CAPITOLO XCI.
Considerazioni intorno al carattere ed alle rivoluzioni del 15.º secolo.
Nel corso di questa storia abbiamo di già due volte invitati i nostri leggitori a trattenersi con noi, per dare insieme uno sguardo allo spazio trascorso. Dopo il 1303 abbiamo procurato di offrir loro un prospetto del tredicesimo secolo, e dopo il 1402 quello del quattordicesimo. Prima di ripigliare la nostra narrazione, loro chiederemo d'abbracciare con un colpo d'occhio il quindicesimo secolo, per formarci un'accurata idea di ciò che era l'indipendenza italiana, di ciò che era il contratto sociale in tutta la contrada, nel momento in cui cominciò la terribile lotta che privò l'Italia della sua indipendenza, e tutto sovvertì il suo stato sociale.
Se non abbiamo creduto di scegliere il nostro punto di riposo alla precisa epoca della fine del tredicesimo e del quattordicesimo secolo, abbiamo ancora migliore ragione di dispensarcene, rendendo conto del quindicesimo; imperciocchè poco prima che terminasse questo secolo, ci si presenta, nel punto cui siamo arrivati, una di quelle importanti epoche, che dividono la storia in due periodi di carattere assolutamente diverso, che chiudono in certo modo le precedenti rivoluzioni, e ne cominciano di nuove, prodotte da altre cause e dirette da altre passioni. Abbiamo fin qui osservato i tempi che propriamente appartengono all'età di mezzo; entriamo adesso nella rivoluzione che fece succedere alla sua antica organizzazione quella dei moderni tempi, che mescolò nazioni fin allora separate, dando loro interessi di cui in addietro non avevano pure avuto conoscenza.
Fino alla morte di Lorenzo de' Medici, accaduta nel 1492, colla quale abbiamo posto fine al precedente volume, la nazione italiana dava, se non legge, almeno ammaestramenti ed esempi a tutte le altre. Ridotta essa sola a civiltà, affastellava il rimanente de' popoli europei sotto il nome di barbari, e loro incuteva rispetto. Non aveva steso sopra di loro il suo impero, ma non aveva nemmeno subito giogo straniero. Alcuni esteri sovrani eransi per vero dire seduti sul trono di Napoli, ma dopo essere diventati italiani; alcune armate oltramontane avevano attraversata l'Italia, ma si erano prima poste al soldo di qualche sovrano della contrada. Il progetto di soggiogare l'Italia non erasi ancora formato da verun principe venuto a portarvi la guerra; giammai i popoli non avevano concepito il timore di questa servitù, nè avevano potuto sospettarne il pericolo.
Ma nel 1494 tutti i popoli limitrofi, gelosi della prosperità dell'Italia, o avidi delle sue spoglie, cominciarono nello stesso tempo l'invasione di questo ricco paese; armate devastatrici uscirono dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Spagna, dalla Germania, e, per lo spazio di quasi mezzo secolo, non diedero verun riposo agli sventurati Italiani; portarono il ferro ed il fuoco fino sulle cime più rimote degli Appennini, e fino alle rive dei due mari; la peste e la fame camminavano con loro; la miseria, il dolore, la morte penetrarono entro i più sontuosi palazzi, e nei più abietti abituri; giammai tanti patimenti avevano oppressa l'umanità, giammai tanta parte della popolazione era stata distrutta dalla guerra. Diverse cagioni mettevano le armi in mano ai combattenti, ma i risultamenti della loro guerra erano sempre i medesimi. Ogni nuova invasione ruinava le fortificazioni dell'Italia, distruggeva le sue ricchezze, faceva sparire la sua popolazione. I suoi diversi governi si dividevano, alleandosi a straniere potenze, e prendendo parte alle loro liti, mentre dimenticavano la propria sorte; essi ancora non si accorgevano che la loro esistenza si giuocava a gran giuoco, e che venivano promessi come premio al vincitore, anche prima d'avere conosciuto che l'Italia poteva essere soggiogata.
Si è in sul declinare del quindicesimo secolo, che, giunti in certo modo al più elevato punto dello spazio che abbiamo abbracciato, vediamo l'intera storia dell'Italia dividersi ne' diversi suoi periodi. I sei primi secoli, che scorsero dopo la distruzione dell'impero d'Occidente, apparecchiarono colla mescolanza de' popoli barbari coi popoli degeneri dell'Italia, la nuova nazione che doveva succedere ai Romani. Nel dodicesimo secolo questa nazione conquistò la libertà, di cui godette nel dodicesimo e quattordicesimo secolo, aggiugnendovi tutti i trionfi della virtù, de' talenti, delle arti, della filosofia e del gusto, e lasciò che si corrompesse nel quindicesimo, perdendo in pari tempo l'antico suo vigore. Quasi mezzo secolo di spaventosa guerra distrusse allora la sua prosperità, la privò de' suoi mezzi di difesa, e gli rapì all'ultimo la sua indipendenza. Dopo questa guerra, che formerà il principale argomento di questi ultimi volumi, decorsero quasi tre secoli nella servitù, nell'indolenza, nella mollezza, nell'obblio.
Quando una nazione è ad un tempo infelice e viziosa, siamo sempre inclinati ad attribuire le sue disgrazie ai suoi vizj, quando converrebbe il più delle volte attribuire i suoi vizj alle sue disgrazie. Si direbbe che la compassione è per il cuore dell'uomo un sentimento troppo penoso, e che avidamente cogliamo tutte le ragioni, tutti i pretesti che ci dispensano dal compiangere gli altri. È altronde indubitato che ognuno si sottrae possibilmente dall'applicare a sè medesimo, ai suoi compatriotti, al suo paese, l'esempio delle grandi calamità pubbliche; uom preferisce di non credervisi esposto, col persuadersi che non si possano commettere in verun modo que' falli che scorgonsi negli altri; e quando si accusa una nazione degenerata, si suppone di trovarvi la guarenzia della propria. «Il popolo che potè cadere sotto il giogo della schiavitù, dicono oggi i vincitori, il popolo che la soffre, la merita. Coloro che non sonosi sentiti fremere all'avvicinarsi dello straniero, coloro che non conobbero che, per respingerlo, d'uopo era sagrificare i suoi beni, la propria vita, e quella de' figli, sono fatti per rimanere sotto la sua legge, non sono meritevoli di compassione, perciocchè una generosa nazione non avrebbe subita una così triste sorte.»
Ma la storia non insegna agli uomini tanta confidenza; ci mostra per lo contrario, che se le servitù sono necessarie per l'esistenza delle nazioni, non bastano però a guarentirle; che la più saggia costituzione non lascia di essere un'opera umana; che come opera dell'uomo in sè contiene numerosi semi di ruina; che anche in seno alla libertà, alla virtù pubblica, al patriottismo, si sono veduti manifestarsi gli eccessi dell'ambizione, che hanno precipitato una nazione nell'abuso delle sue forze, e nell'esaurimento che ne è la conseguenza; per ultimo che noi soli non fabbrichiamo i nostri destini, e che le molte cagioni che sono a noi straniere, e che indichiamo col nome di accidentalità, perchè non sono da noi dipendenti, possono rendere inutili tutti i nostri sforzi.
La nazione inglese è forse oggi ciò che la nazione italiana era tre secoli fa. Ugualmente cercò la libertà prima d'ogni altro vantaggio, e questo solo gli diede tutti gli altri: nello stesso modo la libertà dello spirito gli ha dato l'impero della filosofia e delle lettere, come la libertà delle azioni gli diede l'impero del commercio e dell'opulenza; e così la potenza dell'opinione intorno al proprio governo gli diede la preeminenza su tutti gli altri, e la collocò nel centro della politica europea: ma per quante circostanze non fu ella l'Inghilterra in sul punto di perdere la felicità presente, e di cadere più in fondo dell'Italia. Quale sarebbe stata la sua sorte, se più lungamente vissuta fosse la regina Maria, o se avesse lasciati figli di Filippo II? se Elisabetta accettato avesse uno de' molti sposi cattolici che le si offrirono, se Carlo I non fosse stato tanto imprudente, nè così vile Carlo II, nè Giacomo II tanto insensato? Quante volte non andò debitrice della propria salute ai venti ed alle burrasche che dissiparono le flotte de' nemici, che potevano distruggere le sue? Quante volte la stravaganza di coloro che cercavano la sua ruina non gli fu più salutare che la propria prudenza? Quante volte non fu soccorsa da un felice destino, allorchè la propria salute non era più in sua mano?
Se gli Italiani, suol dirsi soventi, avessero formato, in sull'esempio delle altre nazioni d'Europa, una sola e robusta monarchia, se avessero rinunciato all'insensata discordia de' loro piccoli stati, se in cambio di consumare le loro forze gli uni contro gli altri le avessero tutte impiegate al di fuori, sarebbero stati più che bastanti a respingere gli stranieri; e, coprendosi di gloria nelle battaglie, avrebbero assicurata l'interna prosperità colla loro indipendenza. Ma potrebbesi piuttosto dire: se gli Italiani avessero fatto come gli Spagnuoli, l'Italia avrebbe subita la sorte della Spagna, e questa sorte non è più degna d'invidia della loro. Effettivamente, nell'epoca in cui ebbero principio le guerre crudeli che ridussero in servitù l'Italia, la Spagna, per lo innanzi divisa in assai più stati, contava ancora cinque monarchie indipendenti, e costantemente nemiche le une delle altre; quella di Castiglia, d'Arragona, di Navarra, di Portogallo e di Granata. Fu Carlo V il primo che riunì quattro di queste cinque monarchie, e Carlo V fu il primo che soggiogò l'Italia. Questa riunione costò agli Spagnuoli la libertà, non trovandosi le loro costituzioni abbastanza forti per contenere un monarca, che impiegava contro i suoi sudditi di un regno quelli di un altro. L'agricoltura, le manifatture, il commercio furono scacciati dalla Spagna dalla violenta amministrazione succeduta alle antiche e savie leggi delle cortes. Le private fortune vennero distrutte, scomparve la sicurezza de' cittadini, e la popolazione infinitamente scemò; tutti gli oggetti che gli uomini si propongono d'ottenere nello stabilimento dell'ordine sociale furono per sempre perduti, e l'indipendenza della nazione non fu assicurata a spese della libertà. Sotto il regno di Carlo V tutta Spagna echeggiò di lagnanze, perchè Giovanna aveva portato ad un sovrano straniero l'eredità dei suoi padri, e perchè gli Spagnuoli venivano governati dai Fiamminghi. Sotto il regno di Filippo II, gli Arragonesi, i Portoghesi, i Navarresi ed i Mori di Granata non si lagnarono con minore amarezza del governo de' Castigliani. Gli altri popoli dell'Europa potevano risguardare e gli uni e gli altri come egualmente Spagnuoli; essi, che ubbidivano, risguardavano i loro padroni come stranieri; e lo erano infatti per i costumi, per le leggi, per la lingua, per gli odj ereditarj; onde il peso del loro giogo fece scoppiare frequenti ribellioni.
Questa riunione delle monarchie spagnuole formò, egli è vero, una potenza formidabile agli stranieri, che difese contro di loro la penisola. Ma questa fu appunto la cagione de' giganteschi progetti della casa d'Austria, di quell'abuso delle proprie forze ancora maggiore delle sue risorse, di quelle spaventose guerre e tutte inutili cui prese parte, dell'odio che si eccitò contro fa monarchia spagnuola in tutta l'Europa, e della spaventosa miseria, cui ridusse gli spagnuoli. Una smisurata ambizione produce all'ultimo smisurati disastri; e mentre la Spagna, finchè fu divisa in piccoli stati, non aveva mai veduti eserciti stranieri violare impunemente i suoi confini, tutte le sue capitali furono costrette una dopo l'altra di aprire le loro porte alle armate francesi ed inglesi nella guerra della successione.
Se gl'Italiani avessero formata una sola monarchia, chi può dire che non sarebbero stati conquistati o conquistatori? Pure l'una e l'altra via conduce egualmente alla servitù. L'Italia non venne soggiogata colle forze di una sola nazione. Per lo spazio di più d'un mezzo secolo, fu contemporaneamente attaccata e guastata dagli Spagnuoli, dai Francesi, dai Fiamminghi, dagli Svizzeri, dai Tedeschi, dagli Ungari, dai Turchi e dai Barbareschi. Veruna interna organizzazione non avrebbe potuto renderla eguale di forze a tutti questi popoli riuniti a' suoi danni. Lungi d'essere alleati, erano questi veramente nemici gli uni degli altri; ma il vincitore approfittava di tutto il male fatto dai vinti. Carlo V e Filippo II furono serviti dai Francesi, dagli Svizzeri, e dai Musulmani, quanto dai proprj loro sudditi Tedeschi e Spagnuoli. Ruinando l'Italia, i primi l'avevano renduta più facile conquista degli altri, e più impotente a scuotere il giogo, quando avesse voluto tentarle. Tutti questi popoli vennero a combattere nelle campagne d'Italia; ma se gl'Italiani avessero cominciato ad essere conquistatori, chi sa se le prime loro sconfitte non avrebbero tirati loro sulle braccia que' medesimi nemici, e prodotte le stesse divisioni?
Se gli Italiani non avessero formata che una sola monarchia, chi può dire che qualche guerra civile non avrebbe aperte le sue porte allo straniero? Le guerre civili prodotte da una successione contrastata sono un flagello inerente alle monarchie ereditarie, nè queste sono forse meno frequenti, nè meno ruinose, di quelle che nascono dalle controverse elezioni nelle monarchie elettive. La sola Francia ne andò quasi sempre esente, perchè la legge salica semplificò la quistione del diritto ereditario; ma quante guerre civili non ebbero invece luogo pel controverso diritto alla reggenza? Altronde l'essenziale quistione dell'eredità delle femmine era così mal decisa in Italia, che appunto per questo titolo gli stranieri pretesero d'aver acquistati diritti su questo paese. La guerra di Carlo VIII nei regno di Napoli, quella di Lodovico XII nel ducato di Milano, furono intraprese per sostenere i diritti di successione in una monarchia. Molti supposero questi diritti legittimi e presero le armi per difenderli; e supposero di adempire ad un loro dovere, aprendo le fortezze dello stato alle armate straniere. In una monarchia s'insegna ai sudditi, che la giustizia consiste nel difendere la linea legittima dei loro re, e nel riporla sul trono con pericolo ancora dell'indipendenza nazionale. Se i duchi di Milano o i re di Napoli avessero potuto nel quindicesimo secolo riunire tutta l'Italia sotto la loro sovranità, la quistione dei diritti della seconda casa d'Angiò, o di quelli di Valentina Visconti non sarebbe perciò meno insorta nel sedicesimo secolo, ed il partito angiovino, ed il partito francese, invece di mostrarsi soltanto nel regno di Napoli e nel ducato di Milano, avrebbe preso le armi in tutta l'Italia per una quistione che avrebbe interessati tutti gl'Italiani.
È nell'essenza delle monarchie il dare costantemente diritti sopra di loro agli stranieri, siccome sta nell'essenza delle repubbliche di non riconoscere verun diritto sopra di loro che non parta dallo stesso centro della nazione. Nelle monarchie che ammettono la successione delle femmine non si marita una sola principessa di sangue reale, che non possa un giorno o l'altro chiamare principi stranieri sul trono de' suoi maggiori. Nelle altre, in cui la successione viene riservata ai soli maschi, il pericolo è minore, e non comincia che quando un ramo cadetto occupa un trono straniero. Così le case d'Angiò, di Napoli e d'Ungheria, conservarono quasi dugent'anni un diritto eventuale alla successione della Francia. La casa di Borbone-Navarra ne acquistò più tardi uno simile; ma Enrico non possedeva il regno di Navarra quando ottenne la corona di Francia, onde non chiamò i Navarresi a dominare sui Francesi. I rami italiano e spagnuolo della casa di Borbone hanno ancora presentemente, dopo un secolo, eventuali diritti alla successione di Francia; e le rinuncie di queste due case, rendendo i loro diritti dubbiosi, accrescerebbero vieppiù i pericoli d'una guerra civile e d'un'invasione straniera per farli valere, nel caso che si aprisse la successione. Come mai adunque lo stabilimento di una sola monarchia in Italia avrebbe garantita l'indipendenza italiana, mentre le medesime guerre, che ridussero l'Italia in servitù, altro titolo non ebbero che le pretese ereditarie ammesse dal solo regime monarchico.
Non già riunendosi in un solo impero, ma piuttosto conservando le sue repubbliche, poteva l'Italia sperare di salvare la sua indipendenza; qualora queste fossero state fra di loro unite nello stesso tempo da un legame federativo, o da alleanze temporarie ma conformi ai loro interessi, tali alleanze avrebbero bastato a respingere gli stranieri, e non ad attaccarli in casa loro; avrebbero preservati gl'Italiani dai traviamenti della propria ambizione come dagli attacchi dei loro nemici. Una repubblica federativa non può mai tanto fidarsi dell'unione de' suoi membri per diventare conquistatrice; ella sfugge a tutti i pretesti di guerra che somministrano ai re la domanda della dote di una figlia, o quella dell'eredità di un avo lontano; e quando è costretta a prendere le armi per sua difesa, trova mezzi che non avrebbe nel regime monarchico. Venezia con una popolazione di due milioni e dugento mila anime fece rispettare la sua potenza fino alla fine del secolo decimo ottavo, assai meglio del regno di Napoli con sei milioni d'abitanti. Si presentò l'occasione di ristabilire la repubblica milanese alla metà del quindicesimo secolo, e di unirla a quella di Venezia e di Firenze, e fors'anche a quella di Genova e della lega Svizzera, per la difesa della libertà. Quando fu perduto quest'istante, ben si può dire che l'Italia fu perduta.
Del resto i piccoli stati, tanto in Italia, come altrove, in tutto il corso del quindicesimo secolo, piegarono sempre ad unirsi in più vasti stati. È questa la naturale conseguenza di tutte le vicende delle guerre, delle rivoluzioni e delle eredità. I sovrani della Francia, della Spagna e della Germania, aggiugnevano tutti gli anni nuovi feudi ai dominj della loro corona; sparivano i piccoli principi e le città libere; pure ognuna di queste nazioni era ben lontana dall'ubbidire ad una sola volontà. La casa d'Austria, divisa in varj rami, non aveva per anco acquistata l'Ungheria e la Boemia; non era ancora più potente della casa di Baviera o di quella di Sassonia; ed il suo ingrandimento nel quindicesimo secolo appena era stato proporzionato a quello dei duchi di Milano. La Francia ancora non contava tra le sue province l'Alsazia, la Lorena, la Franca Contea, la Borgogna, l'Hainault, la Fiandra e l'Artois. Il duca di Bretagna era tuttavia indipendente; gli altri feudatarj non erano che per metà subordinati all'autorità reale; la sola nobiltà era armata, mentre il popolo era troppo oppresso per accrescere la forza nazionale. Frequenti guerre civili avevano occupati ne' loro paesi i Tedeschi, i Francesi e gli Spagnuoli, e niuno in Europa sospettava che si trovasse una sproporzione tra le forze ed i mezzi di queste varie monarchie e le forze ed i mezzi degli stati d'Italia: quella forza, formata tutt'ad un tratto dal valore e dall'arte militare degli oltremontani, non era irreparabile, perciocchè essi fecero lungamente la guerra coi mercenarj levati nella Svizzera, i quali erano egualmente disposti a ricevere soldo dagl'Italiani come dai Francesi.
Nulla annunciava all'Italia, nulla preveder faceva alle potenze straniere il fine della guerra che si accese in sul declinare del quindicesimo secolo; onde non possono accusarsi gl'Italiani di non avere distrutte tutte le antiche loro instituzioni per prevenirlo; ma bensì di non avere abbastanza saputo usare di queste antiche instituzioni, di non avere abbastanza rispettata l'indipendenza di ogni stato, e la libertà di tutti, e d'avere permesso che si spegnesse il patriottismo che gli attaccava alla loro città, non all'idea astratta della nazione italiana. Dopo avere perduti i loro diritti furono meno disposti a fare sagrificj per una patria che loro prometteva minori beni, e più non trovarono in sè medesimi quell'energia repubblicana che gli avrebbe salvati, se qualche cosa poteva salvarli.
Infatti il vizio essenziale, che nel quindicesimo secolo intaccava il corpo sociale in Italia, era l'indebolimento dello spirito di libertà. L'aristocrazia faceva conquiste in seno alle repubbliche, indi il despotismo conquistava le medesime repubbliche. Le città, gelose della loro sovranità, non avevano dato verun diritto rappresentativo alle campagne, di modo che quando dilatavano il loro territorio, accrescevano il numero de' sudditi, non quello de' cittadini. Pareva loro che la libertà fosse un diritto ereditario nelle famiglie, piuttosto che un diritto inerente all'uomo; onde poche volte ammettevano nuove famiglie a dividere le prerogative delle antiche, ed a rimpiazzare quelle che naturalmente si spegnevano. La popolazione dello stato andava crescendo, ed il numero de' cittadini si diminuiva; eppure i soli cittadini formavano la sua forza, poichè i sudditi di una repubblica non le erano più affezionati di quello che lo fossero al principe i sudditi di una monarchia.
Se alla fine del quindicesimo secolo si fosse fatto un censo di tutti coloro che avevano parte alla sovranità in tutta l'Italia, sarebbesi probabilmente trovato che Venezia non contava più di due o tre mila cittadini, Genova quattro in cinque mila, Firenze, Siena e Lucca cinque in sei mila tra tutte; mentre che tulle le repubbliche dello stato della Chiesa, tutte quelle della Lombardia, tutte quelle che precedettero il regno di Napoli avevano perduta la loro libertà: in tutto appena sedici o diciotto mila Italiani godevano pienamente di tutti i diritti del cittadino in una popolazione di diciotto milioni d'abitanti. Un eguale censo ne avrebbe forse dati cent'ottanta mila nel quattordicesimo secolo, ed un milione ottocento mila nel tredicesimo. Questa progressiva diminuzione del numero di coloro che avevano veri diritti nella loro patria, e ch'erano pronti a difenderla con immensi sagrificj, era per avventura la principale cagione dell'instabilità de' governi italiani e della diminuzione delle loro forze. La libertà, che da principio era seduta sopra larghissima base, omai più non posava che sopra la punta di una piramide.
Rendesi necessaria una più universale partecipazione della nazione agli onori pubblici per ravvivare l'entusiasmo, animare il patriottismo, e porre tra le mani dei capi dello stato la forza di ogni individuo. Non è che in proporzione di questa reale o immaginaria partecipazione di tutti gli abitanti dello stato alla sovranità, che le repubbliche acquistano, con un'energia tanto superiore, tanti mezzi di attacco o di difesa, quanti non saprebbero trovarne le monarchie di uguale popolazione e ricchezza. La sovranità di una repubblica sopra tutti i suoi cittadini è sempre più estesa che non quella del più dispotico monarca, per la ragione che siamo sempre più padroni de' proprj movimenti che di quelli di un altro, fosse anche uno schiavo. Vero è che ne' tempi di calma il principe assoluto può permettersi molti atti arbitrarj che sono vietati ad un governo libero, ma il superfluo delle forze, ch'egli trova allora, gli manca nell'istante del bisogno. Allorchè vorrebbe riunire tutte le forze individuali verso il solo scopo della difesa nazionale, è costretto d'impiegare una porzione de' suoi sudditi per costringere l'altra, e metà delle sue forze si paralizza da sè stessa. Un duca di Milano avrebbe veduto ribellarsi tutti i suoi stati, se in tempo di guerra avesse caricati i suoi sudditi della metà soltanto delle imposte che i Fiorentini s'imponevano da loro medesimi, perchè i Milanesi non avevano che un mediocre interesse di ubbidire piuttosto ad un Visconti o ad uno Sforza, che ad un Francese o ad un Tedesco, mentre rispetto al Fiorentino trattavasi di comandare o di ubbidire. Ma nel tredicesimo secolo, quand'ogni città era libera e governata popolarmente, sarebbesi trovato lo stesso potere di resistenza in ogni piccolo cantone della Toscana; circa la fine del quindicesimo, quando Pisa, Pistoja, Prato, Arezzo, Cortona, Volterra, erano soggette alla repubblica fiorentina, queste città ed i loro distretti non la servivano che come i sudditi servono un monarca; gli abitanti misuravano i sagrificj coi vantaggi spesso dubbiosi che potevano sperare dalla loro ubbidienza, e la repubblica poteva dirsi felice, se nell'istante del suo maggiore pericolo non si ribellavano.
Nel corso del quindicesimo secolo, Pisa fu la sola repubblica di primo ordine che cadde sotto il giogo di una repubblica rivale. La sua servitù privò tutta l'Italia della popolazione, del commercio, della navigazione, del valore militare di una delle sue più fiorenti città; e questa conquista, invece di accrescere la potenza di Firenze, la diminuì, perchè i Fiorentini non seppero, o non vollero far entrare i Pisani nella loro repubblica; non pensarono invece che ad indebolirli, ad incatenarli colle fortezze, a privarli dei mezzi di ribellarsi: dopo tale epoca tutte le forze destinate alla custodia di Pisa si levarono dai Fiorentini con pregiudizio di quelle con cui potevano difendersi. Ma se il numero de' cittadini liberi non provò quasi verun'altra diminuzione, il giogo che pesava sulle città suddite venne continuamente aggravato dall'insensibile lavoro di tutto il secolo. Quelle che volontariamente si erano poste sotto la protezione di repubbliche più potenti, non avevano perciò creduto di perdere la loro libertà, avevano solamente contratta un'alleanza disuguale, che non alterava il loro governo municipale, che spesso ancora le aveva liberate da una domestica tirannide. Soltanto l'andare del tempo toglie a quello che ha poco, ed aggiugne all'altro che ha molto; i privilegi de' più deboli sono ogni giorno meno rispettati, mentre le prerogative del più forte si vanno ogni giorno sempre più consolidando in conseguenza degli abusi che si cambiano in diritti. In tal maniera la città dominante diventò capitale, e suddite le città protette. Questo cambiamento si effettuò contemporaneamente in tutte le città che i Veneziani avevano sottratte ai tiranni della Marca Trivigiana, sebbene, mandando loro lo stendardo di san Marco, essi dicessero di render loro la libertà: si eseguì egualmente in tutte quelle che i Fiorentini avevano conquistate in Toscana, ed in tutte quelle delle due Riviere, che ubbidivano ai Genovesi.
La libertà politica, ossia la partecipazione degli uomini alla sovranità, aveva diminuito nelle capitali, perchè il numero de' cittadini s'andava sempre più ristringendo; aveva diminuito nelle città suddite, perchè i privilegi di queste città erano stati considerabilmente ristretti: finalmente aveva diminuito d'intensità, se posso così esprimermi, perchè i diritti di coloro ch'erano rimasti cittadini nelle repubbliche indipendenti, erano stati intaccati o circoscritti, e la sovranità del popolo più non era rispettata. Mentre che la repubblica di Venezia si andava sempre più ciecamente assoggettando ad una gelosa aristocrazia, la libertà a Firenze, a Genova, a Lucca, a Siena, era per lo meno esposta a rimanere frequentemente e lungo tempo sospesa. I Fiorentini, nel quindicesimo secolo, lasciarono usurpare alla famiglia de' Medici un potere di poco inferiore a quello dei re in una monarchia temperata. I Genovesi precipitarono più volte da frenetici la loro repubblica sotto il giogo di un principe straniero. Lucca rimase trent'anni sotto la tirannide di Pandolfo Petrucci; Bologna, che aveva così nobilmente figurato tra le repubbliche italiane, s'avvezzò poc'a poco al giogo dei Bentivoglio; Perugia, che brillò alcun tempo con quasi eguale splendore, poichè fu assai malmenata dalle fazioni degli Oddi e de' Baglioni, abbandonò finalmente agli ultimi il sovrano potere; e tutte le città dello stato della Chiesa, che pel corso di due o tre secoli avevano avuto governo repubblicano, perdettero fin l'ombra della libertà.
Dopo essersi lasciati privare dell'esercizio dei loro diritti, i popoli conservavano tuttavia qualche sentimento d'orgoglio nazionale, quando risguardavano come opera loro l'autorità cui dovevano sottomettersi. In principio del quindicesimo secolo, la maggior parte de' principi che regnavano nelle città d'Italia erano stati innalzati alla sovranità da un partito formatosi tra i loro concittadini; così nominatamente ricevevano la loro autorità dal popolo, e, quando ancora non mostravano verun riguardo per la sua libertà, conservavano per lo meno, e riscaldavano in esso l'amore dell'indipendenza nazionale. Tutti i diritti esercitati da una nazione sono di una natura in parte metafisica, e non è facile il definirli per le persone di non fino intendimento, onde non dobbiamo maravigliarci, se vengono spesso confusi gli uni cogli altri. Infatti l'indipendenza riceveva dagli Italiani il nome di libertà; gli abitanti di Ravenna chiamavansi liberi sotto l'autorità della casa di Pollenta, perchè non ubbidivano nè al papa, nè ai Veneziani; i Milanesi dicevansi liberi sotto i Visconti, perchè non ricevevano ordini, nè dall'imperatore, nè dal papa, nè dal re di Francia. La stessa illusione prodotta da un nome ancora caro, affezionava il popolo alla cosa pubblica, e non poteva essere distrutta senza lasciare scopertamente vedere che la sola spada dava la legge. Ma il quindicesimo secolo distrusse, rispetto alla maggior parte dei sudditi dei principi, quest'illusione d'indipendenza, come distrusse il sentimento della libertà per quasi tutti i cittadini delle repubbliche; e con questo funesto cambiamento si privarono i governi del loro carattere nazionale, e si rendette l'Italia più debole.
Veramente niun secolo fu più fatale alle principesche case d'Italia, nè distrusse più dinastie: e questa fatalità andò inoltre crescendo negli anni che decorsero, dopo l'epoca in cui ci siamo fermati, fino al 1500. I primi anni del secolo videro perire i Carrara di Padova ed i Scaligeri di Verona, videro nello stesso tempo scomparire tutti que' soldati avventurieri allevati da Giovan Galeazzo Visconti, che dopo la di lui morte eransi fatti sovrani nella loro città natale, o in quelle in cui si trovavano di guarnigione, ma che non si poterono lungamente mantenere. Le conquiste di un altro soldato avventuriere più illustre di tutti loro, di Francesco Sforza, furono ancora più fatali alle antiche dinastie italiane. Egli aveva da principio spogliati molti feudatarj della Chiesa nelle guerre cui dovette il suo primo stabilimento nella Marca d'Ancona, e, quando poi occupò colle armi l'eredità di suo suocero e fece succedere gli Sforza ai Visconti, privò l'intera Lombardia, uno de' più potenti ed importanti stati d'Italia, della illusione della legittimità, che compensava i sudditi di quella libertà che avevano perduta. Tutti gli abitanti del ducato di Milano seppero alla fine che ubbidivano al potere della spada, e che, come solo questa aveva loro dato un padrone, solo questa aveva un eguale diritto di rapirlo loro.
Un secondo stato monarchico, che abbracciava più d'un terzo della popolazione di tutta l'Italia, il regno di Napoli, aveva ancor esso colla forza delle armi mutato padrone alla metà del secolo. Il titolo, che Alfonso d'Arragona vantava sull'eredità di Giovanna II, pareva a lui medesimo così dubbioso, che preferì di fondare la propria autorità sul diritto di conquista; e considerò pure questa conquista come una bastante ragione per disporre per testamento del regno di Napoli a favore di suo figliuolo naturale, Ferdinando, mentre lasciava gli stati che possedeva per diritto ereditario a suo fratello ed ai figliuoli di questi.
Per ultimo, nel centro dell'Italia, ambiziosi papi, poco scrupolosi, e pei loro costumi poco degni di rispetto, rialzarono con continuati sforzi la temporale monarchia della Chiesa, che in principio del quindicesimo secolo trovavasi ridotta in estrema debolezza. Ma ossia ch'essi alienassero di nuovo a favore de' loro figli e nipoti i feudi apostolici che andavano ricuperando, o pure gl'incorporassero alla diretta della Chiesa, essi staccavano egualmente i popoli dai loro rispettivi governi, sostituendo la propria autorità a quella che gli antichi feudatarj avevano nella loro patria; e lasciavano in ogni città un seme di malcontento, levando ad ognuna colla sua piccola corte tutti i proprietarj, tutti i ricchi, tutti gli uomini attivi, che passavano alla capitale per attaccarsi al governo. Per tal modo, mentre l'osservatore superficiale risguarda il quindicesimo secolo in Italia come poco fertile di rivoluzioni, mentre tutti gli storici hanno celebrato la sua tranquillità, la sua prosperità, in confronto alle terribili guerre che vennero in appresso, una più accurata disamina fa scoprire in questo stesso secolo le prime cagioni di quelle guerre e delle funeste loro conseguenze. Queste cause furono il rilasciamento del nodo sociale dall'una all'altra estremità d'Italia, l'indebolimento del patriottismo, e la diffusione in ogni luogo dei semi del malcontento.
Ma se l'Italia non fosse in fatti stata ruinata nel seguente secolo, mai non sarebbesi conosciuto che gli avvenimenti del quindicesimo secolo dovessero produrre tanta rovina. I contemporanei, benchè senza dubbio vedessero con dispiacere dimesse molte istituzioni cui erano stati affezionati i loro padri, non ebbero motivo di lagnarsi di straordinarie calamità, e probabilmente credettero il loro paese in uno stato di crescente prosperità. Quelle stesse rivoluzioni, che mutarono il governo di quasi tutte le parti dell'Italia, svilupparono i più grandi ingegni, ed i più grandi caratteri, e spesso ne ricompensarono gloriosamente i loro autori. Francesco Sforza non riconosceva la sua potenza che dai suoi soldati, mentre i Visconti avevano ricevuta la loro dal popolo; ma lo Sforza era superiore ai Visconti per la nobiltà de' sentimenti, per i suoi talenti amministrativi, per le sue virtù militari. Il re Alfonso era ancor esso forestiero nel regno di Napoli, e la sua violenta usurpazione poteva appena dare fondamento ad un potere legale; ma Alfonso era un grand'uomo, che succedeva ad una donna debole, spregevole, scostumata. Colle sue virtù cavalleresche inspirava entusiasmo a tutti coloro che l'avvicinavano; era inoltre ardente ammiratore dell'antichità, il padre de' letterati, il fondatore di tutte le instituzioni che apportarono splendore a Napoli. Niccolò V diminuì la libertà de' cittadini romani, e Pio II riunì alla santa sede i feudi di molti piccoli principi di Romagna, ma tutti e due illustrarono la santa sede con tanto amore per le lettere, con un sapere, con un'eloquenza, con una liberalità, che forse non troverebbersi in veruno de' loro predecessori, o de' loro successori. Cosimo de' Medici scosse la costituzione della sua patria, ma così vasti furono i suoi progetti, così elevati i suoi pensieri, tanto grande la sua magnificenza, che la posterità è tuttavia disposta, come i suoi concittadini, a chiamarlo il padre della patria. Niun periodo fu più ricco di sommi uomini quanto il quindicesimo secolo, e lo splendore che sfolgoreggia intorno a loro sembra riverberare sulle loro famiglie, sulla loro patria, su tutti coloro che furono subordinati alla loro autorità.
Il quindicesimo secolo non andò esente da guerre: questa calamità, la più terribile di quelle cui trovasi esposta l'umana generazione, è forse necessaria alle società politiche per conservare la loro energia; ma nelle guerre del quindicesimo secolo si osservò ancora qualche rispetto per l'umanità. In questo secolo la città di Piacenza fu la sola delle grandi città d'Italia, che fu esposta agli orrori del saccheggio ed all'intera cupidigia de' soldati. Veruna campagna venne guastata in maniera da distruggere per molti anni la speranza dell'agricoltore; i prigionieri furono dolcemente trattati, e quasi sempre liberati senza taglia dopo essere stati spogliati; le battaglie furono poco micidiali, e troppo poco senza dubbio, poichè talvolta ridussero la guerra a non essere che un giuoco tra i soldati mercenarj, che reciprocamente sfuggivano ogni occasione di nuocersi. Ma niuno in allora avrebbe potuto prevedere che questi vicendevoli riguardi esporrebbero gl'Italiani a vergognose disfatte, quando dovessero sostenere l'urto delle altre nazioni. Le loro truppe venivano continuamente esercitate, le loro armi erano della tempra migliore, i loro cavalli della più vigorosa razza. Gli uomini d'arme italiani, che Francesco Sforza aveva mandati a Lodovico XI, erano tornati gloriosi dalle guerre civili della Francia, ed i Veneziani non eransi trovati inferiori ai Tedeschi, quando furono in guerra coll'Austria. Un grandissimo numero di capitani tutti italiani eransi formati nelle due scuole de' Bracceschi e de' Sforzeschi: eransi tenuti esercitati, e mai non avevano deposta l'armatura dopo qualunque trattato di pace, perchè prestavano alternativamente i loro servigj a tutti gli stati che guerreggiavano; infine essi avevano applicate allo studio teorico del loro mestiere tutte le cognizioni dello spirito più illuminato. Non è a dubitarsi che colui, il quale avanti la fine del quindicesimo secolo avesse predetto agl'Italiani che le loro truppe non farebbero testa un solo istante alle oltramontane, sarebbesi renduto ridicolo; gli sarebbe stato domandato, s'egli credeva che i Barbiano, i Carmagnola, i due Sforza, i Braccio, i Caldera, i due Piccinini, i Coleoni, i Malatesta, non avessero lasciati successori, e se gli oltramontani avevano un sol uomo, che conoscesse al par di loro la teoria e la pratica dell'arte della guerra.
Il tempo de' capi d'opera della lingua italiana non era ancora giunto, ma verun secolo non provò forse maggiore entusiasmo per le lettere quanto il quindicesimo, nè si trovò meglio sulla via della gloria letteraria. Mentre nel restante dell'Europa la nobiltà facevasi un punto d'onore di non saper leggere, non eravi un principe, non un capitano, non un solo de' grandi cittadini d'Italia, che non fosse stato educato nelle lettere, che non istudiasse l'antico con qualche passione, e che non si affezionasse alla gloria degli eroi degli andati tempi con tanto maggiore ardore, quanto più aspirava egli stesso alla gloria. I grandi filosofi che di quest'epoca ristaurarono tutti i monumenti letterarj dell'antichità, i dotti che rinnovarono la filosofia platonica, i poeti che risvegliarono le muse italiane, furono tutti membri de' consiglj de' principi o delle repubbliche, ed ottennero nel governo della loro patria un'influenza cui rare volte c'innalzano le lettere.
L'ultimo Visconti ed il primo Sforza furono egualmente generosi verso i dotti che chiamarono alle loro corti. Vi trattennero lungamente Francesco Filelfo, l'uomo più famoso del secolo per la profonda erudizione, per l'infaticabile studio, e per il grandissimo numero dei suoi discepoli, Cecco Simonetta, segretario di Francesco Sforza, suo primo ministro e governatore de' suoi figliuoli, era ancor esso uomo dottissimo. I consiglj d'Alfonso e la corte di Napoli offrivano la stessa mescolanza di erudizione e di politica. Bartolomeo Fazio, Lorenzo Valla, e soprattutti Antonio Beccadelli, più conosciuto sotto il nome di Panormita erano de' più intimi confidenti e de' più abituali consiglieri del monarca. La repubblica fiorentina aveva contati tra i suoi principali segretarj, Coluccio Salutato, Leonardo Aretino, e Poggio Bracciolini. Cosimo de' Medici contava tra i suoi più cari amici Ambrogio Traversari e Marsilio Ficino. Niccolò V e Pio II, che dallo studio delle lettere erano stati portati sul trono pontificio, pareva che tutta la sovranità loro consacrar volessero a quelle lettere da cui la riconoscevano. Flavio Biondo, Platina, Jacopo Ammanati ebbero l'intima loro confidenza. Il Guarino e Giovan Battista Aurispa ornarono le meno potenti corti di Ferrara e di Mantova, e ne educarono i principi. I Montefeltri ad Urbino, i Malatesta a Rimini trasformarono in qualche maniera i loro palazzi in accademie.
Con questa costante emulazione fra tanti piccoli stati, con tanti lumi sparsi in tutte le province, la letteratura italiana fece rapidissimi progressi. Ma se tutta la penisola fosse stata riunita in una sola monarchia, quest'emulazione sarebbe immediatamente cessata. Con una sola capitale gl'Italiani non avrebbero formata che una sola scuola, i medesimi pregiudizj, i medesimi errori, renduti dominanti dal talento d'un professore, l'intrigo d'una cabala o la protezione di un padrone, si sarebbero uniformemente sparsi in tutte le contrade. Sarebbesi creduto di non potere pensare, scrivere, parlare puramente la lingua che a Roma, per modo d'esempio, come in Francia si crede non poterlo fare che a Parigi: la poesia italiana vi avrebbe perduta la sua originalità e varietà; ed il danno sarebbesi principalmente sentito nelle province, che più non isperando di riaver l'antico lustro, avrebbero cessato di contribuire ai progressi dello spirito, ed in conseguenza non ne avrebbero più risentito il beneficio. Nel quindicesimo secolo non v'ebbe capitale d'uno stato indipendente, per piccola che si fosse, e che non contasse molti uomini distinti, non ebbevi città suddita, per grande che si fosse, che un solo ne conservasse nel suo seno. Pisa, malgrado il suo decadimento, era una città assai più ricca, più popolata, più ragguardevole di Urbino, di Rimini, di Pesaro; ma Pisa, una volta fatta suddita dei Fiorentini, più non produsse un solo uomo distinto nelle cose delle lettere o della politica, mentre le piccole corti di Federico di Montefeltro in Urbino, di Sigismondo Malatesta in Rimini, di Alessandro Sforza in Pesaro, avevano tutte molti filosofi e molti letterati. Ferrara e Mantova non avevano maggiore popolazione di Pavia, di Parma, di Piacenza; ma nelle prime brillavano in tutto il loro splendore le arti, la poesia, le scienze, mentre che, in tutto lo stato di Milano, la sola Milano aveva lo stesso lustro. Il regno di Napoli era un esempio ancora più convincente della depressione delle province, quando una capitale s'innalza a loro spese. In questo bel regno, che abbracciava solo il terzo della nazione italiana, che più del rimanente della penisola era favorito dalla natura, e che, non avendo che un solo confine ed un solo vicino, la Chiesa, era meno esposto ai guasti della guerra che ogni altro stato d'Italia, la sola capitale aveva partecipato del movimento che nel quindicesimo secolo rianimò lo studio delle lettere e della filosofia. Malgrado il favore d'Alfonso, malgrado la fama dei grandi letterati che formarono la di lui corte, verun uomo di singolari talenti aveva aperto scuola nelle città così numerose e così felicemente situate della Calabria e della Puglia. Queste province appartenevano ancora alla barbarie, e fino alla presente età non hanno ancora sentita tutta l'influenza dell'incivilimento europeo.
I progressi di questo incivilimento avevano, dovunque si erano estesi, prodigiosamente accresciuti i godimenti della vita: gli studj del quindicesimo secolo, non erano, gli è vero, rivolti verso le scienze naturali, i di cui risultamenti sono applicabili all'utilità pratica, ma verso l'erudizione e la poesia, che arrecano diletto solamente allo spirito. Pure da una banda l'abitudine dell'osservazione, dall'altra lo studio degli antichi, avevano fatte risorgere alcune delle scienze che si propongono per loro scopo la felicità degli uomini. La legislazione aveva fatto de' progressi, la giurisprudenza era illuminata, le finanze regolarmente amministrate, e l'economia politica, sebbene il suo nome non fosse ancora conosciuto, non veniva oltraggiata con assurdi regolamenti, come lo fu tra le mani degli Spagnuoli, poichè l'Italia perdette la sua indipendenza. I governi si lasciarono spesso strascinare in grandissime spese, e talvolta imposero enormi contribuzioni ai loro sudditi, ma la loro maniera d'imporre le tasse non accresceva il danno di pagarle, non soffocava il commercio, non opprimeva l'agricoltura.
Quanto più un'istoria è circostanziata, tanto meglio mette in chiaro, quando è veridica, gli errori ed i patimenti degli uomini. Forse quella dell'Italia nel quindicesimo secolo avrà lasciato nello spirito del lettore molto maggior numero di sventure e di delitti, che non suole offrirne il più delle volle un paese della stessa estensione nello stesso spazio di tempo. C'inganneremmo non pertanto, credendo che di que' tempi gl'Italiani fossero più sventurati o più viziosi che i loro contemporanei nel rimanente dell'Europa, o che lo fossero quanto i loro successori nel proprio loro paese. La privata vita degl'Italiani in così piccoli stati, quali erano quelli che componevano allora l'Italia, era tutta visibile, e tutte le disgrazie venivano registrate nella storia. Ogni individuo trovavasi, per così dire, in contatto colla sovranità, e le sue passioni, i suoi intrighi, le sue vendette, si associavano alle rivoluzioni dello stato, agli avvenimenti pubblici. Nelle grandi monarchie, in cui i provinciali vivono avviluppati in una profonda oscurità, e nei piccoli principati moderni, ove lo stato medesimo non ha storia, e dove un immenso spazio divide ii sovrano dal suddito, ognuno soffre in silenzio la parte sua delle pubbliche calamità, e questa parte gli viene inflitta piuttosto per effetto delle cattive leggi, che per le violenze degli uomini. Le malversazioni dei ministri subalterni non richiamano la pubblica attenzione; la denegata giustizia, gli arresti arbitrarj, ordinati da oscuri magistrati, non sono avvenimenti storici; i delitti de' privati sono di competenza soltanto de' tribunali, e la ruina delle famiglie, dell'agricoltura, del commercio, dell'industria, viene tutt'al più indicata dagli storici complessivamente, senza che mai diano risalto alle infortune individuali. Per confrontare nel quindicesimo secolo i patimenti del popolo francese e dell'italiano, sarebbe d'uopo che la storia dei primi ci descrivesse colle grandi rivoluzioni della monarchia tutte le ingiustizie sofferte nello stesso tempo dai borghesi di Blois e d'Angers, di Tours e di Bourges, e di tutte le altre città del regno; che ci narrasse l'innalzamento e la ruina delle private famiglie, le segrete gelosie, le colpevoli pratiche colle quali i più oscuri cittadini si soppiantano gli uni gli altri, ed i delitti puniti dai tribunali. Ma quando non trovansi nelle province nè libertà, nè indipendenza, queste particolarità sono senz'interesse, come senza dignità; sebbene le passioni private esercitino tutta la loro forza nell'abitazione del più piccolo barone, e nella sfera dei poteri dell'ultimo scabino, il loro risultamento non ferisce che gl'individui, e non si associa in verun modo ai destini della nazione: veruna generosa passione nobilita agli occhi delle vittime la calamità ch'esse soffrono in comune, e la storia non degnasi nemmeno di nominare due o tre volte per secolo varie grandi città, che, se fossero state libere, avrebbero tutte somministrati tanti argomenti agli studj de' moralisti.
Per conoscere se una nazione è felice o sventurata, se la massa degli individui, che la compongono, è partecipe della sua prosperità, se la gloria che raccolgono i suoi capi è per essa sterile o fruttifera, conviene esaminare lo stato de' suoi lavori, la sua agricoltura, le manifatture, il commercio; conviene formarsi un'idea della privata vita di queste diverse classi di cittadini; è d'uopo osservare un capo di famiglia ne' varj stati della società, e vedendolo incamminare in qualche esercizio ognuno de' suoi figli, chiedere quali speranze di buon successo egli veda sul cammino per cui gli addirizza. Giudicando l'Italia con queste regole, troveremo che nel quindicesimo secolo era giunta ad un alto grado di prosperità, da cui è assai discesa a' nostri giorni; e rimarremo convinti che veruna contrada d'Europa non poteva in allora sostenere il confronto dell'Italia.
Sotto il rapporto dell'agricoltura l'Italia era in allora come adesso coltivata da gastaldi, che facevano tutti i lavori e tutte le anticipazioni, ritenendo in compenso la metà de' raccolti. Così mentre nel rimanente dell'Europa i contadini erano tuttavia attaccati alla gleba, o per lo meno sottomessi alle usanze del gius villico ed all'oppressione dei loro padroni, quelli dell'Italia erano liberi, erano uguali ai cittadini rispetto ai diritti civili, non dipendevano dai capricci di un padrone, non ricevevano da lui salario, e, sebbene non fossero proprietarj, essi non ricevevano il loro sostentamento che dalle terre e dal loro lavoro. La fertile Lombardia era, come al presente, industriosamente livellata, la coltivazione del grano di Turchia, e quella de' fieni vi avevano introdotte vantaggiose successive raccolte; le acque erano state industriosamente, per mezzo di canali fatti con grandissime spese, ripartite sopra la campagna, e questo sistema d'irrigazione, che la copre tutta intiera a foggia di rete, era stato condotto a perfezione da Lodovico il Moro, che diede il proprio nome ad alcune delle opere idrauliche fatte a sue spese. Le colline della Toscana erano, come nell'età nostra, coperte d'uliveti e di viti; e perchè le acque non si strascinassero dietro la terra vegetale, questa veniva sostenuta con diversi piani di muri senza cemento nelle vicinanze di Firenze, e nei contorni di Lucca con terrapieni di zolle.
Gli storici contemporanei non si presero cura di dipingere l'aspetto del paese, ed è il più delle volte dietro le descrizioni delle battaglie, e per gli accidenti d'un accampamento d'armata, che ci è dato di conoscere quale fosse lo stato dell'agricoltura, o la sorte de' contadini ne' tempi da noi lontani. Ma se queste circostanze staccate non ci lasciano punto dubitare che l'Italia non presentasse lo stesso aspetto dell'età presente nelle province che conservarono la loro prosperità, ci fanno altresì vedere che la campagna era coperta di villaggi e di agricoltori ancora nelle province, che adesso sono scambiate in deserti. La desolazione si è stesa sopra una ragguardevole ed altre volte fertilissima estensione dell'Italia, dalle rive del Serchio fino a quelle del Volturno. Vero è che le ricche campagne di Pisa furono ruinate dalle inondazioni e rendute, dal quindicesimo secolo in poi, insalubri dalle acque stagnanti, e in appresso dalla negligenza o dalla gelosia de' Fiorentini; ma potenti borgate animavano ancora tutto il littorale, oggi affatto deserto, da Livorno fino all'Ombrone. Possiamo formarci un'idea della numerosa popolazione dello stato di Siena e della sua Maremma dalla quantità dei villaggi che il marchese di Marignano vi fece spianare nel susseguente secolo, facendo passare a fil di spada tutti gli abitanti. Le guerre dei baroni, feudatarj della Chiesa, mostrano che la campagna di Roma aveva pure una numerosa popolazione, possedendovi i soli Colonna, nel quindicesimo secolo, maggior numero di popolosi villaggi, che tutta questa provincia non conta adesso case d'affittajuoli. Non può negarsi che tutta la provincia marittima, ossia la Maremma, come chiamasi ancora presentemente, non fosse riputata malsana, ma non quanto al presente. Flavio Biondo, facendone la descrizione sotto il pontificato di Niccolò V, si accontenta di dire, che nell'età sua più non era così fiorente come ai tempi dei Romani, e quando parla di Ostia, dice che questa città mai non godette di un clima troppo salubre, perchè esposta in riva al mare[1]; ma se avesse dovuto parlare del presente suo stato, avrebbe a stento trovate espressioni per dipingere la spaventosa desolazione del paese e gli effetti dell'aere pestilenziale che vi si respira.
Nel quindicesimo secolo i contadini italiani distinguevansi da quelli de' nostri in ciò, che, invece di abitare in mezzo ai loro campi, ove tenevano per altro una casa rustica, alloggiavano quasi tutti in terre murate; di là recavansi ogni mattina ai loro lavori, e, quando la loro sicurezza era minacciata da nemica invasione, conducevano entro la borgata i loro bestiami e gli attrezzi inservienti all'agricoltura, ed i loro raccolti. Gli storici, parlando di molte imprevedute invasioni, aggiungono spesso che i contadini non avevano avuto tempo di condurre nei luoghi murati le loro bestie e le loro famiglie; lo che mostra, che, in tempi tranquilli, solevano tenerli alla campagna.
La riunione de' contadini nelle borgate riusciva, non v'ha dubbio, perniciosa all'agricoltura, e scemava i prodotti che la loro famiglia poteva cavare da un terreno fertile. Ma quando si esaminano queste borgate, che sono presentemente quasi tutte spopolate, si trovano nelle loro case, abbandonate da più secoli, indizj dell'opulenza di coloro che le abitavano. In generale queste case sono vaste e comode, aggiungono l'eleganza alla solidità, e danno a conoscere che i contadini italiani, nel quindicesimo secolo, erano assai meglio alloggiati che non lo sono al presente i borghesi di una mediocre fortuna ne' più prosperi paesi dell'Europa.
Inoltre questa riunione di contadini in villaggi fortificati, che chiamavano castelli, attribuiva loro un'importanza e diritti politici, di cui non avrebbero potuto godere rimanendo isolati. Erano essi incaricati della difesa della patria, ed il governo perciò aveva loro affidate armi, un tesoro pubblico ed un'amministrazione diretta da magistrati scelti coi loro suffragi. Gli aveva in tal modo posti in istato di difendersi contro un nemico straniero, ma nello stesso tempo aveva loro dati mezzi di respingere ogni oppressiva operazione d'ogni altro corpo dello stato.
