi con un rivale così forte. Egli si presentò in Augusta ad una dieta di Tedeschi con suo figliuolo Adelberto, che aveva pure il titolo di re de' Lombardi, e fece omaggio della sua corona ad Ottone, che riconobbe per suo superiore; fece cessione della Marca Trivigiana, e con ciò del passaggio d'Italia ad un duca tedesco; e sotto la protezione del re sassone regnò ancora qualche tempo in Lombardia[62].

Ma mentre Ottone ristabiliva la pace in Allemagna, e batteva sul Lech gli Ungari in modo che non furono più in grado di pensare nè alla Germania nè all'Italia, i signori italiani lo dichiaravano arbitro di tutte le controversie col loro re. Avevano essi, o credevano d'avere giusti motivi di querelarsi; onde Ottone, mosso dalle loro preghiere, e da quelle del papa, dopo aver loro mandato in soccorso uno de' suoi figliuoli, del 961 intraprese egli medesimo per la seconda volta la conquista d'Italia. Niun ostacolo s'oppose alla sua marcia. Dopo essere stato di nuovo incoronato a Pavia, ricevette in Roma la corona dell'impero dalle mani di Papa Giovanni XII; e con un lungo assedio prese in fine la fortezza di s. Leo al conte di Montefeltero, ove fece suoi prigionieri Berengario e sua moglie, che mandò a Bamberga, ove quest'illustri esiliati terminarono i loro giorni. Costrinse il loro figlio Adelberto a rifuggirsi presso i Greci, e consumò la riunione dell'Italia all'impero germanico.

Veruna rivoluzione non ebbe mai una più notabile influenza sul carattere d'una nazione, sulla sua costituzione, e sui futuri destini, quanto l'unione delle due corone di Germania e di Lombardia n'ebbe su gl'Italiani. Se i monumenti storici del decimo e dell'undecimo secolo bastassero per ordire da quest'epoca l'istoria delle città italiane, è dal regno degli Ottoni che io vi avrei dato cominciamento: imperciocchè le città riconobbero dalla munificenza e dalla politica di questi principi la loro costituzione municipale, ed i primi germi dello spirito repubblicano. Fu l'allontanamento della corte sovrana che gli abituò all'indipendenza; e finalmente, dopo spenta la famiglia degli Ottoni, le guerre tra i principi che aspiravano alla corona addestrarono le città alle armi, dando loro facoltà di combattere sotto le proprie insegne. Forzati dall'aridità degli storici che ne servono di guida, a lasciare tra l'ombre questi tempi troppo imperfettamente conosciuti, proseguiremo ne' susseguenti capitoli ad indicare solamente l'influenza delle grandi rivoluzioni della monarchia sulla costituzione nazionale, ed i costumi del popolo. Raccoglieremo in seguito separatamente le poche notizie che ne rimangono intorno ad alcune repubbliche, la di cui libertà risale ai tempi di cui abbiamo ora rapidamente percorsa la storia, e non incominceremo che col dodicesimo secolo ad analizzare l'interno ordine delle città, per seguitare da vicino e con circostanziato racconto i generosi loro slanci verso la libertà.

CAPITOLO II.

Sistema feudale. — Governo del regno de' Lombardi; modificazioni occorse a questo governo dal 951 al 1039 sotto il regno di Ottone, d'Enrico II e di Corrado il Salico, imperatori d'Allemagna.

Le nazioni settentrionali essendosi mischiate cogl'Italiani, fecero rinascere in questo popolo il sentimento della dignità dell'uomo, l'amore della patria, il desiderio della libertà; ma in pari tempo gli avevano portato un sistema di governo affatto nuovo, e nozioni intorno ai diritti dell'uomo diverse affatto da quelle degli antichi. I diritti della patria erano più grandi presso i Romani ed i Greci; ma la feroce indipendenza individuale più assai rispettata presso i barbari. I popoli del mezzogiorno avevano incominciato ad essere liberi entro le città, ove riuniti nelle stesse mura, non tardarono a sentire fortemente ch'essi non formavano che un solo corpo, e che tutti i loro interessi erano comuni: per lo contrario i popoli dal settentrione s'erano mantenuti liberi nelle foreste, ed avvezzi a difendersi da sè medesimi, non cercarono in un'associazione affatto volontaria che quell'aumento di forze che potevano acquistare, senza nulla perdere della individuale indipendenza. Fino agli ultimi periodi delle nostre repubbliche, noi vedremo gli effetti delle idee portate dal Nord. L'ineguaglianza fra i cittadini, le diverse classi di uomini diversamente liberi, le associazioni per respingere una potenza oppressiva, e più di tutto il diritto di resistenza al governo, furono tutte conseguenze di quel sistema d'indipendenza, che in appresso si chiamò feudale, e che fu così frequentemente calunniato senza conoscerlo.

Tutte le nazioni settentrionali riconobbero l'esistenza d'una grandissima disuguaglianza tra i cittadini. La riconobbero, diss'io, non già che la stabilissero; perchè fu l'effetto delle loro conquiste, l'effetto inevitabile dello stato di proprietà. La loro costituzione, malgrado tanta disuguaglianza, assicurò ai cittadini una illimitata indipendenza. Ma per un abuso delle loro vittorie, abuso inseparabile dal loro stato di proprietà, non lasciarono veruna libertà agli uomini ch'essi non riconobbero cittadini.

L'eguaglianza o l'ineguaglianza tra i diversi ordini di cittadini in ogni nascente nazione quasi barbara è appoggiata necessariamente alla prima divisione delle proprietà territoriali. Una nazione quasi barbara non ha commercio, non ha capitali, non ha manifatture, e non può avere altre ricchezze che le terre ed i suoi prodotti. La sola terra alimenta gli uomini privi di commercio e di capitali; e gli uomini ubbidiscono costantemente a chiunque può disporre dei mezzi di vita e di godimento.

Talvolta una nazione senza rivoluzioni e senza conquiste giunse a quello stato d'imperfetta civilizzazione nella quale le terre vengono coltivate senza che il commercio o le arti abbiano fatto verun progresso: allora è presumibile che le terre sieno state da principio divise in parti pressochè uguali; o per lo meno, che verun individuo non avrà avuto dalla nazione una quantità di terreni affatto sproporzionata alle braccia che dovevano coltivarli. I poderi potranno essere più o meno estesi, ma non saranno mai province; e l'ineguaglianza tra i privati cittadini non sarà mai tale che renda gli uni necessariamente dipendenti dagli altri. I cittadini, benchè disuguali di fortune, non dimenticheranno ch'erano in origine uguali, e rimarranno tutti liberi. Tale è la storia degli stati dell'antica Italia e dell'antica Grecia, e la cagione per cui da' più rimoti tempi non v'ebbero in queste contrade che governi liberi. Ne' tempi presenti la distribuzione delle fortune nelle colonie dell'America settentrionale ha qualche rassomiglianza con questo primo stabilimento delle nazioni agricole: i proprietari delle piantagioni danno ai loro poderi assai maggior estensione, che non ne hanno i nostri, ma però sempre proporzionata alle forze della loro famiglia; onde esiste presso di loro una tal quale bilancia territoriale, per valermi dell'espressione d'Arrington, che contribuisce al mantenimento della libertà americana[63]. Per altro questa libertà poteva stabilirsi senza tale bilancia, poichè gli Americani hanno capitali accumulati, commercio, arti e mezzi di vivere indipendenti, ossiano poveri o pur ricchi.

Ma questo equilibrio di proprietà territoriali può essere affatto distrutto da una conquista, le di cui conseguenze possono essere differentissime secondo che il popolo coltivatore sarà conquistato da un popolo pastorale o agricolo. Presso i popoli tartari l'accrescimento delle mandre è illimitato come le campagne della Tartaria. Lo stesso uomo possiede spesse volte tanta quantità di vacche, di pecore, di cavalli, che può mantenere al suo servigio alcune migliaja de' suoi paesani; ed in fatti tutta la sua ambizione si riduce a poter accrescere il numero de' domestici. E per tal modo, quantunque i Tartari siano liberi, l'autorità patriarcale è talmente da loro rispettata, che un capo di famiglia diventa facilmente un capo d'armata. Tali sono i capi, che seguiti dai loro pastori e dai loro domestici fecero in più riprese la conquista dell'Asia. Di mano in mano che conquistavano qualche provincia, la ponevano sotto un governo dispotico, quantunque essi non avessero tale governo. Ciò facevano essi, perchè il Kan di già proprietario di tutte le ricchezze della sua armata, credette di poter diventare ugualmente proprietario di tutto il territorio della nazione conquistata. Egli aveva fatto curare le sue gregge dai suoi figliuoli e da' suoi schiavi; dai medesimi farà coltivare i suoi nuovi terreni, e le sue forze gli sembravano proporzionate ai poderi che si arrogava. Si esaminino tutti i governi asiatici, e troveremo in tutti il sovrano riguardato quale proprietario di tutte le terre. Essendo in suo arbitrio, o de' suoi ministri, il ritenere, o l'escludere i coltivatori, questi sentono l'assoluta dipendenza verso il padrone che può loro negare il vitto; e quindi il diritto del monarca sulle terre diventa il più sicuro appoggio del suo dispotismo.

Ma può altresì accadere che un popolo agricolo venga conquistato da un popolo semibarbaro, ugualmente agricolo. Se il primo è schiavo ed eccessivamente corrotto, ed il secondo libero, il conquistatore può essere meno numeroso assai del vinto. In tale supposto i primi abuseranno del diritto di conquista, attribuendosi l'intera proprietà delle terre, e riducendo i vinti coltivatori dalla condizione di possidenti a quella di fermieri. Dopo che avranno trovato quest'espediente per dar valore ai loro dominj, niuna estensione di terreni sembrerà loro eccedente per farne un patrimonio: invaderanno una provincia come se formasse un solo podere, e per soddisfare alla propria avidità, non pensando che a farsi ricchi, diventeranno assai potenti. Per tal modo tutte le province dell'impero romano furono divise tra i barbari del Nord, ed i coltivatori, come vili mandre di schiavi, rimasero attaccati alle terre ch'essi coltivavano: per tal modo in tempi a noi più vicini gli Spagnuoli che conquistarono il Perù ed il Messico, ebbero l'intere province in patrimonio, non sembrando loro soverchio un podere di trenta leghe d'estensione quand'era popolato da più migliaja di coltivatori da lui dipendenti.

I popoli settentrionali che stabilironsi in Italia non conoscevano le arti di lusso, e ben tosto le fecero sparire dai paesi in cui abitarono. Il commercio non offri più all'uomo possessore d'una intera provincia i mezzi di cambiare la sussistenza di più migliaja di persone colle dilicatezze che niuno con lui divideva. Una futile vanità, il fasto, non allettavano i conquistatori, i quali, divenuti gentiluomini, non convertivano il prodotto d'un podere in abiti ricchissimi, in merletti, in stoffe d'oro. Colossali erano le loro fortune, ma colossale altresì l'uso che ne facevano. Le loro ricchezze consistevano in derrate che servono ad alimentare gli uomini, grani, vino, bestiami, che effettivamente impiegavano nel mantenimento degli uomini dipendenti da loro. La forza aveva creata la loro ricchezza, e la loro ricchezza ne accresceva a vicenda la forza. Su tale solidissima base si fondava la potenza della nobiltà de' mezzi tempi.

Quando i Lombardi conquistarono l'Italia, questi uomini, valorosi, indipendenti, guerreggiando per sè medesimi, e non per un padrone, divisero le loro conquiste in altrettanti feudi quanti erano i guerrieri. Conoscevano per altro i vantaggi della militare disciplina, e conservarono all'armata la sua forma e la subordinazione nello stabilimento che doveva farne una nuova popolazione. Diedero ai loro capitani il titolo di duchi o generali[64], e loro affidarono il governo delle città con un diritto di alta proprietà o di signoria sul territorio che le circondava; conservarono a se medesimi il titolo di milite, e cadauno ottenne la proprietà feudale d'una porzione del territorio d'ogni città, dei castelli, o dei villaggi che ne dipendevano. D'allora in poi il vocabolo milite fu adoperato per indicare il gentiluomo più tosto che il soldato.

La proprietà non apparteneva realmente che ai gentiluomini. I lavoratori, i vassalli, ch'essi avevano spogliati, ed obbligavano a travagliare per conto loro, dandoli la terza parte dei prodotti, trovavansi in una condizione assai vicina alla schiavitù[65]. Nel rango superiore l'autorità dei duchi attaccata alla conservazione d'un cert'ordine sociale, non fondavasi che sopra una finzione di proprietà, sopra un diritto imaginario rispetto a territorj e province ch'essi non possedevano. Pure lo stesso sistema formava la sicurezza del duca ugualmente che del gentiluomo, sanzionando ad un tempo l'obbedienza del vassallo e del valvasore: e quindi per il corso di più secoli i duchi non furono forti che per la forza de' gentiluomini loro subordinati. Risalendo la scala feudale il re, posto al di sopra dei duchi, avrebbe dovuto esercitare sopra di loro l'autorità medesima che i duchi avevano sui gentiluomini. Ma se il diritto di proprietà de' grandi vassalli su tutta la provincia non era che una finzione della legge, il diritto di proprietà del re su tutto il regno era una finzione ancora più lontana dalla realtà: e poichè la stabilità del potere era appoggiata alla ricchezza territoriale, il potere de' gentiluomini sui loro subordinati doveva essere assoluto, precario quello del duca, e quello del re quasi nullo.

L'anno 576 epoca della morte di Clefi, il secondo de' principi lombardi che regnarono in Italia, la nazione suppose di poter far senza capo. I duchi che allora erano trenta, furono risguardati quali rappresentanti di tutti gli uomini liberi accostumati a combattere sotto le loro insegne. Si affidò loro l'amministrazione dello stato, ed essi rappresentarono per dieci anni una imperfetta imagine di repubblica. A tal epoca gli stessi gentiluomini s'accorsero che per assicurare la loro libertà, era necessario che i loro capi dipendessero da un superiore, e colsero l'opportunità d'una pericolosa guerra col Franchi e coi Greci per sottomettersi nuovamente all'autorità reale[66].

I Lombardi erano indipendenti piuttosto che liberi; l'indipendenza loro veniva guarentita dalle loro proprietà, dalle armi dei loro vassalli e dalla debolezza dei re; non già dalla loro costituzione. Varie loro leggi sembrano anzi fatte per sanzionare la tirannide. «Se taluno di concerto col re, dice Rotari, prepara la morte ad un altro, o lo uccide d'ordine del re, non è punto colpevole; nè la di lui persona, nè gli eredi potranno essere molestati per tal fatto; imperocchè credendo noi che il cuore del re sta in mano di Dio, non è possibile che si chieda conto ad un uomo di colui che il re fece uccidere»[67]. E senza questa legge i giudici del re potevano tenersi risponsabili, non solo alla nazione, ma ancora alle famiglie de' colpevoli delle più giuste sentenze. Lo spirito nazionale, l'indipendenza de' gentiluomini e la debolezza del monarca, impedivano che la vita de' subalterni fosse, in forza di tal legge, in balìa d'un despota.

Non è a sperarsi di trovare nelle costituzioni, o in verun codice delle nazioni barbare, qualche garanzia de' diritti del popolo, delle prerogative dei gentiluomini, o restrizioni alla illimitata autorità reale; tutto ciò esisteva indipendentemente dalle leggi: ma ciò che caratterizzava una nazione libera, era la fissazione della pena per ogni offesa, portata ad una precisione, che al presente parrebbe ridicola, e che altamente giovava ad impedire gli arbitrarj giudizj[68]; lo stesso deve dirsi della legge che castigava la disubbidienza al duca o al re con un'ammenda determinata; di modo che ognuno sapeva sempre a qual prezzo e con quale pericolo poteva scuotere il giogo dell'autorità[69]: era per ultimo la garanzia data ad ogni gentiluomo nella propria giurisdizione[70]. La pubblicazione di tali leggi indicava un popolo libero, più assai che il loro contenuto: «Io Luitprando, dice il monarca nella prefazione, re cattolico e cristiano della nazione dei Lombardi, che Dio ama, di consenso di tutti i miei giudici d'Austria, di Neustria e delle frontiere della Toscana; di consenso di tutto il rimanente de' miei fedeli Lombardi, ed in presenza di tutto il popolo, ho trovato ciò che segue santo e lodevole, e conforme all'amore ed al timor di Dio»[71].

Il regno de' Lombardi era elettivo. Di diciotto re che avevano preceduto Rotari, tre o quattro soli succedettero ai loro genitori[72]. Vero è che dopo Carlo Magno, la corona rimase nella famiglia de' Carlovingi fino alla sua estinzione; ma dopo Carlo il Grosso la nazione rientrò ne' suoi diritti, ed esercitò molte volte in breve spazio di tempo il diritto di nominare i suoi capi, onde mantenersene in possesso. L'assemblea nazionale che chiamavasi Placita seu Malli Regni, riunivasi a Pavia capitale degli stati lombardi, talvolta a Milano, ed in appresso in campagna aperta nella pianura di Roncaglia presso Piacenza. Il nuovo sovrano, o aspirasse al trono per averlo meritato colle sue vittorie, oppure vi fosse invitato dai grandi, era quello che convocava l'assemblea, la quale era composta di prelati, di duchi, di conti, dei legati reali, dei giudici dell'imperatore, degli scabini, de' notai, de' legisti, e per dirlo in una parola, di tutti gli uomini liberi, ch'erano tenuti di assistervi quand'anche non vi avessero voce deliberativa[73].

Quest'assemblea dava, o piuttosto confermava la corona per acclamazione. Nel secolo decimo era il più delle volte ridotta a giustificare un'usurpazione deponendo il sovrano che aveva avuto la disgrazia di rimaner perdente, a ricevere dal nuovo re il giuramento di conservare i privilegi accordati alla chiesa dai suoi predecessori, e finalmente ad esigere da lui le vaghe e generali promesse di rispettare i diritti di tutti, d'osservare la giustizia, di proteggere i poveri, di reprimere le vessazioni de' soldati. I soldati che nominavano e deponevano i re avevan più cura di mantenere la loro indipendenza nelle province loro, che i diritti dell'assemblea di cui erano membri. La carta d'elezione terminava d'ordinario colle seguenti parole: «E come il glorioso re N. si è degnato di promettere che osserverà tutte le condizioni soprascritte, la di cui osservanza è ben necessaria; e che col divino ajuto avrà cura della nostra e della sua salvezza, è piaciuto a tutti noi di eleggerlo nostro re, signore e difensore; obbligandoci di ajutarlo con tutte le nostre forze nel real ministero, per la sua conservazione e per quella del regno»[74].

Intanto agli occhi del popolo il poter sovrano veniva trasmesso al nuovo monarca col porre in sul suo capo la corona di ferro che custodivasi in Monza. Quando il grande Ottone fu così coronato, Walperto arcivescovo di Milano celebrò i santi misteri circondato da molti vescovi. Frattanto il re depose sull'altare di S. Ambrogio tutti i reali ornamenti, la lancia, il di cui ferro era stato fatto con un chiodo della croce di nostro Signore, la spada reale, l'ascia, il budriere e la clamide imperiale; e servì vestito da sottodiacono, mentre il clero celebrava la messa secondo il rito ambrosiano. Terminato il sacrificio, l'arcivescovo arringò i duchi ed i marchesi che lo circondavano, ricordando loro le virtù di Ottone, che unse col sacro crisma; indi rivestitolo degli abiti e delle armi deposte sull'altare, pose finalmente sul di lui capo la corona di ferro de' Lombardi[75].

L'assemblea generale dei placiti, alla quale spettava l'elezione del sovrano, era pure la gran corte di giustizia del regno. È dal suo nome placita che derivarono i vocaboli di plaider e plaid dei Francesi[76]. Veniva periodicamente convocata almeno due volte all'anno, nell'estate e nell'autunno; e tutti gli uomini liberi immediatamente dipendenti dal re dovevano assistervi. È probabile per altro, che i vassalli assai lontani dalla residenza della corte potessero dispensarsi dall'intraprendere un viaggio che doveva loro riuscire assai gravoso; purchè intervenissero poi alle adunanze ch'erano presedute dal conte del sacro palazzo in tutte le province a nome del re. Questo conte era il principale ministro di giustizia della monarchia, cui apparteneva di pieno diritto la convocazione dell'assemblea nazionale in tutte le parti dello stato; di presederla in assenza del re; e quand'eran terminati i pubblici affari, di rendere giustizia in suo nome[77]. Eranvi pure altre assemblee nelle province di natura analoga alle adunanze del regno, dette giudizj del signore, cui tutti gli uomini liberi dipendenti da un grande feudatario dovevano assistere.

Ne' monumenti che ci restano di queste assemblee, non si trova cosa che possa indicare che si facessero antecedenti discussioni ai decreti del presidente. È bensì vero che non possiamo sperare di conoscere le modalità degli stati del regno, stando al formolario, adoperato dai notaj nella redazione dei loro atti, i quali, non potendo maneggiare il barbaro latino in cui gli scrivevano, studiavansi di ommettere o abbreviare tutte le particolarità che non avrebber saputo descrivere. Siamo di parere che non avessero voce deliberativa che i grandi signori; che i giureconsulti e gli scrivani non fossero chiamati alle assemblee dello stato che per giovare al loro signore col consiglio, comecchè, istruiti assai più degli altri intorno alle cose della legge, potessero avervi una maggior influenza: supponghiamo ancora che i cittadini si riunissero in queste assemblee per dar maggiore autenticità agli atti pubblici, perchè i testimonj e le parti si trovassero più facilmente, e perchè più facilmente in tanto numero si avessero uomini istruiti intorno ad ogni legge, i quali servissero d'arbitri ne' processi, qualunque si fosse il codice nazionale che le parti dichiaravano d'avere adottato.

Bel privilegio avevano le nazioni settentrionali conservato ai cittadini, la libera scelta di sottomettersi alle leggi de' loro maggiori, o pure a quelle che trovassero più conformi alle proprie nozioni di giustizia e di libertà. Presso i Lombardi trovavansi in vigore sei corpi di leggi; la legislazione romana, lombarda, salica, ripuaria, allemanna e bavara; e le parti nell'incominciar de' processi dichiaravano ai giudici che vivevano, e volevano essere giudicate secondo la tale o tal altra legge[78]. La stessa facoltà della scelta fu accordata ancora ai Romani quando il loro ducato venne riunito alla monarchia dei Carlovingi. «Noi vogliamo, dichiara l'imperator Lotario, che il popolo romano venga interrogato sotto qual legge vuol vivere; che ognuno viva in appresso secondo la legge che avrà professata; che ne siano avvertiti i cittadini e lo sappiano i giudici, i duchi ed il rimanente del popolo»[79].

Sotto il governo de' Carlovingi l'estinzione di molte famiglie ducali aveva fatto luogo ad un altro ordine di alta nobiltà, quello dei conti, i quali venivano dal re incaricati del governo delle città. Di tutte le classi dei nobili, quella dei conti sembrava più immediatamente dipendere dal re; poichè quantunque la loro dignità passasse spesse volte di padre in figlio, non era loro accordata che precariamente; e fino all'epoca in cui Corrado il Salico autorizzò la trasmissione di tutti i feudi di padre in figlio, sembra che i conti ricevessero il loro governo dal sovrano, che poteva a suo piacere riprenderlo. Nella patente di loro creazione il re dichiarava: «che conoscendo l'amore di N. N. per la giustizia, gli affida la stessa città, che fu governata dal suo predecessore, con obbligo di mantenersi costantemente fedele alla corona; di giudicare tutti gli uomini sottomessi al suo governo, di qualunque nazione essi siano, secondo le loro leggi e costumi; di proteggere le vedove e gli orfanelli; di perseguitare i malfattori e di far pagare al fisco le tasse dovutegli»[80]. In questa carta non è menzionato un altro importantissimo ufficio dei conti, quello di condurre le milizie alla guerra. E siccome più volte accadeva che il conte d'una città n'era in pari tempo ancora il vescovo, questa militare incumbenza assai male si confaceva al carattere ecclesiastico.

Il conte nelle sue particolari corti sceglieva tra gli abitanti gli Scabini[81] che formavano la magistratura delle città; ed i cittadini li confermavano col loro voto. Questi Scabini seguivano il loro conte alle pubbliche assemblee del regno, di modo che ogni città trovavasi in queste assemblee rappresentata dal suo governatore e dai suoi magistrati. E come non vi si contavano le voci, e che le parti del popolo erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni, una più esatta rappresentanza sarebbe stata illusoria.

A traverso delle rivoluzioni degli ordini superiori della nobiltà, gli uomini liberi, tra i quali erano state in origine divise le terre di conquista, conservarono pel corso di cinque secoli almeno la medesima indipendenza, ed il rango medesimo: sembrò inoltre che acquistassero maggior considerazione e potenza, allorchè, ripopolatesi le campagne, s'accrebbe il numero de' loro vassalli. Dopo tale epoca non furono più considerati come semplici soldati; che anzi presero il titolo di capitani, catanei, quello di conti rurali, e quello di signori o di gentiluomini. Ognuno di loro possedeva un villaggio, le di cui terre formavano la sua proprietà, ed i di cui abitanti erano suoi vassalli.

Un signore viveva nelle sue terre da piccolo sovrano; e perciò il soggiorno del suo castello gli doveva essere più aggradevole assai che quello delle città, ove doveva sostenere il confronto de' suoi eguali, e l'umiliante superiorità della corte sovrana. Per mettersi in salvo contro le incursioni degli Ungari e dei Saraceni, ogni gentiluomo nel nono e nel decimo secolo fortificò il suo castello, che gli diventò ancora più caro poichè all'indipendenza riuniva il vantaggio della sicurezza. E per tal ragione le più considerabili città furono abbandonate dai loro cittadini che coprirono la campagna di fortezze. L'autorità de' conti e degli scabini sopra i signori rurali diventò affatto illusoria, allorchè questi furono in istato di poter opporre agli ordini de' loro superiori, castelli difficilmente espugnabili, e milizie addestrate all'armi. Intanto le città s'adontarono nel vedere che i gentiluomini sottraevano alla loro obbedienza parte delle campagne che formavano il loro distretto, altronde credute necessarie alla loro sussistenza. E l'implacabile odio che concepirono contro i nobili si manifestò con una guerra crudele tostochè queste incominciarono a reggersi a comune.

I nobili castellani venivano ancora indicati col nome di valvasori, che nel sistema feudale esprime la doppia loro dipendenza. Effettivamente essi erano ad un tempo vassalli dei conti o dei duchi dai quali dipendevano immediatamente, e valvasori dei re. Circondati dai loro contadini, ch'essi tenevano in una assoluta dipendenza, non sentivano il bisogno di coltivare il loro spirito per distinguersi nella società, nè di acquistare qualità singolari per inspirare rispetto ai loro inferiori di già sottomessi. La caccia e le armi formavano le loro delizie, come erano i soli oggetti del loro lusso. L'educazione d'un gentiluomo riducevasi a saper domare un cavallo bizzarro, a palleggiare con destrezza una grossa lancia, o lo scudo, ed a sopportare senza fatica la più pesante corazza: avrebbero creduto di avvilirsi occupandosi delle lettere o del dirozzamento dei loro costumi. Omai la lingua volgare incominciava a prendere un carattere affatto diverso dalla latina, che sola per altro si scriveva. Tutti i contratti dei gentiluomini, de' quali moltissimi conservaronsi fino a questi tempi, sono stipulati con istromenti dettati in così barbaro latino, che si ha difficoltà a crederlo latino. A piè dell'atto l'acquirente, il venditore, ed i testimoni, d'ordinario tutti gentiluomini, facevano il segno della croce per non sapere scrivere, in seguito alla quale il notajo dichiarava essere il segno di cadauno degl'interessati.

I gentiluomini erano non meno stranieri alle arti che alle scienze. Studiavansi di rendere i loro castelli inespugnabili, ma non si curavano punto di ornarli e di renderli aggradevoli. Sussistono ancora molti di questi edificj, cupi, austeri, ma solidi in modo, che dopo aver trionfato de' nemici, resistono da più secoli alle ingiurie del tempo. Fabbricati d'ordinario in luoghi selvaggi sulle sommità delle rupi, o in fondo a difficili passaggi, hanno più l'aspetto di prigioni, che di signorili abitazioni, onde si lasciano andare in rovina. Nè il lusso degli abiti era più conosciuto di quello delle case o degli arredi. Alla corte dell'imperatore, ed a quella dei marchesi di Toscana facevasi pompa talvolta di qualche abito sontuoso; ma gli abiti che i nobili usavano ne' loro castelli non differivano molto da quelli dei paesani loro soggetti.

Poco conosciuta è la condizione degli uomini di campagna subordinati ai signori, quantunque sia l'oggetto della maggior parte delle leggi de' Franchi, de' Lombardi, de' Tedeschi, e sia stato l'argomento di molte dissertazioni, nelle quali Ducange e Muratori non sono sempre dello stesso sentimento. I diversi nomi che trovansi nelle leggi e nelle antiche scritture, indicano evidentemente varie classi di uomini dipendenti; ma la precisa significazione di tali nomi ci è il più delle volte ignota.

Gli Arimanni[82] formavano il primo ordine degli agricoltori ed abitanti di campagna. Erano costoro uomini di libera ed onorata condizione, che possedevano o avevano possedute alcune terre allodiali, ma che in pari tempo coltivavano altresì le terre di qualche signore in virtù d'un atto che non gli assoggettava a veruna vile condizione. Gli Arimanni erano i soli abitanti della campagna non gentiluomini, che fossero tenuti di assistere alle corti dei conti.

Porrò nel secondo rango gli uomini di masnada o le guardie del signore. Questi ricevevano dai gentiluomini alcuni pezzi di terreno, che possedevano come podere militare. Oltre il canone ch'essi pagavano a danaro o in derrate, s'obbligavano pure a seguire il loro signore alla guerra qualunque volta fosse costretto di prendere le armi[83].

Gli aldii, ossiano aldiani avevano il terzo rango. Somiglianti per certi rispetti ai liberti de' Romani, erano uomini nati schiavi, che avevano ottenuta dai loro padroni una quasi intera libertà, ed avevano cambiata l'assoluta loro dipendenza in rendite determinate ed in servigi personali[84]. Tenevano essi a pigione le terre de' loro signori, ma le persone erano libere.

Finalmente gli schiavi componevano l'ultimo ordine della società, e la più bassa, siccome la più numerosa classe degli abitanti della campagna. La condizione loro non era in ogni luogo uguale; gli uni servi della gleba vivevano sulle terre che coltivavano col prodotto del proprio travaglio, corrispondendo l'eccedente ai loro padroni secondo certe precise regole sanzionate dall'uso: altri ridotti ad una dipendenza assoluta, non lavoravano che per i loro padroni, ed in virtù dei loro ordini, e da loro avevano il nutrimento[85].

Ma quantunque la condizione degli schiavi fosse assai dura, erano meno infelici degli schiavi romani in campagna, quando i costumi avevano incominciato a corrompersi. Molte leggi lombarde proteggono i servi contro l'ingiustizia o il soverchio rigore de' padroni; dichiarano libero il marito della donna sedotta dal padrone[86]; assicurano l'asilo delle chiese agli schiavi che vi si rifuggiassero[87]; e regolano le pene proporzionatamente ai commessi delitti, invece di abbandonarli all'arbitraria punizione del padrone. E siccome i signori conoscevano d'aver bisogno de' loro soggetti qualunque volta venivano attaccati, procuravano perciò di farsi amare, e li trattavano con dolcezza, onde aver soldati pronti a difenderli. La schiavitù delle campagne romane ai tempi degl'imperatori spopolò l'Italia, e la schiavitù delle stesse campagne sotto la nobiltà feudale non fece danno alla popolazione.

Le leggi lombarde obbligavano i vassalli a seguire alla guerra a proprie spese il loro signore, procurandosi del proprio il cavallo, le armi e le vittovaglie. Carlo Magno ordinò che quando l'armata fosse invitata ad entrare in campagna, ogni soldato si provvedesse di armi d'ogni genere, d'abiti per un anno, e di viveri fino alla nuova stagione. Vero è, quanto ai viveri, che i soldati introdussero ben tosto la costumanza di farli somministrare dalle campagne e dalle province che attraversavano; costumanza che divenne in seguito un diritto conosciuto sotto il vocabolo di fodero[88], il quale fu limitato nel trattato di pace di Costanza. Ogni uomo libero che ricusava di raggiungere l'armata incorreva nella multa di sessanta soldi (trentasei once d'argento), e non avendo di che pagarla, veniva ridotto in ischiavitù[89].

Quantunque tutti gli uomini liberi dovessero recarsi all'armata, e che nelle pressanti circostanze la legge non eccetuasse che un solo maschio per ogni famiglia che n'avea più d'uno, il quale doveva ancora essere il più debole[90]; pure le armate erano d'ordinario, poco numerose. Forse la legge era male eseguita; forse il numero degli uomini liberi era assai limitato, sia rispetto al numero degli schiavi e dei villani che non prestavano servizio militare, come rispetto agli uomini troppo poveri per mantenersi il cavallo, per cui univansi due o tre famiglie per darne uno: finalmente può ancora supporsi che non si tenesse conto delle milizie a piedi delle città, quantunque facessero parte delle armate.

Il nome di soldato si dava esclusivamente al cavaliere, il quale doveva essere coperto di pesante armatura; doveva portar un caschetto, la collana, la corrazza, stivaletti di ferro, ed un largo scudo. Combatteva colla lancia, colla spada, collo stocco e coll'ascia, che la cavalleria in appresso abbandonò. Il cavaliere, il giorno della battaglia, montava il cavallo di battaglia; ma nelle marcie servivasi del palafreno, che lasciava in mano dello scudiere quando doveva battersi. Secondo gli ordini di Carlo Magno i pedoni dovevano portare una lancia, uno scudo, un arco con due corde di cambio, e dodici freccie[91].

Le leggi dei Lombardi, dei Franchi e de' Tedeschi sottomettevano quasi tutte le cause al giudizio di Dio, ed il combattimento militare era la più comune forma di giudizio. È ben naturale che da questo stato di guerra giudiziaria, i gentiluomini passassero a private guerre frequentissime. Quand'erano stati ingiuriati, le stesse leggi loro acconsentivano di chiederne soddisfacimento, ed alla loro nimistà, una volta dichiarata, davasi il nome di faida[92]. Le leggi non gl'imponevano che il dovere di rinunciare alla vendetta quando veniva loro pagato il compenso pecuniario dell'ingiuria ricevuta. Tale pagamento chiamato widrigild[93] doveva farsi cessante faida; ma se alcuna delle parti rifiutavasi di pagare o di ricevere il prezzo dell'ingiuria, si prolungava la contesa, e le due famiglie restavano in guerra[94].

La nobiltà trovavasi divisa da infiniti litigi di tal sorte; poichè quasi tutti i gentiluomini preferivano ad un componimento amichevole la decisione delle armi. Per tal motivo specialmente si prendevano grandissima cura di tenere i loro vassalli esercitati nel maneggio delle armi ed affezionati alla loro persona: e perchè i servi non potevano entrare nella milizia, i loro padroni trovavano spesse volte conveniente di affrancarli ed innalzarli al rango d' uomini di masnada o d' Arimanni.

Tale era all'epoca della sua istituzione il sistema feudale, un miscuglio di barbarie e di libertà, di disciplina e d'indipendenza, la quale in singolar modo contribuiva a rendere ad ogni uomo il sentimento della propria dignità ed energia che sviluppa le virtù pubbliche, e quella fierezza che le mantiene. La schiavitù de' coltivatori era, non v'ha dubbio, la parte odiosa di questo sistema; ma dobbiamo risovvenirsi che fu stabilito, allorchè la più assoluta e vergognosa schiavitù formava parte del sistema e dei costumi di tutte le nazioni incivilite; che gli schiavi romani che coltivavano la terra, dovettero chiamarsi felici diventando servi della gleba; e che il vassallaggio fu la scala per cui le più abbiette classi del popolo passarono dalla schiavitù antica all'attuale loro libertà.

Nel sistema feudale il legame sociale era assai debole, pure sufficiente, finchè durò nelle piccole popolazioni che l'avevano adottato lo spirito nazionale. Un'origine ed una gloria comune, un nome nazionale caro a tutti i cittadini, leggi ammesse dal comun consenso, spesso portate dall'estremità della Germania, e che costituivano il più nobil titolo della eredità di ogni guerriero, strinsero, finchè i popoli rimasero indipendenti, i legami che univano i Lombardi, i Bavari, i Franchi salici ed i Franchi ripuarj. L'ambizione di Carlo Magno, che li riunì tutti sotto la sua vasta monarchia, fu la prima cagione della prossima scomposizione. L'uomo che appartiene all'impero del mondo non ha più patria, nè sentimento nazionale. Per alcun tempo i governatori hanno potuto essere sedotti dallo splendore delle conquiste del loro re, e sentire il solletico delle vittorie, che pure distruggevano ogni speranza di felicità: ma il vergognoso regno dei discendenti di Carlo Magno fece cadere questa illusione, ed i popoli conobbero allora tutti assieme, che l'impero d'Occidente non era una patria, o se pure lo era, era tale da non far loro provare che dolore e vergogna, per essere esposta alle continue umiliazioni dei Saraceni, degli Ungari, degli Avari, degli Slavi, dei Normanni, dei Danesi, i quali tutti erano divenuti potentissimi per il debole impero de' figli di Carlo Magno[95].

Per le nazioni incivilite e corrotte, la perdita dello spirito pubblico è una specie di morte nazionale, riducendo gli uomini a quello stato di avvilimento in cui i Greci ed i Romani si trovarono sotto gli ultimi imperatori. Ma in una nazione ancora piena d'energia, e dove un principio di vita anima tutto, quando s'estingue lo spirito pubblico, diventa maggiore il vigor individuale, che conserva ancora la dignità dell'umana natura in mezzo alle sventure dello stato. Nello stesso tempo in cui venti Saraceni osarono fondare una colonia nemica a Frassineto, posto nel centro dell'impero di Carlo Magno, i baroni che lo circondavano erano bravi soldati, e tutta la sua nazione bellicosissima. Ma l'abbassamento dello spirito pubblico, la disunione di tutti i membri dell'impero, le guerre civili, o a meglio dire private tra i signori dei castelli, infine la diffidenza e la gelosia di ogni villaggio per il villaggio vicino, rendevano la nazione incapace di far resistenza ai nemici. Il disordine era cresciuto a segno che i paesani non ardivano uscire dalle loro muraglie per seminare i campi, le raccolte venivano distrutte o portate via dai nemici, le strade rese impraticabili dal ladroneccio.

Nel sesto secolo tutti gli ordini della nazione, separatamente considerati, erano scontenti del legame che gli univa. Allorchè un principe ambizioso occupava il trono, aveva costume di dividere tra i suoi favoriti i grandi feudi, come fossero impieghi civili, lo che gravemente offendeva i principali signori: le città forzate di difendersi da sè medesime contro le incursioni de' barbari, circondaronsi di mura, addestrarono le loro milizie, e terminarono col disprezzare un governo incapace di proteggerle: i gentiluomini, stanchi d'un servizio rovinoso, paventavano i messaggieri del re, che non chiamavanli che a fazioni militari senza gloria, ed a diete senza libertà: per ultimo i paesani, oppressi dai loro signori e tormentati dalle rapine delle guerre private, rifiutavano una patria che non gli aveva in conto di cittadini. Di mezzo a tanta anarchia eransi formate alcune parziali società per la comune difesa; ed i capi politici indipendenti esistenti in seno alla nazione, e la formazione loro, dovevano affrettare lo scioglimento di quel legame sociale che le recenti associazioni rendevano inutile. Nello stato ordinario della società, quantunque l'autorità sovrana sia onerosa a coloro che ne sostengono il peso, tutti non pertanto temono gli effetti dell'anarchia, e sentono come sarebbero esposti ad ingiuste aggressioni, quanto deboli e sventurati, se un'autorità protettrice, se una forza superiore a quella degl'individui, non reprimesse le violenze, e non conservasse l'ordine fra gli opposti interessi che sogliono produrre fra gli uomini incessanti motivi di querele. Ma quando la società accoglie nel suo seno varie parziali associazioni, nè i capi, nè i membri temono più le conseguenze dell'anarchia.

Un duca di Spoleti o del Friuli risguardava il re d'Italia quale oppressore, che si arrogava il diritto di usurpare l'eredità ai suoi figliuoli, di dividere le sue entrate, di porre limiti alla sua autorità; un geloso nemico, che non potendo sempre opprimerlo colle proprie forze, procurava di rivolgere contro di lui quelle de' vicini; che per nuocergli univa l'astuzia alla violenza; ma che in veruna circostanza accorreva in sua difesa, o gli era in qualsiasi modo utile.

Perciò i grandi feudatarj non risguardavano più la caduta del trono con quell'inquieto timore che in noi produce un'imminente rivoluzione, di cui non si possono calcolare gli effetti: al contrario essi erano a portata di conoscere perfettamente i risultati di tale cambiamento. Conoscevano ugualmente le forze proprie e quelle de' loro vicini; vedevano di poter dividere tutte le prerogative dell'autorità reale, e tutte le spoglie del trono; che senza pericolo di disordine o d'anarchia, avrebbero anzi conseguito maggior sicurezza, l'indipendenza e più illimitato potere.

Nè l'interesse de' sudditi era in tal caso in opposizione con quello de' loro padroni, perchè il monarca non gli aveva mai salvati dalle vessazioni del duca o del marchese, nè alla deposizione loro avevano mai dato motivo le lagnanze del popolo: e quando i soggetti sono lasciati in balìa de' loro padroni, è a desiderarsi che la signoria sia ereditaria, affinchè i padroni sieno più interessati alla conservazione ed alla prosperità della medesima. L'autorità d'un signore temporario non era perciò più limitata, e quand'era destituito, gli era il più delle volte surrogato un uomo di minor condizione, che la povertà rendeva più avido e più oneroso ai sudditi.

Doveva inoltre sembrar più agevole ai sudditi de' magnati il limitare l'autorità di un piccolo principe, che quella d'un gran re; di reprimere le vessazioni d'un uomo che non aveva che le forze dei proprj sudditi, piuttosto che quelle d'un sovrano che, adoperando la politica dei despoti, valevasi dei sudditi d'una provincia per incatenare quelli di un'altra.

Sembrerà strano che con tali disposizioni gl'Italiani non deponessero Berengario II, e non abolissero l'autorità reale, invece di chiamare Ottone dagli estremi confini dell'Allemagna, e sottomettersi a lui: ma eranvi due altri ordini della nazione, che, quantunque mal soddisfatti, credevano non pertanto di dover sostenere il trono. Le città non potevano chiamare in loro soccorso che i re, i quali per altro non le proteggevano: esse soffrivano tutti i mali dell'anarchia, e non avevano ancora abbastanza di forze per provvedere alla propria sicurezza; onde i cittadini antiveggenti dovevano desiderare che si sottraessero lentamente all'impero, piuttosto che ricuperare tutto ad un tratto quell'indipendenza che non avrebbero potuto difendere. Altronde anco i gentiluomini e la nobiltà di secondo rango temevano ugualmente quello scioglimento della monarchia che gli avrebbe posti in arbitrio de' magnati limitrofi, amando meglio d'ubbidire ad un re, che ad altri nobili ch'essi credevano loro eguali.

(961) La concessione della corona imperiale agli Alemanni garantì a tutti gli ordini della nazione quel grado d'indipendenza che si conveniva alla sua situazione ed alle sue forze; (961 = 965) facilitò lo scioglimento pacifico del legame sociale, e l'erezione, nell'interno dello stato, d'una quantità di piccole popolazioni che diventarono libere tosto che non ebbero più bisogno della protezione del monarca. Il regno d'Ottone fu al di fuori illustrato dalle vittorie, internamente dallo stabilimento di una costituzione proporzionata allo spirito del secolo ed al bisogno della nazione.

Ben più che a Carlo Magno si conviene ad Ottone il nome di grand'uomo; e se non altro il suo regno contribuì efficacemente alla prosperità de' popoli a lui sottomessi. Carlo ebbe l'ambizione de' conquistatori, e, per ingrandire l'impero, distrusse collo spirito nazionale il vigore dei popoli vinti. Ottone non fu meno vittorioso di Carlo, ma Ottone trionfò dei nemici dei popoli ridotti a civiltà, e degli aggressori che guastavano le province dell'impero colle loro scorrerie. Egli non cercò di estendere i limiti dell'impero, e non s'arrogò che i poteri necessari per proteggere i suoi sudditi; e dopo aver data la pace alle sue province, preparò i popoli a poter un giorno essere indipendenti.

La costituzione che Ottone il grande diede agl'Italiani, poi ch'ebbe conquistato tutto il regno di Berengario, era di tutte la migliore per conservare al monarca, obbligato di trattenersi lungo tempo ne' suoi stati di Germania, la sua autorità. Prima della fatale invenzione delle truppe di linea, prima di scoprire che uomini liberi potevano ridursi a vendere la loro volontà e le loro braccia per un miserabile salario, il despotismo non poteva avere regolare e durevole stabilimento. Fin ch'era in luogo, l'ascendente d'un grand'uomo faceva piegare ogni cosa alle sue volontà, e ciò con tanto maggiore facilità, quanto più grande era nei popoli il dovere della riconoscenza; ma tosto che s'allontanava, l'interesse personale ripigliava il suo predominio sul cuore d'ogni individuo, e l'obbedienza del soggetto si proporzionava esattamente al beneficio che sperava di conseguire dall'ordine pubblico.

Ottone aveva condotto in Italia una grande armata, ma quest'armata era feudataria. Ogni ufficiale era tenuto, in virtù della sua baronia, di servire al re per un determinato tempo, ed ogni cavaliere doveva per tutto questo tempo seguire il suo barone da cui aveva ricevuto il feudo. Ultimata la spedizione, l'armata voleva ed aveva il diritto di ritornare ai suoi focolari. Se Ottone avesse voluto stabilire in Italia un gran signore con una ragguardevole forza, non poteva farlo che dandogli terre per lui e per i suoi vassalli, e spogliando gli abitanti d'un'intera provincia delle loro proprietà: tirannica misura che, senza procurargli assai fedeli vassalli, gli faceva tanti implacabili nemici. Se poi si accontentava di provvedere le province di governatori stranieri senza cambiarne gli abitanti, siccome i governatori non avrebbero avuto altra forza che quella dei loro soggetti, così non potevano sperare d'essere ubbiditi se non facendosi amare, e finchè i loro ordini non si opponessero all'interesse dei vassalli. Per ultimo se Ottone si fidava ai baroni italiani, si poneva, allontanandosi, in loro balìa più che non lo fossero i suoi predecessori.

Ma Ottone era potente e glorioso; e ne' quattr'anni ch'egli aveva impiegati alla testa d'una poderosa armata a sottomettere il regno lombardo, egli aveva con mano forte preso lo scettro, e sempre trionfato de' barbari, e represse le ribellioni de' sudditi e di suo figlio medesimo[96]. Sempre caro a' suoi soldati, fu rispettato dal clero, benchè si fosse valso dei primi per comprimerlo, deponendo due pontefici, e riducendo la Chiesa nella sua dipendenza. Accrescevano la sua potenza la fermezza del suo carattere, e la costanza irremovibile delle sue risoluzioni che tendevano sempre a grandi cose. Pure con sì grandi mezzi non avrebbe ancora potuto arrogarsi un'autorità dispotica, senza esporsi a perderla all'istante che ripasserebbe le alpi. Fu troppo savio, e troppo grande per farne soltanto l'esperimento; egli si valse all'opposto della medesima sua potenza per gettare i fondamenti della libertà.

Le città erano state fino a' quei tempi governate dai loro conti, che d'ordinario erano pure i loro vescovi: questi signori essendo quasi tutti italiani dovevano per conseguenza essere poco ben affetti all'imperatore. Non li rimosse Ottone, non ne ristrinse pure formalmente le prerogative, ma favorì gli abitanti delle città a dilatare le loro immunità con pregiudizio delle prerogative signorili. Il conte, come il re, non aveva truppe sotto i suoi ordini, onde per dar esecuzione ai suoi voleri in una città assai popolata, ed avvezza alle armi, era forzato o di guadagnarsi l'affetto de' cittadini col rinunciare ad alcune prerogative, oppure d'invocare l'autorità del re che non era disposto a favorirlo.

Le città in certo qual modo abbandonate a sè medesime, si diedero, di consenso del re, un governo municipale[97]. Tali costituzioni si stabilirono durante il regno d'Ottone il grande e de' suoi successori, senza opposizione, senza tumulto, ma altresì senza una carta che ne attesti la legittimità: quindi l'antichità loro non è comprovata che dalla prescrizione sempre in progresso allegata dalle città, qualunque volta vennero richiamati in dubbio i loro privilegi.

I nuovi municipj conservarono per Ottone il grande loro benefattore la debita riconoscenza, che non venne meno finchè durò la di lui famiglia: ma quando l'ultimo degli Ottoni morì senza figliuoli, trovandosi per tale avvenimento sciolti dai vincoli che gli univano alla casa di Sassonia, scossero interamente il giogo tedesco.

Per altro Ottone il grande negl'intervalli che dimorava fuori d'Italia non lasciò depositarie del suo potere le sole città: poichè aveva investiti varj signori tedeschi, ed alcuni italiani che gli avevano dato sicure prove d'attaccamento, dei feudi più importanti, del marchesato di Verona e del Friuli, e del ducato di Carintia. Enrico duca di Baviera suo fratello, onde avere in ogni tempo libero l'ingresso d'Italia[98], creò il marchesato d'Este in favore d'Oberto, uno dei gentiluomini che lo avevano assistito contro di Berengario; ne instituì un altro che comprendeva le diocesi di Modena e di Reggio per Alberto Azzone bisavo della contessa Matilde, quello che aveva accolta nella sua fortezza di Canossa l'imperatrice Adelaide[99]. Per ultimo creò il marchesato di Monferrato per suo genero Almarano[100]. Alle città italiane riuscì utile questa sostituzione degli stranieri e nuovi feudatarj agli antichi. Il potere de' nuovi signori era vacillante ed incerto; i loro vassalli ne erano gelosi, e lungi dal difenderli, cercavano di spogliarli dei loro diritti; i vicini non si movevano per soccorrerli, ed ogni giorno perdevano qualcuna delle loro prerogative. Abbandonarono quindi le città, e si ridussero ne' loro castelli, ove credevansi più sicuri, ma trovaronsi per tal modo, rispetto al potere, ridotti alla condizione de' gentiluomini, comecchè conservassero la superiorità del rango.

Vedremo nel susseguente capitolo quali furono le differenze ch'ebbe Ottone il grande colla Chiesa[101]; e vedremo altrove i motivi della lunga guerra ch'egli e suo figliuolo sostennero contro i Greci per il possedimento della Calabria e del ducato di Benevento. Questi sono i soli avvenimenti del regno di Ottone in Italia, di cui gli storici abbianci conservata distinta memoria. Dopo aver consumata la conquista del regno lombardo, Ottone era tornato in Germania l'anno 965. Ripassò in Italia l'anno susseguente, e risedette successivamente in Ravenna, in Pavia, in Roma, in Capoa fino al 972; nel quale anno rivide la Germania, ove morì presso a Maddeburgo il giorno 7 di maggio l'anno 978.

(973 = 983) Gli succedette suo figliuolo, nominato pure Ottone, che il padre aveva chiamato a parte dell'impero l'anno 967. Una guerra civile mossa contro di lui da Enrico il rissoso, duca di Baviera, obbligò il giovane Ottone a rimanere in Germania fino al 980. Passò dopo in Italia, ove morì del 988. Allorchè parleremo delle repubbliche marittime, e di quelle della Magna Grecia, dovremo dire alcuna cosa intorno alle guerre che nel corso del poco illustre suo regno ebbe Ottone II a sostenere contro le medesime.

(983 = 1002) Ottone morendo lasciava un fanciullo sotto la tutela di Teofania sua consorte, della propria madre Adelaide, e dell'arcivescovo di Colonia. Travagliato questo giovane principe, durante la sua età minorenne, dalle guerre civili ch'ebbe a sostenere contro il duca di Baviera Enrico il litigioso, non venne poi in Italia che del 996, ove morì nel fiore dell'età sua l'anno 1002. In esso, che fu Ottone III, si spense la famiglia di Sassonia, dopo aver posseduto quarantun'anni il regno unito dell'Italia e della Germania.

In questo spazio di tempo i principi della casa di Sassonia dimorarono venticinque anni fuori d'Italia, quantunque durante la loro assenza il governo generale della nazione rimanesse in qualche modo sospeso: imperciocchè non promulgavasi senza l'imperatore veruna legge criminale, non riunivasi l'assemblea della nazione, non eravi guerra pubblica, non leva d'uomini per l'impero, non tasse per il monarca. E siccome la sovranità nazionale non poteva restar inerte, così rifondevasi nelle province. I signori ed i prelati emanavano editti, le città leggi municipali. I feudatarj nominavano i giudici dei villaggi; il popolo i consoli ed i pretori nelle città. Ogni corpo si rivendicava il diritto di difendersi, ogni cittadino diventava soldato: per ultimo magistrati eletti dai loro eguali determinavano per le spese municipali una tassa quasi volontaria, ed un consiglio che veniva chiamato consiglio di confidenza, amministrava il danaro della città.

Il sentimento che i popoli attaccano all'idea astratta di patria, è composto dai sentimenti di riconoscenza per la protezione che accorda, d'affezione per le sue leggi e costumanze, e di partecipazione alla sua gloria. Ma lo stato era in modo diviso, che ogni cittadino non poteva conoscere se non la protezione dei magistrati della sua città; siccome non poteva conoscere che le leggi, le usanze e la gloria della sua città e delle di lei armi. Talchè abbandonando l'idea indeterminata di membro d'un impero che non conosceva, e col quale non aveva alcun rapporto che incomodo non fosse, ogni cittadino s'avvezzava a circoscrivere alla sua città l'idea di patria e tutta la sua patria. In tal maniera formossi nell'opinione degli uomini una strana rivoluzione, e fin qui senza esempio; imperciocchè quantunque la prosperità e la libertà siano state sempre il retaggio esclusivo delle piccole nazioni, come appartengono ai grandi stati il despotismo, i grandi abusi, i traviamenti dell'ambizione, le guerre senz'oggetto e le paci senza riposo; non erasi ancor veduto, e forse non si vedrà mai più un popolo rinunciare agli attributi di grande nazione, alla gloria attaccata ad un nome collettivo, alla grandezza, alla potenza, per cercare la libertà nello scioglimento del suo legame sociale.

La subordinazione feudale veniva scossa da ogni rivoluzione dell'impero in modo che più stranieri rendeva sempre gli uni agli altri i membri dello stato. La morte di Ottone III liberò le città dalla riconoscenza dovuta alla famiglia del grande Ottone, e la guerra civile, eccitata dall'elezione del suo successore, diede loro motivo d'esperimentare le proprie forze, e di conoscere che non avevano omai più bisogno d'un protettore straniero.

(1002) Saputasi in Germania la morte d'Ottone III, il marchese di Turingia, il duca di Germania, ed Enrico III, duca di Baviera figliuolo d'Enrico il rissoso, si disputarono la corona. Dopo una breve guerra civile, rimase all'ultimo ch'era nipote del fratello del grande Ottone, e fu coronato a Magonza sotto il nome d'Enrico II re di Germania[102]. Benchè non fosse per gl'Italiani che Enrico I, non contando questi Enrico l'uccellatore, il quale non fu loro re, noi indicheremo questo principe ed i suoi successori dello stesso nome col numero adoperato dai Tedeschi, per evitare la confusione d'un doppio numero.

Intanto la dieta de' signori italiani riunitasi in Pavia eleggeva re di Lombardia Arduino marchese d'Ivrea[103]. La convenzione dalla nazione italiana contratta colla casa di Sassonia non aveva più vigore dopo che questa famiglia aveva cessato di esistere; i regni d'Italia e di Germania erano affatto l'uno dall'altro indipendenti; e veruna legge obbligava ad affidarne l'amministrazione allo stesso monarca. A fronte di così evidenti ragioni l'elezione d'un re lombardo si risguardò dai Tedeschi come un atto di ribellione; per cui si disposero a riconquistare l'Italia: e continuando in questa loro strana pretensione, trattarono sempre gl'Italiani come un popolo nemico o ribelle, che dovevasi atterrire con rigorosi castighi, e tenere sotto il giogo. Gli Ottoni furono i protettori della libertà delle città, e gli Enrichi colla diffidente loro durezza sforzarono queste città medesime a rivolgere contro di loro quelle forze che avevano ricevute dalla libertà.

Arduino era stato eletto in Pavia, e tanto bastava perchè i Milanesi si dichiarassero contro di lui; imperocchè Pavia e Milano si disputavano il primo rango tra le città lombarde, e sentivansi di già abbastanza forti ed indipendenti per potersi abbandonare alla vicendevole loro gelosia. A ciò s'aggiungeva che Arnolfo arcivescovo di Milano aveva particolar motivo d'essere scontento di Arduino. Egli arrivava dopo chiusa la dieta di Pavia, da una ambasceria a Costantinopoli, speditovi da Ottone III; onde risguardò come illegittima l'elezione d'un re senza l'intervento del primo prelato della nazione. (1004) Approfittando dei soccorsi dell'arcivescovo e della città di Milano, Enrico di Germania, riconosciuto re da una nuova dieta di Roncaglia, si affrettava di venire in Italia per la strada di Verona. Arduino, abbandonato dalle proprie truppe che si dispersero prima di misurarsi col nemico, si vide costretto di rifugiarsi nelle fortezze del suo marchesato; lasciando che il suo rivale s'avanzasse senza incontrare ostacoli fino a Pavia, ove ricevette dall'arcivescovo di Milano la corona d'Italia.

Lo stesso giorno dell'incoronazione, le indisciplinate truppe d'Enrico diedero nuove ragioni agli abitanti di Pavia d'attaccarsi al suo rivale. I Tedeschi riscaldati dal vino insultarono i cittadini in modo che trovaronsi costretti di reprimere colle armi gli oltraggi d'una soldatesca indisciplinata. Ad Enrico venne da' suoi cortigiani rappresentato questo tumulto siccome un furor di plebaglia, e l'esplosione d'un'arroganza di schiavo[104], che dovevasi reprimere colla forza; ma la ribellione era più estesa, ed il pericolo maggiore che non era annunciato. Enrico trovossi assediato nel palazzo che le sue guardie difendevano a stento. Per liberarlo, e sottomettere i Pavesi ribellati, non potendo, per essere state barricate le strade, avanzarsi la truppa d'Enrico accampata fuori di Pavia, mise il fuoco alla città. L'incendio allargandosi rapidamente favoriva il massacro; e la superba capitale dei Lombardi fu bentosto un mucchio di ruine sparse di sangue, da cui Enrico s'allontanò subito colla sua armata. Frattanto i Pavesi rifabbricarono la loro città; e consacrando le nuove mura, giurarono di vendicarsi dei Tedeschi; e proclamato di nuovo Arduino, dedicarono le loro armi e le fortune loro al rialzamento del suo trono[105].

Enrico, cui stava infinitamente più a cuore la conservazione della Germania, che l'apparenza di uno sterile potere in Italia, lasciò passare dieci anni senza portarvi di nuovo le sue armi. D'altra parte Arduino, mancante di truppe e di danaro, poco profitto ritraeva da' suoi talenti e dal suo coraggio. Vercelli, Novara, Pavia, e probabilmente quasi tutte le città del Piemonte riconoscevano i suoi diritti alla corona: ma queste città non potendo assoldare milizie, rifiutavansi di ricevere il re entro le sue mura per non ricevere col re le sue truppe indisciplinate, ed un potere dispotico. Arduino perciò riparavasi nelle fortezze del suo antico marchesato, e non rammentava ai popoli la sua dignità reale, se non con qualche donazione ai monasteri; soli documenti che siano a noi pervenuti del suo regno. Pareva che le città si fossero parzialmente incaricate di difendere i diritti dei due concorrenti. Milano attaccava frequentemente colle sue milizie i limitrofi vassalli di Arduino, mentre i cittadini pavesi guastavano il territorio milanese: tutti s'esercitavano nelle armi, tutti s'abbandonavano alla gelosia ond'erano animati verso i loro vicini, tutti s'accostumavano a non risguardare per loro patria che la propria città, ed adottavano il nome dei re piuttosto per giustificare le loro guerre, che per voglia che avessero di abbracciar la causa de' monarchi per cui apparentemente combattevano.

Enrico II fu in Italia nel 1003 e nel 1014, e ricevette a Roma la corona imperiale dalle mani di Benedetto VIII, senza che giammai si scontrasse colle armate di Arduino (1015). Ma dopo il ritorno d'Enrico in Germania, il re lombardo, sorpreso da grave malattia, depose spontaneamente le insegne reali, e si fece monaco nel monastero di Frutteria per prepararsi alla morte[106].

Del 1024 gl'Italiani tentarono ancora di liberarsi dalla tedesca dipendenza, approfittando della mancanza del re, cui, per essere divisi i voti degli elettori, non veniva dato alcun successore. Perciò gl'Italiani offrirono successivamente la corona di Lombardia a Roberto re di Francia, ed a Guglielmo duca d'Aquitania[107]. Ma questi due principi, avendo saggiamente riflettuto alla debolezza della monarchia italiana, ai pericoli, ed alle spese che sarebbe loro costato l'acquisto d'un onore illusorio, rifiutarono un dono che avrebbe rovinati gli antichi loro sudditi. L'arcivescovo di Milano che aveva la direzione di questi trattati, risolvette di passare egli stesso in Germania e trattar la pace a nome della sua nazione con Corrado il Salico duca di Franconia, ch'era stato eletto da una dieta tedesca, ed il di cui nome va unito alle ultime leggi che compirono il sistema feudale[108].

(1024) Corrado II discendeva in linea femminina da Ottone il grande, lo che gli diede un titolo per aspirare alla corona. Il suo predecessore Enrico II era morto senza figliuoli; ed una delle virtù, che lo fece degno con Cunegonda sua moglie dell'onor degli altari, vuolsi che fosse la fedeltà con cui mantenne fino alla morte il voto di verginità emesso di consenso della sposa[109].

(1026) Poichè Corrado ebbe pacificata la Germania, e stabilita la sua discesa in Italia, spedì, secondo l'usanza che di fresco era invalsa, deputati a prevenire tutte le città della sua venuta, chiedendo loro il giuramento di fedeltà, ed il pagamento delle tasse, che in questa sola circostanza erano devolute al tesoro reale. Tali imposte chiamavansi nel barbaro latino di que' tempi federum, parata, e mazionaticum. Il primo consisteva in una determinata quantità di vittovaglie destinate al mantenimento del re e della sua corte, che d'ordinario venivano rappresentate da una somma di danaro. Il secondo era un tributo col di cui prodotto riparavansi le strade ed i ponti de' fiumi che doveva attraversare il re. Il terzo serviva alle spese dell'alloggio de' cortigiani e dell'armata reale durante il loro viaggio[110].

