DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari, dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO IX.
ITALIA 1818.
INDICE
STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE
CAPITOLO LXVI.
Stato dell'Italia nell'epoca del viaggio e dell'ingresso dell'imperatore Sigismondo in Roma; Eugenio IV in guerra coi Colonna, cogli Ussiti, col concilio di Basilea, e coi suoi sudditi. — Rivoluzioni di Firenze; esilio e richiamo di Cosimo de' Medici.
1431 = 1434.
L'aspetto dell'Italia erasi totalmente cambiato dopo la rivoluzione che aveva avuto principio ai tempi degli Ottoni di Sassonia; si erano vedute allora le città acquistare il diritto e la forza per governarsi da sè medesime; avevano scosso il giogo de' monarchi stranieri, che niuna cura omai di loro si prendevano; avevano compresso l'orgoglio de' superbi feudatarj, e forzati i nobili ad ubbidire alle leggi. Ma quattro secoli in Lombardia, e tre secoli in Toscana, bastarono ai popoli per iscorrere l'intero cerchio delle istituzioni, che possono convenire a stati ridotti a civiltà, e per soggiacere a tutte le rivoluzioni che possono condurre d'uno in altro sistema politico. Gl'Italiani, da prima ignoranti, poveri, grossolani, erano giunti ad ottenere tutti i vantaggi del commercio, della ricchezza e del gusto nelle lettere e nelle arti; si erano mostrati fieri, indocili, impazienti di giogo ed insofferenti di ogni autorità; e non pertanto avevano provati gli estremi della tirannide e della libertà. Sebbene non privi di coraggio nè di energia personale, avevano lungo tempo trascurate le armi, si erano poi consacrati all'arte della guerra, l'avevano abbandonata dopo alcun tempo, e di nuovo imparata. Lo spirito d'indipendenza, dopo avere dissoggettate tutte le città da straniero potere, aveva dato luogo ad uno spirito d'usurpazione e di conquista: da prima ogni città risguardava come vergognosa cosa l'ubbidire ad un'altra città, e non pertanto poche potenti città avevano assoggettate alle loro leggi tutte le vicine. Nulla più rimaneva delle antiche istituzioni, nè le moderne sembravano fatte per durare lungo tempo. Di questa rapida successione di creazioni e di distruzioni, che poteva osservarsi in tutti i governi de' secoli di mezzo, ma che è più sensibile nelle repubbliche, ne fu dato specialmente carico alle repubbliche, come se le loro leggi non potessero per molte generazioni guarentire agli uomini una costante prosperità.
Basta la più leggera osservazione per rispondere a questo rimprovero. Niente dura sulla terra, e la storia dell'universo altro non ci presenta che una rabbiosa guerra del tempo contro le opere degli uomini. Un individuo sopravvive a molti sistemi di leggi, una famiglia può vedere la caduta di molti governi; ma la vita di quest'individuo, la conservazione di questa famiglia non provano la durata delle istituzioni, cui furono associate. Le cronache non conservano che i nomi dei re, e si cancellano le rivoluzioni dei loro governi; la creazione o la caduta d'un ministro, il rapido innalzamento di uomini nuovi al favore del monarca, o la caduta di grandi personaggi, risguardansi a stento come avvenimenti storici negli annali d'una dinastia reale; eppure il cangiamento del ministero in una monarchia esattamente corrisponde alla rivoluzione di una repubblica. In tutte le forme di governo vedonsi variare i depositarj del potere, lo spirito che le anima, le leggi che le reggono, come si vedono perire e rinnovarsi tutte le opere degli uomini. Tutt'al più i soli nomi si conservano talvolta, mentre le cose indicate da questi nomi non sono più le medesime. Parve che l'impero romano si sostenesse mille cinquecento anni, da Augusto fino all'ultimo dei Costantini; ma la costituzione di quest'impero, lo stato delle nazioni, le massime del governo, variarono in ogni regno, in ogni generazione. Tra il secolo di Tiberio, quello di Onorio e quello di Foca, altra rassomiglianza non si ravvisa, che nella miseria, nelle pene, nell'avvilimento. Non doveva ragionevolmente sperarsi che la libertà e le virtù che prosperarono in Milano nel dodicesimo secolo avessero più lunga vita dell'eleganza e del gusto del secolo d'Augusto, della filosofia di quello di Marc'Aurelio, della religione di quello di Diocleziano. Le moderne monarchie, per antica che ne sia la fondazione, non rassomigliano perciò meglio a sè medesime. La costituzione della Francia non si mutò meno frequentemente di quella di Firenze. Ora i Franchi erano vincitori accampati in mezzo ai popoli debellati, ora cittadini liberamente adunati nel campo di Marte sotto la presidenza d'un re: la Francia feudale era una repubblica di sovrani, che appena si degnavano di riconoscere un capo: la Francia rappresentata dagli stati, la Francia rappresentata dai parlamenti, la Francia governata dai grandi, dai ministri, dalle amanti, presentava molte volte in ogni regno un diverso aspetto. Tutte le umane istituzioni sono egualmente caduche; non v'ha che il despotismo, che nelle sue continue rivoluzioni resti sempre lo stesso; non è che dove nulla esiste per proteggere i popoli, che nulla può essere rovesciato, come non può essere atterrata una colonna, che giace di già sul suolo.
Però la maggior parte delle rivoluzioni e de' cangiamenti accaduti ne' governi, lasciano poche orme nella storia; ora perchè superficiali scrittori, trovando negli antichi fasti de' nomi ancora usati, suppongono che i costumi ed i vicendevoli diritti, da loro indicati, fossero altravolta ciò che sono ai tempi loro; ora perchè molte rivoluzioni non mutano l'ordine, o piuttosto il disordine sociale, come in Turchia e negli stati dispotici, perchè nulla aggiungono e nulla tolgono all'anarchia; ora infine perchè il paese, in cui accadono, non avendo acquistata rinomanza nè dalle lettere nè dalle arti, non richiama in verun modo l'attenzione, ed è privo d'ogni lustro. L'Italia trovasi in una situazione affatto diversa; i tre o quattro secoli, di cui abbiamo corsa la storia, fondarono la gloria e la potenza dello spirito umano nell'Europa intera. Le repubbliche italiane scomparvero, ma i risultamenti de' loro lavori, i loro generosi sforzi non hanno potuto scomparire insieme. Per mezzo loro la libertà rese per la terza volta all'Europa ciò che la libertà aveva prima dato ai Greci, poscia ai Romani. In seno a queste repubbliche si videro rinascere le lettere, le arti, la filosofia, frutti condotti a maturità da quell'effervescenza degli animi. Tante lotte, tante pugne, lo sviluppo di tanti grandi caratteri e di generose passioni, apparecchiavano un risultamento, non preveduto nemmeno da coloro che dovevano produrlo; essi conducevano quel sedicesimo secolo, che brillò d'immortale gloria; quel secolo in cui i più maravigliosi monumenti vennero innalzati dallo spirito umano allora che la nazione italiana terminava il suo corso, e che, mentre acquistava il suo maggior lustro, perdeva tutte le sue virtù, la sua energia, e tutte le speranze dell'avvenire.
Abbiamo nel precedente volume condotta la storia d'Italia fino alla morte di Francesco Carmagnola, decapitato in Venezia il 5 maggio del 1432. Nell'istante in cui un grand'uomo viene svelto al teatro del mondo, può essere conveniente di considerare lo stato della contrada in cui aveva fin allora esercitata la sua attività, le rispettive forze, e gl'interessi delle potenze, i di cui destini erano stati più d'una volta variati dai suoi militari talenti.
L'Italia era nel 1430 divisa in quattro regioni; la Lombardia, la Toscana, lo stato della Chiesa, e quello di Napoli. Ognuna aveva diverso carattere e governi diversi, fondati sopra differenti principj. La Lombardia a settentrione era sottomessa al despotismo militare; i Visconti, duchi di Milano, ne occupavano la maggior parte; pure i Veneziani avevano loro tolte alcune province, che trattavano come paese di conquista, e non riguardavano come parti integranti della repubblica. Il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato a ponente, i marchesi d'Este e di Gonzaga a levante si dividevano tra di loro gli altri paesi. Il duca di Milano, più ricco e più potente di tutti, teneva sempre in piedi numerose armate, che servivano a spaventare i suoi nemici, e tentare contro di loro nuove conquiste, a mantenere i suoi popoli nel timore e nell'ubbidienza, ed a far loro pagare enormi contribuzioni. I piccoli principi che lo circondavano, e che lottavano con lui, erano costretti di adottare la sua politica, e la fertile Lombardia era il solo paese abbastanza ricco per sopportare così oneroso governo.
Nel centro dell'Italia la Toscana era sempre animata dall'antico suo spirito di libertà; prosperava la sua agricoltura; immense erano le sue ricchezze, ed ancora più grandi dell'opulenza erano i progressi dello spirito umano. In verun paese dell'Europa la mente aveva ricevuto maggiore sviluppamento; la politica era stata un'utile scuola per tutta la nazione; uno spirito profondo ad un tempo e libero erasi successivamente applicato a tutti gli studj umani. I soli Toscani vedevano e giudicavano la storia de' loro tempi: gli altri Italiani erano vittime delle rivoluzioni e delle calamità nazionali, i Toscani ne erano spettatori; e la calma del loro spirito come la forza del loro carattere, dava loro spesse volte i mezzi di modificarle, o di allontanarle. Firenze, superiore d'assai in talenti, siccome in potenza, a Siena ed a Lucca, a Genova ed a Bologna, innalzavasi in mezzo a loro come la moderatrice dell'Italia. I Fiorentini mantenevano l'equilibrio di questa contrada, conservavano ad ogni popolo i suoi diritti, ad ogni stato i suoi mezzi di resistenza.
Al levante ed al mezzogiorno della Toscana lo stato della chiesa trovavasi in preda all'anarchia: le passioni generose, che formavano la grandezza de' Toscani, trovavansi in lotta con un'ambizione ed una ferocia eguali a quelle che avevano resa schiava la Lombardia. Gli stati erano meno ricchi, meno popolati, meno potenti; ma gli odj non erano meno accaniti, o meno violenti le rivoluzioni. I Manfredi, i Malatesti, i Montefeltro, i Varani, erano in miniatura ritratti dei Visconti, dei Gonzaghi, dei Marchesi d'Este e di Monferrato. Le fazioni di Perugia, di Viterbo e d'Orvieto eguagliavano in accanimento quelle di Firenze e di Genova; ma dal loro urto ne scintillava minor luce, e più breve essendo il trionfo di ognuno di loro, ai cittadini mancava il tempo di rimontare dall'amore del loro partito a quello della loro patria.
Per ultimo il regno di Napoli aveva uno spirito affatto diverso: era una monarchia ereditaria da lungo tempo costituita; i diritti del popolo vi erano stati interamente subordinati a quelli di una famiglia; ma questa stirpe reale, abbandonata alla mollezza, al vizio, all'avarizia, non poteva ispirare nè rispetto, nè amore. E la nazione non era meno effeminata de' suoi padroni, onde tutto il paese cadeva in quello stato di dissoluzione sociale, che fa egualmente scomparire le virtù pubbliche e le virtù private, le grandi speranze, ed ogni pensiero dell'avvenire.
Tale era la situazione dell'Italia quando l'imperatore Sigismondo risolse di visitarla. Più non era quel tempo in cui gl'imperatori, seguiti da possente esercito, valicavano le Alpi per dettare leggi nella campagna di Roncaglia, richiamare all'ubbidienza loro i feudatarj, riformare la costituzione delle città imperiali, e ridurre sotto il diretto dominio dell'impero que' feudi che se n'erano emancipati. L'Italia, sempre risguardata dai pubblicisti tedeschi quale dominio dei loro imperatori, omai non faceva che di nome parte dell'impero romano. I diversi membri, che in altri tempi formavano quest'impero, erano declinati in istati affatto indipendenti, e facevano in proprio nome, ed a seconda de' particolari loro interessi, la pace e la guerra. Al nord di questo impero l'incivilimento era stato ritardato dal genio bellicoso de' popoli germanici, mentre i progressi delle ricchezze e della popolazione erano stati al mezzodì così rapidi, che molte città d'Italia non erano nè meno forti, ne meno ragguardevoli de' più vasti ducati della Germania. Frattanto il viaggio dell'imperatore, diretto al solo fine di rendere la pace alla Chiesa, parve agl'Italiani un preludio di grandi avvenimenti politici. Era fresca la memoria delle due spedizioni di Carlo IV verso la metà del 14.º secolo, di una di Roberto, e di un'altra dello stesso Sigismondo. Malgrado l'abbassamento della dignità imperiale, cadauno di questi viaggi aveva prodotte durevoli rivoluzioni; e perciò la nuova spedizione di Sigismondo chiamò a sè lo sguardo di tutti i popoli, risvegliò l'attenzione di tutti i sovrani, e fu preparata, accompagnata e seguita da maneggi e da negoziazioni affatto sproporzionate all'avvenimento. Sigismondo, occupato trovandosi in una disastrosa guerra cogli Ussiti boemi, stancheggiato dalla lunga contesa tra il concilio di Basilea ed il papa Eugenio IV di cui erasi da principio lusingato d'essere l'arbitro, offeso dalla lentezza delle diete germaniche, che o non si adunavano dietro i suoi inviti, o si scioglievano quand'egli giungeva a Ratisbona o a Norimberga per farne l'apertura, dopo avere nel 1429 minacciato di abdicare l'impero[1], parve che volesse scaricarsi affatto del peso degli affari facendo un viaggio in Italia. «Sigismondo (scrive Leonardo Aretino, che l'aveva conosciuto in Lombardia ed a Costanza) era un uomo veramente distinto. Aveva gentile aspetto, era grande della persona, nobile e vigoroso, magnanimo in pace ed in guerra, e tanto grande la sua liberalità, che gli si ascriveva come suo solo difetto, poichè la sua generosità, che prodigalità lo privavano sempre dei mezzi di continuare le sue negoziazioni o le guerre[2].» Infatti tale smisurata liberalità era in questo monarca un difetto capitale, perchè non solo impediva l'esecuzione de' suoi progetti e delle sue imprese, ma lo forzava spesse volte a vendere suo malgrado la propria alleanza, riducendolo ad una vergognosa versatilità, che gli faceva perdere ogni politica considerazione.
Sigismondo, che frequentemente era stato offeso dallo spirito d'indipendenza degli elettori e de' principi tedeschi, sentivasi invece solleticato dalla deferenza e dalla sommissione di Filippo Maria Visconti. Questo duca di Milano, invitando l'imperatore in Italia, aveva promesso d'impiegare i suoi tesori e le sue armate per far riconoscere la di lui autorità in tutta la penisola[3]. Pareva a Sigismondo, che, dopo essere stato capo d'una burrascosa repubblica, fosse chiamato a risalire sul primo trono della Cristianità. Giunse il 22 novembre a Milano, e vi fu magnificamente accolto[4]. Ma il sospettoso Visconti non seppe in tale occasione subordinare il proprio carattere alla politica. Sempre diffidente di se medesimo e degli altri, non seppe risolversi a comparire innanzi all'imperatore. Si chiuse nel suo castello d'Abbiate Grasso con tutte le apparenze d'un ingiurioso timore; e non solo non venne a ricevere il suo ospite nella capitale, ma non volle pure accoglierlo nei suo castello, nè fu presente alla cerimonia eseguitasi nella basilica di sant'Ambrogio, il 25 novembre del 1431, quando Sigismondo ricevette dalle mani dell'arcivescovo di Milano la corona di ferro. Lasciò adunque partire l'imperatore senza averlo veduto, e con questa vile bassezza, prodotta dalla sua vanità o dalla sua debolezza, fece suo implacabile nemico un monarca, suo naturale alleato, ch'egli stesso aveva invitato ne' suoi stati[5].
Sigismondo aveva seco condotti circa due mila cavalli ungari, boemi o tedeschi[6], piuttosto come un corteggio di gentiluomini addetti alla di lui persona, che volevano partecipare agli onori che gli si rendevano in Italia, che come un'armata. Egli non temette di avanzarsi nel cuore dell'Italia con tanto deboli forze, sebbene non ignorasse quanto doveva diffidarsi del duca di Milano, che dicevasi suo alleato, e quanto tale pretesa, alleanza spiacesse a coloro che trovavansi in guerra contro il Visconti. Da Milano Sigismondo recossi a Parma, ove fu ritenuto cinque mesi dalle negoziazioni tra Eugenio IV ed il concilio. Pochi giorni dopo il supplicio del Carmagnola, abbandonò Parma, ed entrò in Lucca l'ultimo di maggio del 1432[7]. In settembre del 1430 aveva questa città scosso il giogo di Paolo Guinigi e ricuperata la libertà, ed era in allora attaccata dalle armi fiorentine e difesa dal duca di Milano. L'arrivo dell'imperatore aveva in sulle prime alquanto costernati i Guelfi toscani; ma Michelotto Attendolo, che comandava l'armata fiorentina, la ricondusse sotto Lucca, per darle un'evidente prova della debolezza del corteggio dell'imperatore. In una scaramuccia rispinse pure i soldati tedeschi che si erano uniti ai Lucchesi[8], ed avrebbe facilmente potuto assediare Sigismondo in Lucca, ed impedirgli d'uscirne, se alcuni magistrati fiorentini non avessero amato meglio che il monarca continuasse il suo viaggio, portando negli stati del papa l'inquietudine che lo accompagnava[9]. Mentre l'armata fiorentina aveva piegato verso Arezzo, Sigismondo abbandonò precipitosamente Lucca, e recossi a Siena il 10 luglio del 1432[10].
La guerra, che di que' tempi desolava l'Italia, impediva che l'imperatore raccogliesse i vantaggi che aveva sperati dalla sua spedizione, ed incagliava tutte le sue negoziazioni. L'antico odio tra il duca di Milano, e le due repubbliche di Firenze e di Venezia, aveva più volte rinnovate le ostilità, in onta de' solenni trattati, che non avevano sospesa che per pochi mesi l'effusione del sangue. Non pertanto le contrarie parti, indebolite dalle grandi battaglie che si erano date nel 1431, si facevano una debolissima guerra. I Veneziani avevano posto alla testa delle loro armate Giovan Francesco Gonzaga, cui Sigismondo aveva venduto per dodici mila fiorini il titolo di marchese di Mantova[11]. Nella state del 1432 questo capitano si ristrinse a soggiogare i castelli di Bardolano, Romanergo, Soncino e la Valcamonica; mentre Giorgio Cornare, che si era innoltrato nella Valtellina con un corpo dell'armata veneziana, vi fu attaccato da Jacopo Piccinino, e totalmente disfatto[12].
Tale spossamento degli stati guerreggianti faceva a Sigismondo sperare di poterli ridurre a trattare di pace; ma per mancanza di truppe e di danaro veniva ritenuto in Siena come prigioniero, togliendogli tutto il credito che per il suo solo titolo di capo della Cristianità aveva sperato di avere; e senti con indignazione, che nell'impero medesimo era trattato come straniero. Incolpava il duca di Milano del presente infelice suo stato, e lo storico Bonincontri di Samminiato lo udì replicare più volte: «verrà un giorno in cui potrò vendicarmi di questo perfido tiranno, che mi ha chiuso in Siena come una belva in gabbia[13].»
Frattanto passarono otto mesi senza che Sigismondo potesse proseguire il suo viaggio e condurre a termine un solo de' suoi trattati. Le potenze italiane, malgrado l'estrema sua debolezza, diffidavano di lui, e non sapevano risolversi a prenderlo per loro arbitro, riportandosi invece alla mediazione del marchese Niccolò d'Este e di suo suocero il marchese Luigi di Saluzzo. Una ferita di Niccolò Piccinino, giudicata mortale, moderò le pretese del duca di Milano, che credevasi privato per sempre della assistenza del suo valoroso generale; onde gli arbitri persuasero finalmente le contrarie parti a soscrivere in Ferrara, il 16 aprile del 1433, un trattato di pace. Tutto quanto erasi acquistato dalle due parti sia dai Veneziani e dai Fiorentini, come dal duca di Milano, dai Sienesi e dai Lucchesi, venne restituito; ed il Visconti rinunciò alle contratte alleanze in Romagna ed in Toscana, per non aver più occasione in avvenire d'immischiarsi nella politica di quelle due province[14].
Erasi appena pubblicata tale pace, che Sigismondo, credendosi pure d'accordo con Eugenio IV, si pose in cammino alla volta di Roma, ove fece il suo ingresso il 21 maggio del 1433, ed il giorno 30 dello stesso mese ricevette la corona imperiale nella basilica del Vaticano[15]. Ma la pace della Chiesa era assai più difficile a farsi che non quella de' principi secolari. Tutto era in essa lite e disordine; e Sigismondo, nel suo lungo soggiorno a Lucca ed a Siena, non aveva potuto conciliare tante opposte pretese. La Chiesa Cattolica tutta intera trovavasi in guerra cogli Ussiti boemi, la sede di Roma col concilio di Basilea, il nuovo papa Eugenio IV con tutti i parenti del suo predecessore della casa Colonna, ed il governo pontificio era poi in guerra con tutti i sudditi della Chiesa.
Era morto papa Martino V la notte del 19 al 20 febbrajo del 1431. Durante il suo regno aveva ridotte sotto l'autorità della santa sede tutte le città, ad eccezione di Bologna, e tutte le province che prima dello scisma erano subordinate ai suoi predecessori. Irremovibile ne' suoi progetti, e non pertanto pacifico, aveva governati i suoi stati da buon sovrano. Era stato rimproverato solamente d'essere avaro, e ciò con grandissima ragione, perchè i tesori da lui raccolti, non erano stati disposti a beneficio dei popoli che avevano pagate le imposte, nè del governo che le aveva ricevute[16]. Alla di lui morte i suoi tesori rimasero sotto la custodia di tre suoi nipoti della casa Colonna, lo che fu cagione delle prime guerre, che turbarono per tre anni sotto il nuovo regno lo stato ecclesiastico.
Il conclave, adunato per nominare il successore di Martino V, scelse il 3 marzo dei 1431 Gabriele Condolmieri, cardinale vescovo di Siena. Questo prelato, che non godeva di molta riputazione, riunì appunto a suo favore tutti i suffragi, perchè niuno lo credeva degno di così grande dignità. I cardinali non essendo ancora d'accordo con coloro che avevano maggiore influenza nel conclave cercavano di perdere i loro voti negli scrutinj che dovevano tenere ogni giorno, vale a dire a dividerli sopra soggetti insignificanti. Condolmieri, il più insignificante di tutti, si trovò designato per questa stessa ragione contro l'altrui aspettazione e la propria, da due terzi dei suffragi. Era Veneziano e nipote di quel Gregorio XII, che dal concilio di Costanza era stato obbligato ad abdicare. Aveva passata gran parte della sua vita nella povertà religiosa, e si era mostrato attaccato a tutto il rigore della disciplina claustrale. Pieno di confidenza nel proprio ingegno, l'inaspettato suo innalzamento accrebbe la di lui presunzione. Non degnavasi di udire gli altrui consiglj, e perchè niuno potesse dargliene, ogni cosa faceva con inconsiderata prestezza. Dopo aver presa a chiusi occhi una dannosa risoluzione, credeva dar prove di fermezza di carattere col non lasciarsi smuovere: e per tal modo offendeva l'amor proprio ed i diritti de' suoi cortigiani e di coloro che trattavano con lui; intanto risguardava ogni opposizione come un delitto, che veniva punito con estremo rigore. Il suo innalzamento non fu cagione di gioja ai Romani, ed in breve il suo contegno giustificò il pubblico timore. Egli si fece chiamare Eugenio IV[17].
Appena il nuovo papa si vide in possesso di castel sant'Angelo che domandò i tesori accumulati da Martino V, ed accusò i Colonna suoi nipoti; cioè il cardinale Prospero, Antonio, principe di Salerno, ed Edovardo, conte di Celano, di averli sottratti alla camera apostolica. Mentre con tale domanda s'inimicava tutta la famiglia dell'ultimo papa, la ribellione di tutte le città del Patrimonio di san Pietro lo avviluppava in un'altra guerra. Perugia aveva scacciato il legato che la governava, riclamando gli antichi privilegi, e dichiarando di non volere d'ora innanzi pagare a san Pietro che il leggiere tributo stabilito ne' tempi in cui questa città era libera. A Viterbo il partito dell'aristocrazia, diretto da Giovanni de' Gatti, era rimasto vittorioso della contraria fazione, ed aveva scacciati i vinti dalla patria. I tesori di Martino V sembravano necessarj al di lui successore per assoldare truppe, onde ridurre all'ubbidienza i ribelli; poichè Città di Castello, Spoleti, Narni, Todi, avevano prese le armi, e tutto lo stato della Chiesa trovavasi in aperta rivoluzione[18]. Ma il principe di Salerno, che non voleva privarsi delle ricchezze dello zio, non vedeva nell'inchiesta del papa di restituirle, che una chiara riprova della di lui parzialità per gli Orsini suoi nemici; onde piuttosto che porsi in loro balia, pensò di erogare i suoi tesori nella propria difesa; e levò soldati, e guastò i feudi degli Orsini, protestandosi sempre rispettoso ed ubbidiente verso il papa. Eugenio IV, accecato dalla collera, sagrificò alla propria vendetta tutti gli amici dei Colonna rimasti in Roma; fece porre alla tortura Ottone, tesoriere dei suo predecessore, e tormentare questo infelice vecchio fino all'agonìa. Più di duecento cittadini romani perirono sul patibolo per supposti delitti; la casa di Martino V venne distrutta, atterrati in tutti i luoghi pubblici gli stemmi della famiglia, i monumenti del suo pontificato, e nello stesso tempo spinta con accanimento la guerra contro il principe di Salerno. Eugenio, assecondato dalle repubbliche di Venezia e di Firenze, lo ridusse finalmente ad accettare il 22 settembre del 1431 le condizioni di pace che gli piacque di stabilire. Vennero restituiti ad Eugenio settantacinque mila fiorini d'oro, ultimo avanzo del tesoro di Martino V, ed i Colonna ritirarono le guarnigioni dalle città del patrimonio ch'essi avevano occupate[19].
Questi prosperi avvenimenti persuasero vie meglio il papa de' proprj talenti, e più ostinato lo resero nel continuare le altre liti che aveva prese a sostenere. Ma gli Ussiti di Boemia, ed i padri di Basilea erano assai più formidabili dei Colonna, e più pericoloso il cimentarsi contro di loro. La guerra di Boemia era una conseguenza della morte di Giovanni Us e di Girolamo da Praga. I Boemi, esacerbati dalla slealtà che aveva fatti perire i loro riformatori con dispregio de' salvacondotti loro accordati, avidamente aspiravano a vendicarli. Non avevano voluto riconoscere Sigismondo come successore di suo fratello Wencislao morto in Praga il 16 agosto del 1419[20], ed avevano respinte le sue armate unite a quelle dei duchi d'Austria, di Baviera, di Sassonia e del marchese di Brandeburgo[21]. Alcune legioni di contadini e di borghesi crociati contro di loro eransi più volte avanzate fino ai confini della Boemia, ed altrettante volte erano state costrette a vergognosa fuga, o distrutte con ispaventevole carnificina da Ziska, dai due Procopj e dagli altri generali degli Ussiti[22]. Questi formidabili guerrieri avevano a vicenda invase le province che gli avevano provocati, e vendicati i ricevuti oltraggi e la persecuzione che loro si era fatta, mettendo que' paesi a fuoco e sangue. La riforma vestiva presso gli Ussiti un carattere feroce; si credevano chiamati a distruggere l'impero del demonio, ed a correggere col ferro e col fuoco le iniquità della terra. Tutte le umane debolezze, la galanteria, l'ubbriachezza, e perfino l'eleganza delle vesti sembravano peccati degni di morte ai Taboriti, i più severi fra questi settarj; la condanna loro stendevasi fino a quelli che tolleravano i peccati mortali degli altri[23]. Erano persuasi gli Ussiti, ed in breve persuasero anche i loro nemici, d'essere i vendicatori del cielo, i flagelli della mano di Dio. Un panico terrore precedeva le loro squadre, che dissipavano colla sola presenza le più formidabili armate. I popoli, soverchiati dal valore de' settarj, si affrettavano di chiedere la pace, ed i Boemi che non aspiravano ad avere dominio altrove, ma soltanto ad essere liberi nel proprio paese, accordavano la pace senza difficoltà; ma tostocchè si aveva in Roma notizia di questi trattati, il papa affrettavasi di annullarli, dichiarando sacrilega ogni convenzione cogli eretici; e la sola penitenza che potesse cancellare agli occhi suoi la macchia di questi empi trattati, era quella di riprendere subito le armi, di sorprendere gli Ussiti, e di purgarne la terra. «Noi abbiamo udito con profondo dolore (scrive Eugenio IV in una bolla del primo di giugno del 1431) che fu conchiusa cogli Ussiti una tregua per un determinato tempo, che non è ancora spirato; tregua sanzionata con vicendevoli giuramenti e con minaccia di pene contro coloro che la violeranno.... Noi, che con tutta la nostra podestà cerchiamo di reprimere gli sforzi degli eretici e di confutarne gli errori, noi, che pazientemente tollerare non possiamo tale ingiuria, tale bestemmia, ricordandoci che è la fede che ci ha salvati, e che senza di questa niuno può salvarsi, in vigore dell'apostolica nostra autorità, di certa nostra scienza e senz'esserne ricercati, sciogliamo e dichiariamo nullo e come non accaduto ogni contratto, ogni patto, ogni clausola; sciogliamo dai loro giuramenti i principi, i prelati, i cavalieri, i soldati, i magistrati delle città.... Noi gli avvisiamo, li chiamiamo, gli esortiamo in nome del sangue di Gesù Cristo, pel quale siamo stati redenti, ed in nome dei loro più cari affetti, e finalmente loro ingiungiamo come penitenza dei commessi peccati.... di levarsi in massa con tutte le forze loro nell'istante che verrà loro indicato, di attaccare gli eretici, di prenderli, di perderli, di sterminarli sulla terra, di modo che non ne rimanga memoria ne' secoli che verranno»[24].
Ma questa bolla d'Eugenio IV ad altro non servì che a procurare alla Chiesa nuovi infortunj: quaranta mila cavalieri, che il marchese di Brandeburgo, i duchi di Baviera e di Sassonia, e la lega sveva avevano adunati sotto il comando del cardinale Giuliano Cesarini, furono dispersi dagli Ussiti. Si credette di riconoscere il dito di Dio nelle successive disfatte de' crociati, ed i prelati cattolici, particolarmente quelli della Francia e della Germania, cominciarono a pubblicare che la Chiesa non trionferebbe degli eretici che dopo di avere fatta in sè medesima quella riforma nel capo e nelle membra, ch'era stata cominciata dal concilio di Costanza, e che doveva terminarsi da quello di Basilea[25].
Martino V per contenere il concilio ecumenico, ch'egli si era obbligato di adunare, avrebbe desiderato di riunirlo in una città dell'Italia, ove i numerosi pensionati della corte di Roma avrebbero avuta maggiore influenza: perciò scelse prima Pavia, poi Siena; ma non potè riunirvi che quattro o cinque prelati per ogni nazione; e questi ancora protestarono contro l'illegale influenza che il papa voleva esercitare sopra di loro. Il concilio di Siena non si fece conoscere che per una disposizione, che accorda a tutti coloro che concorreranno a perseguitare gli eretici, le medesime indulgenze che acquisterebbero recandosi personalmente alla crociata[26]. Venne subito dopo disciolto, e si convocò un nuovo concilio a Basilea con una bolla del 4 degl'idi di marzo del 1424[27].
Questa solenne assemblea dei deputati della Cristianità s'aprì il 23 luglio del 1431 sotto la presidenza del cardinale Giuliano Cesarini, scelto prima da Martino V, e raffermato poi da Eugenio IV come legato al concilio[28]. I più ragguardevoli prelati di tutte le nazioni d'Europa, gli uomini più distinti per dottrina e per eloquenza trovaronsi assieme uniti nell'istante medesimo in cui un generale fermento agitava tutti gli spiriti, in cui da ogni banda si chiedeva ad alta voce la riforma di scandalosi abusi. In questa imponente assemblea, l'eloquenza, la dottrina, la stima personale, assegnarono il rango che tutti dovevano occupare, di preferenza ai titoli ed alle dignità. Non tardò a manifestarsi uno spirito repubblicano, e la riforma cominciò nel più formidabile modo per l'autorità della santa sede. I prelati manifestavano l'intenzione di rendere ad ogni diocesi la propria indipendenza, di rialzare l'autorità dei vescovi, d'abbassare quella di Roma, finalmente di sostituire una libera costituzione repubblicana alla spirituale monarchia fondata dai papi. Innumerabili abusi d'amministrazione, una corruttela, una venalità, che nemmeno cercavasi di palliare, fresche usurpazioni, che però non avevano per anco fatti dimenticare gli antichi diritti, giustificavano le pretese del concilio agli occhi di tutta la Cristianità. Frattanto veniva scosso l'intero edificio della romana gerarchia; le entrate non meno che la potenza dei papi correvano pericolo di essere distrutte; ed Eugenio IV, che non riconosceva nella Chiesa altra podestà che la sua, era fieramente sdegnato contro questo spirito di ribellione[29].
Il concilio nella sua seconda sessione erasi dichiarato superiore al papa, e lo aveva pure minacciato di assoggettarlo a pene ecclesiastiche, se tentava di sciogliere l'assemblea, o di traslocarla senza il di lei assenso in altra città[30]. Il concilio di Costanza aveva ordinato alla santa sede di convocare ogni sette anni de' concilj ecumenici; ma perchè non ne aveva determinata la durata, quest'obbligo veniva deluso con un pronto scioglimento. Quindi il concilio di Siena non aveva esistito che un solo istante, ed Eugenio IV voleva egualmente distruggere nel primo anno quello di Basilea[31]. Perciò i prelati adunati determinarono di sottrarre interamente il loro sinodo all'autorità del papa, togliendogli nello stesso tempo la facoltà di creare nuovi cardinali[32]. Lo citarono a recarsi personalmente a Basilea nel termine di tre mesi, dichiarandolo contumace in caso di mancanza[33], e finalmente si riservarono il diritto di nominare un successore nell'eventualità di vacanza della santa sede[34].
Sigismondo, che trovavasi per proprio interesse impegnato nella guerra di Boemia, aveva, per sostenerla, bisogno de' sussidj della chiesa di Germania, e d'altronde vedeva con rincrescimento la corte di Roma tirare da' suoi stati ragguardevoli entrate; onde si mostrava zelante protettore della libertà della Chiesa. Credette che recandosi a Roma per prendere la corona imperiale, potrebbe avere maggiore influenza sopra il papa, e muoverlo più facilmente ad acconsentire a tutto quanto da lui chiedeva la Cristianità. Ma Sigismondo non aveva un'armata; fino da quando aveva cercato di pacificare l'Italia, erasi avveduto che il credito di un imperatore dipende dai mezzi che ha per farsi temere, e più vivamente sentì questa verità, quando volle rendere la pace alla Chiesa; poichè i suoi sforzi furono sempre resi senza effetto dall'impeto e dall'inconseguenza d'Eugenio, o dall'imprudente zelo de' prelati. Il primo, che aveva di già tentato di disciogliere il concilio, o di traslocarlo a Bologna, acconsentì finalmente, dietro le calde istanze di Sigismondo, a riconoscerlo; ma a condizione che si annullasse tutto quanto si era fatto fino a quell'epoca, e sottomettendo l'assemblea alla presidenza di nuovi legati della santa sede[35]. I prelati, lungi dall'essere contenti di questa bolla, che avrebbe assoggettata la loro autorità a quella del papa, lo citarono di nuovo a recarsi nel loro seno, colla minaccia di dichiararlo decaduto, se non ubbidiva entro sessanta giorni. Sigismondo, dopo essere stato coronato a Roma da Eugenio IV in tempo di una brevissima tregua, ripigliò la strada di Basilea, ove l'otto degl'idi di novembre presiedette alla quattordicesima sessione del concilio; ma non incontrò minori difficoltà nel conservarsi moderatore di questa turbolenta e democratica assemblea, che nel far piegare l'orgoglio e l'ostinazione di un pontefice poco capace di governare[36].
Durante questa pericolosa lite Eugenio IV si trovò attaccato da nuovi nemici: egli aveva nominato governatore della Marca d'Ancona Giovanni Vitelleschi, vescovo di Recanati, suo favorito, il di cui crudele e perfido carattere fu ben tosto cagione di una universale ribellione. Il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, che aveva di fresco fatta la pace coi Fiorentini, e licenziati i suoi generali e la maggior parte de' soldati, ma che non pertanto desiderava che le sue armate rimanessero unite, anche rinunciando al suo soldo, pensò che la ribellione contro il Vitelleschi potrebbe essere utile ai suoi disegni. Eccitò segretamente coloro che congedava, a guastare lo stato della Chiesa, ed a fondarvi, se lo potevano, principati per sè medesimi. In tal modo ricompensava senza dispendio i generali che lo avevano fedelmente servito, manteneva sul piede di guerra delle armate che più non erano da lui pagate, vendicavasi di Eugenio IV di cui era scontento, ed obbligava i Fiorentini a grandi spese, tenendo viva la loro inquietudine. Francesco Sforza e Niccolò Fortebraccio di Perugia entrarono ad un tempo, il primo nella Marca d'Ancona, l'altro nel patrimonio di san Pietro[37]. Pretendevano l'uno e l'altro di essere stati autorizzati dal concilio di Basilea a togliere queste province al papa, e furono ambidue favorevolmente accolti dai Colonna ancora sdegnati per la recente loro disfatta. Francesco Sforza sorprese Jesi, prese d'assalto Montermo, accettò le capitolazioni d'Osimo e di Recanati, e trovati in quest'ultima città gli ostaggi di Fermo, di Ascoli e di altre fortezze governate dal Vitelleschi, le costrinse tutte ad arrendersi una dopo l'altra[38]; la sommissione dell'intera provincia fu l'opera di quindici giorni. L'Ombria e la Toscana inferiore cominciavano ancora esse a vacillare, e nello stesso tempo Niccolò Fortebraccio, avendo occupato Tivoli e le altre piccole città più vicine a Roma, minacciava ancora questa capitale. Eugenio non aveva altri soccorsi per difendersi che la scelta tra i suoi nemici; all'ultimo determinò di ricorrere a Francesco Sforza, che si lasciò facilmente persuadere ad opporsi agli avanzamenti di Fortebraccio, per la memoria delle militari rivalità tra il vecchio Sforza e Braccio di Montone; oltre di che il papa gli offriva in ricompensa la Marca d'Ancona col titolo di marchese, promettendo di lasciarlo per un determinato tempo padrone degli altri paesi da lui acquistati, e creandolo vicario e gonfaloniere della Chiesa romana[39].
Ma l'assistenza dello Sforza non bastò a ristabilire gli affari del papa, sia perchè Niccolò Piccinino si avanzò ancor esso per sostenere il suo parente Fortebraccio e per dividere con lui le spoglie della Chiesa, o sia più ancora perchè i Romani, stanchi di un governo che gli opprimeva colle contribuzioni e non sapeva difenderli, presero le armi contro Eugenio, proclamarono il ristabilimento della repubblica, ed assediarono il papa nella chiesa di san Giovanni Grisogono, ov'erasi rifugiato. Questi a stento ottenne di fuggire travestito sopra una piccola barca che lo trasportò ad Ostia frammezzo ad una grandine di saette. Di là una galera lo condusse a Pisa; indi venuto a Firenze, chiese un asilo alla repubblica, mentre i suoi stati trovavansi divisi tra lo Sforza e Fortebraccio, più non conservando egli alcuna autorità in tutto il territorio della Chiesa[40].
La repubblica di Firenze, dove Eugenio IV era venuto a cercare asilo, trovavasi in allora agitata da tali fazioni, che più delle precedenti dovevano porre in grande pericolo la sua libertà. Dopo la morte di Giovanni de' Medici, Cosimo, suo figliuolo, erasi fatto capo del partito anticamente formato dagli Alberti per mettere argine all'autorità dell'oligarchia, e rialzare quella del popolo. Cosimo aveva un carattere più fermo che suo padre, operava con maggior vigore, più liberamente parlava cogli amici, e non pertanto risguardavasi come il più prudente cittadino di Firenze. Aveva maniere gravi ad un tempo e gentili, e le infinite sue ricchezze gli permettevano di mostrarsi ogni giorno umano e liberale. Egli non attaccava il governo, non ordiva trame contro di lui; ma nemmeno curavasi di palliare le proprie opinioni, che manifestava con nobile franchezza; ed i moltissimi amici e clienti, che gli avevano procurati le sue generosità, gli davano l'importanza d'un uomo pubblico[41]. Coll'ajuto loro egli si credeva sicuro di conservare la sua libertà ed il suo rango, finchè si manterrebbe la pace interna, oppure di difenderla colle armi, quando fosse attaccato dai suoi nemici. Due confidenti erano presso di lui in maggior credito, Averardo de' Medici e Puccio Pucci, il primo de' quali coll'audacia, l'altro colla saviezza e la prudenza lo aiutavano a tenere uniti i suoi partigiani. Questi tre uomini di stato avevano potentemente contribuito a determinare i Fiorentini alla guerra di Lucca, senza che per altro fossero stati scelti a dirigerla. Onde, tanto per giustificare i consiglj che avevano dati, quanto per imbarazzare i loro avversarj, prendevansi cura di svelare le cagioni di tutti i rovesci dello stato.
Rinaldo degli Albizzi, il di cui intollerante ed orgoglioso carattere mal sapeva sopportare un oculato censore, avrebbe voluto sforzare il Medici a dichiararsi aperto nemico, onde vincerlo in una battaglia, e scacciarlo poi dalla città. Tutta la gioventù, che era con lui entrata a parte del governo, divideva la sua impazienza, e Niccolò Barbadori cercò di persuadere Niccolò d'Uzzano a far attaccare Cosimo de' Medici ed i suoi amici, onde distruggere un partito che non poteva innalzarsi che per la loro ruina. Ma questo vecchio capo della repubblica conosceva meglio d'ogni altro ciò che aveva da lungo tempo resa forte la propria fazione, e ciò che in allora la faceva debole. Aveva veduti i Fiorentini, ancora spaventati dal sanguinario e spregevole governo dei Ciompi, gettarsi tra le braccia del partito più opposto al popolaccio, gli aveva veduti, per qualche tempo, desiderare più d'ogni altra cosa nel loro governo dignità, considerazione e forza. In tali felici circostanze egli e l'amico suo Maso degli Albizzi erano stati posti alla testa degli affari dello stato, ed il loro ingegno ne aveva approfittato per rendere la repubblica possente al di fuori, ferma ed irremovibile nell'interno. Ma di mano in mano che la memoria dei Ciompi s'andava indebolendo o cancellando, si diminuiva egualmente la riconoscenza per un governo che aveva strappata Firenze dalle mani del popolaccio. La nazione sentiva più fortemente una presente gelosia, che un passato timore, e già cominciava a ridonare il suo affetto ai figliuoli di quegli antichi demagoghi, al di cui giogo era stata sottratta; questi figliuoli, che non avevano partecipato ai delitti dei loro genitori, inspiravano, col solo loro nome, una considerazione spogliata da qualunque timore, si erano accresciute le loro ricchezze, ed ingrandito il numero de' loro partigiani coll'unione di tutti gli uomini nuovi, che avevano acquistata qualche indipendenza, mentre l'oligarchia, come comporta la sua natura, si era sempre più ristretta. Inoltre le divisioni del partito dominante avevano date nuove reclute all'opposizione; poichè ogni volta che qualche malcontento staccavasi dalla sua famiglia o dal suo partito, si poneva sotto lo stendardo dei Medici. L'antica nobiltà, sempre esclusa dell'amministrazione dall'una e dall'altra fazione, preferiva quella che vedeva egualmente oppressa, di modo che Cosimo contava tra i suoi fautori degli uomini per lo meno uguali ai partigiani degli Albizzi, per nascita, per ricchezze, per talenti, per zelo, ed in numero assai maggiore. Dietro queste considerazioni Niccolò d'Uzzano raccomandò a Barbadori di evitare ogni movimento popolare, ogni zuffa, in cui le forze dei due partiti dovessero venire al confronto, poichè le loro erano affatto illusorie, non conservandosi omai la loro autorità che per l'impero dell'abitudine, e pel favore d'un'opinione che più non aveva fondamenti[42].
Ma Niccolò d'Uzzano morì poco dopo la pace di Lombardia, e Rinaldo degli Albizzi, rimasto solo alla testa del suo partito prese caldamente a voler mandare ad effetto il progetto di scacciare i suoi nemici. Per farne la prova egli altro non aspettava, se non che la sorte dasse alla repubblica una signoria composta de' suoi partigiani. Perciò l'estrazione dei magistrati che facevasi ogni due mesi eccitava nella città una spaventosa agitazione, conoscendo tutti che una vicina e quasi immancabile rivoluzione dipendeva dal carattere de' gonfalonieri e de' signori, che l'eventualità porterebbe alle cariche.
Finalmente la sorte diede per gonfaloniere dei mesi di settembre e di ottobre del 1433 Bernardo Guadagni, e con lui otto signori tutti addetti alla fazione degli Albizzi[43]. Era il Guadagni uomo povero, che non avrebbe potuto sedere nella magistratura, se Rinaldo degli Albizzi non avesse per lui pagate le contribuzioni, onde non fosse annoverato tra i debitori dello stato. Costui, esacerbato da personali animosità, incapace di timore, e non avendo nulla da perdere, era apparecchiato a tutto intraprendere per servire il capo del suo partito[44].
Erano appena passati sette giorni da che il Guadagni trovavasi nella magistratura, quando il 7 di settembre fece intimare a Cosimo de' Medici di presentarsi in palazzo. Gli amici di Cosimo lo pregavano di fuggire, o di apparecchiarsi alla difesa, ma egli non volle avere altro appoggio che la propria innocenza, come se nel tumulto delle rivoluzioni un capo di partito potesse essere innocente agli occhi de' suoi avversarj, e si presentò alla signoria. Venne subito arrestato e chiuso nella torre del palazzo pubblico, ed un'accusa di mal versazione nella guerra di Lucca servì di pretesto alla sua prigionìa[45]. Non si voleva per altro assoggettare ai giudici ordinarj la causa di così potente cittadino; la di lui sorte doveva essere decisa da un'autorità stragiudiziaria, e Guadagni fece suonare la campana del parlamento per adunare il popolo nella pubblica piazza, di cui Rinaldo degli Albizzi occupava tutti i capi strada con genti armate.
Qualunque si fossero le disposizioni del popolo, i parlamenti di Firenze eransi sempre veduti secondare il partito del più forte. Un cotale parlamento si convocava per sanzionare una rivoluzione di già fatta, ed i soli cittadini che l'approvavano erano quelli che venivano sulla pubblica piazza, mentre i malcontenti n'erano tenuti lontani o dal timore o dalla violenza. La signoria chiese al popolo adunato di creare una balìa per salvare lo stato dalle trame di coloro che volevano minarla; duecento cittadini, ch'erano stati indicati da Rinaldo degli Albizzi, furono infatti rivestiti dell'illimitato potere che supponevasi esistere sempre nella nazione adunata in parlamento, al quale si sottomettevano pure le leggi e la costituzione; e la balìa si adunò subito in palazzo per deliberare intorno alla sorte che destinava a Cosimo de' Medici.
Questo capo di parte fu accusato di avere con perfidi avvisi, mandati a Francesco Sforza, suo amico, rivelati i progetti dei suoi compatriotti sopra Lucca. Le personali relazioni di questo potente cittadino collo Sforza e con Venezia, il grande numero de' suoi partigiani, il futuro trionfo che gli era riservato, giustificano forse bastantemente la diffidenza di un governo ch'egli voleva soppiantare, e che si era mantenuto più di mezzo secolo con tanta gloria e con tante virtù. Ma le armi che Rinaldo degli Albizzi adoperò contro il Medici erano ingiuste ed illegali; le persone ch'egli pose in opera erano determinate da estranei vergognosi motivi; perciocchè il Guadagni era stato sedotto dal danaro che aveva servito a pagare i suoi debiti; la balìa divise delle lucrose cariche tra Guadagni ed i priori che lo avevano assecondato, ed i magistrati della repubblica si fecero vilmente pagare per avere proscritto uno de' suoi più grandi cittadini[46]. Per altro coloro che in uno stato corrotto si valgono di armi venali, devono aspettarsi che gli avversarj loro pongano all'incanto quegli uomini che si sono così venduti, e trovino mezzo di rapirglieli. Dal fondo della sua prigione Cosimo de' Medici riuscì a far donare a Bernardo Guadagni mille fiorini, facendolo pregare di salvarlo; ed in fatti questi, invece di domandare la testa del Medici, come voleva Rinaldo degli Albizzi, chiese soltanto alla balìa di esiliarlo per dieci anni a Padova. Si assegnarono nello stesso tempo altri diversi luoghi d'esilio ai suoi principali amici e parenti, ed il 3 d'ottobre Cosimo de' Medici partì di notte da Firenze per recarsi al luogo della sua relegazione; e la repubblica di Venezia lo fece accogliere con ogni maniera di onorificenze, tostocchè entrò nel suo territorio[47].
Rinaldo degli Albizzi invece d'insuperbirsi per aver eseguita questa rivoluzione, cominciò allora a riguardare come certa la propria perdita; vide apertamente che Cosimo, sorpreso ed esiliato con ingiusta violenza, cercherebbe con maggior calore di vendicarsi; che gli omaggi che gli tributavano gli stranieri accrescevano la di lui riputazione; che potrebbe sempre disporre delle sue immense ricchezze, de' suoi partigiani, renduti più numerosi e più zelanti, e che dissipandosi il loro primo timore, darebbe luogo a più calde pratiche. Inoltre la balìa, creata dall'ultimo parlamento, sebbene rinnovate avesse le liste di tutti i magistrati, e riempiti di nomi scelti le borse dalle quali estraevasi a sorte la signoria, non aveva potuto o non aveva voluto escludere dallo scrutinio tutti coloro ch'erano sospetti al partito degli Albizzi, temendo di spingere troppo in là il malcontento universale, col lasciar vedere a quale strettissima oligarchia volevasi ridurre un governo essenzialmente popolare. Vero è che Rinaldo chiedeva caldamente ai suoi amici di afforzare il proprio partito ammettendovi i grandi e l'antica nobiltà, da lungo tempo esclusi da tutte le cariche; ma non potè vincere la gelosia de' suoi partigiani, nè trionfare della ripugnanza del popolo, e fu costretto di aspettare nell'inazione le conseguenze del pubblico irritamento, che vedeva manifestarsi sempre più apertamente[48].
Era di già un anno passato da che Cosimo ed i suoi amici erano stati esiliati, quando la sorte chiamò Niccolò di Cecco Donati alla carica di gonfaloniere pei mesi di settembre e di ottobre del 1434, con otto signori, che tutti, come lui, eransi dichiarati favorevoli ai Medici. Dovevano passare tre giorni tra l'estrazione de' nuovi magistrati, e l'essere posti in carica; Rinaldo degli Albizzi volle approfittare di quest'intervallo per far prendere le armi ai suoi amici, creare una nuova balìa, ed escludere dalla magistratura uomini per lui tanto pericolosi; ma non trovò ne' suoi partigiani che freddezza e timidità. Palla Strozzi, sul quale contava assai, gli rispose, che un buon cittadino deve aspettare l'attacco de' suoi nemici piuttosto che provocarlo, e senza persuadere Rinaldo, lo costrinse a nulla intraprendere.
Il nuovo gonfaloniere, appena entrato in carica, intentò un processo criminale al suo predecessore per malaversazione del pubblico danaro. Subito dopo citò i tre capi del partito degli Albizzi a presentarsi in palazzo, nella stessa maniera che Cosimo era stato citato dalla contraria parte; ma invece d'ubbidire Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadori, si recarono armati sulla piazza di san Pulinari con quanta gente armata riuscì loro di adunare[49]. Palla Strozzi e Giovanni Guicciardini, che pure dovevano raggiugnerli, temettero di compromettersi, e non comparvero. Bentosto Ridolfo Peruzzi diede orecchio a proposizioni d'accomodamento che gli furono fatte per parte della signoria, e si presentò in palazzo; il coraggio di coloro che avevano prese le armi si andò raffreddando, mentre per l'opposto i partigiani della signoria e quelli di Cosimo, tra i quali contavasi un fratello dello stesso Rinaldo degli Albizzi, rendevansi sempre più arditi; per ultimo il papa, che allora soggiornava in Firenze con tutta la sua corte, offrì la sua mediazione, e diede l'ultimo crollo al partito degli Albizzi.
Rinaldo non si attentò di ricusare la mediazione del papa, e fece ritirare le sue genti, che occupavano armate la piazza sotto gli ordini di Niccolò Barbadori; ma ad ogni modo l'avere impugnate le armi senza essere rimasti vincitori, non poteva non risguardarsi come una ribellione. Firenze ripigliò una apparenza di calma; ma la signoria approfittò del tempo che i suoi avversarj perdevano in negoziati, per far entrare in città i soldati dispersi pel territorio, i quali distribuì nel palazzo ed in tutti i luoghi forti, indi chiamò il popolo a parlamento, e gli fece creare una nuova balìa tutta favorevole ai Medici. Il primo atto di questa nuova assemblea fu il richiamo di Cosimo, e di tutti i suoi aderenti, e l'esilio di Rinaldo degli Albizzi, di Ridolfo Peruzzi, di Niccolò Barbadori, di Palla Strozzi e di tutti i cittadini ch'erano stati fin allora alla testa della repubblica[50]. In tal maniera venne rovesciato quel governo, che aveva amministrata Firenze con tanta gloria ne' tempi della più alta sua prosperità. L'Albizzi ed i suoi amici partirono per l'esilio senza opporre veruna resistenza, e si dispersero per le città che lungo tempo avevano temuto il risentimento, o cercato il favore di questi esperti capi di una potente città, mentre Cosimo de' Medici tornava trionfante a prendere l'amministrazione d'una repubblica, dalla quale era stato di fresco proscritto.
CAPITOLO LXVII.
Nuova guerra tra il duca di Milano ed i Fiorentini. — Rivoluzioni del regno di Napoli; morte di Giovanna II. — Alfonso V, che vuole raccoglierne l'eredità, viene fatto prigioniero dai Genovesi nella battaglia di Ponza, e posto in libertà dal duca di Milano. — Genova ricupera la libertà.
1432 = 1435. Durante lo stesso anno in cui il governo di Firenze era passato da una all'altra fazione, ed i Medici erano subentrati nello stesso credito degli Albizzi, questa repubblica era stata costretta a ricominciare la guerra col duca di Milano, in onta al trattato di Ferrara del 26 aprile 1433; perchè tanta era l'inquieta ambizione del duca, che immediatamente dopo un trattato di pace riprendeva le armi, se aveva speranza di ottenere alcun vantaggio su coloro con cui erasi di fresco riconciliato; e tale altronde era la leggerezza e l'instabilità del suo carattere, che appena ricominciate le ostilità, entrava in nuove negoziazioni, e formava una seconda pace, che lo rimetteva precisamente nello stato medesimo da cui era uscito. Mentre queste rotture senza motivo e senza conseguenze impediscono di tener dietro con interessamento alla politica della corte di Milano, anche il modo con cui trattavasi la guerra non permette di seguire attentamente le operazioni delle armate. In verun luogo non vedevansi combattere cittadini, in verun luogo il cuore de' guerrieri prendeva parte alla causa che difendevano. Lo stesso onore erasi col patriottismo dileguato dalle armate, perchè i soldati, pei quali la guerra altro più non era che un mestiere mercenario, passavano senza scrupolo dall'uno all'altro campo, allettati da pagamento migliore. Senza curarsi del passato o dell'avvenire, non associavano il proprio onore a quello dei loro corpo, seco non portando nè la memoria delle precedenti vittorie, nè una riputazione da conservarsi colla futura loro condotta. La piccolezza de' risultamenti diminuisce ancora l'interesse delle battaglie; in queste vergognose guerre non ispargevasi pure tanto sangue, che bastasse a risvegliare nel cuor degli uomini un sentimento di compassione per l'umanità. Si leggerebbe più volentieri la storia de' combattimenti del circo di Roma, che quella delle battaglie dei generali in Filippo Maria. I combattenti sono egualmente sconosciuti e quasi tutti anonimi, le uccisioni sono egualmente gratuite e senza risultamenti, il numero delle vittime press'a poco il medesimo da ambe le parti, e se è possibile di trovare ancora qualche dignità in mezzo a tanto avvilimento, se ne troverebbe forse di più nel gladiatore, il quale anche tra le convulsioni della morte, non si scordava della pubblica opinione, piuttosto che nel soldato d'un condottiere sempre disposto ad armarsi prezzolatamente contro la sua religione, la sua patria, la sua libertà, la sua propria compagnia, e contro tutte le opinioni che gli erano state care.
La guerra che si accese nel 1434 ebbe cominciamento da una sedizione sorta in Imola. Questa città avea scacciate le truppe del papa, ed introdotta il 21 gennajo una guarnigione milanese, contro l'espresso tenore dei trattati, che vietavano al duca di Milano d'immischiarsi negli affari della Romagna[51]. Gattamelata, generale dei Veneziani, e Niccolò di Tolentino, generale dei Fiorentini, vennero subito incaricati di difendere questa provincia contro il Visconti. Le vessazioni del primo accrebbero il numero de' suoi nemici; perchè i Bolognesi, volendo sottrarsi alla sua temuta assistenza, abbandonarono il partito della Chiesa, e ricevettero nella loro città guarnigione milanese[52]. Niccolò Piccinino, richiamato dalle vicinanze di Roma, fu dal duca di Milano incaricato di proseguire questa guerra. Il 28 agosto diede battaglia presso ad un ponte, tra Imola e Castelbolognese, ai generali delle due repubbliche; si dice che l'armata di questi, composta di sei mila corazzieri e di tre mila pedoni sofferse una così terribile rotta, che a pena salvaronsi colla fuga mille cavalli, rimanendo tutti gli altri prigionieri con Tolentino, Giovan Paolo Orsino, ed Astorre Manfredi, signore di Faenza; pure non trovarono sul campo di battaglia che quattro uomini morti, e trenta leggermente feriti[53].
Le conseguenze di questa vittoria furono proporzionate non al prodigioso numero de' prigionieri, ma al poco sangue che aveva costato. Dopo alcune scaramucce nello stato di Bologna, dopo una lunga inazione delle due armate, durante la quale si negoziava con molta attività dal marchese di Ferrara, la pace venne nuovamente soscritta il 10 agosto del 1435, e raffermate tutte le condizioni del precedente trattato[54].
Più importanti rivoluzioni minacciavano in pari tempo il regno di Napoli; sebbene in questo paese, più che in verun altro, fossero le guerre ridotte a ridicole millanterie ed a vilissime scaramucce. La regina Giovanna II aveva da sè allontanato suo figlio adottivo, Luigi III d'Angiò, tenendolo come in esilio nel suo governo di Calabria, onde potere abbandonare, senza verun ritegno sè e tutto lo stato in balìa di Giovanni Caraccioli, suo grande siniscalco. Giovanna, nata nel 1371, aveva passati i sessant'anni, ma colla sregolata sua vita si era procacciati innanzi tempo tutti i mali della decrepita vecchiaja. Anche il Caraccioli aveva sessant'anni[55], e l'amore, cui andava debitore del suo innalzamento, più non conservava verun impero nè sopra di lui, nè sopra la regina. Ma una lunga abitudine era subentrata a questa passione, e l'ambizioso Caraccioli comandava ancora alla sovrana, che la passione aveva di già resa sua schiava. Egli non era ancora pago di ricchezze, di onori, di potenza, ed ogni giorno chiedeva a Giovanna nuove concessioni. Era duca di Venosa, conte d'Avellino, signore, ma non principe di Capoa, perchè non osava assumersi un titolo devoluto agli eredi del trono; chiedeva ancora il ducato d'Amalfi ed il principato di Salerno, che quando morì Martino V Giovanna aveva tolti ad Antonio Colonna, nipote del papa. Queste smoderate inchieste eccitavano la gelosia di que' cortigiani che desideravano di partecipare alle grazie della regina; questa per sollevarsi dalla rabbia che in lei risvegliava l'imperioso carattere del Caraccioli, aveva ammessa nell'intima sua confidenza Cobella Ruffa, duchessa di Suessa. Costei, nè meno orgogliosa, nè meno vana del grande siniscalco, cercava la via di perdere quest'insolente ministro, che risguardava come una creatura della fortuna, ed approfittava di tutte le occasioni per inasprire il risentimento della sua padrona.
Un giorno la duchessa di Suessa, stando in anticamera, udì il Caraccioli rinnovare le proprie istanze per ottenere i due feudi d'Amalfi e di Salerno; questi, piccato dal rifiuto della regina colla quale credevasi solo, le rimproverò in così amara ed ingiuriosa maniera questa mancanza di compiacenza, unì alle sue lagnanze tanta arroganza e tanti insulti che Giovanna proruppe in un dirotto pianto. Tosto che il siniscalco partì, la duchessa cercò di far subentrare la collera ai singhiozzi, e di rendere sospetti a Giovanna i progetti del Caraccioli. Questi faceva sposare a suo figlio la figlia di Giacomo Caldora, il solo generale del regno: pretendeva la duchessa di trovare in questo matrimonio le prove d'una cospirazione; il siniscalco, ella diceva, cercava di assicurarsi di tutte le forze dello stato, aspirava alla suprema autorità, e non dovevasi più mettere tempo in mezzo per rompere i suoi progetti. Con licenza della regina la duchessa adunò tutti i nemici del Caraccioli, li prevenne che gli si voleva togliere tutta l'usurpata autorità, di cui bruttamente abusava, e si assicurò della loro assistenza[56].
Le nozze del figlio di Caraccioli e della figlia di Caldora si celebrarono il 17 agosto del 1432 con una straordinaria magnificenza. Le feste dovevano continuarsi per otto giorni nel palazzo medesimo della regina; ma nella notte che precedeva l'ultimo degli otto giorni, consacrato ai giuochi ed ai tornei, dopo terminate le cene, il ballo, e quando tutta la corte erasi ritirata, e che lo stesso Caraccioli invece di andare a casa sua cogli sposi, era entrato per dormire nell'appartamento che aveva in palazzo[57], un paggio della regina picchiò alla sua porta, e gli disse che Giovanna, sorpresa da un attacco apopletico, chiedeva premurosamente di parlargli, prima di morire. Caraccioli, mentre si vestiva, fece aprire la porta della sua camera, ed i congiurati, che l'avevano ingannato col falso messo, gli furono subito a dosso e lo uccisero nel suo letto a colpi di aste e di ascie. La vegnente mattina, quando si sparse in città la notizia dell'accaduto, la nobiltà ed il popolo, che avevano tremato innanzi al gran siniscalco, e per lo spazio di diciotto anni l'avevano veduto regnare con un'illimitata autorità, cui nè il marito della regina, nè i due suoi figli adottivi avevano potuto far argine, entrarono in folla nella sua camera per contemplarlo morto. Era sdrajato per terra vestito per metà, con una sola gamba calzata, niuno de' suoi servi essendosi presa la cura di vestirlo o di riporlo sul letto. La regina, che aveva acconsentito a firmare un ordine d'arresto, non aveva pensato che si volesse ucciderlo, e mostrò il più vivo dolore, quando le fu detto che la resistenza di Caraccioli agli ordini che gli si erano recati aveva renduta necessaria la forza, cui aveva soggiaciuto. Pure accordò lettere d'assoluzione ai congiurati che lo avevano ucciso, ordinò la confisca di tutti i suoi beni per titolo di ribellione, fece imprigionare suo figlio e tutti i suoi parenti, e permise che il popolaccio saccheggiasse tutte le loro case[58].
Quando Luigi d'Angiò, che stava a Cosenza, ebbe avviso della morte del gran siniscalco, lusingossi di potere finalmente essere ammesso a godere le prerogative annesse all'erede presuntivo della corona. Ma la duchessa di Suessa, che voleva regnare sola sullo spirito della regina, non acconsentì al ritorno del di lei figlio adottivo. Giovanna, incapace di avere ella medesima una volontà, era ornai tanto sottomessa alla sua confidente, quanto lo era stata al suo amante. Luigi cedette senza far resistenza agl'intrighi della corte, accontentandosi di vivere in Calabria, e si ammogliò colla principessa Margarita di Savoja, che venne a raggiugnerlo. Sempre ubbidiente ai capricci d'una regina, che cedeva essa medesima a tutti gl'intrighi de' suoi favoriti, di suo ordine intraprese nel 1434 una guerra, ch'egli credeva ingiusta, contro Giovan Antonio Orsini, il più potente de' feudatarj napoletani, che i favoriti volevano spogliare per dividersi fra di loro le sue ricchezze. L'Orsini, assediato nella città di Taranto da Luigi d'Angiò e da Giacomo Caldora, trovavasi in pericolo di perdere tutti i suoi stati, quando una febbre sopraggiunta al duca di Calabria in novembre del 1434, trasse in pochi giorni questo principe nel sepolcro[59].
Il pieghevole carattere di Luigi d'Angiò, e l'estrema sua dolcezza gli avevano guadagnato l'amore di tutti coloro che lo avvicinavano. Si era fatto amare dai Calabresi, tra i quali visse lungo tempo, ed a lui devesi quel loro attaccamento alla casa d'Angiò che non si smentì nelle successive guerre civili. Ma l'eccessiva sua condiscendenza e la sua debolezza diedero la regina in balìa ai suoi malvagi consiglieri, non potendosi attribuire che alla di lui pusillanimità il suo lungo esilio dalla corte. In tal modo egli perdette per sè medesimo e per la sua famiglia que' diritti che coll'adozione aveva acquistati, e fu la rimota cagione delle lunghe guerre, che devastarono il regno dopo la di lui morte[60].
Quando il re d'Arragona ebbe avviso della morte del gran siniscalco, pensò subito a rientrare nel favore di Giovanna II, onde farle confermare la precedente adozione. Risedeva da qualche tempo in Sicilia, di dove era venuto ad Ischia per tener dietro con maggiore facilità alle negoziazioni della favorita, che mostrava d'avere abbracciati i suoi interessi. Ma troppo sollecito essendo di accrescere il numero de' suoi partigiani, guadagnò ancora il duca di Suessa, che in allora era in discordia colla moglie, e con ciò risvegliò la diffidenza dell'uno e dell'altro. I due sposi resero a vicenda infruttuose le loro pratiche, ed Alfonso, dopo avere rinnovata per dieci anni la tregua tra i regni di Sicilia e di Napoli, abbandonò le coste di questo[61]. Ma doveva esservi bentosto richiamato dalla morte di Giovanna II, già da molto tempo preveduta. Questa principessa, giunta all'età di soli sessanta cinque anni, era così indebolita di spirito e di corpo, come se giunta fosse all'estrema vecchiezza. Morì il 2 febbrajo del 1435[62]. Poco prima aveva fatto un testamento col quale chiamava alla successione del regno di Napoli Renato, duca d'Angiò e conte di Provenza, fratello di Luigi di Calabria, da lei precedentemente adottato[63].
Renato era il più prossimo erede della seconda casa d'Angiò, e di già regnava in Provenza, antico patrimonio dei re francesi di Napoli. Il diritto di successione di questa casa non era fondato che sopra l'adozione dell'antica Giovanna, che per punire l'ingratitudine di suo cugino Carlo III, aveva diseredata la linea dei Durazzo. Ma siccome questa linea era del tutto estinta, e più non rimaneva in verun altra linea alcun discendente del vecchio Carlo d'Angiò, conquistatore del regno, era ben naturale che altri titoli, ancora meno validi di quelli di Renato, acquistassero qualche importanza. Alfonso V d'Arragona, che apparecchiavasi a combatterli, fondava le sue pretese sull'adozione di Giovanna II, adozione veramente da questa principessa rivocata, ma ch'egli cercava di far valere come un trattato reciproco, che un solo de' contraenti non poteva annullare senza l'assenso dell'altro. Pretendeva in pari tempo d'avere un diritto di successione anteriore a quello della casa d'Angiò, per Costanza, figliuola di Manfredi. Infatti Alfonso di già regnava in Sicilia come il più prossimo erede de' Normanni, che avevano fondato quel regno, e della casa di Hohenstauffen loro eredi per ragione di donne. Ma questo diritto di successione sembrava invalido per l'illegittimità di Manfredi che l'aveva trasmesso, pel grande numero delle donne che lo avevano fatto passare di casa in casa, e per una prescrizione di cento settantacinque anni. Con altri diritti, per lo meno non minori di quelli dei due competitori, Eugenio IV riclamava per la diretta signoria della santa sede quel regno ch'era stato infeudato alle tre case di Hauteville, di Hohenstauffen e di Angiò, sotto l'espressa condizione che ritornerebbe alla Chiesa all'estinzione della linea legittima, linea egualmente estinta nelle tre case. Ma Eugenio IV, che avanzò tutte queste pretese alla morte della regina, non era in istato di tentare una tanto importante conquista. Scacciato da tutto il territorio della Chiesa, egli soggiornava a Firenze quale fuoruscito; e mentre colla sua bolla del 21 febbrajo proibiva ai due emuli di far valere i loro diritti coll'esperimento delle armi, ed ai popoli di prestar loro ubbidienza, egli sceglieva per governare il regno in suo nome quello stesso Vitelleschi, vescovo di Recanati e patriarca d'Alessandria, la di cui perfidia e crudeltà gli aveva fatto perdere la Marca d'Ancona, e la di cui sola riputazione bastava a persuadere i suoi nuovi sudditi a non porsi sotto le sue leggi[64].