Tale era la sorte di questa metà della nazione italiana, che col suo lavoro faceva nascere tutti i frutti della terra. Se si paragona a quella de' contadini della Francia, dell'Inghilterra, della Spagna, della Germania alla stessa epoca, si troverà senza dubbio infinitamente più felice. I padri di famiglia erano esenti da qualunque schiavitù e da ogni vassallaggio domestico. Non erano inquieti rispetto alle condizioni del loro affitto che mantenevasi sempre eguale di generazione in generazione, nè intorno al pagamento delle contribuzioni, che spettava soltanto al proprietario del feudo, nè intorno al pagamento dell'affitto delle terre, che si eseguiva in natura. Potevano senza timore allevare i loro figliuoli, sapendo che il lavoro somministrerebbe loro un abbondante sostentamento; e se la loro famiglia diventava più numerosa che non richiedeva il perfezionamento del loro podere, trovavano sempre per quest'eccesso di popolazione un impiego nell'armata, nel clero, nelle professioni meccaniche della città.
Tutti coloro che lavoravano i campi vivevano colla metà dei frutti della terra; onde si può supporre che formassero per lo meno la metà della nazione[2]. La parte del raccolto, che i gastaldi davano in natura ai loro padroni, veniva consumata nelle città, e vi manteneva un'altra metà della nazione. Ma la condizione di questa seconda parte del popolo era ben diversa da quella che lo è presentemente; invece di languire nell'ozio per mancanza di lavoro, o per non avere conservata l'abitudine e l'abilità di lavorare, questa classe produceva valori commerciali con non minore attività di quella che avesse la prima nel produrre valori agricoli. L'Italia era tuttavia il più ricco paese dell'Europa in manifatture; le sete, ch'ella somministrava in tanta abbondanza, le lane, il lino, la canape, le pelli, i metalli, l'allume, lo zolfo, il bitume, tutti i prodotti bruti della terra, che dovevano essere modificati dall'industria, lavoravansi in Italia e da mani italiane, prima di essere rilasciati all'interno o all'esterno consumo. Ma le materie prime somministrate dall'Italia non bastavano alle sue manifatture; era una delle più importanti operazioni del suo commercio l'importarne altre dagli scali del mar Nero, dell'Affrica, della Spagna e dei paesi del Nord, e in quelle medesime terre tornarle a distribuire in appresso, dopo che il lavoro italiano ne aveva accresciuto il prezzo. Questo lavoro era costantemente ricercato; quando il povero recava le sue braccia sul mercato, era sicuro di trovarvi imprenditori disposti a farlo lavorare, ed a ricompensarlo in proporzione della sua abilità.
Non devesi per altro confondere l'ingegno degli artefici col lavoro meccanico degli operaj; ma tutte le arti erano pure una lucrativa carriera, ed ancora riguardandole dal lato dell'economia politica, non dobbiamo scordare che quello stesso paese che aveva maggior numero di cartolaj e le più attive tipografie, possedeva ancora la maggior parte di que' dotti, i di cui libri diventavano un oggetto di commercio per tutta l'Europa; che a poca distanza dalle cave del marmo statuario[3] di Carrara, e dalle fonderie delle Maremme, trovavansi gli studj degli statuarj Donatelli e Ghiberti, e la maravigliosa cupola di santa Maria Reparata a Firenze, innalzata dal Brunelleschi: e che a canto agli operaj che fabbricavano le tele, i pennelli ed i colori, vedevansi sorgere il Masaccio, il Ghirlandajo e tutti i fondatori delle scuole di pittura[4]. Così prosperavano simultaneamente tutti i lavori, da quello del tessitore, condannato ad un'operazione sempre uniforme, fino a quello dell'artefice destinato a formare la gloria del suo paese. In tale stato di cose quel padre di famiglia che altra eredità non lasciava a' suoi figliuoli che sanità, attività e coraggio di tutto intraprendere, lo abbandonava in sul cammino della vita senza timore.
Il commercio italiano aspettava, ed anticipatamente pagava tutti questi prodotti dell'industria nazionale, per distribuirli in seguito tra le diverse popolazioni del mondo. Ancora non era venuto quel tempo, in cui principi, gelosi dell'indipendenza di tali uomini, che potevano facilmente sottrarre le loro sostanze alla tirannide, armarono il disprezzo contro l'attività e l'industria mercantile. Gli oltremontani non avevano peranco insegnato agli Italiani, che il commercio faceva torto alla nobiltà; e le più illustri famiglie di Firenze, di Venezia, di Genova, di Lucca e di Bologna, davano contemporaneamente capi alle case mercantili, cardinali alla Chiesa e gran priori all'ordine di Malta. Mentre che i più riputati uomini della nazione arrecavano col loro esempio maggior lustro al lavoro, che insegnavano a risguardare l'ozio come un vizio, come un disonore, come un delitto contro la società, essi medesimi, applicandosi ad un commercio che abbracciava la metà del mondo allora conosciuto, acquistavano l'accortezza di esperti mercanti, le cognizioni positive dei legislatori, ed avevano opportunità di studiare i principj della prosperità pubblica, che dovevano prendere di mira nella loro amministrazione. Altronde i commercianti, che formavano un così distinto ordine della società, accostumavansi a trafficare con maggiore lealtà, con modi più liberali, con più svariate cognizioni. La mente, applicata a vicenda ora ai pubblici, ora ai privati affari, andava acquistando maggiore pieghevolezza, e meglio soddisfaceva all'una ed all'altra incumbenza.
La quantità del lavoro che può fare una nazione, la sussistenza che si può procacciare, e la popolazione che può nutrire si misurano sempre sulla quantità dei capitali di cui può disporre. Ora il capitale produttivo che apparteneva agli Italiani nel quindicesimo secolo pareggiava forse quello di tutte le altre nazioni d'Europa assieme unite, e questo capitale, affidato a mani economiche ed industriose, non giaceva mai ozioso. Oggi l'entrata annuale dell'Italia consiste quasi unicamente nella metà dei prodotti del suolo, che i gastaldi danno in natura ai proprietarj, e che questi, da sè medesimi, o col mezzo de' loro diversi salariati, consumano nell'ozio[5]. Nel quindicesimo secolo eranvi tra i proprietarj delle terre molti commercianti che aggiugnevano ogni anno ai loro capitali produttivi la parte, molte volte considerabilissima, de' prodotti de' loro poderi, che non consumavano oziosamente. In tal maniera andavano di continuo impinguendo i capitali, il di cui prodotto superava forse d'assai quello delle terre. Una più numerosa popolazione poteva adunque vivere sullo stesso suolo e più agiatamente. Mentre oggi una non piccola parte delle sete, degli olj d'Italia, ed ancora dei grani, si cambiano con oggetti di lusso, allora quasi i soli oggetti di lusso, che esportavansi dall'Italia, cambiavansi in grani che s'importavano dall'estero. Verun argine vincolava le speculazioni del mercante, che vedeva sempre crescere il fondo destinato alle sue intraprese; il povero trovava la ricchezza nel suo lavoro, il ricco era sicuro di accrescere le sue sostanze con un'incessante attività; e l'uno e l'altro potevano vedere l'accrescimento della loro famiglia senza temere la miseria.
Nell'istante in cui l'Italia usciva dalla barbarie abbiamo fatto osservare la gloriosa maniera con cui presentavasi in sul sentiero delle lettere e delle arti. Ma nel quindicesimo secolo la storia delle lettere e delle arti non è meno importante che la storia della politica; conviene adunque abbandonarla a coloro che la trattarono di proposito. In altra opera presentai un breve prospetto della letteratura italiana, mentre che una compiuta storia di questa stessa letteratura si andava pubblicando da uno de' più illustri scrittori della Francia[6]. Molti altri hanno descritti i maravigliosi progressi dell'architettura, della scultura, della pittura, delle quali non potrebbesi qui parlare degnamente con poche parole, nè trattare a fondo senza uscire dall'unità d'un soggetto storico. Non sarà adunque che come un nuovo argomento di quella prosperità, di quel sentimento di riposo e di felicità sparso in tutta la nazione nel quindicesimo secolo, ch'io ricorderò i rapidi progressi delle arti. Senza dubbio quando si videro giunte all'apice della perfezione, quando uomini come Michelangelo, Raffaello, Tiziano, ebbero pubblicati i loro capi d'opera, le arti si sostennero in tutto il sedicesimo secolo, e di maravigliosa luce folgoreggiarono in mezzo alle più terribili calamità. Le disgrazie non offendono sempre il genio; ma sibbene è necessario uno stato di sicurezza e di godimento della vita, per accendere la prima volta la di lui fiaccola. D'uopo è che una nazione osservi il presente con confidenza, e l'avvenire senza timore, per aggiungere ai fuggiaschi piaceri dell'opulenza l'immortale pompa delle belle arti.
I monumenti, onde si coprì l'Italia nel quindicesimo secolo, non dinotano solamente che un delicato sentimento del bello diresse lo scalpello, il pennello e la squadra de' più illustri scultori, pittori, ed architetti; ma il tutt'insieme di questi monumenti ci fa vedere una nazione piena di fiducia nelle proprie forze, di speranze pel suo avvenire, di soddisfaccimento per gli ottenuti successi. I suoi templi superano infinitamente in magnificenza ed in solidità tutti i più celebri della Grecia; i palazzi de' suoi cittadini, per estensione e per colossale spessezza di muraglie, vincono quelli degli imperatori romani; ed anche alle semplici case non manca un carattere di forza, di agiatezza, di comodità[7]. Quando oggi si attraversano molte città dell'Italia quasi deserte, e tanto decadute dall'antica loro opulenza, quando entrasi nei templi che nemmeno la folla delle grandi solennità può riempire, quando si osservano que' palazzi, i di cui proprietarj occupano appena la decima parte, quando si riflette alle spezzate sculture di quelle finestre fatte con tanta eleganza, all'erba che germoglia presso le mura, al silenzio che regna in quelle vaste abitazioni, alla povertà degli abitanti, al lento camminare, all'aria disoccupata di tutti coloro che attraversano le strade, ai mendicanti che ti pajono formar soli la metà della popolazione; ben si sente che tali città furono fabbricate per un popolo diverso da quello onde sono presentemente abitate, che furono il prodotto dell'attività, e sono ora l'eredità della scioperatezza; che appartennero all'opulenza, cui tenne dietro la miseria; che sono l'opera d'un gran popolo, e che questo gran popolo più non esiste.
Il lusso dei re può talvolta creare una magnifica capitale, ancora quando la loro nazione è tuttavia miserabile e mezzo barbara, e che punto non desidera di privarsi di porzione del suo necessario per circondarsi d'una pompa di cui ella non gode. Lodovico XIV e non la Francia, Federico e non la Prussia, Pietro e Catarina e non la Russia, si vedono ne' palazzi di Parigi, di Berlino, di Pietroburgo; perciò le lontane province all'epoca che s'innalzavano quegli edificj erano tanto più miserabili, quanto più sontuose diventavano le capitali. Ma spontanee sono la ricchezza e l'eleganza dell'architettura italiana; in villa come in città conservano lo stesso carattere, in ogni luogo sono superiori alla condizione de' presenti proprietarj; ovunque si vedono abitazioni più vaste, più agiate che quelle che la medesima classe della società occupa ne' paesi oggi riputati i più prosperi. Le non conosciute borgate di Uzzano, di Buggiano, di Montecatino, poste in sul pendìo delle colline di Val di Nievole, se fossero trasportate tutte intiere in mezzo alle più antiche città della Francia, di Troyes, di Sens, di Bourges, ne formerebbero i più bei quartieri; i loro templi sarebbero fatti per recare ornamento alle più grandi città. Quando c'interniamo nelle valli degli Appennini, lontane dalle men frequentate strade, da ogni commercio, e sto per dire da ogni viaggiatore, vi si trovano ancora dei villaggi, ove dal quindicesimo secolo in poi non si fabbricò veruna casa, ove verun'antica casa venne ristaurata; tali sono Pontito, la Schiappa o Vellano; oppure sono unicamente formati di case di pietra a cemento, a più piani, e d'una non inelegante architettura.
In quasi tutta l'Italia, l'agricoltura, le strade, la forma data al terreno dalla mano degli uomini, l'architettura delle città e quelle dei villaggi, conservano monumenti dell'antica opulenza, d'una prosperità comune a tutte le classi, d'una attività di spirito, d'uno zelo intraprendente ch'erano l'effetto, e di nuovo diventavano la causa della nazionale felicità. Quest'opulenza, malgrado tutte le rivoluzioni di cui abbiamo parlato, mantenevasi ancora in sul declinare del quindicesimo secolo. Solo ci resta a vedere per quale concatenamento di calamità venne distrutta, da quali impedimenti fu oppresso lo spirito della nazione; sicchè ancora dopo la cessazione delle guerre e di tutti i flagelli, che si succedettero pel corso d'un mezzo secolo, dopo il ritorno della tranquillità, dopo il godimento d'una lunga pace invidiata dalle altre nazioni europee, più l'Italia ricuperare non potesse un'ombra soltanto dell'antica sua felicità.
CAPITOLO XCII.
Elezione di Alessandro VI. — Progetto di riforma di Girolamo Savonarola; vanità di Piero de' Medici, nuovo capo della repubblica fiorentina. — Lodovico Sforza eccita Carlo VIII a far valere i suoi diritti sul regno di Napoli; fermento di tutta l'Italia. — Ferdinando I muore prima d'essere attaccato.
1492 = 1494. Le opinioni religiose e la politica concorrevano in Italia a collocare il papa alla testa degli stati indipendenti, ne' quali era divisa questa penisola. Fu principalmente nel corso del quindicesimo secolo che i papi innalzarono la loro monarchia temporale, riducendo la città di Roma a non avere che un governo municipale, e sostituendo la propria autorità a quella del senato e della repubblica, talchè dopo la congiura di Stefano Porcari avevano aboliti gli ultimi avanzi della romana libertà. Nelle vicine province i papi avevano lavorato con ardore a rendersi ubbidiente la nobiltà feudataria; e la violenza con cui furono perseguitate le due più potenti case, quella dei Colonna da Sisto IV, e quella degli Orsini da Innocenzo VIII, in principio del suo pontificato, le aveva molto indebolite. Quasi tutti i piccoli principi e quasi tutte le città libere, poste tra Roma, gli stati di Firenze e quelli di Venezia, erano state costrette a riconoscere la suprema autorità della santa sede. Gli è vero che i principi di Romagna conservavano la loro sovranità sotto l'autorità della Chiesa, ma essi ubbidivano con zelo al papa, che temevano, e gli somministravano in tutte le sue guerre eccellenti capitani e buoni soldati. Perciò gli ultimi pontefici ebbero più virtù guerriere che ecclesiastiche, e fecero fortemente sentire l'importanza militare dello stato della Chiesa.
Altronde il papa, che aveva l'alta signoria del regno di Napoli, ch'era direttore del partito guelfo in Lombardia ed in Toscana, e supremo capo della Chiesa, non misurava la propria potenza sopra la sola estensione degli stati sottoposti alla sua immediata giurisdizione. Ben al di là ed a molta distanza dai proprj confini poteva senza danaro guadagnarsi partigiani, fare la guerra senza soldati, minacciare ed atterrire senza forze reali. Perciò la storia dei papi era forse la parte più essenziale della storia d'Italia. Le rivoluzioni delle repubbliche e quelle delle monarchie trovavansi costantemente legate a quelle della corte pontificia, e quasi tutte le grandi catastrofi, che dovevano squarciare l'Italia, erano state predisposte dagl'intrighi o dalle passioni de' preti.
Il principio dell'ultimo periodo della libertà italiana, cui siamo arrivati, ed il cominciamento della lunga guerra che gli oltremontani dovevano portare in quasi tutta la penisola, fu pure un istante di crisi pel potere pontificio; imperciocchè appunto in allora venne innalzato sulla cattedra di san Pietro il più odioso, il più impudente, il più malvagio di tutti coloro che fecero abuso d'una sacra autorità per oltraggiare ed opprimere gli uomini. Alessandro VI fu eletto successore d'Innocenzo VIII. Lo scandalo della corte di Roma, sempre crescente da un mezzo secolo, non poteva essere spinto ad un più ributtante eccesso; ed infatti dopo tale epoca andò gradatamente diminuendo. Veruno scrittore ecclesiastico ebbe l'ardire di difendere la memoria di questo papa, indegno del nome di cristiano; e l'obbrobrio, che in tempo del suo regno coprì la Chiesa romana, distrusse quel religioso rispetto, che proteggeva tutta l'Italia, e l'abbandonò agli stranieri come più facile preda.
Innocenzo VIII era morto il 25 di luglio del 1492; vennero, secondo l'uso, consacrati alcuni giorni alla pompa dei suoi funerali, ed il 6 agosto susseguente i cardinali si chiusero in conclave per eleggere il successore. Si trovarono ridotti al numero di ventitre[8]. Ognuno di loro sentiva ingrandirsi la propria importanza, vedendo scemarsi il numero di coloro che avevano diritto di sedere in questo senato; la divisione delle ricchezze, degli onori, dei principati, disponibili dalla Chiesa, in gran parte spettava a loro; ognuno in ragione del piccolo numero de' suoi competitori, poteva riservare per sè medesimo o per le sue creature una più vantaggiosa porzione in questa grande eredità. Quindi, malgrado l'esperienza dell'inutilità di tutte le condizioni imposte ai futuri pontefici ne' precedenti conclavi, i cardinali, provvedendo prima di tutto ai proprj interessi, promisero con giuramento, che quello di loro che avrebbe la tiara, non farebbe nuove promozioni senza l'assenso del sacro collegio[9].
Tutti i voti trovaronsi uniformi per questa prima risoluzione che giovava al comune interesse; ma quando si venne all'elezione di un nuovo capo della Chiesa, ognuno diede nuovamente orecchio ai consigli della propria ambizione e privata cupidigia. Il conclave era quasi interamente composto di creature d'Innocenzo VIII e di Sisto IV, e non potevasi sperare da uomini eletti in tempi di tanta corruzione, nè molto disinteressamento, nè elevati sentimenti. Un solo tra di loro, Roderigo Borgia, era di più antica creazione, il quale, più degli altri invecchiato nelle dignità della Chiesa, aveva potuto accumulare maggiori ricchezze degli altri. Era costui figliuolo di una sorella di Calisto III, e per fare cosa grata allo zio, che lo aveva adottato, aveva lasciato il suo cognome di Lenzuoli per prendere quello di Borgia. Essendo ancora giovinetto era stato colmato dal vecchio Calisto di tutte le grazie che un papa può conferire ad un nipote: a lui aveva il pontefice resignato il proprio arcivescovado di Valenza nella Spagna; e lo aveva il 21 settembre del 1456 creato cardinale diacono, aggiugnendovi in pari tempo la lucrosa carica di vice cancelliere della Chiesa. Sisto IV, che aveva adoperato Roderigo Borgia in molte legazioni, gli aveva dati i vescovadi di Alba e di Porto. Altre più fresche missioni, nelle quali il Borgia aveva dato luminose prove della sua accortezza, gli avevano fruttate nuove ricompense[10], e nel 1492 aveva l'entrate di tre arcivescovadi in Ispagna, e di molti altri beneficj in tutta la Cristianità. Le ricchezze di un cardinale influiscono quasi necessariamente sopra i suffragj de' suoi colleghi, perciocchè, non potendo per sè ritenere i beneficj, fatto papa, è cosa ovvia che li ripartisca sopra tutti coloro che più contribuirono alla sua elezione; e quanto più partecipò egli stesso ai favori della Chiesa, tanto più può darne ai suoi partigiani, senza muovere giuste lagnanze. Il Borgia, nel corso di quasi un mezzo secolo di prosperità, aveva accumulati immensi tesori, e la natura gli aveva accordati tutti i talenti proprj a farne uso per la sua ambizione: aveva una facile eloquenza, sebbene non fosse che mediocremente versato nelle lettere, e la sua mente, straordinariamente pieghevole, era di tutto capace: ma soprattutto era in particolar modo provveduto di singolari talenti per trattare gli affari, e di una inarrivabile destrezza nel saper condurre ai suoi fini lo spirito de' suoi rivali[11].
Collocato dalle immense sue ricchezze e dalla sua anzianità nel collegio de' cardinali tra i principali candidati per la santa sede, il Borgia sembrava, anche agli occhi de' più savj, giustificare in parte le sue pretese co' distinti talenti impiegati la servigio della Chiesa; se non che i suoi costumi potevano dar luogo a potenti eccezioni. Fin sotto il pontificato di Pio II, le sue dissolutezze, in allora più condonabili in grazia della gioventù, l'avevano esposto alla pubblica censura[12]; aveva poi preso seco un'amica, detta Vanozia, colla quale viveva come se stata fosse sua moglie, e nello stesso tempo l'aveva fatta sposare ad un cittadino romano; aveva da lei avuti quattro figliuoli ed una figlia, che tra poco vedremo prendere una molto importante parte negli affari. Egli nelle parole e ne' fatti non aveva la riservatezza conveniente a uomo di Chiesa: ma il libertinaggio era di già salito sul trono con Sisto IV e con Innocenzo VIII, ed il sacro collegio non era più composto di uomini abbastanza irreprensibili perchè i vizj di Roderigo Borgia fossero un sufficiente motivo d'esclusione.
Pareva che due rivali potessero disputare la tiara al Borgia, cioè Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere. Ascanio, figliuolo del grande Francesco Sforza, duca di Milano, era zio di Giovanni Galeazzo, allora regnante, e fratello di Lodovico il Moro, che governava in suo nome la Lombardia; era stato creato da Sisto IV cardinale diacono del titolo dei Santi Vito e Modesto, era dopo il Borgia uno de' cardinali più ricchi di beneficj ecclesiastici, ed era inoltre spalleggiato da suo fratello e dagli alleati del duca di Milano. Ma dopo avere fatte alcune infruttuose prove delle forze del proprio partito, preferì di vendere la propria adesione al suo rivale, piuttosto che vedersi da lui vinto; trattò col Borgia e si fece promettere la carica di vice cancelliere, e gli guarentì in iscambio tutti i suffragi da lui disponibili[13].
Giuliano della Rovere, figliuolo di un fratello di Sisto IV, prete cardinale del titolo in san Pietro in vincula, era il terzo candidato. I suoi distinti talenti, e l'avere luminosamente figurato nel pontificato dello zio, gli avevano procurati molti suffragj; ma Roderigo Borgia, spargendo danaro a piene mani, seppe guadagnarsi coloro che ancora pendevano incerti. Sotto colore di porli in luogo sicuro finchè durava il conclave, egli aveva mandato quattro muli carichi di danaro alla casa del cardinale Ascanio Sforza, e questo danaro fu impiegato nell'acquisto delle coscienze incerte. La voce del cardinale patriarca di Venezia fu pagata cinque mila ducati, tutte le altre furono mercanteggiate nella stessa maniera[14], ed il sabato mattina, undici di agosto, Roderigo Borgia fu proclamato papa, colla maggiorità di due terzi de' suffragj, sotto il nome di Alessandro VI[15].
Si conobbe subito a quali vergognosi mercati andava il pontefice debitore della sua elezione, perciocchè fu veduto nei primi giorni dopo l'elezione pagare i convenuti premj. Risegnò al cardinale Ascanio Sforza la lucrosa sua dignità di vice cancelliere; cedette al cardinale Orsini il suo palazzo di Roma coi due castelli di Monticello e di Soriano; diede al cardinale Colonna l'abbazia di Subbiaco con tutti i suoi castelli; al cardinale di sant'Angelo, il vescovado di Porto con tutti i suoi mobili sommamente magnifici, oltre la sua cantina ricca de' più squisiti vini; al cardinale di Parma la città di Nepi; a quello di Genova la chiesa di santa Maria in via lata; al cardinale Savelli la chiesa di santa Maria maggiore, e la città di Città Castellana: gli altri furono premiati a danaro sonante. Cinque soli, alla testa de' quali furono posti Giuliano della Rovere e suo cugino Raffaello Riario, non acconsentirono a vendere i loro suffragj[16].
I Romani celebrarono l'elezione di Alessandro VI con tali feste, che sarebbero state più convenienti alla coronazione di un giovane conquistatore che a quella di un vecchio pontefice. Sarebbesi detto che il popolo re chiedeva al suo nuovo sovrano di richiamare sotto il suo impero le nazioni altre volte soggiogate dalle armi romane. La maggior parte delle iscrizioni che ornavano le case romane alludevano al nome di Alessandro assunto dal Borgia, e se in qualche modo ricordavano la religione di cui era capo, lo facevano, promettendo al nuovo Alessandro tanto più luminose vittorie in quanto che egli era un Dio, e non un semplice eroe[17]. Quest'eccesso d'adulazione non venne immediatamente smentito dal fatto. Una spaventosa anarchia era nata sotto il venale ed effeminato regno d'Innocenzo VIII; erasi aggrandita nella letargia di questo pontefice in modo che dugento venti cittadini romani erano stati assassinati dall'ultima crisi della sua malattia fino alla morte[18]. Alessandro VI, che voleva regnare, e che sapeva farsi temere, pose subito rimedio a tanto disordine e ridonò la sicurezza alle strade di Roma. Il solo cardinale della Rovere non lasciossi sedurre da questa apparente calma: l'apostata spagnuolo, il marrano, com'egli lo chiama[19], non poteva ispirargli troppa confidenza. Si chiuse nel castello d'Ostia fino all'istante in cui credette più prudente partito il recarsi in più lontani paesi, e non assistette alle scandalose feste colle quali il papa celebrò nel proprio palazzo il matrimonio di sua figlia Lucrezia con Giovanni, figlio di Costanzo Sforza, signore di Pesaro[20].
L'istante in cui la Chiesa romana, disonorata dai vizj di alcuni capi del clero, alzava sul trono un pontefice di cui doveva vergognarsi, non poteva sottrarsi ai tentativi di riforma di coloro che, più sinceri nella loro fede, cercavano nella religione un appoggio alla morale, e prevedevano le funeste conseguenze dell'esempio dato a tutta la Cristianità da un papa adultero e fors'anche incestuoso. In sul declinare del quindicesimo secolo, e ne' primi anni del susseguente, era ancora troppo fervente, e troppo sincero era il sentimento della religione perchè i grandi scandali non fossero cagione di grandi rivoluzioni. Coloro che per una virtuosa indignazione s'allontanavano da un Sisto IV, da un Innocenzo VIII, da un Alessandro VI, non lasciavano perciò d'essere Cristiani, o affezionati alla Chiesa disonorata da alcuni suoi capi; essi attribuivano tutti i vizj agli uomini e non al sistema; e quanto più vedevano accrescersi i disordini e gli scandali, facevansi un più stretto dovere di scacciare l'abbominazione dal santuario, e mostravansi più disposti a compromettere anche la vita per una riforma, che risguardavano come l'opera del Signore.
Lo scandalo della corte di Roma non era ancora che imperfettamente conosciuto al di là delle Alpi. Prima delle guerre degli oltremontani in Italia, un profondo rispetto copriva d'impenetrabil velo il palazzo di san Pietro a Roma; ed ai riformatori, che più tardi spiegarono lo stendardo della ribellione contro la Chiesa romana, sarebbe stato impossibile il dare compimento all'opera loro in Germania ed in Francia avanti questa mescolanza delle nazioni. La stessa intrapresa doveva piuttosto tentarsi in Italia, ove più che altrove conoscevansi gli abusi: questa doveva ricevere un diverso carattere dal popolo che cominciava la riforma; doveva scoppiare tra gl'Italiani con maggiore entusiasmo, doveva parlare d'avvantaggio all'immaginazione ed al cuore, doveva farsi meno spalleggiare dalla filosofia, e forse essere meno indipendente dalle opinioni religiose, ma invece legarsi più strettamente alla politica. In Italia l'ordine civile e l'ordine religioso erano egualmente corrotti, mentre i principj costitutivi dell'uno e dell'altro erano stati profondamente penetrati con un lungo studio: onde i riformatori dovevano tentare di dar mano contemporaneamente a tutti e due. Tali infatti furono i divisamenti di Girolamo Savonarola; e questo precursore di Lutero non fu da lui diverso, se non quanto un Italiano deve esserlo da un Tedesco.
Girolamo Francesco Savonarola apparteneva ad un'illustre famiglia originaria di Padova, ma chiamata a Ferrara dal marchese Niccolò d'Este. Nacque in quest'ultima città il 21 settembre del 1452 da Niccolò Savonarola e da Annalena Bonaccorsi di Mantova[21]. Distintosi di buon'ora ne' suoi studj, in particolare, nella teologia, s'involò alla sua famiglia in età di 23 anni, e, rifugiatosi nel chiostro de' Domenicani di Bologna, professò il 23 aprile del 1475 con un fervore religioso, un'umiltà ed un desiderio di penitenza, che non si smentirono giammai[22]. I suoi superiori, conoscendo bentosto i singolari talenti del giovane domenicano, lo destinarono a leggere pubblicamente filosofia. Il Savonarola, chiamato a parlare in pubblico, doveva lottare contro i difetti del suo organo ad un tempo debole e duro, contro la sua mal aggraziata declamazione, e contro lo spossamento delle sue forze fisiche, prodotto da una severa astinenza.
Fu ammirata l'erudizione del nuovo professore, ma egli non piacque come predicatore quando salì sul pulpito, ed allora non fu al certo preveduto quel potere che in breve acquistar doveva la sua eloquenza sopra più numerosi uditori[23]. La forza dell'ingegno e quella della volontà vinsero tutti gli ostacoli. Il Savonarola acquistò nel ritiro quei vantaggi che supponevansi essergli stati dalla natura negati. Coloro che nel 1482 erano stati offesi dalla sua declamazione, appena potevano riconoscerlo quando nel 1489 l'udirono modulare a suo piacimento una voce armoniosa e robusta, e sostenerla con una nobile, imponente e graziosa declamazione[24]. Egli stesso, temendo d'insuperbirsi per gli sforzi che aveva felicemente fatti onde perfezionarsi, riferiva al cielo i suoi progressi con cristiana umiltà, e risguardava le proprie metamorfosi come un primo miracolo, che provava la sua divina missione.
Fu nel 1483 che il Savonarola credette sentire in sè medesimo un segreto profetico impulso che lo destinava riformatore della Chiesa, chiamandolo a predicare ai Cristiani la penitenza, e ad annunciare ai medesimi anticipatamente le calamità onde lo stato e la Chiesa erano egualmente minacciati. A Brescia cominciò la sua predicazione intorno all'apocalisse nel 1484, e predisse ai suoi uditori che le loro mura sarebbero un giorno bagnate da torrenti di sangue. Questa minaccia pare che avesse compimento due anni dopo la morte del Savonarola, quando nel 1500 i Francesi, sotto gli ordini del duca di Nemours, presero Brescia d'assalto, e lasciarono gli abitanti in preda ad un'orrenda uccisione[25]. Nel 1489 Savonarola recossi a piedi a Firenze, e fissò la sua residenza nel convento del suo ordine, sotto il titolo di san Marco, dove pel corso di otto anni doveva continuare a predicare la riforma, fino al momento in cui fa mandato al supplicio, come, a seconda di quanto attestano i suoi discepoli, aveva egli stesso prenunciato.
La riforma, che il Savonarola raccomandava, siccome un'opera di penitenza, per allontanare le calamità ch'egli diceva vicine a piombare sull'Italia, doveva cambiare i costumi del mondo cristiano e non la sua fede. Il Savonarola credeva corrotta la disciplina della Chiesa, credeva infedeli i pastori delle anime, ma non erasi mai fatto lecito di muovere un solo dubbio intorno ai dommi che professava questa Chiesa, o di assoggettarli a veruna disamina. La stessa natura del suo entusiasmo non glielo doveva permettere; non era già in nome della ragione ch'egli attaccava l'ordine stabilito, ma in nome d'una inspirazione ch'egli credeva soprannaturale, non per mezzo di esame, ma colle profezie e coi miracoli.
L'ardire del suo spirito, che si era trattenuto in faccia all'autorità della Chiesa, aveva per altro misurate con minore rispetto le autorità temporali. In tutto ciò ch'era opera dell'uomo voleva che potesse riconoscersi per iscopo l'utilità degli uomini e per regola il rispetto dei loro diritti. La libertà non sembravagli meno sacra della religione; risguardava come un bene mal acquistato, e che non si poteva conservare senza rinunciare all'eterna salute, il potere che un principe aveva usurpato, innalzandosi nel seno d'una repubblica. Ai suoi occhi Lorenzo de' Medici era un illegittimo detentore della proprietà dei Fiorentini: malgrado i replicati inviti, fattigli da questo capo dello stato, mai non volle visitarlo, o attestargli veruna deferenza, onde non si supponesse ch'egli ne avesse riconosciuta l'autorità[26]; e quando Lorenzo, sul letto della morte, chiamò presso di sè questo confessore per ricevere dalle sue mani l'assoluzione, il Savonarola gli chiese preventivamente se aveva intera fede nella misericordia di Dio, ed il moribondo dichiarò di sentirla nel fondo del suo cuore; se era apparecchiato a restituire tutto il bene che aveva illegittimamente acquistato, e Lorenzo dopo qualche incertezza si dichiarò disposto a farlo; finalmente se ristabilirebbe la libertà fiorentina ed il governo popolare della repubblica; ma Lorenzo ricusò di assoggettarsi a questa terza condizione, e rimandò il Savonarola senza avere ricevuta l'assoluzione[27].
Se il Savonarola avea creduto di dover predicare a Lorenzo de' Medici la restituzione della sovrana autorità a Firenze, siccome d'un bene mal acquistato, egli aveva ancora più gagliarda ragione per persuadere Pietro de' Medici a dimettersi da un'autorità ch'egli non aveva nè la forza, nè l'abilità di conservare. Pietro, il maggiore de' tre figli di Lorenzo, non aveva che ventun anni quando suo padre morì, e la sua prudenza era al di sotto dell'età. A Firenze, le leggi determinavano l'età richiesta per l'esercizio d'ogni magistratura, ed avevano generalmente protratta assai quest'epoca: i consiglj dispensarono Pietro dalle condizioni dell'età, e lo dichiararono proprio a ricevere tutte le onorificenze, e ad esercitare tutte le magistrature di suo padre[28]. Questa violazione della costituzione era una conseguenza della schiavitù della signoria; ma questa ferì i Fiorentini facendo loro vedere il giogo sotto cui erano caduti.
Pietro, appassionato pei piaceri della gioventù, per le donne, per gli esercizj della persona che potevano farlo brillare ai loro occhi, d'altro omai non intratteneva la repubblica che di feste e di divertimenti, cui consacrava tutto il suo tempo. La sua statura era più che mezzana, aveva petto e spalle assai larghe e straordinarie erano la di lui forza e destrezza. Egli ragunava presso di sè i più insigni giocatori di palla di tutta l'Italia; ma in quest'esercizio superava tutti, come in quelli della lotta e del cavalcare. Aveva facilità somma di dire, pronuncia aggradevole, armoniosa voce, mentre che suo padre per una cattiva conformazione del suo organo parlava col naso. Pietro aveva fatti singolari progressi nelle lettere greche e latine sotto Angelo Poliziano: improvvisava versi con somma facilità; variata e gradevole era la sua conversazione, ma il suo orgoglio mostravasi con insultante maniera qualunque volta vedevasi contraddetto. Questo era di tutti il suo più dominante difetto, difetto in lui accarezzato da sua madre Clarice, e da sua moglie Alfonsina, l'una e l'altra della famiglia Orsini, le quali aveano portata in casa dei Medici l'arroganza della loro famiglia. Egli pretendeva che la repubblica ricevesse ciecamente i suoi ordini, ed intanto risguardava come cosa indegna del suo grado la fatica dello studiare i pubblici affari; perciò gli abbandonava alle persone di sua confidenza, ed in particolare a Pietro Dovizio di Bibbiena, fratello maggiore di quel Bernardo, che Leon X creò poi cardinale ed acquistò illustre nome nelle lettere volgari. Pietro di Bibbiena era stato segretario di Lorenzo, aveva pratica degli affari, ed il Medici, accordandogli la sua confidenza, metteva questo subalterno, nato in una provincia suddita, al di sopra degli antichi magistrati della repubblica[29].
Meno era Pietro de' Medici capace di governare uno stato, e più diffidava di coloro che potevano nella repubblica aspirare ad un rango eguale al suo. Un altro ramo della casa de' Medici cominciava in allora a richiamare l'attenzione dei Fiorentini; erano questi i nipoti di Lorenzo, fratello del vecchio Cosimo. Il più giovane di costoro aveva quattro anni più di Pietro; avevano ereditate le ricchezze accumulate colla mercatura del loro avo; ma ossia che verun singolare talento si fosse sviluppato in questo ramo della famiglia, o che i suoi membri si riputassero abbastanza onorati dal parentado loro coi capi dello stato, non eransi mai veduti nè Pier Francesco, padre di questi giovani, nè Lorenzo, loro avo, prendere veruna parte nelle politiche contese di Firenze. Piero fu il primo a scoprire de' rivali ne' suoi cugini; li fece arrestare in aprile del 1493, e prese a deliberare se dovesse farli morire; ma i loro amici ottennero a fatica che fosse contento di mandarli fuori di città, assegnando loro per prigione le loro due case di campagna. Ma il popolo aveva risguardato il loro arresto come una violazione de' suoi diritti, e la libertà loro come un trionfo: gli accompagnò colle sue acclamazioni e co' suoi voti mentre uscivano di città, e fece vie meglio sentire a Pietro, ch'egli andava perdendo tutto il favore popolare[30].
Forse Pietro avrebbe più facilmente soppressi questi primi sintomi di fermento, se si fosse affrettato di allontanare da Firenze colui che dirigeva lo spirito popolare, comprendendo la libertà nella riforma della Chiesa e dei costumi. Ma Girolamo Savonarola scuoteva ogni giorno una numerosa udienza coll'interpretazione delle profezie, nelle quali credeva di vedere prenunciata la ruina di Firenze. Parlava al popolo in nome del cielo delle calamità che lo minacciavano, e lo supplicava di convertirsi; in appresso dipingeva a' suoi occhi il disordine dei privati costumi, i progressi del lusso e dell'immoralità in tutte le classi de' cittadini, i disordini della Chiesa e la corruzione de' suoi prelati, i disordini dello stato e la tirannide de' suoi capi; invocava la riforma di tutti questi abusi, e la sua immaginazione era altrettanto vivace ed entusiasta, quando parlava degli interessi del cielo, quanto vigorosa era la sua logica ed affascinatrice la sua eloquenza, quando regolava gl'interessi della terra. Di già i cittadini di Firenze attestavano colla modestia dei loro abiti, coi loro discorsi, col loro contegno, ch'essi andavano abbracciando la riforma del Savonarola; di già le donne avevano rinunciato alle loro acconciature; sorprendente in tutta la città era il cambiamento de' costumi, ed era facil cosa il prevedere che l'istruzione politica del predicatore non farebbe minore impressione sugli uditori di quel che lo faceva l'istruzione morale[31].
Le predicazioni del Savonarola erano appoggiate alla minaccia di nuove spaventose calamità che straniere armate dovevano recare all'Italia; in fatti ogni giorno queste calamità si andavano avvicinando, e cominciavano a rendersi visibili a tutti gli occhi. Le pretese della casa d'Angiò sul regno di Napoli avevano turbata l'Italia un intero secolo, e l'Italia era avvezza a volgere lo sguardo verso la Francia per discoprirvi gl'indizj della burrasca che si addensava per distruggere la sua pace. Erano già vent'anni che i diritti della casa d'Angiò erano passati nel re di Francia, e ben poteva prevedersi, che quando il giovane principe fosse in età da credersi in istato di condurre gli eserciti, potrebb'essere solleticato dalla gloria di conquistatore. Sentivasi perciò da molto tempo che si rendeva necessaria l'unione delle potenze d'Italia per chiudere la porta di questo paese agli oltremontani. Quest'unione esisteva nelle pubbliche convenzioni, ed era stata inoltre raffermata dal trattato di Bagnolo del 7 agosto del 1484, e da quello di Roma dell'11 agosto del 1486, l'uno e l'altro in pieno vigore; ma intanto quest'unione non aveva spente le segrete rivalità dei sovrani, le gelosie e gli odj che dividevano l'Italia in due rivali fazioni, e che aspettavano l'opportunità per iscoppiare.
Lodovico Sforza, detto il Moro, che governava il ducato di Milano in nome di suo nipote Giovanni Galeazzo, pareva sentire più che gli altri, siccome più degli altri vicino agli oltremontani, la necessità dell'unione degli stati d'Italia, e voleva non solo che esistesse realmente, ma ancora che fosse solennemente annunciata a tutta l'Europa. L'assunzione di Alessandro VI al pontificato parvegli una favorevole circostanza per farlo, perchè all'elezione di un nuovo papa tutti gli stati cristiani mandavano a Roma una solenne ambasciata per prestargli ubbidienza. Il duca di Milano era unito con una particolare confederazione, rinnovata per 25 anni nel 1480, col regno di Napoli, il duca di Ferrara, e la repubblica fiorentina. Lodovico il Moro propose ai suoi alleati di far partire nello stesso tempo gli ambasciatori di queste quattro potenze, di ordinare per lo stesso giorno il loro ingresso in Roma, e di farli presentare insieme al papa, incaricando quello del re di Napoli di parlare egli solo a nome di tutti. Voleva così mostrare al papa, ai Veneziani ed alle altre potenze d'Europa, che intima e forte era la loro unione, persuadere le due prime ad unirsi a loro per la difesa dell'Italia, e far conoscere alle altre che questa provincia non aveva di che temere dagli stranieri. La puerile vanità di Pietro de' Medici mandò a monte questo progetto, ed eccitando la diffidenza del Moro, lo gettò in una politica affatto contraria[32].
Era Pietro de' Medici uno degli ambasciatori nominati dalla sua repubblica per recarsi a Roma; voleva figurare in questa solenne circostanza, spiegando agli occhi de' Romani e de' forastieri i tesori di gemme ammassati da suo padre, il lusso de' suoi equipaggi e l'eleganza degli abiti de' suoi servitori. La sua casa era stata due mesi ingombra di sartori, di ricamatori ec.; tutti i suoi giojelli erano stati seminati sulle assise de' suoi paggi, ed un solo collare, che doveva portare uno di costoro, stimavasi del valore di dugento mila fiorini. Tanto lusso sarebbe stato meno osservato se quattro solenni ambasciate avessero dovuto fare nello stesso tempo il loro ingresso. Collega di Pietro era Gentile, vescovo d'Arezzo, uno dei precettori di Lorenzo de' Medici; Gentile era incaricato di parlare, e non aveva questi minor voglia di recitare il discorso che aveva composto, che Pietro di far vedere le sue assise. Ma, secondo il progetto di Lodovico il Moro, avrebbe parlato il solo ambasciatore del re di Napoli[33]. Il Medici non sapeva rinunciare a tutte queste soddisfazioni dell'amor proprio, e persuase Ferdinando, re di Napoli, a ritirare la parola già data al Moro. Questi sentì la sua vanità ferita in vedere con tanta leggerezza abbandonato un progetto da lui proposto e sostenuto da plausibili motivi; perciò si fece ad indagare le cagioni che potevano dare a Pietro tanto ascendente sull'animo di Ferdinando, e scoprì l'esistenza di una segreta lega tra questi ed il capo della repubblica fiorentina. Un'alleanza, indipendente da quella di cui egli stesso faceva parte, pareva minacciarlo; la casa de' Medici, costantemente alleata degli Sforza, era disposta ad abbandonarlo per la casa rivale di Arragona, e poteva derivarne un intero cambiamento in tutto il sistema politico dell'Italia[34].
Bentosto nuove prove di questa intelligenza accrebbero i timori del Moro. Ferdinando e Pietro de' Medici consigliarono Virginio Orsino, parente d'ambidue loro, ad acquistare i feudi d'Anguillara e di Cervetri, che Innocenzo VIII aveva dati in sovranità a suo figlio Franceschetto Cibo. Il loro prezzo venne portato a quarantaquattro mila ducati, ed il Medici ne sovvenne quaranta mila[35]. I feudi degli Orsini, posti in gran parte tra Roma, Viterbo e Civitavecchia, assicuravano la comunicazione del re di Napoli colla repubblica fiorentina, ed in qualche modo inceppavano il papa, i di cui feudatarj venivano per tal modo, fino alle porte della sua capitale, protetti dai due più potenti vicini. Lodovico il Moro fece sentire questo pericolo ad Alessandro VI, confortandolo, poichè verun feudo della Chiesa non poteva alienarsi da un feudatario senza il consentimento del papa, a non approvare la vendita d'Anguillara[36].
Lodovico il Moro approfittò de' sospetti che questo negoziato e le minacce di Ferdinando e di Pietro de' Medici davano ad Alessandro VI per intavolare con lui e colla repubblica di Venezia un'alleanza, che potesse servire di contrappeso all'ascendente che pareva prendere la casa d'Arragona. Tale alleanza fu sottoscritta il 22 aprile del 1493, malgrado l'opposizione del doge di Venezia, il quale, conoscendo il carattere d'Alessandro VI, non sapeva ridursi a riporre in lui veruna confidenza. Poco dopo entrò in questa lega ancora Ercole III, duca di Ferrara, ma la repubblica di Siena non volle prendervi parte[37].
Obbligavansi i confederati a tenere in armi pel mantenimento della pubblica pace un esercito di venti mila cavalli e di dieci mila fanti, cui il papa contribuirebbe per un quinto, e, cadauno per due quinti, il duca di Milano ed il governo veneto. Quest'alleanza non aveva verun fine ostile, e tutti gli stati d'Italia potevano, quando loro piacesse, entrarvi[38].
Lodovico il Moro temeva meno Ferdinando che suo figliuolo Alfonso, perchè vedeva nell'ultimo il protettore naturale del suo proprio nipote, Giovanni Galeazzo, di cui aveva usurpata tutta l'autorità. Quando nel 1479 erasi il Moro impadronito mano armata della reggenza di Milano, soppiantando la duchessa Bona ed il vecchio Simonetta, aveva avuto un plausibile motivo per arrogarsi tutti i poteri di suo nipote Giovanni Galeazzo, il quale era evidentemente troppo giovane per governare; e, sebbene dichiarato maggiore di quattordici anni, sapevasi a Milano, come in tutte le monarchie, che questa formalità non aveva altro effetto che quello di levare l'autorità ai tutori indicati dalla legge per trasmetterla ai favoriti del giovanetto principe, o a coloro che avevano a suo nome occupato il supremo potere.
Ma erano omai quattordici anni che il Moro teneva le redini del governo, e suo nipote era giunto a tale età che la sua ragione non aveva più nulla a sperare dal tempo. Erasi ammogliato con Isabella, figlia d'Alfonso e nipote del re Ferdinando; «la quale fanciulla, dice il Comines, era coraggiosa assai, ed avrebbe volentieri, se l'avesse potuto, dato il potere a suo marito; ma egli non aveva troppa prudenza, e palesava ciò che la consorte gli diceva»[39]. Effettivamente la fortuna o l'educazione data al principe favorivano i disegni del Moro. Venne questi accusato d'averlo avvertitamente allontanato dallo studio delle lettere, da ogni esercizio militare, e da qualunque istruzione potesse renderlo capace di governare, affidando la di lui educazione ad inetti adulatori onde avvezzarlo al lusso ed alla mollezza[40]; ma sarebbe ingiustizia l'attribuire al Moro così reo disegno, mentre tale era l'ordinaria educazione che di que' tempi soleva darsi ai principi. Giovanni Galeazzo, avanzando in età, mai non era uscito dall'infanzia; la di lui debolezza, pusillanimità ed incapacità, erano aperte a tutti coloro che lo avvicinavano, onde a Lodovico il Moro bastava il lasciarlo conoscere, per giustificarsi dal tenerlo affatto lontano da ogni pubblica amministrazione.
La stessa Isabella d'Arragona conosceva l'incapacità di suo marito, ma parevale di aver essa il diritto di governare in sua vece. Educata presso al trono, e sempre alimentata dalla speranza di regnare, credeva il proprio orgoglio fermezza d'animo, e la sua risolutezza abilità, onde avrebbe voluto governare lo stato come governava il marito. D'altra parte la sposa di Lodovico, Beatrice d'Este, non trascurava occasione di umiliarla, volendola in tutto soverchiare. Magnifica era la corte di Beatrice per affluenza di cortigiani e di servili adulatori, e per la pompa degli abiti e degli equipaggi; ed intanto Isabella viveva solitaria nel palazzo di Pavia, ove in qualche modo contrastava colla povertà; ed i suoi parti, che dovevano dare un erede allo stato, erano appena resi noti al pubblico. Isabella aveva fatte contro il Moro amare lagnanze a suo padre, il quale, per mezzo de' suoi ambasciatori, aveva formalmente domandato che al giovane duca venisse affidata l'autorità che per diritto gli apparteneva[41].
Invece di rinunciare all'amministrazione del ducato di Milano, Lodovico il Moro cominciò dopo tale epoca a mendicare pretesti per sedere egli stesso sul trono: l'imperatore Federico III era morto in età di ottant'anni, nella notte del 19 al 20 agosto del 1493, e suo figliuolo Massimiliano, che gli era succeduto col titolo di re de' Romani, provava ne' principj del suo regno quella mancanza di numerario, in cui per i suoi disordini e per le sue prodigalità restò fino agli ultimi suoi giorni. Lodovico gli offrì in matrimonio Bianca Maria, sua nipote, colla dote di quattrocento mila ducati[42], chiedendogli in contraccambio l'investitura per sè del ducato di Milano. I cancellieri imperiali trovarono facilmente pretesti per velare quest'ingiustizia. Francesco Sforza e dopo di lui suo figlio Galeazzo mai non avevano ottenuta l'investitura imperiale; il diploma accordato a Lodovico dichiara che gl'imperatori romani eransi fatta una legge di negare il legittimo possedimento di un feudo a chiunque lo avesse violentemente usurpato, e che per questo motivo Massimiliano aveva rigettate tutte le istanze fatte da Lodovico Sforza a favore di suo nipote, ed aveva preferito di scegliere invece lo stesso Lodovico[43]. Pure questi non si diede premura di dare pubblicità a questo diploma, e continuando ad intitolarsi duca di Bari, e lasciando al nipote i titoli, tutta per sè conservava la potenza e la pompa della sovranità.
La personale ambizione di Lodovico appagavasi dell'esercizio della reggenza: bensì desiderava di procurare ai suoi figliuoli, piuttosto che a quelli del nipote, l'eredità del ducato di Milano; ma non s'arrischiava senza timore in così spinosa intrapresa, nella quale avrebbe avuto contrario il re di Napoli. Abbastanza conosceva il nuovo re de' Romani per non isperarne verun soccorso; cominciava a travedere la versatilità del papa, che a principio erasi lusingato di poter dirigere coi consiglj del cardinale Ascanio, suo fratello; poca fiducia riponeva ne' Veneziani, in ogni tempo nemici della sua famiglia; i Fiorentini gli erano contrarj, ed i medesimi suoi sudditi di Lombardia potevano improvvisamente manifestare un'aperta opposizione ai suoi progetti, che tendevano a balzare dal trono la legittima linea de' loro principi. In tale imbarazzo credette il Moro conveniente di cercare oltremonti un alleato, di cui non aveva ancora potuto calcolare la potenza, e si volse a Carlo VIII, re di Francia.
Carlo VIII era succeduto, il 30 agosto del 1583, a suo padre Lodovico XI alleato del padre di Lodovico il Moro; ma non avendo allora che tredici anni e pochi mesi, Lodovico XI aveva, morendo, affidato il governo del regno a madama di Beaujeu, sua figlia primogenita, moglie di Pietro di Borbone. In dieci anni d'una gloriosa amministrazione questa principessa aveva represse le pretese de' principi del sangue, terminate le pericolose guerre civili, ed assoggettati o riuniti alla corona vasti feudi fino allora indipendenti[44]. Carlo VIII non aveva propriamente cominciato a governare da sè medesimo che dopo il 1492. Lo splendore d'una brillante spedizione, e l'acquisto d'un regno, ottennero a questo monarca una gloria non conveniente alla sua fisica costituzione o alla sua educazione. Mentre la maggior parte degli storici francesi lo rappresentarono, secondo Luigi de la Trémouille, come «piccolo di corpo e grande di cuore»[45]; i due migliori osservatori del secolo, Filippo di Comines e Francesco Guicciardini, ne fanno il più svantaggioso ritratto. Il primo lo dice, «molto giovane, e appena uscito dal nido; mal provveduto d'intelletto e di danaro, di debole persona, ostinato nei proprj consiglj e non accompagnato da uomini prudenti»[46]. «Dice l'altro che questo giovane in età di ventidue anni e per natura poco intelligente delle azioni umane, era trasportato da ardente cupidità di dominare e da appetito di gloria, fondato piuttosto in leggiere volontà, e quasi impeto, che in maturità di consiglio; e prestando, o per propria inclinazione, o per l'esempio e ammonizioni paterne, poca fede a' signori ed a' nobili del regno, dacchè era uscito della tutela di Anna duchessa di Borbone sua sorella, non udiva più i consiglj dell'ammiraglio e degli altri, i quali erano stati grandi in quel governo, ma si reggeva col parere di alcuni uomini di piccola condizione, allevati al servigio della persona sua, che facilmente erano stati corrotti»[47].
