TOMO IV.

ITALIA 1817.

INDICE

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE

CAPITOLO XXIII.

Guerra di Sicilia. — Grandezza e decadenza della repubblica di Pisa. — Crudel morte del conte Ugolino. — Nuove turbolenze a Firenze.

La strage di Sicilia che non aveva tolti al re Carlo che quattro mila soldati francesi, era più che una disfatta, un affronto ch'egli doveva vendicare; nè tale perdita era di tanta importanza ch'egli non potesse ben tosto ripararvi. Se è vero che avesse adunati dieci mila cavalli ed un proporzionato numero di pedoni per fare l'impresa del Levante; se ne' suoi vasti progetti calcolava la conquista di tutto l'impero greco, pare che con queste forze già riunite egli avrebbe in pochi giorni potuto sottomettere una provincia ribelle, non ancora preparata ad una vigorosa resistenza, sprovvista di arsenali, di armata, di tesoro, non sostenuta da uno stabile governo, non difesa da esperti generali; ove tutto quanto gli si poteva opporre era l'odio profondo contro di lui concepito ed il timore delle sue vendette. Ma le passioni che agitano un'intera nazione, che le danno un solo sentimento, una sola vita, un solo interesse in faccia al quale tutto cede; le passioni che non lasciano calcolare nè sforzi, nè pericoli, nè sagrificj, danno ad un popolo assai maggiori mezzi di resistenza, di quelli che potrebbe somministrargli la previdenza d'un governo regolare, e l'azione uniforme e sempre subordinata al calcolo della militare disciplina. La Sicilia fu invincibile: ella resistette agli sforzi combinati del re Carlo, del papa, del re di Francia, di tutti i Guelfi d'Italia e dello stesso re d'Arragona, che per rappacificarsi colla Chiesa prese parte in una vergognosa lega co' suoi nemici. La casa d'Angiò consumossi con inutili sforzi per ricuperare un regno avuto già in suo dominio; e, mentre combatteva, l'Italia, di cui aveva minacciata la libertà, ricuperò la propria indipendenza: anch'essa forse ne abusò, perciocchè, mancati i grandi interessi che la tenevano unita, e non vedendosi minacciata da vicino pericolo, si abbandonò alle parziali guerre tra città e città ed alla violenza delle fazioni.

Ad ogni modo se la Sicilia non era dal mare separata dagli altri stati del re Carlo, non avrebbe probabilmente potuto lungamente resistere. Un'armata vendicatrice sarebbesi presentata in faccia a Messina ed a Palermo pochi giorni dopo la strage dei Francesi; avrebbe trovato il popolo spossato dai suoi proprj furori e di già in preda al pentimento, che in lui non si manifesta giammai con maggiore unanimità, che nell'istante in cui si riposa dopo i suoi primi eccessi.

Del 1282 prima che fosse organizzata la difesa della Sicilia, prima che Carlo avesse potuto far passare le sue truppe al di là del Faro, e prima che Pietro d'Arragona si presentasse colla sua armata, gli abitanti di Palermo avevano spediti alcuni religiosi al papa, acciò che interponesse i suoi buoni ufficj per ottener loro da Carlo il perdono. Questi inviati, introdotti in concistoro, gittaronsi in ginocchio, ripetendo tre volte queste sole parole delle litanie consacrate dalla Chiesa: Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi di noi pietà. Martino IV, forse più sdegnato di Carlo, alzossi, ripetendo altresì tre volte queste parole della passione: Salve, re de' Giudei, dicevano essi, e gli davano uno schiaffo: indi scacciò da sè i religiosi, senza permetter loro di soggiugnere una sola parola[1]. D'altra parte gli abitanti di Messina cercarono di placare la collera di Carlo, ma questi gli fece sapere che non si piegherebbe ad accordar loro verun patto; che le loro vite e quelle de' loro figliuoli erano consacrate come quelle di traditori alla chiesa ed alla corona; e che omai non dovevano pensare che a difendersi, se il potevano.

Intanto passò alcun tempo avanti che la flotta e l'armata del re, adunate in Brindisi per la spedizione della Grecia, potessero porsi in mare. Lo stesso Carlo andò a Brindisi, ove dovevano pure recarsi le truppe ausiliarie che gli mandavano le città guelfe della Toscana e della Lombardia. Fece in appresso marciare la sua armata fino all'estremità della Calabria, ed egli stesso s'imbarcò per raggiungerla a Reggio. Soltanto il 6 di luglio del 1282 arrivò in faccia a Messina con cento trenta galee o grosse navi, e trasportò le sue truppe dall'una all'altra riva dello stretto. Egli aveva con lui cinque mila uomini d'armi ed un ragguardevole corpo d'infanteria[2]. I Siciliani non avevano armata da opporre al re, ma non erano affatto sprovveduti di navi. Erano cadute in loro potere quelle che Carlo avea fatto allestire per l'impresa di Grecia a Palermo, a Siracusa ed in altri porti dell'isola, come pure i materiali che trovavansi ne' cantieri di Messina, che furono adoperati in difesa della città, dove le mura erano guaste, facendo palizzate e baluardi, resi forti solamente dal coraggio de' difensori.

Mentre gli abitanti di Messina respingevano valorosamente i giornalieri assalti di Carlo, Giovanni di Procida, accompagnato dai sindaci e procuratori di tutte le città siciliane, fece un secondo viaggio alla corte del re Pietro d'Arragona per affrettarne i soccorsi. Lo trovò ad Ancolle, porto dell'Affrica, ove, malgrado il cattivo esito della sua spedizione contro i Mori, si rimaneva, preferendo di lasciare i Siciliani esposti molti mesi a tutte le vendette di Carlo, più tosto che esporsi al risentimento di quel temuto monarca avanti di vedere qual piega prenderebbero gli affari della Sicilia. Ma comprendendo dal racconto di Giovanni che i Siciliani eransi omai tanto inoltrati nella ribellione, che per alcun modo non potevano più dare a dietro, imbarcossi colla sua armata alla volta della Sicilia, e giunse avanti a Trapani il 30 agosto del 1282[3]. Tutti i baroni dell'isola eransi adunati a Palermo per ricevervi il nuovo re; che si affrettarono di far incoronare dal vescovo di Ceffalù, e gli prestarono il giuramento di fedeltà. Non lasciavano per altro d'essere assai inquieti osservando le deboli forze di Pietro in confronto di quelle di Carlo; e prevedevano che, presa Messina dai Francesi, in breve tempo tutta l'isola sarebbe soggiogata; ed avevano avviso che quella città incominciava ad avere tanta scarsità di viveri, che non potrebbe oramai tenere più di otto giorni. Fortunatamente il re arragonese aveva condotta seco la sua flotta composta soltanto di galee armate in guerra e disposte a combattere, e questa era comandata da Ruggero di Loria, gentiluomo calabrese, che aveva abbandonata la patria quando venne in potere de' Francesi, ed era il più esperto e più fortunato ammiraglio che allora si conoscesse. Carlo all'opposto, non s'aspettando d'aver nemici sul mare, non aveva seco menato che navi da trasporto e galere disarmate; almeno con tale pretesto gli storici guelfi cercano di scusare la debolezza della sua marina veramente strana ed incauta. Ruggero di Loria, riunite sessanta galee sottili della Catalogna e della Sicilia, andò ad occupare lo stretto per impedire che fosse vittovagliata l'armata francese. Nello stesso tempo il re Pietro fece lentamente avanzare le sue truppe alla volta di Messina[4], e mandò tre cavalieri catalani a Carlo colla seguente lettera di sfida:

«Pietro re d'Arragona e di Sicilia a te, Carlo, re di Gerusalemme e conte di Provenza.

«Noi ti participiamo il nostro arrivo nell'isola di Sicilia, regno che ci fu aggiudicato dall'autorità di santa Chiesa, da messere il papa e dai venerabili cardinali; e ti comandiamo che, veduta questa lettera, tu debba partire dall'isola di Sicilia con tutta la tua forza e la tua truppa; e sappi che se tu non lo farai, vedrai immantinenti con tuo danno i nostri cavalieri ed i nostri fedeli attaccare la tua persona ed i tuoi soldati.»

Carlo il più orgoglioso monarca di cristianità, e fino a quest'epoca fors'anco il più potente, fremè di sdegno quando lesse una così superba lettera d'un piccolo principe ch'egli non credeva potergli stare a fronte; e gli mandò la seguente riposta:

«Carlo, per la grazia di Dio, re di Gerusalemme e di Sicilia, principe di Capoa, conte d'Angiò, di Forcalquier e di Provenza, a te Pietro, re d'Aragona, conte di Valenza.

«Noi siamo estremamente maravigliati come tu abbi avuto l'audacia di venire nel regno di Sicilia a noi conceduto dall'autorità della santa romana Chiesa; perciò ti comandiamo che, a vista della nostra lettera, tu debba partire dal nostro regno di Sicilia come malvagio traditore di Dio e della santa Chiesa. E se tu non lo fai, noi ti sfidiamo come nostro nemico e traditore verso di noi. All'istante ci vedrai venire a tuo danno; giacchè noi e la nostra armata desideriamo molto di vederti colle tue genti che tu hai condotte»[5].

Ma Carlo non potè sostenere coi fatti l'orgoglio della sua lettera: il suo ammiraglio Enrico de' Mari venne ad avvertirlo che aveva avviso dell'imminente arrivo di Ruggero di Loria, e ch'egli non poteva sostenerne l'incontro, perchè le sue grosse navi mal potevano manovrare nello stretto, ed altronde erano affatto disarmate: gli osservava che erano nella burrascosa stagione dell'equinozio; che la Calabria non offriva alcun sicuro porto per ripararvisi; e che, se la flotta era incendiata dal nemico, la sua armata avrebbe dovuto morire di fame. Convien che le circostanze fossero urgenti, poichè un monarca così fiero, così irritato, un monarca così coraggioso fu forzato di cedere; pure la cosa non è affatto chiara. In tre giorni l'armata francese ripassò lo stretto, ed il quarto, 28 di settembre, Ruggero di Loria comparve innanzi al porto di Messina, e s'impadronì di ventinove galere francesi che non fecero veruna resistenza. Si avanzò poi verso la Catona e Reggio di Calabria dove avevano dato fondo tutte le galere e le navi da trasporto del re, in numero di ottanta, e vi fece appiccare il fuoco sotto gli occhi di Carlo che non poteva difenderle: il quale vedendo l'incendio della sua flotta rodeva per rabbia lo scettro che teneva in mano, e gridava: «Ah Dio! Dio! voi m'avete elevato assai! vi prego che mi facciate scendere dolcemente»[6].

Pareva a Carlo che la sua flotta e la sua armata ch'egli era accostumato a far agire con somma facilità, si rifiutassero tutti ad un tratto di seguire gl'impulsi della mano che li dirigeva. Trovavasi vinto senza ancora sapere quale forza impiegasse contro di lui il suo nemico, e senza aver potuto combattere; onde era impaziente di far prova del proprio valore, d'incaricarsi egli medesimo della sua vendetta, invece di confidarla al braccio de' suoi soldati, o di farla dipendere dall'incostanza degli elementi. Dopo avere abbandonata la Sicilia scrisse al re Pietro, invitandolo a decidere con un privato combattimento sottomesso al giudizio di Dio, i loro diritti e la loro lite. Propose che cento cavalieri combattessero contro cento cavalieri a Bordeaux, sotto la guarenzia del re d'Inghilterra, cui apparteneva questa città: i due re dovevano trovarsi alla testa dei loro campioni e promettere che la sorte della Sicilia dipenderebbe dall'esito della pugna. Pietro d'Arragona che aveva bisogno di acquistar tempo per assodare la sua autorità in Sicilia, e terminare i preparativi di difesa, accettò con piacere la proposta di Carlo, tanto più che avendo egli minor numero di sudditi, poche truppe e meno tesori, era ben fortunato di poter combattere con pari forze con un così potente nemico. I due re promisero di trovarsi a Bordeaux il 15 maggio del 1283, dichiarando in caso che mancassero all'appuntamento, non solo di rinunciare ad ogni diritto sul regno di Sicilia, ma inoltre ad essere spogliati dei loro stati ereditari, e vituperati da ogni assemblea di nobili e cavalieri, come traditori ed uomini senza onore[7].

Gli apparecchi per questa pugna giudiziaria allontanarono alcun tempo i re rivali dai regni della Sicilia e della Puglia, locchè diede un'apparenza di pace a queste province, mentre molte altre contrade d'Italia erano, a quest'epoca, travagliate dalla guerra. In quest'anno scoppiò la lite tra le due potenti repubbliche di Genova e di Pisa, lite che doveva essere cagione ad ambedue d'immensa perdita di ricchezze e di soldati.

L'anno 1276 la repubblica di Pisa era stata costretta dai Fiorentini a richiamare tutti gli esiliati, ma in tale circostanza la sua sommissione alla volontà de' suoi nemici le era riuscita vantaggiosa. I nobili richiamati nel suo seno avevan vissuto in pace, e tale era in questo secolo la semplicità de' costumi privati e l'economia de' più ricchi cittadini, che ad una città bastava il riposo di pochi anni per vedere duplicate le proprie entrate, e trovarsi per così dire imbarazzata dalle sue ricchezze. Era ignoto ai Pisani il lusso della mensa, degli addobbi e della numerosa servitù, benchè il loro fertile territorio producesse ogni anno ubertose ricolte e fossero ad un tempo proprietari e sovrani di quasi tutta la Sardegna, della Corsica e dell'isola dell'Elba. Avevano inoltre stabilite colonie a san Giovanni d'Acri ed a Costantinopoli, e le loro fattorie in queste due città facevano un estesissimo commercio coi Saraceni e coi Greci. Nè ci voleva meno di così grosse entrate, come erano le loro, per supplire alle immense spese delle guerre marittime, e per far fronte alle ruine che accompagnavano sempre la disfatta di ogni fazione, quand'erano confiscati i beni dei vinti, e le loro case abbandonate al saccheggio. Nulladimeno perchè in tempo di guerra non si erano consumate le entrate a venire, la pace accumulava nuove fortune, e riparava in pochi anni le perdite delle passate guerre. Pisa a quest'epoca contava tra i suoi cittadini vari signori che pei loro titoli, le ricchezze ed il numero de' vassalli avrebbero potuto pareggiarsi ai sovrani d'Italia. Il giudice di Gallura, il giudice d'Arborea, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri, ed il conte Anselmo, avevano cadauno una piccola corte ed una piccola armata[8]. I Pisani andavano orgogliosi della magnificenza di tanti signori, che si gloriavano d'essere loro concittadini. Essi soffrivano di mala voglia la rivalità de' Genovesi che, avendo anch'essi stabilimenti nel Levante, s'arricchivano egualmente collo stesso commercio e loro disputavano la sovranità delle isole del Mediterraneo[9]. Sebbene l'un popolo e l'altro fossero in quest'epoca governati dalla fazione ghibellina, mal sapevano contenere il concepito vicendevole odio. Sembra che le prime ostilità fossero provocate dai Pisani.

I ladronecci del giudice, ossia signore di Ginerca in Corsica furono cagione della rottura. I Genovesi, come protettori della città di Bonifazio, vollero reprimerli, e nel mese di maggio del 1282 spedirono in Corsica quattro galere con duecento cavalli e cinquecento soldati. Il giudice battuto da questa piccola armata venne a Pisa ad implorare i soccorsi della repubblica, di cui si riconobbe vassallo. I Pisani lo presero in fatti sotto il loro patrocinio, ed intimarono ai Genovesi di non recargli ulteriore molestia, facendo in pari tempo passare in Corsica alcune truppe per ajutarlo a difendersi.

A questo s'aggiunsero altri atti d'ostilità, che fieramente inasprirono il vicendevole odio dei due popoli. Una galera genovese che tornava dalla guerra di Sicilia fu, senza averli provocati, presa dai Pisani; i Genovesi che abitavano in san Giovanni d'Acri furono attaccati dai borghesi di quella città ad istigazione dei Pisani, cacciati dal loro quartiere, saccheggiati i magazzini ed incendiate le case[10].

Dopo avere per mezzo de' loro ambasciatori domandata invano soddisfazione di così gravi ingiurie, i Genovesi risolsero di ottenerla colle armi. Per altro i due popoli s'andarono lungo tempo provocando, ed in seguito evitandosi, senza venire seriamente alle mani. Ciò facevano, senza dubbio, gli uni e gli altri per addestrare le loro ciurme alle manovre militari, ed aver tempo di adunare i loro marinai sparsi su tutti i mari a servigio del commercio, prima di esporre l'onore delle loro armi, e forse la sorte delle repubbliche in una battaglia generale.

Alla fine d'agosto, Nicola Spinola si presentò avanti alle foci dell'Arno con ventisei galere, e si ritirò quando i Pisani uscirono con trenta per dargli la caccia. Otto giorni dopo, l'ammiraglio pisano, Guinicello Sismondi, spiegò anch'egli le vele per cercare i Genovesi a casa loro. S'avanzò fino a Porto Venere senza incontrare la flotta genovese, e, dopo aver saccheggiato quel porto e la vicina campagna, fu assalito il 9 settembre, mentre si ritirava, da una burrasca che fece incagliare la metà delle sue navi tra Viareggio ed il Serchio[11].

I Genovesi non potevano darsi vanto del disastro di Guinicello; quindi fecero quanto potevano per porsi in istato di sostenere con maggior gloria la guerra. Nominarono una Credenza, ossia consiglio di confidenza, composto di quindici membri, ai quali diedero un assoluto potere su tutti gli affari marittimi. Ordinarono che niun bastimento mercantile uscisse del porto, onde la repubblica potesse valersi nella guerra della ciurma delle navi mercantili, e perchè non fosse compromesso l'onore della nazione con troppo deboli squadre, dichiararono che non sarebbe considerato siccome ammiraglio chi comandasse meno di dieci navi, nè gli sarebbe permesso d'inalberare lo stendardo di san Giorgio. In seguito la Credenza fece porre sui cantieri cento venti nuove galere, cioè cinquanta nel cantiere di città, e le altre ne' porti delle due Riviere.

L'orgoglio di questi due popoli e il desiderio di superarsi l'un l'altro colla forza aperta e non colle astuzie ch'essi sprezzavano, mantenne fra loro fin verso alla metà di questa guerra una singolare costumanza. Ogni repubblica mandava presso l'altra un notajo con quattro esploratori, dando loro apertamente commissione di rendere conto alla loro patria dei progetti e degli apparecchi dei loro nemici. I Pisani, ufficialmente avvisati dai loro esploratori del numero delle galere che facevansi a Genova, disposero di farne anch'essi altrettante; e nello stesso tempo nominarono loro ammiraglio Rosso Buzzacherini della famiglia Sismondi come il suo predecessore[12].

Non pertanto l'anno 1283 si passò come il precedente in una specie di torneo marittimo nel quale non si fece cosa di molta importanza da una parte e dall'altra, limitandosi a far pompa delle straordinarie loro forze. I Pisani furono veduti una volta avanzarsi con sessantaquattro galere fin presso al porto di Genova, mentre sortivano settanta vascelli genovesi per incontrarli, i quali dopo essere rimasti alcun tempo in faccia gli uni agli altri, temendo ambedue d'esporsi contro forze eguali, si ritirarono senza venire alle mani[13]. A stento si può concepire come due sole città potessero armare due flotte press'a poco eguali a quelle con cui adesso si batterebbero le due più potenti nazioni d'Europa.

L'anno 1284 i Pisani ed i Genovesi trovaronsi abbastanza esercitati e padroni di tutte le loro forze onde desiderare egualmente di metter fine alla guerra con più sanguinose e decisive battaglie. I Pisani nominarono loro ammiraglio Guido Jacia, e gli commisero di scortare con ventiquattro vascelli il conte Fazio che mandavano in Sardegna con truppe e danaro per assoldarne delle altre. Il vascello che aveva a bordo il conte Fazio essendosi separato dagli altri, fu incontrato nel mar sardo da una flotta genovese di ventidue galere capitanata da Enrico de Mari. Il vascello fu preso quasi senza battersi, e bruciato dai Genovesi quando videro la flotta pisana far forza di vele per raggiugnerli. La battaglia s'appiccò in seguito tra le due flotte il primo di maggio, e si sostenne tra forze quasi uguali lungo tempo con notabile perdita da ambo le parti. Finalmente essendo stato calato a fondo un vascello pisano, ed altri tre danneggiati in modo, che dopo essere usciti dalla pugna perirono in aperto mare, la vittoria si dichiarò pei Genovesi, che presero e condussero a Genova otto galere e mille cinquecento prigionieri; non essendo rientrati nel porto di Pisa che dodici galere con molta difficoltà[14].

Ma lungi dallo scoraggiarsi per tale disfatta, i Pisani raddoppiarono i loro apparecchi per farne vendetta. Nominarono loro podestà Alberto Morosini di Venezia, che godeva nella sua patria riputazione di eccellente capitano di mare; gli aggiunsero come capitani della loro flotta il conte Ugolino della Gherardesca ed Andreotto Saracini. Il tesoro erasi quasi esaurito ne' precedenti armamenti; ma tutti i gentiluomini pisani s'incoraggiarono a fare colle private loro fortune un generoso sforzo per ricuperare l'onore della patria. I Lanfranchi, ch'erano in allora la più numerosa famiglia di Pisa, armarono undici galere, i Gualandi, i Lei ed i Gaetani ne armarono sei, tre i Sismondi, quattro gli Orlandi, gli Upezzinghi cinque, i Visconti tre, i Moschi due, ed altre famiglie si unirono per armarne una. Questo generoso patriottismo creò una flotta di cento tre galere, che spiegò le vele nel mese di luglio, e venne a schierarsi in faccia al porto di Genova. Là i Pisani provocarono i Genovesi ad uscire per combatterli, e lanciarono contro il porto molte freccie d'argento. Era questa una braveria in uso tra que' due popoli, che, per quanto sembra, solevano in tal modo fare pomposa mostra della loro ricchezza e prodigalità. I Genovesi sfidati risposero che i loro vascelli non erano ancora apparecchiati, ma che raddoppiarebbero d'attività per rendere ben tosto ai Pisani la loro visita.

Di fatti non erano da molti giorni rientrati nell'Arno i Pisani, che i Genovesi avendo armate cento sette galere, si presentarono ne' mari di Pisa, e mandarono a sfidare i loro nemici. I Pisani rimontarono su le loro galere con una sollecitudine, con un tale giubilo, che ben sembrarono felice presagio di vittoria. La maggior parte delle navi trovavansi ancorate tra i due ponti della città. Venne l'arcivescovo sul ponte vecchio con tutto il clero, e spiegando al vento lo stendardo del comune, benedì la flotta. Si moltiplicarono le grida di gioja, si levò l'ancora, ed i vascelli scesero fino alla foce dell'Arno.

All'indomani 6 agosto 1284 le flotte si scontrarono presso all'isola della Meloria, e la battaglia incominciò poco dopo il mezzogiorno. I Genovesi che avevano ricevuto un nuovo rinforzo, nascosero Benedetto Zaccaria, che l'aveva condotto, con trenta galere dietro la piccola isola della Meloria; per la quale manovra sembrando le due flotte d'uguale forza, i Pisani non si rifiutarono di porre in arbitrio d'una battaglia la salvezza della loro repubblica, ed il dominio del mare inferiore.

Le due flotte s'avanzarono divise in più corpi. Tra i Pisani il podestà Morosini comandava la prima squadra, Andreotto Saracino la seconda, ed il conte Ugolino la terza: le tre squadre della flotta genovese erano comandate dall'ammiraglio Oberto Doria, Corrado Spinola e Benedetto Zaccaria. Terribile fu l'urto delle due prime che vennero alle mani nello stesso istante, e la battaglia si continuò lungo tempo, senza che si scorgesse una parte più avvantaggiata dell'altra; ma la vista di quel fatto, dice uno storico genovese, ispirava ad un tempo orrore e compassione[15]. Infinito era il numero di coloro che perivano in cento diverse maniere; gli uni cadevano mutilati sul ponte, altri erano precipitati semivivi nell'onde; allora nuotavano intorno alle navi, ed imploravano l'ajuto e la pietà de' loro compatriotti e de' loro nemici; prendevano tutto quanto veniva loro alle mani, s'aggrappavano ai remi, e, perciò che in tal guisa sospendevano la manovra, per continuare la battaglia venivano respinti cogli stessi remi, e ricacciati nell'acque. Intorno ai vascelli il mare era vermiglio pel sangue che usciva dai bocca-porti; ogni onda era coperta di cadaveri, di scudi, di lance, di freccie, di caschetti. Frattanto i capitani gridavano per incoraggiare i loro soldati, non cessando di ripeter loro che questa volta trattavasi della salvezza della patria; che spesso avevano combattuto coi medesimi nemici cogli eterni nemici della loro città; ma che prima d'ora i due popoli non eransi ancora trovati tutt'intieri in faccia l'uno dell'altro, che non avevano giammai, per ottenere la vittoria in una sola battaglia, sagrificate tutte le risorse delle battaglie future: ed i soldati, rispondendo con furibonde grida a tali conforti, raddoppiavano i loro sforzi.

Le galere battevansi all'arrembaggio, e quella montata dal Morosini era alle mani col vascello ammiraglio d'Oberto Doria. In quest'istante i trenta vascelli di Benedetto Zaccaria uscirono dall'opposta riva della Meloria e s'unirono alle altre navi genovesi. La galera di Zaccaria si pose dall'altro lato del vascello ammiraglio pisano, il quale, attaccato da due bande, fu finalmente preso dopo una lunghissima resistenza, mentre un altro vascello che portava lo stendardo del comune di Pisa, attaccato da due galere, cadeva pure in potere dei nemici. Questa doppia perdita sparse il terrore nella flotta pisana, ed il conte Ugolino, come assicurano gli scrittori pisani, colse quell'istante per dare il segno della fuga, non per viltà, ma per indebolire la sua patria, onde più facilmente ridurla in servitù.

La disfatta, dopo così accanita battaglia, fu compiuta; i Genovesi presero ventotto galere, e sette ne colarono a fondo, valutandosi la perdita dei Pisani a cinque mila morti, ed undici mila prigionieri. Siccome questi ultimi furono condotti a Genova e vi rimasero lungo tempo in prigione, dicevasi comunemente in Toscana che oramai per veder Pisa bisognava andare a Genova[16].

La prima notizia che giunse a Pisa della battaglia, vi sparse la desolazione e lo spavento; le donne, dimenticando nell'estremo dolore la consueta loro modestia e la loro cura di nascondersi agli occhi del pubblico, ingombravano le strade che conducono al mare. Confuse cogli uomini stringevansi intorno a coloro che tornavano dalla battaglia, non lasciandoli andare avanti se prima non avevano soddisfatto alle loro domande. Ma di mano in mano che gli arrivati avevano parlato, si vedevano staccarsi dalla folla matrone desolate che, informate della morte de' loro sposi, figli o fratelli, si appartavano, percuotendosi il petto e stracciandosi i capelli. Tutte partecipavano di questa universale afflizione; perciocchè non eravi in Pisa una sola famiglia che non avesse parte a tanto infortunio, e non avesse a versar lagrime almeno sopra uno de' suoi membri, avendone molte perduti due, tre ed anche più. Fu d'uopo che i magistrati essi medesimi s'interponessero per far rientrare, quasi a forza, nelle proprie case tanti infelici che il dolore rendeva forsennati; e quando, dopo alcuni giorni, le donne uscirono nuovamente di casa, per pregare ne' templi, non ne fu vista una sola che non fosse vestita di corrotto. Pel corso di sei mesi non altro udivansi in Pisa che gemiti, gridi e funebri rimembranze.

Intanto i Genovesi, rientrati in porto, festeggiavano ne' templi la loro vittoria, e consultavano intorno alla sorte di tanti prigionieri. Alcuni senatori proponevano di cambiarli contro il forte di Castro in Sardegna, il quale risguardavasi come il baluardo de' possedimenti de' Pisani in quell'isola; ed altri preferivano una taglia in danaro. Ma la gelosia nazionale suggerì il più dannoso consiglio di tenerli in prigione perpetuamente, affinchè le loro mogli, non potendo rimaritarsi, venisse Pisa a mancare di nuova popolazione. Questo consiglio fu adottato, ed essendosi prolungata la guerra tredici anni, quando finalmente la pace rendette la libertà a quel misero avanzo di prigionieri, trovaronsi per le riportate ferite, per malattie, per l'età ridotti a così ristretto numero che, di undici mila, ne tornarono a Pisa appena mille.

Se la condotta de' Genovesi fu poco generosa, quella de' Guelfi toscani lo fu ancora meno. Pisa era la sola città ghibellina della provincia; onde essi determinarono di approfittare della presente sventura per distruggerla colla sua fazione. Fecero perciò proporre ai Genovesi di collegarsi con loro, promettendo di assediare Pisa per terra, mentre i Genovesi la chiuderebbero dalla banda dei mare, obbligandosi di non accordarle la pace a veruna condizione, ma di atterrarne le mura e disperderne i cittadini nelle vicine terre. Fiorenza, Lucca, Siena, Pistoja, Prato, Volterra, San Gemignano e Colle sottoscrissero quest'alleanza coi Genovesi, ed il 10 di novembre tutti i Fiorentini domiciliati in quella città l'abbandonarono, giusta l'ordine ricevuto dalla loro patria, mentre seicento cavalieri al soldo di Firenze entravano, per la strada di Volterra, nel territorio pisano, guastandolo e facendo ribellare molte terre[17].

Erano i Pisani informati delle strette relazioni che il conte Ugolino della Gherardesca aveva conservate coi Fiorentini; conoscevano inoltre i talenti e l'accortezza di questo ambizioso cittadino, e l'arte con cui aveva saputo rendersi influente presso le due fazioni, ghibellino di nascita e guelfo per le contratte parentele. Nella difficile situazione in cui si trovavano, risolsero i Pisani di mettere il conte alla testa della repubblica, come i Romani in meno critiche circostanze avrebbero nominato un dittatore. Si assicura che i Pisani prigionieri in Genova, i quali dalle loro prigioni non lasciavano di conservare molta influenza sulle deliberazioni della loro patria, proposero essi medesimi tale elezione. Il conte Ugolino fu nominato per dieci anni capitano generale di Pisa; e la prima cura affidatagli fu quella di sciogliere la lega formata contro la patria.

Il conte Ugolino univa a molta desterità una coscienza poco scrupolosa; e forse era egli il principale motore della alleanza de' Guelfi contro i suoi concittadini. A Firenze era risguardato come un dichiarato Guelfo, onde vedendolo alla testa della repubblica pisana si credette d'aver ottenuto, senza adoperar le armi, il trionfo del partito guelfo ch'era stato l'unico motivo della lega. Ugolino fece proporre ai priori delle arti di Firenze di negoziare con lui; e nelle stesso tempo mandò loro un regalo di vini, pretendendosi che tra le bottiglie ve ne fossero alcune piene di fiorini d'oro in cambio di vernaccia[18]. Offrì inoltre di cedere ai Fiorentini molte terre del territorio pisano, ed ottenne con questi mezzi di sciogliere la lega de' Guelfi coi Genovesi. Vero è che i Fiorentini, staccandosene, imposero ai Pisani la condizione d'esiliare tutti i Ghibellini dalla città, onde non rimanesse loro alcun asilo in tutta la Toscana.

Il conte tentò in appresso di trattare coi Genovesi, offrendo loro Castro in Sardegna come taglia de' prigionieri fatti nella battaglia della Meloria; ma i prigionieri, avuto avviso di questo trattato, ottennero dai Genovesi il permesso di mandare dei commissarj a Pisa per esprimere il loro voto. Introdotti questi nel consiglio, dichiararono di non poter acconsentire a così vergognosa capitolazione; che preferivano di morire in prigione piuttosto che permettere alla loro patria di privarsi d'un forte fabbricato dagli antenati loro, e difeso con tanto sangue e tanti travagli; che se i consigli potevano prendere una tanto colpevole risoluzione, non sarebbero essi prigionieri prima liberati, che si farebbero conoscere i più implacabili nemici di que' pusillanimi magistrati, castigandoli dell'avere sagrificato il proprio onore a vani e fuggitivi godimenti. In conseguenza di così magnanima risoluzione si abbandonò il trattato aperto coi Genovesi[19].

Allora il Conte Ugolino prese a trattar di pace colla repubblica di Lucca, la quale proponeva per condizione che i Pisani le cedessero i castelli d'Asciane, Avane, Librafatta e Viareggio. Non era probabile che i Pisani volessero cedere ai Lucchesi tante fortezze, le quali erano come la chiave del loro territorio, in tempo che non avevano voluto liberare undici mila de' loro cittadini, abbandonando ai Genovesi Castro in Sardegna: ma il conte Ugolino temeva in segreto il ritorno de' prigionieri ch'egli conosceva incapaci di prestarsi mai alla tirannide ch'egli meditava di stabilire; mentre per l'opposto desiderava di procurare non alla patria, ma alla sua famiglia l'appoggio e l'amicizia de' Lucchesi. Convenne perciò con questi che lascerebbe sorprendere dalle loro truppe le castella ch'essi chiedevano; e nello stesso tempo altri ne accordò ai Fiorentini, talchè più non restarono a Pisa che Motrone, Vico Pisano e Piombino.

Per tal modo credeva il conte Ugolino di avere assicurato in Pisa il suo potere; ma questa repubblica già così ricca e bellicosa, che ora vedevasi spogliata di tutto il suo territorio, che più non ardiva mettere un vascello in mare per paura che le fosse tolto dai Genovesi, e che per colmo delle sue sventure vedeva fondarsi entro le sue mura una nuova tirannide, non era in modo tollerante da soffrirne lungo tempo il giogo. Il conte rendevasi egualmente esoso ai Guelfi ed ai Ghibellini. Nino di Gallura, suo nipote, era il capo naturale della parte guelfa, quale erede della famiglia Visconti; ma poichè Ugolino erasi dichiarato protettore de' Guelfi, gli stessi Visconti sembravano avvicinarsi ai Ghibellini; e Nino, benchè fosse figliuolo d'una sorella del conte, non aveva perciò scordata l'antica rivalità delle famiglie de' loro padri. Ugolino ebbe sentore delle pratiche de' suoi nemici; esiliò molte famiglie ghibelline, e fece atterrare i palazzi di dieci delle principali famiglie di Pisa, che accusò di criminose intelligenze collo stesso partito.

Nino di Gallura, lungi dallo scoraggiarsi in vista di queste esecuzioni militari, strinse maggiormente i legami che aveva di fresco formati coi capi dei Ghibellini, i Gualandi ed i Sismondi, mentre il conte veniva sostenuto dai Gaetani e dagli Upezzinghi. Nino ardentemente desiderava la liberazione de' Pisani prigionieri in Genova, e perchè lo richiedeva il bene della repubblica, e per dare maggiore consistenza al suo partito. Prevedeva Ugolino all'opposto, che tornando questi prigionieri, si opporrebbero allo stabilimento della sua tirannide, e frapponeva ostacoli a tutti i trattati che Nino apriva coi Genovesi. Il giudice di Gallura tentò dì fare violenza al conte, chiamando il popolo a parte della sua causa: ed i suol partigiani si sparsero un giorno per le strade, gridando morte a tutti i nemici della pace; ma, contro la sua aspettazione, il popolo non prese le armi a quel grido, e la sua inazione equivaleva pel conte ad una vittoria. Allora Nino lo attaccò in una più legal forma, accusando innanzi ai consoli ed agli anziani delle arti il capitano generale, d'avere in onta delle leggi estesa la sua autorità, d'essersi attribuito l'ufficio di podestà e d'essersi impadronito del palazzo della Signoria, che non gli era stato accordato dal popolo. Effettivamente i magistrati impegnarono Ugolino a ritirarsi dal palazzo della Signoria, e si misero di mezzo per riconciliare i due capi di parte. Intanto venne nominato un nuovo podestà, e nel susseguente anno, senz'essere spogliato della carica di capitano generale, non potè per altro governare la città a suo arbitrio.

In aprile del 1287, la repubblica ricevette quattro nuovi deputati dei prigionieri di Genova, che venivano a trattare della pace e della taglia. Il trattato che essi proponevano, non ponendo verun'altra condizione alla loro libertà che il pagamento d'una somma di danaro, era stato sottoscritto dagli stessi prigionieri: pure passarono tredici mesi senza che a Pisa si fosse potuto ottenerne la ratifica, tanti erano gli ostacoli che il conte vi andava frapponendo. Intanto Ugolino erasi nuovamente impadronito del palazzo pubblico, cacciatone il podestà, e fattosi dichiarare capitano e signore di Pisa. Aveva prescelto per la inaugurazione il giorno della sua nascita, e, mentre tornando da un banchetto, rientrava in casa sua gonfio d'orgoglio ed inebbriato della propria fortuna, disse ad alcuno di coloro che gli erano vicini: «E bene, Lombardo, cosa mi manca ancora? — Non altro, quegli rispose, che la collera di Dio.» Ne tardò questa a colpirlo.

Vedendo il conte che il popolo era disposto ad approvare il trattato sottoscritto a Genova e che Nino di Gallura ed i Guelfi medesimi ne affrettavano l'esecuzione, commise ad alcuni corsari Sardi d'armare in corso contro i Genovesi in disprezzo della convenuta sospensione d'armi, ricominciando in tal modo le ostilità[20]. Volle in pari tempo ravvicinarsi ai Ghibellini di Pisa, e propose un'alleanza all'arcivescovo degli Ubaldini ch'erasi fatto loro capo, onde di concerto cacciare fuori di città Nino ed i Guelfi. Per altro, siccome non voleva affatto perdere presso i Fiorentini suoi antichi alleati la riputazione d'essere guelfo ancor egli, quand'ebbe tutto disposto perchè i suoi satelliti secondassero l'arcivescovo ed i Ghibellini, ritirossi al castello di Settimo per non essere presente alla imminente rivoluzione. Ruggeri degli Ubaldini fece rientrare in città i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi ed alcune altre famiglie ghibelline, gli unì alle truppe del conte, e per tal modo si trovò tanto superiore di forze al giudice di Gallura, che questi senza combattere si ritirò col suo partito a Calcinara.

(1288) Il popolo volle allora associare nel governo della repubblica l'arcivescovo Ruggeri al conte Ugolino; e forse era questa una delle segrete condizioni del trattato tra le due parti: ma Ugolino dichiarò orgogliosamente che non soffrirebbe compagno, e che non conosceva eguale. Insistevano invano i Ghibellini perchè alcuno del loro partito fosse messo a parte del governo; Ugolino voleva essere solo; onde l'arcivescovo nè meno ambizioso, nè meno dissimulato del conte, si ritirò dal palazzo della comunità ove il popolo l'aveva fatto entrare, senza mostrare verun risentimento o dar sospetto ad Ugolino d'aver cessato d'essere suo amico.

La prosperità, lungi dall'addolcire i tiranni, li rende d'ordinario suscettibili di più violenta irritazione quando incontrano la più leggera opposizione alla loro volontà; e non pertanto potrebbero ben gli uomini rimanere docilissimi sotto il despotismo, che non perciò cambieranno mai le leggi della natura, ed un tiranno in mezzo ai più costanti successi troverà ancora motivi d'impazienza. La guerra marittima, i diplomi civili, e, può darsi ancora, l'irregolarità delle stagioni, avevano accresciuto il prezzo de' grani e non erano facili a trovarsi: lagnavasene il popolo, ed accusava il conte dei cari prezzi delle derrate. Tale era intanto la violenza degl'impeti di collera d'Ugolino, che niuno osava fargli note le lagnanze del popolo, ed avvisarlo del pericolo cui potevano esporlo. Uno de' suoi nipoti incaricossi di così difficile incumbenza, e gli propose di sospendere il prezzo delle gabelle per minorare il prezzo de' viveri. Egualmente intollerante di rimproveri e di consigli, Ugolino, cavato il pugnale che teneva in seno, lo ferì in un braccio, ed avrebbe in quell'impeto di sdegno ucciso il nipote, se non gli fosse stato tolto dalle mani. Uno de' nipoti dell'arcivescovo, intimo amico del ferito giovane, nell'atto che gli fece scudo del suo corpo proruppe in rimproveri contro il conte, il quale, diventato furibondo, lanciò un'accetta, che gli venne tra le mani, sul capo del nipote dell'arcivescovo e lo stese morto ai piedi.

Ruggeri degli Ubaldini compresse il suo dolore e la sua collera finchè non si fu assicurato dell'ajuto di tutti i Ghibellini. Il primo di luglio essendosi adunato il consiglio nella chiesa di san Bastiano per deliberare intorno alla pace coi Genovesi, si separò senza aver nulla conchiuso, perchè il conte non lasciava di frapporre ostacoli all'esecuzione del trattato, a fronte delle istanze che andavano facendo caldissime i Ghibellini. Nell'uscire di chiesa l'arcivescovo fu avvisato che Nino, detto il Brigata, radunava battelli per andare in traccia dei Guelfi ed introdurli nuovamente in città; perchè l'arcivescovo non frapponendo più dimora, fece gridare all'armi dai Ghibellini suoi partigiani, e suonare a stormo la campana del popolo. I Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi si fecero intorno all'arcivescovo Ruggeri con parte degli Orlandi, dei Ripafratta e delle altre famiglie ghibelline. Il conte Ugolino con due suoi figliuoli e due nipoti, gli Upezzinghi, i Gaetani ed i suoi satelliti difendevano la piazza e le vicinanze di san Bastiano e di san Sepolcro. Dopo lungo combattimento essendo caduto morto un suo bastardo, e sembrandogli i Ghibellini più forti, si chiuse nel palazzo del popolo, che continuò a difendere dal mezzogiorno fino a sera. Gli assedianti alla fine si determinarono di appiccargli il fuoco, e penetrandovi in mezzo alle fiamme, fecero prigioni il conte Ugolino, i suoi minori figli Gaddo ed Uguccione, Nino, detto il Brigata, figliuolo di Guelfo, suo figliuolo allora assente, ed Anselmuccio figliuolo anche esso d'un altro suo figliuolo detto Lotto, ch'era morto.

Sono questi i cinque personaggi, di cui Dante rese tanto celebre la deplorabile morte. Dopo averli chiusi nella torre de' Gualandi alle Sette Vie sulla Piazza degli Anziani, l'arcivescovo passati alcuni mesi fe' gettare in Arno le chiavi della prigione, e non permise che fosse loro recato alcun cibo. L'orrore del suo supplizio fece dimenticare i delitti gravissimi di Ugolino, ed il suo nome rimase quasi unico esempio nella storia di un tiranno che ispira pietà, e che viene punito dal suo popolo più severamente che non meritassero le sue colpe. Dante racconta d'aver veduto Ugolino nell'inferno fra i traditori della patria entro ad un eterno ghiaccio, dal quale gli usciva soltanto il capo, ed avanti a lui stava il capo dell'arcivescovo Ruggeri di cui rodeva il cranio con avidità pari alla fame sofferta. Ugolino, interrogato da Dante, fa il patetico racconto delle terribili angosce patite negli ultimi suoi giorni dall'istante in cui aveva udito chiudersi l'orribile torre fino al nuovo giorno in cui perì di fame[21].

Per non interrompere la storia delle rivoluzioni pisane, abbiamo lungo tempo omesso di parlare delle cose di Napoli e di Sicilia che ne' medesimi anni provarono grandi rivoluzioni. I due re rivali, Carlo d'Angiò e Pietro d'Arragona, eransi obbligati, come l'abbiamo detto, a trovarsi il 15 maggio del 1283 a Bordeaux, cadauno accompagnato da cento cavalieri per decidere in campo chiuso la lite, e la validità de' loro diritti sul regno di Sicilia. Martino IV erasi opposto a questo combattimento giudiziario, che risguardava ad un tempo come impolitico e come irreligioso. Altronde Edovardo, re d'Inghilterra, che doveva guarentire il luogo della battaglia, vi si rifiutò, dichiarando in una sua lettera, tuttora esistente, che non darebbe per tale oggetto sicurezza in verun luogo de' suoi dominj, quand'anche dovesse con ciò guadagnare i due regni d'Arragona e di Sicilia[22]. Non per questo Carlo d'Angiò si preparò alla pugna con minore passione; ed il giorno prefisso, Filippo l'ardito, re di Francia, s'avanzò fino ad un giorno di cammino da Bordeaux con un magnifico seguito di signori ed un corpo di tre mila uomini d'armi, mentre Carlo entrò in città accompagnato dai cento cavalieri che dovevano combattere con lui. Allora il re d'Arragona dichiarò che il campo chiuso non era bastantemente guarentito, che non eravi per lui sufficiente sicurezza avanzandosi fino a Bordeaux, finchè l'armata del re francese trovavasi in tanta vicinanza, e che non mancherebbe di recarvisi tosto che Filippo farebbe ritirare le sue truppe. Aggiungono molti che vi andò in persona il 15 maggio per soddisfare al suo giuramento, e che travestito si presentò al siniscalco d'Inghilterra, dichiarando ch'egli non si vedeva in Bordeaux abbastanza sicuro, onde si teneva sciolto della sua promessa; dopo di che ripartì di galoppo facendo novanta miglia sulla strada d'Arragona senza prendere riposo[23].

Il divieto papale, l'assenza del re d'Inghilterra che doveva presiedere alla pugna, e la vicinanza dell'armata francese, erano certamente plausibili motivi per rifiutarsi d'entrare in campo chiuso; ma pare che Pietro fosse contento di avere trovati questi pretesti per non procedere ad un combattimento, i di cui apparecchi gli avevavo fatto guadagnare il tempo che gli abbisognava. Prima che giugnesse il giorno del combattimento, il papa per non pregiudicarsi, lasciando alla decisione delle armi una causa che credeva devoluta al suo tribunale, pronunciò in data del 15 marzo una sentenza di deposizione contro Pietro d'Arragona; dichiarando che non solamente Pietro d'Arragona non aveva alcun diritto sul regno di Sicilia, ma che in pena dell'averlo occupato con frode e in disprezzo della protezione della Chiesa e delle proprie obbligazioni verso san Pietro, di cui era vassallo, veniva privato del suo regno ereditario d'Arragona, ed i suoi stati abbandonati al primo che gli occupasse. In appresso quando Martino IV ebbe avviso che Pietro aveva mancato al combattimento, e che i re di Francia e di Napoli, risguardandosi come beffati da lui, erano fieramente sdegnati, confermò la sua sentenza di deposizione, ed investì del regno d'Arragona Carlo di Valois secondo figlio del re Filippo[24].

Tutte le indulgenze della Chiesa, e tutti i suoi favori furono promessi a coloro che ajuterebbero la casa di Francia nella conquista di questo nuovo regno; e si giunse perfino a predicare una crociata in favore di Carlo di Valois. Ma perchè i principi francesi avevano più a cuore la Sicilia che l'Arragona, il re Carlo nel presente anno non si occupò che degli apparecchi necessarj per far l'impresa di quell'isola; e nel mese di maggio del 1284 partì dai porti di Provenza alla volta di Napoli con cinquantacinque galere armate e tre grosse navi cariche di truppe.

Ruggeri di Loria, grande ammiraglio di Sicilia, avendo avviso della vicina venuta di Carlo, si recò in faccia a Napoli con quarantacinque galere, dopo avere corse le coste del principato per provocare alla battaglia Carlo detto lo Zoppo, principe di Salerno, e figliuolo del re, che governava il regno in assenza del padre. Questo principe non sostenne gli oltraggi de' Siciliani e de' Catalani che accusavano i Francesi di codardia; fece mettere alla vela venticinque galere che teneva nel porto, e andatovi a bordo con tutti i suoi cavalieri francesi e provenzali, si fece incontro all'ammiraglio siciliano, malgrado il comando espresso del padre che gli vietava di combattere. In fatti egli era troppo debole da cimentarsi con quell'ammiraglio, il più esperto e fortunato del suo secolo; i suoi soldati erano similmente in numero e in zelo minori di quelli del Loria, e meno avvezzi al mare: perciò dopo il primo attacco, fuggirono le galere di Sorrento e del principato, facendo forza di remi. Furono dalla flotta siciliana prese otto navi francesi sulle quali trovavasi lo stesso principe con tutti i suoi più ricchi baroni.

Accadde che, mentre Ruggeri di Loria manovrava in parata, dopo così glorioso fatto, innanzi al porto di Napoli, credendo gli abitanti di Sorrento che quella battaglia deciderebbe della sorte della casa Angioina, spedirono deputati all'ammiraglio per complimentarlo ed offrirgli frutta e denaro. I deputati, saliti sulla nave dell'ammiraglio, e veduto il principe Carlo riccamente vestito in mezzo a' suoi baroni, credettero che fosse Ruggeri di Loria, onde prostrati innanzi a lui gli offrirono i fichi e le duecento monete d'oro che avevano portato, e gli dissero: «Messere l'ammiraglio, aggradisci dal comune di Sorrento queste frutta e queste monete, e sappi che noi fummo i primi a dare a' tuoi nemici il segno della fuga. Piacesse a Dio, che come prendesti il figliuolo, così avessi tu preso anche il padre.» Carlo, quantunque afflitto da tanta sciagura, non potè trattenersi di ridere dell'equivoco: «Per Dio, gridò, guarda sudditi fedeli a monsignore il re[25]

Carlo d'Angiò si sforzò di non mostrarsi abbattuto dall'avviso di questa disfatta, che ricevè quasi subito, trovandosi la sua flotta innanzi a Gaeta il giorno dopo la battaglia: ma si vendicò del poco affetto che gli aveano mostrato i Napoletani, facendone appiccare più di centocinquanta; colla quale crudele esecuzione pretendeva d'aver fatto grazia a Napoli, che a suo credere meritava d'essere distrutta. Fissò per luogo di unione delle sue tre flotte di Provenza, di Salerno e di Puglia, Concione in Calabria; ed egli andò per terra a Brindisi per affrettare l'armamento dell'ultima.

Frattanto il papa, sulla domanda del re Carlo, aveva spediti due cardinali in Sicilia per conferire coi ribelli, e liberare se era possibile l'unico suo figliuolo, loro prigioniero. Carlo sotto il peso delle traversie, che da due anni lo perseguitavano incessantemente, aveva alquanto perduto di quel fermo ed intrepido carattere che aveva sempre mostrato, e di quella confidenza nella propria fortuna, cui più che a tutt'altro era debitore delle altre sue qualità. Quantunque avesse sotto i suoi ordini una flotta di centodieci vascelli, si lasciò aggirare dai negoziati de' Siciliani, e passò l'estate senza far nulla. La mancanza di vittovaglie e l'avvicinarsi dell'equinozio l'obbligarono a tornare a Brindisi. Nell'inverno andò in Puglia, ammassando danaro, vittovaglie ed uomini, per rinnovare in primavera la guerra con maggior vigore; ma un amaro presentimento della sua rapida decadenza e del trionfo di nemici che aveva prima disprezzati, lo rodevano internamente. Lo sforzo che egli faceva per comprimere il suo dolore ed il suo scoraggiamento, guastavano la sua salute; sicchè cadde finalmente infermo a Foggia. Le ultime sue parole furono dirette all'ostia sacra nell'atto di ricevere la comunione nel suo letto della morte. «Signore Iddio, diss'egli, io credo veramente che tu sei il mio salvatore, onde ti prego ad aver pietà della mia anima. E così com'io feci la conquista della Sicilia più per servire alla santa Chiesa, che pel mio interesse, o per altra cupidigia, tu perdonami i miei peccati[26].» Morì poco dopo il giorno 7 di gennajo del 1285 in età di sessantacinque anni, dopo averne regnato diecinove in Napoli. Malgrado la testimonianza che rendeva a sè medesimo negli ultimi istanti di vita, non possiamo facilmente credere che un uomo tanto ambizioso e crudele non avesse altro scopo nelle ingiuste conquiste che costarono tanto sangue, che la gloria di Dio.

La sua morte precedette di poco quella de' principali monarchi, che come suoi amici, o rivali, avevano con lui travagliata l'Europa. Filippo V l'ardito, dopo una rovinosa campagna in Arragona, morì a Perpignano il 6 ottobre dello stesso anno; Pietro d'Arragona cessò di vivere a Barcellona l'otto di novembre per le ferite avute nella stessa campagna; e Martino IV, fedele creatura e cieco strumento di Carlo, era morto il 25 marzo dello stesso anno a Perugia.

Il principe di Salerno, erede del regno, trovavasi prigioniero degli Arragonesi, che dalla Sicilia lo avevano trasportato in Catalogna; sicchè fu il suo figlio primogenito, allora in età di soli dodici in tredici anni, che prese possesso del regno sotto la direzione di Roberto conte d'Artois, suo cugino, e d'un consiglio di baroni francesi. In tale occasione papa Onorio IV, successore di Martino, pubblicò una bolla intorno al governo del regno e per riformare gli abusi che vi si erano introdotti[27]. D'altra parte don Giacomo, il secondo figliuolo di Pietro d'Arragona, fu incoronato re di Sicilia, mentre il fratello maggiore ereditava gli stati paterni nelle Spagne: e la lotta del mezzo giorno d'Italia che aveva cominciato a guisa d'una guerra di giganti, si prolungò molti anni fra deboli principi, i di cui fatti più non meritano l'attenzione dell'Europa.

La debolezza della casa d'Angiò agevolò alla repubblica fiorentina i mezzi d'impadronirsi dell'amministrazione della parte guelfa fin allora diretta dal re di Napoli, e di chiamare a sè i negoziati di tutta la fazione. Ma la repubblica fiorentina in tempo che acquistava tanta influenza sulle altre province d'Italia, non era meno delle repubbliche sue rivali travagliata da intestine discordie. Lo zelo che i Fiorentini mostrarono in favore della loro patria, cui, sacrificando vita ed averi, innalzarono ad un grado di potenza assai superiore alle loro ricchezze ed alla popolazione, era un risultamento del loro amore di libertà, di quella sediziosa democrazia che, solleticando l'amor proprio e le passioni d'ogni classe di persone, le rendeva tutte energiche e valorose.

L'anno 1282 fu quello in cui i Fiorentini fissarono quella forma di governo che poi mantennero fino alla caduta della repubblica, e della quale sussistono anche al presente alcune istituzioni. Io intendo parlare dei priori delle arti e della libertà, il cui collegio ebbe il nome di Signoria. Il governo di Firenze, dopo che il cardinal Latino vi potè stabilire la pace interna, venne affidato a quattordici savj, otto guelfi e sei ghibellini. Da questa forma di reggimento, il di cui potere esecutivo era affidato ad un consiglio troppo numeroso per agire di perfetto accordo, ad un consiglio che fino dalla sua istituzione medesima aveva in sè gli elementi della discordia e dove regnava lo spirito di parte, pareva derivarne danno allo stato: inoltre la gelosia della plebe verso i grandi riusciva pure pregiudicevole a questo collegio, ove trovavansi molti gentiluomini; e perciò si andava dicendo che d'una repubblica mercantile dovevano averne l'amministrazione i soli mercanti. Quindi i Fiorentini verso la metà di giugno del 1282 istituirono una nuova magistratura affatto democratica, i di cui membri ebbero il titolo di priori delle arti, per indicare che l'assemblea de' primi cittadini d'ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. Nella prima elezione non furono ammessi tutti i mestieri indistintamente alla prerogativa di dare i capi allo stato. La prima volta ebbero quest'onore tre sole arti, risguardate come le più nobili; ma nella seconda elezione (cioè due soli mesi dopo, perchè l'elezioni dovevano rinnovarsi tutti i due mesi) si raddoppiò il numero de' priori, onde ognuna delle sei arti maggiori, a cadauna delle quali corrispondeva un quartiere della città, avesse il suo priore. L'arte dei giudici e de' notaj, che per altri rispetti aveva parte nel governo, fu la sola non chiamata a dare priori alla repubblica.

Tutto il potere esecutivo e la rappresentanza dello stato fu data a sei priori. Per tenerli uniti ed accrescerne la vicendevole benevolenza, furono chiamati a vivere insieme, spesati dal pubblico ed alloggiati nel suo palazzo. Finchè rimanevano in carica non si permetteva loro d'uscire di palazzo, diventato ad un tempo carcere pei priori e fortezza per lo stato[28]. Ma o sia affinchè questa vita interamente pubblica non tenesse troppo tempo lontani i mercanti dai loro affari, sia perchè non avessero tempo di maturare ambiziosi progetti e di aspirare alla tirannide, o perchè si facesse luogo ad un maggior numero d'aspiranti, la durata d'ogni signoria fu fissata a due mesi, dopo i quali, coloro che uscivano di carica, non potevano nè raffermarsi, nè rieleggersi se non passati due anni[29]; di modo che il governo rinnovavasi tutt'intero sei volte all'anno nella repubblica fiorentina, ed in tutte le altre che tosto ne adottarono la costituzione.

I priori uniti ai capi ed ai consigli di tutte le arti maggiori e ad un determinato numero d'aggiunti che sceglievano essi medesimi in tutti i quartieri della città, eleggevano i nuovi priori. Questo consiglio d'elezione nominava a squittinio segreto ed a pluralità di suffragi. In seguito si fecero eleggere da una commissione, o balìa, tutti gl'individui che dovevano successivamente per tre o per cinque anni esercitare il priorato, facendone dipendere l'ordine dalla sorte. Siccome molti gentiluomini erano mercanti, e facevano parte delle arti e mestieri, non furono a principio esclusi dalla signoria; ma un governo di mercanti, lo spirito di corpo e la gelosia di quest'ordine di cittadini doveva provocare, e provocò ben tosto l'esclusione assoluta di tutti i gentiluomini dalle cariche del governo.

L'anno susseguente i Sienesi, imitando i Fiorentini, abolirono il consiglio de' quindici magistrati che governava la loro città, e vi sostituirono la nuova signoria, che chiamarono i nove governatori e difensori della comunità e del popolo di Siena, o più brevemente, i nove. Come i priori di Firenze, furono ancor essi uniti nello stesso palazzo, e nudriti alla medesima mensa, fissata la durata delle loro funzioni a due mesi, e scelti nell'ordine de' mercanti, essendone assolutamente esclusi i nobili. Questo modo di limitare la scelta ad una sola condizione, che pure non era la principale dello stato, diede origine ad una nuova oligarchia, ad una oligarchia plebea, che in Siena chiamossi l'ordine dei nove, perchè i mercanti che si erano appropriato il governo, escludendone i nobili ed il popolo, formarono in seguito un registro dei nomi delle famiglie che stimavano ammissibili all'elezione dei nove difensori. Gl'iscritti su questo registro formarono a Siena una casta particolare non meno orgogliosa della nobiltà, non meno ambiziosa, non meno avida del potere esclusivo, e perciò non meno di quella esposta alla gelosia del popolo e spesso alle sue persecuzioni[30].

La gelosia del popolo verso la nobiltà aveva fatta nascere anche in Arezzo una somigliante rivoluzione; ma perchè questa città era meno popolata, ed i nobili proporzionatamente più forti e protetti dal vescovo Guglielmo degli Ubertini, del 1287 fecero nascere una controrivoluzione, la quale, rimettendo nelle loro mani tutto il governo, li consigliò a dichiararsi pel partito ghibellino che in tale epoca era oppresso in tutta la Toscana. I gentiluomini ed i Ghibellini perseguitati rifugiaronsi in Arezzo; perchè i Fiorentini, i Sienesi e tutta la lega guelfa, vedendo innalzarsi in tanta vicinanza lo stendardo dell'aristocrazia e del partito ghibellino, dichiararono la guerra a quella città[31].

Del 1288, poco dopo quella d'Arezzo, scoppiò la rivoluzione di Pisa, della quale si è detto di sopra in questo capitolo: il conte Ugolino fu gettato in prigione, e la repubblica dichiarossi pel partito ghibellino, cui il popolo aveva in ogni tempo segretamente aderito. E per tal modo due prelati, Ruggeri degli Ubaldini arcivescovo di Pisa, e Guglielmo degli Ubertini vescovo d'Arezzo, trassero di concerto nel medesimo tempo le due città alle spirituali loro cure affidate nella fazione opposta alla Chiesa. Per altro i Pisani, per essere più in istato di sostenere la guerra loro dichiarata dalla lega toscana, chiamarono il conte Guido di Montefeltro, e lo nominarono loro capitano. Aveva costui acquistata opinione di valoroso guerriero nella difesa di Forlì contro il conte d'Appia, ma in appresso era stato obbligato a pacificarsi colla Chiesa, ed a ritirarsi in Piemonte nella città d'Asti assegnatagli come luogo del suo esilio.

Nel 1289 la fortuna non mostrossi egualmente favorevole alle due città ghibelline nella guerra ch'ebbero a sostenere contro la lega toscana: gli Aretini, dopo essere rimasti vittoriosi dei Sienesi, furon rotti dai Fiorentini a Certomondo presso di Campaldino nel Casentino il giorno 11 giugno del 1289, perdendo due mila quattrocento quaranta uomini tra morti e prigionieri. Contavasi tra i primi il vescovo Guglielmo degli Ubertini, il fiore della nobiltà aretina, ed i principali ghibellini emigrati da Firenze. Ma coloro che salvaronsi dalla strage, essendo entrati in Arezzo, posero la città in tale stato di difesa, che l'armata combinata di Firenze e di Siena non potè impadronirsene[32].

Intanto i Pisani condotti dal bravo conte di Montefeltro, malgrado l'infinita superiorità de' nemici, tra i quali contavansi pure il giudice di Gallura, i partigiani del conte Ugolino e tutti i Guelfi fuorusciti di Pisa; e malgrado che i Genovesi ritenessero undici mila valorosi pisani nelle loro prigioni, trattarono la guerra quasi sempre con prospero successo, ricuperando per sorpresa o di viva forza quasi tutte le castella del loro territorio[33]. Il conte ch'era stato ad un tempo nominato podestà e generale delle armate per tre anni col soldo di dieci mila fiorini all'anno e con obbligo di seco condurre cinquanta uomini d'armi e trenta scudieri, incominciò dal cambiare l'armatura dell'infanteria; indi formò un corpo di tre mila balestrieri, che diligentemente addestrò all'armi per lo spazio di due mesi; talchè quei pedoni, risguardati fin allora come truppe di niun conto, diventarono formidabili alla stessa cavalleria, e sotto alla sua condotta ebbero fama d'essere i migliori balestrai di Toscana[34]. In appresso pose su tutti i cittadini un'imposta di guerra per assoldare in comune un corpo di cavalleria; e mantenendo viva corrispondenza con quasi tutte le castella del vicinato, colla rapidità delle sue manovre, e coi suoi prosperi successi, impose in modo alla lega toscana de' Guelfi, che l'anno 1293 dovette accordare alla repubblica pisana onorevole pace. I Fiorentini ottennero franchigia da ogni gabella nel porto di Pisa; i Guelfi furono rimessi in possesso de' loro beni, e, tranne poche castella lasciate ai Lucchesi, la repubblica di Pisa ricuperò i suoi antichi confini[35].

Per altro la pace dai Fiorentini accordata ai Pisani non dovevasi alle sole armi del conte Guido di Montefeltro, ma ancora alle interne turbolenze della città di Firenze. Le antiche famiglie guelfe dopo lo stabilimento dei priori delle arti e della libertà, non eransi mai riunite per ricuperare quella influenza sul governo, di cui erano state spogliate; anzi ogni casa nobile era in guerra con altra egualmente nobile, e la città sempre turbata dai reciproci insulti e dai privati loro combattimenti[36]. Queste dissensioni facevano perdere ai gentiluomini ogni influenza nel governo della loro patria, ed il popolo non aveva motivo di nutrire gelosia verso un ordine che aveva così poca politica; ma se la nobiltà non dava al governo coll'inconseguenza delle sue intraprese ragionevole motivo di gelosia, non lasciava di provocare la collera del governo e dei cittadini con passaggere violenze, e coll'abituale disprezzo dell'ordine e delle leggi. Ogni famiglia nobile avrebbe creduto d'avvilirsi assoggettandosi ai tribunali; e se alcun suo individuo veniva arrestato dal capitano del popolo o tratto in giudizio, tentava di liberarlo a mano armata, senza curarsi di sapere qual delitto avesse commesso. Non eranvi più trasgressioni personali, perchè un'intera famiglia s'associava sempre al delitto ed agli sforzi del colpevole per sottrarsi al castigo. Il governo sentivasi troppo debole per lottare contro questi potenti avversarj, onde tutte le violenze usate dalla nobiltà alla plebe rimanevano sempre impunite. Finalmente il popolo, irritato da tanti insulti privati della nobiltà, si dispose di volerla in tutto reprimere con tali severissime leggi, che, fino a quest'epoca, in veruna repubblica, non era stato assoggettato a così tirannico ed arbitrario trattamento il primo ordine dello stato.

Era in Firenze un gentiluomo chiamato Giano della Bella, il quale, comechè discendesse da una delle più nobili famiglie toscane, o per non avere una fortuna proporzionata alla sua ambizione, o perchè i disordini di cui la nobiltà si rendeva colpevole gli avessero ispirato avversione, rinunciò ai privilegi de' suoi natali per associarsi al popolo contro la sua casta[37]. Essendo Giano uno de' priori delle arti, approfittò dell'opportunità d'un'assemblea del popolo, o parlamento, per arringare sulla pubblica piazza i suoi concittadini[38]. Domandò loro in nome della libertà di voler mettere fine all'insubordinata insolenza dei nobili ed agl'insulti cui erano i plebei continuamente esposti. Accusò i nobili di esercitare l'assassinio a mano armata, di strappare i querelanti davanti ai tribunali, di allontanarne a forza i testimoni, d'incutere timore agli stessi giudici e di sospendere o distruggere le leggi. Domandò altamente che la podestà pubblica si rendesse superiore alle forze private che osavano di starle a fronte; che si punissero l'intere famiglie, poichè queste non volevano abbandonare gl'individui alla correzione dei tribunali; che si rendesse la signoria più forte, chiamando il poter militare in soccorso dell'autorità civile; e che si organizzassero in modo le guardie borghesi da non abbandonare giammai il palazzo de' priori delle arti e della libertà[39].

Il popolo in conseguenza di questo discorso nominò una commissione per riformare gli statuti della repubblica e reprimere colle leggi l'insolenza de' nobili. Una famosa ordinanza, conosciuta sotto il nome di Ordinamenti della Giustizia, fu l'opera di questa commissione[40]. Per la conservazione della libertà e della giustizia sanzionò la più tirannica ed ingiusta giurisprudenza. Trentasette famiglie delle più nobili e più rispettabili di Firenze furono per sempre escluse dal priorato, senza che loro potess'essere in avvenire permesso di ricuperare i diritti della cittadinanza, facendosi inscrivere sulla matricola di alcun corpo di mestiere, o esercitando qualunque professione[41]. Questa esclusione appoggiavasi al favore che i nobili, dicevasi, accordavano sempre agli altri nobili; si accusavano di avere inceppate le operazioni della signoria, la quale non fece mai verun atto vigoroso qualunque volta qualche gentiluomo sedette coi priori. Si autorizzò inoltre la signoria ad aggiugnere nuovi nomi d'esclusione qualunque volta alcun'altra famiglia, seguendo le orme della nobiltà, meritasse d'essere egualmente punita[42]. I membri di queste trentasette famiglie furono additati anche nelle leggi col nome di grandi e di magnati; e per la prima volta videsi un titolo d'onore convertito non solamente in un peso oneroso, ma in castigo. Fu dalla medesima ordinanza stabilito che quando un grande si farebbe reo di qualche delitto, la voce pubblica attestata da due probe persone, sarebbe pel tribunale sufficiente prova a convincere e condannare il prevenuto, poichè fin allora la violenza de' gentiluomini aveva allontanati i querelanti dal palazzo della giustizia e costretti a tacere i testimonj. Per ultimo i complici di coloro che turbassero l'ordine pubblico, si associavano nelle pene ai principali colpevoli[43].

Per eseguire questa nuova giurisprudenza si divisero i borghesi in venti compagnie, ognuna di cinquant'uomini e indi a poco di duecento; e fu assegnata ad ogni compagnia la sua piazza d'armi e la sua bandiera. Furono poi tutte assoggettate ad un nuovo ufficiale, chiamato confaloniere o porta bandiera della giustizia[44]. Il confaloniere era un ufficiale civile e non militare, il quale non ispiegava la bandiera in guerra contro i nemici dello stato, ma soltanto nelle spedizioni, per riunire sotto le insegne nazionali gli amici dell'ordine e della libertà. Quando appendeva alle finestre del palazzo pubblico, in cui abitava coi priori, il confalone della giustizia, i capi d'ogni compagnia dovevano adunare i loro uomini e raggiugnerlo. Allora usciva dal palazzo alla testa di questa milizia nazionale, attaccava i sediziosi e puniva i colpevoli.

Il primo confaloniere fu nominato dai priori, e perciò rimase loro subordinato; ma l'importanza delle sue funzioni lo fece ben tosto risguardare da prima come loro eguale, poscia come superiore, come il capo della repubblica ed il rappresentante della sua maestà. Eletto collo stesso metodo dei priori, per rimanere in carica soltanto due mesi come i primi, ed alloggiato insieme nel palazzo pubblico, mise a numero il collegio della signoria. Non dobbiamo veramente giudicare dai titoli dell'eccellenza d'un governo; ma pure non può non riconoscersi un certo che di nobile nella scelta di quelli adoperati dalla repubblica fiorentina. La giustizia, la libertà, la bontà, tutte le virtù pubbliche erano chiamate colle arti al governo, e lo stato veniva amministrato dal confaloniere della giustizia, dai priori delle arti e della libertà e dal collegio de' buonomini.