I Napolitani, affezionati alla memoria di Luigi di Calabria, ubbidirono agli ordini della regina anche dopo la di lei morte, e dichiararonsi concordemente per Renato, duca d'Angiò. Riconobbero un consiglio di reggenza composto di sedici signori che Giovanna aveva nominati, gli associarono venti deputati presi dalla nobiltà e dal popolo, ed aspettarono l'arrivo del nuovo re[65]. D'altra parte Alfonso, che trovavasi in Sicilia, e che di là stava attento agli avvenimenti con imponenti forze, risolse di prevenire l'arrivo dei Francesi. Aveva attaccato ai suoi interessi Giovan Antonio di Marzano, duca di Suessa, Cristoforo Cajetano, conte di Fondi, e Giovan Antonio Orsini, principe di Taranto. Mentre che questi per ordine del re stavano adunando i loro soldati, venne egli medesimo con una ragguardevole flotta ad assediare Gaeta[66]: intanto il duca di Suessa sorprese Capoa, e vi spiegò lo stendardo d'Arragona, ed il conte di Fondi col principe di Taranto fecero prendere le armi agli abitanti degli Abruzzi.
Se Alfonso riusciva ad impadronirsi di Gaeta, avrebbe aperta una sicura comunicazione tra Capoa e la Sicilia, e chiusa ai Francesi la strada di Napoli. E già per sorpresa erasi impadronito di una delle due montagne che signoreggiano questa città, la quale è posta nella valle che le divide, sopra un promontorio che si avanza tre miglia fra mare. Le muraglie sono fondate sopra rupi tagliate quasi perpendicolarmente, ed una lingua di terra larga trenta sole braccia unisce le due montagne al continente. Il suo porto, uno de' più belli e de' più sicuri del Mediterraneo, era in allora frequentato dai Genovesi, che vi avevano molte case di commercio. Dopo il cominciamento delle turbolenze vi avevano riunite le loro più preziose merci e le loro immense ricchezze, onde sottrarle ai pericoli della guerra. Gli abitanti di Gaeta erano affezionatissimi a questi ricchi ospiti, ed alla morte di Giovanna avevano invitati i Genovesi a prendere in deposito la loro città, ed a tenervi guarnigione fino al momento, in cui un legittimo successore al trono venisse universalmente riconosciuto. Francesco Spinola era stato dalla città di Genova nominato comandante di Gaeta, ed Ottolino Zoppo, segretario del Visconti, in allora signore di Genova, gli era stato dato per aggiunto dal duca di Milano. Difendevano Gaeta tre cento soldati genovesi con alcune truppe milanesi. Malgrado il terrore, loro da principio cagionato dall'introduzione degli Arragonesi in alcune torri della montagna, sostennero gli attacchi d'Alfonso fino all'istante in cui potè mandar loro de' soccorsi[67].
L'assedio di Gaeta era stato cominciato da Alfonso in maggio, epoca in cui i granai sono vuoti, la città riceveva dalla campagna il giornaliero sostentamento, e perchè all'avvicinarsi degli Arragonesi vi si erano riparati molti contadini, cominciò bentosto a soffrire tutti gli orrori della fame. Volendo lo Spinola difendersi fino all'estremo, mandò fuori tutte le bocche inutili. Giunsero al campo d'Alfonso truppe di donne, di fanciulli, di vecchi, oppressi dalla miseria, estenuati dalla fame, e fuggendo lontano da quelle mura, ove i figli, i fratelli, gli sposi, eransi fermati per combattere. I consiglieri d'Alfonso gli rappresentavano, che il crudele diritto della guerra lo autorizzava a far rientrare in città tutti coloro che tentavano d'uscire, ed a negare ai nemici quella compassione che non avevano trovata nei loro prossimi. Ma Alfonso, il magnanimo, in questo giorno meritò in particolar modo il soprannome che lo distingue nella storia. «Io preferisco, rispose, di non prendere la città, piuttosto che venir meno ai doveri dell'umanità.» Fece distribuire cibi ai fuggiaschi, permettendo loro di ritirarsi ove meglio credevano. In tal modo perdette probabilmente l'occasione di prendere Gaeta, e si espose inoltre alla sciagura che provò poco dopo, ma divulgò tra i popoli e tra i suoi nemici medesimi la fama della sua generosità, guadagnò il cuore de' Napolitani, e si aprì colle sue virtù la strada del trono, sul quale salì bentosto[68].
Lo Spinola aveva chiesti soccorsi a Genova, ma l'armamento della flotta destinata a far levare l'assedio di Gaeta fu ritardato dalle pratiche dell'opposto partito e dallo scoraggiamento degli antichi repubblicani, che più non combattevano col consueto zelo per la grandezza della loro patria, vedendola sottoposta ad uno straniero padrone. Biagio d'Assereto, illustre uomo di mare dell'ordine popolare, spiegò finalmente le vele negli ultimi giorni di luglio, e si diresse verso il regno di Napoli. La sua flotta era composta di tredici vascelli e di tre galere, ed aveva a bordo due mila quattrocento soldati[69]. Quando Alfonso fu avvisato dell'avvicinamento della flotta nemica, staccò cinque grandi vascelli per continuare il blocco di Gaeta; scelse poi in tutta l'armata sei mila soldati, che mise a bordo de' quattordici vascelli e delle undici galere, colle quali si avanzò ad attaccare il nemico. Trovavasi in faccia all'isola di Ponza il 5 agosto del 1435, quando le due flotte si scontrarono. Alfonso credeva d'avere la vittoria in pugno, e raccontasi pure che il duca di Milano l'aveva segretamente istruito delle forze e dei disegni dell'ammiraglio ch'egli stava per attaccare. Questo principe, che diffidava sempre dello spirito inquieto de' Genovesi, desiderava di vederli avviliti da una disfatta[70]. Il vantaggio del numero assicurava l'Arragonese del buon successo; pure Biagio d'Assereto non temette di rendere ancor più grande la sua inferiorità, dando ordine a tre de' suoi bastimenti di porsi al largo per prender vento, mentre col rimanente della flotta attaccava i Catalani. Il suo vascello ammiraglio s'attaccò a quello montato dal re, un altro, nominato la Lomellina, battevasi contro i due fratelli d'Alfonso, uno de' quali era re di Navarra, l'altro gran maestro di san Giacomo di Calatrava. Ogni vascello genovese doveva nello stesso tempo combattere contro due vascelli catalani; le tre galere non avevano ancora presa parte alla battaglia, ma bentosto l'ammiraglio genovese fece passare tutti i loro equipaggi sui vascelli combattenti, per riparare le perdite che aveva già fatte. Mentre che, in onta all'inferiorità del numero, sosteneva gagliardamente la pugna, le tre navi che aveva staccate per prender vento ed attaccare alle spalle la flotta nemica, vennero a piene vele ad urtare con grandissimo impeto contro i vascelli catalani. Quello del re fu gettato con tanto impeto sul fianco, che non fu più possibile di raddrizzarlo, perchè la zavorra mal disposta erasi agitata nella cala, e lo faceva orzare. Il re e tutta la guarnigione furono costretti di scendere tra i ponti, mentre facevansi inutili pratiche per rimettere il vascello in equilibrio. Malgrado lo svantaggio di tale situazione, l'equipaggio continuò ancora qualche tempo a difendersi, ma trovandosi feriti molti di coloro che avvicinavano Alfonso, i di lui cortigiani lo persuasero finalmente ad arrendersi. Egli s'informò del nome e dell'origine dei diversi capitani genovesi, ed udendo che tra questi eravi un Jacopo Giustiniani, la di cui famiglia aveva la sovranità di Chio, a questi solo acconsentì di dare la sua spada[71].
Il rimanente della flotta sostenne, ancora dopo la resa d'Alfonso, la battaglia per qualche tempo, ma i Catalani scoraggiati più non facevano che una debole resistenza; i loro vascelli andavano uno dopo l'altro abbassando la bandiera, e dopo dieci ore di combattimento, tranne una sola nave, tutte le altre erano cadute in potere de' Genovesi. Contavansi tra li prigionieri Alfonso il magnanimo ed i suoi due fratelli, il re di Navarra ed il gran maestro di san Giacomo di Calatrava, il duca di Suessa, il principe di Taranto, conte di Fondi, il gran maestro di san Giovanni d'Alcantara, e cento principi o signori arragonesi e siciliani. Cinque mila prigionieri, tra i quali varj gentiluomini, non creduti abbastanza ricchi per pagare la taglia, furono posti in libertà lo stesso giorno; ma le moltissime ricchezze ritrovate sui vascelli furono preda del vincitore. Gli abitanti di Gaeta, volendo pure aver parte a tanta gloria, fecero una rigorosa sortita, e forzando le linee del campo nemico, se ne impadronirono.
La notizia di questa vittoria, la più importante, la più gloriosa di quante in tutto il secolo si fossero ottenute sul Mediterraneo, eccitò in Genova que' trasporti di gioja che quel popolo più non aveva provati dopo la perdita della libertà. L'antica ricordanza della gloria nazionale veniva ravvivata da così strepitosi vantaggi ottenuti sopra un popolo, che i Genovesi avevano in ogni tempo considerato come loro nemico. Il senato ordinò che per tre giorni si rendessero a Dio solenni azioni di grazie in tutte le chiese, e l'anniversario delle none d'agosto, giorno di san Domenico, venne consacrato con una perpetua festa[72].
Ma i Genovesi non tardarono ad accorgersi che Filippo Maria Visconti, il sovrano che si erano dato essi medesimi, invece di partecipare al loro giubilo, risguardava la gloria loro coll'occhio dell'invidia. Aveva dato ordine a Biagio Assereto di condurre immediatamente i prigionieri a Savona, di dove li farebbe passare a Milano, senza permettere che i Genovesi godessero del loro trionfo, ed aveva vietato al senato di dar parte della sua vittoria ai sovrani d'Europa: seppesi bentosto a Genova con grandissima sorpresa l'accoglimento che Filippo aveva apparecchiato ad Alfonso, ai suoi fratelli, ed agli altri prigionieri a lui mandati a Milano[73].
Filippo d'ordinario poco generoso lo era oltre ogni credere verso i prigionieri che la sorte delle armi dava in suo potere. Accolse Alfonso nello stesso modo con cui molti anni prima aveva ricevuto Carlo Malatesti, e gli diede tante prove d'amore e di rispetto, che quasi giunse a fargli scordare la sua disgrazia. Con tale condotta incoraggiò il re d'Arragona a disvelargli il suo sistema politico, a discutere con lui i suoi veri interessi, ed a proporgli un intero cambiamento del complesso delle sue alleanze. Alfonso rappresentò al duca di Milano, che fin allora il regno di Napoli era stato cagione di perpetua lite tra due case rivali, e che le loro guerre civili avevano permesso al rimanente dell'Italia di consolidare la propria indipendenza. Per tutto il tempo che durarono tali guerre, gli diceva egli, i Visconti avevano potuto, senza offendere la politica, e senza rovesciare l'equilibrio dell'Italia, attaccarsi ora alla casa di Durazzo, ora a quella d'Angiò. Ma se la brillante vittoria dei Genovesi e la sua propria prigionia collocavano finalmente su quel trono la casa d'Angiò, siccome questa non avrebbe omai verun nemico da temere, riacquisterebbe in breve quel grado di possanza, ch'ebbe la prima casa d'Angiò sotto il regno del vecchio Carlo. In tale caso, come non prevedere che i Francesi, che avevano in ogni tempo aspirato alla conquista dell'Italia, e che verrebbero ad occuparne le due estremità, non la soggiogherebbero tutta intera? «I Francesi, gli diceva Alfonso, di tutti i vicini dell'Italia sono i soli pericolosi alla sua indipendenza. Le loro armate possono penetrare in pochi giorni nel centro della Lombardia; la rapidità loro e la loro maniera di trattare la guerra, tanto diversa da quella dei Tedeschi e degl'Italiani, sorprendono e spaventano i popoli; e l'arroganza loro dopo la conquista rende doppiamente sensibile la perdita della libertà. Il sovrano della Lombardia deve ricordarsi continuamente che la principale sua politica consiste nel chiudere il passaggio delle montagne. È inevitabile la sua ruina, s'egli medesimo li rende padroni delle province meridionali, e se gli obbliga a stabilire una giornaliera comunicazione tra i loro proprj confini ed il regno, ch'egli vuole far loro acquistare. L'Italia tutta altro in breve non sarebbe, che la strada di Napoli; sempre attraversata dalle armate francesi, sarebbe da queste tenuta in perpetua dipendenza e timore. Gli Arragonesi per lo contrario, che non possono avere alcuna comunicazione continentale col regno di Napoli, se giungono ad esserne padroni, faranno necessariamente causa comune con tutti gl'Italiani, onde custodire il solo confine pel quale può essere attaccata l'Italia. Il paese che i miei antenati mi lasciarono da governare (soggiunse Alfonso) è piccolo e povero, onde non avverrà giammai che colle sole mie forze io possa rovesciare l'equilibrio dell'Europa. Altronde la difficoltà di trasportare numerose armate sopra una flotta, mi toglierebbe di approfittare di un potere assai più considerabile, quand'anche io potessi disporne. Oggi che tutti gli stati tendono ad aggrandirsi, che Sigismondo manifesta l'intenzione di trasmettere l'Ungheria e la Boemia alla casa d'Austria; che Carlo VII, di già riconciliato col duca di Borgogna, non tarderà a fare la pace cogl'Inglesi, e che in allora potrà disporre di tutte le risorse di una monarchia ancora più vasta, conviene preventivamente pensare alla resistenza che noi potremo opporre a così formidabili avversarj. Quando le guerre civili, onde sono ancora travagliati, saranno terminate, si sforzeranno di rovesciare sopra di noi le armate che hanno avvezzate alla guerra, per non averle a proprio carico. Gl'Italiani e gli Spagnuoli sono fatti per unirsi e resistere insieme: rassomiglianza di governo, di costumi, di lingua, possono rendere più intima la loro unione, ma non mai gli uomini del mezzogiorno si accostumeranno alle usanze o all'impero degli uomini del nord; giammai non sopporteranno l'insolente petulanza de' Francesi, o il sussieguo, e la rigidezza de' Tedeschi»[74].
A così potenti motivi politici aggiunse Alfonso, per persuadere Filippo, il prodigioso potere che il suo spirito e l'eleganza delle sue gentili maniere gli davano sul cuore degli uomini. Questo principe, d'origine castigliana, aveva un non so che di più fiero, di più aperto, di più cavalleresco, che non avevano gli Arragonesi suoi sudditi, o gl'Italiani tra i quali combatteva. La sua vita era divisa tra l'amore, le lettere e le armi. Conservava nel suo cuore un profondo dolore per la morte di Margarita d'Hijar, sua amica, che dopo avergli dato un figlio, Ferdinando, che fu poi re di Napoli, era stata strozzata per ordine di sua moglie, Margarita di Castiglia. Egli non aveva voluto vendicarla, nè rivedere la sua carnefice, e si era allontanato dal suo regno, per alleggerire il suo dolore, occupandosi in pericolose spedizioni. In mezzo alle continue guerre in cui l'aveva impegnato la sua ambizione, non erasi in lui punto scemato quell'amore delle lettere che ispirato gli aveva Antonio Beccadelli di Palermo, primo suo precettore, poi consigliere, e talvolta suo ambasciatore nelle più importanti occasioni. La sua corte era composta di letterati, egli riandava sempre col pensiere l'antichità, viveva con Cesare e con Alessandro non meno che con i suoi contemporanei, ed in un secolo in cui coltivavansi con entusiasmo le lettere classiche, in cui la gloria sembrava riservata all'erudizione, in cui l'eleganza del dire curavasi ancora più che il pensiere, pareva che Alfonso possedesse tutta la gloria umana. Tutti i dispensieri della fama erano da lui stipendiati, tutti i letterati magnificavano le sue imprese, e pareva che il di lui suffragio desse la misura del merito e del sapere. Egli riuniva nel suo aspetto, nella sua espressione, nelle sue maniere, tutte le qualità che seducono il cuore, e che abbagliano gli occhi: vivace era il suo ingegno, persuasivo e pieno di grazie. Giunse perciò in breve a dominare, ed a cattivarsi in modo Filippo Maria, il di cui carattere non erasi fin allora aperto all'amicizia, che il vincitore non ebbe altro consigliere, altro confidente, fuorchè il suo prigioniero[75]. Si strinse fra di loro un'intima alleanza, ed il duca di Milano, determinato di far acquistare al suo ospite il regno di Napoli, ordinò ai Genovesi di apparecchiare sei grandi navi di linea, per ricondurre Alfonso con tutta la di lui corte ne' luoghi medesimi in cui l'avevano vinto, e per combattere d'or innanzi in suo favore[76].
Frattanto Filippo Maria non tardò ad avere avvisi dell'indignazione che i suoi ordini avevano eccitata in Genova, ove il fermento era così grande, che tutto di già annunciava una ribellione. Credette il duca di prevenirla col chiamare a Milano una deputazione de' più ragguardevoli uomini dello stato, sotto colore di trattar con loro intorno alla taglia del re d'Arragona. Disse loro che Alfonso aveva convenuto di cedere la Sardegna ai Genovesi quale prezzo della sua libertà, e li rinviò colmi di gioja per la speranza di un acquisto di tanta importanza. In pari tempo mandò a Genova due mila uomini, destinati, siccome egli diceva, a montare a bordo delle galere che prenderebbero possesso della Sardegna. Ma i Genovesi conobbero bentosto d'essere stati dal duca ingannati, e che la promessa di render loro la Sardegna non era che un'esca destinata a far aprire le loro porte alla guarnigione, ch'egli voleva stabilire nella loro città.
Una nuova offesa rese più vivo il loro risentimento; alcuni deputati di Gaeta erano venuti a rallegrarsi coi Genovesi della loro vittoria, a ringraziarli de' soccorsi loro prestati, ed a pregarli di custodire la città di Gaeta fino alla fine delle guerre del regno di Napoli. Il duca, informato dell'arrivo di questi deputati, adoperò ogni maniera di seduzioni per persuaderli ad abbandonare il partito d'Angiò, ad aprire le porte al re Alfonso, e li rinviò senza permettere che i Genovesi accettassero l'offerta che gli avevano fatta[77].
Mentre ciò accadeva, un nuovo governatore, Erasmo Trivulzio, fu dal duca mandato a prendere il comando di Genova, invece di Pacino Alciati ch'egli aveva richiamato. Risolvettero i Genovesi di approfittare delle cerimonie del suo installamento per ricuperare la loro libertà. Il vecchio governatore era uscito per incontrare il nuovo: nell'istante in cui rientravano l'uno e l'altro, ed avevano appena passata la porta di san Tomaso, questa venne chiusa dietro loro, e furono separati i due governatori da tutti i loro soldati. Quando se ne avvidero, vollero fuggire, ed il Trivulzio giunse infatti alla rocca del Castelletto, ove si chiuse. Ma Pacino Alciati, raggiunto presso al Fossatello, fu ucciso, ed il suo cadavere lasciato qualche tempo esposto agli occhi del popolo avanti alla chiesa di san Siro, mentre risuonavano per tutta la città grida che invitavano alle armi ed alla libertà. Francesco Spinola, quello stesso che aveva così valorosamente difesa Gaeta, si fece capo degl'insorgenti; attaccò i soldati milanesi, scoraggiati dalla perdita dei due loro capi, e li costrinse ad arrendersi quasi senza combattere. La città di Savona, avuto avviso della rivoluzione di Genova, si affrettò d'imitarne l'esempio; sorprese egualmente e scacciò la guarnigione milanese: i varj castelli che il duca possedeva nei contorni della capitale e nelle due riviere furono collo stesso impeto ripresi dal popolo, ad eccezione del Castelletto, che capitolò soltanto ne' primi mesi del susseguente anno. Fu il 27 dicembre del 1435[78], che i Genovesi si rialzarono al rango dei popoli liberi. Incaricarono sei de' più illustri loro cittadini di rivedere le leggi patrie, e di dare alla costituzione nuovo vigore; nello stesso tempo mandarono ambasciatori a Venezia ed a Firenze per chiedere l'alleanza delle due repubbliche, e guadagnare la loro protezione contro il duca di Milano, loro comune nemico[79].
CAPITOLO LXVIII.
Gli emigrati fiorentini persuadono il duca di Milano a rinnovare la guerra contro Firenze: questa repubblica scontenta di Venezia soscrive una tregua separata; assedio di Brescia; pericolo dei Veneziani.
1436 = 1438. Due sole repubbliche, Venezia e Firenze, sostenevano con costanza in Italia la causa della libertà, mostrandosi sempre apparecchiate a fare argine ai progetti degli usurpatori, ed a mantenere fra i diversi stati quell'equilibrio che a ciascheduno conservasse la rispettiva importanza e ricchezza. Pure queste due città non avevano una costituzione che fosse propria ad assicurare a loro medesime i vantaggi di quella libertà di cui si mostravano tanto gelose. La forma del governo era tale, che assicurava bensì l'impiego delle forze individuali a favore della causa pubblica, ma non guarentiva colla forza pubblica la libertà, la proprietà e la vita di ogni individuo. Vedevasi in queste repubbliche lo sviluppamento di sommi talenti, di molto zelo, di molte virtù pel servigio della patria; ma non vi si trovava quel felice equilibrio dei poteri, che deve impedire ai magistrati di opprimere il popolo, e ad una fazione di soverchiare l'altra. A Venezia un'autorità forte e segreta faceva tacere tutte le personali passioni, fino dalle loro prime mosse fermava tutte le fazioni, preveniva tutte le rivoluzioni, e non permetteva che alcun uomo, alcun carattere, alcun individuo si staccasse dalla massa comune. Lo spirito non aveva che l'astratta nozione di repubblica; vedevansi sulla scena la signoria, il gran consiglio, il consiglio dei dieci, vedevansi animati da una ambizione profonda, orgogliosa, ostinata, che mai non veniva meno; pure non attaccavasi verun nome alle loro decisioni. Il carattere o le virtù del doge, la prudenza d'un consigliere, i talenti d'un oratore non trasparivano giammai dal velo che copriva tutte le deliberazioni della signoria. Gli stranieri, gli storici, i medesimi sudditi dello stato vedevano sempre la repubblica come un ente ideale, che mai non mutava sistema, che non aveva che eterne passioni, e che pure impiegare sapeva per giugnere a' suoi fini tutti i talenti e tutte le virtù che l'amore di patria può risvegliare in ogni cittadino, quand'egli sente che questa patria osserva le sue azioni, e che ancor egli è qualche cosa nello stato.
Affatto diversa era la repubblica fiorentina; la di lei costituzione era meno forte d'assai che lo spirito pubblico, onde era animata: la signoria, i consiglj, le magistrature, avevano un credito meno stabile, un carattere meno marcato dei cittadini che li dirigevano. I corpi costituiti rientravano nell'oscurità per lasciar figurare gl'individui; ed il potere dello stato, invece d'essere concentrato nelle mani de' pubblici magistrati, trovavasi quasi tutto fuori delle magistrature. Veniva questo esercitato da alcuni uomini la di cui prudenza, la ricchezza, l'eloquenza e le parentele costituivano il credito. A misura che questi uomini, trionfavano gli uni degli altri, che riuscivano a soppiantarsi, a mandarsi reciprocamente in esilio, vedevasi la repubblica passare dalle mani di una famiglia in quelle di un'altra. Allora i diritti de' cittadini venivano violati dalla fazione trionfante, come a Venezia lo erano frequentemente dalla permanente autorità dei magistrati; ma la forma del governo conservavasi press'a poco la medesima, ed il suo spirito esterno era ancora più costante. Vedevasi con maraviglia la politica de' Fiorentini, riguardo a tutto il rimanente dell'Italia, conservarsi così ferma, così irremovibile, come se un antico immutabile senato avesse dettate tutte le sue disposizioni.
La fazione degli Albizzi, che aveva dominato per lo spazio di cinquantatre anni, dal 1381 al 1434, erasi resa benemerita della repubblica fiorentina. In così lungo tempo aveva dato prove di tanta saviezza, costanza, e moderazione nella direzione degli affari, che non era stata pareggiata da quelle che l'aveva preceduta, nè imitata dall'altra, che la seguì. Furono gli Albizzi, che sventarono più volte gli ambiziosi progetti di Giovan Galeazzo, primo duca di Milano, di Ladislao, re di Napoli, e di Filippo Maria Visconti. Nello stesso tempo che avevano in tal maniera mantenuta la libertà dell'Italia, essi avevano rispettata quella del proprio paese. Maso degli Albizzi, Niccolò d'Uzzano e Rinaldo degli Albizzi, che si erano succeduti nella direzione del governo, non avevano mai lasciato di essere semplici cittadini, mai non si erano arrogati nè sullo stato, nè sul proprio loro partito, un'arbitraria autorità, nè avevano impiegato verun mezzo nascosto per accrescere o la propria influenza o le proprie ricchezze. Invece di ricorrere alla forza o alla corruzione per consolidare il loro credito, non avevano altro appoggio che il proprio merito, i talenti ed i parentadi. La rivoluzione che li rovesciò nel 1434, innalzando in vece loro Cosimo de' Medici, cominciò da quell'istante ad alterare in Firenze i principj del governo repubblicano. Il partito dei Medici era distinto dal nome di partito popolare, e il di lui trionfo venne risguardato come una vittoria della democrazia sopra l'aristocrazia; ma appunto per ciò riuscì più funesto ai sentimenti di eguaglianza. Quanto più i partigiani di Cosimo dei Medici erano di un ordine subalterno, tanto più le immense ricchezze, e l'infinita considerazione di questo capo erano sproporzionate alla loro oscurità. Egli diventò l'uomo del suo partito assai più esclusivamente che non lo era stato del proprio Rinaldo degli Albizzi; e da quest'epoca in poi la famiglia dei Medici cominciò a camminare a passi da gigante verso la sovranità della Toscana, di cui si rese padrona dopo un secolo.
Il trionfo del partito dei Medici fu accompagnato da molti atti tirannici. La balìa, che aveva data nuova ferma al governo, percosse con sentenze rivoluzionarie la maggior parte dei capi della vinta fazione. La signoria che sedeva nei mesi di novembre e dicembre del 1434, e che assolutamente era addetta ai Medici, fu ancora più rigorosa. Prolungò il termine dell'esilio di alcuni proscritti, aggravò per altri la pena della relegazione, obbligandoli a soggiornare in luoghi insalubri, o lontani da tutti i loro interessi, stese le sue condanne sopra molte nuove vittime, ed era ne' suoi giudizj meno diretta dalla condotta tenuta da coloro ch'ella condannava, che dall'importanza che dar loro potevano le ricchezze, i parenti ed il numero degli amici[80]. Ella mai non si astenne dallo spargere il sangue. Antonio, figlio di Bernardo Guadagni, venne decapitato con altri quattro cittadini; e furono visti con non minore maraviglia che spavento tra coloro che subirono l'estremo supplicio Cosimo Barbadori e Zanobio Belfratelli, i quali, avendo abbandonato il luogo della loro relegazione per andare a Venezia, eranvi stati arrestati per ordine della signoria e mandati a Cosimo de' Medici, con aperto disprezzo del diritto delle genti, e di quell'ospitalità universale che i Veneziani medesimi riguardavano come una franchigia della loro città[81].
Tanti esilj e condanne dovevano all'ultimo indebolire la repubblica; onde il partito vincitore per compensare Firenze delle perdite che le aveva cagionate, distribuì molte grazie ai suoi aderenti. La famiglia degli Alberti, che un mezzo secolo prima era stata dichiarata ribelle, venne riammessa a tutti gli onori che aveva perduti; quasi tutte le antiche condanne furono abolite, e quasi tutti i grandi ristabiliti nell'esercizio dei diritti di cittadinanza. Si esaminarono tutte le borse da cui cavavansi a sorte i magistrati, e ne furono levati tutti i nomi sospetti di parzialità per gli Albizzi, sostituendovi quelli de' più zelanti partigiani del nuovo governo. E con più attenta cura si procedette inoltre nello scegliere i giudici criminali. Gli esiliati, anche spirato il termine del loro esilio, non furono ammessi a rientrare in patria che dopo avere ottenuti da trentasette votanti trentaquattro voti favorevoli in una deliberazione della signoria unita al collegio. Ogni corrispondenza coi proscritti, ogni azione, ogni parola sospetta, furono severamente punite; e coloro, tra i partigiani del precedente regime, che non furono nominativamente condannati, vennero assoggettati a straordinarie contribuzioni, colle quali si cercò di ruinarli[82].
Rinaldo degli Albizzi, che aveva avuto ordine di allontanarsi più di cento miglia da Firenze, non tardò a violare i confini assegnatigli, ed a incorrere per tale motivo in una condanna a morte come ribelle. Ma poco atterrito da questa impotente sentenza, ad altro più non pensava che a riaccendere la guerra tra Firenze ed il duca di Milano, onde tornare in patria coll'ajuto delle armi straniere. Pareva che i Fiorentini ed i Veneziani avessero violata la pace recentemente segnata, ricevendo i Genovesi come loro alleati. Col trattato di pace avevano riconosciuto il Visconti come signore di Genova, onde non potevano promettere soccorsi ai Genovesi ribelli. Tosto che Rinaldo degli Albizzi ebbe contezza di questa violazione dell'ultimo trattato si recò presso il duca di Milano. Ne' suoi discorsi non cercò di palliare la lunga sua nimicizia colla casa Visconti, nè la vigilanza con cui aveva resi vani i suoi progetti in tutto il tempo ch'egli era stato alla testa della repubblica; allora, egli diceva, aveva fatto il debito suo verso la patria, e non credeva adesso di soddisfare meno utilmente al dovere di fedele cittadino, armando contro di lei un possente vicino; giacchè non mirava a farla schiava, ma bensì a renderle la perduta libertà. «La calamità d'un malvagio governo, gli diceva egli, è ben più durevole e più perniciosa assai che una guerra; ed il male passaggiero che noi facciamo oggi alla nostra patria, è il solo mezzo che ci rimane per preservarla da un perpetuo male.» Fece in appresso osservare, che Firenze, accettando l'alleanza Genovese, aveva dato al duca un giusto motivo di riprendere le armi; che questa repubblica, impoverita, divisa, e che sospirava un liberatore, prometteva al suo nemico quegli avvenimenti, che mai avuti non aveva nelle precedenti guerre[83].
Filippo Maria lasciossi persuadere dai discorsi di Rinaldo e degli altri fuorusciti fiorentini; suppose che potesse scoppiare in questa repubblica una rivoluzione, e che convenisse porsi in situazione di approfittarne. Ma i nemici di uno stato, quando fondano le speranze loro sull'interno malcontento, sono d'ordinario tanto più facilmente ingannati, quanto sono meglio serviti dalle loro spie. I bucinamenti, l'impazienza, i desiderj di vendetta, ne' quali confidano, esistono effettivamente, ma non producono verun effetto, nè mai corrispondono all'aspettazione. Il pubblico potere, lungi dall'essere inceppato dagli umori di alcuni malcontenti, trova frequentemente ne' medesimi un pretesto per ispiegare maggiore energia, e l'orgoglio nazionale rare volte permette ai popoli, che soffrono maggiormente, di aspettare dagli stranieri il loro sollievo.
Del rimanente il Visconti era spinto a far la guerra a Firenze, più che dalle istanze degli emigrati, dalla sua personale animosità. Aveva ordinato a Niccolò Piccinino d'attaccare immediatamente Genova, e di soccorrere i soldati milanesi che difendevano il Castelletto; ma tutti gli sforzi di così valente generale per liberare questa fortezza erano riusciti vani. Mentre egli sforzava i passaggi della Polsevera, che riuniva san Pier d'Arena e parte della Riviera di Ponente, il Castelletto aveva capitolato, sto per dire, sotto i suoi occhi, e dai Genovesi era stato demolito[84]. Allora il duca ordinò al suo generale di recarsi nella Riviera di Levante per minacciare nello stesso tempo Genova e la Toscana, e per approfittare dell'occasione di sorprendere i Fiorentini prima di dichiarar loro la guerra.
Le negoziazioni, non altrimente che i movimenti militari, procedevano con estrema lentezza, onde passò tutt'intero il 1436 senza che si dichiarasse la guerra. Il Piccinino dava voce di agire in proprio nome come condottiere, non già come generale del duca di Milano; annunciava di voler passare nel regno di Napoli ai servigi d'Alfonso; minacciava di farsi strada colle armi alla mano, e sotto questo pretesto attaccò Pietra Santa, poi Vico Pisano, indi Barga, che i Fiorentini difesero contro di lui[85]. Questi gli opposero il conte Francesco Sforza, condottiere, che contratta aveva con Cosimo de' Medici la più intima confidenza ed amicizia, e che innalzandosi al di sopra della falsa e ristretta politica de' mercanti di soldati, manifestava di già i sentimenti d'un cavaliere e d'un principe.
Francesco Sforza era stato dichiarato da Eugenio IV sovrano della Marca d'Ancona e gonfaloniere della chiesa, ed in contraccambio aveva ristabilita l'autorità del papa in quasi tutti gli stati che si erano contro di lui ribellati. Anche in sul cominciare di questo stesso anno 1436 gli aveva sottomesso Forlì, cacciandone Antonio degli Ordelaffi[86]. Ma Eugenio IV non ebbe appena ricuperato il patrimonio de' suoi predecessori che si era pentito d'averlo ricuperato coll'alienazione della Marca d'Ancona. Per riacquistare questa provincia aveva convenuto con Baldassar di Offida, suo luogotenente a Bologna, ov'egli medesimo in allora risiedeva, di far assassinare il suo generale. Ma lo Sforza ebbe avviso di questa trama da un cardinale, suo amico, la vigilia stessa della sua esecuzione; ed avendo intercettata una corrispondenza che disvelava apertamente il progetto d'Eugenio e del suo malvagio agente, s'accontentò di rapire il 16 settembre Baldassar d'Offida di mezzo all'armata pontificia, e di mandarlo nella torre del castello di Fermo, ove questo sventurato morì tra le catene; lo Sforza non mostrò verun risentimento contro Eugenio IV, che tutto tremante gli faceva le più umili scuse, e dava colpa di tutta l'iniquità che aveva voluto commettere al suo solo consigliere[87].
Era unicamente pel mantenimento dell'equilibrio d'Italia, che il conte Francesco Sforza mostrava tanta moderazione. La di lui ambizione non rimaneva soddisfatta, come quella degli altri condottieri, dalle semplici vicende della guerra; di già nudriva la speranza di raccogliere un giorno parte dell'eredità del duca di Milano, facendo valere gl'incerti diritti di Bianca, figliuola naturale di questo duca, di cui gli era stata da gran tempo promessa la mano. Più non rimaneva alcuna prole legittima de' Visconti per riclamare la loro eredità, e le pretese d'una bastarda potevano acquistare qualche valore dall'appoggio d'un soldato di fortuna. Ma lo Sforza conosceva le astuzie, la falsità e l'inconseguenza del futuro suo suocero; sapeva che il solo timore aveva potuto ispirargli l'idea di formare questo parentado; non voleva comprometterne l'importanza, o cessare un solo istante di comparire formidabile agli occhi del duca di Milano, di cui domandava sempre la figlia. Voleva in pari tempo conservare la sua sovranità della Marca, la riputazione di primo generale d'Italia, ed il comando della più bella armata. S'egli la metteva al soldo del Visconti, arrischiava di vederla dispersa o distrutta dagli artificj e dalla gelosia di colui che si sarebbe dato per padrone. Egli non era ricco abbastanza per mantenere i suoi soldati a proprie spese; onde richiedeva il suo vantaggio ch'egli s'unisse alle due repubbliche, che sole bilanciavano la potenza del duca; che fosse sempre apparecchiato a combatterlo, e che non lasciasse in pari tempo d'accarezzarlo; finalmente che mantenesse, non meno colle armi che coi trattati, l'equilibrio dell'Italia, il quale era oggetto della politica degli stati, cui egli serviva[88].
Voleva questa politica che non si alterasse l'unione delle due repubbliche col papa, poichè la loro lega appena uguagliava la forza di quella del duca di Milano con Alfonso; e l'equilibrio di queste due leghe era la sola guarenzia dell'esistenza di tutti i piccioli stati dell'Italia. Altronde ciascheduno trovavasi avere ai suoi servigj un'associazione militare, il più delle volte indicata col nome di scuola; e la rivalità di queste due scuole formava la sicurezza dell'uno e dell'altro partito. Eransi esse formate in sul declinare del quattordicesimo secolo; l'una da Braccio da Montone, e l'altra da Sforza Attendolo, padre del conte Francesco. L'inimicizia di questi due grandi capitani, ch'erasi mantenuta viva fino alla loro morte, passò in tutti gli allievi ch'essi avevano ammaestrati nel mestiere delle armi, e che, dispersi in servigio di tutti gli stati d'Italia, erano pur sempre uniti da questa gelosia di corpo. La milizia, ossia scuola di Braccio, aveva allora per suo capo Niccolò Piccinino, che si mantenne costantemente attaccato al duca di Milano; fu questa una sufficiente ragione agli occhi degli allievi dello Sforza, e del conte Francesco, loro capo, per non abbandonare il partito delle repubbliche. Niccolò Piccinino e Francesco Sforza trovaronsi in faccia l'uno all'altro ai confini dei territorj lucchese e pisano, in ottobre del 1436; ma sì l'uno che l'altro veniva ritenuto dal timore di dar principio ad una nuova guerra, cui i sovrani che servivano non erano ancora pienamente determinati. Le loro scaramucce erano risguardate come effetto della rivalità esistente tra le due scuole, e non interrompevano i trattati di papa Eugenio diretti al mantenimento della pace d'Italia. Frattanto il Piccinino aveva nel cuore dell'inverno assediata Barga, in allora piazza di grande importanza, e la di cui perdita poteva trarsi addietro quella di tutta la Liguria fiorentina, onde i consiglj di Firenze si decisero per la guerra. Ordinarono allo Sforza di soccorrere Barga ad ogni costo, senza risparmiare più oltre i sudditi del duca di Milano o della repubblica di Lucca, la quale aveva acconsentito che s'incominciassero le ostilità nel suo territorio. Lo Sforza fece attraversare le montagne a tre de' suoi capitani con due mila cinquecento uomini, i quali improvvisamente piombando sopra gli assedianti, il giorno 8 di febbrajo del 1437, li ruppero, loro facendo molti prigionieri, e forzandoli a levare l'assedio[89].
Alla notizia delle prime ostilità, che ebbero luogo in Toscana, i Veneziani ordinarono al loro generale, Giovan Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, di occupare la Ghiara d'Adda; questa diversione costrinse il Piccinino a ripassare in Lombardia per opporsi ai Veneziani[90]. Ma abbandonando la Toscana lasciava, per così dire, la repubblica di Lucca esposta alle vendette di Francesco Sforza. Questo piccolo stato, che conosceva la propria debolezza, e che temeva per la sua indipendenza, aveva quasi sempre creduto di dover far causa comune coi nemici de' Fiorentini. I Lucchesi eransi posti in così pericolosa situazione piuttosto per diffidenza che per ambizione. Dopo avere provocati i loro potenti vicini per compiacere il duca di Milano, trovaronsi soli a fronte loro. Altronde il costante oggetto dell'ambizione della repubblica fiorentina era quello di stendere il suo dominio su tutta la Toscana, ed a più riprese aveva tentato d'impadronirsi di Lucca; nella quale impresa non era riuscita il più delle volte per la gelosia de' proprj alleati piuttosto che per la potenza dei nemici. In primavera del 1437 Francesco Sforza guastò tutto il territorio di Lucca senza incontrare ostacolo. Prese poi Camajore, Monte Carlo ed Uzzano, ragguardevoli castelli che furono mal difesi. Ma i Lucchesi, abbandonando le loro campagne in balìa de' nemici, eransi chiusi entro le loro mura, risoluti di difendersi fino all'ultima estremità. «Che si ruinino i nostri campi (loro aveva detto un magistrato), che s'inceneriscano le nostre ville, che si occupino le nostre terre; se noi salviamo la patria, verrà un tempo in cui riaveremo ogni cosa: ma se perdiamo la patria, invano avremmo salvata ogni altra cosa. Se conserviamo la libertà il nemico non potrà tener sempre i nostri poderi; se noi la perdiamo, non sarà forse in allora ancora padrone de' nostri beni[91]?»
Ma i Veneziani, invece di fare una vantaggiosa diversione, attaccando il duca di Milano, avevano posto il proprio stato in pericolo. Gattamelata, uno de' loro generali, era stato battuto nel passaggio dell'Adda[92], ed il Gonzaga, malcontento di non vedersi onorato di un'intera confidenza, si era dimesso dal comando della loro armata. I Veneziani chiesero caldamente, ed in ultimo ottennero dai Fiorentini il conte Sforza per opporlo al Piccinino; onde lo Sforza, abbandonato l'assedio di Lucca, avanzossi fino a Reggio per richiamare a sè l'armata lombarda che minacciava gli stati di Venezia; ma essendosi per sistema prescritto varj riguardi verso il duca di Milano, voleva soltanto combattere contro le sue armate, ma non invadere i suoi stati. Gli aveva promesso di non passare il Po per attaccarlo, e per quante istanze gli fossero fatte dai Veneziani e dai Fiorentini, mai non volle mancar di parola al duca. I Veneziani sdegnati ricusarono di pagargli il soldo pattuito, e Cosimo De' Medici andò invano a Venezia per mettere d'accordo questa repubblica col suo generale; lo Sforza tornò in Toscana senza avere combattuto in Lombardia. Frattanto una così aperta deferenza pel Visconti gli aveva dato un nuovo credito alla corte di Milano, onde ricominciò le sue negoziazioni per ottenere in matrimonio Bianca, figliuola del duca, tosto che uscirebbe dalla fanciullezza. In pari tempo propose una tregua tra il duca, i Lucchesi ed i Fiorentini, ed infatti ottenne che fosse per dieci anni soscritta, il 28 aprile del 1438. I Fiorentini conservarono le conquiste che avevano fatte sui Lucchesi, i quali furono ridotti a non avere intorno alla città che un territorio di sei miglia di raggio. Per altro in breve tutto il paese tolto ai Lucchesi, durante la guerra, venne loro restituito per accondiscendenza del vincitore, ad eccezione di Monte Carlo, d'Uzzano e del porto di Motrone[93].
I Veneziani, che si piccavano di non abbisognare di esterni soccorsi per mantenere la loro indipendenza, erano stati eccitati invano o a continuare a pagare la parte loro de' sussidj pel mantenimento dell'armata, o ad accettare di concerto coi Fiorentini la pace che lo Sforza offriva di negoziare. Essi rimasero soli impegnati nella guerra, e non si lagnarono dell'abbandono de' loro alleati. Del resto quest'abbandono non durò lungamente, perchè il Visconti doveva nuovamente rendere la guerra generale. La sua inquieta politica, la sua versatilità sembravano accrescersi coll'età. Difficilissimo riesce il potergli tener dietro nel continuo cambiamento de' suoi progetti, non seguendo egli alcun piano vastamente concepito, ma soltanto l'instabilità del proprio carattere. La sua improvvisa alleanza con Alfonso eragli costata la perdita di Genova; per ricuperare Genova aveva posta Lucca in pericolo, ed intrapresa la guerra coi Fiorentini, facendo la pace coi quali sagrificava parte dello stato di Lucca, abbandonava Genova e comprometteva gli interessi d'Alfonso, di cui aveva a così caro prezzo comperata l'alleanza.
Alfonso, carico dei regali del Visconti e libero da ogni taglia, era ripartito alla volta del regno di Napoli, in principio del 1436. Il 2 febbrajo era venuto a sbarcare a Gaeta con tutti i signori che uscivano dalle prigioni di Milano. Gaeta, che aveva sostenuto un lungo assedio per la casa d'Angiò, assedio terminato in un modo così clamoroso per la disfatta di Alfonso, era stata più facilmente vinta dalla sua magnanimità che dalle sue armi. Sei mesi dopo la battaglia di Ponza aveva aperte le porte a don Pedro, fratello del re d'Arragona[94]. Durante questo tempo, Elisabetta di Lorena, moglie del re Renato, erasi recata a Napoli, per prendere il comando dei partigiani della casa Angioina. Suo marito non aveva potuto porsi alla loro testa, perchè per una strana combinazione i due pretendenti al trono di Napoli si trovavano prigionieri nello stesso tempo. La successione di Carlo I, duca di Lorena e di Bari, aveva accesa la guerra, che costò a Renato la libertà. Egli aveva sposata Elisabetta, figlia primogenita di Carlo, che non aveva maschi, e pretendeva di ereditare la Lorena, che gli veniva contesa dal conte Antonio di Vaudemont, fratello dell'ultimo duca. I Lorenesi si erano dichiarati per Renato, il duca di Borgogna si dichiarò per il conte Antonio, e nella battaglia di Bullegneville, accaduta il 2 luglio del 1431[95], Renato fu fatto prigioniero dal duca di Borgogna. Egli era stato da prima rilasciato sulla parola; ma il suo nemico, meno generoso del Visconti, lo costrinse a ritornare alle sue catene quando venne chiamato al trono di Napoli; e non ottenne la libertà che a durissime condizioni, e dopo lunghi negoziati; dovette rinunciare ai suoi diritti sulla Lorena, pagare dugento mila scudi di taglia, e maritare sua figlia primogenita, Jolanda, al principe Ferrì, figlio del conte di Vaudemont. Per cagione di questa, Renato II, duca di Lorena e figliuolo di Ferrì, pretese poi d'avere il regno di Napoli[96].
Mentre Renato era prigioniere, Elisabetta sbarcava a Napoli senza danaro e senza soldati. Ella faceva capitale soltanto dell'appoggio de' partigiani della sua famiglia, costretta di abbandonarsi in loro balia. Alfonso, poco d'accordo co' suoi stati d'Arragona, non era di lei più ricco, e tutti due trovavansi ridotti, per fare la guerra, pressocchè alle sole forze del regno di Napoli. E per tal modo dipendevano dalle fazioni a vicenda trionfanti o vinte, e più ancora dagl'intrighi, dalla venalità e dalla gelosia dei varj loro condottieri, e de' principi feudatarj, che loro vendevano a caro prezzo i proprj soccorsi. Giovan Antonio Orsini, principe di Taranto, era il principale appoggio della fazione d'Alfonso, mentre che Giacomo Caldora[97], condottiere, che fu creato duca di Bari, poi contestabile del regno, sosteneva la causa di Renato. Tutti due non davano che piccole battaglie pei loro principi; ma le inaudite vessazioni ch'esercitavano nelle province, dove si trovavano accantonati, spingevano i popoli alla ribellione, e staccavano ora dal partito d'Angiò, ora da quello d'Arragona i gentiluomini o le città ch'eransi mostrate le più attaccate alla causa dell'uno o dell'altro re.
Papa Eugenio aveva rinunciato alla conquista del regno per sè medesimo, ed aveva abbracciata la parte di Renato. Commise a Giovanni Vitelleschi, patriarca d'Alessandria, che aveva nominato cardinale nel 1437, d'entrare nel regno per sostenere gli Angioini, e questo guerriero prelato, che non distinguevasi dagli altri condottieri che per essere più perfido e crudele, venne ad accrescere le sventure delle province napoletane, senza rendere molto più forte il partito che difendeva[98].
Non può osservarsi senza maraviglia che Filippo Maria Visconti prese parte in questa guerra per sostenere nello stesso tempo le due fazioni. Da una parte mandò negli Abruzzi Francesco, figlio di Niccolò Piccinino, con un ragguardevole corpo di cavalleria, per soccorrere Alfonso: dall'altro canto lo stesso anno persuase Francesco Sforza, ch'erasi con lui riconciliato, a condurre la sua armata nel regno di Napoli, sotto colore di assicurarsi dell'ubbidienza de' feudi che aveva ricevuti dal padre, ma infatto per assistere il re Renato, cui erasi attaccato da lungo tempo[99]. Una guerra che indeboliva i suoi vicini, che teneva i suoi rivali nell'incertezza, che esercitava i suoi soldati ed impiegava la loro attività, sembrava sempre al duca di Milano un notabile vantaggio; e non credeva d'acquistarlo a troppo caro prezzo colla ruina dei popoli, colla diffidenza de' suoi alleati, coll'esecrazione di tutti. Ma tale detestabile politica fu cagione della ruina de' suoi stati; lo espose in tutto il tempo del suo regno a continui timori e pericoli; e per ultimo, alla sua morte, lasciollo nell'impotenza di far rispettare le sue ultime volontà.
Il Visconti associava la licenza data allo Sforza di attaccare il regno di Napoli ad intrighi a lui più vicini. Non sapeva risolversi a lasciare tra le mani de' Veneziani le città di Bergamo e di Brescia, conquistate in una precedente guerra; ma prima di attaccarle voleva separare la repubblica di Venezia da tutti i suoi alleati. Cercava dunque di dare al papa, ai Fiorentini, al conte Francesco Sforza tali occupazioni che non permettessero loro di prendere parte negli affari di Lombardia[100]. Lo Sforza, chiamato a difendere contro Alfonso i suoi ricchi feudi nel regno di Napoli, più non gli era cagione d'inquietudine, finchè trovavasi a fronte di così formidabile nemico. Rispetto agli altri due, il Visconti era bensì obbligato a non prendere alcuna parte negli affari della Romagna e della Toscana, ma l'astuzia tante volte praticata di far agire i suoi condottieri in loro proprio nome, sempre gli dava il modo d'eludere tutti i trattati.
Niccolò Piccinino, capo de' soldati formati prima da Braccio, era tra gli altri generali d'Italia il più ligio al duca di Milano. Sarebbesi ancora giudicato il migliore e posto forse al di sopra di Francesco Sforza, se non avesse talvolta arrischiata per soverchio ardire la propria riputazione. Piccinino, il confidente di tutti i segreti del duca ed il suo più intimo confidente, si mostrò fieramente adirato, quando seppe l'accordo di Francesco Sforza e del Visconti, il di cui prezzo essere doveva la mano di Bianca. Si lagnò altamente che il duca di Milano promettesse al suo più costante nemico ricompense assai più brillanti di quelle che avesse mai fatte sperare al suo più fedele servitore. Nello stesso tempo condusse le sue truppe a Camurata in Romagna tra Forlì e Ravenna e vi si afforzò, come se volesse porsi al sicuro dalla collera del suo antico signore. Quando la notizia di questa contesa si trovò bastantemente accreditata, il Piccinino fece segretamente offrire al papa di ricuperargli tutti gli stati che aveva infeudati allo Sforza, e che tanto spiacevagli di avere alienati. Altro non gli chiedeva il condottiere che un poco di danaro per pagare il soldo alle truppe. Eugenio accolse subito questa proposizione, mandò cinque mila fiorini al Piccinino, e promise di accordargli più magnifiche ricompense, tosto che questi avrebbe fatto discendere l'odiato rivale Sforza dall'alto rango in cui era salito, e che avrebbe ristituiti i suoi stati alla Chiesa e privato il duca di un esperto generale. Il Piccinino allettò lungamente il pontefice con questo trattato, mentre andava fortificando il suo campo in Romagna, che occupava tutte le strade di Bologna, e che suo figlio, attraversando lo stato della chiesa giugneva fino nel centro dell'Umbria. Improvvisamente quest'ultimo sorprese e saccheggiò Spoleti; ed il padre, cavandosi nello stesso tempo la maschera, venne il 16 aprile del 1438 ad assediare Ravenna. Ostasio da Polenta, alleato del papa e dei Veneziani, che regnava in questa città, fu forzato per fare la pace a congedare la guarnigione veneziana che aveva ricevuta tra le sue mura, ed a porsi sotto la protezione del duca di Milano[101].
Ma lo stratagemma del Piccinino tendeva ad uno scopo assai più importante e l'acquisto ch'egli ambiva di fare più non poteva fuggirgli di mano; era questo Bologna, la seconda città dello stato della Chiesa. Lo stesso papa vi aveva lungamente soggiornato, e credeva, quando tre anni prima aveva preso possesso di Bologna, di essersene assicurata l'ubbidienza con un tradimento, ch'egli risguardava come un colpo di stato. Il suo legato, il vescovo di Concordia, eravi entrato il 6 dicembre del 1435; vi aveva subito pubblicato l'ordine d'Eugenio che riconciliava tutti i partiti, ed accordava la pace agli emigrati. Appoggiato a tale assicurazione Antonio Bentivoglio, che da quindici anni viveva in esilio era rientrato il 4 di dicembre colla maggior parte de' suoi amici in una patria che aveva governata come sovrano. Il 23 dello stesso mese era andato ad udire la messa, che celebrava lo stesso legato: uscendo dalla cappella si vide circondato dalle guardie del legato; gli fu tolto l'uso della lingua in bocca, e senza interrogatorio, senza giudizio, il podestà, ch'era in allora Baldassar di Offida, gli fece tagliare il capo nel cortile della sua casa. Il podestà aveva nello stesso tempo fatto invitare Tommaso Zambeccari a recarsi presso di lui; questi, andatovi senza diffidenza, venne impiccato senza che potesse gridare innanzi all'altare della cappella del palazzo. Il legato, per inspirare maggior terrore, volle che l'uno e l'altro morissero senza confessione, credendo di perdere in tal modo non meno le loro anime che i loro corpi. Li fece poi seppellire senza veruna cerimonia ecclesiastica, ed intanto ebbe l'impudenza di non accusarli di verun delitto, e non pretese di giustificare quest'orribile esecuzione che col timore inspiratogli dal numero troppo grande de' loro partigiani[102].
Eugenio IV essendosi in tal modo disfatto di questi capi che il popolo erasi avvezzato a rispettare, non pensava che Bologna potesse mai più scuotere il suo giogo; vi aveva fissata la sua residenza, ed eravi rimasto finchè gli affari del concilio l'avevano chiamato a Ferrara. Ma la pubblica esecrazione è l'immancabile conseguenza d'una pubblica perfidia; come più l'arco è fortemente curvato, così con maggiore sforzo tende a raddrizzarsi. Non fu appena Eugenio IV uscito di Bologna che i cittadini, diretti dagli amici e dai capi che ancora rimanevano alla casa Bentivoglio, presero le armi la notte del 21 maggio del 1438, aprirono le porte a Niccolò Piccinino che pose guarnigione nella fortezza, nominarono magistrati popolari, e sotto la protezione del duca di Milano e del suo generale, ritornarono a Bologna l'antico suo governo repubblicano[103]. Faenza, Imola e Forlì, si sottrassero nello stesso tempo all'autorità della Chiesa per porsi sotto la protezione del Visconti e del Piccinino. Astorre Manfredi, principe di Faenza e d'Imola, abbandonò liberamente l'alleanza del papa per quella del duca; per lo contrario Antonio degli Ordelaffi, che due anni prima era stato dal legato scacciato dal suo principato di Forlì, vi rientrò per mezzo d'una rivoluzione[104]. I Bolognesi e la maggior parte della Romagna essendo stati tolti al papa da quello stesso che si era cattivata la sua confidenza, il Piccinino scrisse ad Eugenio per rendergli un derisorio conto della commissione ond'era da lui stato incaricato, dichiarando che un pontefice che aveva cercato di porlo in discordia col suo padrone con vergognosi artificj, aveva giustamente meritato di perdere egli medesimo i proprj stati per un simile artificio[105].
Filippo Maria altro non aspettava che l'esito di questi varj intrighi per attaccare i Veneziani. Di già parevagli d'averli bastantemente staccati da tutti i loro alleati. Firenze, che in tutte le precedenti guerre era loro stata così intimamente unita, non sapeva perdonar loro d'averle nell'ultima fatta mancare l'impresa di Lucca. Altronde questa città, spaventata dalle rivoluzioni di tutta la Romagna, non doveva punto curarsi di prendere parte in una pericolosa guerra. Francesco Sforza erasi innoltrato negli Abruzzi fino ad Atri, aveva fatti dichiarare tutti i suoi vassalli per Renato d'Angiò, e di già cagionava ad Alfonso grandissimo danno: ma il Visconti, non volendo compromettere più oltre il suo vero alleato, fece, contro ogni aspettazione, significare a questo generale, che dovesse metter fine alle ostilità nel regno di Napoli, sotto comminatoria di vedersi sospeso il soldo che gli pagavano i Fiorentini[106]. Lo Sforza, di già impegnato in una difficile lotta, bisognoso di danaro, ed ignorando fino a qual punto potrebbe il duca di Milano avverare la sua minaccia, non pareva in istato di portare le sue armi in Lombardia; ed altronde era scontento de' Veneziani, ed il Visconti non lasciava d'averlo piuttosto in conto di alleato che di nemico. Finalmente Eugenio IV, che aveva perduto parte de' suoi stati, era ancora più atterrito dagli attacchi del concilio di Basilea che da quelli del Piccinino; imperciocchè il primo lo aveva deposto, sostituendogli Amedeo VIII di Savoja, amico del Visconti, che prese il nome di Felice V. Giovanni Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, aveva lasciata l'alleanza de' Veneziani ed il comando della loro armata, per passare a quella del duca, e la posizione de' suoi stati tra il Bresciano ed il Veronese rendeva la di lui alleanza doppiamente importante[107].
Niccolò Piccinino venne incaricato di approfittare di così favorevoli circostanze, e lo fece con quel vigore, con quella rapidità, che distinguevano gli allievi di Braccio. Attaccò prima Casal Maggiore presso Cremona, e l'occupò; attraversò l'Oglio, che Gattamelata, il generale de' Veneziani, volle inutilmente difendere, ed essendosi unito a Giovan Francesco Gonzaga, attaccò Brescia alle spalle; sottomise tutti i castelli e le fortezze de' Veneziani poste intorno a questa città, e sul lago di Garda, e costrinse Gattamelata a chiudersi in Brescia. Allora condusse le sue truppe nelle montagne per togliere ai Veneziani ogni comunicazione con questa città; onde il Gattamelata temette di vedersi affatto separato dagli altri stati della repubblica; risolse perciò di girare intorno al lago di Garda, attraversando le medesime montagne attaccate dal Piccinino, e ricondusse i suoi corazzieri a Verona per così difficili strade, che perdette più di ottocento cavalli[108].
Francesco Barbaro, che in allora aveva il comando di Brescia, era nato nel 1398 da un'illustre famiglia; era senatore ed era stato incaricato in altre occasioni di pubbliche missioni; ma sopra tutto andava debitore della considerazione di cui godeva alla sua eloquenza latina, alle varie sue opere ed alla stretta sua corrispondenza co' più celebri letterati del secolo. Difficile assai era la sua presente situazione; Brescia mancava di munizioni, ed era scoraggiata per la ritirata di Gattamelata e di tutta la cavalleria; altronde le nemiche fazioni, che si erano più volte azzuffate, parevano farsi più vive nell'avvicinamento del pericolo. Il Barbaro pose ogni suo studio nel riconciliarli, e vi riuscì, loro non lasciando altra emulazione che quella dei sagrificj che farebbero per l'onore del nome veneziano[109].
Il Gattamelata era uscito di Brescia il 24 di settembre, e dopo tale epoca il Piccinino aveva dato ogni giorno battaglie a tutte le porte, ora per isvolgere le acque che riempivano le fosse, ora per istabilire le sue batterie; dalle quali quindici bombarde facevano contro la città un continuo fuoco. I Bresciani avevano pure dal canto loro innalzate delle batterie, e tutta la popolazione veniva chiamata alle armi o al lavoro. I magistrati, i prelati, i monaci cavavano o trasportavano la terra in compagnia delle donne e de' fanciulli; tutte le botteghe e le officine erano continuamente chiuse, perchè ogni privata occupazione veniva trascurata per non attendere che alla grandissima della difesa della patria. Erasi in città manifestata la peste nel mese di agosto, e molti cittadini erano fuggiti per sottrarsi a questo flagello; quando cominciò l'assedio ritiraronsi ancora molte altre persone; e Barbaro loro volentieri accordava passaporti per risparmiare le sue munizioni, come il Piccinino le lasciava passare per rendere minore il numero dei difensori. Non restavano omai in Brescia due mila persone atte alle armi, e soltanto ottocento n'erano provvedute. Pure i Bresciani non si scoraggiarono: un terzo della popolazione invigilava ogni notte sotto le tende lungo le mura; e negli assalti generali, come fu quello dell'ultimo di novembre, l'intera città sosteneva l'urto di tutta l'armata. Ma i lavori degli assedianti si andavano avanzando; di già per molte strade coperte essi potevano giugnere fino nelle fosse, senza essere esposti alle artiglierie della piazza; essi avevano in più luoghi rotte le mura; altrove i minatori avevano condotte le gallerie fin sotto la città. Nell'assalto dato il 12 dicembre Brescia non andò debitrice della sua salvezza che al felice accidente, che fece cadere il muro esterno sopra gli assedianti, e non nella fossa, ov'erasi creduto che dovesse cadere. Il sanguinoso attacco che aveva cominciato allo spuntare dell'alba, e che durò fino a sera, si rinnovò all'indomani con eguale accanimento; ma ne' due assalti prodigiosa fu la perdita degli assalitori in paragone di quella degli assediati. Finalmente il 16 dicembre, il Piccinino, che di già aveva perduti due mila uomini sotto le mura di Brescia, e che temeva per la sua armata le malattie dell'inverno, bruciò tutti gli alloggiamenti, e ritirossi in ordine di battaglia. Giunto a qualche distanza dalla città, pose sulle tre principali strade i fondamenti di tre ridotti, tra i quali divise la sua armata, continuando in tal modo in onta del rigore della stagione il blocco della città, che più non isperava di prendere d'assalto[110].
Il Gattamelata cercò di far entrare soccorsi in Brescia a traverso alle montagne, ma tutti i convogli caddero in mano agli assedianti. D'altra parte i Veneziani fecero allestire sul Po una flotta d'oltre sessanta galere e di molti altri bastimenti, della quale ne affidarono il comando a Pietro Loredano, sperando con queste imponenti forze di conservarsi l'alleanza del marchese di Ferrara, e d'intimidire quello di Mantova; ma avanti che la flotta fosse interamente equipaggiata, il Gonzaga ebbe tempo di guarnire il Po di forti palafitte presso Sermide, Ostiglia e Revere, e di disporre dell'artiglieria sulle rive; onde il Loredano non potè avanzarsi[111].
I Veneziani, che omai più non avevano che un'armata debole e scoraggiata, vedevansi in pericolo di essere scacciati dal continente. I territorj di Verona e di Brescia erano occupati dai nemici, e le due città chiuse così da vicino, che aspettavasi da un giorno all'altro la notizia della loro resa. La repubblica trovavasi vivamente attaccata dal marchese di Mantova, e non osava di far fondamento sull'alleanza di quello di Ferrara: vero è che in appresso si acquistò l'amicizia di questi ed i suoi buoni ufficj, ma mediante la restituzione del Polesine di Rovigo, che da oltre trentun'anni teneva in pegno, e che non avrebbe mai restituito, qualora non si fosse trovata in estremo pericolo. Venezia, umiliata in una sola campagna, sentì allora tutto il prezzo dell'alleanza di Firenze, di cui aveva fatto sì poco conto. Malgrado la estensione de' suoi possedimenti di terra ferma, sentì che ancora non era giunto l'istante di contrastare colle sole sue armi la suprema autorità in Lombardia alla troppo potente casa Visconti; e la signoria spedì Giovanni Pisani nella Marca d'Ancona presso Francesco Sforza e Francesco Barbarigo presso la signoria di Firenze, per rinnovare un'alleanza che la tregua di dieci anni, soscritta il 28 aprile del 1438 tra Firenze ed il duca di Milano, aveva in certo qual modo annullata[112].
CAPITOLO LXIX.
I Fiorentini abbracciano con vigore la difesa di Venezia; battaglia di Tenna, d'Anghiari e di Soncino. — Liberazione di Brescia. — Pace di Martinengo, in forza della quale il Visconti dà sua figlia a Francesco Sforza, generale de' suoi nemici.
1439 = 1441. L'alleanza che univa le due repubbliche di Firenze e di Venezia era l'opera della nobile ed illuminata politica degli Albizzi. Questi grandi politici avevano sentito che non avvi sicurezza per una nazione, che nelle alleanze che si associano a tutte le opinioni popolari; in quelle che sono approvate da ogni cittadino, assecondate dalla sua inclinazione e mantenute dall'intimo sentimento del suo cuore. Le profonde sensazioni della libertà della religione, o ancora le memorie di una lunga protezione, e di una lunga riconoscenza, possono servire di base a somigliante alleanza, perchè ancora tra gli uomini corrotti i sublimi sentimenti conservano un'influenza universale; ma le leghe formate per progetti di conquiste e d'usurpazioni, le leghe fondate soltanto sopra stretti calcoli di politica, sulle affezioni, o sui privati vantaggi de' capi dello stato, non hanno base nel cuore degli uomini, e sono abbandonate nell'istante medesimo in cui rimane sospeso l'interesse che le dettò: altrettanto infedeli nelle avversità quanto esse parvero indissolubili nella prosperità, essi ingannano nell'una e nell'altra fortuna, accrescono ne' prosperi avvenimenti una pericolosa ambizione, ispirano nella sventura un'ancora più pericolosa sicurezza, e sono quasi sempre cagione della ruina di coloro che ripongono la confidenza loro in questi appoggi regali, che poi si trovano tanto caduchi.
Due uomini ambiziosi trovavansi di quest'epoca alla testa delle due repubbliche, ed avevano ottenuta nella loro patria un'autorità non riconosciuta dalla costituzione dello stato. Cosimo de' Medici di null'altro occupavasi in Firenze che dell'aggrandimento della sua famiglia; a Venezia il doge Foscari voleva procurare alla sua magistratura lo splendore d'una grande gloria militare: l'uno e l'altro consultando i privati suoi interessi, o le proprie individuali passioni, eransi allontanati dalla strada loro indicata dall'amore dei due popoli; avevano dimenticato che la sola loro politica doveva essere quella di mantenere la libertà dell'Italia, ed avevano acconsentito che fossero separati in una guerra cominciata di comune accordo. Francesco Foscari aveva creduto di poter riposare per la difesa della repubblica sopra alleanze regali; aveva creduto che i trattati conchiusi dalla signoria coi piccoli principi della Romagna, il signore di Ravenna, ed i marchesi di Ferrara e di Mantova sarebbe per lei una sufficiente guarenzia, e non aveva preveduto che una sola battaglia perduta la priverebbe di tutto ciò che i principi le avevano promesso sopra la mal sicura loro fede, ma che non era stato sanzionato dal sentimento dei popoli. Per lo contrario il Foscari non faceva verun fondamento sopra i Fiorentini, i quali lo accusavano di aver loro fatto perdere Lucca, il di cui acquisto era quasi sicuro, e che di già avevano firmata una tregua col nemico; ma sebbene il trattato d'alleanza fosse disciolto, e qualunque si fosse la politica de' capi di parte, il sentimento popolare era permanente; i Fiorentini non si chiedevano già quale patto gli unisse alla repubblica di Venezia, ma si chiedevano se questo stato non conservava tuttavia il nome di repubblica, e se non era oppresso da un tiranno. Sempre apparecchiati ad esporsi pel bene comune ed a sacrificare i presenti vantaggi della pace a quelli dell'avvenire, avevano di già scordato l'antico rancore, più ad altro non pensavano che a mantenere l'equilibrio e la libertà dell'Italia, ed avevano cercato in prevenzione d'assicurarsi l'appoggio del conte Francesco Sforza.
La sorte della guerra poteva guardarsi come dipendente dalla decisione che prenderebbe questo generale: pareva ch'egli solo potesse far piegare la bilancia, dichiarandosi per le repubbliche o pel duca di Milano. Questi l'aveva sentito, e cercava da lungo tempo ad allacciare lo Sforza co' suoi intrighi. Per guadagnarselo l'andava continuamente intrattenendo intorno al vicino matrimonio della promessagli figlia. Tutti gli apparecchi sembravano di già fatti per la festa; anche le vesti della sposa erano terminate, e si aveva avuta la destrezza di farle vedere agli amici dello Sforza. Il giorno delle nozze era stato determinato replicatamente; i giuochi, i divertimenti coi quali dovevano celebrarsi erano stati preventivamente ordinati, e non pertanto il Visconti trovava sempre qualche pretesto per dare addietro, e ritirare una promessa che non aveva intenzione di mandare ad effetto. Finalmente i Fiorentini fecero comprendere allo Sforza ch'egli era il trastullo del duca di Milano, che questi lo teneva ozioso per aver tempo di scacciare i Veneziani da tutto il continente, che i Fiorentini non erano abbastanza ricchi per mantenere essi soli l'armata del conte, il quale troverebbesi ad un tempo senza soldati e senza alleati, e che il duca non avendo più motivo di temere, non tarderebbe a rompere tutti gl'impegni con lui contratti. Lo Sforza, offeso da così lunga dissimulazione, accettò il trattato propostogli da Giovanni Pisani, che fu sottoscritto il 18 febbrajo del 1439. I Fiorentini davano ogni mese al conte 8400 fiorini pel mantenimento della sua armata, ed i Veneziani si obbligavano a dargliene 9000. Inoltre le due repubbliche promettevano di prendere al loro soldo il signore di Faenza, il marchese di Ferrara, Pandolfo Malatesti, e Pietro, figliuolo di Giovan Pagolo Orsini. I Veneziani dovevano portare il peso dei due terzi di questo armamento, il terzo i Fiorentini[113].