Corrado venne fino a Roncaglia, pianura posta in riva al Po presso a Piacenza, ove alla venuta degl'imperatori riunironsi sempre le diete italiche. Pareva che d'improvviso sorgesse una città in mezzo a deserta campagna. Piazze e strade tirate a filo separavano il padiglione reale, quelli de' signori, e dell'armata, ed una muraglia circondava tutti questi quartieri. I negozianti che vi accorrevano da ogni banda, costruivano le loro botteghe fuori delle mura, e formavano i sobborghi della città, che avevano l'aspetto d'una magnifica fiera. Il padiglione del re ergevasi nel centro del suo campo; innanzi al quale vedevasi appeso ad un'antenna uno scudo, cui tutti i feudatarj invitati dall'araldo facevano a vicenda la sentinella. La funzione di vegliare armati le prime notti teneva luogo di revista dell'armata, e gli assenti potevano essere condannati alla perdita del feudo, per non avere soddisfatto al loro dovere di accompagnare il re nella sua spedizione. I primi giorni della dieta erano dal re consacrati a decidere le cause private, onde tenersi in possesso dell'esercizio del potere giudiziario. Riceveva ne' susseguenti giorni le ambascerie delle città, regolandone i rapporti colla monarchia, e terminando le vicendevoli loro controversie. Finalmente negli ultimi giorni della dieta il re s'occupava degl'interessi de' signori, e delle quistioni attinenti ai feudi.

La dieta che del 1026 fu preseduta da Corrado il Salico viene indicata da alcuni storici quale epoca importantissima d'un cambiamento nella legislazione feudale, credendo che la prima costituzione che trovasi nel quinto libro dei feudi si promulgasse in quest'epoca[111]. Per la legge di Corrado il Salico tutti i beneficj militari furono dichiarati ereditarj di maschio in maschio; e si costrinsero i signori di rinunciare all'abusivo diritto di privare de' proprj feudi i loro vassalli; tranne il capo di fellonia, ed anche in allora dopo un giudizio de' loro pari. Poi ch'ebbe scorsa l'Italia, e rinnovate con pubbliche udienze ed importanti giudizj la memoria dell'autorità imperiale, Corrado ritornò colla sua armata in Germania.

Nè appena fu lontano, nuovi disordini mostrarono i vizj del sistema feudale, che questo monarca aveva inutilmente cercato di correggere.

(1027 = 1036) Le città del centro della Lombardia godevano, gli è vero, d'una libertà assai estesa, ed i grandi, e specialmente i prelati, avevano scosso il giogo dell'imperatore, ed emancipatisi quasi affatto dalla sua autorità: ma i gentiluomini, i capitani, i valvasori, che formavano l'ordine equestre, lungi dal partecipare della libertà degli altri ordini, vedevano peggiorata la loro condizione. Pareva che la nazione non formasse un solo corpo che nelle diete o udienze di Roncaglia; ma ancora a queste i gentiluomini intervenivano senza missione, senza privilegi, senza alcun appoggio per riclamare contro la soverchieria de' grandi feudatarj, o contro le usurpazioni delle città. Terminata la dieta, scioglievasi ancora lo stato, ed i signori de' castelli ritornavano ne' loro dominj per difendervisi, e farsi giustizia colle proprie armi e con quelle de' loro vassalli. Le campagne venivano affatto rovinate da queste guerre private, e tutto posto in estrema confusione.

Il ladroneccio che accompagnava le guerre della nobiltà, fu sotto Corrado più tosto sospeso che represso dalle ammonizioni di alcuni uomini pii, i quali pretendevano, e fors'anche credettero di buona fede, aver loro il cielo rivelato che Dio ordinava agli uomini d'ogni credenza una tregua di quattro giorni per settimana dopo la prima ora di giovedì fino alla prima ora del lunedì. Tutti gli uomini, per qualsiasi errore da loro commesso, dovevano in questi quattro giorni essere in libertà di occuparsi de' proprj affari; e guai a coloro che durante la tregua di Dio facessero qualche vendetta contro i proprj nemici o contro quelli dello stato. Questa pace si predicò la prima volta l'anno 1033 dai vescovi d'Arles e di Lione, e nella stessa epoca fu introdotta in Italia[112]; ove non ebbe mai intera esecuzione. Erano gl'Italiani, fra tutti i cristiani, i meno superstiziosi, e meno degli altri disposti a prestar fede ad un ordine emanato dal cielo.

Le private guerre dei gentiluomini furono in breve seguite da una guerra più generale ch'essi di comune accordo dichiararono ai prelati, ch'erano per lo più loro signori, ed in pari tempo agli abitanti delle città. I valvasori non potevano vedere senza gelosia questi uomini, nati loro eguali o inferiori, godere dell'autorità sovrana, i primi come principi, gli altri come repubblicani. Lagnavansi in ispecial modo dell'orgoglio d'Eriberto, arcivescovo di Milano, il quale senza avere verun rispetto alla costituzione di Corrado, spogliava de' suoi feudi qualunque de' suoi vassalli avesse la sventura di cadere nella sua disgrazia. Allorchè seppero che l'arcivescovo aveva ingiustamente oppresso un gentiluomo, tutti i vassalli della sede milanese presero ad un tempo le armi, ed il loro esempio fu seguito da tutti i gentiluomini della Lombardia[113]. Dall'altra parte i cittadini che erano stati soverchiati più volte dalla nobiltà, e che credevano partecipare della grandezza de' loro prelati, presero le armi per difenderli. La prima battaglia si diede nelle contrade di Milano, ove dopo un'ostinata resistenza i gentiluomini dovettero abbandonare la città. Ma giunti in campagna trovarono molti ausiliarj che si posero sotto le loro insegne; e la città di Lodi, invidiando la grandezza di Milano, dichiarossi a favore de' gentiluomini, i quali nella battaglia di Campo Malo ruppero i Milanesi (1035 = 1039) comandati dall'arcivescovo. Chiamato da questi disordini nuovamente in Italia, l'imperator Corrado convocò la dieta in Pavia, onde provvedere a tanti mali. Incominciò dall'ordinare l'arresto dell'arcivescovo Eriberto, e dei vescovi di Vercelli, di Cremona, di Piacenza[114], ed appoggiò caldamente le lagnanze dei valvasori; ma ogni sua pratica riuscì inutile al ristabilimento della pace. I prelati, fuggiti alle guardie imperiali, riguadagnarono le loro città, e trovarono i cittadini pronti ad armarsi per la loro difesa. Corrado volle inseguirli, e fu respinto dai Milanesi, e costretto di rinunciare all'assedio di quella città[115].

Ad accrescere la confusione prodotta da questa guerra civile s'aggiunse una nuova scissura. I gentiluomini insorti avevano pur essi dei vassalli con giurisdizione militare, che in allora chiamavansi valvassini, i quali tenevano schiavi, ossia servi attaccati alla gleba. Queste due classi di uomini, in tempo che gli altri ordini della società impugnavano le armi per l'indipendenza, si credettero ugualmente in diritto di riclamarla, e presero le armi contro i loro signori, chiedendo la libertà generale.

A quest'epoca tutti i ranghi della società trovaronsi in guerra gli uni contro gli altri: ma l'eccesso medesimo dell'anarchia produsse finalmente una pace vantaggiosa a tutta la nazione; i diritti di ciascun ordine furono stabiliti con precisione; la costituzione di Corrado intorno alla successione dei feudi fu adottata dalla nazione; quasi tutti gli schiavi furon posti in libertà; e soppresse o addolcite assai le più umilianti condizioni annesse alla dipendenza feudale[116]. Finalmente, bramando i gentiluomini di avere una patria, si determinarono quasi tutti di fars'inscrivere alla cittadinanza delle città vicine; ossia, per valermi della frase di quell'età, di raccomandare le persone ed i feudi loro alla protezione delle città. È assai verisimile che questa generale pacificazione si effettuasse l'anno 1039 nell'istante in cui le armate trovandosi a fronte in vicinanza di Milano, la notizia della morte di Corrado il Salico le consigliò a deporre le armi[117].

CAPITOLO III.

La chiesa e la repubblica romana nella prima metà de' mezzi tempi — Dissensioni tra i papi e gl'imperatori. — Regni di Enrico III, Enrico IV, ed Enrico V, dal 1039 al 1122. — Pace di Wormazia.

Tre principi della casa di Franconia, il figlio, il nipote ed il pronipote di Corrado il Salico, occuparono la sede imperiale dopo la morte di questo sovrano fino ai tempi in cui le repubbliche, che formano l'argomento di quest'opera, ebbero conseguita l'indipendenza; epoca in cui noi cominceremo a tener dietro alle particolarità della loro storia. Ma prima di descrivere compendiosamente i regni dei tre Enrichi di Franconia, convien rimontare alquanto a dietro, e far conoscere ai miei lettori qual fosse, al principio de' mezzi tempi, lo stato della Chiesa romana, che protetta dai tre primi Enrichi perseguitò gli ultimi due; quale lo stato della città di Roma, di cui gl'imperatori contrastarono ai papi la sovranità; mentre fino dal principio dell'età di mezzo si andava in silenzio formando una nuova repubblica romana, che talvolta tenne nella sua dipendenza i pontefici dominatori della cristianità.

Non è facil cosa il render ragione dei motivi che dissuasero i Lombardi dall'occupar Roma quando Alboino conquistò il rimanente dell'Italia. Le città marittime potevan essere agevolmente soccorse dai Greci di Costantinopoli; Ravenna, Venezia e Comacchio erano difese dalle paludi che le circondavano; Napoli, Gaeta, Amalfi, e le città della Calabria, dalle montagne; ma Roma era posta in un paese affatto aperto. I Lombardi, padroni dei ducati di Toscana, Spoleti e Benevento, chiudevano tra i loro dominj l'antica capitale del mondo, che, difesa dalla lunga muraglia che Aureliano aveva innalzata per comprendere nella città il campo Marzio, presentava un circondario immenso, che la popolazione di Roma, estenuata da continue disgrazie, non era in grado di difendere. Gl'imperatori greci, o per debolezza o per timore di cimentare l'onore delle loro armi, non vi tenevano più guernigione. Affidavano il governo della città ad un prefetto, di poi chiamato duca, che dipendeva dall'esarca di Ravenna, onde gli storici greci, vergognandosi forse di confessare che i loro sovrani lasciavano l'Italia abbandonata, s'astennero dal parlare di Roma pel corso di due secoli, dal principio fino alla fine della dominazione lombarda[118].

Ad ogni modo Roma non fu giammai occupata dai Lombardi, ed i fuorusciti delle altre province d'Italia, venuti a cercare asilo in questa città, ne accrebbero poi la popolazione, e la resero capace di opporsi colle proprie forze agli attacchi de' successori d'Alboino. I papi incoraggiavano i Romani a difendere la loro patria, ed a mantenersi fedeli ai sovrani di Costantinopoli[119]. Erano i papi nominati dal clero, dal senato e dal popolo romano; ma non potevano essere consacrati senza il formale consentimento dell'imperatore d'Oriente[120]. Essi mantenevano sempre due apocrisiarj, o nunzj alla corte di Costantinopoli, ed a quella dell'esarca di Ravenna, per assicurare il sovrano della loro dipendenza, per provvedere di comun accordo alla difesa di Roma, e per la regolare amministrazione della Chiesa.

I Romani, vedendosi trascurati dagl'imperatori, s'andavano sempre più affezionando ai papi, che di questi tempi erano anch'essi quasi sempre romani, e per le loro virtù rispettabilissimi. Risguardavasi la difesa di Roma come una guerra religiosa, perchè i Lombardi erano tutti o arriani, o ancora pagani; ed i papi per proteggere le chiese ed i conventi contro la profanazione de' barbari, impiegavano le ricchezze della chiesa di cui erano amministratori, e le elemosine che ricevevano dalla carità de' fedeli occidentali: di maniera che il crescente potere del papi sulla città di Roma aveva per fondamento due titoli troppo rispettabili, le virtù ed i beneficj.

Poche storie sono così oscure come quella di Roma e delle province che i Greci possedettero in Italia fino al regno di Carlo Magno, perchè nè i Romani nè i Greci ebbero di que' tempi alcuno scrittore delle cose loro. Le vite dei papi sono opera del secolo nono, e più tosto fatte per edificazione de' fedeli, che per istruire gli storici[121].

Con tutto ciò in tal periodo di tempi si consumò una rivoluzione ch'ebbe la più durevole influenza non solo sulla sorte di Roma, ma su quella di tutto l'Occidente. La riforma, e se così amiamo chiamarla, l'eresia degl'Iconoclasti alienò l'animo de' sudditi latini dai loro sovrani, impegnò i papi a distruggere l'autorità che gl'imperatori avevano in Roma, e fu la principal causa dell'indipendenza della città e della sovranità della Chiesa.

La pura e filosofica religione di Gesù Cristo aveva fino dai primi secoli della sua esistenza sofferte grandissime alterazioni, e per il degradamento del popolo che la professava, e per la perdita d'ogni virtù pubblica, e per la corruzione dello spirito e del gusto. Le sottigliezze de' filosofi e l'ignoranza de' plebei avevano pure ugualmente contribuito ad alterarne la semplicità, facendo rientrare il paganesimo tutto intero in quella religione che sembrava averlo distrutto[122].

Il più notabile cambiamento che soffrì il cristianesimo ebbe origine dalla pretesa scoperta di un'imagine di Gesù Cristo, poscia della Vergine, che si attribuirono a celeste artefice, da che non vi aveva avuta parte la mano di alcun uomo. Tali imagini ch'ebbero il loro nome da questa circostanza[123], dopo essere state l'opera del miracolo, non tardarono a farne ancor esse. Vittorie riportate sui nemici dello stato e della religione; i Persiani respinti dalle mura di Edessa; infermità risanate, e tutto ciò che può essere soltanto attribuito alla divinità, fu l'opera loro. Ben tosto si attribuì la stessa possanza ad altre imagini, comechè non ne fosse contestata, come delle prime, la celeste origine: e la religione cristiana, che per più titoli poteva essere incolpata d'avere retrogradato verso il politeismo, trovossi per quest'ultimo passo cambiata in vera idolatria[124]. Si riguardarono le statue e le imagini come aventi nella materia di cui erano formate qualche cosa di divino; ed ebbero forse più onori per sè medesime che presso i pagani, indipendentemente dall'oggetto rappresentato[125].

Intanto quasi nella medesima epoca un popolo barbaro ricevette da un ambizioso conquistatore un nuovo sistema di teismo. L'islamismo più d'ogni altra religione appoggiavasi sulla dottrina dell'umanità, e della spiritualità di Dio; onde i Musulmani manifestarono sempre un eguale orrore per l'associazione della creatura al culto dovuto soltanto al creatore, e per la rappresentazione sotto forme materiali dell'Essere, che i sensi non possono concepire, che lo spirito non può misurare. I Musulmani rimproverarono i Cristiani d'idolatria, rivolsero contro di loro gli argomenti ed il ridicolo, di cui gli antichi apologisti cristiani eransi utilmente serviti contro i pagani; e questa controversia diventava tanto più umiliante per gli Ortodossi, in quanto che la loro professione di fede trovavasi in aperta contraddizione colla pratica, e che l'odio del nome d'idolatra era ancor vivo nel loro cuore quando essi medesimi meritavano di più il nome d'idolatri[126].

I Musulmani fecero ancor di più per disingannare i Cristiani, li vinsero. Il Labano miracoloso dovette fuggire innanzi a loro, ed Edessa fu presa a dispetto della sua trionfante imagine. Essi distrussero i quadri e le reliquie coll'altare che le portava, dimostrando l'impotenza dei pretesi agenti della divinità, dei santi, degli angeli, dei semidei de' cattolici e delle loro imagini[127].

Queste disfatte avevano già da qualche tempo scossa alquanto la credenza del popolo, allorchè una razza di montanari, che nell'Asia minore conservava la sua indipendenza[128], l'amore delle armi, ed una religione più vicina all'antico cristianesimo, ottenne di porre sul trono di Costantinopoli uno de' suoi capi. Fu questi Leone l'Isaurico, o l'iconoclasta, il quale segnalò il suo regno coi più violenti attacchi contro le recenti superstizioni, il culto cioè delle imagini, ed i progressi del monachismo. Quantunque provasse ancora in Oriente una resistenza che pose il suo trono in pericolo, è certo che una assai ragguardevole porzione del popolo professava le opinioni di Leone, il quale aggiungeva al vigore del suo carattere una grande abilità[129]. L'Occidente era in pari tempo più addetto al culto delle imagini, e più indipendente dall'imperatore. I Romani rifiutaronsi assolutamente di sottomettersi agli editti di Leone, ed il papa d'allora, Gregorio II, dopo avere tentato invano di richiamare gl'iconoclasti alla credenza della Chiesa, autorizzò i Romani a rifiutare all'imperatore i consueti tributi[130][131]. Intanto Ravenna e tutte le città dell'Esarcato aprivano le porte a Luitprando re de' Lombardi, di modo che non restavano più dell'Italia, sotto il dominio dell'impero orientale, fuorchè le città marittime della magna Grecia.

Gregorio II erasi in varie circostanze fatto conoscere il protettore della sua greggia, l'aveva difesa contro le invasioni de' Lombardi, parte coll'opinione di santità che gli dava grandissimo favore presso Luitprando, parte coi tesori della Chiesa ch'egli seppe utilmente impiegare nell'assoldar truppe. Sottraendosi all'ubbidienza di Leone l'Isaurico, Gregorio accusò Marino duca di Roma, e Paolo esarca di Ravenna d'aver tentato per ordine del loro principe di farlo assassinare[132]; e senza scacciarli da Roma li privò d'ogni autorità. E per tal modo mediante la sua influenza, e col consenso del re de' Lombardi, si stabilì in Roma verso l'anno 726 un simulacro di repubblica, che sussistette oscuramente dopo il regno di Leone Isaurico fino alla distruzione del regno lombardo, ed all'incoronazione di Carlo Magno.

Fu specialmente durante il pontificato di Gregorio III dal 731 al 741 che la repubblica romana sotto l'influenza del papa si governò come stato indipendente. Allora si videro i nobili, i consoli ed il popolo associarsi ad un concilio che condannava gl'iconoclasti: allora i Romani rialzarono le loro mura, fortificarono Civitavecchia, fecero alleanza coi duchi di Benevento e di Spoleti contro Luitprando re dei Lombardi, e finalmente stipularono con quest'ultimo un trattato in nome del ducato romano[133].

Si domanderà forse qual era il governo di questa repubblica o ducato; ma ciò non è facile a sapersi, perchè i Romani ed il papa cercavano di evitare ogni dimostrazione o positiva dichiarazione, onde non alienare assolutamente l'imperatore, cui pure prestarono ajuto per ricuperare l'Esarcato di Ravenna; e dopo di aver rimandato in Sicilia il patrizio destinato a governarli, ricevettero nuovamente in diverse occasioni gli ufficiali della corte di Costantinopoli, reclamarono la loro protezione contro i Lombardi, e chiesero, quantunque inutilmente, truppe a Costantino Copronimo per difendersi. Dal suo canto l'imperatore pareva disposto a contentarsi di un'ombra di potere, ed a scaricarsi senza strepito della difesa di una città, per la sua posizione difficile a difendersi. Il papa come capo della Chiesa, come padre dei fedeli, godeva di un altissimo credito e presso i cittadini, e presso i nemici dello stato. Veniva spesso accordato alla santità del suo carattere quello che sarebbesi rifiutato alle prerogative del suo rango. Finalmente i nobili romani avevano imparato dai Lombardi loro vicini a far rispettare la loro indipendenza, ed avevano terminato col non ubbidire nè all'imperatore, nè al papa, nè al proprio senato. Come padroni de' castelli possedevano essi tutto il territorio del ducato di Roma, e quando dimoravano nella capitale si risguardavano quali principi superiori alle leggi; ed il loro potere era proporzionato al numero de' loro vassalli e satelliti. Di mezzo a tale conflitto di giurisdizione, il papa capo del clero, patriarca di tutto l'Occidente, depositario dei tesori del cielo, che facilmente cambiava con quelli della terra, il papa si mostrava il solo difensore del popolo, il solo pacificatore delle discordie de' grandi. I progressi dell'ignoranza avevano accresciuta la sua potenza; egli era diventato quasi un semidio in terra specialmente pei barbari di fresco convertiti, e lontani dalla sua persona; formava centro di tutta la Chiesa, e solo egli poteva far in modo che nazioni lontane, il di cui popolo ne conosceva appena il nome, dessero prova del loro cristianesimo colla carità verso i Romani. La condotta de' pontefici ispirava rispetto, siccome i loro beneficj meritavano la riconoscenza. Forse eran essi superstiziosi, ma questa debolezza si trasforma in virtù in faccia ai popoli ugualmente superstiziosi: di costumi puri e severi, nè il lusso, nè la possanza gli avevano ancora corrotti.

Gregorio III fu il primo che invocò la protezione de' Francesi a favore della Chiesa e della repubblica romana; egli chiese a Carlo Marcello, maestro del palazzo, soccorso contro Luitprando[134]. Quest'esempio fu seguito dagli altri papi qualunque volta i Lombardi minacciavano l'indipendenza di Roma. Oltre le lettere dei papi, ne esiste una dello stesso Apostolo s. Pietro, che papa Stefano II indirizzò a Pipino, Carlo e Carlomanno, ed a tutta l'universalità de' Francesi per riporre la Chiesa di Dio ed il popolo sotto la speciale loro protezione[135].

In compenso di tale protezione i papi accordarono alcune grazie ai re di Francia. Zaccaria approvò la traslazione della corona di Francia da Childerico a Pipino[136], e Stefano II incoronò quest'ultimo a Parigi l'anno 764[137]. In appresso il medesimo papa elevò al rango di patrizj romani Pipino, ed i suoi due figliuoli; ed a nome della Chiesa, de' duchi, conti, tribuni, popolo ed armata di Roma, gli scrisse per impegnarlo a difendere contro Astolfo una città di cui erano creati magistrati[138].

I papi avevano lo stesso diritto di nominare un patrizio romano, come di trasferire da una ad un'altra famiglia la corona di Francia. Il patrizio era un ufficiale nominato dagl'imperatori greci: uno risiedeva in Sicilia, ed un altro d'ordinario in Roma, ov'erano capi del governo. Ma forse Pipino aveva un miglior titolo alla dignità reale nell'elezione del popolo francese, che al patriziato in quella del popolo romano; ma nella pericolosa situazione in cui trovavasi il popolo di Roma, poteva il papa scusarsi se a qualunque prezzo gli assicurava un protettore. Intanto queste trattative corruppero i pontefici, i quali dando ai Carlovingi diritti ch'essi medesimi non avevano, ricevevano in compenso terre e ricchezze delle quali i Carlovingi non avevano diritto di disporre. Pipino costrinse Astolfo, re de' Lombardi, a restituire l'Esarcato e la Pentapoli non già all'imperatore di Costantinopoli cui appartenevano, e che faceva riclamare dai suoi ministri, ma bensì a s. Pietro, alla Chiesa romana rappresentata dai suoi pontefici, ed alla repubblica. Pare che lo storico di Stefano II adoperasse quest'ultimo vocabolo per indicare il governo di Roma e delle province, che dopo essersi staccate dall'impero greco rimanevano indipendenti; imperciocchè lo storico termina l'elogio di questo pontefice con tali parole: «il quale coll'ajuto di Dio dilatò le frontiere della repubblica e del popolo sovrano, che formava la greggia confidata alle sue cure[139]

L'atto della donazione di Pipino non si è conservato, di maniera che non conosciamo con esattezza le condizioni di così fatta concessione, in forza della quale la Chiesa acquistò per la prima volta una dominazione temporale[140][141]. Ma la storia ne istruisce che tale donazione non ebbe mai effetto. Astolfo permise bensì che l'atto di donazione, e le chiavi delle città donate si deponessero sull'altare di s. Pietro; e varj ostaggi giunsero pure a Roma coll'inviato di Pipino; ma la Chiesa non ebbe il godimento della sovranità di queste province, ed abbiamo molte lettere dei papi nelle quali si lagnano che nè Astolfo, nè Desiderio suo successore non avevano ancora dato alla Chiesa ed alla repubblica romana il possesso delle città promesse[142], o pure che avendone accordata taluna, se l'erano all'istante ripresa. E quando in appresso, dietro le istanze della Chiesa, Desiderio lasciò queste città in libertà, invece d'essere governate dal papa, passarono sotto l'arcivescovo di Ravenna come rappresentante degli esarchi[143]: e finalmente allorchè, chiamato da Adriano, Carlomagno conquistò l'anno 774 il regno dei Lombardi, confermò la carta di donazione di suo padre senza però darle esecuzione; onde Adriano l'andava avvisando di dar esecuzione a quanto, per la salvezza dell'anima sua, aveva promesso di fare in favore della Chiesa e della repubblica de' Romani[144].

Ma se le donazioni delle sovranità fatte da Pipino, Carlomagno e Luigi il buono, si ridussero a semplici atti d'ostentazione, che que' principi non ebbero mai intenzione d'eseguire, essi però arricchirono la Chiesa con più utili beneficenze, dandole l'utile dominio di una parte dell'Esarcato e della Pentapoli, cioè i frutti e le rendite delle terre, mentre la sovranità delle stesse province era riservata alla repubblica romana, al patrizio, e per ultimo all'imperator d'Occidente. Altronde all'utile dominio veniva pure annessa l'ubbidienza di moltissimi vassalli, talchè il papa, che già da gran tempo veniva risguardato come il primo cittadino di Roma, diventò pure il primo e più potente barone[145].

Le dignità che danno potere e ricchezze diventano l'oggetto dei desiderj degli ambiziosi, e ben tosto loro preda. Dopo le prime donazioni di Pipino si videro aspirare alla cattedra dì s. Pietro persone affatto diverse da quegli austeri sacerdoti che l'avevano fino a quei tempi occupata, e gli annali della Chiesa incominciarono a macchiarsi dei delitti del capo dei Cristiani. Due fratelli Stefano II, e Paolo I, ch'ebbero successivamente il papato dal 762 al 766, vengono accusati dagli storici della chiesa di Ravenna d'ingiustizia, di rapina, di crudeltà[146]. Dopo la morte di Paolo, un antipapa s'impadronì colle armi della sede pontificia; il legittimo papa Stefano III ebbe parte all'assassinio di alcuni de' principali dignitarj della sua chiesa[147]; e tutto il clero adottò le abitudini ed i feroci costumi dei gentiluomini del suo secolo.

Ne' tempi della barbarie, mentre l'ignoranza rende la fede più costante, le passioni indomabili e feroci distruggono affatto la morale. Le stragi, i tradimenti, gli spergiuri sono avvenimenti comuni nella storia di quegli uomini cui il nono ed il decimo secolo accordarono il nome di Grande. Ma dopo così enormi delitti, una magnifica penitenza attestava la religione ed il pentimento del colpevole. L'ambizione del clero mostrò ai grandi delinquenti una ignota strada per espiare i loro delitti, e far dimenticare i loro furori; e questa fu quella delle donazioni alla chiesa per la salvezza dell'anima del donatore[148]. Pipino e Carlo Magno avevano con somiglianti liberalità gittati i fondamenti della potenza papale: comecchè essi non avessero soltanto arricchita la santa sede, ma ancora l'arcivescovo di Ravenna in maniera di poter gareggiare col papa, e poco meno anche l'arcivescovo di Milano, e molti monasteri. Tutti i loro successori ne imitarono l'esempio, ed i principali baroni, seguendo la pratica de' loro sovrani, fecero pagare ai loro eredi i misfatti che avevano commessi: per lo che avanti il dodicesimo secolo abbiamo più atti di donazioni fatte alle chiese, che di contratti di qualunque altro genere presi cumulativamente. Di modo che quando Ottone il grande entrò in Italia, le più ricche città, le province più popolate venivano possedute dal clero; mentre i grandi feudi laici erano spenti o divisi. Di quest'epoca i principali e più potenti sovrani ecclesiastici erano il patriarca di Aquilea, gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, i vescovi di Piacenza, di Lodi, d'Asti, di Bergamo, di Novara, di Torino, l'abbate di monte Cassino, il più potente signore del ducato di Benevento, che fino all'età nostra conservò il titolo di primo barone del regno di Napoli, e l'abbate di Farfa nella Sabina[149]. Inoltre la maggior parte de' vescovi avevano acquistato, in forza di un atto di qualche re o gran signore, la giurisdizione della città in cui risiedevano, e non eravi un solo vescovo, un solo monastero dell'un sesso o dell'altro, che in alcun territorio o villaggio non possedesse diritti feudali.

Alla podestà temporale erano uniti quei doveri che allontanarono affatto gli ecclesiastici dalle primitive loro funzioni. Quando un vescovo, un abbate era conte d'una città, sotto questo titolo riuniva la prerogativa di giudice e di generale; essendo incaricato del governo civile del contado in tempo di pace, e della sua difesa in tempo di guerra. Come castellani, gli ecclesiastici credevansi permesso di sostenere un assedio assai prima che ardissero di porsi in campo alla testa di un'armata. Ma nel secolo nono avevano già appreso a marciare contro il nemico. L'imperatore Luigi II lo ordinò loro nel decreto che pubblicò per l'impresa di Benevento l'anno 866[150]: e lo stesso papa Giovanni X guidò l'anno 915 le truppe della lega ch'egli aveva riunite contro i Saraceni.

I tre Carlovingi, spinti da quello spirito religioso che gli aveva indotti ad arricchire il clero, credettero di santificare l'amministrazione de' loro stati, fidandola agli ecclesiastici. Il cancelliere, il principale ufficiale della corona, era quasi sempre un prelato[151], ed i vescovi e gli abbati intervenivano al consiglio del re ed agli stati della nazione. Durante il regno di Pipino, e parte di quello di Lotario, Adelardo abbate di Corbia ed il monaco Wala suo fratello furono i veri sovrani d'Italia. Dopo costoro altri ecclesiastici occuparono in consiglio il loro luogo; e fu osservato, che non rifiutaronsi di dirigere le guerre snaturate che i figli di Luigi il buono fecero al padre. Il favore del sovrano, il potere, le ricchezze corruppero in ogni tempo coloro che le possedevano, e non era da supporsi che il clero sarebbesi conservato incorrotto, quando si fosse riflettuto che a quell'epoca lo spirito della religione cristiana era guasto affatto dalla più grossolana superstizione; che i di lei ministri, scelti tra i secolari, dovevano essere partecipi dei vizj del secolo; che i grandi signori erano solleciti di collocare tra il clero alcuno de' loro figli, perchè la fortuna farebbe che in tale stato servisse loro d'appoggio; che invece di far ammaestrare nelle lettere ecclesiastiche questi nuovi canditati della Chiesa, venivano, come giovani cavalieri, addestrati al maneggio delle armi e dei cavalli; che l'avidità con cui si spogliavano le chiese dei loro beni, uguagliava la profusione con cui erano state arricchite; che il re Ugo non era stato il primo a provvedere a forza di beneficj ecclesiastici i suoi sicarj ed i suoi bastardi; e finalmente molti sovrani deposti, molti grandi signori ch'erano incorsi nella disgrazia de' loro superiori, venivano forzati a ricevere la tonsura; onde il corpo del clero composto di così fatta gente non poteva possedere le virtù proprie del suo stato. A torto si è voluto opporre alla santità della religione la disordinata vita del clero del nono e decimo secolo, quando appena sarebbe bastato un miracolo per santificare gl'impuri elementi di cui era di que' tempi composto il clero.

Abbiamo un'assai circostanziata storia de' papi contemporanei degl'imperatori Carlovingi. Tale storia scritta da un bibliotecario della corte romana, è generalmente parziale per i papi[152]. Lo scandalo cominciò soltanto in sul declinare del secolo nono. Ma prima di osservare la Chiesa lordata dalla dissolutezza di alcuni giovinastri, vuole la giustizia che ci fermiamo all'epoca più onorevole del pontificato di Leone IV.

Poco dopo la morte di Carlo Magno non tardarono i Saraceni ad accorgersi della debolezza della sua immensa monarchia, e cominciarono a saccheggiare le province marittime dell'Italia. Papa Gregorio IV era stato costretto l'anno 833 a fortificare contro di loro la città d'Ostia[153]; che pure non impedì loro di rovinare le città littorali, per lo che gli abitanti di Civitavecchia dovettero salvarsi nelle foreste; e l'audacia de' Saraceni crebbe a segno, che nell'847 osarono di tentar l'assedio della stessa Roma, saccheggiando le basiliche di s. Pietro in Vaticano e di s. Paolo, poste fuori delle mura. Nella stessa epoca morì papa Sergio II, onde i Romani, per non trovarsi senza capo, in così difficili circostanze, elessero papa Leone IV prete romano, uomo di somma riputazione, e lo consacrarono senza aspettare l'approvazione dell'imperatore[154]. Quantunque i Saraceni si fossero già allontanati da Roma, Leone, volendo assicurarsi da ogni insulto, fece rifabbricare le muraglie della città, ed accrescerne le fortificazioni. Il monte Vaticano, che fin allora era fuori del circondario di Roma, fu cinto di mura, e dal suo nome chiamato la città Leonina[155]. Rifece Civitavecchia rovinata dai Saraceni[156], e coll'ajuto delle repubbliche di Napoli, di Amalfi e di Gaeta, che sotto la protezione greca eransi rese libere, attaccò una nuova flotta saracena, obbligandola a ritirarsi con grave perdita. A queste gloriose azioni i suoi biografi aggiungono il racconto di alcuni miracoli, uno de' quali rese la memoria di Leone IV più illustre, che la fondazione della città cui diede il proprio nome. Il borgo dei Sassoni che prolungavasi tra la città Leonina ed il quartiere di Transtevere fu in parte consumato da un terribile incendio arrestato dalle preghiere di Leone[157]: argomento della egregia opera di Raffaello conosciuta sotto il nome dell'incendio di Borgo, che vedesi nella quarta stanza del Vaticano.

Dalla deposizione dell'ultimo monarca Carlovingio fino al regno d'Ottone il grande, l'autorità dei principi che portarono momentaneamente il titolo d'imperatore, fu sempre vacillante e controversa. Frattanto Roma non facendo parte del regno d'Italia, ed essendo dipendente soltanto dall'impero, allorchè vacava l'impero ricuperava la sua indipendenza, o a dir meglio ricadeva sotto il giogo dell'oligarchia inquieta de' suoi nobili. Tra costoro quello che poteva occupare il trono pontificio, otteneva col favore delle ricchezze della Chiesa una grandissima preponderanza su tutti gli altri, ed era risguardato come capo della repubblica. Vero è che l'elezione doveva farsi coi suffragi riuniti del clero e del popolo[158]; ma il clero era quasi tutto militare, e si presumeva che la voce dei grandi dovesse rappresentare quella della nazione; era perciò a supporsi che i voti della nobiltà si riunirebbero a favore del più valoroso del loro corpo, del più accorto, e fors'anco del più elegante dei giovani ambiziosi che aspiravano alla tiara, piuttosto che a qualche prete commendevole per la sua santità, ma incapace d'intrighi[159]. In mezzo all'universale degradamento le dame romane non avevano perduto l'avvenenza ed i talenti delle antiche matrone, ed erano perciò assai potenti. Anzi non ebbero mai le donne tanto credito presso alcun governo, quanto n'ebbero le romane nel decimo secolo. Sarebbesi detto che la bellezza erasi usurpati tutti i diritti dell'impero.

Due celebri patrizie, Teodora e sua figliuola Marozia, furono sessant'anni assolute arbitre di quella tiara, che poc'anni dopo, tre Enrichi alla testa delle armate tedesche non hanno potuto togliere ai loro nemici.

Teodora, nata da illustre famiglia, possedeva immense ricchezze e varie rocche: gli archi trionfali ed i solidissimi sepolcri degli antichi Romani ridotti in fortezze dai gentiluomini erano custoditi dai suoi soldati; ed in oltre disponeva a sua voglia degli amanti ch'ella aveva non pochi tra i nobili romani. Il lodevol uso ch'essa fece di questa specie d'impero, fu quello di far cessare la scandalosa guerra che tenevano viva in Roma due opposte fazioni. Erasi veduto Stefano VI, succeduto l'anno 896 a papa Formoso, far diseppellire il cadavere del suo predecessore, sottomettere innanzi ad un concilio il morto corpo ad un ridicolo interrogatorio, condannarlo, farlo mutilare, indi gettarlo nel Tevere[160]. Dopo tal epoca i susseguenti pontefici ora dell'uno ora dell'altro partito avevano a vicenda annullati gli atti de' loro predecessori. La stessa Teodora era della fazione nemica di Formoso, e sua figliuola Marozia, l'amante di Sergio III, uno de' di lui persecutori. Ma poichè Teodora ebbe cogli artificj e colla galanteria sottomessi i grandi ed il clero, i costumi della corte di Roma diventarono se non più puri, almeno più dolci.

Teodora innamoratasi d'un giovane ecclesiastico, chiamato Giovanni, gli ottenne da prima il vescovado di Bologna, poi l'arcivescovado di Ravenna; e finalmente disperata per averlo, elevandolo a tale dignità, allontanato da se, s'adoperò in modo presso i gentiluomini ed il clero, che il fortunato amico fu col nome di Giovanni X innalzato sul trono pontificio[161]. L'amore o la riconoscenza di questo papa verso la sua benefattrice scandalizzarono il cardinal Baronio autore degli annali della Chiesa; pure Giovanni X non viene accusato nè di veleni, nè d'assassinj, nè di tradimenti; delitti enormi, che nella successiva età macchiarono più volte il trono papale. Giovanni X amministrò gli affari della chiesa con fermezza e con giustizia; seppe, per il comune vantaggio de' suoi concittadini, pacificare i principi rivali che dividevansi l'Italia, e gli stessi imperatori d'Oriente e d'Occidente; egli stesso condusse le armate contro i Saraceni accampati al Garigliano, ed in questa impresa acquistò la gloria di valoroso guerriero, professione più confacente al suo carattere, che quella di padre dei fedeli[162].

Quando Teodora strinse domestichezza con Giovanni, non era omai più nel fiore dell'età. Prima d'esserne amante, aveva maritata sua figliuola Marozia con Alberico marchese di Camerino, che dava alla famiglia della sua sposa un nuovo lustro per la proprietà d'un gran feudo vicino a Roma.

Intanto la storia non parla più di Teodora; per la di cui morte Giovanni X aveva forse ottenuta l'indipendenza del suo dominio. Alberico primo sposo di Marozia, che uno storico quasi contemporaneo dice console de' Romani[163], fu ucciso in una sedizione, e la vedova Marozia del 925 esercitava sopra i baroni di Roma quell'impero, ch'ebbe prima di lei Teodora. Solamente il papa, dopo essere stato l'amante della madre, non poteva sentir amore per la figliuola, la quale dal canto suo aveva estrema avversione per Giovanni X. Essa s'era impadronita per sorpresa della mole Adriana, oggi detta castel s. Angelo, torre massiccia, la più solida di tutti i monumenti dell'antica Roma, ch'era stata molto prima trasformata in fortezza. Posta sull'altra riva del Tevere all'estremità del ponte Elio, domina il passaggio tra il Vaticano ed il campo di Marte, il corso superiore del fiume, gl'ingressi in città dalla banda della Toscana, e di tutta l'Italia settentrionale: tal che questo castello ne' tempi di mezzo, siccome ne' tempi presenti, viene risguardato come la chiave di Roma. Quando si fu ben fortificata nella mole Adriana, Marozia offrì la sua mano a Guido duca di Toscana; di modo che colle loro forze riunite i due sposi, trovandosi quasi sovrani di Roma, fecero ammazzare un fratello di Giovanni X, ch'era nella sua più intima confidenza, rinchiusero lo stesso papa in una prigione, in cui cessò ben tosto di vivere, e fecero successivamente eleggere a quell'eminente dignità due loro creature[164].

Del 931 Marozia, rimasta vedova la seconda volta, fu non pertanto in Roma abbastanza potente per riporre sulla santa sede Giovanni XI suo secondo figliuolo, nella fresca età di ventun'anni, cui la maldicenza diceva figliuolo di papa Sergio. Questo papa fu assai maltrattato dall'annalista ecclesiastico[165], benchè in un regno di cinque anni non potesse rendersi colpevole di verun delitto o mancanza; perchè ridotto alle sole funzioni ecclesiastiche, non esercitò un solo istante il potere allora annesso alla sua sede.

La stessa Marozia erasene resa padrona; onde Ugo re di Provenza, che di que' tempi bramava di consolidare il suo nuovo dominio di Lombardia, non isdegnò di ricercare l'alleanza d'una femmina che doveva soltanto alla galanteria la sua potenza. Di fatti Marozia sposò Ugo in terze nozze, quantunque fratello uterino di Guido suo secondo marito: ma questa unione non corrispose alle speranze concepite dagli ambiziosi sposi. Pochi giorni dopo il matrimonio, levatosi Ugo da tavola, osò dare uno schiaffo ad un figlio di Marozia del primo letto, il quale chiamavasi Alberico come il padre, perchè, presentandogli la brocca, gli aveva con mal garbo versata l'acqua sulle mani. Sdegnato Alberico per tanta ingiuria, chiamò i suoi concittadini a prendere le armi, ed a scuotere il giogo d'un barbaro. Ugo, costretto di salvarsi colla fuga, non potè mai più rientrare in Roma, e Marozia terminò i suoi giorni in un monastero[166].

E per tal modo i Romani, scosso ad un tempo il giogo dei papi, delle femmine e dei re, lusingaronsi d'aver ricuperata la libertà dell'antica Roma; e richiamarono il nome di repubblica, poichè videro un console alla loro testa, prendendo Alberico indifferentemente il titolo di console o di patrizio. Alberico intanto era un padrone che, avendo saputo attaccare i Romani alla propria causa, li teneva in armi per l'indipendenza della patria; e forse, nello stato in cui li trovò, la sua amministrazione era la più confacente alla loro gloria. Conservò ventidue anni il favore che si era acquistato del popolo romano, e morendo lasciò quasi ereditario il principato di Roma a suo figlio Ottavio in età di soli diciassett'anni. Nominò fin che visse successivamente diversi papi, che tenne sempre sotto l'assoluta sua dipendenza; e quando morì l'ultimo di questi, che gli era sopravvissuto due anni, Ottaviano, ch'era prete, suppose di assicurare la propria autorità aggiungendovi la potenza spirituale, e si fece consacrare pontefice col nome di Giovanni XII: e dalle sue mani Ottone il grande ricevette la corona imperiale.

Sembrerà cosa strana, senza dubbio, che nel decimo secolo, secolo dell'ignoranza e della superstizione, il poter dei papi rovinasse così subitamente; e non si vorrà credere che l'epoca, e la cagione principale dell'abbassamento del potere sacerdotale fosse appunto la donazione fatta da Carlo Magno alla santa sede. I papi, diventati in forza di tale donazione sovrani, o per lo meno grandi feudatarj, dovevano soggiacere alle stesse cagioni di deperimento, che sordamente attentano alla potenza di tutti i monarchi e grandi signori. Non erasi ancora ritrovata l'arte non ignota agli antichi d'esercitare un assoluto potere sopra città lontane, di modo che tutte le città rendevansi indipendenti. Scorgesi qualche traccia della protezione che i papi accordavano talvolta alle città della Pentapoli e dell'Emilia, di cui avevano ottenuta la restituzione alla repubblica; ma non trovasi verun documento che dimostri che il papa le governasse. Convien dunque dire che non le città, ma le possessioni territoriali, i feudi ed i dominj formavano le ricchezze del papa, ed il pregio delle donazioni de' Carlovingi.

Frattanto i papi per trarre profitto da questi possessi territoriali, gli avevano infeudati sotto un canone militare. Una nobiltà armata rimpiazzò gli antichi vassalli plebei, che coltivavano i medesimi dominj, ma che non avrebbero saputo difenderli: nè si previde allora ciò che il governo de' preti doveva temere dallo spirito altiero, indipendente, bellicoso dei gentiluomini.

In sul finire del nono secolo, i papi erano al colmo di quella specie di potere ch'essi eransi acquistato colle loro proprietà; la nuova milizia che avevano di fresco formata ne' loro dominj, aveva ancora presenti i ricevuti beneficj, e sforzavasi d'accrescere il credito de' suoi benefattori. Al suo valore, all'illimitato suo attaccamento, dovettero i papi la preponderanza ottenuta nella repubblica romana nell'epoca appunto in cui erano i più potenti baroni del ducato. Ma le rivalità di Sergio e di Formoso divisero questa nobiltà in due fazioni; i gentiluomini rimasero attaccati a quella delle due emule case da cui avevano ricevuti i beneficj; e quando la fazione di Sergio trionfò, la dignità pontificia fu resa quasi ereditaria nella famiglia di Teodora, di Marozia, di Alberico; ed i cavalieri consacrarono la loro riconoscenza a questa famiglia che gli aveva beneficati, tosto che si credettero sciolti da ogni legame verso gli sconosciuti, che potevano in appresso occupare la cattedra di S. Pietro.

Intanto la città di Roma, poi ch'ebbe scosso il giogo dell'impero d'Oriente, conservò sempre le forme, se non lo spirito d'una repubblica. Il papa non aveva entro Roma altro potere che quello che nasceva dal rispetto religioso dovuto al suo carattere, e dal timore delle censure della Chiesa. Sotto l'amministrazione d'Alberico i diritti del popolo venivano rispettati, e mantenute le assemblee periodiche. Vero è che l'uomo, che assicurava alla nazione l'indipendenza, era troppo potente per lasciarla libera; ma quand'egli morì, suo figlio Ottaviano ereditò bensì le sue possessioni ed i suoi diritti, ma non l'illimitato potere, che la sola riconoscenza accordava a suo padre.

Nello stesso tempo che il popolo innalzò Ottaviano, ossia Giovanni XII, alla dignità papale, affidò le incumbenze amministrative ad un prefetto della città, cui diede per colleghi e consiglieri i consoli annali, incaricando della tutela dei propri interessi dodici tribuni o decurioni, i quali rappresentavano i rispettivi quartieri di Roma[167]. Allora si operò sul carattere nazionale una più importante rivoluzione, che quella che aveva variate le magistrature. Alla morte del gran console si vide rinascere lo spirito pubblico, ed il popolo manifestò il desiderio di circoscrivere l'autorità arbitraria e di metter fine alle sue usurpazioni. Questo spirito impegnò i Romani in un'ardita, ma disuguale lotta cogl'imperatori ed i papi; lotta che si protrasse quasi per tutto lo spazio che abbraccia la presente storia.

Ottone il grande depose successivamente Giovanni XII e Benedetto V, onde il popolo romano adontato da tali atti di potere arbitrario, si dichiarò due volte a favore dei papi, e sostenne colle armi, benchè con infelice successo, la legittimità del loro titolo ed il suo diritto d'elezione. Giovanni XII, dopo aver chiamato Ottone in Italia, non tardò ad accorgersi d'essersi preparato un giogo sotto cui avrebbe dovuto piegare il capo. Si collegò con Berengario contro l'imperatore, ma troppo tardi: dopo essersi alcun tempo difeso nel forte S. Leo, il monarca italiano fu fatto prigioniere. Ottone s'avanzò contro Roma, ed il papa fuggì a Capoa con Adalberto figliuolo di Berengario[168]. Allora Ottone adunò un concilio in Roma per giudicare Giovanni XII, o piuttosto, diceva egli, per correggerlo de' traviamenti giovanili. Ma questo concilio rese affatto pubblica la spaventosa corruttela della santa sede. Pietro cardinale prete si alzò, ed innanzi a tutta l'assemblea passò in revista i vizj ed i delitti dei papi[169]; e l'imperatore senza voler ammettere o rigettare quest'accusa, scrisse la seguente lettera a Giovanni XII per invitarlo a giustificarsi personalmente.

«Al sovrano pontefice e papa universale il signor Giovanni, Ottone, per la clemenza di Dio, imperatore augusto, e gli arcivescovi della Liguria, della Toscana, della Sassonia e della Francia, in nome del Signore, salute.

«Arrivati a Roma per il servigio di Dio, quando abbiamo interrogato i vostri figli, i Romani, i cardinali, i preti, i diaconi e tutto il popolo, intorno ai motivi della vostra lontananza, ed a quelli che v'impedivano di venire a trovar noi difensori della vostra chiesa, e di voi medesimo, ci raccontarono tali cose di voi, e tanto vergognose, che se fossero dette degl'istrioni, ancora li farebbero arrossire. E perchè tutto non rimanga ignoto alla grandezza vostra, ne riferiremo brevemente alcune, perchè un giorno non basterebbe a farne di tutte circostanziato racconto. Sappiate adunque, che voi siete accusato, non già da pochi, ma da tutti, ecclesiastici e secolari, d'esservi reso colpevole d'omicidio, di spergiuro, di sacrilegio e d'incesto con due vostre prossime parenti. Aggiungono ciò che fa orrore ad udirsi, che a tavola beveste alla salute del diavolo, che invocaste, giocando, Giove, Venere ed altri demonj. Noi supplichiamo dunque caldamente vostra paternità di venire, e non frapporre ritardo, a giustificarvi da queste imputazioni. E se mai temeste la violenza della moltitudine temeraria, noi ci obblighiamo con giuramento, che niente sarà fatto contro i regolamenti dei sacri canoni. Dell'8 degli Idi di novembre 963»[170].

Giovanni nella sua risposta rifiutò di riconoscere l'autorità del concilio, e minacciò di scomunicare coloro che osassero procedere all'elezione di un nuovo pontefice. Avendolo inutilmente citato la seconda volta, il concilio lo dichiarò decaduto dalla sua dignità, e nominò suo successore Leone che fu consacrato sotto nome di Leone VIII.

Intanto i gentiluomini ben affetti alla famiglia d'Alberico, i cittadini che volevano salvo il diritto del popolo romano di nominare il suo vescovo, ed i partigiani dell'indipendenza della Chiesa, si riunirono per dichiarare illegittima la deposizione di Giovanni, e l'elezione di Leone. L'imperatore prima di partire, fu costretto di reprimere una sommossa manifestatasi contro il suo papa; e quando fu lontano, Giovanni XII rientrò in Roma, scacciò Leone, e fece crudelmente mutilare due cardinali suoi nemici, e si preparò a difendersi. Un impensato accidente pose fine a tutti i suoi progetti. Sorpreso di notte con una donna maritata, morì pochi giorni dopo, percosso dal demonio, dice il vescovo di Cremona, o più tosto dal marito geloso[171][172].

Non lasciaronsi i Romani sconcertare dalla morte di Giovanni XII, e gli sostituirono all'istante un cardinale diacono, che prese il nome di Benedetto V; e resistettero alcun tempo coraggiosamente all'armata di Ottone, che intraprese l'assedio di Roma: ma in fine dovettero arrendersi alla fame più che ai replicati attacchi de' soldati nemici. Ottone ritornò in Roma seco conducendo il suo antipapa Leone VIII. Papa Benedetto V, che la Chiesa ritiene come solo legittimo[173], comparve pontificalmente vestito avanti al suo competitore e ad una numerosa adunanza di vescovi nella chiesa di s. Giovanni Laterano; ove confessò genuflesso e piangente d'aver usurpata la cattedra di s. Pietro; e spogliatosi del suo manto consegnò il suo pastorale all'antipapa Leone, il quale lo spezzò in presenza dell'assemblea. Dopo ciò il legittimo pontefice fu mandato in esiglio in fondo della Germania[174].

Dopo la morte di Benedetto e di Leone, quando un nuovo papa, Giovanni XIII vescovo di Narni, fu designato dall'imperatore, e che le due podestà trovaronsi unite contro la libertà di Roma, non però i Romani si ritrassero dalle difese. Ottone trovavasi in Germania; ed i magistrati di Roma essendo scontenti del papa, gli ordinarono d'abbandonare la città. Giovanni dovette ubbidire, e rimanere dieci mesi in esiglio in un castello della Campania.

Di là il papa supplicava l'imperatore di accorrere in suo soccorso, il quale di fatti scendeva in Italia colla sua armata, e prima ancora del suo arrivo Giovanni era richiamato in Roma. La sommissione degli abitanti non bastò ad addolcire l'anima vendicativa del papa, il quale, poichè le truppe dell'imperatore occuparono la città, fece levare dal sepolcro e spargere al vento le ceneri di Roffreddo prefetto di Roma, che gli aveva intimato l'esiglio. Il nuovo prefetto colla testa inviluppata in un otre, e condotto per la città sopra un asino, fu esposto allo scherno del pubblico: i consoli furono esiliati in fondo alla Germania, ed i dodici tribuni del popolo perdettero la vita sul palco[175]. La gloria di Ottone non fu meno macchiata di quella del papa da così odiose esecuzioni. «Noi volevamo accoglierti con bontà e magnificenza, disse il greco imperatore Niceforo Foca allo storico Luitprando ambasciatore di Ottone, ma l'empietà del tuo padrone non lo ha permesso; egli occupò Roma come nemico, e fece perire molti Romani colla spada, altri sotto la scure del carnefice, a non pochi fece cavare gli occhi, ed alcuni cacciò in esiglio»[176].

In verun'altra epoca la storia dei pontefici fu forse macchiata da più delitti, che sotto il regno dei tre Ottoni di Sassonia; ma, fortunatamente per la memoria dei papi, le cronache che parlano di tali delitti, non hanno circostanziato il racconto in modo da imprimersi tenacemente nella nostra memoria.

Poco avanti la morte d'Ottone I, Benedetto VI, nato romano, succedette a Giovanni XIII. Bonifacio Francone, figliuolo di Ferruccio, e cardinale diacono, arrestò ben tosto il nuovo papa, e chiusolo in una prigione di Castel sant'Angelo, lo fece strozzare, o com'altri vogliono, morir di fame. Asceso egli stesso sulla cattedra pontificia, spogliò in quaranta giorni le chiese e le basiliche dei loro tesori, e di quanto avevano di prezioso; e perchè i Romani, mossi da suoi delitti, avevano prese le armi per iscacciarlo da Roma, fuggì a (984) Costantinopoli colla sua preda, di dove tornò a Roma dopo dieci anni per brigar di nuovo la tiara[177].

La fazione imperiale fece consacrare l'anno 975 Benedetto VII, nipote del gran console Alberico, la cui famiglia possedeva il contado di Tusculano[178]. I conti di Tusculo s'obbligarono di sostenere in Roma il partito imperiale, e coll'appoggio della casa di Sassonia, dominarono le elezioni, onde poi i feudatarj, l'imperatore ed il papa uniti, fecero causa comune contro la libertà.

Del 983 morì Benedetto VII, cui i Romani sostituirono Giovanni XIV vescovo di Pavia; ma otto mesi dopo, Bonifacio VII, tornato da Costantinopoli a Roma, s'impadronì colle armi del suo rivale, e rinchiusolo in una prigione di Castel sant'Angelo, ve lo lasciò perir di fame, mentr'egli stesso occupava per la seconda volta la santa sede, e governava la chiesa undici mesi.

Tanti delitti stancarono la pazienza de' Romani, ispirando loro così fatta avversione e disprezzo per il potere sacerdotale, che molti secoli e memorie poterono a stento renderlo ancora rispettabile. Mentre i papi erano risguardati quai feroci ad un tempo, e pusillanimi tiranni, e troppo indegno il loro giogo, un uomo ancora caldo la mente dell'antica gloria di Roma, e che ardentemente bramava di rinnovare i bei giorni della repubblica, Crescenzio, cominciava a farsi conoscere, ed acquistava il favore del popolo coll'eloquenza e col coraggio. Rianimò il nobile orgoglio de' Romani, che sotto di lui si credettero ancora degni discendenti dei padroni del mondo; li mosse a scuotere l'autorità de' papi appoggiata soltanto alla confidenza dei popoli nella santità d'un ministero apostolico, e che perdeva ogni titolo all'ubbidienza, da che i pontefici avevano rinunciato alla virtù. Crescenzio incominciò ad esercitare in Roma qualche potere col titolo di console l'anno 980, press'a poco all'epoca in cui Ottone II entrò per la prima volta in Italia: ma quest'imperatore, occupato dalla guerra che faceva ai Greci nel ducato di Benevento, non pensò a cambiare l'amministrazione di Roma. Se Crescenzio non potè prevenire i delitti di Bonifacio VII, è però probabile che prendesse parte al suo castigo[179]. E perchè Crescenzio procurava di allontanare interamente i papi da quel governo di cui avevano sì lungo tempo abusato, gli storici pontificj si lagnano delle sue persecuzioni[180]. Anche Giovanni XV, eletto l'anno 985, e vissuto fino al 996, fu dal console esiliato; ma da che riconobbe l'autorità del popolo, fu richiamato a Roma, e visse in buona intelligenza con Crescenzio[181]. Questo papa morì allora quando, stanco di rimanere nei limiti della podestà ecclesiastica, aveva spedito un'ambasceria ad Ottone III, che sortiva allora dalla minorità, per indurlo a passare in Italia.

(996) L'imperatore arrivava a Ravenna quando seppe la morte del papa; e gli destinò successore un signor tedesco, suo parente, chiamato Bruno, il quale sostenuto dai conti di Tusculo e dall'armata imperiale che avanzavasi verso Roma, fu posto sulla cattedra di s. Pietro col nome di Gregorio V.

All'avvicinarsi delle truppe tedesche Crescenzio erasi ritirato nella mole d'Adriano; onde Gregorio che non voleva incominciare il papato con atti di rigore, s'interpose per fare la pace tra l'imperatore ed il console. Ottone partì ben tosto per tornare in Germania, ed il nuovo pontefice, orgoglioso di una dignità più assai rispettata nella sua patria che a Roma, degl'illustri suoi natali e del favore d'Ottone, di cui risguardavasi come il luogotenente, volle farsi superiore alle leggi ed ai privilegi del popolo. Conobbe Crescenzio a' quali pericoli sarebbe esposta la libertà romana se gl'imperatori, non contenti di visitare la città colle armate tedesche, s'avvezzavano a lasciarvi pontefici della propria famiglia, ed interamente attaccati a' loro interessi. Gl'imperatori greci, più per debolezza, che per un sentimento di dovere, avevano maggior rispetto per i privilegi dei popoli. Le repubbliche di Venezia[182], di Napoli, d'Amalfi fiorivano sotto la loro protezione. Questi sovrani nè mai viaggiavano, nè mai cercavano d'innovare l'amministrazione delle province lontane; ed invece di favorire le usurpazioni del sacerdozio, non avrebbero verisimilmente permesso ai papi di arrogarsi maggiori poteri, che non ne accordavano ai patriarchi di Costantinopoli. Perciò credette Crescenzio che, sottomettendo nuovamente Roma all'impero orientale, assicurerebbe alla repubblica i sussidj pecuniarj, e la libererebbe ad un tempo dalla artificiosa ambizione de' papi e dall'alterigia e dalle violenze de' monarchi sassoni. Alcuni ambasciatori greci, incaricati apparentemente di altre incumbenze, furono chiamati a Roma, ove si trattennero fin ch'ebbero con Crescenzio fissate le basi del patto solenne che doveva precedere questa grande riunione.

(997) Era in allora vescovo di Piacenza un Greco, chiamato Filagato, il quale aveva seguito in Occidente l'imperatrice Teofania quand'ella sposò Ottone secondo. Crescenzio mise gli occhi su quest'uomo, siccome il più opportuno a rimpiazzare Gregorio V[183]. Non mancavano ragioni per adonestare la deposizione d'un uomo, la di cui elezione poteva ritenersi forzata; e Crescenzio fece valere questo titolo d'illegittimità; onde cacciato Gregorio, venne innalzato alla sede pontificia il vescovo piacentino, che prese il nome di Giovanni XVI.

Se i progetti di Crescenzio avessero potuto condursi a termine, se Filagato poteva mantenersi sulla sede romana, l'intera sorte dell'Europa e della religione potevano mutarsi. L'Italia poteva assicurarsi l'indipendenza, equilibrando le forze dei due imperi, ed accrescendo le sue relazioni coi Greci essere più presto richiamata all'antica coltura, e forse comunicar loro invece lo spirito di libertà, il coraggio e le virtù che avrebbero impedita la caduta dell'impero d'Oriente. Del resto il potere dei papi non rilevavasi mai più. Gl'Italiani non avevano più per loro l'antica considerazione; i Greci erano gelosi della loro pretensione all'universale supremazia; e le nazioni settentrionali, che ne avevano col loro rispetto stabilita la potenza, sarebbersi alienate da un papa influenzato dai Greci. Ma avanti che le truppe, che dovevano appoggiare questa rivoluzione, arrivassero da Costantinopoli, Ottone III entrò di nuovo in Roma, ed ebbe nelle sue forze Giovanni XVI. Invano san Nilo, abbate d'un monastero vicino a Gaeta, venne in età di novant'anni a gittarsi ai piedi dell'imperatore e di papa Gregorio per implorare la loro misericordia; invano rammentò loro che il vescovo gli aveva levati ambedue al fonte battesimale; invano supplicò d'accordare all'estrema sua vecchiaja lo sventurato suo concittadino: niente potè piegare il feroce animo dell'adirato pontefice. Giovanni XVI barbaramente mutilato, fu dannato a lungo supplicio, il di cui racconto fa fremere la natura[184].

Intanto Crescenzio, coi vecchi amici della libertà, erasi riparato nella mole d'Adriano, che fu poi lungo tempo chiamata la Torre di Crescenzio. Questo solido ammasso di pietre, che sopra un diametro di duecento cinquanta piedi non presenta altro vuoto od apertura, che un'angusta scala, resistette all'attacco degli uomini, come aveva resistito a quelli del tempo. Conoscendo inutile ogni sforzo, l'imperatore finse alla fine di voler entrare in trattative, e s'impegnò colla reale sua parola di rispettare la vita di Crescenzio ed i diritti de' suoi concittadini; ma quando col soccorso della data fede l'ebbe in suo dominio, fece tagliare il capo a lui ed a molti suoi seguaci[185].

Stefania, vedova di Crescenzio, nascondendo il suo profondo dolore, e non lagnandosi degli oltraggi ricevuti, faceva ogni sforzo per avvicinarsi all'imperatore, onde fare una segnalata vendetta del tradito consorte. Poichè una brutale violenza avea, a suo credere, distrutta la gloria e la purità di sua vita, stimò che la bellezza rimastale non doveva omai essere che lo stromento della sua vendetta. Ottone era tornato indisposto da un pellegrinaggio al Monte Gargano, ove l'avevano forse condotto i suoi rimorsi. Stefania trovò modo di fargli parlare della sua abilità nell'arte medica; e sotto i suoi abiti di corrotto potè ancora sedurlo colle sue bellezze; e come sua amante, o come suo medico, essendosi guadagnata la sua confidenza, gli diede un veleno che lo trasse ben tosto a dolorosa morte[186].

Gli storici tedeschi proclivi ad onorare la fresca gioventù d'un principe di ventidue anni, si sforzano d'ingrandire il carattere d'Ottone III[187]. Pure non rammentano veruna grande azione che possa meritar credenza ai loro elogi. Ultimo rampollo della casa di Sassonia morì, senza lasciar figliuoli, a Paterno presso a città Castellana l'anno 1002 detestato dai Romani che cercavano ogni anno di scuotere l'ingiusto giogo che voleva loro imporre.

