STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari, dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO V.
ITALIA 1817.
INDICE
STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE
CAPITOLO XXIX.
Nuovi capi dell'Impero e della Chiesa. — Guerre di Genova. — Guerra universale in Italia. — Papa Giovanni XXII scomunica e depone Luigi IV di Baviera, re dei Romani.
1314 = 1323.
Mentre il governo va incessantemente modificando i talenti, le virtù, l'ingegno e le abitudini dei popoli, scopronsi non pertanto nel carattere delle nazioni certi tratti originali, che i tempi e le circostanze non hanno potuto interamente cancellare. Così gli Spagnuoli e gl'Italiani sembranci essenzialmente diversi. Queste due nazioni, sebbene abbiano un'origine quasi comune, perchè formate dalla mescolanza de' Romani coi Goti; sebbene abitino in climi press'a poco eguali, ed abbiano idiomi vicinissimi che quasi potrebbero dirsi dialetti d'un solo idioma; sebbene ricuperassero quasi nella stessa epoca la libertà e nella stessa epoca la perdessero; sebbene abbiano lungo tempo ubbidito ai medesimi sovrani e tenuta la medesima religione, hanno qualità affatto diverse che li distinguono, e che quasi senza alterazione si sono trasmesse di padre in figlio. E queste fondamentali diversità tra le razze degli uomini è forse uno de' più importanti oggetti di meditazione che a noi presenti la storia. Abbiamo di già conosciuta l'origine del carattere degli Italiani: abbiamo veduti i Barbari portare loro lo spirito d'indipendenza, raddolcito nelle città d'origine romana, più ricche e numerose in Italia che nel rimanente dell'Europa. Assai per tempo queste città manifestarono il desiderio di libertà. Furono esse le prime che aspirarono a partecipare della sovranità, rompendo i legami che le attaccavano all'impero e cambiando le loro leggi municipali in costituzioni repubblicane: furono esse le prime che, tra i membri del corpo feudale fattesi indipendenti, acquistarono una regolare organizzazione, e seppero energicamente valersi delle loro forze. Esse non tardarono a soggiogare il rimanente della nazione: i vescovi furono spogliati d'ogni sovranità temporale; i principi ed i marchesi scomparvero a poco a poco rifiniti da intraprese troppo sproporzionate ai loro mezzi; ed i gentiluomini si videro sforzati a sottomettersi e cercare il diritto di cittadinanza.
Questa preponderante influenza delle città è la vera origine del carattere distintivo degl'Italiani, di quel carattere che li rende essenzialmente diversi dagli Spagnuoli, presso i quali la nobiltà campagnuola, sempre occupata nelle guerre contro i Mori, a sè chiamando gli sguardi e la stima della nazione, conservava una importantissima parte del governo per sè medesima. La costituzione repubblicana delle città comunicò a tutta la nazione italiana un movimento più attivo, rendendola capace di grandi azioni, di un maggiore sviluppo di talenti, di patriottismo, d'intelligenza, accrescendone all'istante la popolazione e le ricchezze, e facendo in breve fiorire le arti, le lettere, le scienze. L'influenza de' gentiluomini conservò alla nazione spagnuola qualità più speciose di valore, di galanteria, di dilicatezza, d'onore. Tutti gli Spagnuoli presero i loro nobili per modello ed acquistarono quell'aria cavalleresca che tuttavia conservano. Gl'Italiani formaronsi invece alla scuola de' borghesi, onde ne contrassero un non so che di plebeo non per anco affatto cancellato dalla presente generazione.
Effettivamente il sistema feudale fu prima abolito in Italia che nelle altre province d'Europa. All'epoca presente questo sistema più non aveva veruna consistenza, sebbene i giuristi lo insegnassero ancora come parte della legge dello stato. Le repubbliche che si erano da principio moltiplicate in tutta l'Italia, non ebbero lunga durata; ed abbiamo già veduto tutte quelle della Lombardia e dello stato della chiesa cadute in potere di qualche tiranno. Ma questi nuovi signori, che poi ebbero il titolo di duca o di marchese, non andavano debitori della potenza loro a quell'antica costituzione del Nord da cui ebbe principio la nobiltà in tutto il resto dell'Europa; essi erano i figli di quelle città medesime di cui eransi fatti sovrani, e dal popolo riconoscevano la loro autorità. La democrazia, che precedette le nuove signorie, aveva dato un carattere più assoluto e dispotico al governo d'un solo, col rendere eguali in faccia al principe tutti i ranghi della nazione, e distruggendo tutti i privilegi di quegli ordini che avrebbero potuto impedire lo stabilimento del potere arbitrario. Vero è che i nuovi signori trovarono ben tosto conveniente di accrescere splendore alle loro corti col prestigio della nobiltà. Chiamarono presso di loro que' gentiluomini ch'erano stati avviliti ed oppressi, crearono cavalieri, chiesero agl'imperatori germanici diplomi di nobiltà pei loro favoriti, e per ultimo ne accordarono di propria autorità. Ma queste distinzioni dei cortigiani e le annesse prerogative avevano bensì gl'inconvenienti dell'antica nobiltà ma non gli utili: i nuovi nobili eccitavano la gelosia colle loro pretensioni, il disprezzo dei popoli coi loro depravati costumi; e perchè non erano uniti dallo spirito di corporazione e non avevano nè credito nè indipendenza, non potevano salvarsi dall'oppressione. Nè il favore del principe può dare una nascita illustre, nè la sua collera può toglierla; ma la nobiltà di creazione come viene accordata dalla libera volontà del padrone, dalla volontà del padrone può essere egualmente tolta.
Lo spirito cavalleresco, quella gloriosa eredità dei tempi feudali, di cui era depositaria la nobiltà, si andava distruggendo non meno nelle piccole monarchie che nelle repubbliche d'Italia: onde gli stimoli d'onore ed il valor militare vennero meno, e la destrezza montò in maggiore stima che il coraggio e la forza. È precisamente nel periodo di tempo di cui ci facciamo a descrivere la storia, che l'Italia, in confronto del resto dell'Europa, sembra priva d'ogni spirito di cavalleria. Il quattordicesimo secolo forma un'epoca assai gloriosa, feconda di grandi ingegni e non isprovveduta di virtù; ma gli uomini erano più diretti dal calcolo che dalle passioni, dall'interesse assai più che dal sentimento. Videsi allora crescere a dismisura la potenza mercantile, la cognizione politica, l'amore della libertà nel popolo; ma per lo contrario poco valore nella nazione, che affidava la propria difesa alle bande mercenarie de' Condottieri, poca fierezza nei caratteri, poca fedeltà nelle benevolenze e nelle alleanze, poco rispetto per la data promessa, per ultimo poco attaccamento al punto d'onore nella condotta. Il sistema d'equilibrio delle potenze d'Italia di cui si può attribuire l'invenzione a questo secolo, del quale cotal sistema è forse il più bel ritrovato; deve risguardarsi quale opera della più fina politica; ma di una politica affatto priva d'entusiasmo; sicchè in quel modo che il carattere degl'Italiani voleva che si cercasse quest'equilibrio, così era proprio del carattere spagnuolo l'aspirare alla monarchia universale.
Risguardare una vasta contrada, o una parte del mondo come un corpo sociale, di cui gli stati indipendenti sono i cittadini, ravvisare nell'oppressione d'un solo di questi cittadini una violazione del diritto di tutti; riconoscere che la distruzione di uno stato è una morte che minaccia la vita di tutti gli altri; essere persuasi che in un'associazione senza autorità centrale ogni individuo deve concorrere con tutte le sue forze al mantenimento della giustizia e del diritto delle genti; finalmente sentire la necessità di chiamare sopra di sè un male immediato e di prendere parte ad una guerra che potrebbe risguardarsi come straniera per impedire che altri siano oppressi, per non permettere una violenza, un assassinio dannoso ai rapporti sociali; gli è questo un nobile sistema che soltanto le repubbliche italiane erano degne di creare; è l'applicazione possibilmente più perfetta delle organizzazioni sociali al più grande dei corpi politici.
I Fiorentini, che diedero all'Italia i primi esempj delle più grandi e virtuose cose, sono probabilmente gl'inventori di questo sistema, e quelli che lo eseguirono con maggior zelo e costanza. Negli sforzi delle repubbliche pel mantenimento dell'equilibrio politico, negli sforzi de' principi per distruggerlo dobbiamo cercare la chiave di tutte le negoziazioni del quattordicesimo secolo, i motivi delle guerre e delle alleanze, la ragione dei subiti cambiamenti di partito, e di quel continuo movimento della politica, che forse impedisce al lettore di afferrarne l'insieme a colpo d'occhio. Tutti gli avvenimenti del secolo possono richiamarsi alla sola lotta in favore della libertà, ad un solo sforzo diretto ad impedire che taluno de' principi, che vedevasi crescere di potenza, non opprimesse l'Italia formandone una sola monarchia.
Ma il sistema dell'equilibrio politico è di sua natura un sistema di divisione, e per certi rispetti un sistema di debolezza: perciocchè impedisce ad una nazione di agire per riguardo alle altre come agirebbe se formasse un solo corpo, spesso consuma le proprie forze contro di sè medesima, mantenendo guerre d'Italiani contro Italiani, di Tedeschi contro Tedeschi; le quali guerre a' nostri giorni chiamansi civili, sebbene, propriamente parlando, non possano dirsi tali che quelle fra i cittadini di un medesimo stato. Gl'Italiani smembrati, soggiogati e resi inutili a respingere le straniere invasioni, si pentirono degli sforzi fatti dai loro padri per tener divisi gli stati, facendosi un amaro rimprovero di aver creduto di giovare alla libertà col procurare la divisione. I tempi eransi mutati, e con essi ancora la politica. Un popolo libero deve tutto riferire a sè medesimo, un popolo suddito deve rammentare che fa parte d'una nazione. Coloro che più non hanno patria, che più non riuniscono intorno ad un solo centro ogni loro desiderio di forza, di durata, di gloria, possono ancora riconoscere tra di loro i diritti della nascita e di un'origine comune; devono amare i loro fratelli, sebbene non possano risguardarli per loro concittadini, compiangere il sangue che si versa ed i tesori dissipati nelle guerre intestine: poichè non è per essi straniero colui che non appartiene al loro corpo politico, ma quello che ha una diversa lingua.
I più celebri poeti ed oratori rimproverarono ai senati che governavano le repubbliche italiane il sistema d'equilibrio politico, che, quantunque lungo tempo cagione della loro gloria e della loro prosperità, fu in appresso cagione della loro debolezza. Invidiavano la sorte della Spagna e della Francia, che, riunite sotto grandi monarchi, disputavansi le spoglie della divisa Italia, che vincevano di potenza, sebbene non la pareggiassero in popolazione o in ricchezza. Ancora nell'età nostra siamo disposti a ripetere lo stesso giudizio, ed a incolpare la politica degl'Italiani della loro debolezza e servitù. Ma noi ci scordiamo, che colla politica loro godettero due secoli di gloria e di prosperità, scopo immediato dei loro sforzi; e che se avessero abbracciato il contrario sistema, sarebbero probabilmente arrivati, per una diversa strada, ad una dipendenza ancora più grande.
Sotto principi che tentavano ogni giorno di soggiogarli, gl'Italiani erano minacciati d'immediata servitù; vero è ch'essi avevano cagione di temere egualmente il giogo degli stranieri sotto il quale caddero due secoli più tardi; ma quest'ultimo pericolo, conosciuto da chi vede la serie degli avvenimenti, non poteva in allora essere presentito. Le vicine nazioni non erano di que' tempi meno divise dell'Italia; ed il sistema feudale s'andava presso di loro snervando, senza far però luogo ad un più vigoroso principio d'organizzazione. Soltanto adombravansi talvolta dell'imperatore piuttosto per le antiche sue pretensioni che per l'attuale potenza. Questo residuo di timore dell'autorità imperiale, tenuto vivo dai papi, fu cagione delle prime guerre di cui dobbiamo occuparci in questo volume; ma queste stesse guerre, e le spedizioni in Italia di Luigi di Baviera e di Carlo IV manifestarono agl'Italiani l'estrema sproporzione tra le forze dell'imperatore ed i suoi diritti, manifestarono loro l'impotenza del corpo germanico nelle guerre offensive, gli angusti limiti entro i quali la costituzione di Germania chiudeva il potere del suo sovrano nominale, e l'impossibilità in cui era questi di scendere in Italia, se i Ghibellini italiani non gli aprivano essi medesimi le porte.
D'altra parte il re di Francia, sebbene assai più potente dell'imperatore, non aveva sotto di lui che metà delle province che parlano in francese. La Provenza apparteneva al re di Napoli, la Lorena, la Brettagna, la Borgogna, i Paesi Bassi erano governati da duchi quasi affatto indipendenti; e la Guienna e parte della Normandia erano del re d'Inghilterra. Una infelice guerra cogl'Inglesi, prodotta dalla successione dei Valois, consumava le province direttamente dipendenti dal re: nelle quali province per altro, non riconoscendo i grandi vassalli, i gentiluomini, i comuni un assoluto potere, impedivano al re di liberamente disporre degli uomini e delle ricchezze; onde appena egli s'attentava di accrescere alquanto le leggeri imposte che pagavano i suol sudditi e le forze militari, quando il regno veniva minacciato da grave pericolo: di modo che la stessa alleanza del papa, o a dir meglio il servaggio della corte pontificia in Avignone non bastava a rendere la Francia formidabile agl'Italiani.
La Spagna trovavasi in continue guerre coi Mori; i Greci, da lungo tempo inviliti, non erano più temuti; i Turchi non avevano ancora acquistata quella forza che li rese un secolo più tardi il terrore dell'Europa. L'Italia circondata da governi deboli e vacillanti vedeva soltanto di quando in quando sollevarsi nel suo seno un potere dispotico, e minacciare ad un tempo la propria libertà e l'indipendenza de' suoi vicini.
Più volte alcune piccole popolazioni erano state sottomesse dai Principi limitrofi; ma tali conquiste, che potevano un giorno formare dell'Italia una sola monarchia, furono sempre accompagnate da circostanze che facevano abborrire il governo monarchico: perciocchè ai popoli sottomessi era tolta ogni libertà, le persone e le proprietà più non venivano rispettate. Spenta affatto ogni virtuosa emulazione, ogni desiderio di gloria; que' cittadini cui i talenti, le ricchezze, i natali permettevano di aspirare alle più luminose cariche della loro patria, abbandonavano una città che precludeva ogni adito all'ambizione. Le ricchezze delle province erano assorbite dal vortice della nuova capitale; l'allontanamento de' proprietarj faceva languire l'agricoltura, siccome perivano il commercio per mancanza di ricchi consumatori, gli studj per difetto d'incoraggiamento: onde quella stessa città che lungo tempo sembrò troppa angusta per contenere le tempestose passioni de' suoi cittadini, non era più abitata che da uomini condannati ad un'oscura esistenza. Tale doveva senza dubbio essere la sorte di Venezia, di Firenze, di Pisa, di Genova, di Bologna, se i Scala o i Visconti avessero potuto conseguire il loro progetto di unire l'Italia sotto il loro dominio. La gloriosa emulazione fra tanti piccoli stati, fra tante piccole corti che cercavano di nascondere la debolezza loro sotto l'imponente apparato delle arti e delle lettere, non sarebbesi mantenuta così viva nell'unica capitale dell'Italia, ove una sola accademia avrebbe uniti o signoreggiati tutti i talenti, una sola cabala letteraria deciso del merito, l'intrigo avrebbe dirette le scuole delle arti del disegno, e tarpate le ali al genio; ovunque l'uomo, circoscritto da una regola uniforme, sarebbe stato assoggettato a regole generali alla moda ed alla mediocrità; infine l'Italia formante uno stato solo e governata da un solo padrone non avrebbe prodotti quei capi d'opera che, coprendo la sua vergogna, addolcirono i dolori del suo servaggio.
Se in questa lunga lotta per la libertà trionfava il partilo nemico dell'indipendenza de' piccoli stati; se Castruccio, Mastino, Bernabò, Giovan Galeazzo, e Ladislao di Napoli diventavano re di tutta l'Italia, è incontrastabile ch'essi avrebbero in breve conquistata tutta l'Europa. Le ricchezze accumulate dalla libertà non vengono immediatamente distrutte dal despotismo, e l'Italia sola era più ricca che tutti assieme gli altri paesi del cristianesimo; le armate furono in questo secolo più mercenarie di quel che lo fossero prima, o dopo: i Tedeschi che allora avevano voce di essere le migliori truppe, si sarebbero affrettati di porsi al soldo di un principe italiano; ed infatti li vedremo in questo medesimo secolo gareggiare coi Provenzali, coi Guasconi, coi Brettoni, cogl'Inglesi e gli Ungaresi per essere assoldati dai Visconti o dalla repubblica fiorentina. Un re d'Italia assoluto avrebbe guerreggiato con troppo vantaggio contro i sovrani feudali della Germania e della Francia; avrebbero realizzato il progetto tante volte rinnovato d'una monarchia universale, e gl'Italiani avrebbero come i Greci sotto Alessandro ottenuta un'efimera gloria in ricompensa della perduta libertà. Ma così vasto dominio non avrebbe avuto lunga durata, perciocchè crudeli disastri avrebbero seguito da vicino le subite conquiste. Il commercio, principalissima sorgente delle ricchezze degl'Italiani, non può fiorire che sotto gli auspicj della pace; perchè il commercio viene alimentato dall'agiatezza universale e non dal lusso dei pochi favoriti dalla fortuna. Nazioni più valorose dei loro conquistatori non avrebbero lungo tempo sofferto un giogo straniero; l'insolenza de' vincitori avrebbe reso più forte quell'odio che senza tali motivi divide le popolazioni che parlano un diverso linguaggio; ed una generale sommossa avrebbe rivendicata la schiavitù d'Europa. Ma quand'anche la vergogna de' vinti non si fosse lavata nel sangue italiano, lo spossamento e la debolezza sarebbero stati una necessaria conseguenza di troppo vaste conquiste. La Spagna non potè giammai riaversi dalla nullità in cui fu precipitata dall'ambizione di Carlo V e di Filippo II: lo stesso destino era riserbato ad altra nazione posta in eguali circostanze; e se l'Italia fosse stata conquistatrice e non conquistata, non avrebbe potuto lungo tempo conservare la propria indipendenza.
Vero è per altro che, nella lunga serie dei secoli, giugne pei popoli quell'istante in cui devono rinunciare a questi consigli di moderazione. Se hanno potuto per molti secoli desiderare d'essere abbastanza piccoli perchè tutte le loro parti partecipino di quello spirito di vita, che, conservando all'uomo la sua individualità, sviluppa per mezzo dell'emulazione i talenti ed il genio, giugne il momento in cui devono pensare non a vivere felici e liberi, ma a conservare la propria esistenza, respingendo uno straniero usurpatore, onde conservare o ricuperare quel sentimento d'indipendenza, senza del quale non può esservi nè patria, nè onor nazionale, nè virtù pubbliche. Quando i varj popoli che appartengono alla medesima nazione, sono soggiogati dagli artificj o dalle armi della guerra o della politica; quando uno scettro di ferro pesa, o minaccia di pesare egualmente sopra stati, lungo tempo rivali, questi sono costretti di rinunciare alle antiche gelosie, ad ogni pensiere di quella bilancia de' poteri che più non esiste; ed invece di porsi in guardia contro gli abusi del governo devono tollerarli per non cadere sotto un giogo straniero. Allora è che ogni popolo per unirsi alla gran massa, per salvare la gloria nazionale, deve di buon grado sagrificare le sue leggi, le sue istituzioni, gli antichi oggetti del suo affetto e del suo rispetto, tutto, per dirlo in una parola, perfino la sua venerazione per le forme tutelari della sua libertà e pel sangue de' suoi principi. Ogni popolo deve sentire che la stessa lingua è quel simbolo per cui i popoli di diversi stati devono riconoscere la loro comune origine, quel segno distintivo delle nazioni per cui i membri della medesima famiglia si riuniscono. I popoli elettrizzati da un sentimento che agita egualmente tutte le anime, trovano in questo stesso sentimento, in una passione nazionale i legami d'un nuovo corpo sociale, ed altro omai non cercano che di valersi delle comuni forze nel modo più utile e glorioso. Ma l'oppressione che avrebbe dovuto consigliare gl'Italiani a formare un solo corpo, un solo stato, per difendersi o vendicarsi, non ebbe luogo che all'epoca in cui termina questa storia, quando Carlo V avendo trionfato della Francia, assoggettò tutta l'Italia all'immediato suo dominio o all'influenza de' suoi consigli. Fino a questo tempo possiamo accompagnare colla nostra ragione e col nostro affetto la lunga lotta delle repubbliche italiane pel mantenimento dell'equilibrio; possiamo prendere parte a tutti i loro interessi, vedendoli spronati da grandi disegni e da grandi virtù a generosi sforzi, a penosi sagrificj.
Le prime guerre che lacerarono l'Italia all'epoca di cui siamo per parlare, miravano ad abbassare la potenza imperiale e quella de' signori Ghibellini che ne erano i depositarj in Lombardia: ma il desiderio di vendetta, e l'odio di fazione vi ebbero più parte che la gelosia e la politica, perciocchè o le guerre non avrebbero avuto luogo, o sarebbero state meno lunghe, se i papi non le avessero eccitate e fomentate, sagrificando il riposo de' popoli e la coscienza de' loro pastori alla propria vendetta ed all'ambizione.
Quando i vescovi di Roma, riparatisi in Francia, non si videro più esposti al pericolo di essere vittime essi medesimi delle guerre che provocavano, diedero libero sfogo al loro odio contro l'autorità imperiale, più non curandosi di celare gli ambiziosi progetti che avevano formati sopra l'Italia. Aveva ravvivata la loro gelosia Enrico VII di Lussemburgo colla breve ma gloriosa sua amministrazione: egli aveva mostrato col suo esempio ai papi, che un principe magnanimo e valoroso potrebbe in poco tempo rovesciare l'edificio da loro innalzato in più secoli; aveva fatto sentire ai papi che gl'imperatori, quando fossero potenti in Italia, ridurrebbero i vescovi di Roma nell'antica dipendenza. Questi per allontanare tanto disastro ricorsero alle consuete loro pratiche; lasciarono che le forze della Germania si consumassero in una lunga guerra civile tra i due pretendenti, approfittando d'un'elezione controversa per usurpare i diritti de' principi rivali.
(1314.) Seppesi appena in Germania la morte d'Enrico VII, che due fazioni si posero in campo chiedendo caldamente la corona imperiale. Era capo della prima Federico, duca d'Austria, figliuolo d'Alberto, penultimo imperatore, e nipote di Rodolfo, il fondatore della potenza della casa d'Absburgo. Formavano la contraria parte i partigiani della famiglia di Lussemburgo, diretti da Giovanni re di Boemia figliuolo d'Enrico VII, e da suo zio, Baldovino, arcivescovo ed elettore di Treveri. Nè la corona imperiale era la sola cagione di questa lite; il titolo di re di Boemia, concesso a Giovanni da suo padre, venivagli contrastato dal duca di Carinzia. Aveva questi sposata una figlia dell'ultimo re Ottocare, e perchè voleva trasmettere i suoi diritti alla casa d'Austria, temeva il re Giovanni d'essere spogliato del suo patrimonio, se Federico trionfava. Egli non cercava per se medesimo la dignità imperiale; ma desiderava che fosse accordata a qualche potente principe suo alleato. Offriva perciò la corona dell'impero a Luigi duca dell'alta Baviera; e perchè avesse tempo di condurre a termine i suoi trattati, l'arcivescovo di Magonza, suo zio, aveva protratta dieci mesi, cioè al 19 ottobre del 1314, la convocazione della dieta d'elezione[1].
Nel giorno destinato, gli elettori si recarono alla città elettorale di Francoforte preparati a sostenere colle armi i loro suffragi; perciocchè il solo arcivescovo di Treveri conduceva più di quattro mila cavalli[2]; e quello di Magonza aveva occupato il campo di Rense, ove per antica consuetudine facevansi le elezioni. Si unirono ai due arcivescovi il re Giovanni di Boemia, Waldemaro elettore di Brandeburgo, e Giovanni il vecchio, duca di Sassonia Lavemburgo, che pretendeva di essere l'elettore Sassone. Ma nello stesso tempo Rodolfo conte ed elettore palatino di Baviera, affatto ligio alla casa d'Austria, invece di unirsi agli elettori che volevano dare la corona imperiale a suo fratello Luigi, si fermò a Sachsenhause sobborgo di Francoforte posto sulla riva sinistra del Meno, aprendovi un'altra dieta elettorale. Era egli munito della procura dell'arcivescovo di Colonia, il quale, essendo in aperta guerra colla casa di Lussemburgo, non aveva potuto venire a Francoforte, e si era unito a Rodolfo e ad Enrico duca di Carinzia che intitolavasi re ed elettore di Boemia.
La dieta di Rense intimò al duchi di Sassonia e di Carinzia, all'elettore palatino e a quel di Colonia di presentare al collegio degli elettori i loro titoli al diritto elettorale; ma questi invece di rispondere, nominarono lo stesso giorno, con irregolare elezione, Federico d'Austria re de' Romani. I cinque elettori che trovavansi nel campo di Rense, avuta notizia dell'accaduto, nel susseguente giorno nominarono imperatore a pieni voti Luigi, duca di Baviera, che chiamossi Luigi IV[3].
I due pretendenti avevano i medesimi diritti alla stima ed all'ubbidienza de' loro compatriotti. Il partito austriaco avendo suscitato un principe della casa di Brandeburgo per disputare il diritto di Waldemar, più non rimanevano in cadauna delle parti che due elettori il di cui suffragio non fosse contrastato, ed ognuna ne aveva altri tre, il di cui diritto era dubbioso. I principi rivali appartenevano a due illustri e potenti famiglie; amendue erano valorosi ed arditi, amendue diedero prove, almeno in Germania, di un carattere leale e cavalleresco, ed amendue avevano zelanti campioni che combattevano per loro valorosamente. Giovanni di Boemia difendeva la causa di Luigi, come fosse la sua propria; tenevano le parti di Federico i suoi fratelli, i duchi d'Austria Leopoldo ed Enrico, e Rodolfo elettore di Baviera.
Siccome pareva che l'osservanza delle formalità prescritte per l'incoronazione dovesse assicurare all'uno o all'altro di loro il favore de' popoli, perciò s'affrettarono ambedue di compierle. Luigi venne introdotto dai borghesi di Francoforte nella loro città; fu come imperatore eletto presentato al popolo nella chiesa di san Bartolomeo, consacrata per antica consuetudine a questa funzione; e Federico assediò inutilmente Francoforte per ottenere lo stesso vantaggio[4]. In appresso Luigi fu condotto ad Aquisgrana, di dove aveva dovuto ritirarsi il suo rivale, e vi fu consacrato nel luogo destinato a tale cerimonia, non però dall'arcivescovo di Colonia, che solo aveva il diritto di farlo, ma, in sua assenza, dagli arcivescovi di Magonza e di Treveri. Federico fu invece condotto a Bona dall'arcivescovo di Colonia, e colà consacrato colle sue mani, ma in un luogo in cui questa consacrazione diventava illegale. E per tal modo per una differente ragione le due consacrazioni furono incomplete ed invalide[5].
I due imperatori eletti, Luigi e Federico, erano figli d'un fratello e d'una sorella; il proprio fratello di Luigi, Rodolfo, era il più caldo alleato del suo rivale; una simile discordia divideva tutte le case dei principi; tre cappelli elettorali erano contrastati come la corona imperiale, e le armi dovevano decidere della eredità e dei diritti delle più potenti famiglie. La stessa eguaglianza de' suffragi e l'indifferenza de' principi della Germania settentrionale prolungarono la guerra, soltanto di quando in quando sospesa da reciproco rifinimento di forze. In tale stato di cose i due rivali non potevano tentare di farsi riconoscere in Italia senza abbandonare la Germania al nemico; onde, mentre questa aveva due re de' Romani, l'Italia trovavasi agitata dagli intrighi degli ambiziosi. Nè andò lungo tempo che la cessazione d'ogni autorità suprema, che tenne dietro immediatamente alla vigorosa amministrazione di Enrico VII, produsse tra i Guelfi ed i Ghibellini una guerra non meno accanita di quella che facevansi in Germania i due pretendenti al trono. E questa guerra, resa generale da opposti interessi, da inveterati odj, era cagionata da tante cause diverse quanti erano i capi che la trattavano.
Il papa ed il re di Napoli uniti dal loro attaccamento alla corte di Francia, dallo spirito del partito guelfo, e da una comune ambizione, avevano nemici i nuovi principi Lombardi innalzati di fresco alla sovranità dall'intrigo e dal valore. Questi erano debitori della loro potenza alla violenza delle fazioni; ed i Ghibellini avevano comperato colla perdita della libertà il valore o l'accortezza de' loro capi: perciò i nuovi principi tenevano vive le burrascose passioni che avevano sperimentate tanto vantaggiose ai loro interessi; associavansi essi medesimi ai faziosi, e, quasi la sorte loro fosse attaccata alla difesa d'un trono ancora vacante, si facevano una feroce ed ostinata guerra.
Regnava ancora Clemente V, quando fu portata alla corte pontificia la notizia della morte d'Enrico VII. Sembra che questo papa dipendente dalla Francia, che dimorava ora in una ora in altra provincia di cui non era sovrano, debole per carattere come per situazione, ed incapace di meritarsi l'amore o il rispetto de' fedeli, abbia voluto sollevarsi da questo stato d'avvilimento, manifestando sul primo trono della cristianità pretensioni sconosciute allo stesso Ildebrando e ad Innocenzo III. Pubblicò una bolla per annullare la sentenza pronunciata da Enrico VII contro il re Roberto. «Lo che facciamo, egli diceva, tanto in virtù della indubitata autorità che noi abbiamo sopra l'impero romano, quanto pel diritto a noi competente di succedere all'imperatore nella vacanza dell'impero[6].» In virtù adunque di un tale diritto fin allora sconosciuto, Clemente accordò subito dopo a Roberto re di Napoli il titolo provvisorio di vicario imperiale in tutta l'Italia: il quale vicariato se non veniva rivocato dal sovrano pontefice, durava fino a due mesi dopo l'elezione del legittimo imperatore[7].
Furono queste due bolle gli ultimi atti dell'amministrazione di Clemente V in Italia. Questo pontefice che aveva così vilmente venduti gl'interessi della santa sede e quelli della propria coscienza a Filippo il Bello re di Francia, e che gli aveva sagrificato l'ordine de' Templari, morì a Rochemauri l'anno medesimo della morte di Filippo il 20 aprile del 1314, mentre preparavasi a tornare a Bordò sua patria per ricuperare col favore dell'aria nativa la mal ferma sua salute[8]. La terribile citazione d'un templario, che di mezzo alle fiamme aveva chiamati Clemente e Filippo innanzi al tribunale di Dio, parve in tal modo compiuta.
Clemente V aveva ammassati grandi tesori vendendo i beneficj ecclesiastici, e facendo altri scandalosi mercati, che lo resero esecrabile ai suoi contemporanei[9]. Oltre il danaro che teneva ne' suoi forzieri, aveva arricchiti tutti i suoi parenti e famigliari; ma le sue generosità non gli avevano guadagnato l'affetto di nessuno: perciocchè, appena morto, tutti coloro che abitavano nel suo palazzo, si scagliarono addosso ai suoi tesori; e non vi fu fra tanti neppure un solo servitore fedele che si prendesse cura del cadavere del suo padrone: onde essendo caduti alcuni torchi che ardevano intorno al feretro, vi appiccarono il fuoco, che, comunicatosi ben tosto all'appartamento, obbligò finalmente i rubatori ad occuparsene, e lo spensero; ma il palazzo e la guardaroba erano stati talmente spogliati, che non si trovò che un vecchio mantello per cuoprire il corpo mezzo abbrustolito del più ricco papa che governasse la chiesa[10].
Ventitre cardinali adunaronsi a Carpentrasso per dare un nuovo capo alla cristianità. Sebbene gl'Italiani non fossero che sei, siccome la lontananza del papa dalla greggia di cui era immediato pastore, risguardavasi come uno scandalo pubblico che aveva eccitate le lagnanze di tutti i cristiani, i pochi italiani contrappesavano ancora nel conclave il credito dei Francesi. Ma due parenti del papa defunto entrarono il 24 luglio con un corpo di truppa in Carpentrasso, e vi eccitarono la sedizione per isforzare il conclave a nominar papa un Guascone. Furono incendiate le case dei cardinali italiani e di molti cortigiani e mercanti della stessa nazione, e minacciati di morte i capi della chiesa; finalmente il pericolo si fece così urgente, che i cardinali italiani, chiusi in conclave, fecero atterrare un muro dietro al palazzo e fuggirono. Questa diserzione costrinse il collegio de' cardinali a separarsi, e protrasse più di due anni la nomina del nuovo pontefice[11].
Filippo conte di Poitou, che fu poi conosciuto sotto nome di Filippo il lungo, re di Francia, ottenne di riunire a Lione i dispersi cardinali l'anno 1316. Per averli presso di lui aveva loro solennemente promesso di non segregarli in conclave; ma mancò loro di parola[12]. Li fece entrare nel sacro ricinto il 28 di giugno, di dove non uscirono che dopo quaranta giorni di lotta, proclamando il 7 agosto Giacomo d'Ossa, nativo di Cahors, in allora vescovo di Porto, che si fece chiamare Giovanni XXII. Era il d'Ossa cancelliere di Roberto, re di Napoli, e sua creatura. Era nato vilmente, ma aveva saputo innalzarsi co' suoi talenti non meno che coll'intrigo e coll'arditezza. Si dice che in principio della sua carriera aveva recato a Clemente false commendatizie del re Roberto, e che con tal mezzo ottenne i vescovadi di Frejus e di Avignone[13]. Si racconta pure che nel conclave in cui fu creato papa erano divisi i suffragi; che i Guasconi volevano un papa del loro paese, e che i Francesi ed i Provenzali si unirono agl'Italiani per riportare la santa sede a Roma. Allora non potendo i due partiti andare d'accordo, convennero di porre la nomina del successore di san Pietro in arbitrio del cardinale d'Ossa, il quale con infinito stupore del sacro collegio nominò sè stesso[14]. Per altro l'aperta parzialità di Giovanni XXII per gli oltramontani, la sua vile dipendenza dalle corti di Parigi e di Napoli, la risoluzione da lui presa di fissare in Provenza la sede pontificia, ed i mali cagionati all'Italia dalla sua ambizione e dalla sua venalità, inasprirono in modo gl'Italiani contro di lui, che forse non meritano intera fede le scandalose voci divulgate da' suoi contemporanei intorno alla sua promozione.
Dopo la morte d'Enrico VII, Roberto re di Napoli era rimasto senza paragone il più potente sovrano d'Italia. Aveva aggiunto al regno della Puglia la signoria di molte città del Piemonte e l'alleanza di tutti i Guelfi dello stato della chiesa, della Toscana, della Lombardia, che in forza della concessione di Clemente V lo riconoscevano per vicario imperiale. Era Roberto nello stesso tempo sovrano della Provenza, onde tenevasi i papi affatto soggetti, ed aveva un illimitato credito alla corte di Francia. Teneva uniti questi stati l'interesse del partito guelfo, del quale Roberto prendevasi più cura che di tutt'altro affare; e preparavasi ad approfittare dell'interregno dell'impero e delle guerre civili di Germania per ischiacciare affatto il partito ghibellino in Italia.
Ma questo partito era diretto da capi valorosi ed illuminati, da capi intrepidi e pieni di zelo, che potevano lungamente resistere ai loro nemici; da capi strettamente uniti dal timore d'imminente ruina, e che l'implacabile odio della parte guelfa teneva fermi ne' loro principj. Questi capi di parte avevano ottenuta la sovranità della loro patria. Contavansi tra i principali Matteo Visconti signore di Milano e di parte della Lombardia, Cane della Scala signore di Verona e di parte della Venezia, Passerino Bonacossi signore di Mantova, Castruccio Castracani signore di Lucca e capo in Toscana del partito cui aveva formato Uguccione della Fagiuola, e per ultimo Federico di Montefeltro, signore d'Urbino, capitano dei Ghibellini della Marca d'Ancona e del ducato di Spoleto. Altri meno potenti e meno rinomati gentiluomini comandavano in città di minore importanza, in castelli ed in villaggi fortificati, che tenevano soggetti alla lega ghibellina.
Come capo di tutti i Ghibellini d'Italia veniva risguardato, non meno per la sua avanzata età, che per i suoi maturi consigli e per la superiorità delle sue forze, Matteo Visconti. Perciò contro di lui diresse Roberto i suoi primi attacchi: Ugo di Baux che comandava per lui in Piemonte, essendosi alleato colle città di Pavia, Vercelli, Asti ed Alessandria[15], raccolti i fuorusciti della casa de' Torriani coi loro seguaci e la maggior parte de' Guelfi della Lombardia, portò la sua armata a due mila cavalli e dieci mila pedoni. Con queste forze entrò nella Lumellina; ed il giorno 24 decembre del 1313 incontrò presso di Abbiate Grasso l'armata de' Visconti e la ruppe[16]. Ma non tardò a manifestarsi la discordia nel campo di Ugo tra i Provenzali ed i Lombardi. I contadini abbandonati alle molestie delle truppe unironsi ai suoi nemici; ed Ugo, sebbene vittorioso, si trovò costretto di abbandonare vergognosamente il territorio milanese[17].
Nel susseguente anno 1314 Roberto pose alla testa dei Guelfi di Lombardia Ugo, Delfino del Viennese; il quale riunì come il suo predecessore una bell'armata composta delle milizie delle città guelfe e de' fuorusciti delle ghibelline; ma anche quest'armata non ebbe successi proporzionati alla sua forza. Dopo avere invano tentato d'impadronirsi di Piacenza, Ugo si ritirò in disordine ad Alessandria; e l'armata si dissipò senza avere combattuto[18].
Fu in questo stesso anno che le forze del re Roberto unite a quelle de' Fiorentini ebbero la terribile disfatta di Montecatini, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo: come pure appartengono alla stessa epoca le vittorie riportate da Cane della Scala sopra i Padovani ed i Guelfi della Marca Trivigiana. Soltanto nel Milanese la vittoria non erasi dichiarata per verun partito; e nel cominciare della campagna del 1315, Matteo Visconti, stretto dalla banda di Bergamo dai fuorusciti di questa città[19], e dalla parte del Po dai Guelfi di Pavia, di Vercelli e di Alessandria[20], fu in pericolo di perdere Bergamo, e costretto ad abbandonare la Lumellina ai nemici che la saccheggiarono. Ma il Visconti, che conosceva quanto quella della guerra, l'arte delle negoziazioni, accordò agli esiliati bergamaschi una pace vantaggiosa[21], e volgendo tutte le sue forze contro i Pavesi, li ruppe la prima volta in luglio presso alla Scrivia, e nel susseguente ottobre s'impadronì per sorpresa della loro città[22]. La morte del conte Riccardo di Langusco, il capo de' Guelfi pavesi, la prigionia di molti signori della famiglia della Torre, il saccheggio e la ruina d'una città che doveva essere considerata come la capitale della parte guelfa in Lombardia, furono le prime conseguenze di questo avvenimento. Non tardò il terrore ad impadronirsi de' Guelfi, onde le città di Tortona e d'Alessandria si diedero volontariamente a Matteo Visconti[23]. Como, Bergamo e Piacenza erano di già a lui soggette, ed il partito ghibellino trionfò in quasi tutta la Lombardia.
Tale era lo stato delle fazioni, in Italia, quando venne creato in Lione papa Giovanni XXII. Roberto che aveva avuto una serie di sventure durante l'interregno della chiesa, volle allora sperimentare se col mezzo di un pontefice, che gli era affatto ligio, e coi soccorsi delle sue armi spirituali potrebbe restaurare quell'equilibrio che i suoi generali avevano lasciato distruggere. Siccome i capi che combattevano contro di lui, pretendevano di essere rivestiti dell'autorità imperiale, pensò di volerneli privare; e Giovanni XXII dichiarò con una bolla pontificia decaduti, alla morte d'Enrico VII, da' loro diritti quelli che il defunto monarca aveva nominati suoi vicarj imperiali. «Dio medesimo, diceva il papa, confidò l'impero della terra come quello del cielo al sommo pontefice, e durante l'interregno tutti i diritti dell'imperatore sono devoluti alla chiesa; e quello che, senza averne chiesta ed ottenuta la permissione dalla sede Apostolica, continua ad esercitare le funzioni che gli aveva accordate l'imperatore, si rende colpevole, offendendo la stessa divina maestà[24].»
Non voleva il Visconti apertamente dichiararsi contro la chiesa, ma non voleva pure lasciarsi spogliare della sua autorità. S'avvide che il potere confidatogli da Enrico non poteva sopravvivergli, e rinunciò al titolo di vicario imperiale, ma chiese ai popoli da lui governati che colla loro approvazione confermassero la sua autorità, ed assunse il nuovo titolo di capitano e difensore della libertà milanese[25].
Quest'atto di deferenza non salvò il Visconti dalla collera del papa, il quale lo stesso anno 1317 pronunciò contro di lui sentenza di scomunica, e pose Milano sotto l'interdetto; ma tutt'ad un tratto le armate collegate di Roberto, del papa e de' Guelfi s'allontanarono dalla Lombardia a cagione della rivoluzione scoppiata in Genova; e tutte le forze delle fazioni si ridussero nella Liguria, in un angusto spazio tra le montagne ed il mare per decidere del dominio di tutta l'Italia.
Quattro grandi famiglie, i Doria, gli Spinola, i Grimaldi ed i Fieschi amministravano da lungo tempo la repubblica di Genova: una gioventù bellicosa, grandi ricchezze, vasti feudi nelle due riviere sparsi di fortezze assicuravano la loro potenza. Le due prime famiglie erano ghibelline, guelfe le altre; ed un'impaziente rivalità teneva sempre divisi coloro, che la stessa fazione avrebbe dovuto conservare uniti. I Doria e gli Spinola governavano Genova dopo il passaggio d'Enrico VII fino al presente, ed i Grimaldi ed i Fieschi n'erano sbanditi. Ma i primi non sapevano frenare la mutua loro gelosia, volendo ogni famiglia regnar sola; onde, in occasione d'una sommossa nella piccola città di Rapallo, i Doria attaccarono gli Spinola in febbrajo del 1314[26]. La guerra civile si prolungò ventiquattro giorni nell'interno della città; i molti loro palazzi eransi trasformati in fortezze, che venivano a vicenda attaccate e difese, e la sorte della guerra era sempre incerta[27]. Intanto i Doria chiamarono in loro soccorso gli esiliati guelfi, Grimaldi e Fieschi, e costrinsero gli Spinola ad abbandonare la città.
Ma i vincitori che volevano attaccare gli Spinola nelle loro rocche, furono costretti prima di tutto di ricompensare gli alleati da cui erano stati ajutati; onde divisero il governo dello stato coi Guelfi, e non tardarono ad accorgersi di non essere i più potenti. Nel 1317 i Guelfi vollero finalmente ridonare la pace alla città, ed ordinarono ai Doria di riconciliarsi cogli Spinola; e perchè i primi non ubbidivano, aprirono le porte agli Spinola. Una strana rivoluzione emerse in allora da così violenta animosità e dal reciproco timore. Spaventati i Doria dalla superiorità che acquistavano i loro nemici, uscirono, senza combattere, dalle mura di Genova; e gli Spinola non meno dei Doria atterriti nel trovarsi in balìa de' Guelfi che gli avevano chiamati, abbandonarono ancor essi la città; onde i Grimaldi coi Fieschi si trovarono soli padroni della repubblica loro abbandonata dalle due fazioni ghibelline.
Le due famiglie rivali che trovaronsi esiliate assieme dopo avere volontariamente abbandonata la patria ai loro nemici, non tardarono, nel comune infortunio, a riconciliarsi. S'impadronirono di Savona e di Albenga, che fortificarono per servire di centro alle loro forze. I Ghibellini delle montagne si unirono ai fuorusciti genovesi, cui Matteo Visconti e Cane della Scala promisero larghi soccorsi[28].
In marzo del 1318 Marco Visconti, figliuolo del signore di Milano, passò le montagne della Bocchetta con un'armata, e si avanzò fino alle porte di Genova per assediarla. Una flotta ghibellina, equipaggiata a Savona dagli emigrati, presentossi nello stesso tempo innanzi al porto, e dopo varie scaramucce s'impadronì della torre del Faro. L'armata del Visconti si divise ne' sobborghi di san Giovanni e di sant'Agnese, occupando le valli di Bisagno e della Polsevera[29]. I Grimaldi ed i Fieschi, vedendosi addosso tutte le forze de' Ghibellini d'Italia, scrissero al re Roberto di Napoli ed a tutte le città guelfe per avere soccorsi.
Roberto che fino allora aveva affidato il maneggio della guerra in Lombardia ed in Toscana ai suoi generali e ai principi del sangue, credette la difesa di Genova di tale importanza, che volle incaricarsene egli medesimo. Genova signoreggiava per alcuni rispetti il mar Tirreno, e teneva aperta la comunicazione tra gli stati di Roberto nella Provenza e nel regno: e le città che possedeva in Piemonte, e le città guelfe di Lombardia non potevano difendersi o riconquistarsi che per la via di Genova. Apparecchiata perciò una flotta di venticinque galere, il re colla regina sua consorte e due de' suoi fratelli s'imbarcò il 10 luglio a Napoli, ed entrato il 21 nel porto di Genova, scese all'istante sulla piazza del palazzo con mille duecento cavalli dichiarando al popolo adunato ch'era venuto a difenderlo e salvarlo[30].
L'apparente generosità del re eccitò quella del popolo; il suo discorso riscosse i più vivi applausi, e per uno spontaneo movimento l'assemblea accordò per dieci anni a lui ed al papa congiuntamente la signoria dello stato. I due capitani o capi dello stato abdicarono la loro autorità, e tutti i cittadini giurarono ubbidienza al re di Napoli. Questo subito impensato avvenimento fece sospettare agli stessi Guelfi che fosse stato anticipatamente preparato dai suoi intrighi[31].
La presenza di Roberto non iscoraggiò gli assedianti, i quali continuarono i loro attacchi contro il corpo medesimo della piazza, e s'impadronirono di sant'Agnese, che per mezzo d'un ponte comunicava colle mura della città. Durante l'autunno e l'inverno ebbero luogo quasi ogni giorno caldissime zuffe, nelle quali i Ghibellini erano d'ordinario vincitori[32]. Le due parti che dividevano tutta l'Italia, attaccavano la maggiore importanza all'assedio di Genova, e pareva che i loro campioni avessero convenuto di trovarsi tra quelle montagne per combattere. Si videro arrivare un dopo l'altro al campo ghibellino il marchese di Monferrato, Castruccio Castracani, signore di Lucca, e le genti mandate dai Pisani, da Federico, re di Sicilia, e dallo stesso imperatore di Costantinopoli. Dal canto suo, Roberto riceveva soccorso dai Fiorentini, dai Bolognesi e dai Guelfi della Romagna. Gli assedianti avevano mille cinquecento cavalli, gli assediati più di due mila cinquecento; ma questa greve cavalleria, che in tutt'altri luoghi decideva la sorte delle battaglie, chiusa in mezzo a selvagge scoscese montagne, non aveva terreno abbastanza piano per combattere, e languiva nell'ozio e nelle privazioni senza poter metter fine a questa guerra con un'azione generale. Roberto, la di cui impazienza veniva accresciuta dalla superiorità delle forze, aveva più volte tentato d'uscire da questa specie di prigione; ma soltanto il 5 febbrajo del 1319 gli riuscì di sbarcare a Sestri di Ponente ottocento cavalli e quindici mila fanti. Con ciò tagliava la comunicazione tra Savona, ove trovavasi il grosso degli emigrati, ed il campo degli assedianti; i quali essendo stati rotti nel voler impedire lo sbarco de' nemici, dovettero, dopo dieci mesi d'inutili attacchi, levare l'assedio di Genova, abbandonando parte delle loro salmerie, e ritirarsi in Lombardia, senza che Roberto osasse d'inseguirli attraverso le gole dell'Appennino[33].
Ma il re volendo consolidare in Genova quell'autorità concessagli dalla violenza dello spirito di partito, consigliava i Guelfi ad abusare della vittoria. I magnifici palazzi dei Ghibellini che facevano il principale ornamento della città, furono dal popolo furibondo incendiati e distrutti fino ai fondamenti. Furono egualmente distrutte le belle case di campagna, circondate da deliziosi giardini nelle valle di Bisagno e della Polsevera: e dopo quest'odioso saccheggiamento, il re, il clero, ed i cittadini, quasi avessero ottenuta una vittoria contro i barbari e gl'infedeli, non contro i loro compatriotti, portarono in processione le reliquie di san Giovanni Battista, e ringraziarono Dio nelle chiese degli ottenuti vantaggi e del sangue sparso[34].
Dopo avere in tal modo celebrata la sua vittoria, Roberto partì dalla Liguria il giorno 29 d'aprile con parte delle sue truppe e delle sue galere; e mentre andava in Provenza alla corte del papa, i Ghibellini riconducevano la loro armata sotto Genova per riprenderne l'assedio. Fino dal 25 di maggio alcune galere di Savona erano entrate nel porto di Genova facendovi varie ricche prede, ma l'armata assediante si accampò presso le mura di Genova soltanto il giorno 27 di luglio; ed il 3 di agosto Corrado Doria chiuse il porto agli assediati con ventotto galere. I Ghibellini ripresero nuovamente i sobborghi, e vi rimasero quattro anni, azzuffandosi frequentemente pel possesso d'ogni ridotto, di ogni chiesa, di ogni casa che poteva fortificarsi. La medesima guerra sostenevasi con egual furore nelle due Riviere; ma l'occidentale era principalmente occupata dai Ghibellini, e l'orientale dai Guelfi. I Genovesi si andavano cercando per azzuffarsi anche ne' più rimoti mari, e per fino nelle colonie della Grecia e del Levante[35]. Per altro i principali capi ghibellini dell'Italia non trovaronsi personalmente al secondo assedio di Genova, e tennero viva la guerra nelle altre province.
L'anno 1317, Ferrara era stata tolta alla parte guelfa. Questa città, già da un secolo sottomessa alla casa d'Este, erasi costantemente mantenuta fedele al partito della chiesa; ma era stata governata ed oppressa dai Guasconi mandativi dal papa e dal re Roberto, quando nel 1308 approfittando delle guerre civili che dividevano i principi d'Este, avevano spogliati gli antichi loro alleati della propria sovranità. I marchesi d'Este rifugiati a Rovigo avevano perciò dovuto cercare l'alleanza de' Ghibellini per difendersi contro un papa che gli aveva traditi; ed i Ferraresi dal canto loro accecati da immenso odio confondevano la chiesa coi Guasconi, alle di cui soverchierie erano stati dal papa abbandonati. Improvvisamente presero le armi il 4 agosto 1317, scacciarono i Guasconi da Ferrara, che si rifugiarono in castel Tealdo, ove furono assediati dagl'irritati cittadini, e costretti a capitolare il giorno 15 dello stesso mese. I marchesi d'Este furono di nuovo proclamati signori di Ferrara, e si affrettarono di entrare nella lega ghibellina che sola poteva mantenerli nella loro signoria[36].
Questa lega cercava in tal tempo di consolidarsi per mezzo di più regolare organizzazione. In dicembre del 1318 adunossi in Soncino, grossa borgata posta sulla riva dell'Oglio, una dieta de' principali capi, ove Cane della Scala, signore di Verona, cui il valore e la munificenza avevano fatto dare il nome di Grande, fu di comune consentimento dichiarato direttore e capitano della lega de' Ghibellini in Lombardia[37].
Mentre Cane, per giustificare la confidenza de' suoi alleati, assediava Padova, che avrebbe espugnata, se, impensatamente attaccato dal conte di Gorizia, non avesse dovuto ritirarsi[38], e che Marco Visconti sorprendeva sotto Alessandria Ugo di Baux, che nella totale disfatta della sua armata perdè la gloria e la vita[39], il papa, trovandosi in Avignone al sicuro da tutti i rovesci de' suoi alleati, andava cercando quale nuovo avversario potesse far insorgere contro i Visconti, che mortalmente odiava. Un prelato, universalmente creduto suo figliuolo, Bertrando del Poggetto, cardinale di san Marcello, arrivò in Italia l'anno 1319 col titolo di legato. Egli aveva ordine di perseguitare acremente i Ghibellini, che la corte d'Avignone non esitava di risguardare come eretici. Bertrando, appena giunto in Asti, ordinò a Matteo Visconti di presentarsi entro due mesi alla corte pontificia per giustificarsi, se lo poteva, dalle accuse d'eresia ond'era aggravato; gl'ingiungeva pure di richiamare i Milanesi esiliati, di sottomettersi al re Roberto, vicario imperiale in Italia, e di rinunciare al governo della sua patria[40].
La corte d'Avignone non era più diretta da religioso fanatismo, e lo stesso legato, profanamente ambizioso pensava a tirar profitto dalle guerre civili per formarsi una sovranità in Italia, non già per sostenere colle armi la purità della fede, ed una religione costantemente smentita da' suoi perduti costumi: e s'egli adoperava contro i nemici le armi ecclesiastiche, lo faceva lusingato di fare ancora qualche impressione sullo spirito del popolo; ma non ignorava che i Visconti le avrebbero disprezzate, onde cercava più efficaci sostegni alle sue sentenze.
Filippo di Valois, figliuolo di quel Carlo che un altro papa aveva chiamato in Italia per sottomettere i Bianchi di Firenze, aveva accettato con vivo trasporto una tale missione, mercè la quale sperava di ottenere facile gloria e grandi ricchezze. Filippo, in allora nipote del re di Francia al quale doveva in breve succedere, scese in Italia col magnifico corteggio di sette conti, cento venti alfieri, e circa seicento cavalli. Mille cinquecento cavalieri lo stavano aspettando in Asti, ed altri mille mandati da Firenze e da Bologna si avanzavano per incontrarlo. Carlo di Valois, padre di Filippo, il siniscalco di Beaucaire, il re di Francia ed il re Roberto facevano pure sfilare alcuni corpi di truppa verso la Lombardia; ma Filippo pensò che prima del loro arrivo avrebbe potuto condurre a fine qualche gloriosa impresa, e con circa due mila cavalli entrò nel paese nemico e s'accampò a Mortara posta fra Tortona e Novara.
Ma non tardò ad accorgersi dell'imprudente sua marcia, quando per altro non eragli più permesso di riparare al fallo in cui l'aveva strascinato la sua presunzione. I due figli del signore di Milano Galeazzo e Marco Visconti si avanzarono sopra di lui con forze assai maggiori, ed invece di attaccarlo, gli chiesero un abboccamento. «La vostra posizione è affatto disperata, essi gli dissero; voi vi trovate chiuso tra due grandi fiumi, il Po ed il Ticino, circondato da città nemiche, e da forze molto superiori alle vostre; onde dovete aspettarvi di essere rotto in battaglia, o di perire di fame; ma noi siamo ben lontani dal voler approfittare della vostra pericolosa situazione. Nostro padre fu armato cavaliere dal vostro, onde dev'esservi tra di noi amicizia e fraternità d'armi: ricevete dunque il pegno di quest'amicizia ereditaria nei regali che vi offriamo, e più non v'immischiate negli affari d'Italia.» Filippo accettò in fatti i magnifichi presenti che i Visconti avevan fatti recare per lui e pei suoi consiglieri; poi parte per timore ed in parte cedendo alla seduzione, invece di pensare a farsi strada colla punta della spada, si ritirò vergognosamente in Francia dopo aver aperti ai Ghibellini alcuni castelli, che Roberto gli aveva affidati. I corpi d'armata che venivano a raggiugnerlo, rimasero esposti ad essere separatamente attaccati e distrutti dai Visconti[41].
Dopo la ritirata di Filippo di Valois, Raimondo di Cordone gentiluomo aragonese, ch'erasi assai distinto nell'assedio di Genova, fu scelto da Roberto e dal papa per comandare i Guelfi in Italia: ma intanto altre vittorie dei Ghibellini assicuravano sempre più la potenza de' Visconti; Vercelli dovette loro arrendersi nel 1321, ed il 5 gennajo del susseguente anno Galeazzo Visconti entrò in Cremona per la breccia e l'abbandonò al saccheggio.
Fin a quest'epoca il papa erasi lusingato di approfittare delle guerre civili di Germania per disoggettare affatto l'Italia dall'impero, e stabilire sopra di lei colle armi francesi una nuova autorità. Però erano già otto anni passati da che era incominciato l'interregno di Germania, ed in questi otto anni di confusione e di guerra civile, l'autorità del papa invece di consolidarsi in Italia, pareva che andasse declinando. Giovanni XXII non aveva mai voluto dichiararsi per alcuno dei due canditati all'impero; sperava che, snervandosi vicendevolmente colla guerra, avrebbe potuto obbligarli a riconoscersi dipendenti dalla santa sede; e fors'anche, come ne corse allora la voce, pensava di allontanarli un giorno ambedue, per disporre a suo arbitrio della corona imperiale. Ma finalmente le vittorie de' Visconti gli fecero cambiare il suo sistema di politica. Si volse dunque a Federico d'Austria, sul quale conosceva di avere maggior credito che sopra Luigi di Baviera. Il primogenito di Federico aveva sposata una sorella del re Roberto, e la casa d'Austria erasi piuttosto mostrata favorevole ai Guelfi. Giovanni XXII del 1322 promise a Federico di dichiararsi pel suo partito, chiedendogli in contraccambio che facesse una diversione in suo favore. Federico che sommamente desiderava l'appoggio del papa, spedì suo fratello Enrico in Italia con mille cinquecento uomini d'armi[42]. Enrico d'Austria entrò in Brescia il giorno 11 d'aprile, ove fu raggiunto dai fuorusciti delle città vicine, dai Torriani rifugiati in Venezia, e da circa due mila volontarj.
Il Visconti trovandosi ad un tempo stretto da Raimondo di Cordone e dal cardinale Bertrando che andava contro di lui rinnovando le scomuniche, desiderava di evitare una battaglia col nuovo avversario suscitatogli dal papa in Germania. Fece offrire ad Enrico ragguardevoli donativi perchè sospendesse la marcia fino all'arrivo de' riscontri che aspettava da Federico, cui aveva mandati degli ambasciatori. Faceva a questi rappresentare che senza pretendere di farsi giudice tra i due candidati all'impero, egli difenderebbe i diritti spettanti al vincitore. Ch'era pronto a riconoscere Federico come suo superiore, suzerain, quando venisse a prendere la corona a Monza: che allora gli aprirebbe le porte di Milano, e l'accompagnerebbe co' suoi cavalli per tutta l'Italia: ma che se egli stesso veniva spogliato dal papa e dal re Roberto, l'impero più non potrebbe riavere ciò che gli si farebbe perdere; che la nuova pretensione di Giovanni XXII di dare un vicario all'impero in tempo dell'interregno, non era meno lesiva dei diritti di Federico, che di quelli di Luigi; che quand'avrebbe stabilito un eguale diritto sopra l'Italia, il papa lo stenderebbe subito alla Germania, e con tale pretesto spoglierebbe in fine i due competitori per giugnere più direttamente a' segreti suoi fini di dare a Roberto la corona imperiale[43].
Federico, illuminato da queste considerazioni, scrisse a suo fratello che lo vedrebbe con piacere ritirarsi dall'Italia, quando potesse farlo senza vergogna. D'altra parte Enrico, arrivato a Brescia, chiese come luogotenente del re de' Romani che la città riconoscesse la sua autorità. Ma quello che comandava a Brescia per parte di Roberto, si rifiutò, dichiarando che il suo padrone era il solo vicario in tempo dell'interregno. Enrico offeso da tale rifiuto, e determinato di non voler combattere per il solo vantaggio di Roberto, si ritirò senza aver veduti i confini del territorio di Milano. Il 18 maggio del 1322 si pose in cammino alla volta di Verona, ove fu magnificamente accolto da Cane della Scala; talchè i capi del partito ghibellino erano sicuri del favore dei due pretendenti[44].
In tal modo i Ghibellini di Lombardia attaccati nel loro proprio paese dalla contraria fazione che aveva eguali forze, mentre lottavano al di fuori colla superiore potenza del re di Napoli e colle ricchezze del papa, riuscivano a far ritirare due ragguardevoli armate, venute dalla Francia e dalla Germania per unirsi ai loro nemici: onde quando la loro condizione sembrava peggiorare, acquistavano maggiore opinione con inaspettate vittorie. Ma queste costanti prosperità erano in ispecial modo dovute a Matteo Visconti, e dovevano avere con lui fine. Matteo, chiamato il Grande, epiteto di cui il quattordicesimo secolo fu a molti liberale, può risguardarsi come il più perfetto modello dei principi d'Italia. Valoroso senza ostentazione, buon capitano senza per altro aver talenti militari superiori al suo secolo, egli s'innalzò al di sopra di tutti i principi suoi coetanei coi suoi talenti politici, colla profonda conoscenza del cuore umano, degl'interessi e delle passioni di tutti coloro ch'egli voleva maneggiare, colla sua calma in mezzo alle agitazioni, colla sua prontezza nel risolvere e colla costanza nel tener dietro al suo scopo, colla sua destrezza nel fingere, talvolta nell'ingannare, col suo talento di saper predominare gli opposti caratteri e gli spiriti indomabili. Nella prima epoca della sua grandezza, avanti la fine del secolo terzo decimo, erasi imprudentemente abbandonato all'orgoglio che gl'ispirava il sentimento della propria potenza, aveva offesi i principi suoi vicini, e disgustati i popoli da lui governati; onde la sua caduta l'anno 1302 fu una conseguenza de' suoi errori. Ma un esilio e un avvilimento di nove anni avevano sviluppato in lui tutte le qualità di un capo di parte, e insegnatogli l'arte di sapersi moderare. Dopo che, l'anno 1311, la venuta d'Enrico VII in Milano gli aveva dato il modo di riprendere la sovranità, l'aveva conservata undici anni, senza che i popoli indocili ch'egli si era assoggettati dassero il più piccolo segno di malcontento per la ruinosa guerra in cui gli aveva strascinati, senza che gli si ribellasse una sola delle città conquistate, senza che le scomuniche della chiesa, da cui era frequentemente colpito, smovessero la coscienza di un solo de' suoi servitori, senza che andasse a male in sua mano una sola della sue negoziazioni. Matteo Visconti non era un uomo virtuoso; ma la di lui riputazione, di cui si prendeva estrema cura, non era macchiata da verun delitto, da veruna perfidia: non era sensibile, nè generoso, ma non gli si potevano nemmeno rimproverare crudeltà. I suoi quattro figli, i migliori capitani de' tempi loro, erano quasi parti di lui medesimo; ne dirigeva egli stesso tutti i movimenti, e soltanto la sua morte fece conoscere quali caratteri intolleranti, indomabili aveva saputo piegare all'ubbidienza. Finalmente Matteo era giunto ad un'avanzata vecchiaja[45], quando un subito cambiamento del suo carattere fu il presagio della sua morte e delle rivoluzioni che dovea cagionare.
Erano omai più di vent'anni che Matteo Visconti trovavasi in guerra colla chiesa, e doveva in gran parte l'attaccamento de' suoi partigiani al loro odio per il governo de' preti; era egli stato più volte scomunicato, e recentemente, il 14 gennajo di questo stesso anno, il cardinale del Poggetto con tre giudici inquisitori avevalo condannato come eretico sulla pubblica piazza di Asti, dichiarandolo empio, colpevole, nemico di Dio e del nome cristiano[46]. Matteo aveva sempre con dignitosa calma respinti questi violenti attacchi; aveva protestato essere pura la sua fede, indipendente il suo principato; aveva risposto che sottometteva la sua coscienza alla chiesa, ma non il suo governo ai preti, ed aveva mostrato di accarezzare l'opinione de' cattolici nello stesso tempo che combatteva il papa. Tutt'ad un tratto sorpreso da un rimorso, si vide con estremo turbamento sull'orlo del sepolcro involto in una sentenza che condannava la sua anima agli eterni tormenti; dimenticando l'esperienza che aveva fatto della politica affatto mondana del papa, e le regole dietro le quali erasi egli stesso condotto, ad altro più non pensò che ad involarsi all'inferno che sembravagli aprirsi sotto i suoi passi. Tra i Milanesi più ben affetti alla chiesa scelse dodici ambasciatori che mandò al legato, per chiedere di trattare con lui, e per sapere a quali condizioni potrebbe ottenere l'assoluzione de' suoi peccati, e far levare l'interdetto dagli stati da lui governati. Il cardinale Bertrando, cui le sofferte sconfitte non avevano niente tolto della sua arroganza, domandò che i Visconti richiamassero a Milano tutti gli esiliati, loro restituendo i proprj beni, e rinunciassero alla sovrana autorità. Matteo esaminò queste proposizioni, che avrebbero interamente minata la sua famiglia, le comunicò al consiglio della città, e da tale istante mancò l'incantesimo con cui aveva governato lo stato; sentì ognuno che le lunghe guerre in cui vedevasi impegnato, che i pericoli cui esponeva la sua anima e tutti i suoi beni temporali, non avevano altro oggetto che la difesa di una famiglia ambiziosa ch'erasi usurpata l'autorità sovrana nella repubblica. Un vivo desiderio della pace s'impadronì degli spiriti: ma Galeazzo, il figliuolo primogenito di Matteo, che, avendo avuto sentore di tale trattato, era sollecitamente ritornato da Piacenza, si oppose con tanta forza alle ruinose concessioni cui rassegnavasi il padre, che, non potendo Matteo fare scelta tra gl'interessi di sua famiglia e quelli del cielo, rinunciò la sovranità in mano del figliuolo, ad altro più non pensando che a rendere la pace alla sua coscienza; e fu veduto ne' pochi giorni che sopravvisse frequentare soltanto le chiese, e tra le pratiche divote ripetere il simbolo della fede, e chiamare i fedeli in testimonio della sua ortodossia. Essendo stato a visitare la chiesa di Monza, cui aveva reso il suo tesoro lungo tempo impegnato, cadde infermo, e morì fuori di Milano (in Crescenzago) il 22 giugno del 1322; ma non si propalò nè la morte, nè il luogo in cui fu sepolto, perchè non fossero sparse al vento le sue ceneri, come avealo ordinato il papa[47].
Galeazzo si adoperava per farsi molti partigiani nella città e nell'armata finchè non si conosceva la morte del padre; e quando non potè più celarla, trovossi abbastanza forte per prendere egli stesso il titolo di capitano generale; ed il suo credito venne subito assodato dalla vittoria che Marco Visconti, suo fratello, riportò il 6 di luglio al ponte di Basignano sopra Raimondo di Cardone e le truppe della chiesa[48].
Ma gli spiriti ardenti ed inquieti che Matteo Visconti aveva calmati colla sua destrezza, o compressi coll'autorità, si abbandonarono a tutta la violenza delle loro passioni. Eravi in Piacenza un gentiluomo ghibellino detto Vergusio Landi, cui Galeazzo Visconti, avendone sedotta la consorte, esiliò per non trovarsi esposto alla sua vendetta. Landi rifugiatosi presso i Guelfi, erasi guadagnata la loro confidenza: ed avendoli impegnati ad ajutarlo nella sua vendetta, con quattrocento cavalli che gli affidò il legato, trovò modo d'introdursi in Piacenza il giorno 9 di ottobre, di far ribellare la città e di riconciliarla colla chiesa e colla parte guelfa[49]. Nello stesso tempo i negoziatori, che Matteo Visconti aveva spediti al legato, e che dopo la di lui morte vedevano perduta ogni speranza di pace, andavano esacerbando il popolo contro una famiglia che dicevano ambiziosa ed empia, la quale per conservare la sua tirannide sopra una città libera esponeva ogni giorno la vita dei cittadini al ferro de' nemici, l'onore delle loro mogli e de' loro figli alla brutalità de' soldati, i loro beni al saccheggio, le anime loro ai tormenti dell'inferno. Assicuravano che il papa ed il legato erano affezionati alla città di Milano, ed altro non desideravano che di ritornarla libera, essendo disposti ad assecondare gli sforzi che farebbero i cittadini per ottenere così glorioso intento. Lodrisio Visconti, parente di Galeazzo, valoroso e caro ai soldati, ma inquieto e geloso, riscaldava egli stesso i faziosi. La ribellione scoppiò finalmente in Milano il giorno 8 novembre del 1322, gridandosi per le strade pace e viva la chiesa! La cavalleria tedesca, cui Galeazzo non aveva da più mesi pagato il soldo, si unì ai cittadini; e Galeazzo che in tre diversi quartieri della città volle opporsi ai sediziosi coi soldati rimasti fedeli, fu tre volte vinto, e per ultimo costretto ad abbandonare la città in cui aveva regnato[50].
Il governo dei Visconti diede luogo ad una nuova repubblica milanese, non però amministrata dal popolo come ne' gloriosi tempi dell'antica repubblica; tutto il potere rimase concentrato in pochi nobili, che avevano preparata la rivoluzione, ed in alcuni capi di truppe mercenarie i quali avevano tradito il loro antico signore. Gli uni e gli altri erano da lungo tempo attaccati al partito ghibellino, e non seppero risolversi ad abbandonarlo interamente; i della Torre non furono richiamati, ed il governo, incerto tra i Visconti ed il cardinale legato, non si consolidò. Galeazzo, ch'erasi ritirato a Lodi, ingrossava la sua truppa; Ladrisio, rimasto nel consiglio di Milano, era già pentito d'aver abbassata la propria famiglia, e comperava a prezzo d'oro que' Tedeschi che aveva prima sedotti acciò che abbandonassero Galeazzo, perchè nuovamente tornassero al suo servigio. Avvisava questi frequentemente de' progressi che andava facendo, ed il 12 dicembre gli aprì una delle porte; Galeazzo entrò arditamente nella città dalla quale era stato scacciato trentaquattro giorni avanti: la scorse da uno all'altro lato alla testa della sua cavalleria, e fecesi di nuovo proclamare signore e capitano generale. Coloro che avevano diretta la rivoluzione, abbandonarono la città, e si recarono presso al legato[51].
In sul cominciare del 1323 l'armata guelfa che aveva ricevuto rinforzi da tutte le repubbliche toscane, e dai principi guelfi della Lombardia, si avanzò per assediare Milano. In due battaglie date una il 23 febbrajo del 1323 al passaggio dell'Adda, l'altra il 19 aprile a Garazzuolo, fu disfatto Marco Visconti, il miglior capitano dei fratelli Visconti[52]; le città di Tortona e di Alessandria aprirono le porte al legato, e riconobbero l'autorità del re Roberto. In pari tempo i Guelfi, assediati in Genova, sorpresero il 17 febbrajo i Ghibellini ne' sobborghi, scacciandoli con uccisione di molta gente[53]. Nel mezzodì dell'Italia gli affari de' Ghibellini erano ancora in peggiore stato, perchè il conte di Montefeltro che veniva riconosciuto per sovrano in Urbino, Osimo e Recanati, era stato improvvisamente sorpreso e massacrato col figliuolo in un ammutinamento del popolo il 26 aprile del precedente anno[54], i suoi partigiani avviliti affatto, le città d'Assisi, Urbino ed Osimo cadute in potere de' Guelfi, quella di Recanati abbruciata e distrutta sotto l'assurdo pretesto che vi si adoravano gl'idoli, e per ultimo i superstiti figliuoli del conte erano caduti in mano de' loro nemici, tranne un solo ch'erasi rifugiato a san Marino[55]. Da ogni banda la sorte della guerra sembrava nemica ai Ghibellini, minacciati omai d'un totale esterminio, quando tre ambasciatori di Luigi di Baviera entrarono in Italia. Presentaronsi questi in aprile al legato, che allora trovavasi a Piacenza, intimandogli di desistere dal recare molestia al signore della città di Milano il quale era dipendente soltanto dall'impero[56]. Il legato rinfacciò agli ambasciatori di prendere le difese di un eretico, e di turbare la chiesa ne' suoi diritti, e poche settimane dopo incaricò Raimondo di Cardone dell'assedio di Milano[57]. Ma non tardò a sentire che l'intervento di un imperatore aveva bastato per restaurare gli affari de' Ghibellini: gli ambasciatori eransi gettati in Milano con quattrocento cavalli; dietro loro ordine i signori di Verona, di Mantova, di Ferrara mandarono ai Visconti cinquecento cavalli; ed inoltre cinquecento Tedeschi che servivano nell'armata guelfa, vedendo sventolare le bandiere imperiali sulle mura di Milano, entrarono in città per unirsi ai loro compatriotti. Raimondo di Cardone indebolito dalla loro diserzione e dalle malattie che si erano manifestate nel suo campo, il 23 luglio del 1323 abbandonò l'assedio di Milano e si ritirò a Monza[58].