Neri, figlio di Gino Capponi, che ci lasciò alcune memorie intorno alla storia de' suoi tempi, fu mandato dalla repubblica fiorentina presso Francesco Sforza per persuaderlo a passare il Po, ed a fare la guerra al duca di Milano senza restrizioni e senza riguardi. Di là passò a Venezia per terminare il trattato. Il Capponi, introdotto avanti alla signoria, rimproverò i Veneziani di non aver avuta maggior fiducia ne' loro antichi alleati. «Voi avete esitato a ricorrere a noi, disse a loro, e non pertanto voi conoscevate per lunga esperienza gli sforzi che noi siamo apparecchiati a fare per la difesa della libertà; voi sapete che da lungo tempo questa causa è tra di noi comune. Voi non dovevate conservare la memoria de' cattivi ufficj che ci rendeste, per tenerci gli uni lontani dagli altri, ma ricordarvi soltanto de' servigj che avete da noi ricevuti, i quali sono l'arra di quelli che riceverete in appresso[114].» Il discorso del Capponi fu dalla signoria ascoltato coll'attenzione che si darebbe ad un oracolo. I consiglieri non ebbero la pazienza di aspettare che il doge vi rispondesse secondo il costume della repubblica; ma fattisi tutti in piedi colle mani alzate e cogli occhi bagnati di lagrime, ringraziarono i Fiorentini d'avere loro renduto un così segnalato servigio; ringraziarono il Capponi d'averlo eseguito con tanta diligenza e zelo, e promisero che giammai nè essi, nè i loro discendenti dimenticherebbero di dovere la salvezza loro ai Fiorentini[115].
All'aprirsi della bella stagione, Francesco Sforza con otto mila uomini di cavalleria pesante partì dalla Marca di Ancona, dove aveva i suoi quartieri di inverno, attraversò rapidamente la Romagna, i territorj di Forlì e di Ravenna, passò il Po presso Ferrara, e recossi per Chiozza a Venezia[116]. Non solo Bergamo e Brescia, ma Verona e Vicenza trovavansi circondate dai nemici: il Gattamelata erasi trincerato dietro i canali di Padova col rimanente dell'armata veneziana, e tutto quanto trovavasi al di là di questi canali, ad eccezione delle quattro città assediate, era perduto. Il Piccinino, quando si vide a fronte lo Sforza e la sua nuova armata, non volle compromettere con una battaglia le conquiste ch'egli risguardava come sicure; si coprì con un profondo canale in mezzo alle paludi dell'Adige, a cinque miglia da Soave nei veronese; e siccome l'arte di gettare i ponti sui fiumi era ancora affatto sconosciuta, egli rese vane tutte le minacce de' nemici, ai quali non fu possibile di obbligarlo a combattere[117].
L'armata alleata comandata da Francesco Sforza ammontava a quattordici mila cavalli e ad otto mila fanti; ma mentre quest'armata non poteva avvicinarsi al nemico, i corpi staccati che i Veneziani avevano lasciati presso di Brescia e di Verona venivano successivamente battuti e fatti prigionieri dai Milanesi. Brescia inoltre provava gli orrori della fame, e tutta la magnanimità, tutto l'attaccamento di Francesco Barbaro, che divideva ancor esso coi cittadini tutte le privazioni di una terra assediata, appenna bastavano a sostenerne il coraggio[118]. Lo Sforza, impaziente di liberare il territorio della repubblica dalla presenza de' nemici, vedendo di non poter forzare il passaggio de' canali e de' trinceramenti del Piccinino, si diresse verso i monti Euganei, e malgrado l'opposizione de' corpi destinati a difenderli, gli attraversò e scese nel piano veronese. Il Piccinino vedendosi circondato da ogni banda si affrettò d'evacuare Soave, e di ripiegare dietro l'Adige. Non fu però così facile il far levare il blocco di Brescia separata dal territorio veneziano dagli stati di Mantova. Erasi fin allora sperato di poter soccorrere questa città attraversando il lago di Garda. Durante l'inverno i Veneziani avevano trasportato fino a questo lago, per mezzo alle montagne che lo circondano, due galere grandi e tre mezzane, e venticinque barche armate[119]. Questa piccola flotta, entrando nelle acque del lago, si trovò padrona della sua navigazione, ed aprì qualche comunicazione con Brescia. Ma il duca di Milano fece armare a Peschiera una flotta assai più considerabile; pose guarnigione in tutti i castelli situati sulle due rive, ed il provveditore Pietro Zeno, che comandava i Veneziani, fu forzato di ritirarsi colla sua flotta a Torboli, presso alla foce della Sarca, all'estremità settentrionale del lago, ove circondò le sue galere con forti palafitte, per difenderle contro que' nemici coi quali non poteva più misurarsi[120].
Sperava lo Sforza di soccorrere Brescia liberando questa piccola flotta, e mettendola in comunicazione col piano di Verona. A quest'oggetto venne ad assediare Bardolino, castello posto sulla riva occidentale del lago tra Peschiera e Garda, il quale era difeso da una guarnigione mantovana. Ma i segnali con cui dava avviso alla flotta di avvicinarsi, o non furono visti, o non furono intesi. Per lo contrario il Piccinino aveva fatta uscire la sua flotta da Peschiera, ed aveva rinforzata la guarnigione di Bardolino; onde lo Sforza, dopo avere perduta molta gente per le malattie, cagionate dall'eccessivo calore in luoghi insalubri, fu costretto a levare l'assedio[121]. Un'altra perdita tenne subito dietro a questa: i Veneziani avevano mandati mille cavalli e trecento fanti nelle montagne poste al settentrione del lago, per condurre alla loro flotta un convoglio di vittovaglie, e darle modo d'aprirsi un passaggio fino alla riva occidentale, di dove avrebbe potuto comunicare con Brescia. Ma il Gonzaga ed il Piccinino, avuto avviso di questo movimento, il 23 di settembre sorpresero e svaligiarono i soldati che si recavano alla flotta; il 26 attaccarono la flotta medesima nel suo trinceramento, presero tutti i vascelli ad eccezione di due che fuggirono a Peneda, e fecero prigionieri quattro provveditori veneziani, che si trovavano colla flotta o coll'armata[122].
Francesco Sforza indispettito di non corrispondere che con rovesci all'alta aspettazione che di lui avevano le due repubbliche, e pressato dal senato di Venezia a soccorrere gl'infelici Bresciani, risolse all'ultimo d'aprire alla sua grande armata medesima il cammino di Brescia, facendo a traverso alle montagne il giro del lago di Garda. Rimandò adunque i suoi equipaggi a Verona, si avanzò in mezzo all'alpestre catena di monti che divide il lago dall'Adige praticando strade nelle quali la cavalleria pesante era sempre in pericolo, e giunse, superando infinite difficoltà, fino all'angusta pianura di Peneda alla foce della Sarca. Dall'altro lato il Piccinino, avvisato delle strade tenute dal conte Sforza, lasciò il marchese di Mantova a Peschiera, e fece pel lago trasportare la sua armata al castello di Tenna, che chiudeva la piccola valle ov'era entrato lo Sforza. Ebbero luogo tra le due armate diverse scaramucce, ma il Piccinino, che aveva chiuso il suo rivale come in un laccio, evitò lungo tempo un'azione generale. Si lasciò all'ultimo trasportare dall'abituale suo impeto, ed il 9 di novembre accettò la battaglia. Mentre che le due armate erano alle mani, gli abitanti di Brescia, avanzandosi ad incontrare i loro liberatori, comparvero sull'alto delle montagne dietro i corazzieri del Piccinino, e cominciarono a far rotolare sopra di loro grossi macigni. Spesse volte un solo istante decide della sorte delle battaglie; l'armata milanese venne scoraggiata da una comparsa che non era accompagnata da un pericolo ben reale; i corazzieri cercarono di salvarsi, alcuni verso i vascelli, altri verso le fortezze, altri finalmente verso le montagne. Nella insensata loro fuga, caddero per la maggior parte tra le mani de' nemici e furono fatti prigionieri. Contaronsi tra i più illustri Carlo Gonzaga, figlio del marchese di Mantova, Cesare Martinengo e Sacromoro Visconti[123].
Niccolò Piccinino, strascinato nella fuga de' suoi soldati, erasi chiuso nei castello di Tenna; ma ben vedeva che questo castello non poteva lungamente resistere, altronde premevagli di trovarsi in aperta campagna, onde raccogliere le reliquie della sua armata. Prese dunque l'audace risoluzione di attraversare tutto il campo di battaglia, e gli stessi quartieri dei vincitori. Un servitore tedesco, che aveva cura de' suoi cavalli, uomo robusto ed a lui perdutamente attaccato, lo pose in un sacco, se lo caricò sulle spalle e scese nel campo la notte medesima in cui era seguita la battaglia. Raccolse ancora alcune spoglie di morti, che gittò sopra il suo fardello, e mostrando di non avere altro pensiere che quello di raccogliere questo bottino, attraversò tutto il piano in mezzo a' soldati nemici, occupati ancor essi a spogliare gli estinti. Passò ancora senza difficoltà innanzi ai corpi di guardia veneziani, e venne finalmente a deporre il suo padrone a Riva, presso al lago, ove un battello lo condusse a Peschiera[124].
Appena sapevasi nell'armata dello Sforza che il generale nemico più chiuso non era nel castello di Tenna, quando s'intese con sorpresa, che dopo di avere raggiunto il Gonzaga a Peschiera, erano partiti assieme per dare la scalata a Verona. Si dice che un soldato tedesco avesse loro indicati i mezzi d'eseguirla con sicurezza. Nella notte del 16 di novembre si appoggiarono le scale contro il muro del piccolo ricinto detto borgo di santo Zeno: le truppe milanesi, di cui le prime squadre erano condotte da Luigi del Verme, genero del Carmagnola, erano di già padrone della città, prima che la guarnigione pensasse a difendersi. I governatori veneziani ritiraronsi colla guarnigione nella fortezza di san Felice ed in quella della porta di Braida; la città s'arrese senza fare resistenza, ed il marchese Gonzaga, cui era stata promessa in piena sovranità, la preservò dal saccheggio. I soli equipaggi dell'armata dello Sforza vennero divisi tra i vincitori[125].
La sera medesima della presa di Verona ne fu data notizia allo Sforza, che stringeva l'assedio di Tenna, e che di già aveva approfittato della vittoria per mandare a Brescia vittovaglie ed alcuni soldati. Alla rapidità del suo nemico risolse d'opporre un'eguale prontezza; partì all'istante, sperando tuttavia che il Piccinino, sebbene padrone di Verona, non avrebbe potuto in così breve tempo prendere tutte le necessarie misure per difenderla. In fatti attraversò senza difficoltà le chiuse dell'Adige. La fedeltà di Giacomo Marancio aveva conservato a' Veneziani il comando di quest'importante passo, aperto tra due montagne a picco, pel quale due uomini a cavallo non possono passare di fronte. Il marchese di Mantova, allorchè prese Verona, vi aveva trovata la moglie ed i figli di Marancio, comandante delle chiuse; gli aveva fatto sapere, che questi ostaggi risponderebbero della sua ubbidienza; che s'egli voleva salvarli, doveva chiudere il passaggio allo Sforza ed impedire il suo ritorno. Questo generoso cittadino non bilanciò punto tra il suo dovere e gl'interessi del proprio cuore. Egli fece prendere le armi a tutti gli abitanti della valle: «La sorte di quanto io tengo di più caro al mondo, disse loro, potrebbe accecarmi intorno a ciò che la patria e l'onore domandano da me; nelle vostre mani adunque io depongo il deposito a me confidato, poichè voi non potete scordarvi la fedeltà dovuta alla signoria di Venezia; custodite questo passo pel suo onore, e pel vantaggio di Francesco Sforza suo generale[126].» Il Piccinino non aveva potuto, ne' tre giorni che comandò a Verona, impadronirsi delle fortezze occupate dai Veneziani, e non aveva creduto che fosse ancora tempo di separarle dalla città con un nuovo ricinto. Quand'ebbe avviso dell'impensato arrivo dello Sforza nel piano di Verona, spedì ordine a Taliano Furlano, uno de' suoi luogotenenti, di rientrare in città con il corpo di truppe da lui comandate. Taliano ricusò d'ubbidire, appoggiandosi ad un contrario ordine del duca di Milano. In fatti il Visconti, ch'erasi obbligato a cedere Verona al Gonzaga, geloso dell'ingrandimento del suo alleato, aveva prese segrete misure per far ricadere la sua conquista in mano al nemico[127]. Il Piccinino, contrariato ne' suoi progetti, non potè vietare allo Sforza di rientrare in città, la notte del 19 al 20 di novembre, pel castello di san Felice; ebbe subito luogo una zuffa nelle strade; la cavalleria milanese rimase perdente e venne cacciata fuori delle mura, e Piccinino riperdette Verona colla medesima rapidità con cui l'aveva acquistata[128].
Ma sebbene non avesse potuto conservare tale conquista, non aveva per ciò meno operata una possente diversione, e tolto allo Sforza tutto il frutto della vittoria di Tenna. Egli gli aveva inoltre impedito di arrecare soccorso agli abitanti di Brescia, sempre più oppressi dalla fame, dalle malattie e dalle incursioni dei loro nemici. La signoria eccitava lo Sforza a tornare in soccorso di questi sventurati; e lo Sforza, malgrado il rigore dell'inverno, uno de' più aspri che si fossero da lungo tempo provati, condusse di nuovo la sua armata tra le montagne dalle quali riceve le acque il lago di Garda, e ricominciò l'assedio di Tenna. Questo piccolo castello, cui il Piccinino non osò di affidarsi, resisteva sempre, e chiudeva ai Veneziani la strada di Brescia. Bentosto i ghiacci e le alte nevi, che i soldati italiani non erano accostumati a disprezzare, stancarono le truppe, e per la seconda volta fu levato l'assedio di Tenna. L'armata, mancante di viveri e di foraggi, fu ricondotta ai quartieri d'inverno a Verona[129]; e soltanto Serpellione e Troilo, due dei luogotenenti dello Sforza, riuscirono ad attraversare le montagne per isconosciuti sentieri, e ad introdurre in Brescia un piccolo convoglio di munizioni con trecento fanti.
Durante tutta la campagna del 1439 le ostilità non eransi stese fuori della Lombardia; pure Filippo Maria era impaziente di castigare i Fiorentini della loro interposizione, e di costringerli col conte Sforza a difendere i proprj stati. Il Piccinino in particolar modo era geloso dello Sforza; non poteva darsi pace che questo generale avesse preso posto tra i sovrani coll'acquisto della Marca, mentre egli medesimo, che l'Italia per talenti e per valore pareggiava allo Sforza, egli medesimo, che, quale erede ed allievo di Braccio, avrebbe potuto aspirare alla sovranità che questo generale si era formata, non aveva che una precaria esistenza dipendente dal principe che lo assoldava. Egli supplicava il duca di Milano a non farlo combattere in Lombardia per città che poco o nulla curavasi d'avere o di perdere, ma di mandarlo piuttosto nella Marca, che sperava di togliere in poco tempo al suo rivale. Sufficienti truppe, egli diceva, rimarrebbero ancora dopo la di lui partenza per continuare l'assedio di Brescia; Fiorentini, temendo per la Toscana, richiamerebbero lo Sforza, il quale vorrà piuttosto accorrere in difesa de' proprj stati, e prevenuto in ogni luogo, non soccorrerà Brescia, non coprirà la Toscana, nè salverà il suo principato.
Dal canto suo Rinaldo degli Albizzi aggiugneva le sue istanze a quelle del Piccinino, e sempre persuaso che i Fiorentini non potessero accostumarsi al suo esilio, e che accoglierebbero con vivo piacere quell'armata che lo riconducesse in patria, altro non domandava per essere sicuro del successo che di essere rimandato in Toscana. Frattanto una trama ordita con Giovanni Vitelleschi, patriarca d'Alessandria, fu ancora un più potente motivo per togliere Filippo ad ogni incertezza. Questo prelato guerriero, favorito ministro di Eugenio IV, rendeva da lungo tempo odioso il suo signore colla sua arroganza e colla sua crudeltà. Erasi veduto nella guerra di Napoli promovere il guasto delle campagne nemiche con esecrabili promesse di grazie spirituali a pro di coloro che farebbero abuso delle armi temporali; aveva accordato ai suoi soldati cento giorni d'indulgenza in purgatorio per ogni pianta d'ulivo che taglierebbero[130]. Sebbene il suo padrone avesse presa parte nella lega delle due repubbliche, egli conservava un violento rancore contro Francesco Sforza che lo aveva battuto nella Marca d'Ancona. Lo avevano pure offeso i Veneziani ed i Fiorentini: aveva da loro ricevuti venti mila fiorini per allestire l'armata con cui doveva agire contro Filippo al di là degli Appennini; ma dopo aver toccato il danaro aveva mancato alle sue promesse, ed impiegati i soldati nell'assedio di Foligno. I Fiorentini ed i Veneziani se ne querelarono presso Eugenio IV, il quale ebbe la debolezza di comunicare le loro confidenziali lagnanze al suo favorito, che giurò di vendicarsene. Il Vitelleschi propose segretamente al Piccinino di unire le loro truppe per opprimere i Fiorentini; si soggiunge che volesse in appresso far morire Eugenio IV per innalzarsi in sua vece sul soglio pontificio[131]. Aspettava con impazienza l'arrivo dell'armata milanese per dichiararsi; ed il Visconti, sicuro di così potente alleato, non tardò ad annuire alle inchieste del Piccinino.
Questi lasciò in febbrajo del 1440 i suoi quartieri d'inverno, seco conducendo sei mila cavalli. Il giorno 7 passò il Po per unirsi a Manfredi nel territorio di Faenza[132]; mentre Neri Capponi e Davanzati, ambasciatori fiorentini, giugnevano nello stesso tempo a Ferrara, per recarsi a Venezia onde concertare il piano della vegnente campagna[133]. Questi due generosi cittadini, lungi dal lasciarsi intimidire dal pericolo che si avvicinava alla loro patria, si unirono ai Veneziani per persuadere lo Sforza a tentare di nuovo la liberazione di Brescia; dichiararono che Firenze ben saprebbe mettere in piedi un'altra armata per opporla al Piccinino, quando per lo contrario lo stato di terra ferma de' Veneziani sarebbe immancabilmente perduto, se lo Sforza lo abbandonava. In fatti il Gattamelata, quel generale che aveva prima il comando delle truppe veneziane, era stato tocco da una paralisia nelle montagne di Tenna, e fino alla sua morte, accaduta il 16 gennajo del 1443, non fece che languire[134]. Verun altro generale non vedevasi da tanto di poter supplire in assenza dello Sforza, e privi di questo generale i Veneziani non isperavano di poter salvare le province occupate dal nemico.
Ma il conte Sforza non era come i Fiorentini disposto a sagrificare il proprio interesse alla causa comune. Conosceva le ostili disposizioni del patriarca d'Alessandria, che comandava più di tre mila uomini ai confini della Toscana e della Marca, e vedeva che il Piccinino, unendosi a questo prelato poteva sconvolgere l'una o l'altra di queste due province. Mentre che il suo emulo marciava verso il mezzogiorno riputava inutile la sua dimora in Lombardia, poichè ad ogni modo sarebbe costretto d'aspettare che cessasse il rigore della stagione, e che si sciogliessero le nevi prima di poter intraprendere per la via delle montagne la liberazione di Brescia; e non aveva egli veruna speranza di buon successo, qualora avesse presa la strada della pianura[135].
Mentre ciò discutevasi in Venezia, ov'erasi recato il conte, e che i Fiorentini assoldavano molti condottieri per formare un'altra armata, seppesi che i Malatesti, signori di Rimini, cui era stato pagato il soldo d'un migliajo di corazzieri, che dovevano somministrare alle due repubbliche, erano passati nel campo di Niccolò Piccinino. Questa diserzione faceva temere di maggiori danni ed eccitava la più viva inquietudine intorno alla sorte di Giovan Pagolo Orsini, generale de' Fiorentini, che si era mandato a difendere lo stato di Rimini[136]. Le istanze di Francesco Sforza per ottenere il suo congedo si resero a tal nuova più vive: fortunatamente fu bentosto seguita questa notizia da un'altra non meno inaspettata, ma di affatto diversa natura.
I Fiorentini avevano sorpresa a Montepulciano la corrispondenza del patriarca d'Alessandria col Piccinino, la quale, sebbene scritta in cifre, bastò per risvegliare finalmente nel papa, cui si fece conoscere, i più violenti sospetti contro il suo favorito. Eugenio aveva così ciecamente affidate al Vitelleschi le sue armate, i tesori, le fortezze, e tutto il suo potere, che non poteva omai, senza estremo pericolo, spogliarne un uomo da lui fatto tanto potente. Pure diede segretamente ad Antonio Redo, comandante di Castel sant'Angelo un ordine eventuale d'imprigionarlo e di processarlo quando ne avesse l'opportunità. Tale ordine non era di facile esecuzione, e Redo aspettava in silenzio qualche favorevole circostanza, allorchè il patriarca, disposto a partire verso la Toscana alla testa della sua armata, ordinò al comandante di recarsi la mattina del 18 marzo sul ponte della fortezza per ricevere le commissioni che gli darebbe partendo. Vide Antonio Redo che l'occasione sarebbe favorevole; apparecchiò la sua gente, ed aspettò di buon mattino sul ponte il patriarca, che giugneva alla testa di tutta la sua armata. Il Redo gli si avvicinò rispettosamente, prese il suo cavallo per la briglia, e, sotto colore di non volere essere udito da coloro che lo circondavano, lo condusse a piccoli passi al di là del ponte levatojo, parlandogli continuamente di cose importantissime, per occupare tutta la di lui attenzione; ma quand'ebbe appena passato il ponte fece cenno alle guardie di levarlo, ed intimò al patriarca di rendersi prigioniero. Il Vitelleschi cercò invano di difendersi, venne ferito nel capo e rovesciato da cavallo da coloro che lo circondavano. Allora Redo e Girolamo Orsini cercarono di consolarlo, persuadendolo a sperar bene; ma il Vitelleschi rispose, che, sebbene ferito, non morirebbe in conseguenza delle sue ferite. «Non si arrestano, soggiunse, gli uomini potenti per rilasciarli; e se mi credettero abbastanza pericoloso per farmi prigioniere, quanto non sarei riputato più pericoloso se riavessi la libertà[137].» Infatti il patriarca aveva intimamente conosciuto il suo padrone; egli morì di veleno dopo pochi giorni. La sua armata, che stava al di là del ponte, mostrava da principio di voler vendicarlo, ed assediare il castello, ma si sottomise tostocchè le furono comunicati gli ordini del papa. Ne fu in appresso affidato il comando al patriarca d'Aquilea, con ordine di difendere la Toscana con quattro mila cavalli e due mila pedoni. Tutte le fortezze in cui il Vitelleschi teneva guarnigione rientrarono bentosto sotto l'ubbidienza del papa[138].
La rivoluzione, che rovesciava il Vitelleschi, poneva in sicuro la Toscana e la Marca; onde persuase lo Sforza a continuare la guerra in Lombardia; soltanto egli staccò dalla sua armata mille cavalieri, che Neri Capponi condusse a Firenze, ove giunsero avanti la fine di aprile, nello stesso tempo che arrivavano Pagolo Orsini, ed alcuni altri condottieri[139]. Di già il Piccinino aveva cercato di entrare in Toscana a traverso alle Alpi di san Benedetto, ed era stato vigorosamente respinto da Niccolò Gambacorti di Pisa, conosciuto sotto il nome di Niccolò Pisano. Cambiando allora direzione cercò di aprirsi un passaggio per Marradi. Questo castello, posto in sull'ingresso della Val di Lamone, alle falde delle montagne che dividono la Toscana dalla Romagna, era secondo l'antico sistema di guerreggiare, riputato fortissimo, perchè il fiume forma dei precipizj intorno al rialto su cui è posto, e Marradi avrebbe potuto fermare alcuni mesi una grande armata. Ma Bartolomeo Orlandini, che lo comandava per conto della repubblica di Firenze, l'abbandonò vilmente, ed il Piccinino entrandovi il 10 aprile fu sorpreso d'aver fatto, senza tirare un colpo, un acquisto che avrebbe potuto costargli molto sangue[140]. Marradi gli apriva le porte della Toscana; i suoi cavalieri corsero tutto il Muggello senza trovare resistenza; s'innoltrarono fino alle montagne di Fiesole, guastarono il paese fino alla distanza di tre sole miglia da Firenze, ed alcuni ebbero ancora il coraggio di passar l'Arno, oltre il quale occuparono Remolo. In tali frangenti appunto giunse a Firenze Neri Capponi con un distaccamento dell'armata di Francesco Sforza, cui aggiunse dei fanti levati tra il popolo; con questi sloggiò i nemici da Remolo, e fermò i loro guasti[141].
L'ingresso in Toscana di Rinaldo degli Albizzi in coda all'armata milanese non aveva ancora prodotto in Firenze verun movimento d'insurrezione, alcuna dimostrazione di favore per gli emigrati, quando Francesco di Battifolle, conte di Poppi, venne co' suoi vassalli ad unirsi al Piccinino. Nel precedente anno questo feudatario della repubblica era stato da lei protetto contro papa Eugenio IV[142]; ma pensò di non poter meglio mostrare il suo attaccamento ai Fiorentini, che secondando il partito ch'egli credeva più proprio a governarli, e l'antica sua amicizia cogli Albizzi gli tolse di vedere ciò che doveva alla riconoscenza.
Due strade presentavansi al Piccinino, quella di Val di Marina, per la quale sarebbe disceso tra Firenze e Prato fino alle rive dell'Arno ed avrebbe tolta la comunicazione con Pisa, di dove i Fiorentini tiravano le vettovaglie[143], e quella del Casentino che poteva condurlo a rompere la comunicazione tra Arezzo e Perugia, di dove veniva l'armata pontificia; il Piccinino preferì l'ultima. I feudi del conte di Poppi erano posti nel Casentino; questo signore faceva sperare d'avere intelligenze ne' castelli de' suoi vicini, ed in fatti col favore di queste vennero in pochi giorni occupati Romena e Bibbiena; ma in seguito avendo il Piccinino assediato castello san Niccolò, questa piccola fortezza diede ai Fiorentini, coll'ostinata sua resistenza, abbastanza di tempo per adunare la loro armata, essendosi difesa trentasei giorni, dopo i quali non si arrese che dietro speciale autorizzazione dei generali della repubblica, che vedevano l'impossibilità di soccorrerla. Quando il Piccinino vi entrò non vi rinvenne una sola freccia nè una carica di polvere[144]. Frattanto il suo piano d'attacco non era riuscito; i vassalli della repubblica avevano ripreso coraggio, i soldati occupavano tutti i posti più importanti, ed era svanita la speranza di vedere scoppiare qualche rivoluzione in favore degli Albizzi. Il Piccinino fece una visita a Perugia, sua patria, sperando che la memoria di Braccio, e la gloria di cui erasi egli medesimo coperto, consiglierebbero i suoi concittadini ad accordargli quella signoria che Braccio aveva esercitata con tanta gloria, ma non ebbe da loro che un regalo di otto mila fiorini. Cercò di occupare Città di Castello colle armi, e Cortona col favore d'una congiura, ma tutto gli riuscì male: per ultimo, dopo avere perduta parte dell'estate nelle montagne della Toscana, ebbe avviso de' progressi dello Sforza, ed ordine dal suo padrone di ricondurre l'armata in Lombardia[145].
Le truppe pontificie erano finalmente giunte a Firenze sotto il comando di Luigi, medico del papa, ch'egli aveva nominato patriarca d'Aquilea, e generale d'armata. Era composta di tre mila corazzieri e di cinquecento pedoni. L'armata fiorentina, portata a tale epoca ad otto in nove mila cavalli, era ben tale da tenere testa a quella del Piccinino; ma la signoria non voleva niente avventurare, tanto più ch'era informata dei vantaggi ottenuti dallo Sforza in Lombardia. Aveva perciò scritto al suo generale Giovan Pagolo Orsini di non venire a battaglia, aspettando che il Piccinino si ritirasse spontaneamente. Le stesse ragioni consigliavano il Piccinino a cercare l'occasione di dare una battaglia, perchè, costretto ad abbandonare la Toscana, sperava almeno con una vittoria di salvare il conte di Poppi e gli altri che avevano spiegate le sue insegne. Sapeva che l'armata fiorentina trovavasi ad Anghiari, grossa terra lontana quattro miglia da Borgo san Sepolcro, alle falde delle montagne che separano la valle del Tevere da val di Chiana, ed in un piano ove poteva spiegare la cavalleria. Partì da Borgo per attaccarla, seco strascinando due mila abitanti di questa città, che speravano di approfittare del saccheggio che terrebbe dietro alla vittoria. Tanta era la negligenza della militare disciplina, che i Fiorentini non avevano avanti alle loro armate nè scolte nè posti avanzati; e pure di que' tempi richiedevasi assai maggior tempo che non al presente, per far vestire ai cavalieri le pesanti loro armature, per sellare i cavalli e disporli alla pugna. Era il giorno 29 giugno del 1440, e gli uomini d'armi oppressi dal caldo eransi qua e là dispersi a qualche distanza per cercare luoghi ombrosi e freschi. Michele Attendolo, parente del conte Sforza, ed uno de' migliori condottieri che avessero i Fiorentini, osservò il primo a due miglia di distanza la polvere sollevata dalla cavalleria nemica; onde chiamando alle armi i suoi commilitoni, ebbe appena agio d'occupare colle sue truppe il ponte che trovasi avanti ad Anghiari, e dar tempo in tal modo al rimanente dell'armata di adunarsi e di prendere le armi. Quando gli altri corpi l'ebbero raggiunto, Micheletto rimase nel centro, il legato della Chiesa alla diritta, e Giovan Pagolo Orsini coi commissarj fiorentini dall'altro lato. L'Orsini aveva in prevenzione avuto cura di far empire tutti i fossi tra il ponte d'Anghiari sul Tevere e la Borgata, di atterrare tutti gli ostacoli, e di formare una spianata che permetteva ai diversi corpi dell'armata di muoversi senza stento. Al di là del ponte la strada per la quale s'avvicinava il Piccinino era fiancheggiata da profonde fosse, ed ogni campo aveva un riparo difficile a superarsi. I corazzieri milanesi non potevano avvicinare il nemico che per il ponte, e l'infanteria fiorentina custodiva sola le rive del fiume per vietare agli assalitori di guadarlo. I primi squadroni milanesi che passarono il ponte vennero vigorosamente respinti da Micheletto Attendolo; ma questi essendo stati rimpiazzati da Astorre Manfredi e da Francesco Piccinino col fiore della armata, Micheletto venne scacciato dal ponte, e respinto fino alla salita d'Anghiari. Frattanto i Milanesi, che avevano passato il ponte, trovavansi scoperti da ambo i lati, ed i Fiorentini, in piena facoltà di agire sopra di loro, gli opprimevano con truppe fresche e più numerose. Manfredi e Francesco Piccinino vennero dunque bentosto respinti verso il ponte sul quale si tennero fermi. Per lo spazio di due ore il ponte fu tra le due armate vivissimamente contrastato. I Milanesi lo attraversarono più volte, ma sempre erano respinti tostocchè giugnevano sul piano posto dall'altra banda. Finalmente i Fiorentini lo attraversarono ancor essi, e trovandosi in allora coperti dai due fossi che avevano ai fianchi, rovesciarono coloro che loro fuggivano innanzi, divisero le due ali che non poterono nè riunirsi, nè agire contro di loro, e che pel loro retrogrado movimento si posero in confusione. Bentosto l'intera armata fu rotta, ed un immenso bottino di prigionieri, di armi, di cavalli, cadde in potere del vincitore. Di ventisei capi squadra, che contava la nemica armata, ventidue furono fatti prigionieri con circa quattrocento ufficiali, mille cinquecento quaranta uomini in istato di pagare la taglia, e tre mila cavalli. Ma in queste armate mercenarie, nelle quali i soldati dei due campi, risguardandosi come commilitoni, non volevano nuocersi, i vincitori cercavano a tutto loro potere di far fuggire i vinti. Neri Capponi, commissario de' Fiorentini presso l'armata, volle far tradurre i prigionieri al borgo d'Anghiari, ma invece di ventidue, più non trovò che sei capi squadra. La seguente mattina volle inseguire il Piccinino, che con mille cinquecento cavalli mal in ordine erasi chiuso in Borgo san Sepolcro, ove non aveva alcun mezzo di difendersi; ma di tutti i condottieri e capitani il solo Giovan Pagolo Orsini era pronto a seguirlo. Tutti gli altri, occupati trovandosi nella divisione della preda che avevano fatta, pretestavano le sostenute fatiche, o le ferite dei cavalli. Essi consumarono tutta la mattina in contese col commissario, ed a mezzogiorno si allontanarono quasi tutti per porre in sicuro la fatta preda in Arezzo, di dove non tornarono che la sera al campo[146].
Questa grande battaglia, nella quale è così palese l'indisciplina e la cupidigia delle armate di condottieri, i quali ruinavano gli stati per cui guerreggiavano, non permettendo loro di approfittare dei loro vantaggi, è diventala celebre per una circostanza, che se fosse meglio avverata, darebbe ancora maggior peso alla singolarità di questo quadro. Assicura il Machiavelli che in questa lunga mischia, che si prolungò le ultime quattro ore del giorno, non vi fu che un solo uomo ucciso; e questi ancora non in conseguenza di una nobile ferita, ma per essere caduto da cavallo e calpestato dai combattenti. «Tale era, egli soggiugne, la sicurezza colla quale allora si battevano: i soldati durante la battaglia erano coperti d'impenetrabile armatura, e quando s'arrendevano non erano mai uccisi; di modo che sotto la doppia salvaguardia della loro armatura e del diritto della guerra, non potevano perire nella zuffa, nè dopo[147].» Pare per altro che il Machiavelli esagerasse alquanto questa sicurezza de' combattenti, per fare maggiore impressione sui leggitori. Dietro il Biordo, segretario apostolico, contaronsi nell'armata del Piccinino sessanta morti e quattrocento feriti; e stando al Poggio, soltanto quaranta morti: in quella de' Fiorentini, dicono essi, trovaronsi duecento feriti, dieci de' quali morirono in conseguenza delle loro ferite[148]. Gli altri storici contemporanei, parlando di questa battaglia, nulla dicono de' morti o de' feriti[149].
Il Piccinino, abbastanza fortunato di non essere inseguito a Borgo san Sepolcro, ove non avrebbe potuto schivare d'essere fatto prigioniero, ne sortì all'indomani della battaglia, ed i Fiorentini vi entrarono il giorno dopo. Questi, invece d'accettare la sovranità di Borgo che voleva porsi sotto la repubblica, restituirono la città alla Chiesa, facendosi soltanto garanti de' privilegi accordatile nella sua capitolazione. Frattanto le domande degli abitanti di Borgo risvegliarono qualche diffidenza tra il generale della Chiesa e quello della repubblica; essi si divisero; il patriarca con metà dell'armata corse lo stato ecclesiastico per ristabilirvi l'autorità del papa, mentre Neri Capponi coll'altra metà entrò nel Casentino, riprese i castelli ribellati, e cacciò da' suoi feudi il conte di Poppi. Fu questi l'ultimo dei discendenti del conte Guido, che avesse sovranità in Toscana. Gli fu accordato di ritirarsi dal Casentino colla moglie, coi figli e con trenta muli carichi; ma il piccolo suo principato, che comprendeva diverse fertili valli e molte fortezze presso alle sorgenti dell'Arno, e che aveva ubbidito cinquecento anni alla di lui famiglia fino dai tempi del grande Ottone, passò a perpetuità sotto il dominio della repubblica fiorentina[150]. Dal canto suo Rinaldo degli Albizzi abbandonò per sempre la Toscana, ed andò a soggiornare in Ancona, di dove fece un pellegrinaggio in terra santa. Dopo il ritorno, mentre festeggiava le nozze d'una sua figliuola, morì improvvisamente a tavola; felice, dice il Machiavelli, di avere lasciata la vita nel meno infelice giorno del suo esilio[151]!
Mentre ciò accadeva in Toscana, lo Sforza apparecchiava la sua armata per soccorrere Brescia, tostocchè le strade della montagna sarebbero praticabili senza per altro trascurare i mezzi d'aprirsi altresì la strada della pianura o quella del lago. I Veneziani con lui d'accordo avevano fatte trasportare nuove galere sul lago di Garda sotto il comando del provveditore Contarini, e lo Sforza aveva mandato su questa piccola flotta Pietro Brunoro, uno de' suoi migliori luogotenenti. Il Contarini ruppe il 10 aprile la flotta milanese comandata da Taliano Furlano, prese tre galere e molte barche, e costrinse il rimanente della flotta nemica a chiudersi in Salò; assediò in appresso i castelli di Riva e di Garda, che si resero il 29 di maggio, e ch'egli trattò con grandissima crudeltà; ristabilì la comunicazione tra le due rive del lago, fece ricapitare abbondanti approvvigionamenti a Brescia e forzò le bande milanesi, disperse tra questa città e Salò, a ritirarsi[152]. Queste vittorie e l'assenza del Piccinino avendo scoraggiata l'armata, che sotto gli ordini del Gonzaga difendeva il passaggio del Mincio, e che poteva temere di essere presa alle spalle, lo Sforza tentò d'aprirsi, per passare a Brescia, la strada diretta, che fin allora gli era stata chiusa. Il 3 di giugno gettò un ponte di battelli sul Mincio, e lo passò con tutto il suo esercito forte di circa venti mila uomini, senza che gli si opponesse il Gonzaga, il quale si tenne chiuso in Mantova. Taliano Furlano e Luigi del Verme, i due generali del Visconti, andavano intanto evacuando il territorio di Brescia, ritirandosi innanzi allo Sforza, finchè si stabilirono in riva all'Oglio, tra Soncino ed Orci, per conservarsi padroni del ponte che serviva di comunicazione a questi due castelli. Taliano lo copriva con una parte della sua cavalleria, ma lo Sforza risolse di forzarlo per occupare Orci, la sola fortezza che restasse ai Milanesi sulla sinistra dell'Oglio. Non entrò dunque in Brescia, ove la sua assistenza più non era necessaria, ma, giunto il 14 di giugno presso all'Oglio, ordinò a Sarpellione, uno de' suoi luogotenenti, di attaccar Taliano Furlano, e di ritirarsi dopo i primi colpi per allontanare il nemico dal fiume. In fatti i Milanesi lo inseguirono, ed avanzatisi incautamente in mezzo a forze superiori furono così vivamente caricati, che più difendere non poterono nè il ponte, nè il castello d'Orci. Lo Sforza passò l'Oglio con tutta l'armata, piombò addosso ai Milanesi presso a Soncino, li ruppe e loro tolse tutti gli equipaggi con quasi mille cinquecento cavalli. Il figlio naturale del marchese di Ferrara, Borso d'Este, quello zelante protettore delle arti e delle lettere, che portò il primo il titolo di duca di Ferrara, fece le prime prove in questa battaglia, nella quale perdette quasi tutta la sua cavalleria. Mentre Niccolò d'Este, suo padre, era attaccato al partito delle due repubbliche, Borso aveva condotti mille cavalli all'armata del duca di Milano; o perchè avido di gloria aspirasse ad avere un comando indipendente, o perchè la politica di suo padre portasse di tenersi amiche le due parti per non essere vittima di quella che restasse soccombente[153].
La vittoria di Soncino, meno brillante di quella d'Anghiari, ebbe migliori risultamenti pel vincitore: tutto il territorio di Bergamo venne evacuato dall'armata milanese, come poco prima era stato abbandonato quello di Brescia. Tutti i castelli, che vi aveva il Visconti, furono presi colla forza, o capitolarono; ed i Veneziani, in cambio d'avere la guerra in casa loro, la poterono portare nel territorio de' loro nemici. Lo Sforza fece alcune scorrerie nel Cremonese e nel Cremasco. Filippo Maria, ridotto a difendere i proprj stati, richiamò il Piccinino, dando il comando di Crema a Luigi di san Severino, e quello di Cremona a Borso d'Este[154].
Il Piccinino aveva press'a poco raccolti in Romagna tutti i prigionieri di Anghiari, che i loro vincitori avevano posti in libertà, dopo averli spogliati; di modo che la sua disfatta non aveva cagionato al padrone che una perdita di danaro. Di già egli si avanzava verso la Lombardia, onde lo Sforza rinunciò al progetto di portare la guerra sulla destra dell'Adda. Tornò quindi a dietro per attaccare il marchese di Mantova, e punirlo dell'assistenza data al duca di Milano. Gli prese, dopo trenta giorni d'assedio, la fortezza di Peschiera che altra volta apparteneva ai Veneziani, e ch'era per loro importantissima, essendo la porta di comunicazione tra Verona e Brescia. Mentre stava occupato nello stato di Mantova, il marchese Niccolò d'Este venne al suo campo per parte del duca di Milano, portando proposizioni di pace. Il marchese d'Este erasi reso sospetto ai Veneziani dopo la defezione del figliuolo; egli conosceva il pericolo della sua posizione, ed ardentemente desiderava una pacificazione, che in altre occasioni aveva maneggiata con felice esito. Rappresentò al conte che doveva guardarsi pel proprio vantaggio dal ruinare affatto il duca di Milano, poichè un condottiere non aveva meno bisogno de' suoi nemici che degli amici per mantenere la propria importanza. Gli fece sperare di condurre in breve a fine il suo matrimonio con Bianca Visconti, e per persuaderlo che questa volta almeno l'offerta veniva fatta di buona fede, gli disse che Bianca era di già arrivata a Ferrara, e gli promise che sarebbe a lui consegnata appena conchiuso il trattato[155].
Francesco Sforza si fece premura di dar parte di tutte queste proposizioni a Pasquale Malipieri, provveditore veneziano, incaricato di osservare la sua armata. Rispose in appresso lo Sforza, che i Veneziani ed i Fiorentini domandavano essi medesimi la pace, e ch'erano disposti a sottoscriverla ad onorate condizioni; ma che per conto suo, egli non abbandonerebbe il comando dell'armata fino alla conchiusione della pace, e che in allora soltanto prenderebbe consiglio dai suoi amici intorno al parentado che gli veniva proposto. La pubblica voce spargeva nello stesso tempo dei trattati di affatto diversa natura tra il duca ed il marchese d'Este; dicevasi che Bianca Visconti era stata mandata a Ferrara, per essere destinata sposa di Lionello, figlio ed erede del marchese. Le proteste di questi non ispiravano veruna confidenza allo Sforza, regnando la più insigne malvagia fede in tutte le negoziazioni, tanto che i giuramenti, spogliati di ogni credenza, più non erano nemmeno un mezzo d'ingannare. La sospettosa repubblica di Venezia osservava tutti i passi del suo generale con una inquieta diffidenza: l'esempio del Carmagnola faceva sentire ciò che dovevasi da lei temere, e lo Sforza aveva ragione di temere di essere tradito, dal suo governo, dal suo nemico, e dal mediatore che negoziava tra di loro. Egli volle lasciare a questi negoziati il tempo di maturare, ed invece d'intraprendere qualche importante spedizione, si limitò ad assediare diversi castelli, che il signore di Mantova aveva presi nel Veronese; dopo di averli sottomessi ai Veneziani ricondusse le sue truppe ne' quartieri d'inverno[156].
I soldati di Francesco Sforza si riposavano in Verona dopo le sostenute fatiche, quelli del duca di Milano a Cremona, quelli de' Fiorentini in Toscana, e quelli del papa in Romagna. Il patriarca d'Aquilea aveva dopo la battaglia d'Anghiari cercato di riprendere Forlì e Bologna, ma era stato respinto da Francesco Piccinino, che comandava a nome di suo padre in quelle due città. Si era in appresso proposto di richiamare all'ubbidienza della Chiesa Ostasio III da Polenta, che tre anni prima era stato costretto a ricevere guarnigione milanese nella sua capitale. Ma la signoria di Venezia, sebbene alleata del papa, era al tutto determinata di non lasciar tornare sotto il dominio della santa sede la città di Ravenna, che per la sua posizione riusciva a Venezia troppo vantaggiosa, e sulla quale aveva di già esercitati i diritti di protezione. Invitò dunque Ostasio a venire a rinnovare l'antica sua alleanza colla repubblica; questo principe andò a Venezia, e seco condusse, malgrado i suggerimenti del marchese d'Este, la consorte ed i figli. L'ambizioso e perfido consiglio dei dieci non resistette alla tentazione di spogliare una famiglia che trovavasi tutta intiera nelle sue mani. Eccitò in Ravenna alcuni sediziosi, che presero le armi il 14 di febbrajo del 1441, ed aprirono le porte ai Veneziani, chiedendo loro giustizia contro la tirannide del loro principe. In fatti Ostasio III aveva dato motivo al giusto risentimento de' suoi sudditi; il consiglio si arrogò il diritto di giudicarne, e lo mandò a Candia colla sua famiglia, ove lo ritenne in esilio fino alla morte. Così la casa da Polenta, che dal 1275 aveva regnato a Ravenna per lo spazio di cento sessanta sei anni, si vide spogliata della sua sovranità nel tempo medesimo che si spense il suo ramo primogenito[157].
La repubblica mostrossi più generosa verso Francesco Sforza, e verso Francesco Barbaro, provveditore di Brescia, ch'ella accolse in Venezia con infiniti onori. Invitò l'ultimo, con cento de' gentiluomini che avevano più degli altri contribuito alla difesa di quella città, a venire a ricevere i pubblici ringraziamenti. Furono presentati alla signoria; il doge gli abbracciò colle lagrime agli occhi, ed esortò i sudditi dello stato ad imitarne la fedeltà, chiedendo ai Veneziani di conservarne eterna memoria. Questi gentiluomini bresciani e la loro posterità vennero dichiarati esenti da ogni tassa, e fu rilasciata a favore del comune un'entrata di venti mila ducati, che il fisco ricavava dai mulini, per ricompensarlo di tanti sagrificj[158].
Mentre che in Venezia non si pensava che a feste ed a godimenti in onore dello Sforza e di Barbaro, seppesi con sorpresa che il Piccinino aveva passata l'Adda e l'Oglio il 13 febbrajo del 1441 con otto mila cavalli e tre mila fanti, e che a Chiari, nello stato di Brescia, aveva sorpreso due mila cavalli dello Sforza[159]. Nello stesso tempo i suoi soldati divulgavano la voce, che il senato di Venezia, avendo concepito contro lo Sforza que' sospetti ch'erano stati cagione della perdita del Carmagnola dieci anni prima, l'aveva in egual modo allettato a recarsi a Venezia, e fattagli subire la medesima sorte. Tutta l'armata dello Sforza era in sul punto di sbandarsi a cagione di questa notizia, e questo generale dovette affrettarsi di farsi vedere ai suoi soldati ed ai suoi amici per ismentire le voci sparse ad arte dai nemici[160]: ma non arrivò a tempo per impedire l'allontanamento di Sarpellione, uno de' suoi migliori ufficiali, ch'egli aveva sollevato dalla più abbietta condizione, e il quale, sedotto dal Piccinino, passò ai servigi di Filippo Maria con tre cento cavalli[161].
Il Piccinino ritirossi all'avvicinarsi dello Sforza, siccome colui che non voleva intraprendere una campagna d'inverno, e rientrò dal canto suo ne' proprj quartieri. Lo Sforza rese armi e cavalli ai corazzieri che tutto avevano perduto a Chiari, richiamò i soldati che aveva lasciati in Toscana, persuase la signoria a rimpiazzare Gattamelata, prendendo al suo soldo Michele Attendolo suo parente; ma intanto i promessi sussidj non venendogli esattamente pagati, non potè entrare in campagna che il primo di giugno, dopo il Piccinino che aveva di già invaso lo stato di Brescia.
Le due armate si scontrarono il 25 di giugno presso Cignano: lo Sforza attaccò il suo nemico senza riportarne vantaggio e si ritirò senz'essere inseguito[162]. In appresso, ingannando il Piccinino, passò l'Oglio a Pontoglio, ed andò ad assediare Martinengo che impediva la comunicazione tra Brescia e Bergamo. Il suo nemico, che non aveva saputo vietargli il passaggio del fiume, fu ben tosto soddisfatto d'averlo lasciato tanto avanzare; perchè, mentre egli aveva fatto entrare nel castello Giacomo Gaivano con mille corazze, che bastavano per rendere vani tutti gli attacchi dello Sforza, venne a porsi egli medesimo alla distanza di un miglio dal campo degli assedianti in una tale posizione, che rendeva loro quasi impossibile la ritirata, intercettando le vittovaglie, molestando i foraggeri, e non lasciando loro la libertà di tentare un assalto sopra Martinengo, perchè in tempo dell'attacco avrebbe potuto prenderli alle spalle[163]. La posizione dello Sforza rendevasi ogni giorno più difficile, ed era omai più di un mese che la sua armata stava sotto Martinengo. Aveva nel suo campo trenta mila persone; la sua numerosa cavalleria aveva consumati tutti i foraggi del vicinato; egli era costretto di mandare a cercarne a dieci miglia di distanza, e sebbene desse sempre grosse scorte ai foraggeri, perdeva sempre la metà de' convogli. I viveri andavano diminuendo, mentre mantenevansi abbondantissimi ed a basso prezzo nel campo del Piccinino. I suoi soldati non passavano un solo giorno, una sola notte, senz'essere inquietati da falsi rumori, senz'essere risvegliati da improvviso attacco. Tale era lo svantaggio grandissimo di quelle armate di pesante cavalleria, cui era affidata la somma delle guerre, che mai non potevasi forzare il nemico a venire a battaglia, perchè il più piccolo trinceramento bastava a fermare i corazzieri. Lo Sforza, per uscire dalle strette in cui era caduto avrebbe avuto bisogno d'attaccare il Piccinino nel suo campo; ma così forte era la di lui posizione, avuto riguardo ai mezzi d'attacco della cavalleria, che sarebbe stata cosa insensata il tentarlo[164].
D'assediante, ridotto ad essere assediato, lo Sforza abbandonavasi alle più tristi riflessioni; perdendo la sua armata, che omai non sapeva più in qual modo salvare, vedeva sfumare tutte le concepite speranze di grandezza e di sovranità; quando circa la mezza notte venne introdotto nella sua tenda Antonio Guidoboni di Tortona, uno de' più fedeli servitori del duca di Milano, ed amico ancora del conte Sforza.
«Filippo, che a te mi manda, gli disse, conosce abbastanza la tua prudenza e la tua esperienza militare per assicurarsi che tu non ignori i pericoli della tua posizione e di quella de' Veneziani e de' Fiorentini. La mancanza de viveri non può permetterti di tenere ancora lungamente assediato Martinengo, e la vicinanza della sua armata non ti lascia modo di ritirarti senza gravissima perdita. Egli si tiene dunque in pugno una vittoria vicina ed immancabile; pure egli vi rinuncia: imperciocchè egli, che sempre è stato padrone, non conosce maggiore indegnità di quella d'essere sottomesso come un prigioniere alle domande ed alle condizioni che vogliono imporgli i suoi servitori. Ora i suoi affari sono ridotti a questo punto, che in mezzo alla guerra, quello stesso Piccinino, ch'egli tanto innalzò, gli chiede la sovranità di Piacenza, Luigi di Sanseverino quella di Novara, Luigi del Verme vuole Tortona, Taliano Furlano Bosco e Figarolo nel territorio d'Alessandria, e gli altri suoi condottieri altri stati o altri feudi. Com'essi lo vedono senza prole e senza successore, osano, lui vivente, dividere in tal modo la sua eredità. Ma piuttosto che sottomettervisi, il Visconti ha risoluto di cercare il tuo avanzamento, il tuo onore e quello de' Veneziani e de' Fiorentini, purchè tu sappia approfittarne. Per pegno porrà in tua mano tutto ciò che fu preso dal Piccinino nello stato di Bergamo, cominciando dallo stesso Martinengo che tu stringi d'assedio. Ti darà in matrimonio la figlia Bianca e per dote Cremona col suo territorio, ad eccezione di due castelli. Io devo dunque chiederti soltanto un salvacondotto per Eusebio Caimo, suo segretario, il quale verrà subito nel tuo campo a dare l'ultima mano al trattato»[165].
Lo Sforza, colmo di gioja, dichiarò che accettava le parti di mediatore, e rilasciò i chiesti salvacondotti. La susseguente notte vennero firmati i preliminari con Eusebio Caimo, senza che nel campo si avesse il più leggiere sospetto dell'accaduto. Quando in sul fare del giorno il procuratore di san Marco, Malipiero, venne presso lo Sforza al consiglio di guerra coi principali ufficiali dell'armata, questi loro annunciò sorridendo, che la pace era fatta, e vietò all'istante ogni atto ostile. Comunicò in appresso al Malipiero le convenute condizioni, facendogli sentire quanto sarebbe imprudente di aspettare, per conchiudere il trattato, l'approvazione del senato veneto[166].
Caimo dal canto suo ordinò al Piccinino di sospendere le ostilità. Questo vecchio generale, che già si teneva la vittoria in pugno, ricusò alcun tempo di ubbidire ad un ordine che sembravagli tanto assurdo, e di rinunciare ad infallibili successi. Il segretario di Filippo per ridurlo all'ubbidienza, fu costretto di minacciarlo di fargli ribellare tutti i soldati milanesi, che servivano nella sua armata, facendoli passare nell'armata dello Sforza. Il Piccinino, deplorando la propria sventura, fu costretto di cedere. Omai, diceva egli, sentivasi sorpreso dalla vecchiaja, era diventato zoppo in guerra, aveva consumata per Filippo la sua salute e la vita, e questi non lo credeva degno nemmeno d'essere chiamato ai consiglj in cui trattavasi della pace. Il suo padrone, piuttosto che accordargli una ricompensa per la quale aveva così lungo tempo penosamente servito, davasi egli medesimo colla figliuola in mano al suo nemico. Gli stessi dominj milanesi, che il Piccinino aveva tante volte difesi e tante volte strappati a potenti armate venivano date al suo più antico rivale, a quello stesso che aveva cercato di averli a viva forza. L'ambizione legittima d'un vecchio generale risguardavasi come un delitto, mentre Filippo appagava i più avidi voti di colui che aveva scosso il suo trono, e di cui poteva adesso vendicarsi[167].
Non pertanto i due generali, che si erano così lungamente battuti, si scontrarono e s'abbracciarono con tutte le dimostrazioni di vicendevole stima[168]. I due campi si confusero in un solo, non d'altro mostrandosi occupati che di feste e di conviti. I popoli, ancora più felici, credettero che questo trattato, sanzionato da una stretta parentela, avrebbe avuto maggior durata che non i precedenti, e che lungo tempo assicurerebbe il riposo dell'Italia. Le nozze di Francesco Sforza e di Bianca Visconti, allora in età di sedici anni, e non meno illustre per la sua bellezza e pel suo carattere che per la sua nascita, vennero celebrate il 24 di ottobre, ed in pari tempo il suo sposo fu posto in possesso di Cremona e di Pontremoli. Egli era stato riconosciuto arbitro dalle potenze alleate come dal Visconti. Gli ambasciatori di quelle e di questo si adunarono presso di lui a Capriana; e dopo alcune negoziazioni, il 20 novembre del 1441, in virtù della sua autorità arbitramentale, egli loro dettò le condizioni della pace. Con questo trattato il duca di Milano, la repubblica di Venezia, quella di Firenze, quella di Genova, il papa ed il marchese di Mantova, vennero rimessi ne' loro antichi diritti e confini. L'ultimo soltanto fu costretto a rinunciare ad ogni pretesa sopra Peschiera, Lonato, Asola e Valeggio, ch'egli aveva conquistate nel territorio veronese, ed in appresso perdute: dovette inoltre restituire Porto Legnago, Nogarola, e tutto quanto possedeva ancora delle precedenti sue conquiste; perciò egli solo lagnavasi di una pace, che pure era cagione dell'universale allegrezza[169].
CAPITOLO LXX.
Carattere d'Eugenio IV. — Concilj di Basilea, di Ferrara e di Firenze. — Renato d'Angiò contrasta ad Alfonso d'Arragona l'acquisto del regno di Napoli. — Egli perde la capitale ed abbandona l'Italia.
1436 = 1442. Accade talvolta che un uomo innalzato a grandi dignità esercita sul suo paese, sul suo secolo, su tutta l'Europa un'influenza non proporzionata ai suoi talenti, alle sue virtù, alla sua capacità, ma alla sola inquietudine del suo carattere. Si vede prendere parte in tutte le rivoluzioni, veggonsi gli effetti de' suoi maneggi ne' più lontani paesi, ed in tutti gli avvenimenti che sembrano avere meno relazione con tutti gli altri. Dopo averlo incontrato in ogni luogo, si fissa finalmente lo sguardo sopra di lui, e siamo compresi da maraviglia trovandolo tanto piccolo proporzionatamente agli effetti da lui prodotti, finchè non siamo ben convinti che le grandi catastrofi non indicano spesse volte vera grandezza in colui che le cagionò. Tale fu in particolar modo papa Eugenio IV, il quale alla metà del quindicesimo secolo scosse senza interrompimento colle sue passioni ed i suoi maneggi l'Italia, la Chiesa e tutta la cristianità; che prese parte in tutte le controversie religiose, in tutte le guerre politiche del suo tempo; che ancora, dopo morto, fece lungamente sentire l'influsso quasi sempre funesto del suo regno; e che non pertanto quando ci facciamo a considerarlo attentamente non ci sembra così forte per eccitare i movimenti che vediamo continuamente partire dal suo trono.
Si videro in sul declinare dei quindicesimo secolo sedersi sulla cattedra di san Pietro alcuni papi, la di cui riputazione è talmente screditata, che gli stessi scrittori ecclesiastici non hanno pur tentato di difenderli. Ma Eugenio IV non trovasi in questa categoria. Per quanto sia fatale l'influenza ch'ebbe il suo regno sull'autorità della Chiesa, per quanti errori abbia commessi in tempo del suo pontificato, gli annalisti della corte romana hanno preso a giustificarlo, opprimendo tutti i suoi nemici coi loro anatemi, ed in ogni controversia risguardando un partito come giusto o come empio, secondo che fu da lui abbracciato o abbandonato. Enea Silvio, che durante il suo regno era ambasciatore di Sigismondo presso la santa sede, e che più tardi salì sul trono pontificio, delineò il ritratto d'Eugenio da quel profondo politico ch'egli era, eppure non gli attribuisce pressochè altro difetto che quello della sua leggerezza. «Egli aveva l'animo elevato, dice egli, ma il suo maggior vizio fu di non aver misura in alcuna cosa, e d'intraprendere sempre ciò che voleva, non ciò che poteva[170].» Il Vespasiani, contemporaneo di questo papa, di cui ne scrisse la vita, lo descrive poco meno che un santo[171]. Infatti Eugenio, regolare fino allo scrupolo in tutte le discipline monastiche, austerissimo nelle domestiche abitudini, si asteneva quasi da tuttociò che l'uomo volgare risguarda come piaceri; ma egli non seppe mai porre limite alle passioni ond'era agitato, nè la sua cupidigia era frenata dal timore de' falsi giuramenti.
Nella distanza in cui oggi lo stiamo osservando, dopo che gli odj di parte si sono spenti, che i pregiudizj più non hanno impero, e che i papi, come gli altri sovrani, sono particolarmente giudicati per conto delle azioni pubbliche, pare che pochi pontefici fossero meno meritevoli d'Eugenio IV di occupare il primo rango tra i Cristiani. Nelle violenti rivoluzioni in cui si vede sempre avviluppato, nella guerra col suo clero, co' suoi sudditi, co' suoi benefattori, manca quasi sempre di buona fede e di politica. A pochi tiranni si possono imputare tanti atti di perfidia e di crudeltà, pochi monarchi imbecilli hanno date più aperte prove d'incapacità e di leggerezza. Così quando si osserva, nel principio del suo regno, vacillante sul suo trono per gli attacchi, provocati da lui medesimo, dei popoli, dei sovrani e degli stessi prelati, non sappiamo comprendere come abbia potuto sostenersi tredici anni, e trionfare quasi sempre di avversarj forniti di maggiori virtù, e di più singolari talenti.
Le credenze religiose, che formavano il suo appoggio, conservavano in allora sugli spiriti un'influenza la di cui natura ed i limiti sembrano inesplicabili. Esse si erano compiutamente sciolte, almeno rispetto alla maggior parte degli uomini, da ogni superstizione, da ogni calore di opinione, da ogni entusiasmo; esse non appoggiavansi ad alcuna idea morale, più non erano preferite a verun calcolo d'interesse privato; ma inspiravano tuttavia un allontanamento invincibile da tutto ciò che portava il nome d'eretico o di scismatico. Gli spiriti che avevano rigettato ogni legislazione morale, ogni freno alle loro passioni, ogni principio indipendente dai loro interessi, avevano ribrezzo d'entrare in disamine religiose; essi sollevavansi contro la libertà di pensare, e non contro i nuovi dommi. Vedevansi senza scandalo accusare il papa o i suoi prelati di atroci delitti, e vedevansi colla medesima indifferenza i loro nemici ricorrere contro di loro ad una insigne perfidia[172]. L'indegna condotta del Vitelleschi, patriarca d'Alessandria, non sembrò più odiosa in ragione della elevata sua dignità ecclesiastica, come non fu cagione di scandalo il tradimento con cui il papa fece perire il suo antico amico, il suo ministro. Risguardavasi come una legittima astuzia della regnante politica l'artificio del Piccinino, che si era dal papa fatto anticipare il danaro, col quale gli aveva tolto gli stati; com'era pure un calcolo affatto semplice quello con cui papa Eugenio voleva togliere allo Sforza la Marca, che gli aveva dato egli medesimo e garantita con mille giuramenti: egli non era più legato al suo difensore poichè più non gli abbisognavano i suoi servigi. Sarebbe pure stato senza difficoltà scusato il principe o il prelato, che si fosse alleato coi Turchi e cogli eretici, purchè ciò fosse tornato a suo utile e non fosse stato fatto senza motivo. Ma ancora coloro che ponevano sì poco freno all'ambizione ed alle passioni politiche, fremevano al solo nome degli Ussiti. Essi non esaminavano se la loro dottrina fosse riprovevole, o s'era in opposizione coi dommi primitivi sui quali è fondata l'umana società, o co' suoi rapporti verso il creatore; bastava loro che fosse condannata per desiderare ardentemente che fosse distrutta col ferro e col fuoco. Lo scopo delle crociate, predicate sotto Eugenio IV, nella Sassonia, nel Brandeburghese nell'Austria, nell'Ungheria, non tendeva, come nel dodicesimo secolo, a soccorrere i fratelli oppressi, ma ad esterminare i dissidenti. Non volevansi convertire i Boemi, ma strascinarli sul rogo. Questo desiderio erasi fatto nazionale presso popoli sui quali la religione esercitava pochissima influenza. L'intera Cristianità non aveva allora un solo uomo, nemmeno tra i più vantati filosofi, che credesse permesso ai Cristiani il convivere coi miscredenti, e che non rigettasse con orrore l'idea della tolleranza.
Nella forza dell'educazione, dell'esempio, delle abitudini radicate da più secoli, ed il di cui esame mai non era permesso, può solo trovarsi la spiegazione delle grossolane contraddizioni, nelle quali vediamo cadere l'intelletto umano. Non conviene attribuire il nostro modo di ragionare a que' secoli che si erano formati un'altra logica, nè ricusar di credere all'impero delle passioni che regnavano allora perchè ci sembrano non conciliabili. La storia prova pur troppo evidentemente, che lo sragionamento umano non ha limite, quando credesi appoggiato ad un'autorità d'un ordine superiore. A questa mescolanza di perfidia e di fanatismo, d'indifferenza per la morale e di zelo per la fede, i crociati d'Eugenio IV andarono debitori de' loro prosperi avvenimenti contro gli Ussiti. Riuscirono a dividerli per distruggerli, ad ingannarne una parte con false promesse, ad arruolarli sotto i loro stendardi, ad armare gli uni contro gli altri. Niuno degli artifici più condannati della più corrotta politica venne risparmiato; e quando ebbero ottenuto l'intento loro, credettero dovuto alla gloria di Dio il distruggere gli strumenti di cui si erano serviti. «In fine della guerra, dice lo storico Cocleo, rimanevano tuttavia tra le mani dei vincitori molte migliaja di prigionieri, che Mainardo di Casa Nuova voleva distruggere per liberarsi da questa colpevole razza. Ma perchè temeva di confondere cogli eretici innocenti contadini, che forse erano stati forzatamente arruolati, fece pubblicare tra i prigioni che la guerra non era ancora terminata, che Czapchon era fuggito, e che voleva inseguirlo; che perciò abbisognava di que' valorosi soldati che avevano militato sotto i due Procopj; che confidava nel loro coraggio e nella loro esperienza della guerra; che in conseguenza, diceva egli, aveva fatto assegnar loro un soldo sul pubblico tesoro, finchè il regno fosse perfettamente tranquillo; faceva perciò invitare tutti coloro che volevano servire a passare ne' vicini casolari che faceva aprire, raccomandando loro di ben guardarsi d'ammettere in loro compagnia contadini non accostumati alle armi, i quali dovevano anzi essi medesimi rimandare all'aratro. Dietro tale invito alcune migliaja di Taboriti e d'Orfanelli entrarono nelle capannine, che secondo l'uso di Boemia erano tutte coperte di stoppie. Si chiusero subito le porte, ed appiccatovi il fuoco, questa feccia, questo rifiuto della razza umana, dopo avere commessi tanti delitti, pagò finalmente tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la religione[173].» Tale era nel quindicesimo secolo la sensazione che faceva il racconto d'una perfidia, quando n'erano vittima gli eretici; tale era ancora in Italia verso la metà del diciasettesimo secolo. Rainaldi, l'annalista della Chiesa, adottando il racconto di Cocleo, vi aggiugne soltanto, che «queste vendicatrici fiamme fecero passare gli Ussiti da un fuoco terrestre ad un fuoco eterno[174][175].»
Fu a cagione di quest'orrore per ogni esame della fede, che la riforma predicata in Boemia con tanto fervore, e spesso accompagnata da tanta ferocia, non guadagnò un solo partigiano in Italia, nè fece nascere il menomo dubbio sui sacri diritti d'un papa, o di chi rappresentava la Chiesa, e de' quali vedevasene così da vicino la corruzione. Per la stessa ragione un'altra assai più stretta riforma e più limitata, che il concilio di Basilea intraprendeva nello stesso tempo in seno all'ortodossia, venne parimente disapprovata; Felice V, che sotto tutti i rapporti era superiore ad Eugenio IV, fu screditato come antipapa, e la prodigiosa scossa che ricevette la Chiesa in tempo di questo agitatissimo pontificato non rendette la libertà agli spiriti.
Una maggiore indipendenza d'opinioni ed in pari tempo un più vero zelo per i sentimenti religiosi pareva che di quest'epoca avessero dominato nella Germania. Sebbene il concilio di Basilea avesse invitato alle sue deliberazioni i deputati di tutte le nazioni cristiane, aveva non pertanto ricevuto il suo carattere dai principi e dai prelati tedeschi che vi si trovavano in numero assai maggiore, e sentiva lo spirito popolare della nazione, in seno alla quale era adunato. Tutte le sue deliberazioni, tutti i suoi decreti, malgrado l'amore del bene, della libertà, della religione, ond'era animato, annunciano una mancanza di precisione nelle idee, che doveva impedire di giugnere giammai in quest'assemblea ad un'utile riforma, il concilio aveva approvato nel 1436 le compactata dei Boemi col re Sigismondo. Per il bene della pace e perchè Sigismondo salir potesse sul trono paterno, erasi in qualche modo convenuto d'ingannarsi vicendevolmente, d'ammettere reciprocamente una nuova professione di fede, i di cui vocaboli erano così vaghi ed oscuri, che ognuno poteva intenderli a modo suo, e che i Boemi sembrando oramai ortodossi, i cattolici non sarebbero più obbligati in coscienza a far loro la guerra. Sarebbe per avventura stato savio consiglio il riconoscere per cristiane tutte le sette che sarebbersi accordate intorno ai dommi fondamentali del cristianesimo, malgrado qualche dissidenza su cose di minore importanza; ma l'avviluppare con ambigue parole quelle stesse quistioni che formavano l'oggetto della disputa, dare una espressione comune ad opinioni diametralmente opposte, pretendere di andare d'accordo con una professione di fede inintelligibile intorno a ciò che nè l'una nè l'altra parte voleva abbandonare, era lo stesso che acconsentire ad ingannarsi reciprocamente, e mancare nello stesso tempo di buona fede cogli uomini e col cielo[176].
Questo trattato, sebbene assai diffettoso, fu non pertanto il più giudizioso atto del concilio, non essendo tutti gli altri decreti che vane declamazioni contro l'incontinenza, contro la simonia, contro gli errori di alcuni sconosciuti eretici. Non era possibile di applicare al governo della Chiesa idee così vaghe, nè di prevedere un risultamento probabile o possibile da veruno de' suoi decreti. I prelati sinceramente desideravano la riforma degli abusi, ma non volevano dal canto loro trovarsi angustiati nella propria diocesi rispetto alla libertà o all'autorità, e perciò non pensavano a stabilire una più ferma organizzazione, che potesse comprimere i vizj, che essi condannavano nelle loro declamazioni.
