CAPITOLO XXXVIII.
Carestia e peste in Italia. — Nuove fazioni di Pisa. — Guerre del re d'Ungheria e della regina Giovanna. — Secondo Giubileo.
1347 = 1350.
Il quattordicesimo secolo forma una delle più gloriose epoche dell'Italia; perciocchè in verun tempo vi si coltivarono le lettere con maggior ardore, nè furonvi accolti ed onorati i dotti con maggiore entusiasmo: in verun altro tempo non si acquistarono tanti lumi nè si disseminarono così generalmente tra gli uomini; in niun altro secolo furono tramandati alla posterità più nobili monumenti del genio creatore, o del più ostinato lavoro. Il rinnovamento delle greche e latine lettere, la creazione dell'idioma italiano e della moderna poesia, l'arte d'insegnare la politica nella storia e di dare agli uomini nel racconto degli avvenimenti una lezione allettatrice ad un tempo ed istruttiva; il perfezionamento della giurisprudenza, i rapidi progressi della pittura, della scultura, dell'architettura e della musica, sono cose di cui l'Europa va debitrice agli Italiani del quattordicesimo secolo. Ma quest'epoca, che per tante ragioni vuol essere attentamente studiata, non fu per l'umanità egualmente felice. Molte di quelle virtù che innalzano il carattere degli uomini, che associandosi alle loro passioni, le nobilitano, erano affatto scomparse, ed avevano preso il loro luogo que' ributtanti vizj che deturpano la storia che noi scriviamo. Sicuri mezzi per giugnere alle principali cariche nelle corti de' principi erano la vile adulazione, la bassezza, l'intrigo, il vizio. I piccoli sovrani offrivano lo scandaloso esempio di tutti i delitti; la più ributtante dissolutezza regnava nell'interno de' loro palazzi; il veleno e l'assassinio erano ogni giorno adoperati a mantenere il loro governo, e numerose bande di sicarj vivevano al soldo de' sovrani, i quali ne ricompensavano i servigi con una illimitata protezione. Nelle case principesche, la passione di regnare, non raffrenata dal timor del delitto, eccitava frequenti rivoluzioni, preparate dalla più nera perfidia, consumate coi più atroci delitti, o prevenute con orribili crudeltà. Nei tribunali un potere arbitrario e spesso ingiusto trovava nella punizione dei delitti una sorgente di ricchezze per il sovrano, che, sospettoso per avarizia, valutava le prove estorte colla tortura e castigava gli accusati con orrendi supplicj. L'ambizione, che nelle faccende politiche preferiva per vincere il tradimento alle armi, distruggeva la fede de' trattati, la sicurezza delle alleanze, ogni legame d'amicizia tra i popoli. Truppe mercenarie, perfide, crudeli, sacrificavano in guerra il proprio sovrano al nemico che voleva offrir loro più vantaggiose condizioni; e risparmiando le armate nemiche, non danneggiavano che le pacifiche campagne e gl'innocenti cittadini.
Il disprezzo d'ogni legge e d'ogni morale per parte dei principi era un esempio tanto più pernicioso, in quanto che ogni città aveva una piccola corte, la quale era pei cittadini una scuola d'immoralità, di corruzione, di delitto. I tiranni, perchè più vicini alla vita privata, corrompevano più facilmente i costumi de' loro sudditi; ed essendo moltissimi, guastavano dappertutto la pubblica morale, perchè i delitti politici si moltiplicavano in ragione del loro numero. Il sentimento delle immutabili leggi della morale e della religione era distrutto dalla storia d'ogni giorno, e dalle rivoluzioni di ogni stato.
Le stesse repubbliche non erano preservate da questa generale corruzione. Circondate da ogni banda da piccoli principi che loro tendevano frequenti insidie, adottarono più d'una volta la tortuosa politica de' loro nemici e si resero sospette di perfidia. Le immense ricchezze ammassate col commercio avevano alterata la purità de' principj repubblicani, e l'oro era diventato un mezzo troppo sicuro per acquistare il favore del popolo, ed ottenere le supreme magistrature. Non guardavasi più tanto ai modi adoperati per acquistare le ricchezze; e colui che malaversava in una pubblica amministrazione e si appropriava il danaro dello stato, sapeva di trovar sempre sufficienti mezzi per ricuoprire le sue concussioni, qualunque volta gli procurassero una grande opulenza. Scandalosi furti furono commessi in Firenze in tempo della guerra di questa repubblica con Mastino della Scala, e le pene inflitte dal duca d'Atene ai comandanti d'Arezzo e di Lucca furono, sebbene arbitrarie, fors'anche meritate. Non parleremo della violenza delle civili dissensioni, nè delle rivoluzioni che davano e toglievano il governo alle diverse classi dei cittadini: gli è questo il necessario destino delle repubbliche, e il prezzo con cui esse pagano i moltiplicati talenti, e l'energia di carattere e le generose passioni che non trovansi che presso di loro. Rimprovereremo bensì a queste repubbliche d'avere intieramente abbandonata l'arte e lo spirito militare, d'aver lasciato che si spegnesse ne' cittadini e ne' sudditi il valore italiano; e d'essersi in tal modo assoggettate prima alle mercenarie milizie tedesche che le tradivano, poscia a quelle compagnie di avventurieri che le rendevano vergognosamente tributarie.
Mentre l'Italia era travagliata da tanti disordini e da tanti mali, fu colpita tutto ad un tratto dai più terribili flagelli che il cielo abbia riservati per castigo della terra. Una crudele carestia e la più mortifera peste di cui le storie abbiano conservata la memoria; e potrebbe aggiugnervisi per terzo flagello l'invenzione dell'artiglieria, che rimonta precisamente a quest'epoca sventurata. L'invenzione delle armi da fuoco ebbe per l'umana specie più funeste conseguenze, che la peste e la carestia; ella sottopose al calcolo la forza dell'uomo; ridusse il soldato ad essere una semplice macchina; tolse al valore quanto era in esso di più nobile, quanto era dipendente dal carattere personale; accrebbe il potere dei despoti, ed indebolì quello delle nazioni; spogliò le città dalla loro sicurezza, e le mura della confidenza che ispiravano. Ma i durevoli effetti di così funesta invenzione non si manifestarono che dopo lungo tempo. Le bombarde, di cui parlano gli storici la prima volta, quando furono adoperate il 26 agosto del 1346 nella battaglia di Crécy, tra gl'Inglesi ed i Francesi, non parvero a principio che macchine proprie a lanciare alcune palle, di cui tutto il vantaggio riducevasi a spaventare i cavalli coll'esplosione e col fuoco che produceva. Il re d'Inghilterra che solo aveva bombardieri nell'armata, gli aveva infatti collocati tra gli arcieri, sui carri onde aveva circondato il suo campo. «Le loro bombarde, dice Giovanni Villani, gettavano piccole palle di ferro e fuoco per ispaventare e confondere i cavalli[1]. Gli arcieri inglesi, dice più sotto, tiravano tre freccie, mentre che i genovesi al servizio della Francia ne tiravano una sola. Aggiugnevasi a questo vantaggio il colpo delle bombarde che facevano tanto fracasso e scuotimento, che sarebbesi detto che Dio tuonava; uccidendo con ciò molta gente, e mettendo in disordine i cavalli[2].» Il Villani morì due anni dopo la battaglia di Crécy, onde non può essere sospetto di anacronismo, e le bombarde di cui parla sono a non dubitarne un'arma da fuoco della natura delle presenti[3]; ma egli non suppose tale invenzione di così grande importanza, che fosse prezzo dell'opera il darne più circostanziata relazione; ed infatti i cambiamenti che l'artiglieria doveva produrre nell'arte della guerra, non si fecero sensibilmente conoscere, che un secolo e mezzo più tardi.
Lo stesso anno l'intemperie delle stagioni fu la principal cagione della carestia. L'eccessive piogge dell'autunno del 1345 non permisero le seminagioni in ottobre e novembre, e fecero marcire il frumento che cominciava a germogliare. Nella seguente primavera ricominciarono le piogge con eguale ostinazione, e ne' tre mesi di aprile, maggio e giugno, la terra fu sempre o inondata o talmente umida che le sementi sparse in primavera e quelle del granoturco non riuscirono meglio di quelle dell'autunno. Nè questa sciagura si ristrinse ad una sola provincia, ma si estese a tutta l'Italia, alla Francia, e ad altri paesi; onde non erasi mai fatto un così scarso raccolto come nel 1346. Il vino, l'olio ed ogni altro prodotto della terra mancò egualmente. Ben tosto si dovettero distruggere quasi tutti i pollami, per non avere di che alimentarli[4]. La carne da macello si rese subito assai cara; ma più che tutt'altro il frumento venne meno in una sorprendente maniera, non avendo le terre dato che il quarto, o soltanto il sesto dell'ordinario prodotto. Al raccolto una misura di grano pagavasi a Firenze trenta soldi, ed andò ogni giorno crescendo di prezzo in maniera che il primo giorno di maggio del 1347 vendevasi più del doppio; incarirono pure l'orzo e le fave, e carissima era perfino la crusca, lo che era sicura prova che i miserabili cercavano di alimentarsi con questo grossolano ed insalubre cibo[5].
Per altro il governo di Firenze fece tutto quanto poteva per procurarsi un bastante approvigionamento; fece comperare frumento in Calabria, in Sicilia, in Sardegna, in Tunisi ed in tutta la Barbaria; pagò anticipate somme, senza lasciarsi sgomentare dalla carezza delle derrate, e credette di essersi assicurati quaranta mila moggia di frumento, e quattro mila di orzo[6]. Ma i mercanti pisani e genovesi coi quali esso era costretto di contrattare per fare sbarcare il grano a Pisa o a Genova, non poterono soddisfare alle loro promesse, perchè, trovandosi queste città egualmente afflitte da crudele carestia, i loro magistrati cominciarono a provvedere ai proprj bisogni prima di lasciar sortire il grano, onde Firenze non ebbe più della metà del quantitativo acquistato dal governo. I Fiorentini fecero pure alcune provvigioni nelle Maremme e nella Romagna, sebbene in queste province, come anche a Bologna, le derrate non fossero meno scarse nè meno rare di quel che lo fossero in Firenze[7].
La signoria mandava ogni giorno al mercato sessanta in ottanta moggia di frumento, che faceva vendere ai prezzi comuni, prima 40 soldi, poi 50 per stajo. Ma siccome tale quantità non era sufficiente, perchè un immenso numero di cittadini, avvezzi negli altri anni a vendere il loro frumento al mercato, venivano invece a comperarne; la signoria fece fabbricare de' forni, ne' quali impiegavansi dagli ottantacinque ai cento moggia di frumento per far pani del peso di sei once, ne' quali la crusca era mista colla farina; e questi si distribuivano in ragione di due per persona pel prezzo di quattro denari fiorentini per pane. Ma quando alla porta de' venditori si videro formarsi attruppamenti di persone che facevano più fortemente sentire l'estensione della pubblica miseria, e spargevano lo spavento nel popolo, il governo risolse di mandare di casa in casa i due pani per testa, secondo il numero delle persone che componevano ogni famiglia. In aprile del 1347 apparve dai registri, che novantaquattro mila persone ricevevano in tal modo il loro pane dallo stato; e non pertanto i borghesi un poco agiati non erano compresi in questo ruolo, perchè si erano approvigionati, o compravano dai fornai a più alto prezzo un pane di migliore qualità. Tutti i poveri e tutti i Regolari mendicanti che vivevano di elemosine, non erano pure compresi, sebbene grandissimo ne fosse il numero; imperciocchè erano stati obbligati ad uscire da tutte le terre e villaggi vicini; e la miseria o la fame gli aveva riuniti in Firenze. Tale non pertanto fu la generosità e la carità cristiana de' Fiorentini, che, durante questa carestia, verun povero, verun forastiere, verun contadino, fa escluso dalla città, e tutti furono soccorsi ed alimentati colle pubbliche o private elemosine. «Quindi, soggiugne il Villani, dobbiamo sperare in Dio, che non vorrà castigare gli enormi peccati de' nostri concittadini; oimè, noi l'abbiamo pur detto, la città nostra n'è pur troppo macchiata; ma secondo il suo beneplacito e la sua misericordia, compenserà i nostri errori colle elemosine dei nostri buoni e virtuosi cittadini, come ha fatto con Ninive: imperciocchè lo disse egli medesimo, che l'elemosina cancella il peccato[8].»
Questa carestia era stata in Italia generale, nè tutte le città avevano con sì saggi regolamenti o così generosi, provveduto ai bisogni del popolo; quindi lasciò una tale debolezza nel temperamento della massa del popolo, ed una disposizione alle malattie epidemiche, che non tardarono a manifestarsi. Frattanto, affinchè il povero non fosse ad un tempo tormentato dalla carestia, dalla malattia e dai creditori, la signoria di Firenze sospese le procedure forensi per i minuti debiti, e nel giorno di Pasqua, facendone come un'offerta a Dio, liberò tutti i carcerati per debiti verso il comune, e tutti coloro che trovavansi nelle prigioni per leggieri delitti. Nello stesso tempo diede a tutti quelli ch'erano tediati per multe, la facoltà di redimersi pagando il quindici per cento della somma portata dalla sentenza; ma la miseria era tanto grande che pochissimi hanno potuto approfittare di questo favore[9].
Nella state del 1347 la mortalità fu in Firenze grandissima, specialmente tra i poveri, nelle donne e ne' fanciulli, calcolandosi che l'epidemia abbia tolti quattro mila individui. Ma nello stesso tempo un più terribile flagello preparavasi in Oriente. Nelle relazioni de' fenomeni che accompagnarono la peste non è agevole cosa lo sceverare i racconti popolari, che la superstizione risvegliata dal timore faceva avidamente ammettere, dalle più vere calamità cagionate senza verun dubbio dall'epidemia. Nel regno di Casan, secondo racconta Giovan Villani, la terra fu agitata da violenti scosse, affondarono molte città e villaggi, le voragini apertesi vomitavano fiamme, che, comunicandosi alle erbe aride, si stesero da ogni banda, in distanza di molti giorni di cammino. Coloro che si sottrassero a questo disastro, seco portarono una malattia contagiosa che sparsero sulle rive del Tanai ed a Trabisonda, malattia funesta che di cinque persone quattro ne uccideva. A Sebastia le piogge furono accompagnate dalla caduta di una enorme quantità d'insetti neri, che avevano otto gambe e la coda, parte morti e parte vivi; questi avvelenavano col morso, la putrefazione degli altri infettava l'aria. La peste cominciata in questi due paesi si sparse in tutto il Levante, corse la Siria, la Caldea, la Mesopotamia, l'Egitto, le isole dell'Arcipelago, la Turchia, la Grecia[10], l'Armenia, la Russia[11]. I mercanti italiani, dimoranti in vari porti del Levante, cercarono di salvarsi fuggendo colle loro merci; otto galere genovesi, tra le altre, partirono dalle coste del mar Nero, ma portavano il contagio con loro. Quando arrivarono in Sicilia, avevano già perduti tanti marinai, che quattro galere furono abbandonate. Gli ammalati che scesero a terra, comunicarono l'infezione agli abitanti della città nella quale avevano sbarcato, di dove rapidamente si sparse in tutta la Sicilia, la Corsica, la Sardegna, e sulle coste del Mediterraneo. I mercanti che continuavano a fuggire, sbarcarono gli uni a Pisa, gli altri a Genova, e perchè di que' tempi non prendevasi veruna cautela per impedire la comunicazione delle epidemie, seco portarono la morte ovunque sbarcarono. Nel 1348 la peste dominava in tutta l'Italia ad eccezione di Milano, e di alcuni paesi presso le Alpi, ove non fu quasi conosciuta. Lo stesso anno valicò le montagne, e si stese nella Provenza, nella Savoja, nel Delfinato, nella Borgogna, e, per la via d'Acquamorta, penetrò nella Catalogna. Nel susseguente anno occupò tutte le altre terre occidentali fino alle rive del mare Atlantico; la Barbaria, la Spagna, l'Inghilterra e la Francia. Il solo Brabante parve sottratto a tanta sventura, o leggermente toccato. Nel 1350 il contagio si avanzò al Nord, spargendosi tra i Frisoni, Tedeschi, Ungari, Danesi e Svezzesi[12]. Fu allora e per effetto del contagio, che la repubblica d'Islanda fu distrutta. La mortalità fu tanto grande in quest'isola agghiacciata, che gli sparsi abitanti cessarono di formare un corpo di nazione.
I sintomi di questa peste non furono in ogni luogo i medesimi. Nell'Oriente un'emorragia di naso era certo presagio della sopraggiunta malattia e della morte. A Firenze, in principio della malattia, manifestavasi o presso l'ano o sotto le ascelle un'enfiatura della grossezza d'un uovo ed anche maggiore. Più tardi quest'enfiatura, detta gavocciolo, manifestavasi indistintamente in qualsiasi parte del corpo; ed ancor più tardi la malattia mutò i sintomi, che furono d'ordinario macchie nere o livide, in alcuni larghe e rare, piccole in altri e spesse. Vedevansi a bella prima su le braccia o su le cosce, poi su tutto il corpo[13]: e come il gavocciolo, erano queste presagio di vicina morte. L'arte di niun medico poteva mettere argine al male, sebbene quando cominciò l'epidemia, oltre i dottori di professione, un infinito numero di ciarlatani prescrivessero molti rimedj che non salvarono un solo ammalato. I più morivano il terzo giorno, e quasi tutti senza febbre o verun nuovo accidente.
Bentosto tutti i luoghi infetti furono colpiti da estremo spavento, vedendosi con quale prodigiosa rapidità dilatavasi il contagio. Comunicava immediatamente l'infezione non solo il conversare cogli ammalati, ed il contatto loro, ma ben anche il solo toccare le cose da loro toccate. Furono veduti animali cader morti per avere toccati gli abiti degli appestati, gittati nelle strade. Allora non si ebbe più rossore di mostrarsi vile ed egoista. Nè solo i cittadini evitavansi gli uni gli altri, ma i vicini abbandonavano i loro vicini, ed i parenti, se pure talvolta si visitavano, tenevansi a tale distanza dall'ammalato che manifestava il loro terrore; ben tosto fu veduto il fratello abbandonare il fratello, lo zio il nipote, la sposa il marito, e perfino alcuni genitori i proprj figli. E per tal modo all'infinito numero degli ammalati non rimase altro sussidio che l'eroismo di un piccolo numero di amici, o l'avarizia de' servi, che per un grossissimo stipendio disprezzavano il pericolo. Questi ultimi erano per la maggior parte contadini affatto rozzi, e poco avvezzi a servire ammalati, onde tutti i loro servigi riducevansi d'ordinario ad eseguire alcuni ordini che loro davano gli appestati, ed a portare alle famiglie la notizia della loro morte. Da tale abbandono e dal terrore che colpiva gli spiriti, nacque un'usanza affatto contraria agli antichi costumi; che una donna giovane, bella e modesta, non rifiutava di farsi servire nella sua malattia da un uomo, comunque giovane, e di spogliarsi in sua presenza qualunque volta lo richiedeva la cura della malattia, come se si fosse trovata con una donna.
Un'antica costumanza di Firenze richiedeva che i parenti ed i vicini d'un morto si adunassero nella di lui casa per piagnerlo insieme alle più strette parenti, mentre i vicini e gli amici si riunivano coi preti innanzi alla casa. In appresso il morto era portato alla chiesa, indicata da lui medesimo prima di morire, da uomini della sua condizione; il feretro veniva preceduto dai preti che cantavano portando accesi cerei, e chiudevano la pompa funebre i cittadini che si erano adunati innanzi alla porta. Ma queste costumanze cessarono mentre la peste infieriva, e furono sostituite contrarie pratiche. Non solo gli ammalati morivano senz'essere circondati da molte donne, anzi più non avevano neppure una sola persona che li servisse negli estremi istanti della vita. Erano tutti persuasi che la tristezza disponeva i corpi a contrarre più facilmente la malattia; credevasi dimostrato che la gioja ed i piaceri erano il più sicuro rimedio contro la peste, e le stesse donne cercavano di farsi inganno sul lugubre apparecchio de' funerali, col riso, coi giuochi, coi motteggi. Pochi cadaveri si portavano al sepolcro accompagnati da più di dieci o dodici vicini, ed i portatori non erano già onorati cittadini della stessa condizione del defunto, ma persone della più abbietta plebe che facevansi nominare Becchini. Per un grosso stipendio trasportavano precipitosamente il feretro non già alla chiesa destinata dal morto, ma alla più vicina. Venivano spesso preceduti da quattro o sei preti con piccolo numero di cerei, e talvolta ancora andavano senza preti, i quali per non affaticarsi con troppo lunghe ufficiature o troppo solenni, riponevano il cadavere coll'ajuto de' Becchini nella prima fossa che trovavano aperta.
La sorte dei poveri e delle persone di mezzana condizione era ancora peggiore; ritenuti dalla povertà in case malsane, e vicinissimi gli uni agli altri, cadevano infermi a migliaja; e siccome nè venivano curati, nè serviti, morivano quasi tutti. Moltissimi sia di giorno sia di notte terminavano nelle strade l'infelice loro esistenza; altri, abbandonati nelle loro case, non si sapevano morti dai loro vicini che per la puzza ch'esalava dal loro cadavere. Il timore dell'infettamento dell'aria, assai più che la carità, consigliava i vicini a visitare gli appartamenti, a far esportare i cadaveri dalle case, ed a collocarli avanti alle porte. Ogni mattina potevano vedersene molti così deposti nelle strade; facevansi in appresso addurre i feretri, o in loro mancanza una tavola, sopra la quale portavasi il cadavere alla fossa. Più d'un feretro contenne nello stesso tempo il marito e la moglie, il padre ed i figli, o due e tre fratelli. Quando due preti con una croce accompagnavano un feretro e dicevano l'ufficio de' morti, da ogni porta vedevansi uscire altri feretri che si associavano al convoglio, ed i preti che non eransi convenuti che per un solo morto, ne trovavano sette ed otto da seppellire.
Il terreno sacro più non bastava a tanti cadaveri, onde si cominciò a scavare ne' cimiterj grandissime fosse, nelle quali collocavansi a strati di mano in mano che vi si portavano, poi si ricoprivano con poca terra. Frattanto i vivi, persuasi che i divertimenti, i giuochi, i canti, l'allegria potevano soli camparli dalla peste, ad altro più non pensavano che a trovare godimenti, non solo nelle proprie, ma ancora nelle altrui case, qualunque volta credevano trovarvisi cosa di loro piacere. Tutto era in loro balìa, imperciocchè ognuno, quasi più non dovesse vivere, aveva abbandonata ogni cura di sè stesso e delle sue sostanze. La maggior parte delle case erano diventate comuni; e coloro che vi entravano, ne usavano come di cosa loro propria. Distrutto era il rispetto per le leggi divine ed umane; i loro ministri e coloro che dovevano procurarne l'esecuzione, erano morti o infermi, e privi in maniera di guardie e di subalterni, che non potevano incutere verun timore; onde ognuno risguardavasi come libero di fare tutto quello che venivagli in grado di fare.
Le campagne non erano più risparmiate delle città, ed i castelli ed i villaggi erano piccole immagini della capitale. Gli sventurati agricoltori, che abitavano le case sparse ne' campi, i quali non potevano sperare ne' consigli di medici, nè assistenza di servi, morivano sulle pubbliche strade, ne' campi, o nelle loro case non come uomini, ma come bestie. E per tal modo diventati non curanti di tutte le cose di questo mondo, come se giunto fosse il giorno della loro morte, più non pensavano di domandare alla terra i suoi frutti, o il prezzo delle loro fatiche, ed invece sforzavansi di consumare quelli che avevano di già raccolti. I bestiami, cacciati dalle case, erravano pei campi abbandonati, tra le messi che non eransi raccolte, e per lo più rientravano senza guida in sulla sera nelle loro stalle, sebbene più non rimanessero padroni o pastori per custodirli.
Veruna peste in altro tempo aveva colpite tante vittime. A Firenze e nel suo territorio, di cinque persone ne morirono tre[14]. Pensa il Boccaccio che la sola città perdesse più di cento mila individui. A Pisa, di dieci persone ne morirono sette; ma sebbene in questa città, come altrove, si fosse conosciuto per prova che chiunque toccava un morto o le sue vesti, e anche soltanto il danaro, era preso dal contagio, e sebbene più non si trovasse alcuno che per qualunque somma volesse rendere ai morti gli estremi ufficj, pure niun cadavere restò nelle case senza sepoltura. I cittadini chiamavansi gli uni gli altri in nome della carità cristiana, e si dicevano: «ajutiamoci a portare questo morto alla fossa, affinchè altri ci portino quando morremo[15].» Racconta lo storico Angelo di Tura, che a Siena, ne' quattro mesi di maggio, giugno, luglio ed agosto, la peste rapì ottantamila persone: e che egli medesimo seppellì colle proprie mani i suoi cinque figli nella stessa fossa[16]. La città di Trapani in Sicilia rimase affatto deserta, essendo morti fino all'ultimo tutti gli abitanti[17]. Genova ne perdette 40,000; Napoli 60,000; e la Sicilia, compresa non v'ha dubbio la Puglia, 530,000[18]. In generale si calcolò che in tutta l'Europa, la quale dall'una all'altra estremità andò soggetta a così terribile flagello, furono distrutti tre quinti della popolazione.
Nè la perdita dell'Europa deve solamente valutarsi pel numero dei morti, ma inoltre per la qualità degli illustri personaggi che perirono, mentre, come osserva uno storico di Rimini, la peste risparmiò tutti coloro la di cui morte era desiderabile[19]. Quello che più merita d'essere da noi compianto, è Giovanni Villani, lo storico più fedele, più veridico, più elegante e più animato, che avesse fin allora prodotto l'Italia. Noi abbiamo fatto non interrotto uso della sua storia pel corso di un mezzo secolo colla confidenza dovuta ad un autore contemporaneo e giudizioso, e che personalmente ebbe parte negli affari. Il Villani, come lo racconta egli medesimo, era stato a Roma nel giubileo del 1300; e colà fu che, paragonando la decadenza di quell'antica capitale del mondo colla crescente grandezza della sua patria, formò il progetto di scrivere la storia di Firenze[20]. Il Villani, socio di una casa di mercadanti, aveva pure viaggiato in Francia e ne' Paesi Bassi, senza dubbio per affari di commercio. Fu più volte membro della suprema magistratura, esercitò diversi pubblici impieghi, come di direttore della zecca, delle fortificazioni e dell'ufficio dell'abbondanza delle biade. Nel 1323 aveva servito nell'armata contro Castruccio; nel 1341 fu uno degli ostaggi dati a Mastino della Scala pel compimento del trattato fatto con lui. In tal modo egli si mostrò degno di aver parte a tutti gli affari pubblici e privati. In sul finire del viver suo fu ruinato dal fallimento dei Bonaccorsi, dei quali era socio; e fu scritto da taluno che fu imprigionato per debiti. Gli ultimi libri della sua storia pare che si risentano di queste private disavventure, ed indicano che l'autore era diventato diffidente e lento. Quando morì di peste nel 1348, doveva essere giunto a matura vecchiaja[21].
Altre cronache italiane terminano nella stessa epoca; lo che dà luogo a credere che i loro autori cadessero vittime della stessa epidemia[22]. Giovanni d'Andrea, il più illustre giurisperito d'Italia, e la Laura del Petrarca, furono tolti al mondo da questo flagello, il primo in Bologna, l'altra in Avignone.
In tempo della carestia e della peste, i popoli d'Italia, oppressi da tali calamità, si rimasero per la maggior parte in una forzata inazione. L'ambizione e le altre passioni politiche più agire non potevano sopra uomini minacciati ogni giorno dalla morte, e che più non calcolavano l'avvenire. Non pertanto alcune strepitose rivoluzioni illustrarono quest'epoca: precisamente in sul finire della carestia, e quando incominciava la peste, Pisa si divise in due nuove fazioni dei Bergolini e dei Raspanti, fazioni che presero il luogo di quelle de' Conti e de' Visconti, i di cui nomi cominciavano a cadere in dimenticanza, e di quelle tra i nobili ed il popolo ch'erano scoppiate dopo le prime.
Il giovane conte Renieri, erede della famiglia della Gherardesca e del favore del popolo che questa godeva da lungo tempo, era giunto al suo diciottesimo anno. Era, per così dire, ancora fanciullo, quando fu investito, come per diritto ereditario, della carica di capitano di Pisa; e Dino della Rocca suo parente, ed i principali capi del partito popolare, presero a governare la repubblica in suo nome. Ma quando Renieri ebbe finalmente gusti e volontà personali, alcuni uomini che da lungo tempo appartenevano ad un partito opposto alla sua famiglia, seppero rendersi padroni del suo spirito. Il più distinto tra questi nuovi consiglieri, che furono detti Bergolini da un soprannome dato al giovane conte, era Andrea Gambacorta, capo di una famiglia che si rese in breve la più potente di Pisa, quando le antiche case indebolite dalla peste ebbero perduto pressochè tutto il loro credito. Dino della Rocca, discendente dalla famiglia Gherardesca, cercava di tenere uniti gli antichi partigiani de' conti, ed i capi del partito popolare; e molte ragguardevoli case di Pisa avevano abbracciata la sua causa[23], ed occupavano con lui le principali cariche dello stato. Ma questi venivano accusati d'essersi nella loro amministrazione appropriato il pubblico danaro, ond'ebbero il nome di Raspanti, e tale accusa che indisponeva il popolo contro di loro, aggiunta alla loro malintelligenza col capitano generale, poteva ad ogni istante farli escludere da tutte le cariche.
Mentre l'incostanza del conte della Gherardesca pareva minacciare a Pisa una vicina rivoluzione, questo giovane morì; e furono incolpati i Raspanti d'averlo fatto avvelenare. Questo sospetto accrebbe in modo l'irritamento delle parti, che in vano i magistrati facevano severamente castigare coloro che con pungenti motti o popolari canzoni tenevano viva l'animosità delle due parti; invano costringevano i capi ad unire le loro famiglie coi matrimonj, a promettere il mantenimento della pace, ed a giurarlo perfino innanzi all'altare; chè una vicendevole diffidenza teneva armate nelle proprie case le due fazioni, e pronte a venire alle mani; ogni notte un incendio acceso per eccitare una sedizione manifestavasi in qualche quartiere della città; l'irritamento andava crescendo in modo che più non potè essere compresso; ed il giorno 24 di dicembre, dopo una zuffa intorno alla casa di Dino della Rocca, nella quale i Bergolini rimasero vittoriosi, furono i Raspanti cacciati dalla città, ed Andrea Gambacorta fatto capo della repubblica[24].
Ma questa involuzione della repubblica era cosa di non molta considerazione a fronte delle novità cagionate nell'Italia meridionale dalla morte di Andrea re di Napoli. Il re Luigi d'Ungheria aveva giurato di vendicare la morte di suo fratello, e compì il suo disegno appunto in tempo delle calamità della carestia e della peste. La vigorosa resistenza che gli avevano opposta i Veneziani innanzi a Zara l'anno 1346, avevangli impedito di unire quella città al suo regno, e di stabilire per mezzo del suo porto, a traverso dell'Adriatico, una comunicazione tra l'Ungheria e le province della Puglia. Zara, che Luigi aveva invano cercato di liberare dall'assedio, dovette infine dopo diciotto mesi di ostinata resistenza, rendersi ai Veneziani in dicembre del 1346. I Jadriotti si presentarono colla corda al collo al Senato veneto, per chiedere perdono della loro ribellione[25]; ed il re Luigi che aveva promesso di proteggerli, differì la sua vendetta contro Venezia dopo quella che voleva prendere della regina Giovanna.
Nè l'elezione di Carlo IV, e la guerra che provocò in Germania, nè la morte di Luigi di Baviera, non ridussero il re d'Ungheria a rinunciare alla stabilita impresa. Egli si fece precedere da suo fratello naturale il vescovo di Cinque Chiese per disporre i popoli a suo favore. La città d'Aquila aprì le porte al prelato ungaro, e quasi tutti gli Abruzzi ed il conte di Fondi si dichiararono per lui[26]. Il re che aveva fatto noto a tutti i suoi sudditi il desiderio di vendicarsi, si mise più tardi in cammino, partendo da Buda il 3 di novembre del 1347 con poche forze, ma con molti tesori, credendo miglior consiglio l'assoldare truppe in Italia, che condurvele da così lontana parte[27].
L'armata ungara prese la via di terra e fece il giro del golfo Adriatico per Udine, Padova, Verona, Bologna, e per le città della Romagna. Il re presentavasi in ogni luogo siccome l'amico dei piccoli signori di cui doveva attraversare lo stato, e non manifestava altra mira ambiziosa, tranne quella di vendicare il fratello, e di castigare un atroce delitto; onde lungi d'essere trattenuto nel cammino, ingrossava l'armata con una folla di volontarj che si assoldavano sotto le sue bandiere[28].
Parve, gli è vero, che la Chiesa si disponesse a difendere un regno pel quale rifiutava di prendere le armi ogni principe secolare. Un legato del papa fermò a Foligno il re d'Ungheria, ingiungendogli di rinunciare ad ogni progetto di vendetta, dacchè il giudice deputato dalla santa Sede aveva di già puniti tutti i veri colpevoli, dichiarandogli in pari tempo che la sovranità di Napoli apparteneva alla chiesa; e che un cristiano doveva ricorrere al successore di san Pietro, non alle armi per far valere i suoi diritti sopra quel regno feudale. «Andate a dire al vostro santo padre, rispose Luigi, che più di duecento colpevoli rimangono ancora impuniti in quel regno che mi è dovuto per diritto ereditario. Penso, coll'ajuto di Dio, di farvi ben tosto miglior giustizia; e quando mi sarò posta la corona in capo, non rifiuterò alla chiesa l'omaggio ed il tributo da me dovutole. Se voi frattanto mi scomunicate, mi appellerò a Dio della vostra sentenza; egli è più grande del papa, e conosce la giustizia della causa[29].»
Luigi continuò dopo questo il suo cammino, e giunse ne' primi giorni di dicembre ai confini del regno. Il 20 agosto la regina Giovanna aveva sposato Luigi di Taranto suo cugino; e con tale unione con uno degli uccisori di suo marito, più non lasciava verun dubbio d'aver presa parte al delitto di cui l'accusava il re d'Ungheria: i popoli medesimi invocavano un vindice di sì grave attentato. Aquila, Sulmona e Sanguinetto aprirono le loro porte agli Ungari; i principi del sangue gelosi dell'innalzamento d'un loro eguale, abbandonavano Giovanna; il duca di Durazzo disponevasi a farle guerra[30]; e Luigi di Taranto, ch'erasi posto a Capoa per contrastare agli Ungari il passaggio del Volturno, vedeva ogni giorno diminuirsi la sua armata[31].
Ma Luigi di Taranto non ebbe pure l'opportunità di sperimentare il coraggio delle sue truppe, la di cui fedeltà gli era sospetta. Il re d'Ungheria non tentò il passaggio del Volturno, ma presa la via del contado d'Alife, giunse l'undici gennajo a Benevento con un'armata composta di sei mila uomini di cavalleria pesante. L'agitazione e lo spavento regnavano in Napoli; il gran maniscalco, Nicola degli Acciajuoli, repubblicano fiorentino che in mezzo ad una corte corrotta erasi conservato fedele ai principj d'una severa morale, e che adesso sforzavasi di salvare una regina di cui aveva cercato invano di prevenirne gli errori e le sregolatezze, non trovava alcuno tra i cortigiani o nella nobiltà che volesse assecondarlo. La città neppure pensava a rispingere gli Ungari, e Giovanna si risolse all'ultimo d'abbandonare il suo regno, senza aver data una battaglia per difenderlo. Imbarcossi il 15 gennajo a Napoli coi suoi più cari confidenti, portando sulla propria galera il poco danaro che ancora le restava dei tesori ammassati dal re Roberto, e fece vela alla volta della Provenza, ove i suoi baroni dovevano farle sentire la loro arroganza ed il loro malcontento. Luigi di Taranto e Nicola degli Acciajuoli imbarcaronsi poco dopo per seguirla, e tutte le città del regno si affrettarono di mandare deputati a Luigi d'Ungheria per sottomettersi a lui[32].
I principi del sangue che non avevano seguita Giovanna nella sua fuga, non sapevano ancora risolversi a porsi in mano del re d'Ungheria. Carlo, duca di Durazzo, fu il primo a superare ogni riguardo, sdegnando i consigli de' più timidi amici. Si presentò al re suo cugino, e gli rese omaggio come a suo nuovo sovrano, e ne ricevette le più lusinghiere accoglienze. Dietro i replicati suoi inviti, i suoi fratelli e cugini si recarono alla corte del re che accordò loro il suo favore[33].
L'armata ungara era giunta ad Anversa; e Luigi, prima di lasciare quella città, volle vedere il luogo in cui perì suo fratello. Il giorno 14 di gennajo si avvicinò con tutti i principi del sangue alla finestra ov'era stato strozzato lo sventurato Andrea. È probabile che tutte le circostanze di questo delitto, così fortemente richiamate ai suoi occhi ed alla sua memoria, destassero in lui un'improvviso furore che fu creduto la conseguenza d'un piano di perfidia formato da qualche tempo; egli si volse impetuosamente a Carlo di Durazzo, chiamandolo malvagio traditore; gli rimproverò d'avere co' suoi intrighi preparata la morte di Andrea, colla speranza di ereditarne la corona. «Conviene che tu muoja, gli disse finalmente, ove tu lo facesti morire.» In sull'istante un Ungaro percosse il duca di Durazzo nel petto, altri lo presero pei capelli, lo gettarono giù dal balcone medesimo dal quale era stato gittato Andrea, e lo fecero perire nello stesso luogo[34]. Gli altri principi del sangue vennero imprigionati, e mandati in Schiavonia. Un figlio di Andrea e di Giovanna, che già aveva il titolo di duca di Calabria, da sua madre lasciato nel castello dell'Ovo, fu pure mandato da Luigi ne' suoi stati ereditarj[35]. Dopo questo fanciullo, il duca di Durazzo era il più prossimo erede dei due troni d'Ungheria e di Napoli; e siccome aveva sposata Maria, sorella di Giovanna, riuniva i diritti della famiglia di Roberto ai proprj. Alcune sue lettere, sorprese dagli Ungari, provavano effettivamente ch'egli aveva alla corte del papa operato contro Andrea, forse lusingandosi di soppiantarlo; ma egli non aveva presa parte alla congiura di Luigi di Taranto, anzi era stato uno de' primi ad impugnare le armi contro di lui; era stato chiamato presso Luigi colle più aperte assicurazioni d'amicizia e di benevolenza; era stato invitato alla sua mensa, e fu non pertanto la vittima di una perfidia che sola bastava a disonorare il cavalleresco carattere dell'ungaro monarca.
Quest'ultimo prese ben tosto pacificamente possesso di Napoli e del regno; e perchè non incontrava chi gli si opponesse, congedò le truppe mercenarie che aveva assoldate, onde liberare dalla loro oppressione le province conquistate. Tra quei soldati trovavasi lo stesso duca Guarnieri, il quale poc'anni prima aveva formata la grande compagnia e guastati i territorj della Toscana e della Romagna. Guarnieri prese cura di adunare i soldati licenziati dal re, e formatone una nuova compagnia, entrò dalla banda di Terracina negli stati del papa. Questo corpo di masnadieri più regolarmente organizzato che non era stato il primo, doveva più lungamente travagliare tutte le contrade d'Italia[36].
Frattanto la peste aveva cominciato a manifestarsi nel regno di Napoli, ed aveva privato il re d'Ungheria di molti suoi fedeli servitori. I Napoletani, sempre più proclivi alla ribellione che alla difesa, cominciavano a dar segni di malcontento; e gli Ungari desideravano di lasciare un paese in cui erano minacciati tutti da vicina morte. Luigi affidò il comando de' castelli di Napoli a Corrado Guilford, detto Lupo, barone tedesco, cui lasciava mille duecento cavalli[37], e nominò suo fratello, Ulrico Guilford, governatore della Puglia. A costoro aggiunse Stefano, figliuolo di Ladislao Laczk, vaivoda di Transilvania; indi sotto pretesto di visitare in persona le conquistate province, passò a Barletta in maggio del 1338, dove s'imbarcò sopra un leggier bastimento, e, attraversando la Schiavonia, si restituì in Ungheria, prima che i Napoletani sospettassero vicina la di lui partenza dal regno[38].
Mentre la peste continuava ad infierire, la regina di Napoli, che i suoi malcontenti baroni avevano tenuta alcun tempo prigioniera in Provenza, ebbe avviso che i Napolitani, omai stanchi del giogo degli Ungari, sospiravano il di lei ritorno, e promettevano di riporla sul trono; ma le sue finanze essendo affatto esauste, ed essa totalmente priva di credito, risguardò come una singolare fortuna l'offerta fattale dal papa di acquistare per trenta mila fiorini la sovranità d'Avignone. Clemente VI, che non aveva voluto riconoscere Luigi di Taranto come re di Napoli, gli accordò in questa circostanza il titolo di re di Gerusalemme[39]. I due sposi partirono poco dopo con dieci galee genovesi, prese al loro soldo, ed in sul finire d'agosto del 1348 giunsero a santa Maria del Carmine, presso Napoli, ov'eransi affrettati di adunarsi per renderle omaggio i baroni napolitani. Il duca Guarnieri colla grande compagnia aveva preso soldo sotto le bandiere della regina, onde Giovanna rientrò trionfante nella sua capitale, ma non però nel suo palazzo, ch'era fortificato ed occupato dagli Ungari[40].
Luigi di Taranto d'accordo col duca Guarnieri incominciò con molta attività a ricuperare il regno di sua moglie. S'impadronì in poco tempo delle tre fortezze che signoreggiavano Napoli, ed in appresso entrò nella Puglia per opporsi a Corrado Guilford, che col danaro mandatogli dall'Ungheria aveva fatto leva di numerosa armata[41]. Ma combattendo contro questi mercenarj con truppe egualmente straniere, Luigi fu costretto di abbandonare le province a loro discrezione, onde acquistarsi l'amore de' soldati; perciocchè il generale più crudele era sicuro d'essere meglio ubbidito. Guilford, che non guardava misura cogli sventurati Pugliesi, si guadagnava facilmente le truppe del suo nemico. Egli aveva abbandonata Foggia al saccheggio; e i Tedeschi, non contenti di avere spogliati questi miseri abitanti d'ogni loro avere, li sottomettevano eziandio alle più crudeli torture, onde obbligarli a palesar nuove ricchezze[42]. Il duca Guarnieri che desiderava di partecipare a tale saccheggio, si lasciò sorprendere da Guilford a Corneto colla sua armata; e dopo essere stato fatto prigioniere, si arrolò sotto le bandiere del re d'Ungheria[43]. Luigi di Taranto dopo tale avvenimento più non potendo resistere; tutte le province del regno furono in balìa di soldati stranieri, senza fede, senza onore, senza misericordia.
L'armata de' mercenarj, dopo avere per molti mesi guastate le province ed esaurite tutte le loro ricchezze, diedero orecchio ad un legato del papa, che si presentò ai suoi capitani a nome della regina e della città di Napoli, che loro proponeva un'enorme contribuzione per prezzo di alcuni mesi di tregua. I mercenarj riunironsi allora in Aversa, per dividere tra di loro le prede riposte in questa città. Essi avevano obbligati con lunghi tormenti i prigionieri a dar loro in mano tutto quanto possedevano, e tutto quanto potevano ottenere dalla compassione dei loro parenti ed amici. Avevano levate enormi contribuzioni su tutte le città salvate dal saccheggio; ed oltre tutto ciò che avevano consumato durante la guerra, oltre i cavalli, le armi e le gioje che si erano appropriati, dividevano la somma di cinquecento mila fiorini. Dopo ciò il duca Guarnieri col conte Lando e Gianni d'Ornich presero la strada dell'Italia settentrionale. Ma Corrado Guilford rimase nella Puglia ai servigi del re d'Ungheria, con un altro avventuriere, il Frate di Monreale, cavaliere di Gerusalemme, che il suo valore e la sua crudeltà resero ben tosto egualmente celebre che Corrado[44].
Nel Nord dell'Italia le repubbliche toscane ed i tiranni di Lombardia si rimasero alcun tempo in uno sforzato riposo dopo la cessazione della peste, che non durava più di cinque mesi in ogni paese. Occupati nel riparare i sofferti danni e nel rinvigorire il governo, non andavano in traccia di nuove esterne contese, trovandosi tuttavia incapaci di sostenere le antiche. La totale estinzione di un prodigioso numero di famiglie aveva dato luogo ad infinite procedure per conseguire la giacente eredità; la mortalità ancora più grande tra i poveri che tra i ricchi, aveva privato di braccia l'agricoltura, i mestieri e le fabbriche. I salarj erano stati portati ad altissimo prezzo, e gli operaj si abbandonavano ai piaceri della mensa ed alla mollezza, onde facevano assai meno lavoro che non avrebbero potuto fare. A Firenze la signoria, volendo ridurre il popolo alla sobrietà, accrebbe le gabelle delle vittovaglie; ma gli operai viveano in tale agiatezza, che appena si lagnarono delle più onerose imposte[45]. Frattanto coloro che dal passato flagello della peste erano stati tocchi da sentimenti religiosi, preparavansi ad approfittare dell'indulgenza plenaria accordata da papa Clemente VI per l'anno 1350, come per un giubileo centenario. Nell'incominciare di quest'anno i fedeli pieni di fervore e di umiltà si posero in cammino da ogni parte dell'Europa, pazientemente sopportando l'inclemenza d'una stagione che fu assai rigorosa, i ghiacci, le nevi e le dirotte piogge che avevano affatto guaste quasi tutte le strade. Siccome i pellegrini riempivano tutti gli alberghi e tutte le case poste lungo le strade, alcuni, ed in particolare gli Ungari ed i Tedeschi, si accampavano in grosse bande presso le strade; ed accendendo grandissimi fuochi si strignevano gli uni contro gli altri per resistere al freddo. Questi religiosi viaggiatori davano l'esempio della carità cristiana. Mai non si videro corrucciarsi tra di loro, nè querelarsi degl'incomodi che sostenevano. Negli alberghi l'oste non bastava a disporre i conti di tutti i viaggiatori; pure questi mai non partivano senza lasciare sulla tavola il danaro dovuto pei cibi che avevano ricevuti. I piccoli principi, le città, ed i privati cittadini si presero cura della sicurezza di viaggiatori tanto straordinarj, e mantennero l'ordine sulle più frequentate strade, di modo che il viaggio di Roma si fece da parecchi milioni di cristiani, senza che accadessero gravissimi disordini[46].
CAPITOLO XXXIX.
Clemente VI prende a sottomettere la Romagna. — I Pepoli vendono Bologna ai Visconti. — Invasione della Toscana per parte dell'arcivescovo di Milano, la di cui armata viene respinta. — Pace tra il re d'Ungheria e la regina Giovanna di Napoli.
1350 = 1351. La chiesa romana, pubblicando un giubileo alla metà del quattordicesimo secolo, appoggiava questo ravvicinamento di una festa centenaria all'ingiustizia che praticavasi verso le generazioni, cui non era accordato questo mezzo di ottenere un'indulgenza plenaria; ella voleva che una tanto singolare grazia fosse una volta in vita offerta ad ogni uomo. Ma più interessati segreti motivi avevano dato luogo a questa decisione. L'affluenza de' pellegrini a Roma vi recava immense ricchezze; ognun di loro faceva un'offerta ad ogni chiesa, ed il papa divideva tali offerte, come divideva altresì per via delle imposte gli utili che i Romani ritraevano dall'alloggio di tanti forastieri. Nello stesso anno la corte d'Avignone volle far servire alle ambiziose sue viste il tesoro raccolto colla pubblicazione del giubileo.
Lo stato della chiesa che per anco non era stato assoggettato all'immediata ubbidienza dei papi, sebbene gl'imperatori ne avessero loro abbandonata la sovranità, era di que' tempi diviso tra molti piccoli tiranni che comandavano ad una o due città. Ma queste città erano delle più piccole d'Italia; il coraggio de' loro abitanti erasi spento nella servitù, ed i signori non potevano, per la loro difesa, far capitale nè sul numero, nè sulle ricchezze, nè sull'energia de' cittadini. Credette Clemente VI di approfittare della circostanza in cui la peste aveva ridotti que' popoli all'ultimo grado di debolezza, per far riconoscere la sua sovranità a tutti que' piccoli principi: commise perciò ad Ettore di Durafort, suo parente, ch'egli aveva creato conte della Romagna, di ricondurre colla forza o coll'astuzia tutte le città del suo feudo sotto l'autorità della chiesa; affidava perciò al suo arbitrio una ragguardevole somma di danaro e quattrocento cavalieri provenzali, che, uniti alle truppe sussidiarie de' signori di Lombardia, formavano un'armata di mille ottocento cavalli[47].
Le segrete istruzioni date ad Ettore di Durafort volevano che spogliasse tutti i tiranni della Romagna; ma l'apparente motivo dell'armamento era quello d'attaccare e punire Giovanni dei Manfredi, signore di Faenza, che per una privata offesa erasi staccato dal partito de' Guelfi e della chiesa[48]. Durafort fece chieder truppe ausiliarie alla famiglia guelfa degli Alidosi che governava Imola, ed ai signori di Bologna, Giovanni e Giacomo de' Pepoli, figli di Taddeo, morto due anni prima. Dall'altro canto Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì, Malatesta dei Malatesti, signore di Rimini, e Bernardino da Polenta, signore di Ravenna e di Cervia, prevedendo la burrasca che li minacciava, si unirono al signore di Faenza, e presero al loro soldo il duca Guarnieri, cui di tutta la sua grande compagnia più non rimanevano che cinquecento cavalli, essendosi gli altri dispersi per consumare negli stravizj le ricchezze acquistate nella campagna di Napoli[49].
Il conte di Romagna attaccò, il 13 maggio del 1350, il ponte di san Procolo, che gli apriva lo stato di Faenza, e lo prese a viva forza; ma in seguito consumò quasi due mesi nell'assedio del castello di Salernolo, mentre avrebbe potuto forse in più breve tempo occupare la stessa città di Faenza[50]. I suoi alleati inquieti sullo scopo delle conquiste che meditava, cercavano di ritardarle con inutili negoziazioni; ma il conte era più proprio ai tradimenti che alla guerra. In mezzo ai Romagnuoli, la di cui perfidia era in Italia passata in proverbio, un cortigiano del papa avignognese aveva l'avvantaggio dell'arte della dissimulazione. Il conte mostrava di avere nei Pepoli intera confidenza, mentre trattava coi cittadini di Bologna di far assassinare questi due signori; e quando furono scoperte le sue trame[51], seppe così ben dissipare i sospetti dei due fratelli, che giunse ad indurre l'uno di loro a venire nel suo campo per farsi mediatore d'un trattato col signore di Faenza.
Giovanni dei Pepoli teneva nell'armata della chiesa duecento cavalli, che aveva somministrati al conte; ed aveva avuta cura di mantenere colla maggior parte degli ufficiali della stessa armata relazioni di amicizia e di ospitalità: or quando giunse il 6 di luglio al campo, accompagnato dai principali cittadini di Bologna, e da una guardia di trecento cavalli, poteva credersi nel proprio campo, circondato dai suoi partigiani e da' suoi soldati; ma il conte che lo accoglieva colle dimostrazioni del più tenero affetto e della più illimitata confidenza, aveva ordinato al suo maresciallo di far armare i capitani che gli erano più ben affetti, e di promettere a tutta l'armata doppia paga, e mese compiuto[52], a condizione che non si opponesse alla sorpresa che meditava di fare.
Pepoli era stato servito di rinfreschi nella tenda del generale; i gentiluomini bolognesi ed i cavalieri venuti dalla città erano stati invitati dagli ufficiali e dai soldati dell'armata a sedersi a mense ch'erano state imbandite per loro in diversi luoghi del campo; e frattanto il signore di Bologna era rimasto pressocchè solo col conte di Romagna, aspettando con impazienza l'arrivo degli ufficiali generali chiamati ad un consiglio di guerra. Finalmente il maresciallo dell'armata si presentò al padiglione del conte; e nello stesso istante i soldati che gli stavano intorno, assalirono Giovanni dei Pepoli, lo presero e rovesciarono in terra. Poichè l'ebbero incatenato lo trasportarono ad Imola, e lo chiusero nella fortezza, senza che questo sventurato signore potesse chiamare le proprie guardie in suo soccorso. Un suo paggio avendo alzata la voce per compiangerlo, venne subito ucciso ai di lui piedi[53].
Mastino della Scala che aveva convenuto con Durafort una segreta alleanza, fece muovere le sue truppe verso Bologna tosto che seppe arrestato Giovanni de' Pepoli. Dal canto suo il conte di Romagna lasciò la guerra che faceva ai suoi nemici, per condurre l'armata contro i suoi alleati, e prodigando le ricompense militari per tradimenti e per conquiste senza gloria, promise un'altra volta ai suoi soldati doppia paga e mese intero, per la presa del castello di san Pietro, che i Bolognesi non prendevansi cura di difendere[54].
Giacomo de' Pepoli ch'era rimasto in Bologna, fu colpito come da un colpo di fulmine alla novella dell'arresto del fratello, della diserzione di cinquecento cavalieri rimasti nell'armata del conte, e della guerra che gli facevano quegli alleati ch'egli aveva soccorsi. Scrisse in ogni luogo lagnandosi di così solenne tradimento, e chiedendo assistenza. Malatesta di Rimini ed Ugolino Gonzaga di Mantova recaronsi in fatti a Bologna, e gli offrirono la loro alleanza[55]. Ma al Pepoli stava assai più a cuore d'attaccare alla sua causa i Fiorentini ed il signore di Milano, le due prime potenze dell'Italia.
La repubblica fiorentina non aveva verun motivo di lodarsi dei Pepoli, che avevano mancato a tutti gl'impegni contratti colla repubblica dei Bolognesi. Perciò la signoria rispose agli ambasciatori di Giacomo dei Pepoli, che il suo onore ed i suoi principi non le consentivano di prendere le armi contro la chiesa in favore d'un usurpatore, e che tutto quanto poteva fare per lui e per suo fratello, era d'interporre i suoi buoni ufficj per riconciliarlo col conte di Romagna: ma in pari tempo aggiugneva che se si fosse trattato di difendere gli antichi suoi alleati, i cittadini della repubblica di Bologna, non avrebbe risparmiati nè il sangue nè i tesori fiorentini per tutelare la loro libertà. Questa dichiarazione fatta agli ambasciatori in pubblica udienza, fu ben tosto portata a Bologna; ed il propizio istante era finalmente giunto di scuotere un odiato giogo. «Ma, dice Matteo Villani, i Bolognesi di già avviliti da servili abitudini, più degni non erano della libertà; i loro peccati glie l'avevano fatta perdere; la loro povertà di spirito impedì loro di ricuperarla[56].»
La famiglia Bentivoglio si prese estrema cura di calmare l'effervescenza eccitata nel popolo dal rapporto degli ambasciatori; i suoi capi rappresentarono vivamente i pericoli d'una ribellione, il sovvertimento delle fortune, le violenze de' soldati, il timore di straniera invasione. Ma la sommissione de' Bolognesi non risparmiò loro veruna delle calamità rappresentate come conseguenze d'uno sforzo generoso per rompere il giogo de' loro tiranni. Giacomo de' Pepoli aveva preso al suo soldo il duca Guarnieri con cinquecento cavalli, ed il duca di Milano gliene aveva mandati altri cinquecento. Guarnieri chiese che fosse lasciata alla sua truppa tutta intera una strada della città, ed alloggiò i soldati in quelle case facendoli padroni di tutto, come se la città fosse stata presa d'assalto, e lasciata a sua discrezione. D'altra parte l'armata del conte della Romagna guastava le campagne fino alle porte; di modo che i Bolognesi erano ugualmente spogliati dai loro proprj soldati, e dai loro nemici.
Doveva prevedersi che Bologna non sarebbesi lungo tempo mantenuta in così cattivo stato; quando nuove speranze furono improvvisamente risvegliate in un modo affatto impensato. Ettore di Durafort aveva due volte promesso alla sua armata doppie paghe e militari ricompense; ma lungi dal poter attenere le sue promesse, trovavasi debitore di alcuni mesi del soldo corrente, e non aveva danaro per pagarlo. Una rivoluzione che scoppiò nel campo, con minaccia di custodirlo come ostaggio, abbassò ben tosto la sua ambizione ed il suo orgoglio, obbligandolo a porre in libertà Giovanni dei Pepoli, per soddisfare colla di lui taglia all'avidità delle proprie truppe[57]. Questo contrattempo lo dispose a proporre condizioni di accomodamento; ed i Fiorentini, per farle accettare, s'affrettarono di spedire una solenne deputazione a Bologna. Essi chiedevano che questa città tornasse sotto la protezione della Chiesa; che fosse rimessa in libertà e governata dal popolo come lo era anticamente; che pagasse a san Pietro il consueto tributo, e che in segno di sommissione ricevesse entro le sue mura il conte di Romagna con un ristretto seguito, che i tiranni rinunciassero ad ogni governativa incumbenza, e che la riforma dell'amministrazione si eseguisse sotto la direzione de' commissarj fiorentini. Il conte ed i Pepoli, egualmente smontati dalle loro pretese, mostravano di aderire a tale accomodamento; ma quando si consigliarono coi signori di Lombardia loro alleati, Mastino della Scala, che sperava di occupare egli stesso Bologna, sconfortò il conte da questo trattato; ed il Visconti anch'esso, per motivi personali, vi fece rinunciare i Pepoli[58].
I signori di Bologna avevano fatta scelta de' cittadini più distinti pel loro patriottismo, di coloro che per talenti, per ricchezze e nascita erano quasi capi naturali del popolo; e gli avevano spediti a Firenze per trattare di concerto con questa repubblica intorno al modo di ristabilire la libertà bolognese. Riccardo Salicetti, capo di quest'illustre deputazione, diresse alla signoria fiorentina in presenza del popolo adunato le più vive espressioni di gratitudine, per la liberazione della sua patria; le applicò queste parole del suo testo: Ad Dominum cum tribularer clamavi, e promise a nome dei Bolognesi un'eterna riconoscenza per il maggiore de' beneficj. Ma all'indomani di quest'udienza, seppesi a Firenze che la deputazione bolognese altro non era che uno stratagemma dei Pepoli per allontanare dalla loro città i più temuti cittadini; e che, durante l'assenza loro, Bologna era stata venduta al Visconti, e di già venuta in suo potere[59].
Dal 1339 in avanti, Luchino Visconti signoreggiò Milano e quasi tutta la Lombardia. Grandi talenti militari, una perfida politica, una impenetrabile dissimulazione, una feroce gelosia della propria autorità, una diffidenza, cui sagrificò i suoi più stretti parenti, sembrano i principali tratti del suo carattere. Si lodò molto il suo amore per la giustizia, o piuttosto la vigilanza con cui mantenne la polizia ne' suoi stati, e la severità con cui castigò i malfattori: ma sotto lo stesso nome non dovrebbe confondersi l'amore d'un uomo probo e giusto per le regole immutabili della giustizia, e l'inflessibilità d'un despota geloso della propria autorità, che conserva o vendica l'ordine da lui stabilito. Luchino amava la lode, onde cercava l'amicizia del Petrarca, che gli uomini potenti ottenevano senza difficoltà lusingando l'amor proprio del poeta. In fatti Petrarca diresse una pomposa lettera a Luchino per celebrare la sua virtù e la sua gloria[60]; ma poco dopo aver ricevuta questa scrittura, morì il 28 gennajo del 1349, avvelenato dalla consorte Isabella del Fiesco, prevenuta opportunamente che suo marito in un trasporto di gelosia la condannava alla morte.
Giovanni Visconti arcivescovo di Milano, succeduto al fratello Luchino, si trovò signore di sedici delle più potenti città di Lombardia[61]. Giovanni fu quello che prese a trattare con il Pepoli l'acquisto di Bologna, promettendo ai due fratelli duecento mila fiorini, loro inoltre lasciando la proprietà dei tre castelli di san Giovanni, Nonantola e Crevalcuore[62]. A questo prezzo i Pepoli che riconoscevano la loro grandezza dalla confidenza de' Guelfi loro concittadini, vendettero la comune patria ad uno straniero tiranno, ad un Ghibellino, i di cui antenati erano sempre stati nemici dei loro. Il disprezzo di tutta l'Italia punì i Pepoli di così vergognoso contratto[63]. In Bologna eccitò la più violenta indignazione, gridandosi rabbiosamente in tutte le strade, noi non vogliamo essere venduti[64]. Ma i cittadini scoraggiati, e privi dei loro capi, non ardirono ricorrere alle armi, nè invocare l'ajuto de' Fiorentini che dividevano il loro risentimento; ed uno dei nipoti dell'arcivescovo fu ricevuto senz'ostacolo entro la città con mille cinquecento cavalli[65].
Il duca Guarnieri, personale nemico dei Visconti, passò nel campo del conte di Romagna con i suoi soldati lo stesso giorno in cui le truppe milanesi entrarono in Bologna: in pari tempo le truppe ausiliarie di Mastino della Scala giunsero a rinforzare l'armata della chiesa, sicchè trovossi tutt'ad un tratto più numerosa e più formidabile assai che prima non era stata. Ma la corte d'Avignone faceva colla sua avarizia andare a vuoto tutti i progetti de' suoi generali. Dopo avere cominciata la guerra con vigore, e promessi considerabili sussidj ai suoi alleati, mancava senza rossore alle promesse; ricusava di somministrare il danaro quand'era più necessario, ed abbandonava le proprie creature, perchè tutte le entrate venivano prese da altri favoriti. Al conte di Romagna non si mandò il danaro per pagare le truppe. Invano questi rappresentava al papa suo cugino il grave affronto cui rimaneva esposto il nome della chiesa, ed i pericoli che soprastavano a tutto il suo patrimonio. Durafort non potè ottenere da Avignone verun sussidio, e fu alla fine costretto a permettere che i suoi soldati trattassero col suo nemico. Barnabò Visconti, che comandava in Bologna, pagò col danaro destinato ai Pepoli il soldo delle truppe che lo assediavano, prese mille cinquecento cavalieri della chiesa al suo servizio, obbligò gli altri ad allontanarsi, ricuperò tutti i castelli occupati dall'armata del conte, e lasciò che questi tornasse coperto di vergogna ad Imola[66].
Questa rotta risvegliò per alcuni istanti la collera e l'orgoglio della corte d'Avignone. Clemente VI fece ricominciare contro i Visconti la procedura intrapresa da Giovanni XXII per titolo di scisma e di eresia; citò l'arcivescovo ed i suoi tre nipoti[67] a comparire l'otto aprile del 1351 innanzi al concistoro dei cardinali, onde giustificarsi della loro ribellione contro la chiesa; e mandò in Italia, col titolo di legato, il vescovo di Ferrara, per formare una lega contro i signori di Milano[68].
Il legato si presentò prima all'arcivescovo Visconti, e gl'intimò di restituire Bologna alla chiesa, e di scegliere in seguito tra la condizione di prete o di principe, tra la potenza spirituale o la temporale. Il Visconti chiese al legato di ripetergli lo stesso ordine la susseguente domenica nella chiesa cattedrale, poichè non era che in presenza del popolo e del clero, che un arcivescovo ed un principe poteva rispondere a tale ambasciata. Nel giorno indicato, poichè il Visconti ebbe solennemente celebrata la messa, il legato pontificio espose avanti a tutto il popolo l'ambasciata di cui era incaricato: allora l'arcivescovo prendendo con una mano la croce, e coll'altra sguainando una spada: Ecco, disse, le mie armi spirituali e temporali; colle une io difenderò le altre[69].
Per altro l'arcivescovo promise in seguito d'ubbidire alla citazione del papa, e di presentarsi personalmente in Avignone; volendo atterrire la corte pontificia con una singolare ostentazione. Uno de' suoi segretarj, recatosi in Avignone per preparare gli alloggi, prese in affitto tutte le case che trovò vuote in Avignone e nel circondario di più leghe; in pari tempo fece grandiosi approvvigionamenti di vittovaglie e di arredi per il padrone e pel suo seguito. Il papa, avvisato di tanti movimenti, fece domandare al segretario quanta gente pensasse di condurre l'arcivescovo. Questi rispose di avere ordine di disporre i quartieri ed i viveri per dodici mila cavalli e sei mila pedoni, senza contare i gentiluomini milanesi che dovevano seguire il loro arcivescovo; soggiugnendo che aveva in tali apparecchi di già spesi quaranta mila fiorini. Il papa atterrito da così fatta visita, fece pregare il Visconti a non esporsi a così disagiato viaggio; e gli spedì deputati per trattare d'accordo, avendogli in fine data l'investitura di Bologna, oggetto principalissimo della contesa, per cento mila fiorini[70].
