CAPITOLO LVII.

Considerazioni intorno al carattere ed alle rivoluzioni del quattordicesimo secolo.

Abbiamo guidati i nostri lettori fino alla fine dei XIV secolo, in quest'importante periodo facendoci una costante legge di tener dietro non solo alle rivoluzioni dei diversi popoli dell'Italia, ma ancora alla generale politica dell'Europa, ed ai rapporti di tutte le nazioni d'oltremonti cogl'Italiani. Chiederemo adesso licenza ai lettori, come abbiamo chiesto in fine del precedente secolo, di trattenerci alquanto con noi per dare un'occhiata allo spazio percorso.

Queste considerazioni sui decorsi tempi non ci saranno cagione di perfetta soddisfazione. Grandi imprese si condussero a fine in questo secolo da uomini sommi che si presentano sulla scena; grandi virtù, grandi delitti, ed in particolar modo un grande sviluppamento dell'umano ingegno occuparono alternativamente la nostra attenzione. Per altro un solo pensiero non si vede riempire ed animare tutti gli spiriti; nè si sente che le rivoluzioni degli stati e le passioni degli uomini tendano verso un solo scopo; ed il secolo per avventura più ricco d'Italia in grandi scrittori, in pensatori profondi, in uomini d'ogni maniera grandissimi, non ha un determinato carattere. Non è già così che si presentano alla nostra memoria gli uomini del secolo dodicesimo e tredicesimo, con quella loro energia di libertà, con quell'ardente desiderio di possanza e di gloria. La storia di tutte le città era in allora quasi la medesima, la vita d'ogni uomo rassomigliava in allora alla vita del suo concittadino, non per un eguale riposo, ma per una attività della stessa natura; tutti tendevano con forza allo stesso scopo, tutti rapidamente avanzavano sulla stessa via, e l'intera nazione aveva un grande carattere, non già solamente perchè contava molti egregi uomini, ma perchè ogni uomo, dal più grande fino al più oscuro, aveva ricevuto dalla natura una doviziosa eredità.

Nel secolo quattordicesimo gl'individui si staccano molto più dalla folla, e richiamando sopra di sè l'universale attenzione la signoreggiano colle loro grandi intraprese, col loro ingegno, coi loro delitti; ma intanto la nazione, cui appartengono, non si vede avanzare di pari passo, e mentre essi risplendono come fuochi erranti e s'aggirano per ogni lato, i varj popoli, cui dovrebbero servire di guida, si smarriscono ne' tortuosi sentieri della politica, s'avanzano e ritrocedono, e mentre alcuni tendono alla libertà, altri s'accostano al dispotismo: l'immoralità e la religione, la superstizione e la filosofia, il coraggio e la pusillanimità, sono dominanti a vicenda, onde giunti al fine dell'intero secolo mal saprebbesi dire quali progressi siansi fatti.

I primi capi d'opera della lingua italiana appartengono al quattordicesimo secolo; ella nacque, per così dire, con lui, ed il poema di Dante cominciò nel primo anno del secolo: il Petrarca ed il Boccaccio, ed altri gentili poeti di minor nome appartengono interamente a questo secolo[1]. Pure la recente scuola perde tutt'ad un tratto la sua fecondità; la letteratura italiana si ferma, l'invenzione pare proscritta, l'immaginazione viene incatenata dall'erudizione, nojosi copisti subentrano ai poeti originali, e non sanno produrre che sonetti, canzoni e fredde allegorie modellate sui trionfi del Petrarca; la difficoltà del metro da loro adoperato agghiaccia ogni ispirazione, il pensiere ricusa d'annicchiarsi nell'angusta periferia cui vuole ridursi, niuno tratta la poesia epica o drammatica, e coloro che si occupano della lirica, non hanno nè immaginazione, nè entusiasmo, nè sensibilità. Finalmente le muse italiane ammutoliscono affatto, ed in sul declinare del secolo più omai non rimane un solo ingegno che onori la lingua volgare, che di già esaurita e corrotta deve dormire un altro secolo prima che venga richiamata a creare nuove cose.

L'antichità era stata scoperta; e compresi da santo rispetto per la medesima gl'Italiani tentarono di farle occupare il posto de' tempi presenti. Lo studio delle lingue morte aveva tutt'ad un tratto sospesa la vita presso una nazione così proclive a prendere nuove forme. Coll'idioma de' passati secoli, e ponendosi a lato agli estinti, si pretese di acquistar gloria; come se l'inspirazione potesse giammai animare una lingua che non risuonò mai in fondo del cuore nella intimità delle domestiche relazioni, una lingua che il figlio non udì uscir dalla bocca della madre, l'amante da quella dell'amica; una lingua che non eccita la commozione del popolo, e che non può sollevare, nè affascinare la moltitudine. Molti uomini di alto ingegno impararono a pensare, a sentire, a parlare come Cicerone, Tito Livio e Virgilio. Ottennero di apparire ombre dei corpi dell'antichità; ma i presenti tempi non erano che l'immagine d'un passato che invano cercavasi di richiamare; e questa vita di riverbero, ove nulla poteva sentirsi di spontaneo, aveva la triste freddezza della morte ch'ella imitava[2].

Questo zelo dell'erudizione ebbe se non altro il vantaggio di raccogliere i ricchi monumenti dell'antichità, che fino a tale epoca erano rimasti affatto negletti. L'arte di fabbricare la carta, che sembra essersi inventata a Fabriano, nella Marca d'Ancona, in sul finire del precedente secolo[3], permise di moltiplicare le copie de' preziosi manoscritti; Roberto, re di Napoli, il marchese d'Este, Giovanni Galeazzo, duca di Milano, Lodovico Gonzaga, Pandolfo Malatesta, ed alcuni altri sovrani raccolsero con enorme spesa libri d'ogni sorta, accordando a tutti i dotti l'uso de' medesimi. I privati imitarono la loro magnificenza, e l'Italia possedette in breve più biblioteche che tutta l'Europa.

Lo zelo esagerato e pedantesco della erudizione non poteva riuscire vantaggioso alla letteratura; ma era forse necessario agli avanzamenti di altri studj, e gl'Italiani in questo secolo sostennero la gloria delle loro università con i dotti lavori de' loro teologi[4], de' canonisti[5], de' giurisperiti[6]. Fu già un tempo nel quale i nomi di Giovanni d'Andrea, di Bartolo e di Baldo sembravano consacrati ad un'eterna celebrità; ma l'erudizione non può dare che una gloria passaggiera: il solo genio, e non l'immensità del sapere, può solo rendere le opere degli uomini trionfatrici del tempo.

Ad eccezione del Poema di Dante, dei Sonetti del Petrarca e delle Novelle del Boccaccio, verun'altra opera di questo secolo è conosciuta dalla comune dei lettori. Gli è dunque meno nelle scritture che nelle azioni che cercare dobbiamo il carattere degli uomini di questo periodo di tempo. Nel corso di questa storia ci siamo proposti di legare gli avvenimenti gli uni cogli altri, dando loro un centro di comune interesse e movimento. Mi sono perciò studiato di schivare le transizioni troppo subitanee dalla storia d'un popolo a quella d'un altro, e mi sono preso quasi sempre la penosa cura di trovare il rapporto ed il punto d'unione che lega quegli avvenimenti che al primo aspetto sembrano isolati. Non pertanto mi è pur forza di confessarlo, deve rimanere ancora qualche confusione nella mente del lettore travolto fra mille narrazioni che s'incrocicchiano. Per disporre con ordine le nostre ricordanze tentiamo di seguire le rivoluzioni di un secolo in tutti gli stati ond'era in allora divisa l'Italia, e cerchiamo in pari tempo di vedere cosa essi fossero e cosa diventarono.

L'autorità imperiale, ristaurata in Germania dall'ingegno e dall'energia di Rodolfo d'Apsburgo, e da suo figliuolo Alberto, non si era di nuovo stesa fino all'Italia. Enrico di Lussemburgo tentò di fare in principio del secolo ciò che la casa d'Austria non aveva fatto; portò le vittoriose sue armi a traverso la Lombardia, fece sentire al Piemonte, al Milanese, alla Marca Trivigiana un'autorità già da molto tempo trascurata o disprezzata, lottò con gloria in Toscana contro la non meno gloriosa resistenza della repubblica fiorentina, cinse a Roma la corona imperiale, malgrado il potente avversario che voleva vietargli l'ingresso in quella capitale, mostrossi non meno grande nella povertà e nella privazione, che in mezzo alle vittorie, e l'immatura sua morte fu forse il solo ostacolo che si opponesse al suo progetto di unire con saldi legami l'Italia all'impero germanico.

Ma dopo la morte di questo principe passò lungo tempo prima che un uomo degno di succedergli salisse sul trono imperiale. La guerra civile tra Luigi di Baviera e Federico d'Austria contribuì forse meno a distruggere l'autorità del monarca in Italia, che l'incoerente, l'ingrato ed avido contegno di Luigi, dopo ch'ebbe trionfato di Federico. I discendenti di Enrico VII, che occuparono in appresso il trono, pare che andassero di generazione in generazione perdendo alcuna delle virtù o delle qualità di questo gran principe, finchè caddero in una assoluta nullità. Suo figliuolo Giovanni, re di Boemia, non aveva avuto in retaggio che il suo valore cavalleresco, la sua attività, la sua lealtà; mentre l'incostanza di Giovanni nel proseguimento de' vasti progetti, che appena ideati abbandonava, doveva rovesciare la sua autorità colla celerità medesima con cui era stata innalzata dalla sua attività. Carlo IV, suo figliuolo, imperatore dopo Luigi di Baviera, era inferiore non meno al padre che all'avo. Timido, egoista, avaro, corse due volte l'Italia piuttosto come mercante che come sovrano, e due volte si espose ad affronti, di cui in appresso vendeva il perdono, ivi dove i suoi antenati avevano colti degli allori. Pose all'incanto l'onore dell'impero e il suo, e sagrificò gli antichi amici di sua famiglia e la prosperità delle città, che gli si erano mostrate più affezionate. Wencislao, suo figliuolo, mostrò che si poteva scendere anche più a basso, e degenerare ancora da così fatto padre. Probabilmente per altro la sua vita oziosa e dissoluta avrebbe in Italia recato minore pregiudizio all'onore della corona, che i viaggi di Carlo IV, perchè veniva volentieri dimenticato un uomo che non ricordavasi d'alcuno; ma l'impazienza e la rivoluzione della Germania risvegliarono l'attenzione del pubblico, e Wencislao colla vergognosa sua caduta dal trono imperiale diede a conoscere tutto il disprezzo che meritava.

E per tal modo in sul declinare del XIV secolo l'autorità degl'imperatori in Italia, era nulla, come nulla era stata nel principio dello stesso secolo. Le campagne d'Enrico VII, di Lodovico il Bavaro e di Carlo IV non avevano loro procurata che un'efimera conquista; e se pure ravvisavasi qualche differenza nella posizione dell'impero in queste due epoche, stava tutta nella disposizione dei popoli. Eransi questi liberati da tutte le illusioni; avevano affatto perduto l'antico loro rispetto pel nome di monarca e spezzato ogni legame d'affetto e di partito; perciocchè sebbene le fazioni guelfa e ghibellina non avessero per anco deposti gli antichi odj, e dovessero bentosto azzuffarsi di nuovo, eransi totalmente svincolate dagl'interessi dell'impero e della chiesa. Niuno si maravigliò vedendo l'imperatore Roberto alleato dei Guelfi di Firenze e di Padova per fare la guerra ai Ghibellini di Lombardia; ma la mala riuscita di questa spedizione fece apertamente conoscere quanto fosse debole l'impero anche quando era governato da un savio e coraggioso principe.

La rivoluzione d'un secolo aveva portati ancora più notabili cambiamenti nella potenza del papa. In sul finire del XIII secolo Bonifacio VIII era tuttavia un potente sovrano in Italia, un pontefice ubbidito e temuto da tutti i Cristiani. Bonifacio IX alla fine del XIV secolo aveva omai perduta ogni temporale e spirituale autorità. Ma questo periodo era stato per la Chiesa insignito da una lunga serie di calamità, ed è cosa maravigliosa, non già il vederla caduta in così basso stato, ma bensì che tali avvenimenti non l'abbiano privata d'ogni considerazione e potenza. Gli oltraggi cui Bonifacio VIII fu esposto nel 1303, e la violenta sua morte, sembravano presagire ciò che la dignità papale soffrire doveva in questo secolo. Quando Clemente V rinunciò alla naturale sua residenza ed acconsentì di starsi in qualità d'ostaggio tra le mani di un re, cui davasi colpa d'aver fatti morire i due suoi predecessori, si spogliò nello stesso tempo dell'autorità che veniva accordata prima di tale epoca al comun padre de' Cristiani, e della sovranità che i successori di san Pietro avevano lentamente innalzata colla loro politica. Mentre il capo dei fedeli abbassavasi fino ad essere lo strumento ed il ludibrio di una corte ambiziosa e dissimulatrice, mentre dimenticava nella sensualità e ne' piaceri le lezioni di morale dovute ai Cristiani, mentre la pompa della sua corte non era che un velo del suo real servigio, mentre le sue ricchezze ne accusavano la simoniaca venalità, gli abitanti di Roma e degli stati della Chiesa scuotevano l'autorità dei legati e de' vicarj mandati da Avignone per governarli. Gli uni riacquistavano la libertà, o una burrascosa indipendenza; altri si assoggettavano a nuovi padroni, ma a padroni guerrieri scelti da loro medesimi; e tutti omai si vergognavano di ubbidire a deboli preti, mandatarj di un pontefice che più non meritava rispetto[7].

I papi, dopo avere col lungo loro soggiorno in Francia cagionata la rivoluzione de' loro stati, non rinunciarono perciò alla sovranità che avevano in Italia; che anzi, trovandosi colla loro corte al sicuro da ogni sinistro avvenimento, e non vedendo i mali del popoli ch'essi esponevano alla guerra, ponevano ogni cura nel ricuperare la perduta autorità con una perseveranza ed un egoismo non comune agli altri governi. Eterne erano le guerre ch'essi suscitavano in Italia, perchè giammai essi non potevano essere compiutamente vinti, nè mai prendevano bastanti misure per vincere, nè mai erano abbastanza commossi dai patimenti dei popoli per metter fine all'effusione del sangue. Gli altri sovrani cercavano la pace dopo alcune disfatte, sia perchè temevano per la loro medesima residenza, sia perchè la perdita di parte de' loro stati li privava delle entrate necessarie al mantenimento delle armate. Ma i papi per fare la guerra ritraevano le loro entrate da tutta la Cristianità; e le disfatte che soffrivano, loro somministravano pretesti per imporre nuove decime o contribuzioni sul clero. I tesori che in tal modo raccoglievano in tutta l'Europa, venivano in parte dissipati dalle prodigalità della lor corte, ed i suoi generali, lasciati senza danaro, perdevano tutt'ad un tratto i vantaggi che avevano acquistati. Quando ancora avessero potuto terminare la guerra, la riaccendevano a bella posta per saziare con nuovi sussidj del clero l'avidità de' cortigiani.

Giovanni XXII, successore di Clemente V, fu quello che diede cominciamento alle lunghe guerre della Chiesa in Italia. Per servire Roberto, re di Napoli, di cui era creatura, nel 1317, attaccò i Visconti; e dopo tale epoca fino alla fine del secolo la guerra tra la Chiesa ed i signori di Milano non ebbe che brevi intervalli di tregue. Pochi anni dopo, lo stesso papa dichiarossi nemico di Lodovico di Baviera; ed in sull'esempio de' suoi predecessori, rifiutò fino alla morte di questo monarca ogni progetto di pace e qualunque atto di sommissione del suo avversario.

Finalmente Giovanni XXII diede principio ad una terza guerra, non più contro stranieri sovrani, ma contro i proprj stati. Spedì il legato Bertrando del Pogetto per ispogliare de' loro privilegi i popoli che dipendevano dall'abituale signoria della Chiesa, per abbassare l'indipendenza dei grandi, e scacciare dalle loro signorie i vicarj pontificj. Questa terza guerra non fu meno lunga delle altre. In sul declinare del 14.º secolo il papa combatteva ancora contro i feudatarj ribelli, e lo stato della Chiesa non era nè più sottomesso, nè più indipendente di quello che lo fosse settanta anni avanti quando cominciò questa guerra; era solamente più spopolato e più povero.

In tempo di queste lunghe ostilità la Chiesa ottenne in due diverse epoche brillanti successi, de' quali andava debitrice ai due legati Bertrando del Pogetto ed Egidio Albornoz, che nella distanza di venticinque anni l'uno dall'altro ricuperarono quasi tutto il patrimonio ecclesiastico. Due gloriosi periodi contò pure il partito del popolo, l'amministrazione di Cola da Rienzo in Roma, e la guerra della lega della libertà intrapresa sotto la protezione de' Fiorentini. Ma le conquiste dei legati erano in breve perdute per l'incapacità de' loro successori, o per l'intempestiva avarizia della corte, siccome i privilegi ricuperati dalle città venivano bentosto o abbandonati per l'incostanza de' popoli, o invasi da nuovi usurpatori, non sapendo nè il partito della Chiesa, nè quello della libertà fare durevoli conquiste.

Questa guerra mutò carattere all'epoca del grande scisma l'anno 1378. Uno dei pontefici soggiornò in Italia, e trovossi tra le mani de' suoi sudditi, dai quali i suoi predecessori eransi costantemente tenuti lontani; stabilì la sua dimora a portata de' suoi nemici che fu costretto di accarezzare; e venne privato della maggior parte delle sue entrate, che i suoi predecessori ritraevano dal rimanente dell'Europa; finalmente si trovò pure spogliato di quella considerazione in addietro attaccata al suo carattere. L'inconseguenza d'Urbano VI, e le accuse fattegli dal suo rivale d'Avignone, lo avevano renduto un oggetto di scandalo per la Cristianità. Se a quest'epoca la lega delle città avesse voluto valersi della sua superiorità, avrebbe distrutta l'autorità temporale dei successori di san Pietro. Quando le città non ebbero più timore del papa, nuovi signori, sorti nelle medesime, cercarono la sua alleanza, e Bonifacio IX regnò sotto la protezione dei Malatesti.

Alla terza monarchia d'Italia, al regno di Napoli, funestissima riuscì pure la rivoluzione del quattordicesimo secolo. Sotto i primi principi della casa d'Angiò pareva che questa grande e ricca sovranità dovesse stendersi su tutta la penisola ed in cambio i suoi successori la lasciarono ruinare. Ella più non aggiugneva verun peso alla bilancia politica; più non sapeva resistere ad alcun nemico; e le più belle province dell'Europa omai non erano che un'arena in cui tutti gli ambiziosi e gli avventurieri scendevano a combattere per rubarsi le spoglie dei popoli.

Le calamità che perseguitarono i figli del savio re Roberto, potrebbero rendere dubbiosa la tanto vantata prudenza di questo monarca. Si potrebbe accusarlo della cattiva educazione data a suo figliuolo il duca di Calabria, e dalla nipote la regina Giovanna, degli esempj di corruzione ond'era circondata questa principessa, e della dissolutezza di tutta la corte. Ma non è giusto di rimproverare ai re l'inevitabile disgrazia della loro situazione. I loro sforzi per ispirare virtuosi sentimenti ai figliuoli non possono giammai superare quelli de' cortigiani nell'insegnar loro il vizio. Questi non s'innalzano mai che lusingando le passioni de' loro padroni; ne guadagnano l'amicizia servendoli nelle loro debolezze, e, tutti pieni di questa speranza, osservano le loro prime inclinazioni per eccitarle, i primi loro desiderj per renderli soddisfatti. Perchè un principe resister possa a tanta seduzione conviene che sia dotato di una rarissima virtù, o che circostanze affatto straordinarie non lo lascino esposto ai lacci tesi alla sua inesperienza. Roberto ebbe ne' suoi figli la sorte comune dei re; tutta la casa di Angiò degradò costantemente di generazione in generazione. Il fondatore Carlo I riuniva solo le qualità tutte che innalzano e consolidano le monarchie. Era valoroso, attivo, risoluto; sapeva farsi amare dai soldati e temere dai popoli; la sua durezza trovava scusa nel fanatismo che l'accompagnava; la sua crudeltà verso i vinti veniva coperta dalle sue prodigalità a favore dei vincitori; la stessa sua politica pareva che andasse d'accordo co' suoi sentimenti, e fosse più ispirata che calcolata. Suo figliuolo, Carlo II, era più umano, più dolce, più benefico, ma possedeva in minor grado del padre le qualità per cui si regna. La sua carriera militare non fu luminosa, ed è perfino dubbioso il suo valore. Roberto poi era più effemminato del padre e dell'avo, ed andò debitore di quasi tutti i suoi prosperi avvenimenti, non al suo coraggio, ma ad una prudenza che si accostava alla dissimulazione. Il duca di Calabria, suo figliuolo, che morì prima di lui, era affatto perduto nelle dissolutezze, e la condotta tenuta in Firenze, quando vi fu chiamato a governarla, svelò apertamente la sua incapacità. Finalmente Giovanna, che cominciò coll'assassinio del marito una lunga serie di delitti e di debolezze, e che doveva terminarla con una vergognosa morte, era a quell'estremo di degradamento pervenuta, che è cagione della ruina delle case reali. Giovanna occupa, tra i discendenti di Carlo d'Angiò, lo stesso luogo che Wencislao tra quelli d'Enrico VII.

Dopo la guerra del re d'Ungheria, il regno di Napoli rimase costantemente in preda ai saccheggi, e le compagnie di ventura subentrarono ai semibarbari soldati del conquistatore. Più non rimanevano nè flotte, nè armate sotto gli ordini del sovrano, niuna stabile guarnigione nelle città, niuna ben conservata fortificazione, e quando alcuna città difendevasi contro gli aggressori, faceva uso delle proprie forze e non di quelle del governo. Le contribuzioni delle province levavansi quasi sempre da straniere armate, e se qualche rara volta giugnevano a Napoli, erano dalla corte dissipate nel lusso e ne' piaceri, onde il pubblico tesoro trovavasi sempre esausto. Per ultimo mentre la guerra guastava tutto il regno dai confini degli Abruzzi al Faro di Messina, la nazione perdeva ogni abitudine militare, e non interveniva alle battaglie che per essere spogliata: creduta incapace di ogni resistenza, nulla da lei esigevano nè i suoi padroni, nè i suoi nemici; essa medesima credeva che più non le restasse nè onore da perdere, nè carattere da conservare; erasi finalmente rassegnata alle sofferenze ed alla vergogna.

In tale stato ritrovò il regno Carlo III di Durazzo quando lo conquistò. Egli diede prove all'istante dell'educazione guerriera che aveva ricevuta in Ungheria. I suoi costumi, il suo carattere niente avevano di comune con quelli dei mariti e degli amanti della regina, che avevano prima di lui governato il regno. In poco tempo vi ristabilì la pace nell'interno, e l'avrebbe ancora bentosto reso rispettabile anche al di fuori, se la sua spedizione in Ungheria e l'immatura sua morte, non avessero impedita l'esecuzione de' suoi progetti. Dopo di lui ricominciò l'anarchia, ed alle cagioni di ruina che precedettero il suo regno s'aggiunsero la guerra civile tra le due case di Durazzo e d'Angiò, e la minorità dei due pretendenti al trono.

Durante lo stesso periodo, nuovi principi avevano cercato di acquistare in Italia quell'autorità che gl'imperatori, i papi ed i re di Napoli andavano ogni giorno perdendo. La casa della Scala a Verona e quella de' Visconti a Milano, hanno potuto lusingarsi di condurre a termine questo progetto, e l'una e l'altra portarono alcun tempo le loro speranze fino alla corona d'Italia.

La casa della Scala fu la prima a formare così ambiziosi disegni, che nutrì in tutta la prima metà del secolo, e due volte, sotto Can Grande e sotto Mastino II, fece tremare l'Italia per la sua libertà.

Tra le nuove case che non possedevano feudi ereditarj, e coi maneggi sollevate si erano ad una sovranità che chiamavasi ancora tirannide, la casa della Scala era la più antica. Fino dal 1260 era succeduta alla potenza che il feroce Ezelino aveva in Verona, e da quell'epoca questa città ubbidì alla sua famiglia fino presso agli ultimi anni del quattordicesimo secolo. Ne' tempi in cui l'ambizione di Roberto, re di Napoli, e l'implacabile odio di Giovanni XXII, muovevano acerba guerra a tutti i Ghibellini, questa fazione rimasta priva di protettori per la rivalità dei due imperatori eletti, scelse per suo capo Cane della Scala, chiamato il grande. Colla sua abilità e collo straordinario suo coraggio fece Cane prosperare le armi ghibelline, ed in pochi anni occupò Padova, Vicenza, Treviso, e gran parte della Marca Trivigiana. Egli fu il solo del suo partito che non isperimentasse l'ingratitudine di Luigi di Baviera, e di già soprastava in ricchezze ed in potenza a tutti gli altri signori italiani, quando morì nel vigore dell'età, in mezzo alle sue conquiste. Mastino secondo, suo nipote, che gli successe nella signoria, lo pareggiò in accortezza ed in coraggio, e fu più di lui ambizioso; onde alla forza delle armi aggiunse la frode e la mala fede. Le circostanze lo favorirono. Giovanni di Boemia, che era comparso in Italia come il liberatore dei popoli, parve che non accettasse la volontaria sommissione delle città che per renderle più facile preda di Mastino della Scala. Questi unì all'eredità di suo zio Brescia, Parma, Modena e Lucca: le sue entrate superavano quelle di quasi tutti i sovrani d'Europa, e sembrava vicino l'istante da lui destinato a cingersi il diadema reale che aveva di già fatto apparecchiare. Ma il coraggio e l'energia de' Fiorentini fecero argine alle sue conquiste: sollevarono contro di lui Venezia e tutta la Lombardia; fecero ribellare Padova, conquistarono Treviso e Brescia, e non accordarono la pace a Mastino, che quando ebbe cessato d'essere formidabile.

In fatti, dopo la pace, Mastino, obbligato dalla rivoluzione di Parma a vendere ancora la signoria di Lucca, vide egli medesimo l'abbassamento della sua famiglia. Dopo la di lui morte i suoi figliuoli più non ebbero influenza in Italia, e se ottennero qualche celebrità non la dovettero che ai loro delitti. Si videro i due minori far assassinare il primogenito, cospirare in appresso l'uno contro l'altro, ed il più debole, tratto in prigione, esservi strozzato, dopo alcuni anni, per ordine del fratello che voleva assicurare ai proprj bastardi la paterna eredità. I medesimi delitti si rinnovarono nella seguente generazione. Un fratello, per regnare solo, fece uccidere l'altro, ma l'assassino scontò la pena dovuta a questa colpevole stirpe, quando, spogliato de' suoi stati da Giovan Galeazzo Visconti, fuggiasco, oppresso dalla miseria, morì di veleno.

La seconda casa che aspirò all'impero d'Italia, si rese egualmente odiosa con non minori delitti; ma più lungo tempo conservò i talenti ed alcune di quelle virtù che ingrandiscono e conservano gli stati. L'arcivescovo Ottone aveva il primo, in sul declinare del precedente secolo, innalzata la dinastia de' Visconti alla sovranità di Milano; e quand'egli venne a morte nel 1295, trasmise il suo potere al nipote Matteo, cui gl'Italiani diedero il soprannome di grande. Questo signore fu uno de' più risoluti campioni del partito ghibellino in Italia, e de' più formidabili nemici dei papi. Sperimentò in principio del secolo la volubilità della fortuna, e suo figliuolo Galeazzo, che gli successe, fu, vent'anni dopo, vittima dell'ingratitudine di Lodovico il Bavaro. Ma i Visconti appresero nelle disgrazie a trovare in sè medesimi maggiori sussidi: Azzone, figlio di Galeazzo, allevato come il padre nella scuola dell'avversità, si mostrò più virtuoso che tutti gli altri principi della sua famiglia. Riebbe la signoria di Milano dall'imperatore medesimo che l'aveva tolta a suo padre, vi aggiunse varie altre città, che fino allora avevano ubbidito a parziali signori, e consolidò il suo dominio fondandolo sulla stabile base dell'amore dei popoli. Il regno d'Azzone fu veramente glorioso, poichè questo principe rese cari colle virtù i suoi talenti, e non ismentì la sua moderazione in mezzo alle conquiste.

In mezzo della sua gloriosa carriera Azzone morì inaspettatamente, ed i due suoi zii, Lucchino e Giovanni, che gli succedettero, non seppero, gli è vero, meritarsi l'affetto de' sudditi, ma loro non mancarono i suoi talenti ed il suo coraggio. Questa dinastia ebbe il rarissimo vantaggio d'avere consecutivamente sei capi egualmente distinti. Tutti dovettero lottare contro l'avversa fortuna, e l'arcivescovo Giovanni Visconti, che morì l'ultimo nel 1354 aveva appreso, come i suoi predecessori, a conoscere gli uomini quand'era perseguitato ed esiliato. Egli assoggettò al suo potere Genova, Bologna e gran parte della Lombardia; tentò d'invadere la Toscana e lo stato della Chiesa, e forse, più che verun altro principe del 14.º secolo, trovossi vicino ad ottenere la sovranità dell'Italia. Per altro egli risvegliò la diffidenza de' suoi vicini colla dissimulazione e colla perfidia assai più che colle conquiste, ed i vizj medesimi per mezzo de' quali credeva di vincere, preclusero la strada alle sue vittorie, ed opposero un argine insormontabile alla di lui grandezza.

L'arcivescovo Giovanni fu l'ultimo della famiglia Visconti ch'ebbe qualche magnanimità di carattere; ma la passione delle conquiste, l'insaziabile desiderio di estendere il suo dominio, passò nei suoi successori, che non avevano le più brillanti qualità del suo carattere. La casa Visconti fino al suo ultimo rampollo, mai non rinunciò a' progetti ideati dai primi suoi capi per assoggettarsi l'Italia; in ultimo adoperò le arti della debolezza invece della forza, la perfidia ed i maneggi piuttosto che le armi; ma mirò costantemente allo stesso scopo.

Barnabò, Galeazzo suo fratello, e Giovanni Galeazzo, figliuolo dell'ultimo, che tutta raccolse la loro eredità, erano uomini non meno timidi che ambiziosi, che si resero esosi ai loro sudditi colla crudeltà, coll'avarizia, colle gabelle, e ruinarono le soggette province colle continue guerre. Sotto di loro fu distrutto il commercio, abbandonate le manifatture, trascurata l'agricoltura medesima, e molte fertili campagne della Lombardia che promettono al lavoro così ricche ricompense, rimasero deserte. I guasti de' soldati, ed il peso delle imposte soffocarono ogni industria. Per altro Barnabò e Giovanni Galeazzo, così cattivi economi della fortuna de' loro popoli, sapevano mantenere l'ordine nell'amministrazione delle proprie finanze; e fu questa la causa principale de' loro prosperi avvenimenti. Essi hanno potuto in ogni tempo erogare nelle guerre più vasti redditi che tutti i loro avversarj, e gl'impiegarono con mano liberale nel ricompensare i fedeli servitori, nel tenersi affezionati i piccoli stati deditizj, in fine nel procurarsi partigiani e traditori ne' consigli de' lori vicini o de' loro nemici. Mentre non risparmiavano l'oro per giugnere alla meta della loro politica, prendevansi cura di non dissiparli con insensate prodigalità; perciò trovavansi apparecchiati alla guerra quando i loro avversarj avevano di già esaurite le proprie forze, e sentivansi pressochè sicuri della vittoria qualunque volta giugnevano ad acquistar tempo.

Finchè era vissuto Galeazzo ed avea diviso con Barnabò l'amministrazione degli affari, i suoi particolari vizj avevano ritardati i progressi delle armi di Barnabò, non conoscendo egli l'economia del fratello e del figliuolo: l'amore del fasto e di un'apparente grandezza distruggeva le reali sue forze; erogò prodigiose somme nell'innalzare sontuosi edificj; e fu prodigo de' suoi tesori per unire la sua famiglia per mezzo d'illustri matrimonj ai monarchi d'Europa. Ma quando Giovanni Galeazzo, suo figliuolo, dopo avere aggiunti ai proprj stati quelli di Barnabò, ebbe ristaurate le finanze, dilatò in tutti i sensi i limiti del suo dominio, ed avrebbe indubitatamente fatta schiava tutta l'Italia, che omai più non aveva forza per resistergli, se un'immatura morte non lo sorprendeva nel colmo del suo ingrandimento.

Tali furono nel quattordicesimo secolo le principali rivoluzioni della Lombardia, le quali non hanno potuto condursi a termine che colla ruina di molti piccoli principi o tiranni, che ne' primi tempi di questo periodo regnavano in ogni città. Eransi successivamente veduti i Ponzoni ed i Cavalcabò spogliati della sovranità di Cremona, i Tornielli di Novara, i Fisiraga di Lodi, i Maggi ed i Brusati di Brescia, i Langusco ed i Beccaria di Pavia, gli Scotti ed i Landi di Piacenza, i Pelavicini di san Donnino, i Correggi ed i Rossi di Parma, ed intorno allo stato de' Visconti omai non rimanevano signori indipendenti, che i conti di Savoja ed i marchesi di Monferrato a ponente, e dalla banda di levante i Gonzaga, successori dei Bonaccorsi, i marchesi d'Este di Ferrara, ed i Carrara di Padova.

Gli stati del papa, non meno che quelli della Lombardia, fertili di tiranni, avevano veduto nella medesima età sorgere e perire molte case sovrane. Quella dei Polenta a Ravenna erasi sola sottratta alle generali rivoluzioni, e da lungo tempo signoreggiava quella città senza merito e senza gloria, dimenticata dalla storia, come dai conquistatori che mai non l'attaccarono. Tale non era la sorte de' Malatesti, signori di Rimini: la fama del piccolo loro stato non era in verun modo proporzionata alla di lui estensione, popolazione, o ricchezze, ma bensì al numero de' grandi capitani usciti da questa sola famiglia, che tanta gloria procacciarono al nome de' Malatesti. Vero è che non si sottrassero al contagio della falsità e della perfidia; vizj comuni ai piccoli tiranni; vizj di cui la pubblica voce accusava specialmente i Romagnoli. Ma se talvolta rassomigliarono agli altri signori, mostrarono ancora le virtù che gli altri non avevano; innalzarono la loro riputazione al di sopra di tutti i principi del loro paese, e s'apparecchiarono per tal modo ad essere nel susseguente periodo i protettori delle scienze e delle arti.

Dopo avere riepilogate le rivoluzioni delle case principesche nel quattordicesimo secolo, vediamo adesso quale fu la sorte delle repubbliche. Venezia, la più antica e la più illustre, aveva data nuova forma al suo governo. Tutti i diritti del popolo erano stati trasmessi ad un consiglio, prima rappresentativo, e poco dopo ereditario. La nobiltà, sola sovrana dello stato, aveva con estrema gelosia allontanato il popolo da tutti i pubblici affari, e, non meno che del popolo, gelosa del capo della nazione, in ogni nuova elezione del doge aveva sempre più ristretti i limiti dell'autorità ducale. Una rigorosa aristocrazia amministrava la repubblica colle virtù dei grandi principi piuttosto che con quelle de' popoli liberi. Un'immutabile costanza ne' suoi progetti, una fermezza superiore ai più grandi rovesci, una saggia economia in mezzo a grandi ricchezze, un impenetrabile segreto, ed una politica non traviata dalle passioni, erano le distintive qualità del senato di Venezia. Ma presso di lui non vedevansi i generosi movimenti de' popoli liberi, la giusta indignazione contro la falsità, la clemenza verso il vinto nemico, il sagrificio de' proprj vantaggi alla speranza, e talvolta al lusinghiero sogno di un bene generale. La repubblica di Venezia, circondata da tiranni, lottava contro di loro colle loro armi.

Venezia non ebbe parte alle guerre eccitate da Enrico VII e da Lodovico di Baviera, e non cominciò ad immischiarsi negli affari del continente d'Italia, che quando Mastino della Scala dilatò i suoi confini fino alle lagune, e spinse ancora più in là le sue pretese. La repubblica si associò allora ai Fiorentini per umiliare questo signore, ma quand'ebbe conquistato Treviso, ristabiliti in Padova i Carrara, ed allontanati gli Scaligeri da' suoi confini, fece con questi la pace senza curarsi che i Fiorentini avessero il debito compenso.

Malgrado questa prima guerra continentale e l'acquisto di Treviso, i Veneziani non s'interessavano ancora che assai debolmente per quel paese che dal campanile di san Marco avevano sempre sotto gli occhi. Il mare era il loro elemento, ed oltre i suoi confini andavano essi a cercare alleati e nemici. Il commercio della Tartaria accese, circa nella metà del secolo, la guerra tra essi ed i Genovesi: era questa la terza ch'essi sostenevano contro quest'emula nazione; strascinarono nella medesima i Greci e gli Arragonesi, e fiumi di sangue furono versati dai due popoli sulle coste della Grecia e della Sardegna; ma parve che i Genovesi fossero in complesso i vincitori. Una guerra continentale tenne dietro immediatamente alla marittima, e fu ancora meno fortunata: gli Ungari privarono Venezia di tutta la Dalmazia.

Pareva che la repubblica si fosse rincorata in vent'anni di pace quasi costante, quando una rivoluzione, accaduta nell'impero greco, riaccese una quarta guerra marittima coi Genovesi. Le forze di Venezia si esaurirono intorno alle mura di Chiozza, e la pace di Torino privò Venezia di quanto possedeva nel continente d'Italia. Ma venuto a morte Luigi d'Ungheria, di cui ne avevano sperimentata la potenza, si vide in istato di rialzarsi. Allora si vendicò degli alleati di questo monarca, assecondando l'ambizione di Giovanni Galeazzo, invece di porvi ostacolo; ricuperò col di lui ajuto il territorio di Treviso, ed aspettò dallo spirito pubblico, e dal coraggio de' Fiorentini i sagrificj ch'ella doveva fare.

Allora sembrò che Venezia si allontanasse dalla sua consueta saviezza; ma la sua fortuna la servì meglio contro Giovanni Galeazzo, di quel che avrebbe potuto farlo la sua prudenza. Questo pericoloso vicino morì nell'istante in cui forse non poteva più essere vinto, ed i Veneziani si trovarono ne' primi anni del seguente secolo più potenti contro i suoi eredi, perchè non avevano consumate le loro forze contro di lui medesimo.

L'eterna rivale di Venezia, la repubblica di Genova, era animata da uno spirito affatto diverso, e sperimentava un'affatto diversa fortuna. I nobili di questo stato, non meno ambiziosi di quelli di Venezia, non avevano non pertanto pensato a stabilire nella loro patria una regolare aristocrazia, ma piuttosto ad esercitare sopra la medesima un'influenza oligarchica. Le loro fortezze, i loro vassalli, i numerosi loro clienti, loro ispiravano il sentimento delle proprie forze ed il desiderio dell'indipendenza. Sentivansi troppo forti isolatamente per voler essere confusi in un senato, ove l'individuo scompariva fa faccia all'universalità. L'ambizione non era la sola passione che turbasse la repubblica, che le gelosie ed i privati odj provocavano ogni giorno nuove guerre civili. Uomini di uguale carattere sorgevano tra i borghesi per essere loro rivali. Il governo in mezzo alle loro animosità ed alle loro zuffe non poteva acquistare stabilità, ed era forzato a cambiare ogni giorno partito, forma e piano di condotta. Le più violenti e repentine rivoluzioni toglievano alla repubblica l'influenza che avrebbe potuto acquistare sul rimanente dell'Italia, e la nazione consumava contro di sè medesima tutte le proprie forze. La sua popolazione, le sue ricchezze venivano distrutte dalla guerra civile; s'incenerivano i palazzi della capitale, si guastavano le campagne, ed il commercio era incagliato o distrutto. Ma questo popolo, che sembrava animato per la propria ruina, non lasciava di essere formidabile quando volgeva le sue forze contro esterni nemici. L'impetuoso valore de' Genovesi rimaneva vittorioso in ogni lotta a fronte della politica de' Veneziani.

In principio del quattordicesimo secolo una violenta guerra civile era stata calmata dalla venuta d'Enrico VII, e per la prima volta la repubblica si era sottomessa ad uno straniero sovrano. Dopo la morte d'Enrico VII un partito contrario a quello che lo aveva chiamato diede Genova in mano di Roberto, re di Napoli, ed una nuova guerra civile, una guerra che avrebbe potuto ruinare il più potente impero, ebbe origine da questo cambiamento. Genova in mezzo alle sue burrasche ricuperò la perduta indipendenza, ma nel 1339 una nuova lite successe alle antiche, il popolo scacciò i nobili, creduti cagione delle precedenti turbolenze; si diede un capo col titolo di doge, e sotto la di lui condotta mostrò un nuovo vigore.

Un fiorente commercio riparò ben tosto i disastri della guerra civile. I Genovesi fecero rispettare il nome latino sul mar Nero; posero in salvo contro i Greci l'indipendenza della loro colonia di Pera; umiliarono i Veneziani ed i Catalani nella terza guerra marittima: ma nel mezzo di questa guerra si lasciarono scoraggiare da una disfatta, da cui seppero rifarsi da sè stessi; sagrificarono per la terza volta la loro indipendenza sottomettendosi volontariamente all'arcivescovo Visconti, il più potente signore dell'Italia.

La loro sommissione era condizionata, ed i nipoti dell'arcivescovo, suoi successori, violando le condizioni del contratto, diedero giusto motivo ai Genovesi di sottrarsi alla loro dipendenza. Godettero alcun tempo moderatamente della ricuperata libertà, illustrarono la loro domestica pace con una gloriosa guerra in Cipro; ma poco dopo, strascinati nella guerra di Chiozza, provarono i rovesci prodotti dai loro prosperi avvenimenti e dall'imprudente loro ardire. Dopo la pace coi Veneziani le interne fazioni vennero alle mani con nuovo accanimento: le rivalità tra i popolani avevano preso il luogo di quelle dei grandi, si riaccesero sanguinose guerre, subite rivoluzioni distrussero la forza del governo, ed il popolo snervato dalle fatiche, chiamò per la quarta volta un padrone straniero, e si assoggettò volontariamente alla Francia.

Fiorenza, non meno potente di Venezia e di Genova, figurò ancora più nobilmente nella storia dell'Italia, perchè questa repubblica continentale era attaccata da tutte le sue relazioni alla contrada nel di cui centro trovavasi collocata, mentre le due repubbliche marittime portavano quasi sempre al di là dei mari tutta la loro attenzione ed i loro sforzi. L'intera politica dell'Italia si disaminava ne' consiglj di Firenze, e questo popolo, tanto zelante per la libertà, manteneva colla sua quella dell'intera nazione di cui era parte. Sembra essere stato il solo a concepire l'importanza dell'equilibrio politico, ed a calcolare i pericoli di una monarchia universale.

Firenze in tutto il quattordicesimo secolo ebbe un governo veramente democratico; non perchè il popolo avesse tutto il potere nelle sue mani, o perchè potesse a posta sua cambiare la costituzione; ma perchè aveva tutta la possibile influenza nell'amministrazione, e forse ancora più che non conviene di lasciargliene. La maggior parte de' cittadini di tutti gli ordini era chiamata a vicenda alle prime cariche; i consiglj, numerosi e popolarmente composti, rappresentavano costantemente il voto della nazione; e se trovavasi nel popolo un partito contrario al governo, è perchè in tutte le libere discussioni vi debbe essere una minorità, e che l'intera nazione deliberava come un consiglio di stato intorno ai pubblici affari.

Gli storici fiorentini, le nostre più sicure guide nella storia d'Italia, ci hanno talmente iniziati in tutte le più minute circostanze dell'amministrazione e della politica di questa repubblica, ci fecero così ben conoscere tutte le passioni del popolo e tutti i sentimenti degl'individui, che nel corso d'un secolo abbiamo dovuto vedere più volte i colpevoli attentati di alcuni cittadini, o gli errori dei capi della nazione. Ma volgendo al presente uno sguardo su tutto il secolo, e riunendo le nostre memorie, troveremo senza dubbio la condotta dei Fiorentini giusta, nobile e generosa in tutto il corso di questo periodo più che quella di verun altro stato, e saremo costretti di convenire che il più libero popolo dell'Italia, complessivamente considerato, era pure il più saviamente governato.

Cominciando il quattordicesimo secolo scoppiò in Firenze la sciagurata lite de' Bianchi e de' Neri, e l'esilio de' Bianchi fu una profonda ferita fatta alla repubblica. Non pertanto quando Enrico VII entrò in Toscana, la sola Firenze non si lasciò intimidire dall'autorità imperiale; formò una lega guelfa contro il tedesco monarca, gli creò nemici in Lombardia ed in Roma, sfidò la sua potenza quand'erasi accampato alle di lei porte, e se l'Italia non fu di nuovo ridotta alla condizione di provincia dell'impero germanico, se non fu privata della sua libertà e sottomessa ad uno straniero padrone, alla sola Firenze devesene tutta la gloria.

Due anni dopo la morte d'Enrico VII, tutte le forze dei Fiorentini e dei loro alleati furono disfatte a Montecatini da un generale Ghibellino; ma lungi dall'essere ridotti ad una vergognosa pace da così gran lotta, gli sforzi fatti da loro per vendicarsene fecero tremare i loro nemici.

Castruccio, il più formidabile avversario della repubblica fiorentina, attaccò in appresso Firenze: i soldati da lui formati lo risguardavano come il più grande generale del secolo, ed erano da lui condotti sempre a nuove vittorie. Nel suo regno di dieci anni, Castruccio, appoggiato dai Visconti e da Lodovico di Baviera, espose Firenze a grandi rischi, e le cagionò grandi perdite. Ma la fortuna delle monarchie è appoggiata alla vita d'un uomo, e quella delle repubbliche non si spegne mai. Castruccio morì, e le conquiste da lui fatte caddero in potere de' Fiorentini.

Mentre l'Italia era lacerata dalle fazioni e dalle guerre civili, due uomini, che s'annunciavano come pacificatori, fecero una rapida fortuna. Il legato Bertrando del Pogetto e Giovanni re di Boemia adunarono i Guelfi ed i Ghibellini, i partigiani dell'impero e quelli della chiesa, e fondarono un nuovo dominio che pareva doversi stendere su tutta l'Italia. I soli Fiorentini non furono sedotti dalle promesse e dalle interessate negoziazioni di questi due uomini; essi svelarono i loro segreti progetti; chiamarono a prendere le armi gli stati minacciati; si collegarono coi principi ghibellini, loro ereditari nemici, dimenticando un antico odio per un interesse presente e pubblico, e rovesciarono la nuova signoria innalzata in pochi anni.

Mastino della Scala erasi arricchito colle spoglie del re Giovanni; ma l'ingratitudine di questo signore costrinse i Fiorentini a venire contro di lui alla via delle armi; formarono per superarlo una nuova lega, spogliandolo di parte de' suoi stati, ed incaricando la dinastia guelfa dei Carrara, cui restituirono Padova, di tenere gli occhi aperti sugli ambiziosi disegni del signore di Verona.

Mastino vendicossi de' Fiorentini quando offrì loro di vender Lucca. La guerra che dovettero sostenere contro i Pisani pel possedimento di questa città, la disfatta delle loro truppe, e la perdita di Lucca quando ne avevano di già pagato il prezzo, furono i minori disastri di questa guerra, la quale precipitò i Fiorentini sotto la tirannide del duca d'Atene. Altra volta avevano essi dato un capo, o protettore alla loro repubblica, col titolo di signore; ma questa fu la prima volta che si assoggettarono ad un padrone. Per altro non gli rimasero lungo tempo soggetti: una tirannide di undici mesi bastò a stancare la pazienza del popolo ed a riunire tutti gli ordini dello stato contro il tiranno, che venne rovesciato quando fu unanime il voto della nazione.

Indebolita dal governo del duca, sotto il quale perdette tutte le sue conquiste, dalla carestia, in tempo della quale diede così luminose prove di generosità, e più ancora dalla terribil peste del 1348, pure la repubblica fu la prima che potesse frenare l'ambizione dell'arcivescovo di Milano. Tutte le forze di questo signore vennero nel 1351 a coprirsi di vergogna innanzi a Scarperia.

Negli anni successivi Firenze conchiuse coll'imperatore Carlo IV un trattato non meno onorevole che vantaggioso. Sola di tutti gli stati d'Italia ebbe il coraggio di ricusare ogni accomodamento colla grande compagnia de' soldati avventurieri, e due volte li costrinse ad uscire dal suo territorio. Senza porti e senza marina protesse la libertà dei mari e fece rispettare la bandiera adottata dai suoi mercanti; finalmente in mezzo agli orrori della peste sostenne contro Pisa una gloriosa guerra, che terminò dettando essa le condizioni di una giusta ed onorevole pace.

Un'odiosa intrapresa dei legati della santa sede contro Firenze gettò questa repubblica nel partito opposto alle sue antiche alleanze. Doveva gastigare i luogotenenti del papa di un atto della più nera ingratitudine, della più rivoltante perfidia; e lo fece con una grandezza di lei degna, abbracciando la causa di tutti i popoli che gli stessi uomini avevano traditi od oppressi. Proclamò la libertà delle città vassalle della Chiesa, ed in pochi mesi rovesciò la potenza di coloro che l'avevano offesa, e restituì a trenta popolazioni quella medesima libertà di cui essa godeva.

Appena ultimata questa guerra, una congiura pose per alcun tempo il governo in mano del popolaccio, e sospese per tutto quel tempo il suo vigore e la sua energia; ma in breve si rialzò da questo assopimento, e fu il solo in Italia che avesse il coraggio e la forza d'entrare in guerra contro Giovanni Galeazzo Visconti, e di porre con un'ostinata resistenza insormontabili confini alla sua ambizione.

In un secolo abbondante di rivoluzioni, in un secolo in cui l'ambizione, scatenata in tutti gli altri stati, adoperava senza scrupolo gli artificj della viltà e della frode per ingrandirsi, tale fu la condotta sempre aperta, sempre giusta, sempre coraggiosa, e nel tempo medesimo sempre savia di una prudente repubblica, in cui la prima magistratura non durava che due mesi ed ove un migliajo di cittadini disaminavano sempre i pubblici affari. La gloria nazionale è veramente la proprietà d'un popolo, quando è, come a Firenze, il frutto delle virtù di tutti piuttosto che la ricompensa dell'abilità del governo, e questa nazione può di pieno diritto andar superba della sua condotta, allorchè mutando continuamente capi, pure conservasi sempre ferma ed irremovibile in una sempre gloriosa carriera.

La repubblica di Firenze trovò una fedele alleata in quella di Bologna, per tutto il tempo che questa si mantenne indipendente; ma i Bolognesi erano meno attaccati che i Fiorentini alla loro libertà, o furono meno fortunati nel difenderla. Erano indeboliti da più violenti fazioni, ed i loro capi manifestavano mire più personali nell'uso della vittoria, e una più implacabile vendetta verso i vinti.

I vantaggi ottenuti dai Ghibellini sui Guelfi, quando i primi erano diretti da Castruccio e da Azzone Visconti, persuasero l'anno 1327 i Bolognesi a porsi sotto la protezione di Bertrando del Pogetto, legato del papa, siccome i Fiorentini avevano implorata quella del duca di Calabria. Ma la tirannide del legato durò sette anni, ed ebbe tutto il tempo d'introdurre la corruzione in tutte le parti della repubblica. Invano i Fiorentini ajutarono Bologna a scuotere il giogo, che non ottennero di renderle quello spirito fiero ed indipendente che l'avrebbe conservata libera.

Questa repubblica, snervata da uno straniero padrone, più non ebbe mezzi di difendersi contro l'ambizione di uno de' suoi cittadini, reso pericoloso dalle sue immense ricchezze. Nel 1337 si pose sotto la sovranità di Taddeo de' Pepoli, ed i suoi figliuoli la vendettero l'anno 1350 all'arcivescovo di Milano. Un tiranno più crudele, Giovanni Visconti d'Oleggio, gli successe nel 1355. I Fiorentini tentarono inutilmente, in varie circostanze di liberare i loro fratelli, ma i Bolognesi non ebbero bastante coraggio per assecondarli; essi altro non ambivano che di passare sotto il dominio della Chiesa, e vi tornarono in fatti, ma dopo avere perduta la loro popolazione, le ricchezze loro, e ciò che più non potevano riacquistare, l'antico loro carattere. Furono essi gli ultimi ad unirsi a' Fiorentini in tempo della generale rivoluzione degli stati della Chiesa, ed i primi a firmare una pace parziale colla medesima. In appresso lo scisma rese loro quella libertà che per sè soli non erano capaci di riavere; rientrarono in allora nell'alleanza de' Fiorentini, e li secondarono contro Giovanni Galeazzo, ma verso la fine del secolo soggiacquero un'altra volta agl'intrighi ed all'ambizione di un loro concittadino; e la tirannide di Giovanni Bentivoglio aprì la via al duca di Milano per occupare di nuovo la loro città.

Nel precedente secolo, Lucca era stata la costante alleata di Firenze; ma nel quattordicesimo questa città addetta ad una fazione nemica, pagò pochi anni di gloria con una lunga infelicità. Fino al 1314 i Lucchesi eransi conservati fedeli al partito guelfo ed agli antichi loro alleati. Castruccio, richiamato quest'anno da' suoi concittadini, aprì le porte della sua patria ad Uguccione, capo dei Ghibellini, al quale dopo due anni successe egli medesimo. Innalzato al supremo potere dalla confidenza meritata dal suo partito, creò la gloria delle armi lucchesi, che poi si spense alla di lui morte. Egli estese le sue conquiste al di là di Sarzana, nella riviera del Levante; sottomise Pistoja, Volterra e Pisa, e corse tutto il territorio fiorentino, ove niuno ardì resistergli. Lodovico di Baviera, che in lui riconosceva il più valoroso campione dell'impero, lo creò senatore di Roma, e volle, quando fu coronato imperatore, che Castruccio gli cingesse la spada imperiale. Per ricompensarlo eresse i suoi stati in ducato, distinzione che gl'imperatori non avevano ancora accordata ad alcun altro: ma tanta grandezza, tanta gloria svanirono all'istante alla morte di Castruccio. I suoi figliuoli furono spogliati della paterna eredità e mandati in esilio, tutte le città da lui soggiogate vennero in potere de' suoi nemici, e la stessa Lucca, venduta e rivenduta dai Tedeschi, rimase successivamente soggetta a Gherardino Spinola, a Giovanni di Boemia, a Mastino della Scala, ai Fiorentini ed ai Pisani. Dopo cinquantacinque anni di servitù, nel 1369, i Lucchesi riacquistarono finalmente la libertà dall'imperatore Carlo IV. Negli ultimi trent'anni del secolo cercarono di rimediare in silenzio ai mali che avevano sofferti. Troppo deboli e troppo poveri per figurare nella lega guelfa, cui si erano di nuovo attaccati, non richiamarono la nostra attenzione, che quando, soccombendo alla peste che desolava la loro città, ebbero la sventura, l'ultimo anno del secolo, di essere ridotti in servitù da un usurpatore senza talenti.

Siena che nel XIII secolo era stata la rivale di Firenze, che aveva offerto un asilo agli emigrati ghibellini, e gli aveva in seguito ristabiliti trionfanti nella loro patria, Siena fu nel quattordicesimo secolo quasi costantemente fedele alla fazione guelfa e quasi sempre alleata de' Fiorentini. Ma i Sienesi in tutto questo periodo di tempo ebbero pochissima influenza sugli altri paesi d'Italia, e se talvolta richiamarono la nostra attenzione, non fu che per le passioni politiche onde furono agitati, e che vestirono nella loro città un particolare carattere. Ogni partito sembrava che avesse in Siena una più pronunciata tendenza verso l'oligarchia, ed una più ingiusta gelosia contro tutti gli altri ordini de' cittadini. L'oligarchia mercantile, che fu la prima ad avere le redini del governo dal 1283 al 1355, inspirò forse questo carattere alla nazione colle cure che si prese per escludere il popolo da ogni potere. L'ordine dei nove fu trattato ingiustamente dopo la sua espulsione, perch'egli stesso aveva ingiustamente trattati tutti gli altri ordini. I dodici, che subentrarono nel luogo dei nove, i riformatori e l'ordine del popolo, che altro più non erano che una fazione, vollero tutti governare soli. Frattanto la repubblica era diventata il patrimonio delle ultime classi della società; i vizj del popolaccio, il suo inconsiderato impeto, la sua credulità, la sua indifferenza per le leggi dell'onore, si comunicarono al governo, il quale si staccò per i suoi falli medesimi da tutti i suoi alleati naturali, e, confidando piuttosto in un tiranno che in un popolo libero, cadde in sul finire del secolo ne' lacci che gli aveva tesi il duca di Milano.

La libertà di Perugia soggiacque nella stessa epoca agli stessi artificj, e nel modo medesimo che quella di Siena. Avanti la metà del quattordicesimo secolo, questa città erasi sordamente fatta ricca in seno della libertà. La sua alleanza con Firenze le fece alcun tempo occupare un distinto rango tra le città guelfe d'Italia, che si univano per difendere la libertà. Ma una certa ferocia che i Perugini manifestarono nelle loro fazioni, esaurì ben presto con torrenti di sangue le forze della repubblica. Un nuovo Catilina cospirò non contro la libertà, ma contro l'esistenza della sua patria. Dopo di lui, altri faziosi cercarono nelle guerre civili piuttosto la vendetta che il potere. I Perugini vennero violentemente staccati dall'alleanza dei Fiorentini, e subito dopo oppressi e snervati dalla stanchezza del loro furore si assoggettarono volontariamente a Giovanni Galeazzo.

Tutte queste repubbliche toscane avevano abbracciata la parte guelfa, e da questa riconobbero lungo tempo il mantenimento della loro libertà. Ma il 14.º secolo fu testimonio del lungo decadimento di un'altra repubblica addetta alla parte ghibellina fino da' più remoti tempi, e che prima d'ogni altra aveva additata ai Toscani la libertà e la gloria. La repubblica di Pisa non aveva mai cambiato partito; i capi delle sue diverse fazioni lo seguivano con più o minore accanimento; ma il popolo mantenevasi costantemente fedele agli stessi principj. Questa costanza doveva conservare tra Pisa e Firenze una costante opposizione, e l'odio di questi due popoli, ch'ebbe tanta parte nel destino de' Pisani e fu cagione della sua ruina ne' primi anni del quindicesimo secolo, non è affatto spento ancora nell'età presente.

La grande disfatta della Meloria, e le leggi dettate dai Genovesi ai Pisani, avevano allontanati gli ultimi dal mare verso il fine del tredicesimo secolo. Colla distruzione della marina guerriera, il commercio aveva perduta la sua attività, le lontane colonie erano state abbandonate, e le coste marittime, altre volte popolate di marinaj, rimasero deserte quando più non furono difese dalle galere della repubblica. Ma i Pisani si erano volti a cercare un'altra gloria, che tenesse luogo di quella delle conquiste d'oltremare. Sforzaronsi di compensare cogli acquisti di terra ferma le perdite che avevano sofferte in altre parti, ed il loro valore che si sostenne luminosamente quando gli altri popoli d'Italia avevano quasi abbandonato l'uso delle armi, giustificò i loro titoli a questa novella gloria.

Pisa era dunque la più militare repubblica della Toscana; onde, più che alcun'altra, ebbe bisogno di affidare le forze dello stato ad un solo uomo. Il suo governo ebbe quasi sempre un capo che d'ordinario era un grande capitano. Ma se l'ambizione di questi tendeva ad occupare il supremo potere, i suoi desiderj non ebbero mai pieno soddisfacimento, perchè la nazione, tenendo sempre aperti gli occhi sopra di lui e sopra i proprj diritti, si abbandonò assai meno alle fazioni in presenza del supremo magistrato che poteva proporsi d'opprimerle tutte.

Il conte Fazio di Donoratico era capitano del popolo e capo della repubblica di Pisa, quando Enrico VII entrò in Italia. L'attaccamento de' Pisani al partito imperiale, li determinò a rompere la pace loro procurata dalle vittorie di Guido di Montefeltro nel 1293; essi sprezzarono le forze riunite di tutti i Guelfi della Toscana, le tennero occupate essi soli mentre Enrico VII andava a cercare a Roma la corona imperiale; essi versarono spontaneamente il proprio sangue, e prodigarono i loro tesori per servigio di questo monarca, il di cui cuore generoso non potè ricompensare tanto attaccamento che con una inefficace riconoscenza. Enrico morì quando Pisa riponeva in lui le sue più alte speranze; tutti i suoi nemici, ch'egli aveva fatti tremare, si unirono contro la repubblica, mentre niuno de' suoi alleati osò di abbracciare le difese d'una città, che offrivasi spontaneamente in premio a' suoi liberatori. I Pisani, abbandonati alle proprie forze, ruppero, sotto il comando d'Uguccione della Fagiuola, l'armata guelfa di tutta l'Italia il doppio più forte della loro; seppero allontanare il generale cui dovevano i loro prosperi avvenimenti, tosto che lo videro abusare della sua autorità per giugnere alla tirannide, e terminarono una gloriosa guerra con una moderata pace.

Pisa conservava ancora oltremare una potente colonia; la Sardegna era feudataria della repubblica, quando, la notte dell'undici aprile 1323, tutti i Pisani furono uccisi in quasi tutte le parti della Sardegna per una perfidia del giudice d'Arborea e d'Oristagni, e questa parte dell'isola venne abbandonata agli Arragonesi. Malgrado le forze di lunga mano superiori del nemico monarca, malgrado l'abbandono in cui erano rimasti i Pisani, opposero una vigorosa resistenza all'invasione. Manfredo della Gherardesca, che li comandava, fece perdere quindici mila uomini agli Arragonesi in una serie di battaglie, e finalmente incontrò egli medesimo una gloriosa morte sul campo di battaglia. La repubblica perdette per sempre la Sardegna, e colla Sardegna gli ultimi avanzi della sua potenza marittima.

Era appena ultimata questa guerra quando la smisurata ambizione di Castruccio, e la perfidia di Lodovico di Baviera ne sollevarono un'altra contro i Pisani per parte del monarca e del partito medesimo di cui eransi meritata la riconoscenza con tanti sagrificj. I Pisani furono assediati da Lodovico, e dopo avere con lui capitolato, la capitolazione fu violata, e per lo spazio di dieci anni rimasero a lui soggetti.

Frattanto dodici anni di pace rifecero le forze dei Pisani, e quando seppero che Mastino della Scala stava per vendere Lucca al migliore offerente, risolsero di acquistare colle armi una città cui non avevano abbastanza denaro per comperare. Assediarono i Fiorentini nella fortezza, di cui questi avevano allora pagato il prezzo, gli scacciarono, e si fecero bentosto assicurare la loro conquista con un trattato fatto col duca d'Atene, in allora signore di Firenze.

La repubblica di Pisa, diventata più potente coll'acquisto di Lucca, pensò a riparare le perdite che la peste e le precedenti guerre le avevano cagionate. Il primo flagello avendo distrutta la famiglia Gherardesca, che lungo tempo occupò il primo rango nello stato, prese le redini del governo un'altra famiglia arricchitasi colla mercatura. I Gambacorti, meno appassionati pel partito ghibellino, conoscevano meglio i vantaggi della pace, onde conservarono molti anni l'alleanza de' Fiorentini: ma il contrario partito, favoreggiato prima da Carlo IV, e verso il finire del secolo, da Giovanni Galeazzo, fu due volte vittorioso, due volte trasse i Pisani in una pericolosa guerra coi Fiorentini, e due volte le disgrazie della guerra si trassero dietro lo stabilimento d'una tirannide; da prima quella di Giovanni dell'Agnello, poi l'altra di Giacomo d'Appiano.

I due partiti de Guelfi e de' Ghibellini non eransi conservati, come nei precedenti secoli, egualmente favorevoli alla libertà. Ovunque, fuorchè a Pisa, i Ghibellini avevano fondata la tirannide: onde i Pisani, sebbene liberi, essendo Ghibellini, trovaronsi in tutte le guerre di partito uniti ai nemici di tutti i popoli liberi. Essi pagarono a caro prezzo la loro confidenza in que' perfidi alleati; i tiranni di Lombardia si presero la cura di assoggettare Pisa ad un signore; e quando i Visconti ebbero consegnata la repubblica ad un padrone, non dovettero fare che un passo per succedere a questo signore, approfittando della confidenza de' Pisani per ridurli in servitù.

Tali furono nel corso del quattordicesimo secolo le vicende de' principali stati d'Italia. L'esplosione di tante rivali passioni, la complicazione di tanti opposti interessi, che gettarono la storia in una quasi inevitabile confusione, influirono potentemente sullo spirito e sul carattere di coloro che vissero in mezzo a questo turbine.