Il concilio mostrava una più giusta conoscenza degli affari nei suoi piani d'attacco che ne' suoi stabilimenti permanenti. Per soppiantare il papa i prelati attaccavano successivamente le annate, le collazioni de' beneficj, le nuove contribuzioni e tutte le altre sorgenti della pontificia ricchezza. Denunciavano le une dopo le altre nelle loro grandi assemblee tutte le usurpazioni della corte di Roma, per le quali avevano individualmente sofferto[177]. Il concilio trovavasi diviso in quattro deputazioni, o sia camere, nelle quali i suffragi del clero inferiore sembrano essere stati ritenuti eguali a quelli dei prelati, e questa mescolanza faceva in tutte dominare le opinioni democratiche[178]. Lo spirito di corpo che s'andava sviluppando in queste assemblee fortificavasi per la persuasione in cui erano i loro membri, che i loro suffragi riuniti esprimevano la stessa volontà dello Spirito Santo. Perciò non ponevano verun limite alle loro pretese; si sforzavano di tutto concentrare nel concilio, e volevano sottomettere la Chiesa all'autorità popolare della loro assemblea, che agli occhi loro era l'autorità di Dio. Ogni giorno essi toglievano qualche prerogativa alla santa sede per attribuirsela; disputavano in pari tempo intorno al fondo ed alla forma di tutte le questioni; ogni concessione del papa rendevali più arditi ad esprimere qualche nuova inchiesta; in somma la tattica loro era quella stessa delle grandi assemblee legislative che furono viste lottare coi re nelle monarchie che cambiavano costituzione. Avrebbero infatti mutata la costituzione della Chiesa, se non avessero spinta troppo lontano la loro ambizione. Ma i padri del concilio credettero avere una missione dallo Spirito Santo per governare le potenze temporali egualmente che la Chiesa di Dio; si eressero arbitri de' principi della Germania e de' re, e le orgogliose loro pretese terminarono coll'alienare gli animi dell'imperatore Sigismondo e de' loro più zelanti protettori.
Quest'imperatore, che aveva riaccesa la guerra in Boemia, non osservando verso gli Ussiti le convenzioni che aveva giurate avanti d'essere coronato, morì l'otto dicembre del 1487. Col suo testamento chiamò, per quanto da lui dipendeva, suo genero, Alberto II d'Austria, all'eredità delle sue corone. Era questo l'istante in cui la contesa tra il concilio ed Eugenio era più viva. Eugenio, che diffidava dello spirito indipendente dei Tedeschi, che aveva già più volte cercato di traslocare il concilio per istancheggiare i padri coi viaggi e colle eccedenti spese, e costringerli in tal maniera a tornare volontariamente a casa loro, aveva acquistato un ausiliario, sul quale non aveva potuto contare prima d'allora. Era questi l'imperatore di Costantinopoli, Giovanni VI Paleologo, che stretto nella sua capitate dalle armi dei Turchi, e minacciato della vicina distruzione della sua nazione, veniva a chiedere agli Occidentali una protezione, che la greca fierezza aveva lungamente ricusata. Egli si sottometteva a rientrare col suo clero in seno della romana Chiesa, ad abiurare le credenze ed i riti, pei quali i suoi antenati avevano sparso tanto sangue, e sperava a tale prezzo di ottenere dai Latini, invocandoli come fratelli, maggiori soccorsi.
Il Paleologo misurava la loro riconoscenza sulla grandezza del sagrificio che egli loro faceva. Nulla poteva costargli di più quanto l'unione delle due chiese, cosa da lui sempre giudicata empia e sacrilega. Voleva in allora farvi acconsentire i suoi sudditi, onde ottenere a tale prezzo una potente crociata; ma s'egli avesse preveduto quante poche braccia si sarebbero per sua difesa armate in Occidente, non sarebbesi al certo assoggettato ad un passo, che a' suoi occhi feriva l'onor suo e la sua coscienza. Ma anche facendolo egli volle pur conservare qualche dignità, e rendevasi difficile intorno alle condizioni. Non voleva trasportarsi ne' lontani e sconosciuti paesi della Germania e della Francia, ed i suoi prelati vi si sarebbero rifiutati più di lui. Sebbene mosso dalle offerte del concilio di Basilea, ed incerto tra il papa e questa assemblea, egli protestò che non recherebbesi a Basilea; e ricusò egualmente Avignone, come tutte le città della Savoja, ove i prelati del concilio avevano offerto di traslocarsi per incontrarlo[179]. Desiderava particolarmente di piacere al papa, e di corteggiarlo, perchè sembravagli che il papa fosse tuttavia il dominatore del cristianesimo; le sue ricchezze, l'estensione de' suoi stati, e la loro prossimità alla Grecia, davano maggior prezzo alla sua alleanza. Eugenio dal canto suo, che sentiva il vantaggio grandissimo che l'unione de' Greci darebbe alla sua causa, procurava di compiacere l'imperatore, e giunse perfino a proporre di adunare in Costantinopoli il concilio ecumenico progettato, sotto la presidenza di un suo legato[180], sperando senza dubbio di scoraggiare in tal modo i vescovi latini, e di sciogliere il concilio di Basilea. In quest'ultimo si dava pure grandissima importanza all'unione delle due chiese, e gli ambasciatori greci eranvi trattati con que' riguardi, che più non si accordavano ad Eugenio IV[181].
Ma il timore d'impedire la riunione dei Greci alla Chiesa Romana lasciò luogo finalmente alla sempre crescente collera del concilio. Il papa era stato da molto tempo citato a presentarsi a quest'assemblea, e perchè non aveva ubbidito, venne dichiarato contumace nella 28.ª sessione il 1.º ottobre del 1487[182]. Eugenio, in quest'occasione, dovette la sua salvezza alla precipitazione ed all'indecenza del procedere de' suoi avversarj. Gli ambasciatori di quasi tutti i principi riclamavano contro una rivoluzione, che non avrebbe mancato di strascinare il cristianesimo in un nuovo scisma. Il papa, prendendo ardire da questa favorevole disposizione de' sovrani, traslocò di propria autorità il concilio a Ferrara; si trovò tra i padri di Basilea una debole minorità che si unì a lui; esso accettò la traslazione con decreto che emanò in nome di tutta l'assemblea, e venne subito a stabilirsi nella città ch'erale stata assegnata. L'apertura di questo nuovo concilio ebbe luogo l'8 gennajo del 1438, quando non vi si trovavano ancora che cinque arcivescovi, dieciotto vescovi, e dieci abati, quasi tutti sudditi del papa[183]. Non pertanto l'imperatore di Costantinopoli vi andò subito dopo col despota della Morea, suo fratello, il patriarca di Costantinopoli, venti tra arcivescovi e vescovi greci, ed i veri e supposti deputati degli altri patriarchi dell'Oriente. Venne a presiedere il concilio Eugenio IV, e la prima sessione dell'assemblea delle due chiese fu tenuta il giorno 8 di ottobre del 1488[184].
In questo concilio italiano più non rimaneva nulla di quello spirito d'indipendenza che animava sempre quello di Basilea: i prelati di Ferrara non si mostrarono meno zelanti per la monarchia della Chiesa, di quello che i padri di Basilea lo fossero pel suo governo repubblicano. Condannarono il concilio de' loro avversarj, chiamandolo un conciliabolo; pronunciarono sentenza di scomunica contro gli ecclesiastici, che gli rimarrebbero attaccati, contro coloro che avrebbero col medesimo corrispondenza, contro i mercanti che gli porterebbero vittovaglie, o altro oggetto necessario alla vita, ed invitarono i fedeli a dividersi l'avere di questi mercanti, appoggiandosi a questa autorità evangelica, justi tulerunt spolia impiorum[185]. Altronde ogni cura di riformare la Chiesa, di porre un limite tra l'autorità della sede romana e quella de' vescovi, a Ferrara fu abbandonata, e fu trattato esclusivamente il grand'affare dell'unione delle due chiese. Le quattro quistioni, dell'uso del pane senza lievito, dell'autorità del papa, del purgatorio e della processione dello Spirito Santo, vennero trattate con tutta la sottigliezza che può essere adoperata in argomenti superiori alla portata dell'umana ragione[186]. Il concilio fu come un campo di battaglia pei teologi scolastici: i più riputati uomini della Grecia e dell'Italia vi vennero a far pompa d'erudizione e di eloquenza. L'amore delle lettere si era rianimato quasi con ardore eguale in Oriente ed in Occidente; la filosofia platonica si studiava dal clero greco, che non ignorava l'antichità e cercava d'imitare l'eloquenza e la dialettica dell'antica Accademia. Bessarione, arcivescovo di Nicea, che fu poi cardinale, comunicò ai Latini con quella sottile filosofia un gusto più puro, una ragione più severa, cui i suoi compatriotti erano giunti i primi collo studio di una più vasta letteratura. Ma mentre fu giudicato in Occidente come colui che si era reso sommamente benemerito delle lettere, ebbe la taccia di disertore presso i suoi fratelli d'Oriente, poichè si lasciò sedurre dalle dignità e dalle ricchezze della corte di Roma; egli abbandonò il partito nazionale e la sua defezione decise della sommissione della Chiesa greca. Il patriarca di Costantinopoli era morto il 10 giugno dei 1439[187], tutti i vescovi che l'avevano seguito erano stati privati della piccola pensione loro promessa; volevasi domarli colla cattività e colla miseria, e con tali mezzi in fatti si costrinsero finalmente a dare il loro assenso. Essendo scoppiata in Ferrara la peste, erasi traslocato il concilio a Firenze, nella di cui cattedrale fu proclamata, il 6 luglio del 1439 nella 25.ª sessione, l'unione dei Greci e dei Latini[188]. Sebbene la maggior parte della Chiesa greca l'abbia in appresso rigettata, questa riconciliazione è riconosciuta ancora nell'età presente dalla piccola congregazione che porta il nome di Greci uniti.
In conseguenza di tale unione il papa promise ai Greci in nome dei Latini, una flotta, un'armata e dei sussidj per difendere Costantinopoli, quando i Turchi si avanzassero ad attaccarla[189]. A conto di questo futuro sussidio, Eugenio IV fece pagare dai Medici, banchieri della santa sede, dodici mila fiorini alla guardia dell'imperatore. Il viaggio di Paleologo e de' suoi prelati era stato in gran parte pagato coi regali delle città e dei principi che loro avevano accordata l'ospitalità. Pure la condiscendenza dei Greci, e la lunga loro lontananza dalla patria, non ebbero per loro, generalmente parlando, che i più meschini risultati; il solo Eugenio IV ne tirò tutto il vantaggio. Dopo quell'epoca egli godette d'una considerazione assai maggiore che prima non aveva, e venne considerato come continuamente intento alla pacificazione della Chiesa, mentre che il concilio di Basilea non tendeva che a dividerla. Nulla trascurò il papa di quanto potesse contribuire ad accrescere questa nuova gloria. Dopo che i Greci, non meno che la maggior parte de' prelati latini ebbero abbandonata l'assemblea di Firenze, Eugenio ne trasportò i deboli avanzi a Roma, ed in quest'ombra di un concilio ecumenico, ammise le supposte deputazioni degli Etiopi, dei Sirj, de' Caldei, de' Maroniti; conchiuse con questi disertori di diverse sette nuovi trattati d'unione, di cui le loro chiese mai non ebbero notizia, ed in tal modo compì apparentemente la pacificazione dell'Oriente[190].
D'altra parte il concilio di Basilea, abbandonato da una parte de' suoi partigiani, ma sempre frequentato dai vescovi di tutte le contrade della Cristianità, e sempre riconosciuto dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna e dall'alta Italia, elesse finalmente per papa il 5 novembre del 1439 Amedeo VIII di Savoja, che in allora più non era che il decano dei cavalieri di san Maurizio di Ripaglia, e che prese il nome di Felice V[191]. Questo sovrano, che fino a tale epoca aveva goduto opinione di uomo prudente, e che, stanco delle cure del governo, aveva nel 1434 rinunciata l'amministrazione de' suoi stati a suo figlio maggiore, Luigi, principe di Piemonte, accettò la nomina del concilio, che lo chiamava negli estremi suoi giorni a più cocenti cure, che non erano state quelle del trono che aveva abdicato. Fissò alternativamente il suo soggiorno a Basilea, a Losanna ed a Ginevra con una immagine della corte di Roma, che compose in quattro promozioni di ventiquattro cardinali[192]. Mentre che i due concilj ed i due papi continuavano per alcuni anni a caricarsi di scomuniche, le due metà della Chiesa sforzavansi di diffamarsi a vicenda colle più oltraggiose e calunniose imputazioni, e questi scandali furono trasmessi ai futuri secoli, non per mezzo di libelli, ma nelle dichiarazioni infallibili de' concilj e de' papi[193]. Eugenio IV non doveva soltanto difendere la sua potenza spirituale colle negoziazioni coi Greci, e con aperta guerra contro il concilio, ma ancora i suoi temporali dominj, i quali erano egualmente minacciati dalle guerre ond'era agitata l'Italia; guerra cui la sua naturale inquietudine non gli permetteva di essere straniero. Abbiamo osservato che nella guerra della Lombardia egli era diventato l'alleato attivo delle repubbliche di Venezia e di Firenze: egli prese parte ancora nella guerra di Napoli, ma meno vivamente; aveva abbracciato il partito d'Angiò, e si trovò compromesso dai rovesci di questo partito, ch'egli aveva male secondato.
Alfonso di Arragona, che disputava la corona a Renato d'Angiò, non aveva dovuto combattere per lungo tempo che la moglie del suo rivale, Isabella di Lorena era venuta a Napoli nel 1485, con Luigi suo secondo figliuolo; la sua saviezza e le sue virtù la rendettero cara agli antichi partigiani della casa d'Angiò, e di concerto con loro ella sostenne tre anni una lotta disuguale, finchè venne a raggiugnerla il di lei sposo. Renato sbarcò nel porto di Napoli il 19 maggio del 1438[194]. Ma la sua libertà eragli costata un'enorme taglia, i suoi tesori erano esausti, egli non recava nè sussidj, nè armata in un regno ruinato, le di cui entrate venivano divise tra i faziosi. I suoi partigiani, non meno adescati dalla dolcezza e dalla bontà del suo carattere che dal suo coraggio, avevano da principio mostrato il più vivo zelo; ma quando si accorsero che soli dovevano fare tutto per lui, il loro zelo scemò ed i suoi affari andarono sempre più declinando. Nella Calabria gli era stata tolta Cosenza per tradimento, e tutta la provincia seguì la sorte della capitale e si sottomise ad Alfonso. Nella Puglia Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, chiamò alla ubbidienza dell'Arragonese quasi tutte le città, tranne Manfredonia ed alcuni castelli in cui teneva guarnigione Francesco Sforza: negli Abruzzi la sola città dell'Aquila mantenevasi fedele a Renato colle piazze di confine della Marca d'Ancona, possedute pure dallo Sforza.
Giacomo Caldora o Caudola, duca di Bari, era morto il 18 novembre del 1439, dopo essere stato il più fermo appoggio del partito d'Angiò[195]. Suo figlio Antonio, che gli successe nel comando delle armate e del ducato di Bari, era meno del padre affezionato agli Angioini, o meno disposto ad ubbidire ad un re che non poteva pagarlo, e svegliò la diffidenza di Renato. Questo principe volle togliergli l'armata, e la perdette col suo generale, che nell'estate del 1440 passò al servigio dell'Arragonese. Più non restava nella Campania al principe francese che la città di Napoli, e questa pure assediata, e mancante di vittovaglie. Tanto nell'interno del regno, che in altri stati non vedevasi un'armata o un principe che potessero arrecargli soccorso[196].
Alfonso credette il momento favorevole per chiudere per sempre l'ingresso del regno al solo alleato che avesse Renato; e cercò di togliere per sorpresa a Francesco Sforza tutto ciò che questo condottiere possedeva nella monarchia siciliana. Lo Sforza, occupato in allora nella guerra di Lombardia, aveva lasciate poche truppe ne' varj feudi che aveva ereditati da suo padre. Era affezionato al re Renato, e nemico d'Alfonso, contro il quale egli suo padre avevano lungamente combattuto; ma egli aveva con questo principe fatta una tregua di dieci anni, in forza della quale le piazze forti da lui occupate erano state dichiarate neutrali, ed i loro mercati egualmente aperti alle due fazioni. I Napolitani, di già bloccati da Alfonso, approfittavano di tale neutralità per tirare vittovaglie da Benevento, e questo fu il fatale pretesto di cui si valse il re d'Arragona per rompere il suo trattato, e sorprendere questa piazza in sul finire del 1440. Approfittando de' primi successi occupò in pochi giorni per accordo o per forza tutti i castelli del vicinato, e tutto quanto possedeva nella Campania Francesco Sforza. In principio del susseguente anno fece attaccare dai suoi luogotenenti i feudi che lo Sforza aveva negli Abruzzi, mentre andò egli stesso ad assediare Troja.
Francesco Sforza, in allora al servizio de' Veneziani, era abbastanza occupato dal Piccinino. Non pertanto mandò per il mare Adriatico due de' suoi luogotenenti, Cesare Martinengo e Vittore Rangone per difendere la sua eredità. Il corpo di cavalleria che questi conducevano sbarcò a Manfredonia, ove si affrettarono di raggiugnerlo i partigiani pugliesi di Renato: s'avanzarono verso Troja per obbligare Alfonso a levarne l'assedio; ma questi attaccò i due capitani, li ruppe, e disperse interamente la loro piccola armata. Alessandro Sforza, fratello del conte Francesco, e suo luogotenente nella Marca d'Ancona, fu più fortunato contro Raimondo di Caldora, che comandava gli Arragonesi negli Abruzzi; lo sconfisse e fece prigioniere con circa cinquecento cavalli; scacciò dalla provincia il rimanente della di lui truppa, ma non cercò d'inseguirla, e di approfittare della sua vittoria[197].
Il cardinale di Trento, mandato da Eugenio IV, entrò pure con un'armata di dieci mila uomini nel contado d'Albi dell'Abruzzo ulteriore per sostenere il partito di Renato; ma dopo una breve campagna, che non venne illustrata da verun'impresa importante, fece una tregua con Alfonso e rientrò nel territorio della Chiesa. Vedendo il re d'Arragona che gli sforzi de' suoi nemici erano impotenti, ricondusse i suoi soldati sotto Napoli, e la strinse in modo, che le vittovaglie salirono ben tosto ad un eccessivo prezzo. Il re Renato faceva distribuire sei once di pane ai soldati ed agli abitanti il giorno che facevano la guardia, e tutti gli altri erano ridotti ad alimentarsi di erbaggi o di animali immondi e schifosi[198]. Nondimeno Renato si era in modo affezionati i Napolitani, era così apertamente partecipe delle loro privazioni e dei loro pericoli, che il popolo non si lagnava, e sottomettevasi per amor suo ai più grandi patimenti. Ma tutta la speranza degli assediati fondavasi sul conte Sforza; sapevano essi che dopo la pace di Lombardia questo generale era rimasto alla testa di una fiorente armata, che si era arricchito coi tesori di suo suocero, e che niente omai lo riteneva in Lombardia. Renato lo affrettava a salvare un amico dall'ultima sua ruina, ed a vendicarsi di un nemico che lo aveva assalito senza essere stato provocato. Infatti lo Sforza animato da giusto sdegno per la ricevuta ingiuria, si pose in cammino in principio di gennajo del 1442 per assicurare la propria autorità nel principato della Marca, e per difendere o riconquistare i suoi feudi ereditarj del regno di Napoli[199].
Un così formidabile avversario poteva un'altra volta cambiare la sorte della guerra. Alfonso, avvisato del suo imminente arrivo, supplicò il duca di Milano a soccorrerlo prima che perdesse una conquista, che omai credeva sicura. Era il Visconti, egli diceva, che gli aveva posta la corona in capo; per terminare quest'opera altro più non restava a farsi che ritenere lo Sforza fuori del regno, finchè Napoli avesse capitolato; ed in allora la riconoscenza d'Alfonso per così grande beneficio non sarebbe più impotente[200].
È verosimile che nell'istante in cui Filippo Maria si era rappattumato collo Sforza, e che gli aveva data la figlia, avrebbe avuto tanta influenza sul di lui animo da persuaderlo a rimanersi inattivo, particolarmente qualora gli avesse guarentiti o fatti restituire i feudi che gli si erano tolti. Ma il duca di Milano non voleva mai conseguire i suoi fini che per mezzo dell'intrigo; egli aveva una decisa passione disinteressata per gl'inganni, e preferì di ruinare suo genero e sua figlia, piuttosto che cercare di persuadere il primo a seguire le sue viste. Forse la morte di Niccolò, marchese d'Este, accaduta il 26 dicembre del 1441, contribuì ad intiepidire il Visconti intorno ad un parentado trattato da questo principe. Niccolò, uno de' più accorti sovrani che abbia prodotti l'illustre famiglia d'Este, aveva così ben guadagnata la confidenza del Visconti, che questi lo aveva indotto a fissare il 5 aprile del 1441 la sua dimora in Milano, e ve lo aveva trattenuto come confidente, amico e suo solo consigliere; onde spargevasi voce che sarebbe stato nominato successore del duca. La morte di Niccolò, che aprì la successione di Ferrara e di Modena a suo figlio naturale Lionello, uno de' grandi protettori delle lettere e delle arti[201], venne attribuita a veleno che si suppose essergli stato dato da' suoi rivali nella corte di Milano. Filippo, perdendo il suo consigliere, si ravvicinò a coloro che godevano per lo innanzi il suo favore, ed in particolare a Niccolò Piccinino; ordinò a questo generale di assoldare la maggior parte de' corazzieri che i Veneziani avevano licenziati dopo la pace, e di prendere il cammino di Bologna. Nello stesso tempo scrisse ad Eugenio IV, che l'istante era finalmente giunto di ricuperargli la Marca d'Ancona, che pentivasi d'aver data in feudo allo Sforza, e gli offriva per riconquistarla le truppe del Piccinino pagate per tutto il tempo che durerebbe la guerra[202].
Pochi mesi prima lo Sforza comandava le truppe della lega, di cui era parte anche il papa; era ancora minor tempo che lo Sforza era stato riconosciuto da questo papa per arbitro nell'ultimo trattato di pace; finalmente in questa stessa epoca egli accorreva in soccorso di un alleato della corte di Roma, di già ridotto alle ultime angustie: ma nè la riconoscenza, nè i giuramenti potevano tenere a freno l'ambizione d'Eugenio. Egli accettò la proposizione che gli faceva il duca di Milano, sagrificò senza scrupolo Renato, alla di cui difesa poco prima credeva attaccata l'indipendenza della santa sede, nominò il Piccinino gonfaloniere della Chiesa, e senza dichiarazione di guerra, in mezzo alle più pacifiche proteste, lo autorizzò a sorprendere Todi, e ad assediare Assisi[203].
Lo Sforza, trattenuto nella Marca da così inaspettato attacco, abbandonò il progetto di soccorrere la casa d'Angiò, per opporsi al Piccinino. Intanto l'accidente favorì Alfonso. Un muratore, cacciato dalla fame fuori di Napoli, indicò al re d'Arragona il giro e l'uscita di un acquidotto abbandonato, pel quale Belisario era entrato in questa città. Credevasi bastantemente chiuso colle palafitte, ed erasi trascurato di porre una guardia in que' luoghi umidi ed oscuri. Il muratore condusse il 2 giugno del 1442 dugento soldati arragonesi a traverso a quest'acquidotto fino ad una torre cui faceva capo. Nello stesso tempo Alfonso fece dare l'assalto alle mura per distrarre gli assediati; e malgrado la valorosa resistenza di Renato, gli Arragonesi penetrarono in città per due diversi luoghi. È peraltro probabile che sarebbero stati respinti, se uno di loro non presentavasi nelle strade di Napoli montato sul cavallo d'un corazziere napoletano da lui ucciso. A tale vista fu universalmente creduto che una porta della città fosse stata occupata dal nemico, poichè v'era entrata la stessa cavalleria, ed in allora più non fu possibile di trattenere i fuggitivi. Renato, strascinato da loro, si chiuse in Castelnuovo; la città venne saccheggiata per alcune ore; ma Alfonso, essendovi entrato, ristabilì l'ordine, ed accolse umanamente tutti gli abitanti. Le fortezze di Capuano e di Capo di monte si arresero dopo pochi giorni, quelle di Castelnuovo e di sant'Elmo rimasero più lungamente in potere di Renato. Questo principe non vi si rinchiuse per difenderle; egli s'imbarcò per passare prima a Firenze, poi a Marsiglia, ed in sul finire di questo stesso anno, quando perdette la speranza di ricuperare il regno di Napoli, fece rendere ad Alfonso le fortezze che venivano ancora custodite per suo conto, onde non prolungare inutilmente i mali di un popolo, che gli aveva mostrato tanto amore e tanta fedeltà[204].
Frattanto continuavasi la guerra nella Marca d'Ancona, sebbene i Fiorentini, che risguardavano la conservazione dello Sforza come necessaria alla loro propria indipendenza, cercassero, d'accordo coi Veneziani, di ristabilire la pace. Bernardo de' Medici erasi recato per commissione loro alle due armate per essere mediatore, e due volte aveva strappato al pontefice ed al Piccinino l'assenso per un equitativo trattato. Ma tosto che lo Sforza, fidandosi ai loro giuramenti, prendeva la strada del Tronto per entrare nel regno di Napoli, il papa o i suoi legati scioglievano il Piccinino dall'osservanza della sua parola, fondandosi sul principio, che nessun trattato svantaggioso alla chiesa è valido; e questo generale ricominciava le ostilità[205]. La prima volta approfittò della buona fede dello Sforza per sorprendere Tolentino, la seconda per assediare Assisi. Il sovrano della Marca, impedito in tutti i suoi progetti, perdeva le sue truppe alla spicciolata; tutti i distaccamenti comandati dai suoi capitani o dai suoi fratelli, Giovanni ed Alessandro, erano successivamente battuti[206]. Assisi fu preso, ed il nemico vi entrò per un acquidotto, come pochi mesi prima era entrato in Napoli. Tre degli ufficiali generali dello Sforza, Manno Barile, Cesare Martinengo e Vittore Rangone, credendo i suoi affari disperati, erano passati al soldo del re Alfonso. Questi sottomise in poco tempo tutto ciò che negli Abruzzi ed in seguito nella Puglia conservavasi tuttavia fedele a Renato ed allo Sforza. L'Aquila gli aprì le porte, Manfredonia e Troja capitolarono, quando lo videro vicino, e prima che terminasse l'anno Francesco Sforza più non conservava un solo feudo, di quanti suo padre ne aveva acquistati nel regno di Napoli con tante fatiche e tante vittorie[207].
Poteva restare a Renato d'Angiò qualche speranza di risalire sul trono di Napoli, finchè il valoroso condottiere, che aveva abbracciato il suo partito, era padrone delle strade degli Abruzzi e della Puglia; ma la ruina di Francesco Sforza consumava quella degli Angioini, e Renato dovette infatti differire, fin dopo la morte del suo avversario, ogni tentativo per rientrare nel regno, cui credeva di avere diritto. Egli si era tenuto sicuro dell'alleanza del papa; i loro trattati erano stati sanzionati da tutte le dimostrazioni d'amicizia che mai possono darsi i Sovrani, e dalla guarenzia ancora più grande del vicendevole vantaggio; e non pertanto Eugenio IV era il vero autore della ruina del principe Angioino. Quand'egli aveva preso il Piccinino a suo soldo, e che aveva assalito lo Sforza in onta alla giurata pace, aveva tolta a Renato la sola speranza di salute che gli rimanesse, e fatta cadere la corona dal suo capo. Il principe fuggitivo, prima d'abbandonare l'Italia, aveva desiderato almeno di rimproverare questa mancanza di fede al suo imprudente alleato. Venne per lagnarsene a Firenze, ove trovavasi in allora la corte pontificia; non ebbe difficoltà a provare che la diversione operata contro il suo difensore aveva accresciuta la miseria de' suoi fedeli partigiani, che con lui sostenevano l'assedio di Napoli. Ma Renato trovavasi allora senza stati e senza armate, e non osò alzare troppo la voce per lagnarsene; si mostrò soddisfatto della buona volontà che tuttavia gli mostrava la corte pontificia; accettò dal papa con riconoscenza l'investitura degli stati che aveva perduti; perciocchè Eugenio IV, quasi riparare volendo il commesso errore, pose in capo a Renato con grande cerimonia, ed in nome della Chiesa, la corona d'un regno, che questo principe aveva dovuto abbandonare[208].
CAPITOLO LXXI.
Alfonso di Napoli, Eugenio IV ed il duca di Milano si uniscono contro lo Sforza per torgli la Marca d'Ancona. — Le repubbliche di Firenze e di Venezia prendono le sue difese. — Rivoluzioni di Bologna. — Morte di Eugenio IV e di Filippo Maria Visconti.
1443 = 1447. Le due lunghe e sanguinose guerre che avevano straziato il nord ed il mezzodì dell'Italia erano terminate: la pace di Capriana, che aveva ristabiliti i rapporti di buona vicinanza tra il duca di Milano e le due repubbliche di Venezia e di Firenze, non era per anco stata violata. La ritirata di Renato d'Angiò lasciava Alfonso V d'Arragona pacifico possessore del regno di Napoli, che aggiugneva a quelli della Sicilia e della Sardegna. La Lombardia, le due Sicilie e lo stato della Chiesa, spossati da tante guerre, sospiravano il riposo. Ma in mezzo ai principi, che governavano questi stati, il figlio di un contadino, Francesco Sforza, aveva fondata una Monarchia militare, che inspirava diffidenza a tutti i suoi vicini. Egli medesimo non aveva verun interesse di turbare la pace d'Italia; anzi il proprio vantaggio lo chiamava a conservarne la tranquillità, onde più solidamente stabilire il suo principato della Marca; e come condottiere preferiva di fare la guerra per conto d'altri, non per sè medesimo. Coloro che lo qualificavano come usurpatore, e che pretendevano che il riposo dell'Italia non potesse conciliarsi col mantenimento della sua autorità, non avevano per avventura diritti assai più legittimi di quelli di Francesco. Alfonso non regnava in Napoli che pel diritto di conquista; Filippo Maria aveva allargato in Lombardia il suo dominio con una lunga serie di slealtà, ed Eugenio IV era un prete decorato della tiara malgrado il voto de' suoi elettori medesimi; ma tutti erano persuasi che una più pericolosa usurpazione per loro sarebbe quella sanzionata dai talenti e dal carattere; che un soldato, salito sul trono, ne indicherebbe la strada a tutti i valorosi, e che il paragone d'un tal uomo comprometterebbe la sicurezza di tutti coloro che dovevano il loro rango all'eventualità della nascita.
L'accanimento contro Francesco Sforza pareva accrescersi in ragione della diffidenza che ogni sovrano aveva diritto di concepire di lui medesimo. Alfonso V, cui le vicendevoli offese, e la rivalità di parte tenuta lungo tempo, avevano poste le armi in mano, era non pertanto il più disposto a riconciliarsi collo Sforza, perciocchè, conscio del proprio valore, egli non temeva di spogliarsi delle insegne del principato, e pareggiarsi uomo per uomo con un eroe. Il Visconti, ch'era suocero dello Sforza e che talvolta trovava nel suo cuore l'affetto paterno per la figlia e pei nipoti, era per lo contrario divorato da estrema gelosia, e vedeva nel nuovo signore, ch'era riuscito ad unire il sangue dei Visconti al sangue del contadino di Cotignola, un successore che oscurerebbe la sua gloria, e forse un formidabile rivale apparecchiato a spogliarlo. Non pertanto il più acerbo nemico dello Sforza era Eugenio IV. Era in su le porte di Roma, e nelle sue stesse province che un soldato insegnava ad uomini effeminati quale ricompensa possa ottenere il coraggio, e che a lato alla carriera percorsa dagli ecclesiastici, ne apriva un'altra che in mezzo a maggiori pericoli ed alla gloria conduceva agli stessi onori ed allo stesso potere. Lo Sforza riconosceva dallo stesso Eugenio IV l'investitura della Marca, come giusto premio de' suoi servigi, e come prezzo del sangue che aveva versato per la santa sede. Ma Eugenio era determinato di ritogliergli questa provincia a qualunque costo. Egli aveva sagrificato il suo alleato Renato d'Angiò a questo ardentissimo desiderio, e si accostò per soddisfarlo ad Alfonso d'Arragona, che aveva sempre risguardato come suo nemico. Per istabilire con lui un'alleanza, mandò a Napoli il suo nuovo favorito, il patriarca d'Aquilea, e pochissimi mesi dopo avere accordata, così mal a proposito, l'investitura del regno a Renato, firmò un trattato con Alfonso col quale lo riconosceva re di Napoli, e si obbligava a mantenergli la corona, guarentendone l'eredità a suo figliuolo naturale, don Ferdinando. Ma il prezzo di tale alleanza fu l'obbligo, assuntosi da Alfonso, di portare la guerra nella Marca d'Ancona, e di continuarla finchè ne avesse scacciato lo Sforza, e rimesso il papa nella piena sovranità di tutto quanto vi possedeva questo capitano[209].
Niccolò Piccinino, generale del duca di Milano, trovavasi in allora al soldo del papa, e comandava l'armata destinata alla conquista della Marca, mentre Alfonso faceva avanzare le sue truppe verso la stessa provincia. Lo Sforza, abbandonato da molti suoi luogotenenti, vedevasi attaccato da ventiquattro mila uomini di cavalleria pesante, cui non poteva opporre che otto mila. In verun modo non poteva dare battaglia con forze tanto sproporzionate, onde risolse di destinare la metà circa de' suoi soldati a formare le guarnigioni di tutte le principali città della Marca, affidandole a governatori che gli erano legati per matrimoni o per sangue. Mentre loro ordinava di stancare la pazienza de' nemici col sostenere lunghi assedj, giudicò opportuno di tenersi al largo da ogni attacco con circa quattro mila uomini, che formerebbero il nucleo d'una nuova armata, in testa alla quale gli sarebbe libero di marciare a disturbare gli assedj delle sue fortezze, qualunque volta credesse di poterlo fare con vantaggio[210]. Scelse per luogo di sua residenza la città di Fano, posta negli stati di Sigismondo Malatesti, suo genero, e la fortificò in modo da potervi, ove fosse d'uopo, sostenere un lunghissimo assedio. In pari tempo non cessava di affrettare i soccorsi delle repubbliche di Firenze e di Venezia, e la sua ritirata in Romagna gli agevolava il modo di riceverli più sollecitamente. Le due repubbliche sentivano che la sicurezza loro richiedeva che fosse salvo il generale solo capace di salvarle a vicenda in un istante di pericolo; pure i loro apparecchi non si facevano colla dovuta diligenza. Fortunatamente per lo Sforza Filippo, che aveva bensì voluto indebolirlo, ma non ruinarlo interamente, in sul finire di quest'anno fece istanza ad Alfonso di desistere dalle ostilità contro il suo genero, e dietro le sue preghiere, questo re vittorioso abbandona un'impresa che sembravagli sicura[211].
Rivoluzioni assai più vicine avevano tenute inquiete Firenze e Venezia, e ritardati i soccorsi che le due repubbliche destinavano allo Sforza. Dopo che Niccolò Piccinino aveva tolta Bologna alla Chiesa, questa città aveva richiamati i suoi esiliati, e reso al suo governo press'a poco l'antica forma repubblicana, ma sotto la sopravveglianza di Francesco Piccinino, figliuolo di Niccolò, che aveva il comando della guarnigione. Questi non tardò a concepire qualche diffidenza di Annibale Bentivoglio, pel di cui richiamo egli stesso aveva operato, ma che adesso vedeva rapidamente riacquistare il credito della sua famiglia, in altri tempi sovrana. Parevagli inoltre che i Bolognesi si ponessero troppo pienamente in possesso della libertà loro promessa, e questi per lo contrario lagnavansi, che andasse troppo ristringendo i privilegj ch'erasi obbligato a conservare. In tali circostanze Francesco Piccinino andò a prendere i bagni a Castel san Giovanni, facendovisi accompagnare da Annibale Bentivoglio, da Gaspare e da Michele Malvezzi, e da più altri gentiluomini bolognesi. Nell'uscire dal primo pranzo che aveva fatto con loro, fece arrestare i primi tre, che furono all'istante tradotti in tre lontane fortezze. I Bolognesi s'addirizzarono al duca Filippo ed a Niccolò Piccinino per far rilasciare i loro tre illustri concittadini; ma vane tornarono tutte le loro istanze. Galeazzo Marescotti preferì in allora di tentare egli stesso la liberazione di Annibale Bentivoglio, suo amico, piuttosto che ricorrere ad un ingiusto padrone. Recossi a Varano, nello stato di Parma, ove sapeva ch'era chiuso Annibale, sedusse un fabbro ferrajo impiegato nel castello, che gliene fece conoscere tutte le uscite ed i luoghi in cui venivano poste le sentinelle. Il Marescotti si associò in allora cinque gentiluomini bolognesi, entrò con loro, scalando le mura, in Varano, uccise la sentinella che incontrò in sul suo passaggio, sorprese mentre dormiva il comandante della fortezza ed i cinque o sei soldati che vi si trovavano, e, facendosi consegnare Annibale Bentivoglio, partì con lui immediatamente alla volta di Bologna. I loro amici, che gli aspettavano, procurarono loro l'ingresso in città nella susseguente notte del 5 giugno 1443 con scale di corda che loro gettarono dall'alto delle mura, mentre nelle loro case eransi segretamente adunati moltissimi loro partigiani. Tutt'ad un tratto uscirono chiamando ad alte grida il popolo alle armi ed alla libertà, e facendo nello stesso tempo suonare a stormo nella chiesa di san Giacomo; una folla di cittadini venne a raggiugnerli, e fecero prigioniero nel pubblico palazzo Francesco Piccinino ed i soldati che dovevano difenderlo[212].
Avendo Bologna ricuperata la libertà e posto Annibale Bentivoglio alla testa del suo governo, fece tosto chiedere ai Fiorentini ed ai Veneziani di riceverla nella loro alleanza, che sembrava destinata ad accogliere tutti gli amici della libertà. Malgrado il pericolo di questa associazione, i due popoli non si mostrarono difficili. I Fiorentini spedirono a Bologna Simoneta di Campo san Pietro con quattrocento cavalli, ed i Veneziani Tiberto Brandolini con cinquecento. Questi due generali, uniti ai Bolognesi, il quattordici agosto riportarono sopra Luigi del Verme, ufficiale del Piccinino, una vittoria che assicurò l'indipendenza di Bologna. Il primo uso che Annibale Bentivoglio fece degli ottenuti vantaggi, fu quello di procurare la libertà ai due Malvezzi ch'erano stati con lui arrestati, come pure ai due Canedoli, capi di una contraria fazione, ch'egli sperava di rendersi amici coi beneficj. Furono tutti quattro rilasciati in cambio di Francesco Piccinino, che Annibale restituì al padre[213].
I Fiorentini medesimi non andarono affatto immuni da interne turbolenze. Gli è vero che Cosimo de' Medici non cercava di governare la città come principe; ma come capo di partito non sapeva soffrire veruna opposizione. Neri, figlio di Gino Capponi, lo pareggiava di riputazione e quasi di potere; egli solo in Firenze aveva saputo mantenersi in eminente dignità sotto i due governi. Egli non erasi punto legato agli Albizzi, onde non era stato strascinato nella loro caduta; ma non tenevasi nemmeno obbligato a fare la sua corte ai Medici. Tenuto in molta considerazione da' suoi concittadini, non era meno stimato dai soldati. Più volte aveva comandate le armate fiorentine, ed egli solo tra i magistrati aveva fatte brillare ai loro occhi le virtù militari. Dovevasi a suo padre l'acquisto di Pisa, a lui la vittoria d'Anghiari sopra il Piccinino e l'acquisto del Casentino. Quanto più l'intera città stimava il Capponi, altrettanto Cosimo de' Medici rendevasi di lui geloso. Di già in settembre del 1441 aveva cercato d'umiliarlo col più sanguinoso affronto. Tra gli amici di Neri Capponi, uno de' più zelanti era Baldaccio d'Anghiari, fedele condottiere della repubblica, che sempre aveva comandata l'infanteria, e che si era acquistata grandissima riputazione in quest'arma, di cui cominciavasi a sentire l'importanza. Baldaccio poteva all'occasione di un tumulto popolare dare importanti soccorsi al Capponi, e fare a lui raccogliere il frutto d'una vittoria che il Medici non voleva dividere con chicchefosse. Così vaghi sospetti bastarono ai capi del partito dominante per determinarli a disfarsi d'un uomo eminentemente distinto. All'odiosa loro politica s'aggiunse il risentimento del gonfaloniere di giustizia, Bartolomeo Orlandini, quello stesso che aveva tanto vilmente abbandonato Marradi nel 1440. Sapeva costui che Baldaccio aveva parlato con disprezzo della sua condotta, che lo aveva accusato di viltà in presenza della magistratura e dell'armata, e lusingavasi di ricuperare la propria riputazione col far perire il suo accusatore. Fece un giorno chiamare Baldaccio in palazzo, il quale v'andò senz'ombra di diffidenza. Il gonfaloniere lo intrattenne alcun tempo intorno ad affari relativi al soldo delle truppe, passeggiando lungo i corridoj che guardano la pubblica piazza. Tutto ad un tratto alcuni soldati appostati dall'Orlandini lanciaronsi sopra Baldaccio, lo pugnalarono e gettarono il suo cadavere dalle finestre del palazzo sulla piazza, presso la dogana, ove rimase tutto il giorno esposto alla vista del popolo. Un così violento atto di tirannia, eseguito in una repubblica, non venne seguito da veruna procedura o giudizio; imperciocchè per una strana imprudenza i Fiorentini, tanto gelosi della loro libertà, niente avevano fatto per guarantirsi dall'abuso del potere giudiziario. Baldaccio d'Anghiari venne dalla folla risguardato come colpevole di qualche segreto tradimento, poichè lo vedeva punito; gli amici di Cosimo insuperbironsi, vedendo che niuno ardiva opporsi alla loro autorità, quelli di Neri Capponi tremarono, e per qualche tempo non fu notata ne' consiglj veruna opposizione[214].
Quando dopo tre anni di pace i rivali dei Medici cominciarono a riprendere fiato, Cosimo li percosse con un nuovo spavento, con un mezzo veramente più conforme agli usi della repubblica, ma non perciò meno sovversivo della libertà. La signoria, che sedeva in maggio del 1444, si fece accordare dai consiglj il potere dittatoriale della balia in compagnia di dugento cinquanta cittadini che vennero prescelti a tale effetto[215]. Quest'arbitraria magistratura, che le stesse leggi ponevano al di sopra delle leggi, limitò il numero di coloro che potevano entrare nella signoria, tolse l'impiego di segretario di stato, ossia di cancelliere delle riformagioni, a Filippo Peruzzi e lo esiliò, prolungò l'epoca del richiamo di tutti coloro ch'erano di già esiliati, ne condannò altri senza nuovo processo, privò d'ogni parte alle magistrature tutte le famiglie che potevano essere sospette al partito dominante, e concentrò in tal modo il governo nelle mani della ristretta oligarchia, che lo aveva usurpato[216].
Dopo essersi in tal modo internamente assicurati del loro potere, e averlo rassodato al di fuori col rinnovamento della loro alleanza col duca di Milano[217], i capi della repubblica fiorentina pensarono a dare più efficaci soccorsi al loro alleato, Francesco Sforza. Di già avevano essi stipulato un trattato con Filippo Maria Visconti, pubblicato in Firenze il 18 ottobre del 1443, in forza del quale il duca obbligavasi a mandare a suo genero tre mila cavalli e mille fanti[218]; e bentosto ordinarono a quello stesso Simoneta, che aveva difesi i Bolognesi, di avanzarsi a traverso la Romagna per unirsi allo Sforza.
Intanto il conte Francesco aveva avuti nuovi disastri; era stato abbandonato da Troilo di Rossano e da Pietro Brunoro, sebbene il primo, essendo vecchio ufficiale, educato nella scuola di suo padre, e già in età di sessant'anni, sembrar dovesse inaccessibile alle seduzioni della cupidigia o all'incostanza. Molti altri ufficiali avevano nello stesso tempo abbandonate le insegne dello Sforza per passare sotto quelle d'Alfonso; essi avevano seco trascinati quasi tutti i loro soldati, e l'incostante popolo della Marca d'Ancona si era ovunque ribellato, senz'avere altro scopo o altra speranza, che quella di mutar padrone.
Francesco Sforza, esulcerato da tante indegnità, ne fece ancor esso un'indegna vendetta. Mentre il re Alfonso avvicinavasi a Fermo con Troilo, Brunoro e gli altri fuggiaschi, che formavano la maggior parte della sua armata, lo Sforza scrisse a' primi per avvisarli che finalmente era giunto l'istante di fare quanto essi gli avevano promesso. Affidò questa lettera ad un messo, che egli sapeva dover essere preso nel recarsi al campo nemico, e nello stesso tempo fece spargere incerte voci nel proprio accampamento di una grande rivoluzione che non doveva tardar molto, e che darebbe ai suoi soldati sommo contento e ricchezze. Il messo dello Sforza venne infatti fermato, e fu portata ad Alfonso la lettera addirizzata ai due capitani. Il re arragonese fu preso da grandissimo terrore, credendosi tradito dai due disertori; le relazioni delle spie ch'egli teneva nell'armata dello Sforza accrebbero la sua diffidenza. Fece all'istante armare tutti i suoi più fedeli soldati, e prendere, spogliare e caricare di catene Troilo e Brunoro, ch'eransi recati al suo padiglione; e mentre egli abbandonava i loro soldati all'avarizia ed alla vendetta de' suoi, fece tradurre i due capitani prima a Napoli, poi in un castello del regno di Valenza ove languirono in prigione più di dieci anni[219].
Pietro Brunoro aveva rapita nella Valtellina una fanciulla, detta Bonna, che lo seguiva vestita da soldato, e che sempre combatteva al suo fianco. Questa donna, affezionatissima al suo padrone ed amante, si fece a procurargli la libertà. Andò di città in città a cercare tutti i capitani, tutti i magistrati, tutti i principi pei quali Brunoro aveva combattuto; chiese loro certificati di fedeltà, e commendatizie per Alfonso; passò anche in Francia, onde ottenere dalla compassione o dalla galanteria de' principi francesi un'assistenza ch'essi non vollero ricusare ad una donna. Con queste commendatizie tornò presso Alfonso, lo commosse collo zelo e colla costanza con cui aveva raccolte tante raccomandazioni, ed ottenne da lui la libertà di Brunoro. Passarono insieme al servizio dei Veneziani con un soldo di venti mila ducati, e Bonna, diventata consorte di colui che aveva salvato, continuò a combattere al suo fianco, lo seguì in Grecia, ove Pietro Brunoro perì a Negroponte nel 1466, non potendo sopravvivergli, morì ancor essa lo stesso anno[220].
Il re Alfonso, dopo avere sbandati egli stesso i disertori che aveva ragunati, ritirossi nel proprio regno, vinto dalle istanze del duca di Milano. Dopo di ciò lo Sforza si trovò di avere press'a poco eguali forze del Piccinino; ed altronde si andava adunando nella Romagna un'armata sussidiaria di circa quattro mila cavalli, mandata dai Veneziani e dai Fiorentini. Erano cominciate le piogge dell'autunno, ed i nemici, che avevano veduto tutta l'estate lo Sforza condannato all'inazione, non credevano di doverlo temere al ritorno della cattiva stagione. Alfonso aveva poste le sue truppe ne' quartieri d'inverno, e Niccolò Piccinino, fortificatosi a monte Lauro, presso Pesaro, non aveva bisogno di uscire dal suo campo per togliere la comunicazione tra l'armata delle due repubbliche, che sotto gli ordini di Taddeo d'Este erasi innoltrata fino a Rimini, e quella che si era chiusa in Fano. Ma Francesco Sforza era impaziente di ristabilire la propria riputazione compromessa da tanti rovesci; segretamente chiamò presso di sè i corpi, che sotto il comando di Alessandro, suo fratello, e di Sarpellione, avevano difesa la Marca d'Ancona; riunì sotto le sue bandiere molte compagnie d'infanteria licenziate da Alfonso, quando prese i quartieri d'inverno; fece avvisare Taddeo d'Este di avanzarsi verso monte Lauro, e l'8 di novembre si mosse per avvicinarsi al Piccinino. Mentre avanzavasi, incontrò un araldo d'armi, che questi gli mandava sotto qualche pretesto per riconoscere i suoi movimenti. «Va a dire al tuo padrone, gli disse lo Sforza, che andiamo a bere al suo fiume.» Infatti per giugnere al Piccinino era d'uopo passare la Foglia, l'antico Pisauro, che copriva il campo posto tra monte Lauro e monte all'Abate. Per altro lo Sforza non era intenzionato d'attaccare il nemico la stessa sera del suo arrivo, perchè una leggiere pioggia, che rendeva più sdruccievole il declivio dell'eminenza su cui stava il nemico, accresceva lo svantaggio dell'attacco; voleva soltanto accamparsi in faccia al Piccinino, ed aspettare colà Taddeo d'Este. Ma le scaramucce ch'ebbero luogo nel passaggio del fiume resero la battaglia generale. I soldati dello Sforza di già occupati nel formare il loro campo sull'altra riva, vennero respinti da un numero superiore; essi presentavansi continuamente al generale per chiedere rinforzi e nuovi cavalli, e lo Sforza li ricondusse contro il nemico, rinfacciandoli di poca fermezza; nello stesso tempo aveva staccato Sarpellione con un ragguardevole corpo, che, girando l'armata del Piccinino alla sinistra, comparve improvvisamente sopra della medesima sull'alto della collina. A tale vista il Piccinino più non potè contenere i suoi soldati, e fu egli stesso strascinato dai fuggiaschi nel campo. Sperava di potervisi difendere, e molti de' suoi più valorosi sostennero alcun tempo la battaglia alle porte, ma in ultimo i suoi trincieramenti furono forzati dall'impeto del vincitore. Un immenso bottino cadde in potere dei soldati dello Sforza, i quali, mentre si appropriavano le armi ed i cavalli, facevano fuggire i prigionieri; questi, approfittando della notte, si rifugiarono nelle città e ne' castelli del vicinato; e lo stesso Piccinino, errante tutta la notte per aspre montagne, giunse a stento all'indomani a monte Sicardo, ove si pose in sicuro. Lo Sforza, per non perdere i vantaggi della vittoria, voleva subito condurre la sua armata nella Marca d'Ancona, che avrebbe castigata per la sua ribellione, e tutta sottomessa in pochi giorni; ma Sigismondo Malatesti, suo genero, lo trattenne colle sue importunità, facendosi pagare l'ospitalità, che gli aveva accordata, coll'impiegare le di lui truppe a riconquistare Pesaro[221].
Il Piccinino, ajutato dai tesori della Chiesa, trovò modo, durante l'inverno, d'adunare i suoi soldati; mentre lo Sforza, senza danaro, poteva difficilmente impedire nuove diserzioni. I sussidj che gli pagava la repubblica di Venezia furono tutti ritenuti da Sigismondo Malatesti, che vantava vistosi arretrati. Quelli di Firenze furono mandati al suo luogotenente Sarpellione, che sosteneva la guerra con molto valore ne' territorj d'Osimo e di Recanati, ed il grosso dell'armata, che trovavasi sotto gl'immediati ordini di Francesco Sforza, non riceveva il suo soldo, onde non poteva rifare i perduti equipaggi. Questa guerra provava la debolezza della piccola monarchia militare fondata dallo Sforza; il suo paese era divorato dai soldati, le stesse contribuzioni che spingevano i popoli alla ribellione, non bastavano al mantenimento del quarto della sua armata. Colui ch'erasi mostrato così formidabile al duca di Milano, quando guerreggiava per gli altri, non poteva ne' proprj stati e per la propria causa, nè approfittare delle sue vittorie, nè rialzarsi da una disfatta[222].
Ma Filippo Maria Visconti, di cui non potevansi mai prevedere le risoluzioni dettate a vicenda dalla sua incostanza, o da una sottile politica, venne un'altra volta in soccorso di suo genero. Dietro le istanze di Venezia e di Firenze mandò Francesco Landriani, uno dei suoi consiglieri, ai due generali, che combattevano nella Marca, per invitarli ad una tregua. Nello stesso tempo fece dire a Niccolò Piccinino, che doveva comunicargli cose di somma importanza, onde lo invitava a recarsi subito a Milano. Il Piccinino e lo Sforza parevano egualmente disposti a firmare un armistizio, ma il legato del papa ricusava di acconsentirvi[223]. Non pertanto il Piccinino, sia per vaghezza di conoscere i nuovi progetti del duca, sia per ubbidienza, diede la sua armata al figlio Francesco, e recossi a Milano. Lo Sforza, ridotto alle ultime estremità, risolse di affidare la sua sorte alle vicende di una battaglia, mentre trovavasi lontano il suo emulo; impiegò il poco danaro che aveva a provvedere la sua armata di vittovaglie per otto giorni; richiamò i soldati da tutte le guarnigioni, ed andò a cercare il nemico. Francesco Piccinino trovavasi in allora in una posizione inattaccabile presso di Macerata, ma ebbe l'imprudenza di abbandonarla, e di avanzarsi fino a Mont'Olmo, luogo per altro forte, ma non quanto quello che abbandonava. Colà fu dallo Sforza attaccato il 19 agosto del 1444.
Il legato del papa, che seguiva l'armata del Piccinino esortò i soldati alla battaglia, promise la vita eterna a coloro che morirebbero per la santa romana Chiesa, e minacciò ai loro avversarj l'eterna dannazione. «Ma questi discorsi del legato, dice il Simonetta, storico presente alla battaglia, non erano ascoltati, o venivano disprezzati, come sempre accade fra gli uomini accostumati alle armi ed alla guerra, i quali poco si occupano della religione e della salvezza delle anime loro[224].» Il quadro della passata miseria, dell'opulenza che seguirebbe la vittoria, che lo Sforza presentò ai suoi soldati, fece maggiore impressione. Mentre essi dovevano vincere nello stesso tempo la superiorità del numero e lo svantaggio del luogo, il loro capitano fece comparire sulle vette tutti i servitori della sua armata con una lancia in mano, per far credere ch'egli aveva un corpo di riserva affatto fresco, pronto ad entrare in battaglia. Questa sola vista decise della vittoria. Giacomo Piccinino, il più giovane de' figli di Niccolò potè fuggire fino a Recanati; ma Francesco, suo maggior fratello, fu fatto prigioniere in un pantano, ove cercava di nascondersi, e dove lo manifestò lo scudiere che lo accompagnava. Il legato del papa, Capranico, che si era spogliato degli abiti prelatizj, fu, prima d'essere conosciuto, lungo tempo maltrattato dai soldati che lo fecero prigioniero. Furono presi la maggior parte dei capitani e dei centurioni, con tre quarti dei soldati. Il castello di Mont'Olmo, ove trovavansi tutti gli equipaggi dell'armata, si arrese all'indomani al vincitore[225].
In pochi giorni Francesco Sforza sottomise le città di Macerata, di Sanseverino, di Cingoli, di Jesi, e molte altre che si affrettarono di mandargli i loro deputati, e di aprirgli le porte. Ma egli era assai più sollecito di fare la pace col papa che di tentare nuove conquiste. Fece sapere ad Eugenio, che lungi di voler approfittare de' presenti vantaggi per ispogliare la Chiesa, nulla più desiderava che di dargli prove della sua sommissione, e chiedeva caldamente l'apertura di un congresso per trattarvi della sua riconciliazione. Il papa, che trovavasi non senza timore a Perugia, luogo di sua residenza, acconsentì ad aprire una conferenza. Gli ambasciatori di Venezia e di Firenze secondarono lo Sforza coi loro buoni ufficj e la pace venne sottoscritta il 10 di ottobre. Per altro le ostilità dovevano durare fino al giorno 18, essendosi accordati allo Sforza otto giorni per ricuperare, se lo poteva, le perdute città. Ciò che possederebbe a tale epoca doveva rimanergli in feudo, col titolo di marchesato, ed il rimanente della Marca doveva ritornare sotto l'immediato dominio della Chiesa romana. Le città d'Ancona di Osimo, Fabbriano, e Recanati, furono le sole che in questi otto giorni non vennero in mano dello Sforza; ma queste ancora furono obbligate di pagargli in avvenire i tributi ch'elleno pagavano per lo innanzi alla camera apostolica[226].
Niccolò Piccinino, che dietro la domanda del Visconti erasi recato a Milano, venne ricevuto in questa capitale coi più grandi onori. Non si seppe poi quali motivi avesse avuto il duca per chiamarlo alla sua corte. Suppone il Machiavelli che non avesse che quello di liberare suo genero Sforza dall'imbarazzo in cui si trovava; ed assicura che il dolore, che provò il Piccinino d'essere stato la vittima di così grossolano artificio, fosse la prima cagione d'una malattia che bentosto lo sorprese[227]. Se questa fu cagionata da rammarico, questo rammarico raddoppiossi senza dubbio, quando egli ebbe notizia della disfatta della sua armata a Mont'Olmo, e della prigionia del figliuolo primogenito. Il Piccinino, in età già avanzata, non sapeva darsi pace di non aver potuto con tante battaglie, con tante vittorie, acquistarsi una terra ove riposare il suo capo. Tutti i grandi capitani del suo secolo si erano successivamente innalzati al sovrano potere; egli pareva avervi più diritto d'ogni altro, poichè avrebbe dovuto ricevere a titolo ereditario il principato di Braccio come ricevette la sua armata; pure egli solo non era in sul finire della sua lunga gloriosa carriera nè più ricco, nè più potente di quello che lo fosse in principio. Aveva perduta Bologna quando credeva di farne la sua capitale; due rotte avute in brevissimo tempo avevano dissipate le sue ricchezze e dispersi i suoi soldati; uno de' suoi figliuoli era prigioniero, l'altro fuggiasco, ed egli non poteva collocare le sue speranze che nella generosità di un principe accusato d'incostanza da tutta l'Italia, e spesso di perfidia. Questo principe attualmente, ingannandolo, aveva cagionata la sua ruina. Altronde il Visconti era omai vecchio, e pareva aver designato per suo successore il più acerbo nemico del Piccinino. La salute di questo capitano già da lungo tempo alterata non si era fin allora sostenuta che per la forza della sua anima; essa finalmente soggiacque alle tristi riflessioni suggerite dalla presente sua situazione. Morì di cordoglio piuttosto che di malattia il 15 ottobre del 1444. Il Piccinino dev'essere annoverato tra i più illustri capitani che abbia prodotto l'Italia; perciocchè fu il più rapido nelle sue esecuzioni, il più audace, il più fertile ne' ripieghi, il più pronto a riparare le perdite, il solo che dopo una totale disfatta fosse ancora in istato di far tremare i suoi nemici[228]. Filippo Maria, che non l'aveva giammai degnamente ricompensato ne pianse amaramente la perdita. Egli aveva bisogno di un uomo sempre ubbidiente ai suoi bizzarri capricci, e sempre intraprendente; di un uomo cui potesse esclusivamente affidare l'amministrazione militare de' suoi progetti, senza aver bisogno d'iniziarlo negli andirivieni della sua politica. Nel medesimo istante in cui gli era tolto il suo più fidato generale, ne perdeva un altro che sarebbe stato degno della sua confidenza: Giovanni Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, quello che lo aveva così valorosamente servito nella guerra di Brescia, era morto l'8 settembre del 1444; e suo figliuolo Luigi, che gli successe, cercò bentosto di attaccarsi alla repubblica di Venezia[229].
Francesco Sforza, genero del Visconti, non sembrava disposto ad ubbidire a suo suocero con quel cieco attaccamento che gli aveva mostrato sempre il Piccinino. Aveva ancor esso i suoi progetti e la personale sua ambizione di cui non sapeva scordarsi. Le sue alleanze con Firenze e con Venezia, dalle quali non voleva staccarsi, rendevano Filippo diffidente. Il duca di Milano, cui la figliuola, moglie dello Sforza, aveva dato un nipote[230], approfittò di questo nuovo legame, e della memoria degli ultimi servigj che aveva renduti a suo genero, per ottenere da lui la libertà di Francesco Piccinino. Egli lo chiamò a Milano egualmente che suo fratello Giacomo, e li pose alla testa delle truppe di Braccio, loro somministrando danaro, armi e cavalli per rimontare quest'antica milizia, che voleva poter sempre opporre a quella dello Sforza; e cercò in ogni modo di sdebitarsi con loro di quanto doveva al padre[231]. Frattanto, siccome non aveva per anco riposta in loro l'intera sua confidenza, desiderò pure d'avere al suo servigio un capitano già sperimentato, e dal quale potesse trarre miglior partito: gettò perciò gli occhi sopra Sarpellione, il migliore luogotenente dello Sforza, cui fece segrete offerte, e Sarpellione, dopo una negoziazione che non rimase ignota alla vigilanza del suo capo, chiese un congedo per andare a Milano. Sapeva lo Sforza che s'egli somministrava un generale a suo suocero, verebbe bentosto impiegato contro di lui medesimo; conosceva Sarpellione per uomo avido e crudele, ma aveva sperimentati i suoi talenti militari e la sua fedeltà in un'epoca in cui tutti gli altri suoi luogotenenti l'avevano abbandonato; Sarpellione aveva difesa la Marca d'Ancona con non minore abilità che costanza contro Alfonso e contro il Piccinino. Era forse difficile il provvedere agl'interessi dello Sforza, rispettando i diritti del suo luogotenente; ma il partito cui si appigliò questo generale, tanto celebrato per la sua generosità; mostra troppo apertamente in quale grado di depravazione fosse caduta la pubblica morale, e quali esempj avesse il Machiavelli innanzi agli occhi, quando dettava il suo trattato del Principe. Lo Sforza fece imprigionare Sarpellione nella fortezza di Fermo, lo atterrì coll'apparecchio d'un processo criminale, colla prova, o almeno colla minaccia della tortura, e gli strappò, o almeno si pretende che gli strappasse di bocca, la confessione di colpevoli trame in forza della quale lo fece appiccare il 29 novembre del 1444[232].
Ma Francesco Sforza dovette bentosto pentirsi di questa non meno impolitica che crudele azione. Filippo Maria Visconti se ne sdegnò fieramente; pubblicò l'innocenza di Sarpellione, che non aveva perduta la vita, che per aver voluto passare in tempo di pace dal servizio d'un genero a quello di suo suocero; giurò di farne vendetta, e da quell'istante cominciò gli apparecchi per una nuova guerra.
Di già alcuni intrighi in Romagna preparavano la vendetta del Visconti e di Sarpellione. Sigismondo Malatesti, signore di Rimini, che durante la guerra della Marca aveva dato asilo a Sforza, suo suocero, non possedeva che parte degli stati di sua famiglia. Mentre che suo fratello Domenico regnava a Cesena, Galeazzo Malatesti, suo cugino, era signore di Pesaro e di Fossombrone; e perchè questi non aveva figliuoli, Sigismondo sperava di raccogliere l'eredità. Ma Galeazzo aveva per consigliere e per unico ministro Federico, secondo figliuolo del conte Guido da Montefeltro, il quale non era favorevole a Sigismondo. Questo Federico, che in appresso fu l'onore della casa di Montefeltro, passava per un figliuolo adulterino. Credevasi figlio di Bernardino della Carda degli Ubaldini, uno de' più valenti condottieri del principio del secolo. Frattanto il suo legittimo padre, Guido, era morto il 20 febbrajo del 1442. Oddo Antonio, primogenito di Guido, gli successe ed ottenne dal papa, in aprile dello stesso anno, il titolo di duca d'Urbino. Ma il suo governo si rese in breve insopportabile al popolo, ed egli fu ucciso in un ammutinamento il 22 luglio del 1444. Federico venne chiamato da Pesaro, ed ebbe la sovranità di Montefeltro e di Urbino[233]. Poco tempo dopo si attaccò a Francesco Sforza, onde imparare l'arte della guerra sotto così egregio capitano. Entrò al suo servigio in agosto del 1444, con lance quattrocent'una e d'un egual numero di pedoni[234]; sposò in appresso una figlia dello Sforza, e negoziando in suo nome con Galeazzo Malatesti acquistò le sue due signorie pel prezzo di venti mila fiorini[235]. Francesco Sforza, che aveva somministrato il danaro, si riservò Pesaro per formare un piccolo principato a favore del proprio fratello, Alessandro Sforza, e lasciò Fossombrone a Federico da Montefeltro come premio dell'abilità da lui mostrata in questa negoziazione. Sigismondo Malatesti vedeva con estremo rammarico uscire dalla sua famiglia questi piccoli principati, ed il Visconti si prese cura d'inasprire il suo sdegno. Fece entrare Sigismondo al soldo d'Eugenio IV, e lo persuase a tenersi apparecchiato pel momento in cui lo Sforza potrebb'essere spogliato di quella Marca d'Ancona, che gli era tanto invidiata[236].
Nello stesso tempo il Visconti condusse un'altra pratica contraria ai suoi trattati, la quale doveva riaccendere la guerra. Egli aspirava alla sovranità di Bologna di fresco tolta a Niccolò Piccinino, e lusingavasi di averla coll'ajuto delle fazioni ch'egli manteneva in questa repubblica. La sua alleanza con Eugenio IV gli aveva agevolato il modo di unire il partito della Chiesa a quello degli antichi fautori della casa Visconti; l'uno e l'altro opposti egualmente ai partito dell'indipendenza, in allora dominante. Annibale Bentivoglio, capo di questo ultimo, era in pari tempo il capo della repubblica bolognese. Questo virtuoso cittadino per conservare la pace nella sua patria aveva cercato coi beneficj di affezionarsi coloro che dirigevano l'opposta fazione: aveva redenti dalle prigioni del Piccinino due gentiluomini della casa de' Canedoli, e gli aveva con matrimonj vincolati alla propria famiglia[237]. A questa stessa famiglia dei Canedoli s'addirizzarono gli agenti del duca di Milano e del papa per far assassinare il Bentivoglio. Venne loro promesso l'ajuto della santa lega di fresco rinnovata tra i due sovrani. Taliano Furlano con mille cinquecento cavalli del duca di Milano, Carlo Gonzaga e Luigi di Sanseverino colle truppe della Chiesa dovevano avvicinarsi a Bologna per assecondarli, tostocchè sarebbe scoppiata la congiura, la quale secondo lo spirito allora dominante de' prelati pontificj, fu condotta sotto il sacro manto della religione.
Francesco Ghisilieri, uno de' congiurati, pregò Annibale Bentivoglio di levare al sacro fonte un fanciullo che gli era nato due mesi avanti. Il Bentivoglio, che non trascurava occasione di ravvicinare le due fazioni, accettò con piacere un offerta che stabiliva una specie di religiosa parentela tra lui ed i suoi antichi avversarj. Vennero fissati per la cerimonia il giorno 24 giugno e la chiesa di san Pietro. Dopo il battesimo Annibale Bentivoglio uscì di chiesa col Ghisilieri per recarsi al banchetto apparecchiato nella casa dell'ultimo. I Canedoli e molti loro partigiani formavano il corteggio. Quando giunsero alla casa del Ghisilieri, Baldassar Canedolo cogli assassini circondarono il Bentivoglio e sguainarono i loro pugnali. Questi pose la mano sull'elsa della spada per difendersi, ma Francesco Ghisilieri, afferrategli per di dietro le braccia, gli disse: «Compare, Compare, conviene che tu abbi pazienza.» E mentre lo teneva in tal modo fa pugnalato[238]. I Canedoli ed i Ghisilieri corsero subito le strade di Bologna, gridando viva il popolo e la santa lega, ed uccisero tutti i Bentivoglio che caddero nelle loro mani. Ma Annibale, che avevano assassinato pel primo, era amato dai suoi concittadini, i quali si felicitavano d'aver veduto rinnovarsi sotta la di lui amministrazione l'antica repubblica di Bologna, e non eravi alcuno che desiderasse di ritornare sotto il giogo del duca di Milano o della Chiesa. Altronde gli ambasciatori di Firenze e di Venezia che stavano in Bologna, eransi, udito il tumulto, recati presso ai magistrati, tutti partigiani dei Bentivoglio, loro offrendo l'assistenza di Tiberio Brandolini e di Guido Rangoni, generali delle truppe delle repubbliche, i quali fecero subito avanzare. Nella città medesima gli amici dei Bentivoglio, sottrattisi alla prima furia dei congiurati, eransi adunati in piazza. Andarono ad attaccare i Canedoli nel quartiere in cui si erano trincerati, e gli oppressero col loro numero; saccheggiarono e bruciarono più di cinquanta loro case, e non perdonarono nemmeno a Battista Canedolo, capo della famiglia, che non aveva preso parte nella congiura; avendolo trovato in un sotterraneo, ove si era nascosto, lo fecero in pezzi. I soccorsi promessi ai congiurati dal duca e dal papa non giunsero in tempo per salvarli. Furlano Taliano non comparve nel territorio bolognese che all'indomani 26 giugno, e Carlo Gonzaga col Sanseverino il 2 luglio. Vedendo di non poter giovare ai loro estinti partigiani, si ritirarono, dopo avere saccheggiate le campagne intorno alla città[239].