In principio dell'undecimo secolo, la città di Roma fu nuovamente straziata da una contesa, quasi ignota, tra i partigiani della libertà, dell'imperatore e del papa. Un figliuolo di Crescenzio, nominato Giovanni, aveva dal padre ereditato l'amore del popolo romano, ed il suo attaccamento alla causa della libertà. Verso il 1010, aveva restituita alla repubblica l'antica sua forma, i consoli, il senato composto soltanto di dodici senatori, e le assemblee popolari. Egli stesso generalmente indicato col nome di Patrizio, era l'anima della nascente repubblica; ed un secondo Crescenzio, forse suo fratello, col titolo di prefetto di Roma amministrava la giustizia e presedeva ai tribunali[188]. Il viaggio e l'incoronazione a Roma dell'imperatore Enrico II, l'anno 1013, diminuirono la libertà della città ed accrebbero il potere di Benedetto VIII, che questo religioso sovrano proteggeva con tutto il suo credito. Il carattere de' Romani era a quest'epoca un bizzarro composto di grandezza d'animo e di debolezza, e vedremo l'inconseguenza del loro carattere manifestarsi di tratto in tratto in tutto il corso di questa storia. Un movimento generale verso le grandi cose dava luogo improvvisamente all'avvilimento; e dalla più burrascosa libertà i Romani passavano alla più umile servitù. Sarebbesi detto che le ruine ed i deserti portici della capitale del mondo tenessero i loro abitatori nel sentimento della propria impotenza, ed in mezzo ai monumenti della passata dominazione lo scoraggiamento della presente nullità. Il nome de' Romani ch'essi portavano, rianimava spesso il loro coraggio, come lo rianima ancora in questa età; ma ben tosto la vista di Roma, del foro deserto, dei sette colli restituiti nuovamente al pascolo delle mandre, i templi desolati, i monumenti dell'antica gloria caduti a terra, facevan loro sentire che non erano più i Romani d'altri tempi. Se la chiesa romana, al contrario di questo spirito vacillante, di tali alternative di coraggio e di pusillanimità, fosse allora stata quello che mostrossi in appresso, perseverante nelle sue intraprese, immutabile ne' suoi progetti, ambiziosa per ispirito di corpo, e per sentimento della propria eternità, ella avrebbe facilmente trionfato del partito repubblicano. Fortunatamente per questo le tumultuarie elezioni del popolo davano alla Chiesa per papi soltanto capi di fazione, la di cui ambizione non andava più in là della propria famiglia, i di cui vizj assorbivano tutte le ricchezze, e distruggevano ogni vantaggiosa opinione. A ciò s'aggiungevano i frequenti scismi che indebolivano ancora più la santa sede. Quando Enrico III venne la prima volta a Roma per ricevere la corona imperiale, vi trovò tre papi che si disputavano la tiara; ed il primo atto d'autorità che dovette fare in Roma, fu quello di ristabilire l'unità della Chiesa.

L'imperatore Corrado il Salico era morto in Utrech il 4 giugno del 1039. Aveva avuto da Gisla sua sposa un figlio, Enrico III detto il nero, ch'egli aveva in sua vita già fatto incoronare re de' Romani[189]. Enrico fu riconosciuto ancora dagli Italiani lo stesso anno, o il susseguente al più tardi. Eriberto, arcivescovo di Milano, passò in Germania per ultimare con lui la guerra tra la sua metropoli e Corrado. Ma, a dispetto di tale pacificazione, Enrico III ritenuto in Germania da una pericolosa guerra ch'ebbe col re di Boemia[190], tardò alcuni anni a venire a prendere possesso delle due corone di Lombardia e dell'impero. La sua assenza diede luogo in Milano a nuove turbolenze, di cui parleremo altrove; e lasciò altresì manifestarsi in Roma il più scandaloso scisma che fosse mai stato.

La famiglia de' conti di Tuscolo, che discendeva da Marozia e da Alberico, avea dato alla Chiesa tre papi l'uno dopo l'altro, Benedetto VIII l'anno 1012, Giovanni XIX, fratello di Benedetto, l'anno 1024, e Benedetto IX, nipote dei precedenti, l'anno 1033; gli ultimi due si erano fatti eleggere acquistando i suffragi del popolo con manifesta simonìa, ed avevano renduta la dignità papale quasi ereditaria nella loro famiglia[191]. Uno storico assicurava che Benedetto IX non aveva più di dieci anni quando, profondendo l'oro, gli si acquistarono i voti del popolo[192]. Questa estrema giovinezza non è altrimenti avverata; ma ciò che non è controverso, è la scandalosa condotta di questo pontefice nel corso di dodici anni, i furti, i massacri, le impudicizie che lordarono la santa sede. «Inorridisco nel ripeterlo (scriveva papa Vittore III, allora suo soggetto, e quarant'anni più tardi suo successore), quale fu la vita di Benedetto poichè fu consacrato, quanto vergognosa, corrotta, esecrabile; perciò non incomincerò il mio racconto che dai tempi in cui il Signore si rivolse di nuovo alla sua chiesa. Poichè Benedetto IX afflisse molto tempo colle sue rapine, assassinj, abbominazioni il popolo romano, più non potendo i cittadini soffrire tanta scelleratezza, riunironsi scacciandolo dalla città e dalla sede pontificia. Innalzarono in sua vece, ma a prezzo d'oro ed a dispetto de' sacri canoni, Giovanni, vescovo di Sabina, che, preso il nome di Silvestro III, occupò tre soli mesi la sede della chiesa romana. Benedetto nato dai consoli di Roma, e che veniva sostenuto da tutte le loro forze, travagliava la città co' suoi soldati; ed alla fine obbligò il vescovo di Sabina a tornare vergognosamente al suo vescovado. Allora Benedetto riprese la perduta tiara, senza mutar punto gli antichi costumi.... Ma vedendo che il clero ed il popolo sprezzavano le sue sregolatezze, e tutti erano scandalizzati dalla fama de' suoi delitti; siccome inclinato ch'egli era alle voluttà, e più desideroso di vivere da epicureo che da pontefice, trovò l'espediente di rendere, per una grossa somma di danaro, il sommo pontificato a certo Giovanni arciprete, che aveva in città opinione d'essere uno de' più costumati e religiosi chierici. Benedetto ritirossi ne' suoi castelli; e Giovanni, che si fece chiamare Gregorio VI, amministrò la Chiesa due anni ed otto mesi, finchè giunse a Roma Enrico re di Germania»[193].

Assicurano i suoi biografi che questo stesso Gregorio VI si dedicò interamente alle armi per ricuperare colla forza i possedimenti ecclesiastici ch'erano stati tolti alla santa sede; e siccome colui che non sapeva leggere, ed era estremamente ignorante, ricevette dal popolo romano un collega che unitamente a lui esercitasse il papato, occupandosi delle cose del culto mentre Gregorio combatteva[194].

Queste cessioni e divisioni fatte prima amichevolmente, non si mantennero; e quando Enrico III giunse in Italia, Benedetto IX risedeva a s. Giovanni di Laterano, Giovanni, l'aggiunto di Gregorio, a s. Maria Maggiore, e Gregorio VI a s. Pietro in Vaticano. Enrico prima d'entrare in Roma riunì a Sutri un concilio per giudicare questi papi; ma il solo Gregorio VI si presentò innanzi a quest'assemblea. Il concilio avendo giudicata illegittima la elezione di lui, siccome quelle degli altri due, fu nominato ad occupare la santa sede, rimasta vacante, Suggero, vescovo di Bamberga, proposto da Enrico III, il quale prese il nome di Clemente II[195].

L'intervento d'Enrico III all'elezione del sommo pontefice rese all'imperatore l'intero esercizio del diritto ch'ebbero già gl'imperatori greci e carlovingi di concorrere all'elezione dei papi, diritto che non vedesi esercitato da Corrado e da Enrico II. Enrico III acquistò pure a questo riguardo una maggior influenza che veruno de' suoi predecessori. Fino allora il costume della Chiesa era stato quello di lasciare ai suffragi de' Romani la scelta del pontefice, e di aspettare per consacrarlo l'approvazione dell'imperatore: ma Enrico approfittando della riconoscenza del nuovo papa, del pregiudizio che l'ultimo scisma aveva arrecato alle elezioni popolari, e dell'appoggio della sua armata, obbligò il popolo romano a rinunciare al diritto di presentazione, ed a lasciare in sua mano senza riserva l'elezione de' futuri pontefici[196].

Enrico III non abusò del potere che riduceva in così ristretti limiti le libertà della Chiesa e del popolo. Clemente II, Damaso II e Leone IX, ch'egli elesse successivamente, erano uomini religiosi, che riformarono i costumi del clero e della Chiesa. L'ultimo, cui procurò la tiara, fu Vittore II, prima vescovo (1054) d'Aichstett, che gli fu indicato dal monaco Ildebrando, in allora sottodiacono della Chiesa romana. Enrico si risolvette con difficoltà ad allontanare dal suo fianco questo prelato, ch'era uno de' suoi principali consiglieri e de' più cari amici[197]; e quando nel susseguente anno fu Enrico sorpreso dalla mortal malattia che lo condusse al sepolcro in età di trentanove anni, confidò a questo papa ed all'imperatrice Agnese l'amministrazione de' suoi stati e la tutela di suo figlio in età di soli cinque anni. Vittore sopravvisse poco tempo ad Enrico, ed i suoi successori non corrisposero alla confidenza che l'imperatore aveva riposta nella santa sede.

Fu in fatti dopo la morte d'Enrico III, che i Romani pontefici, benchè sudditi e creature degl'imperatori, si eressero in loro censori e padroni. Il successore di s. Pietro ambì apertamente un dominio universale; ambiziosi prelati si presero cura di destare il fanatismo del popolo, e per lo spazio di settant'anni d'anarchia la potenza ecclesiastica e la secolare si fecero guerra non meno colle armi, che coi delitti. Noi crediamo poterci dispensare dal raccontar di nuovo circostanziatamente la troppe volte descritta contesa del sacerdozio e dell'impero, per cagione dell'investiture; e ci limiteremo ad indicare il carattere dei personaggi che vi rappresentarono le prime parti, e quale fosse lo spirito del secolo che la vide nascere.

Fino alla prima minorità d'Enrico IV, aveva Ildebrando acquistata grandissima influenza nella Chiesa e nell'impero. Il carattere della sua anima lo chiamava a grandi cose; imperciocchè, in onta della società, non è colle virtù amabili, ma spesse volte coi difetti e coi vizj che si governano gli uomini. Nel carattere d'Ildebrando trovavasi quell'energia di volontà che è figlia di smisurata ambizione, tutta la rusticità di un essere ch'erasi reso nel chiostro straniero all'umana natura, e non aveva mai amato un suo simile. Siccome questo monaco aveva imparato a reprimere ogni affetto, le potenze dell'imperiosa sua anima eransi tutte dirette al conseguimento de' suoi desiderj. Ciò che aveva progettato una volta, diventava lo scopo delle mire di tutta la sua vita; egli chiamavalo giusto, vero, ed arrivava a persuader sè medesimo prima di persuaderlo agli altri, che la sua ambizione era un suo dovere. Egli aveva veduta la Chiesa dipendente dall'impero, e sostenne che l'impero era soggetto alla Chiesa; chiamò usurpazioni criminose, ribellioni sediziose, i tentativi dei laici pel mantenimento d'incontrastabili diritti; comunicò al clero il suo entusiasmo e la sua convinzione, dandogli un impulso che si prolungò lungo tempo ancora dopo la sua morte, e che innalzò i pontefici sopra i re dell'Europa[198].

Prima di montare egli stesso sulla santa sede, Ildebrando diresse per lo spazio di vent'anni le elezioni del papi. Vivente ancora Enrico III, era stato fatto depositario di tutta l'autorità del senato e del popolo romano, e fu allora che fece alla corte imperiale eleggere Vittore: fu l'anima della corte di Roma ne' pontificati di Stefano IX, Nicolò II ed Alessandro II; di modo che può far maraviglia come ad ogni vacanza del trono pontificio, non vi foss'egli elevato prima del 1073, epoca della sua elezione; e convien credere che il suo duro ed imperioso carattere gli alienasse i suffragi del popolo.

Ildebrando per mezzo de' suoi predecessori, de' quali era l'unico consigliere, fece tentare la riforma del clero. Egli sentiva vivamente che per renderlo onnipossente conveniva accrescere per lui il rispetto del popolo, ed attaccarlo più strettamente al suo capo. Molti parrochi, e probabilmente alcuni vescovi erano solennemente ammogliati; i regolamenti ecclesiastici non ne avevano loro assolutamente tolta la facoltà[199]; ma il popolo da molto tempo non accordava la sua ammirazione che alle virtù monacali, e risguardava come degni di maggior rispetto gli ecclesiastici celibi. Questi ultimi, rinunciando agli affetti di famiglia, consacravano tutto intero il loro cuore alla Chiesa; quindi erano più ligi ai papi, più zelanti e più potenti. Ildebrando risolse di non soffrire uomini ammogliati tra i ministri dell'altare, e mosso da' suoi suggerimenti, Stefano IX l'anno 1058 dichiarò il matrimonio incompatibile col sacerdozio, che tutte le mogli dei preti erano concubine, e che tutti coloro che non le abbandonavano, erano sul fatto scomunicati. Una tanto grave ingiuria fatta ad uomini rispettabili, e ch'eransi uniformati alle leggi del loro stato, non fu pazientemente tollerata: il clero di Milano si tenne più offeso degli altri, perchè allegava l'espressa permissione del matrimonio accordata da s. Ambrogio a quella diocesi, e l'esempio di due arcivescovi ammogliati[200]. Riclamò con vigore, resistette, ed oppose a quella del papa la decisione d'un concilio: ma Ildebrando sprezzò la sua resistenza, ed i parrochi refrattarj furono denunciati come infetti d'eresia, quando altro non facevano che difendere le antiche loro costumanze. Questi nuovi eretici furono chiamati Nicolaiti[201].

Un colpo assai più ardito fu scagliato l'anno 1059 da papa Nicolò II nel concilio lateranese contro la podestà secolare. Tutti gli ecclesiastici erano anticamente nominati dal popolo della loro parrochia; ma i signori ed i re, avendo arricchita la Chiesa, eransi quasi tutti riservati il diritto di presentazione ai beneficj, ch'essi o i loro antenati avevano istituiti; vale a dire, il diritto di scegliere il prete che ne sarebbe rivestito. Indipendentemente da un contratto tra il donatore e la parrochia, quando una Chiesa possedeva un feudo, il nuovo prelato, in forza delle leggi dello stato, non poteva prenderne il possesso senza esserne investito dal signore che aveva l'alto dominio del feudo. Questa era la legge feudale, la legge universale, che non ammetteva eccezioni in favore degli ecclesiastici. Con tali diritti di presentazione e d'investitura era stata tolta alla greggia, e data alla corona la facoltà d'eleggere la maggior parte dei pastori; ed è verisimile che alla corte degl'imperatori, come praticavasi prima nelle assemblee della parrochia, e si usò dopo alla corte de' papi, si acquistassero i ricchi benefici a prezzo d'oro. Ildebrando denunciò quest'abuso quale scandalo infame, quale vergognoso mercato dei doni dello Spirito Santo, cui diede il nome di Simonia. I Simoniaci furono dichiarati eretici e scomunicati, e per preservare le Chiese da tale corruzione si proibì ai preti di ricevere alcun beneficio ecclesiastico dalle mani d'un laico, anche gratis[202]. La Chiesa si arrogò d'un sol colpo la prerogativa di rinnovare i suoi proprj membri, mentre i re ed i grandi vennero spogliati del diritto di distribuire i beneficj, de' quali i loro antenati avevangli lasciata la libera disposizione; di un diritto, che il primitivo contratto loro riservava come una proprietà ch'essi avevano posseduto molti secoli, e che tutta la cristianità aveva riconosciuto legittimo.

Il canone che proscriveva le investiture non fu da prima applicato all'elezione dei papi; non avendosi un solo esempio che alcuno imperatore vendesse questa suprema dignità; e le concessioni fatte dalla Chiesa ad Enrico III erano troppo fresche per poterle adesso distruggere; onde il concilio lateranese si limitò a modificarle. Le future elezioni dei papi, invece di lasciarle, secondo l'antica consuetudine, al popolo romano, si attribuirono ai cardinali, i quali non ne avevano per altro l'assoluta esclusiva. Essi dovevano riunirsi prima degli altri, ond'essere, giusta il decreto, le guide praeduces dell'elezione; il rimanente del clero, ed il popolo dovevano accontentarsi di seguirli, e doveva l'operazione aver compimento «salvo l'onore ed il rispetto dovuto al re Enrico futuro imperatore, e coll'intervento del suo nunzio il cancelliere di Lombardia, cui la sede apostolica accordò il privilegio personale di prender parte all'elezione colla propria adesione»[203]. Le vaghe espressioni del canone del concilio lateranese furono poi il fondamento del diritto esclusivo, che i cardinali si appropriarono, di nominare i capi della Chiesa. La riserva, benchè assai più chiara, del diritto monarchico, non impedì che alla prima vacanza accaduta due anni dopo, non si elegesse Alessandro II, senza neppur chiedere l'assenso d'Enrico, o dell'imperatrice reggente[204]. Di modo che la corte irritata nominò in Allemagna un altro papa Cadolao vescovo di Parma, lo che diede motivo a nuovo scisma.

Nello stesso concilio di Laterano venne espressamente ammesso come dottrina cattolica il domma della presenza reale nell'Eucaristia. Certo Berengario, diacono d'Augers, aveva scritta un'opera contro i propagatori di tale credenza; sosteneva nel suo libro, che la Chiesa non aveva mai veduto nel Sacramento che una memoria, un simbolo del sacrificio di Gesù Cristo. La sua professione di fede, che fino a que' tempi era stata quella della cristianità, fu condannata come un'eresia, di cui fu forzato a fare l'abjura[205][206].

Durante la minorità d'Enrico IV, i suoi ministri, senza pregiudicarne i diritti, seppero evitare un'aperta rottura colla santa sede. La fazione degl'Italiani, che volevano difendere contro il papa la libertà della Chiesa, formava già un sufficiente contrappeso all'ambizione dei pontefici. Questo partito era quasi sempre dominante a Milano ed in Lombardia; ed era potente anche in Roma, ove un uomo assai ricco ne aveva presa la difesa. Questo capo era Pietro Leone, il quale, quantunque giudeo d'origine, erasi acquistato un immenso credito nella capitale del cristianesimo[207]. Egli ottenne di far entrare in Roma l'antipapa Cadolao, che prese il nome d'Onorio II. Cadolao riportò una vittoria sulle truppe del legittimo papa, e si stabilì nel vaticano; ma ne fu presto scacciato dalle forze del duca di Toscana[208].

Quando Ildebrando, che prese il nome di Gregorio VII, fu l'anno 1073 elevato sulla cattedra di s. Pietro, terminava appunto la minorità d'Enrico. Questo principe, giunto oltre i vent'anni, aveva un'anima troppo altiera, ed era troppo valoroso per piegarsi sotto vergognose condizioni; onde posto da banda ogni riguardo per i pontefici che lo esacerbavano con reiterati insulti e soverchierie, prese fin d'allora la risoluzione di esporsi alle usurpazioni colla forza. Facevano alquanto torto al nobile e generoso suo carattere l'essersi senza alcun ritegno abbandonato alle giovanili passioni, ed il disprezzo per tutte le cose religiose che gli aveva inspirato l'ambiziosa furberia del clero. I papi ed i loro partigiani approfittarono di tali difetti per rappresentarlo come un empio; pure vedremo, non già Enrico, ma papa Gregorio deturpare la propria causa colla più ributtante durezza.

La superstizione suole ingrandire i lontani oggetti. Il cieco attaccamento dei fedeli verso la Chiesa romana era in ragione contraria della loro lontananza da Roma: i fulmini del Vaticano facevano tremare i Tedeschi, ai quali pareva meritevole d'eterna censura qualunque veniva condannato dal papa[209]: ed era precisamente tra la nazione dell'imperatore, ed in seno alla sua famiglia, che i preti ottenevano facilmente di abbatter il potere imperiale. Ma mentre i papi trovavano nella corte imperiale ambiziosi seguaci e creduli fanatici, gl'Italiani, mal sofferendo di vedere il capo dello stato sottoposto a vergognoso giogo, abbracciavano le sue parti con tanto ardore, che lo avrebbero fatto trionfare de' suoi rivali, se fossero loro mancati gli ajuti della contessa Matilde, eroina de' mezzi tempi, che alla cieca superstizione del suo sesso univa il coraggio, il vigore e la costanza del nostro; ed appunto allora aggiungeva all'immensa eredità de' marchesi di Toscana quella della famiglia di Canossa. Goffredo di Lorena marchese di Toscana moriva del 1070, e sei anni dopo lo seguiva la consorte Beatrice, che lasciava questa sola figlia del primo letto signora del più vasto e potente feudo, che fino a tale epoca esistesse in Italia[210].

Unico scopo di tutte le azioni di Matilde fu l'elevazione della santa sede, cui consacrò tutte le sue forze finchè visse, e lasciò morendo tutto quanto possedeva. Ebbe due mariti, il giovane Goffredo di Lorena, e Guelfo di Baviera; ma l'ambizione, o il fanatismo occupando interamente il suo cuore, abbandonò due sposi che non credeva abbastanza attaccati alla santa sede, e si consacrò interamente alla difesa dei papi[211].

(1076) Enrico IV irritato dalla durezza di Gregorio VII tentò di deporlo nella dieta di Worms, mentre Gregorio deponeva Enrico nel concilio di Roma: ma questi, abbandonato da suoi vassalli di Germania, che volevano dare la sua corona a Rodolfo di Svevia, e che gli facevano un'arrabbiata guerra[212], fu costretto di venire in Italia a chiedere perdono a quello stesso orgoglioso pontefice che aveva di fresco offeso. La sentenza di scomunica restava sospesa sul di lui capo fino alla seconda festa di quaresima del 1077, prima della quale eragli ingiunto di recarsi a Roma. Nel cuore dell'inverno traversò Enrico le pericolose foci delle Alpi le meno praticate, perchè le strade più agevoli erano occupate dai suoi nemici; e giunto in Italia, era costretto d'implorare presso il pontefice il favore di Matilde. Trovavasi allora Gregorio con questa principessa nel forte castello di Canossa, posto in vicinanza di Reggio, di dove preparavasi a passare in Germania. Oltre quello della principessa Matilde, erasi l'imperatore procurato l'appoggio del marchese d'Este, dell'abbate di Clugnì, e de' più principali signori e prelati d'Italia. «Il papa resistette lungo tempo, dice Lamberto d'Aschaffemburgo storico contemporaneo, ma vinto alfine dalle importunità e dal rango di coloro che gliene facevano istanza: E bene, diss'egli, se veramente è pentito di quanto ha fatto, deponga nelle mie mani la sua corona, e le insegne della dignità reale, onde darmi così una prova del suo vero pentimento; e dichiari poi, che in conseguenza della contumacia di cui si è reso colpevole, si conosce indegno della dignità e del titolo di re. I deputati trovando tali condizioni troppo dure, insistevano presso al papa perchè le addolcisse, e non spezzasse la canna. Cedeva a stento Gregorio alle loro istanze, acconsentendo che Enrico s'avvicinasse a lui, e facesse penitenza per riparazione dell'affronto fatto alla santa sede col disubbidire ai suoi decreti. Venne Enrico, secondo gli era dal papa ordinato, e come il castello era circondato da triplici mura, fu ammesso nel secondo recinto, rimanendo tutto il suo seguito fuori del primo. Enrico, deposti gli abiti reali, non aveva più nulla che lo mostrasse principe, verun indizio del consueto fasto: colà rimanevasi coi piedi ignudi, e senza cibo dal mattino fino a sera, aspettando invano la sentenza del pontefice. Così fece il secondo ed il terzo giorno, e finalmente fu introdotto il quarto in presenza di tutti, e dopo lunghe discussioni fu assoluto dalla scomunica a condizione per altro di presentarsi ad ogni richiesta del papa innanzi ad un'assemblea dei principi di Germania per giustificarsi intorno alle accuse fattegli: che il papa sarebbe giudice, per lasciare ad Enrico il regno, ove provasse la sua innocenza, o per ispogliarnelo in caso contrario, e punirlo secondo il rigore delle leggi ecclesiastiche..... Che fino a tale epoca non gli erano vietate l'insegne della reale dignità e l'amministrazione de' pubblici affari[213]

Per tal modo con un insigne tradimento, dopo averlo assoggettato ad una durissima penitenza, solo, mezzo ignudo, esposto all'eccessivo freddo sopra un terreno coperto di nevi nel cuore dell'inverno[214]; invece di assolverlo dopo così umiliante sommissione, lo sottoponeva ad un altro tribunale, di cui Enrico non aveva ammessa la competenza, onde venisse rigorosamente giudicato.

I popoli lombardi ed i vescovi italiani, quasi tutti in guerra col papa, non dissimularono il concepito sdegno sia per l'inumano proceder di Gregorio, sia per la vile sommissione d'Enrico. Ma questi, uscito appena di Canossa, si disponeva con tutti i mezzi a vendicare l'avvilito onor suo. La sorte delle armi si dichiarò a suo favore. Tornato in Germania attaccò Rodolfo di Svevia, e lo sconfisse più volte. Perdeva questi la vita in una battaglia datagli nel 1080[215], nel giorno medesimo in cui i Lombardi che stavano per Enrico, trionfano della contessa Matilde alla Volta nel Mantovano.

Gregorio aveva formato il piano del dispotismo ecclesiastico, e ne aveva proclamati i principj. Gli annali ecclesiastici conservarono la raccolta di queste massime intitolata dictatus papae. Fa sorpresa il vedere con quale audacia la tirannia teocratica ardisce levarsi la maschera. «Non v'ha al mondo che un solo nome, quello del papa; egli solo può impiegare gli ornamenti imperiali, e tutti i principi devono baciare i suoi piedi; egli solo ha l'autorità di nominare e deporre i vescovi, convocare, presedere, e sciogliere i concilj. Non v'è chi possa giudicarlo; la sola elezione lo costituisce santo. Egli non ha errato mai, ne può errare in avvenire. Egli può a sua voglia deporre i principi, e sciogliere i sudditi del giuramento di fedeltà, ec.[216] »

Gregorio non visse abbastanza per vedere maturati i suoi ambiziosi progetti. Enrico tornato in Italia del 1081 opponeva a Gregorio l'antipapa Guiberto arcivescovo di Ravenna, che facevasi chiamare Clemente III. Nell'anno 1084, dopo averla più volte assediata, Enrico si rese padrone di Roma, e vi fece consacrare il suo papa, da cui riceveva poscia la corona imperiale. Mentre Gregorio si stava nella mole Adriana, ed i romani eransi collegati con Enrico per assediare il loro papa, Roberto Guiscardo capo di que' Normanni, di cui parleremo nel susseguente capitolo, avanzandosi alla volta di Roma con una considerabile armata, dopo aver costretto l'imperatore a ritirarsi, bruciò la città da s. Giovanni Laterano fino al Coliseo, e fece schiavi un infinito numero di cittadini. Dopo questo saccheggio, l'antica città rimase quasi affatto deserta, essendosi la popolazione concentrata al di là del campidoglio in quella parte che altra volta formava il campo di Marte[217]. Roma fu in preda a tutti i mali che un nemico barbaro suol cagionare ad una città presa d'assalto, e Guiscardo condusse seco, partendo, il papa, il quale morì prigioniero in Salerno in maggio del 1085, dopo avere ripetuti i suoi anatemi, e le sue imprecazioni contro Enrico contro l'antipapa Guiberto e contro i loro principali aderenti[218]; ma dopo avere altresì colla sua alterigia e durezza di carattere disgustati quasi tutti i vescovi d'Italia; obbligati gli stessi romani, che gli erano lungo tempo rimasti fedeli, a prender l'armi contro di lui; e finalmente dopo essere stato principalissima cagione della rovina di quella maravigliosa città, di cui era pastore e quasi sovrano.

Vittore III, Urbano, Pasquale e Gelasio II, succeduti nel papato a Gregorio VII, avevano adottate le sue massime. Matilde dal canto suo dispiegava una tal quale grandezza d'animo, ch'era figlia della cieca sua superstizione. Del 1092, Enrico cogli ajuti dell'antipapa rovinava nel Modonese i possedimenti di Matilde, e ne andava indebolendo il partito in modo, che i teologi della duchessa, avviliti da tante disgrazie, la consigliavano nella dieta di Carpineto di prendere consiglio dalle circostanze presenti, e di riconciliarsi coll'imperatore: perchè Matilde ordinando loro di tacere, io morirò, disse, anzi che trattare di pace con un eretico[219].

(1093) Nel susseguente anno riuscì ad Urbano II di far ribellare ad Enrico il maggior figliuolo Corrado, e la Chiesa[220] applaudì con feroce piacere alla ribellione ed alle infami calunnie che Corrado, per giustificare la propria condotta, andava pubblicando in pregiudizio della gloria paterna[221]. Corrado fu riconosciuto dal papa re d'Italia; ed in Monza ricevette la corona di Lombardia. Dopo otto anni di guerre civili morì Corrado disprezzato da que' medesimi che lo avevano istigato alla ribellione, ed avevano saputo approfittarne. È però vero che la ribellione di Corrado giovò a stabilire l'equilibrio tra le due nemiche fazioni.

Nella stessa epoca il fanatismo religioso eccitava un assai più grande incendio. Urbano II (1095), quello stesso pontefice che protesse un figlio ribelle, predicò la crociata nei Concilj di Piacenza e di Clermont; e scosse in modo tutta l'Europa, che le popolazioni occidentali attraversavano a guisa di torrenti l'Italia per recarsi in Oriente[222]. I crocesegnati, risguardandosi come soldati della Chiesa, non potevano soffrire che venisse opposta veruna resistenza al papa; onde ristabilirono sulle rovine della potenza imperiale quella della santa sede. Enrico non si trovò abbastanza forte per resistere a questo torrente, e del 1097 si ritirò in Germania.

Dopo tal epoca, ad altro omai non pensò Enrico che a rendere la pace alla Chiesa ed all'impero. Benchè inseguito dalle scomuniche papali, mostrò di non curarsi delle ingiurie de' pontefici; anzi pareva inclinato a spogliarsi della corona in favore del figliuolo Enrico V, sperando che più facilmente potessero trattar d'accordo due antagonisti non ancora esacerbati da lunga discordia[223]. L'inesecuzione di tale progetto offese l'ambizione del giovane principe, il quale riscaldato dagli emissarj di Pasquale II, che, valendosi dell'ardente suo desiderio di regno, seppero rappresentargli la fellonìa che stava per commettere, come un'azione santa e gloriosa, si fece ribelle. Narrando questi tragici avvenimenti mi atterrò all'autorità del Sigonio istorico affezionato alla santa sede[224].

(1106) Doveva il giorno di Natale del 1106 riunirsi in Magonza la dieta, la quale, per esservisi condotti tutti i fautori del giovane Enrico, fu più numerosa assai delle precedenti. Il giovane Enrico consigliò il re suo padre a non porsi in balìa di persone di dubbia fede; onde l'imperatore che sinceri credeva i consigli dello sleale figliuolo, si ritirò nel castello d'Ingelheim. Colà gli si presentarono un giorno gli arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Worms, intimandogli, a nome della dieta, di mandare le decorazioni imperiali, la corona, l'anello ed il manto di porpora, onde rivestirne il di lui figliuolo. E perchè l'imperatore chiedeva il motivo della sua deposizione, gli rispondevano aspramente essere ciò accaduto per avere tanti anni travagliata la Chiesa con una odiosa contesa, perchè vendette i vescovadi, le abbazie e tutte le dignità ecclesiastiche; perchè non ubbidì alle leggi nell'elezione de' vescovi. Ecco, soggiungevano, i motivi che determinarono il sommo pontefice ed i principi di Germania non solo a privarvi della comunione dei fedeli, ma ancora del trono.

«Ma voi, replicò l'imperatore, voi arcivescovi di Magonza e di Colonia, che mi accusate d'avere vendute le dignità ecclesiastiche, dite almeno quanto esigessi da voi allorchè vi diedi quelle chiese, le più ricche e potenti del mio impero: e perchè, se forzati siete di confessare ch'io nulla vi chiesi, perchè v'associate ai miei accusatori, quasi non sapeste che in ciò che vi risguarda ho esattamente eseguito il mio dovere? Perchè v'unite voi pure a coloro che hanno mancato alla data fede ed ai giuramenti fatti al loro principe? perchè vi fate loro capi? Pazientate ancora pochi giorni, che l'età ed i sofferti affanni mi mostrano non lontano il naturale termine di mia vita; o se pure volete ad ogni modo togliermi il regno, fissate un giorno in cui mi toglierò di mia mano la corona di capo per porla su quello di mio figliuolo.»

Gli arcivescovi gli fecero comprendere di essere disposti a dare anche colla forza esecuzione agli ordini della dieta, onde Enrico ritirossi; e consigliatosi coi pochi amici che gli rimanevano ancora, vedendosi circondato da gente armata cui non avrebbe potuto resistere, si fece recare le insegne reali ed il manto; indi, salito sul trono, fece chiamare gli arcivescovi.

«Eccole, disse loro, quelle insegne della real dignità, che la bontà del re dei secoli, ed i pieni suffragi dei principi dello stato mi accordarono. Non farò uso della forza per difenderle, che non previdi un domestico tradimento, nè pensai a prevenirlo. Il cielo mi diede grazia di non supporre tanto furore ne' miei amici, nè tanta scelleratezza nei miei figliuoli. Pure, con l'ajuto di Dio, il vostro pudore difenderà forse la mia corona, o se pure non vi tocca il timore di quel Dio che difende i re, ne vi cale della perdita dell'onor vostro, soffrirò dalle vostre mani una violenza da cui non posso difendermi.»

Ai deputati, resi incerti da tale discorso, perchè mai esitate, gridò il vescovo di Magonza, non è di nostra spettanza il consacrare i re e vestirli della porpora? Perchè non sarà da noi spogliato quello che per una «pessima scelta fu da noi vestito?» A tali parole, avventandosi contro Enrico, i deputati gli tolsero la corona di capo, e forzandolo a scendere dal trono, lo spogliarono della porpora, e degli ornamenti reali. Intanto Enrico gridò ad alta voce: «Sia Iddio testimonio del vostro procedere. Egli mi castiga per i peccati della mia gioventù, facendomi soffrire un'ignominia che altro re non sofferse giammai. Ma voi che osaste portar le mani sul vostro sovrano, voi che violaste il giuramento che vi voleva a me fedeli, voi pure non isfuggirete alla sua collera: Iddio vi punirà come ha punito l'Apostolo che tradì il suo maestro.»

Ma gli arcivescovi, disprezzando le sue minacce, si recarono presso il giovine Enrico per consacrarlo; mentre l'imperatore chiudevasi in Lovanio, ove s'affollavano intorno a lui gli antichi amici, promettendogli il loro soccorso. Formarono infatti una potente armata, e ben tosto si trovarono a fronte in aperta campagna il padre ed il figlio, e nel primo fatto rimase questi perdente, e costretto a fuggire. Non tardò per altro a riunire le sue truppe e condurle a nuova battaglia, nella quale il padre compiutamente battuto, rimase prigioniero de' suoi nemici che lo caricarono d'oltraggi[225].

Fu l'infelice monarca in così misero stato ridotto, che venne a Spira nel tempio da lui eretto alla Vergine, chiedendo al vescovo di quella città gli alimenti, soggiungendo ch'era ancora capace delle funzioni di chierico, sapendo leggere e scrivere: e perchè gli venne rifiutata così umile inchiesta, si volse alle persone presenti, dicendo loro: «Voi almeno, o miei amici, abbiate pietà di me; vedete la mano di Dio che mi castiga.» Di là a poco tempo dovette il giorno 7 degl'Idi d'agosto succumbere alla profonda afflizione che lacerava il suo cuore. Il suo cadavere rimase cinque anni insepolto nella chiesa di Liegi, perchè il papa aveva vietato di seppellirlo in luogo sacro[226].

Sentiamo una specie di compiacenza nel vedere il vecchio ed infelice Enrico vendicato da' suoi medesimi nemici. Il feroce Pasquale fu tradito e perseguitato dal medesimo principe ch'egli aveva stimolato a ribellarsi al padre; e questo figlio snaturato d'un padre che lo amava, umiliato da quella Chiesa per la quale aveva combattuto contro suo padre.

(1110) Enrico V non potè avanti il 1110 venire in Italia a ricevervi dalle mani del papa la corona imperiale. Soddisfatta la brama di occupare prima del tempo la paterna eredità, non era soddisfatta la sua ambizione se non la possedeva tutta intera. Il diritto delle investiture veniva con ragione risguardato siccome una delle principali prerogative della corona, ed Enrico non era disposto di rinunciarvi a verun patto.

Avvicinandosi a Roma, stipulò ai confini della Toscana con Pietro Leone, uno de' più potenti signori di Roma, una convenzione, che poi rinnovò a Sutri, tendente ad assicurare la pace tra la Chiesa e l'impero. Convien dire che considerabili fossero le forze d'Enrico, e che Pasquale benchè collegato coi Normanni si trovasse ancor assai debole, poichè serviva di base al trattato una larga concessione del papa a favor dell'imperatore[227]. Lo stesso Enrico ne dava parte con sua lettera ai fedeli in tale maniera:

«Il signor Pasquale voleva, senza ascoltarci, privare il regno delle investiture dei vescovi che noi possediamo, e che nel corso di quattro secoli possedettero i nostri predecessori, fino dai tempi di Carlo Magno, sotto sessantatre diversi pontefici, in virtù e coll'autorità dei privilegi. E perchè noi gli chiedevamo per mezzo dei nostri deputati qual cosa allora rimarrebbe al re, avendo i nostri predecessori donate alle chiese quasi tutte le nostre proprietà, rispondeva che gli ecclesiastici sarebbero contenti delle decime e delle offerte, e che potrebbe ripigliarsi e conservare per se e suoi successori le terre e diritti signorili donati alle chiese da Carlo, da Luigi, da Ottone, da Enrico. A ciò facevamo rispondere che non volevamo renderci colpevoli di tanta violenza e di tale sacrilegio verso le chiese; ma il papa assicurò e promise con giuramento che riprenderebbe di propria autorità tutti i beni alle chiese per rimetterceli legalmente in forza della sua piena autorità. Allora i nostri deputati dichiararono che s'egli dava esecuzione alle sue promesse, che pure non ignorava egli medesimo di non poter mantenere, noi gli avremmo accordate le investiture delle chiese.... Frattanto per dare a conoscere che di nostra spontanea volontà non arrechiamo alcun danno alle chiese del Signore, facciamo sotto gli occhi, ed all'udito di tutti, pubblicare a comune intelligenza il presente decreto.» Il giorno 12 febbrajo del 1111 il papa e l'imperatore recaronsi nella basilica Vaticana per eseguirvi l'incoronazione in presenza di tutto il popolo. «Noi, per la grazia di Dio, Enrico imperatore augusto de' Romani, doniamo a s. Pietro, a tutti i vescovi ed abbati, ed a tutte le chiese, quanto i nostri predecessori, re o imperatori concedettero, diedero, offrirono sperando un eterno premio. Quantunque peccatore mi guarderò bene, per timore del terribile giudizio, di sottrarre tali doni alle chiese.» — «Dopo aver letto e sottoscritto questo decreto invitai il signore papa a dar esecuzione, a quanto aveva promesso colla carta delle nostre convenzioni, ma mentre persistevo in tale domanda, tutti i figliuoli della Chiesa, vescovi ed abbati, tanto suoi che nostri, gli si opposero tutti con fermezza in faccia, dicendo ad alta voce, che il decreto dal papa promesso (ci si permetta di dirlo senza offesa della Chiesa) era eretico; ond'egli non osò proferirlo.»

E per tal modo, mentre Pasquale intimava ad Enrico di rinunciare al diritto d'investitura, faceva che il suo clero non gli permettesse di rilasciargli i diritti signorili posseduti dalla Chiesa. Tale contesa diede luogo ad un violento tumulto che impediva la cerimonia dell'incoronazione; perlochè Enrico adirato fece sostenere il papa e la maggior parte degli ecclesiastici che lo accompagnavano, dandogli in guardia al patriarca d'Aquilea[228]. Ma al cardinale di Tuscolo ed al vescovo d'Ostia riuscì di fuggire inosservati in mezzo al tumulto, e rientrarono travestiti in Roma, eccitando i cittadini a prendere le armi per liberare il capo della Chiesa. La mattina susseguente, appena fatto giorno, le milizie romane uscirono impetuosamente dalla città, ed assalirono i Tedeschi che occupavano la città Leonina, ossia il quartiere del Vaticano in Transtevere. Lo stesso Enrico trovossi in grave pericolo di perdere la vita, e la sua armata sarebbe stata interamente disfatta, se i Romani non avessero lasciata imperfetta la vittoria per ispogliare i fuggiaschi. Enrico approfittando di tanto errore, riunito un corpo di Tedeschi e di Lombardi, caricò le milizie romane, e le spinse parte nel Tevere, parte sforzò a salvarsi in estremo disordine entro le mura della città. Ad ogni modo non credette di cimentarsi, con un'armata troppo debole, a nuovi insulti, rimanendo in una città nemica; e si ritirò sollecitamente nell'alta Sabina, seco conducendo il papa prigioniere[229], il quale rimase due mesi rinchiuso con sei cardinali nella fortezza di Tribucco. Altri cardinali furono rinserrati in altro castello, e tutti duramente trattati, onde disporli ad accettare una convenzione che ponesse fine alla lite.

Non isperando altronde soccorso, ed oppresso dai patimenti proprj e da quelli de' compagni della sua disgrazia, Pasquale, cui veniva fatto credere che l'imperatore procederebbe tosto alle ultime estremità, e lo farebbe morire con tutti i suoi cardinali, se non s'arrendeva alle sue domande, acconsentì finalmente di fare all'imperatore espressa e formale cessione, con atto firmato da lui e da sedici fra cardinali e vescovi, dell'investitura dei vescovadi e delle abbazie del suo regno, purchè l'accordasse gratuitamente e senza simonia[230]; promettendo inoltre di non prender veruna parte in quest'oggetto. Assolse poi tutti i partigiani d'Enrico dalle scomuniche che potessero aver incorse; promise di non scomunicare in avvenire Enrico, ed accordò che le ossa d'Enrico IV fossero finalmente collocate in luogo sacro. Questo trattato solenne, munito di tutte le formalità, fu riconfermato con giuramento sull'ostia sacra divisa tra le parti che ricevevano l'eucaristia. Dopo di ciò il pontefice pose di propria mano la corona imperiale sul capo d'Enrico, ed ebbe da Enrico la libertà. Durante questa cerimonia rimasero chiuse le porte di Roma, onde impedire che i cittadini irritati non la turbassero con improvviso assalto[231].

Se il trionfo d'Enrico fu intero, non fu però di lunga durata. Il collegio dei cardinali, tosto che vide liberato Pasquale, manifestò il suo malcontento perchè il capo della Chiesa avesse ceduti i suoi più cari privilegi, per i quali Gregorio VII, ed i suoi successori eransi esposti a tanti pericoli, avevano fatto versare tanto sangue, e dannate al fuoco eterno le anime di tanti fedeli fulminati dalle scomuniche generali, o morti durante l'interdetto. Questi clamori andarono crescendo allorchè, ritiratosi Enrico colla sua armata in Allemagna, il clero si vide liberato da ogni timore. I cardinali prigionieri con Pasquale, che avevano ricevuta la libertà quando il papa col loro assenso aveva firmato l'atto delle investiture, invece d'appoggiare il di lui operato, credettero giustificarsi da ogni rimprovero con un'equivoca dichiarazione. «Noi approviamo quanto abbiamo precedentemente approvato, e condanniamo ciò che sempre abbiamo condannato[232]

Volevano i più zelanti cattolici, che il papa annullasse il giuramento da lui emesso ed il trattato, e scomunicasse l'imperatore; ed intanto i legati della santa sede, prevenendo il giudizio della Chiesa, avevano promulgata tale sentenza ne' concilj provinciali; onde in principio del susseguente anno, Pasquale fu costretto di convocare un concilio generale nel palazzo di Laterano per decidere tale quistione. (1112) Questo concilio abolì il privilegio estorto al papa, e fulminò la scomunica contro Enrico. Pasquale nè s'oppose, nè ratificò tale sentenza. Quantunque spiegasse nella persecuzione d'Enrico IV un eccessivo fanatismo, non lasciava di essere religioso e di buona fede; avendone già dato prova quando propose ad Enrico V di cedergli le regalie, come ne diede un'altra col resistere alle importune istanze del suo clero per annullare un giuramento estorto colla violenza. (1116) Tornò Enrico in Italia del 1116, per prendere possesso dell'immensa eredità della contessa Matilde, morta il 24 luglio del precedente anno. Vero è che questa principessa aveva con testamento del 1102 lasciati tutti i suoi beni presenti e futuri alla Chiesa romana per la salvezza della propria e delle anime de' suoi parenti; ma questo testamento in cui non trattasi che delle proprietà, e non dei feudi, o de' beni signorili, non si ebbe per valido[233]. Si pretese che una donna non potesse disporre delle proprie terre, e l'eredità di Matilde fu in tutto il secolo dodicesimo un soggetto di contestazione tra gl'imperatori ed i papi.

Poichè fu riconosciuto possessore dell'eredità della contessa, Enrico s'avanzò verso Roma, chiamatovi dai principali nobili contro papa Pasquale, che loro aveva dato varj motivi di malcontento. Enrico veniva ricevuto in Roma quasi in trionfo, mentre il papa fuggiva a monte Cassino, indi a Benevento[234].

Morì Pasquale nel susseguente anno in età assai avanzata senza che potesse tornare a Roma. Mentre la maggior parte de' cardinali, uniti ai vescovi ed ai senatori di Roma, elessero a succedergli Gelasio II, la fazione imperiale gli sostituì Bordino arcivescovo di Braganza, che la Chiesa risguarda come antipapa. Gelasio che trovavasi sciolto da qualunque giuramento, nell'atto di ricevere la tiara, scomunicò l'imperatore, indi riparossi in Francia per non rimanere esposto alle vendette d'Enrico. A Gelasio, morto dopo due anni, successe Calisto II, con cui l'imperatore, stanco di trovarsi in una guerra di così incerto fine, trattò di componimento. Il suo antipapa era caduto in potere de' cattolici, e tutti i grandi di Germania lo scongiuravano a dar pace alla Chiesa ed all'impero.

(1122) L'accomodamento si fece a Worms l'anno 1122, ove Enrico aveva aperta la dieta. L'imperatore concedette alla Chiesa il diritto di dare le investiture coll'anello e col pastorale, promettendo in pari tempo di restituirle tutte le possessioni ed i beni signorili di s. Pietro, appresi da lui o da suo padre. Dall'altra parte il papa accordava ad Enrico il privilegio, che tutte l'elezioni de' vescovi e degli abbati si dovessero ne' suoi stati d'Allemagna eseguire alla sua presenza, ma senza simonia o violenza. Il candidato era obbligato a ricevere dall'imperatore l'investitura de' beni signorili spettanti alla sua chiesa per mezzo della consegna dello scettro. Furono quindi levate tutte le scomuniche, e la contesa che aveva divisa tutta la cristianità, fu terminata con un così semplice espediente, che reca a prima vista sorpresa come non siasi avvertito assai prima, poichè almeno in apparenza contentava le due parti. I diritti feudali venivano in tal modo separati da quelli della Chiesa, e le due potenze conservavano le prerogative più convenienti alla propria natura[235]. Fatto è però che le due parti avevano avvertitamente fino a tal epoca allontanato simile accordo. L'imperatore non meno che il papa cercavano di confondere i diritti spirituali e temporali; e non si deve che alla spossatezza d'una lunga guerra, ed al raffreddamento del fanatismo de' loro partigiani, l'essersi convenuti a condizioni di giustizia e di equità.

CAPITOLO IV.

I Greci, i Lombardi, i Normanni dal VII secolo fino al XII nell'Italia meridionale. — Repubbliche di Napoli, di Gaeta e d'Amalfi.

Le repubbliche che formeranno l'argomento del rimanente di quest'opera, appartengono tutte alla parte settentrionale, o all'interno dell'Italia; le quali tutte s'andarono lentamente e sordamente staccando dall'impero d'occidente, sotto il di cui favore erano nate; e tutte riconobbero i principj della loro libertà dagl'imperatori Tedeschi, che in appresso cercarono di annientare l'opera delle loro mani. Ma durante la prima metà de' mezzi tempi, benchè più ignorati, ebbero pur luogo gli stessi avvenimenti in quella parte dell'Italia meridionale che forma al presente il regno di Napoli. Le città di questa contrada, in allora soggette ai sovrani di Bisanzio, avevano senza rivoluzione e senza violenza scosso il giogo di quegl'imperatori, ed avevano ugualmente trovato nella libertà un nuovo principio di forza, e mezzi per resistere alle straniere invasioni; siccome nel reggime repubblicano quello spirito intraprendente e commerciale che le rese tanto ricche e potenti. Le scarse memorie che ci rimangono di quelle repubbliche, non permettono di darne perfetta conoscenza. Appena si vedono qua e là sorgere debolmente indicate in alcune cronache greche e latine, e le dense tenebre che le circondano, non ci permettono d'avvicinarle, di ben distinguerne le forme, d'illustrarne le azioni. Non pertanto importa assaissimo di conoscere il meglio che si possa le loro istituzioni, i loro prosperi ed infelici avvenimenti; da che l'esempio da queste repubbliche dato all'Italia, non andò perduto per le città settentrionali; da che i mercadanti di Pisa e di Genova, che vedremo ne' susseguenti capitoli istituire i primi governi liberi nella Toscana e nella Liguria, attinsero probabilmente a Napoli o in Amalfi quegli elevati sentimenti, quella repubblicana fierezza che comunicarono poi ai Milanesi, ai Fiorentini ed alle altre città del centro dell'Italia.

Lo stabilimento, la possanza, la divisione e la rovina del gran ducato lombardo di Benevento meritano altresì d'essere attentamente considerati. Questo ducato si conservò glorioso anche dopo la disfatta e la prigionia di Desiderio, re di Pavia: mantenendo ai Lombardi dopo spenta la loro monarchia pel corso di tre secoli i diritti di nazione sovrana; contribuendo colle relazioni che teneva coi Greci e cogli Arabi, ad introdurre in Occidente il commercio, le arti, le scienze: e per ultimo i suoi stretti rapporti con Napoli, Gaeta, ed Amalfi legano strettamente la sua alla storia di queste repubbliche.

Le romanzesche avventure, e le quasi incredibili conquiste dei Normanni nelle stesse province formano pure una parte assai interessante della storia de' mezzi tempi: tali avvenimenti appartengono per più ragioni al soggetto che noi trattiamo, e perchè operarono la distruzione delle repubbliche della Magna Grecia, e perchè fondarono la monarchia delle due Sicilie, la di cui sorte fu sempre legata a quella delle repubbliche lombarde e toscane. Procurerò adunque di far alla meglio conoscere in questo capitolo la storia dell'Italia meridionale nel corso di que' cinque secoli in cui le repubbliche Greche, i Greci di Bizanzo, i Saraceni, i Lombardi, i Normanni se ne disputavano il possedimento.

Quando del 568 i Lombardi conquistarono l'Italia sopra Giustino II, le province rimaste in potere de' Greci, a stento difese dagl'imperatori, separate le une dalle altre, deboli, scoraggiate, trovaronsi abbandonate a sè medesime. Autari terzo re de' Lombardi, dopo Arduino, conquistò Benevento, ed attraversando tutta l'Italia meridionale fino a Reggio, spinse entro l'onde il suo cavallo, e percotendo colla lancia una colonna innalzata in mare, gridò, essere quello il solo confine ch'egli dava alla monarchia lombarda[236]. Lasciò poi a Benevento Zottone uno dei suoi generali per governare la recente conquista. Questa spedizione eseguitasi del 589 è l'epoca probabile della fondazione del ducato di Benevento[237]; il quale trovandosi posto nel centro dell'attuale regno di Napoli, interrompeva la comunicazione tra le province possedute ancora dagl'imperatori. Un ufficial greco, nominato da questi, risiedeva in Ravenna col titolo di esarca, e faceva centro a tutti i governatori delle altre città d'Italia. Le città della Pentapoli e della Marca d'Ancona gli erano immediatamente subordinate; egli nominava i duchi di Roma, i maestri de' soldati di Napoli, ed i governatori della Calabria e della Lucania. Ma il ducato di Spoleti che pei Lombardi serviva alla comunicazione, talvolta interrotta, tra l'Italia settentrionale ed il ducato di Benevento, teneva separata Roma da Ravenna. Nello stesso modo il ducato di Benevento separava Roma e Ravenna dalla Campania, dalla Puglia, dalla Calabria e da tutti i possedimenti marittimi dei Greci. Questi ultimi erano sparsi sulle coste, affatto divisi gli uni dagli altri.

Il mare era signoreggiato dai Greci, ed i Lombardi non avevano marina; ma i Greci erano timidi e deboli; bellicosi ed intraprendenti i Lombardi. Stavano i primi sulle difese, e cercavano di fortificare le loro terre. Rispetto all'Esarcato, credevanlo difeso dalle maremme di Ravenna, come affidavano la salvezza di Roma al credito dei papi ed all'antica gloria del nome romano: finalmente speravano che le mura e l'amore di libertà dei popoli chiamati a difenderle, salverebbero le città della Calabria[238]; imperocchè i sovrani di Costantinopoli, senza conoscere la libertà, la protessero presso i loro sudditi occidentali per risparmiarsi la pena di regnare sopra di loro.

Belisario aveva con debolissime armate conquistata l'Italia e l'Affrica. I tralignati figliuoli de' Romani e de' Greci fuggivano atterriti dalla milizia, e gl'imperatori non potendo assoldare le loro legioni, perdettero ben tosto le conquiste di Giustiniano perchè non avevano soldati che le difendessero. Fino all'istante in cui perdettero i loro possedimenti d'Italia, i Greci non mandaronvi mai sufficienti forze. Le poche truppe disponibili formavano la guarnigione di Ravenna, e si accantonavano dietro le paludi che la circondavano. Felicemente scelta era la loro posizione; perchè i re Lombardi non potevano senza pericolo avanzarsi verso il mezzogiorno d'Italia, lasciandosela alle spalle, tanto più che una nuova armata poteva dalle coste dell'Illirico sbarcare nel porto di Ravenna, e tagliare ogni comunicazione tra l'armata e gli stati lombardi. Le città della Campania e della Calabria non rimanevano dunque esposte che agli attacchi meno vigorosi dei duchi di Benevento.

O sia che il dolce clima e le delizie della Magna Grecia snervassero il vigore de' Lombardi Beneventani; o pure che i Campani, i Pugliesi, i Calabresi avessero con una vita laboriosa, e forzati a mettersi in salvo dalle frequenti aggressioni, ricuperato in parte il valore de' loro antenati; dopo due o tre generazioni non v'ebbe più una sensibile diversità tra il valor militare delle due nazioni. Per assicurare ai Greci le città marittime bastava interessare gli abitanti a difenderle, rendendo loro una patria: ciò avrebbe dovuto farsi dalla politica, e non fu che la conseguenza della debolezza dell'impero greco, e dell'azzardo. L'imperatore rinunciò a parte de' suoi diritti, e tanto bastò perchè le istituzioni municipali che non eransi mai abolite, e che tutte erano repubblicane, riprendessero l'antica loro forza.

La repubblica romana aveva formato i governi municipali e quelli delle colonie sul suo proprio modello, e soltanto in alcune città aveva conservate alcune istituzioni ancora più antiche, ma ugualmente repubblicane; nè gl'imperatori eransi adombrati di questo spirito e di queste impotenti forme che oscuramente sussistevano nelle piccole città. Due secoli dopo l'intera schiavitù della Grecia, sussistevano ancora nell'isola d'Eubea le assemblee del popolo, che giudicavano ed emanavano leggi, i demagoghi, gli agitatori, e tutte le apparenze d'un'assoluta democrazia[239]. Le costituzioni municipali, modellate su quella di Roma, conservaronsi ancora lungo tempo, perchè più consentanee alle leggi generali. Anzi è probabile che sopravvivessero all'impero d'occidente, poichè l'imperatore Majoriano, negli ultimi periodi di quest'impero, aveva ristabilita e rassodata l'amministrazione repubblicana delle città e dei municipj[240].

In sul finire del sesto secolo i Greci possedevano tuttavia alcune città nella Lucania, o Basilicata, l'antica Calabria, o terra d'Otranto, e il Bruzio, o la nuova Calabria ulteriore[241]. Riconquistarono più tardi sui Lombardi le terre di Bari, e la Capitanata, di cui le più forti città erano Otranto, Gallipoli, Rossano[242], Reggio, Girace, Santaseverina e Crotone[243]. Avevano inoltre conservate nella Campania, o Terra di Lavoro, due piccole province marittime, chiuse tra una catena di montagne ed il mare, e fortificate dalla natura, le quali formavano i ducati di Gaeta e di Napoli. Il primo ducato, posto tra il Cecubo ed il Massico, montagne rese famose da Orazio, stendevasi lungo una spiaggia privilegiata, ove il viaggiatore partendo da Roma vede i primi aranci, gli aloè, i cacti pendenti dalle rupi, e tutti i prodotti del mezzodì[244]. La città di Gaeta fabbricata sopra sterile e scoscesa montagna che sorge di mezzo alle acque, ed è unita al continente da una striscia di terra assai bassa, era stata facilmente fortificata in modo da renderla presso che inespugnabile. A questa fortezza appoggiati i Greci, difendevano le gole d'Itri e di Fondi, e la fertile pianura del Garigliano. Il ducato di Napoli propriamente detto, lontano un giorno da Gaeta, non comprendeva che la spiaggia infestata dai fuochi sotterranei da Cuma fino a Pompea, e separata dal rimanente della Terra di Lavoro dallo spento vulcano della Solfatara e dal nuovo del Vesuvio. Ma pel corso d'alcuni secoli si riguardò come parte del ducato di Napoli tutto il promontorio di Sorrento, il quale è una penisola che divide i golfi di Salerno e di Napoli, o piuttosto un mucchio di montagne affatto impraticabili. Veggonsi come sospesi sopra il mare sul pendio di queste montagne molti ricchi villaggi, e le città di Sorrento e di Amalfi occupano una a ponente e l'altra a levante, il fondo de' due angusti seni, talmente chiusi da scoscese montagne, che non vi si può quasi giugnere che dalla banda del mare[245]. Questi due ducati, siccome i più separati dall'impero e dai suoi ufficiali, han più agevolmente potuto darsi un governo repubblicano. Ogni città aveva un municipio, o formato in sull'esempio della costituzione romana, o conservato fino dai tempi delle repubbliche della Magna Grecia. I magistrati venivano eletti dai cittadini in un'assemblea annuale, ed il popolo suppliva colle tasse, ch'egli medesimo s'imponeva, alle spese che non avevano altro scopo che il proprio vantaggio; mentre quasi tutto il prodotto delle pubbliche imposte veniva trasportato a Costantinopoli.

Le città erano state assai ben fortificate dagl'imperatori; ma perchè i cittadini le difendessero, rendevasi necessario di ordinare la milizia. Eransi già riuniti per gli uffici civili, si assoggettarono ancora alle leggi della milizia, eleggendo i loro capitani, sotto i quali difendere le loro persone e proprietà: ed in tal modo si fecero veramente cittadini.

Nel settimo secolo, ed in principio dell'ottavo, l'esarca di Ravenna nominava il primo magistrato o duca delle principali città marittime[246]. Ma poichè Ravenna cadde in potere de' Lombardi, il governo delle città greche fu diviso fra il duca, o maestro de' soldati di Napoli, ed il patrizio di Sicilia, i quali fino al decimo secolo vennero eletti dall'imperatore[247]. Dopo tal epoca, il maestro dei soldati di Napoli veniva nominato dai suffragi de' suoi concittadini.

Nel periodo dei cinque secoli che racchiude la durata delle repubbliche della Campania, furono queste frequentemente chiamate a guerreggiare contro i Lombardi padroni del ducato di Benevento. Ma, per il corso di tre secoli, tali guerre ci vengono appena indicate da pochi monumenti storici, ed assai confusamente, non avendo verun istorico antico delle città greche, e non incominciando le cronache degli scrittori lombardi beneventani che col regno di Carlo Magno. Per altro, poco dobbiamo dolerci di non avere di quelle guerre più circostanziati racconti; perciò che la debolezza dei due popoli nemici, e la natura del paese, li forzavano a limitare le loro imprese all'attacco di qualche castello o villaggio posto su le montagne; e quando non accadeva loro d'impadronirsene nel primo impeto, non avendo modo di formarne regolare assedio, i principali guerrieri, approfittavano di qualche opportunità per dar prove del loro valore battendosi in singolar duello, o tentando qualche ardita scorreria nel cuore del paese nemico; poi si ritiravano. I Lombardi s'avanzarono più volte fin sotto le mura di Napoli, di Gaeta, d'Amalfi, ed allora i Greci, in cambio d'impedire al nemico lo stendersi nelle loro campagne, riparavansi, fossero cittadini o villani, entro le mura dei loro castelli. E perchè avanti che s'inventassero le artiglierie, i mezzi d'attaccar le piazze erano affatto sproporzionati ai mezzi di difesa, non potendosi ridurre che per fame o per viltà, tutti gli attacchi de' Lombardi tornarono vani.

Erano omai cento cinquant'anni passati da che i ducati di Napoli e di Gaeta. mantenevansi indipendenti in mezzo ai Lombardi Beneventani, allorchè Leone l'Isaurico, coll'abolire ne' suoi stati il culto delle imagini, disgustò i suoi sudditi d'Italia, e perdette parte delle province che possedeva in questa contrada. Esilarato, duca di Napoli, volendo obbligare quegli abitanti, fortemente attaccati al culto delle imagini, all'osservanza delle ordinanze imperiali, li rese ribelli. In pari tempo papa Gregorio II, avendo accusato il loro duca d'aver preso parte in una trama per assassinarlo, essi massacrarono il duca e suo figlio; rimandarono il duca Pietro destinato suo successore a Costantinopoli; forzarono il patrizio Eutichio a giurare di nulla intraprendere contro il papa, e convennero coi Romani e col re Lombardo di difendere contro chiunque si fosse il successore di s. Pietro[248]. Non perciò lasciarono di riconoscere la supremazia degl'imperatori orientali; e perchè questi, per lo stesso motivo delle imagini, avevano già perduto l'Esarcato di Ravenna, trovarono conveniente di non s'opporre apertamente al culto delle imagini: onde i Napoletani accolsero il nuovo duca loro mandato da Costantinopoli. Intanto questo scisma indebolì sempre più i legami che univano le città Campane all'impero, e lo spirito d'indipendenza vi fece rapidissimi progressi.