La figura di Carlo VIII corrispondeva a tanta debolezza di spirito e di carattere; era piccolo, aveva grossa la testa, e corto il collo, petto e spalle larghe e sollevate, coscie e gambe lunghe e gracili. «Carlo fino da puerizia fu di complessione molto debole, e di corpo non sano, di statura piccolo e d'aspetto (se tu gli levi il vigore e la dignità degli occhi) bruttissimo; l'altre membra erano sproporzionate in modo che pareva quasi più simile a mostro che a uomo: non solo non ebbe alcuna notizia delle buone arti, ma appena gli furono cognite le figure dell'abbicì: aveva animo cupido di imperare, ma abile più ad ogni altra cosa, perchè aggirato sempre da' suoi, non riteneva con loro nè maestà, nè autorità: alieno da tutte le fatiche e faccende, e in quelle alle quali pure attendeva, povero di prudenza e di giudicio: se pure alcuna cosa in lui pareva degna di laude, risguardata intrinsecamente, era più lontana dalla virtù che dal vizio; era inclinato alla gloria, ma più con impeto, che con consiglio; era liberale ma inconsideratamente, e senza misura o distinzione; era immutabile talvolta nelle deliberazioni, ma ciò era spesso ostinazione mal fondata anzi che costanza: e quello che molti chiamavano bontà, meritava più convenientemente il nome di freddezza e di remissione d'animo»[48]. Tale era l'uomo, di cui le circostanze formarono un conquistatore, e che la fortuna caricò di maggiore gloria che non poteva sostenerne.
Lodovico Sforza mandò in Francia Carlo di Barbiano, conte di Belgiojoso, ed il conte di Cajazzo, figliuolo primogenito di Roberto di Sanseverino, morto da pochi anni, per invitare il re Carlo VIII a venir a conquistare la corona di Napoli, che gli s'aspettava, ad approfittare delle favorevoli disposizioni dei signori del regno stanchi di soffrire il giogo della casa d'Arragona, ed a giovarsi del risentimento del papa contro di Ferdinando. Nello stesso tempo gli offriva un'intima alleanza che gli aprirebbe l'Italia a traverso della Lombardia, e gli assicurerebbe il dominio del mare coi porti dello stato di Genova. Lusingava inoltre la sua vanità ed ambizione colla speranza di conquiste ancora più luminose, facendogli travedere in lontananza la sommissione della Turchia e la liberazione di Costantinopoli e di Gerusalemme, siccome impresa riservata al valor francese[49].
Il conte di Cajazzo, capo del ramo bastardo della casa di Sanseverino, che erasi in Lombardia acquistata tanta gloria co' suoi rari talenti militari e politici, aveva trovati alla corte di Francia i capi del ramo primogenito e legittimo della sua casa, cioè Antonello di Sanseverino, principe di Salerno, e Bernardino, principe di Bisignano, i quali, dopo essersi sottratti alle persecuzioni della casa d'Arragona, cercavano di concerto con tutti gli emigrati del partito d'Angiò di tirare le armi francesi nel regno di Napoli. Ingannati dalle illusioni che si fecero gli emigrati d'ogni tempo, misuravano le disposizioni de' loro compatriotti sul proprio risentimento, e vedevano con piacere una guerra straniera offrir loro speranze, che più non ravvisavano nel proprio partito. Assecondarono perciò a tutto potere il conte di Cajazzo[50].
Dal canto suo il conte di Belgiojoso assicurava la buona riuscita de' suoi consiglj con tutti i segreti intrighi di un esperto cortigiano. Aveva cercato tutti coloro che godevano del favore del re, corrompendo gli uni coi doni, gli altri colle promesse; aveva fatti loro sperare feudi ed impieghi luminosi nel regno di Napoli, titoli alla corte di Roma, beneficenze ecclesiastiche in tutta la Cristianità. Aveva in particolare sedotti Stefano di Vesc, di Linguadoca, ch'era stato lungo tempo semplice cameriere del re, in appresso era diventato siniscalco di Beaucaire, e Guglielmo Briçonnet, che di mercante era diventato appaltatore della generalità di Linguadoca, col titolo di generale, ed all'ultimo vescovo di san Malò, conservando nello stesso tempo la sovraintendenza della finanza[51]. Questi due personaggi con tutti i loro subalterni applaudivano ad una spedizione che loro apriva nuove vie verso l'opulenza, senza troppo esporli alla gelosia de' magnati. Coloro per lo contrario che pel loro rango e pel loro credito ereditario erano più attaccati alla Francia che alla fortuna del re, disapprovavano un'intrapresa che loro non sembrava presentare probabili speranze di durevole successo, e che preventivamente richiedeva che la Francia, per assicurarsi da ogni straniera invasione, comperasse la pace dai suoi vicini, sagrificando sicuri vantaggi a lontane speranze.
Finalmente dopo molti contrasti, tra il re e gli ambasciatori di Lodovico il Moro si fece una convenzione per opera di Briçonnet e del siniscalco di Beaucaire. Fu convenuto che, quando Carlo VIII passerebbe in Italia, o vi farebbe scendere la sua armata, il duca di Milano sarebbe obbligato ad accordargli il passaggio per i suoi stati, a farlo accompagnare a sue spese da cinquecento uomini d'armi, a permettergli d'armare a Genova quanti vascelli egli volesse, ed a prestargli duecento mila ducati all'atto della sua partenza dalla Francia. In corrispettivo il re si obbligava a difendere contro chicchefosse il ducato di Milano e la personale autorità di Lodovico il Moro, a lasciare in Asti, città appartenente al duca d'Orleans, duecento lance francesi, sempre apparecchiate a difendere la casa Sforza; per ultimo a regalare a Lodovico il principato di Taranto, fatta che avesse la conquista del regno. Queste condizioni si tennero per molti mesi segrete; e quando cominciò a spargersi in Italia la voce della prossima invasione de' Francesi, Lodovico il Moro, anzi che convenire d'essere loro alleato, cercò di persuadere agl'Italiani ch'egli non meno di loro era atterrito da questa invasione di barbari[52].
Da che Carlo VIII ebbe determinato di far l'impresa del regno di Napoli, ad altro più non pensò che ad avere le mani libere, facendo trattati di pace con tutti i suoi vicini, anche con sagrificio de' vantaggi che madama Beaujeu aveva colla sua prudenza ottenuti nel glorioso corso della sua amministrazione. Carlo VIII, quando prese le redini del governo, trovossi in guerra con due de' più potenti vicini della Francia, Enrico VII, re d'Inghilterra, e Massimiliano, re de' Romani; era nello stesso tempo poco sicuro per parte di Ferdinando e d'Isabella, re d'Arragona e di Castiglia. Ma tutti questi sovrani erano ad un tempo nemici della Francia, e non d'accordo tra di loro. Il re Carlo fece a ciascheduno separatamente tali lusinghiere offerte, che non gli riuscì difficile di ottenere la pace. Trattò da prima con Enrico VII, che era sbarcato a Calé con una formidabile armata, ed il 3 di novembre del 1492 convenne ad Etaples di sborsare al re inglese quarantacinque mila scudi d'oro a titolo di rimborso delle spese della guerra della Bretagna, con che questi abbandonasse l'alleanza del re dei Romani[53].
La guerra di Francia sembrava che dovesse essere più accanita a cagione del doppio affronto fatto da Carlo VIII a Massimiliano, rimandandogli Margarita di Borgogna sua figlia, cui era promesso sposo, per ammogliarsi con Anna di Bretagna, che doveva sposare lo stesso Massimiliano. Pure la corte di Francia ottenne col trattato di Senlis, del 28 maggio 1493, di pacificare il sovrano austriaco, restituendogli le contee di Borgogna, di Artois, di Charolois, e la signoria di Noyers, che Carlo VIII occupava di già come dote di Margarita. Si obbligò pure di restituire a Filippo d'Austria, giunto che fosse in età maggiore, le città di Hesdin, Aire e Bethune, sulle quali Filippo vantava parziali diritti[54].
Il terzo trattato fu ancora più svantaggioso. Lodovico XI aveva ricevuto, in pegno per 300,000 ducati, dal re Giovanni d'Arragona Perpignano, il contado di Rossiglione e della Cerdaigne. Queste piazze erano come le chiavi della Francia dalla banda de' Pirenei, e Lodovico XI le credeva di tanta importanza, che in appresso non aveva volute restituirle all'Arragonese contro il pagamento del danaro prestato. Per lo contrario Carlo VIII le restituì gratuitamente a Ferdinando il Cattolico, a condizione che questi non soccorrerebbe suo cugino Ferdinando di Napoli, e non si opporrebbe ai progetti del re di Francia sull'Italia. Fu questo il risultato del trattato di Barcellona del 19 di gennajo del 1493[55].
Mentre che Carlo VIII con questi trattati assicurava la pace alla Francia, altri ne andava intavolando per apparecchiare la guerra in Italia. Aveva colà spediti quattro ambasciatori con ordine di visitare tutti gli stati della provincia e di chiedere a tutti la loro cooperazione per far ricuperare i suoi diritti alla corona di Francia. Perron de' Baschi, la di cui famiglia, originaria d'Orvieto, diede in seguito alla Francia i marchesi d'Aubais, era capo di quest'ambasceria. Aveva precedentemente accompagnato in Italia Giovanni d'Angiò, e perfettamente conosceva gl'interessi di tutti i principi. Il Baschi s'accostò prima ai Veneziani, ed aveva ordine di chiedere ajuto e consiglio pel re suo padrone. Risposero i Veneziani che sarebbe presunzione la loro di dare consiglj ad un principe circondato da uomini tanto prudenti, e che imprudente cosa sarebbe il promettergli soccorso, mentre dovevano star sempre apparecchiati a respingere le armi turche; ma che Carlo VIII non doveva dubitare dell'attaccamento e della devozione della repubblica verso la corona di Francia. Con queste equivoche frasi credeva il senato di porsi al coperto da ogni rimprovero dal canto de' sovrani d'Italia. Per altro celatamente desiderava l'abbassamento della casa d'Arragona, e si sarebbe alleato colla Francia se non avesse temuto di essere poi abbandonato da questa potenza, e ridotto a sostenere solo tutto il peso della guerra[56].
Perrone de' Baschi passò in seguito a Firenze. Erano suoi colleghi d'ambasciata il d'Aubignì, il sovraintendente Briçonnet ed il presidente del parlamento di Provenza. Vennero questi signori introdotti nel consiglio de' settanta, cui erano intervenuti col nome d'aggiunti tutti coloro che negli ultimi trentaquattr'anni avevano seduto come gonfalonieri nella signoria. E per tal modo quest'assemblea veniva ad essere composta di persone ligie alla casa Medici. Chiesero gli ambasciatori che la repubblica promettesse all'armata francese il passaggio pel suo territorio e vittovaglie contro pagamento. Ma il consiglio, subordinato a Pietro de' Medici, fu di unanime sentimento di mantenersi fedele alla casa d'Arragona. Come però i Fiorentini avevano in Francia molti de' loro più ricchi banchi di commercio, si limitarono a dare al re una risposta evasiva; e gli spedirono inoltre Pietro Capponi e Guid'Antonio Vespucci per cercar di conservare la sua amicizia[57].
L'ambasceria francese arrivò a Siena il 9 maggio del 1494. Questa repubblica manifestò il suo vivissimo desiderio di mantenersi scrupolosamente neutrale, facendo sentire, che nell'estrema sua debolezza non poteva, senza estremo pericolo, dichiararsi anticipatamente contra così formidabili rivali[58]. Alessandro VI, che fu l'ultimo ad essere visitato dagli ambasciatori, loro dichiarò, che, avendo i suoi predecessori accordata l'investitura del regno di Napoli ai principi della casa d'Arragona, non poteva ritorgliela senza un precedente giudizio, che evidentemente provasse che i diritti della casa d'Angiò vincevano quelli della casa di Arragona. Incaricò gli ambasciatori di rappresentare al loro sovrano che il regno di Napoli era un feudo della santa sede, che al solo papa spettava di pieno diritto la decisione tra i competitori per via forense, e che, occupando il regno colla forza, sarebbe lo stesso che attaccare la Chiesa[59].
Ferdinando dal canto suo non trascurava le vie delle negoziazioni. Spedì alla corte dello stesso Carlo Camillo Pandone, in cui moltissimo confidava, per chiedere al re il rinnovamento de' trattati precedentemente conchiusi con Lodovico XI, offrendosi di assoggettare all'arbitrio del pontefice ogni loro controversia; lasciandogli inoltre travedere la possibilità di riconoscere, senza venire all'esperimento delle armi, la corona di Napoli per tributaria della Francia[60]. Ma tutte queste proposizioni furono rigettate dal presuntuoso Carlo VIII, che ordinò all'ambasciata napolitana di uscire all'istante da' suoi stati[61].
In pari tempo Ferdinando negoziava ancora col papa e con migliore successo che in Francia. Alessandro VI ardentemente desiderava di appoggiare la fortuna della sua famiglia ad illustri parentadi. Aveva richiesto che la sua riconciliazione colla casa d'Arragona fosse suggellata con un matrimonio; e, sebbene si accontentasse d'una figlia naturale d'Alfonso, figlio di Ferdinando, per uno de' proprj figli, aveva da Ferdinando avuto un rifiuto; ma il timore de' Francesi aveva reso più mansueto l'orgoglioso Alfonso, e don Giuffrè Borgia, il più giovane de' figliuoli di Alessandra VI, sposò donna Sancia, figlia d'Alfonso. I due sposi non erano ancora nubili; pure don Giuffrè passò subito al servizio della casa d'Arragona con una compagnia di cento uomini d'armi, ed andò a soggiornare in Napoli per godere della rendita di dieci mila ducati e del ducato di Squillace, cedutogli a titolo di dote. Nello stesso tempo il papa approvò la vendita delle due contee d'Anguillara e di Cervetri, che era stata la prima cagione del suo mal umore con Ferdinando. Obbligò per altro l'Orsini a fare un secondo pagamento in sua mano, e Ferdinando gli somministrò il danaro[62].
Non ommise Ferdinando d'intavolare trattati ancora con Lodovico Sforza; gli fece rappresentare che le loro famiglie erano unite da tanti legami di parentela, che, come suol farsi tra congiunti, all'amichevole dovevano trattarsi le loro differenze. Che se la figlia di suo figlio aveva sposato Giovanni Galeazzo, la figlia di sua figlia, la duchessa di Ferrara, aveva sposato Lodovico il Moro; di modo che, qualunque di loro due conservasse il ducato di Milano, sarebbe sempre erede del trono un suo nipote[63]. Il matrimonio di Bianca Maria Sforza col re de' Romani pareva annunciare che Lodovico il Moro abbandonasse l'alleanza della Francia, perciocchè sapevasi che a dispetto del trattato di Senlis, Massimiliano conservava un profondo odio contro Carlo VIII[64]. Ma il Moro trovavasi omai ridotto a doversi abbandonare tra le braccia della sorte ch'egli stesso aveva provocata, ed a correre tutte le vicissitudini della pericolosa alleanza ch'egli aveva contratta. Poi ch'ebbe risvegliata l'ambizione e la vanità del giovine re più non era in suo arbitrio il calmarle. Nè avrebbe prudentemente operato, staccandosi da Carlo, e privandosi della sua assistenza, dopo avere così gravemente provocati i suoi nemici; onde studiavasi soltanto di guadagnar tempo per non essere attaccato prima della discesa de' Francesi in Italia; ed invece d'entrare di buona fede nelle proposizioni di accomodamento che gli faceva il re di Napoli, sforzavasi di persuadergli, ch'egli non aveva veruna convenzione coi Francesi, e che più d'ogni altro sentiva i pericoli cui sarebbe esposto, se le armate francesi penetravano una volta in Italia[65].
Ferdinando non trascurava intanto di apparecchiarsi a respingere i nemici colle armi. Non sapendo per quale strada tenterebbero di penetrare ne' suoi stati, aveva posta sotto gli ordini del suo secondogenito, don Federico, una flotta di cinquanta galere e di dodici grossi vascelli per chiuder loro la via del mare; mentre che Alfonso, duca di Calabria, cui la presa d'Otranto aveva acquistata somma riputazione militare, adunava ai confini dei regno un'armata che con ogni mezzo cercava d'ingrossare[66]. Ma la difesa di Napoli pareva principalmente appoggiata all'alleanza della Chiesa, sebbene Alessandro VI cercasse fino all'ultimo istante di approfittare delle inquietudini e delle angustie del suo alleato per giungere a' suoi privati fini. Giuliano della Rovere, cardinale di san Pietro ad vincula, non aveva voluto ad alcun patto riconciliarsi con Alessandro VI; erasi ritirato nel suo vescovado d'Ostia, ed erasi fortificato nel castello ch'egli aveva fabbricato in questa città, e le di cui torri hanno ancora al presente i suoi stemmi. Il papa s'infinse di credere che Giuliano colà si tenesse di concerto con Ferdinando, cui dichiarò di tornare all'alleanza della Francia se non gli faceva consegnare Ostia. Invano protestava Ferdinando, che il cardinale della Rovere non dipendeva altrimenti da lui, ed eccitava il papa a pensare piuttosto ai guasti de' Turchi in Croazia, che alla guarnigione d'Ostia; un nuovo lievito di discordia andava fra di loro fermentando, ed il re di Napoli chiaramente conosceva che non doveva fare fondamento sopra un alleato comperato a così caro prezzo[67].
La situazione del vecchio Ferdinando rendevasi ogni dì peggiore; i suoi alleati ad altro non pensavano che a vendergli più care le loro promesse di soccorsi, senza allestire i mezzi di assisterlo. Vero è che ancora i suoi nemici non avevano dispiegata attività che negl'intrighi; ma avevano intanto sciolta quella confederazione dell'Italia che poteva inspirar timore agli oltremontani. Da parecchi anni l'Italia godeva piuttosto pace che felicità; più prospero era il di lei stato, ma i suoi desiderj non erano soddisfatti; confidava nelle proprie forze ancora intere, e segretamente desiderava di fare nuovi sperimenti del suo valore. Avanti che i popoli sentano il peso delle calamità della guerra, futili passioni, l'inquietudine, la curiosità, il bisogno di vive emozioni, l'amore del più grande de' giuochi d'azzardo, li consigliano spesse volte a provocare le rivoluzioni. Il solo Lodovico il Moro aveva negoziato colla Francia, ma dall'una all'altra estremità della penisola la metà degli uomini aspettava con impazienza un'invasione di cui essi medesimi avevano paura. Lo stesso duca Giovanni Galeazzo Sforza andavasi lusingando che la venuta ne' suoi stati di un re, suo parente, potrebbe mutare la sua sorte. Il duca Ercole III di Ferrara, che si era associato alle negoziazioni di suo genero, Lodovico il Moro, operava nelle future turbolenze di riavere il Polesine di Rovigo rapitogli dall'ultima pace. I Veneziani desideravano di vedere umiliata la casa d'Arragona; i Fiorentini di scuotere il giogo della casa de' Medici; il papa di farsi arbitro tra i due potentati; i numerosi nemici della casa d'Arragona nel regno di Napoli di vendicarsi della lunga oppressione. Assicurasi che Ferdinando, testimonio di questo universale fermento, pensò a malgrado della sua avanzata età di recarsi a Genova per abboccarsi col Moro, onde fargli sentire a quali pericoli esponeva l'Italia e sè medesimo, aprendo imprudentemente le sue porte ad un nemico di tutti loro più forte. Supponeva di potere tuttavia esercitare l'impero della ragione e della sana politica sopra un principe di cui conosceva il pieghevole ingegno e la singolare accortezza[68]. Mentre occupavasi di questi progetti, tornando un giorno dalla caccia, fu in un modo affatto impensato preso da un'affezione catarrale che lo trasse in due giorni al sepolcro. Morì il 25 gennajo del 1494, in età di settant'anni dopo un regno di trentasei, lasciando due figliuoli, Alfonso e Federico, di già riputati nella carriera militare, e il primo de' quali fu all'istante riconosciuto per suo successore[69].
La fortuna, che aveva in tutto il tempo del viver suo prodigati a Ferdinando quei doni di cui egli non sembrava meritevole, gli fu ancora favorevole in ciò, che lo rapì al mondo nell'unico istante in cui la sua morte poteva riuscire spiacevole. Non solo i suoi natali erano illegittimi, ma tanto vergognosi, che suo padre mai non aveva voluto palesarne il segreto, lo che diede luogo ad opposte conghietture; ma questa macchia non gl'impedì di occupare un trono che dovevano invidiare i più potenti monarchi. Non mostrò nè singolare valore, nè sommi talenti militari, sia nelle spedizioni di cui l'incaricò suo padre, sia nelle violenti lotte ch'ebbe a sostenere contro i suoi sudditi ribelli; e non pertanto trionfò di tutti i suoi nemici. Non aveva da suo padre Alfonso ereditato nè la sincerità, nè la galanteria, nè la generosità, nè verun'altra delle sue amabili qualità, sebbene avesse avuta la fortuna di cattivarsi tutta l'affezione di così grand'uomo. Ebbe per competitori due principi, che gli erano di lunga mano superiori per virtù militari, politiche e morali. Uno di loro, il conte di Viane, suo nipote, aveva a suo favore tutte le fazioni arragonesi; l'altro, il duca di Calabria, quella degli Angiovini. Quei baroni napolitani, che non avevano apertamente abbracciato verun partito, sembravano inclinati a porsi con quello che poteva liberarli da Ferdinando; ma l'uno e l'altro furono perdenti, e Ferdinando regnò trentasei anni. Egli fece perire in prigione coloro che avevano più volte tentato di scuotere il suo giogo, e consolidò colla crudeltà e colla perfidia un'autorità sempre più detestata. I primi prosperi avvenimenti sono il più delle volte l'opera di una cieca fortuna, ma la loro costanza vuolsi ascrivere ad un'accortezza, che, per esserci troppo odiosa, ricusiamo di riconoscere: tale fu quella di Ferdinando. Non possedette veruna delle qualità che caratterizzano i grandi uomini, non generosità, non nobiltà; ma possedeva una consumata prudenza, e la sua politica fu poche volte fallace. Conseguì quanto volle, in quel modo che gli scellerati giungono ai loro fini, in onta delle regole della giustizia e della morale. Regnò lungamente, e morì sul trono. Se questo era il suo scopo, l'ottenne; ma regnò detestato, e morì lasciando la sua famiglia in gravissimo pericolo, e quando quella prudenza, ch'era in lui conosciuta ed abborrita, poteva sola salvare suo figlio da imminente ruina.
Ferdinando era di mediocre grandezza, aveva volto grande e bello, circondato da lunghi capelli di color castagno; aveva aggradevole fisonomia, fronte aperta, corpo piuttosto pingue e proporzionata grandezza. Straordinaria era la di lui forza: essendosi un giorno scontrato in un toro fuggito, che attraversava la piazza del mercato di Napoli, lo prese per le corna e lo fermò. Aveva coltivati gli studj, e possedeva varie scienze, ed in particolare la giurisprudenza, che risguardava come necessaria ai re. Aveva grazioso parlare; dando udienza ai suoi sudditi, sapeva dissimulare tutti i sentimenti che potevano renderlo odioso, ed in generale aveva l'arte di congedarli soddisfatti. Non debbono tutte attribuirsi a politica le innumerabili sue crudeltà; gliene suggerì molte la sua passione per la caccia, avendo provveduto alla conservazione della selvagina riservata ai suoi piaceri con atroci ordinanze, che faceva senza pietà eseguire contro gli sventurati contadini del suo regno[70].
CAPITOLO XCIII.
Apparecchi di difesa di Alfonso II. — Primi attacchi de' Francesi nello stato di Genova ed in Romagna. — Discesa di Carlo VIII in Italia. — Pietro dei Medici gli dà in mano tutte le fortezze della Toscana. — Ribellione di Pisa; rivoluzione di Firenze; esilio dei Medici.
1494. Alcune di quelle grandi rivoluzioni che cambiano la faccia del mondo, fanno conoscere tutte le forze dello spirito umano; vengono calcolate negli attacchi e nelle difese tutte le più accorte combinazioni; tutti gli accidenti sono preveduti, e tutti gli ostacoli, dagli uni ingranditi coll'arte, vengono rimpiccoliti dall'altrui accortezza. La fortuna, che non si può escludere dalle cose umane, è stata in parte corretta da una costante antiveggenza; e la giusta confidenza in sè medesimo, che si acquista facendo uso di tutte le proprie facoltà, si comunica dai capi ai subordinati; tutti hanno fatto il dover loro come cittadini o come soldati, ogni ordine fu eseguito come fu dato, e quegli ancora che rimangono perdenti possono non pertanto vantarsi di essere stati alla migliore scuola della guerra e della politica. Ma altre rivoluzioni, egualmente importanti nei loro risultati, vengono alcuna volta condotte a fine con mezzi affatto diversi; l'imperizia si oppone all'imperizia; l'errore, che perdere dovrebbe un partito, non lo perde, perchè viene compensato da un altro più grande commesso dalla contraria parte. L'umana previdenza non può allora calcolare le vicende d'una tal lotta; perchè si possono bensì assoggettare al calcolo gli umani interessi, ma non mai le follie degli uomini; a petto di un savio partito incontransene mille di sragionevoli, e l'impero della fortuna è prodigiosamente esteso, quando vi si trova compreso lo stesso concatenamento delle idee. La sorte dell'Italia si decise nel 1494 con una lotta di simile natura tra l'incapacità e l'inesperienza: l'una e l'altra parte, isolatamente considerate, pareva che dovessero essere perdenti, e vedendo la condotta del re di Francia, e quella del re di Napoli, sembrava ugualmente impossibile che Carlo VIII potesse conquistare l'Italia, e che Alfonso II potesse impedirlo.
Due ore dopo la morte di Ferdinando, Alfonso II, siccome era l'uso d'Italia, aveva corse a cavallo le strade di Napoli, e le sei piazze o seggi, ove si adunavano la nobiltà ed il popolo per le cose del governo municipale; era stato accolto in mezzo agli applausi popolari, e, dopo avere preso possesso della corona nella cattedrale, si era fatta dare la guardia de' castelli[71].
Il nuovo re aveva molte volte comandate le armate di suo padre contro i Fiorentini, i Veneziani ed i Turchi, aveva scacciati gli ultimi da Otranto, e questa spedizione gli aveva procacciata non poca riputazione militare. Aggiugneva a questo vantaggio quello di disporre di un immenso tesoro ammassato con avarizia dal padre, e ch'egli stesso accrebbe con una straordinaria contribuzione assai pesante imposta in occasione del suo avvenimento al trono[72]. Finalmente Alfonso godeva riputazione di non avere eguali in quella perfida politica, che credesi accortezza fin che è coronata da felici successi. «I nostri nemici, dice Filippo di Comines, erano tenuti savissimi e sperimentati in fatto di guerra, ricchi ed abbondanti d'uomini accorti e di buoni capitani, ed in possesso del regno[73].» Ma tutta la loro riputazione non sostenne una prima prova.
Alfonso, salendo sul trono, doveva apparecchiarsi a difenderlo contro il vicino assalto che gli era annunciato: da un canto gli era perciò necessario di spalleggiarsi con un buon sistema di alleanze; dall'altro di adunare un'armata che potesse anche sola tener testa al nemico, perciocchè mai non doveva lusingarsi che veruno alleato abbracciasse la sua causa con maggior vigore di quel che la difenderebbe egli medesimo; ma parve che il nuovo re avesse maggiore confidenza nelle negoziazioni che nelle armi.
Mandò subito Camillo Pandone, uno de' suoi confidenti ministri, lo stesso che tornava dall'ambasciata di Francia, a Bajazette II, imperatore dei Turchi, per rappresentargli che Carlo VIII diceva scopertamente che non risguardava la conquista di Napoli che come uno scalino necessario per occupare l'impero d'Oriente; e che effettivamente i suoi porti dell'Adriatico, i quali non erano lontani che pochi giorni di navigazione da quelli della Macedonia, quando fossero in potere di una nazione così potente e bellicosa quanto lo era la francese, potrebbero facilitare i più pericolosi attacchi contro l'impero turco. In conseguenza Alfonso domandava a Bajazette sei mila cavalli ed altrettanti pedoni, offrendosi di pagarli per tutto il tempo che sarebbero al suo servigio in Italia[74]. Dopo pochi mesi Pandone fu nuovamente spedito a Bajazette, cui il papa, volendo pure trattare in nome proprio, aggiunse Giorgio Bucciardo, Genovese, che Innocenzo VIII aveva altra volta incaricato di poco onorevole missione presso la sublime Porta[75]. Alessandro VI, che nelle sue bolle esortava Carlo VIII a volgere tutte le sue forze contro il Turco, poichè le guerre con un principe cristiano erano indegne di un monarca che prendeva il titolo di Cristianissimo, e di figlio primogenito della Chiesa[76], cercava nello stesso tempo di eccitare i Turchi contro lo stesso monarca. D'altra parte accordava a Ferdinando il cattolico il prodotto delle tasse della crociata che faceva predicare nelle Spagne, purchè questo re le adoperasse contro i Francesi e non contro gl'infedeli[77]. Maometto II non avrebbe certo trascurata così bella occasione di mettere piede in Italia, e ridurre ad una specie di vassallaggio un nuovo principe cristiano; ma il suo debole successore non istendeva tant'oltre la sua politica, e temeva di turbare la propria tranquillità; si limitò pertanto di ordinare al pascià d'Albania di adunare circa quattro mila soldati turchi alla Valona, e non prese veruna parte nella guerra[78].
Intanto Alfonso aveva mandati quattro ambasciatori al papa per rendere più intima l'alleanza con lui conchiusa da suo padre, ed ottenere l'investitura della Chiesa. Alessandro VI, la di cui politica consisteva nel porre sfrontatamente all'incanto la sua fedeltà, aveva mostrato di dare orecchio alle proposizioni del cardinale Ascanio Sforza, che nel collegio de' cardinali spalleggiava il partito francese, mentre che il cardinale Piccolomini era alla testa dell'arragonese. Ma questa non era che un'astuzia del papa per vendere a più alto prezzo le sue concessioni, ed il 18 aprile del 1494 accordò ad Alfonso le bolle d'investitura per il regno di Napoli sotto le condizioni espresse nelle precedenti investiture[79].
Il cardinale Giovanni Borgia, figlio del papa ed arcivescovo di Monreale, era stato nominato legato a latere per la cerimonia della coronazione d'Alfonso, e questi andò a Napoli a raccogliere per la sua famiglia le ricompense, colle quali questo monarca aveva comperata l'alleanza de' Borgia. Eranvi a Napoli sette grandi cariche della corona, che a seconda delle istituzioni feudali erano ministeri a vita, quasi indipendenti dall'autorità reale: una di loro, quella di protonotario fu accordata a Giuffrè Borgia col principato di Squillace, la contea di Cariati e dieci mila ducati d'entrata; un'altra, cioè la prima che rimarrebbe vacante, fu promessa al duca di Candia, secondo figlio del papa, col principato di Tricarico, i contadi di Chiaramonte, Cauria e Carinola, e dodici mila ducati d'entrata; finalmente Virginio Orsini, che aveva condotto questo trattato, ricevette un'altra di queste grandi cariche della corona, ed era quella di grande contestabile la più eminente di tutte[80]. Diverse rendite ecclesiastiche vennero accordate nel regno a Cesare Borgia, che suo padre aveva di fresco creato cardinale, facendo con testimonj e giuramenti provare ch'era figlio legittimo di un cittadino romano e capace d'esercitare le più sublimi dignità della Chiesa[81].
L'alleanza di Pietro de' Medici non era stata comperata a così alto prezzo, ed aveva bastato per sedurlo la propria vanità. Credevasi che Alfonso gli avesse promesso d'ajutarlo a mutare la sua autorità sopra Firenze in assoluto dominio, col titolo di principato[82]. In contraccambio il Medici, in forza di segreta convenzione, non comunicata ai consigli della repubblica, prometteva al re di Napoli di ricevere la sua flotta nel porto di Livorno, di fare per lui in Toscana leve di soldati, e di resistere colle armi all'attacco de' Francesi[83]. Inoltre credeva il Medici di potere rispondere delle repubbliche di Siena e di Lucca, che trovavansi quasi affatto chiuse nel territorio fiorentino, e che non potevano pensare a tenere una diversa politica. Alfonso aveva pure estesi i suoi trattati dalla banda della Romagna. Cesena era rientrata sotto l'immediata autorità del pontefice che ne rispondeva; Faenza, principato del giovane Astorre Manfredi, trovavasi allora sotto la tutela de' Fiorentini; Imola e Forlì, che appartenevano ad Ottaviano Riario, sotto la tutela di sua madre, la famosa Catarina Sforza, presero parte alla lega mercè un sussidio promesso da Alfonso e dai Fiorentini; finalmente Giovanni Bentivoglio di Bologna abbracciò lo stesso partito ad eguali condizioni[84]. Per tal modo tutta l'Italia meridionale sembrava unita da una sola alleanza, e più non presentava che un solo confine dalle rive dell'Adriatico a quelle del mar Tirreno. La Toscana e Bologna erano i soli paesi per i quali l'armata francese potesse avanzarsi verso Roma e Napoli; Alfonso si obbligò di custodire l'uno e l'altro confine con due armate, che occuperebbero la linea delle montagne, ed i passaggi fortificati dei fiumi. Nello stesso tempo, perchè aveva avuto avviso de' grandi apparecchi marittimi che i Francesi facevano a Genova, e ricordandosi che Giovanni, duca di Calabria, l'ultimo dei principi Angiovini, aveva invaso per mare il regno di Napoli, diede a don Federico, suo fratello, il comando di una flotta di trentacinque galere, diciotto grandi vascelli e dodici più piccoli, coi quali doveva portarsi a Livorno per aspettare i Francesi in quelle acque, e chiuder loro il passaggio del mare di sotto, se mai volessero tentarlo[85].
Per disporre, d'accordo co' suoi alleati, le forze di terra, Alfonso andò il 13 luglio a Vicovaro, presso Tivoli, ove dovevano trovarsi Alessandro VI e gli ambasciatori Fiorentini. Assicurasi che in questo congresso Alfonso parlò con molta eloquenza intorno alla necessità di salvare co' più vigorosi sforzi, non il suo trono, ma l'indipendenza di tutta l'Italia, l'esistenza di tutti gli stati, l'esistenza delle loro leggi e delle loro costumanze. D'uopo era, diceva egli, o persuadere Lodovico il Moro a rinunciare all'alleanza contratta col monarca francese ed a rientrare negl'interessi italiani, o forzarlo a scendere dal trono, rendendo l'autorità al nipote[86]. Per giugnere a questo scopo Alfonso offriva la sua flotta, comandata da suo fratello don Federico, e l'armata di terra, composta di cento squadroni di cavalleria pesante, di venti uomini d'armi per ogni squadrone, e di tre mila arcieri o cavalleggeri. Pensava di attraversare la Romagna con queste truppe e di far rivoltare la Lombardia, prima che il Moro avesse ricevuti soccorsi dai Francesi[87].
Ma questi vigorosi consigli vennero attraversati dagl'interessi e dalle private passioni del papa. Voleva questi approfittare delle forze adunate ne' suoi stati, per liberarsi prima di tutto dai suoi nemici. Aveva di già stretta d'assedio Ostia per disfarsi del cardinale Giuliano della Rovere che caldamente perseguitava; questi, non ignorando la sorte che gli era riservata se cadeva in mano ai suoi nemici, fuggì d'Ostia il 23 d'aprile a tre ore di notte, e si fece sopra un brigantino trasportare a Savona, di dove passò a Lione presso Carlo VIII[88]. Dopo la di lui fuga la sua fortezza non fece lunga resistenza. Alessandro VI voleva pure adoperare le truppe napolitane per sopprimere i Colonna. Prospero e Fabrizio due capi di quest'illustre casa avevano di già acquistata molta riputazione nelle armi stando al soldo del re Ferdinando, ma eransi aombrati de' favori ultimamente prodigati a Virginio Orsini, capo di una casa rivale, e s'erano segretamente obbligati a prendere servigio sotto il re di Francia; intanto, finchè loro si presentasse l'opportunità di passare sotto le sue bandiere, si erano ritirati ne' loro feudi col cardinale Ascanio Sforza, cercando di guadagnar tempo con false negoziazioni intavolate col papa e col re di Napoli[89].
L'inimicizia del papa contro i Colonna obbligò Alfonso a dividere l'armata. Rinunciò alla risoluzione di condurla egli stesso in Romagna, e ne affidò il comando a suo figlio Ferdinando; ma prima ne staccò trenta squadroni di cavalleria, che tenne ai confini degli Abruzzi, onde coprire lo stato ecclesiastico ed il suo, ed una parte de' suoi cavalleggeri, che diede a Virginio Orsini con dugent'uomini d'armi del papa, onde accantonarsi ne' contorni di Roma e tenere in dovere i Colonna. Ferdinando, duca di Calabria, valoroso principe, in età di venticinque anni, non meno caro ai sudditi che ai soldati, doveva entrare in Romagna con settanta squadroni, ed il rimanente della cavalleria leggiera, riunire alla sua armata le compagnie degli uomini d'armi promesse dal Riario e dal Bentivoglio, tentare di promovere una rivoluzione in Lombardia, e, non potendo ciò ottenere, chiudere almeno ai Francesi fino all'inverno la strada della Romagna.
Non supponevano gl'Italiani che si potesse guerreggiare in tempo d'inverno, e, se potevano guadagnare sei mesi, non dubitavano che l'attacco de' Francesi, intrapreso con leggerezza, con eguale leggerezza non fosse abbandonato[90]. Gian Giacopo Trivulzio, guelfo milanese, il conte di Pitigliano della casa Orsini, ed Alfonso d'Avalos, marchese di Pescara, furono dati per consiglieri al giovane principe. Promise Pietro de' Medici d'incaricarsi della difesa della Toscana, e delle gole degli Appennini; ma con una inconcepibile imprudenza non si procurò truppe straniere.
All'assemblea di Vicovaro erasi trovato il vecchio cardinale, Paolo Fregoso, arcivescovo di Genova, che tanto tempo era stato in questa città capo de' faziosi. Offrì la sua assistenza per cacciare da Genova gli Adorni, suoi avversarj, e con loro i Milanesi; promise che coll'ajuto d'Ibletto de' Fieschi e della propria fazione, renderebbesi facilmente padrone della repubblica, ove potesse presentarsi nel mare ligure colla flotta napolitana, prima che le galere del contrario partito fossero del tutto armate, nè arrivata a Genova la flotta francese. Venne accettata la sua offerta, e la flotta di don Federigo, avendo ricevuti a bordo gli emigrati genovesi con circa cinque mila fanti ragunati nello stato di Siena ed in Livorno, si diresse verso la riviera di Levante[91].
Ma il cardinale Giuliano della Rovere, che da Ostia era passato a Savona sua patria, vi aveva scoperte le fila ordite dal cardinale Fregoso in tutta la Liguria, ed erasi affrettato di recarsi a Lione per darne avviso a Carlo VIII. Lo aveva persuaso a far passare due mila svizzeri a Genova per isventare queste trame; e nello stesso tempo aveva impiegata la sua eloquenza e tutto l'impeto dell'ardente sua anima ad affrettare gli apparecchi di guerra contro l'Italia ed a dissipare tutte le dubbiezze e le incertezze di Carlo VIII, sperando in tal modo di affrettare la propria vendetta[92].
Infatti Carlo VIII, a dispetto di tante sue minacce e di tutte le sue negoziazioni che non avevano altro scopo che la spedizione d'Italia, pendeva tuttavia incerto, e rispetto alla strada che terrebbe e rispetto alla stessa esecuzione del progetto. Pure, omai determinato essendo ad attaccare per mare il regno di Napoli, mandò a Genova tutto il danaro di cui poteva disporre; fece per sè medesimo apparecchiare sontuosi appartamenti ne' palazzi Spinola e Doria, e vi mandò il suo grande scudiere Pietro d'Urfè, per farvi armare una possente flotta, che doveva poi unirsi a quella che per suo conto si stava armando a Villafranca ed a Marsiglia[93]. La prima, che non gli rendette verun servigio, perciocchè abbandonò tutti i suoi progetti colla stessa leggerezza con cui gli aveva formati, fu la più magnifica che si fosse mai veduta nel porto di Genova. Eranvi dodici grandi vascelli per trasportare la cavalleria, capaci di mila cinquecento cavalli, novantasei più piccoli per l'infanteria, diciassette speronare, ventitre vascelli di cinquecento sessanta tonellate e ventisei di cinquecento ottanta, una grande galeazza capace di cento cavalli, trenta galere da guerra; e per ultimo la galera reale colla poppa dorata, e tutta coperta da un padiglione di seta[94].
Per difendere e comandare questo prodigioso armamento, Carlo VIII mandò a Genova colla flotta francese suo cugino, il duca d'Orleans, che fu poi Lodovico XII. Questi entrò in città lo stesso giorno in cui la flotta napolitana fu a vista delle coste liguri[95], e mentre Antonio di Bessey, barone di Tricastel e balivo di Digione, incaricato di trattare per parte del re cogli Svizzeri, presso i quali aveva grandissimo credito, conduceva a Genova i due mila fanti levati ne' loro cantoni[96].
Ibletto de' Fieschi aveva promesso a Paolo Fregoso ed a don Federigo d'Arragona che tutti i suoi partigiani gli aspetterebbero armati nella riviera di Levante; onde la flotta napolitana si presentò a Porto Venere, piccola città in faccia a Lerici, che signoreggia l'ingresso dal magnifico golfo della Spezia. Ma lo stesso suo fratello, Giovan Luigi de' Fieschi, affezionato al contrario partito, erasi recato alla Spezia, ed aveva esortati gli abitanti di quelle coste a conservarsi fedeli alla repubblica, e Giacomo Balbi era entrato con quattrocento fanti in Porto Venere[97].
Di verso terra questa città non aveva che una debolissima muraglia; alcuni corpi d'infanteria napolitana l'attaccarono, mentre la flotta, provveduta di grossa artiglieria, era entrata in rada, e tentava uno sbarco sulla stessa riva. Ma tutti gli abitanti e perfino le donne di Porto Venere, essendosi posti coi soldati dietro le mura, rispingevano gli assalitori facendo rotolare sopra di loro grosse pietre. Alcuni scogli a fior d'acqua erano stati anticamente ridotti in modo da servire di comodo sbarco ai marinai; gli abitanti avevano avuta l'antiveggenza di ugnere di sego questi levigati scogli, che s'innoltravano in mezzo a profondo ed agitato mare. I Napolitani vi si avvicinavano colle scialuppe dei loro vascelli, e, quando si credevano abbastanza vicini, lanciavansi di salto tutt'armati su quest'insidiosa riva, da cui sdrucciolavano nel mare; ciò che dando motivo di ridere ai difensori di Porto Venere, potentemente contribuiva ad accrescer loro il coraggio. La zuffa si prolungò sette ore con eguale accanimento da ambo le parti; finalmente, avvicinandosi la notte, don Federigo richiamò sulle navi le sue truppe e prese il largo, allontanandosi da una così piccola città, sotto la quale ebbe principio la sua malvagia fortuna[98].
Dopo questa mala riuscita don Federigo tornò a Livorno per rinfrescare la sua flotta e per ricevere a bordo altri soldati; indi ripartì dopo un mese all'incirca, quando seppe che Carlo VIII aveva presa la strada delle Alpi. Il 4 di settembre presentossi in faccia a Rapallo, ricca terra posta ad uguale distanza tra Porto Fino e Sestri di Levante. Non essendo fortificata, Lodovico il Moro non vi teneva guarnigione, onde i Napolitani l'occuparono senza trovare ostacolo. Sbarcarono Ibletto de' Fieschi con tre mila pedoni, e gli emigrati genovesi, i quali provvisoriamente si chiusero entro un ricinto formato con grandi forche piantate in terra, su le quali erano assicurati de' travicelli all'altezza di circa due braccia. Di più non abbisognava per difendersi dalla cavalleria e per inspirare coraggio agli uomini che dovevano difendere questi deboli ripari[99].
Ma nè lo Sforza nè il duca d'Orleans volevano permettere che i loro nemici si afforzassero a Rapallo. Il primo aveva preso al suo servigio i sette fratelli Sanseverini, figli del vecchio Roberto, che nella precedente generazione aveva avuta tanta parte nelle rivoluzioni della Lombardia. Lo Sforza aveva trovati tra questi fratelli i suoi più accorti consiglieri ed i più valorosi generali. Due di loro, Anton Maria e Fracassa, erano stati incaricati della difesa di Genova, ed il primo di loro partì subito alla volta di Rapallo per la via di terra con due coorti di veterani ed uno squadrone di cavalleria, mentre che il duca d'Orleans vi s'accostava colla sua flotta, composta di diciotto galere e dodici grossi vascelli aventi a bordo le truppe svizzere. Don Federigo, non osando di lasciarsi chiudere nel golfo di Rapallo da una flotta che sapeva meglio muoversi della sua, ed era armata di colombrine di maggiore calibro, prese il largo e permise al duca d'Orleans di sbarcare senza ostacolo. Le truppe venute per la via di terra, e quelle sbarcate dalla flotta, avendo impiegato lo stesso tempo nel fare le venti miglia che contansi tra Genova e Rapallo, erano giunte presso questa borgata molte ore prima di sera. I loro capi non pertanto pensavano di farle accampare in un'angusto piano poco lontano di Rapallo, rimettendo l'attacco all'indomani: ma ciò non potè farsi per la rivalità che si manifestò tra i soldati veterani dello Sforza, e le guardie ducali di Genova. I primi, per occupare il posto d'onore per la battaglia del susseguente giorno, e per insultare ad un tempo i nemici chiusi in Rapallo, presero a piantare i loro alloggiamenti alla più breve distanza possibile dalla terra. La guardia ducale, avvezza a vivere in una ricca città, ed a fare di sè vaga mostra colla forbitezza delle armature e la ricchezza degli abiti e ad ostentare bravura, non seppe tollerare che un altro corpo d'armata la precedesse; ella si fece innanzi per accamparsi nel brevissimo spazio, che restava tra i veterani dello Sforza e Rapallo. Credendo i Napolitani che si avanzassero per attaccarli, uscirono incontro agli assalitori[100].
Così cominciò la scaramuccia senza che fosse ordinata dai capi delle opposte parti, e si sostenne lungo tempo con molto accanimento; finalmente l'emulazione tra le diverse nazioni che servivano nell'armata del duca d'Orleans e la sua flotta, che, trovandosi presso alla riva, faceva fuoco contro i Napolitani assicurarono la vittoria ai Genovesi. Fu questa la prima zuffa di così terribile guerra, in cui siansi veduti alle mani cogl'Italiani gli stranieri, i quali si distinsero assai più colla loro ferocia che col valore; imperciocchè non solo gli Svizzeri non fecero grazia ai soldati che loro s'arresero, ma uccisero la maggior parte di quelli che si erano dati prigionieri ai loro alleati. Nè gli abitanti di Rapallo furono meglio trattati: tutti senza misericordia e senza distinzione di partito vennero spogliati d'ogni avere e maltrattati con estrema ferocia; furono perfino barbaramente uccisi cinquanta ammalati che stavano in quello spedale. I Genovesi non soffrirono pazientemente di vedere posti in vendita gli effetti di quegli sgraziati abitanti: il popolo si ammutinò, uccise una ventina di quegli Svizzeri, ed a stento Giovanni Adorno riuscì a calmarlo[101].
Erano stati dall'armata vittoriosa condotti a Genova alcuni distinti prigionieri, tra i quali Fregosino, figliuolo naturale del cardinale, Giulio Orsini ed Orlando Fregoso. Ibletto dei Fieschi, principale capo del partito vinto, fuggì con suo figlio Rolandino a traverso alle montagne, e tre volte venne consecutivamente spogliato dai masnadieri. Le prime due volte i contadini del vicinato gli diedero degli abiti; ma la terza volta disse a suo figlio colla sua consueta imperturbabile tranquillità: «Andiamo, mio caro, ed accontentiamoci delle vesti del nostro primo padre, altrimenti vedo che la cosa non avrebbe più fine[102].» Don Federigo, tenuto da un vento di terra lontano dalle coste tutto il tempo della battaglia, non potè raccogliere che un piccolo numero di fuggiaschi, coi quali tornò tristamente a Livorno[103].
Intanto don Ferdinando si avanzava a traverso alla Romagna, intenzionato di entrare nel l'autorità del loro legittimo sovrano, Giovanni Galeazzo, ed a scuotere il giogo di un tiranno, che voleva esporli a tutte le furie degli oltremontani. Ma Ferdinando non aveva sotto gl'immediati suoi ordini che mille quattrocento uomini d'armi, e circa due mila cavalleggeri: ed ancora dopo avere ingrossata la sua armata con quella di Guid'Ubaldo, duca d'Urbino, colle truppe de' Fiorentini, e con quelle somministrate dai piccoli principi della Romagna, questa armata, secondo i più alti calcoli, non contava più di due mila cinquecento corazze e di cinque mila pedoni[104]. Dal canto suo Carlo VIII, prima di fissare la sua irrisolutezza, aveva fatto scendere in Italia il signore d'Aubignì, della casa Stuardo e della linea di Lenox, con circa duecento maestri, ossia cavalieri francesi, e diversi battaglioni di fanteria svizzera, che, valicati il san Bernardo ed il Sempione, eransi uniti a Vercelli[105]. Lodovico il Moro fece che queste truppe si recassero subito nelle province minacciate dal nemico, loro associando Francesco Sanseverino, conte di Cajazzo, con circa seicento uomini d'armi e tre mila fanti veterani. Il conte di Cajazzo occupò una forte posizione a Fossa Giliola, ai confini del Ferrarese, di là osservando le mosse di Ferdinando[106].
In sul finir di luglio questo giovane principe aveva avuta una conferenza con Pietro de' Medici a Città di Castello. Aveva in appresso attraversata Val di Lamone, ed assoldata molta gente in quella armigera provincia. Tutti i rinforzi che poteva sperare lo avevano raggiunto, onde pareva maturo l'istante di attaccare l'armata del conte di Cajazzo e del signor d'Aubignì, prima che ricevesse gli Svizzeri ed i Francesi che scendevano ogni giorno le Alpi. Ma Alfonso II, dando a suo figlio un'armata affatto sproporzionata all'affidatagli intrapresa, lo aveva reso del tutto dipendente dai consiglieri che gli aveva posti al fianco. Il principale di loro, il conte di Pitigliano, riconosceva la sua riputazione militare assai più dal prudente temporeggiare, che da quell'audacia che signoreggia gli avvenimenti. Questi nel consiglio di guerra si ostinò perchè l'armata di Ferdinando si limitasse a stare in su le difese, non potendo, siccome egli diceva, la sua fanteria tener testa agli Svizzeri, nè la sua artiglieria sostenere, nella rapidità delle cariche, il confronto della francese; per ultimo, diceva, che gli uomini d'arme napolitani non sosterrebbero l'impeto degli oltremontani[107].
Per lo contrario Gian Jacopo Trivulzio, il di cui carattere era altrettanto bollente quanto era circospetto quello del Pitigliano, attestava d'avere battuti gli Svizzeri a Domo d'Ossola, gli uomini d'armi e l'artiglieria francese in Francia nelle guerra del ben pubblico, e che niente trovavasi in quest'armata, che potesse sorprendere gl'Italiani; ch'egli prometteva la vittoria, ove si attaccasse all'istante, e che non sapeva quale resistenza farebbe l'armata francese, se gli si dava tempo di ricevere nuovi rinforzi[108].
Ma omai la notizia degl'infelici successi di don Federico aveva scoraggiati e renduti incerti alcuni degli alleati. Giovanni Bentivoglio temeva la vendetta de' Francesi e del duca di Milano, se prendeva parte in una guerra offensiva; ed il consiglio di guerra decise che non si attaccherebbero i nemici ne' loro trincieramenti. Tutto quanto ottennero le calde istanze d'Alfonso d'Avalos e di Bartolomeo d'Alviano, in allora allievo del Pitigliano, fu la licenza di mandare un trombetta al conte di Cajazzo per isfidarlo ad uscire in aperta campagna. Non avendo questi voluto rinunciare a' suoi vantaggi per accettare il dubbio esperimento di una battaglia, Ferdinando si ritirò sotto le mura di Faenza dietro ad un lungo canale, in cui derivavansi le acque del Lamone, locchè ne rendeva la posizione fortissima; e quando seppe che Carlo VIII aveva passate le Alpi, pensò di starsi colà aspettando le truppe tedesche che suo padre faceva, sebbene troppo tardi, levare nella Svevia e nell'Austria[109].