La vittoria, che i vindici dell'ultimo capo dello stato ottenuta avevano sui Canedoli, non assicurò affatto nè il loro partito, nè la repubblica, perchè più non trovavansi uomini nella famiglia Bentivoglio che fossero capaci di stare alla testa del governo. Annibale non lasciava che un figliuolo di sei anni; e non presentavasi alcuno che volesse assumere l'amministrazione, onde si temeva di qualche divisione nella fazione regnante, che sarebbe cagione della sua ruina e di quella dello stato. Ma mentre durava quest'incertezza l'antico conte di Poppi, Francesco di Battifolle, che trovavasi allora in Bologna, disse ai magistrati, ch'egli metterebbe alla loro testa un prossimo parente d'Annibale, che loro poteva indicare. Sono più di vent'anni, soggiunse il conte, che Ercole, cugino d'Annibale, trovandosi a Poppi, si affezionò ad una giovane del paese, maritata ad Angelo Cascese, della quale ebbe un figlio chiamato Santi: questo figlio rassomiglia talmente ad Ercole, che non può dubitarsi della sua origine, ed in fatti Ercole mi disse più volte questo fanciullo esser suo. I magistrati di Bologna mandarono a Firenze, chiedendo a Cosimo de' Medici ed a Neri Capponi di far loro conoscere questo giovane. Santi, che perduto aveva il suo padre putativo, si era posto sotto la sopravveglianza d'uno zio, chiamato Antonio Cascese, uomo ricco ed amico di Neri Capponi. Niuno di sua famiglia pareva formare sospetti intorno alla legittimità di Santi Cascese, ed egli stesso mai non avevane concepito alcuno. Pure Capponi e Medici fecero che i deputati di Bologna si scontrassero in Santi. Questi gli mostrarono tutto il calore dell'attaccamento che lo spirito di parte poteva far nascere; lo invitarono a recarsi nella loro città a partecipare degli onori, della ricchezza e della considerazione riservate al capo di una potente repubblica ed al sangue dei Bentivoglio. Santi ricusò in sulle prime, arrossendo, queste offerte che supponevano il disonore di sua madre, e la propria illegittimità. Si durò molta fatica a persuaderlo di riflettere maturamente. I pericoli del rango cui veniva chiamato, d'un seggio ancora bagnato del sangue de' suoi predecessori, facevano pure sul di lui animo una viva impressione. Cosimo de' Medici, che vedeva il di lui turbamento ed irresoluzione, gli disse alfine nell'ultima conferenza: «Tu non puoi prendere consiglio che da te stesso; tu devi dirigerti secondo i suggerimenti del tuo cuore. Se tu sei figliuolo d'Ercole Bentivoglio, ti sentirai trasportato verso le azioni degne di tuo padre e della tua casa; se tu sei figlio d'Angelo Cascese, ti rimarrai in Firenze, consacrandoti alle tue manifatture di lana e ad un vile riposo.» Queste parole, che mostravano la gloria là dove Santi non aveva fin allora veduto che il disonore, troncarono all'improvviso ogni dubbiezza. Accettò le offerte dei Bolognesi ed il nome di Bentivoglio; fu provveduto d'armi, di cavalli e di copiosa servitù; i principali cittadini di Firenze lo accompagnarono a Bologna, ove, sebbene non avesse più di ventidue anni, gli venne contemporaneamente affidata la tutela del figlio di Annibale, e l'amministrazione della città. Vi si condusse con tanta prudenza, che mentre tutti i suoi antenati erano periti sotto il pugnale de' loro nemici, egli visse sedici anni onorato della pubblica stima, e morì in pace[240]. Fece il suo ingresso in Bologna il 13 di novembre, nel qual giorno i capi dello stato, che lo stavano aspettando in palazzo, gli conferirono l'ordine della cavalleria[241].
Frattanto il duca di Milano aveva preso motivo dalle turbolenze di Bologna per ricominciare la guerra. Taliano Furlano, che aveva invaso il Bolognese nella circostanza della congiura dei Canedoli, erasi limitato ad attraversarlo ostilmente, ed aveva continuata la sua strada verso la Romagna per concertare le sue operazioni con Sigismondo Malatesti ed attaccare la Marca. Luigi Sanseverino e Carlo Gonzaga erano dopo di lui entrati nel Bolognese con cinque mila cavalli. I Fiorentini loro opposero Simoneta di Campo san Pietro, che frenò le loro scorrerie[242]. Ma il grosso della guerra doveva portarsi nella Marca d'Ancona. Filippo Maria Visconti e Sigismondo Malatesti avevano associate le loro animosità per perdere Francesco Sforza, il quale, per una strana disgrazia, trovavasi perseguitato con eguale accanimento da suo genero e da suo suocero. Erasi contro di lui formata una formidabile lega: Eugenio IV ed Alfonso di Napoli eransi fatti solleciti di assecondare la collera del duca di Milano. Ambidue avevano fatta la pace collo Sforza da meno di un anno, e dopo tale epoca niuna offesa, niuna nuova pretesa aveva dato luogo a nuove ostilità; ma Eugenio IV credeva fermamente che la sua spirituale potenza gli dava diritto di sciogliersi quando voleva da tutti i trattati, da tutti i giuramenti.
Siccome pareva a Francesco Sforza che il più attivo de' suoi nemici fosse Sigismondo Malatesti, egli volle attaccarlo prima degli altri, sperando forse di forzarlo a fare la pace prima che potesse essere soccorso dagli alleati. Lo Sforza assediò la Pergola, la prese il 22 di luglio, e la saccheggiò crudelmente[243].
Ma bentosto Ascoli nella Marca si ribellò, e Rinaldo Fogliano, suo fratello uterino, che ne aveva il comando, fu fatto in pezzi dagli abitanti. Nello stesso tempo Taliano Furlano, generale del duca di Milano, Luigi, patriarca d'Aquilea, legato e generale del papa, e Giovanni di Ventimiglia generale del re Alfonso di Napoli, si avanzarono da diverse parti in un piccolo principato, troppo debole per fare testa, non che a tutti assieme uniti, a cadauno separatamente.
Francesco Sforza, che aveva ricevute ragguardevoli somme dalla repubblica di Firenze e dalla privata borsa di Cosimo de' Medici, non trovavasi però in istato di resistere a così violento turbine. Egli aveva posto suo fratello Alessandro a Fermo con una forte guarnigione per tenere in dovere quella fortezza, la più importante di tutte. Egli stesso erasi collocato col suo campo innanzi a Fano per impedire l'unione di Taliano Furlano colle truppe del papa e del re[244]; lungo tempo con destre marcie aveva saputo impedirla, ma la ribellione di Rocca Contratta, fortezza che assicurava una comunicazione colla Toscana, distrusse il suo piano di campagna. Costretto di avvicinarsi ai paesi da cui sperava soccorsi, prese all'ultimo il partito di abbandonare la Marca alla naturale incostanza di que' popoli, di portare fino a mille cinquecento corazzieri la guarnigione di Fermo ove comandava suo fratello, di lasciarne un'altra non meno forte in Jesi, e di ritirarsi colla sua armata nel territorio del suo alleato, il conte d'Urbino e di Montefeltro. Ebbe appena presa questa risoluzione, che i suoi propj stati si ribellarono dovunque, e tutte le città aprirono le porte al papa, mentre ch'egli credeva vendicarsi di loro attaccando ed incendiando i castelli di Sigismondo Malatesti[245]. Giunse finalmente l'inverno a mettere fine a tanti guasti ed alle reciproche barbarie. Allora lo Sforza si chiuse in Pesaro colla moglie e coi figliuoli, distribuendo la sua cavalleria in Toscana e nelle parti meno montuose del contado d'Urbino e dello stato d'Agobbio[246].
Ma lo Sforza provava la sorte che pareva attaccata alle sovranità fondate dai soldati a punta di spada. I loro popoli, sempre sagrificati alla milizia, sospiravano l'istante di scuotere il giogo militare; non risguardavano come legittima l'autorità cui erano costretti di sottomettersi, e credevano di soddisfare ad un loro dovere, congiurando contro la medesima in favore de' loro antichi padroni. Gli abitanti di Fermo, cui lo Sforza credeva di potersi interamente fidare, sorpresero il 26 di novembre la cavalleria ch'era alloggiata presso di loro, la spogliarono delle loro armi e de' loro cavalli, e spiegarono sulle loro mure le insegne del papa. Alessandro Sforza ebbe appena tempo di salvarsi nella cittadella, e bentosto s'accorse che non aveva ne' magazzini sufficienti viveri per aspettare la primavera. Allora capitolò, a condizione che gli abitanti gli sborserebbero mille fiorini, e ch'egli sarebbe libero di condurre all'armata del fratello la cavalleria che aveva seco nella fortezza. Dopo quest'ultima perdita nulla più non restava a Francesco Sforza in tutta la provincia che gli era stata tanto tempo subordinata fuorchè la città di Jesi[247].
I Fiorentini ed i Veneziani non vennero meno al loro alleato in tanta calamità. Ognuna di queste repubbliche gli mandò durante l'inverno sessanta mila fiorini. Nello stesso tempo Cosimo de' Medici lo consigliò di mutare la difesa in attacco, di penetrare presto nell'Umbria, di avvicinarsi a Roma per unirsi al conte dell'Anguillara, segreto nemico del papa[248], di approfittare del malcontento che aveva eccitato il patriarca d'Aquilea in tutti gli stati d'Eugenio per farli ribellare, finalmente di tentare un colpo ardito, e tale da ravvivare le speranze di tutti i suoi partigiani. Effettivamente tutti i feudatarj romani erano oppressi, tutti avevano manifestato il loro malcontento ai Veneziani ed ai Fiorentini, e avevano implorata la loro assistenza. Inoltre le città di Todi, d'Orvieto, di Narni avevano promesso d'aprire le loro porte quando si avvicinasse un'armata. Ma lo Sforza non seppe fare i suoi apparecchi colla necessaria prestezza[249]. Per non iscontentare i suoi soldati, solo elemento della potenza che gli restava, egli era costretto di dipendere quasi affatto da loro; nulla osava di ricusar loro; ed era obbligato per pagare gli arretrati d'impiegare tutti i sussidj che riceveva. Perciò non fu pronto ad entrare in campagna ed a passare gli Appennini avanti il cominciare di giugno. A tale epoca la sua posizione era omai disperata; coloro ai quali offriva il suo ajuto vedevano apertamente che, poichè non aveva potuto difendere i proprj stati, difenderebbe ancora meno le città lontane dai suoi confini, se le faceva ribellare; e per tali considerazioni Todi, Orvieto, Viterbo non vollero aprirgli le porte, quando si presentò loro, nè somministrargli vittovaglie; e lo Sforza era così male provveduto di macchine d'assedio, che non potè incutere almeno tanto timore agli abitanti da ridurli a pagargli qualche contribuzione. Videsi in allora ciò che forse non si era mai veduto, nè si vedrà in appresso, un'armata di cavalleria pesante alimentarsi per tre giorni di fragole colte nelle montagne[250]. Dopo avere crudelmente sofferta la fame, ed essere stato respinto da tutte le città, lo Sforza ricondusse la sua armata a traverso dello stato di Siena nel paese d'Urbino, indi a Fano.
Per altro l'ingresso dello Sforza nell'Umbria e nel patrimonio di san Pietro aveva gagliardamente intimidito il papa; onde si era affrettato di adunare tutti i suoi capitani, Taliano Furlano, i fratelli Malatesti, e gli altri suoi migliori soldati; aveva chiesto soccorso al re d'Arragona; e questa ragguardevole armata, che aveva allestita per sua difesa, tenne dietro allo Sforza nel contado d'Urbino ed in Romagna, quando vi si fu ritirato. Fece un inutile tentativo sopra Jesi, ma la Pergola si arrese in pochi giorni all'armata pontificia; Ancona fece pure la pace con Eugenio, e lo stesso Alessandro Sforza, che andava debitore al fratello della sovranità di Pesaro, credendo affatto perduto il capo della sua famiglia, pensò di salvarsi nel suo disastro. Egli fece un trattato parziale colla Chiesa, spiegò in Pesaro le insegne del papa, fornì alla sua armata viveri e munizioni, e rifiutò ogni soccorso al fratello, il quale dovette credersi abbastanza fortunato, che Alessandro non ritenesse presso di sè come ostaggi la consorte ed i figli, siccome lo consigliava di fare il patriarca d'Aquilea[251]. Il solo Federico di Montefeltro, conte d'Urbino, si mantenne costantemente fedele allo Sforza; rigettò ogni proposizione di separata pace che gli fece la Chiesa, si accontentò di vedere portata la guerra ne' proprj stati, lasciando che l'armata pontificia andasse inutilmente consumando tutta la bella stagione nell'assedio delle sue fortezze[252].
I nemici dello Sforza sembravano determinati a non lasciargli un solo palmo di terra. Tutti i suoi feudi del regno di Napoli erano stati occupati da Alfonso, quelli che aveva nello stato della Chiesa dal papa, e per ultimo quelli che Filippo gli aveva dati in Lombardia, come dote della consorte, erano nello stesso tempo attaccati da suo suocero. Il duca di Milano pretendeva in allora di non essersi obbligato a dare a sua figlia che una dote di cento mila fiorini, di cui gli stati di Cremona e di Pontremoli non erano che la guarenzia. Offriva di pagare questa dote a Venezia, e nello stesso tempo faceva assediare le due città dotali consegnate al genero[253]. Prima che terminasse la campagna era presumibile l'intera distruzione della potenza dello Sforza, la quale, dopo l'intima alleanza del duca di Milano col re di Napoli, sembrava necessaria all'equilibrio dell'Italia. Questo generale in così pressante pericolo invocava i pronti soccorsi delle due repubbliche sue alleate. Cosimo de' Medici, che gli era personalmente affezionato, appoggiava vivamente le sue istanze, ed i Fiorentini abbracciarono con calore la di lui causa. Mandarono Neri Capponi e Bernardo Giugni a Venezia per ottenergli più efficaci soccorsi[254]; e questi conchiusero tra le due repubbliche un nuovo trattato, fondato sull'infrazione fatta dal Visconti a quello di Capriana. In fatti le città di Cremona e di Pontremoli erano state cedute al conte Sforza sotto la loro guarenzia, onde attaccando queste due città il Visconti violava la pace fatta colle due repubbliche. Per far rispettare la loro autorità, si obbligarono ad accrescere di quattro mila cavalli, da levarsi a spese comuni, la loro armata di Lombardia, ed a costringere colle armi il duca di Milano a mantenere i suoi precedenti obblighi.
Le prime negoziazioni dei Fiorentini portarono il disordine nella stessa armata dei loro nemici; essi entrarono in trattati con Taliano Furlano, e con Giacomo da Caivano, due condottieri che parvero disposti ad abbandonare le insegne del patriarca d'Aquilea, per entrare al loro servigio. Ma questi, avutone sentore, li fece imprigionare e tagliar loro il capo[255]. Un trattato dello stesso genere si era intrapreso nel medesimo tempo presso due capitani del duca di Milano, che guastavano il territorio di Bologna, Guglielmo, fratello del marchese di Monferrato, e Carlo Gonzaga, fratello del marchese di Mantova, i quali erano fra loro discordi. I Fiorentini approfittarono delle loro dissensioni per sedurre Guglielmo, e sorprendere il Gonzaga. Tiberto Brandolino attaccò l'ultimo, il 6 di luglio, a Castel san Giovanni, fece prigionieri la maggior parte de' soldati di lui, e lo costrinse a fuggire quasi solo a Modena[256]. Quest'avvenimento decise la sorte della campagna; Bologna si trovò liberata; una parte dell'armata fiorentina potè allora passare nella Marca sotto il comando di Guid'Antonio Manfredi e del Simoneta, mentre che Guglielmo di Monferrato, entrando al soldo della repubblica di Venezia, s'unì nello stato di Brescia a Michele Attendolo di Cotignola, quello stesso che aveva tanto contribuito a guadagnare la battaglia d'Anghiari e che dopo il 1441 era generale dei Veneziani. Quest'esperto capitano, trovandosi così rinforzato, fu in istato di fare una potente diversione in Lombardia.
Non pertanto prima di spingere più avanti le ostilità, i Fiorentini cercarono nuovamente di mettere fine a questa lunga guerra con una pace generale. Spedirono ambasciatori al re di Napoli, che era stato a loro unito in forza di un trattato, ma che il papa aveva poi sciolto dai suoi giuramenti con una bolla del 23 aprile del 1446, obbligandolo a rinnovare i suoi attacchi[257]; ne mandarono altri al papa ed al duca di Milano, che vennero dovunque ricusati. A Puccio Pucci, ch'era passato da Venezia a Milano per comunicare al duca le loro proposizioni, si andò da un giorno all'altro dilazionando l'udienza, perchè il Visconti aspettava il momento che gli astrologi gli avrebbero indicato favorevole. Quando finalmente fu invitato all'udienza, il Pucci, mal soffrendo questa mancanza di riguardi per la sua repubblica, rispose a vicenda, che non era apparecchiato, e che se l'ora era buona pel duca di Milano, non lo era altrimenti per la repubblica di Firenze[258].
Il duca di Milano aveva incaricato Francesco Piccinino di attaccare Cremona, ed in pari tempo si era guadagnati dei partigiani entro la città per mezzo di Orlando Palavicino, che vi si trovava alla testa del partito ghibellino. Ma Giacomo di Salerno, luogotenente dello Sforza, sventò tutte le trame contro di lui ordite, e coll'ajuto di alcuni squadroni, mandati da Venezia, rispinse ancora la forza aperta. Dall'altro canto Pontremoli era stato attaccato da Luigi da Sanseverino, e difeso dai Fiorentini[259]. Intanto Michele Attendolo, generalissimo dei Veneziani, adunò tutte le sue truppe, passò l'Oglio a Ponte Vico, riprese i castelli cremonesi che si erano ribellati, e venne a cercare il Piccinino. Quest'ultimo pose il suo campo in un'isola del Po, al di sopra di Casal Maggiore, fra gli stati di Cremona e di Parma. Un ponte sopra ogni ramo del fiume gli dava comunicazione colle due rive. Michele Attendolo, giunto il 29 settembre del 1446 in faccia al nemico, tentò di ridurlo ad entrare in battaglia con alcune scaramucce sul ponte, mentre una parte della sua cavalleria mostrava di voler guadare il fiume nel luogo più largo. Ad una notabile distanza da questo luogo alcuni cavalieri avevano scoperto un altro guado, che non era custodito; Attendolo lo fece attraversare in silenzio da un grosso corpo di corazzieri, che tutti portavano un pedone in groppa. Tutt'ad un tratto coloro che custodivano il ponte e la riva del fiume vennero attaccati alle spalle dalla truppa veneziana, sorpresi nel vedere i nemici nell'isola, abbandonarono il posto con grandissima confusione. Tutta l'armata di Francesco Piccinino si pose in fuga senza quasi avere combattuto, ed il suo generale, dando alle truppe un vile esempio di pusillanimità, passò il secondo ponte che comunicava collo stato di Parma, poi lo fece subito tagliare, lasciando sull'altra riva quattro mila de' suoi soldati, che furono fatti prigionieri[260].
Tutto il paese posto tra l'Adda e l'Oglio fu in conseguenza di questa vittoria rapidamente conquistato; sottomettendosi tutte le fortezze, ad eccezione di Crema, ove Filippo aveva mandata grossa guarnigione per difendere il passo dell'Adda. Ma neppure questo fiume impedì gli avanzamenti di Attendolo; vi si avvicinò, attraversando alcuni pantani sopra un argine che credevasi abbastanza fortificato dalla natura, e vi gittò un ponte il 6 novembre, e con tale mezzo portò le sue truppe nella Martesana, e nella pianura di Milano, guastando quelle ricche campagne che da lungo tempo non erano state visitate dai nemici[261].
Il sacco dell'armata veneziana si stese intorno a Monza e fino alle porte di Milano, ed alcune bande di prigionieri presi ne' villaggi seguivano le mandre de' buoi tolti nelle stalle degli agricoltori. Michele da Cotignola non si limitò a questa momentanea scorreria, ma occupò Cassano, e vi fortificò una testa del ponte, lasciandovi due mila cavalli con un corpo d'infanteria, per avere aperto il territorio milanese, qualunque volta trovasse utile di tornarvi. Diede poi riposo alla sua cavalleria in Caravaggio, senza che questa sua inazione lasciasse il nemico tranquillo, perchè ad ogn'istante poteva di nuovo spingere ancor più lontano le sue scorrerie ed i guasti[262].
Francesco Sforza aveva approfittato di questa diversione per ristabilire i suoi affari in Romagna e nel contado d'Urbino. Gli si erano uniti in principio d'ottobre Guid'Antonio Manfredi e Simoneta di Campo San Pietro, condottieri al soldo de' Fiorentini; onde trovandosi superiore di forze, aveva sfidato a battaglia il patriarca d'Aquilea che non ardì accettarla. Lo Sforza coll'intromissione di Federico da Monte Feltro erasi riconciliato con suo fratello Alessandro, ed aveva in oltre ricuperate colle armi varie fortezze del contado d'Urbino e dello stato di Rimini. Non pertanto sopraggiunse l'inverno, avanti che ottener potesse qualche decisivo vantaggio, e fu costretto a rimanersi inattivo pel cattivo tempo, che pure procurò un poco di riposo ai sudditi del duca di Milano in Lombardia[263].
I popoli di questa provincia non erano altrimenti affezionati al loro sovrano; e perchè lo vedevano senza successori, pensavano assai meno a difenderlo, che a guadagnarsi l'affetto de' nuovi padroni che potrebbe dar loro la sorte delle armi; onde Filippo non aveva il sicuro possedimento di veruno de' suoi stati. Perciò, durante l'inverno, si rivolse a tutti i suoi alleati e vicini, caldamente loro chiedendo potenti soccorsi. Ricordava ad Alfonso, re di Napoli, d'avergli posta la corona in capo, e lo pregava a volere adesso sostenere la sua; lo sollecitava a mandare in Lombardia Raimondo Boile, che fin allora aveva a nome dei re guerreggiato nella Marca, ed a fare un'invasione nella Toscana per costringere i Fiorentini a difendere sè stessi, invece di lasciare le forze loro a disposizione dei Veneziani. Gli rappresentava che il senato di Venezia, più costante che verun monarca ne' suoi progetti ambiziosi, teneva dietro da oltre un secolo a quello di conquistare tutta la Lombardia; che adesso era più vicino a conseguire il suo desiderio, che mai lo fosse stato in addietro, e che se giugneva una volta ad estendere la sua signoria dalle Alpi agli Appennini, questo corpo, i di cui consiglj non venivano traviati da personali passioni, nè i tesori dissipati da verun lusso, si assoggetterebbe facilmente tutto il restante dell'Italia. Questi timori, che il Visconti faceva vittoriosamente valere presso Alfonso, non lasciavano di avere altresì qualche influenza sopra Cosimo de' Medici e sopra lo stesso Francesco Sforza.
Il mantenimento dell'equilibrio d'Italia non avrebbe mosso l'animo di Carlo VII, re di Francia, dal quale il duca di Milano sperava pure soccorsi. Il monarca francese, occupato in una lunga lite coll'Inghilterra, non poteva fermare lo sguardo sopra l'Italia, ed avrebbe veduto con indifferenza le conquiste della repubblica di Venezia e l'abbassamento di tutti i suoi rivali. E se pure la Francia conservava, in forza delle antiche affezioni, qualche attaccamento ad alcun partito, era a quello dei Guelfi, alle due repubbliche ed a Francesco Sforza. Ciò non ostante il Visconti non disperava di averla in sua difesa, onde mandò a Carlo VII Tomaso Tebaldi di Bologna, suo segretario, e per prezzo dei corpi di truppe ch'egli domandava, gli offrì la restituzione della città d'Asti, ch'era stata precedentemente data alla casa d'Orleans, come dote di Valentina Visconti. Finalmente un'ultima ambasciata fu spedita allo stesso Sforza, chiedendogli di prendere le difese del suocero contro i Veneziani, che volevano spogliarlo de' suoi stati. Gli faceva osservare, che di già oppresso dalla vecchiaja, e da nuova infermità che quasi lo rendeva cieco, non aveva altro appoggio naturale che il marito dell'unica sua figlia, cui destinava la sua eredità, ond'egli almeno desiderare non poteva la ruina di quegli stati, di cui doveva un giorno essere padrone[264].
Lo Sforza assediava in allora il castello di Gradaria, dal quale fu costretto di levare l'assedio dopo quaranta giorni per mancanza di danaro e di polvere da cannone. Era egli giustamente adirato contro Filippo, l'istigatore d'una guerra che sembrava avere avuto per oggetto la totale sua rovina, e che di già lo aveva privato di tutti i suoi stati. Sapeva quanta poca fede prestar doveva alle parole del suocero, dalla di cui perfidia poteva tutto temere, se giammai si trovasse in sua balìa, dopo avere abbandonata l'alleanza dei Fiorentini e de' Veneziani. Dall'altro canto sentiva quanto gli sarebbe utile il riconciliarsi col duca di Milano, potendo soltanto con tale riconciliazione nodrire la speranza della successione dei Visconti, alla quale era ben lontano di voler rinunciare. Egli sentiva che se i Veneziani conquistavano una volta la Lombardia, non potrebbe poi in alcun modo strapparla dalle loro mani; e la loro vittoria a Casal Maggiore, che in sulle prime lo aveva colmato di gioja, non aveva lasciato in appresso di tenerlo inquietissimo. Aspettando opportunità per decidersi senza pericolo, andava guadagnando tempo con equivoche negoziazioni; per mezzo de' suoi ambasciatori esponeva ai suoi alleati l'intera sua nudità, ed i sempre rinascenti bisogni della guerra. I Fiorentini, che più non temevano la potenza del duca di Milano, andavano più a rilento nell'accordare sussidj, ed i Veneziani sempre facevano un amaro confronto dei continui disastri della Marca, coi prosperi avvenimenti di Lombardia. Quando il conte Sforza domandava nuovi soccorsi, rispondevano che il loro generale, Michele Attendolo, impiegherebbe più utilmente il loro danaro e le loro munizioni per la causa comune. L'assedio di Gradaria mal riuscito, era loro costato, essi dicevano, più tesori che non sarebbero abbisognati per conquistare metà della Lombardia[265]. Un'universale diffidenza disanimava i suoi alleati, e lo Sforza, che la conosceva, e che le dava motivo, non lasciava perciò di sollecitare sussidj, non solo per conseguirli, ma ancora perchè il rifiuto de' suoi alleati fosse un motivo per giustificarsi, qualunque volta si risolvesse di abbandonarli[266].
Il più intimo consigliere dello Sforza, il suo segretario Giovanni Simonetta, cui andiamo debitori dell'eccellente storia che ci serve di guida in tutto questo periodo di tempo, assicura che Cosimo de' Medici, consultato dal suo padrone circa la condotta che tener doveva, lo esortò segretamente a non seguire altra norma che quella del proprio interesse, ed a non credersi totalmente legato verso le due repubbliche, che non l'avevano ajutato pel solo suo vantaggio, ma per il proprio[267]. In tal modo cominciava a manifestarsi quel piano di politica che in breve vedremo adottato dal Medici, e quella gelosia contro Venezia, per la quale mutò tutte le alleanze d'Italia. Lo Sforza accolse con infinito piacere questo consiglio, risguardandolo come un indizio delle segrete disposizioni de' Fiorentini, e si trovò incoraggiato ne' progetti che aveva di già adottati; perciocchè i consiglj d'egoismo e di mala fede non sono d'ordinario chiesti che da coloro i quali sono di già risoluti di seguirli. Intanto questi contraddittori trattati tenevano tutti gli animi sospesi; l'intera Italia si aspettava qualche grande avvenimento, allorchè impreveduti accidenti mutarono di nuovo i calcoli e le opinioni delle potenze belligeranti.
Papa Eugenio, la di cui inquieta attività era stata cagione di così violenti scosse allo stato ed alla Chiesa, morì in Roma il 23 febbrajo del 1447. Le austerità monacali, ch'egli rigorosamente sostenne, fecero scordare agli scrittori ecclesiastici il suo scandaloso disprezzo pei giuramenti più solenni, la sua cieca confidenza ne' suoi favoriti, e la parte che prese in odiose perfidie; essi lo rappresentarono come un santo[268], mentre la storia non può risguardarlo che come un cattivo sovrano. Quando gli si accostò l'arcivescovo di Firenze per dargli l'estrema unzione, Eugenio lo rispinse con vivacità, dicendogli «di sentirsi ancora forte, che l'istante non era ancora giunto, e che gliene darebbe avviso, a quando fosse tempo». Allorchè questo aneddoto fu raccontato ad Alfonso, disse: «Dobbiamo esser noi maravigliati che abbia voluto combattere contro Francesco Sforza, contro i Colonna, contro di me, contro tutta l'Italia, colui che osò combattere contro la stessa morte, e che appena ne fu vinto[269]?» Per altro questa morte poteva variare tutta la politica dell'Italia meridionale, ed Alfonso, in allora meno occupato della guerra dello Sforza, si affrettò di passare a Tivoli sotto colore di occuparsi della sicurezza di Roma, ma in realtà per esercitare maggior influenza nel conclave, e meglio conoscere le disposizioni del futuro pontefice[270].
Dall'altro canto i Veneziani, omai più non dubitando che il conte Sforza non mantenesse segrete corrispondenze col duca di Milano, vollero prevenire l'istante in cui sarebbesi dichiarato contro di loro. Avevano essi difesa la sua città di Cremona contro il Visconti, calcolando che servirebbe di baluardo ai loro stati di terra ferma; ora avevano cagione di temere che questa città medesima servisse di piazza d'armi per attaccarli. Commisero dunque al loro generale, Michele Attendolo di Cotignola, di occuparla. Gherardo Dandolo, ch'essi vi avevano posto per loro commissario, doveva consegnargli una porta coll'ajuto dei Guelfi Cremonesi. Ma il luogotenente dello Sforza, egualmente attento ai progetti dei suoi alleati e de' suoi nemici, sventò questa trama, tenne tutti gli abitanti in dovere, e quando il 4 marzo comparì l'Attendolo sotto Cremona, lo sforzò a ritirarsi coperto della vergogna d'un tradimento che non aveva saputo condurre a buon termine[271].
Francesco Sforza, che tuttavia mostravasi dubbioso nella scelta, più non bilanciò dopo quest'attentato dei Veneziani; accettò le proposizioni di suo suocero, il quale gli promise dugento quattro mila fiorini d'oro all'anno pel mantenimento delle sue truppe, somma eguale a quella che i Fiorentini ed i Veneziani gli avevano fin allora pagata. Nello stesso tempo il Visconti gli diede la suprema autorità militare in tutte le fortezze, e sopra tutti i soldati degli stati milanesi; gli mandò danaro, e gli fece pagare altre somme in suo nome da Alfonso; onde lo Sforza, sagrificando gli antichi suoi alleati al nemico, cominciò gli apparecchi per entrar presto in campagna[272]. Ma fin allora non erasi ancor veduto Filippo lungamente fedele a verun progetto. Non ebbe appena conchiuso questo trattato col genero, ch'ebbe timore d'essersi interamente posto tra le mani di questo ambizioso generale. Era circondato da consiglieri e da generali formati nella scuola di Braccio, ed attaccati a quella che chiamavasi fazione militare de' Bracceschi. Tutti vedevano con estremo dolore l'ingrandimento dello Sforza e del suo partito, che riguardavano come il segno della propria ruina. I due fratelli Piccinino, Niccolò Guerrieri di Parma, Antonio da Pesaro e Giacomo d'Imola, abituali consiglieri di Filippo, tostocchè si avvidero di qualche principio di diffidenza nel principe, si presero cura di accrescerla. Pretesero che lo Sforza apparecchiavasi ad entrare come padrone nel Milanese, che di già prometteva anticipate ricompense ai suoi soldati, terre agli ufficiali, come se fosse già sovrano degli stati del suocero: e seppero a tal segno inasprire la gelosa anima del Visconti, che questi fece sospendere i sussidj promessi allo Sforza, cui ordinò in pari tempo di portarsi direttamente sopra Padova o sopra Verona, senza avvicinarsi a Milano, e senza toccare i confini de' suoi stati. E quando seppe che Francesco Sforza aveva mandati suo figlio e sua figlia a Cremona perchè fossero presentati all'avo loro, lungi dal mostrarsi desideroso di vederli, fece loro proibire di passare i confini del Milanese[273].
Francesco Sforza, maravigliato da così subito cambiamento, temette di avere perduti gli antichi suoi alleati, senza averne acquistato un nuovo. Il piano di campagna, che gli si proponeva, era contrario a tutte le regole dell'arte militare. Questo grande capitano, troppo povero per equipaggiare la sua armata, reso troppo incerto da contraddittorj avvisi per prendere qualche consiglio, trattenevasi irrisoluto ai confini dello stato d'Urbino. Egli e suo suocero insieme perdevano in tal modo l'istante di operare, mentre i Veneziani sapevano approfittarne. In principio di primavera la loro armata guastò il Cremonese, che tutto occupò ad eccezione della capitale. Passò in appresso il ponte di Cassano, e Michele da Cotignola venne a porre il suo campo a tre sole miglia da Milano. Mentre saccheggiava le campagne fino alle porte della capitale, cui si presentò più d'una volta[274], teneva vive segrete intelligenze con coloro ch'egli credeva avere maggiore influenza sul popolo. I Veneziani annunciavano la vicina morte di Filippo, col quale spegnevasi la casa Visconti, ed offrivano ai Milanesi o di passare sotto il loro dominio, conservando tutti i loro privilegi, o pure di ristabilire la loro repubblica, se volevano prendere le armi senz'altro indugio, e porsi in libertà[275].
Filippo non ardiva arrischiare una battaglia per liberare la sua capitale; ordinò al contrario ai suoi generali di tenere i loro soldati chiusi in città. Altronde il pericolo e la ruina de' suoi stati gli fecero sentire la necessità di ricorrere a suo genero. Questa volta pare che mettesse affatto da banda la diffidenza ed i sospetti, non ponendo veruna condizione alla sua marcia, e facendogli anticipare danaro da Alfonso, perchè non si trovava in istato di somministrargli quanto gli aveva promesso. Il re di Napoli, che desiderava liberare sè ed il papa dall'incomoda vicinanza d'un condottiere, dichiarò di non voler pagare il danaro chiesto dal Visconti finchè lo Sforza non restituiva a Niccolò V, successore d'Eugenio IV, la città di Jesi, che tuttavia possedeva nella Marca, rinunciando ad una sovranità per la quale erasi sparso tanto sangue. Il conte, che non poteva far uso della sua armata per mancanza di danaro, e che colla sua inazione correva pericolo di perdere la sua riputazione militare, i soldati, egli stati, acconsentì all'ultimo ad abbandonare una città fedele, che durante due anni d'assedio, aveva per lui infinitamente sofferto. Rendette Jesi al papa, ricevendo in ricompensa dalle mani di Alfonso trentacinque mila fiorini, coi quali rifece la sua armata[276].
Fino dall'undici di marzo il conte Sforza, colla mediazione del duca d'Urbino, aveva firmato una tregua con Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, in forza della quale aveva assicurato a suo fratello Alessandro il pacifico possesso di Pesaro; ed egli abbandonava la Marca, senza aver più alcun motivo di trattenersi negli stati della Chiesa. Si mosse il 9 agosto, prendendo la strada della Lombardia; ma giunto a Cotignola, villaggio da cui prendeva origine la sua famiglia, e dove pensava di lasciare riposare alquanto la sua gente, colà ricevette il 15 agosto un segreto messo di Lionello, marchese d'Este, che gli annunciava la morte di suo suocero. Il duca di Milano, sempre invisibile ai suoi sudditi, ed appena accessibile ad un ristretto numero di consiglieri e di servitori segreti, era stato il 7 agosto sorpreso da una dissenteria; la malattia erasi tenuta scrupolosamente celata a tutto il mondo, ed egli era morto il 13 dello stesso mese nel suo castello di Porta Zobia di Milano, senza che alcuno lo sapesse tampoco in pericolo[277].
Filippo Maria, l'ultimo dei Visconti, duchi di Milano, era grande di statura, assai magro finchè fu giovane, assai grasso in età avanzata. Aveva deforme viso e quasi spaventevole, grandissimi gli occhi, e lo sguardo sempre incerto. Trascurava tutto quanto poteva contribuire a rendere piacente la sua persona, l'eleganza e la politezza medesima sembravangli odiose cose, e non ammetteva mai alla sua presenza coloro ch'erano elegantemente vestiti: la caccia ed i cavalli erano l'unico suo divertimento; altronde egli era sobrio, timido, e sopra modo lo spaventavano i lampi, il tuono, e qualunque discorso tendeva a fargli pensare alla morte; ed il suo carattere e la sua condotta parevano principalmente spiegarsi per la continua diffidenza di se stesso e degli altri[278]. Temeva il giudizio che pronuncierebbero intorno a lui coloro che l'avvicinerebbero, e piuttosto che superare questa timidità per vedere l'imperatore Sigismondo, in occasione del suo passaggio, si espose a farsi di quel monarca un irriconciliabile nemico. Egli non superò tale diffidenza, che quando fu posta in sua mano la sorte de' principi introdotti innanzi a lui. Perciò vide egli Carlo Malatesti, ed in appresso Alfonso d'Arragona, l'uno e l'altro suoi prigionieri, che ricolmò di beneficj quasi per riconciliarli colla sua orribile faccia. Egli si sottraeva egualmente allo sguardo dei forestieri, ed a quello de' suoi sudditi d'ogni condizione, che non potevano essere introdotti vicino a lui senza incontrare mille difficoltà; ma s'egli finalmente si accontentava di ricevere qualche persona, sapeva mostrarsi dolce ed affabile, e tutti coloro che giugnevano ad acquistarsi una volta la sua confidenza, erano quasi sicuri d'avere sopra di lui una grande influenza. Sospettoso all'eccesso verso coloro coi quali non aveva domestichezza, cercava sempre anche in mezzo alla pace d'indebolirli, e ruinarli celatamente colla più malvagia politica, ma era poi capace di durevole confidenza per coloro che ammetteva alla sua familiarità; perciò fu sempre veduto falso nelle sue promesse, perfido nelle alleanze, e non pertanto fedele all'amicizia. Egli temeva, disprezzava, ed odiava generalmente gli uomini; ma sapeva altresì scegliere coloro che immediatamente dipendevano da' suoi ordini, ed adoperò quasi sempre uomini di somma capacità come generali, come consiglieri di stato e come ambasciatori. Nelle missioni che loro affidava, non limitava le facoltà loro con gelosa diffidenza; ed in un secolo in cui l'onore e la buona fede erano sbanditi, in cui egli stesso dava frequenti prove di perfidia, non fu mai tradito dai suoi ministri o dai suoi generali. Sovrano senza rispetto per l'umanità, senza amore per i suoi popoli, flagello de' proprj stati e di quelli de' vicini, non fu così cattivo uomo come era malvagio principe, e trovavasi in lui qualche mescolanza di talenti, di virtù e di generosità.
CAPITOLO LXXII.
Sforzi de' Milanesi per ricuperare la libertà; Francesco Sforza si obbliga al servigio della nuova repubblica; sue vittorie sui Veneziani a Piacenza, a Casal Maggiore ed a Caravaggio.
1447 = 1448. Da oltre quindici anni l'Italia era sconvolta da rivoluzioni di nuovo genere; vedevansi guerre incominciate senza motivi, trattate senza vigore, e sospese senza che la pace arrecasse verun vantaggio, alleanze contratte, rotte, rinnovate, e mille volte violate; la perfidia in tutti i rapporti politici era diventata la morale di moda; un pericoloso credito veniva accordata ai comandanti delle armate, mentre l'arte militare più non era nobilitata dal sacro motivo della difesa della patria; per ultimo ogni giorno nuovi capitani s'innalzavano ad un potere indipendente, trattavano coi principi da piccoli sovrani, ed in appresso perivano quasi tutti sul patibolo senza formalità di giudizio. Ma questo stato d'Italia così straordinario, così diverso di tutto ciò che lo aveva preceduto, da tutto ciò che seguì, apparecchiava la grande rivoluzione ch'ebbe compimento alla metà del quindicesimo secolo. Videsi in allora e per tutte queste cagioni il più avventurato di tutti questi avventurieri collocarsi sul primo trono d'Italia, gli Sforza succedere ai Visconti, un nuovo sistema d'equilibrio riunire il poter militare al civile, ed il condottiere, che conseguì la più magnifica ricompensa, fare scomparire tutti gli altri.
Lo Sforza ottenne con una insigne perfidia di succedere a suo suocero; ma il secolo era talmente corrotto ed abituato alla mancanza di fede della casa Visconti, di tutti i piccoli principi d'Italia, e dei papi, che questa mala fede più non risguardavasi come una macchia dalla maggior parte degli uomini. Quando Machiavelli diceva dello stesso Sforza, che non era trattenuto da timore o da vergogna di mancare ai suoi giuramenti, perchè i grandi uomini si vergognavano di perdere, non di guadagnare coll'inganno[279], egli esprimeva il sentimento di tutti i suoi contemporanei, più ancora che il suo proprio, e lo Sforza, che in cotal modo egli scusava, aveva nome d'essere anzi uno de' più generosi, de' più fedeli nell'amicizia fra tutti i principi del suo secolo. L'intima sua amicizia con Cosimo de' Medici, che i Fiorentini intitolarono il padre della patria, e che gli amici delle lettere risguardano come il ristauratore della filosofia platonica, faceva egualmente onore all'uno ed all'altro. L'amicizia dello Sforza veniva nello stesso tempo ricercata da Federico di Montefeltro, in appresso duca d'Urbino, da Lionello e da Borso d'Este, marchesi e duchi di Ferrara, e da Luigi Gonzaga, marchese di Mantova, allievo di Vittorino da Feltre. Il nome di questi principi venne illustrato dalla benefica protezione accordata alle lettere in sul declinare del quindicesimo secolo, ed a costoro può attribuirsi la scoperta della bella antichità, il risorgimento delle arti e della poesia. Francesco Sforza era degno d'essere loro associato, e noi avremo pur troppo frequenti occasioni di vedere che questi illustri principi in fatto di onore e di moralità non vanno meno di lui soggetti a censura. Non possiamo non compiangere un secolo in cui il sentimento del giusto e del vero era talmente indebolito, che un uomo di elevato carattere più non arrossiva della falsità e del tradimento; ma conservando tutto l'orrore che nutrir dobbiamo per il vizio e per la bassezza, dobbiamo guardarci di addossare ad un solo uomo il biasimo e la vergogna che appartengono a tutta la sua generazione.
Non è già che le pretese di Francesco Sforza all'eredità di Filippo Maria fossero ingiuste: i suoi diritti non erano meno fondati che quelli di qual si fosse altro pretendente; o a dir meglio fra tutti coloro che l'ambivano non vi aveva diritto che la repubblica milanese. I Visconti altro non erano che i capi della fazione seguita dai popolo innalzati al potere sovrano ora dal tacito assenso della nazione, ora dall'intrigo e dalla forza delle armi. Giammai essi non avevano fondata una monarchia regolare e costituzionale, nella quale fossero riconosciuti i diritti ereditarj. Dopo Ottone Visconti che nel 1277 diede cominciamento alla grandezza della sua casa fino a Filippo in cui si spense, non si vide in cento settant'anni una sola successione regolare. Talora tutt'i fratelli avevano regnato assieme, talvolta eransi divisi gli stati, ed ora si erano succeduti gli uni agli altri a pregiudizio de' figli; il cominciamento di qualunque regno era stato notato da qualche rivoluzione. La sola forza decideva del diritto, il timore teneva luogo dell'affetto, ed il sovrano della Lombardia non sarebbe rimasto meno sorpreso del suo popolo, se gli si fosse parlato dei diversi gradi di eredità che aprivano la successione al trono.
Nelle famiglie dei signori d'Italia i bastardi stavano quasi a livello coi figli legittimi, e se si acconsentiva che la successione dei Visconti potesse passare alle femmine, la nascita di Bianca non era una sufficiente cagione per escluderla. Nella divisione degli stati di Giovan Galeazzo, padre dell'ultimo duca, il suo bastardo Gabriele aveva avuta una parte press'a poco eguale a quella dei figli legittimi; Lionello d'Este, allora regnante, e dopo di lui Borso, l'uno e l'altro bastardi di Niccolò III, vennero chiamati alla signoria di Ferrara e di Modena in pregiudizio de' loro fratelli maggiori nati da legittimo matrimonio; e la successione della casa della Scala erasi trasmessa dal principio fino alla fine da bastardo in bastardo. Santi Cascese era stato di fresco chiamato al governo di Bologna come figlio adulterino di un Bentivoglio, mentre che Federico di Montefeltro, che sapevasi non essere figliuolo del conte Guido, di cui portava il nome, veniva riconosciuto per signore d'Urbino. Effettivamente il popolo non considerava in verun modo i diritti di successione come sono regolati dalle leggi per le private proprietà, ma soltanto la garanzia che il nuovo capo poteva dare per la sua età, per i suoi talenti, al partito di cui la di lui famiglia era stata capo.
I diritti che la casa d'Orleans pretendeva avere acquistati da Valentina Visconti, sorella dell'ultimo duca, erano fondati sull'ipotesi che la Lombardia fosse un feudo femminino; ma la Lombardia non era nè un feudo, nè una successione aperta alle femmine. I diritti che gl'imperatori fecero in appresso valere sul ducato di Milano, come ricaduto alla diretta dell'impero per l'estinzione della linea Visconti, non erano più legittimi degli altri, perchè Milano, avanti la fondazione del ducato, ed anche prima della grandezza della casa Visconti, era uno stato libero sebbene membro dell'impero, nè mai aveva appartenuto all'imperatore. La corona ducale poteva ritornare a quello che l'aveva accordata, ma la sovranità non doveva uscire dalle mani dei Lombardi, di cui questi duchi non erano che i mandatarj. I diritti d'Alfonso V, re d'Arragona e di Napoli, appoggiati ad un vero o supposto testamento di Filippo Maria a suo favore, erano egualmente invalidi, perchè al duca di Milano non era mai stato accordato di disporre per testamento del governo dei suoi popoli. Finalmente i diritti di Francesco Sforza, come sposo dell'unica figlia dell'ultimo sovrano, in un paese in cui le figlie non erano mai succedute, dipendeva totalmente dall'assenso del popolo. Se gli amici dei Visconti, se i nobili ghibellini, che avevano voluto dare e conservare un capo al loro partito, credevano che l'educazione di Bianca fra di loro, che la di lei successione ai beni patrimoniali, che il reciproco affetto fra di lei ed i servitori di suo padre, loro assicurassero la sua persistenza e quella del suo sposo nelle massime del governo di cui essi avevano cercata la guarenzia, erano padroni di considerare Francesco Sforza, dopo il suo matrimonio con Bianca, come il rappresentante d'una famiglia, cui essi avevano consacrate le loro spade e le loro sostanze. Era in conseguenza di questo stesso diritto ch'essi renduto avevano a Filippo Maria quell'ubbidienza che ritirata avevano a Giovan Maria suo fratello, che precedentemente avevano sostituito Giovan Galeazzo a Barnabò ed ai suoi figliuoli, e che più anticamente scelto avevano a vicenda Azzo, Lucchino e Giovan Visconti, senza giammai attenersi alla diretta linea di successione. Ma se Bianca non portava allo sposo l'affetto d'una fazione, e l'attaccamento della maggiorità della nazione, non aveva verun diritto legale da far valere. La sola repubblica milanese avea giustissimo titolo per riclamare la sua sovranità. Non solo quando spontaneamente si era assoggettato alla signoria de' Visconti non aveva acconsentito che la sovranità passasse ad un'altra famiglia, ma non aveva pure riconosciuta altra eredità nella famiglia Visconti, che quella ch'essa sanzionava co' suoi suffragi in ogni cambiamento di regno. Una deliberazione dei consiglj aveva sempre deferiti ad ogni Visconti, l'uno dopo l'altro, il titolo ed i diritti di perpetuo signore di Milano; e quand'anche questa deliberazione fosse stata più volte estorta colla forza, non pertanto questa sola dava al titolo di signore qualche apparenza di legalità.
Ma quando venne a morte Filippo Maria, i Milanesi erano ben lontani dai cercare un nuovo capo di parte, e dal sottomettersi a nuovi signori. Avevano provate tutte le disgrazie che la tirannide di ambiziosi padroni può chiamare sopra un popolo, ed accusavano dolendosene la memoria de' loro antenati, che, sedotti dalle pratiche dell'arcivescovo Ottone, avevano acconsentito che la di lui famiglia riducesse la patria in servitù[280]. Si era loro tenuta segreta la malattia di Filippo Maria. Questo principe, che si era sempre renduto invisibile ai suo popolo, e che non aveva mai accordate agli ambasciatori stranieri che udienze assai rare, aveva languito otto giorni per una dissenteria, cui dovette finalmente soggiacere, senza che alcuno, in fuori de' suoi più intimi familiari, avesse soltanto sospettato che avesse qualche indisposizione di salute. Il consiglio di Milano volentieri avrebbe ancora lungo tempo nascosto quest'avvenimento, onde non accrescere il coraggio o dei nemici che di già si trovavano alle porte della città, o delle diverse fazioni pronte a scoppiare. Ma l'ambizione ed un antico spirito di parte avevano fatto abbracciare queste determinazioni a questi consiglieri troppo egoisti per pensare ai diritti della loro patria. L'antica rivalità delle scuole militari di Sforza e di Braccio dividevano il consiglio. Francesco Landriano e Broccardo Persico, addetti alla milizia di Braccio, volevano far passare al re di Napoli la sovranità della Lombardia. Alfonso, essi dicevano, era il più ricco ed il più potente principe d'Italia, egli era stato con lunga alleanza unito a Filippo Maria, e ne aveva ricevuti beneficj che non aveva dimenticati; onde trasporterebbe ai consiglieri del duca la propria riconoscenza. Dall'altro canto Andrea Birago cogli amici dello Sforza, e coloro che avevano servito nella di lui milizia, facevano valere i legami del sangue che univano alla casa Visconti il conte Francesco, le promesse dell'ultimo duca, e la naturale successione di una figlia a suo padre[281].
La vinsero i partigiani d'Alfonso, i quali pretesero di eseguire in tal modo la volontà manifestata da Filippo Maria negli ultimi istanti di vita, e consegnarono la cittadella ed il castello a Raimondo Boile, luogotenente del re, che di fresco era giunto dalla Puglia con una piccola armata ausiliaria. Le insegne arragonesi, che si videro spiegate sul castello del duca, indicarono ai Milanesi la morte del loro sovrano, e la rivoluzione che pretendeva di fare un consiglio di ministri; ed i capi del partito popolare furono avvisati di prendersi cura della libertà del loro paese.
Quattro cittadini egualmente distinti per nascita, per ricchezze, per talenti, e pel loro zelo per il ben pubblico, Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnani ed Innocenzo Cotta, si adunarono per provvedere alla libertà della loro patria, giurando di non permettere che ricadesse in servitù. Allo spuntare del giorno tutta la città fu informata della morte del Visconti, tutte le botteghe si tennero chiuse, si barricarono le strade con catene, e quelle che conducevano al castello vennero tagliate con profonde fosse. Trivulzio, Bossi, Lampugnani e Cotta si divisero i quartieri della città, fecero adunare il popolo alle sei porte, e furono da ogni porta nominati quattro deputati. Un supremo consiglio formato da queste sei deputazioni doveva rappresentare la repubblica, ed essere rinnovato ogni due mesi, come la signoria di Firenze; i quattro promotori della rivoluzione vennero nominati i primi a questa nuova magistratura. Nello stesso tempo Raimondo Boile, cogli antichi consiglieri del duca, aveva chiamati in castello tutti i condottieri che trovavansi allora in città, cioè Guido Antonio Manfredi di Faenza, Carlo Gonzaga, Luigi del Verme, Guido Torello ed i fratelli Sanseverino, e gli aveva tutti persuasi a giurare ubbidienza ad Alfonso: ma appena furono usciti di castello, che, strascinati dal movimento popolare, riconobbero il nuovo governo, e si posero al soldo della repubblica, che veniva allora costituita[282].
Questa nuova magistratura aveva permesso che l'ultimo duca si portasse al sepolcro colle consuete cerimonie; e la marcia del corteggio non venne sturbata da verun popolare movimento; ma si agitavano in allora così grandi interessi, timori così vivi, così variate speranze, notizie così contraddittorie succedevansi con tanta rapidità, che i cittadini, dopo essersi uniti alla pompa funebre, l'abbandonarono successivamente, e gli stessi preti se ne allontanarono, onde a stento si potè portare il corpo di Filippo fino al sepolcro che gli era stato destinato, dietro all'altar maggiore della cattedrale[283].
Il primo affare che doveva trattarsi dal nuovo governo doveva essere l'acquisto delle cittadelle, perchè i soldati forestieri che le occupavano potevano essere tentati di venderle ai Veneziani, ed aprir loro in tal modo la città. Gli equipaggi di Raimondo Boile vennero abbandonati al popolo per punirlo d'avere occupato il castello. I soldati, spaventati da quest'esecuzione, divisi da molte centinaja di miglia dalle armate del re di Napoli, e non avendo fatto alcun apparecchio per sostenere un assedio, aprirono le porte quasi subito dopo. Quelli del castello di porta Zobia pareva che si disponessero a fare maggiore resistenza; ma perchè non formavano in tutto che tre compagnie, ascoltarono proposizioni di accomodamento. Venne loro permesso di dividersi diciassette mila fiorini rimasti nella cassetta del principe, ed a tale condizione consegnarono il castello. All'istante queste due formidabili fortezze furono atterrate dal popolo, ed il grosso de' cittadini più non abbandonò il lavoro, finchè non furono uguagliate al suolo.
Ne' precedenti mesi, ad istanza di Niccolò V, nuovo papa, erasi cominciato a trattare di pace. Si era aperto un congresso a Ferrara sotto la presidenza del marchese Lionello, e di un legato del papa; gli ambasciatori de' Veneziani, dei Fiorentini e del duca di Milano, che trattavano ancora per parte di Alfonso, vi si erano di già recati. Le varie proposizioni, o di una tregua fondata sullo stato attuale di possedimenti, o di una pace con reciproca restituzione, erano state discusse, indi lasciate alla scelta di Filippo Maria, e l'opera del congresso poteva in qualche modo risguardarsi come terminata[284]. I magistrati della nuova repubblica di Milano, che bramavano di essere in pace con tutti, dichiararono che volevano proseguire la negoziazione, e che accetterebbero le condizioni convenute col loro duca: ma i Veneziani, che vedevano affacciarsi alla loro cupidigia nuove conquiste, rigettarono quest'offerta quasi con derisione. Prima di restituire ai Milanesi gli stati che avevano appartenuti a Filippo Maria, chiesero il pagamento di tutte le spese della guerra, e di tutti i danni loro dalla medesima cagionati[285]. Ruppero così ogni trattato, e ritiraronsi dal congresso, ad altro più non pensando che a dividersi le spoglie dell'ultimo Visconti[286].
Il doge Francesco Foscari, uomo ambizioso, che amava la guerra, e che lusingatasi d'illustrare il suo regno colle conquiste, trovavasi in allora dominante nei consiglj di Venezia. Egli strascinò la repubblica a tener dietro a progetti d'aggrandimento, che parevano favoriti dalle circostanze. Per altro ella sagrificò le sue antiche massime di giustizia e di libertà ad una falsa politica. I Veneziani non dovevano supporre che gli altri stati d'Italia, nè gli stessi loro alleati gli acconsentissero giammai di soggiogare la Lombardia. Ostinandosi a combattere, senz'esserne provocati, la repubblica di Milano, la spinsero sotto il giogo dello Sforza, si procurarono un più pericoloso vicino che non lo erano i Visconti, e per un necessario concatenamento, furono la prima cagione delle guerre de' Francesi e de' Tedeschi alla fine del secolo pel possedimento dello stato Milanese; mentre che se tre potenti repubbliche, Milano, Venezia e Firenze, si fossero divisa l'Italia superiore, e ne avessero mantenuto l'equilibrio, questa contrada, assai più forte e più ricca sotto una paterna amministrazione, non sarebbe mai più diventata preda dagli stranieri.
Il governo di Milano, in guerra con Venezia, incerto rispetto ai suoi rapporti con Firenze ed alla condotta che terrebbe il conte Sforza, non era neppure succeduto a tutta la potenza che aveva esercitata l'ultimo Visconti. In tutto il ducato un'eguale oppressione aveva fatto nascere un eguale desiderio di libertà; in tutte le città era stato proclamato il nome di repubblica, ma in quasi tutte l'amore dell'indipendenza nazionale pareggiava per lo meno l'amore della libertà politica. Il giogo dei Milanesi detestavasi quanto quello dei Visconti, ed ogni città, ch'era stata repubblica, voleva esserlo ancora. Pavia aveva lungo tempo conteso a Milano il primo rango tra le città lombarde; era stata la favorita residenza di Giovanni Galeazzo, il più grande dei Visconti; il suo orgoglio fortificava il suo amore per l'indipendenza, ed ella era determinata di tutto soffrire, piuttosto che di ubbidire ai Milanesi. Il popolo di Pavia nominò i suoi magistrati, si costituì in repubblica, ed intraprese subito l'assedio della fortezza che signoreggiava la città. Una parte del tesoro del duca e delle munizioni di guerra era stata deposta in questa fortezza, ma Matteo Bolognini, che ne aveva il comando, rispinse con ostinazione tutti gli sforzi degli assalitori. Le città di Como, Alessandria e Novara, ch'erano attaccate ai Milanesi più per affetto che per ubbidienza, dichiararono di seguire la sorte della nuova repubblica; ma Lodi, che pei suoi rapporti di commercio, e per la maggioranza della fazione Guelfa, era unita ai Veneziani, rispinse i due Piccinini, e li costrinse a rifugiarsi a Pizzighettone, dopo di che la città mandò a chiedere a Michele Attendolo una guarnigione veneziana, ch'entrò il 16 agosto, cinque giorni dopo la morte del duca[287]. Il castello di san Colombano, posto tra Lodi e Pavia, si unì pure volontariamente ai Veneziani. Piacenza trovavasi divisa in quattro fazioni, dirette da quattro potenti famiglie. Quella degli Anguissola era la sola affezionata ai Ghibellini, e le tre altre, riunite dal medesimo amore per la parte Guelfa, si decisero all'ultimo, per metter fine alla lite, a sottomettersi ai Veneziani. Taddeo d'Este, uno de' generali di Venezia, prese possesso di Piacenza il 20 d'agosto con mille cinquecento cavalli, ed in pochi giorni sottomise ancora tutto il suo territorio[288]. Parma e Tortona si eressero in repubbliche; Asti aprì le sue porte a Rinaldo di Dresnay, che ne prese possesso a nome di Carlo, duca d'Orleans, in conseguenza dei trattati cominciati pochi mesi prima tra Filippo e Carlo VII, e come dote di Valentina Visconti. In tutte le città si videro rientrare gli esiliati ed i proscritti, e riprendere dovunque il possesso de' loro beni, che il fisco si era appropriati, o aveva venduti, cacciandone colla spada alla mano i nuovi proprietarj[289].
I capi della repubblica milanese, attaccati dai Veneziani, abbandonati dalla metà dei popoli ch'erano stati prima governati dal duca, e male ubbiditi dall'altra, qualunque volta volevano mantenere l'ordine, levare soldati e fare regolarmente pagare le imposte, minacciati dal re Alfonso, dai Savojardi e dai Francesi, che tutti annunciavano varie pretese sull'eredità dei Visconti, credettero di dover chiedere l'assistenza di Francesco Sforza, per non dover contare tra i suoi nemici anche questo condottiere. Lo Sforza aveva di già condotta la sua armata ai confini per soccorrere il principe di cui essi erano rimasti i rappresentanti, e quest'armata formava l'unica loro speranza. Scaramuccio Balbo offrì a questo grande capitano, in nome della repubblica milanese, di mantenere il trattato che con lui aveva fatto il Visconti, continuandogli pure il medesimo pagamento e le condizioni medesime per combattere gli stessi nemici e difendere lo stesso paese. Bentosto Antonio Trivulzio si recò presso al generale, ed aggiunse a tali offerte, la cessione dei diritti dei Milanesi sopra Brescia, o sopra Verona, se riusciva allo Sforza di togliere ai Veneziani l'una o l'altra di queste città. Lo Sforza, che erasi avanzato fino a Cremona per vedere quale partito potesse tirare dalle turbolenze della Lombardia, accettò senza difficoltà le offerte condizioni, sebbene gli paresse dura cosa il dover ubbidire a coloro cui aveva sperato di comandare. Apparecchiossi dunque alla guerra, ma senza deporre la speranza di costringere un giorno i Milanesi a riconoscere un'autorità, che per ora abbassavasi innanzi alla loro[290].
Il primo servigio che rese alla repubblica, dalla quale riceveva il soldo, fu d'intimidire i Parmigiani, avanzandosi fin sotto le loro mura. Questi per evitare le ostilità si obbligarono a seguire senza eccezione la sorte di Milano, ed a riconoscere sempre gli stessi amici e nemici[291]. Lo Sforza rinnovò in appresso la sua alleanza con Rinaldo Palavicini, che gli accordò un libero commercio ne' suoi feudi. Trovò a Cremona mille cinquecento cavalieri di Guid'Antonio Manfredi, ch'erano stati scacciati dal Lodigiano dai Veneziani, e ch'egli riunì sotto le sue insegne. Recandosi quindi con una piccola scorta a Pizzighettone, presso ai due Piccinini, si guadagnò il loro affetto con questa prova di confidenza; li trovò disanimati nella universale rivoluzione, e disposti a trattare coi Veneziani, che di già gl'invitavano a dividere le future loro conquiste, offrendo loro in ricompensa della loro defezione, Cremona in sovranità al primogenito, Crema al secondo. Lo Sforza seppe così destramente maneggiarli, che malgrado l'antica rivalità tra le due scuole militari, e malgrado le vicendevoli loro offese, li persuase a restare ancor essi attaccati alla repubblica milanese, ed a rinnovare con Luigi Bossi e Pietro Cotta, deputati della repubblica, il trattato che avevano fatto col duca[292]. Lo Sforza passò in appresso l'Adda con Francesco Piccinino, il 30 di settembre, ed entrò nel territorio di Lodi. Il generale veneziano Michele Attendolo, suo parente, che si era indebolito per le molte guarnigioni ch'era stato obbligato di staccare dalla sua armata, e per la vasta estensione del paese che occupava, non si trovò in istato di fargli testa, e lasciò che assediasse il castello di san Colombano, che si arrese il 15 dello stesso mese[293].
I Veneziani, disperdendo le loro forze, avevano perduta quella superiorità che conservata avevano fino a tale epoca sopra Filippo dopo la battaglia di Casale, e la moltiplicità delle conquiste ebbe per loro quasi le conseguenze di una disfatta. Per rifare la loro armata, radunarono quanto fu possibile di gente con nuove leve in Bergamo ed in Brescia; dall'altro canto i Milanesi erano stati abbandonati da diversi loro condottieri, tra gli altri da Alberto Pio, signore di Carpi, il quale, saccheggiati il palazzo del duca ed i castelli che trovaronsi a lui più vicini, passò, carico di preda, al proprio paese[294]. Per altro lo Sforza fece un ragguardevole acquisto, prendendo al soldo de' Milanesi Bartolomeo Coleoni di Bergamo, che, dopo essersi fatto qualche nome, era stato nel precedente anno arrestato per ordine di Filippo Maria, e chiuso nelle prigioni di Monza. Il Coleoni trovò modo di fuggire, quando la morte del duca rese il suo custode meno rigoroso; ed i suoi antichi soldati, accantonati a Landriano, avendolo riconosciuto in tempo della sua fuga, si erano nuovamente adunati sotto le sue insegne. Lo Sforza richiamollo da Pavia, ov'erasi rifugiato, per incorporarlo all'armata milanese[295].
Tutti i principi che avevano qualche diritto all'eredità del Visconti, o soltanto desiderio di approfittare della rivoluzione accaduta ne' suoi stati, eransi sforzati di guadagnare a prezzo d'oro partigiani nelle diverse città della Lombardia. Quella di Pavia, assai più bramosa di sottrarsi al dominio dei Milanesi che non di conservare la sua libertà, trovavasi in allora divisa in più fazioni. Vi si contavano i partigiani di Carlo VII, re di Francia, del Delfino suo figlio di que' tempi in guerra col padre, di Luigi, duca di Savoja, di Giovanni, marchese di Monferrato, e di Lionello, marchese d'Este. Tutti gli abitanti convenivano che per non soggiacere ai Milanesi era d'uopo darsi un padrone straniero; ma se l'interesse, la corruzione, l'egoismo rendevano i loro consiglj unanimi in questa assurda determinazione, i medesimi motivi dividevano i loro suffragi intorno alla scelta del principe. In mezzo a tali pratiche, Francesco Sforza non perdeva di vista questa città, ed uno de' suoi agenti, chiamato Sceva Curti, cercò di procurargli i voti dei Pavesi. Nello stesso tempo Agnese del Maino, madre di Bianca Visconti, ch'erasi rifugiata nella fortezza di Pavia, cercò di guadagnare al genero Matteo Bolognini, che ne aveva il comando. Quest'ufficiale aveva altre volte militato sotto le insegne di Braccio, onde contavasi tra i nemici del suo rivale; ma Agnese seppe lusingare la di lui vanità, promettendogli di farlo adottare nella famiglia dello Sforza, e di ottenergli il titolo di conte di sant'Angelo, e la sovranità di quel castello dove il Bolognini era nato. In conseguenza di questo duplice trattato arrivarono al campo sforzesco otto deputati del senato di Pavia nell'istante medesimo in cui Francesco rispingeva vigorosamente un attacco di Michele Attendolo, diretto a liberare san Colombano; essi gli offrirono la sovranità del loro stato, trasmissibile ai suoi discendenti, col titolo di conte di Pavia, e gli chiesero la conferma di privilegi che il nuovo principe accordò in sull'istante. Lo Sforza accolse con gioja tale proposizione; la cittadella gli fu data in pari tempo che la città, ed egli si recò con magnifico corteggio alla chiesa di san Siro, per rendere grazie a Dio di così fausto avvenimento[296].
I Milanesi avevano avuto sentore di questo trattato, ed avevano inutilmente cercato di stornarlo, rappresentando allo Sforza che la sua convenzione colla città di Milano l'obbligava a conservarle tutti gli stati che appartenevano al precedente duca. Rispose il generale, che se avesse esitato ad accettare le offerte fattegli da Pavia, questa città sarebbesi data nelle mani di qualcuno de' potenti sovrani che se ne disputavano l'acquisto. Soggiugneva di non avere alcun mezzo di ridurla colla forza, e tornare meglio ai Milanesi che ella si fosse volontariamente sottomessa ad un amico e ad un alleato, che unita coi loro avversarj. Nello stesso tempo per acquietarli fece loro la cessione di san Colombano che aveva allora conquistato. Per altro i suoi ambiziosi progetti cominciavano allora a manifestarsi scopertamente: ma i Milanesi, che avevano creduto d'impiegarlo, sebbene di lui diffidassero, non vollero alienarlo col mostrargli che la loro diffidenza andava crescendo, poichè durava tuttavia il bisogno della sua assistenza. Dall'altra parte lo Sforza, ponendo di guarnigione le proprie truppe ne'castelli del territorio pavese, ordinò di non molestare quelli di cui eransi di già impadroniti i Milanesi o il duca di Savoja nella Lomellina, e di mantenersi possibilmente in pace con quest'ultimo vicino. Fece inoltre armare a proprie spese, a Pavia, quattro galeoni che mandò giù per Po per attaccare Piacenza, onde guadagnarsi in tal modo la benevolenza della signoria di Milano[297].
Quand'ebbe avviso dell'occupazione di Pavia, il governo di Milano mandò nuovamente a chiedere la pace ai Veneziani, loro offrendo vantaggiosissime condizioni, ma di nuovo le sue proposizioni vennero rigettate con imprudente arroganza. Lo stato dei duchi di Milano sembrava in allora abbandonato al sacco; tutti i suoi vicini volevano arricchirsi colle spoglie di colui che gli aveva così lungo tempo fatti tremare. Lionello, marchese d'Este, si era impadronito di Castel nuovo e di Cupriaco, ed i san Vitali che gli erano ligi, tenevano in Parma segrete pratiche per fargli aprire le porte della città. I Correggi avevano occupato Bressello, i Genovesi, lungo tempo lacerati da intestine fazioni che loro avevano fatto perdere ogni influenza sul rimanente dell'Italia, si erano opportunamente riuniti sotto il nuovo doge, Giano di Campo Fregoso, per occupare Voltaggio, Novi e molti castelli, e per minacciare Tortona. Il duca Luigi di Savoja, figliuolo dell'antipapa Felice V, sollecitava le borgate dei territorj di Alessandria, Novara e Pavia ad aprirgli le porte, offrendo loro per ricompensa la minorazione delle imposte, ed anche una totale esenzione. Giovanni, marchese di Monferrato, poneva in opera gli stessi allettamenti ai confini de' proprj stati; ma un più formidabile attacco di tutti gli altri era quello di Rinaldo di Dresnay, governatore d'Asti pel duca d'Orleans, che invadeva i confini del Milanese, in nome del suo padrone, con un'armata francese.