Quando del 774 fu da Carlo Magno distrutta la monarchia lombarda, era duca di Benevento Arichis, genero dell'ultimo re Desiderio; il quale non volendo riconoscere il nuovo sovrano d'Italia, fu il primo de' principi beneventani a dichiararsi indipendente, facendosi coronare ed ungere dai vescovi del suo principato. In pari tempo si pacificava coi Napoletani, ond'essere in istato di difendersi contro Pipino, figliuolo di Carlo Magno, allora re d'Italia, il quale si disponeva ad inseguire i Lombardi nel ducato di Benevento. Ad ogni modo, dopo una guerra disgraziata, vedevasi costretto di cedere, riconoscendosi tributario dell'impero d'Occidente, e dando il figliuolo Grimoaldo in ostaggio a Carlo Magno[249]. Da che i Lombardi furono oppressi, l'imperatore d'Oriente prese a proteggerli, ed accolse in corte Adelgiso figliuolo dell'ultimo re. Onde il duca di Benevento per facilitarsi i soccorsi di Costantinopoli fortificò Salerno, il solo porto di mare ch'egli avesse ne' suoi stati, e vi fissò stabilmente la sua residenza[250].

(787) Al duca di Benevento, suo padre, succedeva Grimoaldo, cui Carlo Magno permetteva di regnare in Benevento a condizione però che i Lombardi suoi sudditi si raderebbero la barba, che in testa agli atti, e sulle monete del ducato s'iscriverebbe il nome di Carlo Magno, e finalmente che sarebbero distrutte le fortificazioni di Salerno, d'Acerenza e di Consa[251]. Ma questo trattato ebbe breve durata. Grimoaldo e Pipino, figlio di Carlo Magno, erano pari d'età, egualmente avidi di gloria, e perciò rivali. Grimoaldo seppe affezionarsi il suo popolo, e, quantunque privo d'ogni forza straniera, seppe con tanta destrezza approfittare dell'asprezza del paese che doveva difendere, delle fortificazioni delle città, del clima meridionale nocivo alle armate francesi, che respinse sempre le armate dell'imperatore d'Occidente, e non fu sottomesso[252].

Un secondo Grimoaldo mantenne l'indipendenza di Benevento fino alla morte di Carlo Magno[253]. Ma allorchè, mancato questo principe, i duchi di Benevento avrebber potuto approfittare della debolezza de' suoi successori per dilatare lo stato con nuove conquiste, comportandosi tirannicamente, perdettero l'affetto del popolo, e con questo le loro forze. Grimoaldo II fu ucciso da' suoi sudditi ammutinati, che dell'817 gli sostituirono un rifugiato di Spoleti, chiamato Sicone, il quale a' tempi della conquista di Carlo Magno aveva chiesto asilo al duca di Benevento, e da Grimoaldo II fatto poi conte d'Acerenza[254].

Questo nuovo principe, alleato di Teodoro, in allora duca di Napoli, erasi giovato de' suoi ajuti per conseguire il principato. Ma il popolo di Napoli, scontento del suo primo magistrato, lo scacciò dalla città, sostituendogli uno de' suoi compatriotti chiamato Stefano[255]. Teodoro rifuggiatosi presso Sicone, lo persuase ad assediare Napoli, con tutte le sue forze. I Napoletani, non avendo che le milizie del ducato contro nemici infinitamente più numerosi, non potevano sperar salvezza che dal proprio coraggio e dalle mura: ma queste furono ben tosto scosse dal montone in modo, che una larga breccia apriva la città agli assedianti; per cui i Napoletani disperati conobbero la difficoltà di difendersi più a lungo. Avvicinavasi la notte apportatrice del massacro, del saccheggio e di tutti gli orrori cui si danno in preda le città occupate d'assalto. Il loro duca Stefano aveva una madre e due figli degni di più felice repubblica: questi si presentano a lui pregandolo, come capo della famiglia e dello stato, a mostrarsi il padre de' loro concittadini, anzi che il loro, sacrificandoli al ben pubblico. Una deputazione, mandata al duca di Benevento, gli espone che la città trovatasi ormai in sua balìa; che s'egli la risparmia, sarà la miglior gemma della sua corona; che se per l'opposto le dà un nuovo assalto in sul cadere del giorno, egli non potrà nè contenere i suoi soldati, ne salvar Napoli dal massacro, dal saccheggio e dall'incendio che gli assediati provocheranno con una disperata difesa: gli rappresenta la sua gloria medesima interessata ad aspettare che il sole rischiari il suo trionfo; lo prega di risparmiare tanti infelici che non domandano per arrendersi che il brevissimo spazio d'una notte; e come pegno della vicina loro sommissione, gli viene presentato tutto quanto il duca Stefano aveva di più caro, la madre ed i due figli. Sicone riceve gli ostaggi, e fa suonare la ritirata, aspettando d'entrare in città allo spuntare del giorno[256].

Frattanto Stefano riunisce a parlamento i suoi soldati e concittadini. «Io non sono più maestro dei soldati, dice loro; ho perduto questo glorioso titolo nell'istante in cui ho acconsentito di sottomettere la vostra patria al giogo de' Beneventani. Voi siete liberi, sceglietevi un capo il quale più di me fortunato rialzi le mura e vi conduca alla vittoria.» Stefano dopo questo discorso sortì da Napoli, offrendo il suo capo alla vendetta del nemico. Egli fu ucciso dai soldati di Sicone innanzi alla chiesa di santa Stefania[257].

I Napoletani, attenendosi ai suoi consigli, avevano dato il titolo di maestro dei soldati ad un loro capitano, chiamato Bon, il quale ordinò subito che le donne, i fanciulli ed i vecchi, unendosi ai soldati travagliassero con ardore tutta notte a rialzare le mura, ed a cuoprirle di larga fossa. Fu ubbidito, ed allorchè, fatto giorno, Sicone presentossi alla testa dello sue truppe, conobbe l'impossibilità d'occupare la breccia d'assalto.

I Napoletani, abbandonati dai Greci, avevano in tanto pericolo chiesto soccorso a Luigi il buono, imperatore d'Occidente, che loro spediva alcuni rinforzi, che arrivarono opportunamente per sostenere ancora un lungo assedio; e quando Sicone incominciava a scoraggiarsi, chiesero di entrare in trattati di pace, che da lui ottennero a condizione di pagargli un tributo, e cedergli il corpo di s. Gennaro, il quale fu levato dalla basilica di Napoli, e con solenne pompa trasferito a Benevento[258].

Poc'anni dopo, anche Sorrento, una delle principali città del ducato di Napoli, fu, per quanto assicura una leggenda, liberato per l'intercessione del santo suo patrono da formidabile assedio. Ma, convien confessarlo, l'espediente adoperato dal celeste patrono fu assai meno nobile e generoso di quello del duca cittadino. A suo padre Sicone era succeduto nel principato di Benevento Sicardo, il quale, o perchè i Napoletani si rifiutassero dal pagare il pattuito tributo, o che il suo umore inquieto lo determinasse alla guerra, fatto è che invase e devastò le terre del ducato di Napoli, riunendo infine le sue truppe avanti Sorrento, che ridusse alle ultime estremità. Una notte, mentre pensava al modo di occupare l'assediata città, gli apparì l'ombra di s. Antonino, un tempo abbate di Sorrento. Il sant'uomo teneva la mano un nodoso bastone, con cui percosse cinque o sei volte le larghe spalle del duca, soggiungendo con terribile voce: «Soffri il debito castigo de' tormenti che tu procuri al mio gregge, e ti sottometti, incredulo, al poter del cielo e de' suoi santi.» Allora rialzava di nuovo il bastone, disposto a ricominciare; ma Sicardo, prostrandosi ai piedi dell'ombra veramente rispettabile, giurò di non molestar più oltre i suoi fedeli. Nè mancò alla promessa, perchè in sul far del giorno si affrettò di ritirarsi colla sua armata[259]. Qualunque siasi la credenza che si vuol accordare a tale leggenda, certo è intanto che nell'836 Sicardo stipulò un trattato di pace col vescovo, col maestro de' soldati e collo stato di Napoli, che vien chiamato in quell'atto repubblica, all'opposto dei paesi di dominio lombardo intitolati stati del principe[260].

Per ridurre Sicardo a trattar di pace, Andrea, maestro dei soldati di Napoli, s'appigliò ad un partito assai pericoloso, il di cui esempio riuscì funesto a tutta l'Italia meridionale. Privo dell'appoggio degl'imperatori d'Oriente, si rivolse ai barbari, chiamando in suo soccorso i Saraceni di Sicilia[261], che da pochi anni avevano in quell'isola fondata una colonia militare. Un Greco, chiamato Eufemio, perseguitato dal patrizio di Sicilia per aver rapita una religiosa, di cui erasi perdutamente innamorato, si rifugiò in Affrica, ove indicò ai Saraceni i mezzi d'impadronirsi della Sicilia. Di fatti era ritornato in Sicilia dell'828 con un'armata di Saraceni, che ne aveva intrapresa la conquista[262]. E per coraggio e per talenti militari erano a quest'epoca i Saraceni di lunga mano superiori ai Greci, ai quali avevano già tolta quasi tutta l'Asia, l'Egitto e l'Affrica, ed alcun tempo dopo l'isola di Creta, ed altre isole dell'Arcipelago. Avevano in oltre conquistata la Spagna sui Visigoti; e quello spirito religioso e militare che incominciava a raffreddarsi nell'Arabia e nella Siria, infiammava sempre i Musulmani alle frontiere del loro impero, e li spingeva a nuove imprese. Da che i Saraceni ebbero posto piede in Sicilia, acquistarono un'assoluta preponderanza sulle truppe dell'imperatore Michele che allora regnava a Costantinopoli, e su quella di Teofilo, suo figlio e successore. Dell'831 fu ucciso in battaglia il patrizio Teodoto, e presa dagli Arabi Messina, i quali nel susseguente anno, impadronitisi di Palermo, incominciarono ad infestare colle loro piraterie le coste d'Italia: pure, finchè visse Sicardo, non venne lor fatto di occupare veruna terra nelle sue province.

Sicardo ci viene rappresentato qual uomo che a molta bravura accoppiò moltissimi vizj che lo resero odioso a' suoi sudditi. Egli fu il primo de' principi lombardi, che obbligò la città d'Amalfi a riconoscerlo suo signore. Solo motivo della guerra tra i Lombardi e gli Amalfitani furono le reliquie di santa Trifomene, patrona d'Amalfi. Benchè le dissolutezze, la crudeltà, i sacrilegi di Sicardo potessero difficilmente associarsi a tanto zelo religioso, egli cercava ad ogni modo di radunar reliquie per ornare la cattedrale di Benevento, e come aveva già costretti i Napoletani a cedergli quelle di s. Gennaro, e rubate quelle di s. Bartolomeo alle isole di Lipari, così mosse guerra agli Amalfitani per quelle di s. Trifomene. La piccola repubblica d'Amalfi, ancora dipendente da Napoli, era allora divisa da fazioni che l'avevano in modo snervata, da non poter opporsi vigorosamente alle armi di Sicardo; il quale, essendosene impadronito, dopo avere spogliato il santuario delle casse che formavano l'argomento de' suoi ambiziosi desiderj, forzò tutti gli abitanti a seguirlo a Salerno, dove volendoli stabilmente unire al suo popolo, fece che contraessero matrimonio co' suoi sudditi, e gli ammise a partecipare di tutti i diritti de' Lombardi[263].

Intanto Sicardo erasi reso co' suoi sacrilegj odioso al clero; alla nobiltà, da prima colla galanteria, poscia coll'insopportabile alterigia della moglie; a tutto il popolo, colle sanguinose esecuzioni. Ingelositosi di Siconolfo suo fratello (839), lo aveva chiuso in una prigione a Taranto: onde ridotto a non avere presso di sè che segreti nemici, fu ucciso alla caccia presso di Benevento; e quegli abitanti destinarongli successore Redalchiso suo tesoriere[264].

Quando la notizia della morte di Sicardo giunse a Salerno, gli abitanti d'Amalfi, che trovavansi quasi soli in città, perchè i Salernitani facevano allora il raccolto, corsero al porto, e caricando i vascelli delle spoglie delle chiese e delle case, per compensarsi del saccheggio sofferto poc'anni prima, tornarono trionfanti all'antica loro patria, e ne rialzarono all'istante le mura. Da quest'epoca gli Amalfitani si emanciparono affatto dalla supremazia del maestro de' soldati di Napoli, ed incominciarono a governarsi come repubblica indipendente[265].

Dal canto loro i Salernitani rifiutaronsi di riconoscere per loro principe Radelchiso eletto dai Beneventani; e riconciliatisi cogli abitanti d'Amalfi, condonarono loro la fresca ingiuria, a condizione che gli aiutassero colle loro navi a liberare il legittimo erede del principato, Siconolfo fratello dell'estinto Sicardo, che sapevano custodito in prigione a Taranto.

Alcuni vascelli mercantili equipaggiati dai cittadini di Salerno e d'Amalfi fecero vela alla volta di Taranto. I mercanti si sparsero la sera per le strade di questa città, chiedendo ad alta voce, come costumavasi a que' tempi, ospitalità; ed alcuni di loro, siccome avevanlo sperato, furono ricevuti dai carcerieri di Siconolfo. «Noi abbiamo una camera ben disposta, dissero costoro; alloggiate presso di noi, e se domani vorrete donarci alcuna cosa, ve ne saremo grati.» Questa è press'a poco l'usanza con cui in quelle province s'alloggiano anche ai dì nostri i viaggiatori. I Salernitani incaricarono i loro ospiti di provveder vino ed altre cose; e gl'incoraggiarono poi a darsi buon tempo; ma quando li videro ubbriachi e in preda ad un profondo sonno, liberato subito Siconolfo, lo condussero a Salerno sulla loro flotta[266].

La simultanea elezione di due principi, Radelchiso a Benevento, e Siconolfo a Salerno, diede origine a lunghe guerre civili, a divisione, a debolezza, e finalmente, dopo due secoli, alla total rovina della nazione lombarda nel mezzogiorno d'Italia. I Saraceni, venuti di Sicilia in soccorso di Radelchisio, incominciarono dall'occupare, a danno del loro alleato, la città di Bari. Siconolfo, autorizzato dall'esempio del suo nemico, chiamò di Spagna altri Saraceni della setta degli Aglabiti e nemici de' Saraceni affricani; i quali, secondo la più probabile opinione, s'impadronirono di Taranto e saccheggiarono le Calabrie[267].

Questi sconsigliati principi si fecero una guerra tanto più crudele, in quanto che le loro armate composte essendo di Lombardi e di Musulmani, questi rovinavano le campagne e saccheggiavano le città, senza che i sovrani che gli avevano assoldati osassero di metter freno alla feroce loro barbarie; come non ottennero verun vantaggio dal loro ajuto nell'andamento della guerra. Era in allora duca di Spoleti il vecchio Guido, d'origine francese, e secondo le costumanze della sua nazione chiamato Erchemperto, il quale ajutando prima Siconolfo, poi Radelchiso, s'arricchì a danno de' due principi, cui vendette la sterile sua protezione[268]. Finalmente l'anno 851 colla mediazione di Guido, e sotto la protezione dell'imperatore Luigi II fu diviso tra i due competitori il ducato di Benevento. Taranto, Cosenza, Capoa, Sora coi loro territorj, e la metà del contado d'Acerenza; ossia tutte le province dell'attuale regno di Napoli poste sul mediterraneo, tranne i ducati di Napoli e di Gaeta, furono ceduti al principe di Salerno: ebbe quello di Benevento l'altra metà del principato, cioè il rimanente del regno di Napoli verso l'Adriatico. Il confine dei due stati venne fissato ad ugual distanza tra Benevento e Salerno, e Benevento e Capoa. In conseguenza di questo trattato s'obbligarono i due principi a scacciare di concerto i Saraceni dai loro stati[269].

Ma così poco sopravvissero ambedue a questo trattato, che non ebbero tempo di riparare i danni cagionati ai popoli dalla guerra civile. I Lombardi che, nel ducato di Benevento, eransi, come in Pavia, riservato il diritto di eleggere i loro sovrani, non permisero che la sovranità si perpetuasse nelle famiglie di Radelchisio e di Siconolfo, ed i principati s'andarono indebolendo con nuove divisioni. Landolfo, conte di Capoa, si rese indipendente, ed il suo esempio fu imitato da molti altri conti; di modo che i principi lombardi, ridotti al dominio d'una sola città, ed indeboliti dalle piccole guerre e dai piccoli intrighi, si ridussero a così oscura condizione, da cui difficilmente e con pochissimo vantaggio si richiamerebbero in vita.

Nè le repubbliche greche sfuggirono alle calamità che la discordia de' principi lombardi procurò all'Italia meridionale. Una colonia militare di Saraceni si stabilì presso alla foce del Garigliano in una fertile pianura, che ancora a' nostri giorni par che conservi le impronte della barbarie musulmana; mentre altri Saraceni si resero padroni di Cuma, colonia Greca fondata dagli Eubei, e la più occidentale città del ducato di Napoli. Il soggiorno de' Saraceni in così illustre città la ridusse in pessimo stato, e due secoli dopo venne interamente distrutta quando ne furono scacciati. I Saraceni eransi pur resi padroni di Acropoli, o capo della Licosa e di Misene. Dell'846 assediarono ancora Gaeta; ma i cittadini di Napoli, d'Amalfi e di Sorrento riunitisi sotto Andrea, maestro de' soldati, o console di Napoli, e di Cesario suo figliuolo, costrinsero gli Affricani a levar l'assedio[270]. La flotta di Gaeta rinforzò allora quelle delle altre repubbliche greche, e si presentò innanzi ad Ostia per soccorrere contro gli stessi nemici papa Leone IV[271].

Le repubbliche greche della Campania erano i soli stati cristiani che avessero una marina sul mediterraneo. Le loro flotte da guerra e mercantili difendevano ugualmente il territorio ed accrescevano ogni anno le ricchezze di Napoli, di Gaeta, d'Amalfi. Quest'ultima, dopo ricuperata la libertà sotto il regno di Siconolfo, andava crescendo in popolazione ed in ricchezze, impadronendosi a poco a poco del commercio d'Oriente. Gli Amalfitani credevansi discesi da una colonia romana; dicevano che i loro antenati, mandati dal gran Costantino a Bisanzio, erano naufragati a Ragusi, e rimasti lungo tempo nell'Illirico; che in appresso attraversato l'Adriatico, e stabilitisi a Melfi nella Puglia, vi soggiornarono parecchi anni; che finalmente, abbandonata questa provincia, per cercar un paese in cui, avessero intera libertà, fabbricarono una città sul Golfo di Salerno, cui diedero il nome dell'ultima loro stazione[272]. Era il loro piccolo stato formato di quindici in sedici villaggi e castelli posti intorno alla capitale sul pendio delle montagne che chiudono dalla banda d'Occidente il golfo di Salerno. Alcuni, trovandosi rinserrati tra il mare e le rupi, danno opportunità agli abitanti di occuparsi della pesca e del commercio; ma altri vedonsi come sospesi a metà della china del monte che signoreggia il mare, quasi nascosti dagli oliveti che coprono tutto questo distretto. I dorati rami degli aranci che fanno corona alle bianche abitazioni, richiamano i lontani sguardi dei passeggieri, che ammirano le case de' ricchi ed industri proprietarj; mentre dall'altro lato di questo magnifico golfo i maestosi avanzi de' templi di Pesto s'innalzano solitarj in mezzo ad un deserto e desolato piano, che da oltre due mila anni non fu più visitato dalla libertà.

Prima della conquista di Sicardo, gli Amalfitani ricevevano il loro governatore dal duca, console o maestro dei soldati di Napoli: ma poichè nell'839 si posero in libertà, si sottomisero ad un magistrato annuale eletto dai suffragj del popolo, che chiamarono prima prefetto, poi conte, maestro de' soldati, o duca[273]. Sotto questi capi la repubblica d'Amalfi coprì il mare di navi, sparse in tutto l'Oriente le sue monete conosciute col nome di tari[274], acquistò fama di saviezza, di coraggio, di virtù; e diede all'Europa tre leggi ben degne di perpetuarne la memoria. Flavio Gisia o Gioja, cittadino d'Amalfi, inventò la bussola; in Amalfi si trovò l'esemplare delle Pandette, che fece rinascere in tutto l'Occidente lo studio e la pratica della giurisprudenza di Giustiniano; finalmente le leggi d'Amalfi intorno al commercio servirono di commentario al diritto delle genti, e furono la base della giurisprudenza commerciale e marittima. Le leggi d'Amalfi ottennero nel mediterraneo quell'opinione, che negli antichi tempi eransi acquistata ne' mari medesimi quelle di Rodi, e che due secoli dopo fu accordata nell'Oceano a quelle d'Oleron[275].

Ecco quanto fra le tenebre della storia ci fu dato di raccogliere intorno all'origine ed ai progressi delle repubbliche greche dell'Italia meridionale. Tre secoli più tardi le vedremo invase dai Normanni, e cancellate dal numero delle nazioni; di modo che con poche cose che ci rimangono a dire intorno a questa seconda epoca, sarà compiuta la storia della loro lunga esistenza. Della loro popolazione, delle ricchezze, dell'estensione del commercio non abbiamo che poche ed incerte memorie. I sepolcri che racchiudono le ceneri de' generosi cittadini d'Amalfi, di Napoli, di Gaeta, avvolgono nelle loro tenebre ancora la rimembranza delle loro imprese e delle loro virtù. E quel nobile amore di libertà che gl'infiammava, e quella patria cui tutto sacrificavano, e quelle leggi dettate dalla sapienza, i duchi, i magistrati di cui ne temevano le usurpazioni, i nemici che li circondavano, e contro i quali combattevano con tanta gloria, tutto è perito. Tante generose imprese loro ispirate dall'amor della gloria, tanti richiami alla posterità imparziale, le avversità sostenute con eroico coraggio, sperando che le future generazioni vendicherebbero le ingiurie de' contemporanei; tante belle speranze tornarono vane, e la razza degli eroi si spense, senza che l'ingrata posterità abbia mai soddisfatto a ciò che loro doveva.

Gl'infelici Lombardi crudelmente maltrattati dai Saraceni chiamarono l'anno 866 a Benevento Luigi II imperatore e re d'Italia. Gli ultimi possedevano in tutte le parti d'Italia diverse montagne di cui avevano afforzati i passaggi, castella ed anche città di dove facevano frequenti sortite per saccheggiare i paesi cristiani. Luigi II attaccò successivamente le fortezze degli Arabi, s'impadronì di Matera, di Venosa, di Canossa, ed intraprese l'assedio di Bari, la miglior piazza che i Saraceni possedessero sul golfo Adriatico; ma conoscendo di non poterla occupare senza l'ajuto d'una flotta, si alleò coll'imperator greco Basilio, il quale aveva allora liberata Ragusi e le altre città dell'Illirico dalla incursione de' Saraceni medesimi[276]. Bari dovette succumbere alle forze riunite dei due imperatori: per la qual cosa i Greci riacquistarono ancora qualche influenza sull'Italia meridionale, la quale si rese maggiore poichè Lodovico disgustò i Lombardi che l'avevano chiamato in loro soccorso. Il principe di Salerno arrestò per sorpresa l'imperatore d'Occidente, e lo tenne alcun tempo prigioniero nel suo palazzo; per la qual mortale ingiuria, dovendo il principe di Salerno temere i risentimenti di Luigi II, quand'anche un trattato di pace gliene assicurasse il perdono, si gettò fra le braccia di Basilio, e gli giurò fedeltà per assicurarsi della sua protezione.

La rovina della famiglia di Carlo Magno, ed i burrascosi regni di Berengario, di Ugo, di Berengario II, nell'Italia settentrionale, pel corso quasi d'un secolo, agevolarono ai Greci le conquiste che fecero nella provincia ch'essi chiamavano Lombardia, perchè rimasta assai più tempo delle altre in potere de' Lombardi. L'impero d'Oriente riparò talvolta le sue perdite, non perchè acquistasse maggior vigore, ma perchè sopravvisse al decadimento dei popoli nemici[277]. I Lombardi, i Franchi, i Saraceni, che tutti ebbero impero in queste province, erano affatto tralignati. Resi orgogliosi dalle passate prosperità, si abbandonarono al lusso ed alla mollezza; oltre che i loro dominj, trovandosi divisi in piccoli principati, non potevano resistere nè meno ad un debole nemico, quali erano i Greci. Questi s'impadronirono di quasi tutte le città e fortezze che i Saraceni avevano nella Puglia, ed in tal modo formarono il loro nuovo Thême di Lombardia[278]. I principi lombardi trovandosi alle frontiere dei due imperi d'Oriente e d'Occidente, attaccavansi a vicenda or all'uno, or all'altro; e secondo che lo richiedevano le private loro viste, trasferivano il loro vassallaggio ed il giuramento dal successore di Carlo Magno al successore di Costantino.

Ma poichè le corone d'Italia e dell'impero passarono nella casa di Sassonia, gli Ottoni si posero in dovere di difendere o di ricuperare le antiche province dell'impero d'Occidente; di fare che i principi lombardi riconoscessero la loro signoria, e di scacciare dall'Italia i Greci ed i Saraceni. Lunga fu la guerra che Ottone I sostenne in Italia contro Niceforo Foca, terminata soltanto del 970, quando Niceforo fu assassinato. Il suo successore Giovanni Zimisco ambì l'alleanza d'Ottone, ed un matrimonio unì le due famiglie imperiali[279].

Ottone II mise in campo le pretensioni paterne sulla sovranità dell'Italia meridionale, cui gli dava un nuovo diritto il suo matrimonio con Teofania: chiedeva agl'imperatori d'Oriente per dote della consorte le province della Lucania e della Calabria, e l'alta signoria sopra le repubbliche di Venezia[280], di Napoli, di Gaeta, d'Amalfi, che nascondevano la loro indipendenza sotto il velo d'una pretesa fedeltà verso l'impero d'Oriente.

Gl'imperatori Costantino e Basilio, dopo avere inutilmente cercato di allontanare il turbine che minacciava i loro dominj d'Italia, chiesero ajuto ai Saraceni di Sicilia e d'Affrica. Intanto Ottone entrava in Italia (980) con una potente armata, resa più forte dall'alleanza di Pandolfo testa di ferro, che possedeva quasi tutto il ducato di Benevento qual era anticamente. Occupata dell'892 la città di Taranto, Ottone avanzavasi nella Calabria ulteriore fino alla borgata di Basentello posta in riva al mare. Era colà aspettato dall'armata combinata greca e saracena. Al primo vigoroso attacco de' Tedeschi, gli Orientali si disordinarono; ma una colonna di Saraceni, che formava la riserva, piombò sui vincitori nell'istante che questi, inseguendo il nemico, avevan rotte le loro linee, e ne fece un miserabile massacro. Pandolfo testa di ferro, e parecchi altri conti e prelati guerrieri, perdettero la vita in quest'incontro.

Già l'armata d'Ottone era interamente distrutta, nè v'era più alcun corpo che sostenesse l'impeto de' nemici; e l'imperatore medesimo fuggiva lungo la spiaggia temendo d'essere preso dai Saraceni e massacrato. Una galera greca erasi ancorata su quella riva, onde l'imperatore preferì di darsi nelle mani di nemici inciviliti, piuttosto che rimanere vittima d'un'orda di barbari. Si fece conoscere al capitano della galera, ed a lui s'arrendette, cercando asilo a bordo della nave. Non tardò Ottone ad avvedersi che quest'ufficiale subalterno, sorpreso da tanta fortuna, sagrificherebbe i vantaggi del suo paese al proprio; perchè gli offerse immense somme d'oro qualora volesse condurlo a Rossano, ov'era chiusa l'imperatrice Adelaide sua madre. La galera fece tosto vela verso Rossano, essendosi conchiuso un segreto trattato tra il capitano, Ottone, e l'imperatrice; per cui quando giunsero in faccia a quella città, varj muli assai carichi furono condotti verso la riva. Alcune guardie imperiali comandate da Teodoro, vescovo di Metz, s'avvicinarono in una barca alla galera per accertarsi se il personaggio coperto di porpora, che loro mostravasi sul banco era veramente Ottone; e mentre i Greci distratti dalle trattative, ed avvezzi a non veder camminare i loro imperatori senza appoggiarsi agli eunuchi, non si prendevan cura del prigioniere, Ottone slanciossi in mare, e guadagnata a nuoto la barca delle sue guardie, fece voltar bordo, e prendendo anch'egli un remo, giunse in porto avanti che la galera potesse raggiungerlo. Il Greco stordito vide ritornare in città dietro all'imperatore i muli ch'eransi fatti sortire per ingannarlo, e dovette allontanarsi dalla rada di Rossano senza poter vendicarsi dell'inganno[281].

Benchè i Greci si lasciassero uscir di mano così importante preda, non perdettero però i frutti di tanta vittoria. Durante il regno d'Ottone II, e la minorità di suo figliuolo, dilatarono in Italia i confini del loro impero[282], e stabilirono in Bari un governatore col titolo di Catapane[283]. In pari tempo fabbricarono in Puglia la città di Troja, e molti castelli, onde rimaner coperti da nuovi attacchi. Non perchè tranquillamente abbiano potuto intraprendere e condurre a termine tali opere, doveva credersi che Ottone fosse disposto a lasciar loro il pacifico possesso de' paesi conquistati. Egli aveva convocata a Verona una dieta degli stati di Lombardia e d'Allemagna, fatte passare molte truppe nell'Italia meridionale, ed egli stesso erasi portato a Roma per terminare i preparativi dell'impresa che meditava, non solo contro la Calabria, ma ancora contro la Sicilia; quando sorpreso da una infermità cagionatagli dall'avvilimento e dal dispetto, lo condusse al sepolcro nel fior dell'età. Le repubbliche di Venezia, di Napoli, d'Amalfi, di Gaeta, comprese nel progetto di vendetta, che Ottone andava maturando contro gl'imperatori d'Oriente, furono da quest'immatura morte liberate da una disastrosa guerra.

Alla battaglia di Basentello, ed alla morte di Pandolfo testa di ferro tenne dietro la divisione del ducato di Benevento, ripartito in piccoli principati, ch'egli aveva avuto la destrezza di unire in un solo. Durante la minorità d'Ottone III, i Greci continuarono le loro conquiste, ed i Saraceni i loro saccheggi. Quantunque questi ultimi avessero molto perduto di quello spirito di attività che li rendeva valorosi ed intraprendenti, non lasciavano ancora d'essere superiori ai popoli effeminati da cui erano circondati; ed i loro saccheggi avevan gettate tutte le province poste al mezzogiorno del Tevere in quello stato di debolezza e di spossamento, che solo può spiegare la strana rivoluzione che doveva ben tosto eseguirsi. Vent'anni dopo la disfatta d'Ottone a Basentello, alcuni avventurieri settentrionali, approfittando della debolezza di queste province, posero al confine dei due imperi i fondamenti di una potenza, che in meno d'un secolo assorbì tutta l'Italia meridionale, soggiogò le antiche repubbliche, e fece dagl'Italiani chiamare regno quella Magna Grecia, che due volte era stata la patria primogenita della libertà[284].

I Normanni o Danesi, dopo avere lungo tempo saccheggiate le coste della Francia, del 900 ottennero uno stabilimento nella Neustria, che dal loro nome fu poi chiamata Normandia. La lunga permanenza d'un secolo in questa provincia non iscemò nel cuor loro l'antica passione per le strane e difficili intraprese. Avevano abbracciata la religione cristiana, ma come i Greci avevano introdotte nella religione le sottigliezze scolastiche, gli Egizj e gli Assirj il carattere contemplativo e la loro morale ascetica; così i popoli settentrionali la resero cupa e sanguinaria com'era quella del loro Odino; insegnando il disprezzo della morte, eccitando il valore, e promettendo alle azioni gloriose una compensa nell'altro mondo.

Popoli coraggiosi ed intraprendenti essendosi fatti cristiani credettero, o si compiacquero di credere, che non potevano salvarsi senza visitare i sacri luoghi illustrati dalla presenza dei fondatori e dei martiri della religione. Una lodevole curiosità, una sensibilità virtuosa, e quell'amore, per così dire, innato dell'uomo per tutto ciò che gli richiama simbolicamente l'antichità, erano sufficienti motivi per condurre molti Cristiani in terra santa, quand'anche la Chiesa non avesse risguardate quelle fatiche come un mezzo di eterna salute; ma il numero de' divoti viaggiatori crebbe all'infinito quando in compenso di questo pellegrinaggio, pericoloso è vero, ma interessante, variato e sempre nuovo, promise la remissione di tutti i peccati e l'ingresso del cielo.

I Normanni furono di tutti i popoli settentrionali i più caldi pellegrini. Per portarsi in terra santa non vollero esporsi alla troppo lunga monotonia d'un viaggio marittimo, tanto più che non incontravano nel mediterraneo quelle impetuose borrasche che sconvolgono i mari del Nord, le triste e cupe nebbie, i galleggianti scogli di ghiaccio, e tutti i pericoli ch'eransi avvezzati a disprezzare nella loro patria. Attraversavano perciò la Francia e l'Italia, lasciando alla loro spada la cura di provederli del danaro necessario alle spese del viaggio, ove non bastassero le elemosine de' fedeli. Floridissimo era il commercio che Napoli, Amalfi, Gaeta e Bari mantenevano sulle coste della Siria: onde i pellegrini vi trovavano facilmente imbarco. Di più, su la strada delle prime città eravi Monte Cassino; il monte Gargano o degli Angeli su la strada dell'ultima: ambedue resi illustri, dicevasi, da frequenti miracoli. Per queste ragioni i devoti pellegrini visitavano passando i monasteri fabbricati su quelle montagne, e quasi tutti, andando o ritornando di terra santa, prendevano la strada della Magna Grecia.

In sul cominciare dell'undecimo secolo, circa quaranta religiosi viaggiatori, tornati da Terra santa sopra navi amalfitane, trovaronsi in Salerno nell'istante in cui una piccola flotta di Saraceni si presentò innanzi a questa città, chiedendo una contribuzione militare. Gli abitanti del mezzogiorno d'Italia, snervati dalle delizie di quel clima incantato, avviliti dall'esempio de' Greci, e fors'anco riputandosi stranieri agl'interessi ed alle contese de' loro principi, avevano perduto l'antico coraggio militare. L'insulto fatto dai Saraceni a Salerno offese i quaranta cavalieri normanni, i quali, avendo da Guaimaro III, allora principe di quello stato, ottenuto armi e cavalli, si fecero aprire le porte, e caricarono que' pirati così valorosamente, che ne ruppero tosto le file. I Salernitani, colpiti dalla bravura de' guerrieri normanni, ne imitarono l'esempio, ed in breve la campagna si vide coperta dei cadaveri de' Musulmani, salvandosi gli altri a precipizio sulle loro navi[285].

Guaimaro ricompensò largamente i valorosi stranieri che lo avevano difeso e condotti i suoi sudditi alla vittoria; e desiderando di approfittare della loro bravura, nulla trascurò di quanto poteva allettarli a rimanere alla sua corte. Ma vedendo che volevano ad ogni modo ripatriare, li pregò a voler almeno mandare in loro vece altri guerrieri della loro nazione a cogliere sugl'infedeli i frutti del proprio valore.

Le offerte del principe di Salerno accompagnate dalla vaghezza degli aranci e degli altri ricchi frutti di quel clima beato[286], il racconto di quanto era accaduto ai quaranta guerrieri, e la facilità della vittoria, riscaldarono la fantasia della gioventù normanna. Un cavaliere, per nome Drengot, trovandosi, a cagione d'una lite con un suo rivale, disgustato del soggiorno della sua patria, risolvette di trasferirsi con tutta la sua famiglia in questa terra così favorita dal cielo. Gli si associarono quattro suoi fratelli coi loro figli e nipoti, e pochi altri concittadini; di modo che quando giunsero questi pellegrini al monte Gargano, termine apparente del loro viaggio, trovaronsi in numero di cento. Furono colà incontrati da certo Melo, cittadino di Bari, poc'anzi uno de' più ricchi e potenti signori della Puglia, il quale dopo avere inutilmente tentato di liberare i suoi concittadini dal giogo de' Greci e dall'autorità vessatoria de' catapani, era stato costretto ad abbandonare la patria. Melo aveva saputo guadagnarsi il favore de' principi lombardi, e specialmente di Guaimaro di Salerno; dai quali avendo ottenuti alcuni soccorsi, potè offrire un grosso stipendio ai Normanni che volessero abbracciar la sua causa, oltre le larghe promesse di magnifica ricompensa quando fossero vittoriosi[287].

La guerra che Drengot co' suoi Normanni intraprese contro i Greci, ebbe incominciamento l'anno 1016, ma le sue armi non furono costantemente felici; e Melo dopo tre consecutive vittorie fu battuto a Canne l'anno 1019[288], ove rimasero sul campo la maggior parte de' Normanni. Melo andò in Germania per impegnare nella sua causa l'imperatore Enrico II, facendogli sentire la necessità di metter freno alle usurpazioni dei Greci; ma terminò colà i suoi giorni avanti che potesse veder l'esito delle sue pratiche, che non furono senza effetto. I pochi Normanni, salvatisi dalla rotta di Canne, abbandonarono la Puglia, e si posero ai servigi dei principi di Salerno e di Capoa; e la perdita fatta a Canne, quantunque grandissima, rispetto al loro piccolo numero, fu ben tosto riparata coll'arrolamento di nuovi avventurieri che ogni giorno pellegrinando giungevano a Capoa e Salerno.

Finalmente Enrico II del 1021 entrò nella Puglia con un'armata. Le trattative di Melo erano state continuate da papa Benedetto VIII; ma l'impresa d'Enrico si terminò coll'acquisto di Troja nella Puglia[289]; perchè una malattia epidemica che faceva strage della gente tedesca, l'obbligò a ritirarsi. Intanto questa spedizione riuscì utilissima ai Normanni, i quali, militando tutti sotto gli stendardi d'Enrico, trovaronsi, allorchè ritirossi l'armata tedesca, riuniti tutti assieme sotto Rainolfo sopravvissuto al fratello Drengot. Dietro i consigli di Rainolfo essi abbandonarono per la seconda volta la Puglia, e s'impadronirono d'Aversa, in allora piccolo castello del ducato di Napoli sulla strada di Capoa, e vi si stabilirono e fortificarono, volendone formare una seconda patria. Eransi da poco tempo stabiliti in questo castello, quando Pandolfo IV, principe di Capoa, sorprese Napoli, che fino a tal epoca aveva resi inutili gli attacchi de' Lombardi. Sergio, maestro de' soldati e capo di quella repubblica, mal soffrendo di rimanere in una città caduta in potere d'uno straniero, sortì coi principali cittadini, e si riparò in Aversa: di dove, poi ch'ebbe coi soccorsi de' Greci e de' cittadini rimasti fedeli alla patria, accumulato quanto danaro bastava per saziare la cupidigia normanna, venne alla loro testa ad attaccare la guarnigione del principe di Capoa, e battutala, rientrò in Napoli. Allora confermò ai Normanni il possesso di Aversa e del suo territorio, erigendolo in contea, di cui investì Rainolfo: di modo che i primi Normanni ch'ebbero stabile dimora in Italia, furono feudatarj della repubblica di Napoli[290].

Pure nè la famiglia di Rainolfo, nè la colonia d'Aversa erano destinate a fondare il regno di Napoli, ma bensì una delle principali famiglie di Normandia, quella di Tancredi d'Auteville. Aveva questo signore dodici figli, i più attempati de' quali, udendo i prosperi successi de' loro compatriotti, s'invogliarono di correre la stessa sorte, e giunsero in Italia l'anno 1035, accompagnati da molti guerrieri vestiti da pellegrino[291].

Il giovane Guaimaro, principe di Salerno[292], non si mostrò meno pronto ad accogliere questa seconda colonia, di quel che lo fosse stato suo padre verso la prima; ed approfittando delle loro braccia per dilatare i suoi dominj, assediò subito Sorrento, indi Amalfi, ch'espugnò l'una appresso l'altra[293]. Amalfi per altro non s'arrese che in virtù d'una capitolazione che assicurava ai cittadini la libertà loro ed i privilegi; onde quella piccola repubblica non fu incorporata al principato di Salerno, ma soltanto ne fu dai suffragi del popolo dichiarato duca Guaimaro in aprile del 1039. La moderazione di Guaimaro non ebbe lunga durata; ma tosto che gli Amalfitani videro violati i loro privilegi, congiurarono contro il principe di Salerno, che, ferito da trentasei colpi di pugnale, perì su la spiaggia che divide Salerno da Amalfi[294].

Dai servigi di Guaimaro passarono i Normanni sotto le insegne di Michele Paflagone, imperatore di Costantinopoli. Il greco Patrizio Meniace che faceva in Calabria grandi apparecchi per riprendere la Sicilia agli Arabi, allora divisi da una guerra civile, assoldò i tre figli maggiori di Tancredi, Guglielmo braccio di ferro, Dragone, ed Umfredo con trecento Normanni[295]. Questa spedizione che doveva riconciliare i Normanni coi Greci, fu invece cagione dell'intera loro separazione; perciocchè i Normanni conobbero più da vicino la viltà, la venale cupidigia e la dissimulazione de' Greci. Poco dopo essi s'unirono al lombardo Ardoino, il quale servendo con loro nell'armata di Maniace, e mostrandosi valoroso soldato, fu non pertanto da quel generale di vilissimi schiavi che più non avevano sentimento d'onore, percosso col bastone in presenza delle sue truppe per cagione di un cavallo che gli si voleva rapire. I Normanni non fecero travedere la loro indignazione finchè non furono dai vascelli greci portati al di qua dello stretto: ma poichè trovaronsi sulle coste d'Italia, convennero di riunirsi in Aversa il giorno di Natale del 1041, chiamandovi ancora il lombardo Ardoino; il quale, soffiando nel cuor de' Normanni l'implacabile suo odio, li determinò ad attaccare le province dell'impero d'Oriente ed a conquistare per sè medesimi ciò che i Greci possedevano ancora nella Puglia e nella Calabria. Così ardita intrapresa veniva resa meno difficile da una rivoluzione, che avendo posto sul trono di Costantinopoli un nemico di Maniace, forzò questi a ribellarsi, e per tal modo a lasciar le province greche quasi senza difesa. I Normanni si assoggettarono a dodici capi scelti da loro, cui diedero il titolo di conti; affidando ad Ardoino il supremo comando della piccola loro armata, accresciuta di trecento uomini che gli diede Rainolfo conte d'Aversa. Avanzatisi nell'interno della Paglia, occuparono Melfi, che gli aprì le porte senza opporre veruna resistenza; presero in seguito Venosa, Ascoli e Lavello, ed in tre successive battaglie trionfarono tre volte dei Greci. Rinforzaronsi poi con nuove alleanze, e per ricompensarli de' ricevuti soccorsi, accordarono l'onore del comando a due altri capi Atenolfo ed Argiro; il primo de' quali, essendo fratello del duca di Benevento, gli aveva procurato il soccorso de' Lombardi, mentre Argiro, ricchissimo cittadino di Bari e figliuolo dell'illustre Melo, li favoreggiò col suo credito presso i Pugliesi e presso i partigiani che aveva suo padre nelle greche città. In questa guerra il valore e l'intrepidezza spesso appoggiate dall'astuzia e dall'intrigo stavano dal lato de' Normanni: i Greci all'opposto erano vili, disuniti, scoraggiati. Quasi tutta la Puglia fu conquistata in due anni, e nel 1042 divisa tra i conquistatori. Melfi dichiarata capitale dei loro stati, rimase proprietà comune d'Ardoino e di Guglielmo braccio di ferro, capo dei Normanni: i loro dodici conti ebbero altrettante città, Siponto, Ascoli, Venosa, Lavello, Monopoli, Trani, Cannes, Montepiloto, Trigento, Aceranza, Sant'Arcangelo e Minerbino. E per tal modo si formò nella Puglia una specie di repubblica militare ed oligarchica[296].

Benchè i Normanni avessero scelto a loro capo Guglielmo braccio di ferro, degnavansi poche volte di eseguirne gli ordini; viveano essi coi soli prodotti del saccheggio, e non essendo legati da veruna convenzione, piuttosto che la guerra, esercitavano il ladroneccio alla testa de' loro satelliti. I conventi, le chiese, e quegli stessi luoghi santi che furono poc'anzi l'oggetto dei loro pellegrinaggi, non isfuggivano alle loro rapine[297]: di modo che tanti replicati insulti riunirono finalmente contro di loro i vicini potentati.

Leone IX formò la lega dei due imperi contro gli avventurieri normanni. Essendo anch'esso tedesco, riclamò i soccorsi dovuti da Enrico III, imperatore di Germania, ai popoli ed alla Chiesa, e n'ebbe cinquecento uomini d'arme che furono il nervo della sua armata. Pubblicò intanto come sacra la guerra che intraprendeva per la sicurezza dei popoli e delle chiese; e che sarebb'egli capo dell'armata, onde combattere piuttosto col soccorso del cielo, che coi mezzi umani. I Pugliesi, i Campani, gli Anconitani e quelli dello stato della Chiesa si riunirono sotto le sue insegne; e lo stesso fecero i Greci. Allora il santo pontefice con un'armata assai numerosa, ma priva di generale, diede principio alla sua spedizione con un pellegrinaggio a Monte Cassino per ottenere sulla sacra armata la benedizione del cielo[298].

I Normanni opposero alla sacra armata truppe meglio agguerrite. Era già morto Guglielmo braccio di ferro, e Dragone a lui succeduto era stato di fresco ucciso dai rivoltosi[299]; ma Unfredo il terzo de' fratelli, e Roberto Guiscardo l'ultimo figliuolo del secondo letto di Manfredi di Hauteville potevano riguardarsi e principalmente l'ultimo siccome i più destri e più valorosi guerrieri d'Europa. Roberto Guiscardo giungeva allora dalla Puglia con un ragguardevole rinforzo di Normanni, e Riccardo conte d'Aversa della famiglia Drengot s'unì con tutte le forze di cui poteva disporre ai suoi patrioti, per dividerne i pericoli e la gloria. Benchè meno numerosi assai che le truppe del papa, i soldati normanni erano uomini costantemente esercitati nel mestiere della guerra, che quantunque divoti, erano per altro inaccessibili agli scrupoli[300].

Ad ogni modo prima d'intraprendere le ostilità tentarono i Normanni di placare il pontefice, lasciando in suo arbitrio le condizioni, con cui potessero ottenere perdono. Ma Leone IX, che trovavasi spalleggiato dall'alleanza dei due imperi, e sicuro dei soccorsi del cielo, negava di venire a trattative prima che i Normanni sgombrassero per sempre l'Italia. Si venne dunque a battaglia presso di Civitella il giorno 18 giugno del 1053, e la vittoria rimase assai breve tempo dubbiosa; imperciocchè tutta quella timida plebaglia riunita sotto le insegne papali dalle prediche dei monaci, e di cui il papa aveva torto di credere d'aver fatto un'armata, fuggì al primo incontro. Rimasero fermi i Tedeschi, ma non essendo più di cinquecento, o come altri vogliono, settecento uomini d'arme; avviluppati dai Normanni, perirono quasi tutti sul campo di battaglia. Il papa che all'istante della disfatta erasi riparato in Civitella, dovette uscirne e rimanere senza difesa fuori delle porte, perchè gli abitanti non vollero esporsi al risentimento dell'armata vittoriosa.

I Normanni s'avanzarono verso di lui, e quando gli furono vicini si gittarono in ginocchio, e coprironsi di polvere implorando il suo perdono e la sua benedizione. Lo condussero nel loro campo, trattandolo sempre col più profondo rispetto: ma in mezzo a tante dimostrazioni di religiosa umiltà lo tennero alcun tempo prigioniero, sicchè potè persuadersi che ad un pontefice non si convengono le funzioni di generale d'armata. E come aveva prima creduto che il cielo lo avrebbe soccorso, credette allora che il cielo si fosse apertamente dichiarato contro di lui, e fece egli stesso i primi passi per riconciliarsi con quegli stessi uomini, contro i quali aveva predicato una specie di crociata. Per soddisfare alla loro domanda, e riporsi in libertà, accordò ai Normanni l'investitura in nome di s. Pietro, e come feudo della Chiesa, di tutto quanto avevano conquistato, e di quanto potessero ancora conquistare nella Puglia, nella Calabria e nella Sicilia[301].

E per tal modo una disfatta diede alla santa sede ciò che ottenuto mai non avrebbe con una vittoria, e la debolezza d'un pontefice pio ed affatto ignaro della politica del mondo, conquistò quello che i più arditi suoi predecessori non avevano pur osato di tentare. Infeudando ai Normanni le province già possedute dai Greci e dai Lombardi, il papa se ne attribuiva la proprietà, comecchè niun diritto potesse allegare su le medesime, o formarne la più remota pretensione. Pure i Normanni chiesero tale investitura, perchè così credevano di sanzionare in faccia ai popoli superstiziosi i diritti meno sacri della forza e della conquista; ma infiniti vantaggi derivarono da questo trattato alla Chiesa; poichè dopo questa fatale investitura, il regno di Napoli rimase feudo di s. Pietro, non con altro fondamento che di un dono strappato colla forza ad un prete, che non sapeva pur egli d'avere alcun diritto sopra ciò che donava.

I Normanni approfittarono della vittoria per estendere il loro dominio a tutte le province comprese nell'infeudazione del papa. Unfredo soggiogò la Puglia: Roberto Guiscardo con pochi compagni andò in Calabria, ove fortificatosi nel castello di san Marco, faceva frequenti scorrerie nel territorio greco, più degne di un assassino, che di un conquistatore. Gli abitanti avevano abbandonati tutti i vicini villaggi; ed il maestro di casa di Guiscardo gli dava talvolta avviso che mancavano le provvisioni per l'indomani, nè aveva danaro per comperarne, e che, quand'anche ne avesse, non troverebbe a molte leghe di distanza chi gli vendesse alcuna cosa. Allora Guiscardo usciva dal suo forte, alcuna volta coi Normanni, altre volte con degli Schiavoni banditi ch'erano a lui accorsi da ogni banda, ed andava a saccheggiare i più lontani villaggi[302].

Moriva Unfredo del 1057, onde Guiscardo lasciava il ladroneccio per impossessarsi del contado di Puglia. Chiamò allora di Lombardia Ruggero l'ultimo de' suoi fratelli, che stabilì in Calabria col titolo di conte perchè vi continuasse le sue conquiste: ma sia per avarizia, sia per gelosia, lo lasciò più ancora sprovveduto di danaro di quel che fosse stato egli medesimo; onde il giovane conte, che doveva pur essere il conquistatore della Sicilia, ed il padre de' suoi re, non avendo ricevuto da Roberto che un solo cavallo in premio de' suoi lunghi servigi, tornò in Puglia, e si fece a rubar cavalli, ed a spogliare i mercanti nelle vicinanze di Melfi. Egli stesso, poichè pervenne alla sovranità, ordinò al suo storico Gaufrido Malaterra di conservare la memoria di tali avventure, onde la posterità conoscesse da quale stato di miseria si fosse innalzato a così alto grado[303]. Ruggiero danneggiò pure i possedimenti di Guiscardo, e v'ebbe tra i Normanni una specie di guerra civile; se pure gl'insulti del giovane guerriero non debbono piuttosto risguardarsi quali attentati d'un capo d'assassini in guerra con tutta la società.

Intanto Guiscardo, dopo aver soggiogata quasi tutta la Puglia, volendo estendere le sue conquiste alla Calabria, fu costretto di pacificarsi con suo fratello, cui nel 1060 affidò pure il comando di parte del suo esercito. Attaccarono di conserva e s'impadronirono di Reggio, poi di molte città della stessa provincia; per cui Roberto Guiscardo, trovando il titolo di conte inferiore alla presente sua condizione, s'intitolò di propria autorità duca di Puglia e di Calabria, titolo che gli fu alcun tempo dopo riconfermato da papa Niccolò II[304].

Benchè avessero guerra coi due imperi, non interrompevano i Normanni il corso delle loro conquiste, non trovandosi spesse volte a fronte nè armate, nè generali. Enrico IV di Germania non era per anco uscito dalla sua lunga minorità, quando gli attentati dei papi misero in pericolo la sua corona. In Grecia Costantino duca, Romano Diogene e Michele duca, trovandosi l'un dopo l'altro impegnati nella più pericolosa guerra col Turco, non poterono distrarre le loro forze per soccorrere le province occidentali, che in tempo d'alcuni brevissimi intervalli di tregua. E già del 1061 più non rimanevano al Greci in Italia che Bari, Gallipoli, Taranto, Brindisi, Otranto e poche castella. Ruggiero che comandava a nome di suo fratello in Reggio di Calabria, approfittando delle difficili circostanze in cui trovavasi l'impero greco, e delle intestine divisioni de' Saraceni, formò l'ardito progetto di conquistare la Sicilia occupata da questi ultimi, mentre Guiscardo terminerebbe di scacciare i Greci dalla Calabria e dalla Puglia.

I Saraceni, tanto temuti due secoli prima, erano a tale stato di languore e d'impotenza ridotti, da provare essi medesimi quel terrore, che in altri tempi spargevano tra i loro vicini. L'entusiasmo religioso gli aveva fatti soldati, il tranquillo possesso delle loro conquiste ne aveva spento lo spirito guerriero. Educati in una religione voluttuosa, privi di patria, quantunque dimorassero ne' più bei paesi del mondo, dissiparono le ricchezze acquistate colle armi nel procurarsi i più grossolani piaceri, e si resero effeminati al paro delle popolazioni asiatiche di cui avevano da principio trionfato. Non è però che qualche avanzo di valore non si conservasse ancora nelle ultime classi del popolo; onde i Normanni che non trovarono resistenza ne' Saraceni d'Italia, assoldarono tra costoro uomini valorosi che servirono Guiscardo utilmente in tutte le guerre; ma i capi de' Saraceni, privi di talenti e di coraggio, si governavano debolmente. La loro monarchia era divisa in principati quasi indipendenti. Ogni città aveva un piccolo principe, o emiro: e la discordia di due di loro Benhumena, e Ben Stammend, che consigliò l'ultimo a recarsi a Reggio per implorare la protezione di Ruggiero, agevolò ai Cristiani l'ingresso nella Sicilia[305].

Ruggiero non aveva che soldati di ventura, i quali lo seguivano spontaneamente per essere a parte delle sue conquiste: ma questi non essendo troppo numerosi, e restando breve tempo sotto le sue bandiere, vedevasi obbligato a ritirarsi dopo pochi mesi dall'isola, senza avervi fatto alcuno stabile acquisto. Per altro le sue imprese eseguite con centocinquanta, e talvolta con trecento cavalieri ebbero un'apparenza ancora più romanzesca, che le prime conquiste de' Normanni nella Puglia[306].

I Cristiani greci che abitavano nella città di Traina posta nella valle di Dèmone, ne aprirono le porte a Ruggiero, il quale vi si fissò colla giovinetta sua sposa e con trecento cavalieri, infestando i Saraceni del vicinato. Ma gli stessi Cristiani disgustati dell'arbitrario procedere de' loro ospiti, si rivoltarono, ed introdussero in città i Saraceni che ne occuparono una parte. Non avendo allora altro luogo fortificato che li coprisse, trovaronsi i Normanni esposti a continue battaglie contro forze assai superiori, e nell'impossibilità di procurarsi i viveri con lontane scorrerie. In così trista situazione soffersero ogni maniera di disagi, e talvolta la fame. La contessa, e due o tre donne del suo seguito dovevano preparare il vitto per Ruggiero, e per i suoi compagni d'armi, avendo ascritti alla milizia tutti i domestici: ed erano a tale carestia d'abiti ridotti, che il conte e la contessa non avendo che un solo manto, valevanse alternamente quando l'uno o l'altro doveva uscire in pubblico. Al conte, in un combattimento rimasto solo in mezzo ai nemici, fu ucciso il cavallo; ma egli si fece largo colla spada, e prendendo sulle spalle la sella, perchè non rimanesse in mano de' nemici testimonio della sua disfatta, ritornò, attraversando lentamente le file nemiche, al proprio alloggiamento. In tali miserie seppero i Normanni sostenersi quattro mesi, occupando la metà d'una città di cui il restante trovavasi in potere de' loro nemici. Il rigore dell'inverno fu la loro salvezza. La città di Traina, posta a' piedi dell'Etna in un suolo assai elevato, fu coperta di neve; onde i Saraceni ed i Greci, non avvezzi a così acuti freddi, rallentarono i loro attacchi, ed i Normanni giunsero una notte a sorprenderli, ed a scacciarli dall'altra parte della città. Padroni allora delle nuove fortificazioni, si risguardarono come in luogo d'intera sicurezza, quantunque in mezzo ad un'isola nemica[307].

Malgrado la cavalleresca bravura de' guerrieri normanni, le loro conquiste furono assai lente, o perchè le armate erano troppo piccole, o perchè i soldati erano poco subordinati ai loro capi. Quando i primi avevano fatta una ragguardevole preda separavansi dai loro stendardi per andare a godersela tranquillamente, raggiungendo poi i loro compagni quando erano di nuovo ridotti in povertà. A Ruggiero abbisognarono trent'anni per conquistare la Sicilia, e poco meno a Roberto Guiscardo per occupare tutta la Puglia. Soltanto nel 1080 riuscì a quest'ultimo di scacciare per l'ultima volta dall'Italia i Greci, e di riunire ai suoi stati Taranto, Castaneto, Bari e Trani[308]. Ma poc'anni prima avevano i Normanni rivolte le loro armi contro i principi lombardi, che si dividevano il restante del gran ducato di Benevento, e gli avevano spogliati senza incontrar resistenza. Riccardo, conte d'Aversa, e discendente di Drengot, del 1062 impadronissi del principato di Capoa, di cui aveva preso il titolo[309]. Il principato di Benevento si estinse l'anno 1077 per la morte di Landolfo IV, e fu smembrato da Viscardo, il quale, tenendo per sè il territorio, ne cedette la città alla santa sede, la quale pretendeva di averne il supremo dominio in forza di una concessione dell'imperatore Enrico III. Finalmente Guiscardo attaccò Salerno, la capitale dell'altro principato lombardo, ov'erasi rinchiuso l'ultimo de' suoi principi Gisulfo. Per obbligarla più presto ad arrendersi, Guiscardo si alleò cogli Amalfitani, i quali si felicitarono dell'alleanza de' Normanni, e nominarono Guiscardo loro duca, obbligandosi ad assisterlo nell'impresa di Salerno colle loro flotte: ma non solamente si riservarono l'antica loro costituzione e la libertà, ma inoltre fu convenuto che le truppe di Guiscardo non entrerebbero giammai nella loro città e territorio, riservandosi esclusivamente la custodia di tutte le loro fortezze. Sussidiato dagli Amalfitani, Guiscardo chiuse Salerno dalla banda del mare, mentre colle sue truppe l'andava vigorosamente stringendo per terra; di modo che fu costretta di capitolare l'anno 1077. Gisulfo si ritirò nello stato di Roma, e Salerno accrebbe il territorio del duca normanno[310].

Così fu spenta l'ultima dinastia de' regnanti lombardi cinquecentonove anni dopo la prima loro discesa in Italia sotto il comando di Alboino, e trecentotre dopo la disfatta di Desiderio ultimo loro re. A tale epoca soltanto questa nazione, altra volta così potente, perdette il diritto d'avere i suoi proprj sovrani. Presso agli Occidentali il nome di Lombardia rimase a quella più settentrionale parte d'Italia ch'era immediatamente soggetta ai re di Pavia; ma i Greci, forse con più ragione, chiamarono Lombardia il regno di Napoli, di cui i Lombardi beneventani conservarono il pieno ed indipendente dominio più di cinque secoli.

Cacciati i Greci dalla Puglia e dalla Calabria, ed i principi lombardi da Salerno e da Benevento, e conquistata la Sicilia che Ruggiero governava come un feudo del ducato di Puglia col titolo di gran conte, Roberto Viscardo si trovò capo d'un vasto stato acquistato colle forze d'un semplice gentiluomo, il quale aveva egli stesso formata di avventurieri e di pellegrini l'armata che combatteva sotto i suoi ordini. La sua ambizione non era per altro ancora soddisfatta, essendosi proposto di conquistare l'impero d'Oriente; per colorire il quale ardito progetto, del 1081 attraversò il mare Adriatico, s'impadronì di Corfù e di Botronto, ed assediò Durazzo. Non terremo dietro a Roberto in questa spedizione estranea al nostro soggetto, e ci limiteremo ad osservare che nello spazio di tre anni questo principe ebbe la gloria di veder fuggitivi innanzi a lui i due imperatori d'Oriente e d'Occidente. In ottobre del 1081 disfece l'esercito dell'imperatore Alessio Comneno, venuto in persona per fargli levar l'assedio di Durazzo[311]. Chiamato in Italia da una ribellione scoppiata ne' suoi stati, accorse del 1084 a liberare Gregorio VII di cui erasi dichiarato protettore, quantunque lo avesse poco prima scomunicato. Allora fu ch'Enrico IV, levato l'assedio da Castel sant'Angelo ove trovavasi chiuso il papa, avanti che arrivassero i Normanni, ritirossi da Roma, di cui Guiscardo ne abbruciò la metà, abbandonandola al saccheggio de' Saraceni che formavano parte della sua armata. Furono queste probabilmente l'estreme imprese di Roberto Viscardo, che morì in Cefalonia il 17 luglio del 1085 mentre rinnovava i suoi tentativi contro il greco impero[312].

La storia degl'immediati suoi successori non merita d'essere così attentamente considerata. Suo figlio e suo nipote conservarono a stento una monarchia ch'egli solo aveva fondata. Le guerre civili resero inquieto il regno di Ruggiero I duca di Puglia. Ebbe costui un fratello maggiore, chiamato Boemondo, famoso nella storia delle Crociate, che fu poi principe d'Antiochia. Questo principe era stato spogliato de' suoi diritti ereditarj dal testamento paterno e da un giudizio della Chiesa. Guiscardo, volendo passare a seconde nozze, aveva fatto divorzio colla prima moglie, sotto pretesto di lontana parentela, e Boemondo suo figliuolo era stato ridotto al rango di figliuolo bastardo. Egli riclamò contro l'ingiustizia del testamento paterno, e cercò di far valere colle armi i suoi diritti, finchè la predicazione della crociata, aprendo una nuova carriera alla sua ambizione, lo strascinò in Asia colle armate cristiane. Partì del 1096 con suo cugino Tancredi, ed i Normanni spiegarono nell'Asia la stessa bravura, la stessa politica, la stessa avidità, la stessa ambizione che gli aveva già resi potenti e temuti nella Neustria, in Inghilterra, in Italia ed in Grecia[313].