Luigi di Baviera poteva finalmente pensare alle cose dell'Italia, cui i due concorrenti all'Impero non avevano fino allora preso parte. Amendue abbandonati dalla nobiltà che gli aveva eletti, non avevano potuto commettere la decisione dei loro diritti alla sorte delle armi: e sebbene del 1315 si fossero trovati a fronte nelle vicinanze di Spira, eransi separati senza battaglia. La più importante zuffa della guerra civile in Germania era stata quella degli Svizzeri de' tre primi cantoni a Morgarten, ove disfecero il duca Leopoldo, fratello di Federico d'Austria. Nel 1320 la Baviera fu in modo saccheggiata dagli Austriaci, che Luigi fu in procinto di comperare la pace colla rinuncia all'Impero[59]. Finalmente il 28 settembre del 1322 i due imperatori eletti incontraronsi a Muhldorf. Luigi ed il suo alleato il re di Boemia avevano adunate tutte le loro forze; Federico per lo contrario non aveva ancora ricevuti i rinforzi che gli conduceva suo fratello Leopoldo dalla Svevia e dall'alto Reno. La battaglia incominciò al levare del sole, e durò dieci ore. Siccome le due armate erano quasi composte di sola cavalleria, si combatteva coll'ordine e la regolarità d'un torneo. Dopo una carica impetuosa, ogni armata riordinavasi in battaglia per fare dopo breve intervallo una carica non meno violenta. Ma in questo terribile torneo che doveva decidere del destino d'un Impero, si sparse un fiume di sangue, avendovi perduta la vita quattro mila cavalieri. Finalmente gli Austriaci furono rotti compiutamente, e Federico e suo fratello Enrico fatti prigionieri. Il primo fu mandato nel forte di Trausnitz nell'alto Palatinato ed Enrico ceduto al re boemo che col suo valore aveva decisa la battaglia[60].
Dopo questo fatto, Luigi di Baviera cominciò a governare l'Impero come solo legittimo sovrano. In una grande dieta, tenuta a Norimberga pubblicò una bolla per istabilire la pace, abolì i pedaggi che si esigevano in tempo della guerra, dispose dei feudi rimasti vacanti, diede a suo figliuolo il margraviato di Brandeburgo; finalmente volgendo i suoi sguardi all'Italia, pensò a proteggere in questa contrada coloro che da lungo tempo eransi eretti campioni dei diritti imperiali.
Luigi di Baviera aveva partecipata la sua vittoria di Muhldorf a Giovanni XXII, il quale non essendosi fin allora dichiarato a favore d'alcuno dei due rivali, gli rispose amichevolmente. «Abbiamo ricevuto, mio caro figlio, le lettere dell'eccellenza tua, le abbiamo ponderatamente lette, ed uditi ancora i circostanziati racconti fattici dal portatore. Abbiamo notato con quanta umiltà e prudenza tu attribuisci al padrone delle battaglie la vittoria di fresco ottenuta sul tuo competitore. Abbiamo pure osservato che ti sei comportato con estrema umanità verso di lui nell'istante in cui fu fatto prigioniere e dopo che tu lo tieni cattivo: noi ti esortiamo a perseverare nella stessa condotta.... Rispetto al trattato di pace e di concordia fra te e lui, ci offriamo di occuparcene, e lo faremo ben tosto quando ci avrai fatte conoscere le tue intenzioni[61].»
(1323) Ma allorchè il papa venne a sapere che Luigi aveva mandati soccorsi a Galeazzo Visconti, e costretto Raimondo di Cardone a levare l'assedio di Milano, si abbandonò alla più violenta collera. Determinato d'intentare un processo contro il re de' Romani, ricorse per dargli un titolo alla più strana pretensione. Asserì contro l'evidenza di tutti i secoli e di tutte le storie, «che la santa sede era amministratrice dell'Impero in tempo dell'interregno, che il solo papa era giudice tra i due competitori; che l'esame del candidato, la sua approvazione, la sua ammissione, o la sua ripulsa e riprovazione, erano di esclusiva pertinenza della sede apostolica; e che fin tanto che il papa non avesse approvato o rigettato l'uno o l'altro competitore, non esisteva ancora verun re de' Romani, e non era altrui permesso di assumerne il titolo[62] ». Onde creò a Luigi di Baviera altrettanti delitti, quanti erano gli affari da lui trattati come re de' Romani. «Era, diceva egli, una grave offesa verso Dio, un manifesto ed ingiurioso disprezzo della chiesa romana l'avere assunta l'amministrazione dell'Impero, l'avere, sotto titolo reale, ricevuto in Germania ed in alcune parti d'Italia un giuramento di fedeltà, l'aver disposto delle dignità e degli onori imperiali, e tra questi del marchesato di Brandeburgo; finalmente d'avere osato di proteggere e difendere i nemici della chiesa romana, specialmente Galeazzo Visconti ed i suoi fratelli, sebbene condannati da giudici competenti per delitti d'eresia con sentenza definitiva[63] ».
In conseguenza l'otto ottobre del 1323 il papa fece affiggere alle chiese d'Avignone una sentenza contro Luigi di Baviera, con cui, sotto pena di scomunica, gli veniva ordinato di dimettersi, entro tre mesi, da qualsiasi amministrazione dell'Impero: amministrazione che egli non potrebbe riassumere finchè la sua elezione non fosse approvata dalla sede apostolica. Gli fu nello stesso tempo ordinato d'annullare, per quanto da lui dipendeva, tutti gli atti precedentemente fatti come re de' Romani, e proibito a tutti gli ecclesiastici sotto pena di sospensione, a tutti i laici sotto pena di scomunica e d'interdetto, di ajutare in verun modo Luigi di Baviera, o di ubbidirlo nell'esercizio delle funzioni ch'egli si arrogava come re de' Romani.
Il papa si accontentò di far affiggere tale sentenza alle porte delle chiese d'Avignone senza farle notificare a colui contro del quale erano state fatte. Non pertanto se n'ebbe tosto sentore in Germania[64]; e saputolo Luigi, spedì tre deputati alla santa sede, per sapere i motivi della sua condanna, e chiedere un più lungo termine dell'accordato. Intanto il monarca passò a Norimberga, ove alla presenza di notaj e di testimonj confutò ogni imputazione fattagli dalla corte pontificia. Dichiarò che dopo essere stato nominato re de' Romani dagli elettori con grande maggiorità di suffragi, dopo avere ricevuta la corona imperiale ad Aquisgrana, egli trovavasi in possesso di tutte le prerogative imperiali in conformità al diritto costantemente riconosciuto in ogni tempo, e senza che vi fosse bisogno dell'approvazione della santa sede. Soggiunse di non saper capire come presentemente s'intentasse contro di lui un'azione per avere assunto il titolo di re dei Romani mentre che già da dieciotto anni, epoca della sua elezione, aveva sempre, anche nelle lettere dirette alla santa sede, fatto uso di questo titolo, senza che alcuno lo trovasse incompetente. Protestava che, se aveva preso a difendere Galeazzo Visconti, non era già per proteggere un eretico, ma perchè il Milanese dipendeva immediatamente dall'Impero; e perciò a questa provincia aveva mandato soccorsi, in conformità degli obblighi che gl'imponeva la sua dignità, quando il suo territorio fu invaso a mano armata. Per ultimo ritorse contro lo stesso papa la colpa di proteggere gli eretici, perchè Giovanni XXII non aveva voluto esaminare l'accusa portata al suo tribunale contro i frati Minori d'avere rivelato il segreto della confessione. Per tutte queste cause Luigi appellò della sentenza del papa al giudizio di un prossimo consiglio, di cui chiese l'adunanza, ed al quale promise di personalmente intervenire[65].
Prima che quest'appello fosse noto alla corte d'Avignone, gli ambasciatori di Luigi ottennero dal papa una dilazione di due mesi per trattare la sua causa. Ma questa dilazione in tempi in cui le poste non erano per anco stabilite, appena bastava per portarne la notizia da Avignone in fondo alla Baviera, e per riaverne il riscontro. Perciò Luigi in un manifesto che sparse per tutta la Germania, protestò che il termine accordatogli era troppo breve, perchè potesse presentarsi in persona e giustificarsi. Dichiarava di essere e di voler essere il protettore della chiesa e della religione cristiana; ch'era disposto a sottoporsi umilmente alle correzioni della prima, se aveva verso di lei mancato ai proprj doveri; ma che nello stesso tempo riguardavasi come specialmente incaricato di difendere i diritti e l'onore dell'Impero; onde non soffrirebbe che venissero lesi in verun modo[66].
D'altra parte quando il papa vide l'appello del re de' Romani al concilio, e la protesta, fulminò subito contro di lui la scomunica. Il 22 marzo del 1324 dichiarò in pieno concistoro, che Luigi di Baviera era caduto sotto le pene della scomunica, e vietava a tutti i fedeli di avere con lui veruna relazione[67]. Per altro gli assegnava altri tre mesi a presentarsi alla corte papale e giustificarsi. Ma perchè entro quest'ultimo termine Luigi non comparve, e non depose il titolo di re de' Romani, il papa, con una nuova bolla datata l'undici di luglio, annullò tutti i diritti che il suffragio degli elettori potesse aver dato al duca di Baviera, e lo dichiarò per sempre incapace dell'Impero[68].
CAPITOLO XXX.
Principj di Castruccio Castracani. — Rivoluzioni nelle repubbliche di Toscana. — Tirannia dell'abate di Pacciana a Pistoja. — Rotta de' Fiorentini ad Altopascio.
1320 = 1325. Gl'Italiani più non credevano che la Lombardia potesse sottrarsi ad un governo dispotico. Sebbene i principi che la governavano non fossero riconosciuti legittimi, più non si pensava all'oppressione ed alla schiavitù del popolo di cui avevano usurpati i diritti. Ma le città della Toscana che sempre si consideravano come libere, avevano quasi tutte conservato l'intero godimento degli antichi loro privilegi; tenevano gli occhi aperti sulla loro indipendenza con quella stessa gelosia che formava il carattere dei popoli dell'antichità; e l'odio che nudrivano pel governo d'un solo, era reso più forte dallo spettacolo della vicina tirannide.
In Toscana confondevasi la causa dei Guelfi con quella della libertà. Firenze, Siena, Perugia e Bologna trovavansi da questo doppio interesse collegate in istrettissima alleanza. Bologna per le sue relazioni politiche e per la forma del suo governo risguardavasi come appartenente alla Toscana, benchè posta fuori de' suoi confini. Pistoja, Prato, Volterra, Samminiato ed altre minori città seguivano la medesima fazione, ed eransi unite alla stessa lega. Pisa ed Arezzo conservavansi fedeli ai Ghibellini: la prima libera, l'altra ubbidiente al suo vescovo Guido Tarlati, uno de' signori di Pietramala. Tutte le città della Romagna erano schiave di piccoli tiranni, attaccati alla parte ghibellina; i Malatesti governavano Rimini, gli Ordelaffi Forlì, Francesco di Manfredi Faenza, Guido da Polenta Ravenna. Ma in mezzo di questo apparente equilibrio tra le forze delle opposte fazioni, erasi in Lucca innalzato alla testa del partito ghibellino un uomo che univa l'accortezza e la dissimulazione al valore ed alle più rare virtù militari; che aveva l'arte di farsi temere dal popolo ed amare dai soldati; che sapeva dare il giusto valore all'odio impotente che poteva disprezzare, all'amicizia ed al favore che gli era utile di acquistare; e che tenevasi sempre padrone di nuocere senza provocare la vendetta, di abbandonarsi all'amicizia, senza arrischiare di essere tradito. Quest'uomo era Castruccio Castracani, signore o tiranno di Lucca.
Nell'istante medesimo in cui Uguccione e Neri della Fagiuola erano stati scacciati da Pisa e da Lucca, gli abitanti di quest'ultima città, che riconoscevano da Castruccio la loro liberazione da un giogo straniero, lo nominarono capitano annuale delle loro milizie, e lo riconfermarono tre anni consecutivi. Castruccio, uscito dalla famiglia ghibellina degli Interminelli, era stato molto tempo in esilio per la fazione de' suoi antenati; nel suo esilio aveva avuta opportunità di militare sotto molti capi della stessa fazione in Lombardia; ed il trionfo della sua fazione non gli stava meno a cuore del proprio innalzamento. L'anno 1320, assicuratosi il favore popolare, fece esiliare da Lucca gli avvocati e tutta la parte guelfa, indi si presentò al senato domandando il supremo potere. Di duecento dieci suffragi ne ebbe duecento nove di favorevoli, ed il suo innalzamento alla signoria fu quasi con perfetta unanimità confermato dal popolo[69].
La sovranità di Lucca non era per Castruccio che un primo passo verso la grandezza cui aspirava. La sua alleanza coi Ghibellini di Lombardia, e la stretta amicizia che lo univa alla famiglia Visconti, lo chiamava a prendere parte alla guerra che guastava il nord dell'Italia; e solo per mezzo della guerra egli ben vedeva di potere innalzarsi a quell'alto grado di potenza per cui sentivasi fatto. Era Lucca una ricca e commerciante città, sebbene minore di Firenze. Le gabelle delle sue porte davano grandi profitti allo stato, che Castruccio accrebbe con un'estrema economia. I cittadini, orgogliosi di aver avuto parte alla vittoria di Montecatini, eransi affezionati alle armi, ed il loro principe aveva saputo disciplinarli ricompensando le fatiche degli esercizj militari con premj e distinzioni d'onore. La campagna veniva coltivata da una robusta e coraggiosa razza di montanari che dava eccellenti soldati. Le castella degli Appennini, quelli della Varsilia e della Lunigiana appartenevano a gentiluomini ch'eransi in gioventù esercitati nelle piraterie di mare e di terra. Castruccio gli unì presso di lui; chiamò pure alla piccola sua corte gli esiliati e gli avventurieri che andavano errando d'una in altra città in traccia di battaglie e di piaceri. Il valore era per Castruccio la prima virtù, che premiava colla gloria e colla licenza; ma in pari tempo aveva l'accortezza di assoggettare alla disciplina coloro che scioglieva dalle regole della morale.
In tal modo avendo Castruccio lentamente formata la sua armata, ebbe opportunità di entrare in campagna in occasione della spedizione in Italia di Filippo di Valois. Le repubbliche guelfe che da tre anni trovavansi con lui in pace, avevano mandati mille cavalli al principe francese perchè potesse attaccare Matteo Visconti. I Ghibellini risguardarono la marcia di questa truppa come una violazione della pace di Toscana, e perciò i Pisani spedirono alcuni soccorsi a Castruccio[70], il quale s'impadronì del ponte della Gusciana, fiume paludoso, che divide la pianura di Val di Nievole e dello stato lucchese dalla Val d'Arno fiorentina; e per questo passaggio entrò improvvisamente nel territorio di Firenze, occupando tre castella abbastanza forti, Cappiano, Montefalcone e santa Maria a Monte, e guastando il territorio di val d'Arno di sotto. Tornando tosto addietro attraversò lo stato di Lucca per avvicinarsi a Genova assediata dai Ghibellini, e s'impadronì di molte terre della Garfagnana, della Lunigiana e della riviera di Levante[71]. I Fiorentini che a vicenda erano penetrati nella Val di Nievole, richiamarono Castruccio a difendere il proprio stato: ma le due armate divise dalle paludi si stettero osservando finchè l'inverno le sforzò a ritirarsi[72].
Nel susseguente anno (1321) volendo i Fiorentini attaccare Castruccio da due lati, si collegarono col marchese Spinetta Malaspina, che il signore di Lucca aveva spogliato de' suoi feudi in Lunigiana, e gli mandarono un corpo di truppe, mentre con un'altra armata assediavano Montevetturini all'estremità della Valle di Nievole. Tutti i vassalli del marchese presero le armi pel loro signore; ma quando l'una o l'altra armata volle entrare nello stato di Lucca, essendo ogni villaggio fortificato, e tutti gli uomini soldati quando trattavasi di difendere la propria terra, ogni miglio di terreno costava un assedio o una battaglia. Intanto Castruccio veniva soccorso dai Ghibellini di Milano, di Piacenza, di Parma, di Pisa e d'Arezzo; e formava un'armata di mille seicento cavalli che univa alla sua infanteria. Ben tosto obbligò il capitano fiorentino a levare l'assedio di Montevetturini, saccheggiò venti giorni l'aperta campagna di Val d'Arno, di cui aveva libero l'ingresso; indi tornò in Lunigiana a riconquistare le castella che gli aveva tolto il marchese Spinetta[73].
Quando Castruccio ebbe, col soccorso degli alleati ghibellini, riportati questi vantaggi, si mostrò disposto ad abusarne, rendendosi ingrato ai Pisani, cui andava in parte debitore de' suoi successi. Il conte Renieri, o Nieri della Gherardesca, che i Pisani avevano fatto capitano delle loro milizie dopo la morte di suo nipote, aveva abbandonato il partito democratico, al di cui favore la sua famiglia andava debitrice d'ogni suo innalzamento, e si era unito ai nobili, perpetui nemici de' suoi antenati[74]. L'odio delle due fazioni plebea e patrizia, che da sì lungo tempo teneva divisa la repubblica, era cresciuto a dismisura, ed un nuovo demagogo, Coscetto del Colle, subentrando al Gherardesca, erasi fatto capo de' plebei. Finalmente il furore del popolo, lungo tempo compresso, scoppiò in maggio del 1322, ed i due partiti si batterono due giorni con estremo accanimento. Coscetto del Colle, fatto prigioniere, fu dal conte condannato a morte mentre quindici capi delle tre grandi famiglie Gualandi, Sismondi e Lanfranchi furono dal popolo esiliati, e spianate le loro case. Frattanto fu recata a Pisa l'improvvisa notizia che Castruccio, avuto avviso della loro zuffa, avanzavasi con tutte le sue forze per sorprendere la città. Le due fazioni si riconciliarono subito per resistere all'assalitore, ed il signore di Lucca trovò contro ogni sua aspettazione chiuse le porte e le mura coperte di soldati[75]. La sedizione contro il conte Nieri di cui egli era stato testimonio, fecegli sentire quanto la potenza di un signore sia poco sicura finchè si appoggia soltanto al favore popolare, ed appena tornato a Lucca, gettò i fondamenti di una fortezza che chiamò l' Augusta, o la Gusta, dalla quale signoreggiava tutta la città[76]. I territorj di Lucca e di Firenze non confinavano tra di loro che in Val d'Arno di sotto, e colà i Fiorentini avevano afforzato Fucecchio, Castelfranco e Santa Croce, ove tenevano molta cavalleria per opporsi alle scorrerie delle truppe lucchesi. Invece di continuare i suoi attacchi da questa banda, Castruccio si volse bruscamente contro il territorio di Pistoja. Per la Valle di Nievole di cui era padrone, egli poteva egualmente penetrare nel piano e nella montagna pistojese, senza che questa repubblica, spossata dalle guerre civili e dai sostenuti assedj, fosse in istato di opporsi alle sue forze.
Di questi tempi il più riputato cittadino di Pistoja era l'abate di Pacciana, detto Ormanno dei Tedici. In una città indebolita e che aveva perduto il fiore della nobiltà, le ricchezze ed i soldati, questo monaco lusingossi di farsi sovrano. Egli declamava continuamente contro i mali della guerra e rappresentava al popolo la necessità di mettere fine alla guerra facendo tregua con Castruccio. Il vocabolo tregua era la parola d'ordine del suo partito; i contadini del piano e della montagna, che ardentemente desideravano la cessazione delle ostilità, risguardavano l'abate quale loro salvatore[77].
Sembrava non per tanto impossibile che così accaniti nemici, com'erano i Fiorentini ed i Lucchesi, volessero accordare una tregua parziale al territorio di Pistoja che li divideva. Ma Castruccio conobbe i vantaggi che poteva ottenere grandissimi dall'innalzamento dell'abate di Pacciana; previde ch'egli solo raccoglierebbe i frutti di tutte le piccole astuzie del monaco diventato sovrano, e che approfitterebbe della sua debolezza. Il monaco promettevagli segretamente di dargli in mano la città quand'egli ne fosse padrone, e Castruccio fingeva di credergli e mostravasi disposto ad entrar seco in negoziazioni per la tregua: d'altra banda i Fiorentini mandarono subito deputati a Pistoja per chiedere al popolo di non impegnarsi in separati trattati, onde non esporsi agl'inganni del tiranno lucchese: offrirono in pari tempo di spedire a Pistoja sufficienti soccorsi per impedire che il suo stato fosse guastato dai nemici.
L'abate di Pacciana accoglieva prima degli altri i deputati fiorentini, offrendosi mediatore presso al popolo, come tra lo stesso popolo e Castruccio; sembrava ch'egli si occupasse continuamente di conciliare ogni cosa, e sostenendo le apparenze di conciliatore andava sempre più affezionandosi i contadini ed il popolo. Come questi però vedeva che la tregua non facevasi mai, prese le armi il lunedì di Pasqua 10 aprile del 1322, e, conducendo l'abate quasi in trionfo, s'impadronì delle porte, del palazzo del pubblico, del campanile e delle mura; ed ovunque si mutarono le guardie, sostituendovi le persone più ben affette all'abate. In seguito tentò replicatamente di far assassinare Ettore Taviani e Bonifacio Ricciardi, che credeva essere i suoi più pericolosi avversarj; ma non essendo riuscito nell'intento, impegnò Castruccio ad avvicinarsi fino a mezzo miglio di Pistoja, affinchè gli ambasciatori, i soldati fiorentini e tutti coloro che sarebbersi opposti ai suoi disegni, si ritirassero per timore di cadere nelle mani dei Lucchesi, ed accrebbe egli stesso questo timore, pregandoli artificiosamente a rimanere: ma appena usciti di città, fece chiudere le porte dietro di loro, adunò un consiglio al quale non chiamò che artigiani e gente della più bassa plebe, e si fece proclamar signore per un determinato numero di anni. Non volle per altro abitare nel palazzo pubblico, e dichiarò che tanto fasto mal si confaceva all'abate d'un monastero[78].
Castruccio accordò all'abate di Pacciana una limitata tregua, e questi incominciò ad esercitare liberamente la sovranità di cui erasi impadronito. Ma i piccoli intrighi di convento che avevano servito a farlo principe, non bastavano ad assicurargli la sovranità. Le astuzie non possono supplire alla profonda politica, nè la crudeltà al carattere, nè l'ambizione equivale al coraggio ed alla fermezza. «In tutto ciò ch'egli faceva, dice lo storico pistojese suo coetaneo, agiva da uomo vile, non sapeva essere signore, ed aveva più fiducia negli altri che in sè medesimo; ogni suo parente voleva essere padrone, e non pensava che a derubare il comune o i particolari; per ultimo nulla facevasi in Pistoja senza che tornasse vantaggioso ai Tedici[79].» Così l'abate di Pacciana amministrò quattordici mesi lo stato, nel qual tempo esiliò i Rossi, i Lazzari ed una parte dei Cancellieri. Prometteva sempre a Castruccio di rinunciargli la sua signoria; ma questi non si lasciò lungo tempo ingannare dai trattati del monaco. Entrò impensatamente a Pupiglio, e se ne impadronì, onde occupò ben tosto la montagna pistojese[80].
(1323) Intanto quello de' nipoti dell'abate di Pacciana che più degli altri aveva abusato della sua autorità, Filippo Tedici, congiurò contro lo zio, non perchè aspirasse ad acquistare maggior potere di quello che aveva; ma per unire il titolo di signore all'esercizio delle prerogative della signoria. L'abate scoprì la congiura; ma egli non aveva tanta grandezza d'animo per disprezzare le trame de' suoi nemici, nè sufficiente clemenza per perdonare a suo nipote, nè bastante energia per difendersi e vendicarsi. Tentò vilmente di far assassinare il nipote, e non osò di resistergli in faccia. In un istante in cui i suoi partigiani erano adunati presso di lui, mentre i Fiorentini, chiamati in suo soccorso, avevano spinte le loro truppe fino alle porte di Pistoja, non ebbe mai il coraggio di avanzarsi verso la porta per farla aprire, e perdette per viltà quella signoria che aveva acquistata coll'astuzia.
Mentre Castruccio teneva gli occhi aperti sopra i Pistojesi, per approfittare delle loro divisioni, attaccava i Fiorentini più vigorosamente. Questi avevan fatto venire dal Friuli Giacomo di Fontanabuona, gentiluomo che faceva il mestier di condottiere, val a dire che conduceva la sua piccola armata al soldo di coloro che volevano adoperarla. I Fiorentini erano disposti a mandare questo capitano con trecento cinquanta cavalli, seco condotti, nella Valle di Nievole, ove teneva segrete intelligenze, e dove gli si doveva consegnare il castello di Buggiano. Ma avendo Castruccio avuto sentore di questo trattato, fece appiccare dodici de' cospiratori di Buggiano, e, coll'offerta d'un maggior soldo, persuase Giacomo di Fontanabuona a disertare colla sua truppa ed a passare al suo servigio[81]. Questo è il primo tradimento de' condottieri che si fecero in breve così frequenti in tutta l'Italia, e resero così pericoloso l'uso de' soldati mercenari; pure si andava sempre più loro abbandonando la cura di difendere gli stati; perchè il loro valore e la perizia dell'arte militare li rendeva di lunga mano sempre più esperti delle truppe nazionali.
Castruccio, poi ch'ebbe ottenuto questo rinforzo a spese dei Fiorentini, si affrettò di portare la guerra sul loro territorio. Il 13 giugno del 1313 passò la Gusciana con ottocento cavalli ed otto mila pedoni, ed entrò in Val d'Arno di sotto, guastando i distretti di Fucecchio di Castelfranco e di Santa Croce; poi passò l'Arno e saccheggiò le campagne di Samminiato di Montopoli e della estremità di Val d'Elsa, di dove tornò a Lucca senza aver incontrati nemici[82]. Dopo aver dato una settimana di riposo alle sue truppe, presentossi all'impensata sotto Prato il 1.º luglio con seicento cinquanta cavalli e quattro mila fanti. Questa piccola città lontana soltanto dieci miglia da Firenze fu compresa da grandissimo terrore. Vero è che gli abitanti chiusero le porte, ma fecero sapere ai Fiorentini, che, non venendo prontamente soccorsi, non tarderebbero ad aprire le porte al nemico.
La repubblica fiorentina, tradita dal Fontanabuona, trovavasi sprovveduta di truppa assoldata, ma la signoria chiamò i cittadini in difesa della patria. A tale chiamata si chiusero le botteghe, e tutti i Fiorentini presero le armi; onde lasciata una numerosa guardia alle porte e sulle mura, mille cinquecento cavalli con venti mila fanti si recarono il 2 luglio a Prato. Credevasi che l'armata di Castruccio fosse più forte assai che non era; e nel primo istante di trepidazione i priori avevano fatto proclamare che sarebbe fatta grazia a tutti i banditi che si recassero all'armata di Prato. E tale era stata la violenza delle proscrizioni, che quattro mila Bianchi o Ghibellini esiliati, assai più de' pacifici cittadini accostumati alle armi, si unirono all'armata. Castruccio non aspettò fino all'indomani a ritirarsi innanzi a forze tanto superiori, e si ridusse nella stessa notte a Serravalle.
Quando i Fiorentini s'accorsero la mattina del susseguente giorno che Castruccio era partito, tutto il loro campo fu in preda ad un tumultuario movimento. I borghesi che la vigilia avevano abbandonate le loro officine, più non respiravano che sentimenti di gloria militare e vendetta contro Castruccio. «Il nemico, dicevano essi, fugge innanzi a noi, non ha osato di aspettare l'insegna trionfante del giglio; ma oggi s'appartiene a noi l'inseguirlo: noi dobbiamo distruggere le messi del nemico, togliergli i bestiami, e punirlo dell'insolenza con cui insultò tante volte il nostro territorio. Venti mila soldati uscirono jeri di Firenze, e non devono rientrare senza aver prima ottenuta una compiuta vittoria.» Ma i nobili che componevano la cavalleria di quest'armata, rispondevano con amara ironia, che i cittadini non erano tutto ad un tratto divenuti soldati per essersi vestiti delle loro armi; che avevano di già ottenuto il maggiore successo, cui potessero aspirare; che avevano spaventato il nemico col loro numero, prima che avesse conosciuto per prova quanto avesse avuto torto di esserne spaventato; che entrati una volta nel paese nemico, la fame e la sete non meno che la spada farebbero loro desiderare la tranquillità delle loro officine che avevano poc'anzi abbandonate. Potevano i nobili temere a ragione l'esito di una campagna che volevasi intraprendere senza truppe di linea con un'armata senza disciplina; ma si abbandonarono a quell'impazienza che in loro eccitavano le millanterie de' borghesi: quindi i motteggi con cui rispondevano all'entusiasmo del popolo, destavano la collera de' più pacifici cittadini. Altri motivi di disputa avevano risvegliata la sopita animosità dei due ordini. Col finire del 1321 era spirata l'autorità data sopra la repubblica al re Roberto, ed a tale epoca erasi rinnovata l'ordinanza di giustizia contro i nobili, che li rendeva garanti dei delitti gli uni degli altri, e si lagnavano che mentre erano nelle armate i soli difensori dello stato, fossero i soli privati della protezione delle leggi. Non potendo il consiglio di guerra deliberare, risolse, per sedare la discordia che agitava l'armata, di chiedere a Firenze nuove istruzioni. Ma i sentimenti della signoria e dei consigli si divisero come nel campo. Tutti i nobili volevano che si differisse la pugna, i borghesi che si marciasse verso il nemico, e perchè le discussioni si protrassero fino a notte, il popolaccio attruppato nelle strade fissò le irresoluzioni dei consigli, chiedendo, con forsennate grida, la battaglia; onde fu mandato ordine al conte Novello di condurre l'armata contro Lucca. Questo generale tardò alcuni giorni a porsi in cammino; e perchè i gentiluomini facevano sempre nascere qualche nuovo ostacolo alla marcia, non si avanzò al di là di Fucecchio.
Gli esiliati, ch'eransi uniti all'armata, in mezzo alle dissensioni che agitavano il campo, credettero, quando furono a Fucecchio, di dovere ancora occuparsi del proprio vantaggio; ed i nobili andavano loro consigliando ad assicurarsi gli effetti dell'amnistia loro promessa. Abbandonarono perciò le insegne, e si presentarono il 14 luglio, uniti in un corpo d'armata, alle porte di Firenze per rientrare nella loro patria. La signoria, atterrita, fece chiudere le porte, e mandò ordine al conte Novello di ricondurre l'armata per difendere la città contro i ribelli. Ed in tal modo ebbe fine questa campagna senza che i Fiorentini vedessero il nemico[83].
Intanto gli esiliati, sempre accampati presso Firenze, mandarono deputati alla signoria, lagnandosi di essere trattati come nemici, e riclamando l'esecuzione delle promesse. I gentiluomini appoggiavano con tutto il loro credito le istanze de' fuorusciti; ma il popolo decise che, coll'aver tentato di entrare in città per sorpresa, avevano perduto il beneficio di una amnistia che non era stata accordata che alla loro sommissione. Si scoperse una congiura dei nobili per introdurli in città, ed i principali capi furono esiliati[84].
E per tal modo infiniti pericoli circondavano la repubblica. Un potente nemico l'andava continuamente tribolando, guastava le campagne, sorprendeva le fortezze e facevale temere la perdita delle città la di cui alleanza eragli più necessaria; un grosso corpo di esiliati non aveva deposte le armi e valevasi a vicenda della forza e degli artifizj per rientrare in patria; per ultimo entro la medesima città manifestavansi non infrequenti sedizioni, ed i più pericolosi nemici trovavansi forse entro le sue mura. In così difficile situazione temevansi le agitazioni periodiche occasionate ogni due mesi dall'elezione della signoria. Il corpo elettorale trovavasi in allora composto dei priori che uscivano di carica, dei buoni uomini e dei gonfalonieri delle compagnie, e di un determinato numero di aggiunti di ogni quartiere. Questi elettori erano in certo modo i rappresentanti del popolo, e nella loro scelta si uniformavano alla sua opinione che gli eleggibili cercavano di rendersi affezionata. La città veniva ravvivata dall'emulazione di coloro che aspiravano alle cariche, ma era pure frequentemente agitata dalle loro brighe. Il ritorno delle elezioni ogni due mesi non lasciava quasi riposo alla nazione, e sei volte ogni anno avevasi cagione di temere sedizioni o guerre civili.
La signoria che aveva regnato in settembre ed in ottobre del 1323, e che colla scoperta della congiura dei gentiluomini erasi guadagnata la pubblica confidenza, si prese l'incarico di mutare questo sistema d'elezioni, e di nominare in una sola volta, di concerto cogli aggiunti che rappresentavano il popolo, tutti i priori dei quarantadue mesi avvenire, ossia ventuna magistrature che dovevano successivamente entrare in carica. Tale elezione si fece nel modo consueto; i nomi degli eletti vennero scritti in polizze suggellate, che si chiusero in alcune borse, dalle quali dovevano cavarsi i nomi a sorte, finchè fossero esaurite le polizze[85]. In tal maniera il rinnovamento della magistratura si mutò in un lotto, decidendo la sorte della nomina de' capi della repubblica. Quasi tutte le città libere d'Italia adottarono ben tosto questa innovazione dei Fiorentini, che conservossi fino alla presente età in Lucca e nelle municipalità della Toscana e degli stati della chiesa.
Questa nuova maniera di elezione sembrò più democratica della precedente, ponendo maggiore eguaglianza tra i candidati, e chiamando un maggior numero di cittadini agli onori pubblici. Le sole borse delle tre supreme magistrature[86] dovevano contenere i nomi di sei in settecento candidati; ed essendosi adottato lo stesso metodo per tutte le elezioni, furonvi cento trentasei magistrature od ufficj diversi, cui nominava la sorte[87]. Per tal modo non facevasi che pochissimo luogo alla scelta, e tutti i cittadini arrivavano tosto o tardi ad occupare qualche carica. Gli elettori imborsavano spesso uomini affatto inetti e che non sarebbero giammai stati eletti se avessero dovuto entrar subito in carica. Il broglio fu soppresso, ma si spensero col broglio l'emulazione, il timore de' giudizj di un popolo che condannava il vizio ed il desiderio di procacciarsi i suffragi coi talenti e colle virtù. Molte cause tendevano, non v'ha dubbio, a corrompere i costumi nelle repubbliche italiane; ma è cosa notabile che appunto nell'epoca in cui s'introdusse l'elezione a sorte, i cittadini rinunciarono alla professione delle armi; i capi dello stato abiurarono lo studio dell'arte militare, ed affidarono la difesa della libertà a' generali ed a' soldati mercenarj. Nella stessa epoca il lusso, la mollezza, la corruzione s'introdussero in tutte le famiglie, e la pubblica morale venne macchiata dall'adozione di una falsa e perfida politica. Non pertanto i talenti de' repubblicani sopravvissero alle loro virtù; sei in ottocento cittadini continuamente mutati dalla sorte, prima d'aver avuto tempo d'imparare il mestiere dell'uomo di stato, seguirono con costanza, e molte volte con intelligenza i medesimi progetti, i medesimi principj; e Firenze mostrò che ella sola conteneva un maggior numero di esperti politici, di quello che sarebbesi trovato nel più vasto regno. Così Atene eleggeva ogni anno dieci generali, mentre Filippo riputavasi fortunato d'aver potuto, mentre visse, trovarne un solo in Macedonia[88].
Dopo questa riforma dell'interna amministrazione, la repubblica di Firenze cercò di unirsi più strettamente che mai colle città guelfe; unione necessaria per la comune salvezza. Ma Perugia trovavasi impegnata in una interminabile guerra coi Ghibellini d'Assisi e di città di Castello; Siena era agitata dai cattivi umori eccitati dalle rivali famiglie de' Salimbeni e de' Tolomei, e più ancora dalla gelosia che nodrivano tutti gli ordini dello stato contro i mercanti, che sotto nome di Monte dei Nove eransi impadroniti del supremo potere[89]. Finalmente Bologna più potente che non erano le altre due repubbliche e più strettamente legata con Firenze veniva pure scossa da violenti convulsioni.
Bologna andava debitrice di parte della sua ricchezza, siccome della sua gloria, all'affluenza degli scolari alla sua università. L'amore delle scienze era, in questo secolo, diventato una vera passione, una passione comune a tutti. Prima del ritrovamento della stampa erano i libri tanto rari e di così alto prezzo, che l'istruzione vocale doveva supplire a quella che trovasi negli scritti. Quindici mila giovani italiani e tedeschi frequentavano in Bologna le pubbliche lezioni di diritto civile e canonico, e di medicina. Questi giovani prendevano in ogni occasione a difendersi vicendevolmente, di modo che difficilmente si potevano assoggettare ai tribunali ed alle leggi.
Uno di costoro detto Giacomo di Valenza, che l'avvenenza della sua persona, l'eleganza delle maniere, la generosità del carattere rendevano carissimo ai suoi compagni di studio, incontrossi in una chiesa, un giorno di solenne festa, con Costanza de' Zagnoni d'Argela, nipote di Giovanni d'Andrea, il più riputato di tutti i giureconsulti canonisti[90]. Giacomo, rimasone perdutamente innamorato, dopo avere inutilmente tentata ogni onesta strada per piacerle, la rapì violentemente dalla propria casa, mentre trovavasi assente il padre, e coll'ajuto de' suoi amici difese disperatamente la casa in cui l'aveva condotta quando il padre di Costanza venne ad attaccarlo alla testa del popolo ch'egli aveva chiamato in suo soccorso. Giacomo di Valenza fu dopo lungo contrasto arrestato dal podestà, e la commessa violenza non potendo in verun modo scusarsi, fu condannato a perdere la testa, ed il giorno dopo la sentenza fu eseguita. Ma gli studenti pretendevano di non essere subordinati agli ordinarj tribunali, o a dir meglio, riclamavano l'impunità dei delitti. L'amore che portavano a Giacomo di Valenza accresceva il loro malcontento, onde la sua condanna, sebbene giusta e meritata, eccitò l'indignazione di tutta l'università; e gli studenti coi loro professori partirono alla volta di Siena, dopo aver tutti giurato di non tornare a Bologna prima di avere ottenuto intero soddisfacimento[91].
Vivea allora in Bologna Romeo Pepoli creduto comunemente il più ricco particolare che fosse in Italia. I beni che i suoi maggiori ed egli stesso avevano ammassati colle usure, facevansi ammontare a cento venti mila fiorini di rendita, corrispondenti press'a poco ad un milione e mezzo di lire, di cui ora cominciava a servirsi per aprirsi una strada alla sovranità della sua patria. Cercava perciò di guadagnarsi il popolo colle liberalità, spesso ancora accordando protezione e sottraendo i delinquenti al rigore delle leggi; e si acquistava in tal maniera opinione d'essere l'amico degli infelici e degli oppressi. Lo stesso anno aveva tentato di salvare a forza aperta un notajo convinto di falso: tentò pure di difendere Giacomo di Valenza prima che fosse giudicato, e dopo morto questi, prese a favoreggiare la causa degli studenti, annunciandosi come il protettore dell'università. La diserzione degli scolari aveva sparsa la desolazione in tutta la città, temevasi di vedere Bologna decaduta per sempre dall'antico suo splendore, e Romeo di Pepoli, secondato dal favor popolare, mosse il senato a posporre il rigore della giustizia al comune interesse. Furono spediti deputati agli scolari rifugiati in Siena; il podestà chiese loro pubblicamente scusa, rinunciando ad ogni giurisdizione sopra di loro, ed accrescendo l'onorario de' professori.
Gli scolari soddisfatti con questa sommissione tornarono a Bologna; ma in tale circostanza la condotta di Romeo aveva svegliati i più vivi sospetti negli amici della libertà. Quasi tutti i gentiluomini guelfi ed i migliori borghesi che penetravano più a dentro che il popolo, scoprirono i progetti di Romeo, e si unirono per impedirne l'esecuzione. Il loro partito prese il nome di Maltraversa[92] ed i fautori del Pepoli ebbero quello di scacchesi. Questa fazione ottenne il 1 luglio del 1321 di far nominare un podestà affatto ligio a Romeo, il quale non tardò a manifestare colle sentenze la sua decisa parzialità. Allora i Maltraversi accusarono apertamente Romeo di aspirare alla tirannide; spaventarono il popolo, mostrandogli le tristi conseguenze del favore che gli era stato accordato, il prezzo che questo ambizioso cittadino voleva ricavare da' suoi beneficj, risvegliando coll'esempio dei tiranni di Lombardia e di Romagna la tema e l'orrore del potere di un solo, il 17 luglio chiamarono alle armi gli amici della libertà, attaccarono nella propria casa Romeo, il quale, abbandonato da tutti i suoi partigiani, trovò modo di fuggire per una porta segreta mentre per suo ordine andavansi gettando innanzi ai cittadini armati dei sacchi di danaro per ritardarne la marcia. Tutta la famiglia Pepoli fu esiliata da Bologna, confiscati i suoi beni, atterrate le sue case, e banditi per un tempo più o meno lungo, in determinati luoghi, i suoi partigiani[93].
Ma nè la scossa cagionata da questa congiura, nè i pericoli della repubblica avevano avuto fine coll'esilio dei Pepoli. Romeo manteneva corrispondenze in città, e nel susseguente anno si scoprì una congiura in suo favore, che costò la vita ai principali suoi fautori[94]. D'altra parte egli si era collegato coi signori di Mantova, di Verona e di Ferrara; e tutti i principi delle città lombarde erano sempre disposti a favorire chiunque cercasse di fondare una nuova tirannide in uno stato libero. I Fiorentini invece, risguardandosi come i difensori della libertà, mandavano a Bologna più frequenti ajuti di quel ch'essi potessero domandarne a questa repubblica loro confederata.
Nel 1323 Castruccio, dopo essersi sottratto alla vendetta dei Fiorentini per la scissura scoppiata nel loro campo, aveva ricominciato a guastare Val d'Arno di sotto, non acconsentendogli ancora la debolezza del suo stato e della sua armata di proseguire la guerra con vigore. Talvolta nel corso d'una campagna non rimaneva che pochi giorni nel territorio nemico e solo per agguerrire i cittadini di Lucca che riconduceva ben tosto alle loro case. Confidava assai più negli stratagemmi e nelle sorprese, che nella forza delle armi; e ne' suoi progetti d'aggrandimento non faceva troppa diversità tra gli amici ed i nemici. I Pisani, coi quali era alleato pel comune interesse de' Ghibellini, trovavansi al presente impegnati in una pericolosa guerra col re d'Arragona, per difesa della Sardegna; e Castruccio si lusingò di potersi approfittare delle loro circostanze per rendersene padrone. Corruppe Betto de' Lanfranchi e quattro comandanti dei mercenarj tedeschi, che promisero di aprirgli le porte di Pisa, dopo avere ucciso il conte Nieri della Gherardesca: ma la trama si scoperse; i Lanfranchi perdettero la testa sul patibolo, e la repubblica pisana, sdegnata del tradimento di Castruccio, rinunciò alla sua alleanza, e mise una taglia sul suo capo[95].
Nel susseguente anno 1324, la guerra tra Castruccio e la repubblica fiorentina si trattò ancora più debolmente, perchè questa sembrava unicamente occupata della sommissione di alcuni gentiluomini di Val d'Arno di sopra, ai quali prese alcune castella; l'altro non prendevasi pensiero che delle sue pratiche per avere Pisa e Pistoja. Pistoja trovavasi tuttavia sotto la signoria di Filippo di Tedici, che cercava di mantenere la sua indipendenza col favore della rivalità de' due più potenti popoli tra i quali era situata Pistoja; e negoziando sempre con ambedue, pagava tributi a Castruccio per evitare la guerra, e domandava sussidj a Fiorenza per sostenerla. Ma finalmente il signore di Pistoja conobbe di non potere lungo tempo ingannare i suoi vicini con finti trattati, e s'avvide che Castruccio che aveva voluto lasciargli praticare tutti i suoi piccoli scaltrimenti, non tarderebbe a perdere la pazienza: onde risolse di vendergli la sua signoria. Il principe di Lucca gli offriva dieci mila fiorini, e per pegno della protezione che gli accordava, e dell'autorità che voleva affidargli nella sua patria, lo faceva sposo di una sua figliuola. Tedici aprì segretamente il 13 di maggio del 1325 una porta di Pistoja a Castruccio che stava appiattato a poca distanza con un corpo di cavalleria; il quale entrò subito in città, attraversando le strade e rovesciando e tagliando a pezzi i Guelfi ed i soldati fiorentini che avevano tentato di opporsegli. Ciò chiamavasi correre una città, ed in tal modo se ne prendeva possesso[96].
La notizia della presa di Pistoja giunse a Firenze mentre il popolo trovavasi adunato per una solenne festa. Nella stessa mattina la repubblica aveva armati cavalieri, il giudice esecutore dell'ordinanza di giustizia, ed un contestabile tedesco; onde i priori coi nuovi cavalieri, tutti i magistrati ed i principali cittadini trovavansi ad un banchetto. Eransi poste le tavole nella chiesa di san Pietro Schieraggio, le quali furono rovesciate nell'istante che si seppe essersi Castruccio impadronito di Pistoja; e perchè non potevasi credere che fosse interamente perduta, sperando che la guarnigione che v'era stata mandata difenderebbe almeno una porta, tutti corsero alle armi, e le compagnie della milizia si avanzarono lo stesso giorno fino a Prato, ove seppero circostanziatamente il tradimento di Filippo de' Tedici; e conoscendo che Pistoja era del tutto perduta, tornarono tristissimi a Firenze[97].
All'indomani della caduta di Pistoja il capitano che i Fiorentini avevano assoldato, entrò solennemente in città. Era quello stesso Raimondo di Cardone che aveva comandate le truppe della lega guelfa contro Matteo Visconti ed i suoi figliuoli. Dopo essere stato costretto del 1323 a levare l'assedio di Milano, fu fatto prigioniero da Galeazzo Visconti, che lo aveva posto in libertà per intavolare col di lui mezzo una negoziazione colla chiesa, non altro avendo da lui richiesto che il giuramento di non portare le armi contro i Ghibellini. Il papa non contento di rigettare tutte le proposizioni fattegli da Cardone, lo assolse dal giuramento e lo mandò ai Fiorentini.
Questi adunarono sotto gli ordini del nuovo generale la più potente armata che avessero fin allora messa in campagna. Mille Fiorentini servivano a cavallo a proprie spese; ai quali eransi aggiunti mille cinquecento cavalli mercenarj, quasi tutti Francesi, e quindici mila pedoni; onde il soldo dell'armata ammontava ogni giorno a più di tre mila fiorini d'oro[98]. Raimondo di Cardone marciò subito verso Pistoja ove Castruccio stava fabbricando una fortezza.
Poi ch'ebbe prese alcune castella, vedendo il generale fiorentino che Castruccio non si muoveva per venire a giornata, tentò di provocarlo, offrendo premj per una corsa di cavalli innanzi alle porte di Pistoja. In appresso cinse d'assedio Tizzana; ma mentre richiamava su questo castello l'attenzione di Castruccio, staccò dalla sua armata mille cavalli che passarono la Gusciana sopra un ponte volante; fece fortificare quest'importante passaggio che gli apriva il territorio lucchese, e lo stesso giorno, 10 luglio 1325, trasportò tutte le sue truppe sull'opposta riva. Attaccò subito dopo i castelli di Cappiano e di Montefalcone, e se ne rese tosto padrone[99]. Frattanto l'armata fiorentina ingrossava cogli ajuti delle città guelfe[100], di modo che i soli ausiliarj contavano più di mille cinquecento cavalli, mentre Castruccio ne aveva appena altrettanti, sebbene avesse ricevuti i rinforzi de' suoi alleati, il vescovo d'Arezzo, il conte di santa Fiora presso di Siena, ed i signori ghibellini di Maremma e di Romagna. Egli colla sua piccola armata erasi accampato a Vivinaio, in Val di Nievole per osservare gli andamenti de' Fiorentini[101].
In mezzo alle paludi dell'estremità superiore del lago di Bientina sollevasi un poggio sul quale fu fabbricato il castello d'Altopascio, riputato a quell'epoca assai forte. Vi si contavano cinquecento uomini abili alle armi, e Castruccio lo aveva provveduto di vettovaglie per due anni. Cardone l'assediò il giorno 3 agosto, ed il giorno 29 lo ebbe a patti dietro la falsa notizia d'una rotta avuta da Castruccio a Carmignano[102]. Ma per importante che fosse tale conquista, che era costata assai meno tempo che non si credeva, non compensava però lo svantaggio della dimora di più di tre settimane in mezzo alle paludi nel cuore dell'estate. Le malattie si erano manifestate nell'armata fiorentina, e le truppe, scoraggiate da un penoso servizio, non avevano quell'ardore e quella confidenza con cui avevano cominciata la campagna. Molti cavalieri annojati dall'assedio d'Altopascio avevano dato danaro a Cardone per ottenere il loro congedo. Risvegliatasi da così vergognoso commercio la naturale avidità di quest'uomo, sagrificò i più grandi avvenimenti al guadagno che credeva di fare vendendo i congedi. Per conseguire più presto il suo scopo, cercò d'accrescere l'impazienza de' cavalieri e de' ricchi mercanti che aveva nell'armata, tenendo ancora otto giorni l'armata sotto Altopascio, dopo averlo preso. Finalmente si mosse l'otto di settembre, ed andò ad accamparsi all'Abbadia di Pozzevero sempre in riva al paludoso lago di Bientina, in tempo che avrebbe potuto avvicinarsi alle montagne e trovarvi un'aria assai più sana.
Castruccio occupava queste montagne, ed aveva approfittato del tempo che perdeva Cardone a sollecitare i soccorsi di Galeazzo Visconti, il di cui figlio Azzo comandava ottocento cavalli a san Donnino nel territorio di Parma. Il signore di Lucca promise di pagare dieci mila fiorini per prezzo dell'assistenza che domandava; Azzo Visconti, avendo ricevuto un rinforzo di duecento cavalli mandatigli da Passerino Bonacossi, prese la via di Lucca, senza che il legato, Bertrando del Poggetto, che trovavasi a Parma con forze superiori, facesse verun tentativo per chiudergli la strada[103].
Ma molto tempo prima che Azzo si unisse a Castruccio, la guerra diretta da tutt'altri che da Cardone, avrebbe potuto ridursi a termine. Finalmente questo generale tentò l'undici di settembre di occupare le alture; ed in cambio d'attaccare Castruccio con tutta la sua cavalleria, gli mandò contro per isloggiarlo un debole distaccamento. I suoi cavalieri si scontrarono in un più grosso corpo di cavalleria lucchese; dei rinforzi giunsero successivamente alle due truppe; ma i Fiorentini li ricevevano più tardi de' Lucchesi, di modo che metà della cavalleria di Cardone dopo una breve zuffa dovette ritirarsi perdente. Dopo questo giorno l'armata fiorentina perdette la confidenza che aveva delle proprie forze, e più non combatteva coll'usato ardore[104].
Castruccio ebbe finalmente avviso che Azzo erasi mosso per raggiugnerlo; ma ebbe nello stesso tempo paura che i Fiorentini si ritirassero prima ch'egli ricevesse un soccorso che otteneva a sì caro prezzo, e senza che potesse approfittarne per dar loro una battaglia. Per fermare Cardone fece che giugnessero al suo campo alcuni abitanti di varie castella di Val di Nievole, che gli proponevano di dargli in mano quelle fortezze. Cardone, per tener dietro a queste simulate negoziazioni, andò procrastinando di giorno in giorno la partenza, aspettando in vano che scoppiassero le trame ch'egli supponeva di dirigere. Finalmente Azzo Visconti entrò in Lucca il 22 settembre, e ne giunse contemporaneamente l'avviso ai due campi. Allora i Fiorentini si posero in movimento per ritirarsi verso Altopascio; e Castruccio, temendo di perdere la preda sulla quale teneva gli occhi aperti da tanto tempo, corse a Lucca per affrettare Visconti a combattere lo stesso giorno; ma questi chiedeva danaro ed un giorno di riposo. La moglie di Castruccio seguita da tutte le dame lucchesi recossi allora presso al signore milanese e lo pregò a marciare contro ai nemici, facendogli presentare sei mila zecchini perchè li distribuisse alle sue genti: ma tutto fu inutile; Azzo dichiarò che non combatterebbe che all'indomani, onde Castruccio, tornato alla sua armata, si fece ad inseguire i Fiorentini per vedere se gli riuscisse di trattenerli[105].
Era in arbitrio di Cardone il ritirarsi a Galleno, o passare la Gusciana per mantenersi sempre padrone d'accettare o rifiutare la battaglia; ma temette che la sua ritirata avesse apparenza di fuga, e volle terminare la campagna con una bravata. All'indomani, lunedì 23 di settembre, venne a sfilare in parata innanzi a Castruccio, quasi per invitarlo a battaglia prima di porsi in marcia. Il signore di Lucca, sebbene non avesse ancora che mille quattrocento cavalli, accettò la disfida per ritardare la marcia de' Fiorentini, ed approfittò della vantaggiosa posizione che occupava, per non impegnare tutta la truppa nella battaglia, dando a dietro dopo ogni scaramuccia. Con tale accorgimento si sostenne dallo spuntare del giorno fino alle nove ore del mattino, che Azzo Visconti giunse alla fine in suo soccorso con i suoi mille cavalli; ed allora tutta l'armata ghibellina scese al piano e la battaglia si fece generale.
Malgrado le sofferte perdite, le forze de' Fiorentini trovavansi ancora per lo meno eguali a quelle di Castruccio, ma quasi al primo tirare di lancia il maresciallo di battaglia di Raimondo di Cardone fuggì con un corpo di settecento cavalli da lui comandati, e gettò il disordine in tutta l'armata[106]. I Fiorentini, scossi e scoraggiati dall'abbandono di così ragguardevole corpo, non si sostennero lungamente; la cavalleria fu rotta quasi subito, e l'infanteria che combatteva valorosamente, ma con armi che sgraziatamente non bastavano a difenderla dall'urto della cavalleria pesante, dovette anch'essa ripiegare. Quelli che guardavano il ponte di Cappiano, furono i primi a fuggire; onde Castruccio, sopravanzando il rimanente de' fuggitivi, s'impadronì del ponte, e chiuse come in una rete coloro che cercavano di salvarsi al di là del fiume. Molti distinti personaggi rimasero suoi prigionieri, fra i quali lo stesso Raimondo di Cardone con suo figliuolo e molti baroni francesi. Per altro la perdita della battaglia fu più accompagnata da vergogna che da strage. Molti fuggitivi trovarono modo di tornare a Fiorenza, ma i castelli di Cappiano, di Montefalcone e d'Altopascio, ch'erano stati tolti a Castruccio con tanta fatica, furono da lui in pochi giorni riconquistati. Fece spianare i due primi, e tagliare il ponte di Cappiano[107].
Il possedimento di Pistoja rendeva a Castruccio facile e sicure le scorrerie fino nel cuore degli stati di Fiorenza. Perciò, dopo avere radunate in Pistoja le sue milizie e quelle di Filippo Tedici, attaccò, il 27 di settembre, Carmignano che gli si arrese vilmente. Trasportò allora il suo campo a Signa, e bruciò Campi, Brozzi e Quarrata. Questi villaggi posti nel piano fiorentino erano appena fortificati e non capaci di lunga resistenza. Finalmente il 2 ottobre stabilì il suo quartier generale a Peretola, grosso villaggio due miglia lontano da Fiorenza, di dove i suoi soldati si avanzavano, tutto guastando, fin sotto alle mura di Fiorenza. Quella ricca valle era in allora coperta di magnifici edificj e di deliziosi giardini; perciocchè l'opulenza e l'eleganza de' Fiorentini non era ancora pareggiata da verun popolo dell'Europa; e mentre i soldati si arricchivano colle loro spoglie, Castruccio faceva trasportare a Lucca i quadri e le statue, che dopo il risorgimento delle arti, formavano il migliore ornamento de' palazzi de' Fiorentini[108].
Era giunto l'istante in cui Castruccio poteva anch'egli provocare i Fiorentini celebrando i giuochi presso le loro porte, com'erasi praticato da Cardone presso Pistoja. Uno spazio lungo un miglio la strada di Peretola a Fiorenza era stato sempre destinato alle corse dei cavalli. Vien tesa una corda a traverso al ponte alle mosse[109], e dietro alla corda cavalli barbari ornati di nastri e di fiori aspettano fremendo d'impazienza, che cadendo la corda loro apra l'arringo: allora slanciansi soli e senza condottieri nell'arena, e la scorrono con un'emulazione, una passione così calda per la gloria, che non crederebbesi propria che degli uomini. Fu in questo luogo medesimo consacrato dalle feste di molte generazioni, che Castruccio pose, il giorno di san Francesco, tre premj per la corsa; il primo ai cavalieri, il secondo ai pedoni, e l'ultimo, per insultare più vivamente i nemici, alle cortigiane. Voleva così dare a conoscere che gli esseri più deboli e più vili della sua armata potevano senza pericolo insultare i nemici. Sebbene i Fiorentini avessero entro le loro mura forze maggiori di quelle di Castruccio, erano in modo scoraggiati per la fresca disfatta, che non osarono uscire dalle loro porte per disturbare la festa[110].
Dopo la vittoria Azzo Visconti era tornato a Lucca; di dove, poi ch'ebbe ricevuto venticinque mila fiorini pel soldo e per il premio dovuto alla sua truppa, aveva raggiunto Castruccio. Voleva anch'esso vendicarsi dei giuochi dati due anni prima dai Fiorentini alle porte di Milano, quando Raimondo di Cardone assediava quella città[111]; ed il giorno 26 di ottobre ricominciò presso alle mura le corse de' cavalli. Ma i Fiorentini non potevano persuadersi che l'armata nemica fosse ritornata per questo solo motivo, e sospettavano che i prigionieri di Castruccio avessero voluto comperare la libertà con qualche tradimento, ed erano agitati da mortali inquietudini. Intanto la città era in modo affollata di contadini, che avevano dovuto abbandonare la campagna, che vi si manifestò una crudele epidemia. La signoria proibì in tale occasione gl'inviti ai funerali per non occupare la città con sì triste dovere, che avrebbe dovuto rinnovarsi ogni ora, e per non ispaventare gli ammalati facendo loro sapere quanti ne perivano ogni giorno[112].
Dopo avere saccheggiato tutto il piano di Fiorenza ed il territorio di Prato, come pure una parte di Val di Marina dall'altra parte dell'Arno, Castruccio fortificò Signa, ove lasciò guarnigione, e condusse a Lucca i suoi prigionieri con un ricchissimo bottino. Scelse pel suo trionfale ingresso in Lucca il giorno di san Martino, patrono della cattedrale di quella città, e diede a quest'ingresso la magnificenza di un trionfo. Conducevasi tuttavia il carroccio dalle armate, sebbene più non si facesse dipendere l'onore o la sorte delle battaglie dalla conservazione di questo sacro carro, dopo che non veniva più difeso dalla migliore infanteria. Il carroccio di Fiorenza preso nella battaglia d'Altopascio precedeva la comitiva. I buoi che vi stavano aggiogati, erano coperti di rami d'ulivo e di tappeti collo stemma di Fiorenza, ma questi stemmi erano capo volti come ancora quelli che ornavano il carro. La campana Martinella[113] che doveva suonar sempre in tempo della battaglia, suonava ancora in tempo di questa marcia umiliante: veniva dietro al carro Raimondo di Cardone coi principali prigionieri fiorentini i quali portavano de' torchi, che deposero avanti all'altare di san Martino. Frattanto le dame lucchesi erano uscite incontro a Castruccio, felicitando il vincitore colle loro acclamazioni. I prigionieri che ornarono il trionfo, furono obbligati a riscattarsi dalla loro prigionia, lo che produsse al signore di Lucca la somma di quasi cento mila fiorini, che gli furono utili per continuare la guerra[114].
CAPITOLO XXXI.
La Sardegna tolta ai Pisani dal re d'Arragona. — Il duca di Calabria, signore di Fiorenza. — Spedizione in Italia dell'imperatore Luigi di Baviera. — Grandezza e morte di Castruccio Castracani.
1324 = 1328. L'attaccamento che i Pisani avevano mostrato pel partito ghibellino, il loro zelo per Federico II, Corrado, Manfredi e Corradino, ed i sagrificj fatti per Enrico VII gli avevano chiamati a figurare eminentemente nella politica continentale dell'Italia. Erano essi stati lungo tempo capi della fazione ghibellina in Toscana, e gli sforzi fatti per questa causa avevano pienamente pareggiata, e talvolta superata la loro possanza e la loro ricchezza: perciò, mentre s'indebolivano nelle guerre del continente, avevano dovuto sempre più abbandonare il commercio e l'impero del mare, da cui riconoscevano la loro grandezza. Dopo la battaglia della Meloria avevano rinunciato alla guerra coi Genovesi, e l'antica rivalità dei due popoli era spenta in tal modo, che i Pisani non approfittarono delle guerre civili che desolarono Genova per ricuperare la perduta superiorità. A poco a poco i più lontani possedimenti della repubblica furono abbandonati; cessarono d'essere i più ricchi commercianti di Costantinopoli e dell'Arcipelago; rinunciarono ai loro banchi della Siria, sentendosi incapaci di proteggere i loro stabilimenti contro i Musulmani, e la navigazione contro i corsari; si astennero dal commerciare col regno di Napoli dove, in odio del nome ghibellino, non erano sofferti dalla regnante famiglia d'Angiò; nè poterono vantaggiosamente sostenere in Sicilia la concorrenza coi Siciliani medesimi protetti da' Catalani. L'Africa soltanto restava loro aperta colle isole di Sardegna e di Corsica che avevano altra volta conquistate; ma nell'istante in cui Castruccio, dopo averli impegnati in una guerra contro i Guelfi, aveva cercato di sorprendere la loro città, la Sardegna veniva attaccata da un potente monarca, che fino a quel tempo avevano risguardato come loro alleato.
Nel 1295, Bonifacio VIII aveva accordato a Giacomo, re d'Arragona, l'investitura della Sardegna, per allettare questo monarca ad abbandonare suo fratello Federico di Sicilia. Ma questa ingiusta mercede d'un vergognoso contratto non gli si era poi data, ed i soccorsi dalla repubblica di Pisa sempre somministrati ai principi arragonesi di Sicilia, avevano fatto scordare questo progetto d'usurpazione, allorchè alcuni feudatarj dei Pisani in Sardegna istigarono Alfonso d'Arragona, figlio del re Giacomo, ad intraprendere la conquista della loro isola.
La Sardegna non era per i Pisani che una colonia di commercio; al quale oggetto avevano fortificate alcune città marittime e specialmente Città di Chiesa e Castro di Cagliari ove tenevano guarnigioni per difesa dei loro banchi. Il rimanente dell'isola era posseduto da feudatarj investiti dalla repubblica, i quali per altro si mostravano poco ben affetti alla metropoli, della quale erano molti di loro originarj; meno poi ubbidivano alle sue leggi. I più potenti feudatarj erano il giudice d'Arborea che possedeva ancora Oristagni, e teneva sotto di lui il terzo della Sardegna. Quello che allora regnava era Ugo Bassi dei Visconti[115]; e perchè questi era un bastardo di quell'illustre famiglia, la repubblica gli aveva fatti pagare per l'investitura del feudo dieci mila fiorini[116]. Costui, tenendosi offeso di questo procedere del governo pisano, offrì agli Arragonesi la Sardegna ed impegnò segretamente nella loro alleanza i marchesi Malespina ed i Doria possessori di vasti feudi nell'isola. Quando Alfonso ebbe fatti i necessarj apparecchi, fu il primo a darne avviso alla repubblica, chiedendole soccorsi; ma distribuì i soldati mandati dai Pisani ne' suoi castelli; ed il giorno 11 d'aprile del 1323, quando ebbe notizia dell'avvicinamento d'Alfonso, fece massacrare tutti i Pisani soldati e mercanti che abitavano ne' suoi stati, ed aprì i porti alla flotta arragonese[117].
Il re Alfonso aveva chiesti soccorsi al papa per far l'impresa della Sardegna, quasi che si trattasse di una guerra sacra; ma Giovanni XXII erasi limitato ad invitare l'Arragonese a far valere le sue ragioni innanzi ai tribunali ecclesiastici[118]. Il re era entrato in negoziazioni con un conte di Donoratico che aveva molti possedimenti in Sardegna; aveva sedotti due Visconti del ramo di Roccabertino, finalmente aveva aggiunti tutti i mezzi di seduzione e di tradimento ad una forza superiore. Il 30 di maggio aveva abbandonate le coste dell'Arragona con sessanta navi da guerra, venti palandre per la cavalleria, e trecento navi di trasporto. Conduceva su questa flotta mille cinquecento cavalieri e più di dodici mila pedoni. Il terzo della Sardegna fu ceduta agli Arragonesi dal giudice d'Arborea e da Doria; ma le città di Cagliari, Castro e città di Chiesa si prepararono ad una vigorosa difesa, come pure Terra nuova, Acqua fredda e Giojosa-Guardia; ed i Sismondi d'Oleastro armarono i loro vassalli per secondare le truppe della repubblica[119].
I Pisani, minacciati dalla lega guelfa di Toscana e da Castruccio, il solo Ghibellino di questa contrada; traditi dai loro vassalli ed attaccati dalla potente casa d'Arragona, senz'essere in pace colla casa rivale di Napoli, non disperarono però di difendere la Sardegna. Armarono trentadue galere che mandarono nel golfo di Cagliari; ma l'ammiraglio della repubblica, trovandolo occupato dalla flotta catalana assai più numerosa della sua, si credette abbastanza fortunato d'essersi sottratto ad un attacco dopo avere sbarcato Manfredi, figlio del conte Nieri della Gherardesca, con trecento cavalli tedeschi e duecento arcieri, che si gettarono in Cagliari[120].
L'armata arragonese aveva contemporaneamente intrapreso l'assedio di Cagliari e di Città di Chiesa, che si difesero ostinatamente otto mesi: l'eccessivo calore, le acque e l'aere corrotti cagionarono tra gli assedianti terribili malattie, che distrussero dodici mila uomini[121]. Finalmente Città di Chiesa capitolò il 7 febbrajo del 1324; e la guarnigione uscì cogli onori di guerra e si unì a quella di Cagliari per continuare la difesa di questa seconda piazza.
Intanto Manfredi della Gherardesca, ch'erasi portato a Pisa per avere nuovi soccorsi, ricomparve il giorno 25 di febbrajo nel golfo di Cagliari con una flotta di cinquantadue vascelli che aveva a bordo, cinquecento cavalli e due mila arcieri. Sbarcò senza trovar resistenza la sua gente, e marciò verso Castro di Cagliari per costringere gli Arragonesi a levare l'assedio. Di fatti Alfonso abbandonò i suoi trincieramenti e si fece incontro ai Pisani fino a Luco Cisterna. Colà le due armate vennero alle mani il 28 febbrajo, e, dopo una lunga ostinata battaglia, gli Arragonesi, superiori di forze, rimasero finalmente vittoriosi. Manfredi, sebbene ferito, potè entrare in Castro con circa cinquecento soldati, ed il rimanente della sua armata fu dispersa. Le navi da trasporto della sua flotta caddero in potere degli Arragonesi, i quali attaccarono i feudatarj fedeli ai Pisani e ne occuparono le province. A quest'epoca molti di costoro furono spogliati delle piccole sovranità che possedevano fin dall'epoca in cui la Sardegna era stata tolta ai Saraceni: ma perchè in un paese mezzo barbaro il potere de' signori ereditarj è il solo che venga rispettato, gli Arragonesi credettero più utile consiglio il fare la pace con questi capitani indipendenti, che lo spogliarli de' loro dominj, onde trovansi ancora per molti anni ne' fasti della Sardegna i nomi delle famiglie pisane[122].
Appena terminata la battaglia di Luco Cisterna, Alfonso riprese l'assedio di Castro di Cagliari, di cui Manfredi, poichè fu guarito delle sue ferite, prese il comando. Egli tentò di sturbare con una vigorosa sortita le operazioni degli assedianti, sorprese il loro campo e vi sparse il disordine, ma le vecchie bande de' Catalani non tardarono a circondarlo da ogni parte. Di cinquecento cavalli ch'egli comandava, trecento perirono sul campo di battaglia; ed egli stesso, mortalmente ferito, ricondusse gli avanzi della sua gente in Castro, ove morì dopo pochi giorni. Gli assediati, perduta ogni speranza di soccorso, domandarono di capitolare[123].
Alfonso, che aveva di già perduti quindici mila uomini e che sperava di consolidare colla pace la sua conquista, accordò agli assediati onoratissime condizioni. Castro di Cagliari dovea rimanere alla repubblica pisana a titolo di feudo dipendente dal re, e le private possessioni possedute dai Pisani nell'isola doveano rimaner pure in piena loro proprietà: ma la repubblica dovea riconoscere Alfonso come re di Sardegna. Queste condizioni essendo state accettate dalla signoria, fu ben tosto fatta la pace; ma Alfonso ne approfittò per fortificare all'ingresso del porto di Cagliari un castello ch'egli intitolò Bonaria, o Aragonetta, il quale signoreggiava talmente l'ingresso di Castro, che i vascelli, le vittovaglie e le mercanzie non potevano giugnere ai Pisani senza il permesso degli Arragonesi.
La guarnigione di Bonaria non tardò ad abusare arrogantemente del vantaggio della sua posizione. L'anno seguente s'impadronì di alcune navi che i Pisani mandavano a Cagliari[124], onde la repubblica fu forzata a ricominciare la guerra per vendicare questa fresca ingiuria. Spossata affatto dalle precedenti disfatte, riclamò l'assistenza de' Ghibellini genovesi, che, rifuggiati a Savona, sussistevano colla professione delle armi. Col loro soccorso i Pisani equipaggiarono una flotta di trentatre galere e ne affidarono il comando a Gasparo Doria. Questa flotta incontrò il giorno 29 dicembre gli Arragonesi nel mare Sardo, e la fortuna fu ancora per l'ultima volta contraria ai Pisani. Furono prese otto galere, e le altre si ritirarono assai danneggiate dopo aver perduti molti soldati e marinai. I Genovesi guelfi e ghibellini furono egualmente sensibili all'affronto fatto alla bandiera della nazione, e poco mancò che il desiderio d'umiliare i Catalani non riconciliasse le due fazioni, spegnendo quell'odio che da tanto tempo le armava l'una contro l'altra[125]. Ma i Pisani non furono in istato di aspettare questa tarda riconciliazione. Il castello di Castro, ultimo possedimento della repubblica in Sardegna, venne ceduto agli Arragonesi, e nel susseguente anno fu, colla mediazione del papa, conchiusa la pace. La repubblica di Pisa abbandonò la Sardegna al re d'Arragona, e furono rilasciati reciprocamente i prigionieri senza taglia[126].
Una piccola parte della Toscana riacquistava con questo trattato di pace la tranquillità. Tutti gli altri stati di questa provincia erano in allora scossi dall'ambizione di Castruccio; e la parte guelfa, abbattuta per la disfatta dei Fiorentini ad Altopascio, ebbe poche settimane dopo, mentre cercava di rifarsi, un nuovo infortunio nello stato di Bologna.
La lega de' signori ghibellini di Lombardia attaccava Bologna con un accanimento eguale a quello di Castruccio contro i Fiorentini. Romeo de' Pepoli era morto in esiglio, ma i di lui figliuoli non erano stati abbandonati dai signori di Lombardia; Passerino Bonacossi, Cane della Scala, ed il marchese d'Este erano entrambi nel Bolognese con un'armata, cui si congiunse Azzo Visconti che ritornava da Lucca. I Ghibellini avevano due mila ottocento cavalli, ai quali i Bolognesi non potevano opporre che due mila duecento; ma la loro infanteria di oltre trentamila uomini sopravanzava d'assai quella de' loro nemici. La disfatta avuta dai Fiorentini ad Altopascio mosse i Bolognesi, persuasi d'essere loro riservato l'onore di vendicare la parte guelfa, ad affrettare la battaglia. Malgrado le calde istanze de' Fiorentini che loro mandavano molte truppe, il 15 novembre offrirono la battaglia ai Ghibellini alle falde del Monteveglio, e furono rotti. Perirono o furono fatti prigionieri cinquecento cavalieri e mille cinquecento fanti; e tra i prigionieri contaronsi Malatestino da Rimini loro generale e podestà, ed i più ragguardevoli cittadini. I principi lombardi dopo la loro vittoria cinsero Bologna d'assedio, ma non tardarono ad accorgersi che le loro forze non bastavano contro una città così potente, e si ritirarono con un ricchissimo bottino[127].