Carlo d'Orleans era figliuolo di Valentina Visconti, maggiore sorella dell'ultimo duca. Se il ducato di Milano fosse stato ereditario per linea femminile, se il loro diritto di successione fosse stato in Italia riconosciuto per le sovranità fondate dalle città, Carlo sarebbe in fatti stato il naturale erede di Filippo: ma la sua pretesa non si accordava nè colle leggi dello stato, nè colla pubblica opinione[298]. Per altro aveva a suo favore l'antica alleanza dei Guelfi colla casa di Francia, e la potenza del re Carlo VII. Asti, offerto ai Francesi da Filippo Maria, dopo la rotta di Casalmaggiore, per ottenere soccorsi a tale prezzo, era stato dato a de Dresnay il giorno precedente alla morte del duca, forse dietro un ordine carpito alla sua debolezza, quand'era già oppresso dalla malattia[299]. Questo luogotenente del duca d'Orleans aveva approfittato della posizione di Asti alle porte della Lombardia, per adunarvi tre mila cavalli chiamati dal Lionese e dal Delfinato, e per attaccare in appresso il territorio d'Alessandria. Molte fortezze di questa provincia, e lo stesso sobborgo di Bergoglio al di là del Tanaro erano di già venuti in suo potere. I Milanesi avevano gettato in quella città un migliajo di cavalli, aspettando che l'inverno scoraggiasse i Francesi prima di attaccarli[300].
Frattanto Francesco Sforza, che segretamente aveva accettato l'omaggio di Tortona, intimò a de Dresnay di rispettare il territorio di questa città e di quella di Pavia che a lui appartenevano. Dichiarò di essere determinato a difendere i suoi nuovi stati contro qualunque attacco; ma che non poteva ridursi a credere che la corte di Francia avesse intenzione di spogliare un generale, che aveva in sull'esempio di suo padre combattuto trent'anni per la casa d'Angiò, e perduti per cagion sua tutti i proprj stati nella Puglia e nella Marca d'Ancona[301].
In tal maniera lo Sforza evitò di misurarsi coi Francesi, lasciando che s'indebolissero nell'assedio di Bosco, castello vicino ad Alessandria, che loro aveva chiuse le porte, mentre egli andava gagliardamente stringendo l'assedio di Piacenza. Ma quando Bosco, dopo una lunga resistenza si vide vicino a dover capitolare, i Milanesi mandarono Bartolomeo Coleoni ed Astorre Manfredi, figliuolo di Guid'Antonio, a soccorrere la fortezza con circa mille cinquecento cavalli. Un corpo press'a poco della medesima forza era uscito d'Alessandria, sotto il comando di Giovanni Trotti, e di concerto furono addosso ai Francesi l'undici ottobre sboccando da diverse strade, mentre ancora la guarnigione di Bosco faceva una sortita. Dal canto loro i Francesi, costretti a dividersi per tener testa ai loro nemici, rovesciarono il corpo del Trotti, inseguendo senza dar quartiere i suoi soldati, ed uccidendo, invece di far prigioni, coloro che si arrendevano. Contaronsi quattrocento morti sul campo, locchè, per corpi così piccoli, e quando le guerre si trattavano quasi sempre senza spargere sangue, parve una spaventosa carnificina ed un disastro senza esempio. Ma intanto il Coleoni ed Astorre Manfredi avevano attaccata l'ala comandata in persona da de Dresnay; l'avevano rotta e spinta fino ne' suoi trinceramenti, e costretta a deporre le armi, rimanendo de Dresnay prigioniero con tutti i suoi soldati. Quando i prigionieri entrarono in Alessandria, trovarono tutta la città desolata per la disfatta del battaglione di Trotti. Estremo era il desiderio della vendetta contro barbari, che, calpestando le leggi della guerra, non avevano voluto dar quartiere; furono strappati dalle mani dei vincitori i prigionieri di Coleoni e di Manfredi, e quasi tutti uccisi[302].
Lo Sforza, ch'erasi tenuto lontano dai Francesi, apparecchiavasi in questo tempo a riconquistare Piacenza. Aveva da prima inutilmente tentato di venire a battaglia con Michele Attendolo, generale dei Veneziani, e credette di ridurlo ad accettarla, intraprendendo un assedio di tanta importanza. Piacenza era, dopo Milano, la più grande città di Lombardia; grosse erano le sue mura, fiancheggiate di torri, circondate da doppia fossa ed afforzate di tratto in tratto da balovardi innalzati di fresco. La guarnigione consisteva in due mila uomini di cavalleria, ed in altrettanti fanti, oltre sei mila cittadini che avevano prese le armi. e la di cui fedeltà era guarantita dal loro odio contro i Milanesi e dal timore di essere severamente puniti. Lo Sforza, come genero e rappresentante del Visconti, aveva, gli è vero, moltissimi partigiani nel corpo della nobiltà, tra i quali gli Anguissola, i Landi, gli Araceli colla fazione ghibellina; ma questi eransi quasi tutti ritirati in campagna ne' loro feudi[303]. L'armata con cui questo generale attaccò così grande città non era molto più numerosa di quella che la difendeva. Le piogge dell'autunno, che avevano di già cominciato, rendevano più difficili le operazioni dell'assedio; altronde a Venezia si armavano dei galeoni, per farli rimontare il fiume e portare soccorsi a Piacenza.
L'assedio di una città a que' tempi facevasi principalmente consistere nel privarla di ogni comunicazione colla campagna; e perchè Piacenza aveva quattro porte, lo Sforza divise la sua armata in quattro corpi, collocandone uno ad ogni uscita in ridotti ben fortificati, e si limitò a colmare i fossi in tutto lo spazio che separava un ridotto dall'altro, e ad appianare il terreno, onde questi corpi staccati potessero facilmente comunicare tra di loro. Al di sotto della città fece ancorare in mezzo al fiume i quattro galeoni equipaggiati a Pavia, i quali sventarono il progetto che aveva Michele Attendolo di far giugnere rinforzi a Taddeo d'Este, che comandava in Piacenza, opponendo una vigorosa resistenza all'attacco de' Veneziani.
Di que' tempi l'uso dell'artiglieria non era meno conosciuto dell'arte d'attaccare una piazza; d'ordinario veniva diretta contro le file nemiche piuttosto che contro le mura; pure lo Sforza fece battere con tre delle sue più grosse bombarde la torre sostituita all'antica porta Cornelia, e la cortina che comunicava colla vicina torre. Per più di trenta giorni continuò a battere in breccia il muro e le due torri, ed ognuna di queste bombarde faceva ogni notte perfino sessanta colpi, lo che in allora risguardavasi come cosa affatto prodigiosa[304].
Michele Attendolo non aveva nulla ommesso in questo tempo per fare una potente diversione: spinse le sue bande ne' territorj di Milano e di Pavia, ove facevano orribili guasti, sperando che le lagnanze di queste due città obbligherebbero il conte Francesco a recarsi in loro soccorso. Non potendo con ciò smuoverlo, andò ad assediare san Colombano; perlocchè lo Sforza fece gettare un ponte di battelli sul Po, al di sotto di Piacenza, onde agevolarsi il modo di sorprendere improvvisamente l'armata di Attendolo, quale si vide perciò costretto a ritirarsi. Lo Sforza teneva eccellenti spie, che lo avvisavano fedelmente de' movimenti del nemico, spesso ancora de' suoi progetti, onde trovavasi sempre apparecchiato ad impedirli[305].
Le due torri, e la cortina che le univa, erano state finalmente rovesciate dai replicati colpi delle bombarde; ed i rottami delle torri, cadendo nelle fosse, le avevano in parte colmate, e resa la breccia praticabile; onde lo Sforza risolse di dare l'assalto il giorno 16 di novembre. Affidò la direzione della sua flotta a Carlo Gonzaga; e perchè le piogge avevano gonfiate le acque del Po e della Trebbia, i galeoni accostaronsi alle mura presso la fontana d'Augusto o Forusta che serve di porto a Piacenza. Manfredi e Luigi del Verme furono incaricati d'attaccare le mura tra porta san Raimondo e porta Sublata; lo Sforza per approfittare dell'emulazione tra le sue truppe e quelle di Braccio, unì i suoi soldati a quelli dei fratelli Piccinino, ed unitamente a loro si propose di montare la breccia[306].
Lo Sforza si era riservati tutti i suoi più vecchi corazzieri, e tutti quelli che credeva meno agili per aspettare in vicinanza della breccia l'istante in cui potrebbero attaccare, o respingere una sortita. I più giovani e più lesti erano scesi di sella e marciavano alla testa degli assalitori. Oltre le due fosse esterne che coprivano il muro, e ch'erano state quasi colmate dai rottami delle torri, Taddeo d'Este, comandante della piazza e Gherardo Dandolo, provveditore veneziano, ne avevano fatta scavare un'altra. Gli assalitori, trattenuti da quest'ostacolo, ebbero ordine di portarvi tutti una fascina; ma n'erano tenuti lontani da una tempesta di pietre e di palle, e pochi poterono avanzarsi fino alla fossa col loro carico.
Per altro una grondaja fatta il giorno prima per mettere al coperto i lavoratori, e che non era stata atterrata, forse perchè il lavoro che copriva non era per anco ultimato, formava quasi una specie di ponte, sul quale avrebbero potuto passare due uomini di fronte al di là del fosso; ma questo ponte veniva difeso dai più valorosi tra gli assediati, ed un angolo del muro copriva gli archibugieri, che lo scopavano coi loro colpi; già da lungo tempo si combatteva presso questo ponte, e lo Sforza, che trovavasi assai vicino, ebbe un cavallo ucciso sotto di lui da una colombrina; i suoi soldati, vedutolo cadere, lo credettero morto, e cominciavano a dare a dietro; ma lo Sforza ricomparve subito sopra un altro cavallo e li rincorò. Nello stesso tempo fece appuntare un cannone contro l'angolo della muraglia che copriva gli archibugieri, ed essendo stato rovesciato al primo colpo e schiacciati molti de' suoi difensori, gli assalitori approfittarono di quest'istante di spavento per precipitarsi a traverso al ponte, munire il parapetto ed estendersi dai due lati della breccia nella strada coperta che si prolungava lungo le mura; in breve giunsero alla porta di san Lazzaro che fecero aprire. Lo Sforza vi entrò a cavallo in testa ai suoi corazzieri, e Taddeo d'Este, Gherardo Dandolo ed Alberto Scotto, vedendo la città perduta, ritiraronsi colla guarnigione nella cittadella, che non fece lunga resistenza. I cittadini, scoraggiati dalla loro ritirata, abbandonarono la difesa delle mura, e due ore avanti sera, la città fu in ogni lato aperta ai vincitori[307].
Nello stato in cui trovavasi allora l'arte militare, la presa d'assalto di così grande città era un avvenimento affatto straordinario. Non erasi mai creduto che fortissime mura potessero venire scosse e rovesciate dal cannone, che si potessero superare le fosse in faccia ai difensori, e per ultimo che un'armata potesse essere forzata a combattere, non solo in una città, ma ne' semplici trinceramenti d'un campo. Quando rammentiamo l'infelice situazione cui videsi ridotto lo Sforza nel precedente anno per non essersi trovato a portata di forzare le porte del più piccolo castello, ci figuriamo quale dovette essere il di lui trionfo per essere entrato per la breccia in una città, che per estensione e forza di mura era tenuta la seconda di Lombardia. Ma questo memorabile avvenimento, che atterrì l'Italia, mostra sotto un aspetto assai odioso quelle leggi di guerra di cui gl'Italiani vantavano l'umanità. Mentre il mestiere del soldato omai altro non era che un giuoco, nel quale appena si esponeva la vita, i cittadini nelle loro disfatte rimanevano esposti alle più terribili calamità. Piacenza fu abbandonata al sacco, e non solo vennero spogliate tutte le case, ma inoltre si permise ai soldati di strappare ai proprietarj con isquisiti tormenti il segreto de' nascosti tesori, di oltraggiare le mogli e le figlie dei vinti, di ridurre in ischiavitù dieci mila cittadini, e di venderli al migliore offerente; per ultimo d'impiegare i quaranta giorni che l'armata passò in Piacenza a spogliare le case de' loro mobili, de' loro ferramenti e de' loro legnami, per caricarli sul Po, e venderli nelle vicine città. Così fu posto il colmo alla ruina di questa grande città, la quale dopo tanto disastro non potè mai rialzarsi al rango che gli avevano fatto prima occupare la sua popolazione e le sue ricchezze[308].
Dopo avere spogliata Piacenza di tutto ciò che poteva meritare qualche prezzo, Francesco Sforza accordò alla sua armata i quartieri d'inverno, e venne egli stesso a Cremona in principio del seguente anno 1448 soltanto con due coorti. L'armata veneziana erasi accantonata tra l'Oglio, il Mincio e l'Adige, e la flotta di trentadue galeoni, che il senato veneto aveva fatta armare per liberare Piacenza, erasi ancorata in vicinanza di Casal Maggiore[309]. Un breve riposo teneva in sospeso le operazioni militari, mentre i maneggi e le negoziazioni si continuavano con grandissima attività. La stessa armata di Bartolomeo Coleoni, che aveva battuti i Francesi a Bosco, erasi avvicinata a Tortona, e l'aveva costretta a rimandare il comandante datole da Francesco Sforza, per riceverne un altro dal senato di Milano[310]. Francesco Sforza dissimulò il proprio risentimento: contro la fede del suo trattato coi Milanesi egli aveva accettato per sè medesimo il governo di Tortona, e con un atto di violenza glien'era stato levato il comando. Questi due avvenimenti contribuivano ad accrescere la vicendevole diffidenza; ma conveniva a questo generale il far uso del danaro e dei mezzi dei Milanesi per resistere ai Veneziani ed ai Francesi, che volevano avere l'eredità di Filippo Visconti; e conveniva egualmente al senato di Milano d'impiegare in sua difesa i talenti e l'armata del miglior generale d'Italia, sebbene avesse cagione di non fidarsi di lui.
La pace sarebbe stata preferibile ad una tanto sospetta alleanza. I Piccinini, sempre gelosi dello Sforza, tentarono di negoziarla coll'intervento del provveditore veneziano, Gherardo Dandolo, che tenevano prigioniere a Piacenza, e che lasciarono in libertà. Dopo queste prime aperture la città di Bergamo fu scelta per conferire tra le parti; il senato di Milano vi mandò Oldrardo Lampugnani, Giovanni Melzi, Ambrogio Alciati e Franchi Castiglione per trattare coi Veneziani[311]. Questi erano stati scoraggiati dalla perdita di Piacenza, ed acconsentirono a firmare preliminari che conservavano ad ogni potenza ciò che aveva acquistato durante la guerra. Ma questo trattato per avere forza di legge doveva a Milano passare nel consiglio degli ottocento; e Francesco Sforza, che vedeva da questo trattato ruinate tutte le sue speranze, approfittò della pubblicità che cominciava ad avere per renderlo sospetto.
Tra i fondatori della libertà milanese, si vedevano di già formarsi due fazioni. Il Trivulzio era dalle antiche sue alleanze addetto ai Guelfi, il Bossi ed il Lampugnani ai Ghibellini. Il primo vivamente bramava un trattato di pace, che proteggesse la repubblica sia contro il suo generale, sia contro i suoi nemici; gli altri, sedotti dalle insinuazioni dello Sforza, e dalle segrete sue pratiche, temevano l'antica alleanza de' Guelfi con Venezia, ed il credito che la pace darebbe ai loro avversarj. Essi rappresentarono tutto il pericolo di un trattato, che lascerebbe ai Veneziani Bergamo da una parte, e Lodi dall'altra, come pure la testa del ponte di Cassano, e molte altre fortezze sulla destra dell'Adda. Allora, dicevano essi, Milano rimarrebbe in balìa d'un senato ambizioso e perfido, che aveva più volte mostrato di prendersi così poca cura della pubblica fede. Numerosi agenti di Francesco Sforza andavano ripetendo fra il popolo, che vergognoso riusciva un tale trattato dopo la vittoria di Piacenza, e che una pace così poco sicura era peggiore della guerra. Il giorno che si adunò il consiglio degli ottocento per disaminare il trattato, tutta Porta Comasina, ossia la sesta parte della città, fu posta in movimento da Teodoro Bossi e da Giorgio Lampugnani, e gl'insorgenti protestarono con altissime grida contro la pace. Erasmo Trivulzio, atterrito, fu egli stesso forzato a rinunciarvi, ed il consiglio degli ottocento, che poteva salvare la Lombardia con un atto di moderazione, perdette la repubblica votando per la continuazione della guerra[312].
Per non somministrare nuovi argomenti a coloro che stavano per la pace, Francesco Sforza si astenne dal chiedere gli arretrati considerabili dovuti alla sua armata, e ciò poteva ben fare, dacchè i suoi soldati si erano arricchiti col sacco di Piacenza, mentre per lo contrario il tesoro di Milano trovavasi affatto esausto; ma varj altri condottieri non tardarono a rappresentare ai Milanesi tutte le difficoltà della presente loro situazione. Carlo Gonzaga ed Astorre Manfredi pretesero ambidue d'avere terminato il tempo del loro servigio, e ricusarono di contrarre nuovi impegni. Il primo si ritirò nel Mantovano, l'altro nello stato di Faenza, con tutti i loro soldati.
Importava a Francesco Sforza di confermare i Milanesi con altri prosperi avvenimenti nella presa decisione a favore della guerra. Egli adunò adunque il primo di maggio la sua armata tra Cremona e Pizzighettone, regalò a tutti i suoi soldati un fiorino del Reno e viveri per dieci giorni, e li condusse ad assediare i castelli che i Veneziani possedevano sulla destra riva dell'Adda. Treviglio, Cassano, Melzi e Rivalta Secca vennero in suo potere dopo pochi giorni d'assedio[313]; ai Veneziani più non restava tra l'Adda e Milano che Caravaggio[314] e Lodi, ed i Milanesi ardentemente desideravano che s'investisse quest'ultima città. Lo Sforza per lo contrario celatamente desiderava che non fosse tolta ai nemici, onde così tenere il senato ed il popolo di Milano in una continua agitazione. Alle istanze che gli si facevano perchè ne intraprendesse l'assedio, rispondeva che doveva pensare a porsi in istato di difesa contro la flotta veneziana, la quale era stata armata nel precedente anno ed era composta di trentadue galeoni. Andrea Quirini, che la comandava, aveva rimontato il Po da Casal maggiore a Cremona, ed attaccato il ponte di battelli che copriva questa città e la flotta milanese; queste erano state coraggiosamente difese da Bianca Visconti, rimasta in Cremona, e che in tale occasione erasi mostrata degna consorte di un eroe; ma era a temersi che il Quirini non rinnovasse l'attacco; e rotto una volta il ponte di battelli, restava il Po aperto ai Veneziani fino a Pavia, la flotta milanese era perduta, e tutta la Lombardia meridionale esposta al saccheggio, Francesco Sforza fece valere queste considerazioni in un consiglio di guerra da lui adunato, e propose di condurre a Cremona la sua armata[315]. I fratelli Piccinino stavano per la contraria opinione, dimostrando che un solo distaccamento sarebbe bastante per assicurare Cremona; che un'armata di terra non potrebbe mai sforzare una flotta a combattere nè meno sopra un fiume, di modo che il Quirini, volendolo, potrebbe tenere in iscacco lo Sforza per tutta la campagna, mentre sommamente importava ai Milanesi di approfittare della loro superiorità per mettere in sicuro il loro territorio. Fu dunque risoluto l'assedio di Lodi, e mandati intanto a Cremona Roberto di Sanseverino, e Manno Barile con un corpo di cavalleria. Si permise allo Sforza di prendere al servigio dei Milanesi Guglielmo, fratello del marchese di Monferrato, in sostituzione di Bartolomeo Coleoni, che aveva disertato il 15 giugno con mille cinquecento corazzieri, passando al servigio de' Veneziani[316].
La giusta diffidenza che i consigli di Milano concepita avevano dello Sforza gli avevano mossi ad esigere da questo generale, che aspettasse i loro ordini per le operazioni militari di qualche importanza; e lo Sforza, che cercava di addormentarli in una falsa sicurezza, aveva loro mostrata grandissima deferenza. Per altro i senatori milanesi mal conoscevano l'arte della guerra, e la lentezza dei loro ordini poteva riuscire fatale all'armata. Perciò quando in principio di luglio Michele Attendolo passò l'Oglio, e poscia l'Adda, lo Sforza, vedendolo avvicinarsi, chiese caldamente ed ottenne illimitati poteri[317].
Era sua intenzione di sorprendere in vicinanza di Cremona la flotta d'Andrea Quirini, ma questi, quando lo seppe vicino, si ritirò sotto Casal Maggiore, in quello stesso braccio del Po che la flotta veneziana aveva passato due anni prima, dando a Filippo una così compiuta disfatta. La flotta veneziana in questo luogo pareva coperta da un canto dalla stessa borgata di Casal Maggiore, che aveva grossa guarnigione, dall'altro dall'isola. Il Quirini aveva inoltre fortificato l'ingresso superiore del canale con palafitte e catene, di modo che questo bacino era diventato per i suoi vascelli come un campo trincerato. Ma di que' tempi i migliori generali non avevano per anco un'adequata idea della portata dell'artiglieria: i bombardieri dello Sforza conobbero che alle due estremità di Casal Maggiore potevano piantarsi due batterie, che offenderebbero tutta la flotta. Furono infatti piantate, e cominciarono bentosto a traforare i fianchi de' vascelli colle pietre e colle palle. Nello stesso tempo la flotta milanese, facendo il giro dell'isola, erasi posta, all'apertura inferiore del canale per chiuderlo ai Veneziani. Biaggio d'Assereto, quello stesso genovese che aveva ottenuta la memorabile vittoria di Ponza, aveva il comando di questa flotta. Nell'atto di eseguire il movimento ordinatogli dallo Sforza, gli rappresentò che i suoi vascelli erano troppo inferiori di grandezza e di numero a quelli del nemico, e che sarebbero bentosto schiacciati, quando il Quirini risolvesse di uscire. Ma lo Sforza fondava tutto il suo attacco sull'apparente pericolo cui esponevasi egli medesimo, pericolo che doveva impegnare i suoi avversarj ad aspettarlo, e sopra l'esatto calcolo del tempo che gli era necessario per venire a capo della sua intrapresa.
Michele Attendolo era stato richiamato dalla sua invasione nel milanese per l'impreveduta marcia dello Sforza; egli affrettavasi di ripassare l'Adda per soccorrere la flotta, ed in sul declinare del giorno, trovandosi a sette sole miglia di distanza, mandò un messo ad Andrea Quirini, esortandolo a conservare il suo posto malgrado il fuoco dell'artiglieria nemica; perciocchè lo Sforza sarebbesi trovato tra l'armata veneziana eguale di numero alla sua, il borgo di Casal Maggiore, ove si trovavano otto mila combattenti, e la flotta, onde non potrebbe sottrarsi alla sua distruzione. Quando nel campo dello Sforza si ebbe avviso dell'avvicinamento di Attendolo, tutti i suoi generali, ed in particolare i Piccinini, la di cui gelosia accresceva la diffidenza, lo pregarono a ritirarsi in tempo da così imminente pericolo. La stessa armata pareva atterrita; ma il solo Sforza, osando prevedere la condotta de' suoi nemici dietro la perfetta cognizione ch'egli aveva del carattere di Michele Attendolo e dei provveditori veneziani che lo accompagnavano, assicurò il suo consiglio di guerra che non azzarderebbero niente, e che i Veneziani non lo attaccherebbero durante la notte per essere affaticati da così lunga marcia; onde contro il comune parere non si mosse.
Poche ore prima Andrea Quirini avrebbe potuto uscire senza difficoltà dal canale, ma vi restò sotto il fuoco delle batterie per trattenere lo Sforza, e quando in appresso sentì la necessità di mettere la sua flotta in sicuro, non potè più porla in movimento, perchè i migliori vascelli erano disalberati, e traforati dalle palle, molti marinai e soldati erano stati uccisi, altri molti fuggiti sulle rive, e l'esempio de' primi scusando la viltà degli altri, in breve non rimasero che pochissime persone sulle navi. Lo Sforza, conosciuto avendo lo stato della flotta nemica, fece prendere due vascelli, che si lasciarono condurre fino ai suoi, senza opporre resistenza. Questo fatto, eseguito in sugli occhi dell'armata, le ritornò il coraggio; i soldati sforzeschi passarono allegramente la notte sotto le armi, desiderando il giorno per saccheggiare questa ricca flotta, che omai vedevano ridotta in loro potere. Dal canto suo il Quirini, dopo di avere invano chiamato in suo ajuto Michele Attendolo, ordinò la notte del 16 al 17 luglio a tutti coloro che restavano a bordo di scendere a Casal Maggiore; e non vedendo come poter salvare i suoi vascelli, perchè non venissero in mano del nemico, prese finalmente la risoluzione di bruciarli. Ne fece tagliare le gomene, sperando che dall'impeto della corrente sarebbero trasportati addosso alla flotta milanese, che in sullo spuntare dell'aurora avanzavasi per riconoscerlo, e che l'incendio si comunicherebbe ai vascelli nemici. Ma Biagio d'Assereto, dopo aver presi a rimorchio due galeoni veneziani, che non erano ancora danneggiati, si tirò da banda per lasciar passare i vascelli che bruciavano. Il Quirini, tornato a Venezia, fu chiamato in giudizio dagli avogadori del comune, e condannato a tre anni di carcere per non avere difesa meglio la flotta che gli era stata affidata[318].
Frattanto questo prospero avvenimento espose ben tosto l'armata dello Sforza al più grande pericolo. Stava ordinata in battaglia, apparecchiandosi a sostenere l'attacco di Michele da Cotignola, mentre che i vascelli dei Veneziani, abbandonati e di già in preda alle fiamme, scendevano lentamente a seconda dell'acqua lungo la sponda occupata dall'armata. I servitori dell'armata ed i contadini adunati nel campo, cercavano di raggiugnerli a nuoto o con piccoli battelli, onde spogliarli. Trentadue galeoni, due grandi galere, due più piccole, trentaquattro bastimenti da trasporto, in tutto settanta vascelli, carichi d'immensi apparecchi di macchine militari, di vittovaglie e di ricchezze d'ogni qualità, erano abbandonati al saccheggio. I soldati vedevano tornare i loro servitori carichi de' più preziosi effetti, e quasi niuno ebbe la costanza di resistere a così pericoloso allettamento, e malgrado le minacce, e le calde preghiere dello Sforza, deponevano le armi e si gettavano a nuoto per aver parte alla preda. Invano lo Sforza fece pubblicare a suono di tromba su gli stessi vascelli che punirebbe colla morte chiunque non raggiugnesse immediatamente le sue insegne; invano fece spargere la notizia dell'arrivo di Attendolo in faccia al campo; niente potè svellerli dalla preda. Finalmente impiegò tutti quegli uomini che volevano ubbidirgli ad appiccare il fuoco ai vascelli che ancora non bruciavano, e così accrescere dovunque l'incendio. I suoi soldati, scacciati dalle fiamme, si ritirarono allora presso alle loro insegne, ed egli stesso, dopo avere compiuta la distruzione di così formidabile flotta, non volle compromettere la sua vittoria attaccando Casal Maggiore, o aspettando Michele, e ritirossi in buon ordine fino a Torre de' Picci a metà strada di Cremona[319].
Dopo così grande avvenimento, lo Sforza contava di tentare la conquista dello stato di Brescia, la di cui proprietà venivagli assicurata dal suo trattato coi Milanesi; ma il senato, che conosceva palesemente le sue intenzioni di trarre in lungo la guerra, o di volgerla soltanto a suo profitto, rivocò i pieni poteri che gli aveva accordati, e gli ordinò di assediare Caravaggio[320]. Questa terra, posta nella Ghiaja d'Adda, a metà strada tra l'Adda e l'Oglio, era resa forte dalle sue mura, e dalla quantità de' canali che la circondavano. Era, dopo Lodi, la conquista de' Veneziani, che recava maggiore molestia ai Milanesi; e questi, se potevano riacquistare queste due piazze, si proponevano di fare subito dopo la pace. Per incoraggiare gli assedianti pagarono loro tutto il soldo arretrato, e si obbligarono a mandare al campo abbondanti vittovaglie. Si dolse lo Sforza, che prendevasi motivo da una vittoria che gli avrebbe meritate delle ricompense, per ispogliarlo dell'illimitata autorità accordatagli da un pubblico decreto. Non pertanto si arrese agli ordini della signoria; perchè meditava di far valere a miglior tempo queste lagnanze, intorno alle quali non parevagli allora tempo d'insistere gagliardamente. Aveva ricevuto un rinforzo di quattro mila cavalli sotto gli ordini dei tre fratelli Sanseverino, di Jacopo Orsini, di Angelo Labello e di Fioravanti[321]. Ma per quanta diligenza avesse fatta, non aveva prevenuti Matteo Campano e Luigi Malvezzi, che con settecento cavalli ed ottocento fanti si erano gettati in Caravaggio. Non pertanto disegnò il suo campo tutt'all'intorno di questa borgata, la quale, sebbene avesse circa un miglio di giro, trovossi circondata interamente dalle tende degli assedianti. Questo campo venne fortificato con una doppia linea esterna ed interna, e rotte le strade per cui gli si poteva avvicinare il nemico.
Erano appena passati tre giorni, da che lo Sforza trovavasi accampato sotto Caravaggio, quand'ebbe avviso, il 1.º agosto, che Michele Attendolo aveva passato l'Oglio, e pareva volersi stabilire a Morengo, tutt'al più quattro sole miglia lontano dal suo campo. Lo Sforza volle approfittare della confusione che di que' tempi era quasi sempre inseparabile dallo stabilimento del campo, e fece attaccare le truppe nemiche, quando ancora si trovavano cariche del loro equipaggio, e mal disposte a combattere. Ma il maggiore dei Piccinino, geloso del generale in capo, preferì di compromettere la propria riputazione e lasciare il fratello in pericolo, che tener dietro al vantaggio che poteva riportare[322]. I Veneziani approfittarono per loro difesa di un canale che attraversa il piano a metà strada tra Caravaggio e Morengo, e stabilirono il loro campo quasi in vista di quello dello Sforza. Le due armate chiamarono in appresso in loro ajuto una quantità di fossajuoli; s'innalzarono trinceramenti sopra trinceramenti, si tagliò con fosse e baluardi tutto lo spazio frapposto ai due campi, e si diede loro l'aspetto di due città le di cui mura si minacciavano, mentre che nella spianata che le divideva, le due armate perdevano ogni giorno molti uomini e cavalli[323].
Non fu che dopo trentacinque giorni, impiegati nel fortificare il suo campo, che lo Sforza cominciò a battere in breccia con quattro cannoni le mura di Caravaggio, ed in pari tempo ad attaccarle sotto terra con una mina. In pochi giorni una vasta estensione di mura fu abbattuta, e la fossa abbastanza colmata dalle ruine perchè la breccia potesse praticarsi. Ma lo Sforza temeva di dare l'assalto in presenza di un'armata nemica, tanto più che aveva ogni ragione di dubitare, che i soldati che destinerebbe alla guardia de' suoi trinceramenti, non gli abbandonassero per partecipare al sacco della terra, sebbene si fosse obbligato a far mettere tutta la preda in comune, ed a dividerla poi in parti eguali[324].
Frattanto Matteo Campano, comandante di Caravaggio, cominciava a parlare di capitolazione, ed i capi dell'armata veneziana, sebbene avvisati del pericolo della piazza, temendo assai più quello, cui si esporrebbero, se davano una battaglia per liberarla, non sapevano accordarsi intorno al partito che loro convenisse di prendere. Dopo interminabili dispute nel consiglio di guerra, convennero, che tutti i capi spedirebbero la separata loro opinione ed i motivi della medesima a Venezia, ed aspetterebbero la decisione del senato. Michele Attendolo, Luigi Gonzaga, Bartolomeo Coleoni e Nicolò Guerrieri opinavano concordemente di allontanarsi, ma non erano d'accordo intorno al luogo in cui traslocherebbero il campo. Erano tutti di parere che la diffidenza de' Milanesi, la discordia tra lo Sforza ed i Piccinino, e la mancanza delle vittovaglie disperderebbero presto l'armata nemica. Aggiugnevano che il sacco di Caravaggio, che più non si lusingavano di poter impedire, accrescerebbe a dismisura il disordine e le cagioni di discordia tra i vincitori. Ma Tiberio Brandolini, che, travestito da vendemmiatore, era penetrato fino nel campo dello Sforza, e che credeva di aver trovata una via facile e sicura per entrare in Caravaggio fece adottare la sua opinione da altri otto generali[325]. Rappresentarono concordemente, che la perdita di Caravaggio si trarrebbe dietro infallibilmente quella di Lodi, che gli abitanti di quest'ultima città non vorrebbero esporsi a sostenere un assedio, dopo aver veduto i Veneziani determinati a non avventurare una battaglia per liberare i loro alleati. Aggiugnevano, che avanzandosi pel cammino scoperto da Brandolino, non solo si salverebbero gli assediati, ma inoltre si avrebbe il destro di rompere l'armata dello Sforza. I due provveditori Veneziani, che avevano assistito al consiglio di guerra, Ermolao Donato, e Gherardo Dandolo, mandarono questi diversi avvisi al senato, e questi, contro il suo costume, si decise pel partito più rischioso, dando a Michele di Cotignola l'ordine di attaccare[326].
Il campo dello Sforza era appoggiato dalla banda di mezzogiorno ad un bosco pantanoso, il di cui passaggio erasi creduto impraticabile; questo bosco accompagnava colla estremità un argine, che stendevasi fra i trinceramenti ed il castello. In mezzo al bosco inondato, Tiberio Brandolini aveva rinvenuto un passaggio, pel quale contava di prendere l'accampamento dello Sforza alle spalle, e penetrare fino ai suoi padiglioni, senza dover superare i trinceramenti. Ma egli non aveva notato un fosso coperto da molti virgulti, che tagliava questo argine, e, difendendo il campo, chiudeva gli assalitori in un angusto spazio, circondato in ogni lato dai nemici. Questo fosso aveva in mezzo all'argine un ponte chiuso da un catro a canto al ponte levatojo. Il Brandolino comunicò il suo piano d'attacco a Michele Attendolo, e questi lasciò alla guardia del suo campo Bartolomeo Coleoni con 1500 cavalli e la maggior parte dell'infanteria, ordinandogli di tenere occupato il nemico con frequenti scaramucce, come ne' precedenti giorni. In appresso il 15 di settembre a mezzogiorno, quando potevano supporsi i soldati dello Sforza occupati intorno al pranzo, fece uscire dal campo tutto il rimanente dell'armata, vale a dire più di undici mila cavalli, e prese in silenzio la strada di Mozzanica. Lo Sforza n'ebbe intanto avviso, e senza sapere su qual punto il nemico potesse recarsi, fece ordinare ai suoi soldati di tenersi apparecchiati a combattere. Incamminavasi già egli stesso a cavallo dal lato cui dirigevasi l'armata veneziana, onde discoprirne i disegni, quando alcuni vennero a dirgli che il nemico, piegando subito a sinistra, aveva attraversato il bosco, ed era penetrato nel suo campo. Allora mandò subitamente tutti i soldati di cui poteva disporre alla difesa del fosso coperto di sterpi e del ponte, ch'erano la sola difesa della sua armata; e perchè le truppe pesanti, che si adoperavano in quest'epoca, lentamente si adunavano, e lentamente si armavano, tutto il campo si trovò in grandissimo pericolo, finchè non ebbe abbastanza genti per tener testa al nemico. Carlo Gonzago, ferito in fronte da un colpo di spada, fuggì senza voltarsi addietro fino a Milano, ove sparse il terrore[327]. Manno Barile, rovesciato da cavallo e calpestato, venne fatto prigioniere. Michele da Cotignola e Luigi Gonzaga, quando fu loro condotto avanti, gli dissero: «Barile, in verità che più negare non potete di non essere stato battuto e posto in rotta. Piuttosto siete voi altri, rispose, che siete entrati in una rete da cui mal potrete sbrigarvi.» In fatti la cavalleria, chiusa in una metà dell'argine, di già cominciava ad essere impedita ne' suoi movimenti, quando lo Sforza, facendo abbassare il ponte levatojo, mandò contro i Veneziani due coorti di cavalleria che li presero alle spalle. Vide in allora le lance dei nemici incrocicchiarsi come un bosco agitato dal vento; conobbe a tale movimento la loro irrisoluzione, e gridò subito: «La vittoria è nostra;» indi, facendo aprire il rastrello del gran ponte, precipitossi sull'armata veneziana, ch'era nello stesso tempo attaccata alla coda. Il terrore si sparse di fila in fila; i corazzieri gettavano le armi che più loro non servivano a combattere, e che ritardavano la loro fuga. Essi precipitavansi verso il bosco pel quale erano entrati in questo sgraziato recinto; ma la maggior parte, più non trovando il solo stretto passaggio ov'era chiuso il terreno, cadevano nel pantano e vi restavano immersi. Pochissimi in tutta questa folla vennero uccisi[328], pochissimi dei capi o dei soldati poterono fuggire, e tutto il rimanente fu preso a migliaja. Lo Sforza condusse allora il rimanente della sua armata contro Bartolomeo Coleoni, che custodiva i proprj trinceramenti, ed incoraggiando i suoi soldati a mostrarsi degni dei loro compagni che combattuto avevano all'altra estremità del campo, forzò le linee di Coleoni, che salvossi quasi solo a Bergamo[329].
Contavansi dodici mila corazzieri e tre mila fanti nell'armata dello Sforza, dodici mila cinquecento corazzieri e cinque mila fanti in quella d'Attendolo. Di quest'ultima non si salvarono che mille cinquecento cavalli, e niun fante. Immense ricchezze caddero in mano dei soldati, ed i due procuratori di san Marco furono fatti prigionieri colla maggior parte degli ufficiali generali. Rispetto ai soldati, lo Sforza preferì di rimandarli dopo aver loro tolte le armi e gli abiti, piuttosto che custodire una quantità di prigionieri, il di cui numero uguagliava quasi quello de' vincitori[330].
CAPITOLO LXXIII.
Francesco Sforza abbandona i Milanesi, e passa colla sua armata al servigio dei Veneziani. — Furore del partito popolare a Milano, blocco, ed angustie di questa città; i Veneziani gli accordano la pace, ma Francesco Sforza continua i suoi attacchi, e finalmente costringe i Milanesi a riconoscerlo per loro duca.
1448 = 1450. La vittoria di Caravaggio pareva che dovesse condurre bentosto quella pace, che tanto era sospirata dalla Lombardia; tale vittoria doveva disingannare i Veneziani, e ridurli ad abbandonare gli ambiziosi loro progetti di conquista, poichè le forze che essi credevano irresistibili erano state distrutte da così subiti rovesci. Piacenza, la più forte delle loro città, era stata presa d'assalto; la più bella flotta, che mai rimontasse il Po sotto lo stendardo di san Marco, era stata bruciata; e la più bella armata, che avesse tentato la conquista del Milanese, era stata fatta tutta prigioniera. Dopo tante perdite, dovevansi finalmente credere i Veneziani animati dal desiderio della pace, come lo erano anche i Milanesi. La loro repubblica trovavasi smunta dagli inauditi sforzi ch'ella faceva per mantenere così numerose armate; sentiva il bisogno di godere della sua esistenza, di riconoscersi, di organizzarsi; essa temeva una terza campagna, ed il senato, invece di continuare le sue vittorie nello stato veneziano, avrebbe soltanto voluto allontanare il nemico dalle piazze più vicine alle sue mura, ed entrare nello stesso tempo in negoziazioni di pace. Egli esortava Francesco Sforza a dividere le sue forze per attaccare nello stesso tempo Bergamo e Lodi; ma questi per lo contrario insisteva per condurre la sua vittoriosa armata sotto Brescia, onde conquistare a spese dei Milanesi una città, che doveva restargli in piena sovranità. Egli omai sentiva avvicinarsi il termine de' suoi voti; ma temeva le conseguenze delle proprie vittorie, e non voleva così bene assecondare i Milanesi, che fossero poi in grado di fare senza di lui; temeva la pace, oggetto degli ardenti desiderj del popolo, e resa facile dalle sue vittorie, onde omai si rimproverava d'aver troppo abbattuti i Veneziani, la di cui opposizione era necessaria ai suoi disegni. Questo mutamento ne' suoi progetti fu la principale cagione della generosità con cui trattò i prigionieri di Caravaggio, mettendoli tutti in libertà. I Piccinino, gelosi della sua autorità e della sua gloria, osservavano i suoi passi, ed eccitavano la diffidenza del senato di Milano. Lo Sforza credette conveniente di separarsi da loro; li distaccò coi tre Sanseverini, Ventimiglia e tutti i soldati della scuola di Braccio, mandandoli sotto Lodi, mentre ch'egli stesso, tre giorni dopo la sua vittoria, prese la strada di Brescia, e fissò il suo campo nel piano a piedi delle mura[331].
I Veneziani non ismentirono la riputazione loro di costanza ne' rovesci; si affrettarono di rimontare la loro armata; ma prima di tutto ne levarono il comando a Michele Attendolo di Cotignola. Questo antico soldato, compagno e parente del primo Sforza, venne assoggettato ad una processura intorno alla condotta da lui tenuta nella battaglia di Caravaggio. Se non cadde in sospetto di criminosa intelligenza col suo avversario, perchè apparteneva alla di lui famiglia, fu fatto per altro risponsabile della sua cattiva fortuna. Una deliberazione del senato, del 19 di novembre, lo rilegò a Conegliano, che gli era prima stato dato in feudo, e lo ridusse ad un'annua pensione di mille ducati[332]. Pasquale Malipieri e Giacom'Antonio Marcello vennero nei Veronese per raccogliere tutti i fuggiaschi del campo di Caravaggio, e render loro armi e cavalli. Nello stesso tempo chiamarono da ogni banda nuovi condottieri al servizio della repubblica, ed ottennero dalla repubblica di Firenze, in virtù dell'antica loro alleanza, un sussidio di due mila cavalli, e mille fanti, sotto gli ordini di Sigismondo Malatesti, e di Gregorio d'Anghiari[333].
Ma Pasquale Malipieri cercava nello stesso tempo di procurare alla sua repubblica un assai più potente appoggio. Uno de' suoi segretarj, prigioniero nel campo del vincitore, aveva intavolato un segreto trattato con Angelo Simoneta, segretario dello Sforza e zio dello storico. Mentre i Milanesi offrivano la pace ai Veneziani, e si obbligavano a garantir loro il possedimento di Brescia, Malipieri offriva allo Sforza la stessa sovranità di Milano, se voleva passare al servigio dei Veneziani. L'amico ed il segretario dello Sforza, che ci lasciò la migliore storia de' suoi tempi che posseda l'Italia, quando giugne a questo enorme tradimento, cerca di far credere che il suo eroe vi fu strascinato dalle circostanze, e provocato dall'ingratitudine dei Milanesi. Ma tutta la condotta dello Sforza fu così destra, così costantemente diretta al medesimo scopo, che mal si può credere che tutto non fosse antecedentemente preveduto e meditato, fin dall'istante che entrò al servigio dei Milanesi. Per innalzarsi alla sovranità, ch'egli mai non perdette di vista, non poteva dispensarsi dal procurarsi l'appoggio, ed i sussidj d'un altro popolo. Egli doveva egualmente temere i Milanesi ed i Veneziani; gli conveniva valersi degli uni per indebolire gli altri, combattere alternativamente per tutti e due, risparmiare i proprj soldati, esporre i loro, strascinarli di spese in ispese, e non gettare in ultimo la maschera per combattere in proprio nome, che quando sarebbe egli solo l'arbitro dei loro soldati e delle loro ricchezze[334].
Il trattato tra Venezia e Francesco Sforza, che fu soscritto il 18 ottobre del 1448, trentatre giorni dopo la rotta di Caravaggio, portava che lo Sforza porrebbe in libertà tutti i prigionieri, che evacuerebbe tutte le piazze conquistate negli stati di Bergamo e di Brescia, che rinuncerebbe ai diritti dei Visconti e dei Milanesi sopra il Cremasco e sopra la Ghiaja d'Adda, cedendo queste due province ai Veneziani, i quali dal canto loro si obbligavano ad ajutare Francesco Sforza a conquistare gli stati già posseduti da Filippo Maria; gli promettevano perciò quattro mila cavalli, e due mila fanti, e si obbligavano inoltre a pagargli tredici mila fiorini al mese, finchè Milano fosse ridotto in poter suo; in allora Venezia ed il nuovo duca dovevano rimanere alleati, e darsi vicendevolmente ajuto in tutte le loro guerre, sul piede dell'eguaglianza[335].
Dopo di aver segnato questo trattato, Francesco Sforza fece adunare la sua armata per informarla dell'accaduto. Nel suo discorso dichiarò ai suoi soldati, che i Milanesi, dimenticando gli obblighi loro, avevano voluto tradirlo; che, non contenti di volere far la pace coi Veneziani, ciò ch'era per la sua armata una potente ingiustizia, non tendevano le negoziazioni loro a nulla meno che all'intera sua ruina; che il senato di Milano aveva proposto a quello di Venezia un'alleanza per togliergli Pavia e Cremona, e che il solo desiderio di difendersi coi suoi figliuoli e compagni d'armi lo forzavano a mutare partito[336]. Non abbisognavano troppo convincenti argomenti per persuadere i soldati, i quali, facendo del battersi un mestiere mercenario, non avevano giammai posto mente alla giustizia o alla iniquità delle guerre, e che volentieri abbracciavano una nuova spedizione, il di cui prezzo essere doveva il sacco delle ricche campagne milanesi. Risposero pertanto al loro generale con clamorose acclamazioni, ch'erano apparecchiati a seguirlo dovunque. Pure lo Sforza seppe con sommo suo dispiacere che Lodi, che doveva essere a lui consegnato dalla guarnigione veneziana, erasi arreso ai Milanesi lo stesso giorno 18 ottobre[337], e che Carlo Gonzaga aveva abbandonato il suo campo durante la notte con mille duecento cavalli e cinquecento fanti, per mantenersi fedele ai Milanesi[338].
Ogni memoria di libertà non era per anco spenta in Lombardia; nell'istante in cui erasi spezzato l'antico giogo, erasi cercato di rialzare dovunque il governo repubblicano, come il solo felice e legittimo. Ma gli animi erano stati indeboliti da lunga servitù, e questa razza effemminata sentiva che l'avere una volontà propria, dei progetti ed una condotta a suo arbitrio, era un sottomettersi ad una grande fatica. Tostocchè un uomo di genio pretese di comandare a' Lombardi, trovò una folla di schiavi, che domandavano di ubbidire. Le città e le borgate, gelose della grandezza di Milano, mostraronsi disposte ad abbracciare il partito dello Sforza. Quella di Piacenza, ch'egli stesso aveva così crudelmente trattata nel precedente anno, si dichiarò a lui favorevole, o perchè non volesse esporsi un'altra volta alla sua vendetta, o perchè egli vi avesse fatti entrare molti de' suoi partigiani, o che finalmente l'odio contro i Milanesi vincesse la memoria de' più sanguinosi oltraggi. Ella chiuse le sue porte a Giacomo Piccinino, ed il conte Sforza ardì d'entrarvi senza guardie per prenderne possesso, ponendosi senza difesa tra le mani di coloro cui aveva saccheggiati i beni e disonorate le figlie: e non ebbe motivo di pentirsene[339]. I tre fratelli Sanseverino abbandonarono pure le insegne dei Milanesi per unirsi allo Sforza. Figli naturali d'uno de' principi dell'illustre casa di Napoli, che possede il feudo di Sanseverino, erano stati arricchiti da Filippo Maria Visconti, e si credevano obbligati da una tal quale lealtà ad attaccarsi a suo genero, sebbene lasciassero in Milano le loro spose ed i loro figli. Essi gli condussero circa otto cento cavalli[340]. Il condottiero Luigi del Verme si pose pure sotto gli ordini dello Sforza, e raffermò questa nuova alleanza col matrimonio dell'unica sua figlia con un figlio naturale del conte Francesco. Guglielmo di Monferrato trattò altresì con lui, chiedendo per prezzo dei servigj, che gli renderebbe, la cessione d'Alessandria. Lo Sforza, dopo essersi acquistati nuovi alleati con questi trattati, condusse in principio di novembre la sua armata nella campagna milanese che confina col pavese; occupò i castelli di Rosate e di Binasco, che non fecero resistenza, e pose i suoi soldati ai quartieri d'inverno nelle più ricche e fertili campagne della Lombardia.
Due volte i deputati Milanesi eransi recati presso al conte per ridurlo a rinunciare a così inaspettate ostilità, e per testificargli, conservando sempre alcuni riguardi, il dolore che il suo tradimento cagionava alla repubblica, e per offrirgli di fargli giustizia se voleva esporre le sue lagnanze. Ma quello stesso Sforza, che fino a tale epoca aveva tenuto col senato di Milano il linguaggio di un servitore ubbidiente, prese tutt'ad un tratto verso i suoi superiori il tuono di un padrone verso i sudditi ribelli. Era il suo avere, rispose egli, che chiedeva ai Milanesi, era una sovranità che gli apparteneva, e loro soltanto prometteva indulgenza pei passati errori, ed un'amnistia per coloro che prontamente rientrerebbero in dovere[341].
Non contento di rispondere in tale maniera ai deputati milanesi, mandò Benedetto Riguardati a Milano per tenere al popolo adunato lo stesso linguaggio. Ma appena quest'inviato era sceso dalla tribuna delle arringhe, che vi salì Giorgio Lampugnani. Questi esortò i Milanesi ad esporsi a tutto, a tutto soffrire piuttosto che perdere la libertà comune, piuttosto che piegare la cervice sotto il giogo un uomo che gli aveva ingannati con sì nera perfidia, di una donna che degl'illegittimi suoi natali facevasi un titolo, perchè in qualunque modo procedevano dal sangue dei loro tiranni. In questa famiglia dello Sforza, che sembrava non conoscere i sacri nodi del matrimonio, vedevasi, disse loro, un infinito numero di fratelli, di quasi fratelli e di figliuoli legittimi, bastardi ed adulterini. Se il conte conseguiva lo scopo della sua ambizione, un solo non vi sarebbe de' suoi parenti che non si risguardasse quale padrone dei Milanesi, un solo che spegnere non volesse la sete del comandare, l'avarizia, il lusso, le vergognose dissolutezze, a spese dei cittadini. Che ascoltassero il conte Sforza, coloro che potevano risolversi ad abbandonare le loro spose, le loro figlie, alla seduzione ed all'adulterio, le loro case, i loro campi, le borse loro, alle fiscali estorsioni ed alle confische, i loro figli al capriccio d'un capo di soldati; coloro che non temevano di rassodare di nuovo coi loro sudori e col sangue quella cittadella quell'antimurale della tirannide, ch'essi avevano atterrato. In quanto a sè ed ai suoi, viverebbero liberi o saprebbero morire per la libertà[342].
Il popolo, strascinato da questo discorso, più non contenne la sua collera contro lo Sforza, ed i titoli di traditore, di disertore erano associati al suo nome in ogni bocca; più niuno eravi che si rifiutasse ai sagrificj di danaro, che potevano salvare la libertà. Francesco Piccinino fu nominato generalissimo, Carlo Gonzaga comandante della piazza, e la milizia della città somministrò numerose truppe di fucilieri. Non vedevasi ancora che raramente questa nuova arma negli eserciti, ma la ricchezza di Milano aveva permesso di moltiplicarla. Furono mandate guarnigioni a Monza, ad Abbiate, a Busto Arsiccio, a Cantù; e corpi di milizie andarono a Como ed a Novara, mentre i magistrati chiamavano al loro soldo tutte le lance spezzate[343], che andavano allora vagabonde per l'Italia. Scrissero pure a Federico III, re dei Romani, al re Alfonso, al duca Luigi di Savoja, a Carlo VII di Francia, al Delfino, al duca di Borgogna, per denunciar loro il tradimento dello Sforza, e chiedergli soccorso[344].
Ma la grande rivoluzione dell'arte militare, che si terminò ai nostri giorni, aveva di già avuto cominciamento; i mezzi di difesa delle piazze più non erano proporzionati coi mezzi d'attacco. Risguardavasi in addietro come capace di sostenere un assedio ogni borgata circondata di buone mura, sebbene non sostenute da terrapieni. Per altro queste mura più non potevano resistere al cannone; le pretese fortezze de' Milanesi più non potevano trattenere un'armata provveduta d'artiglieria ed una breccia praticabile fa fatta in tre giorni nelle mura di Abbiate Grasso. Lo Sforza desiderava di risparmiare gli estremi disastri a questa borgata per compiacere Bianca Visconti, che vi aveva passata la sua infanzia. Ma gli abitanti, sebbene perduti senza rimedio, non volevano conoscere il loro pericolo, e non acconsentirono a capitolare che a stento, per evitare l'assalto ed il sacco[345]. Un'altra parte dell'armata dello Sforza svolse il canale o naviglio, che dal Ticino conduce a Milano, per impedire il trasporto delle vittovaglie alla città, e privare i borghesi dell'uso de' loro mulini; ma in Milano eranvi tuttavia sufficienti provvigioni di frumento, ed i mulini a braccia supplirono a quelli mossi dall'acqua.
Il rinforzo di quattro mila cavalli, promesso dal senato di Venezia, fu condotto nel Milanese da Giacomo Antonio Marcelli, Pasquale Malipieri e Luigi Loredano. Quando lo Sforza l'ebbe ricevuto condusse la sua armata verso i laghi, ed occupò i castelli di Busto Arsiccio e di Varese. Questo paese era tuttavia abitato da molti membri della famiglia Visconti, parenti degli antichi duchi, ma la di cui agnazione rimontava a tempi anteriori alla grandezza di questa casa. Tutti si dichiararono a favore di Francesco Sforza. Tutte le rive del lago maggiore, di Lecco e di Lugano, seguirono quest'esempio, ma le città di Arona, di Como e di Bellinzona si mantennero fedeli ai Milanesi[346]. Lo Sforza, disceso dalle montagne in sul piano, cagionò tanto terrore ai Novaresi, che si fece aprire le loro porte il 20 di dicembre. Luigi del Verme prese in di lui nome Romagnano, ch'era occupato da tre mila Savojardi; lo Sforza mandò cinquecento cavalli a Tortona, e la città gli fu data dalla fazione a lui favorevole, mentre Alessandria dietro le sue istanze apriva le porte a Guglielmo di Monferrato[347]. Per compensare tanti disastri i Milanesi non avevano ottenuti che insignificanti vantaggi. Francesco Piccinino aveva saccheggiate le campagne di Pavia, ma senza osare di trattenervisi lungamente, e suo fratello Giacomo era stato introdotto in Parma, perchè questa repubblica, in allora alleata di Milano, aveva scoperta entro le sue mura una trama di alcuni cittadini, che volevano darla ad Alessandro Sforza.
Carlo Gonzaga, fratello del marchese di Mantova, ed uno degli allievi di Vittorino da Feltre, era stato nominato comandante di Milano. Questo ambizioso principe cercava di rendersene assoluto padrone. Doveva, gli è vero, sentirsi troppo debole per isperare di rimanervi sovrano; ma forse al desiderio di comandare aggiugneva qualche segreto pensiero di vendere in seguito vantaggiosamente ai Veneziani, od allo Sforza un potere che andava dilatando colle sue perfide pratiche. Scelse i suoi partigiani tra i membri della fazione Guelfa, si fece riconoscere per loro capo, e cercò che avessero parte nel governo. I nobili Ghibellini, che fin allora vi avevano avuta la parte principale, ed in particolare il conte Vitaliano Borromeo, Teodoro Bossi, e Giorgio Lampugnani, costretti a difendersi contro questi nuovi avversarj, cominciarono a volgere i loro sguardi allo Sforza, sperando d'impegnarlo a dare le basi alla costituzione della loro patria, conciliando la loro libertà colla sua ambizione, in caso che fossero costretti a riconoscerlo per duca[348].
Il conte Sforza, giunto a Landriano; vi accolse i segreti deputati dei capi ghibellini della repubblica, ma trovò inammissibili le loro proposizioni; pretese che il volerlo sottomettere alle leggi fosse un trattarlo da vinto piuttosto che da vincitore. Pure, siccome la negoziazione non era rotta, restò presso di lui un segretario di questi magistrati. Poco dopo un dispaccio da lui scritto in cifre cadde in mano di Carlo Gonzaga, e fu denunciato alla parte guelfa, come prova d'un tradimento dei nobili e dei Ghibellini. Il Gonzaga, invece di attaccare questi magistrati ne' consiglj, fece nominare coloro di cui più diffidava ambasciatori presso Federico III. Diede loro una scorta per accompagnarli fino a Como, ma furono appena usciti dalle porte, che la scorta li fermò, e li condusse nelle prigioni di Monza. Colà Giorgio Lampugnano perdette la testa sul patibolo; Teodoro Bossi, assoggettato alla tortura, nominò molti suoi compagni nelle negoziazioni collo Sforza, che furono subito imprigionati. Il rimanente de' nobili ghibellini salvossi colla fuga; i più trovarono asilo nel campo del conte Francesco, mentre il Gonzaga, di concerto con Ambrogio Trivulzio ed Innocenzo Cotta, diede nuova forma al governo di Milano. La superiorità venne data ai Guelfi ed alla fazione democratica; plebei dell'ultima classe, come un Giovanni d'Ossa ed un Giovanni d'Appiano, furono innalzati alle prime magistrature; la confisca de' beni dei nobili fuorusciti empì il pubblico tesoro, ed il governo prese un aspetto rivoluzionario. Carlo dichiarò ne' suoi editti che piuttosto che dare Milano al conte Sforza, era disposto a darsi al Gran Turco, o al gran demonio dell'inferno[349]. Ma l'armata milanese andava scemando con nuove diserzioni: il conte Ventimiglia, che aveva il comando di Monza, passò nel campo dello Sforza con cinquecento cavalli e quattrocento pedoni; Francesco Piccinino, ch'era accampato presso Landriano, e che cominciava a mancare di vittovaglie, aprì dal canto suo un trattato per essere ricevuto nell'armata nemica, e quando fu sicuro di esserlo a vantaggiose condizioni, disertò ancor esso. Forse, come lo accusarono i partigiani dello Sforza, aveva fin d'allora intenzione di tornare, in primavera, al servigio dei Milanesi, dopo essersi nutrito nella cattiva stagione coi granai del suo nemico[350]. Suo fratello Giacomo, che allora trovavasi a Parma, cambiò pure partito, ed uscì da quella città per passare nel campo d'Alessandro Sforza, che l'assediava; ma Parma non aprì le porte che in febbrajo a questo fratello del conte Sforza. Questa città aveva resistito alle pratiche del conte Rossi, che entro le sue mura secondava gli assalitori, agli attacchi di Alessandro, ed alla diserzione del Piccinino. L'avvicinamento di Bartolomeo Coleoni con due mila corazzieri e mille cinquecento fanti, la ridusse all'estremità: allora volle darsi al marchese Lionello, ma la repubblica di Venezia non permise che Lionello accettasse l'offerta; onde i Parmigiani dovettero finalmente cedere alla loro cattiva fortuna[351]. Lo Sforza accordò vantaggiose condizioni, e trovò modo di riconciliarsi con quelle stesse famiglie che fin allora gli si erano mostrate più nemiche[352].
Durante l'inverno gli affari dei Milanesi avevano sempre peggiorato. Lo Sforza aveva stabiliti i suoi quartieri presso alle porte della loro città, delle quali porte ne teneva cinque così strettamente bloccate ch'era quasi impossibile il ricevere per mezzo di queste provvigioni dalla campagna; ma in primavera alcuni più felici avvenimenti parvero rianimare le speranze degli assediati. Luigi del Verme, Ventimiglia e Dolce, che dallo Sforza erano stati mandati ad assediare Monza, e che di già avevano aperta una breccia praticabile nelle mura di quella fortezza, furono sorpresi da Carlo Gonzaga, e compiutamente rotti. Più tardi attribuirono questo disastro a tradimento di Francesco Piccinino, ch'erasi loro associato. Furono presi con tutta la loro artiglieria e quasi tutti i cavalli. Il Dolce morì in conseguenza delle ricevute ferite, e Luigi del Verme dovette per molti mesi guardare il letto[353].
Dall'altra banda la vedova di Filippo Visconti, Maria di Savoja, che stava sempre in Milano, dov'era rispettata dai magistrati ed amata dal popolo[354], negoziò un'alleanza tra suo fratello Luigi, duca di Savoja, e la repubblica milanese. Il duca di Savoja fece invadere il Novarese da Giovanni Compeys, signore di Torrens[355], con un'armata di sei mila cavalli. Il nome di barbari che i Greci davano altre volte a tutti i popoli che non parlavano il loro linguaggio, veniva altresì dagli Italiani del quindicesimo secolo prodigato a tutti gli oltramontani; e con tal nome indicarono i Savojardi condotti da Compeys[356]. In fatti questi montanari mezzo selvaggi trattarono con eccessiva crudeltà tutti i villaggi e castelli di cui s'impadronirono, ma non poterono entrare in Novara che avevano sperato di sorprendere[357].
Un terzo avvenimento ancora più importante fu in sui punto di ruinare l'armata dello Sforza; fu questo la diserzione dei due Piccinino, che, incaricati di ricominciare l'assedio di Monza, abbandonarono Guglielmo di Monferrato, cui si erano associati, e si gettarono in città con tre mila cavalli. Giacomo, il più giovane, voleva sortire all'istante per un'altra porta, attaccare Guglielmo, e, approfittando della sua sorpresa, disfarlo affatto. Credeva di giustificare questa doppia perfidia col carattere di colui contro al quale l'esercitava. Non è egli per un tradimento, diceva, che Sforza rivolse contro Milano un'armata pagata dai Milanesi? i suoi progetti per ridurre in servitù l'Italia non sono forse conosciuti? si crede egli legato nella loro esecuzione dalle leggi della buona fede? Francesco Piccinino, cui spettava il comando, non lasciossi traviare da questi sofismi suggeriti dall'odio. «Nel nobile mestiere del soldato, rispondeva egli, il sentimento dell'onore non deve assoggettarsi alle sottigliezze della dialettica. Se in ogni guerra io dovessi giudicare i potentati, a pro o contra de' quali io servo, forse non ne troverei giammai un solo di giusto, un solo contro il quale io non potessi, per la stessa ragione, autorizzare una perfidia. In mezzo ai risentimenti ed agli odj che risveglia, il soldato non dorme tranquillo che perchè non crede possibili le azioni infami. Io senza dubbio non ispingo fino all'esagerazione lo scrupolo intorno alle leggi della guerra, e la mia diserzione ne è una prova; ma se sullo stesso campo di battaglia, ove sono stato posto dallo Sforza tra le sue squadre, e nel giorno medesimo, io rivolgessi contro di lui le armi che mi aveva affidate, se io abusassi della sua confidenza per iscannare i suoi soldati, che si credevano miei fratelli, quand'ancora io ne fossi applaudito a Milano per avere tradito un traditore, la posterità più imparziale mi giudicherebbe, ed il nome di Piccinino non si purgherebbe da questa macchia.» Questa discussione salvò il luogotenente dello Sforza, che ritirassi, mentre il più giovane fratello disputava col primogenito[358]. I Piccinino dopo essersi mostrati a Milano, ove furono ricevuti con trasporti di gioja, marciarono contro una armata veneziana che nello stesso tempo aveva cinto d'assedio Crema, e la forzarono a ritirarsi. Tornando da questa spedizione sorpresero nel castello di Melzi l'artiglieria che lo Sforza teneva colà apparecchiata per l'assedio di Monza, e se ne impadronirono[359].
Il popolo di Milano, sentendo da questi avvenimenti rilevarsi il suo coraggio, formò compagnie di milizie più numerose di tutte quelle che da lungo tempo si erano vedute nelle guerre d'Italia. Lo Sforza aveva assediato Marignano, e la fortezza di questa terra dovevagli essere consegnata il 1.º di maggio, se non era prima soccorsa. Per fargli levare l'assedio i Piccinino ed il Gonzaga uscirono da Milano con sei mila cavalli, e quasi tutta la milizia. Si dice che non avevano meno di venti mila uomini armati di fucile. Quest'arma ancora poco in uso ispirava grandissimo terrore anche ai più provetti corazzieri, mentre i generali delle due armate sapevano egualmente che potevano cavarne poco frutto. In fatti i fucili erano in allora fatti in maniera che abbisognava quasi un quarto d'ora per caricarli, ed in tutto questo tempo i fucilieri erano inabilitati ad agire o a difendersi dopo una scarica. Non si erano per anco inventate le bajonette, che dovevano trasformare queste bocche da fuoco in formidabili armi bianche; non erasi nè meno inventato il fuoco non interrotto della colonna, e l'evoluzione che, facendo passare le prime file in sul di dietro dopo di avere tirato, oppone sempre nuovi fucilieri al nemico. I generali milanesi, imbarazzati da tanta folla di soldati, avrebbero voluto far levare l'assedio col solo terrore. Facevano circolare esagerate notizie intorno al numero dei loro soldati, ed alla portata delle palle, contro le quali, essi dicevano, la corazza non resiste. I corazzieri dello Sforza, avvezzi a battaglie poco sanguinose, erano spaventati dall'idea di un pericolo, contro il quale non giovavano nè il valore, nè la destrezza. Invano il loro generale cercava di far loro comprendere che una sola carica della cavalleria rovescierebbe questa truppa poco agguerrita prima che potesse far fuoco. Difficilmente potè ispirare alla sua armata sufficiente risoluzione perchè restasse al suo posto; ciò era tutto quanto egli le chiedeva; in fatti i Milanesi non osarono avanzarsi, e Marignano si arrese[360].
L'ingresso de' Savojardi in Lombardia non aveva cagionati importanti avvenimenti. Bartolomeo Coleoni era stato incaricato di tenerli di vista, e perchè trovavasi al soldo della repubblica di Venezia, allora in pace col duca di Savoja, non volle passare la Sesia, che separava il Piemonte dalla Lombardia. Dal canto loro i Savojardi non facevano che rapide scorrerie al di là dei confini, non si allontanavano mai, e le frequenti loro scaramucce non erano mai decisive. In una di queste, gli è vero, che fu fatto prigioniero Giovanni Compeys, generale dei Savojardi, ma in molte altre il Coleoni, inferiore di numero, ebbe qualche svantaggio; all'ultimo le due armate vennero a battaglia, il 20 aprile, presso Borgo Mainero. I Savojardi rinnovarono molte brillanti cariche e sempre accompagnate da buon successo, ma perchè si erano persuasi esservi qualche imboscata nella vicina macchia, non uscivano dal campo di battaglia, e non approfittavano del loro vantaggio. Così timida condotta rese arditi i nemici, i quali erano furibondi perchè questi barbari, com'essi li chiamavano, non davano quartiere. Il Coleoni, di già celebre per un'antecedente vittoria sugli oltramontani, ricondusse i suoi corazzieri ad un'ultima carica ch'ebbe pieno effetto. I Savojardi furono sbaragliati con grave perdita e posti in piena rotta. Quelli che fuggirono ritiraronsi in Piemonte, e più non recarono molestia alla Lombardia. Il campo di battaglia, coperto di morti, fece non pertanto sugl'Italiani una profonda sensazione. I Savojardi, più accostumati alle guerre della Francia che a quelle dell'Italia, combattevano con un accanimento sconosciuto in quest'ultimo paese. Non perdevano tempo nel fare prigionieri, uccidevano coloro che rovesciavano da cavallo; ed i soldati dei condottieri, che nelle guerre ordinarie credevano appena di arrischiare la vita, fremevano ancor dopo la battaglia d'aver avuto a fare con tali nemici. Essi non temevano l'arte militare, nè il valore de' Francesi, ma la loro ferocia, e conservarono delle guerre francesi un cotale terrore, che, passato d'una in altra generazione tra queste razze effemminate, apparecchiò le vittorie degli oltramontani in sul finire del secolo, e le conquiste del re Carlo VIII[361].
Un'altra diversione recò ancora maggiore sollievo ai Milanesi, e fu la ribellione di Vigevano, grossa borgata della Lomellina, che cacciò il comandante mandato dallo Sforza, e spiegò le insegne della repubblica. Gli abitanti, dopo avere ottenute dalla metropoli alcune squadre di cavalleria, cominciarono a guastare le campagne di Pavia, ed obbligarono lo Sforza a ripassare il Ticino per venire ad assediarli. Nello stesso tempo questo generale ricevette una segreta denuncia contro Guglielmo di Monferrato, uno de' suoi luogotenenti, che si pretendeva apparecchiato a passare dalla banda del nemico. Senza potere giustificare quest'accusa, lo Sforza fecelo arrestare il 13 di maggio e sostenere nella cittadella di Pavia; ma conservò sempre per lui tali riguardi, che manifestavano la sua intenzione di riconciliarsi colla casa di Monferrato[362].
L'assedio di Vigevano fu uno dei fatti militari in cui gl'Italiani mostrarono maggior valore e costanza. Desideravano i Milanesi che questo tenesse lungamente occupato lo Sforza, per dar loro tempo di fare il raccolto del frumento, che cominciava allora a fiorire. Ma lo Sforza, che non isperava di prendere Milano che colla fame, desiderava di avanzarsi a tempo per guastare la campagna. La guarnigione milanese e gli abitanti di Vigevano gareggiavano di zelo e di attaccamento. In pochi giorni consumarono tutta la polvere da cannone, ma impiegarono con altrettanta bravura che buon successo le antiche armi per resistere alle nuove. Quando l'artiglieria dello Sforza ebbe fatto nel muro una breccia praticabile, vide alzato in sul di dietro un nuovo trinceramento formato di terra e di concime, e legato con grosse travi. Impiegò di nuovo l'artiglieria per rovesciarlo, ma tutt'ad un tratto le mura ed i baluardi furono coperti di balle di lana, che ammorzavano i colpi delle pietre lanciate dalle bombarde. Finalmente questo nuovo trinceramento venne ancor esso aperto, e lo Sforza risolse di dare l'assalto il 3 di giugno.