L'uno de' primi confalonieri di Fiorenza, e ad un tempo il più elegante scrittore italiano del tredicesimo secolo, ispirò un profondo terrore ai gentiluomini eseguendo la più importante funzione della sua carica. Alla testa delle compagnie del popolo spianò le case dei Galigai[45] per aver uno di quella famiglia ucciso in Francia un cittadino fiorentino. Per altro i grandi si riebbero ben tosto dal concepito spavento, e trovarono il modo di porsi in sicuro dalla furia popolare, e sopra tutto di vendicarsi di Giano della Bella, che risguardavano quale disertore e traditore del suo ordine e del suo partito. Scoprirono che molti dei più riputati cittadini erano gelosi della sua influenza; che questi per isfogare il loro odio contro la nobiltà, erano di sentimento non poter eccepire lo stesso gentiluomo demagogo che aveva abbassati i suoi compagni; videro che il suo rango, di cui pareva averne fatto sacrificio, se gli accresceva riputazione presso la plebe, lo rendeva esoso in faccia ai capi della cittadinanza. Si avvicinarono a questi ultimi, e l'odio comune fu il cemento della loro unione.

Giano della Bella godeva troppa riputazione presso il popolo perchè potess'essere vantaggiosamente attaccato a forz'aperta, onde la proposizione fatta da Berto Trescobaldi di ucciderlo in una sommossa venne disapprovata come pericolosa. Si preferì piuttosto di approfittare dei difetti del suo spirito e delle qualità del suo carattere per alienargli i suoi partigiani. Giano era incapace di transigere tra il suo interesse e la severità de' suoi principj. Alcuni uomini, ch'egli credeva suoi amici, gli rappresentarono gli abusi introdottisi nell'ordine de' giudici e de' notaj, il modo con cui spaventavano il podestà ed i rettori, minacciandoli di un'estrema severità nel sindacato, di cui venivano incaricati quando i rettori uscivano d'ufficio, e le ingiuste grazie che con tal mezzo essi ottenevano da loro. Giano intraprese subito a reprimere colle leggi così perniciosi abusi, e con tale tentativo s'inimicò il potente e numeroso ordine de' giudici e de' notaj.

Quanto quest'ordine aveva di credito innanzi ai tribunali, altrettanto ne acquistava la corporazione de' macellai in tutte le sommosse: erano questi gente accostumata al sangue, che niente intimidiva e che nelle sedizioni era pronta sempre a pigliar le armi. Si stimolò Giano a rivedere gli statuti de' macellai ed a reprimere le frodi che commettevano; per tal modo egli si creò de' nemici ardenti e pericolosi in mezzo a quella plebe medesima che gli era così ben affetta. Siccome si andava sollecitandolo con nuove denuncie a farsi nuovi nemici, lo storico Dino Compagni, che aveva scoperte le perfide mire di coloro che lo consigliavano, ne fece parte a Giano, pregandolo di rinunciare per alcun tempo ad una pericolosa severità. «Pera piuttosto, rispose, la repubblica, ed io con lei, anzi che soffrire l'iniquità per un miserabile privato interesse, anzi che distruggere la vera libertà con vile tolleranza»[46].

Frattanto i nemici di Giano nella nuova elezione de' priori ottennero di far cadere la scelta sopra sei de' principali capi di quella aristocrazia plebea ch'era subentrata alla nobiltà. Tosto che costoro furono in carica, aprirono innanzi al capitano del popolo un'inquisizione intorno alla condotta di Giano della Bella, accusandolo d'avere in segreto eccitata un'insurrezione, che aveva avuto luogo pochi mesi prima.

Da prima la plebe parve irritarsi per somigliante accusa; si adunò intorno alla casa di Giano esibendogli di prendere le armi in sua difesa quand'anche avesse dovuto per ciò impadronirsi della città: il fratello di Giano si recò pure collo stendardo del popolo fino ad Orsanmichele, lontano duecento passi dal palazzo della signoria. Ma Giano avvedendosi di essere tradito da coloro stessi che d'accordo con lui avevano innalzata la potenza del popolo, e che i suoi nemici erano potenti e riuniti in armi avanti al palazzo dei priori, non volle esporre la patria sua ad una guerra civile, nè presentarsi al tribunale de' giudici la cui equità eragli per lo meno sospetta. Cedette adunque ed uscì di Firenze il 5 marzo del 1294, sperando che il popolo non tarderebbe a richiamarlo; ma invece fu condannato dal capitano del popolo e morì in esilio[47]. «Fu per contumacia condannato nella persona e sbandito, e morì in esilio, e tutti suoi beni disfatti, e certi altri popolani con lui; onde di lui fu grandissimo danno alla nostra città e massimamente al popolo, però ch'egli era il più leale uomo e diritto popolano di Firenze, amatore del bene comune, e quelli che mettea in comune non ne traeva. Era presuntuoso e voleva le sue vendette fare, e fecene alcuna contro gli abati suoi vicini col braccio del comune, e forse per li detti peccati fu per le sue leggi medesime, ch'avea fatte, a torto e senza colpa per li non giusti giudicato. E nota che questo è grande esemplo a quelli cittadini, che sono a venire, di guardarsi di non volere essere signori di loro cittadi, nè troppo presuntuosi.... Di questa novitade ebbe grande mutazione e turbazione il popolo e la città di Firenze, rimanendo al governo de' popolani grossi e possenti[48] ».

CAPITOLO XXIV.

Pontificato di Bonifacio VIII. — Il partito guelfo si divide in due fazioni dei Bianchi e dei Neri. — I Bianchi perseguitati si uniscono ai Ghibellini.

1294 = 1303. Appena nel precedente capitolo abbiamo avuto occasione di nominare i pontefici che governarono la Cristianità, perchè nello spazio di dieci anni la loro influenza fu quasi nulla rispetto all'Italia, sia che non potessero tra le civili rivoluzioni delle repubbliche acquistare sulle medesime quell'ascendente che avevano avuto ne' gabinetti de' principi, o sia che la successione di molti papi, che tutti morivano pochi mesi dopo la loro elezione, scemasse alla sede pontificia gran parte della sua potenza. Dopo Martino IV, Onorio IV della nobile famiglia de' Savelli di Roma, regnò due anni[49]. Attratto dalla gotta, incapace di levarsi, di sedere, d'aprire o chiudere le mani, era stato obbligato, per celebrare la messa e adempirne le funzioni, di far fare una macchina che lo alzava, lo abbassava e lo volgeva verso l'altare o verso il popolo, mentre un altro meccanismo suppliva alle sue dita per sostenere l'ostia. Pure in mezzo alle sue infermità questo papa possedeva un'eloquenza persuasiva ed uno spirito vigoroso; ma non impiegò i suoi talenti ed il suo potere che ad arricchire i Savelli di Roma suoi congiunti[50]. Dopo un interregno di alcuni mesi, gli fu dato per successore il cardinale ministro de' frati minori, che prese il nome di Nicolò IV. Questi regnò quattr'anni[51], duranti i quali pare che non si prendesse altra cura che quella di colmare di ricchezze e d'onori i Colonna di Roma, come il suo predecessore aveva fatto pei Savelli. Ne' libelli di quel tempo venne questo papa rappresentato in atto di uscire a stento da una colonna di marmo, colla testa coronata da una mitra, mentre due colonne situate innanzi a lui gli toglievano la vista degli oggetti[52]. Non si conoscono i motivi dell'affezione di questo papa verso la casa Colonna colla quale non aveva legame di sangue. Anche in quell'epoca i Colonna erano annoverati tra le antiche famiglie nobili, ma la loro potenza territoriale nel patrimonio di san Pietro ed il loro credito presso la corte pontificia non ebbero cominciamento che sotto questo papa[53].

Alla morte di Nicolò IV tenne dietro un interregno di due anni e pochi mesi, ne' quali molti cardinali morirono di febbre occasionata dal cattivo aere della campagna romana, altri giacevano infermi della medesima malattia. Frattanto eransi manifestate sediziose sommosse in Roma e nello stato della Chiesa, le quali accrescevano l'inquietudine che un così lungo interregno cagionava di già ai fedeli. Un giorno il cardinal Latino, vescovo d'Ostia, fece un discorso nell'adunanza de' cardinali, scongiurandoli ad unirsi di sentimento per dare un capo alla Chiesa, avvertendoli a non illudersi intorno ai manifesti segni dell'ira del cielo; ed avvisandoli che un sant'uomo aveva avuta una visione nella quale tutti erano minacciati della morte, se nel termine di due mesi non si riunivano i loro suffragi per collocare un papa sulla cattedra di san Pietro. È questa senza dubbio, soggiunse ironicamente il cardinale Benedetto Gaietani, che fu poi Bonifacio VIII, «è questa una delle solite visioni del vostro Pietro di Morone. — Egli è il vero, replicò il cardinal Latino, è una rivelazione fatta a questo uomo di Dio, che i doni dello Spirito Santo fanno così degno di comandare ai fedeli[54]

Queste parole ottennero sui cardinali di già scossi l'effetto d'una divina ispirazione. Coloro che non conoscevano Pietro di Morone, seppero dagli altri che questo vecchio religioso dell'ordine di san Benedetto viveva di lemosine, facendo vita eremitica sul monte di Motrone presso Sulmona nell'Abruzzo Citeriore; che colà nella miserabile sua cella macerava il suo corpo coi più rigorosi digiuni e le più austere penitenze; che la riputazione di sua santità era appoggiata ai miracoli, cui in allora davasi intera fede. Alcuni accertavano ch'era venuto al mondo vestito con un abito da monaco; altri che Gesù Cristo era disceso da una croce per cantare con lui i salmi; altri infine che una celeste armoniosa campana lo risvegliava ogni notte all'ora della preghiera[55].

Il cardinal Latino fu il primo a dare il suo voto al venerabile eremita, ed il suo esempio fu all'istante seguito dagli altri, onde Pietro Morone fu eletto papa a pieni voti. Gli si mandarono un arcivescovo e due vescovi per partecipargli la seguìta elezione. Il povero eremita, vedendo arrivare que' prelati di un rango tanto superiore al suo, si gittò alle loro ginocchia; ed i prelati anch'essi si prostrarono chiedendo la benedizione al nuovo papa. Quando gli si potè far intendere il sorprendente cambiamento del suo stato, tentò di sottrarsi colla fuga a tanti onori; ma la gente che accorreva da ogni banda per vedere un mendico trasformato in sovrano, gli chiuse la via e lo sforzò a tornare alla sua celletta[56].

Il nuovo papa potè contare due re tra la folla che venne a vederlo, Carlo II re di Napoli, che già da sei anni era stato posto in libertà dagli Arragonesi mediante un trattato di pace che poi non osservò, perchè il papa lo dispensò dagli emessi giuramenti, e suo figliuolo, Carlo Martello, che aveva il titolo di re d'Ungheria per avere sposata l'erede di quel regno. I due re vollero superare le dimostrazioni di rispetto date a Pietro Morone dai loro sudditi, tenendo ambedue la briglia del suo asino quando il papa, che si fece chiamare Celestino V, fece il suo solenne ingresso nella città dell'Aquila. Ma essi con sì fatti esteriori segni di rispetto acquistarono la più grande influenza sullo spirito del nuovo pontefice. Incominciarono dal persuaderlo a non prestarsi al desiderio de' cardinali che lo stimolavano a raggiugnerli a Perugia, a Roma, o in altra città dello stato ecclesiastico. Celestino V, malgrado le loro preghiere, fissò la sua residenza all'Aquila, poscia in Napoli. Poco dopo, Carlo ottenne da lui la nomina di dodici nuovi cardinali, niuno de' quali nato nello stato della Chiesa, essendo tre delle due Sicilie e sette francesi: e questa promozione può risguardarsi come la prima causa del traslocamento della santa sede in Avignone[57].

Non tardò Celestino a dare le più luminose prove della sua assoluta incapacità nel governo della Chiesa; convincendo coloro che potessero ancora dubitarne, che le virtù negative dì un eremita, l'astinenza, la penitenza, la non curanza del mondo e de' suoi interessi non sono qualità che si convengano al sovrano di uno stato, o anche al supremo direttore delle coscienze di tutta la Cristianità. I ministri che lo avvicinavano, l'ingannavano ogni giorno rispetto alle grazie che gli facevano distribuire. Talvolta accordava lo stesso beneficio a quattro o cinque persone, non ricordandosi mai d'averlo già ad altri conceduto: talvolta concedeva indulgenze tanto plenarie e così facilmente acquistate, che scandalizzavano la Cristianità; e non di rado si ostinava a non voler occuparsi degli affari. Chiudevasi allora in una cameretta che aveva fatta fabbricare nel suo palazzo, e durante una delle quattro quaresime ch'egli aveva poste sul suo calendario, non voleva vedere chicchesia, occupandosi esclusivamente degl'interessi della sua anima[58].

Una così stravagante condotta che comprometteva l'onore e l'indipendenza della Chiesa, allarmò i cardinali. Uno di loro, il cardinale Benedetto Caietano di Anagni, fomentava i loro bucinamenti, ingrandendo agli occhi loro i pericoli ond'era minacciata la Cristianità. Questo uomo, per desterità e per dissimulazione a tutti superiore, aveva saputo ad un tempo lusingare i cardinali che lo risguardavano come il sostegno delle prerogative del loro collegio, e signoreggiare lo spirito di Celestino che tutto faceva dietro le sue istruzioni, e che forse non avrebbe commessi tanti falli, se il suo perfido direttore non avesse voluto renderlo odioso e ridicolo. Rimaneva per altro al cardinale Caietano un potente nemico nel re Carlo II, ch'egli aveva offeso nel precedente conclave, rispondendo alteramente ai rimproveri che questo monarca faceva ai cardinali divisi. Raccontasi che una notte andò dal re di Napoli e gli disse: «Sire, il tuo papa Celestino ha voluto ed ha potuto servirti, ma non seppe farlo; se tu fai in modo ch'io gli sia sostituito, io vorrò, io potrò e sopra tutto saprò esserti utile.» Convenne allora del modo che avrebbe tenuto per assoggettare a Carlo tutte le forze della Chiesa, se egli gli assicurava i suffragi di dodici cardinali sue creature, nominati da Celestino. Avutane la promessa, non si occupò d'altra cosa che di persuadere Celestino a rinunciare ad una dignità che non gli conveniva[59]. Raccontano alcuni che per mezzo di una tromba parlante ne facesse venire l'ordine dal cielo[60]. Ma senza tale artificio, il cardinale aveva mille mezzi per determinare un uomo così timido e semplice, di cui egli seppe allarmare la coscienza. In vano quando si sparse la voce che Celestino disponevasi a rinunciare, una processione di tutto il clero di Napoli venne a supplicarlo di conservare la sua dignità[61]; che Celestino, di consentimento dei cardinali, pubblicò una costituzione che dava ai papi il diritto di rinunciare il papato per la salute delle loro anime; e nel prossimo concistorio del 13 decembre 1294 presentò la sua rinuncia quale l'aveva per lui scritta il cardinale Caietano. I cardinali stando alla costituzione di Gregorio X intorno al conclave, che Celestino aveva chiamata in vigore, furono immediatamente chiusi in conclave, ed il giorno 23 dello stesso mese, gli unanimi loro suffragi si unirono a favore del cardinale Caietano, il quale fecesi chiamare Bonifacio VIII.

Temeva il nuovo papa che qualcuno approfittasse della debolezza del suo predecessore, per rendergli dubbiosa la legittimità della sua rinuncia, riducendolo a dichiararsi nuovamente papa. Effettivamente parte della Chiesa negava la validità della rinuncia di Celestino, altri l'attribuivano ad una vergognosa debolezza, e Dante collocò l'ombra di colui che fece il gran rifiuto tra la gente dimenticata che visse senza infamia e senza gloria:

«Questi non hanno speranza di morte,

E la lor cieca vita è tanto bassa,

Che invidiosi son d'ogni altra sorte.

............

«Mischiati sono a quel cattivo coro

Degli angeli, che non furon ribelli,

Nè fur fedeli a Dio, ma per se foro.

«Cacciarli il ciel, per non esser men belli:

Nè lo profondo inferno li riceve,

Chè alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

............

«Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,

Guardai e vidi l'ombra di colui,

Che fece per viltate il gran rifiuto[62]

Il debole Celestino avrebbe infine dovuto credersi obbligato in coscienza a rivocare un atto che tanti Cristiani credevano condannabile. Bonifacio VIII non volle esporsi a tanto rischio; e mentre lasciava Napoli per tornare a Roma, seco condusse il papa che aveva abdicato. Ma questi, in principio del 1295, si sottrasse improvvisamente a' suoi custodi, e colla sua fuga pose nella più crudele ambascia il suo successore. Seppesi ben tosto ch'egli si era restituito all'antico suo eremitaggio; onde Bonifacio gli spedì il suo maestro di camera e l'abate di Monte Cassino per ordinargli di ritornare presso al papa, se non voleva esperimentare tutto il suo sdegno. Lo sgraziato vecchio rammentando le reciproche promesse che precedettero la sua abdicazione, chiedeva supplichevole che il sommo pontefice gli permettesse di vivere tranquillamente in quella solitudine, promettendo di parlare solamente co' suoi fratelli eremiti. Il cameriere, avuta tale risposta, partì per darne parte al suo padrone; ma incontrò sulla strada un messo che gli recava l'ordine di condurre subito il sant'uomo a Roma, quand'anche dovesse impiegare la forza. Il cameriere riprese il cammino dell'eremitaggio; ma fu prevenuto da un amico di Pietro di Morone che lo ajutò a nascondersi, indi a fuggire per un appartato sentiere. Questo infelice vecchio spossato di forze e nella sua grave età più fatto per l'ozio e pel riposo, che per le fatiche d'un viaggio, si nascose entro un'oscura macchia della Puglia, accompagnato da un solo religioso, sperando di trovarvi qualche servitore di Dio che gli desse ricovero. Passò la quaresima cogli eremiti del deserto; ma coloro che andavano in traccia di lui per condurlo prigioniero a Roma, giunsero finalmente in quella foresta. Egli conoscendo allora di non poter più tenersi nascosto in quella provincia, s'imbarcò per attraversare l'Adriatico e fu dal vento contrario respinto verso la costa, di cui non erasi scostato che quindici miglia. Sbarcò a Vestia, ove fu preso dai mandatari di Bonifacio, che furono però forzati a trattarlo con rispetto, perchè il popolo si affollava intorno a lui, chiedendogli la benedizione anche in tempo di notte. Il papa confinò Pietro nella torre della rocca di Fumone nella Campania, ov'era guardato giorno e notte da sei soldati e da trenta arcieri con tanta severità, che niuno poteva ottenere il permesso di parlargli. L'eremita chiese almeno che si permettesse a due frati del suo ordine di celebrare con lui il divino ufficio. Gli fu accordata l'inchiesta, ma niun religioso poteva a lungo, senza cadere infermo, sostenere così stretto carcere. Era nella torre così piccolo spazio, che il sant'uomo dovea la notte servirsi per origlieri de' gradini dell'altare su cui di giorno celebrava la messa. In questa prigione morì Celestino V il 19 maggio del 1296, ventidue mesi dopo la sgraziata sua elezione[63][64].

Poichè sì lungo tempo ci siamo occupati della storia ecclesiastica, crediamo dover qui riferire un pezzo della stessa storia che coincide appunto coll'epoca presente, e che è troppo celebre e singolare per meritarsi, se non la nostra credenza, almeno la nostra attenzione: ed è l'arrivo della santa casa in Italia presso a Loreto il giorno 10 decembre 1294, tre giorni prima della solenne abdicazione di Celestino V. «Non si sa abbastanza chiaramente, dice Orazio Tursellino istorico di Loreto, perchè questa casa ch'era giunta in Dalmazia a Tersacto tre anni e sette mesi prima, fu trasportata a quest'epoca a traverso all'Adriatico, e deposta nel Piceno. Ciò che è indubitato si è, soggiugne lo storico, che gli angeli la portarono sulle loro ali, e la deposero in una macchia appartenente ad una matrona di Recanati detta Lauretta, da cui questa casa ricevette poi il suo nome; che gli alberi delle foreste si piegarono verso di lei per riceverla, e che i pastori del vicinato la scoprirono all'indomani un miglio distante dal mare, in un luogo ove non aveva mai esistito verun edificio.» Se dobbiamo credere alle stesse leggende, gli angeli la cambiarono due volte di sito prima di fissarla stabilmente nel luogo in cui rimase fino a' nostri giorni, portandola da una all'altra collina[65]. Il miracolo, cui la fiorente città di Loreto deve la sua esistenza, non viene attribuito ad un tempo tenebroso, ma ad un secolo abbastanza illuminato ed a noi vicino; quando già vivevano Dante, il Villani, Dino Compagni, Tolomeo di Lucca, Ferreto di Vicenza, ed una folla di storici che non fanno parola di così straordinario avvenimento[66]. Non si può comprendere in qual modo una così fatta tradizione abbia potuto prender piede, e come all'epoca stessa di questa tradizione, i templi, le mura quasi romane, e l'intera città di Loreto siansi fondati su questa sola credenza.

La prima traslazione della santa casa dalla Palestina a Tersacto appoggiavasi ad un avvenimento pur troppo vero, la presa di san Giovanni d'Acri fatta da Malec Seraph, e l'espulsione assoluta dei Latini da tutti i possedimenti che avevano in Terra santa. Acri o Tolemaide fu presa il 19 maggio del 1291; vi perirono trenta mila cristiani, e questa città ch'era l'emporio generale di tutto l'Oriente, fu chiusa per sempre ai Latini[67].

Tosto che Bonifacio si sentì assicurato sul trono pontificio, esortò i principi cristiani a vendicare gli oltraggi cui era stata esposta la religione. Scrisse a Edoardo I re d'Inghilterra, e ad Adolfo di Nassou re de' Romani per esortarli a mettere fine alle guerre nelle quali eransi avviluppati, ed a portare le loro armi in Terra santa per riconquistare le città che gl'infedeli avevano prese con tanta vergogna dei Latini[68]. Ma se nella cristianità non eravi stata bastante energia da difendere un piccolo numero di fortezze, alle quali sembrava attaccato l'onore delle nazioni che professavano la religione di Cristo; non era presumibile che tutta l'Europa si movesse per nuovamente tentarne la conquista, quando le difficoltà erano tanto cresciute, e il regno di Gerusalemme distrutto per sempre, sicchè non v'erano più nè principi nè popoli oppressi che venissero ad affrettare i soccorsi d'Europa per salvarli da un imminente pericolo. Perciò dopo un breve fermento prodotto dal sentimento dell'obbrobrio, dall'orrore della strage di Acri e dalla pietà verso gli sventurati fuggitivi, i cristiani abbandonarono il pensiero di riconquistare Terra santa, e i mari dell'Asia furono chiusi all'Europa.

Il pontefice che più d'ogn'altro avrebbe potuto risvegliare lo zelo per questa guerra sacra, aveva altri interessi che più gli stavano a cuore, ai quali sagrificò di buon grado quelle lontane conquiste. Erasi impegnato verso Carlo II, re di Napoli, di servirlo efficacemente nell'impresa di Sicilia. Egli era d'una famiglia originaria ghibellina; ma per mantenere la sua promessa, si gettò nel partito guelfo con tanta violenza, che niun pontefice, senza eccettuarne lo stesso Martino IV, non aveva così impudentemente dimenticate le prerogative di comun padre dei fedeli, per prendere quelle d'un capo di faziosi.

La condotta de' precedenti pontefici, siccome quella ancora della casa di Francia verso i re d'Arragona, era stata fallace e perfida. Quando del 1288 Edoardo d'Inghilterra erasi offerto mediatore per ristabilire la pace, e procurare al re Carlo la libertà, erasi sotto la sua guarenzia conchiuso il trattato alle seguenti condizioni. Il regno di Sicilia doveva essere ceduto a Giacomo d'Arragona, e rimanere a Carlo quello di Napoli, il quale obbligavasi a far rinunciare Carlo di Valois suo cugino a tutti i diritti che potevano essergli derivati sul regno d'Arragona dall'investitura di Martino IV: e per prezzo di questa rinuncia e diritti immaginarj, Carlo di Valois doveva ricevere dall'Arragonese venti mila libbre pesanti d'argento. Carlo II, che non era ancora incoronato e portava soltanto il titolo di principe di Salerno, doveva essere posto in libertà; ed in sua vece lasciava ostaggi tre figliuoli con sessanta de' principali gentiluomini della Provenza; e se nel termine di tre anni non soddisfaceva alle stabilite convenzioni, prometteva di ritornare egli stesso nella prigione, da cui veniva liberato[69].

Ma Carlo giunto a Rieti, ove trovavasi la corte pontificia, fu da Nicolò IV, allora regnante, incoronato re delle due Sicilie, e sciolto dalle obbligazioni assunte in virtù delle convenzioni fatte con Alfonso, e dai giuramenti[70]. Carlo di Valois, lungi dal ritenersi compreso nel trattato di pace, s'apparecchiò ad attaccare l'Arragonese; conchiuse un'alleanza con don Sancio re di Castiglia, che per lui dimenticò l'amicizia d'Alfonso d'Arragona, e si preparò a punire l'Arragonese della sua confidenza e della sua generosità.

La guerra portata negli stati d'Alfonso dai re di Castiglia e di Francia lo costrinse bentosto a soggiacere a più dure condizioni. Promise di richiamare le truppe ausiliarie mandate in Sicilia a suo fratello, di rifiutargli in avvenire ogni ajuto, e di esortarlo insieme alla madre a rinunciare al dominio di quell'isola. Si obbligò innoltre a pagare pel regno d'Arragona il tributo che uno de' suoi antenati aveva promesso a san Pietro; ed a questo prezzo doveva essere assolto dalla chiesa, e Carlo di Valois rinunciare alle sue pretese[71].

La notizia di questo trattato risvegliò le più amare lagnanze dei Siciliani che vedevansi abbandonati ai Francesi, i loro più crudeli nemici, da quella stessa famiglia e da quella nazione ch'essi avevano scelta per proteggerli. Ma l'esecuzione del trattato rimase sospesa per la subita morte d'Alfonso re d'Arragona. Suo fratello Giacomo, in allora re di Sicilia, andò a Saragozza per prendere possesso della fraterna eredità, e, partendo dalla Sicilia, lasciò l'amministrazione dell'isola a Federico suo terzo fratello.

Tali erano i trattati cominciati e rotti tra la casa d'Angiò e quella d'Arragona, quando Bonifacio VIII tentò di ristabilire la pace nelle due Sicilie, offrendo dei compensi ai re per impegnarli a tradire i loro popoli. Un primo trattato fu segnato colla sua mediazione fra Carlo II e Giacomo re d'Arragona, il quale ricevendo in consorte con una ragguardevole dote Bianca, figliuola del re Carlo, prometteva invece non solo d'abbandonare la Sicilia alle armi del principe francese, ma ancora d'ajutarlo a farne l'acquisto, se i Siciliani avessero opposta resistenza. Per prezzo di così vergognosa condizione il papa accordava all'Arragonese la sovranità delle isole di Corsica e di Sardegna, che appartenevano ai Pisani ed ai Genovesi. In appresso il papa cercò di determinare Federico, ch'era al possesso della Sicilia, ad accedere a questo trattato, e gli offrì per ricompensa in isposa Caterina, nipote di Baldovino II, e sola erede de' suoi diritti, la quale aveva il magnifico titolo d'imperatrice di Costantinopoli; aggiungendovi la promessa di cento mila once d'oro onde ajutarlo a conquistare l'impero d'Oriente[72]. Questa proposizione fu fatta dallo stesso Bonifacio all'infante D. Federico in un congresso tenuto a Velletri. Ma il giovane principe era accompagnato dal venerabile vecchio Giovanni di Procida e da Ruggiero di Loria, l'invincibile ammiraglio della Sicilia, che non permisero che venisse sedotto da tali insidiose offerte.

Quando del 1296 giunse in Sicilia la notizia del trattato sottoscritto da Giacomo d'Arragona, i grandi del regno mandarono alla sua corte in Catalogna tre deputati per verificare le ingiuriose voci che speravano dover essere da lui smentite. Ma Giacomo non si rifiutò di comunicare ai deputati lo stesso trattato da lui conchiuso; onde questi stracciandosi le vesti e riempiendo la corte di gemiti, supplicarono il re a non abbandonare i suoi fedeli sudditi ed a non darli nelle mani de' loro crudeli nemici. E perchè niente potevano da lui ottenere, stesero una scrittura della sua rinuncia all'isola di Sicilia, e la portarono ai loro concittadini. Allora tutti i baroni, alla di cui testa trovavansi Giovanni di Procida e Ruggiero di Loria, dichiararono sciolti affatto i loro legami con Giacomo d'Arragona, ed elessero loro re l'infante Federico, ch'incoronarono a Palermo. Poco tempo dopo, Bonifacio di Calamandano, gran maestro dell'ordine di san Giovanni, portò loro de' fogli in bianco segnati dal papa e da Carlo, offrendosi di aderire a tutte le condizioni più vantaggiose ed alle riserve de' privilegi ch'essi vi avessero apposte; ma i baroni risposero che i Siciliani avevano costume di consolidare la loro libertà colle spade, non con inutili pergamene[73]. La maggior parte de' Catalani, che trovavansi allora in Sicilia, rifiutarono d'ubbidire agli ordini di Giacomo, dichiarando per mezzo di Blasco d'Alagonia[74], che siccome gli Arragonesi erano i più liberi di tutti i popoli che ubbidivano a re, erano autorizzati dalle loro leggi e dalle stesse costituzioni del regno a ritirare ogni obbligazione d'omaggio ad un monarca di cui dovevano disapprovare la condotta.

E per tal modo ricominciò la guerra nelle due Sicilie con più furore che mai; e la Calabria ne fu il principale teatro. Ruggiero di Loria e l'infante Federico furonvi più volte vittoriosi de' Francesi; e la sorte della guerra non si mostrò favorevole agli ultimi che alloraquando il re Giacomo d'Arragona, per soddisfare agli obblighi del suo vergognoso trattato, venne egli stesso a portare la guerra negli stati di suo fratello, e quando il re Federico, ascrivendo a delitto a Ruggiero l'avere risparmiato uno de' suoi parenti, disgustò questo illustre ammiraglio, e lo forzò a passare nelle truppe de' suoi nemici.

Ma prima di vedere quale fu il fine di questa così lunga e tanto crudele guerra; prima di raccontare in qual modo, a quest'epoca, Bonifacio VIII, che non aveva mostrato sommissione che per ottenere la tiara, e che pareva volersi rifare della passata dissimulazione con un eccessivo orgoglio e colle più stravaganti pretensioni, alienasse Filippo il bello, re di Francia, suo antico alleato, ed entrasse in guerra colla famiglia Colonna, debbo riferire le rivoluzioni che nel medesimo tempo scoppiarono in Toscana, rivoluzioni alle quali non fu straniero lo stesso pontefice.

Venti miglia lontano di Firenze sulla strada di Lucca alle falde degli Appennini che dividono la Toscana dal Modenese, è posta una città che, malgrado la fertilità del suo territorio e la ridente sua situazione, non si rese illustre nè per popolazione, nè per ricchezze, nè per commercio, nè per potenza, ma soltanto per la violenza delle sue rivoluzioni, per l'intenso odio de' partiti che la divisero, per la fatale influenza di questi partiti sul rimanente della Toscana e quasi dell'Italia, ove sparsero il lievito della discordia; ove per una privata offesa, per una lite di famiglia, suscitarono una guerra universale. Il popolo di Pistoja è forse il più violento, il più impetuoso, il più sedizioso di cui la storia ci conservi la memoria. Pare che questo popolo fosse assetato talmente di guerre civili, che la sua sete di sangue non si spense nemmeno quand'ebbe ridotta la sua patria ad un oscuro rango tra le città d'Italia: nè si acquietò nemmeno sotto il despotismo, il quale soffocando tutte le passioni, distruggendo tutti gl'interessi, suole addormentare i popoli nel riposo della morte; ma continuò a combattere anche dopo che la libertà, il governo, la gloria, più non potevano per lui esistere; siccome quel gigante dell'Ariosto, che nel calore della battaglia erasi dimenticato di essere morto[75]. Esempio memorando dell'insensato furore che i soli nomi possono ancora ispirare agli uomini, quando più non sussiste alcuna delle cagioni che avevano eccitata la loro discordia.

Due famiglie di un'antica nobiltà, le quali possedevano vasti feudi nella pianura e nella montagna di Pistoja[76], eransi poste alla testa delle due fazioni, i Cancellieri de' Guelfi, ed i Panciatichi de' Ghibellini; le quali famiglie, durante tutto il tredicesimo secolo, eransi battute con tanto furore, che quasi erasi dimenticata l'origine della loro discordia, non indicandosi più il partito che col loro nome. I capi di queste famiglie erano incomparabilmente più potenti e più rispettati che i capi della repubblica; tutte le guerre sembravano prodotte dalle loro passioni, e loro opera tutti i delitti: non è però da maravigliarsi che il governo di Pistoja nutrisse contro tutto l'ordine della nobiltà i più caldi sentimenti di odio e di gelosia. Questi sentimenti si manifestarono prima a Pistoja che a Firenze. Del 1285 il popolo dichiarò i magnati non ammissibili alle magistrature della città, li sottopose a particolare regolamento, ed ordinò che qualunque volta una privata famiglia turberebbe l'ordine pubblico, verrebbe registrata nel ruolo dei nobili, per essere per sempre punita della sua disubbidienza alle leggi[77].

Nello stesso tempo presso a poco in cui i Fiorentini avevano cacciato fuori dalla loro città il conte Guido Novello coi Ghibellini, anche i Cancellieri avevano scacciati da Pistoja i Panciatichi; che continuavano a perseguitare nelle loro terre. La famiglia guelfa dei Cancellieri, sebbene da un decreto esclusa dal governo della città, raccoglieva tutti i frutti della vittoria: nella prosperità era cresciuta in modo di gente e di ricchezze, e contavansi più di cento uomini d'armi tutti Cancellieri, oltre coloro che erano uniti di parentela a questa famiglia, una delle più potenti che contasse la nobiltà italiana[78]. La lite che divise in due nemiche fazioni questa famiglia, ed in seguito tutte le famiglie guelfe della Toscana, può farci conoscere colle sue particolarità i costumi e la ferocia de' nobili pistojesi.

Molti gentiluomini della famiglia Cancellieri scontraronsi in una taverna ove giuocarono insieme; poichè furono riscaldati dal vino, un di loro, detto Carlino, figlio di Gualfredi, insultò e ferì un altro Cancellieri egualmente cavaliere, chiamato Amadoro, o Doro, figliuolo di Guglielmo. Questi due giovani, sebbene parenti, appartenevano a due diversi rami della stessa famiglia, distinti dai soprannomi di Bianchi e di Neri, loro venuti anticamente dall'avere avuto il loro antenato comune due donne, da una delle quali che aveva nome Bianca, Bianchi chiamaronsi i suoi figliuoli, e coll'opposto nome di Neri quelli dell'altra. Doro era del ramo nero. Apparecchiando la sua vendetta contro la famiglia che lo aveva insultato, adottò un principio odioso, che sembra essere stato costantemente seguito in Pistoja; cioè, che a fine di rendere la vendetta compiuta, richiedevasi che non cadesse sopra l'offensore; imperciocchè se colpiva quel solo non era che un castigo che, proporzionato essendo all'offesa ed aspettato, non poteva essere cagione di un dolore abbastanza profondo a coloro de' quali volevasi trarre vendetta. La prima offesa era caduta sopra un innocente; onde perchè la scambievolezza fosse compiuta, era necessario che la seconda cadesse sopra un uomo ugualmente innocente. Doro, sortendo dalla taverna, ov'era stata insultato, si pose in un'imboscata, e la sera dello stesso giorno, vedendo passare un fratello di colui che lo aveva ferito, il quale era un giudice, detto Vanni, lo chiamò, e Vanni avvicinandosi senza veruna diffidenza, nulla sapendo nemmeno della rissa accaduta la mattina, Doro si gettò sopra di lui con intenzione di ucciderlo, e colla spada gli troncò una mano e lo ferì nel volto.

Il padre di Doro, Guglielmo, lungi dall'approvare una tanto odiosa vendetta eseguita contro un suo parente, risolse di comporre con una luminosa soddisfazione la lite che poteva dividere la sua famiglia. Consegnò lo stesso Doro tra le mani del padre adirato, facendogli dire, che a lui rimetteva il castigo di un uomo che, malgrado il suo delitto, non lasciava di essere ancora parente dell'offeso; ma questo padre, chiamato Gualfredo, insensibile alla generosità del suo procedere, volle infliggere a Doro una punizione eguale all'offesa, gli tagliò una mano sopra una mangiatoia di cavalli, lo ferì nel viso com'era stato ferito suo figlio, ed in tale stato lo rimandò al cancelliero nero, incaricandolo di dire a suo padre, che col ferro e non colle parole si guarivano somiglianti ferite[79].

Da una banda e dall'altra era stata commessa un'atroce azione, ed i cancellieri d'ambo i rami per il proprio riposo, come per l'onore della loro patria, avrebbero oramai dovuto abbandonare i colpevoli alla vendetta delle leggi, e rifiutare di armarsi a favore di uomini che avevano infamato il loro nome con azioni tanto inumane; ma così non era allora avvezza a giudicare la nobiltà italiana[80]. I cancellieri bianchi ed i cancellieri neri mostraronsi egualmente disposti a vendicare l'offesa da ognun d'essi ricevuta; e perchè colle loro parentele e relazioni abbracciavano tutte le famiglie nobili di Pistoja, le strascinarono tutte nella loro lite. Nè vi prese parte la sola nobiltà cittadina, che tutti pigliarono le armi i loro vassalli e clienti nel territorio pistoiese, e tutta la Montagna fu in guerra pei Bianchi e pei Neri.

(1298) Le battaglie ordinate, ch'ebbero luogo in città, erano il minor male che risultasse da questa discordia, perchè l'uno e l'altro partito, per portar colpi più inaspettati e più dolorosi, ebbero ricorso a misfatti non più uditi. Se nell'una o nell'altra famiglia trovavasi un uomo amato e rispettato per le sue virtù, o pure uno il di cui carattere pacifico tenesse lontano dalle contese civili, era appunto quello che l'opposto partito destinava sua vittima, non credendo di poter gustare tutto il piacere della vendetta se non insultava col delitto la salvaguardia delle leggi, ed ogni rispetto divino ed umano. Per tal modo Pero dei Pecorini, che era giudice, fu ammazzato dai Neri senza provocazione, sul suo tribunale, in presenza dello stesso podestà; indi gli stessi Neri uccisero il cavaliere Bertino, perchè aveva fama d'essere il più nobile e più cortese cavaliere di Pistoja. Così Benedetto de' Sinibaldi, il più rispettato de' Cancellieri neri, cadde sotto la spada de' Bianchi in una bottega aperta sulla piazza: uno de' cavalieri del podestà venne ucciso dalla stessa fazione, onde il podestà vedendo ch'era impossibile di ristabilire l'ordine in Pistoja, e d'amministrare la giustizia a quel popolo furibondo, pose in terra in presenza del consiglio la bacchetta della podestaria, e partì abdicando la sua carica.

Pistoja pareva minacciata dell'intera sua sovversione per gli eccessi dell'anarchia e della guerra civile; e la repubblica fiorentina che trovavasi alla testa della parte guelfa in Toscana, cominciava a temere che l'interesse della sua parte non venisse compromessa con sedizioni così violenti, e che i Ghibellini da molto tempo esiliati non approfittassero delle divisioni e dell'indebolimento dei loro avversarj per ricuperare l'antico potere. Nel 1300 gli uomini più saggi di Fiorenza e di Pistoja si adunarono per trovare rimedio a tanti mali. Finalmente con una pubblica deliberazione gli anziani di Pistoja determinarono di confidare per tre anni la signoria della loro città ai Fiorentini, perchè riformassero la repubblica, e vi stabilissero la pace[81]. La signoria, ossia balìa, come di questi tempi cominciò a chiamarsi, non distruggeva le franchigie d'una repubblica, nè derogava punto alla sua libertà; era un potere legislativo e stragiudiziale attribuito per un determinato oggetto, e per un certo tempo ad un governo che credevasi meritevole di tanta confidenza da sceglierlo come arbitro.

Avendo i Fiorentini accettata la balìa di Pistoja, vi mandarono un nuovo podestà ed un nuovo capitano del popolo, che furono incaricati di scegliere metà per ogni partito i nuovi anziani. Con tal nome chiamavasi a Pistoja il collegio dei dodici magistrati preseduto da un confaloniere di giustizia eletto ogni mese per amministrare la repubblica. I Fiorentini ordinarono poscia ai capi delle due fazioni bianca e nera di allontanarsi dalla città che turbavano coi loro odj[82]; e credendo che un governo vigoroso avrebbe il potere di riconciliare questi uomini iracondi tosto che più non fossero circondati dai loro clienti e da gente avida di vendicare le loro ingiurie, i Fiorentini assegnarono per loro dimora a tutti i Pistojesi esiliati la città stessa di Firenze.

Ma il riposo di Firenze non era assicurato in maniera che potesse impunemente ricevere nel proprio seno tanto lievito di discordia; ed i priori, che mandarono a Firenze uomini avidi di sangue ed accostumati a sprezzare tutte le leggi, commisero un grave fallo di cui ebber presto cagione di doversi amaramente pentire. In effetto dopo l'esilio di Giano della Bella, il vicendevole odio dei nobili e dei cittadini erasi fatto più vivo, comechè non fosse ancora scoppiato. La città, gli è vero, pareva nel più prospero stato: ella contava entro le sue mura una milizia di trenta mila uomini abili a portare le armi, e nel rimanente dello stato fiorentino eranvi ridotti in reggimento settanta mila uomini[83]. Per dare maggior lustro alla magistratura, i priori avevano gittate le fondamenta del magnifico palazzo pubblico, che doveva essere la residenza e la fortezza della signoria[84]: avevano in appresso fatte innalzare nuove mura intorno alla città, il di cui cerchio era più esteso che non era quello delle due più antiche mura: ma questa apparente prosperità covava i semi di grandi sventure.

Il più riputato uomo tra i nobili che avevano fatto esiliare Giano della Bella, era Corso Donati, gentiluomo di antica famiglia, al quale sommi talenti avevano acquistata grandissima influenza in tutti i consigli, ed il di cui valore non aveva poco contribuito ad assicurare ai Fiorentini la vittoria di Campaldino. La famiglia popolana dei Cerchi ch'erasi col commercio fatta ricchissima[85], acquistò il palazzo dei conti Guidi vicinissimo a quello dei Donati; e perchè i nuovi ricchi sogliono fare più pomposa mostra della loro opulenza, siccome la sola cosa che onori la loro famiglia, così i Cerchi ammorzarono l'antico splendore dei Donati colla dovizia degli abiti, la magnificenza degli arredi, il numero de' cavalli e de' domestici. Una causa per una eredità accrebbe la rivalità delle due famiglie, e ne sviluppò il vicendevole odio: onde i Cerchi sforzaronsi allora di assodarsi nel rango cui s'erano innalzati impiegando le loro ricchezze ed il loro credito a servire ed a proteggere gli uomini cui potevano essere utili. Così adoperando acquistaronsi molti partigiani tra la nobiltà povera, gelosa dei Donati, come pure fra i cittadini specialmente ghibellini. Innalzatisi a tale stato di potere lungo tempo dopo la vittoria dei Guelfi, non avevano i Cerchi conservato verun risentimento di famiglia contro una fazione, nella quale non avevano mai avuti personali nemici.

Mentre esistevano in Fiorenza questi semi di discordia, vi giunsero, a seconda degli ordini ricevuti dalla signoria, i Pistojesi esiliati dalla loro patria: i Bianchi furono accolti ed alloggiati nelle case dei Cerchi, i Neri trovarono ospitalità presso i Frescobaldi amici dei Donati: e perchè le due fazioni, che incominciavano a dividere Firenze, non avevano alcun nome, ed ambedue volevano essere guelfe e popolane, adottarono la denominazione di Bianche e di Nere, che senza recare pregiudizio alle loro intenzioni sembrava bastantemente dividerle. Corso Donati fu riconosciuto capo dei Neri, e Vieri dei Cerchi capo dei Bianchi di Fiorenza[86].

Sebbene non si fosse ancora sparso sangue, erano in Fiorenza gli spiriti in modo esacerbati, sopra tutto dall'amara ironia di Corso Donati il quale non cessava di versare a mani piene il ridicolo sul suo rivale Vieri de' Cerchi, che il più leggiere accidente poteva essere cagione d'una zuffa. Un giorno che parte della città trovavasi adunata nella piazza de' Frescobaldi, per rendere gli estremi onori ad una donna di fresco morta, i dottori ed i cavalieri, com'era l'uso di Firenze in que' tempi in tali cerimonie, stavano seduti sulle panche intorno alla piazza, e la gioventù per terra sopra stuoje di giunchi: l'accidente aveva posti i Donati ed i Cerchi di faccia gli uni agli altri. Un giovane seduto in terra si alzò per rassettarsi il mantello, e coloro che gli stavano seduti in faccia, supponendo che questo fosse il segnale convenuto per attaccarli, si levarono subito anch'essi e sguainarono le spade; onde si levarono egualmente i loro avversarj, e s'appiccò la zuffa. I parenti della morta ottennero a stento, cacciandosi nella mischia, di separare i due partiti.

Guido Cavalcanti, dopo Dante il più illustre poeta del suo secolo, ed il più rinomato filosofo, quello che per la sublimità della sua mente Dante indicò come sè medesimo capace di scorrere i tre regni dei morti, era uno de' più caldi nemici di Corso Donati[87]. Il Cavalcanti, genero com'egli era di Farinata degli Uberti, inclinava segretamente al partito ghibellino favorito dai Bianchi; inoltre egli aveva ragione di credere che Donati avesse cercato di farlo assassinare in un pellegrinaggio ch'egli di fresco aveva fatto a san Giacomo di Gallizia. Altrettanto cortese quanto valoroso, ma altero ed amico della solitudine, non fece veruno apparecchio per vendicarsi. Solamente attraversando una volta le strade di Firenze a cavallo con molti giovani della famiglia Cerchi, incontrò Corso Donati pure a cavallo in compagnia de' suoi figliuoli ed amici; onde corse sopra di lui per ferirlo con una freccia, senza però averlo potuto cogliere; ma abbandonato dai suoi amici, ed esposto alle pietre che gli venivano scagliate addosso dalle finestre, dovette allora fuggire.

La parte Bianca pareva a Firenze formata degli uomini più ragguardevoli pel loro carattere, i loro talenti ed il loro sapere; Dante Alighieri, Guido Cavalcanti e Dino Compagni, lo storico, gli appartenevano egualmente; ma per mala sorte Vieri de' Cerchi, il capo di questo partito, non era degno degli uomini ch'egli doveva condurre. I Neri avevano maggior credito alla corte di Roma e presso papa Bonifacio, sia perchè più affezionati alla parte guelfa, che Bonifacio favoreggiava caldamente, o perchè il banchiere del papa ed altre persone, che lo circondavano, appartenevano a questa fazione. In conseguenza furono essi che stimolarono Bonifacio ad interporsi per tornare la pace tra i Fiorentini; ma il violento suo carattere non si confaceva all'ufficio di pacere.

Bonifacio fece venire a Roma Vieri dei Cerchi, e lo richiese di fare la pace con Corso Donati, promettendogli a tale patto la sua protezione; ma gli rispose Vieri che, non essendo egli in guerra con persona, non aveva a fare veruna pratica per riconciliarsi con chicchessia, e ripartì senza aver nulla promesso[88]. Allora il papa mandò in Toscana il cardinale d'Acquasparta come mediatore dei due partiti; il quale, giunto essendo a Firenze in giugno del 1300, pregò la signoria di accordargli la balìa della città per istabilirvi la pace; disse in pari tempo essere sua intenzione di fare scelta di coloro che dovevano essere priori nel susseguente anno, in modo che vi fosse un egual numero di Bianchi e di Neri, e di distribuire i loro nomi nelle borse per tirare a sorte ogni due mesi, onde evitare i tumulti cui dava luogo ogni elezione in un tempo che il popolo si abbandonava con tanto furore allo spirito di parte[89]. Ma all'epoca in cui venne il cardinale a Firenze, avendo i Bianchi la principal parte nel governo, temettero che la corte di Roma approfittasse de' poteri che domandava per abbassarli, e rifiutarono al cardinale la balìa; perchè questi uscendo subito di città, la sottopose all'interdetto.

La signoria abbandonata a sè medesima si provò di ristabilire, senza il concorso di uno straniero, la pace nella città; ciò che credè di ottenere esiliando i capi delle due fazioni: ed in conseguenza ordinò ai Neri di portarsi alla Pieve nel territorio di Perugia, ed ai Bianchi di restare confinati a Sarzana sui confini dello stato di Genova. Il poeta Dante era uno de' priori che pronunciarono questa sentenza, e Dino Compagni assicura avere egli medesimo consigliata la signoria a prendere tale risoluzione[90]. Ma i priori non conservarono lungo tempo quella parzialità che gli aveva diretti nel primo atto; e dietro inchiesta di Guido Cavalcanti, caduto infermo a Sarzana, permisero soltanto ai Bianchi di rientrare in Firenze, protestando l'insalubrità dell'aria nel luogo del loro esilio.

I capi del partito dei Neri erano confinati in un luogo prossimo a Roma ed alla corte del papa; ed avendo già protettori ed amici in questa corte, approfittarono della vicinanza per acquistarne degli altri. Corso Donati andò a Roma; ed ebbe l'aperto favore dei parenti del papa, del suo banchiere e del cardinale Acquasparta che non poteva perdonare ai Fiorentini d'avere rifiutata la sua mediazione. Tutti d'accordo eccitarono Bonifacio contro i Bianchi e contro il partito del governo, e lo consigliarono a cercare un principe che punisse i Fiorentini della poca loro deferenza, e che escludendo dal numero de' Guelfi gli uomini tiepidi o moderati ristabilisse il partito della Chiesa nell'antica sua purità. Doveva questo principe pacificare la Toscana e conquistare la Sicilia, imperciocchè al papa stava più a cuore il vendicarsi di don Federico e di Ruggiero di Loria, che la punizione de' Bianchi fiorentini.

Verso quest'epoca Carlo di Valois, fratello di Filippo il bello, re di Francia, erasi acquistata grandissima riputazione colla conquista di tutta la Fiandra[91]; onde Bonifacio pose gli occhi sopra di lui. Sapeva per l'esperienza fattane da' suoi predecessori che i principi francesi erano proclivi a riconoscere come titoli incontrastabili i doni che loro faceva la santa sede anche in que' luoghi in cui non aveva alcuna giurisdizione. Sapeva ch'essi ed i loro soldati erano sempre disposti a combattere, non per una sola causa, ma per tutte le cause del mondo e contro tutti gli uomini. Promise a Carlo di Valois come premio della spedizione, cui l'invitava, la stessa Caterina di Fiandra erede dell'Impero latino di Costantinopoli, che aveva poc'anzi offerta all'infante Federico di Sicilia; e perchè questa principessa era prossima parente di Carlo, gli spedì le necessarie dispense per isposarla[92], a condizione che sollecitamente venisse con un sufficente corpo di cavalleria a combattere a proprie spese per la causa della santa sede contro Federico usurpatore della Sicilia, e contro qualunque altro nemico della Chiesa. La successione all'Impero di Costantinopoli non era la principal promessa che Bonifacio facesse a Carlo; non avendo come papa voluto riconoscere Alberto d'Austria per re de' Romani, lusingava Carlo di questa medesima dignità, assicurandolo intanto che gli conferirebbe i diritti di vicario imperiale in Toscana, in quel modo che uno de' suoi predecessori l'aveva fatto in favore di Carlo d'Angiò. Aggiugneva Bonifacio a queste lontane speranze immediate concessioni che avrebbero luogo tosto che Carlo avesse accettato il proposto trattato. Nel 1301, il papa lo creò conte della Romagna, capitano del patrimonio di san Pietro, signore della Marca di Ancona, e, con un nuovo titolo, pacificatore della Toscana[93].

Prima che il principe francese potesse giugnere in Toscana, la parte de' Bianchi, che allora dominava ne' consigli di Firenze, aveva cercato di rendersi forte; e giudicò opportuno di fare a Pistoja l'esperimento delle sue forze e de' mezzi che poteva impiegare per trionfare. Il capitano del popolo di questa città non rimaneva in carica che sei mesi. Il governo fiorentino, in forza della balìa che gli era stata confidata, diede prima questa carica a Guido Cavalcanti appartenente ad una famiglia altra volta ghibellina. Questo nuovo magistrato violò la legge pubblicata per la pacificazione di Pistoja, ed in cambio di dividere egualmente le magistrature tra le due parti, scelse tutti gli anziani tra i Bianchi; e poco dopo ajutato dagli stessi anziani, destituì tutti i Neri che possedevano il governo di qualche castello o carica di confidenza, per sostituir loro dei Bianchi[94]. Passati i sei mesi, i Fiorentini nominarono in sua vece Andrea Gherardini, la di cui amministrazione doveva essere ancora più parziale e più violenta della precedente. Andrea si afforzò d'armi e di cavalli, si assicurò la dipendenza delle compagnie popolane e de' loro confalonieri; indi accusando i Neri di voler dare Pistoja ai Lucchesi, citò, una dopo l'altra, le principali famiglie del partito nero a presentarsi al suo tribunale. E perchè queste esitavano a porsi nelle sue mani, andò ad attaccarle cogli arcieri ed i confalonieri delle compagnie; prese a viva forza le loro case colle macchine di guerra o col fuoco; e dopo aver vinto tutto ciò che gli faceva resistenza, cacciò di città tutti i Neri, spianò i loro palazzi e fortezze, abbandonandone i beni al saccheggio.

I Neri, esiliati da Pistoja, ritiraronsi quasi tutti a Pescia, nella valle di Nievole, città che, dopo essere stata incendiata dai Lucchesi l'anno 1282, era rimasta sotto la loro dipendenza. Eranvi in Lucca, siccome in tutte le città della Toscana, dei Guelfi assai caldi che dovevano associarsi ai Neri, e dei Guelfi moderati che, non interessandosi più che tanto delle antiche contese, non facevansi scrupolo di allearsi coi Ghibellini onde acquistare col mezzo loro maggior credito nella repubblica; e questi adottarono per sè medesimi il nome pistojese di Bianchi. I primi trovaronsi rinforzati dall'unione di tutti gli esiliati di Pistoja, ed erano inaspriti dalla diffidenza che i Fiorentini mostravano a loro riguardo: onde poco dopo la rivoluzione che aveva cacciati i Neri da Pistoja, i Bianchi furono esiliati da Lucca[95]. Castruccio Castracani degl'Interminelli, che in appresso rialzò il partito de' Ghibellini, e che si fece signore di Lucca, di Pisa e di Pistoja, venne compreso in questa proscrizione dei Bianchi, tra i quali egli era il più distinto pel lustro della sua famiglia. In età di soli vent'anni fissò la sua dimora in Ancona, di dove, avendo in sul finire dell'anno perduti i suoi genitori, passò in Inghilterra, ove s'addestrò nelle armi[96]. Intanto Carlo di Valois, cedendo alle istanze del papa, erasi mosso con circa cinquecento cavalli per servire la Chiesa ed ajutare il re di Napoli. Attraversò senza difficoltà la Lombardia, e dopo essersi alcun tempo riposato in Bologna, entrò in Toscana per le Alpi di Pistoja, ossia strada di Sambuca.

La parte dei Bianchi aveva fatte sue le passioni dei Ghibellini che le si erano uniti; ma sebbene più non fosse una parte moderata, pure bramava ancora di essere creduta tale, e però non ardiva confessare gl'interni sentimenti, credendosi obbligata a conservare certi riguardi che minoravano la sua forza, senza illudere i suoi nemici. Se i Bianchi si fossero apertamente dichiarati Ghibellini, avrebbero potuto fortificare i passaggi della Sambuca, e fermare o ruinar Carlo che non aveva che un pugno di gente; avrebbero stretta alleanza coi Ghibellini di Pisa, di Arezzo e delle città di Romagna, e postisi in tale situazione da non poter essere facilmente oppressi. Ma i Bianchi volevano ancora coprirsi del nome del partito guelfo; mostrarsi ancora ligi alla chiesa ed alla casa di Francia, e non osavano prendere alcuna vigorosa risoluzione; onde senza porsi in istato di resistere ai loro nemici, non ottennero nè meno di placarli.

I Bianchi di Pistoja, avvisati dell'avvicinarsi di Carlo di Valois, introdussero molti pedoni e cavalli in città; provvidero di petriere le porte e le mura, e prepararonsi come coloro che dovessero essere assediati: in pari tempo invitarono Carlo ad entrare in Pistoja, e mandarongli incontro per onorarlo giostratori e paggi a cavallo. Egli scese lungo l'Ombrone, come se avesse intenzione di approfittare di tali amichevoli disposizioni, ma giunto a Ponte Lungo, due miglia sopra Pistoja, si volse bruscamente a destra e andò ad accamparsi a Borgo a Buggiano posto sulla strada di Lucca[97].

Gli esiliati Neri di Pistoja, ed i capi dello stesso partito a Lucca, adunaronsi prestamente intorno a lui, e lo trassero agevolmente al loro partito. Carlo prese in seguito la strada di Fucecchio, san Miniato e Siena, per recarsi a Roma ed in seguito ad Anagni, onde ricevere gli ordini del papa, avanti d'entrare in alcuna delle città divise dalla nuova lite dei Bianchi e dei Neri. Carlo II, re di Napoli, venne a trovarlo in Anagni a fine di concertare la spedizione di Sicilia, che fu fissata nella vegnente primavera. Intanto il papa mandò Valois a Firenze per pacificarla, o piuttosto per farvi trionfare il partito dei Neri e della Chiesa.

Carlo tornò dunque a Siena ed in seguito a Staggia nell'autunno dello stesso anno, avanzandosi contro Firenze. Erasi in questa città fatta la nomina de' nuovi priori che dovevano entrare in carica il 15 ottobre, e la scelta era più tosto caduta sopra persone inclinate alla pace, e che non davano sospetto ad alcun partito, che sopra coloro la di cui abilità avrebbe potuto salvare la repubblica in così difficili circostanze. Dino Compagni, lo storico di quest'epoca, era uno de' priori, e le sue scritture ci provano che egli era uno di quegli «uomini uniti, senz'arroganza, disposti a mettere le cariche in comune», tra i quali egli colloca sè medesimo[98].

Mentre che i Neri con private contribuzioni avevano messi assieme settanta mila fiorini per pagare il soldo delle truppe di Valois, d'altro non si occupavano i Bianchi che dei trattati di pace tra le famiglie nemiche. I capitani di parte guelfa fecero per ordine de' priori proposte di accomodamento tra i Cerchi e gli Spini. Questi, mostrando di dare orecchio alle proposizioni, non lasciavano di affrettare la venuta di Carlo, mentre i Cerchi, capi dei Bianchi, si addormentavano su queste speranze di pace, e non facevano verun apparecchio di difesa.

Carlo mandò da Staggia i suoi ambasciatori a Firenze per domandare d'essere ricevuto come un amico che veniva a riconciliare la parte guelfa alla Chiesa. Questi ambasciatori chiesero d'essere introdotti nel gran consiglio, ciò che loro non potevasi negare. Quand'essi ebbero parlato, i priori imposero silenzio a tutti i consiglieri, che avrebbero voluto rispondere in presenza loro, al quale oggetto più d'uno erasi già alzato; onde agli ambasciatori di Carlo fu agevole il giudicare dalla premura che ponevano nel voler manifestare la propria opinione in loro presenza, che il partito de' Neri e del principe aveva riacquistata forza ed energia. La signoria, dopo la segreta deliberazione dei consigli e quella delle arti e mestieri, mandò da parte sua ambasciatori a Staggia, promettendo a Carlo d'accoglierlo onorevolmente, a condizione che non mutasse le leggi e le costumanze della repubblica e non pretendesse diritti o giurisdizione di veruna sorte, sia a titolo di vicario dell'impero, sia per tutt'altra ragione. Se Carlo non accordava questa promessa, gli ambasciatori avevano ordine di chiudergli il passaggio di Poggibonzi che era fortificato, e di rifiutargli le vittovaglie. Carlo accordò senza difficoltà tutto quanto gli fu chiesto, e confermò la sua promessa a viva voce dopo il suo arrivo[99].

Magnifico fu l'ingresso del principe francese in Firenze. Carlo aveva portata la sua truppa ad ottocento cavalli; gli abitanti di Perugia l'avevano accompagnato con duecento uomini d'armi sotto colore di testificargli il loro rispetto, ed i Lucchesi erano venuti ad incontrarlo. Cante d'Agobbio, Malatestino, Maghinardo di Susinana, ed altri gentiluomini di Romagna, che incominciavano a far il mestiere di condottieri, arrivavano un dopo l'altro con otto o dieci cavalli per unirsi alla corte, e la signoria non osava negare l'ingresso a verun di loro.

Allora fu che gli uomini più vili ed abbietti credettero di poter fare pompa di coraggio. «Per il bene della patria, dicevano costoro, non temeremo di tirarci addosso la nimicizia della signoria e di mostrare gli errori ch'ella ha commessi.» In fatti, la signoria non era più a temersi, nè più poteva castigarli. «Noi oseremo, aggiungevano, prendere la difesa dei Neri oppressi, e disvelare l'ingiustizia, di cui la signoria si è fatta colpevole verso di loro, escludendoli dagli ufficj.» I Neri, che essi affettavano di prendere sotto la loro protezione, avevano in città mille duecento uomini d'armi ai loro ordini. Altri non si vergognavano di vantare la tranquillità di cui godevano dopo avere perduta la libertà. Baldino Falconieri occupava la tribuna la maggior parte del giorno; e l'argomento de' suoi discorsi era sempre il confronto delle passate turbolenze coi presenti tranquillissimi tempi, ne' quali i cittadini potevano abbandonarsi a sicuro sonno[100].

Mentre uomini senz'onore vantavano questa pretesa tranquillità, i due partiti si preparavano a nuove zuffe. Ma Vieri de' Cerchi, il capo de' Bianchi, non aveva nè i talenti nè l'energia necessaria per ridurre a salvezza il suo partito. I priori, che non volevano perdere il merito dell'apparente loro imparzialità, non prendevano che deboli partiti; e niuno osava porsi in aperta difesa per timore di essere da tutti abbandonato. I Bianchi, che veramente erano d'origine guelfa, cercavano di rappattumarsi coi loro avversarj ripetendo che tutti appartenevano alla stessa fazione; onde i Ghibellini associatisi prima con loro, temevano di vedersi traditi e andavano lentamente ritirandosi per timore che la pace tra i Guelfi non si effettuasse a loro spese. I campagnuoli che avevano ricevuto ordine di armarsi, nascondevano i confaloni e si disperdevano; il podestà coi suoi arcieri aveva fatta una parziale pace coi Neri; e quantunque lo stendardo dello stato fosse esposto alle finestre del palazzo della signoria, i cittadini non prendevano le armi per andarvi in difesa dei loro priori[101]. Frattanto Carlo di Valois aveva domandate le chiavi di porta romana, presso la quale egli abitava; e benchè quando fu ricevuto giurasse di far osservare dai suoi soldati le leggi e le sentenze della repubblica, questa medesima notte fece entrare, per la porta che gli fu data, Corso Donati e tutti gli esiliati.

I priori lagnaronsi con Carlo della violazione dei trattati, ed egli giurò di non avervi avuta parte e di voler castigarne gli autori, chiedendo, per poterlo fare, che i capi delle due parti gli fossero consegnati, ond'essere in istato di metter fine a tanti disordini, e ristabilire una volta l'autorità della repubblica. I priori, che andavano sempre più accorgendosi della loro impotenza, aderirono a tale inchiesta; i capi de' Bianchi e de' Neri andarono volontariamente a darsi in mano di Carlo, i primi con paura, gli altri con piena sicurezza; ed infatti il principe rilasciò subito i Neri, e fece sostenere i Bianchi e custodire in dure prigioni. Allora i priori, ma troppo tardi, fecero dare campana e martello in palazzo, chè il popolo atterrito non osò uscir di casa, e dopo quest'istante i Neri, per lo spazio di sei giorni, abusarono del loro trionfo, senza che fosse stabilito in città alcun magistrato per reprimere l'eccesso del disordine[102]. Le case dei Bianchi furono abbandonate al saccheggio ed in appresso incendiate; molti de' più ragguardevoli uomini di questo partito furono morti o feriti dai loro parziali nemici; molte fanciulle ereditiere vennero tolte di mano alle loro famiglie e maritate per forza ed in mezzo al disordine; e Carlo di Valois fingeva di non saper nulla, e di credere che l'incendio di tanti palazzi di città e di campagna fossero fuochi di gioja o accidentali incendj di qualche povera capanna[103].

Dopo che la città fu abbandonata al saccheggio per sei giorni, i nuovi priori, tutti della parte nera, entrarono in funzione l'undici novembre 1301, ed un nuovo podestà, Cante de' Gabrielli d'Agobbio, fu incaricato dell'amministrazione della giustizia. Il nuovo giudice veniva incoraggiato alla severità, non solo dalla violenza di quel partito da cui aveva ricevuta la carica, ma più ancora dall'avarizia di Carlo di Valois che doveva con lui dividere le ammende che imporrebbe, ed a cui lo stesso papa aveva rappresentata Firenze come un'inesauribile sorgente di oro. Nello spazio di cinque mesi in cui Carlo dimorò in Firenze, Cante dei Gabrielli condannò circa seicento persone all'esilio, sottoponendole in pari tempo alla multa di sei in ottomila fiorini, con minaccia di confisca di beni se non pagavano. Dante Alighieri, che a quest'epoca trovavasi ambasciatore a Roma per la repubblica, fu compreso in questa proscrizione. Dovremo tra poco parlare di questa condanna pronunciata il 27 gennajo del 1302. Petracco figliuolo di Parenzo dell'Ancisa, padre di Francesco Petrarca, fu esiliato nella stessa circostanza[104]. Altri vennero accusati d'aver cospirato contro la vita di Carlo di Valois, e messi alla tortura, non tanto per istrappare loro di bocca la confessione del supposto delitto, che per sapere ove tenessero nascosti i loro tesori. Finalmente il giorno 4 aprile del 1302 Carlo di Valois partì alla volta della Sicilia carico delle maledizioni de' Toscani, per i quali aveva preso il titolo di pacificatore.

Fu osservato che Carlo di Valois era entrato in Toscana sotto pretesto di ricondurvi la pace, e l'aveva lasciata in guerra, ch'era passato in Sicilia per farvi la guerra; e n'era uscito dopo una vergognosa pace[105]. Valois s'imbarcò a Napoli con Roberto, principe di Calabria, figliuolo di Carlo II, e venne a sbarcare in Sicilia con mille cinquecento cavalli, mentre una flotta di cento galere proteggeva il suo passaggio e l'ajutava nell'assedio delle piazze che voleva prendere. Federico, re di Sicilia, non aveva bastanti forze per istare in campagna contro di lui. Già da vent'anni l'isola resisteva quasi senza stranieri soccorsi a tutta la potenza de' Francesi e della Chiesa; ed il re Federico ne' due o tre precedenti anni erasi veduto indebolire dall'abbandono di Ruggiero di Loria, suo grande ammiraglio, ch'era passato al nemico, e dall'attacco egualmente vile che crudele del suo proprio fratello Giacomo d'Arragona, venuto come confaloniere della chiesa per ispogliarlo di quello stato in cui egli medesimo aveva regnato. Metà della Sicilia era stata conquistata da Giacomo, o si era ribellata in conseguenza delle segrete intelligenze ch'egli vi aveva conservate, quando questo re parve sensibile ai tardi rimorsi, e ripartì nel colmo delle sue vittorie, dichiarando di non voler essere lo strumento o il testimonio dell'ultima catastrofe di suo fratello. Abbandonò la Sicilia l'anno 1299, e poco dopo Federico incominciò a ristaurare i suoi affari con una battaglia in cui fece prigioniero Filippo, principe di Taranto, figlio del re Carlo II.

Quando Valois sbarcò in Sicilia alla fine d'aprile del 1302, impadronissi a tradimento di Termoli; ma Federico, il più valoroso principe ed il più esperto capitano de' suoi tempi, non permettevagli lungo tempo di essere conquistatore. Evitando sempre una battaglia generale, cui le deboli sue forze non consigliavano di affidare la somma della guerra, lo travagliava con continue scaramucce, gl'intercettava i convogli, gli uccideva i cavalli: e raddoppiatesi alle truppe nemiche le fatiche della guerra, il caldo clima della Sicilia non tardò a fare sui soldati francesi i consueti effetti. All'assedio di Sacca la malattia si manifestò nel campo, ed in breve tempo vi fece tale strage, che Valois per ritirarsi dall'assedio fu costretto a chiedere la pace[106], la quale fu fatta a condizioni apparentemente più favorevoli ai Francesi di quello che in effetto lo fossero. Federico fu autorizzato a conservare, finchè vivesse, il governo della Sicilia e delle adiacenti isole col titolo di re di Trinacria; ed egli acconsentiva che dopo la sua morte tornasse il regno agli Angiovini. Dall'una parte e dall'altra i due re si restituirono i paesi conquistati in Sicilia ed in Calabria, ed ambedue confiscarono le terre de' baroni e de' feudatari, che avevano abbandonata la causa del proprio principe per darsi al nemico. Da questa legge generale furono per altro eccettuati Ruggiero di Loria e Vinciguerra di Palazzo. Finalmente si rilasciarono da ambe le parti i prigionieri, e Federico sposò Eleonora figlia di Carlo II.