L'antico capo della lega guelfa in Italia solo non prendeva parte alla guerra generale ed alle disfatte della sua parte. Roberto, re di Napoli, poi ch'ebbe lasciata Genova l'anno 1319, erasi trattenuto parecchi anni in Provenza, per sottomettere alle sue pratiche la corte d'Avignone ed assicurare la sua influenza sopra il papa. Era partito finalmente alla volta di Napoli in aprile del 1324 con una flotta di 45 vascelli, e, passando per Genova, erasi fatto riconfermare per altri sei anni la signoria di quella città[128].
Un'ambascieria della repubblica fiorentina giunse a Napoli ed espose al re i gravissimi pericoli de' suoi alleati i Guelfi di Toscana. Gli esposero quali fossero le forze e l'ambizione di Castruccio, l'unione ch'egli aveva stabilita nella sua fazione, e quali ajuti aveva ottenuti dai Ghibellini di Lombardia. Gli ricordarono i servigi che i Fiorentini avevano resi alla casa d'Angiò, quando i dominj del re erano stati minacciati in Piemonte, e quando non avevano temuto di provocare Castruccio per allontanarlo da Genova, ove Roberto trovavasi assediato. Finalmente gli domandarono, in virtù de' trattati che essi avevano sempre fedelmente osservati, i soccorsi da lui dovuti alla lega guelfa. Ma il re di Napoli sapeva egualmente approfittare dei disastri e delle prosperità de' suoi alleati. Attribuì il suo raffreddamento e le perdite de' Fiorentini alla mancanza loro che avevano lasciata spirare nel 1321 la sua signoria: soggiugneva d'essere sempre disposto a difenderli, ma che la sua real dignità e lo stesso vantaggio della fazione non gli permettevano di prender parte alla guerra che in qualità di capo. Chiese in somma ch'egli, o suo figlio il duca di Calabria, fossero investiti dalla repubblica di assoluti poteri. I consigli di Fiorenza, costretti di comperare l'ajuto dei loro alleati a così caro prezzo, scelsero di preferenza per loro signore il duca di Calabria, Carlo, unico figlio del re, e cercarono nelle loro convenzioni d'allontanare ogni arbitrio dall'autorità che gli confidavano, e di conservare intatta la libertà della repubblica. Chiesero che mantenesse al suo soldo mille cavalieri d'oltremonti finchè durerebbe la guerra; e che in tempo di pace lasciasse in città quattrocento cavalieri sotto gli ordini del suo luogotenente. Gli furono assegnati duecento mila fiorini nel primo periodo e cento mila nel secondo. La signoria del duca di Calabria doveva durare dieci anni, cominciando il 13 gennajo del 1326, giorno in cui fu firmato il trattato[129].
Un luogotenente del duca di Calabria venne prima di lui in Toscana per prendere possesso della signoria di Fiorenza. Era questi Gualtieri di Brienne, duca titolare d'Atene, e figlio di quello ch'era stato ucciso del 1311 nella grande battaglia di Cefiso, quando i Catalani conquistarono il suo ducato[130]. Venne accompagnato da quattrocento cavalieri francesi; ed i Fiorentini gli giurarono fedeltà, e gli permisero di nominare, a nome del duca Carlo, una nuova signoria[131].
Il duca di Calabria giunse in Toscana verso la metà dell'estate con intenzione di unire tutte le comuni guelfe sotto una sola direzione. Approfittò del suo viaggio a Siena per chiedere la signoria di quella città, che gli fu accordata solamente per cinque anni e sotto più gravi condizioni che quelle imposte da' Fiorentini[132]. Il 30 luglio entrò solennemente in Fiorenza accompagnato dai più grandi signori del regno delle due Sicilie, e da duecento cavalieri dello speron d'oro. Aveva sotto i suoi ordini mille cinquecento cavalli, che aggiunse a quelli condotti pochi mesi prima dal duca d'Atene[133].
Questa bella armata, che fu ben tosto ingrossata dalle truppe ausiliarie di tutti i Guelfi toscani, avrebbe potuto tentare qualche fatto d'importanza, approfittando della presente malattia di Castruccio; ma il duca si ristrinse a far ribellare due castelli della montagna pistojese, che furono ben tosto ritolti; ed a impegnare Spinetta Malaspina in un tentativo sopra la Lunigiana ove fu respinto con perdita[134]. Frattanto Carlo di Calabria faceva sopra i suoi alleati le conquiste che far non sapeva sui nemici dello stato. Ridusse molte città soggette ai Fiorentini, Prato, san Gemignano, Samminiato e Colle, a darsi a lui direttamente[135]. Impose nuovi tributi, e costò alla repubblica quattrocento cinquanta mila fiorini all'anno, invece dei duecento mila, che gli erano stati accordati; spogliò i priori di quasi tutte l'autorità costituzionali; abolì le leggi sontuarie intorno al lusso delle donne; finalmente si rese tanto più odioso che non compensò tante vessazioni con alcuna vantaggiosa impresa contro Castruccio[136].
La città di Bologna seguì, dopo alcuni mesi, l'esempio datole dai Fiorentini, e cercò di assicurarsi una potente protezione, assoggettandosi alla signoria di uno dei capi di parte guelfa; e chiamò in suo ajuto il cardinale Bertrando del Poggetto, legato del papa in Italia. Questi dal 1322 in poi era stato potentemente secondato da Vergusio Landi, una volta capo de' Ghibellini di Piacenza, ma ch'era passato alla parte guelfa per vendicarsi di Galeazzo Visconti, seduttore di sua moglie. Tortona, Alessandria, Piacenza, Parma, Reggio e Modena eransi successivamente date alla chiesa per tutto il tempo che l'impero rimarrebbe vacante. Bologna anch'essa aprì le sue porte al cardinale legato, conferendogli, il giorno 8 febbrajo del 1327, la signoria della città e del territorio[137].
Ma in questo medesimo tempo andava condensandosi all'estremità della Lombardia una tempesta che poteva ruinare tutto il partito guelfo. Era giunto a Trento Luigi di Baviera, l'imperatore eletto in febbrajo del 1327, ove aveva presieduta un'adunanza de' principali Ghibellini d'Italia. Marco Visconti, Passerino Bonacossi, Obizzo marchese d'Este, Guido Tarlati, vescovo d'Arezzo, e Cane della Scala eransi recati presso l'imperatore, come pure gli ambasciatori di Federico re di Sicilia, di Castruccio e de' Pisani. Luigi aveva promesso di venire a Roma a prendere la corona imperiale, ed i Ghibellini gli avevano promesso un dono di cento cinquanta mila fiorini per ispesare la sua truppa[138].
Luigi di Baviera sembrava allora in istato d'intraprendere esterne guerre, e di vendicarsi del papa che lo aveva tanto crudelmente oltraggiato. Il suo rivale, Federico d'Austria, dopo una lunga prigionia a Trausnitz, erasi finalmente stancato della sua schiavitù. Luigi lo aveva visitato nella sua prigione l'anno 1325, avevagli offerta la libertà, non domandando altra ricompensa che la sua amicizia ed alleanza. Una condotta così generosa toccò il cuore di Federico, che riconobbe Luigi per suo imperatore, obbligandosi a difenderlo verso tutti e contro di tutti, anche contro quello, diceva egli, che si dà il titolo di papa. Molti de' suoi baroni eransi fatti garanti delle sue promesse, e la sua figlia aveva sposato il figlio di Luigi[139]. Invano Giovanni XXII annullò questo trattato; invano Leopoldo, fratello del duca d'Austria, continuò la guerra; che Federico fu fedele alle sue promesse: i due rivali diventati amici sinceri ebbero comuni la tavola ed il letto, e furono in procinto di dividere tra di loro la dignità imperiale[140].
Ne' cinque anni, ch'erano corsi dopo la battaglia di Muhldorf, Luigi aveva sforzati gli altri principi della casa d'Austria a fare la pace, ed aveva sventati gl'intrighi del papa in Germania. Era chiamato in Italia non meno dal desiderio della vendetta, che da quello di sanzionare i suoi diritti all'Impero, facendosi coronare a Roma. Vero è che, indebolito da lunghe guerre, era povero di gente e di danaro; ma il paese che visitava, era una ricca miniera, onde sperava che la cupidigia più che l'ubbidienza avrebbe strascinato in folla i Tedeschi in quelle ricche contrade, per dividerne le spoglie.
L'imperatore eletto apparecchiandosi ad attaccare il papa, il suo più implacabile nemico, lo aveva già indicato nell'assemblea di Trento come prete sacrilego ed eretico, usurpatore del supremo pontificato, che i Cristiani dovevano rifiutare. Un partito numeroso erasi nella chiesa rivoltato contro Giovanni XXII, nè l'accusa d'eresia era nuova. Questo papa, ambizioso e cupido troppo più che non si conveniva a principe cristiano, aveva non pertanto molto zelo per la fede; ma egli credeva di esserne l'oracolo, e le opinioni da lui adottate erano spesse volte in aperta opposizione con quelle de' suoi dottori. Così trovavasi in allora impegnato in una disputa coi Francescani, o frati Minori, intorno alla povertà di Gesù Cristo. Questi monaci, che in forza dei loro voti abiuravano ogni proprietà, pretendevano che gli alimenti che mangiavano, non fossero una loro proprietà, nè pure nell'istante in cui li mangiavano, e che Gesù Cristo aveva loro dato l'esempio di questa suprema povertà. Per lo contrario il papa sosteneva che Gesù Cristo aveva avute alcune proprietà sia personali, sia comuni coi suoi Apostoli, e che i Francescani non potevano schivare che le cose appropriate al loro uso non fossero altresì loro proprietà. I Domenicani erano per l'opinione del papa, ma molti fedeli inclinavano a credere che negando a Cristo una suprema povertà si attentasse alla sua gloria; onde i Francescani, ostinandosi nella propria credenza, avevano condannato il papa come eretico e scomunicato. Giovanni XXII, che attaccava una crudele importanza a questa disputa di parole, fece bruciare i più ostinati tra questi frati e spogliò l'ordine di tutti i suoi beni per ridurlo a quella evangelica povertà, di cui tanto si gloriava[141].
Indipendentemente dai frati Minori, ancora altri teologi prendevano le parti di Luigi di Baviera. E questi erano coloro che, stomacati dalle usurpazioni della santa sede, sostenevano l'indipendenza delle autorità secolari, ed anche la loro superiorità sul papa. Scrissero con molta energia e molta eleganza intorno a quest'argomento Marsilio di Padova, medico di Luigi, e Giovanni Gianduno o di Gand, suo consigliere; ma le loro opinioni furono condannate come eretiche dalla corte romana[142].
Incoraggiato dalle esortazioni de' suoi teologi e de' frati Minori, e sicuro degli ajuti de' Ghibellini, Luigi di Baviera entrò in Italia senza danaro e col seguito di soli seicento cavalli. Ma Cane della Scala, signore di Verona, Passerino de' Bonacossi, signore di Mantova, ed il marchese d'Este, signore di Ferrara, gli vennero incontro colla loro cavalleria, e presero assieme la strada di Milano, ove il re de' Romani ricevette il 30 maggio la corona di ferro nella basilica di sant'Ambrogio dalle mani dei vescovi d'Arezzo e di Brescia, dal papa già deposti e scomunicati[143].
Dacchè Galeazzo Visconti, signore di Milano, aveva vinto Raimondo di Cardone in una grande battaglia e fattolo prigioniere, poco più temeva gli attacchi de' Guelfi. La sua potenza li teneva lontani da' suoi stati, ed altronde manteneva una segreta corrispondenza colla corte di Roma, cui faceva sperare che, abbandonato il partito dell'imperatore, riconoscerebbe dalla chiesa la sua autorità. Ma Galeazzo aveva trovati nuovi nemici nella propria famiglia. Quel Lodrisio Visconti, suo parente, che lo aveva scacciato da Milano, poi richiamato del 1322, non sapeva nè sottomettersi al governo dispotico di Galeazzo, nè acconsentire al trattato che gli vedeva stringere col papa. Pretendeva Marco Visconti, fratello di Galeazzo, di dividere con lui la sovranità rassodata col suo valore e colle sue vittorie; e la gelosia tra i due fratelli era poc'a poco declinata in aperto odio. I nobili milanesi credevansi avviliti dall'innalzamento di una famiglia poc'anzi loro eguale, il popolo non aveva dimenticata l'antica libertà, e per ultimo gli altri capi ghibellini di Lombardia, Cane Passerino e Franchino Rusca, tiranno di Como, eransi alienati da Galeazzo, dopo che i suoi trattati colla corte pontificia avevano risvegliata la loro diffidenza. Luigi di Baviera nell'adunanza di Trento, poi a Como ed a Milano, era stato richiesto da tutti coloro che lo circondavano di privare Galeazzo del principato[144].
Finchè Luigi di Baviera guerreggiò in Germania per farsi riconoscere re de' Romani, la sua condotta era stata libera, leale, onorata, e talvolta generosa. In Italia, per lo contrario, fu quasi sempre perfida e venale. Pare che supponesse l'Italia, in certo modo, abbandonata al saccheggio: vedevasi circondato da tiranni che non conoscevano scrupoli, e si credeva anch'esso libero da ogni dovere. È cosa notabile che siasi quasi sempre fatto uso contro gl'Italiani di quella perfida politica che viene loro rimproverata, ed i loro nemici accrebbero fede a questa ingiusta riputazione di falsità per essere liberi da qualunque dovere verso gli accusati di mala fede. Luigi di Baviera doveva riconoscere in Galeazzo Visconti il più antico ed intrepido campione del partito ghibellino, pure non lasciò di tradirlo mentre da lui riceveva una generosa ospitalità: sedusse i contestabili delle truppe tedesche al di lui servizio, ed il 6 di luglio in una pubblica assemblea, dopo avergli aspramente rinfacciato di non avere ancora pagata la promessa contribuzione, lo fece arrestare unitamente a suo figlio e a due fratelli. Gli strappò di mano, col timore del supplicio, le chiavi di tutte le sue fortezze, indi lo mandò colla sua famiglia nelle terribili prigioni ch'egli medesimo aveva fatto fare a Monza[145].
Dopo ciò, Luigi ristabilì in Milano un simulacro di repubblica, facendo scegliere dalle ventiquattro tribù della città un consiglio di ventiquattro membri, cui diede per presidente Guglielmo di Monforte, governatore imperiale. Ma le grandi contribuzioni imposte per ordine del monarca fecero bastantemente comprendere ai cittadini, che non avevano altrimenti ricuperato il diritto di governarsi da sè stessi.
Così solenne tradimento poteva per altro avere per l'imperatore la triste conseguenza di staccare dal suo partito i capi ghibellini ai quali appoggiavasi tutta la sua fortuna, onde trovò necessario di giustificarsi in una dieta, adunata a quest'oggetto ad Orci nel territorio bresciano. Accusò Galeazzo d'aver voluto tradire la causa dei Ghibellini per favorire la chiesa, e produsse innanzi all'assemblea alcune carte che provavano le di lui negoziazioni col papa. Risvegliò l'animosità e la gelosia degli uditori contro il capo della casa Visconti, e si scolpò facilmente in su gli occhi di coloro che bramavano di trovarlo innocente. Chiese in appresso ed ottenne sussidj di danaro e di soldati; e, chiusa la dieta, s'incamminò verso la Toscana con mille cinquecento cavalieri tedeschi, la maggior parte de' quali erano stati al servizio di Galeazzo, e con cinquecento cavalieri somministrati dai tre signori ghibellini di Lombardia[146]. Passò il Po il 23 di agosto, e giunse a Pontremoli il primo di settembre, senza che il cardinale legato, che aveva più di tre mila cavalli nello stato di Parma, osasse opporsi alla sua marcia.
Castruccio era stato uno de' primi ad affrettare la discesa in Italia di Luigi di Baviera, e questi faceva grandissimo capitale de' consigli, del valore e de' soldati di così riputato capitano. Castruccio desiderava ardentemente l'arrivo dell'imperatore. Era stato a vicenda tribolato dagl'intrighi e dalle armi del potente suo vicino il duca di Calabria, signore di Fiorenza; aveva più che mai bisogno degli esterni ajuti per difendersi contro la maggioranza delle forze che l'unione dei Napoletani dava ai Guelfi di Toscana. Una delle più potenti case di Lucca, i Quartigiani, che, sebbene originariamente Guelfi, avevano contribuito all'innalzamento di Castruccio, avevano preso parte contro di lui in una trama ordita dal duca di Calabria. Nuovi progetti di ambizione, o fors'anco il desiderio di tornare in libertà la loro patria gli aveva alienati dal signore di Lucca, il quale, scoperta la loro congiura, ne condannò venti ad orribile supplicio, facendoli sotterrar vivi col capo allo in giù. Altri cento furono esiliati, e qui si fermarono le indagini di Castruccio per timore di scoprire più colpevoli che non avrebbe voluto[147].
Dall'altro canto un'armata guelfa di due mila cinquecento cavalli e dodici mila fanti aveva conquistati santa Maria a Monte ed Artiminio, e minacciava i territorj di Lucca e di Pistoja, quando, avuto avviso dell'avvicinamento dell'imperatore, si ritirò bruscamente verso Fiorenza[148]. Liberato Castruccio da tanto pericolo, corse incontro a Luigi, facendogli portare a Pontremoli magnifici regali. Gli aprì le porte del castello di Pietra santa, di dove, lasciata Lucca a sinistra, gli fece prendere la strada di Pisa.
I Pisani più non conservavano quel primo caldo attaccamento al partito ghibellino, di cui avevano date in addietro così luminose prove. Erano spossati dalla guerra sarda, durante la quale erano stati abbandonati dagli antichi alleati e traditi da Castruccio, onde desideravano di tenersi amici i Fiorentini coi quali eransi di fresco rappacificati. Temevano inoltre la collera del papa, da cui erano stati per lo stesso motivo altre volte scomunicati; per le quali cagioni gli ambasciatori mandati al congresso di Trento, invece d'invitare l'imperatore nella loro città, gli avevano offerti sessanta mila fiorini per prezzo della loro neutralità ed indipendenza. La condotta tenuta da Luigi verso Galeazzo Visconti accresceva la diffidenza dei Pisani, i quali per non essere, come il signore di Milano, traditi dai Tedeschi che tenevano al loro soldo, li privarono dei loro cavalli e delle armi. Pure, così consigliati da Guido dei Tarlati, vescovo d'Arezzo e loro alleato, mandarono a Ripafratta, posta al confine dello stato lucchese, tre nuovi ambasciatori a Luigi[149].
Castruccio, che non aveva rinunciato al progetto d'assoggettarsi Pisa, consigliò l'imperatore a non accogliere i deputati di quella repubblica, rifiutando il loro danaro e le loro offerte: e mentre i deputati tornavano a Pisa, li fece arrestare al passaggio del Serchio, protestando che li tratterebbe come ostaggi e li farebbe morire, se la patria loro non apriva le porte al re de' Romani[150]. Il vescovo d'Arezzo che aveva impegnata la sua fede per la loro sicurezza, chiese a Luigi che fossero posti in libertà. Con siffatta violazione del diritto delle genti, diceva egli, veniva compromessa la sua parola, sagrificato l'onore del monarca, e tutti gli antichi Ghibellini, spaventati da questa mancanza di fede, abbandonerebbero la causa del capo dell'Impero, invece di esporsi per la medesima. Tali dovevano essere per Luigi IV le conseguenze de' consigli di Castruccio, cui ciecamente si abbandonava. Il capo dell'Impero, soggiugneva il vescovo d'Arezzo, avrebbe dovuto ricordarsi che la sua politica niente aver doveva di comune con quella d'un usurpatore, che tutto sagrificava all'interesse personale ed al bisogno presente, d'un tiranno pel quale il ben pubblico, l'onore, la probità, la riconoscenza e la speranza non erano che nomi vuoti di senso. Castruccio irritato rispose con violenza che non s'aspettava ad un vile il dirigere i guerrieri, nè ad un traditore il predicare la virtù: che il vescovo d'Arezzo colle sue pratiche coi Fiorentini era bastantemente convinto di mala fede o di piccolo cuore, e che s'egli avesse voluto attaccare Fiorenza dalla banda delle montagne, mentre Castruccio la stringeva dalla parte del piano, il partito guelfo sarebbe in Toscana affatto spento. In questa calda disputa Luigi si decise per Castruccio[151]. Guido dei Tarlati abbandonò all'istante il campo imperiale e la causa di Luigi; ma col cuore ulcerato dall'indegnità del trattamento fattogli, dall'ingratitudine de' suoi amici e dai rimorsi di avere portate le armi contro la chiesa, fu sorpreso da grave malattia che lo condusse a morte in capo a pochi giorni mentre trovavasi a Montenero. Gli Aretini che erano stati felici sotto il di lui governo, affidarono la carica di capitano della loro città ad uno de' suoi nipoti, Pietro Saccone Tarlati, signore di Pietramala, il più valoroso de' gentiluomini che conservavano tuttavia inviolata la loro indipendenza nelle montagne[152].
Mentre i Pisani stavano aspettando i loro ambasciatori, Luigi di Baviera e Castruccio alla testa dell'armata ghibellina si presentarono alle porte della loro città. La signoria le fece subito chiudere, rifiutandosi di ricevere l'imperatore; il quale, risoluto d'intraprenderne l'assedio, si accampò alla sinistra dell'Arno. Castruccio occupò la riva destra; e due ponti di barche, uno sopra l'altro al di sotto della città, univano i due campi e terminavano la linea che chiudeva Pisa, mentre i distaccamenti di cavalleria approfittavano dell'inclinazione del popolo per la parte ghibellina, onde soggiogare tutti i castelli della repubblica. Frattanto la signoria era forzata a praticare certi ritegni che distruggevano le sue risorse; non osava chiedere soccorso di truppe al duca di Calabria per non rinunciare con tal passo al partito ghibellino; e non si attentava di levare nuove contribuzioni, e di prendere le energiche misure che potevano metter fine agl'intrighi de' suoi interni nemici. Dopo aver sostenuto un mese d'assedio, quando Luigi incominciava a scoraggiarsi il governo fu forzato a domandare la pace dalle grida della plebaglia, ammutinata dai capi del partito democratico per vendicarsi dell'essere stati da sett'anni in qua esclusi dall'amministrazione.
Onorevoli furono le condizioni accordate da Luigi ai Pisani; promise loro che nè Castruccio nè gli esiliati entrerebbero in città, ch'egli medesimo non promoverebbe verun cambiamento nel governo, e che la contribuzione pagabile da Pisa, siccome da tutte le città imperiali pel suo felice arrivo, sarebbe fissata in sessanta mila fiorini, che gli erano stati fin da principio offerti. A tali condizioni e dopo aver posti in libertà gli ambasciatori trattenuti da Castruccio, entrò pacificamente in Pisa il 10 ottobre facendo osservare alla sua armata la più severa disciplina. Ma que' medesimi cittadini che avevano costretta la signoria a far la pace, il conte Tazio, figliuolo di Gerardo di Donoratico, e Vanni, figliuolo di Banduccio Bonconti, che volevano pur vedere rovesciato il presente governo, adunarono tumultuariamente un parlamento, che annullò la capitolazione accordata dall'imperatore, richiamò gli esiliati, e permise a Castruccio l'ingresso in città. Il primo atto di sovranità esercitato da Luigi di Baviera sopra la repubblica fu una contribuzione di cento cinquanta mila fiorini[153].
Luigi visitò in appresso Lucca e Pistoja; e per ricompensare lo zelo e la fedeltà di Castruccio, eresse in suo favore un ducato in Toscana, formato delle città di Lucca, Pistoja, Volterra e della Lunigiana. Diede l'investitura di questo nuovo ducato a Castruccio, il giorno di san Martino, accordandogli in pari tempo d'inquartare i suoi stemmi con quelli della Baviera[154].
La vicinanza dell'imperatore teneva Fiorenza inquieta assai, non dubitandosi che non fosse per manifestare il suo sdegno contro una repubblica, che tanto apertamente erasi dichiarata pel partito de' suoi nemici: pure non furonvi ostilità tra lui e il duca di Calabria. I due nemici di quasi eguali forze si guardavano con rispetto, e non cercavano occasioni di fare sperimento della propria forza. Luigi in sul finire di dicembre prese a traverso le Maremme la strada di Roma; mentre il duca, per avvicinarsi in pari tempo che l'imperatore a Roma ed a Napoli, seguiva la strada superiore di Siena, Perugia e Rieti. La piena dei fiumi ritardò la marcia dell'armata tedesca, e gli cagionò grandissime difficoltà, ma il duca non osò approfittarne. Il 2 gennajo 1328 finalmente Luigi arrivò a Viterbo, ove fu cordialmente accolto da Salvestro de' Gatti, signore ghibellino di questa città. Intanto il duca rientrò per la via dell'Aquila nel regno di Napoli, avendo lasciati in Fiorenza mille cavalli sotto gli ordini di Filippo da Sanguineto suo luogotenente[155].
Poichè Roma fu abbandonata dai papi, il suo governo degenerò in una irregolare oligarchia. Talvolta i ministri del papa o del re di Napoli vi esercitavano molta autorità; altra volta si disputavano il supremo potere le potenti famiglie dei Colonna, de' Savelli, degli Orsini. Per altro la costituzione della città avrebbe potuto risguardarsi come repubblicana e democratica: un magistrato forestiere che aveva il nome di senatore, era incaricato dell'amministrazione della giustizia; un consiglio di cinquantadue membri eletti dai rispettivi quartieri trovavasi alla testa dell'amministrazione, ed erano presieduti dal prefetto di Roma; finalmente veniva frequentemente consultata l'assemblea del popolo; ed il senatore, siccome i due capitani del popolo che lo ajutavano, venivano eletti dalla nazione. Tra i nobili, i Savelli erano ghibellini, guelfi gli Orsini, e dei due fratelli Colonna Stefano e Sciarra, il primo seguiva le parti del papa, l'altro quelle dell'imperatore. Quando seppesi in Roma la discesa di Luigi di Baviera in Italia, un movimento popolare aveva obbligato Napoleone Orsini e Stefano Colonna a ripararsi colle loro famiglie in Avignone, mentre Sciarra Colonna e Giacomo Savelli erano stati nominati capitani del popolo dai Ghibellini vittoriosi[156].
I deputati del senato romano si fecero incontro all'imperatore fino a Viterbo per istabilire le condizioni del suo ingresso in Roma: ma Luigi che si era assicurato l'appoggio dei capi del governo, e che non voleva nè scontentare il senato, nè legarsi con anticipate convenzioni, fece onestamente trattenere gli ambasciatori, e giunse egli stesso alle porte della città il giorno 7 gennajo del 1328, prima che fossero tornati: fu accolto dai Romani con infinito giubilo ed alloggiato in Vaticano. Il quinto giorno, fatto adunare tutto il popolo avanti al Campidoglio, commise al vescovo d'Aleria in Corsica di ringraziare in suo nome i Romani dell'attaccamento che gli mostravano. Questi promise che Luigi farebbe prosperare l'eterna città, ridonandole l'antica sua gloria. In appresso, di consentimento del popolo, stabilì che la ceremonia della sua incoronazione si farebbe la seguente domenica 27 di gennajo[157].
Nel giorno destinato Luigi partì da santa Maria Maggiore colla sua consorte Margarita di Hainault per recarsi in san Pietro di Vaticano. I capitani del popolo, i consiglieri e tutti i baroni di Roma, vestiti di drappi d'oro, aprivano il corteggio; venivano dietro al monarca quattromila cavalli che aveva seco condotti; e le strade che attraversava, erano addobbate di ricchissimi tappeti. Un legista seguiva l'imperatore, affinchè tutte le ceremonie si eseguissero conformemente alle leggi. Castruccio nominato cavaliere e conte del palazzo di Laterano per questa solennità, portava la spada dell'impero, ch'egli stesso doveva cingere al monarca. Era il capitano coperto di un abito di seta chermisì, con due brevi a grandi lettere d'oro sul petto e sulle spalle che ascrivevano a Dio la sua grandezza, e ne lasciavano l'avvenire alla provvidenza[158]. Giacomo Alberti, vescovo di Venezia o Castello, e Gerardo Orlandini, vescovo d'Aleria, l'uno e l'altro dal papa scomunicati e deposti, stavano aspettando Luigi a san Pietro per consacrarlo. Dopo questa cerimonia, Sciarra Colonna pose sulla di lui testa la corona dell'impero, e Luigi, quasi per prendere possesso della nuova dignità, fece leggere tre decreti, in forza dei quali prometteva di mantenere la purità della fede cattolica, di rispettare i preti e di conservare i diritti delle vedove e dei pupilli. Dopo ciò, tutto il corteggio tornò in Campidoglio. Aveva il popolo conferita al monarca per acclamazione la dignità di senatore di Roma, e questi la trasmise a Castruccio affinchè l'esercitasse in suo nome[159].
Immediatamente dopo la consacrazione, Luigi avrebbe dovuto marciare contro Napoli colle imponenti forze ch'egli comandava, e schiacciare il suo principale avversario, che non era in istato di resistergli lungamente: ma egli sentiva che la sua coronazione era di niun valore per l'aperta opposizione del papa. Diffidava de' proprj diritti, e cercava di assodarli ora con ridicole e talvolta scandalose formalità: intentò un processo contro il papa, additato col nome di prete, Giacomo di Cahors, lo citò al suo tribunale, e come colpevole d'eresia e di lesa maestà, lo condannò alla deposizione ed in seguito alla pena di morte[160]. Gli diede per successore un frate Minore, chiamato Pietro di Corvaria, che fece eleggere dal popolo e consacrare sotto nome di Nicolò V[161]. Ma mentre lasciava inutilmente passare, stando in Roma, la stagione di agire, Castruccio, il suo più fermo appoggio, era richiamato in Toscana da una rivoluzione che minacciavalo di rapirgli i suoi stati.
Il luogotenente del duca di Calabria a Fiorenza, Filippo da Sangineto, aveva la notte del 28 gennajo sorpresa Pistoja. Due emigrati guelfi di questa città gli avevano date le misure delle fosse e delle mura; i Guelfi di Pistoja avevano prese le armi ed aperta una breccia per far entrare la cavalleria fiorentina; e la guarnigione di Castruccio, non avendo potuto sostenersi nella fortezza, erasi ritirata a Serravalle. Ma l'armata di Sangineto, quasi tutta composta di Borgognoni, aveva crudelmente abusato della sua vittoria, saccheggiando dieci giorni continui la città senza risparmiare piuttosto i Guelfi che i Ghibellini: ed aveva tanto ben consumate tutte le sue munizioni ed i suoi magazzini, che si era spogliata di tutti i mezzi di difesa ove fosse stata attaccata dai nemici[162].
Non ebbe appena ricevuto l'avviso della perdita di Pistoja, che Castruccio partì alla volta della Toscana con mille cavalli e mille arcieri che aveva condotti a Roma per onorare l'imperatore. Giunto a Pisa, si appropriò il prodotto delle gabelle, ed impose nuove contribuzioni[163]. Aveva Luigi data all'imperatrice la sovranità di Pisa; ma quando un suo luogotenente si presentò per prendere possesso della signoria, Castruccio lo costrinse a ritirarsi, e corse la città alla testa della sua cavalleria, per sottometterla alla sua autorità[164]. Frattanto disponevasi ad assediare Pistoja; ed il 13 maggio mandò mille cavalli ed un grosso corpo d'infanteria con ordine di occupare le comunicazioni della piazza, ed in seguito fece avanzare la milizia di Pisa, indi passò egli stesso al campo col rimanente delle sue forze.
I Fiorentini irritati dalle vessazioni di Filippo da Sangineto, dal saccheggio di Pistoja, e dal vedere che la sovranità di quella terra veniva riservata al duca di Calabria, avevano rifiutato di approvisionarla a loro spese. Pure quando videro Castruccio disposto ad intraprenderne l'assedio, pentiti della loro ostinazione, adunarono una forte armata per vittovagliare Pistoja, difesa da trecento cavalieri e da mille fanti al loro soldo, sussidiati dai Guelfi della città[165]. Il 13 luglio l'armata Fiorentina composta di due mila seicento cavalli, e secondo alcuni di circa trenta mila pedoni[166], s'avvicinò alla città assediata, mandando a sfidare Castruccio a battaglia. Il signore di Lucca accettò garbatamente il guanto della sfida, e fissò il giorno ed il luogo della battaglia; ma perchè egli non aveva da opporre all'armata nemica che mille seicento cavalieri, invece di prepararsi alla battaglia, approfittò dell'indugio per fortificarsi nel suo campo, rendendone l'attacco quasi impossibile. Quando i Fiorentini nel giorno convenuto ebbero aspettato alcun tempo l'armata lucchese nel piano, e s'accorsero d'essere stati beffati, tentarono di forzarla ne' suoi trincieramenti, ma ne furono respinti con qualche perdita. Pensarono allora di obbligare Castruccio a levare l'assedio per venire a difendere i suoi stati trasportando improvvisamente la guerra nello stato di Pisa che mise a fuoco e sangue. Ma sapendo Castruccio che Pistoja non aveva vittovaglia che per pochi giorni, lasciò guastare le campagne e non abbandonò la sua posizione. In fatti gli assediati scoraggiati dalla partenza dell'armata guelfa, capitolarono, ed aprirono le porte della città al signore di Lucca il 3 agosto del 1328[167].
«Quando Castruccio, dice il Villani, ebbe riacquistata Pistoja per suo grande senno e studio e prodezza,... tornò alla città di Lucca con grande trionfo e gloria, e trovossi in sul colmo d'essere temuto e ridottato e bene avventuroso di sue imprese più che fosse stato nullo signore o tiranno italiano, passati molti anni; e con questo signore della città di Pisa e di Lucca e di Pistoja e di Lunigiana e di gran parte della Riviera di Genova di levante, e trovossi signore di più di trecento castella murate. Ma come a Dio piacque il quale per debito di natura ragguaglia il grande col piccolo, e 'l ricco col povero, per soperchio di disordinata fatica prese nell'oste a Pistoja, stando armato, andando a cavallo e talora a piè a sollecitare le guardie o a' ripari della sua oste, facendo fare fortezze e tagliate, e talora cominciava colle sue mani, acciò che ciascuno lavorasse al caldo del sole Leone, sì li prese una febre continua, onde cadde forte malato. E per simile modo molta buona gente di Castruccio ammalarono.»
Il più ragguardevole personaggio che perì vittima di quest'epidemia sotto gli occhi di Castruccio, fu Galeazzo Visconti, già signore di Milano. L'imperatore lo aveva, ad istanza del signore di Lucca, posto in libertà il 25 marzo unitamente alla sua famiglia, e Galeazzo in allora militava sotto le insegne del suo protettore[168]. Fu sorpreso dall'epidemia nella rocca di Pescia, ove quest'uomo, ch'era stato signore di Milano e di altre sette grandi città, cioè Pavia, Lodi, Cremona, Como, Bergamo, Novara e Vercelli, ridotto alla condizione di povero soldato, morì in pochi giorni miserabilmente e scomunicato.
Frattanto la malattia di Castruccio facevasi pericolosa in modo, ch'egli stesso, conoscendo vicino il termine de' suoi giorni, dispose de' suoi beni, lasciando ad Enrico, suo maggior figliuolo, il ducato di Lucca nel modo che lo aveva istituito l'imperatore[169]. Ordinò che subito morto, questo suo figlio passasse a Pisa con un corpo di cavalleria per mettersene al possesso, e non prendesse il corrotto finchè non avesse assodata la sua sovranità. Dopo aver date tali disposizioni rese l'anima il sabato 3 settembre 1328.
Era Castruccio assai destro della persona, di grande e svelta statura, di aggradevole aspetto, ma sparuto e quasi bianco; aveva i capelli diritti e biondi e dolce la fisonomia; morì di quarantasette anni. Fra i tiranni ebbe nome di valoroso e magnanimo[170], saggio, accorto, pronto nel risolvere, instancabile nella fatica, valoroso nelle armi, antiveggente, felice nelle sue imprese, da tutti temuto. Ma nel corso di quindici anni in cui tenne il governo di Lucca, diede diverse prove della crudeltà del suo carattere. Diede in preda ad orribili torture i sospetti, e condannò ad atroci supplicj i suoi nemici. Sempre vago d'avere nuovi servitori e nuovi amici, non era riconoscente de' ricevuti beneficj; anzi pareva incrudelire maggiormente contro coloro che lo avevano ajutato ne' suoi bisogni, quasi volesse scaricarsi in tal modo di quanto loro doveva. Andava debitore ai Quartigiani del suo primo ingrandimento, ed abbiamo veduto che li condannò a crudele supplicio. I Poggi, altra famiglia lucchese, lo avevano tolto dalle mani di Neri della Faggiuola, e gli avevano aperta la strada alla sovranità; ed egli approfittò dell'opportunità di una privata quistione in cui ebbero parte, per far tagliare la testa a due di loro[171].
La morte di Castruccio fu a seconda de' suoi ordini tenuta nascosta fino al giorno 10 di settembre, nel qual tempo il suo maggior figliuolo corse colla cavalleria le città di Lucca e di Pisa, rompendo i Pisani ovunque tentarono di opporgli resistenza. Tornò poscia a Lucca per assistere ai funerali del padre, che fu con grandissima pompa sepolto il giorno 14 di dicembre nel convento de' frati minori di san Francesco[172].
Estremo fu il giubbilo de' Fiorentini allorchè seppero la morte di Castruccio. Lo stesso Luigi di Baviera, privo de' consigli e dell'appoggio di Castruccio, più non era per loro un terribile nemico. Sapevano che rimasto senza di lui in Roma non d'altro erasi occupato che di vane e ridicole cerimonie; che colle imprudenti sue invettive contro il papa e contro la chiesa aveva disgustati i suoi più fedeli partigiani; che aveva trascurato il momento più opportuno di attaccare il regno di Napoli; che le truppe del re Roberto eransi avanzate ad insultarlo fino ad Ostia; che un corpo de' suoi cavalieri era stato distrutto fra Todi e Narni; che i Romani stanchi di averlo nella loro città, ed irritati dalle contribuzioni che loro imponeva grandissime, eransi battuti coi suoi Tedeschi; e finalmente che, partendo da Roma il 4 di agosto per passare in Toscana assieme al suo antipapa, erano stati dalla plebe gravemente ingiuriati; gettati nel Tevere alcuni de' suoi soldati rimasti alla coda dell'armata; ed all'indomani accolti e creati senatori Bartoldo Orsino e Stefano Colonna, ch'erano tornati in Roma coi Guelfi[173].
Intanto erasi l'imperatore avanzato fino a Todi con due mila cinquecento cavalli, disponendosi a tenere la strada d'Arezzo per attraversare la Toscana. Egli pensava di assediare Firenze prima che potesse vittovagliarsi col vicino raccolto; nel qual caso avrebbe potuto ridurla a difficili circostanze. Ma lo rimosse da questo progetto una flotta siciliana giunta ne' mari di Toscana sotto il comando di don Pedro, figliuolo del re Federico, che aveva con se mille cento cavalieri catalani o siciliani. Don Pedro ricordava all'imperatore la concertata spedizione col re di Sicilia contro Roberto re di Napoli, affrettandolo a riprendere la strada del regno. In fatti Luigi tornò alquanto addietro per avvicinarsi al mare: incontrò a Corneto don Pedro, ed i due principi si caricarono a vicenda di rimproveri. Luigi accusava il Siciliano d'essere venuto troppo tardi; e questi rinfacciava all'imperatore d'avere troppo presto abbandonati i suoi progetti. Fecero non pertanto assieme qualche impresa nelle Maremme; ma trovandosi Luigi a Grossetto, ebbe notizia il 18 settembre della morte di Castruccio, e di quanto suo figliuolo Enrico aveva fatto in Pisa; onde partì all'istante per riavere questa città, che si affrettò di aprirgli le porte per liberarsi dal giogo dei Lucchesi[174].
Quando moriva Castruccio, Luigi di Baviera perdeva un altro de' suoi consiglieri e de' suoi confidenti, Marsilio di Padova, il teologo controversista che aveva combattuta l'autorità dei papi, ed aveva avuta grandissima parte ne' processi cominciati in Roma contro Giovanni XXII[175]. Il giorno 9 di novembre morì ancora Carlo, figliuolo del re Roberto, duca di Calabria e signore dei Fiorentini. Costui non lasciava che due figliuole[176]; ed il re suo padre non aveva altri figli, di modo che questa casa, già da tanto tempo la protettrice del partito guelfo, pareva vicina al suo fine. Perciò i più zelanti Guelfi di Fiorenza ne furono estremamente afflitti; ma il popolo rallegravasi di veder terminato, prima che spirasse il termine convenuto, l'arbitrario e concussionario governo de' Pugliesi. Trovavasi felice nel vedersi liberato da un signore nè valoroso nè prudente, e che chiamato a difendere Firenze nelle più difficili circostanze aveva dissipati i tesori dello stato non pensando che a vane ostentazioni ed a' suoi piaceri[177].
La morte suole di rado recar soccorso agli sventurati quando gemono nel colmo delle sofferenze; più raramente ancora ferisce colui contro del quale i voti degli uomini invocano la vendetta del cielo. I suoi inaspettati decreti colgono il giusto, le di cui virtù eccitano il più vivo rammarico, mentre il grande colpevole non cade che quando i suoi delitti incominciano ad essere obbliati. Ma nella storia fiorentina la morte ci si presenta più volte quale liberatrice della repubblica. La morte d'Enrico VII salvò Firenze dalla collera di questo provocato imperatore; la morte di Castruccio la liberò dal più valoroso guerriero, dal più profondo politico, dal più temuto di tutti i suoi nemici; la morte del duca di Calabria la sottrasse al dominio de' Napoletani nel momento che più non aveva bisogno de' loro soccorsi.
CAPITOLO XXXII.
Grandezza di Firenze. — Ritirata di Luigi di Baviera e ruina de' suoi alleati. — Campagna in Italia di Giovanni di Boemia.
1328 = 1333. Alla morte di Castruccio incomincia un'altra delle più gloriose epoche della grandezza di Firenze, la quale, liberata da così potente nemico, dominò tutta l'Italia col vigore de' suoi consigli e colla profonda sua politica. Sempre disposta a proteggere i deboli e gli oppressi, sempre apparecchiata ad opporre agli usurpatori un'insormontabile resistenza, la signoria fiorentina si considerò quale custode dell'equilibrio politico d'Italia specialmente destinata a conservare ai sovrani la loro indipendenza, ai popoli il proprio governo.
D'uopo è ricercare nello stesso carattere di una nazione i motivi dell'abituale condotta del suo governo, e specialmente quando il governo è democratico. Le qualità caratteristiche de' Fiorentini li rendevano acconci a sostenere le luminose parti che avevano preso a rappresentare, e l'Atene d'Italia ricordò quella di Grecia non meno per l'ingegno del suo popolo, che pei capi d'opera che produsse.
Tra i popoli italiani risguardavasi il fiorentino come il più accorto; motteggiatore nelle brigate, coglieva con vivacità il ridicolo; quando trattavasi di affari, la sua perspicacia mostravagli la più breve e facile via per conseguire l'intento, i vantaggi e la difficoltà d'ambo i lati; nella politica indovinava i progetti de' suoi nemici, prevedeva le conseguenze delle loro azioni, e la serie degli avvenimenti. Non pertanto il suo carattere era più fermo, e la sua condotta più misurata assai che non sarebbesi potuto presumere da tanta vivacità. Lento a risolvere, non intraprendeva cose pericolose che dopo lunghi consigli; ma quando vi si era impegnato, non si lasciava smuovere dai più gravi ed impreveduti disastri. Nelle cose delle lettere i Fiorentini univano alla prontezza la forza del raziocinio, alla filosofia la giovialità, la facezia alle più sublimi meditazioni. La profondità del carattere aveva presso questo popolo conservato l'entusiasmo, ed il motteggio ne aveva formato il gusto; la severità del pubblico contro il ridicolo aveva stabilita intorno alle lettere ed alle arti una non meno severa legislazione.
La scuola di pittura che allora fioriva nella loro città, porta l'impronta del genio creatore, di cui venivano per altro corretti i traviamenti. Il pittore che inventava il paradiso ed osava rappresentarvi gli eletti nella loro gloria, consigliavasi col pubblico di cui temeva il giudizio. Giotto fioriva a quest'epoca in Firenze: figliuolo d'un povero montanaro, aveva ricevuto dalla repubblica l'onore della cittadinanza ed una ragguardevole pensione. Con una prodigiosa diligenza arricchiva tutte le chiese di quadri assai più belli di quanto erasi fatto fino allora, e trovava tempo per dipingerne ancora per le altre città d'Italia. Aveva egli fatto il modello del bel campanile della cattedrale di Firenze; ed i molti discepoli ai quali amorosamente insegnava l'arte sua, erano destinati a darle maggior perfezione[178]. Stefano, Andrea di Cione, Buffalmacco, Taddeo Gaddi ec., ottennero grandissima celebrità.
Ma più che l'amore delle lettere e delle belle arti radicato era nel popolo fiorentino quello della libertà. La sua gelosia della suprema autorità lo chiamava ad opporsi vigorosamente ad ogni specie di aristocrazia; ed i suoi talenti per le combinazioni politiche lo riconducevano sempre verso lo stesso scopo con venti sperienze in diverse costituzioni. Nello stesso tempo egli sapeva circoscrivere il potere dei capi, e porsi in guardia contro le agitazioni delle assemblee popolari.
(1328) La morte del duca di Calabria diede ai Fiorentini nuova cagione di riformare la loro costituzione, e di equilibrare i diversi poteri della repubblica. I parlamenti o assemblee generali dei cittadini che tenevansi nella pubblica piazza, avevano più spesso servito al sovvertimento delle leggi che a tenerle in vigore; quindi i buoni cittadini andavano sempre proponendo di chiamare il popolo all'esercizio della sovranità per mezzo di rappresentanti, e non direttamente; di consultare la sua opinione, non di contarne i suffragi; poichè non può esistere la pubblica opinione, nè ha tempo di formarsi in que' paesi, ne' quali il regime democratico la converte subito in legge; e quando vengono interpellati tutti i cittadini sopra oggetti non meditati che da pochi, quasi tutti non danno la propria ma l'altrui opinione. I Fiorentini non meno gelosi de' cittadini ateniesi non volevano persuadersi che la nascita, il rango, gl'impieghi rendessero gli uni più che gli altri cittadini proprj al governo. Non pretendevano per altro, che la nazione intera fosse nello stesso tempo sovrana e suddita; ma bensì volevano tutti giugnere successivamente alla magistratura ed ai consigli, acconsentendo che la magistratura ed i consigli, finchè durava la loro amministrazione, governassero soli in nome della repubblica.
Ed a fronte del loro esagerato amore dell'eguaglianza, erano non pertanto costretti di confessare che molti cittadini avrebbero avvilito il governo colla bassezza della loro condizione, coi villani loro modi, e colla loro ignoranza. Non volevano per altro escluderli con leggi generali, le quali verrebbero considerate e come ingiuriose a coloro contro i quali erano dirette, ed inoltre come insufficienti; onde preferirono di provvedervi indirettamente, non accordando le cariche che a quelli che ne sarebbero giudicati degni da una autorità nazionale. Chiesero adunque che si facesse una nota generale di tutti i cittadini eleggibili, guelfi, e dell'età di trent'anni: e questa nota si formò coll'intervento di cinque magistrature indipendenti, cadauna delle quali rappresentava un interesse nazionale: i priori in nome del governo, i confalonieri in nome della milizia, i capitani di parte in nome de' Guelfi, i giudici di commercio in nome de' mercanti, i consoli delle arti in nome degli artisti, indicavano tutti la volta loro i cittadini che riputavano degni de' pubblici onori. Alcuni aggiunti cavati dalla massa del popolo sussidiavano questi elettori, onde verun cittadino non fosse dimenticato o escluso per sorpresa: e così colui che non veniva ricordato da nessuno come abbastanza degno, non era più chiamato alle cariche.
La nota degli eleggibili veniva poscia assoggettata alla ricognizione di una balìa. Componevasi questo corpo elettorale dei magistrati in numero di novantasette[179]; e dovevansi avere sessant'otto suffragi per essere iscritto nella lista de' priori. I buoni uomini, i consoli delle arti, i confalonieri della compagnia venivano eletti nella stessa maniera. Finalmente furono aboliti i quattro antichi consigli, e surrogati due nuovi; quello del popolo composto di trecento membri che dovevano provare di essere guelfi e popolani; ed il consiglio del comune formato di cento venti nobili e di cento venti cittadini dell'ordine popolare. I due consigli venivano rinnovati ogni quattro mesi[180].
Per tal modo ebbero nel governo la loro rappresentanza tutte le principali parti componenti lo stato, la nobiltà ed il popolo, il commercio e le manifatture, ogni corpo militare, ogni mestiere, ogni quartiere della città. La sovranità rimase tutta intera alla nazione, senza che la nazione fosse adunata; la volontà del popolo giudicò di tutte le più importanti quistioni, ma dopo essere state lungamente disaminate dalla magistratura e dai consigli.
Quel medesimo spirito di libertà che aveva presieduto alla formazione della costituzione, dirigeva il governo nelle sue relazioni esteriori. I Fiorentini furono appena liberati dal timore di Castruccio, che determinarono di liberare dal giogo dei tiranni anche i popoli vicini. Dopo aver veduto l'indipendenza d'Italia minacciata dal Bavaro, determinarono di opporsi allo stabilimento di qualunque potenza straniera al di qua delle Alpi.
Luigi di Baviera erasi avanzato fino alle frontiere della repubblica fiorentina, e pel 13 dicembre del 1328 aveva convocata in Pisa un'assemblea de' principali capi del partito ghibellino: ma mentre la teneva occupata soltanto intorno al processo che faceva contro il papa d'Avignone il suo antipapa Nicolò V[181], la cavalleria fiorentina due volte s'avanzò ad insultarla fino sotto le mura di Pisa. Luigi di Baviera aveva perduto in Castruccio il suo miglior consigliere ed il suo campione. Egli non aveva danaro per mantenere un'armata così lontana dal proprio paese; ed era talvolta costretto di procurarsene coi più perfidi e vergognosi modi[182]: veniva perciò doppiamente diffamato, per la sua povertà e per le frodi e per l'ingratitudine che questa obbligavalo a praticare[183].
Durante la sua dimora in Roma aveva fatto imprigionare e mettere barbaramente alla tortura Salvestro de' Gatti, signore di Viterbo, per obbligarlo a scoprire il luogo in cui teneva nascosti i suoi tesori, sebbene fosse questi il primo signore dello stato ecclesiastico, che aveva volontariamente data in mano dell'imperatore una fortezza[184]. Cercava in pari tempo di aver danaro da' Visconti e di cavare nuovi frutti del tradimento loro fatto. Il 6 di luglio del precedente anno aveva fatto ritenere Galeazzo accusato d'aver trattato coi Guelfi; ma aveva, senza verun pretesto, fatto imprigionare in Monza il figlio ed il fratello di questo signore. Dopo otto mesi lasciatosi finalmente piegare dalle istanze di Castruccio, avea ritornata loro la libertà il 25 marzo del 1328, ma lasciato morire nella miseria e nell'esilio il valoroso capo di questa famiglia. Presentemente negoziava coi superstiti di vender loro la sovranità rapitagli. Egli voleva danaro, ed inoltre chiedeva un pegno della futura fedeltà di coloro che aveva tanto crudelmente offesi. Per fargli cosa grata, Giovanni Visconti, il terzo de' figliuoli del grande Matteo, aveva accettato il cappello cardinalizio dell'antipapa Nicolò V; e mentre suo nipote Azzo mercanteggiava coll'imperatore il riacquisto di Milano, un impreveduto avvenimento affrettò la conclusione del trattato[185].
Tutte le truppe imperiali lagnavansi di non essere pagate; ma più impazienti di tutti erano i Sassoni e gli abitanti della Germania inferiore, che anche nello stato ecclesiastico avevano minacciato di battersi coi loro patriotti. Finalmente risolsero di sorprendere una fortezza, perchè servisse loro di pegno; ed ottocento cavalieri della bassa Germania con molti pedoni partirono il giorno 29 ottobre del 1329 alla volta di Lucca con tanta celerità, che l'imperatore ebbe appena tempo di far chiudere le porte della città[186]. Dopo aver saccheggiati i sobborghi di Lucca ed i villaggi di Val di Nievole, si stabilirono sulla montagna del Ceruglio, il più alto tra i colli che dividono il piano delle paludi di Fucecchio da quello del lago di Bientina. Si afforzarono in questa vantaggiosa posizione, lontana quindici miglia da Lucca e dodici da Pisa, signoreggiando egualmente le pianure di Val di Nievole e quelle di Val d'Arno, onde chiudevano l'ingresso ne' territorj pisano e lucchese. Allora minacciando indistintamente i Guelfi ed i Ghibellini posero all'incanto i loro servigi e la loro nimicizia[187].
Luigi di Baviera, conoscendo quanto pericolosa fosse la sua situazione, volendo richiamare gli ammutinati, si determinò finalmente a conchiudere la lunga negoziazione coi Visconti, ritornando ad Azzo il titolo di vicario imperiale e facendogli aprire le porte di Milano. Azzo Visconti promise il pagamento di cento venticinque mila fiorini, e mandò suo zio Marco al corpo tedesco di Ceruglio, per informarlo di questo trattato e pregarlo a pazientare finchè il danaro giugnesse da Milano. Ma i Tedeschi, dopo avere aspettato pochi giorni, fermarono Marco Visconti, come sigurtà del danaro che loro aveva promesso[188].
Intanto l'imperatore cercava d'imporre contribuzioni sui paesi già governati da Castruccio. Egli aveva accordato ai di lui figliuoli il titolo di duchi di Lucca, che loro ubbidiva ancora; sebbene molte famiglie repubblicane, gli Onesti, i Pozzinghi ed i Salamoncelli, cercassero di ristabilire l'antica forma del governo[189]. Luigi di Baviera sotto colore di proteggere i giovanetti orfani, de' quali era naturale tutore, entrò in Lucca, ove fu ricevuto senza sospetto il 16 marzo del 1329. Ma egli ordinò subito al suo maresciallo di correre per le strade con un corpo di cavalleria, come costumasi nel prender possesso di una città. I Tedeschi attaccarono gli steccati eretti contro di loro, bruciarono le case de' Pozzinghi, ove incontrarono resistenza, ed il fuoco comunicandosi ai vicini edificj ridusse in cenere il più ricco quartiere della città, quello di san Michele. Dopo ciò l'imperatore vendette Lucca per ventidue mila fiorini a Francesco Castracani, parente, ma nemico, di Castruccio e de' suoi figliuoli[190].
Filippo Tedici, che aveva venduta Pistoja a Castruccio, voleva almeno conservare la signoria di questa città ai giovani Castracani; ma i Panciatichi, antichi capi del partito ghibellino, vi si opposero colle armi, e Tedici fu cacciato di Pistoja coi soldati di Castruccio. Così fu in pochi mesi distrutta la potenza di questo valoroso ed accorto principe che fatti aveva tremare tutti i Guelfi d'Italia. I suoi figliuoli, scacciati dalle città in cui aveva egli regnato, furono forzati di ripararsi ne' castelli degli Appennini, finchè giunti all'età atta alle armi professarono il mestiere di condottieri. I diversi stati da Castruccio uniti in un solo, si separarono per essere un dopo l'altro ridotti in servitù, mostrando così che l'efimera loro potenza era attaccata ad una sola vita. Que' popoli, cui Castruccio aveva ispirato il proprio ardore militare, trovaronsi spossati dalle battaglie sostenute con tanta gloria; esauriti erano i loro tesori, la loro gioventù perita nelle battaglie, e i Lucchesi pagarono con quaranta anni di schiavitù la breve gloria onde Castruccio gli aveva coperti.
Luigi di Baviera non prendendosi verun pensiero dei figliuoli del suo più fedele servitore, ch'egli stesso aveva ruinati, lasciò la Toscana il giorno 11 aprile. Vedeva ogni giorno venir meno in questa provincia il suo credito; e non potendo ridurre sotto le sue insegne i Tedeschi del Ceruglio, temeva di vedersi esposto a grandi rovesci di fortuna, ove questi prendessero soldo dalla repubblica fiorentina. Affidò la custodia di Pisa a Tarlatino di Pietra Mala, uno de' signori d'Arezzo, lasciandogli circa seicento cavalli tedeschi, e s'incamminò col resto delle sue truppe verso la Lombardia[191].
Finchè l'imperatore si trattenne in Toscana, i Fiorentini non potevano disporre delle loro forze, che per difendersi da così potente nemico; ma ne fu appena lontano, che cominciarono ad approfittare dell'odio che questo monarca aveva ispirato ai popoli. Dì quante conquiste aveva fatte Castruccio, più d'ogni altra spiaceva ai Fiorentini quella di Pistoja che apriva ai Ghibellini il passaggio delle montagne, e li metteva nella stessa campagna di Firenze. Ma i Panciatichi, capi de' Ghibellini pistojesi, dopo averne scacciati i Tedici che risguardavano come traditori, mossero pratica presso il governo fiorentino per rappacificarsi. Ne aprì le negoziazioni Pazzino de' Pazzi, loro parente, col di cui mezzo il 24 maggio del 1329 si segnò la pace tra Pistoja e Firenze. I Pistojesi rinunciarono ad ogni loro diritto sopra Montemurlo, Carmignano, Artimino e Vitolino, fortezze già occupate dai Fiorentini; si obbligarono ad avere in ogni tempo per loro amici gli amici dei Fiorentini, per nemici i loro nemici; ed acconsentirono a ricevere entro le loro mura, per sicurezza della città, un capitano fiorentino con una piccola guarnigione[192]. Dopo questo trattato, sebbene si continuasse a risguardare Pistoja qual città alleata e non suddita de' Fiorentini, cessò d'avere un'esistenza indipendente, e cessarono i suoi abitanti di formare un popolo.
La più ridente provincia della Toscana, Val di Nievole, occupata dai Lucchesi l'anno 1281[193] aveva ubbidito a Castruccio. Due piccoli fiumi, che per altro non sono mai senz'acque, la Pescia e la Nievole, rendono fertilissimo il piano di questa bella vallata che si copre ogni anno di ricche messi. Le colline che la circondano sparse di ulivi e di viti, producono il più delicato olio ed i migliori vini della Toscana: ne coronano la vetta antiche rocche, le di cui torri, coperte d'ellera e di capperi, s'innalzano di mezzo ad alti castagni ed ai cipressi. Queste rocche non appartenevano alla nobiltà immediata, ma vi si erano adunati per loro sicurezza i proprietarj della valle; un ricinto comune serviva alla difesa delle case e de' più preziosi effetti, e senza uscire dai loro ripari gli abitanti di questo delizioso paese potevano custodire le messi del piano ed osservare il lavoro de' loro agricoltori. Ogni borgata aveva un governo municipale; e prima di passare sotto il dominio de' Lucchesi, queste piccole popolazioni, tanto vicine le une alle altre da potersi intendere parlando da un castello all'altro, si erano talvolta fatte la guerra, ed avevano contratte fra di loro alleanze offensive e difensive. Morto Castruccio, desiderando di separare la loro sorte da quella dei Lucchesi, si collegarono tra di loro per assicurare la comune indipendenza; ma l'esempio dei Pistojesi li persuase a cercare l'alleanza e la protezione di Firenze; onde il 21 giugno del 1329 fu firmato un trattato di perpetua pace tra la repubblica per una parte, e per l'altra i castelli di Pescia, Montecatini, Buggiano, Uzzano, Colle, Cozzile, Massa, Monsummano e Montevetturini. Obbligavansi questi a non avere altri amici che gli amici dei Fiorentini, ed essere nemici dei loro nemici, e ad ubbidire ad un capitano che manderebbe loro la repubblica[194].
Parve che allora si presentasse alla repubblica l'opportunità di fare un acquisto assai più importante. Le fu offerta in vendita la città di Lucca. I Tedeschi che avevano abbandonato l'imperatore, e ch'eransi trincierati a Ceruglio, quando seppero ch'era partito, credettero utile di assoggettarsi ad un capo che conoscesse l'Italia e la politica italiana, e scelsero quello stesso Marco Visconti che pochi dì prima avevano arrestato, ma che aveva saputo farsi amare da molti loro compatriotti per il suo valore ed i talenti militari, e perchè il suo carattere inquieto ed intraprendente lo rendevano degno del comando d'una banda di avventurieri. Infatti Marco Visconti trovossi appena capo di questa temuta gente, che prese a negoziare con tutti i suoi vicini, col governo di Firenze, coi Tedeschi di guarnigione a Lucca, e cogli oppressi cittadini di Pisa.
La conquista di Lucca fu il primo frutto di queste segrete pratiche. L'imperatore aveva lasciati trecento cavalieri tedeschi a Francesco Castraccani degli Interminelli, suo vicario in Lucca; questi furono sedotti dai Tedeschi del Ceruglio; ed altri cavalieri della stessa nazione, che avevano militato sotto Castruccio, ed erano rimasti di guarnigione nella rocca di Lucca, promisero di ajutare il figlio del loro duca, che Marco Visconti aveva fatto venire nel suo campo; e nella notte del 15 aprile le porte della città e la sua rocca furono aperte ai Tedeschi del Ceruglio, i quali disarmarono i cittadini e ne diedero la signoria a Marco Visconti[195]. Ma i soldati cui andava debitore della nuova sovranità, erano accostumati a vivere coi ladronecci, ed il territorio lucchese che andavano guastando, e la città, impoverita dalle precedenti guerre, più omai non bastavano a mantenerli[196]. Perciò desideravano di tornare in Germania, ed erano disposti a cedere Lucca a qualunque loro pagasse in cumulo il soldo dovuto dall'imperatore; il quale, stando ai loro calcoli, ammontava a ottanta mila fiorini. Per tale prezzo offrirono Lucca ai Fiorentini, i quali rifiutarono l'offerta; o perchè i priori della repubblica non volessero arricchire coi proprj tesori i loro nemici, Marco Visconti ed il figliuolo di Castruccio[197]; o perchè una vicendevole diffidenza impedisse ai Fiorentini ed ai Tedeschi di mandare ad effetto il trattato, negando gli uni di dare il danaro prima che fosse loro aperta la città; ne volendo gli altri aprirla avanti di riceverlo[198]; o pure, come vogliono alcuni, che vi si opponesse una segreta gelosia contro il primo negoziatore incaricato di questo trattato dalla signoria[199].
Intanto scoppiava in Pisa una seconda congiura diretta da Marco Visconti. Questa città, sì lungo tempo fedele agl'imperatori, e che tanti enormi sacrificj sostenne per cagion loro, aveva esperimentata, come gli altri stati ghibellini, l'ingratitudine di Luigi di Baviera. Il diritto delle genti era stato violato nei suoi ambasciatori, la città assediata, la capitolazione violata, e la signoria affidata successivamente all'imperatrice, a Castruccio, a Tarlatino di Pietra Mala; finalmente insopportabili contribuzioni erano state imposte agli abitanti, le quali avevano fatto succedere la miseria all'antica opulenza. Marco Visconti concertò il modo di liberare Pisa col conte Fazio, o Bonifazio della Gherardesca, capo della fazione plebea; gli spedì una compagnia di cavalieri, col cui ajuto Fazio scacciò di Pisa il vicario imperiale co' suoi soldati, e ristabilì in giugno del 1329 il governo indipendente della repubblica[200].
Intanto Marco Visconti non si credeva del tutto sicuro in mezzo ai Tedeschi che lo avevano creato loro capo, e venne personalmente a Firenze per ripigliare il trattato della vendita di Lucca. In questo frattempo i suoi luogotenenti aprirono un eguale trattato coi Pisani, i quali, temendo d'essere prevenuti dai Fiorentini in così notabile acquisto, strinsero il contratto pel prezzo di sessanta mila fiorini, e ne sborsarono incautamente per caparra tredici mila, senza farsi dare ostaggi. I Tedeschi si fecero giuoco della data fede e rifiutarono d'aprire la città. Intanto i Fiorentini adombrati dal tentativo de' Pisani, fecero ben tosto avanzare le loro truppe per impedirne l'esecuzione; ed i Pisani che avevano perduta una somma considerabile, e risguardavano egualmente come loro nemici i Tedeschi di Tarlatino che avevano cacciati fuori di Pisa, ed i Tedeschi di Lucca che gli avevano ingannati, furono obbligati a fare la pace con Fiorenza il 12 agosto del 1329, rinunciando all'acquisto di Lucca[201].
I Tedeschi rinnovarono un'altra volta l'offerta di vendere Lucca ai Fiorentini; e perchè la signoria non aveva voluto accettarla, molti ricchi mercanti formarono una società, nella quale prese parte anche il nostro storico Giovanni Villani, per acquistar Lucca col loro danaro. Essi avevano raccolti tra di loro cinquantadue mila fiorini, e dieci mila ne aggiungevano i mercanti lucchesi che desideravano di liberar la loro patria dall'oppressione; onde dalla signoria di Fiorenza si chiedevano soltanto quattordici mila fiorini, per i quali le si davano in custodia le mura e la fortezza: e coloro che avevano somministrato il danaro, sarebbero stati rimborsati col prodotto delle gabelle delle porte di Lucca. Ma questa volta un inconcepibile acciecamento sorprese la signoria, che d'ordinario mostrò tanta accortezza, e le fece rigettare così utili offerte. Temette forse il ridicolo, cui sarebbe esposta una nazione di mercanti, che invece di soggiogare i nemici colle armi, non sapeva che comperarli. «Che fama certa, dice il Villani, era per lo mondo che i Fiorentini per covidigia di guadagno di moneta hanno comperata la città di Lucca. Ma al nostro parere, e a' più savi, che poi l'hanno esaminato quistionando, che compensando le sconfitte e danni ricevuti, e ispendii fatti per lo comune di Firenze per cagione de' Lucchesi per la guerra Castruccina, niuna più alta vendetta si poteva fare per li Fiorentini, nè maggiore laude e gloriosa fama poteva andare per lo mondo che potersi dire, i mercanti e singulari cittadini di Firenze con la loro pecunia hanno comperato Lucca, e suoi cittadini e contadini stati loro nemici, come servi[202] ».
Intanto un emigrato ghibellino di Genova, detto Gherardino Spinola, si fece a trattare cogli avventurieri tedeschi l'acquisto di Lucca; e questi soldati, impazienti di ripatriare, gli cedettero la città il giorno 2 settembre per trenta mila fiorini. I Lucchesi ne riconobbero l'autorità, meno insopportabile al certo che quello della soldatesca cui succedeva; ed i Fiorentini che gli dichiararono la guerra, si videro tolti dai Ghibellini le castella di Collodi e di Montecatini[203].
Tranne questa guerra, poco dannosa, eransi ristabiliti in Toscana l'ordine e la pace. La stessa repubblica di Pisa aveva cercato di rappacificarsi col partito guelfo e col papa: al quale oggetto obbligò l'antipapa Nicolò V ad uscire dalle sue mura; ed in seguito lo fece arrestare in un castello della Maremma, ove erasi nascosto, e lo mandò prigioniero in Avignone. Giovanni XXII pianse di gioja vedendosi arbitro della sorte di così pericoloso rivale, che fece custodire, finchè visse, in onorata prigione; ammettendo i Pisani alla comunione della chiesa in premio di così segnalato servigio[204].
Ma la Lombardia, ove Luigi di Baviera aveva condotta la sua armata, non andava esente da rivoluzioni. Sebbene i Fiorentini non avessero verun dominio in questa contrada, non vedevano tranquilli il rapido innalzamento d'alcuni principi ad una straordinaria potenza, e il decadimento egualmente rapido di alcuni altri nella dipendenza o nella disgrazia.
Uno de' più temuti capi del partito ghibellino aveva cessato d'esistere quando Luigi di Baviera rientrò dalla Toscana in Lombardia. Passerino dei Bonacossi, signore di Mantova e di Modena, aveva in una sedizione popolare perduta l'ultima città il 15 giugno 1327[205]. I Guelfi ed il legato Bertrando erano accorsi in ajuto degl'insorgenti, che loro avevano aperte le porte. Ma Passerino era rimasto sovrano di Mantova, città da oltre quarant'anni suddita della sua famiglia. Difesa dai laghi, che la circondano, dalle aggressioni straniere, pareva che Mantova non avesse pure a temere interni sconvolgimenti. Il popolo aveva da molto tempo perduta la memoria d'una libertà appena conosciuta; i grandi erano sottomessi ed altronde accarezzati dal signore e confidentemente trattati; finalmente era nota la prudenza, la ricchezza ed il valor del principe, che risguardavasi come il meglio assodato sovrano di Lombardia[206]. Una privata offesa provocata dall'arroganza del figlio di Passerino fu cagione della sua ruina.
I costumi della gioventù, severi nelle repubbliche, erano licenziosi ne' principati di Lombardia. I sovrani stessi sarebbersi adombrati dell'austera indipendenza di un uomo onesto e sobrio. L'esempio della corte invitava alla mollezza; ed i gentiluomini, pei quali non restava alcuna via alla gloria ed agli onori, si occupavano unicamente dei piaceri. Compagni delle dissolutezze ed amici del figliuolo di Passerino erano tre suoi cugini, figliuoli di Luigi da Gonzaga; uno de' quali avendo eccitata la gelosia del principe, questi giurò nella brutale sua collera di vendicare sulla propria consorte di Filippino Gonzaga la supposta infedeltà della sua amante, disonorando quella sotto gli occhi di suo marito[207].
I tre fratelli Gonzaga ed il loro amico Alberti Saviola si disposero a prevenire così disonorante ingiuria, o a punire il figlio del tiranno per aver soltanto osato di formarne il disegno. Chiesero segretamente soccorso a Cane della Scala signore di Verona, e l'ottennero: perchè i principi vicini, gelosi gli uni degli altri, erano sempre disposti a nuocersi vicendevolmente. Filippino Gonzaga erasi ritirato nelle sue terre sotto colore di attendere ai suoi raccolti, ed aveva presso di sè riuniti lavoratori a lui attaccatissimi e di sperimentato coraggio. Nella notte del 14 agosto del 1328, avendo loro date le armi, gli associò ai soldati avuti in prestito da Cane della Scala e li condusse presso alla porta di Marmirolo, che suo fratello si era fatta aprire sotto pretesto di essere chiamato in campagna da una galanteria amorosa. La guardia della porta fu sorpresa, ed i congiurati corsero la città eccitando il popolo a scuotere il giogo di Passerino ed a distruggere le gabelle. Questo signore recatosi a cavallo contro i congiurati fu ucciso in su la piazza, ed il figliuolo gettato nella prigione in cui aveva fatto morire il vecchio signore della Mirandola, e vi fu ucciso dal figliuolo di quello sventurato gentiluomo. Luigi da Gonzaga, cognato di Passerino e padre dei congiurati, fu da loro proclamato signore di Mantova[208]. I suoi discendenti ne conservarono la sovranità fino alla metà del secolo XVIII.
Luigi di Baviera non si curò di vendicare Passerino de' Bonacossi; per lo contrario nominò in suo luogo vicario imperiale Luigi da Gonzaga, e lo invitò al congresso dei signori ghibellini che aveva convocato pel giorno 21 aprile del 1329 a Marcheria. V'intervennero Cane della Scala, il Gonzaga ed i signori di Como e di Cremona, come pure gli altri capi del partito in Lombardia[209]; ma Azzo Visconti ricusò di venire. Questo principe, alleato dei figliuoli di Castruccio, lagnavasi dell'ingratitudine con cui lo aveva trattato l'imperatore, e vedeva nella loro sorte, quella che gli era destinata, se Luigi entrava nel Milanese; e con un monarca senza fede preferiva ai trattati la guerra aperta. Quando ebbe avviso dell'avvicinarsi dell'imperatore, fortificò Milano e Monza per essere in istato di resistergli; ed invitando i cittadini a difendersi, gli assicurò che di quattro mila cavalieri che seguivano Luigi, due mila, nella loro miseria, avevano venduti i loro cavalli sperando di rifarsi col saccheggio di Milano. Di fatti i Milanesi secondarono il loro signore con tutte le loro forze, e Luigi, dopo alcuni inutili tentativi per sorprenderli, accettò una piccola somma di danaro offertagli dal Visconti, ed andò a portare la guerra nella Lombardia oltre-padana[210].