Nelle corti lombarde potevasi imparare quali erano i misterj della più tortuosa politica, e fin dove giugnevano le feroci passioni, sciolte da qualunque legame della morale e dell'onore; l'occhio penetrava negli abissi del delitto fino alla più spaventosa profondità. Assai diversi erano questi mostruosi governi da quelli talora benefici, spesso viziosi e quasi sempre effemminati, tra i quali era divisa l'Italia a' nostri giorni. Ma il delitto dà alcuna volta terribili ammaestramenti, niuno può darne la corruzione. Un grande carattere poteva svilupparsi sotto Giovanni Galeazzo per giudicarlo e prevenire i suoi colpi, per combatterlo o per odiarlo; ma il sonno della morte aveva oppressi tutti i sudditi de' piccoli principi, che in età di molto posteriore a Giovanni Galeazzo, caddero vittima di maggiore potenza.

Nel quattordicesimo secolo le repubbliche formavano in Italia un'altra scuola, e permettevano di fare un più nobile studio dell'uomo. Le rare qualità di alcuni individui, ed il grande carattere di tutto un popolo, presentavansi simultaneamente all'osservatore. La virtù era tuttavia onorata, la fedeltà delle promesse era ancora risguardata come un dovere delle nazioni, ed i grandi sagrificj dell'interesse personale al bene della patria non erano affatto rari. Vero è che i costumi più non erano semplici ed illibati, e la conoscenza del male aveva sparsi in ogni luogo troppo famosi esempj: i popoli non eransi mantenuti fedeli al solo amore di libertà, al solo amore di patria; troppe passioni personali avevano trovato il mezzo di soddisfarsi: ma l'umana natura conservava ancora sufficienti tracce della primitiva sua grandezza per insegnare al filosofo, al vero politico tutto ciò ch'ella avrebbe potuto e dovuto essere, onde lo studio dell'uomo poteva essere compiuto così nel bene come nel male.

CAPITOLO LVIII.

Arte militare degl'Italiani in principio del quindicesimo secolo. — Anarchia della Lombardia. — Nuovi tiranni si dividono gli stati di Giovanni Galeazzo. — Bologna e Perugia restituite alla Chiesa. — Siena torna in libertà.

1402 = 1404. Il modo con cui guerreggiavasi in Italia in sul finire del quattordicesimo secolo e ne' primi anni del quindicesimo è talmente diverso dal presente, che le determinazioni de' generali parranno spesse volte inconcepibili ai nostri lettori, ed inesplicabili i risultamenti delle campagne. La presente arte della guerra differisce meno da quella dei Greci o dei Romani, che non da quella del quindicesimo secolo, sebbene in allora la moderna artiglieria fosse universalmente adoperata; e la tattica di Filippo o quella di Scipione sarebbe più applicabile ai nostri eserciti che quella di Giovanni Acuto, o di Alberico da Barbiano.

L'essenziale differenza, e quella che determina tutte le altre, è che la cavalleria pesante formava in allora il nervo delle armate, mentre adesso, siccome ai tempi romani, è l'infanteria. Quest'ultima era stata lungo tempo composta di contadini, o di borghesi mal disciplinati, che combattevano senz'arte e senza coraggio, e che d'ordinario non sostenevano la prima carica della cavalleria. Altronde sprezzavansi troppo i pedoni per prendersi cura di perfezionare le loro ordinanze, tutti gli sforzi del genio militare si ristrinsero al miglioramento de' corazzieri. Credevasi in fatto d'averli resi superiori alla cavalleria di tutti i popoli dell'antichità, e tenevasi per indubitato che la migliore infanteria non potesse sostenerne l'urto.

Non pertanto questi cavalieri, affatto coperti di ferro, che combattevano con lunghe lance, con pesanti spade, e con armi affatto gigantesche, non potevano venire alle mani quando alcun ostacolo poteva contrariare o ritardare il corso de' loro cavalli; la più debole fortezza li tratteneva; un piccolo fiume, una fossa, bastavano a rompere le loro ordinanze; non potevasi combattere nelle montagne, e nè pure nelle pianure, quando un generale stava trincerato nel suo campo, ove d'ordinario non si poteva senza somma temerità tentare di forzarlo. Per lo più conveniva per venire a battaglia, che i due generali fossero d'accordo, e che, dopo avere mandato ed accettato il guanto della pugna, ognuno dal canto suo facesse appianare il terreno ove dovevasi combattere. Ma nulla è tanto raro quanto una battaglia volontaria da ambedue le parti, perciocchè l'un generale o l'altro ha sempre a temere qualche svantaggio, o ha qualche mezzo per giugnere a' suoi fini senza battersi. Altronde i condottieri facevano di que' tempi la guerra per speculazione, di modo che risparmiavano il più che potevano il sangue de' loro soldati ed il loro proprio, i loro cavalli, le loro munizioni, i loro equipaggi.

Il più delle volte in tutto il corso di una guerra non accadeva alcuna vera battaglia e talvolta non accadevano nemmeno zuffe: in tal caso tutte le ostilità si limitavano ad una o più cavalcate, chiamandosi con tal nome le spedizioni ne' paesi nemici. Un generale invadeva una provincia con intenzione di bruciare le case, di distruggere le messi, di rubare le mandre; tutti gli abitanti fuggivano innanzi a lui e si chiudevano entro le terre murate. Siccome egli non poteva trattenersi per assediarle, proseguiva il cammino guastando tutto quanto trovavasi sul di lui passaggio. Intanto il generale nemico provvedeva i castelli di truppe, seguiva l'armata a qualche distanza, spiava l'opportunità di sorprenderla, piombava addosso ai cacciatori, li forzava a non allontanarsi dal campo, ed in pochi giorni obbligava quasi sempre l'aggressore a dare a dietro ed a rientrare nel proprio paese per mancanza di vittovaglie.

La guerra facevasi al popolo e non all'armata; tutto il corpo della nazione risguardavasi come nemico; i soldati consideravano tutte le proprietà dei popoli presso i quali guerreggiavano come una legittima preda; facevano prigionieri i proprietarj ed i contadini, e non li rilasciavano senza taglia. Perciò niuno poteva tenersi neutrale nella lite del suo paese, niuno serviva il nemico, niuno gli somministrava munizioni o vittovaglie, ma tutti ponevansi in su le difese, e cercavano di sottrarre le loro proprietà ai soldati, onde non fossero rapite. Coloro che non riuscivano a porre in sicuro i proprj effetti, andavano forse soggetti a più grandi perdite che ai nostri giorni; ma d'altra parte non potevasi stabilire un metodo regolare di angariare un paese; nè allora sapevasi togliere ai vinti senza violenza, non solo tutto quanto possedono, ma tutto ciò che devono avere un giorno, e far loro impegnare i loro beni futuri, nella speranza di salvare quelle proprietà, che poi vengono loro tolte.

A que' tempi non eravi quasi veruna casa sparsa ne' campi, abitando tutti gli agricoltori borghi o villaggi posti d'ordinario sopra qualche colle o eminenza suscettibile di difesa. Circondavansi questi villaggi di mura, e si munivano di robuste porte, ond'ebbero poi il nome di castelli. In ogni tempo le proprietà mobiliari più preziose de' contadini erano lasciate in questi castelli, e quando veniva dichiarata la guerra, il governo ordinava di trasportarvi tutte le messi che si erano lasciate in mezzo ai campi, e di chiudervi tutto il bestiame. Accordava quasi sempre l'esenzione delle gabelle a coloro i di cui castelli non credevansi capaci di lunga difesa, e che perciò trasportavano i loro effetti in città. Per tal modo la campagna restava affatto spogliata in pochi giorni, ed il nemico, che proponevasi di vivere col saccheggio, non trovava di che mantenersi.

Veruno stato avrebbe avuto abbastanza soldati per guarnire tutte le fortezze onde era coperto il suo territorio, perchè ogni bicocca era fortificata; ma, sebbene si fosse trascurato di alimentare il genio militare tra i popoli, i contadini erano sempre attissimi a difendere le piazze forti e le donne, i fanciulli, i vecchi concorrevano a respingere gli assalitori, gettando sopra di loro dall'alto delle mura pietre o materie infiammate. I difensori erano difficilmente colpiti dai dardi o da altre armi del nemico, ed il pericolo non cominciava per loro che nell'istante in cui cessava la resistenza; allora venivano saccheggiate le loro proprietà, violate le donne, e gli uomini tratti in ischiavitù.

Perciò tutta la popolazione d'un paese combatteva per la propria difesa; non potevasi occupare una vallata della lunghezza di sei miglia che dopo avere superati otto o dieci castelli con altrettanti diversi assedj. Così il piccolo territorio di Samminiato contava ventotto castelli dipendenti da questa borgata[8]; così lo stato fiorentino, nel quale oggi non trovasi una piazza capace di lunga resistenza, non avrebbe potuto essere conquistato che dopo tre in quattrocento assedj. Se il nemico non trovava viveri nel paese in cui guerreggiava, non poteva nè meno tirarne dal proprio, perchè tutto lo spazio che si lasciava addietro, non essendo sottomesso, i suol convogli erano ad ogni passo esposti ad essergli tolti.

Noi siamo talmente accostumati a calcolare la potenza distruttiva del cannone, che non sappiamo concepire come si potesse non temere il nemico dietro una semplice muraglia, che il più delle volte serviva ancora di parete esterna alle case che le erano addossate. Per altro ancora presentemente queste fortificazioni, usate dai nostri antenati, potrebbero difendersi finchè l'artiglieria non vi avesse praticata una larga breccia, e le rapidissime operazioni delle armate verrebbero stranamente ritardate se fosse d'uopo piantare batterie innanzi ad ogni villaggio. Ma come ispirerebbesi ora mai ai contadini la coraggiosa ostinazione che opponevano negli andati tempi al nemico? Invincibile era in allora la loro resistenza, oggi l'istante della sommissione è preveduto e prossimo; la certezza d'essere vinti un giorno, li fa ubbidienti nell'ora medesima, e tutto il popolo è diventato neutrale nelle guerre, delle quali lascia ogni cura ai soldati.

L'artiglieria, all'epoca cui siamo giunti, era in uso già da un mezzo secolo, ma l'arte degli assedj non aveva ancora fatti che debolissimi progressi. Le bombarde e le spingarde venivano adoperate contro i combattenti, non contro le mura, e non erasi ancora trovata l'arte di battere regolarmente una fortezza in breccia, e di demolirla con una serie di colpi che non possono ripararsi. L'artiglieria di lunga mano superiore a tutte le invenzioni degli antichi per rovesciare i ripari, non lo è ugualmente per combattere gli uomini. Oggi ancora le battaglie si decidono spesso colla bajonetta, che per altro è molto inferiore alle picche o lance de' nostri antenati; le balle non facevano maggior guasto d'assai che le frecce, e spesso non passavano una pesante armatura. In allora per caricare le armi a fuoco dovevasi impiegare molto tempo, e riponevasi il loro principale vantaggio nello spaventare i cavalli coll'esplosione loro e colla fiamma. Non fu che dugent'anni dopo l'invenzione dell'artiglieria, ch'ebbe compimento la rivoluzione che doveva fare nell'arte della guerra.

Un'altra non meno strana rivoluzione si operò più prontamente. Alla metà del quattordicesimo secolo tutti i soldati che militavano in Italia erano stranieri; ed alla fine dello stesso secolo tutti o quasi tutti erano Italiani; l'esperimento che fecero delle forze loro contro i Tedeschi dell'imperatore Roberto, mostrò che non cedevano nè in valore, nè in talenti militari alle più bellicose nazioni.

I Catalani e gli Almogavari, introdotti in Sicilia ed in Calabria dal re Federico, erano stati i primi soldati stranieri che avessero fatto della guerra un mestiere. Dopo la pace di Sicilia una parte di queste truppe mercenarie passò in Grecia sotto il nome di grande compagnia; il rimanente si pose al soldo dei principi o delle repubbliche d'Italia, ed in principio del quattordicesimo secolo il nome di Catalani era comune ai mercenarj di tutte le nazioni.

Enrico VII, Lodovico di Baviera, Giovanni di Boemia e Carlo IV condussero molti Tedeschi in Italia. Quasi tutti, poco affezionati ai principi che gli avevano condotti, presero servigio presso i loro avversarj. Così i sovrani si confermarono nell'abitudine di confidare a braccia mercenarie la difesa de' loro stati. Pure fu nella stessa epoca ed in mezzo al quattordicesimo secolo, che le formidabili compagnie di ventura del duca Guarnieri, del conte Lando, d'Anichino Bongartm, fecero conoscere agl'Italiani tutto quanto dovevano temere da queste terribili bande. Somiglianti truppe, formate nelle guerre di Francia e d'Inghilterra, passarono pure in Italia nella seconda metà del quattordicesimo secolo. Fra Moriale, i capi della compagnia Bianca e della compagnia della Rosa, Giovanni Acuto ed il cardinale di Ginevra discesero consecutivamente dalle Alpi alla testa di soldati francesi, inglesi, provenzali, guasconi e bretoni. Finalmente Lodovico d'Ungheria in tempo del suo glorioso regno aprì a' suoi sudditi la strada dell'Italia, e tutta la cavalleria leggiera delle armate italiane più non fu composta che di soli Ungheri.

I governi trovavansi in ogni tempo apparecchiati alla guerra, senza aver avuto bisogno d'inreggimentare da prima, o d'istruire le loro truppe: in pochi giorni potevano ristaurare col danaro un esercito nel momento in cui un altro era disfatto; potevano in fine far cessare ogni spesa militare nel giorno medesimo in cui soscrivevano la pace. E per tal modo l'indisciplina delle truppe mercenarie, le loro perfidie, le loro pretese, quando si formavano in compagnie di ventura, non poterono per lungo tempo persuadere gli stati d'Italia a rinunciare al loro servigio. Altronde nè i principi, nè le repubbliche si erano ancora arrogato il diritto d'ordinare forzati arrolamenti; i cittadini non erano obbligati a servire lo stato che in tempo di pressante bisogno; le milizie non erano pagate, e non erano giammai obbligate ad allontanarsi per lungo tempo dai loro affari domestici, dai loro focolari. Non avevasi avuto il tempo di esercitarle, e qualunque volta si ponevano a fronte a truppe disciplinate, provavano tali rovesci, che più non osavasi riporre in loro alcuna fiducia.

Per altro quando il nemico penetrava nel territorio d'una città, facevasi ancora talvolta prendere le armi all'intera nazione; ognuno doveva porsi sotto il comando de' suoi ufficiali di quartiere, ed il podestà aveva il supremo comando della milizia. Dava ordine a tutti i cittadini, sotto pena d'ammenda o di corporale castigo, di uscire dalla città per passare al campo intanto che la maggior campana martellava, ed avanti che una candela accesa sotto le porte avesse terminato di bruciare. Il timore del castigo faceva in fatti marciare tutti i cittadini, ma non dava perciò loro l'attitudine di maneggiare le armi, nè il coraggio di battersi. Nella stessa epoca coloro che facevano il mestiere del soldato erano sempre in guerra: nell'istante che un principe li licenziava per avere fatta la pace, gli assoldava un altro per cominciare nuove guerre. In verun tempo la diversità tra le milizie e le truppe di linea era stata così grande, imperciocchè i primi non sapevano cosa fosse la guerra, gli altri non avevano mai vissuto in pace.

Questa diversità inspirava un'alta opinione per un mestiere che poche persone credevansi in istato d'esercitare; la paga di qualunque operajo nelle più lucrose professioni non uguagliava quella del soldato[9]; e questi riceveva ancora frequentemente straordinarie ricompense; si chiudevano gli occhi sulle sue ruberie, e gli si usava indulgenza per ogni eccesso.

La guerra è una passione così naturale all'uomo, che non abbisognano tante ricompense per affezionare i soldati al loro mestiere. Si vedono oggi accontentarsi della paga assai minore di quella dell'ultimo operajo, e non pertanto assoggettarsi a fatiche assai maggiori. Rispetto al pericoli cui devono esporsi, lungi dal pensare a farseli pagare, vi trovano in qualche modo la loro ricompensa; imperciocchè la battaglia, siccome la caccia, ha i suoi piaceri, ed il godimento della vittoria è tanto più vivo quanto il pericolo è stato più grande. Ma questo gusto della guerra non è facilmente creduto dalle persone pacifiche, per essere una conseguenza di emozioni che non conoscono e che non hanno prevedute. Per persuadere gl'Italiani a rientrare nella professione delle armi da loro abbandonata, rendevasi necessario un allettamento più generalmente sentito. L'amore del danaro, il desiderio di menare una vita licenziosa che in allora permettevasi alle truppe, fecero impressione sulla comune degli uomini, e gli spiriti ardenti ed inquieti portarono più in là la loro ambizione e le speranze. Il più grande potere, la più smisurata ricchezza, la sovranità medesima poteva acquistarsi da un soldato di fortuna. Tra i condottieri tedeschi, francesi ed inglesi ch'eransi veduti in Italia giugnere ai primi gradi, molti erano usciti dalle più povere classi della società. Gl'Italiani fecero ancora più sorprendenti fortune quando si posero in su la stessa carriera.

Molti principi di questa nazione si erano innalzati circa la metà del quattordicesimo secolo alla riputazione di buoni capitani, ma le armate ch'essi comandavano erano composte soltanto di stranieri. Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì, i Malatesti di Rimini, Ridolfo di Varano, signore di Camerino, e molti altri vennero successivamente chiamati in qualità di generali dalla repubblica fiorentina, dal papa e da altri sovrani. Ambrogio Visconti, figliuolo naturale di Barnabò, formò pure una compagnia di ventura, colla quale corse più volte l'Italia per guastarla. Ma non è per altro a costoro che spetti la gloria d'avere rinnovata la milizia italiana. Essi combattevano con un'armata straniera in mezzo alla loro patria. Alberico conte di Barbiano, che successe a costoro, formò il primo un'armata nazionale, che servì di scuola a tutti i capitani italiani.

Alberico da Barbiano era signore di alcuni castelli nelle vicinanze di Bologna; cominciò nel 1377 a farsi conoscere in un modo che fece più onore a' suoi talenti militari che alla sua umanità. Nell'attacco di Cesena aveva sotto i suoi ordini duecento lance, e molto contribuì alla presa di questa città[10]; ma ebbe altresì parte all'orrendo massacro comandato dal cardinale di Ginevra ed eseguito dai Bretoni. Non molto dopo levò un corpo, tutto formato d'Italiani, che intitolò la compagnia di san Giorgio. In tempo dello scisma servì con questa Urbano VI, mentre i Bretoni erano sotto gli ordini di Clemente VII. Il 28 aprile del 1379 osò di attaccarli innanzi a Marino, ed i suoi avventurieri italiani, che fin allora avevano militato divisi in corpi stranieri, ebbero la gloria di vincere la più temuta truppa dell'Europa.

La riputazione del Barbiano andò sempre crescendo dopo questa vittoria. La compagnia di san Giorgio venne risguardata come la gran scuola dell'arte militare in Italia; i fratelli ed i parenti d'Alberico vi entrarono prima degli altri; tutti coloro che dovevano in appresso illustrare il proprio nome nella carriera militare, si associarono a Barbiano. Ugolotto Biancardo, Jacopo del Verme, Facino Cane, Otto Bon Terzo, Broglio, Braccio da Montone, Biordo e Ceccolino dei Michelotti si formarono sotto di lui. Sforza attendendolo, mentre stava lavorando la terra presso al suo villaggio di Cotignola, fu da alcuni soldati invitato ad entrare nello stesso servigio. Gettò la sua zappa sopra una quercia dichiarando che s'ella ricadeva rimarrebbe contadino, e se restava appesa all'albero, risguarderebbe tale presagio come quello di futura grandezza: la zappa non ricadde e Sforza si fece soldato; e suo nipote, duca di Milano, diceva a Paolo Giovio: «tutte queste grandezze di cui tu mi vedi circondato, questi soldati e tante ricchezze, le devo ai rami d'una quercia, che sostennero la zappa di mio avo[11]

La maniera con cui arrolavansi le truppe, per lancia rotta, dava ad un molto maggior numero di soldati i mezzi di farsi conoscere. Un gentiluomo si affezionava alcuni de' suoi vassalli, un abile avventuriere si associava alcuni compagni di servigio, e queste piccole compagnie erano indissolubili: anzi andavano sempre ingrossando, e quando il capitano disponeva di venti lance, ossia di sessanta uomini di cavalleria, cominciava a trattare separatamente e con indipendenza coi sovrani che volevano prenderlo al loro servigio.

Le continue guerre del regno di Napoli, sempre lacerato, dopo la morte di Giovanna, dalle fazioni d'Angiò e di Durazzo e dalle rivalità de' signori feudatarj, offrivano impiego a tutti i capitani. Alberico da Barbiano vi militò con distinzione sotto Carlo III, e nel 1384 ottenne da questo monarca il titolo di gran contestabile del regno, che conservò finchè visse[12]. Per altro non si attaccò esclusivamente al servigio dei reali di Napoli; più frequentemente guerreggiò in Lombardia; ottenne la confidenza di Giovanni Galeazzo, e divise quasi sempre con Jacopo del Verme di Verona, capitano a lui non secondo, il comando delle armate ducali.

Giovanni Galeazzo, che mai non comandava le sue armate, che non esponeva la sua persona ad alcun pericolo, e che nell'interno del suo palazzo viveva con sospetto e con diffidenza, aveva saputo accordare a questi generali quel grado di confidenza di cui erano degni. Questo principe aggiugneva ai vizj che lo resero odioso, alcune qualità che hanno l'apparenza della grandezza. Amava e proteggeva le lettere, aveva gusto per le arti, ed innalzò gloriosi monumenti della sua magnificenza; ma sopra tutto sapeva distinguere il merito che poteva essergli più utile. Penetrava con infallibile perspicacia il talento politico e militare, avanzava senza gelosia gli uomini distinti, e loro accordava in appresso una inalterabile confidenza; perciò ebbe sempre ne' suoi consigli ed alla testa delle armate i più destri negoziatori, i migliori generali d'Italia.

Giovanni Galeazzo credette, morendo, di potere mostrare ancora la medesima confidenza ad uomini, che aveva lungo tempo lasciati depositarj di tutte le sue forze, e li nominò custodi de' suoi stati e de' figliuoli che lasciava in tenera età. Ma i capitani, che meglio lo avevano servito, fecero ben presto vedere, che fin ch'egli visse gli si erano conservati fedeli per timore, non per amore.

Il testamento di Giovanni Galeazzo divise i suoi stati tra i figli. A Giovanni Maria, il primogenito, che non aveva che tredici anni, diede il ducato di Milano dal Ticino fino al Mincio[13]; ed al secondo, Filippo Maria, che dichiarò conte di Pavia, assegnò le città poste a ponente del Ticino, o al levante del Mincio[14]. Aveva pure un bastardo, detto Gabriele Maria, cui lasciò le signorie di Crema e di Pisa[15].

Questi principi, troppo giovani per governare da sè stessi, furono dal padre lasciati sotto la tutela d'un consiglio di diecisette personaggi, de' quali doveva essere capo Francesco Barbavara di Novara, già cameriere di Giovan Galeazzo. La duchessa madre, Catarina, figlia di Barnabò Visconti, doveva avere la presidenza del governo. Jacopo del Verme, Alberico da Barbiano, Antonio, conte d'Urbino, Pandolfo Malatesta, Francesco dei Gonzaga e Paolo Savelli erano membri del consiglio di reggenza. E per tal modo tutti i migliori generali d'Italia trovavansi al soldo dei giovanetti principi, e tutti i vicini stati erano in pace con loro, tranne i Fiorentini e Francesco da Carrara.

Ma nel 1402, i Fiorentini che non avevano potuto trovare verun alleato, quando la salute e la libertà dell'Italia dipendevano dalla loro resistenza, formarono facilmente una potente lega per attaccare e spogliare gli eredi di Giovan Galeazzo. Si volsero prima che ad ogni altro, al papa Bonifacio IX, che aveva giusti motivi di malcontento contro il duca di Milano. Le città di Perugia, di Bologna e di Assisi erano state sottratte al suo alto dominio; il Visconti aveva persuasi molti feudatarj della santa sede a fargli la guerra; e di concerto coi Colonna, cercava perfino di togliergli la sovranità di Roma[16]. Non pertanto finchè Giovan Galeazzo visse, Bonifacio non osò farne lagnanza, nè porsi in istato di difesa. La prima notizia dell'infermità del duca rese il papa coraggioso, e gli fece rinnovare un trattato coi Fiorentini, poi, quando ebbe certezza della sua morte, soscrisse un trattato di alleanza colla repubblica, in forza del quale prometteva di aggiugnere cinque mila cavalli ai sei mila che darebbero i Fiorentini, onde muover guerra agli eredi Visconti, e ritoglier loro tutti gli stati ingiustamente occupati dal loro genitore[17].

Era appena soscritto il trattato, quando Giannello Tommacelli, fratello del papa, s'avanzò contro Perugia con mille cinquecento lance, onde sostenere gli emigrati che volevano rientrare nella loro patria: di già gli si erano arresi quattordici castelli, e la città chiedeva di capitolare, quando Otto Bon Terzo si avanzò per liberarla, e costrinse alla ritirata il fratello del papa, che mancava egualmente di coraggio e di cognizioni militari[18]. Dal canto loro i Fiorentini guastarono alcune parti dei territorj di Siena e di Pisa, ma non impedirono a Gabriele Maria Visconti di recarsi in quest'ultima città con Agnese Mentegatti, sua madre, per prendere possesso della signoria che gli era stata data da Giovanni Galeazzo, e difenderla dai nemici[19].

In gennajo del 1403 i Fiorentini rinnovarono i decemviri della guerra, onde spingere le operazioni ostili con maggior vigore. Malgrado la loro democratica gelosia non solo affidavano questa carica per un anno, ma d'anno in anno riconfermavano nell'impiego que' decemviri che ben meritavano della patria[20]. Questi magistrati, formando un nuovo esercito, riuscirono ad avere al loro soldo alcuni di que' capitani, i quali essendo stati da Giovanni Galeazzo nominati nel consiglio di Reggenza, sembravano interamente addetti al duca di Milano. Ma di già una segreta gelosia divideva questo consiglio, ed i generali erano ansiosi di portare le armi contro coloro che avevano lungo tempo serviti. Alberico da Barbiano accettò il comando dell'esercito fiorentino, ed il marchese d'Este, Malatesti di Rimini e Pietro da Polenta, signore di Ravenna, presero servigio sotto le sue insegne ed abbandonarono i Visconti[21].

Carlo Malatesti di Rimini e Paolo Orsini comandavano le truppe del papa, e Baldassare di sant'Eustachio, che fu poi Giovanni XXIII, dirigeva le loro operazioni come legato di Romagna[22]. Quest'esercito si adunò lentamente in giugno e luglio, attaccò Bologna, difesa da Facino Cane e da Galeazzo Porro, e costrinse Lodovico degli Alidosi, signore d'Imola, a lasciare l'alleanza dei Visconti[23].

Francesco Barbavara, che Giovanni Galeazzo aveva nel suo testamento nominato presidente del consiglio di reggenza, aveva cominciata la sua carriera come cameriere del duca, onde i signori, che facevano parte del consiglio, non sapevano perdonargli la bassezza de' suoi natali, nè riconoscerlo per loro superiore[24]. Quanto più lo vedevano onorato della confidenza della duchessa, maggiormente si disgustavano del governo, e nell'istante che avrebbero dovuto provvedere gagliardamente contro gli attacchi de' Fiorentini, del papa e di Francesco da Carrara, non pensavano che ai mezzi di nuocere al Barbavara, che credevano l'amante di Catarina[25]. Due Visconti, lontani parenti dell'estinto duca, si posero alla testa dei malcontenti, ed accusarono il Barbavara e la duchessa di favorire i Guelfi[26]. Essi persuasero i due Porri, Antonio e Galeazzo, e Galeazzo Aliprandi, gentiluomini milanesi e ghibellini, ai quali Giovanni Galeazzo avea mostrata molta confidenza, ad unirsi con loro per sollevare il popolo. Tutta la città risuonò di grida sediziose del popolaccio che domandava la morte del Barbavara, e molti de' suoi amici furono uccisi[27]. La duchessa spaventata si chiuse con lui nel castello, e gli ammutinati nominarono senza la partecipazione di lei un nuovo consiglio di reggenza.

Frattanto Catarina, come talvolta accade alle donne, confondeva la violenza e l'impetuosità colla fermezza; credeva di agire come si conviene a uomo ed a principe, quando più s'allontanava dal carattere del suo sesso e dal proprio, e commetteva azioni barbare per ostentare una virile condotta. Dopo di avere ammessi nella reggenza i nuovi consiglieri datile dal popolo, li fece un giorno chiamare per deliberare seco nel castello di Milano[28], e fattili circondare dai suo satelliti, fece decapitare i due Porri e l'Aliprandi, indi esporre sulla pubblica piazza i loro sfigurati corpi. Antonio Visconti e gli altri arrestati con loro vennero chiusi in prigione[29].

Nè meno crudelmente aveva la duchessa trattate alcune città ammutinate. I cittadini d'Alessandria avevano prese le armi in ottobre, e scacciati dalla loro città i ministri dei Visconti: ordinò Catarina a Facino Cane, uno de' suoi generali, di punirli. La città fu presa ed abbandonata ad orribile sacco, dopo il quale Facino Cane[30] se ne fece signore, e più non depose la sovranità[31]. Non molto dopo i Guelfi di Como furono in una sollevazione cacciati dalla loro patria dai Ghibellini; implorarono la protezione della duchessa, la quale mandò a Como Pandolfo Malatesti, altro suo generale, cui andava debitrice de' soldi arretrati. Gli permise di pagarsi col saccheggio de' Ghibellini di Como, ma il Malatesti saccheggiò tutta la città, ed in appresso se ne appropriò il governo[32].

Tutte le città ch'erano state assoggettate al dominio dei Visconti trovavansi in preda alla più violenta anarchia. In cadauna eravi qualche famiglia, che ne aveva in altri tempi avuta la signoria, o che almeno aveva primeggiato sugli altri col favore dello spirito di parte; queste famiglie sentivano assai più vivamente il desiderio di ricuperare l'antica loro autorità, che i popoli quello di riporsi in libertà: ogni piccolo stato sentiva meno il peso di un giogo dispotico, che l'avvilimento di vedersi ridotto alla condizione di città di provincia, e si lusingavano tutti di veder rinascere la loro prosperità passata, tornando ad essere capitali di una piccola sovranità; perciò favorirono le famiglie che cercarono di sottrarsi all'autorità dei Visconti per sostituirvi la propria. Cremona fu la prima a ribellarsi. Giovanni Ponzoni, i di cui antenati erano stati capi del partito ghibellino, trovavasi esiliato dalla sua patria, e vi rientrò il 30 maggio alla testa di un branco di gente armata, cacciandone Giovanni da Castione, commissario della duchessa, e rendendo la libertà a tutti i prigionieri. Trovavasi tra costoro Luigi Cavalcabò, antico capo dei Guelfi cremonesi. Quest'uomo ambizioso ed inquieto non fu appena fuori di prigione che cercò di risvegliare in Lombardia la parte guelfa; nome omai dimenticato sotto la lunga oppressione dei Visconti.

Più non trattavasi tra Guelfi e Ghibellini della contesa così lungamente agitata tra gl'imperatori ed i papi, come più non trattavasi, siccome in Toscana, dell'opposizione tra il partito della libertà e quello dell'assoluto potere; imperciocchè i Guelfi lombardi, non meno che i Ghibellini, avevano perduto ogni spirito d'indipendenza. Ma restavano tuttavia antichi odj da soddisfare, antiche vendette da fare; restava più che tutt'altro un'inquieta ambizione, ed il sempre rinascente desiderio di ricuperare un potere già da tanti anni perduto. Tutti i Guelfi nelle città, ne' castelli, ne' villaggi si posero in moto per rialzarzi dall'oppressione in cui gli avevano così lungo tempo tenuti i Visconti, trattarono coi Fiorentini, capi in Italia di tutta la parte guelfa, e formarono una lega generale, alla direzione della quale nominarono Ugolino Cavalcabò, marchese di Viadana, e Gabrino Fondolo, suo amico e suo luogotenente[33].

Nel mese di luglio Cavalcabò cacciò i Ghibellini fuor di Cremona, e cadde in sospetto d'avere fatto avvelenare Giovanni Ponzone suo rivale e suo liberatore, ma in un'adunanza del popolo fu nominato signore di Cremona[34]. Poco dopo persuase la città di Crema a scacciare coi Ghibellini gli ufficiali del duca di Milano ed a sottomettersi alla signoria dei Benzeni. A Brescia i Guelfi, sostenuti dagli abitanti di piè dell'Alpi, riportarono una compiuta vittoria; a Como per lo contrario i vittoriosi furono i Ghibellini. Franchino Rusca cacciò i Guelfi dalla città e dai villaggi posti in sul lago, ma si ribellò ai Visconti, le di cui truppe lo avevano servito nel condurre a fine questa rivoluzione[35]. Bergamo rimase in potere della famiglia ghibellina dei Suardi, dopo avere scacciati i Coleoni coi Guelfi. A Lodi Giovanni da Vignate, capo dei Guelfi, scacciò i Vestarini ed i Ghibellini. Gli Scotti a Piacenza ed i Landi a Bobbio ricuperarono l'antica loro autorità, mentre la famiglia ghibellina degli Anguisoli veniva esiliata dalle due città. E per tal modo dall'una all'altra estremità della Lombardia un universale fermento rinnovò gli antichi odj da tanto tempo sopiti. Un solo stato spezzavasi in venti separate sovranità, governate da piccoli tiranni; una guerra universale scoppiava ai confini di tutte le province; la guerra civile esauriva ogni comunità; e quel dominio che i Visconti avevano innalzato con tante fatiche, con tante pratiche, con tanti delitti, pareva spegnersi per sempre.

I Fiorentini, volendo approfittare dell'abbassamento dei loro avversarj, avevano unite nel Bolognese le loro armate a quella del papa. Avevano invitato Francesco da Carrara ad unirsi a loro sotto le mura di Milano, e mentre questi occupava Brescia e ne cingeva d'assedio il castello, Alberico da Barbiano conduceva l'esercito della lega nello stato di Parma. Eravi in allora per comandante Otto Bon Terzo, uno de' migliori generali de' Visconti, parmigiano egli medesimo e di famiglia ghibellina, il quale da Giovanni Galeazzo era stato investito di tutti i beni che appartenevano ai Correggieschi, ed aveva nella sua patria la doppia autorità di comandante militare e di capo di parte[36]. Per assicurarsi la conservazione della città ne cacciò i Rossi con più di due mila Guelfi che si recarono al campo de' Fiorentini[37], e loro fecero aprire volontariamente le porte di molte terre murate. Alberico da Barbiano, dopo avere soggiogata una parte di questa provincia, apparecchiavasi a passare il Po per portarsi sopra Milano; ma Carlo Malatesti che comandava sotto i di lui ordini le truppe del papa lo trattenne inaspettatamente, dando pubblicità ad un trattato che andava maneggiando da lungo tempo.

Il Malatesti aveva sposata una sorella della duchessa Catarina, figlia di Barnabò Visconti. Finchè visse Giovanni Galeazzo questa parentela poteva essere pel signore di Rimini un altro motivo per odiare colui che aveva fatto perire suo suocero: ma morto il duca, il Malatesti non poteva vedere con fredda indifferenza i pericoli che moltiplicavansi intorno alla duchessa di Milano; tenne segrete conferenze con Francesco dei Gonzaga, comune cognato, il quale erasi conservato fedele a Catarina, e fu pure ammesso a tali conferenze Baldassare Cossa, legato del papa, senza che il Barbiano, il marchese d'Este, o Vanni Castellani, ambasciatore fiorentino, avessero sentore di queste pratiche; ed il 25 agosto del 1403, con estrema maraviglia degli alleati del papa, si pubblicò la pace tra i Visconti e la Chiesa, che raccolse tutto il frutto degli sforzi fatti dai popoli cui erasi associata, facendosi restituire Bologna, Perugia e tutte le città che Giovanni Galeazzo aveva tolte allo stato ecclesiastico, senza nulla domandare a vantaggio dei Fiorentini[38].

Il legato ricondusse immediatamente l'armata presso Bologna, e questa città, impaziente di ritornare sotto il governo della Chiesa, non aspettò che Facino Cane, che vi comandava, aprisse le porte. I cittadini presero le armi il 2 settembre, e scacciarono il generale, facendo subito entrare in città le truppe pontificie[39]. Nel seguente ottobre i Perugini, dopo avere avuta una lettera della duchessa di Milano, che loro rendeva la libertà[40]; aprirono egualmente le porte a Giannello Tommacelli, fratello del papa, e richiamarono i fuorusciti[41].

I Fiorentini spedirono a Roma ambasciatori per dissuadere il papa dal ratificare un trattato contrario a' suoi primi impegni[42]. L'oggetto dell'alleanza era di ricuperare le città della Chiesa, e di liberare quelle della Toscana. Niuna di queste ultime era per anco sottratta al giogo de' Visconti, ed il papa non ignorava che gli sforzi de' Fiorentini non tendevano che a rendere la libertà alla Toscana, onde non poteva senza taccia di mala fede abbandonarli, dopo aver egli raccolti i frutti dell'alleanza; tanto più che veruna disfatta non dava vero nè apparente motivo alla sua defezione[43]. Ma Bonifacio IX, dopo avere calmata con affettati indugi l'indignazione eccitata dalla sua condotta, ratificò, senza nulla cambiare, il trattato conchiuso dal legato[44].

I Fiorentini abbandonati a sè medesimi non però rinunciarono ai progetti che avevano formati, e continuarono coraggiosamente la guerra. Spedirono due mila cavalli e mille cinquecento fanti ad Ugolino Cavalcabò, il nuovo signore di Cremona[45]. Presero al loro soldo Guido da Fogliano di Reggio, Pietro de' Rossi di Parma ed altri gentiluomini lombardi, ad ognuno dei quali pagarono mille fiorini d'oro al mese, per ajutarli a sostenere la guerra che questi signori facevano intorno ai loro castelli[46]. Ma sopra tutto sforzaronsi di tornare in libertà le due repubbliche toscane che avevano mostrato così accanito odio contro di loro, che avevano fatto loro tanto male, e che per farne loro ancora di più, eransi volontariamente date in mano a Giovanni Galeazzo.

Il primo tentativo dei Fiorentini per rendere la libertà a Siena non ottenne il desiderato effetto. Francesco Salimbeni e Cocco di Cione, dopo avere tentato coi loro discorsi di risvegliare nel popolo l'amore della patria, erano rimasti d'accordo di prendere le armi coi loro associati il 26 di novembre del 1403, d'attaccare il palazzo pubblico, e di scacciarne san Giorgio di Carreto, governatore della città. Ma i Salimbeni, i Malavolti ed il monte dei dodici erano entrati soli nella congiura, onde la gelosia degli altri ordini la fece mancare. Venne avvisato il governatore di ciò che contro di lui si tramava, e questi avendo tratto Francesco Salimbeni presso al palazzo, intrattenendosi con lui amichevolmente, colà lo fece uccidere dalle sue guardie[47]. I dodici che si armavano per difenderlo furono attaccati e rotti, e molti di loro presi e mandati al supplicio, o in esilio. Il monte dei dodici fu in allora dichiarato escluso da ogni partecipazione al governo, e questo decreto si mantenne in vigore per lo spazio di quasi ottant'anni[48].

Per altro i Sienesi, che non avevano voluto ricevere la libertà per opera dei dodici o dei Salimbeni, non tardarono a procurarsela da sè medesimi. Alla fine di marzo del 1404 spedirono a Firenze ambasciatori a chiedere pace. Quando cominciò questa negoziazione, il governatore san Giorgio di Carreto, conoscendo di avere perduta in modo l'autorità sua, che non chiedevasi pure il di lui assenso per trattare coi nemici del suo principe, uscì di città spontaneamente, avanti di esserne scacciato. I magistrati ordinarono all'istante che si levasse la biscia dei Visconti da tutti i luoghi pubblici e dalle monete che faceva coniare la repubblica; ed in tal modo fu in Siena, senza rivoluzione, abolita l'autorità del duca di Milano[49].

I Fiorentini accolsero lietamente gli ambasciatori Sienesi, restituirono alla loro repubblica tutte le terre che avevano occupate nel di lei territorio, riservandosi soltanto la giurisdizione di Montepulciano, ch'era stata la prima cagione della guerra. Vollero invece che gli esiliati di Siena fossero richiamati in patria, ammettendoli al godimento de' loro beni e diritti. Questo trattato di pace si pubblicò in mezzo al tripudio de' cittadini nelle due città il 4 aprile del 1404[50].

I Fiorentini lusingavansi di giugnere più facilmente a sottrarre i Pisani alla tirannide di Gabriele Maria Visconti. Questo nuovo signore, che non poteva nè proteggere i suoi sudditi, nè nuocere ai suoi nemici, andava non pertanto accrescendo le imposte per supplire alle spese della sua piccola corte, e per sostenere una guerra, cui il popolo non prendeva veruna parte[51]. Quando vide che le imposte ordinarie non bastavano, pretese d'avere scoperta una cospirazione de' Bergolini, e sotto questo colore fece morire un Agliate, un Bonconti ed altri rispettati cittadini, confiscando i loro beni.

Per approfittare del malcontento del popolo, in gennajo del 1404, i Fiorentini mandarono sotto Pisa un grosso corpo di cavalleria, con alcuni ingegneri e poche compagnie d'infanteria. Erano stati avvisati che le mura della città erano mezzo ruinate in vicinanza di un'antica porta ch'era stata chiusa, e che potevano facilmente superarsi[52]. Ma giunti innanzi a Pisa trovarono una nuova fortificazione innalzata nel luogo ch'essi pensavano di attaccare, il nemico informato de' loro progetti, e le mura coperte di soldati e di macchine. Risolsero perciò di ritirarsi dopo avere guastate le campagne.

Questo tentativo invece di nuocere a Gabriele Maria Visconti servì per lo contrario a consolidare il di lui potere, perchè lo determinò ad implorare la protezione di Boucicault, maresciallo di Francia, che in allora teneva il comando di Genova. Quest'illustre generale, che desiderava di vendicarsi sugl'infedeli della schiavitù sofferta tra le catene di Bajazet, cercava modo di trattare con Emmanuele II Paleologo per soccorrerlo nelle sue avversità; onde avea avidamente accettato il vicariato di Genova, di cui ne aveva prese le redini il 31 ottobre del 1401, perchè il popolo che possedeva Pera aveva più d'ogni altro mezzi ed interesse di difendere Costantinopoli[53]. Boucicault era entrato in tutti gl'interessi de' Genovesi e per conto loro si adombrava di tutti gli acquisti che potrebbero fare i Fiorentini; ed in particolare non voleva permettere che questo popolo di mercanti possedesse gl'importantissimi porti di Pisa e di Livorno. Accolse adunque con piacere le proposizioni del Visconti; si fece dare Livorno e le sue fortezze, richiese per conto della signoria di Pisa l'annuo tributo d'un cavallo e d'un falcone pellegrino, ed a tali condizioni avendo riconosciuto Gabriele Maria Visconti come feudatario del re di Francia, intimò ai Fiorentini di non arrecare ulteriore molestia a lui o al suo territorio, se non volevano provocare la collera di Carlo VI. Quando Boucicault vide che questa minaccia non bastava, fece arrestare tutti i negozianti fiorentini che si trovavano in Genova, e porre sequestro sulle loro mercanzie, e non li rilasciò che dopo avere forzata la signoria a segnare una tregua di quattro anni col Visconti, e colla comunità di Pisa[54].

Ad eccezione di Pisa, la Toscana trovavasi liberata da ogni straniera influenza, ed i Fiorentini avevano ad ogni modo ottenuto lo scopo che si erano proposti nella presente guerra. Siena aveva ricuperata la sua libertà; Perugia e Bologna avevano cambiata la tirannide de' Visconti contro il paterno e più pacato dominio della Chiesa; Riccardo Cancellieri di Pistoja aveva fatte proposizioni di pace in settembre del 1403, e per ricuperare i suoi beni aveva ceduto alla repubblica il castello della Sambuca, che chiudeva uno de' più importanti passaggi degli Appennini[55]. Altro adunque a far non le rimaneva per soddisfare a' suoi desiderj, che di punire i signori feudatarj, che avevano abbandonati i Fiorentini per unirsi ai Visconti, onde i dieci della guerra gli attaccarono vigorosamente. Giacomo Salviati, che comandò questa spedizione, tolse agli Ubertini tutti i castelli che possedevano nella val d'Ambra, s'innoltrò dopo contro i conti Guidi ed i conti del Bagno, ed occupò tutte le fortezze che avevano questi gentiluomini ai confini della Romagna, e per ultimo ricondusse all'ubbidienza della repubblica tutta la nobiltà feudataria degli Appennini[56].

Al di là di queste montagne i Fiorentini non volevano nè fare acquisti, nè obbligarsi a lunghe alleanze per timore di trovarsi avviluppati in perpetue ostilità. Nondimeno mandarono soccorsi di danaro e di gente ad Ugolino Cavalcabò, signore di Cremona. Pietro de Rossi, uno de' loro alleati, erasi riconciliato in principio dell'anno con Otto Bon Terzo, che governava Parma piuttosto come tiranno che come luogotenente del duca di Milano; avevano convenuto di dividere la sovranità di questa città, ed Otto Bon Terzo aveva offerto di passare al soldo dei Fiorentini contro i Visconti; ma improvvisamente assalì i Guelfi di Pietro de' Rossi che con lui erano di guarnigione nella cittadella di Parma, e li disarmò; poi scagliandosi contro i pacifici borghesi ch'egli credeva affezionati al suo rivale, ne fece un orribile carnificina, e lasciò che fossero saccheggiate le loro case[57]. Pietro de Rossi, scacciato dalla sua patria, venne a Firenze per implorare i soccorsi della repubblica. I decemviri posero sotto i suoi ordini quasi mille cinquecento corazzieri e lo provvidero di danaro e di munizioni da guerra. Ma contuttociò essi più non agivano in Lombardia che come ausiliari degli antichi loro amici; senza venire a trattati di pace, più non maneggiavano la guerra col vigore di prima, e lasciavano che i Visconti lottassero contro le difficoltà in cui trovavansi avviluppati[58].

Il popolo milanese, approfittando della debolezza del governo, s'andava agitando per ricuperare la libertà; ma l'ambizione de' grandi, o l'inquietudine de' cittadini non si appoggiavano a nobili desiderj; i primi non cercavano che a soppiantarsi con intrighi di corte, i secondi turbavano l'amministrazione con movimenti insignificanti senza verun progetto determinato, senza verun costante desiderio. Se i Milanesi avessero rimossa dalla sovranità la famiglia Visconti, resa veramente dai suoi delitti indegna di regnare, essi avrebbero riposta la loro repubblica alla testa della lega lombarda, e le avrebbero per lo meno ottenuto lo stesso rango che Firenze occupava in Toscana. Se per lo contrario avessero cercato di consolidare la sovranità innalzata dagli ultimi principi, dando una costituzione alla monarchia, ed assicurando la felicità del popolo sotto la circoscritta autorità d'un capo, la città loro sarebbe rimasta la capitale della Lombardia, e le venticinque città, che Giovanni Galeazzo aveva governate, sarebbero rientrate sotto la loro dipendenza; ma tutte le ribellioni di Milano venivano eccitate da persone faziose, non da virtuosi patriotti. Cercavano essi di strapparsi l'un l'altro di mano il potere, e non pensavano a riclamare o a far valere i loro diritti.

Dal canto suo la duchessa Catarina colla sua imprudente e crudele condotta andava perdendo ogni diritto all'affetto ed alla stima del popolo. La morte dei due Porri e dell'Aliprandi aveva in principio dell'anno eccitato in Milano un grandissimo fermento. Nel mese di aprile, il popolo trovò una mattina cinque cadaveri vestiti di nero e senza testa, che stavano esposti per ordine della duchessa avanti alla porta di sant'Ambrogio. Pensava Catarina che questa misteriosa esecuzione assicurerebbe il suo potere spaventando i faziosi. Ma tutt'all'opposto, sebbene i Milanesi non conoscessero i decapitati, si abbandonarono ai sentimenti di sdegno e di rabbia. Presero le armi ed obbligarono la duchessa a dare in mano ai borghesi le sue fortezze, dalle quali sloggiarono i soldati; il giovane duca Giovan Maria venne affidato a consiglieri ghibellini eletti dal popolo; la casa di Francesco Barbavara fu abbandonata al saccheggio; ed egli si ricoverò in Val Siccida posta sopra Novara, mentre la duchessa andò a chiudersi in Monza, sperando di rimanervi sicura sotto la protezione di Pandolfo Malatesti[59].

Ma quando il duca più non trovossi custodito dalla duchessa sua madre, i faziosi abusarono del suo nome per muovere guerra alla reggente. Vedevansi in ogni città il partito del duca e quello della duchessa azzuffarsi frequentemente[60]; l'ultima fu improvvisamente sorpresa a Monza da Francesco Visconti e gittata in prigione, ove, se può darsi fede alla pubblica voce, morì avvelenata il 16 ottobre del 1404[61]. Pandolfo Malatesti, che trovavasi presso di lei, fuggì a piedi e scalzo, com'egli era, alla volta di Trezzo, e di là passando immediatamente a Brescia, ottenne di avere in sua mano la città e le fortezze, e se ne fece proclamare signore[62].

Per tal modo tutta la Lombardia trovossi divisa tra nuovi tiranni. Filippo Maria, il più giovane de' fratelli Visconti, risedeva in Pavia, ma l'autorità sopra questa città era stata nuovamente usurpata dai Beccaria, che l'avevano in altri tempi signoreggiata. Facino Cane regnava in Alessandria, Giorgio Benzoni a Crema, Giovanni da Vignate, figliuolo d'un macellajo, a Lodi, i Suardi a Bergamo, i Coleoni a Trezzo, Cavalcabò a Cremona, Francesco Rusca a Como; ed i popoli calpestati dai nuovi padroni, e dai loro soldati, erano omai ridotti a desiderare il giogo più uniforme dei Visconti.

CAPITOLO LIX.

Conquiste di Francesco da Carrara in Lombardia. — Gelosia de' Veneziani; gli dichiarano la guerra; vigorosa resistenza del Carrara, che perde successivamente Verona e le sue principali fortezze; egli è forzato ad arrendersi, ed il consiglio dei dieci lo fa morire co' suoi figliuoli.

1404 = 1406. Quando cominciarono le turbolenze eccitate in Lombardia dalla morte di Giovanni Galeazzo, la duchessa di Milano aveva offerta la pace a Francesco da Carrara, signore di Padova, di cui temeva il risentimento ed il valore. Il Carrara vi acconsentiva a condizione che gli fossero restituite Vicenza, Feltre e Belluno, onde potesse, com'egli diceva, lasciare la signoria d'una città a ciascuno de' suoi figliuoli. Non pertanto dietro l'interposizione de' Veneziani si era accontentato di Feltre e di Belluno, e la duchessa aveva promesso di dargli queste due città nel giugno del 1403[63]. L'odio che Jacopo del Verme e Francesco Barbavara, consiglieri di Catarina, portavano al signore di Padova, fece rompere questo trattato all'atto che doveva eseguirsi; onde il Carrara, dopo avere riclamata la guarenzia de' Veneziani, che gli diedero una risposta insignificante, entrò il 12 agosto nel territorio di Verona con una formidabile armata. Non avendo potuto riportare alcun vantaggio sopra Ugolotto Biancardo, che comandava le truppe de' Visconti, passò nello stato di Brescia, ed i Guelfi gli aprirono le porte di quella città[64]. Ma le truppe del duca eransi chiuse nella cittadella, ed avanti che il Carrara potesse forzarle ad arrendersi, sopraggiunsero Otto Bon Terzo e Galeazzo di Mantova con mille lance, che costrinsero il signore di Padova a ritirarsi[65].

In principio del 1404 Facino Cane fu mandato a Vicenza dalla duchessa con un ragguardevole corpo d'armata per portare la guerra nel padovano; ma il Carrara, appostando le sue milizie dietro i canali ed i fiumi che attraversano e circondano i suoi stati, rispinse le truppe milanesi, e determinò finalmente Facino Cane a condurre altrove i suoi soldati, onde approfittare per sè medesimo dell'anarchia in cui trovavasi la Lombardia[66].

Lo stesso giorno in cui ritiravasi Facino Cane, Guglielmo della Scala entrò in Padova per domandare a Francesco Carrara di prendere parte in un'intrapresa che egli meditava intorno a Verona. Guglielmo era figlio d'Antonio, l'ultimo signore della Scala; nel suo esilio era stato beneficato assai dal Carrara[67]. Sperava che fosse giunto l'istante in cui potrebbe ricuperare la sovranità de' suoi maggiori, ed assicurava il signore di Padova che gli antichi sudditi della sua famiglia desideravano di ritornare sotto il suo dominio, e convenne con lui, che qualora col suo ajuto rientrasse in Verona, egli lo assisterebbe poi con tutte le sue forze per ricuperare Vicenza. I due principi soscrissero le condizioni di questo trattato il 27 marzo del 1404[68].

Il 30 di marzo l'armata del Carrara si mosse sotto gli ordini di Filippo da Pisa. Niccolò, marchese d'Este, genero del signore di Padova, sopraggiunse ad ingrossarla con cinquecento corazzieri[69], e questi generali cinsero d'assedio il castello di Cologna. Mentre richiamavano colà l'attenzione de' nemici, tenevano vive segrete corrispondenze coi malcontenti di Verona, sotto le di cui mura recossi improvvisamente l'armata che assediava Cologna la notte del 7 aprile, ed ajutata da' partigiani de' suoi antichi signori, vi penetrò scalando le mura, onde Ugolotto Biancardo, che vi comandava a nome del duca di Milano, dovette ritirarsi nella fortezza[70].

Ma nel momento medesimo che acquistava la sua capitale, Guglielmo della Scala era troppo infermo per poter sostenere il movimento del cavallo. Se dobbiamo dar fede a Gataro, storico che, malgrado la sua parzialità pei Carrara, inspira confidenza per tutte le minute circostanze che egli riferisce, Guglielmo della Scala era travagliato da dissenteria accompagnata da continua febbre, e fino dal 20 marzo, in cui giunse a Padova, era stato curato dai medici del principe, e la sua malattia aveva di già per alcuni giorni fatta ritardare l'esecuzione de' suoi progetti[71]. Redusio da Quero, autore contemporaneo, capitale nemico del signore di Padova, pretende invece che questi, allorchè Guglielmo entrò in Padova, gli avesse fatto dare un lento veleno[72]. Frattanto lo Scala venne riconosciuto per signore di Verona, e tutti i suoi concittadini si presentarono a rendergli omaggio. La fatica dell'inaugurazione faceva peggiorare il di lui male; e la gioja d'essere rientrato in patria e risalito sul trono de' suoi padri veniva funestata da' suoi crescenti dolori. Dopo quindici giorni di signoria Guglielmo morì il 21 d'aprile. Il popolo, e quasi tutti gli scrittori contemporanei accusarono Francesco da Carrara d'aver fatto avvelenare questo signore[73]. Vuolsi per altro osservare, che la frequenza di tali delitti li faceva agevolmente credere; e noi dobbiamo andare guardinghi nel macchiare la memoria d'un principe, che in tutta la sua condotta ci sembra nobile e generoso; altronde questo delitto era inutile, perchè Guglielmo della Scala lasciava due figli, Antonio e Brunoro, che Carrara investì immediatamente dell'eredità del loro padre[74].

Il 29 aprile Ugolotto Biancardo, assediato nella fortezza di Verona, fu forzato di cederla agli assalitori, e Francesco da Carrara vi pose guarnigione. Intanto Francesco Terzo, figliuolo primogenito del signore di Padova, assediava Vicenza con un'altra armata. Da lungo tempo i Vicentini ed i Padovani erano animati da vicendevole odio, onde i primi si ostinavano a difendersi. Dal canto suo la reggenza di Milano tutto poneva in opera per soccorrere il Biancardo, e mentre Facino Cane cercava di gettare rinforzi nella città assediata, gli ambasciatori della duchessa cercavano di persuadere la repubblica di Venezia a dichiararsi contro il Carrara.

I Veneziani eransi mostrati indifferenti sui progressi di Giovanni Galeazzo Visconti, e non avevano presa parte contro di lui quando questo principe minacciava di occupare tutta l'Italia. Ma il doge Michele Steno, e Francesco Foscari, capo della quarantia, fingevano adesso di essere inquieti per l'ingrandimento di Francesco Carrara, principe bellicoso, ambizioso, non meno accorto politico che grande capitano, il quale, sebbene si mostrasse affezionato alla signoria, pensava indubitatamente a vendicare i mali che quindici anni prima aveva questa procurati a lui ed al di lui padre[75]. La duchessa di Milano aveva mandati a Venezia come ambasciatori, il vescovo di Feltre, il generale Jacopo del Verme, cui Francesco da Carrara aveva confiscati i beni a Verona[76], ed Ugo Scrovegno, emigrato padovano, le di cui sostanze erano pure state poste sotto sequestro; il personale loro odio seppe risvegliare l'ambizione del doge e dei Veneziani. Offrirono da principio di cedere alla signoria Feltre e Belluno come prezzo della loro alleanza[77]; vi aggiunsero poco dopo Vicenza, e tutto quanto possedeva la casa Visconti oltre l'Adige[78]. Il doge che desiderava la guerra per illustrare colle conquiste il suo principato, adoperò qualche artificio per allontanare dal consiglio dei Pregadi tutti i favorevoli alla casa da Carrara, e non pertanto non vinse la parte che per un solo suffragio[79]. La guerra fu dunque decisa, e Giacomo Soriano, gentiluomo veneziano, venne spedito a Vicenza per prendere possesso di quella città, i di cui abitanti avevano direttamente implorata la protezione della signoria.

Il 25 aprile 1404 la bandiera di san Marco fu posta sulla gran torre di Vicenza, e spedito un trombetta a Francesco Terzo da Carrara per ordinargli di togliere l'assedio da una città che apparteneva alla repubblica. Il trombetta, avendo in qualche maniera provocata la collera del giovane signore, fu ucciso in sua presenza; e questa violazione del diritto delle genti venne ben tosto severamente punita su tutta la casa da Carrara[80].

Francesco da Carrara recossi nel campo del figliuolo con intenzione di dare il 1.º maggio un assalto alle mura di Vicenza; ma avendo ricevuta una lettera della signoria, che altamente lo minacciava se non levava l'assedio, il Carrara si contenne, sperando di evitare a tal prezzo la guerra colla repubblica; abbandonò i suoi progetti, e ricondusse le truppe a Padova[81].

Mentre le cose trovavansi in questo stato fu avvisato che Brunoro ed Antonio della Scala negoziavano dal canto loro con Venezia, per guadagnarsi contro di lui medesimo la protezione della signoria, e sottrarsi alla guerra, onde lo vedevano minacciato. Di già questi principi gli avevano date altre cagioni di malcontento, forse ingrandite dalla propria ambizione. Si credette autorizzato dalla loro ingratitudine a spogliarli di quanto egli medesimo loro aveva dato. Li fece arrestare il 17 maggio, e suo figliuolo, Giacomo da Carrara, partecipò al popolo veronese, adunato nella pubblica piazza, i motivi di tale determinazione[82]. Il 24 dello stesso mese Francesco da Carrara si fece proclamare signore di Verona[83].

Frattanto gli ambasciatori di Firenze e quelli della Chiesa cercavano d'accordo col marchese d'Este di ristabilire la pace[84], ma tanto erano eccessive le domande de' Veneziani che non potevasi aprire alcuna negoziazione. Questi avevano di già persuaso Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, ad invadere il territorio di Verona[85]. Jacopo del Verme aveva preso possesso in loro nome delle città di Feltre e di Belluno[86], ed il 18 giugno, ruppe a mano armata le dighe della Brenta presso all'Anguillara, onde inondare il territorio di Padova[87]. Per altro la guerra non ancora era stata formalmente dichiarata. Francesco da Carrara, avvisato di tali ostilità, adunò il consiglio del popolo, che aveva conservato o ristabilito a Padova, ad oggetto di assicurarsi l'affetto de' suoi sudditi. Gli manifestò le ingiurie che aveva ricevute dalla repubblica, dicendo come avesse sempre cercato di contenersi in faccia alla medesima come un figliuolo rispettoso, piuttosto che come un buon vicino; ma soggiunse che vedevasi ora costretto a prendere le armi per difendere i suoi legittimi diritti, e, dietro il parere del suo popolo, dichiarò la guerra ai Veneziani il 23 giugno del 1404[88].

Il senato veneto erasi fatto una regola di non adoprare che armi straniere e mercenarie. Non voleva affidare ad un cittadino un'autorità di cui poteva essere tentato di abusare; nè voleva pure dargli occasione d'acquistare troppa gloria, o permettere al popolo di accostumarsi alla milizia. I condottieri, che la repubblica prendeva al suo servigio, non ottenevano mai d'introdurre i loro soldati in Venezia, di modo che gli stessi loro tradimenti non potevano esporre la capitale ad alcun pericolo; e lo stato in allora più ricco dell'Europa poteva intraprendere senza verun timore una guerra, per sostenere la quale non esponeva che danaro.

Si raccolse adunque al soldo della repubblica, sotto il comando di Malatesta da Pesaro, un'armata di nove mila corazzieri. Militavano sotto il Malatesta Paolo Savelli, Taddeo del Verme, i Polenta da Ravenna, il conte dell'Aquila ed altri celebri capitani[89]. Francesco da Carrara, che non aveva tanta gente, compensò colla sua attività la disuguaglianza del numero; persuase Francesco di Gonzaga ad accettare una tregua, che doveva durare fino al 27 agosto, e ridusse suo genero, il marchese Niccolò d'Este, ad unirsi a lui contro i Veneziani. Niccolò riacquistò in pochi giorni il Polesine di Rovigo, antico dominio di sua famiglia, ch'egli aveva precedentemente ceduto alla repubblica per guarenzia di un debito[90]. Finalmente il Carrara, approfittando de' profondi canali che attraversano tutta la Venezia, fortificò i confini del suo territorio, con fosse e ridotti, e li difese come una fortezza. Col suo bravo generale, Filippo di Pisa, si appostò presso Pieve di Sacco, dietro le linee da lui formate, ed il 20 agosto rispinse valorosamente un attacco generale dei Veneziani su tutto il confine dello stato di Padova[91].

Spirava il 27 agosto la tregua conchiusa col Gonzaga, onde il Carrara fu forzato di dividere le sue forze per resistere ad un nuovo attacco. Una violenta burrasca disperse in tempo di sua assenza le truppe che custodivano le linee di Pieve di Sacco. Mentre le sentinelle medesime cercavano di sottrarsi alla dirotta pioggia che cadeva, alcuni soldati veneziani trovarono nella casa di un contadino, che stavano saccheggiando, un trave abbastanza lungo per fare un ponte che attraversasse il canale; lo gettarono senz'essere osservati; i più arditi passarono il canale, ed agevolarono agli altri il modo di rendere questo ponte più solido e più largo, di modo che quando furono scoperti trovavansi omai in sufficiente numero per conservare il posto; onde il 6 di settembre l'armata veneziana entrò tutta nel primo circondario fortificato del territorio di Padova[92].

Accorse ben tosto il Carrara per salvare le sue campagne dalla ruinosa invasione de' nemici; si ritirò dietro una seconda linea di canali che si affrettò di fortificare; indi, stendendo le sue truppe tra Oriago, Stra e Vico d'Aggere, coprì almeno tutto il paese che restava alle sue spalle. Frattanto a cagione di una contesa insorta tra il Malatesta e Paolo Savelli l'armata veneziana si divise fra questi due generali: il Carrara approfittò di questo avvenimento per battere separatamente l'ultimo, e per togliere all'esercito nemico un convoglio di vittovaglie che conduceva Taddeo del Verme[93].

Ma il signore di Padova, malgrado i suoi talenti ed il suo coraggio, non era abbastanza forte per lottar solo contro i Veneziani. Avevano questi richiamato da Candia il marchese Azzo d'Este, che alcuni anni prima aveva eccitata una guerra civile nello stato di Ferrara, e gli facevano rimontare il Po colla loro flotta per attaccare il marchese Niccolò[94]. D'altra banda Jacopo del Verme aveva condotti a Francesco Gonzaga potenti rinforzi, e tutti due assieme attaccavano il territorio di Verona, ove successivamente prendevano molti castelli. Gli abitanti di questo paese non erano in verun modo affezionati alla casa di Carrara, e non mostravano veruno zelo per difenderla. Finalmente i Veneziani avevano congedato il Malatesta, e riunita la loro terza armata sotto Paolo Savelli. Era quest'armata la più ragguardevole che si fosse veduta servire in Italia, e costava ogni mese cento venti mila ducati alla signoria, la quale, abbastanza ricca per nulla risparmiare di tutto quanto poteva tornar utile al buon successo, consumò due milioni di ducati nella sola guerra di Padova[95].