Sebbene la reversione della corona alla morte di Federico fosse stipulata in favore dei principi francesi, era facil cosa il prevedere che prima che accadesse tale avvenimento, che in fatti si protrasse fino al 1337, nuove guerre e nuovi trattati disporrebbero diversamente della successione alla corona; e potevasi poi naturalmente prevedere che i Siciliani che avevano fatto Federico loro re, ed avevano combattuto vent'anni per iscuotere il giogo degli Angiovini, non credendosi in verun modo legati da questo trattato, non acconsentirebbero di passare nuovamente sotto un'odiata dinastia.

Perchè la pacificazione della Sicilia riuscisse intera, rendevasi al nuovo trattato necessaria l'approvazione della Chiesa, onde fossero tolte le scomuniche da tanti anni fulminate contro quel regno. Ma Bonifacio rifiutavasi di aderire alle convenzioni senza farvi alcune modificazioni; ma per altro scrisse subito a Federico[107] per attestargli il suo affetto ed il desiderio di riconciliarsi con lui; onde per aderire alla sua domanda, nel mese di giugno del susseguente anno 1303, Federico si riconobbe feudatario della santa sede per il regno di Trinacria, come Carlo lo era per quello di Napoli, promettendo l'annuo tributo di tre mila once d'oro[108] ed un soccorso di cento cavalli o di un determinato numero di galere qualunque volta la Chiesa fosse attaccata. Sotto tali condizioni Federico si riconciliò colla santa sede; ed il papa, tanto tempo suo nemico, ben tosto ricorse a lui contro que' medesimi Francesi che aveva fino allora protetti[109].

Dacchè Bonifacio VIII ebbe ottenuto il papato, più non si curò di nascondere due dominanti qualità del suo carattere: un orgoglio senza pari ed un impeto che s'accostava al furore, quand'era contrariato. Per giugnere alla tiara aveva saputo in molte occasioni regolarsi con destrezza e piegare con simulata moderazione alle altrui voglie; ma risguardando poi queste qualità come sconvenevoli ad un capo della cristianità, voleva vincere di fronte ogni ostacolo. E perchè aveva da principio abbracciati gl'interessi della casa di Francia, erasi mostrato il più implacabile nemico de' suoi nemici, perseguitandoli con una acerbità tale, che sembrava escludere qualunque speranza di riconciliazione, onde aveva fatta la guerra otto anni a Federico di Sicilia con non minore accanimento di Carlo d'Angiò. Quando del 1298 Alberto d'Austria, ribellatosi contro Adolfo di Nassò, si fece incoronare in sua vece re dei Romani, e poco dopo lo vinse in una battaglia, in cui Adolfo fu ucciso, Bonifacio non solo rifiutò di conoscerlo, ma lo trattò da traditore e da ribelle; e postasi la corona sul proprio capo, prese una spada e gridò: «Il Cesare sono io, io l'imperatore, io che difenderò i vilipesi diritti dell'impero[110].» Lo stesso papa, che trattava con tant'altura i sovrani, non aveva verun riguardo d'inimicarsi i grandi prelati e signori di Roma. Il mercoledì primo giorno di quaresima, mentre faceva l'augusta e commovente cerimonia della chiesa romana di spargere la cenere sul capo degli uomini più superbi per ricordar loro la nullità della propria esistenza ed il prossimo fine, quando venne la sua volta gli s'accostò per ricevere le ceneri Porchetto Spinola arcivescovo di Genova. Bonifacio gli gettò con violenza la cenere negli occhi, gridando: «Ghibellino! ricordati che tu sei cenere, e che coi Ghibellini tuoi compagni ritornerai in cenere[111].» Ma la circostanza in cui Bonifacio mostrò tutta la violenza del suo carattere si fu nelle lite coi Colonna.

Eranvi nel sacro collegio due cardinali della nobilissima famiglia Colonna, Pietro e Giacomo, i quali si erano mostrati contrari all'elezione di Bonifacio[112] e credutisi abbastanza indipendenti per non nascondere il loro malcontento, poichè la casa Colonna gareggiava di potenza colle famiglie sovrane d'Italia. La città di Palestrina, quelle di Nepi, Colonna e Zagarolo, e molte castella erano di assoluta proprietà della casa Colonna, resa ancora illustre da molti valorosi personaggi. L'aperta inimicizia del pontefice aveva probabilmente consigliati i Colonna a far alleanza col re di Sicilia; e questo fu almeno il pretesto addotto da Bonifacio per fulminare contro di loro una bolla di scomunica che comincia con queste parole:

«Avendo prese in considerazione le abbominevoli azioni dei Colonna ne' passati tempi, la presente loro ricaduta in pessime opere, e le ragioni di temere dal canto loro una non meno criminosa condotta in avvenire, ci hanno evidentemente dimostrato che l'odiosa casa Colonna è amara ai suoi domestici, d'aggravio ai suoi vicini, nemica della repubblica romana, ribelle alla santa Chiesa, perturbatrice del riposo della città e della patria, incapace di soffrire eguali, ingrata ai beneficj, troppo arrogante per servire, troppo ignorante per comandare; straniera alla modestia, agitata dal furore, priva del timor di Dio, senza rispetto per gli uomini, tormentata dal desiderio di turbare la città e tutto l'universo.» Dopo queste invettive tanto indegne di un padre de' fedeli, e così malsonanti in bocca di qualunque sovrano, Bonifacio accusava i Colonna di avere approvata ed incoraggiata la rivoluzione dei Siciliani e dei re d'Arragona, rimproverava loro di non aver voluto dargli in mano le città e castella che possedevano, ed in conseguenza egli privava Pietro e Giacomo Colonna della dignità cardinalizia, gli spogliava di tutti i beni e di tutte le rendite che loro appartenevano e gli assoggettava alla scomunica con tutti coloro che prenderebbero la loro difesa: escludeva i loro nipoti, fino alla quarta generazione, dalla facoltà d'entrare negli ordini sacri, e per ultimo scomunicava chiunque osasse asserire che Pietro e Giacomo Colonna erano ancora cardinali[113].

Ad una così violenta bolla risposero i Colonna con un manifesto, nel quale dichiaravano: di non riconoscere Bonifacio per papa e capo della chiesa; che Celestino V non ebbe il diritto, e forse nemmeno la volontà d'abdicare; che l'elezione del suo successore, fatta mentre egli ancora viveva e regnava, era di sua natura invalida ed illegittima. Questo manifesto accrebbe il furore del papa, che con una seconda bolla confermò la sentenza di deposizione e di scomunica, incaricando gl'inquisitori di perseguitare per delitto d'eresia i Colonna e tutti coloro che avevano le loro opinioni. Indi fece pubblicare contro di loro la crociata con indulgenza plenaria a favore di coloro che vi prenderebbero parte[114].

Il papa non era intenzionato di limitarsi ai soli castighi ecclesiastici, ma, dopo aver atterrato i palazzi de' Colonna in Roma, mandò l'armata crociata ad assediarne le fortezze sotto la condotta dei due legati Matteo Acquasparta, cardinale di Porto, ed il vescovo di san Rufino, che ne presero molte d'assalto: ma Palestrina fece una lunga resistenza; onde si vuole che Bonifacio, disperando omai di sottometterla, chiamasse a dirigerne l'assedio Guido di Montefeltro, quello stesso che del 1282 aveva compiutamente rotti i Francesi a Forlì, e più tardi difesa Pisa dai Guelfi. Questo generale ghibellino, che si era nella milizia reso così illustre, aveva abbandonato il mondo, e viveva penitente vestito dell'abito francescano. Bonifacio, in virtù del suo giuramento d'ubbidienza alla santa sede, gli ordinò d'esaminare come potrebbe prendersi Palestrina, promettendogli plenaria assoluzione di tutto quanto potrebbe fare o proporre contro i dettami della propria coscienza. Guido cedette alle istanze di Bonifacio, esaminò le fortificazioni di Palestrina, e non trovando alcun lato debole per poterla superare a viva forza, tornò al papa chiedendogli di assolverlo ancora più espressamente da ogni delitto ch'egli aveva commesso, o che poteva commettere nel consigliarlo, e quando fu munito di quest'ampia assoluzione: «Io non ci vedo, gli disse, che un solo mezzo, promettere molto e mantener poco[115].» Dopo avere così consigliata la perfidia, si ridusse di nuovo al suo convento. Bonifacio offrì agli assediati ogni larga condizione; accordando il perdono ai Colonna se entro tre giorni si presentavano al suo tribunale. La città s'arrese; ma la sua vendetta non fu compiuta per avere i Colonna avuto sentore che il papa li voleva tutti condannare alla morte: approfittando di tale avviso, e non avendo più alcun castello nella campagna di Roma che potesse tener lungo tempo, rifugiaronsi in lontani paesi, ed alcuni ottennero asilo in Francia da Filippo il bello.

Malgrado il favore che Bonifacio aveva in generale mostrato a tutta la casa di Francia, aveva già avuto qualche disputa col re Filippo, il quale, nè meno intollerante essendo, nè meno iracondo di Bonifacio, aveva più presenti le ingiurie che i beneficj. Per un insigne tradimento Filippo teneva in prigione Gui, conte di Fiandra, ed i due suoi figliuoli che per far levare l'assedio di Gante avevano con Carlo di Valois sottoscritto un trattato che Filippo non voleva riconoscere. Bonifacio instava per la liberazione di questi prigionieri, ed il re si teneva offeso da queste istanze che facevano più manifesta la vergogna del suo operare. Inoltre il papa aveva voluto interporsi per terminare la guerra tra la Francia e l'Inghilterra, e Filippo aveva risguardato tale atto come un attentato a' suoi diritti. Per ultimo il papa aveva, senza il consentimento del re, eretto un nuovo vescovado a Pamiers, nominando il nuovo vescovo legato apostolico in Francia[116].

Sebbene in diverse occasioni avesse accordate ai principi francesi annate e decime per la guerra di Fiandra, talvolta aveva però cercato di chiudere il tesoro ecclesiastico, o per lo meno che si dispensasse con maggiore economia che non voleva un principe sempre avido di denaro. Il re dal canto suo aveva proibito l'esportazione del danaro del regno, onde privare la corte di Roma di una specie d'entrata che percepiva sulle coscienze de' suoi sudditi[117]. In occasione di qualche alterco avuto col vescovo di Pamiers, lo aveva fatto imprigionare, ed intentata contro di lui un'accusa che lo faceva colpevole di ribellione e di lesa maestà: e perchè il papa, oltre questa violazione delle immunità ecclesiastiche, gli rimproverava d'essersi appropriate le entrate di molte mense vescovili, Filippo pensò di munirsi, contro l'autorità della Chiesa, di quella degli stati del suo regno[118].

Fu questa la prima volta in cui la nazione ed il clero di Francia si mossero per difendere le libertà della Chiesa gallicana. Avidi di servitù, chiamarono libertà il diritto di sacrificare perfino le coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che loro offriva contro la tirannide un capo straniero ed indipendente. In nome di queste libertà della Chiesa, fu al papa ricusato il diritto d'informarsi intorno alle tasse arbitrarie che il re imponeva al suo clero, all'arbitraria prigionia del vescovo di Pamiers, all'arbitrario sequestro delle entrate ecclesiastiche di Rheims, di Chartres, di Laon, di Poitiers; rifiutossi al papa il diritto di dirigere la coscienza del re, di fargli delle rimostranze intorno all'amministrazione del suo regno e di punirlo colle censure ecclesiastiche quando violava i giuramenti[119]. Non è a dubitarsi che la corte pontificia non avesse manifestata una ambizione usurpatrice; ed i re avevano ragione di cautelarsi contro la sua prepotenza: ma i popoli dovevano anzi desiderare che i sovrani despotici riconoscessero al di sopra di loro un potere venuto dal cielo che li fermasse sulla strada del delitto; e se i papi, invece di farsi dipendenti di Filippo il bello, fossero sempre rimasti a lui superiori, la Francia sarebbesi almeno salvata dall'obbrobrio della condanna de' Templari.

Mentre il clero scriveva al papa per riclamare le sue così dette libertà, i gentiluomini francesi procedevano ancora con maggior impeto verso il capo della Chiesa. Quegli stessi uomini, che avevano poc'anzi trucidati gl'innocenti abitanti dell'Arragona e della Sicilia perchè il papa aveva conceduti que' regni ad uno de' loro principi, osarono per servire al loro re d'intentare un processo contro lo stesso papa. Guglielmo di Nogaret presentò, il 12 marzo 1301, una supplica al re, in presenza de' principi del sangue e de' vescovi, colla quale accusava Bonifacio di simonia, d'eresia, di magia e di altri enormi delitti, chiedendo l'assistenza del re onde adunare un concilio generale per liberare la Chiesa dalla sua oppressione[120].

Bonifacio non era uomo da lasciarsi soverchiare in fatto di violenze: convocò a Roma un'assemblea del clero francese ad oggetto di riformare gli abusi introdotti dal re nell'amministrazione civile ed ecclesiastica del regno[121]; e perchè il re vietò al suo clero d'andare a Roma, Bonifacio fulminò la scomunica generale contro tutti coloro che impedissero ai Cristiani d'avvicinarsi alla sede degli apostoli, qualunque si fosse la condizione de' contravventori, fossero pur anche rivestiti della dignità reale, e sebbene avessero ottenuto il privilegio da qualche papa di non poter essere scomunicati[122]. Questa bolla era diretta contro lo stesso Filippo il bello; e Bonifacio il quale teneva per fermo che quest'atto di severità lo avrebbe indotto a sottomettersi, spedì un legato in Francia con facoltà d'assolvere il re tosto che si fosse ravveduto. Ma invece di sottomettersi, Filippo preparava una tale vendetta che verun principe cristiano nè prima nè dopo osò mai prendersi del capo della Cristianità.

(1303) Guglielmo di Nogaret, quello stesso che aveva prima accusato il papa, partì alla volta d'Italia con Musciatto Franzesi, cavalier fiorentino, Sciarra Colonna ed altri nemici di Bonifacio. Fissò la sua dimora a Staggia, castello posto tra Firenze e Siena, sotto pretesto di essere più vicino alla corte di Roma, colla quale doveva trattare gl'interessi del suo padrone. Il papa abitava allora in Anagni sua patria. Nogareto, che aveva seco condotti circa trecento cavalli, profuse il danaro per farsi degli amici nello stato pontificio e nella stessa città d'Anagni. Quando tutto fu apparecchiato, ed ebbe sicurezza che una porta della città gli sarebbe data in mano da un traditore, si recò con una rapida marcia ad Anagni il giorno 7 settembre in sul fare del mattino: la porta gli fu aperta, ed i Francesi, accompagnati dai partigiani dei Colonna, corsero le strade gridando: Viva il re di Francia, muoja Bonifacio! Entrarono senza ostacolo nel palazzo pontificio; e mentre i Francesi si dispersero subito per gli appartamenti per rubare i molti tesori che il papa vi teneva, Sciarra Colonna solo cogli Italiani si presentò a Bonifacio[123].

È cosa indubitata che i congiurati erano disposti a trucidare il papa; poichè non avevano presa alcuna misura nè per condurlo via, nè per custodirlo sicuramente ov'era. Ma questo vecchio, reso venerando dall'avanzata età di ottantasei anni, e che, quando senti avvicinarsi i nemici, aveva vestiti gli abiti pontificali, ed erasi posto a ginocchio pregando innanzi all'altare, incusse, malgrado loro, un insuperabile rispetto ai congiurati: minacciarono bensì di tradurlo a Lione prigioniero per esservi giudicato da un concilio; ma non osarono portar la mano sulla sua persona[124]; e Guglielmo di Nogareto rimase interdetto quando Bonifacio si fece ad interpellarlo se da lui, siccome da discendente da una famiglia eretica, doveva aspettarsi la corona del martirio. I Francesi continuarono tre giorni a saccheggiare i tesori di Bonifacio senza nulla risolvere intorno al loro prigioniero. Finalmente il popolo d'Anagni, ch'era stato sorpreso e che in quel primo istante pareva quasi favorire i congiurati, eccitato dal cardinale Fiesco a prendere le armi, attaccò i Francesi, gli scacciò dal palazzo e liberò Bonifacio.

Ad ogni modo i malvagi desiderj del re di Francia ebbero compimento, senza che bisogno vi fosse di adoperare la spada contro il pontefice; il quale avendo sofferto tre giorni di spavento e di angosce in mano de' suoi nemici, perdette quasi affatto l'uso della ragione, e cadde infermo: fu trasportato a Roma immediatamente siccome in luogo di maggiore sicurezza, e confidato agli Orsini, che supponevansi nemici dei Colonna. Ma ben tosto fu o credette di essere egualmente da loro trattenuto. Reso estremamente geloso del suo potere e della sua indipendenza, perchè statone privo tre giorni, risguardava qualunque menomo atto di resistenza come un attentato contro la sua autorità. Dall'altro canto, o sia che gli Orsini volessero nascondere al pubblico lo scandalo d'un papa frenetico, o pure che, sotto tale pretesto, lo ritenessero d'accordo coi Colonna veramente prigioniero, un giorno che Bonifacio voleva uscire dal Vaticano ed andare a Laterano ove pensava di porsi sotto la protezione degli Annibaldeschi, i due cardinali Orsini gli vietarono l'uscita, forzandolo a rientrare nelle sue camere[125].

Il vecchio, fremente di rabbia, fu lasciato solo con Giovanni Campano mostratosi a lui fedele in ogni circostanza, il quale lo andava esortando a sostenere coraggiosamente la sua sventura, confidando nel consolatore degli afflitti, che vi apporterebbe rimedio: ma Bonifacio, non rispondendo una sola parola, cogli occhi travolti, colla schiuma alla bocca, faceva sentire lo stridore dei denti e ricusava ogni alimento. All'avvicinarsi della notte parve che la sua frenesia prendesse maggior forza, e passò tutta la notte senza chiudere gli occhi. Finalmente quando trovossi affatto affievolito dall'eccesso dei patimenti della sua anima intollerante, ordinò ai domestici che gli stavano intorno, di ritirarsi, e rimasto affatto solo si chiuse per di dentro col chiavistello. Quando dopo avere aspettato lungo tempo, i suoi domestici forzarono la porta, lo trovarono sul letto freddo assiderato. Il bastone che portava in mano era rosicchiato e lordo di schiuma; e vedendogli i bianchi capelli rosseggianti di sangue, si conghietturò che, dopo avere violentemente dato del capo contro le pareti, si fosse poi gettato sul letto, e che, copertosi il capo colle coltri, morisse soffocato sotto le medesime[126].

CAPITOLO XXV.

Considerazioni intorno al tredicesimo secolo.

Abbiamo terminata la storia del tredicesimo secolo; d'un secolo nel quale i popoli successivamente e vanamente facendo sperienza di varie costituzioni popolari, soggiacquero a tutte le calamità che sogliono accompagnare una disordinata libertà; di un secolo per altro che preparò la più grande rivoluzione dello spirito umano, e diede la poesia e le arti alle moderne nazioni[127]. Niun'epoca merita forse di essere più attentamente esaminata dal filosofo; niuna contiene in sè il germe d'idee più vaste, di più importanti avvenimenti.

Tra le cose che sotto il rapporto politico formano in questo secolo il principale carattere dello spirito delle città libere sono l'odio del popolo contro la nobiltà ed i tentativi de' legislatori popolari per trovare una guarentia dell'ordine sociale, ora nella proprietà e talvolta contro la stessa proprietà. La quistione della proprietà come limitante, o come la sola che dia i diritti politici ai cittadini degli stati liberi fu nuovamente discussa anche nella presente età; ma coloro che la esaminarono, non conoscevano gli sperimenti fatti dai nostri maggiori in un secolo veramente libero, e con que' mezzi di buon successo che la provvidenza non accordò a tutti i tempi. Crediamo di non iscostarci dal nostro argomento, prendendo qui ad esaminare in un modo più esteso i saggi di costituzione che si fecero in Italia, sotto i loro rapporti colla proprietà, e cercando di riconoscere nell'attenta considerazione di questi rapporti i veri principj dell'ordine sociale.

Ma prima di tutto conviene rimuovere una distinzione, o a dir meglio una disputa di parole, intorno alla quale si è molto insistito per uniformarsi alle idee popolari d'ogni secolo, benchè le cose e le idee rappresentate da questi diversi vocaboli fossero precisamente le medesime. Nell'età di mezzo si parlava dei diritti esclusivi dei nobili; oggi di quelli dei proprietarj delle terre: con questi due vocaboli, talvolta in opposizione l'uno coll'altro, s'intese però sempre la stessa classe di persone. Di questa classe si formò sempre un'idea composta; e l'autorità ed il credito che si volle confidarle furono sempre il risultamento di due diverse attribuzioni ch'ella riunisce. L'idea d'una fortuna, che non può venir meno, affatto inseparabile dalla sorte della patria, si unì alla speranza della perpetuità ed all'idea d'una più accurata educazione, di sentimenti più elevati, d'uno spirito di famiglia, di uno spirito di corpo attaccato all'onore di lontane memorie.

Il legislatore de' secoli di mezzo non aveva considerata la nobiltà come separata dalle sue proprietà territoriali; non aveva supposto che fosse una prerogativa soltanto inerente al sangue, che non si potesse acquistare col merito, o ancora più semplicemente colla mutazione della ricchezza mobiliare nell'immobiliare. La storia delle repubbliche d'Italia ci presenta in ogni generazione famiglie commercianti che, fatte proprietarie, si risguardarono come divenute nobili. I Cerchi di cui abbiamo poc'anzi parlato, gli Albizzi, gli Alberti ed i Medici, che ben tosto vedremo sorgere in Firenze, e gli Adorni ed i Fregosi in Genova sono notissimi esempi. Ma si aveva una certa quale vergogna ad attribuire tanto merito alla ricchezza, che sola potesse collocare un uomo nel primo rango della società; nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara, che è tra gli uomini grandissima, delle ricchezze; nè stabilire il principio che i beni, in qualunque modo acquistati da un plebeo, gli dessero un giusto titolo per essere rispettato ed ubbidito dai suoi eguali.

Anche nell'età nostra quegli economisti, che ne' nuovi loro sistemi vollero ammettere il principio che la patria appartiene ai soli proprietarj delle terre, e che sono essi soli i cittadini, non hanno però supposto che la proprietà desse una sufficiente base all'ordine sociale in qualunque modo si acquistasse; cosicchè coloro, che coll'assassinio si rendessero padroni di un governo, possano, dividendosi le terre dei viventi, acquistar subito i sentimenti patriotici e gl'interessi sempre conformi a quelli dello stato, come li suppongono alla classe de' proprietarj. Perciò gli economisti richiedono una lunga trasmissione, onde l'antico rispetto pel diritto di proprietà guarentisca il futuro rispetto per lo stesso diritto e per tutti gli altri. Domandano essi lontane ricordanze e lontane speranze, affezioni locali, fierezza nata dall'indipendenza, quella benevolenza che mantiene una professione immune dalle gelosie, la confidenza che eccita una fortuna non sottoposta agli accidenti nè al capriccio degli uomini, il lustro ereditario delle virtù degli antenati, finalmente la nobiltà: che se essi non proferiscono questo vocabolo, è solamente per un vano rispetto pei pregiudizj del secolo; ed è ancora talvolta perchè si escludono essi medesimi dalla nobiltà, ponendosi per altro tra i proprietarj territoriali; e perchè tutto accordando alla classe cui danno esclusivamente i diritti di cittadinanza, vogliono ad ogni modo registrare sè medesimi in questa classe.

Effettivamente molte virtù sembrano ereditarie nella classe dei nobili o proprietarj delle terre; e se una nazione dovesse governarsi da un solo ordine dello stato, niun altro, senza dubbio, potrebbe scegliersi a preferenza di quello. Ma fortunatamente le nazioni non sono ridotte alla vergognosa necessità di crearsi dei padroni; esiste una legge, una legge universale, senza eccezione, che condanna le nazioni alla servitù qualunque volta esse avranno attribuite ad una classe, ad un uomo, o ancora ad una sola assemblea, quand'anche dovesse formarsi di tutti gli uomini della nazione, la totalità del sovrano potere; qualunque volta non sarannosi conservati indipendenti dal governo il diritto ed i mezzi di resistenza, che guarentiscano gl'individui dalle usurpazioni del potere sovrano, impediscano che la libertà civile sia violata dai governanti, e mostrino che i cittadini non rinunciarono a tutti i loro diritti individuali per rifonderli nello stato di cui sono membri. Nè vi è, nè può esservi governo libero senza essere misto, cioè quello nel quale una sola parte della nazione non possa appropriarsi tutti i poteri ed essere rivestita della sovranità, nè un'altra parte essere oppressa e spogliata di ogni diritto politico e di ogni partecipazione al supremo potere: non può esservi altro governo libero se non quello in cui l'equilibrio, mantenendo la libertà, non lasci sussistere nello stato una tale potenza, che possa impunemente violare il contratto sociale; che quello finalmente nel quale sta la potenza sovrana; ma che non sia sovrano, se non è la stessa nazione, poichè la sola nazione riunisce tutti i diritti che costituiscono la sovranità.

Non è perciò a credersi che tutti gli uomini debbano o possano avere ugual parte alla sovranità; che per lo contrario l'influenza loro sul governo dev'essere proporzionata all'affetto ch'essi sentono; e le inferiori classi del popolo, che non hanno che un'imperfetta o niuna idea del governo, non hanno nè meno il più delle volte attaccamento al medesimo. Non conviene nè pure interrogarli intorno a ciò che non ha potuto essere oggetto de' loro pensieri; il loro suffragio di comando o d'imitazione non esprime che il voto degl'intriganti che le dirigono. Ma queste medesime classi arrivano a sentire quando sono oppresse, sacra è la loro voce quando l'entusiasmo della virtù le spinge a rendere uno spontaneo omaggio agli uomini più eroici della nazione: se loro vengono interdette le lagnanze, se sono sprezzate le loro scelte, la tirannide pesa sopra di loro, e la nazione ha cessato d'essere libera.

I talenti, le ricchezze, i natali, sono cagione di un'infinita disuguaglianza tra gli uomini; e coloro che riuniscono questi vantaggi, sono più capaci che gli altri di governare i loro compatriotti. Alla maggiore attitudine pel governo vi hanno fors'anche maggiore diritto degli altri. I talenti li rendono più capaci di fare il ben pubblico, e la ricchezza lega il loro interesse alla pubblica prosperità, come i natali all'onore nazionale. La società deve perciò approfittare della loro distinzione, e non confonderli nella folla dei cittadini inetti al governo; ma in pari tempo deve avere cura di non affidar loro tutti i suoi diritti. La società, abbandonata come una proprietà ai dotti, corre pericolo d'essere sagrificata a vane teorie, perciocchè i filosofi potrebbero con crudeli esperimenti far prova su di lei delle pericolose loro astrazioni. Abbandonata ai ricchi, sarebbe come un podere messo a profitto dal loro duro egoismo; la ferrea mano della necessità s'aggraverebbe sopra i poveri; e la prosperità, che altro non è se non che una concessione dell'ordine sociale, un privilegio accordato a pochi pel vantaggio di tutti, sarebbe resa più sacra che la sanità e la vita degli uomini. La società, assoggettata alla nobiltà, vedrebbe le sue classi inferiori avvilite dai nobili che si risguarderebbero quasi d'una natura diversa dai vili plebei, perciò conculcati ed oppressi. In vano questi riclamerebbero la protezione delle leggi, tutte rivolte a favorire la casta privilegiata, cui apparterebbero esclusivamente la gloria e gli onori. Il segreto della legislazione consiste nello stabilire la guarentia nazionale della libertà, conservando ad ogni classe, ad ogni ordine, ad ogni individuo i suoi diritti, i suoi privilegi, la sua influenza sopra la società in proporzione dell'interesse che può prendervi. Ma il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agli individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all'intera nazione; che in niuna parte trovisi colui che potrebbe volere, in nome di tutti, tutto quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, imporre a tutti i sagrificj che ogni individuo potrebbe acconsentire d'imporsi.

Per altro, dicono gli economisti, la nazione è composta soltanto di proprietarj di terre; e come potrebbesi supporre una lega tra questi per escludere da un paese tutti i non proprietarj, così deve ammettersi che rimangono in arbitrio de' proprietarj le condizioni sotto le quali accordano agli altri la facoltà di abitare nel loro terreno[128]. Strano raziocinio, dal quale potrebbesi pure dedurre la perfetta schiavitù di tutti coloro che non sono proprietarj; perchè non è più difficile il supporre un accordo di tutti i proprietarj dell'universo, come di tutti quelli di una nazione. E quale sarebbe adunque la misura delle umiliazioni, cui sarebbero costretti di soggiacere gli uomini scacciati in ogni luogo? A meno che non violassero le leggi, dice il già citato economista. E chi può dubitarne, che dovrebbero violare le leggi, quando le leggi altro non fossero che il risultamento della volontà di una classe usurpatrice, che avrebbe spogliata la nazione della sua eredità, quando la proprietà che non ha che la garanzia del contratto sociale, sarebbe considerata come principio del diritto di distruggere tutte le guaranzie che il contratto sociale ha riservate per tutti i cittadini.

Sappiano adunque gli economisti, che il loro sistema venne compiutamente adottato, e che, per lo spazio di molti secoli, la sovranità tutta intera fu abbandonata ai soli proprietarj del suolo; giacchè tutto il terreno d'Europa era stato diviso tra i nobili, i quali altro non erano che soldati, e che in tutto l'Occidente più non rimaneva una sola particella di terra, che non fosse proprietà di qualche gentiluomo. Questi proprietarj prescrissero a coloro che volevano abitare sul loro suolo, una sola condizione, la servitù: e perchè non rimanesse veruno asilo aperto a coloro che non volevano soggiacere a tale condizione, i proprietarj convennero di rinviarsi vicendevolmente i fuggitivi[129]. Ma grazie alla provvidenza ed allo spirito di libertà, che si alimenta e si solleva per le riunioni degli uomini, questa legge fu violata. Dovunque sopra la proprietà d'un nobile, le prossime abitazioni de' mercanti e degli artigiani formarono una città, i borghesi di questa città, colle armi alla mano, costrinsero il nobile proprietario a rinunciare alle sue tiranniche pretensioni, ed a riconoscere egli medesimo i limiti del diritto di proprietà. In tal modo dal decimo fino al dodicesimo secolo, gli uomini privi di proprietà territoriale riconquistarono la libertà per le future generazioni.

La lite tra i nobili proprietarj delle campagne ed i borghesi stabiliti nelle città aveva omai cambiata natura ed oggetto nel tredicesimo secolo. I primi riconoscevano la libertà civile dei secondi, e protestavano di rispettarla; ma chiedevano, per un riguardo dovuto alla loro nascita, e per il decoro delle repubbliche alle quali erano essi incorporati, di essere esclusivamente incaricati dell'amministrazione dello stato. Eglino soli, dicevano, potevan nutrire o affamare le città, di cui erano parte, eglino soli erano radicati al suolo, e non potevano separare il loro particolare interesse da quello della patria, mentre avevano veduto sorgere nelle città certe fortune mobili che potevano prosperare in mezzo alle calamità pubbliche, ed essere dai commercianti facilmente sottratte a tutte le rivoluzioni. Questi nuovi ricchi, soggiugnevano, si sottraggono facilmente alle leggi, e non guarentiscono la società del loro attaccamento e della loro ubbidienza: stranieri alla propria città, saranno assai più che ai naturali loro magistrati, subordinati al soldano che regna in Antiochia e conquista san Giovanni d'Acri, all'imperatore di Costantinopoli o al re di Francia, ove tengono i loro banchi e le ricchezze.

Dall'altra banda i mercanti, che per un generoso attaccamento alla patria, sostenevano quasi soli le gravezze dello stato sopra quelle loro sostanze che i finanzieri della repubblica non avrebbero potuto ferire, si sdegnarono a ragione vedendo che si tentava di escluderli da quella sovranità ch'essi avevano conquistata e di cui erano tuttavia il principale sostegno. E siccome non è mai vero che una qualunque classe abbia sola un interesse sempre conforme a quello dello stato, potevano vittoriosamente rispondere alle allegazioni de' gentiluomini. Questi pretendevano di alimentare il popolo, perchè tutto il grano raccoglievasi nelle loro terre; i mercanti perchè somministravano al popolo tutto il danaro per comperarlo. Avevano ancora fatto assai più; avevano dato ai gentiluomini i mezzi per coltivare le terre: ed i frutti della campagna non sono meno dovuti al terreno che li porta, che al capitale mobiliare che li fa nascere. È vero che i negozianti non danno garanzia allo stato, anzi ne esigono una essi dallo stato, la libertà. Fedeli alla patria finchè si manteneva libera, e ne avevano date luminose prove in tempo delle sue calamità, non erano uomini che un tiranno potesse cogliere ed incatenare. In mezzo al libero mare, o viaggiatori in mezzo a nazioni schiave, maturavano nell'esilio i giorni della vendetta e della libertà; mentre i nobili, venduti ora agl'imperatori ora ai condottieri, oppure ai piccoli tiranni che avevano eretto un principato in mezzo ai loro eguali, avevano pur troppo provato ch'essi lasciavansi incatenare dalle loro proprietà territoriali, e che tali proprietà non erano già una guarenzia del loro amore per la patria, ma della loro obbedienza in tempo di pace al padrone, qualunque egli si fosse, e della viltà loro in tempo di guerra in faccia a qualsiasi nemico purchè potesse occupare o guastare le loro campagne. Finchè i nobili veneziani, dedicati interamente alla mercatura, non possedettero poderi al di là delle loro lagune, sprezzarono gli sforzi de' barbari e dell'intera Europa alleata contro di loro: ma quando investirono una porzione delle loro fuggitive fortune nell'acquisto di fondi in terra ferma, s'attaccarono essi medesimi al collo quella catena colla quale ogni potente nemico poteva legarli. «Quale fu, cittadini, la politica de' nostri antenati?» diceva il conte Ugolino ai Pisani, quando voleva persuaderli a fare la pace coi Guelfi. «Essi conquistarono la Sardegna e la Corsica; desiderarono ricchezze e signorie oltre mare; ma vollero mantenersi amiche le vicine città. Non contesero ai Fiorentini il loro vasto e ricco territorio: ed infatti qual giovamento possiamo sperare dalla presente guerra con Firenze? ad inimicarci i nostri sudditi di Buti e di Calcinaja, perchè le loro proprietà vengono guastate; ad esporci a dolorose umiliazioni per beni che non costituiscono la nostra vera ricchezza[130]

Per altro non erano proprietarj i soli nobili: eranvi due altre classi d'uomini che avevano delle terre, cioè i mercanti possessori di case in città e di ville in campagna, ed i contadini che le repubbliche avevano liberati dalla schiavitù. Ma i primi, la di cui proprietà mobiliare era spesso le trenta e le cinquanta volte maggiore de' beni stabili, non avevano peranco adottati i sentimenti che inspiravano ai gentiluomini una proprietà composta di soli terreni; e sebbene il trionfo d'un partito fosse quasi sempre accompagnato dalla demolizione delle case e dal sequestro de' fondi della contraria fazione, conservavano non pertanto anche in mezzo alle rivoluzioni l'indipendenza del loro carattere. Dall'altro canto i contadini non si prendevano pensiere de' pubblici affari ed ubbidivano senza deliberare a chi voleva loro comandare. Agli uomini della più bassa classe non possono essere ispirate idee superiori alla circoscritta periferia degl'interessi domestici, nè si può far loro sentire l'esistenza d'una nazione cui devono le loro cure, che coll'abitudine delle adunanze e della vita cittadinesca.

Finchè i mercanti delle repubbliche italiane non domandarono di partecipare alla sovranità, che proporzionatamente all'interesse che prendevano alla prosperità della loro patria, la loro domanda era giusta e consentanea ai diritti d'un popolo libero. Ma l'irritamento di una lunga lite, l'ambizione accresciuta dai prosperi avvenimenti e dai disordini degli avversarj, spinsero questi nuovi capi di popolo al di là d'ogni confine; talchè negli ultimi vent'anni del tredicesimo secolo, non contenti di dividere le prerogative della nobiltà, s'arrogarono esclusivamente il governo delle repubbliche, che incominciarono allora a risguardarsi come potenze mercantili. Niuno poteva appartenere in Firenze al consiglio dei priori, senza esercitare personalmente la mercatura o un mestiere[131]. Lo statuto, che istituisce i nove signori e difensori del comune di Siena, vuole che sieno mercanti e della classe mezzana[132]; e gli anziani di Pistoja dovevano essere mercanti o borghesi, esclusi a perpetuità gli antichi nobili e coloro che lo stato, in pena de' loro delitti, descriverebbe nel registro de' nobili[133]. Ne' due ultimi capitoli, rendendo conto de' motivi che provocarono tali leggi, abbiamo descritte le rivoluzioni che le precedettero. Nè le città toscane furono le sole che di que' tempi escludessero la nobiltà da ogni incumbenza governativa. I Modenesi avevano un registro intitolato libro dei nobili, nel quale trovavansi iscritti tutti i gentiluomini con alcuni borghesi associati coi nobili dai tribunali, siccome colpevoli de' medesimi disordini, e quindi egualmente esclusi dalle pubbliche cariche[134]; e la stessa legislazione si stabilì poco dopo in Bologna, Padova, Brescia, Pisa, Genova ed in tutte le città libere.

L'assoluta esclusione de' possidenti da ogni amministrazione fu cagione di gravissimi disordini, non per altro di quelli preveduti dai moderni economisti in simili casi. Il governo fu per molti rispetti parzialissimo ed ingiusto, come lo sarà sempre in mano di una sola classe qualunque; ma non sagrificò le campagne all'industria cittadina, che anzi favoreggiò e protesse l'agricoltura. Ho parlato in altra mia opera de' residui tuttavia esistenti della somma prosperità delle campagne toscane sotto il governo delle antiche repubbliche, e dell'estrema diversità che si ravvisa tra i feudi arricchiti dalla loro unione a qualche repubblica, e quelli che rimasero miserabili sotto il perpetuo dominio degli antichi loro signori[135]. Il governo de' mercanti non si occupò esclusivamente del traffico; che anzi si condusse con maggiore liberalità de' sovrani che loro succedettero. Siccome i negozianti impiegavano la maggior parte delle loro sostanze ne' paesi stranieri, ove non potendo sperare privilegi, limitavansi a domandare la libertà, e perciò erano i primi a darne l'esempio nel proprio stato. Le loro leggi non crearono il monopolio, ed è cosa maravigliosa come essendo tutti mercanti ed i magistrati e gli storici così parcamente abbiano parlato del commercio.

Ma l'aristocrazia de' mercanti, un'aristocrazia plebea, si rese bentosto esosa a tutte le altre classi della nazione. Ben possono risguardarsi come ingiusti i privilegi dei natali; ma ancora più ingiusti sono i privilegi contro la nascita. I nobili non sapevano soggiacere ad una esclusione che loro doveva parer tirannica; ed i cittadini di un ordine inferiore ai borghesi vedevano di mal occhio avviliti coloro ch'erano abituati a risguardare come i più distinti dello stato. Siccome frequentemente la ricchezza è il premio della viltà o del vizio, così non suole, scompagnata dal merito personale o dalla nascita, ispirare confidenza e rispetto. I ricchi borghesi tentarono di distinguersi col nuovo titolo di popolani grassi, onde separarsi dagli inferiori cittadini cui diedero il nome di plebei; ma questa loro opulenza non gli ottenne quella considerazione cui aspiravano: e la nuova nobiltà fu bentosto odiata dall'antica, derisa dal popolo, invidiata da tutti. Attaccata caldamente dagli ordini superiori ed inferiori si difese con modi affatto arbitrarj: «La stessa cagione, dice il segretario fiorentino, che tenne disunita Roma, questa, se egli è lecito le piccole cose alle grandi agguagliare, ha tenuto divisa Firenze; avvegnachè nell'una e nell'altra città diversi effetti partorissero. Perchè le inimicizie che furono nel principio in Roma fra il popolo e i nobili disputando, quelle di Firenze combattendo si diffinivano. Quelle di Roma con una legge; quelle di Firenze con l'esilio e con la morte di molti cittadini si terminavano. Quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero. Quelle di Roma da una egualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città condussero; quelle di Firenze da una disuguaglianza a una mirabile ugualità l'hanno ridotta. La quale diversità di effetti conviene sia dai diversi fini che hanno avuti questi due popoli causata. Perchè il popolo di Roma godere i supremi onori insieme coi nobili desiderava; quello di Firenze per essere solo nel governo, senza che i nobili ne partecipassero, combatteva. E perchè il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili; talchè quella nobiltà facilmente e senza venire all'armi cedeva; di modo che dopo alcuni dispareri a creare una legge, dove si soddisfacesse al popolo ed ai nobili nelle loro dignità rimanessero, convenivano. Dall'altro canto il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso ed ingiusto; talchè la nobiltà con maggiori forze alle sue difese si preparava; e perciò al sangue ed all'esilio si veniva de' cittadini. E quelle leggi che di poi si crearono, non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano[136]

Nelle risse che prima ebbero luogo fra i cittadini ed i nobili, poi fra i primi ed il popolo, la libertà civile fu spesse volte vilipesa, e violati i diritti del contratto sociale; pure in mezzo a tanto disordine, e quando era affatto spenta la libertà civile, non perì la libertà democratica. Formata non di guarenzie, ma di poteri, non assicura alle nazioni nè il riposo, nè l'ordine, nè l'economia, nè la prudenza, ed è solo premio a sè medesima. Niente riesce più dolce ad un cittadino che l'abbia una volta conosciuta, quanto il poter influire sui destini della sua patria, avere parte alla sovranità, e più di tutto il collocarsi immediatamente sotto la legge, e non riconoscere altre autorità che quelle da lui create. Questa maniera di uscire, se posso così esprimermi, da sè, per vivere in comune, per sentire in comune, per far parte d'un tutto, solleva l'uomo e lo rende capace delle più grandi cose. Le passioni politiche formano assai più eroi che le passioni individuali; e sebbene non vi si scorga un immediato rapporto, è pure dall'esperienza dimostrato che sono inoltre più feconde di artisti, di poeti, di filosofi, di letterati d'ogni maniera. Ne fa luminosa testimonianza il secolo da noi descritto. In mezzo alle convulsioni delle sue guerre civili rinacquero in Firenze l'architettura, la scultura, la pittura; vi fiorirono que' grandi poeti che tanta gloria spargono ancora al presente su tutta l'Italia; la filosofia ebbe nuovi ammiratori e seguaci; ed agli studj d'ogni sorte fu dato quel primo impulso, che secondato dalle altre città libere d'Italia, produsse i secoli delle belle arti e d'ogni gentil costume.

L'architettura fu di tutte le belle arti la prima a rinascere ne' secoli di mezzo. Siccome questa non è un'arte imitatrice, e s'innalza al di sopra degli oggetti creati per rappresentare le forme ideali della bellezza simmetrica ed astratta come viene dall'uomo concepita, così è quella tra tutte le arti che presenta più immediatamente il carattere del secolo e fa meglio conoscere la grandezza e l'energia, o la piccolezza della nazione in cui fiorì, dell'uomo che la perfezionò. È questa l'arte che abbisogna meno che le altre delle scoperte delle precedenti generazioni, che col genio e colla forza della volontà può supplire alle minute teorie, alle pratiche, alle discipline che conviene avere imparate prima di farsi creatori nelle altre arti. Le piramidi d'Egitto anteriori al perfezionamento delle altre arti ed ancora delle arti meccaniche, trasmisero in distanza di molte migliaja d'anni la misura della forza e della magnificenza di un popolo che senza tali monumenti si terrebbero per cose favolose. L'imponente cupola di Firenze e cento altri stupendi edificj innalzati nel tredicesimo secolo delle repubbliche italiane, conserveranno egualmente la memoria di questi popoli liberi e generosi, ai quali la storia non rese finora la debita giustizia.

L'architettura del tredicesimo secolo porta ancora sott'un altro aspetto l'impronta de' costumi di quel tempo: ella è affatto repubblicana, e vedesi interamente destinata ad una comune utilità, o ad un comune godimento. Le mura delle città, i palazzi del comune, i templi aperti a tutto il popolo, i canali che portano la fertilità in tutto il territorio, sono opere di questo secolo. Il numero e la qualità degli edificj cominciati nella stessa epoca in tutte le città d'Italia, mostra quanto l'emulazione di tali governi riesca alle belle arti più vantaggiosa, che non il lusso delle monarchie; quanto lo spirito di comunità ove si fanno in su gli occhi del pubblico per fino le case private, incoraggisca gli architetti assai più dello spirito delle monarchie, nelle quali si fabbricano i pubblici edificj sotto gli occhi del principe; per ultimo quanto gli artisti si appaghino più delle ricompense e dell'ammirazione de' loro concittadini, che dell'approvazione e della mercede di un padrone.

I pubblici canali e le mura delle città immediatamente ed unicamente destinate all'utilità appartengono più alle scienze che alle belle arti. Nulla di meno un genio creatore dovette costantemente presedere a queste intraprese, che ci parranno ancora più grandi quando si confrontino colle forze dello stato che le ordinava. Il canale, detto Naviglio grande, che conduce le acque del Ticino a Milano per lo spazio di trenta miglia, intrapreso l'anno 1179, e dopo alcuni anni l'interrotto lavoro ricominciato del 1257 ed in breve tempo ridotto a termine, forma ancora la ricchezza d'una vasta porzione della Lombardia[137]. Nello stesso tempo la città di Milano rifabbricava le sue mura che giravano ventimila braccia, e faceva innalzare sei porte di marmo, la di cui magnificenza le rendeva degne della capitale di tutta l'Italia[138]. Dal canto loro i Genovesi edificarono del 1276 e 1283 le due belle darsene e la grande muraglia del molo, e nel 1295 terminarono il magnifico condotto che da lontanissima sorgente conduce a traverso di aspre montagne in città copiose purissime acque[139]. Tutte le città d'Italia eseguirono in quell'epoca opere dello stesso genere. Le comunicazioni tra paese e paese vennero agevolate col mezzo di solidissimi ponti di pietra fabbricati sui fiumi e coll'aprire comode e sicure strade: e la comodità de' cittadini e l'interna eleganza delle città si risguardarono siccome oggetti degni delle cure di un libero governo[140].

L'architettura religiosa precedette le opere di cui abbiamo parlato. I primi edificj degni della nostra ammirazione, innalzati dagli sforzi uniti de' cittadini, furono destinati ad onorare l'Ente Supremo; e le due città che prima delle altre acquistarono la libertà, Venezia e Pisa, furono quelle che dedicarono i primi magnifici templi alla divinità. La chiesa di san Marco in Venezia, imponente edificio che presenta una strana mescolanza di grandiosità e di barbarie, fu terminata del 1071; ed il duomo di Pisa, il primo modello del gusto toscano, di quel gusto maschio, solido ed imponente che non è nè greco nè gotico, fu cominciato del 1063 e condotto a termine in sul finire dello stesso secolo[141]. Il battistero ossia chiesa di san Giovanni della stessa città ebbe cominciamento del 1152, e la maravigliosa torre, tutt'all'intorno arricchita da duecento sette colonne di marmo bianco, e che potrebbe riguardarsi come il più elegante edificio de' secoli di mezzo, quand'anche la sua inclinazione di sei braccia e mezzo fuori della perpendicolare non richiamasse l'universale attenzione, fu fondata del 1174.

Questi capi d'opera dei Pisani, la bellezza dei marmi ch'essi portavano dal Levante per abbellire i pubblici edificj della loro patria, i monumenti dell'antichità che avevano opportunità di vedere ne' loro viaggi, fecero rivivere in questa città il gusto del bello e del grande, che poi si diffuse in tutta la Toscana[142]. I migliori architetti del tredicesimo secolo o furono Pisani, o allevati in Pisa. Suole risguardarsi come la prima maraviglia dell'arte di quest'epoca il tempio di san Francesco in Assisi, il quale, per testimonianza di Giorgio Vasari, fu innalzato da quel Niccola da Pisa che lavorò ancora nel duomo di Siena, e fu Maestro d'Arnolfo e di Lapo[143]. Arnolfo più celebre che il maestro, dal 1284 fino al 1300 in cui morì, diresse in Firenze le fabbriche della loggia e della piazza dei priori, della chiesa di santa Croce e di quella ancora più magnifica di santa Maria del Fiore. Quest'ultima non fu veramente terminata da Arnolfo, ma fu suo il primo pensiero della stupenda cupola, emula di quella di san Pietro in Vaticano. Lasciò, morendo, incominciata l'opera, senza indicare il metodo che voleva tenere per terminarla: ma il magnifico ardire di colui che progettò una tal cupola, mentre tutti gli altri uomini credevano impossibile il poterla chiudere, ed il sommo ingegno di quell'altro che la innalzò senza ponti, resero gloriosa la memoria di Arnolfo e di Brunelleschi[144].

Nè meno sorprendenti furono i progressi fatti in questo secolo dalla scultura in bronzo ed in marmo, rinnovata dai Pisani, perfezionata dai Fiorentini. Fino nel 1180 Buonanno di Pisa fuse per il duomo della sua patria quella magnifica porta di bronzo che poi perì nell'incendio del 1596. Ma per quanto fosse bello questo lavoro, non aggiugneva di gran lunga alle porte del battistero di Firenze fatte da Andrea Pisano figliuolo dell'architetto Nicola. Si fecero queste del 1300 per uno degl'ingressi del battistero; vinte poi di lunga mano da quelle del Giberti poste ad un altro, le quali Michelangelo giudicava degne del paradiso; comechè non lasciano perciò di essere un maraviglioso testimonio del valore di Andrea nell'arte di lavorare i metalli. Si paragonino queste porte a quelle della basilica di san Paolo di Roma fuor di mura, lavoro de' tempi del magno Teodosio, eseguito dai primi scultori dell'impero, sotto gli occhi di sì grande monarca, quando gli artefici, ovunque si volgessero, vedevano maravigliosi modelli di antiche sculture. Le porte di san Paolo, non iscolpite in rilievo, ma soltanto incise, hanno le linee formanti il contorno delle figure ornate d'argento: malgrado però il sussidio della ricchezza questo lavoro prova l'estremo decadimento dell'arte[145]: per l'opposto le porte del battistero di Firenze sono di alto rilievo, e divise in iscompartimenti che formano altrettanti quadri di squisita bellezza. Tali sono gli effetti del despotismo e della libertà. Tra gli ornamenti del duomo di Firenze osservansi pure alcune statue di marmo dello stesso scultore; altre di Nicolò Pisano, suo padre, abbelliscono la faccia del duomo di Orvieto: ed il padre Guglielmo della Valle assicura che Michelangelo e Luca Signorelli hanno più volte studiati quei modelli[146].

Il tredicesimo secolo produsse pure Cimabue e Giotto, che i Fiorentini risguardano come i ristauratori della pittura, sebbene Pisa, Siena, Bologna e Venezia, pretendano di avere avuti pittori più antichi e non inferiori a questi di merito. È probabile che alcuni pittori portassero in Italia nel dodicesimo secolo il barbaro stile della greca pittura d'allora, i duri contorni, le loro figure in profilo, le goffe ed assiderate loro attitudini. Tutti i quali difetti, a fronte della più barbara maniera degli antichi pittori italiani, venivano imitati ed ammirati come fossero maravigliose cose, se non altro a motivo della vivacità del colorito, e del fondo di oro, che dava qualche rilievo alle loro figure. Ci assicurano il Vasari ed il Baldinucci, che Cimabue, trovandosi in Firenze del 1240, apprese l'arte da alcuni di questi pittori greci; ma che ben tosto, spinto dal suo buon genio, abbandonò quegl'informi esemplari per seguire i migliori che gli presentava la natura. Fu egli il primo che seppe rappresentarla con alquanto di verità; e tutti gli antichi scrittori lo rappresentano come un uomo straordinario, che chiamò sopra di se l'universale ammirazione[147].

Tra il 1270 ed il 1276 nacque a Colle di Vespignano presso Firenze da un povero contadino il suo maggior scolare, Giotto. Un giorno che guardando la sua greggia, stava disegnando sulla terra, fu veduto da Cimabue, il quale colpito dal suo ingegno lo condusse seco in città. «Sotto la direzione di tanto maestro, dice il Baldinucci, si fece a studiare caldamente e fece così rapidi progressi e così maravigliosi, che si può dire aver egli risuscitata la pittura. Egli cominciò a dare qualche vivacità alle teste ed a far loro esprimere qualche passione, l'amore, la collera, il timore, la speranza. Seppe piegare più naturalmente le vesti che prima non si faceva, e scoprì qualche regola degli scorti; finalmente diede alle figure una certa tenerezza, al maestro affatto sconosciuta[148]

Ma al di sopra di Cimabue, di Giotto, e di quant'altri artisti furono allora, deve collocarsi il poeta creatore che diede all'Italia la sua lingua, la sua poesia, la sola energia di cui sappia abbellirsi anche al presente; il poeta che riscaldò sempre ed inspirò tutti i sommi uomini della sua nazione, che diede il proprio carattere a Michelangelo, e che cinque secoli dopo la sua nascita formò Alfieri e Monti[149].

Dante nacque in Firenze del 1265 dalla famiglia guelfa degli Alighieri[150]. Suo padre Aldighiero degli Elisei era stato bandito cogli altri Guelfi dopo la battaglia di Monte Aperto, ma era tornato in Firenze prima de' suoi compagni, quando la città era governata dal conte Guido Novello. Morendo Aldighiero quando Dante era ancora giovanetto, fu dato in cura a Brunetto Latini, riputatissimo filosofo, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, onde col di lui ajuto e del poeta Guido Cavalcanti, suo amico, apprese tutte le scienze allora conosciute, e l'antica letteratura tanto estesamente quanto lo permetteva la poca copia che allora si aveva de' libri classici. Dante aveva in gioventù visitati gli studj di Bologna e di Padova; e dopo esiliato si trattenne alcun tempo nell'università di Parigi per imparare la teologia[151]. Egli aggiungeva a quello delle lettere il gusto delle belle arti, onde fu amico di Oderigo da Gubbio e di Giotto pittori, come pure del musico Casella[152]. Nè l'amore dello studio lo deviò dalla carriera politica e militare, che a niun cittadino di uno stato libero è permesso di abbandonare. Fu nel 1289 alla battaglia di Campaldino, nella quale i Fiorentini ottennero così segnalata ma sanguinosa vittoria sugli Aretini; e nel susseguente anno militò pure contro i Pisani allora capitanati dal valoroso conte di Montefeltro[153].

Coloro che due secoli dopo commentarono il suo poema, volendo in ogni cosa mostrarlo grandissimo, dissero ch'era a lui affidata in gran parte la fortuna della repubblica fiorentina. In una vita inedita di Dante, pretende Maria Filelfo che fosse incaricato di quattordici ambascerie, e che, tranne l'ultima, conseguisse sempre l'intento: tutti poi attribuiscono in gran parte ai suoi consigli la parte presa dai priori, di esiliare i capi delle due fazioni che dividevano Firenze. Ma di ciò niuna testimonianza troviamo presso gli autori contemporanei. Dino Compagni ch'era uno de' priori quando si fece la rivoluzione, e che circostanziatamente descrive le più minute cose, le pratiche, i discorsi, la leggerezza di tutti i Fiorentini allora più influenti, non ricorda altrimenti Dante come uno de' capi dello stato. Nè pure di lui parla Giovanni Villani, che viveva nella stessa epoca, ed era piuttosto parziale della parte dei Neri, siccome Dino lo era dei Bianchi. Lo stesso dicasi di Coppo de' Stefani[154] e di Paolino di Piero, altri scrittori contemporanei che scrissero cronache dei loro tempi[155], onde io inclino a credere che il solo fatto ben avverato della parte presa dal nostro poeta ai pubblici affari, è di essere stato priore dal 15 giugno al 15 agosto del 1299, come vogliono alcuni, e secondo altri del 1300[156]; che fu uno degli ambasciatori mandati a Roma dalla parte Bianca in gennajo del 1302; e per ultimo, che fu compreso in una sentenza d'esilio emanata nella stessa epoca contro seicento cittadini della sua medesima fazione. Viene in tale sentenza accusato d'avere venduta la giustizia, e ricevuto del danaro contro le disposizioni delle leggi; ma lo stesso rimprovero veniva fatto con eguale ingiustizia a tutti i capi del partito vinto. Canto dei Gabrielli era un giudice rivoluzionario che desiderava trovare dei colpevoli, e che si accontentava de' più leggeri indizj per condannarli. Questa sentenza è un curioso documento del costume di que' tempi di mescolare l'italiano al latino; ed è così barbaramente dettata, che pare appositamente fatta per offendere il fondatore dell'italiana letteratura[157].

Invano cercò Dante di rientrare in patria. Gli si fece un imperdonabile delitto d'avere nel 1304 tentato cogli altri fuorusciti di parte Bianca di sorprendere Firenze; di essersi collegato strettamente colla fazione ghibellina, e d'avere fatto istanza all'imperatore Enrico VII di Luxemburgo di prendere in Italia la difesa del suo partito. Per ultimo, siccome il suo carattere estremamente irritabile, e la sua inclinazione alla satira lo avevano reso non meno odioso che formidabile ai suoi nemici, del 1315 fu riconfermata la condanna di perpetuo bando: onde dopo avere viaggiato assai in tutte le parti d'Italia, si stabilì finalmente alla corte di Guido da Pollenta, Signore di Ravenna, ove morì nel settembre del 1321, in età di cinquantasei anni. Nel suo immortale poema si fa profetizzare da Cacciaguida suo trisavolo, la miseria e la dipendenza degli estremi suoi giorni, tanto umiliante per un'anima intollerante e fiera com'era quella di Dante.

«Tu lascerai ogni cosa diletta

Più caramente, e questo è quello strale

Che l'arco dell'esilio pria saetta.»

«Tu proverai siccome sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»

Si fa ancora predire dallo stesso Cacciaguida le nimicizie che si procaccerà coll'amarezza de' suoi rimproveri; ma queste considerazioni cedono a quelle della gloria.

«E s'io al vero son timido amico,

Temo di perder vita tra coloro

Che questo tempo chiameranno antico[158]

Il poema di Dante che gli acquistò sì gran nome, è il racconto, come ognun sa, d'un misterioso viaggio a traverso all'inferno, al purgatorio, al paradiso; fissa l'epoca di tale viaggio dal lunedì santo del 1300 fino al giorno di Pasqua, quando il poeta aveva trentacinque anni; scorre i due primi regni dei morti sotto la direzione di Virgilio, e quello del paradiso in compagnia di Beatrice dei Portinari, che, da lui amata in gioventù, era morta del 1290. Questo poema diviso in cento canti, ciascuno di circa cento cinquanta versi, non è meno sorprendente per gli animati maestosi quadri di questo paese degli estinti che pone sotto ai nostri occhi, quanto per la profonda sensibilità di alcuni episodj e per la ricchezza delle idee e delle cognizioni che fa supporre nell'autore. Abbiamo già prodotti in quest'opera molti passi di Dante, nè egli può essere giudicato che sopra il suo poema.

Due scrittori nati prima che Dante morisse, i quali lo commentarono, ed erano a portata più che tutt'altri di conoscere la sua storia, affermarono che Dante compose i primi canti prima dell'esilio[159]. Parmi cosa assai difficile che trovar si possano autorità di tal peso che distruggano quelle di Giovanni Boccaccio e di Benvenuto da Imola. Le prove desunte dallo stesso poema, che il marchese Maffei, Flaminio del Borgo ed altri addussero contro l'asserzione dei due contemporanei di Dante, non possono troppo valutarsi; imperciocchè non è a dubitare che il poeta non abbia in diversi tempi ritoccato il suo poema, ed aggiunti in varj luoghi versi analoghi alle cose de' tempi in cui faceva que' pentimenti. Il più dilicato squarcio del poema, il commovente episodio di Francesca da Rimini, mostra i riguardi che Dante credeva dovuti a Guido da Pollenta, padre dell'infelice Francesca, e suo ultimo ospite e protettore[160]. Nel primo canto dal verso 101 al 111 trovasi una predizione relativa alla futura grandezza di Cane della Scala, che Dante non ha potuto scrivere prima del 1318, quando Cane fu nominato capo della lega ghibellina. Tutti i commentatori, niuno eccettuato, supposero che si cominci a scrivere un poema dal primo verso, e si prosegua fino all'ultimo senza mai tornare a dietro; lo che essendo vero, ci obbligherebbe a conchiudere che Dante incominciò il suo poema tre soli anni prima di morire, quando non aveva più tutto il vigore della robusta virilità per idearne il vasto piano, quando la sua mente non era più riscaldata dagli insegnamenti di Brunetto Latini, morto del 1294, nè più era incoraggiato ad intraprendere quell'immenso lavoro dal suo amico Guido Cavalcanti, morto avanti l'esilio di Dante l'anno 1302[161].

Una particolarità riferita da molti autori coetanei appoggia il racconto del Boccaccio intorno all'avere Dante abbozzati i primi sette canti del poema avanti d'essere esiliato. Egli sapeva che la copia lasciata a Firenze non era solamente stata veduta da Dino Frescobaldi e da Dino Compagni, che gliela rimandarono, ma inoltre da molte altre persone, alle quali fece del 1304 nascere il pensiere d'una festa affatto strana. Solevasi d'ordinario festeggiare in Firenze il primo giorno di maggio. «In fra le altre cose gli abitanti di san Priano mandarono un bando per la terra, che chi volesse sapere novelle dell'altro mondo, dovesse essere il dì di Calende di maggio in sul ponte alla Carraja e d'intorno all'Arno; e ordinarono in Arno sopra barche e navicelle palchi, e fecionvi la somiglianza e figura dello 'nferno con fuochi ed altre pene e martorj con uomini contraffatti a demonia, orribili a vedere, ed altri, i quali avevano figura d'anime ignude, e mettevangli in quelli diversi tormenti con grandissime gride e strida e tempeste, la quale parea odiosa cosa e spaventevole a udire e vedere, e per lo nuovo giuoco vi trassono a vedere molti cittadini; e il ponte pieno e calcato di gente, essendo allora di legname, cadde per lo peso con la gente che v'era suso; onde molta gente vi morìo e annegò in Arno, e molti se ne guastarono la persona, sì che il giuoco da beffe tornò a vero com'era ito il bando, che molti per morte n'andarono a sapere novelle dell'altro mondo[162].» I due storici che raccontano quest'orribile festa, non nominano Dante, ma non può chiamarsi in dubbio che la lettura de' primi canti del suo poema speditigli da Fiorenza appunto in quest'epoca, non abbiano suggerito il pensiero di rappresentare ciò ch'egli aveva così bene dipinto all'immaginazione, ma che non doveva mai presentarsi ai sensi.

Non v'ha dubbio che la ricorrenza del giubileo non consigliasse a Dante di scegliere l'anno 1300 per il misterioso suo viaggio, sia che scrivesse il poema prima o dopo tale epoca. Un propizio istante per visitare il vasto impero dei morti era quel punto che divideva un secolo dall'altro e gli uomini di due generazioni: oltre che in tale festa secolare eravi qualche cosa che colpiva l'immaginazione, e la forzava a rivolgersi al passato. Bonifacio VIII, appoggiandosi a pretese tradizioni, accordò un'indulgenza plenaria per tutti i peccati a coloro che, essendo confessati, visiterebbero quindici giorni di seguito le chiese di san Pietro e san Paolo in Roma. I soli Romani, perchè non avevano il disagio del pellegrinaggio, dovevano visitarle trenta volte di seguito. Tutti i venerdì e tutte le feste esponevasi all'adorazione de' fedeli il sudario di Cristo, raccolto da santa Veronica. Sebbene Bonifacio, come abbiamo già osservato, ispirasse poco rispetto al mondo cristiano, non si lasciò per questo da tutti i fedeli di essere nel pieno convincimento dell'efficacia delle indulgenze ch'egli accordava; e da ogni parte della Cristianità, gli uomini d'ogni rango, s'affollavano a Roma per partecipare a queste grazie spirituali. Giovanni Villani, che fu uno de' pellegrini, assicura che durante tutto l'anno trovaronsi costantemente a Roma duecento mila forastieri, che giugnevano, visitavano e ripartivano per lasciar luogo ad altri[163]. Questa moltitudine di forastieri che univansi in un sol luogo da tutte le parti del mondo, che si premevano, si urtavano, per disporsi a presentarsi avanti al supremo giudice, viene vivamente rappresentata da quella sempre nuova gente, che Dante vedeva affollarsi per passare l'Acheronte.

«Ed avanti che sien di là discese,

Anche di qua nuova schiera s'aduna[164]

È pure incerta l'epoca in cui si pubblicò la Divina Commedia. Abbiamo veduto che Dante vi fece nuove addizioni l'anno 1318, e che forse continuò a farne fino all'epoca della sua morte. Prima del ritrovamento della stampa, l'epoca in cui un'opera diventava di pubblico diritto non era segnata come al presente, e le opere di Dante erano, non v'ha dubbio, conosciute da moltissimi prima che le avesse rivedute per l'ultima volta. Racconta Franco Sacchetti che il popolo cantava in Firenze i versi della Divina Commedia prima dell'esilio del poeta, il quale non potea frenare la sua collera contro un maniscalco o un asinajo che gli sfigurava cantando[165].

A fronte della severità de' Fiorentini verso Dante e dell'ingiusta loro sentenza, dopo la di lui morte, la pubblicazione del suo poema lo sollevò al posto che meritava di occupare. Ovunque si prese a glossarlo; ed i suoi proprj figliuoli, Pietro e Giacomo, furono i primi ad arricchirlo di note. Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano, adunò del 1350 i sei più dotti uomini di tutta l'Italia, due teologi, due filosofi e due antiquarj fiorentini, affinchè scrivessero un commentario sulla Divina Commedia[166]. A Firenze del 1373 si fondò una cattedra per commentare Dante, ed il Boccaccio fu il primo professore di questa nuova scienza; come Benvenuto da Imola fu il primo che la professasse nell'altra cattedra istituita in Bologna. I Fiorentini chiesero più volte, e sempre invano, le ceneri di Dante ai successori di Guido da Pollenta; coniarono medaglie in suo onore, e coronarono solennemente d'alloro la sua statua nel Battistero.

Dante raccolse nel suo poema così svariate cognizioni, che basterebbe egli solo a provare i progressi che a' suoi tempi avevano fatto le scienze e la filosofia; ma non pochi altri tennero la stessa strada: e sebbene tra questi e Dante si ravvisi la differenza che sempre distingue il genio dai talenti, non è peraltro che non provino anche questi quanto l'amore dello studio e l'ambizione della gloria delle lettere fosse allora universale; e che se Dante s'innalzò al di sopra del suo secolo, fu perchè s'innalzò sopra l'umana natura.

Da questo numero non isceglieremo che Guido Cavalcanti, poeta ad un tempo, filosofo e capo di partito. Boccaccio lasciò di lui scritto in una novella[167]: «Egli fu un de' migliori loici che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale, leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto; ed ogni cosa che far volle ed a gentile uom pertinente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, ed a chiedere a lingua sapeva onorare, cui nell'animo gli capeva che il valesse. Ma Guido alcuna volta specolando, molto astratto dagli uomini diveniva. E perciò che egli alquanto tenea della opinione degli Epicurei, si diceva tra la gente volgare, che queste sue speculazioni eran solo in cercare, se trovare si potesse, che Iddio non fosse.» Le poesie di Guido, la sola delle sue letterarie fatiche a noi pervenuta, non appoggiano quest'accusa d'ateismo; ma n'era stato incolpato anche suo padre, e lo stesso Dante lo credette, poichè, malgrado la sua stretta domestichezza con Guido, pose Cavalcante Cavalcanti nell'inferno tra gli eretici epicurei a lato a Farinata degli Uberti, col quale parlando vede comparire il Cavalcanti:

«Allor surse alla vista scoperchiata

Un'ombra lungo questa infino al mento:

Credo che s'era inginocchion levata.

«D'intorno mi guardò, come talento

Avesse di veder s'altri era meco:

Ma poi che 'l suspicar fu tutto spento,

«Piangendo disse: Se per questo cieco

Carcere vai per altezza d'ingegno,

Mio figlio ov'è, e perchè non è teco?

«Ed io a lui: Da me stesso non vegno:

Colui che attende là, per qui mi mena,

Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.

«Le sue parole, e 'l modo della pena

M'avevan di costui già letto il nome:

Però fu la risposta così piena.

«Di subito drizzato, gridò: Come

Dicesti, egli ebbe? non viv'egli ancora?

Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?

«Quando s'accorse d'alcuna dimora

Ch'io faceva dinanzi alla risposta,

Supin ricadde e più non parve fuora.

............

«Allor, come di mia colpa compunto,

Diss'io, ora direte a quel caduto

Che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto[168]

Dobbiamo per ultimo parlare degli storici del tredicesimo secolo, e di coloro che testimonj degli ultimi anni di questo periodo, comechè abbiano scritto nel quattordicesimo, devono risguardarsi come contemporanei. Niun altro paese del mondo ne produsse quanti l'Italia, ove difficilmente si troverà una città che non abbia il suo storico: ed alcune, come Fiorenza, Padova, ec. possono contarne quattro, cinque ed anche più: perciò dopo il regno di Federico II la storia prende un altro carattere; una profonda conoscenza dei fatti, una perfetta verità nei particolari, una ingenuità piena di grazia, un movimento che proviene dai più veri sentimenti, sono i caratteri di molti storici di quest'epoca: e questi tratti sono quelli che ne rendono aggradevole la lettura, quando ancora non si prenda veruno interesse ai fatti riferiti. Quanto diverse sono queste storie da quelle nojose cronache delle quali abbiamo dovuto valerci nel cominciamento del nostro lavoro, tra le quali ci sforzammo invano di trovare a grandi distanze qualche movimento di vita in mezzo alla più monotona aridità.