Carlo VIII erasi recato a Lione con tutta la sua corte per avvicinarsi all'Italia, e vi aveva passata la state in feste e tornei, tra i quali pareva avere dimenticati tutti i suoi progetti di conquiste. Aveva consumato nell'armamento della flotta di Genova quasi tutto il numerario di cui poteva valersi. Madama di Beaujeu, il duca di Borbone e quasi tutti i principali signori biasimavano una lontana impresa, che nulla poteva aggiungere alla forza reale del regno. Briçonnet, che l'aveva lungo tempo consigliata, più non ardiva addossarsene la responsabilità; il siniscalco di Belcario che ardentemente la promoveva, era stato di que' tempi costretto ad allontanarsi dal re, perchè uno de' suoi servitori era morto con sintomi di peste[110]. I cortigiani davano al re opposti consiglj, secondochè aderivano ora agli agenti del re di Napoli, ora a quelli del duca di Milano: Pietro de' Medici aveva inoltre cercato di rendere quest'ultimo sospetto alla corte di Francia, facendo che si tenesse un messo del re di Francia nascosto entro un gabinetto, mentre egli s'intratteneva confidenzialmente con un ambasciatore del Moro[111]. Tra tanti timori e tante contraddizioni, Carlo VIII abbandonò più volte i suoi progetti, a ciò persuaso continuamente dall'allettamento de' piaceri; aveva perfino ordinato a molti signori, di già partiti colle loro truppe, di tornare alla corte, quando il cardinale Giuliano della Rovere, fatto più che tutt'altri bramoso della spedizione d'Italia dall'immenso suo odio verso Alessandro VI, parlò al re con un tale ardire, che verun altro non sarebbesi permesso di farlo. Disse, che il re sarebbesi coperto di vergogna rinunciando a pretese proclamate in tutta l'Europa, non raccogliendo verun frutto de' sagrificj che fatti aveva co' suoi trattati col re de' Romani e coi re della Spagna, ed abbandonando i suoi alleati ed i suoi soldati, che di già per lui valorosamente combattevano nella riviera di Genova e nella Romagna. Carlo VIII, vinto dalle calde ammonizioni del cardinale, di cui rispettava l'eminente dignità, e sedotto dalle adulazioni del siniscalco di Belcario, cui era stato di fresco permesso di liberamente tornare alla corte, partì da Vienna nel Delfinato, il 23 agosto del 1494, prendendo la strada del monte Ginevra, e valicando le Alpi, senza che scontrasse verun ostacolo[112].
L'armata francese contava tre mila seicento uomini d'armi, sei mila arcieri a piedi, assoldati in Bretagna, sei mila balestrieri delle interne province della Francia, otto mila fanti della Guascogna, armati di fucili e di spade a doppio taglio, ed otto mila tra Svizzeri e Tedeschi, armati di piche e di alabarde[113]. Moltissimi servitori seguivano l'armata, ingrossata, poichè fu scesa in sul piano d'Italia, dal contingente di Lodovico il Moro; di modo che quando attraversò la Toscana non aveva meno di sessanta mila uomini[114]. Tra i suoi più illustri generali contavansi il duca d'Orleans, poi Lodovico XII, che allora aveva il comando della flotta a Genova, il duca di Vandome, il conte di Montpensier, Lodovico di Lignì, signore di Lussemburgo, Lodovico de la Trimouille e molti altri principali signori della Francia. Ma il siniscalco di Belcario ed il sovrintendente Briçonnet, vescovo di san Malo, confidenti del monarca, che pure lo accompagnavano, avevano presso di lui maggior credito che tutti i signori della sua corte[115].
Una così grossa armata avrebbe potuto difficilmente attraversare le Alpi, se avesse trovato qualche nemico; ma la disgrazia d'Italia aveva fatto sì che il Piemonte ed il Monferrato, egualmente governati da principi indipendenti, fossero ambidue a quello stato di debolezza e d'incapacità ridotti, cui sono condannate le monarchie in tempo di minorità. Carlo Giovanni Amedeo, nato il 24 giugno del 1488, era in allora duca di Savoja, e non contava che nove mesi, quando il 13 marzo del 1489 successe al duca Carlo suo padre. Sua madre, Bianca di Monferrato, sebbene affatto giovane, aveva ottenuta la tutela pel favore del popolo di Torino in pregiudizio de' suoi cognati, i conti di Ginevra e di Bresse. Bianca aveva bensì il 20 giugno del 1493 soscritto un trattato d'alleanza con Ferdinando, re di Napoli, ma in appresso non aveva osato provocare il turbine sui proprj stati; fece aprire a Carlo VIII tutte le sue città e castella, e l'accolse ella stessa in Torino con estrema magnificenza[116]. Maria, marchesana di Monferrato, tutrice di Guglielmo di Monferrato, nato il 20 agosto del 1486, non si dipartì dalla politica di Bianca[117].
Queste due reggenti, una a Torino, l'altra a Casale, parvero dinanzi a Carlo VIII ornate di molte gemme, onde il giovane re, che di già cominciava a mancare di danaro, se le fece prestare per depositarle in mano di alcuni usurai che gli diedero ventiquattro mila ducati[118]. Il 19 di settembre entrò in Asti, città posseduta in piena sovranità dal duca d'Orleans, siccome dote di sua madre, Valentina Visconti. Colà venne ad incontrarlo Lodovico Sforza con sua moglie e suo suocero, Ercole d'Este, duca di Ferrara[119]. Questi principi conoscevano le inclinazioni di Carlo VIII, e, volendo guadagnarselo colle voluttà, avevano seco condotte le signore milanesi che godevano opinione di seducente bellezza e di poca austera virtù[120]. Si consumarono più giorni in feste ed in piaceri, che vennero all'ultimo interrotti da grave malattia onde fu il re sorpreso, la quale fu giudicata vajuolo a motivo delle pustule che gli coprirono il volto. Pure questa prima campagna de' Francesi in Italia ottenne infame celebrità da una malattia ancora più crudele, cui più che a tutt'altra pareva essersi Carlo esposto. Egli però non tardò a rimettersi in salute, e passò a Pavia ove fu splendidamente accolto[121].
Lo sventurato Giovanni Galeazzo dimorava colla consorte e co' figliuoli nel castello di questa città. Già da alcun tempo vedevasi la di lui salute andar declinando a gran passi; la presumeva taluno distrutta da immoderato abuso de' piaceri sensuali, ed altri, sospettando l'esistenza di un delitto, ove vedevano un motivo di commetterlo, accusavano Lodovico il Moro di avergli fatto dare un lento veleno. A veruno de' cortigiani francesi fu permesso di vedere il duca, ed il solo re fu ammesso ne' suoi appartamenti: questi due sovrani erano cugini germani, figliuoli di due sorelle della casa di Savoja. Ma Carlo VIII, che temeva di spiacere a Lodovico il Moro, si trattenne con Giovanni Galeazzo soltanto intorno a cose indifferenti, e sempre alla presenza dello zio[122]; ma in tempo di questo intrattenimento, la duchessa Isabella sopraggiunse, gettandosi alle ginocchia del re, e supplicando di risparmiare suo padre Alfonso e suo fratello Ferdinando. Rispose Carlo, alquanto imbarazzato, che oramai era troppo avanzato per poter dare a dietro, ed affrettossi a lasciare una città dove aveva sotto gli occhi una così dolorosa scena, ch'egli stesso rendeva ancora più penosa. Ebbe da Lodovico il Moro i convenuti sussidj, e la sua armata, poichè si fu provveduta d'armi e di equipaggi avuti dall'arsenale di Milano, proseguì il cammino alla volta di Piacenza[123].
Lodovico il Moro accompagnava Carlo VIII, ma avendo a Piacenza o a Parma avuta notizia che suo nipote era agli estremi, tornò subitamente a Milano per raccogliere l'eredità. Giovanni Galeazzo Sforza morì il 20 di ottobre[124], ed il senato di Milano tutto ligio al Moro si affrettò di fargli presente, che, nelle critiche circostanze in cui trovavasi l'Italia, un fanciullo di cinque anni, quale era quello di Giovanni Galeazzo, non poteva avere il carico del governo; che lo stato non doveva ricadere di una in altra minorità, che abbisognava di un sovrano che regnasse effettivamente; all'ultimo che Lodovico il Moro era necessario alla patria, e che questa gli chiedeva il sagrificio di salire sul trono. Lodovico parve opporsi; pure all'indomani prese il titolo e le insegne di duca di Milano, e protestò, anche segretamente, che le riceveva come cosa che gli apparteneva a giusto diritto dietro l'investitura datagli da Massimiliano[125]. Si affrettò poi di raggiugnere l'armata francese, dalla quale, senza esporsi a qualche pericolo, non poteva sempre tenersi lontano[126].
In fatti quest'armata era stata colpita da un sentimento di spavento per la morte di Giovanni Galeazzo: tutti s'andavano interpellando ansiosamente in qual modo il re poteva penetrare nel fondo dell'Italia senza lasciarsi alle spalle verun altro alleato che quello stesso duca, che si era aperta col veleno la via del trono. Ogni movimento dei Milanesi rendevasi sospetto ai Francesi, cui mille cose erano state raccontate intorno alle trufferie degli Italiani, ed i Francesi spesso agivano di mala fede per guarentirsi da quella di cui si credevano minacciati. Il duca d'Orleans, che aspirava all'intera eredità dello Sforza, cercava di far sentire a suo cugino che più facile riuscirebbe la spedizione di Napoli incominciandola dalla conquista del Milanese[127]. Il principe d'Orange, il signore di Miolans, Filippo delle Corde e gli altri tutti che risguardavano la marcia dell'armata fino a Napoli come troppo pericolosa, approfittarono di tale fermento per istringere il re a rinunciarvi; ma Carlo non dava orecchio che alla sua ostinazione, ch'egli credeva amore di gloria; e, a seconda de' concerti avuti col nuovo duca di Milano, prese la strada che da Parma conduce nella Lunigiana, onde entrare in Toscana[128]. Questa strada toccava Fornovo e san Terenzio e sboccava a Pontremoli, città che in allora era posseduta dallo Sforza; onde non percorreva che paesi amici, ed era sempre a portata della divisione che occupava Genova, e della flotta francese. Pei quali motivi era così aperto che doveva preferirsi dai Francesi a quella della Romagna, che mal si può spiegare l'incauto consiglio de' Napolitani che l'avevano trascurata, portando tutte le loro forze nella Romagna[129].
Papa Alessandro VI e Pietro de' Medici eransi obbligati a chiudere ai Francesi l'ingresso della Toscana; ma se pure il papa era intenzionato di spedirvi truppe, ne fu impedito dalla ribellione dei Colonna, che, quando ebbero avviso dell'avvicinamento de' Francesi, rifiutarono le vantaggiose offerte che loro aveva fatte Alfonso II, dichiararonsi scopertamente al soldo di Carlo ed occuparono Ostia, ove, senza dubbio, aspettavano la flotta francese. Il papa, lungi dal potere mandar truppe in Toscana, si vide costretto a richiamare quelle che teneva in Romagna sotto gli ordini di Virginio Orsini, per far testa ai Colonna[130].
La repubblica fiorentina aveva mandati ambasciatori a quella di Lucca ed al duca di Ferrara, per persuaderli a non permettere di passare per i loro stati a chiunque volesse invadere la Toscana; aveva in pari tempo nominati commissarj straordinarj per provvedere alla sicurezza dello stato; ma Pietro de' Medici non aveva voluto che loro si affidassero truppe[131]. Pure così grande e così mal disciplinato esercito, qual era quello de' Francesi, poteva bentosto trovarsi senza vittovaglie in una provincia montuosa, che non ne produce quanto basta per alimentare i suoi abitanti. L'esercito, scendendo da Pontremoli lungo la Magra, attraversava i feudi del marchese Malaspina, in mezzo ai quali è posto il borgo di Fivizzano appartenente ai Fiorentini. Era questo il primo paese nemico. Il marchese di Fosdinovo, vinto da gelosia di vicinanza, mostrò ai Francesi i lati deboli delle fortificazioni di quella terra, ed i mezzi di occuparla. In fatti fu attaccata e presa d'assalto. Vennero uccisi tutti i soldati e molti abitanti, e saccheggiate tutte le case; e questa prima esecuzione militare, che sparse grandissimo terrore, fece conoscere la diversità della nuova guerra e delle guerre senza spargimento di sangue che si erano fin allora sostenute[132]. Nello stesso tempo Gilberto di Montpensier, che comandava l'avanguardia francese, sorprese in riva al mare un corpo di truppe che Paolo Orsini mandava per ingrossare la guarnigione di Sarzana, e non diede quartiere a verun soldato[133].
Era Sarzana in qualche modo la chiave della Lunigiana[134]: così chiamasi una spiaggia, chiusa tra il mare e le montagne, che stendesi dai confini del Genovesato fino a Pisa d'una larghezza non mai eccedente le sei miglia. Sarzana era una città assai ben fortificata e la sua fortezza di Sarzanello credevasi inespugnabile. Se l'esercito francese si fosse lasciata questa terra alle spalle, sarebbesi poco dopo trovata chiusa la strada di Pisa da quella di Pietra Santa, posseduta pure dai Fiorentini, e posta nel più angusto punto del littorale. Tutto il paese potev'essere, difeso di tratto in tratto. Non è ferace che di olio, e così sprovveduto di frumento, che importa la metà de' suoi viveri dalla Lombardia a schiena di muli: e l'aere è così insalubre in autunno, che la febbre avrebbe in poche settimane ruinato l'esercito nemico. I capitani francesi mal sapevano perciò risolversi ad innoltrarsi in cotal paese, ma la pusillanimità di Pietro de' Medici dissipò bentosto i loro giusti timori.
L'ingresso de' Francesi in Toscana, spargendo in Firenze un estremo terrore, fece scoppiare un malcontento contro Pietro de' Medici tenuto lungo tempo compresso. I Fiorentini erano da secoli affezionati alla real casa di Francia, da loro risguardata quale protettrice del partito guelfo e della libertà; altamente si lagnavano che il capo dello stato gli avesse strascinati in una guerra contraria ai loro veri interessi, ed esposti prima degli altri a tutti i pericoli d'una lite che punto non li risguardava. Gli ambasciatori fiorentini erano stati dalla corte di Francia rimandati; tutti i socj, tutti i commessi delle case di commercio dei Medici eransi espulsi dal regno; ma tanto rigore non aveva colpiti gli altri Fiorentini, quasi che si fosse voluto far loro sentire che la Francia non li confondeva coll'usurpatore della loro libertà[135]. Sapevasi che Lorenzo e Giovanni de' Medici, que' cugini di Pietro, ch'egli aveva da pochi mesi maltrattati, poi rilegati nelle loro ville, erano passati nel campo di Carlo VIII, supplicandolo di atterrare un governo esoso alla generalità dei cittadini[136]. Il potere di questo vanaglorioso capo, che non aveva voluto conoscere confini, trovossi tutt'ad un tratto non ad altro appoggiato che ad una vacillante opinione.
Pietro de' Medici, spaventato dall'interno fermento, di cui vedeva ovunque le traccie, atterrito dalla guerra straniera ch'egli non era in istato di sostenere, pensò di cedere al turbine, di fare la pace coi Francesi, imitando la condotta tenuta da suo padre con Ferdinando, condotta che aveva così spesso udito lodare. Egli non sapeva che per imitare un grand'uomo conviene avere i suoi talenti, onde discernere le circostanze, e la sua fermezza per disprezzare i pericoli. Pietro de' Medici fece dalla repubblica eleggere una numerosa ambasciata, di cui egli faceva parte, con commissione di recarsi presso il re di Francia e cercare di placarlo. Ma, avvisato in viaggio che un corpo di trecento uomini, che la repubblica mandava a Sarzana, era stato sorpreso e fatto a pezzi, non osò, senza salvacondotto, innoltrarsi al di là di Pietra Santa. Alcuni signori della corte, tra i quali Briçonnet e di Piennes vennero a trovarlo, e lo condussero innanzi al re lo stesso giorno in cui veniva attaccato Sarzanello[137].
Pietro, per giustificare il suo rifiuto di permettere al re d'attraversare la Toscana, ricordò il suo trattato con Ferdinando, conchiuso con approvazione dello stesso Lodovico XI; soggiunse che fino all'istante in cui le armate francesi erano scese in Italia non avrebbe potuto violare questo trattato senza esporsi a tutta la vendetta degli Arragonesi; ma poichè al presente più non vedevasi esposto a tale pericolo era apparecchiato a dar prove della sua divozione verso la casa di Francia[138]. Il re, per tutta risposta a questo discorso, chiese che gli si aprissero le porte di Sarzanello; e Pietro vi acconsentì subito: e senza nè pure interpellare i suoi colleghi, ordinò che Sarzanello fosse dato in mano al re, il quale, sorpreso da tanta facilità, domandò che gli fossero inoltre consegnati Pietra Santa, Librafratta, Pisa e Livorno. Non credevano già i Francesi, che, facendo così alte domande venissero loro accordate quelle piazze, almeno senza grandi guarenzie per la loro restituzione dopo il passaggio dell'esercito; ma Pietro nulla chiese, e si accontentò della verbale obbligazione del re di restituire le fortezze della Toscana, quand'avrebbe ultimata la conquista del regno di Napoli; fu convenuto che i Fiorentini presterebbero al re Carlo dugento mila fiorini; che a tale condizione verrebbero ricevuti sotto la protezione del re, e che il trattato di pace fra di loro sarebbe fatto in Firenze. Dietro questa semplice verbale convenzione fece aprire ai Francesi tutte le fortezze dello stato di Pisa, non senza eccitare lo sdegno de' suoi colleghi d'ambasciata, i quali, essendo arrivati alquanto più tardi, credevano di accordar molto al re coll'accordargli il libero passaggio a traverso al loro stato[139].
I Fiorentini, ricevendo la notizia della convenzione di Sarzana, s'irritarono ancora più dei loro ambasciatori. Da lungo tempo avevano cominciato ad accusare Pietro de' Medici di comportarsi come signore e non come primo cittadino della sua patria; di tenere un contegno da padrone che mai non avevano affettato nè Lorenzo, suo padre, nè Cosimo, suo bisavo; di trascurare affatto d'intervenire ai consiglj e di sedere co' suoi colleghi quand'era rivestito di qualche magistratura[140]. Ma non aveva ancora osato prima d'allora di calpestare con tanta impudenza le leggi della repubblica, nè di arrogarsi un'autorità che non gli era mai stata conferita. Egli era quegli, si diceva, che aveva precipitata la patria in una guerra contraria ai suoi interessi, ed era egualmente quegli che, per salvarla, sagrificava le conquiste di molte generazioni. Il partito della libertà, che si era successivamente ingrossato coll'adesione di tutti coloro ch'erano stati oltraggiati dalla sua insolenza, e di fresco riscaldati dalle prediche del Savonarola, approfittava di questi avvenimenti per mostrare quanto pericolosa cosa fosse il dare un capo ad una città libera; perciocchè sotto il suo dominio uno stato perde bentosto il vigore delle sue armate, la prudenza de' suoi consiglj, ed all'ultimo le sue migliori province o la sua indipendenza. Approfittiamo almanco, dicevano essi, delle nostre sciagure, e, poichè l'armata francese deve attraversare le nostre mura, ci ajuti a rovesciare la tirannide[141].
Mentre che l'armata francese dirigevasi verso Lucca e verso Pisa, Pietro de' Medici, prevenuto del tumulto di Firenze, si affrettava di tornarvi, sperando pure di potersela conservare ubbidiente. Vi arrivò l'8 di novembre, e dopo essersi la stessa sera consigliato co' suoi amici, che trovò tutti scoraggiati, o da lui alienati, risolse di recarsi all'indomani a palazzo presso la signoria. Trovò il palazzo chiuso, con guardie alla porta, come sempre costumavasi in occasione di tumulto. La signoria aveva stabilito di non ricevere la visita di Pietro de' Medici, e gli mandò Jacopo di Nerli, gonfaloniere di compagnia, a parteciparglielo, mentre che Luca Orsini, uno de' priori, si trattenne alla porta per vietargliene l'ingresso, ove si dovesse venire a quest'estremo[142].
Pietro de' Medici non volle fare esperimento della loro costanza; stordito da una resistenza che mai non aveva conosciuta, non si appigliò nè alle preghiere, nè alle minacce; ritirossi in casa per chiamare in suo soccorso Paolo Orsini, suo cognato, cogli uomini d'armi sotto i suoi ordini; ma, essendo stato fermato il messo che gli mandava, i cittadini presero le armi e si adunarono nella piazza del palazzo per essere pronti ad eseguire gli ordini della signoria. Frattanto il cardinale Giovanni de' Medici aveva corse alcune strade coll'accompagnamento de' servitori della sua casa, cui faceva ripetere il grido d'armi di sua famiglia: Palle! Palle! ma questo grido altre volte così caro al popolo non aveva mosso veruno de' suoi partigiani. Il cardinale non aveva potuto oltrepassare la metà della strada de' Calzajuoli; e si udivano da ogni banda minacciose grida contro i Medici. Pietro e suo fratello, di già circondati dai soldati loro condotti da Paolo Orsini, ritiraronsi verso porta san Gallo, e tentarono di nuovo, gettando danaro tra il popolo, di muovere gli artigiani di quel quartiere a prendere le armi per loro; ma non avendo che minacciose risposte, ed udendo suonare la campana a stormo, uscirono di città, di cui gli si chiusero dietro le porte. Il cardinale Giovanni de' Medici, essendosi travestito da frate francescano, si sottrasse ancor egli al tumulto, e raggiunse i suoi due fratelli negli Appennini[143].
Pietro de' Medici aveva inconsideratamente presa la strada di Bologna, invece di volgersi al re di Francia, presso al quale avrebbe probabilmente trovato protezione. I soldati dell'Orsini, che lo seguivano, attaccati dai contadini, si sbandarono quasi tutti, e lo stesso Paolo Orsini conobbe che per la sicurezza di suo cognato era d'uopo separarsi da lui. Pure i Medici arrivarono però a Bologna senza incontrare verun nuovo accidente. Ma quando Pietro presentossi a Giovanni Bentivoglio, suo alleato e suo amico, questi, maravigliato di vedere un uomo che occupava lo stesso suo grado, rovesciato con tanta facilità, gli disse: «Se giammai voi udirete che Giovanni Bentivoglio è stato scacciato da Bologna, come lo siete oggi voi da Firenze, non vogliate crederlo; ma credete piuttosto che si è fatto tagliare a pezzi dai suoi nemici facendo loro resistenza»[144]. Non sapeva Giovanni Bentivoglio, che spesso non è in arbitrio del principe, nè del generale d'armata il trovare la morte che desidera; che, dopo averla lungo tempo affrontata, se sopravvive suo malgrado alla sua disfatta, il desiderio della propria conservazione si risveglia nel cuore più valoroso, e vi si aggiugne una segreta speranza, che, poichè la fortuna si è presa ella sola la cura della sua salvezza, lo riservi tuttavia a tempi migliori. La sua sperienza non tardò ad insegnarglielo; l'istante del rovescio giunse pure per il Bentivoglio, e malgrado la sua risoluzione, non morì, ma condusse i suoi giorni in esilio.
Il popolaccio di Firenze svaligiò le case del cancelliere e del provveditore del monte di pietà, che da molto tempo venivano accusati di avere inventate nuove gabelle, e le varie estorsioni con cui eransi accresciute le imposte. Saccheggiò inoltre i giardini di san Marco, e la casa del cardinale Giovanni a sant'Antonio. Le guardie poste al gran palazzo dei Medici in via larga, destinato al re di Francia, lo salvarono in quel primo istante dal saccheggio. Ma i Francesi, che vi furono alloggiati, presero con impudenza tutto quanto solleticava la loro cupidigia, e dopo la loro partenza tutto ciò che vi restava fu venduto con autorità della giustizia. E per tal modo furono disperse quelle magnifiche collezioni di quadri, di statue, di pietre incise, di libri, con tanta cura raccolti da Cosimo e da Lorenzo in tutti i luoghi cui si estendeva il loro commercio[145].
La signoria, dopo la fuga dei Medici, fece un decreto per dichiararli ribelli, per confiscare i loro beni e per promettere il premio di cinque mila ducati a coloro che gli arresterebbero, e di due mila a chiunque porterebbe la loro testa. Tutte le famiglie esiliate o private dei pubblici onori pel corso di sessant'anni, in cui si era mantenuta l'autorità de' Medici vennero ristabilite ne' loro diritti, i quadri che ricordavano o le condanne del 1434, o quelle del 1478 per la congiura dei Pazzi, furono cancellati, ed i due Medici, figliuoli di Pier Francesco, rientrati in patria nell'istante in cui ne uscivano loro cugini, nulla volendo avere di comune con una famiglia che aveva aspirato alla tirannide, fecero cancellare i sei globi dai loro stemmi per sostituirvi una croce d'argento in campo rosso dei Guelfi, e scambiarono il nome di Medici in quello di Popolani[146].
Intanto il nuovo governo si affrettò di spedire ambasciatori al re di Francia, per incolpare il suo predecessore d'una inimicizia tanto contraria agl'interessi della repubblica, e per dare più autentica forma al trattato conchiuso con tanta balordaggine dal Medici. Nominò ambasciatori Piero Capponi, che di già nella sua ambasciata a Lione aveva fatto conoscere l'ardente desiderio de' Fiorentini di scuotere il giogo che portavano[147], Tanai de' Nerli, Pandolfo Rucellai, Giovanni Cavalcanti ed il padre Girolamo Savonarola. Costui, risguardato dai Fiorentini, come dotato del dono dei miracoli e delle profezie, sembrava loro un celeste avvocato, mandato dalla Provvidenza per difenderli.
Gli ambasciatori fiorentini passarono a Lucca dov'era il re, ma non ottennero udienza, e furono costretti di seguirlo a Pisa. Colà il padre Savonarola apostrofò il vittorioso monarca con quel tuono autorevole, ch'era accostumato a prendere in faccia al suo uditorio. Non era il deputato d'una repubblica che parlava ad un re, ma l'inviato di Dio, quegli che aveva predetta la discesa dei Francesi in Italia, che ne aveva lungo tempo minacciati i popoli, come fosse un castigo del cielo, e che adesso parlava a colui che il dito di Dio aveva guidato, per indicargli come doveva terminare l'opera di cui lo aveva incaricato la Provvidenza.
«Vieni, gli disse, vieni adunque pieno di fiducia, vientene lieto e trionfante, perciocchè colui che ti manda è quello stesso che per la nostra salute trionfò sul legno della croce. Pure, ascolta le mie parole, o cristianissimo re! e fanne tesoro nella tua mente. Il servo del Signore, cui queste cose vennero per parte di Dio rivelate.... ti avvisa che sei stato mandato da sua divina Maestà, perchè, seguendo il di lui esempio, tu debba usare misericordia in ogni luogo, ma in particolare nella sua città di Firenze, nella quale, benchè sianvi molti peccati, conservansi altresì molti fedeli servitori tanto nel secolo che nella religione. In grazia loro tu devi risparmiare la città, acciocchè essi preghino per te, e ti secondino nelle tue spedizioni. L'inutile servo, che ti parla, ti avverte di più in nome di Dio, e ti esorta a difendere con tutta la tua possanza l'innocenza, le vedove, i pupilli, gli sventurati, e sopra tutto il pudore delle spose di Cristo che sono ne' monasteri, onde tu non sia cagione di moltiplicare i peccati, perchè per cagione di questi si fiaccherebbe la somma potenza datati da Dio. All'ultimo per la terza volta il servo di Dio ti scongiura in nome suo a perdonare le offese. Se tu ti credi ingiuriato dal popolo fiorentino, o da qualche altro popolo, loro perdona, poichè peccarono per ignoranza, non sapendo che tu sei l'inviato dell'Altissimo. Ricordati del tuo Salvatore, che appeso in croce perdonò a' suoi carnefici. Se tu fai, o re, tutte queste cose, Dio dilaterà il tuo regno temporale e ti farà dovunque vittorioso; e finalmente ti riceverà nell'eterno suo regno de' cieli»[148].
Il re aveva appena udito alcun cenno della fama del Savonarola, ed altro in lui non ravvisò che un buon religioso; il suo ragionamento parvegli una predica cristiana, e senza voler entrare nell'argomento, promise che, subito giunto in Firenze, aggiusterebbe ogni cosa con soddisfacimento del popolo[149]. Pure egli aveva di già violato il trattato conchiuso con Pietro de' Medici, e con l'inconsiderato suo procedere erasi posto in tale imbarazzo, da cui più non potè uscire con onore.
Erano di già ottantasette anni che Pisa trovavasi sotto il dominio de' Fiorentini[150]. I Pisani avrebbero potuto aspettarsi che ne' primi anni della loro servitù il popolo vincitore facesse loro sentire il peso di un risentimento che non era ancora spento, ed una diffidenza, tenuta viva da fresche ingiurie. Ma d'altra parte dovevano sperare dal tempo la fusione de' due stati in un solo, poichè la prosperità del paese conquistato era necessaria a quella del vincitore. Pure accadde tutt'all'opposto; ne' primi anni che tennero dietro alla conquista, l'amministrazione de' Fiorentini fu assai più moderata che quella degli anni successivi. Il primo commissario fiorentino mandato a Pisa, Gino Capponi, era un uomo giusto e moderato, ed aveva cercato di cattivarsi gli animi. Quando due anni dopo i Fiorentini offrirono Pisa alla Chiesa per adunarvi il concilio che doveva terminare lo scisma, cercarono di procurare a questa città pecuniarj vantaggi e di richiamarvi con tal mezzo i cittadini che emigravano. Pistoja colla dolcezza era stata guadagnata per sempre alla sorte della repubblica fiorentina, e gli Albizzi avevano bastante accorgimento per approfittare di questo domestico esempio. Ma la rivoluzione del 1434, diminuendo la libertà fiorentina, scemò pure la liberalità della sua condotta rispetto ai popoli sudditi. I diritti politici del popolo vincitore erano a tanta ristrettezza ridotti, che, paragonandosi ai vinti, egli non sarebbesi trovato in nullo modo avvantaggiato, se questi stessi non fossero stati privati di que' diritti civili che mai non dovrebbero essere violati. La politica fiorentina rispetto alle città suddite si ristrinse ad un proverbio, che giustificava i falli de' magistrati, trasformandoli in massime di stato. Pisa, dicevano, si deve tenere colle fortezze, Pistoja col tener vivi i partiti[151]. In fatti i Fiorentini fabbricarono in Pisa due fortezze che signoreggiavano la città; e contando sopra questa mal sicura catena, crudelmente abusarono del loro potere. A gravose imposte si aggiunsero private esazioni, ed i rubamenti di tutti gli agenti del governo; furono esclusi i Pisani dagl'impieghi, da ogni pubblica funzione, ancora da quelle che le leggi riserbavano agli stranieri, e furono offesi continuamente col disprezzo, coll'odio o colla derisione. Per altro maravigliati di trovare negli spiriti una resistenza proporzionata a questa violenza, e volendo pure domare ciò che chiamavano l'orgoglio de' Pisani, risolsero, per farli poveri, di attaccare nello stesso tempo la loro agricoltura ed il loro commercio.
Tutto il Delta dell'Arno, esposto alle inondazioni, e non avendo verso il mare un facile scolo, era non pertanto stato preservato dalle acque stagnanti, e guadagnato al lavoro ed alla salubrità dalla industria e dalla costante attenzione della repubblica pisana nel conservare liberi tutti i canali che attraversano il piano. Questi canali vennero dai Fiorentini abbandonati[152]. Bentosto le acque stagnanti infettarono le campagne colle loro esalazioni; le malattie distrussero la popolazione e restituirono al deserto que' campi che l'industria gli aveva rubati. Anche la città fu spopolata dalle febbri maremmane; ed all'ultimo gli edificj ed i sontuosi palazzi che l'avevano renduta la più superba tra le città d'Italia, provarono ancor essi l'influenza dell'aria senz'elaterio, dell'umidità e della putrefazione.
D'altra parte i Pisani, che si erano sollevati col commercio, che avevano coperto il Mediterraneo di flotte, ed introdotte i primi nell'Occidente le arti degli Orientali per mezzo delle giornaliere loro corrispondenze con Costantinopoli, colla Siria e coll'Affrica, trovavansi assoggettati alla gelosa amministrazione di un governo di mercanti, che credevano di arricchirsi con tutti i rami del commercio che loro toglievano. Alcune leggi privarono i Pisani delle manifatture delle sete e delle lane; il commercio all'ingrosso venne, quale esclusivo privilegio, riservato ai soli Fiorentini, ed in tal modo Pisa fu ridotta ad un tale stato di miseria e di spopolazione, che formavano la vergogna dei suoi padroni[153].
Ma in questo stato d'abbassamento l'orgoglio del nome Pisano e l'antico amore di libertà non erano spenti nei generosi discendenti de' cittadini di Pisa. I gentiluomini, siccome il popolo, erano animati da uno stesso sentimento; tutti erano disposti a sagrificare per la patria quella vita e quelle ricchezze delle quali appena credevano esser possessori, poichè la volontà arbitraria de' loro padroni poteva loro rapirle ad ogni istante. All'avvicinarsi di Carlo VIII le loro speranze vennero ravvivate artificiosamente da Lodovico il Moro, il quale sovvenivasi che Giovanni Galeazzo Visconti, primo duca di Milano, aveva posseduta Pisa, e che sperava di unire queste città ai proprj stati, facendosi dare Sarzana e Pietra Santa, città in addietro dipendenti dai Genovesi. Il Moro non aveva accompagnato Carlo oltre Sarzana, ma Galeazzo da Sanseverino, uno de' suoi più fidati capitani, lo rimpiazzava all'armata, e questi ajutò i Pisani nel più difficile istante coi consiglj e col favore che godeva presso la corte[154].
Tra i gentiluomini pisani Simone Orlandi erasi fatto rimarcare pel suo odio contro i Fiorentini: in casa sua, e per sua opera tutti coloro ch'erano stati personalmente offesi si adunavano per trovare i mezzi di vendicarsi e di liberare la patria. Siccome parlava speditamente la lingua francese, fu da' suoi concittadini prescelto per invocare il favore del re, e per supplicarlo di sottrarre Pisa ad insoffribile giogo[155]. Per altro i suoi amici lo baciarono, e gli diedero un addio che ben poteva essere l'estremo, nell'istante in cui, sagrificandosi per la sua patria, si esponeva a tutta la vendetta de' Fiorentini. Egli recossi al palazzo dei Medici ove soggiornava Carlo VIII, e stringendo le sue ginocchia fece un vivo quadro dell'antica grandezza de' Pisani, della deplorabile miseria cui trovavansi adesso ridotti e della crudele tirannide che gli aveva così barbaramente oppressi. Si abbandonò, parlando dei Fiorentini, a tutta la violenza della sua indignazione, e fece raccapricciare il re e tutta la sua corte, enumerando le ingiustizie, che diceva di avere provate. Rammentò a Carlo VIII di essersi annunciato all'Italia come quegli che veniva a liberarla dai tiranni sotto cui gemeva. La prima occasione di mantenere le sue promesse gliela presentava Pisa. Se voleva che i popoli dassero fede alla sua sincerità, doveva affrettarsi di rendere i Pisani liberi. Il vocabolo di libertà, il solo che di tutto il suo discorso avessero potuto comprendere i Pisani che avevano accompagnato l'Orlandi, fu da loro ripetuto con acclamazione. Tutti i gentiluomini di Carlo, commossi dall'eloquenza dell'Orlandi, aggiunsero le loro alle sue preghiere; ed il re, senza riflettervi più che tanto, senza pensare che disponeva di cosa non sua, rispose ch'egli voleva tutto ciò ch'era giusto, e che sarebbe contento di vedere i Pisani ricuperare la loro libertà[156].
Seppesi appena la risposta di Carlo, che il grido di viva la Francia, viva la libertà, eccheggiò in tutte le strade; i soldati fiorentini, i gabellieri, i ricevitori delle contribuzioni, vennero inseguiti e costretti a fuggire dalla città; i lioni di marmo dal popolo chiamati Marzocchi, posti sulle porte e sui pubblici edificj in segno dell'autorità del partito guelfo e della repubblica fiorentina, furono atterrati e gettati in Arno, e dieci cittadini, adunati per formare una signoria, vennero incaricati dell'amministrazione della rinascente repubblica[157]. Per una straordinaria combinazione il 9 novembre, nello stesso giorno in cui i Fiorentini avevano ricuperata la loro libertà colla cacciata dei Medici, i Pisani riavevano la loro, cacciando la guarnigione fiorentina.
Intanto Carlo VIII mostravasi incerto di credersi legato verso la repubblica fiorentina dal trattato stipulato con Pietro de' Medici. La più celebre città dell'Occidente per commercio e per ricchezze tentava la cupidigia della sua armata; egli avrebbe avidamente colta l'occasione di riprendere le ostilità. Dopo d'avere posta una guarnigione francese nella nuova fortezza di Pisa, e data l'antica ai Pisani, egli s'avanzava coll'armata alla volta di Firenze senza aver dato risposta agli ambasciatori della repubblica, e senza pure voler prendere determinazioni intorno ai successivi movimenti, finchè non sapesse quali progressi avesse fatti in Romagna l'armata sotto gli ordini di Daubignì, e quali risoluzioni avesse prese Ferdinando, che colà comandava l'armata nemica[158].
Don Ferdinando aveva saputo impedire al Daubignì di avanzarsi colla felice scelta delle posizioni: ma quando i Colonna avevano prese le armi nelle vicinanze di Roma, era stato forzato ad indebolire la sua armata per mandar gente a suo padre; il quale aveva unite le sue truppe, e quelle mandategli dal figliuolo, alle armi del papa, ed aveva, sebbene senza successo, vigorosamente attaccati i Colonna. Intanto Ferdinando più non si trovò abbastanza forte per tener testa al Daubignì, e non potè impedire che questi prendesse il castello di Mordano, nel contado d'Imola, i di cui abitanti furono tutti barbaramente trucidati[159]. Tanta crudeltà atterrì tutti i piccoli principi della Romagna, che Ferdinando più non aveva bastanti forze per proteggere; Catarina Sforza, la prima di tutti, trattò separatamente con Daubignì e gli aprì gli stati del figliuolo. Nello stesso tempo seppesi in Romagna che Pietro de' Medici aveva date in mano al re le fortezze della Toscani, onde il principe arragonese conobbe di non potersi più mantenere nella sua posizione, e ripiegò sopra Roma, mentre don Federico, suo zio, ricondusse la sua flotta ne' porti del regno di Napoli[160].
Carlo VIII, informato della ritirata di don Ferdinando, ordinò al Daubignì di raggiugnerlo a Firenze cogli uomini d'armi francesi, cogli Svizzeri e con trecento cavalleggeri del conte di Cajazzo, mentre ch'egli licenzierebbe gli uomini d'armi italiani al suo soldo, e quelli del duca di Milano. Dopo ciò Carlo VIII si fermò alla Villa Pandolfini, presso di Signa, lontana otto miglia da Firenze, per dar tempo d'arrivare al Daubignì, onde entrare in Firenze in più imponente maniera[161].
Il vescovo di san Malo, Briçonnet, il siniscalco di Belcario, e Filippo di Bresse, fratello del duca di Savoja, i tre uomini ch'erano più avanti nel favore del re, gli rappresentarono, che Pietro de' Medici non erasi perduto che a motivo de' servigj renduti ai Francesi. I suoi nemici nulla gli rinfacciavano con tanta amarezza quanto la cessione delle fortezze dello stato, e non eransi fatti arditi che allorquando Pietro si era allontanato per venire a trovare il re. Questi tre signori andavano dunque incitando il re a rimettere Piero de' Medici in Firenze, e questi infatti gli spedì un corriere a Bologna per farlo ritornare. Ma Piero, disgustato dal freddo accoglimento fattogli dal Bentivoglio, era passato a Venezia[162], e quando ricevette il messaggio del re, si credette in dovere di darne parte alla signoria, per chiederle consiglio. Supposero i Veneziani, che, rimettendo i Medici a Firenze, il re terrebbe quella città in una più assoluta dipendenza; e, siccome di già cominciavano ad essere aombrati dalla sua potenza, vollero privarlo di questo mezzo di consolidarla. Consigliarono perciò Pietro a non darsi in mano di un monarca da lui offeso, e per essere più sicuri della sua docilità lo circondarono segretamente di guardie, che mai non lo perdevano di vista[163].
Non avendo Carlo VIII ricevuta da Bologna la risposta che desiderava, fece il suo ingresso in Firenze per porta san Friano, il 17 di novembre in sull'avvicinare della sera. Fu alla porta ricevuto sotto un baldacchino dorato, e portato dalla nobile gioventù fiorentina: il clero lo circondava cantando inni, e tutto il popolo mostrava di accoglierlo con affetto e con piacere. Pure lo stesso Carlo non risguardava quest'ingresso come affatto pacifico; portava la lancia sulla coscia, lo che in appresso spiegò come un simbolo della conquista che faceva del paese; lo seguivano tutte le truppe colle armi alzate, ed in minaccioso apparato; il linguaggio straniero e l'impetuosità dei Francesi, le lunghe alabarde degli Svizzeri, non ancora in Toscana vedute, e l'artiglieria volante, che i Francesi erano stati i primi a rendere mobile come le loro armate, non inspiravano meno terrore che curiosità e maraviglia[164]. I Fiorentini, che con animo inquieto ricevevano questi barbari ospiti entro le loro mura, non avevano trascurati tutti i mezzi di difesa. Ogni cittadino aveva adunati nella sua casa in città tutti i suoi contadini, tenendoli apparecchiati a difendere colle armi la libertà, quando suonasse la campana del comune. Eransi pure chiamati entro la città coi loro soldati i condottieri al soldo della repubblica; sicchè a lato all'armata francese, che aveva preso gli alloggiamenti in Firenze, si era segretamente formata un'altra armata, apparecchiata a tenerle testa.
Tostocchè il re si trovò nel palazzo dei Medici che gli era stato destinato dalla signoria, cominciò a trattare coi suoi commissarj. Ma le sue prime domande non cagionarono minore sorpresa che spavento: dichiarò, che, essendo entrato in città colla lancia sulla coscia, Firenze era sua conquista, che ne riteneva la sovranità, e che altro omai non trattavasi che di vedere se vi ristabilirebbe i Medici per governare in suo nome, o se acconsentirebbe di dare la sua autorità alla signoria sotto l'ispezione dei suoi consiglieri di toga lunga, che intendeva di aggiugnerle. Risposero i Fiorentini con rispettosa fermezza, che avevano ricevuto il re come loro ospite, che non avevano voluto prescrivergli un ceremoniale intorno al modo di entrare fra di loro, ma che gli avevano aperte le porte pel rispetto che nudrivano verso di lui, e non per forza; e che mai non sarebbero per rinunciare nè in grazia sua, o di altri, alla menoma prerogativa della loro indipendenza o della loro libertà[165].
Sebbene fossero di così opposti sentimenti, nè l'una parte, nè l'altra desiderava di venire alle mani. I Francesi, maravigliati della straordinaria popolazione di Firenze, di que' solidi palazzi che sembravano altrettante fortezze, e del coraggio mostrato dai cittadini nello scuotere il giogo dei Medici, temevano di azzuffarsi nelle strade, ove si troverebbero oppressi dalle pietre scagliate dall'alto dei tetti e dalle finestre; i Fiorentini, contenti d'imporne ai loro ospiti, non bramavano che di acquistar tempo, aspettando l'istante in cui al re piacerebbe partire. Frattanto continuavano le conferenze, ed il re si era ridotto a domandare una somma di danaro, ma tanto esorbitante, che, quando il suo segretario reale ebbe terminata la lettura di ciò che dichiarava essere l' ultimatum del suo signore, Pietro Capponi, il primo de' segretarj fiorentini, gli strappò di mano la carta e stracciandola, gridò: «Ebbene! quand'è così, voi suonate le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane;» e uscì subito di camera. Tanto impeto e tanto coraggio intimidirono il re e la sua corte; supposero che i Fiorentini avessero grandissimi mezzi, poichè ardivano di parlare tant'alto, e richiamarono il Capponi. Allora presentarono più moderate proposizioni, che vennero subito accettate. La prima era di portare a cento mila fiorini il sussidio che pagherebbero i Fiorentini per concorrere all'impresa di Napoli. Questa somma doveva essere pagata in tre termini, il più lontano dei quali spirava nel susseguente giugno. D'altra parte il re si obbligava a restituire le fortezze che gli erano state consegnate, o tosto che avesse occupato Napoli, o quando che avrebbe terminata la presente guerra con una pace o tregua di due anni, o finalmente quando per qualsiasi ragione avrebbe abbandonata l'Italia. Carlo VIII stipulò, a favore de' Pisani, il perdono delle loro offese, purchè tornassero sotto il dominio de' Fiorentini; a favore de' Medici la nullità del sequestro posto sui loro beni, e l'abolizione del decreto che taglieggiava le loro teste; per ultimo, a favore del duca di Milano, che richiamava a nome de' Genovesi la restituzione di Sarzana e di Pietra Santa, chiese che i rispettivi diritti su queste città venissero giudicati da arbitri. A tali condizioni dichiarò di rendere ai Fiorentini la sua protezione e tutti i privilegj di commercio, di cui in addietro godevano in Francia[166]. Questo trattato fu pubblicato nella cattedrale di Firenze il 26 di novembre mentre celebravasi la messa: e le parti si obbligarono con solenne giuramento ad osservarle. Frattanto il Daubignì consigliava il re ad approfittare di un tempo prezioso; onde due giorni dopo la pubblicazione della pace, il re partì con tutta la sua armata, prendendo la strada di Poggibonzi e di Siena, e sollevando così i Fiorentini dalla più mortale inquietudine che avessero da lungo tempo provata[167].
CAPITOLO XCIV.
Terrore ed irrisoluzione del papa all'avvicinarsi di Carlo VIII; questo monarca entra in Roma. — Abdicazione e fuga di Alfonso II; dispersione dell'armata di Ferdinando II. — Il regno di Napoli si sottomette a Carlo VIII.
1494 = 1495. Papa Alessandro VI aveva ottenuto quell'opinione di prudenza e di destrezza che il mondo suole spesse volte accordare senza riflessione a coloro, i quali, posto da banda ogni rispetto di morale e di onore, non si propongono altro scopo della loro politica che il proprio vantaggio. L'uomo volgare li vede correre verso la meta de' loro disegni con un ardire che lo abbaglia, e si persuade, che non senza matura considerazione abbiano osato atterrare quegli steccati ch'egli stesso è accostumato a rispettare. Quando vede rivocarsi in dubbio quei principj, cui la gran massa degli uomini si mantiene subordinata, e pesare sopra nuove bilance i divini ed umani diritti, egli si abbandona ad una cieca ammirazione verso colui la di cui testa è così forte da innalzarsi al di sopra di tutti i pregiudizj. Pure questi morali principj, che il volgare adottò come pregiudizj, sono per il filosofo la più pura essenza dell'umana ragione, il più perfetto frutto delle sue meditazioni. Come la virtù è per ogni individuo l'unico mezzo di conseguire lo scopo della sua esistenza, di conseguire quella pace dell'anima, costante frutto dello sviluppamento delle nostre facoltà, e del perfezionamento del nostro essere; così la morale è per ogni società politica, e per qualunque governo, la sola, la vera strada della pubblica prosperità e della conservazione dello stato. La perfetta coincidenza della morale colla vera ben intesa utilità è stata più volte osservata; pure quando non trattasi che d'individui, quest'utilità può essere in tante maniere modificata dalle circostanze, dalle passioni e dalle contrarie vicende, che non possiamo a lei attenerci come a sicura guida; ma la sua applicazione alla condotta delle nazioni è assai più avverata, perchè quanto più grande è il numero degl'individui che presero per norma i principj della morale, tanto più il calcolo, dietro il quale furono stabiliti questi principj, va acquistando forza; le accidentali circostanze si compensano, rendonsi neutre le passioni, i contrarj accidenti si distruggono a vicenda, e dal generale risultamento resta sempre dimostrato che la più ben intesa politica è la più conforme alla probità.
La storia somministra infinite applicazioni di questo principio; poche volte mette in vista alcuno degli uomini più famosi per la loro immoralità, senza mostrare come l'abbiano traviato i suoi calcoli personali, e come i suoi delitti siano poi tornati a suo danno. Questi politici creduti tanto accorti, i quali sostituirono il proprio interesse ai grandi principj della società umana, qualunque volta sono in conflitto coll'imminente pericolo, perdono ogni punto d'appoggio, ogni sicura direzione, ogni base per le loro combinazioni. Lo scandaloso Alessandro VI diventò l'uomo il più vile ed irrisoluto; il crudele e perfido Alfonso II, atterrito dalla propria coscienza, si lascia cadere dal trono senza aspettare un urto straniero.
Pare che Alessandro VI colla versatile sua politica avesse presa qualche parte nella chiamata di Carlo VIII in Italia. Voleva in allora ottenere più vantaggiose condizioni dalla casa di Arragona, ed intimidire Virginio Orsini[168]. Ma quand'ebbe ottenuto uno splendido stato ai suoi bastardi nel regno di Napoli, cambiò partito; dichiarò, che, avendo i suoi predecessori accordate tre investiture alla casa d'Arragona, credevasi obbligato a non negarle la quarta: protestò, che, essendo il regno di Napoli un feudo della Chiesa, Carlo VIII non poteva attaccarlo colle armi senza attaccare la Chiesa medesima, ed entrò con ardore nella lega destinata a difenderlo. In tal tempo Alessandro era troppo lontano dal supporre tanto rapidi gli avanzamenti de' Francesi, e non erasi così scopertamente compromesso, che per essersi creduto al coperto da ogni pericolo. Le negoziazioni di Pietro de' Medici a Sarzana e lo sconvolgimento della Toscana portarono un subito terrore nella sua anima, che crebbe a dismisura quando, avendo spedito a Carlo, che soggiornava in Firenze, il cardinale Francesco Piccolomini, suo legato, Carlo rifiutò di riceverlo non meno per odio di suo zio Pio II, che aveva combattuto contro la casa d'Angiò, quanto per l'avversione che nutriva contro il pontefice che lo aveva mandato[169].
Il papa aveva ricevuto il duca di Calabria e la sua armata nelle terre della Chiesa, e gli aveva dati tutti i soldati di cui poteva disporre; aveva fatto leva tra i popoli di compagnie di fanteria, ed invitati con bolle i Romani a prendere le armi per difendere la loro patria.
Ingrandendosi però la sua paura di mano in mano che i Francesi avanzavano, non aveva tardato a far conoscere il suo desiderio d'aprire nuove conferenze. Il cardinale Ascanio Sforza era in allora il capo del partito francese nel sacro collegio. Alessandro lo invitò a recarsi a Roma; e perchè lo Sforza non credevasi sicuro, gli mandò come ostaggio il suo proprio figlio, il cardinale di Valenza, che fu trattenuto a Marino sotto la custodia dei Colonna. Questa prima conferenza non ebbe verun risultamento. Ascanio tornò al campo francese ed il cardinale di Valenza presso suo padre, senza che nulla si fosse convenuto; ma dietro questa prima apertura Alessandro mandò presso Carlo i vescovi di Concordia e di Terni e maestro Graziano, suo confessore, per trattare contemporaneamente a nome suo ed a nome del re di Napoli. Carlo VIII, fermamente determinato a non ascoltare proposizioni per parte di Alfonso II, non ricusò di trattare col papa solo, e perchè l'estrema sua diffidenza erasi alquanto calmata, mandò a Roma la Tremouille, il presidente di Gannay, il cardinale Ascanio e Prospero Colonna, senza domandare ostaggi per la sicurezza delle loro persone. In quell'istante l'armata napolitana, comandata da Ferdinando rientrò in Roma, ed il papa, riconfortandosi in vista di tanti soldati, non volle lasciarsi cadere di mano l'occasione di sorprendere i suoi nemici: il 9 dicembre fece arrestare il cardinale Ascanio e Prospero Colonna, e li fece condurre nelle prigioni di Castel sant'Angelo, dichiarando che loro non renderebbe la libertà se prima non gli era data Ostia. Erano stati arrestati anche i due ambasciatori francesi, ma il papa li fece subito liberare[170].
Intanto Carlo VIII andava avvicinandosi a Roma; era entrato in Siena il 2 di dicembre collo stesso militare apparecchio che aveva spiegato a Firenze; aveva fatta uscire di città la guardia della signoria, e domandato che gli si consegnassero alcune fortezze della Maremma Sienese; e quando all'indomani uscì di Siena, vi lasciò un corpo di truppe per tenere a freno un popolo, che gli era sospetto[171]. Ferdinando, duca di Calabria, successivamente abbandonato dai soldati della repubblica fiorentina, da Annibale Bentivoglio e dalla sua truppa, da Giovanni Sforza, signore di Pesaro, e da Guido di Montefeltro, duca d'Urbino, che tutti ritiravansi ne' proprj stati per non compromettersi coi Francesi, aveva inoltre perduta quasi tutta la sua fanteria, che, colpita da terrore, disertava a compagnie. Egli aveva preso a traverso all'Ombria la strada di Roma[172]; da prima era intenzionato di far testa a Viterbo, perchè questa città era posta in mezzo ai feudi degli Orsini ch'egli risguardava come i suoi più fedeli alleati, perchè teneva Roma alle spalle, e perchè, in caso di disfatta, aveva sempre aperta la ritirata verso Napoli[173]; ma le negoziazioni d'Alessandro VI, e le continue sue irrisoluzioni non permettevano a Ferdinando di prendere veruno vigoroso partito. Carlo VIII entrò in Viterbo senza incontrare ostacolo, mentre che Ferdinando ripiegava sopra Roma, e questi faceva lavorare a chiudere le breccie delle antiche mura di questa capitale, onde porle in istato di difesa, nell'istante in cui il papa faceva arrestare il cardinale Ascanio e Prospero Colonna[174].