Paolo Savelli, non avendo potuto forzare il ricinto che difendeva i Padovani, in sul finire di novembre diede al suo esercito i quartieri d'inverno nello stato di Treviso. Il Carrara, che temeva di perdere l'amore del suo popolo, se lo affaticava con un troppo aspro servigio militare, si affrettò dal canto suo di rimandare gli abitanti di Padova alle loro case. Ma la ritirata del Savelli non era che uno stratagemma; erasi egli comperati dei traditori a Stra, i quali gli aprirono un passaggio a traverso alle linee così lungamente difese. Il 2 dicembre egli attraversò la Brenta, ed entrò nel cantone di Pieve di Sacco il più ricco ed il più fertile del territorio padovano. Francesco da Carrara, accorso per respingerli, fu ferito in una mano, le sue truppe dovettero ritirarsi, e tutte le campagne de' suoi stati vennero miseramente saccheggiate[96].

Il principio del 1405 non fu meno della fine del precedente anno funesto al Carrara. Il marchese di Ferrara, suo genero, ed il solo suo alleato, lo abbandonò. Minacciato dalle flotte veneziane, mancante di vittovaglie, e circondato da un popolo malcontento, egli soscrisse una separata pace, e cedette ai Veneziani il Polesine di Rovigo, e le fortezze che aveva innalzate lungo il Po[97].

Francesco da Carrara aveva chiesto inutilmente soccorso ai Fiorentini, in allora occupati nelle negoziazioni di Pisa. Egli non riceveva soccorso nè da loro nè da verun altro suo antico amico, molti de' suoi sudditi cominciavano a scoraggiarsi, altri a manifestare qualche malcontento, e pareva che Giacomo di Carrara, suo fratello naturale, avesse preso parte in una congiura contro di lui[98]. Francesco cercò in allora di porre in sicuro da ogni pericolo i suoi più giovani figli, e parte de' suoi beni. Il primogenito, Francesco Terzo, era in Padova il suo più fermo sostegno, ed il secondo, Giacomo, comandava per lui in Verona. Il Carrara non volle allontanare da sè questi due valorosi guerrieri, che dovevano avere con lui comuni l'estrema sua fortuna ed i pericoli delle battaglie; ma fece passare a Firenze i più giovani figli, Ubertino e Marsiglio, i suoi figli naturali, quelli de' suoi fratelli e di suo figlio. Colà mandò pure tutti i giojelli di maggior valore ed ottanta mila fiorini in danaro[99]. Avendo in tal modo provveduto alla sorte di questa parte della sua famiglia, aspettò con tranquillità e con inalterabile costanza l'aggressione d'un nemico, che aveva forze assai maggiori delle sue.

Il 25 maggio del 1405 Castelcaro fu contemporaneamente attaccato dalla flotta veneziana e dall'armata di terra. Dopo una vigorosa ma breve resistenza il Castello fu reso, onde, il territorio di Padova trovandosi aperto da ogni banda, Paolo Savelli condusse le sue truppe sotto la capitale, di cui intraprese l'assedio il 12 giugno[100].

Da un altro lato Jacopo del Verme e Francesco Gonzaga stringevano Verona. Que' cittadini non erano da verun affetto ereditario attaccati ai Carrara, e di mal animo soggiacevano ai sagrificj resi necessarj da una guerra cui essi non prendevano veruno interesse, e quando videro attaccate dal nemico le loro mura, risolsero di far cessare la resistenza di Giacomo da Carrara, ed occupata il 22 giugno la gran piazza, domandarono di trattare con Gabriello Emo, provveditore veneziano, che seguiva l'armata. Ottennero per altro un salvacondotto per Giacomo da Carrara, di cui rispettavano le virtù, un salvacondotto, affinchè potesse ritirarsi ove meglio credesse colla sua moglie e co' suoi effetti preziosi[101]. Venne accordata a Verona una vantaggiosa capitolazione, promettendo inoltre la signoria di conservarne ed accrescerne i privilegi. Il 23 giugno l'armata di Jacopo del Verme entrò in questa città e vi spiegò lo stendardo di san Marco[102]. Giacomo da Carrara, ritenuto alcun tempo prigioniero contro il tenore della convenzione, avendo tentato di fuggire, fu ripreso e mandato nelle prigioni di Venezia[103].

L'armata che aveva presa Verona venne poco dopo ad unirsi a quella che assediava Padova. Il primo luglio Paolo Savelli stabilì il suo campo a Bassanello, ove fu mandato Carlo Zeno, come provveditore, dalla repubblica. Il Gonzaga e Jacopo del Verme vi giunsero dopo pochi giorni. Francesco da Carrara aveva divisa con suo figlio, Francesco Terzo, la difesa della sua patria; egli vegliava la notte con una metà de' cittadini, e Terzo coll'altra metà la custodiva di giorno[104].

I contadini si erano ritirati in città coi loro bestiami e coi migliori effetti; ogni borghese ne aveva ricevuti molti nella sua casa, altri erano alloggiati nelle chiese e nei conventi, altri finalmente eransi ridotti a dormire sotto i portici delle strade. In breve l'unione di tanti uomini e di tanti animali, il cattivo nutrimento, le immondezze di cui riempivasi la città, produssero l'ordinario loro effetto: una terribile peste manifestossi in Padova coi medesimi sintomi che alla metà del precedente secolo avevano cagionato tanto spavento. Quasi tutti gli ammalati morivano il secondo o il terzo giorno. Alcuni carri attraversavano ogni mattina la città per raccogliere i morti; sul loro timone era stata posta una croce, sotto alla quale ardeva sempre una piccola lucerna, invece delle candele che in altri tempi accompagnavano tutti i feretri. Un solo prete seguiva il carro funebre, che portava ad un tratto dai quindici ai venti cadaveri; cadevano vittime del contagio quattro in cinquecento persone al giorno. In ogni cimitero eransi cavate vaste e profonde fosse, ove ponevansi i cadaveri a strati fino alla loro superficie. Dopo che un padre aveva deposto il figliuolo sul carro funebre, un figlio il genitore, uno sposo la consorte, era d'uopo che cogli occhi ancora bagnati di lagrime riprendesse sollecitamente le sue armi per rintuzzare gli attacchi de' suoi nemici[105].

I castelli del territorio di Padova non avendo più comunicazione colla capitale, nè sperando di essere soccorsi, si sottraevano gli uni dopo gli altri all'autorità del Carrara, per fare più sollecitamente ed a migliori condizioni la pace coi Veneziani. Este si arrese il 14 d'agosto, e Montagnana il 15. Il provveditore Zeno cercò di guadagnare con larghe offerte Luca di Lione, nobile padovano, che comandava a Monselice: questi ricusò con orrore le vergognose offerte; ma prese occasione da questa comunicazione per entrare in trattato a nome dello stesso Francesco da Carrara, e si recò espressamente a Padova per sapere a quali condizioni accetterebbe di capitolare. Francesco dichiarò, che consentirebbe di cedere la capitale e di rinunciare alla sovranità, purchè fosse posto in libertà Giacomo suo figlio; che la signoria gli pagasse cento cinquanta mila fiorini per indennizzazione; che ratificasse le donazioni da lui fatte in tempo del suo governo, e guarentisse i privilegj e le antiche consuetudini di Padova[106].

Mentre che Carlo Zeno era a Venezia per consultare la signoria intorno a queste condizioni, Francesco da Carrara approfittò dell'arrogante confidenza de' suoi nemici per batterli. Adunò le milizie della città, che trovavansi ridotte a quattro mila settecento individui, sebbene vi fossero incorporati i contadini rifugiati, quando nel precedente anno oltrepassavano i dodici mila. Alla testa di questa gente sorprese il 18 agosto il campo di Paolo Savelli, che la Brenta separava da quello di Galeazzo di Mantova: ne bruciò gli alloggiamenti, atterrò la bandiera di san Marco e quella del capitano, ed arrecò alla repubblica il danno d'oltre cento mila fiorini[107].

Di ritorno al campo Carlo Zeno comunicò le offerte della signoria al Carrara: questa rendeva la libertà a suo figlio, gli permetteva di condurre con lui trenta carri coperti, e gli dava sessanta mila fiorini. Carrara, di consentimento del suo consiglio, era disposto ad accettare queste condizioni, quando per sua sventura ricevette la stessa notte una lettera di Bartolommeo dell'Armi, governatore de' suoi figli a Firenze, la quale lo avvisava che i Fiorentini avevano comperata Pisa, e che, cessata l'inquietudine loro per questo lato, non indugierebbero a soccorrerlo. Alcuni priori di Firenze avevano avvalorata questa speranza coi loro discorsi, ed il signore di Padova, credendosi omai certo dei loro soccorsi, dichiarò che si difenderebbe fino all'ultima estremità[108].

La lunga resistenza dei castelli del territorio di Padova aveva divise le forze degli assedianti. Posti sopra isolate colline in mezzo a vaste campagne, avevano lungo tempo resa vana l'industria degl'ingegneri veneziani: ma Campo san Piero si arrese l'undici di settembre, e Monselice, ch'era stato provveduto di vittovaglie per sette anni, perdette nello stesso giorno per un fortuito incendio i suoi magazzini, e dovette capitolare tre giorni dopo Campo san Piero. Nel seguente ottobre vennero l'un dopo l'altro occupati dai Veneziani Stra, san Martino, Arlenga, Cittadella e Castel Baldo. La Brenta più non attraversava Padova avendola gl'ingegneri deviata per altro canale, onde i mulini della città non avevano più acqua. Paolo Savelli era morto di malattia, ma Galeazzo di Mantova, che gli era succeduto nel comando dell'armata veneziana, stringeva vigorosamente l'assedio[109].

Il 2 di novembre i Veneziani, che avevano nel loro campo otto mila cavalli e più di sedici mila pedoni, diedero un generale assalto alla città che attaccarono su quattro punti diversi; ma furono dovunque gagliardamente respinti. Il loro capitano, Galeazzo di Mantova, venne rovesciato dal muro con un colpo di lancia da Francesco da Carrara; fu pure ferito il provveditore veneziano Francesco Bembo; e la battaglia che aveva durato dalle due ore avanti giorno fino alla notte, finì senza che gli assedianti avessero ottenuto verun vantaggio[110].

Per riempire la città di terrore gli assedianti attaccarono alle loro frecce viglietti, coi quali minacciavano per parte della signoria di mettere Padova a ferro ed a fuoco trattandola come Zara e Candia, se gli assediati non si arrendevano prima che passassero dieci giorni[111]. Francesco Terzo medesimo eccitava suo padre ad arrendersi, ed a preservare la patria dagli orrori ond'era minacciata; ma il Carrara ricordavasi del passato esilio, non voleva nuovamente gustare l'amarezza del pane straniero, e sforzavasi di rianimare il coraggio de' suoi concittadini colla speranza di vicino soccorso. Assicurava di averne avuta la promessa dal re di Francia, dal re d'Ungheria, da suo fratello il conte di Carrara che serviva con mille lance sotto gli ordini di Ladislao re di Napoli, e che scordava le loro private nimistà per salvare la sua patria[112]. Per altro egli medesimo non faceva fondamento sulle speranze che cercava d'ispirare agli altri, e solo credeva di poter lusingarsi di qualche ajuto per parte dei Fiorentini; ma questi, impegnati trovandosi in una pericolosa guerra per la conquista di Pisa, non volevano dividere le loro forze, nè tirarsi addosso la potente inimicizia de' Veneziani[113].

Finalmente le guardie delle porte di santa Croce lasciaronsi sedurre da un Vicentino detto Giovanni di Beltramino, e lo fecero entrare la notte del 17 novembre con cinquanta fanti. Egli cominciò ad uccidere i traditori che gli avevano aperta la città, indi fece avanzare le truppe veneziane[114]. Francesco da Carrara si portò quasi subito contro ai nemici, e dopo inutili sforzi per ricuperare la porta, cercò almeno di trattenere tanto tempo i nemici, finchè gli abitanti del sobborgo si ritirassero coi loro più preziosi effetti nel ricinto interno, perciocchè la città ne aveva ancora due, ossia ogni quartiere di Padova era circondato di mura, e poteva separatamente difendersi. Ma sebbene da pertutto si suonasse campana a martello e che gli amici del principe chiamassero i cittadini a difendere con lui il loro onore ed i loro beni, la maggior parte invece di prendere le armi non pensava più che a nascondere i più cari effetti, onde salvarli dall'imminente sacco. Francesco da Carrara, quasi abbandonato, domandò un armistizio ed un salvacondotto per recarsi al campo veneziano. Vi fu accompagnato da Paolo Crivelli e da Michele di Rabatta, gentiluomo del Friuli, la di cui fedeltà non erasi giammai smentita. Dichiarò ai provveditori veneziani ed a Galeazzo di Mantova, che recavasi presso di loro per rendere la città ad onorevoli condizioni; e che quando non potesse ottenerle, era risoluto di difendere fino alle ultime estremità i due ricinti di mura che ancora gli restavano[115].

Risposero i provveditori di non avere sufficienti poteri per trattare col Carrara; ma lo invitarono a dare la città nelle loro mani, ed a passare in seguito a Venezia per trattare direttamente colla signoria. Credette il Carrara di dover preferire alla loro parola quella di un rispettato militare. «Capitano, disse egli a Galeazzo di Mantova rivolgendosi a lui, a voi io affido senza timore la mia città e le mie fortezze. Promettetemi soltanto sull'onor vostro, che se io non anderò d'accordo colla signoria voi me le ritornerete nello stato in cui vi saranno consegnate.» Dopo averne avuta la parola, Francesco tornò in Padova per fare dal consiglio della comunità eleggere otto deputati, ed eleggerne due egli medesimo, onde trattare a Venezia intorno alle condizioni della resa della piazza[116].

Il doge e la signoria ricusarono di ascoltare gli ambasciatori del signore di Padova, ma ricevettero cortesemente quelli della città, e loro promisero di conservare a Padova tutti i suoi privilegj, purchè i cittadini si arrendessero essi medesimi senz'aspettare che i Carrara trattassero per loro. Fu all'istante convenuto che due degli ambasciatori tornerebbero a Padova, e che persuaderebbero il popolo ed i consigli a riporsi in possesso della sovranità. Per facilitare questa rivoluzione Galeazzo di Mantova invitò Francesco da Carrara e suo figlio ad una conferenza nel suo campo. Li trattò in seguito a cena, ed all'indomani li mandò parte volontariamente e parte per forza, prima ad Oriago ed in seguito a Mestre.

Durante questo tempo, i due ambasciatori tornati a Padova, vi avevano spiegato l'antico stendardo della comunità, la croce rossa in campo d'argento. Una ventina di sediziosi tentarono di eccitare un tumulto colle grida di viva san Marco! viva il popolo! morte ai Carrara! Ma i cittadini non vi presero parte, e non cercarono nè di rovesciare, nè di difendere la di già distrutta autorità dei loro signori. Un podestà, nominato dai sediziosi, aprì nel medesimo giorno, 19 novembre 1405, le porte di Padova a Galeazzo ed ai provveditori, che presero possesso della città a nome della repubblica di Venezia[117].

Quando il Carrara seppe che la sua capitale era stata ceduta ai Veneziani invitò Galeazzo di Mantova a mantenergli la data fede. In particolare Francesco Terzo insisteva per rientrare in possesso del castello, determinato com'egli era di difenderlo fino all'ultima estremità, ed a seppellirsi sotto le sue ruine. Invano attestava il generale, che la signoria tratterebbe i due principi generosamente, poichè ciò era smentito dal rifiuto di ricevere i loro ambasciatori. Frattanto Francesco da Carrara non tardò a conoscere che l'entusiasmo de' suoi compagni d'armi era spento, e che più non troverebbe chi volesse con lui consacrarsi a sicura morte. Conobbe pure che Galeazzo non vorrebbe o non potrebbe mantenere la data fede, e che insistendo sull'esecuzione d'una ineseguibile condizione si farebbe d'un protettore un nemico. Acconsentì adunque d'imbarcarsi con suo figlio per rendersi a Venezia scortato da Galeazzo e da Francesco di Molino. Al loro arrivo nel quartiere di san Giorgio furono accolti dalle terribili grida del popolo a morte i Carrara! all'indomani, 30 novembre, Galeazzo lasciò i suoi prigionieri per andare ad interporre a loro favore i suoi buoni ufficj; ma quando vide l'animosità della signoria, più non osò di rivederli. Egli risentì e manifestò fors'anche in un modo troppo veemente la sua profonda indignazione pel colpevole abuso che si faceva della sua parola: il senato non sapeva soffrire i rimproveri de' suoi militari, e Galeazzo morì dopo poche settimane[118].

All'indomani i due principi di Carrara furono introdotti avanti alla signoria; essi gittaronsi alle ginocchia del doge Michele Steno, che li rialzò e li fece sedere uno alla sua destra e l'altro a sinistra. Il doge ricordò loro che la repubblica gli aveva ajutati a ricuperare Padova da Giovan Galeazzo, e rimproverò loro la propria ingratitudine, ma senza amarezza. I Carrara non risposero a questi rimproveri che chiedendo grazia e misericordia[119]. Furono non pertanto mandati in prigione, ove trovarono Giacomo da Carrara il secondo figlio di Francesco, il quale dopo essere stato arrestato a Verona cinque mesi prima, nulla aveva potuto sapere intorno alla sorte della sua famiglia, e che non aspettavasi di vederla riunita in così funesto soggiorno. L'istante in cui gli sventurati principi si riconobbero, cavò le lagrime agli stessi carcerieri.

La signoria non si affrettò di decidere la sorte dei principi da Carrara. Il consiglio dei pregadi aveva nominato il 24 dicembre cinque commissari per formare il loro processo e per rilegarli nel luogo che troverebbero più conveniente. Ma Jacopo del Verme, che trovavasi in allora al servigio dei Visconti, e che odiava mortalmente i Carrara, recossi espressamente a Venezia per isvegliare contro di loro la diffidenza del consiglio dei dieci. «I Carrara, egli disse, furono un'altra volta spogliati dei loro stati, e furono un'altra volta prigionieri presso i loro vincitori; ma si rialzarono da questo abbassamento per diventare più che mai formidabili ai loro vicini. La loro attività, i loro talenti, e più di tutto l'odio implacabile onde erano animati loro procacciarono alleati, armi e soldati. I loro antichi sudditi si ribellarono nel 1390 per riporli sul trono. È facile lo scorgere che quest'amore de' Padovani pei loro principi vive ancora, allorchè si considerano tutti i patimenti che soffrirono senza lagnarsene nell'ultima guerra. L'odio ereditario del Carrara contro Venezia è d'assai anteriore alla guerra di Chiozza; trent'anni di nimistà e di vicendevoli ingiurie lo cimentarono in modo da farne la loro dominante passione. Per tenere in dovere uomini animati da un così fatto odio, da un tale desiderio di vendetta, non havvi altra sicura prigione che quella del sepolcro.»

Il consiglio dei dieci chiamò il processo al suo tribunale e decretò la morte dei Carrara. Il 16 gennajo del 1406 il confessore del signore di Padova andò ad annunciargli in prigione la sua sentenza ed a disporlo alla morte. Francesco, dopo avere dato un primo sfogo al suo sdegno, gittossi a' piedi del monaco per confessare divotamente i suoi falli, e ricevere da lui la comunione. Si fu appena ritirato il confessore, che due capi del consiglio dei dieci e due capi della quarantia entrarono nella prigione con venti carnefici. Francesco da Carrara, che non voleva riconoscere l'autorità del tribunale che lo condannava, nè lasciarsi scannare come una vittima, preso il suo sgabello di legno, il solo mobile che si trovasse in quella prigione, s'avventò contro i suoi uccisori. Oppresso da tanta gente si difese alcun tempo valorosamente, ma all'ultimo rovesciato al suolo, e tenuto per le mani e pei piedi venne strozzato da Bernardo Priuli colla corda d'una balestra[120]. All'indomani fu sepolto onorevolmente nella chiesa di santo Stefano degli Eremitani. Francesco Novello (dice il Gataro, suo storico e suo amico) era di mediocre grandezza e di belle proporzioni, sebbene alquanto grosso. Bruno era il suo volto e piuttosto severo, elegante il suo discorso, il suo carattere dolce e misericordioso, vaste le sue cognizioni, ed eroico il suo coraggio[121]

Il giorno seguente lo stesso confessore andò a portare ai figliuoli Carrara l'ordine di prepararsi alla morte. Teneramente si abbracciarono, e ricevettero assieme la comunione; indi Francesco Terzo fu condotto il primo al luogo ov'era stato strozzato suo padre, e vi perì nella stessa maniera per mano di Bernardo Priuli; vi fu poi condotto Giacomo, il quale dopo avere raccomandato a Dio l'anima di suo padre, del fratello e la propria, scrisse a sua moglie Belfiore da Camerino per consolarla nella sua disgrazia, e tese la testa al laccio.

Francesco, che al battesimo aveva ricevuto il nome di Terzo perchè era destinato ad essere di quel nome il terzo signore di Padova, aveva quando morì trentun'anni. Era grande della persona, ma portava la testa bassa; era bruno ed alquanto losco dell'occhio destro. Era, secondo Gataro, un valoroso e saggio cavaliere, ma inclinato alla crudeltà, alla collera, alla vendetta. Suo fratello Giacomo contava ventisei anni; aveva un'elegante figura, una dolce fisonomia, un cuore dolce e compassionevole, e il suo discorso gli acquistava gli animi. A queste qualità, che lo rendevano a tutti caro, aggiugneva l'ereditario valore della sua famiglia[122].

Restavano tuttavia in Firenze due legittimi figli di Francesco da Carrara. La signoria di Venezia fece pubblicare a suono di tromba che accorderebbe un premio di quattro mila fiorini a colui che le darebbe in mano vivi l'uno o l'altro di questi principi, e tre mila a colui che gli ucciderebbe. Questo premio promesso al delitto non sedusse verun assassino. Ma i figli legittimi della casa di Carrara perirono senza prole. Ubertino il primogenito morì a Firenze di naturale malattia, il 7 dicembre del 1407, in età di diciott'anni[123]. Suo fratello Marsiglio dopo avere molti anni servito Filippo Maria duca di Milano, il 6 marzo del 1435 fece un tentativo per rientrare in Padova e ricuperare la sovranità de' suoi maggiori. Ma la trama formata dai suoi partigiani venne scoperta, e mentre Marsiglio fuggiva con piccolo seguito, fu fermato e condotto a Venezia, ove il consiglio dei dieci lo fece decapitare il 24 marzo del 1435[124].

Se l'antico odio tra la casa dei Carrara e la repubblica di Venezia scema l'orrore che devono ispirare questi giuridici assassinj; veruno somigliante motivo poteva scusare la crudeltà del senato verso gli eredi della casa della Scala. Antonio, loro avo, aveva perduti i suoi stati per essere entrato, come alleato della repubblica, in una sgraziata guerra. Guglielmo visse sotto la protezione dei Veneziani, e la di lui morte, attribuita al Carrara, era stato il pretesto dell'ultima guerra. Per ultimo i figli di Guglielmo, Antonio e Brunoro, avevano perduta la protezione del signore di Padova, ed erano in oltre stati da lui posti in prigione a motivo delle loro negoziazioni colla repubblica. Trovavansi allora nel territorio di Trento; imperciocchè Francesco da Carrara aveva loro data la libertà, prima di perdere i suoi stati. Fecero chiedere di essere rimessi in possesso di Verona, e la signoria invece di rispondere pose una taglia sulle loro teste. Allora i due fratelli si separarono, e Brunoro passò ai servigi dell'imperatore, e vi si tenne molti anni[125].

Tutte le province possedute dalle famiglie delle Scala, e da Carrara, e tutta la Marca Trivigiana erano ridotte all'ubbidienza della repubblica di Venezia. Lo stendardo di san Marco volteggiava a Treviso, a Feltre, a Belluno, a Verona, a Vicenza ed a Padova. Il senato mandò in tutte questa città due senatori, che presedessero al loro governo, l'uno come podestà, l'altro come capitano del popolo.

La repubblica superava in potenza tutti i più vasti stati d'Italia, se per altro la potenza può acquistarsi coi delitti, e se, ancora agli occhi della politica mondana, l'odio e la diffidenza che eccita la perfidia, non compensano tutto il vantaggio degli acquisti ch'ella procura. Poichè Venezia ebbe acquistati degli stati in terra ferma, andò trascurando le province d'oltre mare, il commercio, la marina, vere basi della sua potenza, per avvilupparsi nella politica del continente; ella prese parte in tutte le guerre ed in tutte le rivoluzioni, ed eccitò contro di sè quella gelosia, quel profondo universale odio che, dopo un intero secolo di politici maneggi e di guerre, scoppiò finalmente colla lega di Cambray[126].

CAPITOLO LX.

I Fiorentini conquistano Pisa. — Seguito dello scisma, che viene mantenuto da Ladislao re di Napoli. — Concilio di Pisa. — Deposizione di Gregorio XII e di Benedetto XIII. — Elezione di Alessandro V.

1405 = 1409. Quando Francesco da Carrara ricevette nelle prigioni di Venezia l'ordine di apparecchiarsi alla morte, rifletteva con amarezza all'abbandono in cui lo avevano lasciato i suoi amici, ed alla ingratitudine di coloro ch'egli aveva colmati di beneficj. Alcuno de' suoi alleati non aveva fatto un passo per salvarlo: eppure in quell'epoca medesima i Guelfi trionfavano in tutte le parti dell'Italia, i quali, associati alla sua fortuna per una alleanza ereditaria, sembravano chiamati dalla loro affezione, dalla politica stessa a difenderlo, se apprezzavano una volta i loro doveri, ed i veri loro interessi.

Tre nuovi signori guelfi erano sorti in Lombardia coll'assistenza di Francesco da Carrara sopra le ruine della casa Visconti. Ugolino Cavalcabò era sovrano di Cremona, Giorgio Benzoni di Crema, e Giovanni da Vignate di Lodi. Veruno di costoro prese parte alla guerra di Padova. Vero è che Cavalcabò aveva già ceduto il suo luogo ad un altro usurpatore. Egli aveva di già sagrificati alla sua gelosia molti rispettati cittadini, quando fu sorpreso a Manerbio il 14 dicembre del 1404, e fatto prigioniere da Astorre Visconti dopo la perdita di una battaglia. Il suo favorito, Gabrino Fondolo, soldato di fortuna, da lui fatto suo generale e suo primo ministro, continuò la guerra per liberarlo o per vendicarlo, e rimase padrone della fortezza di Cremona, e de' principali castelli, mentre che un altro Cavalcabò, chiamato Carlo, fu dichiarato signore della città. Ma intanto Ugolino approfittò delle turbolenze di Milano, e fuggì di prigione l'anno 1406. Stava per iscoppiare in Cremona una guerra civile tra i due Cavalcabò, che ugualmente volevano essere soli signori della loro patria, quando Gabrino Fondolo più potente che i due Cavalcabò si offrì come mediatore. Gl'invitò ad adunarsi nella sua fortezza con tutti i membri della famiglia Cavalcabò, ove il 26 luglio 1406 aveva loro imbandito un lauto pranzo, dopo il quale doveva regolarsi tra i convitati la divisione della sovranità. Ma quando Fondolo vide tra le mani de' suoi satelliti tutti i capi di parte, tutti i grandi, tutti coloro che potevano opporsi ai suoi disegni, terminato il banchetto, diede il segno d'una orribile carnificina: le sue guardie precipitaronsi sui convitati, ed uccisero Ugolino e Carlo Cavalcabò con settanta de' principali cittadini di Cremona, quasi tutti della casa Cavalcabò. Gabrino Fondolo, dopo quest'orribile uccisione, venne riconosciuto signore di Cremona, e si collocò senza trovare opposizione tra i principi d'Italia[127].

Pandolfo Malatesti, uno dei generali di Giovanni Galeazzo, fondò circa lo stesso tempo un quarto principato guelfo in Lombardia. La sua famiglia regnava da lungo tempo in Rimini col favore del partito della Chiesa; ma Pandolfo pareva indifferente tra le fazioni, che oramai non avevano più scopo, e consultava nella sua condotta la propria ambizione, e non lo spirito di partito. Abbiamo di già osservato, che mandato a Como dalla duchessa di Milano per ritornare la pace a questa città, l'aveva abbandonata al saccheggio. Como era l'emporio del commercio tra l'Italia e la Svizzera[128], e questo assassinio, che precipitò la caduta della duchessa di Milano, a nome della quale erasi eseguito, rese Pandolfo più caro ai soldati. Quando fuggì da Monza mezzo vestito e con un solo piede calzato, venne assai ben accolto dalle guarnigioni di Trezzo e di Brescia, e fu proclamato signore di quest'ultima città, tostocchè si ebbe avviso della morte della duchessa.

Vero è che il signore di Padova non poteva lusingarsi che uomini di tale carattere gli rimanessero fedeli nella sventura, perciocchè non erano diretti da altro principio che dall'ambizione, e dovevano il loro innalzamento soltanto ai delitti; ma egli aveva riposte le sue speranze nella costante amicizia della repubblica fiorentina, che già da quindici anni era associata alla di lui fortuna ed alle sue battaglie, ed attaccata alla sua famiglia da un'alleanza ereditaria. Nè il Carrara sarebbe rimasto deluso se non fossero stati strascinati i Fiorentini dalla più violenta tentazione che potesse agire sopra di loro, e non avessero impiegate tutte le forze nell'importante acquisto di Pisa.

Abbiamo osservato che Gabriele Visconti, signore di Pisa, erasi procurata la protezione di Giovanni le Meingre, detto Boucicault, maresciallo di Francia, che comandava in Genova a nome di Carlo VI; e che col mezzo suo aveva dai Fiorentini ottenuta una tregua di quattro anni. Boucicault col suo coraggio e colla sua severità aveva ristabilito l'ordine in Genova, aveva obbligati i Genovesi a deporre le armi, e fatto dichiarare il suo governo irrevocabile dietro inchiesta dei medesimi Genovesi[129]. Ma di già un generale malcontento cominciava a manifestarsi contro di lui in quella città, a motivo che le accuse di lesa maestà ch'egli aveva fomentate, portavano la desolazione nelle famiglie, e che le gabelle oppressive ruinavano il popolo; onde Boucicault, temendo un ammutinamento[130], volle acquistarsi al di fuori più potenti amici che non era il signore di Pisa. Persuase perciò il Visconti a vendere la sua signoria per dividere con lui il prezzo che ne otterrebbe, ed in giugno del 1405 diede commissione ad un fiorentino, che allora trovavasi in Genova, di proporre segretamente alla sua repubblica questo acquisto[131].

Per prezzo della vendita di Pisa, Boucicault domandò prima quattrocento mila fiorini, promettendo di erogare per altro parte di questa somma nel soccorrere Francesco da Carrara, amico dei Fiorentini e suo. La negoziazione cominciata a Genova si continuò a Vico Pisano, ov'erasi recato Gabriele Visconti. Sentiva questi che la sua autorità in Pisa stava per isfuggirgli di mano, ma d'altra parte egli temeva che Boucicault si appropriasse tutto il danaro che ricaverebbe dalla vendita de' suoi stati.

Mentre egli stava ancora deliberando, i Pisani ebbero sentore delle cominciate negoziazioni, e per non essere venduti ai Fiorentini, loro eterni rivali, presero le armi il 21 luglio del 1405, attaccarono le truppe del Visconti ovunque le incontrarono, e costrinsero questo signore a ripararsi nella sua fortezza con duecento corazzieri, ed alcuni arcieri che teneva al suo soldo[132].

Nel tempo che questa rivoluzione faceva più vivamente sentire al signore di Pisa il bisogno di fedele consiglio, perdette la madre, che fino a tale epoca aveva con lui divise le cure del governo. Mentre essa attraversava un angusto ponte per visitare le mura della fortezza, atterrita dal subito scoppio d'un pezzo d'artiglieria si lasciò cadere e morì. Il Visconti pochi giorni dopo strinse il mercato coi Fiorentini, cedendo loro la cittadella di Pisa ed i castelli di Librafratta e di santa Maria in Castello pel prezzo di dugentosei mila fiorini, pagabili in diverse epoche[133].

Ma non solamente Gabriele Maria Visconti fu costretto di dividere col Boucicault il prezzo della sua eredità, ma fu in appresso spogliato dal maresciallo della parte che gli era rimasta, e perì in Genova in settembre del 1408, condannato a perdere la testa per una calunniosa accusa di tradimento.

La cittadella di Pisa fu consegnata al Fiorentini il 31 agosto del 1405, e Lorenzo Raffacani ne prese il comando. Ma sebbene i Pisani stringessero vigorosamente l'assedio di questa fortezza, e che avessero stabiliti alcuni pezzi d'artiglieria dalla parte della città per batterla in breccia, Raffacani non volle prendere seco che alcune compagnie di milizia e congedò i corazzieri del Visconti che vi trovò di guardia. La cittadella era legata alle mura della città da una torre detta di sant'Agnese, contro la quale erano tutte dirette le bombarde dei Pisani. Impiegavansi a que' tempi parecchie ore nel caricarle; e nel momento in cui le milizie le vedevano disposte a tirare, uscivano tutte dal suo ricinto, aspettando in luogo più sicuro l'effetto dell'esplosione. Avendo i Pisani notata questa pratica, apparecchiarono tutto quanto abbisognava per una scalata, e tosto che i Fiorentini, per timore d'una scarica, abbandonarono la torre, essi montarono all'assalto, e se ne impadronirono senza trovare resistenza. La fortezza fu presa il 6 di settembre due ore prima di notte con tutti coloro che vi stavano di guardia, e fu subito dal popolo spianata fino ai fondamenti[134].

Non erasi appena saputo a Firenze che la fortezza di Pisa era perduta, quando si videro giugnere cinque ambasciatori pisani incaricati di domandare la pace. Essi rappresentarono l'occupazione della loro cittadella come una violazione della tregua conchiusa nel precedente anno. Il cielo, soggiugnevano, si era di già dichiarato in loro favore, e loro aveva resa in una maniera quasi miracolosa questa parte della loro città; ma essi non volevano abusare dell'accaduto, e mediante la restituzione di Librafratta e di santa Maria erano pronti a rendere ai Fiorentini tutto quanto avevano pagato a Boucicault e a Gabriele Visconti[135].

Ma i Fiorentini erano troppo alieni dal voler rinunciare ad un'intrapresa cui credevano attaccato il loro onore. Malgrado i consigli di alcuni più moderati cittadini[136] rifiutarono le offerte dei Pisani; ordinarono a Jacopo Salviati, loro capitano, di cominciare subito le ostilità[137], e fecero venire il conte Bertoldo Orsini, cui affidarono il 5 ottobre il bastone del comando[138].

I Pisani per resistere a quest'attacco, cercarono avanti ogni altra cosa di riconciliare in città le contrarie fazioni. I Raspanti erano stati posti in possesso dell'autorità da Giacomo d'Appiano, e v'erano stati conservati dal Visconti, i Bergolini trovavansi esclusi dal governo e la famiglia Gambacorti era esiliata. Il partito perseguitato fu di nuovo ammesso a dividere i diritti della sovranità; l'obblio delle passate ingiurie ed una riconciliazione senza riserva vennero giurate sugli altari; i capi delle due fazioni fecero colare il proprio sangue nella coppa consecrata prima di bevere in comune, e numerosi matrimoni suggellarono la pace tra le due parti. Ma Giovanni Gambacorti, nipote di Pietro e capo della sua famiglia, seco non portava dal suo esilio che il desiderio di regnare nella sua patria; onde a forza d'intrighi si fece proclamare capitano del popolo, come lo era stato suo zio, ed approfittò dell'ottenuta autorità per opprimere i suoi antichi nemici, per ispogliarli, e spesso ancora per farli perire[139].

I Pisani si erano lusingati che il Gambacorti, in forza della sua ereditaria alleanza coi Fiorentini, potrebbe riconciliarli con questi formidabili nemici, ed in fatti il nuovo capitano non fu appena installato che mandò a chiedere pace; ma i Fiorentini ricusarono di trattare, pretendendo di avere comperata Pisa dal suo legittimo signore, e dichiarando che vedevano ne' suoi abitanti non un popolo indipendente, ma sudditi ribelli[140].

I Fiorentini non credevano quasi possibile cosa l'aprire una breccia nelle mura di Pisa, di modo che proposero di ridurre la città colla fame, mentre la loro armata attaccherebbe successivamente i diversi castelli del territorio. I Pisani dal canto loro sforzavansi di provvedersi di vittovaglie, al quale oggetto spedirono alcune galere a cercare frumento in Sicilia; una di queste, sorpresa nel suo ritorno dai vascelli che i Fiorentini avevano fatti armare a Genova, rifugiossi sotto la torre di Vado. Un fiorentino, detto Pietro Marenghi, profugo dalla patria perchè colpito da sentenza capitale, colse questa circostanza per rendere a' suoi concittadini un segnalato servigio. Egli lanciossi dalla riva con una fiaccola in mano, avvicinandosi a nuoto alle galere, malgrado le saette che lanciavansi contro di lui. Sebbene ferito in tre luoghi continuò molto tempo a sostenersi sotto la prora finchè vide il fuoco appiccato in modo alla galera nemica da non potersi più spegnere. Ella bruciò in faccia alla torre di Vado; mentre Pietro Marenghi riguadagnava la costa. Egli fu perciò richiamato con onore in patria[141].

I Pisani cercavano di avere al loro soldo qualche condottiere che potesse formare per loro un'armata. I loro deputati avevano trattato con Agnello della Pergola, che con sei cento cavalli trovavasi allora negli stati della Chiesa. Questo capitano si mosse per venire a Pisa attraversando lo stato di Siena. Ma i dieci della guerra di Firenze, avuto avviso della sua marcia, lo fecero attaccare, nell'istante ch'egli meno se lo credeva, dal nipote del papa, che avevano preso di fresco al loro soldo, e distrussero o dissiparono la piccola armata di Agnello[142].

Gaspare dei Pazzi, altro capitano che conduceva ai Pisani sei cento cavalli dai contorni di Perugia, venne disfatto il 24 settembre da Sforza da Cotignola al passo della Cornia; ed i suoi soldati, inseguiti fino a Massa di Maremma, non si sottrassero alla prigionia che abbandonando i loro cavalli e le armi, e promettendo di non servir più contro i Fiorentini[143].

Invano i Pisani offrirono la loro signoria a Ladislao l'ambizioso re di Napoli, il quale non sentivasi ancora abbastanza sicuro ne' proprj stati per estendere sulla Toscana i suoi progetti di conquista. Egli ottenne dai Fiorentini l'assicurazione che non si opporrebbero alla sua spedizione di Roma, e viceversa promise di non agire contro di loro avanti a Pisa[144]. Otto Bon Terzo, che alla testa del partito ghibellino erasi fatto signore di Parma e di Reggio e che adunava un'armata in queste due città, accettò dai Fiorentini una grossa somma, per la quale promise di non dare soccorso ai Pisani[145].

In principio del 1406 l'armata fiorentina occupò la val d'Era, la Maremma, la contea di Monte Scudajo, e quasi tutti i castelli che avevano in sul principio abbracciato il partito di Pisa[146]. In appresso quest'armata si divise; un corpo formò l'assedio di Vico Pisano, ragguardevole castello posto dieci miglia sopra Pisa, alla destra dell'Arno, mentre l'altro corpo s'avvicinò a questa città per istringerne il blocco. Occuparono la foce dell'Arno sette galere ed una galeotta, che i Fiorentini avevano fatte armare a Genova; s'alzarono due ridotti presso san Pietro in Grado sulle due rive del fiume, e fu fatto tra i medesimi un ponte fortificato, privandosi in tal modo Pisa di ogni comunicazione col mare[147]: onde i vascelli che i Pisani avevano mandati in Sicilia a cercare vittovaglie furono presi dai Fiorentini il 22 di maggio, quando tornarono ne' mari della Toscana[148].

Pareva che la fortuna congiurasse contro i Pisani, e gli stessi avvenimenti da loro più desiderati tornavano tutti a loro svantaggio. L'Arno, ingrossato il giorno dell'Ascensione da violenti piogge, ruppe il ponte che univa i due ridotti; gli assediati non furono lenti ad approfittarne per attaccare il più debole. Ma Sforza e Tartaglia, i due generali dei Fiorentini, che trovavansi sull'opposta riva, spinsero i loro cavalli nel fiume, e con estremo pericolo guadagnarono l'opposta sponda, onde i Pisani fuggirono atterriti quasi senza combattere[149].

Questi due capitani erano de' più riputati che allora contasse l'Italia. Fino a tal punto la loro rivalità aveva giovato all'impresa; ma una crescente gelosia, una oramai scoperta animosità, cominciavano a turbare le operazioni dell'armata ed a rianimare le speranze dei Pisani. Gino Capponi, uno dei dieci della guerra, si recò da Firenze al campo per riconciliarli, e vi riuscì; ma credendo pericolosa la loro vicinanza, prepose un di loro al corpo d'armata che cingeva la parte superiore di Pisa, l'altro a quella che stava al di sotto, e la città trovossi per questo divisamento bloccata più strettamente che mai[150].

L'ardore del sole in quelle campagne insalubri, la cattiva aria e le malattie delle armate parvero finalmente venire in soccorso degli assediati. I soldati erano assaliti da nojosi insetti, febbri pestilenziali si manifestavano nel campo, e cominciavano a spargervi lo scoraggiamento. I dieci della guerra ne conobbero appena i primi sintomi, che mutarono gli accantonamenti de' soldati; posero gli uni ne' castelli perchè si ristorassero dalle sostenute fatiche, e tennero gli altri in un continuo movimento, persuasi che l'ozio, in cui languisce il soldato, sia la prima causa delle sue malattie[151].

D'altra parte la fatica, la miseria, la fame, esponevano i Pisani alle stesse malattie, senza che questi avessero mezzo di ripararvi. Avevano voluto liberarsi delle bocche inutili, ma i Fiorentini le facevano rientrare in città[152]. Improvvisamente a mezzo luglio i Pisani spiegarono lo stendardo del duca di Borgogna, e spedirono araldi d'armi ad avvisare i Fiorentini che si erano dati a questo potente signore, ed erano stati ricevuti sotto la di lui protezione. Ma perchè il duca non aveva armata per liberarli, i Fiorentini continuarono l'assedio e spedirono un'ambasciata a questo principe[153].

Giovanni Gambacorti aveva diretta la difesa dei Pisani con una quasi assoluta autorità, ma quando vide il popolo in preda agli orrori della fame, disperando di potersi più lungamente difendere, prese a trattare segretamente coi Fiorentini. Le condizioni ch'egli domandava, e che studiosamente nascondeva ai suoi compatriotti, riferivansi tutte al suo particolare vantaggio. Voleva il diritto di cittadinanza a Firenze colla proprietà di tre case, il vicariato di Bagno, molti castelli nelle sue vicinanze, ed un'indennità di cinquanta mila fiorini[154]. Queste condizioni vennero accettate, ed il Gambacorti aprì la porta di san Marco all'armata fiorentina nella notte dell'8 al 9 ottobre 1406, e nella stessa notte le truppe occuparono pure il quartiere del Borgo. All'indomani avanzaronsi in città, precedute da carri pieni di pane e di altri viveri, che i soldati medesimi distribuivano al popolo[155]. Tutte le provigioni erano consunte, e più non trovaronsi in città nè grani, nè farine, ma soltanto alcuni magazzini pieni di zuccaro e di cassia, e tre vacche magre. Gli abitanti si erano nutriti di erbe, che coglievano nelle strade e lungo le mura; sarebbe loro stato impossibile di sostenersi ancora molti giorni; ma non pertanto non pensavano ad arrendersi. Intesero con indignazione il vergognoso mercato con cui il Gambacorti gli aveva venduti, ed il loro ultimo sentimento, perdendo l'antica loro indipendenza, fu il desiderio della vendetta e l'odio contro il tiranno che li tradiva[156].

Gino Capponi, commissario de' Fiorentini presso l'armata ed uno dei dieci della guerra, fu nominato governatore di Pisa col titolo di capitano del popolo. Quando entrò in città adunò i cittadini a parlamento sulla pubblica piazza; loro promise che Firenze li tratterebbe dolcemente e li risguarderebbe come fedeli sudditi. Cercò infatti di affezionarli alla loro sorte colla dolcezza e colla giustizia della sua amministrazione, non trascurando ad un tempo i più vigorosi provvedimenti per assicurarsi della loro sommissione. Mandò a Firenze tutti i Gambacorti con duecento capi delle più nobili famiglie di Pisa, che colà furono tenuti dalla repubblica in qualità di ostaggi[157]. Molti gentiluomini pisani abbracciarono in tale occasione la milizia, o vi fecero inscrivere i loro figli, onde trovare nell'indipendenza degli accampamenti la libertà che perdevano nella loro patria, e combattere ancora come soldati avventurieri i loro oppressori, contro ai quali più non potevano impugnare le armi come cittadini. Dopo un lungo esilio fra gli stranieri, dopo frequenti e sempre inutili tentativi per liberare la loro patria, dopo una rivoluzione eccitata in Pisa quando era già da un secolo sottomessa, e dopo uno sgraziato assedio che i Pisani sostennero con tutta l'energia de' loro antenati, alcuni finalmente abbandonarono l'Italia, e tramandarono ai loro discendenti, come una preziosa eredità, l'amore del sacro nome di patria e l'odio dell'oppressione. Coloro che rimasero in Pisa conservarono più lungo tempo che verun altro popolo sottomesso un'energia che quasi sempre viene distrutta dalla servitù. La città che pel corso di cinque secoli aveva dominato il mar Tirreno con tanta gloria, più non ebbe dopo tale epoca esistenza politica, nè influenza, nè storia[158]; ma i cuori de' suoi abitanti non erano ancora sottomessi; ed i Fiorentini non furono sicuri della sommissione di Pisa che quando videro coperte di erba le sue deserte strade.

I Fiorentini non giunsero a conquistare Pisa, che adottando essi stessi, e facendo adottare agli altri stati una politica contraria agli antichi loro principj; quella d'isolare tutte le guerre, e lasciare che ognuno si misurasse col suo particolare nemico, senza che i forti si alleassero ai deboli; e senza che il mantenimento dell'equilibrio in Italia assicurasse l'esistenza di tutti.

Nel corso d'un intero secolo i Fiorentini avevano tenuta una più generosa politica. Invece d'ingrandirsi colle loro vittorie essi mai cercato non avevano che l'altrui vantaggio, e sempre dopo le loro perdite si erano veduti abbandonati dagli alleati. Si vergognarono finalmente d'essere stati ingannati, come se la buona fede dell'ingannato non fosse più gloriosa che la destrezza dell'ingannatore. Essi non si lasciarono distogliere dalla loro intrapresa da niuna rivoluzione d'Italia, e nel tempo che spingevano le loro conquiste fino al mare, Milano prese una nuova forma, Venezia acquistò stati in terra ferma, e Ladislao di Napoli sollevossi repentinamente sopra le abbattute fazioni del suo regno, di modo che si andò a stabilire in Italia un nuovo equilibrio fra meno numerosi ma più potenti stati. Per farne conoscere le basi più non ci rimangono a descrivere che le rivoluzioni degli stati della Chiesa e della Puglia.

Lo scisma che divideva la Chiesa dopo il 1378 sembrava che più terminare non potesse. I pontefici rivali, che lo avevano cominciato, erano ambidue morti, ma l'uno e l'altro avevano avuto un successore nominato dalla propria fazione. I nuovi papi più non si battevano con tanta violenza di scomuniche come i loro predecessori; ma malgrado l'apparente loro moderazione, sforzavansi di conservare la loro dignità senza prendersi pensiero del riposo e dell'unione della Chiesa. Conoscevano l'uno e l'altro che non giugnerebbero giammai ad avere l'universale dominio del cristianesimo, ma preferivano di regnare sulla metà de' fedeli piuttosto che discendere dal trono; e tutti i segreti loro sforzi miravano a prolungare lo scisma che la cristianità voleva terminare.

Roberto di Ginevra, o Clemente VII, era morto in Avignone il 16 settembre 1394, ed all'istante i re di Francia, d'Inghilterra e d'Arragona, l'università di Parigi, gli elettori di Magonza e di Colonia, e papa Bonifacio IX, avevano scritto ai cardinali francesi pregandoli a non nominare il successore dell'estinto pontefice, ed a cogliere quest'occasione per terminare lo scisma. Ma i cardinali temevano di essere costretti a porsi presso il vivente pontefice in qualità di colpevoli e di ribelli ridotti a chiedere grazia, non come eguali che si riconciliano. Affrettaronsi perciò di chiudersi in conclave, ed il dodicesimo giorno nominarono papa il cardinale d'Arragona Pietro di Luna, che prese il nome di Benedetto XIII[159]. Sebbene questo cardinale avesse avuto parte nell'elezione di Clemente VII aveva lungo tempo tentati tutti i mezzi di conciliazione; aveva altamente biasimato il rigore del papa, che vi si rifiutava, ed aveva riputazione d'essere il più moderato della fazione, ed il più proprio a ristabilire la pace della Chiesa.

Prima dell'elezione tutti i cardinali si erano obbligati a non ricusare di prestarsi a qualunque sagrificio, e nominativamente alla cessione del papato, per ottenere l'unione della Chiesa; Benedetto ratificò questa promessa con giuramento dopo essere stato proclamato[160]; ma invano la cristianità volle fargli eseguire questa promessa, ch'egli opponeva sempre scrupoli a scrupoli, e considerandosi come vero papa, non voleva, diceva egli, privare la Chiesa del suo legittimo capo, per sottometterla forse ad uno scismatico scomunicato. I Francesi mostravansi più che ogni altra nazione zelanti per la riunione, perchè la corte d'Avignone stava interamente a carico loro, e non si manteneva che con una scandalosa simonia. Carlo VI adunò un concilio generale a Parigi il 12 febbrajo del 1395; ma quest'assemblea intimò senza effetto ai due papi di abdicare per la pace della Chiesa. Un secondo concilio nazionale venne adunato nel 1398, e questi determinò di sottrarre la Chiesa all'ubbidienza dei due papi, per obbligarli alla riunione; e perchè Benedetto XIII vi si rifiutava Boucicault venne ad assediarlo nel castello d'Avignone, ove lo costrinse a capitolare il 14 aprile del 1399[161]. Questi promise di deporre la tiara tostochè farebbe lo stesso ancora Bonifacio, o che la di lui morte aprirebbe un'altra strada alla riconciliazione della Chiesa.

Intanto Wencislao aveva annunciato a Carlo VI che l'Allemagna e l'Italia si leverebbero dall'ubbidienza di Bonifacio IX, quando la Francia più non ubbidisse a Benedetto, ma tale promessa non ebbe esecuzione. Wencislao erasi impegnato al di là delle sue forze, e la di lui deposizione, e l'elezione di Roberto mutarono tulle le disposizioni della Germania. I Francesi addolcirono la loro severità verso Benedetto, ch'essi avevano tenuto prigioniere nel suo palazzo d'Avignone, e questo papa coll'ajuto del duca d'Orleans fuggì il 12 marzo 1403 attraversando le guardie normanne che lo circondavano. Tosto che trovossi libero, i suoi cardinali lo raggiunsero, e tutta la Francia rientrò sotto la di lui ubbidienza[162].

Benedetto, ch'era stato ristabilito soltanto dopo di avere promesso di cooperare all'estinzione dello scisma, mandò quattro ambasciatori a Roma nel 1404 per trattare con Bonifacio IX; ma questi non proponevano vicendevoli cessioni, ma soltanto assemblee dei due papi e dei loro cardinali per riformare la Chiesa[163]. Mentre gli ambasciatori di Benedetto trattenevansi in Roma aspettando i riscontri di Bonifacio, questi morì il 29 settembre del 1404.

Bonifacio era stato piuttosto guerriero che ecclesiastico; aveva assoggettata Roma alla sua autorità, e durante il suo regno di quindici anni, l'aveva conservata ubbidiente col supplicio di tutti coloro che avevano cercato di scuotere il giogo. Ma quando fu morto, il popolo prese le armi sotto la direzione dei Colonna e dei Savelli; le voci di viva la libertà risuonarono in tutti i quartieri della città, e gl'insorgenti occuparono la chiesa di santa Maria d'Araceli, ove si fortificarono, mentre i cardinali erano rinchiusi nel palazzo quasi contiguo al Campidoglio[164]; in mezzo a tanto tumulto elessero Gusmano di Sulmona, cardinale di Bologna, che prese il nome d'Innocenzo VII. Prima di procedere all'elezione ogni cardinale aveva giurato di non rifiutarsi quando fosse nominato papa, a verun sagrificio, non escluso quello dell'abdicazione della sua dignità per mettere fine allo scisma[165].

Innocenzo VII, prima di pensare alla pace della Chiesa, dovette occuparsi di quella di Roma, ove tutte le strade erano chiuse da steccati, ed ove il popolo armato faceva in ogni lato risuonare la voce di libertà. L'ambizioso Ladislao di Napoli eravi accorso per approfittare di questo disordine, ma la diffidenza che eccitava questo principe riconciliò il popolo col suo pontefice: castel sant'Angelo e città Leonina, ossia il Vaticano, vennero confidati alla guardia d'Innocenzo VII, il Campidoglio fu restituito al popolo, e le sue fortificazioni distrutte. Si convenne che il senatore verrebbe nominato dal papa fra i tre candidati presentati dal popolo, ed il governo della repubblica romana fu dato ad una magistratura che doveva rinnovarsi ogni due mesi, e che chiamossi i dieci della libertà[166].

Innocenzo VII era vecchio, savio e moderato; il suo carattere e gli scrupoli della sua coscienza parevano guarentire l'esecuzione delle convenzioni che aveva stipulate, sia coi cardinali, sia coi Romani; ma la cupidigia della sua famiglia non tardò a farlo agire contro il proprio disinteresse, ed i maneggi di Ladislao gl'inimicarono nuovamente il popolo.

Ladislao, figlio di Carlo III, aveva cominciato nel 1392 a rialzare dal suo profondo avvilimento il partito di Durazzo. Faceva in allora le sue prime campagne, e quando uscì di Gaeta, la regina Margarita sua madre lo raccomandò affettuosamente ai baroni che componevano la sua armata. Educato in mezzo ai pericoli, circondato nella sua fanciullezza da guerre civili e da congiure, mentre colle forze fisiche s'era sviluppato in lui il coraggio, il suo spirito s'era pure avvezzato all'intrigo ed alla dissimulazione. Il suo valore e quello delle sue truppe, sempre da lui condotte, erano superiori ad ogni pericolo; nè rispetti d'onore o di probità mettevano ostacolo all'esecuzione de' suoi progetti. Frattanto la virtù cominciava ad essere tenuta in minor pregio che la destrezza. I talenti ed il valore di Ladislao gli andavano sempre acquistando nuovi partigiani; i popoli più in lui non vedevano che l'unico rampollo del sangue de' loro re; Bonifacio IX lo rappresentava come il solo figlio legittimo della Chiesa, mentre il suo rivale trovavasi avvolto nello scisma[167]. Nel 1399, grandi baroni, che fino a tale epoca eransi mostrati i più zelanti per la casa d'Angiò, Raimondo di Balzo degli Orsini, ed i Sanseverini, passarono sotto le di lui insegne; Napoli gli aprì le porte, Carlo d'Angiò, fratello del re Lodovico II, ritirossi in castel nuovo dove fu assediato, mentre lo stesso re Lodovico lo era in Taranto; onde questi principi, dopo una lunga resistenza, furono forzati a consegnare le fortezze ai loro nemici, ed a ritirarsi in Provenza[168].

Ladislao ne' susseguenti anni assodò la propria autorità sul regno, di fresco abbandonato dal suo rivale; e dopo avere, successivamente prese tutte le fortezze che trovavansi in mano de' Francesi, si fece a punire i partigiani che questi avevano avuti tra la nobiltà. Egli estese le sue vendette a tutti coloro che avevano appartenuto alla fazione Angioina, sebbene avessero in appresso fatta la loro pace, e l'avessero corroborata con importanti servigj: i Sanseverini, la casa da Marzano, ed il duca di Venosa, ai quali doveva le sue ultime vittorie, provarono ancor essi la memoria ch'egli conservava della passata loro nimicizia.

Vedevasi appena assicurato sul trono di Napoli, che fu chiamato come suo padre Carlo III, al trono d'Ungheria. Sigismondo aveva disgustata tutta la nobiltà colle sue dissolutezze e colle sue crudeltà; fu arrestato, in tempo d'una religiosa ceremonia, in mezzo alla sua corte, nella primavera del 1401, ed affidato ai due fratelli Gara, figli del palatino Niccola ch'egli aveva fatto perire, i quali lo tennero in prigione nel castello di Soklos, mentre i deputati della nobiltà invitavano Ladislao ad attraversare l'Adriatico per ricevere la corona di santo Stefano[169].

Ma Ladislao, occupato trovandosi in tale epoca nel suo secondo matrimonio colla principessa Maria di Cipro[170], non potè passare personalmente in Ungheria, e vi mandò soltanto Luigi Aldemari, suo ammiraglio, che con cinque galere ricevette nel 1402 la sommissione di Zara, Vrana, Spalatro, Traù, Sebenico e di altre città, che in addietro appartenevano ai Veneziani[171]. L'anno susseguente soltanto Ladislao passò a Zara, e vi si fece coronare il 5 agosto come re d'Ungheria. Ma frattanto avendo Sigismondo guadagnato l'amore della palatina di Gara, era stato da lei liberato dalla sua prigione[172]; aveva ricuperato il regno d'Ungheria, e minacciava la Dalmazia. Ladislao, invece di pensare a contrastargliene la corona, tornò a Napoli, e dopo alcuni anni vendette ai Veneziani per cento mila fiorini Zara e tutte le piazze che gli erano rimaste in Dalmazia, rinunciando per tal modo definitivamente a tutti i suoi diritti sull'Ungheria, e ritornando alla repubblica la sua antica sovranità[173].

Ladislao, abbandonando la corona di Ungheria, meditava nuove conquiste di province a lui più vicine. Lo stato ecclesiastico pareva posto in sua balìa. La morte di Bonifacio IX e le turbolenze che accompagnarono l'elezione del suo successore, potevano agevolare al re di Napoli la conquista di Roma, senza che avesse bisogno di portare apertamente le armi contro la santa sede, cui andava debitore della sua corona. Egli limitossi ad incoraggiare i Romani nel loro spirito d'indipendenza, e d'inasprirli contro il papa, onde ridurlo ad allontanarsi dalla città, affine di potersi poi presentare egli medesimo come protettore del popolo[174].

«Circa quest'epoca, scrive Leonardo Aretino nelle memorie de' suoi tempi, io fui chiamato a Roma da Innocenzo VII, venni accolto con bontà dal pontefice, e n'ebbi onorificenze ed impieghi, che mi distinsero tra i suoi più intimi famigliari. Parvemi allora che il popolo romano abusasse assai della libertà che aveva ricuperata. Delle famiglie principesche quelle de' Colonna e de' Savelli erano le più potenti; e gli Orsini non avevano allora autorità, perchè sospetti di favorire il pontefice. Ricca e numerosa era la corte, avendo molti cardinali in gran parte di alta condizione. Il papa risedeva nella basilica del Vaticano; era desideroso di riposo, e sarebbesi accontentato della sua situazione, se gli si fosse permesso di goderne; ma la malvagità di alcuni uomini, che avevano grandissima influenza sul popolo, doveva alla fine impedire la continuazione della pace. Ogni giorno andavano crescendo i sospetti, e perchè il re faceva passare a Roma la sua cavalleria, il papa fu pure costretto ad adunare soldati; questa fu la cagione delle turbolenze.

«Fuori di Roma, lungo la strada che dalla Toscana conduce nel Lazio, avvi un ponte sul Tevere detto Milvio, o Ponte Molle. È questo fortificato, ed il papa vi teneva guarnigione; ma i Romani pretendevano d'averlo essi in guardia, affinchè venisse chiusa questa strada a chi tentar volesse d'invadere il Lazio. L'attaccarono una notte all'impensata, ma la guardia si difese; e la zuffa fu ostinata da ambedue le parti. Sopraggiunse finalmente la cavalleria del papa in sul fare del giorno, e ruppe gli assalitori, molti de' quali furono feriti, altri uccisi. I fuggitivi entrati in città si fermarono al Campidoglio adunandovi la moltitudine. Era un giorno festivo, ed il popolaccio ozioso e riscaldato dal vino diede mano alle armi, e spiegate le insegne s'avanzò affollato ad attaccare la dimora del pontefice. Dal canto loro i nostri soldati s'apparecchiano alla pugna, dispongono le armi loro, si fanno a vicenda coraggio, si serrano nelle loro file e mettono castel sant'Angelo nel migliore stato di difesa. La notte sospese l'attacco del popolo, ma i due partiti si tennero sotto le armi. Il Tevere li separava, ed assicurava le due parti da ogni improvviso assalto. Ne' susseguenti giorni si trattò di ristabilire la pace, ed a tale oggetto molti cittadini romani si presentarono al pontefice. Mentre questi, usciti da una conferenza, tornavano a casa loro, furono attaccati avanti alla mole Adriana; undici furono presi e gli altri salvaronsi colla fuga. I primi furono condotti a Luigi dei Migliorotti, nipote del pontefice, per ordine del quale erano stati presi, e furono crudelmente uccisi. Trovavansi tra costoro due de' signori che il popolo romano aveva scelti per governare la repubblica; erano gli altri distinti cittadini, alcuni de' quali avevano mostrato di essere parziali per la Chiesa.»

Il Migliorotti era rimasto offeso dall'alterigia che i deputati romani avevano manifestato nelle loro conferenze, ed era uscito di concistoro per apparecchiare questa sanguinosa scena, quand'appunto i deputati proponevano più moderate condizioni e che le due parti parevano ravvicinarsi[175].

«Quando la notizia di quest'avvenimento si sparse per Roma, prosiegue Leonardo Aretino, si corse alle armi; le strade si affollarono di popolo, e tutta la città risuonava di clamori e d'imprecazioni. Corsi io medesimo in quel giorno grandissimo pericolo, perchè, credendo le ostilità sospese, mentre la deputazione romana trovavasi presso il pontefice, io aveva passato il fiume ed era entrato in città. Tosto che intesi il tumulto volli ritirarmi alla mia abitazione, ma trovai il ponte Adriano occupato da gente armata: erano i parenti e gli amici degli uccisi che si apparecchiavano a vendicarli. Gli ebbi appena riconosciuti, che diedi a dietro fuggendo a briglia sciolta, finchè giunto in una rimota strada, scesi di cavallo, mi avviluppai nel mantello del mio servitore e mi misi di nuovo tra la folla. Passai così, senz'essere riconosciuto, in mezzo agli armati, e giunsi presso i nastri. Il primo oggetto che ferì i miei occhi fu il mucchio de' cadaveri di coloro che erano stati uccisi, lasciati in mezzo alla strada lordi del proprio sangue, e coperti di larghe ferite. Mi fermai, compreso di orrore, ed osservando i loro volti, riconobbi tra questi alcuni de' miei amici, che mi cavarono le lagrime. Mi recai in appresso all'appartamento del pontefice, e lo trovai immerso nella più crudele afflizione. Egli non aveva la menoma parte in questa carnificina; era uomo dolce e pacifico e niente più ripugnava al suo carattere ed alla sua bontà quanto lo spargimento del sangue umano. Egli si lagnava della sua sorte, ed alzava gli occhi al cielo in atto di chiamare Dio in testimonio della sua innocenza[176]

Frattanto colui che comandava per il papa in Castel sant'Angelo, sembrava vacillante nel suo partito. Luigi dei Migliorotti non aveva bastanti truppe per difendere il Vaticano; onde nella medesima notte Innocenzo VII fu costretto di fuggire a Viterbo. Erasi di poco allontanato, quando Ladislao, chiamato dai Colonna e dai Savelli, entrò in Roma con una piccola armata, e chiese al popolo la signoria. Ma i Romani non avevano scacciato un pacifico sovrano per darsene uno affatto militare. Accusarono i Colonna ed i Savelli d'avere tradita la patria, ed altamente manifestarono la loro avversione al giogo de' Napolitani. Un cittadina ricusò ostinatamente di ricevere in sua casa i soldati che vi dovevano avere il loro quartiere, onde volendo questi entrarvi a viva forza, prima i vicini, poi tutti i Romani presero le sue difese. Un'accanita zuffa cominciò allora tra i Romani ed i Napolitani, che si prolungò fino alla notte; ma infine Ladislao dovette uscire di Roma, ed altro non potendo fare, fece appiccare il fuoco in quattro diversi quartieri[177].