Il vescovo di Ferrara, di conformità alle ricevute commissioni, aveva cercato di eccitare nemici e formare una lega contro i Visconti; ma i signori di Lombardia, che tutto avevano a temere dall'ambizione dell'arcivescovo, non avevano forza da resistergli. Giacomo da Carrara il vecchio era stato assassinato da un bastardo della propria famiglia, onde la signoria di Padova era stata data a gioventù inesperta[71]. Mastino della Scala morì improvvisamente il 3 giugno del 1351 in età di 42 anni, nell'anno vigesimo terzo del suo regno. Gli succedettero i suoi tre figliuoli Can grande II, Can signore, e Paolo Alboino, niuno de' quali aveva i talenti del padre; ed Alberto suo fratello non volle avere alcuna parte al governo[72]. Le repubbliche di Firenze, Siena e Perugia avevano, ad insinuazione del legato, spediti dei deputati ad Arezzo, per concertarsi coi signori di Verona e di Ferrara intorno ai mezzi di mantenere l'equilibrio d'Italia; ma Siena e Perugia, trovandosi in tanta distanza da Milano, non si credevano esposte a verun pericolo, onde ricusavano di fare sagrificj per la causa comune; e la subita morte di Mastino fece abbandonare da tutti i deputati una dieta che non sapeva prendere alcun partito. Can grande, che aveva sposata una nipote dell'arcivescovo di Milano, approfittando di quest'occasione, strinse con lui nuova alleanza[73].
E per tal modo la repubblica di Firenze fu la sola che mostrasse abbastanza coraggio per volersi opporre ai progressi della casa Visconti. La diserzione di tutte le altre potenze lasciavanla esposta in prima linea agli attacchi di così pericoloso vicino. Tutti i tiranni di Romagna, tutti i gentiluomini ghibellini della Toscana si associavano al signore di Milano, la di cui armata spedita per fare l'assedio d'Imola, minacciava nello stesso tempo i confini della repubblica fiorentina, la quale non poteva fidarsi ai trattati di pace che aveva convenuti con quel tiranno[74].
Conveniva per lo meno provvedere che le città toscane, che si governavano a comune sotto la protezione della repubblica, non aprissero ai Milanesi i passi delle montagne. Prato e Pistoja, città situate nel piano medesimo di Firenze, stendevano la loro giurisdizione alle montagne che dividono la Toscana dal Bolognese, ed il governo di queste due città, che potevano diventare pericolose piazze d'armi in potere dei nemici, non ispiravano troppa sicurezza al partito guelfo. A Prato la famiglia de' Guazzalotti, resa potente dal favore dei Fiorentini, godeva di un quasi tirannico potere. Gli antichi capi di questa famiglia erano stati rimpiazzati, quando morirono, da gioventù invanita della propria importanza in quella piccola città; affettava modi principeschi, e disprezzo pei Fiorentini suoi antichi protettori. L'audacia sua giunse tant'oltre di condannare a morte due innocenti cittadini, sospetti di congiura, e di farne eseguire la sentenza malgrado le calde preghiere della signoria fiorentina. Questa fece allora avanzare le sue milizie fino alle porte di Prato, e prese in sua custodia la città; trattando in pari tempo colla regina Giovanna, la quale aveva ereditato dal duca di Calabria dei diritti sulla città di Prato, e facendo l'acquisto di tali diritti alla sovranità di Prato per 17,500 fiorini, unì difinitivamente quel piccolo stato al territorio fiorentino[75].
I priori di Firenze avevano pure pensato di sorprendere Pistoja, e senza averne ricevuta l'autorità dal popolo o dai consigli della repubblica, avevano fatta tentare la scalata la notte del 26 marzo 1351. Ma i Pistojesi, sdegnati per questo tradimento, avevano vigorosamente rispinti gli assalitori; e mostravansi disposti di abbandonare il partito guelfo e le antiche loro alleanze per vendicarsi di una ingiusta aggressione. Dall'altro canto i Fiorentini, sebbene altamente biasimassero la condotta de' loro priori, vedevansi costretti a cingere d'assedio una città che sapevano vicina a darsi in mano dei Visconti. Per altro le loro milizie astenevansi dal recare danno ad antichi alleati, che attaccavano loro malgrado, ed i priori chiedevano caldamente che si entrasse in negoziazioni, onde colla mediazione di alcuni gentiluomini guelfi ottennero di stabilire un trattato fra le due repubbliche. La libertà della più debole fu mantenuta nella sua integrità; ma i Fiorentini ottennero di mettere guarnigione nella fortezza di Pistoja e nelle altre due fortezze di Serravalle e della Sambuca[76]. Alcune delle porte della Toscana parvero in tal modo chiuse al tiranno della Lombardia; ma altrove, rivoluzioni eccitate da' suoi maneggi in vicinanza di questa provincia gli aprivano nuove strade. Ovunque un usurpatore occupava il governo, il Visconti acquistava un alleato, e la repubblica un nemico. Ad Orvieto Benedetto Monaldeschi, che voleva appropriarsi il supremo potere, si assicurò preventivamente l'assistenza dell'arcivescovo di Milano; adunò in propria casa i suoi satelliti, e loro distribuì le armi; fece loro conoscere il segno dietro il quale dovevano recarsi in piazza, indi portossi in consiglio per abboccarsi con due de' suoi parenti, i Monaldi ed i Monaldeschi, che conosceva troppo incorrotti, per isperare che acconsentissero alla sua usurpazione. Quando fu terminato il consiglio li chiamò da banda, e, conducendoli innanzi alla propria casa, li fece assassinare sotto i suoi occhi. Era questo il segno che aspettavano gli sgherri adunati presso di lui; si affollarono subito in piazza, presero d'assalto il palazzo del governo, saccheggiarono le case ed i magazzini de' mercanti, uccisero coloro che facevano resistenza, e proclamarono Benedetto di Bonconte Monaldeschi signore d'Orvieto. Dopo pochi giorni si rese pubblica l'alleanza di questo nuovo signore coll'arcivescovo Visconti[77].
Quasi nello stesso tempo Giovanni Cantuccio dei Gabrielli usurpò la signoria di Gubbio sua patria, mentre gran parte de' suoi concittadini trovavansi al governo, come podestà, di altre città d'Italia; perciocchè tutti i gentiluomini di Gubbio seguivano la carriera della giudicatura, e verun'altra città somministrò tanti rettori alle repubbliche italiane. Un'armata di emigrati giunse in breve ad attaccare il nuovo tiranno, formando di concerto coi Perugini l'assedio di Gubbio; ma Giovanni de' Gabrielli, sebbene originario guelfo, chiamò in suo ajuto i Ghibellini; le truppe dell'arcivescovo Visconti vennero a difenderlo, obbligando gli assedianti a dar luogo[78].
Gli Ubaldini, gli Ubertini, i Tarlati ed i Pazzi erano intervenuti ad una dieta tenuta dai Ghibellini in Milano nel mese di luglio; e si erano veduti in quest'adunanza gli ambasciatori dei Pisani, i Castracani di Lucca, i conti di Santafiora e di Spadalunga delle montagne di Siena, ed i deputati dei signori di Forlì, di Rimini e di Urbino. Ogni cosa faceva credere la burrasca vicina a piombare sulla repubblica fiorentina; ma perchè l'arcivescovo di Milano l'andava ogni giorno assicurando del suo vivo desiderio di conservare la pace e la buona intelligenza, i priori di Firenze non aprivano gli occhi sui pericoli ond'erano minacciati, nè pensavano a porsi in istato di difesa[79].
Erasi scoperta in Bologna una pretesa congiura contro l'arcivescovo di Milano, il quale aveva fatto punire colle verghe uno de' Pepoli, e condannare co' suoi figliuoli a perpetua prigionia, onde ritogliergli il danaro che gli aveva dato per acquistare la sua sovranità[80]. Mentre i Fiorentini occupavansi di questo fatto, si seppe improvvisamente che un emigrato Pistojese aveva sorpreso il castello della Sambucca che signoreggiava il passaggio degli Appennini, nel mentre che Giovanni d'Oleggio, generale del signore di Milano, trovavasi soltanto quattro miglia lontano da Pistoja con un corpo dell'armata che poc'anzi formava l'assedio d'Imola[81].
Fortunatamente Giovanni d'Oleggio si trattenne due giorni alle falde dell'Appennino per aspettare il rimanente delle truppe; onde cinquecento cavalli e seicento fanti di Firenze ebbero tempo di gettarsi in Pistoja il 28 luglio, prima che la città fosse cinta d'assedio, riparando in tal modo col loro zelo la negligenza de' magistrati[82]. Ma la congiura formata contro Firenze nella dieta dei Ghibellini a Milano scoppiò in ogni parte. Le truppe adunate nelle diverse piazze della Lombardia marciavano tutte alla volta della Toscana; i signori di Venezia e della Romagna somministravano i convenuti sussidj di truppe all'armata milanese; gli Ubaldini armavano tutti i loro vassalli degli Appennini; ed alla testa de' medesimi bruciarono Firenzuola, le di cui mura non erano ancora state rifatte, ed occuparono Montecoloreto[83]. Pietro Saccone dei Tarlati, il più formidabile partigiano che avesse prodotto l'Italia, guastava cogli Ubertini e coi Pazzi tutte le vicinanze di Bibiena[84]. Temevasi in Firenze che anche i Pisani non si unissero a tanti nemici, imperciocchè sapevasi che, come gli altri Ghibellini, avevano ancor essi mandati i loro deputati alla dieta di Milano; ma il timore di cooperare all'ingrandimento di un tiranno prevalse nel consiglio di Pisa al furore dello spirito di partito, e la repubblica ricusò di prendere le armi contro un popolo, bensì rivale, ma che solo sosteneva in Italia la causa della libertà[85].
I Fiorentini spedirono deputati a Giovanni d'Oleggio per chiedere i motivi d'una aggressione non preceduta da veruna dichiarazione di guerra, mentre sapevano di non aver dato all'arcivescovo di Milano, suo padrone, verun motivo di lagnanza, e non avevano con lui alcuna controversia. Oleggio gli accolse in presenza del suo consiglio di guerra, e loro rispose in questi termini:
«Il nostro signore messer l'arcivescovo di Milano è potente, benigno e grazioso signore: e non fa volentieri male ad alcuna persona: anzi mette pace e accordo in ogni luogo, ove la sua potenzia si stende; ed è amatore di giustizia, e sopra gli altri signori la difende e mantiene, e qui non ci ha mandati per mal fare; ma per volere tutta Toscana riducere, e mettere in accordo e in pace. E levare le divisioni, e le gravezze, che sono tra i popoli, e comuni di questo paese. E però che a lui è pervenuto e sente le divisioni e discordie, e sette, e le gravezze che sono in Firenze, le quali conturbano, e gravano la vostra città, e tutti i comuni di Toscana, ci ha mandati qui a fine, che noi vi governiamo, e reggiamo in pace, e in giustizia per lo suo consiglio, e sotto la sua protezione e guardia. E così intende di volere addirizzare tutte le terre di Toscana. E dove questo non possa fare con dolcezza e con amore, intende farlo per forza della sua potenzia, e degli amici suoi. E a noi ha commesso, ove per voi non si ubidisca al suo buono e giusto proponimento, che mettiamo la sua oste in sulle vostre porte, intorno alla vostra città. E che ivi tanto manterrà quella, accrescendola, e fortificandola continuamente; combattendo d'ogni parte il contado e distretto del vostro comune, con fuoco e con ferro, e con prede de' vostri beni, che tornerete per vostro bene a fare la volontà sua[86].»
I governi, macchiati dalla ingiustizia e dal tradimento, hanno spesso fatto abuso dei nomi della virtù e dell'onore, e posto in bocca alla più sfrenata ambizione i discorsi della moderazione e della giustizia: ben possono essi, fin dove stendesi la loro autorità, non lasciar sentire che la propria voce; ma non possono ingannare la posterità, come non illudono coloro cui addirizzano i loro proclami. Le scritture cui affidano le loro menzogne, non saranno conservate come documenti storici che possano far conoscere i fatti o le intenzioni di coloro che le pubblicarono, ma come infallibili testimonianze della bassezza e falsità loro. Gli ambasciatori fiorentini, cui il Visconti d'Oleggio negò passaporti per recarsi a Milano, alla corte dell'arcivescovo, tornarono a Firenze ad informare la signoria della risposta ipocrita ed altera loro data, la quale comunicata al popolo, e registrata nelle cronache, eccitò lo sdegno universale, e somministrò nuove forze alla repubblica.
I Fiorentini mandarono in Prato ed in Pistoja tutte le truppe assoldate che avevano, confidando la difesa delle altre fortezze agli abitanti loro, e le milizie fiorentine si riservarono la custodia delle mura della capitale. La signoria, sorpresa nel cuor della pace, non aveva al suo soldo verun capitano di guerra, od armata in istato di tenere la campagna, mentre il Visconti d'Oleggio aveva sotto i suoi ordini, nel piano di Pisa, cinque mila corazzieri a cavallo, due mila cavallegeri, e sei mila fanti. Con queste formidabili forze il generale milanese portò il suo quartiere generale negli aperti villaggi di Campi, Brozzi e Peretola, e spinse i saccheggi fino alle porte di Firenze[87].
Ma i contadini all'avvicinarsi dell'armata nemica eransi fatti solleciti di riporre in luoghi di sicurezza tutto quanto possedevano di più prezioso, e si erano riparati essi medesimi nelle castella murate coi loro bestiami e gli approvigionamenti da bocca: onde i Milanesi non tardarono a sentire la mancanza delle vittovaglie, ed a soffrire gl'incomodi del caldo, ch'era di que' giorni estremo. Per procurarsi approvigionamento, e soltanto per parlare ad un contadino o per entrare in una casa, erano costretti d'intraprendere un assedio, giacchè la campagna non aveva abitatori, trovandosi tutti gli agricoltori chiusi in terre e castella murate. Onde non potendo l'Oleggio più lungamente tenersi nel piano di Firenze, prese la via della valle di Marina, ed entrò in quella di Mugello, ove dopo alcuni giorni di riposo intraprese l'assedio di Scarperia[88].
Il borgo di Scarperia era male fortificato, non avendo mura che da un solo lato, e dagli altri una fossa con palafitta, e dietro la fossa le muraglie delle prime case. La guarnigione consisteva in duecento corazzieri e trecento fanti; mentre Oleggio alla sua formidabile armata aveva di fresco uniti tutti i Ghibellini degli Appennini, onde vedevansi le sue truppe coprire tutta la campagna. Non pertanto i comandanti di Scarperia risposero all'intimazione d'arrendersi, che avevano mezzi per difendere tre anni la fortezza loro affidata, e rispinsero vigorosamente un primo assalto dato il giorno 20 d'agosto[89].
Mentre l'armata del Visconti veniva trattenuta sotto Scarperia, i Fiorentini andavano assoldando cavalli; ma niun capitano rinomato voleva entrare al loro servigio per non farsi nemico il signore di Milano. Furono perciò costretti a rinunciare al progetto di mettersi in campagna, e a dare ai cittadini fiorentini il comando delle compagnie che arrolava la repubblica per afforzare i castelli del Mugello e i passi delle montagne. I contadini accorrevano a militare sotto le insegne di questi varj comandanti, che gli avvezzavano alla guerra con giornaliere zuffe, attaccando con vantaggio e prendendo frequentemente i convogli di viveri che giugnevano di Lombardia per mantenere l'armata de' Visconti. I Sienesi avevano mandati ai Fiorentini un corpo di truppe ausiliarie[90], ed i Pisani avevano ostinatamente ricusato di prender parte nella guerra dell'arcivescovo, e di rompere il trattato di pace che avevano fatto coi Fiorentini[91]. Entro Firenze l'ordine pubblico e la tranquillità si mantenevano malgrado la guerra; i cittadini disarmati attendevano al loro commercio, e la banca ossia monte continuava i pagamenti senza mostrare veruna diffidenza; mentre i soldati milanesi sentivano essi soli quasi tutti i danni delle ostilità da loro cominciate.
Frattanto il castello di Scarperia veniva ostinatamente attaccato; le macchine degli assedianti non cessavano nè giorno nè notte di lanciare enormi massi di pietre; la guarnigione, resa debole da continue zuffe, cominciava a prevedere che non avrebbe potuto resistere lungo tempo contro forze tanto superiori; e la cavalleria ausiliaria, che i Fiorentini aspettavano da Perugia, non aveva potuto giugnere, essendo stata svaligiata da Pietro Saccone dei Tarlati, che l'aveva sorpresa con un'imboscata[92]. La signoria, non avendo alla testa delle sue truppe un generale sperimentato, non osava tentare la liberazione di Scarperia col dare una battaglia, e cercò piuttosto di rinforzarne la guarnigione. Due coraggiosi cittadini, un Giovanni Visdomini ed un Medici, che professavano ambidue il mestiere delle armi, intrapresero di condurre, il primo trenta corazzieri, l'altro ottanta pedoni scelti, a traverso al campo nemico fino entro le mura di Scarperia. Tutti i soldati da loro scelti erano tedeschi; l'armata dei Visconti trovavasi in gran parte composta di mercenarj della stessa nazione, onde la confusione del linguaggio agevolava la marcia degli avventurieri, che volevano penetrare nel castello; altronde erano favoriti dall'oscurità della notte; ed al loro ardire giovando assai la perfetta conoscenza dei luoghi, e la sorpresa dei nemici, giunsero in Scarperia, ove questo pugno di gente valorosa fu ricevuto con trasporti di gioja[93].
Quando Visconti d'Oleggio vide che la perdita cagionata agli assediati dalle baliste e dalle grandini delle freccie lanciate contro di loro, non gli stringeva ad arrendersi, risolse di prendere la piazza d'assalto. Aveva fatte preparare tutte le macchine da guerra allora usate nell'attacco delle città; cioè torri mobili di legno, montoni armati d'uncini, scale; oltre di che aveva fatto riempire le fosse. La prima domenica d'ottobre diede un generale assalto; ma gli assediati, fermi al loro posto, rovesciavano coloro che salivano le scale, o si avvicinavano sui ponti delle torri mobili; versando sugli altri pece bollente, pietre e dardi. Essi mai non lasciavano un solo istante senza gente il più angusto tratto di muro, facendo cadere gli uni sopra gli altri gli assalitori che successivamente si alzavano fino ai merli della muraglia, e che ricadevano nelle fosse coperti di ferite. Oleggio aveva calcolato di vincere i difensori di Scarperia colla stanchezza, e conduceva successivamente all'assalto diversi corpi d'armata, opponendo ogni mezz'ora truppe fresche a soldati affaticati dalla pugna. Ma gli assediati, incoraggiati dal buon successo, mostravano di non sentire la fatica; e per lo contrario gli assalitori si scoraggiavano vedendo le perdite di coloro che gli avevano preceduti. Durava già da sei ore l'attacco, quando Oleggio fece ritirare le sue truppe, abbandonando presso le mura sessantaquattro scale che furono prese dagli assediati[94].
In appresso il generale milanese cercò di penetrare in Scarperia per una mina; ma la galleria, che aveva fatta scavare, fu scoperta, e cacciata con perdita la sua gente[95]. Dopo quattro giorni di riposo, diede un secondo assalto generale, che non fu nè meno lungo nè meno ostinato del primo; ma le sue truppe vennero respinte ancora più vergognosamente. Tutte le macchine avanzate fin sotto le mura, e le stesse torri mobili, che non potevano essere rifatte che con lungo lavoro, furono bruciate in una sortita[96]. La stessa notte successiva al combattimento, gli abitanti di Scarperia vennero attaccati per sorpresa: Oleggio aveva promesso ai suoi contestabili tedeschi, per la presa di questo piccolo castello, doppio soldo, mese intero ed un regalo di dieci mila fiorini. A mezza notte, mentre gli assediati stavano medicando le loro ferite, o riparando col sonno le perdute forze, nel campo milanese fu dato il segno di armarsi. I raggi della luna cadevano obbliquamente sul castello, ed illuminavano il campo e lo spazio che lo separava dalle mura, mentre gli edificj di Scarperia gettavano sull'opposto lato un'ombra estesa ed oscura. In questo cupo spazio, Oleggio aveva posti trecento sergenti d'armi muniti di scale, mentre tutto il rimanente dell'armata avanzavasi al suono delle trombe, e mettendo alte grida, dal lato rischiarato dalla luna. Non dubitava il generale milanese, che nella prima sorpresa di un notturno attacco, tutti gli abitanti di Scarperia non si recassero verso la parte minacciata. Ma una migliore disciplina era stata stabilita nel castello. Dall'istante dell'allarme ognuno erasi portato in silenzio al suo posto; gli assediati occupavano tutta l'estensione delle mura, e tenevano nascosti i lumi e le armi; permisero agli assalitori d'innoltrarsi fino al piede delle mura; non impedirono ai trecento sergenti di passare colle loro scale le due fosse, e di cominciare a salire sul muro. Tutt'ad un tratto gli assediati si fecero vedere, e, fortemente gridando, oppressero gli assalitori con pietre preparate a tal uopo, e, rovesciando le loro scale, gli spinsero tutti nella fossa. Dal lato illuminato dalla luna, la pugna durò più lungamente; ma quando spuntò il giorno Oleggio fece suonare a raccolta, e rinunciò al progetto di sottomettere un piccolo castello, innanzi al quale tutta la potenza de' Visconti aveva perduta la sua gloria[97].
Realmente i soldati cominciavano a mancare di vittovaglia, ed i cavalli di foraggi; la stagione si faceva ogni giorno peggiore, onde il campo milanese era pieno d'ammalati e di feriti. Oleggio dopo essersi trattenuto ottantadue giorni nel territorio fiorentino, consumandone sessantuno nell'inutile assedio di un debole castello, levò il campo il 16 ottobre, tornando nello stato bolognese per istrade signoreggiate da gentiluomini ghibellini suoi alleati[98].
Dopo la ritirata dell'esercito milanese i Fiorentini si presero cura di premunirsi in avvenire contro somiglianti invasioni. Fortificarono tutti i passaggi degli Appennini; assoldarono molte truppe regolari; accrebbero le imposte in modo d'avere annualmente una rendita di 360,000 fiorini; e per ultimo in dicembre segnarono un trattato d'alleanza difensiva colle tre comuni di Perugia, Siena ed Arezzo. Le quattro repubbliche si obbligarono a tenere continuamente in sul piede di guerra un'armata di tre mila cavalieri per la difesa della libertà. Ma la sola Firenze ne aveva di già sotto le armi un numero ancora maggiore[99].
La potenza de' Ghibellini di Lombardia aveva fino a tale epoca trovato il suo contrappeso in quella della casa guelfa che regnava in Napoli; ma dopo che Giovanna era succeduta al saggio Roberto, tutte le forze de' sovrani e del popolo, consumate in una terribile guerra civile, parevano quasi affatto spente, ed i Fiorentini, stretti dall'arcivescovo di Milano, volgevansi invano verso l'erede di quella casa d'Angiò, che lungi dal potere difenderli, aveva essa stessa bisogno della loro protezione.
Il re d'Ungheria aveva di nuovo nel 1350 attraversato l'Adriatico per condurre nel regno di Napoli dieci mila uomini di cavalleria, che lo avevano seguito montati sopra battelli scoperti[100]. Egli non aveva galere per proteggere la sua flottiglia, di modo che, se Giovanna non avesse lasciata perire la sua marina, essa avrebbe potuto agevolmente fermare gli Ungari sulle opposte rive, o affondare le barche sulle quali si avventuravano. Le truppe che, per una imperdonabile negligenza, Giovanna aveva lasciate sbarcare nel regno, lo attraversarono con facilità; occuparono presso che tutte le città delle due province chiamate principati, ed in appresso assediarono Aversa, la sola piazza che tentasse difendersi. Ma gli Ungari servendo il re in forza della loro dipendenza feudale, non ricevevano da lui pagamento, e dopo un breve termine avevano il diritto di tornare alle loro case. Aversa non fu presa che nell'epoca in cui terminava l'obbligo loro, onde chiesero di ripassare in Ungheria. Lo stesso re stanco delle sue guerre d'Italia, perdeva ogni speranza di conquistare paesi, ove non pensava di stabilire la sua dimora, e desiderava egualmente di riprendere la strada del suo regno. Dal canto suo la regina Giovanna trovavasi debolissima, onde chiedeva caldamente la pace, ed in seguito ad alcune conferenze, fu conchiusa in ottobre del 1350 una tregua che doveva durare fino al 1º aprile del susseguente anno. Si convenne che fino a tale epoca le due parti conserverebbero i loro possedimenti, che i due re e la regina uscirebbero dal regno, e che il papa, nel suo concistoro, rimarrebbe solo giudice dell'attentato commesso contro il re Andrea. Se la corte d'Avignone pronunciava essere la regina colpevole, questa doveva perdere il regno, che sarebbe devoluto al re d'Ungheria: se la corte d'Avignone la dichiarava innocente, il re doveva rinunciare a tutte le sue conquiste, contro il pagamento di trecento mila fiorini a titolo di spese della guerra. A queste condizioni Luigi d'Ungheria tornò ne' suoi stati, dopo avere nominati suoi luogotenenti il cavaliere di Monreale nella Terra di Lavoro, e Corrado di Guilford in Puglia[101].
Dietro tale tregua il re d'Ungheria e la regina Giovanna spedirono ambasciatori alla corte d'Avignone per rifare il processo intorno alla morte del re Andrea. Ma gli Ungari, che oramai credevano di avere bastantemente vendicato quest'assassinio, non appoggiavano con grande impegno la loro accusa; ed il papa ed i cardinali erano tutti favorevoli alla casa di Provenza: pure il delitto di Giovanna era tanto manifesto, che non sapevano a qual partito appigliarsi per discolparla senza disonorare sè medesimi. Dopo avere assai protratto il giudizio, s'appigliarono per ultimo ad un partito, che ben mostra quanto la stessa regina confidasse poco nella giustizia della sua causa. I commissarj di Giovanna dichiararono che, quando potesse ancora provarsi che questa principessa avesse mancato ai doveri coniugali, non doveva imputarsi il di lei errore nè alla sua intenzione, nè a cattiva volontà, ma riconoscere ch'ella aveva ceduto alla forza d'un sortilegio, e che la debolezza d'una donna non aveva potuto resistere alla possanza degli spiriti infernali. I commissarj confermarono la strana loro giustificazione colle deposizioni di molti testimonj giurati; e i giudici, cui le dirigevano, essendo ancor essi desiderosi di trovare un pretesto per pronunciare un giudizio favorevole alla regina, la dichiararono innocente del delitto commesso contro Andrea, ed annullarono l'accusa che da tanto tempo pesava sul suo capo[102].
Questo giudizio per altro non ridonò immediatamente la pace al regno di Napoli, perchè la corte d'Avignone trovava di suo utile il prolungamento dell'anarchia. Clemente VI non aveva voluto dare a Luigi di Taranto, sposo di Giovanna, altro titolo che quello di re di Gerusalemme, e non aveva voluto ratificare il trattato tra lui ed il re d'Ungheria. Vero è che gli Ungari si erano ritirati dal regno, ma Luigi di Taranto doveva far guerra ai suoi propri baroni, e non trovava in verun luogo chi volesse ubbidirgli. Egli non aveva danaro per mantenere un'armata, e nemmeno per supplire ai proprj più immediati bisogni. Erasi avanzato fino a Sulmona con intenzione di sottomettere i ribelli della Puglia; e colà vedevasi abbandonato da' suoi soldati, e deriso dalla nobiltà, mentre le principali città del regno rifiutavano d'aprirgli le porte. In tale quasi disperata situazione, ebbe notizia in dicembre del 1351, che il papa lo aveva riconosciuto in pieno concistoro per re di Napoli e di Sicilia. La coscienza del pontefice erasi risvegliata repentinamente, quando una grave malattia l'aveva condotto al limitare del sepolcro, e da quell'istante manifestava la più viva impazienza di rendere la pace all'Italia[103].
In un secondo concistoro tenuto nel susseguente mese, cui assistettero il vescovo di Cinque chiese e Corrado di Guilford quali plenipotenziarj del re d'Ungheria, Clemente VI ratificò la tregua che esisteva tra i due monarchi, e la commutò in perpetua pace. Riconobbe Luigi di Taranto e Giovanna di Provenza come re e regina di Napoli; e nella sua qualità di abituale signore accordò che il regno venisse a certe epoche assoggettato al pagamento di trecento mila fiorini, promessi al re Ungaro per ispese di guerra. Gli ambasciatori d'Ungheria si fecero allora a parlare, e contro l'universale aspettazione dichiararono che il re, loro padrone, non avendo fatta la guerra in Italia per ammassare danaro, ma per vendicare il sangue di suo fratello, assolveva il re, la regina ed il regno dei trecento mila fiorini a lui promessi, e senza veruna condizione rimetteva la regina Giovanna nell'intero godimento dell'eredità de' suoi maggiori[104].
CAPITOLO XL.
Commercio e colonie degl'Italiani in Levante. — Guerra de' Genovesi coi Greci. — Coi Veneziani. — Battaglia del Bosforo.
1348 = 1352. Il continente d'Italia difendeva a stento la propria indipendenza contro i Visconti. Questa famiglia era comunemente indicata col nome del serpente che portava ne' suoi stemmi. Essa impiegava alternativamente contro i suoi vicini l'astuzia o la violenza, la perfidia o la sorpresa, per distruggere la loro libertà; e la biscia[105] de' Visconti inghiottiva i più deboli stati, o spargeva sugli altri il suo veleno, per farli poi cadere la volta loro. Ma il mare aveva conservata la libertà; due repubbliche italiane ne dividevano l'impero, e non soffrivano sul mare la rivalità d'alcun sovrano dispotico. Non è agevole cosa il ridurre in servitù uomini cui il vasto Oceano tien luogo di patria, e che scuotono, abbandonando la spiaggia, il giogo che vorrebbesi loro imporre; uomini che la forza o l'interesse non legano alla terra, e che non appartengono al suolo che li vide nascere, che pei legami dell'amore. La libertà di Genova era più burrascosa, quella di Venezia più tranquilla e più forte; ma i cittadini delle due città avevano egualmente quell'energia, quelle generosi passioni, che conservano ai popoli la loro indipendenza e la loro gloria, che assicurano agl'individui prosperi successi in ogni stato, e che li rendono atti ad illustrare il loro nome per mezzo delle armi, a rendersi immortali colle lettere, ed arricchirsi col commercio e colla navigazione.
Gli Arragonesi, o piuttosto i Catalani, avevano ancor essi una marina, e venivano in allora risguardati come la terza potenza marittima d'Europa. In tale epoca erano liberi poco meno de' Veneziani o de' Genovesi. Nella loro unione del 1347 contro il re Pietro IV, detto il cerimoniere, avevano sostenuti i loro diritti colla più coraggiosa fermezza. Poichè questo principe ebbe in una lunga serie di battaglie vinti i suoi sudditi, si fece recare il libro delle leggi, e feritasi una mano, fece colare il suo sangue sul privilegio dell'unione, onde, diss'egli, abolire e cancellare col sangue d'un re una legge che tanto sangue costato aveva al suo popolo. Ma non osò violare la libertà de' suoi sudditi; egli ne conosceva l'indomabile fierezza e l'attaccamento agli antichi loro privilegi; piuttosto accrebbe le prerogative del giustiziere, il grande rappresentante dei diritti del popolo, e lasciò che Barcellona godesse, sotto la protezione d'un re, di tutti i vantaggi d'una repubblica[106].
I Siciliani ed i Napoletani tenevano ancora, cinquant'anni prima, un distinto posto tra le potenze marittime; e la loro marina erasi formata ne' tempi in cui Amalfi, Napoli e Gaeta erano repubbliche, in cui Messina e Palermo godevano di una quasi piena libertà sotto la sola protezione della corona. Ma malgrado i talenti e l'attività di Federico, re di Sicilia, malgrado le ricchezze e la perseveranza di Roberto re di Napoli, la marina militare di questi due paesi era affatto spenta, perchè la marina mercantile non aveva potuto sostenersi senza l'energia della libertà. La regina Giovanna, sovrana della Provenza e del regno di Napoli, non aveva vascelli di guerra ne' porti dell'uno o dell'altro stato; i quali non avevano comunicazione tra di loro che per mare, onde la loro sovrana trovavasi per tale comunicazione in arbitrio degli stranieri. Giovanna medesima fu più volte costretta di esporsi al mare, ed ogni volta dovette per questo viaggio noleggiare galere genovesi. Minacciata dagli Ungari, che si affidavano all'Adriatico per invadere i suoi stati, non riuscì a formare una marina, alla quale poteva essere legata la sua sicurezza, e non potè impedire il passaggio della cavalleria ungara sui battelli scoperti. Dimenticando la rivalità de' suoi antenati colla casa di Sicilia, domandò quindici galere in dono a don Luigi d'Arragona, o piuttosto alla Reggenza di Palermo, che governava la Sicilia a nome del re minore; ed a tale prezzo rinunciò a tutti i pretesi diritti che la casa d'Angiò faceva valere da settant'anni sui paesi al di là del Faro. Ma le galere siciliane a lei promesse non poterono mai dar le vele.
I Greci, ai quali l'infinito numero delle loro isole e l'assoluto bisogno di chiudere ai Turchi il passaggio dei mari, imponevano imperiosamente il mantenimento d'una marina, l'avevano lasciata andare in ruina. Quella de' Pisani più non aveva potuto rifarsi dalla rotta avuta alla Meloria nella fatale battaglia contro i Genovesi. E per ultimo i Francesi nelle lunghe guerre di Filippo di Valois con l'Inghilterra assoldarono le galere dei Genovesi, e gl'Inglesi non sapevano ancora circondare la loro isola con quelle nobili fortezze che assicurano adesso la sua prosperità e la sua gloria. Vero è che nel Nord le città della vasta rada avevano di già una fiorente marina: ma assai di rado vedevasi ne' porti del Mezzogiorno.
Il solo Mediterraneo era sempre solcato da navi da guerra, o mercantili; non ancora per gli Europei esisteva l'America, e sconosciuta era la strada alle Indie intorno al continente dell'Africa. L'Oceano era deserto, ed i regni d'Occidente comunicavano piuttosto per terra che per mare con più fertili ed industriosi paesi. I due più vasti e più ricchi rami di commercio del mondo, quelli che in ogni tempo fecero prosperare tutti gli altri, il commercio del Nord-est e quello delle Indie, facevansi sul Mediterraneo, uno ne' porti del mar Nero, ed alla foce dei fiumi della Russia, l'altro coll'intervento degli Armeni o degli Arabi ne' porti della Grecia, della Siria o dell'Egitto.
Gli stessi progressi dell'incivilimento rendevano ogni dì più necessarj ai popoli i prodotti di una ricca terra, ma tuttavia selvaggia. Quando la coltivazione s'accresce, le foreste vanno scemando, e scompajono gli animali selvaggi che le abitavano. In allora conviene chiedere ad altri paesi, rimasti quasi deserti, i prodotti di quelle stesse foreste, che sono la principale materia delle arti, e che la civiltà medesima ci rende necessarj. La Russia, già da più secoli, è il magazzino de' legni da costruzione di tutta l'Europa, della canape di cui si fanno le vele e le gomene, della pece, della cera, del sego, delle pellicce. Alcune di queste mercanzie tanto necessarie alla navigazione ed alle arti, possono al presente venirci somministrate dall'America settentrionale; tiriamo il rimanente dai porti del mar Baltico; e più anticamente tiravansi da quelli d'Arcangelo. Nel quattordicesimo secolo tutto questo commercio facevasi per il mar Nero; le mercanzie del Nord scendevano i fiumi che gettansi in questo mare, specialmente il Don o Tanai; tutto quanto andiamo oggi a cercare nel Baltico, nel mar Bianco, ed alle foce del san Lorenzo, trovavasi raccolto nella piccola Tartaria; e le repubbliche di Venezia e di Genova, premurose di dare consistenza ai loro banchi del mar Nero, fecero diversi trattati di commercio coi successori d'Octai Kan e di Zengis, che circa nella metà del 13.º secolo avevano conquistata o corsa la Russia, la Polonia, l'Ungheria e la Moldavia[107].
Le città di Caffa e della Tana furono preferite a tutte le altre per essere l'emporio delle ricche esportazioni della Russia, e dei prodotti dell'industria italiana, destinati al consumo de' Tartari e de' popoli del Nord. Caffa nella Crimea era una colonia dei Genovesi interamente soggetta alla loro sovranità. In principio del quattordicesimo secolo avevano da un capo tartaro comperato il diritto di fabbricare alcune botteghe e poche case sulla spiaggia; ben tosto i profitti del commercio vi chiamarono una numerosa popolazione; il muro innalzato per difendersi da ladri, diventò una regolare fortezza; i Genovesi, che vi si domiciliavano, alzavano al di sopra de' loro magazzini sontuosi palazzi; e la colonia che cercavasi di rendere simile alla superba Genova sua metropoli, prese in breve il più florido aspetto[108].
Tana, posta alle foci del Tanai e vicina ad Azour, era soggetta ai sovrani tartari, ma i Genovesi ed i Veneziani avevano stabilimenti considerabilissimi in questa città; i Fiorentini ed altri popoli d'Italia vi avevano pure aperti i loro banchi; onde vi si trovavano accumulate immense ricchezze; e quando le avanie de' Tartari, i tremuoti o gl'incendj ruinavano i mercanti della Tana, la perdita loro era risentita da tutto l'Occidente.
Mentre una delle rive del mar Nero offriva agl'Italiani il commercio che noi facciamo adesso coll'America, l'altra apriva loro la più frequentata strada delle Indie orientali. Tutte le città della costa opposta alla Tartaria erano animate da un attivissimo e vantaggioso commercio. Sopra tutto Sinope e Trabisonda erano abitate da numerose colonie di mercanti italiani e visitate ogni giorno dai loro vascelli. Sinope era un importante punto di comunicazione coi Turchi dell'Asia minore; Trabisonda, sede d'un piccolo impero greco nato dai rottami di quello di Costantinopoli, e governato da un Comneno[109], apriva una più importante comunicazione coll'Armenia, ed agevolava il commercio di questo ricco regno.
Gli Armeni avevano ricuperata la loro indipendenza nel dodicesimo secolo; e questo popolo montanaro, il più industrioso, il più sobrio e più attivo dell'Asia, aveva cercata l'alleanza de' Latini, che professavano la sua medesima religione[110]. Prima degli altri, i Veneziani avevano ottenuti in Armenia i più grandi privilegi; essi soli potevano trafficare sui camelotti, ed esportare la lana o camelo delle capre d'Angora, la di cui esportazione era vietata a tutti gli altri mercanti. Essi andavano esenti da gabelle, potevano possedere case, chiese ed alberghi; avevano pure il diritto di coniare danaro, e di essere giudicati dai loro proprj magistrati; finalmente vi godevano un'assoluta franchigia per attraversare tutti gli stati armeni colle mercanzie che tiravano dalla Tauride e dalla Persia[111].
Questa comunicazione a traverso l'Armenia aveva fatto di Trabisonda uno de' mercati del commercio delle Indie. I prodotti di que' felici climi, e sopra tutto le spezierie, furono in ogni tempo l'oggetto del più lucroso commercio del mondo. Tutti i paesi domandano e consumano ciò che una sola contrada produce, ed ancora scarsamente. Le spese e le difficoltà del trasporto da una all'altra estremità del globo, hanno successivamente dati a diversi popoli i mezzi di stabilire un monopolio sulle spezierie: allora soltanto si è potuto dire con verità ciò che fu così spesso ripetuto a torto degli altri commerci di oggetti di consumo: tutte le nazioni sono tributarie di quella che è in possesso di somministrare le spezierie e gli aromi delle Indie.
Nel 14º secolo, questo ricco commercio facevasi a traverso dell'Asia per più strade in un tempo medesimo. Ma tutte queste strade erano pericolose, le frequenti rivoluzioni de' paesi che i mercanti dovevano attraversare, interrompevano i loro viaggi e ne fermavano le speculazioni. Fra le carovane che portavano dalle Indie colle spezierie i prodotti delle manifatture dell'Indostan e della China, alcune attraversavano la Battriana o grande Bucaria; i convogli delle mercanzie scendevano in appresso l'Oxus, navigavano a traverso del mar Caspio, rimontavano il Cyrus, e finalmente per il Faso discendevano nel mar Nero. Altre mercanzie abbondavano nel golfo Persico, e per mezzo dell'Eufrate penetravano nell'Assiria, di dove venivano dirette ai diversi porti di Terra santa o dell'Asia minore. Finalmente alcune per il mar Rosso passavano ad Alessandria d'Egitto. E per tal modo dalla foce del Tanai fino a quelle del Nilo, le diverse città marittime possedute dai Tartari e dai Turchi, dai Greci e dagli Arabi, furono a vicenda arricchite dal commercio dell'India. I Veneziani ed i Genovesi, che avevano dato a queste città il nome di Scalo, stabilirono in tutte fattorie per raccorre gli aromi; ed essi soli ne provvedevano poi tutta l'Europa.
Costantinopoli trovavasi nel centro del commercio del mar Nero, dell'Asia minore e dell'Egitto. Gli abitanti di questa città, snervati da lunga schiavitù, non avevano la necessaria energia per eseguire essi medesimi le intraprese commerciali, cui erano chiamati dalla loro situazione[112]. Ma Costantinopoli era sempre il gran mercato dell'Oriente, ed in mancanza de' Greci, gl'Italiani venivano a fare i loro proprj affari. I Veneziani possedevano in Costantinopoli un quartiere circondato di mura, e chiuso da porte, come quegli abitati a' nostri giorni dagli Ebrei in quasi tutte le città d'Italia. Avevano inoltre nel porto un ancoraggio separato e circondato di palafitte. La colonia era governata, come una piccola repubblica, da un balio che faceva le veci del doge, da' giudici, da' consiglieri e da' savj. I piccoli stabilimenti de' Veneziani nella Romania erano subordinati a quello di Costantinopoli, ed i più grandi avevano separati governi.
La colonia bizantina de' Genovesi era assai più importante. Michele Paleologo, volendo mostrarsi grato ai soccorsi da loro ricevuti per racquistare la capitale, aveva loro ceduta la sovranità del sobborgo di Pera o Galata, posto in faccia a Costantinopoli, e dall'altro lato del porto. Tutti i Genovesi vi avevano trasportati i loro banchi, e, sotto il regno del vecchio Andronico, avevano circondata la nascente loro città prima di una doppia, poi di una triplice linea di mura. Pera, che stendevasi tra le colline ed il golfo, sopra una lunghezza quattro volte maggiore della larghezza, aveva quattro mila quattrocento passi di circuito[113]. Le case alzate a guisa di terrazzi le une sopra le altre, godevano di tutta la vista del mare e di Costantinopoli. Ogn'anno vedevasi crescere il loro numero e la magnificenza loro; e se l'impero greco non fosse caduto sotto le calamità che lo percossero incessantemente, in meno d'un secolo la città genovese avrebbe uguagliato in isplendore ed in popolazione la capitale dell'Oriente[114].
È già molto tempo che più occupati non ci siamo delle rivoluzioni di Costantinopoli. Siccome l'impero greco si andava debilitando, diminuiva altresì la sua influenza sulla politica d'Europa; i Paleologi erano ben lontani dal potere come i Comneni turbare l'Italia coi loro intrighi, formando su questa contrada progetti di conquista; essi invece non chiedevano che di essere dimenticati, e lo erano effettivamente. I principi di Taranto, eredi dei pretesi diritti degl'imperatori latini di Costantinopoli, erano ancor essi troppo deboli per far valere i titoli onde continuavano ad onorarsi. Ridotti al rango di nobili faziosi nella languente monarchia di Napoli, non pensavano pure ad armare l'Europa per riconquistare l'impero greco. Più non attaccavano, e non erano attaccati. Da ambo le parti si vivea nel riposo dell'impotenza. I negozianti soltanto ed i letterati mantenevano le relazioni della Grecia coll'Italia.
Civili guerre desolarono l'impero greco nella prima metà del quattordicesimo secolo. Andromico il vecchio, e suo nipote dello stesso nome, rinnovarono tre volte le ostilità l'uno contro l'altro dal 1321 al 1328. Il vecchio pusillanime, incostante, superstizioso, lasciò infine il trono al giovane Andromico, non meno di lui incapace di governare. Sotto il regno dell'ultimo, nuovi disordini afflissero pel corso di dodici anni l'Impero d'Oriente. Andromico morì nel 1341, e lasciò suo figliuolo, ancora fanciullo, sotto la tutela dell'ambizioso Cantacuzèno, in allora curopalata. Sua vedova, l'imperatrice Anna di Savoja, pretendeva d'aver parte nel governo, ed attaccò Cantacuzèno per ispogliarlo dell'amministrazione, il quale si fece sforzare dai suoi partigiani ad assumere la porpora, sotto pretesto di poter meglio difendere il pupillo[115]. In questo tempo i Turchi guidati da Akmano e dal suo successore Orcano avevano terminato di conquistare tutte le province greche dell'Asia; erano poscia entrati in Europa come ausiliarj di Cantacuzèno; e le conquiste loro in queste province, fino a tale epoca non invase, minacciavano omai l'ultima ruina al debole impero de' Greci.
Nelle guerre civili tra Cantacuzèno e l'imperatrice Anna di Savoja, i Genovesi avevano abbracciato le parti dell'ultima, e l'avevano varie volte soccorsa[116]. In mezzo all'universale miseria, essi soli avevano conservate molte ricchezze. Il vicendevole spossamento costrinse alla fine i principi rivali a fare la pace. Convennero di regnare assieme; i due imperatori e le tre imperatrici furono coronati lo stesso giorno, ma erano ridotti in così povero stato, che in questa cerimonia furono costretti di presentarsi al popolo quali re da teatro, ornati di diademi di rame dorato, coperti di gioje di vetro, e serviti a mensa con vasellami di stagno[117]. Nello stesso tempo i Genovesi avevano ingrandito il loro commercio; avevano prestato danaro agl'imperatori, che loro lasciavano in pagamento la riscossione de' reali diritti; e nell'istante della pace più sovrani che i Paleologhi, essi prendevano sulle imposte duecento mila bizanti d'oro all'anno, mentre non ne rimanevano trenta mila all'imperatore[118].
Mentre ciò accadeva in Costantinopoli, alcuni gentiluomini genovesi avevano, per la seconda volta, conquistata l'isola di Chio, e si erano stabiliti in questa colonia, ov'essi regnavano, mentre nella loro patria erano perseguitati dal partito democratico[119]. Altri Genovesi avevano occupata la città di Focea, e tutte le province si lagnavano dell'arroganza o delle vessazioni di questi ospiti, diventati troppo ricchi e troppo potenti.
La pace del 1347 rese a Cantacuzèno la libertà di prendere in considerazione i disordini cagionati dalle guerre civili, e di pensare alla loro riforma. Ma quest'imperatore era debole e di carattere lento; era circondato da nemici e da malcontenti, impegnato in guerre di religione, la di cui violenza poteva riuscirgli fatale, e minacciato in pari tempo dalle incursioni dei Turchi e de' Serviani. Egli non avrebbe di propria volontà osato di aggiugnere ancora i Genovesi a tanti nemici, ed avrebbe continuato a dissimulare il risentimento che gli cagionavano le loro usurpazioni; ma questi ambiziosi ed arroganti mercanti lo forzarono essi i primi a prendere le armi. Essi vedevano con qualche inquietudine che Cantacuzèno cercasse di ristabilire la sua marina, per chiudere ai Turchi il passaggio del Bosforo, ed impedire che saccheggiassero la Tracia. D'altra parte i Genovesi avevano coll'imperatore un motivo di controversia; essi volevano chiudere entro le fortificazioni di Pera la parte superiore della collina, sul pendio della quale era fabbricata questa città; ed offrivano di comperare questo luogo, da cui un nemico poteva signoreggiarli: l'imperatore, contento di averli in qualche modo sotto la sua dipendenza, ricusava di vendere un terreno che i suoi ospiti cercavano di afforzare contro di lui[120]. Mentre Cantacuzèno trovavasi infermo a Dèmotica, i Genovesi, intolleranti della lunghezza del negoziato, impadronironsi a forza del preteso terreno, lo circondarono d'una palafitta, e cominciarono subito a fabbricare una muraglia, fiancheggiata di torri.
A questo primo insulto, ch'ebbe luogo nel 1348, tennero dietro immediatamente le ostilità: i Genovesi catturarono alcuni battelli pescarecci, e forzarono i Bizantini a chiudere le loro porte. Per altro il senato ed i mercanti di Pera offrivano la pace, a condizioni però, che loro fosse rilasciato il terreno che avevano occupato: i marinai e l'assemblea del popolo chiedevano inoltre che Cantacuzèno disarmasse la sua flotta. Questa ingiuriosa domanda fece rompere le negoziazioni, ed il senato de' Greci, che in assenza dell'imperatore aveva il governo di Costantinopoli, dichiarò la guerra ai Genovesi[121].
In quattro giorni gli abitanti di Pera allestirono otto galere e moltissime barche armate; corsero le due spiagge del Chrysocheras, e bruciarono quasi tutti i magazzini de' Greci, i loro vascelli mercantili, e le galere che l'imperatore faceva costruire o calafattare. Per altro tre di queste ultime furono salvate, avendole i Greci di notte rimurchiate nel fiume Pissa o Barbyssés a molta distanza dalla foce[122]. Intanto gli abitanti di Pera accrescevano le fortificazioni della loro città e del ridotto innalzato sulla colina. Vedevansi gli uomini e le donne trasportare di giorno e di notte la terra, cavare nuove fosse, e piantare più robuste palafitte.
Lusingavansi i Genovesi di ridurre i Greci in meno di quindici giorni a chieder pace. Siccome le loro galere erano sole padrone del mare, impedivano ad ogni nave d'approdare a Costantinopoli, o venisse dal Ponto Eusino, o dalla Propontide, e fino ne' primi giorni delle ostilità fecero temere alla città una prossima carestia. Ma a fronte delle privazioni, cui andavano soggetti, i Bizantini si prepararono senza lagnarsene ad una lunga difesa. Il loro orgoglio era fieramente irritato dalla considerazione che alcuni stranieri accantonati in un loro sobborgo pretendessero d'imporre legge alla città; e l'antico odio pei costumi e la religione dei Latini faceva loro spiegare un'insolita energia.
Di già era cominciato l'autunno, quando i Genovesi, ricevuti avendo soccorsi da Chio e dalle altre loro colonie del Levante, tentarono di dare l'assalto alle mura della città dalla banda del porto. Avanzaronsi con nove galere e tre grossi vascelli carichi di macchine da guerra, ma trovarono le mura coperte di difensori; perciocchè l'odio nazionale aveva superata l'abituale timidezza, ed i cittadini e gli artigiani di Costantinopoli eransi uniti ai soldati per combattere contro i Latini; onde questi vedendo riuscire vano ogni loro sforzo, ritiraronsi perdenti[123].
Cantacuzèno, ritornato a Costantinopoli alla metà d'autunno, fece assediar Pera dalla banda di terra, mentre i Genovesi tenevano sempre bloccata la capitale dal lato del mare. In pari tempo faceva costruire nuove galere ne' cantieri fortificati dell'Ippodromo; assoldava truppe straniere, e mostravasi risoluto di voler vendicare l'offesa sua dignità. I cavalieri di Rodi, dopo avere tentato invano di ristabilire la pace, accolsero nella loro isola le donne ed i fanciulli di Pera, ed i più preziosi effetti de' Genovesi, onde sottrarli ai pericoli della guerra[124].
Così passò l'inverno: ma in sul cominciare della primavera i Greci posero in mare nove grandi vascelli e molte navi ad uno e due ranghi di remi, che essi avevano fabbricati nell'Ippodromo; e perchè non avevano tutti i marinai che abbisognavano per equipaggiare questa flottiglia, arrolarono per la manovra un grosso numero di lavoratori e di artigiani. Quando questa squadra uscì dal porto, l'ammiraglio genovese osservò che i rematori battevano inegualmente l'onda; conobbe agevolmente con quali nemici doveva misurarsi, e concepì le migliori speranze della battaglia che disponevasi a dare. Lasciò che i Greci si avanzassero verso l'isola del Principe, e che s'impadronissero d'un vascello genovese che giugneva allora dall'Ellesponto; egli si pose con nuove galere e varj piccoli bastimenti all'ingresso del porto, aspettando che tornassero addietro[125].
Il giorno era cupo, ed il vento contrario, quando i Greci tornarono dall'isola del Principe. Per riprendere il porto dovevano raddoppiare la punta settentrionale di Costantinopoli; ed era volgare opinione che avanti al tempio di santa Demetria si trovava un vortice, onde le galere greche passavano lentamente e con timore; la lunga loro linea serravasi verso la riva, e mostrava di temere, più del vortice o degli scogli, i Genovesi che trovavansi dall'altro lato del golfo. Un leggiero movimento della flotta nemica sparse lo spavento tra i contadini che dovevano fare le funzioni di marinaj; molti di loro balzarono sulla spiaggia tosto che si videro abbastanza vicini per isperare di poterla afferrare; altri gettaronsi in mare per giugnervi a nuoto. Bentosto il terrore s'impadronì di tutti gli animi; e prima che i Genovesi fossero a tiro di freccia, più di duecento Greci eransi annegati, volendo fuggire: il rimanente della ciurma erasi posta in salvo sulla spiaggia; e le galere, rimaste senza gente, furono senza combattere prese dai Genovesi e rimurchiate a Pera[126].
Nello stesso tempo le tre galere ch'erano state poste in sicuro entro il canale di Barbissé nel precedente anno, scendevano a traverso al golfo con molte altre navi per unirsi alla grande flotta. Allorchè quelli che le montavano, videro la squadra tutta in mano de' Genovesi, anch'essi atterriti, comandanti, soldati e marinai, tutti precipitaronsi in mare per guadagnare la spiaggia; e queste galere, come le altre, caddero in potere dell'ammiraglio genovese. Finalmente la moltitudine ch'erasi adunata sulle mura di Costantinopoli, meno per difenderle che per vedere lo spettacolo d'un combattimento, presa dallo stesso timor panico, precipitandosi giù dalle mura per fuggire in città in gran parte si uccise o ferì cadendo; ed intanto i Genovesi attribuivano questa rotta a qualche castigo di Dio. Gli antichi loro amici, gli antichi vicini, che avevano vinti senza contrasto, più loro non ispiravano che compassione; loro gridavano ad alta voce di fuggire più lentamente, e di risparmiare le loro vite, poichè i nemici non pensavano pure ad inseguirli[127].
Da quest'istante i Genovesi manifestarono la più nobile e generosa moderazione. Alcuni ambasciatori giunti da Genova quattro giorni dopo la rotta della flotta greca, offrirono a Cantacuzèno moderate condizioni, che furono ben tosto accettate. Gli abitanti di Pera pagarono una grossa somma di danaro per rifare l'imperatore de' sofferti danni; gli restituirono il terreno occupato nella parte superiore alla loro città, e promisero con giuramento di non più abusare dell'amichevole ospitalità loro accordata[128]. Cantacuzèno non volle dal canto suo essere vinto di generosità; e dichiarando che possedeva stati abbastanza vasti per non invidiare ai Genovesi un piccolo angolo di terra che loro riusciva così caro, loro diede l'intero possedimento della sommità della collina di Pera, e dei luoghi in cui avevano fabbricato un ridotto[129].
La moderazione dei Genovesi era, a dir vero, prodotta dal timore di trovarsi impegnati in un'altra guerra coi Veneziani per proteggere il loro commercio sul mar Nero. Uno Scita era stato ucciso da un Latino alla Tana in una rissa, e quest'omidicio era stato cagione di una guerra nella piccola Tartaria. Gianis Beg, il Kan de' Tartari, aveva determinato di vendicare la morte del suo compatriotto sopra tutti gl'Italiani che trafficavano sulle coste del mar Nero. Gli aveva scacciati dalla Tana, e li perseguitava a Caffa, ove i Genovesi avevano loro aperto un asilo[130]. Ma quest'ultima città poco temeva gli attacchi d'un'armata indisciplinata. I Tartari in due anni d'assedio non avevano ancor fatta una breccia nelle mura di Caffa, mentre i Genovesi avevano bruciata la Tana, guastate le coste del mar Nero, distrutto il commercio del popolo tartaro, e privata di vittovaglie l'armata che gli assediava[131].
Speravano i Genovesi che tutti i Latini prenderebbero parte alla loro causa, avendo tutti provate le stesse ingiurie, e tutti ugualmente interessati essendo ad ottenere dal Kan de' Tartari la licenza di fortificare la Tana come Caffa, onde porsi al sicuro dagl'improvvisi attacchi d'un popolo barbaro. L'assoluta cessazione del commercio doveva ben tosto costringere i Tartari a far la pace coi popoli dell'Occidente; imperciocchè avevano grandissima copia di mercanzie indigene, e mancavano affatto delle straniere ch'erano avvezzi a consumare, e l'entrate de' più ricchi loro proprietarj erano ridotte al nulla per l'impossibilità di vendere le loro derrate[132]. I Genovesi per la superiorità della loro marina impedivano ai Greci ed agli Asiatici di comunicare colla Tana. Essi invitavano tutti gli Occidentali a stabilirsi in Caffa, loro promettendo in questa città tutti i vantaggi che ottener potevano dal Kan de' Tartari. Ma i Veneziani che in principio delle ostilità eransi rifugiati nella colonia genovese, non resistettero a lungo all'allettamento de' beneficj che faceva loro sperare il commercio cogli Sciti. Visitarono di nuovo i porti delle Paludi Meotidi, ove i profitti che vi facevano erano più grandi, perchè non avevano concorrenti[133]. I Genovesi, dall'altro canto, per mantenere i loro diritti di blocco, attaccarono e dichiararono buona preda alcuni vascelli veneziani che veleggiavano verso le foci del Tanai[134].
La repubblica di Venezia, non volendo lungo tempo perdere i profitti del commercio del mar Nero, armò trentatre galere, cariche di mercanzie e di soldati, e le spedì alla Tana sotto il comando di Marco Ruzzini[135]. Quest'ammiraglio incontrò in faccia all'isola di Negroponte undici galere genovesi che andavano a Caffa; le attaccò, e, dopo un'ostinata pugna, ne prese nove che mandò a Candia, mentre le altre due si rifugiarono a Pera. Su queste trovavasi l'ammiraglio Filippino Doria, il quale invocò dai suoi compatriotti i soccorsi necessarj per vendicarsi, ed avendoli ridotti a seguirlo con sette galere e molte piccole navi, attaccò improvvisamente la città di Candia, forzò l'entrata del suo porto, bruciò alcune case, liberò tutti i prigionieri fatti nel precedente incontro, e riprese tutte le sue merci e le sue galere, che rimandò a Genova[136], mentre egli tornava a Pera ricoperto di gloria.
In pari tempo Marco Ruzzini aveva protetto il commercio veneto nel mar Nero e nella Palude Meotide. A metà d'autunno attraversò di nuovo il Bosforo[137], ed avuto avviso che i Genovesi di Pera avevano prese nel porto di Candia le navi da lui catturate, risolse di vendicarsi. Prima che potessero avere notizia del suo arrivo fece entrare di notte quattordici de' suoi vascelli nel porto di Costantinopoli, e siccome i Genovesi per certa quale ostentazione avevano costume di lasciare sempre aperti i porti di Pera, i Veneziani sbarcarono senza rumore ed entrarono in questa città. Per altro, al grido delle scolte, i borghesi armaronsi all'istante, attaccarono furibondi i Veneziani, che avevano di già appicato il fuoco ad alcuni vascelli mercantili, e li costrinsero a rimbarcarsi precipitosamente, ed a prendere il largo[138].
Lo stesso giorno un ambasciatore veneziano ottenne udienza dall'imperator greco, proponendogli un'alleanza offensiva colla sua repubblica onde scacciare i Genovesi da Pera e dalla Romania. A fronte dell'odio che Cantacuzèno doveva avere per costoro, volle mantenersi neutrale fra due rivali egualmente formidabili, persuaso che l'alleanza di uno di questi popoli non gli sarebbe in modo vantaggiosa da compensare i mali che gli cagionerebbe la nimicizia dell'altro. Si limitò quindi ad offrire il rinnovamento della tregua convenuta tra i suoi predecessori ed il senato di Venezia, la quale stava per spirare. I Veneziani parvero scontenti del suo rifiuto, ma perchè la stagione era di già molto avanzata, rimisero alla vela per prendere i porti della loro patria[139].
Genova non era da lungo tempo stata mai così potente come a quest'epoca, imperciocchè tutte le fazioni erano riunite e vivevano in pace sotto il governo del doge Giovanni di Valente. Il senato approfittò di tanta concordia per mettere in mare nel susseguente anno 1351, sotto gli ordini di Paganino Doria, la più formidabile armata. Quest'ammiraglio spiegò le vele in luglio del 1351 con sessantaquattro galere, sulle quali trovavasi la metà de' marinai liguri. Egli corse l'Adriatico, e guastò molte colonie veneziane delle coste. In appresso si diresse verso l'Arcipelago per cercare Niccolò Pisani, l'ammiraglio veneziano[140], che comandava venti galere.
L'ammiraglio Pisani trovavasi in faccia all'isola di Chio, quand'ebbe avviso dell'avvicinamento di forze tanto alle sue superiori, e disperse la sua flotta per evitarle. Egli andò a Costantinopoli con tre vascelli, ed il suo viceammiraglio cercò rifugio cogli altri nel porto di Calchis nell'isola d'Eubea, di già fin da quell'epoca chiamata Negroponte. Tirò le sue diecisette galere sulla spiaggia, e coll'ajuto di quegli abitanti, sudditi de' Veneziani, si pose in istato di difesa. Paganino Doria, non avendo l'ingresso del porto, lo bloccò. Nello stesso tempo sbarcò parte delle sue truppe, ed assediò dalla banda di terra la città di Negroponte, al quale oggetto fece venire da Pera alcune macchine da guerra[141].
Molti marinai veneziani erano caduti vittima della peste, ed il senato veneto, avvertito del pericolo in cui vedevasi la sua flotta nell'isola d'Eubea, trovavasi inabilitato ad armarne un'altra abbastanza forte da poterla liberare. Cercò quindi estere alleanze, e si volse da prima alla repubblica di Pisa, chiedendole di unire le proprie forze alle sue per vendicarsi della disfatta alla Meloria. Ma Pisa era in allora governata dai Gambacorti, uomini nuovi, che non avevano antichi odj da soddisfare, nè antiche vendette da fare. Inoltre erano essi mercanti, e l'interesse della mercatura faceva loro desiderare la continuazione della pace[142]. Dietro il rifiuto de' Pisani gli ambasciatori veneti passarono in Arragona per offrire la loro alleanza al re Pietro IV omai scontento de' Genovesi, e per risvegliare l'animosità de' suoi sudditi catalani contro gli abitanti della Liguria.
Alcune famiglie genovesi e pisane avevano, dopo la conquista fattane dagli Arragonesi, conservati i loro feudi in Sardegna. Pietro IV aveva cercato di spogliare la famiglia dei Doria, ma la repubblica di Genova aveva preso a difenderla, e costretto il re a renderle le sue proprietà[143]. Tale era il motivo dell'odio dell'Arragonese contro i Genovesi, onde accolse avidamente la proposizione de' Veneziani, che gli offriva il modo di vendicarsi. Egli promise di formare gli equipaggi de' vascelli, che Venezia gli somministrarebbe, con marinai catalani e con soldati arragonesi[144]; ed il 3 agosto del 1351 i suoi araldi d'armi vennero a dichiarare la guerra al doge, al senato, ed al popolo di Genova[145].
La notizia dell'alleanza de' Catalani coi Veneziani ridusse l'imperatore greco ad abbracciare un partito che oramai credeva il più forte[146]. D'altra parte i Genovesi parvero piuttosto disposti a provocare il suo sdegno, che non a calmarlo. Di pieno giorno lanciarono con una balista un'enorme pietra da Pera sul palazzo, quasi per far prova della portata della loro macchina, e, malgrado le lagnanze loro fatte in proposito, ne lanciarono un'altra all'indomani[147]. I Greci irritati chiamarono Niccolò Pisani, l'ammiraglio veneziano, e l'incoraggiarono ad intraprendere l'assedio di Pera. Di già il Pisani aveva ragunata una nuova flotta di trentadue galere chiamando sotto la sua bandiera tutti i vascelli della sua patria sparsi nella Romania, nel mar Nero, o mare di Siria. I Greci, che gli avevano altresì somministrati alcune navi, segnarono il loro campo per secondarlo ai piè delle mura di Pera[148].