Per altro questa stessa violazione del diritto delle genti non aveva affatto rotte le negoziazioni; il 19 di dicembre il papa aveva cavato di prigione il cardinale Federigo di Sanseverino, arrestato insieme ad Ascanio, e lo aveva spedito a Nepri presso Carlo VIII, facendogli dire di essere disposto a separare i suoi interessi da quelli del re di Napoli[175]. Ma nella perturbazione della sua anima, non sapeva stabilmente attenersi a veruna risoluzione; ora pretendeva di difendere Roma e s'intratteneva con Ferdinando intorno ai mezzi di ripararne le fortificazioni; ora lo atterrivano le difficoltà di poter tenere contro al nemico in così vasto e debole recinto, il doversi procurare le vittovaglie dalla banda del mare, mentre Ostia era in mano dei nemici, il sordo malcontento del popolo, e le varie fazioni che scoppiavano in Roma. Ora apparecchiavasi a fuggire, e chiedeva ad ogni cardinale per iscritto la promessa di seguirlo in qualunque luogo; poi gli mancava di nuovo il coraggio, e tornava ai suoi progetti di accomodamento.
L'incertezza del capo dello stato riduceva tutti i suoi membri a provvedere separatamente alla propria salvezza. I Francesi avevano passato il Tevere, e scorrevano per ogni verso il patrimonio di san Pietro e la campagna di Roma, onde tutti i feudatarj della Chiesa cercavano di fare con loro separate paci. Lo stesso Virginio Orsini, che per tanti titoli doveva essere affezionatissimo alla casa d'Arragona, ch'era capitano generale dell'armata reale e grande contestabile del regno, che aveva fatta sposare a suo figlio una figlia naturale d'Alfonso II, e che aveva dal re ricevuti i più ricchi feudi del regno, acconsentì, senza lasciare il suo soldo, che i suoi figli trattassero col re francese, che gli accordassero libero passaggio e viveri in tutte le loro terre, dandogli alcune fortezze in pegno della loro fedeltà[176].
Il conte di Pitigliano, e gli altri membri della famiglia Orsini fecero pure il loro particolare trattato: Ivone d'Allegro, e Luigi di Lignì entrarono in Ostia con cinquecento lance, e due mila Svizzeri; Carlo era stato dagli Orsini ricevuto nella loro principale fortezza di Bracciano; Cività Vecchia e Corneto gli avevano aperte le porte; i posti francesi comunicavano con quelli dei Colonna, che dall'altra banda del Tevere sollevavano tutta la campagna di Roma; ed i prelati ed il basso popolo chiedevano con eguale ardore una pace che li liberasse da tanti timori. Pure quanta più s'avvicinava il pericolo, Alessandro, agitato per sè medesimo, s'andava imbarazzando nelle sue negoziazioni. Vedeva nel campo nemico il cardinale di san Pietro ad vincula, Giuliano della Rovere, suo personale nemico; conosceva l'influenza di questo cardinale presso la corte di Francia, il suo impetuoso carattere, la sua inclinazione per le misure estreme, ed il vivo suo desiderio di precipitarlo dal trono papale; ricordavasi per quali vergognose vie vi fosse salito, con quali scandalosi vizj, con quale sfrontata immoralità l'avesse lordato, ed oltremodo temeva un concilio ed un giudizio della Chiesa[177].
Ma Carlo VIII, malgrado le calde istanze de' cardinali nemici di Alessandro, temeva d'entrare in una lunga e spinosa lotta contro il papa. Era impaziente di giugnere a Napoli, e parevagli pericolosa ogni diversione. Altronde in mezzo a' suoi prosperi successi doveva ogni giorno superare difficoltà, proprie di loro natura a far sbandare l'armata. Siccome questa non aveva magazzini, dopo essere entrata nello stato di Roma, aveva bentosto provati gli effetti dell'estrema povertà del paese. I contadini erano stati ruinati dalle continue guerre tra i Colonna e gli Orsini; i più deboli castelli erano stati saccheggiati o derubati, tutto il raccolto era chiuso ne' più forti, ed i soldati francesi non trovavano nelle campagne una sola casa da manomettere. La piazza di Bracciano somministrava abbondanti vittovaglie all'esercito reale, ma questo ne' precedenti giorni aveva sofferti estremi bisogni[178]. Di quei giorni Perron dei Baschi, maestro di casa del re, era giunto da Piombino con venti mila ducati che gli mandava il duca di Milano; ma la flotta che gli aveva portati, comandata dal principe di Salerno, era poi stata battuta da' venti, spinta sulle coste della Corsica e dispersa, di modo che più non poteva servire l'armata, nè trasportare i suoi convogli[179]. Finalmente Carlo VIII trovavasi circondato da consiglieri, che tutti aspiravano ad ottenere dalla Chiesa qualche dignità o beneficio. Il sopraintendente delle Finanze, Briçonnet, di già vescovo di San Malo, desiderava il cappello di cardinale, e sentiva che più facilmente l'otterrebbe da un papa, che si credeva alla vigilia di essere deposto, che da una Chiesa riformata. Consigliò dunque il re a riprendere le negoziazioni.
Dietro tali considerazioni il maresciallo di Giez, il siniscalco di Belcario, e Giovanni di Gannay, primo presidente del parlamento di Parigi, furono un'altra volta mandati al pontefice. Chiesero che il re fosse ricevuto senza resistenza in Roma, promisero che Carlo rispetterebbe l'autorità papale e le immunità della Chiesa, e protestavano che nella sua prima conferenza col papa, svanirebbero tutte le difficoltà che si opponevano alla loro riconciliazione. Pareva ad Alessandro dura cosa il dover mettere la propria capitale in mano ai suoi nemici, ed il dovere rimandare i suoi ausiliarj prima d'avere niente convenuto. Ma l'armata di Carlo si andava ogni giorno avanzando; il re non trattenevasi giammai più di due giorni in una città; i Colonna avevano adunata un'armata a Genazzano; il cardinale della Rovere ne aveva un'altra ad Ostia; ogni resistenza sembrava impossibile, ed Alessandro acconsentì all'ultimo a far ritirare da Roma il duca di Calabria colla sua armata[180]. Chiese per lui un salvacondotto, affinchè il principe napolitano uscisse dallo stato ecclesiastico senz'essere molestato; ma Ferdinando non volle accettarlo. Lo accompagnò soltanto il cardinale Ascanio Sforza, per contenere il popolo, fino alla porta di san Sebastiano, per la quale uscì da Roma, mentre che nella stessa ora, nel giorno 31 dicembre del 1494, il re di Francia entrava in Roma, alla testa del suo esercito, per la porta di santa Maria del Popolo[181].
La comparsa di quest'armata, che per la prima volta faceva conoscere ai Romani la forza e la nuova organizzazione militare degli Oltremontani, inspirò sorpresa mista a terrore. L'avanguardia era composta di Svizzeri e di Tedeschi, che camminavano a suono di tamburo, divisi in battaglioni e sotto i loro stendardi. Corti erano i loro abiti e di svariati colori, e tagliati secondo la stessa forma del corpo. I loro capi portavano per distintivo alte piume sui loro caschetti. I soldati avevano corte spade e lance di legno di frassino lunghe dieci piedi, il di cui ferro era stretto e acuto. Una quarta parte di loro portava alabarde invece di lance il di cui ferro rassomigliava alla banda tagliente di una scure, da cui sorgeva una punta quadrangolare. Essi le maneggiavano con ambidue le mani, ferendo egualmente di taglio e di punta. Ogni migliajo di soldati aveva una compagnia di cento fucilieri. Il primo rango d'ogni battaglione aveva caschetti e corazze che coprivano il petto; questa era pure l'armatura de' capitani, ma gli altri non avevano armi difensive.
Tenevano dietro agli Svizzeri cinque mila Guasconi, quasi tutti balestrieri; notabile era la prontezza con cui tendevano e scoccavano le loro balestre di ferro; del resto la piccola loro statura, ed i loro abiti, privi di ogni ornamento, facevano una svantaggiosa comparsa al confronto degli Svizzeri. Veniva poi la cavalleria, la quale era formata dal fiore della nobiltà francese, e faceva vaghissima mostra co' suoi mantelli di seta, coi caschetti e collane dorate. Vi si contavano due mila cinquecento corazzieri e cinque mila cavalleggeri. I primi portavano, come gli uomini d'armi italiani, una gran lancia scannellata, armata di solida punta, ed una mazza d'armi di ferro. Grandi e forti erano i loro cavalli, ma, secondo l'usanza francese, senza coda e senza orecchie. Essi per la maggior parte non erano coperti da una specie di corazza di cuojo bollito che li difendessero dai colpi. Ogni corazziere era seguito da tre cavalli, il primo montato da un paggio armato come il padrone, e gli altri due dagli scudieri che chiamavansi gli ausiliarj laterali.
I cavalleggeri portavano grandi archi di legno all'uso inglese, fatti per lanciare lunghe frecce; non avevano altre armi difensive, fuorchè il caschetto e la corazza; alcuni portavano una breve picca per trapassare in terra coloro ch'erano stati rovesciati dalla cavalleria pesante. I loro mantelli erano ornati di cimieretti e di laminette d'argento, che rappresentavano lo stemma de' rispettivi loro capi. Quattrocento arcieri, tra i quali cento Scozzesi, camminavano ai fianchi del re, dugento cavalieri francesi, scelti tra il fiore della nobiltà, lo accompagnavano a piedi. Portavano sulle loro spalle mazze d'armi di ferro, a guisa di pesanti scuri. Quando costoro montavano a cavallo, sembravano altrettanti uomini d'arme, e non si distinguevano che per la bellezza de' loro cavalli, e per l'oro e la porpora ond'erano coperti. I cardinali Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere stavano ai fianchi del re, lo seguivano immediatamente i cardinali Colonna e Savelli. Prospero e Fabricio Colonna e tutti i generali Italiani marciavano frammischiati coi principali signori della Francia.
Conducevansi dietro all'armata trentasei cannoni di bronzo, lunghi circa otto piedi, pesanti circa sei migliaja di libbre, e del calibro press'a poco della testa d'un uomo: venivano in seguito le colombrine lunghe circa dodici piedi, poi i falconetti, de' quali i più piccoli gettavano palle della grossezza d'un pomo granato; i carri erano formati come gli odierni di due pesanti pezzi di legno uniti da traversi e sostenuti da due sole ruote; ma per farli camminare vi si aggiugnevano due altre ruote con un treno che si adattava dinanzi e si staccava quando il cannone si collocava in batteria. L'avanguardia cominciò a passare per la porta del popolo a tre ore dopo mezzogiorno, e continuò ad entrare la truppa fino alle nove della sera a lume di torcie e di fiaccole, che aggiugnevano all'armata un certo che di più patetico ed imponente[182]. Frattanto il papa erasi ritirato in castel sant'Angelo con soli sei cardinali, essendo stati quasi tutti gli altri vinti dalle istanze di Giuliano della Rovere e di Ascanio Sforza, che consigliavano il re a purgare la Chiesa da un papa che la copriva di vergogna, e la di cui condotta era altrettanto scandalosa, quanto più simoniaca era stata l'elezione. Il vocabolo di concilio, ripetuto in ogni banda da tutte le fazioni che riconoscevano per loro capo il cardinale Ascanio, riempiva di terrore il pontefice[183]. Perciò quanto più tremava per la propria sicurezza, più si ostinava a non volere dare in mano del re castel sant'Angelo, domandato come arra della buona fede di Alessandro, ma che questi risguardava per lo contrario come il suo più sicuro asilo. Due volte l'artiglieria francese, che stava al palazzo di san Marco, ov'era alloggiato il re, vennero appuntati contro castel sant'Angelo, e due volte i cortigiani francesi, che aspiravano alle dignità della Chiesa, riuscirono ad impedire le prime ostilità[184].
Finalmente il giorno 11 di gennajo furono stabilite le condizioni della pace. Prometteva il re di avere in pace ed in guerra il papa come suo amico ed alleato, e di rispettare in ogni parte la sua autorità pontificia; ma nello stesso tempo domandava, che gli si consegnassero, per tenerle fino alla fine della guerra, le fortezze di Cività Vecchia, di Terracina e di Spoleti; che Cesare Borgia, figlio d'Alessandro, seguisse per quattro mesi come ostaggio l'armata francese, sebbene per salvare le apparenze dovesse prendere il titolo di cardinale legato; che Gem[185], fratello di Bajazette, fosse consegnato ai Francesi, per secondarli ne' loro attacchi contro la Turchia; per ultimo, che Briçonnet vescovo di San Malo, venisse ammesso nel sacro collegio. Il papa, determinato a non osservare che i trattati che gli sarebbero vantaggiosi, e risguardandosi come sciolto dai giuramenti per via della violenza che fatta allora gli veniva, non promosse veruna difficoltà intorno alle proposte condizioni. Si recò al palazzo del Vaticano, ove ammise al bacio dei piedi il re e tutta la sua corte; diede di propria mano il cappello di cardinale a Briçonnet ed a Filippo, vescovo di Mans, della casa di Lussemburgo, e consegnò al re il sultano Gem, dopo avere fatto stendere un atto notarile di tale consegna[186].
Lo sventurato figlio di Maometto II, avvicinandosi a Carlo VIII, gli baciò la mano, indi la spalla, poi voltosi al papa lo pregò con modesta nobiltà di raccomandarlo alla protezione del gran re, cui egli lo affidava, e che si apparecchiava a conquistare l'Oriente. Soggiunse, che si lusingava che nè il papa avrebbe luogo di pentirsi d'avergli data la libertà, nè Carlo, se seguirebbe i suoi consigli, poichè fosse passato in Grecia, d'averlo a compagno del suo viaggio. Gem aveva una nobile e dignitosa presenza; era versato bastantemente nella letteratura araba; mostrava nel suo dire una lusinghiera pulitezza ed acutezza nella sua espressione. La grandezza della sua anima e la nobiltà del suo aspetto non ismentivano l'impressione che anticipatamente faceva la sua sventura[187].
Ma mentre Gem si abbandonava alla dolce speranza di uscire in breve dalla sua cattività, e di rivedere la patria, colui, che lo cedeva così ad un nuovo custode, aveva di già fissato il termine della sua vita. La sua prigionia aveva fruttato al papa una considerabile entrata; Bajazette gli pagava quaranta mila ducati a titolo di pensione del fratello, o piuttosto come premio perchè lo teneva lontano da' suoi stati. Quando il genovese, Giorgio Bucciardi, fu dal papa mandato al sultano, per persuaderlo a concorrere alla difesa del regno di Napoli, Bajazette, sempre agitato dall'esistenza di suo fratello, volle approfittare di quest'ambasciata per liberarsi da così molesto pensiero. Rimandò Bucciardi al papa, facendolo accompagnare da Dauth, suo proprio ambasciatore. Questi portava una lettera del sultano scritta in greco ad Alessandro VI. Dopo alcune ipocrite frasi, convenienti al carattere di chi scriveva e di colui al quale la lettera veniva addirizzata, diceva Bajazette di sentire una profonda commiserazione per la sorte di suo fratello; ch'era omai tempo di dar fine alla sua cattività ed alla sua dipendenza presso i non credenti; che la morte per un sultano era mille volte preferibile alla presente sua condizione; e, poichè non era un delitto agli occhi d'un cristiano il dare la morte ad un musulmano, egli invitava Alessandro a liberarlo col veleno da questo domestico nemico, promettendogli il premio di dugento mila ducati[188], la preziosa reliquia della tunica di Gesù Cristo, e la promessa di non portare in vita sua le armi contro i Cristiani[189].
I due ambasciatori, sbarcando sulla costa presso Ancona, furono arrestati da Giovanni della Rovere, prefetto di Sinigaglia, che aveva abbracciato il partito di suo fratello, il cardinale di san Pietro ad vincula, e che aveva cominciate le ostilità verso il papa; questi tolse loro il danaro che portavano per pagare per due anni la pensione di Gem. Dauth riuscì per altro a fuggire, e riparossi presso Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che aveva contratta alleanza col gran signore, e che lo rimandò a Costantinopoli[190].
Non è ben noto se Alessandro accettasse le condizioni offerte dal sultano, o se la morte di Gem devesi soltanto alla gelosia che concepita aveva contro Carlo VIII; ben si assicura che, prima di consegnargli l'illustre fuoruscito, aveva fatto mescolare collo zucchero, di cui questi faceva grandissimo uso, una polvere bianca, aggradevole al palato, il di cui effetto non era pronto, ma che lentamente opprimeva gli spiriti vitali, e cagionava senza convulsioni una certa morte. Fu lo stesso veleno che Alessandro VI adoperò in appresso per disfarsi di molti cardinali, e di cui fu egli stesso vittima. Gem, appena giunto a Capoa insieme all'armata francese, cadde pericolosamente infermo, e morì in questa città o in Napoli il 26 di febbrajo. Carlo VIII lo fece seppellire a Gaeta, ma nel 1497 il re don Federico mandò il suo cadavere a Bajazette II[191].
Carlo si trattenne quasi un mese in Roma, nel qual tempo continuò a far avanzare le sue truppe verso i confini del regno di Napoli. Aveva diviso l'esercito in due corpi, uno de' quali doveva entrare nel paese nemico dalla banda degli Abruzzi, l'altro per terra di Lavoro. Diede il comando del primo a Fabrizio Colonna, ad Antonello Savelli ed a Roberto di Lenoncourt, balivo di Vitrì. Aggiunse alle compagnie dei primi due alcune brigate di uomini d'arme francesi, ed alcuni battaglioni d'infanteria svizzera e guascona. Questa divisione si avanzò pel contado di Tagliacozzo negli Abruzzi. Quelle provincie ed in particolare l'Aquila, loro capitale, erano tutte piene della memoria degli Angiovini e tutte apparecchiate a ribellarsi, di modo che in breve tempo spiegarono ovunque le bandiere di Francia. Bartolommeo d'Alviano era stato mandato da Ferdinando presso al lago di Celano per difendere le gole delle montagne e l'ingresso dell'Abruzzo; ma si era trovato troppo debole, ed era stato costretto ad evacuare tutta la provincia senza venire ad un fatto d'armi[192].
Dall'altra banda Carlo VIII, alla testa del grosso dell'armata, posesi in cammino il 23 di gennajo[193], attraversando il Lazio, ed avanzandosi alla volta di Napoli per la strada di Ceperano, Aquino e san Germano, che è alquanto più discosta dal mare da quella oggi praticata per andare da Roma a Napoli. Non era appena uscito da Roma che il romano pontefice sentendosi umiliato dalla pace che aveva giurata, prese le opportune misure per iscuotere il giogo. Don Antonio di Fonseca, ambasciatore dei re di Spagna, accompagnava Carlo in questa spedizione; egli non poteva senza pena vedere spogliata la linea bastarda arragonese di un regno originariamente conquistato colle armi della Spagna. Egli conosceva l'inquietudine del papa e l'agitazione di tutti gli stati d'Italia, spaventati dalle rapide conquiste de' Francesi; convenne con Alessandro VI di tentare quale effetto produrrebbe una pubblica protesta, lusingandosi che, se non fermava Carlo, per lo meno ravviverebbe il coraggio de' principi di Napoli. All'arrivo del re a Velletri, Fonseca domandò udienza; allora gli rappresentò, che, quando Ferdinando ed Isabella si erano obbligati, mercè la restituzione di Perpignano, a non passare i Pirenei ed a non attaccare la Francia, avevano creduto alle parole del re, che diceva di avere sopratutto in vista di muovere guerra ai Turchi; avevano creduto che prima di attaccare colle armi il regno di Napoli, il re acconsentirebbe di assogettare la di lui causa ad un giusto arbitramento, che rispetterebbe la libertà di tutto il restante dell'Italia, ed in particolar modo quella della Chiesa. Ma Fonseca non aveva potuto vedere senza estrema maraviglia, ed i suoi padroni non saprebbero senza rincrescimento, che Carlo VIII aveva declinato la giurisdizione del papa, cui Alfonso II era disposto a sottomettersi, mentre che il regno di Napoli, fra di loro conteso, essendo un feudo della Chiesa, non poteva essere legittimamente posseduto dall'uno o dall'altro pretendente, senza una decisione della corte di Roma; che Carlo VIII, lungi dal rispettare l'indipendenza degli altri stati d'Italia, tutti gli aveva obbligati a somministrargli prodigiosi sussidj, ch'egli aveva sconvolte le loro costituzioni, e posto guarnigione nelle loro fortezze. Lucca aveva dovuto salvarsi dal saccheggio col danaro, i Medici erano stati scacciati da Firenze, Pisa era stata incoraggiata alla ribellione, Siena costretta a ricevere guarnigione, e tutte le fortezze di questi diversi stati si trovavano in mano ai Francesi. Finalmente il papa, oggetto della venerazione di tutti i principi cristiani, era stato costretto dal terrore a soscrivere una pace umiliante; aveva ricevute guarnigioni francesi nelle sue fortezze, dato in ostaggio il cardinale di Valenza, abbandonato il sultano Gem a Carlo VIII, e con tante concessioni aveva potuto a stento salvare Roma dall'incendio e dal saccheggio. Poichè il re di Francia non credevasi obbligato ad osservare verun trattato, nè veruna guarenzia del diritto delle genti, l'ambasciatore di Ferdinando e d'Isabella era chiamato a dichiarargli, che i suoi padroni non permetterebbero ch'egli privasse principi arragonesi di un regno, che il possesso di cinquant'anni, e le decisioni di molti papi avevano renduto ereditario nella loro famiglia[194].
I gentiluomini francesi che circondavano il re appena permisero al Fonseca di terminare il suo discorso: risposero impetuosamente e con orgoglio, accresciuto da inaspettati successi, che loro mai non erano venute meno le armi in sostegno dei loro diritti; che se Ferdinando si scordava de' suoi trattati e dei suoi obblighi, pagati colla restituzione di Perpignano, i cavalieri francesi erano buoni di ricordarglieli, e ch'essi farebbergli tosto conoscere qual distanza passi da loro agli arcieri mori, ch'egli andava così altero d'aver vinti nell'Andalusia. Crebbero dell'una e dall'altra parte le ingiurie a segno che il Fonseca, che pure era uomo grave e moderato, si lasciò talmente trasportare dalla collera, che stracciò in faccia al re il trattato soscritto tra la Francia e la Spagna, ordinando a due spagnuoli, che servivano nell'armata francese, di lasciarla entro tre giorni, se non volevano rendersi colpevoli di alto tradimento[195].
Il re di Francia aveva appena ricevuta questa denuncia d'una imminente guerra, quando seppe che il cardinale di Valenza era fuggito da Velletri travestito, e tornato a Roma; che il papa ricusava di consegnare Spoleti ai suoi luogotenenti, secondo aveva promesso, e che finalmente lo sventurato Gem sembrava affetto da un veleno che gli rodeva i visceri. Ma Carlo non si lasciò trattenere da queste prove della cattiva fede di Alessandro VI. La flotta incaricata da Alfonso della difesa delle coste della Campania e dell'occupazione di Nettuno era stata travagliata dalla tempesta, e costretta a rientrare nel porto di Napoli. Nè più fortunata era stata la flotta francese, la quale, dopo essere stata gettata dallo stesso vento sulle coste della Corsica, veniva trattenuta a Porto Ercole, dove quasi tutti i suoi soldati l'avevano abbandonata[196]. Dopo averli riuniti alla sua armata, Carlo attaccò Monte Fortino, castello della campagna di Roma, che apparteneva a Giacomo de' Conti, barone romano. Questi, dopo essere stato alcun tempo ai servigj di Carlo, era passato nel campo degli Arragonesi, per non servire sotto le stesse insegne coi Colonna. In breve l'artiglieria francese aprì una breccia nelle mura di questa rocca che risguardavasi come fortissima. Fu presa, ed uccisi tutti gli abitanti. In appresso i Francesi attaccarono, ai confini del regno, monte san Giovanni, di ragione del marchese di Pescara, Alfonso d'Avalos. Questa fortezza aveva una guarnigione di tre cento uomini e di cinquecento contadini tutti ben armati; ella pure fu presa in poche ore, sotto gli occhi dello stesso re, il quale ordinò di uccidere tutti gli abitanti, senza lasciarsi piegare a compassione nelle otto ore che durò tale carnificina; e monte san Giovanni fu in appresso bruciato. Tanta ferocia, di cui l'Italia non aveva esempio, sparse a molta distanza il terrore del nome francese: i soldati, di già scoraggiati, e gli abitanti, che non amavano i loro principi, rinunciarono allora ad ogni pensiero di difendersi[197]. Ma il terrore del re di Napoli superava quello de' suoi soldati e de' suoi sudditi. Quell'Alfonso II, che nelle guerre d'Italia ed in quelle dei Turchi si era acquistata tanta riputazione di valore, che credevasi non meno accorto che coraggioso, non meno costante che prudente, più non trovò forze in sè medesimo quand'ebbe bisogno di resistere alle pubbliche doglianze, che durante la sua onnipotenza erano state compresse, ma che giunte adesso per la prima volta alle sue orecchie, risvegliarono i rimorsi della sua coscienza.
Vero è che Alfonso non aveva ancora regnato un anno, ma ben da più lungo tempo il regno di Napoli dipendeva dalla sua autorità. Dall'epoca in cui era giunto all'età virile, suo padre Ferdinando gli aveva ceduta un'importante parte dell'amministrazione, e moltissimo deferiva ai suoi consigli. Tutto ciò che si era veduto di più perfido nella politica del gabinetto di Napoli, di più crudele nelle sue vendette, di più vessatorio nel suo sistema delle finanze, era stato dal popolo costantemente attribuito ad Alfonso, piuttosto che a Ferdinando. Intollerabili esazioni impoverivano le città e le campagne; ogni genere d'industria andava soggetta a ruinosi monopolj; il re comperava l'olio, il frumento, il vino ad un determinato prezzo, che appena indennizzava l'agricoltore dalle sostenute spese, ed in appresso lo rivendeva, allorchè col mezzo di una artificiale carestia ne aveva fatto smisuratamente crescere il prezzo[198]. Verun suddito dello stato era sicuro del possedimento de' suoi beni, nè della sua individuale libertà. Il re con atti arbitrarj spogliava, imprigionava, faceva perire senza veruna forma di giudizio non meno i grandi signori, che gli uomini di bassa condizione. Alfonso erasi renduto ancora peggiore di suo padre colle sue vendette e colla sua politica crudeltà. Quand'era salito sul trono, aveva trovati nelle prigioni di Napoli molti signori catturati sotto il regno di Ferdinando. Filippo di Comines, che in questa particolare non va d'accordo cogli storici italiani, dichiara di essersi accertato colla testimonianza di un Affricano adoperato in tali esecuzioni, che tra i prigionieri vi si trovavano tuttavia il duca di Suessa ed il principe di Rossano, arrestati del 1464, contro la fede dei trattati, dopo la guerra, nella quale Giovanni d'Angiò aveva contesa a Ferdinando la successione al trono, e ventiquattro baroni, arrestati nel 1486, dopo la guerra d'Innocenzo VIII e de' signori malcontenti. Soggiugne che quando Alfonso fu sul trono, li fece trasportare ad Ischia e colà morire[199]. Pure veniva universalmente creduto che tutti questi prigionieri fossero periti gran tempo prima, ma in conseguenza de' consigli dati da Alfonso a suo padre.
Quest'odio popolare che i tiranni eccitano contro di loro, ma ch'essi per altro non conoscono, nè possono sospettare in mezzo alle adulatrici lodi de' loro cortigiani, non si manifesta che nell'istante in cui il trono è in pericolo. Da ogni banda nel regno di Napoli invocavansi i Francesi quali liberatori; si detestava la crudeltà e l'avarizia di Alfonso e di suo padre; si malediva il giogo arragonese; e le grida della plebe, renduta più ardita, risuonavano perfino sotto le finestre del palazzo, ove Alfonso temeva ad ogni istante di cadere vittima di un popolo furibondo[200].
Assicurasi che a questi esterni pericoli la turbata coscienza d'Alfonso v'aggiunse bentosto superstiziosi timori. Aveva opinione di essere incredulo, e di non osservare le pratiche della Chiesa[201]. Ma l'anima di un tiranno è sempre accessibile alla superstizione, perchè gli pare che il fatalismo abbia sempre molta parte ne' suoi destini, e quell'autorità suprema, che non trovò sulla terra, la cerca con inquietudine negli esseri sovrumani. Spargevasi voce che Giacomo, primo chirurgo della corte, era venuto a dire ad Alfonso, che l'ombra di Ferdinando gli era apparsa tre volte in diverse notti; che la prima volta gli aveva ordinato con dolcezza, la seconda e la terza colle minacce di andare a dire in suo nome ad Alfonso, che non sperasse di potere resistere al re di Francia, perchè era scritto ne' destini che la sua razza, tormentata da infiniti mali, verrebbe spogliata di così bel regno e bentosto spenta. Che n'erano causa le crudeltà da loro commesse, ed in particolare quelle commesse da Ferdinando dietro i consiglj d'Alfonso, ritornando da Pozzuolo, nella Chiesa di san Leonardo a Chiaja, presso Napoli. Dicevasi che l'ombra, o il chirurgo che la faceva parlare, non si era spiegata più chiaramente; ma supponevasi che in tal luogo avesse Alfonso persuaso suo padre a far morire i baroni che da tanto tempo teneva in prigione[202].
Questa dichiarazione, che facilmente non era che l'effetto dell'odio universale del popolo, accrebbe i terrori che agitavano Alfonso, ed i rimorsi della sua coscienza. Ne' suoi sogni talvolta credeva di vedere le ombre di tanti signori che aveva fatti barbaramente uccidere, ed ora figuravasi essere egli stesso tra le mani del popolo che lo dannava a spaventosi supplicj. Egli non poteva trovare riposo, nè di giorno, nè di notte. Il 23 di gennajo ritirossi in castel dell'Uovo con un ristretto numero di servitori. Questa fuga fu cagione in città di dolore e di estremo spavento: all'indomani il popolo in armi adunossi da tutte le bande, ma piuttosto per effetto di una vaga inquietudine che per un determinato scopo; perciò Ferdinando, duca di Calabria, che, dopo avere ricondotta la sua armata ai confini, era tornato a Napoli, riuscì a sedare il tumulto, scorrendo la città a cavallo, ed invocando l'ajuto delle corporazioni della nobiltà, che in numero di sei, sotto il nome di seggi o sedili, esercitavano l'autorità municipale[203].
Dicesi che il cardinale Ascanio Sforza avesse fatto dare ad Alfonso il consiglio di rinunciare la corona in favore di suo figlio, rappresentandogli che questi era figlio di una sorella del duca di Milano, e che i fratelli Sforza, che odiavano il loro cognato, erano non pertanto apparecchiati a proteggere il loro nipote[204]. Il terrore fece adottare ad Alfonso questo consiglio; il 23 di gennajo sottoscrisse l'atto di rinuncia tal quale venne steso da Gioviano Pontano[205]; e ricusò alla regina, sua suocera, di protrarre due soli giorni quest'atto di debolezza, onde compiere l'anno del suo regno. Fece precipitosamente imbarcare sopra quattro galere tutti i suoi più preziosi effetti: allora il suo tesoro, parte in danaro, e parte in gioje, ammontava a 300,000 ducati, coi quali avrebbe potuto assoldare un sufficiente corpo di truppe per difendersi. Ma non volle lasciare questa somma a suo figliuolo, e mentre che la faceva portare a bordo, mostrava tanto terrore, come se di già fosse in mezzo ai Francesi. Ogni piccolo rumore che udiva lo atterriva, come se il cielo e gli uomini fossero ugualmente contro di lui congiurati. Pure i venti meridionali ritardavano la partenza della sua flotta, e soltanto il giorno 3 di febbrajo potè spiegare le vele alla volta di Mazari, piccola città della Sicilia, di cui Ferdinando di Spagna aveva a lui ceduta la signoria[206]; colà, non volendo altra compagnia che quella de' monaci olivetani, passò il restante de' suoi giorni in opere di penitenza, in digiuni, in astinenze e nel fare elemosine. Una dolorosa malattia venne ad accrescere i suoi tormenti, e lo tolse al mondo il 9 di novembre dello stesso anno, prima che avesse potuto effettuare il progetto che aveva formato di farsi monaco, e di entrare in un convento in Valenza di Spagna[207].
Ferdinando, preceduto dallo stendardo reale, circondato da tutta la sua nobiltà, e seguito dal popolo, fece il giro della città di Napoli il 24 di gennajo, per prendere possesso del regno; indi si recò alla cattedrale, ove fece la sua preghiera ad alta voce, stando inginocchiato, e col capo scoperto, dopo di che ripartì alla volta dell'armata[208]. Questo giovane principe non aveva l'odio che il popolo portava all'avo ed al padre. Non si erano in lui osservate che amabili qualità, umanità, lealtà e coraggio. Forse se fosse più presto salito sul trono sarebbe stato con entusiasmo difeso da tutto il popolo, ma in allora era troppo tardi. In ogni provincia i gentiluomini o i cittadini più riputati eransi di già compromessi in faccia alla casa d'Arragona, alzando lo stendardo della Francia; ed Alfonso, seco trasportando il suo tesoro, non aveva lasciato al figliuolo i mezzi di difesa di cui avrebbe potuto valersi egli medesimo.
Frattanto Ferdinando era venuto ad accamparsi a San Germano, distante quindici miglia dai confini del regno, posto tra aspre ed impraticabili montagne e tra paludi, che si stendono fino al Garigliano. Questo passo, facile a difendersi, veniva risguardato come una delle chiavi del regno di Napoli. Ferdinando aveva avuto il tempo di fortificarlo diligentemente, di alzare terrapieni sull'ingresso della strada e di chiudere tutti i sentieri delle montagne con tagliate d'alberi. Aveva sotto i suoi ordini due mila sei cento uomini d'armi e cinquecento cavalleggeri, che non sembravano per alcun rispetto inferiori alla cavalleria francese; ma la sua fanteria, di fresco arrolata nel regno, non era avvezza alle armi e non poteva in aperta campagna sostenersi contro gli Svizzeri o contro i Guasconi. I Francesi, che avevano avuto notizia dell'abdicazione di Alfonso lo stesso giorno in cui Carlo VIII usciva di Roma[209], credevano d'incontrare a san Germano una vigorosa resistenza. La stagione, che fin allora era stata loro favorevole in un modo che pareva prodigioso, poteva mutarsi da un istante all'altro; e se fossero stati presi dalle piogge o dalle nevi dell'inverno, avrebbero potuto assai difficilmente tirare da lontane parti i viveri ed i foraggi, perchè Ferdinando aveva preventivamente distrutto tuttociò che trovavasi lungo la strada[210].
Ma tutti i calcoli militari non tengono, quando le truppe hanno perduto la confidenza ed il coraggio. Le carnificine di Monte Fortino e di Monte san Giovanni avevano sparso un indicibile terrore nei soldati e ne' contadini; e veruna truppa era disposta a sostenere una guerra in cui non davasi quartiere. Le sedizioni nelle province, di cui si avevano frequenti notizie al campo, facevano temere ai soldati di trovarsi tagliati fuori da una sollevazione; gli avanzamenti di Fabrizio Colonna negli Abbruzzi potevano dargli il modo di circondare l'armata, e di scenderle alle spalle nella Campania[211]. Per ultimo i capitani ai servigj di Ferdinando, risguardando questa lotta come troppo disuguale, pensavano di già a fare la loro pace particolare e schivavano di venire alle mani per timore di eccitare il risentimento di Carlo, o di perdere ai di lui occhi la propria importanza, quando in qualche fatto d'armi la loro compagnia fosse diminuita sensibilmente. Quindi per quanti sforzi avesse fatti Ferdinando per tornare il coraggio ai suoi soldati, per quanta cura avesse posta nel far afforzare san Germano ed il Passo di Cancello, distante sei miglia, quando i Napolitani videro comparire la vanguardia francese, condotta in questo giorno dal duca di Guisa, e da Giovanni, signore di Riena, maresciallo di Bretagna, ritiraronsi disordinatamente fino a Capoa[212].
Non pertanto potevasi tener fermo a Capoa, ed impedire al nemico di avanzarsi verso Napoli. Le varie strade ch'entrano nel regno si riuniscono sotto questa città, la quale è coperta dal Vulturno, fiume assai profondo ed incassato tra alte rive, e che l'armata non avrebbe potuto passare, perchè i Napolitani avevano ritirate dalla loro banda tutte le barche, e facilmente poteva difendersi il solo suo ponte di sasso, che trovavasi tra Capoa ed il sobborgo. Ma mentre che Ferdinando pensava ad afforzarvisi, ebbe da Napoli un messo di suo zio Federico, che gli dava parte di un ammutinamento del basso popolo: annunziavagli che già erano stati svaligiati tutti i banchi de' Giudei da coloro che li accusavano di usura, ch'erano disprezzati gli editti de' magistrati, sconosciuta l'autorità reale, che la guardia urbana si nascondeva, e che la più bassa plebe era la sola che dominava in città[213]. Sebbene Ferdinando sentisse quanto fosse pericolosa cosa l'abbandonare l'armata, giudicò ancora più dannoso consiglio il lasciare che prendesse maggiore estensione la rivoluzione della capitale. Supplicò i capitani, cui affidò il comando delle sue truppe, di continuare gli apparecchi di difesa ch'egli aveva cominciati, ma non di venire a battaglia, finchè non tornasse; e promettendo che sarebbe di ritorno all'indomani dopo avere acquietato il tumulto di Napoli, s'avviò verso la capitale con piccola scorta. La presenza di questo giovane re, così leale, così intrepido, così buono, di questo re, che aveva dato principio alla sua amministrazione col porre in libertà tutti i prigionieri di stato, tenuti in carcere da suo padre[214], produsse sui sediziosi un magico effetto. Il popolo adunato ascoltò in silenzio il suo discorso; Ferdinando promise di sagrificarsi a Capoa per la difesa de' suoi sudditi; ma soggiunse altresì, che, se non gli riusciva di trattenere al di là del Vulturno il barbaro nemico che lo minacciava, non esporrebbe la sua capitale al pericolo di essere presa d'assalto e saccheggiata. Fu risposto a Ferdinando con proteste di attaccamento e di ubbidienza: parve che tutto rientrasse nell'ordine, ed il giovane principe si affrettò di ripartire alla volta del suo campo[215].
Ma durante la sua breve lontananza, i condottieri, abbandonati a sè medesimi, avevano di già cominciato a trattare col nemico. Giovan Giacomo Trivulzio, che fino a quest'epoca non erasi scostato dalle leggi dell'onore, che vi si attenne poi sempre fedelmente nel rimanente della sua carriera militare, avendo avuto ordine da Ferdinando d'intavolare qualche negoziazione coi Francesi, si portò a Calvi, dov'era di già arrivato Carlo VIII, e non avendo trovato veruna apertura per trattare a nome del suo padrone, non ebbe difficoltà di firmare per sè un particolare trattato. Si obbligò al servigio del re di Francia colla stessa compagnia di cavalleria con cui fin allora aveva servito il re arragonese, e per lo stesso soldo[216].
Tosto che giunse a Capoa la notizia di questa vergognosa diserzione, vi sparse egualmente la costernazione ne' soldati e negli abitanti. Virginio Orsini ed il conte di Pitigliano, vedendosi traditi dal Trivulzio, fuggirono in disordine verso Nola con tutta la loro cavalleria, lasciando Napoli scoperto. Gli abitanti di Capoa, sebbene fino allora si fossero mostrati attaccati alla casa d'Arragona, abbandonarono il suo partito, vedendosi esposti pei primi al furore di una barbara armata, e mentre che la nobiltà spediva deputazioni al re di Francia, il popolaccio cominciava a saccheggiare gli equipaggi dell'armata e quelli di Ferdinando. Mentre ciò accadeva, alcuni foraggieri francesi si avanzarono fino presso alle porte di Capoa. Due capitani tedeschi, Gasparo e Godefroy, che con alcuni loro compatriotti si trovavano al soldo di Ferdinando, stavano allora di guardia alla porta, ed uscirono colla loro gente per rispingere al di là del ponte i saccomanni francesi. Ma non furono appena fuori delle mura, che gli abitanti di Capoa chiusero le porte alle loro spalle ed innalzarono le insegne della Francia. I Tedeschi di ritorno alla città furono forzati a pregare inginocchiati di essere ricevuti dentro, onde non venire esposti, nell'istante in cui avevano messo a pericolo le loro vite per difendere i Capoani, ad essere tutti uccisi dal nemico che avevano provocato. Dopo molte istanze, loro si permise di attraversare la città, ma disarmati, e soltanto a dieci per volta, facendoli subito uscire per l'opposta porta. Questi Tedeschi non avevano ancora fatte due miglia sulla strada d'Aversa a Napoli, quando scontrarono Ferdinando, che tornava sollecitamente al campo. Sebbene rattristato dalle notizie che riceveva da loro, il giovane principe continuò il suo viaggio alla volta di Capoa che trovò chiusa. Pregò da prima di essere ricevuto in città, poi che i magistrati acconsentissero almeno di venire ad abboccarsi con lui; ma non avendo risposta, nè vedendo comparire coloro che sapeva essergli affezionati, mentre che la bandiera francese volteggiava di già sulle mura, riprese tristamente la strada di Napoli[217].
La nuova della diserzione del Trivulzio, e della sollevazione di Capoa erasi, prima ch'egli vi giugnesse, sparsa nella capitale. Aversa aveva di già spediti deputati a Carlo, la plebaglia napolitana aveva di nuovo prese le armi, aveva chiuse le porte della città, al tutto risoluta di non ricevervi l'armata fuggiasca; onde Ferdinando fu costretto di fare un giro e di passare per Coronata, per entrare nel castello della città cogli avanzi della sua armata. Il popolaccio, che scorreva le strade in tumulto, andò bentosto a saccheggiare sotto i suoi occhi medesimi le scuderie reali. Ferdinando non sostenne tanta indegnità; sortì quasi solo del castello e si gettò tra la gente per trattenerla. La maestà reale, il rispetto, che ancora ispirava il suo carattere, la contenne un'altra volta; gli uni gittarono le armi e caddero ai suoi piedi chiedendo perdono, altri fuggirono abbandonando il loro bottino, e Ferdinando, avendo allontanati i sediziosi dal luogo di sua dimora, rientrò nel castello. Aveva colà ragunati circa cinquecento soldati tedeschi, che fin allora gli si erano mantenuti fedeli, ed aveva posto alla loro testa Alfonso d'Avalos, marchese di Pescaria: ma bentosto ebbe qualche motivo di sospettare che questi medesimi Tedeschi pensassero a farlo prigioniere per consegnarlo ai Francesi: immediatamente abbandonò loro una parte delle ricchezze che si trovavano nel castello, e mentre stavano dividendole fra di loro, fece bruciare quei vascelli che non poteva condur seco, fece dare la libertà a quanti prigionieri di stato si trovavano tuttavia nelle prigioni, ad eccezione del figlio del principe di Rossano e del conte di Popoli, che condusse seco, e poi il 21 di febbrajo andò a bordo delle galere che teneva apparecchiate con suo zio, don Federico, colla regina madre, vedova di suo avo, e colla principessa Giovanna, sorella di suo padre. Erano rimasti sotto i suoi ordini circa venti vascelli[218].
Un nuovo tradimento aspettava Ferdinando ad Ischia, ove diede fondo. Giusto della Candina, Catalano, comandante del forte di quell'isola, non volle ricevere il re fuggiasco. Ferdinando fece calde istanze per essere ricevuto almeno con un solo compagno presso il governatore. Ma trovossi appena a lui vicino che traendo fuori il suo pugnale, rimproverò acremente a Giusto la sua ingratitudine; lo afferrò in mezzo alle sue guardie, ed inspirò tanto terrore e tanto rispetto ai soldati, che potè far aprire le porte alla sua guardia che lo stava aspettando al di fuori, e rendersi padrone dell'isola e della fortezza[219].
Intanto la dedizione di Capoa e subito dopo l'evacuazione di Napoli avevano scoraggiati tutti i partigiani che ancora conservava la casa d'Arragona. Virginio Orsini ed il conte di Pitigliano, che si erano ritirati a Nola con circa quattro cento cavalli, fecero domandare a Carlo un salvacondotto; di già era loro stato promesso, quando vennero attaccati da dugento cavalli della compagnia di Lignì. Essi si arresero senza fare resistenza e lasciaronsi condurre prigionieri alla fortezza di Mandragone, mentre che venivano svaligiati tutti i loro equipaggi[220].
I deputati di Napoli eransi presentati a Carlo fino in Aversa e gli avevano offerte le chiavi della città. Erano stati accolti con tripudio; il re si era dato premura di confermare i privilegi di questa sua nuova capitale, e di accordarne degli altri, ed aveva convenuto che farebbe il suo ingresso all'indomani, domenica 22 di febbrajo[221]. Fu splendido e magnifico quanto avrebbe potuto essere quello d'un vecchio monarca, o di un liberatore, che tornasse dopo una lunga assenza in uno stato in cui fosse teneramente amato. Tutte le fazioni, non escluse quelle, che erano più affezionate alla casa di Arragona, e che da lei ricevuti avevano tanti beneficj, parevano confondersi in una sola per celebrare con tripudio un avvenimento che avrebbe dovuto sembrare così umiliante alla fierezza italiana. Era un re straniero, accompagnato da truppe straniere, che veniva a scacciare dal seno de' suoi compatriotti un re italiano e tutta la sua famiglia, e che saliva sul di lui trono per diritto di conquista. Ma non altro volevasi in lui riconoscere che il rappresentante della casa d'Angiò, il legittimo successore dei principi che avevano renduto illustre questo regno. E perchè castel Nuovo e castel dell'Uovo erano tuttavia occupati dai soldati di Ferdinando, Carlo, dopo essere stato al rendimento di grazie nella cattedrale, andò ad alloggiare nel castello di Capuana, antica residenza dei re francesi[222].
Carlo VIII non pensava di lasciare lungo tempo in mano de' nemici i castelli della sua capitale. All'indomani del suo arrivo fece innalzare le batterie contro castel Nuovo su la piazza che gli sta di fronte e nel giardino reale posto dall'altro lato. Sebbene gli assediati non mancassero di artiglierie, non sapevano, come i Francesi, adoperarle egualmente di giorno e di notte. Altronde le palle, cadendo in un circondario murato, facevano balzare da ogni banda scheggie di sassi e di muraglie, e cagionavano maggior danno che in aperta campagna. Non erano state ancora inventate le bombe, nè verun projettile incendiario; ma una palla, facendo scintillare una pietra, produsse l'effetto di una granata nel magazzino della polvere. Una terribile esplosione uccise e ferì moltissimi soldati; il magazzino della pece e della resina, destinate ad essere gettate infiammate sugli assalitori, prese subito fuoco e riempì di fiamme e di fumo tutta la parte del castello che non era stata ruinata dall'esplosione. I feriti e coloro che fuggivano mezzo abbrustoliti a traverso alle fiamme, non trovavano dove salvarsi, nè chi li soccorresse o medicasse, e le lamentevoli loro grida agghiacciavano di terrore gli altri soldati. Lo stesso capitano tedesco, Gasparo, che tanto si era distinto colla sua costanza a Capoa, credendo omai la causa di Ferdinando affatto disperata, confortò i suoi compatriotti a dividere tra di loro ciò che ancora rimaneva dei tesori de' monarchi arragonesi, affidati alla loro custodia, per poi ritirarsi. Infatti capitolarono dopo questa vergognosa divisione, ed il 6 di marzo aprirono la porta di castel Nuovo ai Francesi, mentre che Alfonso d'Avalos fuggiva sopra una galera leggiera, ch'era rimasta ancorata nel porto[223].
Castel dell'Uovo, seconda fortezza di Napoli, era fidata ad Antonio Piccioli, capitano affezionatissimo alla casa d'Arragona: è questo castello fabbricato in mare sopra uno scoglio isolato e separato dal continente per opera degli uomini, ma signoreggiato da un altro elevato scoglio, che oggi porta il nome di Forte sant'Elmo, e sul quale gli Arragonesi avevano fabbricato un semplice ridotto, chiamato Pizzifalcone. I Francesi occuparono facilmente questo posto, vi portarono dell'artiglieria, e di là fulminando castel dell'Uovo, lo costrinsero a capitolare il 15 di marzo[224].
Don Cesare d'Arragona, fratello naturale del re, che aveva difesi gli Abruzzi con Bartolommeo d'Alviano e con Andrea Matteo d'Acquaviva, erasi ritirato verso il contado di Molise con circa cinquecento uomini d'arme e tre mila fanti. Proponevasi di attraversare la Puglia per far alto a Brindisi, ad Otranto, o a Taranto, ed aspettare colà i soccorsi di Ferdinando il Cattolico, quelli de' Turchi, e quelli degli stati dell'alta Italia, di cui era di già noto il malcontento verso i Francesi. Ma Fabrizio Colonna, che teneva dietro a questa piccola armata, non la lasciava un giorno in riposo; ovunque il paese le si ribellava; tutte le gole, tutti i passaggi de' fiumi erano custoditi da contadini che avevano di già spiegate le bandiere di Francia. Don Cesare, cui la diserzione toglieva ogni ora parte della sua truppa, giunse a Brindisi soltanto con un pugno d'uomini d'arme, e conservò questa fortezza al fratello. Tutto il rimanente della compagnia si disperse, ed in tutte le province che stanno sull'Adriatico più non trovossi in breve neppure un sol piccolo corpo d'armata che difendesse il partito d'Arragona[225].
Il terrore che precedeva le armate francesi, e faceva egli solo le conquiste, si estese ancora sull'altra riva dell'Adriatico. I Turchi dell'Epiro e della Macedonia, vedendo volteggiare le insegne francesi su tutte le città napolitane, furono da tanto terrore compresi che abbandonarono quasi tutte le città delle coste, ov'erano di guarnigione. Per lo contrario i Greci si affrettarono d'acquistar armi, cavalli e viveri, apparecchiandosi con imprudente pubblicità alla carnificina dei loro oppressori, che doveva cominciare, dicevano essi, tostocchè il primo battaglione francese scenderebbe sulle loro spiagge. Queste inconsiderate dimostrazioni portarono bentosto sopra di loro la ruina e la distruzione[226]. Un arcivescovo di Durazzo, nato albanese, era stato incaricato da Carlo VIII delle sue negoziazioni nella Grecia: era costui assecondato da Costantino Arianite, zio di Maria, marchesana di Monferrato, presso la quale erasi rifugiato, pretendendo di essere l'erede del regno di Tessalonica e di Servia[227]. Eransi ambidue uniti in Venezia con Filippo di Comines, ed avevano estese le loro corrispondenze su tutte le coste dell'Albania. Ma l'arcivescovo di Durazzo, uomo leggiero e vanaglorioso, invece di celare queste pratiche, vi poneva tanta ostentazione, che i Veneziani, di già aombrati dei prosperi avvenimenti de' Francesi, lo fecero arrestare nell'istante in cui voleva partire sopra una nave carica di armi alla volta dell'Epiro. Spedirono tutte le sue carte a Bajazette, ed alcune migliaja di Cristiani greci furono vittima dell'imprudenza francese e della perfida politica di Venezia[228].
Pure bastava osservare da vicino l'armata francese per non aver fiducia nella continuazione de' suoi progressi, o del suo dominio in Italia. Papa Alessandro VI diceva che aveva conquistato il regno di Napoli colla creta e cogli speroni di legno, perchè, non trovando in verun luogo resistenza, era sempre preceduta da' suoi forieri, che segnavano gli alloggi nelle città in cui doveva arrivare per prendere i suoi quartieri; e perchè gli uomini d'armi, per non istancarsi portando le loro pesanti armature che tenevano in serbo pel giorno della battaglia, si avanzavano a cavallo in veste da camera, colle pantoffole, a cui adattavano una punta di legno, che loro serviva di sprone[229]. Ma questa armata, che ancora non aveva combattuto, aveva di sè concepita una così alta opinione, e tanto disprezzo per gli Italiani, che erano fuggiti innanzi alla sua vanguardia, che la sua insolenza dovea rendere in breve il suo giogo insoffribile.