L'attentato di Ladislao per impadronirsi di Roma riuscì vantaggioso ad Innocenzo VII. I Romani cercarono di riconciliarsi con lui; gli mandarono ambasciatori, i quali, dopo una lunga conferenza, lo persuasero, il 13 marzo 1406, a rientrare nella sua capitale[178]. Questo papa morì il 5 novembre dello stesso anno; potendosi un'altra volta terminare lo scisma, si sagrificò di bel nuovo il vantaggio della Chiesa al personale interesse dei cardinali. Dichiararono questi di volere, piuttosto che un papa, eleggere un procuratore del loro partito, per deporre il pontificato[179]. Ma, malgrado il giuramento d'abdicare prestato da cadaun di loro, essi sperare non potevano che il papa, che verrebbe eletto, mostrasse all'occasione maggiore disinteressamento ch'essi medesimi.

I suffragi si riunirono a favore d'Angelo Corrario, veneziano, cardinale di Aquilea e patriarca di Costantinopoli, il quale prese il nome di Gregorio XII. Contava allora settant'anni, ed aveva opinione d'essere un sant'uomo e di antica severità. Quando fu appena consacrato, rinnovò, con apparente premura, le già fatte promesse, di tutto sagrificare per metter fine allo scisma della Chiesa[180].

Gregorio scrisse a Benedetto XIII per invitarlo alla pace, proponendogli una vicendevole abdicazione. Rispose Benedetto da Marsiglia, il 22 gennajo 1407; quasi ne' medesimi termini: era lo stesso invito, la medesima esortazione, le stesse promesse[181]. Carlo VI aveva proposto ai due pontefici di abdicare, ciascuno in presenza del suo proprio collegio; ed i cardinali delle due ubbidienze si sarebbero in appresso riuniti per nominare un nuovo papa. Ma Benedetto e Gregorio rigettarono d'accordo questa proposizione e chiesero egualmente una conferenza nella quale abdicherebbero insieme innanzi ai due collegi riuniti[182].

I deputati che Gregorio XII aveva mandati a Marsiglia scelsero, d'accordo con Benedetto XIII, la città di Savona per la proposta conferenza. Fu steso un lungo trattato tra i due cleri ed il re di Francia, in allora sovrano dello stato di Genova. Acconsentì Carlo VI, che la signoria di Savona fosse trasferita ai due papi, e rispetto alla divisione della città fra i due emuli, che ognuno possedesse un castello ed un quartiere fortificato: ogni papa doveva recarsi a Savona con otto galere, ed una guardia di dugent'uomini. Questo trattato venne accettato e ratificato da Gregorio XII, che lo partecipò a tutti i principi cristiani[183].

Ma questo pontefice era ben lontano dal pensare di dare esecuzione a ciò che aveva promesso: i suoi parenti ed i consiglieri, che gli stavano intorno, tutto mettevano in opera per dissuaderlo dall'abdicazione[184]. In conseguenza delle clandestine pratiche della sua famiglia, i Veneziani, suoi compatriotti, ricusarono di somministrargli le galere; onde dichiarò che non poteva intervenire con sicurezza nè a Savona, nè in verun'altra città marittima, poichè troverebbesi esposto agl'insulti delle flotte del suo emulo[185]. I rimproveri e le dicerie di tutte le persone desinteressate costrinsero, gli è vero, Gregorio XII a lasciar Roma; ma si fermò di nuovo a Siena[186], e ricominciò le negoziazioni. Chiedeva o che si scegliesse un'altra città per le conferenze, o che Benedetto rimandasse a dietro le sue galere; che Boucicault partisse da Genova; in fine che la sicurezza del suo emulo fosse interamente sagrificata alla sua.

Benedetto XIII non era più sincero, ma sapeva più destramente contenersi, e mentre che il suo avversario sembrava fuggire, pareva ch'egli si avanzasse per incontrarlo. Era giunto a Savona nello stabilito termine, e perchè Gregorio erasi recato da Siena a Lucca, Benedetto si trasferì fino a porto Venere, ed in appresso fino alla Spezia, di modo che i due pontefici trovavansi soltanto quarantacinque miglia distanti l'uno dall'altro. Ma mentre i loro negoziatori sforzavansi di riunirli, l'uno, dice Leonardo Aretino, come animale acquatico, non voleva mai abbandonare la costa; l'altro, come un animale terrestre, non vi si voleva avvicinare[187].

Quasi tutta la cristianità pareva desiderare la cessazione dello scisma, ma il re di Napoli, Ladislao, cercava di farlo durare. Temeva egli l'ascendente che la corte di Francia aveva preso sulla Chiesa per i costanti e coraggiosi sforzi ch'ella aveva fatti per la riunione; temeva che un francese potesse nuovamente essere innalzato sulla cattedra di san Pietro dai cardinali d'Avignone, e che questi non spalleggiasse Luigi d'Angiò; e desiderava più di tutto che il papa suo vicino, e suo abituale signore, invece di tenerlo sotto tutela, come avevano fatto i suoi predecessori, continuasse a lasciarlo dominare nelle sue province e nella sua capitale.

In principio del seguente anno Ladislao intraprese apertamente a sottomettere colle armi gli stati della Chiesa ed ebbe l'accortezza di far approvare le sue conquiste dai parenti di Gregorio XII. Questi preferivano ogni cosa alla abdicazione del loro padrone, e presero occasione da questi movimenti del re di Napoli per rompere le negoziazioni con Benedetto XIII.

Ladislao si avanzò contro Roma in marzo del 1408 con dodici mila uomini di cavalleria, e con altrettanta infanteria; e nello stesso tempo mandò quattro galere ad occupare la foce del Tevere, perchè non si potessero introdurre vittovaglie in città[188]. Attaccò in appresso Ostia, e si rese in aprile padrone di questa città, che gli aveva opposta una vigorosa resistenza[189]. Pochi giorni dopo Paolo Orsini, che comandava in Roma, aprì per tradimento una porta all'armata del re; ed allora soltanto i cittadini accettarono una capitolazione che loro offriva il nemico di già entrato nelle loro mura[190]. Perugia, attaccata nello stesso tempo dai Napolitani, loro aprì pure le porte.

Gregorio XII, quando intese la perdita di Roma, lasciò travedere una gioja che tradiva i suoi segreti maneggi[191]. Benedetto per lo contrario aveva cercato di difendere questa città, sperando forse di ricondurla in tal modo alla sua ubbidienza. Boucicault dietro sua istanza armò tredici galere per mandarle nel Tevere, ma un contrario vento le ritenne a Porto Venere finchè più non erano in tempo a difendere Roma.

Questo supposto atto d'ostilità servì di pretesto a Gregorio XII per rompere ogni negoziato col suo competitore, vietò alla sua corte di mantenere comunicazione alcuna con quella dell'antipapa, e proibì ai suoi cardinali di uscire da Lucca, ove in allora si trovava. Poco dopo fece conoscere la sua intenzione di fare una promozione al sacro collegio, lo che era direttamente contrario alle convenzioni fatte per la riunione della Chiesa. I cardinali credevano di avere sempre il diritto di regolare Gregorio XII, ch'essi avevano condizionatamente eletto, e si opposero vigorosamente ad una promozione, che doveva perpetuare lo scisma; nel mese di maggio uscirono di concistoro quando Gregorio volle proclamare i suoi quattro nuovi cardinali; pretesero che il papa pensasse a gettarli in prigione o a farli morire, ed invitarono Paolo Guinigi, signore di Lucca, a garantire la loro libertà, siccome aveva promesso di fare; ed uscirono da quella città per passare a Pisa. Erano essi allora nove; tre dei loro colleghi rimasero ammalati in Lucca[192].

La repubblica fiorentina era, come il rimanente della cristianità, sdegnata con Gregorio XII, ed attribuiva alla sua ostinazione ed ai suoi artificj il prolungamento dello scisma, onde favorevolmente accoglieva i cardinali rifugiati a Pisa, e loro prometteva la sua protezione. Questi spedirono una rispettosa protesta a Gregorio XII contro gli ultimi suoi atti, ed un appello a lui medesimo, a Gesù Cristo, e ad un concilio generale[193].

Nell'altro partito il papa non era pure ben d'accordo coi suoi cardinali, nè tutti gli sforzi di Benedetto XIII per addossare al suo rivale il delitto d'avere prolungato lo scisma toglieva affatto di scorgere nel suo contegno la più fina dissimulazione. In gennajo il re di Francia aveva pubblicato un editto per obbligare i suoi sudditi a ritirare l'ubbidienza loro all'uno ed all'altro de' due papi, qualora l'unione della Chiesa non avesse luogo avanti l'Ascensione[194]. Benedetto rispose colle minacce di scomunica, ed il re, coll'approvazione del suo parlamento e della Sorbona, dichiarò, che Pietro de Luna, che facevasi nominare Benedetto XIII, era uno scismatico ostinato, un eretico, un perturbatore della pace della Chiesa, cui era proibito d'ubbidire più lungamente. Carlo VI scrisse nel tempo stesso ai cardinali del partito di Roma, ed a quelli del partito d'Avignone per esortarli a non essere più oltre il giuoco di due uomini, che mancavano a tutti i loro giuramenti, e che nel corso di un anno non avevano saputo trovare in tutto il mondo un luogo ove riunirsi in conformità delle loro promesse[195].

I cardinali di Benedetto abbandonarono in fatti il loro capo, e passarono a Livorno, ove andarono a trovarli quelli di Gregorio. Questo collegio, composto dei primi dignitarj delle due chiese, mandò lettere encicliche a tutta la cristianità, nelle quali la condotta dei due pontefici veniva rappresentata con molta moderazione ed imparzialità[196].

I frivoli pretesti che i papi allegavano a vicenda per ricusare ogni luogo di riunione loro proposto erano chiaramente dimostrati, e resa evidente l'impossibilità di riunire la Chiesa di concerto con due uomini che tendevano segretamente a dividerla. Ciò nulla meno, dicevano i cardinali, i sacri canoni hanno permesso in certi casi la convocazione di un concilio senza l'autorità del capo della Chiesa. Giammai la cristianità fu in maggiore bisogno di fare uso di tale prerogativa. Nè l'un papa nè l'altro potrebbe adunare un concilio ecumenico, poichè nè l'uno nè l'altro è riconosciuto da tutti i fedeli, ma i cardinali dei due collegi, rappresentanti della cristianità, hanno senza dubbio il potere, anzi l'obbligo di convocare questo supremo consiglio della religione, che può solo, colla sua autorità, rendere la pace alla Chiesa. I cardinali perciò ordinavano a tutti i vescovi e prelati delle due ubbidienze di trovarsi a Pisa in marzo del 1409 per formarvi un concilio ecumenico; ordinavano pure d'intervenirvi ai due papi, avvisandoli nello stesso tempo, che la loro assenza non impedirebbe l'unione del concilio[197].

Quand'ebbero notizia di questa convocazione, i due papi, invece di ravvicinarsi, partirono ambidue dai luoghi in cui si trovavano, per allontanarsi di più. Benedetto XIII con tre cardinali che gli erano rimasti fedeli, montò sulle galere a Porto Venere, e fece vela verso l'Arragona, ove fu ricevuto con infinita difficoltà[198]. Dal canto suo Gregorio XII abbandonò Lucca coi quattro cardinali di fresco creati, e dopo essersi trattenuto qualche tempo a Siena, si pose sotto la protezione di Carlo Malatesti, signore di Rimini. Frattanto Gregorio XII adunò un concilio nella provincia di Ravenna, e Benedetto XIII in quella di Perpignano. L'un papa e l'altro sperava in tal modo di sottrarsi ai rimproveri d'ostinazione che loro faceva la cristianità per non avere assoggettata la loro causa al supremo consiglio della Chiesa[199].

I cardinali dei due partiti, il re ed il clero di Francia, le repubbliche di Firenze e di Venezia, tutti coloro finalmente che determinarono la convocazione del concilio di Pisa, pare che agissero di buona fede, e mossi da ardente desiderio di ristabilire la pace della Chiesa. Non pertanto il Raynaldi, organo della corte di Roma, dichiarasi costantemente, dopo il cominciamento dello scisma, contro la Chiesa in favore del suo capo, condanna egualmente le intenzioni e la condotta di tutti i cardinali che si pronunciarono contro Urbano VI ed elessero Clemente VII, di tutti quelli che nel nuovo collegio formato da Urbano si separarono in seguito da lui e furono da questo sanguinario pontefice trattati così barbaramente, di tutti quelli che seguirono Benedetto XIII nella sua fuga, e di tutti coloro che aderirono al concilio di Pisa. Egli non si avvede che avviluppa così nelle sue condanne tutti i ministri degli altari, tutti coloro dai quali deve derivare l'autorità dei papi posteriori allo scisma, e che per evitare il rimprovero d'inconseguenza, d'ambizione, di sfrenata collera a due o tre prelati che si sono succeduti nel pontificato, è obbligato di accusare tutto il clero, tutta la Chiesa cattolica di calunnia, d'eresia e di ribellione contro il suo capo.

Frattanto il carattere del personaggio che ben tosto si acquistò la più grande influenza sui cardinali e su tutto il concilio di Pisa, giustifica forse fino ad un certo punto le accuse date al suo partito. Era questi Baldassar Cossa, cardinale di sant'Eustacchio e legato di Bologna. Fu veduto, con una ambizione affatto mondana, non ad altro pensare che a fondare un principato sulle ruine degli stati della chiesa. Dopo il 1403 egli governava Bologna[200], e, per consolidare il proprio potere su questa città, era sceso alle più basse pratiche, alle più perfide trame; aveva progressivamente soggiogate le città della Romagna; ma aveva acquistato il dominio di Faenza e di Forlì con una lunga serie di tradimenti[201]. Pure il suo indipendente potere e la sua destrezza gli procacciarono una grandissima influenza sopra i cardinali suoi colleghi: e da che il concilio fu adunato, parve che Baldassar Cossa ne fosse il capo.

Ventidue cardinali delle due ubbidienze, quattro patriarchi, dodici arcivescovi, ottanta vescovi, quarant'uno priori ed ottantasette abati di monasteri, si erano adunati a Pisa per il concilio. Vi si trovavano pure i deputati di quattordici arcivescovi e di cento due vescovi assenti, i generali di molti ordini di monaci, gli ambasciatori dei re di Francia, d'Inghilterra, di Polonia, di Portogallo, di Cipro e di Boemia, quelli di Wencislao, che pretendeva di essere re de' Romani, e quelli di Luigi d'Angiò, che pretendeva d'essere re di Napoli. Roberto, l'altro re de' Romani, e Ladislao, l'altro re di Napoli, spedirono pure ambasciatori a Pisa, ma solo per sostenere contro il concilio la causa di Gregorio XII. D'altra parte vi si recarono gli ambasciatori di Castiglia e d'Arragona per difendere quella di Benedetto XIII[202]: onde si calcolò che più di dieci mila forestieri venissero a stabilirsi in Pisa in tempo del concilio.

I prelati adunati dichiararono nell'ottava loro sessione, ch'erano costituiti in concilio ecumenico, e che perciò erano giudici supremi dei due papi. I processi di questi vennero subito cominciati, e dopo lunghissime discussioni furono ambidue condannati il 5 giugno del 1409, nella quindicesima sessione, come colpevoli di scisma e di eresia; tutti due vennero esclusi dalla comunione de' fedeli, e fu dichiarato vacante il papato[203].

I cardinali delle due ubbidienze, riuniti in un solo corpo, entrarono in conclave il 15 di giugno. Il cardinale Cossa ricusò l'offertagli tiara, ed indicò, quale soggetto più degno di portarla, Pietro di Candia, arcivescovo di Milano, che raccolse tutti i suffragi. Questo cardinale fu consacrato a Pisa il 7 luglio del 1409 sotto il nome d'Alessandro V; ed il primo atto del suo pontificalo fu quello di tranquillare le coscienze intorno a tutto quanto erasi fatto in tempo dello scisma, e di ratificare tutte le nomine ai beneficj, e tutte le dispense ottenute dall'una e dall'altra parte, tutte abolendo le censure e le scomuniche che erano state pronunciate in occasione delle divisioni della Chiesa[204].

Nella XXIV ma ed ultima sessione, tenuta il 7 agosto 1409, il concilio di Pisa impose al nuovo papa l'obbligo di convocare sollecitamente un altro concilio per riformare la Chiesa nel suo capo e nelle sue membra[205]. Un papa quasi universale era stato renduto alla Cristianità; la maggior parte dell'Europa gli ubbidiva, e soltanto la Spagna riconosceva ancora Benedetto XIII, come il Malatesti in Romagna, Ladislao a Napoli e Roberto di Baviera in Germania difendevano tuttavia Gregorio XII: e questo avanzo di divisione nella Chiesa diede motivo al concilio di Costanza. Ma se quello di Pisa non conseguì intero lo scopo per cui si era adunato, cominciò per lo meno una nuova epoca per la Chiesa. In quest'assemblea fu visto svilupparsi uno spirito repubblicano ed aristocratico, che limitava l'autorità dei papi, e che voleva mettere limiti al loro potere monarchico: il consiglio della Chiesa si appropriò il diritto di giudicare il suo capo, di condannarlo e di deporlo; manifestò le pretensioni che dovevano dirigere la condotta dei padri di Costanza e di Basilea, e diede principio a quella lunga contesa che dopo un secolo di vicissitudini doveva terminarsi colla riforma[206].

CAPITOLO LXI.

Ladislao, re di Napoli, occupa gli stati della Chiesa; minaccia Firenze; muore. — Sigismondo d'Ungheria, eletto imperatore, muove guerra ai Veneziani; sue conferenze con Giovanni XXIII in Lombardia; deplorabile stato di questo paese.

1409 = 1414. Erano pochi anni passati da che la repubblica fiorentina era stata liberata dai timori che le ispirava Giovanni Galeazzo, quando un nuovo avversario, ancora più formidabile, si dichiarò contro di lei. Educato in mezzo alle guerre civili, avvezzato a lottare contro accanite fazioni, in un paese in cui la stessa amicizia era senza buona fede, Ladislao riuniva la politica perfida di Giovan Galeazzo ad un valore personale, che questo principe non conobbe mai, e ad un'ambizione ancora più smisurata che quella del duca di Milano. Ladislao spingeva le sue mire al di là del regno d'Italia, cui aspirava il suo predecessore ed ambiva la corona imperiale, sperando di toglierla a Wencislao ed a Roberto, che l'uno e l'altro non potevano farsi ubbidire dai loro grandi vassalli, ed aveva preso per divisa: Aut Cæsar aut nihil[207]. Di già quest'orgogliosa iscrizione leggevasi sulle bandiere quando s'impadronì della maggior parte dello stato ecclesiastico. Le città di Roma, Ascoli, Fermo, Perugia, Todi, Assisi, ed altre ancora, eransi a lui sottomesse; non pertanto egli pretendeva sempre di essere il protettore e l'amico di Gregorio XII, ed aveva convenuto di pagargli venti mila fiorini all'anno in compenso dell'entrate degli stati che gli toglieva. Con questa modica somma il papa fuggiasco doveva mantenere tutta la sua corte[208].

Ladislao aveva domandato che i Fiorentini lo riconoscessero per legittimo sovrano degli stati della Chiesa, e a tale prezzo loro offriva la sua alleanza. I Fiorentini non vollero acconsentirvi, perchè riguardavano le province usurpate dal re come parte del patrimonio del legittimo successore di san Pietro, ed erano risoluti di darle ancora in sua mano. «Quali truppe avete voi dunque da oppormi?» domandò Ladislao sorpreso, ai loro ambasciatori. «Le tue,» rispose audacemente Bartolomeo Valori[209].

In fatti i Fiorentini erano sicuri di attirare nel loro campo tutti i condottieri del re di Napoli coll'offerta di maggior soldo. Nè tale diserzione sarebbesi riputata vergognosa o sleale, perchè i capitani non prendevano servigio che per un termine assai breve, passavano senza scrupolo sotto le nemiche insegne quando giugneva il termine stabilito nel contratto. Il solo Alberico da Barbiano, grande contestabile del regno, non sarebbesi dato al migliore offerente, perchè una personale animosità contro Baldassar Cossa, legato di Bologna, lo teneva unito al partito di Ladislao. Ma questo grande ristauratore della milizia italiana morì appunto in quest'epoca nel castello di Pieve, presso Perugia[210]. Il 17 maggio dello stesso anno, Otto Bon Terzo, ch'era stato suo allievo e suo compagno d'armi, e che dopo erasi innalzato con una mescolanza di valore e di perfidia alla signoria di Parma e di Reggio, venne assassinato da Sforza di Cotignola, suo rivale, per ordine del marchese Nicolò d'Este in una conferenza che tennero in Ribiera[211]. Ladislao aveva da sè alienato per sempre un terzo condottiere, non meno illustre dei due precedenti; era questi Braccio di Montone, gentiluomo emigrato di Perugia, capo del partito dei nobili e dei Ghibellini in questa città. In tempo del suo esilio aveva fedelmente servito il re di Napoli, ed aveva sperato, col di lui ajuto, d'essere richiamato in patria. Ma i Perugini offrirono a Ladislao di aprirgli le loro porte, purchè rinunciasse alla protezione dei loro emigrati. Il re non esitò punto a sagrificare i suoi alleati per rendersi padrone di Perugia; promise di più di far assassinare Braccio, e questi non si sottrasse alle insidie che gli vennero tese, che per esserne stato avvisato da uno de' suoi amici[212].

I dieci della guerra di Firenze si affrettarono di prendere Braccio al loro servigio; si assicurarono altresì dell'alleanza de' Sienesi, che a seconda del partito che abbraccerebbero potevano decidere della sorte della Toscana. I gentiluomini e la fazione dei dodici erano sospetti di favorire Ladislao, ma il governo s'attaccò ai Fiorentini, e promise di non separare la propria dalla loro fortuna[213]. I due popoli mandarono a Ladislao ambasciatori per persuaderlo a rinunciare alla sua intrapresa, mentre che il re spedì dal canto suo negoziatori a queste due città per separare l'una dall'altra, ed offrire le più vantaggiose condizioni a quella che s'unirebbe a lui[214].

Ladislao aveva adunati dodici in quindici mila uomini di cavalleria; ed i Fiorentini quando scoppiò la guerra non ne avevano più di mille duecento[215]. Si affrettarono di prendere al loro soldo Malatesta di Pesaro ed altri capitani, ed in breve riunirono due mila quattro cento lancie, ognuna di tre corazzieri, e si trovarono a portata di assicurare tutti i luoghi forti del loro territorio[216]. Il re di Napoli guastò da principio tutto il circondario di Siena fino sotto le mura delle città; si avanzò poi dalla banda di Arezzo, per la valle di Chiana sperando di sorprendere questa città, o Monte Sansovino, ch'eragli stato promesso da alcuni traditori. Ma, sebbene la grande superiorità delle sue forze lo rendesse padrone della campagna, non ottenne di prendere una sola terra fortificata, e le sue intraprese si limitarono a distruggere le vigne, ed a bruciare le messi[217]. Nello stesso tempo dodici galere napoletane infestavano i mari di Pisa, ruinando il commercio de' Fiorentini, e togliendo l'isola dell'Elba a Gherardo Appiano, signore di Piombino, e vassallo della repubblica[218].

In appresso Ladislao volse le sue armi contro Luigi di Casale, signore di Cortona ed alleato de' Fiorentini. Questo piccolo principe aveva pochi diritti all'affetto de' suoi sudditi. L'anno precedente aveva colla vita rapito il sovrano potere a Francesco di Casale, suo cugino ed amico[219]. I Cortonesi non vollero esporsi ai mali della guerra pel vantaggio del loro tiranno, e quando videro il nemico guastare i loro campi, bruciare gli ulivi, sradicare le viti, aprirono le porte della città a Ladislao, e Luigi di Casale fu condotto nelle prigioni di Napoli coll'ambasciatore fiorentino che trovavasi presso di lui[220].

In questo tempo Braccio di Montone, chiudendo la sua piccola armata ne' castelli vicini a Cortona, teneva aperti gli occhi sui movimenti di Ladislao, per approfittare d'ogni suo fallo. Non voleva esporsi ad una battaglia, ma sorprendeva i distaccamenti napolitani, loro intercettava i convogli, tagliava a pezzi i foraggieri[221], e togliendo loro in tal modo i mezzi di provvedersi di vittovaglie li ridusse in breve a tali strettezze, che Ladislao fu costretto di ricondurre le sue truppe a Roma, dopo di avere lasciate grosse guarnigioni in Perugia, Cortona, e nelle città della Marca e del ducato di Spoleti[222].

I Fiorentini erano impazienti di portare a vicenda le armi loro negli stati del nemico. Avevano chiamato in Italia Luigi II d'Angiò, figlio del principe adottato dalla regina Giovanna, e che perciò pretendeva avere dei diritti sul regno di Napoli. Speravano i Fiorentini di riaccendere in suo favore la fazione degli Angioini, e fecero riconoscere Luigi come re di Napoli dal concilio di Pisa e da papa Alessandro V. Luigi d'Angiò, che giunse a Pisa in sul finire di luglio del 1409 con cinque galere e mille cinquecento cavalli, ricevette ad un tempo dal papa l'investitura dei regni di Sicilia e di Gerusalemme, ed il gonfalone della Chiesa[223]. Si unì poco dopo a Malatesta di Pesaro, generale de' Fiorentini, a Braccio di Montone, ad Agnello della Pergola ed alle truppe di Siena e di Bologna, ed entrò nello stato della Chiesa. Orvieto, Viterbo, Montefiascone, e non poche altre città del patrimonio gli aprirono le loro porte senza opporre resistenza[224]. Paolo Orsini, che comandava in Roma a nome di Ladislao, passò dalla banda dei nemici, e si pose al soldo dei Fiorentini con due mila uomini di cavalleria[225]. Egli si era tenuto in possesso di Castel sant'Angelo e del Vaticano; ma il conte di Troja, comandante di Perugia, aveva ricondotte a Roma tutte le guarnigioni lasciate in Toscana da Ladislao con due mila cavalli, e difendeva il passaggio del Tevere e le mura d'Aureliano[226].

L'armata della lega attaccò da prima il quartiere di Transtevere che è posto dalla stessa banda del fiume che il Vaticano; ma non avendo potuto forzarne i trinceramenti, passò il fiume a guazzo presso a Monte rotondo ed attaccò Roma dalla parte della Sabina egualmente con infelice esito. Luigi d'Angiò, scoraggiato da questi infruttuosi esperimenti, lasciata l'armata, tornò a Pisa, di dove ripassò colle sue galere in Provenza. Il legato di Bologna, Baldassar Cossa, venne a Firenze ed in seguito raggiunse a Pistoja papa Alessandro V, che colà aveva stabilita la sua corte[227]. Ma Malatesta, il generale fiorentino, rimase avanti a Roma con Paolo Orsini e Braccio da Montone[228]; stancheggiò la guarnigione napolitana con frequenti attacchi, incoraggiò gli amici della libertà, e quelli dell'unione della Chiesa, ed il 2 gennajo del 1410 gli furono aperte le porte della capitale della cristianità.

La bandiera di Firenze coi gigli d'oro spiegavasi innanzi all'armata; le grida di libertà eccheggiavano nelle strade, e mentre i vincitori prendevano possesso della loro conquista, il loro trionfo non venne macchiato da verun disordine. Gli ambasciatori romani vennero a Firenze a ringraziare la signoria della buona disciplina osservata dalle sue truppe; e la signoria rispose esortando il popolo romano a conservare la libertà della sua patria con non minore zelo che la purità della fede[229].

Luigi d'Angiò non era tornato in Provenza che per adunarvi una nuova armata, onde spingere la guerra con maggior vigore. I Fiorentini, che lo stavano di giorno in giorno aspettando, desideravano che il papa andasse a soggiornare in Roma, onde meglio assicurarsi dello stato della Chiesa, ed agevolare per l'entrante primavera l'impresa del regno. Il Malatesta e Paolo Orsini occupavano Ostia, Tivoli e le fortezze che in Roma erano rimaste in potere de' Napolitani[230]. Braccio di Montone pizzicava gli abitanti di Perugia, e papa Alessandro sotto la protezione de' suoi tre generali, sarebbesi trovato in Roma sicurissimo. Ma Baldassar Cossa voleva persuaderlo a recarsi a Bologna, di cui egli aveva usurpata la sovranità, e malgrado le più calde istanze de' Fiorentini, il papa segui i consigli dell'ambizioso legato. Colà ben tosto cadde infermo, e morì il 3 di maggio del 1410[231]. Baldassar Cossa, che gli successe sotto nome di Giovanni XXIII, per un'elezione che si racconta non essere stata libera, venne accusato d'aver avvelenato il suo predecessore per essergli surrogato; e questo papa, diffamato e deposto dal concilio di Costanza, non si è mai interamente purgato dal sospetto di tale delitto[232].

Finchè Boucicault governò Genova a nome del re di Francia, la comunicazione tra la Provenza e la Toscana era stata facile e sicura, ed il re Luigi d'Angiò aveva potuto senza inquietudine far attraversare il mar ligure ai suoi soldati. Ma i Genovesi erano omai impazienti del giogo francese, perchè ogni giorno vedevano usurpati ora l'uno ora l'altro de' loro privilegi; onde, malgrado la solenne loro capitolazione, la Liguria veniva quasi trattata come paese di conquista. In sul finire del 1409 fu chiamato dalle fazioni di Milano a prendere parte nelle turbolenze della Lombardia. Raccolse quanto aveva di truppe per recarsi presso il duca di Milano Giovanni Maria Visconti; ma quando stava per porsi in viaggio, il marchese di Monferrato e Facino Cane attraversavano gli Appennini e giugnevano presso le mura di Genova, uno dalla banda della Polsevera, l'altro per la valle di Bisagno. Questi due generali, in guerra colla Francia e con Boucicault, rappresentarono ai Genovesi l'opportunità dell'occasione per iscuotere il giogo che gli opprimeva. Infatti il popolo prese le armi il 6 di settembre del 1409, uccidendo, o cacciando fuori di città tutti i Francesi, e nominando il marchese di Monferrato, capitano della repubblica, colla stessa autorità attribuita in altri tempi al doge[233].

Dopo questa rivoluzione i Genovesi abbracciarono caldamente il partito opposto alla Francia, strinsero alleanza con Ladislao, ed armarono una flotta per sorprendere nel passaggio Luigi d'Angiò, ed impedire in tal modo l'impresa del regno.

Il re Luigi era partito dalla Provenza con quattordici galere, due grandi vascelli ed altri molti più piccoli; egli trasportava su questa flotta molti cavalieri colle loro armi, cavalli ed il denaro necessario per pagarli. Quando avvicinavasi alle coste della Toscana fece forza di vele con parte della sua flotta ed entrò in Porto Pisano. Ma rimasero a dietro sei delle sue galere, che furono non lungi dalla Meloria incontrate il 6 maggio 1410 da cinque vascelli genovesi. Mentre durava un'accanita zuffa tra queste due squadre s'avvicinarono nove vascelli di Ladislao, onde le galere provenzali dovettero soggiacere alla superiorità del numero; due furono colate a fondo, tre prese e condotte a Porto Venere, ed una sola potè salvarsi a Piombino[234]. I Genovesi, approfittando della vittoria, s'impadronirono in appresso del porto di Telamone che apparteneva alla repubblica di Siena. Cominciarono altresì alcune ostilità contro quella di Firenze, ch'ebbero fine soltanto il 27 aprile del 1413, in forza d'una pace conchiusa a Lucca[235].

La flotta provenzale, dopo avere sbarcati a Piombino i corazzieri, fece vela alla volta di Napoli; levò contribuzioni nelle isole d'Ischia e di Procida, e dopo avere sparso il terrore in tutte le coste, e preso Policastro, secondò le operazioni di Niccola Ruffo, che sollevava la Calabria in favore di Luigi d'Angiò[236].

Era il principe medesimo arrivato a Roma il 24 di settembre con un'armata che sembrava formidabile, ed aveva sotto i suoi ordini i Provenzali; ed inoltre Gentile di Monterano cogli emigrati di Napoli del partito angioino, e Braccio di Montone colla sua compagnia: lo Sforza, assoldato dai Fiorentini, Angelo della Pergola dai Sienesi e Paolo Orsino dal papa, facevano altresì parte dell'armata del re[237]. Ma quest'armata mancava di danaro e di munizioni. I Provenzali più non avevano ricevuto soldo da che avevano abbandonata la Francia; a Paolo Orsini erano dovuti quattro mesi; lo Sforza aveva dissipato tutto il danaro che aveva ricevuto; Braccio da Montone riclamava dal canto suo alcuni arretrati; e sebbene i Fiorentini dessero delle anticipazioni ai soldati a nome di tutti i loro alleati, essi soli supplire non potevano a tanta spesa, e l'armata non trovossi in istato di muoversi. E per tal modo questa campagna, che aveva costato prodigiose somme, terminò senza che la lega ottenesse un solo vantaggio. Luigi, dopo avere consumato molto tempo nel riconciliare i suoi capitani sempre apparecchiati ad azzuffarsi gli uni contro gli altri, venne a Bologna in sul finire dell'anno per concertare con Giovanni XXIII le operazioni della futura campagna[238]. I Fiorentini, scoraggiati dalla non curanza de' loro alleati, e vedendo che lasciavasi cadere tutto sopra di loro il peso della guerra, diedero orecchio alle proposizioni di pace che faceva loro Ladislao. Egli offriva la cessione di Cortona coi castelli di Pierli e Mercatale in compenso delle mercanzie, ch'egli aveva tolte ai mercanti fiorentini quando erano cominciate le ostilità. Queste proposizioni furono accettate, ed il trattato fu soscritto il 7 gennaio del 1411, comprendendovi i Sienesi; e Luigi d'Angiò, e Giovanni XXIII, che restavano in guerra con Ladislao, furono costretti di approvare essi pure la condotta dei Fiorentini[239].

Non pertanto Giovanni XXIII risolse di andare a stabilirsi in Roma, onde potere più vivamente trattare la guerra che oramai doveva sostenere quasi colle sue forze. Entrò nella sua capitale l'11 aprile del 1411, e fu ricevuto dal popolo con acclamazioni e festevoli voci[240]. Ma nello stesso tempo la città ove aveva fin allora dimorato, e di cui aveva acquistata la sovranità molto tempo prima d'essere papa, scuoteva il suo giogo per tornare in libertà. Gli artigiani ed il popolo di Bologna presero le armi il giorno 11 di maggio, opprimendo d'imprecazioni la nobiltà e la chiesa, che gli avevano ridotti in servitù. Occuparono e spianarono la fortezza ove il legato aveva lasciata guarnigione; ma respinsero il Malatesti che voleva approfittare della rivoluzione per togliere loro diversi castelli, e colla mediazione della repubblica fiorentina conservarono a Giovanni XXIII la loro ubbidienza spirituale, spogliandolo però della sovranità[241].

Era pure andato a Roma Luigi d'Angiò, ed aveva riuniti sotto le sue insegne i medesimi condottieri che nella precedente campagna erano stati dati dai diversi stati della lega. Egli seppe persuaderli a seguirlo contro il suo nemico, sebbene non avesse abbastanza danaro per pagare il loro soldo, e che non si fosse veduta mai un'armata della sua più povera. Era per altro composta di dodici mila corazzieri, i migliori soldati che avesse l'Italia[242]. Luigi condusse quest'armata a Ceperano; Ladislao lo stava aspettando a Rocca Secca con un'armata press'a poco d'eguali forze. Luigi d'Angiò passò il fiume il 19 di marzo del 1411, ed attaccò impetuosamente il nemico, e così fattamente lo ruppe, che quasi tutti i Baroni, che servivano nell'armata di Ladislao, furono fatti prigionieri, e vennero in potere del vincitore gli equipaggi, e lo stesso vassellame del re. Ladislao fuggì a Rocca Secca, e di là verso san Germano; e sarebbe stato facile il raggiugnerlo e farlo prigioniere, se i vincitori non fossero stati trattenuti dal saccheggio del campo nemico[243]. «Il primo giorno dopo la mia disfatta, diceva egli medesimo, il mio regno e la mia persona erano egualmente in potere de' nemici; il secondo giorno la mia persona era in salvo, ma se lo volevano, erano tuttavia padroni del mio regno; il terzo giorno tutti i frutti della loro vittoria erano perduti»[244]. In fatti i soldati vittoriosi, premurosi di procurarsi un poco di danaro, vendevano ai loro prigionieri per pochi ducati e libertà ed armi. Ladislao avvisato di ciò, mandò da san Germano trombetti con danaro, ed in tal modo riebbe in poche ore quasi tutta la sua armata[245].

Quando Luigi d'Angiò volle finalmente approfittare della vittoria trovò occupati dai soldati di Ladislao tutti i passi del regno di Napoli. Le sue truppe mancarono bentosto di vittovaglie, e molte caddero ammalate; la preda che avevano fatta non le rendeva punto più docili, nè loro teneva luogo degli arretrati che avanzavano; onde il 12 di luglio Luigi fu obbligato di tornare a Roma[246]. In principio del susseguente mese imbarcossi sul Tevere per tornare in Francia, ove morì in agosto del 1417, senza aver fatti nuovi tentativi per conseguire il suo regno di Napoli[247].

Giovanni XXIII, successivamente abbandonato dai suoi alleati, restava solo esposto agli attacchi di Ladislao. Il 19 maggio del 1412 perdette ancora uno de' suoi più valorosi capitani, Sforza da Cotignola, che gli domandò il suo congedo per passare sotto le insegne del re di Napoli, perchè non voleva più servire insieme a Paolo Orsino suo nemico[248]. Ma Ladislao a quest'epoca, sia che non avesse danaro per continuare la guerra, o che fosse stanco di sostenere solo la causa di Gregorio XII ch'erasi rifugiato ne' suoi stati, desiderava di riconciliarsi con Giovanni XXIII. Alcuni negoziatori fiorentini s'intromisero per trattare la pace, ed offrirono per parte del papa grosse somme di danaro ed altri considerabili vantaggi al re di Napoli, pur ch'egli volesse sottrarsi all'ubbidienza di Gregorio XII, riconoscere il concilio di Pisa, ed il papa che succedeva ne' suoi diritti; il trattato fu conchiuso il 15 giugno del 1412; in forza di questo furono da Giovanni XXIII pagati al re di Napoli cento mila fiorini sonanti, l'investitura del regno di Sicilia accordata a Ladislao coll'abolizione di tutti i diritti di Luigi d'Angiò, oltre la rinuncia agli arretrati di dieci anni dei tributi dovuti dal regno alla santa sede[249]. Allora Ladislao, convocando un'assemblea del clero de' suoi stati, riconobbe la sovranità in materia di fede del concilio di Pisa, il diritto ch'egli aveva di deporre Gregorio, e la legittimità dell'elezione di Giovanni XXIII. Ordinò a Gregorio, che aveva stabilita la sua piccola corte a Gaeta, di uscire da' suoi stati avanti che terminasse ottobre. Questo papa fu costretto d'imbarcarsi coi tre cardinali, che gli si erano conservati fedeli, sopra navi veneziane che trovavansi nel porto, e costeggiando l'Italia diede prima fondo in Dalmazia, indi a Porto Cesenatico. Di là passò a Rimini, ove si trattenne sotto la protezione di Paolo Malatesti, signore di quella città, finchè accondiscese a dare la sua abdicazione[250].

Il trattato di pace tra Ladislao e Giovanni XXIII non fu pubblicato a Roma che il 19 ottobre del 1412[251]; non vi era stato dal papa compreso Paolo Orsini, perchè Giovanni XXIII conservava un segreto odio contro questo capitano, per non avere approfittato della vittoria di Rocca Secca; e fece inoltre sentire a Ladislao che vedrebbe con piacere spogliato l'Orsini delle terre che possedeva nella Marca d'Ancona. Perciò il re di Napoli ordinò allo Sforza, che sapeva essere personale nemico dell'Orsini, di attaccarlo all'aprirsi della nuova stagione. L'Orsini, sorpreso all'impensata, si rifugiò in Rocca Contratta, ove sostenne un ostinato assedio[252].

Ladislao, che aveva adunata una ragguardevole armata, si avanzò in appresso per sostenere il suo generale; ma improvvisamente prese la strada di Roma, ed il 31 maggio presentossi alle porte della città, mentre alcune galere napolitane occupavano la foce del Tevere, ed alcune barche armate rimontavano il fiume. Per la quale improvvisa comparsa il papa chiamò i Romani, e loro avendo domandato di unirsi per difesa della città, tutti promisero di combattere e di morire per il papa e per la chiesa. Non pertanto il settimo giorno alcuni di loro atterrarono il muro presso la porta Capena, e fecero entrare in città colla sua cavalleria il Tartaglia, uno de' capitani del re, e Giovanni XXIII appena ebbe tempo di fuggire alla volta di Firenze[253].

Tostochè il re si vide padrone di Roma, abbandonò al saccheggio de' soldati le proprietà di tutti i mercanti fiorentini che vi si erano stabiliti; ed inoltre annunciò alla sua armata, che bentosto l'arricchirebbe col sacco della stessa Firenze[254]. La repubblica, intimorita da tale procedere, nominò il 14 maggio del 1413 i dieci della guerra per porsi in su le difese; e fe' capo di questi magistrati Niccolò da Uzzano, il più riputato uomo di questi tempi. Malatesta da Pesaro fu preso come capitano di guerra, e molti signori dello stato ecclesiastico si posero sotto la protezione de' Fiorentini con trattato di genere affatto nuovo, che in allora chiamavasi di raccomandazione. Guido Antonio, conte di Montefeltro e di Urbino, si obbligò ad essere per dieci anni alleato de' Fiorentini, Luigi degli Alidosi, signore d'Imola, per sei, Ugolino dei Trinci, signore di Foligno, per cinque, e Jacopo d'Appiano, signore di Piombino, ancora fanciullo, fu posto dalla madre per sei anni sotto la tutela dei Fiorentini[255].

Questi per altro vollero evitare, se era possibile, di provocare Ladislao alla guerra, e mentre trattavano con lui, ricusarono di ricevere nella loro città Giovanni XXIII, assegnandogli per sua dimora la casa di campagna del loro vescovo: ma dopo tre mesi il papa venne finalmente accolto in Firenze, ove si trattenne fino al principio di novembre[256]. Passò quindi a Bologna, che nel precedente anno era tornata sotto la sua dipendenza. I plebei, che avevano contro di lui eccitata la rivoluzione, eransi bentosto resi col loro governo odiosi; onde i nobili che avevano congiurato contro di loro, il 14 agosto 1412 presero le armi ed occuparono il palazzo e la piazza pubblica; spiegarono di nuovo lo stendardo della chiesa, e chiesero a Giovanni XXIII un vicario per governare la loro patria[257].

Mentre i Fiorentini andavano temporeggiando, Ladislao soggiogava colle sue armi tutte le città del patrimonio di san Pietro fino ai confini di Siena e di Firenze: Sutri, Viterbo, Todi, Perugia e tutte le altre città della provincia gli aprirono le porte[258]. Egli aveva intenzione, prima d'attaccare i Fiorentini, di persuadere il marchese Niccolò d'Este ad entrare nello stato di Bologna per dividere le forze de' suoi nemici, minacciando il papa. Sforza, suo generale, il di cui figliuolo, che fu poi duca di Milano, era stato educato nella corte del marchese d'Este, s'incaricò di questa negoziazione, ed aveva già determinato il marchese ad assumere il titolo di generale di Ladislao al di là degli Appennini, ed a ricevere lo stendardo del re, ed il danaro necessario per assoldare un'armata; ma i Fiorentini, colla mediazione dell'imperatore, ridussero Niccolò a rimandare a Ladislao il suo stendardo, ed a farsi alleato della chiesa[259]. Il re di Napoli non potendo dare esecuzione al progetto che aveva formato, non s'innoltrò al di là dei confini dello stato della chiesa, ed avvicinandosi l'inverno rientrò nel suo regno.

In principio del 1414, avendo Ladislao ammassate ragguardevoli somme con forzate esazioni, e colla vendita di molti titoli di nobiltà, di dominj della corona e di feudi confiscati a danno de' gentiluomini del partito d'Angiò[260], egli mise insieme un'armata di circa quindici mila corazzieri, che condusse subito a Roma. Egli andava riscaldando il coraggio de' suoi soldati colla promessa del sacco di Firenze e delle più ricche città della Toscana; ed udivasi frequentemente accusare d'insolenza i Fiorentini, che osavano tenergli testa; pure quando gli ambasciatori fiorentini gli si presentarono per sapere se da lui dovevano aspettarsi la guerra o la pace, protestossi attaccato alla signoria, giurò d'avere intera fiducia nella giustizia de' Fiorentini, ed offrì di prenderli per arbitri delle differenze che aveva con Giovanni XXIII. Egli domandava di essere dal papa riconosciuto come vicario della chiesa nelle città che aveva di già conquistate, offrendosi di pagare un adeguato tributo[261]. Ma Giovanni in quest'epoca trovavasi avvolto in critiche negoziazioni per la convocazione del concilio di Costanza; vedeva mal ferma la sua autorità spirituale; era forzato ad udire i rimproveri e spesso ancora le minacce di que' medesimi che eransi fin allora dichiarati suoi partigiani, e poco curavasi della difesa di Roma e delle sue province, finchè non era sicuro della medesima tiara.

I Fiorentini, non potendo soli proteggere gli stati della chiesa, nè ridurre a buon fine il trattato tra il papa ed il re, tanto più che vedevano l'uno e l'altro agire di poca buona fede, accettarono finalmente la proposizione loro più volte fatta da Ladislao, e separarono i loro interessi da quelli della chiesa. Vero è ch'essi non davano fede alle parole del re di Napoli, e ben sapevano che una tregua con lui, equivaleva tutt'al più ad un armistizio; ma credettero conveniente di legarlo quanto più possibil fosse co' suoi giuramenti, senza perciò lasciare di star sempre in guardia contro di lui; e soscrissero nel suo campo presso ad Assisi, il 22 giugno del 1414, un nuovo trattato di pace, nel quale vennero comprese la città di Bologna, residenza del papa, la repubblica di Siena, ed il generale Braccio di Montone[262].

Il popolo non sapeva adottare veruna dissimulazione in politica, ed altamente disapprovò un trattato con un nemico che non cessava di voler nuocere, ed avrebbe con lui preferita la guerra aperta; onde fu d'uopo che la signoria in certo modo facesse forza ai due consigli, per persuaderli a ratificare la pace d'Assisi[263]. Infatti Ladislao meditava sempre qualche nuovo tradimento. Dopo che Paolo Orsini erasi sottratto allo Sforza, ed uscito vincitore dall'assedio di Rocca Contratta, il re aveva cercato di riconciliarsi con questo generale, e lo aveva di nuovo richiamato al suo servigio[264]. L'Orsini e lo Sforza servivano di nuovo nella stessa armata, e tutti due si trovavano pressa Ladislao a Perugia, allorchè questi fe' subitamente arrestare e caricare di catene Paolo Orsini, Orso di Monte Rotondo, e molti altri baroni romani, che vivevano sicuri sulla fede dei trattati. Il re mostrava contro di loro la più violenta collera, e più non dubitavasi che il supplicio di cui spesso li minacciava non fosse principio di qualche nuova guerra, quando Ladislao fu colpito da una malattia probabilmente cagionata dalle eccessive sue dissolutezze. Ancora non era noto il flagello vendicatore dell'incontinenza, che meno di un secolo dopo fece tanto danno a tutta l'Europa; ma il re fu preso da un male della stessa natura, i di cui sintomi fecero credere che un nuovo veleno gli fosse stato avvertitamente comunicato da una delle sue amanti; e si vide bentosto una di queste, che era figlia di un medico di Perugia, morire per la violenza degli stessi dolori[265]. Il re, i di cui patimenti rendevansi insopportabili, fecesi da prima trasportare in ceste a Roma, e colà s'imbarcò sul Tevere per passare a Napoli, ma appena giunto in questa città vi morì il 6 agosto del 1414[266].

Tali furono le rivoluzioni dell'Italia meridionale ne' sei anni che passarono tra il concilio di Pisa e quello di Costanza. Nello stesso tempo il settentrione dell'Italia e della Germania trovavasi pure in balìa di convulsioni politiche che colmavano la misura delle disgrazie di questo periodo di turbolenze e di anarchia.

Invano l'imperatore Roberto erasi sforzato di ristabilire la pace della Germania e della Chiesa; infruttuose riuscirono tutte le sue pratiche; gli elettori ed i principi dell'impero gli avevano fatte provare, colle loro orgogliose ed arroganti pretese, quasi non minori umiliazioni di quelle date a Wencislao suo predecessore. L'elettore di Magonza, il margravio di Baden, ed il conte di Virtemberga avevano del 1405 formata una lega colle città libere della Svevia e del Reno. Questa lega, detta di Marbac, aveva dettate leggi all'imperatore, e si era mantenuta malgrado i suoi ordini e le sue preghiere. Le più ingiuste lagnanze formavansi contro l'imperatore; ognuno spogliava il fisco imperiale, ed ognuno rimproverava poi all'imperatore la debolezza cui era ridotto per le usurpazioni de' suoi vassalli. Era accusato dell'accordata indipendenza al ducato di Milano, e della trasmissione di quello del Brabante alla casa di Borgogna; ma non gli era stata accordata veruna assistenza per riunire questi feudi al dominio imperiale; finalmente lo volevano risponsabile per non avere il concilio di Pisa ristabilita la pace della chiesa, perchè egli stesso aveva ricusato di sottomettervisi, conservandosi fedele al partito di Gregorio XII[267]. Forse i Tedeschi non sarebbersi limitati a lagnanze ed a rimostranze; forse Roberto correva pericolo di essere deposto come lo era stato il suo predecessore, se la morte non lo avesse il 19 maggio 1410 sottratto a nuove umiliazioni[268].

Wencislao, dopo di avere perduta la corona dell'impero, continuava a regnare in Boemia; ma la Germania non voleva di nuovo ubbidire a questo monarca indolente e dedito alla crapula. Si convocò una dieta a Francoforte per nominare un nuovo re de' Romani; i suffragi si divisero tra Jossa, marchese di Moravia, e Sigismondo, re d'Ungheria, fratello di Wencislao. L'uno e l'altro vennero proclamati dai loro partigiani il 28 ottobre del 1410, e la Germania ebbe per pochi mesi tre imperatori, siccome la cristianità aveva tre papi; ma fortunatamente pel riposo dell'Europa Jossa morì l'8 gennajo del 1411, ed in allora tutti gli elettori aderirono a Sigismondo, onde lo stesso Wencislao gli diede il proprio voto come re di Boemia[269].

Sigismondo aveva più volte colle sue crudeltà e colla mala fede eccitate ribellioni in Ungheria: appassionato per i piaceri poco meno di suo fratello, aveva più volte perduto nell'intemperanza, o in amorose pratiche un prezioso tempo, mentre i suoi nemici disprezzavano la sua autorità. Tutt'ad un tratto usciva da tanta inerzia, ed in allora la sua vendetta era tanto più terribile, in quanto che veruna considerazione di rango o di gloria, verun trattato, verun giuramento gli poneva limiti. Quand'aveva una volta formato un progetto, gli dava esecuzione con grandissima attività. Affatto non curante della fatica e dei pericoli, egli scorreva l'Europa colla rapidità del suo avo Giovanni di Boemia, quello che venne risguardato come un corriere tra i re. Sigismondo, sovrano ad un tempo del Brandeburgo e dell'Ungheria era stato chiamato dalle rivoluzioni de' suoi stati, lontani l'uno dall'altro, ad attraversare più volte tutta la Germania. Disfatto a Nicopoli, fuggì a Costantinopoli, e tornò per la Grecia e per la Schiavonia nei suoi stati. Finalmente per terminare lo scisma, visitò la Polonia, la Francia, l'Italia, la Spagna, e lo zelo disinteressato ch'egli manifestò in quest'ultima circostanza gli meritò una gloria di cui fin allora sarebbesi creduto incapace[270].

Quando Sigismondo fu eletto imperatore, trovavasi in aperto dissidio colla repubblica di Venezia per cagione di Zara e di altre città della Dalmazia che questa aveva comperate da Ladislao[271]. Perciò prima d'andare a prendere la corona imperiale volle aprirsi la strada d'Italia per il patriarcato d'Aquilea e per il Friuli. In dicembre del 1411 vi mandò sei mila cavalli ungari sotto la condotta di Pipo Scolari fiorentino[272], cui egli aveva tutta accordata la sua confidenza, ed aveva innalzato al titolo di Ban[273]. Subito dopo un secondo corpo di altri sei mila Ungari venne a raggiugnere questo generale; onde il patriarca si vide costretto a ricoverarsi in Venezia, lasciando che tutta la provincia fosse occupata dalle truppe del re; e Taddeo del Verme, capitano delle truppe della repubblica, si riputò fortunato di aver potuto impedire l'invasione della provincia di Treviso.

Ma dopo questi prosperi avvenimenti gli Ungari non ottennero ulteriori vantaggi. Carlo Malatesti, signore di Rimini, fu posto alla testa dell'armata veneziana; questi, sebbene si lasciasse sorprendere il 9 agosto 1412 presso alla Motta al passaggio della Livenza, fece pentire gli Ungari del loro attacco, e li costrinse a ritirarsi con perdita. Egli medesimo ricevette in tale occasione tre ferite, che l'obbligarono a rinunciare al comando dell'armata. La signoria gli diede per successore suo fratello, Pandolfo Malatesti, signore di Brescia[274]. Le due armate ricevevano vicendevoli rinforzi, e lo stesso Sigismondo aveva raggiunta la sua; ma non poteva avanzare in un paese tagliato da molti fiumi, e dove tutti i villaggi erano cinti di mura. La guerra si mantenne due anni ai confini senza che una parte si trovasse più avvantaggiata dell'altra. Tutte le operazioni di Sigismondo si ridussero adunque a prese e riprese di castelli, che snervavano le armate avversarie, senza che ottenessero lo scopo che si erano proposto[275].

Sigismondo era impaziente di superare l'ostacolo che i Veneziani opponevano al suo ingresso in Italia; perciocchè ardentemente desiderava di spegnere lo scisma, e per giugnere a quest'intento voleva avere in Lombardia una conferenza con Giovanni XXIII. Voleva prendere a Milano la corona di ferro, onde non presentarsi ai principi della Germania che dopo di avere ottenuto ciò che invano i suoi predecessori avevano cercato di ottenere. Ma perchè non faceva verun avanzamento nè nella Marca Trivigiana, nè nell'Istria, ove assediò molti castelli, diede finalmente orecchio a proposizioni di pace. Giovanni XXIII si offrì mediatore tra Sigismondo e la repubblica, senza che potesse conciliare le loro pretese; in appresso vi si intromise, ma vanamente ancor esso, il re di Polonia; e per ultimo il conte di Cilly, suocero di Sigismondo, ottenne di intavolare un trattato. Le negoziazioni s'aprirono a Trieste il 26 febbrajo 1413, il di cui risultato fu una tregua di cinque anni fra l'imperatore ed i Veneziani firmata il 18 aprile dello stesso anno[276].

Sigismondo approfittò subito della tregua per passare in Lombardia. Questa contrada era stata in preda alle più funeste rivoluzioni; i generali dei due fratelli Visconti non si erano accontentati d'usurpare la tirannide nelle città loro date in custodia, che volevano ancora regnare sui loro antichi padroni, e si disputavano colle armi alla mano il favore del duca di Milano o del conte di Pavia, e gl'impieghi che questi due principi potevano ancora accordare. Qualunque si fosse il capitano vittorioso, ogni vittoria era sempre seguita dal sacco di una città, ed i cittadini, indifferenti a tutte le contese dei generali, erano abbandonati ai soldati come una ricompensa dovuta al loro valore; ogni eccesso era permesso ai condottieri, e gli uomini brutali e feroci, che militavano sotto di loro, costringevano spesse volte con orribili tormenti i borghesi, che avevano arrestati, a liberarsi con enormi taglie.

La storia non presenta forse verun periodo più infelice di quello che tenne dietro alla morte di Giovan Galeazzo. I soldati superavano in crudeltà tutto quanto si racconta dei popoli più barbari; non animati da verun entusiasmo, non erano pure suscettibili di sentimenti generosi. Essi non conoscevano altra passione militare che quella delle ricchezze, della licenza, della carnificina; questa aveva loro poste le armi in mano, non già il patriotismo, non lo spirito di partito, non lo zelo religioso, onde nè pietà nè rispetto divino od umano li potevano persuadere a deporle. I popoli esposti alla loro barbarie soffrivano tanto più quanto erano ridotti a maggiore civiltà. Uomini avvezzi a non soffrire privazioni, che non conoscevano nè pericoli, nè dolori, uomini che vivevano nell'agiatezza e nel riposo, che conoscevano le arti e gli allettamenti della vita socievole, passavano in un istante senza propria colpa, senza motivo, dall'opulenza all'estrema miseria, da una vita delicata al cavalletto dei carnefici[277]. Giovanni Maria, figliuolo primogenito di Giovanni Galeazzo, e duca di Milano, non si era riservata altra parte nel governo che quella di ordinare i supplicj. Fino dall'infanzia circondato dai delitti, egli aveva contratte le più feroci passioni. Egli non vedeva nelle formalità della giustizia che un'occasione di soddisfare la sua infernale sete del sangue. Si faceva cedere i delinquenti per cacciarli coi cani da corsa. Il suo cavallerizzo, Squarcia Giramo, che aveva nudriti i suoi mastini di carne umana, per avvezzarli a questa caccia reale, era il suo principale favorito. Siccome gli mancavano le vittime, dichiarò che vendicherebbe la morte di sua madre, alla quale per altro egli stesso aveva contribuito più d'ogni altro, e fece squarciare dai cani Giovanni da Pusterla, Antonio Visconti, suo fratello Francesco, e molti altri gentiluomini ghibellini. Diede pure in preda ai suoi mastini il figliuolo di Giovanni da Pusterla in età di soli dodici anni, e perchè questo fanciullo gittavasi ginocchioni domandando grazia, i cani si fermarono e non vollero toccarlo. Squarcia Giramo col suo coltello da caccia lo scannò, ed i cani ricusarono tuttavia di gustare il suo sangue o le sue viscere[278].

Frattanto Facino Cane, tiranno d'Alessandria, dopo essersi impadronito della reggenza degli stati di Filippo Maria conte di Pavia, costrinse pure colle armi alla mano Giovanni Maria ad ammetterlo nel suo consiglio. Spogliò ben tosto i due fratelli di tutta la loro autorità, li privò della libera disposizione delle loro entrate, e li ridusse a tale ristrettezza, che mancavano talvolta di vesti e di cibo. Facino non aveva figliuoli e lasciò vivere i due Visconti soltanto perchè non aveva alcun interesse di disporre della loro eredità. Ma egli stesso nel 1412 venne sorpreso da malattia mortale. I Milanesi videro con orrore che Giovanni Maria, liberato dal giogo di Facino, tornerebbe a regnare con maggiore ferocia di prima; i Posterla, Biagio Trivulzi, Mantegazzi ed altri gentiluomini milanesi, determinati di non aspettare il rinnovamento della tirannide, attaccarono il duca il 16 maggio del 1412 mentre si recava alla chiesa di san Gottardo, e lo uccisero. Facino Cane morì poche ore dopo, giurando che se avesse vissuto, avrebbe vendicata la morte del figlio del suo signore[279].

Si crede che i congiurati avessero determinato di far morire ancora Filippo Maria, e dare l'eredità dei Visconti ad Ettore, figliuolo naturale di Barnabò, ed a Giovanni Piccinino figliuolo di Carlo Visconti. Ambidue entrarono in Milano con una dozzina d'amici tostochè ebbero avviso della morte di Giovanni Maria; ed Ettore, che chiamavasi il soldato senza paura, venne immediatamente proclamato duca di Milano. Ma Filippo Maria, udita la morte del fratello e di Facino, dispiegò tutt'ad un tratto un'attività che da lui non si sperava. Egli si assicurò della guardia del castello di Pavia, ove trovavasi rinchiuso, incusse timore ai Beccaria che lo avevano lungo tempo oppresso, e li costrinse a ricevere i suoi ordini, si affezionò i partigiani di Facino Cane, e per raccogliere l'eredità di questo generale, e dare ai suoi soldati un pegno del suo affetto, sposò la di lui vedova, Beatrice Tenda, sebbene in età di quarant'anni, mentr'egli ne aveva appena venti[280].

Vincenzo Marliano, che aveva il comando della cittadella di Milano, ricusava di aprirla ad Ettore, dichiarando che riconosceva Filippo quale erede legittimo dell'ultimo duca; ma le truppe di Facino, che trovavansi acquartierate in città, non sapevano a quale partito appigliarsi; chiedevano nuovi saccheggi e nuovi doni, e davano orecchio alle proposizioni di Ettore ed a quelle di Pandolfo Malatesti che volevano prenderle al loro soldo. Inaspettatamente seppero che la vedova del loro generale si era immediatamente rimaritata col nuovo duca, e che questa offriva loro tutte le grazie ch'esse potevano pretendere; a tale notizia si affollarono sotto le sue insegne, le aprirono le porte di Milano, di dove Ettore dovette fuggire, e Filippo Maria, che fece il suo ingresso nella capitale il 16 giugno del 1412, consolidò ben tosto la sua autorità sopra la Lombardia, e vendicò la morte del fratello sopra i di lui uccisori[281].

Qualunque fosse il desiderio che nudriva Sigismondo di unire immediatamente all'impero le città della Lombardia a norma degli obblighi imposti ai suoi predecessori, non si trovò abbastanza forte per attaccare il duca Filippo Maria, ed entrato in Italia, si ristrinse a trattare i soli affari della Chiesa. Recossi a Lodi, che in allora dipendeva da Giovanni di Vignate, e colà si scontrò in tre ambasciatori di papa Giovanni XXIII coi quali doveva fissare il luogo in cui sarebbe convocato il nuovo concilio. Il papa, stretto dalle armi di Ladislao, abbandonato dai suoi alleati, e temendo il biasimo della cristianità, non osava rifiutarsi ad adunare un concilio, sebbene temesse di essere da lui giudicato. Aveva prima data commissione ai suoi legati d'insistere perchè l'assemblea si tenesse in qualche città d'Italia; ma quando ebbero l'ultima udienza di congedo, stracciò le sue istruzioni, e loro diede facoltà piene ed assolute[282]. L'imperatore ed i Tedeschi temevano l'influenza della politica di Roma sopra il concilio, e la corruzione del clero italiano. Volevano un'assemblea affatto libera per procedere alla riforma della Chiesa, che stava loro a cuore forse più che l'unione, e scelsero la città imperiale di Costanza, che, posta quasi nel centro della cristianità, sembrava opportunissima a tenervi un concilio ecumenico. I legati di Giovanni XXIII approvarono questa scelta, ma quando il papa ebbe notizia di tale risoluzione, ne fu profondamente afflitto. Previde l'indipendenza e la severità di un'assemblea, cui non si mancherebbe di denunciare la sua condotta, e che, composta essendo in gran parte di oltramontani, poco avrebbe a sperare o a temere da lui. Non pertanto ratificò quanto avevano fatto i suoi legati, e recossi presso Sigismondo per concertare preventivamente tutto ciò che rendevasi necessario per il concilio[283].

I due capi della cristianità si trattennero lungamente insieme nelle due città di Piacenza e di Lodi, che l'una e l'altra appartenevano a Giovanni di Vignate[284]. Visitarono ancora Cremona, e l'imperatore accordò alcune grazie a Gabrino Fondolo tiranno di questa città[285]. Essendo ambidue saliti alla sommità del campanile della cattedrale, di dove scopresi quasi l'intera Lombardia ed il maestoso corso del Po, Gabrino Fondolo, che aveva di già ottenuto colla più nera perfidia la sovranità di cui godeva, ebbe un istante il pensiero di precipitare l'imperatore ed il papa dall'alto di quel campanile per cagionare nella cristianità una inaspettata rivoluzione, di cui egli avrebbe approfittato. Quando, undici anni dopo, questo tiranno era vicino a perdere la testa in Milano per ordine di Filippo Maria, dichiarò di non essere d'altro pentito che del non aver dato esecuzione a tale pensiero[286].

Frattanto l'imperatore ed il papa avendo concepito qualche sospetto intorno alla fedeltà del loro ospite, abbandonarono subito Cremona[287]. L'imperatore rendendosi a Como ebbe una conferenza con Filippo Maria duca di Milano; il papa prese la strada di Ferrara per tornare a Bologna; ma tutti e due prima di separarsi avevano pubblicati d'accordo editti e bolle per invitare il clero della cristianità ad unirsi a Costanza il 1.º novembre del 1414, e tutta la Chiesa aspettava con impazienza l'apertura di quest'augusta assemblea dalla quale sperava il ristabilimento della sua antica purità ed il ritorno della pace[288].

CAPITOLO LXII.

Concilio di Costanza; termina il grande scisma d'Occidente. — Giovanna II di Napoli, e suo marito Giacomo, conte della Marca. — Grandezza e rivalità dei due condottieri, Braccio di Montone e Sforza di Cotignola.