In questa campagna l'imperatore riportò alcuni vantaggi dovuti piuttosto all'imprudenza del suo nemico il cardinale Bertrando, che alla propria abilità. Aveva il cardinale fatto arrestare come ostaggio Orlando dei Rossi, uno dei signori di Parma e de' principali capi della parte guelfa; onde le città di Pavia, Parma, Modena e Reggio, sdegnate per quest'atto tirannico, abbandonarono la causa della chiesa ed aprirono le porte all'imperatore[211]. Ma Luigi, avanti che terminasse l'anno, andò a Trento per ottenere dai principi tedeschi altri soldati. Mentre trovavasi in questa città, morì il 13 gennajo 1330 Federico d'Austria, ed i suoi fratelli Alberto ed Ottone adunarono truppe per attaccare la Baviera. Conoscendo le intenzioni degli Austriaci, Luigi abbandonò l'Italia per difendere i suoi stati ereditarj[212].
Azzo Visconti inimicandosi coll'imperatore, si riconciliò col papa, sostituendo il titolo di vicario della chiesa a quello di vicario imperiale, ed ottenne il vescovado di Novara per suo zio Giovanni, cui fece abiurare il cardinalato degli scismatici[213]. Marco Visconti, il maggiore de' suoi zii ed il più valoroso, ma in pari tempo il più formidabile per l'inquieto suo carattere, dopo essergli andato a male il trattato della vendita di Lucca ai Fiorentini, tornò a Milano in sul cadere di luglio. I borghesi che più volte lo avevano veduto rientrare in città trionfante, dopo avere riportate gloriose vittorie, i soldati coi quali aveva divise le fatiche ed i pericoli, i contadini cui aveva salvate le messi dal saccheggio de' nemici, accorrevano in folla per vederlo, ripetendo il suo nome con entusiasmo, ed invocandolo come il vindice della Lombardia, da cui si ripromettevano la pace, la gloria e la libertà. Il signore di Milano non vide con indifferenza tanto favore popolare. Lo invitò ad un magnifico banchetto con tutti i suoi parenti; e quando Marco stava per ritirarsi, fu da Azzo, sotto colore di parlargli segretamente, chiamato in un altro appartamento, e strozzato da alcuni sicarj colà appostati, che lo gittarono dalla finestra nella pubblica piazza. Così perì il più valoroso figliuolo del magno Matteo Visconti; quello che il voto de' Ghibellini chiamava a comandare la loro fazione in tutta la Lombardia[214].
Era loro mancato Cane della Scala, signore di Verona, che dodici anni prima la lega ghibellina aveva proclamato suo capo nel congresso di Soncino. Cane, in un'epoca in cui la Lombardia abbondò di capitani illustri e di grandi principi, meritò d'occupare il primo luogo. Ad una bravura a tutte prove aggiugneva altre qualità omai rese assai rare: costante ne' suoi principj e leale ne' discorsi, fu mantenitore fedele delle sue promesse. Nè solo aveva saputo assicurarsi l'amore de' soldati, ma ancora quello de' popoli da lui governati, sebbene di fresco sottomessi colle armi. Fu il primo de' principi lombardi che prendesse a proteggere le arti e le scienze: la sua corte, ch'era l'asilo di tutti i fuorusciti ghibellini, riuniva i primi poeti d'Italia, i migliori dipintori e scultori; ed alcuni gloriosi monumenti onde abbellì Verona, attestano anche al presente la protezione accordata all'architettura. Per altro le armi erano la sua più favorita passione, e la più grande impresa del suo regno era stato l'acquisto del principato di Padova, che i Guelfi avevano fondato l'anno 1318 in favore di Giacomo da Carrara. Questi era morto l'anno 1322, e gli era succeduto suo figliuolo Marsilio: ma questo principe indebolito dalle sedizioni de' suoi sudditi e dalla congiura de' suoi parenti, dopo aver veduto sei anni di seguito ruinate le campagne ed incendiati i castelli ed i villaggi del suo territorio; dopo avere senza verun profitto implorati i soccorsi del papa, del re Roberto, dei duchi d'Austria e di Carinzia, delle repubbliche di Venezia, di Fiorenza e di Bologna, aprì finalmente le porte a Cane della Scala il 10 settembre del 1328. Un matrimonio unì le due famiglie, e Marsilio rimase luogotenente di Cane nella città di cui era stato principe[215].
Le città di Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno erano allora soggette al signore della Scala. Nel susseguente anno intraprese di unirvi anche quella di Treviso, onde avere in tal modo tutta la Marca Trivigiana in suo potere. L'ebbe in fatti per capitolazione il 18 luglio del 1329; ma mentre entrava in questa città, sentendosi sorpreso da pericolosa infermità, si fece portare nella chiesa cattedrale e vi morì il quarto giorno in età di quarantun anni. Cane non aveva figli legittimi, e gli succedettero nella signoria i due nipoti figliuoli del fratello Alboino. Alberto, il primogenito affatto dedito ai piaceri, abbandonò la cura di tutti gli affari a suo fratello Mastino, erede dei talenti e dell'ambizione, ma non delle virtù di Cane[216].
E per tal modo quando l'imperatore tornava in Germania, tutti gli antichi capi del partito ghibellino, tutti coloro che avevano tanto tempo e con tanta generosità difesa la causa dell'impero contro il papa ed il re Roberto, erano caduti. Ma questa causa, più che dalla caduta di tanti illustri personaggi, riceveva danno dalla condotta tenuta in Italia da Luigi, e dalle triste memorie che di sè vi lasciava. Protettore nato della nobiltà e delle città imperiali, aveva in ogni luogo contribuito alla loro ruina; aveva senza vergogna sagrificati i suoi partigiani alla sua avarizia o all'interesse del momento; non erasi mantenuto fedele a verun principe, o ad amico di qualsiasi condizione, ed aveva fatto temere non meno la sua debolezza e la sua incostanza che la sua crudeltà.
Il partito della chiesa che gli era opposto, era alla stessa epoca diretto da capi egualmente odiosi. Papa Giovanni XXII, che aveva preferito di vivere suddito in Avignone piuttosto che sovrano in Roma, mostravasi assai meno il capo della cristianità, che la creatura e l'istrumento del re di Francia. Lussurioso, avaro, vendicativo, scompigliava l'impero con ambiziose pretensioni, di cui gli stessi suoi partigiani riconoscevano l'ingiustizia; turbava la pace della chiesa colle oziose dispute ch'ebbe coi Francescani intorno alla povertà di Cristo, coi cardinali, ed in appresso colla Sorbona per visione beatifica[217]. Poneva all'incanto le dignità ecclesiastiche; permetteva e probabilmente incoraggiava col suo esempio la corruzione de' costumi, talchè la sua corte scandalizzava tutta la cristianità. Quest'uomo, così indegno del titolo di padre de' Fedeli, aveva nominato suo rappresentante in Lombardia, Bertrando del Poggetto, che dicevasi suo nipote, ma veniva universalmente creduto suo figlio. Questo legato pontificio, cattivo soldato e peggior prete, cercava sotto il nome della chiesa di formarsi una sovranità in Italia. Impiegava le armi ed i tesori della santa sede ed i più vili intrighi della mondana politica per ingrandirsi a spese de' popoli ch'eransi posti sotto la sua protezione. Avendo colla sua perfidia fatte ribellare le principali città della Lombardia cispadana, gittava in Bologna, che destinava essere la capitale de' suoi dominj, i fondamenti d'una fortezza che lo assicurasse dalle insurrezioni d'un popolo estremamente maltrattato[218]. Gl'Italiani, sdegnati contro i due capi del cristianesimo, dai quali vedevansi traditi, si staccavano dall'imperatore e dal papa, e non pertanto conservavano i nomi di Guelfi e di Ghibellini che avevano presi quando s'erano armati per la loro causa. Mentre vedevansi rovesciare a vicenda tirannidi vacillanti, o rinunciare ad una libertà che non sapevano stabilire, sprezzare un imperatore perfido e pusillanime, e detestare un papa ipocrita ed ambizioso, un principe che non pareva occuparsi che della gloria e della beneficenza s'innoltrò fino alle frontiere della Lombardia, tutti i popoli si affrettarono di assoggettarsi alla sua sovranità.
L'ultimo imperatore Enrico VII aveva fatta sposare a Giovanni, suo figliuolo, Elisabetta seconda figlia di Wenceslao re di Boemia, mentre Anna, la primogenita, erasi maritata, vivente il padre, con Enrico duca di Carinzia. L'imperatore aveva dato a suo figliuolo il regno di Boemia come feudo vacante dell'impero; i Boemi ne avevano confermata l'elezione l'anno 1310, ed avevano ajutato il loro re Giovanni a scacciare dal regno Enrico di Carinzia, che pretendeva, come marito della primogenita di Wenceslao, quella corona[219]. Ma Giovanni, valoroso, galante, appassionato per le feste e per i tornei, e per l'avuta educazione, avvezzo alle maniere eleganti, alla leggerezza ed alla grazia della corte francese, era mal atto a comandare in un paese ancora mezzo barbaro, ove i magnati erano gelosissimi della selvaggia loro indipendenza, e non potevano tenersi sommessi che colla desterità e coll'artificio. Infatti trovossi involto in molte guerre civili, nelle quali la stessa sua consorte erasi talvolta posta alla testa de' ribelli[220]. Giovanni che in Boemia non trovava nè sicurezza nè obbedienza, affidò il governo del suo regno ad Enrico, conte di Lippe[221], ed andò a risiedere ne' suoi stati ereditarj di Lussemburgo; di dove intraprendeva frequenti viaggi alle corti straniere per trovarvi quella considerazione di cui non godeva ne' suoi dominj[222].
Il re Giovanni, come abbiamo già veduto, aveva portato Luigi di Baviera sul trono imperiale, ed aveva adoperate tutte le sue forze per mantenervelo; doveva Luigi riconoscere dal suo valore la vittoria di Muldfort e la prigionia di Federico d'Austria. Durante l'assenza dell'imperatore, erasi preso l'assunto di mantenere la pace in Germania e di proteggere la Baviera; e quando vide i duchi d'Austria disposti a ricominciare le ostilità, si recò presso di loro e li persuase a deporre le armi. Dopo averli rappacificati con Luigi, prese a quietare i movimenti della Germania, e cercò d'ottenere dal papa l'assoluzione dell'imperatore. Egli non ambiva di accrescere i proprj stati, de' quali lasciava l'amministrazione a' suoi ministri; egli non aveva vaghezza che di gloria e di potenza personale; voleva essere l'arbitro ed il pacificatore dell'Europa, al quale oggetto trovavasi sempre a cavallo viaggiando da una corte all'altra, nelle quali il suo nobile aspetto, la sua eloquenza, il suo disinteresse gli assicuravano un credito, quale non aveva mai avuto alcun uomo prima di lui[223]. Giunto al più alto grado della sua riputazione, si recò a Trento in sul finire del presente anno per fare sposare a suo figliuolo l'erede di quello stesso duca di Carinzia e del Tirolo, ch'era stato suo rivale.
Mentre Giovanni trattenevasi in Trento, ricevette ambasciatori dalla città di Brescia, che gli offrivano a vita la sovranità del loro stato; e chiedevangli protezione contro Mastino della Scala con cui erano in guerra. Brescia, governata dai Guelfi, era stata successivamente signoreggiata da Filippo di Valois, dal re Roberto e dal legato Bertrando del Poggetto: ma gli emigrati ghibellini avevano ricorso all'assistenza del signore di Verona, ed avevano ridotta la patria loro alle ultime estremità[224].
Il re Boemo colse con piacere questa occasione di figurare sopra un nuovo teatro, e recossi a Brescia l'ultimo giorno di dicembre del 1330; arringò il popolo dignitosamente; riconciliò le parti, richiamando in città i fuorusciti; persuase Mastino a ritirare le sue truppe; e parve che un solo atto della sua volontà avesse renduto ad una città da lungo tempo infelice, la pace e la prosperità[225].
I Bergamaschi, vicini ai Bresciani e governati ancor essi dalla fazione guelfa, furono i primi ad imitarne l'esempio. Giovanni accettò l'offerta, e mandò un luogotenente a governare Bergamo ed a ricondurvi la tranquillità[226]. Lo stesso fecero Cremona, Pavia, Vercelli e Novara[227]; e lo stesso Azzo Visconti, mosso dall'esempio de' suoi vicini, gli offrì la signoria di Milano, e s'intitolò suo vicario[228].
Ma più che tutt'altro paese, aveva bisogno d'un pacificatore la Lombardia cispadana; perciocchè di là partendo Luigi di Baviera aveva lasciati soldati nelle principali città, i quali non avevano altro sostentamento che il saccheggio. Le porte di Parma furono aperte al re Giovanni dai signori Rossi[229], quelle di Modena e Reggio dai capi delle famiglie ghibelline. Ogni città imponeva al re la condizione di non richiamare gli esiliati; ma ogni città vedeva poi con piacere violato il patto dal re, e riconciliate col richiamo de' fuorusciti le opposte parti[230].
In gennajo vennero pure al re Giovanni ambasciatori di Gherardino Spinola, signore di Lucca. Costui, comperando quel principato, erasi dato vanto di voler essere in Toscana un secondo Castruccio; ma ebbe tosto motivo di essere scontento della sua sovranità. Era stato internamente esposto ad una serie di congiure, mentre al di fuori i Fiorentini gli facevano un'aspra guerra. Dopo un lungo assedio gli aveano tolto il castello di Montecatini valorosamente difeso dai Ghibellini[231]; e fino dal 10 ottobre del 1330 l'armata fiorentina bloccava la stessa città di Lucca. Quando Spinola seppe che il re Giovanni aveva accettata Lucca, e che vi spediva i suoi soldati, abbandonò le città e ritirossi ne' suoi feudi senza che il re gli restituisse il danaro che aveva sborsato per l'acquisto di quella signoria[232].
I Fiorentini che tenevano innanzi a Lucca una grossa armata, rinforzata dai soldati ausiliari del re Roberto, dei Sienesi e dei Perugini, e che lusingavansi di entrare ben tosto in città in conseguenza di un trattato omai condotto a buon termine col signore e col comune[233], rimasero sbalorditi quando il giorno 12 di febbrajo gli araldi d'armi del re Giovanni di Boemia intimarono loro di rispettare il territorio dei sudditi del loro signore, e li prevennero nello stesso tempo che il re Giovanni, essendo in pace con tutti gli stati d'Italia, non aveva accettata la signoria di Lucca che per mettervi l'ordine e la concordia, e per rappacificarla co' suoi vicini[234].
Giovanni, re di Boemia, che era l'amico, il confidente e l'appoggio di Luigi di Baviera, era in pari tempo rispettato da Filippo di Valois e da Giovanni XXII, ed aveva strette relazioni colle corti di Francia e d'Avignone. In Italia non aveva fatta alcuna differenza dai Guelfi a' Ghibellini, era stato alternativamente chiamato dagli uni e dagli altri, aveva trattato con tutti, e gli aveva tutti accarezzati. Se talvolta la sua riputazione eccitava qualche gelosia, le sue maniere aperte ed amichevoli dissipavano subito i sospetti, e gli conservavano l'amicizia delle opposte parti. I soli Fiorentini non lasciaronsi ammaliare da tale incantesimo: videro che questo monarca, figlio dell'antico loro nemico Enrico VII, aveva in pochi mesi formata in Italia una potenza colossale; che non trovando chi gli resistesse, non tarderebbe ad esserne l'arbitro, ed allora farebbe conoscere qual egoismo s'ascondeva sotto la presente simulata imparzialità; quale dissimulazione avesse impiegata per conciliarsi la confidenza di accaniti avversarj; quale ambizione fosse il vero motivo di tanto zelo pel pubblico bene. Determinarono perciò di opporsi colle armi ai progressi delle sue conquiste, e ricusarono di levare l'assedio di Lucca: ma dovettero ben tosto chiamare la loro armata a difendere i proprj confini, ed alcune scaramucce in Val di Nievole furono i primi fatti d'arme del re di Boemia in Italia[235].
La protezione accordata da questo re ai Ghibellini di Modena e di Reggio contro al legato aveva risvegliata la collera della chiesa, ed i Fiorentini ricevettero dal papa una lettera che fu letta in presenza di tutto il popolo, colla quale Giovanni XXII dichiarava di non aver mai dato il suo assenso o l'approvazione della chiesa al re di Boemia per le rivoluzioni fatte in Lombardia[236]. Ma seppesi pochi giorni dopo che questo re aveva avuto tra Bologna e Modena un segreto intertenimento col legato Bertrando; fu osservato che questi due ambiziosi emuli si diedero, separandosi, non equivoci segni di amicizia, e più non si dubitò che non fossero essi convenuti di dividere tra di loro il dominio dell'Italia[237]. Sotto il nome del partito guelfo il cardinale si andava formando un principato, di cui Bologna stata sarebbe la capitale. Di già comprendeva la maggior parte delle città di Romagna: lo stesso anno aveva tolto Rimini ai Malatesta e Forlì agli Ordelaffi, non avendo lasciati i tiranni che regnavano nelle altre città della stessa provincia, che dopo averli ridotti alla condizione di vicarj subalterni[238].
La diffidenza inspirata dal re Giovanni ai Fiorentini e la loro opposizione fu un avviso dato ai principi d'Europa di aprire gli occhi sulle intenzioni di questo monarca. Il re Roberto si ristrinse coi Guelfi, e Luigi di Baviera coi Ghibellini per attaccarlo. Allora fu veduto con istupore l'imperatore fatto capo di una confederazione nella quale avevano preso parte i due duchi d'Austria, fin allora mortali nemici del Bavaro, i conti Palatini, i Margravj della Misnia e di Brandeburgo ed i re di Polonia e d'Ungheria[239].
Giovanni aveva fatto venire a Parma suo figliuolo Carlo, educato alla corte di Francia. Quando vide la burrasca ond'era minacciato in Germania, gli affidò il comando di ottocento cavalli per tenere in soggezione la Lombardia, e partì subito alla volta della Boemia ove giunse affatto inaspettato e più che mai opportuno[240]. Trattenne gli Austriaci che volevano penetrare nella Moravia, riguadagnò interamente la confidenza di Luigi che ben tosto dimenticava i suoi progetti e la passata gelosia; poi in cambio di pensare agli apparecchi della futura campagna, approfittò dell'inverno per andare in Francia, onde negoziare alla corte di Filippo ed a quella di Giovanni XXII, e proseguire i suoi nuovi disegni sull'Italia[241].
I principi ghibellini della Lombardia, che non si erano opposti a Giovanni, approfittarono di questa circostanza per ingrandirsi a sue spese. Mastino della Scala ed Azzo Visconti convennero di attaccare le città ch'eransi a lui assoggettate, prendendo per confine dei rispettivi loro stati e delle loro conquiste il fiume Oglio[242]. In fatti il signore di Verona, il 14 giugno del 1332, s'impadronì di Brescia coll'ajuto dei Guelfi, abbandonando i Ghibellini suoi antichi alleati alle loro vendette[243]. Azzo Visconti prese Bergamo. Poco dopo i Ghibellini gli diedero volontariamente Vercelli; e suo zio Giovanni Visconti con una singolare astuzia lo fece padrone di Novara, di cui egli era vescovo. Finse Giovanni Visconti d'essere caduto gravemente infermo, e, secondo l'uso d'Italia, recaronsi a trovarlo i principali cittadini del paese. Caccino Tornielli, che da una fazione era stato fatto signore di Novara, essendo pure andato a ritrovarlo, mostrò Giovanni vivo desiderio d'intertenersi con lui segretamente avanti di morire, onde il corteggio del principe si ritirò. Allora il vescovo mostrossi sorpreso dagli affanni dell'infermità, onde Torniello gli porse le mani per calmarlo, che il finto ammalato prese ambedue con molta forza, e chiamati i suoi domestici lo fece porre in una prigione, e cavategli colle minacce le chiavi della città, v'introdusse i soldati di suo nipote[244].
I signori di Lombardia attaccando il re di Boemia, trovarono d'avere per loro nemici i nemici del re Roberto e dei Fiorentini. I più ostinati capi delle parti guelfe e ghibelline facevano la guerra ad un principe, che dicevasi alleato ad un tempo dell'imperatore e del papa. Il risentimento delle antiche ingiurie, e perfino l'odio dei repubblicani contro i tiranni fecero luogo momentaneamente all'interesse immediato; e si vide con istupore una lega firmata in settembre del 1332 tra i signori ghibellini di Lombardia, la repubblica fiorentina ed il re di Napoli. Voleva la salvezza d'Italia che si allontanasse dal suo centro un principe che aveva fatta coll'imperatore una nuova alleanza, e che poteva essere tentato di cedere a questo monarca quegli stati che a lui non convenisse di conservare: voleva la tranquillità d'Italia che si regolasse la divisione di questi stati fra coloro che facevano la guerra al Boemo, onde un solo non approfittasse degli sforzi di tutti, innalzandosi subitamente a troppa grandezza. Era necessario che dopo la conquista le potenze italiane si trovassero di nuovo in equilibrio, e che ciascuno, essendo proporzionatamente ingrandito, fosse pure in istato di difendere la propria indipendenza. Il trattato di divisione assegnava dunque Cremona e Borgo san Donnino al signore di Milano, Parma a quello di Verona, Reggio ai Gonzaghi signori di Mantova; Modena al marchese d'Este signore di Ferrara, e Lucca ai Fiorentini[245].
Sebbene Pavia non fosse compresa in questa divisione, fu la prima a scacciare la guarnigione del re. I Beccaria, capi in questa città del partito ghibellino, se ne fecero riconoscere signori sotto la protezione di Azzo Visconti[246]. Negli stati di Modena e di Ferrara ove cominciò la guerra nello stesso tempo, i confederati ebbero la peggio, ed il territorio di Ferrara fu abbandonato al saccheggio dal principe Carlo di Boemia[247].
Il re Giovanni trovavasi a Parigi mentre suo figlio combatteva in Italia, ed aveva colà resa più intima la sua alleanza colla casa di Francia, facendo sposare sua figliuola all'erede della corona, Giovanni, figliuolo di Filippo VI[248]. Il re di Boemia andò in seguito a trovare il papa in Avignone, sebbene questa città appartenesse al re Roberto, suo principal nemico. Al primo vederlo il papa non si contenne dal rimproverargli le sue imprese d'Italia: ma avendo un amore veramente paterno per il cardinale Bertrando, vedeva nel re Boemo l'alleato del cardinale ed il nemico de' capi ghibellini di Lombardia, perlocchè diede favorevole udienza alla sua apologia, l'accolse con amore, e, dopo quindici giorni di segrete conferenze, gli promise tutto il favore della chiesa, e lo licenziò colmo di onori[249].
Da Avignone Giovanni tornò a Parigi per adunare i soldati promessi dal re di Francia, ed in gennajo del 1333 giunse a Torino con un'armata composta dal fiore della cavalleria francese. Filippo di Valois gli aveva prestati cento mila fiorini per montare questa truppa[250]. Il legato, sapendolo vicino, riprese coraggio, e attaccò di nuovo il Ferrarese; ruppe il 6 di febbrajo e fece prigioniere a Consandoli il marchese Nicolò d'Este, dopo il qual fatto intraprese l'assedio di Ferrara[251]. Ma l'armata della lega, che si era lentamente adunata, venne introdotta nella città assediata, prima che il legato ne avesse circostanziati avvisi; questa facendo un'impetuosa sortita dalla porta opposta a quella per cui era entrata, ruppe il 14 aprile del 1333 l'armata della chiesa, che aveva già ricevuto il rinforzo di sei cento cavalli di Linguadocca, comandati dal conte d'Armagnac, che fu fatto prigioniere con molti altri gentiluomini bolognesi, varj signori di Romagna, ed alcune migliaja di soldati[252].
I marchesi d'Este speravano di cambiare il conte d'Armagnac contro il loro fratello caduto in mano de' nemici nel fatto di Consandoli; ma il borioso Guascone pretese avere sortiti più illustri natali del marchese di Ferrara, e non volle essere cambiato contro di lui[253]. I signori Romagnuoli avendo chiesti al legato alcuni sussidj pecuniarj per liberarsi dalla prigionia, ed essendo stati loro negati, ne furono fieramente irritati, onde i capi della lega li rilasciarono tutti senza taglia con circa due mila loro vassalli e compatriotti[254]. Per lo che questi signori, entrando in Romagna, sollevarono i popoli. Francesco degli Ordelaffi entrato in Forlì il 19 di settembre, nascosto entro un carro di fieno, adunò in sua casa i suoi amici ed antichi servitori, ed attaccò alla loro testa la guarnigione guascona del cardinale, e scacciatala di città, ricuperò in tal modo la perduta sovranità. Il Malatesta presentossi il 22 di settembre innanzi a Rimini con duecento cavalli e gli furono aperte le porte dai suoi partigiani. Quasi nello stesso tempo si ribellò Cesena; ed Ostasio e Ramberto da Polenta sommossero Cervia e Ravenna. In una parola tutta la Romagna era sossopra; ed il re Boemo, chiamato a Bologna dal Legato, invece di calmare queste rivoluzioni, accresceva colla sua presenza il malcontento de' Bolognesi, e li disponeva a tentare qualche novità contro la chiesa[255].
Quando il re Giovanni si accorse che il legato era entrato di lui in sospetto, lasciò Bologna per tornare a Parma. Andò pure due volte a Lucca per levarvi una contribuzione, e per calmare una sedizione eccitata dai figli di Castruccio. Volle in quest'occasione che i Lucchesi gli giurassero individualmente fedeltà, per il quale atto conobbe che i cittadini atti alle armi non erano che quattro mila quattrocento cinquantotto; la guerra e la tirannide avevano spopolata questa un tempo così fiorente città[256]. Intanto Giovanni rifletteva dispettosamente alla sua mutata fortuna in Italia: tutti i popoli diffidavano di ogni suo movimento; ogni giorno aveva avviso di nuove perdite de' suoi alleati, o di ribellioni de' suoi sudditi: e quelli che conservavansi fedeli, non erano fra loro vincolati da verun interesse, nè il suo partito era animato da uno stesso spirito. In conseguenza di tali osservazioni, prese bruscamente la risoluzione di abbandonare i suoi stati d'Italia dopo averne raccolto tutto il danaro che potrebbe cavarne. Entrò dunque in trattato coi capi di parte di ogni città per ceder loro il principato; e vendette ai Rossi, nobili parmigiani, le città di Parma e di Lucca per trentacinque mila fiorini, Reggio alla casa di Fogliano, Modena a quella de' Pii, e Cremona a Ponzino Ponzoni. Allora riuniti i suoi soldati tedeschi in un corpo, mandò suo figlio a governare la Boemia, ed egli tornò a Parigi per vaghezza di farsi distinguere ne' festini e ne' tornei. Abbandonò l'Italia il 15 ottobre del 1333, dopo avervi esercitata per tre anni una influenza, cui non sembrava chiamato dalla posizione de' suoi stati[257].
CAPITOLO XXXIII.
Mastino della Scala s'innalza sopra le ruine del re di Boemia e del Legato Bertrando del Poggetto. — Viene abbassato dalle repubbliche di Fiorenza e di Venezia.
1333 = 1338. Il vocabolo di Guelfo e di Ghibellino agitava ancora l'Europa dopo l'origine di quelle famose fazioni. Le abbiamo vedute passare dalla Germania in Lombardia ai tempi delle guerre civili tra Lotario III e Corrado II. Allora i Guelfi erano in pari tempo i difensori della chiesa e dei privilegi del popolo, mentre i Ghibellini erano i campioni delle prerogative dell'imperatore e della nobiltà. Le due fazioni vantavansi egualmente amiche della libertà e ne invocavano il nome, ma ne cercavano la guarenzia per due opposte strade; la prima voleva consolidare le costituzioni delle città, gli altri mantenere quelle dell'impero. Accordando loro intenzioni egualmente liberali, ci siamo preferibilmente attaccati prima ai Guelfi quando nel dodicesimo secolo opposero a Federico Barbarossa una generosa opposizione; in seguito ai Ghibellini quando nel tredicesimo secolo difesero con tanta fermezza gli eroici principj della casa di Svevia contro i pontefici impegnati a distruggerli. Forse mi verrà chiesto per quale parte desidero interessare i miei lettori nella prima metà del quattordicesimo secolo, e sono obbligato di confessare la mia trista imparzialità. Per lo storico contemporaneo è un merito quello di non ascoltare le passioni che tuttavia si agitano intorno a lui e di giudicare con severa imparzialità; ma quando que' popoli più non esistono o sono spente le fazioni, quando veruno interesse presente non può dipendere da dispute già abbandonate, solo la giustizia e la virtù ci guidano nella scelta, e lo storico ed il lettore sono dolenti se debbono rimanere imparziali. I nomi di Guelfo e di Ghibellino omai più non erano nella prima metà del quattordicesimo secolo che un'eredità di antico odio. I figli si facevano la guerra perchè i loro padri eransi combattuti, perchè rimanevano delle antiche offese da vendicare e del sangue da lavarsi col sangue. Questi odj sonosi spenti, le famiglie rivali o più non esistono o più non rammentano le antiche offese; e la storia delle loro contese non offre da ambe le parti che delitti e violenze. I Guelfi alleati de' Francesi non sapevano meglio mantenere l'indipendenza d'Italia, di quello che si facessero i Ghibellini alleati de' Tedeschi. Ogni fazione contavasi un numero press'a poco eguale di tiranni e di repubbliche. I marchesi d'Este a Ferrara, i Carrara a Padova, a Parma i Rossi, ed i Malatesta a Rimini appartenevano al partito guelfo. La sorte, gli è vero, fece sorgere più grandi uomini tra le famiglie ghibelline. Più tardi la potenza degli Scala e dei Visconti associò il timore della tirannide al nome della parte ghibellina. In sul finire dello stesso secolo vedremo questa lunga lotta assumere un carattere più nobile, e confondersi con quella dei repubblicani contro il despotismo. Fiorenza, che stava alla testa del partito guelfo, associò ben tosto alla difesa di questo partito la difesa della libertà ed illustrò colle sue virtù una causa che più non era raccomandata dal nome de' papi e dall'interesse della chiesa.
I Fiorentini, dopo essere stati due volte spaventati dalla discesa in Italia di Luigi di Baviera e dalla subita grandezza del re Giovanni di Boemia, credevano di più non aver nulla a temere. Erano ancora, a dir vero, impegnati in una guerra; ma l'avevano incominciata spontaneamente, sperando di accrescere lo stato con facili conquiste. I nemici da loro attaccati non potevano diventare pericolosi, ed era inevitabile e prossima la loro caduta. Tranne la sola città di Lucca, che avevano preso a sottomettere colle armi, tutto il rimanente della Toscana domandava loro alleanza. I Pisani erano indeboliti dalle fazioni tra i soldati ed il popolo, ed avevano scelto arbitro il vescovo di Fiorenza onde terminare coi Sienesi una guerra, nella quale avevano presa parte per il possedimento di Massa di Maremma. Gli Aretini vivevano tranquilli sotto il governo di Pietro Saccone de' Tarlati. Erano strettamente legate con Fiorenza pel comune interesse della parte guelfa le repubbliche di Perugia e di Siena; mentre le più piccole città di Pistoja, Volterra, Colle e san Gemignano erano piuttosto suddite che alleate della signoria di Fiorenza. In mezzo a tanta prosperità i Fiorentini si abbandonavano alla loro inclinazione pei piaceri. Due compagnie d'artigiani diedero tutto un mese feste e spettacoli nelle strade. Talora vedevansi scorrere la città in abito uniforme col capo coronato di ghirlande di fiori, e un'allegra musica dirigeva i loro misurati passi; altra volta si disputavano nelle pubbliche piazze il premio delle giostre e de' tornei; finalmente intrattenevano spesso il popolo cogli spettacoli, ne' quali la pittura, la poesia, la musica dovevano parlare insieme all'immaginazione e preparare da lontano il risorgimento del teatro. E per tal modo si andava sviluppando quello squisito gusto delle arti, quel genio creatore che doveva sollevare i Fiorentini tanto al di sopra degli altri popoli d'Italia[258].
Ma ben tosto tenne dietro a queste feste una grande calamità: il primo di novembre del 1333 cominciò a piovere con tanta furia, sia in Fiorenza, come in tutte le valli dell'Appennino che tributano le loro acque nell'Arno, che le cataratte dei cieli parvero aperte ed il popolo nuovamente minacciato da un generale diluvio. Onde tutta la gente vivea in grande paura suonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, infino che non alzò l'acqua, e in ciascuna casa bacini o pajuoli con grande strida gridando a Dio misericordia, misericordia, per le genti che erano in pericolo, e fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in tetto, facendo ponti da casa in casa, onde era sì grande il rumore e 'l tumulto che appena si poteva udire il suono del tuono. Per la detta pioggia il fiume d'Arno crebbe in tanta abbondanza d'acqua, che prima onde si muove scendendo dell'Alpi con grandi ruine ed impeto sì che sommerse molto del piano di Casentino; e poi tutto il piano d'Arezzo e di Valdarno di sopra, per modo che tutto il coperse d'acqua. La Sieve soverchiò le sponde con non minore violenza ed allagò tutto Mugello. Ogni piccolo ruscello che metteva nell'Arno sembrava un gran fiume. Tutti i mulini, tutte le case fabbricate lungo i fiumi, tutti gli alberi piantati sulle loro rive furono sradicati e strascinati dall'impeto dell'acque. Le acque che già sollevavansi otto in dieci braccia al di sopra dei piani, urtavano con istraordinaria forza contro le mura di Fiorenza. Finalmente il quarto giorno atterrarono il muro ed entrarono in città per il corso de' Tintori dopo aver fatta nel muro una breccia larga cento braccia. In pari tempo caddero tre dei quattro ponti che attraversavano l'Arno: l'acqua inondava tutta la città, e molte case scosse dall'impeto delle acque caddero sepellendo gli abitanti sotto le loro ruine, e quelle che rimanevano in piedi erano riempite da una fetida melma. I magazzini di questa ricca città mercantile furono quasi tutti distrutti dalle acque. Incalcolabile fu il danno de' privati, e quello che cadde a carico del governo sorpassò due cento cinquanta mila fiorini. Finalmente le acque alzandosi sempre più in città, le mura non ne sostennero il peso, e nella notte del 5 al 6 novembre cadde la muraglia d'Ogni Santi, e per la fatta breccia di quattrocento cinquanta braccia l'acqua scolò verso pian d'Arno di sotto.
Tutta la Toscana fu ruinata da così terribile allagamento, i piani vennero coperti dalle acque, le colline e le montagne spogliate del loro terreno; molti villaggi furono affatto distrutti dalla violenza de' torrenti, e tutti i seminati perduti. Pisa, situata in più basso luogo di Fiorenza, trovandosi circondata da un ampio lago, non si sottrasse a più grande infortunio che per la nuova strada che le acque si aprirono al di sotto della città: una metà si rovesciò nell'Arnaccio e venne a sboccare presso Livorno, mentre l'altra metà si aperse una diritta strada nel letto del Serchio[259].
Le finanze fiorentine erano rifinite per le immense perdite che lo stato ed i particolari avevano fatto; i cittadini vedevansi scoraggiati da un flagello che sembrava un castigo del cielo; la città trovavasi aperta per due enormi rotture, e le comunicazioni erano chiuse tra un quartiere e l'altro da case ruinate o interrotte per la caduta de' ponti principali. Se in tali circostanze un successore di Castruccio avesse avuta parte della sua audacia o della sua attività, la città di Fiorenza poteva essere facilmente sorpresa. Ma i signori ai quali il re di Boemia aveva venduti i suoi stati, erano occupati a difendere il proprio, non che pensassero ad occupare quel d'altri; e gli stessi pericoli della loro posizione non permettevano loro di pensare ad imprese che avrebbero potuto liberarli dalle presenti angustie. In settembre avevano fatto un trattato d'alleanza col cardinale Bertrando del Poggetto. I signori di Parma, Lucca, Reggio, Modena e Cremona ed il legato eransi vicendevolmente obbligati a difendersi contro i limitrofi nemici[260]. Ma il legato, capo di questa confederazione, più non comandava allo spirito di partito, non era più l'arbitro di quell'antica potenza di opinione che lo aveva per sì lungo tempo secondato in Italia. Tutti gli occhi erano aperti su gl'interessati motivi della sua condotta; gli entusiasti si erano disingannati; i popoli sospiravano l'istante di scuotere il giogo; la Romagna era sollevata, ed il malcontento de' Bolognesi andava ogni giorno facendosi maggiore.
Bertrando del Poggetto, gettando in Bologna i fondamenti di una fortezza, col di cui mezzo tenersi la città soggetta, aveva adoperata l'astuzia perchè il popolo non si opponesse alla sua costruzione. Andava dicendo che il papa, stanco del soggiorno d'Avignone, pensava di tornare in Italia, onde fabbricava per lui questo palazzo; ma quando i muri cominciarono ad essere capaci di difesa, vi alloggiò i suoi soldati di Linguadocca ed aggravò il giogo sopra una repubblica ancora gelosa della sua libertà.
Due fazioni esistevano da molto tempo in Bologna; una, che da principio aveva favorite le viste del legato, era diretta da Taddeo de' Pepoli, il più ricco ed ambizioso cittadino della repubblica; l'altra, più favorevole alla libertà, aveva per capi Brandaligi dei Gozzadini, e Collazzo di Beccadelli colle loro famiglie. Questi si proposero prima degli altri di scuotere il giogo che pesava sopra la loro patria, ed in principio del 1334 concertarono col marchese d'Este, capo dell'armata della lega, i mezzi di sollevare Bologna.
Il marchese d'Este, dopo essersi impadronito del castello d'Argenta, spinse la sua armata sopra Cento per obbligare il legato a venirgli incontro. Di fatti la guarnigione dei Guasconi che teneva in rispetto i cittadini di Bologna, uscì il 17 marzo per attaccare i Ferraresi. Questo era l'istante aspettato da Brandaligi e da Collazzo per richiamare il popolo alla libertà. Vennero sulla piazza del Pretorio colla spada in mano. «Alle armi, gridarono, cittadini di Bologna, prendete le armi e seguiteci; finalmente è giunto l'istante in cui il nostro coraggio può bastare a scuotere il giogo della tirannide. Un'armata straniera attraversa le vostre campagne; questi soldati, nemici del vostro tiranno, sono i vostri vindici. Quali preferite voi di combattere? essi, o i Guasconi che vi opprimono? esporrete voi la vita per vivere schiavi o per vivere liberi? Armatevi, perchè convien scegliere; armatevi perchè il tiranno vuole mandarvi contro i Ferraresi, se voi rifiutate di marciare con noi. Osservate le prigioni ch'egli ha fabbricate nella sua fortezza, osservate i patiboli innalzati sulle vostre mura; queste, se vincete con lui, sono le ricompense che vi aspettano. Ma noi, se abbiamo il vostro appoggio, apriremo al popolo quel palazzo in cui i vostri ed i nostri padri, ove noi stessi e voi rendemmo liberamente giustizia quando la repubblica sussisteva nella sua gloria, quando noi non conoscevamo ancora la cupidigia del prete francese, nè la brutale insolenza e l'impudicizia de' suoi soldati. Noi, le di cui dimora e famiglie sono conosciute, le di cui case verranno bruciate e le proprietà confiscate se siamo perdenti, noi tutto allegramente esponiamo per la libertà: fate voi lo stesso; voi che arrischiate meno di noi».
Di mezzo alla folla si udì rispondere a questo discorso il grido di viva il popolo, muoja il legato, muoja il tiranno iniquo e crudele. I Guasconi sparsi per le contrade furono uccisi, gli altri fuggirono verso la fortezza, abbandonando la guardia delle porte che vennero aperte al marchese di Ferrara. Il popolo condotto da Colazzo e da Brandaligi diede un primo assalto a questa fortezza in cui erasi chiuso il legato, e non essendo riuscito ad atterrarne le porte, o a sormontarne le mura, prese a farne regolarmente l'assedio[261].
I Fiorentini, avuto avviso dello stato in cui trovavasi il legato, mandarono a Bologna quattro ambasciatori e trecento cavalli per prendere il prelato sotto la loro protezione. Bertrando del Poggetto, quale signore di Bologna, era stato loro nemico; ma quando conobbero il suo pericolo, non lo risguardarono sott'altro aspetto che di rappresentante della chiesa. Gli ambasciatori trattarono con lui e col popolo che lo assediava; il legato abbandonò di buon grado la sua fortezza che non poteva lungo tempo difendere, e che, abbandonata ai Bolognesi, fu dal popolo immediatamente spianata. I Fiorentini coprirono la ritirata del legato che prese la strada della Toscana co' suoi soldati. La salvaguardia mandatagli dalla repubblica potè a stento salvarlo dalla rabbia degli abitanti della campagna che si affollavano lungo la strada, e volevano vendicarsi della sua lunga tirannia[262].
Bertrando trovò a Firenze un'ospitalità che avrebbe dovuto fargli dimenticare il suo precedente malcontento contro la repubblica: pure si pretende che giunto in Avignone adoperasse ogni mezzo per ridurre il papa, suo zio, a far vendetta di coloro che gli avevano salvata la vita; ma il regno di Giovanni XXII non durò ancora tanto, perchè Bertrando, valendosi del credito che aveva grandissimo presso il pontefice, potesse far pentire i Fiorentini della protezione che gli avevano accordata.
Giovanni XXII morì in Avignone il 4 dicembre del 1334, dopo un lungo regno, durante il quale aveva scandalizzata tutta la cristianità. Tale era stata la sua avarizia, che lasciò, morendo, un tesoro di dieciotto milioni di fiorini in danaro, e di sette milioni in gioje ed in vasi di chiesa[263]: aveva raccolte tante ricchezze colla riserva de' beneficj vacanti in tutti i paesi cristiani de' quali percepiva i primi frutti. Fu questo papa che attribuì alla santa sede il diritto esercitato prima dalle chiese di nominare esse medesime i proprj pastori; e la simonia che presiedeva a queste elezioni eccitò l'universale malcontento. Ma la condotta del papa in Italia, la perfidia e la crudeltà de' suoi agenti per conseguire gli ambiziosi loro fini, accrescevano a dismisura l'indignazione dei popoli. La persecuzione di Luigi di Baviera aveva stomacata tutta la Germania, ed un grido universale si alzava contro tante ingiustizie e parzialità; quando finalmente per mettere il colmo allo scontentamento della chiesa, la stessa fede del papa cadde in sospetto d'eresia ed i devoti unirono le loro imprecazioni alla furia de' mondani contro di lui.
Alle sue passioni politiche univa Giovanni XXII il gusto delle discussioni teologiche, ed un grandissimo acume per seguirle. La chiesa non aveva ancora deciso come un punto di domma quale fosse lo stato delle anime de' beati dopo la loro morte fino alla fine del mondo. Giovanni XXII, persuaso che soltanto l'ultimo giudizio doveva aprir loro le porte della celeste gloria, teneva per indubitato che fino a quel gran giorno le loro anime non vedrebbero Dio in tutta la sua gloria; egli incoraggiava i teologi a disaminare tale quistione e ricompensava coi benefizj coloro che nelle scritture o nelle prediche sostenevano la sua opinione; ma in breve incontrò una opposizione assai maggiore che non si aspettava. La sua credenza che sembrava a principio indifferente, poteva avere sulle entrate della chiesa le più tristi conseguenze: siccome negava alla Vergine Maria, agli apostoli ed a tutti i santi l'ingresso in cielo prima della fine del mondo, attaccava i fondamenti della dottrina delle indulgenze, delle messe per il riposo delle anime, dell'invocazione e della intercessione dei santi, e per ultimo del fuoco del purgatorio. I Tedeschi e gl'Italiani si affrettavano di appigliarsi a questo pretesto per domandare la convocazione di un concilio generale che avrebbe deposto il papa come colpevole d'eresia, e sottratta ad un tempo la chiesa all'influenza della Francia[264]. Filippo di Valois, per prevenire le loro pratiche, credette di costringere egli stesso il papa a rinunciare alle proprie opinioni. Ottenne perciò una decisione dei teologi di Parigi e dei cardinali in favore della beatifica visione, che comunicò al papa, dandogli ad intendere che al bisogno sarebbe stato costretto ad uniformarvisi[265]. Gli dichiarò inoltre che lo avrebbe trattato come eretico e fatto bruciare se non si ritrattava[266]. Spaventato il papa da tali minacce, permise che fosse riprovata la sua opinione, e la vigilia della sua morte pubblicò una dichiarazione con cui professava la credenza della visione beatifica, che dopo tale epoca diventò un domma della chiesa[267].
I cardinali adunati in Avignone furono subito chiusi in conclave in numero di ventiquattro; ma divisi in due fazioni non era sperabile che s'accordassero sollecitamente; però fino dal primo giorno dello scrutinio, volendo appositamente perdere il loro suffragio proponendo uno de' loro confratelli, che ognuno trovasse poco proprio a riunire tutti i suffragi, si trovarono unanimi nel designare l'uomo meno riputato del loro collegio, Giacomo Fournier, figlio d'un fornajo di Saverdun, chiamato il cardinal bianco perchè portava sempre l'abito di monaco Cisterciense. I cardinali che lo avevano nominato, il popolo cui venne annunciato ed il candidato che avevano allora adorato, rimasero egualmente maravigliati di tale elezione. Quest'ultimo non potè ritenersi dal dire ai suoi fratelli che i loro suffragi eransi riuniti a favore di un asino. Benedetto XII, che così fu chiamato il nuovo papa, era in fatti perfettamente digiuno di quella scienza di politica e di dissimulazione che tanto aveva prosperato nella corte d'Avignone; ma in ricompensa manifestò maggior amore per la pace, bontà e sollecitudine per la sua greggia, che non ne aveva mostrato alcuno di coloro che da oltre cinquant'anni avevano occupata la cattedra di san Pietro[268].
Il primo pensiere di Benedetto XII fu quello di riconciliare Luigi di Baviera colla chiesa, e di metter fine alla scandalosa disputa che il suo predecessore aveva provocata contra il capo della cristianità. Luigi fin dalle prime aperture che gliene furono fatte, si assoggettò a tutte le condizioni che gli furono imposte, e già stava per conchiudersi la pace, quando i re di Francia e di Napoli si diressero per impedirla a tutte le creature che avevano nel concistoro, e Filippo di Valois fece ancora in tutta la Francia mettere le mani sulle rendite de' cardinali, minacciandoli di confiscarne definitivamente i beni se si riconciliavano col Bavaro. Di fatti un'invincibile opposizione del concistoro ritenne il papa, e la negoziazione fu rotta[269].
Frattanto la guerra intrapresa dai Fiorentini, di concerto coi principi lombardi, si continuava con successo; i signori, cui il re Giovanni aveva venduti i suoi stati, da lui e dal legato abbandonati, si andavano successivamente sottomettendo, e trattavano coi capi della lega lombarda per cedere loro le città a vantaggiose condizioni. Cremona fu aperta al Visconti in maggio del 1334, e le altre città lombarde si diedero una dopo l'altra nell'estate del 1335. Ma durante questa campagna, i Fiorentini che mandarono costantemente e con ragguardevole spesa il loro contingente all'armata dei confederati, non riuscivano che a stento a far loro osservare le condizioni del primo accordo. I due più potenti confederati Visconti e della Scala tentarono più volte con segreti trattati d'impadronirsi delle città assegnate ai loro associati. Finalmente, colla mediazione de' Fiorentini, Piacenza, Cremona e Lodi furono occupate dal Visconti, Parma da Mastino della Scala, Reggio dai Gonzaga, e Modena dal marchese d'Este[270].
Tutti i confederati avevano in tal guisa ottenuto l'oggetto per cui intrapresero la guerra, tranne i Fiorentini, che, essendosi riservato l'acquisto di Lucca, avevano con poco vigore attaccata questa città per non guastare una provincia che doveva essere loro suddita e che speravano di avere con un trattato. I fratelli de' Rossi, signori di Parma e di Lucca, avendo venduta la prima di queste città a Mastino della Scala, erano disposti a trattare con lui ancora per la cessione della seconda, ed i Fiorentini per una imprudente confidenza permisero al signore, loro alleato, di condurre a termine una negoziazione così importante per loro, di modo che videro con piacere entrare in Lucca il 20 dicembre del 1335, di consentimento di Pietro de' Rossi che vi comandava, cinquecento cavalli di Mastino: ma questi non proponevasi nelle sue negoziazioni il solo vantaggio degli alleati[271].
I Rossi avevano trattato col solo Mastino, e poco loro importava che questi tenesse per sè la ceduta città o la dasse in mano de' Fiorentini. Il principe di Verona, i di cui stati stendevansi in allora dalle frontiere della Germania a quelle della Toscana, troppo ben conosceva di quanto vantaggio poteva essergli il possedere in questa provincia una città forte, per essere disposto a darla altrui. Fu appena signore di Lucca, che cercò di ravvivare in Toscana il partito ghibellino e di stendere la sua influenza sopra le città di Pisa e di Arezzo da lungo tempo attaccate a questa fazione.
Dominava in Pisa il partito democratico, il quale aveva posto alla testa della repubblica il conte Fazio o Bonifacio della Gherardesca. I plebei e gli uomini nuovi che componevano i consigli, non avevano ereditati i vecchi odj di famiglia da cui erano tuttavia animati i nobili; la loro politica era tutta fondata sopra le presenti circostanze e sopra le fresche alleanze, non già sull'affezione e le memorie della loro infanzia: essi avevano chiuse le porte a Luigi di Baviera; avevano vinti e cacciati dalla loro città i figliuoli di Castruccio; per ultimo avevano ricercata l'amicizia dei Fiorentini, i capi del partito guelfo. Ma i nobili, privati delle cariche, vedevano come cosa indegna la loro patria alleata cogli antichi loro nemici. Attaccavano essi tutta la gloria alla ricordanza delle antiche guerre contro i Guelfi, e l'odio contro quella fazione era il più vivo loro sentimento. Credevano interessati il loro onore e il loro dovere a conservare e trasmettere ai figliuoli quest'odio implacabile che avevano ricevuto dai loro padri; e purchè trionfasse il nome ghibellino, poco loro importava che il commercio della patria fosse florido o languente, che questa conservasse la libertà o venisse in mano di un principe. Trovavasi capo di questo partito Benedetto Maccaroni[272], il quale entrò ben tosto nelle viste di Mastino della Scala, accettando con riconoscenza i soccorsi offertigli da questo signore per restituire ai nobili ed ai Ghibellini l'antico potere.
Da una disputa che scoppiò nel consiglio, in cui dovevasi eleggere un cancelliere, Maccaroni prese motivo di chiamare il suo partito alle armi. Aveva desiderato che un accidentale avvenimento preparasse gli spiriti de' suoi partigiani senza dover loro confidare una trama, e col pronto soccorso promessogli da Mastino tenevasi sicuro della vittoria. Ma in questo inaspettato movimento, il conte Fazio prevenne i gentiluomini; egli occupò prima di loro la piazza del palazzo pubblico, e tese le catene che ne chiudevano le uscite per difenderla, mentre i gentiluomini aprivano le prigioni e bruciavano i libri de' crediti dello stato per guadagnarsi il favore della plebe. I due partiti vennero in seguito alle mani sulla piazza di san Sisto, ove i nobili ebbero la peggio: onde ritiraronsi lentamente verso la porta del lido che Maccaroni sperava di poter difendere finchè giungessero le truppe di Mastino. Diede avviso ai suoi compagni dell'imminente arrivo di questo ajuto onde rianimarli; ma essendosi passata la notizia anche all'opposto partito, molti cittadini che non avevano voluto prendere parte al primo combattimento, presero le armi per impedire che la loro patria non venisse in mano di Mastino della Scala, ed unitisi a Fazio, attaccarono i gentiluomini con tanto vigore che li cacciarono subito di città. I Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, e quasi tutte le famiglie dell'alta nobiltà furono esiliate[273].
I Fiorentini informati di questa sedizione di Pisa, ed avvisati in pari tempo che Pietro de' Rossi erasi avanzato fino ad Asciano alla testa dei soldati di Mastino per sostenere i Ghibellini, e che gli aveva incontrati mentre fuggivano, conobbero facilmente le pratiche che il signore di Verona stendeva in tutta la Toscana. Essi lo invitarono ancora una volta ad aprir loro le porte di Lucca, in conformità delle convenzioni; e per non lasciare veruna scusa alla sua mala fede, acconsentirono di pagargli tutto quanto saprebbe chiedere per indennizzarlo delle spese sostenute per conto di Lucca. Mastino portò le sue pretese all'esorbitante somma di trecento sessanta mila fiorini; e quando con estrema sua sorpresa gli ambasciatori della repubblica risposero che erano pronti a pagarla, gridò ch'era abbastanza ricco per non avere bisogno del loro danaro, e che non evacuerebbe Lucca se i Fiorentini non gli permettevano d'impadronirsi di Bologna. Così fu rotta la negoziazione il 23 febbrajo del 1336, e subito cominciarono le ostilità in Val di Nievole[274].
In tal maniera i Fiorentini trovaronsi impegnati in una pericolosa guerra con un tiranno, ch'essi avevano in parte sollevato a tanto potere. Mastino era allora signore di nove città altra volta capitali d'altrettanti stati sovrani[275], e traeva dalle gabelle loro settecento mila fiorini d'entrata. Verun monarca della cristianità, ad eccezione di quello di Francia, possedeva tante ricchezze. Tutto il rimanente della Lombardia era soggetto a principi ghibellini, alleati naturali della casa della Scala, e la corte di Mastino era l'asilo di tutti gl'illustri esiliati. Lo storico Cortusio, mandato di que' tempi per un'ambasciata a Mastino, lo trovò circondato da ventitre principi spogliati dei loro stati i quali s'erano rifugiati nella sua capitale[276]. Il signore di Verona, reso orgoglioso dalle sue alleanze, dalle sue ricchezze e dalla prosperità delle sue armi, non aspirava niente meno che alla conquista di tutta l'Italia; ed i Fiorentini erano i soli che ardissero opporsi a' suoi ambiziosi disegni.
Troppo mancava perchè la repubblica fiorentina potesse pareggiarsi a Mastino sia pel numero delle piazze forti e de' sudditi, che pel numero de' soldati e per la quantità delle pubbliche entrate. Pure le private ricchezze dei Fiorentini in allora padroni di molta parte del commercio del mondo, davano alla loro repubblica un rango assai distinto tra le potenze, perchè sagrificavano sempre con piacere le proprie ricchezze in servigio della patria. Quando scoppiò la guerra con Mastino della Scala, formarono un consiglio di finanza, incaricato di trovare danaro; e tutte le casse del commercio gli furono aperte; onde la repubblica si trovò a portata di opporsi a così formidabile avversario[277]. Fu pure creato un consiglio militare, detto Ufficio della guerra, e composto di sei cittadini deputati dai sei quartieri della città al quale fu rimessa la direzione delle operazioni dell'armata per tutto un anno; affinchè la più frequente rielezione della signoria non interrompesse l'andamento degli affari.
Ma i Fiorentini non erano soltanto esposti ad essere attaccati dalla parte di Lucca: un ardito capo de' Ghibellini dava loro vivissime inquietudini all'opposto confine. Pietro Saccone dei Tarlati, uno de' signori di Pietra Mala, era succeduto, nel governo d'Arezzo, a suo fratello ch'era stato vescovo di quella città. Allevato nella più selvaggia regione degli Appennini ove il castello di Pietra Mala signoreggia i deserti coperti per più mesi dell'anno da alte nevi, Saccone era avvezzo a sprezzare tutti i pericoli, tutte le fatiche e le intemperie dell'aria. In un secolo incivilito, tra popoli ammolliti, conservava Saccone i costumi e le abitudini dei conquistatori del Nord, autori della sua stirpe. Egli disprezzava il lusso e la mollezza d'Italia, ma ne conosceva la politica e sapeva valersi de' suoi artifizj. Era nello stesso tempo sul campo di battaglia uno de' più formidabili soldati, ed il più accorto ed ingegnoso condottiere quando trattavasi di sorprendere una piazza o d'ingannare i nemici con qualche stratagemma. Affezionato alle sue montagne, pareva piuttosto aspirare alla sovranità delle Alpi, che a signoreggiare le fertili contrade che stanno alle loro falde; come l'aquila che vola sugli Appennini di balza in balza, ma che rare volte scende al piano. Egli aveva interamente sottomessa la famiglia della Faggiuola che aveva spogliata di Massa Trebaria e di tutta la sua eredità; aveva pure soggiogati gli Ubertini con tutti i loro castelli ed i conti di Montefeltro e di Montedoglio[278], di modo che la sua potenza stendevasi su tutte le montagne della Toscana, della Romagna e della Marca d'Ancona. Dalla signoria d'Arezzo era in seguito passato a quella di città di Castello e di Borgo san Sepolcro; e per ultimo aveva attaccata Perugia che a stento si andava contro di lui difendendo.
Saccone aveva osservata fedelmente la pace che vent'anni prima erasi fatta tra le repubbliche di Fiorenza e di Arezzo, ed aveva, sebbene capo del partito ghibellino, schivato di provocare sopra di sè le potenti armi della signoria. Ma quando Mastino della Scala portò la guerra in Toscana, Saccone accettò la sua alleanza, ed obbligossi ad introdurre in Arezzo ottocento cavalli che il signore di Verona aveva mandati fino a Forlì. In tali circostanze l'Ufficio della guerra non volle più rimanere esposto alle sorprese di un vicino che aspettava il favorevole istante per ismascherarsi. Perciò i Fiorentini dichiararono la guerra al signore d'Arezzo, ed il 4 aprile del 1336 spinsero un corpo di cavalleria in Romagna per opporsi a quella di Mastino, e fecero guastare dalle truppe tutto lo stato d'Arezzo[279].
Le città di Siena, Perugia e Bologna erano, siccome ancora il re Roberto, obbligati da un'antica alleanza a difendere i Fiorentini per la salvezza del partito guelfo. L'Ufficio della guerra rinnovò quest'alleanza, sebbene se ne potessero sperare pochi frutti, perciocchè le repubbliche erano snervate dalle guerre civili, ed il re Roberto dall'età e dallo scoraggiamento. Non si poteva far conto dei soccorsi della repubblica di Genova, già da due anni in preda al partito ghibellino che volgeva tutte le forze dello stato contro la stessa repubblica[280]. Il potere della chiesa era in Italia omai spento affatto; e le città della Romagna e della Marca erano dominate da piccoli tiranni, la di cui politica limitavasi a far lega colla parte più potente onde essere risparmiati dall'usurpatore almeno per tutto il tempo che questi avrebbe qualche cagione di temere. Luigi di Baviera continuava a proteggere Mastino, il quale chiamavasi sempre vicario imperiale; e se alcuna potenza d'oltremonti doveva prendere parte nella guerra che stava per ricominciare, non poteva farlo che in favore del signore di Verona.
Venezia soltanto, mossa da più profonda politica, avrebbe potuto associarsi a Fiorenza per difesa della libertà italiana. La potente repubblica di Venezia fin allora occupata unicamente delle sue conquiste del Levante, della marina, del commercio, non aveva acquistato alcun possedimento sul continente, non aveva voluto contrarre alleanze, nè prender parte alla politica italiana. I nomi de' Guelfi e de' Ghibellini erano esclusi dai suoi dominj; non dipendeva dall'impero e teneva il clero subordinato al proprio governo. Risguardavasi non pertanto piuttosto come affezionata al partito imperiale; ed una certa gelosia di commercio o di possanza sembrava che l'alienasse dai Fiorentini.
I signori della guerra di Fiorenza non si lasciarono ributtare da queste apparenze. Per non risvegliare l'attenzione di Mastino sulle loro negoziazioni, ne diedero l'incarico ad alcuni mercanti fiorentini stabiliti in Venezia, e trovarono, siccome lo avevano preveduto, questa signoria disposta ad ascoltarli.
Aveva Mastino della Scala con diverse imprese offesa la repubblica sua potente vicina. Aveva tentato di togliere il castello di Camino alla famiglia di tal nome, che in addietro aveva regnato a Treviso, e che posteriormente erasi aggregata alla nobiltà veneziana; fabbricava un castello tra Padova e Chioggia per impedire ai Veneziani di far sali su quelle coste, e per assicurarne l'esclusiva fabbricazione ai suoi sudditi; finalmente aveva fatto chiudere con una catena il Po ad Ostiglia, ed assoggettate ad un gravoso pedaggio le navi che rimontavano il fiume[281]. Tali novità erano tutte contrarie ai trattati stipulati dai suoi predecessori colla repubblica, onde la signoria accolse con piacere l'occasione di rintuzzare l'orgoglio di un vicino potente che incominciava ad adombrarla.
Il trattato d'alleanza tra le due repubbliche fu segnato il 21 giugno del 1336. Fiorenza non cercava che il vantaggio di sollevare contro Mastino un potente nemico: obbligavasi a mantenere metà dell'armata ed a sostenere metà delle spese per attaccare il signore di Verona nella Marca Trivigiana; ma tutti gli acquisti che farebbe quest'armata, dovevano appartenere ai Veneziani, non riservandosi i Fiorentini che la città di Lucca, che dovevano acquistare a proprie spese e colle loro forze[282].
Un solo generale doveva avere l'assoluto comando delle due armate repubblicane; e la cupidigia di Mastino ne presentò loro uno veramente meritevole di tanta confidenza. L'illustre famiglia de' Rossi di Parma era stata capo del partito guelfo fino ai tempi ne' quali la perfidia di Bertrando del Poggetto l'aveva sforzata a rifugiarsi tra i nemici della chiesa: nella venuta di Giovanni di Boemia gli aveva ceduta la sua sovranità, che aveva ricomperata quando Giovanni abbandonò l'Italia. Finalmente la guerra aveala obbligata a rinunciare a Mastino della Scala tutti i suoi diritti sopra Parma e sopra Lucca. La città di Pontremoli e molte castella con ragguardevoli proprietà erano state da Mastino guarentite ai Rossi; ma quando il signore di Verona ebbe raccolti i frutti del suo trattato, pensò a sciogliersi dagli obblighi del trattato. Eccitò contro i Rossi i Corregieschi capi dell'opposta fazione in Parma; e spogliatili di tutti i loro castelli, gli assediò in Pontremoli loro ultimo asilo. Pietro de' Rossi, il più giovane de' sei fratelli, aveva allora opinione di essere il più perfetto cavaliere d'Italia. Nelle guerre civili che da tanto tempo desolavano il suo paese, aveva date luminose prove di valore, senza macchiarsi mai con atti di crudeltà. I soldati tedeschi che servivano allora in Italia, l'avevano chiamato loro signore e gli mostravano un illimitato attaccamento. Liberale coi suoi compagni d'armi fino all'imprudenza, appena per sè conservava una tonaca ed un cavallo. L'alta sua statura e le sue eleganti maniere chiamavano sulla di lui persona gli sguardi di tutte le donne, e la verginale purità de' suoi costumi, che assicuravasi non esser giammai stata smentita, dava un nuovo pregio alla sua nobile figura[283]. Pietro de' Rossi era ritenuto come ostaggio a Verona, ma trovò modo di fuggire, e venne a chiedere soccorso ai Fiorentini, che seppe eccitare alla vendetta. Dopo aver date prove de' suoi militari talenti in una breve campagna nel territorio di Lucca, passò il primo ottobre al comando della grande armata della lega nella Marca Trivigiana[284].
Pietro de' Rossi attraversò colla sua armata i territorj di Treviso e di Padova, insultò le guarnigioni delle due città, abbandonò le campagne al saccheggio, e con mille cinquecento cavalli tenne a bada l'armata di Mastino composta di quattro mila. Ma i Veneziani vedendolo aggirarsi in quel labirinto di fiumi e di canali, che attraversano in mille maniere il territorio padovano, ne furono inquietissimi, tanto più che il nemico aveva rotti tutti i ponti e fortificati i passaggi: ma Pietro finse di cercar la battaglia, e secondo la costumanza cavalleresca mandò ad offrirne il pegno al campo di Mastino; perchè questi persuadendosi che doveva essere per lui vantaggioso il non far quello che desiderava il nemico, lasciò fuggire l'occasione d'attaccarlo e gli permise di stabilirsi e di fortificarsi a Bovolento sul Bacchiglione, sette miglia al di sotto di Padova[285].
Nel tempo che i Fiorentini mantenevano un'armata nella Marca Trivigiana, e combattevano in Toscana contro i Lucchesi, e contro Pietro Saccone e gli Aretini, non ignoravano che dovevano stare in guardia contro le trame dei Ghibellini, che nelle città della provincia ed anche entro Firenze mantenevano segrete intelligenze, oltre che venivano caldamente eccitati dalle promesse di Saccone e dagli artificj di Mastino. In così pericolose circostanze sapevano che i Romani avrebbero creato un dittatore; onde, seguendo l'esempio loro, credettero di dovere innalzare un magistrato al di sopra delle leggi, affinchè il grandissimo potere che gli confidavano, tenesse in dovere i segreti nemici della repubblica, e la rapidità de' giudizj li colpisse a tempo ne' loro complotti. Ma presso i Romani, popolo affatto militare, il dittatore diventava il generale dell'armata. I Fiorentini non avevano trovato tra i loro concittadini un generale abbastanza sperimentato da mettersi alla testa di tutto lo stato: accostumati a confidare agli stranieri il potere dell'armi, avrebbero temuto assai più di riunire in mani sconosciute la potenza civile e militare; e se giammai si fossero in tal maniera dato un padrone, difficilmente avrebbero poi potuto scuoterne il giogo. Immaginarono quindi di non rivestire il loro nuovo magistrato che dell'autorità di supremo giudice, e lo nominarono conservatore, dandogli una guardia di cinquanta cavalieri e di cento fanti, autorizzandolo a giudicare compendiosamente ed a far eseguire all'istante le sentenze. Uno straniero, Giacomo Gabriello d'Agobbio, fu chiamato il primo ad occupare questa carica. Il popolo doveva tremare innanzi a questo magistrato, ma la signoria tenutasi superiore alla sua giurisdizione poteva sopravvegliarlo ed imporre limiti al suo potere. Frattanto il Gabrielli, abbandonandosi senza ritegno al suo carattere sospettoso e crudele, fece spargere dai suoi carnefici molto sangue. Quando uscì di carica, il popolo, sdegnato contro di lui, promulgò una legge che proibiva di nominare in avvenire giudici di Agobbio o del suo territorio[286]. Dopo di lui un altro conservatore, Accorimbeno di Tolentino, fece succedere la giustizia venale alla crudeltà; ed i Fiorentini, abolendo tale carica, si convinsero finalmente che la libertà non si mantiene giammai con mezzi dispotici, e che l'innalzare un potere al di sopra delle leggi, quand'anche fosse per la loro difesa, è lo stesso che preparare la loro ruina[287].
Nel susseguente anno 1337 la campagna s'aprì dai Fiorentini in Toscana con uno strepitoso avvenimento. Pietro Saccone, stretto dalle armate di Fiorenza e di Perugia, e non potendo tenere aperta comunicazione con Mastino che non gli mandava i promessi soccorsi, vedendo di avere già perduti molti castelli, prese finalmente il partito di negoziare vendendo ai Fiorentini la signoria d'Arezzo. La repubblica acquistò separatamente i diritti di Pietro Saccone e quelli del conte Guido; pagò il soldo delle truppe assediate e sborsò circa sessanta mila fiorini per ottenere il possesso della città, che le fu aperta il 10 di marzo. Ma tal acquisto costò alla repubblica assai più che tesori, avendo compromessa la sua buona fede: per la prima volta fu accusata d'avere mal osservato i trattati, d'avere combattuto di concerto coi Perugini, e d'aver sola raccolti i frutti del loro sudore, e del loro sangue[288]. Il partito guelfo venne in Arezzo ristabilito dopo un esilio di sessant'anni; i Tarlati furono ridotti alla condizione di cittadini; si fabbricarono nella città due fortezze per tenerla in soggezione, e venne stabilita una nuova magistratura incaricata di sopravvegliare alla tranquillità ed al buon essere degli Aretini[289].
I Fiorentini che nella precedente guerra erano stati vittima dei loro riguardi per il territorio di Lucca, tenevansi fermi nello stesso sistema di politica: la guerra che gl'interessava esclusivamente e che si faceva senza il concorso de' loro alleati, era quella che facevasi meno vigorosamente. Accontentaronsi in questa campagna di saccheggiar Pescia, Buggiano e pochi altri castelli di Val di Nievole e di Val di Serchio, senza fare verun acquisto[290].
Ma nello stesso tempo spingevano con una straordinaria attività il loro progetto di eccitare in Lombardia nuovi nemici a Mastino della Scala. Nella stessa maniera ch'essi avevano chiamati i capi dei Ghibellini a dividere le conquiste del re di Boemia, abbandonavano adesso alla loro avidità gli stati del signore di Verona. Ricordavano a ciascheduno l'insultante arroganza di Mastino, ed offrivano ricompense a qualunque volesse far lega con loro per punirlo. Obizzo d'Este, Luigi di Gonzaga ed Azzo Visconti entrarono successivamente nella lega delle due repubbliche. L'ultimo aveva approfittato della guerra generale, cui avevano preso parte i suoi vicini per impadronirsi nello stesso tempo di Lodi, di Como e di Crema[291]. Carlo, figliuolo di Giovanni di Boemia e duca di Carintia, si unì anch'esso ai nemici di Mastino, e gli tolse in sul cominciare di luglio le città di Cividiale e di Feltre[292].
Mentre un'armata condotta da Lucchino Visconti minacciava a ponente gli stati di Mastino, indi ritiravasi senza combattere[293], Pietro de' Rossi rimaneva nelle vicinanze di Padova onde cogliere qualche opportunità per togliere questa grande città ad Alberto della Scala, che ne aveva il comando. Alberto, fratel maggiore di Mastino, era suo eguale in autorità, ma di talenti e di coraggio a lui inferiore d'assai. Impaziente del travaglio, abbandonava i pubblici affari per dedicarsi interamente ai piaceri. Marsiglio ed Ubertino da Carrara, gli antichi signori di Padova e capi del partito guelfo, erano i soli suoi consiglieri. Nell'ebbrezza dell'assoluto potere aveva fatto violenza alla moglie d'Ubertino da Carrara; ma come egli aveva dimenticato quest'oltraggio, figuravasi che lo avesse egualmente dimenticato ancora l'offeso. Ubertino non erasene in verun modo lagnato, o dato indizio dell'interna sua rabbia; ma aveva aggiunto alla testa di moro, che formava il cimiero del suo elmo, due corna di oro, perchè gli rammentassero continuamente la sua vergogna e la vendetta che meditava di fare[294].
Mastino, che non accordava ai Carrara tanta confidenza, aveva più volte scritto a suo fratello di osservarne gli andamenti, di arrestarli ed anche di farli morire. Alberto mostrava tutte queste lettere ai Carrara; e questi che già da più mesi trattavano col doge di Venezia[295], cercavano di risvegliare in Padova lo zelo de' loro partigiani, e mantenevano strette intelligenze con Pietro de' Rossi, loro nipote, cui chiedevano all'opportunità soccorso di gente. Mastino scoperse tutte queste pratiche e scrisse il 2 agosto a suo fratello di far arrestare senza ritardo i due Carrara che lo tradivano e di farli morire. Quando fu introdotto il messaggiere, che aveva ordine di consegnare la lettera al solo Alberto, questi stava giocando agli scacchi. Egli prese la lettera e senza aprirla la consegnò a Marsiglio da Carrara, che gli stava vicino. Marsiglio lesse l'ordine del suo supplicio senza lasciar travedere sul suo volto alcun turbamento. «Vostro fratello, disse in seguito al signore, domanda che voi gli mandiate senza ritardo un falcone pellegrino di cui abbisogna per la caccia.» Nello stesso tempo prevenne Ubertino di apparecchiare ogni cosa per quella notte, e più non perdette Alberto di vista onde impedire che gli giugnesse qualche nuovo avviso[296].