Le annotazioni, con cui abbiamo costantemente giustificate le nostre asserzioni, hanno dovuto far conoscere al lettore i nomi e le opere degli storici italiani di quest'epoca, onde diventerebbe inutile una nojosa enumerazione de' medesimi[169]. Ci limiteremo adunque a richiamare l'attenzione del lettore sopra uno o due di coloro che stabilirono la lingua della loro patria, e di coloro che, sempre impiegando la lingua dotta, si avvicinarono i primi all'eleganza ed alla purità de' classici latini che prendevano ad imitare.

Assai diverso è il merito di queste due classi di storici; l'ingenuità e la grazia appartiene esclusivamente ai primi, mentre gli altri, a fronte del maggiore studio e della più ricercata dottrina, non vanno esenti dalla affettazione e della pedanteria. Perciò sempre interessa la lettura del Villani; mentre Ferreto di Vicenza ed Albertino Mussato, malgrado l'amara satira del primo e l'eloquenza del secondo, riescono spesse volte nojosi e pesanti.

La lingua italiana, che Dante aveva fatto conoscere propria alla più sublime poesia, fu in pari tempo adoperata da Ricordano Malaspina, Giovanni Villani, Dino Compagni e dall'anonimo pistojese per iscrivere in dignitoso stile una corretta ed elegante prosa; di modo che anche al presente viene citata l'autorità grammaticale di questi scrittori che fa testo di lingua. Giovanni Villani, di tutti il più celebre, scrisse in dodici libri l'istoria patria dalla sua origine fino al 1348 in cui morì. Per farlo meglio conoscere abbiamo distesamente riportati alcuni suoi passi. Non è ben noto l'anno in cui nacque, ma del 1300, epoca del giubileo, doveva essere già adulto; ed oltre il viaggio di Roma fatto in quell'anno, racconta egli stesso i suoi viaggi fatti in Francia e ne' Paesi Bassi del 1302 e 1304[170], onde potè circostanziatamente raccontare le rivoluzioni di quegli stati, e le guerre di Filippo il bello col conte di Fiandra. Fu due volte priore nel 1316 e 1320; sostenne altre onorifiche magistrature ed importanti ambasciarie per la sua patria; militò nella guerra contro Castruccio; e nello stesso tempo, esercitando la mercatura, venne ruinato dal fallimento della famiglia Bonacorsi, e nella sua vecchiaja (1345) imprigionato per debiti[171]. Una vita così agitata somministrò a Giovanni nuove opportunità per istudiare gli uomini e per descriverli esattamente. Gli storici della Grecia avevano ancor essi corse tutte le carriere pubbliche e private; e sotto diversi rapporti il Villani può paragonarsi ad Erodoto.

Si fa carico al Villani d'avere, senza mai citarlo, copiati lunghi articoli della storia di Ricordano Malespini, che giugne fino al 1280, epoca della morte di Ricordano: ed è verissimo che Villani l'andò qua e là copiando parola per parola, come nello stesso modo fu copiata la storia del Villani da Marchione di Coppo Stefani, il quale, dopo avere adottata l'opera del suo predecessore, la protrasse fino al 1385, epoca della sua morte[172]. Questo doppio plagio non risguardavasi allora come un furto letterario; ogni autore facendo una cronaca manoscritta per uso della propria famiglia o degli amici, occupavasi della autenticità de' fatti, che, rispetto ai tempi antichi, non poteva riferire che dietro l'altrui testimonianza, e non del merito che la propria scrittura poteva procacciargli presso al pubblico. Noi siamo sempre troppo facili a scordarci che l'invenzione della stampa mutò totalmente gli obblighi degli autori e le relazioni loro coi leggitori.

Nelle altre province d'Italia non erasi ancora adottato il dialetto fiorentino come lingua universale[173]; onde troviamo avere alcuni storici del XIII e XIV secolo adoperato nelle loro storie il dialetto del proprio paese, forse allora creduto elegante come il toscano, comechè al presente non venga usato che nel conversar famigliare. Un anonimo pisano, contemporanea del conte Ugolino e di Guido di Montefeltro, ci lasciò alcuni curiosi frammenti dell'istoria della sua patria, scritti in un dialetto pisano, che non è ora adoperato in verun luogo[174]. Matteo Spinelli di Giovenazzo, gentiluomo pugliese, il più antico di tutti gli scrittori volgari, fece uso ne' suoi giornali, che vanno dal 1250 al 1268, dell'idioma napoletano, quale press'a poco parlasi ancora al presente[175]. Egualmente lo storico di Cola di Rianzo scrisse verso la metà del quattordicesimo secolo il suo giornale in lingua romanesca, che s'avvicina assai più all'odierno dialetto napoletano che al moderno della plebe di Roma[176].

La barbarie dei dialetti che si parlavano nel rimanente dell'Italia, ed il rimprovero d'affettazione che sarebbesi dato ad un Lombardo o ad un Siciliano che avesse scritto nel dialetto fiorentino, costrinsero quasi tutti gli altri storici del tredicesimo secolo a fare uso della lingua latina. Ma mentre molti, non conoscendone altro migliore, si valevano del barbaro stile de' notari, alcuni distinti personaggi, ch'eransi interamente dedicati allo studio delle lettere, fecero risorgere, quasi in tutta la sua purità, la lingua degli oratori e de' poeti romani. Questi esclusero affatto dalle loro scritture i vocaboli tedeschi ed italiani adottati specialmente per le cose forensi, e si assoggettarono alla regola, che spesso degenerò in affettazione, di non adoperare espressioni che usate non fossero dagli scrittori del secolo d'Augusto. Devonsi ricordare come capi di questi ristoratori della lingua latina Giovanni da Cermenate, notajo milanese, Albertino Mussato di Padova e Ferreto di Vicenza[177]. L'eleganza del loro stile e le loro poesie storiche gli ottennero in quel secolo molta gloria. Oggi non saprebbesi ammirare questa sorta di scritture in una lingua morta, ove non incontrasi quasi mai il fuoco dell'originalità e l'impulso del genio, ma per lo contrario il solo penoso travaglio della imitazione. Nondimeno non devesi dimenticare che dobbiamo agli sforzi di questi letterati ed al pubblico entusiasmo per le loro opere, lo sviluppo del genio del Petrarca e del Boccaccio, ed in appresso, per le cure di questi due sommi uomini, il rinnovamento dell'antica letteratura. Senza di loro oggi non saremmo forse possessori dell'eredità degli antichi.

CAPITOLO XXVI.

Stato della Lombardia. — Affari della Chiesa; traslazione della santa sede in Avignone. — Assedio di Pistoja. — Condanna dell'ordine dei Templari.

1300 = 1308. Ci siamo lungamente trattenuti quasi soltanto intorno alla Toscana. Quella somma importanza che gli storici fiorentini seppero dare ai loro racconti, il carattere veramente notabile de' loro compatriotti, e per più secoli la sempre crescente influenza della loro repubblica sulla politica del mondo incivilito, collocano Firenze sul davanti del quadro in ogni storia dei popoli d'Italia. Per la stessa ragione non si può scrivere la storia della Grecia senza farne centro la repubblica d'Atene e senza cercare le relazioni di tanti stati indipendenti con quella illustre città, in cambio di tener dietro alle particolarità delle interne loro rivoluzioni.

Però ne' primi anni del quattordicesimo secolo, la Lombardia e tutte le province d'Italia, poste al settentrione degli Appennini, furono agitate da rivoluzioni così grandi che tutta a sè richiamano la nostra attenzione. Ma quell'attenzione non ci conduce sgraziatamente a farci conoscere le particolarità che potrebbero sole darci una soddisfacente idea della più complicata storia del mondo. Quando si fissa la prima volta lo sguardo su questo tratto di storia, si rimane colpiti da quella medesima confusione che presenta un formicajo scompigliato: tutti gl'individui vedonsi animati da un rapido e continuo movimento; ignote passioni li fanno agire; s'incalzano, si attraversano, si sorpassano, si combattono; in modo che l'occhio non può tener loro dietro, nè distinguere gli uni dagli altri.

Ma la storia parziale, la storia circostanziata d'ogni città d'Italia, attribuisce dei nomi a tutti questi personaggi; ci palesa i segreti d'ogni carattere ed i particolari motivi che li fanno agire; sviluppa generose passioni, profondi pensieri, sublimi progetti, in cadauno di que' gruppi, di cui avevamo al primo colpo d'occhio così bassamente giudicato. Quanto più gli andiamo osservando, ci è forza persuaderci che in politica non può ammettersi grandezza relativa; e che tutte le volte che si disputa intorno alla libertà ed alla sovranità, o sia d'un villaggio, o dell'impero del mondo, gl'interessi sono sempre i medesimi, cioè i più grandi e più nobili di cui sia capace il cuor dell'uomo; i talenti sono i medesimi, e lo studio dell'uomo egualmente compiuto. Questa universale agitazione, questa vivacità delle passioni, quest'importanza d'ogni individuo, resero la storia d'Italia una inesauribile sorgente d'istruzione per gli eruditi. Non trovasi città che non abbia almeno tre o quattro storici, e spesso anche più; e ciascheduno storico diventa più interessante in ragione della maggior quantità di fatti minutamente circostanziati che racconta. La sola collezione degli scrittori italiani, dopo la caduta dell'impero di Occidente fino a tutto il secolo quindicesimo, comprende quelli di sessantotto città o province: si fecero a questa collezione molti supplimenti, senza però comprendervi le storie assai più voluminose de' tre ultimi secoli. La bibliografia storica del solo stato pontificio racchiude in un grosso tomo in quarto i nomi soltanto de' particolari storici di settantuna città tuttavia esistenti nello stato della Chiesa, e di sedici città, distrutte[178]. Alcuni secoli di continuata applicazione appena basterebbero per leggerli tutti.

Ciò che accresce la confusione rispetto alla Lombardia, si è che in sul cominciare del quattordicesimo secolo la maggior parte delle città erano governate da un signore o tiranno; giacchè gl'Italiani, in sull'esempio de' Greci, adoperavano questi due nomi come sinonimi; che nello stesso tempo un altro signore, cacciato dal soglio, tramava, nel paese del suo esilio, congiure contro la patria; l'uno e l'altro collegandosi a vicenda al partito de' nobili o della plebe, ai Guelfi o ai Ghibellini: dimodochè ogni principato presentava una perpetua scena di disordini e di rivoluzioni.

Impediva a questi stati il godimento di quel riposo che d'ordinario si ottiene da un governo monarchico, il non essere tale forma di governo guarentita da veruna legge, nè accreditata dalla pubblica opinione. Il capo dello stato altro ancora non era in faccia al popolo che il depositario d'un potere a lui confidato dal popolo medesimo; s'egli ne abusava, non veniva appoggiato da verun sistema d'ubbidienza passiva che potesse liberarlo dal rimprovero d'usurpatore e di tiranno; verun diritto ereditario era riconosciuto o supposto nella famiglia regnante. Pare che lo stabilimento dell'opinione di tale diritto non avrebbe dovuto incontrare troppe difficoltà in un paese, ove tante prerogative erano ereditarie, ove la nobiltà, anche a dispetto delle leggi, conservava tanta influenza, ove l'ereditaria trasmissione dei feudi avvezzava i vassalli all'ubbidienza. Era desiderabile che quest'opinione sì stabilisse; giacchè quando un popolo ha per sempre perduta ogni speranza di libertà, il riposo d'una regolare monarchia è forse il solo bene di cui possa godere. Ma i piccoli monarchi d'ogni città opponevansi essi medesimi alla opinione che il loro podere fosse ereditario, perchè questo diritto d'eredità avrebbe potuto ritorcersi contro di loro. Quelli che erano succeduti ad una repubblica, avevano abbassati nobili più antichi e più illustri di loro; quelli ch'erano succeduti ad altri signori, non avevano tenuto conto del diritto de' loro predecessori, perchè avevano interesse di negarlo. Dichiaravansi adunque mandatarj del popolo; non prendevano il comando di una città, sebbene conquistata coll'armi, senza farsi solennemente accordare dagli anziani o dalla assemblea del popolo, secondo che gli uni o gli altri erano più docili, il titolo ed i poteri di signore generale, per uno, per cinque anni, o a vita, e con un determinato soldo che doveva levarsi dalle entrate del comune. In tal maniera l'arcivescovo Ottone Visconti, che governava Milano, agevolò a suo nipote Matteo la strada della sovranità. L'anno 1287 lo fece dal popolo milanese nominare capitano per un anno; del 1290 gli fece confermare la stessa dignità dalle città di Novara e di Vercelli; e del 1294, dopo avere per lui ottenuto da Adolfo di Nassau, re de' Romani, il titolo di vicario imperiale in Lombardia, ottenne dal popolo un'autorizzazione per accettare questo titolo[179]. In conseguenza di tali precauzioni quando morì l'arcivescovo in età d'ottantott'anni, del 1295, suo nipote Matteo trovossi già investito del potere e non dovette superare veruna difficoltà per succedergli. Un signore affatto nuovo doveva avere maggior cura di farsi rivestire dallo stesso popolo dell'autorità principesca. Perciò, l'anno 1290, Alberto Scotto si fece nominare dall'assemblea del popolo di Piacenza capitano e signore di quella città[180]: così Giberto di Correggio, essendo entrato in Parma l'anno 1303 in qualità di pacificatore coi Cremonesi, dopo aver fatta nascere una sedizione e fatto gridare per le strade da' suoi partigiani, viva il signor Giberto, si diede pensiero di far adunare lo stesso giorno il grande consiglio, perchè lo proclamasse signore, difensore e protettore della città e popolo di Parma. Ricevette l'investitura della nuova dignità per mezzo della consegnazione dello stendardo di Maria Vergine e di quello del carroccio, facendo tutto raffermare all'indomani[181] dal consiglio generale.

Se tanto rispetto per la sovranità del popolo avesse potuto essere accompagnato da un eguale rispetto per la sua libertà, non v'ha dubbio che la Lombardia avrebbe trovata la sua felicità nella mescolanza di un governo monarchico colle forme repubblicane. Le magistrature popolari, i consigli, le assemblee nazionali che ancora esistevano, avrebbero bastato per temperare l'autorità monarchica, se i nuovi signori non si fossero data premura di avvilire questi corpi. D'altra parte il principe sarebbe stato mantenuto dalla guarenzia nazionale; egli avrebbe chiamato in suo favore le leggi; e la sua forza costituzionale sarebbe stata protetta da un popolo felice e libero. Ma di rado accade che gli usurpatori contemplino un così lontano avvenire; ogni ombra di resistenza divien loro odiosa, onde si affrettano di atterrare qualunque potere che ponga limiti alla loro autorità, sebbene sappiano che lo stesso potere si armerebbe per difenderli contro i loro nemici. I signori di Lombardia governavano dispoticamente, e perciò l'esistenza loro era breve come quella dei despoti. I parenti o gli amici erano i primi a cospirare contro di loro; i nemici gli attaccavano apertamente, e talvolta il popolo gli abbassava con quella stessa rapidità con cui gli aveva innalzati.

Nell'ultima metà del tredicesimo secolo il Piemonte era stato testimonio di due rivoluzioni che avevano precipitati due sovrani dall'apice della grandezza nella più miserabile delle umane condizioni. Bonifacio conte di Savoja, cui il Guichenon[182] dà pure i titoli di duca dello Sciabalese e d'Aosta, di signore di Bugey e della Tarentesia, di marchese di Susa e d'Italia, e di principe del Piemonte, non era, a dir vero, sovrano di tutti i paesi de' quali il suo storico gli dà con soverchia liberalità i titoli; ma univa alla Savoja ed ai vasti possedimenti al di là delle Alpi la signoria di Torino e di altre città del Piemonte. Però gli abitanti di Torino, stanchi del suo governo, cacciarono improvvisamente fuori di città i suoi ufficiali e gli dichiararono la guerra. Bonifacio, che allora trovavasi in Savoja, attraversò le Alpi, l'anno 1262, ed avanzatosi fino a Rivoli, per sottomettere i ribelli, venne colà sorpreso e fatto prigioniere dal repubblicani poc'anzi suoi sudditi; i quali lo custodirono incatenato fino alla morte, che lo tolse a tanta sventura l'anno susseguente, senza che gli sforzi de' suoi amici e della potente sua casa gli ottenessero la libertà.

Il marchese di Monferrato portava un nome forse ancora più illustre di quello de' conti di Savoja: l'origine dell'una e dell'altra casa è ugualmente nascosa nelle tenebre: ma le grandi imprese de' marchesi di Monferrato in Terra santa ed a Costantinopoli, il possedimento del regno di Tessalonica, loro accordato quando fu diviso l'Impero d'Oriente, e il fresco parentado di Jolanda, figliuola del marchese Guglielmo con l'imperatore Andronico Paleologo, aveva sollevato il marchese al rango de' più ragguardevoli principi italiani. Oltre i feudi, ch'egli possedeva per diritto ereditario, era, l'anno 1290, capitano e signore generale di Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba ed Ivrea. Bramava di avere sotto di sè anche la città di Asti, la più bellicosa, la più ricca e commerciante repubblica del Piemonte. D'altra parte i Visconti, signori di Milano, adombrati dalla crescente sua potenza, favorivano sotto mano la città di Asti. Ma questa, non si accontentando del loro ajuto, cercò alleati fra gli stessi sudditi del marchese Guglielmo, ed offrì agli Alessandrini, che mostravansi omai stanchi del dominio del marchese, trentacinque mila fiorini se volevano discacciarlo e collegarsi con loro. Guglielmo, avvisato di queste pratiche, corse verso Alessandria; e, sebbene la città tumultuasse, osò d'entrarvi con debole accompagnamento, o perchè molto si ripromettesse della sua presenza, o perchè alcuni traditori gli avessero promesso l'ajuto d'un partito che poi rivolsero contro di lui. Guglielmo appena giunto avanti al palazzo del comune fu imprigionato; indi chiuso in una gabbia di ferro ed esposto al pubblico quale bestia feroce. Visse miseramente diciotto mesi in questa gabbia, nella quale morì di dolore l'anno 1292[183].

Una terza catastrofe doveva tra poco far maravigliare la Lombardia, dando una novella prova dell'instabilità del potere de' signori; fu questa la caduta della casa Visconti. Matteo, che n'era il capo, aveva approfittato della morte del marchese Guglielmo e dell'estrema gioventù di suo figliuolo Giovanni, per estendere la sua signoria sul Monferrato. Aveva colle armi sforzati i popoli a dargli il titolo di capitano generale della provincia nella città di Casal Sant'Evasio, che n'era la capitale: aveva in appresso obbligato il giovane marchese a ratificare l'usurpato potere con un trattato, in forza del quale ponevasi per cinque anni sotto la tutela del nemico della sua famiglia[184].

Matteo Visconti erasi intanto rinforzato con tali parentadi, che ben dovevano assicurargli una lunga prosperità: perciocchè nel 1298 aveva data sua figliuola in isposa ad Alboino della Scala, figliuolo d'Alberto, signore di Verona, uno dei più potenti capi del partito ghibellino; e nel 1300 ottenne per consorte di Galeazzo suo figliuolo una figlia del marchese Azzo d'Este, vedova di Nino di Gallura, capo de' Guelfi pisani. Questa principessa era stata promessa ad Alberto Scotto, signore di Piacenza; ma Matteo, che voleva ad ogni costo imparentarsi colla casa d'Este, signora a quell'epoca di Ferrara, Modena e Reggio, suppiantò il signore di Piacenza, e contrasse una stretta unione coi più potenti capi di parte guelfa in Lombardia[185].

Lo Scotto non dimenticò tanta ingiuria; e, se vi frappose qualche indugio, no 'l fece che per ottenerne più strepitosa vendetta. Egli formò contro i Visconti una lega de' signori che governavano in Lombardia le città di secondo ordine. Il primo a prendervi parte fu Filippone, conte di Langusco, che già da alcuni anni erasi reso padrone di Pavia, cacciandone un altro tiranno, Manfredo Beccaria e la sua fazione. Anche Filippone quasi in egual modo dello Scotto era stato ingiuriato dai Visconti. Matteo aveva promessa sua figlia al figlio di Filippone; ma reso orgoglioso da più elevato parentado, gli aveva mancato di parola del 1302 dando alla figliuola un altro marito. Alberto Scotto trasse in seguito nella sua lega Antonio Fisiraga, tiranno di Lodi, Corrado Rusca, tiranno di Como, Venturino Benzone, tiranno di Crema, la famiglia Cavalcabò, che aveva somma influenza in Cremona, quella de' Brusati che dominava in Novara, e l'altra degli Avvocati che aveva la stessa preponderanza in Vercelli. Per ultimo si unì alla lega il marchese Giovanni di Monferrato, che il Visconti aveva spogliato de' suoi stati.

I confederati adunarono la loro armata nella Ghiara d'Adda; e quelli della Torre, esiliati da Milano già da 25 anni, si affrettarono di unirsi alla lega, siccome altri molti nobili milanesi, segreti nemici di Matteo, il quale ne fece imprigionare molti altri sospetti di voler passare al campo nemico. Tra gli ultimi non risparmiò Matteo il proprio zio Pietro Visconti; indi uscì di Milano alla testa di una parte delle sue truppe, avendo lasciato in città il figliuolo Galeazzo con due mila uomini per contenere i Milanesi, che invece di secondarlo andavano gridando libertà[186].

La ribellione non tardò a scoppiare in campagna; onde il Visconti circondato di nemici, e non vedendo giugnere i soccorsi che aveva domandati al marchese d'Este, accettò la mediazione di alcuni ambasciatori veneziani e si fece a trattare co' suoi nemici. Durissime erano le condizioni che gli venivano offerte: tutti gli esiliati dovevano essere richiamati; e Matteo, rinunciando al supremo potere, doveva rientrare nella classe de' semplici cittadini. Matteo le accettò, e licenziata l'armata ritirossi nel suo castello di San Colombano. Prima che a Milano si avesse notizia di questa trattato, Galeazzo suo figliuolo era stato dal popolo ammutinato cacciato fuori dalle mura, e il ristabilimento della repubblica e della libertà proclamato. Con un decreto del popolo tutti i Torriani venivano richiamati in patria, e poco dopo con altro decreto esiliati tutti i Visconti.

Questa rivoluzione rinfrescò nell'alta Lombardia le fazioni guelfa e ghibellina che quasi eransi dimenticate. I Visconti risguardavansi come Ghibellini, Guelfi i Torriani; ma sì gli uni che gli altri in tempo della loro signoria non eransi nelle loro alleanze lasciati dirigere dallo spirito del rispettivo partito. Alberto Scotto per dare maggiore consistenza al nuovo governo ed alla propria autorità, si diede a vedere zelante partigiano de' Guelfi, proponendo una lega tra le città che lo avevano assistito contro i Visconti. In conseguenza di che i deputati di quelle città si unirono in luglio a Piacenza, ove si pubblicò l'alleanza tra Milano, Piacenza, Pavia, Bergamo, Lodi, Asti, Novara, Vercelli, Crema, Como, Cremona, Alessandria e Bologna. Alberto Scotto venne proclamato capo della lega; e nello stesso tempo, come pacificatore della Lombardia fu autorizzato a persuadere a tutte le città il richiamo de' loro fuorusciti, adoperando al bisogno anche la forza[187].

Ma la potenza d'Alberto non ebbe lunga durata, avendo la stessa lega, che fu sua opera, volte contro di lui le sue armi; perchè lo spirito di partito, ch'egli aveva ravvivato, era troppo violento per piegarsi a voglia sua come richiedeva la sua politica. I Guelfi s'adombrarono, vedendo che Alberto accoglieva ed accarezzava gli emigrati di ogni fazione. Perciò del 1303 lo costrinsero colle città d'Alessandria e di Tortona a lasciare la loro alleanza. Allora Alberto offrì ajuto ai Visconti per rientrare in Milano, di dove gli aveva egli stesso scacciati; ma quelle forze che avevano potuto ruinarli, non bastarono a rimetterli nel perduto stato. Per altro s'unì ai Visconti, ai signori di Mantova e di Verona, e per ultimo a Giberto da Correggio, che si era fatto allora nominare signore e difensore di Parma.

Del 1304 le truppe della lega guelfa vennero ad attaccare Alberto in Piacenza; e perchè questa città, ch'egli governava già da quattordici anni, era insofferente di più lunga signoria, si ribellò. I cittadini di Cremona e di Lodi, che non volevano esporre al saccheggio una città vicina e da lungo tempo loro alleata, si ritirarono, lasciando che Alberto combattesse come poteva contro i suoi sudditi. Tutta l'armata guelfa seguì l'esempio de' Cremonesi: ma per lo contrario Giberto da Correggio, ch'era venuto da Parma con due mila soldati in ajuto dello Scotto, entrò in città come mediatore, e consigliò l'amico a ritirarsi al più presto che potesse co' suoi figliuoli, onde sottrarsi alla furia degli ammutinati. Non era appena Alberto uscito di città, che l'amico tentò di farsi proclamare in suo luogo dai soldati che lo circondavano, signore di Piacenza. Ma il popolo, che non aveva scacciato un tiranno per darsene subito un altro, prese le armi, e ripetendo il grido degli Italiani liberi, popolo, popolo! forzò Giberto a ritirarsi all'istante coi suoi cavalieri, senza aver potuto cogliere il frutto del tradimento meditato contro il suo alleato[188].

(1306) Anche le città di Modena e di Reggio ricuperarono due anni dopo la libertà. Nel 1289 Modena erasi data al marchese Obizzo d'Este, e del 1293 passò per diritto ereditario in dominio d'Azzo VIII suo figliuolo. Il 26 gennajo del 1306 il popolo prese le armi e cacciò fuori delle porte il podestà del marchese, sebbene avesse sotto i suoi ordini una guarnigione di settecento cavalli e di mille fanti; richiamò tutti i fuorusciti e ristabilì il governo popolare, manifestando la sua gioja per la ricuperata libertà con feste continue, alle quali i cittadini intervenivano ornati di cinture d'oro e di ghirlande di fiori[189]. All'indomani il popolo di Reggio, diretto dai gentiluomini ghibellini, prese egualmente le armi contro le truppe del marchese, e le costrinse ad uscire di città[190]. Dopo questa rivoluzione non rimaneva alla casa d'Este che la sola città di Ferrara, la quale le fu tolta due anni dopo, quando morì Azzo VIII, come tornerà in acconcio di parlarne nel susseguente capitolo.

Tante rivoluzioni, eseguitesi in nome dei due partiti guelfo e ghibellino, potrebbero facilmente farci credere che recenti motivi di discordia avessero inasprite queste fazioni, e che l'imperatore ed il papa, pei di cui interessi pretendevano di combattere, avessero fatte nuove pratiche per mettere loro le armi in mano. Niente di tutto questo; che anzi Alberto d'Austria, re dei Romani, non si curando punto delle cose d'Italia, era assai lontano dal dare ajuto ai Ghibellini, ed osservava con indifferenza questa bella contrada del suo impero desolata dall'anarchia. Da ciò l'imprecazione di Dante contro di lui:

«O Alberto Tedesco, che abbandoni

Costei che è fatta indomita e selvaggia,

E dovresti inforcar li suoi arcioni,

«Giusto giudizio dalle stelle caggia

Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo ed aperto,

Tal che il tuo successor temenza n'aggia.

«Che avete tu e 'l tuo padre sofferto,

Per cupidigia di costà distretti,

Che 'l giardin de lo imperio sia diserto»[191].

Dall'altro canto il papa, lungi dal fomentare la discordia tra le nemiche fazioni, pareva che avesse dimenticato che la guelfa gli era affatto ligia; onde impiegava i consigli, l'autorità e perfino i più severi castighi spirituali per riconciliarle.

Nel 1303, dopo la morte di Bonifacio VIII, i suffragi de' cardinali eransi uniti in favore di Niccola, cardinale d'Ostia, oriondo di Trevigi. Le virtù ed i talenti lo avevano per gradi, da ignobile e povero stato, sollevato alla dignità di cardinale[192]. Egli prese il nome di Benedetto XI quando, soltanto quattro giorni dopo la morte di Bonifacio, fu proclamato papa (14 ottobre). A tale epoca non contavansi che diciotto cardinali, il più accreditato de' quali era Matteo Rosso degli Orsini, quello che aveva tenuto fino alla morte papa Bonifacio in una specie di prigione. Quattro cardinali suoi parenti gli davano in collegio la più grande influenza; ma pare che Matteo Rosso non cercasse di farsi nominare papa; ed è anzi probabile che cercasse di assoggettare la chiesa ad un governo aristocratico, privando il capo di tutta la sua autorità. Di fatti Benedetto XI non poteva sottomettere alla giustizia i cardinali ed i magnati potenti, che, circondati di satelliti, conquassavano la città di Roma colle loro passioni e non soffrivano il giogo delle leggi. I Colonna, sebbene ancora proscritti, erano tornati in città con un corpo di gente armata; altri non meno delinquenti signori non avevano paura del pontefice; il quale isolato in mezzo ad una procellosa corte, non aveva, per essere poveramente nato, nè parenti, nè naturali alleati che lo circondassero e fossero depositari del suo segreto. Vedevasi perciò sferzato a tollerare o dissimulare uno scandalo e dei delitti che il suo cuore detestava[193].

Benedetto dovette soggiacere a tale tirannide fino al cessare dell'inverno; ma avvicinandosi il caldo della state, del 1304, fece conoscere la sua intenzione di soggiornare in Assisi finchè durasse il cattivo aere di Roma. I cardinali si opposero risolutamente a tale viaggio, ed il papa avrebbe dovuto dimetterne il pensiero, se per qualche segreto motivo non prendeva a favorirlo Matteo Rosso degli Orsini. Col di lui favore uscì ben tosto di Roma, e passando per Viterbo e per Orvieto giunse a Perugia, ove fu ricevuto quale padre de' fedeli, e non più come il servitore de' cardinali. Colà prese con mano più sicura le redini della chiesa; e cercò di riconciliare i Bianchi ed i Neri di Firenze, ordinando al governo di quella repubblica di chiamare dall'esilio Vieri de' Cerchi: ma vedendo tornar vane le sue inchieste, fulminò la scomunica contro Firenze.

Si diceva che Benedetto per liberarsi dalla tirannia de' cardinali e de' grandi signori di Roma avesse risolto di portare la sede pontificia in Lombardia. Mentre doveva incessantemente occuparsi della propria sicurezza, mentre doveva far uso di tutta la sua autorità per ristabilire la pace ne' paesi in cui pensava di soggiornare stabilmente, non osava il papa di provocare l'inimicizia del più potente sovrano d'Europa, di un uomo che aveva di già mostrato di tenere per legittimi tutti i mezzi che potevano nuocere ai suoi nemici. Perciò Benedetto fece molte pratiche per riconciliarsi con Filippo il bello, e lo assolse co' suoi sudditi e ministri dalla scomunica in cui erano incorsi per avere sostenuti quelli che andavano a Roma, o vi mandavano danaro. È pure probabile che fossero colla stessa bolla assolti tutti coloro che avevano presa parte alla sacrilega prigionia di papa Bonifacio, tranne il solo Guglielmo di Nogareto[194].

Intanto Benedetto ondeggiava irresoluto tra la politica ed i doveri della sua carica: troppo grave era l'ingiuria sostenuta da Bonifacio e di troppo pericoloso esempio, perchè i suoi successori la lasciassero affatto impunita. Se Benedetto avesse ottenuta una perfetta indipendenza, non avrebbe ommesso di chiedere ragione a Filippo della sua sacrilega condotta. Manifestò pure scopertamente questa sua volontà in una nuova bolla datata in Perugia il 7 di giugno. «Abbiamo, egli dice, differita finora per giusti motivi la punizione dell'esecrabile delitto che alcuni scellerati commisero contro la persona del nostro predecessore, Bonifacio VIII di felice ricordanza. Ma non possiamo più oltre differire a levarci, o piuttosto Dio stesso deve levarsi con noi per castigare i suoi nemici, e scacciarli dal suo cospetto.» — Benedetto annovera ad uno ad uno coloro che aveva egli stesso veduto prender parte a tanta iniquità, fra i quali Guglielmo di Nogareto e quattordici gentiluomini, quasi tutti italiani: e dopo aver dipinto il loro misfatto co' più vivi colori, soggiugne: «Avendo dunque osservate le forme di diritto, dichiariamo che tutti coloro che abbiamo nominati e tutti gli altri che parteciparono allo stesso delitto, tutti quelli che colla propria persona concorsero agli attentati commessi in Anagni contro Bonifacio, e tutti quelli che diedero, per commetterli, soccorsi, consigli, favore, sono incorsi nella sentenza di scomunica pronunciata dai sacri canoni. Col consiglio de' nostri fratelli ed in presenza di tanta moltitudine di fedeli, li citiamo perentoriamente a presentarsi in persona avanti di noi prima della festa dei ss. Apostoli Pietro e Paolo, per udire la giusta sentenza che coll'ajuto del Signore noi pronunceremo sui notorj attentati di cui abbiamo parlato»[195].

Filippo il bello poteva ritenersi colpito da questa nuova bolla di scomunica, e non tardò ad accorgersi che il papa cominciava a credersi indipendente; onde concepì forse allora l'ardito disegno, che poi eseguì in tempo del primo interregno, di assoggettarsi interamente la corte pontificia: e l'odioso carattere di questo principe che Dante chiamò la peste della Francia, rende verosimile ogni delitto. Secondo Ferreto di Vicenza, storico contemporaneo[196], avvertito Filippo che il papa stava contro di lui preparando formidabili bolle, valendosi dell'opera di Napoleone, cardinale degli Orsini, e di Giovanni le Moine, cardinale francese, sedusse col danaro due scudieri del papa, i quali posero del veleno ne' fichi fiori che presentarono al padrone. Il pontefice sostenne otto giorni i tormenti del veleno che gli mangiava le viscere, e morì il 4 di luglio del 1304. Giovan Villani accusa di questo delitto i soli cardinali: e Francesco Pipino e Dino Compagni, altri coetanei, confermando le circostanze del veleno, non ardiscono nominare alcuna persona[197]. Il Raynaldo, nell'atto di dar principio alla scandalosa istoria de' papi francesi di Avignone, par che tema ad ogni istante di compromettersi, e sopprime quest'accusa di veleno, per lo meno abbastanza autentica per essere da lui confutata.

Morto Benedetto XI, i cardinali, in numero di venticinque, adunatisi in Perugia, si chiusero in conclave; ma quando vollero passare all'elezione del papa, si divisero in due fazioni, dirette da due capi, ambedue della casa Orsini. Matteo Rosso Orsino, che aspirava egli stesso alla tiara, aveva nel suo partito il cardinale francese Caietano, nipote di Bonifacio VIII, e tutti quelli ch'erano attaccati a quel papa, alla sua famiglia ed all'antico partito guelfo. Napoleone degli Orsini, capo dell'altra fazione, era appoggiato dal cardinale Niccola d'Acquasparta di Prato e da tutti coloro ch'erano affezionati ai Colonna, al re di Francia, al Ghibellini. Dopo sei mesi di replicate inutili prove, i cardinali si persuasero che niuno dei due capi di parte e niuno dei membri del sacro collegio riunirebbe giammai i due terzi dei suffragi necessarj all'elezione.

(1305) Intanto i Perugini, intolleranti di tanto ritardo, cominciavano a minacciare i cardinali ed a minorare le razioni dei viveri. Bisognava finalmente uscirne in un modo o nell'altro, onde il cardinale di Prato propose al cardinale Caietano, capo della contraria fazione, un espediente che pareva conciliare i diritti di tutti, ed affrettare in pari tempo l'elezione. Da che si tentò finora invano d'unire i suffragi in favore di un Italiano, si provi, disse, a nominare un oltramontano: e acciocchè le due parti abbiano un'eguale parte in questa nomina, propongo che un partito presenti tre prelati, e che l'altro entro quattro giorni debba scegliere tra i proposti, oltre di che lasciò al cardinale Caietano ed alla sua fazione quella delle due funzioni che più le aggrada. La proposizione essendo accettata ed approvata da tutti i cardinali, se ne stese un atto che fu sottoscritto da tutti, ed il partito antifrancese scelse di presentare i tre prelati, credendosi in tal modo sicuro di avere un papa a modo suo, qualunque fosse l'eletto. Per essere più certo delle future loro disposizioni, presentò tre prelati notoriamente nemici del re Filippo, ponendo pel primo Bertrando di Gotte, arcivescovo di Bordeaux, che aveva gravi motivi di dolersi di Filippo e di Carlo di Valois suo fratello. Erano francesi anche gli altri due prelati.

Appena fu questa scelta comunicata al partito ghibellino, che il cardinale di Prato spedì un corriere a Filippo per informarlo della convenzione fatta tra i cardinali, e per consigliarlo a scegliere Bertrando di Gotte dopo essersene assicurato. Filippo, quand'ebbe ricevuto quest'avviso a Parigi l'undecimo giorno, partì subito per la Guascogna, invitando il prelato ad un abboccamento in una abbazia posta in mezzo ad una foresta presso a san Giovanni d'Angely, ove recaronsi ambedue con poco seguito: «udita insieme la messa, e giurata in su l'altare credenza, lo re parlamentò con lui con belle parole per riconciliarlo con messer Carlo di Valois; e poi sì gli disse: Vedi, arcivescovo, io ho in mia mano di poterti fare papa, s'io voglio, e però sono venuto a te, perchè se tu mi prometti di farmi sei grazie, ch'io ti domanderò, io ti farò questo onore; e acciò che tu sia certo ch'io ne ho il podere trasse fuori e gli mostrò le lettere e le commissioni dell'uno collegio e dell'altro. Il Guascone convidoso della dignità papale, veggendo così di subito, come nel re era al tutta il poterlo fare papa, quasi stupefatto d'allegrezza, li si gittò ai piedi e disse: Signore mio, ora conosco che m'ami più che uomo che sia e vuommi rendere bene per male; tu hai a comandare, e io ad ubbidire, e sempre sarò così disposto. Lo re lo rilevò suso, e baciollo in bocca, e poi li disse: Le sei speziali grazie che io voglio da te sono queste. La prima che tu mi riconcilj perfettamente colla chiesa, e facciami perdonare il misfatto ch'io commisi per la presura di papa Bonifazio. La seconda di ricomunicare me e miei seguaci. La terza che mi concedi tutte le decime per cinque anni del mio reame per ajuto alle spese fatte alla guera di Fiandra. La quarta che tu mi prometti di disfare e annullare la memoria di papa Bonifazio. La quinta che tu renda l'onore del cardinalato a messer Jacopoli e messer Piero della Colonna, e rimetterali in istato, e facci con loro insieme certi miei amici cardinali. La sesta grazia e promessa mi riserbo a luogo e a tempo, ch'è secreta e grande. L'arcivescovo promise tutto per saramento in sul Corpus Domini, e oltre a ciò li diede per istadichi il fratello e due suoi nipoti; e lo re promise e giurò a lui di farlo eleggere papa.»

Tutta questa negoziazione era stata condotta col più profondo segreto, ed i cardinali Matteo Rosso e Caietano non sospettarono pure che il re di Francia conoscesse la loro convenzione. Trentacinque giorni dopo la partenza del suo corriere, il cardinale di Prato ricevette la risposta di Filippo e l'ordine di eleggere l'arcivescovo di Bordeaux. Dopo aver comunicato il riscontro al suo partito, fece prevenire l'altro d'essere disposto a pronunciare. In una generale assemblea furono notificate con nuovi giuramenti le precedenti convenzioni; indi il cardinale di Prato recitò un sermone sopra un passo della scrittura, ed in virtù dell'autorità conferitagli elesse papa messere Bertrando di Gotte, arcivescovo di Bordeaux. Allora fu secondo l'usanza intuonato il Tedeum, e con eguale allegrezza da ambo le parti, perchè ognuno credeva d'avere un papa tutto suo. Quest'elezione si pubblicò il 5 giugno del 1305 dopo un interregno di dieci mesi e ventotto giorni[198].

O sia perchè Bertrando, che prese il nome di Clemente V, volesse far pompa della sua nuova dignità in su gli occhi de' suoi compatriotti, o che la maniera con cui i cardinali avevano trattati i due ultimi suoi predecessori gli facesse paura, o finalmente che il re Filippo si opponesse al suo viaggio, invece di recarsi a Roma, a seconda dell'invariabile costumanza della chiesa, invece di venire a dirigere la sua greggia, a prendere le redini del governo de' suoi stati, il papa sorprese tutta la Cristianità coll'ordinare ai cardinali di raggiugnerlo a Lione per la sua incoronazione, fissata nel giorno di san Martino del 1305. I cardinali furono malgrado loro costretti di ubbidire: il re di Francia, Carlo di Valois ed i principali baroni al di là delle Alpi, assistettero alla cerimonia della consecrazione; ed il 17 dicembre Clemente creò dodici nuovi cardinali, cioè Giacomo e Pietro Colonna deposti da Bonifacio, e dieci Francesi o Guasconi, tutte creature di Filippo il bello[199].

La vergognosa condotta tenuta da Clemente e la vile sua ubbidienza a tutti i capricci della corte di Francia provarono abbastanza a quali scandalose condizioni aveva acquistata la tiara. Dopo avere introdotte nel sacro collegio tante creature di Filippo, rivocò tutte le censure fulminate contro di lui, de' suoi ministri e complici, annullò tutte le costituzioni di Bonifacio che potevano dargli qualche ombra; accordò al re Filippo la decima sul clero, e ne accordò delle altre al conte di Fiandra, affinchè con tale mezzo potesse pagare un tributo ai Francesi, autorizzò Filippo a prendere in nome della religione tutti gli Ebrei del suo regno il giorno della festa di santa Maria Maddalena, a confiscare tutti i loro beni ed a bandirli; finalmente prodigò bolle, prediche, indulgenze per formare una nuova crociata, la quale sotto la condotta di Carlo di Valois doveva conquistare l'impero di Costantinopoli, allora occupato da Andronico, figlio di Michele Paleologo: e la più importante ragione, allegata contro questo sventurato principe, era quella di non essere egli abbastanza forte per resistere alle armi turche, onde la sua disfatta aprirebbe l'Europa ai Musulmani[200].

Quale più vergognoso motivo poteva addursi per attaccare Andronico? e se il papa era veramente intenzionato d'opporre una diga ai barbari, la sua politica non era meno falsa che ingiusta; poichè fulminando nuovi anatemi contro Andronico, il suo clero e la sua nazione[201], accresceva sempre più l'animosità che da molto tempo divideva i Greci dai Latini, e riduceva i primi a preferire il giogo musulmano a quello de' cattolici persecutori. Onde è chiaro che il papa non aveva altro oggetto che quello di soddisfare alla cupidigia ed all'ambizione dei principi della casa di Francia, di quel medesimo Valois che era stato suo mortale nemico: e purchè facesse cosa grata al re, egli non calcolava i funesti effetti della sua politica sul bene della Cristianità.

È per altro vero che la debole e sospettosa amministrazione d'Andronico esponeva tutta l'Europa alle maggiori calamità. La nazione, e forse in questo secolo il clero, in nome della nazione europea, avrebbe per avventura avuto il diritto di deporre questo principe imbecille; ma soltanto per sostituirgli un principe che, godendo l'amore e la confidenza de' suoi popoli, potesse fermare gli spaventosi progressi dei Turchi.

Il vecchio Andronico era succeduto a suo padre Michele Paleologo l'undici dicembre del 1282[202]: aveva mostrate alcune virtù private, che facilmente si trovano nel più debole sovrano; di quelle virtù che l'adulazione degli storici conserva alla posterità, coprendo i vizi che sempre le accompagnano in un carattere pusillanime. Egli non cominciò ad avere relazioni coll'Italia che in principio del XIV secolo. Prima d'allora, perduto tra gl'intrighi della sua corte e del suo clero, aveva distrutta con imprudente economia la flotta allestita da suo padre con enorme dispendio per difendersi dal re di Napoli[203]. Suo fratello, Costantino Porfirogeneta, che aveva eccitata la sua diffidenza, era stato imprigionato con tutti i suoi amici. Egli introdusse nell'impero gli Alani, che per sottrarsi al giogo dei Tartari avevano domandato un asilo nelle province dell'Asia, ma che riuscivano più dannosi a quelle province de' Turchi medesimi contro de' quali dovevano combattere[204]. Finalmente, dopo avere provocati questi ultimi, opponeva loro una così debole resistenza, che invadendo essi tutte le province dell'Asia, le avevano divise in pascialaggi, e cacciati i Greci oltre l'Ellesponto[205].

Tali furono gli avvenimenti de' primi vent'anni del regno d'Andronico il vecchio, quando del 1302 fattasi la pace tra i re di Napoli e di Sicilia, questi licenziò le veterane milizie che pel corso di venti anni avevano così valorosamente difesa la Sicilia contro i Francesi. Que' soldati collettizj di differenti paesi non avevano campi nè focolari che li chiamassero; ed accostumati a vivere insieme nella licenza, e talvolta di ladroneccio, temevano il ritorno dell'ordine e della tranquillità che la pace delle due Sicilie procurava all'Italia meridionale. Lo stesso spirito avventuriere de' soldati animava ancora i loro capitani; onde invece di disperdersi in differenti paesi, prendendo servigio, pensarono di tenersi uniti e di porre tutta l'intera armata al servigio del primo sovrano che volesse adoperarla[206]. In tale maniera ebbero cominciamento le compagnie propriamente dette di ventura. I capi di quest'intrapresa erano Ruggero de Fior, vice ammiraglio di Sicilia, Berengario di Entença, Ferdinando Ximenes de Arenos e Berengario di Rocafort, tutti personaggi assai distinti[207]. Il primo, sebbene nato a Brindes, era originario tedesco; era stato Templario, ed aveva rinunciato, si disse, a questa vocazione, dopo la presa di san Giovanni d'Acri, per dedicarsi interamente alle armi, o per dir meglio alla pirateria[208]. Gli altri erano ricos hombres Arragonesi o Catalani.

I generali della compagnia di ventura offrirono i loro servigi ad Andronico, per ricuperare le province dell'Asia occupate dai Turchi, e furono accettati a braccia aperte. Andronico decorò Ruggero della dignità di gran duca, e gli diede per moglie la propria nipote. Sotto la condotta di questi capi passarono in Grecia circa otto mila uomini catalani ed arragonesi detti Almogavari[209]. Con tal nome indicavasi la fanteria spagnuola per lo più composta di Mori e di Cristiani. Questi soldati si acquartierarono a Cizica, ove vissero colle spoglie de' Greci ch'eransi incaricati di difendere. I diritti della guerra non esercitaronsi giammai con maggior barbarie in una città nemica[210]. Questa vita da assassino pareva tanto dolce agli Almogavari, che non volevano a niun patto lasciarla per andare contro ai nemici. A stento per altro si ridussero in primavera del 1305 a marciare contro i Turchi che avevano assediata Filadelfia. L'armata turca comandata da Ali Syras fu disfatta ad Aulax, mortalmente ferito il generale, e la potenza greca precariamente ristabilita al di là del Bosforo. Ma la licenza de' Catalani faceva ai Greci egualmente temere le vittorie e le disfatte. Andronico, che anche in Tessaglia era stato attaccato dai Bulgari, desiderava dividere la grande compagnia, onde avere il doppio vantaggio di renderla meno potente, e di opporre valorosi soldati ai due più temuti nemici. Invitò quindi Ruggero ad unire parte delle sue truppe a Michele Paleologo suo figliuolo. Ruggero, dietro tale domanda, passò il Bosforo, non con alcune truppe, ma con tutta la sua armata, e prese i quartieri d'inverno e si fortificò a Gallipoli[211].

(1307) Tale era lo stato dell'Oriente quando Clemente V volle far rivivere i diritti di Carlo di Valois, sposo di Caterina di Fiandra, alla successione dell'impero de' Latini. Prima scrisse all'arcivescovo di Ravenna ed ai vescovi di Romagna, a quelli della Marca d'Ancona e dello stato di Venezia, come pure ai più vicini prelati della Grecia, perchè predicassero la crociata contro i Greci[212]. Proibì sotto pena della scomunica ad ogni principe cristiano l'alleanza con il Paleologo[213]; e fece ogni sforzo perchè prendesse parte in questa sacra guerra Federico di Sicilia. Voleva Federico, se gli fosse stato possibile, conservare qualche autorità sull'armata catalana che lo aveva servito tanto tempo prima di passare in Grecia; e perciò aveva mandato presso ai capi di quest'armata, già divisa dalle fazioni, l'infante Ferdinando di Majorica, suo cugino germano, per riunirla sotto i suoi ordini: di modo che se questo trattato riusciva, il re di Sicilia era quello de' principi latini che poteva più facilmente comandare alla Grecia. Per ultimo il papa scrisse pure ai Veneziani ed a' Genovesi per ridurli a secondare colle loro flotte l'impresa di Carlo di Valois[214].

Ma le due repubbliche non erano altrimenti disposte a far causa comune, intraprendendo per conto de' Francesi la conquista dell'Oriente. Pel corso di sette anni si erano battute con accanimento per l'esclusivo dominio dei mari. A questa guerra, cominciata dal 1293, aveva dato motivo una battaglia accidentale nel mare di Cipro tra quattro galere veneziane e sette navi mercantili dei Genovesi. L'odio nazionale e l'estrema gelosia dei due popoli aveano chiusa la via ad ogni accomodamento per un affare, cui i loro governi non avevano avuto parte, e ne' cinque susseguenti anni sforzaronsi di opprimersi vicendevolmente con formidabili apparecchi[215]. Nel 1295 i Genovesi posero in mare cento sessanta galere, ognuna montata da duecento venti uomini, tutti abitanti di Genova o delle due Riviere. Questa formidabile flotta rientrò in porto senza avere incontrato il nemico, dopo averlo inutilmente cercato nei mari della Sicilia. Nel susseguente anno le due flotte nemiche si cercarono di nuovo senza trovarsi; ma sessantacinque galere veneziane, comandate da Ruggero Morosini, vennero ad attaccare i Genovesi abitanti a Galata in faccia a Costantinopoli, i quali, non avendo bastanti forze per difendersi, si ritirarono tutti coi loro effetti nella capitale dell'impero greco, mentre i Veneziani incendiavano le loro case[216].

I Genovesi, protetti in questa circostanza da Andronico, strinsero sempre più l'alleanza che da molti anni gli univa ai Greci; mentre i Veneziani dichiararonsi apertamente nemici dell'impero. Ma la potenza di questi soffrì un terribile crollo l'anno 1298 per la battaglia di Corzola, o Corcira la nera, che terminò la guerra. L'ammiraglio genovese Lamba Doria erasi avanzato fino a quest'isola, posta in fondo dell'Adriatico, per incontrare Andrea Dandolo, il quale con una flotta di novantacinque galere non ricusò la battaglia. Fu questa lunga e sanguinosa; ma la vittoria si decise a favore dei Genovesi benchè alquanto più deboli di forze, tostochè quindici navi, staccate dall'ammiraglio Doria per avere il vento in poppa, attaccarono di fianco la flotta veneziana tutta impegnata col rimanente della squadra nemica. La disfatta fu così compiuta, che si salvarono appena dodici galere, avendone i Genovesi abbruciate sessantasei e condotte diciotto a Genova con sette mila prigionieri, tra i quali trovavasi l'ammiraglio Andrea Dandolo[217]. Dopo così terribile battaglia, le due nazioni, quasi egualmente snervate dalla vittoria e dalla sconfitta, acconsentirono a fare la pace, che fu segnata l'anno 1299 colla mediazione di Matteo Visconti, e restituiti i prigionieri da ambo le parti. Lo stesso anno fu pure conchiusa la pace tra i Genovesi ed i Pisani in conseguenza della quale avevano, dopo sedici anni di prigionia, ricuperata la libertà gli sventurati superstiti della disfatta di Meloria.

Siccome la pace non aveva spente le animosità de' Genovesi e de' Veneziani, doveva prevedersi che nella guerra di Oriente avrebbero abbracciato opposti partiti; e così appunto accadde. Il 19 dicembre del 1306 i Veneziani convennero con Carlo di Valois di equipaggiare una flotta che partirebbe da Brindisi in maggio del 1308, e porterebbe un'armata capace di ricuperare l'impero di Costantinopoli; promettendo inoltre di mantenere fino a quell'epoca dodici galere armate nei mari della Grecia per proteggere i partigiani dell'impero latino[218]. Intanto i Genovesi si univano con più stretti vincoli al Paleologo; lo avvisarono de' trattati che si andavano maneggiando dai Francesi e da Federigo di Sicilia coi Catalani, e lo persuadevano a mettersi in istato di difesa contro quella truppa mercenaria.

Per la morte di Caterina, sposa di Carlo di Valois, che gli dava un diritto all'impero, e fors'anco per l'esaurimento del suo tesoro, così vasti progetti di conquista andarono a vuoto. Ma sebbene il principe francese rinunciasse alla spedizione, e mancasse di parola ai Veneziani, non per ciò le due repubbliche lasciarono di prendere una parte assai viva in questa contesa; i Genovesi come alleati dei Greci, ed i Veneziani quali alleati de' Catalani, la di cui grossa compagnia di ventura, divenuta sospetta all'imperatore ed esosa ai sudditi, trovavasi con loro in aperta guerra. Ruggero de Fior venne assassinato dagli Alani che seguivano il figlio dell'imperatore, e Berengario di Entença cadde in mano de' Genovesi in un fatto d'armi presso Reggio di Calabria: onde la grande compagnia, privata da' suoi due capi, si assoggettò ad altri due da lei nominati; e formando una specie di regolare governo con un consiglio di reggenza, s'intitolò armata dei Franchi in Tracia ed in Macedonia[219]. Questa formidabile armata, collegatasi coi Turchi, saccheggiò tutte le province dell'impero greco, e dopo una serie di curiosi avvenimenti passò del 1311 nel ducato di Atene, che in allora apparteneva a Gualtieri di Brienne; ed essendosi inimicata col duca, lo sfidò a generale battaglia, nella quale fu ucciso con circa settecento cavalieri francesi, i discendenti degli antichi conquistatori della Grecia. Atene, Tebe e tutto il ducato, caddero in potere dei Catalani, i quali fissarono il loro soggiorno in quella provincia[220], in tempo che il figlio dell'ultimo duca francese, chiamato Gualtieri di Brienne come il padre, passava in Italia, ove lo vedremo in appresso diventare tiranno di Firenze; così per lo contrario, alquanto più tardi, un Fiorentino prese possesso del ducato d'Atene.

Mentre in Ispagna, in Francia e fino in Grecia, Clemente V dava sicure prove della sua vile dipendenza da Filippo il bello, e della sua parzialità, la condotta da lui costantemente tenuta rispetto alle città toscane fu quella di pacificatore al tutto straniero alle fazioni guelfa e ghibellina, e più portato a favorire i Bianchi che i Neri, pel solo motivo che quelli erano esiliati e perseguitati. Per farli ripatriare Clemente fece, benchè inutilmente, i più lodevoli sforzi. Non era egli fino dalla fanciullezza stato nodrito ne' pregiudizj di quelle antiche fazioni, nè ve lo attaccavano le sue parentele. Sebbene i reali di Francia siano stati gli alleati dei Guelfi, Filippo, in tempo delle sue contese con Bonifacio, erasi unito ai Colonna ed al cardinal di Prato, che erano Ghibellini; e l'ultimo, cui Clemente V andava in particolar modo debitore della sua elezione, aveva sotto il pontificato di Benedetto XI avuta particolare cagione di essere scontento dei Neri che governavano Firenze. È d'uopo ripigliare questa parte della storia toscana, che abbiamo dovuto lasciare imperfetta per non rompere il filo degli altri avvenimenti.

Abbiamo detto che Benedetto XI desiderava di riconciliare i Bianchi ed i Neri, e che per tale motivo aveva mandato in Toscana il cardinale di Prato. Entrò questi in Firenze il 10 maggio del 1303, e dopo avere adunati tutti i cittadini nella piazza di san Giovanni, diede loro parte della pacifica missione di cui era incaricato e dell'autorità che il papa gli aveva data; poi chiese ai Fiorentini di rimettersi confidentemente alla sua mediazione. Il popolo cominciava ad essere mal soddisfatto del nuovo governo, e vedeva il pericolo dipendente da una discordia che guastava tutta la repubblica ed aveva omai ruinata la metà de' suoi cittadini; di modo che in un parlamento acconsenti di dare al cardinale piena balìa per riformare la repubblica; non accordandogli soltanto i poteri necessarj per conchiudere parziali paci tra le famiglie nemiche, ma in oltre il diritto di nominare il gonfaloniere, i priori e tutti i magistrati fino al primo di maggio del 1304: la quale balìa fu in seguito prorogata per un altro anno. Il cardinale approfittò dell'affidatagli autorità per rappacificare, durante la sua dimora in Firenze, molte delle più potenti famiglie: rese più forte l'influenza del popolo sul governo, rinnovando i gonfalonieri delle compagnie; e di consenso de' nuovi priori ammise in città i deputati dei Bianchi per trattare col partito dominante. Trovavasi fra i primi Petracco dell'Ancisa padre del poeta Petrarca[221].

Ma la cacciata de' Bianchi da Firenze aveva accresciuto a dismisura il credito dell'antica nobiltà guelfa, la quale vedeva di mal occhio i tentativi del cardinale per abbassarla di nuovo. Cercò quindi con fina avvedutezza d'indisporre contro di lui il popolo, e di preparare segreti ostacoli alla pace generale ch'egli meditava. Questa fazione falsificò una volta il suggello del cardinale, e spedì da sua parte ordine ai Bianchi ed ai Ghibellini di Bologna di venire in suo soccorso. L'avvicinamento di quest'armata eccitò l'indignazione del popolo in maniera, che il cardinale protestò invano di non aver avuto parte a tale chiamata ed invano ordinò ai Bolognesi di ritirarsi: la confidenza che si era con tanta fatica acquistata presso il popolo, fu in un istante perduta per sempre.

I capi dei Neri domandarono in appresso al cardinale di occuparsi della pace di Pistoja prima di terminare quella di Firenze. La parte Bianca dominante a Pistoja, dicevano essi, doveva accordare ai Neri le medesime vantaggiose condizioni, che i Neri dominanti a Firenze sono disposti di accordare ai Bianchi fuorusciti. Il cardinale, recandosi a Pistoja, passò per Prato, che, sebbene fosse la patria de' suoi maggiori, egli non aveva ancora veduta; ed il rispettoso e distinto accoglimento che gli fece quel popolo, accrebbe la gelosia dei Neri. I Guazalotti, capi di questo partito in Prato, ne fecero amara vendetta al suo ritorno da Pistoja, ove nulla aveva potuto ottenere. Gli fecero chiudere in faccia le porte della città e ne proscrissero i parenti ed i loro partigiani, che dovettero salvarsi colla fuga. Il cardinale irritato scomunicò la città di Prato ed accordò le indulgenze della crociata a coloro che prenderebbero le armi contro la sua patria. Rientrato in Firenze, non tardò ad accorgersi che l'accadutogli a Pistoja e Prato aveva distrutta in modo la sua riputazione, che, in occasione di una sommossa, la famiglia de' Quaratesi, vicina al palazzo da lui abitato, fece tirare contro la sua persona. Allora il cardinale volgendosi al popolo che lo circondava, gridò: «poichè voi volete essere in guerra e maledetti, ricusando di ascoltare il messaggiere del vicario di Dio; poichè non volete nè riposo nè pace, rimanetevi adunque colla maledizione di Dio e della santa Chiesa.» Partì il giorno 4 giugno del 1304, lasciando la città scomunicata, e Benedetto XI confermò a Perugia questa scomunica.

In Firenze tenne dietro alla partenza del cardinale una sedizione: mentre coloro che l'avevano forzato a ritirarsi, battevansi contro quelli che volevano la pace, un prete, chiamato ser Neri Abbati, appiccò il fuoco alle case dei Bianchi in due diversi luoghi della città. Questi, occupati trovandosi nella zuffa, non poterono fermare l'incendio, il quale, stendendosi rapidamente verso il centro della città, distrusse mille settecento case ne' quartieri occupati dai magazzini dei mercanti, cagionando un'immensa perdita a molte delle più ricche famiglie e specialmente ai Cavalcanti ed ai Gherardini, che furono al tutto ruinati[222].

In conseguenza della scomunica fulminata contro Firenze furono dal papa citati a Perugia dodici capi di parte nera con cento cinquanta cavalieri loro amici. Il cardinale di Prato scrisse allora ai Ghibellini ed ai Bianchi di Pisa, d'Arezzo, di Bologna e di Pistoja, essere questo il momento di sorprendere Firenze e di vendicarsi. Infatti i Bianchi si adunarono e s'avanzarono segretamente; ma gli emigrati fiorentini erano arrivati alla Lastra, due sole miglia sopra Firenze, coi Bolognesi, gli Aretini, ed i Romagnoli il 21 luglio 1304, in cambio del 23, ch'era il giorno destinato. Essi formavano un corpo di mille seicento cavalli e di nove mila uomini d'infanteria. Il conte Fazio doveva raggiugnerli da Pisa ed era già arrivato al castello di Marti con quattrocento cavalli; doveva arrivare da Pistoja Tolosato degli Uberti con trecento cavalli e molti pedoni, il quale prese la strada della montagna quand'ebbe avviso, che i suoi alleati erano giunti innanzi tempo presso a Firenze.

Baschiera dei Tosinghi, giovane emigrato fiorentino, comandava il primo corpo che arrivò alla Lastra. Molti messaggi ricevuti dai Bianchi di Firenze lo incoraggiavano ad avanzarsi senza aspettare le truppe di Pisa e di Pistoja, e ciò ch'era ancor peggio, senza aspettare la notte, che avrebbe calmato quel calore soffocante che opprimeva gli uomini ed i cavalli, ed inoltre avrebbe permesso agli amici di Firenze di recarsi al loro campo. I Bianchi entrarono senza trovare resistenza per la porta di san Gallo, che in allora non era che la porta di un sobborgo, ed arrivarono fino alla piazza di san Marco, ove si posero in ordine di battaglia colla spada alla mano, ma colla testa coronata d'ulivo e gridando pace! pace! Frattanto non essendo raggiunti dai Bianchi della città, spedirono un piccolo corpo per sorprendere la porta degli Spadai, ove provarono qualche resistenza. Di là la stessa divisione si avanzò verso il duomo, e si vide attaccata per le strade da que' medesimi che sarebbersi creduti pronti a secondare gli emigrati; sia perchè loro sembrasse l'impresa imprudente e mal condotta, oppure, come racconta il segretario fiorentino, perchè volevano bensì accordare la pace alle loro preghiere, ma non alle armi[223]. In questo frattempo, appiccatosi il fuoco ad alcune case vicine alla porta, i Bianchi ch'erano entrati in città, temettero di rimanere divisi dal corpo principale, e ripiegarono verso Baschiera sulla piazza di san Marco. I Bolognesi, rimasti alla Lastra senza fare alcun movimento, avuto avviso della loro ritirata e credendo rotta tutta l'armata ghibellina, ripresero subito la strada di Bologna. Invano Tolosato degli Uberti, che gl'incontrò, venendo co' suoi Pistojesi, tentò di ricondurli verso Firenze; essi vollero ad ogni modo abbandonare l'impresa. Intanto Baschiera sulla piazza di san Marco, più sostener non potendo l'eccessivo calore e la mancanza d'acqua, dovette dare il segno della partenza. Inseguito nella sua ritirata dai Fiorentini, perdette molta gente[224]: per tal modo la parte de' Bianchi che aveva quasi in pugno la vittoria, fu per una continuata serie d'errori compiutamente disfatta.

Fu precisamente all'epoca di quest'attacco disgraziato, che morì Benedetto XI. Mentre i cardinali erano chiusi in conclave per l'elezione del suo successore, credettero i Neri di poter dare compimento alle loro vendette senza timore di esserne impediti dall'arrivo di qualche nuovo paciere. I due governi di Firenze e di Lucca stabilirono perciò di occupare Pistoja, ov'eransi ritirati molti dei loro emigrati, ed ove dominava Tolosato degli Uberti, l'erede di quella famiglia in ogni tempo ghibellina, che aveva prodotto il magno Farinata. I Fiorentini differirono l'impresa di Pistoja al mese di maggio del 1305, e s'impegnarono a non abbandonarne le mura finchè la città non s'arrendesse. Fecero domandare un generale a Carlo II re di Napoli, il quale mandò loro Roberto di Calabria, suo figlio ed erede presuntivo, con trecento cavalieri aragonesi o catalani, ed un ragguardevole corpo di fanteria almogavara. Queste truppe spagnuole, non diverse da quelle passate in Grecia con Ruggeri di Flor, erano state licenziate da Federico di Sicilia, e prendevano soldo da tutte le potenze che volessero approfittare de' loro servigi.

Il duca di Calabria partì da Firenze il 22 maggio del 1305 alla testa delle milizie di quella repubblica, ed incontrò in vicinanza di Pistoja le truppe lucchesi. Le due armate si divisero i lavori dell'assedio ed alzarono ridotti di distanza in distanza mezzo miglio lontani dalle mura: dopo di che il duca fece bandire che accordava tre giorni di tempo per uscire di Pistoja a tutti coloro che non volessero essere considerati come nemici della Chiesa e del re di Sicilia; ma che dopo tale termine tutti coloro che rimarrebbero entro l'assediata città, verrebbero trattati di ribelli, e permesso a chicchessia sarebbe di ucciderli. Perchè i Pistojesi non avevano sufficiente provvisione di vittovaglie, approfittarono della concessione del duca di Calabria per far uscire dalla città molte bocche inutili[225].

Pistoja è posta in un piano; era cinta di mura in allora assai forti e di poco esteso giro, con larghe fosse piene di acqua che ne impedivano gli approcci; le porte erano gagliardamente fortificate, e varj ridotti sostenevano le mura, di modo che l'arte degli assedj, essendo di que' tempi ancora troppo imperfetta, gli assedianti non potevano lusingarsi di prendere la città per forza. Perciò i generali guelfi cercarono di affamarla, e fecero scavare dall'uno all'altro ridotto larghe fosse che guarnirono di palizzate; ondechè terminato questo lavoro più non fu possibile di vittovagliare la città. I Pistojesi per interrompere i lavori facevano frequenti sortite e combattevano valorosamente, ma erano talmente inferiori di numero, che venivano sempre respinti con perdita. Tali scaramuccie erano spesse volte seguite da atti crudelissimi, troppo odiosi perchè se ne debba conservare la memoria. Un violento odio di partito ed un infinito numero di vendette personali s'aggiungevano all'animosità nazionale.

I Pisani mandavano bensì alcuni soccorsi di danaro, ma non si trovavano abbastanza forti per rompere la loro tregua coi Fiorentini, ed avanzarsi con un'armata capace di far levare l'assedio; ed i Bolognesi, poco affezionati a Pistoja, non si davano pensiero di soccorrerla. Frattanto Tolosato degli Uberti ed Agnello Guglielmini, rettori della città assediata, incominciando a scarseggiare i viveri, fecero uscire di Pistoja i poveri, i fanciulli, le vedove, e quasi tutte le donne di bassa condizione. Orribile spettacolo per i cittadini era il veder condurre alle porte le loro spose, darle in mano de' nemici, e chiudere le porte dietro di loro. Quelle che non avevano tra gli assedianti parenti, conoscenti o uomini generosi che prendessero le loro difese, venivano esposte agli estremi insulti; quelle sopra tutto infelicissime erano che cadevano in mano agli emigrati neri di Pistoja![226]

(1306) Tosto che il cardinale di Prato giunse alla corte di Clemente V, lo richiese d'interporre i suoi buoni ufficj in favore degli assediati Pistojesi, tra i quali il cardinale aveva varj parenti; onde Clemente mandò ordine al duca Roberto ed ai Fiorentini di ritirarsi dall'assedio di Pistoja. Il duca ubbidì, ma i Fiorentini tennero fermo, e nominarono loro capitano Cante de' Gabrielli d'Agobbio, uomo senza pietà, quello stesso che aveva pronunciata sentenza di condanna contro Dante e contro i Bianchi esiliati da Firenze.

I governatori di Pistoja non lasciavano trapelare il segreto intorno allo stato delle vittovaglie, e continuavano a distribuire parchi, ma sufficienti viveri, onde mantenere i soldati abbastanza vigorosi per combattere. Avevano determinato, giunti che fossero alla fine delle loro provvisioni, di annunciarlo al popolo, e di fare in allora una sortita generale, nella quale o venderebbero ad altissimo prezzo le loro vite, o fors'anco colla forza che dà la disperazione, otterrebbero di rompere i nemici. Frattanto il papa, informato che i Fiorentini non avevano fatto verun conto de' suoi ordini, mandò, dietro le preghiere dei Pistojesi, il cardinale Napoleone degli Orsini in qualità di suo legato e di pacificatore della Toscana.