1414 = 1418. In principio del quindicesimo secolo il rispetto lungamente accordato ai capi del clero aveva dato luogo a sentimenti di odio e di dispetto: lo scisma aveva scosse tutte le credenze; e nella sua durata, eransi distrutte tutte le illusioni vantaggiose ai pastori della Chiesa. I papi ed i cardinali d'ogni partito attaccavano i loro avversarj con una violenza, che tutti rendevali egualmente odiosi. Essi sforzavansi di accreditare gli uni contro gli altri le più vergognose accuse, e s'intentavano reciprocamente i più scandalosi processi. Si andavano per tal modo accumulando agli occhi del popolo le pretese prove delle iniquità del clero, e si terminava per dar fede a tutti gli accusatori. Coloro che i santi maledivano, ed i concilj coprivano d'anatemi, risguardavansi quali uomini macchiati di tutti i delitti. Non potrebbe farsi una più sanguinosa satira dei capi della Chiesa, che raccogliendo ciò che gli scrittori ecclesiastici più riputati hanno lasciato scritto intorno al clero. Ma quanto i loro panegirici ci si resero sospetti in altre circostanze, altrettanto dobbiamo in questa diffidare dei loro libelli. Il clero ha virtù e vizj che gli sono ugualmente proprj; si comprende come il disordine s'introduca in un corpo che fa professione di santità; ma non saprebbesi nè comprendere, nè credere che le sue scelte cadano sempre sopra i più vili uomini, e che faccia esso per suoi capi coloro la di cui condotta è più propria a disonorarli[289]. Se Giovanni XXIII, come ci viene dipinto, fosse stato un avaro e tiranno, un avvelenatore educato in mezzo ai pirati ed un mostro di lascivia[290], nè il concilio di Pisa avrebbe seguiti i suoi consigli, nè Alessandro V sarebbesi affidato alla di lui amicizia, nè un conclave l'avrebbe fatto capo della cristianità.

Non pertanto devesi accordare che tra i padri della Chiesa non erano cosa rara l'ambizione, la venalità, i disonesti costumi e la mondana politica; e questo può giustificare, non dirò già le amare invettive degli scrittori, ma per lo meno l'universale malcontento. Bonifacio IX aveva cominciato a fare quello scandaloso commercio delle indulgenze, che doveva più tardi essere cagione in Germania di tanti sconvolgimenti. I suoi nunzj, arrivando in una città, appendevano alle finestre della casa, in cui abitavano, un'insegna collo stemma del papa e colle chiavi della Chiesa; ergevano nella cattedrale, a canto all'altar maggiore, tavole coperte di magnifici tappeti, simili a quelle de' banchieri, per ricevere il danaro di coloro che venivano a comperare indulgenze; essi annunciavano al popolo l'assoluta autorità loro data dal papa di liberare dal purgatorio le anime degli estinti, e di accordare il più compiuto perdono di tutti i delitti a coloro che volevano farne acquisto. Il clero tedesco riclamava invano contro questo vergognoso traffico di grazie spirituali; perciocchè quelli che osavano disapprovarlo venivano scomunicati e perseguitati come ribelli dalla corte di Roma[291]; di modo che i più religiosi uomini dell'Europa, i più illuminati filosofi d'ogni ubbidienza chiedevano d'accordo la riforma della Chiesa nel suo capo e ne' suoi membri.

Ma mentre che il settentrione e l'occidente dell'Europa volevano scuotere il giogo della superstizione e dell'anarchia romana, gl'Italiani più omai non risguardavano il cristianesimo che come una invenzione politica di cui approfittavano, e presero a difendere con zelo opinioni e pregiudizi, cui essi più non davano fede[292].

Quando i tre concilj, di Pisa, di Costanza e di Basilea, attaccarono successivamente l'autorità dei papi, gl'Italiani si sforzarono di sostenerla come una proprietà nazionale. Essi vedevano la corte di Roma distribuire con prodigalità temporali grazie, cui desideravano di partecipare, lusingandosi tutti di godere un giorno della benefica influenza che un semplice prete esercitava su tutta l'Europa. Vedevansi attaccati come nazione, perchè venivano accusati d'avere comunicati al clero tutti i vizj ond'era accusato; quindi si difesero nazionalmente, e questa contesa diede loro uno spirito di corpo, che prima non conoscevano. Bastava che un prelato fosse italiano, perchè riuscisse sospetto a coloro che bramavano la riforma, e bastava che fosse loro sospetto perchè questi si attaccasse al papa e facesse con lui causa comune. Altronde gl'Italiani non erano legati alla Chiesa, nè da caldo entusiasmo, nè da viva fede, nè da un sentimento religioso o da un bisogno del loro cuore. Appena la credenza loro influiva sulla propria condotta; e se essi conservavano tale credenza, devesi attribuire alla niuna cura che si prendevano di esaminarla. Vedevansi pochissimi Italiani abbracciare con fervore le pratiche di divozione che s'indicavano quali sicuri mezzi per giugnere al cielo. Il secolo più non produceva santi, tranne alcune donne interamente separate dal mondo. Più non vedevansi dottori approfondire i misterj della fede, muovere nuove dispute intorno al domma, e richiamare a sè l'attenzione universale coi loro talenti per la controversia, colla scienza teologica, o coll'arditezza de' loro sistemi. Più non vedevansi eretici in Italia, perchè la religione cattolica più non era l'oggetto delle meditazioni de' pensatori. Tutti coloro che aspiravano ad acquistarsi credito in filosofia, coloro che collo studio degli antichi volevano innalzarsi a qualche gloria, prendevano i sapienti dell'antichità, Aristotile e Platone come fiaccole della loro fede; questi consultavano essi e non i padri della Chiesa intorno a quanto dovevano credere[293]. Tutti gli uomini di stato non avevano omai altra religione che la loro politica; per ultimo, il popolo, sempre allettato dai grandi spettacoli, sempre entusiasta per le belle arti ed affezionato alle feste, mantenevasi attaccato al culto de' suoi padri non per proprio convincimento, ma per immaginazione. Osservando l'ordinaria sua condotta non sarebbesi pur sospettato che fosse cristiano; ma una grande calamità, o la pompa d'una festa lo richiamava nelle chiese; non vi portava affetto ma abitudine, nè credeva che di più si richiedesse per la salute.

In Italia il clero era numerosissimo, ma nè troppo ricco, nè troppo potente. Il solo papa era sovrano temporale, mentre tutti i vescovi ed abati de' monasteri erano rientrati nell'ordine di semplici cittadini. Le loro entrate d'ordinario non eccedevano i bisogni del loro rango, e siccom'essi non erano esposti alle seduzioni del potere e della ricchezza, la condotta loro era per lo più esemplare. I soli depositarj dell'autorità del papa, i legati ed i cardinali, erano talvolta cagione di scandalo. In Germania ed in Inghilterra per lo contrario le ricchezze del clero risvegliavano la cupidigia del governo, mentre in Italia i preti soggiacevano in comune cogli altri cittadini alle pubbliche tasse, e spesso ancora pagavano in proporzione più che i laici; perciò niuno pensava a spogliarli, ed alcuna gelosia non favoriva i progetti dei riformatori.

Perciò l'Italia si rimase indifferente alla riforma della Chiesa; quell'Italia, che aveva dato l'esempio dell'indipendenza religiosa, e che sola aveva disprezzate le minacce e le scomuniche dei papi, quando questi facevano tremare tutta l'Europa, non rivolse contro il culto stabilito la letteratura e la filosofia che coltivava con tanto impegno; ed il clero italiano si collegò tutto a favore del papa. Nel quindicesimo secolo cominciò un'accanita disputa tra i riformatori del settentrione ed il clero del mezzodì, e si andò invigorendo, e ravvivando più volte fino al susseguente secolo. I paesi settentrionali si separarono finalmente dalla Chiesa romana, mentre questa, resa inespugnabile dalle stesse sue battaglie, ne' paesi che le si conservarono fedeli, ricuperò l'impero sopra gli spiriti e le coscienze che pareva avere affatto perduto. E per tal modo la superstizione e l'ignoranza subentrarono all'incredulità ed allo scetticismo.

Giovanni XXIII convocando il concilio a Costanza non ignorava, che colla scelta di questa città veniva ad accordare un grandissimo vantaggio ai Tedeschi, i più caldi avversarj dell'autorità pontificia. Il suo assentimento gli era stato strappato nell'epoca in cui le conquiste di Ladislao omai più non gli lasciavano alcun ricovero in Italia; ma la morte di questo principe, cui era succeduta Giovanna II, sua sorella, variava affatto la situazione del papa ne' suoi stati. Egli credeva non avere di che temere da una donna debole ed inclinata ai piaceri; mentre l'assemblea della Chiesa, innanzi alla quale egli doveva comparire, gl'ispirava un terrore che non sapeva dissimulare. Ma invano cercava egli di eludere la sua promessa; l'intiera cristianità era convocata; i più potenti monarchi volevano ad ogni modo mettere fine allo scisma, ed i cortigiani medesimi di Giovanni XXIII lo supplicavano caldamente a recarsi a Costanza[294].

Assai difficile è il dare imparziale giudizio di Giovanni XXIII, non essendosi quasi conservati che i libelli ingiuriosi de' suoi nemici[295], e la scandalosa accusa, per altro approvata da lui medesimo, e ratificata da un concilio. Non pertanto il costante alleato de' Fiorentini, l'ospite e l'amico di tutta la famiglia dei Medici, il protetto di Luigi II d'Angiò, che adoperò tutta la propria influenza per fargli ottenere la tiara, non può essersi macchiato di tutti i delitti onde venne imputato. Se fosse stato quale ci viene dipinto, niuno avrebbe osato mostrarsi suo amico. La sua condotta ci fa piuttosto conoscere un uomo destro ma debole, che accortamente sapeva giudicare gli altri, e prevedeva con sottile accorgimento l'esito degli avvenimenti, ma che non aveva la necessaria fermezza per evitare i pericoli dai quali sentivasi minacciato, e che in seguito si assoggettava alle calamità con cristiana umiltà e con una dolcezza degna di compassione.

Esposto agli attacchi di un formidabile conquistatore che gli aveva tolti quasi tutti gli stati, fece uso per avere danaro de' mezzi inventati dai suoi predecessori, ma perfezionò forse questo traffico spirituale, ed accrebbe in modo le entrate di santa chiesa, da meritarsi l'accusa di simonia che gli fu data. Impiegò poi il danaro che aveva con tali mezzi raccolto, e si pretese che lo moltiplicasse colla più scandalosa usura[296]. Rispetto ai suoi costumi furono certo poco severi, come quelli di tutta la sua corte; ma non deve facilmente credersi che nella sola Bologna abbia avuto dugento amiche, come lo attestò Teodorico di Niem[297], o che abbia sedotte trecento religiose, come leggevasi in uno degli articoli dell'accusa datagli innanzi al concilio[298].

Avendo Giovanni XXIII deputato il cardinale Isolani a prendere possesso di Roma, partì egli medesimo da Bologna il primo ottobre, prendendo la strada di Costanza. Desiderava di procurarsi in vicinanza di questa città qualche potente protettore, e lo trovò: Federico, duca d'Austria, gli si fece incontro fino a Trento, l'accompagnò a traverso al Tirolo, e fece con lui stretta alleanza, promettendo di dargli sicuri mezzi per allontanarsi da Costanza, qualunque volta lo desiderasse[299]. Giovanni XXIII entrò in questa città il 28 ottobre con nove cardinali di sua ubbidienza, ed il 5 di novembre fece l'apertura del concilio. A tale epoca l'assemblea non era ancora molto numerosa, perchè l'imperatore Sigismondo era stato a ricevere la corona germanica ad Aquisgrana, ed i prelati dell'ubbidienza di Giovanni XXIII, che recaronsi i primi al concilio, non erano per anco tutti riuniti; ma la politica, la divozione, la curiosità chiamavano ogni giorno nuovi viaggiatori a Costanza, e vi si contarono in certi tempi fino a cento mila forastieri, tra i quali trovavansi i più distinti personaggi di tutto il cristianesimo[300].

Oltre i cardinali, gli arcivescovi e vescovi, molte altre persone, ecclesiastiche e laiche, dovevano prendere parte alle deliberazioni; molti abati, semplici preti e dottori di teologia eranvi stati chiamati, come pure i deputati degli ordini religiosi e militari, e gli ambasciatori dei re, dei principi e delle repubbliche. Tra i subalterni grandissimo era il numero di coloro ch'erano addetti alla corte di Roma; e se si fossero presi i suffragi per teste, ritenendoli tutti come eguali, gli uditori, gli scrittori ed i procuratori del papa e dei cardinali avrebbero reso padrone delle deliberazioni Giovanni XXIII. Per evitare tale inconveniente risolse il concilio di prendere i suffragi non per testa ma per nazioni. Si divise così il concilio in quattro camere, tedesca, italiana, francese ed inglese, e più tardi vi si aggiunse la spagnuola. Ogni nazione deliberava a parte, ed il suo presidente nelle pubbliche sessioni dava in nome di tutti il suo assenso ai decreti della Chiesa[301].

Il concilio di Costanza era stato indicato come una continuazione di quello di Pisa, ed avendo quest'ultimo deposti Benedetto XIII e Gregorio XII, sperava Giovanni XXIII, che la cristianità in una più numerosa e più solenne adunanza confermerebbe la deposizione de' suoi rivali, e lo riconoscerebbe pel solo pastore della Chiesa. Ma non tardò ad avvedersi, che i deputati del concilio e l'imperatore Sigismondo, suo protettore, erano da tutt'altro sentimento animati. Erasi la Spagna conservata sotto l'obbedienza di Benedetto XIII, ed alcune province dell'Italia e della Germania ubbidivano a Gregorio XII, onde lo scisma non trovavasi affatto spento, e non poteva esserlo che col mezzo di mutui sagrificj. I padri adunati domandarono che i tre concorrenti abdicassero la loro dignità, e Giovanni XXIII, che trovavasi nel loro seno, fu costretto, il primo marzo del 1415, a promettere che ne darebbe l'esempio ai suoi rivali[302]. Si trovò per altro ben tosto, che la sua dichiarazione non era abbastanza esplicita, si andò sofisticando intorno alle condizioni ed all'epoca della cessione, in modo che sentendo tutta l'estensione della dipendenza cui era ridotto, invitò il duca d'Austria a mantenergli la data fede, e ad ajutarlo a ritirarsi. In fatti fuggì il 21 marzo del 1415 sotto mentito abito di palafreniere, mentre tutta la città era intervenuta ad un torneo in cui l'arciduca d'Austria combatteva col conte di Cilley. Quando il duca fu avvisato della partenza del papa, gli tenne dietro e lo raggiunse a Sciaffusa[303].

Il concilio fu per pochi giorni dubbioso, se per tale fuga dovesse sciogliersi. Tutti i cardinali seguirono il papa, e Giovanni di Nassau, elettore di Magonza, ed il Margravio Bernardo di Baden ed il potente duca d'Austria erano apparecchiati a prendere le sue difese. Un movimento repubblicano nel concilio, il quale dichiarò, che poichè trovavasi costituito, era indipendente dal papa; il vigore di Sigismondo, che mise subito Federico d'Austria al bando dell'impero; e più di tutto l'animosità de' Bernesi, che avidamente colsero quest'occasione per muovere guerra al loro ereditario nemico, assicurarono la vittoria del concilio contro il capo della Chiesa. Giovanni XXIII all'intimazione di tornare a Costanza rispose che conservavasi disposto a rendere la pace alla Chiesa rinunciando al pontificato[304]; ma intanto tentò con varie lettere di eccitare la diffidenza contro l'imperatore, e di seminare la dissensione fra le nazioni. I cardinali, che l'avevano seguito, ubbidirono tutti al concilio, e tornarono a Costanza; ogni piccolo signore del vicinato, ogni città del Reno o della Svevia dichiararono la guerra a Federico, ed in poco tempo furono tolte alla casa d'Austria settanta tra città e castelli[305]. I Bernesi conquistarono l'Argovia; la lega elvetica, cedendo alle istanze dell'imperatore, mosse ancor essa le armi contro Federico, ed in breve Federico, ch'erasi rifugiato col papa a Friburgo nella Brisgovia, si smarrì di coraggio, e tornò a Costanza per sottomettersi a Sigismondo ed al concilio[306].

Il nuovo elettore di Brandeburgo, Federico, burgravio di Norimberga, cui l'imperatore aveva di fresco promesso il cappello elettorale[307], andò a cercare il papa, e lo ricondusse a Rodolfzell, presso Costanza: tre giorni prima, cioè il 14 maggio, Giovanni era stato con decreto conciliare sospeso da tutte le sue funzioni[308]. Intanto era stata contro di lui formata una scrittura d'accusa divisa in settanta articoli, nella quale venivano ad uno ad uno epilogati tutti gli errori della sua prima gioventù, appoggiandoli alle deposizioni di molti cardinali, arcivescovi e vescovi, e così grande era il numero delle subornazioni, delle violenze, degli adulterj, degli incesti ed altri più odiosi vizj, che la vita d'un solo uomo non sembra poter bastare a tanta corruzione[309]. Giovanni XXIII non volle nè meno vedere l'atto d'accusa; dichiarò di sottomettersi interamente al concilio, di ricevere con rispetto ed ubbidienza la sentenza della sua deposizione, e che si riputerebbe felice, se poteva rendere la pace alla Chiesa col sagrificio della libertà e dell'onor suo. In fatti fu deposto il 29 maggio nella 12. ma sessione del concilio e chiuso nel castello di Gottleben, posto nelle vicinanze di Costanza[310].

La deposizione di Giovanni XXIII era un gran passo fatto per la riunione della Chiesa: Gregorio XII, che aveva ostinatamente resistito al concilio di Pisa, pensava finalmente a sottomettersi a quello di Costanza, perciocchè il piccolo numero de' settatori che gli si erano conservati fedeli dopo l'elezione d'Alessandro V, si andavano riunendo al concilio, e mostravansi al tutto disposti ad abbandonarlo. Spedì dunque Carlo Malatesta, signore di Rimini, suo principale protettore, a Costanza, con facoltà d'abdicare per lui il pontificato, ma senza riconoscere i due pontefici ed i due concilj, contro i quali aveva fin allora lottato. Nella 14. ma sessione, tenuta il 14 luglio 1415, e preseduta dall'imperatore, il vescovo di Ragusi, legato di Gregorio XII, convocò di nuovo l'assemblea, onde darle in nome del suo papa l'esistenza e l'autorità d'un concilio[311]. In appresso Carlo Malatesta lesse una bolla colla quale Gregorio XII rinunciava al pontificato. Questi riprese in allora da sè medesimo il nome d'Angelo Corario, ed i titoli di cardinale e di vescovo di Porto, e morì in Recanati il 18 ottobre del 1417 in età di novant'anni[312].

Per ispegnere affatto lo scisma altro più non restava a farsi, che ridurre Benedetto XIII a fare una simile cessione; ma questo ostinato vecchio veniva ancora riconosciuto come papa dai re di Arragona, di Castiglia, di Navarra e di Scozia, e dai conti di Foix e d'Armagnacco. Altronde egli pretendeva che il suo diritto al pontificato si fosse omai reso incontrastabile, poichè egli era il solo di tutti i cardinali, creati avanti l'origine dello scisma, che ancora vivesse, di modo che se illegittimi erano tutti coloro che succedettero a Gregorio XI, e s'egli non era papa, aveva solo il diritto di eleggerlo. Sigismondo, ch'era vago di viaggiare, partì alla metà di luglio alla volta di Perpignano, ov'era aspettato dal re d'Arragona e da Benedetto XIII. Ma quest'ultimo, dopo aver parlato sette ore continue per dimostrare i suoi diritti e le sue pretese, offrì di rinunciare al papato sotto inammissibili condizioni, perciocchè non chiedeva meno che di annullare il concilio di Pisa, di chiudere quello di Costanza, adunandone un altro in un luogo di sua ubbidienza, nel quale darebbe la sua dimissione dopo avere egli medesimo eletto un altro papa[313]. Bentosto temette o finse temere di essere arrestato, e fuggì coi suoi cardinali a Collioure, di dove passò a chiudersi nella fortezza di Paniscola, protestando essere questo castello l'arca di Noè, ove solo contenevasi la vera chiesa, mentre che il rimanente del mondo era caduto nello scisma[314].

Vedendo tanta ostinazione la chiesa di Spagna si separò da Benedetto XIII, e risolse finalmente di riunirsi al concilio di Costanza, ma a condizioni non dissimili da quelle che aveva proposte Gregorio XII. Gli Spagnuoli convocarono il concilio di Costanza come se fino alla loro unione non avesse mai esistito, e quest'assemblea ricevette in tale maniera l'adesione de' cristiani conservatisi sotto l'ubbidienza di Benedetto XIII, come aveva ricevuta quella degli altri due papi[315].

La morte di Ferdinando, re d'Arragona, le pratiche di Benedetto XIII, ed il viaggio di Sigismondo in Inghilterra per pacificare questo regno colla Francia, ritardarono il processo che il concilio voleva intentare contro Benedetto XIII; e soltanto nella 37. ma sessione, tenuta il 26 luglio del 1417, questo vecchio fu dichiarato non antipapa, ma deposto per avere colla sua ostinazione prolungato lo scisma con grave danno della cristianità. E per tal modo la santa sede si rese all'ultimo vacante per la deposizione di due papi, e per la volontaria abdicazione del terzo[316].

Ma il concilio non si era soltanto adunato per riunire la Chiesa, ma ancora per riformarla; voleva mettere freno all'arroganza della corte di Roma, impedire la venalità delle grazie spirituali, e far cessare il commercio delle sacre cose, indicato col nome di simonia, ma che per altro formava la principale entrata del papa. Lo scopo di quasi tutte le prediche fatte innanzi al concilio era quello di ricordare ai padri adunati il dovere di riformare la Chiesa; e gli abusi introdottisi in tutto il clero venivano rappresentati con sì odiosi colori, che non sappiamo se più debba ammirarsi l'ardire de' predicatori o la pazienza de' loro uditori. Frattanto altri uomini, che con quasi uguali discorsi avevano preso a riformare la chiesa, furono da questo stesso concilio con tanto accanimento puniti e con crudeltà sì grande, da far sempre torto alla memoria del concilio[317].

Prima ancora che cominciasse lo scisma, Giovanni Vicleffo, parroco o rettore di Lutterworth, nel contado di Leicester, aveva in Inghilterra sparse intorno all'usurpato potere della corte di Roma, all'abuso che il clero faceva delle ricchezze, ed ai nuovi dommi che andava nella religione introducendo, alcune opinioni, che la corte romana si affrettò di condannare[318]. Gregorio XI aveva incaricato l'arcivescovo di Cantorberì di esaminare 19 proposizioni eretiche contenute nelle scritture di Vicleffo. Ma questo dottore, intraprendendo una riforma, pare che avesse cercato di evitare i giudizj della Chiesa. Aveva veramente attaccati i dommi della transostanziazione, del purgatorio, dell'invocazione dei santi[319], ma l'aveva fatto in un modo oscuro; onde colle spiegazioni che ne diede in appresso, seppe sottrarsi alla persecuzione, quantunque si andasse più volte rinnovando[320]; e potè morire in pace nella sua parrochia di Lutterworth l'anno 1385. A tale epoca egli aveva di già formata in Inghilterra una numerosissima setta, detta dei Lollardi; e le sue scritture, replicatamente proibite, erano commentate dai nuovi riformatori.

Un gentiluomo, che aveva studiato in Oxford, portò in principio del XV secolo i libri di Vicleffo in Boemia[321]. L'università di Praga, che di que' tempi aveva acquistato grandissimo nome, doveva principalmente la presente fama ad alcuni professori tedeschi, che venivano guardati con occhio di gelosia dai Boemi, dacchè questi avevano cominciato a coltivare con buon successo le lettere: Giovanni Huss, Girolamo da Praga, e Giacobello da Meissen, tre dei più illustri teologi della Boemia, abbracciarono le opinioni di Vicleffo, e le divulgarono colle lezioni e colle prediche. Il non curante Wencislao lasciava ai novatori un'assoluta libertà, ed era inoltre propenso a favorire i suoi Boemi contro i Tedeschi, de' quali aveva motivo di essere scontento. Distinguevasi Giovanni Huss colla severità de' costumi, colla dolcezza del carattere, colla penetrazione dello spirito, e colla sua eloquenza[322]. Era inoltre confessore di Sofia di Baviera, regina di Boemia; e le sue prediche nella chiesa di Betlemme, cui intervenivano egualmente i grandi ed il popolo, gli avevano guadagnati moltissimi partigiani[323].

Nel 1410 Giovanni Huss era di già stato citato da Giovanni XXIII per rendere conto nella corte di Roma della sua dottrina. Aveva in allora fatta trattare la sua causa per mezzo di procuratori; e riconoscendo sempre la suprema autorità della Chiesa, si era appellato al giudizio del prossimo concilio, e si recò a Costanza il 3 novembre del 1414, munito di raccomandazione del re e dei grandi della Boemia, e di un salvacondotto dell'imperatore Sigismondo[324].

Malgrado il salvacondotto, Giovanni fu arrestato il 28 novembre del 1414, e rinchiuso in duro carcere, ov'ebbe alcun tempo per compagno di disgrazia lo stesso papa Giovanni XXIII. Venne rigorosamente esaminato intorno alle proposizioni che trovavansi condannabili nelle sue opere; ed in pubblico interrogatorio, fattogli in pieno concilio, fu l'oggetto degli amari sarcasmi di qua' medesimi teologi che dovevano pronunciare la sua sentenza. Ma egli, senza lasciarsi sconcertare dalla parzialità de' suoi giudici, nè dall'odio de' suoi persecutori, cercò modestamente di conciliare la sua dottrina con quella professata dalla chiesa romana, ma rigettò con modesta costanza la formola di ritrattazione propostagli il 6 luglio del 1415, onde fu dal concilio condannato ad essere bruciato vivo, e la sentenza si eseguì nello stesso giorno. In mezzo alle guardie ed ai carnefici, coperto di oltraggi e di maledizioni, colle vesti coperte d'immagini del diavolo, cui la sua anima era stata data dal concilio, Giovanni Huss mostrò fino alla fine il coraggio, la serenità e la rassegnazione d'un eroe cristiano[325].

Girolamo da Praga aveva studiata la teologia a Parigi, ad Eidelberga, a Colonia e ad Oxford. Più giovane di Giovanni Huss mostrava maggiori talenti ed eloquenza; ma non pertanto lo risguardava piuttosto come suo maestro che come suo eguale; con lui dividendo le fatiche dell'apostolato senza aspirare a dividerne la gloria, altra corona non voleva aver comune col maestro e coll'amico che quella del martirio. Arrestato il 25 aprile del 1415 nelle vicinanze di Costanza, si lasciò ridurre, dopo una lunga serie di cattivi trattamenti, a soscrivere l'11 settembre dello stesso anno una ritrattazione della sua dottrina, che poi rivocò il 29 di settembre, e più solennemente poco dopo in una generale congregazione del concilio[326].

Il 23 maggio del 1416 venne tradotto innanzi a quest'assemblea, che doveva giudicarlo. Ma non gli veniva permesso di parlare, che per rispondere strettamente articolo per articolo alle fattegli accuse. «E che dunque! (gridò egli finalmente) dopo avermi tenuto tre cento quaranta giorni nel fango e nel fetore di orribile carcere, ov'ero carico di catene, mentre i miei accusatori venivano ogni giorno ammessi alle vostre adunanze, mi ricuserete voi una sola ora per difendermi? Di già vi si è fatto credere ch'io sono un eretico, un nemico della fede, un persecutore della chiesa, e voi non vorrete accordarmi una sola occasione di farmi conoscere per quello che veramente sono? E non pertanto voi siete uomini e non divinità, esposti all'errore, alla frode, alla seduzione. Qui trattasi della mia vita, ma trattasi ancora dell'onore di un'assemblea, ove si suppongono riuniti tutti i più illustri personaggi del mondo, tutti gli ecclesiastici più illuminati.» Passò in appresso ai testimonj che avevano deposto contro di lui; dimostrò le deposizioni loro dettate dall'odio, dalla malevolenza o dall'invidia, e mostrò con tanta evidenza i motivi di quest'odio, che in tutt'altra materia questi testimonj non avrebbero meritata veruna fede. «Gli uomini, egli soggiunse, più dotti e più santi dell'antica chiesa hanno talvolta opinato diversamente in materia di domma, non per distruggere la religione, ma per far meglio risplendere la verità. Così sant'Agostino e san Girolamo furono discordi, senza che nessuno di loro cadesse in sospetto d'eresia. Altri uomini per altro, e più santi e più giusti ch'io non sono, furono al par di me accusati di turbare l'ordine stabilito, ed oppressi da false testimonianze; molti eroi, molti sapienti dell'antichità, molti apostoli e padri della chiesa, e lo stesso fondatore della nostra divina religione, perirono di crudel morte per giudizio degli uomini, e poc'anzi ancora ed in questo medesimo luogo Giovanni Huss, un uomo di tanta bontà, così giusto, così santo, così indegno di tal morte, fu bruciato! S'avvicina pure il mio supplicio, ed io l'incontrerò con un'anima forte e costante.» Più volte, mentre parlava, venne interrotto da violenti vociferazioni; allora Girolamo taceva, o talvolta faceva tacere la moltitudine, indi ripigliava il filo del suo discorso, supplicando che gli fosse permesso di parlare, poichè era l'ultima volta che avrebbe potuto farlo. La sua anima costante ed intrepida mostrossi sempre imperturbabile in mezzo ai tumulti dell'uditorio. Dolce, modulata, sonora era la sua voce, il suo gestire dignitoso esprimeva la sua indignazione, e moveva a commiserazione, sebbene egli nè la chiedesse, nè cercasse di eccitarla. La sua memoria gli somministrava a proposito tutte le citazioni de' padri, della sacra scrittura, e degli altri autori ecclesiastici e profani, che potevano giovare alla sua causa, come se avesse passati i trecento quaranta giorni della sua prigionìa non entro una fetida ed oscura torre ma in una ricca biblioteca. Avendo ricusato di ritrattare le sue opinioni fu dal concilio condannato alle fiamme. S'avviò al supplicio con volto sereno e soddisfatto, e giunto in su la piazza, ove il suo maestro ed amico era perito della medesima morte a lui destinata, fece la sua preghiera, e spogliossi egli medesimo delle proprie vesti; quando la fiamma cominciava a sollevarsi, intuonò un inno, che fu udito proseguire fino all'istante in cui rese l'anima al creatore[327].

Quando in Boemia si ebbe notizia della morte di Giovanni Huss e di Girolamo da Praga i loro discepoli, rimasti orfani, s'intitolarono dal primo, ed invece di lasciarsi scoraggiare, non pensarono che alla vendetta: trenta mila settarj si adunarono sul monte Tabor, e dopo essersi a trecento mense comunicati sotto le due specie, si mossero contro i loro persecutori, condotti alla vittoria da Giovanni di Trockznow, detto Ziska, e dai due Procopj: bruciarono cinquecento chiese: furono profanati i conventi ed i sepolcri dei re, e per la prima volta un regno cristiano scosse interamente il giogo della chiesa romana[328].

Il concilio di Costanza, che aveva con tanto rigore proceduto contro i riformatori, non lasciava peraltro d'annunciare la sua determinazione di riformare la chiesa; e Sigismondo stringeva i padri adunati a procedere a così importante opera prima di dare un nuovo capo alla cristianità. La simonia eccitava universali lagnanze, e sotto questo nome contenevasi la riserva di quasi tutte le entrate del clero; perciò tutti coloro che dipendevano dalla corte di Roma opponevansi con tutte le loro forze ad una riforma che doveva ruinarli. La più zelante per la riforma era la nazione tedesca, la più contraria l'italiana. I Francesi per gelosia dell'imperatore abbandonavano spesso la causa comune, e non la difendevano gl'Inglesi per timore che loro si contrastasse il diritto di formare soli una nazione.

Nel secondo e nel terzo anno la divisione andò sempre nel concilio crescendo: quasi tutte le pubbliche sessioni erano turbate da amari vicendevoli rimproveri; spesso la confusione ed il tumulto impedivano d'intendersi, e di continuare la disamina degli oggetti proposti, ed oramai cominciavasi a temere che qualche più violenta scena non dividesse l'assemblea, e non gettasse la Chiesa in uno scisma più difficile a distruggersi che il precedente. Mossi da tali considerazioni i cardinali chiedevano caldamente, che loro si permettesse di procedere all'elezione di un nuovo papa. Favorivano la loro domanda gl'Italiani, i Francesi e gli Spagnuoli, e vi si opponevano l'imperatore, i Tedeschi e gl'Inglesi[329]; i quali in ultimo dovettero pur cedere. Per questa volta soltanto l'elezione del capo della Chiesa venne affidata ad un doppio collegio, l'uno formato da trenta deputati eletti dalle cinque nazioni, l'altro dai ventitre cardinali riuniti delle tre ubbidienze, ed il candidato per essere eletto doveva riportare i due terzi dei suffragj dell'uno e dell'altro collegio. Questi cinquantatre elettori furono, il sette novembre del 1417, chiusi nello stesso conclave, e l'undici dello stesso mese ne uscirono per proclamare Ottone Colonna, cardinale di san Gregorio al Velo d'oro, che prese il nome di Martino V. Aveva il Colonna ricevuto il cappello cardinalizio da Innocenzo VII l'anno 1405, ed era stato addetto ai pontefici di Roma fino all'epoca del concilio di Pisa; dopo la quale epoca aveva abbracciata la causa di Alessandro V, e del suo successore Giovanni XXIII, che prima d'ogni altro cardinale egli aveva seguito nella sua fuga, e cui più lungo tempo d'ogni altro si era conservato fedele[330].

Non fu appena eletto il papa, che subito, abbracciando gl'interessi della chiesa romana, tentò di mandare a vuoto tutti i progetti di riforma. Fece con ogni nazione parziali concordati, onde sopprimere gli abusi che davano motivo a più gagliardi lagnanze, ed ottenere per tal via la continuazione degli altri: tali concordati o regolamenti quasi ad altro non si riferivano che ai diritti della corte romana nella promozione dei beneficj, ed alle vesti del clero. Dopo la pubblicazione de' medesimi, pronunciò lo scioglimento del concilio nella quarantacinquesima sua sessione, il 22 aprile del 1418[331].

Si era sperato che il concilio avrebbe ristabilita la pace tra la Francia e l'Inghilterra, onde portare le armi della cristianità contro i Turchi, approfittando della divisione scoppiata nella casa Ottomana dopo la morte di Solimano; ma il secondo anno del concilio la battaglia d'Azincourt distrusse le forze de' Francesi[332]; e nel susseguente anno il duca di Borgogna riconobbe Enrico V d'Inghilterra per re di Francia. Sebbene il concilio non pronunciasse sentenza intorno alle vertenze ereditarie tra Giovanna di Napoli e Sigismondo rispetto all'Ungheria, come tra la stessa Giovanna e Luigi d'Angiò rispetto al regno di Napoli ed alla Provenza, pure ogni guerra, finchè i padri della Chiesa si tennero adunati, rimase sospesa tra questi principi, e quantunque Giovanna assumesse i titoli di regina d'Ungheria e di contessa di Provenza, non pensò a portare le sue armi fuori delle province ereditate da suo fratello.

Giovanna II era vedova di Guglielmo, figliuolo di Leopoldo III duca d'Austria, e dopo la morte del marito era tornata a Napoli, ove si abbandonava senza ritegno ai vizj che avevano precipitato nel sepolcro suo fratello. Appena salita sul trono fu veduta circondarsi da indegnissimi favoriti; il più screditato dei quali era Pandolfello Alopo, che aveva nominato suo siniscalco, ed in appresso decorato dei titoli di conte e di camerlingo. Egli non aveva più di venticinque anni, e la regina quarantacinque; ed il primo non era raccomandato da altro merito che da quello della sua bella persona[333]. Questo principale favorito e gli altri cortigiani tenevano continuamente occupata la regina in licenziose feste, allontanandola da tutte le cure del governo.

Intanto la notizia della morte di Ladislao era stata annunciata a Roma l'otto agosto del 1414; il 10 tutta la città prese le armi, e gli ufficiali furono cacciati di città a nome della Chiesa e del popolo[334]. Lo Sforza, che Ladislao aveva lasciato all'assedio di Todi, lo levò quando intese la morte del re, e dopo di avere cercato invano di ricondurre i Romani all'ubbidienza, continuò il cammino verso Napoli, onde approfittare del credito che gli davano le sue truppe per avere molta parte nel governo; ma appena vi giunse, che Pandolfello Alopo lo fece sostenere, e custodire nella stessa prigione in cui trovavasi da qualche tempo Paolo Orsini[335].

Molti principi chiedevano le nozze della regina, la quale sentiva il bisogno di un possente appoggio per mantenersi sul vacillante trono su cui era salita. Si decise all'ultimo nel 1415 per Giacomo di Borbone, conte della Marca, sperando ohe la sua unione con un principe della real casa di Francia non la lascierebbe esposta a nuovi attacchi di Luigi d'Angiò, suo competitore. Convenne per altro che suo marito non avrebbe che il titolo di conte e di governatore generale del regno, a sè sola riservando la dignità ed il potere reale[336].

Pandolfello Alopo, ch'era stato costretto di acconsentire a questo matrimonio, volle, prima che avesse effetto, assicurarsi in corte un partito abbastanza forte per mettersi al coperto da ogni timore per parte dello sposo di Giovanna. Andò a trovare in prigione Sforza Attendolo, gli offrì la sua parentela, la mano di Catarina sua sorella, e l'intero favore della regina[337].

Il valoroso contadino di Cotignola erasi di già innalzalo al rango de' principi feudatarj; e Ladislao nominandolo grande contestabile del regno, gli aveva dati sette castelli o piccole città nel patrimonio di san Pietro, delle quali le più importanti erano Marta, Cività di Penna e Piano Castagnaro[338]. Inoltre lo Sforza possedeva alcuni altri castelli, come tributario della repubblica di Siena[339]; e siccome colui che non lasciava fuggire occasione alcuna di accrescere i suoi feudi, ch'egli risguardava come base della sua potenza, sposando la sorella del favorito della regina, si fece cedere altri castelli vicini a quelli che di già possedeva[340].

Ma l'appoggio principale dello Sforza era una compagnia d'avventurieri, che gli era molto più affezionata di quello che lo fisse mai stato verso i suoi condottieri verun altro di questi corpi. Lo Sforza aveva chiamati presso di sè tutti i suoi parenti; aveva a tutti dato qualche comando nell'armata, e tra questa gente, educata come lui nella povertà e nella fatica, aveva trovati non pochi valorosi guerrieri, ufficiali intrepidi e fedeli, che altra ambizione non nudrivano che quella di rendere potente il capo della loro famiglia, d'eseguire i suoi progetti, e di essere gli stromenti del suo sublime ingegno[341]. L'armata di Sforza era il suo regno, egli l'aveva formata, egli l'alimentava; era l'arbitro assoluto de' suoi movimenti, facendole a vicenda abbracciare i più opposti partiti, sicuro che giammai un solo ufficiale, un solo soldato preferirebbe lo stato, cui temporariamente serviva, al suo generale. Lo Sforza, che conosceva la sua potenza, non poneva limiti alla propria ambizione. Non si proponeva già, come il duca Guarnieri, o come il conte Lando, di arricchire i suoi soldati a spese dei popoli, levando sulle città e sulle province grosse contribuzioni. Egli voleva regnare, e di già aveva veduti altri avventurieri innalzarsi col loro valore al rango di principi. Pandolfo Malatesti governava Brescia, Facino Cane ed Otto Bon Terzo avevano regnato in Alessandria ed in Parma: la debolezza di Giovanna e la lontananza del papa, aprivano al primo conquistatore tutte le province dell'Italia meridionale; e lo Sforza accolse avidamente l'alleanza di Pandolfo Alopo, che pareva sgombrargli la strada a nuove grandezze.

Premeva al favorito ed al suo alleato che lo sposo della regina non s'innalzasse oltre il rango assegnatogli nel contratto nuziale; e quando Giacomo della Marca arrivò da Venezia a Manfredonia, lo Sforza gli si fece incontro, determinato di non permettergli che prendesse altro titolo che quello di conte. Ma i cortigiani dell'estinto re, invidiando Alopo e lo Sforza, eransi recati in folla presso allo sposo della regina, per prevenirlo contro i di lei favoriti. Giulio Cesare di Capoa, uno de' conti d'Altavilla, che aveva raccolti molti de' soldati di Ladislao, e che aspirava al comando delle armate, fu quello che si adoperò con maggiore zelo contro lo Sforza; e col suo esempio trasse tutti gli altri cortigiani a salutarlo col titolo di re. Di concerto con questo principe, quando giunsero a Benevento, si azzuffò col contestabile, onde furono ambidue arrestati per avere sguainate le spade nel palazzo del monarca; ma Giulio Cesare venne subito rilasciato, e lo Sforza gettato in oscuro carcere[342].

Il 10 agosto si celebrò il matrimonio di Giacomo della Marca e di Giovanna II, la quale, intimidita dal caso dello Sforza, acconsentì che il marito prendesse il titolo di re. Questi infatti, determinato avendo di voler regnare e riformare i costumi della consorte e della sua corte coi più severi provvedimenti, fece carcerare Pandolfo Alopo, e sottoporre alla tortura, per istrappare dalla sua bocca la confessione delle debolezze della regina; dopo di che lo fece perire con crudele ed ignominioso supplicio[343]. Lo Sforza pure, posto alla tortura, non sarebbesi sottratto alla morte, se sua sorella Margarita, moglie di Michelino Attendolo, non faceva arrestare quattro ambasciatori napoletani che passavano presso al suo campo, e non dichiarava che gli avrebbe trattati nello stesso modo che sarebbe stato trattato suo fratello[344].

Il re, per indole diffidente e crudele, superati aveva i consigli e l'aspettazione de' cortigiani; teneva la regina gelosamente custodita quasi prigioniera nel suo palazzo, dandola in guardia ad un cavaliere francese che mai non l'abbandonava. Giulio Cesare di Capoa però ingannando quest'argo, ottenne di parlarle senza testimonj. «Io ero ben lontano, diss'egli alla regina, di prevedere la schiavitù in cui vi vedo precipitata dall'imprudente consiglio da me dato al re; ero ben lontano dal supporre che Alopo e Sforza non sarebbero allontanati dalla corte che per cedere il loro luogo ai Francesi, e che tutti gl'impieghi dello stato caderebbero nelle loro mani. Ma se ho commesso questo primo fallo, dipende altresì da me il porvi riparo. Io posso trarvi dalla vostra prigione e rendervi lo scettro, che vi fugge di mano; basta che voi giuriate soltanto di avere per ben fatto quanto io sono per operare in vostro vantaggio.» La regina promise quanto voleva Giulio Cesare, e seppe allora che questi voleva uccidere suo marito. Per altro bentosto, o perchè spaventata fosse da tale attentato, o perchè diffidasse di Giulio Cesare, o perchè volesse di lui vendicarsi, la regina palesò al re Giacomo l'offerta fattagli da questo signore. Il re si nascose nel gabinetto di Giovanna, per udire, senz'essere veduto, ciò che il conte d'Altavilla le direbbe in una seconda conferenza; e dopo di avere udite le sue proposte, lo fece prendere, e lo mandò al supplicio con tutti i congiurati che aveva nominati[345].

Colla rivelazione di questo segreto avendo la regina alquanto ricuperata la confidenza del marito, ottenne dopo un anno di riclusione la licenza di assistere ad una festa che un mercante fiorentino le aveva preparato nel suo giardino il 13 settembre del 1416. Il popolo, che sempre detesta un governo straniero, non sapeva tollerare l'autorità che si arrogavano il re Giacomo, ed i suoi Francesi. Fu vivamente commosso allorchè vide comparire la regina sopra un cocchio scoperto, triste, scolorita, e simile ad una prigionera; i nobili invitarono i borghesi a spalleggiarli, e tutt'insieme diedero mano alle armi per liberare dalla prigionia la loro sovrana. Costrinsero le sue guardie a condurre il cocchio all'arcivescovado, indi le fecero aprire il palazzo della Capuana, mentre il re minacciato fuggì al castello dell'Uovo. Colà non potendo sostenere un assedio, trattò sotto la guarenzia della città cogl'insorgenti, rinviò quasi tutti i Francesi che aveva seco condotti, e restituì alla regina la suprema amministrazione degli affari ch'egli si era usurpata[346].

La regina non poteva far a meno d'un favorito, onde non ebbe appena ricuperata la libertà che s'affezionò a ser Gianni Caraccioli, cui diede la carica di gran siniscalco già occupata da Pandolfello Alopo. Tale scelta era meno indegna della prima; perciocchè alle qualità fatte per piacere a Giovanna, univa il Caraccioli somma prudenza; onde l'amante della regina potè acquistarsi l'amore della nobiltà e del popolo. Nello stesso tempo era stato liberato di carcere lo Sforza, e ristabilito nella carica di gran contestabile: ottenne in feudo la città di Troja ed altre ragguardevoli terre nel suo vicinato col titolo di conte[347]; e subito dopo venne incaricato di combattere contro un rivale degno di lui.

Un altro capitano di ventura, che non meno dello Sforza era amato dai proprj soldati, prese nello stesso tempo a fondare in Toscana un nuovo principato. Braccio di Montone era stato incaricato da Giovanni XXIII di mantenergli fedele lo stato di Bologna, allorchè questo pontefice era partito alla volta di Costanza; Braccio illustrò la sua dimora in Toscana con brillanti spedizioni contro i signori di Forlì, di Ravenna e di Rimini, ch'erano nemici del pontefice, e che volevano approfittare della sua lontananza per ingrandirsi[348]. Per altro ogni volta che Braccio lasciava Bologna, que' cittadini prendevano le armi per riavere la libertà; ma il suo sollecito ritorno gli sforzava a soggiacere nuovamente al giogo che detestavano[349]. Frattanto Giovanni XXIII fu deposto e chiuso in carcere, onde gli stessi suoi partigiani perdettero la speranza di vederlo giammai ricuperare la tiara; i Bolognesi incoraggiati da Antonio e da Battista Bentivoglio, e da Matteo de' Canedoli, presero un'altra volta le armi il 5 gennajo del 1416 per sottrarsi ad un giogo straniero[350]. Ossia che Braccio non isperasse di potere vincere la resistenza degli abitanti, o che più non si credesse in debito di mantenerli ubbidienti a Giovanni XXIII, si accontentò di trattare con loro. Il papa gli aveva accordati in feudo alcuni castelli del territorio bolognese, che Braccio vendette alla città per trenta mila fiorini; si fece pure rendere cinquantadue mila fiorini di soldi arretrati a lui dovuti, ed a tali condizioni consegnò ai Bolognesi la loro cittadella, ed il godimento dell'antica libertà. Tutti coloro che erano stati esiliati sotto il governo di Baldassar Cossa, vennero richiamati e ristabiliti in tutti i diritti di cittadinanza[351].

Braccio, che aveva arricchiti i suoi soldati colle spedizioni di Romagna, e che riceveva dai Bolognesi una ragguardevole somma di danaro, determinò di condurre la sua armata ad un'intrapresa ch'egli aveva da lungo tempo meditata, e che sempre per diversi motivi aveva dovuto differire. I Perugini che avevano esiliato Braccio, e che da ventiquattro anni si trovavano in guerra colla nobiltà e col partito de' Baglioni, più non pensavano all'inimicizia di quest'illustre emigrato perchè lontano. Essi avevano riavuta la loro libertà dopo la morte di Ladislao, e se la godevano così tranquillamente dopo la deposizione di Giovanni XXIII, che avevano perfino licenziato Ceccolino dei Michelotti, loro compatriotto, che aveva lungo tempo avuto il comando de' loro soldati. Braccio per addormentarli nella piena loro sicurezza trattava di mettersi ai servigi del duca di Milano, e mandava perfino parte de' suoi equipaggi in Lombardia: ma frattanto aveva celatamente preso al suo soldo il Tartaglia, che allora trovavasi in Frascati con sei cento cavalli; promettendogli d'ajutarlo a conquistare i feudi dello Sforza, che di quei tempi trovavasi in carcere a Napoli. Questa fu la prima origine delle nimicizie tra questi due capitani, inimicizia che divise tutte le truppe d'Italia in due scuole ed in due fazioni rivali[352]. Braccio, attraversando rapidamente la Romagna, valicò gli Appennini e presentossi innanzi a Perugia affatto inaspettato. Aveva di già occupati i ponti del Tevere e spinte le sue pattuglie fino alle porte della città prima che i Perugini sapessero da quale nemico erano attaccati[353].

Braccio per approfittare della loro sorpresa diede più assalti alle mura, ma venne sempre respinto con perdita: i suoi soldati penetravano facilmente nei sobborghi, di dove era d'uopo salire il pendio per giugnere alla città, ed una grandine di pietre e di tegole, che venivano scagliate da tutte le finestre e da tutti i tetti, li forzavano a rinculare[354]. I Perugini avevano chiesto soccorso a Paolo Orsini ed a Carlo Malatesta; e mentre questi andavano adunando i loro soldati, invocarono ancora la mediazione dei Fiorentini. Questi, siccome antichi amici ed alleati di Braccio, lo avevano assistito nelle precedenti sue guerre contro Perugia, in allora soggetta a Ladislao; ma dopo che i Perugini ebbero ricuperata la libertà, i Fiorentini desiderarono di proteggerli, e mandarono deputati a Braccio intromettendosi a loro favore; non credettero però di venire ad aperta rottura con un alleato per difendere contro di lui la causa dei proprj nemici[355].

Frattanto tutto il territorio di Perugia era stato successivamente sottomesso dalle armi di Braccio, avendo riconosciuta la sua autorità cento venti castelli ed ottanta villaggi[356]. La città trovavasi assediata; ed i magistrati per risparmiare il sangue de' cittadini avevano severamente vietato di uscire dalle mura e di combattere; avevano inoltre fatto murare quasi tutte le porte; ma i Perugini erano i più bellicosi popoli dell'Italia, e quando i soldati di Braccio venivano a provocarli, saltavano armati giù dalle mura, o si facevano calare con una fune al basso, per non parere di soverchiare i loro nemici conservando il vantaggio del terreno[357].

Carlo Malatesta, avendo messi insieme a Rimini due mila settecento cavalli, avanzava dalla banda di Assisi, ed aveva sotto i suoi ordini Agnolo della Pergola, che aveva opinione di essere uno de' più valorosi capitani del suo tempo. Ceccolino dei Michelotti aveva adunati mille cavalli a Spello, nell'Umbria, e Paolo Orsini era partito da Roma per soccorrere Perugia, e di già credevasi vicino a Narni. Braccio attaccò bruscamente l'armata di Ceccolino, a Spello; ma non potè forzarla ne' suoi trinceramenti, nè impedirle in seguito di unirsi al Malatesta. Tentò almeno di venire a battaglia con questi due generali prima che loro si aggiugnesse ancora l'Orsini, ed il 7 luglio del 1416 si schierò in un angusto piano fra sant'Egidio ed il Tevere in sulla strada d'Assisi.

I più celebri generali ed i migliori soldati d'Italia trovaronsi gli uni contro gli altri in quasi egual numero da ambo le parti; ma la condizione di Braccio era più pericolosa, perchè i Perugini potevano fare una sortita ed attaccarlo alle spalle, o poteva sopraggiugnere Paolo Orsini e raddoppiare il numero de' suoi nemici. Le due armate, della medesima nazione, del carattere medesimo, non avevano nè più impetuoso, nè maggiore accanimento l'una dell'altra. Braccio divise la sua armata in piccoli corpi assolutamente indipendenti gli uni dagli altri, che attaccavano isolatamente, ed in appresso ritiravansi per rifare i loro ranghi, indi tornar di nuovo all'attacco; il Malatesta, secondo l'antica tattica, non fece che tre corpi della sua armata, cioè le due ali ed il centro. Da una parte la battaglia rinnovavasi senza interrompimento, dall'altra una parziale vittoria non decideva della giornata. Inoltre Braccio aveva fatto apparecchiare moltissimi recipienti pieni d'acqua per abbeverare i suoi cavalli e rinfrescare i soldati dopo ogni scaramuccia, senza che per ciò fare fossero costretti di rompere i loro ranghi. La pugna durò sette ore nel mese di luglio, sotto un ardente sole, e in mezzo ad un aere tutto ingombro di polvere. I soldati del Malatesta, che vedevano scorrere il Tevere in distanza di soli cinquecento passi non potevano resistere alla tentazione di andare colà a dissetarsi, e ruppero le loro ordinanze. Braccio approfittò di quest'istante per piombare impetuosamente sopra di loro[358]. Il Tartaglia da una banda, e gli emigrati perugini dall'altra ne rovesciarono moltissimi nel fiume; ed il solo Agnolo della Pergola riuscì ad aprirsi un passaggio con circa quattrocento cavalli, restando Carlo Malatesta prigioniere con due nipoti e circa tre mila cavalieri. Ceccolino dei Michelotti, che aveva avuta la stessa disgrazia, perchè era l'oggetto del personale odio di Braccio, siccome colui ch'era capo in Perugia d'un partito da lungo tempo a Braccio nemico, fu, per quanto comunemente si crede, ucciso in carcere[359]. I Perugini, scoraggiati della disfatta dei loro ausiliarj, otto giorni dopo aprirono le loro porte a Braccio di Montone, riconoscendolo per loro signore e richiamando tutti i fuorusciti. Il 19 luglio Braccio fece il suo solenne ingresso nella conquistata città, seguito dalla nobiltà emigrata già da 24 anni e dalle vittoriose sue truppe. Accettando la sovranità della sua patria, promise di conservare le sue antiche leggi e parte della sua libertà[360].

E veramente Perugia non si era assoggettata ad un tiranno simile ai Visconti o agli altri usurpatori di Lombardia. Braccio di Montone era un grande capitano; e se dobbiamo prestar fede al suo biografo, era pure un grand'uomo ed un buon sovrano. Durante l'assedio di Perugia aveva occupato Todi; non molto dopo si diedero a lui spontaneamente Rieti, Narni ed altri castelli dell'Umbria. Paolo Orsini, sorpreso a Colle Fiorito da Tartaglia e da Luigi Colonna, fu ucciso combattendo o forse assassinato il 5 agosto del 1416, e la sua armata dispersa[361]. Carlo Malatesta ed i suoi nipoti dopo cinque mesi di prigionia si riscattarono pel prezzo di ottanta mila fiorini; Spoleti e Norcia pagarono contribuzioni al loro potente vicino, e tutta l'Umbria riconobbe l'autorità di Braccio di Montone[362].

Per attaccare il popolo alla sua gloria, volle Braccio che tutte le città da lui conquistate mandassero a Perugia, il giorno dell'apertura de' gran giuochi, un tributo con una bandiera portante il loro stemma. Erano questi giuochi una specie di torneo proprio agli abitanti di questa città, che Braccio ristabilì in tutta la sua pompa, persuaso che nulla era più proprio a mantenere il bellicoso carattere de' suoi concittadini. L'alta e la bassa città formavano due affatto separati quartieri, che in primavera periodicamente combattevano tutti i giorni di festa per solo amore di gloria e non per ispirito di partito. La battaglia si cominciava da due corpi di truppa leggermente armati, e lanciavansi pietre, e cercavano di pararne i colpi con un largo mantello, che i veliti ravvolgevano intorno al sinistro braccio. In appresso due falangi di più pesanti armature coperte entravano in piazza. Sotto ad una compiuta armatura di ferro i combattenti portavano cuscinetti pieni di cottone o di stoppa per ammorzare i colpi. Ogni corazziere teneva una lancia senza ferro colla mano destra, e colla sinistra uno scudo, servendosene a vicenda per ferire e per parare i colpi. La vittoria era di coloro che giugnevano ad occupare il mezzo della piazza, e quand'era terminato il tempo assegnato alla battaglia un araldo d'armi divideva i combattenti abbassando tra di loro uno steccato, e proclamava il vincitore. Talvolta ancora una delle due parti si dava per vinta e mandava a chiedere pace. Due ore venivano destinate alla battaglia de' fanciulli, onde renderli bellicosi fino dall'infanzia; tre ore a quella dei giovinetti ed il rimanente del giorno a quella degli uomini fatti. Malgrado la forza, delle armi difensive e la debolezza delle offensive, non terminava mai il giorno senza che si spargesse sangue. Ogni giorno dieci in venti uomini cadevano morti o feriti; ma non perciò fra le due parti conservavasi verun rancore; e quando la festa era finita, tutte le vicendevoli ingiurie venivano scordate[363]. Così a Pisa, ov'erano in uso somiglianti mischie sul ponte di marmo, abbiamo veduto ancora nel 1807 le parti di santa Maria e di sant'Antonio combattere con un accanimento, che ricordava i tempi di emulazione, d'energia e di gloria della repubblica.

Braccio aveva sotto i suoi ordini molti illustri capitani attaccati alla sua fortuna; Niccolò Piccinino, che cominciò a militare come semplice soldato sotto le sue insegne, aveva date tali prove d'ingegno e di valore, che di già gli era affidato un importante comando[364]; il Tartaglia, buon soldato e mediocre generale, era miglior esecutore degli altrui progetti, che capace di formarne egli medesimo; finalmente Michele Attendolo, fratello dello Sforza, che in tempo che questi trovavasi in carcere a Napoli, venne a porsi al soldo di Braccio. Ma quando volle questi dare al Tartaglia i feudi di casa Sforza, Michele abbandonò Braccio per andare a difendere il patrimonio della propria famiglia; e, sagrificato dal suo capo, trovò soccorsi nell'amicizia di suo fratello d'armi Niccolò Piccinino, che gli prestò danaro per armare la sua piccola truppa[365].

Nella vegnente campagna Braccio si avanzò verso Roma, che durante la vacanza della santa sede non aveva sovrano. Presentossi innanzi alla città il 3 giugno del 1417 chiedendo che fosse affidata alla sua custodia, finchè un nuovo papa venisse personalmente a prendere possesso della sua capitale. Giacomo Isolani, cardinale di sant'Eustachio e legato di Roma persuase i Romani a chiudere le porte ed a difendersi. Vero è che fu presto forzato di ritirarsi in Castel sant'Angelo, ed a permettere a Braccio l'ingresso in città, il quale prese il titolo di difensore di Roma, e nominò un nuovo senatore[366].

Frattanto lo Sforza non era più prigioniero a Napoli, e trovavasi ancora alla testa delle truppe del regno e delle proprie. Desiderava l'occasione di vendicarsi di Braccio, che accusava di avere vilmente approfittato della sua disgrazia per ispogliarlo. Dietro gli ordini della regina Giovanna, si pose in marcia con un grosso esercito per iscacciare il suo rivale da Roma, e liberare il cardinale Isolani. Una malattia, che cominciava a dilatarsi tra i soldati, consigliò Braccio alla ritirata prima di venire alle mani col suo nemico. Ma l'odio che questi due capi si erano giurato parve raddoppiarsi, in Braccio perchè costretto di fuggire, nello Sforza perchè non poteva mandare ad effetto la vendetta che aveva sperato di fare[367].

CAPITOLO LXIII.

Papa Martino V viene a stabilire la sua dimora in Firenze; di concerto collo Sforza vuole rilevare in Napoli il partito d'Angiò, mentre Giovanna II adotta Alfonso d'Arragona. — Conquiste del duca di Milano in Lombardia; guerra degli Svizzeri.

1418 = 1422. Dopo la morte del re Ladislao la repubblica fiorentina godeva una costante tranquillità. Il partito dell'oligarchia guelfa, che aveva ripresa la superiorità nel 1382, mantenevasi in possesso dell'autorità suprema col credito che gli avevano dato le brillanti sue conquiste. Mentre egli governava lo stato, Pisa, Arezzo e Cortona erano state assoggettate ai Fiorentini, ed i confini della repubblica si erano allargati da ogni lato molto al di là de' suoi antichi limiti. La metà della Toscana ubbidiva alla signoria; e mentre che gli stati vicini erano oppressi dalle calamità della guerra, i soli Fiorentini vivevano felici sotto una potente protezione; l'agricoltura faceva prosperare le campagne; le città erano animate da numerose manifatture; ed i capi dello stato, quasi tutti dediti al commercio, accumulavano immense ricchezze, che l'eguaglianza repubblicana loro non permetteva di erogare senza pubblico vantaggio. Le leggi sontuarie reprimevano il lusso e permettevano la magnificenza. I principali cittadini, le loro spose e figlie andavano per la città a piedi; frugale era la loro mensa; semplici e modeste le vesti, e sempre le medesime; non era loro permessa nè l'insolente pompa de' servitori, nè vistosi cavalli e carrozze, nè vesti di porpora, nè ricami, nè giojelli; ma potevano bensì a voglia loro consacrare al divin culto sontuosi templi, o innalzare palazzi la di cui magnificenza ne paraggiasse il buon gusto; e la scuola d'architettura di Firenze si lasciò bentosto a dietro tutte le sue rivali. I cittadini erano in libertà di ornare questi palazzi di sculture e di quadri, e di raccogliervi preziose biblioteche; bentosto artisti, che forse non saranno mai superati, rinnovarono la gloria de' pittori e scultori d'Atene, e bentosto i dotti recarono a Firenze preziosi manoscritti dall'Oriente, dal Ponente e dal Settentrione. Lo stesso commercio rese utili servigi alle scienze; perciocchè le navi che si spedivano a Costantinopoli, ad Alessandria, ec. con istoffe di Firenze, tornavano frequentemente cariche delle opere di Omero, di Tucidide, o di Platone.

Dopo l'espulsione dei Ciompi, Maso degli Albizzi era sempre stato alla direzione della repubblica. Mentre trionfava la fazione nemica, egli aveva sofferta una lunga serie di disgrazie. Suo zio aveva perduta la testa sul patibolo, siccome molti de' suoi amici, le sue case erano state incendiate, ed egli medesimo cacciato in esilio. Ma dopo il suo ritorno la fortuna volle compensarlo delle sofferte calamità con trentacinque anni di prosperità e di gloria. Egli era l'anima di tutti i consigli della repubblica; amici di lui degni lo circondavano, e lo ajutavano, e conoscendo la penetrazione del suo ingegno ed il vigore del suo carattere, mai non osarono di venire in concorrenza con lui. Durante la sua amministrazione la repubblica aveva fiorito; i nemici degli Albizzi erano stati severamente puniti per i mali che gli avevano fatto; gli Alberti e tutti i loro partigiani erano stati esiliati, ammoniti, o spogliati d'ogni autorità; e per ultimo le private ricchezze di Maso eransi accresciute di pari passo colla pubblica fortuna, quand'egli morì del 1417 in età di 70 anni, carico di beni e di onori[368].

Niccola d'Uzzano, suo amico e contemporaneo, gli successe nell'opinione di cui godeva presso la repubblica, e la conservò fino al tempo in cui Rinaldo, figliuolo di Maso Albizzi, potè occupare ne' consigli il posto di suo padre. Contavansi inoltre tra i capi dello stato, Bartolommeo Valori, Nerone de' Nigi Diotisalvi, Neri di Gino Capponi, e Lapo Niccolini[369]. Vero è che nelle liste dei priori punto non vedonsi i loro nomi occupare distinte cariche, perchè le popolari elezioni e la sorte uguagliavano tutti i cittadini, ma qualunque volta i pericoli dello stato facevano nominare i decemviri della guerra, i capi del partito degli Albizzi occupavano i primi posti in quest'importante magistratura[370]. Inoltre qualunque volta ancora con autorizzazione del parlamento nominavasi una balia per formare di nuovo le borse d'elezione della magistratura, i capi del partito Albizzi presiedevano allo scrutinio, ed avevano cura di chiamare i loro amici alla signoria, escludendo tutte le persone della contraria parte; ed in particolare ricusarono ostinatamente di ammettere agli ufficj pubblici le tre famiglie degli Alberti, dei Ricci, de' Medici. Gli Albizzi, nel principio della loro amministrazione e finchè la memoria del tumulto de' Ciompi ispirava ancora lo spavento, avevano approfittato della pubblica animosità, per ispogliare queste famiglie di parte dei loro beni, per esiliare i più distinti loro capi, e per privare gli altri membri degli onori dello stato. Ma di mano in mano che andavasi dileguando la memoria di quella rivoluzione, il favore pubblico si attaccava di nuovo agli antichi difensori del partito popolare. I progressi della generale prosperità avevano procurata l'agiatezza ed una signorile educazione ai figliuoli di coloro che nel 1378 formavano l'ultima classe del popolo; e questi vantaggi si erano guadagnata la pubblica considerazione, di modo che non vedevansi senza risentimento persone distinte per ricchezze e per istruzione escluse dalle cariche, che avevano occupate i loro padri quando altro non erano che poveri artigiani. E come è della natura delle oligarchie di andarsi sempre più ristringendo, così è proprio loro carattere l'andar sempre eccitando una più viva gelosia.