A mezza notte i Guelfi ch'erano di guardia alla porta di ponte Curvo, l'aprirono a Pietro de' Rossi, che entrò in Padova alla testa della sua cavalleria. I partigiani di Carrara che si erano adunati in silenzio intorno al palazzo pubblico, sorpresero nell'ora medesima le guardie, le disarmarono, arrestarono Alberto della Scala nel suo appartamento, e lo condussero subito nelle prigioni di Venezia. Nicoletto, suo buffone, domandò di partecipare alla sua sorte, e fu il solo che lo accompagnasse in quella trista dimora: un così generoso sentimento trovossi in un uomo che aveva fin allora fatto traffico di una vile buffoneria, e che nelle altrui risate aveva cercata l'indipendenza[297].
Pietro de' Rossi fece osservare ai suoi soldati la più severa disciplina. Impadronendosi di Padova, non fu commesso verun rubamento, verun disordine turbò il contento del popolo che tornava alle fazioni de' suoi padri. Furono sequestrate le sole proprietà della casa della Scala, siccome appartenenti al vincitore. Marsiglio di Carrara fu proclamato signore di Padova da' suoi concittadini; ed ammesso nella lega delle repubbliche, si obbligò a somministrare quattrocento cavalieri all'armata che faceva la guerra a Mastino[298].
Questo segnalato vantaggio ottenuto dalla lega fu ben tosto funestato dalla morte di colui che lo aveva procurato. Pietro de' Rossi avendo intrapreso l'assedio del castello di Monselice, vi fu colpito il 7 agosto da un colpo di lancia, e morì il susseguente giorno. Suo fratello Marsiglio che aveva un comando nella medesima armata, morì di febbre sette giorni dopo[299]. Per riconoscenza e per rispetto dovuto alla memoria di questi due generali, la lega affidò il comando della loro armata ad un terzo fratello, Orlando de' Rossi che non aveva i talenti de' suoi predecessori.
Ma la situazione di Mastino della Scala era diventata così pericolosa, che la lega non aveva omai più bisogno d'un grande generale per trarre profitto dai già ottenuti vantaggi. Tutti i Guelfi che avevano ubbidito a questo signore, tutti i gentiluomini che avevano motivo di dolersi di lui, coglievano avidamente l'occasione di ribellarsi, e si scoprivano nella condotta dell'uomo potente caduto in minor fortuna offese prima egualmente ignorate dall'offensore e dall'offeso. Brescia si ribellò l'8 ottobre contro Mastino; e la guarnigione tedesca, dopo avere difesa alcun tempo la città nuova, fu costretta anch'essa di capitolare. Questa nuova conquista passò in dominio d'Azzo Visconti, che vi aveva più degli altri contribuito[300].
Questa guerra non era per anco stata illustrata da una battaglia formale, nè meno quando le armate nemiche presso a poco di forze eguali non dovevano temere di far prova del loro valore. Ma dopo l'abbassamento del signore della Scala, più non poteva aver luogo un fatto importante, poichè egli tenevasi chiuso nella sua capitale, difendeva i suoi castelli e non ardiva avventurare una battaglia. Si consumò l'inverno in trattati infruttuosi, e la seguente campagna del 1338 fu consacrata all'assedio di alcune fortezze. Frattanto i Fiorentini distribuirono i premj per la corsa sotto le stesse mura di Verona. Occuparono in appresso Soave, Montecchio e Monselice, e verso la metà d'ottobre s'impadronirono finalmente dei sobborghi di Vicenza[301]. Mastino aveva chiesti gli ajuti dell'imperatore Luigi di Baviera, al di cui partito erasi sempre conservato fedele. Ma Luigi era allora il nemico della casa di Lussemburgo, con cui aveva tanto tempo fatto causa comune; ed il conte Giovanni Enrico, secondo figlio del re di Boemia, occupò i passaggi delle montagne, e trattenne in Tirolo l'imperatore che con sei mila cavalli veniva in soccorso del signore di Verona[302]. Mastino abbandonato da tutti i suoi alleati, e temendo di vedersi in breve assediato nella propria capitale, si appigliò finalmente alle negoziazioni. Doveva trattare con una lega, onde impiegò contro la medesima quell'arte che d'ordinario basta per discioglierle. Offrì di dare pieno soddisfacimento ad uno de' confederati, e lo fece rinunciare alla difesa degl'interessi altrui. I Veneziani trattarono con lui separatamente, ed avendo ottenuto quanto desideravano, il 17 dicembre del 1338 firmarono un trattato che comunicarono soltanto dopo fatto alla repubblica Fiorentina, perchè ancor essa vi si uniformasse[303].
Con tale trattato Treviso, Castelfranco e Ceneda venivano cedute alla signoria di Venezia; Bassano e Castel Baldo al signore di Padova; Pescia ed alcune castella di Val di Nievole ai Fiorentini[304]. La navigazione del Po era dichiarata libera; i Rossi dovevano rientrare al possesso de' loro beni nello stato di Parma, ed Alberto della Scala sarebbe liberato senza taglia.
Queste condizioni erano troppo diverse da quelle che i Fiorentini chiedevano, e che loro erano state promesse dagli alleati. Da una guerra che loro costava seicento mila fiorini, altro frutto non raccoglievano che l'acquisto di tre o quattro castelli che Mastino più non poteva difendere; mentre colla stessa guerra la casa di Carrara aveva acquistata la signoria di Padova, il Visconti facevasi assicurare quella di Brescia, ed i Veneziani gittavano i fondamenti d'una nuova potenza in terra ferma[305]. Rimasero alcun tempo incerti se dovessero restar soli in guerra contro Mastino, piuttosto che aderire a così svantaggioso trattato, e lasciarsi in tal modo deludere un'altra volta dai loro alleati. Pure essi avevano contratto un debito di quattrocento cinquanta mila fiorini; avevano impegnate ai loro creditori le gabelle per sei anni; e due enormi perdite fatte in quest'epoca dal loro commercio li determinarono ad accettare il trattato di Venezia, e la pace si pubblicò in Toscana il giorno 11 febbrajo del 1339[306].
Per terminare la guerra, un motivo assai più potente dell'abbandono in cui trovavansi i Fiorentini, fu la ruina che apportava al loro commercio la guerra tra Filippo di Valois ed Edoardo III d'Inghilterra. Questi due monarchi non erano stati troppo scrupolosi nello scegliere i mezzi di far danaro. Filippo aveva più volte alterate le monete del suo regno, di modo che il fiorino d'oro di Fiorenza, che ne' primi anni del suo regno valeva dieci soldi di Parigi, giunse in breve al valore di trenta. In appresso fece arrestare in un sol giorno (10 aprile 1337) tutti gl'Italiani che commerciavano ne' suoi stati, ed accusandoli d'usura, li forzò a liberarsi con enormi contribuzioni[307]. D'altra parte Edoardo d'Inghilterra aveva scelti per banchieri due negozianti o case di Firenze, ed i prestiti che faceva per loro mezzo, superavano talmente gli assegni del rimborso, che i Bardi trovarono d'avergli prestate cento ottanta mila marchi sterlini, ed i Peruzzi cento trentacinque mila; ossia, fra l'uno e l'altro, sedici milioni trecento mila lire delle nostre lire d'Italia, in un tempo in cui il denaro era cinque o sei volte più raro che a' nostri giorni[308]. Queste due case furono obbligate di sospendere i loro pagamenti, dal che ne risultò per contraccolpo un infinito numero di fallimenti in Fiorenza[309]. Tali furono le circostanze che consigliarono la repubblica ad accettare la pace di Venezia, senza che la sua pubblicazione cagionasse allegrezza nel popolo[310].
CAPITOLO XXXIV.
Bologna sottomessa da Taddeo de' Pepoli. — Guerra de' mercenarj o di Parabiago. — I Genovesi creano il doge. — Celebrità del Petrarca: viene coronato in Campidoglio.
1338 = 1341. La repubblica di Bologna, posta quasi nel centro dell'Italia, aveva lungo tempo disputato a Fiorenza il primato nella parte guelfa; nè meno popolata, nè meno ricca, o meno commerciante, aveva sopra le città della Romagna quella stessa influenza che Fiorenza sopra quelle della Toscana; finalmente Bologna era resa celebre dalla più antica università d'Italia. Irremovibile pel suo attaccamento alla parte guelfa, questa repubblica aveva acquistati i suoi primi trionfi con lunghe e ruinose guerre. I Lambertazzi e molte migliaja dei loro partigiani erano stati esiliati l'anno 1237, e la loro partenza aveva lasciata la città deserta[311]. Ma i disastri della guerra civile erano stati rifatti dalla uniforme e vigorosa amministrazione del partito vittorioso. Il governo più assodato aveva potuto ponderatamente maturare i suoi progetti ed eseguirli, e procurare allo stato una lunga prosperità. Ora siamo giunti all'epoca in cui questa prosperità ebbe fine. La tirannide del legato Bertrando aveva viziato il principio vitale della repubblica; i cittadini corrotti da alcuni anni di servitù non erano più capaci di reggersi liberi. I loro odj provocati da più gravi oltraggi avevano preso un più feroce carattere; essi non erano più repressi dall'antico spirito pubblico; la salute della patria o il timore di compromettere la libertà più non essendo bastanti motivi per farli tacere, assoggettarono Bologna dopo quattro anni di agitazioni ad una nuova tirannide. Questa, a dir vero, fu più volte rovesciata, ma la libertà che le teneva dietro, non era di più lunga durata, o meno vacillante ed incerta del potere tirannico.
Le recenti fazioni di Bologna eransi manifestate quando Romeo de' Pepoli, il più ricco cittadino di questa repubblica, era stato esiliato: egli morì lontano dalla sua patria; ma suo figliuolo Taddeo vi era stato richiamato in tempo dell'amministrazione del legato. I Pepoli eransi fatti molti partigiani tra il basso popolo e tra la povera nobiltà col mezzo delle loro immense ricchezze di cui usavano generosamente. Essi eransi mostrati zelantissimi per il partito guelfo, ed erano rimasti attaccati al legato più lungo tempo dei Maltraversa loro avversarj[312]. Accusavano essi questi ultimi di favorire i Ghibellini, e quest'accusa poco non influiva sullo spirito del popolo. Alcune illustri famiglie erano attaccate alla loro sorte[313], la più rinomata delle quali era quella dei Bentivoglio, che i suoi genealogisti fanno discendere da Enzio, re di Sardegna e figliuolo di Federico II, che morì prigioniere in Bologna. I nemici di questa famiglia, che doveva un giorno signoreggiare Bologna, dicevano al contrario che discendeva da un macellajo[314].
Poco dopo la cacciata del legato, manifestossi in Bologna una sollevazione, il 27 aprile del 1334, nella quale le due fazioni s'azzuffarono sulla piazza, essendo stati rotti i Maltraversi, saccheggiate le case de' Sabbadini, e tutti i capi di queste grandi famiglie esiliati[315]. I soli Gozzadini erano stati eccettuati da questa proscrizione in ricompensa della parte grandissima che avevano avuta nell'espulsione del legato[316].
La fazione de' Pepoli, per assicurarsi la vittoria, o per raccoglierne i frutti, procedette ben tosto a nuovi atti di rigore contro i suoi avversarj. Tutti i Ghibellini ch'erano stati esiliati coi Lambertazzi, e che in seguito erano tornati a Bologna per condiscendenza del governo, furono di nuovo esiliati in numero di trecento cinquantasette; i loro padri ed i loro fratelli obbligati a fissare il loro domicilio in campagna; e quando gli affari li chiamavano in città, era loro vietato d'avvicinarsi alla piazza sino a cinquanta braccia sotto pena di due mila lire di multa[317].
I Pepoli si comportavano in città come se già ne fossero padroni. Giacomo, figlio di Taddeo, aveva promesso ad un prete suo amico di procurargli un beneficio vacante, ed avendolo chiesto inutilmente al vescovo, in un impeto di collera oltraggiò il prelato cogli schiaffi: il vescovo, preso un coltello, ferì il Pepoli in una guancia. Si corse alle armi da ambe le parti; il palazzo vescovile fu saccheggiato ed abbruciato; ed il capo della Chiesa di Bologna si sottrasse alla morte colla fuga[318].
Non pertanto, la considerazione personale che si era acquistata Brandaligi dei Gozzadini coll'espulsione del legato, conservava alcuna indipendenza al partito Maltraversa di cui era capo. L'anno 1337 Taddeo dei Pepoli eccitò contro i Gozzadini i Bianchi, loro particolari nemici; e quando seppe che gli uni e gli altri erano armati e pronti a battersi, si fece innanzi in mezzo a loro sulla piazza maggiore offrendosi loro mediatore. Prese Brandaligi per la mano, lo chiamò suo fratello e l'arbitro di Bologna; lo ricondusse a casa sua prodigandogli gli attestati del suo rispetto e del suo attaccamento; fece deporre le armi a' suoi proprj figliuoli, ch'eransi associati ai Bianchi, e determinò tutta la fazione dei Maltraversa a deporre le armi ed a disperdersi; ma appena si era il Pepoli ritirato, che i suoi partigiani, adunati in un altro quartiere, piombarono sopra le case dei Gozzadini, le saccheggiarono, le bruciarono, e forzarono Brandaligi a fuggire. Dopo ciò i sediziosi scacciarono dalla signoria tutti i magistrati attaccati al partito Maltraversa, e costrinsero gli altri a condannare all'esilio i Gozzadini ed i loro partigiani[319].
I Bolognesi erano entrati nella lega de' Fiorentini e de' Veneziani contro i signori della Scala, e la guerra in cui trovavansi impegnati, obbligavali a tenere molti cavalieri al loro soldo. Questi mercenarj, per la maggior parte Tedeschi, preferivano il servigio di un principe a quello della repubblica. D'altra parte, i tiranni la di cui potenza era fondata sulla forza militare avevano tutti studiata l'arte di rendersi cari ai soldati. Taddeo dei Pepoli aveva saputo guadagnarsi coloro che stavano allora in Bologna; avevali impegnati per mezzo di segreti emissarj ad accorrere a romore sulla piazza il 28 agosto 1337, gridando: viva messer Taddeo dei Pepoli!... I cittadini si ragunarono alle grida di viva il popolo; ma essi erano senza capo, ed i veri repubblicani erano stati esiliati colla fazione de' Maltraversa. Taddeo incoraggiava i suoi soldati, che disarmarono la guardia della signoria, e senza combattere, anzi senza resistenza, Taddeo fu introdotto nel pubblico palazzo. I mercenarj, che gli avevano aperto l'ingresso, lo proclamarono i primi signore generale di Bologna; alcuni giorni dopo le compagnie delle milizie, e più tardi ancora il consiglio del popolo acconsentirono a questa elezione. Gli amici della libertà erano affatto scoraggiati; e, perduta ogni speranza d'impedire lo stabilimento del despotismo, si assentarono da queste assemblee, nelle quali dieci soli cittadini ebbero la fermezza, di dichiararsi contro Taddeo dei Pepoli[320].
Il nuovo signore scoprì ben tosto, o suppose delle congiure contro di lui per esiliare, sotto questo pretesto, i cittadini che potevano ancora tenerlo inquieto[321]. Cercò poi di rappacificarsi col papa, che aveva messa la sua capitale sotto l'interdetto; riconobbe la sovranità dei pontefici sopra Bologna; promise alla Chiesa un annuo tributo di otto mila lire bolognesi; obbligossi a far marciare le sue truppe qualunque volta ne fosse richiesto dalla corte d'Avignone, ed ottenne a questi patti d'essere ammesso da Benedetto XII in seno della Chiesa, e fu riconosciuta la legittimità del suo potere[322].
La pace di Venezia fu posteriore a queste diverse rivoluzioni di Bologna. Questa pace, smembrando gli stati di Mastino della Scala, aveva posto il rimanente dell'Italia al coperto dalla sua ambizione; ma una casa più potente erasi di già arricchita delle sue spoglie. I talenti e le virtù d'Azzo Visconti, il quale era succeduto in Lombardia alla preponderanza di Mastino, rendeva la sua ambizione ancora più pericolosa. Visconti era in allora il solo signore che si occupasse del ben essere de' suoi popoli, e che sapesse farsi amare. La dolcezza della sua amministrazione gli guadagnava ammiratori e partigiani in ogni luogo, ed i sudditi del tiranno si felicitavano d'essere da lui conquistati. Brescia erasi ribellata contro Mastino per aprire le porte al signore di Milano; ed altre città avevano tentato d'imitarne l'esempio; ma il signore di Verona, facendo la pace con Azzo, occupavasi di già della sua vendetta; e fu precisamente col deporre le armi che suscitò contro al principe che lo aveva umiliato, i più pericolosi nemici.
(1338) Noi abbiamo veduto che i sobborghi di Vicenza erano stati abbandonati all'armata della lega: i Tedeschi assoldati prima da Fiorenza e da Venezia, vi si erano accantonati dopo conchiusa la pace, conservandoli come pegno d'una pretesa indennizzazione; onde rifiutarono di separarsi minacciando egualmente Mastino e gli alleati al di cui servigio erano stati fin allora. Il signore di Verona, volendosene liberare, pensò di rovesciarli addosso ad Azzo Visconti. Incaricò di quest'affare quello stesso Lodrisio Visconti che aveva due volte congiurato contro Galeazzo, e, costretto ad emigrare da Milano, erasi riparato a Verona.
(1339) Enrico VII, Federico d'Austria, Luigi di Baviera, il duca di Carinzia ed il re di Boemia avevano successivamente condotte in Italia nuove armate tedesche, e ben pochi degli avventurieri venuti con loro erano tornati in Germania: i sovrani d'Italia gli avevano assoldati, promettendo loro ricompense maggiori di quelle che trovar potevano nella loro patria. La prodigiosa superiorità che aveva nelle battaglie la cavalleria pesante, dovevasi molto meno al numero che all'abitudine delle armi: il cavaliere aveva un soldo proporzionato al lungo tempo che doveva impiegare, ed ai pericoli cui doveva soggiacere per imparare un tale mestiere; e mentre oggi la paga del soldato è minore di quella dell'ultimo mercenario, era in allora maggiore di quella del più esperto e ricco artefice.
I principi e le città d'Italia non erano in istato di tenere costantemente queste truppe al loro soldo; in tempo di guerra invitavano i mercenarj che avevano militato in altre armate, e li licenziavano all'epoca della pace. I Tedeschi, arrivati in Italia al seguito de' loro principi, erano ben tosto chiamati a servire altre potenze coll'allettamento di più larga mercede; e perchè le contese degl'Italiani erano affatto indifferenti a questi stranieri, vendevansi sempre al migliore offerente.
Generalmente parlando, ai principi tornava meglio d'avere dei Tedeschi al loro soldo, che dei nazionali, perchè la diversità della lingua li faceva più stranieri allo spirito di partito, e meno accessibili agl'intrighi. Sembrò a bella prima che le truppe mercenarie avessero pure altri vantaggi. Le forze degli stati si proporzionarono alle loro ricchezze, non alla popolazione; esse s'accrebbero coll'industria e coll'attività, e si perdettero per l'inerzia; si risparmiò il sangue de' sudditi cittadini; gli stessi soldati vestirono un carattere più umano, e la guerra si trattò con minor ferocia, perchè i combattenti erano quasi tutti compatriotti e non avevano veruna cagione di odio, che gli esacerbasse gli uni contro gli altri. In tempo della battaglia si risparmiavano reciprocamente; dopo la vittoria i vinti venivano spogliati delle loro armi e de' loro cavalli, e posti in libertà senza taglia. Non si previde a principio che l'uso de' soldati stranieri faceva perdere alla nazione il carattere militare, e la privava dei mezzi di respingere colle proprie forze le aggressioni che potevano opprimerla; non si previde che i mercenarj, ne' quali essa riponeva la sua confidenza, potevano un giorno tradirla. La negoziazione di Lodrisio Visconti con quelli che occupavano i sobborghi di Vicenza, fece per la prima volta conoscere ciò che doveva temersi da tali truppe.
Lodrisio Visconti giunse presso ai Tedeschi che occupavano i sobborghi di Vicenza, col danaro datogli da Mastino. Propose loro, poichè allora verun sovrano assoldava truppe, di marciare con lui contro Azzo Visconti; ed in cambio di soldo promise loro il saccheggio della città e del territorio di Milano. Richiamò alla loro memoria la grande compagnia de' Catalani ed Arragonesi che in principio del secolo era passata in Grecia e vi aveva fondato uno stabilimento, e li determinò ad intraprendere la guerra per conto loro proprio. I Tedeschi nominarono generali Lodrisio Visconti ed uno de' loro compatriotti detto Rinaldo di Givres[323]; presero il titolo di compagnia di san Giorgio, ed in principio di febbrajo del 1339 passarono l'Adige per entrare nel territorio milanese. La compagnia quando si pose in cammino era numerosa di due mila cinquecento cavalli e di molta infanteria, e di mano in mano che andava avanzando, faceva sempre nuove reclute.
Azzo Visconti trovavasi allora a letto tormentato dalla gotta, onde gli fu forza di affidare il comando della sua armata a suo zio Lucchino Visconti. Quest'armata, composta di tre mila cavalli e di dieci mila pedoni, uscì di Milano il giorno 15 febbrajo per andar contro alla compagnia di san Giorgio ch'erasi accampata a Legnano, e guastava il territorio milanese.
Lucchino divise la sua armata in due colonne, una delle quali sotto gli ordini di Giovanni da Fieno e di Giovanelli Visconti, e stabilì il suo quartiere a Parabiago; l'altra sotto l'immediato comando di Lucchino s'accampò a Nerviano. Lodrisio approfittò di questa divisione, e la notte del 19 al 20 febbrajo piombò improvvisamente sopra la colonna di Parabiago, e la ruppe interamente. Lasciò allora quattrocento cavalli a Parabiago per custodire il bottino ed i prigionieri, ne mandò settecento presso all'Olona per tagliare la ritirata ai fuggiaschi, e col rimanente s'avanzò contro Lucchino. La battaglia si rinnovò con un furore che non erasi da molto tempo veduto nelle guerre d'Italia: la speranza del saccheggio di Milano animava i soldati della compagnia; quelli di Lucchino erano animati dalla difesa di quanto avevano di più prezioso contro una truppa di assassini che non avrebbero usato moderatamente della vittoria. Pure i Milanesi furono vinti, ma dopo una vigorosa difesa che aveva poco meno dei vinti indeboliti anche i vincitori. Lo stesso Lucchino venne in potere de' nemici. Mentre durava la battaglia, un'altra colonna di settecento cavalieri tutti italiani era uscita di Milano sotto la condotta d'Ettore da Panigo, ed entrata in Parabiago, aveva sorpresi e tagliati in pezzi i quattrocento cavalieri lasciati da Lodrisio a guardare il castello, e si era ingrossata coi prigionieri che aveva liberati. Di là marciò verso Nerviano, e giunse sul campo di battaglia mentre lo truppe di Lucchino di già rotte si difendevano ancora debolmente. Ettore da Panigo piomba su la compagnia rifinita dalla fatica di due battaglie e disordinata dalla caccia data al vinti, fa un orribile macello di questi avventurieri; libera Lucchino e fa Lodrisio prigioniero.
In una sola giornata la compagnia aveva ottenute due vittorie, e due ne aveva pure ottenute il conte da Panigo suo avversario. Questi ricondusse allora le vittoriose sue truppe verso Milano. Al passaggio dell'Olona incontrò il capitano tedesco Malerba che da Lodrisio era stato posto alla custodia di quel fiume per tagliare la ritirata ai fuggitivi. Fu anche questi disfatto dopo un ostinato combattimento che fu il quinto di questo giorno e pose fine alla battaglia di Parabiago distruggendo la compagnia di san Giorgio. Questa rapida campagna, terminata in meno di venti giorni, richiamò a sè gli sguardi di tutta l'Italia: l'incredibile accanimento con cui aveano combattuto i mercenarj in quest'occasione, nella quale portavano le armi contro l'intera società, ispirava tanto maggiore spavento, in quanto che si paragonava alla mollezza con cui sostenevano le altre guerre. La spedizione di Parabiago disvelò il loro segreto.
Si osservò che le loro ordinarie battaglie non erano che un trastullo nel quale cercavano di guadagnare la paga col minor sangue e fatica possibile; ma che non facevan uso di tutte le loro forze, che quando le destinavano alla sovversione dell'ordine sociale. Più di quattro mila cavalieri delle due armate erano rimasti sul campo di battaglia[324]: assai maggiori erano i morti dell'infanteria. I soli Milanesi avevano perduti più di cinquecento cavalieri e di tre mila fanti[325]. Lodrisio Visconti ed i due suoi figliuoli furono chiusi nelle prigioni di Milano. Si rimandarono senza taglia gli altri prigionieri dopo aver loro tolti i cavalli e le armi e avuta da loro la promessa che più non servirebbero contro i Visconti. Non si sarebbero potuti ritenere senza condannarli ad una perpetua prigionia, perchè veruna potenza sarebbesi curata di comperare la loro libertà[326].
Sebbene la guerra di Parabiago togliesse al Visconti alcune migliaja di soldati, aveva non pertanto accresciuta la sua riputazione e la sua potenza. Era a quest'epoca sovrano di dieci città lombarde prima indipendenti[327], senza contare Pavia di cui ne divideva il dominio colla casa Beccaria. Cercava occasione d'acquistare qualche diritto in Toscana, onde aprirvi una nuova carriera alle sue pratiche ed alla sua ambizione; nè dovette aspettarne lungo tempo l'occasione: sua madre Beatrice d'Este aveva avuto dal suo primo marito, il giudice Nino di Gallura, una unica figliuola detta Giovanna, sorella uterina d'Azzo Visconti; la quale morì ed era l'ultima erede dei Visconti di Pisa, signori di una parte della Sardegna. Azzo presentossi subito per raccogliere l'eredità di quest'illustre famiglia; chiese ed ottenne la cittadinanza pisana, entrò in possesso dei beni di sua sorella, e per far comprendere che le sue pretensioni stendevansi altresì sul terzo della Sardegna, che gli Arragonesi avevano tolta ai giudici di Gallura, inquartò i suoi stemmi coi loro[328]. I Pisani desideravano ardentemente la sua alleanza, e le loro forze riunite avrebbero potuto togliere agli Arragonesi quest'isola, sulla quale i Pisani avevano così giusti diritti, ed il di cui possesso era tanto necessario alla sua potenza marittima. Ma Azzo Visconti fu colpito dalla morte nel colmo delle sue prosperità e de' suoi vasti progetti. Spirò il 16 agosto del 1339 nella fresca età di 37 anni[329]; e perchè non lasciava figliuoli maschi, i suoi due zii, Giovanni, vescovo di Novara, e Lucchino, ambedue figliuoli di Matteo, furono dall'elezione della nobiltà e del popolo chiamati insieme alla sovranità di Milano[330]. Il primo rassegnò ben tosto al fratello la parte della sua signoria, per sollecitare l'investitura del vacante arcivescovado di Milano, che ottenne dalla corte d'Avignone contro il pagamento di cinquanta mila fiorini, e la riserva di dieci mila fiorini di rendita[331].
Fu pure quest'anno memorabile per una importante rivoluzione nella repubblica di Genova. Dopo liberata dall'assedio, ci siamo limitati, rispetto a questa città, d'indicare sommariamente gli avvenimenti della guerra civile che laceravano questa repubblica: indebolita da continue zuffe, non impiegava nelle sue guerre intestine tali forze che richiamar potessero l'attenzione dell'Italia. Ma le nuove fazioni, che si manifestarono nel presente anno, meritano di essere più circostanziatamente descritte, poichè produssero nel governo della repubblica un durevole cambiamento, che forma epoca nella sua storia.
Era questo il tempo in cui Filippo di Valois sosteneva contro gl'Inglesi una ruinosa guerra. L'anno 1338 aveva prese al suo servigio venti galere armate dai Guelfi di Monaco e venti armate dai Ghibellini genovesi. Queste quaranta galere passarono in Francia sotto il comando d'Antonio Doria. I marinai genovesi dopo un anno di servigio lagnaronsi che questo ammiraglio loro non pagasse l'intero soldo. In una sedizione, ch'ebbe luogo sopra le galere, furono scacciati il Doria ed i suoi capitani, ed i marinai nominarono altri ufficiali[332]. Il re di Francia si dichiarò a favore dell'ammiraglio; fece porre in prigione Pietro Capurro di Valtaggio risguardato quale capo dei sediziosi e quindici suoi compagni. La subordinazione si ristabilì sulla flotta, ma fu abbandonata da moltissimi marinai, che tornarono alla loro patria lagnandosi dell'ammiraglio.
Al loro arrivo questi uomini inquieti trovarono molti concittadini mal disposti contro gli Spinola, i Doria, i Fieschi ed i Grimaldi. Da oltre sessant'anni queste quattro grandi famiglie avevano scossa la repubblica colle loro rivalità. A vicenda vittoriose o fuggitive, avevano a vicenda oppressi gli altri nobili ed il popolo. Sembrava che aspirassero ad assoggettare Genova ad una oligarchia ereditaria; attribuivansi tutte le funzioni onorevoli sia nella capitale, sia nelle città e castelli che ne dipendevano, come nelle flotte e nelle armate. Gli abitanti di Valtaggio presero i primi le armi per difendere o vendicare il loro compatriota Pietro Capurro, capo de' sediziosi della flotta. Il loro esempio fu seguìto dagli abitanti delle valli della Polsevera e di Bisagno ed in ultimo dai cittadini di Savona; nella quale città i sediziosi si adunarono nella chiesa di san Domenico, ove uno de' loro capi, salito sulla cattedra dei predicatori, e richiamando alla memoria de' suoi uditori le ingiurie e l'orgoglio della nobiltà, gli eccitò a scuotere il giogo di quest'ordine, ed a vendicarsi. «L'arroganza de' nobili è tanto grande, egli disse, che sdegnansi perfino che il popolo riclami i diritti guarentiti dalle leggi. Colui che alza gli occhi sopra di loro, e che ricordandosi d'essere Genovese osa invocare la libertà, viene strascinato in prigione o punito di morte come un ribelle. Chi dobbiamo però accusare di una così ingiuriosa oppressione? La nobiltà che l'impone, o noi che la soffriamo? La nobiltà prima di tutto nulla fece di nuovo, nulla che non sia conforme alla sua natura: ma noi con una vergognosa viltà, con una imperdonabile debolezza, noi non impieghiamo in nostra difesa le armi che d'ogni tempo sono state riservate al popolo. Non lo sappiamo noi forse, che agli oppressi non rimane che una risorsa, la sollevazione? E che in questa sola trovano la guarenzia dei loro diritti? Speriamo noi forse che un giudizio, o procedure giudiziali ne ridonino i nostri privilegi? Che potremmo noi sperare dai consigli composti di soli nobili, da tribunali creati da loro, da giuristi che sviano con tutti i sutterfugi della cavillazione? Il popolo ha egli un mezzo regolare d'ottenere giustizia quando la domanda contro i suoi magistrati? Può egli invocare in suo soccorso l'ordine sociale, quando questo istesso ordine sociale è corrotto? Non temete, cittadini, i giudizj dei tribunali venduti ai vostri nemici, l'obbrobrio di cui vorrebbero vedervi coperti, o i supplicj di cui vi minacciano; non temete i nomi di ribelli e di sediziosi di cui vi caricano; voi conoscete i vostri diritti, le leggi che devono proteggervi, e ch'essi violano senza pudore; voi le avete tutte scolpite nella vostra memoria; queste medesime leggi si sono fatte delle vostre braccia l'ultima guarenzia[333].»
Gli abitanti di Savona, riscaldati da questo discorso, assediano il pretorio, ove Odoardo Doria governatore della città erasi rifugiato coi magistrati e con pochi gentiluomini. Dopo averli costretti ad arrendersi, li rinchiusero nella fortezza di santa Maria; nominarono capitani del popolo due plebei, e formarono loro un consiglio di venti marinai. Marciarono in appresso contro Genova, ove tutto era disposto per un'eguale rivoluzione che non tardò a scoppiare. La repubblica era governata da due capitani di parte ghibellina, un Doria ed uno Spinola, i quali avevano spogliato il popolo dell'elezione del suo Abate, magistrato che come i tribuni di Roma era specialmente incaricato della protezione e della difesa de' plebei. I malcontenti di Genova, tosto che videro arrivare in loro soccorso gli ammutinati di Savona, domandarono che fosse loro restituito il diritto d'eleggere il magistrato del popolo; ed il governo riconobbe la giustizia di questa domanda.
Venti plebei scelti dai loro concittadini per l'elezione dell'Abate adunaronsi in pretorio il 23 settembre del 1339[334]. I capitani, i nobili ed il popolo riuniti intorno a loro ne aspettavano la decisione; quando un uomo oscuro, alzando la voce, propose di nominare alla vacante piazza Simone Boccanigra, uomo attivo e pieno d'esperienza, che a somma prudenza univa un coraggio a tutte prove, e che sempre aveva protetti i plebei sebbene appartenente ad una delle più antiche famiglie della nobiltà. Questo nome venne ripetuto con entusiasmo; il popolo unendo la sua voce a quella degli elettori proclama il nuovo Abate che malgrado la sua resistenza fu costretto a sedersi tra i due capitani del popolo, e gli fu posta in mano la spada del comando.
Quando Boccanigra potè ottenere un istante di silenzio, disse: «Io sento, cittadini, tutta la riconoscenza ch'io debbo a tanto zelo, a tanta benevolenza; ma il titolo che voi mi date, non era ancora entrato nella mia famiglia, ed io non voglio essere il primo ad introdurvelo. Accordate dunque, vi prego, quest'onore ad alcun altro cui meglio che a me si convenga[335].» I cittadini sentirono allora che il titolo di Abate del popolo non poteva appartenere che ad un plebeo, e che Boccanigra, che contava un capitano del popolo tra i suoi antenati, non poteva, senza far loro torto, accettare una così diversa magistratura[336]. «Siate dunque nostro signore, nostro doge, gridarono essi; ma siete voi, voi solo che vogliamo riconoscere per nostro protettore.» I medesimi capitani del popolo, temendo che la rivoluzione si rendesse più feroce, supplicarono Boccanigra ad accettare la sua elezione; e perchè il titolo di doge, che per accidente eragli stato offerto, ricordava il doge di Venezia, capo d'uno stato libero simile a Genova, la nuova costituzione, stabilita in mezzo ai clamori popolari, rimase libera e repubblicana: Boccanigra ebbe un consiglio popolare, e la sua autorità venne limitata dai poteri che si riservò la nazione[337].
Boccanigra nel corso de' cinque anni che tenne l'affidatogli potere, ne usò gloriosamente: con mano vigorosa represse gli eccessi cui il popolo si abbandonava ne' primi istanti della rivoluzione; trasse di mano ai sediziosi Rebella Grimaldi, sebbene suo particolare nemico; contenne il marchese del Carretto e gli altri feudatarj che commettevano frequenti ladronecci in vicinanza de' loro feudi; assoggettò ai magistrati della repubblica le fortezze tutte ed i castelli delle due riviere, tranne Monaco, difeso dai Grimaldi, e Ventimiglia in cui si erano uniti i capi delle quattro grandi famiglie[338]. E la sua amministrazione fu pure illustrata da alcune vittorie ottenute dalle flotte della repubblica sui Turchi nel mar nero, sui Tartari presso Caffa, ed in Ispagna sui Mori[339].
Peraltro dovette lottare incessantemente contro gl'intrighi delle quattro potenti famiglie escluse dal governo; le quali avevano dimenticate le vicendevoli nimistà ed i nomi di Guelfi e di Ghibellini, che le tennero tanti anni divise, per collegarsi contro di lui; ed unitesi in Venti miglia mossero guerra alla repubblica ed al suo capo[340]. Vedremo altrove il Boccanigra, stanco di così lunga guerra, deporre spontaneamente il comando, e lasciare in altrui mano la cura di proteggere il popolo contro la nobiltà.
E per tal modo gli stati d'Italia o monarchici o repubblicani andavano perdendo per le interne loro convulsioni i vantaggi dell'ordine sociale; verun riposo compensava sotto il governo dei principi la perdita della libertà; nelle repubbliche veruna stabile amministrazione rassicurava dai timori d'un tempestoso avvenire. Ogni anno un'improvvisa rivoluzione precipitava dal suo trono un principe italiano, o in una città libera privava un partito dell'autorità che godeva. Masnadieri riuniti in regolari corpi d'armata movevano guerra ai sovrani, e ne minacciavano l'esistenza; avventurieri, scesi in Italia dalla Francia e dalla Germania, innalzavano rapidamente grandiosi edificj di nuovi potentati che venivano rapidamente distrutti. Siamo perciò costretti di presentare ai nostri lettori, come sopra una mobile scena, nuovi stati e nuovi personaggi che si premono e incalzano e distruggono gli uni gli altri, senza dar tempo di fissare sopra di loro lo sguardo. Non è da dubitarsi che i popoli soffrissero per questa instabilità d'istituzioni, ma i loro patimenti ci pajono ancora più grandi di quel che lo fossero realmente, perchè nella narrazione storica gli avvenimenti lontani si vanno gli uni sugli altri ammucchiando. Era l'Italia più tosto agitata che infelice; e lo sforzo energico e costante di tutti i cittadini rialzava la fortuna nazionale abbattuta da ogni pubblica calamità: la piccolezza degli stati favoreggiava la fuga de' proscritti, cui prestava facile asilo la gelosia de' sovrani, e conforto nel loro esilio la speranza di non lontana vendetta. Quell'attività di spirito, quella energia di carattere, quella fermezza di volontà, di cui i moderni tempi non ci offrono verun esempio, erano per l'intera popolazione il risultato d'una vita agitata. L'uomo non può giungere alla grandezza, cui fu destinato dalla divinità, finchè ogni individuo non si risguarda come un essere indipendente, e come una potenza isolata rimpetto agli altri. Guasto è l'ordine sociale e degradata l'umana natura, quando ogni uomo cessa d'essere lo scopo della sua propria esistenza, e non è che un mezzo impiegato dal sovrano per soddisfare alla propria ambizione.
Passioni più violenti di quelle della presente età strascinavano gli uomini nei pubblici affari: ma al potere politico non andava congiunta molta celebrità; e nell'agitamento d'una vita tanto attiva, più che la vanità, era soddisfatta l'ambizione. Il magistrato d'una repubblica, il ministro d'un principe appena potevano sperare di rendersi noti a tutta l'Italia; e un nome che fosse noto a tutta Europa, non poteva acquistarsi che colla superiorità dell'ingegno. La considerazione era la ricompensa accordata ad una vita consacrata al ben pubblico; la gloria si acquistava soltanto colle lettere; e questa divisione riusciva egualmente utile all'amministrazione ed alla scienza. La piccolezza degli stati tanto favorevole alla indipendenza, diminuendo alquanto il lustro de' principi, dava ai sommi ingegni un rango superiore a quello de' sovrani.
Era infatti convenevole cosa che a coloro, i quali consacravano allo studio que' talenti che avrebbero potuto procurar loro le principali cariche ed il supremo potere dello stato, si accordassero le più onorevoli ricompense. La lingua era appena formata, ed il capo d'opera di Dante faceva soltanto conoscere quel che poteva diventare. Non erano per anco stabilmente fissati i confini tra l'italiano ed il latino idioma; il primo non aveva ancora la sua grammatica, ed ancora incerto ne era il carattere. Il Villani, il Boccaccio e Franco Sacchetti formarono la prosa, e lasciarono eccellenti esemplari d'eleganza, di chiarezza, d'ingenuità e di gusto, che i susseguenti secoli non superarono. Cino da Pistoja, Cecco d'Ascoli, Petrarca, Zanobio Strada crearono, o perfezionarono la poesia lirica; facendo a vicenda parlare ne' loro versi l'amore, la religione, l'immaginazione e l'entusiasmo; fissarono per l'Italiano il linguaggio poetico, quel linguaggio pittorico, ove non sono ammessi vocaboli che non presentino alcuna immagine. L'antichità era mal conosciuta, e su la terra la più doviziosa d'ogni altra per antiche memorie, il popolo poteva appena approfittare dell'esperienza de' passati secoli. Ma Albertino Mussato, Ferreto Vicentino e Giovanni da Cermenate mostrarono come doveva studiarsi la lingua de' Romani per possederla come se fosse la propria. Cola da Rienzo, Petrarca e Boccaccio insegnarono il modo di cercare lo spirito dell'antichità ne' suoi monumenti e ne' suoi scrittori, di spiegar gli uni col soccorso degli altri, riunendo in un solo corpo le parti staccate dell'erudizione classica. Giovanni Calderino e Giovanni Andrea consacrarono un'erudizione dello stesso genere nell'interpretazione delle leggi civili e canoniche; Giovanni Gianduno e Marsiglio di Padova rischiararono coi lumi della filosofia i rapporti che esistono tra l'autorità civile e l'autorità religiosa; la medicina, la fisica, le scienze naturali cominciarono in pari tempo ad uscire dalle tenebre che le avevano affatto ricoperte. Lo zelo dei discepoli era più caldo di quello de' maestri: ogni città voleva avere un'università, per leggere nella quale chiamava gli uomini più famosi per dottrina, cercando colle ricompense e cogli onori, che loro accordava, di soverchiare le città vicine. A fronte di tanti studi pubblici, nella sola Bologna contavansi dieci mila scolari che udivano le lezioni de' più illustri professori. In altro tempo non eransi giammai con tanta passione coltivate le scienze e le lettere; al merito letterario non era mai stata accordata così larga ricompensa di gloria, nè così magnifici trionfi ai poeti ed ai filosofi.
Tra i sommi ingegni, che illustrarono il quattordicesimo secolo, parve che il Petrarca fosse scelto dai suoi contemporanei per ricevere in nome di tutti i poeti e di tutti i dotti la più luminosa ricompensa che sia mai stata accordata al merito letterario. Nel 23 agosto del 1340 ricevette una lettera dal senato di Roma, che lo invitava in quella capitale del mondo, per ricevervi in Campidoglio la corona d'alloro, che ne' tempi della romana grandezza accordavasi talvolta ai poeti in occasione de' giuochi capitolini. La sera dello stesso giorno ebbe Petrarca una seconda lettera da Roberto de' Bardi Fiorentino, cancelliere dell'università di Parigi, in allora la più celebre dell'Europa, che in nome della medesima lo invitava colle più lusinghiere espressioni a Parigi per esservi egualmente coronato d'alloro. Francesco Petrarca aveva in allora trentasei anni, e vivea nel suo tranquillo ritiro di Valchiusa, presso Avignone, quando le due più grandi città del mondo sembravano disputarsi l'onore di preparargli un trionfo[341].
Petrarca, per la sua coronazione, diventò un personaggio affatto degno di storia: e fu così altamente collocato nell'opinione del suo secolo, che da qui innanzi lo vedremo pronunciare i suoi oracoli sulla politica e sulla letteratura; giudicare i pontefici e gl'imperatori, ed ottenere un rispetto talvolta esagerato da que' medesimi ch'egli condannava. Notabile fu l'influenza di tanta gloria sopra un carattere pieno di vanità: Petrarca non cessò mai nella sua carriera politica di essere un trovatore; e tutti i tiranni d'Italia, lusingando il suo amor proprio, ottennero da lui ricompensa di bassa adulazione. Alcuni lo impegnarono in azioni contrarie a' suoi principj ed a' suoi doveri come cittadino di Fiorenza e come Guelfo[342]. Anche il suo merito letterario medesimo può essere attaccato. Molti critici accusarono le sue poesie di ricercatezza e di affettazione; molti osservarono che nelle sue lettere ed altre opere latine traspare una stentata vanità, mentre in mezzo ai continui sforzi che fa l'autore per comparire eloquente, non sanno ove trovare i suoi veri sentimenti e pensieri; per ultimo molti lo accusano in particolare d'avere guasto il gusto della sua nazione, ritraendo gl'Italiani dal cercare il vero bello per farli tener dietro a futili gentilezze, ad apparenti bellezze. Ma per altro costoro devono confessare che Petrarca fu dotato di talenti tali, di un tal genio, di cui non possono forse portar essi giudizio; imperciocchè non è possibile di riscuotere l'ammirazione d'un intero secolo, nè di trasmettere il proprio nome alle più remote nazioni, e di generazione in generazione alla posterità, se tali veri o supposti difetti non vengono largamente compensati da una vera grandezza degna di una gloria così universale e durevole.
Era Petrarca figlio di ser Petracco dell'Ancisa, notajo fiorentino, originario del castello dell'Ancisa posto sulla strada d'Arezzo, quattordici miglia lontano da Firenze. Ser Petracco era notajo delle riformagioni[343] quando furono esiliati i Bianchi di Firenze. Bandito con Dante del 1302, si stabilì in Arezzo, ove nacque Petrarca nella notte del 19 al 20 luglio del 1304 quasi all'epoca del mal diretto tentativo fatto dai Bianchi sotto la condotta di Baschiera dei Tosinghi, per rientrare in Firenze[344].
Il nome di Petrarca dato al poeta toscano non è che il nome del padre alquanto alterato, Petracco, ossia Pietro. Pare che questa famiglia non avesse ancora nome proprio, come di que' tempi non lo avevano ancora molte famiglie della plebe. Petrarca incominciò di otto anni a studiare in Pisa la grammatica; di dove, perduta ogni speranza di rientrare in patria, suo padre lo trasportò con tutta la famiglia in Avignone allorchè morì Enrico VII. Avignone, diventata residenza dei papi, apparteneva in allora al re Roberto; ma il contado limitrofo Venosino formava da oltre trent'anni parte del dominio della Chiesa. Filippo l'ardito, re di Francia, aveva ceduta quella piccola provincia alla chiesa in forza d'un trattato conchiuso nel 1228 tra il papa e Raimondo VII, conte di Tolosa.
Petrarca trovò a Carpentasso, lontano quattro sole leghe da Avignone, il precettore toscano Convannole, che gli aveva date le prime lezioni di grammatica in Pisa[345], e proseguì a studiare sotto di lui pel corso di cinque anni la grammatica, la dialettica e la rettorica. Di 14 anni fu mandato a Monpellier per istudiare il diritto; ma ne' quattro anni che vi si trattenne trascurava lo studio commessogli per leggere Cicerone; pel quale fino da quell'epoca sentiva una così violenta passione, che propose di averlo a suo unico esemplare; e in fatti l'imitazione dello stile ciceroniano fu la cagione principale della sua gloria. Del 1322 fu dal padre mandato a Bologna per continuarvi lo studio del diritto sotto il famoso canonista Giovanni Andrea, sotto Giovanni Caldarini ed altri riputatissimi professori: ma anche in Bologna lo studio de' classici lo alienavano in modo da quello della giurisprudenza, che suo padre credette indispensabile un viaggio a quella città per toglierlo a così gagliarda seduzione, gettando sul fuoco tutti i prediletti suoi libri[346].
Ma in Bologna eranvi di que' tempi, oltre i legisti, altri maestri dai quali poteva Petrarca ascoltare lezioni al suo gusto più confacenti. Scelse adunque quelle di Cino da Pistoja e di Cecco d'Ascoli, dopo Dante, i due più illustri poeti di que' tempi, sebbene fosse il primo professore di diritto, l'altro di filosofia e di astrologia. L'uno e l'altro ispirarono a Petrarca il gusto per la poesia lirica italiana leggendogli le loro poesie ch'egli superò di lunga mano. Del 1327, sotto il governo del duca di Calabria, il professore d'astrologia Cecco d'Ascoli, che appunto in tale anno era pure astrologo del duca, fu abbruciato in Firenze come fattucchiere dal tribunale dell'Inquisizione[347].
Petrarca aveva, del 1325, perduta la madre, cui nel susseguente anno tenne dietro anche il genitore; onde gli fu forza di lasciare Bologna e di recarsi in Avignone col fratello Gerardo per raccoglierne la piccola eredità[348]. I sottili redditi del loro patrimonio consigliarono i due fratelli ad abbracciare lo stato ecclesiastico; e Petrarca, già conosciuto per alcune poesie alla corte pontificia, vi fu cortesemente accolto da alcuni principali signori romani e da alcuni prelati. Era Petrarca di gentile aspetto, e gagliardamente inclinato a conversare colle donne, la di cui protezione, in allora potente alla corte d'Avignone, conduceva facilmente a grandi fortune. Petrarca, volendo cattivarsene il favore coi versi, fece scelta della lingua italiana; perfezionando la quale, e dandole maggiore armonia, si acquistò tanta gloria[349].
La rima formava una parte essenziale della poesia italiana e della provenzale; e Dante aveva artificiosamente alternate le rime in modo che si legassero le une alle altre, onde giovare alla memoria di coloro che canterebbero i suoi versi, senza affaticare l'orecchio con una monotona consonanza. Petrarca non fu forse di così fino gusto nell'avvicendare le sue rime; e cercò più d'ogni altra cosa la tortura e la difficoltà, scrivendo trecento in quattrocento sonetti, e talvolta duplicando la tortura di questo infernale letto di Procuste, come ingegnosamente chiamò il Sonetto un poeta italiano[350].
Le canzoni sono i componimenti nei quali il Petrarca spaziò con maggiore libertà, e sono altresì quelli nei quali trovasi frequentemente una grandezza lirica che lo pareggia agli antichi lirici, ed a Dante, suo maestro. Le canzoni sono composte di più strofe di versi endecasillabi e settenarj; ma ogni strofe dev'essere perfettamente eguale alla prima, sia per conto delle rime, che per rispetto ai differenti piedi, ed alla distribuzione dei riposi. La canzone non deve avere più di quindici strofe, nè la strofa più di venti versi; e terminare con una chiusa o invio, nel quale l'autore addirizzava la parola ai suoi versi. Rare volte accade che quest'aggiunta che riconduce in iscena il poeta non distrugga con alcun poco di vanità o di galanteria l'impressione fatta dal poema con più elevati pensieri e con un andamento più lirico[351].
Nel 1326, Petrarca strinse amicizia con Giacomo, figliuolo di Stefano Colonna, di età conforme e di studj, dal papa in appresso nominato vescovo di Lombez. Questi lo fece conoscere ai più rispettati personaggi della corte d'Avignone onde potè spiegare i suoi talenti in più vasto teatro[352].
Ma la celebrità del Petrarca crebbe a dismisura da che cominciò a cantare i suoi amori per madonna Laura, da lui veduta la prima volta nella chiesa delle monache di santa Chiara il 16 aprile del 1327. Per lo spazio di venti anni, e fino alla morte di Laura, non cessò d'esprimere ne' suoi versi la propria passione e di lagnarsi del suo rigore. Era Laura figlia d'Odiberto di Noves, cavaliere della provincia avignonese, che la maritò in gennaio del 1325 con Ugo di Sade, figliuolo di Paolo, ed uno de' sindaci della città d'Avignone[353]; se dobbiamo dar fede ai versi dell'innamorato giovane, fu scrupolosamente fedele allo sposo, sebbene non fosse insensibile agli omaggi di così riputato poeta ed alla celebrità che le procurava; e sebbene non trascurasse i mezzi familiari alle donne per non perdere un prigioniere che di quando in quando minacciava di fuggire.
In tempo che Petrarca trovavasi a Lombez presso l'illustre suo amico Stefano Colonna, riprese i suoi studj de' classici. Petrarca sentiva un vivo trasporto per le cose de' Romani, onde cercava di conoscerne a fondo i poeti, gli oratori, gli storici. Per avanzarsi in così vasta erudizione richiedevansi, a que' tempi, maggiori sforzi assai, che ne' nostri. Rarissimi erano i manoscritti e venduti a caro prezzo; non trovavansi riuniti nello stesso luogo, ma era d'uopo intraprendere diversi viaggi per leggere il solo Cicerone, di cui conservavansi alcuni libri in una provincia, altri in altre. Il Petrarca che aspirava ad averli tutti, e che apprezzava più d'ogni altro questo autore, possedeva il trattato de Gloria di Cicerone, che prestò al suo maestro Convennole, che lo smarrì, senza che fino a' nostri giorni siasi potuto più rinvenire.
Il Petrarca, pieno la mente ed il cuore delle opere de' Romani scrittori, non credeva esservi altre scienze oltre quelle da loro coltivate, nè maggiore grandezza di quella della loro patria. Egli aveva adottati perfino i pregiudizj dell'antica Roma, che per lui continuava ad essere la capitale del mondo, risguardando come barbaro tutto quanto non era romano. Perciò non poteva tenere segreto il suo sdegno contro i papi per avere trasportata la loro sede in un'oscura e schifosa città delle Gallie, preferendola alla capitale dell'universo ricca di magnifici palazzi. I Barbari francesi ed allemanni che osavano scendere armati in Italia, eccitavano egualmente la sua collera, non vedendo in costoro che schiavi ribelli, cui di continuo rimproverava i ferri che avevano infranti[354].
Non pertanto il Petrarca credette ben fatto di raccogliere da que' popoli, che tanto spesso chiamava barbari, tutto quanto conservavano di scienza. Visitò Parigi nel 1333, poi le città delle Fiandre, Aquisgrana e Colonia, di dove, passando per Lione, tornò ad Avignone[355]. Stefano Colonna, suo protettore, andava intanto a Roma, di modo che la fama del Petrarca dilatavasi in tutta l'Europa per mezzo suo e de' suoi amici. L'anno 1336 venne per mare in Italia, ove visse alcuni mesi in casa dei Colonna, allora in aperta guerra cogli Orsini; ed avanti di tornare in Provenza, visitò pure le coste della Spagna[356]; dopo i quali viaggi comperò in Valchiusa una piccola casa per istabilirsi in quel solitario paese. Nel 1339 diede principio ad un poema epico in versi latini, di cui Scipione doveva essere l'eroe, e che intitolò l'Africa. Lusingavasi di eternare con quest'opera la sua memoria; ma l'effetto non corrispose alle sue speranze[357].
Ritirato nella sua solitudine, nulla trascurava il nostro poeta che potesse giovare alla sua celebrità. Le lettere che gli furono ricapitate nello stesso giorno, per invitarlo a Parigi ed a Roma, gli arrecarono più gioja che sorpresa; poichè già da lungo tempo andava egli stesso preparando questo glorioso avvenimento. La sua ammirazione per la romana grandezza non lo lasciò nell'incertezza; ma per dare maggiore splendore al suo coronamento in Roma, risolse di subire un esame che non gli veniva richiesto; e prima di cingersi l'offerto alloro, si addirizzò a Roberto, re di Napoli, il più letterato sovrano di que' tempi, e grande protettore de' letterati, pregandolo di giudicare intorno alle sue cognizioni ed ai suoi talenti. Quando seppe accolta la sua domanda, Petrarca s'imbarcò alla volta di Napoli, ove sbarcò alla metà di marzo del 1341[358].
Il vecchio Roberto che aveva più gusto per lo studio, e rispetto per le scienze letterarie che militari, pareva scontare finalmente i delitti da suo avo Carlo I, il conquistatore di Napoli ed il carnefice di Corradino. Nel 1328 Roberto aveva perduto l'unico figlio Carlo, duca di Calabria, il quale morendo aveva lasciata una fanciulla, e la consorte gravida di un'altra. Il nipote di Roberto, Carlo Uberto, figlio di Carlo Martello, e nipote di Carlo II di Napoli, regnava allora in Ungheria. Roberto che gli aveva tolta la corona di Napoli col favore della corte pontificia, quando vide spenta la sua maschile discendenza, pensò di ritornare la corona alla casa d'Ungheria. Carlo Uberto venne a Manfredonia colla sua famiglia, e, valendosi della dispensa del papa, fece sposare ad Andrea suo secondogenito, allora di sette anni, Giovanna, maggior figliuola del duca di Calabria, che ne aveva cinque. Tale maritaggio si celebrò il 26 settembre del 1333; ed Andrea che fu dal padre lasciato alla corte di Napoli per esservi educato dall'avo della sposa, ricevette il titolo di duca di Calabria, e fu riconosciuto erede presuntivo della corona[359].
D'altra parte il re di Sicilia, Federico, quello stesso che dal 1295 innanzi aveva difesa la Sicilia con tanto coraggio e fortuna contro gli attacchi de' Napoletani, de' Francesi e della Chiesa, morì assai vecchio il 14 giugno del 1337, lasciando la corona a D. Pedro suo maggior figliuolo, che, lungi dall'avere i talenti e le virtù del padre, aveva opinione di scimunito[360].
Roberto tentò invano di approfittare della debolezza del nuovo re siciliano e della ribellione che si manifestò ne' suoi stati. I Napoletani, dopo un'inutile campagna nel 1338, furono forzati di ritirarsi[361]. Genova e molte altre città della Lombardia e del Piemonte eransi sottratte al dominio di Roberto. La guarnigione che aveva posta in Asti, non vedendosi pagata, vendè quella importante piazza al duca di Monferrato[362]. Intanto l'avarizia e la debolezza di Roberto davano il regno in preda a gravissimi disordini. I conti di Minerbino e di san Severino si facevano la guerra; e le città di Barletta, Sulmona, Aquila, Gaeta e Salerno erano divise in accanite parti che distruggevansi a vicenda. I fuorusciti eransi fatti assassini, e tutto il regno era esposto alle vessazioni dei proscritti e dei malviventi[363]. Roberto non andava dunque debitore alla prosperità de' suoi stati, o alla gloria delle sue armi del titolo di più saggio re della Cristianità. I letterati da lui beneficati furono i soli artefici della sua fama, celebrando quali prodigi di scienza e di buon gusto le lettere del monarca, i suoi editti, le sue scritture d'ogni genere. In fatti la sua pedantesca erudizione somministrava materia ai loro elogi[364].
Tale fu l'esaminatore scelto da Petrarca per giudicarlo degno di ricevere la corona in Campidoglio. Dopo l'esame, il poeta addirizzò una lettera alla posterità per informarla di tutte le particolarità del suo trionfo. «Roberto, egli scrive, fissò per quest'esame un giorno solenne, e mi tenne sotto le prove da mezzodì fino a sera; ma perchè discutendo ogni materia, la vedevamo andar crescendo, ricominciò l'esame ne' due susseguenti giorni. Così dopo avere tre giorni scossa la mia ignoranza, il terzo mi dichiarò degno dell'alloro poetico[365] ». Allora Roberto cercò d'indurre Petrarca a ricevere la corona in Napoli; ma non potendo ottenere l'assenso del poeta, destinò Giovan Barili, uno de' suoi cortigiani, a rappresentarlo in questa cerimonia, impedito da vecchiaia di recarsi egli stesso a Roma[366]. Il Barili che sulla strada di Roma erasi separato dal Petrarca, fu svaligiato dagli assassini e costretto di rifare la strada di Napoli.
Roma aveva allora due senatori, Orso, conte d'Anguillara, di casa Colonna, e Giordano Orsini. Il primo, amico e protettore del Petrarca, aveva operato per la sua coronazione. Egli usciva di carica all'indomani di Pasqua, ed il giorno appunto destinato a tale funzione, che nel 1341 cadeva nell'otto d'aprile, fu scelto per la cerimonia[367].
Erano passati dodici secoli dopo che il Campidoglio più non vedeva trionfi; ed il popolo di Roma applaudì il poeta che saliva la sacra scala collo stesso trasporto con cui applaudiva in altri tempi i vincitori de' barbari, i liberatori della patria. Alcuni giovanetti vestiti di porpora indirizzavano ai Romani, in nome del Petrarca, versi fatti dal poeta per questa cerimonia. Le più illustri famiglie della nobiltà eransi conteso l'onore di far entrare i loro figli nel corteggio del grand'uomo[368].
Il Petrarca, coperto da una veste di porpora, donatagli dal re Roberto, era preceduto dal suono delle trombe e dei tamburi. Giunto nella sala della giustizia si rivolse al popolo che lo accompagnava, dicendo ad alta voce: «Dio conservi il popolo romano, il senato e la libertà!» Indi postosi ginocchioni innanzi al senatore, questi, che teneva in mano la corona di lauro, la collocò sul capo di Petrarca, ed il popolo fece allora eccheggiare il palazzo e la piazza de' suoi applausi, gridando: «viva il Campidoglio ed il poeta[369].»
CAPITOLO XXXV.
I Fiorentini comprano Lucca, mentre i Pisani l'occupano colle armi. — Guerra tra le due repubbliche. — Tirannide del duca d'Atene in Firenze.
1340 = 1343. I Fiorentini avevano accettato il trattato di Venezia onde por fine ad una guerra che mantenevasi in Toscana quasi senza intervallo da oltre dieciotto anni. Le ostilità, cominciate da Castruccio nel 1320, eransi continuate contro Gherardino Spinola, Giovanni di Boemia e Mastino della Scala, senza che le campagne di Val di Nievole, dello stato di Lucca e di Val d'Arno godessero un solo anno di riposo. A vicenda guaste dai nemici e dai soldati destinati a difenderle, erano state spogliate delle loro ricchezze, ed abbandonate da non pochi coltivatori. Non pertanto i ricchi commercianti di Firenze, proprietarj di non poche di quelle campagne, soccorrevano i loro spogliati coloni, e riparavano generosamente i danni della guerra. Infinite ricchezze dei Fiorentini non esposte alla rapacità del nemico circolavano continuamente dall'una all'altra estremità dell'Europa. Ne' magazzini d'Anversa e di Venezia, ne' mercati di Parigi e di Londra, sopra le navi che scorrevano il Mediterraneo e l'Oceano, nelle carovane che attraversavano la Germania, la Francia, l'Italia, trovavansi ovunque proprietà fiorentine, ed il mercante cui appartenevano, disponeva con piacere per la difesa della libertà, di que' beni che non erano sottoposti alle leggi del paese.
Come i guasti della guerra erano presto risarciti dai Fiorentini, così erano ben tosto scordate ancora le sue calamità; e lo stato dopo un breve riposo veniva strascinato in nuove guerre. Il rango che oramai occupava la repubblica tra le potenze italiane, più non gli permetteva di rimanersi neutrale nelle rivoluzioni di questa contrada; e la sua ambizione andava acquistando attività in ragione dell'ingrandimento del suo potere. Firenze non era più contenta de' suoi antichi confini, e cercava in ogni occasione di allargarli, aspirando al dominio di tutta la Toscana: per cui non durò che tre anni la pace conchiusa in Venezia, sebbene calamità di altro genere, la peste e le civili discordie, avessero, prima di ricominciare la guerra, privata la repubblica di quella tranquillità che aveva sperato di godere.
La peste tenne dietro, nel 1340, ai cattivi raccolti di due anni consecutivi, che avevano fatto soffrire al popolo la fame, ed indebolito il temperamento dei poveri. Ne' caldi dell'estate l'epidemia colse quindici mila vittime, non lasciando, per così dire, intatta veruna famiglia. Pure per impedire che l'immaginazione si spaventasse alla vista di tanti morti e delle continue processioni funebri, i magistrati vietarono al banditore pubblico d'invitare alle tumulazioni, ed ai parenti di tenersi adunati nella chiesa ov'era portato il morto[370]. I freddi dell'inverno misero finalmente termine al contagio, che dopo pochi anni doveva riprodursi con maggiore violenza, e rinnovarsi altre volte in diverse epoche del 14º secolo, togliendo alla terra la metà de' suoi abitanti.
Quasi senza interrompimento tenne dietro a tanta calamità quella della civile discordia. Dodici cittadini di Firenze eransi in quest'epoca usurpata tutta l'autorità della repubblica; non già mutando le leggi costituzionali, o le magistrature dello stato; ma rendendo le ultime dipendenti dalla propria autorità, ed assicurando che le elezioni dell'estrazione a sorte non cadessero che sopra loro, e sui loro amici clienti. Per conservare questo potere oligarchico, egualmente odioso ai grandi ed al popolo, e per impedire che una più attenta sopravveglianza sullo scrutinio de' priori non correggesse gli abusi da loro introdotti, crearono un nuovo rettore o magistrato; ed in onta della legge che dichiarava quelli di Agobbio incapaci d'esercitare in Firenze veruna signoria, chiamarono, col titolo di capitano della guardia, lo stesso Giacomo Gabrielli d'Agobbio che aveva dato motivo a tale legge; e gli affidarono una guardia di cento uomini a cavallo e di duecento fanti al soldo del comune, destinandolo a mantenere, con una giurisdizione affatto arbitraria, l'usurpato potere[371].
Fra coloro che trovaronsi esposti i primi alla persecuzione di Gabrielli, si credettero le più offese le nobili famiglie dei Baldi e dei Frescobaldi, per essere state condannate ad arbitrarie non meritate ammende, e costrette a deporre in mano della signoria i castelli di Mangona, di Vernia ed altri, che avevano comperati dai loro antichi conti. I Baldi ed i Frescobaldi non si sottoposero senza resistenza all'oppressione; tentarono di disfarsi di Gabrielli e dell'oligarchia che governava; fecero entrare in una congiura i principali capi della nobiltà; in pari tempo mossero una corrispondenza coi signori de' castelli, che ancora si mantenevano quasi indipendenti, i conti Guidi, i Tarlati d'Arezzo, i Pazzi di Val d'Arno, i Guazzallotti di Prato, i Belforti di Volterra, gli Ubertini e gli Ubaldini degli Appennini, e chiesero il loro soccorso. Tutti questi gentiluomini avrebbero dovuto trovarsi presso le mura della città la notte d'Ognissanti, ed all'indomani, in tempo del divino ufficio, i congiurati prendere le armi per disfarsi di Giacomo Gabrielli, e di coloro che lo avevano chiamato.
Ma la congiura fu scoperta un dì prima dell'esecuzione da Giacomo Alberti membro della dominante oligarchia; e la stessa sera d'Ognissanti gli amici del governo si adunarono nel palazzo dei priori, e fecero dar il segno dell'allarme. Le compagnie del popolo vennero in piazza coi loro gonfaloni, e furono chiuse le porte della città prima che i congiurati potessero ricevere i soccorsi dai loro amici di fuori. I Baldi ed i Frescobaldi, vedendo la trama scoperta, si fortificarono oltr'Arno, e tentarono di tagliare i ponti; ma non riuscì loro d'impadronirsi di quello di Rubaconte; onde non essendo impedita la comunicazione tra le due parti della città, convennero col podestà di uscire di Firenze senza venire alle mani[372].
La parte vittoriosa fece condannare i Baldi, i Frescobaldi ed altri gentiluomini all'esilio. In appresso fece atterrare le loro case, ed invitare le città guelfe sue amiche a non accordar loro asilo. Tanta asprezza usata dal governo nel vendicarsi forzò gli esiliati a ripararsi a Pisa, ed unirsi colà ai nemici dello stato, ai quali non fu inutile il loro soccorso[373].
Nel seguente anno 1341 i Fiorentini avendo tentato d'acquistare la signoria di Lucca, fecero esperienza degli ostacoli che i loro emigrati sapevano opporre ai loro progetti. Mastino della Scala aveva posto ad altissimo prezzo il possedimento di Lucca quando questa città gli apriva le porte della Toscana. Il territorio di Lucca comunicava allora per mezzo dello stato di Parma cogli stati degli Scaligeri posti al di là dell'Adige. Parma univa in un solo corpo i diversi paesi sottomessi a questa famiglia, onde per meglio assicurarsi della sua ubbidienza, Mastino l'aveva ceduta in feudo ai suoi zii materni, i figliuoli di Giberto da Coreggio. Egli credeva di potersi fidar loro interamente sia pei legami del sangue, come per la riconoscenza che gli dovevano, e per l'odio inveterato che la casa di Coreggio nudriva contro quella dei Rossi da lui spogliata di Parma, e cacciata in esilio. Ma Azzo, il terzo de' quattro fratelli da Coreggio, non si accontentava del rango di signore feudatario, ed aspirando alla sovranità, sperava di poterla conseguire congiurando contro il suo benefattore. Per riuscire ne' suoi progetti chiese soccorsi a Roberto di Napoli, a Luchino Visconti ed al Gonzaga di Mantova; ed il 17 maggio del 1341, essendogli state aperte dai fratelli le porte di Parma, corse la città alla testa de' cavalieri che aveva adunati, facendosene proclamare signore[374]. Allora fu tolta ogni comunicazione tra Lucca e gli stati di Mastino, il quale trovossi impegnato in una pericolosa guerra coi signori di Milano e di Mantova; onde posto fuori di speranza di ricuperare Parma e di conservare Lucca, risolse di vendere l'ultima ai Fiorentini o ai Pisani, che ne desideravano egualmente la signoria.
I Fiorentini avevano avuto sentore della trama di Azzo da Coreggio, senza che volessero avervi parte; ed avevano pure rifiutata l'alleanza di Luchino Visconti, che loro faceva l'offerta di mille cavalli per attaccar Lucca[375]: bensì accolsero avidamente le prime aperture loro fatte da Mastino. Non si era mai cessato di rinfacciare alla signoria il rifiuto dell'acquisto di Lucca quando i Tedeschi volevano venderla all'incanto; ed il governo credette giunta l'opportunità di riparare quest'errore. Si nominarono venti commissarj con illimitate facoltà di stringere con Mastino il contratto, e di riscuotere le somme necessarie al pagamento[376]. Questi, coll'intervento del marchese d'Este, convennero di pagare duecento cinquanta mila fiorini al signore della Scala pel possesso di Lucca, e si mandarono cinquanta ostaggi a Ferrara dalle due parti contraenti, per rimanervi fino alla totale esecuzione del trattato[377].
I Pisani, che dal canto loro erano entrati in negoziazioni con Mastino, ma che non avevano potuto offrire così alto prezzo, intesero con ispavento che i naturali loro nemici erano in procinto di acquistare così importante città, e di chiuderli con tale acquisto da ogni lato. La signoria avendo adunato un consiglio generale nella chiesa cattedrale, il priore degli anziani si alzò per aprire la deliberazione.
«Signori, egli disse, noi vi abbiamo chiamati presso di noi per avvertirvi che i Fiorentini hanno comperato Lucca: essi pretendono che tale acquisto loro aprirà ben tosto le porte di Pisa, e già ne minacciano di porre steccati fino al piede delle nostre mura, e ridurci in servitù colle privazioni e colla fame: e finalmente quando la nostra città si sarà loro resa, di spianare le fortificazioni, di distruggere tre de' suoi principali quartieri, conservandone un solo, cui daranno il nome di Firenzuola. Vedete voi medesimi ciò che convenga di fare.»
A tali parole tutta l'adunanza fremè di sdegno. Invano alcuni oratori tentarono di richiamarla a pacifici sentimenti.
«È a Lucca, risposero, che dobbiamo marciare; per la guerra impegneremo le nostre fortune e le nostre vite; per la guerra prenderanno le armi anche le nostre spose, e Dio accorderà la vittoria al diritto contro l'orgoglio e l'iniquità!» Allora gli Anziani fecero votare per la proposizione di dichiarare la guerra ai Fiorentini, e fu adottata quasi unanimamente[378].
Gli esiliati fiorentini che si erano rifugiati in Pisa, procurarono a questa repubblica l'alleanza di tutti i signori che avevano presa parte alla loro trama nel precedente anno, i conti Guidi, gli Ubaldini, Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì, e tutti i Ghibellini di Toscana e della Romagna. Unironsi inoltre ai Pisani nemici di Mastino il doge di Genova, i Gonzaga, i Carrara, i Coreggieschi di Parma, ed in prima il signore di Milano, Luchino Visconti, che mandò loro due mila cavalli sotto la condotta di Giovan Visconti d'Oleggio, suo nipote. Anche prima che arrivassero le truppe sussidiarie, un'armata pisana, composta delle milizie di due quartieri della città, sostenuta da mille duecento cavalli, e da cinquecento arcieri, aveva invaso lo stato di Lucca nel mese di luglio, ed occupati Ceruglio, Montechiaro, Porcari, ed alcuni ponti sul Serchio[379].
I Fiorentini non si erano preparati a sostenere una non preveduta guerra; ed i Lucchesi non potevano mantenersi in campagna; onde l'armata Pisana, dopo avere occupate tutte le strade di Lucca, strinse la città stessa con una linea fortificata di dodici miglia di circuito, quasi senza incontrare resistenza. Era questa linea formata da due profonde fosse, difese da una palafitta con ridotti di piazza in piazza. L'armata dividevasi in tre campi, posti di fronte alle tre porte della città, ed il frapposto terreno tra l'un campo e l'altro era stato da ogni luogo appianato ed aperto alla cavalleria. Dopo pochi giorni di servizio le milizie dei due quartieri di Pisa che formavano l'assedio di Lucca, venivano rilevate da quelle degli altri due[380]. Intanto si presentò innanzi a Pisa il Visconti d'Oleggio colle truppe sussidiarie mandate dal signore di Milano. Si dà per certo che fosse segretamente intenzionato di occupare la città che avevalo chiamato in suo soccorso; ma la signoria, che n'ebbe sospetto, aveva spediti ufficiali incontro alla cavalleria per pagarle un doppio soldo nell'istante che giugnerebbe alle porte e farla all'istante partire per raggiugnere l'armata.