Nello stesso tempo Paganino Doria, l'ammiraglio genovese, stringeva l'assedio di Calcide ov'erasi rifugiata una flotta veneziana. Di là aveva intavolato un trattato coll'imperatrice Anna di Savoja, cui offriva soccorsi per rimettere suo figlio Giovanni Paleologo sul trono usurpato da Cantacuzèno. Intanto venne da lui sorpresa una nave leggera, che faceva forza di vele per recare in Calcide la notizia agli assediati d'un pronto soccorso. Erano state armate cinquanta galere, metà a Venezia e metà a Barcellona, le prime sotto gli ordini di Pancrazio Giustiniani, le altre di Ponzio di Santa Paz, ed eransi tutte unite in novembre ne' mari di Messina, di là dirigendosi verso la Grecia. Doria non le aspettò e fece vela alla volta di Tessalonica per sollecitare l'imperatrice Anna ad accettare la sua alleanza; al che non avendo potuto ridurla, sorprese l'isola di Tenedo, ove svernò le sue truppe, e riparò le galere[149].
Il Pisani, lasciando ai Greci la cura di continuare l'assedio di Pera, si portò a Negroponte coi vascelli che aveva adunati a Costantinopoli; prese sotto il supremo suo comando le galere ch'erano state assediate in Calcide, e le due flotte giunte da Catalogna e da Venezia. Le tempeste della stagione burrascosa, in cui era costretto di navigare, gli avevano fatte perdere sette navi e due ai Catalani, ed alcune altre erano state staccate per secondarie operazioni; ciò null'ostante il Pisani trovavasi ancora alla testa d'una flotta di settanta galere, che divise tra i porti di Corone e di Modone, posti nella Morea, per passarvi i due peggiori mesi dell'inverno[150].
Ma i Veneziani ed i Genovesi, ugualmente impazienti di venire alle mani, appena passato gennajo ripresero il mare. I Genovesi furono i primi a spiegare le vele verso il Bosforo. Cammino facendo presero Eraclea d'assalto per vendicare l'assassinio di due loro soldati[151]. Occuparono in appresso Sozopoli, e Paganino Doria potè a stento contenerli quando vollero attaccare Costantinopoli nella stessa maniera[152]. Frattanto due galere, che quest'ammiraglio aveva spedite a Gallipoli, tornarono il 7 febbrajo, dandogli avviso, che l'armata veneziana e catalana composta di sessantasette galere, entrava in quel giorno a Preknonesos, o isola del Principe, posta all'apertura della Propontide dalla banda dell'Elesponto.
Le burrasche, frequenti su quegli angusti mari, ritennero alcun tempo le due flotte quasi prigioniere; la veneziana nel porto dell'isola del Principe, la genovese in quello di Calcedonia. Finalmente il vento di mezzodì, che da lungo tempo dominava su quelle acque, parve alquanto calmato il lunedì 13 febbrajo, e Paganino Doria formò la sua linea con sessantaquattro galere all'apertura del Bosforo di Tracia per impedire ai Veneziani l'ingresso di Costantinopoli. Questi erano partiti lo stesso giorno dall'isola del Principe, e s'avanzavano a piene vele; erasi di nuovo rinfrescato il vento di mezzodì, e perchè soffiava da più giorni, le correnti portavano con violenza verso Costantinopoli. S'avvide il Doria che non potrebbe resistere all'urto de' vascelli veneziani, secondati dal vento e dalla corrente, perlocchè si strinse verso le rive dell'Asia, e lasciò che passasse la flotta del Pisani, la quale entrò trionfante nel porto di Costantinopoli[153].
Costantino Tarcuniota, l'ammiraglio de' Greci, si unì ai Veneziani nel porto con otto galere ed un gran numero di navi, ed eccitò il Pisani ad approfittare della superiorità delle sue forze, a ritornare immediatamente contro la flotta nemica, ed a presentarle battaglia. I vascelli genovesi avevano sofferto assai nelle loro armature per voler tenersi all'ingresso del Bosforo malgrado il vento ed il mar grosso. Il Doria non aveva ancor potuto riunire la sua flotta, e rientrare nel porto di Calcedonia, quando vide avvicinarsi quella de' Veneziani poc'anzi passata. Altro far non potendo, approfittò della perfetta conoscenza che aveva di quegli angusti mari per collocarsi con sette vascelli fuori delle correnti, e dei marosi in un'ansa circondata da scogli e da bassi fondi. Ordinò in pari tempo coi segni al rimanente della flotta di avvicinarsi a lui durante la battaglia.
Nicolò Pisani e Ponzio di Santa Paz, invece di attaccare Doria, fecero forza di remi per tagliar fuori le altre galere, che Doria aveva chiamate. Frattanto il vento rinforzava, oscure nubi si abbassavano e parevano appoggiarsi sugli alberi de' vascelli, l'orizzonte s'andava restringendo, e più non era indicato che dagli scogli contro i quali andavano a rompersi i grandi marosi, e rottami di navi galleggianti intorno ai combattenti annunziavano disastri, di cui non conoscevansi le circostanze. Di già non vedevansi i segni dall'una all'altra estremità della stessa flotta. Alcune galere genovesi non potendo accostarsi al loro ammiraglio, gettarono l'ancora e si nascosero tra gli scogli di cui i loro piloti conoscevano tutte le direzioni. I Catalani, affatto nuovi in que' mari, quando vollero attaccare i loro nemici in mezzo agli scogli a fior d'acqua, ed ai bassi fondi, perdettero molta gente e molte navi[154].
Tre galere veneziane avevano attaccato l'ammiraglio genovese, due da prora ed una di fianco. Colà cominciò la più accanita pugna, perchè tutto il rimanente delle due flotte cercava di avanzarsi su questo punto. I tre vascelli veneziani dovettero soccombere alla manovra genovese, e furono presi. D'altra parte dieci galere genovesi, spinte verso sant'Angelo, non potendo difendersi, furono dai loro marinai mandate a picco sulla riva, e fuggirono essi a Pera, abbandonandole ai Veneziani, che le bruciarono. Tre altre galere corsero la stessa sorte in un altro piccolo golfo; per ultimo sei, inseguite a traverso al Bosforo, fuggirono nel mar Nero. Ma non furono decisivi nè i vantaggi, nè le perdite, imperciocchè le due flotte, divise dalla violenza del vento, dagli scogli, e dai promontori dell'ingresso del canale del Bosforo, si battevano contemporaneamente in sette od otto luoghi[155].
Finalmente sopraggiunse la notte, oscura come suol essere dopo un giorno burrascoso d'inverno; i colpi del vento furioso, il mugghiare delle onde, le grida de' remiganti e quelle de' feriti risuonavano intorno agli scogli di Scutari e di Bizanzio. Le vacillanti fiaccole de' vascelli appena erano visibili nella densità della nebbia, e vedevansi a vicenda risplendere e scomparire a seconda che le grosse onde sollevavano, o lasciavano in fondo le navi. A traverso a così spaventosa oscurità, gl'intrepidi Genovesi di Pera scorsero con leggeri scialuppe tutte le sinuosità delle due coste dell'Europa e dell'Asia per raccorre i loro feriti, dar soccorso ai vascelli pericolanti, e sorprendere i loro nemici dispersi. Secondo ch'essi andavano avanzando colle loro fiaccole, molte navi veneziane o catalane, volendo tener dietro a quelle ingannatrici guide, andarono a picco sopra bassi fondi, altre entrarono da sè inavvedutamente nel porto di Pera, ove furono fatte prigioniere, altre finalmente s'arresero senza combattere a nemici meno formidabili che la burrasca e gli scogli. I due ammiragli col grosso delle flotte nemiche trovavansi intanto uniti nella baja di santa Foca: udivano le grida nemiche senza vedersi, ed in mezzo alla burrasca non cessavano di minacciarsi; qualunque volta un colpo di vento avvicinava alcune navi nemiche, approfittavano della circostanza per venire alle mani. Così passò la notte del 13 al 14 febbrajo del 1352. Prima che facesse giorno Nicolò Pisani, che conoscevasi più debole, lasciò la baja di santa Foca per rifugiarsi nel porto di Terapea o Trapenon, difeso dai Greci. Quando spuntò il sole, il mare, che cominciava a calmarsi, era coperto di cadaveri, e di rottami di navi. I Genovesi s'avvidero allora d'avere perdute tredici galere, oltre le sei che si erano salvate nel mar Nero. Altronde ne avevano predate quattordici ai Veneziani, dieci ai Catalani e due ai Greci, avevano fatti mille ottocento prigionieri, ed uccisi due mila nemici. Ma la perdita loro era troppo grande perchè potessero rallegrarsi della vittoria. Rimandarono a Costantinopoli quattrocento prigionieri feriti, ch'essi non potevano curare[156].
Mentre le due flotte, ritirate l'una a Pera, l'altra a Terapea, riparavano i sofferti danni, Cantacuzèno faceva istanza al Pisani perchè attaccasse i Genovesi approfittando della presente loro debolezza, e Ponzio di santa Paz appoggiava caldamente l'inchiesta dell'imperatore. L'ammiraglio arragonese trovavasi allora infermo per dispetto della sofferta rotta, e quando seppe che il Pisani non voleva rinnovare la battaglia, se n'afflisse in modo che morì di crepacuore[157]. Stefano Contarini e Pancrazio Giustiniani, procuratori di san Marco, Giovanni Steno e Benatino Bembo, viceammiraglio de' Veneziani, erano morti in battaglia o dopo la battaglia, in conseguenza delle ricevute ferite[158].
I Genovesi furono i primi a rimettersi in mare per bloccare il porto di Terapea; ma il Pisani approfittando d'un vento fresco passò a traverso i loro vascelli, ed uscì dal mare di Romania con sole trentotto galere. Venne a dar fondo a Candia, ove depose gli ammalati ed i feriti, ma ne aveva in tanta copia, che bentosto si manifestò un'epidemia negli spedali, la quale comunicossi ai Candiotti.
Partiti i Veneziani, il Doria rivolse tutte le sue forze contro i Greci. Coll'assistenza d'Orcano, figliuolo d'Osmanno, fondatore dell'impero Turco, formò l'assedio di Costantinopoli, e costrinse Cantacuzèno a rinunciare all'alleanza de' Veneziani, soscrivendo il 6 marzo del 1352 una pace separata colla repubblica di Genova[159]. I porti della Grecia furono chiusi ai Veneziani ed ai Catalani, ed accordata assoluta libertà al commercio de' Genovesi[160]. Doria in appresso si diresse verso Creta, sperando di trovare ancora a Candia i Veneziani, ma l'epidemia dominante in quell'isola si comunicò ai suoi equipaggi, e nel tragitto da Candia a Genova, ove Paganino Doria arrivò in agosto con trentadue galere, egli fu costretto di gettare nelle onde i cadaveri di mille cinquecento de' suoi commilitoni. In tal modo ebbe fine una campagna in cui le due repubbliche marittime avevano bensì dato prove del loro valore e dell'abilità de' marinai, ma si erano ancora vicendevolmente esaurite di uomini e di danaro senza ottenere verun vantaggio[161].
CAPITOLO XLI.
Disfatta dei Genovesi a Loiera; essi si danno all'arcivescovo di Milano. — Disfatta dei Veneziani a Portolongo. — Pace di Venezia. — I Genovesi prendono Tripoli. — Congiura del doge Marino Falieri. — Introduzione della letteratura greca in Italia.
1352 = 1355. La chiesa e le nazioni occidentali vedevano di mal animo consumarsi le forze d'Italia e della Cristianità nell'inutile guerra delle repubbliche marittime, mentre il feroce Orcano approfittava delle loro battaglie, e della debolezza cui avevano ridotta la Grecia per assoggettare le più belle province all'impero de' Turchi. Papa Clemente VI fece inutili sforzi per ristabilire la pace tra le due repubbliche; chiamò i loro ambasciatori alla sua corte con quelli del re d'Arragona, ma nè la sua autorità come capo della chiesa, nè la sua abilità per le negoziazioni ottennero di conciliare le opposte loro pretese[162]. Clemente VI morì il 5 dicembre del 1332, ed il di lui successore, Innocenzo VI, creatura ancor esso del re di Francia, tentò di nuovo d'adunare un congresso in Avignone. Invece di mandarvi i loro ambasciatori, i Genovesi non pensavano che a procurare nuovi nemici ai loro rivali. S'addrizzarono per tale oggetto a Luigi d'Ungheria, che non aveva dimenticato che nel 1346 l'armata veneziana lo aveva fermato avanti a Zara, ed aveva in sui suoi occhi espugnata quella città, ch'egli veniva a difendere, ritardando in tal modo la vendetta del re Andrea. Il possedimento della costa di Dalmazia sembravagli necessaria alla prosperità dell'Ungheria, e gli Schiavoni, che desideravano l'unione a questo regno, erano stati duramente trattati dalla repubblica di Venezia, e si erano ribellati contro la medesima qualunque volta avevano avuto l'opportunità di farlo. Luigi, più potente che verun altro de' suoi predecessori, fece chiedere al senato veneto la restituzione di tutte le città della Dalmazia, ch'egli pretendeva di pertinenza de' suoi predecessori, e dietro il rifiuto della signoria, le dichiarò la guerra ed accettò l'alleanza de' Genovesi[163].
Un altro celebre negoziatore aveva inutilmente cercato di rappacificare le due repubbliche; era questi il Petrarca, che si era lusingato di far servire a politiche viste la letteraria corrispondenza che manteneva con Andrea Dandolo, allora doge di Venezia. Scrisse a questo magistrato esortandolo alla pace, ed impiegando le più ardite figure rettoriche per abbellire i più triti argomenti sugli avvantaggi della concordia, diede luogo nella sua lettera a tutte le citazioni de' sacri e profani autori, de' poeti e degli oratori che potevano entrarvi[164]; ma la sua lettera altro non ottenne che una risposta meno elegante ma più giudiziosa di Dandolo. Le lettere del Petrarca, in cui fuor di proposito spiegava tanta erudizione e ricercatezza di concetti, risguardavansi a que' tempi quali esemplari di eleganza e di gusto; si facevano passare da una persona all'altra, e spesso non erano ricapitate che dopo essere state lette da tutto il pubblico.
Mentre il re d'Ungheria minacciava le città veneziane della Dalmazia, i Genovesi, in primavera del 1353, armavano una flotta di sessanta galere sotto il comando di Antonio Grimaldi[165], e spedivano una piccola squadra nel golfo Adriatico ad insultare i Veneziani[166]. Questi per altro ottennero negoziando di sventare l'attacco del re d'Ungheria, ed in pari tempo armarono di concerto coi Catalani una flotta di settanta galere. I Veneziani, sotto il comando del Pisani, avevano concertato con Bernardo Chiabrera, condottiere delle navi di Barcellona, di unirsi ne' mari di Sardegna[167]. Il Grimaldi, avuto avviso del progetto de' suoi nemici, sperò di potere scontrarsi coi Veneziani o coi Catalani avanti la loro unione e sconfiggerli uno dopo l'altro. E perchè le sue sessanta galere non erano ancora compiutamente armate, ne lasciò otto a porto Venere, onde ripartirne la ciurma sulle restanti cinquantadue, colle quali si pose in mare in traccia del nemico.
(1353) Quando i Genovesi giunsero a Loiera sulla costa settentrionale della Sardegna, seppero che le due flotte, che speravano di trovare disgiunte, eransi di già unite, e che stavano attendendoli a non molta distanza. Ebbero appena passato un promontorio che le scuoprirono; ma i Veneziani, per timore che i Genovesi si sottraessero alla battaglia, avevano cercato di nascondere parte delle loro navi, collocando le più basse dietro quelle di alto bordo, ed affettando ad un tempo una certa quale immobilità, che dai nemici risguardossi come sicuro indizio di timore. Il Grimaldi, ingannato da tale apparenza, ricordò ai suoi marinai la vittoria recentemente riportata in Romania sopra vascelli di numero superiori ai loro, li prevenne di star pronti alla battaglia, esortandoli a diportarsi valorosamente. Intanto superò un secondo promontorio, che prolungavasi in mare tra la flotta del nemico e la sua.
In allora le due flotte si trovarono così vicine da non potere, anche volendolo, schivare la battaglia: ma i Genovesi, che scoprirono finalmente l'intera linea nemica, non videro senza inquietudine settanta galere a fronte delle loro cinquantadue, senza contare tre grandi vascelli rotondi, chiamati cocche, più forti e di più alto bordo delle galere, ognuno montato da quattrocento Catalani. Inoltre le navi veneziane avevano un numero di soldati maggiore del consueto, essendo esse destinate a lasciare in Sardegna truppe di sbarco.
Non pertanto i Genovesi si prepararono coraggiosamente alla battaglia. Lusingaronsi che le tre cocche non potrebbero combattere, perchè non si movevano a forza di remi, ed avevano il vento contrario. Per presentare al nemico una linea impenetrabile, legarono con lunghe catene le une alle altre le loro galere tanto pel corpo, che per l'alberatura; quattro solamente ne riservarono per le due ali, che lasciarono sciolte onde cominciare la battaglia, ed accorrere ovunque il bisogno lo richiedesse. I Veneziani ed i Catalani, quando videro tale ordinanza, legarono insieme dal canto loro cinquantaquattro galere, lasciandone libere sedici, otto per ogni lato, che spinsero avanti ad attaccare quelle de' Genovesi[168].
Mentre queste galere scaramucciavano assieme, avanzavansi lentamente e maestosamente le due linee incatenate l'una contro l'altra, formavano due enormi masse che andavano a rompersi nel loro grande urto. In quest'istante sgraziatamente pei Genovesi si levò improvvisamente un vento di mezzo giorno, che gonfiò le vele delle tre cocche, che stavano ancorate a qualche distanza. I Catalani tagliarono subito le gomene abbandonandosi al vento, e vennero ad urtare contemporaneamente contro tre galere d'una estremità della linea genovese e le affondarono; si serrarono in appresso contro le altre, opprimendole con una grandine di pietre e di saette.
S'accorse allora il Grimaldi, che, malgrado la coraggiosa resistenza de' suoi soldati e de' marinai, arrischiava di perdere tutta la flotta. Fece dunque sciogliere il più presto che fu possibile le galere dell'ala non ancora attaccata, e liberò undici navi, che aggiunse a quelle lasciate sulle ali, e facendo vista di voler prendere alle spalle il nemico, prese il largo. L'ammiraglio veneziano s'adombrò per tale movimento, e si tenne inattivo finchè chiaramente conoscesse le intenzioni dell'avversario. Ma ossia che Grimaldi non avesse il coraggio di venire ad un secondo attacco, o sia che i suoi soldati, trovandosi lontani dal pericolo, ricusassero nuovi rischj, sia finalmente che non gli rimanesse verun altra speranza che quella di salvare diecinove vascelli, approfittò dell'imminente notte per far forza di vele verso Genova; e le trenta galere ch'egli aveva lasciate legate assieme, vedendosi abbandonate ed attaccate da una forza doppiamente maggiore, s'arresero senza ulteriore resistenza. Tre mila cinquecento prigionieri, il fiore dei nobili e dei popolani genovesi, vennero in potere del vincitore con trenta galere: due mila genovesi erano periti combattendo, o annegati sui tre vascelli affondati[169].
I Catalani sbarcati in Sardegna dopo questa vittoria, ne raccolsero pochi frutti. Il giudice d'Arborea, ribellatosi contro di loro e rottili ad Oristagni, fece poi costar loro assai cara una vittoria che terminò di snervarli, ed all'ultimo li costrinse ad abbandonare tutte le loro fortezze, e l'isola stessa[170]. I Veneziani tornarono alla loro patria coperti di gloria e di ricchezze[171], mentre Grimaldi entrando nel porto di Genova vi portò lo spavento e la costernazione. Invano gli ambasciatori fiorentini esortavano la signoria a riprendere coraggio, offrendole tutte le risorse della repubblica per difesa del popolo genovese; questo popolo, che poc'anzi pareva signoreggiare i mari dell'Italia, della Spagna, della Grecia e della Scizia, e che risguardavasi come il più fiero popolo del mondo, si lasciò talmente invilire da questa grande sventura, e dalle civili discordie prodotte da vicendevoli rimproveri, che credette di non trovare altronde salute che nella servitù. Cercò quale fosse in Italia il più possente protettore, cui potesse ricorrere; qual fosse il principe più capace di vendicarlo di un nemico vittorioso, e si rivolse all'arcivescovo Visconti, che, di già padrone della Lombardia, dell'Emilia e di parte del Piemonte, non sembrava lontano dal soggiogare ancora la Toscana. Il popolo genovese domandò egli stesso le catene a quest'ambizioso tiranno. Il 10 ottobre del 1353 il doge Giovanni di Valente fu deposto, ed il conte Palavicino, nominato dal Visconti governatore di Genova, fu ricevuto in città con una guarnigione di settecento cavalli e mille cinquecento pedoni. Il nuovo signore fece aprire strade di comunicazione colla Lombardia, mandò al popolo vittovaglie, e danaro al senato per rifare la flotta, quasi che con tal prezzo pagar potesse la libertà genovese[172].
Vero è che l'arcivescovo di Milano era stato scelto piuttosto come arbitro e pacificatore, che come padrone di Genova; onde, se osservate avesse fedelmente le imposte condizioni, la repubblica sarebbesi conservata libera sotto la sua protezione. Fu prima sua cura il ristabilimento della pace tra le fazioni nemiche[173]; poi cercò di dar fine alla guerra marittima. Incaricò d'un'ambasciata a Venezia il Petrarca, da poco tempo chiamato alla sua corte, commettendogli di dichiarare al doge Dandolo, ch'egli non prendeva parte all'odio nazionale de' nuovi suoi sudditi, che bramava di riconciliare coi Veneziani; e che, quand'anche non potesse ottenerlo, sperava per lo meno, ch'egli medesimo ed i suoi antichi stati si conserverebbero in pace colla repubblica[174]. Ma i Veneziani non meno accaniti dei Genovesi, risposero col dichiarare la guerra all'arcivescovo, ed i due popoli marittimi raddoppiarono i loro apparecchi per nuove battaglie[175].
I Genovesi scelsero per loro ammiraglio Paganino Doria; quel grand'uomo cui andavano debitori della vittoria del Bosforo, e gli affidarono trentatre galere. Dal canto loro i Veneziani ne armarono trentacinque sempre sotto la condotta di Niccolò Pisani[176]. Mentre quest'ultimo assecondava le operazioni degli Arragonesi in Sardegna, ove Pietro il ceremonioso aveva mandata una ragguardevole armata[177], Doria era entrato nell'Adriatico, ed avea predate varie navi mercantili ed alcune galere che tornavano da Candia a Venezia; avea guastate le coste d'Istria, ed il giorno 11 d'agosto occupata la città di Parenzo, che abbandonò alle fiamme[178]. I Veneziani, atterriti dall'avvicinamento de' Genovesi, mandarono ordine a Niccolò Pisani di venire a difendere la patria. Chiusero con una catena l'ingresso del loro porto, guernirono colle loro milizie l'arzere, che servono di riparo alle lagune, e si prepararono ad una vigorosa resistenza qualora fossero attaccati ne' loro focolari. Il doge Andrea Dandolo, autore della più antica storia di Venezia, che siasi conservata, sentì così vivamente la perdita di Parenzo, e l'avvicinamento de' Genovesi, che ne morì il 7 settembre del 1354. Gli fu sostituito Marin Falieri, al di cui nome è assocciata una triste celebrità[179].
Il Doria, invece d'aspettare nel golfo la flotta veneziana, fece vela verso la Grecia, ed il Pisani, avuta notizia della direzione da lui presa, si affrettò di recarsi negli stessi mari. I due ammiragli cercaronsi nell'Arcipelago senza scontrarsi, onde Pisani prese porto alla Sapienza, ossia porto Lungo presso Modone, per dar riposo ai suoi equipaggi, e riparare le navi. Frattanto divise la flotta in due parti incaricando l'una di fare la guardia, mentre l'altra veniva racconciata. Egli si collocò all'ingresso del porto con sei grandi vascelli e venti galere, che unì con catene le une alle altre. Nello stesso tempo Morosini, suo viceammiraglio, con quindici galere e venti speronare o barche armate, aveva preso terra in fondo al porto assai lontano dall'ingresso[180].
Quando Paganino Doria seppe dove trovavansi i nemici venne a presentar loro battaglia il 3 novembre del 1354, in faccia al canale di porto Lungo, ed invano con mille ingiurie i suoi equipaggi cercarono di provocare il Pisani ad accettarla. Questi colle sue galere unite rimaneva immobile, sdegnando gl'insulti de' Genovesi, ed aspettando favorevole circostanza per combattere. Finalmente Giovanni Doria, nipote dell'ammiraglio, con superbo ardimento penetrando tra la flotta veneziana e la spiaggia, entrò nel porto. Il Pisani non gli si oppose, vedendo che quest'uomo, posto tra la sua linea e quella del Morosini, più non avrebbe potuto salvarsi. Lasciò pure che passassero una dietro l'altra dodici galere comandate dal giovane Doria, le quali attaccarono impetuosamente la divisione del Morosini in fondo al porto. Le navi appoggiate alla riva potevano più facilmente difendersi; ma i Veneziani, sorpresi da così subito attacco quando credevano di trovarsi in luogo sicuro, non opposero che una debole resistenza. Molti marinai atterriti, gettaronsi in mare per salvarsi a nuoto, non pochi s'annegarono, e tutte le navi caddero in potere de' Genovesi. Il giovane Doria venne allora ad attaccare alle spalle la linea che difendeva l'ingresso del porto, già combattuta di fronte dallo Zio; spinse contro la medesima due delle navi predate, cui aveva appiccato il fuoco, onde incendiare tutta la flotta nemica, locchè cagionò tanto spavento ai Veneziani, che s'arresero senza più difendersi. Essi avevano di già perduti quattro mila uomini nel porto, o sulla costa. Il Doria tornò trionfante a Genova, seco conducendo l'ammiraglio veneziano con tutta la flotta, e cinque mila ottocento settanta prigionieri. Per tal modo fu interamente cancellata la vergogna della disfata del Grimaldi alla Loiera[181].
Una rivoluzione scoppiata in Costantinopoli in gennajo del susseguente anno 1355 fu pei Genovesi un altro motivo di giubbilo. Nelle guerre civili dell'impero d'Oriente essi si erano mantenuti costantemente attaccati al partito del giovane imperatore, Giovanni Paleologo. Questo principe, nè meno corrotto, nè meno debole che qualunque de' suoi predecessori, trovavasi in allora tenuto come in esilio a Tessalonica da Cantacuzèno, il quale di camerier maggiore e tutore ch'egli era d'un imperatore fanciullo, erasi fatto padrone. Un Genovese, Francesco Cataluzzo, principale ministro e confidente del Paleologo, si dispose a rimettere sul trono questo monarca poco degno di regnare. Egli fece rivivere il partito formato dieci anni prima da Apocauco e dall'imperatrice Anna di Savoja, introdusse segretamente il Paleologo in Costantinopoli, sorprese Cantacuzèno e lo costrinse a farsi monaco, indi riunì tutto ciò che rimaneva dell'impero greco sotto il legittimo sovrano[182]. Cataluzzo sposò la sorella del Paleologo, e ricevette in feudo dal monarca, ch'egli ripose in trono, l'isola di Lesbo, o Metelina, che passò in dominio de' suoi discendenti[183].
I Veneziani, che speravano d'impegnare Cantacuzèno a dichiararsi di nuovo a loro favore, si scoraggiarono quando ebbero notizia di questa rivoluzione. La loro disfatta a Sapienza aveva pressochè distrutta tutta la loro marina; il re d'Ungheria minacciava la Schiavonia; il re d'Arragona, loro alleato, aveva le sue forze in Sardegna, colà rendute necessarie dalla guerra che gli facevano i Doria, i Malaspina ed i Gherardesca[184]; in così difficili circostanze scoppiò in Venezia stessa la più pericolosa congiura, che pose in pericolo l'esistenza della repubblica. Il senato acconsentì allora ad entrare in negoziazioni di pace; promise di pagare duecento mila fiorini ai Genovesi per le spese della guerra, di stabilire per tre anni un banco a Caffa, e di proibire per tutto quel tempo ai mercanti veneziani di approdare alla Tana. Tutti i prigionieri vennero rilasciati da ambe le parti senza taglia; ed il trattato di pace fu firmato in sul finire di maggio, colla riserva che il re d'Arragona potesse, volendolo, esservi compreso avanti il 28 di settembre[185].
Onde affrettare la decisione di questo monarca la signoria di Genova aveva spedite quindici galere nei mari di Sardegna sotto il comando di Filippo Doria. Questo ammiraglio, essendo rimasto perdente in un tentativo sopra Loiera, passò colla sua flotta a Trapani in Sicilia. Colà formò il progetto d'un'ardita impresa sopra la Barbaria, cui lo incoraggiarono le rivoluzioni scoppiate in quel paese.
I figli del re di Tunisi si erano congiurati contro il lor padre, e l'avevano fatto morire. Dopo questo parricidio il regno fu desolato da guerre civili di una violenza proporzionata all'atrocità del delitto che le aveva eccitate[186]. La città di Tripoli, da prima subordinata ai re di Tunisi, era stata sottratta alla loro ubbidienza, ed il figlio d'un maniscalco saraceno aveva avuto il mezzo d'innalzarsi alla tirannide.
Le coste della Barbaria non erano in allora deserte come lo sono al presente; la marina de' Cristiani rendeva sicura la navigazione del mediterraneo, e gli Affricani non trascuravano il commercio e l'agricoltura per darsi alla pirateria ed al ladroneccio. Filippo Doria, dopo aver fatto preparare a Trapani scale murali e macchine da guerra, entrò nella rada di Tripoli, una delle più ricche e commercianti città di quella costa. Sotto pretesto di comperare vittovaglie, fece sbarcare alcuni marinaj, ordinando ai medesimi di osservare l'altezza delle mura, e d'informarsi del modo con cui vi si faceva la guardia. Frattanto ricusò i doni mandatigli dal signore di Tripoli, e fece spiegare le vele, come se tornasse in Italia[187].
L'ammiraglio, quando fu in alto mare, partecipò ai comandanti delle sue galere ed alla loro ciurma il proprio progetto. Promise di farli tutti ricchi se volevano comportarsi da bravi soldati, e nel cuore della notte tornò colla flotta nel porto di Tripoli. La città riposava in piena sicurezza, ed i Genovesi erano già padroni delle mura e di una porta, prima che i cittadini fossero risvegliati per dar di piglio alle armi. Per altro il signore di Tripoli, circondato da pochi suoi sudditi, si avanzò nelle strade per combattere; ma dopo breve zuffa fu costretto ad uscire di città. I Saraceni, che s'andavano tuttavia difendendo, furono uccisi, e gli altri si sottomisero tremando alla sorte che gli aspettava[188].
I Genovesi diedero dopo ciò cominciamento al saccheggio della città, ma sotto la direzione de' loro capi, e con una regolarità che rendeva agli Affricani quest'infortunio ancora più terribile. Essi portarono nel comune deposito tutte le ricchezze del principe, delle moschee, dei cittadini, ed in tal modo adunarono in denaro, in gioje, in mercanzie preziose la somma di un milione ottocento mila fiorini d'oro. Risguardarono come parte della loro preda sette mila schiavi, uomini, donne, fanciulli, che imbarcarono sulle loro galere. Mandarono in allora a Genova per informare la signoria della fatta conquista, e per chiedere i di lei ordini; ma i Genovesi, sdegnati che il loro ammiraglio avesse tradito un popolo con cui trovavansi in pace, videro altresì il pericolo che soprastava ai mercanti genovesi che trovavansi ne' dominj de' Saraceni in Alessandria, e nelle scale del Levante. Onde invece di risposta condannarono a perpetuo esilio l'ammiraglio e tutti coloro che lo avevano assecondato nella sua criminosa intrapresa[189].
Filippo Doria, vedendo che la sua repubblica non voleva prendere possesso della fatta conquista, vendette Tripoli ad un Saraceno, padrone dell'isola di Gerbi, pel prezzo di cinquanta mila doppie, e mandò un'altra deputazione a Genova per cercar di calmare la collera del suo governo. Erasi in questa città avuta notizia che i principi saraceni, nemici del signore di Tripoli, lungi dal pensare a far uso di rappresaglie, avevano veduto con piacere la sua disgrazia. Allora la signoria si raddolcì, e mutò la sentenza pronunciata contro l'ammiraglio e la flotta. In espiazione del loro delitto Filippo Doria ed i suoi compagni furono condannati a fare per tre mesi la guerra senza soldo al re d'Arragona, che non aveva voluto accettare il trattato di pace di Venezia. Dopo aver passati tre mesi sulle coste della Catalogna, l'ammiraglio con quindici galere, ancora cariche delle ricchezze e degli schiavi, fu ricevuto nel porto di Genova. L'oro fece scordare l'assassinio e la perfidia con cui era stato acquistato[190].
Abbiamo detto che la repubblica di Venezia aveva accondisceso ad una pace svantaggiosa, perchè la scoperta d'una pericolosa congiura aveva sparso il terrore in tutta la città. Quattro giorni dopo la morte del doge Andrea Dandolo, accaduta l'undici settembre 1354, i quaranta elettori avevano proclamato suo successore Marin Falieri, conte di Val di Marina, uomo di settantasei anni, che le sue grandi ricchezze e le cariche amministrate facevano risguardare tra i più riputati cittadini di Venezia[191]. Falieri aveva una bella e giovane sposa, della quale era perdutamente geloso. Eragli particolarmente sospetto Michele Steno, uno de' tre capi della quarentia, o tribunal criminale, sebbene le frequenti sue visite non avessero per oggetto la consorte del doge, ma una delle donne della sua casa. In una pubblica festa, l'ultimo giorno di carnevale, avendo Falieri notati i famigliari e poco decenti modi tenuti da questa donna con Steno, lo escluse dall'adunanza. Questo gentiluomo in un primo impeto di collera scrisse sul trono ducale posto nella vicina sala due versi ingiuriosi all'onore del doge, ed alla fedeltà della di lui sposa[192].
Era questa pel geloso Falieri la più mortale offesa: riconobbe Steno autore dello scritto, e lo denunciò agli avogadori. Egli credeva di vedere vendicata la sua ingiuria dal consiglio de' dieci con una esemplare severità, ma questa causa invece di essere portata a quel consiglio, fu dagli avogadori mandata alla quarantia medesima di cui era presidente lo stesso Steno. Il risentimento, l'agitazione d'una festa, la licenza autorizzata dalla maschera, ond'era coperto il colpevole, furono considerati come circostanze che minoravano il delitto, e Steno venne condannato soltanto ad un mese di arresto. Il doge più sdegnato di tanta indulgenza, che della prima ingiuria, estese il suo odio, ed il desiderio di vendetta a tutta la quarantia, che aveva così leggermente punito il colpevole, ed a tutta la nobiltà, che non aveva presa a petto l'offesa fattagli.
Conservavasi tuttavia nel popolo di Venezia un segreto odio contro quella nobiltà, che si era esclusivamente impadronita della sovranità, spogliando de' suoi diritti la nazione. L'insolenza di alcuni giovani patrizj accresceva l'animosità del popolo. Vedevansi abusare dell'impunità che loro dava l'amicizia di potenti personaggi per introdursi nelle case de' borghesi, sedurre le loro spose e figlie, ed in appresso maltrattare i genitori, o i mariti da loro disonorati[193]. Israele Bertuccio, plebeo, capo dell'arsenale, era stato insultato in questo modo. Portò le sue lagnanze al doge contro un gentiluomo di casa Barbaro. Falieri manifestando la sua impotente compassione, lo assicurò che non avrebbe ottenuto giustizia. «Non sono io stato insultato al pari di voi, gli disse, ed il preteso castigo del colpevole, non fu forse per me, e per la stessa corona ducale una nuova offesa?» Dopo ciò i progetti di vendetta sottentrarono alle accuse giuridiche. Israele Bertuccio fece conoscere al doge i principali malcontenti; i conciliaboli de' cospiratori adunaronsi più notti consecutive in presenza del capo della repubblica, e nel suo palazzo. Quindici plebei s'impegnarono col doge di rovesciare la repubblica.
Convennero i congiurati, che ognuno di loro si associerebbe quaranta amici, i quali terrebbe disposti ad ogni cenno per agire la notte del 15 aprile 1355. Ma per non manifestare il segreto, risolsero di limitarsi a dire ai loro associati, che volevano valersi dell'opera loro per sorprendere e punire per ordine della signoria que' giovani gentiluomini, che coi loro disordini avevano concitato l'odio popolare. Il segno per agire doveva essere il suono a stormo della campana di san Marco, che non poteva suonarsi senza ordine del doge. Per altro i congiurati non dovevano valersi che di borghesi conosciuti pel loro odio verso la nobiltà, onde fedelmente tenessero il segreto in parte loro affidato. Nell'istante in cui suonerebbe la campana, i congiurati dovevano spargere la voce che la flotta genovese trovavasi presso alla città, dovevano in pari tempo incamminarsi da tutti i quartieri verso la piazza di san Marco, occuparne gl'ingressi, ed uccidere i gentiluomini di mano in mano che giugnerebbero in sulla piazza per soccorrere la signoria[194].
Erano terminati tutti gli apparecchi, ed il segreto della congiura fedelmente mantenuto fino alla vigilia della sua esecuzione, quando certo Bernardo, bergamasco, conciatore di pelli, ch'era stato scelto da uno dei congiurati per guidare i suoi quaranta associati, seppe molte circostanze intorno a quanto doveva egli fare all'indomani, le quali sembravangli non accordarsi coi supposti ordini della signoria, cui fin allora aveva creduto di prestarsi. Onde la stessa sera si portò a casa di Niccolò Lioni, uno de' membri del consiglio de' dieci, e gli palesò la trama nella quale egli trovavasi innocentemente compreso. Siccome nè l'uno nè l'altro supponeva che ne fosse capo il doge, si recarono unitamente da lui per manifestargliela. Il Falieri non ebbe la prontezza o l'accorgimento di sopprimere tale scoperta; egli a vicenda ora non voleva ammettere come possibili le circostanze che gli venivano indicate, ora dichiaravasene preventivamente informato, soggiugnendo d'avere a tutto di già provveduto[195]. Tale inconseguenza eccitò i sospetti di Niccolò Lioni, il quale lasciò il doge per recarsi al consiglio dei dieci, portandogli la nota de' congiurati datagli da Bertrando, i quali furono tutti arrestati nelle proprie case per ordine del consiglio. Furono poste guardie in ogni angolo della città, ai campanili ed alla torre di san Marco per impedire che si suonasse a stormo; molti congiurati, posti alla tortura, rivelarono che lo stesso doge era capo della cospirazione.
Erasi provveduto alla tranquillità della città; i colpevoli trovavansi in carcere, ed il doge tenuto di vista nel suo palazzo; ma il consiglio dei dieci non era sicuro di essere dalla costituzione autorizzato a giudicare il capo dello stato. Chiamò venti de' primi gentiluomini a risolvere insieme in quest'importante occasione, ed ebbe allora origine un corpo potente e permanente, che fu chiamato la Zunta o Giunta[196]. Il doge fu tradotto innanzi al consiglio dei dieci unito alla Giunta, fu posto in confronto de' principali congiurati, che vennero un dopo l'altro mandati al supplicio; egli confessò la parte avuta nella congiura, ed il secondo giorno della procedura fu condannato a morte. Gli fu tagliata la testa il 27 aprile del 1355 sulla gran scala del palazzo ducale nello stesso luogo in cui i dogi, quando venivano inaugurati, davano il giuramento di fedeltà alla repubblica. Durante l'esecuzione le porte rimasero chiuse; ma immediatamente dopo un membro del consiglio dei dieci si affacciò alla finestra, tenendo in mano la spada ancora insanguinata, e disse al popolo: è stata fatta giustizia d'un grande delinquente; all'istante si aprirono le porte del palazzo, ed il popolo, entrato in folla, vide il capo di Martino Falieri lordo del proprio sangue[197].
Abbiamo veduto in questo capitolo e ne' precedenti quali rivoluzioni la mercatura e la guerra marittima avevano introdotte tra gl'Italiani ed i Greci. Prima di abbandonare gli affari dell'Oriente, d'uopo è parlare delle relazioni di un altro genere, cioè letterarie e religiose, che nella stessa epoca si formarono tra i due popoli.
Malgrado il loro orgoglio più non potevano i Greci considerare gli occidentali e sopra tutti gl'Italiani come popoli barbari di cui potessero disprezzare le arti, la letteratura, le ricchezze. I loro mercanti, i loro artisti, i loro soldati, e spesso i loro confidenti e ministri erano italiani, e mentre il genovese Cataluzzo era il confidente di Giovanni Paleologo, Cantacuzèno ricorda frequentemente l'amicizia che aveva stretta col grande ammiraglio Paganino Doria[198]; amicizia che non fu smentita nel calore della guerra che questo eroe genovese fu forzato di fargli colle flotte della sua patria. Lo stesso imperatore lodò la fedeltà che fino all'ultimo istante gli aveva conservata la guardia italiana, comandata da Giovanni di Peralta. Racconta, che nell'istante di perdere il trono, arringò questa guardia in lingua italiana[199], che asserisce di aver saputo benissimo parlare. Infatti Cantacuzèno è quello degli storici greci che sfigura meno i nomi occidentali[200].
Ma mentre i Greci, malgrado la fierezza loro ed il disprezzo che in ogni tempo mostrarono per le lingue straniere, studiavano le lettere latine, gl'Italiani facevano progressi grandissimi nella lingua greca; essi cominciavano a trasportare in Italia la letteratura ateniese, e s'appropriavano que' monumenti del genio e del gusto, che in tutti i secoli dovranno servire d'esemplari alla poesia ed all'eloquenza.
Giammai lo studio della lingua greca era stato affatto abbandonato in Italia. Il dominio de' Greci nella Calabria e nella Puglia si prolungò fino ai tempi in cui gl'Italiani cominciarono a conquistare paesi nella Grecia. Relazioni di governo, di alleanze, di matrimonj legarono sempre abbastanza intimamente i due popoli, mentre i Greci non avevano comunicazione col rimanente dell'Europa. Più tardi il commercio e la navigazione li posero in un quasi continuo contatto, di modo che un prodigioso numero di mercanti, di marinai, di soldati sapevano nel terzo secolo il greco, come la metà del popolo veneziano lo intende in quest'età, senza che questa conoscenza della lingua avesse la menoma influenza sull'italiana letteratura. Non pertanto tali frequenti comunicazioni avevano, fino dal dodicesimo e tredicesimo secolo, fatte intraprendere molte latine traduzioni di quelle opere che la filosofia in allora dominante faceva avidamente ricercare. Eransi, per tacere di molt'altre, tradotte le opere d'Aristotile, quelle di Galeno e quelle di alcuni padri delle chiesa[201].
Ma il greco altro ancora non era che un idioma utile, che imparavasi per un determinato scopo, quando Petrarca e Boccaccio, risvegliando verso la metà del quattordicesimo secolo, il gusto della bella letteratura e l'ammirazione per gli antichi, comunicarono alla maggior parte de' dotti il desiderio di conoscere i capi d'opera dell'antica Grecia nella loro lingua originale, ed estesero l'attività loro in questa parte de' tesori dell'antichità, che fino a tale epoca erano stati lasciati quale esclusiva proprietà de' dotti di Bizanzo.
L'ammirazione per gli antichi, lo studio delle loro scritture, della loro poesia, della loro storia, della loro religione, eransi risvegliate quasi nello stesso tempo in Grecia ed in Italia. Costantinopoli più omai non produceva oratori o poeti; ma non mancava di persone che, col loro entusiasmo pei poeti e gli oratori dell'antichità, sembravano degni di camminare sulle loro orme. La venuta in Italia di alcuni di questi uomini, e l'amicizia loro coi capi della letteratura latina, contribuirono a riunire in un solo corpo i belli avanzi dell'antichità, a spiegare gli uni per mezzo degli altri, a farli conoscere a diversi popoli, ed a fare universalmente sentire tutta la perfezione di que' capi d'opera. In tal maniera le due nazioni salvarono di comune accordo i preziosi monumenti dell'antica letteratura, quando appunto correvano pericolo di essere distrutti.
Il monaco Barlaamo ebbe facilmente la parte principale nella ristaurazione delle greche lettere in Italia. Barlaamo era oriundo di Seminara, in Calabria, paese a tale epoca ancora popolato da molti Greci. Avendo vestito l'abito di monaco di san Basilio, passò nell'Etolia, di là in Tessalonica, e per ultimo a Costantinopoli, ove giunse nel 1327. Si fece colà conoscere per le sue cognizioni astronomiche, filosofiche, matematiche e letterarie. Ottenne la protezione del giovane Andronico, e di Cantacuzèno in allora il favorito di quest'imperatore. Barlaamo venne accolto in casa di Cantacuzèno, ove diede lezioni di filosofia e di belle lettere, fu creato abate d'un monastero, ed interessò la chiesa greca nelle sue dispute con Niceforo Gregora, lo scrittore di cui abbiamo fatto frequente uso nel precedente capitolo, poi con Palama ed i monaci del monte Athos intorno alla luce del Tabor, ed in ultimo coi deputati di Giovanni XXII intorno alle diverse opinioni delle chiese greca e latina[202].
Queste ultime controversie non ritrassero il giovane Andronico dal mandare Barlaamo in Avignone presso Benedetto XII, sotto pretesto di procurare la riunione delle due chiese, ma in sostanza per ottenere soccorsi contro i Turchi. Barlaamo tornò d'Occidente senza aver nulla ottenuto; si rinnovarono le sue dispute coi monaci del monte Athos, che lo disgustarono talmente, che nel 1341, abbandonata la Grecia, venne a cercare asilo in Napoli, ove fu ben accolto dal re Roberto. Nel susseguente anno recossi in Avignone; e colà conobbe il Petrarca, e gli diede lezioni di lingua greca. Con Petrarca lesse le opere di Platone[203]; ma non potè tanto continuare le sue lezioni da istruire perfettamente il poeta italiano nell'idioma greco. Alcuni anni dopo un distinto personaggio bizantino, Niccola Sigeros, avendo regalato un esemplare d'Omero al Petrarca, questi gli rispose che senza interprete non poteva intendere il principe de' poeti. «La morte mi privò, gli diceva, del nostro Barlaamo, o piuttosto io me lo tolsi a me medesimo, quand'io gli procurai la dignità vescovile, senza riflettere alla perdita che me ne verrebbe.» Effettivamente Barlaamo, dopo aver rinunciato alle opinioni della chiesa greca, fu da papa Clemente VI innalzato alla sede di Girace unita a quella di Locri. «In queste giornaliere lezioni, prosegue il Petrarca, mi aveva insegnate più cose; ma egli ingenuamente confessava che ne imparava assai più da me. Ed invero quant'egli era eloquente nella lingua greca, altrettanto ignorava la latina, ed essendo di vivacissimo spirito, vedevasi quanta difficoltà incontrava nell'esprimere i suoi sentimenti[204].»
Un amico del Petrarca più giovane di lui, ed a ragione non meno celebre, Giovanni Boccaccio, si avanzò assai più nell'intelligenza della lingua greca, ed influì più direttamente all'introduzione delle lettere greche in Italia. Giovanni Boccaccio nato nel 1313, era cittadino fiorentino, ma originario di Certaldo, castello di val d'Elsa, lontano venti miglia da Firenze. Suo padre, ch'era mercante, destinavalo alla propria professione, e lo fece lungamente viaggiare, perchè s'impratichisse; ma il Boccaccio, appassionato per la poesia, non riuscì felicemente nella professione paterna. Di ventott'anni abbandonò il commercio, acconsentendolo il padre, ed intraprese lo studio del diritto canonico, che poteva procurargli utili impieghi[205].
Ma il Boccaccio attendeva di mal animo a questi studj, che altro scopo non avevano che quello del guadagno. Trascurava il diritto, come si era presa poca cura del suo commercio, e non occupavasi di proposito che della poesia e delle scienze, che hanno in sè stesse la propria ricompensa. Studiò successivamente l'astronomia, la filosofia sacra, la mitologia, la geografia, la storia; e sopra tutto procurò d'intendere profondamente gli antichi scrittori greci e latini; ne cercò con somma cura i manoscritti e li copiò egli stesso. In tal modo ottenne di essere non solo uno de' più eleganti scrittori, ma uno de' più eruditi, e forse il miglior critico del suo secolo[206].
Il Boccaccio, che non si era posto in su la via degli onori e della fortuna, s'innalzò non pertanto ad un distinto rango: il suo ingegno gli aveva procacciata grandissima riputazione e fu ricercato per impieghi della più dilicata confidenza. Nel 1347 fu ambasciatore della repubblica fiorentina presso i signori della Romagna, ed in particolare di Ostasio da Polenta. Nel 1351 venne incaricato di un'altra onorevole missione presso il Petrarca. La repubblica aveva determinato di fondare in Firenze una nuova università: voleva dare una cattedra al Petrarca, e dopo avere ricomperati tutti i beni del di lui padre, venduti in occasione della cacciata de' Bianchi da Firenze, gli spedì a Padova, ove in allora soggiornava, il suo amico Boccaccio, onde persuaderlo a tornare nella sua patria. La signoria scrisse pure una lettera contenente i seguenti frammenti.
«Non è lungo tempo che abbiamo risolto di far fiorire tra di noi i buoni studj, troppo finora trascurati in questa città. Vogliamo che vi si possa acquistare un'intera istruzione in ogni genere, affinchè, come fece Roma in altri tempi, la nostra repubblica s'innalzi gloriosamente al disopra delle altre città d'Italia, e la sua fama vada crescendo di pari passo colla sua prosperità. Non è che per te solo che la nostra patria può ottenere lo scopo de' suoi desiderj; onde ti supplica (e questa distinzione fu rara ancora tra gli antichi) di prendere in considerazione la sua università, e di fare, che, per mezzo tuo, ella fiorisca. Scegli tu stesso il libro che ti piacerà d'interpretare, scegli la scienza che troverai più confacente alla tua riputazione ed al tuo riposo. Forse si troveranno qui uomini di elevata mente, che, risvegliati dal tuo esempio, s'incoraggieranno a pubblicare i versi loro nella nostra città.... Preparati dal canto tuo, se ci è permesso di confortartene, preparati a terminare l'immortale tuo poema dell'Affrica, affinchè le muse, neglette da tanti secoli, tornino a prendere stanza tra di noi. Tu hai finora viaggiato abbastanza, e lungamente esaminate le costumanze ed il carattere delle nazioni. Oggi i tuoi magistrati, i tuoi concittadini, i nobili ed il popolo, l'antica casa ed il patrimonio de' tuoi antenati, che ti rendiamo, ti chiamano, ti aspettano. Torna adunque, torna dopo tanto tempo, e la tua eloquenza assecondi i nostri progetti[207].»
Il Petrarca parve commosso da questa lusinghiera lettera, la quale ci dà una così alta idea del modo con cui i Fiorentini apprezzavano, e compensavano il merito. Il suo riscontro esprime una viva gratitudine, ma colla consueta sua pedanteria il Petrarca fa l'enumerazione di tutti gli antichi ch'erano stati richiamati in patria, e si paragona a tutti[208]. Incaricò il Boccaccio di far conoscere quali progetti aveva egli formati pel suo ritorno a Firenze, che poi non ridusse ad effetto, non essendo mai venuto a stabilirsi nella sua città natale.
Il Boccaccio venne di nuovo incaricato dalla sua repubblica di altre ambasciate. Fu mandato nel 1351 al marchese di Brandeburgo, figliuolo di Luigi di Baviera; per impegnarlo ad attaccare i Visconti. Due in tre anni più tardi fu spedito a papa Innocenzo VI per concertare quale condotta doveva tenere la repubblica verso l'imperatore Carlo IV. In mezzo a questi onorevoli impieghi il Boccaccio compose molti libri, che contribuirono all'avanzamento delle scienze, ed allo spargimento delle cognizioni dell'antichità; sopra tutto furono apprezzati i suoi libri intorno alla genealogia degli dei, ed all'antica geografia. Queste opere non sono presentemente utili, perchè più estese indagini ci fecero conoscere più esattamente le cose degli antichi; ma essi dimostrarono come si possa unire una vasta erudizione alla sana critica, e distribuire con giudizioso ordine un incoerente ammasso di fatti e di osservazioni.
Conviene ammettere che la prosa latina del Boccaccio non è elegante; che le sue poesie latine mancano d'invenzione e di leggiadria di stile; ed inoltre che le sue poesie italiane non avrebbero potuto assicurargli quel seggio che occupa nella letteratura; ma la riputazione del Boccaccio oggi è posta ne' suoi romanzi d'amore e nelle sue novelle. In questo genere non fu eguagliato da veruno nell'eleganza dello stile, nella grazia, nella ingenuità. La sua facezia, talvolta troppo libera, è sempre ne' limiti del gusto, se non sempre entro quelli della modestia; e la sua narrazione servirà sempre di modello, quando ancora più non si cercasse ne' suoi racconti la pittura de' costumi del suo tempo.
Ma, quantunque le più serie opere del Boccaccio più non interessino al presente, non dobbiamo perciò scordarci che a quest'uomo più che a tutt'altri va debitore l'Occidente del ristabilimento delle lettere greche. Vi contribuì coi progressi fatti da lui medesimo in questa lingua, col gusto che sforzossi d'inspirare agli altri per gli stessi studj, e pei pubblici stabilimenti, che fece consacrare dalla sua patria al vantaggio de' grecisti. Fu il Boccaccio che trasse in Italia Leonzio Pilato, filosofo greco, originario della Calabria, come Barlaamo, e non meno dotto di questi. Era ributtante, dice il Boccaccio, la di lui figura, deforme la fisonomia del volto, lunga la barba, i capelli, e le sue maniere grossolane e selvagge: vedevasi di continuo immerso in profonde meditazioni, ma si aveva in lui come un archivio inesauribile, in cui raccolte trovavansi tutta la storia e la favola greca[209]. L'anno 1360 Leonzio Pilato, procedente dalla Grecia, sbarcò a Venezia, di dove era intenzionato di passare in Avignone. Lo incontrò il Boccaccio, gli chiese la sua amicizia, e lo persuase a venire a soggiornare in Firenze. In appresso ottenne dal governo di questa repubblica di fondare a favore del greco filosofo una cattedra di lingua e di letteratura greca. Egli stesso, sebbene in età di 47 anni, si pose il primo tra gli scolari del nuovo professore, e sotto di lui studiò tre anni le opere di Omero. Nel 1364 Leonzio Pilato desiderò di rivedere la sua patria, abbandonò Firenze malgrado le rimostranze de' suoi scolari, e tornò in Grecia. Trovò questo paese desolato dai Turchi, ed oppresso da innumerabili calamità: si rimproverò di non aver saputo apprezzare il riposo dell'Italia, e si pose in viaggio per ritornarvi; ma la sua nave fu sorpresa da una terribile burrasca. Lo sgraziato filosofo, tenendo abbracciata un'antenna, fu colpito dal fulmine, e perì consumato dal fuoco celeste[210].
Durante la sua dimora in Firenze il professore aveva di concerto col Boccaccio tradotte in latino l'Iliade e l'Odissea d'Omero, onde l'Occidente va debitore a questi due uomini della conoscenza di Omero, di cui per lo innanzi non aveva che una cattiva traduzione in versi. Altri libri greci furono, per le cure del Boccaccio, sparsi in tutta la Toscana; perciò egli scrisse con giusto orgoglio nel suo trattato della Genealogia degli dei. «Con i miei consigli ridussi Leonzio Pilato a non recarsi alla Babilonia d'Occidente, io lo condussi a Firenze, lo accolsi in mia casa, e lungo tempo gli diedi ospitalità. Io mi adoperai con zelo per farlo ammettere tra i dottori dell'università fiorentina; io gli feci assegnare uno stipendio dal pubblico erario. Io primo fra tutti gl'Italiani presi da lui private lezioni per udirlo spiegare l'Iliade; io primo ottenni in appresso che venissero pubblicamente spiegati i libri d'Omero[211].»
Non iscordiamo noi medesimi ciò che dobbiamo al Boccaccio, e mostriamoci grati all'università ed alla repubblica fiorentina di averci trasmessi i libri omerici, di aver renduta familiare a tutta l'Europa la lingua del padre de' poeti; e d'essere stato cagione per ultimo che le virtù, i monumenti dell'antichità, il patriottismo di Sparta, le arti di Atene, l'eloquenza, la poesia, la filosofia, la memoria della libertà e della grandezza de' Greci ci sieno state tramandate, e possano ancora sollevare l'anima nostra, formare i nostri talenti, e riscaldare il nostro cuore.
CAPITOLO XLII.
L'Italia immagine della Grecia. — Suoi tiranni. — Intraprese di Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano. — Grande compagnia del cavaliere di Moriale. — Il cardinale Albornoz intraprende la conquista del patrimonio della chiesa. — Morte di Cola da Rienzo.
1351 = 1354. L'Italia, in cui la greca letteratura era recentemente stata trasportata per opera del Boccaccio e della repubblica fiorentina, era di tutta l'Europa la più a portata di far rivivere l'antica Grecia. La natura medesima si compiacque di prodigare a queste due magnifiche contrade doni press'a poco eguali. In ambedue moltiplicò le situazioni pittoresche; innalzò maestose rupi ed aprì ridenti vallate, rinfrescate da belle cascate; adornò come per un giorno festivo le loro campagne della più rigogliosa vegetazione; e, mentre arricchì a vicenda l'Italia e la Grecia coi prodigi della sua possanza, compartì pure agli uomini che le abitano, somiglianti qualità; se pure può conoscersi l'originario carattere di un popolo quand'è già stato alterato da diversi governi. Le qualità comuni ai popoli dell'Italia e della Grecia, le qualità permanenti, il di cui germe si è conservato sotto tutti i governi, ed ancora si conserva, sono una vivace e brillante immaginazione, una sensibilità rapidamente eccitata e rapidamente compressa, finalmente il gusto innato per tutte le arti, ed organi proprj ad apprezzare ed a riprodurre ciò che è bello in ogni genere. Nelle feste del popolo delle campagne, si rinverrebbero in oggi uomini affatto somiglianti a quelli, che coi loro applausi incoraggiarono i talenti di Fidia, di Michelangelo, o di Raffaello. Essi ornano il loro cappello d'odorosi fiori, il loro mantello è pittorescamente acconciato come quello delle antiche statue, il loro linguaggio figurato e pieno di fuoco, i loro atti esprimono tutte le passioni, ed essi sono realmente suscettibili del più violento amore, come della più bollente collera. Veruna festa sembra loro compiuta se le facoltà morali dell'uomo non v'hanno avuta qualche parte, se la chiesa, in cui si adunano, non è ornata con isquisito gusto e pittorescamente, se l'anima loro non viene da una musica armoniosa sollevata al cielo. Lo spirito medesimo prende parte ai loro divertimenti; quando possono sottrarre ai loro bisogni parte del guadagno delle sostenute fatiche, non lo consumano in bevande spiritose, o in istravizj, ma lo portano come un tributo ai teatri, ai poeti improvvisatori, ai declamatori di storie, che ravvivano la loro immaginazione, e che nutrono il loro spirito. L'Italia nell'età presente è il solo paese ove il bifolco, il vignajuolo, il pastore, riempiano colle loro mogli e figli le sale degli spettacoli, il solo paese, in cui le persone di tale condizione possano intendere le tragedie rappresentanti gli eroi de' tempi passati, e le favole poetiche, che loro non sono del tutto sconosciute.
Nell'epoca in cui lo studio della greca letteratura fu trasportato in Italia, e quando esemplari, che s'accostano alla perfezione, furono offerti all'imitazione degli oratori, de' poeti, de' filosofi e degli artisti, la rassomiglianza era ancora più compiuta di quel che lo sia nell'età presente. Una quasi assoluta parità nel governo, ne' costumi, nelle abitudini, pareva indicare preventivamente uno de' popoli per camminare sulle tracce dell'altro. Per altro le lettere greche e le arti languirono ancora qualche tempo, poichè furono introdotte in Italia. L'imitazione de' migliori esemplari parve piuttosto intiepidire il genio che animarlo. Non avvi impulso per coloro, che non aspirano che a fare copie; la pedanteria dell'erudizione, lo studio delle lingue morte, che invano si sforzava di farle rivivere, ed il servile insegnamento delle scuole, diedero per lungo tempo una falsa direzione allo spirito nazionale.
La fine del 14.º secolo, ed il principio del 15.º non produssero che scrittori latini. Molti di loro giunsero, non v'ha dubbio, ad un alto grado d'eleganza, ma tutti avevano volontariamente rinunciato ad un sommo vantaggio, all'incoraggiamento che i soli loro compatriotti potevano dare. Quando l'intera nazione è dotata d'immaginazione e di sensibilità, prende alla sua propria letteratura un interessamento che non può prendere ad un idioma straniero; ella gli comunica il suo carattere, e concorre a perfezionarla colla sua critica, forse più che gli autori colle loro fatiche. I difetti, che vengono anche al presente attribuiti alla letteratura italiana, possono tutti spiegarsi per questo primo torto, d'avere abbandonato l'idioma nazionale nel secolo che più eminentemente doveva unire il gusto al genio. Questo secolo, che venne dopo Dante e Petrarca, fu perduto per le lettere; la pedanteria lo spogliò d'ogni vigore, e tutti i suoi monumenti rimasero sepolti in una lingua straniera. Soltanto più di cent'anni dopo la morte del Petrarca si pubblicarono finalmente in lingua italiana due poemi, risguardati anche adesso come classici[212]; ma l'uno e l'altro sono semibuffi; perciocchè credevasi che la lingua, in cui furono dettati, fosse indegna di serio e grave argomento. Quando ancora più tardi questa lingua fu di nuovo adoperata da poeti di sommo ingegno, la nazione che doveva incoraggiarli, aveva perduta la sua fierezza, il suo valore, e soprattutto que' profondi sentimenti, che fanno, siccome coll'immaginazione, armonizzare la poesia anche coll'anima; che fanno concepire un ardito sagrifizio di sè stesso, che comunicano l'entusiasmo, e che conservano una tinta malinconica ai più animati quadri.
Le arti non furono inceppate ne' loro progressi, come lo furono le lettere, dallo spirito d'imitazione. Non si trovarono antiche pitture, e queste ancora in iscarso numero, che quando la moderna pittura era omai giunta alla più alta sua elevazione. I progressi dell'arte furono lenti, ma regolari, i pittori andarono scoprendo gradatamente e colle proprie loro forze le regole pittoriche ed i mezzi dell'esecuzione. Il genio nulla perde del suo nobile entusiasmo quando non si assoggetta alle leggi che dopo averle egli stesso dettate; così il primitivo fuoco della creazione risplende sempre nelle più castigate opere della scuola italiana. Vero è che la scultura va molto più debitrice all'antico, sia che il genio abbia minor parte in quest'arte, o che questo genio mai non abbia animati i moderni. Le antiche statue sono per noi il tipo della perfezione, ed una perfetta copia sarebbe agli occhi nostri un grandissimo capo d'opera. Non pertanto ancora nella scultura gl'Italiani crearono prima di copiare, ed è appunto perchè inventarono essi medesimi l'arte che praticarono nel 13.º e 14.º secolo, che nel 15.º furono a portata d'imitare i più grandi modelli[213].
Ma se questo spirito d'imitazione, sconosciuto ai Greci, formava un'estrema differenza fra loro e gl'Italiani, che pretendevano imitarli, dall'altro canto la rassomiglianza era diventata più esatta che giammai in una cosa non suscettibile d'imitazione, nella politica situazione de' due paesi. L'Italia era per ogni rispetto ciò che fu la Grecia; Atene riviveva in Firenze, Sparta in Venezia, Lucca ed il suo Castruccio ricordavano, sebbene con minori virtù, Tebe ed il suo Epaminonda, Pisa e Siena potevano paragonarsi a Megara ed a Corinto, Genova a Siracusa, mentre la fertile Lombardia, come in altri tempi le doviziose colonie dell'Asia minore, non aveva saputo conservare la libertà. I tiranni italiani rassomigliavano pure ai tiranni de' Greci. Nè i talenti, e nè meno le virtù d'un signore, potevano rendere legittimo un usurpato potere; rimanevano sempre al popolo odiosi, ed in preda ai loro sospetti: frequenti rivoluzioni li precipitavano dal trono, sul quale non potevano rassodarsi che coi delitti, mentre coloro che gl'Italiani chiamavano signori naturali, i re di Napoli, come altra volta quelli di Macedonia, l'imperatore, siccome il gran re di Persia, erano rispettati di generazione in generazione, e potevano dormire sul trono, senza che i sudditi loro tentassero di rovesciarli.