In mezzo alle sofferte persecuzioni, la famiglia de' Medici non aveva mai abbandonata la mercatura, onde aveva adunate immense ricchezze. Il più distinto uomo di questa famiglia era Giovanni di Bicci. Ai talenti amministrativi aggiugneva Giovanni tanta dolcezza e moderazione, che si era guadagnato l'amore perfino de' nemici della sua famiglia. Tre volte dopo il 1402 aveva seduto come priore nella signoria[371], e suo figlio Cosimo, cui era serbato maggior lustro, ottenne pure lo stesso onore l'anno 1416[372]. Giovanni aveva inoltre fatto parte della magistratura dei dieci della guerra[373]; ma fu lungo tempo tenuto lontano dal supremo rango di gonfaloniere di giustizia. Finalmente ottenne anche questa carica in settembre del 1421[374], e tale condiscendenza del partito aristocratico, eccitò trasporti di gioja nel popolaccio, il quale credeva d'aver ricuperato il suo vindice.

Ma Giovanni, invece di cercare di farsi un partito nell'opposizione, secondò le politiche viste del governo in tutte le diverse cariche ch'egli occupò. Erano di que' tempi tutte pacifiche, ed i Fiorentini erano determinati a non prendere parte nelle diverse guerre che squarciavano l'Italia. Lasciavano che la Lombardia andasse agitandosi in una spaventosa anarchia fra i tiranni che si erano divisi gli stati di Giovanni Galeazzo ed il figliuolo di questo duca, Filippo Maria, che cercava di ricuperarli. Dopo la morte di Ladislao i Fiorentini avevano rinnovate con Giovanna di Napoli le antiche alleanze che avevano coi re delle due Sicilie. Erano uniti con istretta amicizia a Braccio di Montone, il valoroso capitano che si era formato uno stato ai loro confini, e che aveva promesso di venire a comandare al primo invito le loro truppe. Trovarono inoltre conveniente d'assicurarsi altresì dell'amicizia del papa, tostocchè l'elezione del concilio di Costanza rese un capo alla Chiesa universale; e perchè nel lungo tempo dello scisma, Roma e tutto lo stato ecclesiastico avevano scossa l'autorità pontificia, i Fiorentini offrirono a Martino V un asilo nella loro città finchè gli riuscisse di far valere i diritti de' suoi predecessori, e finchè si credesse sicuro della ubbidienza de' suoi sudditi.

Martino V era partito da Costanza fino dal 16 di maggio del 1418; ma egli viaggiava lentamente assai onde avere il tempo di negoziare in tutti i paesi che attraversava, e di riunire alla santa sede i popoli che in tempo dello scisma eransi accostumati ad una grandissima indipendenza religiosa. Si trattenne in fatti a Berna, a Ginevra, a Torino, a Milano, a Brescia, a Mantova, e non giunse a Firenze che il 26 febbrajo del 1419. Non volle tenere la strada di Bologna, perchè risguardava questa città come ribelle[375].

Il principale oggetto delle sollecitudini del papa era quello di assicurare i suoi diritti alla cattedra di san Pietro contro i due rivali che ancora gli restavano. Benedetto XIII, chiuso nella fortezza di Paniscola e protetto dal re d'Arragona, lo teneva sempre inquieto; Giovanni XXIII, prigioniere in Baviera, aveva ancor esso de' segreti partigiani, che risguardavano come calunniose le accuse presentate al concilio contro di lui, e perciò violenta ed illegale la sua deposizione. Altronde i Tedeschi, trattando colla Chiesa, avevano mostrato un cotale spirito d'indipendenza, che Martino stava in timore che non rendessero la tiara al suo rivale qualunque volta credessero aver motivo di dolersi di lui[376]. Ottenne adunque colle sue istanze, che Giovanni XXIII fosse trasportato in Italia, avendo intenzione di farlo custodire in Mantova in un perpetuo carcere. Ma Giovanni, viaggiando, trovò modo di fuggire; dall'asilo che aveva ottenuto nella Liguria, si affrettò di scrivere al papa che riconosceva legittima la sua elezione e la propria deposizione; ed la pari tempo implorava la clemenza del suo successore. Gli amici che il fuggitivo teneva in Firenze, ed in particolare Giovanni de' Medici, s'interposero presso Martino affinchè si riconciliasse con un uomo, cui doveva il proprio innalzamento, e di cui aveva difesa la causa fino all'istante in cui lo aveva sagrificato alla propria grandezza. Gli rappresentarono che l'unità della chiesa era meglio assicurata colla volontaria abdicazione di Giovanni XXIII, che colla sua prigionia, e lo persuasero a promettere al deposto papa un favorevole accoglimento in Firenze. Giovanni XXIII, avendo ripreso il nome di Baldassar Cossa, venne il 13 maggio a gettarsi ai piedi di Martino V, e dopo averlo pubblicamente riconosciuto per legittimo papa, da lui ricevette nuovamente, dopo pochi giorni, il cappello cardinalizio, e fu dichiarato il primo del sacro collegio. Ma poco tempo si vide onorare la corte del suo successore, essendo morto, alcuni mesi dopo la sua abdicazione, in Firenze, ov'ebbe dalla signoria magnifici funerali[377].

Martino V, mentre trovavasi ancora a Costanza, aveva accolti gli ambasciatori della regina Giovanna di Napoli, venuti a prestargli omaggio come ad abituale signore del regno; ed aveva mandato a questa principessa suo nipote, Antonio Colonna, per affrettare la liberazione del conte Giacomo della Marca, che la regina di lui consorte teneva tuttavia in prigione. Il Colonna aveva contratta stretta dimestichezza col nuovo amante della regina, ser Gianni Caraccioli, che ben più di Giovanna regnava in Napoli; egli non ottenne che fosse liberato il conte della Marca, ma un trattato assai vantaggioso per il papa e per la di lui famiglia fu conchiuso col favorito. Obbligavasi la regina ad assistere Martino con tutte le sue forze per fargli ricuperare lo stato della Chiesa; prometteva al fratello ed al nipote del papa considerabili feudi nel regno[378], ed ordinava allo Sforza, che a suo nome comandava in Roma, di consegnare la città con Castel sant'Angelo, Civitavecchia, Ostia e tutte le altre conquiste di Ladislao a Giordano Colonna, fratello del papa, che ne prese possesso in di lui nome[379]. Questo stesso Giordano con suo nipote Antonio e due cardinali recossi poi a Napoli, ove dopo lunghi indugi, il 28 ottobre del 1419, coronò in nome del papa la regina[380]. Antonio Colonna ebbe in ricompensa il principato di Salerno, il ducato d'Amalfi, e fu ancora creduto, che la regina lo lusingasse colla speranza di dichiararlo suo successore.

Questa regina, che il papa aveva in tal modo solennemente riconosciuta, aveva ben poca parte nel governo del suo regno. I suoi amanti ed i suoi generali se ne disputavano il supremo potere, mentre essa non viveva che per abbandonarsi alle sue licenziose passioni. Giacomo della Marca, suo marito, ottenne alla fine, per l'intromissione del papa, d'essere rilasciato dal carcere, ma per vivere in palazzo senza credito e considerazione alcuna, e si può dire sotto la dipendenza di ser Gianni Caraccioli, grande siniscalco e favorito di sua moglie. Egli vide con piacere lo Sforza ed il Caraccioli armare l'uno contro l'altro le loro antiche schiere e disputarsi colle armi in mano il possedimento della regina. La nobiltà di Napoli, omai stanca di portare un vergognoso giogo, sforzò i due rivali a rappacificarsi, e di già cominciava a dar legge alla stessa Giovanna nel suo palazzo[381]. Giacomo si lusingò d'interessare a suo favore quei popoli che per alcun tempo lo avevano riconosciuto per loro re, e che parevano scontenti del presente governo. Egli fuggì sotto mentite vesti in una galera genovese e recossi a Taranto intenzionato di far ribellare alla regina le province meridionali del regno; ma la regina Maria, vedova di Ladislao, che trovavasi a poca distanza da questa città, venne ad assediarvi il fuggitivo re. Giacomo si vide costretto ad imbarcarsi di nuovo; e, tornato in Francia, vestì l'abito di san Francesco, e morì nel suo convento l'anno 1438[382].

Giovanna, liberata di suo marito; avrebbe voluto disfarsi egualmente del suo gran contestabile Sforza Attendolo, riuscendole molesta la di lui rivalità col Caracciolo; onde acconsentì di buon grado che passasse colla propria armata ai servigi di Martino V. Lo Sforza andò a Roma coi valorosi che si erano a lui interamente affezionati; ricevette il titolo di gonfaloniere della Chiesa, e si apparecchiò ad attaccare Braccio di Montone, suo antico rivale, che il papa voleva ad ogni modo spogliare del principato ch'egli si era formato con pregiudizio della Chiesa[383].

Ma malgrado il sommo suo valore ed abilità poco poteva lo Sforza guadagnare contro un uomo che poteva essergli maestro nell'arte delle battaglie. Braccio, amato da' suoi soldati, temuto da' suoi vicini, fedelmente ubbidito da' suoi sudditi, trovavasi sempre come in propria casa in qualunque paese facesse la guerra. Egli conosceva e prevedeva tutti i movimenti de' suoi nemici, mentre che i suoi erano da loro ignorati: pareva ch'egli tutto vedesse senz'essere veduto. Seppe trarre lo Sforza tra la propria e l'armata di Tartaglia, suo luogotenente, e dopo avergli tolto un corpo d'infanteria, che i magistrati di Viterbo mandarono al gonfaloniere del papa[384], lo attaccò in un angusto passo tra Montefiascone e Viterbo, gli prese due mila trecento cavalieri e lo inseguì fino alle porte di Viterbo, ove a stento potè lo Sforza salvarsi[385].

Martino V sollecitava la regina di Napoli a somministrare al suo contestabile danaro e munizioni per rifare l'armata: ma il Caraccioli, che aveva udita con piacere la disfatta del suo rivale, e che aveva nuove cagioni di odiarlo, lungi dal permettere a Giovanna di soccorrere lo Sforza, prese le opportune cautele per perderlo interamente[386]. Il papa, adirato di vedersi sagrificato alle private vendette di un amante della regina, nudriva altro segreto motivo d'odio, vedendo senza effetto le speranze che aveva concepite per l'innalzamento della propria famiglia, perchè rifiutavasi la regina di adottare, com'erasene lusingato, per suo figlio Antonio Colonna, di lui nipote. Per vendicarsi di Giovanna, risolse di cambiare tutte le sue alleanze e di favorire le pretese di Luigi III d'Angiò sopra il regno di Napoli. Il malcontento della nobiltà, l'odio dello Sforza, che voleva vendicarsi di Caracciolo, e l'inquietudine del popolo, che vedeva la sua regina di già avanzata in età senza eredi naturali, sembravano dover ravvivare le speranze della casa d'Angiò ed annunciare la prossima caduta di quella di Durazzo. Martino V, prima d'inoltrarsi in così delicati negoziati, risolse di sbarazzarsi della guerra che aveva in su le braccia, ed accettò la mediazione de' Fiorentini per riconciliarsi con Braccio di Montone[387].

La signoria di Firenze nudriva la più alta stima per questo capitano, che una antica alleanza attaccava alla repubblica, e la di cui fedeltà non erasi giammai smentita; ella invitò Braccio a passare egli stesso a Firenze per trattare col papa. Il viaggio del signore di Perugia, fatto negli ultimi giorni di febbrajo del 1420, ebbe tutta l'apparenza di un viaggio trionfale. I suoi compagni d'armi lo seguivano sopra magnifici cavalli, ed erano riccamente vestiti di drappi di seta ricamati d'oro; quattrocento cavalieri coperti di forbitissime corazze, quasi fossero apparecchiati per un torneo lo accompagnavano: seguivano il loro signore i deputati di Perugia, di Todi, d'Orvieto, di Narni, di Rieti e d'Assisi, cercando a gara di superarsi l'un l'altro nella magnificenza degli equipaggi; e camminavano a lato di Braccio i principi di Foligno e di Camerino. La repubblica aveva apparecchiati lungo la strada alloggi e vittovaglie per tutto questo sontuoso corteggio[388]; il popolo si affollava sul di lui passaggio, ed applaudiva con trasporto all'eroe sempre vittorioso, che aveva di fresco acquistata nuova gloria colla rotta dello Sforza.

Martino V nel suo lungo soggiorno in Firenze non aveva data alla repubblica che una sola testimonianza della sua riconoscenza, innalzando la sua chiesa alla dignità arcivescovile[389]. Altronde mostravasi sempre severo e scontento, faceva conoscere un'abilità nel trattare gli affari ed un egoismo, che stranamente contrastavano colla bontà e colla semplicità, che gli si erano supposte quand'era cardinale[390]. Braccio per lo contrario mostravasi pieno di riconoscenza per la città e per gli ultimi cittadini che lo avvicinavano; il popolo ne ammirava l'affabilità e la cortesia, e paragonando i due illustri ospiti, che Firenze accoglieva nello stesso tempo entro le sue mura, preferiva altamente il guerriero al prete; si deliziava nel vedere i tornei e le feste militari che Braccio celebrava alle porte della città, e manifestava il proprio sentimento con poesie lusinghiere pel generale, e piene di sarcasmo pel papa, le quali questi mai non seppe perdonare ai Fiorentini. Due sgraziati versi, ripetuti sotto le finestre di Martino V da alcuni fanciulli, cancellarono la memoria di tatto quanto la signoria aveva fatto per lui, e lo trassero a cercare nuovi amici e nuove alleanze[391].

Per altro il pontefice accolse con bontà Braccio di Montone; accettò la sua apologia per le passate ostilità, e ricevette il giuramento di fedeltà per l'avvenire. Braccio restituì al papa le città di Narni, Terni, Orvieto ed Orta, e ritenne in feudo sotto l'alto dominio della Chiesa quelle di Perugia, d'Assisi, di Cannaria, di Spello, di Jesi, di Gualdo e di Todi. Promise inoltre di condurre le sue truppe contro Bologna, e di costringere questa città a tornare all'ubbidienza della santa sede[392].

Il papa, dopo il suo ritorno in Italia, aveva trattato coi Bolognesi, ed aveva acconsentito che conservassero la libertà[393]; ma quando potè volgere contro di loro le armi di Braccio, colorì la sua aggressione col pretesto d'una rivoluzione accaduta nella repubblica. Antonio Galeazzo Bentivoglio, figlio di quel Giovanni, che aveva usurpata la signoria in principio del secolo, aveva, come il padre, usurpata la signoria della sua patria, scacciandone i Canedoli suoi rivali. Ma il di lui dominio non ebbe lunga durata; il 26 di gennajo del 1420 aveva approfittato d'una sedizione per usurpare la sovrana autorità[394], e prima che terminasse il giugno dello stesso anno, era di già stato spogliato da Braccio di tutti i suoi castelli, e ridotto ad abdicare la signoria, aprendo le porte della sua capitale alle truppe del papa[395].

Circa lo stesso tempo Sforza Attendolo erasi pure recato a Firenze per trattare con Martino V. A questo generale il pontefice affidò tutti i suoi segreti, sperando colla di lui assistenza di vendicarsi della regina Giovanna e del Caracciolo. Incontrò non pertanto qualche difficoltà a persuaderlo ad abbandonare il partito di Durazzo, cui aveva giurata fedeltà; per abbracciare quello d'Angiò[396]; ma gli ambasciatori di Lodovico III, che trovavansi presso il pontefice, ridussero lo Sforza a promettere i suoi servigi al loro padrone, anticipandogli ragguardevoli somme, colle quali, messa insieme una nuova armata, questo generale si avviò alla volta di Napoli. Quando giunse a poca distanza di questa città restituì alla regina il bastone di gran contestabile che aveva da lei ricevuto, dichiarandole, che per sottrarsi ai capricci del Caraccioli, rinunciava a qualunque legame verso di lei, e rivocava i giuramenti che le aveva prestati. Dopo tale dichiarazione, credendosi sciolto da qualunque obbligo verso la medesima, proclamò Lodovico III d'Angiò, re di Napoli, ricordando il suo ereditario diritto, fondato nell'adozione di Giovanna I; invitò i baroni angioini e tutti i partigiani dei re francesi ad unirsi a lui ed investì Napoli nel mese di giugno dalla banda di porta Capuana[397].

Fa veramente sorpresa il vedere Lodovico d'Angiò scegliere per la conquista d'un regno lontano il tempo in cui la sua patria era quasi soggiogata da uno straniero. Il 21 maggio del 1420, Carlo VI, o piuttosto il duca di Borgogna, in suo nome, aveva soscritto il trattato di Trojes, col quale diseredava il Delfino, e trasferiva ad Enrico V d'Inghilterra il diritto di successione alla corona di Francia. Di già l'Inglese regnava omai in Parigi invece del monarca imbecille, di cui aveva sposata la figlia; il Delfino erasi ritirato a Poitiers, e più non veniva ubbidito che da alcune province poste al mezzodì della Loira, quando Lodovico d'Angiò lo abbandonò, seco conducendo tutti i cavalieri e soldati attaccati alla sua sorte, ed adunando tutto il danaro che potè avere in mezzo alla miseria universale, per andare a far prova di sua fortuna in un paese, in cui suo padre e suo avo non avevano provate che sventure[398].

Lodovico aveva armata, parte in Provenza e parte a Genova, una flotta di nove galere e di cinque navi da trasporto; con questa flotta presentossi in faccia a Napoli il 15 agosto, sorprendendo Castell'a Mare, mentre lo Sforza occupava Aversa, che diventò il quartiere generale della parte d'Angiò[399]. Il papa, ch'era l'anima di quest'intrapresa, e che colle sue istigagioni aveva persuasi lo Sforza e Lodovico a cominciarla, affettava ancora di mantenersi neutrale; e si offriva in qualità di arbitro e di conciliatore, e ridusse Lodovico e Giovanna a mandargli ambasciatori a Firenze per giustificare innanzi a lui i loro titoli.

Il deputato di Giovanna era Antonio Caraffa, cui lo spirito versuto e dissimulato aveva fatto dare il soprannome di Malizia. All'istante costui conobbe quali erano le vere disposizioni del pontefice, e ciò che doveva da lui aspettarsi; ma nella sua corte medesima, e quasi sotto i suoi occhi seppe trovare nuovi alleati alla sua sovrana, e suscitare a Martino ed a Lodovico un avversario pericoloso.

Don Garzia Cavaniglia, gentiluomo valenziano era ambasciatore d'Alfonso V, re d'Arragona, di Majorica, di Sicilia e di Sardegna, presso il papa. Cercava di ottenere dalla corte di Roma la cessione dell'isola di Corsica, che nello stesso tempo il suo padrone cercava di togliere colle armi ai Genovesi. Il Malizia offrì all'Arragonese una corona più degna della sua ambizione. Fece sentire a quest'ambasciatore, che Giovanna, ultimo rampollo della prima casa d'Angiò, era padrona di disporre del suo regno a favore di colui che adotterebbe per suo figliuolo; ch'era disposta di dare così magnifica ricompensa a quegli che l'assisterebbe nelle presenti circostanze, e che la politica e l'interesse de' suoi popoli la consigliavano a cercare di preferenza l'amicizia del suo più prossimo vicino. In forza della sua alleanza con Alfonso, le due Sicilie sarebbero di nuovo riunite, e due popoli fratelli, divisi dopo i vesperi siciliani, tornerebbero sotto un solo sovrano, disceso dal canto di donna dagli eroi svevi e normanni, che prima avevano regnato nella Puglia. Cavaniglia abbracciò avidamente il progetto di Malizia, somministrò a quest'inviato della regina i mezzi di recarsi segretamente presso Alfonso, in allora occupato nell'assedio del forte castello di Bonifazio in Corsica. Il re d'Arragona, omai stanco della resistenza dei Corsi, rinunciò volentieri ad una guerra senza gloria, per un'intrapresa che annuciavasi sotto così favorevoli auspicj. Fece immediatamente partire alla volta di Napoli diciotto galere con tre de' suoi migliori generali, promettendo di seguirli egli stesso tra non molto[400].

Già da lungo tempo non si ebbe più occasione di parlare del regno di Sicilia, che, perdendo le sue ricchezze e le sue forze sotto una serie di deboli re, minori o insensati, più non aveva parte all'equilibrio d'Italia. Federico II, il sesto re della razza arragonese dopo i vesperi siciliani, era morto del 1368, lasciando sua sola erede la figlia Maria. Questa portò la corona a Martino II, figliuolo del re d'Arragona, il quale era morto senza prole l'anno 1409, onde suo padre, chiamato pure Martino, riunì i due regni. Dopo di lui passarono nel 1410 a Ferdinando, figliuolo di sua sorella e di Giovanni, re di Castiglia. Alfonso era figliuolo di questo Ferdinando, ed aveva cominciato a regnare nel 1416[401]. Per una singolare fortuna questo principe ambizioso e destinato a tanta gloria, era per così dire straniero a tutti i regni da lui governati. In Arragona vedevasi con gelosia circondato dai Castigliani che suo padre aveva con lui condotti, ed il desiderio di sottrarli agli occhi del popolo e delle Cortès, non fu uno degli ultimi motivi, che gli fecero intraprendere la spedizione di Corsica, ed in appresso quella di Napoli[402].

Così cominciava nel regno di Napoli quella sanguinosa accanita contesa fra i Francesi e gli Spagnuoli, che, inutilmente assopita, doveva di quando in quando rinascere, comunicarsi all'intera Italia in sul finire del quindicesimo secolo, ed essere cagione della ruina de' suoi stati indipendenti. La rivalità tra le due case d'Arragona e d'Angiò doveva più tardi coprire il regno di Napoli di soldati stranieri; ma da principio i due pretendenti alla corona sostennero i loro diritti colle armi italiane, approfittando della rivalità dei due grandi capitani, Braccio di Montone e Sforza.

I luogotenenti di Alfonso si presentarono il 6 di settembre in faccia a Napoli; ed al loro arrivo la flotta di Lodovico d'Angiò, trovandosi più debole, si ritirò. Lo Sforza, che assediava Napoli col duca d'Angiò, fece inutili sforzi per impedire lo sbarco degli Arragonesi, ma fu costretto a ritirarsi; e Raimondo Periglios, comandante dell'armata d'Alfonso, fu ricevuto da Giovanna colle più distinte dimostrazioni d'onore, gli si affidarono Castel Nuovo, e Castello dell'Ovo, perchè li tenesse in deposito pel suo padrone, ed il re d'Arragona venne proclamato figliuolo adottivo della regina di Napoli, ed erede presuntivo del regno[403].

Giovanna ed Alfonso mandarono persone di comune confidenza a Braccio da Montone per averlo con onorate condizioni al loro servigio; lo trovarono già tornato a Perugia, intento ad abbellire quella città con sontuosi edificj, mentre i suoi soldati erano distribuiti ne' quartieri d'inverno nelle vicine borgate. Braccio, che aveva di fresco sposata la sorella del signore di Camerino, non potè mettersi in campagna che nella vegnente primavera (1421); ma si valse intanto del danaro rimessogli da Alfonso per adunare nuovi soldati, ed in marzo, prendendo la strada degli Abruzzi, entrò nel regno di Napoli[404].

La Calabria e quasi tutta la costa orientale del regno aveva abbracciato il partito d'Angiò; ma le battaglie che avevano luogo nelle province erano di non molta importanza, limitandosi i signori feudatarj a guastare di quando in quando il paese de' loro nemici. Intanto le truppe vivevano a discrezione nelle campagne che attraversavano, e gravissimi disordini tenevano dietro alle più leggeri scaramucce. La somma della guerra riducevasi alle porte di Napoli, e colà recossi Braccio per iscacciare d'Aversa lo Sforza e Lodovico d'Angiò. Fu accolto con mille dimostrazioni d'onore da Alfonso, ch'era poc'anzi giunto ancor esso a Napoli; ed essendo creato principe di Capoa, conte di Foggia e grande contestabile del regno, si rese in breve padrone delle fortezze del suo nuovo principato, la maggior parte delle quali trovavansi in potere del nemico[405].

Per altro l'avvicinamento dei due emuli re e di due grandi generali, in così circoscritto spazio, non produsse quegli importanti avvenimenti che si aspettavano. Lodovico III, stanco della sua inazione, passò a Roma presso Martino V, ch'era venuto a soggiornare nella sua capitale in sul finire del precedente anno. Braccio cercava di sedurre i generali dello Sforza, e gli riuscì di staccare da lui Giacomo Caldora, gentiluomo napolitano, che aveva mostrato estrema avversione alla regina. Tentò in appresso il Tartaglia, che aveva altra volta militato sotto di lui, e che lo aveva abbandonato per seguire lo Sforza; ma questi diffidando del Tartaglia, lo fece arrestare; e dopo averlo assoggettato alla tortura, lo condannò alla morte, alienando con tale crudele atto la metà de' suoi soldati che amavano il Tartaglia[406].

Mentre la guerra più omai non si faceva che colla seduzione e cogl'intrighi, la corte di Giovanna veniva agitata dalle segrete pratiche del grande siniscalco Caraccioli. Vedeva questi con estrema diffidenza il crescente potere di Alfonso, e temeva che questo principe non lo trattasse un giorno come Giacomo della Marca aveva trattati altri amanti della regina. Palesò parte delle sue gelosie a Giovanna, e persuase questa principessa a trattare con Lodovico d'Angiò; e di già parlavasi di rivocare l'adozione d'Alfonso, per sostituirgli il principe francese[407]. Queste pratiche non rimasero lungamente ignote al principe arragonese; e, nella universale diffidenza, questi pensava soltanto ad assicurarsi delle avute fortezze contro la regina, Braccio a dilatare i confini del suo principato di Capoa, lo Sforza a far vivere le sue truppe a spese dei Napolitani; e l'anarchia poteva durar lungo tempo, se Martino V non si stancava di sussidiare Lodovico d'Angiò. L'armata dello Sforza era omai quasi affatto distrutta, e richiedevansi ragguardevoli spese per rifarla. Alfonso minacciava di ricominciare lo scisma facendo in tutti i suoi regni riconoscere Benedetto XIII, che ancora viveva a Peniscola sempre pretendendo di essere il pontefice. Lodovico, cedendo alle istanze del papa consegnò alla Chiesa le due città d'Aversa e di Castellamare, le sole che gli si fossero conservate fedeli. Poco dopo (1322) il papa le restituì alla regina, la quale riprese ai suoi servigi lo Sforza, di cui voleva formarsi un appoggio contro suo figlio adottivo, e che attaccandosi di nuovo alla regina non lasciava di favorire segretamente la casa d'Angiò[408].

In questi quattro anni la Lombardia non era stata meno travagliata dalle rivoluzioni di quel che lo fosse il regno di Napoli. Filippo Maria Visconti, duca di Milano, era tutto intento a ricuperare le province che ubbidivano a suo padre, e che si erano ribellate in tempo della minorità sua e di suo fratello. Egli allora non prevedeva che lavorava pel figlio di quello Sforza che aveva avuta tanta parte nelle rivoluzioni di Napoli, e che in questo medesimo tempo, costretto a mutar partito, perdeva quasi affatto il suo credito e la sua armata.

Il duca Filippo Maria conservava con un carattere più debole alcuni tratti di Giovanni Galeazzo suo padre. Era la medesima effeminata ambizione che facevagli sempre desiderare nuove conquiste, senza avere il coraggio di avvicinarsi al suo esercito, o di mirare in faccia il soldato nemico. Colla stessa perfida politica, colla stessa tortuosa condotta ingannava i nemici e gli amici; aveva la stessa arte di nascondere sotto ogni sua azione un secondo fine contrario a quello che mostrava d'essersi proposto; finalmente al suo carattere basso e crudele era, come in suo padre, congiunta una inaspettata generosità. Ma distinguevano Filippo Maria dal padre una minore forza di volontà, minore arte nella condotta de' suoi progetti e nella scelta de' mezzi, minor conoscenza della amministrazione, minori talenti per sorprendere il popolo e per farsi amare[409].

Il primo uso che fece il duca di Milano delle forze, che andava ricuperando, fu quello di liberarsi della sua benefattrice con non minore crudeltà che ingratitudine. Beatrice Tenda, vedova di Facino Cane, aveva portato al duca, sposandolo in seconde nozze, la sovranità di Tortona, Novara, Vercelli ed Alessandria, ed il comando d'un numeroso e ben disciplinato esercito, che aveva ristabiliti gli affari dei Visconti. Se la dolcezza, la generosità, la pazienza, la nobiltà del carattere, possono supplire in una donna alla gioventù ed alla bellezza, Beatrice meritava d'essere amata; ma ella contava vent'anni più del marito, il quale, oppresso dalla ricordanza dei beneficj della consorte, stanco delle sue virtù, irritato dalla pazienza medesima ch'ella opponeva ai suoi sregolamenti, l'accusò d'avere violata la fede conjugale con uno de' più giovani cortigiani, cui strappò di bocca colla tortura una falsa confessione. Il timore d'un atroce supplicio, o la speranza d'acquistarsi il favore del sovrano con una calunnia, persuasero questo giovane a rinnovare la sua confessione ai piedi del palco, ove fu condotto colla duchessa in presenza della corte e del popolo. «Siamo noi dunque in un luogo (soggiunse allora Beatrice con fierezza) ove gli umani timori debbano superare il timore del Dio vivente, innanzi al quale siamo vicini a comparire? Ho sofferti come voi, Michele Orombelli, i tormenti coi quali vi è stata estorta quella vergognosa confessione; ma quegli atroci dolori non ridussero la mia lingua a calunniarmi. Un giusto orgoglio avrebbe preservata la mia castità, quand'anche la mia virtù non avesse potuto farlo; per altro, per quanta distanza passi tra di noi, non vi credeva tanto vile da disonorarvi in quell'unico istante che vi si presentava per rendervi glorioso. Frattanto il mondo mi abbandona; il solo testimonio della mia innocenza depone contro di me: dunque più non mi resta, o mio Dio, che ricorrere a te. Tu vedi ch'io sono senza colpa, e che ne vado debitrice alla tua grazia; tu preservasti i miei pensieri come la mia condotta da ogni impudicizia. Oggi forse tu mi castighi d'avere violato con seconde nozze il rispetto da me dovuto alle ceneri del primo sposo. Accetto con sommissione la prova che mi viene dalla tua mano; raccomando alla tua misericordia quello, la di cui grandezza volesti che fosse opera mia, e spero dalla tua bontà, che, come tu conservasti l'innocenza della mia vita, tu conserverai ancora agli occhi degli uomini pura ed incontaminata la mia memoria.» Beatrice e Michele Orombelli perdettero all'istante la testa sul palco[410].

Giovanni Galeazzo, senza essere egli stesso militare, aveva avuta una rara felicità, o un singolare talento nello scegliere i suoi generali; Filippo Maria non fu meno di lui fortunato. Seppe distinguere Francesco Carmagnola ed accordargli una confidenza proporzionata ai suoi talenti. Francesco Carmagnola era stato dal duca notato all'assedio di Monza, in quel delicato momento, in cui Filippo, vedendosi perduto se non conseguiva l'eredità di suo fratello, erasi posto alla testa dell'armata. Osservò un semplice soldato che inseguiva Ettore Visconti fino tra le file nemiche, e che indubitatamente l'avrebbe fatto prigioniere, se il suo cavallo correndo non cadeva. Filippo diede a questo soldato il comando di un piccolo corpo di truppe, ed ebbe in breve novelle prove del suo ardire e d'una intelligenza ancor più grande del suo valore. Lo creò in allora capo del suo esercito, ed i più strepitosi avvenimenti giustificarono una così felice scelta[411].

Il Carmagnola si dispose a conquistare tutto il paese posto tra l'Adda, il Ticino e le Alpi. I più forti castelli di questa provincia Trezzo, Lecco e Castel d'Adda, gli aprirono le porte nel 1416. Nello stesso anno il duca, contro la fede dei trattati, fece arrestare Giovanni da Vignate, signore di Lodi, che aveva chiamato a Milano sotto pretesto d'avere con lui una conferenza. Il figlio di questo signore venne pure arrestato nella stessa Lodi dalle truppe del Visconti, che scalarono le mura di questa città il 19 agosto del 1416, e Giovanni da Vignate e suo figliuolo perirono in Milano sul patibolo[412].

Filippo Araceli, gentiluomo di Piacenza, aveva consegnata la sua patria al duca di Milano in principio del 1415. Ma avendo poco dopo avuta cagione di lagnarsi del Visconti, gli aveva di nuovo fatto ribellare i suoi concittadini, ed aveva il 25 ottobre dello stesso anno preso il titolo di signore di Piacenza. Araceli contavasi tra i più valorosi ed esperti guerrieri del suo tempo. Adunò tutti i signori della Lombardia, che si erano divisa l'eredità di Giovanni Galeazzo; fece loro sentire, che comune era la causa di ognuno di loro, poichè il duca di Milano pensava a spogliarli tutti. Pandolfo Malatesti, signore di Brescia, Gabrino Fondolo di Cremona, Lotiero Rusca di Como, i Coleoni di Bergamo, i Beccaria di Pavia e Tomaso di Campo Fregoso, doge di Genova, si obbligarono alla vicendevole difesa. Il Visconti mandò nel 1417 il Carmagnola nella bassa Lombardia. È noto che questo generale e Filippo Araceli si fecero un'accanita guerra, e che le principali città di questa provincia furono più volte prese e riprese; ma confuse o perdute sono le memorie di tali avvenimenti, ed incerte le epoche. Il Carmagnola occupò Piacenza, ma non la sua cittadella; onde conoscendo di non poter difendere questa città contro Pandolfo Malatesti che si avvicinava per attaccarla, obbligò tutti gli abitanti ad uscirne coi loro più preziosi effetti, che fece imbarcare sul Po. L'Araceli e Pandolfo Malatesti, quando entrarono in quelle deserte strade, furono sbalorditi da tanta desolazione; i loro soldati, che si erano sparsi nelle case per saccheggiarle, ne uscirono come spaventati non avendovi trovati che vecchi arredi di niun valore. Per lo spazio d'un anno questa grande città rimase deserta, essendovi rimasti nascosti tre soli abitanti in tre diversi quartieri. Frattanto l'erba andava crescendo in tutte le strade fino all'altezza del ginocchio, e la cicuta si alzava innanzi alle porte delle case quasi per vietarne l'ingresso[413].

Finalmente Filippo nel 1418 trionfò di tutti i suoi nemici, parte per le proprie perfidie e parte pel valore del suo generale. Filippo Araceli fu scacciato da tutte le terre murate che occupava nel territorio di Piacenza, e costretto a salvarsi in Venezia. Ottenne in allora dalla repubblica il comando di un'armata che fu mandata contro il patriarca d'Aquilea, ed ebbe maggior fortuna sostenendo una causa straniera che la propria. Castellino Beccaria era stato arrestato a Pavia, indi ucciso in carcere per ordine del duca di Milano. Suo fratello Lancellotto, che si era salvato ne' castelli che possedeva fra Tortona ed Alessandria, venne assediato in quello di Serravalle, ed essendosi reso a discrezione, venne appiccato nella pubblica piazza di Pavia[414]. Lotiero Rusca, tiranno di Como, disperando di potersi a lungo difendere in questa città, la consegnò volontariamente al duca, conservando per sè Lugano col titolo di conte[415]. Finalmente il Carmagnola penetrò nella riviera di Genova per ridurre all'ubbidienza ancora Tomaso di Campo Fregoso.

I Genovesi credevano d'avere ricuperata la libertà, allorchè scacciarono fuori dalle loro mura i Francesi l'anno 1411, ed il marchese di Monferrato nel 1413. Ma sebbene Genova non avesse un padrone però non era più repubblica. Invano i suoi cittadini avevano cercato di dare consistenza alla loro costituzione, e di assoggettare l'elezione del loro doge alle formalità osservate in Venezia[416]. L'odio che divideva le più potenti famiglie era così violento, ed ogni capo di partito aveva sotto di sè tanti clienti e vassalli, che la città era trasformata in un campo di battaglia, ove le parti nemiche guerreggiavano continuamente. Più non trattavasi tra le opposte fazioni dell'interesse de' Guelfi o dei Ghibellini, della nobiltà o del popolo, della libertà o del servaggio, ma di distruggersi a vicenda perchè si odiavano. Nell'istante medesimo in cui, per le cure de' magistrati e del clero, si riconciliavano le parti, e si giuravano pace, un'occhiata orgogliosa, un motto piccante, un gesto talvolta sinistramente interpretato, erano sufficienti motivi per far di nuovo sguainare le spade, e ritornare in duolo tutta la città. Abbandonata era la navigazione, languiva il commercio, devastate vedevansi le campagne, le terre incendiate, ed ogni giorno alcuno de' più magnifici palazzi della città veniva spianato.

In tempo di tali civili guerre, Giorgio Adorno, Barnabò Goano e Tomaso di Campo Fregoso vennero successivamente innalzati alla dignità ducale. L'ultimo sembrava più d'ogni altro proprio a rendere la pace alla repubblica; egli godeva dell'amicizia e della stima di Giorgio Adorno, suo antico rivale, cui doveva la propria elezione; aveva date ai suoi concittadini non dubbie prove della sua moderazione, del suo disinteresse, del suo valore; aveva pagato col proprio danaro i debiti del pubblico tesoro, che ammontavano a sessanta mila fiorini[417]; ed era ajutato nella sua amministrazione dallo sperimentato valore e dai varj talenti de' suoi cinque fratelli nel fiore dell'età, a lui egualmente tutti affezionatissimi. Ma non era dato a niun uomo di poter lungo tempo comprimere odj tenuti vivi da troppo mortali ingiurie. I Guarci, i Montalti e gli Adorni abbandonarono la città nel 1417 e si rifugiarono presso il duca di Milano. Nel 1418 i marchesi di Monferrato e del Carreto abbracciarono l'alleanza di Filippo Maria, e le foci delle montagne furono aperte a Francesco Carmagnola dagli emigrati o dai traditori. Tre mila cavalli ed otto mila pedoni saccheggiarono, durante tutta l'estate, le valli della Polsevera e di Bisannio; la fortezza di Gavi, creduta inespugnabile, venne consegnata ai nemici, ed i Genovesi perdettero tutti i loro possedimenti posti nella parte settentrionale delle montagne[418].

Mentre questa repubblica lottava con tanto svantaggio contro il duca di Milano, i Fiorentini, che avevano di già veduti soggiacere altri avversarj di questo principe, avrebbero dovuto ajutare un popolo libero, che non poteva essere soggiogato senza che ne sentisse danno l'equilibrio dell'Italia, e senza che l'ambizioso Visconti portasse le sue viste sulla Toscana. Verun trattato di pace tra la repubblica fiorentina ed il duca di Milano avevano terminata la guerra accesa da Giovanni Galeazzo; ma la signoria, vedendo tanti nemici congiurati contro il duca, aveva da lungo tempo cessato di fargli guerra. Mentre, del 1419, i Genovesi domandavano caldamente soccorsi per difendersi, il duca sollecitava i Fiorentini a terminare con onorevole pace le loro contese. La signoria ondeggiava indecisa tra i suoi timori dell'avvenire, ed una vicina speranza. Desiderava di ridurre i Genovesi in necessità di venderle il castello di Livorno, che signoreggiava le foci dell'Arno e Porto Pisani, e che pareva inceppare il commercio di Pisa. Livorno era stato ceduto a Boucicault da Gabriele Maria Visconti, signore di Pisa, e quando il maresciallo francese era stato scacciato da Genova, quel porto ed il suo castello erano venuti in mano dei Genovesi. La signoria fiorentina, che ardentemente desiderava di fare quest'acquisto, si rallegrava dell'imbarazzo in cui trovavansi i Genovesi, e rifiutavasi di soccorrerli senza la cessione di Livorno.

Niccola d'Uzzano ed i suol amici si opponevano ne' consigli di Firenze all'opinione di coloro che volevano che la repubblica trattasse col duca di Milano, loro sembrando che col fare seco la pace si venissero a sanzionare le di lui usurpazioni, e si facesse conoscere ai Genovesi ed al signore di Brescia che si abbandonavano alla loro sorte. Ma il popolo accusava l'aristocrazia e l'antico partito guelfo d'inquieta ambizione; non vedeva nella sua politica che desiderio d'ingrandirsi colla guerra, e mostrava un così aperto malcontento, che la signoria si vide forzata a sottoscrivere, in gennajo del 1419, un trattato con Filippo Maria. I Fiorentini si obbligavano a non prendere parte in tutte le rivoluzioni della Lombardia oltre i fiumi della Magra e del Panaro, ed il duca prometteva di non immischiarsi di tutto quanto accaderebbe al levante di questi due fiumi, il primo de' quali divide la Lunigiana dallo stato di Genova, l'altro il Bolognese dal Modanese[419].

Ma i Fiorentini, quando supponevano che i Genovesi potrebbero difendersi colle proprie loro forze, non avevano preveduto che sarebbero ben tosto attaccati da un nuovo avversario. Alfonso d'Arragona, prima che Malizia venisse ad invitarlo a nome della regina Giovanna di recarsi a Napoli, aveva di già fatto vela dalle coste della Catalogna con tredici vascelli rotondi e ventitre galere. Impaziente di sottrarsi alle rimostranze delle sue cortes ed alla gelosia de' suoi sudditi, andava a cercar conquiste in lontane parti. Attaccò, senza esserne provocato, la Corsica, che dipendeva da Genova; per tradimento occupò Calvi, e molti gentiluomini corsi, sedotti dalle sue offerte, spiegarono le sue insegne, ed il solo castello di Bonifazio, posto all'estremità meridionale dell'isola sopra uno scosceso promontorio, conservossi fedele ai Genovesi. Alfonso lo attaccò, e stette nove mesi ostinato intorno a quest'assedio. In ultimo Giovanni Fregoso, fratello del doge, penetrando a traverso della flotta catalana, riuscì a vittovagliare Bonifazio. Il re d'Arragona perdette allora ogni speranza di averlo; abbandonò la Corsica per passare a Napoli, ov'era aspettato, ed altro non ottenne dalla sua impresa contro quell'isola che la vergogna d'avere violato un trattato di pace[420].

Le grandi spese che la guerra contro gli Arragonesi aveva cagionata alla repubblica determinarono finalmente i Genovesi a vendere Livorno ai Fiorentini. Il contratto fu convenuto il 30 giugno 1421 pel prezzo di cento mila fiorini[421]. Ma i Genovesi desideravano ben più di vendicarsi degli Arragonesi che di conservare la loro libertà; il Carmagnola avea rinnovati ogni anno i guasti nel loro territorio, e tutti gli alleati loro erano stati soggiogati dalle armi del duca, e ridotti ad alienarsi da loro. Tomaso di Campo Fregoso sentì egli stesso la necessità di terminare una guerra ruinosa per la sua patria, quando vide Filippo Maria fare alleanza coi Catalani ed attaccare Genova per mare e per terra. Le stesse condizioni sotto le quali la repubblica erasi data al re di Francia, vent'anni prima, vennero offerte ed accettate; ed il duca di Milano guarantì le costituzioni della città e la libertà interna; il conte Carmagnola, come luogotenente del Visconti, venne surrogato al doge; ed a Fregoso, che abdicò la sua dignità, fu data in ricompensa la signoria di Sarzana. Ma siccome questa città è posta al di là della Magra, il duca di Milano, disponendone in tal modo, veniva a violare il trattato che aveva recentemente fatto coi Fiorentini[422].

I Guelfi di Lombardia ed i piccoli principi di questa contrada eransi pure lusingati di trovare rifugio sotto la protezione dei Veneziani, più ancora che i Fiorentini interessati ad opporsi agli ambiziosi progetti di conquista del duca di Milano. Ma il senato di Venezia, invece di prendere di mira il prossimo danno onde era minacciato, lasciavasi illudere dalla propria ambizione. Vedeva Sigismondo imbarazzato in una doppia guerra, in Boemia contro gli Ussiti, ed ai confini dell'Ungheria contro i Turchi. Il patriarca d'Aquilea, Luigi II di Teschen, alleato dell'imperatore, non poteva da lui sperare soccorsi; ed i Veneziani, tostocchè videro spirata la tregua di cinque anni che avevano fatta con Sigismondo, attaccarono (1418) il patriarca. Cividale, Sacile e Porto Gruaro loro si arresero nella prima campagna, e nella susseguente Filippo Araceli, generale delle truppe veneziane, occupò Feltre e Belluno. Finalmente Udine, capitale del patriarcato, si arrese alla repubblica il 7 giugno del 1420, e nella stessa campagna s'arrese pure tutta la provincia, come anche la parte dell'Istria, che dipendeva dall'alta signoria dei patriarchi. Il conte di Gorizia prestò omaggio al doge pei feudi dipendenti dalla chiesa d'Aquilea, ed in tal modo tutto il Friuli venne aggregato per sempre agli stati della repubblica[423].

Ma così prosperi avvenimenti non permisero per altro ai Veneziani di posare le armi: essi continuarono la guerra nell'Istria, nella Dalmazia, nell'Albania contro i feudatarj del re d'Ungheria, e non ottennero che conquiste comperate a caro prezzo. Vero è che di quando in quando concepivano qualche gelosia degli acquisti che Filippo Maria andava ogni giorno facendo ai loro confini; ma si lasciavano bentosto addormentare dalle proteste di amicizia che questi loro faceva, e lasciavano vilmente in sua balia i più fedeli amici e servitori della repubblica.

Poichè Filippo Araceli ebbe abbandonato lo stato di Piacenza, Rinaldo Palavicini, che vedeva avvicinarsi le armi del duca, volontariamente cedette san Donnino di cui era signore. I Rossi, i Pellegrini, gentiluomini di Parma, si sottomisero da se medesimi[424]; e Niccolò, marchese d'Este, temendo di perdere tutt'ad un tratto le due città di Parma e di Reggio, che già avevano appartenute a Giovanni Galeazzo, cedette volontariamente la prima per ottenere da Filippo Maria l'adesione al possedimento della seconda. Questo trattato venne sottoscritto dai due sovrani l'8 aprile del 1321[425].

Intanto Francesco Carmagnola attaccò Pandolfo Malatesti, signore di Brescia e di Bergamo. In pochi giorni gli tolse quasi tutte le terre murate del Bergamasco, e bentosto trovò modo d'entrare in Bergamo dalla banda della montagna, che non credevasi esposta a verun attacco; le valli di san Martino e molte terre della campagna bresciana s'arresero volontariamente a Filippo Maria Visconti[426].

Tali conquiste vennero alcun tempo sospese da una tregua trattata in nome di Martino V tra Filippo Maria e Pandolfo Malatesti; ma il duca di Milano approfittò della sospensione delle ostilità per attaccare Cabrino Fondolo, tiranno di Cremona. I castelli di Pizzighettone e di Soncino s'arresero ai Milanesi quasi senza fare resistenza[427]: onde Gabrino offrì ai Veneziani la cessione di Cremona, e quanto ancora gli restava nel suo territorio, contro un equitativo compenso; così pure fece di Brescia Pandolfo Malatesti; ma queste due profferte furono rigettate[428]; ed il signore di Cremona fu sforzato a trattare col duca, cui cedette il suo principato ad eccezione del castello di Castiglione, ove si ritirò co' suoi tesori.

In quest'epoca medesima in cui i Veneziani dovevano essere adombrati dalla ambizione del duca di Milano, conchiusero con lui un trattato di pace per dieci anni, onde potere, senza impedimenti, terminare le loro conquiste in Dalmazia, lasciando in balìa alle preponderanti forze del duca Pandolfo Malatesti, loro antico alleato, che aveva inoltre lungo tempo comandate le armate della repubblica, e non guarantendo che gli stati di Francesco Gonzaga, signore di Mantova e di Peschiera, perchè queste due fortezze, formando un'importante linea di difesa alle province veneziane di terra ferma, non potevano, senza una estrema imprudenza, lasciarle esposte alle invasioni del Visconti[429].

A Pandolfo non restava altro appoggio che quello di suo fratello Carlo, signore di Rimini, che in fatti gli mandò un ragguardevole corpo di truppe sotto gli ordini di Luigi di Fermo: ma questo generale fu sorpreso e fatto prigioniero dal Carmagnola, il quale ruppe affatto la di lui armata, onde Pandolfo costretto di venire a trattato di pace, non l'ottenne dal duca che colla cessione di Brescia e di tutto il suo territorio, ricoverandosi egli a Rimini presso al fratello[430].

Subito dopo Giorgio Benzone, signore di Crema, venne ridotto alla stessa necessità, onde cedendo questa città a Filippo Maria, egli compì la sommissione della Lombardia[431]; più non rimaneva un solo di quanti tiranni eransi divisi le spoglie di Giovan Galeazzo Visconti, ed avevano per lo spazio di vent'anni renduto misero così bel paese. Essi non avevano potuto opporre agli artificj ed alle armi del duca di Milano nè la coscienza di una buona causa, nè l'amore de' loro sudditi, nè la costanza degli alleati, ed erano caduti l'uno appresso l'altro quasi senza combattere. Ma le vittorie di Filippo Maria, avvicinandolo a due popoli liberi, gli fecero sperimentare un altro genere di resistenza. Vedremo nei susseguenti capitoli quale lunga lotta ebbe a sostenere contro i Fiorentini; quale perseveranza ne' suoi progetti, quale costanza nelle sventure, quale moderazione nelle vittorie, questa virtuosa repubblica seppe opporre alla di lui ambizione. Aveva pure da prima provato ciò che poteva fare contro i suoi mercenarj soldati il valore impetuoso degli Svizzeri.

Dopo la sommissione di Como, la famiglia Rusca, che aveva governata questa città, erasi ritirata a piè delle Alpi. Avevale lungamente ubbidito Bellinzona, ma la sovranità di questa piccola città era adesso cagione di lite tra molti pretendenti, e gli Svizzeri del cantone d'Uri vi tenevano guarnigione per difendere l'ingresso della valle Levantina ed i passaggi del san Gottardo. Antonio Rusca e Giovanni, barone di Sax, vendettero i diritti che avevano sulla medesima città a Filippo Maria, il quale in marzo del 1422 fece sorprendere la guarnigione svizzera da Angelo della Pergola, suo condottiere, ed occupò Bellinzona. Nello stesso tempo occupò Domodossola, altra piccola città posta all'apertura del passaggio del Sempione, di dove s'innoltrò fino ai piedi del san Gottardo, occupando tutta la valle Levantina[432].

In altra circostanza questa violazione de' trattati e dei diritti di buona vicinanza avrebbe sollevata tutta la Svizzera. Ma molti semi di discordia eransi sparsi tra i confederati dopo la guerra mossa all'Austria dietro eccitamento del concilio di Costanza. Molti cantoni ricusarono lungo tempo di prendere le armi per una lite che credevano loro straniera; e quando finalmente mandarono le loro truppe oltre il san Gottardo, una segreta gelosia teneva le une in modo separate dalle altre, che la retroguardia, composta dei soldati del cantone di Schwitz, era distante un giorno di viaggio dalle altre.

Non pertanto l'armata svizzera, composta di quattrocento arcieri e di tre mila fanti armati d'alabarde, scese nella valle Levantina, senza prendersi cura di sapere quanti soldati avevano a Bellinzona Francesco Carmagnola ed Angelo della Pergola. Questi due generali avevano sei mila scelti corazzieri e diciotto mila fanti[433], ed a tanta superiorità di numero aggiugnevano il vantaggio d'avere occupati i passaggi delle valli vicine, d'avere sorpresi i magazzini de' loro vicini e posta guarnigione in Bellinzona, ove tenevano in sicuro le loro munizioni.

Mentre i soldati di Schwitz aspettavano a Poleggio quelli di Glaritz, che quelli di Zurigo, Appenzel e san Gallo erano ancora in cima al san Gottardo, le quattro bandiere di Lucerna, Undervald, Uri e Zug, sotto le quali non si contavano più di tre mila alabardieri, presentarono battaglia nel campo d'Arbedo presso Bellinzona alla migliore cavalleria dei due più famosi condottieri d'Italia.

I corazzieri di Pergola, vedendo gli Svizzeri, piombarono loro addosso tenendosi sicuri di rovesciarli e di tagliarli a pezzi; ma questi gli stavano aspettando di piè fermo, opponendo l'insuperabile loro forza all'impeto della cavalleria. Furono spesso osservati tagliare con un colpo di spada le gambe ai cavalli che venivano sopra di loro, o prenderli per i piedi e strascinarli a terra col cavaliere[434]. Erano di già caduti quattrocento cavalli, senza che i corazzieri italiani avessero ancora guadagnato un palmo di terreno; onde Pergola e Carmagnola ordinarono ai loro cavalieri di mettere piede a terra, opponendo in tal modo una infanteria quasi invulnerabile alle alabarde degli Svizzeri. La battaglia si rinnovò allora con accanimento, e molti valorosi perirono da ambidue le parti. Lo Schultheiss di Lucerna si dispose alla resa, e ne diede il segno piantando la sua alabarda in terra; ma il Carmagnola, riscaldato dalla pugna e dalla perdita sofferta, non volle dar quartiere. Rinnovò l'attacco, che gli Svizzeri sostennero col coraggio fin allora dimostrato. Improvvisamente seicento Svizzeri, che si erano avanzati per foraggiare nella valle di Misocco, piombarono sulla retroguardia italiana con orribili grida. Credette il Carmagnola, che la seconda armata degli Svizzeri, rimasta a Poleggio, avesse rifatti i ponti ch'egli aveva distrutti, e lo caricasse, onde si ritirò verso Bellinzona, lasciando che gli Svizzeri rientrassero nelle loro montagne[435][436].

Avevano gli Svizzeri perduti trecento novantasei uomini; gl'Italiani un numero tre volte maggiore, e ciò che più monta, i loro soldati erano atterriti, avendo conosciuto con quali uomini avevano combattuto; con uomini che prima di andare alla guerra giuravano di non ritirarsi dal campo di battaglia, di non arrendersi e di non abusare della vittoria disonorando le spose o le figlie dei vinti[437]. Per altro la valle Levantina venne conquistata dal Carmagnola: gli Svizzeri, distratti dalle proprie dissensioni, perdettero più anni, avanti che si vendicassero della sofferta perdita; e Filippo Maria Visconti; più potente di qualunque altro principe che mai regnasse in Italia dopo la caduta del regno dei Longobardi, era ubbidito dalla sommità del san Gottardo fino al mar Ligure, e dai confini del Piemonte fino a quelli degli stati del papa.

CAPITOLO LXIV.

La regina Giovanna II, irritata contro Alfonso d'Arragona, adotta Lodovico d'Angiò. — Morte dello Sforza e di Braccio; disastrosa guerra dei Fiorentini col duca di Milano; alleanza dei Veneziani; presa di Brescia.

1422 = 1426 I due generali che più d'ogni altro avevano contribuito alla gloria delle armi italiane, Braccio di Montone e Sforza di Cotignola, trovavansi uniti ai servigi della corte di Napoli. Allievi ambidue del grande Alberico da Barbiano, il ristauratore dell'arte della guerra in Italia, erano stati in gioventù amicissimi; l'ambizione gli aveva divisi; l'emulazione tra le due compagnie d'avventurieri da loro formate gli aveva determinati quasi sempre ad abbracciare contrarie parti; e nelle contese, cui d'ordinario erano essi affatto stranieri, mai non avevano, da oltre venti anni, cessato di combattere, ora in nome dei re di Napoli e delle repubbliche della Toscana, ora dei signori di Lombardia e della Chiesa. I soldati da loro formati contrassero perciò una tal quale abitudine di rivalità, che si mantenne viva lungo tempo dopo la morte dei due generali.

Per altro quando la superiorità dei talenti di Giovanni di Montone, o la superiorità delle ricchezze della corte che lo aveva preso al suo soldo, gli ebbero dato un incontestabile vantaggio sopra il suo emulo, parve che si rinnovasse l'antica amicizia tra questi illustri generali. All'epoca in cui papa Martino V restituì alla regina Giovanna il piccolo numero di castelli che il partito d'Angiò possedeva ancora nel regno, mentre Lodovico III ritiravasi in Roma per condurvi una vita oscura, lo Sforza si presentò nel campo di Braccio con quindici de' suoi soldati senz'armi, chiedendogli consiglio ed assistenza per rimontare la sua armata quasi affatto distrutta. I due generali, dimenticato ogni antico rancore, e senza veruna diffidenza, cercarono di giustificare la vicendevole condotta, ed i loro piani di campagna; si manifestarono perfino le segrete intelligenze che avevano avute l'uno nel campo dell'altro, e perfino le congiure cui avevano preso parte. Parlarono in appresso senza riserva de' loro futuri progetti, e Braccio, che desiderava di tornare in Toscana per dilatare i confini del suo principato di Perugia, persuase lo Sforza a riconciliarsi colla regina Giovanna, incaricandosi egli medesimo di trattare l'accordo[438].

Giovanna non ricusò di rendere la sua grazia all'antico suo contestabile, e promise a Braccio di accoglierlo graziosamente. Pure quando Sforza, nell'atto di ricevere il bastone del comando, doveva prestare il giuramento d'ubbidienza, non essendo i ministri d'accordo intorno alla formola, disse la regina: «Chiedetelo a Sforza medesimo; egli ha dati tanti giuramenti a me ed ai miei nemici, che niuno sa meglio di lui come uno si obbliga, e come si scioglie dalle promesse[439]

Malgrado questo rimprovero la regina desiderava l'amicizia dello Sforza, e subito conferì con lui per affezionarselo più strettamente. Ella cominciava ad avere qualche gelosia di Alfonso, suo figliuolo adottivo, che non trascurava veruna occasione per rendersi da lei indipendente, e per affidare le fortezze del regno ai suoi soldati. Il grande siniscalco, ser Gianni Caraccioli, teneva gli occhi aperti sulla condotta del re d'Arragona; temeva di vedersi trattato da questo principe, come Pandolfello Aloppo lo era stato dal conte della Marca, e doveva aspettarsi di trovare il figliuolo di Giovanna non meno geloso del marito. In fatti Alfonso, re d'Arragona e di Sicilia, non poteva piegarsi agli ordini del grande siniscalco colla docilità degli altri cortigiani: vedeva con dispiacere quest'amante di una vecchia regina pretendere di governare i suoi stati e le sue armate con un titolo così vergognoso; voleva consolidare la propria indipendenza, e si era acquistato l'affetto e l'intera devozione di Braccio di Montone. Sebbene il Caraccioli avesse antichi motivi di odio contro lo Sforza, conobbe che niuno poteva meglio di lui provvedere alla sicurezza della regina, e mantenere l'equilibrio tra i due sovrani. Una segreta alleanza si strinse perciò fra di loro: il generale promise di difendere Giovanna contro tutti i suoi nemici, senza eccettuare il figlio adottivo. Dopo di ciò, per dare una specie di pubblica sanzione a questo nuovo contratto, lo Sforza giurò d'ubbidire agli ordini tanto della regina e del re riuniti, come di quello dei due che avrebbe il primo chiesta la sua assistenza[440].

L'alleanza che lo Sforza aveva contratta con Lodovico d'Angiò più non era agli occhi della regina un motivo per diffidare del suo generale; anzi godeva di potere adoperare lo Sforza per trattare con questo principe; perciocchè si era oramai pentita di non avere accolte le profferte del papa, e di non avere piuttosto adottato Lodovico che Alfonso, per riunire in tal modo i diritti delle due case di Durazzo e d'Angiò, e terminare tutte le guerre civili di Napoli[441].

Avendo Braccio di Montone ricondotte le sue truppe in Toscana, assediò Città di Castello, città che in allora governavasi a comune sotto la protezione del papa, e malgrado l'ostinata resistenza degli abitanti la costrinse a capitolare. Ricondusse poi i suoi soldati a Perugia, e li tenne occupati tutto l'inverno nel cavare un canale, che regolava lo scolo delle acque del lago di Trasimeno[442]. In primavera del 1428, recossi negli Abruzzi per assumere il governo di quella provincia che la regina Giovanna gli aveva confidata; ma Aquila, capitale degli Abruzzi, chiuse le porte in faccia al generale che veniva a comandarvi, e risolse di difendersi[443].

Martino V non vedeva senza timore questo capitano stendere i suoi dominj tutt'all'intorno di Roma, e bloccare in certo modo la corte pontificia nella capitale de' suoi stati. Di già Braccio di Montone possedeva al nord di Roma quasi tutta l'Ombria, e parte della Marca, ed al mezzogiorno il principato di Capoa coi feudi che gli erano stati dati dalla regina Giovanna. Altro non gli mancava per chiudere Roma da ogni lato che la conquista degli Abruzzi, ed egli vi si accingeva con tre mila duecento cavalli e mille fanti di truppe ben agguerrite. Martino con promesse di soccorsi e con pressanti esortazioni incoraggiò gli abitanti dell'Aquila a difendersi. Esortò la regina a togliere il comando a Braccio, ed a promettere la sua protezione agli assediati: e, siccome ella era di già titubante, un inaspettato avvenimento la costrinse immediatamente a decidersi[444].

Giovanna ed Alfonso nella vicendevole loro diffidenza avevano scelte due delle fortezze di Napoli per loro abitazione. La regina occupava il castello di Capuano, e suo figlio adottivo Castelnuovo. L'uno e l'altro erano circondati da guardie e da un apparecchio militare. I ministri d'un sovrano non andavano mai presso l'altro senza timore, ed un consiglio di stato era omai diventato una spedizione pericolosa. Il Caraccioli aveva ricusato di passare a Castelnuovo senza un salvacondotto scritto da Alfonso, e munito del suo suggello[445]. Malgrado questo salvacondotto, Alfonso, che abborriva questo favorito, lo fece arrestare il 22 maggio del 1423 mentre entrava in consiglio; egli aveva, dicesi, intenzione di arrestare ancora la regina per mandarla prigioniera in Catalogna, e presentossi immediatamente alla porta del suo castello. Ma le guardie di Giovanna, vedendolo accompagnato da maggior quantità di gente che non era solito d'avere, ricusarono di lasciarlo entrare; e perchè insisteva e minacciava, la guardia tirò sopra di lui per allontanarlo[446]. Bentosto si vociferò in palazzo che Caraccioli era stato arrestato; onde Giovanna, di già assediata nel castello di Capuano, spedì sollecitamente a chiamare lo Sforza in suo soccorso. Sforza, le di cui truppe si trovavano accampate nella Campania, si pose in cammino il 25 di maggio per liberare la sua sovrana.

Questo generale, che da una lunga serie di rovesci era stato ridotto, come ancora la sua armata, in estrema povertà, era seguito solamente da un migliajo di cavalieri mal equipaggiati. Giunto sotto al castello di Capuano, incontrò in un luogo detto alle Formelle, le truppe arragonesi riccamente vestite. «Miei figliuoli (disse, volgendosi ai suoi soldati), ecco gli abiti ed i cavalli che vi ho destinati.» All'istante la battaglia cominciò, e si mantenne sei ore con molta intrepidezza da ambidue le parti. Finalmente essendo riuscito allo Sforza di atterrare un muro che gli chiudeva il passaggio, potè circondare i nemici con parte della sua infanteria. Allora furono rotti gli Arragonesi, fatti prigionieri quasi tutti i loro capitani, saccheggiato il loro quartiere, ed i soldati dello Sforza arricchiti colle spoglie della corte. Alfonso si chiuse in Castelnuovo, preparandovisi a sostenere un assedio. Ma per compiere la rivoluzione ch'egli aveva cercato d'operare in Napoli aveva ordinato che si allestisse una flotta in Catalogna, la quale, composta di ventidue galere con otto grossi vascelli e con truppe da sbarco, giunse in faccia a Napoli l'undici giugno del 1423, quindici giorni dopo la battaglia delle Formelle. Lo Sforza tentò invano d'impedire lo sbarco de' soldati; egli fu a poco a poco respinto fuori di Napoli, e costretto di condurre la regina ad Aversa nel castello ch'erasi a lui reso[447].

La regina divisa da Caraccioli abbandonavasi alla disperazione, ed avrebbe sacrificate le migliori province, e tutto il regno per la libertà dell'amante. Malgrado la lunga nimicizia dello Sforza col gran siniscalco, il primo acconsentì per ricuperarlo a dare in cambio ad Alfonso i venti più distinti prigionieri, che aveva fatti alla battaglia delle Formelle. In allora il siniscalco ed il contestabile, riuniti presso la regina, la persuasero ad appoggiarsi per sua difesa al partito di Angiò; Lodovico, che viveva povero a Roma, fu invitato ad Aversa presso Giovanna, la quale scrisse a tutte le corti d'Europa per dichiarare che essendosi Alfonso demeritato colla sua ingratitudine il favore accordatogli, ella rivocava la fatta adozione, e gli sostituiva Lodovico III, duca d'Angiò, che dichiarava duca di Calabria e presuntivo erede del regno; oltre di che gli permise di conservare il titolo di re, che già portava, onde non fosse d'inferiore rango al suo rivale. Lodovico, ch'era di carattere dolce e probabilmente debole, non ispinse mai le sue pretese al di là di quanto compiacevasi la regina di accordargli; poco tempo si trattenne in corte, ed essendosi recato nella Calabria, seppe rendere caro il proprio governo a' suoi sudditi[448].