I Fiorentini avevano consumati due mesi nell'adunare un'armata capace di attaccare i Pisani nello stato di Lucca. Quest'armata composta di due mila cavalli al soldo della repubblica, di mille seicento ausiliarj somministrati in parte da Mastino della Scala, e di dieci mila pedoni, entrò finalmente in campagna verso la metà di agosto comandata da Matteo di Pontecarali di Brescia, in allora capitano della guardia. Questo generale non era nè pel suo rango, nè per la sua esperienza fatto per così grande impresa, e non tardò a darne prova. Dopo aver fatta inoltrare la sua armata tra Pisa e Lucca in un luogo acconcio a tagliare al campo degli assedianti ogni comunicazione colla loro patria, si ritirò per ripararsi dalle violenti piogge che lo sorpresero[381]. Entrò in appresso nel territorio lucchese per Val di Nievole, seco conducendo i commissarj di Mastino che dovevano dargli il possesso di Lucca. Il signore di Verona, da che seppe essere questa città in pericolo, aveva abbassate le sue pretese; egli la cedeva ai Fiorentini per cento cinquanta mila scudi, e l'avrebbe ceduta ancora a più basso prezzo, se questi avessero saputo tirar profitto dalle circostanze. Pontecarali, avvicinandosi alle linee pisane, s'aprì il passaggio sopra un punto, che attaccò di concerto cogli assediati, e fece entrare in città trecento cavalli e cinquecento pedoni coi commissarj dei due governi; ma invece di approfittare dell'ottenuto vantaggio attaccando l'armata pisana, che il suo avvicinamento aveva già posta in qualche disordine[382], si ritirò sulle colline di Gragnano e di san Gennaro, per isloggiarne alcuni corpi pisani che le occupavano.
Lucca essendo stata consegnata ai commissarj fiorentini da quelli di Mastino, e congedato la guarnigione ghibellina per far luogo alla guelfa, la signoria di Firenze ordinò al suo generale di dar battaglia. Di fatti Pontecarali sfidò i Pisani a battaglia, e questi l'accettarono pel giorno 2 ottobre; onde svelsero le palafitte, per non avere altra difesa che il proprio valore, ed ogni armata appianò dal canto suo il terreno che la separava dal nemico[383].
Alcuni giovani appartenenti alle più nobili famiglie di Siena che si ritrovavano in qualità di ausiliarj nel campo fiorentino, si fecero armare cavalieri la stessa mattina del 2 ottobre prima che cominciasse la battaglia, e subito si posero nelle prime file della prima divisione condotta da Pontecarali. Questa divisione si condusse valorosamente, rompendo le due prime linee pisane che le si opposero consecutivamente, e facendo prigionieri la maggior parte de' loro capi, fra i quali Visconti d'Oleggio. Ma la seconda linea de' Fiorentini non si mosse quando doveva farlo, ed ingannata da un falso avviso sull'esito del precedente combattimento, fuggì senza avere abbassata la lancia. Ciupo degli scolari, che comandava la terza linea dei Pisani, piombò in allora sulla prima divisione fiorentina, i di cui soldati trovavansi in parte spossati dai due sostenuti combattimenti, ed in parte dispersi nell'inseguire i nemici fuggitivi: non gli fu quindi difficile di romperli affatto e di ricuperare tutti i prigionieri, tranne Visconti d'Oleggio, ch'era di già stato mandato all'altro corpo d'armata, e di far prigioniero con mille soldati il generale de' Fiorentini Matteo di Pontecarali[384].
Dopo questa disfatta si affrettò di lasciare il territorio di Lucca, e la signoria, rinunciando per il presente anno ad un secondo attacco, cercò di afforzarsi con nuove alleanze, per ricominciare più vigorosamente la guerra nella seguente campagna. Prima di tutto ella si volse al re Roberto di Napoli, che da lungo tempo non soddisfaceva agli obblighi contratti nelle precedenti alleanze, e acconsentì pure, per fargli cosa grata, di riconoscere i pretesi suoi diritti sopra Lucca[385]; ma perchè Roberto non si mosse per sostenere queste sue pretese nè per difendere i suoi alleati, i Fiorentini scordarono gli antichi odj, come altri aveva a riguardo loro scordata un'antica amicizia, e promossero l'alleanza d'un uomo di cui eransi fin allora mostrati acerbissimi nemici.
Luigi di Baviera, sempre scomunicato dal papa, sempre da lui spogliato di tutte le dignità, non lasciava perciò di regnare come imperatore sopra una vasta parte della Germania. Erasi egli intimamente unito al duca d'Austria, mentre Giovanni, re di Boemia, dichiaravasi suo nemico. La guerra che i Fiorentini avevano fatta al Boemo diventava per Luigi un motivo di scordare la guerra fatta prima a lui medesimo: altronde, dopo l'assenza di quattordici anni, l'imperatore desiderava di rivedere l'Italia, onde entrò in negoziazioni per condurre, a condizione di pagargli un considerabile sussidio, un'armata in servigio de' Fiorentini. I suoi ambasciatori giunsero per quest'oggetto in Firenze, e furono magnificamente ricevuti; ma mentre un tale trattato incontrava di sua natura molte difficoltà e veniva inoltre ritardato da nuovi affari che occupavano l'imperatore in Germania, la sua pubblicità arrecò ai Fiorentini gravissimi danni, perchè si cominciò a tenere per indubitato che fossero in procinto di abbandonare la parte guelfa per allearsi colla ghibellina. I nobili napoletani, che avevano fidate le loro sostanze al mercanti di Firenze, temettero una rivoluzione che obbligherebbe il loro re ad entrare in guerra contro la repubblica, e rivollero i loro capitali; la quale inaspettata domanda fu cagione del fallimento delle migliori case di Firenze[386].
Frattanto Malatesta de' Malatesti di Rimini aveva preso il comando dell'armata fiorentina; ed il 27 marzo del 1342 si pose in campagna accampandosi a Gragnano sui poggi che separano la Valle di Nievole dal piano di Lucca. Colà trovandosi ebbe modo di avere segrete corrispondenze nel campo nemico, ad oggetto di sedurre i Tedeschi che militavano per i Pisani. Ma questi avevano nominato loro capitano Nolfo di Montefeltro, parente di Malatesta, anche esso romagnolo, e non meno di lui addestrato negli intrighi e nelle trame, di cui la Romagna fu sempre maestra. Durante un mese e mezzo cercarono d'ingannarsi vicendevolmente, senza venir mai ad un fatto d'armi. In pari tempo i Fiorentini, sospettando che i Tarlati, signori di Pietra Mala, avessero tramato di sorprendere Arezzo, fecero sostenere in prigione i principali capi di questa famiglia: ma molti altri essendosi rifugiati ne' loro castelli, li fecero ribellare alla repubblica e spiegarono le insegne ghibelline[387].
Mentre ciò accadeva, Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, quello stesso che nel 1326 era stato in Firenze luogotenente del duca di Calabria, andando dalla Francia a Napoli passò per Firenze. Era Gualtieri nato in Grecia, ed apparteneva a quella tralignata stirpe ch'era in Levante succeduta ai primi crociati, indicati perciò con ingiurioso soprannome. Era di bassa statura, ed aveva un ributtante aspetto, che nascondeva uno spirito sospettoso e falso, un cuor perfido, costumi corrottissimi. La sua ambizione non sentiva nè il freno della morale, nè quello della religione, e la sola avarizia avanzava l'ambizione: per dirlo in una parola, di tutte le virtù che avevano resi gloriosi i suoi antenati, non aveva ereditato che il valor militare; qualità abbagliante, sebbene non rara, compatibile con ogni sorta di vizj, e talvolta ancora colla stessa viltà. Il ducato d'Atene era stato tolto a suo padre dai Catalani l'anno 1312[388]; il ducato di Lecce, in Puglia, gli rimaneva, e quello era il solo suo patrimonio. Dopo il 1326 la compagnia de' Catalani essendosi sottomessa al re di Sicilia, tre figliuoli di Federico avevano successivamente avuto il titolo ed il governo del ducato d'Atene[389]. Nondimeno Gualtieri era tenuto in molta considerazione perchè supponevasi che avesse il favore dei re di Francia e di Napoli; e quest'ultimo nelle negoziazioni avute colla repubblica fiorentina le aveva annunziato che avrebbe dato a Gualtieri il comando della truppa che disponevasi a mandare in di lei soccorso; onde la signoria lusingavasi di vincere finalmente l'avarizia e l'irresoluzione dell'antico alleato, affidando qualche impiego a colui ch'era stato favorito di suo figliuolo, e che adesso veniva indicato come suo luogotenente[390].
Gualtieri di Brienne recossi effettivamente all'armata fiorentina, che il Malatesta teneva accampata a san Pietro in Campo, presso Lucca, e fu colà raggiunto da molti baroni di Luigi di Baviera, che venivano in qualità di volontarj a militare sotto le bandiere di Firenze. Per le dirotte piogge del mese di maggio le acque del Serchio cresciute a dismisura, avevano rotti gli argini, e resa l'armata affatto inattiva, sebbene i Fiorentini avessero due volte più forze dei Pisani. Non potendo far altro, il duca d'Atene ed i baroni tedeschi si segnalarono vicendevolmente in alcune scaramucce, nelle quali se fossero stati sostenuti da Malatesta, avrebbero più d'una volta potuto romper tutta l'armata pisana: ma il Malatesta diede all'opposto ai Pisani quanto tempo volevano per afforzare le loro linee; e quando vide che più non potevano essere vantaggiosamente attaccati, e che le inondazioni del Serchio impedivano i trasporti delle vittovaglie, s'allontanò da Lucca il 29 di maggio, riconducendo la sua armata in Val d'Arno. Coloro che comandavano a Lucca per parte della repubblica fiorentina, vedendo che l'armata che doveva liberarli, non aveva potuto far levare l'assedio, e mancando affatto di munizioni, capitolarono, cedendo la città ai Pisani il giorno 6 di luglio del 1342[391].
Il malcontento del popolo manifestossi in Firenze con una terribile violenza, allorchè fu veduta entrare la potente armata di Malatesta che aveva lasciato prender Lucca sotto i suoi occhi; il pubblico accusava a vicenda d'inesperienza e di viltà il generale, d'ignoranza, di presonzione o di venalità i signori della guerra. Se avesse comandato, si diceva, il duca d'Atene, non avrebbe sofferta una così dannosa inazione, nè così vile ritirata; ma questi, a dispetto della fortuna de' Fiorentini che aveva loro mandato un così riputato generale, era stato ridotto al rango di semplice spettatore dei mancamenti e dell'ignoranza di un altro. Convenne, per soddisfare al popolo, dare all'istante il titolo di capitano di giustizia al duca d'Atene; ed allorchè il 1º agosto terminò la condotta del Malatesta, si dovette confidare al duca il comando generale dell'armata. In forza delle quali attribuzioni ebbe questi il diritto di alta giustizia nella città e nel campo[392].
Due fazioni erano di que' tempi in Firenze che miravano a distruggere la pubblica libertà. Formavasi la prima dell'antica nobiltà. Esclusi i nobili dal governo da un'ordinanza di giustizia, vedevansi esposti ad arbitrarie e talvolte ingiuste procedure qualunque volta il solo loro nome veniva pronunciato in qualche sommossa, e la gelosia del popolo rimproverava loro perfino il potere di cui esso gli aveva spogliati: perciò erano essi disposti a tutto intraprendere per rovesciare quella libertà cui essi non partecipavano. Un'altra non meno potente fazione trovavasi alla testa del governo, indicata col nome di popolani grassi; i quali in una repubblica, le di cui leggi erano tutte democratiche, avevano trovato il modo di arrogarsi esclusivamente la sovranità che doveva appartenere a tutto il popolo. La loro oligarchia borghese era oggetto dell'universale gelosia; erano accusati d'imprudenza e d'incapacità nel trattare gli affari, e di venalità negl'impieghi. Il Villani attesta che costoro s'arricchivano con vergognosa impudenza, appropriandosi il danaro dello stato, e che a Mastino della Scala per la compra di Lucca avevano dati cinquanta mila fiorini meno della somma portata nel conto. Questi per deviare la pubblica censura dalla loro amministrazione, progettarono di abbandonare il popolo alle vessazioni di un giudice crudele, lusingandosi di nascondere le azioni loro dietro questa subalterna tirannide. Sperarono di dirigere a voglia loro il duca d'Atene, come due anni prima avevano diretto Jacopo Gabrielli, senza che venisse perciò loro rimproverata la crudeltà del capitan generale. Eccitavano dunque segretamente Gualtieri ad abusare del potere ch'essi medesimi gli avevano affidato. Ma questi più di loro esperimentato nell'arte degl'intrighi, più di loro straniero alla pubblica ruina ed alle private disgrazie, si offerse come strumento a que' medesimi, di cui voleva essere padrone, promettendo di servire a tutte le passioni di que' malaccorti che di già sagrificava alla propria avarizia ed ambizione.
Ma le prime sentenze capitali che pronunciò il duca d'Atene, lasciarono travedere le sue intenzioni di non limitarsi ad un potere subalterno. Egli fece decapitare Giovanni de Medici che aveva il comando della fortezza di Lucca quando s'arrese ai Pisani, ed a Guglielmo Ottoviti, governatore d'Arezzo, che con alcune ingiustizie aveva provocata la sommossa dei Tarlati; sottopose a disonoranti processi Riccardo dei Ricci e Naddo Rucellai, accusati d'arricchirsi a spese del tesoro, e condannati avendoli ad enormi ammende a stento si lasciò piegare a salvar loro la vita[393]. Le quattro famiglie così duramente trattate dal duca nel primo mese della sua amministrazione facevano parte di quella dominante oligarchia, cui lo stesso Gualtieri andava debitore della sua autorità. Mentre le pronunciate sentenze spargevano il terrore nella classe de' grassi borghesi, rallegravano la nobiltà ed il popolo, soddisfacendo alla gelosia dei primi, ed all'odio degli altri. La scure della giustizia vedevasi posta in mano al vendicatore degli ordini oppressi, innanzi al quale il favore e l'intrigo restavano impotenti, ed i meglio radicati abusi sarebbero stati distrutti. Avendo Gualtieri dato a conoscere la strada che voleva tenere, e quali parti desiderava di rendersi amiche, accolse favorevolmente i loro progetti e s'unì coi più stretti vincoli ai nemici del governo. Promise ai grandi di far rivocare l'ordinanza di giustizia, se col mezzo loro poteva ottenere più stabile dominio, e con tale promessa le principali famiglie della nobiltà si dichiararono per lui[394]. Poi ch'ebbe guadagnata la nobiltà, si volse ad alcuni mercanti in procinto di fallire, promettendo loro grosse sovvenzioni dal tesoro dello stato onde potessero sostenere il ritardato pagamento de' loro crediti; e molte delle più riputate famiglie borghesi presero a favorirlo[395]: finalmente non contento di farsi strumento dell'odio e delle vendette del basso popolo contro la classe superiore, lo accarezzò mostrandosi popolare con affettata famigliarità e promettendogli di metterlo a parte de' pubblici onori.
Frattanto l'ufficio de' venti commissarj, o signori della guerra nominati per l'acquisto di Lucca, era spirato in principio di settembre; onde i partigiani del duca, liberati dalla loro sopraveglianza, ardivano più apertamente manifestare i loro progetti; dichiaravano che la repubblica aveva bisogno di essere riformata; che l'esito dell'ultima guerra dava a conoscere la totale corruzione del governo; che soltanto una mano vigorosa poteva svellere gli abusi, e riconciliare le parti esacerbate le une contro le altre; finalmente che il duca d'Atene aveva già fatto esperimento della sua capacità per così eminente carica, che richiedeva appunto quella fermezza di carattere, e quella giustizia, che aveva fin qui mostrata nella sua amministrazione. Simili discorsi ripetuti nelle adunanze de' corpi de' mestieri, e nelle taverne, ove i soldati del duca frammischiavansi al popolo per corromperlo, incoraggiarono alcuni grandi a proporre ai priori di offrire al duca la signoria di Firenze.
Il gonfaloniere fece, prima di rispondere, adunare il collegio de' dodici buoni uomini ed i sedici gonfalonieri delle compagnie della milizia, onde deliberassero colla signoria; e dopo aver manifestati a questi consiglieri i pericoli che sovrastavano alla pubblica libertà, si volse ai gentiluomini che avevano parlato per il duca. «Con estremo dolore, loro disse, vi vediamo dimentichi della virtù de' vostri antenati, e de' costumi della vostra patria; la repubblica, per la quale chiedete così estremo rimedio, non conosce verun altro pericolo fuor di quello, cui l'esponete al presente. Andate non pertanto, e dite al duca d'Atene, che in altri assai più infelici tempi che questi non sono, i vostri ed i nostri maggiori chiesero più volte ajuto a stranieri principi; i Ghibellini a Federico ed a Manfredi; i Guelfi ai due Carli ed a Roberto; ma non mai, per grande che fosse la dignità del monarca ed il pericolo dello stato, non mai fu sagrificata la pubblica libertà; giammai non fu dato a Firenze un signore sovrano. Le nostre consorti ed i nostri figliuoli non sapranno mai perdonarci la vergogna della schiavitù; noi medesimi mai non rinuncieremo alla felicità di vivere liberi»[396].
Il duca d'Atene si affrettò di calmare quel movimento d'entusiasmo che risvegliato aveva il discorso del gonfaloniere, assicurando ch'egli medesimo non desiderava un potere che sovvertisse la libertà dello stato, che soltanto chiedeva di aver libere le mani per breve tempo, finchè avesse potuto fare quel bene di cui sentivasi capace; che non pretendeva cosa insolita a Firenze, e che un'autorità dittatoriale in tempi calamitosi era stata più volte accordata a principi che assai meno di lui amavano la repubblica. Mentre rassicurava in tal modo i consiglieri della signoria, i suoi araldi d'armi sparsi per la città chiamavano il popolo a parlamento sulla piazza di santa Croce per deliberare intorno ai bisogni della repubblica.
L'autorità sovrana del parlamento era riconosciuta in tutte le repubbliche italiane; il governo non agiva mai che quale rappresentante della nazione, onde cessava il suo potere tosto che la nazione medesima era adunata. Non si era potuto far capire al popolo che il numero de' suoi suffragi non è l'espressione della sua volontà; che, supponendo ancora tutti i cittadini eguali, nè tutti vogliono, nè tutti sentono egualmente, e che il popolo non è sovrano che allora quando l'interesse di tutte le sue classi è ugualmente sacro, non quando la loro voce è confusa col clamore popolare. Per altro tutti i governi sapevano che l'interesse nazionale non è mai con tanta facilità sacrificato da qualunque altra adunanza, come da quella della nazione medesima; e che mentre i consigli mantenevansi fedeli al proprio dovere, i parlamenti avevano frequentemente acconsentito alla ruina della libertà, o alla sovversione della costituzione. I priori di Firenze temettero che il parlamento dasse la repubblica in mano al duca d'Atene. Essi non potevano impedire una convocazione che Gualtieri aveva diritto d'ordinare come capitano del popolo; si rivolsero perciò subito a lui medesimo, onde impegnarlo a ratificare solennemente le promesse che andava facendo. Gualtieri vi acconsentì di buon grado, convenne che i priori aprissero le deliberazioni, a condizione che eglino chiedessero al popolo la proroga per un anno dell'autorità data al duca d'Atene cogli stessi privilegi accordati sedici anni prima al duca di Calabria, e sotto le stesse riserve e restrizioni. Gualtieri obbligò la sua parola di cavaliere a non chiedere nè accettare maggiori poteri, quand'anche gli venissero dal popolo offerti. Questa vicendevole convenzione venne ridotta a formale contratto, ratificata dai notai e confermata con giuramento[397].
All'indomani 8 settembre, giorno della festa della Vergine, il popolo si adunò nella piazza del palazzo, ove giunse il duca in mezzo a cento venti uomini d'armi ed ai trecento fanti che formavano la sua guardia; ma tutti i nobili, tranne la famiglia della Tosa, avevano prese le armi, ed ingrossato il suo corteggio. I priori e gli altri magistrati scesero di palazzo e si collocarono presso al duca innanzi alla balaustrata di ferro. Francesco Rustichelli, uno de' priori, fece, a nome della signoria, la proposizione, convenuta il giorno avanti, di prorogare per un anno il potere del duca. Allora molti della più abbietta plebe, appostati da Gualtieri, interruppero all'istante il priore con grida da forsennati, chiedendo che gli si accordasse a vita la sovrana autorità. Nello stesso tempo, strettisi intorno a lui, lo sollevarono sulle loro braccia, mentre le guardie atterravano le porte del palazzo, e lo portarono sulla tribuna nelle sale riservate ai priori. Il popolaccio avido di oltraggiare ciò che aveva sempre rispettato, costrinse la signoria a ricoverarsi in una sala terrena, e poco dopo ad uscire di palazzo; diede in mano ai nobili il libro delle ordinanze di giustizia perchè lo facessero in pezzi, strascinò nel fango il gonfalone dello stato, indi lo abbruciò sulla pubblica piazza. Per ultimo gittò ovunque a terra gli stemmi del comune di Firenze, sostituendogli le insegne del duca[398].
Pochi giorni dopo il duca approfittò dello spavento dei consigli per far da loro ratificare quella signoria a vita, che si era arrogata colla forza. Invece di risguardare le diverse città conquistate da Firenze, come una dipendenza del medesimo stato, egli si fece successivamente dare dai popoli delle rispettive città le signorie di Arezzo, di Pistoja, di Colle di Val d'Elsa, di san Gemignano e di Volterra, onde lusingare la vanità loro e ravvivare l'animosità che conservavano contro i Fiorentini. In pari tempo il duca chiamò presso di sè tutti i Francesi ed i Borgognoni che servivano in Italia, e adunò in tal modo sotto i suoi ordini ottocento cavalieri suoi patriotti: fece inoltre venire dalla Francia molti suoi parenti ed amici per affidar loro i comandi militari. In tal modo egli credeva d'avere solidamente fondata la sua signoria; ma Filippo di Valois, cui il viaggio a Napoli del duca d'Atene era stato annunziato come un pellegrinaggio, rispose a chi gli parlava della recente sua grandezza: «il pellegrino ha trovato albergo, ma in cattiva locanda[399] ».
Speravano i Fiorentini che il duca d'Atene li vendicarebbe almeno dell'affronto ricevuto sotto Lucca; ma il duca era povero, e voleva prima di tutto impinguare il suo tesoro, per rassodare il suo dominio se gli veniva fatto di conservarlo, o per avere un compenso se gli accadeva di perderlo. La guerra sempre dispendiosa non poteva perciò piacergli; altronde l'avrebbe obbligato ad abbandonare la città di fresco sottomessa, che avrebbe approfittato del primo rovescio per ricuperare la libertà. Propose quindi ai Pisani ed ai loro alleati condizioni di pace, che furono subito accettate. Loro cedette per quindici anni la sovranità di Lucca, riservando a sè la nomina in tutto questo tempo del podestà. Dopo tale epoca Lucca doveva tornare libera; essere richiamati tutti i Guelfi fuorusciti, e posti in possesso dei loro beni; ma in pari tempo dovevano pure rientrare in Firenze tutti i suoi esiliati, e rendersi i prigionieri senza taglia: Pisa inoltre si obbligava a pagare un annuo tributo di otto mila fiorini, ed accordava per cinque anni l'assoluta franchigia de' suoi porti ai Fiorentini[400].
Come tale trattato, che si pubblicò il 14 ottobre nelle due città, non cancellava pei Fiorentini la vergogna delle ultime disfatte, scontentò perfino i partigiani del duca. Invano cercava questi di accarezzare il popolaccio, non chiamando agl'impieghi che persone della più bassa classe, gli artigiani de' mestieri minori, che appunto allora vennero a Firenze chiamati ciompi, voce derivata dal viziato vocabolo di compères che loro davano nelle orgie loro i soldati francesi[401]. Ma gl'impieghi del duca più non appagavano nè meno l'ambizione della plebaglia. Gualtieri aveva cacciati i priori dal loro palazzo, e rilegatili in quello in addietro abitato dal giudice esecutore; gli aveva spogliati di ogni appariscenza e di ogni autorità; distrutto l'ufficio de' gonfalonieri di compagnia, levati i gonfaloni, e distrutta egli stesso la ricompensa che mostrava di promettere al popolaccio. In appresso annullò tutte le ordinanze intorno alle arti e mestieri, e successivamente indispose tutte le classi del popolo, tranne i macellai, i mercanti di vino ed i conduttori delle lane, de' quali cercava di conservarsi l'attaccamento con vili adulazioni.
Accrebbero ben tosto il malcontento altre novità: voleva rendere il pubblico palazzo da lui abitato una fortezza capace di tenere in freno la città; ed a tale oggetto fece atterrare molte case vicine; altre fece occupare dai suoi soldati cacciandone i proprietarj senza dar loro verun compenso. Ai creditori dello stato levò le gabelle loro date in pagamento, appropriandosene i profitti; accrebbe l'imposta del territorio, che portò dai trenta mila agli ottanta mila fiorini; assoggettò i più ricchi cittadini a prestiti forzati, e stabilì nuove gabelle delle prime assai più onerose; di modo che in dieci mesi e mezzo cavò da Firenze più di quattrocento mila fiorini, de' quali ne mandò più di duecento mila in Puglia o in Francia[402].
Non era ignoto al duca d'Atene il malcontento da lui eccitato; onde si assicurò i soccorsi degli stranieri contro i suoi sudditi, naturali nemici di un tiranno, facendo, in primavera del 1343, alleanza coi Pisani, con Mastino della Scala, col marchese d'Este e col signore di Bologna. Obbligavansi i confederati a mantenere reciprocamente il loro governo ed a difenderlo contro tutti i nemici: e questa lega parve formarsi tra tutti i tiranni d'Italia per privare affatto questa contrada della sua libertà. Ma il duca d'Atene di mano in mano che vedeva rendersi più stabile la sua signoria, abbandonavasi con minore riserva alle proprie passioni. Le mogli de' più riputati cittadini erano esposte alle seduzioni che loro preparava il suo libertinaggio; e gli uomini che osavano lagnarsi, coloro che domandavano gli antichi privilegi, o in qualsiasi altro modo rendevansi sospetti al tiranno, erano condannati ad atrocissimi supplizj[403].
Il potere di un solo era stato creato dalla discordia degli ordini della nazione; ma tutte le classi de' cittadini provavano a vicenda l'oppressione e si adiravano contro il giogo che le opprimeva. I grandi che avevano procurata al duca la signoria, erano disgustati della sua ingratitudine, vedendo che non dava loro parte alcuna nel governo. La superior classe de' borghesi, che prima di lui era la sola potente, l'odiava mortalmente trovandosi da lui ingannata e spogliata degl'impieghi; nè meno di questi erano irritati i borghesi del second'ordine a cagione dell'accrescimento delle imposte, del sovvertimento d'ogni giustizia, e pei vergognosi trattati fatti in nome della loro patria; finalmente il minuto popolo, sedotto da ineseguibili promesse, aveva aperti gli occhi; all'odio contro i suoi magistrati, era succeduta la compassione, onde la gioja che a principio avevano manifestata pei supplicj ordinati dal duca, eccitava adesso l'orrore. Una carestia probabilmente non imputabile a Gualtieri accresceva il malcontento del popolo. Firenze, dice un antico suo proverbio, non si muove se tutta non si duole. Firenze soffriva tutta intera, e tutta intera si sollevò. Ogni classe era separatamente oppressa; ed ogni classe cercò separatamente di liberare la patria senza l'altrui soccorso. Tramaronsi molte congiure senza che le une avessero sentore delle altre; ma tre furono più potenti delle altre, e più delle altre a portata di presto eseguire i loro progetti. Capo della prima era lo stesso vescovo di Firenze, di casa Acciajuoli, e vi entravano quasi tutti i grandi e spezialmente i Bardi, i Rossi, i Frescobaldi, gli Scali, ed alcuni potenti borghesi, come gli Altoviti, i Magalotti, gli Strozzi ed i Mancini. Questi congiurati erano uniti coi Pisani, coi Sienesi, coi Perugini e coi conti Guidi. Erano intenzionati d'attaccare il duca d'Atene nel proprio palazzo nell'atto che riunirebbe il consiglio; ma il duca che facevasi ogni giorno più sospettoso, licenziò una parte delle sue guardie, tra le quali trovavansene molte guadagnate dai congiurati, e loro sostituì nuovi soldati più fedeli ed in maggior numero, onde porsi in sicuro contro qualunque attacco; fece inoltre chiudere con cancelli di ferro tutti i passaggi pei quali i congiurati, delusi ne' loro progetti precedenti, pensavano d'entrare in palazzo[404].
Dirigevano la seconda congiura Manno e Corso Donati coi Pazzi, coi Cavicciuoli ed alcuni Albizzi. Avevano questi determinato d'attaccare il duca il dì della festa di san Giovanni nell'atto ch'entrerebbe nel palazzo degli Albizzi per vedere una corsa di cavalli. Ma il duca ebbe qualche sospetto del pericolo, e non v'andò.
Principali della terza congiura erano Antonio degli Adimari, i Medici, i Bordoni, gli Oricellai, gli Aldobrandini e moltissimi altri ricchi borghesi. Saputosi da questi che il duca manteneva una corrispondenza amorosa in una delle case Bordoni, fecero alcuni preparativi per sbarrare la strada, e posero cinquanta uomini de' più coraggiosi alle due estremità, i quali dovevano chiudere l'uscita tosto che il duca sarebbe entrato nella casa dei Bordoni; ma Gualtieri che rendevasi ogni giorno più sospettoso, cominciò appunto allora a farsi accompagnare, anche nelle visite galanti, da cinquanta cavalli e da cento pedoni ben armati, che restavano di guardia presso la casa in cui entrava; ed erano tali da sostenere vantaggiosamente un primo attacco.
Le tre congiure, sebbene continuamente impedite dal timore o antivegenza del duca, sussistevano sempre, e meditavano nuove imprese, quando la terza fu scoperta per l'imprudenza d'un uomo d'armi ch'essa aveva guadagnato. Tostochè il duca ebbe un leggero sospetto, fece il 18 luglio arrestare due oscuri cittadini del numero de' congiurati, e per mezzo della tortura strappò loro di bocca la confessione della congiura, ed il nome di Antonio di Baldinaccio degli Adimari che n'era capo; il quale fu subito per ordine del duca posto in prigione ed avvisato di prepararsi alla morte[405].
Ma la notizia dell'imprigionamento di così distinto cittadino, e dell'imminente suo pericolo, sparse il terrore in tutta la città: ciascuno trovavasi a parte di qualche congiura, o conoscevasi colpevole d'avere assistito a qualche adunanza in cui disponevansi nuove trame; ciascuno credevasi compromesso, e cercando di porsi in istato di difesa, mostrava di essere reo. Il duca, veduto questo generale movimento, s'accorse che tutta la città era contro di lui congiurata, e trovandosi troppo debole per incrudelire all'istante contro coloro che aveva fatti sostenere, volle prima di tutto assicurarsi i soccorsi de' suoi alleati, ond'essere poi in istato d'avviluppare i capi di tutte le congiure in una sola vendetta. Fece chiedere a Taddeo Pepoli, signore di Bologna, di spedirgli alcuni rinforzi, e quando seppe che trecento cavalli eransi avanzati negli Appennini per venire in suo ajuto, ordinò a trecento de' principali cittadini di Firenze di portarsi all'indomani, 26 luglio, nel suo palazzo, per deliberare con lui intorno alla sorte de' colpevoli. Per l'adunanza di questo consiglio scelse una sala le di cui finestre erano difese da cancelli di ferro, ed ingiunse alle sue guardie di chiudere le porte del palazzo tosto che sarebbersi adunati i cittadini, di assalirli all'impensata ed ucciderli, promettendo loro in premio di tanta barbarie il sacco della città[406].
Tra coloro che il duca aveva chiamati nel suo consiglio, trovavansi i principali capi di tutte le congiure, i quali avevano ragione di credere il tiranno almeno in parte informato delle loro trame, e non erano altrimenti disposti di porsi essi medesimi nelle sue mani. Altronde un confuso bucinamento dei preparativi che facevansi in palazzo erasi sparso in tutta la città, e ne accresceva ii terrore. Fin allora eransi tutti per timore taciuti, ma un nuovo motivo di timore più grande e più imminente fece rompere questo silenzio; tutti presero a domandare consiglio o assistenza ai loro vicini, ai loro amici; tutti fecero conoscere la situazione in cui si trovavano; durante quella notte tutti i diversi conciliaboli comunicarono assieme, ed i Fiorentini vennero in chiaro che tre congiure indipendenti le une dalle altre erano in procinto di scoppiare nello stesso tempo. L'occasione di sorprendere il tiranno non era più sperabile, ma le forze per attaccarlo apertamente erano maggiori assai che non lo avevano creduto gli stessi congiurati. Tutti coloro che il duca aveva chiamati, convennero prima di tutto di non andare al consiglio, tenendosi invece armati nelle proprie case coi loro servi, clienti ed amici. Intanto molte persone s'andavano in silenzio adunando senza che si facesse per le strade verun movimento: seicento cavalli del duca occupavano diversi quartieri della città per mantenervi la quiete, e gli ajuti che aspettava da Bologna e dalla Romagna avevano di già passata la sommità degli Appennini. Tutto ad un tratto alcuni oscuri plebei diedero il segno della rivoluzione gridando alle armi sulla piazza di mercato vecchio ed alla porta di san Pietro. A questo grido tutti i palazzi di Firenze s'aprirono, e le truppe che vi si erano adunate in silenzio marciarono rapidamente alle loro piazze d'armi; le strade furono barricate, ovunque spiegati gli stendardi del comune e del popolo, e tutti i cittadini chiamaronsi e si risposero col grido di viva il popolo, il comune, la libertà.
La cavalleria del duca, sorpresa ne' diversi quartieri della città, faceva ogni sforzo per ritirarsi verso il palazzo ed unirsi presso al duca, ma non ve ne giunsero che trecento, essendone stati uccisi molti, altri fatti prigionieri e spogliati delle loro armi. Frattanto il principale corpo della cavalleria del duca occupava la piazza de' priori innanzi al palazzo, onde il popolo vi accorse affollato, e, barricando tutte le strade che vi conducevano, impedì alla cavalleria d'attaccare i cittadini, e di scorrere la città. Allora tutte le case che circondano la piazza si aprirono ai cittadini armati per la libertà; tutti i tetti si cuoprirono di assalitori che passando dagli uni agli altri, lanciavano pietre e tegole contro i soldati, bersagliati ancora dagli arcieri che stavano alle finestre. La cavalleria chiusa in piazza ed esposta ad una grandine di saette, fu avanti sera forzata a fuggire in palazzo, abbandonando i cavalli al popolo, che occupò pure la piazza medesima.
Intanto era stato attaccato e preso da altri insorgenti il palazzo del podestà, aperte le prigioni della Stinca e di Volognano, e liberati i prigionieri. Dall'altra parte dell'Arno gl'insorgenti avevano occupate le porte, le mura ed i ponti e convertito il loro quartiere in una fortezza, nella quale erano disposti a difendere la loro libertà, se i loro concittadini rimanevano altrove soccombenti; ma in sul fare della sera attraversarono essi medesimi i ponti, distrussero le barricate, e riaprirono le comunicazioni cogli altri quartieri della città; poi si avanzarono verso la piazza dei priori ripetendo la parola che aveva servito di segnale all'insurrezione: muora il duca, viva il comune e la libertà! Ebbe allora Firenze sotto le armi mille cittadini a cavallo, e dieci mila, che, quantunque a piedi, erano armati di corazze e di barbuti come i cavalieri. Quelli non avevano intera armatura, o soltanto gli stromenti che avevano mutati in armi non furono contati.
Il duca assediato nel suo palazzo da forze tanto superiori, cercò di calmare il popolo. Armò cavaliere di propria mano Antonio degli Adimari che aveva prima fatto imprigionare, e lo mandò verso i congiurati per cercar di calmare la loro collera. Di già molti satelliti della sua tirannide erano stati sorpresi in varj luoghi, ed implacabilmente uccisi. Da ogni banda giugnevano soccorsi ai Fiorentini, i quali avevano di già organizzato un nuovo governo composto di sette nobili e di sette cittadini; e il duca che difendeva il palazzo con circa quattrocento Borgognoni, cominciava a soffrire la fame. In tale stato di cose il vescovo di Fiorenza, che aveva congiurato contro la tirannide, si fece mediatore tra il popolo irritato ed il tiranno per salvargli la vita; ma il duca non ottenne grazia dal popolo, che abbandonandogli Guglielmo d'Assisi il più odiato de' suoi ministri, il giudice che aveva prestato il proprio ministero a tutte le sue crudeltà. Quest'uomo feroce fu dalla plebe furibonda fatto in pezzi con suo figliuolo, il quale non contava più di quattordici anni, ed aveva un volto fatto per intenerire il popolo; ma era stato veduto sempre assistere ai supplicj ordinati dal padre, e domandare in grazia agli esecutori la continuazione della tortura, ch'era il suo più favorito spettacolo; onde a suo riguardo veniva dato un nuovo colpo di corda a coloro che il carnefice aveva cessato di tormentare.
In forza del trattato convenuto colla mediazione del vescovo, il duca d'Atene rinunciava a qualunque siasi autorità sopra Firenze, ed a qualunque diritto dipendente dalla elezione del popolo. Prometteva di ratificare tale rinuncia tostochè fosse condotto sano e salvo fuori del territorio fiorentino. D'altra parte il vescovo, i quattordici commissarj del popolo, gli ambasciatori dei Sienesi ed il conte di Battifolle, ch'era accorso in ajuto degl'insorgenti, si obbligavano di proteggere la ritirata del duca e de' suoi soldati, assicurandoli dagl'insulti del basso popolo finchè fossero in sicuro fuori del territorio della repubblica. Il duca d'Atene aprì il 3 agosto il suo palazzo ai negoziatori, dopo avere sofferti otto giorni di assedio; ma vi rimase, così da loro consigliato, fino alla notte del mercoledì 6 agosto, onde dar tempo al popolo di calmarsi. Uscì finalmente in quella notte dal palazzo e dalla città sotto la scorta de' più potenti cittadini di Firenze, che dovevano guarentire da ogni insulto la sua persona, e fu condotto per la via di Valombrosa a Poppi, feudo indipendente, posto su le montagne. Giunto in questo territorio neutrale rinunciò a tutti i diritti che aver poteva sopra Firenze, suo distretto, e sopra le città che gli si erano assoggettate, promettendo di non cercare mai più vendetta della loro ribellione. In appresso attraversò la Romagna, e passò a Venezia, ove s'imbarcò, quando meno si credeva, per andare in Puglia, abbandonando senza averli pagati i suoi più fedeli soldati. Il 26 luglio, giorno di sant'Anna, in cui la sua tirannide era stata distrutta, fu dai Fiorentini dichiarata festa solenne[407].
CAPITOLO XXXVI.
Firenze, dopo la cacciata del duca d'Atene. — Grande compagnia del duca Guarnieri. — La regina Giovanna succede a Roberto, e fa uccidere suo marito. — Carlo IV eletto in opposizione a Luigi di Baviera.
1343 = 1346. La tirannide di pochi mesi basta a distruggere la prosperità, prezzo di molti anni di vittoria, e la saggia economia di molte generazioni. Firenze che uguagliava Venezia in ricchezze ed in potere, e superava tutte le altre repubbliche d'Europa, perdette nel breve corso della signoria del duca d'Atene tutti i suoi tesori, e tutti i suoi stati. In tempo della guerra con Mastino della Scala la signoria aveva guarnigione propria in Arezzo, Pistoja, Volterra e Colle di Val d'Elsa, possedeva diecinove castelli murati nel territorio di Lucca, e quarantasei nel proprio, senza contare quelli che appartenevano ai nobili suoi cittadini. Le pubbliche entrate ascendevano allora a trecento mila fiorini[408]. Il solo re di Francia era più ricco assai fra tutti i monarchi della cristianità; quelli di Sicilia e di Arragona erano più poveri, e quello di Napoli aveva un'entrata eguale appena a quella de' Fiorentini[409].
Le spese del comune in tempo di pace non consumavano il sesto delle entrate[410]. Lo stato ordinario delle spese non oltrepassava i quaranta mila fiorini, senza per altro contare il salario delle truppe a cavallo. Ma perchè la repubblica, appena falla la pace, licenziava i suoi condottieri, essa riprendeva un reggime economico, che la poneva ben tosto in situazione di pagare i suoi debiti[411]. A me pare che nel circostanziato conto della spesa siavi qualche cosa di commovente, quando ci ricordiamo essere un cotal conto di uno de' più potenti stati d'Europa, e che non vi si trova pagato un solo pubblico funzionario quando non sia forastiere. In una repubblica è sufficiente compenso del lavoro l'onore di governare, e quando il buon nome è la sola ricompensa de' magistrati, tutti si sforzano di meritarlo; per lo contrario, ricevendo un salario, conseguono il loro intento quando ottengono la mercede, e l'impiego non lascia d'essere loro utile sebbene non siansi meritato l'amore del popolo, nè il rispetto della posterità.
Tutte le classi della nazione avevano prosperato sotto questo provido governo, e quanto più l'entrate dello stato venivano economicamente amministrate, vedevansi maggiormente crescere le ricchezze de' privati. La sola vista di Firenze annunciava l'opulenza de' cittadini. Deliziosi giardini circondavano la città, ed in quella ridente campagna ogni poggio era coronato da qualche edificio, ed ogni casa privata sembrava un palazzo. Entro la città l'architettura era ancora più magnifica, antichi monumenti, che ne formano anche al presente uno de' più vaghi ornamenti, univano la solidità e la maestà. Il lusso de' nostri antenati aveva su quello della presente età il vantaggio di essere destinato a durare lungamente. L'emulazione de' suoi cittadini nasceva da desiderio di gloria, onde aveva sempre innanzi agli occhi la posterità; la nostra non è che vanità, e, non cercando che l'ammirazione de' contemporanei, i nostri monumenti si distruggono in pari tempo che la nostra fama.
La città di Firenze contava 25 mila cittadini atti alle armi; ritenuto per altro che l'obbligo della milizia durava dai quindici anni fino ai settanta; e l'intera popolazione ammontava a 150 mila abitanti[412]. Gli uomini atti alle armi nel territorio ammontavano ad 80 mila; mille cinquecento nobili erano subordinati alle ordinanze di giustizia, sessantacinque de' quali soltanto erano ordinati cavalieri. Le scuole di leggere e scrivere venivano frequentate da otto in dieci mila fanciulli; mille duecento studiavano l'aritmetica sotto sei maestri, e cinque in sei cento applicavansi allo studio della grammatica e della logica. Contavansi entro le mura cento dieci chiese, cinquantasette delle quali erano parrocchiali, cinque abbazie, due priorati abitati da ottanta regolari; ventiquattro monasteri di donne, che racchiudevano cinquecento religiose; settecento monachi di differenti ordini, duecento cinquanta in trecento preti cappellani, e trenta spedali con mille letti per i poveri e gli infermi. Oltre gli abitanti trovavansi sempre in Firenze almeno mille cinquecento forastieri.
La prosperità del commercio era proporzionata alla popolazione; eranvi duecento fabbriche di lane che davano ogni anno settanta in ottanta mila pezze di stoffe del valore complessivo di un milione e cinquecento mila fiorini. Calcolavasi che il terzo di questa somma serviva al pagamento di trenta mila operai ch'erano impiegati in questa manifattura. Il commercio delle stoffe straniere si faceva da venti mercanti riuniti sotto il nome di compagnia della Calimala, che smerciava, un anno compensato l'altro, dieci mila pezze del valore di trecento mila fiorini. Ventiquattro case erano destinate al commercio di banco, e la zecca coniava ogni anno trecento cinquanta in quattrocento mila fiorini d'oro, e venti mila lire in bilione di rame[413]. Trent'anni prima le manifature delle lane avevano occupate un centinajo di fabbriche di più, e date perfino cento mila pezze di stoffe; ma quelle stoffe erano molto più grossolane, ed il loro valore minore della metà, perchè ancora non vi s'impiegavano le lane dell'Inghilterra.
Tale era la prosperità della repubblica fiorentina prima che l'ambizione e la discordia de' suoi cittadini, la gelosia, e l'avarizia dasse loro un padrone. Allorchè ne scossero il giogo, e con uno sforzo generoso giunsero a ristabilire la repubblica, trovaronsi spogliati di ogni loro conquista. Gli Aretini, all'avviso che il duca d'Atene trovavasi assediato dal popolo, presero le armi per ricuperare la loro libertà, attaccarono la fortezza fabbricata dai Fiorentini nella loro città, e costrinsero Guelfo Bondelmonti, suo comandante, a darla in loro potere. In pari tempo i Tarlati con i Ghibellini d'Arezzo occuparono Castiglione Aretino[414]. I Pistojesi cacciarono la guarnigione fiorentina, e spianarono il castello che occupava, ricuperarono Serravalle, la chiave del loro territorio, e ripristinarono il governo de' loro padri, quello del popolo e della libertà[415]. Santa Maria a Monte e Montopoli, due castelli in altri tempi tolti ai Lucchesi, si ribellarono, e presero a governarsi come terre indipendenti; altrettanto fecero Colle e san Gemignano; e per ultimo ancora Volterra prese le armi, a ciò consigliata da Ottaviano de' Belforti, ch'era già stato signore di questa città; ma in cambio di racquistare la perduta libertà, mutò la signoria del duca d'Atene con quella del suo domestico tiranno.
I Fiorentini frattanto, dopo ch'ebbero cacciato il duca, pensarono al ristabilimento della loro repubblica, ed alla riforma delle leggi. Il Vescovo, gli ambasciatori di Siena ed i quattordici cittadini eletti durante la sedizione cercavano di conciliare le pretese delle opposte fazioni. Prima di tutto mutarono la divisione della città, e ridussero a quattro i sei quartieri, facendoli presso a poco eguali di popolazione e di ricchezze, i quali dovevano avere un'eguale rappresentanza nella suprema magistratura[416].
Ma era più facile assai il ricondurre all'uguaglianza i diversi quartieri della città, che non i diversi ordini dei cittadini. I nobili erano esclusi dal governo in forza dell'ordinanza di giustizia. I ricchi borghesi avevano formata più tardi una nuova oligarchia, che non eccitava meno la gelosia del popolo, di quello che si facesse altra volta l'oligarchia della nobiltà. A guisa dei nobili avevano essi palazzi fortificati, grandi possedimenti in campagna, vassalli, clienti, ed una numerosa famiglia; essi educavano nelle case loro una gioventù orgogliosa; e per dirlo in una parola, univano tutti que' mezzi di forza e di resistenza che possono rendere pericoloso un ordine di cittadini. L'abuso del passato potere, faceva temere che tentassero di rinnovarlo; e loro si rinfacciavano tutte le perdite fatte dalla repubblica per la mala fede di Mastino della Scala, per la guerra di Lucca, per la tirannide del duca d'Atene. La gelosia ed il desiderio di dominare manifestavasi egualmente nelle inferiori classi del popolo, e già sotto il nome di mezzi borghesi e di artigiani si distinguevano due separati ordini di cittadini, le di cui rivalità difficilmente si sarebbero potute conciliare.
Venticinque deputati di ogni quartiere, otto nobili e diecisette cittadini, furono chiamati dal vescovo e dai commissarj del popolo a formare una balìa per riunire i diversi partiti, e dare una nuova forma alla costituzione. La balìa decise che, avendo tutti i cittadini preso parte alla distruzione della tirannia, dovevano tutti partecipare alla libertà. La balìa non volle riconoscere che due ordini nella nazione, il popolo e la nobiltà; attribuì al primo i due terzi degli onori pubblici, l'altro terzo ai secondi; e sospese il rigore dell'ordinanza di giustizia, affinchè i delitti de' grandi fossero puniti colle forme e le leggi comuni agli altri cittadini.
Ma i grandi non si videro appena usciti dall'oppressione in cui vissero sì lungo tempo, che presero a vendicare le ingiurie fin allora sofferte in silenzio. Molti loro nemici furono uccisi non solo nelle campagne, ma nelle contrade e nelle piazze della città, senza che le leggi comuni avessero forza di reprimere o punire tanta audacia. Una generale indignazione secondò la gelosia de' borghesi; perfino alcuni nobili unironsi al popolo, ed il 22 settembre del 1343, non ancora compiuti due mesi dopo la cacciata del duca d'Atene, cominciò una sedizione sulla pubblica piazza de' priori, ed i quattro nobili che sedevano nella signoria, furono forzati dalle minacce e dalle grida del popolo ad uscire del palazzo ed a rinunciare alla loro magistratura[417].
Ma i nobili non si ritrassero per altro dalle difese. Uno di loro, Andrea Strozzi, cercò d'ammutinare il popolaccio contro i borghesi; ma dissipati i sediziosi da lui adunati, fu costretto di sottrarsi colla fuga ad una condanna di morte[418]. I suoi consorti facevano entrare in città i loro vassalli e contadini, e gli armavano; si diceva pure che avevano domandato ajuto alla nobiltà immediata degli Appennini, ai Pisani ed ai tiranni di Lombardia. Ma il popolo li prevenne; chiamato dai Medici alle armi nel quartiere di san Giovanni, attaccò i palazzi degli Ademari-Cavicciuoli situati in vicinanza della cattedrale, e dopo una lunga accanita zuffa, gli sforzò a capitolare; le loro barricate furono atterrate, disarmati e dispersi i loro clienti; ma rispettate le loro persone e le proprietà. Dopo questa vittoria il popolo assediò successivamente tutti i palazzi fortificati. Non poteva opporsi lunga resistenza alle forze di tutti adunate contro un solo; i Donati ed i Cavalcanti furono i primi a sottomettersi, maggior tempo resistettero i gentiluomini che abitavano oltr'Arno e che avevano afforzate le teste dei ponti; ma occupato finalmente dal popolo il ponte della Carraja, s'arresero subito i Frescobaldi, i Nerli ed i Rossi; le case de' Bardi furono prese d'assalto, saccheggiati e distrutti ventidue palazzi di questa famiglia[419].
Dopo tale vittoria fu creata una nuova balìa per cambiare un'altra volta la costituzione. La signoria continuò ad essere composta di un gonfaloniere di giustizia e di otto priori delle arti e della libertà, scelti due per ogni quartiere. Di questi nove magistrati dovevano prendersene tre a sorte da ciascheduna classe del popolo. Dodici buoni uomini e sedici gonfalonieri delle compagnie furono dati per consiglieri alla signoria[420].
L'ordinanza di giustizia contro i grandi fu rimessa in attività colle modificazioni volute dall'equità; e fu ristretto ai più vicini parenti del reo l'obbligo di rispondere per il commesso delitto, che prima estendevasi a tutti i membri d'una nobile famiglia; cinquecento trenta famiglie furono cancellate dal ruolo della nobiltà, per essere poste in quello dei popolani. Gli uni col loro impoverimento, o coll'estinzione di molti rami collaterali avevano cessato d'ispirar timore; altri colla lodevole loro condotta eransi meritata la benevolenza del popolo, onde alcune delle più illustri case di Firenze furono ascritte alla classe de' popolani[421].
Mentre i Fiorentini venivano agitati da queste interne rivoluzioni, cercavano di mantenersi in pace colle vicine potenze, affinchè i nemici del nuovo governo non trovassero appoggio presso i nemici dello stato; perciò il 16 novembre ratificarono il trattato che il duca d'Atene aveva fatto coi Pisani, aggiugnendovi soltanto alcune nuove condizioni[422].
Dopo la conquista di Lucca pareva che la repubblica di Pisa tenesse il primo rango tra gli stati toscani. Pistoja e Volterra, staccandosi dai Fiorentini, eransi poste sotto la sua protezione, e l'alleanza che i Pisani avevano contratta coi Visconti poteva moltiplicare le sue risorse[423]. Ma l'ultima guerra aveva costato ai Pisani un milione e mezzo di fiorini, le antiche contese tra la nobiltà ed il popolo si andavano ravvivando, e Lucchino Visconti, invece d'essere un utile alleato, doveva ben tosto riconoscersi per un terribile nemico.
Mentre Betto dei Sismondi aveva condotte al signore di Milano le truppe ausiliarie della repubblica pisana, Giovanni Visconti d'Oleggio cospirava in Pisa unito ad un altro Sismondi[424] e ad alcuni capi dell'antica nobiltà. Volevano essi richiamare i figli di Castruccio, e cacciare fuori di città il conte della Gherardesca, in allora capitano generale. Ma, scopertasi la trama, uno de' congiurati perdette la testa sul palco, altri cacciati in bando, e furono spianate le loro case, e Giovanni d'Oleggio costretto ad uscire vergognosamente da Pisa. Avutane notizia il signore di Milano, fece imprigionare i Pisani che militavano nella sua armata, e rimandò Oleggio in Toscana con due mila cavalli per vendicarsi; ma quest'armata avanzatasi per la via di Pietra Santa e di Lucca, essendo poi entrata nelle Maremme, dovette combattere un clima più pericoloso che i nemici. Onde dopo avere perduta molta gente senza essersi azzuffata colle truppe pisane, fu richiamata dal Visconti il quale fece la pace con Pisa nel 1345[425].
E per tal modo questa guerra tra le due prime potenze d'Italia non si rese notabile per alcuno importante avvenimento; lo che non sarebbe accaduto se Pisa avesse conservata sotto i suoi ordini la bella cavalleria colla quale aveva protetto l'assedio di Lucca; ma quand'ebbe sottoscritto il suo trattato di pace col duca d'Atene, si era data premura di licenziarla, e quell'armata che già militava sotto i suoi ordini, erasi resa indipendente: nuova potenza senza stati e senza sudditi, e che non essendo composta che di soldati, era appunto per tale motivo più formidabile. Un avventuriere tedesco, che facevasi chiamare il duca Guarnieri, aveva proposto ai soldati che si licenziavano dai Pisani, di rimanere uniti e di fare la guerra per conto loro. Si obbligò di pagare il soldo ai militari che volessero servire sotto di lui, e con ciò ottenne senza difficoltà d'essere riconosciuto per capo da uomini che guerreggiavano per mestiere e non per dovere. Non proponevasi già Guarnieri di fare in Italia qualche conquista di paese, ma solamente di taglieggiare tutti quelli che si proporrebbe di trattare come nemici. Quando sortì di Pisa la sua armata, ch'egli intitolò la grande compagnia, contava due mila cavalli. Si diresse colla medesima verso il territorio di Siena con intenzione d'abbandonarlo al saccheggio, e ne' pochi giorni che durò la marcia ingrossò l'armata con molte reclute[426].
Le repubbliche ed i piccoli principi d'Italia non potevano opporre che una debole resistenza a queste formidabili compagnie che cominciarono in quest'epoca a minacciare l'esistenza di tutti gli stati. La loro formazione era sempre inaspettata; e siccome niun sovrano teneva in tempo di pace al suo soldo un grosso corpo di truppe, niuna forza trovavasi in istato di opporre loro una valida resistenza. E quand'ancora i soldati arruolati in queste compagnie non fossero stati superiori di numero, l'abitudine della guerra dava loro un infinito vantaggio sulle milizie che dovevano combatterli. Se in cambio venivano loro opposti altri soldati mercenarj, erano questi sempre disposti ad abbandonare i loro stendardi per entrare nella compagnia; in ogni evento essi non si battevano che mollemente, non dimenticandosi mai che potrebbero in breve trovare vantaggioso un asilo in seno ai loro fratelli d'arme, entrando a parte dei loro pericoli e dei loro guadagni. La più sfrenata licenza regnava nel campo di questi assassini: gli stessi capi applaudivano ai loro eccessi per guadagnarsi l'amore dei soldati, ed allettare un maggior numero di reclute ad arruolarsi sotto le loro insegne. Essi non si vergognavano di verun delitto o crudeltà; ed il duca Guarnieri accoppiava al titolo di signore della grande compagnia quelli di nemico di Dio, della pietà e della misericordia. Aveva fatti incidere questi odiosi titoli sopra una lastra d'argento che portava per ornamento sul petto[427].
I cittadini sienesi, che non sospettavano nè meno di vedere turbata la profonda pace di cui godevano, furono all'impensata assaliti da questi feroci soldati, che, non contenti del saccheggio delle case e delle loro mandre, cercavano frequentemente di levar loro il danaro, sottoponendoli a crudeli torture. Il governo non sapeva come difendere i suoi sudditi, che fuggivano all'avvicinarsi degli assassini, seco portando gli effetti che avevano potuto sottrarre al saccheggio; e la città riempivasi di contadini, di donne, di vecchi. Frattanto Guarnieri, cui la signoria faceva chiedere la ragione di quest'attacco, le offeriva di uscire all'istante dal territorio di Siena per la tenue somma di dodici mila fiorini. Egli voleva ostentare in faccia ai più deboli stati le umilianti condizioni che accordava alla repubblica di Siena, onde maggiormente atterriti dall'avvicinamento della compagnia si sottoponessero più facilmente ancor essi alle condizioni ch'egli crederebbe loro d'imporre[428]. In fatti i Sienesi gli pagarono la chiesta contribuzione, e Guarnieri, abbandonando il loro territorio, si gettò in quello di Montepulciano, di Città di Castello e di Perugia, le quali tre città, per non esporsi a maggiori danni, furono costrette di pagare la taglia che volle Guarnieri.
Dopo avere sparso il terrore in tutto il patrimonio di san Pietro, Guarnieri piegò bruscamente a sinistra, ed attraversò la Romagna, mettendola a fuoco e sangue. Era in allora questa provincia divisa fra molti piccoli tiranni, nemici gli uni degli altri, sebbene troppo deboli per farsi la guerra: perciò ognuno di loro offriva danaro a Guarnieri, perchè danneggiasse i suoi rivali; poi era ognuno costretto di pagare altro danaro per liberarsi dalle sue molestie. Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì, impegnò il duca ad attaccare Rimini, ove comandava Malatestino de' Malatesta; e Ferrantino Malatesta approfittò di quest'occasione per ribellarsi contro il suo parente; onde il territorio di Rimini fu per tutto un mese saccheggiato dagli assassini della compagnia, i quali nel susseguente mese guastarono il Cesenatico, benchè Cesena appartenesse a Francesco degli Ordelaffi che gli aveva chiamati in Romagna[429].
Conosceva Guarnieri il pericolo di rimanere in una provincia così lungo tempo da ridurre gli abitanti agli estremi di prendere in comune le armi contro di lui. Perciò sempre avanzandosi d'uno in altro stato, senza mettere distinzione alcuna tra amici e nemici, era omai pervenuto ai confini del territorio bolognese. Per quanto far potesse di male nel suo passaggio, un nemico era sempre meno odioso ai repubblicani di Bologna, del tiranno che gli opprimeva; il primo guastava le campagne a guisa di passaggero turbine, l'altro corrompeva il principio dell'esistenza, come que' pestilenziali miasmi de' pantani che infettano l'aria. I Gozzadini, i Beccadelli, e tutti i vecchi amici della libertà recaronsi al campo del duca, promettendogli quante ricchezze sapeva desiderare, se cacciava di Bologna Taddeo dei Pepoli, e ridonava alla libertà quest'antica e potente città. Ma il generale tedesco preferiva alle promesse de' fuorusciti le immediate offerte del signore di Bologna, che aveva trovato alla testa di tre mila cinquecento cavalli in vicinanza di Faenza. La battaglia era dubbiosa, e la vittoria non lo avrebbe compensato del sangue che gli sarebbe costata. Accettò dunque sessanta mila lire di Bologna, che Taddeo Pepoli gli fece dare a titolo del soldo di due mesi dovuto alle sue truppe, ed attraversò pacificamente il territorio bolognese, conducendo la grande compagnia nello stato di Modena[430].
In questa breve campagna aveva Guarnieri levate ragguardevoli contribuzioni, e le sue truppe eransi arricchite col saccheggio; onde il capitano ed i soldati desideravano del pari di tornare in Germania per godervi tranquillamente le ammassate ricchezze. Ma non sembrava loro che la Lombardia, che dovevano attraversare, potesse facilmente essere vinta o intimidita come i piccoli stati che avevano fino allora posti a soqquadro. Guastarono, gli è vero, una porzione del territorio di Modena, di Reggio, di Mantova finchè non si trovarono a fronte con ragguardevoli forze i marchesi d'Este ed i Gonzaga, spalleggiati da Mastino della Scala, dai Pepoli e dallo stesso Luchino Visconti. Guarnieri non conosceva ancora tutto il vantaggio che la compagnia avrebbe avuto sulle truppe che gli venivano opposte; egli non aveva ancora perfezionata con una lunga pratica quell'arte del saccheggio che doveva ancora esercitare molti anni, ed acconsentì, per una grossa somma di danaro, che gli venne pagata dai principi lombardi, di ricondurre in Germania la formidabile sua truppa, divisa in così piccoli corpi, che non potessero incutere spavento alle province che egli attraversava[431]. Guarnieri ed i suoi soldati più non ricomparvero in Italia finchè tutto ebbero dissipato ne' vizj e nelle dissolutezze il danaro ammassato colle rapine.
Se le burrascose passioni delle repubbliche, se la debolezza delle piccole signorie esponevano le prime a frequenti rivoluzioni e le altre a crudeli vessazioni, nè meno i grandi stati d'Europa erano in quell'epoca più felici o più tranquilli, perciocchè trovavansi tutti in preda ad accanite guerre, o internamente divisi da violenti rivoluzioni. La Germania era agitata dagl'intrighi della corte pontificia, che si valeva della gelosia e dell'ambizione de' principi per tenere perpetuamente vive le guerre civili. Giovanni di Boemia erasi fatto capo dei nemici dell'imperatore, e la sua attività aveva ridotto l'impero a mal termine ed accresciuti gl'imbarazzi di Luigi di Baviera. La Francia, perduto il suo antico splendore sotto il rovinoso regno di Filippo di Valois, veniva saccheggiata dagl'Inglesi; ma in pari tempo le vittorie d'Edoardo III non riuscivano meno funeste all'Inghilterra, spogliandola d'uomini e di danaro. La Spagna consumava le proprie forze nelle guerre civili suscitate dalle tiranniche imprese dei due Pietri, il crudele di Castiglia, ed il cerimonioso d'Arragona. Per ultimo il regno di Napoli, avendo perduto il vecchio re Roberto, trovavasi nuovamente esposto all'anarchia ed alle convulsioni da cui l'aveva preservato sessant'anni il regno dei principi Angioini.
Roberto era morto in Napoli il 19 gennajo del 1843 in età di ottant'anni dopo un regno di oltre trentatre anni[432]. Suo nipote Cariberto, o sia Carlo Uberto, re d'Ungheria, cui Roberto aveva sottratto il regno di Napoli, era morto sei mesi prima di lui, il 14 luglio del 1342, a Visgrado, dopo avere regnato quarantadue anni[433]. Il primo lasciava erede una figlia di suo figlio, chiamata Giovanna, maritata ad Andrea, secondo figlio di Cariberto. Il primogenito Luigi, re d'Ungheria, era succeduto al padre.
Pochi sovrani godettero così alta riputazione di sapere e di virtù al pari di Roberto, re di Napoli; ma la pubblica opinione, indulgente per i principi, colloca spesse volte tra gli uomini grandi coloro che, se fossero privati, non uscirebbero dalla mediocrità. La costante protezione da Roberto accordata ai letterati, e l'equità di molte sue leggi, gli meritarono in parte a giusto diritto gli elogi del suo secolo: ma devonsi rimproverare alla sua avarizia gli arbitrj dati ai giudici di permettere che si scontasse col danaro la pena dei delitti[434]; alla sua ambizione l'aver fomentato l'odio tra Guelfi e Ghibellini, quando era già cessato il motivo dei loro partiti, e di avere suscitate quasi tutte le guerre che lacerarono, durante il suo regno, l'Italia e la Germania, dalle quali ne derivarono a' suoi stati più mali che prosperità. Il regno della nipote Giovanna fece dimenticare i suoi falli, e diede all'Italia gravi motivi di desiderare una più ferma e felice amministrazione.
La regina Giovanna contava soltanto sedici anni quando successe a suo avo, ed Andrea, suo cugino e suo sposo, era nato pochi mesi prima di lei. Molti principi del sangue, figliuoli de' fratelli di Roberto[435], facevano splendida e voluttuosa la corte di Giovanna, e cercavano a gara il favore de' giovanetti sposi, onde governare lo stato in loro nome. Sebbene i sovrani fossero più inclinati ai piaceri che alla gloria o al potere, davano di già non equivoci indizj di rivalità. Gelosi l'uno dell'altro, ma egualmente incapaci di amministrare il regno, nè il re, nè la regina sapevano soffrire che l'altro volesse regnare in proprio nome[436]. Andrea, figliuolo di Cariberto, nipote di Carlo Martello e pronipote di Carlo II, pretendeva d'essere il legittimo erede del trono. Vero è che suo padre era stato soppiantato da Roberto; ma dopo la morte di questi risguardavasi come rientrato negli originarj suoi diritti[437]; e gli Ungari che aveva seco condotti, ed in particolare un monaco, detto frate Roberto, suo principale consigliere, cercavano di fomentare questa sua pretesa onde avere poi esclusivamente nelle loro mani l'autorità reale. D'altra parte Giovanna ed i principi del sangue suoi cugini sostenevano che legittima era stata la successione di Roberto e convalidata dall'approvazione di Clemente V l'anno 1309; e che un re, riconosciuto legittimo dal suo popolo nel corso di trent'anni, non poteva essere altrimenti considerato come un usurpatore. Roberto, che prima di morire aveva già veduto gl'indizj di questa gelosia, si era fatto sollecito di consolidare i diritti della nipote. Aveva richiesto da tutti i baroni suoi feudatarj, e dagli ufficiali della corona, che prestassero il giuramento di fedeltà a Giovanna; ed aveva nel suo testamento ordinato che si dilazionasse la coronazione d'Andrea fino all'epoca in cui questo principe toccherebbe i ventidue anni[438].
In questa corte, la più colta ad un tempo e la più corrotta d'Europa, il principe ungaro aveva conservata la natìa rozzezza. Orgoglioso ed iracondo dava il nome di ribellione alla più leggiera resistenza, e di oltraggio al sorriso o al silenzio de' cortigiani della regina. Disprezzava i costumi e gli usi de' Napoletani, e non pertanto credevasi continuamente oggetto delle loro derisioni; sdegnavasi di non avere che il titolo di duca di Calabria, di non essere re che per i cortigiani, e di non potere pretendere da tutti ubbidienza[439]. Fu spesso udito minacciare la regina, i principi del sangue, ed i principali baroni del regno, aspettando ogni giorno una bolla pontificia che acconsentisse alla sua coronazione, onde sullo stesso stendardo reale destinato a tale cerimonia aveva fatto dipingere al di sopra de' suoi stemmi due stromenti di supplicio, la mannaja e la scure, quasi per annunciare che dall'istante in cui regnerebbe, farebbe giustizia de' suoi nemici, ai quali volle anticipatamente mostrare questa bandiera[440].
Andrea aveva sospetta la regina di tenere colpevoli pratiche con Luigi di Taranto, suo cugino; e la pubblica opinione accreditava tali sospetti, accusando inoltre la regina d'altri secondari amori. Caterina, madre dei principi di Taranto, che portava il titolo d'imperatrice di Costantinopoli, dava l'esempio della più scandalosa scostumatezza, ed avendo la più alta influenza sul cuore della sua pronipote, favoreggiava le di lei pratiche con Luigi, sperando di potere coll'allontanare Andrea dalla corona farla dare a suo figliuolo. La regina Sancha, vedova di Roberto, abborriva tanta corruzione, ed erasi ritirata in un convento, ove morì un anno dopo il consorte; onde più veruno salutare rispetto contener poteva la piena di questa voluttuosa corte.
Gl'intriganti che avvicinavano la giovane regina, non si appagarono di averle ispirata avversione per Andrea; ma mirando a disfarsi d'un principe, di cui avevano a temere le vendette ed il collerico temperamento, fomentavano la criminosa passione della regina per suo cugino: poi tutt'ad un tratto l'atterrivano riferendole i sospetti e le minacce del marito; talvolta ancora gli parlavano del bene de' suoi popoli, del tiranno cui permetterebbe di regnare sopra di loro, rappresentandogli come un atto virtuoso il delitto che gli proponevano di commettere. In mezzo a tante seduzioni, Giovanna, strascinata, sedotta dalla sua passione, permise ai suoi cortigiani di servirla, acconsentendo alla loro trama senza volerne conoscere le circostanze.
Il conte d'Artusio, bastardo del re Roberto, e Filippina la Catanese, confidente della regina, si fecero capi della congiura[441]. Ottennero che la corte abbandonasse Napoli in settembre del 1345, per villeggiare in un luogo solitario, nel convento di san Pietro di Morone o dei Celestini posto a poca distanza d'Aversa. La notte del 18 di settembre, mentre Andrea stava a letto a canto alla regina, alcune cameriere vennero ad avvisarlo essere giunte da Napoli importanti notizie, e che i consiglieri lo aspettavano per avere i suoi ordini. La regina mostrossene turbata, e cercò di trattenere il marito; ma questo impotente rimorso fece luogo al timore[442]. Andrea uscì, e le cameriere chiusero dietro lui le porte della camera della regina.
I congiurati aspettavano Andrea nel vicino corritojo, ove appena giunto, gli furono sopra; ma persuasi che un anello regalatogli da sua madre fosse un talismano che gl'impedirebbe di morire di ferro o di veleno[443], cercavano di passargli intorno al collo un laccio di seta. Andrea difesesi vigorosamente, e ferì alcuni de' congiurati; ma finalmente fu spinto fuori d'una finestra, ed alcuni de' congiurati, che stavano appostati nel giardino, lo presero per i piedi, e terminarono di strozzarlo[444].
La nudrice d'Andrea, chiamata Isolda, che lo aveva accompagnato a Napoli, e che, teneramente amandolo, gli stava quasi sempre vicina, improvvisamente risvegliata dalle grida e dal tumulto, entrò nella camera della regina, e la vide sola seduta presso al letto nuziale tenendosi la testa tra le mani. Le chiese affannosa ove fosse il suo padrone; e spaventata dalla di lei risposta, si affacciò con una fiaccola ad una finestra, onde i congiurati fuggirono, lasciando il cadavere d'Andrea steso al suolo: l'infelice Isolda chiamando con disperate grida alla vendetta la corte, il convento e la stessa città d'Aversa, non lasciò tempo ai congiurati di mascherare il loro delitto[445].
Giovanna, oppressa dal terrore e dal rimorso, tornò subito a Napoli seco conducendo il cadavere dello sposo, che fu sepolto con poca pompa nella chiesa di san Luigi[446]. Coloro che non avevano avuta parte nella congiura, non dissimulavano l'orrore che loro ispirava così grave delitto; ognuno si precauzionava come se fosse personalmente minacciato, o come se questo delitto avesse tutti infranti i legami della società. Roberto di Taranto, fratello di Luigi, armava i suoi vascelli, e fortificava i suoi palazzi; Carlo di Durazzo eccitava il popolo a vendicare la morte del suo re; questi, avendo sposata la sorella di Giovanna, sperava probabilmente di succederle, quando il popolo la privasse del trono. Finalmente la regina ed il suo amante, Luigi di Taranto, adunavano i loro partigiani, e preparavansi a sostenere la guerra civile di cui vedevansi minacciati.
Tutta l'Europa parve sollevarsi udendo tale attentato. Clemente VI, che il 7 maggio 1342 era succeduto a Benedetto XII morto il 25 aprile, si credette chiamato dalla sua suprema dignità e dall'alto dominio sul regno di Napoli a punire i colpevoli che non potevano essere giudicati dai giudici ordinarj. Incaricò pertanto Bertrando di Baux, grande giustiziere del regno, a formare un processo contro l'uccisore del re Andrea, e di perseguitare il delitto senza aver riguardo a veruna persona, e senza rispetto alcuno per le secolari dignità[447]. La regina che non ardiva proteggere i congiurati, per non confessarsi complice, vide soggiacere alla tortura Raimondo di Catania, suo grande maniscalco; dopo di che il grande giustiziere, facendosi portare innanzi uno stendardo, sul quale era dipinto l'assassinio d'Andrea, venne seguito dal popolaccio di Napoli a prendere perfino nel palazzo della regina i suoi amici, i suoi servitori più affezionati, ed in particolare la Catanese, confidente de' suoi più intimi segreti. Vero è che la regina tentò alcun tempo di difenderla, ma, temendo il furore popolare, l'abbandonò poscia ai suoi carnefici[448].