La lontananza di Boemondo e de' suoi guerrieri ridonò la tranquillità a Ruggiero, duca di Puglia, che non aveva più rivale, ma d'altra parte indebolì i suoi stati, e s'oppose ai progetti d'ingrandimento e di conquista[314]. Guglielmo, figliuolo di Ruggiero, succedette al padre nel 1111, e regnò fino al 1127 in cui morì senza lasciar figliuoli, per cui tutta l'eredità dei figli di Tancredi Hauteville venne in dominio di Ruggiero II, gran conte di Sicilia e figliuolo di Ruggiero I. Il regno di Guglielmo non fu, come quello del padre, fecondo d'importanti avvenimenti, onde ci affretteremo d'arrivare a quello di Ruggiero, che terminò di consolidare la monarchia normanna, acquistandole il titolo di regno, ed unendo a' suoi dominj il principato di Capoa e le repubbliche della Campania, rimaste fino a tal epoca indipendenti. Quantunque il regno di Ruggiero sia posteriore alla pace di Worms ed al periodo di tempo compreso in questo volume, abbiamo creduto di doverci alquanto scostare dal metodo prescrittoci per non interrompere il racconto della fondazione d'una monarchia nelle due Sicilie, e per terminare la storia delle repubbliche greche della Campania, onde non essere in dovere di parlarne in avvenire.

Ruggiero II, conte, poi re di Sicilia, ai talenti ed alle virtù di Guiscardo univa maggior vanità e minor grandezza d'animo. Trovando il titolo di duca inferiore alla sua potenza, ambì il nome di re, ed abbracciò opportunamente, all'occasione d'uno scisma che divideva la Chiesa, il partito dell'antipapa Anacleto II, cui era più che mai necessaria la sua protezione, mentre tutta la cristianità riconosceva per legittimo papa Innocenzo II. Questi non poteva pagare a troppo caro prezzo la protezione dell'unico principe dichiaratosi a suo favore, d'un principe vicino a Roma, ed abbastanza potente per riporre il suo protetto sulla sede pontificia e per mantenervelo colle sue armi. In forza dell'alta signoria sulle due Sicilie che Leone IX aveva acquistata alla santa sede, Anacleto decorò il suo vassallo del titolo di re, ponendogli colle sue mani la corona in capo. In pari tempo per formare il nuovo regno unì alla Puglia, alla Calabria, alla Sicilia il principato di Capoa, che apparteneva ai Normanni d'Aversa, e la repubblica di Napoli, sui quali stati egli non aveva verun diritto[315].

Dopo l'incoronazione, Ruggiero si prese cura di ricompensare il pontefice scismatico che lo aveva fatto re, e spinta la sua armata verso Roma, ove Innocenzo II, ajutato dai Francipani suoi parenti, erasi posto in possesso del supremo pontificato, sconfisse le milizie della Chiesa, stabilì Anacleto in Roma, e costrinse Innocenzo a salvarsi a Pisa, di dove passò in Francia per implorare soccorso contro l'usurpatore.

Ruggiero, appena fatto re, pensò a limitare i privilegi de' suoi popoli. La libertà degli Amalfitani attrasse i primi sguardi di Ruggiero. Dopo il 1038 in cui que' repubblicani eransi sottomessi a Guaimaro, principe di Salerno, avevano sempre posti de' principi stranieri alla testa del loro governo. I Normanni succedettero ai Lombardi: Roberto Guiscardo e suo figliuolo Ruggiero avevano ottenuta quasi per forza la dignità ducale; e comunque ogni capitolazione assicurasse agli Amalfitani la conservazione della libertà e de' privilegi loro, andavano non pertanto perdendo sotto un capo straniero quel sentimento di assoluta indipendenza che prima formava la principale loro forza. Ma mentre la repubblica d'Amalfi piegava a men libero governo in Europa, alcuni suoi cittadini gittavano in Palestina i fondamenti d'un ordine, che doveva ereditare il suo potere sui mari, ed essere depositario della gloria cavalleresca d'Europa.

Alcuni mercanti d'Amalfi chiamati dagl'interessi di commercio in Oriente, ed in seguito condotti dalla divozione a Gerusalemme; l'anno 1020 ottennero dal Califfo d'Egitto la facoltà di costruire presso al santo Sepolcro un ospedale dedicato a s. Giovanni per alloggiarvi i viaggiatori della propria nazione, ed i Cristiani che venivano a visitare i luoghi santi. Nello stesso tempo fabbricarono una chiesa dedicata a santa Maria dei Latini, ed un convento per le femmine consacrato a santa Maria Maddalena. Questi edificj innalzati a spese degli Amalfitani, e da loro provveduti di sufficienti entrate, rimasero quasi un secolo esclusivamente in mano dei cittadini d'Amalfi, fino ai tempi in cui Goffredo Buglione pose alla testa de' crociati l'assedio a Gerusalemme. Gherardo della Scala, borgata del territorio d'Amalfi, era a tal epoca rettore del convento degli ospitalieri di s. Giovanni, il quale avendo armati i cenobiti in favore de' crociati, gli ajutò potentemente a sottomettere la città. La guerra sacra cambiò la natura di quest'ordine religioso; gli ospitalieri abbandonarono la cura degli ammalati per difendere la nuova patria, e combattere contro gl'infedeli, e l'ordine che il commercio aveva creato, non rimase più aperto che alla nobiltà militare. Pure i cavalieri di Malta, successori de' borghigiani d'Amalfi, riverberano ancora qualche gloria su la repubblica che li produsse[316].

Gli Amalfitani, come abbiamo osservato, erano, in forza de' loro trattati, rimasti in possesso dell'interna amministrazione delle loro magistrature repubblicane e della guardia delle fortificazioni delle città e de' castelli del territorio. Allorchè Ruggiero fu coronato re, li richiese di rinunciare a tutti i privilegi che erano, secondo ch'egli diceva, contrarj alle prerogative di un monarca. Irritato dal rifiuto degli Amalfitani, riunendo le flotte siciliane e le truppe normanne attaccò con tutte le sue forze questa piccola repubblica, e dopo avere con regolari assedj sottomesse l'una dopo l'altra tutte le sue fortezze, le costrinse a conformarsi ai suoi voleri[317]. I gentiluomini che militarono per Ruggiero contro Amalfi, caddero anch'essi vittima della sua immoderata ambizione. Tanto è vero, che quando uomini liberi congiurano contro l'altrui libertà, non devono lusingarsi di conservare lungo tempo la propria.

In fatti Ruggiero intraprese di sottomettere i principali baroni del suo regno, i quali non avendo fino allora combattuto che in qualità di volontarj, godevano d'un'assoluta indipendenza. Roberto, principe di Capoa, era il primo de' gentiluomini normanni. Discendente da Drengot, fondatore della colonia normanna d'Aversa, non era unito di parentela alla famiglia di Hauteville; era capo d'uno stato conquistato dai suoi antenati, e rimasto quasi indipendente. Pure il principe di Capoa non si era rifiutato di rendere omaggio al nuovo re quando fu coronato a Palermo; e solo quando il re volle forzare i suoi baroni a far guerra al legittimo papa, il principe di Capoa non volle marciare, e s'alleò con Sergio, maestro dei soldati di Napoli, e con molti baroni normanni ugualmente disposti a difendere la loro libertà civile e religiosa.

La guerra de' baroni contro il re non ebbe felice fine, perchè essendo stati battuti l'un dopo l'altro, e presa la città di Capoa, la città di Napoli restò sola indipendente, circondata da ogni lato dagli stati di Ruggiero, che comprendevano tutta l'Italia meridionale. Colà riparossi il principe Roberto di Capoa, ma vedendo che sarebbe tosto inseguito dalle armate del re Ruggiero, convenne col maestro de' soldati della repubblica sul modo di difendere quest'ultimo asilo della libertà.

Fu Roberto dai Napoletani mandato a Pisa, repubblica già fatta potente, ch'era già succeduta nel commercio marittimo alle città di Napoli e d'Amalfi. Egli invocò per sè e per la repubblica di Napoli i soccorsi de' Pisani contro un re che tentava di distruggere nel mezzogiorno d'Italia la libertà delle antiche loro alleate, e che inoltre teneva la Chiesa nell'oppressione, mantenendo sulla cattedra pontificia l'antipapa invece del legittimo pontefice[318]. I Pisani ch'eransi già caldamente dichiarati a favore d'Innocenzo II, allestirono una flotta sulla quale imbarcarono circa otto mila uomini per soccorrer Napoli, chiedendo per le spese dell'armamento ai Napoletani tre mila libbre d'argento. Questi sacrificarono di buon grado gli argenti delle loro Chiese alla difesa della libertà[319].

Intanto il re Ruggiero che aveva già fatto abbruciare i sobborghi di Napoli, e fortificare Aversa, armava una flotta in Sicilia per attaccare la città dalla banda del mare, mentre la guarnigione d'Aversa, ed i varj posti che avea stabiliti nella Campania, toglievano ai Napoletani ogni comunicazione colla terra. Egli aveva per questo servigio richieste le migliori milizie degli Amalfitani costretti di favorire la causa di Ruggiero e degli scismatici. Le galere d'Amalfi dovettero pure unirsi alla flotta di Sicilia; ed Amalfi, avendo le sue milizie accantonate in Aversa ed in Salerno, rimase senza difesa[320]. N'ebbero avviso i consoli di Pisa Alzopardo e Cane, che avevano il comando della flotta forte di quarantasei vele, e con un colpo di mano presero Amalfi, che fu saccheggiata. In tale occasione i Pisani acquistarono il famoso esemplare delle Pandette di Giustiniano, di cui arricchirono la loro patria[321]. Ma il re ch'era entrato in Aversa, di cui faceva riparare le fortificazioni, non tardò ad esserne vendicato. Fece sfilare le sue truppe per sentieri creduti impraticabili a traverso le montagne, e piombò addosso ai Pisani che assediavano il castello di Fratta, uccidendo, o facendone prigionieri mille cinquecento, tra i quali uno de' loro consoli, sforzando gli altri a rimbarcarsi a precipizio[322].

Nel susseguente inverno il principe di Capoa tornò a Pisa accompagnato da Sergio medesimo, maestro de' soldati di Napoli. Ma questo rispettabile magistrato, che già da trentadue anni governava la sua patria, rappresentò invano ai Pisani riuniti a Parlamento su la pubblica piazza, che l'ultima delle repubbliche che ancora sostiene la causa della libertà nel mezzogiorno d'Italia era vicina a succumbere; che Ruggiero, il quale aveva preso il titolo di re, non tarderebbe di attentare alla libertà di tutta l'Italia[323]; che l'interesse dell'indipendenza e della comune salvezza trovavasi unito a quello della religione e della Chiesa: ma i Pisani, spossati da una lunga guerra coi Genovesi e dalla rotta avuta alla Fratta, ricusarono di sostenere essi soli il peso d'una guerra cui erano stranieri. Roberto volle fare altre pratiche; e recatosi in Germania implorò a nome d'Innocenzo II, della repubblica di Napoli e de' baroni normanni oppressi da Ruggiero, i soccorsi dell'imperatore; mentre Sergio tornò a Napoli ad annunciare a' suoi concittadini, che omai non dovevano sperare d'essere liberati che dal proprio valore.

Le pratiche di Roberto presso l'imperatore Lotario furono più felici che non credeva. Il celebre abbate di Chiaravalle s. Bernardo che aveva abbracciato il partito d'Innocenzo II, mal soffriva di vedere Anacleto pacificamente in Roma; e perchè Ruggiero era il solo sovrano che lo proteggeva, scrisse a Lotario caldissime lettere per animarlo a punire il siciliano protettore del pontefice scismatico[324]. L'imperatore cedette alle istanze del santo, e prima che terminasse l'inverno s'incamminò alla volta d'Italia; ma siccome doveva fermarsi in ogni provincia per riformarne l'amministrazione e ricuperare i diritti dell'impero, Roberto lo prevenne, e, recatosi a Pisa, equipaggiò col soccorso de' Pisani cinque navi ch'ebbe la fortuna di condurre cariche di viveri nel porto di Napoli, sfuggendo alla vigilanza delle galere reali, che lo tenevano strettamente bloccato. Le provvisioni della città erano terminate; ma quelle portate da Roberto, e l'avviso di un prossimo soccorso rianimarono il coraggio degli abbattuti cittadini.

Poi ch'ebbe vittovagliata la città, l'instancabile Roberto tornò presso l'imperatore onde affrettarne la marcia. Lo trovò accampato in vicinanza di Cremona, e scegliendo l'istante in cui questo monarca, circondato dai suoi generali, faceva la rassegna del suo esercito, si prostrò a' suoi piedi, e coprendosi di polvere, supplicava Lotario a rendergli la paterna eredità, ed a soccorrere gl'infelici suoi alleati, che, abbandonati da lui, perirebbero in breve di fame. Di fatti Napoli trovavasi ridotta agli estremi; le donne, i fanciulli, i vecchi cadevano sulle piazze vittima della fame; «ma Sergio (mi valgo delle espressioni d'un autore contemporaneo[325] che partecipò di tante sofferenze); ma Sergio il maestro de' soldati, ed i fedeli cittadini che avevan cura della libertà della patria, e che non avevano tralignato dagli antichi costumi de' loro padri, preferivano morir di fame alla perdita della libertà, ed al giogo di così detestato nemico.»

Fortunatamente l'imperatore s'avanzò alla fine per far cessare i lamenti, e prevenire lo scoraggiamento. I messaggieri di Napoli, che avevano accompagnato Roberto, rientrarono in città, dichiarando con giuramento innanzi al maestro de' soldati ed al popolo adunato in assemblea, che avevano veduto l'imperatore a Spoleti colla sua armata. Pochi giorni dopo entrarono pure in Napoli alcuni messaggieri di Lotario, dichiarando ch'era giunto in riva al fiume di Pescara; e finalmente l'arcivescovo di Napoli, ed alcuni principali cittadini, mandati a Lotario, riportarono ai Napoletani la sicura notizia del suo imminente arrivo; perchè, sostenuti da tale speranza, continuarono a soffrir la fame, rigettando le offerte del nemico, quantunque ridotti a soli trecento uomini in istato di portare le armi[326].

(1137) La loro costanza non rimase lungo tempo senza premio. L'imperatore, dopo avere staccati dall'esercito tre mila uomini che sotto il comando d'Enrico di Baviera, suo genero, dovevano accompagnare Innocenzo II e metterlo in possesso del ducato di Roma e della Campania[327], passò il fiume di Pescara nel giorno di Pasqua. La città di Termoli e tutti i signori degli Abruzzi si affrettarono di sottomettersi all'imperatore, che, entrato nella Puglia, s'impadronì di Siponto e del monte s. Angelo, e sparse tanto terrore tra i sudditi di Ruggiero, che tutte le città, non eccettuata Bari, prevennero le sue armi e gli s'arresero. Il papa intanto avanzavasi per la strada di s. Germano alla volta di Capoa, ove ristabilì il principe Roberto. I Normanni, battuti ovunque tentarono d'opporsi alle armate imperiali, non fecero più resistenza, di modo che in una sola campagna Ruggiero perdette tutte le province al di qua del Faro.

I Pisani avevano, per la libertà di Napoli, fatto uno sforzo ancora superiore a quello de' potenti loro alleati. Avevano armata una flotta di cento navi con cui entrando vittoriosamente nel porto vi ristabilirono ben tosto l'abbondanza[328]. Rivolsero in seguito le loro armi contro di Amalfi onde rivendicare l'affronto soffertovi due anni prima. La città s'affrettò di capitolare, ma i castelli di Scala e di Scalella che ne dipendevano avendo voluto resistere, furono presi a viva forza, ed abbandonati al saccheggio. Questo secondo disastro compì la rovina della repubblica d'Amalfi, che d'allora in poi andò sempre decadendo. A quest'epoca la sola città aveva cinquanta mila abitanti; e Brencman assicura che quand'egli v'andò in principio del secolo decimottavo ne contava appena mille[329]. Oggi ne ha sei in otto mila. Questa repubblica ebbe banchi di commercio in tutti i porti della Sicilia, dell'Egitto, della Siria, della Grecia, i quali furono tutti abbandonati, tosto che verso il 1350 i re di Napoli abolirono le forme repubblicane dell'interna sua amministrazione. Non pertanto due uomini nati in Amalfi illustrarono ancora questa città dopo perduta l'antica sua potenza; cioè Flavio Gioja che del 1320 inventò, o perfezionò la bussola, e Masagnello celebre capo della sedizione di Napoli l'anno 1647. Questo pescivendolo, giunto senza educazione al governo di un potente stato, si mostrò ancora superiore all'elevato rango in cui lo aveva posto l'azzardo, e meritò d'essere risguardato come padre di un popolo di cui aveva saputo calmare i furori.

La repubblica di Napoli non godette a lungo del suo trionfo sul re di Sicilia a cagione della discordia che si manifestò tra i suoi confederati nella presa di Salerno. Sdegnaronsi i Pisani che l'imperatore, senza il consentimento loro, segnasse la capitolazione di quella città, alla cui resa aveva contribuito la loro flotta quanto, o più dell'armata imperiale. Dal canto suo Innocenzo pretendeva, non si sa con quale fondamento, che Salerno fosse di spettanza della santa sede. Questa doppia contesa consigliò la ritirata de' confederati: i Pisani fecero vela per la Toscana, Corrado si mosse alla volta della Germania, ed il papa si stabilì in Roma. Ruggiero che non aveva omai in faccia che nemici vinti più volte, rientrò nel suo regno di qua del Faro. Salerno gli aprì le porte, sottomise Nocera, bruciò Capoa, e colla rapidità con cui le perdette, riebbe quasi tutte le province che gli furono tolte nella precedente campagna[330].

Innocenzo II, disgustato dell'imperatore, tentò di metter fine alla guerra ed allo scisma colle trattative. Tre cardinali del suo partito furono ammessi in presenza di Ruggiero a discutere contro tre altri del partito d'Anacleto i titoli della validità dell'elezione dei due competitori. Questa conferenza, come d'ordinario accade, lasciò tutti nella propria opinione; sicchè, quando fu terminata, i due papi si scomunicarono di nuovo perchè l'avversario non aveva voluto arrendersi all'evidenza delle proprie ragioni. Fortunatamente per la pace della Chiesa, Anacleto morì poco dopo; e quantunque i suoi partigiani si affrettassero di eleggere il successore, che prese il nome di Vittore III, Innocenzo con una grossa somma di danaro ne ottenne l'abdicazione e la cessazione dello scisma[331].

(1138) In un sinodo tenuto in Roma l'anno susseguente, Innocenzo rinnovò le censure fulminate prima contro Ruggiero ed i suoi aderenti, e per appoggiarle colla forza s'avanzò alla testa d'una piccola armata fino al castello di Galluzzo, di cui ne cominciò l'assedio, durante il quale fu sorpreso ed inviluppato dalle truppe di Ruggiero e di suo figlio, poste in fuga le sue truppe, ed egli, fatto prigioniero e condotto nel campo nemico.

La sorte di Napoli venne decisa da questa catastrofe. Innocenzo prigioniero sacrificò, senza difficoltà, i suoi antichi difensori al loro più caldo nemico; accordò a Ruggiero l'investitura di Capoa spogliandone lo sventurato suo amico Roberto; accordò pure al re di Sicilia l'onore di Napoli e delle sue dipendenze, vale a dire, la sovranità su questa repubblica, su cui i papi non avevano mai avuto verun diritto[332]. I Napoletani che avevano perduto il duca Sergio in una delle ultime battaglie[333], e che non sapevano a chi rivolgersi per ottenere soccorso, dovettero sottomettersi, cedendo alla necessità. Mandarono deputati a Benevento ad offrire la corona ducale al re Ruggiero, da cui furono uniti alla monarchia[334].

Il re che fin allora aveva trattati i paesi conquistati con estrema crudeltà, si mostrò più generoso verso i Napoletani. Confermò tutti i loro privilegi che non erano in opposizione col potere monarchico, e ne conservò l'amministrazione municipale, che mantennesi intatta quasi un secolo[335]. Intanto colla sommissione di Napoli a Ruggiero si spense affatto la libertà nell'Italia meridionale; e Napoli, perduta la sola prerogativa che possa rendere grandi le piccole nazioni, diventa straniera alla nostra storia. Quantunque crescesse in popolazione allorchè diventò la capitale del regno, le sue ricchezze ed il suo commercio diminuirono. Le leggi reali di Ruggiero, l'istituzione d'una nobiltà militare, l'introduzione d'una moneta falsificata posta in corso con infinito danno del commercio e dell'agricoltura, cavarono dagli occhi de' Napoletani amare lagrime sulla perdita della loro libertà[336].

CAPITOLO V

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Origine di Venezia, sue rivoluzioni avanti il dodicesimo secolo — Pisa e Genova nuove repubbliche marittime — Loro rivalità con Venezia, e loro primi progressi.

Di tutte le repubbliche che fiorirono in Italia, Venezia fu la più illustre, e quasi la sola la di cui storia sia conosciuta fuori d'Italia; siccome è pur quella che durò più lungamente. La sua origine precede di sette secoli l'indipendenza delle città lombarde; la sua caduta, di cui fu testimonio la presente generazione, è posteriore di tre secoli a quella della repubblica fiorentina, la più interessante delle repubbliche de' mezzi tempi.

Poc'anni sono la repubblica di Venezia era il più antico stato d'Europa. La stessa nazione sempre indipendente, sempre libera, fu tranquilla spettatrice delle rivoluzioni dell'universo; vide la lunga agonia e la fine dell'impero romano; in Occidente la nascita dell'impero francese quando Clodoveo conquistò le Gallie; l'innalzamento e la caduta degli Ostrogoti in Italia, dei Visigoti in Ispagna, dei Lombardi che succedettero ai primi, dei Saraceni che spossessarono i secondi. Vide nascere l'impero de' Califfi, minacciare la totale invasione della terra, poi dividersi e distruggersi. Alleata per più secoli degl'imperatori Bizantini, li soccorse a vicenda, e gli oppresse; levò de' trofei alla loro capitale; ne divise le province, ed aggiunse a' suoi titoli quello di padrone d'un quarto e mezzo dell'impero romano. Essa ha veduto cadere quest'impero, ed alzarsi sulle sue rovine il feroce Musulmano; finalmente vide abbattuta la monarchia francese[337]; e sola irremovibile quest'orgogliosa repubblica contemplò i regni e le nazioni passare innanzi a lei. Dopo tutte le altre dovette anch'essa succumbere alla legge universale; ed il governo veneto che legava il presente al passato, ed univa le due epoche della civilizzazione del mondo, cessò ancor esso di esistere.

Alla natura del paese che abitarono i Veneziani devesi ascrivere la cagione della lunga loro indipendenza. Il golfo Adriatico riceve nella sua parte superiore tutte le acque che scendono dalle Alpi verso mezzodì, dal Po che trae origine sul pendio meridionale delle montagne di Provenza, fino all'Isonzo che nasce in quelle della Carniola. La foce del più meridionale di questi fiumi non è lontana più di trenta leghe da quella del più settentrionale; ed in questo spazio il mare riceve ancora l'Adige, la Brenta, la Piave, la Livenza, il Tagliamento, ed un infinito numero d'altri minori fiumi. Tutti nella stagione piovosa strascinan seco enormi masse di melma e di ghiaja, in guisa che il golfo che le riceve, colmato poc'a poco dai loro depositi, non è più mare, ma non è ancora terra, e si chiama laguna, sotto il qual nome si comprende uno spazio di venti o trenta miglia dalla riva. La laguna, vasta estensione di bassi fondi, e di fango coperto d'uno o due piedi d'acqua, che i più leggeri battelli possono a pena attraversare, viene divisa da canali scavati, non v'ha dubbio, dai fiumi che si scaricano in mare, ma in seguito conservati dall'opera degli uomini per l'interesse del commercio. Questi canali sono strade aperte ai grandi navigli, abbondanti di sicuri ancoraggi: il mare che si rompe impetuosamente contro i murazzi e le lunghe e strette isole che circondano la laguna, è sempre in calma oltre questi limiti, nè i venti possono sommover l'onde ove non sonovi profondi abissi. Ma i tortuosi intralciati canali della laguna formano un impenetrabile labirinto per i piloti non istrutti da lungo studio, e dall'esperienza dei loro andirivieni. In mezzo ai bassi fondi alzansi alcune centinaja d'isolette che incominciano al mezzogiorno di Chiozza presso alle foci del Po e dell'Adige, e stendonsi senza interrompimento fino a Grado oltre le bocche dell'Isonzo. Alcune non sono divise che da stretti canali, come quelle su cui è fabbricata Venezia, altre dominano la laguna a ragguardevoli distanze, quasi bastioni avanzati per difendere gli approcci di terra ferma. Tali isole non sono generalmente suscettibili di grande coltivazione, ma così vantaggiosamente situate per la pesca, per la fabbricazione del sale che vi si raccoglie quasi senza travaglio in alcuni bassi fondi chiamati estuari, per la navigazione e pel commercio; e coloro che le abitano hanno tanta facilità di commerciare con semplici barche con tutte le città della Lombardia, coi porti dell'Istria, della Dalmazia, della Romagna, che questo Arcipelago dovette in ogni tempo essere popolato da uomini industriosi. Le isole veneziane non sono meno sicure che comode, fortificate ugualmente contro gl'insulti de' pirati e contro le armate de' conquistatori; non sono attaccabili nè per terra nè per mare, e non possono cadere in mano de' nemici che per tradimento de' proprj abitanti.

Il dotto conte Figliasi provò nelle sue memorie sui Veneti[338], che dai più rimoti tempi questa nazione che occupava il paese detto poi Stati veneti di terra ferma, abitava pure le isole sparse lungo le coste, e che di là ebbe origine il nome di Venezia prima e seconda, applicandosi la prima al continente, la seconda alle isole ed alle lagune. Ne' tempi dei Pelasgi e degli Etruschi, abitando i primi Veneti una contrada fertile e deliziosa, dedicavansi all'agricoltura, i secondi posti in mezzo ai canali, alla foce de' fiumi, ed a portata delle isole greche, e delle feconde campagne dell'Italia, consacravansi alla navigazione ed al commercio. Gli uni e gli altri si sottomisero ai Romani non molto avanti la seconda guerra Punica; ma non fu che dopo la vittoria ottenuta da Mario sui Cimbri che il loro paese fu ridotto in provincia romana.

Sotto il governo degl'imperatori la prima Venezia fu per le sue sventure rammentata più volte dagli storici. Ricca, fertile, popolata, presentava agli ambiziosi una preda che si divisero spesso in tempo delle guerre civili. Questa provincia chiudeva l'Italia dal lato per cui poteva essere invaso l'Impero dalle nazioni germaniche, scita e schiavona. Allorchè quest'impero incominciò ad essere debole, tutte le volte che venivano forzate le barriere del Danubio, i barbari non tardavano a piombare sopra la Venezia, ed a desolarla colle loro stragi. La provincia marittima occupavasi della pesca, delle saline, del commercio, ed i Romani risguardavano gli abitanti come indegni della dignità della storia, e perciò li lasciavano nell'oscurità, come la loro umile condizione non invitava i conquistatori al saccheggio, al massacro, alle devastazioni.

Questa oscurità valeva al certo molto più che il tristo splendore di Padova e di Verona. Fu un tempo in cui gli abitanti di queste città, altra volta così opulenti, ma effemminate, deboli, aperte a tutte le invasioni, sentirono vivamente quanto fosse crudele la loro sorte in confronto di quella degli isolani, malgrado le privazioni e la vita laboriosa degli ultimi. I popoli Nomadi che invasero l'impero, associarono alle loro conquiste una ferocia che la nostra immaginazione sa appena concepire. Essi non s'appagavano di appropriarsi col saccheggio tutto ciò che potevano togliere ai sudditi di Roma, ma sembra che si proponessero di rendere le contrade che invadevano affatto simili ai deserti di dove erano usciti. Gl'incendi distruggevano i villaggi e le città, e la carnificina degli uomini, delle donne, dei fanciulli cancellava le generazioni.

In questa guisa esercitò Attila il suo furore sulle città d'Aquilea, Concordia, Oderzo, Altino e Padova. Ma la fama annunciatrice delle sue crudeltà lo precedette, e quegli abitanti della prima Venezia ch'ebbero tempo di fuggire, si ripararono nella seconda. Uomini, donne, vecchi e fanciulli, tutti si salvavano nelle isole. Nel mezzo di quelle che oggidì copre Venezia colle portentose sue case, eravi la borgata di Rialto, che diede asilo alla maggior parte de' fuorusciti, che poi cresciuti a dismisura si sparsero in tutte le altre isole, coprendosi con capanne fatte all'infretta finchè passasse la burrasca sterminatrice[339].

Poichè Attila si ritirò nella Pannonia, tutti quelli che non avevano portato nel loro ricovero verun mezzo di sussistenza, s'affrettarono di ritornare alle antiche loro abitazioni: e sopra tutto gli agricoltori richiamati dai loro campi, dall'amore del suolo natale, dai bisogni della famiglia, tornarono a coltivare le campagne; ma i grandi proprietarj, i nobili romani, coloro tutti, che colle proprie ricchezze avevano potuto procurarsi nelle isole i comodi della vita, e che rinvennero in quest'asilo la sicurezza non iscompagnata dall'agiatezza, si astennero dall'abbandonare la recente dimora, per rifabbricarsi le ancora fumanti case sempre minacciate da nuove orde di barbari. Vero è che i loro possedimenti continentali ricevevano danno dalla loro lontananza; ma seguendo l'esempio de' loro ospiti cercarono di supplirvi col commercio e colla navigazione. In tal maniera abbiam veduto a' dì nostri una nobiltà rovinata dedicarsi a quella mercatura, che senza degradarsi non avrebbe avanti potuto esercitare. I disastri delle province rendevano il commercio più necessario e più lucroso. I Veneziani dovevano moltiplicare il loro travaglio per somministrare agli abitanti delle città incendiate le cose necessarie alla rifabbricazione delle loro case, e le vittovaglie fino al nuovo raccolto. Un assai maggior numero di marinai e d'artigiani poteva impiegarsi nel commercio, onde della popolazione povera ma industriosa ch'erasi rifugiata nelle isole, la miglior parte fu ritenuta in questo asilo coll'allettamento di maggior lucro, e col godimento di una sicurezza che non poteva trovarsi altrove. Con ciò s'andò formando in mezzo alle lagune una nuova nazione risultante dall'unione forzata de' Veneti primi ai secondi; una nazione di nobili, d'operai laboriosi, e di marinai, i quali tutti dovevano vivere non dei prodotti della terra, ma di quelli di un'industria attiva e crescente.

Pare che la piccola città di Rialto ricevesse i consoli, o i tribuni che formavano il governo municipale di Padova: ma Padova era incendiata, ed i nobili, i cittadini più potenti, eransi riparati nella seconda Venezia, e nulla poteva lusingarli a riprendere un soggiorno che la forza non poteva assicurare, niun particolare vantaggio rendere volontario. La nuova repubblica faceva bensì parte dell'impero romano, ma quest'impero impotente, non sussisteva omai più che di nome, disponendone i barbari, benchè ricevessero ancora come una distinzione onorevole i titoli delle sue magistrature. Ogni provincia, ogni straniera popolazione posta nell'interno dell'impero poteva senza contrasto far valere la propria indipendenza. Ella ne aveva il diritto tosto che sentivasi abbastanza forte per resistere alle aggressioni de' barbari; e quantunque i provinciali d'origine romana non avessero affatto dimenticata l'affezione ed il rispetto dovuto all'antico nome di Roma, trovavansi però felici di potere scuotere il giogo d'un governo oppressivo e tirannico; di liberarsi dalle eccessive tasse che non soccorrevano per altro alla miseria del fisco; di sottrarsi all'odiosa sorte delle milizie, che non provvedevano alla vergognosa impotenza delle armate. I Veneziani adunque rimasero liberi allorchè l'invasione di Attila li ridusse a fondare un nuovo stato; e le disastrose incursioni dei Vandali, degli Eruli, degli Ostrogoti, resero loro sempre più cara la libertà.

Abbiam già avuto opportunità di osservare che, fino agli ultimi tempi dell'impero romano, il governo municipale si conservò democratico. L'assemblea popolare di ogni città decideva dei comuni interessi, e sanzionava le leggi locali. Le stesse assemblee nominavano pure i magistrati annuali incaricati delle funzioni di giudici; ed è probabile opinione che lungo tempo avanti l'invasione d'Attila questi magistrati avessero già il titolo di tribuni. Accresciutasi la popolazione di molte migliaia di fuorusciti, tutte le principali isole ebbero il proprio tribuno nominato dagli abitanti. Questi tribuni riunivansi alcune volte per deliberare intorno ai comuni interessi della Venezia marittima; ma la principale loro incumbenza era quella di giudicare ed amministrare il popolo conformemente alle istruzioni che da lui ricevevano nelle generali assemblee d'ogni isola[340]. In tal maniera la nascente repubblica senza l'opera d'un legislatore, senza rivoluzioni, e quasi senza deliberare, si trovò regolata da una libera costituzione.

Quell'ombra d'impero che il patrizio Oreste aveva conservato, innalzando Augustolo sul trono, fu distrutta da Odoacre come una pompa inutile e dispendiosa; ed i legami che potevano ancora unir Venezia a Roma, mentre conservavasi l'impero, furono distrutti da questa rivoluzione. Per altro allorchè Teodorico fondò il regno degli Ostrogoti, i Romani riconciliaronsi alquanto col giogo d'un barbaro virtuoso e saggio; ed i Veneziani vissero in pace con lui, e forse i servigi importanti che gli resero, possono essere risguardati come un indizio di dipendenza. Il più antico documento della repubblica è la lettera da Cassiodoro, segretario di Teodorico, diretta ai Veneziani in nome del re d'Italia[341]. Il retore per dar risalto alla sua eloquenza dimentica l'argomento della lettera, e descrive ai medesimi Veneziani, cui è diretta, la strana apparenza del loro paese, l'industria, l'attività, l'eguaglianza, la libertà, e le buone loro costumanze.

Dopo aver fatta conoscere la fondazione della repubblica di Venezia, passeremo a scegliere nella sua storia della prima età de' mezzi tempi i più importanti avvenimenti, che di quando in quando contribuirono alla formazione del carattere nazionale, a modificare la costituzione dello stato, oppure ad accrescere l'influenza del nuovo popolo sul rimanente dell'Italia. Sarebbe straniera al nostro istituto una regolare e circostanziata storia de' tempi anteriori al dodicesimo secolo; altronde tale è la secchezza e l'oscurità degli storici rispetto a que' tempi, che siamo forzati di passare rapidamente sulla storia de' secoli di cui ci offrono così confuse ed incerte notizie.

(518 = 627) A' tempi dell'imperatore d'Oriente, Giustino il vecchio, gli Schiavoni, seguendo la strada tenuta dalle altre barbare nazioni che invasero l'impero, entrarono nella Dalmazia, e vi si stabilirono. Ma come quel paese, più volte saccheggiato, non bastava a saziare la loro avidità, approfittarono dei numerosi porti di mare della fresca loro conquista, ed adottando le costumanze degli antichi Illirici, di cui avevano occupato il paese, si diedero alla pirateria. I Veneziani che coprivano costantemente quel mare con deboli barche, rimanevano più degli altri esposti ai loro insulti; ma una vita attiva, e l'abitudine di sprezzare i pericoli del mare avevano rinforzato il loro coraggio. Quei medesimi popoli ch'eran fuggiti come vili armenti innanzi ai conquistatori del Nord, armarono i loro piccoli navigli per farsi incontro agli stessi nemici a molta distanza dalle loro abitazioni: gli attaccarono senza timore, e gli sconfissero, assicurando la libertà dei mari; e la rivalità che manifestossi tra queste due nazioni marittime, e le frequenti loro guerre, che terminarono colla sommissione di tutta la Dalmazia, accrebbero l'energia de' Veneziani; li costrinsero ad aggiungere il valore all'industria, e furono la principale cagione della futura loro grandezza. Questa prima guerra incominciata avanti il regno di Giustiniano, viene riportata siccome una delle testimonianze dell'antichità della loro indipendenza[342].

(558) Quarant'anni dopo, la discesa de' Lombardi in Italia apportò alle isole veneziane un doppio vantaggio; non solo perchè obbligò nuovamente gli abitanti del continente a procacciarsi salvezza in queste isole, ma perchè gli ottenne altresì un clero indipendente. Il patriarca d'Aquilea venne a stabilirsi in Grado, ove fondò la sua nuova cattedrale; il vescovo d'Oderso si trasferì in Eraclea fabbricata dai suoi compatrioti; quello d'Altino portò la sua sede a Torcello; quello di Concordia a Caorle, e quello di Padova a Malamocco. E perchè i Lombardi stabilirono un clero arriano in tutte le città continentali di cui si resero padroni, e perchè lo scisma tra le chiese delle due comunioni produsse una sanguinosa guerra tra i patriarchi di Aquilea e di Grado, i vescovi ch'eransi rifugiati nelle isole non pensarono più ad abbandonarle[343].

La costituzione delle città e delle isole veneziane poteva considerarsi come federativa; ma i poteri de' magistrati e quelli della nazione, i diritti della lega e quelli dei popoli legati, non erano bastantemente definiti, perchè così fatta costituzione assicurasse ad un tempo l'interna tranquillità dello stato, e potente lo rendesse al di fuori. I tribuni si abbandonarono alla loro ambizione, le città alle discordie e gelosie di vicinanza, mentre i Lombardi dalla parte del continente, e gli Schiavoni da quella del mare approfittavano di queste contese, di questo stato di anarchia. Pareva che la repubblica fosse affatto prossima all'estrema sua rovina: se non che un popolo libero ed energico ha in sè medesimo i principj della sua salute: una rivoluzione che dovrebbe indebolirlo, il più delle volte gli rende di là a poco un nuovo vigore.

(697) L'anno 697 si convocò ad Eraclea una generale adunanza di tutti i membri dello stato, ed i nobili trovaronsi riuniti al clero ed ai cittadini. Colà, dietro proposizione del patriarca di Grado, la nazione risolvette di darsi un capo, che col titolo di duca o doge fosse incaricato del comando delle forze comuni contro gli esterni nemici, e contro i faziosi dell'interno; il quale, superiore ai tribuni delle isole riunite, potesse con mano ferma troncare le loro discordie e punirne le usurpazioni. Ma da questo secolo d'ignoranza non si poteva sperare una costituzione abilmente bilanciata. I Veneziani, volendo essere liberi, riservaronsi le loro assemblee generali, la di cui sovranità s'era universalmente riconosciuta; volendo essere potenti, diedero al capo dello stato tutti gli attributi di un monarca. Egli nominava a tutte le cariche, ammetteva o rifiutava gli avvisi de' suoi consiglieri scelti da lui medesimo, trattava solo la pace e la guerra, ed infine la sua autorità non aveva limiti. Paolo Luca Anafesto d'Eraclea fu il primo che la nazione decorasse di così sublime dignità[344].

Per alcun tempo non ebbero i Veneziani motivo di pentirsi della nuova forma data al loro governo. Anafesto ristabilì l'interna tranquillità, respinse gli Schiavoni, e forzò i Lombardi a riconoscere l'indipendenza della repubblica ed i confini del suo territorio. Il suo successore ne seguì le tracce, ma non così il terzo, che mal soffrendo gli ostacoli che talvolta contrariavano la sua volontà, volle rendersi assoluto signore dello stato, e diede principio ad una funesta lotta col popolo. In questa lite, in cui le ingiuste usurpazioni erano respinte da feroci insurrezioni, perdettero la vita il presente doge ed altri suoi successori. Nel tempo che Venezia era lacerata da questa contesa, il dominio lombardo in Italia fu abbattuto, e rimpiazzato da quello dei Carlovingi[345].

I Veneziani non odiavano meno i Franchi degli Unni, degli Ostrogoti, o dei Lombardi. Da tutti questi popoli le province dell'impero erano state ugualmente rovinate. Gloriavansi i Veneziani d'essere discendenti dai soli Romani, e davano alla loro repubblica il nome di figliuola primogenita della repubblica di Roma[346]. Isolati ed indipendenti in mezzo alle popolazioni della stessa origine fatte schiave, prodigavano il nome di barbari agli stranieri che opprimevano l'Italia; ed i soli Greci, inciviliti al par di loro ed attaccati ugualmente al nome ed alla gloria di Roma, venivano risguardati come degni della loro alleanza. Prendevano perciò parte alle loro prosperità, e gli assistevano colle loro forze, come da loro chiedevano essi protezione nelle proprie avversità, confondendosi, per così dire, innanzi ai loro occhi gli ufficj della benevolenza con quelli del dovere: e se i Veneziani rifiutarono d'essere sudditi, vollero almeno essere fedeli alleati dell'impero di Costantinopoli[347].

Pipino, figliuolo di Carlo Magno, formò l'ardito progetto di allargare il suo nuovo regno con pregiudizio di Niceforo imperatore d'Oriente: sperava di levargli la Dalmazia e l'Istria, ed aveva saputo far entrare ne' suoi interessi Obelerio allora doge regnante di Venezia, cui la corte francese accordava molti favori. Ma questo magistrato non solo non potè ridurre i Veneziani a prender parte ad una lite tanto contraria alle loro inclinazioni, ma non potè pure impedire che l'assemblea generale convocata a Malamocco non facesse a Pipino conoscere il rifiuto delle sue offerte, e le relazioni della nazione coi Greci. Di ciò offeso il principe, rivolse le sue armi contro i Veneziani, bruciando loro le due città di Eraclea e d'Aquilea, la prima delle quali era stata alcun tempo la capitale della repubblica fino all'epoca in cui Teodato quarto doge trasferì la sede del governo a Malamocco[348]. Nè andò molto che, credendosi nuovamente provocato, fece allestire una flotta a Ravenna, e provvedutala di truppe da sbarco, s'impadronì di Chiozza e di Palestina, indi approdò all'isola d'Albiola separata da un angusto canale da Malamocco. In così difficile circostanza Angelo Participazio, uno de' principali cittadini[349], consigliò i suoi compatrioti ad abbandonare le mura della capitale, ed a trasportare a Rialto tutte le loro ricchezze, essendo la sua situazione più forte assai per essere quest'isola propriamente nel centro della laguna. I vascelli di Pipino tentarono d'inseguirli, ma le barche leggieri dei Veneziani, fuggendo innanzi a loro, seppero attirarli sopra bassi fondi, ove, non potendo nella discesa della marea manovrare, furono attaccati con vantaggio, ed abbruciati quasi tutti, o presi dai Veneziani. Pipino, sdegnato ed umiliato, incenerì le città di cui erasi impadronito, e ritirossi a Ravenna. Poco dopo i due imperi si pacificarono, ed i Veneziani furono compresi nell'accordo come fedeli a quello d'Oriente[350].

Dopo quest'epoca Rialto rimase la capitale del nuovo stato, cui furono riunite col mezzo di ponti le sessanta isolette che lo circondavano, e sulle quali innalzasi oggi la città di Venezia. Il palazzo ducale fu eretto sulla piazza ove trovasi ancor al presente; ed il nome di Venezia, fin allora comune a tutta la repubblica, si ristrinse alla sola capitale. Vent'anni dopo si trasportò d'Alessandria in questa città il corpo di s. Marco. Raccontasi che i mercadanti, che tolsero questa reliquia alla chiesa d'Egitto, le sostituirono accortamente quelle di s. Claudio meno venerate. Dopo tale epoca s. Marco fu il patrono della repubblica: egli o il suo leone diventarono l'impronta delle sue monete e lo stendardo delle sue armate; ed il nome di s. Marco s'andò in modo identificando con quello dello stato, che più di quello della repubblica, più della ricordanza delle sue vittorie, scuote le orecchie veneziane, e fa cader le lagrime dagli occhi de' patrioti[351].

(837 = 864) Verso la metà del nono secolo una lite manifestatasi fra alcune famiglie patrizie divise tutta la repubblica. Il popolo prese parte con furore ad una animosità probabilmente cagionata da sola rivalità di gloria; la cura dell'esterna difesa dello stato fu sacrificata all'insensato zelo delle parti, ed il mare Adriatico rimase esposto alle piraterie de' Saraceni e dei Narentini. I primi abitavano la Sicilia e l'Affrica, gli altri erano pirati della Dalmazia, che riunitisi nella città di Narenta, in fondo al golfo dello stesso nome, posto quasi in faccia d'Ancona, l'avevano fatta centro delle loro piraterie[352]. Un secolo più tardi altri pirati stabilironsi in alcune città dell'Istria, ed una ardita intrapresa richiamò su di loro l'attenzione e lo sdegno della repubblica.

Per antica consuetudine i matrimonj de' nobili e de' principali cittadini celebravansi in Venezia lo stesso giorno nella medesima Chiesa. La vigilia della candellara in cui la repubblica dava la dote a dodici fanciulle, era il giorno consacrato a questa pubblica festa. Di buon mattino le gondole elegantemente ornate recavansi da tutti i quartieri della città all'isola d'Olivolo, o di Castello, posta ad una delle sue estremità, ove il capo del clero, allora vescovo, adesso patriarca, teneva la sua residenza. Gli sposi sbarcavano colle loro spose in mezzo al suono degli strumenti sulla piazza di Castello, e tutti i parenti e gli amici in abito di gala facevano loro corteggio. Vi si portavano in pompa i regali fatti alla sposa, ed il popolo affollato lungo la riva degli Schiavoni, ed in tutte le strade che guidano a Castello, seguiva senz'armi e senza alcun sospetto questa fastosa processione.

I pirati istriani, istrutti da lungo tempo di questa costumanza nazionale, ardirono di sorprendere gli sposi nella stessa città. Il quartiere al di là dell'arsenale affatto vicino d'Olivolo non era a tal epoca abitato, nè l'arsenale era ancora stato fabbricato. Gl'Istrioti si posero di notte in aguato presso quest'isola deserta, nascondendovisi colle loro barche. La mattina quando gli sposi furono nella Chiesa, e che seguiti da uomini, donne, fanciulli, assistevano ai divini uffici, attraversano il canale d'Olivolo, sbarcano armati sulla riva, entrano in Chiesa i corsari da tutte le porte nel medesimo tempo colle sciabole sguainate, e prendendo le desolate spose ai piedi dell'altare, le costringono a montar sulle barche a tal uopo disposte, e con loro rapiscono le gioje portate dai domestici; ed a forza di remi s'affrettano di riguadagnare i porti dell'Istria.

Il doge Pietro Candiano III, presente alla cerimonia, dividendo la rabbia e l'indignazione degli sposi, esce impetuosamente coi medesimi di Chiesa, e scorrendo i vicini quartieri, chiama ad alta voce il popolo alle armi ed alla vendetta. Gli abitanti di santa Maria Formosa riuniscono alcune navi, nelle quali, entrato il doge e gli sposi irritati, approfittano d'un vento favorevole, ed hanno la fortuna di sorprendere gl'Istrioti nelle lagune di Caorle. Un solo de' rapitori non si sottrasse alle vendette degli amanti e degli sposi furibondi: e lo stesso giorno le belle Veneziane furono condotte in trionfo alla Chiesa d'Olivolo. Una processione di giovanette, e la visita che il doge faceva ogni anno la vigilia della candellara alla parrocchiale di santa Maria Formosa, solennizzarono fino ai tempi della guerra di Chiozza la memoria di questo avvenimento[353].

Ma il doge non si limitò a questo primo castigo; che si dispose a purgar il mare Adriatico dai corsari che l'infestavano, e venendo a morte, trasmise col trono ducale ai suoi successori questa importante impresa. Egli aveva già rese tributarie della repubblica le città di Capo d'Istria e di Narenta, ma la condotta ora sregolata e talvolta ambiziosa di suo figlio Pietro Candiano IV, le insultanti usurpazioni di questo principe, e la sua morte, funesto esempio della vendetta popolare[354], sospendettero per lo spazio di più anni le spedizioni de' Veneziani. Agitata da continue guerre civili, non riebbe Venezia l'interna tranquillità che in sul finire del decimo secolo, ed allora, uscendo dalle lagune con poderose forze, gettò nelle province d'oltre mare i fondamenti di quell'impero che conservò fino ai nostri giorni.

Allorchè Teodosio divise le province romane, assegnò la costa orientale dell'Adriatico all'impero di Costantinopoli; ma questa divisione fu ben tosto dalla potenza dei barbari distrutta. Alcuni conquistatori di razza schiavona, occupando l'Illirico colle loro genti, vi fondarono due regni indipendenti e nemici di Bizanzo, quello della Croazia al Nord, e l'altro della Dalmazia al Mezzogiorno. I Greci che non avevano potuto conservare sotto il loro dominio che alcune città marittime, e non avevano abbastanza truppe per formarne la guarnigione, ricorsero per difenderle allo stesso metodo, di cui abbiamo veduto che si valsero ancora nel regno di Napoli, cioè di accordare agli abitanti il diritto di armarsi, e quello di eleggersi le proprie magistrature. Dopo avere in tal modo loro data una patria, ed ispirato il desiderio di difenderla, si credettero a ragione scaricati dal debito di proteggerle[355]. Le città marittime dell'Istria dipendenti dall'impero d'Occidente non eran meno libere delle prime; e per tal modo la costa illirica dall'una all'altra estremità era sparsa di nascenti repubbliche, e quasi sempre in guerra coi barbari.

Tra questi i più pericolosi nemici delle città marittime erano i Narentini, popolo di razza schiavona, che dopo essersi impadronito d'un porto di mare, infestava colle sue piraterie tutto l'Adriatico. Fortissima era la città di Narenta e sicuro il suo porto; e trovandosi tra la Dalmazia e la Croazia, reclutava facilmente ne' due regni i suoi soldati. I suoi migliori guerrieri erano destinati ad equipaggiare le flotte che corseggiavano l'Adriatico: lucrosa professione, che in un secolo barbaro non era disonorante. Tutte le piccole repubbliche danneggiate da costoro erano separatamente troppo deboli per reprimerli; onde convennero di collegarsi per mettere a dovere i Narentini, e perchè fidavansi principalmente alla potenza della repubblica veneziana, ebbero l'imprudenza di farla capo della lega, comperando i suoi soccorsi e la sua protezione coll'accordarle quelle prerogative che dovevano ben tosto porle a sua discrezione. S'incominciarono le trattative col doge Pietro Orseolo II, e si convenne che i magistrati delle città presterebbero fede ed omaggio alla repubblica, e le loro truppe marcerebbero sotto i suoi stendardi contro il comune nemico[356].

(997) L'anno 997 mosse da Venezia la più gran flotta che avesse fin allora armato la repubblica. Passò prima a Pola, una delle più potenti città dell'Istria, e vi ricevette gli omaggi di Parenzo, di Trieste, di Giustinopoli o Capo d'Istria, di Pirano, Isola, Emone, Rovigno, Umago, e per dirlo in una parola, di tutte le città dell'Istria. Colà riunì pure alla sua flotta i rinforzi delle città alleate; indi passò a Zara, la più antica alleata de' Veneziani in Dalmazia, e vi ricevette ugualmente gli omaggi delle città di quella contrada, Salone, Sebenigo, Spalatro, Fran, None, Belgrado, Almissa e Ragusi; e le isole di Coronata, Pago, Ossero, Lissa, Brazza, Arbo e Cherzo seguirono l'esempio delle prime, e tranne le due isole di Corzola e di Lezinia, che, più tosto che rinunciare alla loro indipendenza, s'allearono coi Narentini, tutte le città illiriche riconobbero volontariamente la supremazia de' Veneziani.

Il doge portò da prima le sue forze contro queste due isole, le quali sotto certi riguardi chiudevano il golfo di Narenta, ed avendole sottomesse dopo la più viva resistenza, pose a ferro ed a sangue tutto il paese de' Narentini, e non accordò loro una vergognosa pace che dopo averli ridotti a tanta debolezza, che non poterono mai più rifarsi[357].

La presa di Narenta fu per Venezia cosa meno vantaggiosa assai dell'alleanza cui aveva dato motivo. Le associazioni dei deboli coi forti sono sempre pericolose; e le città vinte e le vincitrici furono dai Veneziani ridotte ben tosto alla medesima condizione. Pretori o podestà tolti dal corpo della nobiltà furono mandati a governarle, ed il doge prese il titolo di duca di Venezia e di Dalmazia.

Mentre Venezia stendeva il suo dominio sulla costa orientale del golfo Adriatico, e poneva i fondamenti di quell'alta potenza cui non tardò a conseguire, due città del mar Tirreno, Pisa e Genova, cominciavano a scuotere il giogo che avevano lungo tempo sofferto, e sviluppavano i primi germogli di quella potenza che doveva in appresso contrappesare quella di Venezia, e con una lunga e sanguinosa rivalità rendere gl'Italiani degni dell'impero del mare.

(980) Quando Ottone II meditava la conquista della Magna Grecia aveva fatto chiedere a Pisa un soccorso di navi per portare la guerra nelle due Sicilie; e questo fatto è il primo che ne mostri la grandezza d'una città che nel dodicesimo secolo ottenne prima di molte altre l'indipendenza ed un governo consolare[358]. La foce dell'Arno, meno che non lo è a' dì nostri ingombrata di arena, formava per i leggeri vascelli usati allora un porto ugualmente difeso dalle burrasche e dagl'insulti de' corsari. La navigazione ed il commercio erano già da qualche tempo l'oggetto che più occupava gl'industriosi Pisani. In tempo che tutte le isole del mediterraneo erano occupate dai Saraceni quasi sempre nemici, quando ancora i Veneziani e gli Amalfitani, gelosi dell'impero del mare, cercavano di escluderne gli altri popoli, le intraprese marittime richiedevano forse più coraggio, che industria. Queste risvegliarono il valore della gioventù pisana, e loro ispirarono l'amore dell'indipendenza. Nell'età di Solone erasi già osservato che gli uomini di mare sono degli altri più fieri e più entusiasti per la libertà. Quest'osservazione verificossi nelle città anseatiche ed in Atene, e spiega pure l'antica prosperità di Pisa, e la rimota origine della sua indipendenza. Le ricchezze acquistate col commercio si versarono ben tosto sulle vicine campagne: il Delta dell'Arno, quella fertile pianura oggi mezzo incolta, fu asciugata e trasformata in giardini; il porto pisano e quello di Livorno si aprirono alle galere, ed i molti gentiluomini che abitavano le colline dalla valle di Nievole fino all'Ombrone, chiesero ed ottennero la cittadinanza pisana, e la protezione della repubblica.

Le sette più antiche famiglie di Pisa che formarono alcun tempo un ordine separato di quella nobiltà, fanno risalire la loro venuta in Toscana fino ai tempi della discesa in Italia d'Ottone il rosso. A sette baroni dell'impero si attribuì l'origine di queste sette famiglie; cioè Visconti, Godimari, Orlandi, Verchionesi, Gualandi, Sismondi e Lanfranchi[359]. I tre ultimi erano figliuoli dello stesso padre, da taluno chiamato Lanfranco Duodi, e gentiluomo di Bologna; per cui lo storico di Pisa Marangoni contandoli per una sola famiglia ne aggiunge altre due Ripafratta e Gaetani[360]. Pare che costoro spediti fossero a Pisa del 982, perchè questa città mandasse le sue galere per ajutarlo nell'impresa di Calabria, che l'imperatore voleva fare. Mentre stavano occupati in questa missione, Ottone morì. Sedotti dalla bellezza del cielo e dalla fertilità dell'Etruria, determinarono di rimanervi, ed ottennero dai Pisani il diritto di cittadinanza, e da quel vescovo l'infeudazione di alcuni castelli o poderi. I cognomi delle famiglie non usavansi ancora nel decimo ed undecimo secolo, ma la pratica costante di dare al nipote il nome dell'avo suppliva a tale mancanza, e serviva a distinguere i casati; e questo nome d'affezione che si riproduceva ogni seconda generazione, diventò nel susseguente secolo il cognome della famiglia. In tal maniera i sette baroni d'Ottone II trasmisero il loro nome a sette famiglie pisane, che furono lungo tempo le principali della fazione nobile e ghibellina. Più volte perseguitate e cacciate in esiglio, non per questo rimasero meno affezionate alla patria ed alla sua libertà fino all'epoca fatale della caduta di Pisa[361].

Nello stesso tempo che questa città metteva a profitto il fertile territorio dell'Arno, e le ricche pianure che la circondavano, Genova situata sopra sterili montagne, fra scogli privi di verzura, e presso un mare da cui par che fuggano i pesci, e non avendo altro vantaggio che quello di un porto vasto e sicuro, Genova si occupava con ugual ardore del commercio e della navigazione: le arti medesime le procuravano le medesime ricchezze, e le sterili sue montagne la separavano dalla sede dell'impero e da' suoi oppressori. Questa era rimasta sotto il dominio de' Greci lungo tempo dopo la prima invasione lombarda; ed anche allorquando venne in potere de' Lombardi, ne rimase in modo separata, che trovandosi mal guardata dai suoi nuovi padroni, l'anno 936 fu saccheggiata dai Saraceni. Ma in sul finire dello stesso secolo la propria popolazione inclinata alla milizia la guarentiva da somiglianti sciagure[362].

Pisa non pertanto continuò ad essere alcun tempo più florida e popolosa. Le sue imprese non chiudevansi entro i ristretti confini della Toscana; ma i Saraceni, la Spagna, l'Affrica, la Grecia appresero dai Pisani a rispettare il valore italiano, e l'energia d'una nascente nazione.

I Pisani mantenevano relazioni commerciali coi Greci della Calabria, ed avevan banco ne' principali loro porti. In quella provincia i sudditi dell'impero orientale, snervati da lunga servitù, non sapevano difendere le terre loro e le persone dalle aggressioni de' Musulmani. Una colonia di Mori, stabilitasi in quella provincia, insultava le città e devastava le campagne senza trovar resistenza. I mercadanti e viaggiatori pisani mal soffrivano gli oltraggi fatti agli amici ed al nome cristiano, e desideravano di porvi riparo: perchè di ritorno in patria eccitarono i proprj concittadini a prendere le armi contro gl'infedeli. Il loro entusiasmo si propagò in tutte le classi del popolo; e tutta la gioventù montò sulle navi, che spiegarono le vele per la Calabria ove dovevansi assalire i Saraceni.

Intanto un re moro, chiamato Muset, erasi impadronito della Sardegna, posta quasi in faccia di Pisa, e vi aveva stabilita una colonia di corsari (1005). Ebbe questi avviso che la più valorosa gente di Pisa erasi impegnata in quell'impresa cavalleresca, lasciando la città quasi senza difesa. Le sue galere entrarono una notte nella foce dell'Arno, e rimontarono il fiume quasi fino all'anteriore sobborgo della città. Gli abitanti risvegliati da orribili grida, conobbero ad un tempo l'incendio delle loro case, e lo sbarco de' nemici. Tutti fuggivano in tanta trepidazione alla campagna, e sola una donna della famiglia Sismondi, chiamata Cinzica, invece di seguire i fuggitivi, corse al palazzo de' consoli a traverso de' Musulmani medesimi che occupavano la strada lung'Arno, ed il ponte che univano il sobborgo alla città. Annunciò ai magistrati il pericolo della patria, e fece suonare la campana d'allarme del palazzo, alla quale risposero le altre della città; onde risvegliatisi i cittadini accorsero alla vendetta; ma i Saraceni, temendo l'urto delle milizie repubblicane, rimontarono a precipizio sulle loro navi, ed uscirono dalla foce dall'Arno. Cinzica ebbe una statua nel distrutto sobborgo, che, rifabbricato di nuovo, assunse il di lei nome[363].

Intanto la flotta spedita in Calabria aveva avuti prosperi successi contro i Saraceni ch'erano stati obbligati di concentrarsi in Reggio per difendere questa città da loro posseduta, nelle di cui vicinanze furono pur battuti dai valorosi Pisani avanti che la flotta abbandonasse il mare siciliano[364].

Appena rientrati nel porto di Pisa seppero i vittoriosi guerrieri che i corsari sardi avevano insultata la loro patria, e giurarono di vendicarla; ma la guerra che ardeva tra Lucca e Pisa, ed altre cagioni a noi sconosciute, protrassero la spedizione che meditavano, finchè un nuovo attentato dei Mori di Spagna, sbarcati l'anno 1012 sulle loro coste, li costrinse a punire tanta insolenza[365]. Papa Benedetto VIII aveva spedito un legato per eccitarli alla guerra, e fu probabilmente il pontefice che propose un'alleanza tra Pisa e Genova, riunendo le armi delle repubbliche rivali contro il comune nemico. Muset vide atterrito avanzarsi su la Sardegna la più potente flotta che da molti secoli avesse corso il mar Tirreno. Invano tentò d'impedire lo sbarco delle truppe, le quali rinforzate dai Cristiani dell'isola, lo attaccarono su tutti i punti, e lo sconfissero in modo che dovette a precipizio abbandonare la sua conquista, valendosi per la fuga delle navi che aveva allestite per corseggiare il Mediterraneo.

Ma l'antica rivalità non tardò a gittar la discordia tra i vincitori quando si venne alla divisione della preda. I Genovesi che in principio della guerra non osavano di sperare così prosperi avvenimenti, avevano domandato le spoglie per loro, lasciando ai Pisani le terre spogliate che conquisterebbero. A fronte però di tutto il rigore adoperato nell'impadronirsi di quanto presero ai Saraceni, videro con estremo rammarico che la parte loro era troppo lontana dal valore del regno che rimaneva in potere dei rivali alleati[366]. Cercavano quindi di deviare dalle stabilite condizioni, e procedettero con tale insistenza, che i Pisani ricorsero alle armi per far eseguire il trattato, scacciando dalla Sardegna coloro che gli avevano ajutati ad impadronirsene. Pare che questa contesa non iscoppiasse che l'anno 1021, allorchè Muset aveva già perdute le ultime sue fortezze e le nuove truppe che aveva egli stesso condotte di Spagna[367].

Per altro il re moro lusingavasi ancora di riavere la Sardegna; ed ogni primavera veniva con una nuova flotta ad insultare le guarnigioni della repubblica, o a tentar di sorprenderle. I Pisani, dopo avere lungo tempo combattute queste squadre sulle coste dell'isola, risolvettero di terminare una guerra incominciata diciott'anni avanti, attaccando i Saraceni nel proprio paese. Corsero vincitori le spiagge dell'Affrica insultando Cartagine, ed occupando Bona, l'antica Ippona di s. Agostino. Muset fu costretto a chieder la pace, e, ciò che più gli dolse, a mantenerla molti anni. Pure negli estremi periodi di sua vita volle di nuovo tentar la sorte, quando gli altri uomini non cercano che il riposo. Andò a chieder soccorso ai Mori di Spagna; e di là dirizzando le vele verso la Sardegna, sorprese le guarnigioni pisane cui non diede quartiere, e s'impadronì, tranne Cagliari, di tutta l'isola[368].