Frattanto Alfonso vide con grandissima pena riunirsi contro di lui le due antiche fazioni di Durazzo e d'Angiò, ed il papa appoggiare con tutte le sue forze le misure che per escluderlo dalla sua eredità prendeva la regina. Egli invitò Braccio di Montone ad accorrere in suo soccorso, ma Braccio, che in pari tempo era in forza de' suoi obblighi chiamato a difendere i Fiorentini contro il duca di Milano, non sapeva risolversi a levare l'assedio dall'Aquila; perciocchè questa città l'aveva irritato colla sua resistenza; egli credeva il suo onore compromesso, aveva in questa guerra praticati atti di crudeltà di cui non erasi mai inaddietro macchiato[449], e gli abitanti dell'Aquila opponevano a' suoi attacchi una gagliarda ostinazione resa maggiore dalle sue crudeltà. Inoltre erano essi stati assicurati della più efficace protezione per parte della regina e del papa; ed accostumati in mezzo alle montagne, alla più dura e laboriosa vita, più pazientemente che ogni altro popolo d'Italia sopportavano i disagi e le privazioni della guerra. Alfonso, vedendo che non poteva persuadere Braccio a levare quell'assedio, non si trovò abbastanza forte per sostenersi solo contro la regina e lo Sforza. Altronde lo richiamavano in Ispagna gli affari di quel regno, ove voleva ottenere la libertà di suo fratello, prigioniere del re di Castiglia. Partì adunque colla sua flotta per le coste della Catalogna, e lasciò don Pedro d'Arragona, altro suo fratello, a Napoli con alcuni condottieri italiani[450]. Viaggio facendo sorprese Marsiglia, che saccheggiò per tre giorni, per vendicarsi di Lodovico d'Angiò, cui apparteneva questa città.

Dopo la partenza d'Alfonso, la regina Giovanna, più non si vedendo minacciata da immediato pericolo, volse il pensiero a liberare gli abitanti dell'Aquila, che in undici mesi d'assedio avevano consumate le loro munizioni ed i viveri, e che caldamente chiedevanle soccorso. Ordinò dunque allo Sforza d'aiutarli; e questi si pose in cammino nel cuore dell'inverno con suo figliuolo Francesco, ed il 4 gennajo del 1424 giunse in riva al fiume Pescara. Alcuni soldati di Braccio occupavano la città di tal nome, i quali avevano afforzate le rive del fiume con palafitte, dietro le quali si erano appostati alcuni arcieri. Ma lo Sforza tenendo dietro alla riva volle guadare il fiume presso alla sua foce, persuaso di trovare un facile passaggio nelle acque del mare. Vi entrò armato di tutto punto col caschetto in testa e colla lancia in mano, seguìto da quattrocento corazzieri che con lui giunsero sull'altra riva, di dove scacciarono i nemici. Intanto i venti di mezzodì, essendosi rinforzati, spinsero nel fiume le acque del mare, che lo gonfiarono a dismisura, rendendone il guado assai pericoloso. Il rimanente de' corazzieri, che trovavasi ancora sull'opposta riva, ricusava d'ubbidire allo Sforza che gli accennava d'avanzare: egli, impaziente della loro tardanza, spinse di nuovo il suo cavallo in mezzo alle acque per condurre egli stesso i suoi soldati; ma giunto in mezzo al fiume, vedendo uno de' suoi paggi in balia delle acque vicino ad annegarsi, egli s'abbassò per prenderlo, e nello stesso istante mancarono i piedi di dietro al suo cavallo. Lo Sforza cadde di sella, e scomparve sotto le acque, mentre il cavallo cercava di salvarsi a nuoto. Due volte fu veduto questo guerriero, coperto di troppo pesanti armi per poter nuotare, alzare fuori delle acque le mani coperte di guanti di ferro, e giugnerle in atto supplichevole; ma l'onda lo strascinò senza che si potesse ajutarlo, ed il suo cadavere non fu mai trovato. Così morì in età di cinquantaquattro anni uno de' più intraprendenti ed intrepidi, uno de' più valorosi generali e de' più esperti politici che avesse fino allora prodotti l'Italia[451].

L'armata che lo Sforza aveva creata, e che teneva riunita coll'ascendente del suo genio, e colla confidenza che ispirava ai compagni della sua fortuna, poteva essere disciolta nello stesso istante della sua morte. Verun legame di dovere o d'onore stringevano gli uomini che avevano servito sotto le sue insegne; tutti risguardavano con perfetta indifferenza la lite tra Alfonso e Giovanna, e non cercavano nella guerra che il soldo ed il saccheggio. Perciò poteva temersi che offrissero i loro servigj a Braccio, cui erano tanto vicini; e di già pochi mesi prima alcuni di loro avevano congiurato contro Francesco, figliuolo dello Sforza, che aveano accompagnato in Calabria[452]. L'armata dello Sforza non era soltanto la più importante parte della sua eredità, ma inoltre la garanzia di tutto il rimanente. La regina gli aveva accordati ragguardevoli feudi, meno come ricompensa de' passati servigi, che come prezzo di quelli che da lui si riprometteva in avvenire; ed avrebbe indubitatamente spogliato di molti beneficj il di lui figliuolo, quando non avesse sperato qualche compenso. Il figliuolo dello Sforza non diede mai prova maggiore di forza d'animo e di presenza di spirito quanto in questa difficile circostanza, nella quale, malgrado il turbamento e il dolore che gli cagionava la morte del padre, seppe tener uniti sotto le stesse insegne i suoi soldati, farli giurare di non abbandonarlo, ridurli a promettergli ubbidienza, sebbene fosse il più giovane dei capitani che avevano militato sotto suo padre, e finalmente togliere loro con una sorprendente attività il tempo di riflettere e la tentazione di rendersi indipendenti. Visitò alla testa delle sue truppe tutti i feudi donati a suo padre, e che formavano la sua eredità; si assicurò della ubbidienza de' suoi vassalli, indi tornò ad Aversa, ove la regina, a lui grata per avere saputo conservarle un'armata, gli confermò il comando delle sue truppe, ordinando a lui ed a' suoi fratelli di prendere il nome di Sforza, reso famoso dal padre, ma che fin allora non era stato che un suo soprannome[453].

Prima che Francesco Sforza tornasse in Aversa una flotta genovese di quattordici grandi vascelli, e di ventidue galere era giunta nelle acque di Napoli sotto gli ordini di Guido Torello, generale al servizio del duca di Milano. Filippo Maria Visconti aveva recentemente conchiusa un'alleanza colla regina Giovanna e col papa contro il re d'Arragona, ed aveva facilmente determinati i Genovesi, suoi nuovi sudditi, a fare i più grandi sforzi per combattere con lui i Catalani loro perpetui rivali. Per altro i Genovesi avevano creduto di servire sotto gli ordini di Francesco Carmagnola, governatore della loro città, nel quale avevano intera confidenza, e non furono meno indispettiti di questo generale medesimo, quando un nuovo favorito del duca venne a soppiantare quest'illustre guerriero, ed a prendere il comando di una flotta, che poteva dirsi creata dal nome del Carmagnola[454]. Peraltro Guido Torello ottenne nella spedizione molti vantaggi: prese Gaeta, Procida, Castell'a Mare, Sorrento e Massa, indi condusse la sua flotta in faccia a Napoli. Nello stesso tempo Francesco Sforza attaccava la città dalla banda di terra. L'infante don Pedro di Arragona non aveva che pochi Spagnuoli sotto i suoi ordini; i condottieri italiani lo servivano senz'amore; Bernardino della Carda degli Ubaldini lo abbandonò per raggiugnere Braccio da Montone suo antico generale, e Giacomo di Caldora, dopo aver trattato coi nemici, aprì finalmente le porte di Napoli a Francesco Sforza. L'armata della regina, ricuperando la sua capitale, non commise violenze contro gli abitanti: don Pedro si chiuse in Castelnuovo cogli Arragonesi, ed il Caraccioli non volle che si assediasse, per tenere Lodovico d'Angiò più sommesso col timore del suo rivale[455].

Intanto Braccio di Montone trovavasi sempre all'assedio dell'Aquila. Allorchè fu avvisato che l'armata dello Sforza avanzavasi contro di lui, che un distaccamento aveva di già passato il fiume di Pescara, e battute le truppe che lo difendevano, aveva determinato di levare l'assedio, e già si era allontanato poche miglia dall'Aquila, quando tre corrieri, speditigli uno dopo l'altro, gli annunciarono la morte del suo rivale, altre volte suo compagno d'armi e suo amico. Allorchè seppe l'accaduto dimenticò l'accanimento con cui aveva contro di lui combattuto, il pericolo che gli sovrastò, ed il timore che gli aveva fatto abbandonare un assedio continuato undici mesi con tanta ostinazione; pianse il grand'uomo che l'Italia aveva perduto, e si credette egli stesso minacciato di vicina morte; quasi che fosse tempo di ritirarsi dall'arena, quando il suo rivale non poteva più combattervi. I sentimenti degli eroi del quindicesimo secolo erano quasi sempre sotto l'influenza degli astrologhi e degl'indovini, e questi avevano dato maggior valore ai presentimenti di Braccio. Si dice che precedentemente essi avevano annunciate le circostanze della morte di questi due capitani, che avevano raccomandato allo Sforza di non esporsi ai fiumi, e di risguardare il lunedì come giorno infausto; che la vigilia del passaggio del fiume un sogno gli aveva prenunciata la sorte che lo aspettava; che il suo stendardo era caduto innanzi a lui, mentre entrava nelle acque, e che i suoi ufficiali lo avevano inutilmente supplicato a non disprezzare tanti funesti presagi. Dall'altro canto gl'indovini avevano annunciato a Braccio, che non sarebbe sopravvissuto al suo emulo, e l'avveramento delle prime loro predizioni dava maggior peso alla seconda[456].

Qualunque si fosse l'impressione che tali presagi avevano fatto sulla mente di Braccio, non lasciò di spingere con tutto l'ardore l'assedio dell'Aquila. Dal canto loro gli abitanti di questa città, privi de' soccorsi che aspettavano dallo Sforza, non perciò si scoraggiarono; non s'arresero alle intimazioni di Braccio; distribuirono le vittovaglie con maggiore economia, e fecero sapere alla regina che credevansi in istato di potersi difendere fino al primo giorno di giugno, supplicandola a non differire dopo tale epoca a soccorrerli[457].

Tostocchè Giovanna si vide in possesso della sua capitale, pensò a liberare una città fedele, che da sì lungo tempo, per cagion sua, soffriva tanti patimenti, e ad allontanare dai confini del regno il solo nemico che poteva darle timore. Martino V prometteva di assecondarla con tutte le sue forze, ed il duca di Milano le spedì ajuti, onde impedire Braccio di soccorrere i Fiorentini. L'armata combinata di questi tre sovrani si adunò sotto Giacomo di Caldora, il più attempato de' condottieri che militavano nel regno di Napoli; e Francesco Sforza con tutta la sua valorosa gente si pose sotto il di lui comando.

L'armata del Caldora era del doppio o del terzo più numerosa di quella di Braccio; ma questi invece aveva il vantaggio del terreno, imperciocchè i suoi nemici, per giugnere al piano in cui era accampato, dovevano attraversare le scoscese montagne di san Lorenzo; e la cavalleria pesante non poteva, senza grandissimo pericolo, scendere per que' tortuosi sentieri in faccia al nemico. Ma Braccio, troppo impaziente per rimanere lungo tempo in tanta incertezza, volle affidare la sorte della guerra ad una sola battaglia. Opponeva al numero de' nemici la fiducia ne' proprj talenti, e lo sperimentato valore de' suoi soldati. Egli null'altro temeva che di vedere il Caldora procrastinare la guerra, a cagione delle difficoltà del passaggio della montagna; onde gli spedì un araldo per invitarlo ad una battaglia, promettendogli di aspettarlo nella pianura e di non attaccarlo nelle gole della montagna, di cui gli dava il libero passaggio. Il Caldera risguardò tale disfida come una rodomontata, e credendo di non si dover fidare alla promessa che l'accompagnava, non volle accettarla e rispose ancor esso con altra braveria. Ma Braccio, che credevasi legato dalla fatta offerta, non trascurò in ogni modo di trarre vantaggio dai luoghi che occupava. Chiuse il canale del piccolo fiume che scorre presso l'Aquila, facendo che le sue acque inondassero la pianura dove aspettava i nemici, e si tenne sicuro che quando i loro cavalli scenderebbero stanchi dalla montagna, ed entrerebbero in uno sconosciuto pantano, gli sarebbe agevole il tirar profitto dal loro disordine[458].

Il Caldora, dopo avere inutilmente tentato di soccorrere la città senza dare battaglia, o senza aprirsi altrove un passaggio per giugnere all'Aquila, si trovò costretto di prendere la strada della montagna di san Lorenzo. Tremavano i cavalieri scendendo per quegli angusti e sinuosi sentieri, ove trovavansi in balìa de' nemici. Osservavano al di sopra di loro l'infanteria occupare le strette per le quali passavano. Ma Braccio l'aveva colà posta per tagliare la ritirata alle truppe della Chiesa, non per impedire che si avvicinasse, e malgrado le istanze de' suoi ufficiali, non volle dare cominciamento alla battaglia prima che il Caldora fosse giunto in sul piano con tutti i suoi corazzieri.

Aveva Braccio incaricato Niccolò Piccinino, il migliore de' suoi capitani, di custodire con quattro compagnie di sessanta corazzieri la porta dell'Aquila, e di non abbandonare quel posto, per qualsiasi motivo. Aveva mandata tutta l'infanteria sulle alture, perchè attaccasse i nemici alle spalle, tostocchè fossero dalla cavalleria disordinati. Il 2 giugno del 1424 diede cominciamento alla battaglia alla testa de' suoi corazzieri tre volte meno numerosi che quelli del Caldora; e col consueto suo impeto spinse bentosto il nemico alle falde della montagna, e lo sgominò affatto. Michelotto Attendolo, uno dei parenti dello Sforza, fece allora avanzare l'infanteria, con ordine di approfittare della mischia per cacciarsi sotto i cavalli, e ferirli di fianco; ed infatti i pedoni dello Sforza smontarono in poco tempo molte compagnie de' corazzieri di Braccio, e sparsero il disordine nel rimanente. In questo istante Niccolò Piccinino, volendo riordinare i suoi commilitoni, abbandonò la guardia della porta che gli era stata affidata, malgrado il contrario ordine di Braccio, e mentre questi non aveva potuto dare i convenuti segni all'infanteria, quando aveva appunto bisogno di farla scendere dalle alture che occupava; la battaglia fu perduta, perchè i primi abbandonarono la loro posizione ed i secondi si ostinarono a restare ove si trovavano. Quando gli abitanti dell'Aquila videro che le loro porte erano libere, uscirono in numero di sei mila e piombarono alle spalle dell'armata di Braccio, il quale mentre scorreva le file per incoraggiare i suoi soldati, fu ferito nella gola da un colpo di spada, e rovesciato da cavallo. I suoi guerrieri, sentendo che era caduto, si posero tutti in fuga. Braccio, rialzato dai suoi nemici, venne condotto alla tenda del Calodra: ma egli non volle mai nè rispondere, nè fare segno alle generose offerte ed ai conforti che gli davano i suoi nemici. A molti de' suoi soldati, ch'erano con lui prigionieri, venne permesso di recarsi presso al loro generale e di parlargli senza testimonj, ma non ottennero giammai da quell'anima alteramente feroce alcun segno d'aggradimento delle loro cure, nè mai volle prendere cibo. Sebbene i medici avessero dichiarato che la ferita non era mortale, dopo avere passati tre giorni senza mangiare o bevere o pronunciare una sola parola, morì di cinquanta sei anni il 5 giugno del 1424. I gemiti ed i singhiozzi de' suoi soldati risuonarono nel campo de' vincitori; ed una vittoria conseguita colla morte di così grand'uomo riuscì rincrescevole agli stessi suoi nemici. Il suo cadavere fu mandato a Roma, ove il papa lo fece seppellire in luogo profano, siccome scomunicato[459].

La morte di Braccio distrusse in un istante il principato ch'egli aveva formato. Perugia il 19 di luglio aprì le porte al papa, a condizione che gli emigrati del partito de' Raspanti non sarebbero richiamati in città, e che il castello di Montone, patrimonio degli antenati di Braccio, verrebbe consegnato al conte Oddo suo figliuolo. Le altre città dello stato della Chiesa seguirono l'esempio di Perugia, e Martino V rivocò la scomunica pronunciata contro di loro[460]. Capoa ed i varj feudi, ch'erano stati accordati a Braccio nel regno di Napoli, tornarono alla regina. Il conte Oddo, figliuolo di Braccio, coll'ajuto di Niccolò Piccinino, raccolse una parte dell'armata paterna, ed i Fiorentini, che di quest'epoca avevano estremo bisogno di truppe, presero questi due generali al loro soldo con quattrocento lance, ossiano mille due cento corazzieri[461].

Il duca di Milano, non contento di avere violato il trattato conchiuso coi Fiorentini, disponendo di Sarzana, città posta al di là della Magra e dei confini ch'egli medesimo aveva stabiliti ne' trattati alle sue conquiste, aveva pure mandate, dietro domanda del legato, truppe a Bologna per attaccare Castel Bolognese, ove si erano rifugiati gli eredi della casa Bentivoglio[462]. Da ogni lato le sue armate s'andavano avvicinando alla Toscana, ove cercava di ravvivare il partito che in addietro vi aveva avuto suo padre. Dopo la morte di Giorgio degli Ordelaffi, signore di Forlì, accaduta il 25 gennajo del 1422, la di lui vedova Lucrezia degli Alidosi, figlia del signore d'Imola, era rimasta tutrice di suo figlio, Teobaldo degli Ordelaffi, in età di soli nove anni, e governava il suo piccolo stato sotto la protezione dei Fiorentini. Ma sua cognata, Catarina degli Ordelaffi, erasi posta alla testa del partito ghibellino di Forlì. Incoraggiata dalle segrete offerte del duca di Milano, eccitò il popolo a prendere le armi ed il 14 maggio del 1423 fece arrestare sua cognata Lucrezia, e scacciare tutti gli Imolesi e tutti i Fiorentini che questa aveva chiamati a Forlì, introducendo in loro vece in città una guarnigione milanese[463]. Questa era dal canto del duca di Milano un'espressa violazione del trattato di pace; perciocchè aveva riconosciuto che tutta la Romagna fosse sotto la protezione dei Fiorentini, ed erasi obbligato a non prendere parte nelle rivoluzioni di questa provincia. I Fiorentini mandarono a Forlì Pandolfo Malatesti, per liberare la fortezza assediata dai Milanesi; ma questo principe fu battuto il 6 settembre 1423 a ponte a Ronco dal generale del duca di Milano, e da quell'istante la guerra si accese in Romagna[464].

Filippo Maria più non si tenendo obbligato da alcun rispetto, fece entrare in Romagna Agnolo della Pergola con una più numerosa armata. Questo generale, passando a canto ad Imola, sorprese questa città il 10 febbrajo del 1424, approfittando del gelo che aveva agghiacciate l'acque delle fosse in modo da potervi camminar sopra[465]. Luigi degli Alidosi, preso nella sua capitale, fu mandato nelle prigioni di Milano; pochi giorni dopo Guid'Antonio di Manfredi, signore di Faenza, dichiarossi a favore del duca, ed il papa, favoreggiando lo stesso partito, richiamò da Bologna il legato Condolmieri perchè creduto amico dei Fiorentini[466].

La guerra per questi ultimi ricominciava sotto i più svantaggiosi auspicj; Braccio, che doveva essere il loro principale difensore, e che riceveva un'annua pensione come prezzo de' servigj che doveva prestare ad ogni inchiesta, dopo avere lungo tempo deluse le loro istanze era stato rotto con tutta la sua armata. I deputati fiorentini erano stati spogliati dai vincitori nel suo campo, ov'eransi recati per portargli sessanta mila fiorini pel soldo delle truppe[467]. Per rimpiazzarlo i dieci della guerra avevano assoldato Carlo Malatesti, signore di Rimini, ed avevano adunata sotto i di lui ordini un'armata di dieci mila cavalli e di tre mila pedoni, i di cui principali capi erano Pandolfo Malatesti, Orso Orsini, Luigi degli Obizzi, e Niccolò di Tolentino[468]. Ma Carlo, avendo voluto soccorrere il conte Alberico da Barbiano, alleato della repubblica, che trovavasi assediato da Pergola nel suo castello di Zagonara, il 27 luglio venne a battaglia col generale milanese, dopo avere con una lunga marcia in disastrose strade e sotto una violenta pioggia stancata la sua gente ed i cavalli, onde fu compiutamente rotto e fatto prigioniero con molti suoi ufficiali. Il duca di Milano, che talvolta lasciava la sua bassa e perfida condotta per agire con cavalleresca generosità, accolse il Malatesti colle più vive dimostrazioni di affetto e di rispetto, quando gli fu condotto prigioniero a Milano; dimenticò la sua nimicizia, per non risguardarlo che come uno degli amici di suo padre ed uno de' suoi tutori, e dopo averlo trattenuto alcun tempo tra le feste ed i piaceri della sua capitale, lo rimandò libero senza taglia con tutti i prigionieri. Da quest'istante il Malatesti, vinto dalle cortesie del duca, abbandonò i Fiorentini per attaccarsi a questo principe[469].

Il conte Oddo, figliuolo di Braccio da Montone, e Niccolò Piccinino giunsero in appresso a Firenze cogli avanzi dell'armata disfatta innanzi all'Aquila. Il Piccinino, dopo avere raccolti i soldati fuggiti alla rotta di Zagonara, tenne in dovere alcuni castelli dello stato d'Arezzo che di già apparecchiavansi alla ribellione; ma quando volle in appresso passare in Romagna cadde, mentre attraversava la valle di Lamone, il 1.º febbrajo del 1425, in un'imboscata di contadini; cadde morto il conte Oddo, egli stesso venne fatto prigioniero, e dispersa per la terza volta tutta l'armata fiorentina[470]. Vero è che il Piccinino prigioniere venne condotto presso Guid'Antonio Manfredi, signore di Faenza, il quale aveva motivo d'essere scontento del duca. Ammesso alla sua confidenza, gli fece sentire quanto più vantaggiosa gli sarebbe l'alleanza de' Fiorentini che non quella del Visconti, e lo persuase a cambiare partito. Il signore di Faenza dichiarò la guerra al duca di Milano il 29 marzo del 1425 e rese la libertà al generale suo prigioniero[471].

Nello stesso tempo i Fiorentini fecero avanzare un'altra armata nella Liguria, mentre che di concerto con Alfonso d'Arragona avevano armata una flotta di ventiquattro galere catalane, che presentossi in faccia al porto di Genova il 10 aprile del 1425. L'antico doge, Tomaso di Campo Fregoso, era a bordo di questa flotta, sperando di ridestare lo zelo de' partigiani di sua famiglia, dei Fieschi e di tutto il partito guelfo. Ma invano egli chiamò i Genovesi a scuotere il giogo di Filippo e dei Ghibellini; l'odio del popolo contro i Catalani era più forte che l'odio per la tirannide; e la flotta arragonese dovette ritirarsi, e l'armata fiorentina in cui trovasi un fratello del doge, fu battuta a Rapallo[472].

Niccolò Piccinino, che la repubblica risguardava come il suo più fedele capitano, avendo avuto qualche diverbio coi dieci della guerra, lasciò il servigio dei Fiorentini per passare a quello del duca di Milano, che di già aveva preso al suo soldo Francesco Sforza con due mila cavalli[473]. Poco dopo Bernardino della Carda degli Ubaldini, nuovo generale della repubblica, fu battuto ad Anghiari il 9 di ottobre da Guido Torello: e per ultimo il 17 dello stesso mese i Fiorentini provarono un'eguale disfatta alla Fagiuola; era questa la sesta, dopo cominciata la guerra, senza che in mezzo a tante perdite ottenessero nulla di prospero[474].

A questa serie di sciagure i Fiorentini opposero un indomabile coraggio. Adunarono per la settima volta la loro armata, e si posero in su le difese. Intanto andavano affrettando ad unirsi a loro tutte le potenze interessate a mantenere l'equilibrio dell'Italia, e spedirono ambasciatori all'imperatore Sigismondo, al papa ed ai Veneziani. Il primo troppo occupato dai Turchi e dagli Ussiti, ed il secondo accecato dalla sua collera, non le promisero verun soccorso[475]; ma i Veneziani parvero commossi, onde la repubblica mandò loro tre successive ambasciate per affrettarli a dichiararsi; ed i signori di Mantova, di Ferrara e di Ravenna, che cominciavano a temere per sè medesimi l'ambizione del Visconti, appoggiarono le istanze de' Fiorentini[476].

Un trattato di pace legava ancora per cinque anni il duca di Milano e la repubblica di Venezia; ma il duca non mostravasi scrupoloso osservatore di tali obblighi, ed erano palesi le sue pretensioni sulle città di Verona, di Vicenza ed ancora di Padova e di Treviso, perchè suo padre le aveva possedute prima che venissero in potere della repubblica. Bentosto un uomo, rifugiatosi a Venezia dopo essere stato ne' consigli del duca, fece sentire alla repubblica che invano differirebbe una guerra, cui in verun modo non avrebbe potuto sottrarsi.

Era questi il conte Francesco Carmagnola, lungo tempo il favorito del duca di Milano, di cui aveva per così dire creata la potenza. Per compensarlo de' suoi meriti il duca lo aveva ricevuto nella propria famiglia, e datogli il nome di Visconti; ma dopo qualche tempo era caduto in disgrazia del suo signore, cui davano grandissima cagione di gelosia le immense sue ricchezze, l'affetto de' soldati, e perfino la memoria de' suoi servigj, troppo importanti per un principe ingrato. Di già il comando della flotta Genovese, destinata all'impresa di Napoli, era stato tolto al Carmagnola per esser dato a Guido Torello[477]. Non molto dopo Filippo volle privare il Carmagnola del comando di trecento cavalli, che questi conservava unitamente al governo di Genova, onde il generale scrisse al duca supplicandolo di non allontanare dai soldati un uomo come lui, nato e cresciuto tra le armi; ma egli non ebbe risposta. Partì in allora per Abbiate Grasso, ove trovavasi la corte; e per la prima volta il Carmagnola si vide negato l'ingresso agli appartamenti del sovrano, sotto pretesto che il duca era occupato in affari: insistette, e non gli fu risposto; alzò la voce in maniera di farsi sentire da Filippo, protestando la propria innocenza, accusando gl'invidiosi, e giurando in fine che si farebbe desiderare, e che quello che gli chiudeva la porta, si pentirebbe un giorno di non averlo ascoltato. Subito dopo partì co' suoi cavalieri, e più non fermossi, finchè non giunse ad Ivrea sul territorio del duca di Savoja. Presentossi ad Amedeo, di cui era nato vassallo; gli appalesò i progetti del Visconti contro di lui, lo esortò a prendere le armi fin ch'era in tempo, ed a prevenire l'attacco del suo nemico, poichè non poteva schivarlo[478]. Attraversò in appresso la Savoja e la Svizzera per recarsi a Venezia, ove giunse il 23 febbraio del 1425, ed operò ancora con maggior calore presso il senato di questa repubblica, che non aveva fatto presso il duca di Savoja per vendicarsi di un principe che dimenticava i suoi beneficj, lusingandosi di abbassarlo come lo aveva innalzato. Dal canto suo Filippo, informato delle pratiche del Carmagnola, gli fece confiscare tutti i suoi beni, che in allora davano il reddito di quaranta mila fiorini[479].

Subito dopo il suo arrivo in Venezia era stato il Carmagnola preso al servizio della repubblica con trecento lance; ma il senato non si riduceva ad accordargli intera confidenza, dubitando che potesse essere simulata la sua contesa col duca, e sapendosi che altri ministri del duca si erano rifugiati presso i suoi nemici per averne il segreto, e per tradirli. La signoria tardava ancora a dare una soddisfacente risposta agli ambasciatori fiorentini: temeva di venire in aperta rottura col duca e voleva prendere consiglio dagli avvenimenti. Frattanto ogni mese sentivansi accaduti nuovi disastri alla repubblica fiorentina, e Lorenzo Ridolfi, uno dei dieci della guerra, ch'era venuto in qualità d'ambasciatore a Venezia, gridò nel consiglio con impazienza: «Signori, i vostri indugi hanno di già reso Filippo Visconti e duca di Milano, e signore di Genova, e sagrificando noi, voi andate a farlo re d'Italia; ma noi pure, se saremo forzati di assoggettarci a lui, lo faremo imperatore[480]

Un tentativo del duca di Milano per far avvelenare a Treviso il Carmagnola dissipò tutti i dubbj che i Veneziani avevano sul reciproco odio del principe e del suo generale[481]; e ciò diede maggior peso alle rimostranze del Carmagnola. Il senato si adunò finalmente il 14 dicembre del 1425, per prendere una finale risoluzione; e gli ambasciatori di Firenze, quelli di Milano, ed il Carmagnola furono ammessi a parlare innanzi a così augusta assemblea.

Lorenzo Ridolfi, dopo avere ricordato l'odio che costantemente si mantenne tra i tiranni e le città libere, odio che può rimanersi coperto, ma non mai spento in fondo dei cuori; dopo avere dimostrato quale era stata la costante politica della casa Visconti, e la serie delle sue usurpazioni; finalmente dopo avere dimostrato che il duca aveva violati tutti gli obblighi contratti con Firenze, chiamò i Veneziani a pensare al proprio pericolo. «Di già, egli disse, noi ci siamo spogliati con questa guerra; abbiamo sparse per tutta l'Italia le gemme ed i giojelli delle nostre spose e delle nostre figlie; e tutto abbiamo venduto quanto avevamo di prezioso per combattere. Le nostre spese ammontano a più di due milioni di fiorini d'oro, che quando si fosse venduta l'intera Firenze non sarebbesi avuta così gran somma. Ma dopo di noi voi sarete i primi ad essere schiacciati. Se voi amate quella libertà di cui si gloria a ragione la vostra città, finchè siete ancora liberi, unite le vostre armi a quelle degli uomini liberi. Dividete con noi la cura della salvezza pubblica, finchè ci resta la forza ed il coraggio di difendere la nostra dignità; imperciocchè noi cerchiamo alleati per dividere con loro il peso della guerra, non per gettarlo addosso a loro: per pesante ch'egli sia noi ne sopporteremo ancora la maggior parte»[482].

L'ambasciatore milanese purgò il suo padrone dalle imputazioni dei Fiorentini; diede plausibili motivi alla guerra che egli sosteneva contro di loro; e per provare la moderazione dei Visconti, ricordò la lunga amicizia che gli aveva legati ai Veneziani, sebbene dopo le conquiste di Giovanni Galeazzo i due stati fossero diventati limitrofi[483]. Ma Francesco Carmagnola, che parlò l'ultimo, fece evidentemente conoscere quanto il duca fosse alieno dal voler mantenere i trattati che aveva giurati. Palesò i suoi macchinamenti ed i segreti intrighi; soprattutto dipinse il di lui carattere; la sua segreta ambizione, non proporzionata alle forze del suo stato, non al vigore della sua anima, non ai talenti del suo spirito. Mentre i suoi tesori erano esausti, e che l'odio de' suoi popoli era esacerbato, lo rappresentò chiuso ne' suoi giardini ascoltando i vani ragionamenti de' suoi cacciatori, e parlando soltanto di feste e di piaceri coi suoi favoriti. Intanto i suoi generali non potevano ottenere di vederlo, quando ancora per lui si esponevano ai rischi delle battaglie; onde i suoi ministri, contro de' quali niuno era ammesso a parlare, erano in libertà di opprimere il popolo colle imposte. «Egli tiene in prigione (soggiunse egli) mia moglie e le mie figlie, credendo d'essere con ciò ancora mio padrone; ma dovunque io mi sentirò libero, crederò d'avere trovata una patria. Questa città, che apre un asilo ai mercanti di tutte le nazioni e di tutte le religioni, non ne ricuserà certo uno al Carmagnola. Io reco pure tra le vostre mura il mio mestiere, quello della guerra. Datemi delle armi, datemele contro quello che mi ha ridotto a questa dura necessità, e voi allora vedrete se io saprò difendere voi e vendicare me stesso[484]

Il senato di Venezia era di già scosso da questo ragionamento e da quello di Giovan Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, che invocava la protezione della repubblica contro il Milanese[485]: il doge Francesco Foscari terminò di strascinare gli spiriti. «Ajutiamo i Fiorentini, gridò egli, mentre che Dio gli ajuta, mentre s'ajutano pure da sè medesimi: sappia tutto il mondo che i nostri amici ed i nostri veri alleati sono quelli che, come noi, si sagrificano per la libertà; che, ovunque la libertà spiega le sue insegne, venga altresì ripetuto il nome veneziano[486].» Il trattato d'alleanza tra Firenze e Venezia fu sottoscritto. Le due repubbliche si obbligarono a mettere in campo a spese comuni sedici mila cavalli ed otto mila fanti. Promettevano i Fiorentini di equipaggiare una flotta sul mare di Genova, ed i Veneziani di farne rimontare una per il Po. Finalmente tutte le conquiste che colle loro armi potrebbero essere fatte in Lombardia dovevano appartenere ai Veneziani[487]. Il marchese di Ferrara, il signore di Mantova, i Sienesi, il duca Amedeo di Savoja ed il re d'Arragona entrarono successivamente in quest'alleanza, e la guerra fu dai confederati dichiarata al duca di Milano il 27 gennajo del 1426[488].

Il Carmagnola adunò le sue truppe nello stato di Mantova, mentre il marchese d'Este formava un'armata sul Panaro, ed i Fiorentini ingrossavano quella che Niccolò di Tolentino, loro generale, comandava in Toscana. Il Carmagnola voleva aprire la campagna colla sorpresa di Brescia. Aveva molti partigiani in quella città, ch'egli aveva di già tolta a Pandolfo Malatesti, e di cui si era fin d'allora dichiarato il protettore. Tutti i Guelfi che abitavano in un separato quartiere circondato di mura, erano malcontenti della casa Visconti che gli opprimeva; alcuni soldati avevano pure promesso d'aprire la cittadella ai Veneziani; ma si suppone che il duca di Milano, dopo avere scoperta la loro trama, prendesse le opportune misure per conservare le fortezze, e chiudesse gli occhi sulle pratiche de' Guelfi, che pure gli erano note, onde prendere motivo, tostocchè si manifestassero, d'infierire contro quella fazione e di confiscarne i beni[489].

La città di Brescia era in allora formata di molti quartieri difesi da separate fortificazioni. Eravi sulla montagna che la signoreggia una fortezza circondata da doppie mura, e sostenuta da torri, le une alle altre assai vicine. Un secondo giro di mura formava sotto alla prima una seconda fortezza, abitata dai Ghibellini; al di sotto, in sulla diritta, trovavasi la terza, detta la cittadella nuova, spettante alla Porta Filaria; ed era a mano manca l'altro quartiere, che stendesi nel piano, formante la più bassa parte di Brescia, che chiamavasi città guelfa. In questo solo quartiere fu introdotto il Carmagnola il 17 marzo del 1426, senza che gli fosse pur data la porta di Garzetta, che trovasi in fondo alla città, perchè custodita dalla guarnigione milanese[490].

La prima notizia dell'occupazione di Brescia cagionò molta gioja in Venezia ed in Firenze; ma quando seppesi che il Carmagnola non era padrone che di alcune strade e di poche piazze, mentre tutti i luoghi forti della città si conservavano pel duca di Milano, si perdette la speranza ch'egli vi si potesse mantenere, tanto più che Guido Torello, Francesco Sforza, Niccolò Piccinino ed altri illustri capitani si avanzavano per riprendere così importante città. Per altro il Carmagnola supplì colla sua attività al pericolo della propria situazione; separò con una fossa larga e profonda il quartiere ch'egli occupava dalla più vicina fortezza, ed intraprese nel tempo medesimo l'assedio di porta Garzetta. Quando Niccolò di Tolentino, generale dei Fiorentini, giunse nel suo campo, cominciò pure l'assedio di due cittadelle; e perchè non potessero ricevere esterni soccorsi, le chiuse con una fossa lunga più di due miglia, e larga venti piedi sopra dodici di profondità. In questi diversi assedj si rinnovavano le zuffe senza interrompimento; e l'artiglieria, che cominciava in allora ad essere comunemente adoperata, essendo più micidiale che per l'addietro, distruggeva facilmente quelle fortificazioni che non erano state fatte per resistere alla sua furia. La porta di Garzetta fu la prima ad arrendersi, e poco dopo la cittadella nuova. Angelo della Pergola ricondusse dalla Romagna per ordine del duca l'armata con cui vi aveva sostenuta la guerra e passò il Panaro per negligenza, o per connivenza del marchese d'Este, che aveva sopra di sè la difesa di quel passaggio. Per tal modo tutti i condottieri del duca si trovavano riuniti in vicinanza di Brescia, formando un esercito di oltre quindici mila corazzieri con un proporzionato numero d'infanteria: ma la gelosia de' capi e la loro insubordinazione posero ostacolo ai profitti che tirar potevano da così ragguardevoli forze. Essi non attaccarono le linee del Carmagnola che quand'era troppo tardi per poterle superare, e furono respinti con perdita; indi i Bresciani, assediati nelle diverse loro fortezze, dovettero successivamente arrendersi. Cinque diverse capitolazioni cedettero a lunghi intervalli i diversi quartieri della città ai Veneziani: la cittadella vecchia ultima si arrese il 20 novembre del 1426, e compì la conquista di Brescia[491].

Quando Agnolo della Pergola evacuò la Romagna per ordine del suo signore, restituì al papa le due città d'Imola e di Forlì, che aveva occupate un anno prima. Nello stesso tempo il duca dichiarò di non avere intrapresa la guerra che pel vantaggio della Chiesa, spogliata de' suoi stati dai tiranni[492]. Perciò Martino V offrì subito la sua interposizione per riconciliare le due repubbliche col duca. Mandò il cardinale di Bologna a Ferrara per invitare ad un congresso le potenze belligeranti. Colà infatti si recarono i loro deputati, e quelli del duca di Milano mostravansi disposti a fare tutte le cessioni che potessero essere chieste. Le città della Romagna, il di cui possedimento era il principale motivo della guerra, erano restituite al papa, i castelli conquistati da Agnolo della Pergola erano stati ripresi dai Fiorentini; il duca non chiedeva d'essere messo in possesso di Brescia, come nè pure di alcuni villaggi occupati dal duca di Savoja in Piemonte; anzi acconsentiva di cedere ai Veneziani il restante del territorio bresciano. La pace venne dunque firmata il 30 dicembre del 1526. Ma il duca non aveva maggiore costanza nel sottomettersi alle privazioni, di quel che avesse coraggio nel sopportare i rovesci; quindi aveva appena sottoscritto questo trattato, che non seppe tollerarne le condizioni; e riprese subito le armi per vendicarsi di coloro, che lo avevano ridotto ad accettare una vergognosa pace[493].

CAPITOLO LXV.

Seconda guerra de' Fiorentini col duca di Milano. — Rivoluzioni nello stato della Chiesa. — Tentativi dei Fiorentini sopra Lucca; questa città ricupera la libertà. — Terza guerra col duca di Milano. — Morte del Carmagnola.

1427 = 1432. I Milanesi si erano accostumati al dominio della casa Visconti: una lunga serie di principi, molti de' quali dotati di non comuni talenti, taluni ancora di virtù, avevano attaccato a questa dinastia l'onore nazionale; la sua autorità veniva risguardata come legittima, ed il diploma che innalzava Giovanni Galeazzo alla dignità ducale aveva dissipati gli ultimi scrupoli di coloro che ancora condannavano l'originaria usurpazione di Ottone Visconti. Gli uomini vorrebbero sempre rispettare coloro cui sono forzati di ubbidire, e ne soffre il personale orgoglio, quando debbono arrossire pei loro padroni. Perciò tutto quanto poteva esservi di spregevole nel carattere di Filippo Maria, veniva avvedutamente dissimulato. Si evitava di giudicare questo principe intorno ai molti atti di perfidia, intorno alla sua condotta verso la sua prima consorte, alla sua ingratitudine verso i più fedeli servitori. Mentre i suoi popoli gemevano sotto il peso delle contribuzioni, e che i suoi stati venivano guastati da continue guerre, cercavansi pretesti per giustificare queste medesime guerre, nelle quali veniva strascinato da insaziabile ambizione, ed ascrivevasi a saggia politica la pusillanimità con cui nascondevasi agli occhi del pubblico, come davasi il nome di filosofia alla effeminata sua mollezza, ed alla sua ricercatezza de' piaceri[494].

Non pertanto quando a Milano s'intese a quali condizioni aveva il duca accettata la pace che gli era stata offerta dai confederati, il popolo mostrossi scontento che il suo sovrano si fosse sottomesso a tanta umiliazione. Non sapevasi comprendere come si fosse scoraggiato per la perdita di una sola città, quando la sua armata numerosa di quindici mila corazzieri non aveva ancora combattuto; mentre i Fiorentini erano stati, nel precedente anno, disfatti in sei grandi battaglie, senza che le loro perdite gli avessero ridotti alla più leggiera umiliazione. I gentiluomini milanesi credettero compromesso l'onor loro e quello dello stato dal trattato che il duca aveva accettato; ascrissero a pusillanimità le cessioni che aveva fatte, ed afferrarono questa circostanza per domandare che la nazione avesse qualche parte nel proprio governo.

Una deputazione della nobiltà di Milano supplicò il duca a rompere un trattato contrario all'onor suo ed alla sua sicurezza; a non evacuare otto fortezze dello stato di Brescia ch'egli si era obbligato di dare ai Veneziani, ma che servivano di antimurale ai suoi stati; di non permettere ai suoi nemici di fortificare una testa del ponte sulla riva destra dell'Oglio; e per ultimo di non accordare al timore ciò che la forza non aveva potuto togliergli. Soggiugnevano che se il duca voleva affidarsi allo zelo ed alla lealtà de' suoi sudditi, i Milanesi lo renderebbero in breve vittorioso di tutti i suoi nemici. Quando Filippo Maria volle più partitamente sapere ciò che poteva da loro ripromettersi, i nobili Milanesi risposero che si obbligavano a mantenere dieci mila cavalli ed altrettanti fanti sotto le armi, purchè il duca lasciasse loro l'amministrazione delle entrate della città di Milano, e rivocasse le regalie usurpate dai suoi cortigiani. Filippo, dopo di avere discussa questa proposizione nel consiglio de' suoi favoriti, ricusò di dare motivo al popolo d'immischiarsi negli affari dello stato, onde non far rigermogliare tra i Milanesi quelle abitudini repubblicane che i suoi antenati avevano avuto cura di estirpare; ma per altro risolse di ricominciare la guerra, onde approfittare dei sussidj indicatigli dalla municipalità di Milano. Di mano in mano che i Veneziani licenziavano alcune compagnie di corazzieri, egli andava assoldandole, ed in sul cominciare della primavera, invece di evacuare le fortezze, in conformità del trattato, spinse improvvisamente le sue truppe nello stato di Mantova[495].

Il Carmagnola aveva abbandonata l'armata veneziana per rimettersi in salute, avendo molto sofferto per una caduta da cavallo; e durante la di lui assenza, i Milanesi avevano ottenuto qualche vantaggio sopra i suoi luogotenenti. Una flotta, che il duca aveva fatta costruire sul Po, scese questo fiume senza trovare opposizione, ed occupò Casal Maggiore, mentre Niccolò Piccinino assediò Brescello. Ma i Veneziani armarono ben tosto una flotta di trenta galere, che rimontava il Po sotto gli ordini di Francesco Bembo. Questa giunse fino a breve distanza da Cremona; ove il 21 maggio incontrò Pacino Eustacchio, l'ammiraglio dei Milanesi. Niccolò Piccinino ed Agnolo della Pergola trovavansi sulla sponda meridionale del fiume con sette mila cavalli ed otto mila fanti, e credevansi a portata di proteggere la loro marina, o per lo meno d'intimidire i loro nemici, onde confortarono Paccino Eustachio, che diffidava delle proprie forze, ad entrare in battaglia, lasciandosi portare dalla corrente del fiume contro i Veneziani che stavano al di sotto di lui. Quattro galere milanesi, ajutate dalla rapidità della corrente, attraversarono combattendo tutta la flotta nemica, ma le altre non osarono seguirle, e Francesco Bembo, approfittando della loro oscitanza, le andò cacciando contro la riva settentrionale per separarle dall'armata di terra, e dopo un'accanita battaglia, che non terminò che il secondo giorno, prese o bruciò tutta la flotta milanese[496].

Per altro l'ammiraglio veneziano non potè trarre molto vantaggio da così segnalata vittoria, non avendo truppe da sbarco per tentare veruna conquista in su gli occhi del Piccinino, che lo seguiva a poca distanza. Bensì bruciò avanti a Cremona tre ridotti che il duca aveva fatto innalzare per signoreggiare la navigazione del Po, e si avanzò fino alla foce del Ticino a poca distanza da Pavia; ma qualunque volta misero piede a terra i suoi soldati, vennero battuti o dispersi, e bentosto tornò alla volta di Venezia senza tentare colla sua flotta verun altra impresa[497].

Il Carmagnola, tornato alla sua armata in allora numerosa di dodici mila cavalli, si fece a trattare con vari castellani delle fortezze del duca, che cercava di guadagnare col danaro. Il Piccinino, avuto di ciò sentore, seppe ridurlo con fallaci promesse innanzi a Gottolengo, e colà lo sorprese il giorno della Ascensione, facendogli mille cinquecento prigionieri[498]. Fu questo pel Carmagnola un ammaestramento, che in appresso più non si espose in presenza ai nemici senza avere fortificato il proprio campo con doppio ricinto di carri, sul quali era solito di collocare costantemente numerose scolte. Due mila buoi aggiogati ai carri seguivano ovunque la sua armata e facevano intorno alla medesima una linea difficilmente superabile.

Intanto il Carmagnola si portò alla volta di Cremona con intenzione di assediarla. Dal canto suo credette il duca Filippo Maria di dovere, per la prima volta dacchè faceva la guerra, incoraggiare le sue truppe colla propria presenza. Venne a soggiornare in Cremona, mentre il suo campo trovavasi distante tre miglia da questa città. All'una ed all'altra armata nuovi corpi e nuovi capitani giugnevano ogni giorno. Gli stati, diventati più potenti e più ricchi, impiegavano maggiori forze per combattersi. Assicurasi che a quest'epoca si contarono nel solo territorio di Cremona circa settanta mila combattenti componenti i due eserciti[499]; lo che sembrava cosa prodigiosa in tempi, ne' quali si aveva memoria che tre in quattro mila corazzieri spargevano il terrore dall'una all'altra estremità dell'Italia. Omai la moltiplicità dei soldati sforzava a mutare il sistema militare, e ad estendere il piano della campagna sopra più vaste contrade; mentre in addietro le armate quasi stazionarie in un solo luogo, senza avanzare o rinculare, difendevano tutto un anno il passaggio d'un piccolo fiume o il possedimento di un villaggio.

Il campo del Carmagnola a Casal Secco era da un largo fosso separato da quello dei Milanesi. Ognuna delle due parti temeva di passarlo, e preferiva di essere attaccata piuttosto che d'attaccare. Pure il 12 di luglio, i generali milanesi, che bramavano di distinguersi in presenza del loro sovrano, cominciarono l'attacco, e penetrarono perfino nel campo del Carmagnola. Ma l'estremo calore della stagione rendeva il terreno polveroso, e tostocchè la cavalleria cominciò la carica, si trovò ravvolta in così densa nube di polvere, che ad ogni corpo riusciva impossibile il conoscere o il seguire la stessa direzione. Quando dopo un'ostinata zuffa si suonò dalle due parti la ritirata, molti cavalieri, credendo di recarsi al loro quartiere, entrarono in quelli de' loro nemici. Il Carmagnola, rovesciato da cavallo, fu veduto combattere lungo tempo a piedi; Giovanni Francesco Gonzaga fu alcun tempo in mezzo ai nemici; e Francesco Sforza penetrò senza compagni fino nel centro del campo veneziano; e tutti tre sarebbero rimasti prigionieri se alcuno dei combattenti avesse potuto vedere a pochi passi di distanza; ma all'ultimo le due armate si separarono senza sensibile vantaggio dall'una o dall'altra parte[500].

Intanto dalla banda d'occidente erano contemporaneamente entrati nello stato di Milano Amedeo, duca di Savoja, Gian Giacomo, marchese di Monferrato, e Rinaldo Pallavicini. Il duca tornò nella sua capitale per opporsi ai loro guasti, e spedì contro di loro Ladislao Guinigi, figlio del signore di Lucca, che dopo di essere stato alcun tempo incerto tra la lega ed il duca, erasi finalmente attaccato a questi. Ladislao obbligò i Piemontesi a ritirarsi; ma i Fiorentini non perdonarono a suo padre quest'atto d'ostilità contro i loro alleati[501].

Filippo, allontanandosi dalla sua armata di Cremona la lasciò sotto il comando di quattro generali rivestiti di uguale autorità. Niccolò Piccinino aveva adunati quasi tutti i soldati di Braccio da Montone, e ritornato l'essere a quelle bande lungo tempo famose. Lo Sforza comandava la truppa rivale ch'era stata formata da suo padre. Guido Torello era stato dal duca posto alla testa delle truppe che aveva messe insieme il Carmagnola e più volte condotte alla vittoria. Per ultimo Agnolo della Pergola, invecchiato nelle battaglie, aveva egli medesimo formata la propria armata. Questi capi, eguali di rango, di reputazione, di abilità, nudrivano gli uni verso gli altri tanta gelosia, che comunicavasi ancora ai loro soldati. Perciò il Carmagnola, la di cui autorità era riconosciuta da tutta la sua armata, aveva un grandissimo vantaggio sopra i suoi nemici tanto pel segreto che per la rapidità dei movimenti. Prese quasi in sui loro occhi Bina e Casal maggiore, ed ognuno di tali acquisti fu cagione di nuova contesa nel campo de' suoi nemici. Non è già che tra le sue genti non si trovassero di quegli uomini fieri ed indipendenti, che a stento sanno ubbidire, perciocchè formavano parte della sua armata i tre principi sovrani di Mantova, di Faenza e di Camerino, i due parenti dello Sforza Michelotto e Lorenzo Attendolo, i commissarj dei Fiorentini e de' Veneziani, e finalmente Paolo Orsini, che più d'ogni altro voleva essere emulo del suo generale[502]. Ma il Carmagnola aveva tanta dignità; era così risoluto e tranquillo ne' pericoli, che que' medesimi che più degli altri lo accusavano d'arroganza, non esitavano mai, quando dovevano ubbidirgli.

A Filippo Maria era nota la gelosia dei suoi generali, ma egli la fomentava invece di apporvi rimedio; non volendo farne alcuno tanto grande, che lo potesse adombrare; nè voleva favorire uno di loro in modo da scontentare gli altri sicchè lo abbandonassero. E quando si vide finalmente costretto a sottoporre ad una sola la volontà di tanti capi, volle che il suo generalissimo fosse a tutti superiore per natali e per grado, più che per riputazione militare, di cui gli altri sarebbero invidiosi. Fece venire Carlo Malatesti, figlio del signore di Pesaro e nipote dell'altro Carlo Malatesti, signore di Rimini, e gli affidò il supremo comando dell'armata[503].

Il Carmagnola cercò di provocare il nuovo generale e di metterlo in opposizione co' suoi luogotenenti, che ben sapeva più di lui esperti. Lo andava dunque bersagliando, affettava disprezzarlo, senza per altro offrirgli la battaglia che quando aveva a suo favore il vantaggio del terreno. Andò finalmente il 10 di ottobre ad attaccare il villaggio di Macalò poco discosto dall'Oglio, e due in tre miglia dall'armata milanese, ma in luogo circondato da pantani. Il calore della state gli aveva in parte asciugati di modo che la superficie più dura, che copriva il fango, poteva ben sostenere i pedoni, ma non la cavalleria. Il Carmagnola aveva diligentemente fatto riconoscere questo pantano; onde ne sapeva ogni sentiere praticabile, e dietro ogni macchia, sopra ogni tratto di più solido terreno, aveva posto dei soldati, mentre apparentemente lasciava senza guardie l' argine tortuoso che attraversava il pantano. I soldati milanesi domandavano altamente la battaglia, e si consideravano come insultati dalla presa di Macalò fatta in sui loro occhi. Il Malatesti prendeva parte al loro risentimento, mentre nel consiglio di guerra molti de' capitani rappresentavano il pericolo dell'attacco[504]. Ma la vinse il partito più azzardoso, allorchè coloro che lo proponevano diedero ad intendere che i loro avversarj mancavano di coraggio. Pochi capitani, valorosi nel pericolo, hanno avuto il coraggio più nobile e più virtuoso di sprezzare una così fatta imputazione, quando lo chiedeva l'interesse della loro armata e della patria.

L'armata milanese si pose dunque tutta intera sulla stretta strada che attraversava il pantano, ed improvvisamente, quando più non poteva dare a dietro, fu assalita a destra ed a sinistra dagli arcieri. Allora la cavalleria leggiere e l'infanteria del Carmagnola comparvero ai due lati; e quando i Milanesi uscivano dall'argine per respingere il nemico, cadevano nel fango, e non potevano più muoversi. Tostocchè la colonna fu posta in disordine, i fanti del Carmagnola si avanzarono verso l'argine, e cacciando le spade nel ventre de' cavalli milanesi, rovesciarono i cavalieri, che, oppressi dal peso delle loro armi, più non potevano levarsi in piedi. Guido Torello trovò mezzo di salvarsi con suo figlio per un sentiere che gli venne fatto di scoprire a traverso al pantano; il Piccinino scorrendo tutto l'argine si aprì una via in mezzo ai nemici, e Francesco Sforza tornò a dietro; ma Carlo Malatesta fu fatto prigioniere con otto mila corazzieri, senza che, per quanto vien detto, ne sia rimasto morto un solo. Tutti gli equipaggi ed immense ricchezze caddero in potere del vincitore[505].

Ma era spento ogni odio tra i soldati de' campi nemici, e quando la battaglia non aveva costato sangue, terminavasi senza che i combattenti conservassero risentimento gli uni contro gli altri. I vincitori altro omai non vedevano ne' loro prigionieri che fratelli d'armi, gran parte de' quali avevano servito insieme nelle precedenti guerre; quindi trovavansi vincolati d'amicizia e da guerresca ospitalità con uomini diventati loro avversarj. Quasi tutti coloro ch'erano stati presi a Macalò avevano militato sotto il Carmagnola, e nel corso della campagna avevano più volte mostrato di conservare l'antico amore per questo generale. Nella notte successiva alla battaglia i soldati di Carmagnola accordarono quasi tutti la libertà ai soldati nemici da loro presi; onde i commissarj veneziani recaronsi la mattina alla tenda del generale, rimproverandogli di perdere tutto il frutto della vittoria con tale imprudente liberalità. Il Carmagnola ordinò allora che fossero innanzi a lui tradotti tutti i prigionieri che ancora si trovavano nel campo, e non se ne rinvennero che quattrocento. «Poichè i miei soldati, disse egli a questi, hanno data la libertà ai vostri fratelli d'armi; io non voglio essere meno generoso; andate voi pure, siete liberi.»[506] I Veneziani non mostrarono verun risentimento per questa mancanza di deferenza alla loro rimostranza; anzi il consiglio dei dieci mostravasi affezionatissimo verso il Carmagnola; aveva di già cominciato a diffidare di questo generale, e di già lo trattava come un uomo che aveva determinato di sagrificare.

La perdita di una battaglia altro omai non era che una perdita di danaro. Il duca di Milano dovette somministrare nuovi cavalli e nuove armi ai soldati rilasciati dal Carmagnola: due soli armajuoli di Milano gli vendettero cinque mila corazze, ed in breve si rimontò una nuova armata. Il Carmagnola ricusò di spingere le sue truppe fin presso alle porte di Milano, come volevano i commissarj veneziani. Forse sentiva ancora qualche compassione per l'antico suo padrone dopo averlo bastantemente umiliato, e fors'anco temeva di avventurarsi in un paese nemico, ove numerose milizie avrebbero supplito alla mancanza di truppe di linea; ma invece attaccò e sottomise Montechiaro, Orci e Pontoglio, e presso quest'ultimo castello ebbe luogo l'ultimo fatto d'armi di questa campagna, nel quale fu rotto di nuovo Niccolò Piccinino[507]. Nello stesso tempo Angelo della Pergola morì improvvisamente a Bergamo per uno sbocco di sangue; Ericio, segretario del duca, ch'era stato cagione della disgrazia del Carmagnola, morì ancor esso con tre altri capitani di Filippo; onde questi, indebolito da tante perdite, pensò di nuovo a fare la pace. Trattò prima con Amedeo, duca di Savoja, che staccò dalla lega delle due repubbliche, lasciandogli Vercelli che questi aveva conquistata. Sposò sua figlia Maria, ed il 2 di dicembre del 1427 soscrisse una pace separata[508].

Durante l'inverno il papa spedì di bel nuovo a Ferrara il cardinale Nicolò Albergati per riprendere le negoziazioni; era quello stesso cardinale che aveva conchiuso il trattato del precedente anno. Ad eccezione dei Veneziani, tutti desideravano la pace. Firenze soccombeva sotto gli sforzi che aveva fatti in cinque anni continui, senz'avere acquistato un solo villaggio, o raccolto verun altro frutto da tanti sagrificj; i signori di Ferrara e di Mantova, il Palavicini ed il marchese di Monferrato erano ruinati dalla guerra; il duca di Milano perdeva coraggio, perchè da lungo tempo l'imperatore Sigismondo, cui chiedeva soccorsi, non gli dava che vane speranze. Lo stesso Carmagnola aveva soddisfatto alla sua vendetta, ed il di lui carattere altero ed impetuoso era continuamente offeso dal cupo e sospettoso contegno dei procuratori di san Marco, che mai non lo abbandonavano, e spiavano tutti i suoi andamenti. Egli desiderava che la pace col duca gli facesse ricuperare i suoi beni, e riporre in libertà la consorte e le figlie. Ma egli stesso aveva fatto conoscere ai Veneziani il piacere delle conquiste; ed omai la loro ambizione era più attiva ed insaziabile che quella di verun monarca. In questa medesima epoca essi trovavansi in quasi continua guerra coi Turchi; il loro commercio veniva disturbato dai pirati; erano bloccate le piazze marittime che possedevano nella Grecia, talvolta uccise le loro guarnigioni, e passati a fil di spada dai Barbari tutti gli abitanti che s'erano posti sotto la loro protezione[509]. Ma il consiglio dei dieci più omai non riguardava le sue fortezze del Levante che come banchi di commercio, che contribuivano bensì alla ricchezza ma non alla grandezza dello stato; si consolava delle perdite cogli acquisti che andava facendo in terra ferma, e trascurava la marina, che in altri tempi avea formata la gloria di Venezia, per impiegare tutte le entrate dello stato nel mantenere soldati, aspirando a conquistare tutta la Lombardia.

I Fiorentini, in forza del loro trattato coi Veneziani, eransi obbligati a continuare la guerra, finchè fosse piaciuto di continuarla a questi ambiziosi alleati. Per altro sollecitavano il senato a dichiarare su di ciò le sue intenzioni, e tutti gli altri confederati sembravano apparecchiati a staccarsi dalla lega. Alfonso d'Arragona, in sull'esempio d'Amedeo di Savoja, aveva fatta una pace particolare col Visconti, il quale gli aveva fatta sperare la cessione dell'isola di Corsica; e finchè potesse ottenerne l'assenso dai Genovesi, aveva dato in mano all'Arragonese Lerici e porto Venere[510]. I Veneziani, che prima avevano domandato la cessione di Brescia, Bergamo e Cremona con tutto il loro territorio, si accontentavano adesso delle due prime città con parte del distretto della terza. Fu loro accordata l'Adda per confine dalla banda di Milano, ed il duca rese al Carmagnola i suoi beni e la sua famiglia. Gli altri confederati non ottennero alcun vantaggio dalla pace; soltanto Filippo Maria si obbligò, come aveva precedentemente fatto, a non immischiarsi negli affari di Toscana e di Romagna. Riconobbe per alleati de' Veneziani i signori di Ferrara, di Mantova e di Monferrato, ed i conti Palavicino e san Pellegrino nello stato di Parma. Riconobbe pure, quali alleati de' Fiorentini, i Sienesi, i Fregosi, gli Adorni ed i Fieschi di Genova, i signori di Romagna e Paolo Guinigi di Lucca: quest'ultimo, che si era posto tra i nemici de' Fiorentini, venne avvertitamente annoverato tra i loro alleati per privarlo della protezione del duca di Milano. Il trattato di pace fu soscritto il 18 di aprile del 1428[511].

Sebbene l'Italia sentisse estremo bisogno di godere alcuni anni di riposo, onde riparare le perdite fatte in tante guerre, pure dopo pochi mesi ricominciarono nel suo seno le ostilità. Il segno di una nuova guerra fu dato negli stati della Chiesa, quasicchè questa provincia si dolesse d'essere stata risparmiata nelle precedenti turbolenze. Ma sebbene sembrasse che Martino V avesse fatto prosperare i paesi riuniti sotto il suo dominio, non era altrimenti amato o stimato dai suoi popoli. Le imposte da lui moltiplicate non in ragione de' suoi bisogni, ma dell'avidità d'accumulare tesori, eccitavano universali lagnanze; e le sue smoderate liberalità verso i parenti che colmava d'onori e di ricchezze, dividendo con loro le entrate, le fortezze, i soldati, risvegliavano la gelosia della nobiltà e del clero. Finalmente le città, subordinate per lo innanzi a' rispettivi signori, sospiravano tuttavia lo splendore delle piccole loro corti, l'emulazione che esse eccitavano, le ricompense, le distinzioni, gli onori che accordavano al merito, le ricchezze che mantenevano in paese. Imola, Forlì, Ascoli e Fermo parevano deserte dopo avere perduti gli Alidosi, gli Ordelaffi, i Migliorotti. Bologna, più potente e più ricca, ed accostumata ad una più intera libertà, sospirava la costituzione della sua antica repubblica[512]. Il papa teneva in Roma, può dirsi come ostaggio, Antonio Bentivoglio, figlio di quel Giovanni, che in principio del secolo aveva usurpata la signoria di Bologna. Egli credeva di dover meno diffidare della contraria fazione, alla testa della quale vedevasi la famiglia Canedoli; pure si formò appunto una congiura tra questi per tornare la patria in libertà.

Si conservò un profondo segreto dai congiurati, tra i quali trovavansi i capi delle principali famiglie di Bologna[513]. Una comune impazienza di scuotere il giogo dei preti, un disprezzo universale per la loro debole e languida amministrazione, erano i legami che univano i congiurati, e loro assicuravano l'ajuto del popolo. Infatti, il 1.º agosto del 1428, quando presentaronsi armati sulla pubblica piazza, si udirono da ogni banda le grida di vivano le arti e la libertà! Furono atterrate le porte del palazzo pubblico, che venne abbandonato al saccheggio, mentre il legato si vide costretto a fuggire. Si elessero il gonfaloniere e gli anziani per governare la repubblica di Bologna secondo le antiche sue costumanze, e Luigi di Sanseverino fu preso al soldo dalla nuova signoria con una compagnia di ventura, ch'egli aveva avuto sotto i suoi ordini nella guerra di Milano[514].

Ma i Bolognesi non potevano scegliere un più sfavorevole momento per ristabilire l'antica loro libertà. Tutti i loro vicini, spossati da lunghe guerre, temevano troppo di entrare in nuovi litigi. I Fiorentini, ereditarj alleati di Bologna, e protettori di tutte le città libere, ricusarono di riconoscere il nuovo governo. I vicini signori, accostumati a ricercare un soldo straniero, offrirono i loro servigi al papa, il solo sovrano che allora fosse in caso di pagarli. Ladislao Guinigi, figlio del signore di Lucca, venne spontaneamente ad attaccare i Bolognesi, prima d'averne avuta commissione da Martino V[515]. Fece subito lo stesso Carlo Malatesti, signore di Rimini, mentre Giacomo Caldora, scelto dal papa per suo generale, adunava le sue truppe nello stato di Modena. Antonio Bentivoglio, per gelosia dei Canedoli, si avvicinò a Bologna, facendo in tutti i castelli, nei quali aveva qualche influenza, spiegare le insegne della Chiesa; di modochè la nuova repubblica fu bentosto bloccata da ogni banda, e privata d'ogni esterno soccorso.