Tra le razze de' tiranni, ch'eransi innalzati sopra la ruina dei diritti dei popoli, quella de' Visconti richiamava più d'ogni altra gli sguardi su l'Italia. L'aperta sua ambizione tendeva ad invadere tutta intera questa contrada, ed i talenti che successivamente segnalarono molti capi di tale famiglia, mentre altri tiranni imbecilli o corrotti regnavano a Verona, a Padova, a Mantova ed a Ferrara, le immense sue ricchezze, ed il potere che aveva di già acquistato, sembravano assicurarle il buon successo de' suoi progetti d'ingrandimento. Ella sapeva approfittare di tutte le rivoluzioni d'Italia per dilatare vie più ogni giorno il suo dominio. Ora riduceva i vicini stati a sottomettersi senza riserva, ora soltanto offriva loro la sua alleanza; ma la protezione, che accordava ai suoi alleati, li riduceva in servitù. Ella continuava a proteggere con tutte le sue forze il partito ghibellino, cui gloriavasi di mantenersi fedele; ma ciò praticava soltanto in quegli stati, ove, coll'ajuto di questo nome ancora potente, sperava di eccitare sediziosi movimenti. Non prendeva essa consiglio da questo spirito di parte nell'interna sua politica, ma cercava di tenerlo vivo soltanto presso i suoi rivali. Secondo che le tornava meglio cercava indifferentemente l'amicizia o dei papi o degl'imperatori; gli adulava ambidue, e non mantenevasi fedele ad alcuno, perchè la corruzione e la perfidia erano più utili alla sua ambizione di quel che avrebbero potuto esserlo la buona fede e la lealtà. Nelle città di suo dominio permetteva che si andassero spegnendo quelle fazioni, col favore delle quali le aveva spesso ridotte in servitù; ed i Lombardi, corrotti dalla fertilità delle loro campagne, scordavano volentieri nel lusso e nella mollezza, non solo gli antichi odj, ma la patria e la libertà, per le quali due secoli prima avevano fatte così grandi cose. Fra le tante città subordinate ai Visconti, la sola città d'Asti osava ognora lagnarsi delle violate capitolazioni, ed agitavasi ancora per le antiche contese degl'Isnardi e de' Gottuari[214].
Gli stati dell'arcivescovo Giovanni Visconti erano confinati a ponente da quelli di Giovanni Paleologo, marchese di Monferrato, da quelli di Amedeo VI di Savoja, detto il conte verde, e dai vassalli di questi, Giacomo, principe d'Acaja e conte del Piemonte, e Tommaso marchese di Saluzzo[215]. Tutte le città del Piemonte, in addietro libere, dipendevano da qualcuno di questi signori. Quelli della casa di Savoja erano allora minori, ed, in forza di un compromesso col marchese di Monferrato, avevano scelto l'arcivescovo di Milano per arbitro delle loro contese, il quale finchè visse mantenne la pace su questi confini.
Dalla banda del levante separavano il territorio dei Visconti da quello della chiesa quattro signori: i Gonzaga avevano Mantova e Reggio, i marchesi d'Este Ferrara e Modena, i della Scala Verona e Vicenza, e Padova i Carrara. La potenza delle case d'Este e della Scala era più antica che quella de' Visconti, e tutti questi signori avevano titoli uguali; pure la potenza di queste famiglie era meno stabile assai di quella de' Visconti. Trovavansi in allora capi di queste famiglie giovani di perduti costumi, i quali supponevano che il sovrano potere desse loro il diritto di soddisfare le più vergognose passioni. Per godere a vicenda di tale prerogativa, e non già spinti da più nobile passione, i minori di ogni famiglia cercavano sempre di balzare dal trono i loro maggiori, i nipoti gli zii, i bastardi i fratelli legittimi. Nello spazio di pochi anni si videro queste quattro case scosse ed indebolite da tali congiure.
La guerra civile, che scoppiò nella casa d'Este, non mancava per altro di plausibile motivo. Il marchese Obizzo aveva, morendo, legittimato in marzo del 1352 i figli avuti da un'amante, ed aveva lasciato al maggiore, Aldobrandino, la successione alla sua sovranità. Suo nipote, Francesco, riclamò contro un atto che lo spogliava de' suoi diritti, e quando vide un bastardo in possesso dell'eredità della sua casa, ritirossi alla corte dei Visconti; e là ora coi maneggi, ora colle armi, cercò di ricuperare i diritti ch'egli credeva legittimi[216].
Le divisioni della famiglia della Scala non erano tanto scusabili. Can Grande, allora regnante, aveva due fratelli legittimi, ed un fratello bastardo chiamato Fregnano. In febbrajo del 1354 egli era andato a Bolzano per conferire col marchese di Brandeburgo suo cognato. Fregnano cercò di approfittare della lontananza del fratello per usurpare la sovranità, rendendosi con uno stratagemma padrone della persona del più giovane de' suoi fratelli, ch'era rimasto in Verona, e di quella di Azzo da Coreggio governatore della città. Allora pubblicò varie lettere, che pretendeva essere state dirette a questo governatore ed a lui medesimo; e sotto pretesto che le truppe dei Visconti minacciavano il veronese, fece uscire in campagna tutte le armate per andare contro ai nemici. Nella notte del 17 febbrajo annunciò l'improvvisa morte del signore Can Grande; la mattina del susseguente giorno corse le strade a cavallo col suo più giovane fratello Alboino, e ricevette l'omaggio de' magistrati e del popolo. Feltrino, uno de' signori di Gonzaga, che aveva presa parte in questa trama, giunse ben tosto con un corpo di truppe in suo soccorso, un corpo di cavalleria gli condusse pure Barnabò Visconti pochi giorni dopo, ma Fregnano non ardì riceverle in città. Questi ausiliarj da lui non richiesti, e che sembravano essere accorsi per un disinteressato amore pei tradimenti, eccitavano, non a torto, la sua diffidenza.
Ma la stessa notte in cui Barnabò allontanavasi da Verona, ove non era stato ammesso, Can Grande, avvisato della rivoluzione accaduta nella capitale, giunse presso alla porta del Campo di Marte, che gli fu segretamente aperta dal capitano a lui fedele, e subito entrato in città, chiamando alle armi il popolo cui faceva replicare il suo nome, occupò il quartiere al di là dell'Adige. Nel susseguente mattino 25 febbrajo, passò il ponte ed attaccò Fregnano, che difendeva l'altra parte della città. Dopo un'accanita zuffa fu ucciso il bastardo della Scala, e Paolo Pico della Mirandola, ch'era stato nominato suo podestà con molti altri complici. Feltrino Gonzaga rimase prigioniero, e non ottenne la libertà che pagando una taglia di trentamila fiorini. Il cadavere di Fregnano venne ignominiosamente appeso ad una forca, furono condannati a morte varj suoi complici, e Can Grande trovossi nuovamente padrone di Verona: ma la ribellione, che aveva con tanta rapidità soffocata, gli aveva fatto vedere quanto doveva ripromettersi dai signori di Mantova e di Milano[217].
Le congiure, tramate nelle famiglie di Carrara e di Gonzaga, non cagionarono la guerra civile, e si eseguirono ambedue entro le mura dei palazzi dei principi. A Padova uno zio ed un nipote, Jacopino e Francesco da Carrara regnavano insieme. Quest'ultimo, che vedremo governare e difendere gloriosamente i suoi stati, fece all'impensata prendere lo zio mentre con lui stava cenando a tavola[218]; lo accusò d'avere ordito una trama per farlo assassinare, e lo fece gettare in una prigione ove lo sgraziato Jacopino visse ancora diciassett'anni. Sua moglie Margarita Gonzaga, venne rimandata a Mantova col figlio in età di un anno. Una segreta gelosia tra questa donna e la moglie di Francesco, era stata la cagione di questa catastrofe[219].
L'ultima a scoppiare fu la congiura di Mantova. Guido da Gonzaga, signore di questa città, aveva tre figliuoli, il primo de' quali, Ugolino, era stato chiamato dal padre a partecipare del sovrano potere; e perchè questi mostravasi egualmente valoroso e prudente, Guido, invecchiato, gli andava poc'a poco abbandonando tutta la sua autorità. I due minori fratelli Lodovico e Francesco ne concepirono la più violente gelosia. Nel 1362 congiurarono contro di lui, ed il giorno 2, o come vogliono alcuni il 13 ottobre, lo assassinarono. Il vecchio Guido da Gonzaga, che, colla sua congiura a danno di Passerino de' Bonacossi, aveva nel 1328 innalzata la propria famiglia al rango delle case sovrane, vide ucciso dai suoi propri figliuoli quello di loro, in cui aveva tutte riposte le sue speranze; egli stesso fu dai medesimi spogliato della sovrana autorità, e finì i suoi giorni nel dolore[220].
Tali erano i principi indipendenti che governavano il Nord dell'Italia. Vi si trovava gli è vero un'altra famiglia principesca, i Beccaria, che signoreggiavano Pavia. Ma questi erano vicarj ora de' Visconti, ora dei signori di Monferrato. Molti piccoli principi regnavano pure nelle città della Romagna e dello stato della chiesa; ma per altro erano in Italia diminuite assai di numero le case sovrane, e la geografia di questa contrada erasi molto semplificata. Il numero delle repubbliche era ancora più diminuito. Genova e Bologna trovavansi, almeno momentaneamente, sottomesse ai Visconti; Lucca ubbidiva ai Pisani; onde non rimanevano più che Venezia e Pisa, e i tre comuni guelfi di Toscana, Firenze, Siena e Perugia: le altre città di questa provincia in addietro libere erano piuttosto suddite che alleate di queste tre repubbliche.
I comuni guelfi della Toscana erano particolarmente lo scopo de' progetti ostili e dell'ambizione dell'arcivescovo di Milano; ma d'altra parte erano anch'essi prevenuti contro di lui dal doppio odio pel partito ghibellino e per la tirannide. Abbiamo di già veduto in qual modo i Fiorentini avevano respinta l'aggressione de' Visconti nel 1351, e come avevano costretto il generale del signore di Milano a levare l'assedio di Scarperia; ma era meno da temersi la forz'aperta che i segreti intrighi; perciocchè il Visconti cercava in ogni città, in ogni borgata di farsi de' partigiani, di avere de' traditori; e dopo l'inverno del 1351, che venne in seguito a quella gloriosa campagna, poco mancò che venduta non gli fosse la città d'Arezzo. Il signore di Milano aveva incoraggiata la famiglia guelfa de' Brandagli d'Arezzo a farsi tiranna, e si era a di lei favore procurata l'alleanza dei piccoli tiranni ghibellini di Agobbio e di città di Castello. Di già i Brandagli avevano occupata una porta, e per mezzo di convenuti segni avevano chiamate in loro soccorso le truppe de' Visconti, allorchè gli abitanti d'Arezzo corsero alle armi, e cacciarono i ribelli dalla città, prima che potessero eseguire i colpevoli loro progetti[221].
Le repubbliche guelfe di Toscana, riunite dal comune pericolo, essendosi collegate per la comune difesa[222], spedirono una deputazione al papa, onde impegnarlo a farsi capo di un partito, formato in origine per difesa della chiesa, ed a vendicarsi dell'affronto che le sue armi avevano ricevuto sotto Bologna.
Ma il Visconti stava già da qualche tempo negoziando colla corte d'Avignone per placarla. Egli comperava dei partigiani a peso d'oro perfino nel sacro collegio. La viscontessa di Turenna, l'amica di Clemente VI, che tutto poteva sul di lui animo, aveva ricevuti i suoi doni, onde la collera della corte intiepidiva ogni giorno, e le risoluzioni erano incerte[223]. I cardinali, che sembravano animati dal più vivo risentimento, e che più fortemente eransi dichiarati per l'onore della chiesa, non si vergognavano nel susseguente concistoro di dichiararsi favorevoli a quello stesso Visconti, di cui erano poc'anzi i più caldi antagonisti[224].
Finalmente il papa cedette alle istanze dell'amica e de' cortigiani, ed il 5 maggio del 1352 dichiarò nel concistoro dei cardinali, che in considerazione della sommissione dell'arcivescovo di Milano, e della sua santa ubbidienza, annullava tutti i processi incominciati contro di lui, e rivocava le scomuniche e gl'interdetti fulminati contro il medesimo. Gli ambasciatori del signore di Milano presentarono a Clemente VI le chiavi di Bologna, quasi in atto di rendergli quella città, ma il papa gliele restituì. Nello stesso tempo fece cessione per dodici anni della sovranità di Bologna al Visconti come di un feudo della chiesa, contro il pagamento annuo di dodici mila fiorini[225]. Cento mila fiorini furono pagati dal signore di Milano alla camera apostolica per le spese della precedente guerra in Romagna. Più di duecento mila fiorini erano stati erogati nel sedurre i più importanti personaggi della corte di Avignone, e per ottenere un così vantaggioso trattato[226].
Intanto le repubbliche toscane, costrette di rinunciare ai soccorsi del loro naturale alleato, eransi rivolte all'erede di una famiglia, contro i di cui antenati avevano guerreggiato, al nipote d'Enrico VII, al figlio di Giovanni di Boemia, Carlo IV, che in allora era re de' Romani. Gli rappresentarono, che quell'avanzo di potere che gl'imperatori conservavano ancora in Italia verrebbe in breve usurpato dai Visconti, se il monarca non poneva finalmente freno alla smisurata loro ambizione; si offrivano d'assecondarlo con tutte le loro forze onde abbassare l'alterigia del signore di Milano, di levare perciò un'armata, e di pagare a Carlo i sussidj quando scenderebbe in Italia a prendere le due corone de' Lombardi e dell'Impero Romano[227]. Venne a Firenze un cancelliere di Carlo IV per continuare questo trattato. Il sussidio da pagarsi all'imperatore venne portato a dugento mila fiorini, doveva comandare un'armata di sei mila cavalli, di cui soltanto un terzo sarebbe da lui pagato, ed i magistrati delle repubbliche dovevano prendere il titolo di vicarj imperiali. Il trattato si pubblicò in Firenze in maggio del 1352, ma Carlo IV non potendo ancora allontanarsi dal suo regno di Boemia, rifiutò di ratificarlo[228].
Nella campagna del 1352 l'arcivescovo di Milano non aveva tentato d'invadere la Toscana con un'armata considerabile; ma aveva distribuite le sue forze sopra diversi punti, e soccorsi tutti i nemici delle repubbliche. Egli eccitò contro Perugia e Siena il conte d'Urbino, della famiglia di Montefeltro, il signore di Cortona ed il prefetto di Vico, che governava diverse città dello stato della Chiesa. Negli Appennini il vecchio Pietro Saccone dei Tarlati, era tuttavia, sebbene in età di novant'anni, il più attivo nemico dei Guelfi, egli sorprendeva e guastava con inaspettate incursioni ora le campagne di Mugello, ora quelle d'Arezzo. Aveva occupato Borgo san Sepolcro, importante fortezza de' Perugini, e poco dopo Anghiari ed altri due castelli[229]. Finalmente Francesco Castracani intraprendeva nella Garfagnana l'assedio di Barga con forze considerabili, somministrategli dall'arcivescovo. Ma la lega guelfa uscì gloriosamente da questa lotta: riacquistò dopo lungo assedio e spianò fino ai fondamenti il forte castello di Bettona posto ad otto miglia da Perugia, ch'era stato occupato dai Ghibellini[230]; forzò il Castracani a levare l'assedio di Barga, dopo averlo disfatto nella Garfagnana[231]; e Pietro Saccone, rotto presso Bibiena, andò debitore della sua salvezza alla bontà del cavallo[232].
La guerra non sostenevasi da ambe le parti con forze proporzionate alla potenza dell'arcivescovo di Milano e de' Fiorentini. Non pertanto i due partiti desideravano egualmente la pace. Temeva il Visconti gli effetti delle negoziazioni cominciate dai Guelfi con Carlo IV; temeva inoltre di cambiamento nelle disposizioni della corte d'Avignone. Clemente VI era morto il 5 dicembre del 1352, dopo avere vissuto non come conviensi ad un capo della chiesa, ma come un sovrano voluttuoso e magnifico, circondato da dame e da cavalieri, nel fasto e ne' piaceri[233]. Il vescovo di Clermont, cardinale d'Ostia, datogli per successore il 28 dicembre, sotto nome d'Innocenzo VI, poteva essere intenzionato di rompere un trattato estorto al suo predecessore dalla venalità de' cortigiani. L'arcivescovo di Milano credette opportuno di fare la pace coi Guelfi per non aver nulla a temere dal canto della chiesa. Propose alle repubbliche toscane d'aprire un congresso a Sarzana; gli ambasciatori vi si recarono da ambedue le parti, e cominciarono le loro conferenze il primo gennajo del 1353[234]. Fu accettata la mediazione dei Gambacorti e della repubblica di Pisa, ch'eransi conservati neutrali tra l'arcivescovo ed i Fiorentini; e colla loro mediazione fu conchiuso un trattato di pace tra il Visconti e le repubbliche di Firenze, Perugia, Siena, Arezzo e Pistoja. Pochi castelli presi da una parte e dall'altra furono restituiti, e la repubblica di Pisa si chiamò garante dell'esecuzione del trattato[235].
Ma la pace di Sarzana non procurò ai Fiorentini che pochi mesi di tranquillità. Bentosto un'armata più formidabile che non era quella dell'arcivescovo, saccheggiò la Marca d'Ancona e la Romagna, ed una più disastrosa guerra minacciò le frontiere della Toscana. Un gentiluomo provenzale, cavaliere di san Giovanni di Gerusalemme, frate Monreale d'Albano, che gl'Italiani chiamarono fra Moriale[236], erasi distinto servendo il re d'Ungheria nelle guerre del regno di Napoli. In queste sventurate province, abbandonate a tutte le vessazioni de' soldati, aveva il cavaliere imparato a dare una tal quale regolarità all'assassinio ed a mantenere una certa disciplina tra i suoi soldati, ai quali erano permessi tutti i delitti. Con quest'associazione della regola alla licenza, aveva adunata una compagnia di ventura, colla quale era rimasto nel regno di Napoli dopo la partenza di Luigi d'Ungheria. La regina Giovanna per liberarsene, aveva preso al suo soldo Malatesta, signore di Rimini, con una forte armata; questi nel 1352 aveva assediato in Aversa Moriale, e forzatolo a capitolare ed a uscire dal regno, restituendo tutta la preda che aveva ammassata[237]. Moriale, col piccolo numero de' soldati rimasti fedeli, erasi posto al soldo del prefetto di Vico, signore di Viterbo e d'Orvieto, e d'alcune altre città del patrimonio di san Pietro; ma egli covava ancora in così basso stato più vasti progetti. Aveva scritto a tutti i contestabili, che avevano soldati da loro dipendenti in Italia, offrendo loro paga e servigio come a truppe regolari, e significando loro inoltre, che goderebbero sotto i di lui ordini di tutta la licenza permessa ai soldati delle compagnie avventuriere. Con tali promesse raccolse sotto le sue bandiere mille cinquecento cavalli e due mila fanti, ch'egli condusse subito nel territorio del signore di Rimini, di cui voleva vendicarsi. Entrato in questo piccolo stato nel novembre del 1353, aveva, prima che terminasse l'inverno, di già presi quarantaquattro castelli[238].
Mentre Moriale metteva la Romagna a fuoco e sangue, dava alla sua compagnia una forma regolare. Aveva nominati un tesoriere, consiglieri e segretarj, coi quali deliberava intorno ai comuni interessi. Alcuni giudici mantenevano la pace nel campo, e facevano osservare tra i soldati la più rigorosa giustizia, mentre loro permettevano ogni sorta di delitti a danno degli abitanti del paese in cui guerreggiavano. La preda si divideva in un modo regolare tra gli ufficiali ed i soldati; era poi venduta a certi mercanti, che seguivano l'armata per fare acquisto degli effetti rubati, e Moriale voleva che si rispettassero le persone e le proprietà di questa classe d'uomini. Con tale disciplina faceva regnare l'abbondanza nel campo, e le persone addette alla milizia d'altro non parlavano in Italia che delle ricchezze che si acquistavano sotto le sue bandiere. Coloro che trovavansi al servigio dei principi o delle repubbliche aspettavano con impazienza il termine del loro servigio per abbandonarli e recarsi al campo di Moriale; e molti ancora commettevano qualche volontario fallo per farsi congedare prima che spirasse il tempo del loro servizio[239].
Il Malatesta, oppresso da questa compagnia, venne a chiedere soccorso alle tre comuni guelfe di Toscana. Rappresentò loro che questi assassini, nemici d'ogni nazione, d'ogni governo, abbandonerebbero tra poco il suo principato omai esausto per attaccare la Toscana, ove speravano di trovare maggiori ricchezze, che, ove non si punissero sollecitamente, l'esempio loro sedurrebbe tutti i soldati d'Italia, e farebbe rivolgere tutte le forze della società contro la società medesima. Malgrado così potenti motivi Perugia e Siena rifiutarono di provocare un nemico che non le aveva attaccate. Firenze accordò qualche soccorso a Malatesta, ma così sproporzionato al bisogno, che fu da lui rinviato, ed egli cominciò a trattare d'accordo colla compagnia. Le promise quaranta mila fiorini perchè uscissero dalle sue terre, e le diede per ostaggio uno de' suoi figli[240]. Egli non potè pagare così grossa somma che licenziando tutte le sue truppe, le quali passarono al servigio di Moriale. Nello stesso tempo (1354) molti de' principali baroni di Germania entrarono nella grande compagnia, che diventò più formidabile di quel che lo fosse mai stata[241].
Le repubbliche toscane, che non avevano approfittato delle più favorevoli circostanze per attaccare la gran compagnia, eransi per altro collegate per la comune difesa, ed avevano convenuto di montare tre mila cavalli, ed il contingente de' Fiorentini era di già arrivato a Perugia. Ma Moriale ottenne facilmente lo scioglimento di tale lega. Egli cercò l'amicizia de' Perugini, dichiarando che rispetterebbe scrupolosamente la neutralità loro; chiese di potere attraversare il loro territorio senza fermarsi e pagando a danaro contante tutto quanto gli abbisognasse. Lusingati di sottrarsi al pericolo senza guerra e senza spesa, i Pistojesi vilmente abbandonarono i loro alleati, e fecero separata pace con Moriale[242]. Allora la compagnia entrò per Asciano e Montepulciano sul territorio di Siena; onde i Sienesi, atterriti nel vedersi abbandonati dai loro vicini, trattarono ancor essi con Moriale, e gli contarono sedici mila fiorini, affinchè continuasse la marcia senza fermarsi nel loro territorio[243].
I Fiorentini avevano a quest'epoca deboli e mal esperti priori, che non seppero porre la repubblica in istato di difendersi. Andato a vuoto il tentativo fatto coi Pisani per rispingere d'accordo il nemico, non riuscirono a mettere un'armata in campagna. Nel mese di luglio del 1354 la compagnia guastò per otto giorni continui la Val d'Elsa e le vicinanze di Staggia e di san Casciano senza trovare resistenza: essa era in allora composta di sette mila cavalli, due mila de' quali erano, a dir vero, forzati di servire a piedi sotto l'armatura de' corazzieri per avere perduti i cavalli, di mille cinquecento uomini di fanteria scelta, che allora chiamavansi masnadieri, e di una truppa di servi, di vivandieri, di gente di perduti costumi, che valutavansi circa venti mila. Moriale sapeva impiegare vantaggiosamente questa gente, che seguiva il suo campo, per saccheggiare le campagne, e procacciare vittovaglie ai soldati[244]. I Fiorentini risolvettero all'ultimo di pagare venticinque mila fiorini al tesoro della compagnia, ed i Pisani sedici mila[245], oltre i considerabili regali fatti ai diversi suoi capi; e Moriale promise alle due repubbliche, che per due anni non entrerebbe più nel loro territorio. Raccolse in seguito il rimanente delle contribuzioni dovutegli dai paesi della Romagna, indi condusse la sua truppa in Lombardia, ove ad istigazione de' Veneziani erasi formata una lega contro l'arcivescovo di Milano. Moriale si pose colla sua truppa al soldo della lega, che gli promise cento cinquanta mila fiorini per quattro mesi di servizio[246].
Dopo avere assicurata con questo trattato la sussistenza della grande compagnia per tutto l'inverno, il cavaliere di Moriale ne affidò il comando ad un tedesco, chiamato dagl'Italiani il conte Lando. Egli con poco seguito si recò a Perugia e poscia a Roma sotto colore di regolare i suoi domestici affari, ma in fatto per formare corrispondenze nel mezzogiorno d'Italia, ove pensava di ricondurre in primavera la formidabile sua truppa. I Perugini, spaventati ancora della sua potenza, lo accolsero rispettosamente, e gli diedero nelle loro terre il diritto di cittadinanza: Moriale passò in seguito a Roma. Egli credeva di avere diritto alla protezione del governo di questa città, perchè i suoi due fratelli, che aveva lasciati a Perugia, avevano di fresco dato a Cola da Rienzo il danaro che questo celebre uomo aveva impiegato nella leva di alcuni soldati, coi quali era rientrato trionfante in Roma.
Ma il tribuno, trovandosi ristabilito in Campidoglio, si risguardò di nuovo quale rappresentante dell'antica repubblica romana, quale protettore dell'universo, quale vendicatore dei delitti commessi in qualunque parte d'Italia. Fece dunque imprigionare il cavaliere di Moriale e lo fece tradurre innanzi al suo tribunale; lo accusò d'avere attaccate, senz'esserne provocato, le città della Marca e della Romagna, di avere portato il ferro ed il fuoco nelle campagne di Firenze, di Siena e d'Arezzo, di avere comandata una truppa di assassini, colpevoli di ladronecci e di omicidj: e perchè il Moriale non opponeva a fatti così notorj, che il preteso diritto della guerra, il tribuno dichiarò che il titolo di generale punto non iscemava i delitti che punivansi nelle persone degli altri malfattori; condannò Moriale alla pena di morte, e gli fece tagliare il capo in Roma il 29 agosto del 1354 nella piazza delle esecuzioni[247].
Cola da Rienzo, che in dicembre del 1347 era fuggito dal Campidoglio, ed un mese dopo da castel sant'Angelo travestito, Cola da Rienzo, ch'era stato condannato come eretico e come ribelle, che aveva languito ora nelle prigioni dell'imperatore a Praga, ora in quelle del papa in Avignone, per uno strano cambiamento di fortuna, trovavasi di nuovo rivestito d'una sovrana autorità nella città medesima da cui era stato scacciato.
Il primo asilo di Cola, dopo la sua fuga da Roma, era stata la corte del re Lodovico d'Ungheria. Ma quando questo principe abbandonò improvvisamente l'Italia, il tribuno, trovatosi senza difesa, era passato in Germania per implorare la protezione di Carlo IV[248], sperando di poter comunicare al re de' Romani il proprio entusiasmo per Roma, e di rendere questo monarca degno dei titoli ch'egli portava. Nello stesso senso il Petrarca aveva più volte scritto allo stesso Carlo per ricordargli i doveri degl'imperatori[249]. Ma il discendente della casa di Lussemburgo, che non aveva ereditata la generosità, la lealtà, o altra delle virtù cavalleresche di Enrico VII, o di Giovanni di Boemia, diede vergognosamente Cola in mano del papa nel 1352, ed il tribuno giunse in Avignone in mezzo a due arceri[250]. La morte di Clemente VI, il rispetto che ispiravano l'eloquenza ed i suoi distinti talenti, e senza dubbio le raccomandazioni del Petrarca, che scriveva al popolo romano per interessarlo a favore del suo magistrato, salvarono Cola dal supplicio di cui era minacciato[251]. Alcun tempo dopo, Innocenzo VI, avendo risolto di liberare tutte le città de' suoi stati dai tiranni che le governavano, e di ridurle sotto l'immediata autorità della chiesa, mandò Rienzo al cardinale Egidio Albornoz, incaricato di tale missione, affinchè questo prelato si giovasse dei suoi talenti, della sua eloquenza, e dell'opinione che ancora aveva in Roma[252].
Egidio Albornoz si diceva disceso dalle reali case di Leone e di Arragona; era stato nominato assai giovane arcivescovo di Toledo, lo che non gli aveva impedito di fare la guerra ai Mori, e di rendersi glorioso contro gl'infedeli. Dopo la battaglia di Tariffa, aveva di propria mano armato cavaliere Alfonso XI di Castiglia, e nel 1343 aveva diretto l'assedio d'Algesiras. Quando morì Alfonso XI Albornoz venne alla corte d'Avignone, ove Clemente VI gli diede il cappello cardinalizio. Innocenzo VI l'anno 1353 dovendo nominare un generale nel sacro collegio, giudicò il cardinale spagnuolo più capace di ogni altro a riconquistare gli stati della chiesa[253].
Albornoz entrò in Italia nell'agosto del 1353 mal fornito di truppe e di danaro, ma con promesse di larghi sussidj. Sebbene la di lui venuta eccitasse la diffidenza dell'arcivescovo Visconti, questi lo accolse onorevolmente[254]. Il cardinale prese in appresso la via di Firenze, ove giunse in ottobre, ed ottenne dalla repubblica il piccolo sussidio di cento cinquanta cavalli. Fin qui le truppe d'Albornoz trovaronsi sproporzionate affatto a' suoi vasti progetti; ma egli fidava assai meno nell'armata, che nelle disposizioni de' popoli; imperciocchè la sua missione tornava utilissima alla loro prosperità. Era egli incaricato di rendere alle città la libertà, e quel governo repubblicano, di cui avevano goduto lungo tempo sotto la protezione della chiesa, e veniva per fare la guerra a piccoli tiranni, non meno nemici del popolo che del papa, a tiranni la di cui autorità era odiosa, ed alle di cui passioni venivano tutte attribuite le pubbliche calamità. Clemente VI aveva prima di morire pubblicata una bolla di scomunica contro tutti gli usurpatori, e nominatamente contro Giovanni di Vico tiranno di Viterbo e d'Orvieto, Francesco degli Ordelaffi tiranno di Forlì, e Giovanni e Guglielmo de' Manfredi tiranni di Faenza[255].
I Romani furono i primi a riconciliarsi colla chiesa per l'intromissione d'Albornoz; ma piuttosto fecero alleanza, con un atto di sommissione alla sua autorità[256]. Dopo la fuga di Cola da Rienzo avevano sofferte le più disastrose rivoluzioni; i nobili, tornati in Roma, avevano ricominciate le loro soverchierie, onde il popolo, sotto la condotta di Giovanni Ceroni, demagogo, che fu installato in Campidoglio col titolo di rettore, gli aveva di nuovo cacciati di città[257]; poi gli aveva richiamati per difendere Roma contro il prefetto di Vico. I nobili, che mai non sapevano approfittare delle lezioni dell'esperienza, avevano ravvivate le antiche loro contese; gli Orsini e i Savelli eransi azzuffati nelle strade, ed il rettore Giovanni Ceroni, avendo invano chiamato il popolo a prendere le armi per mantenere l'ordine, abdicò la sua dignità, e si allontanò da una città intollerante d'ogni governo[258].
Quando Innocenzo VI successe a Clemente, egli, di concerto col popolo, incaricò due senatori, Bertoldo Orsini e Stefano Colonna dell'amministrazione di Roma; ma poche settimane dopo la loro installazione, avendo la carenza delle vittovaglie eccitate le lagnanze del popolo, venne assediato il Campidoglio, lapidato l'Orsini, e il Colonna non si sottrasse alla morte che fuggendo travestito da una finestra[259].
In seguito si riaccese una furiosa guerra tra i diversi partiti della nobiltà, che si protrasse fino all'agosto del 1353. A quest'epoca, stanchi i Romani di farsi la guerra pei loro signori, nominarono di nuovo un capo plebeo, Francesco Baroncelli, scrivano o notajo del senato. In sull'esempio di Cola da Rienzo, questi prese il titolo di tribuno, mandò al supplicio i nobili più sediziosi, e costrinse gli altri alla quiete[260]. Il Baroncelli governava Roma, quando il cardinale Albornoz, accompagnato da Cola da Rienzo, entrò nello stato della chiesa. Fu il Baroncelli che fece la prima convenzione col legato a nome del popolo. In pari tempo Montefeltro, Aquapendente e Bolzena, aprirono le porte ai rappresentanti del romano pontefice; ma Giovanni di Vico, che portava il titolo di prefetto di Roma, pose in istato di difesa le sette città[261] di cui erasi fatto padrone, e si apparecchiò a sostenere la guerra[262].
La venuta di Cola da Rienzo ricordò ai Romani, non le ultime stravaganze, ma i bei tempi del suo governo, e le speranze che aveva loro fatte concepire. Essi recaronsi in folla ad incontrarlo a Montefiascone. «Torna a Roma, gli dicevano, torna nella tua città; a te s'aspetta il liberarla dai suoi mali; fattene signore, e noi ti sosterremo con tutte le nostre forze; non dubitare, tu non fosti desiderato mai, nè fosti amato mai tanto come in questo giorno[263].» Ma Cola più non era indipendente; tutti i suoi atti erano subordinati alla politica del cardinale, e questi pensava assai meno a dare la signoria di Roma ad un uomo intraprendente ed ambizioso, che ad approfittare dell'influenza che quest'uomo aveva sui Romani, onde renderlo utile ad altri disegni. Lungi dal prestare a Rienzo pochi corazzieri per condurlo al Campidoglio, chiese ai deputati, che si erano a lui presentati, d'armare il popolo romano contro il prefetto di Vico, se desideravano che in appresso Cola ristabilisse in Roma il buono stato.
Mentre ciò accadeva, il prefetto, che aveva dovuto avvedersi dell'odio che gli portavano grandissimo i cittadini di Viterbo e di Orvieto, volle dare ai più arditi opportunità di manifestare i loro sentimenti, onde potere castigarli. Dopo avere nascostamente accresciuto il numero de' suoi sgherri, li distribuì in tutti i luoghi afforzati delle due città, con ordine di tenersi pronti ad agire. In appresso fece da alcuni suoi fidati gridare alle armi, viva il popolo! Tutti coloro che sopportavano impazientemente la tirannide s'affollarono a tali voci nelle strade. Giovanni di Vico a Viterbo, e suo figlio in Orvieto, che non aspettavano che questo segno, uscirono dai loro nascondigli coi soldati, e piombando a dosso ai sediziosi, ne fecero una generale carnificina[264].
Con tale esecuzione, credeva il prefetto di avere rassicurata la sua sovranità, ed invece accrebbe i pericoli della sua situazione, perchè il popolo sdegnato rifiutava omai di difenderlo contro il legato. In marzo del 1354 questi occupò Toscanella, ed in maggio assediò contemporaneamente Viterbo ed Orvieto con mille trecento cavalli e dieci mila fanti. I Romani andavano ingrossando il campo d'Albornoz, ed altri rinforzi gli giugnevano da altre bande. Giovanni di Vico non osò esporsi al risentimento del popolo, che poteva adesso manifestarsi senza pericolo. S'arrese a discrezione al legato, cedendogli tutte le città che occupava, e che furono rimesse nella pristina libertà sotto la protezione della chiesa. Per altro Albornoz, in considerazione della pronta sommissione del prefetto, gli lasciò il governo di Corneto, Cività Vecchia e Respampano[265]. In giugno rivolse poi le sue armi contro Giovanni de' Gabrielli, tiranno di Agobbio, e lo costrinse egualmente a rimettere in libertà la sua patria[266].
La sommissione del prefetto toglieva ad Albornoz ogni pretesto di ritenere più oltre presso di sè Cola da Rienzo. Gli accordò quindi la dignità di senatore di Roma, in conformità degli ordini che aveva ricevuti dal papa[267], e lo lasciò partire alla volta di quella capitale senza soldati e senza danaro. Cola si era fatti troppi nemici tra la nobiltà per potere attraversare la campagna di Roma ed il patrimonio senza avere alcune compagnie di corazzieri che lo accompagnassero. In questo tempo i due fratelli del Moriale, arricchiti dai di lui assassinj, trovavansi a Perugia. Cola andò a trovarli, espose loro i suoi progetti per la prosperità dell'Italia, gli esortò ad associarsi alla sua gloria, ed al potere che stava per ricuperare; e con quella persuasiva eloquenza, che nessun altro possedeva in così alto grado, gli ridusse in fine a sovvenirgli una ragguardevole somma pel ristabilimento del buono stato. Quando Cola, dopo poche settimane, fece arrestare il cavaliere di Moriale, che meno facile dei suoi fratelli ad essere sedotto dalle illusioni, veniva a Roma per tenere gli occhi addosso al tribuno, e forzarlo a mantenere le promesse, l'ingratitudine di Cola, che condannava questo temuto avventuriere al supplicio, fu assai più notata che la giustizia della sua sentenza[268].
Al suo arrivo a Roma, Cola da Rienzo vi fu ricevuto con entusiasmo, perchè il suo esilio aveva cancellata la memoria della sua vanità. L'autorità, che gli confidava il popolo, veniva resa più forte dalle decorazioni di cui lo aveva rivestito il papa. Non solo Innocenzo VI l'aveva nominato senatore, ma riconosciuto inoltre nobile e cavaliere, e ratificata in tal modo la bizzarra cerimonia della conca di san Silvestro, in virtù della quale aveva Cola preso il titolo di cavaliere di santo Spirito[269]. Ma il senatore tribuno invece di correggersi de' suoi difetti aveva nell'esilio perduto quell'entusiasmo per le virtù e per la patria, che compensava i suoi difetti. Più difficile erasi fatta la sua situazione per dover conciliare la volontà del pontefice con quella del popolo. Il supplicio di Moriale, e quello di Pandolfo Pandolfucci, cittadino romano universalmente stimato, gli furono imputati quali atti d'iniquità; e la guerra che doveva sostenere contro i Colonna raddoppiava il suo imbarazzo. Stefano Colonna il giovane, rimasto capo di questa casa, erasi afforzato in Palestrina, e Cola, dopo averla in vano assediata, era stato obbligato a ricondurre i suoi soldati a Roma senza aver danaro per pagarli[270]. Cercò in tale penosa situazione di levare una nuova imposta, ma il popolo non la sostenne lungo tempo.
L'otto ottobre scoppiò contemporaneamente una sedizione ne' due quartieri di Roma, a Rizza ed in piazza Colonna. Alcuni forsennati adunaronsi al grido di viva il popolo, muoja il traditore Cola da Rienzo! S'avvicinarono al Campidoglio, ed il tribuno si trovò abbandonato dalle sue guardie, da' suoi ministri e dai servitori, tranne tre sole persone. Non pertanto aveva fatte chiudere le porte del palazzo; il popolo v'appicò il fuoco, che, avendo investita la scala, chiuse il passaggio agli assalitori. Cola vestì la sua armatura di cavaliere, e preso in mano lo stendardo del popolo si presentò alla finestra d'una sala superiore, e fece segno di voler parlare. Tale era il prodigioso impero della sua eloquenza, che, se gli fosse stato concesso di parlare, avrebbe senza dubbio calmata la moltitudine. Ma il popolo ricusava ostinatamente di ascoltarlo, e scagliava pietre contro di lui per forzarlo a ritirarsi dalla finestra; onde dopo aver fatti inutili sforzi pel calmare que' forsennati, essendo stato ferito in un braccio, ritirossi entro il palazzo[271].
Non perciò perdette ogni speranza di ridurre il popolo alla quiete quando potesse parlare. Si fece calare a basso in alcuni lenzuoli legati alle finestre, onde giugnere sul terrazzo della cancelleria, che trovavasi allo scoperto, ma dove più difficilmente poteva essere offeso. Di là tentò nuovamente di parlare, ma ogni sforzo per farsi udire fu vano. Allora fu veduto pendere indeciso tra una morte gloriosa combattendo e tra la speranza della fuga; spogliarsi dell'armatura, poi rivestirla per levarsela di nuovo[272]. Finalmente si applicò a quest'ultimo partito. Il palazzo era già preso dalla plebaglia, la quale saccheggiava le sale che l'incendio separava dal luogo in cui trovavasi Cola. Egli cercò di spogliarsi di tutti quegli abiti che potevano dare indizio della sua dignità, s'avviluppò nel mantello del portiere, si pose in sul capo alcune coltri da letto, e come persona che tornasse allora dal saccheggio, attraversando arditamente il fuoco, indicava agli aggressori in lingua romanesca[273] il luogo di dove veniva colla preda, e gl'incoraggiava ad avanzarsi ancor essi. Passò in tal guisa senz'essere conosciuto le due prime porte e la prima scala; e se avesse potuto egualmente superare la seconda, era salvo; ma un Romano lo trattenne avanti all'ultima porta, e presolo pel braccio, gli disse: ove vai tu?
Cola fermato non cercò più di nascondersi. Gettò le coperte che aveva sul capo, e dichiarò di essere il tribuno. Fu allora condotto fino in fondo alla seconda scala del Campidoglio, avanti al Leone di porfido egizio. Colà egli medesimo costumava di far leggere le sentenze di condanna. Tra i forsennati che lo circondavano, niuno osava toccarlo, un profondo silenzio era succeduto alle furibonde grida, ed egli colle braccia incrocicchiate sul petto aspettava la decisione della sua sorte. Bentosto alzò gli occhi, e girando lo sguardo sulla moltitudine disponevasi ad approfittare del silenzio del popolo per arringarlo, quando Cecco del Vecchio, un artigiano che gli stava al fianco, temendo gli effetti della sua eloquenza, gl'immerse il suo stocco nel ventre. Allora tutti coloro che gli erano vicini s'affrettarono a percuoterlo, ed il suo capo fu separato dal corpo, che coperto di ferite venne strascinato per la città, ed appeso presso san Marcello all'uncino d'un macellajo[274].
Così morì un uomo, che due volte rialzò la gloria del nome romano, e due volte fu sagrificato dal popolo, cui aveva consacrata la propria esistenza.
CAPITOLO XLIII.
Morte dell'arcivescovo Visconti. — Carlo IV in Italia. — Tratta con Firenze; distrugge a Siena il governo dei nove, ed a Pisa quello dei Bergolini. — Si ritira vergognosamente. — Anarchia della Sicilia e di Napoli. — Conquista di Albornoz; discordia tra i Visconti.
1354 = 1355. L'arcivescovo di Milano aveva condisceso alla pace colle repubbliche toscane, per aver tempo di prepararsi contro gli ambiziosi progetti ch'egli supponeva ad Innocenzo VI; ed infatti questo pontefice era appena salito sul trono che aveva preso a ridurre sotto la sua ubbidienza tutti i paesi dipendenti dalla santa sede. Ma le conquiste d'Albornoz negli stati della chiesa, erano pel Visconti un argomento di sicurezza, perchè il papa non era nè abbastanza ricco, nè potente abbastanza per fare ad un tempo la guerra in Lombardia e nelle vicinanze di Roma. Se voleva sottomettere i tiranni che si avevano diviso il patrimonio di san Pietro, era forzato di conservare la pace coi signori di Milano, e porre da banda gli odj, che nello spazio di cinquant'anni avevano contro di loro manifestato i suoi predecessori. Giovanni Visconti credette adunque di potere nuovamente riprendere i suoi progetti d'ingrandimento. Pochi mesi dopo la pace di Sarzana, egli acquistò la signoria di Genova, come si è veduto nel precedente capitolo, e si trovò ben tosto mal suo grado impegnato nella guerra di questa città colla repubblica di Venezia.
Il Visconti aveva già dati non pochi motivi di doglianze ai quattro signori della Marca Veronese, la quale separava i suoi stati da quelli di Venezia; egli aveva cercato di approfittare di tutti gl'intrighi di queste piccole corti per formarsi in seno a ciascheduna un partito, ed ancora per cercare d'impadronirsi di quelle città. Ma i signori di Mantova, di Verona, di Ferrara e di Padova, deboli per sè medesimi, ed inoltre tra loro divisi, appena osavano palesare il loro malcontento, temendo che le loro lagnanze potessero allegarsi dal Visconti come un pretesto per conquistare i loro stati. La signoria di Venezia, che in allora altro non possedeva sul continente che la città di Treviso, aveva bisogno di farsi degli alleati in terra ferma, onde muover guerra al signore di Milano. Prese perciò a cuore e di rappacificare i piccoli principi della Marca Veronese, e di armarli contro il loro naturale nemico. Gli ambasciatori veneziani recaronsi più volte in questa provincia; invitarono i principi a varj congressi[275]; e per ultimo li ridussero nel dicembre del 1353 a sottoscrivere un'alleanza, in forza della quale dovevano allestire quattro mila cavalli per le susseguenti campagne, onde attaccare l'arcivescovo di Milano. Le case d'Este, di Gonzaga, di Carrara e della Scala, unironsi ai Veneziani per determinare i Fiorentini a prendere parte nella stessa alleanza: ma i loro ambasciatori non persuasero questa repubblica a rinunciare alla pace di fresco conchiusa. La lega formata dai Veneziani si rivolse in appresso a Carlo di Boemia, re de' Romani, facendo rivivere le negoziazioni con lui aperte dai Fiorentini, e gli offrì il suo ajuto per procurargli la corona dell'impero, purchè dal canto suo il re di Boemia attaccasse il signore di Milano[276].
Era Carlo IV un principe intrigante ed avido, ma senza coraggio; onde sagrificava sempre gl'interessi dell'impero a quelli del suo regno di Boemia, e l'onor suo alla cupidigia. Tutte queste negoziazioni cogl'Italiani non miravano che ad ingannarli, perciocchè egli non pensava altrimenti di prendere parte alle loro contese, e mentre trattava con tutti i nemici del Visconti, aveva ricevuti ancora i di lui ambasciatori, ed esaminate le condizioni proposte per un'alleanza col signore di Milano. Sembrò a Carlo che queste contraddittorie negoziazioni avessero finalmente rimosse dalla spedizione d'Italia quelle difficoltà che avevano sconsigliati dall'intraprenderla i suoi predecessori[277]. I comuni della Toscana, in ogni tempo nemici degl'imperatori, erano stati i primi ad invitarlo. Venezia, Verona, Padova, Ferrara e Mantova cercavano la sua alleanza; il signore di Milano e del rimanente della Lombardia gli offriva la sua amicizia; per ultimo la corte d'Avignone l'aveva creato re de' Romani, dando così motivo ai suoi nemici di chiamarlo il re dei preti. Carlo IV, che bramava l' onore della corona imperiale, mandò deputati ad Innocenzo VI per rinnovare le promesse che fatte aveva ai suoi predecessori, chiedendo che il papa gli permettesse d'entrare in Italia, e nominasse i legati che dovevano coronarlo. Una deliberazione del concistoro nel febbrajo del 1354 soddisfece interamente ai suoi desiderj[278].
Frattanto era scoppiata la guerra tra l'arcivescovo di Milano e la lega della Venezia: il 18 maggio del 1354 Francesco Castracani, generale del Visconti, erasi avanzato ad assediare Modena, che ubbidiva ai marchesi d'Este. La famiglia dei Pii e tutti i Ghibellini di Modena passarono nel campo milanese, e diedero all'armata dell'arcivescovo molte terre murate[279]. Dall'altro canto i Guelfi di Bologna ed il partito repubblicano aveva voluto scuotere il giogo di Visconti d'Oleggio, che comandava in questa città a nome del signore di Milano. La ribellione era scoppiata il 10 di giugno; si era furiosamente combattuto nelle strade; ma i repubblicani erano rimasti soccombenti, e dodici de' più distinti cittadini di Bologna periti sul patibolo[280].
Eransi consumati alcuni mesi da ambe le parti, prima che le potenze nemiche si fossero poste in misura di spingere con vigore le ostilità; ma la lega Veneta avea preso al suo soldo la grande compagnia formata dal cavaliere di Moriale, e comandata dal conte Lando. Già si aspettavano importanti operazioni militari, quando furono sospese in un modo impensato. Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano, morì subitaneamente il 5 ottobre del 1354, nel farsi levare un carbonchio, che due giorni prima era comparso sulla sua fronte, e che si credeva poco pericoloso[281].
Lasciava suoi successori tre nipoti; figliuoli di suo fratello Stefano Visconti, e la di lui eredità venne divisa tra di loro. Siccome trovavansi circondati dai soldati adunati dall'arcivescovo per combattere la lega, non incontrarono difficoltà nel farsi proclamare signori da tutte le città del loro dominio. Questa cerimonia, che ricordava ancora que' diritti che il popolo più non esercitava, si fece in Milano il 12 ottobre del 1354. I tre fratelli divisero in appresso i loro stati e la loro autorità, di modo che ognuno di loro ebbe un appannaggio in proprietà, senza che la sovranità fosse divisa. La città di Milano, centro del governo, rimase comune ai fratelli Visconti, siccome quella di Genova. Matteo, il maggiore dei tre, uomo voluttuoso e corrotto, prese per sua parte Piacenza, Parma, Bologna, Lodi e Bobbio, e non domandò altra parte nell'amministrazione generale, che d'essere nominato il primo in tutti gli atti. Barnabò, il secondo, ebbe Cremona, Crema, Brescia e Bergamo, ed in pari tempo egli si prese il carico del dipartimento della guerra. L'ultimo, Galeazzo, prese sopra di sè l'amministrazione interna ed ebbe per suo appannaggio Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona ed Alessandria[282].
Seppesi pochi giorni dopo che Carlo IV, re di Boemia e de' Romani, era giunto in Udine il 14 ottobre ed era colà stato ricevuto da suo fratello naturale, il patriarca d'Aquilea. Ogni stato ed ogni fazione d'Italia aveva negoziato coll'imperatore eletto, ed eransi tutti lusingati di valersi della sua potenza contro i loro nemici; ma seppero con estrema sorpresa che il monarca dell'Occidente non aveva altro seguito che quello di trecento cavalieri disarmati. Carlo con questo debole accompagnamento fece successivamente il suo ingresso in Padova ed in Mantova; ed in queste due città venne ricevuto con eguale rispetto dai Carrara e dai Gonzaga[283].
Durante il suo soggiorno in Mantova Carlo IV si offrì mediatore della pace tra la lega veneta ed i Visconti. Ridusse la prima a congedare la grande compagnia, che si gettò nello stato di Ravenna per saccheggiarlo: ma, giunta a Milano la notizia della rotta data dei Genovesi ai Veneziani a Porto Longo il 3 novembre del 1354, i Visconti accrebbero le pretensioni, e l'imperatore eletto si limitò a conchiudere tra le potenze belligeranti una tregua, che doveva durare fino al susseguente maggio. Tostocchè fu firmata questa tregua, Carlo IV passò a Milano per ricevervi la corona ferrea di Lombardia[284].
I Visconti non videro senza stupore porsi in loro balìa col suo seguito disarmato quel monarca, il di cui nome era stato lungo tempo grandissimo oggetto di timore[285]. Essi vollero dargli almeno un'alta idea della loro potenza, e lo circondarono nel loro palazzo di tutto il tumulto di un'accampamento; perciò adunarono in Milano sotto i loro ordini sei mila cavalli e dieci mila pedoni. I medesimi soldati passavano ogni giorno più volte sotto le finestre di Carlo IV per fargli credere che l'armata loro fosse ancora più numerosa. Si portò da Monza a Milano la corona di ferro, e la ceremonia della coronazione si eseguì il 6 gennajo del 1355 nella basilica di sant'Ambrogio.
Carlo non mostrò verun sospetto dell'apparecchio militare da cui vedevasi circondato, pure uscì con piacere da questa specie di prigionia quand'ebbe ricevuta la corona di ferro, e partì alla volta della Toscana. In tutte le città, che attraversava, trovò duplicate le sentinelle: i Visconti lo seguirono con un grosso corpo di truppe, mentre il monarca, circondato da cavalieri disarmati, e montato sopra un ronzino pareva, piuttosto che un imperatore, un mercante, cui preme di giugnere presto alla fiera[286]. Giunse perciò a Pisa molti giorni prima che vi fosse aspettato.
I Fiorentini, sbalorditi nell'udire che avevano così vicino l'imperatore, pensarono di porsi in istato di difesa, come se venisse ad attaccarli, e chiusero nelle terre murate i loro bestiami e tutte le vittovaglie sparse nel territorio. Per altro mandarono in pari tempo sei ambasciatori a Carlo, offrendo di trattare con lui ad onorevoli condizioni[287].
Sebbene l'imperatore fosse entrato in Toscana senza truppe, la sua presenza rese ben tosto assai difficile la situazione delle repubbliche italiane. Abbiamo osservato fino dai tempi della spedizione di Enrico VII quanto la pubblica opinione, e quella in particolare dei letterati favoreggiasse le pretensioni imperiali. Petrarca e Cola da Rienzo avevano sostenuto che la sovranità del mondo apparteneva sempre a Roma ed all'impero romano. Il primo colle sue lettere, l'altro co' suoi discorsi avevano frequentemente eccitato Carlo IV ad usare de' suoi diritti, come se fossero costantemente riconosciuti da tutti i popoli. Vero è che i più zelanti repubblicani di Firenze, e tra questi il nostro storico Matteo Villani, figuravansi di trovare nelle leggi e ne' monumenti dell'antichità una guarenzia della libertà di Roma e della Toscana. Credevano, appoggiandosi alle prime dichiarazioni di Augusto e di Tiberio, che gli antichi imperatori, padroni del mondo romano, si fossero sempre conservati subordinati al senato ed al popolo di Roma; pretendevano che i Cesari ubbidissero ai cittadini, in tempo che tutte le nazioni erano tributarie de' Cesari; e perchè le città toscane erano state ammesse di buon ora alla cittadinanza romana, credevano di essere tuttavia quello stesso popolo, cui gl'imperatori erano tenuti di ubbidire[288]. La costituzione di Roma, quale esisteva ai tempi di Augusto o di Trajano, loro sembrava la sola origine del diritto pubblico, e se l'avessero essi meglio conosciuta, avrebbero trovate illegittime tutte le loro pretese alla libertà.
La presenza dell'imperatore in Italia ed in seno ad una repubblica, riuniva intorno a lui tutti i partigiani della sua autorità. Essi sceglievano lui medesimo per giudice degli odj tra le fazioni, e delle guerre tra gli stati vicini. Essi sostenevano che il governo municipale non era stato istituito, che per rimpiazzare in sua assenza il legittimo sovrano; che all'arrivo del monarca ogni altra giurisdizione rimaneva di sua natura sospesa; che a lui si doveva immediatamente attribuire la signoria, e che essenzialmente nulle erano tutte le condizioni che gli si volevano imporre.
Carlo IV dimorò in Pisa dal 18 gennajo al 22 marzo per trattare coi comuni della Toscana, mentre l'imperatrice ed i principali baroni della Germania andavano giugnendo alla sua corte. I grandi feudatarj erano obbligati dalle costituzioni dell'impero ad accompagnare l'imperatore in Italia, e ad assistere alla sua coronazione. La curiosità e l'amore della magnificenza erano cagione che soddisfacessero più regolarmente a questo dovere che agli altri, e Carlo IV si trovò alla testa di quattro mila uomini di cavalleria, scelti tra il fiore della nobiltà tedesca[289].
Era questa la seconda volta che Carlo visitava l'Italia, essendovi venuto la prima come principe reale di Boemia con suo padre il re Giovanni; egli aveva per qualche tempo governato Lucca, e si era interamente guadagnato l'affetto dei Lucchesi; egli era, non v'ha dubbio, superiore a Spinola che lo aveva preceduto, ed a Mastino della Scala che gli era succeduto nell'amministrazione della stessa città. Altronde Carlo aveva una certa affabilità, uno spirito di giustizia, ed altre virtù che lo resero caro ai suoi immediati sudditi, mentre tutto il restante dell'Italia e della Germania non poteva perdonargli i difetti del suo carattere. I Lucchesi riguardavano quale monumento dell'affetto di Carlo IV la fortezza di Monte Carlo, ch'egli aveva fabbricata nel 1332 presso al Ceruglio, per chiudere il loro territorio dalla banda di Val di Nievole alle incursioni de' Fiorentini[290]. Il governo oppressivo de' Pisani faceva sempre più sospirare ai Lucchesi le speranze che Carlo aveva fatto concepir loro nel tempo del suo breve soggiorno. Quando venne innalzato alla dignità imperiale, non dubitarono che questo monarca non s'interessasse a loro favore, perchè essi sempre si ricordavano di lui. Di già avevano scritto in Germania per implorare la sua protezione; lo invitarono a Lucca e gli diedero infinite prove del loro amore[291]. Il re de' Romani non fu insensibile a queste dimostrazioni di attaccamento, e conferì con alcuni cittadini di Lucca intorno ai mezzi di tornare in libertà la loro patria.
Ma Carlo era di già legato coi Pisani, che non voleva inimicarsi per favorire i Lucchesi. Aveva trovati a Mantova gli ambasciatori dei primi, e con loro aveva conchiuso un trattato, reso inviolabile dai giuramenti; aveva promesso di rispettare la libertà di Pisa, di conservarle il dominio di Lucca e di mantenere alla testa del governo la fazione de' Bergolini e la famiglia Gambacorti. D'altra parte la repubblica si era obbligata a pagargli sessanta mila fiorini per le spese della sua coronazione[292].
La città di Pisa trovavasi divisa in due fazioni, dette dei Bergolini e dei Raspanti. La prima in addietro era stata quella della nobiltà, ed aveva per capo Francesco Gambacorta, ricco mercante, che, col titolo di conservatore del buono stato, era alla testa di tutta la repubblica. Alcuni potenti borghesi, come pure le tre famiglie dei Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, erano a lui attaccati, ma la peste aveva private queste famiglie de' loro capi, e de' più bravi soldati. L'opposta fazione dei Raspanti, chiamati ancora Maltraversi, conservavasi affezionata alla famiglia dei conti della Gherardesca. Paffetta, conte di Montescudaio, uscito da questa medesima famiglia, era stato esiliato dalla patria; onde essendo entrato al servizio dell'imperatore aveva qualche credito presso di lui quando tornò col suo seguito a Pisa. All'indomani del suo ritorno, il 19 gennajo, mentre Carlo andava alla cattedrale per ricevere in pieno parlamento l'omaggio della città, gli amici di Paffetta e tutti i Raspanti, da lui eccitati, presero le armi gridando per le strade viva l'imperatore e la libertà! muoja il conservatore! Carlo per altro mise fine al disordine, e fece mettere giù le armi ai sediziosi[293]: ma Gambacorta, spaventato dal corso pericolo, volle colla devozione all'imperatore bilanciare il credito del Paffetta[294], e fece dare all'imperatore la signoria della città colla guardia delle porte e l'amministrazione del tesoro.
I cittadini delle opposte fazioni non tardarono a pentirsi d'avere sagrificata la libertà alle loro gelose passioni. I magistrati chiamarono presso di loro i capi de' Bergolini e dei Raspanti per vedere di riconciliarli. Furono nominati dodici deputati dalle due parti per istabilire le condizioni della pace. Dopo di che il Gambacorta ed il Paffetta chiesero all'imperatore di restituire ai loro concittadini que' privilegi, cui essi avevano rinunciato in un momento di accecamento. Carlo, che in allora non aveva che la debole scorta de' cavalieri che avevano con lui attraversata la Lombardia, non essendogli ancora giunti i rinforzi ch'ebbe più tardi dalla Germania, acconsentì di buona grazia al desiderio de' Pisani che potevano imporgli la legge, e ripristinò nella piena loro autorità le magistrature repubblicane[295].
Avevano i Pisani in ogni tempo seguita la parte ghibellina, onde riguardavano l'imperatore come capo del loro partito, e protettore della città: i Guelfi per lo contrario credevano di avere un nemico nell'erede degli antichi loro oppressori. Firenze, Siena e Perugia, unite meno da un'antica alleanza che dai comuni interessi, avevano convenuto di contenersi in un modo uniforme in faccia all'imperatore; i loro ambasciatori dovevano presentarsi insieme al monarca, ed agire di comune accordo; ma ben tosto i Perugini approfittarono della circostanza di essere dipendenti dalla chiesa e non dall'impero, onde rifiutare di associarsi ai Fiorentini ed ai Sienesi.
A Siena il governo più non era tra le mani del popolo, ma in quelle d'una oligarchia artigianesca formata già da settant'anni sotto nome di ordine dei nove. Alcuni ambiziosi avevano artificiosamente approfittato del modo con cui si eleggevano le magistrature per concentrare in onta alla costituzione ed alle leggi l'autorità nelle mani di novanta cittadini. Mantenevansi nell'interno coi mezzi della corruzione e coll'intrigo contro l'odio della nobiltà e del popolo[296]: al di fuori speravano d'ingrandirsi colla perfidia. Ordinarono ai loro ambasciatori di unirsi ai Fiorentini, e di promettere che agirebbero di concerto, onde far loro tenere una più ardita condotta, volendo poi l'imperatore rendersi ben affetto col separarsi spontaneamente da loro.
Gli ambasciatori delle due repubbliche furono introdotti il 30 gennajo all'udienza di Carlo. Parlarono prima i Fiorentini, e chiesero all'imperatore di accordare al loro comune la sua protezione e la sua amicizia, e di mantenere il loro popolo nella consueta libertà. Rispettoso fu il loro discorso ma senza espressioni di sommissione, senza promessa d'ubbidienza. I Fiorentini schivarono perfino di dare a Carlo verun titolo, ch'egli potesse interpretare quale riconoscimento della sua autorità[297]. Parlarono dopo i Sienesi, e, contro la promessa fatta ai loro alleati, non solo chiamarono Carlo loro imperatore e loro signore, ma spontaneamente gli offrirono la signoria del loro comune, senza riserva d'alcuna preventiva condizione[298]. Il monarca, cui costumavasi di parlare stando in ginocchio, soleva tenere in mano alcune bacchette di salice da cui andava levando la corteccia con un temperino, mentre i suoi occhi erravano distratti su tutta l'udienza. Non pertanto rispose alle due ambasciate ponderatamente e con nobiltà e moderazione, mostrando maggiore benevolenza ai Sienesi, ma promettendo ai Fiorentini di fare per loro tutto quanto sarebbe compatibile coll'onore della sua corona[299].
Quando gli ambasciatori sanesi, di ritorno nella loro patria, resero conto della loro missione, il popolo, adunato in parlamento, confermò, non senza per altro qualche disamina, l'offerta fatta dalla signoria all'imperatore[300]. Le città di Volterra e di Samminiato, che, in ragione della loro debolezza erano più gelose dei Fiorentini che premurose della propria libertà, si diedero ancor esse a Carlo IV[301]. La città di Arezzo non fu ritenuta che dal timore de' Ghibellini che vedeva favoriti alla corte, e quella di Pistoja, che trovavasi sotto la salvaguardia di Firenze, fece alcuni sforzi per imitare questi dannosi esempi. In pari tempo tutti i capi delle famiglie ghibelline delle montagne, il vecchio Pietro Saccone dei Tarlati, Ubertini vescovo d'Arezzo, Neri della Faggiuola, figliuolo d'Uguccione, ed i Pazzi di Val d'Arno, si portarono a Pisa con armi e cavalli, ingrossando la corte dell'imperatore. Essi facevansi vanto presso di lui de' loro servigi e di quelli degli antenati loro costantemente addetti al partito ghibellino, ed eccitavano Carlo a vendicare le offese che suo padre e suo avo avevano ricevuto dai Fiorentini[302].