Perron de' Baschi e d'Aubignì furono mandati in Calabria senza soldati, per prendere possesso della provincia, e non già per conquistarla; infatti tutte le città loro aprirono la porte, ad eccezione di Tropea e d'Amantea sul golfo di sant'Eufemia: anche queste avevano spiegate le insegne francesi, ma, sentendo ch'erano state date in feudo ad un barone francese, siccome volevano essere direttamente dipendenti dalla corona, rialzarono le bandiere d'Arragona[230]. Reggio, la cittadella di Scilla, quelle di Bari e di Gallipoli in ferra d'Otranto, si mantennero pure fedeli a Ferdinando[231]. Altrove tutte le province erano sottomesse, e tutti i principali signori del regno si affrettarono di recarsi a Napoli, per fare la loro corte al monarca francese. Soltanto il marchese di Pescara, il conte d'Acri ed il marchese di Squillace eransi rifugiati in Sicilia, mentre che vedevasi presso di Carlo VIII il principe di Salerno, ch'era giunto colla flotta francese, il principe di Bisignano, suo fratello, ed i suoi figliuoli, il duca di Melfi, il duca di Gravina, il vecchio duca di Sora, i fratelli ed i nipoti del marchese di Pescara, il conte di Montorio, i conti di Fondi, di Celano, di Troja, quello di Popoli, che fu trovato nelle prigioni di Napoli, il Marchese di Venafro, tutti i Caldoreschi ed i conti di Matalona e di Merillano[232]. Ma mentre che tutti si davano premura di testificare il loro attaccamento ed ubbidienza, i Francesi mostravano di non trovarne veruno degno di riguardo e di stima. Carlo VIII privò la maggior parte di loro de' feudi o degli ufficj che tenevano dalla corona per darli ai Francesi. Non fuvvi forse un solo gentiluomo, cui il re non togliesse qualche cosa, e non gettasse in tal modo nel partito de' malcontenti. Gli antichi partigiani della casa d'Angiò avevano sperato col trionfo della loro fazione d'essere ristabiliti nel possedimento de' beni altre volte confiscati a danno loro; ma un tale sconvolgimento di tutte le fortune, dopo sessant'anni di possesso, sarebbe stato senza dubbio altrettanto impolitico che ingiusto; avrebbe rinnovato il male del primo spoglio invece di ripararlo. Frattanto non potevasi, senza infiniti riguardi, distruggere le speranze del solo partito su cui potesse nel regno contare la casa di Francia: in difetto di riconoscenza, la prudenza avrebbe dovuto consigliare il re di cercare con ogni mezzo compensi alle perdite delle famiglie che avevano sofferto per cagion sua, e di reprimere ogni inclinazione a gratuiti doni, finchè non era soddisfatto un debito così sacro; quindi il partito d'Angiò accolse con indignazione l'editto che manteneva i nuovi acquirenti nel possesso de' beni confiscati, e che loro prometteva mano forte per ristabilirveli, qualora ne fossero stati scacciati colla forza, perchè si seppe che il presidente di Gannay ed il siniscalco di Belcarico erano stati guadagnati col danaro per proclamare questo editto[233].
Sembrava che il re non avesse tentata l'impresa di Napoli che per darsi in preda ai piaceri in questa sua nuova capitale, celebrarvi feste e tornei, ed associare la galanteria francese al lusso ed alla dilicatezza de' Napolitani. I suoi cortigiani, renduti orgogliosi da questa guerra senza battaglie, si davano perdutamente in preda a tutti i piaceri. Gli stessi semplici soldati, svizzeri, francesi e tedeschi erano snervati dalla mollezza che suole ispirare un delizioso clima. L'abbondanza ed il tenue prezzo de' più squisiti vini, la varietà de' frutti e de' prodotti di quel fertile suolo gli avvezzavano a piaceri ancora ignoti. Più non aravi chi pensasse alla spedizione della Grecia, veruno voleva più esporsi a nuove fatiche, a nuovi rischi; e questo progetto, annunciato alla Cristianità per santificare la guerra d'Italia, omai più non sembrava che un vano pretesto, col quale si era cercato d'ingannare tutti i principi d'Europa[234].
Nè Carlo prendevasi maggior pensiere degli apparecchi di difesa, e de' mezzi di mantenersi, che di portare più in là i suoi attacchi. Vero è che due volte si era abboccato con don Federico d'Arragona, che si era recato presso di lui sotto la fede di un salvacondotto. Carlo, per ridurre Ferdinando II a rinunciare alle sue pretese sulla corona di Napoli, gli offriva in compenso un ducato nell'interno della Francia, ma Ferdinando voleva conservare il titolo di re ed il governo di Napoli, offrendo soltanto di rendere la propria corona tributaria di quella di Francia, e di dare alcune piazze in mano a' Francesi. Le negoziazioni si ruppero, ma non perciò Carlo fece verun tentativo per isloggiare il suo rivale da Ischia[235]. Non mantenne approvvigionate le fortezze che aveva occupate; abbandonò inconsideratamente tutte le vittovaglie ragunate nel castello di Napoli a coloro che gliele avevano chieste in dono. Nominò de' Francesi per governatori di tutte le città e fortezze del regno; e questi, colla medesima leggerezza, non pensando che ad accumulare danaro per mezzo della carica che avevano ottenuta, invece di accrescere le loro forze, e di porsi in istato di difesa, vendettero al migliore offerente gli approvvigionamenti e le armi che trovarono nelle fortezze. Fu appunto in mezzo a tale profonda sicurezza, alle feste ed ai dissipamenti, che il re e l'armata francese furono improvvisamente risvegliati dalla notizia della burrasca che si andava condensando contro di loro nella parte settentrionale d'Italia, e che videro succedere ad una quasi miracolosa prosperità il non men rapido torrente dell'avversità[236].
CAPITOLO XCV.
Risoluzioni cagionate in Toscana dal passaggio di Carlo VIII. — Sforzi dei Fiorentini per riconstituire la loro repubblica, sottomettere Pisa e sottrarsi all'odio de' Sienesi, de' Lucchesi, de' Genovesi. — Inquietudini de' Veneziani pei successi di Carlo VIII; lega dell'Italia per conservarne l'indipendenza.
1494 = 1495. Carlo VIII erasi trattenuto poco più di un mese in Toscana, dal suo ingresso in Sarzana fino all'uscita dallo stato di Siena; ma in così breve spazio di tempo aveva interamente sovvertiti gli ordini tutti di quella provincia. Da oltre un secolo i Fiorentini vi avevano acquistata una tale preponderanza, che soli conservavano una decisa influenza sulla politica del resto dell'Italia e su quella dell'Europa. Le varie città del loro territorio erano così pienamente soggette, che più non parlavasi delle antiche loro fazioni, e che se qualche abuso di autorità, o le pratiche di qualche ambizioso vi facevano nascere una sollevazione era quasi subito compressa. Soltanto Siena e Lucca conservavano la loro indipendenza, ma non potendo lottare con uno stato così potente come quello di Firenze, cercavano di farsi dimenticare, non prendendo parte nella politica generale d'Italia, e, malgrado la segreta loro gelosia, mantenendosi sempre in pace coi Fiorentini. Tutt'ad un tratto l'armata francese, che attraversava la Toscana, rende a Pisa quella libertà che aveva perduta già da ottantasette anni, rovescia il governo stabilito in Firenze da circa sessant'anni, diffonde in tutto lo stato fiorentino semi d'insubordinazione e progetti d'indipendenza cui tenne dietro bentosto la ribellione di Montepulciano, dà incoraggiamento ai Genovesi per ricuperare colle armi Sarzana e Pietra Santa che avevano perdute in una precedente guerra, ridona ai Lucchesi ed ai Sienesi l'audacia da più anni deposta di provocare il risentimento de' Fiorentini e di allearsi coi loro nemici, per ultimo distrugge con questa universale opposizione d'interessi e di passioni le forze di una delle più potenti contrade d'Italia, di una contrada, che più d'ogni altra sarebbesi presa cura di difendere l'indipendenza nazionale, e che ne avrebbe trovata la forza, se non nello spirito bellicoso dei suoi abitanti, almeno nella ricchezza delle sue città e nella saviezza de' suoi governi.
Firenze aveva perduto la maggior parte delle sue abitudini repubblicane ne' sessant'anni ne' quali aveva ubbidito ad una famiglia che, per nascondere il suo despotismo, si circondava con una stretta oligarchia. Ricuperando la massa de' suoi diritti, questa repubblica ignorava quale ne fosse l'estensione. Quasi tutti gl'Italiani desideravano la libertà, ma questa libertà non era in verun modo definita, e niuno rendevasi conto dello scopo cui voleva giugnere. Alcuni notabili abusi nel governo di un solo ferivano tutti coloro che lo avevano sperimentato, e lo stesso nome di monarchia pareva che escludesse qualunque idea di libertà. Per opposizione chiamavasi repubblica il governo, in cui l'autorità di molti teneva luogo di quella di un solo, e risguardavasi come la meglio costituita repubblica quella che aveva cimentata la propria esistenza con maggiori mezzi, e che aveva lungo tempo potuto respingere il potere monarchico. Ma non si esaminava giammai se in tale o tale altra repubblica eravi più o meno libertà, se la medesima instituzione che ne guarentiva la durata non aveva poi distrutta del tutto la sicurezza del cittadino; e mai non si assoggettava il governo alla sola prova che possa far conoscere la sua bontà o i suoi difetti, non esaminando se rendeva felice il maggior numero possibile de' cittadini che gli erano subordinati, e se li rendeva in pari tempo più perfetti, sviluppandone le facoltà.
La provvidenza ha impresso nel cuore dell'uomo il desiderio della felicità, ed è questo il principio delle sue azioni; ma pare avergli nello stesso tempo indicato un più alto scopo, mercè le facoltà che gli diede, il piacere che ha attaccato allo sviluppo delle medesime, il costante desiderio di un più perfetto stato, che dà forza allo spirito dell'uomo. Per ogni condizione, per ogni grado di lumi avvi un corrispondente grado di felicità, che soddisfa coloro che non ne conoscono un più sublime. I popoli più abbrutiti risguardano come felicità il riposo, l'ubbriachezza e gli eccessi di gioja dipendenti da cagioni tutte fisiche. Ci si dice che lo schiavo negro è felice, perchè ne' brevi riposi che gli si accordano ne' giorni festivi, le grida di gioja animano le sue danze, e perchè si abbandona ai piaceri dell'ubbriachezza e dell'amore. Ma di mano in mano che si levano gli ostacoli che si oppongono allo svolgimento delle facoltà dell'uomo, la sua felicità viene formata da più nobili piaceri: il pensiero, il sentimento, la coscienza di sè medesimo contribuiscono principalmente ai suoi piaceri. La di lui anima diventa la parte più grande del suo essere; è l'anima che chiede di essere soddisfatta, che può essere tocca in mille modi, e che sdegnasi contro gli ostacoli onde si cerca di caricarla. In questo stato perfezionato, i patimenti sono forse più vivi, ma più nobili sono i piaceri, più conformi all'umana natura ed allo scopo della provvidenza; perciocchè non ci ha questa dato il desiderio e la forza di elevarci, affinchè cercassimo il piacere nell'abbrutimento; ma per lo contrario vuole che germoglino tutte le facoltà di cui pose in noi le sementi. Non si può rispondere all'inchiesta: se l'uomo pensante, l'uomo morale, l'uomo libero, sia più felice che l'uomo abbrutito, perchè non si può confrontare la felicità del bruto con quella di una celeste intelligenza. Ma ben si può rispondere, che l'uomo pensante, l'uomo morale, l'uomo libero si è uniformato alla propria natura, e che l'uomo, che ha perduta la riflessione, la libertà, e quella fierezza che sta nel sentimento dell'onore e del dovere, ha depravata la sua natura.
Un governo deve dunque essere riputato buono, non solo quando rende gli uomini felici, ma quando li rende felici come uomini; e deve riputarsi malvagio, quando loro non accorda che la felicità dei bruti. Il primo è tanto migliore in quanto rende proporzionatamente un maggiore numero di membri dello stato suscettibili della felicità morale; tanto più malvagio è il secondo, quanto ne riduce un più gran numero a non desiderare che i soli piaceri fisici.
Coloro che una volta assaporarono la libertà politica, sanno che il più sicuro mezzo di elevare l'anima, di farla uscire dallo stretto cerchio degl'interessi egoisti, di abituarla a più nobili pensieri, ad idee più generali, di convincerla della sua propria dignità, di farle desiderare le cognizioni, e preferire i piaceri che derivano dal pensiere o dal cuore, è quello d'innalzare l'uomo al grado di cittadino, di dargli un interesse nella cosa pubblica, ed una qualche parte nella sovranità. Sanno ancora che il più sicuro mezzo di abbassare l'anima è quello di tenerla costantemente sotto tutela, di nudrirla di vani timori, di privarla di ogni confidenza nel suo buon diritto, di ogni indipendenza nelle sue scelte, in fine di assoggettarla ad un'autorità arbitraria, che in tutte le circostanze della vita sostituisce alla volontà dell'individuo il comando del superiore. Così il grande scopo di un buon governo, dovendo essere quello di elevare gli uomini, vi riesce tanto più facilmente, quanto più grande è il numero de' cittadini che mette a parte dell'autorità suprema, e quanto meglio protegge il libero arbitrio di ogni suddito, la sua sicurezza ed i suoi diritti contro tutti gli abusi del potere.
Sotto il nome di libertà si confondono sempre una facoltà ed una guarenzia che non hanno strettissima relazione: la libertà politica degli stati consiste nella partecipazione del maggior numero possibile di cittadini alla sovranità: l'individuale libertà de' cittadini consiste nella garanzia di tutti que' loro diritti di cui non fu necessario lo spogliarli perchè il governo potesse mantenersi; questa adunque consiste nella loro sicurezza personale, nella conservazione della loro proprietà, nella imparzialità dei tribunali, nella certezza della giustizia, nell'impossibilità di arbitrarie vessazioni. Queste due libertà non erano definite nelle repubbliche dei secoli di mezzo, ed erano affatto disugualmente guarentite. Forse in verun paese la gran massa dei sudditi dello stato era più esclusa che a Venezia dal governo. Mentre due in tre mila gentiluomini formavano soli tutta la repubblica, contavansi nella sola Venezia cento cinquanta mila abitanti, e le province di terra ferma, in Italia, in Dalmazia e nella Grecia, contenevano alcuni milioni di sudditi. Tutti erano esclusi dalla più sospettosa gelosia dalla conoscenza di ciò che chiamavasi i segreti dello stato. Qualunque tentativo avessero fatto per essere partecipi del governo sarebbesi considerato come una cospirazione, e punito come un delitto. In verun altro stato, nè meno nel più dispotico, l'autorità del governo era così fondata sul terrore; in niun luogo i tribunali non si cuoprivano di un più profondo segreto e di più spaventose forme; in niun luogo non disponevano più arbitrariamente della libertà e della vita dei cittadini come de' sudditi, in niuna parte i colpi di stato, avvolti nello stesso tempo in più misteriosa oscurità, punivano con più terribili gastighi, coloro che avevano eccitati i sospetti di una gelosa oligarchia.
Non pertanto di que' tempi la repubblica di Venezia aveva già sussistito più di mille anni; appena era stata agitata da alcune guerre civili, e già da più secoli aveva compresse tutte le fazioni, prevenute le congiure prima che scoppiassero, e tutte evitate le rivoluzioni. Al di fuori la sua politica costantemente felice le aveva assoggettati nuovi stati, dilatato da tutte le bande il suo dominio intorno alle lagune, entro le quali stava originariamente chiusa, accresciute le ricchezze, il commercio, l'industria, e ridotti tutti i suoi vicini a rispettarla ed a temerla. Tutti i quali vantaggi non erano veramente dovuti a libertà, perciocchè questa non era a Venezia conosciuta, ma alla forma repubblicana del suo governo, alla prudenza del senato, superiore di lunga mano a quella di un principe, alla sua inalterabile costanza, alla sua parsimonia, che andava continuamente accumulando que' tesori che la prodigalità di una nascente corte avrebbe dissipati, per ultimo all'intero sagrificio per la cosa pubblica della classe meno numerosa ma ricca e provveduta di molte dottrine, cui apparteneva lo stato.
Ma la durata e la potenza sono le due prerogative che più colpiscono gli occhi degli uomini; e Venezia inspirava a tutta l'Italia l'ammirazione ed il rispetto che una repubblica non suole acquistare che per mezzo di una libera e giusta costituzione. Quando si trattò di ricostituire il governo di Firenze, quest'ammirazione per Venezia venne egualmente professata da tutti i partiti: fu l'esemplare che gli uomini di stato presero reciprocamente ad imitare, e sul quale cercarono tutti di giustificare il proprio sistema. In quella guisa che a' dì nostri si è veduto l'esempio dell'Inghilterra proposto a vicenda da tutti i partiti, ed in tutti i paesi che aspiravano ad essere liberi; così si vide a Firenze, dopo la caduta del governo de' Medici, tutti i politici cercare in Venezia un modello per la nuova repubblica. Paolo Antonio Soderini, universalmente riputato, desiderando di allargare la periferia dell'aristocrazia, e di rendere partecipi della sovranità un maggior numero di Fiorentini, propose per modello ai suoi concittadini Venezia; mostrò che il numero de' suoi gentiluomini pareggiava quello degli uomini ch'egli chiamava ad essere riconosciuti a Firenze in qualità di cittadini attivi; si dolse che inveterate abitudini, pregiudizj radicati nel popolo, non permettessero di rendere più perfetta la rassomiglianza delle due repubbliche, e finalmente protestò, che a' suoi occhi la più felice sorte di Firenze sarebbe quella di giugnere allo stesso grado di stabilità e di saviezza che i Veneziani avevano saputo dare al loro governo[237]. In appresso fu veduto Guido Antonio Vespucci, famoso legista, ed in particolar modo rinomato per la sua accortezza e per la forza del suo argomentare, proclamare i vantaggi dell'aristocrazia, inveire contro l'imprudenza e la versatilità del popolo, opporre la saggezza di un senato all'instabilità della moltitudine, e, ritorcendo l'esempio della repubblica di Venezia contro il suo avversario, far vedere che in questa repubblica, oggetto dell'universale ammirazione, non era altrimenti il corpo dei gentiluomini, ma un'oligarchia di pochissimi membri de' supremi consiglj, che effettivamente esercitava la sovranità[238]. Il padre Savonarola, mescolando la divina autorità agli affari dello stato, spalleggiandosi colle proprie rivelazioni, e col diritto che aveva G. Cristo di essere solo il re di Firenze, fu visto consultare non pertanto l'esempio de' Veneziani rispetto alla costituzione che dar voleva alla repubblica[239]. Per ultimo tutti gli speculativi politici dell'Italia, Guicciardini, Giovio, Varchi e particolarmente il Machiavelli, andavano d'accordo nel particolare della loro ammirazione per Venezia. Filippo di Comines, il più filosofo degli storici francesi di quel secolo, e che più d'ogni altro aveva meditata la costituzione de' governi, professava i medesimi sentimenti[240]. Il Machiavelli non ravvisava nella storia del mondo che tre repubbliche, le quali meritassero di essere studiate ed imitate, cioè Roma, Sparta e Venezia. Le ultime due gli sembravano appartenere alla stessa classe, e dalla lunga durata della loro costituzione conchiudeva che la sua forma era la migliore; ma non la riputava propria che allo stato stazionario, in quanto che una città sfugge il pericolo di essere attaccata, e che resiste alla tentazione delle conquiste. Perciò egli risguardava la costituzione della repubblica romana, siccome la più degna di essere imitata, e come più accomodata alle circostanze nelle quali suole strascinare la fatalità o la forza delle umane passioni, non come la migliore. Il difetto di quella di Venezia non era già ai di lui occhi quello di non conoscere la libertà, ma quello di essere esposta a corrompersi, allorchè le conquiste ingrandirebbero il territorio della repubblica[241].
Conoscevansi allora in Firenze tre partiti, tra i quali disaminavasi la nuova costituzione da darsi alla repubblica, ed ognuno cercava di guadagnare per sè solo il potere. Il primo ed il più considerabile, sia pel rango e per l'anzianità delle case che vi erano addette, sia pel numero de' più oscuri cittadini, che seguivano le loro insegne, sia per le disinteressate sue mire e per la moralità che professava, era sotto l'immediata influenza di frate Girolamo Savonarola. Era composto di cittadini che, proponendosi ad un solo tempo la riforma dello stato e della Chiesa, risguardavano la libertà e la religione come inseparabili, accusavano la tirannia dei Medici di avere corrotti i costumi e scossa la fede, e non isperavano il ristabilimento dell'antica purità che in quanto fosse guarentita dalla libertà. Costoro desideravano un governo popolare, cui fosse interessata la gran massa dei cittadini; ma perchè non separavano mai i loro voti per una più libera costituzione dalle esortazioni alla riforma ed alla penitenza, ebbero il soprannome di Frateschi e di Piagnoni. Francesco Valori e Paolo Antonio Soderini, erano, dopo il Savonarola, i più distinti capi di questo partito[242].
La fazione direttamente opposta a questa era principalmente formata da coloro, che, avendo avuto parte nel governo dei Medici, ed in appresso disgustatisi coi capi di quella famiglia, avrebbero voluto conservare per se medesimi l'autorità tolta ai Medici, e sottentrare nelle quasi monarchiche prerogative di Pietro, mercè di una stretta oligarchia. Erano costoro secondati dalla maggior parte della gioventù appartenente alle famiglie nobili, le quali non sapevano assoggettarsi alla riforma de' costumi ed alla monacale austerità ordinata dal Savonarola. Aveano sospetti di frode e d'ipocrisia coloro che andavano sempre intrattenendoli con ragionamenti di profezie, di miracoli, di digiuni, e non volevano accomodarsi ad una cotale libertà, che priverebbe la loro vita di ogni piacere. Avevano questi giovani patrizj formata una società, di cui era capo Dolfo Spini, uomo appartenente ad illustre e ricca famiglia, ma cui mancavano i talenti ed il carattere necessario ad un capo di partito. Sebbene fosse questa società principalmente dedita al piacere, non lasciava di guadagnare colla sua unione una ragguardevole influenza politica. Diede costei il suo nome al partito degli arrabbiati o de' compagnacci; mentre che i più saggi oligarchi, che prevalevansi di lei senza associarvisi, si attenevano principalmente ai consiglj di Guido Antonio Vespucci[243].
Per ultimo eravi nella repubblica un terzo partito, quello de' Medici, che trovandosi egualmente in lotta cogli altri due, non ardiva apertamente professare le sue mire. Si teneva in silenzio ne' consiglj, e sembrava non prendere parte alle deliberazioni; ma quando giugneva l'istante di votare, si rendeva manifesta l'influenza de' suoi suffragi.
Davasi ai membri di questo partito il nome di bigi, volendo quasi indicare l'oscurità in cui s'avvolgevano. L'oligarchia aveva voluto proscriverli, per istabilirsi più solidamente, mentre che il Savonarola predicava al suo partito il perdono e la riconciliazione; tanto bastò, perchè i bigi assecondassero i voti della fazione popolare, che anche senza di loro aveva di già il vantaggio del numero[244].
Carlo VIII era partito da Firenze il 26 di novembre, ed il 2 di dicembre la signoria adunò il popolo a parlamento sulla pubblica piazza. Quantunque il parlamento sanzionasse sempre tutte le rivoluzioni, non pertanto la sua convocazione era un omaggio che rendevasi alla sovranità del popolo, risguardandolo siccome il solo che potesse dispensare dalla costituzione, e stabilire un'autorità superiore alle leggi. Era questa l'autorità che la signoria ed il collegio volevano chiedere sotto il nome di Balìa, onde procedere alla ricostituzione della repubblica. Per altro siccome i priori volevano guadagnarsi i suffragi di quel popolo che mostravano di consultare, appostarono a tutti i capi strada della piazza alcuni giovani delle principali famiglie con alcuni fanti armati, onde impedire, secondo essi dicevano, che la piazza non si empisse di plebei, o di nemici del nuovo governo, quando il suono della campana chiamerebbe tutti i cittadini a ragunarsi disarmati per compagnia sotto i rispettivi gonfaloni[245]. Essendosi il popolo adunato senza tumulto, la signoria scese di palazzo sul balcone che dominava la piazza. Fece leggere le condizioni della balìa ch'essa chiedeva; poi invitò il popolo a dichiarare se trovavansi in piazza adunati i due terzi de' cittadini fiorentini: e fu risposto per acclamazione affermativamente; domandò ancora se il popolo voleva che la signoria ed il collegio fossero temporariamente rivestiti di tutta l'autorità della nazione fiorentina, e fu nuovamente risposto di sì per acclamazione: allora la signoria tornò in palazzo ed il popolo si ritirò[246].
I partiti non avevano per altro fatto bastante esperimento delle loro forze, ed in questa così subita rivoluzione appena si conosceva verso quale scopo tendesse ogni cittadino. Perciò incerte furono le prime operazioni della balìa, e non lasciarono travedere se il governo piegherebbe verso l'aristocrazia o verso la democrazia: limitossi a nominare venti commissarj, i quali, sotto il nome di accoppiatori, dovevano entro lo spazio di un anno, procedere essi soli alle elezioni della signoria, o, secondo il linguaggio adoperato in Firenze, tenere le borse. Uno solo degli accoppiatori poteva avere meno di quarant'anni, e quest'eccezione fu fatta a favore di Lorenzo, figlio di Pier Francesco de' Medici, che il partito oligarchico meditava di sollevare al posto che in addietro occupava suo cugino. In pari tempo la signoria rinnovò l'ufficio dittatoriale de' dieci della guerra, che costumavasi di nominare in tutte le difficili circostanze; soltanto per dar loro un nome di migliore augurio, furono questa volta chiamati i dieci della guerra e della pace[247].
Ma i venti accoppiatori, ai quali era stata imprudentemente dall'autorità essenzialmente popolare conferita la facoltà di tutte le elezioni della repubblica, trovaronsi fino nella prima adunanza così poco d'accordo nelle loro mire, ed in tante parti divisi, che riusciva difficilissima l'esecuzione dell'ufficio loro affidato. Non potendo tra di loro ottenere un'assoluta maggiorità per veruna elezione, e non avendo ancora trovato lo spediente di ballottare in un secondo scrutinio quelli che avevano nel primo riuniti più voti, furono costretti ad accontentarsi d'una maggiorità relativa; e con ciò si videro gonfalonieri e priori eletti soltanto da tre o quattro suffragj[248]. La mancanza di accordo e di unità fece bentosto loro perdere ogni considerazione nella repubblica; ed intanto il Savonarola nelle sue prediche, ed i capi del partito popolare ne' loro discorsi, attaccavano arditamente l'opera del parlamento e della balìa[249]: dicevano che ambedue altro fatto non avevano che mutare di posto la tirannide, invece di distruggerla. Chiedevano che il potere delle elezioni si restituisse al popolo, il quale è più atto a conoscere i soggetti degni di confidenza, che non a deliberare egli stesso; che tutti i cittadini, i di cui antenati avevano partecipato agli onori dello stato, venissero ammessi nel sovrano consiglio, e che questo consiglio dasse la sanzione a tutte le leggi, mentre che un altro assai meno numeroso consiglio, e da lui deputato, concorrerebbe colla signoria alla pubblica amministrazione. Savonarola invitò la signoria ed il popolo a recarsi alla sua chiesa, da cui questa volta escluse le femmine, ed in un eloquente sermone, fatto sul pulpito, ricapitolò queste proposizioni, conchiudendo con una calda preghiera di pubblicare un'amnistia per tutti i delitti, che si erano potuti commettere sotto il precedente governo fino alla rivoluzione[250].
Queste proposizioni non si accordavano colle segrete mire della balìa e degli accoppiatori: ed in ispecial modo l'amnistia veniva ricusata dal loro desiderio di vendetta, e dalla speranza di arricchirsi a spese di coloro che sarebbero proscritti. Però cominciavano a conoscere il potere della pubblica opinione, e vedevansi successivamente forzati a cedere su tutti i punti. Di tutti il più importante era la formazione del consiglio generale: il 23 di dicembre la signoria fece ai due consiglj dei cento e dei settanta la proposizione di formare un consiglio sovrano di tutti i cittadini di Firenze, e questa proposizione fu adottata. Tutti coloro i quali poterono provare che il loro padre, l'avo, o il bisavo, avevano partecipato ai diritti della cittadinanza, furono dichiarati membri del gran consiglio, e questo consiglio, che contò fino mille ottocento cittadini, doveva consultarsi intorno a tutte le imposte, ed a tutte le leggi, dopo che la signoria ne avrebbe fatta la proposizione ad un consiglio di ottanta membri, che venne scelto per intermediario tra il governo ed il popolo. Poco dopo si proclamò come legge dello stato l'amnistia proposta dal Savonarola[251], e dopo non molti mesi, il 1.º luglio del 1495, la facoltà di eleggere la signoria, che per lo spazio di un anno era stata delegata ai venti accoppiatori, venne tolta loro per esser data al consiglio generale. Fu questa la prima volta che in Firenze si sostituisse un'elezione veramente popolare ai due egualmente pericolosi metodi di un'estrazione a sorte, e di una scelta oligarchica[252].
Mentre i Fiorentini riformavano una repubblica corrotta da sessant'anni di abitudini monarchiche, i Pisani ricostituivano la loro dopo oltre ottant'anni d'intera oppressione. Il corso della prosperità non si era interrotto per rispetto ai primi, di modo che, camminando col loro secolo, avevano sempre più coltivato il loro spirito, e giammai la loro repubblica aveva posseduto un maggior numero di reputati scrittori. Per lo contrario i Pisani, ributtati da tutte le strade che potevano tenere per arricchirsi, o per ottenere il premio de' loro sforzi, avevano parimenti abbandonate le lettere ed il commercio, di modo che non è rimasto un solo storico del loro paese, e neppure un'informe cronaca per raccontare i lunghi e generosi sagrificj, coi quali ostinatamente difesero l'indipendenza ricuperata nel 1494. Soltanto appoggiati alla fede di storici esteri, ed il più delle volte loro nemici, ci è forza di riferire tutta questa serie di avvenimenti.
Per altro se in allora Pisa non aveva nè storici, nè legislatori, se poco discusse la costituzione che doveva darsi, e non conservò la memoria delle imprese colle quali seppe difenderla, non perciò fu questa città meno animata da un vero spirito repubblicano, da un caldo amore di patria, che tutti gli ordini dello stato sentivano a gara, da una generale risoluzione di tutto sagrificare, di sostenere le calamità estreme per conservare la ricuperata libertà. Con tal unione d'opinioni ogni governo par buono, perchè diventa sempre l'organo della pubblica volontà.
I Fiorentini non avevano la costumanza d'abolire le magistrature municipali delle città suddite. Avevano in Pisa lasciato che sussistesse una signoria composta d'anziani, il primo de' quali aveva il titolo di priore, cui in appresso, in sull'esempio de' Fiorentini, fu dato quello di gonfaloniere di giustizia. Questa signoria veniva rinnovata ogni due mesi, ed era coadjuvata da altri corpi detti il collegio, i sei buoni uomini ed il segreto consiglio de' dodici[253]. Scuotendo il giogo de' Fiorentini, pare che i Pisani istituissero ancora un consiglio del popolo, che tale era l'antica forma della loro costituzione, e non ebbero bisogno di veruna innovazione, perchè i loro affari fossero bene amministrati.
I Pisani avevano cominciato a scacciare tutti i gabellieri, e tutti i pubblici funzionarj fiorentini; avevano poscia ordinato con un editto a tutti i Fiorentini, domiciliati nella loro città, di uscirne prima che una candela accesa sotto la porta fosse del tutto consumata. Finalmente avevano mandata in tutti i villaggi anticamente dipendenti dalla loro repubblica la croce pisana, siccome insegna della loro libertà; ovunque questa risvegliò le stesse antiche ricordanze, ed eccitò lo stesso entusiasmo, e tutto il territorio pisano in pochi giorni tornò sotto il loro dominio. Intanto i Fiorentini, che da principio non avevano pensato che alle cose loro, ora travagliati dal timore del re di Francia, ora dal bisogno di riunire le loro fazioni, e che inoltre, credendosi sicuri della restituzione di Pisa in forza del loro trattato con Carlo VIII, non volevano affrettarsi di ricorrere all'esperimento delle armi, per timore di non offendere il re[254], videro all'ultimo la necessità d'opporsi colla forza alla ribellione delle loro province. Per tale oggetto presero al loro servigio Ercole Bentivoglio, Francesco Secco e Rannuccio di Marciano con molte compagnie d'uomini d'armi; nominarono Pietro Capponi commissario della repubblica presso quest'armata, e la spedirono nel territorio pisano in sul cominciare di gennajo del 1495. I Pisani non avevano ancora per difendersi che contadini male armati; onde il Capponi potè facilmente ricuperare Bientina e Pontedera, e prima che terminasse il gennajo aveva ripreso tutto il territorio di Pisa, tranne Vico Pisano, Cascina e Buti[255].
Dal canto suo la signoria di Pisa non aveva trascurato di procurarsi esterni soccorsi; ella cercava di legare Carlo VIII colla stessa riconoscenza ch'ella gli professava, attestandogli tanto amore e tanta gratitudine, che questo giovine monarca, combattuto dagl'incoraggiamenti che aveva dati ai Pisani e dagli obblighi contratti coi Fiorentini, nè sapeva come ritogliere ai primi la grazia loro accordata, nè come liberarsi dalla promessa fatta ai secondi. Altronde quasi tutti i signori della sua corte, commossi dalle lagrime de' Pisani, o dall'accoglimento loro fatto in Pisa, proteggevano con calore il partito di questo popolo oppresso[256]. Il siniscalco di Belcario, sia per gelosia del cardinale di san Malo, che era il solo che insistesse per l'esecuzione del trattato di Firenze, ossia che fosse stato comperato dal denaro de' Pisani, rappresentava al re convenirgli tenere la Toscana divisa, e che la guerra di Pisa non permetterebbe ai Fiorentini di prendere parte nelle pratiche dell'Italia settentrionale[257].
Quattro oratori, scelti nelle più illustri famiglie di Pisa, erano stati incaricati di seguire il re nell'istante in cui usciva di Toscana, e di difendere innanzi a lui gl'interessi della loro repubblica[258]. Il re volle che questi ambasciatori esponessero le loro lagnanze alla presenza di quelli de' Fiorentini, riservandosi così in alcun modo il diritto di sentenziare fra di loro. Infatti i Pisani fecero la pittura dell'oppressione sofferta, e, gittandosi inginocchio, supplicarono il re, versando copiose lagrime, di non ritirare la grazia loro accordata. Francesco Soderini, vescovo di Volterra ed ambasciatore de' Fiorentini, cercò dal canto suo di scolpare la sua repubblica: si appoggiò ai legittimi diritti trasmessile da Gabriele Maria Visconti con un contratto di vendita, e sostenne che i Pisani, governati come tutti gli altri popoli soggetti a Firenze, non potevano lagnarsi di quella sorte di cui gli altri erano contenti, che a cagione che l'orgoglio loro era affatto sproporzionato alla loro potenza ed al loro merito[259].
Il re, durante questa disputa, inclinava evidentemente a favorire i Pisani. Pure si offrì mediatore tra i due popoli, loro proponendo una sospensione d'ostilità fino al suo ritorno dall'impresa di Napoli, promettendo in allora di sentenziare conformemente a ciò che volevano la giustizia ed i trattati. Ma i Fiorentini, che diffidavano di queste ambigue parole, lo stringevano all'esecuzione di una solenne giurata convenzione. E perchè ancora non avevano pagato la maggior parte del sussidio che avevano promesso, il re, che aveva bisogno di danaro, disse che spedirebbe Briçonnet, cardinale di san Malo, a Firenze per ricevere quella somma e far eseguire il trattato.
Briçonnet presentossi il 5 di febbrajo alla signoria di Firenze, e seppe così destramente persuaderla della sua buona fede e delle sue premure a consegnar loro una delle fortezze di Pisa, sempre occupata dai Francesi, che da lei ottenne in compenso che gli si pagherebbero i quaranta mila ducati non ancora maturati[260]. Quand'ebbe ricevuto il danaro partì il 17 febbrajo alla volta di Pisa; ma ritornò il 24, dichiarando che i Pisani non avevano voluto ubbidire, e che non aveva potuto adoperare contro di loro la forza, perchè, come ecclesiastico, sarebbe colpevole in faccia a Dio se facesse spargere sangue. La notizia della conquista di Napoli giunse opportunamente per dargli un pretesto di partire, onde raggiugnere il suo padrone, cavandolo così da un'equivoca situazione[261].
I Pisani avevano pure spediti ambasciatori a Siena ed a Lucca per domandare ajuti a queste due repubbliche, colle quali avevano avute antiche alleanze, e ch'erano rimaste rivali dei Fiorentini. L'una e l'altra parevano nuovamente apparecchiate ad assisterli, ma temevano ambedue di compromettersi troppo apertamente. Non pertanto i Lucchesi loro mandarono del danaro ed alcune centinaja di moggia di frumento[262]; ed i Sienesi spedirono loro immediatamente alcuni uomini d'armi che stavano al loro soldo[263]. I Pisani credevano di poter ottenere una più efficace assistenza dal duca di Milano, Lodovico il Moro, il quale era stato uno de' primi ad incoraggiarli a prendere le armi, e gli aveva protetti con zelo alla corte di Francia, mostrandosi vivamente interessato, perchè non ricadessero di nuovo sotto il giogo. Infatti, se questa guerra si prolungava, lusingavasi che Pisa, troppo debole per difendersi colle sole sue forze, finirebbe col darsi a lui, come in addietro si era data a Giovan Galeazzo Visconti, uno de' suoi predecessori. Pure siccome era legato ai Fiorentini con un trattato d'alleanza, non volle apertamente violarlo, e si limitò a rinviare gli ambasciatori pisani ai Genovesi, che gli avevano data la signoria della loro città, ma che in pari tempo si erano, in forza della loro capitolazione, riservato il diritto di fare a posta loro la pace o la guerra[264].
Due secoli prima i Genovesi, dopo le antiche loro vittorie sui Pisani, eransi lusingati d'estendere il loro dominio a tutta la costa toscana. Di già vi avevano alcuni castelli, e fecero inoltre l'acquisto del porto di Livorno, che il loro doge, Tommaso Fregoso, vendette poi ai Fiorentini. Dopo una tale epoca vennero respinti sempre più lontani dai confini della Toscana. Perdettero successivamente Pietra Santa e Sarzana, ed il fiume Magra venne finalmente stabilito per confine tra il loro territorio e quello di Firenze. Dopo ciò i Genovesi, rimasti gelosi de' Fiorentini, accolsero favorevolmente i deputati di Pisa. Uno storico genovese contemporaneo riferisce il seguente discorso, pronunciato dai deputati pisani innanzi al senato di Genova:
«Scusateci, padri coscritti (essi dissero), se non sappiamo parlare in modo conveniente alla dignità di questo senato e alle nostre sventure; datene soltanto colpa a quella così lunga, così miserabile, così crudele servitù in cui ci tennero i Fiorentini. Un lungo intervallo ci fece dimenticare in qual modo si parli ad uomini del vostro grado. Noi più non avevamo opportunità che di favellare coi nostri terrieri, intorno ai tributi che dovevamo pagare, o intorno alla coltura de' nostri campi che appena ci si lasciavano ancora. Altra cura non ci si accordava che quella di trovar modo a soddisfare a quelle esazioni sempre rinnovate, onde sottrarci al duro carcere di cui eravamo minacciati. La ricordanza di quest'abbietta servitù ci riempie tuttavia di spavento. Perdonateci, illustri senatori, perchè per noi parlano i nostri bisogni, e suppliscono alla nostra incapacità. L'anima nostra respira volgendosi verso di voi. Poc'anzi eravamo ancora tra le catene, ora ci vediamo liberi; eravamo come morti, ora viviamo riponendo in voi tutta la nostra speranza. Dio nella sua misericordia si è di noi ricordato, e ci ha mandata dal cielo la libertà. La ci fu data dal re Carlo; ma imponendoci l'obbligo di difenderci da noi stessi. Soli non siamo in istato di farlo; ci riconosciamo troppo deboli, appena restandoci un soffio di vita: onde tutta la nostra speranza è in voi riposta, e da voi aspettiamo la vita o la morte. Abbiate adunque pietà di noi. Se ci assistete, la nostra città sarà cosa vostra, perciocchè a voi attribuiremo il beneficio di quella libertà che ci fu data da un re clemente. Saremo vostri soldati, e combatteremo con zelo contro tutti coloro che ci additerete come vostri nemici. Ma se da voi non ci è dato di ottenere così segnalato favore, abbiamo determinato d'imitare l'esempio de' Sagontini, e di anticipare la crudeltà de' nostri nemici. Colle nostre proprie mani sveneremo i nostri figli, le nostre spose, brucieremo le case nostre ed i nostri templi; poi ci precipiteremo su questi roghi per non lasciare ai nostri nemici il modo di esercitare le loro vendette[265].»
I Genovesi, mossi da così calde preghiere e dalle copiose lagrime con cui i Pisani avevano posto fine al loro ragionamento, loro diedero armi d'ogni genere di cui avevano urgentissimo bisogno, e che i Pisani ebbero l'accortezza d'esporre sulla pubblica piazza, perchè a tutti fosse nota l'assistenza che il loro stato aveva ricevuto e si facessero a sperar bene. In pari tempo Alessandro Negroni fu mandato a Pisa con autorità di chiamare in ajuto de' Pisani, qualunque volta lo credesse necessario, tutti i limitrofi abitanti della Liguria. Finalmente furono prese le convenienti misure per mantenere in servigio dei Pisani, ma a spese delle tre repubbliche di Genova, di Siena e di Lucca dugento uomini d'armi, dugento cavalleggeri ed ottocento pedoni, de' quali fu dato il comando a Giacomo d'Appiano, signore di Piombino, ed a Giovanni Savelli[266].
Gli stessi Pisani avevano preso al loro soldo Lucio Malvezzi, emigrato bolognese, che, dai Bentivoglio acerbamente perseguitato, aveva trovato protezione presso il duca di Milano[267]. Il Malvezzi era buon capitano, ed aveva seco condotti circa trecento soldati veterani. Questi attaccò i Fiorentini, che assediavano Buti, sforzandoli a chiudersi in Bientina. Vero è che poco dopo i Fiorentini avevano in ricambio costretti i Pisani a ritirarsi dall'assedio di Librafratta poi ch'ebbero sotterrati i cannoni che vi avevano condotti. Allora i Fiorentini si erano sparsi per la valle del Serchio, ed avendo occupati i bagni di Pisa minacciavano perfino i sobborghi della città. Lucio Malvezzi che vi si era ritirato, fece suonare a stormo; e, rinforzata la sua armata con tutto il corpo della milizia pisana, venne ad attaccare i Fiorentini lungo il canale derivato dal Serchio, gli sgominò, cacciandoli fino a Librafratta, dove ricuperò i suoi cannoni, e tornò trionfante a Pisa, con molti prigionieri e cavalli[268].
I Fiorentini eransi ritirati attraverso allo stato di Lucca: Lucio Malvezzi gl'inseguì, ed avendo, prima che vi giugnessero i nemici, fatto occupare da un distaccamento il ponte del Serchio, li pose tra due fuochi. La cavalleria, condotta da Ercole Bentivoglio avea potuto per altro fuggire passando il fiume a nuoto, e dopo essersi posta in sicuro a Monte Carlo, era poi tornata ad occupare il suo accampamento a Pontadera; ma i fanti furono quasi tutti uccisi o fatti prigionieri[269].
Mentre che i Fiorentini continuavano la guerra contro i Pisani con sì mala riuscita, una nuova ribellione de' loro sudditi accrebbe la loro inquietudine. Il 26 marzo del 1495 la potente borgata di Montepulciano scosse il giogo della signoria[270]. I Fiorentini avevano in ogni grossa terra del loro territorio una fortezza che sempre aveva una porta esterna per ricevere i soccorsi. In ciascuna fortezza non tenevano che quattro o cinque soldati, che cautamente vi si chiudevano e facevano rigorosa guardia; questi quattro uomini bastavano per difendere la piazza quarantotto ore in caso di ribellione della borgata, o d'impreveduto attacco, e la signoria di Firenze non aveva bisogno che facessero più lunga resistenza per avere il tempo di soccorrerli. Ma le quattro guardie della fortezza di Montepulciano non si erano prese il pensiero di rifare i loro approvvigionamenti; inoltre, male osservando la loro consegna, tre di loro talvolta uscivano insieme, ed un solo restava in castello per chiudere ed aprire la porta. Gli abitanti di Montepulciano, malcontenti del governo fiorentino, della gravezza delle imposte e dell'alterazione delle monete, risolsero di porsi in libertà sotto la protezione de' Sienesi. Si accordarono adunque coi magistrati di quella repubblica, colla quale confinavano; indi cogliendo l'istante in cui tre de' soldati del castello erano usciti, vi chiusero il quarto, spingendolo nella principal torre, lo atterrirono e lo ridussero ad arrendersi entro un'ora[271]. Allora si diedero ad atterrare la fortezza, che non poteva servire che a tenerli dipendenti, ed intanto spedirono deputati ai Sienesi per porsi sotto la loro protezione. I Sienesi, sebbene legati coi Fiorentini da precedenti trattati, non si mostrarono difficili ad accoglierli. Si obbligarono a ricevere Montepulciano sotto la loro perpetua protezione, ed a trattare gli abitanti come confederati, non come sudditi; e tosto mandarono alcune truppe in loro ajuto[272].
I Fiorentini, che si erano sinceramente attaccati all'alleanza della Francia, e che, dietro le esortazioni di Savonarola, continuavano a mantenersele fedeli, malgrado i motivi di malcontento che loro dava il re, mandarono deputati a Napoli, a Carlo VIII, per chiedergli la guarenzia de' loro dominj, in conformità degli obblighi che si era assunti nel trattato, e perchè obbligasse i Sienesi, suoi alleati, a rendere loro una borgata ed il suo territorio, che avevano ingiustamente occupati. Ma Carlo rispose loro con un amaro sarcasmo: «Che posso io fare in vostro favore, se così voi maltrattate i vostri sudditi che tutti si ribellano[273]?»
Non meno che le parole, le azioni di Carlo mostravano quanto facesse poco conto del suo trattato coi Fiorentini, e dell'appoggio loro, mentre contro di lui si andava condensando un turbine nella parte settentrionale dell'Italia. Gli ambasciatori pisani, ch'erano a Napoli, da lui ottennero seicento soldati tra Svizzeri e Guasconi, che giunsero a Pisa sopra una nave di trasporto, e che in aprile ricominciarono l'assedio di Librafratta, di cui s'impadronirono. Lucio Malvezzi riprese press'a poco tutti i castelli de' Pisani che aveva dovuto prima abbandonare[274]. Aveva occupato la fortezza della Verrucola, la quale, essendo posta sopra la più orientale sommità della montagna che divide dal Pisano il territorio Lucchese, signoreggia la Val d'Arno, e scuopre tutto il piano pel quale i Fiorentini potevano avvicinarsi a Pisa. Questa posizione dava al Malvezzi il vantaggio di conoscere tutti gli andamenti del nemico e di prevenirne i progetti. Francesco Secco, generale fiorentino, si apparecchiava ad attaccare Verrucola, ma il Malvezzi lo sorprese a Buti, sgominandogli l'armata e facendogli molti prigionieri. Occupò poscia san Romano e Montopoli; ed i Fiorentini, vedendo le bandiere francesi tra le truppe nemiche, non vollero battersi contro di loro, ed abbandonarono Pontadera e tutto il territorio pisano[275].
L'antico attaccamento de' Fiorentini per la corona di Francia veniva indebolito da tante ingiurie e da così costante mancamento di fede. Nello stesso tempo tutta l'Italia si muoveva contro i Francesi, ed i deputati di Venezia e di Milano pressavano i Fiorentini ad unirsi alla causa dell'indipendenza d'Italia[276]; vi sarebbero senza dubbio riusciti, se Girolamo Savonarola non avesse colle sue profetiche ammonizioni accresciuto il timore che aveva la signoria per trovarsi la prima in sul passaggio dell'armata francese al suo ritorno. Già da più anni il Savonarola aveva annunciato che una straniera invasione cagionerebbe la ruina d'Italia. Allorchè apparve Carlo VIII aveva dichiarato essere costui il monarca scelto da Dio per gastigare i malvagi e per riformare la Chiesa[277]. Proseguiva a dire che sebbene Carlo VIII non avesse soddisfatto all'incarico impostogli dalla divinità, era però sempre il suo inviato; che Dio continuerebbe a condurlo quasi per mano, liberandolo da tutte le difficoltà in cui si era posto[278]. Cotali profezie, ripetute con tanta asseveranza dal pulpito, venivano pienamente credute dal popolo e dai capi della repubblica. Firenze più non era omai diretta da una politica umana, ma a seconda delle rivelazioni che credeva di ricevere dal cielo; ed il riformatore italiano esercitava sulla repubblica fiorentina quell'influenza che cinquant'anni dopo ebbe il riformatore francese sulla repubblica di Ginevra. Savonarola e Calvino avevano press'a poco gli stessi principj, ed univano egualmente la religione alla politica; ma il Savonarola coll'immaginazione del mezzodì e coll'ardore del suo carattere credeva di ricevere immediatamente dalla divinità quelle ispirazioni che gli venivano dalle sue riflessioni e dalle sue cognizioni. Questa stessa immaginazione signoreggiava troppo la sua ragione, perchè gli venisse in pensiero di assoggettare a disamina il corpo della religione. Limitava la sua riforma all'organizzazione della Chiesa, alla purificazione de' costumi, senza avere mai voluto introdurre veruna variazione nella sua fede.
Gli altri stati d'Italia, la di cui politica non era diretta dalle profezie e dalle prediche di un uomo che credevasi inviato da Dio, non avevano potuto vedere senz'estrema inquietudine l'inaudita prosperità de' Francesi, la conquista di Napoli, fatta senza venire a battaglia, e il subito rovesciamento di quella casa di Arragona che per tanto tempo aveva inspirato terrore a tutti gli stati italiani, ed era scomparsa al primo soffio di contraria fortuna. L'arroganza de' Francesi accresceva quest'inquietudine; siccome la loro mal dissimulata ambizione stendevasi a tutta l'Italia, essa rendeva precaria l'esistenza di tutti i sovrani. Il duca d'Orleans, rimasto in Asti, apertamente manifestava le sue pretese sullo stato di Milano, e minacciava Lodovico il Moro, mentre Carlo VIII a Napoli pareva che a bella posta cercasse d'accrescere la diffidenza di questo suo primo alleato. Erasi Carlo affezionato Gian Giacopo Trivulzio, personale nemico dello Sforza, e proscritto come ribelle dallo stato di Milano, e lo avea preso al suo soldo con cento lance. Erasi pure affezionato con larghe promesse il cardinale Fregoso ed Ibletto de' Fieschi, i due capi degli emigrati genovesi, nemici dello Sforza; per ultimo aveva ricusato a Lodovico il Moro il principato di Taranto, già solennemente promesso, dichiarando di non essere tenuto a dargliene il possesso che dopo che tutto il regno di Napoli sarebbe a lui subordinato[279].
I Francesi tenevano sempre le loro guarnigioni nelle fortezze di Sarzana e di Pietra Santa, che avevano promesso di restituire ai Genovesi; erano rimasti padroni delle principali fortezze degli stati di Lucca, di Pisa, di Firenze e di Siena, e con ciò davano legge a tutta la Toscana; avevano inoltre forzati gli Orsini ed i Colonna a dar loro in mano i più forti castelli, come pegni del loro attaccamento, e finalmente ridotto il papa a consegnare le sue migliori fortezze. Il progetto di signoreggiare tutta l'Italia pareva essersi adottato dall'ambiziosa corte di Carlo VIII, e sostituito al primo della spedizione della Grecia, che omai più non si risguardava che come uno stratagemma inventato per disarmare i popoli cristiani. I sovrani forastieri non erano nè meno scontenti, nè meno inquieti. In Ispagna Ferdinando ed Isabella deploravano l'infortunio del loro cugino, e la perdita d'un regno che aggiungeva splendore e potere alla casa d'Arragona. Altronde essi temevano per conto della Sicilia, la quale, avendo appartenuto agli Angiovini, poteva essere, come Napoli, richiamata dai Francesi, e che potrebbe difficilmente difendersi contro di loro, qualora riuscisse loro di stabilirsi dall'altra banda del Faro. Massimiliano, re de' Romani, conservava un amaro rancore contro Carlo VIII, che in occasione del suo matrimonio, gli aveva fatti i più sanguinosi affronti che possano farsi ad un padre e ad uno sposo. Vero è che avevano fatta la pace, ma Carlo VIII, attraversando l'Italia, non aveva mostrato verun rispetto per i diritti imperiali, era entrato da conquistatore nelle terre dell'impero, ed aveva parlato come padrone; di modo che aveva dati all'imperatore eletto infiniti motivi di lagnarsi e di ricominciare la guerra[280].
Filippo di Comines, signore d'Argenton, il sottile politico, e lo storico che descrive con tanto interessamento il regno di Lodovico XI e la spedizione di Carlo VIII, era in allora ambasciatore di Francia a Venezia, ove soggiornò otto mesi. Era stato colà mandato per persuadere quella potente repubblica a collegarsi alla Francia, o per lo meno a mantenere la promessa neutralità: gli offriva nel primo caso la ricompensa di Brindisi e d'Otranto, a condizione che i Veneziani restituirebbero quelle città, quando il re, acquistando la Grecia, potrebbe assegnar loro un più vasto dominio in quel paese. Ma i Veneziani, che invece di prevedere i rapidi avanzamenti del re, non supponevano nè meno che perseverasse ne' suoi progetti, avevano con onesti pretesti rifiutate così magnifiche condizioni che non avevano apparenza di potersi eseguire, e protestarono di mantenersi neutrali[281]. Nella stessa maniera avevano rinviati gli ambasciatori del re Alfonso e quello del sultano Bajazette, che tutti volevano persuaderli a difendere il re di Napoli; mentre l'ambasciatore milanese, che pure si trovava in Venezia, li riteneva nella sicurezza che il suo padrone ben saprebbe a quale partito appigliarsi per far tornare, quando fosse tempo, il re di Francia al di là delle Alpi[282].