La guerra di Bologna si trattò con quel misto di mollezza e di ostinazione che forma il carattere delle guerre ecclesiastiche. I soldati, come se fossero stati capitanati da preti, non cercavano di acquistar gloria con verun atto di vigore o di coraggio; non accadevano nè fatti d'armi di qualche importanza, nè sanguinose zuffe, nè notabili assedj, ma altronde le armate non si annojavano per la lentezza delle operazioni, quasi sapessero che il tempo nulla importava alla Chiesa, e che l'ostinazione è la più sicura guarenzia del buon successo per colui che può aspettare. Dopo un anno di scaramucce, il 30 agosto del 1429, si fece una convenzione, in forza della quale l'esercizio della sovranità venne diviso tra il legato del papa e la signoria[516].

Ma la guerra aveva esacerbato l'odio delle due fazioni. La signoria per le spese della guerra era stata costretta di ricorrere a straordinarie oppressive imposte. Essa erasi difesa contro le cospirazioni dei partigiani della Chiesa con una sospettosa vigilanza, ed aveva più volte puniti i loro attentati con una crudele severità. Era stato versato del sangue dalle due fazioni, ed i trattati di pace non erano sufficienti a soffocare tanto odio. L'abate Zambeccari fece inumanamente assassinare nella sala del consiglio cinque amici dei Bentivoglio, che accusò di voler far trionfare la loro fazione[517]. Bentosto il legato si vide costretto ad uscire di città, e le ostilità ricominciarono alla metà di luglio del 1430, continuando colla stessa mollezza che aveva caratterizzato la precedente guerra; e malgrado gli sforzi fatti dai Bolognesi per ottenere la pace, ed i diversi mediatori da loro adoperati, si protrasse la guerra fino al 22 aprile del 1431. A tale epoca si terminò con un trattato conchiuso con Eugenio IV, ch'era succeduto il 3 di marzo a Martino V[518].

Il più potente vassallo della Chiesa, Carlo Malatesti, signore di Rimini, era morto nell'intervallo delle due guerre il 14 settembre del 1429. Esperto generale, sebbene spesse volte sventurato, egli godeva in Italia di una considerazione assai maggiore della sua potenza; era riguardato come il più virtuoso principe del secolo; sapevasi che aveva presi per suoi modelli i più illustri uomini dell'antichità, de' quali studiava attentamente la storia; ed in fatti frequentemente scorgevasi nella sua condotta una generosità ed una grandezza romana, da lungo tempo affatto sconosciuta agli altri signori d'Italia. La di lui morte riuscì fatale alla sua casa. Egli non aveva prole, ma Pandolfo Malatesti, suo fratello, morto un anno prima, aveva lasciati tre figliuoli legittimati, tra i quali si divise l'eredità dei signori di Rimini. Un terzo fratello, Malatesta, signore di Pesaro, riclamò contro una legittimazione, che dava ai bastardi un'eredità cui credeva avere diritto egli solo. Ricorse al papa, il quale avidamente accolse l'occasione di regolare la successione del più potente de' suoi vassalli, o piuttosto di spogliarlo. Martino V diede molti castelli, che appartenevano ai Malatesti, a Guido di Montefeltro suo parente; riunì al diretto dominio della santa sede Borgo san Sepolcro, Bertinoro, Osimo, Cervia, la Pergola e Sinigaglia, non lasciando ai tre nipoti di Carlo che le tre città di Rimini, Fano e Cesena, delle quali formò a favor loro tre piccole sovranità feudatarie della Chiesa[519].

Mentre ciò accadeva negli stati della Chiesa, la Toscana non era tranquilla. L'esaurimento delle loro finanze aveva costretti i Fiorentini ad accrescere le imposte per pagare gli enormi debiti contratti nell'ultima guerra; essi fissarono allora una nuova maniera di percezione, che chiamarono catasto[520]. Era una stima di tutte le private proprietà, mobili ed immobili, dietro la quale ognuno era tenuto al pagamento della mezza per cento sul suo capitale. Dopo che il catasto fu terminato a Firenze, la signoria volle pure estenderlo alle città suddite della repubblica; ma quasi tutte ostinatamente ricusarono d'assoggettarvisi, ed i cittadini si lasciarono piuttosto mettere in prigione che fare la dichiarazione dei proprj beni. In particolare la città di Volterra riclamò i privilegj che le erano stati accordati nel trattato d'unione, e la promessa fattale di non accrescere i tributi che pagava ab immemorabili. Un Volterrano, chiamato Giusto d'Antonio, dopo essere stato tradotto in prigione a Firenze, fu rilasciato dietro promessa di dare la chiesta dichiarazione; ma appena giunto a Volterra invitò i suoi concittadini alle armi in nome della libertà. Il popolo furibondo si sollevò, e non essendovi guarnigione in città, occupò subito le porte e la cittadella. Estremo fu il terrore a Firenze quando si ebbe avviso di questa sedizione, perchè la causa che aveva fatti sollevare i Volterrani era comune a tutte le città suddite, e sapevasi che grandissimo in tutte era il malcontento e la gelosia. I popoli soggetti ad una repubblica sono più bramosi della libertà, che vedono vicina senza parteciparne, di quello che lo sieno i popoli sottoposti ad un signore; ed è veramente cosa assai umiliante d'essere sudditi in mezzo a cittadini. Pure la prontezza con cui le milizie fiorentine marciarono contro Volterra spense la ribellione, prima che potesse dilatarsi. Palla Strozzi, spedito dalla signoria per offrire il perdono ai Volterrani, e far loro comprendere i pericoli cui si esponevano, ottenne in pochi giorni di cambiare le loro disposizioni; Giusto d'Antonio, il capo de' sollevati, fu ucciso dai suoi compagni, e la città venne aperta senza condizioni ai Fiorentini[521].

Niccolò Fortebraccio, figlio d'una sorella di Braccio di Montone, ed uno de' capitani più addetti ai Fiorentini che serviva da più anni, era stato spedito contro Volterra; e quando questa città fu sottomessa ai Fiorentini, eccitarono sotto mano Fortebraccio ad invadere il territorio lucchese. Desideravano vendicarsi di Paolo Guinigi, signore di Lucca, che nell'ultima guerra si era accostato al duca di Milano contro di loro; ma prima di attaccarlo apertamente volevano conoscere le disposizioni de' suoi sudditi a suo riguardo, ed i suoi mezzi di difesa. Effettivamente Fortebraccio cominciò il 22 di novembre a guastare il territorio di Lucca, ove si presentò come condottiere e capo di avventurieri armati per conto proprio[522].

Paolo Guinigi aveva regnato in Lucca trent'anni con minore splendore di Castruccio, ma in un modo meno ruinoso per la sua patria; aveva utilmente studiata la scienza dell'amministrazione, e la città di Lucca gli fu debitrice di molte savie leggi e di molte economiche istituzioni, che conservò fino all'età nostra. Durante il lungo suo regno egli mantenne quel piccolo stato sempre in pace, e quasi si sottrasse alla storia, che nulla ebbe a dire sul conto di Lucca in tale spazio di tempo. Pure Guinigi non ottenne d'essere amato, non possedendo alcuna di quelle luminose qualità che eccitano l'entusiasmo, e che possono talvolta far dimenticare al popolo la perduta libertà. Aveva un carattere negativo, senza generosità, senza grandezza, senza genio, senza valore, come pure senza vergognosi vizj e senza crudeli passioni. I suoi sudditi, vedendo sul loro territorio Niccolò Fortebraccio, lo ritennero mandato dai Fiorentini, e risguardarono il loro signore come perduto. Tutti i castelli ai confini, ed in particolare quelli di Val di Pescia, mandarono a prendere dai vicarj più vicini dello stato fiorentino gli stendardi della repubblica, che spiegarono sulle loro torri. Quando la signoria fu informata di tali movimenti, adunò i tre consiglj, e quasi di comune assenso fu decretata la guerra il 14 dicembre 1429 contro il signore di Lucca[523].

In quest'occasione si vide con sorpresa che il partito che aveva fatta più gagliarda opposizione alla precedente guerra, quando trattavasi di salvare la libertà della repubblica e dell'Italia, votò a favore di questa, sebbene non avesse altro fondamento che l'ambizione e la sete delle conquiste. Niccolò di Uzzano l'antico capo del partito guelfo, fece quanto poteva per impedirla, ma molti giovani influivano più di lui ne' consiglj della repubblica. Rinaldo degli Albizzi era giunto all'età necessaria per poter dirigere il partito in addietro formato da suo padre, e fu in tale occasione secondato da Cosimo e da Lorenzo, figli di Giovanni de' Medici. L'ultimo era morto in questo stesso anno dopo di avere colla moderazione, colla dolcezza, colla saviezza, spinta la sua famiglia ad un altissimo grado di potenza[524].

I Fiorentini assoldarono Nicolò Fortebraccio colla di lui armata, ed in pari tempo spedirono nello stato di Lucca Bernardino della Carda con ottocento cavalli. Erano talmente spossati dall'ultima guerra, che non ottennero mai d'avere più di due mila corazzieri. Per l'infanteria non impiegarono che le proprie milizie; ma il signore di Lucca, da tutti abbandonato, era così debole che ben prevedevasi che non avrebbe fatta lunga resistenza. I commissarj della repubblica fiorentina furono i primi a venire in di lui soccorso colla cattiva loro condotta. Astorre Gianni, che aveva avuto il carico di sottomettere la Garfagnana, si portò nella valle di Serravezza, presso Pietrasanta, e sebbene gli abitanti affezionati al partito guelfo ed ai Fiorentini fossero spontaneamente andati ad incontrarlo per porsi sotto la protezione della repubblica, egli abbandonò il loro paese al saccheggio e le persone loro agl'insulti de' soldati. Così brutta slealtà eccitò l'universale indignazione, e gli abitanti di Serravezza, ridotti alla mendicità, riempirono la Toscana di amare lagnanze. Invano la signoria richiamò e degradò Astorre Gianni, invano restituì i loro beni agli abitanti di Serravezza, e cercò di compensarli de' sofferti danni; i delitti di cui i brutali guerrieri disonorano le armi di un popolo, conservansi nella memoria degli uomini come macchie indelebili; l'odio che ispirano prepara anticipatamente i loro disastri, e le stesse vittorie arrecano vergogna alla nazione che gli adopera[525]. Inoltre altri commissarj fiorentini non si mostrarono gran cosa meno avidi. Pareva che Rinaldo degli Albizzi si fosse scordato lo scopo della guerra per non occuparsi che della preda; egli seguiva il campo meno per dirigere l'armata, che per comperare a basso prezzo dai soldati gli effetti ed i bestiami che predavano. Gli abitanti della campagna, che avevano prese le armi, perchè attaccati al partito guelfo, abbandonavano con dispiacere quest'armata di ladri; i castelli tornavano all'ubbidienza di Lucca, da cui si erano sottratti; i medesimi soldati fiorentini concepivano disprezzo pei loro commissarj, che operavano così bassamente, e ricusavano d'ubbidire. I dieci della guerra avevano ordinato l'assedio di Lucca; ma l'armata ricusò di stare accampata in tempo delle piogge dell'inverno, e prese quartiere a Cappannola, tre miglia lontana dalle mura, dando così tempo agli assediati d'apparecchiarsi alla difesa[526].

Filippo Brunelleschi, uno de' più grandi architetti che producesse Firenze, propose di approfittare delle medesime piogge, che impedivano le operazioni militari, per attaccare la città. Il Serchio, che attraversa il piano in cui è posta Lucca, soverchiava le sponde ingrossate dalle lunghe piogge, e Brunelleschi propose di dirigerne la corrente contro le mura per aprirvi una breccia colla violenza delle acque. Ma i Lucchesi, dopo avergli permesso di condurre quasi a termine questo lavoro lungo e dispendiosissimo, ch'egli aveva intrapreso, ruppero di notte l'argine da lui innalzato, ed inondarono talmente il piano, che i Fiorentini dovettero allontanarsi da Lucca[527].

Nello stesso tempo gli assediati facevano frequenti sortite sotto la condotta di Guinigi e de' suoi figli; due de' quali avevano militato in Lombardia, e sapevano distinguere i valorosi e premiarli; onde ottennero sui Fiorentini frequenti vantaggi, e rialzarono il coraggio dei loro sudditi. Pare che fossero i primi in Italia ad armare i loro soldati di fucili, la di cui invenzione è posteriore d'assai a quella delle bombarde e della grossa artiglieria[528]. L'anno susseguente l'imperatore Sigismondo fece ancora maravigliare gl'Italiani con un corpo di cinquecento fucilieri che lo accompagnava, quando recossi a Roma per esservi coronato[529].

Paolo Guinigi chiamava da ogni banda truppe al suo soldo, ed invocava l'ajuto di Filippo Maria, de' Veneziani e de' Sienesi. Pareva in particolare che gli ultimi prendessero grandissimo interessamento a di lui favore, risguardando l'attacco contro i Lucchesi come un incamminamento all'acquisto di tutta la Toscana che i Fiorentini meditavano, e temendo di essere in breve privati ancor essi della libertà loro da questa ambiziosa repubblica.

Non pertanto i Sienesi tardavano a decidersi apertamente, ma Antonio Petrucci, uno de' loro concittadini, che professava la milizia, portò egli solo ai Lucchesi que' soccorsi che avrebbe voluto dalla sua repubblica. In principio di questa guerra era stato mandato ambasciatore a Firenze, e vi era stato insultato dal popolaccio. Il desiderio della vendetta aggiugnevasi in lui al desiderio di mantenere l'equilibrio della Toscana, e d'impedire l'oppressione di un popolo alleato della sua patria[530]. Adunò un corpo d'armata ragguardevole assai, ed attraversando il Pisano, lo condusse a Lucca. Passò in appresso alla corte di Filippo Maria, e lo eccitò a soccorrere celatamente l'assediata città, quando non volesse farlo alla scoperta[531].

Il duca di Milano poteva in allora facilmente soccorrere il Guinigi, perchè teneva nella Lumellina la compagnia di ventura di Francesco Sforza, che da oltre un anno più non sembrava al suo soldo. Filippo non aveva perdonata allo Sforza una rotta che questo generale aveva avuta nelle montagne della Liguria combattendo contro i ribelli genovesi, e lo aveva accantonato al confluente del Ticino e del Po in una specie di relegazione ove tenevalo d'occhio. Assicurasi inoltre che due volte era stato in sul punto di farlo morire[532]. Quando il duca si riconciliò realmente con lui, diede ancora maggiore pubblicità alla precedente loro discordia; annunciò a tutte le potenze d'Italia che lo Sforza avevagli chiesto il congedo per recarsi nel regno di Napoli, e ch'egli più non rispondeva per questo generale che più non era al suo servigio. Lo Sforza, avendo adunati tre mila cavalli ed altrettanti pedoni, entrò in Toscana nel luglio del 1430 per la strada della Lunigiana e di Pietrasanta. Costrinse il campo fiorentino, che assediava Lucca, a ritirarsi; prese Buggiano, minacciò Pescia, e portò la guerra nel paese stesso degli aggressori[533].

Frattanto, ossia che Paolo Guinigi cominciasse a trovare che la difesa di Lucca gli costava più che non valeva il possedimento della stessa città, sia che i Fiorentini riuscissero con uno stratagemma a spargere la diffidenza tra di lui ed i suoi sudditi, fatte è che Pandolfo Petrucci, il Sienese che gli aveva procurati i suoi soccorsi, Pietro Cinnami e Giovanni di Chivizzano, magistrati di Lucca, sorpresero alcune lettere dirette dai commissarj fiorentini ed Guinigi: pareva da queste che i commissarj continuassero un trattato incominciato da lungo tempo, promettendogli due cento mila fiorini da pagarsi in più termini, ed il possedimento di alcuni castelli, come un equivalente della città di Lucca, che sembrava avere il Guinigi promesso di dare nelle loro mani[534]. Antonio Petrucci non aveva nè amore nè stima per Guinigi; soccorrendolo, aveva ascoltato il suo odio verso Firenze, non l'amicizia per quegli che difendeva; e se aveva voluto sottrarre Lucca ai Fiorentini prima di prendere le armi contro di loro, lo voleva ancora più caldamente ora che gli aveva irritati colla sua resistenza. Dopo avere cercato di conoscere le disposizioni di Guinigi ed essersi meglio confermato ne' suoi sospetti, concertò con Francesco Sforza i mezzi d'arrestare il signore di Lucca coi suoi figliuoli. Cennami e Chivizzano adunarono una quarentina di congiurati, e Petrucci, che aveva sempre libero l'ingresso degli appartamenti del principe, condusse nel cuore della notte i suoi complici fino alle porte di Guinigi che stava a letto. Questi, alzandosi precipitosamente, gli chiese il motivo di tale visita. «È già lungo tempo, gli rispose Cennami, che avendo usurpato il governo, tu hai attirati alle nostre porte i nostri nemici che ci fanno perire col ferro e colla fame. Noi siamo oramai determinati di governarci da noi medesimi, e siamo venuti a chiederti le chiavi della nostra città ed il tesoro che le appartiene.» — »Il tesoro, rispose Guinigi, raccolto colla mia economia, io lo erogai interamente per allontanare da voi un'ingiusta aggressione; per ciò che risguarda le porte, esse sono in poter vostro, come la mia persona e la mia famiglia: ricordatevi soltanto che io ottenni la signoria e la conservai trent'anni senza spargere sangue; e fate che il fine del mio potere risponda al principio ed al mezzo[535]

Guinigi venne in fatti arrestato dai congiurati con quattro de' suoi figliuoli che trovavansi presso di lui. Il maggiore di tutti, Ladislao, era nel campo presso Francesco Sforza, il quale lo fece arrestare nella stessa ora. Furono tutti insieme mandati al duca di Milano, che li fece custodire nelle prigioni di Pavia: Guinigi in capo a due anni morì, senza che accusar si possa veruno della sua morte[536]. I cittadini di Lucca cedettero ad Antonio Petrucci per sua ricompensa tutti gli effetti degli appartamenti del principe; le sue armi e cavalli furono dati allo Sforza, e portato nel pubblico tesoro tutto l'oro e l'argento. Nello stesso tempo un gonfaloniere e gli anziani furono nominati dal popolo, e la repubblica venne di nuovo governata a seconda delle antiche leggi[537].

I Fiorentini non avevano cominciata la guerra che per l'odio che nudrivano contro Paolo Guinigi; la sicurezza loro richiedeva, dicevano essi, di non soffrire un tiranno nemico così vicino: sembrava dunque tolta ogni cagione di continuare le ostilità dopo la prigionia del signore di Lucca. Infatti i Lucchesi spedirono immediatamente a domandare la pace a Firenze; rappresentarono che il solo nemico dei Fiorentini era già bastantemente punito del suo fallo; che rispetto a loro, tornati in libertà, erano quello che sempre erano stati, i più fedeli amici della repubblica, i più irremovibili partigiani della causa guelfa. Ma la signoria non ascoltava che la sua ambizione, renduta più ardente dall'esempio delle conquiste dei Veneziani; voleva ad ogni modo avere il possedimento di Lucca, e sebbene da principio offrisse la pace a condizione di cederle Montecarlo e Pietrasanta, ruppe bentosto ogni trattato[538].

I commissarj fiorentini avevano approfittato di queste prime aperture per intavolare col conte Francesco Sforza un trattato di altra natura. Essi lo persuasero pel prezzo di cinquanta mila fiorini ad abbandonare Lucca, ed a tornare in Lombardia. Lo Sforza ricevette questa somma come il residuo pagamento di un debito contratto dalla repubblica verso suo padre, e ricusò di passare al servigio dei Fiorentini, come n'era richiesto[539].

I Fiorentini ripresero con nuovo vigore l'assedio di Lucca dopo la partenza dello Sforza; ma il duca di Milano non acconsentì che facessero un acquisto così importante; persuase sotto mano i Genovesi a far valere un trattato particolare ch'essi avevano con Lucca; a domandare ai Fiorentini che levassero l'assedio di questa città, e dietro il loro rifiuto, a spedire verso il Serchio Nicolò Piccinino, cui il duca aveva per questa cagione permesso che andasse ai loro servigj[540].

Guid'Antonio di Montefeltro, conte d'Urbino, comandava l'armata fiorentina, composta di sei mila cavalli e tre mila fanti. Il Piccinino non aveva tanta gente, ma le sue truppe erano fresche e provvedute del bisognevole, mentre le fiorentine avevano sofferto assai dalla cattiva stagione e dalle inondazioni del Serchio. I due campi sulle opposte rive del fiume si osservavano senza poter venire alle mani, quando un corpo della cavalleria fiorentina, avendo scoperto un guado, ne approfittò per attaccare il Piccinino alle spalle. Questi respinse caldamente i nemici, gl'inseguì entro il fiume, ed attraversando il guado ch'essi gli avevano fatto conoscere, piombò addosso all'armata fiorentina, che sgominò interamente, facendola quasi tutta prigioniera. Tutta l'artiglieria, tutte le munizioni e quasi quattro mila cavalli vennero in potere del vincitore[541].

E per tal modo la guerra, in cui erano entrati i Fiorentini colla speranza di conquistare Lucca, poteva di nuovo compromettere la propria loro indipendenza; e se Niccolò Piccinino, per ordine del suo padrone, non si fosse ritirato in mezzo alle sue vittorie, gli sarebbe stata facil cosa il prendere Pisa, che sospirava un'occasione di scuotere il giogo, e di mettere sossopra tutta la Toscana. I Sienesi, ognora più atterriti dagli ambiziosi progetti dei Fiorentini, avevano contratta alleanza coi Genovesi per la difesa di Lucca, ed avevano innalzato al rango di capitano del popolo con pieni voti quello stesso Antonio Petrucci, che aveva con tanta attività recato soccorso ai Lucchesi[542]. Un solo avvenimento parve ai Fiorentini meno sfavorevole, e fu la morte di papa Martino V, accaduta nella notte del 19 al 20 febbrajo del 1431. La sua parzialità pel duca di Milano, e l'odio suo contro la repubblica, avevano pressochè rovesciato l'equilibrio d'Italia. Ebbe per successore il cardinale Gabriello Condolmieri, Veneziano, che fu consacrato l'undici di marzo e prese il nome d'Eugenio IV. Il nuovo pontefice non tardò a far conoscere quanto i suoi affetti fossero contrarj a quelli del suo predecessore. In Roma cercò di tornare in credito gli Orsini, e di spogliare i Colonna smisuratamente arricchiti da Martino V; in Italia parve attaccato alle repubbliche, e fece con loro causa comune contro la casa Visconti[543].

Non è già che l'ambizione de' Veneziani non fosse eccessiva come quella del duca di Milano. Questi non aveva loro dato alcun giusto motivo di lagnanza, aveva giustificata la sua condotta in Toscana non in modo di purgarsi affatto da ogni cattiva intenzione, ma abbastanza per altro onde dimostrare che si era uniformato ai trattati ed al diritto pubblico allora in vigore. Non pertanto i Fiorentini facevano ai Veneziani vantaggiosissime offerte per muoverli a ripigliare le armi; obbligavansi a mantenere in Lombardia due mila corazzieri, ed a pagare ogni mese venti mila ducati per le spese della guerra, indipendentemente dagli sforzi che farebbero in Toscana contro il comune nemico. I Veneziani, allettati dalla speranza di aggiugnere Cremona alle altre conquiste, accettarono queste proposizioni. Rinaldo Palavicino prometteva di attaccare Parma e Piacenza; Gian Giacomo, marchese di Monferrato, doveva fare un tentativo sopra Asti o sopra Alessandria; il marchese d'Este ed il signore di Mantova erano al soldo dei Veneziani; per ultimo i singolari talenti del Carmagnola promettevano il migliore successo[544]. Dall'altro canto il duca di Milano aveva al suo servizio due non meno formidabili generali, Niccolò Piccinino ed il conte Francesco Sforza. Aveva inoltre resa più intima la sua alleanza coll'ultimo promettendogli in isposa Bianca, sua figliuola naturale, che in allora aveva soltanto sette anni[545]. Sotto questi due generali il duca aveva più di dieci mila corazzieri, i migliori soldati che allora avesse l'Italia.

Per belle che fossero le speranze concepite dai Veneziani la campagna fu loro da principio in ogni luogo sfavorevole. Il Carmagnola credeva di avere sedotto il comandante di Soncino, ed il 17 maggio avanzavasi poco cautamente per prendere possesso di quel castello. Ma quel comandante aveva dato avviso a Filippo del trattato; Francesco Sforza e Niccolò di Tolentino avevano tesa un'imboscata per sorprendere il nemico. L'armata del Carmagnola fu rotta, presi mille sei cento cavalieri, ed egli stesso non andò debitore della propria salvezza che alla velocità del suo cavallo[546]. Luigi Colonna ebbe pure un notabile vantaggio presso Cremona, ove comandava a nome del duca, e Cristoforo Lavello guastò il Monferrato. Niccolò Piccinino, dopo avere occupati nelle alpi Liguri più di sessanta castelli appartenenti ai Fieschi o ad altri gentiluomini di parte guelfa, e lasciatili saccheggiare dai suoi soldati, entrò in Toscana attraversando i territorj di Lucca e di Pisa.

Genova, Siena, Lucca, e Giacomo d'Appiano signore di Piombino, erano pure entrati nella lega contro i Fiorentini. La gelosia e l'odio loro raddoppiavano le calamità della guerra, rendendola più nazionale. I Pisani, che sempre sospiravano l'istante di scuotere il detestato giogo dei Fiorentini, mostrarono più apertamente la loro impazienza quando videro avvicinarsi il Piccinino, e furono in sul punto di prendere le armi. Il governo fiorentino non trovò altro espediente per salvare la città, che quello di farne uscire tutti gli uomini abili alle armi dai quindici fino ai sessant'anni, ritenendo come ostaggi le loro mogli e figli. Pure la maggior parte di coloro che furono costretti ad abbandonare la patria andarono ad ingrossare l'armata del Piccinino[547]. Quest'armata passò in appresso sul territorio di Volterra, ove non meno che a Pisa poteva temersi di qualche ribellione: quasi tutti i castelli del volterrano aprirono le porte al Piccinino, che saccheggiò tutta la val d'Elsa di concerto con Niccolò da Tolentino, e con Alberico di Zagonara, generale dei Sienesi. Minacciò pure Arezzo, e quando fu poi dal duca richiamato in Lombardia, lo Zagonara, che gli successe nel comando, proseguì ad impadronirsi de' castelli de' Fiorentini, che coprivano i loro confini dal lato di Siena[548].

Mentre ciò accadeva in Toscana, il Carmagnola avvicinavasi alle sponde del Po con un'armata di dodici mila corazzieri ed altrettanti pedoni. S'avanzava su questo fiume Niccolò Pisani con una flotta veneziana di trentasette grandi navi e circa altre cento minori[549]. Il senato veneto aveva risolto di volgere tutte queste forze contro Cremona che ardentemente desiderava di acquistare, e di già la flotta aveva rimontato il Po fino a tre miglia al di sotto di questa città. Dal canto suo il duca di Milano aveva fatta allestire una flotta al di sopra di Cremona sotto gli ordini di Pacino Eustachio: i suoi vascelli erano maggiori in numero, ma più piccoli di quelli de' nemici. Giovanni Grimaldi di Genova era stato chiamato su questa flotta con molti de' suoi compatriotti, per opporre ai Veneziani i soli rivali che potessero disputar loro l'impero delle acque.

Il 22 di maggio, Pacino Eustachio e Grimaldi avevano tentato di approfittare d'una escrescenza di acqua per attaccare coll'ajuto della corrente la flotta veneziana stazionata al di sotto di loro. Ma malgrado questo vantaggio cinque de' più grandi vascelli del duca di Milano, troppo essendosi avanzati, trovaronsi in mezzo ai Veneziani, e costretti ad arrendersi. In tempo di questa battaglia il Piccinino e Francesco Sforza con tutte le truppe del duca di Milano eransi avvicinati al Carmagnola e l'avevano tirato verso loro scostandolo dalle rive del fiume. La vegnente notte gli fecero intendere per mezzo di false spie le disposizioni ch'essi davano per attaccarlo all'indomani, e riuscirono in tal modo ad occupare tutta la sua attenzione. Frattanto essi salivano segretamente coi loro migliori corazzieri sopra le galere di Pacino Eustachio. Nella battaglia navale ch'essi volevano rinnovare all'indomani, le galere serrate nel letto del fiume non potevano battersi che all'arrembaggio; ed in tale stato di cose il coraggio, la forza del corpo e l'armatura impenetrabile dei corazzieri dovevano essere di maggiore vantaggio che le più abili manovre de' marinaj veneziani. Il Trevisani fece indarno chiedere al Carmagnola di spedirgli dei corazzieri, perciocchè credendosi questi sicuro di combattere all'indomani, non voleva indebolire la sua armata.

Finalmente la mattina del 23 di maggio s'avvide il Carmagnola che i generali nemici l'avevano ingannato, e che più non erano in vicinanza. Allora si ravvicinò al Po; ma oramai più non era possibile di far imbarcare i suoi soldati; perciocchè egli occupava la sponda sinistra del fiume, e Pacino Eustachio aveva, in principio dell'attacco, approfittato della violenza delle acque, cresciute per lo scioglimento delle nevi, per ispingere il Pisani sull'opposta riva. Colà continuavasi con indicibile accanimento la battaglia tra le galere. I Milanesi afferravano cogli uncini i vascelli veneziani, e subito i corazzieri dello Sforza e del Piccinino lanciavansi sul ponte dei loro nemici; invulnerabili sotto il ferro ond'erano coperti, combattevano contro uomini che non avevano che una mezza armatura, i quali cadevano sotto i loro colpi. La carnificina era tanto più spaventosa in quanto che i Veneziani non sapevano risolversi a rinunciare alla vittoria sul loro proprio elemento; altronde vedevano sull'altra sponda il Carmagnola che li confortava, e che disponevasi coll'intera sua armata ad ajutarli, tostocchè potessero approssimarsi a lui. Ma finalmente dovettero cedere dopo avere perdute ventotto galere e quarantadue navi da trasporto, che caddero in mano del nemico. Perirono due mila cinque cento uomini, ed un ricco bottino venne in potere dei vincitori. Assicurasi che l'armamento de' Veneziani, distrutto in tal modo in un solo giorno, aveva costato alla repubblica seicento mila fiorini[550].

Di così luminosa vittoria il duca di Milano non approfittò come avrebbe potuto a danno de' Veneziani. Le armate principali rimasero per più mesi come stazionarie, mentre Niccolò Piccinino guastava il Monferrato, e prendendo, uno dopo l'altro, tutti i castelli di quello stato, costringeva il marchese a fuggire nella Svizzera, di dove passò a Venezia. Vero è che i Veneziani lavarono in parte l'affronto sofferto dalla loro marina sul Po. Una piccola flotta, comandata da Pietro Loredano, incontrò il 27 agosto in vicinanza di Portofino, nel golfo di Rapallo, Francesco Spinola con dodici galere genovesi, e dopo una calda battaglia prese quest'ammiraglio con otto vascelli[551]. Ma intanto il Carmagnola rimanevasi in una inazione tanto più strana, quanto più universale era l'aspettazione che sarebbesi affrettato di riparare una disfatta avuta per colpa sua. Il 15 ottobre un distaccamento de' suoi soldati, avuto avviso che a Cremona non si faceva buona guardia, sorprese il ponte di san Lucca, e vi si mantenne due giorni, senza che il Carmagnola, per timore di un'imboscata in sulla strada, si avanzasse per approfittare di così felice avvenimento.

Il gran capitano, ch'era stato l'artefice della potenza di Filippo ed in appresso de' suoi rovesci, non aveva potuto cessare di essere vittorioso, senza che il sospettoso e crudele senato di Venezia non lo credesse traditore. Anche nella precedente guerra gli si era rimproverato d'avere renduti tutti i prigionieri dopo la battaglia di Macalò. In questa gli si dava colpa del disastro della flotta, del cattivo successo dell'impresa di Cremona, e della ruina del marchese di Monferrato, mentre ch'egli rimanevasi nell'inazione. Per altro il Carmagnola rendeva ragione dello sforzato riposo in cui era rimasto; un'epizoozia infierì tutta l'estate tra i cavalli, onde la metà de' suoi cavalieri erano senza, ed i nemici che provavano lo stesso flagello erano rimasti egualmente oziosi per l'impossibilità in cui erano di procurarsi cavalli.

Ma senza degnarsi di far note le sue accuse, senza dar luogo a giustificazioni, volle vendicarsi sopra un uomo dei capricci della fortuna; e lo fece con un profondo segreto. Il consiglio dei dieci in principio del 1432 invitò il Carmagnola a recarsi a Venezia per trattare intorno alla pace, cui la repubblica aveva di nuovo rivolto il pensiero. L'accompagnava Giovanni Francesco Gonzaga, signore di Mantova, ed ambidue vennero ricevuti coi più grandi onori. I più illustri personaggi dello stato andarono ad incontrare il Carmagnola e lo condussero con magnifico corteggio fino al palazzo del doge. Il senato era adunato ed il Carmagnola venne introdotto e fatto sedere nel seggio d'onore, e gli furono prodigate dimostrazioni di affetto e di stima. Frattanto la deliberazione cui assisteva, ed intorno alla quale mostravano desiderare i suoi consiglj, si protrasse fino a notte avanzata, onde fu pregato di far ritirare le persone del suo seguito stanche dal viaggio. Tostocchè il Carmagnola si trovò solo in mezzo ai senatori, questi fecero entrare le loro guardie che lo arrestarono e caricarono di ferri. All'indomani il generale fu assoggettato ai tormenti ed alla tortura, per lui tanto più dolorosa in quanto che aveva una ferita in un braccio, ricevuta in servigio di quella stessa repubblica che lo aveva dato in mano ai suoi carnefici[552]. Si assicura che in mezzo a tali tormenti confessasse il tradimento che gli veniva imputato; ma veruna prova non fu prodotta agli occhi del pubblico o dell'Italia, cui apparteneva questo grand'uomo, e non si pubblicò alcuna sua deposizione. Non si calunniano i giudici, credendoli falsarj e prevaricatori, quando si avvolgono entro un infame mistero. Il 5 maggio del 1432, venti giorni dopo il suo arresto, Carmagnola fu condotto sulla piazza di san Marco e gli otturarono la bocca per impedirgli di chiamare Venezia in testimonio della sua innocenza, e di svelare tutta l'ingratitudine de' suoi oppressori, e colà fu decapitato tra le due colonne che stanno innanzi al palazzo[553].

FINE DEL TOMO VIII.

TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO VIII.

Capitolo LVII. Considerazioni intorno al carattere ed alle rivoluzioni del quattordicesimo secolo pag. 3

Il quattordicesimo secolo non ha un carattere determinato 4

Primi capi d'opera nella lingua italiana 5

Lo studio delle lingue morte inceppa tutt'ad un tratto lo slancio della fantasia 6

Ricerche di manuscritti: erudizione 7

Rivista intorno alla storia politica del secolo 9

L'autorità imperiale rialzata da Enrico VII 10

Progressivo degradamento dei suoi successori 11

La fazione ghibellina si stacca dagl'imperatori 13

Caduta nel XIV secolo della potenza papale 14

Corruzione della corte pontificia in Francia 15

Carattere delle guerre promosse dai papi in Italia 16

Gran scisma d'Occidente 16

Indebolimento graduale del regno di Napoli 19

Degenerazione dei re angioini da Carlo I fino a Giovanna 20

Carlo di Durazzo rialza momentaneamente il regno 23

Ambizione delle case de' principi di Lombardia 24

Grandezza di Cane e di Mastino della Scala 25

Delitti e debolezza de' successori di Mastino 26

Dinastia de' Visconti innalzati nella scuola delle avversità 27

Gli ultimi principi di questa casa aggiungono l'ambizione alla pusillanimità 29

Eccessiva potenza di Giovanni Galeazzo 31

Ruina di tutte le altre case principesche 31

I Malatesta nello stato del papa 32

Carattere della repubblica di Venezia 33

Guerre dei Veneziani coi Genovesi 35

Carattere della repubblica di Genova 36

Le guerre civili riducono quattro volte i Genovesi a darsi un padrone 38

Firenze nel centro di tutta la politica italiana 39

Saviezza e virtù del governo fiorentino 40

Sua opposizione successiva a tutti gli usurpatori 42

L'intero popolo di Firenze deliberava come un consiglio di stato 42

Bologna perde il suo spirito indipendente sotto la tirannide 47

Lucca, potente sotto Castruccio, sconta la sua gloria con una lunga schiavitù 49

Siena fatta schiava alternativamente da diverse oligarchie artigiane 50

Perugia vittima della ferocia delle sue fazioni 52

Pisa la sola attaccata alla parte ghibellina. Suo carattere 53

Pisa la sola repubblica militare della Toscana 54

Uccisione dei Pisani in Sardegna 55

Funesti effetti che i Pisani risentono dalla loro unione coi Ghibellini 58

Studio dell'uomo, compiuto in Italia, tanto nel bene come nel male 59

Capitolo LVIII. Arte militare degli Italiani in principio del quindicesimo secolo. — Anarchia della Lombardia. — Nuovi tiranni si dividono gli stati di Giovanni Galeazzo. — Bologna e Perugia restituite alla Chiesa. — Siena torna in libertà. 1402-1404 61

La forza delle armate era posta nella cavalleria pesante 62

Le battaglie erano assai rare, perchè non vi si potevano sforzare i corazzieri 62

Le guerre si facevano più ai popoli che ai soldati 64

I popoli, avvicinandosi il nemico, chiudevansi co' loro effetti ne' luoghi murati 65

Prodigioso numero delle fortezze difese dagli abitanti 66

L'artiglieria adoperavasi soltanto negli assedj 67

I condottieri italiani subentrano ai forestieri 69

Vantaggi trovati dai governi ne' condottieri 70

Quale uso facevasi ancora della milizia 71

Ricompense offerte ai soldati 72

Fortune fatte dai condottieri 74

Alberico da Barbiano e la compagnia di san Giorgio 75

Grandi capitani formati a questa scuola 76

Carattere di Giovan Galeazzo, confidenza accordata ai suoi capitani 78

Divisioni de' suoi stati tra i di lui figli 79

1402 Alleanza dei Fiorentini col papa contro i Visconti 80

Tentativo infruttuoso del papa sopra Perugia 81

1405 I capitani di Giovan Galeazzo entrano al servigio de' nemici de' suoi figliuoli 82

1403 Gelosia nel consiglio di reggenza dei Visconti 84

Violenta e crudele condotta della duchessa Catarina Visconti 85

Ribellione di Cremona. Signoria d'Ugolino Cavalcabò 87

Movimenti sediziosi in tutte le città di Lombardia 88

L'armata de' Fiorentini si avanza contro Parma 90

Il papa fa una pace separata coi Visconti 91

2 settembre. Bologna torna sotto la Chiesa 92

I Fiorentini soccorrono i Guelfi di Lombardia 94

Cercano di rendere la libertà a Siena 95

1404 Marzo. I Sienesi ricuperano da sè la libertà 96

I Fiorentini vogliono liberare Pisa dalla tirannide di Gabriele Maria Visconti 97

Il Visconti si pone sotto la protezione di Boucicault, governatore di Genova 98

I Fiorentini puniscono i gentiluomini ghibellini degli Appennini 100

Loro alleato, Pietro de' Rossi, tradito da Otto Bon Terzo 101

Sedizioni in Milano contro la duchessa 104

Il Barbavara e la duchessa costretti a fuggire 104

16 ottobre. La duchessa, posta in prigione, muore avvelenata 105

Capitolo LIX. Conquiste di Francesco da Carrara in Lombardia. — Gelosia de' Veneziani; gli dichiarano la guerra; vigorosa resistenza del Carrara, che perde successivamente Verona e le sue principali fortezze; egli è forzato ad arrendersi, ed il consiglio dei dieci lo fa morire co' suoi figliuoli. 1404-1406 107

1403 Negoziati del Carrara colla duchessa di Milano 107

Agosto. Si rende padrone di Brescia che poi abbandona 108

1404 Guglielmo della Scala gli chiede soccorso, e tratta con lui 109

7 aprile. Il Carrara e della Scala occupano Verona 110

21 aprile. Morte di Guglielmo della Scala. Si sospetta di veleno 111

29 aprile. La fortezza di Verona ceduta al Carrara 112

La repubblica di Venezia prende parte colla duchessa contro il Carrara 114

25 aprile. Vicenza chiama i Veneziani, e spiega l'insegna di san Marco 115

17 maggio. Il Carrara fa arrestare i due principi della Scala che intrigano contro di lui 116

18 giugno. Prime ostilità della repubblica veneta contra il Carrara 117

1404 23 giugno. Il Carrara dichiara la guerra ai Veneziani 118

Il Carrara difende i suoi confini contro un'armata d'assai superiore alla sua 119

6 settembre. L'armata veneziana entra nello stato padovano 120

Nuovi nemici assalgono il Carrara 121

2 dicembre. Paolo Savelli attraversa la Brenta, e guasta il Padovano 122

1405 Francesco di Carrara manda a Firenze i suoi figli più giovani 124

12 giugno. Viene assediato nella sua capitale 125

25 giugno. Verona s'arrende ai Veneziani 126

Giacomo da Carrara prigioniere 126

In Padova si manifesta la peste 127

I castelli del Padovano si arrendono ai Veneziani 128

Infruttuosi trattati del Carrara con Carlo Zeno 129

2 novembre. Assalto generale respinto 132

Costanza di Francesco Carrara 133

17 novembre. Una porta di Padova aperta per tradimento ai Veneziani 133

Francesco Carrara dà le sue fortezze in deposito a Galeazzo 135

19 novembre. Sedizione eccitata dai Veneziani in Padova contro il Carrara 137

1405 29 novembre. Il Carrara e suo figlio giungono a Venezia 138

Accoglimento loro fatto dalla signoria 139

Discorso di Giacomo del Verme contro il Carrara 140

1406 16 gennajo. Il Carrara strozzato per ordine del consiglio dei dieci 141

I suoi due figli uccisi il giorno dopo nello stesso modo 142

Morte di due figli del Carrara ch'erano a Firenze 143

Il consiglio dei dieci pubblica una taglia sulla testa dei principi della Scala 145

Crudele politica dei Veneziani; odio che eccita 147

Tavole genealogiche della casa di Carrara e della Scala 147

Capitolo LX. I Fiorentini conquistano Pisa. — Seguito dello scisma, che viene mantenuto da Ladislao re di Napoli. — Concilio di Pisa. — Deposizione di Gregorio XII e di Benedetto XIII. — Elezione di Alessandro V. 1405-1409 149

1403-1406 Rivoluzioni di Cremona. Ugolino Cavalcabò, e Gabrino Fondolo 150

1404 Pandolfo Malatesti si fa signore di Brescia 152

Alleanza dei Pisani con Boucicault, governatore di Genova 153

1405 Boucicault persuade Gabriele Visconti a vendere Pisa ai Fiorentini 154

1405 31 agosto. La cittadella di Pisa ceduta ai Fiorentini 155

6 settembre. Viene loro ritolta dal popolo di Pisa 156

I Pisani domandano la pace ed offrono compensi 157

Giovanni Gambacorti, richiamato dall'esilio, viene nominato capitano del popolo 158

I Fiorentini risolvono d'affamar Pisa; ardire di Pietro Marenghi 160

Angelo della Pergola e Gaspare dei Pazzi disfatti, mentre accorrevano in soccorso di Pisa 161

Ladislao ed Otto Bon Terzo ricusano di soccorrerli 162

1406 I Pisani bloccati da ogni banda 162

Rivalità dello Sforza e del Tartaglia acquietata da Gino Capponi 164

Angustie dei Pisani 164

9 ottobre. Giovanni Gambacorti cede Pisa ai Fiorentini 166

Governo dei Fiorentini; frequenti emigrazioni dei Pisani 168

Cambiamento nella politica dei Fiorentini 169

1394-1406 Progressi dello scisma 171

1394 16 settembre. Morte di Clemente VII; gli succede Benedetto XIII 171

1395 Concilio Nazionale in Francia per la riunione della Chiesa 173

1399 14 aprile. Benedetto XIII, costretto a capitolare con Boucicault 173

1404 29 settembre. Morte di Bonifacio IX 175

17 ottobre. Gusmano di Sulmona eletto papa sotto nome d'Innocenzo VII 175

Carattere di Ladislao re di Napoli 171

1399-1400 Ladislao costringe Luigi e Carlo d'Angiò ad uscire dal suo regno 178

1401 Viene chiamato in Ungheria dai nemici di Sigismondo 179

1402 5 agosto. È coronato a Zara come re d'Ungheria 180

1402-1409 Abbandona l'Ungheria e vende ai Veneziani le piazze da lui occupate 181

Sue pratiche in Roma contro papa Innocenzo VII 182

1405 Sedizione de' Romani contro il papa 183

I deputati de' Romani uccisi da un nipote del papa 184

Afflizione del papa per questa violenza; è costretto a fuggire 186

Ladislao vuole occupare Roma e n'è scacciato dal popolo 187

1406 5 novembre. Morte d'Innocenzo VII; gli succede Gregorio XII 188

Negoziazioni tra i due papi per la vicendevole abdicazione 189

Convengono di adunarsi a Savona 190

1407 Gregorio XII s'inoltra fino a Lucca, e Benedetto XIII fino alla Spezia 191

Pratiche di Ladislao per continuare lo scisma 192

1408 Aprile. Occupa Roma e le città vicine 193

Gregorio XII vuole rompere ogni trattato col suo competitore 194

I suoi cardinali lo abbandonano e si ritirano a Pisa 195

I cardinali di Benedetto XIII vengono a Pisa e si uniscono a quelli di Gregorio 196

I cardinali delle due ubbidienze convocano un concilio a Pisa 197

I due papi a tale notizia si allontanano l'uno dall'altro 198

Lodevole zelo dei due cleri, cattiva fede dei due papi 199

Baldassar Cossa acquista grandissima influenza sui cardinali riuniti 200

1409 I capi del clero e gli ambasciatori degli stati cristiani si adunano a Pisa 201

5 giugno. Nella sua quindicesima sessione il concilio condanna i due papi 202

7 luglio. Il cardinale di Candia, eletto sotto nome di Alessandro V 203

7 agosto. Viene imposto l'obbligo al papa di convocare un nuovo concilio per la riforma della Chiesa 204

Capitolo LXI. Ladislao, re di Napoli, occupa lo stato della Chiesa; minaccia Firenze; muore. — Sigismondo d'Ungheria, eletto imperatore, muove guerra ai Veneziani; sue conferenze con Giovanni XXIII in Lombardia. — Deplorabile stato di questa contrada. 1409-1414 205

Ambizione e perfidia di Ladislao; egli minaccia i Fiorentini 205

Morte d'Alberico da Barbiano e di Otto Bon Terzo 207

Braccio di Montone, scontento di Ladislao, passa al servigio dei Fiorentini 209

1409 I Fiorentini prendono al loro soldo Malatesta da Pesaro con due mila quattrocento lance 210

Ladislao occupa Cortona 211

Braccio di Montone costringe Ladislao a ritirarsi 212

Luglio. Luigi II d'Angiò coll'ajuto de' Fiorentini entra negli stati della Chiesa 213

Attacca Roma inutilmente 214

1410 2 gennajo. Dopo la sua ritirata i Fiorentini occupano Roma 215

3 maggio. Morte d'Alessandro V; gli succede Baldassar Cossa sotto il nome di Giovanni XXIII 216

1409 6 settembre. I Genovesi scuotono il giogo della Francia e si uniscono a Ladislao 217

1410 16 maggio. Rompono presso alla Meloria parte della flotta di Luigi d'Angiò 219

Seconda campagna infruttuosa di Luigi d'Angiò contro Ladislao 220

1411 7 gennajo. I Fiorentini fanno la pace con Ladislao che loro cede Cortona 222

11 aprile. Giovanni XXIII passa a Roma, e perde Bologna 222

Terza campagna di Luigi d'Angiò. Battaglia di Rocca secca, 19 maggio 223

Luigi d'Angiò non approfitta della vittoria 224

1412 15 giugno. Trattato di pace tra Ladislao e Giovanni XXIII 224

Ladislao minaccia Paolo Orsini 228

1415 31 maggio. Sorprende Roma; il papa fugge a Firenze 229

Alleanza dei Fiorentini coi loro vicini 230

Conquiste di Ladislao nello stato ecclesiastico 231

1414 Ladislao minaccia la Toscana 232

22 giugno. I Fiorentini trattano di nuovo con lui 232

Ladislao, sorpreso da sconosciuta malattia, frutto delle sue dissolutezze 236

6 agosto. Muore a Napoli 236

1405-1410 Scontento della Germania contro l'imperatore Roberto 237

1410 19 maggio. Morte di Roberto. Sigismondo e Jossa concorrono all'impero 238

1410 Carattere di Sigismondo, che resta solo imperatore 239

1411-1413 Guerra di Sigismondo contro la repubblica di Venezia 241

1412 9 agosto. Carlo Malatesti batte gli Ungari alla Motta 242

1413 18 aprile. Tregua di cinque anni fra l'imperatore ed i Veneziani 244

Sigismondo scende in Lombardia; deplorabile stato di questo paese 244

Ferocia di Giovan Maria, duca di Milano 245

Caccia gli uomini con cani da corsa 246

Facino Cane si rende subordinati i due figli di Giovanni Galeazzo 247

1412 16 maggio. Morte di Facino Cane e di Giovanni Maria Visconti 247

Filippo Maria sposa la vedova di Facino Cane, e si fa riconoscere duca di Milano 249

1413 Trattati di Sigismondo con Giovanni XXIII per tenere un concilio generale 250

Congresso dell'imperatore e del papa in Cremona 252

Concilio generale convocato a Costanza pel giorno 1.º novembre del 1414 253

Capitolo LXII. Concilio di Costanza; termina il grande scisma d'Occidente. — Giovanna II di Napoli e suo marito Giacomo, conte della Marca. — Grandezza e rivalità dei due condottieri Braccio di Montone e Sforza di Cotignola. 1414-1418 254

Disprezzo in cui erano caduti i capi della chiesa in conseguenza dello scisma 254

Traffico delle indulgenze 256

Gl'Italiani si fanno a difendere la potenza papale 257

Indifferenza degl'Italiani per le opinioni religiose 258

Il clero Italiano rimasto povero in confronto di quello d'Inghilterra e di Germania 260

Gl'Italiani attaccati alla loro religione dalla politica 261

1414 Giovanni XXIII va a suo malgrado a Costanza per aprire il concilio 262

Carattere di Giovanni XXIII 262

Si guadagna la protezione di Federico, duca d'Austria 264

5 novembre. Fa l'apertura del concilio di Costanza 265

Deliberazioni del concilio per nazioni e non per testa 266

1415 1 marzo. Giovanni XXIII promette di rinunciare al papato 267

21 marzo. Fugge travestito da Costanza 268

Il duca d'Austria, protettore del papa, attaccato dagli Svizzeri 268

17 maggio. Il papa ricondotto prigioniere a Radolfzell 270

29 maggio. Giovanni XXIII deposto, e chiuso a Gottleben 271

1415 4 luglio. Il concilio di Costanza viene riconosciuto da Gregorio XII, che abdica 271

Ostinazione di Benedetto XIII, che Sigismondo va a ricercare a Perpignano 272

La chiesa Spagnuola si distacca da Benedetto XIII, che viene deposto il 26 luglio 1417 274

Il concilio si propone la riforma della chiesa; ardire dei predicatori 275

1372-1385 Dottrina di Giovanni Wickleff. I Lollardi in Inghilterra 276

I libri di Wickleff portati in Boemia; progressi della riforma 277

Carattere di Giovanni Huss; va a Costanza ed è posto in prigione 279

1415 6 luglio, Giovanni Huss condannato a morte dal concilio, ed abbruciato 280

Carattere di Girolamo da Praga; sua ritrattazione e suo pentimento d'essersi ritrattato 280

1416 23 maggio. Suo discorso innanzi al concilio 281

Sua condanna e suo supplicio 283

1419-1460 Rivoluzione della Boemia; accanita guerra degli Ussiti 284

Il concilio prende a riformare la simonia della corte di Roma 285

1416-1417 Violente dispute ed anarchia nel concilio 286

1417 11 novembre. Ottone Colonna eletto papa sotto il nome di Martino V 287

1418 22 aprile. Il papa scioglie il concilio senza avere fatta alcuna riforma 288

Stato dell'Europa in tempo del concilio. Giovanna II di Napoli 288

1414 10 agosto. Lo stato della Chiesa scuote il giogo de' Napolitani 290

Pratiche di Pandolfello Alopo, favorito di Giovanna, con Francesco Sforza 291

Lo Sforza vuole formarsi un principato; suoi feudi, sua armata 292

1415 Agosto. Lo Sforza posto in prigione da Giacomo, conte della Marca, sposo della regina 294

10 agosto. Giovanna II sposa di Giacomo conte della Marca, che la maltratta 295

1416 Congiura di Giulio Cesare di Capoa contro il nuovo re 296

13 settembre. Ribellione de' Napolitani contro il re, in favore della regina 297

Ser Gianni Carracioli, nuovo favorito della regina 298

Braccio di Montone, capitano di ventura, rivale dello Sforza 299

1414-1416 Braccio governa Bologna pel papa Giovanni XXIII 299

1416 5 gennajo. Vende ai Bolognesi la loro libertà 300

1416 Attacca improvvisamente Perugia 302

Coraggiosa resistenza di Perugia 302

Carlo Malatesti s'avvicina per difenderla 303

7 luglio. Battaglia di san Egidio, ove il Malatesti viene disfatto da Braccio 305

14 luglio. Perugia si assoggetta a Braccio, e lo elegge suo signore 307

Giostre di Perugia, rendute più brillanti da Braccio 308

Luogotenenti di Braccio, Tartaglia e Niccolò Piccinino 310

1417 3 giugno. Braccio occupa Roma 311

È costretto a ritirarsi per l'avvicinamento dello Sforza 312

Capitolo LXIII. Papa Martino V va a stabilirsi in Firenze; di concerto collo Sforza vuole rialzare in Napoli il partito angioino, mentre che Giovanna II adotta Alfonso d'Arragona. — Conquiste del duca di Milano in Lombardia; guerra degli Svizzeri. 1418-1422 313

1382-1418 Prosperità di Firenze sotto il governo dell'oligarchia guelfa 313

Maso degli Albizzi capo del governo 315

Alla di lui morte accaduta nel 1417, gli succede Niccola d'Uzzano 316

Gli Alberti, Ricci e Medici allontanati dal governo 317

Giovanni di Bice dei Medici ammesso di nuovo nella magistratura 318

Politica pacifica dei Fiorentini 319

1418 Invitano Martino V a stabilirsi in Firenze 320

Giovanni XXIII fugge di prigione, e viene ad assoggettarsi personalmente a Martino 321

Negoziazioni di Martino V con Giovanna II 323

1419 28 ottobre. Giovanna viene coronata in nome del papa 324

Giacomo della Marca non potendo farsi un partito, si ritira in Francia, ove muore in un convento 325

Lo Sforza spedito a combattere contro Braccio nello stato della Chiesa 326

Viene disfatto tra Montefiascone e Viterbo 327

Martino V vuole riconciliarsi con Braccio 328

1420 febbrajo. Braccio a Firenze. Accoglimento che gli viene fatto dal popolo 329

Martino irritato dalle canzoni nelle quali viene posto in confronto di Braccio 330

Braccio per prezzo della sua riconciliazione assoggetta Bologna al papa 331

Martino fa passare lo Sforza dal partito della regina a quello di Luigi III d'Angiò 333

Intraprese di Luigi III d'Angiò sul regno di Napoli 333

Negoziati di Giovanna con Alfonso re d'Arragona 336

1409 Successione della casa d'Arragona alla corona di Sicilia 337

Rivalità tra le case d'Arragona e d'Angiò 338

1420 6 settembre. I luogotenenti di Alfonso prendono possesso dei castelli di Napoli 339

1421 Braccio chiamato nel regno di Napoli da Giovanna e da Alfonso 339

Intrighi alla corte di Napoli contro Alfonso 342

1422 Pace fatta colla mediazione del papa; Luigi d'Angiò si ritira 343

1418-1422 Rivoluzioni di Lombardia; carattere di Filippo Maria 344

1418 Processo e giudizio di Beatrice Tenda duchessa di Milano 345

Principj di Francesco Carmagnola; suo favore presso il duca 348

Conquista della Lombardia fino all'Adda; sorpresa di Lodi 348

Lega formata contro il duca da Filippo Araceli e disciolta dal Carmagnola 349

Piacenza resta deserta un anno 350

Ruina degli Araceli, dei Beccaria e di Lotterio Rusca 351

Anarchia di Genova attaccata ancor essa dal Carmagnola 353

Governo e patriottismo di Tomaso da Campofregoso 353

Vantaggi del Carmagnola contro i Genovesi 354

I Fiorentini ricusano di soccorrere Genova per forzare questa repubblica a vender loro Livorno 355

1419 Gennajo. Trattato di pace tra i Fiorentini ed il duca di Milano 356

1420 Alfonso d'Arragona attacca la Corsica, ed è respinto da Bonifazio 357

1421 Genova si dà al duca di Milano 358

1418-1420 I Veneziani acquistano il patriarcato d'Aquilea 360

1421 Nuovi acquisti del duca di Milano, San Donnino, Parma, Bergamo 361

Gabrino Fondolo cede Cremona al duca di Milano 362

Pandolfo Malatesta fa lo stesso di Brescia, e Giorgio Benzone di Crema 364

1422 Il duca toglie agli Svizzeri Bellinzona, Domodossola e la valle Levantina 365

Un'armata svizzera passa il san Gottardo per attaccare il duca 366

30 giugno. Battaglia d'Arbedo fra tre mila Svizzeri e ventiquattro mila Italiani 367

Ritirata degli Svizzeri; la valle Levantina conquistata dal Carmagnola 368

Capitolo LXIV. La regina Giovanna II, irritata contro Alfonso d'Arragona, adotta Luigi d'Angiò. — Morte di Sforza e di Braccio; disastrosa guerra dei Fiorentini col duca di Milano; alleanza dei Veneziani; presa di Brescia. 1422-1426 371

1422 Rivalità di Sforza e di Braccio di Montone 371

Loro riconciliazione chiesta dallo Sforza 372

Lo Sforza per mezzo di Braccio riconciliato colla regina 373

Alfonso d'Arragona geloso del Caraccioli 374

Braccio nominato da Alfonso governatore degli Abbruzzi 376

Assedia l'Aquila che gli chiude le porte 376

1423 22 maggio. Alfonso arresta Caraccioli, e vuole anche la regina 377

Lo Sforza chiamato in soccorso della regina; sua vittoria alle Formelle 379

Lo Sforza e la regina si ritirano ad Aversa 380

La regina revoca l'adozione di Alfonso, e gli sostituisce Luigi III d'Angiò 380

Alfonso chiama Braccio in suo soccorso, ch'è ritenuto dall'assedio dell'Aquila 381

Alfonso torna in Arragona, lasciando suo fratello a Napoli 382

Lo Sforza marcia verso l'Aquila per costringere Braccio a levare l'assedio 383

1424 4 gennajo. Lo Sforza si annega, passando il fiume Pescara 384

Francesco Sforza contiene la sua armata, ed assicurasi della sua eredità 385

1424 Guido Torello spedito dal duca di Milano in soccorso della regina Giovanna 387

La regina Giovanna riprende Napoli all'infante di Arragona 388

Effetto che produce sopra Braccio la notizia della morte dello Sforza 389

Giovanna manda Giacomo di Caldora in soccorso degli abitanti dell'Aquila 391

Braccio permette a Caldora di passare la montagna di san Lorenzo 392

2 giugno. Battaglia dell'Aquila tra Braccio e Caldora 393

Braccio disfatto per errore di Niccolò Piccinino 394

Braccio muore in conseguenza delle sue ferite 395

Il principato formato da Braccio viene distrutto 396

Intrighi del duca di Milano in Romagna, che riaccendono la guerra 397

1423 6 settembre. Pandolfo Malatesta, generale dei Fiorentini battuto a Ponte a Ronco 398

1424 1.º febbrajo, Imola sorpresa da Angelo della Pergola 399

Carlo Malatesta disfatto e prigioniero a Zagonara, il 27 luglio 400

1425 1.º febbrajo. Terza rotta dei Fiorentini in val di Lamone 401

Aprile. Quarta rotta dei Fiorentini a Rapallo 402

1425 9 ottobre. Quinta rotta dei Fiorentini ad Anghieri 403

17 ottobre. Sesta rotta dei Fiorentini alla Fagiuola 404

I Fiorentini affrettano i Veneziani in loro soccorso 404

Francesco Carmagnola incorre nella disgrazia del duca di Milano 405

23 febbrajo. Va a Venezia ed eccita quella repubblica alla guerra 407

Apostrofe di Lorenzo Ridolfi al senato di Venezia 408

14 dicembre. Suo discorso in senato intorno alla guerra 409

Discorso del Carmagnola per eccitare i Veneziani alla guerra 411

1426 27 gennajo. I Veneziani ed i loro confederati dichiarano la guerra al duca di Milano 412

Pratiche del Carmagnola per sorprendere Brescia 413

17 marzo. Viene introdotto nel quartiere de' Guelfi 415

Assedia successivamente gli altri quartieri e le fortezze 415

20 novembre. Brescia interamente sottomessa dal Carmagnola 417

30 dicembre. Pace di Ferrara tra il duca di Milano e le repubbliche 418

Capitolo LXV. Seconda guerra dei Fiorentini col duca di Milano. — Rivoluzioni nello stato della Chiesa. — Tentativi dei Fiorentini sopra Lucca; questa città ricupera la libertà; terza guerra col duca di Milano. — Morte del Carmagnola. 1427-1432 420

Attaccamento dei Milanesi alla casa Visconti 420

1426 Loro riesce dispiacevole la notizia della pace di Ferrara 421

La nobiltà di Milano offre al duca di mantenere un'armata 422

1427 Il duca rinnova le ostilità 423

21 maggio. Disfatta d'una flotta milanese sul Po 425

Il Carmagnola sorpreso a Gottolengo dal Piccinino 426

Numerose armate adunate presso Cremona 427

12 luglio. Battaglia di Casal Secco, di cui resta la vittoria indecisa 428

Il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato respinti da Ladislao Guinigi 429

Insubordinazione nell'armata del duca di Milano 430

Ne dà il comando a Carlo Malatesta di Pesaro 431

11 ottobre. Battaglia di Macalò; disfatta dell'armata milanese 433

Il Carmagnola dà la libertà a tutti i prigionieri 435

Nuove negoziazioni; pace separata del duca di Savoja. 2 dicembre 437

1428 Ambizione de' Veneziani, che vogliono continuare la guerra 438

18 aprile. Seconda pace di Ferrara tra le repubbliche ed il duca 439

1428 Malcontento negli stati della Chiesa contro Martino V 441

1.º agosto. Congiura a Bologna che ricupera la libertà 442

1428-1431 La guerra tra la Chiesa e Bologna trattata mollemente 444

Uccisione degli amici dei Bentivoglio a Bologna 445

1429 14 settembre. Morte di Carlo Malatesta; suo carattere 446

Indebolimento della sua casa; divisione de' suoi stati fra i nipoti 447

Turbolenze in Toscana prodotte dallo stabilimento del Catastro 448

Sedizione di Volterra 449

22 novembre. Niccolò Fortebraccio attacca lo stato di Lucca 450

14 dicembre. I Fiorentini dichiarano la guerra a Paolo Guinigi, signore di Lucca 452

Vergognosa condotta d'Astorre Gianni a Serravezza 453

1430 Filippo Brunelleschi intraprende invano d'inondare Lucca 455

Valorosa difesa di Paolo Guinigi e de' suoi figli 456

Zelo d'Antonio Petrucci, sienese, per la difesa di Lucca 457

Luglio. Francesco Sforza, mandato dal duca di Milano, allontana i Fiorentini 458

Paolo Guinigi reso sospetto di avere voluto vendere Lucca ai Fiorentini 459

1430 Settembre. Paolo Guinigi arrestato e tradotto a Milano 461

I Lucchesi dopo ricuperata la libertà non possono ottenere la pace dai Fiorentini 462

Niccolò Piccinino mandato dal duca in soccorso di Lucca 463

2 dicembre. I Fiorentini disfatti dal Piccinino in riva al Serchio 464

1431 10 febbrajo. Morte di Martino V; gli succede Eugenio IV 465

I Fiorentini persuadono i Veneziani a ricominciare la guerra 466

17 maggio. Il Carmagnola sorpreso e rotto presso Soncino 468

Il Piccinino minaccia Pisa e guasta la Toscana 468

I Veneziani fanno rimontare il Po ad una grossa flotta 470

22 maggio. Primo attacco tra le flotte veneziana e milanese 471

23 maggio. La flotta veneziana battuta e quasi distrutta dai Milanesi 472

27 agosto. Vittoria d'una flotta veneziana sopra una flotta genovese a Rapallo 474

1432 Il Carmagnola chiamato a Venezia per dare consigli 476

Viene arrestato in mezzo al senato e posto alla tortura 476

5 maggio. Il consiglio dei dieci lo fa decapitare, come un traditore 477

Fine della Tavola.