Ma se Carlo eccitava l'animosità de' Ghibellini, se approvava i loro progetti di vendetta, se dava pubblicità alle loro offerte, non aveva altra mira che di spaventare la repubblica, onde averne più danaro. Chiedeva ch'ella si riscuotesse dalle condanne contro di lei pronunciate da Enrico VII suo avo, ed a questo prezzo acconsentiva di confermare in parte la sua libertà ed i suoi privilegi. Per essere rimessi nella grazia imperiale i Fiorentini offrivano cinquanta mila fiorini; assai più ne chiedeva l'imperatore, e muoveva dubbj intorno ad alcuni articoli della convenzione; in ultimo le condizioni del trattato furono fissate nel seguente modo. L'imperatore annullò tutte le condanne pronunciate contro Firenze, contro i cittadini, e contro i conti di Battifolle, Doadola, Mangone e Vernia[303]; li ristabilì nel pieno godimento dei loro onori e diritti; autorizzò il popolo a governarsi cogli statuti e proprie leggi municipali, e ramificò colla sua imperiale autorità tutte le leggi, tanto le già esistenti, che quelle che si farebbero in avvenire dall'autorità legislativa della repubblica, purchè non fossero espressamente contrarie al diritto pubblico. Diede irrevocabilmente il titolo di vicarj imperiali a tutti i confalonieri di giustizia e priori delle arti, cui il popolo affiderebbe il governo della repubblica. Finalmente per non turbare la tranquillità di Firenze promise di non entrare in città, nè in verun castello del suo territorio. In contraccambio di tali concessioni, ed a saldo di quanto poteva essere dai Fiorentini dovuto all'impero, accettò la somma di cento mila fiorini, pagabile in tre rate prima del seguente agosto[304].
Questo trattato, che rimetteva Firenze nel rango delle città imperiali, le conservava tutti i diritti e privilegi della più libera repubblica. Questa città veniva di nuovo riconosciuta come membro dell'impero romano, e questo titolo, lungi dal toglierle veruna delle sue prerogative, le dava anzi diritto ad una potente protezione. Non pertanto fu meno difficile il far accettare queste condizioni al popolo, che il farle aggradire all'imperatore. Il consiglio del popolo venne adunato il 12 marzo per udirne la lettura; ma a Pietro di Grifo, notajo delle riformagioni, quando la cominciò, la voce rimase soffocata dai singhiozzi, ed il suo dolore si comunicò all'istante agli uditori, onde tutto il consiglio non risuonando che di pianti e di gemiti, si dovette protrarre la lettura all'indomani. In questo intervallo i capi delle magistrature sforzavansi di far sentire ai cittadini, che il trattato coll'imperatore, che si offriva alla loro approvazione, non derogava all'onore della repubblica, nè era contrario alla sua indipendenza. Il 13 fu di nuovo adunato il consiglio, e, posta alle voci la proposizione d'approvare il trattato, fu sette volte rigettata con maggiorità di suffragi. Frattanto tutti i cittadini che avevano maggior credito od autorità, parlarono per richiamare il consiglio del popolo a più prudente condotta, e la proposizione della signoria venne finalmente sanzionata, ed all'indomani fu confermata dal consiglio comune con minore ripugnanza[305]. Il 21 marzo il trattato fu dall'imperatore pubblicato nel parlamento di Pisa, ed il 13 dalla signoria in quello di Firenze; ma pochi cittadini intervennero a quest'ultimo, e non si vedevano dare veruna dimostrazione di gioja, sebbene le campane della città suonassero in segno di allegrezza[306].
Appena terminate le negoziazioni colla repubblica fiorentina, l'imperatore partì alla volta di Siena, ove fece il suo ingresso il 23 di marzo. Questa città, dopo il 1283, era governata da una fazione chiamata il monte dei nove. In origine questa fazione era formata dai capi del partito popolare, che per escludere la nobiltà dal governo e assicurare la superiorità ai Guelfi, avevano stabilita una signoria press'a poco simile a quella dei priori di Firenze. L'avevano composta di nove magistrati, tre per cadauno de' quartieri della città. I nove signori dovevano essere plebei, e scelti dal consiglio del popolo in una generale elezione. I loro nomi venivano poi distribuiti nelle borse come costumavasi a Firenze, ed estratti a sorte per avere due mesi il governo.
Ma non avendo le prime elezioni designato che un ristretto numero di cittadini, ebbero questi l'arte di mantenere ed ancora di ristringere la loro oligarchia in tutte le successive elezioni. Entravano essi di pieno diritto nel consiglio del popolo incaricato di fare un nuovo scrutinio. In tale consiglio bastavano poche voci contrarie per impedire ad un nuovo cittadino d'entrare nella signoria, e per lo contrario richiedevasi una grande maggiorità per fare sortire dalle borse i nomi de' già ammessi cittadini. I capi dell'oligarchia, dopo avere fra di loro convenuto intorno alla prossima elezione, allontanavano dal consiglio del popolo, coll'unanime loro opposizione, tutti coloro che non volevano che fossero eletti. In tal modo avevano essi ridotta la sovrana autorità tra le mani di meno di novanta cittadini[307]. Ma questa medesima usurpazione gli avea renduti singolarmente odiosi ed alla nobiltà che le leggi escludevano dall'amministrazione, ed al popolo che vedevasi con frode spogliato dei diritti attribuitigli dalla costituzione.
L'odio de' loro concittadini ridusse i nove signori di Siena ad una condotta costantemente debole e perfida. Mentre le tre repubbliche guelfe della Toscana avrebbero dovuto difendere di comune accordo la loro libertà, i nove tradirono sempre la causa dei loro alleati, prima nelle loro relazioni coi Visconti, poi colla grande compagnia, e per ultimo coll'imperatore. Avevano assoggettata a quest'ultimo la loro patria per guadagnarsi la sua protezione; ma Carlo voleva amici che gli somministrassero forza e non cercassero di rendersi forti col di lui mezzo. Nell'istante in cui entrò in Siena, vi fu accolto colle grida di viva l'imperatore, muoja l'ordine dei nove! Vide alla testa de' malcontenti i capi della nobiltà, i Tolomei, i Malavolti, i Piccolomini, i Saricini e perfino parte dei Salimbeni, sebbene altri fossero addetti al governo. Vide inoltre nell'opposizione moltissimi ricchi borghesi e tutto il popolo; questo partito era patentemente il più forte; e fu perciò quello ch'egli trovò più prudente consiglio di abbracciare[308].
L'imperatore adunque non cercò nè il primo giorno nè all'indomani di sedare i tumultuosi movimenti del popolo. Nel terzo giorno la sedizione vestì un carattere più serio; vennero barricate le strade, ed i nove, assediati nel palazzo della signoria, supplicarono essi medesimi Carlo di recarsi colà a liberarli. Infatti l'imperatore si presentò alle porte del palazzo, che gli furono aperte, e vi entrò a cavallo. Ordinò ai nove di deporre a' suoi piedi il bastone del comando; chiese loro di liberarlo dalla promessa che aveva fatta di conservare la loro autorità; e, fattesi rendere le carte loro rilasciate, le fece abbruciare sotto i suoi occhi. Intanto il popolo forzava le prigioni, l'archivio dei nove, e la chiesa ove si conservavano le borse della signoria. Queste borse, colle bandiere dell'ordine, furono strascinate nel fango in presenza dell'imperatore. Tutta la città risuonava di una sola voce, muojano i nove! le loro case erano attaccate, insultate le loro persone, e molti di loro, cui non riuscì di nascondersi o di fuggire, furono fatti in pezzi. Vero è che l'imperatore salvò la vita dei signori ch'erano con lui nel palazzo, e ricusò di abbandonarli al popolo irritato[309]. Non pertanto pareva partecipare egli medesimo del furore popolare, e lo sanzionava coi decreti che andava emanando contro tutto l'ordine dei nove: ma in pari tempo si affrettò di far confermare da tutte le classi della nazione l'autorità sulla repubblica che la distrutta signoria gli aveva conferita. Nominò in appresso trenta commissarj, dodici nobili e diciotto plebei, per riformare il governo sotto la presidenza di suo fratello naturale, l'arcivescovo di Praga, patriarca d'Aquilea. Lasciò pure a Siena i Tarlati, il signore di Cortona ed i conti di Santafiora, per conservarvi la propria autorità, e tre giorni dopo, il 28 marzo, si rimise in viaggio alla volta di Roma[310].
La coronazione dell'imperatore eletto era stata fissata per la domenica di Pasqua, 5 aprile; Carlo aveva promesso al papa di non trattenersi che un solo giorno in Roma, e di partire appena terminata la cerimonia. Giunse non pertanto il giovedì 2 aprile innanzi alle porte della città; ma per non mancare alle sue promesse, entrò in Roma soltanto in figura di pellegrino, confuso tra i baroni e senz'essere conosciuto dai Romani. Ne' primi due giorni visitò le chiese per farvi le sue divozioni; la domenica uscì di città avanti lo spuntare del sole con tutto il suo seguito, onde rientrarvi pomposamente alcune ore dopo[311].
Carlo venne consacrato nella basilica del Vaticano dal cardinale vescovo d'Ostia. Giovanni di Vico, prefetto di Roma, e per lo innanzi signore di Viterbo e di Orvieto, gli pose in capo la corona d'oro, e Carlo colle proprie mani coronò l'imperatrice. In seguito partì con tutto il corteggio, e, coperto degli imperiali ornamenti, attraversò la città di Roma in quasi tutta la sua maggiore estensione per recarsi al palazzo di san Giovanni di Laterano, ove gli era preparato un banchetto. Per altro la sera medesima uscì di città ed andò a dormire a san Lorenzo delle Vigne. Cinque mila cavalieri tedeschi e dieci mila italiani avevano formato il suo seguito fino all'esecuzione della ceremonia, dopo la quale cominciarono a disperdersi, ripigliando quasi tutti la strada del loro paese[312].
Il 19 aprile l'imperatore tornò a Siena. Scontrò il cardinale Egidio Albornoz, che, quale legato della santa sede, aveva in primavera ricominciata la guerra contro i tiranni della Marca e della Romagna[313]. Carlo gli aveva sovvenuti cinquecento corazzieri per attaccare i Malatesti, signori di Rimini, e questa fu la sola azione militare che facesse in Italia[314]. Straniero a tutti i partiti, indifferente per tutto ciò che non risguardava il suo regno di Boemia, insensibile all'onore della corona imperiale, Carlo non chiedeva agli Italiani che danaro, e perciò non poteva avere alcun motivo di fare la guerra a chicchefosse.
L'imperatore trovò Siena, come l'aveva lasciata, nel caldo della rivoluzione cagionata dalla caduta dell'ordine dei nove. Il popolo aveva escluso a perpetuità quest'ordine dall'amministrazione; aveva fatto cancellare il nome dei nove da tutti i luoghi pubblici, da tutte le leggi, da tutti i libri dello stato. Aveva voluto che la nuova signoria fosse composta di dodici governatori o amministratori, invece di nove; gli aveva scelti tra i popolani, ed aveva fatti distribuire nelle borse i loro nomi, per rinnovare a sorte la signoria ogni due mesi. Così la rivoluzione aveva cambiate le persone che governavano, ne aveva mutato il numero ed i titoli, conservando i medesimi principj; e sulle ruine d'un'oligarchia plebea, ne aveva innalzata un'altra ancora più plebea[315].
I Sanesi avevano per altro data alla nobiltà qualche parte nel nuovo governo, aggiugnendo alla signoria un collegio di sei nobili, e chiamando cento cinquanta gentiluomini nel consiglio generale dei quattrocento.
Carlo propose loro, per completare la costituzione, di dare un capo allo stato, che fosse l'arbitro delle parti ed il moderatore delle contese; ed ottenne, che riconoscessero in tale qualità il vescovo d'Aquilea[316], suo fratello naturale, che, valendosi egli della propria autorità, investì della signoria di Siena[317].
Ma l'imperatore partì il 5 maggio da questa città per restituirsi a Pisa[318], e suo fratello non ritenne che un ristretto numero di cavalli. Il popolo vedeva con estrema gelosia occupato dal patriarca il palazzo pubblico, e rilegata la signoria in una casa privata; onde prese le armi il 18 di maggio, ripristinò agli angoli d'ogni strada le catene di ferro destinate a fermare la cavalleria, e costrinse il patriarca a rimettere i dodici signori nel palazzo[319]. Quattro giorni dopo scoppiò in Siena una nuova congiura provocata da una contesa ch'ebbe luogo tra alcuni borghesi ed artigiani. Carlo, già abbandonato da' suoi baroni tedeschi, trovavasi in Pisa circondato dai malcontenti, non meno che suo fratello in Siena; onde, altro non potendo, scrisse ai Sienesi, quand'ebbe notizia della presente sollevazione, per pregarli a mandar via sano e salvo il patriarca d'Aquilea, loro promettendo di non più imbarrazzarsi nel governo della repubblica[320]. I dodici signori fecero allora venire il patriarca nel consiglio generale; gli fecero deporre il bastone del comando e rinunciare con atto autentico alla signoria che gli era stata accordata, obbligandolo a rendere agli ufficj della repubblica tutti i castelli in cui aveva posta guarnigione, e lo mandarono a suo fratello il 27 maggio[321].
Frattanto l'imperatore soggiornava in Pisa, e dava un magnifico spettacolo agli abitanti di questa città. Adunò il popolo a parlamento sulla piazza del duomo, e prendendo per mano Zanobio di Strata, fiorentino, capo di una scuola di rettorica e di belle lettere, gli diede il titolo di poeta e lo coronò d'alloro. Zanobio trovavasi in allora tra le persone addette a Nicola Acciajuoli, grande siniscalco del regno di Napoli, aveva molta fama, ed era amico del Petrarca. Per altro questi, che dieci anni prima era stato coronato in Campidoglio, a stento seppe nascondere la propria invidia pel trionfo d'un nuovo poeta. Zanobio corse a cavallo le strade di Pisa, circondato dai primi signori dell'impero, in mezzo agli applausi del popolo. Ma breve fu la sua gloria, non essendosi conservata fino ai nostri dì veruna sua opera[322].
Mentre Carlo trovavasi a Pisa, tutti i Lucchesi, che lo avevano conosciuto nel 1332, accorrevano a lui supplicandolo ad avere pietà della loro patria[323]. I mercanti emigrati di Lucca si mostravano disposti a fare i più grandi sagrificj per rientrare nella loro patria, e le loro offerte pecuniarie avevano ben maggiore influenza su l'avido spirito del monarca, che le preghiere e la compassione. Si dice che i soli Lucchesi dimoranti in Francia offrirono all'imperatore cento venti mila fiorini per prezzo della libertà della loro patria[324]. Questi trattati non erano affatto ignoti ai Pisani, quando il fuoco distrusse gran parte del palazzo del comune abitato dall'imperatore. Durante tale incendio tutto il popolo si tenne costantemente armato; ed i Raspanti ed i Bergolini, adunati assieme nelle medesime piazze d'armi, promisero vicendevolmente di scordare le antiche loro discordie, e di concorrere amichevolmente alla conservazione dell'autorità della repubblica sopra la città di Lucca da lei conquistata[325].
Intanto avendo l'imperatore fatta occupare la fortezza della Gosta, che Castruccio aveva fabbricata in Lucca, si videro rientrare in Pisa i soldati che la custodivano per parte della repubblica. L'indignazione si rese universale; ma i Raspanti furono i primi a prendere le armi contro i Tedeschi: ne uccisero cento cinquanta, ed assediarono la cattedrale, ove dimorava Carlo IV dopo l'incendio del pubblico palazzo. Paffetta, conte di Monte Scudajo, vedeva con dispiacere i suoi partigiani unirsi ai Bergolini, ed eseguire gli ordini de' Gambacorti, e ne ritirò il più che gli fu possibile dalle file de' sediziosi; indi venne alla loro testa innanzi all'imperatore, assicurandolo che i soli Bergolini avevano eccitata la rivoluzione, ed offrendogli in pari tempo il suo ajuto. I Gambacorti, trovandosi in allora parte presso l'imperatore e parte presso il cardinale d'Ostia, furono tutti imprigionati; e gl'insorgenti, abbandonati dai Raspanti, ed attaccati dal conte Paffetta e dai Tedeschi si dispersero[326]. Le case dei Gambacorti vennero attaccate dalle truppe imperiali, prese d'assalto e bruciate; quelle de' Sismondi e de' Gualandi, dopo una ostinata resistenza, soggiacquero alla stessa sorte, ed i Lanfranchi abbandonarono vilmente la zuffa[327]. Cinque Gambacorti, Pietro Gualandi, Guelfo Lanfranchi, Rosso Sismondi, ed altri otto distinti cittadini, vennero arrestati e chiusi nelle prigioni dell'imperatore[328].
Questa sedizione era scoppiata il 21 maggio, e lo stesso giorno ne fu data notizia ai Lucchesi, i quali credettero giunto l'istante della loro liberazione. Carlo IV aveva di già fatto travedere d'essere loro favorevole, e la sedizione di Pisa doveva tenerlo più fermo in queste disposizioni, mentre i Pisani trovavansi indeboliti dalle domestiche loro discordie e dalla diffidenza in cui si trovavano rispetto all'imperatore.
I Lucchesi si procurarono delle armi; fecero, durante la notte, avanzare fin presso le mura tutti i contadini delle campagne, che non erano meno di loro zelanti della libertà; ed all'indomani Lucca avrebbe spezzate le sue catene, se i suoi antichi cittadini fossero stati chiamati soli a parte del segreto de' congiurati. Ma quando Mastino della Scala aveva ceduto i castelli di Val di Nievole ai Fiorentini, alcuni zelanti Ghibellini di questa provincia avevano abbandonata la loro patria per ripararsi in Lucca. Costoro temevano assai più il trionfo de' Guelfi che la servitù, temevano che i Lucchesi, tornati in libertà, non s'associassero ai Fiorentini, e palesarono ai Pisani le segrete pratiche dei Lucchesi. I Garzoni ed i Bardini, famiglie trapiantate da Pescia a Lucca, posero de' segni sulla torre ghibellina, che osservati e ripetuti dalle guardie accantonate sul monte san Giuliano, fecero conoscere a Pisa il pericolo in cui si trovava la guarnigione di Lucca[329]; imperciocchè i contadini armati, che occupavano tutte le uscite della città, non lasciavano passare i corrieri[330].
Appena si ebbe in Pisa avviso dell'insurrezione de' Lucchesi, le due fazioni che si erano battute la vigilia, obbliarono i loro odj per salvare i diritti della loro patria[331]. Il quartiere di Chinzica parti lo stesso giorno alla volta di Lucca; i nobili formavano la cavalleria, mentre il popolo doveva combattere a piedi. Ma questa prima truppa non si trovò abbastanza forte per rompere un corpo di sei mila paesani, che loro chiudeva il passaggio per giugnere alla città. All'indomani le milizie del quartiere del ponte vennero ad ingrossare l'armata, ed i paesani furono rotti e dispersi. La guarnigione pisana di Lucca, che, avvisata dai Garzoni de' progetti degl'insorgenti, erasi tenuta in possesso delle porte e delle mura, aprì la città alle milizie che giugnevano di Pisa. I Tedeschi volevano mostrare di starsi neutrali nella fortezza di Gosta, ma furono attaccati i primi ed obbligati di cederla ai Pisani. In seguito venne appiccato il fuoco alle case che circondavano san Michele, ed i Lucchesi, rinserrati tra il fuoco ed i loro nemici, furono forzati a deporre le armi[332]. Tutti coloro che la nascita, le ricchezze e il credito loro innalzavano al di sopra della gente volgare trovaronsi costretti ad andarsene esuli; gli altri furono disarmati con estremo rigore; ed il governo de' Pisani, che da lungo tempo era duro e severo, dopo questa sedizione si rese ancora più tirannico[333].
Carlo IV, avvilito per non essere riuscito ne' suoi progetti sopra Siena, sopra Pisa e sopra Lucca, cercava di vendicarsi di tante perdite e dell'abbassamento del presente suo stato. Nominò un giudice per esaminare i Gambacorti da lui tenuti in prigione, e gli ordinò di trovarli in qualunque modo colpevoli. Era non pertanto così aperto che questi illustri cittadini non avevano avuta alcuna parte all'insurrezione del 21 di maggio, che non furono pure esaminati intorno a quest'articolo; ma furono invece accusati d'avere ordita una congiura contro l'imperatore per farlo morire. Quando videro che si voleva ad ogni modo la loro morte, per non essere più lungamente tormentati, risolsero di confessare tutto quanto verrebbe loro chiesto, ed il 26 di maggio sette prigionieri furono condannati come traditori dell'imperatore[334], e perdettero la testa sulla piazza degli anziani, di cui erano chiuse tutte le strade dalle guardie tedesche[335].
Dopo avere corrisposto con tanta ingratitudine alla fedeltà d'una famiglia, che la prima in tutta la Toscana erasi consacrata al suo servigio[336], Carlo si affrettò di allontanarsi da un paese, ove era detestato. Partì da Pisa il 27 di maggio, ed andò a chiudersi nella fortezza di Pietrasanta, che si era fatta dare dai Pisani[337]. Colà si trattenne fino all'undici di giugno per aspettare il saldo del pagamento promessogli dai Fiorentini, come pure una contribuzione che aveva estorta ai Pisani come compenso dei danni a lui cagionati dall'ultima sollevazione[338]. Quand'ebbe ricevute queste due somme partì alla volta della Germania. I Visconti, dei quali attraversò il territorio, lungi dal dargli segni di rispetto, lo trattarono con estrema diffidenza, facendogli negare l'ingresso in tutte le loro città. Accordarongli soltanto, e come per grazia, la licenza di trattenersi una notte in Cremona, ma separato dal suo seguito, che obbligarono a deporre le armi[339].
Tutta l'autorità che Carlo aveva ricuperata sopra l'Italia sfumò all'istante che ne fu uscito. Durante la sua spedizione erasi mostrato estremamente avido di danaro, e ne aveva raccolto assai; ma si era mostrato indifferente sul conto della pubblica opinione, ed aveva svergognata quella dignità imperiale che gli Italiani erano ancora disposti a rispettare[340].
Dopo la partenza dell'imperatore l'Italia rimase in preda a molte guerre, che contemporaneamente ruinavano i suoi diversi stati. La condizione del regno di Sicilia aveva sempre peggiorato dopo la morte di Federico d'Arragona, suo fondatore. Due fazioni vi si erano formate, una detta dei Catalani, l'altra degl'Italiani o Chiaramontesi; le quali furono sempre in guerra, mentre s'andarono succedendo l'uno all'altro diversi re quasi sempre minori. Lungi dal poter ridurre i loro baroni all'ubbidienza, trovavansi anzi i sovrani medesimi dipendenti dalle stesse fazioni e travolti spesso dall'una all'altra. La Sicilia, un tempo granajo dell'Italia, era ruinata dalle sue guerre civili, che, avendo levati gli abitanti all'agricoltura, erano state cagione di varie carestie. Il partito italiano, di questi tempi opposto alla corte, erasi alleato col re Luigi e la regina Giovanna di Napoli, ed aveva loro aperte le porte di Palermo, Trapani, Girgenti, Mazzara e di cento dodici città o terre murate, onde il re di Napoli, malgrado l'esaurimento del suo tesoro, la debolezza delle sue armate, l'anarchia de' suoi stati e la viltà del suo proprio carattere, si trovava più vicino a fare l'intero acquisto della Sicilia di quello che mai lo fossero stato i due Carli, o Roberto d'Angiò, in tempo della più alta loro potenza[341]. Il re di Sicilia, della casa d'Arragona, che ancor esso aveva nome Luigi, erasi rifugiato a Catania. Nella campagna del 1355, riacquistò parte delle città perdute[342], ma morì nello stesso anno, come morì pure il suo secondo fratello don Pietro, e la corona passò sul capo del più giovane, don Federico, sotto il quale il regno fu travagliato dai disordini d'una minorità più burrascosa delle precedenti[343].
In questo abbassamento della casa di Arragona, quella d'Angiò avrebbe potuto agevolmente vendicare l'antico affronto dei vesperi siciliani, se Luigi di Napoli non fosse caduto egli medesimo nel più vergognoso stato d'abbassamento e di debolezza per la corona, ed il più funesto per i suoi sudditi. Gli sregolamenti della regina Giovanna, sua sposa, lo coprivano di disprezzo in faccia a tutti gli uomini. I principi del sangue, che il re d'Ungheria aveva posti in libertà nel 1353[344], avevano manifestato, appena rientrati nel regno, le più allarmanti pretensioni. Il duca di Durazzo ed il conte Palatino di Minerbino tenevano i loro feudi in aperta ribellione contro la corona[345]. Un semplice borghese degli Abruzzi, messer Lallo, avea occupata la città dell'Aquila ed erasi guadagnato l'affetto de' suoi cittadini, che egli governava come assoluto principe. Luigi, che voleva ricuperare questa città, non seppe impadronirsene che incaricando suo fratello maggiore, che prendeva il titolo d'imperatore di Costantinopoli, di assassinare messer Lallo: e l'imperatore fu abbastanza vile per eseguire quest'infame commissione[346].
Per colmo de' mali, la grande compagnia, che in allora saccheggiava lo stato di Ravenna, preparavasi ad entrare nel regno di Napoli. Una privata ingiuria, che si era preso l'impegno di vendicare, l'aveva lungo tempo trattenuta negli stati di Bernardino da Polenta. Questo signore del 1350, in occasione che i pellegrini accorrevano in folla a Roma, fissò gli occhi sopra una contessa tedesca di singolare avvenenza, che si era fermata in un albergo: il tiranno più non le consentì di proseguire il suo divoto viaggio; egli voleva essere corrisposto in amore; onde dopo avere inutilmente adoperati per piacerle tutti gli accorgimenti della galanteria e della magnificenza, dopo avere lungo tempo adulato, supplicato, servito, tentò una colpevole violenza. La bella pellegrina salvò la sua castità con una morte volontaria. Il di lei scudiere portò in Germania la notizia di questo tragico avvenimento. Due cavalieri, fratelli della contessa, poveri, e fidati soltanto alla loro spada, scesero subito in Italia per vendicare la sorella, e trovarono la grande compagnia presso Mantova. Dopo la morte del cavaliere di Moriale era questa sotto gli ordini del conte Lando, loro compatriotto; essi comunicarono il proprio risentimento ai soldati, agli ufficiali, al medesimo generale, e fecero porre per conto loro lo stato di Ravenna a fuoco e a sangue[347].
Indi la gran compagnia penetrò negli Abruzzi in sul cominciare del 1355. Verun preparativo erasi fatto per resisterle, sebbene tutti gli alleati del re lo avessero avvisato, che dirigevasi verso i suoi stati; ma il carnovale era di già cominciato, e Luigi non voleva permettere che si turbassero le feste e le danze della corte con triste nuove, o con molesti pensieri di affari[348].
Dopo aver saccheggiati gli Abruzzi, la grande compagnia si avanzò verso la Puglia. La città di Guasto capitolò, e gli aprì le porte, ma gli assassini, condotti dal conte Lando, non rispettavano troppo i loro giuramenti; la città fu abbandonata al sacco, ed uccisi barbaramente gli abitanti[349]. Tutte le altre città della Puglia, atterrite da quest'esempio, ripararono le loro mura, e risolsero di difendersi fino all'ultima estremità; ma non pertanto trovaronsi ridotte alle sole forze dei proprj abitanti, perchè il re non mandò loro verun soccorso. Invece di levar truppe nel suo regno, si limitò a mandare in Toscana il suo gran siniscalco, Nicola Acciajuoli, per domandare l'assistenza de' suoi alleati, mentre egli continuava a darsi buon tempo colle feste, senza mostrar di curarsi degli avanzamenti della grande compagnia, nè della ruina de' suoi sudditi[350].
Poi ch'ebbe guastata la Puglia, il conte Lando condusse la gran compagnia nella Terra di Lavoro[351], e spinse le incursioni fino alle porte di Napoli. Affinchè niuna cosa si sottraesse alle diligenze della compagnia, divise l'armata in due corpi, che battevano tutto il paese. In verun luogo incontrava resistenza, onde i suoi cavalieri spesse volte uscivano senz'armi; si stabilivano nelle ville de' signori napoletani, cacciavano, e si davano feste a vicenda, obbligando i loro domestici a prendere a viva forza nelle case de' contadini tutto quanto poteva loro abbisognare[352].
Finalmente il gran siniscalco arrivò dalla Toscana con mille barbute, che così allora chiamavasi un cavaliere seguito da un sergente, montato anch'esso a cavallo. Ma il re, che aveva caldamente affrettata la venuta di queste truppe, non aveva danaro per pagarle, onde disertarono in pochi giorni, andando ad ingrossare l'armata del conte Lando[353]. Soltanto in settembre ottenne il re Luigi di mettere insieme con istraordinarie contribuzioni trentacinque mila fiorini, che questa volta rifiutò ai suoi piaceri ed all'avidità de' cortigiani. Diede questa somma alla compagnia, a condizione che s'allontanasse da Napoli per ritornare nella Puglia. Le promise di sborsare altri settanta mila fiorini in due termini, purchè uscisse da tutto il regno; ma finchè si effettuasse tale pagamento, acconsentì che la compagnia continuasse a vivere a discrezione nelle province lontane dalla capitale[354].
Mentre il regno di Napoli trovavasi così vergognosamente abbandonato dalla viltà del suo re ai guasti di un'armata d'assassini, il cardinale Egidio Albornoz continuava prosperamente negli stati della chiesa la guerra ch'egli aveva intrapresa per iscacciare o sottomettere i tiranni, che vi si erano stabiliti. La sua più grand'arte era quella di guadagnare al suo partito alcuni di que' piccoli signori, loro accordando vantaggiose condizioni; e suppliva in tal maniera agli scarsi sussidj che gli mandava la corte d'Avignone; approfittando inoltre della rivalità delle famiglie e delle vendette dei principi per rivolgere le armi degli uni contro gli altri.
La Marca d'Ancona e la Romagna, ove il cardinale faceva la guerra, erano pressocchè le sole province d'Italia, i di cui abitanti si fossero conservati bellicosi. I piccoli principi di queste contrade non fidavano, come quelli di Lombardia, la difesa degli stati loro a mercenarj tedeschi; comandavano essi medesimi le proprie armate composte de' gentiluomini dei loro piccoli principati, e de' contadini delle loro montagne. Essi li tenevano sempre esercitati, e quando non guerreggiavano per proprio loro conto, si ponevano per un determinato tempo ai servigi di qualche principe o repubblica più potente, piuttosto che rimanersene oziosi.
Gentile da Mogliano tiranno di Fermo fu il primo signore che il cardinale Albornoz guadagnò al suo partito. Il legato in sul cominciare dell'inverno aveva nominato Gentile gonfaloniere dell'armata della chiesa, e gli aveva conceduta la signoria di Fermo e del suo territorio, come feudo della santa sede[355]. Albornoz accordava di buon grado vantaggiose condizioni ai più piccoli signori, confidando, che, ove coll'ajuto loro gli riuscisse di sottomettere i più grandi, agevole poi gli sarebbe il ridurre i primi nella sua dipendenza. Egli aveva bisogno di tutte le sue forze per attaccare Malatesta, signore di Rimini, i di cui dominj stendevansi da Recanati fino ai confini del territorio di Forlì: era questo signore non meno formidabile pei suoi talenti politici e militari, che per le alleanze contratte colle repubbliche guelfe. Albornoz penetrò negli stati della Marca di Fermo, ed in gennajo sorprese la città di Recanati, che dichiarò libera sotto la protezione della chiesa[356].
Allora il Malatesta fece sentire ai signori dello stato ecclesiastico, che l'istante era giunto di mettere in disparte le antiche nimistà, e di unirsi per la comune difesa. La politica del legato era facilmente conosciuta. La chiesa non aveva maggiori motivi di muover guerra ai Malatesti, piuttosto che agli altri signori; ed ognuno doveva prevedere che sarebbe tosto o tardi attaccato. Il valoroso Francesco degli Ordelaffi, capitano o signore di Forlì, rinunciò il primo ad un'antica inimicizia che lo divideva dal Malatesti, e contrasse con questi una sincera alleanza; cui prese subito parte anche Raineri dei Manfredi, signore di Faenza. Gentile da Mogliano entrò ancor esso nella stessa lega, sorprese e cacciò da Fermo le truppe della chiesa introdottevi da lui medesimo, rimandò al legato il gonfalone che aveva da lui ricevuto; e diede pubblicità all'alleanza di fresco contratta coi signori della Romagna[357].
Era troppo tardi: il legato dopo avere sottomessa più che la metà dello stato della chiesa, trovavasi abbastanza forte per isfidare questa lega; altronde altri principi, meno preveggenti, cercavano ancora la di lui amicizia, e Ridolfo da Varano, signore di Camerino, chiese per sè il comando dell'armata che Gentile da Mogliano aveva rinunciato. Da principio Ridolfo fu sorpreso da Francesco degli Ordelaffi, e la sua armata rotta e dispersa[358]; ma egli si rifece da questa perdita, battendo poco dopo e facendo prigioniero Galeotto Malatesti, fratello del signore di Rimini, ed uno de' migliori capitani d'Italia[359]. Questa disfatta scoraggiò il Malatesta, che abbandonò il primo la lega da lui formata, e offrì condizioni di pace al legato; e perchè era d'origine Guelfo, le città guelfe lo raccomandarono alle generosità del cardinale Albornoz. Questi gli fece giurare fedeltà alla chiesa, gli accordò, mediante una leggiera contribuzione, per dodici anni il governo di Rimini, di Pesaro, di Fano e di Fossombrone; ma dichiarò libere sotto la protezione della chiesa Sinigaglia ed Ancona[360].
La sommissione de' Malatesti fu cagione dell'immediata ruina di Gentile da Mogliano. La città di Fermo gli si ribellò, ed aprì le porte al cardinale[361]. Raineri de' Manfredi, signore di Faenza, quasi chiuso nello stato di Bologna, non era per anco esposto agli attacchi del legato; ma Francesco degli Ordelaffi, capitano di Forlì, rimasto solo in guerra colla chiesa, doveva prevedere l'avvicinamento della burrasca, e vi si preparò coraggiosamente[362]. Egli si chiuse nella sua capitale, ed affidò alla consorte non meno di lui coraggiosa, la difesa di Cesena; non fece verun conto della crociata e della scomunica pubblicata contro di lui, e senza alleati osò solo disprezzare in queste due piccole città tutta la potenza della santa sede[363].
Prima che il cardinale legato potesse condurre la sua armata sotto Forlì, la rivoluzione scoppiata in una delle più potenti città dipendenti dall'alto dominio della santa sede, presentò nuova esca alla di lui ambizione, e gli offrì la speranza di nuova conquista. La santa sede aveva sopra Bologna gli stessi diritti che Albornoz aveva fatti valere rispetto alle altre città della Romagna; ma Bologna ubbidiva ai Visconti, e questi potenti signori non potevano essere spogliati come i piccoli principi d'Agobbio, di Viterbo e di Fermo. Il cardinale non dava indizio di nutrire progetti ostili contro Bologna; pure la vide con piacere tolta ai signori di Milano da un tiranno più debole, che sperava di potere all'opportunità spogliare di così ragguardevole città.
I Bolognesi soffrivano con impazienza la signoria de' Visconti, e fino dal giugno del 1354 avevano tentato di scuoterne il giogo: ma Giovanni Visconti d'Oleggio, cui l'arcivescovo di Milano aveva confidato il governo della loro città, scoprì la congiura ordita contro di lui, mandò al supplicio due de' principali cittadini, disarmò gli altri, e ridusse i Bolognesi in così servile condizione[364], che, nella guerra degli alleati contro i Visconti, Oleggio condusse nel territorio di Modena le milizie borghesi non d'altro armate che di bastone. Giunto al campo distribuì loro le armi per combattere, e dopo avere rotte le truppe del marchese d'Este, loro ritolse quelle armi, che lo avevano renduto vittorioso, per ricondurli in città col solo bastone in mano.
Dopo la morte dell'arcivescovo di Milano, Bologna era toccata nella divisione dell'eredità a Matteo, il maggiore de' nipoti, e questi avea raffermato Oleggio nel suo governo. Ma i nuovi signori diffidavano di questo comandante, la cui politica e dissimulazione non erano minori del valore militare; oltrecchè il favore dell'arcivescovo, di cui era creduto figliuolo, lo aveva accostumato ai più ambiziosi progetti. Una gelosia di amore s'aggiunse a quella del potere in seno a Galeazzo, uno de' fratelli Visconti[365]. Essi determinarono di privare Oleggio della sua carica, ma questi avendo avuto sentore de' loro divisamenti prese le convenienti misure per conservarla loro malgrado.
I signori di Milano attaccarono da principio gli ufficiali subalterni che Oleggio aveva promossi; richiamarono da Bologna varj corpi di truppe, e citarono molti capitani innanzi ad un tribunale straordinario per rendere conto dei ladronecci ond'erano accusati. Pareva di già pendere sul capo loro una sentenza infamante[366], quando in aprile del 1355 un luogotenente di Matteo Visconti venne a chiedere a Giovanni d'Oleggio, in nome del signore di Milano, la consegna di Bologna con tutte le sue fortezze, ordinandogli in pari tempo di allontanarsene all'istante.
Oleggio si mostrò disposto ad ubbidire, e consegnò al suo successore le chiavi de' principali castelli, consigliandolo ad assicurarsene avanti che i Bolognesi avessero sentore dell'ordine ond'era incaricato. Quando il nuovo governatore fu appena uscito di città per eseguire questo consiglio, Oleggio ritenne in palazzo il 17 aprile i rettori e gli ufficiali di giustizia; vi fece pure chiamare tutti i cittadini, e loro annunziò, che i Visconti avevano determinato di togliergli il governo, dopo averlo forzato, diceva egli, a trattare i Bolognesi con una durezza tutt'affatto contraria al suo cuore. Essi soli, soggiugneva, erano colpevoli della sua precedente tirannica condotta; essi gli avevano chiesto altro sangue, ed oggi lo privavano della sua carica per punirlo della soverchia sua dolcezza. «Ho risoluto, disse finalmente, di sottrarvi al capriccio di questi tiranni; io abjuro i crudeli loro ordini, rinuncio alla loro ubbidenza. Consolate le vostre famiglie colla certezza che non avrete che me solo per vostro signore; o piuttosto dite loro che noi governeremo tutti assieme, imperciocchè, incominciando da questo giorno, i cittadini di Bologna divideranno col loro principe gli onori e le fatiche dell'amministrazione.»
I Bolognesi ascoltarono questo discorso con un cupo scoraggiamento; conoscevano l'Oleggio da molto tempo ed a lui solo attribuivano tutte le violenze che gli avevano veduto commettere. Quand'anche avessero potuto desiderare di ricuperare l'indipendenza sotto un così fatto signore, sospettavano che le sue parole velassero qualche coperto inganno, e temettero d'essere da lui sagrificati al signore di Milano. Scusaronsi lungo tempo dal prendere nessuna parte, sotto pretesto ch'erano senz'armi. Finalmente i Maltraversi ed i Ghibellini, più affezionati ad Oleggio, persuasero i loro concittadini, indifferenti di servire all'uno o all'altro de' tiranni cui erano venduti[367]. L'assemblea proclamò Giovanni Visconti d'Oleggio perpetuo signore di Bologna, ed in quella stessa notte furono restituite le armi ai cittadini.
In appresso Oleggio chiamò gli uni dopo gli altri i capitani delle truppe; comunicò loro le procedure di già incominciate contro di loro, facendo loro sentire, che la ribellione era omai il solo mezzo che loro rimanesse per salvare le loro teste[368]. Molti di costoro, attaccati da molto tempo alla sorte dell'Oleggio, abjurarono il partito de' Visconti, e gli giurarono fedeltà; ed un solo terzo, a dir molto, de' soldati ricusò di riconoscerlo per signore di Bologna. Oleggio li fece uscire di città, dopo averli disarmati, nominò altri rettori ossia ufficiali di giustizia invece di quelli che aveva ritenuti in palazzo; mandò con estrema sollecitudine contr'ordini a tutti i suoi castellani, perchè non aprissero le fortezze al nuovo governatore, e tutte furono salvate, tranne quella di Lucco. Gli alleati di Venezia, in guerra coi fratelli Visconti, si affrettarono di riconoscerlo e di promettergli soccorso; il marchese d'Este gli mandò immediatamente due cento cinquanta cavalli; in fine la mattina del 20 aprile Oleggio si trovò assoluto signore di Bologna, e la rivoluzione fu compiuta[369].
I Visconti, informati della ribellione del loro luogotenente, spedirono un'armata contro di lui[370]; ma non ottennero d'impadronirsi di Bologna per sorpresa, nè si trovarono abbastanza forti per intraprenderne il regolare assedio; onde le loro truppe si ritirarono, dopo aver guastato il territorio bolognese[371]; ed altri avvenimenti, più a loro vicini, rimossero questi principi dal fare per qualche tempo nuove intraprese.
Il maggiore de' fratelli Visconti, Matteo, non si prendeva quasi veruna cura del governo; perduto nelle dissolutezze non era circondato che da donne rapite ai loro mariti, o di fanciulle tolte ai loro genitori. Un giorno fece chiamare un assai rispettato cittadino di Milano, che aveva bella e giovane sposa, e gli ordinò sotto pena di morte di condurre egli stesso la moglie nel serraglio, ch'egli si era formato. Questo cittadino andò, piangendo, a raccontare a Barnabò Visconti l'insultante ordine che aveva ricevuto, implorando la sua protezione. Barnabò recossi subito da Galeazzo, altro suo fratello; essi conobbero di comune accordo che il popolo, spinto agli estremi dalla tirannia di Matteo, potrebbe punirli tutti egualmente de' suoi disordini. L'amor fraterno aveva poca influenza sul cuore di questi principi, e facilmente dava luogo all'interesse ed all'ambizione: lo stesso giorno la mensa di Matteo fu servita di quaglie avvelenate, ed all'indomani il maggiore de' tre signori di Milano fu trovato morto nel suo letto[372].
CAPITOLO XLIV.
La Dalmazia vien tolta dagli Ungari ai Veneziani. — Guerra de' principi Lombardi contro i Visconti. — Fra Giacomo dei Bussolari a Pavia.
1356 = 1359. Abbiamo di già veduto il re d'Ungheria condurre successivamente due armate nel regno di Napoli per vendicare la morte di suo fratello. Abbiamo veduto questo monarca con un carattere cavalleresco, ma incostante, sommovere tutto il Levante d'Europa per vendicare la propria ingiuria, coprire la Puglia e la Calabria colle sue armate, stendere le sue devastazioni da un mare all'altro, confondere nella sua collera gl'innocenti coi colpevoli, e lordare la sua gloria colla morte di Carlo di Durazzo, colla prigionia de' principi del sangue, che riposavano sulla data fede; in appresso lo abbiamo veduto dimenticare tutt'ad un tratto il suo risentimento, riconoscere l'innocenza di Giovanna, senza alcun motivo di cambiare opinione, liberare i principi del sangue, perdonare a Luigi di Taranto, e rilasciare generosamente al regno di Napoli i rimborsi cui davagli pieno diritto la sentenza pontificia.
Il lungo regno di Luigi forma il più brillante periodo della storia d'Ungheria. Prima di lui questo regno era ancora barbaro, dopo di lui venne esaurito dalle guerre civili, o indebolito dai vizj della sua costituzione; ma finchè visse Luigi l'Ungheria figurò tra le prime potenze dell'Europa, dominò sui popoli schiavoni che la circondavano, si fece rispettare dalla Germania, e tenne l'Italia in timore e quasi nella sua dipendenza. Le costituzioni feudali hanno tutte un periodo di grandissima potenza, quello in cui i grandi hanno acquistata tutta l'energia che nasce in loro dalla propria situazione, senza che abbiano ancora sentita la loro indipendenza. Il re dirige in allora immense forze, che però non tarderanno molto a rivoltarsi contro di lui. Egli fa la guerra senza tesori e senza soldati, ed è ubbidito dai suoi vassalli soltanto a motivo de' feudi loro dati. Ma l'ubbidienza de' feudatarj non ha lunga durata; perciocchè non tardano ad accorgersi che i feudi non possono essere loro ritolti da colui che li diede, ed all'istante in cui pensano di scuotere il giogo, cessa il potere del monarca. Luigi d'Ungheria andò debitore di tutto lo splendore del suo regno assai meno al proprio carattere che alle circostanze in cui si trovò la nazione nel momento in cui usciva dalla barbarie. «Era (come racconta uno di que' contemporanei, che conosceva e giudicava accortamente degli uomini), era un principe di gran cuore, ardito, valoroso; grandi erano le sue intraprese nella prosperità; le avanzava caldamente, coraggiosamente ed ancora con alquanto di asprezza; sapeva incutere timore ai suoi baroni, nè loro permetteva di fare negligentemente i servigi che gli dovevano. Ma spesse volte intraprendeva grandi cose senza essere bastantemente preparato a condurle a termine, abbandonandosi alla propria fortuna, fidandosi nel coraggio de' soldati come questi confidavano nel suo, tanto più che le sue gentili e cortesi maniere gli assicuravano l'affetto de' sudditi. Più d'una volta diede prove di sollecitudine e di leggerezza nelle cose di somma importanza; e seppe meglio uscire dalle avversità, abbandonando le sue intraprese, che opponendo loro il suo coraggio e le sue virtù[373].»
Le relazioni del re Luigi coll'Italia avevano avuto principio nel 1345 in occasione delle sue controversie coi Veneziani. La morte di suo fratello Andrea, e la guerra portata nel regno di Napoli, avevano sospesa la vendetta che voleva fare contro la potente repubblica di Venezia; ma i Genovesi avendo di nuovo ravvivata la sua animosità, egli aveva nel 1353 dichiarata la guerra alla signoria di Venezia, e minacciata ogni anno l'Italia d'una formidabile invasione.
La città di Zara in Dalmazia soffriva con impazienza il giogo de' Veneziani; più volte erasi ribellata contro di loro, ed altrettante aveva chiamato in suo aiuto il re d'Ungheria. I Zaratini o abitanti di Zara, e tutti i sudditi de' Veneziani in Dalmazia ed in Croazia, trovavansi legati agli Schiavoni ed agli altri sudditi di Luigi per relazioni di lingua, di costumi, di nome e di onore nazionale. Situati lungo le coste d'un paese, dal quale sembravano violentemente staccati, ed al quale erano attaccati per sentimento, nutrivano altrettanto odio pei Veneziani quanto era l'amore che portavano agli Ungari. Mentre i primi, per istabilire il loro dominio sul mare Adriatico, avevano quasi affatto distrutto il commercio e la navigazione dei Dalmatini, i secondi avrebbero potuto arricchire i loro porti destinati dalla natura a servire di mercato alle fertili campagne dell'Ungheria. Di già sette volte, stando agli storici ungari[374], la città di Zara erasi ribellata per darsi alla corona d'Ungheria; e, sebbene i predecessori di Luigi non fossero mai stati pacifici possessori di questa città o delle altre piazze marittime della Dalmazia e della Croazia, Luigi risguardava tutte queste fortezze come dipendenze della sua corona. Perciò le richiese ai Veneziani, ed ostinatamente rifiutò di transigere intorno a questi pretesi diritti, rigettando come oltraggiosa la proposta della signoria, che voleva calmarlo coll'offerta di un tributo, o di una somma di danaro. Dopo avere rimandati bruscamente Marco Cornaro e Marin Grimani, ambasciatori della repubblica, si apparecchiò ad attaccare simultaneamente da una banda Zara, Spalatro, Traù e Nona in Dalmazia, dall'altra Treviso, la sola città che Venezia possedesse di que' tempi nel continente d'Italia[375].
Luigi d'Ungheria aveva ordinato ai suoi baroni di adunarsi a Sagabria, sui confini della Schiavonia, e vi si recò egli medesimo nel mese di maggio. Ben tosto ebbe intorno tanta cavalleria, che l'intera Lombardia cominciò a considerare atterrita l'invasione ond'era minacciata[376].
Gl'Italiani, che nelle loro più importanti guerre radunavano rare volte più di tre mila corazzieri, potevano a stento figurarsi l'esistenza di un'armata di quaranta o cinquanta mila cavalli, quale era quella che il re d'Ungheria mise più volte in campagna. Erasi fino allora creduta cosa impossibile l'unione di tanta gente, e, vedendola unita, ogni stato disperava di poterle far testa. Ma le truppe assoldate dei Tedeschi, degl'Italiani, o de' Francesi, non rassomigliavansi in verun modo alle armate feudali degli Ungari, le quali non avevano fino allora fatta la guerra che a popoli tartari, e l'armatura e la disciplina loro non li rendevano capaci d'altre guerre.
A quest'epoca tutte le terre degli Ungari erano ancora feudi eventuali della corona; feudi che, a guisa delle starostie di Polonia, non venivano trasmessi da padre in figlio. Il re li dava e li ripigliava a suo piacere, o tutt'al più li lasciava al feudatario finchè viveva. In iscambio il barone obbligavasi a mettere in campagna un certo numero di cavalieri qualunque volta lo richiedesse il monarca. Tutti gli Ungari facevano la guerra a cavallo, ma questi cavalieri non avevano altre armi che un arco, delle frecce ed una lunga spada. Non portavano essi corazza, nè cotte di maglia, e le loro armi difensive riducevansi al solo abito, composto di un giubbone di cordovano coperto da un secondo, poi da un terzo e da un quarto cuciti assieme di mano in mano che il primo, di cui non spogliavansi mai, si andava consumando. La stoffa così raddoppiata e rinforzata dalla polvere medesima, ond'era impregnata, formava una specie di corazza, che difficilmente poteva sforarsi con una freccia o colla spada.
Gli Ungari, avvezzi a guerreggiare nei deserti contro i Bulgari, i Russi, i Tartari, i Serviani, accostumavano i loro cavalli a nudrirsi al pascolo senza scostarsi gli uni dagli altri. Le loro selle erano fatte in maniera da potere indifferentemente servire la notte al cavaliere per letto o per copertura. Ognuno di loro portava sul cavallo un sacco pieno di certa polvere fatta di carne secca, e quali possono presso a poco essere i nostri pani di brodo. Bastava far bollire una piccolissima quantità di tale polvere con molt'acqua per formarne grandi masse di gelatina sostanziosissima. In mezzo ai deserti gli Ungari si accontentavano di questo cibo; ma poichè guerreggiarono in paesi inciviliti, ove trovavano pane, vino e carni fresche, essi si annojarono delle insipide loro gelatine, e più non vollero farne uso. I campi non somministravano ai loro cavalli foraggi ugualmente buoni di quelli delle diserte praterie della Bulgaria e della Valacchia: le vittovaglie venivano chiuse entro le terre murate, che lungo tempo resistevano ai loro attacchi, e quanto più grande era il numero degli Ungari che passavano in Italia, più presto erano vinti dalla mancanza di munizioni e di foraggi[377].
Il re d'Ungheria si fece precedere da mille cavalli capitanati da Corrado di Wolfart, tedesco, che gl'Italiani chiamarono Lupo, e che aveva di già militato nel regno di Napoli. Lo accompagnavano i baroni di Bosnia ed il conte d'Aquilizia. Quest'avanguardia di una più considerabile armata giunse il 28 giugno del 1356 sotto Treviso[378]. Fantino Morosini era inallora podestà di questa città per la repubblica, e gli erano stati mandati tre provveditori per ajutarlo nelle presenti difficili circostanze[379]; i quali magistrati distrussero i sobborghi di Treviso, la grossa terra di Mestre, e tutti i villaggi, che credettero incapaci di difendersi. Intanto il re si avanzava con quaranta mila cavalli, e Francesco di Carrara, signore di Padova, sebbene alleato della repubblica, si affrettò d'accettare la neutralità offertagli dagli Ungari a condizione di somministrare le vittovaglie all'armata[380].
La vanguardia ungara si era lasciato a dietro il castello di Conegliano, destinato a chiudere l'ingresso del territorio trivigiano. Il re lo cinse d'assedio e lo prese l'undici luglio[381]. In appresso occupò subito Asolo e Ceneda, indi condusse tutta l'armata intorno a Treviso, Fortissime erano le mura di questa città, e circondate da larghe fosse piene di acqua. I minatori non potevano rendersi utili agli assedianti, perchè tutta quella campagna è così abbondante di sorgenti sotterranee, che non potevasi scavare quattro piedi sotto terra senza che le acque filtrassero nel cavo. L'armata ungara non aveva altri mezzi per impadronirsi di Treviso che quelli della fame e di un lungo blocco. Ma assai prima degli assediati cominciò il re a sentire la mancanza delle vittovaglie, perchè gli Ungari, insofferenti di disciplina, non rispettarono il territorio di Padova, e spogliarono i mercanti che portavano vittovaglie al campo. Più non si trovò persona che osasse continuare così pericoloso commercio, e gli assedianti si videro tutt'ad un tratto ridotti ad un'estrema carestia[382].
In pari tempo i Veneziani facevano al re le più vantaggiose proposizioni per ottenere la pace. Offrivano di rendere a Zara l'antica sua libertà, purchè la sua indipendenza venisse riconosciuta ancora dalla corona d'Ungheria. Proponevano di cedere al re alcune città della Dalmazia, di ritenerne altre, ma quali feudi della sua corona, cui pagherebbero un tributo. Luigi non volle ascoltare veruna delle proposte condizioni, e dichiarò che non accorderebbe la pace ai Veneziani finchè non gli rendessero tutta la costa dell'Illiria[383]. Ma era appena stato comunicato al senato cotale rifiuto, che un nuovo corriere gli portò la notizia della ritirata del re, e della liberazione di Treviso. Luigi, disgustato di così lunga intrapresa a motivo di qualche sedizione scoppiata nel suo campo, e della difficoltà di procurarsi le vittovaglie, il 23 agosto risolse di ritirarsi, e lo stesso giorno, ripassata la Piave, tornava in Ungheria con un'armata di cinquanta mila combattenti. Due mila cavalli si lasciava a dietro per guardare Conegliano[384].
Vero è che non si tardò a vedere che il re, abbandonando il territorio veneziano, non aveva perciò rinunciato alla guerra. Le tre armate gli erano sembrate troppo numerose per trovare viveri e foraggi; d'altronde il tempo del servizio feudale era troppo limitato, perchè potesse fare un'importante conquista avanti che i suoi baroni ritornassero ai loro focolari. Aveva perciò mutato il suo sistema; destinava molti grandi signori dell'Ungheria per succedersi gli uni agli altri, onde continuare la guerra ciascuno alla testa di cinque mila cavalli. E perchè il servizio feudale non era che di tre mesi, ogni capo di armata doveva passare due soli mesi sul territorio veneziano, ed impiegare il terzo per l'andata e pel ritorno. Il primo de' generali di Luigi giunse il 15 ottobre a Conegliano, ed attraversò il territorio di Treviso, senza che i Veneziani, che appena avevano tanta gente che bastasse alla custodia delle fortezze, osassero tentare di difendere la campagna col venire a battaglia[385].
Prima della ritirata del re d'Ungheria il doge Giovanni Gradenigo era morto l'otto agosto del 1356, e il 13 agosto i quaranta elettori gli avevano sostituito Giovanni Dolfino, che allora trovavasi provveditore a Treviso. La signoria fece chiedere al re d'Ungheria, se permetterebbe al nuovo doge di uscire dalla città assediata per venire a prendere le redini del governo, ed il re, che non veniva mai meno a coloro che fidavansi alla sua generosità, vi acconsentì all'istante[386].
La nomina d'un nuovo doge dava opportunità alla signoria di far nuove proposizioni di pace, ed i suoi ambasciatori vennero incaricati di offrire al re tutte le piazze della Dalmazia, ad eccezione della sola Zara; ma queste offerte furono di nuovo rifiutate. Allorchè gli abitanti delle città della Dalmazia ebbero notizia di queste offerte, quelli di Traù e di Spalatro vedendo che la repubblica era disposta a cederli al re, risolsero di prevenire il trattato di pace, e di cattivarsi il favore del re con una pronta sommissione, invece d'aspettare che fosse di loro disposto; attaccarono quindi all'improvviso le guarnigioni che la repubblica teneva nelle loro città, le disarmarono, ed aprirono le porte agli Ungari[387].
Nel 1357 il re Luigi continuò con accanimento la guerra contro i Veneziani; mantenne costantemente nel territorio di Treviso un'armata destinata a bloccare la città, ed a spogliare le campagne. In pari tempo il congresso de' baroni di Bosnia aveva condotta una seconda armata nella Dalmazia veneta, ed aveva assediata Zara, città fortissima, che i predecessori di Luigi avevano più volte assediata con infelice riuscita. Il congresso de' baroni di Bosnia si tenne un intero anno sotto le sue mura, e già disperava di riuscire nell'intento a forza aperta, quando la seduzione compì i suoi desiderj[388]. Due ufficiali tedeschi della sua armata ebbero segrete intelligenze col priore del monastero di san Crisogono contiguo alle mura[389]. Il priore, ch'era tedesco, provvide di scale i suoi compatriotti, ed introdusse gli assedianti nella sua chiesa; le guardie della vicina porta furono sorprese ed uccise, e l'armata ungara entrò in città per questa porta. La guarnigione veneziana, dopo una vigorosa resistenza, fu costretta a ripararsi nel castello[390].
I Veneziani, abbattuti da tante calamità e spaventati dalla perseveranza del loro nemico, risolvettero in ultimo di chiedere la pace al re d'Ungheria riportandosi per le condizioni alla di lui generosità. Scelsero ambasciatori tra i gentiluomini i più ragguardevoli, e fecero col mezzo loro pregare il re di stender egli medesimo un trattato, che promisero di sottoscrivere all'istante. Luigi, commosso da tanta confidenza, rispose, ch'egli non aveva fatta la guerra che per ricuperare le città spettanti alla sua corona. Queste sole egli domandava, e la rinuncia del doge e della signoria ad ogni titolo e diritto sopra le medesime. Soggiunse che non aveva bisogno di danaro, e che non voleva tributi, ch'era apparecchiato a rendere i castelli conquistati nel territorio di Treviso, perchè non pensava ad ingrandirsi con ingiusti acquisti, ma soltanto chiedeva, che, trovandosi egli obbligato a sostenere qualche guerra marittima, la signoria gli somministrasse ventiquattro galere, di cui pagherebbe egli le spese[391].
Queste condizioni vennero subito accettate dalla repubblica di Venezia, e la pace fra i due stati si pubblicò in febbrajo del 1358[392]. Il doge che, dopo la conquista di Costantinopoli, portava il titolo di duca di Venezia, di Dalmazia, di Croazia, e di signore di un quarto e mezzo dell'impero romano, fu costretto, dopo questo trattato, e fino al 1387, in cui la signoria ricuperò la Dalmazia, di accontentarsi del più modesto titolo di duca di Venezia[393].
A quest'epoca molte guerre devastavano simultaneamente l'Italia, e perchè cominciate per diversi motivi e continuate indipendentemente le une dalle altre, ci è forza di separarne interamente il racconto. Mentre gli Ungari guastavano lo stato di Treviso, il limitrofo principato di Padova trovavasi in una guerra coi fratelli Visconti, che non aveva verun rapporto con quelle de' Veneziani e del re Luigi. I quattro principati di Padova, Verona, Mantova e Ferrara, eransi collegati, come fu detto altrove, per difendersi contro i signori di Milano, e, nel tempo che Visconti d'Oleggio avea fatta ribellare Bologna, egli pure era entrato in quell'alleanza, che talvolta abbiamo accennata sotto nome di lega di Venezia. Vero è che la guerra tra questi piccoli signori ed i Visconti trattavasi lentamente; alcune scorrerie di cavalli, che non miravano che a guastare il territorio, ruinavano i contadini, ed esponevano a tutti i disastri della guerra le terre aperte, senza recare verun decisivo vantaggio all'una o all'altra parte. Ma l'ambizione e l'orgoglio de' signori di Milano sollevarono ben tosto contro di loro nuovi nemici, che accrebbero le difficoltà della presente loro situazione.
Giovanni Paleologo, marchese di Monferrato, era da molto tempo l'amico e l'alleato de' Visconti; ma l'impunità di un'offesa fatta ad alcuni suoi ufficiali nello stesso palazzo de' Visconti, venne risguardata da lui come una prova della poca stima che questi orgogliosi signori avevano di lui, e bastò questo perchè egli si staccasse dalla loro alleanza[394]. Il marchese di Monferrato aveva accompagnato a Roma Carlo IV, ed il riconoscente monarca lo aveva nominato vicario imperiale in Piemonte e legittimati i suoi titoli alla signoria di Torino, Susa, Alessandria, Ivrea, Trino e di più di cento castella nominate nell'imperiale diploma[395]. Il marchese, di ritorno da Roma, rese più intima l'alleanza che da molto tempo univa la sua famiglia con quella de' Beccaria, che da quarantatre anni governava Pavia. Questa andava debitrice alla protezione dei Visconti della lunga sua signoria su quella città: e, strettamente parlando, i Beccaria erano piuttosto i luogotenenti che gli alleati dei signori di Milano. In una lunga pace avevano essi ragunate grandi ricchezze, e procurata una costante prosperità alla città da loro dipendente[396]. Posti tra i Visconti ed il marchese di Monferrato, eransi, per la vicendevole gelosia de' vicini signori, conservati più potenti di loro.
Assicuratosi dell'alleanza de' Beccaria, il marchese di Monferrato s'apparecchiò apertamente a fare la guerra ai Visconti; nè appena furono palesi le sue intenzioni, che tutte le città del Piemonte soggette a Galeazzo Visconti, Chieri, Chierasco, Asti, Alba, Valenza e Tortona, presero le armi per iscuotere l'odioso giogo di questi tiranni. Galeazzo opprimeva i sudditi colle imposte, pagava male i suoi impiegati, vendeva la giustizia e tormentava colla sua avarizia le province a lui toccate in sorte nella divisione[397]; mentre all'opposto il marchese di Monferrato era quello de' sovrani, sotto cui i Piemontesi desideravano di vivere. Onde nell'inverno del 1355 al 1356, tutte le città del Piemonte passarono sotto il suo dominio[398].
I Visconti per vendicarsi, invece di attaccare il Monferrato, volsero le loro armi contro i Beccaria, creduti più deboli del marchese. Fecero marciare nel mese di maggio una numerosa armata[399], la quale, cingendo Pavia d'assedio, alzò da tre lati tre ridotti di legno, allora chiamati bastie; pose in tutti una grossa guernigione, e si ritirò, lasciando la città così strettamente bloccata, che difficilmente poteva essere vittovagliata[400].
Eravi fondamento di credere che Pavia non avrebbe potuto difendersi lungamente. La famiglia dei Beccaria, che signoreggiava la città, aveva molti capi tra loro discordi, ognuno de' quali aveva fortezze ed alleanze particolari; anzi uno di loro, chiamato Milano, aveva abbandonato la parte ghibellina attaccata da lungo tempo alla propria famiglia, per unirsi ai conti di Langusco, capi de' Guelfi pavesi[401]. Una causa di ruina, ancora più immediata che la discordia della famiglia Beccaria, erano i depravati costumi de' principi e del popolo, l'immoralità, e la lascivia che i capi del governo ostentavano perfino nelle pubbliche feste[402].
Ma per rispingere gli attacchi de' Visconti un affatto inaspettato vigore venne comunicato ai Pavesi dalle prediche di un monaco repubblicano. Fra Giacomo de' Bussolari aveva in fresca gioventù abbandonato il mondo per consacrarsi ad una vita penitente sotto la regola di sant'Agostino. Dopo aver vissuto alcun tempo come eremita ne' deserti, era stato dai superiori del suo ordine rimandato a Pavia, sua patria. Fu colà incaricato di predicare il mercoledì delle ceneri nella sala del vescovado, ed aveva in tale circostanza mostrato tanta pietà, fervore ed eloquenza, che il popolo lo aveva supplicato di predicare ogni giorno tutta la quaresima, ed il vescovo glielo aveva ordinato. L'impudenza del vizio e la corruzione, di cui davano il più scandaloso esempio i giovani Beccaria, offendevano la sua anima pura ed elevata. Egli aveva predicato contro l'aperta incontinenza delle donne e contro l'usura, e la sua santa eloquenza era stata cagione di una visibile riforma ne' costumi de' cittadini[403]. I giovani Beccaria erano omai i soli che non pensassero a correggersi; mentre i capi della loro casa, Castellino e Fiorello, che temevano gli effetti dei vizj e delle dissensioni dei loro nipoti, eccitavano il monaco a predicare coraggiosamente ed a non risparmiare chicchefosse. Castellino Beccaria, ch'era ammalato, facevasi sempre portare in lettica alle sue prediche[404].