I Fiorentini, avutone sentore, cercarono di prevenirne l'arrivo; e sopra tutto volendo impedire che Bologna, dominata dai Bianchi, non si armasse in favore di Pistoja, mandarono ambasciatori, sotto pretesto di lagnarsi dell'assistenza che i Bolognesi davano ai loro nemici, ma in effetto per cercare di sollevare contro i Ghibellini, che avevano in mano il governo, il popolo che per antica abitudine era affezionato alla parte guelfa. Il cinque febbrajo riuscirono ad eccitare una prima sedizione che poi terminò con danno dei Guelfi; ma non perdettero coraggio. Si fece supporre al popolo che la città si fosse alleata coi Ghibellini di Lombardia, ed il popolo si riscaldò: il conte Tordino di Panico si pose alla sua testa, e, dopo un combattimento intorno al palazzo, furono esiliati tutti i Lambertazzi, atterrate le loro case, ed i Bianchi di Firenze, rifugiatisi in Bologna, costretti a cercarsi un altro asilo[227].

Il cardinale degli Orsini o trovavasi in Bologna quando scoppiò la rivoluzione, o vi giunse poco dopo, a stento si sottrasse agl'insulti della plebe ch'erasi accorta della sua predilezione per i Ghibellini e per i Bianchi, e dovette ritirarsi precipitosamente ad Imola. Ma il cardinale, partendo, scomunicò Bologna, la privò della sua università, e colla bolla che pubblicò, fece che tutti i professori e gli scolari l'abbandonassero per recarsi a Padova[228].

Nello stesso tempo i Fiorentini fecero entrare in Pistoja un monaco, incaricato d'offrire onorevoli condizioni agli assediati. Prometteva che la città rimarrebbe libera, che non sarebbero distrutte nè le mura nè le case, che le persone ed i beni sarebbero protetti, e che i castelli del territorio pistojese non ne sarebbero staccati. I Pistojesi non potevano protrarre le negoziazioni; i viveri erano terminati, e l'indomani era il giorno destinato per l'ultima sortita. Accettarono le offerte condizioni, e Pistoja venne ceduta alle armi fiorentine e lucchesi il 10 aprile del 1306 dopo un assedio di dieci mesi e mezzo[229].

Ma la convenuta capitolazione fu dai vincitori sfrontatamente violata, perciocchè i Fiorentini ed i Lucchesi si divisero tra di loro il territorio di Pistoja, e non lasciarono a questa città altro distretto fuorchè un miglio di raggio intorno alle sue mura; si riservarono l'elezione dei rettori, eleggendo alternativamente i due popoli, uno il podestà, l'altro il capitano del popolo; fecero colmare le fosse, demolire le mura, atterrare le torri dei Ghibellini, ed il tutto a spese del comune di Pistoja; finalmente ridussero alla disperazione gli sventurati Pistojesi, e fecero amaramente piangere sulla loro vittoria quegli stessi emigrati che avevano avuta la follia d'invocare le armi straniere per rientrare nella loro patria.

Vedendo il cardinale degli Orsini d'essere giunto troppo tardi per soccorrere Pistoja, pensò di vendicarla. A tale oggetto adunò in Arezzo, ov'erasi portato del 1307, mille settecento cavalli ed un ragguardevole corpo d'infanteria; ma egli non seppe approfittarne, nè distruggere l'armata fiorentina in un momento in cui, presa da timor panico, erasi da se medesima posta in fuga; di modo che avendo a poco a poco perduto il credito, fu costretto di abbandonare la Toscana. Lasciò nuovamente Firenze sotto l'interdetto, e rinnovò contro questa città la scomunica del cardinale di Prato; dopo di che tornò in Francia presso il papa, che allora trovavasi in grandissimo bisogno dell'assistenza di tutti i cardinali.

L'implacabile Filippo il bello perseguitava ancora la memoria di Bonifacio ch'egli aveva fatto morire disperato: voleva che il papa, con iscandalo gravissimo di tutta la cristianità, condannasse la memoria del suo predecessore; voleva che il pontefice l'ajutasse in pari tempo a far cadere tutte le sue vendette sopra un ordine di cavalieri religiosi, che, soli del clero francese, avevano anteposta l'autorità della chiesa a quella del re, ed avevano osato di rimanere dubbiosi se dovessero prestarsi alle sue volontà. Questi cavalieri avevano inoltre inasprito il monarca, manifestando il loro malcontento per le frequenti alterazioni e falsificazioni delle monete che ruinavano il popolo.

Clemente V non poteva accordare al re di Francia la prima domanda, non potendo condannare la memoria di Bonifacio per delitto d'eresia, nè far diseppellire le sue ossa per abbruciarle senza esasperare tutta la cristianità. Bonifacio erasi forse reso colpevole di molti delitti, ma la sua dottrina era sempre stata conforme a quella della Chiesa, facendone fede il sesto libro delle decretali da lui compilato. Inoltre un tale giudizio contro il capo della religione, quand'anche fosse giusto, era fatto per iscuotere la religione medesima: l'autorità di Clemente, dopo la condanna del suo predecessore, sarebbesi trovata in difetto nella sua sorgente medesima, perchè molti de' cardinali che lo avevano eletto, erano creature di Bonifacio: se questi era eretico, la loro nomina e l'elezione di Benedetto XI e di Clemente V erano nulle; e Clemente che cessava d'essere papa, più non aveva il diritto di condannare il suo predecessore. Tali furono le ragioni che il cardinale di Prato produsse innanzi al re, quando questi instava caldamente perchè il papa pronunciasse la sentenza, e che gli dichiarò ch'era la sesta delle sue promesse, quella di cui erasi riservato il segreto fino all'istante del suo compimento. Il cardinale, per accontentare Filippo, offrì di rimettere questo giudizio ad un concilio generale, il qual solo avea l'autorità di condannare il capo della chiesa[230].

Supponevasi che coloro che avevano ajutato Filippo nell'insulto fatto a Bonifacio, fossero quelli che instavano per abolirne la memoria. Clemente per appagarli, con una bolla delle calende di giugno del 1307, accordava piena ed intera assoluzione al re, al suo regno, ai suoi agenti, ed a tutti coloro che in qualunque modo potessero essere compresi nelle censure ecclesiastiche. Quest'assoluzione fu accordata a tutti senza condizione, tranne Guglielmo di Nogareto e Reginaldo Supino, ai quali il papa impose per penitenza una spedizione in Terra santa[231]. Nel susseguente anno pubblicò le lettere di convocazione del concilio ecumenico, che doveva adunarsi in Vienna del Delfinato il primo ottobre del 1310.

La proscrizione dell'ordine de' Templari, altra domanda di Filippo, pareva che non gli stasse meno a cuore che la condanna di Bonifacio; e Clemente V per una vile e crudele politica sacrificò un ordine che tanto onorava la cristianità, ed espose tanti illustri cavalieri ai più orribili supplizj, per salvare, non la memoria d'un morto, ma la sua propria autorità compromessa dalla procedura che gli si voleva forzatamente far intentare.

L'ordine de' Templari era stato fondato verso il 1128 da nove cavalieri francesi del numero di coloro che avevano accompagnato Goffredo Buglione[232]. Sebbene aperto a tutta la cristianità, il numero de' cavalieri francesi era maggiore di quello de' cavalieri di tutte le altre nazioni complessivamente presi; quasi tutti i grandi maestri erano stati francesi, ed in molte lingue erasi conservato ai cavalieri il loro nome francese, frères du temple φρεριοι τȣ τεμπλȣ[233], frieri del tempio senza tradurlo. Nel corso de' cento ottant'anni, che l'ordine aveva esistito, era stato un modello di cristiane e cavalleresche virtù; e nel formolario francese del ricevimento de' cavalieri, venivano avvisati dell'immenso sagrifizio che stavano per fare alla religione. «Voi non conoscete, gli si diceva, i rigorosi precetti dell'ordine; ed è cosa dura che voi che siete indipendente, vi facciate servo di altri. Rare volte vi accaderà di fare quello che voi volete; imperciocchè quando desiderate di essere al di quà del mare, sarete mandato al di là ec.» Dopo aver ricevuto dal candidato le promesse di ubbidienza, di castità, di fedeltà; dopo avere avuto sul di lui conto le più circostanziate informazioni, quello che presiedeva al capitolo doveva finalmente riceverlo e dirgli: «Noi vi ponghiamo a parte di tutti i beneficj della casa, vi promettiamo pane e legna, la povera vittovaglia della casa, e pene e fatiche assai[234].» Di fatti specialmente a quest'epoca l'ordine trovavasi in assai basso stato; imperciocchè cacciato dai Turchi da quella Terra santa che aveva valorosamente difesa il suo grande maestro, il venerabile Giacomo di Molay, erasi ritirato in Cipro col fiore de' Templari, ed in quell'isola stava preparando cogli ospitalieri di san Giovanni la conquista dell'isola di Rodi, che poi gli ospitalieri eseguirono soli.

Tali erano gli uomini che improvvisamente la mattina del 13 ottobre 1307 furono imprigionati in ogni angolo della Francia[235]; mentre che Giacomo di Molay, chiamato d'Oriente dal re, era venuto con piena confidenza a porsi in mano de' suoi carnefici. Sopra la deposizione di due malvagi, del priore di Montfaucon condannato per le sue dissolutezze a perpetuo carcere, e di Noffo Dei fiorentino, appiccato in appresso per altri delitti, furono accusati delle più ignominiose ad un tempo e più assurde scelleratezze[236]. Si pretendeva che rinnegassero la religione per la quale combattevano, che autorizzassero la più scandalosa e stomachevole dissolutezza; furono citati alcuni fatti che la storia non può più ricordare, ma che sono smentiti da se medesimi, e tutti questi generosi cavalieri vennero esposti ad orribili torture; loro si prometteva intero perdono ed anche quello dell'ordine, se confessavano le imputazioni che gli si facevano e moltiplicavansi i tormenti fino a cagionar loro la morte se si ostinavano a negarle. Molti cavalieri, vinti dal dolore, confessarono tutto quanto venne loro richiesto; ma quando vollero ritrattarsi, dopo essere usciti di sotto al carnefice, furono dichiarati eretici, recidivi e condannati al fuoco. Coloro, che alla tortura non avevano confessati i pretesi delitti dell'ordine, furono egualmente ritenuti colpevoli: erano preventivamente avvisati che l'ultimo supplicio sarebbe il castigo della loro ostinazione; e questo supplicio era terribile. Ascoltiamo Giovanni Villani, autore contemporaneo, che parla con orrore di tutta questa procedura. «In un grande parco chiuso di legname fece legare, ciascuno a un palo, cinquantasei de' detti Tempieri, e fece metter fuoco a piede, ed a poco a poco l'uno innanzi l'altro ardere, ammonendoli che quale di loro volesse riconoscere l'errore, il peccato suo, potesse scampare; e in questo tormento, confortati dai loro parenti e amici, che riconoscessero e non si lasciassero così vilmente morire e guastare, niuno di loro il volle confessare; ma con pianti e grida si scusavano, com'erano innocenti di ciò e fedeli cristiani, chiamando Cristo e santa Maria e gli altri santi, e col detto martorio tutti ardendo e consumando, finirono la vita[237]

Un poeta francese offre adesso in qualche modo un sagrificio espiatorio alla memoria degli sventurati Templari, facendo spargere a' suoi compatriotti lagrime sui patimenti di que' cavalieri, sui delitti del re, del pontefice, de' loro giudici, de' loro persecutori. Aggiugnendo al merito poetico una rara erudizione, illustrò sommamente gli eroi che chiamò sulla scena. Ma gli stessi contemporanei de' Templari non lasciarono di attestarne l'innocenza: uno de' santi che venera la Chiesa, dichiarò calunniose tutte le accuse fatte a' Templari, le quali non furono inventate, egli dice, che dall'avarizia per ispogliare que' cavalieri de' moltissimi beni che possedevano[238]. Osserva l'annalista ecclesiastico, che quest'asserzione rendesi probabile quando si osserva che i consiglieri di Filippo erano scellerati impostori e calunniatori. Questo re, egli dice, che aveva invasi i beni delle chiese, che aveva oppressi i suoi popoli, che aveva adulterate le monete, spogliati tutti i Giudei del regno, e cercati altri vergognosi profitti che ancora più vergognosamente dissipava, ben potè essere tentato dalle ricchezze del tempio, di cui s'impadronì, dopo avere dichiarato colle sue lettere patenti che le avrebbe rispettate. Guglielmo Ventura, lo storico d'Asti, asserisce pure che questa persecuzione non fu eccitata che dall'invidia e dalla cupidigia di Filippo, il quale odiava i Templari, perchè questi religiosi avevano osato dichiararsi per Bonifacio nella lite tra il pontefice ed il monarca[239]. Molti altri antichi scrittori che si limitano a riferire con sorpresa così strane accuse, non sonosi astenuti dal giudicarle, che per rispetto al giudizio già emesso dalla chiesa nel concilio di Vienna, che del 1311 condannò l'ordine.

Il concilio di Vienna abolì l'istituzione de' Templari in tutta la cristianità, dichiarando i loro beni devoluti all'ordine degli Ospitalieri. Questi beni, che in Francia ed in Italia erano già stati confiscati, furono comperati a caro prezzo dai cavalieri di san Giovanni, che si ruinarono con tale acquisto. Nelle Spagne furono aggiudicati agli ordini militari del paese; in Portogallo servirono a dotare il nuovo ordine di Cristo, formato dai Templari portoghesi, veri rappresentanti di quest'ordine illustre. Ma prima di passare questi beni in mano agli ordini religiosi, i sovrani vollero approfittarne, imitando tutti l'avidità del re francese e spogliandone i Templari, sebbene non insevissero come Filippo contro i cavalieri. A tale epoca l'ordine contava circa quindici mila cavalieri, che tutt'ad un tratto vennero tolti alla difesa di Cristianità[240]. Il grande maestro Giacomo di Molay fu dopo tutti gli altri e dopo la sentenza del concilio mandato al supplicio col fratello del Delfino del Viennese. Molay, sedotto dalle promesse, o cedendo all'orrore della tortura, pare che confessasse alcune delle imputazioni fatte all'ordine: ma quando fu sotto gli occhi del pubblico, si affrettò di ritrattare la confessione che gli era stata estorta coi tormenti, dichiarandosi meritevole della morte per avere ceduto alle istanze ed alle minacce del re[241]. Quasi tutti gli storici raccontano che nell'istante del supplizio, egli, o alcuno de' suoi cavalieri, citò al tribunale di Dio il papa ed il re, intimando loro di comparire entro un anno ed un giorno, per rendere ragione della loro tirannia, giacchè non eravi in terra altro tribunale che potesse giudicarli. Ambedue morirono di fatti entro l'indicato termine. Il signor Raynovard approfittò di questa tradizione:

«Ma in ciel si trova un tribunale augusto

Che invano mai non implorò l'oppresso

Mortale: a questo io ti domando, o papa.

Ancor quaranta giorni! e già ti vedo

Tremante comparir. Alle parole

Tutti fremevan di Molay: ma quale

Sorpresa, quanto orror, qual turbamento

Ogni cuore occupò, quando soggiunse:

O Filippo, o mio re, o mio signore!

Invano io ti perdono, ancor di vita

Poco ti resta, al tribunal di Dio

Pria che l'anno si compia, o re, ti aspetto.»

CAPITOLO XXVII.

Affari di Firenze. — Regno e spedizione in Italia dell'imperatore Enrico VII di Luxemburgo.

1308 = 1313. (1308) Il trionfo della parte de' Neri in Firenze e nelle città guelfe della Toscana, e la sommissione di Pistoja a questo partito pareva che dovessero per alcun tempo assicurare la pace a tutta questa contrada, poichè i nemici del governo, vinti in ogni incontro, più non credevansi in istato di turbare la repubblica. Vero è che il partito ghibellino era tuttavia dominante nelle due città di Pisa e di Arezzo, ma queste ancora erano state forzate di domandare ai Guelfi la pace: inoltre la prima doveva pensare a conservarsi il dominio della Sardegna, di cui il re d'Arragona, in forza di una concessione del papa, cercava di spogliarla, onde si guardava dal provocare nuove liti sul continente. Perciò la potenza del partito guelfo pareva invariabilmente stabilita, quando un'interna discordia, poi la venuta in Italia di un imperatore senz'armata, il di cui potere era presso che tutto posto ne' soli titoli e diritti, crollarono di nuovo la lega guelfa, alla di cui testa trovavasi Firenze, e tutto rovesciarono l'equilibrio politico dell'Italia. Esiste nelle repubbliche una soprabbondanza di vita che non permette godimento di lunga pace o riposo, mentre nelle monarchie un prematuro letargo non lascia libero corso allo spirito. Nelle prime l'anima di ogni cittadino, gettata in una diversa forma, pare che piegare non si possa ad una legge comune; non è pago del godimento della libertà come membro di un corpo libero ed aspira ad una esistenza indipendente, non trovando nel più liberale governo abbastanza larghi confini per lo sviluppo della sua volontà e delle sue passioni. Nella monarchia per lo contrario, quando il sovrano ha tolto all'uomo ogni cura de' suoi politici interessi, più non può richiamarlo a generose passioni per altri oggetti e non può farlo agire che coll'allettamento di immediati godimenti: la gloria, il potere, la stessa fortuna quando siano il prezzo di ardite combinazioni e di una lunga perseveranza, più non offrono bastante allettamento ai sudditi: e quel monarca che si sforza di risvegliare in un popolo privato d'ogni libertà[242] le lettere, le belle arti, il commercio, s'assomiglia a quel fisico che, pei prestigi del galvanismo, eccita in un cadavere alcuni movimenti della vita che ha perduta.

I vantaggi di una vittoria ottenuta da un partito non possono giammai appagare le speranze concepite da tutti i suoi capi, e le speranze deluse sono d'ordinario immediata cagione della divisione de' vincitori. Corso Donati era stato a Firenze il principal capo di quella rivoluzione che aveva cacciati i Bianchi in esilio e resi i Neri potentissimi; pareva che la repubblica avesse adottate perfino le sue private nimicizie contro Vieri de' Cerchi, e tutte le sue passioni. Non pertanto Donati s'avvide ben tosto di non avere raccolto verun frutto dalla sua vittoria: i capi della nobiltà, cui erasi associato, mostraronsi gelosi della sua riputazione, e tentarono d'indebolire la di lui influenza nella pubblica amministrazione. Volle allora far prova della sua individuale potenza, gettandosi nella opposizione, censurò le operazioni de' principali magistrati, e non tardò ad accorgersi con dolore che non le poteva impedire, e si procacciava dei nemici. Finalmente cercò di formarsi un partito contro quello medesimo che egli aveva lungo tempo diretto; e mentre che Rosso della Tosa, Geri Spini, Pazzino de' Pazzi e Betto Brunelleschi governavano la repubblica, per combattere questi capi della nobiltà, si associò coi Bordoni e coi Medici. Formavano i Medici una famiglia popolana che cominciava ad arricchirsi e ad aver parte a quest'epoca ne' pubblici affari.

Corso Donati accusava in ogni occasione il governo di venalità e di dilapidamento; rispondevano i suoi nemici con un'accusa ancora più popolare, e quindi a Corso più dannosa, lo accusavano di volere usurpare la tirannide, adducendo per prova il suo lusso, le spese, l'orgoglio del suo parlare, i clienti di cui s'andava circondando, e più di tutto il suo recente matrimonio. Infatti era questo assai sospetto. Corso Donati, il capo del principale partito guelfo tra i Guelfi, Corso che aveva perseguitati i Bianchi pel solo motivo d'essersi mostrati disposti a perdonare ad alcuni Ghibellini, sposava la figliuola di Uguccione della Fagiuola, il capo di tutti i Ghibellini della Romagna e della Toscana ed il più temuto capitano tra i nemici della repubblica. Allorchè quest'accusa, destramente sparsa tra il popolo, ebbe risvegliata la diffidenza contro un uomo da lungo tempo risguardato come il primo cittadino di Firenze, i suoi nemici credettero che fosse giunto l'istante di perderlo. La signoria fece un giorno suonare la campana del comune, e tosto che il popolo armato si fu adunato nella piazza delle armi, i priori delle arti accusarono solennemente Corso Donati al tribunale del podestà d'avere voluto tradire il popolo e farsi tiranno. Citato a presentarsi al tribunale, si rifiutò; e l'accaduto fece chiaramente conoscere che Corso aveva ragione di diffidare della parzialità o della dipendenza del podestà; poichè le forme della giustizia furono totalmente trascurate in questo giudizio: nello spazio di due ore il giudice passò dalla citazione e dalla informazione alla sentenza, condannandolo in contumacia, come traditore e ribelle, alla pena di morte.

I priori uscirono dal pubblico palazzo preceduti dal gonfaloniere di giustizia, e seguìti dal podestà, dal capitano del popolo, dall'esecutore e dagli arcieri, indi dalle compagnie del popolo armato. Con tale ordinanza s'avanzarono contro le case de' Donati e le attaccarono. Corso aveva intanto riuniti i suoi amici ed afforzato con barricate il quartiere da lui abitato. Aveva pure chiesto ajuto a suo suocero, ma gli ausiliarj speditigli da Uguccione non giunsero in tempo. Corso travagliato dalla gotta, sebbene incoraggiasse i suoi amici colla voce, non poteva combattere alla loro testa: dopo una resistenza di alcune ore, vedendo rotte le barricate, fuggì a stento fuori di città; ma giunto appena in campagna fu arrestato dai soldati catalani che lo inseguivano. Quando si vide ricondotto verso la città, preferendo una subita morte al supplicio destinatogli, si gettò di cavallo in maniera di battere il capo contro un sasso; per la quale caduta, vedendolo gravemente ferito, le guardie terminarono d'ucciderlo colle alabarde[243].

Il governo fiorentino si mostrò più generoso verso i Pistojesi di quello che lo fosse stato verso un suo cittadino. Dopo la presa di Pistoja, gl'infelici abitanti di questa città, oppressi da' loro vincitori, spogliati da' rettori forestieri che presiedevano ai loro tribunali, aggravati dalle imposte, privati del loro territorio, inoltre lacerati da una guerra civile che i fuggitivi Ghibellini avevano accesa nelle terre delle montagne, i Pistojesi, io dico, erano ridotti alla disperazione, quando videro arrivare alle loro porte il capitano del popolo scelto dai Lucchesi per governare gli ultimi sei mesi dell'anno 1309. Era questi un uomo di bassa estrazione ed affatto povero, onde giudicarono dover esser più avido de' suoi predecessori. Nello stato in cui si trovavano di estremo rifinimento, senza tesoro, senza soldati, senza protettori, senza amici, senz'altra risorsa che la loro disperazione, i Pistojesi dichiararono altamente che non avrebbero per alcun conto ricevuto quest'iniquo magistrato. «Sollevossi nella città,» dice lo storico di Pistoja che fu testimonio di questa rivoluzione, «sollevossi nella città, quando a Dio piacque, un grandissimo rumore; come una divina voce venuta dal cielo; ognuno gridava: Che si rinforzi la città! e nel medesimo istante, senza che alcun superiore lo ordinasse, uomini, donne, fanciulli, gentiluomini e borghesi presero tavole e ferramenta, e portandole sulle diroccate mura, tutte le barricarono. Questo lavoro, cominciato tre ore avanti mezzogiorno, era ultimato a compieta. Ben tosto si fecero a cavare le fosse dalla banda di Lucca; del che avvisatine i Lucchesi, marciarono subito, popolo e cavalieri, fino in Val di Nievole. I Pistojesi, vedendo avvicinarsi i nemici, mandarono tutti i loro fanciulli fuori di città, e risolsero di difendersi disperatamente e di morire tutti assieme piuttosto che sostenere tanti patimenti[244]

L'antico capitano del popolo, nominato dal Fiorentini, era rimasto in città co' suoi arcieri; e siccome Pistoja trovasi di alcune miglia più vicina a Firenze che a Lucca, è probabile che avesse già ricevuto qualche rinforzo da' suoi compatriotti, quando gli fu riferito che i Lucchesi eran giunti a Ponte Lungo, soltanto due miglia distante da Pistoja. Compassionando il popolo ch'egli aveva governato sei mesi, e di cui conosceva i patimenti, andò all'incontro dei Lucchesi, cercando di fermarli ora colle preghiere, ora colle minacce, dicendo loro che la sua repubblica non acconsentirebbe giammai alla ruina di Pistoja, e ch'egli stesso era al tutto disposto d'unirsi ai sollevati se i Lucchesi passavano più oltre; e finalmente li determinò a ritirarsi a Serravalle, per dargli tempo di trattare l'accomodamento[245]. A lui si aggiunsero ben tosto altri pacificatori, gli ambasciatori mandati dalla repubblica di Siena per rimettere la pace tra le città della lega guelfa. Questi ambasciatori essendo stati scelti per arbitri tra i Pistojesi ed i Lucchesi, ordinarono che le palafitte di Pistoja sarebbero levate e la città rimarrebbe otto giorni aperta, ma sotto la loro salvaguardia, per appagare l'offeso orgoglio de' Lucchesi; che passati gli otto giorni i Pistojesi potrebbero fortificare la città loro come meglio credessero; che prenderebbero i loro rettori alternativamente a Firenze ed a Lucca, scegliendo essi liberamente quel cittadino che più loro piacesse, invece che prima veniva nominato dalle repubbliche. Questa sentenza ridonò a Pistoja quasi tutta l'indipendenza e la libertà che aveva perduta dopo la guerra de' Bianchi e de' Neri.

La morte di tre sovrani, Azzo VIII d'Este, Alberto d'Austria, re de' Romani, e Carlo II, re di Napoli, furono di questi tempi cagione all'Italia di nuove rivoluzioni. Azzo d'Este era capo della più antica famiglia de' principi italiani, ed i suoi antenati erano stati fatti signori di Ferrara prima che verun altra repubblica si fosse ancora sottomessa al potere di un solo. Ma l'antichità di questa dinastia ad altro non aveva servito che a renderla più corrotta delle moderne. Azzo VIII d'Este è forse il più antico esempio di que' tiranni effeminati, vili e crudeli che nel susseguente secolo furono più numerosi nelle città lombarde. Abbiamo già veduto nel precedente capitolo che i popoli di Modena e di Reggio eransi contro di lui ribellati; e poco mancò che alla morte d'Azzo la sua dinastia non perdesse ancora Ferrara e le terre che formavano l'antico suo retaggio. Azzo VIII aveva col suo testamento dichiarato erede il figlio d'un suo figliuolo naturale a pregiudizio di suo fratello e de' suoi nipoti. Quest'ingiustizia fu cagione di civil guerra nella famiglia d'Este, e risvegliò l'ambizione de' vicini stati che sperarono di potersi ingrandire a sue spese. I Veneziani entrarono in Ferrara come ausiliari del bastardo d'Este, il papa dall'altro canto mandò in ajuto del fratello d'Azzo un cardinale con un corpo di milizie, il quale, abbandonando bruscamente il suo cliente, pretese di unire Ferrara all'immediato dominio della Chiesa, perchè questa città negli ultimi diplomi degli imperatori era stata dichiarata di pertinenza di san Pietro. La successione del marchese non fu più oggetto di disputa tra gli eredi legittimi e testamentarj, ma tra il papa ed i Veneziani. Il cardinale Arnaldo di Pellagrue, nipote di Clemente V, e da lui incaricato della guerra di Ferrara, adoperò contro la repubblica le armi spirituali e le temporali: i Veneziani soggiacquero a grandi infortunj; ed il marchese d'Este ed i Ferraresi furono egualmente traditi dalla repubblica di Venezia e dal papa, e spogliati dai proprj alleati.

La morte d'Alberto d'Austria era un avvenimento di tanta importanza che non poteva non essere cagione di grandi rivoluzioni. Del 1298 Alberto era succeduto al suo emulo Adolfo di Nassau, da lui vinto in battaglia e poi fatto morire. Dopo tale epoca Alberto erasi costantemente occupato dell'ingrandimento della sua famiglia ed aveva cercato di renderne negli antichi dominj più arbitraria l'autorità. La sua ambizione, che gli aveva fatti ribelli gli abitanti di Vienna e della Stiria, lo trasse in pericolose guerre colle città svizzere, Berna, Zurigo e Friburgo, che in sull'esempio delle città d'Italia eransi sottratte all'impero in tempo de' suoi lunghi interregni e governavansi a comune; finalmente gli suggerì l'altrettanto vana che difficile impresa di ridurre in servitù gli abitanti dei tre Waldstettes, Uri, Schwitz e Underwald, che non volevano dipendere, e non dipendevano che dall'impero, e che, ridotti alla disperazione nell'ultimo anno della vita d'Alberto, cacciarono dal loro paese i suoi governatori ed i suoi satelliti, e giurarono sulla rutly la confederazione elvetica, il più fermo appoggio della loro indipendenza[246].

Per una conseguenza dello stesso piano d'usurpazioni, Alberto riteneva l'eredità di suo nipote Giovanni d'Austria, unico figliuolo di suo fratello Rodolfo, cui, appena giunto alla maggiorità, avrebbe dovuto dare il possesso d'una parte dei beni della casa d'Absburgo; ed egli erasi anzi rifiutato alle sue dimande con ingiuriosi motteggi. Il giovane principe confidò la segreta sua indignazione ad alcuni gentiluomini egualmente malcontenti d'Alberto, che lo incoraggiarono a vendicarsi. Il 1 maggio 1308, passando Alberto da Stein a Baden, i congiurati lo separarono da una parte del suo corteggio nell'uscire dalle valli che guidano al guado di Windisch, sotto colore che non conveniva caricare di soverchio il battello che doveva passarli all'opposta riva; e quando arrivarono sotto il castello d'Absburgo, in un podere che dalla più rimota antichità apparteneva alla famiglia d'Alberto, e sotto gli occhi di tutto il suo seguito, che il solo fiume Reuss teneva da lui separato, Giovanni d'Austria piantò la sua lancia nella gola dello zio, gridando: ricevi il prezzo della tua ingiustizia. Nel medesimo istante gli furono addosso tutti gli altri congiurati[247].

Peraltro il principe Giovanni non aveva prese le necessarie precauzioni per raccogliere il frutto della sua congiura: spaventato dal sangue che aveva versato, e tormentato dai rimorsi, fuggì tra le montagne, ove visse alcun tempo solitario: di là venne in Italia, nascondendosi a Pisa, nel qual luogo si crede che terminasse i suoi giorni in un convento d'Agostiniani[248]. Nè soltanto i suoi complici, ma tutti i loro parenti, amici e servitori, perseguitati crudelmente da Agnese, vedova d'Alberto, perirono per mano del carnefice: e la morte del re fu vendicata con quella di più di mille persone, quasi tutte innocenti.

Filippo il bello, udita la morte d'Alberto d'Austria, chiese al papa che in compimento della grazia innominata, riservatasi allorchè gli procurò la tiara[249], l'ajutasse a far ottenere la corona imperiale a Carlo di Valois suo fratello. Clemente non sapeva rifiutargli alcuna cosa e gli promise il suo appoggio, ma in pari tempo scrisse agli elettori tedeschi perchè affrettassero l'elezione se volevano sottrarsi all'influenza della Francia, e per dir loro che il personaggio più degno de' loro suffragi era il conte Enrico di Luxemburgo, principe poco ricco e poco potente, benchè d'illustre famiglia, il quale godeva universale opinione di avere animo nobile, generoso e leale. L'elezione, con estrema sorpresa di tutta la cristianità, si pubblicò il giorno 25 o 27 di novembre, ed avendola il papa approvata senza ritardo, Enrico VII di questo nome tra i re di Germania, VI tra gl'imperatori, fu coronato il giorno dell'Epifania del susseguente anno ad Aquisgrana[250].

Sebbene Enrico non possedesse che la piccola contea di Luxemburgo e la città di Treveri ch'egli aveva aggiunta ai suoi dominj in una fresca guerra, e della quale era vescovo suo fratello, i suoi parentadi gli assicuravano il favore di molti principi di second'ordine. Una sorella di suo padre aveva sposato quel famoso Gui, conte di Fiandra, che aveva tante volte battuti i Francesi; ed egli stesso aveva sposata una figlia del duca del Brabante: Amedeo, conte di Savoja, aveva sposata l'altra, ed il fratello del delfino del Viennese era genero del conte di Savoja.

(1309) La riputazione personale di cui godeva Enrico, chiamò intorno a lui molti baroni tedeschi, fiamminghi e francesi, i quali fin dal primo anno del suo regno lo resero abbastanza potente per assicurare alla sua famiglia il regno di Boemia, facendo sposare a suo figliuolo Giovanni una figlia di Venceslao il vecchio: il duca di Carizia, che aveva sposata la sorella, fu con un decreto privato di ogni parte dell'eredità[251]. Noi vedremo questo stesso Giovanni, re di Boemia, avere alcun tempo dopo un influenza grandissima nelle cose d'Italia, e la corona imperiale ritornare per mezzo di suo figliuolo nella casa di Luxemburgo.

Ma Enrico VI, che avrebbe eccitata ben tosto la gelosia di tutti i principi dell'impero se avesse tentato di estendere maggiormente la sua autorità in Germania, pensò che portandosi in Italia, oltre che avrebbe acquistata nuova gloria e potenza, calmava l'inquietudine de' principi tedeschi che non volevano avere alcuno superiore. L'Italia era omai divenuta in qualche modo straniera all'Impero romano. Dopo la deposizione di Federico II, ordinata dal concilio di Lione l'anno 1245, la Chiesa e la sua fazione in Italia più non avevano riconosciuti imperatori. Vero è che da oltre trentacinque anni regnavano in Germania i re de' Romani destinati a ricevere la corona imperiale, i quali non erano semplici candidati, ma capi riconosciuti dell'impero; pure questi medesimi capi attaccavano la più alta importanza alla consacrazione del papa, ed al ricevimento dalle sue mani della corona d'oro nella città di Roma. Tra gl'Italiani e tra gli ecclesiastici d'ogni paese molti eranvi i quali credevano che l'autorità del monarca sopra l'Italia derivasse da questa cerimonia, o piuttosto dal trovarsi il monarca al di qua delle Alpi. Questa supposizione veniva confermata dall'abbandono di Rodolfo d'Absburgo e de' suoi successori, che quasi non avevano avuta veruna relazione con l'Italia. Nello spazio di sessantaquattro anni tutti i governi di questa contrada eransi emancipati dall'impero, come se l'imperatore più non conservasse veruna autorità sopra di loro.

È veramente uno strano fenomeno, che l'Italia in quel lungo interregno, lungi dal pronunciarsi contro l'autorità imperiale, di circoscriverla, o di annullarla, l'abbia per lo contrario ingrandita ed innalzata oltremodo, atterrando innanzi a lei que' limiti che gli si erano opposti in altri secoli.

Gli Enrici, Lotario, Corrado e Federico Barbarossa erano i capi di una libera corporazione; le loro prerogative venivano ristrette dai privilegi dei grandi e del popolo; il potere legislativo era riservato alla nazione adunata nelle sue diete; i doveri de' feudatarj, regolati dal loro vassallaggio, riducevansi a certi servigi perfettamente noti ai feudatarj ed al loro capo, ed avevano essi insegnato a questo capo a conoscere ancora quali diritti eransi essi medesimi riservati. Dopo un secolo e mezzo di guerre, quasi tutte svantaggiose all'impero, dopo sessantaquattro anni d'interregno, questa costituzione fu sepolta nell'obblio, e l'imperatore venne risguardato come un monarca assoluto. Quando era riconosciuto dalla chiesa, consacrato e coronato dal sommo pontefice, quand'egli soggiornava in Italia ed innalzava il suo tribunale in una terra dell'impero, più non si supponeva che vi fosse alcun potere sulla terra, tranne quello del papa, che potesse sollevarsi contro di lui, verun diritto, verun privilegio, di cui non ne fosse egli l'arbitro e che non potesse confermare o annullare. Tutte le libere istituzioni dei popoli del settentrione si dimenticarono, e l' imperatore sempre augusto venne risguardato come il legittimo rappresentante dei Cesari di Roma, antichi padroni del mondo, cui tutta la terra era, o doveva essere sottomessa. Enrico di Luxemburgo era un povero principe, il quale non aveva altra forza che quella del suo nobile carattere, generoso, cavalleresco; quindi non fu già in conseguenza d'una possanza reale, ma per la sola forza dell'opinione che questo principe riuscì a mutare lo stato dell'Italia; che a sua voglia abbassò o rialzò i tiranni ed i principi sovrani; che comandò alle repubbliche e distrusse le loro leggi ed i loro governi; che impose enormi contribuzioni, pagate senza resistenza; che finalmente unì sotto le sue insegne popoli, ai quali era stato fin allora straniero e che non pertanto credevansi tenuti di servirlo a proprie spese. Se tre o quattro repubbliche soltanto gli resistettero, ciò avvenne pel segreto sentimento d'aver mancato al loro dovere, poichè i loro storici e gli scrittori guelfi più zelanti della libertà avevano adottata l'opinione del loro secolo rispetto agl'illimitati diritti dell'imperatore.

Questo sentimento di diritto e di dovere diventa specialmente notabile quando viene applicato ad un sovrano elettivo, nominato da un popolo straniero, e che la nazione che credesi legata verso di lui è per altro una nazione libera ed avvezza alle costumanze ed alle idee repubblicane. Un'opinione pubblica tanto contraria alle naturali passioni degli uomini fu l'opera degli eruditi, e specialmente de' giurisperiti. Lo studio dell'antichità ch'erasi rinnovato col più vivo ardore nel tredicesimo secolo, non aveva prodotti, come dovevasi supporre, sentimenti più generosi, più elevazione d'animo, nè maggior amore per la libertà. La Grecia era quasi affatto sconosciuta ai dotti, e rispetto a Roma si conservavano più assai monumenti dell'impero, che della repubblica. Tutti i poeti latini sonosi infamati colle vili adulazioni prodigate agl'imperatori; gli storici, sebbene più fieri e più liberi, avevano per altro reso qualche omaggio ai Cesari sotto de' quali viveano; i filosofi si erano formati nelle scuole della disgrazia e della tirannide: dirò di più, che gli scrittori del secolo d'Augusto, ancora pieni delle memorie di una fresca libertà, non furono risguardati ne' tempi di cui trattiamo come gli scrittori più illustri della latina letteratura. I dotti del tredicesimo e del quattordicesimo secolo non si proponevano quasi meno d'imitare Boezio, Simmaco, Cassiodoro, che Cicerone, o Tito Livio[252]; e quell'antichità che oggi ci rappresentiamo sempre libera, parve ai nostri antenati sempre soggetta all'impero de' Cesari.

Ma i giureconsulti, ancora più degli eruditi, contribuirono a sottomettere l'opinione del tredicesimo secolo alle leggi ed alle costumanze della corte de' Cesari di Roma e di Costantinopoli. Giammai la giurisprudenza non fu più universalmente studiata; perchè giammai nè questo, nè altro studio aprì così larga e sicura strada agli onori ed alle ricchezze. Studiando le leggi positive di Giustiniano, i legisti andavano a poco a poco rinunciando alla propria ragione, e s'avvezzavano a cercare non quello che ordinava la giustizia, ma quello che avevano pronunciato gl'imperatori. Si può osservare nelle opere di Bartolo e di Baldo, che fiorirono nel XIV secolo, l'immenso lavoro ad un tempo e l'abietta servilità de' legisti. Affezionandosi al libro su cui avevano sparsi tanti sudori, concepivano per le Pandette un rispetto, o piuttosto una venerazione che s'avvicinava all'idolatria; onde vedevano nelle leggi d'una monarchia straniera o distrutta l'unica norma del diritto pubblico, siccome del diritto naturale e civile.

Lo stesso Enrico era intimamente persuaso del suo diritto divino sopra tutte le terre dell'impero, ma era ancora penetrato del più profondo rispetto per la Chiesa romana; ammetteva tutte le concessioni che i Cesari suoi predecessori avevano fatte al papa; risoluto di voler essere il suo campione, non il suo avversario; e credevasi sicuro del favore di Clemente V, che l'aveva invitato a recarsi a Roma, e che aveva fatti partire i suoi legati per accompagnarlo in questo viaggio e coronarlo a nome della chiesa nel Vaticano. Ma Clemente V, debole, vano, bugiardo, fu sempre in contraddizione con sè medesimo. Alleato de' principi nemici, che spesso aveva egli armato gli uni contro gli altri, li tradiva tutti egualmente, perchè tradiva sè stesso: e la sua politica pareva agli altri inesplicabile, perchè egli medesimo non ne aveva la chiave.

Mentre Clemente covava un segreto odio contro Filippo il bello che lo teneva sotto il suo giogo, e che, per frenarne l'ambizione, gli creava un rivale in Enrico di Luxemburgo; che, dopo di avere a questi procurati i suffragi degli elettori in pregiudizio di Carlo di Valois, lo sollecitava a portarsi in Italia per abbassare l'alterigia della casa di Francia; lo stesso papa distribuiva i regni ai principi francesi, e gli arricchiva coi tesori della chiesa. Il 5 maggio del 1309 era morto Carlo II re di Napoli, la di cui successione fu cagione di grave contesa tra Roberto suo secondo figliuolo, e Cariberto, o Carlo Uberto, re d'Ungheria, figlio di Carlo Martello, fratel maggiore di Roberto, morto prima del padre. Roberto, avanti che suo nipote sapesse della morte dell'avo, si portò alla corte pontificia in Avignone, dalla quale, sebbene non assistito che da titoli ereditarj contrari alle leggi fondamentali dei regni d'Europa, ottenne una sentenza che gli dava il possesso del regno di Napoli, confermando quello d'Ungheria al nipote. Roberto ricevette la corona dalle mani di Clemente, che in pari tempo gli condonò tutto il debito che suo padre aveva colla Chiesa, che si diceva comunemente di trecento mila zecchini[253].

Enrico di Luxemburgo si avanzò fino a Losanna nella state del 1310, per prepararvisi a scendere in Italia; e colà ricevette gli ambasciatori di quasi tutti gli stati italiani. I capi delle fazioni dominanti volevano coll'ajuto dell'imperatore conservare il loro potere; e gli esiliati riclamavano il suo favore per rientrare in patria. I Guelfi come i Ghibellini credevano meritarsi la sua protezione, perchè Enrico era alleato del papa, e tutti erano in fatti cortesemente ricevuti. Ma nè Roberto re di Napoli, la di cui corona non proveniva dall'impero, nè le principali repubbliche guelfe della Toscana, Firenze, Siena e Lucca, e nemmeno Bologna, gli mandarono ambascerie. Pure anche le città toscane avevano già nominati i loro deputati, ma avendo avuto avviso che Enrico dava voce di voler pacificare l'Italia, facendo richiamare gli emigrati in tutte le città, determinarono di non voler porsi con lui in una relazione che le renderebbe ben tosto sue dipendenti. I Pisani per lo contrario concepirono grandissime speranze quando videro l'imperatore disposto ad entrare in Italia ed incaricarono i loro ambasciatori di deporre a' suoi piedi il dono di sessanta mila fiorini, supplicandolo a passare subito in Toscana[254].

In sul finire di settembre del 1310 Enrico di Luxemburgo attraversò le Alpi della Savoja e scese in Piemonte per il Monte-Cenisio. Dopo avere visitato Torino, entrò in Asti il 10 di ottobre, ove que' cittadini lo accolsero come loro signore. Allora non aveva con lui più di due mila cavalli, e questi ancora non arrivarono in un solo corpo, ma erano venuti di Germania gli uni dietro gli altri per unirsi a lui. Appena comparso, tutti i signori d'Italia si mossero per incontrarlo. Guido della Torre che comandava a Milano col favore della parte guelfa, fece dire all'imperatore di fidarsi di lui, promettendogli di condurlo per tutta l'Italia, come per una provincia suddita, portando lo sparviero in pugno, e senza che fosse bisogno di condurre soldati[255]. Filippone, conte di Langusco, signore di Pavia, Simone di Colobiano, signore di Vercelli, Guglielmo Brusato di Novara ed Antonio Fisiraga di Lodi, vennero in persona alla corte con una deputazione scelta nelle città da loro signoreggiate. Enrico, senza distinzione di parti, gli ammise tutti al suo consiglio, a tutti promettendo grazie e favori personali, ma dichiarando in pari tempo che illegittimo era il potere che si erano usurpato nelle città; ch'egli voleva che queste rientrassero sotto l'immediato suo dominio, e che fossero richiamati tutti i fuorusciti. Siccome la sua domanda era conforme al voto di tutti i cittadini, vedendo i signori di non gli potere opporre veruna resistenza, mostrarono di rinunciare di buon grado la loro signoria nelle mani dell'imperatore, e gli consegnarono le chiavi delle loro città. Ebbero in compenso e feudi e titoli di nobiltà[256].

Il solo Guido della Torre pareva disposto a far resistenza, sebbene avesse col suo messaggio riconosciuto l'imperatore. Aveva egli stretta alleanza colle città toscane, guelfe come lui; ed ancora senza i loro soccorsi ben poteva colle proprie forze opporre ad Enrico un'armata eguale alla sua, e pagarla più lungo tempo che l'imperatore. Lo vedeva privare tutti i signori del loro potere, ed egli aveva più che tutt'altri ragione di temere un eguale trattamento, perchè Matteo Visconti suo nemico, e nemico della sua casa, unitosi all'arcivescovo di Milano, Casone della Torre suo nipote, col quale aveva avuto fresche dissensioni, si era recato al campo imperiale sollecitando Enrico a venire a Milano[257].

Enrico soggiornò due mesi in Piemonte, ove riformò il governo di tutte le città, creando ovunque vicarj imperiali per fare giustizia in suo nome, in luogo dei podestà e dei magistrati municipali: in pari tempo abbassò i tiranni, richiamando in tutte le città gli esiliati ed i fuorusciti. Si pose poi in viaggio alla volta di Milano, facendosi precedere dal suo maresciallo con ordine di fargli allestire la sua stanza nello stesso palazzo del comune, abitato da Guido: in pari tempo fece avvisar Guido di venirgli all'incontro senz'armi, fuori di città, con tutto il popolo. Ovunque Enrico aveva fin allora cercato di felicitare i popoli col ristabilire la pace, la giustizia, la libertà; poichè la libertà veniva ben più rispettata da' vicari generali ch'egli nominava, che non dai signori forzati ad abdicare la loro tirannide: e però i cittadini di Milano lo vedevano avvicinarsi con piacere. Conoscendo Guido queste disposizioni del popolo ed atterrito dall'inaspettata marcia dell'imperatore e dall'ordine che gli aveva mandato, prendendo consiglio dalle circostanze, licenziò le sue truppe, e senz'armi uscì di città alla testa del popolo per ricevere e riconoscere il suo sovrano[258].

La sommissione di Milano trasse seco quella dell'intera Lombardia. Invitate dall'imperatore eletto, tutte le città dalle Alpi fino a Modena e fino a Padova spedirono i loro deputati per assistere all'incoronazione, che si eseguì il giorno 6 gennajo del 1311 in Milano colla corona di ferro. «Tutti i deputati giurarono fedeltà all'imperatore» dice nella sua relazione il vescovo di Botronto che accompagnava Enrico, «fuorchè i Genovesi ed i Veneziani, i quali, per non giurare, allegarono molte ragioni che più non so risovvenirmi, tranne ch'essi sono di una quint'essenza, che non vuole appartenere nè alla chiesa, nè all'imperatore, nè al mare, nè alla terra, e perciò negavano di giurare[259]

Nel mese successivo alla sua incoronazione, Enrico rappacificò, senza distinzione di parte, tutte le città a lui subordinate. Fece rientrare i Ghibellini a Como, a Brescia i Guelfi, a Mantova i Ghibellini, a Piacenza i Guelfi, e lo stesso fece in ogni città, nominando dovunque, per rendere giustizia, vicarj generali colle attribuzioni degli antichi podestà. I signori della Scala, che dominavano in Verona, furono i soli che si opposero ai desiderj d'Enrico, non avendo voluto acconsentire che tornassero in città i Guelfi condotti dal conte di san Bonifacio, esiliati da oltre sessant'anni: nè l'imperatore insistette nella sua inchiesta, sia che Verona gli paresse città troppo forte e lontana per tentare di ridurla colle armi, o pure che lo stringessero troppo importanti obbligazioni ai fratelli Cane ed Alboino della Scala, caldi partigiani dell'impero, che prima d'ogni altro eransi dichiarati in suo favore, onde porre in qualche pericolo la loro autorità.

Enrico era povero, e la sua armata era in certo modo composta solamente d'avventurieri, di principi e di signori che avevano abbandonati i loro piccoli stati, nella lusinga di fare una rapida fortuna seguendo l'imperatore; e la necessità in cui trovavasi Enrico di appagare le loro brame, fu cagione che dovesse ben tosto alienarsi que' popoli cui lo avevano reso poc'anzi così caro i suoi talenti e le sue virtù.

Per supplire ai suoi primi bisogni aveva domandato alle città un dono gratuito in occasione del suo coronamento. Fu adunato il senato di Milano per deliberare della somma che, dietro lo stato della pubblica fortuna, potrebbero pagargli il popolo ed il comune. Trovavansi in senato i due capi delle opposte fazioni, Matteo Visconti e Guido della Torre, che non solo ambivano la sovranità della loro patria, ma ne erano già stati a vicenda padroni. Avevano l'uno e l'altro il progetto o di procacciarsi l'esclusivo favore d'Enrico, o d'inasprire il popolo contro di lui per cacciarlo poi di città. Amendue perciò proposero una maggior somma di quella di cinquanta mila fiorini progettata da Guglielmo della Pusterla. Il Visconti disse di aggiugnerne altri dieci mila per l'imperatrice, ed il della Torre fece ammontare la somma totale a cento mila. Invano i mercanti ed i legisti fecero supplicare il monarca dai loro deputati a minorare una contribuzione che la città non poteva portare, ma egli non volle condonare nulla di quanto il senato gli accordava, e le tasse vennero all'istante accresciute con infinito malcontento del popolo[260]. Perchè si cominciò a mormorar fortemente ed a minacciare gli oltramontani, in modo che il vescovo di Botronto non ardiva talvolta uscire dal convento in cui era alloggiato, per tema d'essere insultato dal popolo. Enrico, che appunto in quest'epoca pensava di lasciar Milano per recarsi a Roma, volle condurre con se molti ostaggi, onde assicurarsi della fedeltà delle due fazioni. Sotto colore di rendere più magnifico il suo seguito, domandò al comune cinquanta cavalieri; ma egli destinò a questa spedizione Matteo Visconti, Galeazzo suo primogenito e ventitre gentiluomini ghibellini; Guido della Torre con Francesco, suo primogenito, e ventitre gentiluomini guelfi. Questa scelta accrebbe il malcontento e parve che ravvicinasse le due fazioni. Il popolo rassomigliava di nuovo gli oltramontani a tutti i barbari antichi, nemici del nome romano, dava loro lo stesso nome, e chiaramente diceva essere cosa indegna l'assoggettar loro la patria. Alcuni facevano l'enumerazione delle forze reali d'Enrico e mostravano ai malcontenti come alienandogli le forze italiane, non Milano, ma la più piccola città lombarda potrebbe a lui pareggiarsi.

I figli dei due capi di parte, Galeazzo Visconti e Francesco della Torre ebbero un abboccamento fuori di porta Ticinese, dopo il quale molti cavalieri girarono le contrade gridando «morte ai Tedeschi! Il signor Visconti ha fatto pace col signor della Torre![261] » All'istante il popolo prese le armi, e si riunì in diversi rioni, ma specialmente presso di porta nuova intorno alle case dei Torriani. Enrico senza perder tempo spedì tutte le sue truppe ad attaccare quelle case, prima che fossero più gagliardamente fortificate. Frattanto egli era estremamente agitato; non dissimulandosi che con un pugno di cavalieri tedeschi non avrebbe potuto tener fermo in mezzo ad una città nemica, qualora i Visconti si fossero uniti ai Torriani e la nobiltà al popolo. Ma pare che Matteo Visconti avesse ordito un doppio tradimento, e che, avendo persuaso Guido della Torre ad impugnare le armi, egli avesse adunati i suoi antichi partigiani per essere a portata di piombare addosso al suo antico rivale. Galeazzo suo figliuolo comandava un grosso corpo di Ghibellini, i quali dopo essere rimasti alcun tempo indecisi, probabilmente per vedere da qual parte piegava la vittoria, vennero a far causa comune coi Tedeschi. I nobili ed i Ghibellini che combattevano tra le file dei Torriani, non vedendosi comandati da verun capo ghibellino, uscirono dalla zuffa. Allora le barricate furono rotte, le case dei Torriani saccheggiate ed incendiate, e Guido e suo figlio costretti di mettersi in salvo colla fuga[262].

Questa sommossa di Milano parve un segnale dato a tutte le città guelfe di Lombardia per ribellarsi e scacciare i vicarj imperiali cogli emigrati richiamati da Enrico nella loro patria. Crema, Cremona, Brescia, Lodi e Como si ribellarono tutte ad un tempo, e si allearono con Guido della Torre, che aveva seco tutti i Milanesi fuorusciti. Ma queste città non eransi preparate a fare una lunga resistenza: senza vittovaglie e senza denaro, erano più atterrite della sorte dei Torriani, che disposte a vendicarli; di modo che, appena passato quel primo inconsiderato impeto che loro aveva poste le armi in mano, le più deboli implorarono la clemenza di Enrico, tosto che lo conobbero determinato a volerle sottomettere. Lodi e Crema gli aprirono le porte ed ottennero il perdono, che per altro non le salvò da molte particolari molestie. I capi de' Guelfi cremonesi fuggirono, ed i Ghibellini, avendo resa la città, furono dall'imperatore crudelmente puniti di una colpa, cui non avevano avuta parte. Duecento de' principali cittadini, venuti a gittarsi ai suoi piedi per ottenere il perdono, furono cacciati in orribili prigioni; furono atterrate le mura e le rocche di Cremona; il comune fu assoggettato ad un'emenda di cento mila fiorini, e le proprietà e le persone de' cittadini abbandonate alla licenza ed alle molestie de' Tedeschi vincitori.

La sola città di Brescia, non peranco sottomessa, aveva ricevuti i fuggitivi di Lodi e di Crema, onde, udendo dagli ultimi quanto fossero pentiti d'essersi arresi, determinò di volersi difendere. Il 19 di maggio del 1311, Enrico l'assediò con tutte le sue genti. In questa città era capo del partito guelfo Tebaldo Brusati, al quale colla cura della difesa della patria era stato dato il titolo e l'autorità di signore e di principe[263]. La città si difese valorosamente tutta la state, avendo in molte sortite battuti gl'imperiali; e, sebbene una volta fosse fatto prigioniero Tebaldo, non vollero salvargli la vita a prezzo della libertà. Anzi questo generoso capo, benchè prigioniero, esortava i suoi concittadini a difendersi, onde Enrico, per punire tanta audacia, lo dannò a crudelissimo supplicio, che i Bresciani vendicarono barbaramente, facendo appiccare ai merli delle loro mura sessanta prigionieri tedeschi. Poco dopo Valerano, conte di Luxemburgo, fratello d'Enrico, fu ucciso in una scaramuccia, ed il monarca che si moriva di voglia di ricevere a Roma la corona imperiale, e che d'altra parte trovava l'onor suo interessato a vendicare gli affronti ricevuti sotto Brescia, vedevasi ridotto in difficile posizione, tanto più che le malattie incominciavano a fare stragi nel suo campo.

In tale stato di cose pensò di ricorrere alle armi spirituali della chiesa. Era egli accompagnato da tre cardinali legati, incaricati d'incoronarlo a Roma in nome del papa, onde pregò uno di loro a fulminare la scomunica contro i Bresciani; ma questi gli rispose che sebbene avesse il potere di sciogliere e di legare in suo nome, non voleva compromettere l'autorità della chiesa senza speranza di felice riuscita, e soggiunse: «che gl'Italiani si prendevano poco fastidio delle scomuniche; che i Fiorentini non avevano fatto verun caso di quelle del cardinale vescovo d'Ostia; che i Bolognesi non temettero quelle del cardinale Napoleone Orsini, nè i Milanesi quelle del cardinale Pelagrua. Se la spada temporale non li riduce per timore al dover loro, meno potrà farlo la spirituale[264]

I cardinali adunque, invece di fare il dubbio esperimento della scomunica, cercarono d'interporre il loro credito personale ed i loro consigli. Avendo potuto entrare in città ottennero dai Bresciani, che cominciavano a mancare di vittovaglie, un'onorevole capitolazione che poi fu male osservata. L'imperatore entrò in città per la breccia, ed ebbe dai Bresciani sessanta mila fiorini; indi, prendendo la strada di Cremona, Piacenza, Parma e Tortona, arrivò a Genova il 21 di ottobre[265].

Genova era stata ne' precedenti anni minata dalle guerre civili. Obizzo Spinola, sostenuto dal partito ghibellino, aveva signoreggiata un anno la repubblica con un quasi assoluto potere, e n'era stato cacciato dai Grimaldi e dai Fieschi, spalleggiati dai Doria. Finalmente stanchi delle comuni sconfitte erano venuti ad una pace, che non sembravano volere lungamente osservare, quando la venuta di Enrico in Genova portò, come osserva lo storico di quella repubblica, un importante cambiamento nella costituzione dello stato. «Per la prima volta, egli dice, una straniera potenza fu tra noi riconosciuta, esempio più volte imitato ne' posteriori tempi; di modo che è cosa veramente maravigliosa, che quello stesso popolo che non perdonò a dispendio d'uomini e di danaro, che tanto si mostrò bellicoso ed ostinato quando volle stendere il suo dominio sulle nazioni straniere affatto lontane; che quel popolo che sì grandi perdite sostenne e tanti pericoli incontrò per vendicare la maestà del suo nome contro i più grandi potentati, non abbia poi prese le armi per conservare la sua indipendenza, ed abbia creduto di metter fine alle intestine sue discordie sottoponendosi volontariamente ad una straniera potenza. Vero è ch'egli provò ben tosto essere di tutti i popoli quello che sapeva meno pazientemente soffrire la servitù, poichè scacciò tutti i padroni chiamati a governarlo[266]

In fatti i Genovesi accordarono ad Enrico per venti anni un'assoluta autorità sulla repubblica; ma poi non tardarono a pentirsene. Enrico licenziò il podestà che amministrava in città la giustizia, surrogandovi un vicario imperiale; privò de' suoi onori l'abate del popolo, che così chiamavasi un magistrato popolare, che a guisa de' tribuni di Roma doveva essere il protettore della plebe; finalmente impose sulla repubblica una tassa di sessanta mila fiorini[267]. Enrico si trattenne più mesi in Genova, ove perdette la sua consorte che lo aveva colà accompagnato; e non andò molto che, trovandosi senza danaro, fu costretto di contrarre debiti per supplire al suo giornaliero mantenimento. E siccome non li pagava, i suoi creditori cominciarono a spargere contro di lui calde invettive. Aveva nello stesso tempo avvisi, che quasi tutta la Lombardia erasi, per le suggestioni de' Fiorentini, ribellata un'altra volta, ed aveva formata una lega guelfa, nella quale erano pure entrati Giberto di Coreggio, signore di Parma, Filippone Langusco di Pavia, il marchese Cavalcabò esiliato Cremonese, Guido della Torre esiliato Milanese, Vercelli, Asti, ed altre città[268].

Gli ambasciatori di Roberto, re di Napoli, vennero a Genova alla corte d'Enrico. Questi due sovrani, che si disputavano il dominio dell'Italia, dovevano osservarsi con diffidenza. Enrico, malgrado l'imparzialità mostrata al suo arrivo, non aveva trovati nemici che tra i Guelfi, e zelanti partigiani soltanto tra i Ghibellini. Dall'altro canto Roberto era alleato di tutti i Guelfi d'Italia, si era dichiarato loro protettore e faceva alla scoperta apparecchi per difenderli. Pure fino a quest'epoca Enrico aveva cautamente evitato ogni motivo di disgusto con lui, non avendo voluto ricevere il giuramento di fedeltà dalle città d'Alba e d'Alessandria, nè dal marchese di Saluzzo, sebbene dipendenti dall'impero, perchè queste città ed il marchese si erano posti sotto la protezione di Roberto. Enrico mostravasi inoltre apparecchiato a ravvicinare le due famiglie col matrimonio di una delle sue figliuole con uno dei principi di Napoli, ma i deputati di Roberto chiedevano per condizione di questo parentado, che uno de' fratelli del loro re venisse fatto senatore di Roma e vicario della Toscana. Si seppe in breve che il principe Giovanni di Napoli era entrato con un'armata in Roma per difendere il circondario di questa capitale dall'armata imperiale, e che, essendosi unito agli Orsini, aveva attaccati i Colonna e tutti i partigiani di Enrico. All'avviso di tali emergenze i deputati di Roberto fuggirono la notte da Genova: e i due re, senza veruna dichiarazione di guerra, fecero nuovi apparecchi per offendersi[269].

La lega guelfa di Toscana, di cui era capo Roberto, aveva guarnito di truppe lo stato di Lucca ed il paese di Sarzana per chiudere il passaggio ad Enrico; faceva guardare gli Appennini tra Fiorenza e Bologna per difendere anche quest'ingresso della Toscana[270]. Enrico aveva spediti per questa strada due deputati, incaricati di allestire gli alloggiamenti e di ricevere dai Toscani il giuramento di fedeltà. Erano questi Pandolfo Savelli, notajo pontificio, e Nicola Vescovo di Botronto, autore dell'interessante relazione della spedizione d'Enrico in Italia[271].

Questi due deputati giunti sul territorio di Bologna, fecero domandare al podestà e consiglieri della repubblica il permesso di attraversare la città per andare in Toscana. In vece di dar loro risposta, fu posto in prigione il messo, il quale, avendo avuto modo di fuggire, andò ad avvisare i deputati del comune pericolo. Essendo questi tre sole miglia lontani dalle mura, si affrettarono di prendere la strada della montagna senza avvicinarsi a Bologna, ma trovandola guardata dai soldati fiorentini, a stento e tra molti pericoli ottennero di arrivare il secondo giorno alle Lastre, due sole miglia lontana di Firenze.

«Prima di giugnervi, dice il vescovo di Botronto, fu da noi spedito al podestà, capitano, ed altri governatori della città, lo stesso notajo ch'era stato imprigionato a Bologna, onde prevenirli che venivamo quali messaggeri di pace pel bene della Toscana con lettere di vostra santità e del re, pregandoli in pari tempo di prepararci un alloggio. Avendo i magistrati ricevute le nostre lettere, adunarono, secondo il costume di Firenze, il gran consiglio che non si sciolse prima del tramontare del sole. Il nostro messo, dopo avere molto aspettato, non essendogli stata preparata alcune stanza, si ritirò, incaricando alcuna persona di avvisarlo nel luogo indicato, quando fosse richiesto per ricevere una risposta. Appena giunto al suo alloggio, il consiglio si separò e fece conoscere coi fatti la risposta che aveva determinato di darci. Gli usceri della città, in ora così avanzata, proclamarono al popolo, per parte del consiglio, in tutti i luoghi consueti, ch'eravamo giunti due miglia lontano dalla città, noi messi ed ambasciatori di quel tiranno, re di Germania, che aveva in Lombardia distrutto il più che avea potuto del partito guelfo, e che adesso preparavasi ad entrare in Toscana dalla banda del mare per distruggere i Fiorentini ed introdurre in casa loro i più fieri nemici; che questo re aveva spediti noi per la via di terra, noi ch'eravamo preti, per sovvertire la loro patria sotto l'ombra della chiesa: onde bandivano pubblicamente il signor re e noi ch'eravamo suoi nunzj, permettendo, a chiunque il volesse, di offenderci impunemente sia nelle persone che nelle proprietà, essendo a loro notizia che portavamo molto danaro per corrompere i Toscani ed assoldare i Ghibellini. — Il nostro messo, atterrito da questa bandigione, non osò uscire dalla casa in cui erasi ritirato, nè mandare persona ad avvisarci del pericolo in cui eravamo. Ma un vecchio di casa Spini, ch'era stato banchiere di papa Onorio, zio del signor Pandolfo, mio compagno, gli fece sapere per lettera tutte queste cose. Noi eravamo già a letto addormentati quando ci fu recata la sua lettera alle Lastre; e ci levammo senza sapere quale partito prendere: il tornare a Bologna o nel suo territorio era per noi la più pericolosa risoluzione, come ne avevamo di già fatta esperienza; altronde non conoscevamo verun'altra strada, e l'ora avanzata faceva più grande il nostro pericolo. Scrivemmo dunque al podestà ed al capitano di Firenze nati amendue nelle terre della Chiesa, uno a Radicofani, l'altro nella Marca, per intendere da loro come regolarci dopo quella bandigione. Appena fatto giorno si fecero allestire i nostri cavalli e caricare gli equipaggi: e mentre stavamo a mensa, in attenzione del messo, udimmo suonare campana a martello e subito le strade furon piene di uomini armati a piedi ed a cavallo, i quali circondarono la nostra casa; ed un uomo di bella presenza della famiglia Magalotti, plebeo, volle salire la nostra scala, gridando a morte! a morte! ma il nostro ospite colla spada alla mano non permetteva a chicchessia di salire le scale.

«In questo tumulto le nostre bestie da soma e quasi tutti i nostri cavalli ci furono tolti dai soldati, i quali non tardarono ad introdursi da diverse bande sulla scala; ed entrarono nella nostra camera coi coltelli sguainati. Alcuni de' nostri domestici fuggirono, gettandosi dalle finestre nell'attiguo giardino, e così fece il frate mio compagno[272]; altri si nascosero sotto i letti, temendo d'essere uccisi; pochi rimasero con noi. Ma Iddio che ci liberò dalle loro mani, ci diede tanto coraggio, che, posso attestarlo sulla mia coscienza, non ebbi il menomo timore per me, sebbene fossi il più esposto. Mentre ciò accadeva alle Lastre, in Firenze si tumultuava; dicevano molti essere mal fatto il bandirci in tal modo, e specialmente il signor Pandolfo ch'era uno de' più nobili di Roma. Per questo motivo, e mossi inoltre dalle preghiere di quel mercante di casa Spini, che chiamavasi, se bene mi ricordo, Avvocato, il podestà ci mandò una delle sue guardie ed il capitano un cittadino in compagnia de' quali venne anche il detto mercante. Essi scontrarono sulla strada alcuni de' nostri cavalli e delle bestie da soma, che venivano condotti in città; li ripresero ai soldati, e ce li ricondussero, dicendoci nello stesso tempo che, se ci era cara la vita, dovevamo subito dar a dietro, mentre si sarebbero essi occupati di farci rendere tutto quanto eraci stato tolto. Volevamo esporre loro la nostra ambasciata, ma rifiutarono di ascoltarla; volevamo far loro vedere le vostre lettere, e non vollero vederle. Si chiese che ci fosse permesso di attraversare di notte Firenze ben custoditi affinchè non potessimo parlare ad alcuno; ma lo negarono, dicendo, che avevano ordine di farci ritornare là onde eravamo venuti. Questo vecchio Avvocato degli Spini ci aveva appartatamente detto che ci guardassimo dall'entrare in Bologna, o nel suo territorio, ove già si sapeva che dovevamo essere scacciati dal distretto di Firenze, e che i Bolognesi dovevano trattarci come pubblici nemici, affinchè atterrito dal nostro esempio verun altro osasse entrare nel territorio della lega. Noi che conoscevamo la vigliaccheria e la malvagità de' Bolognesi, replicammo che, quand'anche dovessimo essere uccisi, noi non entreremmo giammai nel bolognese. Dopo avere lungamente consultato tra di loro, finalmente ci posero sulla strada che conduce alle terre del conte Guido, tra Bologna, la Romagna ed Arezzo. Essi non riuscirono a farci restituire che undici cavalli e tre bestie da soma; ed il signor Pandolfo perdette più di me, perchè aveva più roba. Io perdetti la mia cappella, e tutto quanto possedevo di cose d'oro e d'argento, tranne uno stiletto d'oro delle mie tavolette, ed un anello che avevo in dito»[273].

I Fiorentini non senza ragione avevano presa parte di non ricevere gli ambasciatori dell'imperatore[274]; e per lo migliore avrebbero dovuto condurli sul territorio neutro di Modena, anzichè permetter loro di penetrare in Toscana: conciossiachè que' medesimi prelati, che giunsero, siccome fuggitivi, ne' feudi imperiali degli Appennini, si videro tosto venire incontro tutti i conti Guidi delle due famiglie guelfa e ghibellina, i quali diedero loro di molto denaro e cavalli, e prestarono giuramento di fedeltà al loro imperatore. Gli ambasciatori si recarono a Ciortella tra Arezzo e Siena, ove alzarono un tribunale, citando subito a comparire Firenze e Siena. «Siccome queste città, scrive il vescovo di Botronto, rimasero contumaci, abbiamo proceduto contro di loro, condannandole a molte pene temporali secondo le nostre facoltà, osservando costantemente le regole del diritto, del quale per altro io non sono troppo intelligente; ma il signor Pandolfo mio compagno è molto versato, secondo dicono, nell'una e nell'altra legge.»

In seguito i due prelati citarono gli abitanti di Arezzo, di Cortona, di Borgo san Sepolcro, Monte Pulciano, san Savino, Lucignano, Chiusi, città della Pieve e Castiglione Aretino. Tranne gli abitanti di Chiusi e di Borgo san Sepolcro tutti ubbidirono, e prestarono il giuramento di ubbidienza; di modo che quando i due prelati furono avvisati dell'arrivo d'Enrico a Pisa, lo raggiunsero, accompagnati da molti conti e signori e dalle milizie di varie città.