A fronte di tanta costanza che la repubblica pisana manifestò nella guerra contro i Mori, diede in fine segni di scoraggiamento. Il popolo snervato da lunghe e dispendiose imprese, spaventato dal massacro della fresca gioventù che formava le guarnigioni sarde, era estremamente abbattuta; ma la nobiltà che credevasi in ispecial modo interessata a difendere l'onore di Pisa, rianimò l'ardore de' suoi soldati. Per possedere ancora la Sardegna bisognava riconquistarla, e la repubblica si dispose a farlo. Tutti i gentiluomini suoi vassalli contribuirono uomini e navi; e le cronache ricordano particolarmente i Gherardeschi, i Sismondi, i Sardi, i Cajetani. Le promisero soccorsi la repubblica di Genova, il marchese Malaspina di Lunigiana, il conte Bernardo Centilio di Mutica in Ispagna; offrendosi i due ultimi di andare in persona a questa guerra sacra. Gualduccio plebeo pisano, assai noto per i suoi militari talenti, che comandava la flotta alleata, seppe eseguire lo sbarco delle sue truppe presso Cagliari in presenza del nemico che l'assediava. Ben tosto si venne alle mani su la spiaggia medesima; e Muset, quantunque giunto oltre gli ottant'anni, fece prodigi di valore; ma i suoi Mori, esposti ad un tempo agli attacchi de' Pisani, alle frecce lanciate dalle navi, ed alle sortite degli abitanti di Cagliari conservatisi fedelissimi alla repubblica, si abbandonarono a disordinata fuga. Muset, doppiamente ferito, cadde da cavallo, e fatto prigioniere, fu condotto a Pisa ove morì tra i ferri, e tutta l'isola tornò in potere de' Cristiani. Gualduccio di consentimento della repubblica ne divise i distretti tra i confederati. I Gherardeschi ricevettero in feudo il circondario di Cagliari, i Sismondi Oleastro, i Sardi Arborea, i Cajetani Oriseto, i Genovesi Algaria, il conte di Mutica Sassari, ed i Malespina le montagne. Il rimanente dell'isola, compreso Cagliari, rimase sotto l'immediata giurisdizione di Pisa[369].

Nell'undecimo secolo la repubblica di Venezia non prese parte alla gloria di cui si coprì quella di Pisa colle sue imprese contro gl'infedeli, perchè tormentata da civili dissenzioni smorzava contro di sè medesima la sua energia. Due fazioni si combattevano con furore nel suo seno i Morosini ed i Caloprini, sia che questi nomi appartenessero prima a due illustri famiglie della repubblica, o pure che queste famiglie adottassero in appresso il soprannome irrisorio che davansi gli opposti partiti[370]. Una privata querela aveva loro poste le armi in mano; ma perchè tra le persone violenti e valorose, credevasi cosa vile l'abbandonare ai tribunali la difesa del proprio onore, i risentimenti di due individui divisero le due famiglie, e ben tosto furono cagione d'una guerra civile. La prima offesa erasi confusa colla moltitudine delle susseguenti, e si nasceva, e si avea nemici soltanto per il nome che si portava. Queste contese ebbero fine avanti che terminasse il secolo undecimo[371], ed in principio del dodicesimo le città marittime di Pisa, Genova e Venezia, di già abbastanza potenti per essere meno invidiose, separarono i loro interessi da quelli dell'Italia, e passarono a procacciarsi gloria, ricchezze, possanza ne' paesi degl'infedeli. Accadde fatalmente che in così lontani paesi si trovarono in concorrenza, e la rivalità di gloria facendo loro dimenticare la comunione degl'interessi, macchiarono più volte di sangue italiano i mari e le spiagge dell'Asia.

In questa oscura epoca in cui la storia delle repubbliche non è composta che di pochi avvenimenti isolati, affidati per accidente a scritture estranee all'argomento; o assai posteriori; quella di Genova ha un grandissimo vantaggio sulle altre, essendosi conservata la sua cronaca composta da Caffaro, uno de' principali suoi magistrati. Questa cronaca presentavasi ogni anno ai consoli in pieno consiglio, e quando il senato l'aveva approvata si riponeva ne' pubblici archivj. Incomincia col 1101, epoca in cui Caffaro serviva sulla flotta, e viene continuata fino al 1164 in cui lo scrittore morì in età di ottantasei anni. Dopo la sua morte si continuò da varj pubblici storici fino al 1294. Quantunque tali racconti pecchino apertamente di parzialità, siccome destinati a lusingare i magistrati ed il popolo, per onore dei quali scrivevansi, si può agevolmente separare ciò che gli autori accordarono all'amor proprio de' Genovesi; ed in allora, malgrado la sua parzialità, non lascia questa storia d'essere il più curioso ed istruttivo documento di quei secoli.

La cosa più meritevole d'attenzione è ciò che risguarda il governo di Genova in que' tempi e le sue rivoluzioni. I supremi magistrati avevano in Genova, siccome nelle altre repubbliche, il titolo di consoli; ma variarono nel numero e nella durata. Ne' primi anni del dodicesimo secolo furono alternativamente ora sei, ora quattro, rimanendo sempre tre o quattro in ufficio. Del 1122 la durata del consolato si ristrinse ad un anno, e nel 1130 furono divise le incumbenze di questi magistrati per farne due ufficj distinti. Allora si chiamarono consoli del comune i quattro o sei capi della repubblica, che, nominati ogni anno dal popolo, erano incaricati del potere esecutivo, e specialmente del mantenimento della polizia, dell'esecuzione degli ordini criminali, della corrispondenza colle potenze straniere, del comando delle forze di terra o di mare, ed ancora delle lontane spedizioni. Questi consoli, sortendo di carica, rendevano conto al popolo in una generale assemblea dell'impiego del danaro dello stato[372].

Altri magistrati talvolta di ugual numero, talvolta in numero assai maggiore, si crearono lo stesso anno col titolo di consoli alle liti per essere i supremi giudici della repubblica. La divisione del popolo in sette compagnie, e della città in sette quartieri, serviva in pari tempo a classificare gli elettori, ed a limitare la giurisdizione dei giudici, perciocchè ogni giudice eleggevasi dalla compagnia ch'egli doveva giudicare. In appresso furono formati due tribunali, uno per la città, l'altro per il sobborgo; e l'anno 1179 venne stabilito che il difensore potrebbe richiamare l'instante a quello dei due tribunali ch'egli sceglieva[373]. Tanto i primi che i secondi consoli rimanevano in carica un anno.

In certe occasioni, e dietro domanda del popolo, la repubblica nominava i correttori delle leggi. Questi commissarj in numero non maggiore di dodici o quindici erano depositarj del potere legislativo[374]. Gl'Italiani lungi dal formare di questo potere una proprietà del popolo, lo risguardavano quale attributo della giurisprudenza, e ne abbandonarono l'esercizio ai giurisperiti, i quali eransi ciecamente sottomessi alle decisioni fondate nelle massime della scuola e nell'autorità di Giustiniano. In generale lo studio del diritto era separato dalle incumbenze amministrative, di modo che i legisti non avevano un interesse di corporazione per abusare della confidenza del popolo, o per renderlo schiavo; ma la legislazione romana ed imperiale aveva loro comunicato un cotal carattere servile, per cui in tutto il corso delle dispute tra le repubbliche e l'impero, favoreggiarono il dispotismo contro la libertà.

Eravi in Genova un consiglio o senato che doveva assistere i consoli; ma i poteri di tal corpo dovevano essere assai ristretti, poichè due o tre sole volte viene rammentato nella storia[375]. Il popolo riunito in parlamento sulla pubblica piazza prendeva parte all'amministrazione dello stato, ricevendo i conti de' magistrati, e deliberando intorno ai comuni interessi nelle più importanti occasioni[376].

Questa costituzione era semplice, ma sufficiente per tutelare la libertà del popolo, per interessarlo vivamente ne' pubblici affari, e per affezionarlo alla patria in ragione della parte che gli dava nel governo. L'elezione de' magistrati, il conto che rendevano dell'amministrazione, le deliberazioni della piazza pubblica, facevano ogni giorno sentire ai cittadini che gli affari dello stato erano i loro affari, che il privato loro interesse era quello della comunità. La salvaguardia dell'ordine pubblico contro l'anarchia e la turbolenza democratica, affidavasi ai costumi ed all'abitudine di rispettare il rango de' magistrati, piuttosto che alle leggi. I consoli erano tutti o quasi tutti gentiluomini. E perchè quest'ordine erasi mostrato il protettore del popolo contro gl'imperatori ed i grandi, il popolo riconoscente gli aveva affidati tutti i suoi diritti; onde le liste del consolato presentano i nomi illustri degli Spinola, dei Doria, dei Ruffo, dei Fornaro, dei Negri, dei Serra, dei Picamiglio, ec. Felice la repubblica in cui il popolo ha un illimitato diritto d'elezione, e dove ciò null'ostante i nobili sono degni de' suoi suffragi!

La storia di Genova non deve separarsi da quella di Pisa: queste due repubbliche, di costumi, di potenza, di governo quasi uguali, cominciarono assai presto a mostrarsi rivali, seguitando a combattersi finchè Pisa succumbette dopo una lotta di molti secoli. Ma agli occhi della posterità, Pisa rimasta nelle tenebre della storia, non sostiene il confronto di Genova con quella gloria con cui seppero sostenerla i suoi guerrieri colle armi. Del periodo di cui parliamo, i soli documenti che siano rimasti di questa città, sono una declamazione sui trionfi, un poema mezzo barbaro intorno alla guerra di Majorica, e due sterili e spezzate cronache[377]: di modo che conviene prendere dai documenti de' suoi nemici il racconto delle vittorie e delle disfatte. Gli storici veneziani sono ancora più poveri, non avendone di più antichi del doge Andrea Dandolo, che fioriva verso la metà del quattordicesimo secolo, e che non può essere creduto a chiusi occhi rispetto ai fatti anteriori assai all'epoca in cui visse[378].

Le tre repubbliche presero ugualmente parte alle imprese de' Cristiani in Terra Santa. Mentre per gli altri popoli la guerra sacra non è che un episodio della storia, è forse il più importante avvenimento di que' tempi per le repubbliche marittime. La posizione di Venezia era la più opportuna per quel passaggio, e vi si prestò con molto zelo. I Turchi avevano nell'Asia invase le province e le città ove la repubblica faceva il più lucroso commercio, e minacciavano di spingere ancor più lontano le loro conquiste, soggiogando i Greci ed i Saraceni; ed in allora non sarebbe rimasto ai Veneziani alcun mercato libero in tutto il Levante. Nè ciò solo dovevano temere; ma di veder in breve attaccati i loro dominj divenuti frontiera degli stati ottomani. Trasportarono perciò con estrema prontezza, non iscompagnata per altro da conveniente profitto, i crociati sulle coste dell'Asia, ove incaricandosi dell'approvvisionamento delle armate, ed esercitando simultaneamente la milizia ed il commercio, riportarono a Venezia i più ricchi carichi con quelle flotte medesime con cui avevano fatto tremare gl'infedeli. Assicurano gli storici della repubblica, che la flotta che accompagnò la prima crociata era composta di duecento vascelli, e comandata dal figlio del nuovo doge Vital Michieli, il quale, prima di giungere al suo destino, diede sulle coste di Rodi una sanguinosa battaglia alla flotta pisana. Questi due popoli acciecati dalla gelosia dimenticarono d'essere Cristiani, Italiani e crociati, per non ascoltare che le private loro animosità. I Veneziani occuparono in seguito Smirne, che abbandonarono al saccheggio, e facilitarono all'armata terrestre l'acquisto di Jaffa o Joppe[379].

In agosto del susseguente anno i Genovesi mandarono in Oriente ventotto galere e sei vascelli con truppe da sbarco sotto il comando d'un console della repubblica. Lo storico Caffaro era del numero de' guerrieri imbarcati. Nel tempo stesso anche i Pisani fecero partire una, flotta di cento vascelli capitanati dal loro arcivescovo Daimberto, che fu poi patriarca di Gerusalemme. Queste due flotte svernarono a Laodicea, e mantennero le province marittime ubbidienti ai Latini nell'istante in cui la morte del buon re Goffredo di Bouillon metteva in pericolo il nuovo suo regno.

(1101) La vegnente primavera i Genovesi coi Pisani ed altri crociati intrapresero l'assedio di Cesarea. I repubblicani, portando al campo i liberi usi della loro patria, prima di dar l'assalto alle mura di Cesarea, unirono i cittadini in parlamento per consultare di ciò che far dovevano quando dopo pochi istanti tornerebbero al rango di soldati. Daimberto fu il primo a parlare e come profeta e come soldato; esortò i suoi cittadini a ricevere la mattina susseguente la santa comunione, e poichè fossero muniti di questo pegno della celeste protezione, ad avanzarsi fin presso alle mura, attaccandole colle sole scale delle galere, senza perder tempo a preparare altre macchine d'assedio, promettendo loro in nome del cielo, che Dio li farebbe quello stesso giorno padroni della città. Il console genovese Malio prese in seguito la parola, ed appoggiò colla sua eloquenza guerriera le profetiche esortazioni del prelato pisano. Le più calde acclamazioni manifestarono l'entusiasmo del popolo, che il susseguente giorno andò coraggiosamente all'assalto appoggiando alle mura le scale navali. Il console genovese colla spada in mano fu il primo che salisse sulla sommità delle mura, ove si sostenne alcun tempo solo contro gli sforzi de' nemici, finchè raggiunto da' suoi soldati potè rovesciare i Musulmani, e prendere la città che fu abbandonata al saccheggio. La preda, secondo l'antica usanza delle armate romane, fu divisa dai consoli; un quindicesimo fu posto in serbo per i marinai rimasti alla custodia delle galere, una porzione fu levata per i magistrati e per gli uffiziali, ed ogni semplice soldato ricevette quarantotto soldi d'argento, circa cento settanta franchi, e due libbre di pepe. Dopo così segnalata vittoria spiegarono le vele per ritornare ne' porti della loro patria[380].

Se le città italiane resero importantissimi servigi ai crociati, seppero altresì chiedere in compenso utili privilegi ne' paesi di nuova conquista. Con un diploma accordato ai Veneziani l'anno 1130, Baldovino II, re di Gerusalemme, promette loro in tutte le città del regno latino un quartiere indipendente, nel quale vi sarebbe una chiesa, una piazza, un bagno, un forno ed un molino. I gabellieri non potevano entrarvi, nè porre ostacoli alla libertà del loro commercio[381]. I Veneziani nel proprio quartiere erano sottomessi soltanto alle leggi patrie, ed ai magistrati eletti da loro medesimi, in guisa che in mezzo al regno di Gerusalemme formavano delle piccole colonie repubblicane alleate per sua difesa, ma indipendenti dalle sue leggi.

Perchè i soccorsi de' Pisani furono più utili, e fors'anco più disinteressati che quelli de' Veneziani, eran loro stati accordati assai prima gli stessi privilegi da tutti i principi latini. Il generoso Tancredi, l'eroe del Tasso, che nel 1108 succedette a Raimondo nel principato d'Antiochia, accordò ai Pisani un quartiere in Antiochia ed in Laodicea, inoltre il libero uso de' suoi porti, come lo avevano i suoi sudditi. Questi privilegi vennero poi confermati ed ampliati da Amauri l'anno 1169, e da Baldovino IV l'anno 1182, amendue re di Gerusalemme, da Boemondo III, principe d'Antiochia, l'anno 1170, da Raimondo, conte di Tripoli l'anno 1187[382].

Intanto le moltiplicate relazioni dei Veneziani coi crociati del regno di Gerusalemme diedero luogo ben tosto a disgusti tra essi ed i Greci. I crociati avevano portato in Oriente quel disprezzo che i popoli barbari hanno quasi sempre per i più inciviliti: non rispettavano le pubbliche costumanze, violavano le leggi, offendevano la religione dei Greci colle superstizioni e col fanatismo, e quando la pubblica autorità voleva reprimere i loro eccessi, se ne appellavano alla propria spada, e versavano il sangue di que' Cristiani che dicevano di soccorrere. I Comneni che avevano invocato prima di tutti l'appoggio degli Occidentali, e che si vollero tenere risponsabili di tutte l'esazioni degli ufficiali subalterni, delle frodi de' mercadanti loro sudditi, e per fino della inclemenza delle stagioni, furono ben tosto costretti di porsi in guardia contro i Latini, e talvolta di prendere l'armi contro di loro. I Veneziani che fino a tal epoca colla rispettosa loro condotta avevano dato luogo di dubitare, se fossero sudditi o alleati dell'impero di Bizanzio, resi orgogliosi dai prosperi avvenimenti, e volendo imitare i crociati loro nuovi alleati, rinunciarono bruscamente all'antico sistema di rispettosa deferenza. Giovanni Comneno, detto Calojano, uno de' più valorosi guerrieri, e de' più virtuosi imperatori che occupassero il trono di Bizanzio (1124), ordinò che fossero poste in sequestro tutte le navi veneziane che trovavansi ne' suoi porti, finchè la repubblica soddisfacesse alle lagnanze provocate dalla condotta de' suoi cittadini. Il doge Domenico Michieli che comandava allora una flotta che aveva di fresco conquistato Tiro con molta gloria, la condusse innanzi a Rodi, e dopo aver presa questa città d'assalto, l'abbandonò al saccheggio. Passò inseguito a Scio (1125), di cui si rese padrone, e vi svernò la flotta. Nella susseguente primavera saccheggiò le isole di Samo, di Mitilene, di Andres. Facili erano tali successi e poco gloriosi, perchè i Greci, dopo l'indebolimento de' Saraceni, non avendo che temere dalla banda del mare, avevano trascurate le fortificazioni delle loro isole, e, ritirate le guarnigioni e gli uomini atti alle armi per opporli al Turco sul Continente. Vero è che la repubblica di Venezia raccolse molti allori sul territorio dell'impero greco, ma ella deve, assai più che gli altri popoli crociati, rimproverarsi d'averne occasionata la caduta. La nazione greca era bensì corrotta dal lungo dispotismo che l'opprimeva, ed aveva da gran tempo perduta quell'energia, quello spirito vitale che conserva gli stati, e lega gli uomini al destino della loro patria; ma una felice combinazione aveva portata sul trono di Costantinopoli una valorosa famiglia; l'amor delle lettere veniva incoraggiato dai Comneni, come quello della milizia, perchè i principj cavallereschi de' crociati eransi sparsi nella nazione. Sembrava inoltre che i Greci incominciassero ad attingere dallo studio degli antichi l'amore della patria e della libertà; che se può accadere, che una nazione sia rigenerata da' suoi padroni, la nazione greca era assai prossima a questa felice rivoluzione; di modo che, abbandonata affatto a sè medesima, o bastantemente soccorsa, avrebbe in breve trionfato dei Turchi, il di cui guerriero fanatismo non poteva essere di lunga durata. Ma i Latini, pericolosi ugualmente ed amici e nemici, ruinarono i Greci nel loro passaggio; saccheggiarono le città, massacrarono gli abitanti, ne distrussero le mura e le fortificazioni, e s'impadronirono della loro capitale. Per ultimo quando abbandonarono l'Oriente come nemici, lasciarono l'impero talmente spossato, che fu agevol preda de' Musulmani.

Breve fu questa prima guerra de' Veneziani contro i Greci. Il doge Michieli, rientrando nell'Adriatico, prese agli Ungaresi Spalatro e Trau, che questi avevano conquistato nella Dalmazia; ma morì non molto dopo nella sua capitale[383]. La guerra ch'egli aveva fatta ai Greci fu dimenticata, cosicchè quando Manuele Comneno fu vent'anni dopo assalito da Ruggiero, re di Sicilia, domandò ajuto ai Veneziani, i quali fecero una vigorosa diversione sulle terre del suo nemico.

Mentre i Veneziani accrescevano le loro relazioni coi crociati di Gerusalemme, cui erano sempre necessarj i sussidj degli Occidentali, i Pisani risolvettero di liberare il mar Tirreno dalle piraterie dei Musulmani. Nazaredech, re di Majorica, corseggiava continuamente le coste della Francia e dell'Italia, ed era comune opinione (1113) che languissero nelle sue carceri ventimila Cristiani. Pietro, arcivescovo di Pisa, approfittando della circostanza della festa di Pasqua, in cui gli abitanti delle vicine campagne accorrevano a Pisa per ricevervi la benedizione vescovile, presentò loro alla porta del tempio la croce, gli esortò con impetuosa eloquenza in nome del Dio dei Cristiani a liberare i loro fratelli che gemevano nelle prigioni degl'infedeli, ed erano continuamente esposti a rinegare la fede. Alcuni vecchi, che, essendo giovani, avevano militato nell'impresa della Sardegna, ed avevano trionfato sui Saraceni di Bona e d'Almeria, applaudirono alla voce del loro prelato, e ripetendo il racconto mille volte udito delle loro imprese, esortarono la nascente generazione a conservare la gloria di Pisa, ed a fare in modo che nuovi trionfi facessero dimenticare i passati. Il loro entusiasmo si comunica alla gioventù che prende la croce; ed il popolo sceglie dodici capitani, cui viene affidata la cura dell'impresa, dei preparativi di guerra e delle alleanze[384].

Parte della state fu consacrata ad allestire la flotta e le macchine guerresche; nel qual tempo giunsero a Pisa i soccorsi de' Lucchesi e di Roma: e Pasquale, nunzio del papa, venne espressamente a Pisa per benedire la flotta che fece vela in sul cominciar d'agosto, il giorno di s. Sisto, in cui i Pisani festeggiavano una vittoria ottenuta sui Saraceni affricani nel precedente secolo. I crociati passarono prima in Sardegna tanto per avere più accertate notizie, come per ricevere i soccorsi de' feudatarj che i Pisani avevano in quell'isola. Di là, dopo quindici giorni di riposo, si diressero verso le isole Baleari; breve tragitto, ma non iscompagnato da' pericoli e da difficoltà in tempo che non si conosceva la bussola, e si avevano carte assai imperfette.

I crociati, dopo aver sofferta una burrasca, scoprirono una terra, che subito attaccarono, persuasi che fosse l'isola di Majorica. Essi gettaronsi sugli abitanti delle coste, che misero in fuga, o fecero prigionieri. Non tardarono per altro a rilevare da questi ultimi che avevano sbarcato sulle rive di Catalogna, e che devastavano le campagne de' Cristiani. Allora, deposte le armi, si sdrajarono lungo la spiaggia del mare affatto scoraggiati, e perduta ogni speranza di approdare alle isole Baleari[385]. La lunga dimora che dovettero fare in Catalogna, ritenutivi dai venti contrarj, non tornò inutile, perchè si associarono in questa guerra sacra Raimondo, conte di Barcellona, Guglielmo, conte di Mompellieri, Emerì, conte di Narbona, ed altri signori di Francia e di Spagna. Costretti in appresso dalla cattiva stagione a differire la spedizione al susseguente anno, si ritirarono paghi d'avere agguerriti i soldati, ed accresciuti i confederati[386].

(1114) In aprile del 1114 la flotta crociata approdò finalmente ad Ivica, rendendosi dopo un sanguinoso incontro padrona dell'isola. Passò in seguito a Majorica ove intraprese l'assedio della città che dà il nome all'isola, la quale, dopo un anno di ostinata difesa, cadde in potere de' Pisani (1115) nelle feste di Pasqua del 1115 malgrado la coraggiosa resistenza del re saraceno e dei molti alleati chiamati a difenderla. Il re morì combattendo, ed il suo successore fatto prigioniero fu condotto a Pisa trionfalmente colle immense ricchezze della sottomessa isola[387].

Tornavano i Pisani dalle isole Baleari, quando papa Gelasio II, perseguitato da Enrico V, avendo abbandonato Roma per ripararsi in Francia, si fermò alcun tempo in Pisa da cui sperava di essere potentemente soccorso. Questo papa discendeva dall'illustre famiglia pisana de' Gaetani, onde per riconoscere i ricevuti beneficj, o per amor di patria, dichiarò i vescovi corsi suffraganei della Chiesa metropolitana di Pisa. Vero è che fino del 1092 il prelato di Pisa aveva il titolo di arcivescovo, ma pare che non avesse verun vescovo suffraganeo. Il popolo festeggiò la recente dignità conferita al metropolitano; ed i consoli ed i senatori condussero pomposamente il loro pastore nell'isola di Corsica per ricevere il giuramento d'ubbidienza e di fedeltà dai vescovi, e per consacrarne le chiese. I rivali della repubblica, e più di tutti i Genovesi, concepirono per tale avvenimento una gelosia proporzionata all'alta importanza che vollero darvi i Pisani[388].

(1119) La guerra che si dichiarò del 1119 tra le due repubbliche fu provocata da questa gelosia. Se prestiam fede a Caffaro, i Genovesi attaccarono porto pisano con ottanta galere e quattro grandi navi cariche di macchine militari. Portava la flotta ventidue mila uomini da sbarco, cinque mila de' quali armati di corazza e di caschetti di ferro[389]. I Pisani non ricordano questo armamento veramente prodigioso, essendo l'opera di una sola città. Ambedue le nazioni si chiamarono vittoriose nella prima campagna, e nello spazio di quattordici anni che durò la guerra, si bilanciarono i vantaggi in modo da accrescerne l'emulazione, senza soddisfarne le speranze. Furono prese a vicenda molte navi, bruciate o colate a fondo; saccheggiati varj castelli e villaggi posti lungo le coste, altri incendiati e distrutti; periti in tante battaglie i più valorosi cittadini; non pertanto il commercio delle due repubbliche non prosperò mai tanto, nè la marina fu in altri tempi più attiva.

(1133) Finalmente l'anno 1133, Innocenzo II, ch'erasi rifugiato a Pisa, s'intromise per trattar di pace tra le nemiche nazioni, che lo avevano ugualmente soccorso contro l'antipapa Anacleto. E perchè l'innalzamento dell'arcivescovo di Pisa aveva destata la gelosia de' Genovesi, il papa accordò la stessa dignità al loro vescovo, sottraendo la loro Chiesa al metropolita di Milano, ed elevandola al rango di arcivescovile. Volle pure che non fosse priva di vescovi suffaganei, ed eresse due vescovadi nelle due riviere soggette; rimanendo quelli di Sardegna subordinati alla chiesa pisana, e quelli di Corsica alla genovese ed alla pisana[390].

Nel tempo di questa lunga guerra, e forse prima, i feudatarj della repubblica pisana in Sardegna si erano affatto sottratti alla suprema sua signoria, e dichiarati sovrani. Quelli di Cagliari, Sassari, Logodoro ed Arborea usurparonsi perfino poco dopo il titolo di re; altri, come i Visconti di Gallura ed i Sismondi d'Oleastro, rinunciando alla vanità dei titoli, non si erano resi meno indipendenti[391]. In questi tempi all'incirca i Visconti ed i Sismondi si allearono colla repubblica di Genova, e n'ebbero la cittadinanza. Un ramo della famiglia Sismondi, dimenticando i doveri di cittadino, ed i sacri legami che l'univano a Pisa, si stabilì in Genova, e da questo ramo discendono i Sismondi Mascula, console l'anno 1146, e Corso, console ed ambasciatore di Genova presso Federico II l'anno 1164[392]. Un altro ramo della stessa famiglia era però rimasto fedele alla repubblica pisana, la quale con un importante acquisto contribuì a chiudere agli stranieri il territorio della repubblica, ed a liberare i suoi porti da una dannosa rivalità. I Corsi erano governati in nome dell'impero dal marchese Alberto, che si era dichiarato indipendente; e questi possedeva pure un terzo del castello di Livorno, il di cui porto, quantunque non ancora ingrandito e fortificato dall'arte, era non pertanto di grandissima importanza, sia per la sua vicinanza al porto pisano, quanto per essere posto in mezzo al territorio della repubblica tra la capitale e le inferiori valli della Maremma. Del 1146 questo paese fu dato a titolo di feudo a due fratelli Sismondi, come apparisce dall'atto che ancora conservasi nell'archivio di Pisa, e che Muratori pubblicò[393].

Il territorio pisano stendevasi lungo il mare da Lerici fino a Piombino; ma non tutta questa contrada era immediatamente soggetta a Pisa; perchè i villaggi e castelli posti sulle due rive di Lerici, Viareggio, Massa, Piombino e Grosseto, eransi soltanto posti sotto la sua protezione, ed acconsentito che le loro milizie guerreggiassero sotto gli stendardi di assai più potente repubblica ch'esse non erano; sottomettendosi alle decisioni de' consoli pisani nelle loro quistioni, invece di deciderle colle armi. Nello stesso modo avevano i Genovesi ridotto nella loro dipendenza non solo la vallata della Polsevera, e le altre che circondano la città, ma inoltre tutte le piccole città delle due Riviere, Lavagna, Ventimiglia, Savona, Albenga[394]. E le due repubbliche tenevano queste terre press'a poco in quella dipendenza in cui Roma teneva gli alleati del Lazio.

Le tre repubbliche marittime trovavansi quindi avanti la metà del dodicesimo secolo alla testa di tre piccole confederazioni formate dai Veneziani delle libere città dell'Illirico, dai Pisani di quelle delle Maremme, e dai Genovesi di quelle delle Riviere. Tutte tre eransi assicurate un tale predominio sopra alleati acquistati quasi colla forza, che già li risguardavano come soggetti. È per altro notabile, che qualche residuo di libera costituzione presso le piccole città secondò l'energia delle grandi, e contribuì a dilatarne la potenza ed a renderla più stabile.

Di queste tre confederazioni la meno prospera era la pisana, non avendo quella repubblica potuto stendere la sua protezione che verso le Maremme, provincia assai fertile, ma malsana[395], che per l'influenza della libertà era stata guadagnata alla coltura, ma che non poteva però mai acquistare una troppo numerosa popolazione, o dare alla repubblica robusti soldati ed esperimentati marinai. Dagli altri due lati, e nell'interno delle terre lo stato pisano veniva rinserrato da quelli di Lucca e di Fiorenza, città abbastanza forti per opporsi ad ogni suo progetto d'ingrandimento. Lucca fu la prima a dar consistenza al suo governo riducendo sotto di sè le vallate vicine; per cui fino nel secolo undecimo trovavasi in guerra con Pisa. Fiorenza per l'opposto era in allora alleata dei Pisani, e Giovanni Villani, storico fiorentino, pretende che i suoi concittadini venissero a custodir Pisa mentre quegli abitanti trovavansi occupati in una spedizione marittima. Aggiunse che i Fiorentini s'accamparono due miglia fuori di Pisa per difenderli dai Lucchesi, avendo proibito sotto pena di morte ai soldati l'ingresso in città per timore che i vecchi e le femmine, rimasti soli in guardia delle mura, non dubitassero della loro fede[396].

L'anno 1133 in cui i Pisani pacificaronsi coi Genovesi, volendo far cosa grata a papa Innocenzo, ed all'imperator Lotario, spedirono la loro flotta nel regno di Napoli contro il re Ruggiero e l'antipapa Anacleto. Noi abbiamo già parlato nel precedente capitolo di questa gloriosa spedizione illustrata dalla scoperta delle Pandette e dalla ruina d'Amalfi.

CAPITOLO VI.

Tutte le città italiane incominciano a reggersi a comune avanti il dodicesimo secolo.

Abbiamo condotta la storia dell'Impero e della Chiesa fino al principio del dodicesimo secolo; e ripigliando in seguito separatamente quella delle repubbliche nate avanti quest'epoca, si descrissero, come lo permettevano l'oscurità di que' primi secoli, le rivoluzioni di Roma, di Napoli, d'Amalfi, di Venezia, di Pisa e di Genova. Ma nel secolo dodicesimo tutte le città incominciarono a reggersi a comune, e perciò nel susseguente capitolo le vedremo tutte vestir forme e carattere repubblicano, e tutte dispiegare le passioni proprie di tale governo. Le rivoluzioni d'Italia, di cui si è dato uno schizzo, e lo sviluppo che diedero al carattere nazionale, ci prepararono a contemplare i movimenti delle città per rendersi indipendenti: ma quest'ultima rivoluzione non può presentarsi allo sguardo dei lettori[397]. Quantunque l'origine de' governi repubblicani, ed i progressi loro, siano un argomento degno della nostra curiosità ed assai vario ed interessante, non possiamo darne una sufficiente idea ai nostri lettori per esserci ignote tutte le particolari circostanze; ed appena può sollevarsi leggiermente il velo che coprirà per sempre questa prima epoca delle città libere. L'Italia settentrionale quasi non ebbe istorici nei secoli decimo ed undecimo; onde per far conoscere le contese di Enrico colla santa sede fummo costretti di appigliarci ai racconti degli scrittori tedeschi assai più completi e circostanziati a quest'epoca, di quelli degl'Italiani. Se avvenimenti di così grande importanza, che dovevano ne' posteriori tempi eccitare tanto interessamento, non trovarono scrittori che ne perpetuassero la memoria, non è da stupirsi che lo stabilimento ed i progressi delle municipalità oscure, le quali procuravano di nascondere al pubblico l'indipendenza che andavano sordamente acquistando, non siano stati registrati in veruna storia. I borghesi rendevansi liberi appropriandosi a poco a poco le prerogative de' principi; combattevano gli abusi con quelle armi medesime che gli avevano introdotti; usurpavano la libertà nella stessa maniera che i gentiluomini avevano acquistata la tirannia; e perchè procuravano di nascondere a' principi, interessati alla loro servitù, i prosperi successi, così non permisero che se ne tramandasse la memoria ai posteri. All'ombra del silenzio andavan sempre introducendosi nuovi privilegi favoreggiati dal tempo; e prima che se ne contestasse il diritto, potevano difenderli coll'uso costante di molte generazioni.

Ma quando le città credettero d'aver acquistata maggior considerazione, cominciarono pure a desiderare maggiore celebrità; ed allora ebbero storici che sforzaronsi di sparger lume sulla prima loro origine, e talvolta di nobilitarle col racconto di favolose tradizioni. Le scritture di questi storici sono tanto più aride, in quanto che vissero ancor essi in tempi assai rimoti; e le cronache del dodicesimo e del tredicesimo secolo, alle quali, allorchè mancano scrittori contemporanei, dobbiamo prestar fede, si contentano, quando rimontano oltre al decimo secolo, d'indicare ogni anno la morte d'un vescovo o d'un santo, la fabbrica di una chiesa, o l'invasione d'un popolo barbaro. Una frase loro basta per descrivere un avvenimento, e questa frase è d'ordinario così insignificante, quanto per sè stesso il fatto isolato.

Col soccorso degli storici stranieri, e sopra tutto dei documenti estratti dagli archivj de' conventi e delle famiglie, i dotti del passato secolo ottennero non pertanto di potere scrivere la storia delle proprie città nel decimo ed undecimo secolo, in modo di appagare la curiosità de' loro concittadini, e la vanità de' loro nobili, ai quali somministrano prove, se non di virtuose opere dei loro antenati, almeno della loro esistenza: ma tali storie cessano d'essere interessanti quand'escono dalle mura della propria città[398]. Sono inoltre in qualche maniera intermittenti, se può farsi uso di tale espressione, perchè gli avvenimenti abbastanza circostanziati non si presentano che ad intervalli assai lontani, duranti i quali nulla troviamo che fermar possa la nostra attenzione. Rinunciando adunque ai particolari storici di ogni città i minuti racconti, ci limiteremo ad indicare con alcuni tratti generali ciò che appartiene alle città di Lombardia, della Venezia e della Toscana; i primi elementi di una costituzione repubblicana nella formazione dei loro municipj, il primo acquisto dei diritti di guerra e di pace, il primo impulso dato all'industria ed al commercio, le prime loro contese colla nobiltà, ed il primo ricevimento in seno alle nascenti repubbliche, di questa classe straniera che comunicò alla plebe cui si associava il proprio lustro, e che procurò alle città maggiore considerazione nelle diete dell'impero.

Il primo diritto acquistato dalle città, che diventasse loro utile per conseguire l'indipendenza, fu, come abbiamo altrove osservato, quello di circondarsi di mura per difendersi nel nono secolo, ed in principio del decimo, dalle rapine degli Ungari e dei Saraceni. I Germani e gli Sciti avevano estrema avversione per le città chiuse, risguardandole come prigioni. Perciò in tutti i paesi da loro conquistati avevano spianate le fortificazioni delle città, le quali chiamavansi fortunate quando non vedevano arse le case, e massacrati o dispersi gli abitanti. E per tal motivo tutte le fortificazioni furono distrutte nel regno dei Lombardi, e non si permise di rialzarne di nuove senza l'espresso assenso del re, cui spettava la difesa del regno.

Di qui accadde, senza dubbio, che nei posteriori tempi le città aperte e rovinate dalle incursioni dei barbari, dovettero ricorrere al monarca per ottenere la facoltà di difendersi. Fu sempre in virtù d'una carta dei re, o degl'imperatori, che le città rifecero le proprie mura, e queste carte, accordate prima con difficoltà, s'andarono moltiplicando nel nono e decimo secolo in tal modo, che ben tosto non solo le città, ma non v'ebbe quasi monastero, borgata o castello, che non avesse in forza d'un diploma imperiale ottenuto il diritto di fortificarsi[399].

Allorchè le città poteron difendersi da loro medesime, cominciarono ad acquistare il sentimento della propria importanza; e quando formarono un corpo politico, la principale loro cura fu quella di accrescerne i privilegi. Pure fino al regno del grande Ottone, a fronte degli aperti vantaggi delle fortificazioni, le città, trovandosi abbandonate dai nobili che ne potevano accrescere il lustro, furono invece impoverite dalle frequenti contribuzioni imposte dai barbari, e più ancora dai disordini dell'anarchia, o di un cattivo governo. Niun cittadino poteva distinguersi; non colle lettere affatto neglette, non colla nascita che presso la plebe non aveva splendore, non colle ricchezze possedute dai soli nobili, non col commercio allora quasi nullo, non infine coi militari talenti e col valore che non avevano occasione di far conoscere: e per tal modo erano le città a tale epoca avvolte in una profonda oscurità.

Abbiamo già veduto che sotto il regno d'Ottone I, e colla sua protezione, la maggior parte delle città si diedero un governo municipale fondato nella confidenza e nella scelta del popolo. Esse ebbero in ogni tempo alcuni magistrati popolari chiamati dalle leggi lombarde schultheis, e dalle franche scabini; i quali formavano il consiglio del conte delle città, e ne rappresentavano la plebe: ma quando Ottone I permise ai cittadini di darsi un'amministrazione più libera, abbandonate queste istituzioni settentrionali, procurarono di costituirsi dietro il modello della repubblica romana e delle sue colonie, per quanto glielo permettevano le imperfette nozioni della storia[400].

Da principio tutte le città preposero alla loro amministrazione due consoli annuali eletti coi suffragi del popolo. Principale loro incumbenza fu quella di render giustizia ai loro concittadini; perciò che la divisione dei poteri e l'indipendenza dell'ordine giudiziario, cui si dà somma importanza ne' vasti stati, non fu nè conosciuta nè ricercata dalle piccole repubbliche. La più importante funzione del governo d'un piccolo popolo è quella di giudicare. Questo ha poche leggi, che difficilmente vengono alterate, poche pubbliche entrate, poche spese e pochi impieghi da distribuire. Non abbisogna di capi cui affidare il poter legislativo o esecutivo, ch'egli stesso esercita direttamente, ma ne abbisogna per reprimere i disordini, punire i delitti e decidere le contese de' cittadini. Ne' secoli di mezzo le funzioni di generale erano sempre accoppiate a quelle di giudice. Coloro che turbavano lo stato al di fuori, o internamente coi loro delitti, erano ugualmente considerati nemici della società, e lo stesso capo doveva dirigere la forza pubblica contro gli uni e contro gli altri. Come i duchi prima, poi i conti d'ogni città, erano stati ad un tempo e generali e giudici, così i consoli che presero il loro luogo, ne esercitarono ancora le incumbenze. Quando il re o l'imperatore radunava l' host, e le milizie delle città ricevevano l'ordine di seguire il monarca in un'impresa; o pure quando per le prescrizioni del diritto feudale una città vendicava un'offesa particolare con una guerra privata, i consoli marciavano alla testa de' loro concittadini, e comandavan loro nel campo.

Altra funzione de' consoli era quella di convocare e presedere i consigli della repubblica. D'ordinario eranvi due consigli in ogni città, oltre il consiglio generale di tutto il popolo. Il primo era poco numeroso, e propriamente destinato a coadiuvare i consoli in quelle funzioni che credevansi troppo importanti per confidarle ad altri magistrati. Chiamavasi questo corpo il consiglio di credenza, vale a dire consiglio di confidenza, o consiglio segreto. Era questo incaricato dell'amministrazione delle finanze della città, di sopravegliare i consoli, e di tutte le relazioni esteriori dello stato. Un altro corpo, composto di cento consiglieri o più, aveva in molte città il nome di senato, di gran consiglio, di consiglio speciale, o di consiglio del popolo. Nel senato disponevansi i decreti che dovevano proporsi alle deliberazioni del popolo che radunavasi in assemblea generale sulla pubblica piazza al suono della grossa campana, ed era chiamata parlamento. L'assemblea del popolo era sovrana, ed i magistrati la consultavano nelle più importanti occasioni: ma in quasi tutte le città la legge non permetteva che si assoggettasse alcun atto alla deliberazione dell'assemblea del popolo, prima che il consiglio di credenza ed il senato avessero dato il loro assenso al proposto progetto[401].

Le città dividevansi in quattro o sei quartieri, che d'ordinario avevano il nome della porta più vicina, perchè gli abitanti del quartiere erano specialmente incaricati della difesa della loro porta e delle mura dipendenti. Questa divisione era ad un tempo civile e militare. Molte città coll'andar del tempo accrebbero il numero de' loro consoli, onde ve ne fosse uno per quartiere, che sceglievasi tra gli abitanti dello stesso quartiere. L'elezione del consiglio di credenza e del senato ripartivasi nella stessa maniera, cosicchè eravi nella costituzione delle città una mescolanza di sistema rappresentativo.

I quartieri formavano altresì corpi militari con differenti stendardi. Ognuna sceglieva tra i suoi più ricchi cittadini, e quando i nobili si posero sotto la protezione delle repubbliche, sceglieva tra i nobili una o due compagnie di cavalieri armati da capo a' piedi. Lo stesso quartiere formava poi due altri corpi scelti, cadauno dei quali doveva essere il doppio numeroso dei precedenti; e questi erano i balestrai e l'infanteria pesante. Quest'ultima era armata del pavese, specie di scudo, della cervelliera o cuffia di ferro e della lancia. Gli altri cittadini divisi pure in compagnie, ed armati soltanto di spada, eran obbligati di trovarsi sulla piazza d'armi del proprio quartiere qualunque volta suonava campana a martello. Tutti gli uomini dal diciottesimo anno fino al settantesimo dovevano soddisfare a questo dovere. I consoli comandavano le armate, ed avevano sotto i loro ordini il capitano del quartiere, il suo gonfaloniere o portastendardo, ed il capitano d'ogni compagnia. Non conoscevasi allora quell'infinito numero d'ufficiali e di sottufficiali introdotti dalla tattica moderna. L'ordine era di combattere, l'unica regola di non iscostarsi dal gonfalone che restava sempre visibile. Per tutto il rimanente ogni soldato poteva agire di proprio impulso, e non era parte, come a' nostri tempi, d'una macchina complicata, i di cui movimenti sono tutti diretti da una superiore intelligenza; mentre ogni individuo, ridotto ad agire come una ruota di così gran macchina, ignora lo scopo della propria azione[402].

Siccome le città erano state erette in corporazioni per metterle in istato di difendersi, lo stesso atto che loro aveva permesso di fortificarsi permetteva ancora di agguerrire le loro milizie. Nè fu solamente per le guerre pubbliche dell'impero che facessero uso di questo stabilimento militare, ma riclamarono per sè medesime il diritto di cui erano in possesso i conti, i marchesi, i prelati e perfino i signori de' castelli, di vendicare coll'armi proprie le proprie ingiurie. Nel sistema feudale i tribunali terminavano le liti con una specie d'arbitramento: quando l'offesa era riconosciuta, dichiaravano quale era il legittimo compenso, coll'offerta del quale le due parti dovevano rinunciare al loro odio, alla loro faida; ma essi non obbligavano a dare o a ricevere il compenso. Quando il diritto era dubbioso, invitavano le parti a terminare la contesa col duello, in cui il giudizio di Dio facevasi palese come in una guerra sostenuta da tutte le forze dei due rivali, ma con minore effusione di sangue e con minor danno. In somma tutta la legislazione fondavasi sopra il diritto della naturale difesa, e su quello di farsi giustizia da sè medesimo; essendo autorizzato ogni membro dell'impero a rifiutare un giudice parziale e ad appellarsi al suo buon diritto, alla sua spada[403]. Le prime guerre fatte dalle città le une contro le altre, o contro i marchesi ed i conti che volevano opprimerle, non furono dunque risguardate quali atti di ribellione, ma come atti legittimi di giustizia o di naturale difesa conformi ai diritti degli altri membri dell'impero.

La rivalità tra comuni d'uguale potenza gelosi della grandezza loro e della rispettiva popolazione, rese più acerbe queste guerre private, dando loro un carattere più nazionale e meno giuridico. Le due metropoli della Lombardia furono le prime ad abbandonarsi a quest'odio di vicinato. I re de' secoli di mezzo non avevano capitale propriamente detta, dimorando d'ordinario nei loro castelli, e visitando quando l'una e quando l'altra delle loro città. Pure Pavia e Milano disputavansi il primato tra le città italiane. Pavia perchè fu la favorita residenza de' più illustri sovrani lombardi, aveva il loro più magnifico palazzo. Posta ad egual distanza dalle Alpi svizzere e dalle liguri, e padrona del passaggio del Ticino, signoreggiava le due pianure che stendonsi alla diritta ed alla sinistra del Po. Padrona ugualmente della navigazione di questo fiume, le sue barche potevano seguirne il corso fino all'Adriatico, o rimontare i fiumi che gli tributano le acque fino ai laghi da cui le ricevono. Pavia nel centro delle terre della Lombardia era quasi la chiave di tutti i suoi fiumi, ed il suo territorio formato dalle più ricche loro deposizioni, irrigato dalle loro acque, non era ad alcuno inferiore in fertilità[404]. Profittando di tanti vantaggi Pavia era diventata una vasta e popolosa città, che pure non pareggiava Milano in ricchezze ed in potenza, o perchè il lungo soggiorno e l'esempio della corte avessero snervata la sua energia, o perchè il denso aere che vi si respirava[405], e le nebbie frequentissime avessero resi gli abitanti meno proprj alla carriera dell'ambizione e della gloria.

Milano, antica capitale degl'Insubri e di tutta la Gallia cisalpina, era pure stata la residenza di alcuni degli ultimi imperatori d'Occidente, e la prima e più antica sede arcivescovile di tutta la Lombardia. Salubre è l'aere di questa città, fertili i campi che la circondano; pure come la sua posizione non sembra darle alcun vantaggio esclusivo, che dovesse assicurarle quella superiorità di cui ha costantemente goduto sulle altre città lombarde, convien supporre che la sua grandezza e la sua popolazione siansi conservate a traverso i secoli barbari, dopo i tempi dell'impero occidentale, come una eredità dei Romani. Trovandosi i Milanesi in principio del secolo undecimo più ricchi, più potenti, più agguerriti dei Pavesi, non potevano darsi pace che Pavia pretendesse d'essere la prima città del regno. Fu in occasione della doppia elezione al trono di Lombardia, rimasto vacante per la morte d'Ottone III, che queste due capitali, dichiaratesi l'una per Arduino, l'altra per Enrico II, s'abbandonarono la prima volta alla loro gelosia, e si procurarono colle loro rivalità l'attenzione degli storici.

Dopo che le milizie delle due città si furono lungo tempo esercitate nelle private loro guerre, e che incominciò a risvegliarsi ne' loro cittadini l'amore della patria e della indipendenza, confidando i Milanesi nelle proprie forze e mossi dalle istigazioni del loro arcivescovo, credendo di sostenere coi diritti nazionali la causa della Chiesa, osarono misurarsi contro un nemico più potente. Abbiamo parlato in un altro capitolo della loro guerra coll'imperator Corrado il Salico: nel corso della qual guerra l'arcivescovo Eriberto diede compimento al loro sistema militare con una invenzione adottata ben tosto da quasi tutte le città d'Italia. In sull'esempio dell'arca dell'alleanza delle tribù d'Israele, egli pose alla testa dell'armata uno stendardo d'un genere affatto nuovo che chiamò il carroccio.

Il carroccio era un carro a quattro ruote, cui si aggiogavano quattro paja di buoi. Dipingevasi di color rosso, e rossi tappeti coprivano fino ai piedi i buoi che lo tiravano; e di mezzo al carro alzavasi un'antenna ugualmente rossa, la di cui altissima sommità terminavasi in un globo dorato. Al di sotto, tra due bianche vele, spiegavasi lo stendardo del comune, e più sotto ancora verso la metà dell'antenna vedevasi un Cristo in croce che colle braccia stese pareva benedire l'armata. Una specie di piattaforma sul davanti del carro veniva occupata da alcuni valorosi soldati destinati a difenderlo, mentre sopra altra simile stavano sul di dietro i sonatori colle loro trombette. I sacri misterj celebravansi sul carroccio prima che sortisse dalla città, e spesse volte vi era addetto un cappellano che lo seguiva al campo di battaglia. La perdita del carroccio risguardavasi come l'estrema ignominia cui potesse esporsi una città; e perciò i più valorosi soldati, il nerbo dell'armata veniva destinato a custodire il sacro carro, onde il grosso della battaglia riducevasi d'ordinario intorno a lui[406].

Dovevasi rendere l'infanteria potente per opporla alla cavalleria dei gentiluomini, dovevasi darle unione e solidità ed ispirarle confidenza nella propria forza; e coll'invenzione del carroccio si supplì a tutto. Non potevano sperarsi rapidi movimenti da una truppa subordinata a quelli di un carro pesante tirato dai buoi; la ritirata doveva essere lenta e misurata; e la fuga, a meno che non fosse vergognosa, riusciva impossibile; le marcie della cavalleria trovavansi legate a quelle dell'infanteria; le milizie avvezzavansi a sostener l'urto della cavalleria senza aprir gli ordini, mentre l'urto dell'infanteria doveva riuscire alla cavalleria tanto più formidabile, quanto era più uniforme e meglio diretto verso un solo punto. Non sarà fuor di proposito il notare che i buoi d'Italia camminano più leggermente che i Francesi, sicchè la loro marcia si conviene meglio a quella dell'infanteria.

L'epoca dell'invenzione del carroccio fu altresì quella della prima celebre contesa fra i nobili ed il popolo; contesa suscitata, come abbiamo già detto, dall'arcivescovo Eriberto, il quale abusò del diritto di supremazia sui gentiluomini dipendenti dalla mensa arcivescovile di Milano. La gelosia manifestata in quest'occasione dai popoli contro la nobiltà, è una prova che allora le città non erano soltanto popolate di timidi e poveri artigiani, ma che i plebei avevano acquistato quel sentimento di dignità e d'indipendenza verso i signori, che nasce dall'uguaglianza di ricchezze e d'istruzione. I cittadini sentivano che tutta la fortuna dello stato non era in mano dei nobili, che questi più non potevano a voglia loro accollare o togliere la sussistenza alle classi inferiori della nazione; che l'educazione loro non li rendeva più atti de' borghesi al governo de' popoli, e che i cambiamenti operatisi nello stato dall'introduzione del commercio, dal miglioramento della coltivazione fatta dalla plebe, e dall'ignoranza de' gentiluomini, avevano ridotte le due classi ad un'eguaglianza di diritti.

Presso i popoli più oppressi e più barbari, il commercio non può essere affatto distrutto: l'uomo cercherà sempre di provvedere col cambio ai suoi bisogni, e coloro che s'incaricheranno di facilitarlo, vi troveranno sempre il proprio vantaggio. Perciò le repubbliche di Venezia, di Napoli e d'Amalfi, che fino al decimo secolo ebbero un governo che proteggeva ed animava l'industria, ottennero sulle vicine popolazioni un immenso vantaggio, esercitandone esse sole tutto il commercio. I Veneziani erano i mediatori dei due imperi: accolti ed accarezzati dai Greci portavano agli Occidentali i prodotti delle manifatture che prosperavano in Costantinopoli e nella Morea, e le merci indiane ch'essi acquistavano indistintamente dai Greci e dai Musulmani. Rimontavano poi colle loro barche leggieri i fiumi dell'Italia, e provvedevano le città fluviali di tappeti e stoffe dell'Asia, di spezierie delle Indie, e del sale delle proprie saline di cui erano gli esclusivi provveditori di Lombardia. Ricevevano in cambio grani, cuoi, lane ed altri prodotti del suolo; ma nelle città loro coltivavano in oltre le arti meccaniche, e la prima fonderia di campane si stabilì in Venezia, onde introdussero l'uso delle campane nella Grecia e nell'Occidente quando le regalarono ai monarchi di Costantinopoli ed a quelli d'Europa[407]. Lo storico Luitprando che fu spedito ambasciatore da Ottone il grande all'imperatore Niceforo Foca, nulla vide nel lusso di Costantinopoli che lo sorprendesse o gli riuscisse nuovo; perchè, com'egli disse ai Greci medesimi, i magazzini di Venezia gli avevano già mostrate tutte quelle ricchezze[408].

La natura del commercio veneziano nel decimo secolo e la sua prosperità provano evidentemente la pochissima industria delle altre città e la loro miseria. Questo commercio non arricchiva i suoi agenti che con quella specie di monopolio ch'essi esercitavano a danno de' loro compratori, perchè non essendo fondato sulla moltiplicità delle produzioni e dei bisogni, ma povero al contrario e limitato a pochi oggetti, pure dava considerabili profitti. Nè tale commercio era uguale: i Veneziani somministravano tutte le produzioni delle manifatture, tutte le merci di lusso, e non ricevevano in cambio che le materie brute o danaro. Secondo il sistema degli economisti che oggi pretendono di favorire il commercio col vincolarlo, la bilancia sarebbe stata a solo vantaggio dei Veneziani, e sempre contraria ai Lombardi. Ma il commercio degli ultimi era affatto libero; e tale fu l'influenza della libertà, tali furono i vantaggi per i Lombardi di questa pretesa sfavorevole bilancia, che in meno d'un secolo ammassarono abbastanza capitali onde rivalizzare d'industria coi loro corrispondenti. Bentosto le città loro riempironsi di officine e di manifatture, e trionfando degli svantaggi d'una posizione mediterranea, il più prospero commercio ravvivò tutti i loro mercati.

La lingua italiana nacque pure o si sviluppò nelle città insieme al commercio, vale a dire nel dodicesimo secolo, e l'essere universalmente adottata contribuì a rimpiccolire le distanze che separavano le diverse classi della società.

È cosa veramente singolare che non siasi conservato verun documento del linguaggio adoperato dal popolo d'Italia fino alla fine del decimo secolo. Il dottissimo Muratori ricercò con infaticabile pazienza tutti i vecchi archivj, tutti i depositi d'antiche scritture di famiglie e di comunità, senza che siasi abbattuto a scoprirne una sola dettata in quell'idioma che chiamavasi volgare, diverso dal latino riservato ai dotti, dal romano che parlavasi nelle Gallie, e dal tedesco dei popoli venuti dal Settentrione. Pare per altro che la lingua volgare avrebbe dovuto essere non solo quella del comune conversare, ma ancora quella delle lettere famigliari e del commercio. È dunque a credersi che gl'Italiani fino ad dodicesimo secolo non sospettassero nè meno che il loro dialetto potesse scriversi. Per la stessa ragione non si troverebbero forse dell'età nostra atti o lettere scritte ne' dialetti limosino, piccardo, normanno, piuttosto che in francese, o ne' dialetti bolognese e genovese piuttosto che italiano[409].

Sembra probabile che ne' tempi della potenza romana i provinciali avessero una viziosa maniera d'esprimersi in latino, e che s'avvicinassero fin da que' tempi al moderno italiano. La mescolanza delle nazioni barbare contribuì non poco a corrompere ancor più questo linguaggio provinciale, introducendovi gli articoli ed i verbi ausiliarj adoperati nel Settentrione per tener luogo delle declinazioni e delle conjugazioni latine che rendevano la grammatica troppo complicata[410]. Il sermone volgare, che così chiamavasi, dovette essere il dialetto abituale de' campagnuoli e de' cittadini, ma non dei nobili, i quali, comecchè d'ordinario niente meglio educati de' loro inferiori, essendo quasi tutti di razza allemanna, oltre la lingua volgare che dovevano necessariamente parlare, avevano pure conservato l'uso della tedesca. Abbiamo veduto che nel secolo nono i Lombardi Beneventani davano ancora ai loro principi il soprannome tedesco; ma abbiamo una prova che andavano a poco a poco perdendo l'uso del linguaggio materno nella pratica tenuta dagli storici del susseguente secolo, che, riferendo questi soprannomi, vi aggiungevano la spiegazione[411]. Gl'imperatori francesi e tedeschi portarono in Italia il costume della lingua tedesca, perchè tutti i Franchi la parlavano, come lo mostra la lettura delle leggi salica, ripuaria e bavara, ed anche i capitolari di Carlo Magno, ove tutte le parole non latine derivano dal tedesco. E per tal modo due lingue, una per la nobiltà, l'altra per il popolo, parevano dividere questi due ordini, e rammentando ad ogni istante la loro differente origine, rinnovare tra di loro l'avversione e la gelosia.

Richiedevasi veramente che i gentiluomini, i cherici, e sopra tutto i legisti, intendessero il latino; ma il modo con cui lo scrivevano ci somministra una poco vantaggiosa idea dello stile della loro conversazione, se pure valevansi di questa lingua. Abbiamo infinite carte scritte in questo preteso latino. Vedesi quanto poco scrupolosi fossero i notaj nell'ammettere nei loro atti i più grossolani barbarismi, e come a fronte di tanta licenziosità esprimevano a stento i loro concetti. Soffresi, leggendoli, doppia fatica; ci stanchiamo d'occuparci di così fastidiose cose, ma più ancora ci stanchiamo sentendo la fatica che sostennero coloro che le scrissero[412].

Durante il regno della casa Sassone una nuova mescolanza di gentiluomini allemanni colla nobiltà italiana, rimise in vigore per la terza volta il linguaggio teutonico, che era quello della corte e del governo; ma tale linguaggio così difficile, ed affatto straniero agli organi italiani, si manteneva vivo con difficoltà, ed alla seconda, o al più nella terza generazione veniva trascurato. I fanciulli imparavano naturalmente il linguaggio del popolo; e nelle scuole gli ecclesiastici non insegnavano che il latino: nè sembra che un orgoglio nazionale si prendesse cura di conservare nelle famiglie la lingua tedesca, perchè i Tedeschi conobbero assai tardi il prezzo della propria lingua. Intanto in ragione dell'importanza maggiore che andavano acquistando i borghesi, le città crescevano pure in popolazione ed in ricchezze, e la volgar lingua che si era adottata s'avvantaggiava pure sul latino e sul tedesco, ed approssimavasi ad essere la lingua nazionale. Di fatti nel secolo dodicesimo si rese compiutamente dominante, ed in allora incominciò a formarsi, ad ingentilirsi, ed a prendere regole generali, di modo che nel secolo susseguente la vedremo finalmente adottata, e resa bella dagli storici e dai poeti.

In quell'epoca in cui gl'Italiani, forniti di tre idiomi, non ne possedevano un solo, ed in mezzo all'ignoranza del decimo secolo, Luitprando compose una storia de' suoi tempi, che ancora al presente leggesi con interesse e piacere. Quest'opera è quasi il solo documento letterario dell'Italia settentrionale nel decimo secolo. Si ripassano con estrema noja le cronache de' suoi coetanei per ritrovare qualche fatto storico; ci alletta invece l'opera di Luitprando, e si lascia con rincrescimento. Vero è che non devesene incominciar la lettura subito dopo quella degli scrittori dell'età d'Augusto, perocchè allora ci offenderebbe la durezza del suo stile; ma quando si paragona al suo secolo, ci sorprende il suo stile conciso ed energico, e di quando in quando qualche profondo pensiere, e più d'ogni altra cosa certa aggradevole varietà che seppe dare alla sua narrazione. Egli manca di ordine, e pecca di parzialità, ma pure alletta: provveduto di non ispregevole erudizione cita a proposito gli autori romani, e frequentemente fa pompa della sua conoscenza della lingua greca, e non poche volte con ridicola vanità; si vede che gli era ugualmente familiare la lingua allemanna; e per ultimo qualunque volta la sua fantasia viene riscaldata dal soggetto, passa dalla prosa alla poesia, ed i suoi versi non sono affatto privi di lepore.

Luitprando era canonico di Pavia, e segretario di Berengario II, dal quale nel 946 fu mandato ambasciatore a Costantinopoli presso Costantino Porfirogeneta. Ritornato in patria, ebbe qualche motivo di disgusto con Berengario, e passò in Germania alla corte d'Ottone il grande, che accompagnò in Italia quando venne a conquistarla. Ebbe dall'imperatore il vescovado di Cremona, e fu suo ambasciatore a Roma ed a Costantinopoli. Scrisse una curiosa relazione della sua andata in quest'ultima città presso l'imperatore Niceforo Foca[413]. Alcuni troppo liberi racconti che Luitprando innestò nelle sue scritture non ci permettono di formarci una troppo favorevole idea della gentilezza dei grandi di que' tempi, e di quella che allora chiamavasi buona compagnia; soprattutto quando rammentiamo il rango che aveva alla corte e le funzioni ecclesiastiche di questo storico.

Alcuni scrittori dell'Italia meridionale che fiorirono nel decimo e nell'undecimo secolo, meritano pure distinta ricordanza. L'anonimo di Salerno, Gaufrido Malaterra, Alessandro di Telesa e Falco di Benevento si fanno tutti leggere con interesse. Gli storici dell'attuale regno di Napoli conservarono per lo spazio di più secoli una notabile superiorità sul resto dell'Italia; la quale si fa pure sentire quando confrontasi il poema di Guglielmo il Pugliese intorno alle conquiste de' Normanni cogli altri poemi storici di cui abbonda quest'età più d'ogn'altra[414]. I poemi storici d'un secolo barbaro sono i più nojosi e ributtanti documenti che ci è forza di leggere per pescarvi i fatti storici. Lo scrittore incapace di porre ne' suoi scritti vera poesia, pare che non siasi presa la cura di dare un ordine simmetrico alle sue parole, che per ispogliare d'ogni armonia il suo stile e togliere la libertà ai suoi pensieri. Giammai dice quello che vorrebbe dire, nè mai soddisfa con quello che dice: e siccome pare aver presa cura d'escludere i numeri ed i nomi proprj da' suoi versi, o d'esprimere gli uni e gli altri in un modo classico, non parla che con enigmi, e fa tanto penare per intenderlo, quanto è il dispetto che si prova del pochissimo che s'impara quando si è inteso.

Tutti i primi storici dell'Italia erano o prelati o monaci. Soltanto nell'undecimo secolo alcuni laici cominciarono altresì a scrivere la storia, quando i progressi dell'agiatezza nelle città diedero opportunità d'applicarsi agli studj, quando l'influenza che i cittadini andavano acquistando nel governo dello stato fece loro prendere maggiore interessamento ai pubblici affari. I due primi storici delle città sono Arnolfo e Landolfo il vecchio di Milano, che ambedue vissero verso la metà del secolo XI, quando vi s'agitavano le dispute intorno al matrimonio dei preti. O sia per conto dell'esattezza, o per l'interesse della loro narrazione, non meritano troppo onorevole ricordanza; ma la natura medesima della loro storia è una prova della crescente importanza delle città, comprendendo i tempi delle prime contese tra la nobiltà ed il popolo; contese che modificarono la costituzione delle nuove repubbliche.