Infatti frate Giacomo più non si limitò ad attaccare i vizj privati; inveì dal pulpito contro quelli della nazione e contro quelli de' principi, contro la viltà de' cittadini, contro il loro egoismo, contro la loro tolleranza della schiavitù, contro la corruzione, l'ingiustizia e la crudeltà de' tiranni. Con questi discorsi risvegliò l'amore di patria ne' cuori in cui da lungo tempo era già spento, facendolo a bella prima agire contro i tiranni di Milano che in allora cercavano di rapire ai Pavesi l'indipendenza nazionale, come i tiranni domestici avevano loro tolta la libertà. Eccitò il popolo a riprendere, per sua difesa, le armi da lungo tempo deposte in mano di soldati mercenarj; chiese ed ottenne i soccorsi dal marchese di Monferrato; indi fece preparare delle scale, ed il 27 di maggio in sul fare del giorno sortì egli stesso alla testa d'un corpo di fedeli che aveva adunati nella chiesa e di cui avea fatta un'armata, e la condusse da valoroso capitano contro il primo ridotto de' Milanesi posto sul Ticino. I Tedeschi al soldo de' Visconti, che custodivano questo ridotto, sconcertati dall'impeto straordinario de' Pavesi, opposero loro breve resistenza; la bastia fu presa ed abbruciata, ed uccisi, fatti prigionieri o dispersi coloro che l'occupavano. Frate Giacomo avanti che s'intiepidisse l'entusiasmo de' suoi concittadini li condusse immediatamente ad attaccare il secondo ridotto dall'altra banda del Ticino, ove i Tedeschi, spaventati dalla disfatta dei loro compagni, non fecero maggior resistenza: dietro al secondo fu preso anche il terzo ed abbruciato come gli altri due. Dopo i ridotti vennero in potere de' vincitori diverse barche nemiche adunate sul Po dalla banda di Piacenza; e per tal modo fu in un solo giorno levato l'assedio di Pavia, e dispersi i soldati che vi teneva il nemico, quando tutta l'Italia credeva che quella città dovesse arrendersi[405].
I Visconti occupati a tale epoca in altre intraprese, non mandarono immediatamente nuove truppe contro Pavia. Mentre facevano la guerra nel Monferrato, e strignevano con un'altra armata i Gonzaghi nello stato di Mantova[406], cercavano di staccare dai suoi alleati e d'ingannare con proposizioni di pace Giovanni d'Oleggio, tiranno di Bologna, non lasciando in pari tempo di mantenere segrete intelligenze tra i suoi sudditi e i suoi soldati per togliergli il potere e la vita[407]. D'altra parte non erano tranquilli sull'avvicinamento della grande compagnia, la quale, condotta dal conte Lando, aveva abbandonato il regno di Napoli, poi, col favore d'un trattato fatto col cardinale Albornoz, attraversata, senza guastare le campagne[408], la Marca d'Ancona, e di là era entrata nelle terre di Bernardino da Polenta, signore di Ravenna[409]. Dopo avere spogliata questa provincia, e minacciato, quando l'uno e quando l'altro, tutti gli stati d'Italia, finalmente il 18 di settembre erasi posta al soldo della lega formata contro i Visconti dai signori di Mantova, di Verona, di Ferrara e di Bologna[410].
Gli alleati, per accrescere riputazione alle loro armi, si volsero all'imperatore chiedendogli qualche soccorso. Carlo aveva avuta giusta cagione di dolersi dei Visconti, i quali nel suo ritorno da Roma avevano di lui mostrata non minore diffidenza che disprezzo, ed accolse con piacere l'opportunità di vendicarsi di loro, purchè potesse farlo senza correre verun pericolo e senza dispendio. Partendo da Pisa aveva colà lasciato Marcovaldo vescovo d'Augusta col titolo di vicario imperiale; questi era ormai stanco di soggiornare in una città ove non aveva alcun potere. Carlo gli concesse di recarsi all'armata della lega, a condizione di non fare uso del suo nome, e di non ispiegarvi la rappresentanza imperiale, se non quando l'armata degli alleati sarebbe abbastanza forte per assicurare la vittoria[411]. Il vescovo d'Augusta ch'era coraggiosissimo e cercava qualche occasione per farsi più nome, passò subito all'armata, di già ingrossata dall'unione della grande compagnia; vi fece spiegare lo stendardo imperiale, e, nella sua qualità di vicario dell'impero, citò i due fratelli Visconti al suo tribunale, accusandoli di ribellione contro il sovrano, di tirannide, di tradimento[412].
I Visconti rigettarono con disprezzo tale intima; risposero ne' loro manifesti che, essendo essi medesimi vicarj perpetui dell'impero, intendevano d'assoggettare l'arcivescovo a pena capitale per essersi posto alla testa di una banda di assassini[413]; ma gli effetti non corrisposero alle loro minacce. Mentre il vescovo d'Augusta, dopo essere passato in faccia a Parma, il 10 ottobre, senza trovare resistenza, stava disegnando il suo campo in distanza di cinque miglia da Piacenza, l'armata de' Visconti, composta di quattro mila cavalli tedeschi e brabantesi, ricusava di uscire dalla città, sotto pretesto che i soldati dell'impero non potevano portare le armi contro lo stendardo dell'imperatore, loro signore. Fatto è ch'essi non volevano combattere contro la compagnia, perchè tutti i soldati stranieri, che allora servivano in Italia, erano associati ai di lei profitti e da lei pagati, e volevano sempre avere aperto un rifugio nelle sue file quando venissero licenziati altrove. I Visconti dissimularono coi loro soldati, e non li congedarono, persuasi che sarebbero tutti all'istante passati nel campo nemico. Si accontentarono adunque di provvedere alla guardia della città, abbandonando al sacco le campagne[414].
Ma la grande compagnia non guerreggiava con migliore buona fede dei soldati de' Visconti. Invano il marchese di Monferrato, ch'erasi recato all'armata, affrettava il conte Lando a marciare sopra Milano e ad attaccare quella città, onde abbattere con un solo colpo tutta la potenza de' Visconti: la grande compagnia, acquartierata presso Maggenta, ruinava il paese, spogliava le campagne, disonorava le donne e le fanciulle, e rifiutava di marciare. Conobbe allora il marchese di Monferrato, che i soldati delle due armate erano fra loro d'accordo, e che, nella simulata loro guerra, non erano nemici che degli abitanti che ruinavano. Temette che questi mercenarj lo vendessero ai Visconti, che avevano posto una taglia sul di lui capo, ed abbandonò l'armata con cinquecento cavalieri, coi quali occupò Novara per sorpresa[415]. Azzo da Correggio, che militava sotto le medesime insegne s'allontanò pochi giorni dopo con settecento cavalli, per sorprendere Vercelli, ma la sua intrapresa andò a vuoto[416].
I signori di Milano avevano dato il comando delle loro truppe al vecchio Lodovico Visconti, loro parente; quel medesimo che nel 1322 aveva ristabilita la repubblica milanese, che nel 1327 aveva dato Galeazzo in mano a Luigi di Baviera, e che nel 1339 aveva condotta la terribile compagnia di san Giorgio a Parabiago contro il signore di Milano. Tra i grandi avvenimenti cui Lodrisio aveva presa parte, il suo carattere era equivoco, ma non era dubbioso il di lui valore, e verun italiano aveva saputo meglio di lui conciliarsi l'affetto ed il rispetto de' soldati tedeschi.
Tosto che questo vecchio generale si pose alla testa dell'armata, i mercenarj non osarono disubbidirgli; promisero di seguirlo ovunque volesse condurli, e di combattere contro la grande compagnia, sebbene portasse le insegne imperiali. Altronde aveva Lodrisio seco condotto un rinforzo di tre mila cavalli italiani, in tempo che l'armata nemica trovavasi indebolita per l'assenza del marchese di Monferrato, di Azzo da Correggio, e di mille duecento cavalli che questi avevano seco condotti. Il vescovo d'Augusta per tenersi in sicuro da ogni sorpresa, aveva cominciato il 13 novembre a portare l'armata al di là del Ticino, quando fu bruscamente attaccato da Lodrisio e posto in fuga, malgrado la più vigorosa resistenza. Egli stesso cadde nelle mani di Lodrisio con seicento de' suoi corazzieri. I vincitori avevano fatti prigionieri moltissimi altri cavalieri, e tra questi quasi tutti i capi della compagnia, il conte Lando, messer Dondaccio di Parma e Ramondino Lupo; ma coloro che gli avevano fatti prigionieri erano tedeschi, tutti segretamente associati alla compagnia, onde li sottrassero ai loro generali, ed in appresso trovarono il modo di farli fuggire[417].
La gioja che questa vittoria dovette cagionare ai Visconti venne scemata dalla notizia che ricevettero poco dopo della rivoluzione di una delle più importanti città del loro dominio. Nell'imbarazzo in cui gli avea posti la guerra coi Veneziani, i Genovesi s'erano appigliati al duro partito di sottomettersi volontariamente all'arcivescovo di Milano; ma troppo erano essi attaccati alla loro libertà per rimanere lungo tempo sotto il giogo; tanto più che i nuovi signori di Milano avevano di già cercato di renderlo più pesante: risolvettero adunque di approfittare del presente imbarazzo de' Visconti, e non avendo ancora avviso della vittoria che questi avevano ottenuta il 13 sul Ticino, presero le armi il 15 di novembre, ed adunandosi alla voce di viva la libertà! morte ai tiranni! attaccarono il pubblico palazzo, ove il vicario dei Visconti non potè difendersi lungamente: egli fu costretto d'uscire di città co' suoi soldati. Allora i Genovesi mandarono a cercare a Pisa Simone Boccanegra, quello che pel primo era stato decorato del titolo di doge; lo installarono nuovamente in tale dignità e colle prerogative medesime accordategli la prima volta. I Pisani mandarono con Boccanegra un corpo di cavalleria, onde ajutarlo a rimettere la sua patria in libertà[418]. Le due Riviere si posero all'istante sotto l'ubbidienza del nuovo doge, tranne Savona, Ventimiglia e Monaco, che però egli sottomise successivamente colle armi[419].
Intanto il predicatore di Pavia, frate Giacomo dei Bussolari, dopo avere liberata la sua patria dall'armata dei Visconti che la stringeva d'assedio, aveva continuato a predicare contro la corruzione de' costumi e contro i vizj de' tiranni. I signori Beccaria, che avevano fatto plauso alle sue prediche, finchè le avea dirette contro i soli Visconti, loro nemici, cominciarono ad essere inquieti, quando lo udirono attaccare la tirannide in generale. Tutto il vantaggio che potevano da lui sperare, l'avevano omai ottenuto quando i Pavesi, riscaldati dai suoi sermoni, eransi impadroniti colla spada alla mano dei ridotti che chiudevano la città. Gli sforzi di Giacomo dei Bussolari per comunicare una nuova energia ad un popolo suddito, non potevano che riuscire dannosi ai padroni di quel medesimo popolo. I signori di Pavia determinarono adunque di farlo morire, e Castellino e Milano dei Beccaria s'incaricarono di assassinarlo; ma l'accorto frate scoprì, e rese vane tutte le loro pratiche. I cittadini, temendo per la vita del loro apostolo, formarono una guardia volontaria che lo accompagnava in ogni luogo, onde il Bussolari si rese più coraggioso nel rinfacciare ai Beccaria dall'alto del pulpito le loro crudeltà ed i precedenti omicidj[420].
Prima di tentare una rivoluzione nel governo, frate Giacomo volle avere l'assenso del marchese di Monferrato. Questo signore era stato da Carlo IV nominato vicario imperiale a Pavia, onde aveva un legittimo titolo per governare questa città, in tempo che il potere che si arrogavano i Beccaria era usurpato. Il monaco, sostenuto dall'autorità del marchese, fece nel suo primo sermone un quadro dei costumi depravati dei tiranni, della corruzione d'ogni giustizia e dell'avvilimento del popolo in tutte le città cadute sotto il dominio di un usurpatore: in appresso si fece a dimostrare da quanti delitti era stata macchiata Pavia dopo che i Beccaria avevano usurpato il sovrano potere; raccontò come poco era mancato ch'egli medesimo non fosse assassinato d'ordine de' tiranni; esortò i Pavesi a non sostenere più lungo tempo così vergognoso giogo, ed indicò dal pulpito venti cittadini che trovavansi tra gli uditori, i quali nominò capitani e tribuni del popolo. Ordinò loro di formare venti compagnie di cento uomini cadauna nel rispettivo quartiere; nominò pure quattro capi di questa milizia, e quand'ebbe finita la predica il popolo ratificò co' suoi suffragi le nomine fatte dal predicatore. Tutti gli eletti accettarono l'impiego loro affidato pel ristabilimento della religione e della libertà[421].
I Beccaria, che dal solo impero della parola si vedevano spogliati della propria autorità, senza un fatto d'armi, senza violenza, e soltanto perchè il popolo aveva cessato di ubbidire loro, non vedevano altro mezzo di ricuperare il perduto potere, che la morte di questo monaco sedizioso. Tentarono perciò di ottenere l'intento, ora colla sorpresa, ora coll'aperta forza, ma le guardie che il popolo aveva date al predicatore rispinsero costantemente i loro satelliti. Per ultimo s'addirizzarono ai Visconti, de' quali erano stati lungo tempo dipendenti, riconciliaronsi con loro, e cercarono il mezzo di aprire alle loro milizie le porte di Pavia. Ma il monaco, che teneva gli occhi aperti sui Beccaria, dopo avere dal pulpito informato il popolo de' loro complotti, mandò un centurione a Milano de' Beccaria, per portargli l'ordine d'uscire subito dalla città e dal suo territorio. Milano ubbidì tremando, e colla famiglia si ritirò in uno de' suoi castelli, ove ben tosto lo raggiunse suo fratello. Allora diedero ai Visconti tutte le fortezze che possedevano nel territorio di Pavia, assoldarono truppe e rinnovarono i loro intrighi in città perchè i loro partigiani ne aprissero le porte ai Visconti. Questa trama fu pure scoperta, onde dodici congiurati perdettero la testa, e tutti i Beccaria furono cacciati fuori di città[422].
Dopo questa rivoluzione i Visconti essendosi riconciliati con tutti i Beccaria, si tennero sicuri di poter occupare Pavia; e tentarono, se possibile fosse, di ridurre lo stesso monaco a rinunciare alla difesa de' suoi concittadini. Il Petrarca aveva strette relazioni con Giacomo de' Bussolari; egli rendeva giustizia a' suoi talenti, ed avrebbe dovuto amarlo perchè nemico della tirannide; ma Petrarca, sedotto dalle cortesie de' Visconti, viveva di que' tempi alla loro corte, e riceveva impieghi da costoro, sebbene fossero nemici della sua patria, della chiesa e dell'impero, sebbene macchiati di tutti i vizj e di tutti i delitti. A loro istigazione il poeta fiorentino scrisse a fra Bussolari una lunga lettera per esortarlo a predicare la pace e non la guerra, la sommissione e non la ribellione[423]. Per altro questa lettera, che non è che un tessuto di luoghi comuni, non ebbe sul predicatore pavese veruna influenza.
Fra Bussolari non accordò maggiore deferenza agli ordini che i Visconti gli fecero dare da alcuni superiori della sua religione, che trovavansi ne' loro dominj. Egli non si limitò a dirigere dalla cattedra i consigli della nuova repubblica, seguì la sua greggia in campagna, e protetto dal marchese di Monferrato, fece ricuperare ai Pavesi sul territorio milanese il raccolto, che avevano perduto nel proprio territorio[424].
I Visconti in tutto l'anno 1357 non opposero grandi forze ai cittadini di Pavia; avevano essi divisa l'armata loro in più corpi per combattere su tutti i punti delle loro frontiere più formidabili nemici che non erano i Pavesi. Nello stato di Modena i vantaggi furono compensati, e dopo varie battaglie le truppe de' signori di Milano si ritirarono senza aver mandati ad effetto i loro progetti[425]. Altri corpi d'armata erano opposti al marchese di Monferrato, altri ai Genovesi, e l'armata principale chiudeva alla grande compagnia l'ingresso del territorio milanese dalla banda di Mantova. Ma tutti i mercenari tedeschi erano segretamente associati a questa grande compagnia, onde non si battevano mai di buona fede; rifiutavano di avventurare contro la medesima una battaglia generale, e facevano andare a vuoto tutti i progetti de' signori cui servivano. Spesse volte mille o duemila cavalieri della compagnia avevano attraversata tutta l'armata de' Visconti, e guastato il territorio fin presso alle porte di Milano, senza che le forze infinitamente superiori che custodivano il milanese, li fermassero, o chiudessero loro la ritirata, quando ritornavano al campo carichi di bottino[426].
Stanchi i Visconti d'essere serviti da soldati senza fede, e scoraggiati dalla perdita di tutte le città del Piemonte, di Novara, di Como, di Pavia e di Genova, risolsero finalmente di chiedere la pace. Gli alleati non erano meno di loro stanchi della guerra, poichè già da tre anni le loro campagne venivano continuamente saccheggiate dai nemici o dai proprj soldati. Feltrino Gonzaga, uno de' signori di Mantova, offrì la sua mediazione alle potenze belligeranti, e la pace venne finalmente conchiusa in maggio del 1358, e pubblicata ne' primi giorni del seguente mese[427].
In virtù di questo trattato il marchese di Monferrato doveva restituire Asti ai signori di Milano, e Pavia doveva continuare a governarsi popolarmente; ma la lega degli alleati lombardi essendosi sciolta, ognuno di loro prese pochissimo interesse alla sorte de' suoi antichi alleati, e trascurò di far eseguire le condizioni che non lo risguardavano. I Visconti non rinunciarono alle loro pretensioni sopra Pavia, il marchese di Monferrato non restituì Asti, e la guerra si continuò in Piemonte ed in Lombardia; e soltanto invece d'essere sostenuta in comune da tutta la lega, il marchese di Monferrato e la città di Pavia rimasero soli esposti alle vendette de' Visconti[428].
In allora i signori di Milano mandarono una nuova armata per ricominciare l'assedio di Pavia; avvicinandosi la quale, temendo fra Bussolari che il palazzo dei Beccaria non servisse di fortezza ad alcuni loro partigiani, eccitò il popolo ad atterrarlo, ed a formare nel luogo, in cui altra volta abitavano i tiranni, una pubblica piazza. La folla, uscendo dalla predica, si precipitò verso questo palazzo, e lavorò con tanto ardore a demolirlo, che in poco tempo più non rimase pietra sopra pietra, ed ogni cittadino portò seco qualche parte de' materiali per conservarli quale monumento della caduta della tirannia[429].
Per sostenere la guerra era necessario il danaro, ed era inoltre necessario per pagare i sussidj al marchese di Monferrato, che solo era in istato di far levare l'assedio di Pavia. Frate Bussolari esortò i cittadini a sagrificare tutte le loro ricchezze alla difesa della patria, gli esortò a rinunciare al lusso degli abiti e delle pietre preziose, raccomandando loro di accontentarsi d'un sajo grossolano di color nero. La repubblica destinò ufficiali incaricati di reprimere il lusso delle donne, con ordine di stracciare gli abiti di quelle che si presentassero in pubblico con vesti ricamate, o di stoffa di seta. D'allora in avanti più non si videro vestite che d'un manto nero, e con un velo in sul capo. Tutti i loro giojelli furono mandati al frate, che li fece vendere a Venezia, onde impiegare il valore in difesa dello stato[430].
Frattanto i Visconti avevano bloccata Pavia, ed innalzate in faccia alle porte nuove bastie per levare agli assediati ogni comunicazione colla campagna. In luglio del 1359, il marchese di Monferrato sorprese queste bastie, e rinfrescò di vittovaglie la città assediata[431]; ma le forze de' signori di Milano erano tanto superiori quelle de' Pavesi, che malgrado questo piccolo successo, la città venne più stretta di quel che lo fosse mai stata prima. I conti di Langusco e tutti i Guelfi, in addietro esiliati, erano stati richiamati a Pavia; ma i Beccaria, vivendo ne' loro castelli, avevano riacquistata l'antica influenza sui Ghibellini delle campagne, di cui erano lungamente stati i capi. I campagnuoli, avendo poca parte all'amministrazione della repubblica, prendevano sempre minore interessamento all'indipendenza della loro patria che al trionfo del loro partito, e tutti coloro che non assistevano alle prediche di fra Bussolari, ponevansi volentieri sotto le insegne d'una famiglia che gli aveva governati molti anni. Tutto il distretto d'oltre Po, si sottomise ai Beccaria, tranne i castelli di san Paolo, Stradella e Cicognola; in appresso tutta la Lomellina si arrese ai signori di Milano, fuorchè i castelli di Brencida e Durno; per ultimo il terzo distretto al nord del Ticino, detto Campagna, venne occupato dai Ghibellini, ad eccezione del castello di Curbisto[432]. Il marchese di Monferrato più non poteva soccorrere i Pavesi, essendo egli stato indegnamente tradito dalla grande compagnia, che aveva di nuovo assoldata dopo una spedizione fatta da questa nella Romagna e nella Toscana, di cui dovremo parlare più abbasso. Il conte Lando lo aveva abbandonato per passare con mille cinquecento corazzieri nel campo de' Visconti, e poco poco gli aveva sviato tutto il rimanente della compagnia, che dopo la sua diserzione ubbidiva ad Anichino Bongarten[433].
Conobbe in allora frate Bussolari la necessità di dare Pavia ai Visconti, tanto più che una crudele epidemia, manifestatasi in città, abbatteva il coraggio degli abitanti. Stese egli stesso gli articoli della capitolazione. Assicurò ai Guelfi che aveva chiamati in Pavia, il diritto di risiedervi; ottenne la conferma del governo municipale da lui stabilito, e che doveva conservarsi sotto la sovranità de' Visconti. Ma egli sdegnò d'aggiugnere al trattato veruna condizione per sè medesimo, e mentre stipulava per la libertà della città, per la sicurezza de' cittadini e delle proprietà, non domandò nè meno una salvaguardia per la sua persona. Galeazzo Visconti accettò senza difficoltà queste condizioni, ma quando si trovò padrone della città e delle fortezze, dichiarò che nella sua qualità di vicario imperiale di Lombardia, non era legato da verun patto contrario ai diritti dell'impero o agl'interessi del fisco. Citò le leggi romane ed i giureconsulti che lo scioglievano dalle contratte obbligazioni; perciocchè d'ogni tempo trovaronsi uomini dotti, abbastanza vili per sostenere le più odiose massime del despotismo. Rimandò quindi al luogo del loro esilio i conti di Langusco ed i principali Guelfi di Pavia, abbrogò tutte le costituzioni municipali di questa città, e la sottopose al suo assoluto potere[434].
In mezzo alle loro calamità, avevano i Pavesi conservata tutta la loro venerazione per fra Bussolari; essi lo seguivano con sollecitudine e gli davano commoventi prove del loro rispetto e del loro amore. Ma quando Galeazzo Visconti tornò da Pavia a Milano seco condusse il monaco per allontanarlo dai suoi partigiani; e quando l'ebbe nell'assoluta sua dipendenza, fece formare contro di lui un processo dai superiori del suo ordine per titolo di disubbidienza ecclesiastica, e lo fece chiudere nella prigione del suo convento a Vercelli, ove quest'uomo degno di miglior sorte e di maggior gloria, terminò miseramente i suoi giorni[435].
I Visconti innalzarono in Pavia una fortezza, e vi posero grossa guarnigione per assicurarsi il possesso di quest'importante conquista. In pari tempo cercarono di spaventare i loro nemici cogli atroci tormenti che facevano soffrire a coloro che avevano la sventura di cadere nelle loro mani. Barnabò Visconti, il più crudele dei due fratelli, ordinò con pubblico editto a tutti i tribunali di prolungare quaranta giorni il supplicio de' colpevoli di delitti di stato. I tormenti non dovevano ricominciare che un giorno ogni due, e ne' giorni pari i dannati al supplicio venivano lasciati in un orrendo riposo. Il primo, il terzo, il quinto ed il settimo giorno dovevano ricevere cinque tratti di corda; due giorni si faceva loro bevere acqua mista di calce e di aceto; due giorni dopo aver loro strappata la pelle dalle piante dei piedi si facevano camminare sopra ceci; in appresso si cavava un occhio, indi l'altro; si tagliavano il naso, le mani, i piedi del condannato, e finalmente il quarantunesimo giorno quest'infelici erano tanagliati, e terminavano i patimenti sulla ruota. Molte vittime nel 1362 e 1363 furono condannate a quest'orrendo supplicio, ed il tiranno osò pubblicare la sua infernale ordinanza, che avrebbe dovuto contro di lui armare la chiesa e l'impero, e tutti i popoli, e gli stessi suoi vili ministri[436].
CAPITOLO XLV.
Affari della Toscana. — Rivalità di Firenze e di Pisa; guerra di Perugia. — I Fiorentini respingono la grande compagnia. — Sommissione della Romagna alla Chiesa.
1356 = 1359. Non erano passati che pochi mesi da che l'imperatore Carlo IV erasi allontanato dalla Toscana, dopo avervi cagionate tante rivoluzioni, quando il capo de' Ghibellini in questa contrada, Pietro Saccone dei Tarlati terminò la sua lunga carriera. Esiliato da Arezzo, ov'era stato lungo tempo signore, Saccone risiedeva nel castello di Pietra Mala, antica fortezza di sua famiglia, posta in su gli Appennini. Colà stando, dirigeva le intraprese di tutti i Ghibellini delle montagne, eccitava tutti i movimenti che vedevansi scoppiare nelle meno potenti città della Toscana, in Arezzo, Cortona, Città di Castello, Borgo san Sepolcro e Chiusi, e stendeva altresì i suoi maneggi nel Mugello e nel Casentino, province che appartenevano a Firenze. Sebbene avesse più volte nelle battaglie dato prova del suo valore, egli aveva ancora maggior nome per i colpi di mano, per la piccola guerra e per l'arte di sorprendere le piazze. Giunto all'età di 96 anni sentì in principio del 1356 d'essere vicino a morte; e leggendo sul volto de' suoi servi la costernazione, fece avvicinare al letto Marco de' Tarlati, suo figliuolo. «Tu vedi, gli disse, che più non si dubita ch'io non sia prossimo al termine di mia vita; ed al certo che la notizia si è già sparsa tra i nostri nemici, e nell'istante in cui il vecchio Saccone prende congedo dal mondo, essi credono di non dovere più guardarsi da lui. Il castello di Gressa del vescovo d'Arezzo sarebbe per la nostra famiglia un'importante conquista; ecco qual è l'altezza delle sue mura, che io ho fatte misurare; attaccalo questa stessa notte dandogli la scalata, e fa che prima di morire io provi la gioja di saperlo in tuo potere.» Marco Tarlati lasciò il letto del moribondo, ed uscì di Pietra Mala con un ristretto numero di fedeli soldati. Valendosi delle indicazioni dategli dal padre, sorprese Gressa; ma gli abitanti che amavano assai il loro signore, presero le armi e costrinsero i Tarlati ad uscire con perdita dalle loro mura. Il vecchio Saccone visse abbastanza per avere notizia del cattivo successo dell'attacco da lui ordinato, lo che rese più penosi gli ultimi istanti del viver suo[437]. Finchè visse, gli Aretini non avevano mai osato di appigliarsi a vigorose misure per respingerlo, ma quando furono informati della di lui morte, afforzarono l'ingresso del loro territorio, ordinarono le loro milizie, e si posero in istato di più non temere i suoi successori[438].
Mentre la morte di Saccone liberava la repubblica fiorentina ed i suoi alleati dagli attacchi de' Ghibellini delle montagne, il partito di questi ultimi acquistava una più decisa influenza ne' consigli di Pisa, e turbava la buona armonia che da più anni mantenevasi tra le due più potenti comuni di Toscana. I Pisani avevano imprigionato Paffetta, conte di Monte Scudajo, l'autore della ruina e della morte dei Gambacorti, facendolo custodire nella fortezza di Lucca, ed avevano esiliati alcuni de' suoi partigiani. Ma nell'istesso tempo avevano riconfermato l'esilio del rimanente della famiglia Gambacorti che si era domiciliata in Firenze; e non perdevano occasione di far conoscere quanto il partito dominante de' Raspanti fosse attaccato al partito ghibellino. Tutti gli abitanti de' castelli posti ai confini dello stato fiorentino, che in altri tempi avevano dato prove di zelo contro i Guelfi, erano sicuri d'essere favorevolmente accolti dal governo di Pisa. Venivano spesso segretamente eccitati a distinguersi con qualche ardito tentativo in vantaggio della loro fazione, ed alcuni Ghibellini di Sorana, castello di Val di Nievole, situato quattro miglia sopra Pescia, cedendo a queste sollicitazioni, abbandonarono la loro fortezza ad alcuni soldati pisani, i quali pochi giorni prima che ciò accadesse erano stati licenziati dalla signoria di Pisa, affinchè i Fiorentini non potessero incolparla di questa ostilità. I soldati avevano preso possesso di Sorana in loro proprio nome, e di là questi banditi infestavano coi loro ladronecci tutta la Val di Nievole, e cercavano di sollevare questa provincia[439].
Il governo di Pisa dichiarò a quello di Firenze di non avere avuta veruna parte nella presa di Sorana, e ch'egli non proteggerebbe i banditi che occupavano quel castello; ma in pari tempo offesero i Fiorentini in un modo più diretto, sebbene meno grave. Col trattato conchiuso tra i due popoli nel 1342 i Fiorentini dovevano essere in Pisa esenti da ogni gabella. Non pertanto i Pisani, sotto pretesto d'armare alcune galere per nettare il mare dai corsari, ordinarono in giugno del 1356, che tutte le mercanzie che entrerebbero nel loro porto pagassero un'imposta di due denari per ogni lira del loro valore[440]. Invano chiesero i Fiorentini che non si pregiudicasse la loro franchigia; non si volle far eccezione alla legge generale in favor loro. Questi rifiutarono di soggiacere a questa gabella, per timore che ad un'imposta da prima tenue, non tenessero dietro più gravose tasse. Altronde erano essi determinati a non essere i primi a dichiarare la guerra, tanto più che i magistrati di Pisa segretamente la desideravano, per far dimenticare le civili discordie. Tutti i mercanti e sudditi fiorentini ebbero allora ordine di terminare avanti il primo novembre i loro affari di commercio che avevano a Pisa, onde a tale epoca uscire tutti senza danni da questa città[441].
D'altra parte, vergognandosi la repubblica di Siena d'aver mancato di fede ai Fiorentini nel precedente anno, trattando coll'imperatore, fece loro proporre una stretta alleanza[442]. Dieci nuovi magistrati, detti i dieci signori del mare, erano stati incaricati di proteggere il commercio marittimo dei Fiorentini. Questi accettarono le proposizioni de' Sienesi, e formarono il progetto di sostituire, per le merci destinate per Firenze, al porto di Pisa quello di Telamone nella Maremma sienese. La signoria di Siena si obbligò di fortificare il porto di Telamone, di far riparare le strade, d'aprire ai mercanti fiorentini dei magazzini, e di rompere ogni comunicazione mercantile coi Pisani. Una corrisponsione di sette mila fiorini d'oro all'anno venne stabilita in luogo di qualunque gabella, ed i Fiorentini promisero di trasportare a Telamone tutti i banchi che avevano a Pisa e di mantenersi per dieci anni in questo nuovo stabilimento[443].
Quando i mercanti fiorentini abbandonarono Pisa il primo di novembre per ritirarsi a Telamone, il commercio della prima città cadde in un estremo languore. Tutti i mercanti delle altre parti d'Italia, stabiliti in Pisa, si videro forzati a trasportare altresì i loro banchi a Telamone, per continuare gli affari che avevano intrapresi coi Fiorentini. Gli artigiani di Pisa e tutti quelli che ritraevano il sostentamento loro dal commercio, si trovarono tutto ad un tratto spogliati d'ogni guadagno[444]; e le loro lagnanze determinarono la signoria ad abbandonare ogni pretesa, ed a fare ai Fiorentini, per richiamarli nella loro città, le più vantaggiose offerte, ma non furono accettate. Si volle far sentire ai Pisani che non avevano bisogno di loro, e che per castigare la loro arroganza non erano costretti di prendere le armi[445].
I Raspanti che governavano Pisa avrebbero preferita un'aperta rottura, perchè l'antico odio de' loro compatriotti contro i Fiorentini sarebbesi ravvivato nelle battaglie, e l'entusiasmo militare avrebbe fatto scordare i rimproveri che facevansi alla loro amministrazione. Vedendo tornar vane le loro pratiche per riconciliare i due stati, cercarono invece di provocare la signoria di Firenze, perchè fosse la prima a dichiarare la guerra. Tentarono di sorprendere il castello di Uzzano in Val di Nievole per mezzo di segrete intelligenze che si erano procurate con alcuni abitanti. I Fiorentini scoprirono le loro trame, raddoppiarono la guardia del castello, e non se ne lagnarono[446]. I Pisani d'accordo coi Genovesi, armarono in appresso alcune galere, per costringere le navi mercantili dirette verso i lidi della Toscana a dar fondo nel loro porto. Dopo avervele forzatamente fatte entrare, loro accordavano in città tutte le esenzioni riservate ai popoli più favoriti, senza levare la menoma tassa sulle mercanzie che venivano sbarcate per rispedirle altrove di transito. Altri mercanti sarebbersi lasciati forzare a far quello che tornava realmente a loro vantaggio; ma i Fiorentini piuttosto che approfittare della franchigia che loro offrivano i Pisani, fecero venire con grandissima spesa le loro mercanzie per terra da Venezia, da Avignone, ed ancora dalle Fiandre, mentre il loro governo faceva armare vascelli in Provenza per proteggere il loro commercio[447].
Nel tempo in cui le crescenti animosità delle due repubbliche facevano temere un'imminente rottura, un'inaspettata guerra scoppiò nell'altra estremità della Toscana tra la repubblica di Perugia ed il signore di Cortona. I Perugini non eransi sollevati ad un distinto rango tra i popoli d'Italia che nel decorso secolo; il soggiorno della corte di Roma al di là dei monti, aveva lasciato acquistare maggiore indipendenza alle città soggette alla chiesa. Vero è che la maggior parte erano cadute sotto il giogo dei tiranni; ma i Perugini che si erano costantemente conservati liberi, prosperarono in mezzo alle calamità dei loro vicini, ed erano succeduti a Bologna nel commercio e nelle ricchezze, dopo che questa città aveva, colla libertà, perduta anche la sua potenza. L'alto dominio dei papi sopra Perugia, lungi dal nuocere alla sua indipendenza, l'aveva anzi salvata dalle pretese degl'imperatori sopra le altre città libere. Intorno a questa potente città erano situati altri più deboli comuni, molti dei quali, venuti in mano di piccoli tiranni, trovavansi incapaci d'opporle una lunga resistenza quando fossero attaccati. Cortona città della Pieve, Todi, Chiusi, Assisi, Foligno e Borgo san Sepolcro dovevano successivamente cadere sotto il dominio de' Perugini, come Prato, Pistoja, Volterra, san Miniato e Colle erano cadute in potere dei Fiorentini[448]. Per dare esecuzione a questi progetti d'ingrandimento i Perugini attaccarono all'impensata il signore di Cortona in dicembre del 1357, sebbene fossero a lui legati con un trattato di pace fatto sotto la garanzia della repubblica fiorentina[449].
I Perugini prendendo le armi, cominciarono a lagnarsi pei primi, onde giustificare la loro mala fede. A Firenze i loro ambasciatori pretesero, che il signore di Cortona aveva tentato di sorprendere alcune loro castella. I Fiorentini, senza farsi carico di questi mendicati pretesti, intimarono alla repubblica, pel suo onore e per quello del partito guelfo, di rinunciare ad una ingiusta guerra[450].
Gli assalitori tenevano in Cortona segrete intelligenze che non riuscirono loro di verun vantaggio; e speravano che scoppiassero congiure in quella città contro il tiranno, che non era amato: ma i Cortonesi odiavano ancora più i Perugini che il loro signore, e si difesero coraggiosamente[451]. In febbrajo del 1358, ricevettero un soccorso di cento cinquanta cavalieri con pochi fanti da Siena, e questa repubblica promise in pari tempo di mandar loro fra poco più ragguardevoli sussidj.
Bartolomeo di Casale, signore di Cortona, erasi posto sotto la protezione della repubblica di Siena, ed aveva ottenuto dalla medesima il diritto di cittadinanza[452]. Aveva presi i Sienesi per garanti del trattato precedentemente conchiuso coi Perugini; ed i Sienesi di già irritati dalla ribellione che i Perugini avevano contro di loro eccitata a Montepulciano, ad altro più non pensarono che a difendere con tutte le forze il loro alleato. Chiamarono al loro soldo Anichino Bongarten, gentiluomo tedesco, che aveva formata una compagnia di mille duecento avventurieri[453]; aggiunsero a questa truppa seicento corazzieri che avevano precedentemente al loro servigio, e facendoli attraversare i pantani delle Chiane, forzarono i Perugini a levar l'assedio di Cortona per andare a difendere il proprio paese[454].
I Perugini dal canto loro adunarono un'armata di forze quasi uguali sotto il comando di Smoduccio da san Severino. L'un popolo e l'altro desiderava di non venire a battaglia, ed i due capitani avevano ordine di cercare, se possibile fosse, gloria senza pericoli, minacciare e non combattere. Volle l'accidente che le due armate si scontrassero il 10 aprile presso a Torrita, e che gli avamposti cominciassero una zuffa che in breve si fece generale. I Sienesi furono battuti, ed il loro capitano Anichino di Bongarten fatto prigioniere[455]. I Perugini entrarono ancor essi nel territorio sienese, ed il 29 d'aprile si presentarono in faccia alla capitale. Per altro perchè bramavano la pace si astennero dal guastarne il territorio[456]. I Fiorentini vedevano con rincrescimento le due repubbliche consumare le loro forze le une contro le altre, onde offrirono la loro mediazione, e si sforzarono d'aprire qualche trattato; ma i Sienesi che avevano opinione d'essere il più orgoglioso popolo della Toscana, vollero, prima di negoziare, lavare la vergogna della disfatta sofferta a Torrita. Questo ardente desiderio di vendetta fece loro scordare gli interessi del proprio partito, quelli della libertà e delle antiche loro alleanze; chiesero soccorsi ai Visconti di Milano, nominarono capitano di guerra il prefetto di Vico, e per ultimo offrirono danaro alla grande compagnia del conte Lando per tirarla in Toscana, a condizione che accamperebbe un mese nel territorio perugino per guastarlo affatto[457].
La grande compagnia trovavasi allora in Toscana sui confini del Bolognese, ed era, in assenza del conte Lando, che aveva fatto un viaggio in Germania, comandata dal conte Broccardo e da Amerigo di Cavalletto. Era numerosa di tre mila cinquecento cavalieri, e di molta infanteria. Nel mese di luglio fece domandare il passaggio ai Fiorentini per recarsi nel territorio di Perugia. Il raccolto non era ancora terminato, e la repubblica non aveva forze da opporre a così formidabile compagnia. Pure risolse di vietarle l'ingresso in Toscana: fece di concerto coi conti Guidi ed Ubaldini fortificare i passaggi degli Appennini; e nello stesso tempo spedì ambasciatori alla compagnia per far valere un trattato col conte Lando, in forza del quale la compagnia non doveva entrare in Toscana che passati due anni[458].
Il conte Lando, che giugneva appunto allora dalla Germania, indusse gli ambasciatori fiorentini ad indicare alla compagnia una strada intorno ai confini toscani, onde attraversare le terre de' feudatarj, in mezzo agli Appennini, senza discendere nel piano fiorentino[459]. I condottieri per loro sicurezza in mezzo a queste montagne, ritennero come ostaggi gli ambasciatori, i quali erano stati scelti tra i più potenti cittadini della repubblica, e che avevano fatta questa convenzione senz'autorizzazione della signoria[460].
Ma gli ostaggi non bastavano alla sicurezza della compagnia, se questa attraversando le montagne provocava coi furti gli abitanti; ed i soldati avventurieri erano talmente indisciplinati, che anche per l'interesse loro non seppero astenersi dal rubare. Il 24 di luglio trovandosi accampati tra Castiglione e Biforco, essi saccheggiarono questi due villaggi, i di cui abitanti erano vassalli, i primi del conte Guido di Battifolle, gli altri del conte Alberghettino degli Ubaldini. Questi alpigiani, avvezzi ad affrontare i pericoli, si concertarono per castigare i ladri che gli spogliavano. All'indomani la compagnia doveva entrare in una stretta e chiusa valle, in fondo alla quale le acque d'un torrente si precipitano tra i dirupi. Da questa valle, che giace in mezzo alle più alte cime degli Appennini ed è lunga due miglia, si esce per un angusto passaggio detto la Scalella, ove un angusto e tortuoso sentiere sale verso una valle più alta attraversando praterie assai ripide.
L'armata del conte Lando era divisa in tre corpi quando giunse a questo passaggio. Gli ambasciatori fiorentini trovavansi coll'avanguardia comandata da Amerigo di Cavalletto. Questi attraversò la Scalella senza trovare ostacolo, e continuò la marcia. Il conte Lando, che comandava il corpo di battaglia, quando giunse allo stesso luogo trovò la sommità della Scalella occupata da ottanta contadini. Questo pugno di gente fermò il primo squadrone, che voleva passare, facendo ritolare grosse pietre sopra di lui. A questo segno si videro comparire sulla cima di tutte le montagne contadini armati, che signoreggiando la cavalleria rinserrata nell'angusta valle come in una prigione, la schiacciava sotto gli enormi massi di pietre che facevano precipitar giù dalla cima del monte. Invano il conte Lando mandò un corpo d'Ungari a piedi per mettere in fuga i montanari; gli Ungari furono respinti da que' precipizj, che non potevano sormontare, in fondo alla valle. Mentre ciò accadeva, il conte Brocardo, che comandava la retroguardia, entrava in questo periglioso ricinto; un gran masso staccato dall'alto del monte lo strascinò col suo cavallo nel torrente ove perì. L'universale disordine, lo spavento de' cavalli che s'impennavano in un'angusta strada, e l'inutilità de' loro mezzi di difesa, avevano di già scoraggiati i soldati, quando i contadini scesero da tutte le parti delle montagne, e senza interamente perdere il vantaggio del terreno, cercarono con lunghe picche o lance di spingere a basso ne' precipizj i soldati che trovavansi al di sotto di loro. Dodici montanari fecero prigioniero il conte Lando, di già ferito nella testa; ma, sedotti da una grossa taglia, gli permisero in appresso di fuggire a Bologna. Trecento cavalieri furono uccisi, e presi moltissimi, oltre mille cavalli da guerra, trecento palafreni ed un ricco bottino. Gli altri soldati gettarono fuggendo le loro armi e bagaglio, onde sottrarsi più presto al pericolo[461].
La sola vanguardia comandata da Amerigo di Cavaletto non aveva avuto alcun sinistro, ed era giunta presso a Belforte quando le fu recata la notizia della totale disfatta dell'armata che la seguiva. I soldati sottratisi al ferro o alla prigione, erano dispersi e non potevano in verun luogo fare resistenza, e questa terribile compagnia poteva essere affatto distrutta. I furti che aveva commessi in Castiglione ed in Biforco, annullavano le convenzioni con lei fatte; i conti Guidi ed i loro vassalli erano impazienti di attaccarli, ed i Fiorentini tenevano nelle montagne quasi dodici mila uomini sotto le armi. Amerigo, che conosceva il pericolo della sua posizione, condusse la sua truppa a Decomano e vi si fortificò, minacciando in pari tempo gli ambasciatori fiorentini, che faceva gelosamente custodire, di farli morire se non provvedevano alla sua sicurezza. La signoria diede bensì l'ordine d'attaccare a Decomano il rimanente della compagnia, ma gli ambasciatori per salvare la propria vita, lo contramandarono; fecero inoltre posare le armi ai contadini, e consigliarono Amerigo a fare quarantadue miglia, a traverso le montagne, in un sol giorno; per tal modo egli uscì dagli Appennini pel passaggio dello Stalo, e fu condotto nel territorio d'Imola. Colà fu raggiunto dagli altri della compagnia, caldi di vendicarsi dei Fiorentini. Questi, con riprovevole indulgenza, non punirono gli ambasciatori, che avevano di propria autorità rivocati gli ordini della signoria, e che per salvare la loro vita avevano esposto tutto lo stato[462].
La compagnia accantonata in Romagna ricevette ben tosto un rinforzo di due mila cavalli condotti da Anichino di Bongarten. Erano tutti i corazzieri tedeschi, che di comune accordo, avevano in agosto abbandonate le due armate de' Sienesi e de' Perugini per unirsi ai loro compatriotti a far vendetta insieme sui fiorentini dell'affronto che la milizia tedesca aveva ricevuto negli Appennini[463]; ma i Fiorentini avevano con ogni diligenza fortificato tutti i passaggi delle montagne, e provvedutili di milizie, di modo che la compagnia fu ritenuta in Romagna tutto il rimanente dell'anno, senza poter mandare ad effetto le sue minacce[464].
Frattanto i Fiorentini avevano approfittato della debolezza cui trovavansi ridotti, dopo la partenza della loro cavalleria, i Sienesi ed i Perugini, onde ridurre questi due popoli a fare la pace. La signoria di Firenze essendo stata da loro riconosciuta per arbitra, dettò l'ultimo giorno di ottobre le condizioni della pace in forma di sentenza. Accordò per quattro anni ai Perugini il diritto di nominare un podestà a Cortona; sospese per cinque anni il diritto di cui avevano goduto i Sienesi di nominare il podestà di Montepulciano; e guarentì per ogni altro riguardo l'indipendenza dei due più deboli comuni contro i due più forti. Questa sentenza arbitramentale non fu ricevuta senza riclami, ma venne osservata, e così fu ridonata la pace alla Toscana[465].
Ma a Firenze, siccome nell'antica Roma, le civili discordie succedevano continuamente alle guerre straniere. Appena cessate le inquietudini cagionate dall'avvicinamento della grande compagnia, e dalla guerra di Cortona, le interne turbolenze cominciarono ad agitare lo stato.
Tutti i cittadini non nobili, potevano, secondo le leggi di Firenze, giugnere indifferentemente alle pubbliche cariche. Non pertanto quanto più una famiglia era antica e numerosa, più rendevasi difficile ai suoi membri l'aver luogo nella signoria, perchè in virtù della legge del divieto due uomini dello stesso casato non potevano trovarsi insieme tra i priori, tra i buoni uomini, o tra i gonfalonieri; e per tal cagione quando un membro di una famiglia era in carica, egli escludeva tutti i suoi agnati, e questi ultimi, se la sorte li chiamava ad un impiego, perdevano la volta loro nell'estrazione della loro balla. Ora le antiche famiglie erano prodigiosamente numerose; le nuove per lo contrario non conoscevano nemmeno i loro parenti, e non portavano lo stesso nome. I primi erano continuamente respinti dal divieto; i secondi non lo erano mai: di modo che il governo andava poc'a poco a concentrarsi nelle mani d'uomini nuovi, quasi tutti ignoranti ed incapaci. Le antiche famiglie, che avevano fondata la libertà, e che d'ogni tempo erano state fedeli al partito guelfo, lagnavansi, non senza ragione, d'essere soppiantate da gente, che in gran parte erano forse d'origine ghibellina.
Da principio i Ghibellini non meno de' Guelfi erano stati favorevoli alla libertà: molte repubbliche si erano dichiarate a favore dei Ghibellini, e molti tiranni si erano sollevati tra i Guelfi: ma dopo che la famiglia Visconti ebbe acquistata in Italia una decisa superiorità, si fece carico di favorire ad un tempo i Ghibellini e gli usurpatori, e di confondere il suo proprio partito con quello dell'autorità monarchica. Quando un Guelfo giugneva alla tirannide abbracciava il partito ghibellino per avere il favore dei signori di Milano; e quando una città ghibellina scuoteva il giogo del suo principe, spiegava lo stendardo dei Guelfi per entrare nell'alleanza de' Fiorentini. Perciò quando fu annunciato al popolo di Firenze che molti antichi Ghibellini avevano preso parte all'amministrazione, tutti gli amici della libertà ne rimasero costernati.
Eranvi a Firenze da quasi un secolo de' capi naturali e costituzionali della parte guelfa: erano questi i consoli di cavalleria, o capitani di parte, istituiti nel 1267 per amministrare i beni confiscati a pregiudizio de' Ghibellini. Due di questi capitani erano nobili, altri due plebei, ed ogni due mesi venivano rinnovati a sorte come i priori della repubblica. Coloro ch'erano entrati in carica in gennajo del 1358, erano uomini ambiziosi ed avidi, che seppero approfittare dell'inquietudine inspirata da loro stessi, per farsi accordare la più pericolosa autorità. Fecero sanzionare una legge, in forza della quale qualunque Ghibellino che accettasse pubblico impiego dovesse essere dal podestà condannato ad una pena arbitraria dalle 500 lire fino alla perdita della vita. La denuncia doveva ritenersi come provata quando fosse appoggiata a sei testimonj; il diritto di esaminare questi testimonj, e di giudicare intorno alla loro credibilità veniva esclusivamente attribuito ai capitani di parte ed ai consoli delle arti; finalmente il cittadino una sola volta condannato ad un'ammenda, s'intenderebbe per sempre escluso da ogni pubblico ufficio[466].
Poco dopo la pubblicazione di tale legge, si sparse voce in Firenze che i capitani di parte avevano fatta una lista di settanta cittadini che volevano accusare. I primi che trassero in giudizio erano effettivamente Ghibellini, ma tutta la città fu spaventata dalle forme tenute dal nuovo tribunale nel fare il loro processo, siccome quelle che attentavano ai diritti ed all'esistenza di tutti[467]. I Guelfi più zelanti pretendevano di voler salvare con tanto rigore la minacciata libertà; ma tutti gli altri cittadini chiedevano che si modificasse la legge. Dopo calde dispute si convenne di mutare non la legge ma la magistratura di parte guelfa, onde renderla più popolare. Furonvi introdotti due nuovi cittadini, rendendo accessibili a tutti i nobili le due piazze per lo innanzi riservate a due cavalieri, e quando i capitani di parte avessero con due terzi dei suffragi dichiarato ghibellino un cittadino, era loro ingiunto di ammonirlo a non accettare impiego sotto pena d'essere accusato. In tal modo le persone sospette si allontanarono dalle cariche senza assoggettarle ad una pena[468]; ma una classe di malcontenti, detti gli ammoniti, venne in alcun modo esclusa dai diritti di cittadinanza. E per tal guisa, mentre la costituzione aveva cercato di rendere tutti i cittadini uguali, le due opposte parti cercavano vicendevolmente di privarsi de' loro diritti, impiegando il divieto contro le antiche famiglie, e l' ammonizione contro le nuove[469].
Questo stesso anno 1358 venne contraddistinto da molti trattati di pace conchiusi quasi nello stesso tempo in tutta l'Europa. L'Inghilterra fece la pace colla Scozia, ed il re Davide Bruce uscì di prigione; il re Giovanni di Francia, prigioniere a Londra, conchiuse pure, con Edoardo III d'Inghilterra, un trattato che poi non fu accettato dal suo regno; Pietro il crudele di Castiglia, fece la pace con Pietro il ceremonioso d'Arragona; la repubblica di Venezia col re d'Ungheria; i Visconti colla lega de' signori della Venezia; il re di Napoli con suo cugino il duca di Durazzo, che gli si era ribellato; finalmente i Perugini coi Sienesi. Le controversie tra Pisa e Firenze non avevano prodotte aperte ostilità, ma i Fiorentini avevano armate quattordici galere provenzali o napolitane colla loro bandiera, e sebbene senza porto e senza marina facevano rispettare la libertà dei mari[470]. I Pisani avevano lasciato d'inquietare il loro commercio, riconosciuta la franchigia del porto di Telamone, e permesso ai loro mercanti di portarvi le proprie merci, e di comperarvi quelle che loro abbisognavano[471].
La sola Romagna non venne compresa in questa quasi universale pace dell'Europa; e la chiesa teneva dietro con calore in questa provincia al suo progetto di spogliare tutti i tiranni dell'usurpato potere, riducendo le città dello stato ecclesiastico nella sua dipendenza. Il 10 ottobre del 1356 Giovanni Manfredi, signore di Faenza, erasi sottomesso al legato Egidio Albornoz; gli aveva aperte le porte della sua capitale e di tutte le fortezze, ritirandosi egli a Bagnacavallo, il solo di tanti suoi feudi che la chiesa gli lasciava[472]; Francesco degli Ordelaffi, signore o capitano di Forlì, era rimasto solo contro tutte le forze del legato, altra risorsa non avendo che il suo coraggio, quello di sua consorte, e l'interessata amicizia dei capi della grande compagnia.
Gli abitanti di Forlì, circondati da nemici così potenti, presentaronsi a Francesco degli Ordelaffi. «Noi abbiamo sempre per la tua casa, gli dissero, lo stesso amore, di cui abbiamo dato prove in altre circostanze. Quando i tuoi antenati trovaronsi al par di te esposti alle umane vicende e furono esiliati dalla loro patria, gli abbiamo ajutati colle nostre ricchezze e col nostro sangue per farli rientrare in casa loro e restituir loro la sovranità. Noi siamo disposti a fare lo stesso per te, tostocchè ci si presenterà favorevole occasione; ma ora ti preghiamo di considerare che, rimasto solo contro il legato della chiesa, non puoi sperare di sostenerti lungo tempo, onde al presente sagrificheremmo inutilmente per salvarti i nostri beni e le nostre persone.» L'Ordelaffi, udite queste parole, si avanzò verso di loro e disse: «Voglio che voi apertamente conosciate le mie intenzioni. Io non tratterò colla Chiesa che a condizione di conservare Forlì, Cesena e tutte le altre terre da me possedute. Sì, ho stabilito di conservarle e difenderle fino alla morte. Sosterrò da prima un assedio in Forlimpopoli, in Cesena, in tutti i miei castelli; quando gli avrò tutti perduti difenderò le mura di Forlì, poi le sue strade, le piazze, il mio palazzo e l'ultima torre del mio palazzo, piuttosto che acconsentire a nulla cedere di quanto mi appartiene»[473].
Ordelaffi affidò la difesa di Cesena a sua moglie Cia, ossia Marzia degli Ubaldini, figliuola di Vanni, signore di Susinana[474]. Delle poche truppe che aveva al suo soldo parte ritenne per sè, parte diede alla consorte, cui assegnò per consigliere un uomo, creduto fedele, Sgarino di Pietra Gudula, ordinandogli di difendersi fino all'ultima estremità. Marzia si chiuse in Cesena in principio del 1357 con sua figlia di già nubile, un figlio e due nipoti ancora fanciulli, le due figlie di Gentile da Mogliano già signore di Fermo, e cinque damigelle. Avea per difendersi duecento cavalieri ed altrettanti pedoni, e ben tosto fu attaccata da un'armata dieci volte più numerosa della sua. Cesena è divisa in due parti, la città superiore, detta la Murata, è cinta di mura, e la città bassa ancora a quest'epoca era appena suscettibile di difesa. In sul finire d'aprile gli abitanti aprirono quest'ultima ai nemici; ma Marzia ritirossi nella città alta con tutti quelli che non mancavano di coraggio[475]. Ben tosto scoprì che il suo unico consigliere, il confidente di suo marito, manteneva colpevoli intelligenze coi nemici, e gli fece troncar il capo sulle mura. D'allora in poi supplì ella sola a tutte le incumbenze di governatore e di capitano; più non depose la corazza, ed i nemici la videro sempre alla testa de' soldati[476].
Ma il colle su cui è posta la murata non è di solida pietra, onde i minatori nemici avanzarono le gallerie fin sotto alle mura, e malgrado la resistenza di Marzia le fecero crollare e vi aprirono larghe brecce. Marzia si presentò per la prima dietro queste aperture, ne difese lungo tempo il passaggio, e fece piantare alcune palafitte invece delle abbattute mura; ma all'ultimo, costretta di cedere al numero, si ritirò nella cittadella con quattrocento uomini tra soldati e cittadini, disposti ad ubbidirle fino alla morte[477].
Gli assedianti avevano fabbricate otto macchine destinate a lanciar pietre, le quali, accostate alla cittadella, facevano piovere una grandine d'enormi pietre sulle sue torri. Nello stesso tempo i minatori avevano ricominciato i loro lavori in quel terreno facile a scavare, e di già avevano innoltrate le gallerie fin sotto le mura. Marzia lo sapeva, non poteva sperare soccorso da veruna banda, nè aveva notizie dello sposo assediato in Forlì. Trovavasi in così disperato stato ridotta, quando vide giugnere Vanni di Susinana suo padre, cui il legato aveva permesso di entrare nella rocca, onde persuadere la figliuola ad evitare l'estreme calamità. «Mia cara figlia, gli disse Vanni, tu sai che l'onor tuo non mi sta meno a cuore che la tua vita; ho fin qui applaudita la tua generosa difesa, e non ho cercato di allontanarti dai pericoli. Ma è posto un termine all'umano valore; nè l'onore nè il dovere obbligano ad una vana resistenza quando manca ogni speranza. Tu puoi prestar fede alla mia militare esperienza; ho vedute le opere degli assedianti, ho veduto l'abisso su cui pendi sospesa; tutto è perduto. Giunto è l'istante d'arrenderti, e di accettare le onorate condizioni che il legato m'incarica di offrirti.»
«Mio padre, rispose Marzia, quando voi mi consegnaste al mio signore, mi avete principalmente ordinato di essergli ubbidiente; questo ho io fatto fino al presente, e questo farò ancora fino alla morte. Egli mi ha confidata questa fortezza, e mi commise di non abbandonarla, o di disporne in qualsiasi modo senza suo ordine. Tale è il mio dovere; non mi atterriscono nè i pericoli, nè la morte; io ubbidisco e non decido.» Suo padre si ritirò senz'aver potuto smuoverla dal suo proponimento, ed ella prese nuove misure per difendersi[478].
Ma ben tosto i pericoli preveduti da Vanni di Susinana si realizzarono; i minatori fecero crollare una delle due torri laterali con un gran pezzo di muraglia; le loro gallerie giugnevano fin sotto alla principale torre, e quest'estremo avanzo della rocca avrebbe entro pochi giorni seppelliti sotto le sue mine tutti i suoi difensori. Allora i soldati di Marzia le dichiararono di essere disposti ad arrendersi. Le dissero d'averle date bastanti prove della loro fedeltà e del loro coraggio; che oramai sarebbero insensati se si facessero schiacciare sotto le ruine d'una muraglia, che più non potevano difendere. Marzia, costretta di cedere, prese a trattare direttamente col legato, ed ottenne che i soldati che l'avevano così valorosamente servita, potessero andarsene liberi coi loro effetti: per sè non chiese patti, ed il 21 giugno del 1357, aprì le porte della sua fortezza. Il legato le assegnò per prigione una galera nel porto di Ancona, e vi fu condotta col figlio, colla figlia, coi due nipoti, le due figlie di Gentile da Mogliano, e le sue cinque damigelle[479].
Il passaggio della grande compagnia, che a quest'epoca attraversava la Romagna retrocedendo dalla Lombardia, fece un diversivo a favore di Francesco degli Ordelaffi[480]. Pure non avrebbe potuto preservarlo dalla sua ruina, se in pari tempo, cedendo ad un intrigo, la corte d'Avignone non richiamava il cardinale Albornoz. Gli fu dato per successore nella legazione di Romagna certo abate di Clugnì, uomo senza vigore di carattere e senza talenti. Questo nuovo legato provò ben presto che le virtù d'un monaco non possono supplire a quelle di un generale e di un uomo di stato, ed in sul finire della campagna del 1357 fu costretto e levare l'assedio di Forlì. Vero è che lo ricominciò in aprile del 1358, ma ancor questa volta poco felicemente[481]. Ordelaffi, che conosceva di nome tutti i suoi concittadini e soldati, che loro di propria mano distribuiva le ricompense e le insegne d'onore[482], trovava nel loro attaccamento inaspettate forze. Egli si difese in Forlì tutta la state, e quando la sua situazione cominciava ad essere pericolosa, fu di nuovo liberato dalla grande compagnia che retrocedeva dalla sgraziata sua spedizione degli Appennini[483].
Peraltro la grande compagnia non poteva lungo tempo tenersi nello stato di Forlì di già ruinato da una lunga guerra. Il conte Lando, poichè fu guarito delle sue ferite a Bologna, ove il signore Giovanni di Oleggio gli aveva date non equivoche prove di affetto, tornò a prendere il comando della sua armata. Egli la condusse nelle terre dei vassalli della Chiesa, che successivamente abbandonò al sacco passando a Faenza, Rimini, Pesaro, Fano e Montefeltro[484]. Il legato non erasi preparato a resistergli, onde la grande compagnia soffrì meno dal ferro nemico che dall'inclemenza della stagione. L'inverno, che cominciava, fu uno de' più aspri che si fossero fin allora provati in Italia; le nevi si elevarono ad un'altezza straordinaria; e quando dai tetti si gettarono nelle strade, alcuna città ne rimase ingombra in maniera da chiudere per alcuni giorni gli abitanti nelle loro case[485]. In così lungo inverno mancarono affatto i foraggi, e la grande compagnia perdette la metà de' suoi cavalli.
Frattanto la corte di Avignone erasi avveduta dell'incapacità del suo nuovo legato, onde ritornò al cardinale Albornoz la mal tolta autorità. Albornoz giunse in Italia nel dicembre del 1358, e domandò soccorso alla repubblica fiorentina, che sapeva non meno di lui nemica della grande compagnia. Di già quando aveva precedentemente fatta predicare la crociata contro questa banda di masnadieri, aveva tirati più di centomila fiorini dai cittadini della repubblica[486]. I suoi predicatori ricevevano danaro da chiunque voleva darne, fossero ancora donne, poveri, o fanciulli; nè solo ricevevano danaro per la guerra sacra, ma ancora arredi, mobili, derrate, tutto insomma, tutto quanto era loro portato[487]. Albornoz quando tornò in Italia ebbe da Firenze settecento cavalli, che aggiunse alla sua armata. Egli non se ne valse per combattere, ma per dare maggior peso ai trattati che aveva intavolati col conte Lando; imperciocchè negoziava con quest'avventuriere per liberarsene a peso d'oro; e senz'esserne autorizzato dalla repubblica fiorentina, segnò con lui in febbrajo del 1359 un trattato, in forza del quale la grande compagnia si obbligava pel corso di quattr'anni a non attaccare nè la Chiesa, nè i Fiorentini; e ciò contro il pagamento di quarantacinque mila fiorini, che gli sarebbero dati dal legato, ed ottanta mila dalla repubblica[488].
Quando questa convenzione venne comunicata ai Fiorentini, eccitò in loro la più violenta indignazione. Essi avevano replicatamente dichiarato al cardinale di voler abolire il vergognoso tributo che l'Italia pagava a questi soldati mercenarj. I tiranni, alleati naturali dei soldati, favorivano la loro licenza ed i loro eccessi; onde spettava alle repubbliche lo spezzare quest'odioso giogo, ed i Fiorentini avevano giurato di farlo. Il legato non aveva potuto credere che si ridurrebbero ad accettare una convenzione tanto contraria alle loro intenzioni; egli erasi dunque approfittato delle loro offerte e de' loro soccorsi per atterrire la compagnia e liberarsene a miglior patto. Dopo la sua prima entrata in Italia, egli aveva sempre avuti nella sua armata quattro in cinquecento cavalieri, e sette in ottocento arcieri che la repubblica gli aveva somministrati per fare la guerra ai tiranni della Romagna; ed egli in compenso abbandonava così fedele alleata ai nemici che aveva contro di lei irritati[489]. Infatti i Fiorentini dichiararono che non sarebbero mai per approvare il trattato segnato in loro nome; onde Albornoz il 21 marzo conchiuse un trattato separato colla compagnia, e le promise cinquanta mila fiorini per farla uscire dalle terre della Chiesa[490].
La repubblica fiorentina, rimasta sola in guerra colla grande compagnia, diede il comando delle sue truppe a Pandolfo Malatesta, uno de' signori di Rimini. Ella aveva inallora al suo soldo due mila cavalieri, cinquecento Ungari e duemila cinquecento arcieri armati di corazza. Ma ben tosto le giunsero i soccorsi dei signori di Lombardia, che oltraggiati ed a vicenda venduti dalla compagnia, desideravano tutti di vendicarsi. Barnabò Visconti mandò mille corazzieri e mille pedoni; Francesco di Carrara, signore di Padova, le spedì duecento cavalli, trecento il marchese d'Este, e si videro allora con maraviglia i tiranni assistere una repubblica, che più d'ogni altra erasi mostrata nemica de' tiranni, mentre i comuni liberi, che i Fiorentini avevano costantemente soccorsi, abbracciarono tutti per debolezza o per invidia il partito che poteva più d'ogni altro riuscire dannoso ai loro antichi alleati. Perugia trattò colla compagnia per cinque anni, promettendole un sussidio annuo di quattromila fiorini, il libero passaggio pel suo territorio, e viveri contro pagamento[491]. Siena e Pisa s'accordarono facilmente cogli avventurieri a condizioni press'a poco uguali.