Il trattato di Pietro de' Medici con Carlo VIII risvegliò finalmente l'inquietudine della signoria, ed i rapidissimi avanzamenti dell'armata francese rendettero egualmente inquieti il duca di Milano, il re de' Romani, che temeva che Carlo VIII non ricevesse dal papa la corona imperiale, ed il re di Spagna. Questi principi intavolarono dunque in Venezia un'alleanza per la comune sicurezza. Vi si videro giugnere successivamente il vescovo di Como e Francesco Bernardino Visconti, ambasciatori del duca di Milano, Ulrico di Frondsberg, vescovo di Trento, con altri tre ambasciatori di Massimiliano, ed all'ultimo Lorenzo Suares de Mendoza y Figueroa, ambasciatore di Spagna[283]. Da principio questi diplomatici non si adunavano che di notte, sia tra di loro che coi segretarj della signoria. Lusingavansi con ciò di non essere osservati dal Comines; ma avendo costui scoperte per tempo le loro pratiche, strinse francamente gli ambasciatori milanesi a fargli parte delle loro doglianze per provvedervi amicamente, piuttosto che alienarsi dalla Francia, la di cui alleanza era stata e poteva anche in avvenire riuscire utile al loro signore[284].
Il Comines tentò pure di sconsigliare la repubblica da questi ostili progetti, ma egli cedeva in accortezza agl'Italiani: gli ambasciatori milanesi gli avevano protestato con solenni giuramenti, che fallaci erano i suoi sospetti; la signoria lo aveva assicurato che la lega da lei progettata non solo non era diretta contro il re, ma doveva essere sottoscritta di accordo con lui, poichè si trattava di fare di concerto la guerra ai Turchi, di sforzare tutti gli alleati a concorrere alle spese, e di procurare a Carlo VIII l'alto dominio del regno di Napoli con tre delle sue principali piazze per guarenzia, conservando per altro la corona al principe arragonese, che sarebbe feudatario della Francia. Il Comines chiese tempo per partecipare queste proposizioni al re, e fece istanza perchè i Veneziani non venissero ad alcuna definitiva convenzione prima d'averne avuto riscontro. Ma Carlo, i di cui prosperi successi superavano le sue speranze, non volle porgere orecchio a veruno accomodamento[285]. Gli ambasciatori, avendo allora conosciuto che i loro abboccamenti erano noti, più non cercarono di celarsi, e si adunarono tutti i giorni. Pensavano a determinare il numero delle truppe che i Veneziani manderebbero a Roma, mentre Ferdinando difendeva Viterbo; ma quando seppero che questa città era stata abbandonata senza essersi tirato un colpo di fucile, e che poco dopo era stata evacuata Roma, i loro timori andarono crescendo colle difficoltà della loro posizione[286].
«Vedendo i Veneziani (dice il Comines) tutto ciò abbandonato, ed avvisati che il re si trovava in Napoli, mi mandarono a cercare, e mi dissero queste notizie, mostrandosene lieti; tuttavolta dicevano che il detto castello era gagliardamente munito[287]; e ben vedevano esservi da sperare assai che non si arrendesse, e consentirono che l'ambasciatore levasse gente d'armi a Venezia per ispedirle a Brindisi, ed erano vicini a conchiudere la lega, allorchè i loro ambasciatori scrissero che il castello avea capitolato. Allora una mattina mi fecero nuovamente chiamare, e li trovai in grosso numero di circa cinquanta o sessanta nella camera del principe, ch'era infermo di colica; e mi si raccontarono tali nuove con ridente cera, ma niuno più del principe sapeva meglio fingere. Alcuni erano seduti su certi marciapiedi delle panche, e tenevano il capo tra le mani, altri in altro lato, ma tutti non potevano a meno di lasciar travedere la somma loro tristezza; ed io credo che quando si ebbe in Roma l'avviso della sconfitta di Canne, i senatori che erano rimasti non erano più sparuti, nè più spaventati di loro: perciocchè non vi fu che il solo doge che mi guardasse o mi volgesse la parola. Ed io gli andava guardando maravigliato. Mi chiese il doge se il re manterebbe quello che loro aveva sempre fatto sapere, e che gli aveva detto ancor io. Risposi asseverantemente di sì, e tutto offersi per rimanere in pace, promettendo che la promessa sarebbe mantenuta, sperando con ciò di togliere ogni sospetto; indi mi congedai[288].»
Malgrado l'abbattimento de' signori Veneziani, ben sentì il Comines che la posizione del re in fondo all'Italia poteva riuscire pericolosissima, se questi dichiaravansi contro di lui; e mentre il duca di Milano faceva ancora difficoltà per sottoscrivere con loro il trattato di alleanza, sollecitò Carlo VIII, o a far venire di Francia nuovi rinforzi, se voleva egli medesimo mantenersi nel regno, o ad uscirne immediatamente colla sua armata, prima che gli si precludesse la strada, lasciando soltanto buone guarnigioni nelle piazze. In pari tempo egli scrisse al duca di Borbone rimasto in Francia come luogotenente del regno, ed al marchese di Monferrato, per persuaderli a mandare subito rinforzi al duca d'Orleans, ch'erasi trattenuto in Asti soltanto colla sua casa: perciocchè questa città era in certo modo la porta aperta al re per tornare in Francia, e se questa veniva occupata da' nemici, estremo diventare poteva il suo pericolo[289].
«La lega si conchiuse (dice il Comines) una sera, ad era tarda assai il 31 marzo del 1495[290]. La susseguente mattina mi chiese la signoria assai più per tempo che all'ordinario. Tosto che fui arrivato e seduto, mi disse il doge che in onore della santa Trinità, aveva conchiusa una lega col nostro santo padre il papa, col re de' Romani e di Castiglia, e col duca di Milano, a tre fini: il primo per difendere la Cristianità contro il Turco; il secondo per la difesa dell'Italia; il terzo per la preservazione de' loro stati; e che dovessi darne notizia al re. Eravi grossa adunanza di circa cento o più, e tenevano il capo alto, facevano buon viso, ed avevano un contegno affatto diverso da quello di quel giorno in cui mi avevano data notizia della presa del castello di Napoli. Mi fu altresì detto d'avere scritto ai loro ambasciatori, che trovavansi presso il re, che partissero e prendessero congedo. Uno di costoro chiamavasi messere Domenico Loredano e l'altro messere Domenico Trevisano. Io aveva il cuore chiuso, ed assai temevo per la persona del re e di tutta la sua compagnia; e li credevo più apparecchiati che non erano; e dubitavo che tenessero pronti de' Tedeschi; che se ciò fosse stato, il re più non sarebbe uscito d'Italia. Risolsi di non far molte parole in quell'impeto di collera; pure essi mi fecero molte dimande. Loro risposi che la sera precedente aveva tutto scritto al re, e più volte, e ch'egli pure mi aveva scritto, e che gli era nota ogni cosa da Roma e da Milano. Tutti mi fecero mal viso per avere detto che aveva scritto la precedente sera al re, perchè non vi sono persone al mondo così sospettose, nè che tengano più segreti i loro consiglj; e soltanto per sospetto esiliano le genti; e perciò aveva loro così parlato. Oltre di questo loro dissi ancora d'avere scritto a monsignore d'Orleans ed a monsignore di Borbone, affinchè provvedessero Asti; e lo dicevo sperando che ciò li ritarderebbe dall'andare sotto Asti; perchè se fossero stati così apparecchiati come se ne davano il vanto, e credevano, l'avrebbero preso senza rimedio; perciocchè era, e rimase ancora lungo tempo mal provveduto[291].»
Ma mentre che Filippo di Comines vuole darsi vanto, mostrando com'era ben informato, Pietro Bembo, lo storico veneziano, si compiace di dipingere la sua sorpresa ed il suo spavento. «Sebbene vi fossero tanti ambasciatori (egli scrive), e tanti cittadini chiamati alle conferenze, e che il senato si fosse così frequentemente adunato, tanta era stata la vigilanza del consiglio de' dieci, per sopprimere ogni diceria su questo argomento, che Filippo di Comines, inviato di Carlo, sebbene ogni dì frequentasse il palazzo, e che trattasse con tutti gli ambasciatori, mai non ebbe il più piccolo sospetto. Perciò, allorchè il giorno dopo la segnatura, fu chiamato a palazzo, ed il principe gli partecipò la conchiusione del trattato ed i nomi de' confederati, fu per impazzire. Per altro il doge gli aveva detto che tutto quanto erasi fatto non mirava a muovere guerra a chicchefosse, ma soltanto a difendersi ove alcuno della lega fosse attaccato. Poichè fu alquanto rinvenuto: E che dunque, esclamò non potrà il mio re tornare in Francia? Lo potrà, rispose il doge, se vuole ritirarsi da amico, e noi l'ajuteremo con tutte le nostre forze. Dopo questa risposta il Comines si ritirò; e mentre usciva di palazzo, dopo sceso lo scalone, nell'attraversare la piazza, si volse al segretario del senato, che lo accompagnava, pregandolo a ridirgli ciò che il doge gli aveva detto, avendo egli il tutto dimenticato[292].»
Il popolo di Venezia festeggiò questa lega il giorno dopo la sottoscrizione, e le feste ricominciarono il giorno dodici aprile, domenica delle Palme, in cui si pubblicò in tutti i paesi de' confederali[293]. In forza de' convenuti articoli l'alleanza doveva durare venticinque anni, ed avere per oggetto la difesa della maestà del romano pontefice, della dignità, della libertà, de' diritti di tutti i confederati, e di ciò che tutti possedevano. Le potenze alleate dovevano fra tutte mettere in piedi trentaquattro mila cavalli e venti mila fanti; cioè il papa quattro mila cavalli; Massimiliano sei; il re di Spagna, la repubblica di Venezia ed il duca di Milano, cadauno otto. Ogni confederato doveva somministrare quattro mila pedoni. Coloro che non avrebbero dato tutto il contingente, supplirebbero col danaro. Come pure quando fosse stato necessario l'impiego d'una flotta, dovevano somministrarla le potenze marittime, e le spese essere a carico di tutti gli alleati in giusta proporzione[294].
Ma a questi articoli, che furono pubblicati, i confederati aggiunsero altre segrete condizioni, che affatto mutavano la natura dell'alleanza, e la disponevano ad una guerra offensiva. Di già Ferdinando ed Isabella avevano mandato in Sicilia una flotta di sessanta galere, che aveva a bordo seicento cavalieri e cinque mila fanti, ed avevano dato il comando di queste truppe a Gonzalvo di Cordova, che si era renduto glorioso nella guerra di Granata[295]. Convennero gli alleati che questa armata asseconderebbe Ferdinando di Napoli, per riporlo in trono, dove i suoi sudditi, rinvenuti dalla loro confidenza in Carlo VIII, di già lo richiamavano. Gli è vero che i re di Spagna si erano obbligati col trattato di Perpignano a non impedire al re di Francia l'acquisto del regno di Napoli[296], ma vi avevano aggiunta la clausola, che niuna condizione sarebbe obbligatoria se trovavasi pregiudicievole alla Chiesa; ed essi pretendevano, che, essendo il regno di Napoli un feudo ecclesiastico, essi non potevano restare dal difenderlo, quando il papa gl'invitasse a farlo[297]. I confederati convennero pure fra di loro segretamente, che i Veneziani attaccherebbero le terre occupate dai Francesi lungo le coste del regno di Napoli colla loro flotta, che avevano portata a quaranta galere, sotto il comando d'Antonio Grimani[298]; che il duca di Milano si opporrebbe all'avanzamento de' soccorsi che potessero arrivare dalla Francia; che attaccherebbe Asti, scacciandone il duca d'Orleans; che il re de' Romani ed i re di Spagna invaderebbero nello stesso tempo i confini della Francia con potenti armate, e riceverebbero per questa guerra sussidj dagli altri alleati[299].
Massimiliano faceva agli stati d'Italia splendide promesse, ma non si tardò a conoscere che non recava all'alleanza che un gran nome. Egli non sapeva porre alcun ordine nè alcuna economia nell'amministrazione de' suoi stati ereditarj, e non poteva avere dall'impero nè uomini, nè danari, sebbene pretendesse d'entrare in guerra colla Francia soltanto per l'interesse de' feudi imperiali. La dieta di Vormazia gli promise nel 1495 soltanto centocinquanta mila fiorini, assegnati sul danaro comune che doveva levarsi in tutto l'impero, e che non si pagò in verun luogo. Di modo che, in cambio di sei mila cavalli da lui promessi, appena potè assoldare tre mila uomini[300].
Non eravi forse verun duca d'Italia, che non fosse effettivamente più potente dell'imperatore, o la di cui cooperazione non fosse almeno più efficace. Perciò le potenze alleate avrebbero ardentemente desiderato che tutta l'Italia fosse entrata nella stessa confederazione, ed insistettero presso il duca di Ferrara e presso i Fiorentini, perchè prendessero parte nella lega. Il duca di Ferrara lo ricusò[301], ma per tenersi amici tutti i partiti fu contento che suo figlio primogenito, don Alfonso, passasse ai servigj del duca di Milano col titolo di luogotenente generale delle sue truppe, e col comando di cento cinquanta lance[302]. I Fiorentini, ai quali Lodovico Sforza offriva un'armata, per difenderli contro Carlo VIII nel di lui ritorno, e per ajutarli in appresso a ricuperar Pisa e tutte le loro fortezze, costantemente ricusarono di staccarsi da un principe, che per altro loro dava così giusti titoli di lagnanze. Preferirono di aspettare da lui la restituzione delle loro province, piuttosto che ritorgliele colla forza, ajutati dagli alleati, de' quali diffidavano più che del re[303].
Frattanto tutti i confederati si apparecchiavano sollecitamente alla guerra: i Veneziani chiamavano molti Stradioti, o cavalleggeri dall'Epiro, dalla Macedonia e dal Peloponneso: Lodovico Sforza aveva mandato molti danari in Svevia per assoldarvi truppe mercenarie; Massimiliano prometteva di scendere in Italia con quelle formidabili schiere tedesche, delle quali i Francesi nel 1492 avevano sperimentato il valore nelle pianure dell'Artois. Bajazette II offriva ai Veneziani d'ajutarli con tutte le sue forze di terra e di mare contro i Francesi[304]. Il sultano non era compreso nell'alleanza, la quale anzi, stando al trattato pubblico, sembrava fatta contro di lui; pure il suo ambasciatore era stato ammesso nelle adunanze della confederazione, e terminata la sua missione era rimasto in Venezia per assistere alle feste colle quali si celebrò la pubblicazione della lega[305]. In ogni parte l'Europa vestiva un aspetto ostile contro i Francesi; e Filippo di Comines, che da gran tempo avvisava il suo padrone del turbine che si andava contro di lui condensando, essendosi ancora trattenuto un mese in Venezia dopo la sottoscrizione della lega, si pose in cammino per recarsi al campo di Carlo, attraversando gli stati del duca di Ferrara, di Giovanni Bentivoglio e dei Fiorentini. Fu da loro accolto come l'ambasciatore d'un monarca alleato, mentre che la sua partenza da Venezia fu in certo qual modo il segnale della rottura d'ogni negoziazione[306].
CAPITOLO XCVI.
Carlo VIII abbandona il regno di Napoli; attraversa Roma e la Toscana; si apre un passaggio a Fornovo malgrado i confederati, e giugne fino ad Asti. Tratta a Vercelli col duca di Milano, libera il duca d'Orleans, assediato in Novara, e ripassa le Alpi.
1495. Per quanto fosse grande il disprezzo che Carlo VIII e la sua corte avevano concepito per la nazione italiana dopo la facile loro vittoria, avevano per altro sentito di avere bisogno di guadagnarsi l'affetto del popolo, per mantenere ubbidiente il regno che avevano occupato. Carlo VIII e la sua corte avevano infatti cercato di cattivarselo con un decreto, che, riducendo le imposte a ciò che erano ai tempi dei re angioini, scaricavano il regno di quasi dugento mila ducati di contribuzione[307]; ma perchè aveva accordata questa grazia colla leggerezza che lo caratterizzava, senza calcolare i bisogni dello stato, nè il conguaglio tra le rendite e le spese, non ispirò veruna confidenza, tanto più che si vedeva in tutto il restante della sua amministrazione la rapacità de' suoi subordinati, il loro disordine, e l'assoluto loro disprezzo per le leggi e per le costumanze della nazione. Il regno di Napoli era il solo paese d'Italia in cui le instituzioni feudali si fossero mantenute in pieno vigore. Alfonso I le aveva confermate con nuove concessioni fatte ai gentiluomini. Le province erano quasi assolutamente dipendenti dalla nobiltà; e per essere sicura del regno, o conveniva cattivarsi l'affetto dei grandi, conservando l'antica organizzazione, o rendere le comuni da loro indipendenti, dichiarandole libere, e dando loro un'importanza che mai avuta non avevano. Ma i Francesi non davano orecchio che ai loro pregiudizj; erano piuttosto disposti ad accrescere la schiavitù del terzo stato, e non pertanto avevano offesa tutta la nobiltà.
Dopo avere pubblicato il suo editto intorno alla minorazione delle imposte, il re ad altro più non pensò che a feste ed a tornei, ove credeva di brillare; e tutti i suoi cortigiani non pensarono che ai mezzi più pronti di arricchirsi. Chiedevano con importunità tutti gl'impieghi, tutti i titoli, tutti i feudi disponibili dalla corona; e Carlo VIII, che nulla sapeva ricusare, loro spesso accordava quello di cui non poteva a buon diritto disporre; egli invadeva le private proprietà, e feriva ne' loro interessi e negli affetti loro i popoli che così leggermente offendeva. Quest'inconsiderazione gli fece perdere le due città di Tropea e di Amantea, che piuttosto che assoggettarsi al signore di Precì, cui le aveva regalate, rialzarono le insegne arragonesi[308]. Da prima non pensò, finchè poteva farlo, a sottomettere queste due città; e poco dopo gli Spagnuoli, sbarcati dalla Sicilia, vi posero guarnigione; altri si stabilirono in Reggio di Calabria; e si dispiegavano nuovamente le insegne d'Arragona nella Puglia, ove non si vedevano giugnere truppe francesi, e dove era già nota la conclusione della lega ed il prossimo arrivo d'Antonio Grimani colla flotta veneziana; finalmente Otranto aprì le porte a don Federico, che aveva stabilito a Brindisi il suo quartiere generale[309].
Ma più di tutti, malcontenta di Carlo era l'alta nobiltà. Una parte di questo potente corpo credeva di avere acquistati giusti diritti alla riconoscenza de' Francesi col suo attaccamento alla casa d'Angiò; l'altra vantava i suoi recenti servigj, e la facilità colla quale aveva abbandonato il partito d'Arragona, cui era da prima affezionata. Avvezzi gli uni e gli altri ad essere conosciuti e temuti dai loro sovrani, contavano sopra potenti memorie in un paese ove tante affezioni e tanti odj erano ereditarj. Erano ad un tempo avviliti ed offesi, vedendo che nè il re, nè alcuno de' principali signori francesi, avevano contezza dei loro nomi, degli antichi loro interessi, degli antichi loro servigj. Costretti a ridire sempre chi erano, ciò che avevano diritto di pretendere, e le ingiustizie che loro venivano fatte, non trovavano chi porgesse loro orecchio, nè chi gl'intendesse o ajutasse a ricuperare i ricevuti torti; e prima che si facesse loro ragione di una violazione dei proprj diritti, un nuovo editto del re, una nuova concessione fatta a qualche signore francese, loro arrecava una più fresca offesa. Quando volevano presentarsi a Carlo, con grandissima difficoltà potevano ottenere udienza; lasciavansi languire nelle anticamere; e quando all'ultimo venivano ammessi, incontravano allora una maggiore difficoltà, quella di ridurre questo giovane re, sempre distratto, sempre nemico del lavoro ed incapace di attenzione, a fissare il suo spirito ed a parlare di affari[310].
Erasi abborrita la tirannia, la doppiezza e l'avarizia arragonese; ma i vantaggi inseparabili dall'amministrazione regolare, economica e ben formata di quei re, vantaggi cui non erasi posto mente in tempo del loro regno, si rendettero col presente contrapposto palesi. Ferdinando II, cui non poteva farsi verun rimprovero, non avendo egli avuto parte ne' delitti del padre e dell'avo, rendevasi ogni giorno più caro per la grandezza della sua caduta, per la nobiltà con cui vedevasi sostenere la presente sventura, e pel coraggio, la magnanimità, e la dolcezza che aveva fatte conoscere nel breve tempo che era durato il suo regno. Dopo avere sperato dal ritorno dell'antica stirpe francese un ben essere e vantaggi che non è in mano di verun principe di potere costantemente procurare ad un popolo, i Napolitani erano colpiti dell'incapacità del re, della sua inapplicazione, della sua ignavia, dell'inaudito disordine della sua casa, dell'impossibilità d'avere accesso presso di lui, dell'orgoglio e dell'insolenza de' suoi cortigiani, i quali sprezzavano una nazione che si assumevano di governare, ed alla quale mai non si erano mostrati che tra le linee nemiche. Il disgusto del presente inspirava il desiderio di un passato che si era creduto intollerabile. Quello ch'era stato tanto tempo chiamato tiranno anche prima di salire sul trono, nel suo esilio aveva cessato di essere odioso. Si andavano rammentando le vittorie da lui riportate alla testa di armate nazionali in Toscana, ad Otranto ed al ponte di Lamentana, e preferivasi l'antico giogo, consolidato dalle conquiste, al nuovo giogo che non si era stabilito che colle disfatte dell'armata e colla vergogna de' capitani. Una nazione soffre più facilmente l'oppressione che il disprezzo, e meno ancora del disprezzo soffre di vedersi rendere spregevole da coloro che la governano. Il nome di Alfonso, fin allora così odioso, più non inspirava spavento; chiamavasi giusta severità quella condotta che in addietro aveva il nome di crudeltà; e credevasi vedere una prova di sincerità nel suo altero, contegno, così spesso attribuito ad orgoglio e ad alterigia[311].
Mentre che una generale fermentazione Veniva prodotta dal confronto tra gli antichi ed i nuovi padroni, i Francesi, saziati dalle loro vittorie, cominciavano a desiderare il ritorno in patria. Credevano di avere abbastanza operato per la loro gloria, ed erano impazienti di andar a ricevere le lusinghiere lodi dei loro compatriotti e principalmente delle donne. Coloro ch'erano rimasti alla corte o all'armata, siccome quelli ch'erano sparsi nelle province, sentivano tutti di non essere colà che di passaggio. Non si curavano di piacere ai loro amministrati, non a fissarsi stabilmente tra di loro, non a lasciarvi buona riputazione. I loro occhi erano sempre volti verso la Francia, e tutti i loro progetti, tutta la loro ambizione avevano per iscopo il ritorno in patria. Tale disposizione era di già universale che a Napoli non sapevasi ancora la lega delle potenze che si andavano afforzando nella parte settentrionale d'Italia. Ma quando ne fu dato avviso al re, tutti i suoi consiglieri sentirono la necessità di ricondurlo in Francia, prima che ne fosse preclusa la strada da superiori forze[312].
Carlo VIII, che da molto tempo andava negoziando con Alessandro VI per ottenere dalla Chiesa l'investitura del regno di Napoli, quando si vide costretto a partire, offrì di accontentarsi di una investitura da darsi colla clausola: senza pregiudizio del diritti d'ogni altro pretendente; e non potendola nè meno ottenere a tale condizione, pensò di supplirvi con un'altra ceremonia. Il 12 di maggio fece il suo solenne ingresso in Napoli, coperto con un manto imperiale, portando il globo colla mano destra e lo scettro colla sinistra e accompagnato da tutta la nobiltà francese e napolitana, indi si recò con tale corteggio alla chiesa di san Gennaro, ove giurò ai Napolitani di governarli e mantenere i loro diritti, libertà e privilegj. Creò cavalieri molti giovani gentiluomini che gli avevano chiesto questo favore, e senza essere altrimenti coronato, o avere ricevuta l'investitura della Chiesa, si ritirò al suo palazzo[313].
Giovanni Gioviano Pontano, di quest'epoca il più celebre letterato di Napoli, fu scelto da Carlo VIII per arringare il popolo nel giorno della sua inaugurazione. Quest'uomo, che i re d'Arragona avevano colmato di beneficj, non consultò che la sua vanità di retore, e non si curò che della bellezza delle frasi, non già dei sentimenti onde avrebbero dovuto essere animate. Parlò così enfaticamente del principe francese, e con tanta amarezza degli Arragonesi, come se il primo avesse appagati tutti i voti del popolo, e gli altri non avessero per verun titolo meritata la sua riconoscenza. Tanta viltà era un vizio universale di tutti i letterati di quel secolo, che nudriti, come gli antichi trovatori, co' beneficj de' grandi signori, non avevano nè dignità, nè carattere, nè indipendenza. Al pubblico spiacque altamente la condotta di Pontano; e n'ebbe detrimento anche la sua gloria letteraria[314].
L'inaugurazione di Carlo VIII era in certo qual modo l'ultimo atto di sovranità ch'egli aveva intenzione di esercitare in Napoli, avendo determinato di partire dopo otto giorni. Nominò suo vicario Giberto di Montpensier, della casa di Borbone, valoroso cavaliere, ma che non aveva nè ingegno, nè cognizioni, ne attività: mai non erasi alzato da letto prima di mezzogiorno, sebbene in quell'età la moda non avesse per anco introdotta la costumanza delle ore tarde della presente età[315]. D'Aubignì, della casa Stuardi di Scozia, che Carlo VIII aveva creato contestabile del regno, conte d'Acqui e marchese di Squillace, fu nominato luogotenente del re in Calabria. Costui, secondo il Comines, era un saggio cavaliere, buono ed onorato, e gl'Italiani gli danno il primo posto tra i generali dell'armata francese. Stefano de Vese, siniscalco di Belcario, gran ciambellano di Napoli, duca di Nola e sovrintendente delle finanze del regno, venne incaricato del comando di Gaeta. Egli aveva, dice il Comines, una carica maggiore di quella che potesse ed avesse saputo portare. Un gentiluomo lorenese, chiamato don Giuliano, fu lasciato a sant'Angelo, col titolo di duca; Gabriello di Montefalcone a Manfredonia; Guglielmo di Villanuova a Trani; Giorgio di Sylli a Taranto; il balivo di Vitrì all'Aquila, e Graziano Guerra a Sulmona negli Abruzzi[316].
Carlo VIII divise la sua armata con questi diversi capi. Lasciò loro la metà degli Svizzeri, una parte de' Guasconi, ottocento lance francesi, e cinquecento uomini d'armi italiani all'incirca, comandati dal prefetto di Roma, fratello del cardinale della Rovere, da Prospero e da Fabrizio Colonna, e da Antonio Savelli. Questi grandi signori italiani, i più riputati condottieri di quell'età, erano coloro che il re aveva principalmente cercato di affezionarsi. Aveva in particolar modo favoriti i Colonna, dando a Fabrizio le contee d'Albi e di Tagliacozzo, ed a Prospero il ducato di Tragitto, la città di Fondi e molti castelli tolti alle case de' Gaetani e de' Conti. Tra i nobili napolitani si appoggiava principalmente al principe di Salerno ed a suo fratello, il principe di Bisignano, che avevano passati molti anni alla corte di Francia come emigrati, e che non potevano non essere attaccati ai suoi interessi. Aveva al primo restituita la carica di grande ammiraglio, e perchè lo risguardava come un cortigiano francese, lo aveva trattato collo stesso favore[317]. Ma non erasi tanto gagliardamente stabilito in Italia per sperare che gl'Italiani si difendessero da sè medesimi; e dopo avere divisa la sua armata, non lasciava abbastanza di truppe per custodire il regno, nè seco ne conduceva quante potevano bastare per essere certo di aprirsi un passaggio.
Il 20 di maggio dopo mezzogiorno Carlo VIII partì da Napoli per tornare in Francia. Seco conduceva ottocento lance francesi, senza contare i dugento gentiluomini della sua guardia, Gian Giacomo Trivulzio con cent'uomini d'armi italiani, tre mila fanti svizzeri, mille francesi e mille guasconi, ed in Toscana doveva essere raggiunto da Camillo Vitelli e dai suoi fratelli con dugento cinquanta uomini d'armi[318]. La stessa sera andò a dormire ad Aversa, prendendo la strada di Roma.
Si era fatto precedere dall'arcivescovo di Lione per pregare il papa di aspettarlo in Roma, assicurandolo di essere un figlio ubbidiente della Chiesa, desideroso di ravvicinarsi a lei, e che, siccome tutte le sue intenzioni erano pacifiche, ogni difficoltà verrebbe tolta nella prima conferenza[319]. Dall'altro canto il duca di Milano ed i Veneziani, per tenere Alessandro fedele alla loro alleanza, gli avevano di già mandati mille cavalleggeri, e due mila fanti. Stavano pure per aggiugnervi altri mille uomini d'armi; ma conobbero non essere prudente consiglio il mandare a tanta distanza i diversi loro corpi d'armata, ed in particolare di darne uno tanto importante alla fede di un uomo che niun giuramento poteva legare, e che anche in allora stava negoziando coi loro nemici. Persuasero dunque il papa a ritirarsi, quando si avvicinerebbe Carlo, ed infatti Alessandro VI, accompagnato dal collegio de' cardinali, da dugento uomini d'armi, da mille cavalleggeri e da tre mila fanti, uscì di Roma il 30 di maggio prendendo la strada di Orvieto, mentre che il re vi entrò il primo di giugno[320].
Carlo VIII non voleva parere in Roma nemico del papa, ed il papa dal canto suo evitava qualunque ostilità. Castel sant'Angelo era difeso da una numerosa guarnigione; ma in pari tempo aveva Alessandro lasciato in Roma il cardinale di sant'Anastasio per ricevere con onore il monarca ed offrirgli un alloggio nel Vaticano. Carlo non volle accettarlo, ed andò a stare nel quartiere del Borgo[321].
Carlo VIII non si trattenne che tre giorni in Roma; e per quante ragioni avesse di non essere contento del papa, invece di dare orecchio ai suoi nemici, che proponevano di nuovo di farlo deporre, egli cercò di addolcirlo, facendo consegnare ai di lui ufficiali le fortezze di Cività Vecchia e di Terracina: conservò per altro quella di Ostia, che poi consegnò al cardinale di san Pietro ad Vincula. L'armata era meno del re disposta ad usare tanti riguardi; si diresse in tre colonne da Roma alla volta della Toscana, e nel suo passaggio saccheggiò gran parte del territorio della Chiesa, spogliò Toscanella, e ne uccise tutti gli abitanti[322]. Di ciò spaventato, il papa ritirossi da Orvieto a Perugia, con intenzione di fuggire ad Ancona, e di là per mare a Venezia, se il re continuava qualche tempo ancora a tenergli dietro.
Ma dopo di avere attraversato lo stato della Chiesa, Carlo VIII prendeva la strada della Toscana. Il 13 di giugno entrò in Siena, dove aveva ordinato a Filippo di Comines di andare a scontrarlo. Allorchè lo vide, gli chiese ridendo se i Veneziani pensavano da vero a venire con lui a battaglia; e sebbene il suo ambasciatore lo assicurasse che avevano in armi quaranta mila uomini, non volle tenerne conto; «perchè tutta la sua compagnia era formata di gioventù, e credevano che in fuori di loro niun altro portasse le armi[323].» Infatti invece di avanzarsi rapidamente, onde prevenire l'unione di tutti i suoi nemici, ed in particolar modo de' Tedeschi, che più degli altri doveva temere, si trattenne sei giorni in Siena, per occuparsi intorno alle turbolenze di quella città, dove il monte del popolo e quello de' riformatori erano gelosi di quello dei nove, e volevano forzarlo a licenziare una guardia di trecento uomini, attaccata a lui solo[324]. Il signore di Lignì, della casa di Lussemburgo, uno de' favoriti di Carlo VIII, s'immaginò di potere approfittare di queste dissensioni per ottenere la sovranità di Siena. In tale intrapresa l'incoraggiavano alcuni faziosi sienesi; ed il re, che aveva più bisogno che mai di tutte le sue forze per sè medesimo, lasciò non pertanto tre cento uomini a Siena, sotto il comando di Gaucher de Tinteville, per custodia di questa pretesa sovranità di Lignì. Fu questi effettivamente nominato capitano generale della repubblica col soldo di venti mila fiorini all'anno, per compenso della promessa del re di guarentire ai Sienesi tutto il loro territorio ad eccezione di Montepulciano. Ma non era ancora venuta la fine di luglio, che nuove sollevazioni avevano cacciati fuori di Siena il luogotenente di Lignì, e tutti i Francesi[325].
In pari tempo i Fiorentini avevano intavolate con Carlo VIII nuove negoziazioni per ottenere, a norma delle fatte promesse, la restituzione di Pisa. Perciò non gli offrirono solamente di pagare i trenta mila fiorini che tuttavia gli dovevano in forza del precedente trattato, ma inoltre di prestargliene settanta mila, e di farlo accompagnare fino ad Asti da Francesco Secco, loro capitano, con tre cento uomini d'armi e due mila fanti. Ove non avesse presa in considerazione che la politica, Carlo VIII otteneva, accettando tali proposizioni, non leggeri vantaggi; e perchè inoltre trattavasi di dare esecuzione agli obblighi di già presi con giuramento, i suoi consiglieri non sapevano allegare verun motivo in contrario. Pure i Pisani avevano inspirata tanta compassione a tutti i capitani svizzeri e francesi, che si erano alcun tempo trattenuti nella loro città, tanto sventurata era la sorte loro, e così grande la fidanza loro nel re, che Carlo non sapeva risolversi a darli nelle mani dei loro nemici: perciò, secondo aveva costume di fare quando non sapeva risolvere, prese tempo a decidere. Ordinò agli ambasciatori fiorentini di seguirlo a Lucca, promettendo che in quella città terminerebbe la cosa con loro aggradimento[326].
Carlo VIII non sapeva ancora quale strada prenderebbe per attraversare la Toscana. I Fiorentini che non avevano troppe ragioni per essere di lui contenti, non volevano averlo un'altra volta entro le proprie mura. Erano in ispecial modo agitati dall'avviso che avevano avuto, che Pietro de' Medici, fuggito da Venezia, aveva raggiunto Carlo VIII; che lo accompagnava nella sua tornata, e che sperava di approfittare del suo passaggio per Firenze onde farsi riporre nella perduta autorità. Una lettera intercettata di Pietro de' Medici a Pietro Corsini più non permetteva di porre in dubbio questo suo progetto; e l'esempio della signoria domandata a Siena a favore del Lignì, accresceva questi timori. I Fiorentini, che fino a quell'epoca avevano con istraordinaria pazienza sopportate le ingiustizie, l'orgoglio e la negligenza del re de' Francesi, mostrarono, per difendere la loro libertà, una inaspettata fermezza. Essi sollecitamente si provvidero di armi e di soldati, che fecero entrare nella loro città; barricarono tutte le strade, tranne una sola; e, senza avere voluto entrare nella lega, chiamarono non pertanto alcune truppe veneziane in loro ajuto[327]; all'ultimo fecero dichiarare al re che, risoluti essendo di morire per la loro libertà, non solo mai non permetterebbero a Pietro di rientrare in città, ma nemmeno di attraversare il loro territorio. Carlo VIII cedette rispetto a questo punto; ordinò a Pietro de' Medici di recarsi a Lucca, senza toccare il territorio fiorentino, e Gherardo Corsini e Niccolò Pazzi lo accompagnarono con un araldo d'armi, perchè quest'ordine fosse eseguito[328].
Intanto Carlo passò da Siena a Poggibonzi, ove trovò fra Girolamo Savonarola, mandato dalla repubblica fiorentina come ambasciatore presso di lui. Questo frate, facendo uso, come soleva, dell'autorità divina invece de' motivi politici, rimproverò al re i disordini commessi dalla sua armata, il suo disprezzo pei giuramenti dati sugli altari, la sua negligenza nel riformare la Chiesa, al quale oggetto Iddio lo aveva chiamato in Italia, e condotto quasi per mano. Lo avvisò che se non si pentiva, se non mutava condotta, Dio non tarderebbe a punirlo severamente: in appresso si credette di scorgere l'avveramento di queste predizioni nella morte del Delfino. Carlo, turbato da queste profezie, lasciò la strada di Firenze e prese quella di Pisa[329].
Appena giunto in questa città, si vide attorniato da un popolo piagnente: gli uomini, le donne, i fanciulli si affollavano inginocchiati intorno a lui, supplicandolo di salvarli; gli rammentavano che andavano a lui debitori della loro libertà, che la fidanza loro nella reale sua promessa gli aveva spinti a compromettersi interamente coi Fiorentini; di modo che se intollerabile era il giogo che avevano portato prima della rivoluzione, ancora più pesante diventerebbe in avvenire, perchè i loro oppressori crederebbero di doversi vendicare. Nello stesso tempo, trovandosi tutti gli ufficiali dell'armata alloggiati presso i cittadini, ogni famiglia pisana si faceva intorno al suo ospite, gli narrava i passati patimenti, a lui si raccomandava ed implorava coi singhiozzi la sua misericordia. Omai tutti coloro che successivamente erano stati dal re mandati a Pisa, avevano prese la parte de' pisani, e si unirono agli abitanti della città per risvegliare la compassione de' loro commilitoni. Non è possibile il figurarsi quanto l'armata francese rimanesse commossa da tali preghiere, e con quanto ardore quegli uomini, così duri e talvolta così feroci, abbracciarono la causa de' Pisani. Il cardinale di san Malo, il maresciallo di Giè ed il presidente, di Gannay, che sapevasi avere instato per la restituzione di Pisa, furono minacciati dai soldati e dagli arcieri, ed accusati di essersi lasciati vincere dal danaro de' Fiorentini. Cinquanta gentiluomini della casa del re, portando le loro scuri al collo, recaronsi a trovarlo nella camera, dove giuocava alle carte col signore de Piennes; Sallezzard, uno di loro, si fece a parlare, stringendo il re a favore de' Pisani, ed accusando di tradimento coloro che erano loro contrarj: e piuttosto che lasciare per mancanza di danaro ridurre il re ad un'azione che disonorerebbe il nome francese, offrì per parte di tutta l'armata il condono de' soldi arretrati, ed inoltre le collane e le catene d'argento di cui andavano ornati gli ufficiali. Se il re fosse stato degno di così valorosa armata, avrebbe cercato di sbrigarsi onorevolmente dalle contraddittorie promesse incautamente fatte, di trattare ad eque condizioni un riconciliamento tra i Pisani ed i Fiorentini, guarantendo la libertà dei primi, ed accordando qualche cosa ai diritti degli altri, ed approfittando della circostanza che le fortezze lo rendevano assoluto arbitro di Pisa, per non ordinare che cose giuste e vantaggiose alle due parti. Invece di prendere una risoluzione decisiva, il re mostrossi imbarazzato, ricusò ai Pisani qualunque nuova promessa, e fece dire agli ambasciatori fiorentini, che lo aspettavano a Lucca, di prendere la strada di Asti, ove lo troverebbero[330].
Ma senza risolvere intorno all'avvenire, Carlo VIII soddisfece gli amici de' Pisani colla scelta de' comandanti che diede alle fortezze della città e del territorio, prendendoli tutti tra le persone affezionate a Lignì, il grande avvocato de' Pisani. Diede il comando della fortezza, di cui aveva mutata la guarnigione, a Rostecco di Balzacco, signore d'Entragues, servitore del duca d'Orleans e del Lignì, che non era riputato degno di tal carica. Lasciò sotto i suoi ordini le fortezze di Librafratta, di Pietra Santa e di Mutrone. Confidò Sarzana al bastardo de Roussi, servitore di Lignì, e Sarzanello ad un'altra creatura dello stesso conte. Il re si riposò quattro giorni a Pisa, ove, siccome nelle altre fortezze della Toscana, lasciò quei soldati, de' quali doveva in breve sentire il bisogno per sè medesimo[331].
Intanto la posizione dell'armata francese facevasi ogni giorno più difficile. In Lombardia avevano cominciato le ostilità, ed i Francesi erano stati i primi. Avevano i Veneziani protestato che non avrebbero attaccato il re nella sua tornata, e che soltanto si sarebbero tenuti apparecchiati a difendere il duca di Milano contro chiunque avesse intrapreso a nuocergli[332]. In questi frangenti il duca d'Orleans, che soggiornava in Asti, sorprese Novara, e Carlo VIII n'ebbe avviso prima che uscisse di Siena.
Il re aveva ordinato al duca di Orleans di rispettare il territorio milanese e di tenersi in Asti. Ma Lodovico Sforza, dopo la formazione della lega, desiderava di strascinare i Veneziani nella guerra col provocare il suo rivale. Fece partire da Milano settecento uomini d'armi e tre mila pedoni, sotto il comando di Galeazzo Sanseverino, facendo l'intima al duca d'Orleans di lasciare il titolo di duca di Milano, titolo che il duca Carlo d'Orleans, padre dell'attuale, aveva pure portato, siccome erede di Valentina Visconti; gl'intimò in pari tempo di non permettere che scendessero altre truppe francesi in Italia, e di affidare la custodia di Asti a Galeazzo Sanseverino, cui il re nel precedente anno aveva accordato il suo ordine di Sammichele, indicandolo con ciò, siccome persona di cui si fidava[333]. Il duca d'Orleans, lungi dal lasciarsi sgomentare da tanta arroganza, e dal numero delle forze che gli si diceva che la lega metteva in campagna contro di lui, fu il primo ad entrare in guerra, attaccando la terra ed il castello di Gualfinara nel marchesato di Saluzzo, e costringendo il Sanseverino a ritirarsi a Non, castello del duca di Milano, non molto discosto da Asti.
Frattanto lo Sforza, che si era obbligato a chiamare molte truppe tedesche, non aveva spedito sufficiente danaro in quel paese per assoldarle. L'armata del Sanseverino andava scemando a cagione delle frequenti diserzioni, mentre che quella del duca d'Orleans ingrossava ogni giorno pei rinforzi che riceveva dalla Francia: omai contava tre cento lance, tre mila fanti svizzeri, ed altrettanti guasconi. Trovandosi di già con un'armata assai più numerosa di quella dello Sforza, diede orecchio alle suggestioni de' malcontenti novaresi, i di cui capi, Opicino Caccia e Manfredo Tornielli, avevano a dolersi dello Sforza a cagione di clamorose ingiustizie sostenute rispetto alle loro proprietà. Questi due gentiluomini aprirono l'undici di giugno le porte di Novara ai Francesi, e vi ricevettero il duca d'Orleans con tutta la sua armata[334].
La sorpresa di Novara empì di terrore tutto lo stato di Milano; e se il duca d'Orleans si fosse subito avanzato colle sue truppe, avrebbe probabilmente fatta nascere una rivoluzione in Lombardia. Il supposto avvelenamento di Giovanni Galeazzo, aveva alienati tutti gli animi dal Moro, e rendeva assai più amare le lagnanze eccitate dalla gravezza delle imposte, e dalle ingiustizie del governo: ma il duca d'Orleans non era ben informato della disposizione degli abitanti, nè delle forze del suo avversario. Prima di compromettersi, credette necessaria l'occupazione della fortezza di Novara, che non ebbe che sei giorni dopo della città; tale ritardo fu la salvezza dello Sforza, avendo dato tempo al Sanseverino di condurre la sua armata a Vigevano, di unirvi tutti i rinforzi che potè raccogliere nel vicinato, ed all'ultimo di essere raggiunto da un altro corpo d'armata che lo Sforza voleva spedire al campo veneziano nel ducato di Parma, e da uno squadrone di Stradioti, che gli cedette la signoria di Venezia. Mille cavalli e due mila pedoni tedeschi raggiunsero pure il Sanseverino, ed il duca d'Orleans, non avendo saputo approfittare del momento favorevole per attaccare, fu ridotto a stare sulle difese, ed a chiudersi in Novara[335].
La prima notizia della presa di Novara aveva fatto molto piacere al re ed all'armata francese; ma quando si ebbe più circostanziata contezza delle difficoltà in cui si trovava implicato il duca d'Orleans, i più prudenti sentirono che la situazione del re diventava più difficile. Pure Carlo VIII avanzavasi lentamente, volendo godere le feste che gli si davano in tutte le città, e tutte gustare le adulatrici dimostrazioni di ammirazione per le sue gesta. Il 23 di giugno era partito da Pisa alla volta di Lucca, ed arrivò a Pontremoli soltanto il giorno 29[336]. Una delle ragioni che gli faceva così a rilento attraversare la Toscana era l'impresa che meditava sopra Genova. I cardinali della Rovere e Fregoso seguivano il campo di Carlo insieme con Ibletto dei Fieschi: questi tre emigrati genovesi avevano nella forza del loro partito quella confidenza, che inganna quasi sempre gli emigrati, onde promettevano, quando si dasse loro un qualche corpo di truppe colle quali presentarsi sotto Genova, di eccitarvi una rivoluzione. Lusingavansi di adunare molti partigiani tra le montagne, sollevare le città e cacciare gli Adorni. Invano i consiglieri del re gli rappresentavano quanto fosse imprudente consiglio quello di dividere le sue forze, in tempo che ne aveva appena quanto bastava per farsi strada a traverso alla Lombardia; gli emigrati genovesi furono soli ascoltati, tanto più che Filippo, conte di Bresse, pro zio del duca di Savoja, cui successe non molto dopo, si valse dell'ascendente che aveva sullo spirito del re per secondare quest'impresa, di cui volle egli stesso avere il comando. Il re gli acconsentì di prendere cento venti lance francesi e cinquecento fanti; i fratelli Vitelli di Città di Castello, che si erano posti al soldo della Francia, ma che non avevano per anco raggiunta l'armata, ebbero ordine di seguire Filippo di Bresse con dugento uomini d'armi e con dugento cavalleggeri italiani. Giovanni di Polignacco, signore di Belmonte, suocero di Comines, ed Ugo d'Amboise, barone d'Aubijoux, furono posti sotto i suoi ordini: la flotta, comandata dal signore di Miolans, ed in allora ridotta a sette galere, due galeoni e due fuste, doveva secondarlo per mare, ed i due cardinali, avendo levata della fanteria nello stato di Lucca, nella Garfagnana e nella Liguria, condussero questa piccola armata fino alle porte di Genova. Ma ben lungi dal potervi muovere qualche sollevazione, a stento poterono difendersi contro Giovan Luigi dei Fieschi, che gl'inseguiva, e non giunsero in Asti, che dopo avere perduta molta gente, salvandosi a traverso alle montagne in mezzo ad infiniti pericoli: ed intanto la piccola flotta francese fu disfatta in quello stesso golfo di Rapallo, ove pochi mesi prima aveva ottenuta una vittoria[337].
La vanguardia francese, condotta dal maresciallo di Giè e da Gian Giacomo Trivulzio, aveva trovata la città di Pontremoli custodita da quattrocento fanti del duca di Milano. Questa guarnigione avrebbe potuto tenere lungamente, ed esporre l'armata nemica a dure privazioni, ma il Trivulzio la persuase a capitolare ad onorevoli condizioni. Intanto appena furono gli Svizzeri entrati in Pontremoli, che, sovvenendosi di una contesa avuta con quegli abitanti in occasione del primo loro passaggio, contesa nella quale erano periti quaranta de' loro compatriotti, si fecero a dosso ai borghesi, uccidendo quanti ne scontravano, ed appiccando il fuoco alle case. Con tale incendio distrussero abbondanti magazzini di vittovaglie, nell'istante in cui l'armata cominciava a sentirne il bisogno; ma la violazione della capitolazione fu ancora più pregiudicevole che la distruzione de' granai del nemico, perchè i contadini, più non fidandosi di uomini capaci di così aperta violazione della data fede, lasciarono di recare viveri al campo[338].
Intanto il re si era posto in un piccolo villaggio al di là di Pontremoli, mentre che il maresciallo di Giè aveva attraversate le montagne coll'avanguardia, ed erasi accampato a Fornovo in faccia al nemico: Contava di essere immediatamente seguito dal rimanente dell'armata, ma Carlo VIII non volle internarsi nelle montagne, se prima non era passata la sua artiglieria, e si trattenne cinque giorni in quel villaggio presso Pontremoli, sebbene la sua armata soffrisse grandissima penuria di viveri. Giovanni de la Grange direttore dell'artiglieria, ed il signore de la Tremouille eransi incaricati di trasportare al di là delle montagne tutto ii treno militare, e furono assai ben serviti dagli Svizzeri, che, per far dimenticare gli eccessi commessi a Pontremoli, lavorarono con molto zelo a tirare i carri de' cannoni a forza di braccia. Eranvi quattordici pezzi di cannone di grosso calibro, molti piccoli, ed un proporzionato numero di cassoni e di munizioni da guerra. La montagna, sulla quale era stato negligentemente segnato un sentiere, erto e scosceso, innalzavasi al di sopra di Pontremoli con assai ripido declivio, che a stento praticavasi dai muli, indi colla stessa ripidità scendeva in una valle per rimontare di nuovo. Gli Svizzeri si attaccavano con lunghe corde a due a due fino in numero di dugento ad un solo pezzo d'artiglieria, e dopo averlo strascinato fino alla sommità della montagna, duravano ancora maggior fatica e si esponevano a più grandi rischi nel ritenerlo scendendo. Molti operaj lavoravano su tutta l'estensione della strada a rompere le rupi che chiudevano la strada, a colmare i bassi fondi, a rialzare i cannoni rovesciati, o a ripararne l'attiraglio. I soldati e gli uomini a cavallo si erano divise le munizioni, e per quanto fosse aspra la montagna, per quanto insopportabile il calore, veruno ponevasi in cammino senza essersi caricato di palle, o di cartoccie, portando perfino cinquanta libbre. Verun'armata non aveva per anco eseguita una così difficile spedizione, nè sostenute tante fatiche. Finalmente cinque giorni dopo tutta l'artiglieria trovavasi al di là del monte, e lo stesso re partì il giorno tre di luglio per attraversarla passando per Berceto, Casi e san Terenzo[339].
La vanguardia del maresciallo di Giè, accampata a Fornovo, aveva soltanto sei cento lance e mille cinque cento Svizzeri. L'armata dei confederati, che si era adunata in vicinanza di Parma, ubbidiva a Francesco Gonzaga, signore di Mantova, che, malgrado la sua giovinezza, aveva opinione di essere uno de' migliori capitani; e gli erano stati dati per consiglieri Luca Pisani e Marco Trevisani, provveditori veneziani. Le truppe milanesi erano comandate dal conte di Cajazzo, ajutato da Francesco Bernardino Visconti, commissario, ed uno de' primarj capi ghibellini di Milano. Contavansi nella loro armata due mila cinque cento uomini d'armi, e più di cinque mila cavalleggeri, la metà de' quali erano Stradioti d'oltremare. Il preciso numero della cavalleria riesce sempre difficile a calcolarsi in tutte le relazioni di quest'epoca, perchè talvolta contavansi sei cavalli per lancia, talvolta quattro e talvolta meno. Pietro Bembo, lo storico veneziano, tenta di rappresentare l'armata della sua patria come più debole d'assai che non lo era effettivamente, ed in tutto non dà al marchese Gonzaga che dodici mila cavalli, ed altrettanti pedoni. Stando agli altri storici, eranvi in tutto quasi quaranta mila uomini[340]. I confederati avrebbero facilmente potuto occupare Fornovo; ma preferirono di porre il loro campo alla Ghiaruola, tre miglia al di sotto di Fornovo, per attirare il nemico in aperta campagna, e non isforzarlo a prendere il cammino di Borgo di Val di Taro e del monte di Cento Croci, che, sebbene a traverso di paesi aspri e difficili assai, pure l'avrebbe condotto fino in vicinanza di Tortona[341].
Il maresciallo di Giè, giunto a Fornovo, a così piccola distanza da un'armata tanto superiore di forze alla sua, spedì al campo nemico un trombetta, che chiese il libero passaggio per l'armata del suo re e vittovaglie a moderati prezzi. In pari tempo Giè incaricò alcuni corpi avanzati di riconoscere il paese nemico, ma vennero respinti dagli Stradioti. In quel giorno i capitani italiani perdettero l'occasione più opportuna di distruggere l'armata francese. Se attaccavano la vanguardia, che in allora si trovava lontana più di trenta miglia dal corpo di battaglia, l'avrebbero facilmente disfatta; ma essi non conobbero la forza, o la distanza che separava i due corpi, e lasciarono il tempo a Carlo VIII di arrivare coll'artiglieria e con tutte le sue genti[342].