Conoscendo l'ostinazione ed il coraggio de' suoi nemici, s'avvide che non potrebbe vincerli che colla fatica e lo spossamento. Divise la sua armata in otto corpi; il primo cominciò a battersi all'alba del giorno, e quando fu respinto dagli assediati, gli succedette un altro, poi un altro ancora, sicchè l'attacco, rinnovato sempre con truppe fresche, non fu mai interrotto. Dal canto loro Jacopo di Rieti, Enrico di Carreto, e Ruggero Galli, che comandavano nella piazza, avevano a tutto preveduto. I borghesi erano distribuiti lungo le mura, e sui terrapieni, oggetto principale dell'attacco, la brava guarnigione; le donne della terra, poste dietro i soldati, loro distribuivano i rinfreschi, o le pietre da lanciarsi contro gli aggressori, mentre che i preti, radunati nella chiesa principale con tutte le fanciulle, pregavano per i loro concittadini che combattevano. Per altro tutta la guarnigione era stata costretta fino dal principio ad opporsi tutt'intera al nemico, e mentre vedeva avvicendarsi gli assalitori per combatterla, non poteva nè sperare straniero soccorso, nè avere un istante di riposo. Malgrado il vantaggio della sua posizione, ella andava pure facendo qualche perdita, e le sue file diventavano sempre più rare; ma quando veniva rovesciato un soldato, una donna si copriva subito colle insanguinate sue armi, e prendeva il suo luogo. Gli assalitori, vedendo ricomparire guerrieri caduti morti sotto i loro occhi, mentre il suono delle campane e le processioni di immagini mischiavano la religione alla battaglia, credevano di provare in questa resistenza qualche cosa di soprannaturale, e si lasciavano abbattere da religioso terrore.
Finalmente dopo un assalto che aveva durato una lunga intera giornata di giugno, i soldati dello Sforza all'avvicinarsi della notte si stabilirono sul terrapieno. I borghigiani spaventati abbandonavano le mura, e già la città era presa, quando sdrucciolando tre o quattro degli assalitori cadono sul terreno in pendìo bagnato di sangue; coloro che li seguono danno a dietro, tutta la colonna si rovescia spaventata, ed i soldati precipitano uno sopra l'altro nelle fossa, seco strascinando masse di ruine che gli schiacciano. Essi sono compresi di terrore innanzi a quelle mura che credono incantate, e lo Sforza per non compromettere di più la gloria della sua armata, fa suonare la ritirata.
Ma Vigevano più non poteva difendersi. Durante la notte gli assediati proposero, ed a stento ottennero dal vincitore una capitolazione. Fu ancora più difficile il farla rispettare dai soldati; risguardando questi il saccheggio come un loro diritto, diedero ancora un assalto alle mura dopo soscritto il trattato, e furono richiamati al loro dovere con molta fatica da Francesco Sforza, il quale rinfacciò loro d'avere rinculato in faccia alla breccia in tempo della battaglia, e di volervi salire adesso contro la data fede. La città fu salva, e soltanto obbligossi a ristabilire a sue spese il castello, ch'era stato distrutto in nome della libertà[363].
Dopo la sommissione di Vigevano, lo Sforza, secondo il suo progetto, cominciò a far tagliare le biade ancora verdi sul territorio di Milano. Nello stesso tempo ricondusse all'ubbidienza gli abitanti delle rive dei laghi, e quelli di varie terre che si erano contro di lui ribellati. Dall'altro canto i Milanesi, che rifacevano ogni due mesi la signoria, scossero per breve tempo il giogo del popolaccio, che opprimeva la loro repubblica, e che doveva essere cagione della sua ruina. Giovanni d'Ossa e Giovanni d'Appiano, due plebei che avevano così crudelmente abusato della loro autorità come capitani del popolo, furono imprigionati il 1.º luglio, quando uscivano di carica, e loro furono surrogati uomini superiori assai per nascita e per educazione, Guarnieri Castiglione, Pietro Pusterla e Galeotto Toscani. Questi, nella breve loro magistratura, cercarono la sola risorsa che ancora poteva restare alla repubblica. Incaricarono Enrico Panigarola, mercante milanese, stabilito in Venezia, d'entrare in trattato coi Veneziani; e trovarono il doge Francesco Foscari ed il consiglio de' dieci più disposti per la pace di quello che avevano sperato[364].
Finalmente i Veneziani cominciavano a sentire quanto in politica era grande l'errore d'avere voluto abbandonare il ducato di Milano ad un principe guerriero ed ambizioso, piuttosto che lasciarlo sussistere in repubblica. Marcello, il procuratore di san Marco, che seguiva le armate, aveva da lungo tempo cercato di far sentire ai suoi commettenti il pericolo di questo sistema. Il trattato, agevolato da questo ritorno alla moderazione, si continuò tra Milano e Venezia con profondo segreto, per non lasciarlo traspirare al conte Sforza. Non era per anco terminato al primo di settembre, quando una nuova signoria entrò in carica a Milano, e tolse ogni potere al partito moderato per renderlo a feroci demagoghi. Il senato di Venezia aspettava, per dichiararsi, il risultamento di una pratica, di cui lo Sforza teneva il filo, e questa scoppiò l'undici di settembre. Le città di Crema e di Lodi gli furono date per tradimento. La prima spiegò l'insegna di san Marco, e l'altra quella del conte. Questo fu il termine che i Veneziani pensarono di porre alle sue conquiste. Siccome egli conduceva la sua armata sotto le mura di Milano, il consiglio dei dieci gli partecipò di essere stato sottoscritto un armistizio coi Milanesi; e richiamò nello stesso tempo Bartolomeo Coleoni e la sua armata[365].
I deputati di Venezia, annunciando al conte Sforza che il loro senato accettava la pace e che lo invitava ad accedervi, erano incaricati di fargli sentire quanto fosse ancora incerto il fine della guerra, e quanto doveva ancora credersi lontano da una piena vittoria, di modo che avrebbe dovuto ritenersi ben fortunato di accettare le vantaggiose condizioni, che i Veneziani gli avevano procurate. Per lo contrario egli ben sapeva, che le rapide sue conquiste erano quelle che avevano risvegliata la gelosia del senato, e che non gli si proponeva la pace che per timore di vederlo in breve padrone di Milano. Le sue speranze venivano rinforzate dall'arrivo al suo campo di moltissimi emigrati che il governo rivoluzionario aveva cacciati di città, e dall'arrivo dello stesso Carlo Gonzaga, fin allora comandante della piazza[366]. Frattanto lo Sforza aveva dal canto suo fatte dolorose perdite, ed in particolare di ufficiali generali: il conte del Verme, alla cui figlia aveva dato in isposo un suo bastardo, era stato ucciso sotto Monza. Roberto di monte Albotto, Cristoforo di Tolentino, Jacopo Catalani, ed il conte Dolce dell'Anguillara gli erano stati tolti da una febbre pestilenziale, che aveva travagliato il suo campo e quello de' Veneziani, ed in pari tempo lo aveva privato di moltissimi soldati. Aveva ancora pianto di più Manno Barile, vecchio capitano di settant'anni, che lungo tempo aveva militato sotto suo padre, indi lo aveva costantemente servito con somma fedeltà, ed erasi annegato nel Lambro[367]. Altronde Alfonso d'Arragona pareva che volesse prendere la difesa dei Milanesi; egli aveva mandati in diversi tempi due piccoli corpi d'armata, ch'erano entrati nello stato di Parma, e colà poi dispersi da Alessandro Sforza. Queste medesime disfatte potevano agli occhi d'Alfonso essere motivi per mandare in Lombardia più imponenti forze.
La pace fra le due repubbliche era stata sottoscritta in Brescia il 27 settembre, ed il 30 Pasquale Malipieri venne a parteciparne le condizioni allo Sforza. Questa pace lo innalzava al rango de' primi sovrani d'Italia, onde non poteva lagnarsi d'essere stato sagrificato dalla sua alleata. Il territorio della nuova repubblica di Milano doveva stendersi soltanto fra i tre fiumi Adda, Ticino e Po, senza nemmeno comprendere la parte di questa penisola che un tempo appartenne ai Pavesi. Lo Sforza doveva restituire Lodi, e rinunciare ad ogni pretesa sopra Milano, Como ed il loro territorio; del rimanente veniva riconosciuto sovrano di Novara, Tortona, Alessandria, Pavia, Piacenza, Parma e Cremona, colle fertili loro province. Pasquale Malipieri soggiunse soltanto, che accordava venti giorni al conte Sforza per accedere ad un trattato che gli assicurava tanti vantaggi[368].
Ma l'ambizione dello Sforza era andata crescendo colle conquiste, e non potev'essere soddisfatta che collo stato posseduto già da suo suocero; soltanto egli sentiva la necessità d'opporre l'astuzia a questo cambiamento di politica. Accordò ai Milanesi la tregua di venti giorni che gli erano stati domandati, la quale loro non permetteva d'approvigionare la città, e siccome propriamente arrivava alla stagione delle semine, egli accortamente calcolava, che nella speranza di certa pace, gli assediati affiderebbero alla terra quasi tutto il grano che loro rimaneva. Mandò nello stesso tempo tre ambasciatori a Venezia, uno de' quali era lo stesso suo fratello Alessandro, per recarvi la sua adesione al trattato di pace; ma segretamente loro commise di tirare in lungo il trattato, evitando, se possibile fosse, di apporre al trattato le loro firme. In appresso allontanò da Milano le sue truppe, ma conservando tutti i passi che potevano agevolarne il pronto ritorno[369].
Mentre ancora durava questa ingannatrice tregua, morì a Milano d'idropisia il 16 ottobre 1449 Francesco Piccinino. Questo generale aveva cagionato ai Milanesi più mali che beni. Inferiore al padre ed al fratello di talenti, di coraggio, ed ancora di forza di corpo, perdeva talvolta nell'ubbriachezza l'uso delle sue facoltà. I suoi falli avevano apportato alla milizia di Braccio frequenti rotte, che l'avevano umiliata e scoraggiata. Il comando in capo di questa milizia passò dopo la sua morte a suo fratello Giacomo, capitano assai più rapido in ogni movimento, e più valoroso in battaglia. Giacomo fu dai Milanesi riconosciuto generalissimo, e proclamato dalle truppe. Queste per altro, confessando la superiorità dell'ultimo, non lasciavano di sospirare Francesco, il quale si affezionava il soldato colla sua prodigalità e colla sua ingenuità, mentre il secondo veniva notato d'avarizia[370].
Era appena spirato il giorno della tregua, e terminate le semine del Milanese, quando Francesco Sforza dichiarò che non ratificava la pace segnata in di lui nome dai suoi deputati. Per altro, per mettere il suo onore e la sua coscienza in riposo malgrado la sua mala fede, fece ciò che ancora generalmente si fa in Italia, quando vuolsi riconciliare l'opinione pubblica ad un'azione immorale[371]; indusse de' teologi, che ne fanno professione, a scrivere dissertazioni, che sparse in ogni luogo, onde provare che non era tenuto ad osservare un trattato che la sola forza delle circostanze gli avevano fatto conchiudere. Non trasse per altro fuori le sue truppe dai quartieri d'inverno, i quali erano così avvedutamente disposti, che senza abbandonarli poteva continuare il blocco di Milano; ma fece uscire numerose squadre di cavalleria, che guastavano le campagne, e che rompevano ogni comunicazione tra l'armata veneziana e gli assediati.
Il senato veneto, ricevendo questa notizia, risolse di forzare colle armi quest'ambizioso condottiere a stare alle condizioni accettate dai suoi ambasciatori. La signoria ordinò a Sigismondo Malatesta, generale in capo della sua armata, di aprirsi a forza una comunicazione con Milano, e di vittovagliare quella città. Sigismondo passò l'Adda presso Lecco, ed entrò in mezzo alle ridenti colline che separano il lago di Como da quello di Lecco, dette monti di Brianza; colà doveva recarsi il Piccinino, che infatti partì da Milano per raggiugnerlo. Ma lo Sforza colla sua rapidità prevenne la loro unione; battè il Piccinino il 28 di dicembre, respingendolo in Milano, e si portò subito dopo sopra Sigismondo, cui costrinse a ripassare l'Adda dopo avergli fatti molti prigionieri; e così terminò l'anno con una importante vittoria[372].
Cominciò il seguente con un trattato non meno vantaggioso. I suoi ambasciatori, uno de' quali era Bartolomeo Visconti, vescovo di Novara, segnarono per lui il 20 gennajo con Luigi di Savoja un trattato di pace, in forza del quale i due sovrani si guarentivano le vicendevoli loro conquiste. Lo Sforza rinunciava a molti distretti e castelli, che il Piemontese gli aveva tolti ne' territorj di Pavia, di Novara, e di Alessandria; ma era troppo contento di liberarsi a tale prezzo da un formidabile nemico, che avrebbe potuto fare contro di lui una potente diversione, finchè trovavasi impegnato nella presente guerra[373].
La situazione dei Milanesi e quella dello Sforza erano egualmente difficili e pericolose; l'uno e gli altri mancavano di vittovaglie; più non trovavasi grano nelle esauste campagne, e quello che lo Sforza faceva venire da Lodi, appena bastava al mantenimento del terzo della sua armata. I Milanesi trovavano tuttavia de' contadini, che, sedotti da un immenso guadagno, avventuravansi a portar loro vittovaglie con pericolo della vita, mentre le sottraevano accortamente ai soldati dello Sforza, che, le avrebbero prese senza pagarle. Niuna sanguinosa azione affrettava la conchiusione della guerra; l'armata di Sigismondo Malatesta e quella dello Sforza non tenevano la campagna, e gl'Italiani, educati nella mollezza, non supponevano che in mezzo ai rigori dell'inverno si potesse agire alla scoperta. Frattanto i due generali si facevano ne' loro accantonamenti una guerra di scaramucce. Le truppe dello Sforza, alloggiate nelle borgate del Milanese, battevano la campagna per fermare i convogli di viveri; dall'altro canto il Malatesta ed il Coleoni avevano adunati in Bergamo ragguardevoli magazzini, di dove sforzavansi di approvigionare Milano.
Bartolomeo Coleoni, sperando d'aprirsi una comunicazione, passò di nuovo l'Adda, e si avanzò fino a Como. Giacomo Piccinino vi si recò dalla banda di Milano, ed altro non restava da farsi al Piccinino che di tornare per la già fatta strada a Milano coi convogli che il Coleoni gli aveva condotti a Como. Tutti i luogotenenti dello Sforza consigliavano il loro capo a ritirarsi, ed a non ostinarsi a guardare accantonamenti così pericolosi tra una grande città assediata ed un'armata nemica. Lo Sforza si ostinò solo ne' suoi progetti, e senza trar fuori dai quartieri tutta la sua cavalleria, seppe tagliare al Piccinino la strada di Milano. Le ricche borgate del Milanese gli offrivano comodi alloggiamenti, e la sua armata era non meno concentrata che se fosse stata in un campo[374].
Il pericolo raddoppiavasi per le due parti per la slealtà di tutti i capitani, che, non pensando che ad arricchirsi, mettevano continuamente all'incanto l'onore e la fedeltà loro. Il Ventimiglia era entrato in trattati coi Veneziani nello stesso tempo che il Piccinino collo Sforza; ma il primo di cui fu scoperto l'intrigo, venne imprigionato dal conte, e mandato a Pavia; il secondo, non osando di porsi in mano del suo nemico sebbene lusingato dalle più larghe promesse, ruppe il trattato, già condotto molto avanti, e fece morire come falsario il deputato che aveva trattato con lui[375].
Intanto Milano trovavasi in preda a tutti gli orrori della fame: di già i più ricchi avevano mangiati i loro cavalli, i muli ed i cani chiusi con loro, mentre il popolo strappava le radici e le erbe che crescevano lungo le mura, senza che avesse sostanze untuose per cucinarle. Migliaja di poveri erano periti in mezzo alle strade, altri in maggior numero tentavano rifugiarsi nelle campagne; ma lo Sforza, che aveva riposta ogni speranza d'avere Milano nella sola fame, li faceva rientrare di nuovo in città. Le fanciulle sole erano sottratte a così rigoroso ordine, non dalla compassione, ma dall'incontinenza de' soldati[376].
L'armata di Sigismondo Malatesta era più numerosa di quella dello Sforza, ma credesi che questo generale, il quale non mancava nè di abilità, nè di coraggio, non osasse di venire ad una battaglia necessaria alla liberazione di Milano, per timore di soggiacere, quando rimanesse perdente, alla meritata vendetta dello Sforza. Egli aveva in addietro sposata Polissena, figliuola di Francesco, e poco dopo l'aveva fatta perire per isposare un'amica; temeva la sorte d'una battaglia, che poteva esporlo a restar prigioniero di suo suocero mortalmente offeso[377].
I capi del governo di Milano, disposti a tutto soffrire piuttosto che venire sotto la tirannia dello Sforza, si adunarono nel tempio di santa Maria della Scala, e proposero di assoggettare la città al governo di Venezia, onde muovere questa repubblica a difenderla più potentemente. Era questo da lungo tempo l'oggetto della segreta ambizione de' Veneziani e dell'ambasceria del Venieri. Ma mentre stavano deliberando, la sera del 25 febbrajo cominciò un gravissimo tumulto tra la plebe affamata del quartiere di Porta nuova. Il podestà, Domenico da Pesaro, e Lampugnano Birago, uno dei magistrati, furono respinti a sassate. Gaspare da Vimercate e Pietro Cotta si posero alla testa degl'insorgenti, ed attaccarono il palazzo. Un'ala di questo edificio era occupata dalla signoria, un'altra dalla duchessa Maria, vedova dell'ultimo duca. Gl'insorgenti, respinti dalla guardia del primo corpo dell'edificio, entrarono per il secondo e si precipitarono a traverso ai suoi lunghi andatoj per giugnere alle sale del governo. Leonardo Venieri, ambasciatore de' Veneziani, si presentò loro, cercando di trattenerli, ma venne ucciso da que' furibondi. Allora i magistrati fuggirono dal palazzo, che venne occupato dal popolaccio, e l'insurrezione si estese ad altri quartieri della città. Ambrogio Trivulzio, che comandava a porta Romana, cercò invano di resistere, e togliere la patria dalle mani della plebe; all'ultimo si sottomise ancor egli, per non accrescere i mali di Milano coi disastri d'una guerra civile[378].
Il tumulto aveva cominciato la sera, e si era continuato tutta la notte. La mattina del 26 febbrajo i cittadini si adunarono nuovamente in santa Maria della Scala per deliberare intorno a ciò che conveniva di fare; perciocchè quegli stessi insorgenti, che avevano rovesciato il governo, e manifestato tanto furore contro coloro che continuavano la guerra, non avevano verun piano determinato, veruna speranza intorno ai mezzi di farla finire. All'odio contro lo Sforza, radicato in tutti i cuori, aggiugnevasi quello contro i Veneziani, de' quali i Milanesi erano sempre stati gelosi, e che adesso accusavano di essere la cagione d'ogni loro male. Piuttosto che cadere sotto il loro giogo, o sotto quello dello Sforza, alcuni proposero in quest'assemblea tumultuosa di darsi al re Alfonso, altri a quello di Francia, altri al papa, altri al duca di Savoja; ma Gaspare da Vimercate, che prese la parola dopo tutti gli altri, e che avendo lungo tempo servito sotto Francesco gli era segretamente affezionato, non ebbe difficoltà a dimostrare, che il re di Napoli, il re di Francia ed il papa erano così lontani, che il popolo di Milano perirebbe di miseria, prima che potesse essere soccorso. Aggiunse che il duca di Savoja era troppo debole per salvarli, come era stato dimostrato dalla precedente campagna; all'ultimo dichiarò, che, volendosi far cessare all'istante la fame e la guerra, non eravi che un solo spediente possibile, quello cioè di darsi a Francesco Sforza, di cui vantò la clemenza e la bontà, e di riconoscere il genero ed il figliuolo adottivo dell'ultimo duca quale legittimo successore dei Visconti. Questa speranza di così vicina pace, dell'immediata cessazione d'insoffribili mali, produsse nella moltitudine una sorprendente rivoluzione. Quegli che poc'anzi era oggetto di esecrazione, parve a tutti il solo salvatore dei Milanesi, ed il Vimercate fu subito incaricato di portare al conte Sforza le offerte ed i voti di tutto il popolo[379].
Lo Sforza, avvisato di questa rivoluzione, si era posto in cammino da Vimercate, ov'era il suo quartiere, ed avvicinavasi a Milano alla testa della cavalleria. Aveva ordinato ai suoi corazzieri di prendere seco tanto pane quanto ne potevano portare. A sei miglia dalla città trovò la folla dei Milanesi che gli si faceva all'incontro, e senza sospendere la marcia fece dai soldati distribuire il pane che portavano agl'infelici che soffrivano la fame, onde contrarre con loro un legame d'ospitalità col primo beneficio. Giunto a Porta Nuova trovò Ambrogio Trivulzio con un piccolo numero di fedeli cittadini, che prima di lasciargli libero l'ingresso della città volevano imporgli alcune condizioni, e fargli giurare l'osservanza delle leggi della libertà della loro patria; ma più non era tempo di resistere, nè alla soldatesca insolente, nè al medesimo popolaccio, che ad altro non pensava che al cibo ed alla pace di cui voleva godere. Lo Sforza, incoraggiato dal Vimercate e da coloro che lo seguivano, passò avanti senza volersi legare con veruna promessa[380]. Spinto e quasi portato col suo cavallo tra le braccia de' cittadini, venne prima nel tempio di santa Maria a rendere grazie a Dio di questo felice avvenimento, indi passò nella pubblica piazza, ove fu salutato tra mille acclamazioni col nome di principe e di duca. Dispose guardie in molti luoghi della città, occupò le mura e le porte, poi tornò fuori di Milano immediatamente, onde affrettare l'arrivo d'altri convoglj di vittovaglie. Fece pubblicare in tutte le campagne che tutti i commestibili sarebbero ricevuti nella nuova sua capitale senza pagamento di gabella, ed in pari tempo fece a proprie spese trasportare da Cremona e da Pavia grandi convoglj di frumento e di pane da distribuirsi ai poveri. Ne' due susseguenti giorni Monza, Como e Bellinzona, sole piazze forti rimaste in potere dei Milanesi, gli aprirono le loro porte. Sigismondo Malatesta, avvisato della seguìta rivoluzione dai fuochi di gioja che vide farsi in città, ripassò l'Adda coll'armata veneziana; e Francesco Sforza in possesso di tutto il ducato di Milano, pose, finchè durò la cattiva stagione, le sue truppe ne' quartieri d'inverno[381].
Se nell'istante in cui Francesco Sforza conseguiva l'oggetto della sua ambizione, delle sue guerre e della sua politica, egli avesse potuto prevedere l'avvenire, non v'ha dubbio che la sua gioja sarebbesi turbata, paragonando il valor reale dell'acquistato trono col prezzo che gli era costato. «La corona, dice il Ripamonti storico milanese del diciassettesimo secolo, non doveva arrivare fino al sesto erede, e le cinque successioni, per le quali doveva trasmettersi, essere dovevano accompagnate da altrettante tragiche vicende nella sua famiglia. Galeazzo, suo figliuolo, fu, per i suoi delitti e per la sua dissolutezza, ucciso da alcuni gentiluomini contro di lui congiurati in presenza del popolo, innanzi agli altari, in mezzo alle feste consacrate; e l'intera città fu in appresso insanguinata dall'uccisione de' cospiratori. Giovanni Galeazzo, che gli successe, morì avvelenato da Lodovico il Moro, e fu vittima dei delitti dello zio. Questi, fatto prigioniere dai Francesi, morì di dolore in prigione. La sorte d'uno de' suoi figli fu simile alla sua: l'altro, dopo un lungo esilio ed una misera vita, ristabilito già vecchio e senza figli sopra un trono vacillante, vide finire ad un tempo il suo impero e la sua vita. Tale fu la ricompensa del tradimento che soggiogò Milano; e per questo Francesco Sforza passò tutta la sua vita tra gl'inganni, le privazioni ed i pericoli»[382].
CAPITOLO LXXIV.
Politica di Cosimo de' Medici. — Guerra di Piombino tra il re di Napoli ed i Fiorentini. — Ultimi sforzi de' Veneziani e di Alfonso contro lo Sforza sostenuto dai Fiorentini. — Pace di Lodi.
1447 = 1454. Milano mai non sarebbesi conquistata da Francesco Sforza, nè la Lombardia sarebbe diventata la preda di un ambizioso capo di mercenari soldati, se la repubblica di Firenze, quella che aveva fatte fiorire le arti, le lettere antiche, la filosofia e la poesia, non avesse antecedentemente mutato governo. Per lo spazio di cinquant'anni si era veduta quest'illustre città diretta da uomini di stato patriotti, che risguardavano il mantenimento della libertà italiana, come il nobile ufficio della loro repubblica. Giammai non avevano temporeggiato a porsi nella prima linea per opporsi alle usurpazioni di Barnabò e di Galeazzo Visconti, di Ladislao di Napoli, e di Filippo Maria. Maso degli Albizzi e Nicolò d'Uzzano credevano fermamente che la libertà fosse la sola guarenzia della pace e della prosperità d'Italia; che sollevandosi un tiranno non solo schiacciava i proprj suoi sudditi, ma minacciava tutti i vicini; che i vizj e la bassezza di una corte corrompevano col loro fatale esempio i cittadini di uno stato libero chiamati a trattare con lei. Si credevano per dovere obbligati e per coscienza ad abbracciare le difese di un popolo che prendeva le armi per mantenere o per ricuperare la libertà; essi calcolavano meno l'interesse della loro repubblica, di quello che si affidassero alla nobiltà de' loro proprj sentimenti; e perchè non erano meno illuminati che giusti, avevano sentito e fatto riconoscere ai loro concittadini che la più alta prudenza si trova nella più alta virtù, e che una condotta nobile e generosa conduce alla grandezza ed alla gloria.
Sgraziatamente questa memorabile aristocrazia, una delle più brillanti per i talenti, delle più commendevoli per le virtù, delle più scrupolose a favorire la libertà dei popoli, provò, siccome tutto ciò che s'avvicina alla perfezione, la fatale influenza de' tempi. Rinaldo degli Albizzi, meno abile e più prosontuoso di suo padre, abusò di un'autorità che i suoi rari talenti più non rendevano benefica. Venne esiliato co' suoi vecchi amici della libertà, che in tempo della loro amministrazione avevano dato un così nobile carattere alla loro repubblica. Cosimo de' Medici aveva ereditata la loro gloria e la loro autorità: egli raccolse i frutti di tutto quanto essi soli avevano fatto pei progressi dello spirito umano, per lo sviluppo del pensiere e dell'immaginazione, sebbene egli fosse lontano dall'uguagliarli. Eppure Cosimo de' Medici è il solo conosciuto dalla posterità; mentre sono dimenticati gli Albizzi, perchè noi siamo più tocchi dallo splendore che circonda un grand'uomo, che da quello di cui egli stesso è la causa, o perchè possiamo ancora leggere le adulazioni di coloro che incensarono il primo Medici, di Ambrogio Traversari, di Poggio Bracciolino, d'Argirogilo, di Lapo da Castiglionchio, di Benedetto Accolti, di Flavio Biondo, di Giannozzo Manetti e di Leonardo Aretino, che tutti vissero a lui famigliari, che vennero sostenuti dalla sua borsa, e gli dedicarono le scritture colle quali maggiormente contribuirono al rinnovamento delle lettere; ma il governo virtuoso che fece nascere e che formò tutti quegli uomini distinti, e lo stesso Cosimo con loro, non trovò alcuno che lo celebrasse, perchè fu rovesciato nell'istante in cui questi scrittori, di già arrivati al perfezionamento delle loro facoltà, potevano rendere gloria in ricompensa della ricevuta protezione, e perchè la riconoscenza anche tra i più celebri autori sopravvive poche volte al credito dei loro benefattori.
Cosimo de' Medici era non per tanto un grand'uomo, e non ha usurpata la riputazione con cui attraversò i secoli futuri. Questo mercante di Firenze, che in mezzo alla luminosa sua carriera non abbandonò mai il traffico de' suoi padri, che sparse intorno a sè il ben essere ed animò l'industria coll'immensa sua ricchezza, questo mercante era uno de' più destri politici d'Europa, un uomo di squisito gusto nelle arti, d'una vasta erudizione letteraria, di un giusto e profondo giudizio in filosofia, di cui fu uno de' principali ristauratori.
La ricchezza di Cosimo de' Medici, prima cagione della sua potenza e della sua gloria, non apparve senza limiti che perchè questo grand'uomo ebbe la saviezza di rimanersi sempre cittadino. Anche calcolando, non solo le sue entrate, ma i profitti del suo commercio al maximum; egli non dispose mai di più di cinquanta mila fiorini all'anno, circa 600,000 italiane, ed il suo capitale non oltrepassò mai i dugento cinquanta mila fiorini. Questa somma sarebbe stata ben poca cosa pel bellicoso suo amico Francesco Sforza, che ancora prima di essere duca di Milano spese diverse volte più di trecento mila fiorini all'anno. Ma i calcoli degli ambiziosi gl'ingannano sempre; il danaro, che prodigalizzano ai loro soldati per innalzare la loro potenza, li renderebbe veracemente più grandi se lo erogassero nelle arti della pace. Cosimo de' Medici non conobbe il lusso nè nella pubblica nè nella privata sua vita, e nell'una e nell'altra fu veramente grande. Non profuse il suo patrimonio nell'assoldare armate, o nel fomentare intrighi presso le straniere potenze, non cercò d'abbagliare i suoi concittadini nè collo splendore delle vesti e degli equipaggi, nè colla magnificenza della tavola, nè con numerosi servi riccamente vestiti; ma innalzò monumenti alle arti non uguagliati da verun principe d'Europa, estese le sue beneficenze a tutti gli uomini illustri del suo secolo, e coi capi d'opera creati col di lui favore, e coi monumenti dell'antichità ch'egli ci ha conservati, farà sentire i benefici effetti delle sue ricchezze fino alla più lontana posterità[383].
Cosimo de' Medici illustrò la sua munificenza, aprendo al pubblico vaste raccolte di preziosi manoscritti in un'epoca in cui ogni libro era considerato quasi come un tesoro. In occasione del suo esilio a Venezia lasciò per pegno della sua riconoscenza allo stato, che gli avea dato asilo, una pubblica biblioteca nel convento di san Giorgio, che vi si mantenne fino al 1614[384]. Uno de' suoi compatriotti, Niccolò Niccoli, poco ricco cittadino, aveva adunati ottocento manoscritti latini, greci ed orientali, molti de' quali erano stati da lui copiati ed arricchiti di utili commenti. L'aveva, morendo, legata al pubblico sotto la cura di sedici deputati; ma fu Cosimo che procurò ai Fiorentini il godimento della liberalità del Niccoli, pagando tutti i suoi debiti, e stabilendo a sue spese questa biblioteca nel convento di san Marco, che aveva fatto magnificamente fabbricare[385]. Nello stesso tempo la privata sua collezione fu il primo fondo della biblioteca, che da suo nipote ebbe poi il nome di Laurenziana[386].
Cosimo de' Medici, alzandosi tra i primi contro il primato che la filosofia d'Aristotile aveva ottenuto nelle scuole, seguì le lezioni di Gemistio Pleto, uno dei greci teologi del concilio di Firenze; acquistò da lui un vivissimo gusto per la filosofia platonica, e destinò uno degli scolari di Pleto, Marsilio Ficino, ad essere il ristauratore dell'accademia. Gli fece dare un'educazione tutta diretta a questo scopo, ed egli, più ancora che l'allievo da lui scelto, fu il padre dei nuovi Platonici[387]. Le sue immense ricchezze, le sue corrispondenze, che abbracciavano tutto il mondo conosciuto, erano costantemente impiegate in servigio dell'erudizione; dietro inchiesta del Poggio o del Traversari egli incaricava i commessi delle sue case di commercio di comperare, o di far copiare i manoscritti che altri dotti avevano scoperti in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Grecia ed in Siria. Palazzi, conventi, chiese, venivano innalzati a sue spese in ogni città nel territorio, ed egli faceva in tal modo godere del lusso delle belle arti i poveri cittadini d'uno stato libero, mentre incoraggiava il genio del Michelozzi e di Filippo Brunelleschi. Egli fu l'amico ed il protettore di Donatello e di Masaccio, ai quali la scultura e la pittura devono i rapidi loro progressi. In mezzo alla protezione ch'egli accordava a tutti i lavori eleganti o utili, non dimenticò l'agricoltura, ed i suoi due poderi di Careggi e di Caffagiuolo, di cui tanto amava il soggiorno, vennero arricchiti dalle cure e dall'intelligenza di questo agricoltore consolare.
Non pertanto è come uomo di stato che Cosimo de' Medici ottenne la più grande riputazione, ed in questa carriera, in cui sparse così luminosi raggi, la sua gloria non va esente da ogni rimprovero. Conoscendo profondamente gli uomini e l'arte di guidarli, egli si mostrò in particolar modo fermo ne' suoi progetti, paziente, coraggioso, irremovibile; ma la di lui politica, invece di essere mossa da superiori considerazioni, tutta si riferiva a lui solo; e le viste del personale interesse sono più corte di quelle dell'amore della patria o della libertà. Cosimo, volendo internamente ed esternamente assicurare il poter suo e quello della sua famiglia, fece perdere a Firenze ciò che formava la sua gloria e la sua grandezza; volendo farsi al di fuori un potente alleato, che gli fosse personalmente affezionato, ruppe le antiche alleanze della sua patria, e la fece rinunciare a massime, che non erano state meno savie che generose. Cosimo de' Medici conservò Firenze libera, senza mostrare troppo attaccamento per la libertà. Sotto colore d'impedire le sommosse popolari ristrinse l'oligarchia tra le mani del minor numero possibile; nel 1452 fece attribuire il diritto di nominare la signoria a cinque soli cittadini, non senza eccitare la diffidenza e le lagnanze degli amici della patria[388]. Impiegò contro i suoi nemici severe e violenti misure, che scossero dai fondamenti la costituzione, ed egualmente ferirono gl'individui; sostituì allo spirito di corpo, che animava gli Albizzi, uno spirito di famiglia che riferitasi soltanto ai Medici; si sforzò d'uscire dall'eguaglianza repubblicana, mentre i suoi concittadini sforzavansi di mantenervelo. Cercò nell'amicizia di Francesco Sforza un appoggio di cui conoscevasi bisognoso, assai più per sè stesso che per la repubblica; talvolta, se dobbiamo prestar fede al Simonetta, diede a questo amico tali consiglj, che ben dimostrano che la sua politica non era frenata da verun principio di lealtà[389]. Persuase all'ultimo Firenze a secondare lo Sforza nell'oppressione dei Milanesi, mentre le inclinazioni non meno che l'interesse de' Fiorentini dovevano preferire in Lombardia uno stato libero, che servisse di contrappeso all'ambiziosa oligarchia veneziana, ed alla militare monarchia di Napoli.
Vero è che i Fiorentini non erano rimasti oziosi durante la guerra di Milano, nè affatto liberi nella scelta del partito cui dovevano appigliarsi. In sul cominciare della state del 1447, mentre ancora viveva Filippo Maria, e che i Fiorentini, uniti ai Veneziani, cercavano di terminare nel congresso di Ferrara la loro guerra con questo principe, Alfonso, re di Napoli, fece ribellare la piccola fortezza di Cennina, in val d'Arno di sopra, e vi mandò guarnigione per aprirsi l'ingresso della Toscana, qualunque volta vi volesse condurre l'armata che in allora aveva adunata a Tivoli. Per altro non prese le opportune misure per difendere questo castello, lasciando che i Fiorentini lo ripigliassero dopo quindici giorni[390]. Le rivoluzioni di Lombardia e la morte di Filippo lo tennero senza dubbio incerto per qualche tempo intorno alla condotta che doveva tenere; per altro seppesi alla fine di settembre, che aveva sotto i suoi ordini sette mila cavalli, quattro mila fanti e quattro mila foraggeri; che si era innoltrato fino a monte Pulciano, ai confini dello stato di Siena, e che aveva cercato di guadagnarsi quest'ultima repubblica. Gli ambasciatori Giannozzo Pitti e Bernardo Medici, che gli furono mandati, riferirono che voleva staccare i Fiorentini dall'alleanza di Venezia, e difendere così la Lombardia, al di cui possedimento aspirava essendovi chiamato dal testamento di Filippo Maria[391]. Entrò in fatti nel territorio fiorentino per la provincia di Volterra; colà come pure nelle Maremme di Pisa occupò alcune castella di non molta importanza, e fermossi in dicembre innanzi a quello di Campiglia, che gli oppose un'ostinata resistenza. Dal canto loro i Fiorentini avevano nominati i decemviri della guerra; avevano chiamato al loro soldo Federico, conte di Montefeltro, ed in appresso Sigismondo Malatesta; gli avevano rappattumati l'uno coll'altro, e non avevano perduto tempo nel levare un'armata, e porsi in istato di difesa[392].
La vigorosa resistenza di Campiglia costrinse il re a levare l'assedio, ed a prendere i quartieri d'inverno nelle Maremme presso alle ruine dell'antica Populonia. Non era in allora lontano che tre miglia da Piombino, e si propose d'assicurarsi di questo forte castello. Piombino, altravolta povera borgata in mezzo a campagne quasi abbandonate, era diventato nel 1399 un piccolo principato, ov'erasi ritirata la casa d'Appiano, dopo avere tradita la repubblica di Pisa. Giacomo I d'Appiano aveva afforzato il castello, aveva sparso qualche danaro nella coltivazione di quelle fertili ma insalubri campagne, e renduto alquanto mercantile il suo piccolo porto. Egli morì, e sua figlia Catarina portò come dote il principato di Piombino a suo marito Rinaldo Orsino. Questi aveva precedentemente avuto qualche contesa coi Fiorentini, ma aveva imparato dall'esempio del conte di Poppi quanto fosse pericolosa cosa l'abbracciare contro la repubblica il partito d'un lontano monarca, che non mancherebbe in appresso di abbandonarlo e di sagrificarlo. Chiuse dunque il proprio castello ad Alfonso ed ai suoi soldati, ricusò loro i viveri, ed eccitò in modo lo sdegno del re, che questi, nel seguente marzo, dopo avere nuovamente minacciata Campiglia, si ripiegò bruscamente sopra Piombino, e ne intraprese l'assedio[393]. L'Orsini erasi posto sotto la protezione della repubblica di Siena, e colla frase di quel tempo, chiamavasi suo raccomandato; ma Siena non era abbastanza forte per proteggerlo, onde s'addirizzò a Firenze, e Lucca Pitti, che in allora era gonfaloniere di giustizia e pareggiava di credito Cosimo de' Medici, promise che la repubblica lo difenderebbe come se fosse uno stato suo.
In fatti le galere fiorentine condussero a Piombino l'otto luglio trecento fanti ed un approvvigionamento di polvere e di piombo[394]. Questo convoglio doveva bentosto essere seguito da un altro più considerabile, ma Alfonso, che risguardava l'acquisto di Piombino come cosa di molta importanza, perchè il suo porto poteva in ogni tempo aprirgli la Toscana, fece venire in quelle acque una flotta napoletana per assediarlo ancora dalla banda del mare. In pari tempo questa flotta assicurava ai Napoletani abbondanti convoglj di provvigioni, mentre un'armata fiorentina, ch'erasi avanzata fino alle alture di Campiglia, si vedeva chiusa la strada dall'armata d'Alfonso, e trovavasi mancante di provvigioni d'ogni sorta e particolarmente di vino, necessario ai soldati in un clima insalubre, ove le acque sono infette e l'aere pestilenziale[395].
Le due armate napoletane e fiorentine, poste sulle alture come sopra un anfiteatro, e gli abitanti di Piombino dall'alto delle loro mura consideravano inquieti il vasto mare di dove potevano giugnere tutti i loro convoglj. Dieci galere napolitane, comandate da Garcilasso di Requesens, stavano presso la riva. I Fiorentini non ne avevano che quattro; ma o perchè confidassero nella grandezza e nella superiorità de' loro movimenti, o perchè tentar volessero ad ogni costo la liberazione di Piombino, essi non temettero di attaccare la flotta reale la sera del 15 luglio 1448. La battaglia durò cinque ore protraendosi fino a notte avanzata. La presenza delle due armate, che non levavano gli occhi da una battaglia per loro decisiva, e le grida dei soldati, che cercavano d'incoraggiare i loro ausiliari, rianimavano la pugna quando era in sul punto di terminarsi per la spossatezza de' combattenti; ma dopo prodigj di valore, i Fiorentini furono vinti. Due galere caddero in mano de' nemici e le altre due, gravemente danneggiate nei loro attrezzi e dopo avere perduta molta gente, si salvarono a stento[396].
Dopo la perdita di queste navi, Neri Capponi, che comandava l'armata fiorentina col titolo di commissario, risolse di ritirarsi. Allontanandosi da Piombino andò ad assediare alcuni castelli delle Maremme, che il re aveva occupati nel precedente autunno e li prese tutti. Intanto persuase i suoi compatriotti a rifiutare le proposizioni di pace di Alfonso, perchè il primo articolo richiedeva l'abbandono del signore di Piombino.
Questi già da oltre tre mesi difendevasi vigorosamente; l'armata di Alfonso era indebolita dalle malattie; in quella pestilenziale campagna erano omai periti più di mille soldati napolitani di febbre maremmana, e quasi tutti gli altri n'erano affetti. Frattanto l'artiglieria d'Alfonso avendo rovesciata una delle torri che sostenevano le mura di levante, egli risolse di dare un ultimo assalto alla piazza alla metà di settembre. Divise l'armata tra Pietro di Cordova ed Inigo di Guevara, facendo nello stesso tempo avvicinare la flotta comandata da Berlinghieri Barili, e dopo di avere incoraggiati i suoi soldati con tutto ciò che poteva risvegliare l'orgoglio e la cupidigia loro, o il desiderio della vendetta, spinse le sue truppe all'assalto, e in questo i Catalani rivalizzarono coi Napolitani, dispiegando agli occhi del re tutta la loro bravura. Dall'altra parte Rinaldo Orsini, avendo adunati gli abitanti di Piombino e la sua piccola guarnigione, fece loro sentire che se soccumbevano, non caderebbero in mano d'Italiani, ma di barbari soldati, che non intendevano il loro linguaggio, e che non conoscevano nè le leggi della guerra nè quelle dell'umanità. Fece porre le femmine dietro i loro mariti e fratelli per somministrar loro munizioni e rinfreschi; ed egli stesso, precedendo gli altri col suo esempio, fu maravigliosamente secondato dagli abitanti e dai soldati. Gli assediati aggiugnevano alle armi comuni dei fiumi d'olio bollente e di calce viva, che, penetrando sotto le armature degli assalitori, cagionavano loro insopportabili dolori. Nello stesso tempo i vascelli catalani si avanzavano dalla banda della Rocchetta; alcuni battelli, pieni di gente armata, ed innalzati con carrucole fin all'altezza degli alberi, dovevano trovarsi a livello delle mura, attaccarvisi con uncini, e dare in tal modo un facile passaggio agli assalitori. Ma un avventurato colpo di bombarda, partito dalla Rocchetta colpì, nel mezzo uno de' battelli, e tutto lo fracassò; gli altri, sebbene avessero più volte lanciati i loro arpesi, mai non riuscirono ad afferrare la muraglia. La battaglia durava già da più ore con uguale accanimento, quando i Napolitani si videro improvvisamente alle spalle alcuni squadroni di cavalleria fiorentina. Credettero fermamente che il Capponi riconducesse tutta la sua armata per attaccarli a' piedi di quelle medesime mura, ove omai sentivansi oppressi da soverchia fatica: non vollero esporsi all'incerta sorte di una nuova battaglia, e si ritirarono al loro quartiere[397]. Alfonso, scoraggiato da quest'ultimo tentativo, levò l'assedio di Piombino. In pari tempo abbandonò la Maremma, ove la febbre gli aveva tolta assai più gente che il ferro nemico: ricondusse la sua armata a Roma, ed in appresso a Napoli per rifarla durante l'inverno; e sebbene minacciasse la repubblica di vendicarsi contro di lei nel susseguente anno, più non tornò a fare triste sperimento della funesta influenza di un clima mortifero, contro il quale spesso non vale il coraggio del più valoroso soldato[398].
Poichè si fu il re ritirato, i Veneziani fecero istanze ai Fiorentini di mandar loro soccorsi in forza dell'alleanza tra loro esistente, e di ajutarli a rialzarsi dalla loro disfatta di Caravaggio. Effettivamente i Fiorentini mandaron loro Sigismondo Malatesta con due mila cavalli è mille pedoni; questa è la sola parte che scopertamente essi presero nella guerra del Milanese, nella quale fin allora avevano voluto mantenersi neutrali. Ma quando in sul finire di settembre del 1449 i Veneziani fecero una pace parziale coi Milanesi, il conte Sforza, rimasto solo in guerra contra questi due popoli, fece calde istanze alla repubblica fiorentina perchè gli accordasse quella protezione, cui andò debitore della propria salvezza nelle guerre della Marca. Nello stesso tempo eccitò Cosimo de' Medici a non mancare all'antica loro amicizia, e Cosimo gli fece rendere venti o venticinque mila scudi, che gli erano dovuti dalla repubblica per un reso conto per lo meno controverso[399]. Inoltre gli prestò del proprio più grosse somme; egli avrebbe pur voluto far entrare la repubblica in un'alleanza aperta collo Sforza, ma ne fu impedito dall'opposizione di Neri Capponi. Neri, il miglior negoziatore ed il più bravo guerriero che avessero i Fiorentini, uomo di grandissima autorità per i meriti del padre e pei proprj, era stato a vicenda incaricato d'importantissime ambascerie, e del comando delle armate col titolo di commissario. La di lui riputazione erasi accresciuta per la vittoria riportata ad Anghiari sopra il Piccinino, e per la negoziazione del precedente anno, colla quale aveva saputo rappattumare ed armare in favore della repubblica Sigismondo Malatesta e Federico di Montefeltro, e più recentemente per avere comandata l'armata che costrinse Alfonso a levare l'assedio di Piombino. Egli solo tra gli uomini di stato di Firenze aveva conservato lo stesso rango e lo stesso credito in tempo dell'amministrazione degli Albizzi e dei Medici. Egli non amava Cosimo, nè da questi era amato; aveva motivo di credere, che in odio suo avessero i partigiani di Cosimo fatto perire Baldaccio d'Anghiari, capitano dell'infanteria e suo amico, e dal canto suo temeva l'appoggio che poteva dare ai Medici l'amicizia di un gran generale; ma indipendentemente da questi personali motivi egli credeva che Firenze, come repubblica, avesse obbligo di sostenere la repubblica di Milano; che per l'equilibrio d'Italia fosse necessario che due stati liberi si dividessero la Lombardia; che un soldato avventuriere, diventato sovrano degli stati di Filippo, sarebbe le mille volte più formidabile di quello che lo fosse stato lo stesso Filippo, o quel medesimo soldato non essendo che condottiere; che nella lotta tra lo Sforza ed i Veneziani, il primo, qualora uscisse vincitore, dimenticherebbe bentosto la sua riconoscenza per tener dietro ai progetti de' suoi predecessori; che se per lo contrario i Veneziani ottenevano di ridurre i Milanesi a porsi tra le loro braccia, sarebbero in breve padroni di tutta l'alta Italia, e che omai conoscevasi quanto si doveva temere dalla politica e dall'ambizione loro. Da lungo tempo Neri Capponi avrebbe voluto che Firenze avesse impiegata la potente sua mediazione a condurre una pace che assicurasse la repubblica milanese. Credeva per altro che si fosse ancora in tempo di soccorrerla; la salute della patria sembravagli attaccata all'indipendenza di questa repubblica, e parevagli che si dovesse ad ogni patto impedire che stati così potenti e formidabili ai loro vicini passassero da un governo civile, che rispetta le leggi ed i trattati, ad un governo militare che non conosce altre regole che i capricci d'un uomo.
Dall'altra parte Cosimo de' Medici sosteneva che una repubblica non poteva formarsi nè mantenersi che presso popoli virtuosi; ch'era assurdo il fondare speranze sopra coloro ch'erano corrotti dal despotismo, che i Milanesi e gli altri Lombardi eransi sempre mostrati poco gelosi d'una libertà tante volte da loro sagrificata; che le fazioni che laceravano la nuova repubblica, ed il sangue di già versato, indicavano la prossima sua caduta; e che, dovendo i Fiorentini avere per vicini in Lombardia un governo assoluto, meglio era che fosse quello del conte loro amico, che non quello de' Veneziani loro rivali, o d'un tiranno che si solleverebbe colle proprie forze, e ch'essi ancora non conoscevano[400]. I consiglj, divisi fra due uomini di tanta autorità nella repubblica, non sapevano a quale partito appigliarsi, e Cosimo si adoperava per accrescere la loro lentezza. Finalmente, dopo avere molto tardato, spedirono ambasciatori al conte con ordine di esaminare le stato delle forze sue e di quelle dei Milanesi, e di non sottoscrivere con lui trattati d'alleanza che nel caso che vedessero apertamente non essere possibile che Milano si salvasse. Questi ambasciatori non erano per anco giunti a Reggio, che seppero essere il conte salito sul trono di Filippo Maria[401].
Qualunque si fosse l'incertezza de' consigli il popolo di Firenze mostrò la più sincera gioja per la vittoria di Francesco Sforza. Egli vedeva sottentrare alla casa Visconti, sua acerba nemica da oltre un secolo, una casa che in certo modo gli doveva la propria grandezza, e sua antica alleata. Lusingavasi di trovare finalmente de' fedeli amici in que' Milanesi, le di cui forze tutte e tutte le ricchezze erano state costantemente impiegate a danno suo. Per ciò vollero i Fiorentini presentare con magnifica ambasciata le loro felicitazioni a Francesco Sforza; e gli vennero deputati gli stessi capi della repubblica. Furono scelti Pietro, figlio di Cosimo de' Medici, Neri Capponi, Lucca Pitti e Diotisalvi Negri. Tranne Cosimo, questi quattro uomini erano i più riputati cittadini di Firenze; l'accoglimento loro fatto da Francesco Sforza corrispose a così onorevole scelta. Egli espresse loro con vivacità la costante sua intenzione di vivere e di morire amico dei Fiorentini, e di mostrar loro una riconoscenza proporzionata agli ajuti che nel corso di vent'anni aveva ricevuti dalla repubblica[402].
Francesco Sforza stava in allora occupato a celebrare il suo coronamento con feste e tornei, a sorprendere il popolo, ad affezionarsi la nobiltà coi favori che le accordava, a rialzare le fortezze, ed in particolare quella di Porla Zobia ch'era stata atterrata in tempo della libertà, finalmente ad assicurarsi coll'esilio o colla prigione di coloro che si erano mostrati più affezionati al governo da lui distrutto[403].
Il nuovo duca era stato senza difficoltà riconosciuto da tutti gli stati d'Italia; ma gli oltramontani parevano più disposti a contestargliene i diritti. L'imperatore Federico III riclamava la prerogativa sua propria di creare i duchi nelle terre dell'impero: a' suoi occhi il ducato di Milano aveva cessato colla linea dei Visconti, i di lui stati erano ricaduti alla diretta dell'impero, e lo Sforza era un usurpatore: dal canto suo Carlo VII, re di Francia, non conosceva altro duca di Milano che suo nipote, il duca d'Orleans, figliuolo di Valentina Visconti[404]. Per altro veruno di questi sovrani sembrava apparecchiato a far valere le proprie ragioni colle armi, nè lo Sforza prevedeva alcun movimento militare per parte della Francia o della Germania. Propriamente parlando non trovavasi l'Italia nè in pace nè in guerra. L'armata veneziana aveva ripassata l'Adda, ed afforzava il ponte conservato a Rivalta, senza però commettere veruna ostilità[405]. Una stanchezza, uno spossamento generale, forzavano al riposo queste potenze, che avevano così lungo tempo combattuto. Altronde una calamità d'un altro genere bastava in allora per opprimere i popoli, ed occupare i governi; la peste, conseguenza di tanti patimenti e privazioni, era scoppiata in Lombardia. Manifestassi prima a Milano, ove la fame avevale apparecchiata la culla[406]; ed il giubileo, accordato pel 1450 da Niccolò V, fu cagione che i pellegrini la diffondessero di città in città. Il contagio fece perdere a Milano trenta mila abitanti; a Lodi venne di buon'ora fermato dalla vigilanza del governo; ma Piacenza rimase pressochè diserta; altre città soffrirono egualmente assai, e non fu risparmiata Roma, dove i pellegrini portavano il suo veleno. Il papa si ritirò prima a Spoleti, poi a Foligno, indi a Fabriano, ma i suoi sudditi, che non potevano imitarlo furono vittima di una immatura divozione[407].
Prima di ricominciare la guerra, gli stati d'Italia avevano inoltre bisogno di conoscere quali fossero i veri loro interessi, di sapere quali alleanze loro fossero più utili, quale sistema di politica dovevano seguire dopo che le precedenti loro combinazioni erano tutte mutate. Per lungo tempo le due repubbliche avevano fatto testa al re di Napoli ed al duca di Milano; ma dacchè Firenze, abbandonando il suo antico sistema, si associava al duca, la repubblica di Venezia doveva accostarsi al re di Napoli. Ne' precedenti anni però avevano avuto luogo alcune ostilità tra Alfonso ed i Veneziani a cagione di qualche vascello mercantile predato dai corsari di Napoli. Luigi Loredano, ammiraglio della repubblica, incaricato di vendicarsi, aveva bruciate quarantasette navi nel porto di Siracusa in sul finire del 1449, ed aveva guastate le coste della Sicilia e di Napoli[408]. Ma un odio comune contra lo Sforza riconciliò queste due potenze, mentre i Veneziani perdonare non sapevano ai Fiorentini il loro rifiuto di ajutarli nell'ultima guerra, nè i secreti sussidj che sospettavano essere stati da loro mandati a Francesco Sforza. Lo stesso popolo che aveva ajutato Venezia a conquistare Verona, Brescia, Bergamo, e tanta parte della Lombardia, mostravasi ormai geloso della sua grandezza e si era scopertamente rallegrato dei vantaggi del suo nemico. Il senato de' Veneziani, profondamente offeso da tale abbandono di un'antica alleanza, mostrava verso i Fiorentini tant'odio, e tanta diffidenza, quant'era stata in addietro la sua confidenza in loro.
Le potenze che occupavano in Italia il secondo od il terzo rango non erano meglio stabilite nelle loro alleanze. Il marchese di Mantova, i di cui stati erano quasi da ogni banda circondati da quelli della repubblica di Venezia, mostravasi sconcertato nella sua politica. Luigi III era succeduto nel 1444 a suo padre Giovan Francesco di Gonzaga. Vittorino da Feltre, chiarissimo professore di belle lettere, aveva educato questo principe il di lui fratello e la sorella in una scuola, dal maestro intitolata la casa del piacere, nella quale aveva ricevuti sufficienti alunni per mantenere fra loro l'emulazione[409]. Luigi III mostrossi degno della fama del suo maestro coi progressi che fece nell'antica letteratura, e colla protezione che accordò ai dotti. Ma le sue pubbliche e private virtù non corrisposero alle sue cognizioni ed ai suoi talenti. Spogliò il fratello Carlo della sua parte della paterna eredità; e si videro questi due Gonzaga, nemici l'uno dell'altro, abbracciare opposte parti in tutte le guerre d'Italia. Carlo, alternativamente attaccato allo Sforza ed ai Milanesi, aveva spesso dato prove della sua mala fede. Era di nuovo ai servigj dello Sforza, quando questi occupò Milano, e venne fatto comandante della piazza da quello stesso principe, contro al quale pochi mesi prima aveva difesa la stessa città; in premio de' suoi servigj ricevette dallo Sforza il governo di Tortona: ma nello stesso tempo all'incirca Luigi Gonzaga, o perchè fosse scontento de' Veneziani, o per servire alla propria incostanza, cominciò a trattare col duca di Milano. I due fratelli non vollero trovarsi sotto le medesime insegne. Troppo difficile cosa sarebbe oggi lo scifrare a traverso delle reciproche loro accuse da qual parte stesse la ragione, se pure stava da qualche parte. È noto soltanto che Carlo Gonzaga fu arrestato il 15 novembre del 1450 per ordine di Francesco Sforza, e chiuso nella fortezza di Binasco; che gli furono tolti nello stesso tempo Tortona ed il comando delle truppe; che in appresso fu posto in libertà pel prezzo di 60,000 fiorini d'oro, e relegato nella Lumellina; ma che quando potè fuggire, lasciò il luogo del suo esilio per passare a Venezia, ove prese servigio contro il fratello e contro il duca di Milano, mentre Luigi Gonzaga erasi alleato collo Sforza contro i Veneziani[410].
I marchesi di Ferrara erano più potenti che quelli di Mantova, ma erano di più pacifica natura. I figli di Niccolò III erano stati educati da Guarino di Verona, e questo dotto grecista aveva saputo ispirar loro il gusto delle lettere e della poesia, la passione pei monumenti dell'antichità, per l'eleganza, per il lusso. Sebbene Lionello, il maggiore di questi principi, avesse in seguito, uscendo dalla scuola del Guarino, imparata l'arte della guerra nella milizia di Braccio, portò nel suo governo disposizioni affatto pacifiche, quando regnò dal 1441 al 1450. Fece fiorire gli stati di Ferrara e di Modena col commercio e coll'agricoltura, si circondò, non di soldati, ma di dotti e di poeti, coi quali rivalizzava egli medesimo, e cercò di ridurre i principi suoi vicini a godere, com'egli, dei beni della pace[411]. Aveva adunato in Ferrara il congresso che pareva in sul punto di pacificare l'Italia, quando Filippo morì, e Lionello vi aveva con imparzialità e con moderazione sostenute le parti di mediatore. L'ambizione de' Veneziani, cui si apriva un nuovo campo, rendette allora vane le sue fatiche; ma nel 1450 si offerse di nuovo per mediatore tra i Veneziani ed il re Alfonso, di cui aveva sposata la figliuola Maria. Gl'interessi di queste due potenze cominciavano ad essere gli stessi; le vicendevoli offese vennero facilmente dimenticate, e Lionello ebbe la soddisfazione di far loro sottoscrivere il 2 di luglio un trattato di pace[412]. Non sopravvisse lungo tempo a questa negoziazione, essendo morto a Belriguardo il primo ottobre del 1450. Ebbe per successore suo fratello Borso, come lui illegittimo, a preferenza di Niccolò suo figlio, ancora fanciullo, e de' suoi fratelli Ercole e Sigismondo nati di legittimo matrimonio. Borso, non meno di Lionello affezionato alle scienze ed alle arti della pace, si mantenne alleato dei Veneziani senza però prendere parte nella guerra che stavano per cominciare; ed accettò la mediazione dei Fiorentini, nemici de' suoi alleati, per troncare alcune ostilità scoppiate tra i suoi sudditi delle montagne Modenesi, ed i Lucchesi[413].
Il duca di Milano confinava all'occidente col marchesato di Monferrato e col ducato di Savoja. Lo Sforza aveva offesa la casa di Monferrato, facendo imprigionare Guglielmo, che aveva lungo tempo militato sotto le sue insegne, ed era fratello del principe regnante. Lo rilasciò il 26 maggio a condizione che questo generale gli restituirebbe la signoria d'Alessandria. Egualmente aveva fatto imprigionare Carlo Gonzaga, cui avea resa la libertà mercè la cessione di Tortona. Una tale condotta tenuta verso due capitani, cui il duca aveva donate due città come prezzo de' loro servigj, dà motivo di credere che il solo loro delitto fosse quello d'avere richiesti troppo ricchi compensi. Ma tostochè Guglielmo trovossi negli stati di suo fratello, egli protestò contro una cessione estorta colla violenza, e persuase il marchese di Monferrato ed il duca di Savoja ad allearsi coi Veneziani, prendendo di concerto le armi contro il loro ambizioso vicino.
Mentre le pratiche degli ambasciatori, secondati dall'irritamento degli spiriti, gettavano ovunque i semi di una nuova guerra, altre negoziazioni tendevano altresì a ristabilire la pace. Ve n'ebbero di dirette tra lo Sforza ed i Veneziani; il primo domandava soltanto la restituzione dei due castelli di Brivio e di Rivalta, che la repubblica voleva conservare per aprirsi l'ingresso nel Milanese, in caso che si riaccendesse la guerra[414]. Altre si trattarono alla corte di Napoli da due ambasciatori fiorentini, Franco Sacchetti, renduto celebre dalle sue novelle, e Giannozzo Pandolfini. Parve che ottenessero un felice esito, essendosi firmata la pace tra il re Alfonso ed i Fiorentini il 29 giugno del 1450, a condizione che il signore di Piombino pagherebbe al re un annuo tributo di cinquecento fiorini d'oro[415]. Ma nel tempo medesimo altre negoziazioni di ben diversa natura si continuavano tra la repubblica di Venezia ed il re di Napoli, cui il desiderio di vendicarsi delle loro precedenti disfatte, acciecava ugualmente sul vantaggio de' loro stati e de' loro popoli. I Veneziani non ebbero appena firmata la nuova loro alleanza col re, che cominciarono a far conoscere ai Fiorentini il loro irritamento, aggravando di grosse gabelle i mercanti forastieri che trafficavano nella loro città, e le stoffe che importavano[416]. Matteo Vettori, ambasciatore veneziano, passò in appresso a Firenze con Antonio di Palermo, il celebre segretario di Alfonso, ed il 6 marzo del 1451 comunicarono alla signoria la nuova alleanza dei due stati. Dichiararono che lo scopo loro non era stato quello di riaccendere la guerra, ma bensì il desiderio di conservare la pace d'Italia. Per altro il Vettori si valse di quest'opportunità per rinfacciare ai Fiorentini il passaggio accordato ad Alessandro Sforza a traverso alla Lunigiana nella precedente guerra, ed il danaro sovvenuto a suo fratello. Cosimo de' Medici rispose a queste imputazioni, e rintuzzò con molta nobiltà le indirette minacce che il Vettori aveva frammischiate al suo ragionamento. Ricordò i soccorsi prestati dai Fiorentini ai Veneziani dopo la rotta di Caravaggio, a quei medesimi Veneziani che rifiutato avevano pochi mesi prima di soccorrerli contro Alfonso; rinfacciò loro di avere strascinati i Fiorentini, senza consultarli nella guerra collo Sforza, e d'avere, senza consultarli, pure fatta col medesimo la pace. Per altro i Fiorentini avevano accettata questa pace, colla quale si era rinnovata l'amicizia da lungo tempo esistente fra essi e lo Sforza, e che il solo bisogno de' Veneziani aveva potuto far loro dimenticare; egualmente senza interpellarli, e senza neppure avvisarli, Venezia erasi in appresso disgustata con questo generale. Ma l'incostanza de' consigli di san Marco, o le variazioni della loro politica, che nemmeno erano state notificate a Firenze, non bastavano ad alienare i Fiorentini dal loro antico capitano, diventato duca di Milano[417]. Parve che l'ambasciatore veneziano ammettesse la verità di queste allegazioni, e ch'egli si ritirasse soddisfatto. Per altro il 20 giugno susseguente tutti i Fiorentini ed i loro sudditi ebbero ordine di uscire dal territorio di Venezia[418]; e lo stesso giorno si pubblicò in Napoli un'eguale notificazione. I Veneziani tentarono di far emanare un somigliante ordine da Costantino Paleologo, l'ultimo imperatore d'Oriente; ma questo sventurato principe, omai vicino a vedersi tolti dalle armi turche l'impero e la vita, non era disposto a crearsi nuovi nemici[419].
I Veneziani si provarono altresì di sollevare contro Firenze le due repubbliche più vicine. Cercarono prima l'alleanza de' Sienesi per aprirsi la porta della Toscana, ma i Sienesi non accettarono la loro alleanza che a condizione che non accorderebbero il passaggio ad alcun'armata destinata a turbare il riposo di Firenze. Per istaccare Bologna dai Fiorentini, i Veneziani credettero necessario di ricondurvi la fazione dei Canedoli contraria a quella dei Bentivoglio. Fecero gustare la loro alleanza ai signori di Coreggio e di Carpi, che s'accostarono a Bologna il sette di giugno con circa tre mila cavalli. Un rastrello, destinato a chiudere un canale, venne di notte aperto ai Canedoli, i quali entrarono in città ed occuparono la piazza maggiore. Ma mentre i medesimi magistrati abbandonavano il palazzo pubblico, Santi Bentivoglio, postosi alla testa dei partigiani della sua famiglia, caricò vigorosamente i ribelli, li rispinse fuori delle mura, e mostrò con questo primo fatto ch'era degno del nome che gli si era fatto prendere. Spedì subito dopo un'ambasciata a Firenze per rinfrescare la sua alleanza e quella di Bologna con questa repubblica[420].
I Fiorentini conobbero facilmente per così manifeste animosità, che sarebbero attaccati tostocchè spirasse la loro alleanza con Venezia, val a dire in principio del seguente anno. Si apparecchiarono perciò dal canto loro a vicine ostilità; il 12 giugno nominarono i decemviri della guerra, e posero tra questi magistrati Cosimo de' Medici, Neri Capponi, Angelo Acciajuoli, e Luca degli Albizzi. Erano questi i più riputati politici dell'Italia. Strinsero col duca di Milano un'alleanza, colla quale guarentivansi reciprocamente i loro stati; assoldarono Simoneta di Campo Sampiero, ch'era stato altre volte al loro servigio, ed aspettarono gli avvenimenti[421].
Il cominciamento delle ostilità venne inoltre ritardato da una circostanza che ne' precedenti secoli avrebbe potuto essere cagione d'importanti rivoluzioni. Era il viaggio in Italia di Federico III, che veniva a cercarvi la corona dell'impero. Sigismondo, l'ultimo degl'imperatori coronato dal papa, aveva mal sostenuta la dignità dell'impero nelle ultime sue spedizioni d'Italia; pure vi era stato aspettato e temuto come un potente monarca; ed i due suoi viaggi eransi associati a grandi avvenimenti. Sigismondo aveva avuto per successore il 18 marzo del 1438 suo genero, Alberto II d'Austria, re d'Ungheria e di Boemia[422], che i Tedeschi contano tra i loro migliori monarchi, ma che non figurò in verun modo nella storia d'Italia. Alberto, occupato dalle contese del concilio di Basilea col papa, persuase la Germania ad un'esatta neutralità. Scacciò dalla Boemia, dalla Slesia e dalla Lusazia il principe Casimiro, fratello di Ladislao V, re di Polonia, ch'era stato elettore dagli Ussiti; ma non fu egualmente fortunato contro Amurat II, che avendo conquistata la Servia, minacciava l'Ungheria. Fu in mezzo ai suoi disastri in una campagna contro i Turchi, che Alberto II morì a Langendorf tra Gran e Vienna il 17 ottobre del 1439[423], lasciando la sua vedova Elisabetta gravida di Ladislao, in appresso re d'Ungheria e di Boemia, che venne conosciuto sotto il nome di Postumo[424]. Il 2 febbrajo del 1440 gli elettori nominarono suo successore il di lui cugino Federico III, nato il 23 dicembre del 1415, da Ernesto duca d'Austria e di Stiria. Questo debole principe, cui il suo segretario Enea Silvio, che poi fu Pio II, cercò invano di dare qualche celebrità, veniva nel dodicesimo anno del suo regno a chiedere al papa la corona d'oro conservata a Roma, per aggiugnere il titolo d'imperatore a quello di re dei Romani. Era sceso in Italia senz'armata, sebbene risguardasse come suo nemico Francesco Sforza, il più potente sovrano di quella contrada. Per non riconoscerlo come duca di Milano non volle andare a Monza a prendere la corona di ferro di Lombardia. Passò da Venezia a Firenze, ove fu ricevuto con grandissime onorificenze.
Federico III aveva dato appuntamento in Toscana alla principessa Eleonora di Portogallo, figlia del re Odoardo, e sorella d'Alfonso V, che aveva chiesta per sua sposa. Questo parentado, proposto tra le famiglie sovrane d'Austria e del Portogallo, era un indizio dei progressi dell'incivilimento, e delle relazioni che il commercio cominciava finalmente a stabilire tra i diversi membri della repubblica europea. Pure i paesi non Italiani erano ancora molto lontani dalla civiltà e dall'ordine sociale che regnano nell'età nostra in Europa. Niccolò Lanckman di Falkenstein, cappellano dell'imperatore, era uno degli ambasciatori mandati in Portogallo per isposare Eleonora, e si è fino al presente conservato il giornale del suo viaggio[425]. Non si crederebbe, leggendolo, che appartenga al secolo dei Medici, perchè ci rappresenta l'Europa così poco sicura pei viaggiatori, quanto lo sembrarono pochi anni dopo agli ambasciatori Veneziani presso Ussum Cassan la Turchia e la Persia. Questi ambasciatori recavansi, travestiti da pellegrini, dalla Germania, passando per Ginevra, il Delfinato e la Linguadocca, nella Catalogna, nell'Arragona, nella vecchia Castiglia e nella Galizia. Nè il diritto delle genti nè la polizia li proteggevano dagli assassini che spogliavano i passaggeri, o dai comandanti delle città che li taglieggiavano. Soltanto dopo il loro disastro trovavano in ogni luogo banchieri fiorentini, che loro somministravano danaro.