Il conte Corrado Lando, avendo nei primi giorni di maggio del 1359 ricevuto il danaro che il legato gli aveva promesso, passò colla sua compagnia dalla Romagna nello stato di Perugia. Attraversò Città di Castello e Borgo San Sepolcro, dipendenti da questa repubblica; e non potè contenere i suoi soldati dal saccheggio in un paese che aveva promesso di trattare come amico. Tutt'i soldati licenziati dal legato e da diversi comuni di Toscana avevano raggiunta la compagnia, ond'essa contava in allora sotto le sue insegne cinque mila cavalieri, mille Ungari, due mila masnadieri e più di dodici mila servitori, vivandieri e simile altra gente di perduti costumi. I Perugini trattando colla compagnia le avevano aperti i passaggi degli Appennini, onde per giugnere a Firenze non le restava omai più a superare alcuna fortificazione della natura. Il conte Lando suppose che la signoria, atterrita dalla presente sua situazione, gli accorderebbe vantaggiose condizioni, e le offrì di entrare in trattati. Molti gentiluomini che si dicevano amici della repubblica, molti contestabili della compagnia, che altra volta avevano serviti i Fiorentini, presentaronsi quali mediatori, ma la signoria rifiutò di trattare. Giunsero per ultimo a Firenze alcuni ambasciatori del marchese di Monferrato incaricati di prendere la compagnia al soldo del loro padrone, e soltanto chiedevano che la repubblica le accordasse il passaggio attraverso al suo territorio. Lungi dal chiedere qualche contribuzione per la compagnia come non eransi fin allora rifiutati di pagare i più potenti sovrani, offrivano dodici mila fiorini in compenso dei guasti che potrebbe fare. I gentiluomini ed i proprietarj delle terre, che temevano pei loro beni, insistevano perchè si accettassero tali condizioni: ma veruna nazione aveva mai posseduto in così alto grado come i Fiorentini il coraggio delle risoluzioni, il coraggio civile, di lunga mano superiore al coraggio militare. Tutti i cittadini si accordarono in riporre l'onore e la libertà della repubblica al disopra de' personali motivi di pericolo o di ruina; l'arroganza delle compagnie avventuriere era un giogo ch'essi più non volevano sopportare; e volevano anzi ch'esse finalmente provassero quale resistenza erano capaci di opporre, onde dichiararono essi che a veruna condizione non permetterebbero alla compagnia d'entrare nel loro territorio[492].
Frattanto l'Italia tutta era partecipe dello sdegno de' Fiorentini contro questa associazione formata per assassinare, la quale da tredici anni rubacchiava le province, tradiva i sovrani e copriva di vergogna la milizia italiana. Questo sentimento fece accorrere in ajuto de' Fiorentini un gran numero di valorosi che cercavano opportunità di combattere contro i Tedeschi. Il conte di Nola di casa Orsini, condusse a Firenze trecento corazzieri mandati dal re di Napoli, e ben tosto gli tennero dietro dodici cavalieri napoletani, che avevano a loro spese formata una compagnia di cinquanta uomini[493].
Dopo essersi trattenuta alcun tempo a Bettona ed a Todi, la grande compagnia scese nel territorio di Siena, ed il 25 di giugno si avanzò fino a Buonconvento e Bagno a Vignone. Il 29 giugno i Fiorentini trassero la loro armata in campagna, e le si diede lo stendardo con grande ceremonia. Il capitan generale, Pandolfo Malatesti, avendo ricevuto lo stendardo reale dalle mani del gonfaloniere di giustizia, lo passò a Nicola de' Tolomei da Siena, che in allora trovavasi ai servigi della repubblica; confidò l'insegna de' figliuoli perduti ad un tedesco, detto Rolando, che da lungo tempo era al soldo de' Fiorentini, mostrando in tal modo, che facendo guerra agli avventurieri tedeschi, la repubblica non lasciava di continuare a por fede in coloro che le si erano mantenuti fedeli. L'armata contava quattromila cavalieri ed altrettanti pedoni, tutta gente scelta e comandata da buoni ufficiali. Pandolfo, munito di pieni poteri, partì senza che gli fossero dati nè consiglieri, nè sopravveglianti, ed andò ad accamparsi sulla Pesa per far testa ai nemici[494].
La compagnia che, sempre minacciando i Fiorentini, tenevasi rispettosamente lontana dal loro territorio, passò dietro Siena ed entrò per le Maremme nello stato di Pisa. L'armata fiorentina mutò allora posizione, e venne ad accamparsi a Montopoli. In appresso la compagnia s'avanzò fino a Pontadera sull'estremo confine pisano, e l'armata fiorentina andandole incontro, trovaronsi due sole miglia distanti l'una dall'altra. Ma i Fiorentini, ch'erano in pace coi Pisani, non volevano violarne il territorio; ed il conte Lando, sebbene il terreno non presentasse maggior vantaggio all'una o all'altra parte, non osò attaccare l'armata di Pandolfo. Dopo essersi tenuto cinque giorni in presenza di que' nemici, che aveva sì lungo tempo minacciati, il 10 luglio trasportò il suo quartiere a san Pietro in Campo nello stato di Lucca, girando in tal modo intorno alle frontiere fiorentine senza porvi mai piede. Pandolfo all'indomani prese posto alla Pieve a Nievole, nella stessa campagna, ma sul territorio fiorentino. Il paese che divideva le due armate era aperto e proprio a dar battaglia[495].
Il 12 luglio si videro giugnere al campo fiorentino alcuni trombetti del conte Lando, che portavano sopra rami di spine un guanto stracciato e sanguinoso. Uno di loro consegnò al generale una lettera colla quale il capitano della compagnia invitava quello che avrebbe cuore di combattere a togliere dal ramo spinoso il guanto tinto di sangue, che i tedeschi mandavano al fiorentini. Pandolfo in presenza di tutta l'armata levò il guanto ridendo, e dichiarò di essere pronto a difendere sul campo di battaglia il nome, la giustizia e l'onore della repubblica fiorentina. Fece bevere i trombetti e loro diede del danaro, poi li fece accompagnare colle trombe fino ai confini. Mentre si stava in attenzione della battaglia, Biordo e Farinata degli Ubertini, ch'erano esiliati come ribelli, giunsero al campo fiorentino con trenta cavalieri e chiesero che si facesse loro l'onore di riceverli tra i difensori della repubblica. Furono accolti con riconoscenza, e Biordo essendo morto non molto dopo, fu pomposamente seppellito a Firenze a spese dello stato.
Il 16 luglio Corrado Lando si mosse alla fine mostrando di volere attaccare l'armata fiorentina; e Pandolfo, avutone avviso, si avanzò dal canto suo per iscontrarlo. Ma quando Lando giunse ad un rialto circondato da torrenti e da rive scoscese, in allora chiamato campo alle mosche, fece alto, ed invece d'attaccare coloro che aveva sfidati, vi si fortificò con fosse e palafitte.
Allora i Fiorentini s'avvicinarono fino a minore distanza d'un miglio dai nemici; ma essi volevano tirarli nel piano non assalirli ne' loro trincieramenti; onde fecero avanzar alcune truppe leggiere per scaramucciare fino ai piedi delle palafitte. D'altra parte la compagnia trovavasi sul territorio pisano già da più di venti giorni oltre il tempo convenuto, e cominciava a sentire mancanza di vittovaglie. Il conte Lando sapeva che i Fiorentini spedivano infanteria sulle montagne per tagliargli la ritirata; onde risolse subitamente di bruciare il suo campo il 23 luglio avanti giorno, e di ritirarsi a precipizio sul Colle alle donne posto nel territorio di Lucca, abbandonando vergognosamente il cominciato attacco, e lasciando ai Fiorentini tutta la gloria della campagna.
Fu con una più sanguinosa prova del loro valore che gli svizzeri, un secolo più tardi, rispinsero una compagnia della stessa natura, e che alla battaglia di san Giacomo, in riva alla Birs insegnarono agli Armagnacchi a rispettare i confini di un popolo libero[496]. Ma sebbene i Fiorentini in quest'occasione dessero piuttosto prova di fermezza che di valor militare, il coraggio con cui fecero testa alla compagnia, tenne luogo per loro d'una vittoria; perciocchè abbattè per sempre l'orgoglio de' mercenarj, mise un termine alle loro ribalderie, e liberò la repubblica da un vergognoso tributo ch'essa era stata forzata a pagar loro. Gli altri stati d'Italia impararono altresì in quest'occasione, che la sicurezza si trova meglio nella resistenza che nella sommissione; perchè gli assassini che non combattono che per la preda, inseguono coloro che fuggono, e s'allontanano da quelli che si apparecchiano alle difese[497]. La compagnia scoraggiata e coperta di vergogna si disperse in gran parte dopo la fuga dal campo alle mosche. Il rimanente, sotto la condotta del conte Lando e di Anichino Bongarten, passò al servigio del marchese di Monferrato[498].
Pandolfo Malatesti fu ricevuto a Firenze in trionfo allorchè v'andò a deporre il bastone del comando; egli tornò in appresso a Rimini colmo de' presenti della signoria. Per altro i Fiorentini non risguardarono la guerra come affatto terminata per la fuga della compagnia. Quando seppero ch'erasi posta al soldo del marchese di Monferrato, e che ostilmente entrava nel territorio di Barnabò Visconti, spedirono a questi mille cavalieri sotto la loro bandiera per ajutarlo a difendersi contro questa truppa di assassini, di cui ad ogni costo volevano purgare l'Italia[499]. Vero è che non hanno potuto combatterli lungo tempo, imperciocchè il conte Lando, non ismentendo la sua ordinaria infedele condotta, abbandonò il marchese di Monferrato, cui erasi obbligato di servire, ed in ottobre passò con mille cinquecento corazzieri nello stesso campo di Barnabò Visconti, ove militavano i Fiorentini[500]. Poco dopo traviò ancora il resto della compagnia, che sotto gli ordini d'Anichino Bongarten era rimasta ai servigi del marchese. Questa doppia diserzione rendendo preponderante la potenza de' Visconti produsse la sommissione di Pavia, come abbiamo già osservato, e l'ingresso in Italia degl'Inglesi, come ausiliarj del marchese di Monferrato, de' quali parleremo nel susseguente capitolo.
Dopo che la compagnia ebbe abbandonata la Romagna, Francesco degli Ordelaffi continuò per due altri mesi a difendersi in Forlì contro il legato. Ma quando perdette la speranza de' soccorsi della compagnia, fece col mezzo del signore di Bologna tasteggiare Albornoz, ed essendo stato assicurato che verrebbe generosamente trattato, si arrese il 4 luglio del 1359 senza capitolare. Si presentò da penitente in un parlamento che il legato aveva adunato a Faenza; confessò tutti i suoi torti verso la chiesa romana, e si sottomise ad espiarli colle cerimonie che gli furono prescritte, visitando certe chiese di Faenza in un determinato numero di giorni, ed egli continuò questa penitenza fino al 17 luglio. In tale giorno il cardinale Albornoz gli rese la comunione ad Imola, ed in pari tempo annullò tutte le sentenze contro di lui pronunciate dai tribunali ecclesiastici. Sua moglie Marzia, i suoi figli ed i prigionieri fatti a Cesena, furono posti in libertà, e furono a Francesco accordate per dieci anni le signorie di Forlimpopoli e di Castrocaro[501]. Così terminò la guerra della Romagna, e tutta questa provincia rientrò nell'ubbidienza della chiesa romana[502].
CAPITOLO XLVI.
Bologna sottomessa alla Chiesa; guerra dei Visconti col papa. — Conquiste delle repubbliche sopra la nobiltà immediata. — Congiure a Firenze, a Pisa, a Bologna ed a Perugia.
1359 = 1361. In tutto il tredicesimo secolo e ne' primi anni del quattordicesimo, la città di Bologna contavasi tra le più potenti repubbliche d'Italia. La sua ricchezza, il commercio, la numerosa popolazione ed il fiorente stato della sua università, la facevano rispettare dai suoi vicini, e temere dai suoi nemici. Ma quando nel 1337 Bologna venne in potere della casa de' Pepoli, cadde in uno stato di languore, di debolezza, di miseria, che andò sempre peggiorando nelle susseguenti rivoluzioni. Il dominio de' Visconti era stato più oppressivo di quello de' Pepoli, e la tirannide di Giovanni d'Oleggio ancora più pesante che quella de' Visconti. Eppure Oleggio aveva fama di essere uno de' più accorti politici del suo secolo, ed era risguardato qual uomo che in sè riuniva tutte le qualità proprie a far prosperare un tiranno. Erasi egli proposto di farsi temere dai cittadini ed amare dai soldati, ed aveva perciò sagrificati i primi agli ultimi, i deboli ai potenti. La sua vigilanza non era mai stata sorpresa, sebbene dovesse guardarsi dai Visconti, i più perfidi signori d'Italia, i quali profondevano il danaro per comperar traditori, facendo contro di lui nascere cospirazioni ad ogni istante. Ma Oleggio aveva sventate tutte le loro trame, e mentre aveva puniti coi più atroci supplicj i Bolognesi, suoi sudditi, aveva talvolta perdonato ai soldati complici delle medesime congiure con una generosità cavalleresca. Così mostrossi clemente verso uno dei figliuoli di Castruccio che l'aveva tradito, e questa affettata clemenza gli aveva guadagnato l'amore de' suoi soldati. Rispetto al popolo, poco temeva il suo odio; egli tenevalo disarmato, e confortavasi delle sue maledizioni, poichè lo vedeva ubbidiente.
Con non minore destrezza aveva l'Oleggio diretta la sua esterna politica. Quando la cura della sua difesa, rinforzata dall'ambizione, lo aveva consigliato ad usurpare la signoria di Bologna, egli era entrato nella lega de' principi lombardi contro i Visconti, di cui aveva in allora scosso il giogo; aveva presa una parte attiva nella guerra, e col suo zelo pei comuni interessi erasi meritata la stima degli alleati. Nella pace del 1358, fatta tra la lega ed i signori di Milano, Oleggio era stato riconosciuto da questi quale sovrano indipendente, onde aveva cercato di ravvicinarsi ad una famiglia cui apparteneva. Nè solo aveva fedelmente osservati i trattati coi Visconti, ma loro aveva recentemente spediti sei cento corazzieri, di cui si valsero utilmente contro il marchese di Monferrato. D'altra parte aveva l'Oleggio assecondato il legato Egidio Albornoz nella sua spedizione di Romagna, gli aveva somministrati soldati, ed in appresso erasi fatto mediatore del suo trattato coi signori di Faenza e di Forlì. Per ultimo egli aveva resi i più importanti servigi al conte Lando, che, come capo della grande compagnia, non era al certo il più debole de' suoi alleati. Aveva, dopo la rotta di Scalella, strappato questo capitano dalle mani degli Alpigiani, l'aveva fatto guarire dalle sue ferite ed ajutato ad adunare di nuovo la sua truppa. Oleggio era in pace, era alleato con tutti i suoi vicini; ma veruna fede, veruna promessa, veruna riconoscenza lega i tiranni; e quando il signore di Bologna fu improvvisamente attaccato, niuno di coloro ch'egli si era obbligato co' suoi beneficj, si mosse per soccorrerlo.
I Visconti erano riusciti in ottobre a sedurre il conte Lando, e poco dopo Anichino Bongarten, i quali con tutta la compagnia di ventura abbandonarono le insegne del marchese di Monferrato per prendere servigio sotto i signori di Milano. Quasi tutta l'armata del nemico era passata nel loro campo, dove, oltre le proprie truppe, trovavansi mille corazzieri mandati in loro ajuto dai Fiorentini e seicento dal signore di Bologna. Essi non avevano più nulla a temere dai loro nemici, e questo sembrò loro il più propizio istante di schiacciare un alleato con un atto di perfidia. Ridussero i sei cento cavalieri, mandati dall'Oleggio, ad abbandonare il proprio padrone, ed a prestar loro giuramento di fedeltà. Questa diserzione, che in pari tempo indeboliva il signore di Bologna, e rendeva essi medesimi più forti, fu comperata a prezzo d'oro. Tosto che l'ebbero ottenuta, dichiararono la guerra a Giovanni d'Oleggio, ed in dicembre fecero invadere il suo territorio da Francesco d'Este cugino ribelle del signore di Ferrara[503]. L'armata che comandava questo generale era composta di tre mila corazze, di mille cinquecento Ungari, di quattro mila fanti e di mille arcieri. Oleggio chiese invano soccorso a tutti i suoi alleati; il solo legato gli mandò quattrocento cavalli, meno pel suo vantaggio, che per avere opportunità di colorire i progetti ch'egli di già formava sopra Bologna. Questa truppa non bastando per tenere la campagna, Oleggio si afforzò nella sua capitale, e si dispose a sostenere un assedio[504]. Nello stesso tempo ritirò da ogni castello gli uomini di cui credeva non doversi fidare, e chiese ostaggi agli abitanti per obbligarli a difendersi vigorosamente.
In fatti Francesco d'Este cominciò l'assedio di alcune fortezze del Bolognese: Crevalcuore gli si arrese il 20 dicembre, ed alla fine di febbrajo del 1360 Castiglione. Oleggio vedeva chiaramente che tutti i suoi castelli gli verrebbero tolti l'un dopo l'altro, se non otteneva esterni soccorsi. Invano sforzavasi d'interessare i Fiorentini nella sua difesa; questi, sebbene temessero la vicinanza dei Visconti, volevano scrupolosamente osservare il trattato di pace che sussisteva tra di loro. Soltanto il legato lo soccorse quanto bastava perchè non cadesse, ma non per liberarlo; ed intanto gli andava insinuando di cedere alla chiesa una signoria che non poteva omai avere fondata speranza di difendere[505].
Per terminare le conquiste progettate dal cardinale Albornoz, la sola Bologna mancava agli stati della chiesa. Finchè il signore di questa città non aveva altri possedimenti, poteva il legato lusingarsi che tosto o tardi giugnerebbe l'istante di ridurla all'ubbidienza della santa chiesa; ma avrebbe dovuto rinunciare ad ogni speranza, se veniva in mano de' Visconti. Il legato voleva dunque approfittare del pericolo in cui trovavasi l'Oleggio per determinarlo a vendergli la sua sovranità, ma nello stesso tempo aveva bisogno dell'assenso del papa e della corte d'Avignone per fare un'intrapresa che poteva essere pericolosa. Albornoz spedì adunque ad Innocenzo VI per impegnarlo a far valere i diritti della chiesa sopra una città compresa, come quelle di Romagna, nelle donazioni degl'imperatori. Questo doppio negoziato coll'Oleggio e col papa non poteva tenersi segreto, e Barnabò Visconti, che n'ebbe avviso, si sforzò di sventarlo. Egli cercò con ricchi doni di guadagnare i suffragi de' cardinali, di modo che questi, divisi tra l'ambizione e l'avarizia, ora davano ora rivocavano l'assenso loro richiesto da Albornoz. Ma il legato, ch'era d'un carattere intraprendente e intrepido, risguardossi come bastantemente autorizzato da questa stessa irresoluzione[506]. Si affrettò ancora più quand'ebbe sentore che Oleggio trattava in pari tempo con Barnabò, onde alla metà di marzo conchiuse col primo un trattato, in virtù del quale Bologna doveva tornare alla chiesa, ed Oleggio ricevere in compenso la città di Fermo ed il suo territorio col titolo di marchese.
Quando in Bologna si rese pubblico questo trattato la gioja fu universale tra i cittadini, che lusingavansi di ricuperare, almeno in parte, l'antica loro libertà sotto il governo della chiesa. Ma non desideravano soltanto di scuotere il giogo d'Oleggio, essi morivano di voglia di vendicarsi delle precedenti sue crudeltà; e siccome tutti i suoi soldati erano passati al soldo del legato, lo avevano di già costretto a rifugiarsi nella fortezza, e cercavano qualche occasione di averlo in mano. Ma l'accorto tiranno trovò modo di fuggire il 31 marzo nel cuore della notte[507]; e dopo avere cinque anni governata Bologna con eccessiva crudeltà, dopo aver fatto scorrere sul palco il sangue di cinquanta de' più rispettati cittadini, e di moltissime persone non qualificate, dopo avere finalmente spogliata la città di tutte le sue ricchezze, cambiò una signoria, ch'era all'istante di perdere, contro una nuova signoria, ove non aveva da temere verun nemico. Colà trasportò tutti i suoi tesori lasciando al legato ed ai Bolognesi il pensiere di continuare soli una guerra che si era contro di lui cominciata[508]. Oleggio morì in Fermo l'otto ottobre del 1366, e a tale epoca solamente questa città tornò sotto il dominio della chiesa[509].
Il legato affidò il governo di Bologna a suo nipote Velasco Fernandez[510] ed a Niccola Farnese, capitano delle truppe della chiesa. Nello stesso tempo minorò le contribuzioni poste dall'Oleggio[511], e ristabilì in Bologna un governo municipale simile a quello che aveva avuto quand'era repubblica. Furono richiamati i fuorusciti, fra i quali i Pepoli, Bentivoglio e Vizzani, che abbandonarono il campo di Barnabò Visconti per ripatriare. Intanto il legato fece avvisare il signore di Milano, che Bologna era tornata in potere della chiesa, sua legittima sovrana, e gl'intimava perciò di richiamare la sua armata da uno stato con cui era in pace. Ma Barnabò, invece di richiamare il suo generale, gli mandò nuovi rinforzi; e le truppe del Visconti guastarono tutto il territorio bolognese[512], portarono la ruina fin presso alle mura di Faenza, tentarono di sorprendere Forlì, occuparono Budrio ed assediarono Cento, mentre una guerra in mezzo agli Appennini tra due rami della famiglia degli Ubaldini chiudeva la strada di Toscana ai Bolognesi ed al legato, ed impediva loro di comunicare col solo paese da cui potessero sperare soccorsi e vittovaglie[513].
Mentre Barnabò Visconti spingeva caldamente la guerra sul territorio di Bologna, agitava co' suoi maneggi la corte d'Avignone, e faceva valere le sue pretese innanzi ad un tribunale ecclesiastico. Il papa aveva, per dodici anni, infeudato Bologna all'arcivescovo Visconti. Su questo fondamento Barnabò domandava il possesso d'un feudo accordato alla sua famiglia. Ma gli si opponeva, ch'egli non aveva mai pagato il tributo convenuto in questa infeudazione, ch'egli aveva riconosciuto due anni prima i diritti dell'Oleggio, e che questi gli aveva tutti ceduti alla chiesa. Barnabò fu alla fine, a stento, condannato da' cardinali, non pochi de' quali erano a lui venduti. Vero è che la corte d'Avignone, dopo avere pronunciata questa sentenza, non pensò ai mezzi di farla eseguire. Invece di levare dal suo tesoro alcuni sussidj da mandarsi al cardinale, sollecitò l'imperatore, i principi di Germania, il re d'Ungheria, i signori di Lombardia, i comuni toscani ad armare a suo favore. Le sue proprie entrate venivano dissipate dai cortigiani, ed il legato non aveva potuto ottenere dalla camera apostolica per le spese della guerra, che centoventi mila fiorini, che furono pagati in tre rate lontane; di modo che quando gli giugnevano questi tardi sussidj, erano di già consumati[514].
Il generale de' Certosini fu l'ambasciatore mandato dal papa ai Fiorentini per ridurli ad abbracciare le sue difese. Cercò invano questo religioso di persuadere alla signoria, che verun trattato obbligava verso un tiranno, un usurpatore o un nemico della chiesa; cercò invano di far sentire ai Fiorentini i pericoli che per l'ingrandimento di Barnabò sovrastavano alla Toscana. La repubblica era determinata di osservare religiosamente gli obblighi che aveva contratti, e la sua politica andava d'accordo colla buona fede; perciocchè era ben facile il prevedere, che la chiesa abbandonerebbe ben tosto chiunque prendesse a difenderla, e lo lascerebbe sostener solo il peso che avrebbe acconsentito di dividere[515].
Durante la state del 1360, i castelli del Bolognese caddero quasi tutti in potere de' Visconti; ed ancora gli abitanti delle città cominciavano a provare le più dure privazioni. Due de' signori di Rimini Galeotto Malatesti, e Malatesti Unghero, eransi incaricati della difesa di Bologna, e comandavano le sortite dei cittadini. Questi, per mantenere la ricuperata libertà, si sottomettevano alla militare disciplina, e riprendevano con piacere le armi. Ma non era che colla spada alla mano, che riuscivano a dividere coi loro nemici i proprj raccolti, ed a far entrare munizioni in città[516].
Tutt'ad un tratto il generale di Barnabò levò il campo il 15 di settembre, ed abbandonò, disordinatamente fuggendo, il territorio ceduto alla chiesa[517]. Egli fuggiva alla vista di un'armata barbara, cui la liberazione di Bologna era stata predicata come oggetto d'una crociata. Albornoz aveva promesso agli Ungari le più ampie indulgenze per chiamarli in Italia; ed in tal modo ne aveva persuasi sette mila a passare in Romagna con settecento corazzieri mandati dal duca d'Austria. Ma questi nuovi crociati usciti dalla più ignorante classe di una nazione da poco ridotta a civiltà, erano uomini senza fede e senza pietà, avidi soltanto di preda, e che, dal momento che giugnevano in un paese pellegrinando, dimenticavano il loro progetto di santificarsi, e si diportavano piuttosto da assassini che da soldati[518].
Gli Ungari, giunti nel Bolognese quando n'era di già uscita l'armata de' Visconti, terminarono il guasto cominciato dai nemici. Saccheggiavano essi i raccolti, e spesso uccidevano i contadini fin presso alle porte della città. All'aspetto di tante crudeltà il legato finse di corrucciarsi col conte Simone della Morta, capo di quest'armata di barbari. Barnabò Visconti, avvisato delle divisioni insorte tra i nemici, licenziò parte delle sue truppe per diminuire in tempo d'inverno le spese del suo stato militare. Il legato l'aveva preveduto, ed in allora si mostrò di subito riconciliato cogli Ungari, accolse tutti i soldati licenziati dal Visconti, e spinse improvvisamente a mezzo novembre tutta la sua armata nel territorio di Parma: Galeotto Malatesti, che la comandava, non incontrò chi gli si opponesse, e fece sul territorio nemico una ricchissima preda[519].
Ma questo piccolo vantaggio non bastava a rimettere in buono stato gli affari del legato. La corte d'Avignone non gli mandava i promessi sussidj, e mancando di danaro era forzato a licenziare le truppe dopo una breve campagna: Barnabò al contrario era ricchissimo onde poteva impiegare nell'impresa di Bologna seicento mila fiorini; e col danaro rimontava subito dopo la disfatta un'armata mercenaria. Albornoz, abbandonato dalla sua corte, le di cui entrate venivano dissipate dalla corruzione e dall'intrigo, ebbe di nuovo ricorso all'assistenza degli stranieri. In primavera del 1361 andò per la seconda volta in Ungaria, ed ottenne dal re Luigi lettere patenti che vietavano a tutti gli Ungari, che militavano in Italia, di portare le armi contro la chiesa[520]. Albornoz non raccolse altro frutto dal suo viaggio, nè furono più felici i suoi deputati presso la signoria di Firenze: quella repubblica fu costante nella presa risoluzione di essere fedele ai suoi trattati con Barnabò; e solamente accordò ai Bolognesi alcune facilitazioni per tirare i loro approvvigionamenti dalla Toscana[521].
Una nuova armata dei Visconti, comandata da Giovanni di Bileggio, cavaliere milanese, guastò in principio dell'estate il Bolognese e gran parte della Romagna; e persuase a ribellarsi alla chiesa Francesco Ordelaffi, cui Barnabò prometteva di rendere la signoria di Forlì[522]. Ma quando le cose del legato parevano quasi disperate, fu salvata Bologna, e rotta l'armata dei Visconti da un raggiro del vecchio Malatesta di Rimini, che come tiranno e come Romagnolo, doveva essere tenuto maestro di perfidia: imperciocchè a tale epoca la malvagia fede degli abitanti della Romagna era in ogni parte d'Italia passata in proverbio[523].
Il vecchio signore di Rimini mandò un suo fidato al generale milanese per proporgli una segreta alleanza. Doveva questo negoziatore dire a Bileggio, che il Malatesti non aveva scordata la guerra fattagli dal legato quando venne in Italia, nè la conquista d'Ancona e di Sinigaglia: che prevedeva altresì che il legato lo spoglierebbe ancora delle altre città tostocchè la guerra di Bologna avesse fine: ch'egli perciò aspettava il propizio istante per iscuotere il giogo; ma che il forte castello d'Arcangelo, che signoreggiava Rimini, e che trovavasi occupato dalle truppe della Chiesa, rendeva la sua ribellione pericolosa. Non pertanto egli aveva saputo, soggiugneva il messo, guadagnare alcuni del castello, e se mille cinquecento cavalli ghibellini si avanzassero verso Rimini per proteggerlo, più non tarderebbe a dichiararsi scopertamente: che suo fratello e suo figlio, che comandavano a Bologna le truppe della Chiesa, le caverebbero fuori sotto pretesto di soccorrere il loro paese: che gli assedianti dovevano approfittare di questo incontro per togliere ai Bolognesi ogni comunicazione colla Toscana, innalzando un ridotto sulla strada di Pianoro. Bologna privata ad un tempo della sua guarnigione, sedotta dai Malatesti, e de' suoi viveri, che più non potrebbero giugnerle dalla Toscana, caderebbe di necessità in mano ai Visconti.
I motivi di Malatesti erano così plausibili, così bene combinato sembrava il suo piano, che Giovanni da Bileggio gli prestò intera fede. Staccò mille cinquecento cavalli per farli avanzare fin presso Rimini, sotto la condotta di Francesco degli Ordelaffi, quello stesso che era stato signore di Forlì, e coll'altra metà dell'armata egli si avanzò sulla strada di Pianoro fino al ponte di san Ruffolo. Colà gettò in mezzo al letto della Savenna i fondamenti di un ridotto, che, se avesse potuto terminarlo, avrebbe infallibilmente chiusa la strada della Toscana.
Galeotto Malatesti, fratello del vecchio signore di Rimini, sortì di Bologna con cinquecento corazzieri e trecento Ungari, facendo le viste di voler tener dietro all'Ordelaffi; ma quando giunse a Faenza, chiamò a sè i corazzieri che vi stavano di guarnigione, e riprese subitamente la strada di Bologna, ed attraversando il territorio imolese, rientrò in Bologna il 19 luglio in sul fare della sera, seco riconducendo varj corpi di truppe, che aveva adunate sulla strada. Suo nipote Malatesti Ungaro, che comandava nella città, fece credere ai cittadini che i soldati che rientravano, erano una guardia avanzata che richiamava entro le mura; ed intanto fece accuratamente guardare le porte, onde veruna spia non potesse avvisare i suoi nemici ch'egli aveva ricevuto così grosso rinforzo.
All'indomani, domenica 20 luglio, il suono della maggior campana chiamò i Bolognesi alle armi. Quattro mila di loro sortirono contro al nemico sotto il comando del podestà e dei due Malatesti, ed occuparono in silenzio le due rive della Savenna, prima che l'armata de' Visconti avesse sentore del loro avvicinamento. Tutt'ad un tratto mostraronsi da ogni banda coi corazzieri e gli Ungari, che Giovanni da Bileggio credeva in fondo alla Romagna, ed avendo per loro il vantaggio del terreno, attaccarono furiosamente i Milanesi chiusi nel letto del fiume. Questi per altro si difesero valorosamente; ma circa cinquecento di loro furono uccisi nel luogo medesimo in cui facevasi il ridotto, più di altri cinquecento perirono nel volere aprirsi un passaggio attraverso ai nemici, mille trecento corazzieri furono fatti prigionieri, tra i quali Giovanni da Bileggio e molti signori degli Ubaldini; in fine quasi non si salvarono altri di quest'armata che trecento corazzieri, che erano stati staccati per iscortare un convoglio di vittovaglie, e che fuggirono a tempo. Il progetto di Malatesti tendeva a sorprendere nello stesso tempo l'altra metà dell'armata ghibellina, che Francesco degli Ordelaffi aveva condotta in Romagna; ma questi, avvisato della rotta de' suoi alleati si riparò sollecitamente a Lucco, ove si pose al sicuro. Quando la notizia di questa disfatta fu recata a Barnabò Visconti, vestì di nero in segno della sua afflizione; ed i suoi cortigiani temevano in modo la rabbia ch'egli ne aveva concepita, che niuno di loro, per più giorni, non osò avvicinarlo[524].
I due fratelli Visconti nel caldo della loro collera contro la chiesa, cercarono di vendicarsi con istraordinarie contribuzioni poste sul clero de' loro stati. Del resto essi dovevano impiegare ogni mezzo per far danaro, perciocchè le spese loro superavano sempre le loro immense entrate. Essi in qualche parte d'Italia guerreggiavano sempre, comperavano ad ogni prezzo i tradimenti de' generali o de' ministri de' loro nemici, e nello stesso tempo, siccome ambivano d'imparentarsi colle reali case d'Europa, pagavano tali alleanze a peso d'oro. Galeazzo Visconti, il più vano dei due fratelli, aveva saputo approfittare dello stato di miseria in cui una lunga guerra aveva ridotto Giovanni, re di Francia, per comperare da lui sua figliuola Isabella di Valois con un regalo di seicento mila fiorini. Egli l'aveva data in isposa in ottobre del 1360 a suo figliuolo Giovan Galeazzo, che allora non aveva che undici anni[525]. I signori di Milano, malgrado tutta la loro potenza, non avevano ancora verun legittimo titolo sopra gli stati che occupavano. Essi d'ordinario venivano in Italia chiamati tiranni; ed in Francia, sebbene fossero di nobile casato, erano sprezzati, come principi nuovi; onde quel re, affinchè sua figlia avesse almeno un titolo, investì il suo genero della piccola contea di Virtù, lontana sei leghe da Scialona nella Sciampagna. In fatti è col titolo di conte di Virtù che Giovanni Galeazzo, primo duca di Milano, fu chiamato per lo spazio di trentaquattro anni.
Questo matrimonio, che fece arrossire i Francesi per la loro reale famiglia, e che non fu meno cagione di mortificazioni ai Visconti per conto dello stesso prezzo che lo dovettero pagare, venne celebrato con una pompa che esaurì le finanze dello stato. Tutta la nobiltà d'Italia fu invitata alle feste date in tale occasione, come pure tutti gli ambasciatori di tutti i principi e di tutte le città. Contaronsi ne' banchetti fin cento signore e mille cavalieri delle più illustri famiglie; tutti i convitati furono magnificamente regalati, e la corte di Milano cercò con un lusso e con una pompa straordinaria di fare scordare alla nuova sposa i reali onori che aveva perduti[526].
La Francia, che in tal modo vendeva il sangue de' suoi principi, era inallora nel più deplorabile stato in cui siasi giammai trovata quella monarchia. Dall'una all'altra estremità il regno era stato ruinato dalle incursioni degl'Inglesi, dalle eccessive imposte levate per difesa dello stato e per pagare la taglia del re, dai tradimenti del malvagio re di Navarra e dalle guerre civili da lui promosse, dalla ribellione de' contadini, conosciuta sotto il nome di Jacquerie; finalmente, per mettere il colmo alla sua oppressione, il regno trovavasi in tale epoca abbandonato al saccheggio delle grandi compagnie, e travagliato dalla peste. Le prime compagnie si erano formate di soldati francesi ed inglesi, quando la pace di Bretigny aveva fatte licenziare le due armate. Molte di quelle compagnie passarono in Provenza, a cagione che questa parte del regno, più lontana dal teatro della guerra, aveva meno sofferto, ed i vassalli di Giovanna di Napoli e quelli del papa potevano ancora pagare grosse contribuzioni. Una compagnia occupò Ponte santo Spirito otto leghe al disopra di Avignone[527], ed un'altra, detta la compagnia bianca o inglese, si avanzò a due sole leghe da Avignone, sotto pretesto di cacciar via la prima, ma in sostanza per ismugnere danaro dai prelati: una terza, composta di soldati che avevano militato nella guerra che si fecero i conti di Fois e d'Armagnacco, giunse dalle frontiere della Spagna[528]. Tutti gli abitanti di Avignone furono costretti di fare la guardia, e tutta la città si riempì di spavento. Il papa pagò cento mila fiorini alla seconda compagnia, che aveva sei mila cavalli, onde persuaderla a passare in Piemonte ai servigi del marchese di Monferrato; ma quando questa compagnia allontanossi in maggio del 1361, rimasero in Provenza le altre due non meno formidabili, una sulla destra, l'altra sulla sinistra riva del Rodano, ed i Provenzali non furono quasi punto sollevati per l'allontanamento di una[529].
Lusingavasi la compagnia inglese di sottrarsi alla peste passando in Italia, ma ella portava seco i semi della pestilenza. Questo terribile flagello manifestossi in Fiandra nel 1360 con i medesimi sintomi che l'avevano annunciato nel 1348. Di là si stese nel vescovado di Liegi, nella bassa Germania, nella Polonia, nell'Ungheria[530]. In sul cominciare della state del 1361 si spiegò la peste anche in Londra, ove si videro morire fino mille duecento persone in un giorno, ed in pari tempo si sparse in tutta la Francia. In Avignone morirono nove cardinali, settanta prelati ed un infinito numero di abitanti. La compagnia inglese portò la peste in Lombardia; più delle altre città soffrirono Milano, Pavia, Como e Venezia; in seguito furono colpite la Romagna e la Marca; e perfino nelle stesse Alpi, e negli Appennini i castelli degli Ubaldini[531].
I fratelli Visconti non opposero armata alla compagnia inglese, che spediva contro di loro il marchese di Monferrato; si limitarono a far guardare le città murate, ed in appresso non pensarono che a preservare sè medesimi dalla peste. Galeazzo si chiuse nel castello di Monza, e Barnabò in quello di Melegnano. Questo principe non volendo ricevere chicchefosse diede ordine ad una scolta, che stava di guardia sull'alto del campanile, di toccare tante volte la campana quanti uomini vedrebbe avvicinarsi al castello. Un giorno Barnabò, senz'esserne avvisato dal suono della campana, vide giugnere alcuni gentiluomini milanesi, che venivano a fargli la loro corte. Diede subito ordine di punire la scolta della sua negligenza col gettarla giù dalla torre; ma coloro ch'erano saliti per ucciderla, la trovarono morta di peste presso la campana. Estremo fu lo spavento di Barnabò a tale notizia; egli fuggì in una casa destinata alla caccia, posta nel centro delle sue più rimote foreste; a due miglia di distanza tutto all'intorno fece piantare pali e forche, ponendo scritture in ogni luogo, che minacciavano di far appiccare senza remissione chiunque avrebbe l'ardire di avanzarsi oltre la linea[532]. Egli rimase in questa solitudine, senza comunicare con alcuno, finchè cessò la peste; e la sua assoluta reclusione accreditò ben tosto le voci della di lui morte, ch'egli non si curò di smentire.
La peste, che desolava il rimanente dell'Italia, non penetrò in Toscana che l'anno dopo; e le repubbliche di questa contrada prosperavano, quando la guerra de' Visconti colla Chiesa e col marchese di Monferrato desolava le limitrofe province. Durante questo stesso periodo le repubbliche toscane allargarono il loro territorio, comperando feudi dai gentiluomini del vicinato, ed anche forzandoli talvolta a sottomettersi.
I Fiorentini in particolare fecero colle armi o col danaro i più considerabili acquisti. In agosto del 1359 assediarono Bibbiena, ricca borgata, che Pietro Saccone aveva in altri tempi tolta al vescovo ed alla città d'Arezzo, e che al presente era posseduta dai Tarlati suoi figliuoli[533]. I Fiorentini, che conoscevano l'importanza di Bibbiena per la difesa di Val d'Arno superiore, non lasciaronsi smuovere dalla ostinata resistenza degli assediati. Acquistarono i diritti del vescovo e della città d'Arezzo su questo castello[534], ed il 6 gennajo del 1360 l'ottennero per capitolazione. Tre Tarlati e circa quaranta loro soldati furono fatti prigionieri[535].
Marco, figliuolo di Galeotto, signore di san Niccola e di Soci, approfittò di quest'occasione per offrire senza condizioni i suoi due castelli alla repubblica. Era questo il più sicuro mezzo di venderli ad alto prezzo, e gli furono generosamente pagati[536]. Circa lo stesso tempo gli Aretini tolsero ai Tarlati Pieve a santo Stefano, Montecchio e Chiusi[537]; il castello di Serra si diede volontariamente ai Fiorentini, e mentre Pietro Saccone aveva nella lunga sua vita signoreggiati metà degli Appennini, e renduta formidabile a tutta la parte guelfa la sua famiglia, questa quattro anni dopo la di lui morte trovavasi ridotta nel più basso stato[538].
Presso ai feudi dei Tarlati e sulla strada di Firenze a Pietra Mala, il conte Tano, della famiglia Alberti, possedeva i due castelli di Monte Carelli e di Monte Vivagni, ch'erano diventati asili di assassini. Tano erasi alleato all'arcivescovo Visconti, quando questi era in guerra coi Fiorentini, e dopo tale epoca erasi conservato fedele ai signori di Milano, malgrado l'avviso che un giorno gli diede il suo buffone. Essendosi questi gettato entro ad un fosso, che divideva i dominj del conte da quelli della repubblica fiorentina, si fece a gridare all'armi con quanta voce poteva. I Fiorentini, accostumati dalle frequenti vessazioni del conte a correre alle armi al menomo segnale, si adunarono in numero d'oltre cinquecento. Il conte accorse ancor esso e rampognò il buffone d'avere sparso l'allarme in tutto il paese: «Guarda conte, gli rispose il buffone, come alle mie sole grida sonosi ragunati cinquecento uomini del territorio fiorentino, senza che sia venuto in mio ajuto un solo servitore de' signori di Milano; non vedi tu in buona fede, che tu potresti suonare il corno d'Orlando tutto l'anno senza poter far venire da Milano in tuo soccorso cinque uomini[539].» La predizione del buffone si avverò: stanca la repubblica fiorentina di soffrire in Mugello le avarie del conte Tano, dopo aver chiesto ed ottenuto l'assenso de' Visconti, fece assediare i due castelli di Monte Carelli, e di Monte Vivagni, i quali furono presi e riuniti al territorio fiorentino, e il conte Tano trattato qual capo d'assassini perdette la testa sul patibolo.
La famiglia degli Ubaldini, non meno potente di quella dei Tarlati, possedeva vasti feudi negli Appennini; ma di questi tempi s'andava indebolendo con una guerra domestica. Era divisa in due rami, chiamati di Maghinardo e di Susinana, i quali si battevano con accanimento. La repubblica fiorentina, verso la fine del 1360, comperò tutte le giurisdizioni del ramo dei Maghinardo, e le due castella di Monte Gemmoli e di Monte Coloreto pel prezzo di sei mila fiorini. In pari tempo accordò all'illustre famiglia degli Ubaldini il privilegio di rinunciare alla sua nobiltà per entrare nella classe de' cittadini di Firenze, e concorrere ai pubblici impieghi[540]. Lo stesso privilegio era stato l'anno precedente accordato agli Ubertini per compensarli de' servigi resi alla repubblica contro la grande compagnia[541]. Di modo che, quasi nello stesso tempo, le tre grandi famiglie che signoreggiavano gli Appennini, furono ridotte all'ubbidienza della repubblica.
Nello stesso anno i Sienesi sottomisero al loro dominio i conti di santa Fiora, i più grandi feudatarj ghibellini ed indipendenti del suo vicinato[542]. I Pistojesi occuparono il castello della Sambuca[543]: i Perugini molti di quelli de' Tarlati postisi sotto la loro protezione. Ma mentre che le repubbliche toscane s'ingrandivano a spese della nobiltà immediata, furono tutte agitate la volta loro da cospirazioni, e tutte ebbero la fortuna di scoprire a tempo le trame che minacciavano la loro esistenza.
La congiura di Pisa fu la prima a scoppiare. I mercanti e gli artigiani di questa città erano ruinati dall'allontanamento de' Fiorentini, i quali avevano dietro loro tirati a Telamone i più ricchi mercanti stranieri, lasciando il porto di Pisa ed i suoi mercati deserti. I Raspanti, che governavano la repubblica, venivano chiamati autori d'ogni danno che soffriva il commercio: essi, dicevasi, si erano sforzati, per odio che portavano ai Guelfi, di far nascere una guerra tra Firenze e la loro patria, mentre i Bergolini, che governavano prima, avevano rappacificate le due repubbliche. I Gambacorti, capi della precedente amministrazione, erano ancor essi mercadanti, e non avevano sagrificato l'interesse generale ai pregiudizj del partito ghibellino, dal quale cominciavano a staccarsi. Un agente di cambio, detto Federigo del Mugnajo, assicurato che tutti i mercanti di Pisa erano malcontenti, intraprese a riunirli per cacciare i Raspanti, e richiamare i Bergolini. La sua professione lo aveva reso noto a tutti i mercanti, e gli dava frequenti occasioni d'udire le loro lagnanze intorno allo stagnamento del commercio. Egli incoraggiava tali lagnanze, faceva il confronto dell'imprudente animosità dei Raspanti colla savia moderazione de' Gambacorti. Quando vedeva coloro che lo ascoltavano abbastanza irritati, sicchè potesse sperare d'impegnarli a secondarlo, loro esponeva i suoi progetti. I congiurati dovevano occupare la piazza il venerdì santo, 3 aprile 1630, dovevano uccidere i principali capi de' Raspanti, richiamare i Bergolini dall'esilio, e rendere ai Fiorentini le antiche loro esenzioni. Questa trama venne denunciata alla signoria il giovedì santo; onde vennero arrestati diciotto de' principali congiurati, otto de' quali furono condannati alla morte, e dieci banditi, e vedendo i Raspanti che un grandissimo numero di cittadini credevasi compromesso, essi non osarono spingere più in là le loro indagini[544].
Non eranvi quasi meno malcontenti a Firenze che a Pisa; ma per diversa cagione. I Pisani accusavano l'imprevidenza del loro governo, ed i Fiorentini erano forzati di riconoscere la prudenza del proprio, nello stesso tempo che si lagnavano che fosse diventato la proprietà d'una sola classe di cittadini. Le leggi, ch'erano state fatte per rendere le magistrature a tutti accessibili, avevano tutte prodotto un contrario effetto. Il divieto allontanava dagl'impieghi le famiglie più illustri, e l'ammonizione era un'arma in mano alla regnante oligarchia per escludere tutti quelli che loro facevano ombra. In forza dell'ultimo statuto la magistratura di parte guelfa ammoniva coloro, che voleva escludere dagl'impieghi, di averli sospetti di ghibellinismo, e li veniva in tal modo a privare de' loro onorifici diritti. L'incostituzionale oligarchia che così conservava in cotal modo il suo potere non era formata di nobili famiglie, o di antiche, che governassero per una specie di prescrizione, nè di cittadini volontariamente eletti dalla nazione; ma era un'ambiziosa associazione, una fazione, che coll'ajuto di leggi tutte democratiche, aveva ottenuto d'entrare tutta intera nel governo e di potervisi mantenere. Ma questa fazione aveva manifestato nell'amministrazione della repubblica molti talenti, coraggio e virtù. Senza muovere guerra ai Pisani, gli aveva fatti pentire della loro mancanza di fede; aveva fatto rispettare in mare la bandiera d'una potenza, che in verun punto toccava il mare; aveva dato l'esempio a tutti i sovrani d'Europa di rispingere le grandi compagnie colle armi, invece di pagar loro vergognose taglie; aveva finalmente osservati con fedeltà i suoi trattati coi Visconti, sebbene potesse riuscire vantaggioso alla repubblica il romperli, quando il legato della Chiesa le chiedeva che il facesse. Pure tanta gloria non assicurava la fazione regnante dalla gelosia di coloro che ingiustamente aveva allontanati dallo stesso potere. Si posero alla testa de' malcontenti Bartolomeo, figlio d'Alamanno dei Medici, Niccolò del Buono e Domenico Bandini, de' quali gli ultimi due erano stati coll'ammonizione esclusi dagl'impieghi. Questi si unirono ad un intrigante, Uberto degl'Infangati, che sospettavano d'avere di già ordita qualche trama contro lo stato, e lo incaricarono di procurar loro esterni soccorsi. I tre primi congiurati appartenevano all'ordine de' cittadini, ma si legarono con alcuni capi di famiglie nobili, che non erano meno di loro scontenti della fazione dominante; e furono un Rossi, un Frescobaldi, un Gherardini, un Pazzi, un Donati, un Adimari. I congiurati si tenevano sicuri del favore del popolo, e supponevano che per condurre a fine la rivoluzione bastasse l'occupare il palazzo del pubblico; poichè era questo la fortezza del governo e della fazione dominante. Scelsero per l'esecuzione il primo dicembre del 1360, nel qual giorno, dovendo i nuovi priori prendere il posto di que' che uscivano di carica, tutte le guardie del palazzo verrebbero chiamate alla parata. Quattro uomini, scelti dai congiurati, dovevano essere introdotti nella torre del palazzo, ed ottanta de' loro soldati tenersi nascosti nelle camere, dalle quali uscirebbero tutt'ad un tratto per occupare tutte le porte. Uberto degl'Infangati, che si era incaricato di procurare ai congiurati esterni soccorsi, prima di prender parte in questa congiura, aveva trattato con un milanese, detto Bernardolo Rosso, che stava ai servigi di Giovanni di Oleggio, in allora signore di Bologna. Infangati a quell'epoca mirava a dare all'Oleggio la signoria di Firenze; ma l'imprevveduta agressione de' Visconti e la necessità in cui trovossi l'Oleggio di vendere Bologna alla Chiesa, aveva sospesa questa trama. L'Infangati per procurare ai nuovi congiurati una straniera protezione, si addirizzò allo stesso Bernardolo, che, con le truppe del signore di Bologna, era passato al servigio della Chiesa. Bernardolo cercò di mettere a parte della cospirazione il legato Albornoz, come aveva interessato nell'altra il suo precedente padrone; ma il legato, che riponeva ogni sua speranza nell'amicizia de' Fiorentini, rigettò le fattegli proferte, e fece avvisare la signoria di Firenze di tenersi in guardia, poichè gli era noto che tramavasi qualche cosa contro di lei.
Quando Bernardolo vide di non poter giovare all'impresa, scrisse egli stesso alla signoria, offrendole, mediante una ricompensa di venticinque mila fiorini, di manifestare il segreto della congiura denunciata dal legato. Tale offerta venne a notizia di Silvestro de' Medici, ch'era in allora membro di uno degli uffici superiori, ed egli ne diede parte a Bartolomeo suo fratello. Allorchè questi vide che la signoria teneva nelle mani un filo che la condurrebbe a scoprire ogni cosa, confessò al fratello che una immoderata ambizione l'aveva fatto entrare in tale congiura, e gli promise di scoprirgli il segreto, quando fosse sicuro del perdono. Niccolò del Bono e Domenico Bandini furono presi e condannati alla morte, pochi altri de' più colpevoli fuggirono, e vennero condannati come contumaci: ma la signoria, sospese la procedura, risguardò la nota de' congiurati, scritta di proprio pugno dall'Infangati, come calunniosa, onde la fece bruciare senza esaminarla, e con tale prudente dolcezza riconciliò al proprio governo una parte di coloro che le erano sembrati più contrarj[545].
Si pretendeva, in Italia, che le quattro principali repubbliche della Toscana si distinguessero per oppostissimi caratteri. Dicevasi generalmente che i Sienesi erano leggeri ed incostanti, i Pisani avveduti e maligni, feroci e collerici i Perugini, gravi, lenti e costanti i Fiorentini[546]. Questi diversi popoli si regolavano per altro in un modo abbastanza uniforme; il loro governo si rassomigliava, e sembravano agitati dalle medesime passioni; tutti quasi nello stesso tempo trovaronsi esposti a rivoluzioni quasi simili, sebbene quella che scoppiò in Perugia nel 1361 parve avere l'impronta del carattere che attribuivasi al popolo di quella città.
La signoria di Perugia trovavasi tra le mani del second'ordine della cittadinanza e della plebe; l'uomo il più riputato di questa repubblica era Leggieri, figliuolo d'Andreotto de' Michelotti; la fazione dominante di cui era capo aveva come la Pisana il nome di Raspante, e davasi quello di malcontenti ai loro avversarj. Trovavasi alla testa degli ultimi Tribaldino dei Manfredini, che le feroci congiure fecero dai Perugini chiamare il nuovo Catilina. Tribaldino studiavasi d'inasprire il risentimento de' nobili e de' principali cittadini, che il popolo allontanava dagl'impieghi; in seguito si era associati quarantacinque gentiluomini di Perugia, tra i quali venivano particolarmente notati diversi cavalieri delle due illustri famiglie delle Mecche, e di monte Mellino; avevano poi preso parte alla congiura novantaquattro cittadini di ricche famiglie, e più di quattrocento d'inferiore condizione. Ma prima di confidare il segreto a così esteso numero di congiurati, Tribaldino, senza avere ancora un complice, aveva fatti pervenire alla signoria a diverse riprese alcuni falsi indizj per farle cercare una trama che non esisteva; e tali progressive false denuncie avevano disposta la signoria a non farsi più carico degli avvisi che le potessero giugnere intorno alla sua cospirazione.
Tribaldino convenne coi congiurati, che in un determinato giorno, nel principio di ottobre del 1361, alcuni appiccherebbero il fuoco ne' diversi quartieri delle città, altri occuperebbero il palazzo, ed ucciderebbero i priori ed i camerlinghi, ond'era composto il governo, mentre i loro compagni aprirebbero le porte ai contadini, introducendoli in città, e rendendosi per tal modo padroni dei borghesi: nello stesso tempo alcuni uomini, affigliati ai congiurati, dovevano far ribellare tutti i castelli del territorio perugino. Tutto il piano della cospirazione sembrava dettato da una vendetta infernale piuttosto che dall'ambizione d'un cittadino. Dopo un'orribile carnificina de' signori di Perugia, la repubblica sarebbe probabilmente venuta in mano di qualche tiranno: per buona sorte Tinieri da monte Mellino, uno de' congiurati, spaventato da tanti orrori, e lacerato da rimorsi, rivelò ai priori il segreto della congiura. Niccolò delle Mecche e Ceccherello dei Boccoli, furono all'istante imprigionati con quattro de' loro satelliti; tutti gli altri si salvarono colla fuga. Si credette di dover lasciare al popolo il giudizio di una causa di tanta importanza, ed all'indomani il parlamento condannò a morte in contumacia, come traditori e ribelli, quarantacinque tra gentiluomini ed antichi cittadini; novanta altri furono assoggettati ad un'ammenda; i due congiurati ed i loro satelliti, arrestati subito dopo la rivelazione della trama, furono i soli condannati al supplicio[547].
CAPITOLO XLVII.
Volterra assoggettata ai Fiorentini; guerra di Pisa e Firenze; seconda peste in Toscana; congiura de' Malatesti contro la repubblica fiorentina. — Giovanni Agnello occupa la signoria di Pisa ed assume il titolo di doge.
1361 = 1364. Sulla sommità di una montagna, di dove stendesi lo sguardo su quasi tutta la Toscana, è fabbricata la città di Volterra. Apresi innanzi a lei a grande distanza il mar Tirreno, e le pianure pisane, ed i colli di Firenze, e le foreste di Siena scopronsi egualmente dalle sue alte vedette: enormi blocchi di pietra, posti senza cemento gli uni sopra gli altri, che sostengonsi col solo loro peso già da oltre due mila anni, formano le sue mura. A fianco alle mura si è aperta una lezza, che ogni giorno inghiotte parte della montagna, meno durevole che il gigantesco lavoro degli Etruschi. Ma Volterra nel quattordicesimo secolo non era più che l'ombra di ciò ch'era stata ne' primi secoli di Roma. Posta in mezzo alle tre più potenti repubbliche della Toscana Volterra non aveva saputo conservare la sua libertà, ed era caduta sotto il tirannico governo di messer Bocchino dei Belfredotti. Questo signore trovò un pericoloso nemico in uno de' suoi parenti, che possedeva presso Volterra la fortezza di Montefeltrano, e le loro dissensioni furono cagione della ruina d'ambidue e fecero perdere l'indipendenza alla loro patria. Ognuna delle vicine repubbliche voleva prendere parte a queste contese di famiglia; Firenze, come garante d'un trattato conchiuso tra Bocchino ed il suo parente, Pisa come alleata di Bocchino, e Siena come sua nemica. I sudditi del tiranno, di già alienati dalle sue crudeltà, furono avvisati che stava per vendere Volterra ai Pisani, e che questi erano di già in viaggio per prendere possesso della città. A tale notizia i Volterrani presero le armi e fecero prigioniero il loro signore; in pari tempo spedirono deputati ai Fiorentini ed ai Sienesi per ottenere che questi due popoli rispettassero la loro libertà. I soldati pisani, che si erano avvicinati, furono sorpresi e disarmati senza far resistenza. Ma la signoria di Firenze non volle esporsi agli effetti dell'incostanza d'un popolo che usciva allora da una rivoluzione, e che pendeva incerto tra opposti partiti; onde fece avvicinare le sue truppe a Volterra, e precludere la strada ai Sienesi, che s'avanzavano ancor essi dal canto loro; fece occupare diversi castelli, e per ultimo la medesima cittadella. Allora dichiarò che per dieci anni terrebbe guarnigione in questa fortezza, ma che per ogni altro rispetto conserverebbe la libertà e l'indipendenza de' Volterrani. Il primo uso che questi fecero dei diritti che loro venivano conservati, fu quello di far decapitare il loro tiranno il 10 ottobre del 1361[548].
La sommissione di Volterra ai Fiorentini accrebbe il risentimento de' Pisani contro di loro; perciocchè vedevano venuta in mano de' loro rivali un'importante città nell'istante medesimo, in cui credevano di farne essi l'acquisto. Altronde i due popoli s'andavano ogni giorno esasperando con fresche ingiurie. Pietro Gambacorti, cui i Pisani avevano assegnata Venezia per luogo d'esilio, aveva lasciata questa città per venire a Firenze, ed in principio del gennajo del 1362 erasi avanzato, alla testa de' suoi partigiani armati sul territorio di Pisa. Vero è che i Fiorentini avevano severamente proibito ai loro popoli di unirsi alla sua gente; ma forse potevano ancora impedire un'aggressione, che pur non ebbe alcun prospero successo[549].
D'altra parte Giovanni del Sasso, famoso partigiano, che aveva militato al soldo dei Fiorentini, erasi reso padrone, non senza loro saputa, del castello lucchese di Pietrabuona, posto tre miglia al disopra di Pescia. Questa fortezza era la chiave della valle superiore della Pescia, e del territorio montuoso di Lucca. I Pisani non eransi lasciati in quest'occasione ingannare dal bando dato dalla città di Firenze a Giovarmi del Sasso, e conobbero di dove veniva il colpo, e fecero avanzare formidabili forze per assediare Pietrabuona[550].
L'istante era finalmente giunto in cui la lunga nimicizia dei due popoli più non poteva coprirsi sotto pacifiche forme. Le truppe pisane e fiorentine, ravvicinate le une alle altre sui confini del territorio di Lucca, s'insultarono alla Romita, al di sopra di Pietrabuona, alla Cerbaja ed a Montecarlo[551]. Il popolo ed il governo volevano egualmente la guerra, ed i priori di Firenze adunarono il 18 di maggio un parlamento per riportarsi alla sua decisione. Annunziarono alla nazione adunata, che i banditi, che occupavano Pietrabuona, offrivano di dare questa fortezza alla repubblica; aggiunsero che avevano creduto di doverla accettare, onde valersene perchè in cambio fosse loro resa Coriglia o Sorana, che alcuni pretesi banditi Pisani avevano loro tolte. Ricapitolarono i torti ricevuti dai Pisani, e chiesero al popolo se approvava la parte presa dalla signoria, e se volevano assumere la difesa di Pietrabuona. Ad una sola voce il popolo gridò che difenderebbe il castello, e per tal modo venne decretata la guerra. Per altro questa determinazione fu troppo tarda per salvare la piazza assediata. Passarono alcuni giorni prima che Bonifazio Lupo di Parma, che i Fiorentini facevano venire per comandare le loro truppe, potesse recarsi al campo, avanti Pietrabuona[552]. Appena vi fu giunto che tornò a Firenze il 4 giugno per dichiarare alla signoria ch'era stato chiamato troppo tardi, e che avendo visitato le posizioni degli assedianti, più non conosceva mezzo di salvare la piazza, che effettivamente all'indomani fu presa d'assalto. I Pisani festeggiarono clamorosamente questo leggiero vantaggio, frammischiandovi insulti e minacce contro i Fiorentini, e rendendo in tal maniera la guerra inevitabile, sebbene non fossero per anco cominciate le ostilità, e che fosse di già tornato in loro potere il castello per cui andavano a battersi[553].
Nell'armata che i Fiorentini adunarono sotto il comando di Bonifazio Lupo di Parma, contavansi seicento corazzieri, mille cinquecento arcieri, e tre mila cinquecento pedoni[554]. La signoria diede la bandiera il 20 giugno nell'ora ch'era stata fissata dagli astrologhi; imperciocchè il rinnovamento delle scienze aveva dato maggior credito all'astrologia giudiziaria, ancora tra quei che si credevano filosofi[555]. L'armata fiorentina dopo avere attraversata Val di Nievole, girò bruscamente per Fucecchio, passò l'Arno, saccheggiò Val d'Elsa, e s'impadronì del castello di Ghiazzano[556].
Bonifazio Lupo, che comandava quest'armata, non aveva per anco acquistata molta riputazione, in oltre non era di un rango abbastanza distinto perchè si potessero porre sotto i suoi ordini moltissimi signori ed ufficiali, che, come alleati o come soldati, seguivano le insegne della repubblica. La signoria per appagare la vanità di costoro fece venire il 16 luglio Ridolfo da Varano, signore di Camerino, cui affidò il comando[557]. Ma questi fece in breve vedere che non aveva nè i talenti, nè l'attività del suo predecessore[558]. Pure si avanzò ancor esso nel territorio nemico; saccheggiò Cascina; accampò a san Savino e diede de' giuochi presso alle stesse porte di Pisa, ove tre volte distribuì il prezzo della corsa[559]. Più tardi assediò il castello di Pecciola, e lo prese l'undici d'agosto[560]: capitolarono in seguito Montecchio, Ajatico e Tojano; la Maremma fu abbandonata al sacco, ed i Pisani, che nello stesso tempo trovavansi crudelmente tormentati dalla peste, quasi non opposero veruna resistenza a tanti guasti[561].
Ma l'indisciplina delle truppe assoldate, cui Ridolfo da Varano inspirava poco rispetto, sospese i prosperi successi dell'armata fiorentina. Il conte Niccola d'Urbino con alcuni ufficiali italiani, ed i principali contestabili tedeschi chiesero che nell'occasione della presa di Pecciola l'armata ricevesse doppia paga e mese compiuto. La signoria rifiutò di dare per così piccola conquista una ricompensa riservata per le più grandi vittorie; i contestabili posero allora un cappello sulla punta d'una lancia, e fecero pubblicare nel campo un invito a tutti coloro che volevano doppia paga e mese compiuto di adunarsi intorno a quest'insegna, e vi si unirono mille cavalieri. Il generale ricondusse quest'armata sediziosa a san Miniato per non dare al nemico lo spettacolo della sua indisciplina, e la signoria congedò tutti i soldati che avevano avuta parte nel tumulto, ma questi non si separarono, e formarono una compagnia di ventura sotto il nome di cappelletto in memoria del cappello, che loro aveva servito d'insegna, poi passarono nel territorio d'Arezzo, ove cominciarono a vivere di furti[562].
Mentre la repubblica fiorentina aveva combattuto prosperamente i Pisani per terra, si era veduta con istupore farsi a combatterli ancora sul mare. Vero è che i Pisani, dopo la grande rotta avuta alla Meloria nella guerra contro i Genovesi, avevano cessato d'essere una potenza marittima. Per lungo tempo era stato loro vietato, in forza del trattato convenuto con Genova, di aver in mare galere armate. Durante quest'intervallo avevano essi perdute le antiche loro abitudini; la gioventù aveva scelta un'altra carriera; i consigli avevano un'altra ambizione; i pescatori delle Maremme, quelli di Lerici e della Spezia avevano abbandonato il loro servigio per passare a quello de' Genovesi; le colonie di Sardegna e di Corsica, che loro somministravano tanti marinaj, erano state loro tolte. Dopo tale epoca i Pisani eransi dati alle manifatture ed all'agricoltura, avevano compiuta la conquista dello stato lucchese, e raddoppiata in tal modo l'estensione del loro territorio; ma avevano rinunciato alla navigazione ed alla gloria marittima. Questa stessa repubblica che spesso aveva armati in pochi mesi sessanta ed ottanta vascelli, non fu in istato di difendersi quando i Fiorentini assoldarono Perino Grimaldi di Genova con quattro galere ed un grande vascello; essi gli avevano inoltre dati due vascelli napolitani, e con questa piccola squadra il loro ammiraglio pose a contribuzione tutte le coste dello stato pisano[563].