Enrico, per mettersi in istato d'abbandonare Genova, aveva dovuto ricorrere ai Pisani, che gli prestarono una ragguardevole somma di danaro; onde si pose in mare il 16 febbrajo del 1312 con trenta galere montate da circa mille cinquecento uomini d'armi; e, dopo essere stato trattenuto diciotto giorni dal cattivo tempo a Porto Venere, era giunto a Pisa il giorno 6 di marzo[275]. La città di Pisa costantemente attaccata alla fazione ghibellina, ed agl'imperatori consacrò senza riserva le sue forze e le sue ricchezze al servigio d'Enrico. Gli aveva mandato a Genova il conte Fazio di Donoratico, figliuolo di quel conte Gherardo che aveva perduta la testa sul patibolo con Corradino[276], facendolo accompagnare da ventiquattro de' suoi principali cittadini. Due volte lo aveva sovvenuto di denaro, e gli offrì di nuovo un dono considerabile quando entrò in città. Acconsentì di farlo assoluto signore, sospendendo il governo de' suoi anziani, per dipendere da lui solo. Finalmente, per fargli cosa grata, riprese l'interrotta guerra con Firenze e con Lucca, tirandosi addosso tutte le forze della lega toscana: ma non per questo lasciò di accompagnare Enrico, che partiva alla volta di Roma, con un rinforzo di galere e seicento balestrieri[277].

Enrico soggiornò due mesi a Pisa, nel qual tempo ingrossò la sua armata coi Bianchi e coi Ghibellini esiliati dalle città guelfe, e s'avviò verso Roma alla testa di due mila cavalli, prendendo la strada di Piombino e della Maremma. Il re Roberto aveva mandato a Roma suo fratello Giovanni con una piccola armata per occupare il Vaticano e metà della città. Non pertanto aveva di nuovo assicurato Enrico, che, lungi dal volersi opporre alla sua coronazione, non aveva mandate truppe napoletane a Roma che per onorarlo. Enrico dunque si avvicinava con piena sicurezza, ma trovò Ponte Molle fortificato dal principe Giovanni che mandò a sfidarlo, dichiarandogli che teneva ordine dal fratello d'impedire il suo coronamento. Il giorno 7 di maggio del 1312 Enrico forzò il ponte, entrando in seguito nella città divisa tra due armate e due fazioni. I Colonna eransi dichiarati a favore dell'imperatore, pel re di Napoli gli Orsini. Coll'ajuto dei primi e del senatore Luigi di Savoja, ebbe Enrico il possesso del Campidoglio e di san Giovanni di Laterano; e poco dopo s'impadronì ancora del Coliseo, della Torre dei Conti, di quella di san Marco e del monte de' Savelli formato colle rovine del teatro Marcello; ma non potè giammai scacciare i suoi nemici dal Vaticano e dalla città Leonina, di modo che, rinunciando a farsi coronare nella basilica destinata a tale cerimonia, ottenne dai tre cardinali, incaricati dal papa di coronarlo, di eseguir tale funzione nella chiesa di san Giovanni di Laterano, di cui era egli padrone. In fatti vi fu consacrato il 29 giugno del 1312, giorno della festa de' santi Pietro e Paolo[278].

Il nuovo imperatore trovavasi in Roma in assai difficile posizione: metà della città era in aperta guerra contro di lui, essendovi acquartierata un'armata nemica eguale alla sua, che poteva da un istante all'altro essere ingrossata, mentre quella dell'imperatore non poteva ricevere soccorso che da troppo lontani amici. Cane della Scala ed i Ghibellini che gli erano in Lombardia rimasti fedeli, venivano tenuti a casa dalla guerra che loro facevano le città guelfe; e l'aria pestilenziale di Roma atterriva talmente la sua armata, che non aveva potuto impedirne la divisione. Il duca di Baviera, il conte Luigi di Savoja, il conte d'Ainault, il fratello del Delfino del Viennese e circa quattrocento cavalieri, abbandonarono Enrico nel cuore dell'estate per tornare al loro paese[279]. Quando trovavasi in tali angustie, la repubblica di Pisa si affrettò di soccorrerlo. Aveva equipaggiate sei galere per mandargli dei soldati, le quali essendo cadute alla Meloria in potere della squadra di Roberto dopo una ostinata difesa, fece all'istante partire per la via di terra seicento arcieri, e gli mandò un'altra somma di danaro[280].

Enrico erasi ritirato a Tivoli, piccola città più proporzionata alle debolezze della sua armata, ove stava aspettando in più sano clima il fine dei calori estivi[281]. In sul declinare di agosto si pose in marcia per Sutri, Viterbo e Todi, alla volta della Toscana, ansioso di castigare i Fiorentini e tutti i popoli della lega guelfa che avevano cercato con tanto accanimento di moltiplicare i suoi nemici in ogni parte dell'Italia. Guastò il territorio di Perugia, ingrossò la sua armata coi volontarj che si arrolarono sotto le sue insegne in Todi, Spoleti, Narni, Cortona, e finalmente giunse presso ad Arezzo, dove fu accolto con entusiasmo da' Ghibellini.

Fu durante la guerra contro Enrico VII, che i Fiorentini per la prima volta abbracciarono colle loro negoziazioni la politica dell'intera Italia, e collocaronsi nel centro del partito guelfo, come se ne fossero i capi. Non si erano essi accontentati della loro alleanza colle vicine città di Bologna, Lucca e Siena; ma avevano inoltre cercata quella di Guido della Torre, avanti la sua cacciata da Milano, e, lungi dall'abbandonarlo dopo la sua caduta, lo avevano sovvenuto di danaro e di soldati mercenarj per ajutarlo a ricuperare la perduta signoria. I Fiorentini avevano pure avuta la principal parte nell'insurrezione di Brescia; ed Enrico in tempo dell'assedio di questa città aveva sorpresa la loro corrispondenza e trovato che i Fiorentini le avevano somministrato il danaro per difendersi. Anche recentemente avevano i Fiorentini consigliata alla ribellione ed alla guerra la città di Padova, eccitando la sua gelosia contro Cane della Scala, il quale da Enrico era stato investito della signoria di Verona e di Vicenza. Avevano essi pagati dodici mila fiorini a Giberto da Correggio per impegnarlo a far dichiarare la città di Parma contro l'imperatore; e per ultimo avevano mandate truppe a Roma per opporsi all'incoronazione d'Enrico. Nello stesso tempo essi stendevano le loro negoziazioni fino alle corti di Avignone e di Francia; sembrava che avessero i primi concepita l'idea delle relazioni che devono unire tutti i membri della repubblica europea, e di quell'equilibrio dei poteri che deve assicurare la libertà di tutti. È veramente un singolare fenomeno, che questi vasti piani di politica abbiano avuta la prima loro origine in una repubblica democratica, il di cui governo si rinnovava interamente ogni due mesi e i di cui capi, quasi tutti mercanti, stranieri per la condizione loro ai pubblici affari, non rimanevano abbastanza di tempo in carica per vedere il fine di verun trattato da loro incominciato. Ma in una piccola repubblica, la forza della vita, il pensiere, il sentimento, invece di appartenere soltanto alla magistratura, trovansi nell'intera massa del popolo. I signori priori di Firenze erano gli organi, non i creatori della volontà nazionale; ed il vigoroso piano di politica, che univa al nome della parte guelfa metà dell'Italia contro l'imperatore, era stato concepito ed adottato dallo stesso consiglio del popolo: tanto l'educazione data dalla libertà agli uomini cambia per la massa d'una nazione le abitudini, i sentimenti e le facoltà.

Sgraziatamente tra le pubbliche virtù che i Fiorentini dovevano alla forma del loro governo, non possono contarsi le virtù militari. Impiegavansi generalmente in tutta l'Italia soldati mercenarj per fare la guerra, chiamati Catalani, non già perchè questi mercenarj avessero tutti militato nelle bande catalane che Federico di Sicilia aveva licenziate; moltissimi avventurieri di Spagna, di Francia e di altri paesi, erano venuti ad ingrossare questo corpo per esercitare il lucroso mestiere del soldato: il brutale valore di questi mercenarj che vendevano il loro sangue al migliore offerente e che non erano capaci d'alcun nobile sentimento di patria o di libertà, aveva indebolita agli occhi degl'Italiani la stima dovuta al vero coraggio. Perciò i Fiorentini trovavano giusto che i cittadini, che i gentiluomini non si battessero come questi esseri degeneri, che fino dalla loro fanciullezza erano stati allevati come cani alani per il combattimento. Senza giugnere all'estremo di perdonare la viltà, non attaccavano verun sentimento di vergogna all'inferiorità di bravura e di forza; ne convenivano essi medesimi, e non pensavano a misurarsi con una più brillante nazione quando una grande superiorità di numero non compensasse abbondantemente la riconosciuta inferiorità della virtù militare.

La guerra de' Fiorentini contro Enrico VII fece ad un tempo conoscere la coraggiosa loro fermezza, e la loro mancanza di valore. Quando seppero che Enrico adunava tutte le sue forze per attaccarli, non cercarono di aprire con lui negoziazioni, o di allontanare la burrasca; e non calcolando i pericoli cui poteva in avvenire esporli la sua collera, nè l'immediata ruina delle loro campagne, osarono di far testa colle forze di una sola città all'imperatore della Germania: ma d'altra parte, quand'ebbero riunita coi soccorsi degli alleati un'armata due volte maggiore di quella del nemico, non perciò azzardarono una battaglia, ma si chiusero invece entro le loro mura, non illudendosi intorno al poco valore de' loro soldati.

Quando si seppe a Firenze l'arrivo dell'imperatore in Arezzo, la signoria, senza aspettare i soccorsi delle città alleate, fece partire quasi tutte le forze della repubblica, cioè 1800 lance ed un grosso corpo di pedoni per il castello dell'Ancisa, posto in sull'Arno a quindici miglia da Firenze. Speravano i generali fiorentini di fermare lungo tempo Enrico avanti a questo castello senza poter essere forzati di venire ad un fatto d'armi, ch'essi rifiutarono: ma l'imperatore, diretto dai Ghibellini del paese, girò intorno al castello per una strada che attraversa le montagne, e venne ad accamparsi tra l'Ancisa e Firenze, dopo aver rotte alcune truppe della repubblica che volevano opporsi al suo passaggio. L'armata fiorentina trovavasi per così dire tagliata fuori all'Ancisa; e se l'imperatore si fosse avvisato di strignerla, trovandosi questa quasi senza viveri, avrebbe corso un grandissimo pericolo. Ma egli credette più utile consiglio il marciare subito sopra Firenze. In fatti quando l'armata imperiale giunse il 19 settembre presso a questa città, abbruciando le case ed i villaggi di mano in mano che andava avanzando, la riempì di terrore e di costernazione; non potendo darsi a credere che fosse colà arrivata senza aver prima distrutta l'armata fiorentina posta all'Ancisa, di cui non sapevasene novella. Per altro al suono della campana del comune, tutte le compagnie della milizia si adunarono nella piazza de' Priori, essendosi armato anche il vescovo co' suoi preti, il quale, coi cavalli che soleva impiegare nelle cerimonie religiose, venne a prendere la guardia della porta sant'Ambrogio. Furono palificate le fosse, alzati i ridotti, e tutto disposto per combattere. Soltanto dopo due giorni, l'armata fiorentina, avanzandosi di notte per istrade sviate, potè rientrare in Firenze. Erasi Enrico lusingato che l'improvvisa sua venuta ecciterebbe qualche tumulto in città, ma non avendo che un migliajo di cavalli con lui, non si credette abbastanza forte per attaccarla regolarmente[282].

Ne' susseguenti giorni fu raggiunto dal rimanente dell'armata che aveva lasciato a Todi ed in Val d'Arno di sopra. Ebbe pure rinforzi dai Ghibellini e dai Bianchi della Toscana e della Marca, che venivano a militare sotto le sue insegne; ma più considerabili soccorsi arrivarono ancora ai Fiorentini. I Lucchesi mandarono alla signoria seicento cavalli e due mila fanti, ed altrettanto fecero i Sienesi; Pistoja cento cavalli e cinquecento fanti; Prato, Colle, Sanminiato e san Gemignano duecento cavalli e mille pedoni; Bologna quattrocento cavalli e mille pedoni; e le città della Romagna e dello stato della chiesa quattrocento cinquanta cavalli e mille cinquecento uomini a piedi: sicchè i Fiorentini si trovarono avere quattro mila cavalli, ch'erano il doppio di quelli che aveva l'imperatore.

Tranquillizzati da forze tanto superiori, i Fiorentini si diedero alle consuete loro occupazioni come in tempo di pace; tutte le porte erano aperte, fuorchè quella che metteva direttamente al campo dell'imperatore, e si spedivano le mercanzie come all'ordinario: ma pure non osarono mai di attaccare Enrico, o di difendere contro di lui le loro campagne colla forza; gli lasciarono perfino passar l'Arno e guastare le campagne presso san Casciano, ove Enrico pose il suo nuovo quartiere generale finchè finalmente il 6 gennajo 1313, vedendo che nulla avvantaggiato avrebbe con un più lungo soggiorno e che le malattie cominciavano a fare strage della sua armata, lasciò Firenze, ed andò a stabilirsi a Poggibonzi sulla strada di Siena, ove si trattenne due mesi[283].

I Fiorentini si lodarono senza dubbio di non avere posta in compromesso la sorte della loro patria con una battaglia quando era noto che l'armata dell'imperatore s'andava distruggendo per le malattie prodotte dalle fatiche e dal bisogno; le quali malattie nè la salubrità dell'aria di Poggibonzi, nè la stagione facevano cessare. A questo disastro s'aggiungevano le molestie de' Sienesi e de' Fiorentini, i quali scaramucciando ogni giorno cogl'imperiali, gli toglievano ogni giorno qualche soldato, e gli rendevano difficile l'approvigionamento. Perchè conoscendo l'imperatore lo svantaggio di più lunga dimora in Poggibonzi, partì il 6 di marzo colla sua armata prendendo la strada di Pisa. Colà, avendo eretto un tribunale imperiale, chiamò in giudizio tutte le città che avevano a lui resistito, pretendendo di sottomettere colle sentenze que' nemici che non aveva potuto vincere colle armi. I primi ad essere condannati furono i Fiorentini; furono annullati i loro privilegi, cassati i loro giudici e notai, il comune tassato in cento mila fiorini e privato del diritto di battere monete, il quale fu accordato collo stesso conio, lo stesso titolo e lo stesso valore ad Ubizzino Spinola di Genova ed al marchese di Monferrato[284].

Finalmente il tribunale chiuse le sue procedure con una condanna più ardita: il giorno 7 delle calende di maggio Enrico sentenziò Roberto re di Napoli, dichiarandolo decaduto del trono, come verso di lui colpevole di lesa maestà, sciogliendo in pari tempo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, e proibendo loro di ubbidire per lo innanzi al proprio re[285].

Ma queste condanne, nell'atto medesimo che l'imperatore le pronunciava, erano piuttosto oggetto di derisione che di timore; perciocchè la sua armata era talmente indebolita, che, se fosse rimasto in campagna, correva rischio d'essere oppresso dalle truppe repubblicane. Allora mandò ordine in Germania di formare un'altra armata, e spedì l'arcivescovo di Treveri suo fratello per condurgliela sollecitamente[286]. Finchè gli giugnesse questo tanto necessario rinforzo, non avendo con lui che un migliajo d'uomini d'armi, passò l'estate sotto la protezione della repubblica di Pisa, facendo guerra ai Lucchesi per conto di questa città[287] e rendendosi degno fra le angustie che lo circondavano, dell'elogio che fa di lui il Villani. Giammai l'avversità turbò questo principe, nè la prosperità lo fece presontuoso, o troppo lieto.

In tempo di questo forzato riposo Enrico contrasse stretta alleanza con Federico re di Sicilia, convenendo tra di loro di attaccare di concerto Roberto re di Napoli, quale capo del partito guelfo e, più d'ogni altro, loro pericoloso nemico. Federico di Sicilia, armate cinquanta galere, sbarcò mille cavalieri, in Calabria, impadronendosi di Reggio e di poche altre città. Dietro inchiesta dell'Imperatore le repubbliche di Pisa e di Genova allestirono una flotta di settanta galere sotto il comando di Lamba Doria, e la spedirono sulle coste del regno di Napoli. I Pisani che si spogliavano per dare truppe di terra ad Enrico, equipaggiarono meno vascelli dei Genovesi[288]. Dall'altro canto incominciavano ad arrivare all'imperatore potenti rinforzi dall'Allemagna e dall'Italia; onde il 5 agosto del 1313 si trovò in istato di lasciar Pisa per andare contro Napoli con due mila cinquecento cavalieri d'oltremonte, mille cinquecento Italiani, ed un proporzionato numero di pedoni.

Come Enrico vedeva nel re di Napoli il suo più potente avversario, i Fiorentini credettero di averlo per loro ajuto e difensore. Sebbene l'imperatore non avesse ottenuto contro di loro verun vantaggio, la situazione della repubblica non era affatto prospera. Nell'inverno il suo territorio era stato saccheggiato; molti de' suoi gentiluomini e tutti gli emigrati, Bianchi e Ghibellini, eransi afforzati ne' castelli delle montagne per farle guerra; il tesoro erasi esaurito negli armamenti del passato anno, ed i continui rinforzi che andava ricevendo l'imperatore rendeva inquieti i Fiorentini, non sapendo essi ove volgerebbe le sue armi. Spedirono perciò due deputati a Napoli per chiedere ajuto. Le città di Siena, Perugia, Lucca e Bologna unirono i loro inviati a questa deputazione, che, introdotta in corpo innanzi a Roberto, gli espose i pericoli della lega guelfa, sforzandosi di fargli sentire che la sua sicurezza era attaccata alla conservazione dell'indipendenza delle repubbliche toscane, che con tanto zelo avevano abbracciato il suo partito. Roberto dava loro le più larghe assicurazioni d'attaccamento, dichiarando che, se i pericoli del suo regno non avessero resa necessaria la sua presenza, avrebbe egli stesso comandate le truppe toscane e fattosi capitano dei Fiorentini; promise di mandare in sua vece il fratello Pietro con un ragguardevole corpo di cavalleria; ma in una seconda udienza scemò d'assai la confidenza che aveva inspirata nella prima, chiedendo loro anticipatamente il soldo delle sue truppe per tre mesi. L'esaurimento del tesoro della repubblica fiorentina rendeva assai difficile il trovare la somma domandata da Roberto, tanto più che le città di Bologna, Lucca, Siena e Perugia, più lontane dal pericolo, negavano di aver parte a tale contribuzione. I Fiorentini anticiparono bensì la parte fissata dal trattato di alleanza; ma perchè non fu pagato il rimanente, le truppe napolitane non si mossero, ed il danaro sborsato con tanto stento non produsse alcun frutto.

I Fiorentini credettero pertanto che l'unico mezzo d'obbligare Roberto a difenderli fosse quello di accordargli alcuni diritti, assicurandosi che nel presente pericolo della guerra di cui era minacciato non avrebbe tentato di cambiare l'accordata autorità in tirannide. I consigli mandarono fuori quindi un decreto che dava ai priori la facoltà di fare tutto quanto richiedesse la salute della repubblica, e questi con atto solenne conferirono al re di Napoli i diritti e titoli di rettore, governatore, protettore e signore della repubblica di Firenze, a condizione ch'egli manderebbe in città uno de' suoi figli o fratelli per difenderla, che non richiamerebbe gli emigrati, che conserverebbe le leggi della repubblica, mantenendo la sovrana magistratura de' priori nella presente forma[289].

Intanto l'imperatore avanzavasi rapidamente colla sua armata sulla strada di Sanminiato e di castel Fiorentino. Passò tra Colle e Poggibonzi e venne ad accamparsi nel famoso piano di monte Aperto, empiendo di terrore la città di Siena che lo vedeva vicino alle sue porte con sì poderoso esercito. Ma in mezzo alla sua pompa militare, quando niuna armata credevasi bastante a fermarlo, aveva già cessato di essere formidabile: egli con lui portava i principj d'una malattia mortale contratti nel cattivo aere di Roma, o forse più anticamente in tempo de' patimenti sofferti nell'assedio di Brescia. La disposizione del suo sangue erasi già manifestata con un carbonchio sotto al ginocchio, ma perchè continuava a mostrarsi egualmente attivo, niuno s'avvedeva del suo pericolo. Un bagno intempestivamente preso fece scoppiare la malattia, che lo costrinse a fermarsi a Bonconvento, dodici miglia al di là di Siena, ove il giorno 24 agosto del 1313 morì in mezzo alla sua armata in un modo tanto inaspettato, che molti lo credettero avvelenato, essendosi perfino sparsa voce che un frate domenicano, nel comunicarlo, aveva posto del napello nell'ostia o nel vino consacrato[290].

Un così inaspettato avvenimento che affatto cambiava la presente condizione d'Italia, eccitò i più vivi trasporti di gioja ne' Guelfi, di dolore ne' Ghibellini. I Pisani s'abbandonarono più degli altri alla disperazione. Avevano consumata per questo monarca la prodigiosa somma di due milioni di fiorini, ed invece d'aver nulla acquistato colla sua assistenza, dopo essersi impoveriti di gente e di danaro, si vedevano abbandonati a se medesimi per difendersi contro tanti nemici provocati per piacere all'imperatore. Da prima tentarono di ritenere l'armata sotto i loro ordini, offrendo ai soldati lo stipendio pagato da Enrico; ma i Tedeschi, perduto il loro imperatore, più non pensavano che a ripatriare, e molti di loro vendettero ai Fiorentini ed ai Guelfi le fortezze di cui erano momentaneamente in possesso. Federico di Sicilia venne personalmente a Pisa per concertare i mezzi di sostenere i Ghibellini; ma fu in modo spaventato dalla loro situazione, che rifiutossi di difendere la loro città, quand'anche ne fosse fatto signore. Lo stesso onore, per lo stesso motivo, venne rifiutato dal conte di Savoja e da Enrico di Fiandra, onde i Pisani chiamarono Uguccione della Fagiuola, ghibellino della Romagna, che a quest'epoca trovavasi vicario imperiale a Genova, e ritennero sotto i suoi ordini circa mille cavalli tedeschi, brabantesi e fiamminghi. Tutto il rimanente dell'armata ripassò le Alpi, risguardando l'Italia come un paese per loro affatto straniero dopo la perdita dell'imperatore che li conduceva.

Frattanto il corpo d'Enrico era stato portato a Pisa con grandissima pompa; e fattigli dalla repubblica splendidi funerali, gli fu data sepoltura in duomo, ove trovasi ancora di presente il suo mausoleo[291].

CAPITOLO XXVIII.

Consolidamento dell'aristocrazia veneziana; il maggior consiglio reso ereditario. — Vittoria d'Uguccione della Fagiuola ottenuta sui Fiorentini. — Sua espulsione da Pisa e da Lucca. — Padova perde la sua libertà. — Signorie lombarde.

1313 = 1317. In mezzo al vortice della politica italiana, la repubblica di Venezia non prendeva mai parte agli avvenimenti che si succedevano ai suoi confini, e pareva che, isolata dalle acque, non appartenesse all'Italia; onde si rimase straniera perfino alle fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini, il di cui sangue bagnava tutte le rive delle sue lagune. Aveva essa fatto conoscere ad Enrico VII il suo rispetto per l'impero, mandandogli una solenne deputazione; ma nello stesso tempo faceva solenni proteste pel mantenimento della propria indipendenza, e non aveva divise nè le conquiste, nè le perdite dell'imperatore. L'assoluta separazione dagli altri stati in cui si mantenevano i Veneziani non ci permette di far avanzare di fronte la loro storia con quella degli altri popoli d'Italia: e solo di generazione in generazione possiamo riprenderne il filo per tener dietro al progressivo stabilimento dell'interno loro sistema politico e per conoscere l'estensione e la solidità che davano alla loro potenza le conquiste ed il commercio del Levante.

L'anno 1297, epoca della chiusura del maggior consiglio ( serrata del mazor consejo ), viene comunemente risguardato come l'epoca dello stabilimento dell'aristocrazia ereditaria in Venezia. Ma siccome questa rivoluzione si andò preparando in tutto il corso del 13.º secolo, e non ottenne l'intero suo compimento da questo solo decreto; che anzi la prima reformagione[292] ebbe bisogno d'essere sviluppata ed afforzata con molte posteriori leggi; ho preferito di renderne conto all'epoca in cui l'ultimo sviluppo dato al nuovo sistema d'aristocrazia ereditaria la rese perpetua.

Le lente e sorde usurpazioni del maggior consiglio avevano alla fine risvegliata la gelosia del popolo, il quale in sul declinare del tredicesimo secolo conobbe d'essere stato escluso affatto dal governo: dolevasi specialmente di non essere più chiamato alle elezioni, onde la nobiltà più non gli usava que' riguardi di cui era prodiga ai cittadini quando i loro suffragi conferivano le cariche dello stato. Il doge, spogliato di quasi tutte le prerogative, omai d'altro non si curava che di piacere al maggior consiglio, di cui era la creatura e l'istrumento; ma rammentando i plebei, che negli andati tempi il doge era il loro magistrato, desideravano d'innalzare a questa dignità qualche individuo, che, per ricompensarli della loro confidenza, li riponesse in possesso delle prerogative spettanti ai cittadini sovrani d'uno stato libero.

Queste disposizioni si manifestarono del 1289 in occasione della morte del doge Giovanni Dandolo. Mentre i quarantuno elettori, designati dalla mescolanza della sorte coi suffragi del maggiore consiglio, deliberavano intorno alla scelta del suo successore, il popolo si adunò sulla piazza di san Marco e proclamò doge Giacomo Tiepolo, figliuolo di Lorenzo, che aveva occupata la stessa carica dal 1272 al 1282. Tiepolo erasi acquistato il favor popolare colle sue private virtù e colla dolcezza del suo carattere, ma non era altrimenti fatto per essere capo di partito: niuna parte aveva egli presa ad un movimento popolare che lo voleva innalzare alla prima dignità della sua patria; anzi egli stesso, dietro gli ordini del maggior consiglio, aveva cercato di dissiparlo; e, quando vide che non poteva in verun altro modo rifiutarsi alla confidenza de' suoi concittadini, fuggì segretamente a Treviso, ove rimase finchè colle consuete forme fu eletto il nuovo capo della repubblica[293].

Gli elettori si tennero dieci giorni chiusi in san Marco, non osando di dare al popolo un doge diverso da quello nominato da lui. Finalmente quando il fermento popolare parve calmato, elessero Pietro Gradenigo, in allora podestà di capo d'Istria. Ma questa scelta accrebbe a dismisura il malcontento de' plebei, perchè il Gradenigo, uomo vendicativo e caparbio, aveva in ogni tempo manifestato il suo zelo per il sistema e per la parte aristocratica. Tiepolo tornò prima di lui a Venezia per calmare colla sua dolcezza il fermento del popolo; e Gradenigo fece il suo ingresso in città con dieci galere armate ch'erano andate in Istria a prenderlo.

Il nuovo doge si trovò ben tosto impegnato in una pericolosa guerra coi Genovesi, guerra che dal 1293 al 1299 minacciò perfino l'esistenza della repubblica. Di questa guerra, siccome della rotta de' Veneziani a Corsola, in conseguenza della quale le due nazioni fecero la pace, abbiamo di già parlato nel capitolo XXVI. Pare che il popolo, distratto da così grave motivo, andasse dimenticando il suo malcontento, e chiudesse gli occhi sui progressi dell'aristocrazia: ma non fece però perdere di vista a Gradenigo l'esecuzione del suo progetto per abbassare i plebei, e vendicarsi dell'odio di una parte de' suoi compatriotti.

L'annuale elezione del maggior consiglio era la sola parte della costituzione che ancora conservasse qualche cosa di popolare. Il modo di eleggere aveva negli ultimi anni sofferto qualche cambiamento che difficilmente potrebbe comprendersi senz'essere iniziati nell'interna polizia e nelle formalità della repubblica: tale cambiamento non aveva, gli è vero, ratificato il diritto ereditario della nobiltà, ma non aveva nè meno limitata l'onnipotenza del maggior consiglio, che in fondo si rinnovava sempre in se medesimo. Nel 1286 dai tre capi della quarantia era stato proposto un assai più importante cambiamento. Avevano domandato che si prescrivesse agli annuali elettori di non far entrare nel maggior consiglio che coloro che ne erano già stati membri, o che proverebbero che i loro antenati vi erano stati ammessi dopo l'istituzione di questo consiglio del 1172[294]. Questa proposizione che mirava a designare in un modo tanto preciso la classe dei nobili, non fu allora adottata. Senza dubbio ciò che ritrasse il consiglio dall'adottarla, si fu che tutti i cittadini, nuovi membri del consiglio, temettero che riconoscendo così espressamente la preminenza della nobiltà, ad ogni nuova elezione non si andasse escludendo coloro che non appartenevano alla classe dei nobili, dando la preferenza alle più antiche famiglie.

Pietro Gradenigo non tentò di rinnovare questa legge, sebbene tendesse direttamente allo scopo preso di mira da lui e da tutto il partito aristocratico. Invece di farne prova, l'ultimo giorno di febbrajo del 1267, giorno che chiudeva l'anno veneziano, propose quel decreto che fu poi risguardato come la serrata del maggior consiglio, e che ne conservò il nome; ma che presentando una più immediata esca agli attuali membri di questo corpo, apparentemente si allontanava meno dalle usitate forme e dalle elezioni nazionali.

Gradenigo espose al consiglio, come cosa indubitata, che da oltre un secolo l'elezione cadeva sempre press'a poco su le stesse persone o famiglie, di modo che coloro che avevano parte all'amministrazione, o erano attualmente membri del consiglio, o lo erano stati negli ultimi anni. In conseguenza propose di non più considerare, rispetto ai membri del consiglio, se dovevano essere rieletti, ma se avevano meritato di essere esclusi da un corpo di cui facevano parte; corpo risguardato come la scelta della nazione, e che da lungo tempo trovavasi in pieno possesso della sovranità. Un così fatto giudizio sui diritti politici dei primi uomini dello stato, non poteva attribuirsi, soggiungeva il Gradenigo, che al primo tribunale dello stato, alla quarantia. In conseguenza il doge domandò che la lista del maggior consiglio degli ultimi quattro anni venisse sottomessa al tribunale della quarantia; che i giudici, uno dopo l'altro, ballottassero i nomi di ogni cittadino iscritto su queste liste, e che chiunque, di quaranta suffragi, ne avesse dodici favorevoli, fosse ritenuto membro del maggiore consiglio. Per altro il doge dichiarò non essere sua intenzione di chiudere affatto agli altri cittadini l'ingresso al maggior consiglio; per lasciare ai quali, secondo diceva egli, quel medesimo accesso a questo corpo sovrano che avevano avuto finora, propose che dal maggior consiglio si nominassero tre elettori, incaricati di fare un elenco suppletorio di altri cittadini, limitato al numero che verrebbe determinato dal doge nel suo piccolo consiglio; il quale elenco, siccome il precedente, doveva sottoporsi ai suffragi della quarantia; bastando pure ai nuovi eleggibili d'avere, come i primi, soltanto dodici voti dei quaranta[295].

Fin qui tale decreto non pareva avere altro scopo che quello di deferire il diritto d'elezione alla quarantia criminale, non essendo apertamente enunciata l'istituzione posta in suo arbitrio d'una nobiltà ereditaria esclusivamente sovrana. In fatti il popolo non ne conobbe subito le conseguenze, nè s'avvide che il rinnovamento del maggior consiglio che si fece nel susseguente anno colle stesse norme, trovavasi ridotto ad una vana formalità: perciocchè la quarantia raffermò tre anni di seguito que' medesimi ch'ella aveva eletti la prima volta. I tre elettori nominati ogni anno dal maggior consiglio per formare la lista degli altri cittadini eleggibili (questo era il vocabolo adoperato dalla legge) seguivano lo stesso principio aristocratico, e soltanto prendevansi cura di supplire alle vacanze prodotte dalla morte di alcuni membri. Un decreto del 1298, richiamando quello ch'era stato proposto del 1286, ordinava agli elettori di non presentare se non individui che avessero già seduto nel maggior consiglio, o i di cui maggiori ne fossero stati membri; nel 1300, fu più espressamente vietata l'ammissione di uomini nuovi; nel 1315, nel consiglio della quarantia, fu aperto un libro nel quale tutti coloro che avessero le qualità richieste per essere eleggibili, dovevano, giunti che fossero ai diciott'anni, farsi iscrivere dai notari del consiglio, affinchè gli elettori avessero sott'occhio tutti coloro ch'era loro permesso di presentare; l'anno 1319 queste iscrizioni vennero sottomesse all'ispezione degli avogadori di comune, obbligati di verificare, nel termine di un mese col mezzo di una procedura inquisitoriale, se la persona iscritta aveva tutte le richieste qualità; e finalmente nello stesso anno con un decreto che perfezionò il sistema aristocratico, vennero soppressi i tre elettori annuali, abolito il rinnovamento periodico del maggior consiglio, che ritenevasi eseguito nella festa di san Michele; ed ammessi a farsi iscrivere di pieno diritto nel libro d'oro quelli che in età di venticinque anni avessero i necessarj requisiti per essere accettati, senza la formalità di nuova elezione, nel maggior consiglio. Di qui ebbe origine quella formola adoperata ancora nella nostra età per le prove di nobiltà a Venezia: per suos et per viginti quinque annos: provare, che i suoi ascendenti paterni erano stati membri del maggior consiglio e provare d'avere 25 anni.

Per tal modo quella rivoluzione, che molti storici rappresentarono come l'opera d'un giorno[296], non ottenne compimento che nello spazio di 23 anni, sebbene fosse stata preparata nel precedente secolo. Tale lentezza può sola spiegare la pazienza e la rassegnazione del popolo veneziano addormentato da una dissimulata politica, ma che non sarebbesi tutt'ad un tratto lasciata togliere la preziosa eredità dei diritti politici che aveva fin allora posseduti. Malgrado l'arte adoperata dal Gradenigo per nascondere al popolo i suoi progetti e le ambiziose mire del maggior consiglio, non si compì la sedizione senza resistenza e senza spargimento di sangue.

La prima sedizione scoppiò nel 1299, poco dopo la pace fatta colla repubblica di Genova, e ne furono capi i popolari, Marino Bocconio, Giovanni Baldovino e Michele Giuda. Se la costituzione non avesse subite mutazioni, costoro e per le loro ricchezze e pei loro talenti avrebbero a ragione preteso di entrare nella magistratura: onde si proponevano di ottenere colla forza l'ingresso nel maggior consiglio agli uomini del loro ordine; ma si trovarono prevenuti dalla vigilanza di Gradenigo, che fece perire i capi sul palco, esiliare e punire in altri modi i meno colpevoli.

Una più calda congiura scoppiò del 1310, nella quale presero la principale parte le più nobili e potenti famiglie di Venezia. Alcuni gentiluomini eransi veduti esclusi dal maggiore consiglio nella riforma del 1297, di modo che si trovavano d'inferiore condizione a molti plebei che vi erano stati ammessi; altri, sebbene avevano luogo nel maggior consiglio, non erano perciò soddisfatti della rivoluzione; perciocchè invece d'accrescer l'autorità loro, l'aveva anzi diminuita, confondendoli nella folla de' consiglieri, dai quali prima d'allora li separava il favor popolare. Boemondo Tiepolo, fratello di quel Giacomo che il popolo aveva tentato d'opporre a Gradenigo, si pose alla testa dei congiurati, associandosi i principali capi delle case Querini e Badoero. L'ultima di queste famiglie, che prima portava il nome di Partecipazio, aveva ne' primi secoli della repubblica posseduta quasi per diritto ereditario la dignità ducale. I Dauri, Barbari, Barocci, Vendelini, Lombardi ed altri gentiluomini si associarono ai congiurati, e si resero forti colla massa de' plebei malcontenti e col nome della Chiesa e del partito guelfo, accusando il doge d'essere ghibellino, per avere provocate sulla repubblica le scomuniche del papa coll'impresa di Ferrara: per altro i vocaboli di Guelfo e di Ghibellino non erano fino a tale epoca in Venezia conosciuti. I congiurati progettarono di occupare per forza la piazza di san Marco ed il palazzo ducale, di uccidere il doge, di sciogliere il maggior consiglio e di rimpiazzarlo, secondo l'antica costumanza, con un'elezione annuale.

Venezia non conosceva ancora quella sospettosa polizia, inventata ne' susseguenti tempi da quel governo. Ne' tempi a noi più vicini i malcontenti sempre tenuti di vista dagl'inquisitori di Stato, sempre circondati di spie e di delatori, lungi dal poter condurre una trama contro al governo fino alla vigilia della sua esecuzione, non avrebbero pure avuto il tempo di adunarsi per lagnarsene: perciocchè giunse un tempo nel quale la sicurezza de' governanti venne risguardata come l'unico scopo dell'ordine sociale, e a quella si sagrificarono la sicurezza, la libertà, la tranquillità dei cittadini. Il doge non ebbe sentore della cospirazione che in sul far della sera della domenica 15 giugno: gli fu dato avviso che adunavansi moltissime persone presso di Boemondo Tiepolo, ed altre assai innanzi alla casa Querini. Fece all'istante chiamare i consiglieri della signoria, gli avogadori di comune, e que' nobili che sapeva attaccati al nuovo ordine di cose. Mandò ordine ai sediziosi di separarsi, ed in pari tempo afforzò tutte le strade che fanno capo alla piazza di san Marco[297].

Intanto i congiurati avevano occupata la camera degli ufficiali di pace a Rialto e quella delle biade. Il lunedì mattina allo spuntar del giorno marciarono verso la piazza. Diversi militari stranieri confusi coi congiurati, assai numerosi anche soli, ne accrescevano le forze; onde la battaglia, che attaccarono colle truppe comandate dal doge, riuscì sanguinosissima. Ma questi che aveva avuto molte ore di tempo per prepararsi, approfittò del vantaggio che davangli le località, immenso vantaggio per chi sta sulle difese. Le strade che conducono alla piazza di san Marco sono così anguste e tortuose, che la moltitudine degli assalitori rendevasi inutile; essi cadevano, senza aver potuto combattere, sotto i colpi di coloro che difendevano le barricate, e che gettavano pietre dalle finestre. Dopo un ostinato attacco, Marco Querini e suo figlio Benedetto caddero morti; e gli altri congiurati, scoraggiati dall'inutilità de' loro sforzi, ritiraronsi verso il ponte di Rialto e si afforzarono nel quartiere della città posto al di là di Canal grande. Se il doge gli avesse inseguiti, avrebbe a vicenda avuto lo stesso svantaggio, che in conseguenza della costruzione di Venezia devono soffrire gli assalitori; ma egli offrì accortamente ai congiurati di entrare subito in negoziazioni, promettendo di usare dolcemente della vittoria; e seppe così bene approfittare dello scoraggiamento che la battaglia presso san Marco aveva sparso ne' congiurati, che ridusse tutti i gentiluomini avversarj ad uscire di città ed a promettere di recarsi in quel luogo d'esilio che loro verrebbe assegnato[298].

Il pericolo in cui una così potente congiura aveva posta la repubblica, o a meglio dire il partito aristocratico, ispirò a questo partito un lungo terrore, che gli fece per sua salvezza adottare tali misure che affatto snaturarono la costituzione dello stato. Per tenere di vista i congiurati, rimasti per la maggior parte sotto le armi a Treviso o nel suo contado, per dissipare le congiure de' malcontenti, e provvedere con una forza dittatoriale alla salvezza di coloro che governavano lo stato, il maggior consiglio creò il consiglio de' dieci, che doveva durare soltanto due mesi; gli affidò un'autorità sovrana, incaricandolo di comprimere e punire nei nobili i delitti di fellonia e di alto tradimento; e nello stesso tempo gli diede ampia facoltà di disporre del pubblico erario, di ordinare e di provvedere come potrebbe farlo il maggior consiglio colla pienezza della sua sovranità.

Il consiglio de' dieci venne nominato dal maggior consiglio, che si fece un dovere di non nominare in pari tempo, per l'esercizio di queste formidabili funzioni, due membri della stessa famiglia, o solamente dello stesso casato. Oltre i dieci consiglieri neri che, dopo il 1311, vennero eletti per un anno, facevano parte di questo consiglio il doge ed i sei consiglieri rossi che formano la signoria[299]. Gli ultimi durano in carica solamente otto mesi. Perciò il consiglio dei dieci era effettivamente composto di diciassette membri che si rinnovavano tutti in differenti epoche. Il doge era presidente a vita; i dieci neri si eleggevano in quattro adunanze nei mesi d'agosto e di settembre d'ogni anno; ed ogni quattro mesi si nominavano tre rossi[300].

Il decreto che istituì il consiglio dei dieci, delegava i diritti della sovranità ad una commissione; lo che riesce sempre pericoloso per la libertà politica: ma faceva ancora di più, accordava a questa commissione un potere arbitrario incompetente alla stessa sovranità, un potere non accordato dai cittadini al governo e che non può esistere senza distruggere la civile libertà ed i più cari diritti degli individui. Il consiglio dei dieci fu autorizzato a perseguitare e punire i delitti dei nobili con una segreta ed inquisitoriale procedura, che, non dando veruna guarenzia alla società, può salvare il colpevole e punire l'innocente; ma che col suo medesimo ministero ispirava a tutta la nazione quel profondo terrore in cui si voleva mantenere. I testimonj, lungi d'essere confrontati coll'accusato, non gli si nominavano nè pure, levandosi dalle loro giurate deposizioni tutto quanto poteva contribuire a fargli conoscere; di modo che la testimonianza giuridica si cambiò in una perfida delazione, in un vile spionaggio. Effettivamente il consiglio de' dieci cominciò dopo quest'epoca a pagare migliaja di delatori per sopravvegliare e talvolta calunniare la condotta di tutti i cittadini; ed allora ebbe cominciamento quell'arte perniciosa de' moderni governi, che venne indicata col mascherato nome di polizia. La condanna ed il supplicio erano d'ordinario tenuti segreti come la procedura. Il consiglio non rispondeva delle sue sentenze nè della sua condotta a veruna magistratura della repubblica; non eravi appellazione che allo stesso consiglio, il quale colla prima sentenza si obbligava spesso a non rivedere la pronunciata sentenza. In conseguenza dichiarava talvolta che non accorderebbe grazia al colpevole se non dopo passati alcuni anni, o senza la maggiorità di due terzi, di tre quarti, di cinque sesti di suffragi, maggiorità spesse volte impossibile ad ottenersi[301].

Il consiglio dei dieci, fin quasi dalla prima sua istituzione, si arrogò la suprema direzione della repubblica; riunì i poteri fin allora divisi, diede un centro all'autorità ed una irresistibile potenza alla volontà direttrice del governo. Per dirlo in una parola, stabilì il despotismo e non conservò che il nome della libertà. D'altra parte ebbe le qualità di un governo fermo, vigilante, che con profonda politica concepiva i suoi progetti e gli eseguiva con una irremovibile costanza. Ingrandì al di fuori la repubblica, sebbene in pari tempo la facesse odiare col mancar di fede; la mantenne internamente tranquilla, soffocando le congiure nel loro nascere e sempre rendendo impotente l'odio eccitato dal suo despotismo. Ma la stabilità d'un governo non è un vantaggio per la nazione che allora quando lo stesso governo è un bene. Quale vantaggio ne veniva al nobile veneziano dall'aver nulla a temere il consiglio de' dieci, quando poi ogni giorno la sua libertà, la sua proprietà, la sua vita erano più minacciate da questo solo consiglio, che da tutti i suoi nemici? Quale vantaggio ritraeva la nazione dall'ingrandimento del territorio, se la stessa nazione perdeva la sua felicità sotto il despotismo, e se colle sue conquiste non faceva che accrescere il numero de' suoi compagni di schiavitù? Si trova nello stabilimento della vera tirannide per la conservazione della libertà una così aperta contraddizione, che mal si può concepire come gli uomini possano esserne per lo spazio di più secoli contenti. Il consiglio de' dieci durò quasi cinquecento anni, rendendo ogni giorno, fino all'ultimo di sua esistenza, più pesante il giogo da lui posto alla nazione; ed intanto esso l'aveva in modo accostumata a credere alla necessità del suo potere, che il corpo dei nobili, che più degli altri ne sentiva il peso, non prese giammai la ferma risoluzione di distruggerlo, com'era ogni anno in suo arbitrio il farlo in tempo delle elezioni d'agosto e di settembre, che rinnovavano questo formidabile consiglio. Se in tali elezioni il maggior consiglio avesse rifiutata l'assoluta maggiorità dei suffragi a tutti coloro che si fossero presentati per entrare in quello dei dieci, questo consiglio veniva col fatto soppresso. Più volte i nobili usarono del loro diritto di rifiutare in tal modo i suffragi, per ridurre i dieci a mettere alcuni limiti al loro potere; ma non hanno mai persistito, come avrebbero dovuto fare, fino alla totale abolizione di questo odioso corpo.

Due cose per altro assai notabili si osservano in questo despotismo repubblicano. Primo la consolazione che i cittadini possono trovare della perdita della libertà civile nell'acquisto o nella partecipazione ad un grande potere; compenso che non può aver luogo che in uno stato in cui sonovi pochi cittadini, e dove per conseguenza la volta di giugnere al supremo potere è abbastanza vicina per addolcire il giornaliero sacrificio che ogni cittadino fa de' suoi diritti a questo potere; e per tal modo nelle antiche repubbliche non esisteva veruna libertà civile; il cittadino riconoscevasi schiavo della nazione di cui era parte; si abbandonava interamente alle decisioni del sovrano, senza contestare al legislatore il diritto di controllare tutte le sue azioni, o di violentare in tutto le sue volontà; ma d'altra parte era egli stesso a vicenda e sovrano e legislatore. Conosceva il valore del suo voto in una nazione abbastanza piccola perchè ogni cittadino potesse esservi principe, e sentiva che come suddito sagrificava la sua libertà civile a sè medesimo come sovrano. Lo stesso accadeva a Venezia ove la nazione si componeva, dopo la chiusura del maggior consiglio, di soli nobili, e dove non essendovi più di mille duecento cittadini attivi, tutti avevano il diritto e la prossima speranza d'essere ammessi a vicenda in quel tremendo consiglio dei dieci, per esercitarvi quello stesso potere che aveva temuto in tutto il rimanente del viver suo. Questa specie di compenso ebbe luogo effettivamente finchè gli affari della repubblica prosperarono; e malgrado il despotismo del suo governo, i nobili si mantennero costantemente affezionati alla loro patria. Ognuno comprende quanto un tale compenso sarebbe illusorio, se invece di soli mille duecento nobili si fossero contati nella repubblica alcuni milioni di cittadini attivi. Negli ultimi due secoli diventò illusoria per una diversa ragione: si formò un'oligarchia in seno all'aristocrazia, e la porta del consiglio de' dieci non rimase aperta che a sole sessanta famiglie e forse meno.

L'altro oggetto degno d'osservazione è la facilità con cui, in una repubblica, un immenso potere esecutivo militare e finanziere può limitarsi ed anche distruggersi affatto. Se nelle quattro assemblee annuali in cui i membri del consiglio dei dieci dovevano successivamente eleggersi, i gentiluomini avessero semplicemente rifiutato di dare i loro suffragi, questo potente consiglio che disponeva a suo arbitrio di tutte le finanze, di tutte le forze di terra e di mare, di tutti i tribunali della repubblica e perfino della vita di tutti gl'individui, questo tremendo consiglio avrebbe cessato d'esistere senza disamina e senza un giudizio. In mezzo a tutta la sua dispotica autorità, non pensò mai nella sua lunga esistenza di cinque secoli di rinnovarsi da sè medesimo senza aver bisogno del suffragio de' suoi committenti[302]. La possibilità riservata al sovrano di far cessare un'autorità dispotica, non guarentisce, gli è vero, bastantemente la libertà; ma indica almeno essere questa la sola maniera pratica di contenere entro i limiti d'una dipendenza sociale un troppo vasto potere esecutivo. Invano si vorrebbe sottoporlo ad una rigorosa risponsabilità innanzi ai tribunali; invano s'innalzerebbe un'alta corte nazionale per giudicare gli abusi del potere, coloro che sono gli arbitri dell'armata e del tesoro, non si lasciano atterrire da vane parole, non risguardando essi un'accusa o una chiamata in giudizio a rendere conto della loro condotta, che quale avviso di preparare le armi per difendersi. D'uopo è, come praticavasi in Venezia, che il primo attacco li faccia immediatamente rientrare nella classe de' privati cittadini; che vengano spogliati del potere di nuocere, invece di pensare a punirli; che ne siano spogliati col semplice rifiuto dei suffragi, che non espone verun individuo alla loro vendetta e che non richiede l'uso di un grande coraggio civile; che ne siano spogliati senza che il corpo che li colpisce, subentri nell'esercizio delle loro prerogative e diritti: imperciocchè rendesi necessario di rimuovere perfino il sospetto che siasi preso consiglio dal proprio orgoglio ed ambizione per provvedere alla libertà nazionale. Quanto più si esaminerà questa semplicissima istituzione di Venezia, ci si renderà sempre più chiara ed aperta la felice applicazione che si potrebbe farne in più liberi governi che quello non era[303].

Mentre i Veneziani, occupati trovandosi intorno alla riforma dei loro governo, ricusavano di prendere parte negli affari generali d'Italia, e per avere pace colla chiesa, cedevano di nuovo ai legati pontificj le fortezze di Ferrara di fresco venute in loro potere; mentre le loro armi venivano esclusivamente adoperate in Dalmazia contro le città di Zara, di Traù, di Sebenico, che spesso si ribellavano alla repubblica, i Guelfi toscani liberati finalmente dal terrore che aveva loro ispirato Enrico VII, preparavansi, coll'unione di tutte le forze del partito, a distruggere i Ghibellini ed a punire la città di Pisa per avere soccorso il nemico della loro libertà.

La repubblica di Pisa, come abbiamo osservato nel precedente capitolo, aveva dato per capo ai cavalieri tenuti al suo soldo Uguccione della Fagiuola, uno de' più riputati capitani di parte ghibellina. Giunto egli a Pisa il 22 settembre del 1313, andò subito a guastare il territorio lucchese; e, prima che i Guelfi si fossero preparati alla difesa, aveva occupato Buti, svaligiata Santa Maria del Giudice, ed insultati i Lucchesi fin presso le loro mura. La lega guelfa, ritardata e contrariata da Roberto re di Napoli, ch'ella si era dato per capo, non prendeva alcuna misura vigorosa; i Fiorentini abbandonavano i Lucchesi loro alleati, e Roberto eccitava i Pisani a trattare con lui di pace quando avrebbe dovuto approfittare, per sottometterli, della superiorità delle sue forze e dello scoraggiamento che la morte d'Enrico aveva gettato nel partito ghibellino.

I capi della repubblica di Pisa, e più di tutti Banduccio Buonconti, il più riputato cittadino, non lasciavansi sedurre da questi primi avvenimenti e si vedevano esposti quasi soli alla collera di Roberto, che a quest'epoca trovandosi ancora occupato di più importanti progetti, non tarderebbe, quando fosse tempo, a rovesciare sopra di loro tutte le sue forze. Roberto, in virtù d'una bolla del 14 marzo 1314, fu dal papa nominato vicario imperiale di tutta l'Italia durante la vacanza dell'impero; in pari tempo venne eletto senatore di Roma; mentre per diritto ereditario era sovrano di Napoli e della contea di Provenza; finalmente era stato riconosciuto signore della Romagna e delle città di Fiorenza Lucca, Ferrara, Pavia, Alessandria e Bergamo, aggiungendovi parecchi feudi in Piemonte. Così potente sovrano era per la repubblica pisana un troppo formidabile nemico, e perciò i consoli di mare e gli anziani si affrettarono, dietro gl'inviti fatti da Roberto, di mandare a Napoli un ambasciatore, ed approfittando della circostanza in cui il re preparavasi a portare la guerra in Sicilia, fecero con esso lui un trattato di pace e d'alleanza alle seguenti condizioni: che i Pisani non ajuterebbero in verun modo i nemici del re e nominatamente Federico d'Arragona; che darebbero a Roberto per tre mesi cinque galere e gli pagherebbero cinquemila fiorini al mese per la spedizione di Sicilia. Per rendere questa pace comune ai Lucchesi ad ai Fiorentini accordavano a questi una franchigia dalle gabelle nel loro porto, e restituivano agli altri i castelli loro occupati. Finalmente essi richiamavano tutti i Guelfi esiliati, rendendo loro i diritti della cittadinanza[304].

In conseguenza di questa pace i Pisani dovevano licenziare Uguccione e le truppe tedesche: ma Uguccione non poteva sostenersi che colla guerra; ed il combattere contro forze superiori sembravagli miglior partito che il riposo; e sia ch'egli molto fidasse ne' suoi talenti, o pure che fosse determinato d'arrischiar tutto, poich'ebbe cercato invano di stornare la ratifica della pace, invitò il popolo a prendere le armi, e facendo portare nelle strade alcune aquile vive, insegna de' Ghibellini, fece gridare al tradimento contro i Guelfi. La truppa de' sediziosi, da lui comandata, s'incontrò in quella di Banduccio Buonconti, che voleva difendere l'indipendenza de' magistrati; egli la disperse, e fatti arrestare Banduccio e suo figliuolo, ed accusatili d'avere voluto tradire il partito ghibellino e la libertà della patria, fece loro tagliare il capo. In seguito adunò il consiglio di già intimidito da questa esecuzione, facendogli emanare un decreto, che niuno potesse venir eletto magistrato se non provava ch'egli e i suoi antenati erano sempre stati ghibellini. In tal modo egli acquistò un'autorità quasi tirannica sul governo della repubblica e ad altro più non pensò che a rinnovare la guerra con maggior vigore.

La gelosia che si manifestò tra alcune famiglie guelfe in Lucca, gli diede ben tosto opportunità d'illustrare la sua amministrazione con una brillante conquista. Gli Obizzi, famiglia guelfa della nobiltà lucchese, eransi da più anni innalzati al di sopra delle famiglie rivali; dirigevano essi soli tutti i consigli della repubblica. Da più d'un secolo e mezzo che il partito guelfo era in Lucca dominante, avevano avuto tempo di concentrare i poteri dell'aristocrazia; e la rivoluzione, che del 1301 aveva cacciati i Bianchi da questa città, assicurò l'autorità de' gentiluomini. Il popolo gli odiava e compiangeva le molte famiglie de' Bianchi e degl'Interminelli esiliate; e quando un partito della nobiltà unì la sua gelosia contro gli Obizzi al risentimento della plebe, il governo non ebbe più bastanti forze per mantenersi. Arrigo Bernarducci, capo de' malcontenti, dopo aver fatto innanzi agli anziani una calda pittura dei guasti cagionati dalla loro guerra coi Pisani e della negligenza di Roberto nel difenderli, costrinse questi magistrati a proporre nel maggior consiglio la pace. Unanimi furono i voti di questo corpo, e furono nominati de' commissarj, che, abboccatisi con quelli di Pisa a Ripafratta, conchiusero in pochi giorni la pace, a condizione che i Lucchesi richiamassero tutti gli esiliati[305].

Alla testa di costoro rientrò in Lucca Castruccio Castracani degl'Interminelli, giovane che dava già indizio de' straordinarj talenti che doveva un giorno spiegare, e che ne' dieci anni, in cui fu esule dalla patria, aveva visitato l'Inghilterra, le Fiandre e le città ghibelline della Lombardia ove aveva appreso il mestiere delle armi sotto i più esperti generali[306]. Castruccio volle approfittare della superiorità che il suo ritorno poteva dare al partito ghibellino, e fece segretamente domandare soccorso ad Uguccione della Fagiuola; poi il giorno 14 giugno del 1314 venne con quelli del suo partito a stabilirsi e fortificarsi avanti a Porta San Freddiano per essere a portata d'aprirla al generale ghibellino, tosto che questi vi si presentasse. Castruccio fu attaccato dai Guelfi, e mentre difendevasi nelle case degli Onesti e de' Fatinelli, Uguccione giunse alle porte di Lucca con tutta la cavalleria di Pisa. Niun Guelfo si presentò per difendere le mura, nè veruno del partito di Castruccio s'avvisò d'imporre condizioni a quest'armata alleata; onde Uguccione, fatta una breccia nelle mura, entrò in Lucca ed abbandonò la città al saccheggio, prima che i Guelfi ed i Ghibellini, che combattevano tra di loro, sapessero la sua venuta. Immenso fu il bottino fatto in tale occasione da' Pisani[307]; oltre ch'essi spogliarono coll'ultimo rigore i Lucchesi, contro de' quali avevano lungo tempo nudrito un violento odio, trovarono nella chiesa di san Freddiano il tesoro del papa, che aveva fatto venire da Roma per trasportarlo in Francia tostochè le strade fossero state più sicure. Uguccione, dopo aver fatta questa importante conquista, lasciò suo figliuolo Francesco governatore di Lucca e tornò a Pisa[308].

I Guelfi lucchesi, cacciati dalla loro patria, si fortificarono in alcune castella di Val di Nievole e chiesero ajuto ai Fiorentini, i quali vivamente sentendo la sventura de' loro alleati, e spaventati dalle funeste conseguenze che questo avvenimento poteva avere, adunarono soldati da ogni banda ed accordarono una vantaggiosa pace agli Aretini, onde rivolgere tutte le loro forze contro d'Uguccione. In pari tempo chiesero al re Roberto i soccorsi che da lungo tempo avrebbe dovuto mandare in Toscana; perchè, mosso dalle loro istanze, Roberto mandò il suo più giovane fratello Pietro, il quale entrò in Firenze il giorno 18 agosto del 1314 con trecento uomini d'armi che Roberto mandava in soccorso della lega guelfa.

Questa truppa non bastava a dare ai Fiorentini un deciso vantaggio sopra un così attivo e valoroso generale com'era Uguccione, il quale dal canto suo non lasciava un istante di riposo ai Guelfi vicini, guastando quasi nello stesso tempo le terre di Pistoja, di Samminiato e di Volterra, occupando le più importanti castella di Val di Nievole ed assediando Montecatini, la sola fortezza che rimanesse in mano de' Guelfi tra Lucca e Pistoja.

I Fiorentini vedevano con sommo timore, senza potervi provvedere, i rapidi progressi d'Uguccione, perchè s'erano legate le mani col dare nel precedente anno la loro signoria a Roberto. Altronde non potendo liberamente disporre delle loro finanze e non avendo un credito indipendente, erano inabilitati a fare da se medesimi uno sforzo vigoroso contro il nemico che li tribolava. Dovettero dunque nuovamente ricorrere al re Roberto, pregandolo a spedire un altro de' suoi fratelli, Filippo, principe di Taranto, per comandare le loro milizie. Questo principe arrivò l'undici luglio del 1315 con suo figlio Carlo e cinquecento uomini d'armi al soldo de' Fiorentini.

Intanto Uguccione andava stringendo l'assedio di Montecatini; ma avuto avviso degli apparecchi che si facevano in Firenze per attaccarlo, aveva chiamati al suo campo tutti gli alleati ghibellini, e formata un'armata di due mila cinquecento uomini d'armi con un proporzionato numero d'infanteria[309]. Dal canto loro i Fiorentini avevano ricevuti rinforzi da Bologna, Siena, Perugia, Città di Castello, Agobbio, Pistoja, Volterra, Prato e dalle città della Romagna; ed avevano formato un'armata di tre mila duecento cavalli con un grosso corpo di pedoni[310]. Ne prese il comando Filippo, principe di Taranto, il maggiore de' fratelli del re, il quale mosse da Firenze il 6 agosto del 1315 per far levare l'assedio di Montecatini.

Uguccione, supponendo che i Fiorentini s'avanzassero per il piano di Fucecchio, ne aveva afforzati i passaggi; ma invece s'avanzarono essi dalla banda più settentrionale e giunsero per Monsummano fino in faccia al suo accampamento, da cui non li separava che la Nievole. Sebbene questo piccolo fiume non potesse ritardar molto il passaggio delle truppe, nè l'una parte nè l'altra osava passarlo in faccia al nemico[311]; sicchè rimasero alcuni giorni al loro posto senza che Uguccione abbandonasse un solo istante Montecatini e che il principe potesse soccorrere la fortezza.

Frattanto i Guelfi di Val di Nievole, incoraggiati dalla presenza di così forte armata, presero le armi ne' castelli e ne' villaggi posti alle spalle d'Uguccione; ed avendo preso Borgo a Buggiano, impedirono a questo generale il trasporto delle vittovaglie. Trovossi allora costretto a levare l'assedio, e nella notte del 28 al 29 d'agosto diede il segno della partenza: ma accortosi in sul fare del giorno che i Fiorentini si disponevano ad inseguirlo, fece voltar faccia alle sue truppe, e gli attaccò vigorosamente, quando credevano tutt'altro che d'essere attaccati. Gli ausiliarj di Siena e di Colle furono subito sgominati, e la debole loro resistenza lasciò esposta tutta l'armata fiorentina alla cavalleria tedesca d'Uguccione. Per altro i Fiorentini resistettero lungamente intorno al principe Filippo, ma finalmente dovettero anch'essi fuggire disordinati. Pietro, fratello del re Roberto, e Carlo, figliuolo del principe Filippo, rimasero sul campo di battaglia, come pure il conte di Battifolle, Blasco d'Alagona, contestabile dell'armata, e molti altri ragguardevoli personaggi. Duemila furono i morti in battaglia, e millecinquecento rimasero prigionieri. Molti de' fuggitivi, volendo porsi in sicuro a Fucecchio, si annegarono nella Gusciana e nelle paludi di questa pianura sommersa. Anche Uguccione perdette suo figliuolo Francesco, il nipote del cardinale di Prato e molti valorosi soldati[312].

Dopo la rotta de' Fiorentini, Montecatini e Monsummano s'arresero al vincitore; il quale diede il comando di Lucca al suo secondo figlio Neri, in luogo del primogenito ucciso; ed egli tornò a Pisa ove fu ricevuto in trionfo.

Ma le vittorie d'un padrone non indennizzano lungo tempo il popolo della sua tirannia. La nazione non tardò ad accorgersi che quando la gloria ed i vantaggi più non possono essere suoi, la vittoria del principe è una rotta de' cittadini. Onde i patriotti pisani trattarono segretamente con Castruccio Castracani, perchè questi dal canto suo liberasse Lucca dalla tirannide d'Uguccione. Castruccio aveva avuto molta parte nella vittoria di Montecatini; era risguardato pel primo cittadino di Lucca, ed Uguccione, che gli doveva molta riconoscenza, lo trattava con sommo riguardo, senza però affidargli verun comando. Frattanto avendo Castruccio attaccati ed uccisi alcuni contadini di Camajore che avevano tentato d'assassinarlo, Neri della Fagiuola si valse di questo pretesto per farlo arrestare[313], e scrisse subito a suo padre di venire a Lucca colla cavalleria tedesca, non osando di mandare al supplicio un uomo che godeva di così grande riputazione, senza essere sostenuto da ragguardevoli forze. Infatti Uguccione partì alla testa della sua cavalleria: era questo l'istante fissato per far ribellare le due città, le quali per la strada del piano tenuta dalla cavalleria, sono l'una dall'altra distanti quattordici miglia, e dieci miglia pel cammino della montagna. Quest'istante fu dai congiurati colto con precisione. Il 10 aprile 1316 non aveva Uguccione ancora fatto due miglia sulla strada di Lucca, che i patriotti pisani presero le armi. Avevano essi attaccato un toro alla porta di san Marco di Chinzica, che staccarono in quel momento, e colle armi sotto il mantello seguirono il furibondo animale per le più frequentate strade, gridando: fermate il toro, fermate! Adunarono in tal modo in mezzo alla città molta gente senza eccitare alcun sospetto nel luogotenente d'Uguccione, il quale credeva il toro fuggito dal macello. Vedendosi i congiurati in mezzo a sufficiente numero di cittadini, colà tratti dalla stessa supposizione, gettarono a terra il loro mantello, ed impugnando la spada ignuda, gridarono: Viva il popolo! morte al tiranno! A questo grido ripetuto all'istante dall'un canto all'altro della città, tutti i cittadini presero le armi, ed unitisi ai congiurati, attaccarono il palazzo d'Uguccione e la porta di Parlascio; ed avendo ovunque rotti i satelliti del tiranno, li cacciarono fuori di città. La cavalleria pisana non volle prender parte a questa sommossa; ma quando fu terminata, si presentarono agli anziani giurando fedeltà alla repubblica ed alla libertà[314].

Lo stesso giorno presero le armi anche i Lucchesi, o, come vogliono alcuni, prima che Uguccione entrasse nella loro città, o, secondo altri, dopo che n'era uscito per reprimere la sedizione di Pisa. Adunaronsi innanzi alla casa di Neri della Fagiuola, chiedendo altamente la libertà di Castruccio. Neri non osò rifiutarsi e fece rilasciare il prigioniere, il quale fu consegnato ai congiurati ancora avente le catene ai piedi ed alle mani. Queste catene furono lo stendardo dei Lucchesi: essi le portarono avanti a loro andando ad attaccare i forti ancor difesi da Neri della Fagiuola; e cacciandolo dalla città co' suoi seguaci, prima che il padre potesse soccorrerlo, ricuperarono in poco tempo quella libertà, che già da due anni avevano perduta[315].

Uguccione e Neri della Fagiuola, perduta ogni speranza di rientrare in Pisa o in Lucca, si ripararono alla corte di Can grande della Scala in Verona, ove trovarono un altro più illustre fuoruscito, il poeta Dante, che si era recato a quella corte dopo la morte di Enrico VII. I Pisani nominarono allora capitano del popolo e delle milizie il conte Gaddo della Gherardesca, ed i Lucchesi affidarono per un anno la stessa carica a Castruccio Castracani. Ma gli uni e gli altri, non essendo più eccitati alla guerra da Uguccione, acconsentirono volentieri alle proposte di pace loro fatte da Roberto. I Fiorentini vi si prestarono di mala voglia, desiderosi di vendicarsi della rotta di Montecatini, ed accusavano il re di viltà che sì tosto dimenticava la morte del fratello e del nipote. Ad ogni modo per l'intromissione di Roberto la pace fu segnata in aprile del 1317 tra tutti i popoli guelfi e ghibellini della Toscana, restando tutti al possesso delle castella che avevano conquistate: ai Fiorentini venne assicurata la franchigia del porto di Pisa; i Pisani promisero di mantenere cinque galere agli ordini del re Roberto, qualunque volta egli mettesse una flotta in mare, e si obbligarono, dietro sua domanda, a fabbricare a san Giorgio in Ponte una chiesa sotto l'invocazione della pace, pel riposo delle anime di coloro ch'erano morti nella battaglia di Montecatini: la quale chiesa fu poi a ragione risguardata dai Pisani piuttosto come un monumento della loro vittoria, che come un segno di triste ricordanza.

Roberto, siccome tutti gli altri principi francesi che guerreggiarono in Italia dopo Carlo d'Angiò, non ebbe talenti di lunga mano corrispondenti alla sua ambizione o alla sua profonda politica. Roberto aveva avute molte rotte anche nella guerra da lui trattata contro Federico di Sicilia, e perciò, intimamente persuaso della sua incapacità militare, preferiva, per ingrandirsi, le vie delle negoziazioni.

Un vasto piano era legato alla pace ch'egli aveva fatta segnare alla Toscana. Le circostanze più favorevoli alla sua ambizione ponevano tutta l'Italia nelle sue mani. In Germania due principali emuli, Luigi di Baviera e Federico d'Austria, ambedue coronati nel 1314 come re de' Romani, l'uno ad Aquisgrana, l'altro a Bonna, distrussero l'autorità dell'impero volendosene impadronire colle armi. Nella corte d'Avignone dopo l'interregno di due anni era succeduto a Clemente V, morto del 1314, un nuovo pontefice chiamato Giovanni XXII, affatto ligio a Roberto: per ultimo questo principe approfittava delle lunghe dissensioni della Lombardia e della Liguria per cercare di stabilire la sua autorità in queste due province, e la repubblica di Genova era la prima conquista che egli disegnava di aggiugnere a' suoi stati. Ma il nuovo interregno dell'impero, il pontificato di Giovanni XXII e le rivoluzioni che l'ambizione di Roberto di Napoli causarono all'Italia, appartengono ad una nuova epoca di questa storia; che serbiamo per l'altro immediato volume. D'altra parte la caduta dell'ultima repubblica di Lombardia, dell'ultima fra le città dell'Italia settentrionale che conservò la libertà democratica, la caduta di Padova, appartiene all'epoca contemplata dal presente capitolo.

Di quante città aveano segnata la lega lombarda cento cinquant'anni prima, Padova e Bologna eransi sole conservate in possesso di que' privilegi pei quali avevano così valorosamente combattuto contro Federico Barbarossa. Bologna, protetta dalla chiesa, sostenuta dalle repubbliche toscane, si sottrasse lungo tempo al destino delle città lombarde, tra le quali non era stata annoverata, sebbene facesse parte della loro lega. Padova circondata quasi da tutti i lati dai tiranni lombardi, e conservatasi fedele alla parte guelfa in mezzo ai più potenti ghibellini, fu più presto esposta agli attacchi, sotto de' quali doveva finalmente soggiacere.