Per altro i paesi abitati dai Mori conservavano tuttavia l'antica loro civiltà. Formavano questi la più industriosa porzione della popolazione di tutte le grandi città della Spagna, e queste città erano ancora fiorenti. Dopo il suo matrimonio Eleonora s'imbarcò per passare in Toscana, ma dovette dar fondo a Ceuta in Africa, città in allora, al dire di Lankman, due volte più grande e più popolata che Vienna d'Austria.
Eleonora arrivò dal Portogallo a Livorno il 3 febbrajo del 1452, e per un singolare accidente era entrato quattro dì prima in Firenze Federico il 30 gennajo. Essi si riunirono il 19 di febbrajo a Siena. I Toscani osservavano con estrema curiosità un altro non meno illustre ospite che viaggiava coll'imperatore. Era questi Ladislao il Postumo, figlio d'Alberto II, che Federico III conduceva seco, dopo averlo ingiustamente spogliato della sua eredità. Gli Ungari, che domandavano il loro re, avevano formato il progetto di farlo rapire a Firenze; ma i Fiorentini credettero di mancare ai doveri dell'ospitalità, se permettevano entro le loro mura una violenza contro il loro ospite, sebbene tendente a riparare un'ingiustizia. Per altro fecero presso l'imperatore nobili rimostranze a favore di un re oppresso e di un pupillo tradito dal suo tutore. Le loro istanze non ebbero effetto, ma non lasciarono d'ispirare a Ladislao sentimenti di riconoscenza verso i Fiorentini.
Dopo avere attraversata la Lombardia e la Toscana come viaggiatore non come monarca, senza riclamare sul governo le prerogative della sovranità imperiale omai andate in dissuetudine, Federico III proseguì la sua strada alla volta di Roma, ov'entrò colla sua sposa l'otto marzo; furono sposati il 16 da Niccolò V, e coronati il 18[426]. Il 25 di marzo partirono alla volta di Napoli, ove furono ricevuti da Alfonso, zio della nuova imperatrice, col più splendido lusso. L'antica diffidenza, che teneva d'occhio tutti i passi degli imperatori d'Italia, aveva fatto luogo al desiderio di ostentare, in faccia ad un monarca che più non era temuto, tutti i prodigi di questa contrada incantatrice. Tra le feste celebrate a Napoli dalla magnificenza d'Alfonso la più sorprendente fu una caccia illuminata coi fanali nel recinto della Solfatara, ove la disposizione dei lumi in quel circolo fatto dalla natura, il numero degli animali, la musica, e la vaghezza degli abiti de' cacciatori, parevano realizzare i prodigi della magia. Il 20 aprile Federico III lasciò Napoli per riunirsi a Roma a Ladislao il Postumo, dal quale non separavasi senza inquietudine. Intanto l'imperatrice Eleonora imbarcossi a Manfredonia per Venezia, ove fece il suo ingresso il 18 di maggio. E soltanto il 19 di giugno arrivò coll'imperatore a Newstad, nella diocesi di Salisburgo, luogo di sua residenza.
Mentre Federico III tornava da Roma a Venezia, passando per Ferrara diede con grande cerimonia il titolo di duca di Modena e di Reggio, e di conte di Rovigo e di Comacchio, al marchese Borso d'Este[427]. Questi feudi dipendevano dall'impero; lo stato di Ferrara, che spettava all'alto dominio della santa sede, non venne eretto in ducato a favore della medesima famiglia che dopo altri diciannove anni[428].
Questa decorazione data alla casa d'Este, decorazione che per la medesima diventò l'epoca di una nuova grandezza, non era dovuta che alla venalità del monarca che attraversava allora l'Italia. Trovando tuttavia in questo paese un popolare rispetto pel potere ch'egli aveva perduto, egli pose all'incanto gli estremi avanzi della sua dignità. Vendette al maggior offerente tutti i titoli e tutte le prerogative imperiali che si vollero da lui comperare. Si moltiplicarono con profusione i diplomi di nobiltà, di notariato imperiale: i diritti di legittimare i bastardi, e quelli del perdono de' falsarj furono offerti a chiunque volle pagarli; e la bassa venalità della camera imperiale terminò di distruggere tutto quanto restava ancora in Italia di rispetto per gl'imperatori.
Il 16 maggio, giorno in cui l'imperatore lasciava Ferrara ed entrava nello stato della repubblica veneta, questa dichiarava la guerra al duca Francesco Sforza, e l'11 giugno il re Alfonso dichiarò la guerra ai Fiorentini[429]. Quest'ultimo, che destinava suo successore nel regno di Napoli suo figlio naturale Ferdinando, volle procurargli un'occasione d'illustrarsi. Gli diede per consigliere e per guida Federico di Montefeltro, conte d'Urbino, uno de' più esperti guerrieri e de' più gentili sovrani dell'età sua: pose sotto i suoi ordini un'armata di otto mila uomini d'armi, e lo mandò in Toscana, persuaso che questo principe ne occuperebbe una gran parte. Ma, o sia che per qualche accidente l'artiglieria non potesse tener dietro all'armata, come dice lo storico d'Agobbio,[430] o sia che Ferdinando non avesse talenti per la guerra, nè docilità pel suo Mentore, questa spedizione non ebbe felici risultamenti. L'armata napoletana assediò da principio Fojano, piccolo castello posto in val di Chiana, che chiudeva la comunicazione tra lo stato di Siena e quello di Firenze. I suoi bravi abitanti, secondati da una guarnigione di dugento uomini, fermarono Ferdinando per trentasei giorni, e diedero tempo alla repubblica di raccogliere la sua armata sotto gli ordini di Sigismondo Malatesta. Due case di campagna della famiglia Ricasoli, Brolio e Cacchiano, che secondo l'usanza degli antichi tempi erano circondate da alcune fortificazioni, fecero una difesa ancora più sorprendente, poichè Ferdinando non potè impadronirsene. Finalmente Ferdinando andò ad assediare Castellina, piccolo castello lontano dieci miglia da Siena all'ingresso della valle di Chianti, e vi stette quarantaquattro giorni senza rendersene padrone. Finalmente le piogge dell'autunno lo costrinsero a levare l'assedio il 5 di novembre; ed allora uscì dal territorio fiorentino, dopo avere incagliato con tutta la potenza del re di Napoli contro piccoli castelli, che appena credevansi capaci di difesa[431].
La campagna di Lombardia non fu più memorabile; la prima operazione dei Veneziani fu diretta contro Bartolomeo Coleoni, loro proprio generale, di cui diffidavano, e che perciò tentarono di fermare disarmando i suoi soldati. Il Coleoni, avvisato di quest'attacco dal tumulto del suo campo, ebbe appena il tempo di fuggire presso lo Sforza che gli diede un comando. I Veneziani gli sostituirono Gentile di Lionessa che posero alla testa dell'armata che adunavano tra Verona e Brescia. Dall'altra banda la signoria di Venezia aveva promesso a Lodovico, duca di Savoja, la città di Novara, ed a Giovanni, marchese di Monferrato, quella d'Alessandria, per ridurli a prendere con lei le armi contro lo Sforza; l'armata che lo doveva attaccare da quella banda era comandata da Guglielmo, fratello del marchese di Monferrato[432].
Ai confini dell'Alessandrino il duca di Milano oppose a Guglielmo suo fratello Corrado Sforza. La fedeltà dei popoli verso il loro nuovo sovrano non era abbastanza sicura; si aspettavano di essere dal loro padrone ceduti al re di Francia o al duca di Savoja come prezzo di una nuova alleanza, ed erano tentati di darsi da sè medesimi prima di essere venduti. Molti castelli vennero in mano di Guglielmo senza combattere, e la posizione di Corrado rendevasi sempre più difficile, allorchè Sagramoro di Parma gli condusse un rinforzo di due mila cavalli, e lo pose in istato di sorprendere il 26 di luglio Guglielmo nel suo campo sotto le mura di Canina, mentre che i suoi soldati, oppressi dal calore del giorno, eransi dispersi e disarmati per prendere riposo. Il principe di Monferrato, dopo avere perduti tutti i suoi equipaggi, ritirossi disordinatamente dall'Alessandrino, ed abbandonò le sue conquiste[433].
Il duca di Milano aveva affidata la difesa de' confini orientali e meridionali de' suoi stati a suo figlio Tristano ed al fratello Alessandro. Aveva loro dato il comando di due corpi d'osservazione, mentre che col grosso dell'armata, composta di 18 mila cavalli e 3 mila pedoni, egli aveva passato l'Oglio ed invaso il territorio bresciano. L'armata Veneziana di Gentile di Lionessa era di 15 mila cavalli, e di 6 mila fanti. Questa passò l'Adda per la negligenza di Tristano Sforza, ed occupò Soncino ed altri castelli del Milanese[434]; piegò in appresso sopra Cremona, mentre un'altra armata veneziana, capitanata da Carlo Fortebraccio, figlio di Braccio da Montone, e da Matteo Campano, entrava nel Lodigiano, dove in sul finire di luglio sorprese Alessandro Sforza, uccidendogli o prendendogli circa ottocento soldati, e sforzandolo ad abbandonare la campagna per chiudersi ne' castelli[435]. Le due principali armate eransi in seguito ravvicinate, ma i due nemici generali cercavano l'uno e l'altro di non venire a battaglia. Immensi apparecchi ed un'eccedente spesa facevano stare i popoli in attenzione di grandi avvenimenti, e di un sollecito fine della guerra; ma il pericolo di tutto perdere ad un tratto, spaventava l'uno e l'altro capitano assai più che la ruina di un lungo ritardo. Avrebbero desiderato di parer valorosi senza nulla arrischiare, e credettero di avere l'intento con vane rodomontate. Francesco Sforza mandò a sfidare i Veneziani ad una battaglia generale nella pianura di Montechiaro. La proposta fu dal Lionessa e da Jacopo Piccinino accettata. In uno de' primi giorni del mese di novembre le due armate si adunarono in battaglia su quel piano; erano ambedue coperte da densa nebbia, che loro impediva di vedersi, ed in tale oscurità si andavano provocando colle grida e cogli insulti, senza che nè l'una nè l'altra si risolvesse in ultimo di attaccare. Le due armate mandavano a vicenda i loro trombetta a suonare fin presso agli avamposti nemici; veruna pensava però a battersi, aspirando soltanto all'onore di non avere ricusata la battaglia. Finalmente, sciogliendosi la nebbia in una pioggia agghiacciata, i soldati, dopo essere rimasti lungo tempo in presenza del nemico, tornarono ai loro alloggiamenti. Così ebbe fine questa campagna nella quale i migliori generali d'Italia erano alle prese, e facevano sperare dagl'immensi loro apparecchi i più grandi risultamenti[436]. Porcelli, letterato napolitano, scrisse la storia di questa insignificante guerra con tanta ampollosità, con così eccessiva adulazione, che pare quasi derisoria. Per dare una maggiore apparenza d'antichità al suo racconto lo scrisse in facile ed elegante latino, chiamando il Piccinino Scipione ed il duca di Milano Annibale. Nell'atto di adulare il primo, cui dedica la sua opera, credesi pure costretto ad adulare il suo avversario. Erano potenti ambidue, e tali da poterli giovare e nuocere; ma nè l'uno nè l'altro doveva mostrarglisi riconoscente, perciocchè un vile adulatore si rende sospetto di menzogna, anche quando loda il vero merito[437].
S'impiegò dall'una e dall'altra parte l'inverno non già nel ristabilire la pace, ma nel procurarsi dei disertori nelle file nemiche. Evangelista Sabello, ch'era stato nell'armata veneziana, passò ai servigi dello Sforza con cinquecento cavalli, abbandonandogli il posto a lui affidato. Tiberto Brandolini, generale di non comune riputazione, ebbe più riguardi per l'onore militare in un trattato della stessa natura. Il suo servigio coi Veneziani era ultimato, ed egli voleva abbandonarli; ma prima di porsi sotto le insegne dei duca di Milano, andò a passare l'inverno alla Mirandola con due mila cinquecento cavalli che gli appartenevano, onde non battersi immediatamente contro coloro coi quali aveva fin allora militato[438].
Se dobbiamo dar fede a Neri Capponi, la repubblica di Venezia era nello stesso tempo entrata in più vergognosi trattati. Il senato tentò di fare assassinare Francesco Sforza nella fortezza di Cremona, ed in appresso di farlo avvelenare. Il veleno era stato portato dal Levante; doveva essere gettato sul fuoco nella camera ove trovavasi il duca, ed eccitarvi un così pericoloso fumo, che niuno di coloro che sarebbero stati nell'appartamento avrebbero potuto sopravvivere dopo averlo respirato. L'avvelenatore, cui il consiglio dei dieci aveva promessi dieci mila fiorini di premio, manifestò il segreto a Francesco Sforza, il quale ritenne questo veleno per adoperarlo quando lo trovasse opportuno[439].
Il duca di Milano era meglio provveduto di soldati che di danaro, ed i Fiorentini avevano più danaro che soldati; onde i due alleati convennero di giovarsi con vicendevoli cambi. Alessandro Sforza entrò, attraversando la Lunigiana, in Toscana nella primavera del 1453 con due mila cavalli, e raggiunse Sigismondo Malatesta che assediava Fogliano; i Fiorentini invece si obbligarono di pagare a Francesco Sforza un sussidio annuo di ottanta mila fiorini[440], e presero inoltre al loro soldo Manello d'Appiano, nuovo signore di Piombino, con mille cinque cento cavalli[441], Rinaldo Orsini era morto il 13 luglio del 1450, e sua moglie Catarina lo aveva raggiunto nel sepolcro in marzo del susseguente anno. Emanuele, zio di Catarina, aveva occupata la sua eredità ad armata mano, e perchè aveva dato a conoscere di voler continuare nelle alleanze della sua famiglia, era stato riconosciuto dagli stati vicini per legittimo sovrano[442]. L'armata fiorentina era più numerosa che non quella di Ferdinando; essa riprese Fojano, Rencina e Vado, mentre che i Napoletani, costretti di campeggiare in luoghi malsani, furono tormentati da febbri maremmane, ed indeboliti da più pericolose malattie che non erano le armi de' loro nemici[443].
Il più notabile avvenimento di questa campagna, illustrata da pochi fatti militari, fu la ruina di Gherardo Gambacorti, conte di Bagno. Era costui figliuolo di Giovanni, l'ultimo capo di parte della repubblica Pisana, il quale aveva venduta la sua patria ai Fiorentini nel 1406, ed aveva ottenuto in premio del suo tradimento la sovranità feudale d'un piccolo stato, posto presso le sorgenti del Tevere ai confini del Casentino e dello stato della Chiesa. Gherardo era cognato di Rinaldo degli Albizzi; lo spirito di partito gli fece ascoltare le proposizioni d'Alfonso. Questi gli offriva, in cambio del feudo che aveva ricevuto dalla repubblica fiorentina, un altro assai più ragguardevole feudo nel regno di Napoli. I Fiorentini avendo avuto sentore di questo trattato, il Gambacorti non esitò a dare ai capi della repubblica il proprio figlio in ostaggio, per dissipare così ogni sospetto. Questo fanciullo in età di quattordici anni fu condotto a Firenze, e dopo ciò la signoria più non volle dar fede agli avvisi che le venivano dati intorno al tradimento del Gambacorti. Pure non aveva questi rinunciato ai suoi progetti; il 12 agosto del 1453 frate Puccio, cavaliere di san Giovanni di Gerusalemme, luogotenente d'Alfonso, si presentò con quattro cento cavalli e tre cento pedoni alle porte di Corzano, principale fortezza del conte di Bagno. Il Gambacorti, disposto a darla ai nemici della repubblica, fece abbassare il ponte levatojo, e s'innoltrò egli stesso verso il cavaliere; ma un cittadino pisano, detto Antonio Gualandi, che stava a canto al Gambacorti, osservando in viso a tutti i vassalli del conte la costernazione pel cambiamento che facevano della protezione della repubblica col dominio d'uno straniero padrone, spinse rapidamente colle due mani il Gambacorti fuori del ponte levatojo, che fece poi rilevare, abbassando il rastello e spiegando di nuovo lo stendardo de' Fiorentini tra le grida di viva la repubblica! Tutti i vassalli del conte di Bagno seguirono l'esempio degli abitanti della fortezza, e vennero riconosciuti per immediati sudditi di Firenze. Il conte ritirossi colmo di vergogna coll'armata napoletana; e la repubblica ebbe la generosità di ritornargli senza taglia il figlio, che egli aveva così barbaramente dato in ostaggio; ma accordò magnifiche ricompense ad Antonio Gualandi, ed a due giovani Pisani che lo avevano ajutato[444].
I Fiorentini desideravano che non in Toscana ma in Lombardia si continuasse la guerra con vigore; perciò fino dal precedente anno avevano trattato col re di Francia per persuaderlo a mandare in Italia Renato, conte d'Angiò e re titolare di Napoli: in principio del presente anno rinnovarono le loro pratiche, e promisero a Renato, finchè continuerebbe la guerra per loro in Lombardia ed in Toscana, l'annuo assegnamento di cento venti mila fiorini, e quando questa sarebbe terminata, si obbligavano unitamente al duca di Milano ad assistere Renato con tutte le loro forze per riporlo sul trono di Napoli. Questo trattato si negoziò in loro nome da Angelo Acciajuoli, ed a nome del duca da Abramo Ardiccio di Vigevano[445].
Ma Francesco Sforza, ritenuto dallo spossamento di tutti i popoli, conseguenza di così lunghe guerre, dal timore di disgustare i suoi sudditi poco avvezzi ad ubbidirgli, e dal timore ancora più grande di far dipendere la sua corona dalla sorte di una battaglia, nulla fece, siccome pure nulla fecero i suoi avversarj che degna fosse dei generali che comandavano le armate e dei sagrificj che costava la guerra.
Gentile di Lionessa, generalissimo dei Veneziani, ferito da un colpo di fucile sotto Manerbio, morì il 15 aprile, ed il senato gli sostituì Giacomo Piccinino[446]. Questo generale occupò Ponte Vico e fece alcune scorrerie nel Cremonese, prima che lo Sforza potesse trar fuori dai quartieri d'inverno la sua armata. D'altra parte Carlo Gonzaga entrò nel Mantovano, e cominciò a guastare le campagne: ma quando i primi prosperi avvenimenti l'ebbero fatto più coraggioso, suo fratello Lodovico, secondato da Tiberto Brandolini, lo sorprese il 15 giugno nelle vicinanze di Godio, lo ruppe, e gli prese più di mille cavalli[447]. Francesco Sforza, avendo finalmente adunato il suo esercito, lo condusse nello stato di Brescia per tirare colà il teatro della guerra; in fatti il Piccinino gli tenne dietro. Frequenti furono le scaramucce tra gli avanposti dei due eserciti, ed ebbe luogo un fatto generale presso Ledo, di cui lo Sforza s'era impadronito; ma i due generali, temendo egualmente un'azione decisiva, andarono poc'a poco ritirando le loro truppe quando il sole acquistava maggior vigore, e l'uno e l'altro evacuarono il campo di battaglia, senza che l'una parte fosse più avvantaggiata dell'altra[448]. Gli Italiani d'allora non volevano combattere che quando erano sicuri dell'esito; così Sagramoro Visconti di Parma, luogotenente dello Sforza, sorprese il 15 agosto e disfece a Castiglione presso di Lodi quattro mila cavalli del Piccinino; ma questi parziali vantaggi non potevano mai decidere della sorte della guerra; e questa, che sembrava ridotta a marcie, a scaramucce, ad assedj insignificanti, ruinava interamente i sudditi senza esporre i soldati[449].
Lo Sforza aspettava con impazienza l'arrivo del re Renato per agire di concerto con lui più vigorosamente; ma questo re veniva trattenuto nelle Alpi dal duca di Savoja e dal marchese di Monferrato, che ricusavano d'accordargli il passo. Renato, mal soffrendo ogni indugio, si recò per mare a Ventimiglia, ed il Delfino, che poi fu Lodovico XI, tanto si adoperò negoziando, che finalmente il duca di Savoja accordò all'armata francese di passare nel mese di settembre in Lombardia[450]. Renato, che ancora nella guerra portava la sua universale benevolenza e lo spirito di conciliazione, si trattenne ancora qualche tempo alle falde delle Alpi per trattare la pace tra il marchese di Monferrato ed il duca di Milano. Le due parti lo lasciarono arbitro, e col suo lodo pronunciato il 15 di settembre terminò le loro liti[451].
L'arrivo di Renato al campo dello Sforza portò la sua armata a più di quindici mila uomini di cavalleria pesante; e dopo circa un mese Alessandro Sforza lo raggiunse pure con quattro in cinque mila uomini d'arme che riconduceva dalla Toscana. Ma il duca di Milano non seppe o non volle approfittare di tanta superiorità di forze per isforzare il nemico ad una battaglia generale. Si limitò a dare il 19 di ottobre un assalto alla fortezza di Ponte Vico, in cui i vincitori entrarono per la breccia. Ma i soldati di Renato non partecipavano in verun modo della dolcezza o della bontà del loro capo; ossia che nelle loro guerre cogl'Inglesi essi si fossero avvezzati alla ferocia, o che la diversità delle costumanze e della lingua loro ispirasse per gl'Italiani quell'odio e quel disprezzo, che sogliono spesse volte rendere le armate più feroci verso i popoli che non conoscono; entrando in Ponte Vico essi uccisero tutti coloro che scontrarono; non risparmiarono nè le donne, nè i fanciulli; nè que' medesimi che di già si erano resi prigionieri ai soldati dello Sforza. Questi, offesi da tanta barbarie, risguardaronsi come insultati ne' loro prigionieri, videro nell'accanimento dei Francesi l'effetto di un odio universale verso la nazione italiana, e lungo tempo non sostennero tanto oltraggio; diedero addosso ai soldati di Renato nelle strade, posero fuoco alle case in cui trovavansi ritirati i Francesi, e gl'inseguirono con tanto furore, che Francesco Sforza ottenne a stento di separare i combattenti[452].
Questa ferocia delle truppe francesi inspirò tanto terrore agli abitanti di tutti i castelli e di tutte le borgate del Bresciano, che s'affrettarono di mandare deputati al campo dello Sforza per offrirgli le loro chiavi e domandargli salvaguardie. Anche que' castelli che trovavansi un solo miglio lontani dal campo del Piccinino parteciparono di cotale panico terrore. In breve si comunicò anche all'armata veneziana, che fuggì disordinata fino alle porte di Brescia che le furono chiuse in faccia[453]. Lo Sforza non ebbe avviso di questa fuga, che quando più non poteva approfittare della confusione dei suoi nemici, i quali si erano di già fortificati sotto le mura di Brescia; ma i territorj, Bresciano e Bergamasco, si assoggettarono al duca di Milano. Il castel di Roate alle falde della montagna di Brescia, e quello d'Orci nel piano, l'uno e l'altro difesi da numerosa guarnigione, furono i soli che sostenessero un regolare assedio. Dopo essersene impadronito lo Sforza ridusse le sue truppe ne' quartieri d'inverno[454].
Frattanto gli uomini d'armi francesi, che avevano accompagnato Renato in Italia, vi avevano appena passati tre mesi, che già premurosamente domandavano di essere ricondotti ne' loro focolari. Si erano disgustati per la loro contesa cogli uomini d'armi dello Sforza a Ponte Vico; altronde sentivansi umiliati dalla loro inferiorità; vedevano che nelle guerre d'Italia la destrezza era sempre avantaggiata sul valore, e che la tattica italiana era in allora incontrastabilmente superiore alla francese. Dal canto suo Renato, di già vecchio ed omai fuori di speranza di conquistare Napoli, malvolentieri sopportava le fatiche della guerra, e divideva l'impazienza de' soldati. Francesco Sforza andò a trovarlo a Piacenza per trattenerlo; ma a tutte le sue istanze Renato opponeva un'invincibile risoluzione, che per altro accompagnava colle proteste di attaccamento e di confidenza. Promise soltanto che nella susseguente primavera suo figlio Giovanni, che aveva il titolo di duca di Calabria, e la di cui età era più atta agli avvenimenti delle spedizioni militari, scenderebbe in sua vece in Italia. La partenza di questo vecchio pretendente al trono di Napoli, rendendo debole lo Sforza, accrebbe in esso il desiderio di fare la pace, e di godersi una volta tranquillamente i suoi nuovi stati[455].
Uno spaventoso avvenimento, che colpì di terrore tutta la cristianità, rendeva generale il desiderio della pace, ed esponeva ai rimproveri di tutta l'Europa coloro che vi mettevano qualche ostacolo. Costantinopoli era stata presa da Maometto II il 29 maggio del 1453; l'ultimo imperatore de' Greci, Costantino Paleologo, era stato ucciso con quaranta mila Cristiani; moltissimi mercanti italiani ed in particolare veneziani, che soggiornavano in quell'antica capitale dell'Oriente, avevano nel saccheggio perduta ogni loro proprietà, ed erano stati fatti schiavi[456]; ed i Turchi, la di cui arroganza era cresciuta a dismisura, minacciavano di assoggettare all'impero della mezza luna tutta la cristianità. La città imperiale, risguardata come il baluardo de' paesi ridotti a civiltà, pareva effettivamente che aprisse colla sua caduta l'Occidente ai barbari. Quando questa notizia fu portata ai due opposti campi dello Sforza e del Piccinino, eguale fu la costernazione; i capi dei soldati si rimproverarono inique guerre, che invano tutte consumavano le loro forze, nel momento in cui le loro armi avrebbero dovuto essere soltanto consacrate alla difesa de' loro fratelli. Il cardinale di sant'Angelo, nunzio di papa Niccolò V, loro rammentò i soccorsi per così lungo tempo implorati dai Greci e così crudelmente rifiutati dai Latini, e rigettò sull'ostinazione di quest'ultimi la vergogna di questa grande calamità. Si adunò sotto la presidenza del papa un congresso in Roma, e tutti gli stati manifestarono egualmente il loro desiderio di fare la pace, per rivolgere tutte le forze d'Europa contro i Turchi[457].
Ma questo così vivo pentimento, quest'obblìo de' più vicini interessi, non ebbero lunga durata; ognuno conobbe, che la crociata, cui rimproveravasi ognuno di non avere intrapresa, era fuori di stagione; deboli soccorsi avrebbero difesa Costantinopoli, mentre sarebbero abbisognate immense forze per riconquistarla. Ognuno adunque, portando al congresso parole di pace, vi palesò così esagerate pretese, che rendevano la pace impossibile. Voleva Alfonso che i Fiorentini gli rimborsassero le spese della guerra, questi per lo contrario chiedevano che Alfonso restituisse loro Castiglione della Pescaja in Maremma. I Veneziani ripetevano dallo Sforza la restituzione di tutto quanto egli aveva conquistato nel Bresciano e nel Bergamasco, la cessione di Cremona, e le rive del Po e dell'Adda per confine dei due stati. Lo Sforza invece d'acconsentire a tale cessione, ridomandava Crema, Bergamo e Brescia, che i Veneziani più non potevano difendere, e che avevano in addietro tolte ai suoi predecessori senza giusti motivi[458]. Finalmente papa Niccolò V, che il primo aveva invitati i Cristiani a deporre le armi, non procedeva neppure egli di buona fede. Se dobbiamo dar fede al Simonetta ed allo stesso Giannotto Manetti, suo panegirista, «la di lui prudenza gli aveva insegnato che le guerre tra i principi d'Italia assicuravano la pace della Chiesa, e che per lo contrario la loro concordia ne minacciava la tranquillità.» Cercò adunque soltanto di piacere a tutto il mondo, a non rendersi sospetto a chicchefosse, ed a protrarre le negoziazioni[459].
I Veneziani finalmente si avvidero, che nelle conferenze di Roma perdevasi il tempo ascoltando vani discorsi, che il papa nulla faceva per conciliare gli spiriti, e che il re Alfonso, che stava per la guerra, cercava di sventare ogni trattato. Spedirono dunque in qualità di segreto messaggiero a Francesco Sforza certo monaco, chiamato Simone da Camerino, per trattare direttamente con lui, e fargli ragionevoli proposizioni[460].
I Veneziani rinunciavano ad ogni pretesa sopra Cremona, e domandavano la restituzione del Bergamasco e del Bresciano. Lo Sforza domandava ancora la cessione di Crema, che poteva diventare in mano dei suoi nemici un posto avanzato troppo per lui pericoloso. Il consiglio dei dieci, che voleva la pace era di già determinato a lasciare sorprendere questa città dal Coleoni, onde il trattato non parlasse di restituzione. Ma quando ne fu fatta l'apertura al Coleoni, si trovò che questo generale, di già sollecitato da altro istigatore, meditava di passare dallo Sforza ai Veneziani, di modo che egli gagliardamente dissuase il consiglio dei dieci da una cessione, a suo credere, non necessaria.
Mentre che quest'accidente ritardava il trattato, lo Sforza fu avvisato del tradimento del Coleoni, e di quello di Sigismondo Malatesti, ambidue in sul punto di passare al nemico. Nello stesso tempo l'ambasciatore fiorentino, Diotisalvi di Nerone Negri, cui aveva comunicate le fattegli proposizioni, gli dichiarò a nome della sua repubblica, ch'ella non era al caso di sostenere più a lungo una così ruinosa guerra, e che ad ogni costo desiderava la pace. Lo Sforza adunque richiamò fra Simone da Camerino, e gli disse di essere apparecchiato ad accettare le offerte de' Veneziani senza apporvi cambiamento. Paolo Barbò, uno de' membri del governo, andò presso di lui a Lodi, travestito da frate zoccolante. Per otto giorni si discussero le condizioni del trattato col più profondo segreto; indi la pace si pubblicò in Lodi, il 9 aprile del 1454, contro l'universale aspettazione. Con tale trattato lo Sforza conservava la Ghiara d'Adda; restituiva ai Veneziani le conquiste del Bresciano e del Bergamasco; e stipulava soltanto l'impunità per coloro che avevano abbracciato il suo partito. Se il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato volevano essere ammessi al beneficio della pace, dovevano restituire le loro conquiste nel Novarese, nel Pavese e nell'Alessandrino; se vi si rifiutavano era libero al duca di Milano di far uso della forza. I signori di Coreggio ed i Veneziani dovevano restituire al marchese di Mantova ciò che avevano usurpato del suo territorio; e questi invece doveva rendere a suo fratello, Carlo di Gonzaga, il suo appannaggio. Finalmente il Castello di Castiglione della Pescaja, che Alfonso aveva conquistato in Toscana, gli doveva rimanere a condizione che ritirasse le sue truppe dai rimanente del territorio fiorentino. Tutte le potenze d'Italia erano invitate a ratificare la pace di Lodi in un determinato tempo, se volevano goderne il beneficio[461].
Quest'inaspettato trattato col quale due potenze belligeranti dettavano la legge al rimanente dell'Italia, ai loro alleati egualmente che ai loro nemici, senza averli prima interpellati, fu cagione a principio di altrettanto malcontento che di sorpresa. Fu d'uopo sforzare colle armi i Correggi ad evacuare lo stato di Mantova, ed il marchese di Monferrato e il duca di Savoja ad abbandonare le loro conquiste; ma ciò fu l'opera di pochi giorni. In appresso questi sovrani ratificarono la pace, e la Sesia fu riconosciuta per confine tra il Piemonte ed il ducato di Milano[462]. Francesco Sforza si fece altresì rendere dal duca Borso d'Este Castelnovo nello stato di Parma, che il sovrano di Ferrara aveva occupato quando era morto Filippo Maria; così il nuovo duca, riconosciuto da tutti i suoi vicini, rientrò in tutti i possedimenti del suo predecessore. Ma mancava sempre al trattato di Lodi la ratifica del re Alfonso, il quale perdonare non poteva ai Veneziani di avergli tenuta nascosta la loro negoziazione. Come il più potente sovrano d'Italia, credevasi chiamato a dettare la pace, e non a riceverla. Ricusò quasi pel corso di un anno di ratificarla; e non vi si ridusse, che dietro i caldi ufficj del cardinale Capranica mandatogli dal papa, e dietro la notizia d'un'alleanza firmata il 30 agosto tra i Fiorentini, il duca di Milano ed i Veneziani. Ratificò la pace di Lodi il 26 gennajo del 1455, ma a condizione che i Genovesi, cui non aveva condonate le antiche offese, e Sigismondo Malatesta, che lo aveva ingannato, dopo avere ricevuto anticipato soldo, non sarebbero compresi nella pace generale[463].
FINE DEL TOMO IX.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO IX.
Capitolo LXVI. Stato dell'Italia all'epoca del viaggio e della coronazione dell'imperatore Sigismondo a Roma; Eugenio IV in guerra coi Colonna, cogli Ussiti, col Consiglio di Basilea e co' suoi sudditi. — Rivoluzioni di Firenze; esilio e richiamo di Cosimo de' Medici. 1431-1434 pag. 3
Cambiamento in Italia ne' tre secoli che durarono le repubbliche 3
Le rivoluzioni sono più notate nelle repubbliche, ma non vi sono più frequenti che negli altri governi 4
Le rivoluzioni non sono fortemente sentite che dove distruggono la felicità nazionale 7
Divisione dell'Italia in quattro regioni, dispotismo militare in Lombardia 9
Spirito repubblicano della Toscana 10
Anarchia dello stato della Chiesa 11
Il regno di Napoli, monarchia che cadeva in dissoluzione 12
1431 L'imperatore Sigismondo viene a cercare in Italia la corona imperiale 12
1431 Inquietudine che cagiona la sua venuta 13
Suo ritratto descritto da Leonardo Aretino 14
25 novembre. È coronato a Milano, senza che il duca Filippo Maria Visconti consenta a vederlo 15
1432 maggio. Scaramucce tra il seguito dell'imperatore e l'armata fiorentina sotto Lucca 17
Sigismondo si ferma a Siena per trattare intorno alla pace d'Italia 18
1433 26 aprile. Pace di Ferrara tra i Veneziani, i Fiorentini ed il duca di Milano 20
30 maggio. Sigismondo riceve a Roma la corona imperiale 21
1431 20 febbrajo. Morte di Papa Martino V 22
3 marzo. Elezione di Gabriele Condolmieri, che prende il nome d'Eugenio IV 23
Carattere violento ed inconsiderato del nuovo papa 23
Sua guerra contro i Colonna per ricuperare i tesori di Martino V 24
Guerra della Chiesa contro gli Ussiti 26
Guasti degli Ussiti in Germania 27
1431 I trattati di pace fatti con loro violati per ordine del papa 29
Istanza della Germania per la riforma della Chiesa 31
23 luglio. Apertura del concilio di Basilea convocato da Martino V 32
Lotta del concilio di Basilea colla corte di Roma 33
Negoziati di Sigismondo tra il papa ed il Concilio 35
1433 Novembre. Tornata di Sigismondo in Germania 36
Il duca di Milano fa invadere lo stato della Chiesa dai condottieri licenziati 37
Francesco Sforza stabilito nella Marca d'Ancona, e Fortebraccio a Tivoli 37
Eugenio IV cede la Marca d'Ancona a Francesco Sforza 38
È forzato di fuggire a Firenze 39
Stato di Firenze, carattere di Cosimo de' Medici e della sua fazione 40
Niccolò d'Uzzano, capo della repubblica impedisce alle parti nemiche di venire alle mani 41
Dopo la morte di Niccolò d'Uzzano Rinaldo degli Albizzi vuole cacciare i Medici 44
7 settembre. Cosimo de' Medici, chiamato innanzi alla signoria, viene arrestato 45
1433 L'assemblea del popolo nomina una balìa, ossia commissione straordinaria per giudicarlo 46
3 ottobre. Viene esiliato a Padova, avendogli il Guadagni salvata la vita 48
Rinaldo degli Albizzi sente il pericolo di una incompiuta vittoria 49
1434 Settembre. I suoi amici si rifiutano di secondarlo, quando propone di attaccare i magistrati che gli erano contrarj 50
È citato a Palazzo: prende le armi per difendersi 51
La mediazione del papa cagione di sua ruina 52
Viene esiliato con tutto il suo partito, e Cosimo de' Medici richiamato 52
Capitolo LXVII. Nuova guerra tra il duca di Milano ed i Fiorentini. — Rivoluzioni del regno di Napoli; morte di Giovanna II. Alfonso V, che vuole raccoglierne l'eredità, viene fatto prigioniere dai Genovesi nella battaglia di Ponza, indi rilasciato dal duca di Milano. — Genova ricupera la libertà. 1432-1435 54
1434 Nuova guerra tra Firenze ed il duca di Milano 54
Le guerre abbandonate ai condottieri non destano alcuno interesse 55
1434 21 gennajo. Il duca di Milano mette, contro i patti, guarnigione in Imola 56
28 agosto. Battaglia presso Castel Bolognese tra Gattamelata e Tolentino 57
1435 10 agosto. Nuova pace che ristabilisce tutte le parti ne' loro diritti anteriori alla guerra 58
1416-1432 Credito di Ser Gianni Caraccioli presso Giovanna II regina di Napoli, e sua insolenza 59
1432 Congiura di Cobella Ruffa, duchessa di Suessa, per perderlo 60
17 agosto. Il Caraccioli ucciso tra le feste date in corte pel matrimonio di suo figlio 62
Suoi uccisori ricompensati dalla regina 62
Luigi III d'Angiò, duca di Calabria, domanda invano d'essere richiamato a Napoli 63
1434 Novembre. Morte di Luigi III figlio adottivo di Giovanna II 64
Sforzi d'Alfonso d'Arragona per far riconfermare la sua precedente adozione 65
1435 2 febbrajo. Morte di Giovanna II 66
Diritti di Renato d'Angiò, d'Alfonso d'Arragona, e della santa Sede alla corona di Napoli 66
1435 I Napolitani si dichiarano per Renato d'Angiò 68
Il duca di Suessa, il principe di Taranto ed il conte di Fondi abbracciano il partito d'Alfonso d'Arragona 69
Alfonso assedia Gaeta, difesa da una guarnigione genovese 69
Magnanimità d'Alfonso verso gli assediati 71
Biagio d'Assereto conduce una flotta genovese in soccorso di Gaeta 73
5 agosto. Battaglia di Ponza tra Assereto ed Alfonso 74
Alfonso rendesi prigioniero a Giacomo Giustiniani 75
Sono presi i suoi fratelli e le sue flotte 76
Il Visconti, geloso dei Genovesi, fa condurre questi prigionieri a Milano 77
Accoglie Alfonso generosamente 78
Il re d'Arragona gli fa sentire il pericolo d'accrescere il potere de' Francesi in Italia 79
Brillante carattere d'Alfonso, e suoi mezzi di seduzione 82
Si associa al duca di Milano, che gli rende la libertà 84
Il Visconti vuole rimandarlo a Napoli colle galere genovesi 85
Violento irritamento de' Genovesi 86
1435 27 dicembre. Prendono le armi, scacciano la guarnigione milanese, e ricuperano la libertà 87
Capitolo LXVIII. Gli emigrati Fiorentini persuadono il duca di Milano a ricominciare la guerra contro Firenze. — Questa repubblica, malcontenta di Venezia, fa una separata tregua; assedio di Brescia, pericolo di Venezia. 1434-1438 89
Confronto del sistema politico delle due repubbliche di Venezia e di Firenze 89
I diritti de' cittadini violati a Venezia dal governo 90
La libertà di tutti violata a Firenze dalle fazioni 91
1381-1434 Regno della fazione degli Albizzi e sua nobile politica 92
1434 Il partito democratico, che trionfa con Cosimo de' Medici, compromette la libertà più che non aveva fatto l'aristocrazia 93
La fazione dei Medici provvede alla sua sicurezza colle condanne e coi supplicj 94
1436 Rinaldo degli Albizzi eccita il duca di Milano a fare la guerra a Firenze 96
Gli promette gli ajuti del suo partito 97
Il Visconti manda Niccolò Piccinino con un'armata ai confini della Liguria e della Toscana 99
1436 I Fiorentini oppongono Francesco Sforza a Piccinino 100
Lo Sforza, sovrano della Marca d'Ancona, previene le congiure d'Eugenio IV contro di lui 101
Aspira alla mano di Bianca Visconti, e intanto cerca di mantenere contro il di lei padre l'equilibrio d'Italia 102
Origine delle due fazioni militari di Braccio e di Sforza 103
Ottobre. Lo Sforza ferma Niccolò Piccinino ai confini di Lucca e di Pisa 104
1437 8 febbrajo. Riporta contro di lui un vantaggio sotto Barga 105
Guasta il territorio di Lucca, abbandonato dal Piccinino 106
Il Gattamelata, generale veneziano, attacca il Visconti, ed è battuto al passaggio dell'Adda 107
Lo Sforza, rimandato in Lombardia, ricusa di passare il Po per soccorrere i Veneziani 108
1438 28 aprile. Soscrive una tregua di dieci anni tra i Fiorentini, i Lucchesi ed il duca di Milano 109
Versatilità del Visconti, che rende inintelligibile la sua condotta 110
1438 Quale parte prende nella guerra tra Alfonso e Renato 110
1431 Renato prigioniere del duca di Borgogna, mentre Alfonso lo era del duca di Milano 111
1436 Elisabetta sua sposa viene a combattere Alfonso 111
1437 Viene spalleggiata da papa Eugenio IV 113
1438 Il duca di Milano mostra di dare soccorso ai due competitori 114
Vuole staccare Venezia da tutti i suoi alleati 115
Di suo ordine il Piccinino seduce il papa, proponendogli una perfidia contro lo Sforza 116
16 aprile. Costringe Ravenna a porsi sotto la protezione milanese 117
Bologna scontenta dopo il supplizio d'Antonio Bentivoglio (1435) 118
21 maggio. Il Piccinino fa ribellare Bologna contro il papa 119
Solleva tutta la Romagna contro la Chiesa 121
Il Visconti richiama lo Sforza di già entrato negli Abruzzi 122
Il Piccinino attacca i Veneziani nel Bresciano 123
1438-1440 Bell'assedio di Brescia, sostenuto da Francesco Barbaro 124
1438 agosto. La peste si manifesta in città 126
1438 novembre e dicembre. Frequenti assalti respinti dagli assediati 126
16 dicembre. Il Piccinino converte l'assedio in blocco 127
I Veneziani scoraggiati chiedono soccorso a Firenze 129
Capitolo LXIX. I Fiorentini abbracciano con vigore le difese di Venezia. Battaglie di Tenna, d'Anghiari e di Soncino. Liberazione di Brescia. Pace di Martinengo, per la quale il Visconti dà sua figlia a Francesco Sforza, generale de' suoi nemici. 1439-1441 130
1439 L'alleanza di Firenze e di Venezia aveva per base i sentimenti dei due popoli 130
Foscari e Cosimo de' Medici avevano cercato di disunirli 131
Ma lo zelo de' Fiorentini si risveglia, udendo il pericolo di Venezia 132
La soccorrono generosamente 133
18 febbrajo. Sottoscrivono un trattato d'alleanza e di sussidj con Venezia e col conte Sforza 134
Spediscono Neri Capponi a portarne la notizia a Venezia 135
Lo Sforza lascia la Marca e conduce la sua armata a Venezia 136
Il Piccinino gli chiude la strada di Verona e di Brescia 137
1439 Lo Sforza conduce a Verona la sua armata a traverso alle montagne 138
I Veneziani, per soccorrere Brescia, trasportano a traverso ai monti una flotta sul lago di Garda 139
26 settembre. Questa flotta è bruciata dalla milanese, e lo Sforza viene respinto presso Brandolino 140
Lo Sforza intraprende di fare per le montagne il giro del lago 141
9 novembre. Rompe il Piccinino a Tenna 142
Il Piccinino attraversa tutto il campo dello Sforza, portato da un suo servitore in un sacco 143
16 novembre. Otto dì dopo la sua disfatta, sorprende Verona 144
Generosità di Giacomo Marancio, che conserva allo Sforza il passo delle strette dell'Adige 145
19 novembre. Lo Sforza rientra in Verona e ne scaccia il Piccinino 147
Torna a Tenna, ma il rigore del freddo lo costringe ad abbandonare l'assedio di questo piccolo castello 148
1440 Il Piccinino propone al Visconti d'attaccare lo Sforza nella Marca d'Ancona 149
S'intende segretamente con Gio. Vitelleschi, patriarca d'Alessandria, e favorito d'Eugenio IV 150
1440 7 febbrajo. Il Piccinino passa il Po, e minaccia la Toscana 152
Lo Sforza vuole seguirlo, e gli ambasciadori fiorentini lo trattengono 153
I Malatesti accolgono il Piccinino, ed abbandonano il partito de' Fiorentini 154
18 marzo. Il Vitelleschi, arrestato dal governatore di Castel sant'Angelo, è messo a morte 155
La sua armata spedita dal papa in ajuto de' Fiorentini 157
10 aprile. Il Piccinino entra in Toscana per Marradi, e guasta il Mugello 158
Francesco Battifolle, conte di Poppi, si ribella contro i Fiorentini, e chiama il Piccinino nel Casentino 159
25 maggio. Vigorosa resistenza di Castello san Niccolò, che dà tempo ai Fiorentini di apparecchiare l'armata 160
Il Piccinino, richiamato in Lombardia dal Visconti, vuole prima dare battaglia 161
29 giugno. Attacca i Fiorentini ad Anghiari 163
Ostinata battaglia presso al ponte sul Tevere ad Anghiari 164
1440 Rotta del Piccinino, prigionia di mezza l'armata 164
Indisciplina ed insubordinazione de' vincitori 166
Battaglie senza effusione di sangue 167
Il conte di Battifolle è spogliato de' suoi feudi, posseduti cinquecent'anni dalla sua famiglia 169
10 aprile. La flotta milanese, sul lago di Garda, battuta dal Contarini 170
3 giugno. Lo Sforza in assenza del Piccinino passa il Mincio 171
Batte i generali del Visconti a Soncino 172
Scaccia i Milanesi dagli stati di Bergamo e di Brescia 172
Prende Peschiera al marchese di Mantova 173
Manda ai Veneziani le proposizioni di pace fattegli dal marchese d'Este 175
Mette l'armata ai quartieri d'inverno 176
1441 24 febbrajo. I Veneziani tolgono la signoria di Ravenna ad Ostazio da Polenta 177
Accordano premj a Francesco Barbaro ed ai Bresciani 178
13 febbrajo. Il Piccinino sorprende a Chiari i quartieri dello Sforza 179
25 giugno. Battaglia di Cignano tra Sforza e Piccinino senza vantaggio da veruna parte 180
1441 Lo Sforza assedia Martinengo, e si trova assediato dal Piccinino 181
Sua disastrosa posizione 181
Inaspettata proposizione di pace fattagli dal duca di Milano 183
Il Visconti si getta tra le braccia dello Sforza, piuttosto che cedere alle domande di Piccinino 184
Disperazione del Piccinino quando il Visconti gli ordina di sospendere le ostilità 185
24 ottobre. Francesco Sforza sposa Bianca Visconti, e riceve in dote Cremona e Pontremoli 187
20 novembre. Come arbitro pronuncia il trattato di pace di Capriana tra le repubbliche ed il duca di Milano 187
Capitolo LXX. Carattere d'Eugenio IV; concilj di Basilea, di Ferrara e di Firenze; Renato d'Angiò contrasta ad Alfonso la conquista del regno di Napoli. — Perde la sua Capitale, ed abbandona l'Italia. 1436-1442 189
Grandi catastrofi prodotte talvolta da uomini senza vera grandezza 189
Carattere d'Eugenio IV secondo gli scrittori ecclesiastici 191
Sua mancanza di fede, ed instabilità 192
Natura delle credenze religiose che gli servivano d'appoggi 193
La religione era affatto staccata dalla morale 193
L'intolleranza era il solo sentimento religioso che conservasse qualche impero sulle anime 194
1434 Perfidie esercitate contro gli Ussiti, e raccontate come lodevoli azioni 196
La riforma di Boemia e quella del concilio di Basilea non hanno partigiani in Italia 198
Spirito d'indipendenza dei Tedeschi comunicato al concilio di Basilea 199
1436 Compactata de' Boemi approvata dal Concilio 199
La maggior parte de' decreti del concilio non sono che vane declamazioni 200
Attacchi democratici del concilio contro le usurpazioni della corte di Roma 201
Il concilio disgusta l'imperatore Sigismondo, che muore l' 8 dicembre del 1437 203
Negoziazioni di Giovanni VI Paleologo col papa e col concilio 203
Si decide a favore di papa Eugenio IV 205
1437 1 ottobre. Il papa dichiarato contumace dal concilio di Basilea 206
1438 6 ottobre. Concilio rivale aperto a Ferrara dal papa di concerto coll'imperatore Paleologo e coi deputati del clero greco 206
Controversia coi Greci agitata nel nuovo concilio 208
1439 6 luglio. Questo concilio traslocato a Firenze vi proclama l'unione delle due chiese 210
Vantaggio che ottiene Eugenio da questa pretesa unione, e da quella delle altre chiese orientali 211
5 novembre. Amedeo VIII di Savoja eletto dal concilio sotto il nome di Felice V 212
Guerre d'Eugenio IV come principe temporale 214
1438 19 maggio. Arrivo di Renato d'Angiò nel regno di Napoli 215
1438-1441 Continuo decadimento del suo partito 216
Alfonso vuol chiudere a Francesco Sforza l'ingresso nel regno di Napoli 217
1440-1441 Gli toglie i suoi feudi, batte i suoi luogotenenti 218
Respinge il card. di Taranto, mandato dal papa in soccorso di Renato 219
1441-1442 Assedia Renato in Napoli 219
1442 gennajo. Francesco Sforza si pone in marcia per ricuperare i suoi feudi, e liberare Napoli 220
1442 Filippo Visconti risolve d'impedirlo 221
La morte di Niccolò, marchese d'Este, (26 dicembre 1441) fa perdere allo Sforza il suo credito alla corte di Milano 222
Il Visconti offre al papa il Piccinino per attaccare lo Sforza nella Marca d'Ancona 223
2 giugno. Napoli è sorpresa da Alfonso 224
Renato d'Angiò abbandona il suo regno 225
I Fiorentini negoziano due trattati tra lo Sforza e il Piccinino; vengono ambidue rotti dall'autorità del papa 226
Lo Sforza, abbandonato dai suoi generali, perde tutto ciò che possedeva tuttavia nel regno di Napoli 227
Renato, nella sua fuga, riceve a Firenze la corona di Napoli dalle mani d'Eugenio IV 228
Capitolo LXXI. Alfonso di Napoli, Eugenio IV ed il duca di Milano si uniscono contro Francesco Sforza per togliergli la Marca d'Ancona. Le repubbliche di Firenze, di Venezia prendono a difenderlo. — Rivoluzione di Bologna. Morte d'Eugenio IV e di Filippo Maria Visconti. 1443-1447 230
Gelosia che sentono i legittimi principi contro un soldato asceso sul trono 231
Accanimento de' principi Italiani contro Francesco Sforza 232
Il papa è il più caldo de' suoi nemici 232
1443 Sua alleanza con Alfonso per cacciare lo Sforza dalla Marca 233
Lo Sforza lascia la campagna e si chiude in Fano 234
Il Visconti persuade Alfonso a non proseguire ne' suoi vantaggi 235
Francesco Piccinino fa arrestare in Bologna Annibale Bentivoglio 236
5 giugno. Il Bentivoglio è liberato di prigione dagli amici e ricondotto in Bologna 237
Viene posto alla testa della repubblica, che fa alleanza coi Fiorentini e coi Veneziani 238
1441 settembre. Baldaccio d'Anghiari ucciso a Firenze dal partito dei Medici 240
1444 maggio. Nuove violenze esercitate a Firenze dalla fazione dei Medici 242
1443 18 ottobre. I Fiorentini fanno firmare una nuova alleanza tra il Visconti e suo genero Sforza 243
1443 Sforza tradito da Brunoro e da Troilo di Rossano 243
Li rende sospetti ad Alfonso che li fa arrestare 244
Avventure di Brunoro e della sua amica Bona, che gli fa riavere la libertà 245
I nemici dello Sforza prendono i quartieri d'inverno 247
8 novembre. Lo Sforza sorprende Niccolò Piccinino, e lo rompe a Monte Lauro 248
1444 L'esaurimento delle proprie finanze non permette allo Sforza approfittare de' suoi vantaggi 249
Il Piccinino richiamato a Milano da Filippo Visconti 251
19 agosto. I suoi figli vinti a Mont'Olmo da Francesco Sforza 252
10 ottobre. Lo Sforza ottiene la pace da papa Eugenio IV 254
Niccolò Piccinino s'inferma a Milano di crepacuore 255
15 ottobre. Sua morte e suo carattere 257
8 settembre. Morte di Giovan Francesco di Gonzaga; suo figliuolo Lodovico gli succede 257
Il Visconti prende sotto la sua protezione Francesco e Giacomo, figli di Niccolò Piccinino 258
Vuole porre alla testa delle sue truppe Sarpellione, luogotenente di Francesco Sforza 259
29 novembre. Questi, prevedendo la sua diserzione, lo fa morire 260
1442-1444 Rivoluzioni nel contado di Montefeltro 261
1444 agosto. Federico di Montefeltro s'attacca a Francesco Sforza 262
Questi si disgusta con Sigismondo Malatesta, per avere comperato Pesaro per suo fratello Alessandro 262
1445 Pratiche del papa e del duca di Milano contro Annibale Bentivoglio a Bologna 263
24 giugno. Il Bentivoglio assassinato ad un battesimo 264
Il partito del Bentivoglio si vendica de' congiurati 266
La casa Bentivoglio e la repubblica di Bologna si trovano senza capo 267
I Bolognesi scoprono a Firenze un figlio adulterino d'Ercole Bentivoglio 268
L'invitano a porsi alla testa della loro repubblica 268
13 novembre. Santi Cascese lascia il suo nome per quello di Santi Bentivoglio, e fa il suo ingresso in Bologna 269
Eugenio IV, Alfonso ed il duca di Milano, attaccano di nuovo Francesco Sforza nella Marca 270
Agosto. Rivoluzione d'Ascoli e di parte della Marca 271
1445 Lo Sforza si ritira nelle contee d'Urbino e di Montefeltro 273
26 novembre. Ribellione di Fermo e di tutta la Marca, tranne Jesi 274
1446 I Veneziani ed i Fiorentini consigliano lo Sforza a marciare verso Roma 275
Giugno. Suo troppo tardo ingresso nell'Umbria e nel Patrimonio; vi soffre la fame 275
Alessandro Sforza abbandona suo fratello, e fa un trattato col papa 277
Filippo Visconti fa attaccare Cremona e Pontremoli 278
I Veneziani ed i Fiorentini risguardano quest'attacco come un'infrazione al trattato di Capriana, e dichiarano la guerra al duca di Milano 279
6 luglio. Carlo Gonzaga, generale del duca, viene disfatto a Castel San Giovanni 280
Vani trattati per ristabilire la pace 281
29 settembre. Francesco Piccinino rotto a Casal Maggiore da Michele da Cotignola, generale veneziano 283
Michele da Cotignola guasta il territorio fin presso alle porte di Milano 284
Francesco Sforza ricupera il vantaggio ai confini della Marca 285
1446 Spavento del Visconti; chiede soccorso al re Alfonso 287
Ed al re di Francia, Carlo VII, cui offre la restituzione di Asti 288
Finalmente a suo genero Francesco Sforza 288
Questi si rende sospetto ai Veneziani 290
1447 Ottiene l'assenso di Cosimo de' Medici per mutar partito 291
23 Febbrajo. Morte d'Eugenio IV 292
4 Marzo. Tentativo dei Veneziani per sorprendere Cremona 294
Marzo. Francesco Sforza accetta le offerte di suo suocero e si distacca dai suoi alleati 294
Nuovi sospetti del Visconti, che fermano la marcia dello Sforza 296
I Veneziani ricominciano i loro guasti nel Milanese, ed offrono ai popoli la libertà 297
Filippo ricorre nuovamente a Francesco Sforza, che cede Jesi e tutta la Marca al papa 298
9 Agosto. Lo Sforza si pone in viaggio per soccorrere suo suocero 299
13 agosto. Morte del Visconti nel castello di Porta Zobbia 299
1447 Ritratto di Filippo Maria, l'ultimo dei Visconti, duca di Milano 302
Capitolo LXXII. Sforzi de' Milanesi per riavere la libertà; Francesco Sforza entra al servigio della nuova repubblica; sue vittorie sui Veneziani a Piacenza, a Casalmaggiore ed a Caravaggio. 1447-1448 303
Le rivoluzioni, prodotte in Italia dai condottieri, devono infine produrre la grandezza di uno di loro, e la ruina di tutti gli altri 303
La perfidia di Francesco Sforza fu piuttosto un delitto del suo secolo che un delitto suo 304
Tutti i pretendenti alla successione dei Visconti erano senza legittimi titoli 306
La successione nella famiglia de' Visconti non era stata regolata dalle leggi 306
Frequente succesione dei bastardi in tutte le signorie Italiane 307
Pretesi diritti della casa d'Orleans, dell'imperatore e del re di Napoli 308
Tutti i Visconti avevano regnato in virtù di una nomina del concilio di Milano 310
1447 Scontento de' Milanesi quando morì Filippo Visconti 311
Segreti intrighi nel concilio del duca per trasferire la sovranità al re Alfonso di Napoli 312
1447 14 agosto. Rivoluzione in Milano per istabilire una repubblica 313
Pompa funebre dell'ultimo duca abbandonata 314
Le due fortezze, cedute dal Consiglio agli Arragonesi, sono riprese 315
La repubblica di Milano domanda la pace a quella di Venezia e non può ottenerla 316
Falsa politica de' Veneziani combattendo Milano 317
Rivoluzioni in tutte le città della Lombardia 318
Negoziazioni de' Milanesi con Francesco Sforza 318
Agosto. Francesco Sforza entra al servigio della repubblica di Milano 321
3 settembre. Passa l'Adda, e fa ritornare l'armata veneziana 323
Chiama Bartolomeo Coleoni al servigio dei Milanesi 325
Pratiche dei varj pretendenti all'eredità de' Visconti 325
La città di Pavia si dà in sovranità allo Sforza 326
Scontento del Senato di Milano 327
Tutti i vicini dei Milanesi fanno conquiste in Lombardia 329
Pretese di Carlo d'Orleans, figlio di Valentina Visconti 330
Lo Sforza cerca di non azzuffarsi con Dresnay, luogotenente del duca d'Orleans in Asti 332
11 ottobre. Dresnay disfatto presso a Bosco da Bartolomeo Coleoni 333
Lo Sforza intraprende l'assedio di Piacenza 334
Impedisce le comunicazioni di questa città colle campagne e col Po 335
Non si lascia smuovere dai tentativi di Michele da Cotignola sul Milanese e sul Pavese 336
16 novembre. Lo Sforza avendo battuto in breccia le mura di Piacenza, dà l'assalto 337
Piacenza presa a viva forza 339
Orribile sacco di questa città; i cittadini venduti al migliore offerente 341
1448 Nuove cagioni di diffidenza tra lo Sforza ed il Senato di Milano 343
Preliminari di pace tra Venezia e Milano fatti a Bergamo 344
Sono rigettati dal consiglio degli ottocento a Milano, per via degl'intrighi di Francesco Sforza 345
1 maggio. Lo Sforza toglie ai Veneziani ciò che possedevano sulla diritta dell'Adda 346
La flotta d'Andrea Querini rimonta il Po, e si avvicina a Cremona 347
1448 Lo Sforza intraprende contro il proprio avviso l'assedio di Lodi 348
16 luglio. Torna contro la flotta del Querini, e l'attacca innanzi a Casal Maggiore 350
Gli fa tagliare la ritirata da Biagio d'Assereto 350
17 luglio. La brucia prima che il Cotignola possa giugnere in soccorso 353
Pericolo del saccheggio della flotta in presenza del nemico 354
Il Senato di Milano ordina allo Sforza di assediare Caravaggio 356
1 agosto. Il Cotignola si avanza per liberare Caravaggio 358
Le due armate si fortificano l'una in presenza dell'altra 358
Dissenso tra i generali veneziani intorno al partito da prendersi 359
Ricorrono al Senato di Venezia, che ordina di attaccare lo Sforza 361
15 settembre. Battaglia di Caravaggio 362
Viene fatta prigioniera quasi tutta l'armata Veneziana 364
Lo Sforza lascia in libertà i prigionieri dopo averli spogliati 365
Capitolo LXXIII. Francesco Sforza abbandona i Milanesi e passa colla sua armata al servizio dei Veneziani. Furore del partito popolare a Milano; blocco e miseria di questa città; i Veneziani gli accordano la pace, ma Francesco Sforza prosegue i suoi attacchi, ed all'ultimo costringe i Milanesi a riconoscerlo per loro Duca. 1448-1450 366
1448 Grandezza delle perdite fatte dai Veneziani una dietro l'altra 366
I due stati desiderano la pace, ma lo Sforza vuole continuare la guerra 367
19 novembre. I Veneziani levano il comando a Michele Attendolo 368
Negoziano collo Sforza, cui promettono il ducato di Milano 370
18 ottobre. Trattato tra Venezia e lo Sforza che abbandona i Milanesi 371
Lo Sforza dichiara al suo esercito i motivi per cui si debbe lagnare dei Milanesi 371
Trova tra i Lombardi numerosi partigiani 373
Occupa Piacenza 374
Distribuisce le truppe ne' quartieri d'inverno intorno a Milano 375
Sue proposizioni ai Milanesi, e risposta di Giorgio Lampugnano 376
Apparecchi di difesa dei Milanesi; nominano generali Francesco Piccinino e Carlo Gonzaga 378
1448 Lo Sforza prende Abbiategrasso 379
Sottomette la vicina provincia dei laghi 380
Gli aprono le porte Romagnano, Tortona ed Alessandria 380
1449 Intrighi del Gonzaga col partito democratico a Milano 381
I nobili Ghibellini propongono di accordare allo Sforza una limitata autorità 382
Sono puniti di morte, ed il governo di Milano diventa rivoluzionario 383
I Piccinini disertano dall'armata milanese, e si riuniscono allo Sforza 384
Febbrajo. La città di Parma s'arrende ad Alessandro Sforza 384
Vittoria dei Milanesi sulle truppe dello Sforza sotto Monza 385
Il duca di Savoja manda un'armata in soccorso dei Milanesi 386
Defezione dei Piccinini che tornano ai Milanesi 387
Numerosa milizia dei Milanesi; armata di fucili, la quale non può far levare l'assedio di Marignano 389
20 aprile. I Savojardi sconfitti da Bartolomeo Coleoni presso Borgo Mainero 392
Maggio. Ribellione del castello di Vigevano contro lo Sforza, che viene ad assediarlo 393
1449 3 giugno. Assalto dato a Vigevano 394
Valorosa resistenza degli assediati 395
4 giugno. Vigevano obbligato a capitolare 397
1 luglio. Proposizioni di pace fatte dai Milanesi ai Veneziani 398
11 settembre. Crema e Lodi tolte ai Milanesi dallo Sforza 399
Armistizio tra i Milanesi ed i Veneziani 400
27 settembre. Trattato di pace firmato a Brescia tra le due repubbliche 401
Francesco Sforza finge di volervi accedere, ed accorda ai Milanesi una tregua 402
16 ottobre. Morte di Francesco Piccinino 403
20 ottobre. Lo Sforza rifiuta il trattato di pace, e continua solo in proprio nome la guerra contro i Milanesi 404
28 dicembre. Batte Sigismondo Malatesta, mandato dai Veneziani in soccorso dei Milanesi 406
1450 20 gennajo. Fa la pace col duca di Savoja 406
I Milanesi ed i soldati dello Sforza mancano egualmente di vittovaglie 407
Jacopo Piccinino cerca di aprire una comunicazione tra i Milanesi e l'armata veneziana 408
1450 Estrema carestia in Milano 409
Il Malatesta non osa dare battaglia per liberare Milano 409
25 febbrajo. Sollevazione in Milano; gl'insorgenti occupano il palazzo del pubblico 410
26 Febbrajo. Gl'insorgenti si adunano per deliberare a Santa Maria della Scala 411
Gaspare da Vimercate loro propone di darsi allo Sforza 412
Ultimi sforzi d'Ambrogio Trivulzio per imporre condizioni allo Sforza 413
Lo Sforza ricevuto in Milano e proclamato duca dal popolo 414
Osservazioni sulla sorte della sua dinastia 415
Capitolo LXXIV. Politica di Cosimo de' Medici. — Guerra di Piombino tra il re di Napoli ed i Fiorentini. — Ultimi sforzi de' Veneziani e d'Alfonso contro lo Sforza sostenuto da' Fiorentini; pace di Lodi. 1447-1454 417
Il governo degli Albizzi a Firenze non avrebbe acconsentito alla servitù della repubblica milanese 418
Cosimo de' Medici più personale e meno amico della libertà che gli Albizzi 419
Grandezza di Cosimo fondata su la sua fortuna, e sul nobile uso ch'egli ne faceva 419
Cosa fece per le lettere, per la filosofia, per le arti 421
La politica del Medici indegna della nobiltà del suo carattere 425
1447 Giugno. Tentativi d'Alfonso in Val d'Arno di sopra 427
Settembre. Alfonso invade le maremme toscane 429
1448 Maggio. Vuole occupare Piombino, il di cui signore si pone sotto la protezione de' Fiorentini 429
15 luglio. Vani sforzi della flotta fiorentina per portare vittovaglie in Piombino 431
Settembre. Bella difesa di Piombino che rispinge un assalto generale 433
Ritirata d'Alfonso dopo avere perduta molta gente nella Maremma 435
1449 Soccorsi chiesti ai Fiorentini dai Veneziani e dallo Sforza 436
Neri Capponi vuole che i Fiorentini secondino lo stabilimento della libertà milanese 437
Cosimo de' Medici vuole il contrario e dimanda che si ajuti lo Sforza 439
1450 Tripudio del popolo fiorentino per la vittoria dello Sforza 440
Politica e situazione di Francesco Sforza 441
Peste in Lombardia portata a Roma dai pellegrini del Giubileo 443
1450 Mutazione nelle alleanze delle potenze d'Italia 444
1449 Guerra marittima d'Alfonso e de' Veneziani 444
1450 Lodovico III Gonzaga, marchese di Mantova, rivale di suo fratello Carlo 446
15 novembre. Carlo arrestato dal duca di Milano, cui si riconcilia Lodovico 446
1441-1450 Pacifico regno di Lionello, marchese d'Este 447
1450 1 ottobre. Gli succede Borso d'Este, suo fratello naturale 449
Guglielmo, fratello del marchese di Monferrato, arrestato poi rilasciato da Francesco Sforza 449
29 giugno. Pace tra Alfonso ed i Fiorentini 450
1451 6 marzo. Alleanza de' Veneziani e d'Alfonso comunicata con minaccia ai Fiorentini 451
20 giugno. Tutti i Fiorentini scacciati dal territorio di Venezia 453
7 giugno. Tentativo dei Veneziani per mutare il governo di Bologna 454
Le ostilità ritardate dalla spedizione in Italia di Federico III 455
1438-1439 Regno d'Alberto II d'Austria 456
1440 2 febbrajo. Elezione di Federico III, figlio d'Ernesto, duca d'Austria e di Stiria 457
1452 Federico invita Eleonora sua sposa a scontrarlo in Toscana 457
3 febbrajo. Giungono Eleonora a Livorno e Federico a Firenze 459
18 marzo. Coronazione di Federico III a Roma 460
Aprile. Brillanti feste date dal re di Napoli all'imperatore 461
15 maggio. Modena e Reggio erette in ducato a favore di Borso d'Este 461
Scandalosa venalità della corte imperiale 462
16 maggio. I Veneziani muovono guerra al duca di Milano, il re di Napoli ai Fiorentini 463
Poco gloriosa campagna di Ferdinando, duca di Calabria, in Toscana 464
Lo Sforza attaccato dai Veneziani, dal duca di Savoja e dal marchese di Monferrato 465
26 Luglio. Guglielmo di Monferrato sorpreso e disfatto a Canina 466
Alessandro Sforza battuto nel Lodigiano 467
Novembre. Ridicola sfida del Piccinino e di Francesco Sforza sul piano di Montechiaro 468
1453 Diserzione ne' due eserciti; vergognose pratiche durante l'inverno 469
1453 Apparecchi di difesa dei Fiorentini 472
Seconda campagna di Ferdinando in Toscana 472
Gherardo Gambacorti vuol tradire la repubblica 473
12 agosto. Perde la propria contea di Bagno 474
Renato d'Angiò chiamato in Italia dai Fiorentini e dal duca di Milano 475
La campagna si passa in scaramucce fino al di lui arrivo 477
15 settembre. Renato ristabilisce la pace tra il marchese di Monferrato ed il duca di Milano 478
19 ottobre. Ferocia dei soldati di Renato alla presa di Pontevico 479
Terrore degli stati veneziani e dell'armata del Piccinino 480
Renato, dopo una campagna di tre mesi, vuole abbandonare l'Italia 482
29 maggio. Costantinopoli presa dai Turchi; spavento dell'Italia, ed universale desiderio di pace 483
1454 Assurde pretese delle parti e la cattiva fede del papa ritardano la pace nel congresso di Roma 485
1454 I Veneziani trattano in segreto e separatamente collo Sforza 486
1455 9 aprile. Pace di Lodi conchiusa tra le due potenze a nome di tutte le altre 488
26 gennajo. Accessione del re Alfonso alla pace di Lodi 490
Fine della Tavola