In principio d'ottobre Perino Grimaldi attaccò l'isola del Giglio, ed, ossia per viltà della guarnigione, o per lo scoraggiamento ispirato dalla peste, il castello che signoreggia quest'isola, che i Genovesi, i Catalani ed i Napolitani non avevano mai potuto sottomettere, s'arrese alla repubblica fiorentina, e ricevette da lei un governatore[564]. In seguito la flotta volse la prora verso Porto pisano, che non trovò guardato da verun vascello da guerra. Perino Grimaldi, dopo un'ostinata pugna, s'impadronì delle due torri che difendevano il porto, tolse la catena che ne chiudeva l'ingresso, e la fece trasportare a Firenze, ove se ne vedono ancora alcuni pezzi attaccati alle colonne di porfido, che stanno innanzi alla porta del battistero[565].
Finchè la peste regnò in Pisa, i Pisani avevano sofferta la guerra senza quasi combattere essi medesimi. Alla fine di quest'anno tanto per loro disastroso, il flagello cessò, ed al principio del susseguente formarono progetti di conquiste. Rinieri de' Baschi, loro capitano, attaccò successivamente Altopascio e santa Maria a monte; formò pure l'assedio di Barga, mentre uno de' suoi ufficiali sorprendeva il castello di Lello nel Volterrano[566].
I Pisani avevano bisogno di stranieri soccorsi per difendersi e vendicarsi delle perdite fatte nella precedente campagna. Si volsero a Barnabò Visconti, capo de' Ghibellini d'Italia, ed alleato ereditario della repubblica. Barnabò trovandosi impegnato in una pericolosa guerra, temeva di provocare i Fiorentini; pure non voleva nè meno vedere affatto perduti i loro nemici, col di cui mezzo sperava un giorno la signoria di tutta la Toscana. Questo principe, dopo aver lasciato spargere la notizia della sua morte durante la peste di Lombardia, era uscito tutt'ad un tratto in agosto del 1361 dalla foresta in cui si era ritirato, e si era innoltrato alla testa di due mila cavalli verso Bologna, sperando di sorprenderla; ma essendo state scoperte le intelligenze che aveva in città, ritirossi senza venire a battaglia[567]. Per tal modo erasi ravvivata la guerra di Lombardia, che ben tosto si rese dannosa ai Visconti. Il legato Albornoz aveva persuasi i signori della Venezia ad unirsi colla Chiesa per difendere Bologna. Quelli della Scala, i Carrara ed il marchese d'Este avevano promesso di tener pronti ognuno cinquecento cavalli, e di unirli ai mille cinquecento che Albornoz obbligavasi di mantenere. Il trattato d'alleanza fu soscritto in aprile del 1362[568], ed il papa diede il segno delle ostilità, scomunicando di nuovo Barnabò Visconti, e dichiarandolo eretico con tutti i suoi aderenti[569].
Mentre l'armata della nuova lega invadeva contemporaneamente gli stati di Barnabò dalla banda di Modena e di Brescia, e che otteneva diversi vantaggi, il marchese di Monferrato stringeva la casa Visconti dalla parte di Novara e di Tortona[570]. In maggio del 1361 egli aveva preso al suo soldo la compagnia bianca degl'Inglesi, e col di lei ajuto aveva guastato una parte del Piemonte. Ma gl'Inglesi non avevano fatto minor danno al marchese che al Visconti; il primo era impaziente di disfarsene, e Barnabò, sollecitato dai Pisani a soccorrerli, ottenne di far passare al loro soldo questa compagnia che gli faceva la guerra; e liberandosi in tal modo di un nemico, soccorreva un alleato, e schivava in pari tempo di venire ad aperta rottura coi Fiorentini, che non voleva disgustare[571]. I Pisani promisero quaranta mila fiorini di soldo agl'Inglesi per quattro mesi da incominciarsi col giorno in cui cesserebbe la loro convenzione col marchese[572].
Pietro Farnese, che dal 27 marzo in poi comandava i Fiorentini, e Rinieri de' Baschi capitano dei Pisani desideravano ugualmente di venire a battaglia prima che giugnessero gl'Inglesi; il primo temeva la loro superiorità, l'altro non voleva perdere l'onore della vittoria. Le due armate scontraronsi il 7 maggio a san Piero presso Bagno alla Vena. I Fiorentini avevano mille seicento cavalli; i Pisani, orgogliosi per un leggiero vantaggio ottenuto in Garfagnana, e valutando la superiorità della loro fanteria, osarono di attaccarli con seicento corazzieri. Furono disfatti dopo una sanguinosa battaglia, e Pietro Farnese il giorno 11 maggio entrò trionfante in Firenze conducendo con sè Rinieri de' Baschi, il generale nemico, fatto prigioniero con cento cinquanta de' suoi migliori soldati[573].
Dopo qualche giorno di riposo, Farnese marciò di nuovo contro Pisa, e fece battere monete d'oro e d'argento in faccia alle porte di questa città[574]. Pose in seguito l'assedio a Montecalvoli, di cui sarebbesi impadronito, se i Pisani non avessero saputo spargere il timore nel campo fiorentino. Ogni notte facevano essi uscire di città i loro corazzieri, e li facevano rientrare in pieno giorno coperti di sudore e di polvere, ricevendoli come se fossero gente della compagnia inglese. Le spie fiorentine avvisarono subito i priori dell'arrivo di queste nuove truppe, e siccome sapevasi che realmente questa compagnia erasi posta in viaggio alla volta di Pisa, la signoria, temendo di una sorpresa, ordinò al Farnese di ritirarsi[575].
Il terribile contagio che nel precedente anno aveva fatto strage in Pisa, erasi manifestato nel campo fiorentino. Il 19 giugno, il generale Pietro Farnese cadde infermo e morì lo stesso giorno[576]. Questo flagello si estese anche a Firenze e gli rapì un uomo, la di cui perdita fu più deplorabile, lo storico cui siamo debitori della pittura così vera e così animata dei costumi e degli avvenimenti accaduti alla metà del 14.º secolo. Matteo Villani morì di peste come suo fratello Giovanni erane morto 15 anni prima. Fu sopraggiunto dalla malattia l'8 luglio, ed il 12 rese divotamente l'anima a Dio[577]. Attribuivasi al suo sobrio e temperato vivere la lunga resistenza di cinque giorni alla violenza del male. Incaricò, morendo, suo figliuolo Filippo Villani di continuare la sua storia fino all'istante in cui si ristabilirebbe la pace tra Firenze e Pisa[578].
Verun istorico ispira maggior rispetto, stima ed affetto di Matteo Villani. Religioso senza superstizione, rispetta la Chiesa, e nondimeno ardisce dipingere coi più vivi colori la corruzione e i delitti di alcuni suoi capi. Abbastanza versato nella politica e nella conoscenza del cuore umano per notare tutti gli errori de' governi, e per attribuire agli avvenimenti la vera loro cagione, è troppo dabbene per approvare giammai la mancanza di fede, o per supporre che possa derivare verun vantaggio dalla perfidia. Egli sollevasi al di sopra de' pregiudizj dell'astrologia giudiziaria, dei quali suo fratello non andava esente; abbraccia nella sua storia tutto il mondo conosciuto, e con un colpo d'occhio filosofico e penetrante attribuisce ad ogni popolo il suo vero carattere. Egli si anima per dipingere la virtù, si sdegna contro il vizio, s'infiamma per la libertà. Veruno storico d'Italia non rese mai a quest'ultima un più nobile e più costante omaggio. La fazione che governava Firenze non sostenne sempre pazientemente le sue censure; lo fece ammonire come Ghibellino il 29 aprile del 1363, e lo escluse in tal modo dai pubblici impieghi l'ultimo anno della sua vita[579].
La compagnia bianca degl'Inglesi era giunta il 18 luglio a Pisa in numero di due mila cinquecento cavalli, e due mila fanti. I Pisani la riunirono, sotto il comando di Ghisello degli Ubaldini, alle truppe che di già avevano, cioè ottocento corazzieri assoldati, otto mila pedoni, ed un grosso numero di gentiluomini e di cavalieri che servivano senza paga. I Fiorentini avevano nominato capitano Ranuccio Farnese, fratello di Pietro, morto ai loro servigi; ma l'armata che avevano posta sotto i di lui ordini era debolissima, e la peste che infieriva in città, nelle terre e nel campo, rendeva ogni difesa difficile. Era questa la volta in cui i Pisani potevano senza incontrare ostacolo entrare nel territorio fiorentino. Essi recaronsi da prima a Lucca, di dove passarono innanzi a Pistoja, tenendo la strada della montagna; ma invece di fare l'assedio di questa città, che non poteva opporre lunga resistenza, non pensarono che a rendere ai Fiorentini sotto le loro proprie mura gli affronti che avevano da loro ricevuti. Stabilirono il loro campo tra Peretola e Campi, fecero coniare danaro alle porte di Firenze, distribuirono premj per una corsa di cavalli, ed appiccarono tre asini ad una forca, con alcuni brevi che loro davano i nomi dei tre magistrati fiorentini. Impiegarono in queste ridicole ostentazioni una forza ed un tempo che sarebbe loro bastato per fare importanti acquisti[580]. Guastarono in seguito la campagna tra Firenze e Prato, le Lastre, la Val di Pesa, ed una parte della Val d'Arno; finalmente tornarono a Pisa pel piano di Empoli[581].
Quando la peste cessò, i Fiorentini si presero cura ancora essi di adunare un'armata. Trattarono colla compagnia della Stella, ch'era in Provenza e con varj capitani tedeschi, ma Barnabò Visconti ebbe modo di render vani tutti i loro negoziati, e di ridurli a due mila cavalieri mal armati e male capitanati, che arrolarono in mancanza di altri[582]. I Fiorentini posero alla loro testa Pandolfo Malatesti, uno de' signori di Rimini, che poc'anni prima aveva con tanta prudenza e valore difesa la Toscana contro il conte Lando e la grande compagnia.
Ma il Malatesti era di quella razza romagnuola tanto in Italia rinomata per la sua perfidia ed i suoi tradimenti. Sapeva in quale stato di spossamento aveva la peste gettata Firenze; sapeva che alcuni domestici intrighi, effetti dell'ultima congiura, rendevano debole il governo; vedeva che la momentanea potenza de' Pisani, e la forza della compagnia inglese erano cagione di grandi timori in città, e si lusingò, ove gli riuscisse di accrescere il timore del popolo, di vendergli cari i suoi soccorsi, ed all'ultimo di avere la signoria di Firenze, siccome in altre quasi eguali circostanze, l'avevano prima di lui ottenuta i duchi di Calabria e di Atene.
Questa speranza fece tenere a Malatesti la più perfida condotta e la più criminosa. L'Omo Santa-Maria, signore di Jesi, nuovo capitano dei Pisani, era entrato cogl'Inglesi in Val d'Arno di sopra, ed il 17 settembre erasi reso padrone di Filigne senza quasi trovare resistenza[583]. Malatesti, quasi volesse precludergli la strada, stabilì il suo campo all'Ancisa, ma diede a questo campo così grande estensione che riusciva quasi impossibile il poterlo difendere; ne allontanò i migliori soldati, sotto pretesto di fare una scorreria nel territorio pisano, ed egli stesso l'abbandonò per tornare a Firenze. In sua assenza fu sorpreso il campo il 3 ottobre, ed i Fiorentini perdettero più di quattrocento uomini[584]. Il forte castello dell'Ancisa rimaneva almeno per coprire Firenze, ma all'indomani il luogotenente di Pandolfo l'abbandonò ai nemici. Si videro giugnere verso la città i fuggiaschi che tornavano dall'armata, e Pandolfo, che gli era andato all'incontro, retrocesse a briglia sciolta, e raddoppiò l'universale terrore. Andò a dichiarare agli otto signori della guerra, che non conosceva verun altro mezzo per salvare Firenze, che quello di unire al potere militare di cui era rivestito un potere giudiziario sopra i cittadini, onde mantenere l'uno coll'altro, e punire a tempo le congiure che scoprirebbe in città. I signori della guerra adunarono in vista di tale inchiesta un consiglio straordinario cui invitarono tutti i più riputati cittadini[585]. Quando gli otto della guerra ebbero dichiarato a questa assemblea la domanda del Malatesti, Simone, figliuolo di Rinieri Peruzzi, si levò, e disse ad alta voce «Abbadate di non accordare al Malatesti veruna nuova prerogativa, i suoi progetti non ad altro mirano che ad usurpare la tirannide: ricordatevi del duca d'Atene, de' suoi cominciamenti, e come osò in seguito trattarvi; riconoscete la dolcezza della libertà, e vivete e morite conservandola.» A tali parole tutto il consiglio dimenticò il pericolo della vicinanza degl'Inglesi, il credito di cui godeva il Malatesti, e la confidenza che ispiravano i suoi passati servigi. I priori fecero rinnovare ai soldati il giuramento di fedeltà alla signoria di Firenze; nominarono un nuovo giudice, affatto indipendente dal Malatesti, dichiarando che il potere del generale non si stendeva che sopra le truppe e le milizie[586].
Pandolfo non mostrò verun malcontento per questa decisione del consiglio, ma conchiuse che i Fiorentini non erano ancora bastantemente umiliati. Permise dunque appositamente che venisse saccheggiata la campagna di Ripoli, senza far resistenza ai Pisani, cui era superiore di forze[587], e quando l'Omo di Jesi volle scendere la Val d'Arno per ricondurre le sue genti a Pisa, Malatesti condusse le milizie fiorentine incontro a lui, quasi per voler precludergli la strada; ma invece di farle sostenere dai corazzieri, ritenne questi in città e fece chiudere le porte: di modo che se gl'Inglesi avessero attaccata la milizia fiorentina, questa sarebbe stata infallibilmente tagliata a pezzi. Quest'ultimo tradimento fece conoscere alla signoria ciò che doveva aspettarsi da Pandolfo. In riguardo ai suoi antichi servigi, e pel nome che portava, volle perdonargli i suoi progetti; ma lo ammonì severamente, avvertendolo che se usava indulgenza, era in memoria dell'antica amicizia, ch'egli stesso aveva voluto tradire. Pandolfo rimase fino al termine convenuto capitano delle genti da guerra, ma venne spogliato d'ogni autorità sopra la città e sopra le milizie[588].
La compagnia inglese di ritorno a Pisa si riposò alcun tempo, indi si accordò di nuovo per sei mesi in servigio di questa repubblica per la somma di cento cinquanta mila fiorini. Era in allora composta di mille lance, e di due mila pedoni. Gl'Inglesi avevano i primi introdotta in Italia l'usanza di contare i cavalieri per lance. Questo nome in allora disegnava tre cavalieri, che avevano fatta tra di loro una specie d'associazione. I loro cavalli non servivano che a trasportarli colla loro pesante armatura sul campo di battaglia, ove combattevano il più delle volte a piedi. Erano coperti di cotte di maglia, fortificate sul petto da una lastra d'acciajo, i loro braccialetti, le corazze, gli stivaletti erano di ferro, portavano al fianco una forte spada ed una daga; due uomini tenevano la stessa lancia, essi l'abbassavano e l'avanzavano lentamente, serrati in falange, fortemente gridando. Ogni corazziere era seguito da uno o due paggi, quasi unicamente occupati a ripulire le loro armi, onde brillavano come specchi.
Era la prima volta che si vedevano corazzieri scendere da cavallo per combattere a piedi. Con tale pratica aggiugnevano all'impenetrabile armatura de' cavalieri, la solidità dell'infanteria, e la loro falange difficilissimamente poteva essere rotta. Gl'Inglesi sprezzavano il più rigido freddo degl'inverni d'Italia, e veruna stagione faceva loro sospendere le loro operazioni. Non mostravano minore abilità nelle sorprese e ne' colpi di mano, che valore nelle battaglie. Seco portavano scale composte di vari pezzi, che s'innestavano gli uni negli altri, e cadauno non aveva mai più di tre gradi, di modo che potevano facilmente giugnere alla sommità delle più alte torri, e le loro scale non oltrepassando mai il muro non potevano essere rovesciate dagli assediati[589].
I Pisani andavano debitori ai Visconti della venuta di questa prima compagnia; si volsero di nuovo a questi signori in principio della seguente campagna per far venire col mezzo loro nuove truppe di Lombardia. Volevano approfittare dei loro prosperi successi per ottenerne altri maggiori, e procurarsi una gloriosa pace. I Visconti, dal canto loro, trovavansi in migliore situazione che mai di soccorrere Pisa. La campagna del 1363 erasi aperta in Lombardia in un modo brillante per la Chiesa e per i suoi alleati. Un'armata di duemila cinquecento corazzieri, comandata da Ambrogio, figliuolo naturale di Barnabò, era stata rotta il 16 aprile, presso Modena. Ambrogio era stato fatto prigioniere con un gran numero di ragguardevoli ufficiali[590]. Ma la guerra non erasi in appresso trattata con vigore. Barnabò, scoraggiato dalla disfatta del figliuolo, aveva cercato di riconciliarsi col papa; ed in settembre aveva conchiuso un armistizio che venne seguito da lunghe negoziazioni. Il 3 di marzo 1364 la pace di Lombardia venne finalmente conchiusa. Il Visconti rinunciò a tutte le sue pretese sopra Bologna, e rese al papa tutti i castelli del Bolognese ch'egli aveva occupati. Ciò peraltro fece a condizione che il cardinale Albornoz, di cui Barnabò temeva la vicinanza, non amministrerebbe quella legazione. Un altro cardinale, chiamato Androino della Roche, fu dal papa deputato al governo di Bologna[591]. I signori lombardi ed i Visconti si restituirono a vicenda i castelli che si erano tolti. Il marchese di Monferrato fece dal canto suo la pace con Galeazzo Visconti, ed i due principi cambiarono alcune parti del proprio territorio per rotondare vicendevolmente i loro stati. E per tal modo essendosi renduta la pace alla Lombardia, i signori ed i popoli sentivano eguale premura di rimandare le compagnie di ventura, che gli avevano così crudelmente oppressi[592].
Galeazzo Visconti s'affrettò quindi di offrire ai Pisani la compagnia d'Anichino Bongarten, composta di tre mila corazzieri o barbute[593], la quale si pose in marcia per la Toscana in principio di marzo. I Pisani trovarono allora d'avere sei mila corazzieri sotto i loro ordini, ragguardevole armata, che verun sovrano in Italia non aveva ancora avuta. Gl'Inglesi al loro soldo avevano saccheggiato in febbrajo la Val di Nievole e le campagne di Vinci e di Lamporecchio[594]. L'istante pareva ai Pisani propizio per istabilire una gloriosa pace. Supplicarono il papa di assumerne la mediazione, e questi mandò a tale oggetto a Firenze fra Marco da Viterbo, generale de' Francescani.
La signoria fiorentina non voleva compromettere l'onore della repubblica con uno svantaggioso trattato; altronde, rifiutando la pace, temeva di trovarsi risponsabile degli avvenimenti; adunò dunque un consiglio straordinario, o dei richiesti. Prima di dare udienza al nunzio del papa, uno degli otto della guerra annunziò ai cittadini adunati, che la compagnia della Stella di quattro mila corazzieri, che trovavasi in allora in Provenza entrava ai servigi della repubblica; che due mila altri erano stati assoldati in Germania, e che gli uni e gli altri giugnerebbero in Toscana prima che terminasse il mese. Indipendentemente da queste due compagnie la repubblica aveva di già tre mila corazzieri al suo soldo. Il tesoriere prese allora a parlare. Assicurò che Firenze, dopo avere pagate le sue truppe fino alla fine di ottobre, non troverebbesi in debito che di 166,000 fiorini; e fece vedere quali erano ancora le risorse dello stato. La signoria dopo di avere fatto così conoscere al popolo i suoi mezzi di sostenere gloriosamente la guerra, fece entrare in consiglio il generale de' Francescani. Questi espose le domande dei Pisani, che parvero così arroganti, che il consiglio ad una voce risolse di continuare la guerra, e di aspettare a trattare quando Firenze avrebbe ottenuta qualche vittoria[595].
Ma Galezzo Visconti avendo corrotti coi regali i capi della compagnia della Stella impedì loro di recarsi a Firenze nello stabilito termine, ed i Pisani ne approfittarono per guastare il territorio fiorentino. Avevano dato il comando dell'armata ad un avventuriere, che si rese in seguito famoso nelle guerre d'Italia, e che aveva di già servito con distinzione nelle guerre degl'Inglesi in Francia. Era questi Giovanni Hawkwood, che gl'Italiani chiamano acuto o aguto[596]. Questi attraversò la Val di Nievole a mezzo aprile; entrò nel territorio di Pistoja e di Prato, senza trovare opposizione; passò avanti alle porte di Firenze, e si avanzò fino nel Mugello, facendo una ragguardevolissima preda in quelle ricche campagne[597].
Ritornando da questa spedizione gl'Inglesi s'avvicinarono di nuovo a Firenze l'ultimo giorno di aprile. Eransi fatti avanti alle porte della città alcuni trincieramenti per difenderle; gl'Inglesi gli attaccarono e presero d'assalto, dopo avere uccisa molta gente ai Fiorentini. Anichino Bongarten colse quest'occasione per farsi armare cavaliere in mezzo alla pugna ed in faccia alla porta della città. In appresso egli conferì lo stesso ordine a molti contestabili inglesi e tedeschi che militavano sotto di lui. Durante la notte l'armata celebrò la festa della cavalleria sul colle di Fiesole, che soprasta a Firenze. Dalle mura della città vedevansi i soldati nemici danzare in giro con fiaccole in mano, ed udivansi ripetere nelle loro orgie i venerandi vocaboli che i priori adoperavano in palazzo nelle pubbliche deliberazioni[598]. Dopo avere per altri due giorni saccheggiate ancora le campagne di Firenze, Aguto condusse la sua armata in Val d'Arno di sopra; indi attraversò il territorio d'Arezzo, quello di Cortona e di Siena, e tornò a Pisa per la Val d'Elsa, dopo avere portata la desolazione in quasi tutte le province del territorio fiorentino[599].
Il conte Enrico di Monforte, capitano de' Fiorentini, tirò, gli è vero, qualche vendetta di tanto oltraggio con una rapida incursione nel territorio nemico, ove abbruciò Livorno e Porto Pisano[600]. Frattanto ancora non giugneva la compagnia della Stella, onde i Fiorentini si videro forzati a ricorrere ad altri mezzi per difendersi contro i loro avversarj. Gl'Inglesi e la compagnia di Bongarten erano vicini al termine dei loro impegni coi Pisani. Queste truppe mercenarie indifferenti alla causa per cui combattevano, non pensavano che a vendere i loro servigi al più alto prezzo. I Fiorentini trattarono segretamente coi loro capi[601]; li ridussero, mediante una grossa somma di danaro, a non ricevere nuovo soldo dai Pisani e ad allontanarsi dalla Toscana: il solo Aguto rimase al servigio di questa repubblica con circa mille corazzieri inglesi.
I Fiorentini nominarono in seguito un nuovo capitano di guerra, e sovvenendosi piuttosto gli antichi servigi che una fresca ingiuria, ricorsero di nuovo alla famiglia de' Malatesti di Rimini. Galeotto, fratello del vecchio signore di questa città e zio di Pandolfo, era uno de' più riputati generali d'Italia, e fu questi che la repubblica pose alla testa delle sue genti di guerra[602]. Galeotto assunse il comando dell'armata fiorentina in sul finire di luglio, e la condusse a Cascina, sei miglia lontana da Pisa. Ma, appena giunto, si propose di seguire i progetti di suo nipote, e non pensò che ad indebolire lo stato di cui gli era stata affidata la difesa, onde più facilmente sottometterlo. Con premeditato disegno espose il suo campo ad una sorpresa, non lo avendo nè fortificato nè circondato di vedette, e permettendo ai soldati di disperdersi come se si trovassero al sicuro dai nemici. Hawkwood, che n'ebbe avviso, si pose in marcia con mille cavalli e tutta la fanteria pisana per attaccarlo. Fortunatamente alcuni antichi contestabili, attaccati di cuore al servigio de' Fiorentini, sospettarono il tradimento del loro generale. Manno Donati di Firenze, e Bonifazio Lupo di Parma adunarono i soldati, li fecero armare e li prepararono alla battaglia. Ricevettero vigorosamente i Pisani tosto che questi si presentarono. Hawkwood, che contava sopra una sorpresa, ritirossi a precipizio co' suoi cavalli, tostocchè conobbe di essere atteso. La fanteria pisana ebbe mille morti e due mila prigionieri, ed il resto salvossi a stento, e non avrebbe potuto fuggire se Galeotto avesse voluto approfittare della vittoria. Ma tutt'all'opposto questo generale non pensò che ad eccitare il malcontento nell'armata, sollecitandola a pretendere ricompense di doppia paga e di mese compiuto per avere difeso il campo, ov'erasi lasciata sorprendere[603].
Gl'intrighi e la malafede de' Malatesti e la discordia che manifestavasi in diversi corpi dell'armata fiorentina, determinarono finalmente la signoria a pensare di proposito alla pace. L'onore della repubblica era stato posto in sicuro dalla vittoria di Cascina; i Pisani erano umiliati e deboli, e Firenze doveva oramai temere assai più il suo proprio generale che i nemici. La signoria rinnovò adunque i trattati che il generale de' Francescani aveva aperti. Urbano V aveva dato l'arcivescovo di Ravenna per aggiunto a questo monaco. Colla loro mediazione gli ambasciatori dei due popoli unironsi a Pescia, nella chiesa di san Francesco, ed il congresso si aprì con egual desiderio da ambe le parti, di terminare le ostilità[604].
Ma, sebbene il trattato fosse in breve ridotto a termine, una strana rivoluzione sopraggiunta a Pisa rovesciò il governo di questa repubblica, e fu in procinto di rinnovare la guerra, prima che si pubblicasse il trattato di Pescia. I Visconti, senza volere apertamente dichiararsi contro i Fiorentini, avevano per altro cercato di formarsi coi loro intrighi, o di mantenersi in Toscana un partito, coll'ajuto del quale potessero un giorno stendere il loro dominio su tutta questa provincia. Avevano sovvenuto danaro ai Pisani, accordate e fatte passare al loro servigio due compagnie d'avventurieri, fermata quella che i Fiorentini avevano presa al loro soldo, e lusingavansi che la continuazione della guerra determinerebbe all'ultimo i Pisani a porsi volontariamente sotto la loro dipendenza. Soltanto sembrava loro necessario di piegare una prima volta lo spirito ed il carattere altero de' cittadini, e di avvezzarli a riconoscere un padrone. L'ambasciatore che i Pisani avevano mandato ai signori di Milano parve a questi proprio alle loro viste. Costui, detto Giovanni dell'Agnello, era un mercante d'una famiglia borghese, attaccato al dominante partito dei Raspanti, e che fin allora non aveva avuta veruna onorificenza[605]. Barnabò Visconti, dopo avere scoperta in Agnello ambizione, spirito d'intrigo e falsità propria a formare un tiranno, si offrì d'ajutarlo con tutte le sue forze e con tutte le sue ricchezze, per farlo signore di Pisa; ed Agnello in contraccambio promise al Milanese, che s'egli comandava una volta in Pisa, terrebbe questa città dipendente dalla casa Visconti, come se fosse suo luogotenente e non suo alleato.
Agnello, di ritorno a Pisa, osò di proporre in uno de' consiglj, che precedettero il trattato di pace, di nominare un signore annuale, onde ispirare più di confidenza a Barnabò, loro fedele alleato, come pure alle genti d'armi, ed a fine di tenere più segrete le deliberazioni dello stato. Indicò in pari tempo per questo comando Pietro d'Albizzi di Vico, uno de' più virtuosi cittadini di Pisa, che veniva allora nominato ambasciatore per trattare la pace coi Fiorentini. Pietro rigettò questa proposizione con orrore, dichiarando ch'era solamente colla pace ch'egli andava a negoziare, non già col sagrificio della libertà, che conveniva salvare la patria. Ma dopo la partenza di Pietro di Vico pel congresso di Pescia, Agnello rinnovò la sua proposizione nel prossimo consiglio, ed un certo Vanni Botticella, nipote d'un macellajo, ebbe la sfrontatezza di chiedere per sè la signoria che Agnello proponeva di stabilire. Questi lodò lo zelo di Botticella, ma gli chiese se aveva in danaro contante trentamila fiorini, ch'erano necessari a quello che si caricherebbe del governo, onde pagare il loro soldo alle truppe; e perchè Botticella confessò la sua impotenza, Agnello domandò di nuovo che s'indicasse qualche altro uomo abbastanza ricco ed abbastanza abile per salvare la repubblica.
Questa bizzarra proposizione, ripetuta con tanta asseveranza, eccitò finalmente i sospetti de' migliori cittadini di Pisa. Nello stesso tempo si sparse voce che Agnello adunava soldati e persone pericolose nella propria casa. Una sera molti riputati cittadini presero le armi, e recaronsi al palazzo degli anziani, chiedendo a questi magistrati di ordinare una visita nella casa di Agnello, ed ottennero che si eseguisse in sull'istante. Ma Agnello aveva preveduta questa ricerca, ed aveva alloggiati i soldati ed i banditi da lui adunati, non nella propria casa, ma presso alcuni de' suoi amici e complici. Quando ebbe avviso dell'avvicinarsi degli anziani, si pose a letto, coperto com'era della corazza; fece che si coricasse al suo fianco la consorte, ed ordinò ciò che far doveva alla piccola fantesca, che sola stava con loro in quella casa: poi s'infinse di dormire profondamente.
I cittadini armati, guidati da uno de' magistrati, si presentarono intanto alla porta d'Agnello, che venne loro aperta all'istante. Essi avanzaronsi fino alla camera ov'era coricato il padrone della casa, e l'udirono russare. La consorte, appena coperta d'una veste da camera, si rizzò di subito. «Mio marito dorme, loro disse, egli è stanco assai; ma se la patria o i magistrati hanno di lui bisogno, io lo sveglierò». I cittadini che i primi avevano sospettato arrossirono dei loro sospetti e si vergognarono d'avere così sorpresa una donna rispettabile, ritirandosi senza permettere che si svegliasse Agnello. Tornati presso gli anziani, dichiararono che i loro sospetti non avevano fondamento, e si disarmarono. Ma si erano appena ritirati, che Agnello balzò tutt'armato dal letto in cui fingeva di dormire per porsi alla testa de' banditi che aveva adunati. Marciò con loro al palazzo, e sorprese le guardie della signoria. Giovanni Hawkwood, guadagnato dal danaro dei Visconti, favoreggiava la sua usurpazione, ed aveva fatti montare a cavallo i suoi corazzieri per sostenerlo. Agnello si pose a sedere nella sala della signoria sulla seggiola del presidente; fece l'un dopo l'altro risvegliare gli anziani, e condurre innanzi a lui. «Maria Vergine, disse loro, mi ha rivelato questa stessa notte che per la prosperità ed il riposo di Pisa io debba prendere, almeno per lo spazio di un anno, il titolo e le funzioni di doge. In esecuzione di questo ordine celeste ho di già distribuiti del mio proprio trenta mila fiorini alle truppe in pagamento del loro soldo arretrato. Io vi ho fatti chiamare perchè voi raffermiate subito coi vostri suffragi questa celeste nomina.» Gli anziani sorpresi e spaventati, vedendosi circondati dai satelliti di Agnello, non opposero resistenza. Giurarono l'un dopo l'altro ubbidienza al nuovo doge. Questi fece in appresso cercare a casa loro tutti i più riputati cittadini, e tutti quelli che gli erano sospetti per far loro dare lo stesso giuramento; e mentre faceva lampeggiare le spade intorno alle loro teste, non risparmiava promesse per sedurli. Ad uno offriva il vicariato di Lucca, ad un altro quello di Piombino, ad un terzo la scelta tra le varie castellanie dello stato. Durante tutta la notte i magistrati ed i cittadini gli furono gli uni dopo gli altri condotti, per giurargli fedeltà. Fatto giorno corse la città, con una pompa ducale, accompagnato dagli anziani, mentre i soldati, che lo circondavano, sforzavano il popolo a salutarlo col nome di doge.
Per assodare il suo potere Agnello riunì sedici famiglie di cittadini in una sola, di cui si dichiarò capo. Tutti i membri di questa nuova corporazione dovevano portare il titolo di conti, e gli stessi stemmi. Agnello dava ad intendere che dopo un anno deporrebbe la sua dignità e darebbe luogo a quello dei conti che il popolo nominarebbe suo successore. Ma veruno seguì meglio d'Agnello i consigli dati dal conte di Montefeltro a papa Bonifacio[606]. Promise per farsi de' partigiani; e per conservarsi loro padrone non attenne le sue promesse. Ben tosto lasciò il titolo di doge adoperato di già in due repubbliche marittime, per assumere quello di signore; si circondò della più ridicola pompa; più non mostrossi al popolo che collo scettro d'oro in mano, e la stoffa d'oro sospesa in sul capo; pretese finalmente che gli si presentassero le suppliche stando in ginocchio, sebbene fin allora non si usasse quest'atto di sommissione che ai papi ed agl'imperatori[607].
In questo tempo, Pietro d'Albizzo di Vico, l'ambasciatore de' Pisani al congresso di Pescia, s'affrettò d'ultimare le vertenze della sua patria coi Fiorentini. La pace venne segnata il 17 agosto del 1364. Le antiche esenzioni accordate ai mercanti fiorentini vennero tutte rinnovate; il castello di Pietrabona, ch'era stata la prima cagione della guerra fu dai Pisani ceduto ai Fiorentini; gli altri castelli, presi da ambe le parti, vennero vicendevolmente restituiti, ed i Pisani si obbligarono a pagare ai Fiorentini entro dieci anni cento mila scudi d'oro per le spese della guerra, cioè dieci mila ogni anno, la vigilia della festa di san Giovanni, protettore di Firenze[608].
FINE DEL TOMO VI.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO VI.
Capitolo XXXVIII. Carestia e peste in Italia. — Nuove fazioni di Pisa. — Guerre del re d'Ungheria e della regina Giovanna. — Secondo giubileo. 1347-1350 pag. 3
Splendore del 14.º secolo 3
Suoi vizj 4
Influenza de' piccoli tiranni sulla pubblica morale 5
Corrompimento delle repubbliche 6
Flagelli che affliggono il 14.º secolo 7
Invenzione delle armi a fuoco, che furono adoperate la prima volta nel 1346 8
1346 Carestia prodotta dall'intemperie delle stagioni 10
1347 Generosità del governo fiorentino durante la carestia 12
Mortalità cagionata dalla carestia 15
Origine della peste in Levante 15
1348-1350 Scorre tutta l'Europa 17
1348 Sintomi della peste 18
Spavento che inspira il contagio 19
In qual modo venivano seppelliti i morti 21
Infelicità de' poveri in tempo del contagio 22
Licenza ed anarchia universale 23
1348 La peste ne' villaggi e nelle campagne 24
Numero delle vittime della peste, i tre quinti della popolazione 25
Morte dello storico Giovanni Villani 26
Morte di altri celebri personaggi 28
Origine delle fazioni dei Bergolini e dei Raspanti a Pisa 29
I Bergolini vincitori; i Raspanti scacciati, Andrea Gambacorti capo della repubblica il 24 dicembre 31
1346 In dicembre. Zara presa dai Veneziani 32
1347 Il 3 novembre. Il re d'Ungheria parte alla volta d'Italia 33
Non si lascia trattenere dagli ordini del papa 34
Il 20 agosto. La regina Giovanna sposa Luigi di Taranto 35
1348 Il 15 gennajo. La regina Giovanna fugge da Napoli e passa in Provenza 36
Carlo di Durazzo fatto uccidere dal re d'Ungheria 38
I principi del sangue e il figliuolo di Giovanni prigionieri nella Schiavonia 39
Il re d'Ungheria s'impadronisce del regno di Napoli 39
Questi torna in Ungheria sul finire di maggio per fuggire la peste 40
1348 La regina Giovanna e suo marito tornano a Napoli in fine d'agosto 42
1349 Il regno guastato dai condottieri 43
I mercenarj dividono la preda che ammonta al valore di cinquecento mila fiorini 44
Riposo forzato dell'Italia settentrionale 45
1350 Affluenza de' pellegrini a Roma pel nuovo giubileo 46
Capitolo XXXIX. Clemente VI vuole sottomettere la Romagna. — I Pepoli vendono Bologna ai Visconti. — La Toscana invasa dall'armata dell'arcivescovo di Milano, che viene respinta. — Pace tra il re di Ungheria e la regina di Napoli. 1350-1351 48
Viste interessate della Chiesa nella pubblicazione del secondo giubileo 48
1350 Clemente VI vuole impiegare le sue nuove ricchezze per sottomettere la Romagna 49
Ettore di Durafort, parente di Clemente VI, attacca il signore di Faenza 51
Intrighi di Durafort in Romagna 51
Il 6 luglio imprigiona nel suo campo Giovanni de' Pepoli signore di Bologna 53
1350 Prodigalizza le ricompense militari a' suoi soldati per tradimenti 54
Giacomo de' Pepoli fratello di Giovanni ricorre ai Fiorentini 54
Questi rispondono che sono pronti a difendere la repubblica di Bologna, ma non i suoi tiranni 55
Una ribellione nell'armata di Durafort sospende i suoi successi 57
I Fiorentini cercano di tornare Bologna in libertà 58
Ambasciata de' Pepoli a Firenze per ingannare i Fiorentini 58
Vendono Bologna ai Visconti 59
1339-1349 Regno e carattere di Lucchino Visconti 59
1349 Muore il 13 gennajo avvelenato da sua moglie; suo fratello Giovanni, arcivescovo di Milano, gli succede 60
1350 Contratto de' Pepoli con Giovanni Visconti 60
Durafort attacca nuovamente Bologna 62
Clemente VI fa cominciare un processo contro il Visconti 63
L'arcivescovo spaventa la corte d'Avignone 65
1351 Morte di Mastino della Scala il 3 giugno; debolezza dei suoi successori 66
1351 La repubblica di Fiorenza senza alleati contro il Visconti 67
Unisce la città di Prato al suo territorio 68
Tentativo sopra Pistoja. Trattato con questa città 69
Alleanza de' Visconti con tutti i tiranni 70
Benedetto Monaldeschi si fa signore d'Orvieto 70
E Giovanni Cantuccio de' Gabrielli di Agobbio 71
Giovanni Visconti di Oleggio entra in Toscana con l'armata milanese 73
Dichiarazione d'Oleggio ai Fiorentini 75
Questi mandano tutti i loro soldati a Prato e Pistoja 77
La campagna di Firenze guastata dall'Oleggio 77
Entra in Mugello ed assedia Scarperia 78
I Fiorentini cercano d'intercettare le vittovaglie all'Oleggio 79
Un Visdomini ed un Medici entrano in Scarperia 83
Primo assalto dato a Scarperia la prima domenica di ottobre 83
Secondo assalto vergognosamente respinto 83
Scarperia inutilmente attaccata colla scalata 84
1351 Oleggio leva l'assedio dopo sessantun giorni, ed esce dalla Toscana 86
Alleanza delle quattro comuni guelfe, Firenze, Perugia, Siena ed Arezzo 86
1350 Il re d'Ungheria rientra nel regno di Napoli, ed assedia Aversa 87
La regina Giovanna domanda la pace ed ottiene una tregua 88
Il giudizio della regina deferito alla corte d'Avignone 88
1351 La regina assolta dalla complicità nella morte del marito 90
Clemente VI riconosce Luigi di Taranto come re di Napoli 91
Gli ambasciatori d'Ungheria rinunciano ai compensi convenuti a favore del loro sovrano 92
Capitolo XL. Commercio e colonie degl'Italiani in Levante. — Guerra de' Genovesi coi Greci. — Coi Veneziani. — Battaglia del Bosforo. 1348-1352 93
Rivalità delle due repubbliche marittime Genova e Venezia 94
Marina de' Catalani 94
Dei Siciliani e dei Napolitani 95
Dei Greci, de' Pisani, de' Francesi e degl'Inglesi 97
Tutto il commercio del mondo facevasi sul Mediterraneo 97
Commercio del mar Nero colla Russia 98
Caffa, colonia de' Genovesi in Crimea, e la Tana presso Asow 99
Commercio di Sinope coi Turchi dell'Asia Minore 101
Commercio di Trebisonda cogli Armeni 102
Commercio delle Indie per mezzo dell'Armenia, e della Battriana 103
Per mezzo del golfo Persico e dell'Eufrate; nel mar Rosso e nell'Egitto 103
Costantinopoli centro del commercio del mondo 104
Colonia de' Veneziani a Costantinopoli 104
Colonia de' Genovesi a Pera o Galata 105
La rivalità tra gl'imperatori Latini e Greci era cessata 106
Guerre civili de' Greci durante il regno dei due Andronici 107
Guerre civili di Cantacuzèno; i Turchi passano in Europa 108
Pace del 1347 tra gl'imperatori rivali; povertà dell'impero 108
Rottura di Cantacuzèno coi Genovesi 110
1348 I Genovesi fortificano Pera a dispetto dell'imperatore e cominciano le ostilità 110
I Greci si sottomettono ai rigori di un assedio 113
1348 Cantacuzèno intraprende il blocco di Pera 114
1349 I Greci armano una flotta, e la mandano all'isola del Principe 115
La flotta greca, abbandonata dai suoi marinaj, è presa dai Genovesi 116
Terrore panico de' Greci che guardavano le mura 117
Moderazione de' Genovesi. Trattato di pace 117
Guerra nella piccola Tartaria tra i Latini ed i Tartari 118
1350 I Genovesi rompono ogni commercio coi Tartari 119
I Veneziani tornano alla Tana e battono i Genovesi, che loro volevano precludere il cammino 120
Offrono la loro alleanza all'imperatore greco ed è rifiutata 122
1351 Paganino Doria blocca una flotta Veneziana a Negroponte 124
I Veneziani cercano l'alleanza di Pietro IV d'Arragona 125
3 agosto. Il re d'Arragona dichiara la guerra ai Genovesi 126
I Greci si dichiarano a favore de' Veneziani 126
Niccolò Pisani libera la flotta bloccata a Negroponte 128
Pisani e Doria svernano nei mari della Grecia 130
1352 13 febbrajo. Battaglia del Bosforo tra i due ammiragli 131
Si prosiegue durante la burrasca e la notte 133
Orribile notte passata dalle due flotte nella baja di san Foca 133
La perdita de' Veneziani supera quella de' Genovesi 134
Niccolò Pisani abbandona i mari della Grecia 136
6 maggio. Paganino Doria sforza Cantacuzèno a fare la pace 136
Capitolo XLI. Disfatta de' Genovesi alla Lojera: essi si danno all'arcivescovo di Milano. — Disfatta de' Veneziani a Portolongo. — Pace di Venezia. — Tripoli preso dai Genovesi. — Congiura del doge Marin Falieri. — Introduzione delle lettere greche in Italia. 1352-1355 138
1352 Morte di Clemente VI il 5 dicembre, cui succede Innocenzo VI 139
I Genovesi cercano l'alleanza di Luigi d'Ungheria, e gli promettono la Dalmazia veneziana 139
1353 Antonio Grimaldi nominato ammiraglio della flotta genovese 141
Va in traccia de' Veneziani uniti ai Catalani alla Lojera, in Sardegna 142
Superiorità delle forze della flotta veneziana di Pisani 142
1353 29 agosto. Battaglia della Lojera perduta dai Genovesi 143
Attacco infruttuoso de' Catalani in Sardegna dopo questa vittoria 145
10 ottobre. I Genovesi abbattuti dalla loro disfatta si danno a Giovanni Visconti arcivescovo di Milano 147
Il Visconti cerca di fare la pace con Venezia; ma vengono rifiutate le sue offerte 148
1354 Paganino Doria entra nel golfo e minaccia Venezia 149
Va in traccia del Pisani che si è chiuso nel golfo della Sapienza 150
3 novembre. Attacca e distrugge tutta la flotta veneziana 151
1355 Un Genovese fa trionfare in Costantinopoli il partito di Giovanni Paleologo 152
Cantacuzèno rinuncia l'impero e si fa monaco 153
I Veneziani chiedono la pace; viene sottoscritta il 28 settembre 154
Tentativo di Filippo Doria sopra Tripoli 155
Rivoluzioni ne' regni di Tunisi e di Tripoli 155
I Genovesi sorprendono Tripoli e la saccheggiano 156
Il senato di Genova punisce il suo ammiraglio e la sua flotta per tale tradimento 157
1354 Marin Falieri succede l'11 settembre al doge Andrea Dandolo 159
1356 Marin Falieri insultato da Michele Steno 160
Risentimento del doge; cerca d'armare i malcontenti per vendicarsi 161
Congiura di Marino Falieri; deve scoppiare il 15 aprile 162
Ella è rivelata la vigilia al consiglio dei dieci 163
Il doge ed i principali congiurati vengono arrestati 164
17 aprile. Viene tagliata la testa al doge sulla grande scala del suo palazzo 165
1340-1364 I Greci cominciano ad imparare le lettere latine 166
Gl'Italiani si attaccano con ardore alle lettere greche 167
Prime traduzioni dal greco nel XII e XIII secolo 169
Erudizione ed entusiasmo per gli antichi in Costantinopoli 169
Il monaco Barlaamo; prime lezioni che dà al Petrarca 172
Giovanni Boccaccio; suo zelo per le lettere, suo sapere 173
Ambasciate a lui affidate 174
La repubblica fiorentina lo manda per fare alcune offerte al Petrarca 174
Dotte opere del Boccaccio dimenticate; suoi romanzi e sue novelle 177
1364 Ardore con cui studia il greco 178
Leonzio Pilato, dotto greco, condotto da Boccaccio a Firenze 179
Prima cattedra di lingua greca fondata dalla repubblica fiorentina 179
Capitolo XLII. L'Italia immagine della Grecia. — Suoi tiranni. — Intraprese di Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. — Grande compagnia del cavaliere di Moriale. — Il cardinale Albornoz intraprende la conquista del patrimonio della Chiesa. — Morte di Cola da Rienzo. 1351-1354 182
Rassomiglianza fisica tra l'Italia e la Grecia 182
Tra il carattere degl'Italiani e de' Greci 183
Il genio degl'Italiani soffocato dall'erudizione e dall'uso del latino 185
Le arti sono meno trattenute dall'imitazione di quel che lo siano le lettere 186
Rassomiglianza de' governi del XIV secolo in Italia e del secolo di Pericle 188
Carattere ed ambizione della casa Visconti 189
Le case di Savoja e di Monferrato 191
1352 Guerra civile nella casa d'Este 192
1354 Congiura nella casa della Scala 193
1355 Congiura nella casa de' Carrara 195
1362 Congiura nella casa de' Gonzaga 196
Non rimangono che le repubbliche di Venezia, Pisa, Firenze, Siena e Perugia 197
1351 Congiura dei Brandagli d'Arezzo eccitata dall'arcivescovo di Milano 198
Trattato dell'arcivescovo con Clemente VI 199
1352 5 maggio. Il papa riconcilia l'arcivescovo e la Chiesa, e gli cede Bologna 199
Le repubbliche toscane entrano in negoziati coll'imperatore Carlo IV 200
L'arcivescovo le fa attaccare su tutte le frontiere 203
5 dicembre. Morte di Clemente VI; gli succede Innocenzo VI 203
1353 Pace di Sarzana, del 1 aprile, tra il Visconti, e le città guelfe 204
Compagnia di ventura formata da fra Moriale d'Albarno 205
Guasta in novembre il territorio di Rimini 206
Invano il Malatesti implora soccorso dalle repubbliche guelfe 207
1354 Perugia ed in appresso Siena trattano con Moriale ed abbandonano i Fiorentini 209
I Fiorentini ed i Pisani sono forzati di liberarsi col danaro dai danni della compagnia 210
1354 Moriale affida la compagnia al conte Lando e va a Roma 211
29 agosto. Il tribuno Cola da Rienzo lo condanna, come assassino, a perdere la testa 212
1347-1354 Vicende di Cola da Rienzo dopo la sua fuga dal Campidoglio 213
1353 Il cardinale Albornoz mandato da Innocenzo VI in Italia con Cola 214
Rivoluzioni a Roma dopo la fuga di Cola da Rienzo 217
Cola da Rienzo desiderato dai Romani 219
1354 Il prefetto di Vico, signore di Viterbo e d'Orvieto, attaccato da Albornoz 221
Si sottomette al legato e rende la libertà a queste città 222
Il legato crea Cola senatore e lo manda a Roma 223
Cola prende danaro a prestito dai due fratelli di Moriale 223
Cola disgusta i Romani 224
8 ottobre. Sedizione contro di lui; viene attaccato nel Campidoglio 225
Tenta di fuggire sotto mentite vesti 226
Viene riconosciuto ed ucciso 227
Capitolo XLIII. Morte dell'arcivescovo Visconti. — Carlo IV in Italia. — Tratta con Firenze; distrugge a Siena il governo dei nove ed a Pisa quello dei Bergolini. — Si ritira vergognosamente. — Anarchia della Sicilia e di Napoli. — Conquista d'Albornoz; discordia tra i Visconti. 1354-1355 229
1353 La pace dell'arcivescovo Visconti assicurata dalle intraprese di Albornoz 229
I signori di Mantova, Verona, Ferrara e Padova esposti ai suoi intrighi 230
Dicembre. I Veneziani persuadono questi signori ad unirsi tra di loro ed a chiamare Carlo IV in loro soccorso 231
Carattere intrigante ed avido di Carlo IV 232
Egli ottiene dal papa la promessa di essere coronato a Roma 233
1354 Scoppia la guerra in Lombardia. La grande compagnia entra in servigio degli alleati 233
5 ottobre. Inaspettata morte di Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano 234
Divisione de' suoi stati fra i suoi tre nipoti, Matteo, Barnabò, Galeazzo 235
14 ottobre. Carlo IV entra in Italia senza armata 236
1354 Si fa mediatore d'una tregua tra gli alleati ed i Visconti 237
1355 6 gennajo. Viene coronato a Milano nella basilica di sant'Ambrogio 238
Passa in Toscana con piccolo accompagnamento; inquietudine de' Fiorentini 238
Durante il suo soggiorno a Pisa (18 gennajo al 22 marzo) si aduna un'armata presso di lui 239
Prove d'affezione che gli danno i Lucchesi 242
Carlo, impegnato coi Pisani, non può dare a Lucca la libertà 243
Stato delle fazioni pisane; i Gambacorti alla testa del governo 244
Sedizione eccitata dai Raspanti; nuovo trattato coll'imperatore 245
Gli si presentano gli ambasciatori di Siena e di Firenze 247
L'ordine dei nove di Siena dà all'imperatore l'illimitata signoria della repubblica 249
Movimento di tutti i Ghibellini toscani contro Firenze 249
Trattato dei Fiorentini coll'imperatore 250
Il popolo di Firenze viene a stento persuaso di ratificare questo trattato 252
1355 L'imperatore va a Siena. Oligarchia dei nove 253
Odio del popolo contro i nove, e perfidia di quest'ordine 255
23 marzo. Sedizione in Siena contro i nove, quando vi giugne l'imperatore 255
I nove perseguitati dal popolo; loro palazzo aperto a Carlo IV 256
L'imperatore passa a Roma, e vi è coronato il 5 aprile 258
19 aprile. Di ritorno a Siena trova escluso a perpetuità dal governo l'ordine dei nove 260
Istituzione di una nuova oligarchia. I dodici 260
Carlo nomina suo fratello, il patriarca d'Aquilea, signore di Siena 261
Questi viene scacciato dal popolo 261
L'imperatore corona in Pisa coll'alloro poetico Zanobio Strata 263
I Lucchesi sollecitano l'imperatore a rendere loro la libertà 263
Sedizione a Pisa contro l'imperatore. I Bergolini imprigionati 265
Sedizione a Lucca contro i Pisani 266
Zelo de' Pisani per difendere Lucca; i Lucchesi sottomessi 268
1355 26 maggio. L'imperatore fa tagliare il capo ai Gambacorti 269
Carlo ritorna in Germania 270
Guerre civili nel regno di Sicilia 272
Anarchia nel regno di Napoli; debolezza del re Luigi 273
La grande compagnia guasta lo stato di Ravenna 274
Guasta in seguito gli Abruzzi e la Puglia 276
S'avvicina a Napoli senza trovare ostacoli 277
Continuazione delle conquiste di Albornoz 278
Gentile da Mogliano, signore di Fermo, riconciliato colla Chiesa 279
Lega formata da Malatesti per difendersi contro il legato 281
Malatesti obbligato a sottomettersi. Gentile da Mogliano spogliato 282
Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì, si ostina a difendersi, benchè solo 283
Giovanni Visconti di Oleggio luogotenente dei signori di Milano a Bologna 284
I Visconti vogliono privarlo del governo 285
Cospirazione d'Oleggio per rendersi indipendente 286
1355 Il 17 aprile si fa proclamare signore di Bologna 288
Matteo, il primogenito Visconti, avvelenato da' suoi fratelli 290
Capitolo XLIV. La Dalmazia tolta ai Veneziani dagli Ungari. — Guerra de' principi lombardi contro i Visconti. — Fra Giacomo de' Bussolari a Pavia. 1356-1359 292
Influenza del re Luigi d'Ungheria sull'Italia 292
Gli Ungari giunti sotto questo principe alla più alta potenza feudale 293
Carattere intraprendente ed incostante di Luigi 294
Attaccamento di Zara e della Dalmazia al re d'Ungheria 295
1356 Luigi attacca i Veneziani per conquistare la Dalmazia 296
Numerose armate degli Ungari 298
Cavalleria leggiera ed armatura degli Ungari 298
Loro maniera di guerreggiare e di nudrirsi 299
Quaranta mila Ungari entrano nella Marca Trivigiana 300
Luigi intraprende l'assedio, poi il blocco di Treviso 301
Dopo un mese si ritira a precipizio 302
Continua la guerra con corpi di cavalleria che si succedono gli uni gli altri 303
1356 La signoria gli fa invano proposizioni di pace 304
1357 Gli Ungari si rendono padroni di Zara, 25 dicembre 305
1358 Pace tra gli Ungari e Venezia, di cui ne detta Luigi le condizioni 306
1355-1358 Guerra de' piccoli principi lombardi contro i Visconti 308
1355 Giovanni Paleologo, marchese di Monferrato, dichiara la guerra ai Visconti 309
I marchesi Beccaria di Pavia si uniscono al marchese di Monferrato 310
1356 Maggio. I Visconti assediano Pavia 311
Fra Giacomo de' Bussolari, predicatore di Pavia 312
27 maggio. Eccita i suoi uditori a vendicare la patria, e fa levare l'assedio ai Milanesi 313
La grande compagnia assoldata dai nemici dei Visconti 316
Il Vescovo d'Augusta, vicario imperiale, l'accompagna 317
I soldati dei Visconti non vogliono combattere contro la grande compagnia 318
Questa dal canto suo non vuole spingere la guerra con vigore 319
13 novembre. Il vecchio Lodrisio Visconti determina l'armata milanese a combattere, e rompe la grande compagnia 320
1356 15. I Genovesi scacciano la guarnigione dei Visconti, e si rimettono in libertà 322
1357 Fra Giacomo de' Bussolari predica a Pavia contro la tirannide 323
Gelosia dei Beccaria che vogliono farlo assassinare 323
Bussolari ritorna co' suoi sermoni l'esistenza alla repubblica di Pavia 324
I Beccaria ricercano l'alleanza dei Visconti e sono cacciati da Pavia 325
Corrispondenza di Petrarca col Bussolari 326
Continui tradimenti delle truppe mercenarie 328
1358 Maggio. I Visconti fanno la pace coi signori di Lombardia 329
Ricominciano l'assedio di Pavia 330
Sforzi del Bussolari per difendere questa città 332
1359 I contadini del territorio di Pavia prendono la parte dei Visconti 332
Bussolari tratta coi Visconti senza nulla chiedere per sè 333
Pavia apre le porte. Bussolari termina i suoi giorni in una prigione 335
Orrendi supplicj inflitti dai Visconti ai loro nemici 335
Capitolo XLV. Affari della Toscana. — Rivalità tra Firenze e Pisa; guerra di Siena e di Perugia. — I Fiorentini respingono la grande compagnia. — Sommissione della Romagna alla Chiesa. 1356-1359 337
1356 Morte del vecchio Pietro Saccone, che cerca di approfittare della sua agonia per sorprendere i suoi nemici 337
Animosità dei Pisani contro i Guelfi ed i Fiorentini 339
Eccitano alcuni avventurieri a sorprendere qualche fortezza de' Fiorentini 340
Attentano nel loro porto all'esenzione dei Fiorentini 341
I Fiorentini trasportano il loro commercio a Siena e Telamone 342
1357 I Raspanti di Pisa vogliono provocare i Fiorentini alla guerra 344
I Fiorentini non si lasciano illudere e conservano la pace 345
Grandezza ed ambizione dei Perugini 346
Dicembre. Attaccano all'impensata il signore di Cortona 347
1358 Febbrajo. Siena soccorre il signore di Cortona 348
10 aprile. I Sienesi disfatti a Torrita dai Perugini 349
I Sienesi chiamano in Toscana la grande compagnia del conte Lando 350
La compagnia chiede il passo ai Fiorentini, che lo rifiutano 351
1358 Sceglie un cammino attraverso le montagne, ove si avanza incautamente 352
Il 24 luglio. La compagnia rotta dai montanari alla Scalella 353
L'avanguardia si salva e torna in Romagna 355
Rinforzi che riceve la compagnia, e suoi progetti di vendetta 356
I Fiorentini mediatori della pace tra Perugia e Siena 357
Semi di discordia a Firenze; il divieto 358
Gli antichi Guelfi si lagnano che il governo passa in mano ai Ghibellini 359
Legge emanata per allontanare i Ghibellini dagl'impieghi; l'ammonizione 360
Grande numero di paci in tutta l'Europa 362
La sola Romagna non vi è compresa; conquiste d'Albornoz 363
1356 Gli abitanti di Forlì pregano inutilmente Francesco degli Ordelaffi a sottomettersi al legato 364
1357 L'Ordelaffi affida la difesa di Cesena a sua moglie Marzia degli Ubaldini 365
Indomabile coraggio di Marzia, che si difende d'uno in altro trinceramento 366
1357 Suo padre la prega invano ad arrendersi 368
L'ultima torre della cittadella in cui è chiusa, trovandosi minata, viene da' suoi soldati costretta ad arrendersi il 21 di giugno 369
Un nuovo legato dato per successore ad Albornoz 370
1358 La grande compagnia libera Forlì dall'assedio 370
Dicembre. Albornoz rimandato in Romagna in qualità di legato 372
1359 Febbrajo. Albornoz allontana col danaro la grande compagnia 373
I Fiorentini determinati di far testa soli alla compagnia 374
Maggio. La compagnia entra in Toscana per lo stato di Perugia 376
Vuole spaventare i Fiorentini e ridurli a negoziare 377
Pandolfo Malatesti, generale dei Fiorentini, si avanza contro la compagnia 379
La compagnia gira intorno al territorio fiorentino 380
12 luglio. Manda il guanto della sfida a Pandolfo Malatesti 381
23 luglio. Ella fugge dal Campo alle mosche 382
I Fiorentini soccorrono contro di lei Barnabò Visconti 384
4 luglio. Francesco degli Ordelaffi cede Forlì al legato 385
Capitolo XLVI. Bologna sottomessa alla Chiesa; guerra dei Visconti col papa. — Conquiste delle repubbliche sopra la nobiltà immediata. — Congiure a Firenze, Pisa e Perugia. 1359-1361 387
1307-1359 Decadimento di Bologna sotto diversi tiranni 387
Abilità di Giovanni d'Oleggio signore di Bologna 388
Sue alleanze 389
Sue truppe guadagnate dai Visconti 390
1360 Viene attaccato all'impensata 391
Albornoz tratta con Oleggio per l'acquisto di Bologna 392
Bologna ceduta il 31 marzo alla Chiesa. Oleggio si ritira a Fermo 393
Barnabò Visconti fa la guerra alla Chiesa per riconquistare Bologna 395
Il papa chiede soccorsi al re di Ungaria ed ai Fiorentini 397
I Milanesi respinti dagli Ungari 398
1361 Una nuova armata milanese attacca Bologna 401
Cospirazione dei Malatesti per sorprendere i Milanesi 402
20 luglio. I Milanesi disfatti sulla Savenna 405
1360 Ottobre. Giovan Galeazzo Visconti sposa Isabella di Valois 407
Stato deplorabile della Francia 408
Alcune compagnie d'avventurieri saccheggiano la Provenza 409
1360 La compagnia inglese chiamata dalla Provenza in Italia dal Marchese di Monferrato 410
Porta seco la peste in Lombardia 410
1359-1361 I Fiorentini tolgono molti castelli ai Tarlati 412
Prendono e puniscono il conte Tano Alberti 414
Acquistano varj castelli dagli Ubaldini e dagli Ubertini 415
Decadimento del commercio di Pisa 417
1360 Congiura di Federigo del Mugnajo contro i Raspanti 418
Malcontento del popolo di Firenze 419
Congiura di Bartolomeo de' Medici 420
Viene scoperta, e puniti i congiurati 423
1361 Congiura a Perugia di Tribaldino de' Manfredini 424
Viene scoperta, e mandati i capi al supplicio 426
Capitolo XLVII. Volterra sottomessa ai Fiorentini; guerra tra Pisa e Firenze; seconda peste in Toscana; trame de' Malatesti contro la repubblica fiorentina. — Giovanni Agnello occupa la signoria di Pisa ed assume il titolo di doge. 1361-1364 427
Situazione di Volterra e sua antica grandezza 427
1361 Bocchino de' Belfredotti, tiranno di Volterra, vuole vendere la città ai Pisani 428
1361 I Fiorentini occupano Volterra il 10 ottobre 429
Vicendevoli offese de' Fiorentini e de' Pisani 429
1362 I Fiorentini dichiarano la guerra ai Pisani in occasione di Pietrabuona 431
Scorrerie nel territorio di Pisa di Bonifacio Lupo e di Ridolfo da Varano 433
Indisciplina de' soldati fiorentini; compagnia del cappelletto 434
I Fiorentini attaccano ancora i Pisani per mare 435
1363 I Pisani chiedono soccorso a Barnabò Visconti 437
1361-1363 Guerra di Barnabò contro la Chiesa e contro il marchese di Monferrato 439
1363 Barnabò persuade la compagnia inglese a prendere soldo dai Pisani 440
7 maggio. Vittoria di Pietro Farnese, generale fiorentino sui Pisani 440
La peste si manifesta in Firenze e rapisce Matteo Villani lo storico 442
1361-1363 18 luglio. La compagnia inglese giugne a Pisa 444
Guasta il territorio fiorentino ed insulta la capitale 445
I Fiorentini danno il comando della loro armata a Pandolfo Malatesti 446
1361-1363 Malatesti vuole indebolire i Fiorentini per occupare la tirannide 446
Cerca che siano battute le milizie fiorentine. Viene licenziato 447
Campagna d'inverno degl'Inglesi, loro modo di combattere 450
1364 3 marzo. La pace conchiusa in Lombardia tra i Visconti e la Chiesa 452
Barnabò manda ai Pisani la compagnia di Anichino Bongarten 453
Apparecchi de' Fiorentini per difendersi 454
Giovanni Hawkwood e Bongarten attaccano le porte di Firenze 456
Le truppe ausiliarie de' Pisani gli abbandonano 457
I Pisani battuti a Cascina da Galeotto Malatesti 460
Congresso per la pace a Pescia 461
Giovanni Agnello aspira alla signoria di Pisa 463
1364 Agnello inganna i magistrati di Pisa che vanno a visitare la sua casa 464
S'impadronisce della signoria e prende il titolo di doge 466
17 agosto. La pace segnata a Pescia tra le due repubbliche 468
Fine della Tavola.