Il lungo interregno dell'impero era stato per Padova l'epoca più felice. Dopo la caduta della casa di Romano fino alla discesa d'Enrico VII in Italia, nella lunga pace di cinquantasette anni[316] questa città, sempre protetta dalla chiesa e dal partito guelfo, aveva ricuperato, per la benefica influenza di un libero governo, quella popolazione e quelle ricchezze ond'era stata spogliata verso la metà del precedente secolo dalla tirannia d'Ezelino. La città di Vicenza erasi sottomessa ai Padovani[317]; tutti i Guelfi della Marca Trivigiana si dirigevano a seconda dei consigli di Padova; finalmente gli studj fiorivano in questa città, la sua università essendo una delle più rinomate d'Italia; e la celebrità de' suoi professori per ogni genere di arti liberali vi chiamava scolari da tutta l'Europa[318]. Padova diede all'Italia nel quattordicesimo secolo molti de' suoi più riputati storici. Non pertanto in seno a tanta prosperità l'interna pace della repubblica era doppiamente minacciata. I Vicentini, vergognandosi di vedersi soggetti ad una città lungo tempo rivale, odiavano assai più il governo di Padova, che il despotismo, e piuttosto che rimanere sotto lo stesso giogo, erano disposti a porsi tra le braccia del primo tiranno della Lombardia che fosse abbastanza potente per umiliare i Padovani. D'altra parte la gelosia della nobiltà e del popolo erasi, come nelle altre città italiane, manifestata anche in Padova, e più volte il governo era venuto in mano degli artigiani, diretti dai tribuni del popolo detti Gastaldoni: allora lo stato perdeva in faccia agli stranieri la sua forza e la considerazione di cui godeva; ed i Padovani nel complesso della loro condotta meritavano spesso tutti i rimproveri che sono stati fatti alle assolute democrazie. Lo stesso senato era democratico, venendo composto di mille cittadini che si rinnovavano ogni anno[319]; ed il popolo, sempre diretto dalla passione di dominare, non agiva a seconda delle regole della più comune prudenza. Una violenta gelosia gli faceva escludere dal governo que' nobili, che colle loro ricchezze, i talenti, il coraggio e lo splendore del loro nome, avrebbero dato più di risalto all'amministrazione: una prevenzione non meno imprudente faceva loro incautamente confidare la più pericolosa autorità ad una sola di queste nobili famiglie, a quella che più d'ogn'altra avrebbe potuto meritare la sua gelosia, e che pure era la sola che n'andasse esente, la famiglia dei Carrara. I più piccoli avvenimenti ispiravano a questo popolo un'insensata presunzione, un ridicolo orgoglio; il più leggiero rovescio ne abbatteva il coraggio, e lo disponeva a soggiacere a tutte le umiliazioni. Fortunatamente che in que' momenti di terrore i nobili riacquistavano la loro influenza sopra la moltitudine; ed in allora guarentivano l'onore nazionale e salvavano la patria.

Durante la spedizione d'Enrico VII, in più modi manifestossi l'inconseguenza de' Padovani. A vicenda ora volevano resistere, ora fare con lui la pace. Due volte lo storico Albertino Mussato fu da loro spedito all'imperatore; due volte comperò da lui sotto dure condizioni la riconciliazione della repubblica; ed altrettante volte i Padovani alternativamente gelosi, o di Cane della Scala, o dello stesso Enrico, ruppero le convenzioni e ricominciarono la guerra: di modo che Enrico, l'ultimo anno della sua vita, pronunciò in Pisa contro di loro una sentenza che li privava di tutte le loro onorificenze e franchigie e li metteva al bando dell'impero[320]. Sedendo nello stesso tribunale, Enrico aveva pochi giorni prima condannato Roberto re di Napoli.

Gli è vero che le pretese d'Enrico VII erano propriamente fatte per eccitare la diffidenza della repubblica, e la sua condotta poteva averle dato giusto motivo di lagnanza. In marzo o in aprile del 1311 aveva permesso ad un Vicentino emigrato, che trovavasi al suo servigio, di sollevare cogl'intrighi la sua patria, procurandogli i soccorsi di Cane della Scala ed istigando tutt'ad un tratto i Vicentini a prendere le armi, a scacciare la guarnigione padovana e ad inalberare le aquile imperiali[321]. Quest'avvenimento, che tenne dietro alla prima infruttuosa missione d'Albertino Mussato, fu cagione di una guerra tra Padova e Vicenza protetta da Cane della Scala. Nuovi trattati sospesero subito la guerra ch'ebbe poi fine col trattato di pace di Genova tra Enrico VII e Padova, di cui il Mussato fu mediatore.

Ma mentre l'imperatore, imbarazzato trovandosi nelle guerre di Toscana, più non incuteva timore alle città lombarde ed alla Marca Trivigiana, il suo principale campione in questa contrada, Cane della Scala, provocava di nuovo i Padovani con ostili apparecchi. Fino al 1311 Cane aveva diviso con suo fratello Alboino il governo di Verona; ma circa un anno avanti la morte d'Enrico VII morì pure Alboino; perchè Cane più non trovandosi ritardato o contraddetto ne' suoi vasti progetti da un collega, diede libero corso al suo carattere inquieto ed audace. Dopo avere con tutte le sue forze ajutato Enrico, chiese ed ebbe in ricompensa il governo di Vicenza col titolo di vicario imperiale; e sebbene ai Vicentini spiacesse di perdere così presto la libertà che avevano di fresco ricuperata, gli aprirono le porte ed a lui si sottomisero. Allora Cane della Scala introdusse in Vicenza i soldati mercenarj ch'egli aveva assoldati di diversi paesi e lingue, e non risparmiò ai Vicentini le vessazioni che, specialmente in quell'epoca, accompagnavano un governo militare[322].

I Padovani, che avevano ragione di temere che Cane in virtù del suo titolo di vicario imperiale nella Marca Trivigiana, non pretendesse di avere sopra la loro città que' medesimi diritti ch'esercitava sopra Vicenza, più non ascoltando che la loro impazienza e la loro collera, armarono le loro milizie ed assoldarono mercenarj per intraprendere la guerra. La gioventù aveva piacere che incominciasse: stanca della monotonia della pace, di cui godeva da tanto tempo la sua patria. «Pure, dice Ferreto di Vicenza, quando la guerra fu intimata dai due popoli, gli abitanti delle campagne furono i primi ad essere attaccati: il primo segno delle ostilità fu la rapina delle loro gregge e de' loro mobili. I contadini che in questo subito attacco non furono fatti prigionieri, sforzaronsi di condurre in città e di deporre in luogo sicuro tutto quanto poteva essere trasportato. Allora si videro gli agricoltori condurre un lungo ordine di carri, sui quali avevano frettolosamente caricati i rustici loro mobili e i vasi delle loro cantine; mentre le madri, coi loro fanciulli al seno o sopra le spalle, venivano a dormire sotto gli stessi portici delle nostre case. Questa maniera di guerreggiare, di uccidere e far prigionieri i cittadini, di rubare i loro beni, e di bruciarne le case, veniva a noi insegnato dagli stranieri mercenarj che avevano sempre vissuto nei campi. Quante volte non abbiamo noi veduto strascinarsi da questi empi soldati, che Cane pagava a prezzo d'oro, truppe di contadini padovani colle mani legate alle reni? Essi custodivano questi prigionieri nella nostra patria e crudelmente li maltrattavano per obbligarli a riscattarsi. Nè i mercenarj di Padova trattavano più dolcemente i contadini di Vicenza: come mai quest'infelici avevano meritate tante ingiurie!»[323].

La prima conseguenza della guerra fu l'aggravarsi della tirannia di Cane sui Vicentini: quattro gentiluomini furono da lui incaricati dell'assoluto governo di questa città; e perchè più prontamente potessero percepire le imposte, tutte le immunità del popolo, tutte le leggi furono abolite. Allora scoppiarono in Vicenza delle congiure contro Cane, le quali giustificarono in certo modo le criminali inquisizioni, l'esilio, la confisca dei beni di una parte della nobiltà che rifugiossi in Padova, e che dopo tale epoca portò poi le armi contro la patria. Ma la libertà non era meno in pericolo a Padova, ove ogni zuffa era cagione di nuove animosità contro i Ghibellini: il loro capo Guglielmo Novello, attaccato dai sediziosi nel palazzo pubblico fu massacrato innanzi allo stesso pretorio; e de' suoi partigiani alcuni fuggirono, altri come nemici della patria furono condannati a perpetuo bando[324].

Il luogo in cui si veniva più frequentemente a battaglia tra i due popoli, era quello in cui il Bacchiglione, fiume che attraversa il Vicentino, si divide in due rami, uno de' quali, dirigendosi al Sud-Ovest, bagna le campagne d'Este, e l'altro al Sud-Est quelle di Padova. L'abbondanza delle acque raddoppia la fertilità di quelle ricche campagne, ed il possesso del fiume per farne scendere una minore o maggior parte dall'una o dall'altra parte era della più alta importanza pei due popoli, i quali attaccarono, rovesciarono, rialzarono più volte le dighe. In queste zuffe i Padovani erano sempre superiori di numero e di ricchezze; ma Cane, la di cui armata era quasi esclusivamente formata di mercenarj, accostumati fino dalla fanciullezza al mestiere delle armi, e che non sapevano cosa fossero la fatica o la pietà, vinceva i Padovani per conto della disciplina e dell'arte militare.

Avendo i Padovani adunate le truppe sussidiarie di Cremona, di Treviso, del marchese d'Este e gli esiliati di Vicenza e di Verona; ed inoltre avendo assoldati alcuni condottieri, tra i quali distinguevansi due Inglesi, Bertrando ed Ermanno Guglielmo[325], formarono un'armata di 10,000 cavalli e 40,000 fanti; armata formidabile che pareva bastante a conquistare tutta la Lombardia. Pure sì grande armata, invece di fare qualche strepitosa impresa, non giovò ad altro che ad attirare sopra la Venezia un altro flagello. Si tenne lungo tempo accampata, esposta all'ardore del sole, in riva a' fiumi, le di cui torbide acque appena si muovono; le malattie vi presero piede, ed una crudele epidemia distrusse nello stesso tempo i due campi e le due città.

Il massacro di Guglielmo Novello di Campo Sampiero, e l'espulsione de' Ghibellini suoi partigiani non riuscirono utili soltanto alla parte guelfa, ma ancora alla fazione aristocratica che acquistò maggiore influenza ne' consigli della repubblica. Pel corso di più di mezzo secolo Padova erasi conservata fedele alla Chiesa, e l'aristocrazia spalleggiava sempre il partito che una città aveva seguìto più lungo tempo. Per altro i capi del governo non appartenevano ad antiche famiglie: erano Pietro Alticlinio, avvocato, e Ronco Agolanti. Avevano amendue ammassate grandi ricchezze coll'usura, e l'uno e l'altro abusavano del credito che loro dava lo stato, in particolare permettendo ai loro figli di valersene per soddisfare alle proprie passioni. Amendue in onta al partito ghibellino, di cui avevano divise le spoglie, ed in onta al popolo che avevano escluso dal governo, non erano meno esosi alla casa dei Carrara, la più ricca della nobiltà, la più popolare, e quella che colla sua ricchezza minacciava più delle altre la libertà. Due giovanetti di questa casa, Nicola ed Obizzo, eccitarono, contro il sentimento de' loro parenti, una sedizione per disfarsi di questi due capi della repubblica. Introdussero moltissimi contadini in città; ed incontrando Pietro Alticlinio sulla piazza del mercato, gli furono addosso e lo sforzarono a fuggire. Nello stesso tempo incominciarono a gridare, viva il popolo, viva il popolo solo! Da tutte le bande si corse alle armi: invano il podestà co' suoi sgherri occupò la piazza del pretorio, i sediziosi si attrupparono in tutte le altre; invano, così consigliato dal vescovo, il podestà ordinò alle compagnie della milizia di unirsi nella piazza grande per marciare di là al proprio quartiere: si allontanarono a stento non più di cento cinquanta passi e ben tosto tornarono a riempiere la maggior piazza. Intanto i Carrara, ripetendo il grido di viva il popolo, vi aggiunsero quello di morte ai traditori; ed i loro partigiani che si frammischiavano in ogni gruppo di persone, andavano susurrando di affidare ai Carrara la vendetta nazionale. Ben tosto fu per acclamazione rimesso lo stendardo del popolo ad Obizzo dei Carrara; e questi alla testa della plebaglia, ripetendo il grido di morte, si volse alla casa di Pietro d'Alticlinio. La casa fu saccheggiata, ed il popolo, ad un tempo credulo e furibondo, si figurò di avervi trovate le prove de' più odiosi delitti che si attribuivano a Pietro ed a' suoi figliuoli: prigioni ov'erano stati chiusi di nascosto i loro nemici; sepolcri nei quali trovaronsi i cadaveri di coloro che avevano fatto perire; un albergo dipendente da loro, nel quale i viaggiatori si uccidevano di notte affinchè il proprietario ne acquistasse le spoglie; per ultimo gl'indizj d'altri inauditi delitti e meno verosimili: tutte le quali accuse furono confermate con asseveranza, siccome fatti indubitati[326]. Il primo giorno fu interamente consacrato al saccheggio di questa potente casa. All'indomani fu denunciato al popolo Ronco Agolanti, e, sorpreso nel luogo ov'erasi nascosto, fu massacrato ed il suo cadavere strascinato in pezzi per le strade. Suo fratello non tardò a provare la medesima sorte; le loro case e quelle ch'ebbero la disgrazia di trovarsi vicine, furono saccheggiate, e la plebaglia avida di bottino attaccò in appresso tutti coloro che gli si denunciavano come amici delle prime vittime. Una voce propose di vendicarsi di colui, il quale, preparando una nuova tariffa delle gabelle, voleva impoverire il popolo con odiose contribuzioni. Quello che veniva in tal modo indicato alla rabbia popolare era Albertino Mussato lo storico, il quale, per far fronte alle spese della guerra, aveva proposta una nuova tassa, che credeva più eguale, e stava formandone il catastro. All'istante i sediziosi si precipitarono verso la sua casa la quale era assai forte ed unita alle mura della città: ne furono chiuse le porte, e mentre la furibonda plebe attaccava la muraglia. Mussato salì a cavallo fuori della vicina porta, e fuggì a briglia sciolta verso Vico d'Aggere, ove si pose in sicuro. La sua casa fu salvata dal saccheggio perchè vennero proposte al popolo nuove vittime. Si seppe che Pietro d'Alticlinio e i tre figliuoli eransi rifugiati nel vescovado; Pagano della Torre, in allora vescovo di Padova, fu forzato a consegnarli alla plebe, la quale soddisfatta del loro supplicio cominciò a calmarsi[327].

All'indomani, ch'era il primo giorno di maggio del 1314, gli anziani della città, accompagnati dai tribuni, o gastaldioni, con gli stendardi del comune e del popolo convocarono l'assemblea dei cittadini. In questa fu risolto di mettere fine alle vendette; che gli attruppamenti ed il grido di morte nelle strade sarebbero vietati; che si darebbe opera a ristabilire la pace tra le famiglie, guarantendola coi matrimonj; che il governo verrebbe affidato a dieciotto anziani, secondo l'antica pratica; che sarebbero assistiti dai tribuni; e che la repubblica continuerebbe a governarsi colla protezione e sotto il nome di parte guelfa. Albertino Mussato fu richiamato e compensato dal governo de' sofferti danni.

L'indisciplina dei campi non era minore della licenza della città: noi siamo omai giunti a quegli sventurati tempi in cui la sorte della guerra non dipendeva più dalle milizie nazionali, a que' tempi ne' quali la sicurezza e l'onore dello stato venivano confidati a braccia mercenarie e straniere. Ogni giorno i soldati arrogavansi nuovi privilegi, ed aggravavano sui popoli i crudeli diritti della guerra; ed in pari tempo ponevano in dimenticanza la disciplina, l'ubbidienza ed il coraggio delle antiche repubbliche italiane.

Poco dopo la sedizione del mese di maggio, i Padovani, sotto la condotta del loro podestà Ponzino Ponzoni cremonese, attaccarono la stessa città di Vicenza. Cane della Scala erasene allontanato per soccorrere Matteo Visconti. Il primo di settembre, all'ora de' vesperi, Ponzino alla testa dell'armata padovana, d'un ragguardevole corpo di mercenarj sotto gli ordini immediati di Vanne Scornazano e di mille cinquecento carri destinati al trasporto delle bagaglie e delle armi dell'infanteria pesante, prese la strada che da Padova conduce a Vicenza. Queste due città non sono lontane che quindici miglia, ossia cinque ore di marcia, di modo che l'adunanza de' carri che Ponzino aveva fatta venti giorni prima, e col più grande segreto per questa spedizione, ci dà la più straordinaria idea della maniera con cui facevasi allora la guerra; e tale era la mollezza degli uomini d'armi, che durante questa breve marcia notturna, la maggior parte avevano deposte le armi sui carri che li seguivano[328].

In sul far del giorno l'armata padovana giunse innanzi alle mura del sobborgo di san Pietro a Vicenza, senza che la sua marcia fosse stata annunziata da veruno esploratore: le guardie delle porte erano addormentate; ed alcuni Padovani leggermente armati, attraversando la fossa, si resero padroni dei ponti levatoj e gli abbassarono prima che i Vicentini pensassero a difendersi. Le guardie risvegliandosi, fuggirono in città e ne chiusero le porte; ed i Padovani senza adoperare le armi rimasero padroni del sobborgo. Il suono delle trombe e le grida di viva Padova! annunciarono questa vittoria agli abitanti, i quali incerti della loro sorte, desiderosi di tornare sotto l'amministrazione repubblicana de' loro padri, desiderosi di scuotere il giogo di Cane, ma inquieti dell'abuso che forse si farebbe del diritto della guerra, guardavano tremando i loro vincitori. Ben tosto un proclama in nome di Ponzino Ponzoni stabilì la pena di morte contro chiunque si rendesse colpevole di furto o di morte: gli abitanti del sobborgo vi corrisposero con grida di gioja, gridando ancor essi viva Padova! e le madri portando i fanciulli nelle braccia sotto i portici, insegnavano loro a proferire questi due vocaboli.

Frattanto i Vicentini, per meglio difendere il corpo della città, tentarono d'incendiare le case del sobborgo più vicine alle mura; ed i Padovani, non sapendo approfittare della loro vittoria, stabilirono il loro campo duecento passi lontano dal preso sobborgo, di cui affidarono la guardia a Vanne Scornazano ed a' suoi mercenarj: ma appena giunsero al luogo in cui volevano fissare il campo, che lo stesso Scornazano, sortendo dal sobborgo, si avanzò verso il podestà Ponzino e Giacomo di Carrara, che stava co' principali capi dell'armata: «E qual è, disse, cittadini di Padova, la vostra maniera di fare la guerra? che significa quest'indulgenza pei vinti? voi non sapete approfittare della vittoria, e la vostra pretesa dolcezza sarà da tutto il mondo giudicata debolezza e pusillanimità. Quando le vostre genti furono vinte si sottrassero alle ferite o alla morte? vi diedero mai i vostri nemici l'esempio di questa indulgenza, o piuttosto di questa viltà? Coi nemici accaniti non devesi risparmiare nè il ferro, nè il fuoco, nè il saccheggio. Accordate ai vostri soldati il bottino del sobborgo, altrimenti tra poco gli abitanti ben sapranno trafugare tutte le loro ricchezze[329]

Ponzino ed i capi del popolo si rifiutarono a questa domanda; ma i mercenarj non avevano aspettata la decisione del consiglio; ed il saccheggio era già cominciato. Gli sventurati abitanti del sobborgo, cui era stata guarentita la sicurezza, furono all'improvviso trattati con tutto il rigore; e lo stesso Ponzino chiuse gli occhi sulla condotta de' proprj satelliti che davano l'esempio di tutti i delitti. I mercenarj, incaricati di custodire la porta che comunica colla città, l'abbandonarono per ispargersi per le case, e ben tosto la ciurmaglia del popolo padovano arrivò sollecitamente dal campo per dividere le spoglie del sobborgo. Furono gettate ne' campi tutte le munizioni che erano state portate sui carri che seguivano l'armata, onde caricarli de' più preziosi effetti del bottino: nè i sacri vasi delle chiese, nè le cose de' monasterj furono rispettate; e la brutalità de' soldati espose agli ultimi oltraggi le spose e le figlie de' Vicentini, e perfino le vergini consacrate a Dio[330].

Frattanto, avanti l'ora terza del giorno, era stato dato avviso a Cane della Scala, che trovavasi a Verona, della presa del sobborgo; e tosto gittatosi in ispalla l'arco, ch'egli soleva spesso portare all'usanza de' Parti, corse a cavallo a Vicenza con un solo scudiere. Giunto in città, dopo avere due volte mutato cavallo, chiamò i suoi compagni d'armi; e non fermandosi che il tempo necessario per bevere un bicchiere di vino che gli fu presentato da una povera femmina, fece aprire la porta di Liseria e piombò sui Padovani con soli cento uomini d'armi ch'eransi adunati intorno a lui. Tutta l'armata padovana era occupata nel saccheggio o nella dissolutezza. Cane non trovò nel sobborgo veruna resistenza; alquanto più in là venne fermato un istante da un piccolo corpo di gentiluomini, fra i quali trovavasi Albertino Mussato, ma questo pure fu sgominato, ed Albertino scavalcato, fu fatto prigioniere. A non molta distanza toccò la medesima sorte a Giacomo di Carrara. Tutto il rimanente dell'armata più non pensò a difendersi, ed era così grande il terrore de' Padovani, che Cane trovossi, inseguendoli, con soli quaranta cavalieri, preso in mezzo da cinquecento cavalli fuggitivi ch'egli si era lasciati addietro. Questi ultimi sembravano agli occhi de' primi fuggitivi far parte dell'armata di Cane, ed accrescevano il terrore; essi medesimi conoscevansi posti tra due corpi nemici, e non osavano di far fronte. In questa disfatta Vanne Scornazano, che l'aveva procurata, Giacomo e Marsiglio di Carrara ed altri venticinque cavalieri con circa settecento plebei furono fatti prigionieri. Il numero de' morti indica il cominciamento di quelle guerre incruenti che avvilirono il coraggio delle truppe italiane: non si trovarono sul campo di battaglia che sei gentiluomini e trenta plebei[331].

Dopo tale disfatta i Padovani cercarono di fortificarsi, chiamando in loro soccorso gli alleati di Treviso, Bologna e Ferrara. Dal canto suo Cane della Scala fece domandare rinforzi al capo del partito ghibellino, ai Buonacorsi di Mantova, al duca di Carinzia ed a Guglielmo da Castrobarco, coi quali credeva di potersi rendere padrone di Padova. L'eccessive piogge, che inondarono tutta la campagna, ritardarono dieci giorni tutte le operazioni militari. Frattanto Cane della Scala riceveva alla sua corte i suoi più distinti prigionieri, Giacomo di Carrara, Vanne Scornazano ed Albertino Mussato. L'ultimo era nato nella più bassa classe del popolo, da cui l'avevano innalzato i suoi talenti e la sua erudizione; ed era risguardato come uno de' più letterati uomini del suo secolo. «Peraltro, dice Ferreto di Vicenza, non era stato ancora decorato di una corona di lauro o di ellera col titolo di poeta, non aveva ancora pubblicata la sua storia, e la sua tragedia d'Ezelino non comparve che dopo che gli fu dato il titolo di poeta. Ma egli amministrava già con somma vigilanza gli affari della sua repubblica, ed in pari tempo compilava con somma cura la storia de' fatti d'Enrico VII e de' mali d'Italia. Era un uomo di vasti talenti, dotato di prudenza e di facondia: non andò debitore che a sè medesimo, che ai proprj talenti del titolo e della corona di poeta; perciocchè non essendo nato d'illustri parenti non aveva ereditate nè ricchezze, nè credito nella sua patria; ma sebbene uscito dall'ultima classe, fu dai tribuni e dai magistrati del popolo innalzato al grado de' padri consolari ed ai primi onori della repubblica Padovana. Egli ricevette per compenso de' suoi talenti e delle sue fatiche grandissima fama e grandi ricchezze, che gli furono assegnate sul tesoro pubblico[332].» Per tal modo il titolo di poeta, ed una capacità che oggi non ci sembra singolare ottenevano allora non solo la gloria, ma ancora le ricchezze ed il potere. Al presente le poesie del Mussato e la sua tragedia non lo salverebbero dall'obblio; la sua stessa storia è riputatissima solo per essere contemporanea, e malgrado la molta luce che sparge intorno ai più importanti avvenimenti di quei tempi, il nome del Mussato non è noto che a pochi eruditi.

Frattanto la sospensione delle ostilità che non era che una conseguenza delle inondazioni, e le frequenti conferenze dei capi de' Padovani con Cane della Scala, ridussero le due parti a proposizioni di pace. Allora fu che Giacomo da Carrara contrasse segreta amicizia con Cane, onde fu posto in libertà per trattare personalmente intorno alla pace nella sua patria.

Giacomo di Carrara ammesso nel senato di Padova dovette disputare contro Macaruffo, capo de' patriotti, che diffidava della sua ambizione. Non voleva Macaruffo che la repubblica compromettesse l'onor suo accettando la pace dopo una disfatta; ma erano così eque le proposizioni di Cane, che non erano ingiuriose a Padova: ogni città doveva tornare in possesso del suo antico territorio; i diritti patrimoniali dei cittadini padovani nel distretto di Vicenza dovevano essere loro restituiti; e la repubblica di Venezia veniva chiamata garante del proposto trattato. A tali onorevoli condizioni la pace fu infatti accettata dal senato di Padova, e sottoscritta il 20 ottobre del 1314[333].

Questa pace per altro non ebbe lunga durata: i Padovani cercavano opportunità di vendicarsi dell'avuta disfatta; i Vicentini soffrivano impazientemente il giogo di Cane della Scala e domandavano spesso ai loro vicini di ajutarli a scuoterlo. Macaruffo ed i suoi partigiani favorivano i Vicentini malcontenti; ma Giacomo da Carrara era segretamente attaccato a Cane. I primi si fecero lecito di entrare senza il consentimento della repubblica in una congiura, che doveva esserle cagione di grandi calamità.

Il 21 maggio del 1317 gli esiliati di Vicenza, quelli di Verona e di Mantova ed i loro partigiani di Padova, che avevano prese le armi per soccorrerli, si portarono di notte presso ad una porta di Vicenza che alcuni traditori avevano promesso di consegnar loro: ma essi medesimi erano traditi da coloro che credevano aver guadagnati col danaro. Cane, avvisato del loro arrivo, gli stava aspettando in città; e quando duecento di loro ebbero passato la porta, piombò sopra di loro e tutti gli uccise o fece prigionieri. In seguito attaccò gli altri rimasti al di fuori, li ruppe, e gl'incalzò fino sul territorio di Padova[334].

Cane della Scala si lagnò d'avere i Padovani rotta la pace con lui conchiusa, e domandò che la repubblica di Venezia gli obbligasse a pagare venti mila marchi d'argento; pena imposta a coloro che commettessero le prime ostilità. Dal canto loro i Padovani assicuravano di non aver presa parte nella congiura che non era stata diretta che dai fuorusciti; ma Cane, dopo avere condannati a morte cinquantadue congiurati fatti da lui prigionieri, venne colla sua armata a guastare il territorio di Padova; e prima che terminasse la campagna s'impadronì dei forti di Monselice, di Montagnana e di Este[335]. Anche nell'inverno e nella susseguente primavera continuò a guastare le campagne de' Padovani, senza che questi fossero a portata di fargli resistenza. Risparmiò per altro le terre appartenenti alla casa da Carrara; ma era tale la leggerezza del popolo padovano, che a quest'epoca aveva collocata tutta la sua confidenza nella medesima casa da Carrara; e rimproverando Macaruffo d'avere eccitata una così disastrosa guerra, lo sforzò a cercare, con tutti i veri patriotti, sicurezza nell'esilio. Finalmente come la repubblica soffriva ogni giorno nuovi mali, i partigiani dei Carraresi, che occupavano soli tutte le magistrature, adunarono il senato dei decurioni, onde provvedere ai pericoli della patria. Poichè molti senatori ebbero parlato delle tristi circostanze in cui trovavasi lo stato, Rolando di Placiola giureperito si levò: «Qual bisogno di più lungo discorso, diss'egli, o cittadini! il rimedio per noi salutare e per la nostra patria è bastantemente conosciuto. L'abuso de' plebisciti l'abbiamo provato, egli ci conduce a certa ruina; proviamo una volta se le leggi di un solo uomo ci possono procurare miglior sorte. Ogni cosa sulla terra è sottomessa ad una sola volontà; le membra ubbidiscono alla testa; le mandre riconoscono un capo. Se tutto il mondo dipendesse da un re giusto si vedrebbero cessare le carnificine, la guerra, la rapina e tutte le vergognose azioni. Siamo docili alle voci della natura, seguiamo l'esempio che ci dà; facciamo tra noi scelta del nostro principe. Egli solo si prenda cura del governo, moderi la repubblica colla sua volontà, stabilisca le leggi, rinnovi gli editti, abolisca quelli che più non si osservano; egli sia, in una parola, il signore, il protettore di tutto quanto ci appartiene[336].» Con questi luoghi comuni un partigiano del despotismo determinò il popolo, stanco di tante agitazioni, a privarsi della propria esistenza. Il suicidio politico si compì; niuno rispose al discorso del Placiola, e Giacomo da Carrara fu universalmente indicato come il solo capace di comandare alla nazione. Non si contarono i suffragi, secondo l'antica costumanza, con palle segrete; ma con una acclamazione, che parve universale, Giacomo da Carrara fu proclamato principe di Padova. Circondato dai consiglieri, presentossi egli al popolo sulla piazza pubblica, ove Rolando della Placiola replicò il suo discorso; e le acclamazioni de' partigiani della casa di Carrara, che occupavano tutte le uscite della piazza, parvero approvare la risoluzione presa dal senato. Così ebbe fine la repubblica di Padova, e cominciò il principato dei Carraresi il 28 luglio del 1318[337].

Non abbiamo annoverata tra le libere città dell'Italia settentrionale quella di Cremona, sebbene di que' tempi si governasse a comune; ma questa città, lacerata da interne fazioni, aveva così frequentemente mutato governo e tante volte era venuta in dominio d'un solo, che non conosceva la libertà più di quello che la conoscessero le città da lungo tempo cadute in servitù. Quasi nello stesso tempo di Padova, Cremona rinunciò di nuovo e solennemente al governo popolare.

Cremona era stata ruinata dall'imperatore Enrico VII e non erasi più rialzata dal colpo allora ricevuto: il territorio di questa città era affatto aperto, atterrate le fortificazioni de' suoi castelli e villaggi; e nella crudel guerra ch'eransi fatte in quest'epoca le nemiche fazioni, aveva la città medesima perdute in gran parte le sue ricchezze e la sua popolazione. Cane della Scala, signore di Verona, e Passerino dei Bonacorsi, signore di Mantova e di Modena, progettarono di sottomettere questa città e quelle di Parma e di Reggio. Erano tutte tre governate dal partito guelfo e sembravano situate a posta loro. Convennero di dividerle tra di loro, ed attaccarono prima delle altre Cremona, siccome la più debole e la più vicina[338]. Durante l'estate del 1315, guastarono il territorio cremonese, occuparono molti villaggi che non poterono resistere, altri ne presero d'assalto, trucidandone gli abitanti. I Cremonesi tormentati dalla fame e dalla miseria, col nemico alle porte, perciocchè Cane si era innoltrato fino al sobborgo di Cossa, e col territorio tutto guasto, tranne pochissimi villaggi, erano inoltre agitati da intestine discordie. Il popolo attribuiva ai grandi le sventure della repubblica ed andava dicendo che per mettere fine alle loro dissensioni conveniva dare un capo allo stato; che per difendere i popoli dall'attuale maniera di trattare la guerra, non era vi che il governo d'un solo; che Verona, Parma, Mantova, Milano, quasi tutte le città della Lombardia, offrivano un esempio ch'era omai tempo d'imitare; che tornerebbe minore vergogna ai Cremonesi dall'ubbidire ad un loro concittadino, che a Cane o a Passerino; e che un principe potrebbe solo far cessare gli odi che avevano fatto spargere tanto sangue e mandare in esilio tanti cittadini.

Frattanto il partito repubblicano cercava di protrarre l'esecuzione di così funesto consiglio; ed alla testa degli amici della libertà Ponzino Ponzoni, capo dei Ghibellini, andava ripetendo che preferiva di vedere la sua patria preda delle fiamme, piuttosto che sotto il giogo di un tiranno[339]. Malgrado la sua resistenza scoppiò tra la plebe una sedizione il 5 settembre del 1315. Giacomo marchese Cavalcabò fu condotto al pretorio dai sediziosi e proclamato signore della città. Gli amici della libertà si ritirarono ne' villaggi e gli eccitarono alla sommossa: Ponzino Ponzoni, citato da Cavalcabò a tornare in città, rispose; «non aver fin allora combattuto contro i nemici dello stato che per sottrarsi alla servitù; e non sapere adesso quale motivo potrebbe mettergli le armi in mano contro gli stranieri, mentre la scure della tirannide stava sospesa sopra tutte le teste; che per ultimo non riconosceva altra patria che Cremona libera.» L'opposizione del Ponzoni a questa infelice risoluzione non tardò ad essere giustificata dagli avvenimenti; dopo sei mesi le guerre civili forzarono il marchese Cavalcabò a rinunciare la signoria tra le mani di Giberto da Correggio; le guerre esterne colmarono la miseria di Cremona; ed il giorno 17 gennajo del 1322, impadronitosene Galeazzo Visconti, la riunì alla signoria di Milano[340].

Molte delle città della Lombardia e della Marca erano governate dai signori, senza per altro avere rinunciato ad ogni desiderio di libertà. Tante violenze erano state commesse in nome dei due partiti guelfo e ghibellino, accesi tanti odj, tante vendette provocate, che il primo desiderio dei cittadini e specialmente dei gentiluomini, era il trionfo della propria fazione e la proscrizione degli avversarj. Una selvaggia indipendenza era per loro preferibile alla libertà; essi misuravano i loro diritti colle loro forze, e non supponevano che potessero essere limitati dalle leggi. Nelle città poste nel centro della Lombardia, in mezzo a quelle vaste campagne che avevano dato tanto vantaggio alla cavalleria dei gentiluomini sopra l'infanteria de' borghesi, in Cremona, Crema, Lodi, Piacenza, Pavia, Parma, Modena e Reggio, non eravi durevole tirannide assicurata ad una sola casa, perchè l'eguaglianza delle forze dei due partiti guelfo e ghibellino, non lasciava a veruna usurpazione il tempo di consolidarsi; ma non perciò eravi maggior libertà che altrove. Ogni anno veniva contraddistinto da qualche nuova rivoluzione; per altro soltanto cambiavansi gli uomini senza che il governo lasciasse mai d'essere militare e dispotico. A popoli divisi in partiti che mai non posavano le armi, erano necessari capi assoluti, e quand'ancora proclamavansi talora i nomi di libertà e di repubblica, e ripetevansi per le contrade il grido di popolo, popolo, per iscacciare un tiranno diventato esoso ai cittadini, non per ciò si ristabiliva un libero governo. I consigli non erano organizzati con abbastanza di forza perchè potessero ricuperare la sovranità, non conoscevasi omai che l'autorità degl'individui, e gli atti arbitrari non venivano più risguardati dai cittadini quale violazione dell'ordine sociale; non credevano illegale tutto quanto non era ingiusto; ed applaudivano sempre ai podestà ed ai giudici che castigavano i colpevoli, quand'ancora l'amministrazione della giustizia era nelle loro mani diventata arbitraria, e che disprezzavano tutte le forme prescritte dalle leggi andate in dissuetudine.

Per altro allorchè qualche vittoria faceva entrare un capo di parte in una di queste città, sebbene i suoi partigiani lo rivestissero del potere militare e delle attribuzioni giudiziarie de' podestà, non però doveva trovare abbastanza soddisfatta la sua ambizione: i suoi partigiani volevano essere troppo indipendenti; i suoi nemici, quantunque esiliati, non cessavano di essere pericolosi, tenendosi sempre armati; l'esempio de' suoi predecessori e de' vicini lo avvertiva che l'autorità sovrana era di breve durata, e che, lungi dal poterla trasmettere ai suoi figliuoli, non potrebbe conservarla egli medesimo fino alla morte. Tale incerta situazione eccitava tutte le passioni di un ambizioso, il quale, dopo essersi innalzato coi talenti militari, cercava di assicurarsi l'usurpata autorità con una politica, ora perfida, ora crudele. Il marchese Cavalcabò a Cremona, Alberto Scotto a Piacenza, Venturino Benzone a Crema, Giberto da Correggio a Parma, Matteo Visconti a Milano, Manfredi Beccaria e Filippone di Langusco a Pavia, ed altri venti tiranni occupavansi sempre di così fatte trame. Abbiamo abbandonate le particolarità degli oscuri loro complotti, che altro non sono che una lunga serie di tradimenti. Le frequenti ripetizioni degli stessi atti di slealtà avevano accostumati i tiranni a non vergognarsene, i popoli a non maravigliarsene: l'arte di tradire riputavasi abilità, e la crudeltà un utile mezzo d'ispirar timore. Pure non è che in mezzo ad una società virtuosa che il delitto può condurre con maggior sicurezza al principato; perciocchè quando tutti disprezzano egualmente la morale, il tradimento punisce il tradimento; il delinquente riclama invano a favore del nuovo suo stato la guarenzia sociale ch'egli stesso ha distrutta; ogni colpevole può rimproverarsi d'avere gratuitamente violate le leggi protettrici di tutti; e la perdita del sentimento e della venerazione della giustizia trae seco la perdita per tutto il popolo d'ogni prosperità.

Le città del centro della Lombardia erano in allora, non v'ha dubbio, le più infelici dell'Italia: governate con una mano di ferro da signori di breve durata che ispirare non potevano che orrore o disprezzo, vedevano continuamente il loro territorio in preda alla guerra civile: molte castella mantenevansi sempre ribelli contro la capitale; gli emigrati che vi si rifugiavano, uscivano frequentemente per guastare le campagne ed abbruciare le messi, e si trovava più facile il punire questi saccheggi colle rappresaglie, che non il reprimerli col mezzo delle armi. Non conoscevasi l'esempio di verun signore che avesse potuto conservare più di dieci anni la signoria d'una città; ed ogni rivoluzione, preceduta da una zuffa che costava la vita a molti cittadini, era accompagnata dall'esilio e dalla ruina di tutto un partito, di cui venivano confiscati i beni e spianate le case.

Non pertanto in mezzo a tanti disastri la popolazione non diminuiva sensibilmente, nè spegnevasi affatto l'energia nazionale. Eravi troppa vita in tutte queste zuffe, troppe passioni in movimento perchè ogni individuo non sentisse il bisogno di sviluppare tutto il suo essere, di fidarsi alle forze proprie, piuttosto che a quelle della società, e di conservare la sua morale indipendenza sotto la servitù politica. L'avvenire che sotto un despotismo stabilito non presenta veruna mutazione ad un padre di famiglia, ne offriva mille tra le rivoluzioni di questi tiranni di un giorno. Tutti i cittadini invidiavano non solo la sorte di quelle repubbliche in cui la costituzione guarentiva la sicurezza colla libertà, ma perfino la sorte degli stabili principati, ne' quali almeno godevasi il riposo; ma per altro restava loro almeno la speranza, mentre non vi è più speranza sotto un despotismo costituito.

Contavansi di già alcune città ove qualche famiglia aveva stabile signoria, e dove l'ereditaria successione di due o tre generazioni pareva averne legittimato il dominio. La casa d'Este regnava a Ferrara dall'epoca dello scacciamento dei Salinguerra e della disfatta dei Ghibellini, accaduta del 1240, fino alla morte d'Azzo X nel 1308[341]. A quest'epoca venne spogliata della sua sovranità dai Veneziani e dal papa, che da prima avevano in qualità d'ausiliari preso parte in una disputa di successione. Frattanto i marchesi d'Este furono richiamati del 1317 alla sovranità di Ferrara dall'attaccamento del popolo. Una casa meno illustre, quella de' Bonacorsi, erasi impadronita nel 1275 della sovranità di Mantova, e dopo averla conservata cinquantatre anni, cedette il posto ai Gonzaga, che seppero mantenersene signori più lungo tempo d'assai. Martino della Scala erasi innalzato in Verona al supremo potere, del 1260, sopra le ruine della casa da Romano, e sebbene del 1277 fosse stato ucciso dai congiurati, la sovranità come una eredità legittima passò a suo fratello, indi ai figli del fratello. L'anno 1275 Guido Novello da Polenta era stato dichiarato signore di Ravenna, che senza nuove rivoluzioni restò in potere della sua famiglia. Finalmente la casa da Camino succedeva a Treviso, Feltre e Belluno alla famiglia d'Ezelino di cui era stata sì lungo tempo rivale. Eranvi dunque in Italia alcuni esempi d'una monarchia ereditaria riconosciuta dai popoli e che conservavasi piuttosto col loro tacito consenso che colla forza.

Ma queste dinastie, in allora risguardate come antiche in confronto delle altre, erano ancora nuove paragonate all'ordinaria durata degl'imperj. Le più non erano giunte alla terza generazione; il principe non poteva dispensarsi d'essere soldato, veniva educato in mezzo alle armi ed era forzato di governare egli stesso sotto pericolo d'essere balzato dal trono dal favorito cui si fosse confidato. La casa d'Este non venne spogliata de' suoi stati che per essere, siccome più antica delle altre, la più corrotta di tutte. Soltanto cinquant'anni dopo noi vedremo regnare que' tiranni voluttuosi, deboli, pusillanimi, indegni successori de' guerrieri fondatori delle loro dinastie.

Taluno di questi piccoli principi accordò ben tosto la sua protezione ai letterati. Fino nel precedente secolo i marchesi d'Este avevano chiamato alla loro corte i trovatori ed i poeti provenzali. Dante in tempo del suo esiglio trovò asilo e protezione presso molti signori della Lombardia: a Ravenna Guido da Polenta, il marchese Malaspina in Lunigiana, e più d'ogni altro i signori della Scala, in Verona lo accolsero cortesemente. Can grande, che vedremo in appresso sollevare questa casa ad un altissimo grado di potenza, manifestò in principio del suo regno il suo amore per le lettere ed aprì nella sua corte un onorato ricovero a tutti i fuorusciti illustri d'Italia. Uno di costoro accolti da Can grande era lo storico di Reggio, Sagacio Muzio Gazzata, che ci tramandò la relazione del trattamento che i dotti avevano nella corte di Cane[342]. «Diversi appartamenti venivano loro, secondo la diversa loro condizione, assegnati nel palazzo del signore della Scala, e tutti avevano domestici e mensa elegantemente imbandita. I varj appartamenti erano indicati da simboli e da insegne; il trionfo pei guerrieri, la speranza per gli esuli, le Muse per i poeti, Mercurio per gli artisti, il paradiso per i predicatori. In tempo del pranzo, musici, buffoni, giocolieri, giravano in questi appartamenti; le sale erano ornate di quadri rappresentanti le vicende della fortuna, e Cane talvolta invitava alla propria mensa alcuno de' suoi ospiti, specialmente Guido di Castel di Reggio, che per la sua semplicità chiamavasi il semplice lombardo[343], ed il poeta Dante Alighieri.» Senza dubbio tra i proscritti guerrieri eranvene pochi cui la camera de' trionfi appartenesse a più giusto titolo che ad Uguccione della Fagiuola, cui Cane diede asilo dopo che questo capo di parte perdette la sovranità di Lucca e di Pisa. Colà Dante legò con costui strettissima dimestichezza, e prese occasione di dedicargli la prima parte del suo poema[344].

La protezione che con tanta frequenza i principi accordano ai poeti piccoli sacrificj loro costa e procaccia loro molta celebrità. In ogni tempo, in tutti i paesi, i poeti misurarono la loro ammirazione per un principe sulle sue liberalità; e non arrossirono di rendere coi versi immortali le vili loro adulazioni, come non ebbero vergogna di riceverne il salario. Non dobbiamo perciò essere sorpresi, se in questo e nel susseguente secolo i più distinti poeti italiani frequentarono la corte de' principi, dai quali erano festeggiati assai e più splendidamente pagati che dalle repubbliche. Ma per altro i poeti non hanno potuto sorgere che ne' tempi in cui lo spirito di libertà animava alcuna delle parti della sacra terra d'Italia, che durante il tempo che nella stessa lingua altri trattavano le quistioni che decidono della prosperità e della gloria degli uomini. Quando la via del pensiero fu chiusa agl'Italiani, si spense ancora la loro immaginazione. Un padrone non può scegliere tra le facoltà dello spirito umano, non può dire a' suoi sudditi: abbiate immaginazione e non intendimento; io vi concedo la poesia, ma vi rifiuto la filosofia; vi permetto la fisica e vi proibisco la morale; vi lascio le scienze esatte, ma prendete cura di non toccare la politica. È necessario di togliere lo steccato che inceppa lo spirito umano, o rassegnarsi alla sua indolenza, alla sua apatia. Dopo perduta la libertà, una sola generazione può ancora agitarsi per cercare l'apparenza della gloria in quegli esercizj dello spirito che un despota gli permette ancora; una seconda generazione dopo la caduta di questa può ancora distinguersi nelle belle arti che conservano un simbolo del pensiere, senza esprimerlo in un modo formidabile pel tiranno; ma gli avanzi di questa sacra fiamma non possono in verun modo conservarsi un intero secolo dopo spenta la libertà; è tolto loro lo scopo delle umane generazioni, sono mancati i motivi de' loro sforzi: non avvi più gloria quando viene dispensata dal favore d'un principe e divisa tra i suoi servitori ed i suoi poeti.

Gli artisti più festeggiati dai principi ereditari che si credettero al sicuro da ogni rivoluzione, furono gli architetti. I marchesi d'Este, gli Scaligeri, i Visconti, cominciarono assai presto ad innalzare que' vasti e sontuosi edifici che attaccano tuttavia qualche gloria alla loro memoria, sebbene la ricordanza delle loro azioni sia quasi affatto spenta. Le città libere avevano adottato il lusso dell'architettura; per lo contrario i violenti usurpatori non lasciarono che ruine, avendo avuto bisogno di tutte le loro forze, delle loro ricchezze, pel momento presente, onde non osarono di pensare all'avvenire. Nella seconda generazione i signori ripigliarono il gusto dell'architettura, che diventò pure in loro mano un oggetto di politica, credendo di dovere far pompa della propria grandezza per farsi rispettare dai loro sudditi ed ispirar timore ai nemici. Avevano bisogno di un'idea di perpetuità per assodare il loro dominio, e perchè loro non bastava il tempo passato, prendevano possesso de' vegnenti secoli con edifici destinati all'eternità.

Il lusso di queste piccole corti, le spese che facevano i re d'una città, per la loro guardia, per l'armata, per gli edifici, pei regali che davano ai buffoni ed ai cortigiani, provano l'ammasso di grandi ricchezze. Vero è che la maggior parte de' signori erano stati ricchissimi proprietari avanti che diventassero padroni della loro patria; e che aggiugnevano l'entrate dell'antico patrimonio ai pubblici tributi stabiliti ne' tempi della libertà; imperciocchè sembra che non osassero di accrescerli, non essendo mai giunti ad ottenere il credito di cui godevano le città libere, sicchè potessero supplire col prestiti ai bisogni improvvisi dello stato. Un'imposta territoriale, descritta in ogni signoria sopra un catastro, formava parte di quest'entrata, un'altra più importante parte era pagata dagli abitanti delle città in forza di una gabella posta sulle derrate che vi si consumavano e per un diritto d'entrata ed uscita delle mercanzie provenienti dall'estero, o mandate all'estero; poichè il prodotto dell'industria del paese non era esente dalle tasse. Del rimanente non erasi ancora inventato verun sistema di protezione per il commercio e per le manifatture; onde in mezzo alle guerre ed alle rivoluzioni, il commercio e le manifatture prosperavano infinitamente meglio che non al presente in que' canali artificiali, in cui le moderne nazioni vollero forzarli ad entrare. Tutte le città lombarde fabbricavano drappi di lana; i quali, oltre all'interno consumo, bastavano ad una ragguardevole esportazione che facevasi per mezzo de' Veneziani[345]. Le manifatture di lana erano state fondate in Lombardia dai monaci umiliati. A Milano il convento di Brera, diventato oggi il palazzo delle scienze e delle lettere, era la grande officina della fabbrica dei drappi, ed i monaci di questo convento l'anno 1309 si obbligarono, per una somma di danaro, a mandare una colonia per istabilire un'eguale manifattura in Sicilia, mentre i Milanesi apprendevano dai Siciliani l'arte di lavorare la seta[346].

I sudditi de' principi di Lombardia oramai si limitavano alle sole manifatture. Dopo la perdita della libertà essi più non si recavano in Francia, nelle Fiandre, in Inghilterra, come solevano fare ancora i Veneziani ed i Toscani; non aprivano più banco in ogni città, non s'impadronivano più del commercio di banco e di quello dei trasporti dell'Occidente. Il nome di Lombardi, che i Francesi, invidiando tanta attività, avevano dato ai prestatori sopra pegno non era più meritato: i soli Fiorentini e Lucchesi, non già gli abitanti di Asti, di Milano e d'Alessandria, esercitavano, come per lo passato, questo mestiere. Abbiamo già dovuto avvertirlo, parlando della Grecia, che il commercio straniero che domanda lunghi viaggi e vaste combinazioni, non può intraprendersi e sostenersi senza una certa energia di carattere, senza uno sforzo dello spirito, che non si trovano nella mezzana classe d'una nazione, fuorchè presso un popolo libero.

Del rimanente, in questi piccoli principati, il popolo vivea piuttosto rassegnato che contento, più non si occupando della sua futura sorte, nè di timori, nè di speranze. Rientrato in quella oscurità da cui l'avevano fatto uscire le precedenti agitazioni, non lasciava dietro di sè veruna orma, verun nome che si sollevasse al di sopra degli altri; e la storia nelle città sottomesse alle nuove dinastie, più non può risguardare che una sola famiglia, e spesse volte un solo individuo.

FINE DEL TOMO IV.

TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO IV.

Capitolo XXIII. Guerra di Sicilia. — Grandezza e decadenza della repubblica di Pisa. — Crudel morte del conte Ugolino. — Nuove turbolenze a Firenze. 1282-1292. pag. 3

Anno

Carlo d'Angiò non doveva, a quanto pare, essere troppo indebolito dai vesperi siciliani ivi

Mezzi di resistenza che una passione nazionale dà ai Siciliani 4

Gli abitanti di Palermo tentano di placare il re ed il papa 6

1282 Il 6 luglio. Carlo attacca Messina con una flotta ed una armata imponenti 7

Il 30 agosto. Pietro d'Arragona giugne a Trapani, e riceve omaggio dai Siciliani 8

Ruggeri di Loria, ammiraglio de' Siciliani, occupa lo stretto di Messina 9

Diffida vicendevole de' re d'Arragona e di Napoli 10

1282 Carlo costretto ad abbandonare la Sicilia ed a tornare in Calabria 12

La sua flotta viene incendiata alla Catona e a Reggio da Ruggeri di Loria ivi

Carlo propone a Pietro un combattimento in campo chiuso 13

Gli apparecchi per tale combattimento lasciano per qualche tempo la Sicilia in riposo 14

1276-1282 I Pisani in tempo di pace acquistano maggiori ricchezze e potenza ivi

Rivalità de' Pisani e de' Genovesi; dispute tra queste popolazioni in Corsica 16

1282 Le flotte dei due popoli si minacciano qualche tempo senza battersi 17

Disastro della flotta di Ginicello Sismondi 18

Esploratori mantenuti pubblicamente dalle due città 19

1283 Potenti flotte dei Pisani e dei Genovesi che si minacciano senza venire a battaglia 20

1284 Il 1 di maggio. Guido Jacia, ammiraglio pisano, battuto da Enrico de' Mari 21

I Pisani armano a spese de' particolari una flotta di centotre galere 22

Il 6 agosto. Battaglia della Meloria tra i Genovesi ed i Pisani 24

1284 Accanimento di questa battaglia. Oberto Doria, ammiraglio genovese, si batte con Alberto Morosini, ammiraglio pisano 25

Rotta de' Pisani colla perdita di cinquemila morti ed undicimila prigionieri 26

Costernazione generale de' Pisani quand'ebbero notizia della disfatta 27

I Genovesi ricusano di ricevere la taglia per la libertà dei Pisani, che tengono 16 anni prigionieri 28

Il 10 novembre. Lega de' Guelfi toscani per attaccare Pisa 29

1285 Il conte Ugolino della Gherardesca nominato capitano generale di Pisa 31

Egli riesce a disciogliere la lega de' Guelfi toscani contro Pisa ivi

Cerca di liberare i prigionieri, cedendo Castro di Sardegna, ma s'oppongono gli stessi prigionieri ivi

Ottiene la pace dai Lucchesi cedendo loro molti castelli 32

Il conte Ugolino prende a perseguitare i Ghibellini 33

Nino di Gallura si associa ai suoi nemici e cerca di muovere il popolo contro di lui 34

1285-1287 Il conte Ugolino rassoda la sua tirannide 36

1285-1287 Si riconcilia coi Ghibellini, e scaccia dalla città Nino di Gallura 37

1288 Violenza de' suoi trasporti di collera: uccide un nipote dell'arcivescovo Ruggeri 38

Il 1 di luglio. L'arcivescovo Ruggeri l'attacca coll'ajuto de' Ghibellini 39

Il conte Ugolino viene chiuso co' suoi figliuoli nella torre della fame 40

1283 Apparecchi per la battaglia in campo chiuso che doveva aver luogo a Bordeaux il 15 maggio 44

Papa Martino IV si oppone a questa battaglia, ed Edoardo re d'Inghilterra non vuole accordare guarenzia ai due monarchi ivi

Carlo si porta a Bordeaux; Pietro protesta di non esservi per lui sicurezza 45

Il 15 marzo. Sentenza del papa che spoglia Pietro dei regni di Sicilia e d'Arragona 47

1284 Carlo torna per mare a Napoli 48

Il 5 maggio. Prima del suo arrivo a Napoli, suo figlio Carlo vien fatto prigioniere da Ruggeri di Loria 49

Carlo d'Angiò punisce severamente i Napoletani malcontenti 50

1284 Si lascia ingannare dalle negoziazioni de' Siciliani, e perde la stagione propria ad agire 51

1285 Cade infermo a Foggia e muore il 7 di gennajo in età di sessantacinque anni ivi

Il 25 di marzo. Morte di Martino IV, cui succede Onorio IV 52

1282 Nuova costituzione dei Fiorentini; i priori delle arti e della libertà 54

I priori ne' due mesi della loro carica sono prigionieri in palazzo 56

1283 Rivoluzione a Siena; stabilimento della signoria e dell'ordine dei nove 57

Eguale rivoluzione in Arezzo, seguita nel 1287 da una controrivoluzione 58

1288 I Ghibellini di Pisa e d'Arezzo dichiarano la guerra ai Guelfi ed ai Fiorentini 60

1289 L'undici giugno. Rotta degli Aretini a Certomondo, presso di Campaldino ivi

1289-1293 Vantaggi ottenuti dai Pisani sotto la condotta del conte Guido da Montefeltro 61

1292 Dissensioni in Firenze tra i nobili ed il popolo 63

Giano della Bella, gentiluomo fiorentino, capo del partito popolare 64

1292 Ordinanza di giustizia che rende sottomessa la nobiltà 66

Organizzazione militare della città; il gonfaloniere della giustizia 67

Dino Compagni, gonfaloniere, atterra le case de' Galigai 69

Odio de' nobili contro Giano della Bella; cercano il modo di perderlo ivi

Gli rendono nemici alcuni dei corpi dei mestieri ivi

1294 Accusano Giano della Bella avanti ad una signoria di già resa loro parziale 72

Il 3 di marzo. Giano viene esiliato, e muore lontano dalla sua patria 73

Capitolo XXIV. Pontificato di Bonifacio VIII. — Il partito guelfo si divide in due fazioni, de' Bianchi e de' Neri. — I Bianchi, perseguitati, si uniscono ai Ghibellini. 1294-1303 75

1285-1287 Pontificato d'Onorio IV ivi

1288-1292 Pontificato di Nicola IV 76

1292-1294 Vacanza della santa sede 77

1294 Elezione di Pietro di Morone che prende il nome di Celestino V 79

Celestino V fissa la sua residenza in Napoli 81

Debolezza di questo papa e sua assoluta incapacità di governare la Chiesa 82

1294 Intrighi di Benedetto Caietano, cardinale d'Anagni, contro il papa 83

Il 13 dicembre. Così consigliato dal Caietano, Celestino si dimette dalla dignità pontificia 84

Il 23 dicembre. Gli succede il cardinale Caietano col nome di Bonifacio VIII 85

1295 Di gennajo. Pietro di Morone fugge per tornare al suo eremitaggio 86

Bonifacio lo fa inseguire e chiudere nella torre di Fumone 87

1296 Il 19 maggio. Morte di Pietro di Morone, ossia Celestino V 88

1294 Il 10 dicembre. Tradizione intorno alla Santa Casa trasportata a Loreto 90

1291 Il 19 di maggio. Melec Seraf s'impadronisce di san Giovanni d'Acri. Uccisione dei Cristiani 92

Vani sforzi del papa per eccitare una nuova crociata ivi

1288-1295 Parzialità dei papi negli affari di Napoli e di Sicilia 94

Carlo II, dopo uscito di prigione, viene dal papa sciolto dal giuramento che gli aveva procurata la libertà 95

L'Arragona attaccata da Carlo di Valois, la Castiglia e la Francia 96

1295 Vergognoso trattato conchiuso colla mediazione di Bonifacio tra Giacomo re d'Arragona e Carlo II 97

1296 Protesta de' Siciliani contro il trattato; essi nominano re l'infante don Federico 98

Inutile tentativo di Bonifacio VIII per negoziare con Federico 99

La guerra si rinnova con furore in Calabria ed in Sicilia 100

Situazione di Pistoja. Carattere de' suoi abitanti 101

Famiglie e fazioni a Pistoja de' Cancellieri guelfi e de' Panciatichi ghibellini 102

Tutti i nobili vengono esclusi l'anno 1285 dal governo di Pistoja 103

La famiglia de' Cancellieri si divide; zuffa fra due membri della medesima 104

Vendetta del ramo Nero de' Cancellieri 105

Il ramo Bianco de' Cancellieri si vendica a vicenda 106

1296-1300 La città di Pistoja ed il suo territorio si dividono tra i Cancellieri Bianchi e Neri 107

Atti di crudeltà e di perfidia commessi dalle due parti 108

1300 La signoria di Pistoja ceduta per tre anni ai Fiorentini quali pacificatori 109

1300 I capi delle due fazioni, Bianca e Nera, vengono chiamati a Firenze 110

Rivalità in Firenze tra Corso Donati e Vieri de' Cerchi 112

I Donati si uniscono ai Neri di Pistoja, i Cerchi ai Bianchi 113

Le due fazioni sempre apparecchiate a venire alle mani 114

Vieri de' Cerchi, il capo di parte Bianca, manca di carattere 116

Bonifacio VIII cerca di metter pace tra i due partiti 117

I capi de' Bianchi e de' Neri sono in pari tempo esiliati da Firenze 118

Tornata de' Bianchi in Firenze; intrighi de' Neri per vendicarsi 119

Il papa chiama in Italia Carlo di Valois 120

1301 I Bianchi opprimono il partito de' Neri a Firenze ed a Pistoja 122

Il partito de' Neri trionfa a Lucca, e fa esiliare Castruccio colla sua famiglia 123

Carlo di Valois entra in Toscana per le montagne di Pistoja 125

I Bianchi dispongonsi a difendersi a Pistoja, ma non ardiscono di attaccare Valois ivi

Questi va a Roma per concertare ogni cosa col papa 126

1301 Torna a Staggia e minaccia Firenze 127

I Fiorentini acconsentono a riceverlo sotto certe condizioni nella loro città 128

Valois entra in Firenze accompagnato da molta cavalleria 129

Vieri de' Cerchi ed i Bianchi trascurano i loro mezzi di difesa 131

Valois non osserva le giurate condizioni, e fa tornare gli esiliati in Firenze 132

Fa imprigionare i Bianchi ed abbandona le loro case al saccheggio 133

Cante de' Gabrielli incaricato di perseguitare il partito vinto ivi

Dante ed il padre di Petrarca esiliati e condannati al pagamento di una multa 134

1302 Il 4 aprile. Valois lascia Firenze e parte alla volta della Sicilia 135

1296-1302 Continuazione della guerra di Sicilia; difesa eroica di Federico 136

Valois costretto a far la pace con Federico 137

1303 Federico riconciliato alla Chiesa e riconosciuto re della Trinacria 139

1295-1303 Orgoglio e violento carattere di Bonifacio VIII ivi

Sua disputa coi cardinali di casa Colonna 141

1297 Bolla di scomunica contro i Colonna 143

Crociata contro i Colonna; consiglio dato da Guido di Montefeltro 144

Origine delle contese tra Bonifacio VIII e Filippo il bello 146

Gli stati del regno di Francia chiamati a difendere le libertà della Chiesa Gallicana 148

Zelo di alcuni gentiluomini francesi contro la Chiesa 149

Bonifacio convoca il clero francese a Roma, ma questo non ubbidisce 150

1303 Guglielmo di Nogaret aduna soldati presso Siena ivi

Il 7 di settembre sorprende il papa in Anagni ivi

Il papa tenuto prigioniere, ed i suoi tesori saccheggiati dai Francesi 152

Liberato dal popolo d'Anagni, rimane nuovamente prigioniere degli Orsini 153

Muore frenetico, e forse per le proprie mani 155

Capitolo XXV. Considerazione intorno al tredicesimo secolo. 157

Odio del popolo per la nobiltà nel tredicesimo secolo 158

I nobili ed i proprietarj delle terre sono una stessa classe di persone 159

La lunga possessione degl'immobili fu risguardata sempre come una specie di nobiltà 161

Molte virtù sono ereditarie presso i proprietarj ivi

Non avvi altro governo libero fuori di quello in cui tutte le classi concorrono alla sovranità 162

Servitù d'una nazione tosto che una sola classe diventa sovrana ivi

Errore degli economisti che non vedono in una nazione che i proprietarj 165

L'antica legislazione feudale lasciava tutta la sovranità ai soli proprietarj 167

La libertà dell'Occidente è il frutto della ribellione dei non proprietarj 168

Gelosia de' nobili contro i nuovi ricchi nel tredicesimo secolo 169

I nuovi ricchi rimproverano i nobili d'essere attaccati al partito del più forte 170

I nobili esclusi da qualunque incumbenza governativa 173

Il governo de' mercanti non ebbe uno spirito mercantile 175

Un'aristocrazia artigiana eccita l'odio di tutte le classi della nazione 176

Influenza della libertà politica sul carattere degl'Italiani 179

Risorgimento delle belle arti e delle lettere ivi

L'architettura più che le altre belle arti porta l'impronta del suo secolo 179

L'architettura del tredicesimo secolo è tutta repubblicana 180

Canali pubblici, mura delle città, fontane, darsene dei porti 181

Architettura religiosa, duomi di Venezia, di Pisa; battistero 183

Architetti e scultori pisani; Nicola da Pisa 184

Scultura in marmo ed in bronzo. Buonanno ed Andrea da Pisa 186

La pittura ristaurata. Cimabue 187

Giotto allievo di Cimabue 188

Poeti. Dante creatore della lingua e della poesia italiana nato del 1265 189

Dante non ebbe negli affari pubblici quella parte che dissero i suoi bibliografi 190

1302 Gennajo. Sentenza d'esilio pronunciata contro Dante 193

1321 Settembre. Dante muore in Ravenna 195

Poema di Dante, la Divina Commedia 196

Epoca in cui compose Dante il suo poema 197

Festa dell'inferno rappresentata in Firenze del 1304 199

Giubbileo del 1300, che forse diede a Dante l'idea del suo poema 201

Incerta è l'epoca della pubblicazione del poema di Dante 202

Onori resi dopo morte a Dante 203

Guido Cavalcanti, poeta, filosofo e capo di parte 205

Storici del 13.º secolo 207

Storici Italiani. Giovanni Villani 209

Storici che scrissero in altri dialetti d'Italia. Matteo Spinelli 211

Storici latini. Albertino Mussato 213

Capitolo XXVI. Stato della Lombardia. — affari della Chiesa; traslocazione della santa sede in Avignone. — Assedio di Pistoja. — Condanna dell'ordine de' Templari. 1300-1308 215

Stato della Lombardia in principio del 14.º secolo; complicazione della sua politica ivi

Infinito numero degli storici italiani 217

Il potere monarchico dei signori non era guarentito dalla pubblica opinione 218

1287-1296 Ottone Visconti prepara a suo nipote Matteo i mezzi per succedergli 220

La sovranità del popolo continua a riconoscersi anche quando più non se ne rispettava la libertà 221

Rivoluzioni del Piemonte; Bonifacio, conte di Savoja, muore in prigione a Torino 222

Il marchese Guglielmo di Monferrato muore entro una gabbia di ferro in Alessandria 225

Grandezza di Matteo Visconti; sua alleanza colla casa della Scala 225

1287-1296 Odio d'Alberto Scotto, signore di Piacenza, contro Matteo Visconti 227

1302 Lega di varj tiranni in Lombardia contro la casa Visconti ivi

Matteo Visconti obbligato a deporre la suprema autorità ed a lasciare Milano 229

Nuova lega guelfa in Lombardia 230

1303 Tale lega formata da Alberto Scotto si dichiara contro di lui ivi

Alberto Scotto privato della signoria di Piacenza 232

1306 Modena e Reggio scuotono il giogo della famiglia d'Este 232

L'imperatore Alberto d'Austria non si cura delle rivoluzioni d'Italia 233

1303-1304 Pontificato di Benedetto XI. Succede a Bonifacio VIII il 4 di ottobre del 1303 235

Il nuovo papa oppresso dai cardinali 236

1304 Si ritira a Perugia e vi si rende più indipendente ivi

Comincia ad agire contro Filippo il bello per l'attentato commesso sulla persona di papa Bonifacio 238

1304 Il 4 luglio Benedetto muore avvelenato 240

Il conclave in dieci mesi non conviene nella nomina del papa 241

La scelta del papa lasciata, in conseguenza d'una soverchieria, in arbitrio di Filippo il bello 242

Filippo fa cadere l'elezione nella persona di Bertrando di Gotte, arcivescovo di Bordeaux 243

1305 Il 5 giugno, Bertrando di Gotte dichiarato papa sotto nome di Clemente V 245

Chiama i cardinali in Francia e si fa coronare a Lione 246

Si rende affatto dipendente dalla corte di Francia 248

1307 Il papa scomunica Andronico Paleologo ed i Greci 248

1282-1302 Andronico lascia conquistare ai Turchi tutte le province dell'impero nell'Asia 250

1302 Passaggio in Grecia delle vecchie bande di Federico, ossia della grande compagnia 252

1302-1307 Guerre ed indipendenza della grande compagnia 253

1307 Clemente V vuole armare una crociata contro i Greci in favore de' principi francesi 254

1293-1299 Seconda guerra tra i Veneziani ed i Genovesi 255

1299 Vittoria ottenuta dai Genovesi, sotto il comando di Lamba Doria, sui Veneziani a Corzola 256

1306 19 dicembre. Alleanza de' Veneziani con Carlo di Valois 258

1306-1311 Gelosia e rivalità de' Genovesi e de' Veneziani in Grecia 259

1311 La grande compagnia de' Catalani conquista il ducato d'Atene 260

Clemente V vuole riconciliare i Bianchi ed i Neri di Toscana ivi

1303-1304 Legazione del cardinale di Prato in Toscana 261

Il partito de' Neri costringe il cardinale a ritirarsi 264

1304 Il 4 giugno egli scomunica Fiorenza nel sortire da questa città ivi

Intrapresa di Baschiera de' Tosinghi sopra Firenze 266

1305 I Fiorentini attaccano Pistoja per iscacciare i Bianchi 268

Il 22 maggio. Il duca di Calabria, comandando i Fiorentini, assedia Pistoja 269

1306 Il cardinale di Prato vuole interessare il papa nella difesa di Pistoja 271

Penuria degli assediati; essi chiedono soccorso a Bologna 272

Il 5 di febbrajo i Fiorentini eccitano una sommosa in Bologna, facendone cacciare i Bianchi 273

1306 Il 10 aprile. Pistoja è costretta di capitolare dopo dieci mesi e mezzo d'assedio 274

1307 Il cardinale Orsini vuole ricondurre i Bianchi a Firenze, ma la sua armata si disperde 275

Filippo il bello domanda a Clemente V di condannare la memoria di Bonifacio VIII 276

1.º di giugno. Clemente assolve coloro che attaccarono il papa 278

Filippo chiede la proscrizione dell'ordine de' Templari ivi

1128-1307 Ordine de' Templari; sue regole austere e sue guerre 279

1307 Il 13 ottobre. I Templari arrestati in tutta la Francia 281

1307-1311 Assurde accuse prodotte contro di loro ivi

Loro costanza in mezzo ai supplicj 282

L'innocenza de' Templari riconosciuta da molti storici contemporanei 283

1311 Il concilio di Vienna condanna l'ordine de' Templari, i di cui beni vengono confiscati 284

Confessione del gran maestro, Giacomo di Molay, che in appresso ritratta 285

Capitolo XXVII. Affari di Firenze. — Regno e spedizione in Italia dell'imperatore Enrico VII di Luxemburgo. 1308-1315 287

1308 Trionfo del partito dei Neri a Firenze ed in altre parti della Toscana 287

1308 Opposti difetti delle repubbliche e delle monarchie 288

Corso Donati scontento del partito ch'egli medesimo aveva formato, se ne distacca 289

Citato avanti al podestà, viene condannato a morte per contumacia 291

Raggiunto da' suoi nemici ed arrestato, s'uccide per sottrarsi al supplicio 292

1309 Oppressione de' Pistojesi, loro sommossa 293

I Fiorentini meno accaniti dei Lucchesi contro Pistoja 294

La pace stabilita colla mediazione de' Sienesi 295

1308 31 gennajo. Morte d'Azzo VIII d'Este. Guerra civile tra suo fratello ed il figlio di suo figlio naturale. La sua casa spogliata dal papa 296

Il 1.º di maggio. Morte d'Alberto d'Austria, assassinato da suo nipote 299

Il 25 novembre. Enrico, conte di Luxemburgo, nominato re de' Romani 302

1309 Enrico VII occupa il regno di Boemia ivi

Si dispone a passare in Italia 303

L'opinione diventata in Italia più favorevole all'autorità imperiale 304

1309 Tale cambiamento era dovuto più che a tutt'altro agli eruditi 307

ed ai giurisperiti 308

Sommissione d'Enrico VII al papa 309

Il 5 maggio. Morte di Carlo II di Napoli; gli succede il suo terzo figliuolo Roberto 310

1310 Enrico riceve in Losanna i deputati degli stati d'Italia 311

Il 10 di ottobre arriva in Asti, ed i signori di Lombardia si recano alla sua corte 312

Guido della Torre è incerto se debba riceverlo 314

Infine gli va all'incontro e gli apre le porte di Milano 315

1311 Il 6 gennajo. Enrico VII riceve a Milano la corona di ferro 316

Pacifica le frizioni delle città di Lombardia ivi

Malcontento de' Milanesi per la domanda di un dono gratuito 318

Enrico chiede ostaggi ai Guelfi ed ai Ghibellini 319

Sedizione eccitata dai Torriani, che sono poi costretti a fuggire 320

Ribellione della maggior parte delle città di Lombardia 321

1311 Il 19 di maggio Enrico assedia Brescia 322

Chiede ai legati pontificj che scomunichino i Bresciani 323

Onorevole capitolazione accordata ai Bresciani nel mese d'ottobre 324

Enrico viene a Genova che si dà in suo potere 325

Malcontento de' Genovesi a cagione delle contribuzioni che loro impone 326

1312 Trattati tra Enrico VII e Roberto re di Napoli 327

Questi trattati sono rotti, ed il re di Napoli si apparecchia alla guerra 328

Due deputati d'Enrico vanno in Toscana 329

Relazione di un deputato sui pericoli corsi presso Firenze 330

Questi deputati formano un'armata coll'ajuto dei conti Guidi 335

Il 16 di febbrajo. Enrico si pone in viaggio da Genova per Pisa 336

Attaccamento dei Pisani ad Enrico VII 337

Enrico va a Roma e contrasta il possesso di questa città ai Napoletani 338

Il 29 di giugno viene consacrato in san Giovanni di Laterano, per non poter entrare nella basilica Vaticana 339

1312 Si ritira a Tivoli con un'armata assai indebolita 340

In agosto aduna nuove truppe e rientra in Toscana 341

I Fiorentini veri capi del partito guelfo; estensione della loro politica ivi

I Fiorentini con molto coraggio civile mancavano di coraggio militare 343

Notabile contrasto in questa guerra tra la loro fermezza e la loro mancanza di valore ivi

Il 19 di settembre. L'armata imperiale si presenta alle porte di Firenze 345

I Fiorentini ricevono considerabili rinforzi, ma non osano attaccare l'imperatore 347

1313 Il 6 di gennajo Enrico si allontana da Firenze e si accampa a Poggibonzi 348

Enrico fa condannare dal suo tribunale i Fiorentini ed il re di Napoli 349

Giugne all'imperatore una nuova armata dalla Germania 351

Il 5 agosto Enrico si pone in viaggio per attaccare il regno di Napoli ivi

I Fiorentini invocano la protezione del re di Napoli 352

1313 Danno a Roberto la signoria della loro città 353

Enrico sorpreso da una malattia a Buonconvento 354

Il 24 di agosto muore inaspettatamente ivi

Sventura de' Pisani che in lui perdono il loro protettore 355

Danno la signoria ad Uguccione della Fagiuola 356

Capitolo XXVIII. Consolidamento dell'aristocrazia veneta; il maggior consiglio viene reso ereditario. — Vittoria d'Uguccione della Fagiuola sui Fiorentini. — Sua espulsione da Pisa e da Lucca. — Padova perde la sua libertà. — Signorie lombarde. 1313-1317 357

La repubblica veneta non prende parte nelle rivoluzioni d'Italia ivi

Lente e tacite usurpazioni del maggior consiglio 358

1289 Il popolo tenta di ricuperare il diritto di eleggere egli stesso il doge 359

Al doge eletto dal popolo gli elettori oppongono Pietro Gradenigo 360

Gradenigo vuol privare il popolo di ogni parte nell'elezione del maggior consiglio 361

1297 Il 28 di febbrajo. Decreto che ne affida l'elezione ad uno scrutinio annuale 363

1297 Questo scrutinio viene affidato alla quarantia criminale, che in tal modo subentra ne' diritti del popolo 364

1298-1315 Nuovi decreti per impedire l'introduzione d'uomini nuovi nel consiglio 365

1319 Ultimo decreto che abolisce il periodico rinnovamento del maggior consiglio 366

1299 Prima cospirazione contro la nuova aristocrazia 367

1310 Seconda cospirazione più formidabile. Boemondo Tiepolo 368

Il 15 giugno. I congiurati attaccano il palazzo ducale e sono respinti 369

Convenzione tra il doge ed i congiurati, che vanno volontariamente in esilio 371

Istituzione del consiglio de' dieci per sopravvegliare e punire i nobili 372

Arbitrarie procedure del consiglio de' dieci; terrore che ispira 374

Il consiglio de' dieci s'impadronisce della direzione della repubblica 375

Il consiglio de' dieci poteva essere distrutto ogni anno se i nobili rifiutavano di rinnovarlo 377

Due cose notabili in questo consiglio; il potere risguardato quale compenso della libertà ivi

1310 Mezzo di limitare un potere esecutivo immenso in una repubblica 379

1313 Apparecchi de' Guelfi di Toscana per opprimere il partito ghibellino 382

1314 Il 14 di marzo. Roberto viene dal papa creato vicario imperiale in Italia 383

Trattato di pace tra Roberto, i Guelfi ed i Pisani 384

Uguccione della Fagiuola capitano di Pisa impedisce la ratifica di questo trattato 385

I Lucchesi obbligati di richiamare i loro esiliati ghibellini 386

Il 14 di giugno. Uguccione della Fagiuola sorprende Lucca e l'abbandona al saccheggio 387

I Fiorentini chiamano i principi di Napoli per far la guerra a Fagiuola 389

1315 Undici di luglio. Filippo di Taranto e suo figlio assumono il comando de' Fiorentini 390

Uguccione assedia Montecatini; i Guelfi tentano di fargli levare l'assedio 391

Il 29 agosto. Battaglia di Montecatini; disfatta dei Fiorentini 392

Tirannia d'Uguccione in Lucca e Pisa 394

1316 Ammutinamento di Lucca occasionato dall'arresto di Castruccio 395

1316 10 aprile. Il popolo di Pisa si rivolta contro Uguccione mentre questi marcia contro Lucca 395

Uguccione e suo figliuolo scacciati nello stesso tempo da Pisa e da Lucca 396

1317 In aprile. Pace fra i Ghibellini ed i Guelfi di Toscana 397

Progetti del re Roberto sopra la Lombardia e Genova 399

Padova si conserva libera in mezzo ai tiranni della Venezia 400

1265-1311 I Vicentini sottomessi ai Padovani; vicendevole loro odio 401

Gelosia tra la nobilità ed il popolo di Padova 402

Istabilità da' Padovani e loro frequenti rivoluzioni 403

1311 Vicenza sottratta al dominio di Padova 404

1312 Sottomessa al governo di Cane della Scala 405

Guerra tra Padova e Cane della Scala 409

1313 Zuffa per la divisione delle acque del Bacchilione 409

Potente armata de' Padovani; sua inazione ivi

Gelosia eccitata contro i capi del governo 410

1314 Sedizione eccitata dai Carrara; uccisione dei due magistrati ivi

1314 Pericoli cui viene esposto lo storico Mussato 413

Indisciplina dell'armata padovana 414

I Padovani occupano un sobborgo di Vicenza 415

Contro le loro promesse l'abbandonano al saccheggio 417

Sono sorpresi e rotti da Cane della Scala 419

Alleanza dei Padovani coi loro vicini 421

20 ottobre. Pace tra Cane ed i Padovani 423

1317 21 maggio. I Padovani violano la pace: nuovo tentativo sopra Vicenza 424

Vantaggi ottenuti da Cane della Scala 425

1318 23 luglio. La signoria di Padova data a Giacomo da Carrara 426

Rivoluzioni a Cremona 428

Cremona attaccata da Cane e da Passerino Bonaccorsi 429

1315 5 settembre, il marchese Giacomo Cavalcabò nominato signore di Cremona 430

1322 17 gennajo. Cremona sottomessa a Galeazzo Visconti 431

Frequenti rivoluzioni in Lombardia 432

Incerta situazione di tutti i tiranni d'Italia 433

La popolazione, malgrado le frequenti rivoluzioni, non diminuisce 435

1240-1308 Dominio di casa d'Este in Ferrara 436

Principio delle case Bonacorsi, Scala e Polenta 437

Protezione accordata alle lettere da Cane grande 439

I poeti più numerosi presso i principi che nelle repubbliche 441

Progressi dell'architettura 442

Entrate delle piccole corti lombarde 443

Commercio e manifatture 444

Il popolo di Lombardia rientra nell'oscurità 446

Fine della Tavola.