Abbiam già parlato nel secondo capitolo della lite de' valvassori, o gentiluomini coll'arcivescovo Eriberto e la plebe milanese, ed abbiamo detto che terminò del 1039 all'epoca della morte di Corrado, in forza delle nuove leggi promulgate da questo imperatore intorno ai feudi. Le città lombarde approfittarono assai di questa pace, perchè molti gentiluomini, e specialmente i meno potenti, domandarono ed ottennero la cittadinanza delle più vicine città, ponendosi essi ed i loro feudi sotto la protezione di queste recenti comuni, le quali meglio d'ogni altro membro dello stato sapevano far rispettare i loro amici. I gentiluomini con tali adozioni acquistaronsi una patria, che il regno lombardo, nella sua attuale dissoluzione, non poteva loro offrire; ed in ricompensa le città ebbero distinti cittadini, ne' quali il valore sembrava ereditario, e che collo splendore della loro nascita, e col loro desiderio della gloria resero illustri gli altri cittadini divenuti loro eguali.

Merita d'essere considerata la condotta delle nuove repubbliche verso i conti rurali, ed i gentiluomini del loro territorio. Molti di questi non avevano voluto seco allearsi, o ricevere il diritto di cittadinanza. I poderi delle città erano chiusi entro queste piccole sovranità; e siccome la loro popolazione andava crescendo, se non avessero potuto liberamente commerciare in campagna coi vassalli del conti rurali sarebbero ben tosto rimasti esposti alla fame. Conveniva perciò che si guardassero d'indisporre con soverchia alterigia, o troppo alte pretese i signori, perchè se questi si fossero collegati contro le città, le avrebbero esposte ai più grandi pericoli, tanto più che per la loro posizione potevano temporeggiare e tirar la guerra in lungo. Dai loro castelli piombavano sui viaggiatori ed i mercanti per ispogliarli; o pure guastavano le diocesi delle città fin presso alle porte, mentre i borghesi, quantunque più forti, erano dal bisogno richiamati alle loro giornaliere occupazioni, e non potevano tenersi lungo tempo in campagna. Non era per anco abbastanza perfezionata l'arte degli assedj perchè potessero forzare i gentiluomini ne' loro castelli; ed i signori, chiusi nelle torri fabbricate sopra scoscese rupi e circondati soltanto dalla loro famiglia, e da un piccolo numero di scudieri al loro soldo, sfidavano tutta la ferocia delle più potenti armate.

Le repubbliche cercavano perciò di conciliarsi l'affetto dei conti rurali ammettendoli alla loro cittadinanza, ed affidando loro i principali impieghi dello stato. Pure qualunque volta i signori abusavano de' loro vantaggi, ed i cittadini avevano cagione di lagnarsi delle loro esazioni, la repubblica abbracciava caldamente la causa d'ogni suo membro, nè deponeva le armi finchè il gentiluomo, che l'aveva offeso, non fosse umiliato.

Il popolo milanese dividevasi in sei tribù, ognuna delle quali prendeva il nome da una delle porte della città; e poichè i nobili vennero ammessi a partecipare dei diritti di cittadinanza, eransi posti nell'esclusivo possesso dell'ufficio di capitani delle porte, di consoli e di capi delle milizie. Quei medesimi che pure non erano rivestiti d'alcun impiego, assicurati della protezione de' magistrati, che tutti appartenevano alla loro casta, trattarono con insultante arroganza gli artigiani e le inferiori classi del popolo. Nel 1041 un gentiluomo osò di bel mezzogiorno bastonare in istrada un plebeo; e la causa di questo oscuro plebeo diventò all'istante quella di tutto il popolo. Un altro nobile, chiamato Lanzone, forse popolare per ambizione, s'offerse capo ai cittadini irritati; e la sua offerta fu ricevuta a piene mani da coloro che desideravano d'umiliare la nobiltà, orgogliosi d'avere un nobile alla loro testa: tanta forza ha sullo spirito umano il pregiudizio favorevole alla nascita! Lanzone fu fatto capo del consiglio di credenza; nuovi consoli si elessero nella classe de' plebei, e le milizie sotto i loro ordini attaccarono successivamente le torri e le fortezze che i gentiluomini avevano alzate entro le mura della città, e di dove ridevansi del potere de' tribunali: molte di queste fortezze sostennero un regolare assedio prima d'essere spianate; furonvi nelle strade molti sanguinosi incontri per difenderle; ma finalmente i nobili troppo inferiori di forze, e sempre battuti, furono forzati a sortire assieme dalla città colle loro famiglie, ed a lasciare in mano del popolo le loro torri e case fortificate, che vennero distrutte lo stesso giorno[415].

I nobili, circondati dai campagnuoli loro vassalli, trovarono fuori delle mura il vantaggio del numero, ed intrapresero il blocco della città che continuarono pel corso di alcuni anni. Lanzone, sempre alla testa del partito del popolo, risolvette alla fine di portarsi in Germania per ottenere la protezione di Enrico III. Quel monarca che non vedeva senza inquietudine rendersi le città indipendenti, accolse con piacere quest'occasione per ristabilire la propria autorità in Milano. Offerse perciò a Lanzone quattromila cavalli, e chiese caldamente che fossero ricevuti in città. Lanzone, tornato a Milano, annunciò questo soccorso al popolo onde rilevarne il coraggio abbattuto dalla fame; ma il popolo s'accorse che la vendetta d'una fazione riduceva la sua patria nell'antica dipendenza. Entrò in trattative coi capi della nobiltà, e facendo loro sentire il comune pericolo, li ridusse finalmente a segnare una pace che loro lasciava una parte del governo della città senza escluderne affatto il popolo[416].

Dopo questa guerra fino a quella di Como, che formerà l'argomento del susseguente capitolo, ci si presenta un vuoto nella storia delle repubbliche lombarde e di tutte le città dell'alta Italia. È questo uno spazio di settant'anni, ne' quali questa infelice contrada fu il teatro delle più strane rivoluzioni e delle più accanite guerre; duranti le quali tutti gli scrittori contemporanei non fanno verun cenno intorno allo stato politico delle città. La guerra delle investiture e delle vicende degl'imperatori e dei papi venne ampiamente descritta, ma da autori quasi tutti tedeschi. Questi grandi avvenimenti fissavano soli la loro attenzione, e mancando a quest'epoca le città di storici, ci è forza di raccogliere con avidità la sterile e faticosa narrazione del giovane Landolfo[417], scrittore milanese, gli è vero e contemporaneo, ma che invece di scrivere la storia della sua patria, ne dà quelle delle vessazioni da lui sofferte pel godimento d'un miserabile beneficio, delle dispute cogli eretici nicolaiti e de' fastidiosi intrighi del clero milanese. I nostri lettori ci sapranno buon grado d'aver abbandonata così nojosa guida, per trasportarli d'un salto fino al secolo XII, ad un tempo in cui gli autori contemporanei incominciando ad essere meno sterili, potremo noi medesimi scrivere la storia, invece d'essere costretti a scorrerla sommariamente.

Ma prima di procedere più avanti fermiamoci un istante ad osservare lo spazio già percorso. La rivoluzione creatrice di nuove nazioni e di uomini nuovi era compiuta. Come la terra, riscaldata dopo il diluvio dai raggi del sole, s'agitava per un ignoto principio di vita fino nelle profonde sue viscere[418]: così gl'Italiani posti in movimento, ed animati dai primi successi, sorgevano dall'inerzia; e l'intera nazione, lasciata l'antica rozzezza, s'ingentiliva col commercio, colle arti, colle liberali istituzioni d'ogni maniera e con una forma di governo più conforme al presente suo stato. Perduti in mezzo ad un ammasso di fatti troppo imperfettamente conosciuti, abbiam forse lasciato sfuggire quello spirito intollerante d'ogni freno che animava la massa della popolazione, quando ogni marchese, ogni prelato, facendosi giudice del proprio principe, pesava al tribunale della propria coscienza i diritti dell'Impero e della Chiesa, e si determinava per il partito de' papi o de' Cesari; quando ogni gentiluomo, ogni cavaliere, disprezzando una subalterna esistenza, cercava nelle sue fortezze, ne' suoi vassalli, nel proprio coraggio una sicurezza di cui si sdegnava di andar debitore ai superiori o alle leggi: quando ogni città, fidata alle sole sue forze, al reciproco sussidio, bastava a sè medesima, e sfidava il rimanente dell'universo. Pareva che una mano invisibile, una mano benefica avesse sparsi nello stesso tempo in tutti i cuori i sentimenti della dignità dell'uomo e della sua naturale indipendenza. Nè questi semi erano sparsi sulla sola Italia, ma su tutta l'Europa: i principj liberali avanzavansi lentamente bensì, ma con moto uniforme dal mezzogiorno al settentrione. L'Italia e la Spagna ne diedero l'esempio, e le seguirono ben tosto la Svizzera, la Germania, la Francia e l'Inghilterra.

Le prime istituzioni liberali furono portate dal Nord ai tralignati Romani. Questo movimento retrogrado dal Mezzogiorno al Nord nello sviluppo del sistema repubblicano è un fenomeno costante ed assai notabile. Abbiamo veduto in Italia, Napoli, Gaeta, Amalfi, e la stessa Roma, precedere tutte le altre città; nella Spagna fino dal secolo nono, i valorosi guerrieri, che fondarono il regno di Soprarbia, avevano stabilito tra il re ed il popolo un giudice intermedio, il primo modello del giustiziere degli Aragonesi[419]; e nel 1115 Alfonso I, il conquistatore di Saragozza, aveva accordato ai borghesi della sua capitale i diritti e la libertà dei gentiluomini, ossia infançone[420]. Le città della Svizzera e della Germania non incominciarono a conoscere la libertà che negli ultimi anni del dodicesimo secolo; e quelle della Francia e dell'Inghilterra acquistarono ancora più tardi i diritti di comunità.

La forza individuale e la forza sociale devono precedere le altre qualità necessarie all'acquisto della libertà. Queste due qualità hanno una diversa origine, anzi sembrano derivare da opposti principj; pochissime nazioni furono abbastanza fortunate per possederle equilibrate. La forza individuale, quella confidenza nei proprj mezzi, quella costanza che fa disprezzare i pericoli personali, e la forza straniera quando è ingiusta; quella determinazione di non seguire che i dettami della propria coscienza e de' proprj lumi, sono qualità e virtù del selvaggio. Con questa gli abitanti della Germania e della Scandinavia si stabilirono ne' paesi meridionali; recarono seco l'indipendenza; e quando costituirono nazioni, non seppero mai ridursi a dar loro legami abbastanza forti per tenerli uniti. I loro stessi principj dovevano naturalmente produrre gli effetti che produssero, la libera fierezza di tutti i cavalieri, ma in pari tempo la disunione loro, e l'opinione de' conquistatori, che per essere liberi era d'uopo essere principi.

Per l'opposto la forza sociale non poteva nascere che nelle città, e le città che sono l'opera de' popoli civilizzati non esistevano che ne' paesi meridionali. Credendo gli Scandinavi che non potessero gli uomini vivere riuniti senza diventare schiavi, facevansi un dovere di distruggere le città; e quelle che diedero in Italia l'esempio di quella forza sociale, di cui i barbari non ne conoscevano l'esistenza, eransi quasi prodigiosamente sottratte alle loro devastazioni, o s'erano rialzate dalle proprie ruine.

La forza sociale è riposta nel totale sacrificio dell'individuo alla società di cui è membro. Quest'abrogazione di sè medesimo, è fondata, non v'ha dubbio, sul pieno convincimento che il bene comune è quello degl'individui; ma il solo calcolo non condurrà mai il cittadino all'intero sacrificio che da lui domanda la patria: invano gli si dimostrerà che mille volte l'utile della patria è stato anco il suo; nell'istante del suo pericolo personale l'utile patrio cessa d'influire sulla sua prosperità. V'ebbe dunque nell'unione sociale alcun più nobile motivo d'un contratto tra i privati interessi: è la virtù, non l'egoismo, che riunisce l'uomo alla patria: è la riconoscenza de' ricevuti beneficj che ci lega agli amici, ai fratelli; la filiale e religiosa riverenza che ci lega alla patria, a quell'essere sovrumano che la nostra imaginazione pone tra Dio e gli uomini; la tendenza dell'anima all'immortalità che associa la nostra esistenza ai secoli passati, ed ai secoli futuri, e ci costituisce depositarj della gloria dei nostri antenati e dalla prosperità dei nostri discendenti.

I popoli settentrionali non conoscevano che una libertà senza patria; mentre quelli del Mezzogiorno avevano una patria senza libertà. Gli uni e gli altri dovevano rimanere stranieri alla più alta virtù umana, al sacrificio di sè medesimo: i primi non dovevano tale sacrificio a veruna persona: i secondi non possedevano tanta virtù per farlo. L'eroismo degli Scandinavi e quello degli eroi di Ossian era di uno strano carattere, perchè non aveva alcuno scopo: il guerriero affrontava la morte, senza sacrificarsi nè alla patria, nè alla memoria de' suoi padri, nè alla prosperità de' suoi figli[421]; la sua gloria era tutta personale. Al Mezzodì per lo contrario si conobbe lo scopo dei sacrificj prima che si avesse il coraggio di sacrificarsi: ogni cittadino sentiva ciò che doveva alla città natale, alla città in cui riposavano le ceneri de' suoi antenati, le di cui mura proteggerebbero la sua posterità. Così nella grande mescolanza delle nazioni il Settentrione ed il Mezzodì offrirono le virtù rispettive. I popoli conquistatori l'energia, i conquistati la sociabilità. Dovevano gli ultimi, caduti nell'estrema corruzione, essere rigenerati prima d'essere ammessi a dare alcun esempio, ad insegnare alcuna virtù. Intanto l'affetto loro per i luoghi che gli avevano veduti nascere, per il nome che portavano, per i compagni, i di cui padri erano stati associati ai loro padri, coi di cui figliuoli sarebbero associati i loro figliuoli, quest'affetto era un'antica eredità di Roma; e non mancava loro che la libertà per sentirne di nuovo tutto il prezzo. In mezzo alle calamità che affliggevano i popoli d'Italia, tutti gli avvenimenti osservati a certa distanza, parvero diretti allo stesso scopo, e preparar quel periodo di gloria e di libertà che doveva aprirsi agl'Italiani nel dodicesimo secolo.

La conquista dei Lombardi, trinciando l'Italia, e formando d'una sola provincia molte nuove nazioni, avvicinò la patria al cittadino; il Romano s'unì al Romano, il Greco al Greco, e diversi stati indipendenti da Napoli fino a Venezia acquistarono di quest'epoca la loro libertà.

Le conquiste di Carlo Magno, ed il regno de' suoi successori ritardarono la civiltà; ma distruggendo la monarchia lombarda, ed accrescendone la disorganizzazione, i Carlovingi resero più necessaria una nuova organizzazione, e fecero le città lombarde partecipi dei vantaggi che le buone istituzioni municipali procuravano da lungo tempo a Napoli, Amalfi e Venezia.

I guasti degli Ungari e de' Saraceni, e la desolazione che sparsero in tutte le province, resero necessaria l'istituzione delle milizie, l'innalzamento delle mura, ed il popolo nuovamente depositario della forza nazionale.

Prima che la distrutta monarchia facesse luogo ai governi municipali, l'anarchia era generale. Il grande Ottone scese dall'Allemagna in Italia per essere il legislatore d'una nazione, di cui avrebbe dovuto essere soltanto il padrone; e le nuove istituzioni da lui proclamate attestano la sua saggezza ed il suo perfetto disinteressamento.

Nè i disordini dei papi del X secolo, nè l'ambiziose mire di quelli dell'XI riuscirono inutili agl'Italiani; i primi rallentarono le catene della superstizione di que' tempi; i secondi colla sanguinosa lite sostenuta contro l'impero, diedero opportunità al popolo di far valere i suoi servigi, dichiarandosi per coloro che già furono suoi padroni, non come suddito, ma come zelante alleato.

E per tal modo nel piano generale della provvidenza di cui non è permesso all'uomo di comprendere l'economia, nasce spesse volte il bene dal male, e le disgrazie pubbliche possono essere forriere d'una[422] riforma universale. Non disperiamo dunque giammai dei principj e delle virtù che formano la nobile eredità dell'umana specie; e quand'ancora le vedessimo poste in dimenticanza, o furiosamente attaccate, confidiamo nel lento lavoro de' secoli, persuasi che l'eterne verità sopravvivendo ai loro nemici, rinasceranno nel cuore dell'uomo quand'anche non restasse sulla faccia della terra verun monumento per attestare l'antica loro esistenza, ed il culto che fu loro reso.

FINE DEL TOMO I.

TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO I.

Introduzione pag. v

Capitolo I. Mescolanza degl'Italiani coi popoli del settentrione dopo il regno di Odoacre fino a quello d'Ottone il grande — 476-961 1

Anno

476 Caduta dell'impero d'Occidente 8

476-493 Regno d'Odoacre 9

489 Discesa degli Ostrogoti in Italia 10

489-526 Regno di Teodorico re degli Ostrogoti ivi

526-553 Successori di Teodorico; abbassamento e caduta del regno degli Ostrogoti 11

553-567 L'Italia sottomessa a Giustiniano 12

568 Alboino, re de' Lombardi, entra in Italia 14

Divisione dell'Italia in molti stati indipendenti ivi

568-774 Regno de' Lombardi 15

755-774 I principi francesi proteggono i papi contro i re lombardi 20

774 Carlo Magno conquista la Lombardia ivi

800 Carlo Magno ristabilisce l'impero d'Occidente 21

774-814 Regno di Carlo Magno 22

888 Rapida decadenza dei successori di Carlo Magno 26

888 Deposizione di Carlo il grosso, potenza de' grandi feudatarj ivi

888-894 Rivalità di Berengario e di Guido. Berengario, marchese del Friuli, e Guido, marchese di Spoleto, di disputar la corona 31

888-924 Regno di Berengario I 34

827-950 Invasioni dei popoli nomadi del Nord e del Mezzogiorno 35

900-950 Invasione degli Ungari ivi

827-851 Conquista della Sicilia fatta dai Saraceni 38

891-896 Stabilimento dei Saraceni nella Liguria 39

850-950 Le città si fortificano, e le milizie dei borghesi si formano per opporsi ai barbari 41

921 Congiure contro Berengario I 45

924 Morte di Berengario I 46

926-947 Regno tirannico di Ugo, conte di Provenza 47

940 Fuga in Germania di Berengario marchese d'Ivrea, o II 52

945 Berengario II ritorna in Italia con l'ajuto d'Ottone I 53

950-966 Regno di Berengario II, sue guerre con Ottone I 55

961 Incoronazione d'Ottone I come imperatore 57

Capitolo II. Sistema feudale — Governo del regno del Lombardi; modificazioni che subisce questo governo dal 961 al 1039 duranti i regni degli Ottoni, di Enrico II e di Corrado il Salico, imperatori tedeschi 59

Differenze tra i sistemi di libertà dei popoli del Nord e del Mezzodì ivi

Influenza della distribuzione della proprietà sullo stato politico 62

Proprietà territoriale nei paesi conquistati dai popoli del Nord 63

Sistema feudale dei Lombardi basato sulla proprietà territoriale 66

576 Tentativi dei Lombardi per governarsi in repubblica 68

Leggi dei Lombardi 69

Assemblea nazionale o corte del regno 71

Elezione ed incoronazione dei re lombardi 72

Prerogative delle corti del regno ivi

Ogni cittadino poteva scegliere le leggi sotto le quali voleva vivere 76

774-814 Istituzione dei conti 78

Stato degli uomini liberi gentiluomini o valvasori 80

Condizione degli uomini di campagna 83

Arimanni ivi

Uomini di masnada 84

Aldiani 85

Schiavi 86

Stato militare del regno dei Lombardi 87

Giudizj di Dio 89

Debolezza del legame sociale nel sistema feudale 91

Scioglimento della società nel X secolo 92

I grandi bramano lo scioglimento della monarchia 96

Lo desiderano ancora i sudditi de' grandi ivi

Le città ed i gentiluomini rimangono attaccati al re 98

961-965 Sommissione del regno lombardo ad Ottone il grande ivi

Governi municipali accordati alle città 102

Ottone istituisce molti marchesati 103

973 Morte d'Ottone il grande accaduta il 7 maggio presso Maddeburgo 106

973-983 Regno d'Ottone II ivi

983-1002 Regno d'Ottone III 107

961-1002 Indipendenza delle città durante il regno degli Ottoni ivi

1002 Enrico II coronato in Germania 109

Arduino, marchese d'Ivrea, eletto re di Lombardia 110

1004 Enrico II viene in Italia per disputarne il possesso ad Arduino 111

1004 Pavia abbruciata dai Tedeschi 112

1004-1015 Guerra tra Milano e Pavia in nome dei due re Arduino ed Enrico 114

1024 Morte d'Enrico II; gli succede Corrado II 116

1026 Corrado II, o il Salico, tien corte a Roncaglia 117

Legge di Corrado intorno alla successione dei feudi 118

1027-1036 Guerra dei capitani e valvasori contro le città 119

1033 La pace o tregua di Dio 120

1035 Guerra dei gentiluomini contro Eriberto, arcivescovo di Milano 121

Ribellione dei sotto vassalli e degli schiavi 123

1089 Morte di Corrado il Salico 124

Capitolo III. La Chiesa e la repubblica di Roma nella prima metà del medio evo — Contese dei papi e degl'imperatori — Regni d'Enrico III, d'Enrico IV e d'Enrico V, dal 1039 al 1122 — Pace di Worms 125

568-717 Roma non viene conquistata dai Lombardi 126

I papi eccitano i Romani a tenersi fedeli agl'imperatori greci 127

Credito che acquistano i papi per la debolezza dei Greci 128

717-741 Riforma degl'iconoclasti 129

Immagine miracolosa d'Edessa 130

I Musulmani accusano i Cristiani d'idolatria 132

717-741 Regno degl'imperatori isaurici ed iconoclasti 133

726-731 I Romani incoraggiati da papa Gregorio II ricusano d'ubbidire agl'imperatori iconoclasti 134

726-774 Ristabilimento della repubblica romana sotto l'influenza de' papi 135

Governo incerto di questa repubblica 136

741 Gregorio III domanda per la prima volta la protezione de' Francesi contro i Lombardi 138

I papi sanzionano l'usurpazione de' Carlovingi 139

755 Pipino sforza i Lombardi di cedere alla Chiesa ed alla repubblica romana l'esarcato e la Pentapoli 140

Questa donazione non ha mai effetto 141

774 Carlo Magno conferma tale donazione, che poi non eseguisce 142

Ma cede al papa l'utile dominio di considerabili poderi 143

762-766 Primi sintomi della corruzione dei papi 144

Ricchezze del clero che ne accrescono la corruzione 146

Doveri militari uniti ai feudi dati al clero 147

Gli ecclesiastici incaricati dai re delle funzioni civili ivi

847-855 Pontificato glorioso di Leone IV 151

Elezione popolare e quasi militare del papa 152

Influenza delle donne nelle elezioni 153

890-920 Potere della patrizia Teodora 154

914 Ella dà la tiara a Giovanni X suo amante 155

925-932 Potere di Marozia 157

931 Il secondo figlio di Marozia fatto papa sotto il nome di Giovanni XI 158

932 Alberico di Camerino, figlio di Marozia, console di Roma 159

956-964 Ottaviano, o Giovanni XII figlio d'Alberico papa e signore di Roma 160

Decadimento del potere sacerdotale nel X secolo ivi

I gentiluomini feudatarj dei papi aspirano all'indipendenza 162

Spirito repubblicano della città di Roma ivi

Il popolo difende i papi contro gli Ottoni 164

963 Giovanni XII deposto da Ottone il grande 166

964 L'imperatore gli sostituisce Leone VIII, il popolo Benedetto V ivi

966 Giovanni XIII eletto dall'imperatore oggetto dell'odio de' Romani 169

973-983 Guerre civili dei papi; delitti di Bonifacio VII 171

980-988 Crescenzio, console di Roma 173

996 Ottone III fa elegger papa suo cugino Gregorio V 175

997 Crescenzio vuole ricondur Roma sotto la protezione degl'imperatori d'Oriente 176

Dà la tiara a Giovanni XVI, prelato greco 177

998 Vittoria d'Ottone III e Gregorio V, Giovanni XVI condannato al supplicio 178

Crescenzio vittima della perfidia d'Ottone 179

1002 Vendetta di Stefania, vedova di Crescenzio ivi

1010-1013 Giovanni, figlio di Crescenzio, patrizio di Roma 181

1039 4 giugno, Enrico III, detto il nero, succede a Corrado il Salico, suo padre 183

1012-1033 Papi simoniaci della famiglia dei conti di Tusculo 185

1035-1046 Pontificato scandaloso di Benedetto IX 186

1046 Enrico III trova in Roma tre papi 188

Enrico III ristabilisce i diritti degl'imperatori di concorrere all'elezione dei papi 189

Egli usa piamente di questo diritto 190

1056 Il 5 ottobre, morte d'Enrico III, suo figlio Enrico IV, ma sotto tutela del papa ivi

Carattere del monaco Ildebrando 191

Nel corso di 30 anni è l'anima della corte di Roma 192

1058 Fa proibire da Stefano IX il matrimonio de' preti 194

1059 Fa proibire agli ecclesiastici dal concilio di Laterano di ricevere benefici dai laici. Investiture 196

Questo canone non si applica all'elezione dei papi 197

Il domma della presenza reale nell'Eucarestia consacrato dal concilio di Laterano 198

1061 Scisma dell'antipapa Onorio II 200

1073 Ildebrando papa col nome di Gregorio VII ivi

Carattere della contessa Matilde 202

1077 Umiliazione d'Enrico IV ai piedi di Gregorio VII 204

Guerra dei partigiani dell'impero e del papa per le investiture 207

Massime di Gregorio VII. Dictatus papæ ivi

1084 Enrico assedia Gregorio, che viene liberato da Roberto Guiscardo 208

1085 Maggio. Morte di Gregorio VII a Salerno ivi

1093 Urbano II fa rivoltar Corrado contro Enrico IV suo padre 210

1095 Il passaggio della prima crociata dannosa ad Enrico IV 211

1105 Pasquale II fa ribellare Enrico V contro il padre 212

1106 Gli arcivescovi di Germania spogliano Enrico IV degli ornamenti reali 213

Guerra tra il padre ed il figliuolo 216

Morte d'Enrico IV il 7 agosto 1106 218

1110 Enrico viene a Roma a prendere la corona imperiale 219

Si disgusta con Pasquale II 222

1111 12 febbraio. Pasquale arrestato da Enrico V ivi

Pasquale accorda ad Enrico le investiture 223

Viene disapprovato dai suoi cardinali 224

1112 Un concilio di Laterano scomunica l'imperatore 225

1116 Enrico V va al possesso dell'eredità della contessa Matilde 226

1118 Morte di Pasquale II. Scisma di Burdino 227

1122 Pace di Worms tra la Chiesa e l'impero 228

Capitolo IV. I Greci, i Lombardi ed i Normanni dal settimo al dodicesimo secolo nell'Italia meridionale — Repubbliche di Napoli, di Gaeta e d'Amalfi 230

589 Zottone fonda il gran ducato de' Lombardi in Benevento 233

Le città marittime della Campania e della Calabria fedeli all'imperatore Greco 234

Guerre dei Lombardi contro le città marittime 236

Costituzione municipale delle città greche 237

Ducati di Gaeta e di Napoli 238

600-717 Le città greche dipendenti dall'esarcato di Ravenna 241

Natura delle loro guerre coi Lombardi ivi

726 Le città diventate più indipendenti dopo la perdita dell'esarcato 243

774-787 Arichis, duca di Benevento, mantiensi indipendente contro Carlo Magno 244

787 Grimoaldo I si difende dalle forze francesi 245

806 Grimoaldo II, Store Seitz 246

817 Sicone, duca di Benevento ivi

826-830 Generosa difesa di Stefano, duca di Napoli, contro Sicone 247

836 Sorrento difeso contro Sicardo successore di Sicone 250

Andrea, maestro dei soldati di Napoli, introduce i Saraceni in Italia 252

Sicardo, duca di Benevento, occupa Amalfi 253

839 È assassinato, ed i suoi dominj divisi 255

Gli abitanti d'Amalfi ricuperano la libertà e governansi repubblicamente ivi

Il ducato lombardo diviso tra Radelchiso, principe di Benevento, e Siconolfo, principe di Salerno. Landolfo, conte di Capoa 258

I Saraceni si fanno potenti in Calabria 259

Stabilisconsi al Garigliano, a Cuma ed alla Licosa ivi

846 Le repubbliche di Napoli, Gaeta ed Amalfi fanno guerra ai Saraceni 260

Costituzione, commercio e grandezza d'Amalfi 260

866 Luigi II, imperatore, ajuta i Lombardi contro i Saraceni 264

Basilio, imperatore greco, rendesi potente in Italia 266

870-980 Thême di Lombardia dei Greci in Puglia ivi

980 Ottone II vuole spogliare i Lombardi dell'Italia meridionale 267

982 Disfatto a Besantello 268

Fatto prigioniere, fugge a nuoto 269

982-1002 I Greci stendono le loro conquiste nella Capitanata 271

Passione de' Normanni per i pellegrinaggi 273

1000-1010 I pellegrini normanni difendono Salerno contro i Saraceni 275

1016 Drengot conduce in Italia cento avventurieri normanni 277

Melo, emigrato di Bari, li riduce a fare la guerra ai Greci 278

1019 Melo ed i Normanni battuti a Canne ivi

1021 Enrico II attacca i Greci nella Puglia 279

Rainolfo, fratello di Drengot, si stabilisce in Aversa coi Normanni ivi

1035 I figli di Tancredi d'Hauteville passano in Italia 280

Vanno ai servigi di Guaimaro IV, principe di Capoa 281

1041 Sotto il comando de' Greci attaccano i Saraceni in Sicilia 282

Malcontenti dei Greci, li dichiarano guerra e li tolgono la Puglia 284

1042 La Puglia divisa dai Normanni in XII contee ivi

1045 Ladronecci dei Normanni 285

Leone IX forma un'alleanza contro di loro 286

1053 Il papa disfatto rimane prigioniero dei Normanni il 18 giugno nella battaglia di Civitella 289

Accorda ai Normanni l'investitura dei paesi conquistati come feudi della Chiesa ivi

1053-1057 Unfredo soggioga tutta la Puglia 291

1057 Suo fratello Roberto Guiscardo gli succede ivi

1060 Di concerto con Ruggiero conquista la Calabria 293

1061 Ruggiero passa in Sicilia coi Normanni 295

Debolezza e discordia dei Saraceni di Sicilia ivi

1060-1090 Ruggiero conquista la Sicilia 296

Sua critica posizione nella città di Traina ivi

1060-1080 Roberto Guiscardo scaccia i Greci d'Italia 298

1062 Il principato di Capoa viene in potere dei figliuoli di Drengot ivi

1077 Benevento e Salerno conquistati da Guiscardo 299

Guiscardo nominato duca d'Amalfi ivi

1081 Guiscardo attacca i Greci nell'Illirico 301

1085 Morte di Roberto Guiscardo accaduta il 17 luglio 302

1085-1111 Ruggiero I duca di Puglia ivi

1096 Boemondo suo fratello, e Tancredi suo cugino vanno in Asia coi crociati 303

1111-1127 Guglielmo figliuol di Ruggiero duca di Puglia ivi

1127-1138 Ruggiero II, di Sicilia, duca di Puglia 305

1130 L'antipapa Anacleto II dà la corona reale a Ruggiero ivi

1020-1098 L'ordine militare di s. Giovanni fondato e mantenuto dagli abitanti d'Amalfi 307

1131 Ruggiero sforza Amalfi a sottomettersi 308

1132 Ruggiero sottomette i suoi baroni normanni ivi

Roberto, principe di Capoa, fa alleanza colle repubbliche di Napoli e di Pisa 310

1135 I Pisani acquistano Amalfi. Le Pandette 311

1136 Napoli assediato da Ruggiero ivi

Lotario lo sforza a levare l'assedio 316

1137 Tutte le province di qua del Faro si ribellano a Ruggiero 317

Nuove perdite per la repubblica d'Amalfi 318

Ritirata dell'imperatore e dei Pisani 319

1138 Innocenzo II fatto prigioniero da Ruggiero conferma tutti i suoi diritti 321

Napoli apre le sue porte al re Ruggiero ivi

Capitolo V. Origine di Venezia; sue rivoluzioni avanti il dodicesimo secolo — Pisa e Genova nuove repubbliche marittime; loro rivalità con Venezia e loro primi progressi 323

Natura e forma della laguna veneta 324

Antichi Veneti 327

La propria Venezia devastata dai barbari 328

452 I fuggiaschi della prima Venezia si riparano nella seconda cacciati da Attila 329

La città di Rialto asilo de' Padovani ivi

Indipendenza de' Veneziani rifugiati 331

476 I Veneziani resi affatto liberi per la caduta dell'impero occidentale 334

523 I Veneziani ai tempi di Teodorico ivi

518-527 Gli Schiavoni invadono la Dalmazia 335

568 I Lombardi invadono l'Italia, il clero cattolico si rifugia nella seconda Venezia 337

697 Paolo Lucca Anafesto primo doge di Venezia 339

774-809 Querele dei Veneziani coi Franchi 341

Pipino, figlio di Carlo Magno, prende Chiozza e Palestina 342

Rialto diventa la capitale della repubblica, ed assume il nome di Venezia ivi

837-864 Guerre civili a Venezia 344

959 Gl'Istrioti rapiscono le spose veneziane 345

961-976 Regno tirannico di Pietro Candiano IV 347

Città marittime dell'Istria e dell'Illirico 348

997 Loro alleanza coi Veneziani contro i Narentini 350

Tutte le città marittime fanno omaggio al doge ivi

Sommissione di Narenta. Il doge, duca di Venezia e di Dalmazia 351

980 Ottone II domanda ai Pisani l'ajuto delle loro flotte 352

Sette baroni d'Ottone ceppo di sette famiglie pisane 354

936-980 Accrescimento di Genova; sua potenza marittima 356

1005 Imprese dei Pisani contro i Saraceni in Calabria 358

Muset, re saraceno di Sardegna, abbrucia un sobborgo di Pisa; coraggio di Chinzica ivi

1017 I Pisani acquistano la prima volta la Sardegna 361

1021 I Pisani difendono contro i Genovesi la loro conquista ivi

1050 Muset ritoglie la Sardegna ai Pisani 363

Seconda conquista della Sardegna: morte di Muset 364

1000-1100 Fazioni di Venezia: Morosini e Caloprini 365

1101 Incominciamento delle cronache autentiche de' Genovesi 367

1100-1130 Costituzione di Genova ivi

Accomodamento della nobiltà col popolo 371

Storici di Pisa e di Venezia 372

1099 Le tre repubbliche prendono parte alla crociata 373

Flotta de' Veneziani sotto Vitale Michieli 374

1100 Daimberto, arcivescovo di Pisa, coi Pisani ed i Genovesi ivi

1101 I Pisani ed i Genovesi prendono Cesarea 375

1108-1187 Privilegi accordati alle tre repubbliche dai re di Gerusalemme 376

1124 Briga de' Veneziani coi Greci 378

1124-1125 I Veneziani saccheggiano le isole dell'Arcipelago 379

Nuove conquiste dei Veneziani in Dalmazia 381

1113 Crociata de' Pisani contro Nazaredech, re di Majorica 382

1113-1115 Sommissione delle isole Baleari ai Pisani 385

1118 I Pisani soccorrono papa Gelasio contro Enrico V ivi

1119-1133 Sanguinosa guerra tra Pisa e Genova 386

Indipendenza dei feudatarj pisani in Sardegna 388

Le Maremme pongonsi sotto la protezione dei Pisani 389

Le due Riviere sotto quella dei Genovesi 390

Buoni ufficj dei Fiorentini verso i Pisani 392

Capitolo VI. Tutte le città italiane adottano il governo repubblicano prima del secolo dodicesimo 393

L'Italia in quest'epoca importante manca di storici 394

Primo diritto delle città; quello di fortificarsi 398

Avvilimento de' cittadini prima d'Ottone il grande 399

960-1002 Costituzioni municipali accordate da Ottone 400

Consoli annuali eletti dal popolo ivi

Consilio generale di credenza 402

Assemblea sovrana del popolo ivi

Divisione delle città in quartieri o porte 403

Corpi militari ed armature delle milizie 404

Diritto di guerra privata accordato alle città 405

1002-1024 Rivalità di Pavia e di Milano 406

1026-1039 Guerra dei Milanesi contro Corrado il Salico e contro i gentiluomini 409

Eriberto, arcivescovo di Milano, inventa il carroccio, o carro degli stendardi ad imitazione dell'arca dell'alleanza 409

Commercio dei Veneziani in Lombardia 412

Sviluppamento dell'industria in Lombardia 414

1000-1100 Origine della lingua italiana 415

Corruzione e barbarismo della lingua latina 418

Uso della lingua allemanna presso i Lombardi ed i Franchi 419

Carte latine dei tempi barbari ivi

La lingua volgare parlata dagl'ignobili, il tedesco dai nobili ed il latino dai preti 420

940-960 Distinto merito dello storico Luitprando 421

Scrittori dell'Italia meridionale 422

Poemi storici 423

1000-1050 Primi storici delle città, Arnolfo e Landolfo di Milano 424

1039-1100 I gentiluomini adottati dalle città lombarde 425

Politica delle città, rispetto ai gentiluomini 427

1041 Sedizione di Milano contro i nobili ivi

Lanzone, capo dei plebei, ricorre ad Enrico III 428

1078-1122 Silenzio degli storici rispetto alla guerra delle investiture 430

Influenza della libertà sul popolo italiano 431

L'indipendenza portata dal Nord al Mezzodì;

la libertà sociale ritorna dal Mezzodì al Nord 433

La forza individuale e la virtù del selvaggio 434

La forza sociale è una creazione dei popoli governati dalle leggi 435

I popoli del Nord avevano libertà senza patria: quelli del Mezzogiorno avevano patria senza libertà 436

Ogni rivoluzione dell'Italia giovò alla sua rigenerazione 437

Fine della Tavola.

NOTE:

1. L'autore parlava de' tempi in cui gli stati d'Italia erano manomessi ad arbitrio dal governo francese. I primi volumi di questa storia si pubblicarono in Zurigo del 1807.

2. Siccome ignoriamo perfino i nomi degli scrittori etruschi o tirreni, e che questi popoli non ci sono conosciuti che per pochi frammenti greci e latini, così rimarranno sempre avvolti in molta oscurità. Ciò nulla ostante abbiamo una prova della potenza loro nelle colossali muraglie di Volterra, del loro gusto ne' vasi che conservaronsi fino al presente, del loro sapere nel culto di Giove Elieo, cui attribuirono l'arte da loro conosciuta, e rinnovatasi a' nostri tempi d'evitare e dirigere i fulmini.

3. L'autore come buon Svizzero esalta sopra tutti i governi quello della sua patria; ma come potrebb'egli provare che il medesimo converrebbe anche alle nazioni più numerose, più ricche e più molli di quello che sono gli Svizzeri? N. d. T.

4. Il sig. Micali, dotto fiorentino, sta scrivendo la storia de' popoli che abitarono l'Italia avanti i tempi romani. ( Si pubblicò in Firenze nel 1810. )

5. Johannes Muller.

6. Il 28 ottobre 1530.

7. Oreste padre dell'imperatore Augustolo fu ammazzato a Piacenza il 28 agosto del 476, e suo figliuolo esiliato a Lucullano castello della Campania. Odoacre lo lasciò in vita in considerazione dell'estrema sua giovinezza, e dell'antica amicizia colla sua famiglia, e lo provvide di larghi appuntamenti. Hist. miscellæ l. XV. p. 99. Scr. Rer. It. t. I. Jornandes de Reg. et temp. successione. Ib. p. 239.

8. In ragione che un argomento storico è più complicato, richiede più o meno lavoro per riunire i materiali necessarj. Ogni stato ha la sua storia ed i suoi separati documenti; ho citato a piè di pagina i libri ed i documenti di cui mi valsi in appoggio della mia scrittura. Non era agevol cosa il riunire tante cose assieme: per riuscirvi soggiornai tre anni in Toscana patria dei miei antenati: poscia scorsi tre volte quasi tutta l'Italia, riconoscendo que' luoghi che servirono di teatro ai grandi avvenimenti. Ho travagliato in quasi tutte le biblioteche, visitati gli archivj di molte città e conventi; e perchè la storia d'Italia trovasi interamente legata con quella della Germania, percorsi ancora tutta questa contrada per cercarvi documenti storici. Finalmente ho fatto acquisto di tutti i libri che trattano de' tempi e dei popoli, che mi sono proposto di far conoscere. Mi sia permesso di parlare di tutte le fatiche da me sostenute, onde meritarmi, se fia possibile, la confidenza de' miei leggitori.

9. Pare che il nostro autore si proponesse a suo modello la prefazione premessa da Robertson alla sua vita di Carlo V, come questi aveva preso ad imitare i primi libri della storia fiorentina di Nicolò Machiavelli: ma come pensano alcuni che lo scrittore inglese non uguagliasse il suo inarrivabile esemplare, il nostro storico ancora rimase forse alquanto addietro di Robertson. Coloro che non leggessero che i primi sei capitoli di questa storia non potrebbero adequatamente giudicare del merito sommo e della nobiltà di quest'opera, che riempie un gran vuoto della storia italiana. N. d. T.

10. Procop. De Bello Goth. l. 1. c. 1. — Byzant. t. II. p. 2. — Jornandes De reb. Get. c. 46. t. I. — Rer. Ital. p. 214.

11. Veggansi Gibbon Storia della decadenza dell'impero romano c. 35. e 36., Murat. Ann. d'Italia an. 423=476. E tra gli autori originali la Storia miscella l. XIV. e XV. Scrip. Rer. It. t. I. p. 92=99; come pure le varie cronografie degli scrittori britannici.

12. All'epoca di cui si tratta non era dall'Italia, benchè dominata dagli stranieri, sbandita affatto ogni coltura, e si possono ricordare alcuni uomini illustri nelle lettere sacre e profane. Altronde tante facoltose famiglie che seco trassero nelle isole della Venezia letterati ed artefici e clienti d'ogni genere, e v'innalzarono l'edificio della libertà italiana, hanno potuto dividere colle provincie dell'impero greco il sacro deposito della coltura e dei lumi che abbandonavano le contrade d'Italia occupate dai barbari. Merita intorno a quest'argomento d'essere letta l'erudita dissertazione di Gerolamo Zanetti: Dell'origine d'alcune arti principali appresso i Veneziani. N. d. T.

13. Proc. de bello Got. l. I. Byzan. Hist. Scrip. Editio Ven. t. II. p. 2.

14. Teodorico entrò in Italia l'anno 489, ma non ne ultimò la conquista che colla presa di Ravenna, alla morte d'Odoacre l'anno 492. Una volta per sempre citerò in appoggio delle cronologie da me adottate gli Annali d'Italia del dottissimo Muratori.

15. Jornand. de reb. Geticis c. 52. p. 217, t. I. Scrip. Ital.

16. Dopo l'invasione di Teodorico accaduta l'anno 489 fino alla morte di Teja ed alla conquista di Cuma fatta da Narsete l'anno 553, i loro re furono

l'anno 489. Teodorico.

526. Atalarico.

534. Teodato.

536. Vitige.

540. Ildebaldo.

541. ( Erarico.

( Totila.

552. Teja.

17. Veggasi Gibbon Decline and fall of the Rom. Empire Vol. VII. cap. 41. e 43. Il migliore degli storici Bizantini scrisse minutamente la guerra de' Goti di cui fu testimonio. Procop. Cæsar. de Bello Goth. Lib. IV. Byzan. t. II. I Goti ancora ebbero il loro storico. Jornades de Rebus Geticis. Sembra che costui, allorchè rovinò la sua nazione, si facesse monaco. Scrip. Rer. Ital. t. I.

18. Narsete morì a Roma di novantacinque anni nel 567 quando disponevasi ad eseguire gli ordini di Giustino II. Alboino entrò in Italia l'anno susseguente. Narsete viene accusato d'averlo chiamato da Paolo Warnefrido: Gesta Longob. Lib. II. c. 5. t. I. Rer. Ital. p. 427, e da Anast. Bibl. Vitæ Rom. Pont. in Vita Johannis III. t. III. 133.

19. Paul. Warnef. de Gestis Long. l. I. c. 2. p. 408.

20. Ibid. l. II. c. 7. p. 428.

21. Ciò va inteso in senso assai largo, e con diverse modificazioni, perciò che se i Papi tennero alcuna volta coll'autorità loro, già cresciuta a dismisura, fedeli i Romani all'impero Orientale, furono ancora quelli che sottrassero Roma all'impero. N. d. T.

22. Dall'anno 568 in cui Alboino invase l'Italia fino al 774 quando Carlo Magno, fatto prigioniero Desiderio, o Diego, a Pavia, si fece coronare in suo luogo re de' Lombardi.

23. I re Lombardi in Italia furono

L'anno 569 Alboino.

573 Clefi.

584 Autari.

591 Agilulfo.

615 Adaloaldo.

625 Arioaldo.

636 Rotari.

652 Rodoaldo.

655 Ariberto I.

661 ( Pertarito, e

( Godeberto.

662 Grimoaldo.

671 Pertarito per la seconda volta.

678 Cuniberto.

700 Luitberto.

701 ( Ragimberto, ed

( Ariberto II.

712 ( Aliprando, e

( Liutprando.

736 Ildeprando.

744 Rachis.

749 Astolfo.

757 Desiderio, con

759 Adelchi suo figliuolo.

24. Paulus Warnefridus de Gestis Longob. lib. II. c. 32. p. 436.

25. Luitp. in Legat. t. II. p. 481. Bisogna ricordarsi che Luitprando parlava così a Niceforo Foca nel calore della disputa, perchè questi gli aveva rinfacciato che Ottone suo signore non era altrimenti Romano, ma Tedesco.

26. I Lombardi ebbero uno storico, forse il migliore de' mezzi tempi, Paolo Diacono, o Warnefrido. Egli scrisse in sei libri la storia della sua nazione dall'epoca in cui uscirono dalla Scandinavia fino alla morte di Luitprando accaduta l'anno 774. Paolo Warnefrido fu contemporaneo degli ultimi re Lombardi, e di Carlo Magno: visse alla corte de' suoi re, poi dell'imperatore: e ritirossi vecchio in un convento, ove scrisse la sua storia. Lasciò inoltre alcune opere teologiche scritte per ordine di Carlo Magno. Le sue cose trovansi stampate nel t. I. Rer. Ital. Gli fu attribuito un breve frammento che prosiegue la storia de' Lombardi fino alla caduta di quella monarchia t. I. p. II. Rer. Ital. p. 183. Ma lo stile e le passioni dello scrittore lo dichiarano affatto diverso da Paolo, e piuttosto Romano che Lombardo.

27. In questi due ultimi § il nostro scrittore distrugge due principj da lui stabiliti nella prefazione; 1.º che il carattere dei popoli, le virtù, i vizj ec., non sono quasi mai dipendenti dal clima; secondo, che le nazioni barbare stabilitesi successivamente in Italia non cambiarono la razza de' primitivi abitanti, per essersi, per così dire, perdute nel vortice della nazione italiana. Sembra anzi che in Lombardia non restassero poco più che Lombardi, e gli schiavi destinati all'agricoltura. Ma anche in questo vi è qualche cosa di esagerato. L'avveduto lettore saprà da sè medesimo dedurre dai fatti storici le dottrine generali: quanto è facile che lo scrittore sostituisca i suoi principj a quelli che si deducono dalla storia! I sistemi sono sempre pericolosi, ed il più delle volte fallaci. N. d. T.

28. Ecco la prima chiamata de' Francesi in Italia. Forse potrà giustificarla la debolezza dei Greci; ma non potranno scusarsi i Papi d'avere in pregiudizio dell'Impero Greco accettata la donazione dell'Esarcato di Ravenna. N. d. T.

29. Annal. Bertiniani scrip. Rer. Ital. t. II. p. 498. Chron. Reginon. lib. II. Sc. Germ. Struvii, t. I. p. 36.

30. I Greci, i Romani ed i Lombardi, ci rappresentano concordemente le armate francesi, che più volte invasero l'Italia dai tempi di Narsete fino all'età d'Astolfo, come le più feroci di tutte le orde nemiche.

31. Dopo Jornandes, e Paolo Warnefrido, l'Italia non ebbe per molto tempo veruno storico che si potesse loro paragonare. Non n'ebbe un solo sotto il regno de' Carlovingi, quando non si voglia tener conto di Agnello abbate di s. Maria ad Blachernas, il quale nel suo liber pontificalis dà la storia degli arcivescovi di Ravenna. Scrip. Rer. Ital. t. II. p. 1. I Francesi n'ebbero in maggior numero: gli Annali di Fulda, di Metz, Regino, ed Eginardo furono pubblicati dal Duchesne Scrip. Francor. Gli Annali Bertiniani si stamparono dal Muratori, Scrip. Rer. Ital. t. II. p. 490.

32. I Normanni avevano già commesse alcune piraterie su le coste quando ancor vivea Carlo Magno, ma non incominciarono a saccheggiare la Francia che dell'836 e 837, quando devastarono la Frisia e l'isola di Walcheren. An. Bert. p. 523. Herm. Cont. Chr. p. 229. apud Struv. Scr. Germ. t. I. — I Saraceni cominciarono a saccheggiare le coste d'Italia l'anno 839. Carlo Magno era morto in gennajo dell'814.

33. Luigi II fu associato alla corona l'anno 849, od 850, da suo padre Lotario figlio di Luigi il buono. Morì in agosto dell'anno 875.

34. I monarchi d'Italia della razza Carlovingia furono:

Pipino sotto Carlo Magno 781=810.

Bernardo figlio di Pipino 812=818.

Luigi il buono imperatore 814=840.

Lotario suo figliuolo 820=855.

Luigi II figliuolo di Lotario 849=875.

Carlo II il Calvo 875=877.

Carlomanno figliuolo di Luigi I di Germania 877=879.

Carlo il Grosso suo fratello 879=888.

35. Muratori Annali d'Italia all'anno 813. La famiglia di Bonifacio marchese di Toscana, di cui fu ultima erede la celebre contessa Matilde, è stata l'argomento delle più diligenti ricerche di Muratori e di Fontanini. Memorie della contessa Matilde.

36. Annali di Muratori all'anno 877. t. VII. p. 215. Hadr. Valesii Berengarius Augustus, Scrip. Italic. t. II. p. 376.

37. Nell'anno 853. Erchempertus Hist. Princ. Long. apud Camillum Pellegrin. c. 17. Rer. Ital. t. II. p. 241.

38. Si ritiene la frase straniera perchè comunemente adottata per indicare la proscrizione dall'impero.

39. L'anno 883. Annales Bertiniani t. II. p. 570.

40. Guido morì l'anno 894, dopo aver portato quattro anni il titolo d'imperatore. Lamberto suo figlio ereditò le sue pretensioni, e portò il titolo d'imperatore fino all'anno 898 in cui morì a Marengo, ucciso alla caccia.

41. Luitpr. Ticin. Historia lib. I. c. 20. Rer. Ital. t. II. p. 431.

42. I sovrani che disputaronsi il trono d'Italia dopo la deposizione di Carlo il Grosso fino ad Ottone il grande, sono i seguenti:

re , imp. , mort.

Berengario duca del Friuli 888 915 924

Guido duca di Spoleti 889 891 894

Lamberto figlio di Guido 892 892 898

Arnolfo re di Germania — 896 899

Luigi III re di Provenza 900 901 915

Rodolfo re della Borgogna transjurana 921 — 937

Ugo conte duca di Provenza 926 — 947

Lotario figlio di Ugo 931 — 950

Berengario II marchese d'Ivrea 950 — 966

Adalberto figlio di Berengario 950 — —

Ottone il grande re di German. 951 962 973

43. Una dissertazione su quest'argomento si conservava MS. nel monastero della Novalese, citata dal Denina. Rivol. d'Ital. lib. XI. c. 2. t. II. p. 13.

44. Veggansi intorno a queste invasioni Murat. ant. Ital. Med. Aevi Dis. I. t. I. p. 22. — XXI. t. II. p. 149. — XL. t. III. p. 675. — Luit. Tic. Hist. lib. I. c. 5. p. 428. lib. II. c. 2. e 4. p. 434. — Sigonius de regno Ital. l. VI. p. 149.

45. Luitp. Ticin. Hist. l. II. c. 5. e 6. p. 436.

46. I Saraceni sbarcarono su le coste della Sicilia in luglio dell'827, come abbiamo dalla cronaca Arabico Siciliana di Cambridge, t. I. p. II. R. Ital. p. 245. — Nell'anno 851 presero la città d'Enna in cui s'era rifugiato, come nel più sicuro luogo dell'isola, il Prefetto Greco. Chronol. Ismael. Alemuja dad. Regis. Amani ib. p. 251. — Non pertanto rimasero tuttavia ai Greci poche fortezze fino alla fine dello stesso secolo.

47. Dall'861 all'896. Luitp. Hist. lib. I. c. I. p. 425.

48. I Modonesi, fra gli altri, cinsero la loro città di mura verso l'anno 900, e questi versi che trovansi in un vecchio codice della cattedrale dovevano essere scritti sopra un muro:

Non contra dominos erectus corda serenos

Sed cives proprios cupiens defendere tectos.

Ant. It. Dis. I. p. 21.

49. Gli Ungari ed i Turchi, che altra volta formavano un solo popolo, si supponeva aver avuto origine dall'unione d'un mago e d'una lupa. Essi compiacevansi che fosse data credenza a questa mostruosa origine per accrescere lo spavento che ispiravano. Tale tradizione si è conservata nelle frontiere della Turchia tra i cristiani sudditi dell'Austria.

50. Il regno di Berengario è una delle più oscure epoche della storia d'Italia. Le guerre civili e straniere, e l'estrema confusione in cui era caduto lo stato, rendono difficilissimo il poter seguire l'ordine degli avvenimenti. Molti storici del quindicesimo secolo formarono di Berengario due diversi principi, contando tre monarchi di tal nome invece di due. Conservasi fatto in onore di Berengario un poema in barbara lingua latina, che gli fu intitolato il giorno dell'incoronazione. Anonymi Carm. Paneg. de Laud. Bereng. Aug. Ser. Rer. It. t. II. p. 386. Sonovi pure i due primi libri della storia di Luitprando, scrittore della generazione seguente.

51. Luitp. Hist. lib. II. c. 16. — 20, p. 440. e seguenti.

52. Luitp. Hist. lib. III. c. 3. p. 445.

53. Ibid. p. 451.

54. Ibid. l. V. c. 2. p. 461.

55. Ibid, lib. IV. c. 3. p. 452. Arnulph. Mediol. Hist. lib. I. c. 3. 4. Rer. Ital. t. IV. p. 8.

56. Luitp. Hist. l. V. c. 7. p. 464. Sigon. de Reg. Ital. lib. VI. p. 160.

57. Luitp. Hist. lib. V. cap. 4. p. 462.

58. Contin. Chron. Regimonis lib. II. apud Istruv. Ser. Ler. t. I. p. 101. — Herm. Cont. Chron. ib. p. 257.

59. Sigeberti Gemblacensis Chronog. apud Struvium t. 1. p. 811. an. 934.

60. Luit. Hist. lib. V. c. 12 e 13. p. 466.

61. Luit. ibid. c. 4. p. 463. Frodoardi Chron. apud Murat. Ann. ad an. 950. t. 8. p. 58. — La storia di Luitprando termina a questa rivoluzione; ciò che lascia in una perfetta oscurità il breve regno di Berengario II.

62. Contin. Regin. Chron. l. II. p, 106. Scrip. Ser. Struvii. t. I. — Herm. Contr. Chron. p. 261. ib, — Sigeberti Gemblacensis Chronog. p. 815. ib.

63. James Arrington repubblicano inglese, coetaneo di Carlo I e di Cromwel, autore di uno de' migliori libri sul governo, intitolato Oceana.

64. Veggansi le Leggi di Rotario nel Codice Longobardo parag. 6, 20 e 21 nel tomo primo parte seconda Scriptorum Rer. Italicarum p. 18. e 20.

65. «Coloro tra i Romani, dice Paolo Warnefrido, che non furono uccisi, vennero divisi fra i soldati dell'armata, resi tributarj, ed obbligati di dare ai Lombardi il terzo del loro raccolto.» De gest. Long. l. II. c. 32, p. 436.

66. Paolo Warnefr. de Ges, Lon. l. III. c. 16. p. 444.

67. Leges Rotharis Regis § 2. anno post invasionem Italiæ promulgatæ. Scrip, t. I. part. II, p. 17.

68. Leges Rotharis § 45 e seguenti p. 21.

69. Ibid. § 18-22, p. 20.

70. In curte sua. Leg. Roth. § 32-34, p. 21.

71. Prologus ad Leges Luitp. Regis p, 51. Legis Longob. t. I. p. II. Rer. Ital.

72. Prologus ad Edictum Rotharis p. 17.

73. Antiqu. Ital. Medii Ævi Dissert. XXXI. t. II. p. 958.

74. Synod, Ticin. pro elect. seu confinatione Widonis in rege Italiæ, anno 890. Rer. It. t. II. p. 416., VIII. c. 12.

75. Landulf, Sen. Mediol. Hist. Rer. Ital t. IV. p. 79. l. II. c. 16.

76. Gl'Italiani ne derivarono i vocaboli piatire e piato, ora andati quasi affatto in disuso. N. d. T.

77. Antiqu. Ital. Med. Æv. Diss. VII, t. I. p. 362.

78. In tutte le carte dei gentiluomini, dopo il loro nome, dichiarano in principio la legge sotto cui vivono. Lege vivens salica ec. Ant. It. med. Ævi Dis. XXXI. t. II. p. 958. — Præf. ad Leg. Long. Rer. Ital. t. I. p. II. p. 2.

79. Leges Lot. I. Imp. § 37 in calce Cod. Longob. p. 140. Le leggi pei Visigoti in Ispagna, sole di tutte le leggi barbare, rifiutano questa facoltà ai loro sudditi. L. II. Lex 9. p. 862. Legis Wisig. apud Scrip. Hisp. t. III. Questa legge è di Recesuind, che regnò sui Visigoti dal 650 al 672. Il codice de' Visigoti è il più sospettoso e meno liberale di tutti i codici barbari.

80. Marculfi Formul. l I. c. 8. In capit. Reg. Franc. Balutii t. II. p. 330.

81. Il nome di Scabini, o Schoppen, viene di preferenza adoperato dai re franchi, e quello di Sculdaesi Schulteis dai re lombardi.

82. Questo nome, siccome tutti i vocaboli delle leggi lombarde, è d'etimologia allemanna. Chreu mànner, uomini d'onore. Si può ancora tirarne l'etimologia da heermanne, uomini o capi dell'armata. Veggasi la Dissertazione XIII. Ant, Ital. t. I. p. 715.

83. Masseni, antico vocabolo tedesco, per dire società, Veggasi intorno a quest'ordine il Muratori Dissertazione XIV delle Antichità d'Italia, Parmi per altro che abbia assegnato agli uomini di masnada un più basso rango di quello che effettivamente avevano. Masnadiere in italiano fu più tardi sinonimo di soldato, e finalmente di assassino. Probabilmente la diversità di rango che viene assegnato agli uomini di masnada procede che sotto questo vocabolo s'intendevano tanto il capo d'una compagnia, che coloro che la componevano. Nell'Aragona, ove queste classificazioni continuarono più tardi che altrove a far parte della costituzione, trovansi i Ricos ombres de masnada, che formano il primo ordine dello stato, dopo i Ricos ombres de natura ( Rico, proveniente dal tedesco reich, qui prendesi in senso di potere, non di ricchezza) i cavalleros de masnada, etc. P. Salvanova Ximenes gran giustiziere d'Aragona verso il 1320 dice, che, secondo le antiche observancias, non sono propriamente mesnadarj, che i figli ed i nipoti dei nobili, e gli altri da essi discendenti in retta linea. Gli uomini di masnada, soggiunge, non devono essere vassalli d'altri che del re. Apud Hieron. Blancam, commentarii regum Aragonensium, t. III, rer. Hisp., p. 733.

84. Ignoro l'etimologia di questo vocabolo conservatosi nella lingua spagnuola, nella quale aldea ed aldeani significano un villaggio ed i villani. Veggasi Murat., dissert. XV, t, 1 p. 841.

85. Ant. Ital. med. ævi, dissert. XIV, t. 1.

86. Lex Luitprandi regis, lib. VI, § 87, p. 80.

87. Ibid. § 90, p. 81.

88. Futter, foraggio, vittovaglia.

89. Capit. Cavr. M. in cod. Longob. § 35 p. 98.

90. Const. Lod. II reg. Italiæ apud Camil. Pelleg., t, II, r. It. p. 264.

91. Secondo capitolare dell'anno 813, § 9. In capit. reg. Franc. Steph. Balutii, t. I, p. 508.

92. Fehde inimicizia, guerra, sfida in tedesco; Feud, guerra, oppure odio di famiglia in inglese.

93. Bidergeld, argento dato contro, o argento di compenso.

94. Rotharis, leges in cod. Longob. § 45 et 74, p. 21. 22. Per altro Carlo Magno erasi arrogato il diritto di obbligare a dare e ricevere il prezzo della faida, ma spesse volte i nobili vi si rifiutavano. Capitul. anni 779 apud Balut. § 22 t. I, p. 198.

95. Niuna distanza assicurava dalle incursioni de' Normanni. La città di Luni, capitale della Lunigiana, tra la Toscana e la Liguria, fu distrutta l'anno 867 da questa gente del settentrione. Ant. Ital. dissert. I, p. 25. E stando ad una cronaca, o jaga islandese, sembra che fossero i figli di Ragner Lodbrog quelli che in tal modo guastarono l'Italia, e che avevano pure determinato di bruciar Roma se un viaggiatore, esagerando loro la distanza di questa città, non li faceva rinunciare al progetto.

96. Lodolfo suo figliuolo del primo letto, che si ribellò l'anno 953, dopo essersi pacificato col padre morì l'anno 957 in Italia, che voleva conquistare.

97. Nel 6.º capitolo si parlerà dell'origine dei municipj.

98. Contin reg. chr. Germ. l. II, p. 106 apud Struvium scr. Germ. t. I.

99. Donizo Vit. nat. lib. I c. I. Script. It. V, p. 349.

100. Benvenuti de s. Gregorio hist. Monfer. t. XXIII, p. 325. Guichen, hist. genolog. di Savoja l. V, tavola III ed VIII. Sigon. ad ann. 967, lib. VII.

101. Una tavola cronologica del regno dei primi imperatori tedeschi e delle loro spedizioni in Italia parmi necessaria per far conoscere quanto poco influissero nel governo di questa contrada, e per supplire alla brevità della mia narrazione.

Epoche del regno in Italia. Della corona imperiale. Spedizione in Italia.

entrata , ritorno , morte

Ottone I 961 962 1º 961 965 ...