Prima d'essere condotti al supplicio, gl'imputati furono sottoposti a terribili torture per istrappar loro la confessione del proprio delitto; nel qual tempo uno steccato custodito dai soldati non permetteva al popolo di udire le loro deposizioni. La Catanese morì tra gli orrori della tortura; gli altri furono condannati ad un ributtante supplicio, durante il quale venne loro posto un amo in bocca perchè non potessero parlare[449].
È indubitato che temevasi da coloro che venivano mandati al supplicio l'accusa della complicità della regina; ma le precauzioni prese per impedirla, l'accusavano ancora più apertamente. Non pertanto Giovanna scrisse al re d'Ungheria, fratello di suo marito, per iscolparsi di un delitto di cui l'accusava la voce pubblica. In risposta ricevette una lettera, resa celebre dal suo laconismo. «Giovanna, gli scriveva Luigi, i disordini della tua passata vita, l'ambizione che ti fece ritenere il regio potere, la vendetta trascurata, e le scuse in appresso allegate, provano abbastanza che tu sei complice della morte di tuo marito[450].» Alcuni ambasciatori del re d'Ungheria eransi nel mese di maggio del 1346 presentati alla corte del papa chiedendo che al loro padrone fosse dato il possesso del regno di Napoli, di cui era il più prossimo erede, e venisse deposta Giovanna, resasi, per il commesso delitto, indegna di regnare. In pari tempo Luigi appellava ad un altro tribunale, a quello delle armi, invocando il valore de' suoi sudditi. Fece fare uno stendardo sul quale era dipinto l'assassinio d'Andrea, e lo inalberò egli stesso in su gli occhi d'una dieta ungarese per impegnare quella valorosa nobiltà a vendicare il fratello del suo re. In appresso marciò verso Zara, in Dalmazia, con trenta mila cavalli, sperando d'obbligare i Veneziani a levare l'assedio di quella città che si era loro ribellata, onde colà imbarcarsi alla volta del regno di Napoli[451].
I Veneziani, all'avvicinarsi del re d'Ungheria, afforzarono il loro campo, guastarono il paese intorno a loro, ma non si rimossero perciò dall'assedio, e senza esporsi all'eventualità d'una battaglia, impedirono al re di comunicare cogli assediati, e di avanzarsi fino al mare. Gli Ungari non tardarono a soffrire mancanza di vittovaglie ed a conoscere l'impossibilità di attraversare l'Adriatico coperto da una flotta veneziana; onde il re Luigi, rinunciando nel presente anno all'impresa del regno, tornò in Ungheria onde entrare in trattati coi suoi vicini ed assicurarsi della loro amicizia, mentre rimarrebbe lontano da' suoi stati[452].
Mentre il re d'Ungheria s'impegnava in una lontana guerra, gli si rendeva più che mai necessaria l'amicizia de' Polacchi; e fortunatamente trovavansi unite queste due nazioni da stretta alleanza, giacchè Luigi dal canto di sua madre Elisabetta era nipote di Loctec, re di Polonia; e suo zio Casimiro, non avendo figliuoli, lo aveva destinato suo successore[453]. Il re d'Ungheria era inoltre alleato dell'imperatore Luigi di Baviera, e questo monarca, padrone del Tirolo, poteva aprire agli Ungari le porte dell'Italia. Il nuovo papa Clemente VI aveva rinnovate contro i Bavari le scomuniche fulminate da Giovanni XXII; aveva rotte le negoziazioni aperte da Benedetto XII; non voleva ad alcun patto accordare l'assoluzione all'imperatore, e non curandosi delle sue offerte e delle sue umiliazioni non si lasciava placare dalla sua penitenza, e voleva costringerlo alla guerra a dispetto de' suoi scrupoli[454]. Luigi di Baviera, ridotto alle ultime estremità, accettò le proposizioni del re d'Ungheria, promise di scendere nel susseguente anno in Italia con suo figlio il marchese di Brandeburgo, e con il suo alleato il duca d'Austria, allettato dalla speranza di potersi una volta vendicare de' Guelfi, della Chiesa e di quella casa d'Angiò che pel corso di trent'anni l'aveva tanto crudelmente perseguitato.
Ma il papa non poteva essere indifferente al movimento della metà dell'Europa verso l'Italia. Allorchè assoggettava la regina Giovanna alle criminali procedure del conte Bertrand de Baux, onde umiliare in tal modo i troni al di sotto della cattedra di san Pietro, era ben lontano dal voler permettere che questa regina, sua vassalla, venisse spogliata dal re d'Ungheria, e molto meno dall'imperatore. Accrebbe pertanto le sue pratiche per muovere contro il Bavaro nuovi nemici, e risolse finalmente di nominare il suo successore, estremo rimedio protratto dalla santa sede fino a quest'epoca.
A tale oggetto Clemente VI s'addirizzò a Giovanni, re di Boemia, quello stesso che procurato aveva a Luigi la corona imperiale, e che già da più anni mostravasi il più accanito de' suoi nemici. Giovanni era diventato cieco, ma non aveva perduti que' militari talenti e quella rapidità che confondeva tutti i progetti de' suoi nemici, nè quella instabilità che gli toglieva di condurre a buon fine i proprj. Non era proponibile per imperatore un cieco, ma suo figlio, Carlo, margravio di Moravia, sembrava opportunissimo ai disegni del papa; onde il re di Boemia cominciò a sollecitare a di lui favore i suffragi degli elettori.
Carlo, che acconsentiva a ricevere la corona dai preti, si portò subito in Avignone per concertare col papa le condizioni della sua elezione. Soscrisse una capitolazione, colla quale prometteva di abrogare tutti gli atti di Luigi in Italia, di rinunciare ad ogni diritto sopra lo stato ecclesiastico, e non entrarvi che con espressa licenza del papa, di non trattenersi che un solo giorno in Roma in tempo della sua coronazione[455]. A tale prezzo Clemente VI prometteva a Carlo tutto il suo appoggio; e dopo avere, con una nuova bolla, dichiarato il Bavaro infame, eretico, scismatico ed incapace di più regnare, adunò gli elettori a Rense per nominare il successore.
Baldovino fratello d'Enrico VII occupava ancora la sede elettorale di Treveri, ed il suo suffragio era per suo nipote[456]. L'elettore di Colonia era ugualmente attaccato alla casa di Lussemburgo; ma Enrico di Virnebourg, elettore di Magonza, gli era contrario: perciò Clemente VI lo depose, e nominò per succedergli un giovane di vent'anni, chiamato Gerlach di Nassau. Rodolfo duca di Sassonia, che Luigi di Baviera aveva spogliato del Brandeburghese, si unì ai suoi nemici per vendicarsi. Finalmente il re Giovanni portava alla dieta di Rense il voto della Boemia; nella quale non facendosi carico dell'assenza dell'elettore palatino di Baviera, e del marchese di Brandeburgo figliuolo di Luigi, il 10 di luglio fu solennemente eletto re de' Romani Carlo, margravio di Moravia, e posto in trono.
Ma nel collegio elettorale la pluralità de' suffragi non decideva di quella degli stati e delle forze della Germania; ed il nuovo re de' Romani chiamavasi comunemente l'imperatore de' preti. La casa di Baviera che si era appropriata il Tirolo, il Margraviato di Brandeburgo, le province dell'Olanda, della Zelanda e della Frisia che si era afforzata coll'alleanza de' re d'Ungheria e di Polonia, e dei duchi d'Austria, poteva far pentire Carlo IV dell'ardir suo, tanto più che, sei settimane dopo la sua elezione, Giovanni di Boemia, suo padre era stato ucciso nella battaglia di Crecy, il 26 agosto del 1346[457]. Lo stesso stato della chiesa e l'equilibrio d'Italia potevano essere rovesciati dall'imprudente maniera, colla quale Clemente VI provocava un potente monarca. Il collegio de' cardinali erasene accorto, perciò non aveva dato il suo assenso all'elezione di Carlo IV, che in seguito ad un violento alterco, nel quale furono veduti i cardinali di Perigueux e di Comminges sguainare i loro coltelli per azzuffarsi[458]. Ma la Chiesa fu avventurosamente salvata dai pericoli in cui la strascinava il suo capo. Luigi di Baviera, dopo avere avuti molti vantaggi sopra il suo rivale pel corso d'un anno, si uccise quando meno credevasi cadendo da cavallo l'undici ottobre del 1347. Invano i suoi partigiani offrirono la corona ad Odoardo III re d'Inghilterra, ed a Federico margravio di Misnia. In vista del loro rifiuto proclamarono re de' Romani Gontieri, conte di Schwarzembourg, che a poco a poco, abbandonato dai suoi fautori, fu costretto di rinunciare egli stesso alla corona, e venne riconosciuto Carlo IV legittimo monarca, non meno dall'impero che dalla chiesa[459].
CAPITOLO XXXVII.
Cola da Rienzo dà una nuova costituzione alla repubblica romana. — Abbagliato dalla sua grandezza, disgusta il popolo che lo abbandona.
1347 Mentre gli apparecchi del re d'Ungheria per vendicare l'assassinio di suo fratello, a sè chiamava tutti gli occhi degl'Italiani; mentre la resistenza de' Veneziani in Dalmazia chiudeva a questo monarca il passaggio dell'Adriatico, e che l'elezione di Carlo IV privava gli Ungari de' soccorsi che loro poteva dare Luigi di Baviera; mentre per ultimo si trepidava tra il timore d'un'invasione de' barbari, ed il desiderio di vedere punito un delitto, un'inaspettata rivoluzione fissò sull'antica capitale del mondo l'attenzione di tutta la cristianità. La città di Roma, risvegliata da un eloquente entusiasta demagogo, riclamò le antiche sue prerogative, e volle sottomettere alla sua sovranità il papa e l'imperatore, che dividevansi i diritti e le spoglie del popolo romano.
Cola da Rienzo, autore di questa rivoluzione, era un uomo di bassi natali[460]. Non pertanto era stato ammaestrato nelle lettere, ed i suoi singolari talenti avevangli fatti fare rapidissimi progressi. Erasi egli in particolar modo dato allo studio degli storici e degli oratori dell'antichità; e trovandosi in mezzo ai monumenti della gloria della romana potenza, aveva cercato altresì d'investirsi dell'antico spirito de' suoi concittadini. Niun altro uomo del suo secolo aveva maggiore venerazione per l'antichità, o una più nobile emulazione per farne rivivere le virtù; veruno aveva più profondamente studiati i costumi e le leggi della repubblica romana, nè meglio sapeva interpretare le iscrizioni ed i monumenti che fino allora erano stati con occhio stupido risguardati dal popolo, senza trovarvi memoria delle virtù de' loro antenati; verun altro uomo era animato da uno zelo più puro per il ben comune, o da più caldo patriottismo; verun altro finalmente sapeva agli altri comunicare con più persuasiva eloquenza i proprj pensieri e sentimenti. Questo distinto letterato, questo profondo antiquario, dai suoi talenti fatto capo del governo, non tardò a far conoscere che non aveva nè il coraggio necessario per la difesa del popolo, nè la modestia che avrebbe dovuto preservarlo dall'abbagliamento dell'inaspettata sua grandezza, nè la cognizione degli uomini, che si acquista difficilmente sui libri, e senza la quale un dotto non è un uomo di stato.
Durante l'assenza dei papi, Roma trovavasi in preda alla più turbulenta anarchia; i baroni romani avevano afforzate tutte le castella dello stato della chiesa, e tutti i palazzi che possedevano in città; avevano posta guarnigione in tutti gli antichi monumenti capaci d'essere ridotti a fortezze, e perchè nel vasto circondario delle mura di Aureliano la metà dei quartieri era deserta, i baroni trovavansi soli padroni di molte strade, ove avevano innalzati steccati ed altre difese in mezzo alle ruinate case. Ma perchè non erano abbastanza ricchi per tenere continuamente truppe regolate al loro soldo, ne confidavano la guardia ad assassini, a persone perseguitate dai tribunali, cui accordavano la loro protezione e l'impunità de' delitti, accordando loro un luogo sicuro onde riporre i profitti degli assassinj[461].
Per altro vedevansi ancora in Roma gli avanzi d'un governo popolare: i tredici quartieri della città nominavano il rispettivo capo, e l'adunanza di questi magistrati, chiamati Caporioni, rappresentava il sovrano; ma non aveva nè la forza nè l'autorità per farsi ubbidire. Il papa erasi usurpata l'elezione del senatore, e non affidava questa sublime dignità che a nobilissimi personaggi; quindi il potere giudiziario e la forza armata trovavansi in mano di quell'ordine contro del quale avrebbero dovuto adoperarsi.
Il senatore chiudeva gli occhi sui disordini dei gentiluomini, non prendendo le armi per punire i delitti che quando trattavasi di un suo personale nemico. Allora la vendetta nazionale si esercitava in modo da turbare maggiormente la pubblica tranquillità. I nobili scendevano frequentemente ai più bassi intrighi per ottenere dalla corte d'Avignone grazie o beneficj, non però essi riconoscevano nel papa un'autorità sovrana, ed i feudatarj della Chiesa credevano di avere diritto ad una maggiore indipendenza, che quelli dell'impero. Ne abusavano specialmente nelle guerre civili; la rivalità delle case Colonna ed Orsini divideva in due partiti tutta la nobiltà, e rinnovava ogni giorno le ostilità. Cola da Rienzo quando commettevasi qualche delitto, un ratto, un omicidio, un incendio, aveva nuovi motivi d'imputare ai nobili l'anarchia in cui versavano i Romani; sentivasi animato contro di loro da un odio che confondeva colle memorie della storia, da un odio ereditato dai Gracchi; ed egli aveva ben più ragione degli antichi tribuni, di trovare i patrizj del suo tempo degni della collera e della vendetta del popolo.
Cola si mostrò per la prima volta rivestito di un pubblico carattere poco dopo l'elezione di Clemente VI. Egli fu spedito ad Avignone nel 1342 per supplicare il nuovo papa di ritornare la santa sede nella sua naturale residenza[462]. In tale deputazione sebbene gli fosse associato il Petrarca, parlò Cola; la sua eloquenza ed il suo entusiasmo per Roma gli avevano già guadagnata l'amicizia del poeta. Clemente VI non si lasciava dirigere nelle sue decisioni politiche dagli oratori popolari; ma notò lo straordinario talento del deputato romano; lo nominò notajo apostolico con ragguardevole assegno[463], e lo incaricò di annunciare ai suoi compatriotti che pel loro vantaggio e di tutta la cristianità pubblicherebbe un secondo giubbileo l'anno 1350 colle indulgenze che Bonifacio aveva accordate alla festa secolare, e che dovevano rendersi comuni a tutte le generazioni.
Cola, di ritorno a Roma, si acquistò il rispetto de' suoi concittadini esercitando con integrità la sua nuova carica. Cercò di ricondurre i suoi colleghi alla stessa purità di condotta; ma dovette ben tosto avvedersi che nulla poteva da loro sperare, e che doveva rivolgersi allo stesso popolo se voleva far cessare l'anarchia, e rendere a Roma quella gloria e quella grandezza, quella giustizia e quella potenza, ch'egli enfaticamente chiamava il buono stato.
Per fare impressione sopra la moltitudine, parlò da principio ai suoi occhi. L'impiego lo chiamava in Campidoglio; ed egli vi fece esporre un quadro dalla banda della piazza in cui tenevasi il mercato. «Vi si vedeva, dice lo storico di Roma anonimo e contemporaneo, un gran mare burrascoso; nel mezzo una nave senza timone e senza vele in procinto di affondare. Una donna stava inginocchiata sul cassero vestita di nero e colla cintura della tristezza; aveva la veste squarciata sul petto, i capegli sparsi, le mani incrocicchiate in atto di chi prega per essere salvato da imminente pericolo. Vedevasi in cima al quadro un breve che diceva: è questa Roma. Intorno a questo vascello stavano altri quattro che già avevano fatto naufragio; le loro vele erano cadute, rotte le antenne, spezzato il timone; e sopra cadauna di loro vedevansi i cadaveri di una donna coi nomi di Babilonia, Cartagine, Troja, Gerusalemme, ed al di sopra: l'ingiustizia è quella che le pose in pericolo, e che le fece finalmente perire[464] ». Quando il popolo affollato intorno a questo quadro l'ebbe considerato alquanto, Cola si avanzò in mezzo a tutti e con maschia eloquenza inveì contro i delitti dei nobili che strascinavano la loro patria nell'abisso.
Pochi giorni dopo, fece collocare nel coro di san Giovanni di Laterano una tavola di rame con una bella iscrizione latina ch'egli aveva scoperta. Invitò i dotti ed il popolo a venire ad interpretarla, e quando l'assemblea fu adunata, egli si fece innanzi per leggere l'iscrizione. Era un senatoconsulto, col quale il senato conferiva a Vespasiano i diversi poteri de' Romani imperatori: atto di schiavitù, nel quale erano ancora conservate le forme de' tempi liberi. Cola, poi ch'ebbe terminata l'interpretazione, si volse al popolo adunato: «Voi vedete, o signori, egli disse, quale era l'antica maestà del popolo romano; egli era quello che conferiva agli imperatori, come suoi vicarj, i proprj diritti e la propria autorità. Questi ricevevano l'essere e la possanza dalla libera volontà de' vostri antenati, e voi, voi avete acconsentito che a Roma fossero cavati gli occhi; che il papa e l'imperatore abbandonassero le vostre mura, e non fossero più da voi dipendenti. Da quell'istante la pace fu sbandita dalle vostre mura, il sangue de' vostri nobili e de' vostri cittadini fu versato inutilmente in private contese; le vostre forze esaurite dalla discordia, e la città, già regina delle nazioni, diventata oggetto del loro scherno. Romani, io ve ne scongiuro, riflettete che voi vi esponete ad essere lo spettacolo dell'universo; il giubbileo si avvicina, i Cristiani verranno dall'estremità del mondo a visitare la vostra città; volete che non trovino che debolezza e ruina, che oppressione e delitti[465]!»
I nobili, da Cola da Rienzo attaccati così gagliardamente, ascoltavano motteggiando i suoi discorsi, e non pensando che potessero avere qualche effetto; i cittadini andavano dicendo che un oratore romano non cambierebbe lo stato di Roma coi quadri e colle allegorie; ma il popolo cominciava a fermentare, e le persone suscettibili di entusiasmo erano non meno scosse del volgo. Cola conobbe ch'era tempo di andare più avanti, ed il primo giorno di quaresima fece affigere alla porta di san Giorgio al Velabro una scrittura con queste sole parole: entro pochi giorni i Romani ritorneranno nel loro antico e buono stato. Dopo ciò tenne sul monte Aventino una segreta adunanza di tutte le persone che credette animate da patriotici sentimenti. Ebbero parte a quest'unione mercanti, letterati, ed ancora varj nobili di second'ordine. Cola da Rienzo supplicò quest'assemblea di veri Romani, di ajutarlo a salvare la patria; rappresentò loro la miseria, la servitù, i pericoli cui trovavasi abbandonata la loro città patria; ricordò l'antica estensione della romana repubblica, la fedele sommissione delle città d'Italia, che tutte al presente erano ribellate; egli piangeva parlando, e con lui piangevano i suoi uditori: ma ben tosto cercò di risvegliare il loro coraggio, assicurandoli che Roma non aveva ancora perduti gli elementi della sua potenza, che le sole imposizioni da loro pagate ogni anno bastavano per rendere la forza al governo e sottomettere i loro sudditi ribelli[466]; che il papa approvava gli sforzi ch'essi facevano per repristinare il buono stato, e che potevano far capitale della sua assistenza. Dopo averli raggirati con questi discorsi, Cola volle che tutti gli adunati sul monte Aventino giurassero sul Vangelo di prestarsi con tutte le loro forze al ristabilimento della romana libertà[467].
Era necessario valersi d'un favorevole istante per privare i nobili della sovrana autorità. Cola avvisato, il 19 maggio, che Stefano Colonna aveva condotto un grosso numero di gentiluomini a Corneto per iscortare un convoglio di biade, non aspettò più oltre; fece pubblicare a suono di trombe, in tutta la città, che chiunque dovesse nel susseguente giorno recarsi senz'armi presso di lui, onde provvedere al buono stato di Roma. Dalla mezza notte fino alle nove ore del mattino fece dire in sua presenza trenta messe dello Spirito Santo, nella chiesa di san Giovanni della Piscina; ed il 20 maggio, giorno dell'Ascensione, uscì di chiesa armato, ma col capo scoperto. Gli stava intorno molta gioventù che faceva risuonare l'aere con grida di giubbilo. Raimondo, vescovo d'Orvieto, vicario del papa in Roma stava al suo fianco; tre de' più grandi patriotti di Roma portavano i gonfaloni innanzi a lui, ne' quali vedevansi figurati soggetti allegorici della libertà, della giustizia e della pace. Lo scortavano cento uomini d'armi ed un'infinita moltitudine di popolo disarmato, e tutto questo pacifico corteggio si avanzò tranquillamente verso il Campidoglio.
Giunto al limitare dello scalone, Cola fermossi presso al Leone di basalto, e, voltosi al popolo, lo richiese di approvare i regolamenti per lo stabilimento del buono stato, che fece tutti leggere ad alta voce. Questo primo schizzo di costituzione provvedeva alla pubblica sicurezza, piuttosto che alla libertà dei diversi ordini dello stato. Si stabiliva per ogni quartiere della città una guardia di venticinque cavalli e di cento pedoni; alcuni vascelli guardacoste venivano destinati lungo le rive del Tevere per proteggere il commercio, i nobili erano privati del diritto di tenere fortezze, ed il popolo doveva avere la guardia dei ponti, delle porte e di tutti i luoghi fortificati. In ogni quartiere della città si dovevano stabilire pubblici granaj; guarentire i sussidj di carità ai poveri; ed i magistrati dovevano dare sollecito corso alle procedure ad al castigo dei delitti[468]. Queste leggi vennero accolte con entusiasmo dal popolo adunato, che autorizzò Cola a dar loro esecuzione, investendolo a tale effetto del suo sovrano potere.
Il vecchio Stefano Colonna, avuto avviso in Corneto de' movimenti del popolo, rivolò a Roma coi suoi gentiluomini. Questo signore era ad un tempo il più potente de' Romani baroni, ed il più amato dal papa. All'indomani del di lui arrivo, Cola gli ordinò di uscire dalla città; e quando seppe che il Colonna aveva con disprezzo lacerato il suo ordine, fece suonare la campana d'allarme del Campidoglio; onde tutto il popolo fu in armi, e Colonna ebbe appena il tempo di fuggire con un servitore verso Palestrina. Gli altri baroni romani ebbero tutti ordine d'abbandonare la città, ed ubbidirono. Allora tutti i luoghi fortificati della città, le porte, i ponti ec. furono dati in custodia alle compagnie della milizia. I più famosi banditi che da molti anni sprezzavano la giustizia e le leggi furono mandati al supplicio; ed il popolo adunato in parlamento conferì i titoli di tribuno e di liberatore di Roma a Cola da Rienzo. I medesimi titoli furono pure accordati al vescovo d'Orvieto, vicario del papa, che raggirato, come gli altri, dalla eloquenza di quest'uomo straordinario, contribuiva di buon cuore all'abbassamento dell'antica oligarchia ed al ristabilimento del buono stato[469].
Il tribuno, dopo aver fatta riconoscere la propria autorità entro il circondario di Roma, cercò di richiamare il territorio all'ubbidienza del popolo romano. Erano le campagne di Roma sotto l'immediata giurisdizione della nobiltà, la quale vi teneva un infinito numero di fortezze, ed inoltre poteva far capitale della fedeltà dei contadini suoi vassalli. Non pertanto Cola mandò ad ordinare a tutti i gentiluomini di recarsi in Campidoglio a giurare di contribuire dal canto loro al buono stato di Roma. Un giovane Colonna si presentò a Cola, non mosso da desiderio d'ubbidire, ma per osservare ciò che facevasi in città: poichè vide il tribuno in Campidoglio, circondato da un popolo immenso, cui faceva giustizia, e sempre preparato ad eseguire i suoi ordini, giurò sull'Eucaristia e sul Vangelo quanto gli veniva domandato. Poco dopo si videro arrivare tre altri Colonna, un Orsini ed un Savelli, ed altri distinti baroni, che prestarono lo stesso giuramento. Obbligavansi tutti a spedire vittovaglie al mercato di Roma, a mantenere la sicurezza delle strade, a proteggere le vedove e gli orfani, ed a presentarsi in Campidoglio colle armi o senza ad ogni richiesta. Promettevano in pari tempo di non attaccare i tribuni ed il popolo di Roma, di non prestare asilo ai malfattori ed agli assassini, e finalmente di non appropriarsi le entrate del comune. I gentiluomini, i giudici, i notaj, i mercanti furono chiamati a dare lo stesso giuramento di mantenere il buono stato[470].
Dopo una violenta anarchia, durante la quale uomini colpevoli di orribili misfatti osavano passeggiare per le contrade di Roma con piena sicurezza e facendo tremare i pacifici cittadini, sembrava a' Romani d'avere ricuperata la libertà quando videro puniti gli assassini, i furti, gli adulterj. Arbitrarie ma giuste sentenze atterrivano i delinquenti; e l'ordine vedevasi ristabilito in Roma. La giustizia d'un despota non era più separata da quella d'un popolo libero, e la sicurezza del maggior numero faceva dimenticare l'arbitrario potere che opprimeva pochi individui.
Frattanto Cola da Rienzo aveva spediti ambasciatori in Avignone per informare il papa di quanto aveva fatto, ed averne la sua approvazione. Le proteste del tribuno di sommissione e di ubbidienza calmarono alquanto l'estremo terrore che prodotto aveva nella corte pontificia il primo avviso della recente rivoluzione[471]. Era il secolo dell'erudizione e della pedanteria: le stesse opinioni intorno agli eterni diritti de' Romani, alla loro antica potenza, all'ubbidienza loro dovuta dai papi, dagl'imperatori, da tutto il mondo, che avevano invaso Cola da Rienzo, e procuratogli un caldo difensore ed entusiasta nel Petrarca, erano poco più poco meno comuni a tutti i letterati d'Europa, ed ottenevano a Cola partigiani che da lui si ripromettevano le più grandi imprese. In allora, secondo lo andava con orgoglio dicendo il Petrarca, il solo nome di Roma valeva assai. La sicurezza ridonata alle strade nelle vicinanze di Roma risguardavasi da tutta l'Europa come un pubblico vantaggio, perchè mantenevasi tuttavia in vigore la moda dei pellegrinaggi, e perchè il giubbileo annunciato per l'anno 1350 andava a richiamare la moltitudine de' fedeli nella capitale della cristianità. I corrieri di Cola portavano una bacchetta argentata colle insegne del popolo di Roma, del papa e del tribuno; e tale distintivo li faceva ovunque rispettare. «Ho portata questa bacchetta, diceva uno di loro, nelle strade delle città e nelle foreste; migliaja di persone sonosi poste in ginocchio, e la baciarono con lagrime di gioja, riconoscenti della sicurezza resa alle strade, e dell'espulsione degli assassini[472].»
In effetto i corrieri di Cola avevano attraversata quasi tutta l'Europa, essendo stati mandati alle città ed ai comuni della Toscana, della Lombardia, della Campania e della Romagna, al doge di Venezia, ai signori di Milano e di Ferrara, ai principi di Napoli, al re d'Ungheria, al papa ed ai due imperatori eletti, per annunciar loro il ristabilimento in Roma del buono stato, della pace e della giustizia. Nicola severo e clemente, tribuno della libertà, della pace e della giustizia, illustre liberatore della santa repubblica romana (tali sono i titoli ch'egli prendeva[473] ) gli eccitava colle sue lettere a mandare a Roma deputati, muniti di bastanti istruzioni, per deliberare con lui in un'adunanza europea intorno al buono stato dell'Europa. Tutte le strade, soggiugneva egli, sono oramai sicure, ed i pellegrini, non meno che gli ambasciatori dei principi, possono fare senza timore il viaggio di Roma[474].
Questi messi del tribuno furono ben accolti, e più che altrove in Toscana: i Fiorentini onorati dal titolo di figliuoli di Roma, e Colonia de' Romani, gli spedirono cento cavalieri, promettendo di mandarne un maggior numero, tostochè ne avesse bisogno[475]. I Perugini gli mandarono sessanta cavalli, cinquanta i Sienesi[476]; e l'intera Italia mostrossi disposta ad assecondare, o fors'anco a ricevere ben tosto i suoi ordini.
Ma il capo del tribuno non era abbastanza forte per resistere alla vertigine cagionata da un inaspettato innalzamento. Pochi uomini usciti da una classe subalterna sanno conservarsi veramente grandi in mezzo alla prosperità. Cola da Rienzo aveva fatta impressione sul popolo di Roma colle allegorie, seguendo in ciò il gusto del suo secolo, e lo spirito di una nazione avida di spettacoli; proseguì anche quand'ebbe conseguito il potere, a voler abbagliare il popolo coi medesimi mezzi; i suoi abiti, le corone, le bandiere che portavansi innanzi a lui, le iscrizioni sulla croce e sul globo che teneva in mano nelle processioni, ogni cosa era simbolica e destinata ad istruire i Romani. Frattanto lo stesso tribuno era più abbagliato da questa pompa, che il popolo spettatore. Di già egli andava moltiplicando le feste e le ceremonie non meno per viste politiche, che per piacere o per vanità; e dimenticando che la sua grandezza consisteva nell'essere uomo unico e non paragonabile a verun altro, sforzavasi d'imitare gli altri sovrani, e di emularli nel fasto dei titoli, e nella pompa che lo circondava. Compiacevasi di vedersi servito dai principali signori, e godeva della loro umiliazione. La sua consorte era corteggiata dalle signore, i suoi parenti innalzati a grandi dignità; ed egli medesimo cercava il parentado dell'antica nobiltà maritando la sorella ad un barone romano[477].
La prosperità delle imprese di Cola e l'approvazione dell'universo che sembrava aspettare i suoi ordini, accresceva la presunzione del tribuno. Giovanni di Vico, signore di Viterbo e prefetto di Roma, era stato forzato a sottomettersi: assediato dai Romani in Viterbo, ne uscì col favore d'un salvocondotto ed era venuto in Campidoglio a gettarsi ai piedi di Cola implorando la sua grazia e la clemenza del popolo romano, che gli conservò il suo governo[478]. Tutte le fortezze del patrimonio di san Pietro erano state cedute ai luogotenenti del tribuno, il quale vedeva continuamente arrivare a Roma solenni ambascerie di Fiorenza, d'Arezzo, Siena, Todi, Terni, Spoleti, Rieti, Amelia, Tivoli, Velletri, Pistoja, Foligno ed Assisi. Il popolo di Gaeta gli mandò dieci mila fiorini, i Veneziani gli fecero offerta delle loro persone e beni per difesa del buono stato. Luchino Visconti di Milano gli scrisse chiedendogli la sua alleanza. Vero è che gli altri tiranni d'Italia, Taddeo de' Pepoli, il marchese d'Este, Mastino della Scala, Filippino Gonzaga, i signori di Carrara, gli Ordelaffi ed i Malatesti avevano ingiuriosamente risposto alle sue lettere; ma siccome il tribuno aveva annunciato il progetto di liberare l'Italia dai tiranni, la nimicizia loro poteva essere per lui compensata dall'affetto de' loro popoli. Luigi di Baviera che ancora viveva colla coscienza inquieta per scomuniche contro di lui fulminate, gli aveva scritto, pregandolo a riconciliarlo colla Chiesa. Il duca di Durazzo, il principe Luigi di Taranto, e la regina Giovanna l'avevano nelle loro lettere chiamato carissimo amico; per ultimo il re Luigi d'Ungheria gli aveva spedita un'ambasciata per chiedergli vendetta degli uccisori di suo fratello. Il tribuno condusse gli araldi d'armi di quest'ambasciata innanzi al popolo adunato, e ponendogli la corona tribunizia in sul capo, rispose loro: io giudicherò il globo della terra secondo la giustizia, ed i popoli secondo l'equità[479]. Ben tosto infatti la causa della regina Giovanna e del re Luigi fu disputata innanzi al suo tribunale dagli ambasciatori nominati dalle contrarie parti[480]; ma Cola non pronunciò veruna sentenza.
Frattanto la sempre crescente vanità del tribuno l'impegnò a farsi armare cavaliere, come se tale distinzione, che lo innalzava al rango della nobiltà, non lo riponesse al di sotto di coloro, di cui era in avanti padrone. Questa ceremonia si fece il primo giorno d'agosto nella chiesa di san Giovanni di Laterano. Venne preceduta da una corte plenaria, ove splendidissime feste furono date a tutti gli ambasciatori, agli stranieri ed ai più distinti Romani nei tre palazzi di Laterano. La vigilia della festa di san Pietro in Vincola, il tribuno bagnossi nella conca di porfido, ove la tradizione dice che si era bagnato Costantino, dopo essere guarito dalla lepra da papa san Silvestro. Cola passò la notte nel recinto del tempio, e nel susseguente giorno si presentò al popolo coperto di scarlatto e di vajo, facendosi cingere la spada da messer Vico Scotto, cavaliere e gentiluomo romano[481]. Ascoltò poscia la messa nella cappella di papa Bonifacio, durante la quale si volse al popolo gridando: «Noi vi citiamo messer papa Clemente a venire a Roma, sede della vostra chiesa con tutto il collegio de' vostri cardinali[482]. Citiamo voi Luigi di Baviera e Carlo di Boemia, che vi chiamate re ed imperatori de' Romani, e con voi tutto il collegio degli elettori germanici, perchè giustifichino innanzi a noi i diritti che hanno all'impero, e su quali fondamenti pretendono disporne. Dichiariamo intanto, che la città di Roma e tutte le città d'Italia sono e devono conservarsi libere; noi accordiamo a tutti i cittadini di queste città la cittadinanza romana, e chiamiamo il mondo in testimonio che l'elezione dell'imperatore romano, la giurisdizione e la monarchia appartengono alla città di Roma, al suo popolo ed a tutta l'Italia.» In appresso sguainando la sua spada, percosse l'aria verso cadauna delle tre parti del mondo, ripetendo: questo appartiene a me, questo appartiene a me, questo appartiene a me. Spedì subito corrieri a portare le citazioni alla corte d'Avignone ed ai due imperatori[483]. Il vicario del papa, vescovo d'Orvieto, che aveva assistito a tutta questa cerimonia, rimaneva come fuor di sè vedendo tanto e così inaspettato ardire. Chiamò per altro un notajo per protestare in faccia a lui ed al popolo, che ciò facevasi dal tribuno senza sua saputa e senza l'assenso del papa. Ma Cola fece subito suonare le trombe, onde i Romani non potessero udire tali proteste[484].
Ciò null'ostante il vicario non rifiutò di pranzare solo col tribuno alla tavola di marmo, mentre la moglie di Cola presiedeva nel palazzo nuovo alla mensa di nobili signore. Altre tavole venivano servite nel palazzo vecchio, senza distinzione di ranghi, ad abbati, a monaci, a cavalieri, a mercanti, invitati alla ceremonia; e fin allora non erasi altrove veduta in un banchetto tanta magnificenza[485].
Questo fasto esauriva l'entrate di Roma, e le persone sagge cominciavano ad avvedersene. In un pranzo dato da Cola poche settimane dopo ai principali signori della nobiltà romana, il vecchio Stefano Colonna propose se meglio convenisse ad un popolo l'essere governato da un prodigo o da un avaro. Dopo molte parole Stefano sollevò il lembo del mantello del tribuno ch'era ornato di frange d'oro e di ricami, e gli disse presentandoglielo: «Tu stesso, o tribuno, dovresti portare i modesti abiti de' tuoi eguali, piuttosto che questi pomposi ornamenti.» Cola turbossi ad un rimprovero che pareva accomunarlo al volgo, ed uscì della sala senza rispondere; ed in un primo movimento di collera ordinò l'arresto di tutti i nobili che si trovavano nella sala. Per giustificare questo subito rigore, disse ben tosto d'avere scoperta una congiura che i nobili ordivano contro il popolo e contro di lui[486]. Fece adunare in Campidoglio il parlamento, o assemblea generale, per il susseguente giorno 17 di settembre, ed annunciò che per liberare per sempre il popolo dal giogo dell'oligarchia, disponevasi a far decapitare tutti i nobili che avevano presa parte al tradimento. Tutto parve disposto per quest'orribile esecuzione; nella sala de' giudizj si stese un drappo di seta bianca screziata a colore di sangue; fu mandato ad ogni barone un frate minore per confessarlo e dargli la comunione, ed intanto le campane del Campidoglio suonavano per adunare il popolo. Il vecchio Stefano Colonna, cui pesava il morire, rimandò il frate e la comunione, dichiarando che non era disposto, e che gli affari dell'anima sua e quelli della sua famiglia non erano altrimenti accomodati, nè lo potevano essere così presto[487].
Forse il Tribuno non aveva altra mira che quella di spaventare i nobili, e fors'anco si lasciò piegare dalle istanze de' loro amici: quando vide il popolo adunato salì la tribuna delle arringhe, e prese per tema le parole dimitte nobis peccata nostra, e si fece presso al popolo intercessore per i baroni prigionieri; dichiarò in loro nome che questi gentiluomini si pentivano dei loro errori, e che d'or innanzi servirebbero il popolo con fedeltà. I prigionieri si presentarono l'un dopo l'altro innanzi al popolo, e ricevettero la grazia a capo chino; in seguito risguardando la loro fedeltà come indubitata, Cola accordò loro importanti cariche, prefetture e ducati nella Campania ed in Toscana[488].
La clemenza che tien dietro ad un'ingiusta collera, non merita in verun caso riconoscenza; i nobili furono appena fuori delle prigioni del tribuno e delle mura di Roma, che pensarono a vendicarsi. Il Colonna e due Orsini presero a fortificare il castello di Marino; vi adunarono uomini d'armi e munizioni, senza che Cola pensasse ad opporsi a questi ostili apparecchi; in breve spiegarono lo stendardo della ribellione, ed, occupato Nepi, abbruciarono molte castella, e portarono i loro guasti fino alle porte di Roma[489].
Il ristauratore della repubblica romana non era fatto per le cose della guerra; egli non conosceva altrimenti quel valore che ammirava negli antichi, e che pensava di far rivivere: e per tal modo l'opposizione tra il coraggio di spirito spiegato nella sua impresa, e l'assoluta mancanza di coraggio militare che mostrò in appresso, può sembrare all'osservatore o ridicola o affliggente. Lungo tempo prima di prendere le armi, cercò d'intimidire i suoi nemici colle citazioni o colle minacce. Finalmente le grida del popolo, che non sapeva pazientemente soffrire il guasto delle campagne, l'obbligarono a muovere la milizia romana. Ottocento cavalli e venti mila pedoni sotto la condotta di Cola da Rienzo si avanzarono contro i Colonna e guastarono il territorio di Marino com'era stato guastato quello di Roma. Dopo otto giorni di minacce piuttosto che di battaglie, il tribuno ricondusse l'armata in città; si fece vestire in Vaticano della dalmatica, mantello fino allora riservato ai soli imperatori, ed accolse con tale abito un legato che il papa mandava a Roma per farvi rivivere la propria autorità[490].
Frattanto i Colonna avevano, dal canto loro, fatta ribellare Palestrina; e molti de' loro partigiani li richiamavano in Roma, assicurandoli d'essere pronti ad aprir loro le porte tosto che li vedessero avvicinarsi con sufficienti forze. Perciò i Colonna adunarono in Palestrina seicento uomini d'armi e quattro mila fanti, avanzandosi poi fino al luogo, detto il Monumento, lontano quattro miglia dalle porte. Ma il romano valore era egualmente spento nel petto de' nobili come nel popolo, e la lotta per difendere o per rovesciare il buono stato, la libertà e la repubblica, trattavasi da ambo le parti con una pusillanimità indegna di così gloriosi nomi. Benchè il tribuno avesse ragguardevoli forze, non osava sortire di città; ma invece faceva ogni mattina chiamare a suono di campana il popolo a parlamento; e per incoraggiare il popolo adunato, faceva il racconto de' sogni avuti la precedente notte, e le promesse di soccorsi a lui fatte da papa san Martino, figlio di un tribuno di Roma, o da Bonifacio VIII, nemico dei Colonna[491].
I nobili, dal canto loro, occupavansi ancor essi dei loro sogni; e Pietro Agapito Colonna voleva persuadere i suoi compagni d'armi a ritirarsi, perchè aveva veduto ne' suoi sogni sua moglie in abito di corrotto. Malgrado questo presagio, il vecchio Stefano Colonna presentossi ad una delle porte di Roma accompagnato da un solo servitore, e domandò d'essere introdotto in città; le guardie lo minacciarono, senza per altro cercare di farlo prigioniero, come avrebbero potuto agevolmente fare. L'armata dei nobili erasi avanzata dalla banda di Monte Testaceo[492] fin presso alla porta di san Paolo, di dove i Colonna potevano udire la campana del Campidoglio che suonava sempre a stormo; onde argomentarono che v'erano aspettati, e si ritrassero dall'attaccare il popolo, tostochè ebbero perduta la speranza di sorprenderlo. Ma senza voler venire ad un fatto d'armi, risolsero, prima di ritirarsi, di sfilare avanti le porte in atto di sfidare il tribuno. La truppa loro era divisa in tre battaglioni; i due primi passarono senz'essere molestati, e la porta fu tenuta chiusa finchè cominciò a passare il terzo battaglione, ed allora fu aperta per rispondere colle bravate alle bravate. Il giovane Giovanni Colonna quando vide aperta la porta sperò che i suoi partigiani se ne fossero impadroniti, spronò il cavallo ed entrò in città, avanzandosi fino ad un tratto d'arco. Con eguale viltà i suoi compagni d'armi lo lasciarono solo mentre i cittadini fuggivano innanzi a lui. Quando Giovanni s'accorse d'essere abbandonato, volle dar addietro, ma il suo cavallo inciampò, ed il popolo affollandoglisi addosso, lo uccise mentre domandava la vita in dono. Suo padre, il vecchio Colonna, giunto la volta sua innanzi alla porta volle entrare per soccorrere il figliuolo, poi ripartì quando conobbe la grandezza del pericolo; ma ferito con un sasso lanciatogli mentre fuggiva, fu atterrato ed ucciso alla stessa porta senza avere neppure potuto valersi delle sue armi. Gli altri gentiluomini non tentarono nè meno di prendere parte alla battaglia, inseguiti nella loro fuga da un popolo furibondo, che ne fece molti prigionieri: Pietro Agapito Colonna ed il signore di Belvedere furono uccisi in una vigna ove cercavano di nascondersi; gli altri gittarono le armi e non si fermarono avanti di giugnere ne' loro castelli[493].
La gioja del tribuno dopo questa vittoria cui aveva presa sì poca parte, fu tanto più smoderata, quanto più grande era stata la sua paura. Tornò trionfante in Campidoglio, e depose innanzi all'immagine della Vergine in Araceli la sua bacchetta tribunizia, e la sua corona d'argento a foglie d'ulivo. Arringò in seguito il popolo, e si vantò d'aver abbattute quelle teste che nè gl'imperatori nè i papi avevano potuto mai far piegare. Finalmente non permise che si rendessero gli onori funebri ai cadaveri dei Colonna[494]: ma invece di approfittare della vittoria e di assediare Marino, che i nobili avrebbero, in quel primo istante di terrore, abbandonato, perdette un tempo prezioso nelle feste ed intorno a ridicole cerimonie; armò cavaliere della vittoria suo figliuolo, nel luogo medesimo in cui era stato ucciso Stefano Colonna; accrebbe le imposte per pagare i soldati, e ne consumò i proventi in un fasto insensato. Frattanto il popolo s'andava da lui alienando; vedeva Giordano Orsini portare la desolazione fino sulle porte di Roma; vedeva che il tribuno era incapace di far rispettare il suo governo, e lo accusava egualmente degli errori che gli vedeva commettere e degli oltraggi che gli facevano i suoi nemici.
Il legato che Clemente VI aveva spedito a Roma, chiamavasi Bertrando di Deux; il quale manteneva corrispondenza colla nobiltà romana, e dopo il suo arrivo in Italia erasi formato una svantaggiosa opinione del tribuno. Passando per Siena aveva detto a que' magistrati, che Cola da Rienzo era un nemico della chiesa; che il papa disponevasi a farlo processare per delitto di ribellione, onde pregava la repubblica a richiamare le truppe ausiliarie che gli aveva fin allora somministrate[495]. Non pertanto il legato era stato ricevuto, entrando in Roma, da Cola da Rienzo con segni di profondo rispetto per la sua persona e per il pontefice; era stato presentato al popolo in pieno parlamento, ed assicurato dell'ubbidienza della repubblica e del suo capo. Ma Bertrando di Deux non si appagò di queste esteriori dimostrazioni di sommissione; egli volle privare il popolo dell'autorità per renderla alla nobiltà romana che godeva il favore del papa e del collegio de' cardinali: perciò fece alleanza con Luca Savelli e Sciarreta Colonna; ed accusando il tribuno di eresia, fulminò contro di lui una sentenza di scomunica.
Un altro ancora più pericoloso nemico e più intraprendente armavasi in pari tempo contro Nicola da Rienzo. Giovanni Pepino, conte di Minorbino, esiliato dal regno di Napoli, dove aveva, col mezzo di assassinj, tentato di vendicare la morte del re Andrea[496], erasi rifugiato in Roma con alcuni de' suoi compagni d'armi, accostumati com'egli a disprezzare gli ordini e le leggi. Il tribuno, avvisato dei disordini che commettevano e degli omicidj di cui si rendevano colpevoli, volle arrestarli, o costringerli ad uscire di Roma: ma il conte di Minorbino erasi fatto forte coll'alleanza del legato e dei Colonna; e con cento cinquanta cavalli si pose nel quartiere ove i Colonna tenevano i loro palazzi, ed avevano più partigiani che altrove; vi si afforzò con barricate; e rimandò con disprezzo coloro che gli portavano gli ordini del tribuno.
Cola da Rienzo andò ad attaccare con una compagnia di cavalleria le barricate del conte di Minorbino, e nello stesso tempo fece suonare a stormo la campana di sant'Angelo Pescivendolo. Ma tutto quel giorno e tutta la seguente notte il popolo non volle prendere le armi sebbene la campana suonasse sempre. I Romani rifiutavansi ugualmente di combattere contro il conte di Minorbino, o di difenderlo, non prendendo verun interesse alla sorte di questo straniero; perciò non pensavano nè a seguire il suo esempio, resistendo al tribuno, nè ad approfittare di quest'occasione per ribellarsi. Erano omai diventati affatto indifferenti per quel buono stato tanto pomposamente annunciato, poi trovato così poco stabile; erano stanchi delle rappresentazioni teatrali e delle arringhe del tribuno; determinati di aspettare tranquilli gli avvenimenti, e non di prepararli essi medesimi.
Frattanto molto popolo erasi adunato in Campidoglio, ma disarmato; il tribuno lo arringò, ma inutilmente; parlò della propria amministrazione, del bene che aveva fatto, di quello che voleva fare; imputò all'altrui invidia d'aver posti ostacoli a' suoi benefici progetti, pianse, sospirò, e la sua eloquenza seppe ancora farsi strada al cuore, di modo che i sospiri e le lagrime del popolo risposero alle sue; ma non perciò si vide tra i suoi uditori alcun movimento coraggioso, niuno gli annunziò una vittoria facile ad ottenersi. «Dopo aver governato sette mesi, disse alla fine, io deporrò adunque la mia autorità;» e niuna voce fu udita per fargli una dolce violenza per pregarlo di tenere ancora le redini del governo. Allora Cola da Rienzo fece suonare le trombe d'argento, e coperto di tutte le insegne della sua dignità, accompagnato da tutti coloro che trovavansi dipendenti dalla sua fortuna, e dai suoi soldati, scese dal Campidoglio, attraversò in pompa Roma quasi in tutta la sua lunghezza ed andò a chiudersi in Castel sant'Angelo. Sua moglie si trasvestì per seguirlo; e tre giorni dopo la sua ritirata i baroni esiliati rientrarono in Roma, che ricadde all'istante in uno stato di anarchia peggiore di quella che precedette il governo del tribuno[497].
La rivoluzione che rovesciò Cola da Rienzo, ebbe luogo il 15 dicembre del 1347, meno di sette mesi dopo essersi fatto capo della repubblica. In questo breve spazio di tempo, quest'uomo aveva dato al mondo un maraviglioso esempio del poter dell'eloquenza e dell'entusiasmo che il nome e le memorie di Roma eccitavano in tutta l'Europa, come pure dell'inebriamento cui si espone il dotto che dalla sua biblioteca viene portato sul trono, e che non ha potuto prepararsi che coi libri all'esercizio del sovrano potere.
FINE DEL TOMO V.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO V.
Capitolo XXIX. Nuovi capi dell'impero e della chiesa. — Guerre di Genova. — Guerra universale in Italia. — Papa Giovanni XXII scomunica e depone Luigi IV di Baviera, re de' Romani. 1314-1323 pag. 3
Differenze fondamentali tra i caratteri delle razze diverse degli uomini 3
Il carattere degl'Italiani formato dai borghesi delle città, quello degli Spagnuoli dalla nobiltà delle campagne 4
Una nuova nobiltà, che non era feudale, era stata creata nelle città d'Italia 6
Ogni spirito cavalleresco distrutto in Italia 8
L'invenzione del sistema dell'equilibrio delle potenze devesi al 14º secolo 9
I Fiorentini mirarono in tutto il quattordicesimo secolo a mantenere quest'equilibrio 10
Tale equilibrio giovando al mantenimento della libertà interna indebolisce l'esterna potenza di una nazione 11
La divisione dell'Italia in molti stati fu tanto utile nel quattordicesimo secolo, quanto fatale in appresso 12
Gl'Italiani non erano in tale epoca minacciati da esterni nemici 13
Funesta sorte delle città invase da un principe italiano 15
Cosa sarebbe stato dell'Italia se un usurpatore l'avesse avuta tutta in suo potere 16
In quale epoca le nazioni devono sagrificare l'interno equilibrio al bisogno di difendere la loro indipendenza 18
Quest'epoca cominciò per l'Italia in sul finire del regno di Carlo V 20
Condotta dei papi d'Avignone rispetto all'Italia ed alla Germania 21
1314 Rivalità delle case d'Austria e di Luxemburgo all'istante dell'elezione d'un nuovo imperatore 22
La casa di Luxemburgo fa eleggere Luigi IV di Baviera, e quella d'Austria Federico 24
Carattere dei due pretendenti all'impero 25
Illegali consacrazioni e coronazioni dei due imperatori 26
1314 Anarchia d'Italia durante l'interregno 27
Papa Clemente V pretende di succedere all'imperatore durante la vacanza dell'impero 28
Questo pontefice muore il 20 aprile del 1314 29
Il conclave di Carpentras sforzato a disciogliersi da una banda di sediziosi 32
Giacomo d'Ossa eletto due anni dopo a Lione il 7 agosto 1316 prende il nome di Giovanni XXII 33
Potenza di Roberto, re di Napoli, capo del partito guelfo 34
Talenti e carattere dei capitani ghibellini, e di Matteo Visconti loro capo 35
Matteo Visconti attaccato senza vantaggio dai generali di Roberto 36
1315 Matteo occupa Pavia, Tortona ed Alessandria 38
1316 Giovanni XXII tenta di rianimare in Lombardia il partito guelfo 39
1317 Matteo Visconti scomunicato dal papa per non avere deposta l'autorità conferitagli dall'imperatore 39
Tutte le forze dei due partiti chiamate a Genova dalle turbolenze di quella città 40
1317 Principio della guerra civile di Genova in febbrajo del 1314 41
I Ghibellini divisi tra di loro abbandonano ai Guelfi la loro città 41
I Ghibellini riconciliati nel loro esilio invocano l'assistenza di Matteo Visconti e di Cane della Scala 42
1318 Assedio di Genova cominciato dai Ghibellini in marzo del 1318 43
Il re Roberto vuole chiudersi in Genova per difenderla 44
Il re Roberto nominato dal popolo signore di Genova 44
1319 Egli sforza i Ghibellini di tutta l'Italia adunati innanzi a Genova a levare l'assedio di questa città il 5 febbrajo del 1319 46
Abusa della sua vittoria 47
Il re lascia Genova, ed i Ghibellini ricominciano subito l'assedio 47
I marchesi d'Este, spogliati dal papa della loro eredità, s'uniscono al partito ghibellino, ed il 15 agosto del 1317 ricuperano la sovranità di Ferrara 49
Bertrando del Poggetto cardinal legato viene dal papa mandato in Lombardia 51
1320 Filippo di Valois, dietro istanza del papa, scende in Italia per attaccare i Ghibellini 52
1320 Filippo si lascia chiudere tra il Po ed il Ticino, e si ritira dopo un vergognoso trattato coi Visconti 53
1321 Raimondo di Cardone, altro generale dei Guelfi, viene battuto dai Visconti 54
1322 Il papa ricorre a Federico d'Austria, offerendosi di riconoscere la sua elezione, invece dell'assistenza che gli domanda 55
Il Visconti dopo avere illuminato Federico intorno alla politica del papa, lo persuade a richiamare l'armata spedita contro i Ghibellini 57
Matteo Visconti onorato del nome di grande; suo carattere 58
Matteo perde tutt'ad un tratto il suo vigore 61
Suoi trattati colla chiesa, cui desidera di sottomettersi 62
Sua morte accaduta il 22 giugno del 1322 63
Sedizioni dirette contro Galeazzo Visconti suo figlio e suo successore 64
Galeazzo costretto a fuggire da Milano il giorno 5 novembre del 1322 65
Rientra in Milano il 12 dicembre dello stesso anno, e ricupera la sua signoria 67
1322 Perdite avute dai Ghibellini negli stati della chiesa. Federico di Montefeltro, signore d'Urbino, Osimo e Recanati, è massacrato il 26 aprile del 1322 68
1323 Gli ambasciatori di Lodovico di Baviera venuti in Italia per ristabilire la pace, si dichiarano per Galeazzo Visconti allora assediato in Milano 69
1314-1322 Guerra civile tra i due imperatori in Germania 70
1322 28 settembre. Vittoria di Lodovico di Baviera sopra Federico d'Austria a Muhlndorf 71
1323 Collera del papa contro Lodovico a cagione de' soccorsi dati ai Visconti 73
8 di ottobre. Prima sentenza di Giovanni XXII contro Lodovico 75
Protesta dell'imperatore 76
1324 Il 22 di marzo il papa scomunica l'imperatore, deponendolo e dichiarandolo incapace di regnare sopra l'impero 78
Capitolo XXX. Principj di Castruccio Castracani. — Rivoluzioni nelle repubbliche toscane. — Tirannia dell'abate di Paciana a Pistoja. — Rotta de' Fiorentini ad Altopascio. 1320-1325 80
Lega delle città guelfe della Toscana 80
Carattere di Castruccio, capo del partito guelfo di Lucca 82
1320 Castruccio si fa accordare la signoria dal senato di Lucca 82
Castruccio attacca i Fiorentini, saccheggia Val d'Arno e la Lunigiana 85
1321 I Fiorentini attaccano a vicenda Castruccio senza effetto 86
1322 In maggio. Rivoluzione di Pisa: sono esiliati i capi della nobiltà 88
Castruccio cerca di approfittare di queste turbolenze per sorprendere Pisa 88
Porta la guerra sul territorio di Pistoja 89
L'abate di Paciana, promettendo la pace al popolo, usurpa la signoria di Pistoja 90
Intelligenza dell'abate di Paciana con Castruccio 90
1323 L'abate viene soppiantato da Filippo Tedici suo nipote 93
Castruccio invade lo stato fiorentino, e minaccia Prato 95
Armamento de' Fiorentini per respingerlo, loro presunzione 97
Discordia tra la nobiltà ed il popolo 98
I Fiorentini lasciano in balìa della sorte il rinnovamento de' loro magistrati 102
1323 Inconvenienti del nuovo metodo d'elezione 103
Potenza di Bologna; celebrità di quella università 105
Sedizione eccitata dagli scolari per cagione di Giacomo di Valenza 107
Romeo de' Pepoli si dichiara pel partito degli scolari, per aprirsi la strada alla tirannide 109
Romeo de' Pepoli viene esiliato il 17 di luglio del 1321 110
Castruccio tenta di occupare Pisa 111
1324 Intrighi di Castruccio in Pistoja presso Filippo de' Tedici 112
1325 Il 5 maggio, acquista la signoria di Pistoja e ne prende possesso 113
I Fiorentini danno il comando della loro armata a Raimondo di Cardone 115
Il Cardone occupa i passaggi della Gusciana 116
Assedia e prende il castello di Altopascio 117
Castruccio riceve soccorsi da Galeazzo Visconti 118
Obbliga il Cardone a dimorare in una svantaggiosa posizione 118
Gli dà battaglia il 23 settembre del 1325 121
Intera disfatta dei Fiorentini. Cardone è fatto prigioniero 122
1325 Castruccio va ad accamparsi presso le porte di Firenze 123
Fa correre due pallj sotto le sue mura 124
Entra in Lucca trionfante 126
Capitolo XXXI. La Sardegna tolta ai Pisani dal re d'Arragona. — Il duca di Calabria signore di Firenze. — Spedizione in Italia dell'Imperatore Luigi di Baviera. — Grandezza e morte di Castruccio Castracani. 1324-1328 129
I Pisani rinunciano a poco a poco alla navigazione ed al commercio marittimo 130
Importanza della loro Colonia in Sardegna 131
1323 Congiura contro di loro di Ugo Bassi dei Visconti 131
Egli fa uccidere nel giorno 11 aprile del 1323 tutti i Pisani stabiliti in Sardegna 132
La Sardegna è invasa da Alfonso re d'Arragona 133
Sforzi de' Pisani sotto il comando di Manfredi della Gherardesca per difendere la Sardegna 134
1324 Assedio e presa della città di Chiesa e di Castro di Cagliari 135
I Pisani cedono la Sardegna al re d'Arragona il 10 giugno del 1326 139
1325 I Ghibellini lombardi attaccano Bologna 139
1325 Rotta de' Bolognesi a Monteveglio il 15 novembre del 1325 140
I Guelfi chiedono soccorso a Roberto re di Napoli 141
1326 Il 13 gennajo i Fiorentini accordano per dieci anni la signoria della loro città al duca di Calabria figlio del re Roberto 142
Inazione del duca di Calabria e dell'armata da lui condotta a Firenze 144
1327 Bologna si dà al legato del papa Bertrando del Poggetto 145
Luigi di Baviera arriva a Trento, e presiede al congresso dei Ghibellini d'Italia 146
Vuole vendicarsi del papa e l'accusa d'eresia 149
Prende la corona di ferro in Milano il 30 maggio del 1327 151
Fa imprigionare Galeazzo Visconti, e s'impadronisce delle sue fortezze e delle sue truppe 154
Egli accusa i Visconti in una dieta d'avere tradita la causa dei Ghibellini 155
Castruccio sollecita Luigi di Baviera a passare in Toscana 156
Gli apre il castello di Pietra Santa, e gli fa prendere la strada di Pisa 157
1327 Lo induce a far arrestare tre ambasciatori pisani, per servirgli d'ostaggio 158
Luigi di Baviera assedia Pisa e la sforza ad aprirgli le porte 162
Luigi erige in ducato gli stati di Castruccio 163
1328 Marcia con Castruccio alla volta di Roma 164
Luigi si fa coronare in Vaticano il 17 gennajo senza l'autorizzazione del papa 167
Fa cominciare un processo contro il papa, cui dà un successore 168
Pistoja viene sorpresa da un luogotenente del duca di Calabria 169
Castruccio torna in Toscana ed assedia Pistoja 170
La costringe a capitolare il 3 agosto del 1328 172
Cade infermo in conseguenza delle sostenute fatiche 173
Galeazzo Visconti, che trovavasi al suo soldo, s'ammala ancor esso e muore 173
Castruccio muore il 3 settembre del 1328. Suo carattere 174
Suo figlio maggiore prende possesso di Lucca e di Pisa 176
Debole ed impotente condotta di Luigi di Baviera 177
1328 Suo colloquio a Corneto con don Pedro di Sicilia 178
Morte di Carlo, duca di Calabria, signore dei Fiorentini, il 9 novembre del 1328 179
Capitolo XXXII. Grandezza di Firenze. — Ritirata di Luigi di Baviera e ruina de' suoi alleati. — Campagna in Italia di Giovanni di Boemia. 1328-1333 181
Carattere dei Fiorentini 181
Loro progressi nelle arti del disegno; Giotto ed i suoi allievi 183
1328 Riformano la loro costituzione dopo la morte del duca di Calabria 184
Fanno in maniera che tutti i grandi interessi dello stato siano rappresentati nel governo 185
Si dispongono a liberare i loro vicini dal giogo dei tiranni 188
Ingratitudine e perfidia di Luigi di Baviera verso i suoi partigiani 189
Tratta coi Visconti per vender loro Milano 190
Parte de' suoi soldati l'abbandona e si fortifica al Ceruglio 191
1329 Luigi di Baviera occupa Lucca il 6 marzo del 1329, e vende in seguito quella città a Francesco Castracani 192
1329 I figli di Castruccio scacciati ancora da Pistoja, si rifugiano tra le montagne 193
Luigi di Baviera parte dalla Toscana l'undici aprile del 1329 194
Pistoja viene abbandonata ai Fiorentini dai Panciatichi il 24 maggio 1329 195
Val di Nievole si sottomette volontariamente ai Fiorentini 197
Marco Visconti coi Tedeschi del Ceruglio s'impadronisce di Lucca il 15 aprile 199
Offre di vendere quella città ai Fiorentini 200
Ajuta i Pisani a scacciare dalle loro mura la guarnigione dell'imperatore 201
I Tedeschi rinnovavano l'offerta di vendere Lucca ai Fiorentini 202
Vendono finalmente questa città a Gherardino Spinola emigrato di Genova 204
La città di Modena tolta a Passerino Buonacossi da una sedizione il 5 giugno del 1327 205
1328 Congiura dei Gonzaghi di Mantova contro Passerino Buonacossi 207
Passerino viene ucciso il 4 agosto del 1328, e Luigi da Gonzaga si fa signore di Mantova 208
1329 Azzo Visconti chiude in faccia a Luigi di Baviera le porte di Milano 209
Luigi di Baviera torna in Germania 210
Azzo Visconti fa assassinare suo zio perchè godeva il favore del popolo 211
Cane della Scala, ultimo dei capitani ghibellini, muore il 22 luglio del 1329, dopo avere sottomesse Padova e Treviso 212
1330 I due capi dell'impero e della chiesa ugualmente sprezzati dal loro partito 214
Giovanni di Boemia, figlio di Enrico VII, diventa l'idolo della Germania 217
Intraprende a farsi l'arbitro ed il pacificatore dell'Europa 219
Passa in Italia ed a lui si danno volontariamente tutte le città della Lombardia 220
1331 Gherardino Spinola gli offre pure la signoria di Lucca 222
I Fiorentini che assediavano Lucca entrano in guerra col re di Boemia 224
Il legato Bertrando del Poggetto sembra d'accordo col re Giovanni 225
Il re Giovanni torna in Germania per combattere contro i suoi nemici 227
1332 I signori ghibellini di Lombardia gli dichiarano la guerra 228
Lega del re Roberto e de' Fiorentini coi Ghibellini di Lombardia 229
Il re di Boemia ottiene soccorsi dal papa Giovanni XXII 232
1333 L'armata del legato, suo alleato, viene battuta presso Ferrara il 14 aprile del 1333 233
1333 Ribellione della Romagna contro la Chiesa 234
Il re Giovanni vende a diversi signori le città che si erano a lui date, e lascia l'Italia il 15 di ottobre del 1333 236
Capitolo XXXIII. Mastino della Scala s'innalza sopra le ruine del re di Boemia, e del legato Bertrando del Poggetto. — Viene abbassato dalle repubbliche di Fiorenza e di Venezia. 1333-1338 237
Spirito delle due fazioni guelfa e Ghibellina 237
1333 Prosperità dei Fiorentini; celebrano alcune feste 240
Terribile inondazione del primo novembre 1333 241
I signori cessionarj di Giovanni di Boemia fanno lega con Bertrando del Poggetto 245
1334 Rivoluzione di Bologna contro Bertrando del Poggetto, accaduta il 17 marzo del 1334 246
1334 I Fiorentini ricevono il legato sotto la loro protezione 248
Morte di Giovanni XXII accaduta in Avignone il 4 dicembre del 1334 250
I teologi lo avevano accusato d'eresia, e forzato a ritrattarsi 252
Elezione del suo successore Benedetto XII 253
I Fiorentini di concerto coi principi lombardi attaccano i signori cessionarj del re di Boemia 255
1335 Mastino della Scala acquista Lucca a nome dei Fiorentini 256
Vuole conservare quella città e rendersi potente in Toscana 257
Eccita la nobiltà di Pisa a prendere le armi contro il popolo 257
I Fiorentini intimano invano a Mastino di rendere loro Lucca 260
1336 Essi muovono guerra a questo signore 261
Pietro Saccone dei Tarlati, signore d'Arezzo, alleato di Mastino 263
Siena, Perugia e Bologna alleate dei Fiorentini 265
Tentativi dei Fiorentini per assicurarsi l'alleanza di Venezia 267
1336 Trattato d'alleanza tra le due repubbliche fatto il 21 giugno del 1336 268
Pietro de' Rossi di Parma generale della loro armata 269
Ardire ed abilità di Pietro de' Rossi nella prima campagna 271
I Fiorentini stabiliscono capo della giustizia un conservatore con autorità arbitraria 272
Amministrazione tirannica di Jacopo Gabrielli d'Agobbio conservatore 273
1337 I Fiorentini comperano la signoria d'Arezzo 274
Eccitano nuovi nemici contro Mastino della Scala 276
Pietro de' Rossi offre ajuto ai malcontenti di Padova 277
Congiura di Marsilio ed Ubertino di Carrara a Padova 279
Marsilio di Carrara proclamato signore di Padova il 3 di agosto 280
Morte di Pietro de' Rossi accaduta il 7 agosto del 1337 280
Rivoluzione di Brescia contro Mastino della Scala 281
1338 Luigi di Baviera non può entrare in Italia per soccorrere Mastino 282
I Veneziani trattano separatamente con Mastino il 18 dicembre del 1338 283
1338 I Fiorentini costretti di accettare il trattato di pace l'undici febbrajo del 1339 285
Perdite fatte nel commercio de' Fiorentini 285
Capitolo XXXIV. Bologna sottomessa da Taddeo de' Pepoli. — Guerra de' Mercenarj o di Parabiago. — I Genovesi creano il doge. — Celebrità del Petrarca: viene coronato in Campidoglio. 1338-1341 288
Prosperità di Bologna sotto il governo del partito guelfo 288
Popolarità di Taddeo de' Pepoli 290
Trionfo della sua fazione in un tumulto popolare il 27 aprile del 1334 291
Secondo sollevamento popolare e seconda vittoria della stessa fazione il 7 luglio del 1337 292
Taddeo de' Pepoli si fa proclamare signore dai soldati 294
Viene riconosciuto dal consiglio di Bologna e dal papa 295
Mastino della Scala cerca di vendicarsi di Azzo Visconti 296
1338 I mercenarj dell'armata della lega custodiscono in pegno i sobborghi di Vicenza 296
1339 Lodrisio Visconti propone loro di condurli a Milano 299
Formazione della compagnia di san Giorgio comandata da Lodrisio Visconti 300
1339 Battaglia di Parabiago tra la compagnia e Lucchino Visconti il 20 febbrajo 301
La compagnia viene distrutta da cinque combattimenti datisi nello stesso giorno 302
Azzo Visconti ottiene in Pisa il diritto di cittadinanza 304
Muore improvvisamente il 16 agosto del 1339 305
Sedizione de' marinaj genovesi al servizio della Francia 306
Portano lo spirito di ribellione tra il popolo di Genova 307
Sedizione di Savona diretta contro i nobili 309
Il popolo di Genova accorda la dignità di doge a Simone Boccanigra il 23 settembre 1339 312
Vigorosa amministrazione del Boccanigra primo doge di Genova 313
Stato convulsivo di tutta l'Italia 314
Gloria attaccata alle lettere; zelo per lo studio 316
1340 La corona d'alloro offerta nello stesso tempo al Petrarca in Roma ed in Parigi 319
Carattere del Petrarca 320
Sua origine e prima sua educazione 321
Maestri sotto i quali studiò in Bologna 323
1341 Forma da lui data alla poesia italiana 325
Suoi amori 328
Viaggi in Germania ed in Italia 332
Prima d'essere coronato in Roma domanda di sottoporsi a pubblico esame 333
Egli va a Napoli presso il re Roberto in marzo del 1341 333
Debolezza del re Roberto; sua avarizia e sua pedanteria 334
Roberto esamina il Petrarca in tre giorni consecutivi, e lo dichiara degno dell'alloro poetico 337
Petrarca coronato in Campidoglio dal senatore di Roma l'otto aprile 1341 338
Capitolo XXXV. I Fiorentini comprano Lucca, mentre i Pisani l'occupano colle armi. — Guerra tra le due repubbliche. — Tirannide del duca d'Atene in Firenze. 1340-1343 340
1340 Prosperità del commercio fiorentino 340
Peste in Firenze nel 1340 342
Tentativi del partito oligarchico; crudeltà di Jacopo Gabrielli d'Agobbio 343
Cospirazione contro il Gabrielli e contro l'oligarchia 344
Viene scoperta; esilio dei Bardi e dei Frescobaldi 345
1341 I figli di Giberto da Coreggio tolgono Parma a Mastino della Scala 346
Mastino perduta perciò ogni comunicazione con Lucca cerca di venderla 347
I Fiorentini risolvono di comperarla a carissimo prezzo 348
I Pisani pensano di opporvisi 349
I Pisani in luglio assediano Lucca 350
I Fiorentini entrano in campagna nel susseguente agosto 352
La città di Lucca viene da Mastino consegnata ai Fiorentini 353
I Fiorentini sono disfatti il 2 ottobre del 1341 alle porte di Lucca 355
I Fiorentini domandano soccorso a Luigi di Baviera 356
Malatesta coll'armata fiorentina rientra nello stato di Lucca 357
Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, passa per Firenze 358
1342 Il Malatesta coll'armata fiorentina s'allontana da Lucca 361
Lucca s'arrende ai Pisani il 6 di luglio del 1342 361
Malcontento dei Fiorentini, che danno al duca d'Atene il titolo di capitano di giustizia 363
Severità del duca d'Atene contro diversi membri dell'oligarchia 364
1342 La nobiltà ed il popolo favoriscono il duca d'Atene 365
Vien chiesto ai priori di dargli la signoria 366
Rifiuto del gonfaloniere di giustizia 367
Intrighi del duca per essere eletto dal parlamento 368
Compromesso tra la signoria ed il duca 368
La sovranità viene dal popolo deferita al duca l'otto settembre del 1342 370
Il duca cerca di consolidare l'usurpata tirannide 372
Fa la pace coi Pisani, e loro cede Lucca 373
Primi sintomi del malcontento de' Fiorentini 374
1343 Il duca per sua difesa contrae alleanza cogli altri tiranni d'Italia 376
Sdegno di tutte le classi del popolo contro il duca 377
Tre congiure formate contro di lui nello stesso tempo 378
Una di queste viene scoperta il 18 luglio del 1343 380
Il duca vuole punire ad un tratto tutti i suoi nemici 380
Tutti i cittadini armansi contro il duca 382
Il duca assediato nel suo palazzo acconsente al supplicio de' suoi ministri 385
1343 Rinuncia alla signoria, e parte da Firenze il 26 luglio del 1343 387
Capitolo XXXVI. Firenze dopo la cacciata del duca d'Atene. — Grande compagnia del duca Guarnieri. — La regina Giovanna succede a Roberto, e fa morire suo marito. — Carlo IV eletto in opposizione a Luigi di Baviera. 1343-1346 388
Perdite fatte dai Fiorentini in tempo della tirannide del duca 388
Entrate della repubblica dal 1336 al 1338 389
Sue spese nella stessa epoca 390
Popolazione di Firenze 395
Stato del suo commercio 396
1343 Rivoluzione d'Arezzo, Pistoja, Colle, san Gemignano e Volterra 397
Nuova costituzione de' Fiorentini 400
La nobiltà nuovamente ammessa ai pubblici onori 400
Se ne fa privare un mese dopo 403
Giovanni Visconti d'Oleggio conspira a Pisa per farsene sovrano 405
1343-1345 Guerra tra questa repubblica ed i Visconti 405
Grande compagnia formata in Toscana dal duca Guarnieri 406
Essa saccheggia le campagne di Siena, e mette la città a contribuzione 408
1343-1345 Opprime uno dopo l'altro i piccoli principi della Romagna 410
Obbliga il tiranno di Bologna a comperare la pace 411
Si divide di concerto coi signori di Lombardia, ed i suoi soldati tornano in Germania 412
1343 Guerra civile in tutta l'Europa 413
Morte di Roberto, re di Napoli, il 19 gennajo del 1343 414
Gelosia tra la regina Giovanna ed il re Andrea, suo cugino e suo marito 416
1343 Minacce e progetti di vendetta del re Andrea 419
1345 Trama dei cortigiani della regina contro il re Andrea 420
Andrea strozzato presso la porta della camera della regina il 18 settembre 1345 422
Gli stessi principi del sangue prendono le armi contro la regina 423
1346 Il papa nomina un giudice per punire gli uccisori del re 424
Supplicio de' principali confidenti della regina 425
Luigi d'Ungheria accusa la stessa regina di complicità 426
S'innoltra fino a Zara per passare nel regno di Napoli 427
Non potendo attraversare l'Adriatico, fa la pace co' suoi vicini e preparasi a fare per terra il giro del Golfo 427
1346 Il papa vuole opporre un nuovo imperatore a Luigi di Baviera alleato del re d'Ungheria 429
Fa eleggere Carlo IV figlio del re Giovanni di Boemia 431
Morte inaspettata di Luigi di Baviera, accaduta il 10 ottobre del 1347 433
Capitolo XXXVII. Cola da Rienzo dà alla repubblica romana una nuova costituzione. — Affascinato dalla propria grandezza disgusta il popolo che lo abbandona 435
1347 Carattere di Cola da Rienzo 436
Anarchia di Roma sotto i senatori ed i caporioni 437
Cola da Rienzo spedito deputato al papa nel 1342 439
Cola, di ritorno a Roma, risveglia con alcuni quadri l'immaginazione del popolo 441
Spiega a san Giovanni Laterano una iscrizione romana 442
Invita i Romani allo stabilimento del buono stato 444
Il 20 maggio 1347 prende possesso del Campidoglio 445
Il popolo gli dà il titolo di tribuno e di liberatore di Roma 448
I nobili giurano di mantenere il buono stato 448
Cola domanda al papa d'approvare le sue operazioni 450
Entusiasmo da lui eccitato in tutta l'Europa 451
1347 Invita le potenze a ristabilire il buono stato in tutta la Cristianità 452
Vanità eccessiva e magnificenza del tribuno 453
Molti sovrani rivolgonsi a lui facendolo arbitro delle loro liti 456
Il primo agosto si arma cavaliere 457
Cita innanzi a sè il papa, i due imperatori, i cardinali e gli elettori 458
Offeso da Stefano Colonna minaccia di morte tutti i nobili 460
Loro fa grazia, e dà alcuni impieghi 462
I Colonna e gli Orsini escono di Roma, e prendono le armi 463
Incapacità militare di Cola da Rienzo 463
I Colonna s'avvicinano a Roma, e periscono per propria viltà 466
Smoderata gioja del tribuno, che non sa approfittare della vittoria 468
Viene a Roma un legato del papa e si dichiara contro il tribuno 469
Giovanni Pepino, conte di Minorbino, insulta il tribuno in Roma 470
Cola, abbandonato dal popolo, scende dal Campidoglio il 15 dicembre del 1347 471
Fine della Tavola.