NOTE:

1. Giacchetto Malespini Stor. Fiorent. c. 210, t. VIII, p. 1030. — Gio. Villani l. VIII, c. 62, p. 279.

2. Negli storici del XIII secolo non troviamo il numero de' pedoni; essi li risguardavano come truppa di sì poco conto, che non montasse il noverarla esattamente.

3. Barthol. de Neocastro Historia Sicula c. 45, p. 1050. — Gio. Villani l. VII, c. 68, p. 283.

4. Nicolai Specialis Hist. Sicula l. I, c. 17, p. 936.

5. Queste lettere sonosi prese dalla storia del Malespini c. 212, p. 1033, e da Gio. Villani l. VII, c. 70 e 72, p. 285.

6. Gio. Villani l. VII. c. 73 e 74, p. 286.

7. Barth. De Neocastro Hist. Sicula t. XIII, c. 54, p. 1067.

8. Gio. Villani l. VIII, c. 83. p. 293. — I quattro ultimi appartenevano alla famiglia Gherardesca.

9. Caffari Annal. Genuen, l. X, t. VI. p. 570.

10. Gio. Villani l. VII, c. 83. p. 293. — Caffari Ann. Genuen. l. X, p. 577. — Uberti Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 282.

11. Guido de Corvaria Fragment. Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 690. — Ubert. Folieta Hist. Genuens. l. V, p. 383. ap. Graevium t. I.

12. Ubert. Folieta l. V, p. 384. — Ann. Genuens. l. X, p. 580. — Guido de Corvaria Frag. Pisanae Hist. p. 690. — Marangoni Hist. Pisana, p. 558.

13. Marang. ib. p. 561, 562. — Ubert. Folieta l. V, p. 385, 386. — Caffari Ann. Genuens. l. X, p. 581-585.

14. Guido de Corvaria Fragm. Hist. Pisanae l. XXIV, p. 691. — Marangoni Cronaca di Pisa p. 563. — Gio. Villani l. VII, c. 90. p. 298. — Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 387. — Caffari Ann. Genuens. l. X, p. 586.

15. Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 393.

16. Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 390-395. — Ann. Genuens. Caffar. l. X, p. 587, 588. — Marangoni Cronaca di Pisa p. 564-569. — Guido di Corvaria Fragm. Pis. Hist. t. XXIV, p. 692. — Ann. Pisan. t. XXIV, p. 648. — Cronaca di Pisa Monum. Pisan. t. XV, p. 979. — Gio. Villani l. VII, c. 91. p. 299. — Chron. Fr. Franc. Pipini, l. IV, c. 31. t. IX, p. 731.

17. Gio. Villani l. VII, c. 97, p. 305.

18. Gilacchet. Malasp. Stor. Fior. c. 225, t. VIII, p. 1043.

19. Marangoni Cron. di Pisa p. 571. — Gli storici pisani nominano in altra occasione i commissarj spediti dai prigionieri a Pisa: se sono quelli che fecero rompere il primo negoziato, vogliono essere ricordati: Guglielmo di Ricoveranza, Puccio Buzzacherini de Sismondi, Guelfo Pandolfini e Jacopo Aldobrandi. Fragm. Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 651.

20. Jacob Doria Annales Genuens. l. X, p. 594.

21. Si omettono i versi di Dante riportati dall'autore, siccome troppo noti a tutti gl'Italiani.

I frequenti cambiamenti di partito del conte Ugolino hanno resa alquanto confusa la sua storia; onde non deve recare meraviglia che sia tanto oscura, a fronte della celebrità del suo nome e dell'estrema sua sciagura. Questa storia per altro fu l'argomento d'ampie e numerose dissertazioni. Quelle del caval. Flaminio del Borgo, che formarono un volume in 4º, non hanno altro scopo che quello di purgare i Pisani dal rimprovero di crudeltà loro fatto da Dante e ripetuto da tutti coloro che leggono il suo divino poema. Prese per epigrafe questo verso

Exoritur tandem nostro de sanguine vindex,

e crede d'aver giustificata la sua patria, dimostrando che i quattro giovani chiusi in carcere con Ugolino, essendo stati presi colle armi alla mano, non erano meno di lui colpevoli; sicchè Dante non poteva dire di loro con verità: Innocenti facea l'età novella, ec. Noi abbiamo forse più che il cavalier del Borgo un interesse immediato a giustificare Pisa e le famiglie ghibelline da così grande crudeltà: pure non sappiamo immaginare qual vi possa essere così grave delitto che renda legittimo il supplizio d'Ugolino e de' suoi figli. Non vediamo che Dante li supponga nella prima fanciullezza; anzi li rappresenta come giovani pronti a sacrificarsi al loro padre; e questo zelo generoso ne fa supporre naturalmente che avranno pure combattuto al suo fianco; ma non pertanto erano essi troppo giovani per aver partecipato al tradimento che quattr'anni prima fece perdere la battaglia della Meloria, o a quello che diede ai Lucchesi Ripafratta, Viareggio ed altre castella. Il conte poteva averli avuti compagni nelle battaglie molto prima d'iniziarli ne' misterj della malvagia sua politica. Se alcuna cosa può scusare i Pisani, ella è la sofferta fame, la quale essi attribuivano alla politica del conte, e non credettero che di renderlo vittima di quel supplicio ch'essi in parte sperimentarono per sua colpa.

La critica del cavalier Flaminio intorno agli storici di quest'avvenimento è parziale e passionata; quindi approfittandoci del suo lavoro non l'abbiamo interamente adottato. Abbiamo specialmente appoggiato il nostro racconto sopra un frammento della storia pisana scritto da un contemporaneo in dialetto pisano ed impresso Scr. Rer. Ital. t. XXIV, p. 649-655. Ci spiace di dover dire che questo frammento dà a credere che il supplicio del conte sia stato una specie di tortura per forzarlo a pagare un'ammenda di cinquemila fiorini, cui era stato condannato. Abbiamo pure approfittato assai della cronaca di Pisa scritta del 1536 Script. Etruriæ t. I, p. 557-584. La citiamo talvolta sotto il nome di falso Marangoni, perchè ci pare che il cavalier Flaminio abbia dimostrato non essere altrimenti opera di Bernardo Marangoni cui viene attribuita. Siccome non cade dubbio intorno alla data ed alla autenticità, il nome non interessa gran fatto. Ma non sono queste le nostre sole autorità; noi le abbiamo sempre confrontate col racconto assai circostanziato di Gio. Villani l. VII, c. 120 e 127, p. 320-324; colla cronaca pisana scritta ne' primi anni del quindicesimo secolo: Sc. It. t. XV, p. 979, e coi commenti fatti a Dante da Benvenuto da Imola An. It. t. I, p. 1140. Per ultimo abbiamo pur letto il frammento di storia pisana di Guido di Corvaria contemporaneo, t. XXIV, p. 694. — Doria continuatore di Caffaro, Ann. Genuens, l. X, p. 593-595. — Leon. Aret. Istor. Fior. fine del terzo libro. — Cronica di Paolin di Piero, fiorentino contemporaneo, Script. Etrur. t. II, p. 42. — Ubert. Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 396. — Marchione di Coppo de Stefani, pure contemporaneo, sconosciuto al caval. Flaminio. — Delizie degli Eruditi Toscani t. VIII, l. III, Rub. 164, p. 33.

22. Rymer Fœdera, Conventiones, ec. t. I, p. 239. Raccolta pubblicata per ordine di Anna Regina d'Inghilterra. — Giannone Stor. Civile l. XX, c. 7, t. III, p. 82.

23. Gio. Villani l. VII, c. 86, p. 296. — Il ristretto di Curita dà i nomi de' cento cavalieri di Carlo, e di tre che accompagnarono il re Pietro fino a Bordeaux. Hisp. illust. t. III, p. 124. — Guglielmo di Nangì dubita della venuta del re d'Arragona. Gesta Philippi III Audacis in Script. Franc. Hist. t. V, p. 542. — Marianna Hist. de las Españas l. XIV, c. 6, p. 623. — Murat. Antiq. Ital. t. III, Dissert. XXXIX, p. 649 e seguenti.

24. Raynald. Ann. Eccles. l. XIV, § 15-22, p. 342. Bulla depositionis Petri Arragon. 12 cal. aprilis. Urbevateri Altera 6 cal. sept. ap. Rayn. 1283, § 25 e seg., p. 344.

25. Gio. Villani l. VII, c. 92, p. 301.

26. Gio. Villani l. VIII, c. 93 e 94, p. 302 e 303.

27. Quest'ordinanza o capitolare viene riportato dal Giannone, Stor. Civile l. XXI, c. 1.

28. Gio. Villani l. VII, c. 78, p. 279.

29. Ciò chiamavasi il Divieto. Vedansi gli statuti fiorentini raccolti del 1415 e stampati in Firenze del 1787 sotto la data di Friburgo in 3 vol. in 4º.

30. Andrea dei Cron. Sanese ad an. 1283, t. XV, p. 38. — Malavolti Stor. di Siena p. II, l. III, fol. 50.

31. Cron. Aret. di Ser Gorello in terza rima t. XV, c. 3, p. 822. — Gio. Villani l. VII, c. 109, 114, p. 314 ec. — Leon. Aret. l. III, p. 102.

32. Gio. Villani l. VII, c. 130, 131, p. 326-330. — Dino Compagni, Cronaca delle cose de' tempi suoi t. IX, p. 475. Quest'ultimo descrive la battaglia come uno che v'ebbe parte.

33. Gio. Villani l. VII, c. 140, p. 335, 147, 369.

34. Frammenti d'un anonimo pisano contemporaneo, t. XXIV, p. 655 e seg.

35. Cronica di Pisa anonima t. XV, p. 980-982. — Falso Marangoni Cronica di Pisa p. 597.

36. Gio. Villani l. VIII, c. 1, p. 343.

37. La famiglia della Bella, siccome quelle dei Pulci, Nerli, Gangalandi e Giandonati erano state fatte nobili da Ugo vicario imperiale d'Ottone III avanti il 1000. Dante Parad. C. XVI, v. 127.

38. Cronaca di Dino Compagni t. IX, p. 474.

39. Leon. Aretino l. IV. — Scip. Ammirato Ist. Fiorent. l. IV, p. 188.

40. Gli ordinamenti della Giustizia sono compresi negli statuti di Firenze raccolti del 1415. Sono composti di 101 rubriche o titoli, e formano 108 pagine in 4º. Il latino è barbaro come quello di tutti gli statuti fiorentini.

41. Ordinamenta Justitiæ Rub. 32-90.

42. Ordinamenta Justitiæ Rub. 22-31.

43. Ibid. 63, 65, 96.

44. Ibid. Rub. 18.

45. Altri li chiamarono Galli o Galetti; ma dobbiamo prestare maggior fede a Dino Compagni, ch'era confaloniere. Questo nome di Galigai si associa a molte ricordanze. Cron. t. IX, p. 475. — Gio. Villani l. VIII, c. 1, p. 344.

46. Dino Compagni Cronaca de' tempi suoi, l. I, t. X, p. 475-478.

47. Machiavelli Stor. Fior. l. II. — Dino Compagni Cronaca l. I, p. 478. — Leonardi Aret. Stor. Fior. l. IV.

48. Gio. Villani l. VIII, c. 8, p. 350-351.

49. Dal giorno 2 aprile 1285 insino al giorno 3 aprile 1287.

50. Chron. Fr. Francisci Pipini l. IV, c. 22, t. IX, p. 727.

51. Dal 22 febbrajo 1288 al 4 aprile 1292.

52. In principio del susseguente secolo si vide un libro intitolato Initium malorum, nel quale trovavasi questa caricatura; essendovi ogni papa rappresentato con un disegno satirico che dava a conoscere il suo carattere e la sua amministrazione. Francis. Pipini Chron. l. IV, c. 23, p. 728.

53. La prima occasione in cui vedasi questa casa figurare nella storia d'Italia, è sotto il papato di Pasquale II l'anno 1100. Pietro della Colonna mosse guerra a questo pontefice; ed allora la di lui casa possedeva già le due terre di Colonna e di Zagarolo. Pandulph. Pisan. Vita Pasqualis Papæ II. Scr. Ital. t. III, p. 355. — Ottavio di Agostino Istoria della famiglia Colonna. Venezia 1658 in foglio.

54. Poema in vitam Cœlestini V; Card. Sancti Georgii ad Velum Aureum, l. II, c. 1, p. 34-64; t. III. Rer. Ital. p. I, p. 626.

55. Raynal. Ann. Ecclesiast. 1294, § 8, t. XIV, p. 462.

56. Raynald. § 10, p. 463. — Petrarca de Vita Solitaria, l. II, Sett. III, c. 18.

57. Vita Cœlest. V, a Card. Sancti Georgii, l. III, c. 8, t. III, p. 636.

58. Ptolomeus Lucensis Hist. Eccles. l. XXIV, c. 31. p. 1200, Script. Rer. It. t. XI.

59. Gio. Villani l. VIII, c. 6, p. 348. — Il Villani vuole accaduto questo trattenimento dopo la rinuncia di Celestino. Ma non è probabile che il cardinale Caietano provocasse tale rinuncia prima d'avere assicurata la sua elezione, tanto più che dopo non avrebbe potuto aver luogo per essersi i cardinali subito chiusi in conclave.

60. Ferreti Vicent. Hist. l. II, p. 966, t. IX.

61. Ptolom. Lucens. Hist. Eccl. l. XXIV, c. 32, p. 1201.

62. Inferno c. III, v. 58. Alcuni commentatori negarono che Dante avesse in vista Celestino; ma la loro obbiezione intorno all'epoca della sua morte, è mancante di fondamento; e Petrarca l'intese come noi, quando ne fece rimprovero a Dante. De Vita Solit. l. II, Sect. III, c. 18, p. 302 ed. Basileæ.

63. Questo racconto si è preso da una vita di Celestino V scritta da Pietro Aliaco, cardinale e suo coetaneo, l. II, c. 15, 16, 17, apud Surium Vita Sanctorum t. III, 19 maggio.

64. Avendo il nostro autore riportato intorno all'abdicazione il sentimento di Dante, non dispiacerà ai lettori di vedere quale fosse l'opinione del Petrarca: «Ma più d'ogni altro (egli scriveva nel l. II, c. 18 De Vita Solitaria, che qui riferisco compendiosamente tradotto) illustre è l'esempio di Celestino, il quale, deposto il gravissimo carico del papato, con quella alacrità cercò di ripassare nella mal abbandonata solitudine, che altri avrebbe mostrata trovandosi improvvisamente sciolto dalle nemiche catene. Il quale magnanimo fatto del santissimo solitario ascriva ognuno liberamente a qualsisia motivo, e lo reputi degno di biasimo o di lode; che in quanto a me lo credo essere stato egualmente utile a lui ed al mondo, per l'inesperienza sua delle umane faccende, le quali, per essersi sempre occupato della contemplazione delle celesti, aveva affatto trascurate.... Ho udito dire da coloro che furono presenti quando usciva dal concistoro in cui aveva deposto il gran peso che gli sfavillava negli occhi una cotale allegrezza che aveva dell'angelico. Nè a torto, perciocchè sapeva il valore di ciò che ricuperava, nè ignorava quello che perdeva. E certo egli passava dalle fatiche al riposo, dalle insane agitazioni della corte ai divini colloquj ec. — E se non glielo vietava il comando del suo successore, sarebbesi all'istante restituito, anche a piedi, su quell'ispido monte, da cui gli si apriva facile via al cielo.» N. d. T.

65. Horat. Tursel Hist. Lauret. l. I, c. 6-9. — Rainald. Ann. Eccl. 1294 § 24. p. 466 e 1295, § 58. p. 487.

66. Noi abbiamo pure due vite di papa Bonifacio VIII, scritte da autori quasi coetanei, che riferiscono senza difficoltà i miracoli di Celestino V, ma nulla dicono della santa Casa. Vita Bon. VIII, ex MS. Bernardi Guidonis Rer. Ital. t. III, p. 670. — Vita ejusdem ex Amalrico Augerio t. III, p. II, p. 435.

67. Marin. Sanuto Secreta Fidelium Crucis l. III, p. XII, c. 21, 22. — Gesta Dei per Francos t. II, p. 230.

68. La lettera ad Edoardo in data di Velletri giorno 5 delle calende di giugno anno I, e quella ad Adolfo il giorno 5 delle calende di luglio, trovansi in Raynal. Ann. Eccl. § 43-45. p. 483.

69. Mariana Hist. de las Españas l. XIV, c. 11. p. 630.

70. Memoriale Potest. Regiens. t. VIII, p. 171. L'autore era presente all'incoronazione. Raynal. 1289. § 13. p. 408. — Barth. de Neocastro Hist. Sicula c. 112. p. 1153.

71. Mariana l. XIV, c. 14 p. 634. Barthol. de Neocastro Hist. Sicula c. 14 p. 1168.

72. Histoire de Costant. sous les empereurs françois l. VI, c. 17. p. 99. — Mariana Hist. de las Españas l. XIV, c. 17. p. 638. — Nicolai Specialis Hist. Sicula, l. II, c. 21. p. 961.

73. Nicolai Specialis Hist. Sicula l. II, c. 20-25. p. 959-964.

74. Uno de' privilegi dei Ricos Hombres d'Arragona era quello di potere rompere ogni legame colla corona, e perfino di dichiarare la guerra al re, purchè prima rinunciassero ai feudi da lui ricevuti. Hieron. Blancas. Comment. Rer. Aragon. p. 737. Gli Alagonia erano una delle dodici più antiche famiglie dei Ricos Hombres del regno di Soprarbia, culla di quello di Arragona.

75. La guerra civile continuò quasi senza interruzione in Pistoja fino all'anno 1539, benchè dopo il 1401 Pistoja non fosse che una città suddita dei Fiorentini, e del 1531 sommessa con tutta la Toscana ai duchi della seconda casa de' Medici.

76. Chiamasi montagna di Pistoja una piccola provincia posta in mezzo agli Appennini di cui san Marcello è il principal luogo. È la parte più pittoresca degli Appennini.

77. Jacopo Maria Fioravanti, Memorie Storiche della città di Pistoja. Lucca 1758, più fol. c. 16. p. 239.

78. Gio. Villani. l. VIII, c. 37. p. 368.

79. Istorie Pistojesi dall'anno 1300 al 1348 anonime t. XI, Scr. Rer. Ital. p. 367. — Fioravanti Memorie Storiche di Pistoja, c. 17. p. 248. — Istoria di Pistoja e delle fazioni d'Italia di Michel Angelo Salvi t. I, Pistoja 1627. 3 vol. in 4.º — Jannotii Manetti Hist. Pist. l. I, t. XIX, p. 1013. — Gio. Villani l. VIII, c. 3. p. 368. — Machiav. Stor. Fior. l. II, p. 118.

80. Tolomeo di Lucca, il solo tra tutti gli storici, ne' suoi Annales Breviores t. XI, p. 1301, fa cominciare questa lite l'anno 1295, gli altri soltanto nel 1300. Noi adottiamo il parere di Tolomeo ch'era vicino e contemporaneo, e crediamo che i fatti cumulativamente narrati dagli altri debbano ripartirsi ne' quattro anni seguenti. Veggasi intorno a ciò Flammin. del Borgo diss. sull'Ist. Pisana p. 5.

81. Istorie Pistoiesi anonime t. I, p. 374.

82. Jannotii Manetti Hist. Pist. l. II, p. 1009.

83. Gio. Villani l. VIII, c. 38, p. 369.

84. Questo palazzo, oggi detto Palazzo Vecchio, fu fondato l'anno 1298. La piazza davanti fu formata colla demolizione delle case degli Uberti, e perchè non si voleva che il palazzo del governo stesse sopra un terreno che i Ghibellini avevano profanato colla loro dimora, invece di fare il nuovo edificio quadrato, gli fu data una forma irregolare che ritiene anco al presente; di modo che veruno de' suoi fondamenti trovasi in terreno ghibellino. Gio. Villani l. VIII. c. 26 e 31, p. 561.

85. Cronaca di Dino Compagni, l. I, p. 480, t. IX. — I Cerchi, scrive Dante, erano usciti dal Pivier d'Acone, e per conseguenza originariamente contadini. Parad. C. XVI. v. 65.

86. Gio. Villani l. VIII, c. 38, p. 369. — Jannotii Manetti Hist, Pist. l. II, p. 1019. — Anon. Pistolese p. 374.

87. Cronaca di Dino Compagni l. I, p. 481. Intorno alla vita di Guido Cavalcanti veggasi Dante Inferno C. X, v. 52, ed i suoi commentatori. Benv. da Imola Comm. p. 1043-1186. — Ant. Ital. Med. Aevi t. I. — Tiraboschi Lett. It. t. IV, l. III, c. 3, § 14, p. 374.

88. Dino Compagni Cronaca p. 481.

89. Gio. Villani l. VIII, c. 39, p. 371.

90. Dino Compagni Cronaca l. I, p. 482. — Gio. Villani l. VIII, c. 40, p. 372.

91. Chron. Guilelmi de Nangis, an. 1299, 1300, in Spicilegio d'Acheri t. XI, p. 601.

92. Bolla di dispensa per questo matrimonio pubblicata nell'appendice del Ducange nella sua raccolta p. 24, o edizione del Lonore p. 41. — Hist. de Costantin. sous les emper. franç. l. VI, c. 18 ec. p. 100.

93. Ptolomei Lucensis Ann. Breviores, t. XI. p. 1304.

94. Dino Compagni Cronaca, p. 484. — Ist. Pistolesi anonime, p. 364.

95. Gio. Villani l. VIII, c. 45, p. 374.

96. Vita Castruccii Auctore Nicolao Tegrimo t. XI, p. 1316. — La vita scritta da Machiavelli è più che altro un romanzo cui non può darsi fede.

97. Istorie Pistolesi anonime, p. 377.

98. Dino Compagni Cronaca l. II, p. 488. Può vedersi intorno a questo particolare l'opera postuma del Pignotti Storia della Toscana. N. D. T.

99. Ugo Capeto, parlando a Dante di Carlo di Valois, che chiamavasi pure Carlo senza terra, annuncia in tal modo i suoi tradimenti. Purg. C. XX, v. 70.

«Tempo vegg'io non molto dopo ancoi,

Che trasse un altro Carlo fuor di Francia

Per far conoscer meglio e sè e i suoi.

Senz'arme n'esce, e solo con la lancia

Con la qual giostrò Giuda, e quella ponta

Sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi non terra, ma peccato ed onta

Guadagnerà, per sè tanto più grave,

Quanto più lieve simil danno conta.»

100. Dino Compagni l. II, p. 492.

101. Dino Compagni l. II, p. 495, 496.

102. Dal giorno 5 all'11 di novembre 1301.

103. Dino Compagni Cronaca l. II, p. 497-500. — Gio. Villani l. VIII, c. 48. p. 375-378. — Jannotii Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1022, 1023. — Istorie Pistolesi anonime p. 578.

104. Dino Compagni Cronaca l. II, p. 502.

105. Gio. Villani l. VIII, c. 49 p. 379.

106. Nicolai Specialis Hist. Sicula l. VI, c. 10. t. X, p. 1040. — Mariana Hist. de las Españas l. XV, c. 5. p. 645.

107. La sua lettera degli 8 degl'Idi di dicembre trovasi in Raynald, ad an. 1302, § 5. p. 562.

108. Da una lettera di Benedetto XI delle calende di giugno 1304 appare che l'oncia d'oro siciliana corrispondeva a cinque fiorini di Firenze. Presso Rayn. t. XIV, p. 597.

109. Il trattato fu segnato in Anagni il 12 giugno 1303. ap Raynaldi § 24-29. p. 578 e seg.

110. Chronic. F. Franc. Pipini l. IV, c. 47. p. 745.

111. Præfat. Muratori in Chron. Jacobi de Varagine Archiep. Genuens. t. IX. p. 3. — Dissert. II, dell'Ist. Pisana di del Borgo, p. 95.

112. Ferretus Vicentinus Hist. l. II, p. 968. — F. Franc. Pipini l. IV, c. 43. p. 744.

113. Bulla edita Romæ VI idus maii 1297. Apud Raynald. § 27-33. p. 506.

114. Raynald. Ann. Eccl. an. 1297, p. 508.

115. Per aver tenuto mano a questo tradimento, Dante pose Guido all'inferno, perchè la ricevuta assoluzione aveva preceduto la penitenza, c. XXVII, v. 67. — Comment. Benven. Imolens. in Dant. Com. ed Ant. Ital. t. I, p. 1110 ec. — Ferreti Vincent. Hist. l. II, p. 970. — F. Franc. Pipini Chronic, l. IV, c. 21, p. 741.

116. Contin. Guillelmi de Nangis e Monast. Benedict. in Dachery t. XI, p. 603 e seg. — Mezeray Abregé Chron. R. de Philippe le bel, t. II, p. 788 e seg. — Lettere di Bonifacio al re an. 1297. — Raynald. § 43, p. 508.

117. Lettere di Bonif. al re 7 ottobre 1296, § 24 e seg. p. 496.

118. Raynald. ad an. 1301, § 26, p. 556.

119. Lettere del clero di Francia al papa del 1302. Apud Raynald. § 12, p. 563.

120. Mezeray Abregé Chronolog. t. II, p. 793.

121. Lettere encicliche al clero di Francia del 7 delle none di dicembre del 1301, Rayn. § 29, p. 557.

122. Bolla di scomunica datata il giorno di san Pietro. Roma 1302. Raynald. § 14, p. 565.

123. Ferreti Vincent. Hist. l. III, p. 1003. — Gio. Villani l. VIII, c. 63, p. 395. — Chron. Parmense t. IX, p. 848. — F. Franc. Pipini Chron. l. IV, c. 41, p. 740. — Cronaca di Dino Compagni, l. II, p. 506. — Georgii cardin. ad velum aureum de canonis S. Petri t. III, l. II, c. 11, v. 150, p. 659. — Vita Bonif. Papæ ex MS. Bernardi Guidonis, t. III, p. 672. Vita Bonif. VIII, ex Amalrico Augerio t. III, p. II, p. 439.

124. Alcuni moderni storici francesi pretesero elle Sciarra Colonna desse uno schiaffo al papa. Ma questo racconto viene contraddetto da tutti i contemporanei, i quali concordemente asseriscono che niuno osò toccarlo.

125. Ferreti Vicentini Hist. l. III, p. 1006.

126. Perchè Bonifacio morì tre anni dopo la poetica discesa di Dante all'inferno, non potendo questi riporvelo, finse almeno che vi fosse aspettato. Niccolò III punito come simoniaco ode alcuno parlare presso al suo rogo; s'immagina che sia Bonifacio che viene per rimpiazzarlo. Inferno C. XIX, v. 52.

«Ed ei gridò; se' tu già costì ritto,

Se' tu già costì ritto Bonifazio,

Di parecchi anni mi menti lo scritto;

Se' tu sì tosto di quell'aver sazio

Per lo qual non temesti torre a inganno

La bella donna, e di poi farne strazio?»

Ma per quanto Dante odiasse Bonifacio, per quanto si fosse reso colpevole verso Celestino, suo predecessore, non lascia perciò di condannare coloro che sì empiamente l'oltraggiarono, e pone in bocca d'Ugo Capeto il racconto dei delitti de' suoi discendenti. Purgat. C. XX, v. 86.

«Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,

E nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un'altra volta esser deriso,

Veggio rinnovellar l'aceto e 'l fele,

E tra vivi ladroni essere anciso.»

127. La poesia a le arti, sebbene risorgessero in Italia nel XIII secolo, non progredirono però di pari passo. La prima ebbe perfezionamento da Dante, da Petrarca, da Boccaccio; le altre quasi due secoli dopo da Michelangelo, da Tiziano, da Raffaello. N. d. T.

128. Trovasi tale opinione in Garnier. Note 32. de sa traduction d'Adam Smith. E questo celebre economista deve qui risguardarsi come l'organo della sua setta. Ho di già confutato questo ragionamento della mia opera Richesse commerciale l. I, c. 3, p. 60.

129. La terza legge di Rotari, re dei Lombardi, stabilisce la pena di morte contro colui che tenta di abbandonare la sua provincia. Leges Logomb. t. I, p. II, Rer. It. p. 17. I guardiani dei porti o battelli sui fiumi erano rigorosamente castigati, anche con pena capitale, se favorivano i fuggitivi. Rhotaris Leges 270 e seg. p. 38.

130. Cron. di B. Marangoni. Suppl. Ser. Etr. t. I, p. 570.

131. Ordinat. Justitiæ, Rub. 32 e 90.

132. Malavolti Storia di Siena p. II, l. III, p. 50.

133. Jacopo Maria Fioravanti c. 16, p. 239.

134. Ant. Ital. Med. Ævi t. IV, Diss. LII, p. 673.

135. Quadro dell'Agricoltura toscana p. III, § 1, p. 226 ec.

136. Stor. Fiorent. Proem. del l. III.

137. Memoria della campagna di Milano del conte Giulini t. VII, l. LIV.

138. Galv. Flamma Manip. Flor. c. 326, t. IX.

139. Georg. Stellæ An. Genuens. c. 4, t. XVII.

140. Tiraboschi Stor. della Lett. Ital. t. IV, l. III, c. 6.

141. Intorno agli edificj di Pisa, oltre le mie osservazioni, io consultai soltanto il Tiraboschi t. III, l. IV, c. 8, § 7, il quale cita le Dissert. dell'origine dell'università di Pisa del cav. Flamminio del Borgo, che tanto illustrò quella repubblica, ad Aless. da Morrona: Pisa illustrata nell'arte del disegno; opere da me non vedute.

142. Tiraboschi t. IV, l. III, c. 6, § 5.

143. Lettere Sanesi del Padre della Valle, t. I, p. 180, citate dal Tiraboschi.

144. Il Vasari nelle sue Vite dei pittori racconta con ingenuità e sapore l'imbarazzo de' Fiorentini per condurre a fine la cupola di Arnolfo, gli assurdi progetti di tanti architetti e l'arditezza di ser Filippo Brunelleschi che sfidava tutti gli artisti del suo tempo. Michelangelo che innalzò la più grande di san Pietro, rese la più gloriosa testimonianza ai suoi predecessori, bramando che dal suo sepolcro a santa Croce stando aperte le porte della chiesa si vedesse la maravigliosa cupola d'Arnolfo e di Brunelleschi.

145. La Chiesa di san Paolo fu fondata dal grande Costantino, aggrandita da Teodosio l'anno 386, e terminata da Onorio nel 395, avendovi impiegati i materiali di altri edificj. Le più magnifiche colonne de' templi greci vi si veggono confusamente impiegate a sostenere il palco di una vasta capanna.

146. Tiraboschi t. IV, l. III. c. 6. § 6.

147. Dante Purg. c. XIX, v. 94. — Comm. Benven. Imol. ad locum. Ant. Ital. t. I, p. 1185.

148. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno t. I, presso il Tiraboschi t. V, l. III, c. 5, § 7.

149. Da uno straniero, comechè buon conoscitore della nostra poesia e de' nostri migliori poeti, sarebbe ingiustizia il pretendere esattissimo giudizio del carattere della nostra poesia e del merito de' nostri poeti. Dante fu il più energico e robusto poeta d'Italia, e ciò basta a giustificare il nostro storico. N. d. T.

150. Parmi che i biografi di Dante non abbiano fatto attenzione che Guido Novello non abbandonò Firenze prima dell'undici novembre 1266, e che prima di tale epoca, e specialmente avanti la vittoria di Carlo sopra Manfredi, i Guelfi non erano rientrati. Converrebbe che il padre di Dante fosse stato richiamato dai Ghibellini.

151. Benven. Imol. Com. in Dantis Comoed. Proemium Ant. Ital. t. I, p. 1056.

152. Purg. c. XI, v. 79. — Ib. v. 88.

153. Memor. per la vita di Dante di Giuseppe Benvenuti, premesse al t. IV delle opere di Dante edite dallo Zatta, § 8 Ap. Tiraboschi t. V, l. III.

154. Delizie degli Eruditi toscani t. X, Rub. 234.

155. Supplem. in Etruriæ Script. t. II, p. 51. ec.

156. Questi priori erano Noffo di Guido, Neri di Mes. Jacopo del Giudice, Neri d'Arrighetto Doni, Bindo di Donato Bilenchi, Ricco Falconetti, Dante Alighieri, Fazio da Miccio Gonfaloniere, e ser Aldobrandino d'Uguccione, loro notajo. Delizie degli Eruditi toscani t. X. da Campi.

157. Ecco la sentenza quale viene riferita nel libro delle Riformagioni negli archivi di Firenze. — Condemnationes facte, per Nobilem et Potentem militem, Dom. Cantem de Gabriellis Potestate Florentie MCCCII. Dopo alcuni altri: XXVII Januarii. Dom. Palmerium de Altovitis de Sextu Burghi, Dantem Allagherii de Sextu Sancti Petri Majoris, Lippum Becchi de Sextu Ultrarni, Orlandinum Orlandi de Sextu Porte Domus.

«Accusati dalla fama pubblica, e procede ex officio, ut supra de primis, e non viene a particolari, se non che nel Priorato contradissono la venuta Domini Caroli, e mette che fecerunt baratterias, et acceperunt quod non licebat, vel aliter quam licebat per leges, et caet: in libras octo millia per uno, et si non solverint fra certo tempo, devastentur et mittantur in commune, et si solverint, mihilominus pro bono pacis stent in exilio extra fines Tusciae duobus annis. Delizie degli Eruditi Toscani t. X, monumenti n.º 4. p. 94. — Il Tiraboschi riferisce una sentenza aggravante, pronunziata dallo stesso Canto il 10 marzo dello stesso anno, condannando Dante ed i suoi compagni, venendo presi, alla morte.

158. Paradiso Canto XVII.

159. Giovanni Boccaccio vita di Dante dalla p. 47. ediz. fiorent. del 1723, e nel suo comment. Infer. cant. 8. — Presso Flam. del Borgo p. 45. — Benven. Imolens. Comment. cant. 8. v. 1.

160. Infer. cant. V, v. 73 e seg.

161. L'episodio del canto X dell'Inferno di Cavalcante Cavalcanti prova che, quando Dante lo scrisse, Guido, suo figliuolo, era ancora vivo. N. d. T.

162. Gio. Villani l. VIII, c. 70. — Marchione di Coppo de Stefani. Delizie degli Eruditi toscani t. X, l. IV, Rubr. 243.

163. Gio. Villani l. VIII, c. 36. — Ritornato il Villani da questo viaggio colla fantasia ancora calda dall'avere veduta la presente generazione sfilare sotto i suoi occhi, prese a scrivere la sua storia.

164. Inferno c. III, v. 116.

165. Franco Sacchetti fiorentino, nato del 1335, morì verso il 1400, onde la sua testimonianza intorno all'epoca della pubblicazione della Divina Commedia deve molto valutarsi. — Avendo l'asinajo interrotto la recita dei versi per gridare arri agli asini. Dante lo percosse, dicendo, codesto arri non vi misi io. Nov. LII e LIII.

166. Tiraboschi t. V, l. III.

167. Decamerone Giornata VI, Nov. IX.

168. Inferno c. X, v. 52. e seg.

169. Possono leggersi intorno agli storici italiani, le prefazioni a cadauno di loro nella collezione del Muratori Script. Rer. Ital. ed i due capitoli del Tiraboschi t. IV, l. II, c. 6. — t. V, l. II, c. 6.

170. Gio. Villani l. VIII, c. 58 e 78.

171. Elogi d'illustri Toscani di Pietro Massai t. I.

172. Questa storia si pubblicò nel t. VII e seguenti delle Delizie degli Eruditi Toscani da F. Idelfonso da San Luigi. Carmel. Scal. Firenze 1776.

173. Nè lo fu giammai, ma bensì la lingua volgare italiana, o cortigiana, come la chiamò Dante nel suo libro De vulgari eloquio. N. d. T.

174. Fragmenta Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 643.

175. Scrip. Rer. Ital t. VII.

176. Ant. Ital. Med. Ævi t. III, p. 251. — Veggansi inoltre gli Annali di Lodovico Monaldeschi scritti nel medesimo dialetto. Script. Ital. t. XII, p. 529.

177. Script Rer. Ital. t. IX, p. 1223. — t. X, p. 1. — t. IX, p. 935.

178. Bibliografia storica delle città e luoghi dello stato pontificio. Roma 1792.

179. Trist. Calchi Hist. Patriæ l. XVIII.

180. Chronicon Placent. XVI, p. 488.

181. Chronicon parmense t. IX, p. 847.

182. Guichenon Hist. généalog. de la maison de Savoie t. I, c. 11.

183. Guglielmi Venturæ Chron. Astense c. 14, t. XI. — Benven. de S. Georgio Hist. Montisf. t. XXIII, p. 403.

184. Trist. Calchi Hist. patriæ l. XVIII.

185. Chron. Est. t. XV. — Chron. Parm. t. IX. — Dante Aligh. Purg. c. VIII, v. 70, ec. Il poeta rinfaccia a Beatrice le seconde nozze con soverchia amarezza. Sembra preferire i Visconti di Pisa, da più secoli sovrani di Gallura, ai Visconti di Milano, usurpatori che dovevano in breve essere abbattuti. Gli storici milanesi, e specialmente il Corio ed il Merula prendono da questi versi motivo di farne acerbi rimproveri a Dante. Abbiamo altrove osservato che, sebbene queste famiglie portassero lo stesso nome, non avevano però un'origine comune.

186. Ann. Mediol. anonimi t. XVI, c. 74. — Gal. Flammæ Manip. Flor. t. XI, c. 341. — Chron. Parm. p. 843. — Trist. Calchi Hist. Patriæ l. XVIII. — Bern. Corio delle Stor. Milanesi p. II. — Gior. Giulini Memorie della città e campagna di Milano t. VIII, l. LIX. — Georgii Merulæ Alexand. Antiq. Vicecom. l. VI. apud Grævium t. III, p. 118. — Paulus Jovius in Mathæum Mag. ib. — Petri Azarii Chron. de gestis in Lomb. t. XVI, c. 11. — Chron. Placent. t. XVI, p. 484, ecc.

187. Chronic. parmense t. IX.

188. Chron. Parm. Synchron. t. IX, p. 852. — Chron. Placen. t. XVI, p. 485.

189. An. Vet. Mutin. t. XI. — Chron. Est. t. XV.

190. Chron. Rheg. Gazatœ t. XVIII.

191. Purgat. C. VI, v. 97. — Alcuni commentatori videro in questa imprecazione il presagio della violenta morte d'Alberto d'Austria ucciso in maggio del 1308 da suo nipote Giovanni; onde si volle conchiudere che fosse scritto dopo: ma il caldo dell'imprecazione lo mostra dettato quando Alberto ricusò d'ajutare i Ghibellini.

192. Raynaldi Ann. Eccles. § 45 ad an.

193. Ferreti Vicentini Hist. l. III, t. IX.

194. Questa bolla ed una lettera a Filippo il bello, datate amendue in Perugia il giorno tre degl'idi di maggio, sono riferite dal Rayn. 1304, § 9 e 10. — Due frasi incidenti, e che non hanno che fare con tutto il resto della bolla, assolvono, senz'addurne motivo, i complici della prigionia di Bonifacio. Io le credo aggiunte dopo redatta la carta. È cosa abbastanza nota che gli atti di questo pontefice e del suo predecessore furono adulterati sfrontatamente in tempo della dimora della corte in Avignone. Intere pagine furono levate dai registri papali, cancellate ed aggiunte delle linee, secondochè il re di Francia lo credette a sè vantaggioso.

195. La bolla è riferita dal Raynald. 1304, t. XIV, § 13.

196. Ferreti Vicent. Hist. l. III, t. IX.

197. Gio. Villani l. VIII, c. 80. — Fran. Pipini F. Ord. Præd. Chron. l. IV, c. 48, t. IX. — Cronaca di Dino Compagni l. III.

198. Il racconto di Gio. Villani l. VIII, c. 80 viene confermato da sant'Antonino p. III, tit. 21, c. 1, ed adottato da Raynaldo, che riportò ne' suoi Annali uno squarcio dell'ultimo, t. XV, p. I, Ann. Eccles.

199. Ann. Eccles, Raynald. t. XV.

200. Bolla del 6 degli idi di marzo. Raynald. § 6.

201. Scomunica d'Andronico in data di Poitier, 3 degli idi di giugno 1307. Raynald. § 7.

202. Nicephorus Gregoras Hist. l. VI. c. 1.

203. Niceph. Gregoras Hist. l. VI, c. 3.

204. Ib. l. VI, c. 10.

205. Id. l. VII, c. 1.

206. Gio. Villani l. VIII. c. 50.

207. Hist. de Costant. de Ducange l. VI, c. 23.

208. Georg. Pachymeris Hist. Andron. l. V, c. 12.

209. Esiste una relazione di questa spedizione, scritta sulle memorie di uno de' suoi capitani, intitolata: Espedicion de Los Catelanos y Aragoneses contra Turcos y Griegos por D. Francisco de Moncada Conde de Osona. Io non l'ho ancora veduta.

210. G. Pachymeris Hist. Andron. l. V, c. 21.

211. Ducange Hist. de Costan. l. VI, c. 31. — Niceph. Gregoras l. VII, c. 3. — Pachymeris l. VI, c. 3.

212. Sua lettera dei 2 degli idi di marzo. 1307. Rayn.

213. Bolla del 3 delle none di giugno. ib.

214. Lettera pontificia del 19 delle calende di febbrajo 1306. Rayn. § 3.

215. Ann. Gen. l. X. — Uberti Folietæ Hist. Genuens. l. VI. — Gli annali di Genova, scritti per ordine pubblico da autori contemporanei, continuatori di Caffaro, terminano precisamente a quest'epoca. L'ultimo continuatore è Giacomo Doria, autore del decimo libro.

216. Niceph. Gregoras l. VI, c. 11. — Chron. Januers. Jacobi a Voragine t. IX, p. 56.

217. Ubert. Folietæ Gen. Hist. t. VI. — Marino Sanuto Vite dei Duchi di Venez. t. XXII. — Stor. Ven. di And. Navagero t. XXIII. — And. Danduli Chron. t. XII, p. II.

218. Raccolta di documenti per la storia di Costantinopoli p. 33.

219. L'hueste de los Francos que reynan en Tracia y Macedonia.

220. Stor. di Costant. del Ducange l. VI, c. 7, ed 8. — Nicephor. Gregoras l. VII, c. 7. — Laonici Calcocondilae de rebus Turcicis l. I, t. XVI, Biz. Ven. p. 8.

221. Cron. di Dino Compagni l. III. — Gio. Villani, l. VIII. c. 68.

222. Gio. Villani l. VIII, c. 71. — Dino Compagni Cronica, l. III.

223. Machiavelli Stor. Fior. l. II.

224. Gio. Villani l. VIII, c. 72. — Dino Compagni Cronaca l. III. — Istorie Pistolesi anonime t. XI.

225. Istorie Pistolesi anonime t. XI.

226. Cronaca di Dino Compagni, l. III.

227. Istorie Pistolesi anonime t. XI. — Gio. Villani l. VIII, cap. 83. — Cronica miscella di Bologna t. XVIII. — Memor. Histor. Mathæi de Griffonibus p. 134. — Ghirardacci Historia di Bologna l. XV.

228. Ghirardacci l. XV.

229. Dino Compagni Cronaca l. III. — Ist. Pistolesi anonime, p. 393.

230. Gio. Villani, l. VIII, c. 91.

231. Bulla apud Rayn. 1307, § 10, et 11. t. XV. — Contin. Guillelmi de Nangis in D. L. Acherii Spicilegio, t. XI.

232. Vita Honorii II ex MS. Bernar. Guidonis t. III, Rer. It. p. 422.

233. Pachymeris Hist. Andron, l. V, c. 12, t. XIII.

234. Veggansi i documenti giustificativi annessi alla tragedia de' Templari.

235. Contin. Guill. de Nangis apud Acheri Spicileg.

236. Gio. Villani l. VIII, c. 92.

237. Gio. Villani l. VIII, c. 92.

238. Sanctus Antoninus Arch. Florent. p. III, tit. 21, n.º 1. c. 1. Apud Raynald. ad an. 1307, § 12.

239. Chron. Astense Guillelmi Venturae t. XI.

240. Ferreti Vicent. l. III, t. IX.

241. Gio. Villani l. VIII, c. 92.

242. Parlando di governi affatto dispotici l'autore ha ragione, e ne abbiamo una troppo lunga prova nel dominio de' Turchi ed in altri dispotici governi di barbare contrade. N. d. T.

243. Gio. Villani l. VIII, c. 96. — Dino Compagni Cron. t. IX. l. III. — Leon. Aretino Hist. l. IV. — Nicolò Machiavelli Stor. Fior, l. II.

244. Istorie Pistolesi anonime t. XI, an. 1309.

245. Gio. Villani l. VIII, c 111.

246. Joh. Muller Schweitzerischer Eidgenossenschaft Geschichte l. I, c. 18.

247. J. Muller Schweitzerischer Eidgen. Geschichte l. II, c. 1, t. II.

248. Schiller ha introdotto, nel suo Guglielmo Tell, Giovanni, ch'egli chiama parricida, cercando asilo presso l'eroe. Io non posso astenermi dal riferire il patetico squarcio con cui l'uccisore dipinge la sua sventura.

«O se pianger sapete, il cuor vi tocchi

La storia de' miei mali, ahi troppo orrenda!

Principe io sono — il fui — potea felice

Vivere ec. . . . . . . .

Fuggo perciò le popolose strade,

E la mia mano di picchiar non osa

Ad una porta: timido m'innoltro

In solinga foresta, ove mi segue

L'orror del mio delitto: ogni ruscello,

L'agitar delle frondi, in cuor mi portano

Lo spavento: ah se voi pietà sentite

Dell'infelice umanità . . . . »

( cade ai piedi di Tell )

249. Di già in saldo di questa stessa grazia, aveva Filippo domandato al papa di fissare la sua corte in Francia, di perseguitare la memoria di Bonifacio VIII e di distruggere l'ordine de' Templari.

250. Gio. Villani l. VIII, c. 101 e 102.

251. Ferreti Vincent. Hist. l. IV, p. 1056. — Notæ Osii ad Albertum Mussatum t. X, p. 263.

252. Felice Osio, nel suo ridicolo commentario intorno alla storia d'Albertino Mussato, pretende scuoprire in ogni linea del suo autore qualche imitazione di Simmaco, di Macrobio, di Sidonio, di Lattanzio ecc. I tre quarti di queste imitazioni sono facilmente sogni della sua pedanteria; ed è in questo modo che vediamo sedici linee di testo dargli materiali per ottantasei pagine di note in foglio l. I, R. II, p. 39-125. Da tutti i rapporti che discopre, si può per altro conchiudere che lo stile e le idee del Mussato derivano dallo studio degli autori della bassa latinità. Rer. It. Scrip. t. X, p. 1 e seg.

253. Gio. Villani l. VIII, c. 112.

254. Gio. Villani l. IX, c. 7.

255. Nicolai Botruntin. Epis. Henrici VII. Iter Ital. t. IX, p. 888.

256. Albertini Mussati Hist. August. l. I, R. 10. t. X.

257. Henrici VII, Iter Italicum t. IX, p. 891.

258. Albert. Mussatus Hist. August, l. I, R. II. — Henrici VII, Iter Italicum, t. IX, p. 895.

259. Henrici VII, Iter Italicum, t. IX, p. 895.

260. Alber. Mussati Hist. Aug. l. II, R. I. — Henrici VII, Iter Ital. t. IX, p. 895. — Trist. Calchi Hist. patriae l. XX.

261. Questo fatto è una luminosa prova dell'osservazione del maggior politico italiano, essere più sicura la fede de' governi liberi che de' piccoli principi. N. d. T.

262. Henrici VII, Iter Ital. t. IX, p. 897. — Abb. Mussati Hist. Aug. l. II, R. I, t. X. — Ferret. Vicent. l. IV. — Trist. Calchi Hist. patriæ, l. XX.

263. Jacobi Malvecii Chron. Brixian. Distin. IX, c. 4. t. XIV. — Ferreti Vicent. l. IV.

264. Henrici VII, Iter Ital. t. IX, p. 903.

265. Jacobi Malvecii Chron. Brix. Dist. IX, c. 1-19. — Albertini Mussati Hist. Aug. l. IV. — Henr. VII, Iter Ital. t. IX. — Ferr. Vicent. l. IV. — Trist. Calchi Hist. patr. l. XX.

266. Ubert. Folieta Genuens. Hist. l. VI.

267. Albert. Mussati Hist. Aug. l. V, R. I. — Ferretus Vicent. l. V, p. 1088.

268. Alb. Mussati l. V, Rub. 9.

269. Alb. Mussati Hist. Aug. l. V, Rub. 6. — Ferreti Vicent. l. V, p. 1091.

270. Gio. Villani l. IX, c. 20 e 26.

271. Questa relazione venne indirizzata a papa Clemente V dal suo autore in sul finire del 1313 o in principio del 1314. Difficilmente può trovarsi uno scrittore più degno di fede, non avendo riferito che quello ch'egli vide.

272. Il vescovo di Botronto era domenicano, e giusta le regole dell'ordine era sempre accompagnato da un altro religioso del suo convento, ma di un rango inferiore.

273. Henrici VII Iter Ital. t. IX, p. 908.

274. Gio. Villani l. IX, c. 25.

275. Gio. Villani l. IX, c. 36. — Ferr. Vicent. l. V.

276. Albert. Mussatus Hist. Aug. l. V, R. 5.

277. Cron. di Pisa t. XV, p. 985.

278. Henr. VII Iter Ital. p. 919. — Ferretus Vicent. l. V, p. 1104.

279. Albertus Mussatus l. VIII, R. 8.

280. Bernardo Marangoni Chron. di Pisa p. 616.

281. Ferret. Vicent. l. V, p. 1108.

282. Gio. Villani l. IX, c. 45 e 46. — Ferretus Vicent. l. V, p. 1111. — Il vescovo di Botronto pretende invece che l'armata fiorentina entrasse in città prima dell'arrivo dell'imperatore. Hen. VII, Iter It. p. 925.

283. Gio. Villani l. IX, c. 47. — Albert. Mussati Hist. Aug. l. IX, Rub. 4.

284. Gio. Villani l. IX, c. 48.

285. Alber. Mussatus Hist. Aug. l. XIII, R. 5.

286. Alber. Mussatus l. XII, R. 6.

287. Cron. di Pisa di B. Marangoni p. 617.

288. Gio. Villani l. IX, c. 50.

289. Leon. Aretino Istor. Fior. l. V.

290. Hist. Aug. Alberti Mussati l. XVI, R. 8. E tutti gli storici citati nel presente capitolo, inoltre le Note d'Uberto Benvoglienti alla Cron. Sanese d'Andrea Dei t. XV.

291. Questo sarcofago fu però traslocato due volte, nel 1494 e nel 1727. Ora è nella cappella della Madonna, sotto l'organo, nel duomo di Pisa.

292. Così chiamavansi le leggi del maggior consiglio.

293. Sandi Stor. civ. Venez. p. II, l. V, c. 1. — Andr. Navag. Stor. Venez. t. XXIII, Scr. Rer. It. p. 1006. — Marin Sanuto, Vite dei Duchi di Venezia t. XXII, p. 577. — Laugier Hist. de Venise l. IX, t. III, p. 154.

294. Vettor Sandi Storia civ. p. II, l. V, c. 1, p. 6.

295. Sandi l. V, c. I, p. II, dietro il testo della Parte deposta all'Avogaria del Comune. — Marin Sanuto vite dei duchi di Venezia, p. 580, t. XXII.

296. Tra gli altri vedasi Laugier, Hist. de Venise, l. X. t. III.

297. Lettere del doge ai castellani di Modone e di Corone. Ad calcem Chron. Danduli. t. XII, p. 488.

298. Il Sandi ed il Muratori vogliono accaduta questa congiura del 1309, senza che io possa intenderne la cagione. Tutte le lettere originali riportate da Rafaino Caresino, nella continuazione di Dandolo, portano la data del 1310; ed i due più antichi storici della repubblica, Navagero, p. 1016, e Marin Sanuto, p. 588, tengono la stessa data. Vedasi ancora Laugier Hist. de Venise, l. X, t. III, p. 228.

299. Il colore dell'abito di cerimonia diede loro il nome di rossi e di neri.

300. Vettor Sandi Stor. Civile, l. V, c. 11, p. 32. — Andrea Navagero Stor. Venez. t. XXIII, p. 1019. — Laugier Hist. de Venise, l. X, t. III, p. 243. — Memoires histor. et polit. de Lèopold Curti 2.ª ediz. p. I, c. 4, t. I, p. 81. — Per altro Vettor Sandi non decide positivamente se fino dalla sua origine il consiglio dei dieci fosse presieduto dal doge e dal suo piccolo consiglio.

301. Si vedano le Memorie istoriche e politiche di Leopoldo Curti p. I, c. 4, t. I, p. 81-109; e p. II, c. 4, t. II, p. 1-95.

302. Il maggior consiglio rifiutò la prima volta i suoi suffragi l'anno 1582; l'ultima volta l'anno 1761. Prima di tali epoche aveva adoperati mezzi più immediati avanti di far uso di questo estremo rimedio. Dopo il 1761 minacciò più volte tale rifiuto fino alla caduta della repubblica.

303. Questa possibilità di rifiutare il suo suffragio al consiglio dei dieci e di abolirne con questo solo fatto la continuazione è tanto antica quanto l'istituzione dello stesso consiglio. Colla parte del maggior consiglio del 3 gennajo 1311, che rafferma per cinque anni il consiglio dei dieci, viene ordinato che tutti i suoi membri debbano essere individualmente approvati ogni quattro mesi dal maggior consiglio. In tale epoca i dieci non erano ancora obbligati dopo un determinato tempo di cedere il loro luogo a nuovi eletti, e non erano sottoposti alla contumacia, per valermi de' vocaboli delle leggi venete; ma potevano essere riconfermati per un tempo indefinito. Navag. Hist. Ven. t. XXIII. p. 1020.

304. Cron. di Pisa di Bern. Marangoni, p. 626. — Monumenta Pisana t. XV, p. 989.

305. Storie Pistolesi anon. t. XI, p. 405.

306. Nicolai Tegrimi, Vita Castruccii Castracani, t. XI, p. 1318.

307. Il bottino fatto a Lucca doveva essere tanto più ragguardevole, in quanto che i Lucchesi avevano i primi fatto un gran commercio di banco ed erano tutti riputati usuraj. Mentre un demonio ne portava uno all'inferno, Dante gli fa dire:

«Ecco un degli Anzian di Santa Zita:

Mettetel sotto, ch'io torno per anche

A quella terra che n'è ben fornita:

Ogni uom v'è barattier, fuorchè Bonturo.

Del nò, per li denar, vi si fa ita.»

Inferno, cant. XXI.

E Bonturo Dati, da lui eccepito solo, era pure il più celebre usurajo d'Europa.

308. Storie Pist. anonime t. XI. — Gio. Villani l. IX, c. 59. — Croniche di Pisa del Marangoni. — Monumenta Pisana t. XV, p. 991.

309. Il Marangoni nelle Cronache di Pisa dà ad Uguccione 22700 uomini d'ogni arma.

310. Stando alla Cronaca di Pisa l'armata fiorentina era forte di 54,000 uomini. Gli altri scrittori non danno il numero de' pedoni.

311. Il nerbo delle armate allora stava tutto nella cavalleria pesante, ed ogni disuguaglianza di terreno ne impediva la marcia. La Nievole non ritarderebbe un solo istante l'infanteria.

312. Storie Pistol. anon. t. XI, p. 409. — Gio. Villani l. IX, c. 70. — Leonardo Aret. l. V. — Bern. Marangoni Cron. di Pisa p. 632. — Monum. Pis. t. XV.

313. Il Macchiavelli racconta diversamente l'origine di questo arresto. Dice che Pietro Agnolo Micheli, riputatissimo gentiluomo di Lucca, fu assassinato da un suo nemico, che rifuggiossi in casa di Castruccio, il quale prese a difendere l'uccisore. Vita di Castruccio tra le opere di Macchiavelli.

314. Monum. Pisana t. XV, p. 996. — Istor. Pistol. anon. t. XI, p. 411. — Gio. Villani l. IX, c. 76.

315. Vita Castruccii Antelminelli a Nic. Tegrimo t. XI. — Niccolò Macchiavelli Vita di Castruccio.

316. Albert. Mussati De Gestis Ital. l. II, Rub. 2.

317. Verso il 1265. I Vicentini avevano già ubbidito quarantasei anni ai Padovani, quando del 1311 fecero presso Enrico VII i primi tentativi per iscuoterne il giogo. Ferreti Vicent. Hist. l. IV.

318. Guglielmi Cortusii de novitatibus Paduæ l. I, c. 11, t. XII Rer. Ital. p. 778. — Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital. l. I, c. 3, § 12, t. V.

319. Ferreti Vicent. Hist. l. IV, p. 1070.

320. Albert. Mussati Hist. Aug. l. XIV, R. 6.

321. Ferretus Vicent. l. IV. — Cortusior. Hist. l. I, c. 13.

322. Ferr. Vicent. l. IV. — Albert. Muss. Hist. Aug. l. VI.

323. Ferret. Vicent. l. VI.

324. Ferreti Vicentini l. VI. — Cortusiorum Historia l. I, c. 15.

325. Ferret. Vicent. p. 1130.

326. Albert. Mussati De Gestis Italicor. l. IV, R. I. — Cortusiorum Hist. de novitatibus Paduæ l. I, c. 22.

327. Alb. Mussat. Ibid. — Ferret. Vicent. l. VI.

328. Albert. Mussatus de Gestis. Ital. l. VI, R. I.

329. Albertinus Mussatus l. VI, Rub. I.

330. Ferreti Vic. Hist. l. VI. — Albert. Mussatus Hist. Ital. l. VI, Rub. I. — Cortus. Hist. l. I, c. 23.

331. Albert. Muss. l. VI, R. II. — Ferretus Vic. l. VI. — Chron. Veron. t. VIII, p. 641.

332. Ferretus Vicent. l. IV, p. 1145.

333. Alber. Mussatus l. VI, Rub. 10.

334. Ferr. Vicentini l. VII. — Historiæ Cortusiorum l. II, c. 11.

335. Cortusior. Histor. l. II, c. 1. — Albert. Mussatus fragmentum, seu l. VIII.

336. Ferretus Vicent. l. VII.

337. Cortusior. Hist. l. II, c. 27, p. 814. — Ferretus Vicent. l. VII, p. 1179. — Gattaro Istoria Padovana, t. XVII, p. 9. — Polistore t. XXIV, c. 8, p. 724.

338. Albertini Mussati de gest. Ital. l. VII, R. 19, p. 675. — Campi Cremona Fedele, l. III, p. 89.

339. Alberici Mussati de Gest. Ital. l. VII, Scr. Rer. It. 20. p. 667.

340. Ludov. Cavitelius Cremon. Annales, apud Graevium t. III, p. 1367.

341. Di già l'anno 1208 Azzo VI era stato onorato del titolo di signore di Ferrara da una elezione dei Guelfi di questa città; ma per lo spazio di trentadue anni egli ed i suoi figliuoli ne disputarono la sovranità alla famiglia dei Salinguerra, senza potersi solidamente stabilire.

342. Della storia di Gazzata non si conservarono che alcuni frammenti pubblicati nel XVIII tomo degli Scriptor. Rer. Ital. Il pezzo da noi citato, conservato nella prefazione d'una storia MS. del Pancirolo, trovasi stampato nella prefazione dello stesso volume XVIII, p. 2.

343. Guido da Castello era un poeta di Reggio attaccato al partito repubblicano della sua città, dalla quale fu esiliato cogli amici della libertà. Vedasi Benvenuto da Imola Comment. ad Dant. Purgat. c. XVI, v. 124.

344. Flaminio del Borgo, Dissert. II, p. 74.

345. Memorie del conte Figliasi sul commercio Veneto, p. 89.

346. Conte Giorg. Giulini Memor. di Milano l. LX, t. VIII, p. 585.