... 2º 966 972 973

Ottone II 962 con suo padre 967) 1º 967 972 ...

solo 973) 2º 980 ... 983

Ottone III 983 996 1º 996 996 ...

... 2º 997 1000 ...

... 3º 1000 ... 1002

Ardovino marchese d'Ivrea concorrente con Enrico II ... ... ... 1015

Enrico II 1004 1014 1º 1004 1004 ...

... 2º 1013 1014 ...

... 3º 1021 1022 1024

Corrado II 1024 1027 1º 1026 1027 ...

... 2º 1036 1038 1039

102. Chron. Ditmari Epis. Merzepurgii l. V. p. 365. ap. Leibn. Scr. Brunsv. t. I. Ann. Hildeghemenges. Ib. p. 721. an. 1002. Her. Cont. Chr. p. 270.

103. Arnul. Hist. Med. l. I. c. 14. et 15. t. IV. Rer. It. — Landul. Seni. His. Med. l. II. c. 19. p. 82.

104. Ditmarus Chron. l. VI. p. 377. Scrip. Br. t. I.

105. Arnulph. Med. lib. I. c. 16. p. 12.

106. Mur. an. 1015. — Arn. Hist. Med. l. I. c. 16. p. 13.

107. Id. ad an. 1025. t. VIII. p. 557. — Notæ ad Arn. Med. l. II. c. p. 14.

108. Questo Corrado II, per i Tedeschi, perchè ebbero un Corrado I dal 911 al 918, era primo per gl'Italiani.

109. Leo Ostiensis Chron. Monac. Cassinensium, lib. II c. 46. p. 368.

110. Carol. Sigon. de Regno It. lib. VII. p. 175. — Alho Fris. de Gestis Frid. I. lib. II. c. 12. p. 709.

111. Sigon. de Reg. l. VIII, ad an. p. 194. — Denin. Rivol. d'It. l. X. c. 2. p. 76. — Può differirsi questa costituzione anche al 1037, e pare che questa sia l'opinione del Muratori. Ma è probabile che nella sua prima discesa in Italia Corrado regolasse con una legge un oggetto che da lungo tempo eccitava le lagnanze de' feudatarj.

112. Landulp. Sen. l. II. c. 30. p. 90. — Ducangius in Glossario Latin. voce Treva.

113. Anno 1035. Arnul. Hist. Med. l. II. c. 10. p. 16.

114. Sig. Gemblacens. Chron. p. 833. — Her. Cont. p. 279. — Annales Hildeshemens. p. 728.

115. Arn. Med. l. II. c. 13, p. 18. — Land. Serv. II. c. 25.

116. Const. Conv. Sal. Imp. l. V. tit. I. lib. Feudorum. — Cod. Longob. t. I. p. II., Rer. p. 177.

117. Arnul. lib. II. c. 16. p. 18.

118. Teofilatto Simocatta che vivea ne' tempi dell'invasione lombarda, scrisse la storia del regno di Maurizio dall'anno 582 fino al 602, tenendo dietro alle più minute particolarità, senza che nella sua storia si trovi, per quanto io sappia, una sola volta il nome de' Lombardi, di Roma, o d'Italia. Scrip. Byzan. t. III. Dopo di costui, pel corso di quasi quattro secoli, i Greci non ebbero alcuno storico, ma soltanto alcuni aridissimi cronisti.

119. Finchè lo credettero utile all'ingrandimento della loro sede ed alla personale loro considerazione. Ma quando trovarono del loro interesse il sottrarla alla sudditanza de' Greci, non si fecero scrupolo di darla in mano ai Franchi. N. d. T.

120. I Romani si dispensarono una sola volta dal chiedere l'assenso imperiale, e fu in occasione dell'elezione di Pelagio II l'anno 577, perchè la città era in modo circondata dai Lombardi, che non poteva aver comunicazione con Costantinopoli. Anast. Bibl. in vita Pelagii II. t. III. Rer. Ital. p. 133.

121. Le vite dei papi furono raccolte da Anastasio bibliotecario, che morì avanti l'anno 882. Si chiama liber pontificalis questa raccolta, che fu pure attribuita a papa Damaso II. Fu probabilmente l'opera di molti scrittori. Veggansi intorno a tal libro le dissertazioni d'Emmanuele Schelestrat, e di Giovanni Ciampini. Script. Ital. t. III. p. 1.

122. Ciò deve intendersi sanamente rispetto a molte ceremonie, agli abiti, ed a certe opinioni specialmente de' platonici e degli eclettici, che si trovarono, o si suppose di trovarle conformi alle dottrine evangeliche. N. d. T.

123. Αχειροποίητος, fatto senza ajuto delle mani.

124. Coloro che amano le belle arti, non incolperanno giammai la Chiesa d'aver permesso il culto ragionevole e preso in buon senso delle sacre imagini, cui l'Italia deve in gran parte il rinnovamento delle arti. N. d. T.

125. Dai Cristiani ignoranti; non altrimenti.

126. Ειδωλα λατρεῖν vuol dire prostrarsi innanzi alle rassomiglianze. Il rimprovero adunque formato dall'unione di questi due vocaboli, non è già che gl'idolatri tengano le pietre o i marmi in luogo di Dei, ma solamente per imagini della divinità, alle quali rendono un culto.

127. Jejud, nono Califfo della razza degli Ommiadi, fece distruggere tutte le imagini della Siria nel 719 o in quel contorno, e precisamente nell'epoca in cui cominciava lo scisma degl'Iconoclasti. Quindi gli Ortodossi rimproveravano i Settarj di seguir l'esempio de' Saraceni e degli Ebrei. Trag. Mon. Johann. Jerosolym. Sc. Byzant. t. XVI. p. 235.

128. L'Isauria faceva parte della Cilicia.

129. Del regno di Leone l'Isaurico e de' suoi successori iconoclasti non sappiamo che quanto ne scrisse Teofane, il quale fu perseguitato da questa setta. Theop. Chronog. t. VI. Byz. p. 260. e seguenti. Cedreno si ristrinse a copiare, od a compendiare Teofane, t. VII. Biz. p. 355.

130. Theop. in Chronog. p. 269. ad an. 9. imp. — Georgii Cedreni Hist. Compend. p. 358.

131. Lascio che il lettore istrutto giudichi se il dissenso da una opinione religiosa giustificar possa la defezione di Gregorio II dal legittimo sovrano. Il totale abbandono in cui la corte di Costantinopoli lasciava le sue città d'Italia poteva somministrar loro un più onesto titolo di procacciarsi un miglior protettore. N. d. T.

132. Vita Greg. II ex Anastas. Biblioth. t. III. Rer. Ital. p. 1. p. 156.

133. Vita Greg. III ex lib. Pont. Anast. bibl. t. III. Rer. Ital. p. 158. Vita s. Zachariae ib. p. 161.

134. L'anno 741. Veggansi le prime due lettere del codice Carolino, t. III. p. II. Rer. Ital. p. 75 e 77.

135. La terza lettera del codice Carolino p. 92.

136. Amalrici Augerii Vitae Pont. Rom. t. III. p. II. p. 78. Frodoardus de Pont. Rom. poema ib. p. 79.

137. Anast. Bibl. Vita Stefani III. t. III. p. I. p. 168. Lo stesso papa vien chiamato da quest'autore Stefano III, e dagli altri II.

138. Lettere 4. 5. e seguenti del cod. Carol. p. 96.

139. Annuente Deo rempublicam dilatans, et universam Dominicam plebem etc. Anast. Bibl. Vita Steph. III. t. III. p. 172. anno 755.

140. La pretesa donazione di Costantino è stata con tanta evidenza distrutta, che il nostro storico ha potuto, senza renderne ragione, chiamar prima quella di Pipino. N. d. T.

141. Il liber pontificalis ne dà i nomi delle città cedute, cioè Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Iesi, Forlimpopoli, Forlì, castel Sussubio, Montefeltro, Acceraggio, monte di Lucaro, Cera, castel San-Mariano, Bobbio, Urbino, Cagli, Luceolo, Gubbio e Comacchio. Anast. Bibl. p. 171.

142. Ecclesia sancta Dei et respubblica Romanorum. Epist. 7. 8. et 9. cod. Caral. p. 104. etc.

143. Agnelli lib. pontif. p. II, in vita Sergii archiepiscopi c. 4. t. II. Rer. Ital. p. 174.

144. Codex Carolinus epistola 69. p. 213., et passim.

145. Costantino Porfirogeneta nel decimo secolo dice che i papi erano sovrani di Roma. De Thematibus, l. II. Th. 10. p. 22. Ρώμη ἰδιοκρατορίαν ἔχειν, καὶ δεοπόζεθαι κυρίως, παρά τινος κατὰ καιρὸν Πάπα; pure ancora nel decimo secolo non era il papa che il più potente signore di Roma.

146. Agnellus in lib. pont, vita Sergii. t. II. p. 172.

147. Vit. Steph. III. in Anas. Bib. p. 174. Vita Stadr. p. 180.

148. Pro remedio animae meæ, e simili, era la più usitata formola con cui i grandi delinquenti colla donazione di poche terre a qualche chiesa o monastero presumevano d'avere ampiamente soddisfatto alla divina ed umana giustizia per gli assassinj commessi nel lungo corso della loro vita; di modo che le più ricche donazioni sono d'ordinario un sicuro testimonio della scellerata memoria del donatore; come le donazioni non meno frequenti propter nimiam sui corporis dulcedinem mihi praestitam fatte dai principi alle loro amiche colla maggiore pubblicità, ne attestano la scostumatezza. N. d. T.

149. Murat. Antiq. Ital. diss. LXXI. t. V. p. 56.

150. Questo bando viene riferito da Camillo Pellegrino. Hist. princ. Longob. t. II. p. I. p. 265.

151. Gli ecclesiastici erano di que' tempi le sole persone che sapessero poc'o tanto leggere e scrivere, onde non è maraviglia se loro venivano affidati gl'impieghi che richiedevano di saper leggere e scrivere. N. d. T.

152. Le vite dei pontefici furono scritte da Anastasio bibliotecario fino alla morte di Niccolò primo accaduta l'anno 867. Le vite d'altri pontefici fino all'889 furono aggiunte da un altro bibliotecario detto Guglielmo. Da quest'epoca fino al 1050, in cui comincia la raccolta del cardinal d'Arragona, avvi un vuoto che non è stato possibile di riempire.

153. Anast. Bibl. in vita Greg. IV. p. 206.

154. Vita Leon. IV. Anast. Bibl. p. 231.

155. Ibid. p. 240.

156. Ibid. p. 245.

157. Vita Leon. IV. Anast. Bibl. p. 233.

158. A cunctis sacerdotibus, seu proceribus, et omni clero, nec non et optimatibus, vel cuncto populo romano. Anast. bibl. in Leon. III p. 195.

159. Il ritratto che fa Anastasio di papa Adriano I. indica le qualità che d'ordinario fissavano i suffragi. Vir valde praeclarus, et nobilissimi generis prosapia ortus, atque potentissimis Romanis parentibus editus; elegans, et nimis persona decorabilis, constans etiam, ec. In Adr. I. p. 179.

160. Luitp. Ticin. Hist. l. I. c. 8. p. 480. Amalricus Augerius vitae pont. t. III. p. II. p. 317. Frodoar. poema de Romanis pontif. Ib. p. 318.

161. Liutp. Hist. l. II. t. II. p. 440. Il Baronio ed il Pagi, e tutti gli scrittori ecclesiastici ammisero come veridico il racconto di Luitprando vescovo di Cremona. Il solo Muratori ne dubitò ne' suoi Annali, appoggiato all'autorità degli epitaffi d'alcuni papi, e del panegirico che Frodoardo ha fatto di tutti i pontefici in quattro o cinque cattivi versi. Io darei la medesima fede ai sonetti che si fanno in Italia per nozze, ne' quali la nobiltà, il valore, l'amore, la bellezza, sono a tutti prodigati senza veruna parzialità.

162. Luitp. Hist. lib. II. c. 4. p. 441. Leo Ostiensis Chronicon Monasterii Cassin. l. I. c. 52. t. IV. Rer. It. p. 325.

163. Leo Ostiensis Chron. Monast. Cassinensis l. I. c. 61. p. 353.

164. Luitp. Hist. l. III. c. 12. p. 450.

165. Baron. Ann. Eccles. ad annum 931.

166. Luitp, Hist. l. III. c. 12. p. 450.

167. L'anno 996 esistevano già da più anni queste diverse magistrature. Baron. Annal. Eccles. ad an. 966. — Amalricus Augerius in vita Joh. XIII. p. 329 — Pandulp. Pisan., et Catalog. Papar. in eund. p. 329 — 332. Rer. It. t. III. p. II.

168. Luitp. contin. lib. VI. c. 6. p. 471.

169. Ib. cap. 7. e 8. p. 473.

170. Luitp. lib. VI. c. 9. p. 474.

171. Luitp. Hist. l. VI. c. II. p. 475.

172. Non dimentichi il cattolico lettore quanto in proposito dei papi che disonorarono la sede di s. Pietro lasciò scritto il cardinale Bellarmino: Ne forte putaremus ob vitam et mores integerrimos summorum pontificum tam diu stetisse hanc sedem, permisit ad extremum Deus, ut etiam quidam parum probi pontifices aliquando hanc sedem tenerent et regerent: quales sane fuerunt Stephanus VI, qualis Leo V, Christophorus I, Sergius III, Joannes XII, aliiqui non pauci. N. d. T.

173. Bar. An. Eccl. ad an. 964 — Pagi Crit. ib. — Sigon. de Regno It. lib. VII.

174. Luitp. lib. VI. c. ultim. p. 476. Vita Joh. XII ex Mss. Vatic. Pandulphi Pisani t. III. Rer. It. p. II. p. 328. — Baronio trovasi qui in un dilemma somigliante al famoso sofisma del menzognero. Se Benedetto è il vero papa, dunque è infallibile, dunque ha detto la verità quando ha detto che non era papa.

175. Bar. An. Ecc. ad an. 966. — Pagi Crit. et Murat. ad an. 967. Tutte le vite di papa Giovanni XIII. Scrip. Rer. Ital. t. III. p. II. p. 330.

176. Legatio Luitp. ad Niceph. Fhocam, t. II. R. It, p. 479.

177. Amalricus Augerius, Pandulphus Pisanus, et Catalogus Papar. t. III. p. II. p. 332. — 335. — Ptolomei Lucensis Hist. Eccles. l. XVI. c. 27. t. XI. p. 1043. Molti cataloghi pongono qui un papa Domno, di cui la Chiesa riconosce l'esistenza sotto nome di Donno, quantunque i calcoli de' tempi non lascino alcuno spazio per il suo regno di diciotto mesi. Io credo che questi sia lo stesso Benedetto VI, Domnus Benedictus. Sarà stato ommesso in una qualche copia del catalogo il nome di Benedetto, ed il titolo di Domno diventato il nome d'un secondo personaggio supposto, la di cui istoria è perfettamente simile a quella di Benedetto VI.

178. Questa genealogia dei conti Tusculani che dà ragione del loro credito e subita potenza, non ha fors'altro fondamento che il ritorno degli stessi nomi nelle famiglie; ma io la vedo adottata da Vitali, Stor. Diplom. dei Senat. di Roma p. I. p. 23, ed indicata ancor dal Pagi. Critica an. 975. § 3.

179. Bonifacio VII fu sottratto ai castighi che aveva meritato da subitanea morte: ma il di lui cadavere abbandonato agl'insulti della plebe, dopo essere stato strascinato per le strade, fu appiccato al cavallo di Costantino. Catal. Papar. 335.

180. Baron. ad an. 996. Egli riporta il suo epitaffio. §10.

181. Vita Johan. XV. ex Amalr. Augerio, t. III. p. II. p. 334.

182. Che fino ai tempi di Carlo Magno, o poco prima, la repubblica veneta riconoscesse la supremazia degl'imperatori d'Oriente, è opinione assai probabile, comecchè rigettata dagli storici veneti; ma dopo i Carlovingi è certo ch'erasi affatto emancipata dalla corte di Costantinopoli, colla quale conservava strettissime relazioni per la necessità del commercio che aveva con quella capitale. N. d. T.

183. Era originario di Rossano di Calabria, ed aveva avuto il favore di Ottone II.

184. Acta s. Nili abbatis apud Baron. an. 996. § 16. 17. et 18.

185. Arnul. Hist. Med. l. I. c. 11. et 12. t. IV. p. II. — Landul. Senior Hist. Med. l. II. c. 19. p. 81. — Chron. Monast. Cassin. lib. II. c. 18. p. 352.

186. Stephania autem uxor ejus traditur adulteranda Teutonibus. Arnulph. Med. loco cit. — Ab uxore, ut fertur Crescentii Senatoris... qua impudice abutebatur, potionatus. Chronic. Cassinense lib. II. c. 24. p. 355. — Landolfo il vecchio dice ch'ella lo fece avviluppare entro una pelle di cervo avvelenata, e non meno micidiale di quella del Centauro Nesso.

187. Annales Hildesemens. apud Leibn. t. I. Brunsvicens. Scrip. p. 721. — Ditmarus Restitutus l. IV. p. 364. et segu. — Sigeberti Gamblacensis Chronog. p. 825.

188. Ditmaris Restit. lib. VI. p. 400. — Mabill. Ann. Benedict. ad ann 1011.

189. Ecco la tavola cronologica del regno dei tre Enrichi della casa di Franconia, e del regno dei papi loro contemporanei: essa serve di continuazione alle tavole già inserite ne' due precedenti capitoli.

Anno

1039 Enrico III re Benedetto IX papa (dopo il 1033)

1044 . . . . . . . Gregorio VI Benedetto IX e Giovanni antipapi.

1046 . . . . imper. Clemente II Prima spediz. d'Enrico III in Italia.

1048 . . . . . . . Damaso II

1049 . . . . . . . Leone IX

1055 . . . . . . . Vittore II II. sped. d'Enrico III d'anni 39 il 5 ott.

1056 Enrico IV re . . . . .

1067 . . . . . . . Stefano IX

1059 . . . . . . . Nicolò II

1061 . . . . . . . Alessandro II Cadolao, o Onorio II antipapa.

1073 . . . . . . . Gregorio VII

1077 . . . . . . . . . . . . . . I. spediz. d'Enrico IV in Italia.

1084 . . . . imper. . . . . . . . Guiberto, o Clemente III antipapa.

1086 . . . . . . . Vittore III

1088 . . . . . . . Urbano II

1093 . . . . . . . . . . . . . . Corrado re d'Italia figlio ribelle d'Enrico.

1099 . . . . . . . Pasquale II

1101 . . . . . . . . . . . . . . Morte di Corrado

1105 . . . . . . . . . . . . . . ribellione d'Enrico V figlio d'Enrico IV.

1106 Enrico V re . . . . . . . Enrico IV muore il 7 agosto.

1111 . . . imper. . . . . . . .

1118 . . . . . . . Gelasio II Burdino, o Gregorio VII, antipapa.

1119 . . . . . . . Calisto II

1122 . . . . . . . . . . . . . . Pace di Worms.

Non ho indicato che la prima spedizione d'Enrico IV in Italia; principe guerriero, che ripassò le alpi quasi ogni campagna.

190. Sigeberti Gemblac. Chronog. p. 833.

191. Vitae Pont. roman. ex Amalr. Augerio, Pandulph. Pisan., et Catal. Papar. t. III. p. II. p. 340. e seguenti.

192. Glaber. Hist. lib. IV. c. 5.

193. Enrico III fu coronato a Roma l'anno 1046. Vittore III, chiamato prima Desiderio, cardinale ed abbate di Monte Cassino, fu l'immediato successore di Gregorio VII ed eletto papa del 1086, essendo molto vecchio. Lo squarcio che abbiamo riportato, è preso dal III libro de' suoi Dialoghi, ed unito come appendice alla Cronaca di Monte Cassino. Lib. II. t. IV. p. 396.

194. Amal. Auger. di Vitis Pont. p. 340. Catal. Pap. 342.

195. Baron, Annal. Eccl. ad ann. 1046. § 3-5. — Pagi Critica ad an. § 1.

196. Sancti Petri Damiani opuscula, § 27. 36. apud Murat. ad an 1047.

197. Chron. s. Monas. Cassin. lib. II. c. 89. p. 403.

198. Veggansi intorno al carattere di Gregorio gli scrittori ecclesiastici ed ortodossi. Baron. an. 1073. — Pagi Critica ibid, — Pandul. Pis. vitae Pont. t. III. p. I. Rer. Ital. p. 304. — Paulus Bernriedens. de gestis Gregorii VII. ib. p. 317.

199. Tutti gli antichi storici milanesi assicurano che s. Ambrogio aveva lasciato al clero della sua diocesi la libertà d'ammogliarsi una sola volta, e con una vergine. Non pertanto il Pagi Crit. An. Eccl. an. 1045. § 7-10., ed il Puricelli nella sua dissertazione, t. IV. Rer. Ital. p. 121, sonosi sforzati di confutare quest'asserzione. Stando ad una lettera di papa Zaccaria a Pipino maggiordomo di Francia, § 11, il matrimonio fu vietato ai vescovi, prelati e diaconi dal cap. 37. di un concilio africano, restando le altre classi in libertà di seguire la costumanza delle chiese particolari. Cod. Carol. t. III. Rer. Ital. p. II. p. 84.

200. Corio Storie Milan. p. I. p. 6. Galvanei Flam. Maniss. Flor. c. 150. t. XI. Rer. Ital. p. 673. Landulph. Sen. Hist. Med. lib. III. c. IV. t. IV. p. 96. — Inoltre il quarto volume tutt'intero del conte Giorgio Giulini, Memorie della città e campagna di Milano, ove tratta l'argomento con molta estensione.

201. Baron. Annal. Eccl. ad an. 1059. § 43.

202. Baron. Annal. ad ann. 1059. § 32-34.

203. Decret. Nicolai II Papae in Chron. Monast. Farfensis. t. II. p. II. Rer. Ital. p. 645.

204. Leo. Ost. Chron. Monast. Cassin. lib. III. c. 21. p. 431.

205. Baron. Annal. Ib. § 15 — 23.

206. L'opinione dell'autore non è quella della chiesa cattolica vittoriosamente difesa da tante egregie opere, e specialmente da quella profondissima d'Antonio Arnaldo intitolata: Perpetuité de la fois ec.

207. Pietro Leone non ottenne per altro nè la confidenza dell'imperatore, nè quella d'Onorio II. Il vescovo scismatico Benzo lo aveva dipinto come un furbo. Benzoni Episc. Albensis Panegir. Hen. III. Im. lib. II. c. 4. et 8. p. 985. 987 apud Menchen. Scrip. Germ. t. I.

208. Benzo Paneg. lib. II. p. 982 ec. — Vita Alexandri II ex Card. Arrag. t. III. p. I. p. 302. — Vita ejusdem pont. ex Amalrico Augerio p. II. p. 356.

209. Al nostro segretario Fiorentino dobbiamo questa verissima osservazione energicamente sviluppata nelle sue storie. Accadeva ai papi ciò che vediamo accadere a chiunque per dignità o per merito trovasi elevato a somma riputazione; i lontani ne conoscono soltanto le virtù, i vicini le virtù ed i vizj. N. d. T.

210. Il sig. Fiorentini detto Lucchese scrisse con prodigiosa erudizione la vita della contessa Matilde. Abbiamo pure una vita in prosa di un anonimo, ed un'altra in versi di Donizzone suo suddito e cappellano di Canossa, ambedue suoi contemporanei, le quali trovansi nel tomo V. Scrip. Rer. Ital., e nel tomo I. Script. Brunsvic. Leibnitrii.

211. Matilde era nata da Bonifacio e Beatrice l'anno 1046 e morì nel 1115.

212. Lambertus Schafnaburgensis de rebus gestis a German. p. 403. apud Struvium Scriptorum Germanicorum, t. I.

213. Lambertus Schafnab. de Rebus German. p. 420.

214. Riporterò intorno a questo avvenimento i versi di Donizzone, cappellano di Canossa, il quale fu probabilmente testimonio dell'avvilimento d'Enrico. Sarà questo in pari tempo un saggio della sua barbara poesia. Vita Com. Mathil. l. II. c. I. p. 366.

. . . . . . . . . . . . Frigus

Per nimium magnum Janus dabat hoc in anno.

Ante dies septem quam finem Janus haberet,

Ante suam faciem concessit papa venire

Regem, cum plantis nudis a frigore captis

In cruce se jactans, saepissime clamans

Parce beate pater, pie parce mihi peto plane.

Tanto Lamberto, che Donizzone erano partigiani del papa, e nemici d'Enrico, onde chiudono tale racconto con invettive contro l'ultimo per avere violate le condizioni che gli erano state imposte.

215. Sigeberti Gemblacensis Cronog. p. 843.

216. Baronius Annal. ad an. 1076. § 24.

217. Vita Greg. VII. ex Card. Arrag. p. 313. — Landulphus Senior l. IV. c. 3. p. 120. — Gaufridus Malaterra Hist. Sicula l. III. c. 37. tom. V. Rer. Ital. p. 587.

218. Pauli Bernriedens. vit. Greg. VII. c. 110. p. 348.

219. Donizzo Vita comitissae Matil. l. II. c. 7. p. 371.

220. Ciò è detto assai impropriamente, confondendo la Chiesa col papa e colla sua corte. N. d. T.

221. Dodechini appendix ad Marianun Scotum apud Struvium Scrip. Germ. t. I. p. 661. — Sigeberti Gembl. Chronog. p. 848.

222. L'armata de' crociati che attraversò l'Italia era capitanata da Ugo fratello del re di Francia, da Roberto di Fiandra, da Roberto di Normandia, e da Eustachio di Bologna. Cacciò di Roma l'antipapa Guiberto, togliendogli, ad eccezione di castel s. Angelo, tutte le fortezze.

223. Annal. Hildeshemens. apud Leibn. p. 733. — Dodech. append. p. 666. — Sigeberti Gemb. Chr. p. 854.

224. Il Sigonio non è uno scrittore contemporaneo; e perciò la sua penna non è ligia alle passioni di un secolo di guerre civili. Altronde egli si appoggia alla testimonianza di più antichi autori, quali sono Ottone di Frisinga l. VII. c. 8. 12. p. 113. all'ab. Uspergense nel Cronico p. 243, all'anonimo scrittore della vita di Enrico IV. ec.

225. Appartiene senza dubbio a quest'epoca l'abboccamento tra il padre ed il figlio, di cui il vecchio Enrico informò Filippo I re di Francia con una lettera del 1106. «Appena lo vidi, gli scrive, commosso nel più intimo del mio cuore da dolore e da paterno affetto, mi gettai a' suoi piedi supplicandolo, scongiurandolo in nome di Dio, della sua fede, dell'anima sua, a non macchiare in questa occasione, quand'anche co' miei peccati mi sia meritati i divini castighi, la sua coscienza ed il suo onore; imperciocchè veruna legge umana o divina costituisce il figliuolo vindice dei delitti del padre.......» Nella medesima lettera gli parla della sofferta prigionia. «Lasciando da un canto gli obbrobrj, le ingiurie, le minacce, le scuri pronte a cadermi sul capo, se non facevo quanto mi era comandato, la fame e la sete ch'io soffersi per opera di tali ch'erami ingiurioso di vedere e d'ascoltare; per non dire ciò che ancora più doloroso riesce, che altra volta fui felice ec. .....» Questa commovente lettera ci fu conservata da Sigeberto Gemblacense presso Struvio t. I. p. 856.

226. Sigon. De Reg. Ital. l. IX.

227. Le prime convenzioni fatte con Pietro Leone vengono riportate dal Baronio all'anno 1110. § 2, e quelle di Sutri all'anno 1111. § 2; ma per ben intenderle convien leggere Petrus Diacon. Contin. Chronici Cassin. l. IV. c. 35. p. 513. e le lettere d'Enrico V. presso Dodechin. Ap. p. 668., ed abbreviate in Sigibertus Gemlac. Chronog. p. 861.

228. Chron. Monast. Cassin. l. IV. c. 38. p. 517. — Pandulp. Pisani vita Paschalis II. p. 357. — Vita Pascalis II ex Cardin. Arragonio p. 361.

229. Chron. Cassin. l. IV. c. 39. p. 517.

230. Veggasi quest'atto presso Sigeb. Gembl. Chron. p. 863.

231. Chron. Monast. Cassin. l. IV. c. 40, p. 518.

232. Baron. Annal. Eccl. ad ann. 1111. § 25.

233. Siccome i pretesi diritti de' papi alla sovranità di una parte dell'Italia non avevano altro fondamento che la donazione della contessa Matilde, è cosa veramente notabile, che in quell'atto di donazione non s'incontri un solo vocabolo indicante sovranità, diritti signorili, dominj di paesi e città, giustizie, omaggio di vassalli; nulla in somma fuorchè la semplice trasmissione dei dominj rurali. Pro remedio animae meae et parentum meorum, dedi et obtuli Ecclesiae sancti Petri, per interventum Domini Gregorii Papae VII, omnia bona mea jure proprietario, tam quae tum habueram, quam ea quae in antea aequisitura eram, sive jure successionis, sive alio quocumque jure, ad me pertinent, et tam ea quae ex hac parte montium habebam, quam illa quae in ultramontanis partibus ad me pertinere videbantur. La contessa aveva già fatta tale donazione sotto il papato di Gregorio VII, ma perdutasi la carta, la rinnovò in favore di Pasquale II. Questa carta è stampata in calce al poema di Donizzone. Script. Rer. Ital. t. V. p. 384.

234. Chron. Monas. Cassin. l IV. c. 60. e 61. p. 528.

235. Card. Arag. in vita Calix. II. p. 420. — Baronius Annal. Eccl. an. 1122. § 11. ec. p. 149. t. XII.

236. Pauli Diac. de Gest. Longob. l. III. c. 31. p. 451.

237. Questo punto di Cronologia viene assai contrastato. Alcuni scrittori riferiscono la nomina di Zottone sotto l'anno 568, ed ancora ad un'epoca anteriore alla invasione d'Alboino, mentre altri Lombardi erano ausiliarj di Narsete. Veggasi Camilli Pellegrini Dissertatio I de ducatu Beneventano. Murat. Scrip. Rer. Ital. t. V. p. 165.

238. Quando Belisario assediò Napoli, non solo questa città era già fortificata, ma inoltre governata e difesa dai suoi cittadini, che temevano sopra tutto di avere guarnigione nella loro città. Procop. de Bello Gothico l. I. c. 8. 9. et 10. p. 14.

239. Dall'anno 30 fino al 60 dell'era volgare. Dion. Grisos. Discorso intorno alla vita campestre presso Cousin Despreaux, Storia della Grecia l. 66. t. XV.

240. Dall'an. 457 al 461. Novella di Majoriano Cod. Teod. verso il fine t. V. p. 34. — Gibbon c. 36. t. VI.

241. Camil. Pelleg. de ducatu Beneven. Disser. V. VI. et VII. Rer. Ital. t. V. p. 173.-187.

242. Const. Porphirog. de Admin. Imp. p. II. c. 27. p. 68. — Byzant. Ed. Venet. t. XXII.

243. Id. de Thematibus l. II t. X. p. 22.

244. Terracina ov'incontrasi questa ricca vegetazione, era la città più occidentale del ducato di Gaeta. Camillo Pellegrini Diss. V. p. 173.

245. Io non trovai in paese persona che volesse guidarmi a traverso quelle montagne; per altro vedremo in questa storia, che alcune armate le attraversarono; tra le altre una di Ruggero I re di Sicilia l'anno 1135.

246. Costan. Porphyr. de Adminis. Imperii, p. II. cap. 27. p. 68.

247. Camillo Pellegrini de ducatu Benev. Diss. V. p. 175.

248. Anastas. Bibl. de vit. Greg. II p. 156. t. III. p. I.

249. Erchempertus Monacus Cassin. Hist. Longob. Beneventi c. 2. et 3. p. 237. t. II. Rer. Ital.

250. Erchemp. c. 4. p. 238. — Anon. Saler. ap. Camil. Pell. p. 287. t. II. p. I. — Il porto di Salerno trovasi propriamente a Vietri, due miglia a ponente dalla città, poichè la medesima rada di Salerno è assai cattiva.

251. Erchemp. Monac. c. 4. p. 238.

252. Id. c. 5. p. 238. — Grimoaldo mandò in risposta a Pipino che gl'intimava d'arrendersi il seguente distico latino:

Liber et ingenuus sum natus utroque parente,

Semper ero liber, credo, tuente Deo.

253. Questo secondo Grimoaldo aveva un soprannome tedesco, o piuttosto danese. Store Seitz, la grande costa; e questo nome popolare è una testimonianza che tra i Lombardi Beneventani del nono secolo parlavasi ancora l'idioma tedesco. Anon. Salern. Paralipom. c. 29. t. II. p. II p. 195.

254. Ib. c. 33. p. 198.

255. Johan. Diaconi Chron. Epis. Neapol. Ecclesiae, t. I. p. II. p. 313.

256. Erchemp. Mon. Cassin. Hist. Longob. Ben. c. 10. p. 239. — Giannone Istoria civile del Regno di Napoli, l. VI. c. 6. p. 517.

257. Johan. Diac. Chr. Episc. Neap. p. 313.

258. Anon. Salern. Frag. apud Camil. Pelleg. p. 290. — Leo Ost. Chron. Cassin. Lib. c. 20. p. 294.

259. Acta Sanct. apud Bollandistas in vita sancti Antonini abbatis Surrentini ad diem 14 febbr. — Muratori Annali d'Italia an. 837.

260. Veggasi presso il Pellegrini questo trattato sotto il titolo: Capitulare Principis Sicardi. t. II. p. 256.

261. Johan. diac. Chron. Epis. Neapol. p. 314.

262. Georgii Cedreni Hist. Comp. t. VIII. Byz. Ven. p. 403. — Anon. Salern. Paralipom. c. 45. p. 208.

263. Anon. Salern. Paralip. c. 58. — 60. p. 217. — Chron. Amalph. Frag. ap. Murat. Antiqu. Ital Med. Aevi. t. I. c. 2. et 4. p. 208.

264. Anon. Salern. Paralip. c. 62. p. 219. — Erchempertus Monac. c. 13. p. 240.

265. Anon. Saler. Paralip. c. 63. et 64. p. 221.

266. Anon. Salern. Paralip. c. 63. et 64. p. 221.

267. Erchemperti Chron. c. 17. p. 241.

268. Erchemper. Mon. Cassin. c. 17. p. 241. — Anon. Salern. Paralip. c. 67. p. 223.

269. Capitulare Radelchisi Princ. Benev. de divisione Princip. apud Camil. Pelleg. t. II. p. 260.

270. Johan. diac. Chron. Epis. Neap. p. 315.

271. Vita Leon. p. IV. apud Anast. bibl. p. 237.

272. Anon. Saler. Paralip. p. 73 — 75. p. 228. — Chron. Amalph. Frag. c. 1. p. 207. Antiqu. Ital. tom. I.

273. Anon. Salern. Paralip. c. 76. p. 130. — Chron. Amalph. c. 8. p. 209.

274. Il tari che vale due grani, o un quinto più del carlino, trovasi ancora, almeno come moneta di conto, usato nel regno di Napoli dopo i tempi della repubblica Amalfitana.

275. Freccia de Subfeudatione. Presso Giannone storia civile del Regno di Napoli, l. VII. c. 3.

276. Const. Porphirog. de Basil. Maced. t. XVI. p. 132.

277. È appunto in questo modo che i sudditi ribelli della Porta ed i suoi nemici ricadono sotto il giogo della medesima, aspettando essa pazientemente che le loro forze si diminuiscano. Di là ebbe origine il proverbio turco, che con un carro tirato dai buoi il gran signore piglia le lepri alla corsa.

278. Questo è il nome che nella nuova divisione dell'impero d'Oriente diedero i Greci alle province. Eranvene diciassette in Asia, e dodici in Europa. Const. Porph. de Themat. ap. Banduri Imp. Orient. t. I.

279. Ottone II sposò Teofania figlia dell'imperatore romano Lecapeno, predecessore di Foca, e sorella di Costantino e Basilio, che succedettero a Zimisco.

280. Non è a dubitarsi che in sul finire del decimo secolo non si fosse Venezia totalmente emancipata dall'impero greco; tanto più che aveva gente e ricchezze per difendersi da sè medesima contro le potenze settentrionali, non esclusi gl'imperiali. N. d. T.

281. Ditmar. Restit. apud Leibn. t. I. l. III. p. 346. — Herm. Cont. Chron. p. 267. Scrip. Germ. apud Struv. t. I. — Arnulph, Hist. med. l. I. c. 9. t. IV. Rer. Ital. p. 10.

282. Lupus Protopasta Chron. Barense t. V. p. 40.

283. Dal nome di questo governatore ricevette il suo la provincia di Capitanata. Fu prima chiamata Catapanata, poi accostossi per abitudine al vocabolo italiano Capitano. Leo Ostien. Chron. Cassin. l. II. c. 50. p. 371.

284. Il Regno per eccellenza intendesi presso gli scrittori italiani il regno di Napoli.

285. Leo Ost. Cron. Mont. Cassin. l. II. c. 37. t. IV. p. 362. — Anon. Mon. Cassin. t. V. p. 55.

286. I frutti del mezzogiorno eccitavano i caldi desiderj de' settentrionali. Allettati dal racconto dello squisito loro sapore, i Varangiani andavano dal fondo della Scandinavia a Costantinopoli per formar la guardia imperiale; e nell'idioma islandese, altra volta comune a tutti gli Scandinavi, dicesi anche al presente figiahasta, desiderar i fichi, per desiderare alcuna cosa appassionatamente. Bonstetten.

287. Leo Ost. l. II. c. 87. p. 363. — Guilelmi App. de rebus Norm. Poema l. I. t. V. p. 253.

288. Georg. Cedr. Hist. Compend. p. 553. — Guil. Appul. l. I. p. 254.

289. Leo Ostiens. l. II. c. 39. p. 364.

290. Leo Ost. l. II. c. 58. p. 378. — Guilel. App. lib. I. p. 255. — Giannone Istoria Civile l. IX. c. I. t. II. p. 17.

291. Gauf. Malaterrae Hist. Sic. l. I. c. 5 et 6. t. V.

292. Se deve credersi a Camillo Pellegrini, era Guaimaro IV: ed il principe di Capoa, di cui si parlò poc'anzi, era Pandolfo IV. Antonio Caraccioli Propilea chiama il primo Guaimaro III, l'altro Pandolfo II t. 5. p. 8., ma credo che prenda abbaglio.

293. Leo Ost. l. II. c. 65. p. 385.

294. Henr. Brencmannus de Rep. Amalfit. Diss. I. ad Calc. Hist. Pandect. p. 8. — Leo Ost. lib. II. c. 85. p. 401.

295. Leo Ost. l. II. c. 67. p. 387. — Cedr. Comp. Hist. p. 577. — An. Borr. cum notis Camilli Pellegrini p. 150.

296. Leo Ost, lib. II. c. 67. p. 389. — Gauf. Malaterra Hist, Sicula l. I. c. 9 et 10. p. 551. — Guilel. App. l. I. p. 257.

297. Racconta Leone Ostiense, che essendosi i Normanni impadroniti di molte possessioni di Monte Cassino, e di due fortezze s. Vittore e s. Andrea, ogni giorno riceveasi da loro qualche oltraggio, onde l'abbate del monastero era ridotto a tale, che aveva risoluto di abbandonare il monastero e stabilirsi al di là dei monti. All'improvviso lo stesso conte di questi Normanni, chiamato Rodolfo, o più tosto Rainolfo, giunse a Monte Cassino accompagnato da molti soldati, e si temeva che avesse intenzione di prendere l'abbate e d'ucciderlo, pure egli e le sue genti lasciarono, come vogliono le leggi ecclesiastiche, i loro cavalli e le armi fuori del tempio, in cui essi entrarono per pregare. Mentre stavano inginocchiati avanti all'altare maggiore, i frati serventi del monastero si avventarono ai loro cavalli, ed alle armi, chiusero le porte del tempio, e sonarono campana a martello. Gli abitanti della città accorsero armati di freccie, attaccarono i Normanni che non avevano che le spade per difendersi, e che invano imploravano il rispetto pei sacri luoghi, ch'essi avevano tante volte profanati. Quindici di loro furono ammazzati, il conte posto in prigione, e ricuperate colle forze tutte le possessioni di Monte Cassino, o restituite ai monaci come prezzo della liberazione di Rainolfo. Chron. Mon. Cassin. l. II. c. 71. p. 390.

298. Leo Ost. lib. II. c. 87. p. 402.

299. Gaufredi Malaterræ l. I. c. 11 et 13. p. 552.

300. Guilelmus Appulus l. II. p. 260.

301. Gaufredi Malaterræ l. I. c. 14. p. 553.

302. Gaufredi Malaterræ l. I. c. 16. p. 553.

303. Gaufr. Malaterræ l. I. c. 25 et 26. p. 556.

304. Gaufridus Malaterra l. I. c. 35. p. 553. — Guilelmus Appulus lib. II. p. 262.

305. Ismaele Alèmujad, più conosciuto sotto il nome d'Abulfida, fa incominciare le turbolenze della Sicilia e la divisione dell'isola in piccioli principati l'anno 426 dell'Egira (1034 — 1035) Hist. Sarac. Sicula p. 253. t. I. p. II. Rer. Ital.

306. Gaufr. Malaterra l. II. c. 1 — 15. p. 560.

307. Gaufr. Malaterra l. II. c. 29 et 30. p. 556.

308. Chron. Breve Normannicum t. V. p. 278.

309. Leo Ostiens. l. III. c 16. p. 423.

310. Gaufr. Malater. l. III. c. 3. p. 576.

311. Alexias Annae Comnensis l. IV. t. XI. p. 83.

312. Guilel. Appulus l. V. p. 276. ad fin.

313. La ricordanza delle imprese di Boemondo e di Tancredi, celebri eroi del Tasso, ci fu conservata da un loro contemporaneo Radolfo Cadomense, che ne scrisse la storia metà in prosa e metà in versi. Murat. Scrip. Rer. Ital. t. V. p. 285.

314. Intorno al regno di Ruggiero, duca di Puglia, merita d'esser letto il quarto ed ultimo libro di Gaufredo Malaterra, p. 590.

315. Petrus Diac. Contin. Chron. Cassin. lib. IV. c. 97. p. 554. — Abbas Telesinus lib. II. c. I. et sequ. p. 622. t. V. — Falco Benev. Chr. t. V. p. 106.

316. Brencmannus de Rep. Amal. Diss. I. p. 7.

317. Abbas Telesinus l. II. c. 7. p. 623.

318. Alexand. Abb. Telesin. l. III. c. 1-7. p. 634.

319. Falco Benevent. Chron. p. 118.

320. Abb. Telesin. l. III. c. 24. p. 638.

321. Brencmannus Dissert. II. de Amalphi Pisanis diruta, c. 24 et sequ. ad calcem Historiæ Pandectarum.

322. Abbas Teles. l. III. c. 25. p. 638. Racconta una cronaca pisana, che una flotta di Ruggiero forte di sessanta vele soccorse dalla banda del mare l'improvviso attacco del re. Breviar. Hist. Pisanæ t. VI p. 170.

323. Stando ad un frammento di cronaca pisana, che termina a quest'epoca, pare che i Pisani si determinassero alla guerra per aver Ruggiero preso il titolo di re d'Italia. Chron. Pis. t. VI. p. 110.

324. Veggasi la lettera di s. Bernardo a Lotario apud Baron. Ann. Eccles. an. 1135. § 19.

325. Falcone di Benevento allora esule dalla sua patria ribelle ad Innocenzo II erasi rifugiato in Napoli. Chron. p. 120. A.

326. Abbas Teles. l. IV. c. 2. p. 642.

327. Pet. Diac. Chr. Cassin. lib. IV. c. 105. p. 561.

328. Falconis Beneventani Chron. p. 122.

329. Brencmannus de Rep. Amal. Dis. I. c. 13.

330. Falco Benev. Chron. p. 124. — Chr. Mon. Cas. l. IV. c. 126. p. 598. — Romual. Arch. Saler. Chr. p. 189. t. VII. Rer. Ital. Nel racconto di questo storico debbono esservi senza dubbio delle lacune, benchè si pubblicasse come una narrazione continuata.

331. Petrus Diac. Chr. Monast. Cassin. l. IV. cap. ultimum, p. 602.

332. Veggasi questa Bolla presso il Baronio ad an. 1138.

333. Romuald. Salern. Chron. p. 190.

334. Falco Benev. p. 129.

335. Falco Benev. ad finem cum nota Camilli Pellegrini.

336. Il re vietò la circolazione dei Romesini, moneta di bassa lega di Costantinopoli, ossia della nuova Roma; ed in loro vece coniò dei ducati metà argento e metà rame. Falco Benev. p. 131.

337. L'autore scriveva nel 1808.

338. Mem. dei Ven. primi e sec. del C. Figliasi t. VI.

339. Const. Porphir. de Adm. Imp. Par. II. c. 28. p. 70. Biz. Venet. t. XXII. Andreae Danduli Chr. l. V. c. 5. t. XII. Rer. Ital. — Marin Sanuto istoria dei duchi di Venez. p. 405. t. XXII. Rer. Ital. Andrea Navagero storia veneziana, p. 926. t. XXIII. — Storia civile veneta di Vettor Sandi, l. I. c. 2. t. I. p. 14.

340. Vettor Sandi storia civile, l. I. c. 2. e 3.

341. Questa lettera, che tra le lettere di Cassiodoro è la 24. del XII. libro, fu inserita nella maggior parte delle storie veneziane; in quella dell'abbate Laugier, l. I. p. 149. nella cronaca di Dandolo, l. V. c. 10. p. 88., ed in Sandi con alcune osservazioni, t. I. p. 86. della storia civile.

342. Vettor Sandi storia civile veneta, l. I. p. 65. — Dandolus Chronic. l. V. c. 7. p. 84.

343. Vettor Sandi l. I. c. 3. § 4. p. 82. — Chr. Danduli l. V. c. 12. e l. VI c. I. p. 95.

344. Dand. Chron. l. VII. c. 1. p. 127. Marin Sanuto storia dei duchi di Venez. p. 443. — Navagero storia veneziana p. 933. — Vettor Sandi storia civile veneta l. I. c. 4. p. 94. — Laugier hist. de Venise l. II. p. 189.

345. Dand. Chron. l. VII. c. 5. et seq. p. 134.

346. Benchè la nazione veneziana non si formasse di Romani propriamente detti, ma d'Italiani, ben fondata era la pretesa loro; perciocchè ebbe origine quando sussisteva ancora l'impero, ed ella si compose tutta di cittadini romani d'origine italiana, senza mescolanza di stranieri.

347. Queste dilicate distinzioni non devonsi ricercare tra gli scrittori bizantini. Costantino Porfirogeneta fa dire ai Veneziani, che sempre sono stati, e vogliono essere sempre schiavi dell'impero d'Oriente. De administ. Imp. p. II. p. 70. Edit. Venet. t. XXII.

348. Dandolus Chron. l. VII. c. 15. p. 153.

349. La sua casa mutò nome nel decimo, o nell'undecimo secolo, prendendo quello di Badoero: essa sussiste ancora.

350. Dand. Chron. l. VII. c. 15. p. 23. p. 158. — Vettor Sandi l. II. c. 4. p. 253. e c. 5. p. 259.

351. Dand. Chron. l. VIII. c. 2. p. 170.

352. Const. Porphir. de Admin. imp. p. II c. 36. p. 85. — Chron. Dand. l. VIII. c. 3. p. 172.

353. Marin Sanuto stor. dei duchi di ven. p. 461. — Navas. stor. ven. p. 953. — Laugier hist. de Venise l. III. p. 296.

354. Chron. Dand. l. VII. c. 14. p. 206.

355. Const. Porphir. de adm. imp. p. II. c. 29. p. 71. et seq. — Questa è l'epoca della prima indipendenza di Ragusi. Veggasi intorno all'origine di questa repubblica, ed intorno alle sue forze militari, una nota curiosa del Raguseo Banduri: Animadversiones in lib. de administratione imper. p. 36. t. XXII. Bis.

356. Chron. Dand. l. IX. c. 1. p. 223.

357. Chron. Dand. l. IX. c. 1. p. 227. — Navas. stor. venez. p. 957. — Marin Sanuto vita dei dogi di Venez. p. 467. — Vett. Sandi stor. civile venez. l. II. c. 9. p. 325.

358. Anco un secolo prima trovasi un indizio del commercio e della crescente popolazione di Pisa. L'anonimo Salernitano racconta che l'anno 871, quando Guaffero, principe di Salerno, preparavasi a sostener l'assedio minacciato dai Saraceni, affidò la difesa di una parte dei muri di Salerno a due mila Toscani, che trovavansi in questa città. Questi erano, a non dubitarne, Pisani, giacchè più tardi assai cominciarono le altre città toscane a dedicarsi al commercio, o ad aver marina. Anon. Saler. Paralip. t. II. p. II. c. III. p. 256.

359. Tutti gli autori pisani non vanno d'accordo rispetto al nome di queste famiglie; ed alcuni fanno entrare in questo ruolo le Benetti e le Sardi. Raineri Sardo, Trattato dell'origine delle famiglie pisane. — Libro della Cancel. Comun. di Pisa, contenente gli stemmi e distinzioni di diverse famiglie pisane, f. 135, 137. Io non conosco questi due libri che dagli estratti mandatimi. — Comment. Const. Cajetani II. t. III. Rer. Ital. — Bernardi Marangoni Scrip. Etr. t. I. p. 316.

360. Il Gaetani non ammette questa origine della sua famiglia, facendola per l'opposto venire da Gaeta, cui attribuisce tutte le vittorie di quei duchi, i quali essendo elettivi non dovettero appartenere ad una sola famiglia. Comment. in Vit. Gelasii II t. III. Rer. Ital. p. 410.

361. Siccome la tradizione dell'origine di queste sette famiglie non è appoggiata ad autori contemporanei, potrebbe supporsi inventata dai genealogisti per compiacere la vanità di alcuni nobili, se la storia non ci somministrasse ne' cinquant'anni che succedono a quest'epoca i nomi di tutti questi gentiluomini, e se molte autentiche scritture non attestassero la loro esistenza ed il loro potere fino negli ultimi anni dell'undecimo secolo. Veggasi Murat. Antiq. Ital Med. Aevi LXIV. p. 1104 — 1161.

362. Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. I. p. 225. Apud Graevium Scrip. Ital. t. I.

363. Tronci Ann. Pis. ad an. 1105. — Bern. Marangoni Cronaca di Pisa p. 318. Il Muratori dubita di questo avvenimento, perchè il nome di Chinzica essendo arabo, per quanto egli crede, è più probabile che si desse ad un quartiere d'Arabi, che ad una Cristiana. Ma il Muratori s'inganna. Il vocabolo Chinzica è tedesco e non arabo. Un luogo chiamato Chinzica presso Fulda viene ricordato in molte carte di quell'abbadia. Antiqu. Fuldens. lib. I. p. 409, 507, 508 ec. t. III. Rer. Germ. Struvii. E Cinzica Sismondi aveva sicuramente ricevuto nascendo una di quelle voglie Hennzeichen che aveva motivato il suo nome. Tutti i nomi delle sette grandi famiglie di Pisa hanno un'etimologia tedesca.

364. Ann. Antiq. Pis. t. VI. Rer. It. p. 108 e 168.

365. Ib. — Bernardo Marangoni p. 316.

366. Benvenuti Imol. Comment. ad Dantis Comœd. Antiqu. It. Medii Aevi t. I. p. 1089.

367. Bern. Marangoni Cron. di Pisa p. 320. — Ubertus Folieta Gennens. Hist. l. I. p. 236.

368. Bern. Marang. Cron. p. 324.

369. Ann. Laur. Bonincontri Miniatensis, frag. apud Mur. Scrip. Rer. Ital t. III. part. I. p. 421. Questo frammento viene riportato nelle note alla vita di P. Gelasio II. Gli Annali di Loren. Bonincontri non furono stampati interamente, e soltanto la parte posteriore al 1360. Rer. Ital. t. XXI. Præf. Murat. ad Bonincontrum.

370. Questi nomi sono greci Μωροζεινοι e καλοπρηνες, che pronunciando secondo i moderni greci si direbbe Moroxini e Caloprinis: cioè gli ospiti o i compagni degli sciocchi, e le persone che si prostrano assai. Forse questi soprannomi equivalgono a quelli di adulatori e storditi, che davansi le parti nemiche; e forse sono più antichi della contesa, ed erano già a quell'epoca cambiati in nomi di famiglia.

371. Andreæ Danduli Chron. l. IX. c. 2 et seq. p. 238.

372. Caffaro An. Gen. Scrip., Rer. It. t. VI. p. 284.

373. Ottobonus Scriba Annal. Genuensium lib. III. p. 355.

374. Id. ib.

375. Caffar. ad init. hist. Obertus Cancell. lib. II. Annal. Gennen. p. 342.

376. Caffar. lib. I. p. 284. — Ottob. Scriba lib. III. p. 304.

377. Chronica Varia Pisana t. VI. Rer. It.

378. Chronica Danduli t. XII. Rer. Ital. — Sandi autore della Storia civile di Venezia ebbe sott'occhio più manoscritti, cui per altro accordò poca confidenza. Gli archivj della cancelleria, ove consultò moltissimi antichi documenti meritano intera fede.

379. Andreæ Danduli Chronicon lib. IX. c. 10. p. 256.

380. Caffaro Ann. Genuens. p. 248. 253. — Gesta triumphalia per Pisanos facta p, 100. — Chron, Pis. p. 168. t. VI. Rer. It.

381. Diploma apud Murat. Antiq. It. t. II. p. 919. Questo diploma conferma i precedenti privilegi accordati ai Veneziani da Baldovino I, e dalla reggenza del regno in tempo della prigionia di Baldovino II.

382. Questi diplomi sono tutti prodotti dal Muratori t. II. p. 905 e seguenti. Antiq. Italic. Med. Aevi.

383. Dand. Chron. l. IX. c. 12. p. 272.

384. Laur. Vernensis rerum a Pis. in Major. gestor. Poema t. VI. Rer. Ital p. 111. — Ber. Marang. Cron. di Pisa p. 340.

385. Laurent. Vernens. Poema l. I. p. 115.

386. Id. lib. II. p. 118.

387. Laur. Ver. Poema l. VI. et seq. p. 129.

388. Gest. triumph. Pisan. t. VI. p. 105. Bernard. Marangoni Cron. di Pisa p. 362.

389. Caffar. Ann. Genuens. l. I. p. 254.

390. Baron. An. Eccl. ad an. 1132. § 6. — Ubertus Folieta Hist. Gen. lib. I. p. 249.

391. Fu allora senza dubbio ch'essi presero per stemma quello de' loro feudi, lasciando quello di famiglia.

392. Caffaro Ann. Genuens. l. I. p. 161. — Ubertus Cancell. Ann. Gen. lib. II. p. 292.

393. Antiqu It. Mœd. Aevi t. III. Diss. LXIV. p. 1161.

394. Caffaro An. Gen. l. I. p. 259.

395. Il vocabolo di maremma abbreviato dal latino maritima viene dato a tutte le parti della Toscana poste lungo il mare dalle alpi liguri fino al Serchio, e da Cecina fino allo stato della Chiesa. Tutto questo paese è malsano assai, ma non tutto paludoso, comprendendo al contrario diverse colline spesso prive di acqua.

396. Gio. Vill. St. Fior. l. IV. c. 30. t. XIII. p. 123.

397. La debolezza degl'imperatori d'Oriente, ed il timore ch'essi avevano de' Saraceni, non permettevano loro di pensare alle cose dell'Italia meridionale, come le guerre della Germania impedirono ad alcuni imperatori occidentali di prendersi cura delle città dell'alta Italia. In tale stato di cose i grandi feudatarj, rendendosi affatto indipendenti, andarono a poco a poco aggravando il giogo delle città, le quali avendo incominciato a far esperimento delle proprie forze, giunsero a scuotere il giogo de' loro tiranni, ed a farsi libere. In mezzo però alla loro libertà, e quantunque in guerra talvolta cogl'imperatori, non cessarono di riconoscerne l'alta supremazia, anche quando erano vittoriose; come apparisce chiaramente dalla pace di Costanza, che riconoscendo la libertà delle repubbliche lombarde, non le dissoggettava affatto dall'impero. N. d. T.

398. Ciò deve intendersi della generalità, essendovene alcune scritte abbastanza filosoficamente, ed interessanti ancora per i forestieri.

399. Molti di questi diplomi vengono riportati dal Muratori nelle Antichità; e fra gli altri, due di Berengario I del 911 e 912. t. II. p. 467, et 469.

400. Murat. antiq. Ital. dissert. XLV. et XLVI. tom. IV.

401. Antiq. Ital. t. IV. dissert. XLV et XLVI.

402. Antiqu. Ital. M. Aevi diss. XXVI. t. II.

403. Montesquieu esprit des lois l. XXVIII.

404. Anonimi Ticin. de laudibus Papiae Comm. Rer. Ital. t. X. p. 1. — Bernardi Sacci patrit. Pap. hist. Ticinensis l. II. apud Graevium t. III. p. 603.

405. Ai tempi del Petrarca si aveva migliore opinione del clima di Pavia. N. d. T.

406. Arnulph. Mediol. l. II. c. 16. p. 18. t. IV. — Ricord. Malas. stor. Fior. c. 164. t. VIII. p. 987. — Burchardus epistola de excidio Urbis Mediol. t. VI. Rer. Ital p. 917. — Può vedersene un buon disegno in Ludov. Cavitell. Ann. Crem. t. III., Graevi p. 1289.

407. Veggasi il conte Marsigli. Ricerche storico-critiche sull'opportunità della laguna veneta pel commercio, sull'arti e sulla marina di quello stato 8. vol. 1803.

408. Luitprand. de legatione p. 487.

409. Murat. antiq. Ital. t. II. diss. XXXII, p. 989.

410. La maggior parte de' conquistatori d'Italia uscirono da quella parte della Germania ove parlasi il più grossolano tedesco, in cui tutti i nomi sono indeclinabili. In Allemagna la conjugazione de' verbi non ha che due tempi semplici, il presente ed il passato, tutti gli altri in ogni modo sono indicati dai verbi ausiliarj. La grammatica italiana tiene un di mezzo tra la tedesca e la latina.

411. Store Seite, il soprannome di Grimoaldo II, deriva, o parmi che derivi da Store, grande, in danese, o da Störer in tedesco, perturbatore, e da Seite, costa, cioè la gran costa, o il perturbatore delle coste, l'uomo inquieto. Ma l'anonimo Salernitano traduce questo soprannome con tal frase: qui ante obtutum principum et regum, milites hinc inde sedendo præordinat, Paralip. t, II. p. II. c. 29. p. 195. Ed un giornale tedesco me ne diede la spiegazione, che io non aveva potuto ritrovare: Störer Sitzen, il disordinatore delle scranne, era facilmente un maestro delle ceremonie.

412. Ecco una carta del 782, che darà un'idea del latino dei secoli più barbari; è una donazione della Chiesa di s. Damaso di Lucca fatta ad un'abbadessa della città, figliuola d'un re degli Anglo Sassoni. Antiq. Ital. Diss. I. p. 19. — In Dei nomine, Regnante Domno nostro Carulo Rex Francorum, et Langobardorum, et Domno nostro Pipino idem Rex filio ejus, anno regni eorum nono et secundo, mense augusto per indictione quinta. Promitto et manus meam facio, ego Magniprand Clericus, filio quondam Magniperti, tivi Adeltruda Saxa, Dei ancilla, filia Adelwaldi, qui fuit rex Saxonorum, Ottramarini, de Ecclesia Monasterii Sancti Dalmati, vel casis et omnia res, et hominibus ibidem pertinentibus, ubi te per alia cartula confirmavi, excepto Magnulo, quem liverum dimisi, ut si quacumque homo (excepto de qualibet pubblico) de ipsa et Clericis, et casi et hominibus eidem Ecclesiæ perninente, et vel successores tuo, quem tu ibidem ordinaveris, foris expellere potuerit, extra omnem meum conludio, per jura legem et justitia (excepto ut dixi de quolivet publico) ut ego redda vobis solidas septinientas Lucani et Pisani, quas mihi dedisti . . . . etc. etc.

413. Rer. Ital. Scrip. t. II, p. 479.

414. I principali poemi storici dal X al XII secolo sono: Donizo: Vita Comitis. Mathildis. t. V, p. 335. — Magister Moses, de Laudibus Bergomi t. V, p. 521. — Laurent. Verniens. Rer. Pisanar. t. VI, p. 111. — Panegir, Berengarii Augus. apud Leibnitz. t. I. — Guilelmus Appulus de Gestis Normann. t. V, p. 245. — Cumanus de excidio Novo Comi t. V, p. 399. — Guntherus in Ligurino. Edit. Basileæ 1569. — Benzo Albensis, Panegyricus Henrici IV apud Menchenium Scriptorum German. t. I.

415. Arnulph Hist. Mediol. lib. II, c. 18, t., IV, p. 19.

416. Landulph Sen. Hist. Med. l. II, c. 26, p. 86.

417. Landulph. Jun. sive de Sancto Paulo Hist. Med. t. V. Rer. Ital.

418.

Cætera diversis tellus animalia formis

Sponte sua peperit, postquam vetus humor ab igne

Percaluit solis, cœnumque undæque paludes

Intumuere æstu, fœcundaque semina rerum

Vivaci nutrita solo, ceu matris in alvo

Creverunt, faciemque aliquam cepere morando.

Ovid. Metam. l. I. v. 416.

419. Hieronym. Blancœ Aragon. Rer. t. III. Hisp. Illust. p. 588.

420. Ibid. Privilegium Reg. Alfonsi Bellatoris p. 640.

421. L'esistenza della repubblica d'Islanda dal IX al XIII secolo s'oppone a quest'osservazione sull'origine dello spirito sociale nelle sole città. Io non conosco abbastanza la storia delle repubbliche d'Islanda per dare una sufficiente contezza della loro esistenza. Si può non per tanto comprendere che sotto un cielo di ferro, in un clima tanto nemico, gl'individui sono troppo deboli per non unirsi subito in società; che quantunque sianvi state in Islanda poche città, le calde sorgenti delle radici dell'Ecla ed i porti più proprj alla navigazione ed alla pesca, dovevano essere punti di riunione ove gli uomini imparavano tosto ad amarsi ed a trattarsi come fratelli.

422. Qui l'autore con molta dignità accenna quelle rivoluzioni dei governi, che sono il necessario effetto dell'allontanamento loro dalla rispettiva istituzione. Ammessi con Aristotele tre sole qualità di governi, il monarchico, quello degli ottimati ed il democratico, le nazioni non passano giammai dall'uno all'altro di salto, ma bensì provando i mali che accompagnano il corrompimento loro, o la rispettiva sconvenienza al paese ed ai costumi. Perciocchè come una sterile e ristretta regione verrebbe esposta ad insopportabili aggravj se dovesse provvedere allo splendore di regia corte; così in ampio e fertile territorio e tra il lusso e la disuguaglianza infinita delle ricchezze de' privati mal può provare la frugalità repubblicana.