NOTE:
1. Olenschlager Geschichte des Rom. Kayserthums in der ersten haelfte des XIV Jahrhunderts, c. 31, p. 80, Francf. 1755.
2. Olenschlager Gesch. c. 32, p. 83.
3. Gio. Villani l. IX, c. 66. — Schmidt Histoire des Allemands trad. l. VII, c. 5, t. IV.
4. Olenschlager Geschichte, § 33.
5. Litterae archiepiscopi Maguntini et electorum ad Rom. Pontif. ap. Raynald. 1314, § 18.
6. Lib. VII, decret. Clementina Pastoralem — Olenschlager Gesch. c. 28.
7. Bulla Clementis V, 2 idus martii, ap. Raynad. 1314, §§ 2. Da questa concessione fu eccettuata la Liguria.
8. Clementis V vita ex Bernardo Guidonis t. III, p. II.
9. Il seguente aneddoto riferito da uno de' più religiosi scrittori italiani può risguardarsi come una prova della pubblica opinione sul conto di questo pontefice. Spaventato dalla morte di un cardinale suo nipote, ch'egli molto amava, mostrò grandissimo desiderio di sapere ciò che accaduto fosse della di lui anima. Uno de' suoi più fedeli cappellani si lasciò, per compiacerlo, trasportare da un famoso negromante nell'altro mondo. Questi vide nell'inferno un palazzo, entro il quale il cardinal nipote giaceva sopra un letto di fiamme in pena della sua simonia; e di contro a questo palazzo i demonj ne andavano fabbricando un altro egualmente infiammato. Questo, disse uno di costoro al cappellano, è destinato pel tuo padrone. Il cappellano, tornato dalla sua missione, riferì a Clemente V la terribile notizia. Il quale spaventato da tale racconto, più non fu veduto sorridere; ed in breve morì colla coscienza agitata da così spaventosa predizione. Villani l. IX, c. 59.
10. F. Francisci Pipini Chron. in fine, p. 780.
11. Bernardi Guidonis, vite Clementis V, p. 464.
12. Vita Joan. XXII, a Canon. sanct. Victoris t. III, p. II.
13. Ferretus Vicentinus l. VII, p. 1168.
14. Gio. Villani l. IX, c. 79.
15. Galvan. Flam. Manip. Florum c. 354.
16. Alberti Mussati de Gestis Italic. l. I, R. 6.
17. Tristani Calchi Hist. Patriæ l. XXI.
18. Alber. Mussati de Gest. Ital. l. III, Rub. 6.
19. Ibid. l. VII, Rub. 3.
20. Ibid. Rub. 5.
21. Albert. Mussati de Gestis Ital. l. VII. R. 9.
22. Ibid. Rub. 11.
23. Ibid. Rub. 19. — Tristani Calchi l. XXI.
24. Bolla in data dell'undici delle Calende d'aprile 1317. Rayn. § 27.
25. Bonin. Morigiæ Chron. Mediol. l. II, c. 22. — Galv. Flam. Man. Flor. c. 365. — Trist. Calchi Hist. l. XXI.
26. Gio. Villani l. IX, c. 56.
27. Uberti Folietae Genuens. Hist. l. VI.
28. Georg. Stellae Annal. Gen. t. XVII, p. 1029. — Gio. Villani L. IX c. 85. — Uberti Folietae Hist. gen. l. VI, p. 414.
29. Gio. Villani l. IX, c. 90. — Chron. Asten. t. XI, c. 99, p. 254.
30. Georg. Stellæ Annal. Gen. t. XVII.
31. Gio. Villani l. IX, c. 92.
32. Georg. Stella Gen. Hist. p. 1033. — Gio. Villani l. IX, c. 93. — Ubert. Folieta l. VI.
33. Georg. Stellæ Ann. Genuens. p. 1034. — Gio. Villani l. IX, c. 95. — Chron. Astense c. 99. — Uberti Folietæ l. VI.
34. Georgii Stellæ Ann. Gen. p. 1091. — Ubertus Folieta Hist. Genuens. l. VI.
35. Georgii Stellæ Ann. Genuens. p. 1051. — Ubertus Folieta Genuens. l. VI.
36. Chron. Est. t. XV, p. 381. — Ann. Casen. t. XIV, p. 1137. — Joh. de Bazano Chron. Mutin. t. XV, p. 579. — Math. de Griffon Mem. Hist. t. XVIII, p. 138. — Cron. Misc. di Bologna p. 331, libro del polistore, t. XXIV, c. 9, p. 729.
37. Cortusiorum Hist. l. II, c. 15, t. XII, p. 803. — Tristani Calchi Hist. Patriae l. XXI, p. 472.
38. Gio. Villani l. IX, c. 98, e 118. — Cortusiorum Histor. l. II, c. 29, e c. 41. — Albertinus Mussatus Poema; seu de Gestis Ital. l. IX, X, XI.
39. Gio. Villani l. IX, c. 100. — Guglielmi Venturæ Chron. Astense c. 100, t. XI, p. 258.
40. Raynald. Ann. Eccles. 1320 § 10. — Galvan. Flamma Manip. Florum, c. 359.
41. Gio. Villani l. IX, c. 107 e 108. — Ann. Mediol. c. 92. — Chron. Asten. c. 101. — Bonincontri Morigiae Chron. Modetiens. l. II, c. 26. — Cronica Miscella di Bologna t. XVIII, p. 333.
42. Sua lettera presso Raynaldo 1322. § 8.
43. Tristani Calchi Hist. Patr. l. XXII.
44. Jacob. Malvecius Chr. Brixian. D. IX, c. 58. — Gio. Villani l. IX, c. 142, 143. — J. D. Olenschlager. Geschichte del Rom. Kay. § 40. — Raynald. Ann. Eccl. 1322, c. 9, 10.
45. Il Villani dice novant'anni, l. IX, c. 144: però gli storici milanesi lo fanno morire di settantadue.
46. Trist. Calchi Hist. l. XXII. — An. Eccles. 1322, § 5. — Chron. Astense, c. 105, p. 260.
47. Trist. Calchi Hist. Pat. l. XXII. — Bonincontri Morigiae Chron. Modoet. l. III, c. 2.
48. Gio. Villani l. IX, c. 158. — Bonincontri Morigiae Chron. Modoet. l. II, c. 27.
49. Gio. Villani l. IX, c. 176. — Chron. Plac. t. XVI, p. 493. — Chron. Astens. t. XI, c. 109.
50. Gio. Villani l. IX, c. 179. — An. Anon. Med. t. XVI, c. 95. — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 361. — Georgii Merulae Hist. Mediol. l. I, p. 77, t. XXV, Rer. Ital. — Boninc. Morigiae Chr. Modoet. l. III, c. 7. — Trist. Calc. l. XXII. — Colla narrazione di questi avvenimenti il Calchi termina la sua storia.
51. Gio. Villani l. IX, c. 182. — Pauli Jovit. Galeacius I princeps III. Ap. Graevium t. III, p. 285.
52. Gio. Villani l. IX, c. 189 e 197.
53. Ivi c. 186.
54. Ivi c. 139.
55. Questo castello fabbricato in cima alla più alta montagna della Romagna, era già libero, e governavasi a comune, ma era alleato de' Ghibellini e di Speranza di Montefeltro, cui diede asilo. Mel. Delfico Mem. Stor. della repub. di san Marino, p. 97.
56. I conti di Neyssen, Fruhendingen, e Graifspach. Olenschlager Geschich. § 44, p. 119.
57. Gio. Villani l. IX, c. 194.
58. Chron. Asten. c. 112, ed ultimo. — Galvan. Flammæ Man. Flor., c. 362. — Georgii Merulæ Hist. Mediol. l. I, p. 85. — Bonincontri Morigiæ Chr. Modoetianæ l. III, c. 21.
59. Olenschlager Gesch. des Rom. Kaiserthums § 41, p. 109.
60. Gio. Villani l. IX, c. 173. — Epitome Rer. Brem. R. P. Bohuslao Balbino, l. III, c. 17. — Olenschlager Geschichte des Rom. Kays. § 42. — Schmidt Hist. des Allem. l. VII, c. 5.
61. Lettera di Giovanni XXII 15 cal. januarii. Raynald. 1322, § 15.
62. Sentenza di Giovanni XXII contro Luigi di Baviera. Raynald. 1323, § 30. — Gio. Villani l. IX, c. 226.
63. Raynald. 1323, § 30.
64. Olenschlager Geschichte des Rom. Kaiserth. § 47, p. 124.
65. Apologia di Luigi di Baviera. Presso Raynald. 1323, § 4.
66. Raynald. An. Eccles. 1314, § 4.
67. Ib. § 13. Gio. Villani l. IX, c. 241. — Olenschlager Geschichte § 51, p. 133.
68. Raynald. An. § 21, p. 262. — Gio. Villani l. IX, c. 264.
69. Beverini Ann. Lucenses p. I, l. VI. Per istudiare quest'epoca, la più bella della storia di Lucca, approfittai di due preziosi MS. conservati negli archivj lucchesi. Contiene il primo la storia di Giovanni Ser Cambi, lucchese, che dovrebbe essere morto del 1409. La seconda parte di questa storia dal 1400 al 1409 si pubblicò nella grande collezione degli storici d'Italia l. XVIII. Ma il Muratori non ebbe copia della prima. Il manoscritto è correttissimo, legato in 4.º ed ornato di miniature. Non essendovi numeri di pagine nè di capitoli, non ho potuto citarli: altronde Ser Cambi, di cui dovremo parlare altrove, è un mediocre storico che merita poca confidenza. L'altro MS. è intitolato Ann. Bartholomei Beverini, ab origine Urbis Lucae, 3. vol. in foglio. Ma avendo il Beverini scritte le sue storie dopo il 1648 (vedasi l. VII, p. 934 ) non può risguardarsi come una fonte storica; ma egli aggiunse a Ser Cambi, che aveva tra le mani, tutti i titoli e documenti della repubblica conservati nel miglior ordine negli archivj dello stato. È scrittore erudito, e buon critico quando non viene traviato dalla sua parzialità per Lucca. L'antico governo non aveva permessa la pubblicazione di questa storia elegantissimamente scritta in latino.
70. Gio. Villani l. IX, c. 104. — Bever. An. Luc. p. I, l. VI, p. 754.
71. Gio. Villani l. IX, c. 109. — Leon. Aretinus. l. V.
72. Gio. Villani IX, c. 112. — Beverini An. Lucens. l. VI, p. 758.
73. Gio. Villani l. IX, c. 124. — Beverini An. Lucenses l. VI, p. 759.
74. Gio. Villani l. IX, c. 119. — Marangoni Cron. di Pisa, p. 644. — Cron. Anon. di Pisa t. XV, p. 997.
75. Gio. Villani l. IX, c. 151. — Marangoni Cron. di Pisa, p. 647.
76. Questa fortezza occupava il luogo del presente palazzo del principe. Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 763.
77. Istor. Pistolesi Anon. t. XI, p. 415. — Jannotii Manetti Histor. Pistor. l. II, t. XIX, p. 1031. — Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 761.
78. Istorie pistolesi anonime t. XI, p. 417. — Jannotii Manetti Histor. Pistor. l. II p. 1032.
79. Istorie pistolesi anonime p. 418.
80. Gio. Villani l. IX, c. 191. — Jannotii Manetti l. II, p. 1033.
81. Gio. Villani l. IX, c. 207. — Beverini Annales Lucenses l. VI, p. 766.
82. Gio. Villani l. IX, c. 208.
83. Gio. Villani l. IX, c. 213. — Leon. Aretinus l. V, p. 153.
84. Gio. Villani l. IX, c. 218.
85. Gio. Villani l. IX, c. 228. — Leon. Aretino l. V. — Macchiavelli Stor. Fior. l. II.
86. La signoria composta d'un gonfaloniere e sei priori, il collegio de' dodici buoni uomini, e quello dei 16 gonfalonieri delle compagnie.
87. Statuti Fiorentini l. V. Tract. I, R. 233.
88. Questo elogio che Filippo accordava a Parmenione era un sarcasmo contro gli Ateniesi. Ma tra i generali di questi contavansi Timoteo, Ificrate, Cabria o Focione.
89. Gio. Villani l. IX, c. 145. — Cronica Sanese di Andrea Dei t. XV, p. 63. — Malavolti Storia di Siena p. II, l. V, p. 82.
90. Intorno a Giovanni d'Andrea, vedasi Tiraboschi Stor. della Lett. t. V, l. II, c. 2. § 3.
91. Ghirardacci Stor. di Bologna l. XIX, t. II, p. 4. — Cron. Miscella di Bologna t. XVIII, p. 333. — Matthaei de Griffonibus Mem. Hist. p. 140.
92. Il nome di Maltraversa si diede in molte repubbliche al partito che difendeva la costituzione; quasi, che si attraversa al male. Il nome di scacchese veniva dallo stemma della famiglia Pepoli ch'era uno scacchiere.
93. Cron. di Bologna t. XVIII, p. 334. — Mathæi de Griffonib. Mem. Hist. p. 140. — Gio. Villani l. IX, c. 129. — Cherub. Ghirardacci Stor. di Bolog. l. XIX, t. II, p. 12.
94. Ivi l. XIX, p. 30. — Gio. Villani l. IX, c. 150.
95. Gio. Villani l. IX, c. 229. — Beverini Annales Lucenses l. VI, p. 772.
96. Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 779.
97. Gio. Villani l. IX, c. 294. — Ist. Pistolesi Anon. p. 421. — Jannotti Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1235. — Leon. Aretini l. V.
98. Gio. Villani l. IX, c. 300. — Ist. Pistol. Anon. p. 423. — Cron. Sanese d'And. Dei p. 66. — Beverini Annales Lucen. l. VI, p. 782.
99. Siena, Perugia, Bologna, Camerino, Agobbio, Grossetto, Montepulciano, Colle san Gemignano, Samminiato, Volterra, Faenza ed Imola.
100. Beverini Annales Genuenses l. VI, p. 784.
101. Gio. Villani l. IX, c. 301. — Jan. Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1037.
102. Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 785.
103. Chron. Placentinum t. XVI, p. 404. — Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. I. p. 97, t. XXV.
104. Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 790.
105. Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 793.
106. Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 794.
107. Gio. Villani l. IX, c. 304. — Ist. pistolesi Anon. t. XI, p. 425. — Cron. Sanese di Andrea Dei t. XV. — Leon. Aret. l. V. — Jannotii Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1038.
108. Beverini Annal. Lucens. l. VI. p. 796.
109. Un miglio fuori di Fiorenza dalla parte di Prato.
110. Gio. Villani l. IX, c. 315.
111. Gio. Villani l. IX, c. 210. — Istorie Pistol. p. 428.
112. Gio. Villani l. IX, c. 316.
113. Una campana sospesa all'antenna del carroccio.
114. Gio. Villani l. IX, c. 319. — Vita Castrucci Antelminelli a Nicolao Tegrimo t. XI, p. 1339. — Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 800.
115. Zurita indices rerum ab Aragon. Regib. Gestar. Hisp. illust. t. III, p. 165.
116. Gio. Villani l. IX, c. 196.
117. Ibid. — Georg. Stellæ Ann. Genuenses t. XVII, p. 1052.
118. Zurita indices rerum ab Aragon. Regib. Gestar. p. 165.
119. Gio. Villani l. IX, c. 209. — Zurita Indices l. II, p. 166. — B. Marangoni Cronica di Pisa, p. 649. — Cron. Anon. di Pisa t. XV, p. 998.
120. Zurita Ind. R. l. II, p. 166.
121. Gio. Villani l. IX, c. 209.
122. Gio. Villani l. IX, c. 236. — Zurita Ind. l. II, p. 167. — Pare che a quest'epoca i Sismondi fossero spogliati del principato d'Oleastro, posseduto da loro duecento settantaquattro anni. Per altro un antico storico di Lucca riferisce, sotto l'anno 1404, la morte di un Sismondi e di suo figlio Dragonetto, giudici e signori d'Arborea. Cronica di Lucca di Giov. Ser Cambi t. XVIII, p. 838.
123. Zurita Indices rer. ab. Arag. Reg. Gest. l. II, p. 167. — Gio. Villani l. IX, c. 250.
124. Gio. Villani l. IX, c. 307.
125. Georgius Stella Annal. Gen. p. 1054.
126. Cron. Anon. Pisa t. XV, p. 998. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 665. — Gio. Villani l. IX, c. 326. — Zurita Ind. rer. l. II, p. 169. — Mariana Istoria de las Españas l. XV, c. 18. — La pace pubblicossi in Pisa il 10 giugno 1326.
127. Mathæi de Griffonibus Memor. Histor. de reb. Bonon. t. XVIII, p. 142. — Cronica Miscel. di Bologna p. 338. — Chron. Esten. t. XV, p. 386. — Chronicon Mutin. Joh. de Bazano t. XV. — Gio. Villani l. IX, c. 321. — Istorie Pistolesi, p. 428.
128. Georg. Stellae Annales Genuens. t. XVII, p. 1053.
129. Gio. Villani l. IX, c. 318. — Istor. Pistolesi p. 430. — Leon. Aret. l. V.
130. Vedasi nel tomo IV il capitolo 26.
131. Gio. Villani l. IX, c. 346.
132. Cron. Sen. di And. Dei t. XV, p. 74. — Orlando Malavolti Stor. di Siena p. II, l. V, p. 84.
133. Gio. Villani l. X, c. 1.
134. Gio. Villani l. X, c. 6. — Ist. Pist. p. 431. — Beverini An. Lucens. l. VI, p. 813.
135. Gio. Villani l. X, c. 13.
136. Ivi c. 9.
137. Matthæi de Griffonibus Memor. Histor. p. 143. — Cron. Miscel. di Bolog. t. XVIII, p. 343. — Chron. Mutin. Bonifazii de Morano t. XI, p. 113. — Ghirard. Stor. di Bologna t. II, l. XX, p. 75.
138. Gio. Villani l. X, c. 15. — Albert. Mussatus Ludovicus Bavar. t. X, p. 770. — Istorie Pistolesi p. 442. — Cortusior. Hist. l. III, c. 10, t. XII, p. 839. — Chron. Esten. t. XV, p. 388. — Georg. Merulae Histor. Mediol. l. II, p. 101, t. XXV. — Leon. Aretini l. V, p. 173.
139. Olenschlager Geschichte des Rom. Kays. § 63. — Schmidt, Hist. des Allemands l. VII, c. 5.
140. Olenschlager Geschichte § 67.
141. Raynald. An. Eccles. t. XV, ad an. 1322 § 53 ec. — Ann. Coesenatenses t. XIV, p. 1148. In questi Annali, opera d'un Francescano, viene riportata una lunga lettera del generale de' frati Minori intorno a questa controversia.
142. Olenschlager Geschichte § 53. — Tiraboschi Stor. della Letter. Ital. t. V, l. II, c. 1, § 27.
143. Gio. Villani l. X, c. 18. — Chron. Veron. t. VIII, p. 644. — An. Mediol. t. XVI, c. 99, p. 704. — Olenschlager Geschichte § 74, p. 182.
144. Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. II. — Albert. Mussati Lud. Bavar. p. 771. — Boninc. Morigiæ Chron. Modoet. t. XII, c. 35 e 36. — Pet. Azarii Chron. t. XVI, c. 7. — Georgii Stellæ Ann. Genuens. t. XVII, p. 1056. — Pauli Jovii Galeaz. p. 288.
145. Gio. Villani l. X, c. 30. — Galv. Flam. Man. Flor. c. 365. — Chron. Modoet. c. 37. — Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. II, p. 104. — Olenschlager Geschichte § 76, p. 186.
146. Gio. Villani l. X, c. 32.
147. Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 821.
148. Gio. Villani l. X, c. 28 e 29. — Leon. Aret. l. V. — Beverini Annales Lucens, l. VI, p. 825.
149. Cioè Lemuno Guinicello dei Sismondi, Albizzo da Vico e Giacomo da Calci. Gio. Villani l. X, c. 23. — Marangoni Cronica di Pisa p. 657.
150. Cron. Sanese d'And. Dei, t. XV, p. 78. Tale minaccia non fu eseguita: gli ambasciatori furono liberati il 10 ottobre, dopo presa la città.
151. Leon. Aret. l. V. — Beverini Annales Lucenses l. VI, p. 827.
152. Gio. Villani l. X, c. 34. — Cronica di ser Gorello d'Arezzo, c. 4, t. XV, p. 827.
153. Gio. Villani l. X, c. 33. — Istor. Pistol. p. 444. — Olenschlager Geschichte § 77.
154. Istor. Pistol. p. 448. — Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 830.
155. Gio. Villani l. X, c. 49.
156. Gio. Villani l. X, c. 19.
157. Gio. Villani l. X, c. 23. — Cron. Sanese di And. Dei, p. 79.
158. Stava scritto sul petto: Egli è come Dio vuole: e sopra le spalle: E sì sarà quello che Dio vorrà. Gio. Villani l. X, c. 58.
159. Gio. Villani l. X, c. 55. — Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 833.
160. Gio. Villani l. X, c. 68. — Olenschlager Geschichte des Romisch Kayserthum § 82.
161. Gio. Villani l. X, c. 71. — Albertini Mussati Lodovicus Bavarus p. 772. — Vita Joan. XXII ex Amalrico Augerio t. III, p. II. — Raynald. Annal. Eccles. § 8, t. XV.
162. Ist. Pist. Anon. t. XI, p. 445. — Gio. Villani l. X, c. 57. — Leonard. Aret. l. V. — Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 835.
163. Gio. Villani l. X, c. 58.
164. Gio. Villani l. X, c. 81. — Olenschlager Geschichte, § 85.
165. Istorie Pistolesi, p. 447. — Giovanni Villani l. X, c. 83. — Leonardo Aretino l. V. — Beverini Annales Lucenses l. VI, p. 843.
166. Beverini Annales Lucenses l. VI, p. 845.
167. Istor. Pistolesi p. 450. — Gio. Villani l. X, c. 84. — And. Dei Cron. Sanese t. XV, p. 81. — Beverini Ann. Lucenses l. VI, p. 848.
168. Bonincontri Morigiae Chr. Med. c. 37. — Georgii Merulae Hist. Mediol. l. II.
169. Castruccio lasciava tre figli legittimi in minor età, Enrico, Valerano e Giovanni, sotto la tutela di Pina sua consorte. Aveva pure un bastardo chiamato Ortino. Beverini Annales Lucens. l. VI.
170. Et quidem is erat Castrucius, ut quoniam ita ferebant tempora, nullius manu libertas honestius periret. Beverini Ann. Lucens. l. VI.
171. Ibidem.
172. Gio. Villani l. X, c. 85. — Storie Pistolesi p. 451. — Vita Castrucci Antelminelli a Nicolao Tegrimo p. 1343. — Andrea Dei Cronaca Sanese t. XV, p. 83. — Cronica di Pisa anonima t. XV, p. 1000.
173. Gio. Villani l. X, c. 96.
174. Gio. Villani l. X, c. 102. — Cronica di Pisa p. 1000. — Andrea Del Cronaca Sanese p. 84. — Leonardo Aretino l. V.
175. Gio. Villani l. X, c. 104.
176. La seconda di queste figlie, Maria, nacque dopo la morte del padre.
177. Gio. Villani l. X, c. 109. — Cronaca Sanese di Andrea Dei p. 84.
178. Vasari, Vita di Giotto p. I.
179. Cioè sei priori, dodici buoni uomini, diecinove confalonieri delle compagnie, ventiquattro consoli delle arti, e sei deputati di ogni quartiere. La balìa veniva presieduta dal confaloniere di giustizia.
180. Gio. Villani l. X, c. 110. — Leon. Aretino l. V.
181. Gio. Villani l. X, c. 113 e 114.
182. D'ordine di Massimiliano, duca di Baviera, Gio. Giorgio Herwart, suo cancelliere, scrisse del 1618 un'opera per difendere Luigi IV contro le imputazioni de' Guelfi, e specialmente di Bzovio, continuatore degli Annali ecclesiastici. È un grosso libro in 4.º stampato a Monaco. Ma ridonda più d'invettive che di ragioni, e non basta a ristabilire la riputazione dell'imperatore.
183. Il Petrarca vi allude nella canzone Italia mia composta quando i Fiorentini pensavano di richiamare il Bavaro in Italia:
Nè v'accorgete ancor per tante prove
Del Bavarico inganno
Che alzando 'l dito colla morte scherza?
184. Gio. Villani l. X, c. 65.
185. Gio. Villani l. X, c. 117.
186. Gio. Villani l. X, c. 107.
187. Bart. Beverini Annales Lucens. l. VII.
188. Gio. Villani l. X, c. 117.
189. Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 857-859.
190. Istorie Pistolesi anonime t. XI, p. 453. — Gio. Villani l. X, c. 125.
191. Gio. Villani l. X, c. 128.
192. Istor. Pistolesi anon. t. XI. — Gio. Villani l. X, c. 130.
193. Gio. Villani l. VII, c. 76. — Prosper Omero Baldassaroni, Istoria di Pescia, un vol. in 8.º.
194. Gio. Villani l. X, c. 135. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 864.
195. Gio. Villani l. X, c. 129.
196. Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 861.
197. Leon. Aret. Stor. Fior. l. VI. — Machiav. Stor. Fior. l. II.
198. Andrea Dei Cron. Sanese t. XV, p. 86. — Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 863.
199. Gio. Villani l. X, c. 129.
200. Gio. Villani l. X, c. 133.
201. Gio. Villani l. X, c. 136. — Cronica di B. Marangoni di Pisa. — Beverini Annales Lucenses l. VII, p. 865.
202. Gio. Villani l. X, c. 142.
203. Ibid., c. 143. — Leon. Aretino l. VI, p. 191. — Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 869.
204. Gio. Villani l. X, c. 162.
205. Chron. Mutin. Joh. de Bussano t. XV, p. 588. — Chron. Mutin. Bonifacii de Morano t. XI, p. 113.
206. Chron. Modoetiense t. XII, l. II, c. 41.
207. Platina Hist. Mantuae t. XX, l. II, p. 727.
208. Cron. Miscel. di Bologna p. 349. — Gio. Villani l. X, c. 99. — Bonifazio de Morano Chr. Mutin. t. XI, p. 116.
209. Gio. Villani l. X, c. 128.
210. Chron. Modoet. c. 40, p. 1158. — Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. III, p. 111.
211. Gio. Villani l. X, c. 141.
212. Gio. Villani l. X, c. 146. — Bonifaz. di Morano Chron. Mutin. p. 117. — Olenschlager Geschichte des Rom. Kayserth. § 89.
213. Gio. Villani l. X, c. 144.
214. Chron. Modoet. c. 42, p. 1159. — Gio. Villani l. X, c. 133.
215. Cortusiorum Historia de Novitatibus Paduæ l. III, c. 6 usque ad l. IV, c. 4. — Gio. Villani l. X, c. 103.
216. Hist. Cortusior. l. IV, c. 8 e 9, pag. 850. — Gio. Villani l. X, c. 139. — Chron. Veron. t. VIII, p. 646.
217. Gio. Villani l. X, c. 228.
218. Cronica Miscella di Bologna t. XVIII, p. 352.
219. Epitome Rer. Boemic., auctore Boluslao Balbino, l. III, c. 17, p. 316.
220. Epit. Rer. Boem. l. III, c. 18, p. 333.
221. Ib. c. 17, p. 325.
222. Il re Giovanni non sapeva probabilmente leggere. Suo figlio Carlo IV nel Commentario, che scrisse della propria vita, dice di lui: Præcepit Capellano meo, ut me aliquantulum in litteris erudiret, quamvis prædictus rex ignarus esset litterarum. Ex hoc didici lecere horas B. M. V. gloriosæ, et eas aliquantulum intelligens quotidie temporibus pueritiæ meæ libentius legi. — Vita Caroli IV, p. 17, verso, in historia duorum priorum familiæ Luceburg imperatorum. Reinerii Reineccii Stein hemii p. II, Helmestad. 1585 (nella biblioteca di Vienna).
223. Schmidt Histoire des Allemands l. VII, c. 6. — Olenschlager Geschichte des Rom. Kays. in XIV Jahrhund, § 94.
224. Jacobi Malvecii Chron. Brix. Dist. VII, c. 67. — And. Dei Cronica Sanese, t. XVI, p. 88.
225. Jacob. Malvecius in fine Chron. Brix. p. 1002. — Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. III, p, 119. — Bon. Morigiæ Chron. Modoet. l. III, c. 43, p. 1160.
226. Gio. Villani l. X, c. 168.
227. Gazata Chron. Regiense t. XVIII, p. 45.
228. Georg. Merul. Hist. Mediol. l. III. — Ann. Med. t. XVI, c. 103.
229. Chron. Mutin. t. XV, p. 592. — Gazata t. XVIII, p. 45.
230. Bonifazio di Morano Chron. Mutin. t. XI, p, 118 e 125. — Joh. de Bazano Chron. Mutin. t. XV, p. 593.
231. Gio. Villani l. X, c. 157. — Ist. Pist. p. 459.
232. Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 880-884.
233. Gio. Villani l. X, c. 166.
234. Gio. Villani l. X, c. 171. — Cronica Sanese d'And. Dei t. XV, p. 89.
235. Gio. Villani l. X, c. 172. — Istorie Pistol. Anon. p. 461. — Leonardo Aretino Stor. Fior. l. VI.
236. Gio. Villani l. X, c. 173.
237. Istor. Pistor. Anon. t. XI, p. 462. — Gio. Villani l. X, c. 178. — Ghirardacci Stor. di Bologna l. XXI, t. II, p. 99.
238. Cronica di Bologna p. 353.
239. Schmidt Histoire des Allemands l. VII, c. 6. — Epitome rer. Bohemic. l. III, c. 18. — Olenschlager Geschichte § 97.
240. Gio. Villani l. X, c. 181.
241. Epit. Rer. Boem. l. III, c. 18. — Gio. Villani l. X, c. 195.
242. Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. III. — Gazata Chronic. Regiense t. XVIII, p. 46.
243. Cortus. Ist. l. V, c. 2, p. 856. — Gio. Villani l. X, c. 203. — Chron. Veron. t. VIII, p. 647.
244. Georgii Merulæ Hist. Med. l. III, p, 122.
245. Gio. Villani l, X. c. 203. — Hist. Pistol. Anon. t. XI, p. 462. — Leonar. Aretin. l. VI.
246. Gazeta Chron. Regiense t. XVIII, p. 47. — Gio. Villani l. X, c. 210.
247. Gio. Villani l. X, c. 209. — Ist. Pistol. p. 464.
248. Questa figlia, detta Bonna o Gutha, del quale vocabolo si fece Giuditta, era stata prima promessa a Locktech figlio del re di Polonia, poi a Federico, marchese di Misnia; indi al figlio del conte di Bar, in appresso al figlio di Luigi di Baviera, finalmente ad Ottone, duca d'Austria. Dopo cinque contratti di matrimonio rotti dall'incostanza del padre, Gutha sempre vergine, e bellissima, entrò per ultimo nella casa di Francia. Epitome Rer. Bohemic. l. III, c. 18, p. 336.
249. Gio. Villani l. X, c. 211.
250. Gio. Villani l. X, c. 213.
251. Ivi, c. 215. — Leonardo Aretino l. VI.
252. Gio. Villani l. X, c. 217.
253. Istorie Pistolesi p. 466.
254. Gazata Chron. Regien. p. 48. — Ghirardacci Stor. di Bologna t. II, l. XXI.
255. Gio. Villani l. X, c. 226. — Annales Cœsenat. t. XIV, p. 1154. — Cron. Rimin. t. XV, p, 899. — Ghirardacci Storia di Bologna t. II, l. XXI.
256. Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 886. Non eranvi a quest'epoca più di trecento novantacinque famiglie che avessero il diritto di cittadinanza, e soltanto quarantaquattro di queste non erano ancora estinte al tempo del Beverini.
257. Gio. Villani l. X, c. 226.
258. Gio. Villani l. X, c. 218.
259. Framm. d'Anon. Pis. t. XXIV, p. 668. — Andrea Dei Cron. Senese t. XV, p. 92.
260. Gazata Chron. Regiense t. XVIII, p. 48.
261. Mathæi de Griffonibus, Memor. Hist. l. XVIII, p. 150. — Cronica Miscella di Bologna t. XVIII, p. 358. — Cherub. Ghirardacci Stor. di Bologna l. XXI. — Gazata Chron. Regiense p. 49. — Annal. Cœsenat. t. XIV, p. 1158. — Istorie Pistolesi t. XI, p. 467.
262. Gio. Villani l. XI, c. 6. — Leon. Aretino l. VI.
263. Il fratello dello storico Villani, banchiere del papa in Avignone, fu con altri impiegato a numerare questo tesoro. Gio. Villani l. XI, c. 19 e 20. Bonconte Monaldeschi, per altro, non lo fa montare che a quindici milioni di fiorini.
264. Olenschlager Geschichte des XIV jahrhund. § 109, p. 252.
265. Fleury Storia Eccles. l. XCIV, c. 33.
266. Gio. Villani l. X, c. 228. — Memorie per la Vita di Petrarca del de Sade l. II, t. I.
267. Gio. Villani l. XI, c. 19.
268. Gio. Villani l. XI, c. 21.
269. Olenschlager Geschichte § 112. — Albertus Argentin. p. 126.
270. Gio. Villani l. XI, c. 30-31. — Gazata Chron. Regiens. t. XVIII, p. 50. — Joh. de Buzano Chron. Mutin. t. XV, p. 596. — Bonifazio di Morano Chron. Mutin. t. XI, p. 126. — Chron. Estense t. XV, p. 399. — Chron. Placent. t. XVI, p. 496. — Stor. Pistol. p. 468.
271. Gio. Villani l. XI, c. 40. — Chron. Veron. t. VIII, p. 649.
272. Maccaroni era il soprannome di un ramo della famiglia Gualandi.
273. Cron. di Pisa t. XV, p. 1002. — Fram. d'anonimo Pisano t. XXIV, p. 670. — Gio. Villani l. XI, c. 42. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 684.
274. Gio. Villani l. XI, c. 44.
275. Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Brescia, Feltre, Belluno, Parma e Lucca. Gio. Villani l. XI, c. 45.
276. Cortus. Hist. l. VI, c. 1, t. XII, p. 869.
277. Gio. Villani l. XI, c. 45.
278. Gio. Villani l. XI, c. 25.
279. Gio. Villani l. XI, c. 48. — Leon. Aret. l. VI.
280. Gio. Villani l. XI, c. 24.
281. Cortus. Hist. l. VI, c. 2. — Chron. Veron. t. VIII, p. 650. — Gazata Chron. Regien. t. XVIII, p. 52. — Marin Sanuto Vite dei Duchi. — And. Navagero Stor. Ven. — Sandi Stor. civ. Ven. p. II, l. V.
282. Gio. Villani l. XI, c. 49.
283. Cortusiorum Histor. l. VII, c. 4.
284. Ist. Pistol. t. XI, p. 470. — Gio. Villani l. XI, c. 51. — Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 901.
285. Gio. Villani l. XI, c. 53. — Cortusior. Histor. l. VI, c. 4, p. 874.
286. Una simile ordinanza era stata portata a Siena l'anno precedente contro gli abitanti d'Agobbio. And. Dei Cron. Sanese p. 95. I gentiluomini di questa città, e specialmente i Gabrielli destinavansi tutti al mestiere di giudice.
287. Gio. Villani l. XI, c. 39.
288. Gio. Villani l. XI, c. 58-60. — Istorie Pistol. p. 471. — And. Dei Cronica Sanese t. XV.
289. Gio. Villani l. XI, c. 59. — Cronaca di ser Gorello d'Arezzo t. XV, c. 4.
290. Gio. Villani l. XI, c. 62. — Beverini Annales Lucenses l. VII, p. 904.
291. Chron. Est. t. XV, p. 400. — Marin Sanuto vite dei Duchi, t. XXII, p. 603. — Ann. Mediol t. XVI, c. 108.
292. Cortusiorum Hist. l. VI, c. 9. — Istor. Pistolesi, p. 472. — Chron. Veron. t. VIII, p. 650.
293. Cortusiorum Hist. l. VI, c. 6. — Gio. Villani l. XI, c. 63.
294. Istoria Padovana di Galeazzo Gataro t. XVII, p. 21.
295. Navagero Storia Veneta t. XXIII, p. 1018.
296. Istoria Padovana di Galeazzo Gataro p. 27.
297. Cortusiorum hist. l. VII, c. 5.
298. Gio. Villani l. XI, c. 64. — Cortus. hist. l. VII, c. 1-2 e 3.
299. Cortus. hist. l. VII, c. 4. — Gio. Villani l. XI, c. 63. — Istorie Pistolesi p. 473.
300. Gio. Villani l. XI, c. 72.
301. Gio. Villani l. XI, c. 76-81.
302. Olenschlager Geschichte § 130, p. 302.
303. Gio. Villani l. XI, c. 89.
304. Buggiano, la Costa, Colle ed Altopascio. Inoltre Mastino rinunciava ai suoi diritti sopra altre castella già acquistate, cioè Fucecchio, Castelfranco, santa Croce, santa Maria a Monte, Montopoli, Monte Catini, Monsummano, Monte vettorino, Massa, Cozzile, Uzzano, Vellano, Scrana e Castel vecchio.
305. Gio. Villani l. XI, c. 89. — Navagero stor. Venez. p. 1030. — Cortusiorum hist. l. VII, c. 18.
306. I Guelfi emigrati di Lucca ebbero da Mastino il permesso di rientrare in patria. D'altra parte molte famiglie ghibelline di Pescia e di Buggiano preferirono l'autorità di Mastino a quella d'una repubblica guelfa. I Garzoni, Pucci, Vanni, Nuti, Puccini, Lippi, Orsucci ec., si stabilirono a Lucca, ed ebbero i diritti di cittadinanza. Beverini l. VII, p. 908.
307. Gio. Villani l. XI, c. 71.
308. Il marco sterlino valeva allora quattro fiorini e mezzo, o circa sessanta franchi.
309. Gio. Villani l. XI, c. 87.
310. Storie Pistolesi p. 474. — Joh. de Bazano Chron. Mutin. t. XV, p. 598. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, t. XXII, p. 605. — Leonar. Aretino l. V.
311. Vedasi nel t. III il c. 22.
312. Cron. Miscella di Bologna t. XVIII, p. 360.
313. I Samaritani, Ghisilieri, Bianchi e Lambertini.
314. Filippo Bentivoglio era infatti bargello ossia ufficiale di polizia l'anno 1336 per la compagnia de' macellaj. Cron. Miscella di Bologna p. 367.
315. I conti di Panico, Beccadelli, Sabbadini, Robaldi e Boattieri.
316. Cronaca Miscella di Bologna p. 362.
317. Cron. Miscella di Bologna p. 363.
318. Il 20 agosto 1336. Cron. Misc. di Bologna t. XVIII, p. 370. — Math. de Griffon. Mem. Hist. p. 158.
319. Il 7 luglio 1337. Cronica di Bologna p. 374.
320. Cron. Miscella di Bologna t. XVIII, p. 375. — Math. de Griffon. Hist. p. 161. — Gio. Villani l. XI, c. 69.
321. Cron. di Bologna p. 377.
322. Ghirardacci Stor. di Bologna l. XXII, t. II, p. 136 e seguenti.
323. Cortusiorum Hist. de novit. Paduæ l. VII, c. 20.
324. Cortusior. Hist. l. VII, c. 20.
325. Gio. Villani l. XI, c. 96.
326. Chron. Modoet. l. IV, c. 2. — Galvan. Flamma Opuscula t. XII, p. 1022. — Istor. Pistol. Ann. t. XI, p. 475.
327. Milano, Como, Vercelli, Lodi, Piacenza, Cremona, Borgo san Donnino, Bergamo e Brescia.
328. Galvan. de la Flamma Opusc. de Gestis Vicecomitum t. XII, c. 1028.
329. Gio. Villani l. XI, c. 100.
330. Galv. de la Flam. Opusc. p. 1030.
331. Gio. Villani l. XI, c. 100.
332. Georg. Stellae Ann. Genuens. t. XVII, p. 1071.
333. Uberti Folietae Genuens. Hist. l. VII.
334. Georgii Stellae Annal. Gen. p. 1072.
335. Georg. Stellae Ann. Genuens. p. 1073. — Ann. Mediol. t. XVI, c. 11. Quest'ultimo non è, a dir vero, che un miserabile plagiario che qui copia verbalmente lo Stella, come in altri luoghi. Galv. Flamma e Azario.
336. Un Guglielmo Boccanigra aveva il primo, del 1257, portato il titolo di capitano del popolo; e come Simone era stato eletto dalla fazione democratica. Veggasi nel tomo III, il cap. 20.
337. Georgii Stellae Annal. Gen. p. 1074.
338. Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. VII.
339. Ivi. — Georgii Stellæ An. Gen. p. 1076.
340. Uberti Folietæ Gen. Hist. l. VII.
341. Memorie per la vita del Petrarca dell'ab. de Sade t. I, l. II, p. 428.
342. Petrarca non era di nulla debitore alla sua patria, da cui visse sempre in esilio e che solo assai tardi gli mandò Giovanni Boccaccio col decreto del suo richiamo. Desiderò la libertà d'Italia, ma non prese alcuna parte ben decisa nè pel partito guelfo, nè pel ghibellino.
343. Così chiamavasi l'archivista delle deliberazioni della signoria.
344. Il 22 luglio del 1304. Vedasi nel tomo IV, il cap. XXVI. — Memorie per la vita del Petrarca t. I, p. 16.
345. Memorie di Sade t. I, p. 30.
346. Memorie di Sade t. I, p. 44.
347. Gio. Villani l. X, c. 39, p. 625.
348. Memorie de Sade, t. I, p. 54.
349. «Questo dialetto» così parlò l'A. de Sade del maraviglioso linguaggio di Dante, «questo dialetto era tuttavia assai grossolano, quando Petrarca si degnò di sceglierlo per le sue poesie.» Memor. l. I, p. 80.
350.
In questo di Procuste orrido letto
Chi ti sforza a giacer?
Petrarca non impiegò per le quattro rime de' quattordici versi ond'è composto un sonetto, che le più ricche e più sonore desinenze: lo che gli fece più volte trascurare i vocaboli più adattati al sentimento. Imitò ancora le sestine de' Provenzali, piccoli poemi di sei stanze, cadauna di sei versi, dovendo ogni verso essere terminato da un sostantivo di due sillabe, senza che i versi della medesima stanza rimino fra di loro. In cambio di rima, gli stessi vocaboli sostantivi dissillabici devono soli terminare i versi delle seguenti cinque stanze, in modo che la rima che chiude la prima stanza sia principio della seconda, e così di seguito; infinchè cadauno de' sei vocaboli trovisi a suo luogo in fine di ognuno de' sei versi di ciascheduna stanza. Alcune sestine sono doppie, talchè la tortura si protrae per dodici stanze. Il poema si chiude col ripigliare tre versi che devono essere terminati da tre vocaboli de' sei adoperati nelle precedenti strofe. Questo metodico collocamento di vocaboli non offre veruna specie d'armonia all'orecchio, ma non è perciò meno difficile ad eseguirsi, e sottopone il poeta a tante difficoltà, che gli riesce quasi impossibile di conservare il pensiero della sua composizione (ciò sarà accaduto più frequentemente che al Petrarca, ai poeti provenzali).
In quasi tutte le edizioni del Petrarca le sestine sono stampate sotto il titolo di canzoni; ma la 3ª, 21ª, 32ª e 36ª canzoni, sono sestine. La 46ª, Mia benigna fortuna e 'l viver lieto, è una doppia sestina di 12 stanze.
351. La canzone 5.ª: O aspettata in ciel beata e bella, destinata ad incoraggiare Carlo IV alla Crociata, può addursi in esempio di questa mancanza di gusto. Questo canto di guerra veramente lirico viene chiuso da questi versi:
Tu vedra' Italia e l'onorata riva,
Canzon, che agli occhi miei cela e contende
Non mar, non poggio o fiume,
Ma solo Amor ec.
352. Memorie de Sade t. I, p. 96.
353. Memorie de Sade l. II, p. 130.
354. Così scriveva nel 1333 quando Giovanni di Boemia entrò in Italia col conte di Armagnac. «Ove troverò io bastanti lagrime per piangere la ruina della mia patria? Terribile destino! quale vergognoso giogo siamo vicini a portare! Nemici mille volte vinti immergeranno ne' nostri fianchi quelle spade che servirono ai nostri trofei, la signora del mondo gemerà nella schiavitù, porterà i ferri fabbricati da mani che furono strette dalle sue catene; e ciò che pone il colmo alle nostre sventure, ciò che i più feroci popoli e lo stesso Annibale non avrebbero veduto senza piangere, la bella, la possente Ausonia pagherà tributo ai Galli, a que' barbari, di cui Cesare non potè comprimere la rabbia, che tingendo del loro sangue i fiumi ed il mare.» Lettera in versi a Bartolomeo Tolomei di Siena. Fran. Pet. Car. l. I, ep. 3. De Sade Mem. l. II, p. 197. Del resto il terrore del Petrarca non fu giustificato dagli avvenimenti. Abbiamo di già veduto che Giovanni di Boemia dopo una campagna senza gloria tornò in Germania; che il conte d'Armagnac fu fatto prigioniero, e l'Italia quasi interamente sottratta a straniero dominio.
355. Franc. Petr. Famil. Epist. l. I, ep. 3 e 4. — Memor. de Sade l. II, p. 206.
356. Memor. de Sade l. II, p. 330.
357. Ivi, l. II, p. 403.
358. Memor. de Sade per tenere alla vita del Petrarca l. II, p. 435.
359. Gio. Villani l. X, c. 224.
360. Gio. Villani l. XI, c. 70.
361. Ivi, c. 78.
362. Ivi, c. 103.
363. Gio. Villani l. XI, c. 79. — Dominici de Gravina Chron. de rebus in Apulia gestis, t. XII, p. 551.
364. Veggasi, tra le altre, la sua lettera ai Fiorentini in occasione dell'inondazione, riportata dal Villani nel l. XI, c. 3.
365. Franc. Petrar. Epistola ad posteros.
366. Memorie per la vita del Petrarca, l. II, p. 445.
367. Ivi, l. III, t. II, p. I.
368. Dodici giovanetti vestiti di porpora appartenevano alle famiglie Forni, Trinci, Capizucchi, Caffarelli, Cancellieri, Coccini, Rossi, Papazucchi, Paparesi, Altieri, Leni ed Astalli. Altri sei in abito verde, che lo circondavano, portavano gl'illustri nomi de' Savelli, de' Conti, degli Orsini, degli Annibaldi, de' Paparesi, e de' Montanari.
369. Annali di Lodovico Bonconte Monaldeschi, t. XII, Rer. Ital. p. 540. Il Monaldeschi incomincia il suo racconto dicendo che ne' cento quindici anni da lui vissuti, e de' quali pensa di scrivere la storia, non ebbe altra malattia che quella di cui morì. Ma l'autore che faceva fondamento sopra una vita così lunga, e che di già l'annunziava come una verità storica, non continuò che per pochi anni il suo giornale.
370. Gio. Villani l. XI, c. 113, p. 840. — Istorie Pistolesi t. XI, p. 477. — Eguali divieti si fecero ancora a Siena, ove la peste non fu meno perniciosa. Andrea Dei Cron. Sanese, t. XV, p. 98.
371. Gio. Villani l. XI, c. 117, p. 841.
372. Gio. Villani l. XI, c. 117, p. 843. — Istorie Pistolesi t. XI, p. 477.
373. Gio. Villani l. XI, c. 118, p. 844.
374. Gio. da Cornazzano Stor. di Parma t. XII, p. 742. — Gio. Villani l. XI, c. 126, p. 848. — Istorie Pistolesi, p. 479. — Cortus. Hist. l. VIII, c. 6, t. XII, p. 905. — Chron. Mutin. Joh. de Bazano, t. XV, p. 600. — Chr. Esten. t. XV, p. 404.
375. Gio. Villani l. XI, c. 126, p. 848.
376. Ibid. c. 129, p. 850.
377. Il Villani era uno degli ostaggi, dandocene egli stesso notizia, e non pertanto eransi scelti dei migliori uomini popolani e dei più ricchi di tutta Fiorenza, dice Andrea Dei Cron. Sanese t. XV, p. 99. Ma il Villani era ad un tempo ricco mercante, buon magistrato e grande storico.
378. Cron. di Pisa t. XV, p. 1004. — Bernar. Marangoni Cron. di Pisa p. 688.
379. Gio. Villani l. XI, c. 139, p. 851. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 912.
380. Gio. Villani l. IX, c. 130, p. 853. — Cron. Pis. t. XV, p. 1006. — And. Dei Cron. Sanese p. 99. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 491. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 913.
381. Gio. Villani l. XI. c. 133, p. 853. — Ist. Pistolesi p. 481.
382. Gio. Villani l. XI, c. 132, p. 855. — Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 915.
383. Gio. Villani l. XI, c. 135, p. 857. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 692.
384. Gio. Villani l. XI, c. 133, p. 858. — Istorie Pistolesi p. 482. — And. Dei Cron. Sanese p. 100. — Cron. di Pisa t. XV, p. 1007. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 918.
385. Gio. Villani l. XI, c. 136, p. 861. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 919. — Cron. di Pisa t. XV, p. 1008.
386. Gio. Villani l. XI, c. 137, p. 863. — Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 920.
387. Gio. Villani l. XI, c. 138. — Istorie Pistol. p. 483. — Cron. di Pisa t. XV, p. 1010. — Ser Gorello, Cronaca d'Arezzo c. 5. p. 832.
388. Ducange, Storia di Costantinopoli l. VI, c. 8, p. 118.
389. Ib. l. VII, c. 21 e 22, p. 124.
390. Gio. Villani l. XI, c. 137, p. 862.
391. Gio. Villani l. XI, c. 139. — Istorie Pistolesi; p. 484. — Cronica di Pisa t. XV, p. 1011. — B. Marangoni Cron. di Pisa, p. 696. — Andrea Dei Cronica Sanese, t. XV, p. 104. — Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 923.
392. Gio. Villani l. XII, c. 1.
393. Gio. Villani l. XII, c. 1 e 2. — Istorie Pistolesi p. 484. — Andrea Dei Cron. Sanese p. 104.
394. I Bardi, Frescobaldi, Rossi, Cavalcanti, Bondelmonti, Adimari, Cavicciuoli, Donati, Gianfigliazzi e Tornaquinci.
395. Come i Peruzzi, gli Acciajuoli, i Baroncelli e gli Antellesi.
396. Gio. Villani l. XII, c. 3.
397. Gio. Villani l. XII, c. 3.
398. Gio. Villani l. XII, c. 3. — Istor. Pist. p. 486. — And. Dei Cron. San. t. XV, p. 105.
399. Gio. Villani l. XII, c. 3.
400. Gio. Villani l. XII, c. 8. — Istor. Pistol. p. 487. — Cron. di Pisa t. XV, p. 1012.
401. Marchione de Stefani Ist. Fior. l. VIII, Rub. 575, t. XIII. — Deliz. degli Erud. Tosc.
402. Gio. Villani l. XII, c. 7. — Istor. Pistol. p. 493.
403. Gio. Villani l. XII, c. 7, p. 881.
404. Gio. Villani l. XII, c. 15.
405. Istorie Pistolesi p. 494.
406. Gio. Villani l. XII, c. 15.
407. Gio. Villani l. XII, c. 16. — Ist. Pist. p. 494. — Andrea Dei Cron. Sanese, p. 108.
408. Peso per peso 3,600,000 lire; ma il valore del danaro era quadruplo del presente, ed inoltre tutti i sovrani erano infinitamente più poveri.
409. Gio. Villani l. XI, c. 91.
410. Di quest'epoca appunto abbiamo uno stato dell'entrate e delle spese della repubblica fiorentina, dettato da Giovan Villani ed in appresso copiato con poche variazioni da Marchione de Stefani. Gli è questo un curioso documento per l'economia politica e per la storia delle finanze.
Entrate della città e repubblica di Firenze dal 1336 al 1338 a fiorini d'oro del peso di 72 grani, di 24 carati.
Gabella delle porte e diritto di entrata ed uscita, appaltate per un anno fior. 90,200
Gabella per la vendita del vino alla spicciolata 1/3 del valore 59,300
Estimo 30,100
Gabella del sale venduto quaranta soldi per stajo ai borghesi e venti soldi ai contadini 14,450
Entrata dei beni de' ribelli, esiliati e condannati 7,000
Gabella sui prestatori ed usuraj 3,000
Prestazione dei nobili possidenti nel territorio dello stato 2,000
Gabella dei contratti (iscrizioni in ipoteca) 11,000
Gabella dei macellaj di città 15,000
Gabella dei macellaj di campagna 4,400
Gabella degli albergatori 4,050
Gabella delle farine e mulini 4,250
Tassa sui cittadini nominati podestà in paesi esteri 3,500
Gabella delle accuse 1,400
Prodotto della zecca sulle monete d'oro 2,300
Simile per le monete di rame 1,500
Rendita dei beni del comune e de' pedaggi 1,600
Gabella sui mercanti di bestie in città 2,150
Gabella per la verificazione dei pesi e delle misure 600
Immondezza ed affitto dei vasi d'Orsanmichele 750
Gabella sugli albergatori di campagna 550
Gabella dei mercanti della campagna 2,000
Ammende e condannazioni delle quali si ottengono il pagamento 20,000
Mancanza de' soldati (per esempio a titolo di dispensa dalla milizia) 7,000
Gabella sulle porte delle case di Firenze 5,550
Gabelle sulle fruttajuole e venditrici alla spicciolata 450
Licenza per portar armi a 20 soldi per testa 1,300
Gabella dei sergenti 100
Gabella sulla zattera dell'Arno 100
Gabella dei revisori delle guarenzie date alla comunità 200
Parte spettante allo stato dai diritti percetti dai consoli delle arti 300
Gabelle sui cittadini abitanti in campagna 1,000
fior. 297,100
Gabella sulle possessioni di campagna
Gabella sulle battaglie senz'armi
Gabella di Firenzuola
Gabella de' mulini e pescagioni
Il totale oltrepassa fior. 300,000
411. Spese della repubblica di Firenze dal 1336 al 1333 in lire fiorentine, valutato il fiorino d'oro lir. 3, sold. 2.
Salario del podestà e della sua famiglia, cioè arcieri e birri lir. 15,240
Salario del capitano del popolo e della sua famiglia 5,880
Salario dell'esecutore dell'ordinanza di giustizia 4,900
Salario del conservatore con cinquanta cavalli e cento fanti (ufficio straordinario ben tosto abolito ) 26,040
Giudice delle appellazioni sui diritti della comunità 1,100
Ufficiale incaricato di contenere il lusso delle donne 1,000
Ufficiale del mercato d'Orsanmichele 1,300
Ufficio del salario delle truppe 1,000
Ufficio delle paghe morte ai soldati 250
Tesorieri del comune loro ufficiali e notaj 1,400
Ufficio delle entrate fondiarie del comune 200
Custodi e guardie delle prigioni 800
Tavola dei priori e della loro famiglia in palazzo 3,600
Salario dei donzelli del comune e dei guardiani delle torri del podestà e dei priori 550
Sessanta arcieri e loro capitano in servigio dei priori 5,700
Notajo delle riformazioni col suo ajutante 450
Leoni, torcie, lumi e fuoco in palazzo 2,400
Notajo al palazzo de' priori 100
Salario degli arcieri ed uscieri 1,500
Trombetti del comune 1,000
Elemosine ai religiosi ed agli spedali 2,000
Seicento guardie di notte in città 10,800
Stendardi per le feste e corse de' cavalli 310
Spie e messaggieri del comune 1,200
Ambasciatori 15,500
Castellani e guardie delle fortezze 12,400
Approvvigionamento annuale di armi e freccie 4,650
Fior. 39,119 a lir. 3, ss. 2 per fiorino lir. 121,270
I lavori alle mura, ai ponti, alle chiese formano la spesa straordinaria unitamente al soldo delle milizie di guerra. In tempo di pace la repubblica non manteneva che settecento in mille cavalli ed altrettanti pedoni.
412. Calcolando in ragione di 5,800 in 6,000 battesimi all'anno, lo stesso Villani ritiene la popolazione di Firenze assai più bassa, ma nella peste, del 1348, morì più gente in Firenze, che il Villani non credeva trovarsi in città.
413. Gio. Villani l. XI, c. 93. Il collegio dei giudici era composto di ottanta in cento persone; quello de' notai di seicento. Eranvi sessanta tra medici e chirurgi, cento farmacisti o droghieri, cento quarantasei maestri muratori o falegnami, trecento maestri o calzolaj; non erasi potuto calcolare il numero de' merciajuoli perchè avevano botteghe ambulanti. Ibid.
414. Gio. Villani l. XII, c. 16.
415. Storie Pistolesi p. 496.
416. Nell'antica divisione i due sestieri d'Oltr'Arno e di san Pietro Scheraggio comprendevano essi soli la metà di tutta la città. I quattro nuovi quartieri furono santo Spirito (Oltr'Arno), santa Croce, santa Maria Novella, e san Giovanni.
417. Gio. Villani l. XII, c. 18.
418. Ivi, c. 19.
419. Gio. Villani l. XII, c. 20.
420. Gio. Villani l. XII, c. 21, p. 903.
421. Come gli Spini, gli Scali, i Brunelleschi, i Compiombesi, i Giandonati, i Guidi, alcuni Tosinghi, ed i conti di Certaldo e di Puntorno. Gio. Villani l. XII, c. 22.
422. Ivi, c. 24.
423. Cronica di Pisa t. XV, p. 1014.
424. Guelfo Buzzaccherini, secondo la cronaca di Pisa, o Bartolomeo, secondo quella di Pistoja.
425. Cron. di Pisa t. XV, p. 1012-1015. — Storie Pistol. Anon. p. 490-505. — B. Marang. Cron. di Pisa, p. 697. — Gio. Villani l. XII, c. 28, e 37.
426. Gio. Villani l. XII, c. 8. — Cron. di Pisa t. XV, p. 1012.
427. Istorie Pistolesi t. XI, p. 489.
428. Stor. Pistol. p. 487. — And. Dei Cron. Sanese t. XV, p. 105.
429. Cronaca Riminese t. XV, p. 900.
430. Cron. di Bologna t. VIII, p. 387.
431. Istor. Pist. p. 990. — Cortusior. Hist. l. VIII, c. 10, p. 909. — Chron. Estensa t. XV, p. 408.
432. Gio. Villani l. XII, c. 9. — Dominici de Gravina Chron. de rebus in Apulia Gestis t. XII, p. 553.
433. Antonii Bonfinii Rer. Hungar. Dec. II, l. X, p. 254.
434. Tra le sue lettere arbitrali vedasi la 4.ª de componendo et commutatione pœnarum, colla quale autorizza i giudici in certa quantitate pecuniæ componere pro curiæ nostræ parte. Gian. l. XXII, c. 5, t. III, p. 251.
435. Filippo di Taranto e Giovanni di Durazzo, fratelli di Roberto, avevano ambidue lasciati tre figli; Roberto, Luigi e Filippo di Taranto; Carlo, Luigi e Roberto di Durazzo.
436. Domin. de Gravina de rebus in Apulia gestis, p. 554.
437. Il re Luigi d'Ungheria, fratello d'Andrea, acconsentì nel 1344 a pagare 44,000 marche alla corte pontificia per ottenere da Clemente VI che per diritto di successione coronasse Andrea, re di Sicilia. Contin. Chr. Hungar. Jo. de Thwrocz a Jo. Archid. de Kikullew, p. III, c. 4, p. 176. Scrip. rer. Hungar, t. III.
438. Matteo Villani Ist. Fiorent. t. XIV, l. I, c. 9.
439.
«Oltraggio chiamo io l'alterigia, i modi
Superbi, usati a me dagli insolenti
Ministri, o amici, o consiglieri, o schiavi;
Ch'io ben non so come a nomar me gli abbia,
Quei che intorno ti stanno. E oltraggi chiamo
Quanti ogni giorno a me si fan; del nome
Appellarmi di re, mentre mi è tolto
Non che il poter, perfin la inutil pompa
Apparente di re; vedermi sempre
Più a servitù che a libertà vicino;
E i miei passi e i miei detti, opre e pensieri,
Tutto esplorarsi, e riferirsi tutto.»
Alfieri in Maria Stuarda Att. II, Sc. 3.
440. Domin. de Gravina Chron. rer. Apulia p. 559.
441. Gli altri congiurati erano, Bertrando figlio del conte d'Artusio, Tommaso e Massolo della Lionessa camerieri del re, Caraffello Caraffa, i conti di Tralizzo e di Eboli, Raimondo di Catania, Giacomo Capanno gran marescalco, i conti della Stella, Pace di Turpia, e Nicola di Merizzano.
442. Chron. Mutin. Joh. de Bazano t. XV, p. 612.
443. Domin. de Gravina Chr. de rer. Apulia p. 560.
444. Gio. Villani l. XII, c. 50, p. 931.
445. Chron. Estense t. XV, p. 421.
446. Tristani Caraccioli opus. historic. t. XXII, p. 12. — Domin. de Gravina Chr. Apul. p. 562.
447. Gio. Villani l. XII, c. 51. — Note alle Memorie per la Vita del Petrarca, t. II, p. 23. — Domin. de Gravina p. 564.
448. Chron. Esten. t. XV, 442. — Istor. Pist. p. 513. — Memor. per la Vita di Petr. t. II, l. III, p. 145.
449. Gio. Villani l. XII, c. 51.
450. Johanna! inordinata vita præterita, ambitiosa continuatio potestatis, neglecta vindicta, et excusatio subsequuta, te viri tui necis arguunt consciam, et fuisse participem. — Bonfinius de rebus Hungaric. Dec. II, l. X, p. 261. — Chron. Esten. t. XV, p. 445. — Cron. di Bologna t. XVIII, p. 408. — Giannone Ist. Civile del regno di Napoli l. XXIII, t. III. p. 301.
451. Bonfinius Rer. Hungar. Dec. II, l. X, p. 259. — Petri de Reva, De Monarchia et S. Corona Regni Hungar. Cent. VI. — In Script. Rer. Hung. t. II. p. II, p. 644. (Vienna 6 vol. in foglio 1746) — Joh. de Kikullew Chr. Ungaror. p. III, c. 8, p. 178. — Scr. Rer. Hungar. t. I.
452. Gio. Villani l. XII, c. 38, p. 938. — Hist. Pist. p. 515.
453. La successione al trono di Polonia era stata assicurata a Luigi fino nel 1338 nel congresso di Visgrado. Bonfinius, decad. II, l. IX, p. 254. Pure Luigi non ebbe quella corona che nel 1371, dopo morto Casimiro. Maritò la più giovane delle sue figlie, Adiuga, al principe di Lituania, che prese il nome di Ladislao Jagellon, facendosi cristiano. Di qui ebbe origine l'illustre famiglia de' Jagelloni, e le pretese della corona d'Ungheria sulla Polonia. Bonfin. Rer. Hung. Dec. II, l. X, p. 273-275.
454. Schmidt Hist. des Allem. l. VII, c. 7, t. IV, p. 522.
455. Il diploma apud Olenschlager Geschichte § 93. — Kaiser karl der vierte von Franz Martin Pelzel I. Theil, p. 143. (2 vol. in 8 Praga 1780) — Schmidt, Stor. dei Tedeschi l. VII, c. 7, p. 532. La vita di Carlo IV scritta da lui medesimo finisce sgraziatamente all'epoca della sua coronazione. Apud R. Reim. Steinhemium, p. II, p. 39, v.
456. Epitome Rerum Bohemicarum l. III, c. 18, p. 348.
457. Gio. Villani l. XII, c. 66. — Epit. Rer. Boemic. Balbini, l. III, c. 18, p. 348.
458. Gio. Villani l. XII, c. 59.
459. Schmidt, Storia degli Allemanni, l. VIII, c. 8, p. 540.
460. Suo padre Rienzo, diminutivo di Lorenzo, era oste, e sua madre lavandaja.
461. Frammenti di Storia Romana d'anonimo contemporaneo, l. II, c. 5, p. 411. — Ant. Ital. t. III.
462. Framm. della storia Romana, l. II. c. I, p. 399.
463. Memorie per servire alla vita del Petrarca, l. III, t. II, p. 50.
464. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 2, p. 401.
465. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 3, p. 405.
466. Lo storico Romano fa dire a Cola, che oltre la capitazione, le gabelle del sale e quella delle porte, le entrate di Roma ammontavano a trecento mila fiorini; ma vi dev'essere senza dubbio qualche cosa di esagerato: le entrate di Roma non potevano di que' tempi uguagliare quelle di Firenze.
467. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 4, p. 409.
468. Frammenti di Storia Rom. l. II, c. 6, p. 413.
469. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 7, p. 415. — Il vicario dei papa in Roma lo rappresentava in sua assenza per le cose spirituali, non per le temporali.
470. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 8, p. 417.
471. Petrar. Epistolæ edit. Basil. in fol. 1071. — Mem. per la vita del Petrar. l. III, p. 328.
472. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 11, p. 421.
473. In appresso adottò titoli più fastosi e più ridicoli: Candidatus Spiritus Sancti, Miles Nicolaus, severus et clemens, liberator Urbis, zelator Italiæ, amator Orbis, et Tribunus augustus. Ist. Pist. p. 520. — Cron. Sanese, p. 118. — Cron. Est. p. 441.
474. Cron. Est. p. 438.
475. Gio. Villani l. XII, c. 89.
476. Andrea Dei Cronica Sanese t. XV, p. 118.
477. Lo storico anonimo di Roma ci lasciò nel suo ingenuo dialetto una curiosa descrizione di questa corte. «Puoi se faceva stare denanti a se, mentre sedeva, li baroni tutti in piedi, ritti, colle vraccia piecate, e colli capucci tratti. Deh! como stavano paurosi! aveva questo Cola una sia moglie molto iovene e bella, la quale quanno ieva a santo Pietro, ieva accompagnata da iovani armati. Delle patricie la sequitavano. Le fantecche colli sottili pannicelli nanti a lo visaio li facevano viento, e innustriosamente rostavano, che soa faccia non fosse offesa da mosche. Havea uno sio zio, Janni Barbieri avea nome, Barbieri fò, e fatto fò granne signiore, e fò chiamato Janni Roscio; ieva a cavallo forte accompagnato da cittatini romani. Tutti li siei parenti ievano a paro; havea una soa sorella bedoa, la quale voize maritare à barone de castella, ec.» Frammenti di Storia Romana p. 20, p. 439.
478. Chronic. Estense t. XV, p. 439.
479. Framm. di Storia Romana l. II, c. 22, p. 443.
480. Ivi, c. 24, p. 447.
481. Framm. di Storia Romana l. II, c. 25, p. 449.
482. Il signor de Sade lascia in dubbio la chiamata del papa, ed adduce varj buoni motivi per distruggere la testimonianza dell'anonimo di Roma.
483. Alcune lettere mandate in tale occasione a tutte le città d'Italia, sono riferite da Giovanni di Bazzano, Chron. Mut. t. XV, p. 609.
484. Frammenti della Storia Romana l. II, c. 26, p. 451. — Cortus. Histor. l. IX, c. 12, p. 923. — Chron. Esten. t. XV, p. 440.
485. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 27, p. 453.
486. Nella sala furono arrestati il vecchio Stefano Colonna, Pietro Agapito Colonna, signore di Jenazzano, ch'era allora senatore, il conte Bertoldo Orsino suo collega, Giovan Colonna, Giordano, Rainaldo e Nicola Orsini, e Bertoldo di Vicovaro. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 28, p. 453.
487. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 28, p. 455.
488. Idem, c. 29, p. 455.
489. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 50, p. 457.
490. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 31, p. 459.
491. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 32, p. 461.
492. Storie Pistolesi t. XI, p. 521.
493. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 34, p. 467. Ho seguito il racconto dell'anonimo di Roma, che trovavasi presente a tale fatto, e che non aveva pensiere di dileggiare i suoi compatriotti. Non devesi per altro lasciar di dire che altri contemporanei più lontani da Roma, raccontarono ch'erasi combattuto da ambe le parti con valore ed ostinazione. Ist. Pistol. t. XI, p. 521. — Gio. Villani l. XII, c. 104. — Andrea Dei Cron. Sanese, t. XV, p. 119. — Cron. Esten. p. 444.
494. Frammenti di Storia Romana, l. II, c. 56, p. 469.
495. Cron. Sanese di And. Dei t. XV, p. 119.
496. Dom. de Gravina Chron. de reb. in Apulia gestis.
497. Frammenti di Storia Romana l. II, c. 38, p. 475. — Gio. Villani l. XII, c. 104. — Chron. Estense t. XV, p. 446.