Anche dopo l'unione di tutta l'armata, la Francese era più debole assai di quella degli alleati. Carlo VIII l'aveva sconsigliatamente indebolita, staccandone varj corpi; il Comines non gli dà che nove cento uomini d'armi, comprendendo anche la casa del re, due mila cinquecento Svizzeri, ed in tutto sette mila uomini pagati. Ma potevano esservi di più mille cinquecento uomini capaci di combattere, che seguivano il treno della corte come servitori; onde il Comines soggiugne: «Il conte di Pitigliano, che gli aveva contati meglio di me, diceva che in tutto eranvi nove mila uomini, e me lo disse dopo la nostra battaglia di cui si parlerà[343];» e non era che il quarto dell'armata italiana. Inoltre la mancanza dei viveri nel passaggio della montagna e la sostenuta fatica avevano spossati i Francesi; e per ultimo l'armatura e l'inusitata maniera di combattere degli Stradioti loro inspiravano qualche terrore.
Il re giunto a Fornovo la domenica, 5 luglio, verso il mezzogiorno, scoprì dall'altura ch'egli occupava il campo nemico come il suo. Stavano ambidue sulla destra sponda del Taro, fiume che scende dalle montagne di Genova per scaricarsi nel Po. Per proseguire il loro viaggio i Francesi dovevano passare sulla sinistra del Taro; ma il marchese Gonzaga, invece di occupare quella riva, aveva stabilito di accamparsi dalla stessa banda che i Francesi, ed alquanto più basso, presso Oppiano, onde conservare una facile comunicazione con Parma, ed impedire ai Francesi di gettarsi in questa città. Le colline, disposte in forma d'anfiteatro, lasciavano tra esse ed i due campi un largo piano coperto di ghiaja, e che serviva talvolta di letto al torrente, ma di cui non occupava ordinariamente che una piccola parte. Potevasi sempre guadare, quando non veniva ingrossato con estrema rapidità dalle piogge delle montagne; ma in allora volgeva grossi massi di pietra con grandissimo fracasso, e rompeva ogni comunicazione tra le due sponde. Una piccola foresta stendevasi sulla destra del Taro dal campo veneziano fino a breve distanza dal campo francese, e cuopriva gli Stradioti, quando si avvicinavano per scaramucciare[344].
I Francesi avevano in Fornovo trovate molte vittovaglie, di cui avevano estremo bisogno; ma perchè inclinavano a credere gl'Italiani capaci di ogni sorta di perfidia, temettero per qualche tempo che que' viveri fossero avvelenati, e non osarono di valersene, finchè non gli ebbero più oltre sperimentati coi loro cavalli. Le ricche campagne della Lombardia stendevansi a vista d'occhio, ma prima di giugnervi d'uopo era venire a battaglia: il marchese Gonzaga, accampandosi in tanta vicinanza, faceva pienamente conoscere la sua intenzione di azzuffarsi; perciocchè non potevasi a meno di non passare innanzi a lui, non avendo la valle che quella sola uscita; e la grandezza del suo accampamento atterriva anche i più audaci, tanto più che, secondo il costume italiano, abbracciava un vasto spazio al di là delle tende affinchè tutta l'armata potesse schierarvisi in ordine di battaglia.
Filippo di Comines era di fresco tornato da Venezia; conosceva tutti i capi dell'armata nemica, e si era da loro allontanato amichevolmente. Il re desiderò che ricominciasse con loro qualche negoziato, e gli ordinò di scrivere ai due provveditori veneziani. Per altro non potè risolversi a proporre verun soggetto d'accomodamento[345]. Il Gonzaga dal canto suo, quando ricevette il trombetta del maresciallo di Giè, aveva consultato se convenisse compromettere tutte le forze d'Italia per trattenere e ridurre alla disperazione un nemico che fuggiva. I capi della sua armata, incerti tra l'onore e la prudenza, non avevano potuto accordarsi in una sola sentenza; avevano domandati nuovi ordini a Milano ed a Venezia; ed i loro governi avevano convenuto di permettere al re di ritirarsi senza venire alle mani: ma gli ambasciatori di Spagna e di Germania, sperando che i loro padroni coglierebbero i frutti della guerra senza esporsi a verun pericolo, avevano invano rappresentato che sarebbe compromesso l'onore delle armi italiane, quando non osassero di combattere un nemico così debole, e che i Francesi non Tarderebbero a rivalicare le Alpi, quando avessero tale caparra che gl'Italiani mai non ardissero tener loro testa[346].
I provveditori veneziani non vollero perciò assolutamente rigettare le aperture loro fatte dal Comines: risposero che il duca d'Orleans attaccando Novara aveva cominciate le ostilità, che dopo questo fatto le disposizioni loro non erano più così pacifiche; pure che uno di loro recherebbesi di buon grado nel susseguente giorno a metà strada delle due armate per incontrare il negoziatore francese. Questo riscontro ebbe il Comines la sera della domenica. I Francesi si tennero quella notte nel loro campo pieni di sospetti, sia a motivo di due movimenti fatti dagli Stradioti, contro i quali non eransi abbastanza cautamente posti in su le guardie, o sia a cagione di una burrascosa pioggia, mista di lampi e di tuoni, che di già cominciava a gonfiare il Taro: lo scoppio del folgore eccheggiava tra le gole degli Appennini, mentre che il torrente colle sue onde travolgeva con gran fracasso i sassi[347].
All'indomani, lunedì 6 luglio, il re, di già armato ed a cavallo, fece a sette ore del mattino chiamare a sè il Comines, e lo incaricò di andare col cardinale di san Malo a dichiarare ai Veneziani, che altro non voleva che proseguire il suo viaggio, senza fare nè ricevere danno. Nello stesso tempo attraversò il Taro in faccia a Fornovo, per continuare a scendere lungo la riva sinistra, e passare avanti al campo veneziano che lasciava sulla riva destra ad un quarto di lega di distanza. Le truppe leggeri scaramucciavano su tutti i punti, ed il cannone cominciò a tirare nell'istante in cui la lettera del Comines e del cardinale di san Malo giunse in mano de' provveditori veneziani. Non pertanto mostrarono tuttavia qualche desiderio di entrare in negoziazione; ma il conte di Cajazzo gridò che non era più tempo di parlamentare, e che i Francesi erano di già vinti a metà. Uno de' provveditori, ed il marchese di Mantova furono dello stesso parere; fecero tacere coloro che volevano ancora parlare, e cominciò la battaglia[348].
L'avanguardia francese era comandata dal maresciallo di Giè e da Gian Giacomo Trivulzio: aveva alla testa tre cento cinquanta uomini d'armi, i migliori dell'armata, dietro ai quali venivano tre mila Svizzeri, comandati da Engelberto di Cleves, fratello del duca di Nevers, dal balivo di Digione, e da Lornay, scudiero maggiore della regina, finalmente erano sostenuti da tre cento arcieri della guardia, che per ordine del re erano scesi da cavallo. Il re, che comandava la battaglia, lasciò partire quest'avanguardia, mentre ch'egli attraversava il fiume, di modo che era di già arrivata a fronte del campo italiano, quand'egli trovavasene tuttavia molto lontano. Guinol di Lousieres, uno de' maestri della casa del re, e Giovanni de la Grange, balivo d'Auxonne, avevano il comando dell'artiglieria. Gilles Caronnel di Normandia portava lo stendardo dei cento gentiluomini della guardia, ed Aymar di Prie quello de' pensionarj. Erano diretti dal signor di Crussols dugento balestrieri a cavallo, dugento arcieri francesi e gli Scozzesi. Claudio de la Chastre comandava il corpo di battaglia sotto il re, e lo assisteva co' suoi consiglj. Per ultimo la retroguardia era comandata dai signori de la Guise e de la Tremouille. Tutti gli equipaggi, portati da circa sei mila bestie da soma, furono spediti per la strada della montagna a sinistra, sotto gli ordini del capitano Odet di Riberac, ma senza truppe che li cuoprissero[349].
L'armata italiana aveva fin allora tenuto d'occhio i movimenti de' Francesi, ed aveva lasciato che si stendessero sulla ghiaja; ma quando furono in piena marcia, e che i loro tre corpi si furono tanto allontanati gli uni dagli altri da non potere più sostenersi a vicenda, Francesco Gonzaga ordinò l'attacco. Mentre che il re discendeva sulla riva sinistra del Taro, il Gonzaga rimontava la riva destra; aveva occupato Fornovo, di dove erano appena partiti i Francesi, e colà passò il fiume dietro a loro in testa a seicento uomini d'armi, il fiore di tutta l'armata, di un grosso squadrone di Stradioti e di cinque mila fanti. Lasciò sulla sinistra Antonio di Montefeltro, figlio naturale del precedente duca d'Urbino, con una gagliarda riserva per assecondarlo in caso di bisogno: aveva ordinato che quando egli fosse venuto alle mani colla retroguardia, passasse il fiume alquanto più basso un altro squadrone di Stradioti e venisse a percuotere in sul fianco dell'armata francese, e che un terzo, tenendo la sinistra dal canto delle montagne, seguisse gli equipaggi, che il capitano Odet cercava di allontanare. Da un altro canto il conte di Cajazzo con quattrocento gendarmi e due mila fanti passò il Taro in faccia all'avanguardia francese per attaccarla di fronte. Lasciò sull'altra riva Annibale Bentivoglio con un corpo di riserva di dugento uomini d'armi; finalmente ai provveditori Veneziani fu affidata la custodia del campo con due forti compagnie di uomini d'armi e mille fanti. In tal modo apparecchiavansi i Veneziani ad attaccare nello stesso tempo l'armata francese alla testa, alla coda e di fianco; ma, accostumati alle battaglie d'Italia, nelle quali uno squadrone si presentava dopo l'altro, ed aspettava sempre di essere sostenuto da truppe fresche, trascurarono di adoperare contemporaneamente tutte le loro forze; indebolirono la loro armata con grosse riserve, che rimasero al di là del fiume, ed il loro più grande mancamento fu quello di non regolare da principio la marcia delle riserve, perchè giugnessero successivamente sul luogo della battaglia[350].
Intanto l'attacco del marchese di Mantova veniva diretto con somma bravura; al primo urto de' suoi uomini d'armi con quelli della retroguardia francese, tutte le lance si spezzarono, ed i due corpi si mischiarono per battersi colle mazze d'armi e collo stocco. Il re, che in quell'istante stava armando de' cavalieri nel corpo di battaglia, avvisato dal rumore che udiva farsi in sul di dietro, fece dar volta al suo campo d'armata, ed accorse in ajuto della sua retroguardia. Andava in tal modo sempre più allontanandosi dalla sua vanguardia, che, durante questa marcia retrograda, seguitava ad avanzarsi lungo le ghiaje del fiume. Ognuno correndo più o meno velocemente in ragione del proprio desiderio d'entrare in battaglia, il re si trovò quasi solo, mentre che un altro corpo nemico, che aveva passato il fiume di fianco a lui, non gli era omai distante più di cento passi. Il bastardo di Borbone, che gli stava a canto, essendosi spinto contro questi nuovi nemici per caricarli, fu trasportato dal proprio cavallo in mezzo a loro e fatto prigioniere. Carlo VIII, per quanto fu detto, in questo frangente si condusse con somma intrepidezza, gettandosi arditamente dove la mischia era più calda, incoraggiando i suoi soldati, e mostrandosi persuaso d'avere gli ajuti del cielo[351].
I Francesi, attaccati da forze infinitamente superiori, non avrebbero probabilmente potuto resistere a lungo, se mille cinquecento Stradioti avessero eseguiti gli ordini loro dati di mischiarsi agli uomini d'armi; quando l'ordinanza di questi era rotta, gli Stradioti colle lunghe loro sciable trovavansi avvantaggiati tra i cavalieri armati di lance, ed avrebbono fatta un'orribile carnificina di cavalieri francesi. Ma in mezzo alla battaglia, quelle truppe leggeri si avvidero che i loro camerata, avendo svaligiato l'equipaggio de' nemici, stavano dividendo una così ricca preda, mentre essi non si vedevano innanzi che pericoli. Tutti gli Stradioti lasciarono subito la battaglia per farsi addosso al convoglio caduto in potere de' soldati, e bentosto molti pedoni ed anche uomini d'armi presero la stessa via. Francesco Gonzaga, abbandonato da coloro ne' quali aveva riposta la sua maggiore fiducia, perdette in breve tutto il vantaggio che aveva avuto in principio dell'azione. Suo zio, Rodolfo Gonzaga, era stato ucciso ne' primi istanti della mischia, onde non aveva potuto eseguire la commissione che gli era stata data di far avanzare Antonio di Montefeltro, il quale, non ricevendo verun avviso, si tenne immobile. All'ultimo Francesco Gonzaga venne respinto; i suoi cavalieri, fuggendo, attraversarono il fiume, altri per riguadagnare il proprio campo, ed altri per entrare in Fornovo; dietro ai quali correndo la guardia francese a briglia sciolta, s'allontanò tanto dal re, che questi per la seconda volta trovossi separato dalla sua gente, ed esposto a grandissimi pericoli[352].
Nello stesso tempo il conte di Cajazzo aveva caricata la vanguardia francese, ma non così caldamente. Giunto a fronte degli uomini d'armi francesi, volse le spalle senza abbassare una lancia, e cominciò a fuggire, forse sperando di farsi inseguire, onde così sempre più allontanare la vanguardia dal luogo in cui combatteva il re; almeno così sospettò il maresciallo di Giè, il quale, sebbene con molto stento, contenne i suoi uomini d'armi, che volevano dare addosso ai fuggiaschi. Il re, rimasto alcuni istanti solo fra le due truppe, si trovò circondato ed attaccato da alcuni cavalieri, che mentre si ritiravano lungo le ghiaje del fiume si avvidero del suo isolamento. Pure Carlo VIII fu opportunamente soccorso da una banda di gentiluomini che venivano a raggiugnerlo. Bentosto la retroguardia, che aveva inseguito il nemico fino a Fornovo, diede addietro per accostarsi al re; ed allora continuarono tutti assieme a discendere sulla sinistra del Taro, per unirsi al corpo del maresciallo di Giè[353].
Questi si vedeva a fronte, sull'opposta sponda del fiume, il conte di Cajazzo, che aveva raggiunta la sua riserva, e che poco dopo venne pure ingrossato dal marchese Gonzaga con tutti coloro che si erano ritirati alla volta di Fornovo. L'armata italiana era tuttavia più numerosa assai che non la francese; pure nel consiglio di questa si consultò se dovesse attaccare il nemico. Gian Giacomo Trivulzio, Camillo Vitelli e Francesco Secco, condottieri italiani al servigio del re, volevano che si approfittasse degli ottenuti vantaggi per avere intera vittoria, che si ripassasse il Taro, che si attaccasse il campo italiano sull'opposta riva, e che si approfittasse del terrore, di cui apparivano manifesti segni nelle schiere nemiche. Facevano questi generali osservare che la strada di Parma era tutta coperta di gente, lo che dava a conoscere che molti fuggiaschi avevano di già abbandonato il campo, e cercavano di salvarsi da quella banda. Ma i capitani francesi, che mal conoscevano le strade, che difficilmente s'inducevano a credere compreso da terrore un così grande esercito, e che vedevano i proprj cavalli e soldati affaticati, non vollero esporsi a perdere i conseguiti vantaggi. Dopo qualche disamina il re andò ad alloggiare in un villaggio presso al Taro, alquanto al di sotto del luogo in cui erasi data la battaglia, ponendosi in una piccola casa al coperto della pioggia, che aveva continuato tutto il giorno[354].
L'urto tra gli uomini d'armi del marchese di Mantova e la retroguardia francese non era durato più d'un quarto d'ora, e più di tre quarti i secondi inseguirono i nemici: tanto l'impeto francese e la violenza delle cariche degli uomini d'armi aveva confusa la tattica italiana. I vincitori non perdettero più di dugento uomini, i vinti circa tre mila cinquecento. Moltissimi cavalieri, atterrati nel primo urto, furono uccisi in terra a colpi di scuri dai servitori dell'armata, ed i pedoni, separati dalla loro cavalleria, furono tagliati a pezzi: fra gl'Italiani uccisi in quest'azione si contarono Rodolfo di Gonzaga, zio del marchese; Rannuccio Farnese, Giovanni Piccinino, nipote del famoso Niccolò; Galeazzo di Coreggio, Roberto Strozzi ed Alessandro Beroaldi. Bernardino di Montone, nipote del gran Braccio, erasi pure lasciato tra gli estinti, ma guarì dalle sue ferite[355]. I Francesi non fecero un solo prigioniere per la stessa ragione che li dissuadeva dal difendere i proprj equipaggi e dallo spogliare i nemici. Erano essi in troppo piccol numero, e troppo lontani dal loro paese, per far cosa che potesse in qualunque modo ritardare il loro cammino. Più volte in tempo della battaglia si udirono gridare: Risovvengavi di Guinegales! Effettivamente in questo luogo avevano perduta una vittoria di già conseguita, per essersi sbandati a saccheggiare[356].
Il terrore nel campo degl'Italiani era più grande assai che non potevano supporlo i Francesi. La prodigiosa perdita fatta dai primi in così breve tempo aveva colpito la loro immaginazione, e durante la notte si ottenne a stento di trattenere i soldati, che volevano tutti fuggire a Parma. Il conte di Pitigliano, fatto prigioniere a Nola, e che veniva condotto dal re dietro l'armata col conte Virginio Orsini, suo cugino, essendo fuggito in tempo della battaglia, e salvatosi nel campo veneziano, contribuì potentemente a calmarli. Egli tenne dietro al fuggiaschi quasi due ore per richiamarli alla battaglia, gridando Pitigliano, Se gli fosse riuscito di riunirli, teneva per fermo che un nuovo attacco avrebbe ruinato i Francesi senza riparo. Egli aveva infatti veduto il disordine del loro campo, ed aveva conosciuto che la loro ordinanza di battaglia era stata più che altro opera dell'accidente, e che un solo urto di cavalleria, dagl'Italiani mal sostenuto, aveva decisa la sorte della battaglia. Egli sapeva che i Francesi non erano affatto sicuri della loro ritirata, e che sarebbe facile il far loro provare quello stesso terrore che avevano incusso ne' loro nemici. Ma tutti i suoi sforzi altro non ottennero che d'impedire la dispersione dell'armata; non già di ridurli ad un nuovo attacco, che egli avrebbe voluto tentare durante la notte. Altronde la continua pioggia aveva finalmente gonfiato il Taro, e di già questo torrente rendeva difficile l'avvicinamento d'un'armata all'altra[357].
Nel giorno 7 il re si accampò a Medesana, un miglio al di sotto al luogo in cui aveva passata la notte. Nello stesso tempo incaricò il Comines di ricominciare, s'era possibile, le negoziazioni, perciocchè desiderava di ritirarsi tranquillamente; lo che non poteva fare con piena sicurezza in vicinanza d'una armata più numerosa assai della sua. Per trattare di conserva col Comines nominava il cardinale di san Malo, il maresciallo di Giè e Lodovico di Allewin, signore di Piennes. I commissarj italiani furono il marchese di Mantova, il conte di Cajazzo ed i due provveditori veneziani. Erano da ambo le parti i più ragguardevoli personaggi delle due armate; ma la difficoltà consisteva nel riunirli. Avanzaronsi gli uni e gli altri dal canto loro sulle ghiaje del torrente; ma niuno osava di passare il fiume, soverchiamente ingrossato dalle pioggie, e che volgeva le onde con tanto fracasso, che non era altrimenti possibile l'intendersi dall'una all'altra riva. All'ultimo il Comines con Robertet, segretario del re, si recò presso i Veneziani, ma era incaricato soltanto di proporre una conferenza. In quest'abboccamento si parlò della precedente battaglia, e credendo il marchese di Mantova che suo zio fosse ancora vivo, lo raccomandò al Comines insieme a tutti gli altri prigionieri: ma il Comines si guardò dal rispondere che i Francesi non avevano dato quartiere a veruna persona. Si convenne di avere un'altra conferenza verso sera, ma i Veneziani fecero in appresso avvisare il Comines di protrarla fino all'indomani, per non arrischiare di scontrarsi negli Stradioti, che non eransi potuti assoggettare a veruna disciplina. Il re non aveva intenzione d'aspettare il giorno susseguente. Un'ora prima dell'alba i trombettieri suonarono col grido consueto: faites bon guè[358]. Era questo il segno convenuto, perchè tutti montassero a cavallo, e si avviassero alla volta di Borgo san Donnino[359].
Questa notturna partenza, volgendo le spalle al nemico, era propriamente fatta per seminare il terrore nell'armata. Trattavasi d'attraversare un paese alpestre prima di raggiugnere in sul piano la strada maestra; e siccome, a cagione della negligenza del grande scudiere, l'armata partiva senza guide, si smarrì. Ma i fuochi lasciati dai Francesi nel campo ingannarono i Veneziani, i quali non s'avvidero che a mezzogiorno della loro partenza. Le pioggie, che sempre continuavano, avevano talmente gonfiato le acque del torrente, che fino alle quattro ore niuno s'arrischiò di varcarlo. All'ultimo lo attraversò il conte di Cajazzo con dugento cavalli italiani, perdendo uno o due uomini. Questo felice accidente diede tempo al Francesi di fare sei miglia all'incirca in un paese disuguale, nel quale potevano essere assai molestati, e di giugnere in una vasta pianura, ove la loro vanguardia, l'artiglieria e gli equipaggi, partiti alcune ore prima di loro, gli aspettavano[360].
Un'armata, che si ritira in faccia al nemico, non tarda a scoraggiarsi anche dopo avere ottenuti prosperi successi. La retroguardia, giugnendo in sul piano, fu atterrita vedendo il corpo d'armata che la stava aspettando, in mezzo al quale lo stendardo del Trivulzio le sembrò quello del marchese di Mantova. Nè la vanguardia provò minore spavento nel vedere avvicinarsi la retroguardia, finchè gli esploratori delle due parti non si furono riconosciuti. I Francesi erano appena giunti a san Donnino, quando un falso allarme li costrinse ad uscirne; lo che preservò questa terra dal saccheggio, che gli Svizzeri avevano di già cominciato[361].
La prima notte il re dormì a Firenzuola, e la seconda presso alla Trebbia, al di là di Piacenza; ed era colà giunto senza essere molestato dalla cavalleria leggiera del nemico. Suppose di non essere più esposto a verun pericolo, e ben fece passare la Trebbia che ad una parte della sua armata, lasciando sull'altra sponda quasi tutta l'artiglieria con dugento lance e cogli Svizzeri per custodirla. Per dividere così i soldati non aveva avuto altro motivo che quello di trovare per tutti più comodi alloggiamenti. Ma i fiumi d'Italia sono soggetti a così subite escrescenze d'acque, che non si può mai far capitale dei guadi già riconosciuti. Alle dieci ore della sera il fiume sollevossi rapidamente a tanta altezza, a motivo delle pioggie cadute negli Appennini, che non sarebbe stato possibile d'attraversarlo nè a piedi nè a cavallo. Più non era in arbitrio d'una metà dell'armata il dare soccorso all'altra; e non pertanto il nemico trovavasi vicino assai, perciocchè il conte di Cajazzo era entrato in Piacenza, di cui aveva accresciuta la guarnigione. I Francesi sull'una e sull'altra riva cercarono tutta la notte con estrema inquietudine alcun mezzo di comunicazione, senza poterne scoprire alcuno; finalmente verso le cinque ore del mattino le acque cominciarono da sè medesime a abbassarsi; allora i soldati si affrettarono di stendere delle corde dall'una all'altra sponda, onde sostenere le persone a piedi, che guadarono il fiume, entrando nell'acqua fin sopra allo stomaco; ed in tal modo poterono riunirsi i due corpi d'armata, che il re già si pentiva d'avere separati[362].
Il conte di Cajazzo aveva trovati in Piacenza cinquecento fanti tedeschi, gli unì ai cavalleggeri che seco aveva condotti, ed avendo raggiunta alla Trebbia l'armata francese, più non lasciò di molestarla nella sua ritirata, mentre dirigevasi per Castel san Giovanni, Voghera, Tortona e Nizza di Monferrato. I provveditori veneziani non vollero permettere che la loro armata si accostasse mai tanto a quella di Carlo da dare un'altra battaglia. Pure quanto più i Francesi s'andavano avvicinando al paese in cui speravano finalmente di trovare piena sicurezza, meno vogliosi si mostravano di combattere[363]. La loro ritirata venne soltanto coperta da trecento Svizzeri armati di colombrine e d'archibugi a cavalletto. Costoro aspettavano gli Stradioti fino a mezzo tiro delle loro armi con una flemma dalla quale mai non si dipartirono, e li facevano dare addietro con un fuoco ben mantenuto. I Francesi mostravano minor sangue freddo nell'affrontare il pericolo, ma soffrivano pazientemente i disagi di una penosissima ritirata. Gli alloggiamenti più non venivano distribuiti dai forieri; ognuno collocavasi meglio che poteva, senza cagionare disturbi nè contese; non si ottenevano i viveri che con estrema difficoltà; e senza l'opinione grandissima che aveva Gian Giacomo Trivulzio presso il partito guelfo di Lombardia, l'armata avrebbe sofferta una crudel fame. Ciò che più tormentava i soldati era la mancanza d'acqua. Camminavano nel cuore della state, e, per ispegnere la sete che li divorava, entravano fino alla cintura nelle fosse fangose delle piccole città e de' villaggi. I primi che vi giugnevano trovavano pure dell'acqua ancora limpida, ma la folla de' soldati, de' servi e de' cavalli che li seguiva, esauriva in breve quei fossi, o ne corrompeva le acque con un fango infetto[364].
Il re partiva sempre prima che facesse giorno, e camminava fino a mezzodì; allora tutti si cercavano alla meglio qualche ricovero, e tanto i signori che i servi erano forzati a cercarsi i viveri ed i foraggi pei proprj cavalli. Il Comines, che dice essere uno di coloro che soffrirono meno degli altri, e che era oramai vecchio, fu due volte costretto a cercare egli stesso il foraggio pel suo cavallo e ad accontentarsi d'un tozzo di cattivo pane. Ma il Comines, che aveva accompagnato il duca di Borgogna in difficilissime guerre, ove per altro le truppe mai non avevano sofferto altrettanto, non poteva abbastanza ammirare la pazienza ed il lieto umore di quei soldati francesi che mai non si lagnavano. L'armata era forzata a camminare lentamente a cagione della grossa artiglieria; ad ogni istante o i carri si rompevano, o mancavano i cavalli; ma non eravi un solo cavaliere che rifiutasse di mettere mano al lavoro, o di prestare il suo cavallo per tirare un cannone da un cattivo passo; di modo che in così penoso viaggio non si perdette un solo pezzo d'artiglieria, nè una libbra di polvere. Finalmente il mercoledì, 15 di luglio, otto giorni dopo la loro partenza da Medesana, i Francesi, che il giorno 14 eransi trattenuti presso le mura d'Alessandria, giunsero in Asti, ove si videro nello stesso tempo in luogo di sicurezza e di riposo, ed in una città abbondantemente provveduta di vittovaglie[365].
Il duca d'Orleans non aveva potuto tornare ad Asti per ricevere Carlo VIII; egli erasi chiuso in Novara, ed aveva colà riunite tutte le truppe che di mano in mano erano giunte dalla Francia. La di lui armata trovavasi in ottimo stato e bene disciplinata; e tra Svizzeri e Francesi ammontava a settemila cinquecento uomini che ricevevano paga. Ma il duca, fidando nella ricchezza e fertilità della provincia, invece di formare altri magazzini in Novara, aveva lasciati dilapidare quelli che vi trovò quando la sorprese. L'armata del duca di Milano era venuta ad assediarlo, prima che avesse potuto riparare così grave mancamento, e quella de' Veneziani, che si era battuta coi Francesi a Fornovo, invece d'inseguire Carlo VIII, aveva raggiunti gli assedianti. Perciò quando il duca d'Orleans seppe che il re era arrivato in Asti, lo mandò a pregare d'affrettarsi a liberarlo[366].
Ma nè Carlo VIII, nè i suoi soldati avevan troppa voglia di combattere: il re dopo pochi giorni passò da Asti a Torino per cercar di trattare coi confederati, valendosi della mediazione della duchessa reggente di Savoja. I confederati desideravano pure d'ottenere una buona pace, ed avrebbero veduto con piacere incaricato delle negoziazioni il Comines; ma gl'intrighi di corte e la gelosia del cardinale di san Malo non lo permisero; e perchè le due parti temevano egualmente di fare le prime proposizioni, il re mandò il balivo di Digione agli Svizzeri per far leva nel loro paese e condurre a Novara cinque mila soldati[367].
Intanto il tempo passava, e Carlo VIII, dimenticando le cose della guerra, omai ad altro più non pensava che a sollazzarsi. Egli aveva alloggiato in Chieri nella casa d'uno de' principali della provincia, Giovanni di Soleri, la di cui figlia era stata dalla città incaricata di arringarlo. Lo aveva fatto con molto garbo[368], e dopo quel giorno il re credette di non avere altro affare che quello di sedurre Anna di Soleri. Andava continuamente da Torino a Chieri, senza curarsi delle ristrettezze in cui era ridotto il conte d'Orleans, il quale nello stesso tempo trovavasi indebolito dalla febbre quartana, e vedeva andare ogni giorno crescendo i nemici che lo assediavano. Non contavansi nella loro armata meno di undici mila landsknecht, capitanati dal duca di Brunswick e da Giorgio di Pietra Piana (Ebenstein) riputatissimo condottiere tedesco. Massimiliano non aveva somministrato che il minor numero di questi soldati, gli altri erano stati levati in Germania col denaro de' confederati[369].
Gli amici del duca d'Orleans lo avevano invitato a ritirarsi in Vercelli o in Asti con una porzione delle sue truppe, prima che gli venissero tolte tutte le uscite di Novara; avrebbe in tal modo diminuita la guarnigione, tutta a carico de' quasi esauriti magazzini della città, ed avrebbe in pari tempo avuta maggiore influenza ne' consiglj del re; ma Giorgio d'Amboise, suo favorito, in allora arcivescovo di Rouen, poscia cardinale, era stato da lui spedito in Asti, dove aveva contratta domestichezza col cardinale di san Malo, favorito di Carlo VIII, e questi due ecclesiastici, giudicando delle cose della guerra a seconda de' loro pregiudizi, senza voler ascoltare i consiglj de' militari, andavano assicurando il duca d'Orleans, che il re non tarderebbe a portarsi sopra Novara per liberarlo con una battaglia; mentre che il meno attento osservatore avrebbe potuto conoscere che l'armata non rientrerebbe in battaglia, senza esservi condotta dal re, che non aveva voglia di condurvela[370].
Queste false informazioni persuasero il duca d'Orleans a rimanere ostinatamente in Novara, sebbene i bisogni dell'armata andassero ogni giorno crescendo e declinassero all'ultimo in una terribile carestia. I generali di Carlo VIII tentarono, a dire il vero, più volte di far giugnere vittovaglie agli assediati; ma i loro convogli caddero quasi tutti in mano del nemico con grave perdita dell'armata francese; mentre che in Novara andava crescendo la miseria, e che ogni dì morivano di fame e borghesi e soldati. Tutte le savie persone dell'armata, ma in ispecie i militari desideravano di terminare la campagna con onorevoli patti. Rappresentavano che l'inverno era imminente, che al re mancava il danaro; che non restavano che pochissimi Francesi all'armata; che molti di loro erano caduti infermi; che gli altri così caldamente desideravano di tornare in Francia, che ne partivano parecchi ogni giorno, alcuni con regolare congedo del re, altri senz'aspettarlo. Il principe d'Orange, di fresco giunto dalla Francia, il quale conosceva tutti i mezzi che poteva somministrare il paese, insisteva sulla necessità di venire ad un accomodamento, ed altronde sapevasi che Lodovico il Moro non chiedeva altro che la restituzione di Novara. Ma in allora il consiglio del re era tutto in mano degli ecclesiastici, ed il cardinale di san Malo approfittava della lontananza o degli amori del re, che più non pensava agli altri affari, per impedire ogni negoziazione[371].
L'armata italiana non si limitava a bloccare Novara; aveva successivamente attaccati e presi i posti avanzati che i Francesi avevano fortificati intorno a quella città; si era accampata a san Francesco, a san Nazaro ed a Bolgari, in maniera di privare gli assediati d'ogni comunicazione colla campagna, e nello stesso tempo di rendere pressocchè inespugnabili le sue posizioni[372]. Sebbene da ambo le parti si avesse il medesimo desiderio d'entrare in trattative, queste mai non si aprivano, perchè l'una e l'altra parte credeva disonorevole il farne la proposizione. Intanto morì la marchesana di Monferrato, quella savia e bella principessa che sempre si mantenne fedele all'alleanza del re; periva nella fresca età di ventinove anni, lasciando i suoi figli in tenera età, de' quali si contrastavano la tutela il marchese di Saluzzo e Costantino Arianite, uno de' signori di Bazan nell'Epiro, zio e principale consigliere della morta principessa. Carlo VIII, per un atto di riconoscenza verso la di lei memoria, spedì il Comines a Casale per regolare quella tutela che fu conferita al signore Costantino[373]. Ma mentre il Comines trattenevasi a quella corte, si abbattè in un inviato del marchese di Mantova, che questi aveva incaricato di complimentare, il giovane marchese di Monferrato suo parente. Quest'incontro diede luogo ad un'apertura di negoziazioni, che bentosto si rendettero più diretti per avere il Comines scritto ai due procuratori veneziani[374].
Le due parti, avendo lo stesso desiderio di trattare, e gli stessi timori rispetto alle vicende della guerra, convennero d'aprire un congresso a metà strada tra Novara e Vercelli, tra Bolgari e Camariano. Il principe d'Orange, il maresciallo di Giè, di Piennes e Comines trattavano per la Francia; il marchese di Mantova e Bernardo Contarini per gli alleati. Il re più non isperava di salvare Novara, e ad altro non pensava che a cavarne con onore il cugino. Proponeva che questa città, risguardata come dipendente dall'impero, si consegnasse agli ufficiali di Massimiliano che trovavansi insieme ai confederati[375]. Ma non avendo potuto ottenere questa condizione, e la fame stringendo sempre più gli assediati, si convenne soltanto che il duca d'Orleans uscirebbe da Novara con tutte le sue truppe, ad eccezione di trenta uomini che lascierebbe nel castello, e che fino all'ultimazione delle negoziazioni la città verrebbe data in custodia ai soli borghesi, ai quali il duca di Milano permetterebbe di ricevere di giorno in giorno i viveri necessari[376].
La città era di già evacuata, e le conferenze, che tenevansi ogni giorno, sembravano promettere un vicino felice risultato. Vi assisteva Lodovico il Moro con sua moglie la duchessa di Milano, nella quale riponeva tutta la sua confidenza, quando il balivo di Digione, ch'era stato spedito nella Svizzera per farvi leva di cinque mila uomini, giunse a portata del campo francese colle prime colonne di questo nuovo corpo di truppe. La spedizione nel regno di Napoli, dove Carlo VIII aveva per la prima volta condotti soldati svizzeri, aveva inspirato in que' montanari un nuovo ardore e riempitili di larghe speranze; credevano che le ricche pianure della Lombardia fossero abbandonate in loro balìa. Non avevano cominciato che da poco tempo a mettersi al soldo delle straniere nazioni, e questa strada d'acquistare ricchezza e gloria offriva loro tutto l'allettamento della novità. Sebbene il balivo di Digione non avesse voluto levarne che cinque mila, se n'erano spontaneamente posti in cammino alla volta dell'Italia venti mila, onde si dovettero dare ordini tali ai confini del Piemonte che impedissero il passaggio a maggior numero di gente, altrimenti perfino le donne ed i fanciulli parevano volenterosi di scendere in Italia[377].
L'arrivo di questa inaspettata moltitudine, che tanto cambiava la proporzione delle forze delle due armate, avrebbe al certo impedita l'evacuazione di Novara, quando non avesse avuto luogo due o tre giorni prima. Poteva inoltre dare motivo a nuove deliberazioni, se tornasse meglio di rompere le negoziazioni, o se il re con una così grossa e bellicosa armata, e diretta da così valorosi ufficiali, non doveva cogliere l'opportunità di tentare la conquista della Lombardia. Non potevasi dubitare che l'evacuazione di Novara e la ritirata di Carlo VIII al di là delle Alpi non dovesse scoraggiare totalmente l'armata che tuttavia difendeva il regno di Napoli, sconcertare tutti i partigiani della Francia, e rialzare invece le abbattute speranze, e l'orgoglio del partito nemico. Vero è che il campo veneziano era in così forte posizione e fiancheggiato da così ragguardevoli opere, che temeraria cosa sarebbe stata quella di volerlo forzare, ma se invece d'attaccarlo, i Francesi si fossero incamminati alla volta di Milano o di Pavia, avrebbero costretto il marchese di Mantova a seguirli, non lasciandogli che la scelta tra una battaglia e la perdita del paese ch'egli doveva difendere. Ai Francesi non si era giammai offerta più bella occasione di acquistare il dominio dell'Italia, ed il duca d'Orleans colla sua eloquenza e col suo credito cercava pure di persuaderlo[378].
Ma il duca d'Orleans non aveva alla corte grandissima influenza; anzi era gagliardamente sospetto ai favoriti del re: era tuttavia fresca la memoria delle guerre civili cui aveva presa parte, ed invece di favoreggiare il suo ingrandimento, la corte inclinava ad impedirgli l'acquisto del Milanese: Gian Giacomo Trivulzio proponeva ai Veneziani un parziale trattato con Carlo VIII, in virtù del quale Lodovico il Moro sarebbe stato costretto a rassegnare a Massimiliano Sforza, figlio di suo nipote Giovan Galeazzo, il ducato di Milano, mentre che Cremona col suo territorio sarebbesi ceduta ai Veneziani in pagamento delle spese della guerra[379]. Questo trattato, che non ebbe effetto, contribuì per altro a indebolire la vicendevole confidenza delle potenze italiane.
Ma la disposizione della nobiltà francese era quella che più d'ogni altra cosa si opponeva al rinnovamento delle ostilità. Era la nobiltà stanca di questa spedizione; più non voleva combattere, ed ardentemente desiderava di ripatriare: perciò pretendeva che più non avesse l'armata abbastanza uomini d'armi per mantenere una certa proporzione con una così grossa massa di fanteria forastiera; e questa stessa considerazione fece luogo a strani sospetti contro quelle milizie svizzere ch'erano accorse con tanta avidità. Dichiaravano i cortigiani essere estrema imprudenza l'esporre il re e tutta la nobiltà del regno all'arbitrio di una moltitudine indomita, orgogliosa e conscia della propria possanza. Si opposero perciò all'unione di dieci mila uomini, ch'erano rimasti al di là di Vercelli, cogli altri dieci mila di già arrivati al campo; e diedero tanta importanza a tali assurdi timori, che le truppe, che dovevano inspirare la maggiore confidenza, erano invece diventate l'oggetto della maggiore paura.
In tale situazione Carlo VIII si fece conoscere apparecchiato ad abbandonare ogni vantaggio, se si potesse a tale prezzo ridurre il duca di Milano a staccarsi dalla lega ed a fare con lui un parziale trattato. Lo avevano a ciò disposto le precedenti negoziazioni coi Veneziani, e gli stessi Veneziani non vi frapposero ostacolo, persuasi che la sola cosa necessaria alla tranquillità dell'Italia era la ritirata di Carlo VIII al di là delle Alpi. Infatti il giorno 10 d'ottobre nel campo di Vercelli fu conchiuso un trattato di pace e d'amicizia tra Carlo e Lodovico il Moro, duca di Milano. Si convenne che Novara sarebbe ceduta a quest'ultimo, che conserverebbe anche Genova, ma come feudo della Francia, e che il re potrebbe in questa città fare come in addietro gli apparecchj necessarj alla difesa di Napoli. Inoltre il duca prometteva di perdonare a tutti i suoi sudditi che avevano seguito il partito francese, di rendere a Gian Giacomo Trivulzio il godimento de' suoi beni, di rinunciare all'alleanza di don Ferdinando, re di Napoli, e d'unirsi al re contro la repubblica di Venezia, se nello spazio di due mesi questa non accedeva allo stesso trattato. Ma per sicurezza di tutte queste promesse, alle quali niuna persona dava fede, nè meno coloro dell'armata francese che chiedevano la pace, il re non doveva avere altra guarenzia che la fortezza del Castelletto di Genova, e questa ancora non doveva essere posta nelle sue mani, ma consegnata al duca di Ferrara, suocero del duca di Milano, il quale prometteva di darla al re di Francia, ogni qual volta suo genero mancasse a' suoi obblighi verso il re[380].
Ebbe appena Carlo sottoscritta e giurata questa pace, che, cedendo a quella impazienza di ritornare in Francia che formava il voto di tutta la sua nobiltà, non che il suo, apparecchiossi a partire all'indomani alla volta di Trino nel Monferrato. Vero è che gli Svizzeri, i quali erano venuti in Italia con tante speranze, e che trattavasi di rimandare alle case loro senza nemmeno corrisponder loro il convenuto soldo, cominciavano a tumultuare; e si aveva allora qualche ragione di temere quello che in addietro si era finto gratuitamente di credere, cioè che volessero ritenere il re come ostaggio di ciò che loro era dovuto. Si offriva loro soltanto un mese di paga, lo che bastava appena ad indennizzarli delle spese sostenute per uscire dal loro paese, e di quelle che far dovevano per ritornarvi. Essi domandavano il soldo di tre mesi, come Lodovico XI si era obbligato di fare nelle capitolazioni convenute coi loro cantoni, qualunque volta li chiamasse; ed all'ultimo convenne soddisfarli non col danaro, che ciò non era possibile, ma dando loro ostaggi e cambiali[381]: ed allora si ritirarono tra le loro montagne. Il re lasciò in Asti Gian Giacomo Trivulzio con cinquecento lance francesi per agevolarsi in avvenire l'ingresso in Italia: ma questi cavalieri, non potendo resistere all'ardente desiderio di rivedere la loro patria, non ubbidirono; e nello spazio di pochi giorni quasi tutti ripassarono le Alpi senza congedo[382]. Il re con tutto il rimanente dell'armata partì da Torino il 22 ottobre alla volta di Susa, indi, prendendo la strada di Brianzone e di Embrun, valicò le Alpi con tanta celerità, come se avesse alle reni un'armata vittoriosa. Il 25 d'ottobre arrivò a Gap nel Delfinato, ed il 27 a Grenoble[383].
Questa breve spedizione del re di Francia, che così precipitosamente abbandonava conquiste fatte colla stessa rapidità, lasciava da una all'altra estremità dell'Italia i semi di nuove guerre, di rivoluzioni e di calamità; ed in quel modo che un segreto lievito di odj e di miserie erasi sviluppato a cagione del suo passaggio in tutti i principati ed in tutte le repubbliche, così un nuovo veleno, il marciume d'una malattia fin allora ignota, si sparse dalla stessa armata francese in seno alle famiglie nel suo ritorno da Napoli. Questa crudele malattia, che Francesi chiamarono lungo tempo il male di Napoli, e gl'Italiani il mal francese, era senza dubbio stata portata a Napoli da qualche Spagnuolo, cui era stata comunicata da' primi compagni che Cristoforo Colombo aveva ricondotti dalla sua spedizione dell'America. Forse, trovandosi in allora circoscritta in un piccol numero d'individui, avrebbe potuto essere soffocata ne' suoi principj, se una guerra così universale, così lunghe marcie d'eserciti e la militare licenza, non l'avessero diffusa con una sorprendente rapidità, e comunicata in brevissimo tempo alla massa del popolo in Francia ed in Italia. Cristoforo Colombo non era rientrato nel porto di Palos, di ritorno dal suo primo viaggio, che il 15 marzo del 1493; e nel corso di quella primavera la malattia cominciò a diffondersi nel Portogallo, nell'Andalusia e nella Biscaglia[384]. Dopo due anni la stessa malattia, che non si comunica come le altre contagioni ordinarie, e che non infettava mai un nuovo individuo senza che questi non dovesse il suo male ad una colpa, aveva di già disseminato il suo veleno tra gli Spagnuoli, gl'Italiani, i Francesi, gli Svizzeri, i Tedeschi, e per dirlo in una parola in più della metà dell'Europa[385].
CAPITOLO XCVII.
Ferdinando II rientra nel regno di Napoli e ricupera la sua capitale. — I Francesi vendono ai nemici del Fiorentini le fortezze che occupavano in Toscana. — Vengono sforzati a capitolare ad Atella, ed evacuano il regno di Napoli. — Morte di Ferdinando II.
1495 = 1496. I moderni tempi, in mezzo a continue guerre, offrirono un così piccolo numero di conquistatori, contansi così pochi re che abbiano essi medesimi condotte le loro armate, così pochi che non abbiano provate grandi sventure dopo essersi posti alla loro testa, che Carlo VIII, per la rapida conquista del regno di Napoli, occupa un luminoso posto nella storia della Francia. Egli è dopo san Luigi il primo monarca, di cui gli storici francesi abbiano a raccontare una brillante e lontana spedizione; i suoi successori, sebbene più prudenti e più esperti nell'arte della guerra, non furono di lunga mano fortunati al paro di lui. Perciò i Francesi lo hanno per lo più rappresentato come un glorioso conquistatore, e tra i loro storici cortigianeschi la maggior parte si sdegna contro il Comines e contro gli scrittori italiani, per avere detto, che aveva poco ingegno, non carattere, non abitudine all'applicazione; tanto è vero che nelle conquiste e nella condotta di un'armata trionfatrice avvi qualche cosa che abbaglia il volgare, e si trae dietro la sua ammirazione.
Pure, per giudicare Carlo VIII, importa meno di esaminare se effettivamente gli mancassero i talenti militari, e se non andasse debitore che alla fortuna delle sue luminose conquiste, quanto il cercare ciò ch'egli poteva ripromettersi dai suoi prosperi successi, e quali felici risultamenti per la Francia, o per i paesi in cui portava le armi, compenserebbero i mali inseparabili dalla guerra. Ora l'impossibilità in cui erasi posto Carlo VIII di conservare il regno di Napoli, sia che vi restasse, o sia che se ne allontanasse, abbastanza dimostra con quanta leggerezza avesse concepiti i suoi progetti, e con quanta indifferenza sagrificava la vita degli uomini alla sua vanità.
Al certo sarebbe un bene per l'umanità, se la storia fosse sempre severa nel giudicare lo spirito di conquista, se lavorasse sempre a distruggere quel funesto entusiasmo, quell'ubbriachezza delle vittorie, che seduce le nazioni ed i loro capi, e che fa loro sagrificare la propria felicità ad una sanguinosa gloria. Ma prima di tutto dev'essere giusta verso i conquistatori, ed i rimproveri che fa a ciascheduno di loro non devono essere i medesimi: ella ha il diritto di chiedere ad Alessandro, se non volle acquistare a troppo caro prezzo il compimento dei suoi progetti, allorchè, per fondare un nuovo impero, per riformare i costumi e le leggi di un popolo schiavo e corrotto, per umiliare un potente nemico, sconvolse la metà dell'Asia, e fece spargere più sangue e dissipò più tesori di quel che di felicità futura il perfetto compimento de' suoi disegni promettesse all'umanità: può domandare a Carlo Magno, a Federico II, con quale diritto avventurarono la sorte dell'umanità dietro i loro calcoli, e sagrificarono l'attuale generazione alla futura, ammettendo ancora, che, dopo il compimento de' loro progetti, abbiano procurata ai popoli conquistati una migliore condizione o una durevole prosperità.
Ma nella spedizione di Carlo VIII, la posterità non può trovare alcuna cosa che gli serva di scusa, e che permetta di scordarci un istante il male grandissimo che fece all'umanità. Non furono nè vasti progetti di legislazione o di ordine sociale che gli posero le armi in mano, non il desiderio di soccorrere oppressi sventurati, non quello di mettere fine ad enormi abusi, ad un assassinio, ad una tirannide, ad una persecuzione, che disonorano l'umanità: egli non aveva antiche nimicizie nazionali da soddisfare, non offese fatte all'onore del suo popolo da vendicare, non pericoli da prevenire: per ultimo non aveva nè meno probabili speranze di conservare quello che conquistava. Perchè il padre di Carlo VIII si era fatto cedere, in forza d'illegali contratti, i supposti diritti degli eredi di un usurpatore, Carlo si affrettava di portare la guerra in un paese, in cui non v'era possibilità che si mantenesse, di rovesciare la costituzione di tutti gli stati che attraversava il suo esercito, di esaurire con eccessivi sforzi il suo proprio regno, e d'introdurre in quello, cui erasi annunciato come liberatore, non solo i mali inseparabili dalle conquiste, ma tutti quelli della guerra civile, di una lunga anarchia, e della tirannide di soldati feroci.
Carlo VIII, prima di entrare nel regno di Napoli, era stato avvisato da Fonseca dello scontento del re di Spagna, e da Comines delle negoziazioni del duca di Milano e de' Veneziani: doveva dunque prevedere come cosa indubitata la lega che si formò contro di lui nella parte settentrionale dell'Italia, e tostochè si era dichiarata, non aveva altro partito da prendere che quello di ritirarsi immediatamente. Il solo articolo che poteva essere soggetto a disamina, era quello di sapere se lascerebbe un'armata per difendere le sue conquiste, o se evacuerebbe il regno così compiutamente come aveva fatto pochi mesi prima il suo competitore della casa d'Arragona. Nel primo caso era impossibile che la metà della sua armata difendesse ciò che intera non era in istato di conservare; nel secondo caso sagrificava que' Napolitani che si erano per lui compromessi verso i loro antichi padroni, e pagava d'ingratitudine i servigj che gli avevano resi tutti i partigiani della casa d'Angiò. In qualunque modo si contenesse non poteva cagionare che patimenti e calamità senza numero.
Ferdinando II erasi ritirato a Messina dopo avere perduto il suo regno; colà fu visitato da suo padre, Alfonso, che da Mazara venne a ritrovarlo vestito da religioso; vi trovò pure Ferdinando Consalvo, della casa d'Anguillara, nativo di Cordova, che i re di Spagna avevano mandato in Sicilia con cinque mila fanti e sei cento cavalieri spagnuoli per difendere quell'isola[386]. Gli Spagnuoli colla consueta loro jattanza avevano nominato Gonsalvo di Cordova generalissimo, ossia gran capitano della piccolissima loro armata, ma la posterità applicò in diverso significato questo epiteto al nome di Gonsalvo, rendendo giustizia ai singolari suoi militari talenti, ed alla riputazione che di già si era acquistata nelle guerre di Granata[387].
Quantunque Carlo VIII non fosse ancora partito da Napoli, Ferdinando II aveva avuto avviso della rivoluzione apertasi in suo favore negli animi de' suoi sudditi, e sapeva di essere vivamente desiderato dai popoli che lo avevano con tanta leggerezza abbandonato. I suoi partigiani lo richiamavano, ed egli era disposto ad assecondare i loro inviti. Alfonso gli aprì i tesori che aveva seco portati quando era fuggito. Ugone di Cordova, cognato del marchese d'Avalos, il più affezionato servitore della casa d'Arragona, assoldò per lui alcune compagnie d'infanteria in Sicilia; il Gonsalvo promise di secondarlo con una parte degli Spagnuoli che aveva seco condotti, e prima che terminasse il maggio del 1495, Ferdinando si presentò sotto Reggio di Calabria, la di cui fortezza era sempre stata in mano de' suoi soldati: la città si dichiarò subito a suo favore, ed in pochi giorni il fugitivo monarca vi adunò un'armata di sei mila uomini[388].
Nello stesso tempo il partito arragonese andava riprendendo coraggio nelle province del regno, ed ovunque cominciava a minacciare i Francesi. Antonio Grimani si era fatto vedere sulle coste della Puglia con ventiquattro galere veneziane; cui si erano subito uniti don Federico, zio del re, don Cesare, suo fratello naturale, e Camillo Pandone con tre galere. Attaccarono Monopoli, città difesa da grossa guarnigione francese e secondata dagli stessi abitanti. Il Grimani, per eccitare il coraggio e la cupidigia degli Stradioti, che aveva condotti da Corfù, promise loro il sacco della città se la prendevano d'assalto. La città fu presa e trattata barbaramente; e l'ammiraglio veneziano potè a stento salvare la vita delle donne e de' fanciulli che si erano rifugiati nelle chiese[389].
Quest'atto di barbarie venne quasi subito imitato dal contrario partito. La città di Gaeta, una delle più ricche e delle più forti del regno, era stata data in feudo al siniscalco di Belcario: era custodita da pochi soldati francesi, ed i borghesi, di già stanchi del loro governo, diedero tumultuariamente mano alle armi, non dubitando di poterli scacciare dalle loro mura. Gli attaccarono, incoraggiandosi col nome di Ferdinando, che andavano ripetendo ad alta voce: ma i veterani francesi, essendosi riuniti in un sol corpo, ricevettero il loro urto senza scomporsi. In breve gl'insorgenti, avvedendosi di non potere sgominare questo corpo immobile, si scoraggiarono; fuggirono disordinati, ed imbarazzandosi nelle loro medesime armi, per le anguste strade della città; più non poterono resistere ai Francesi che gl'inseguivano, e che, diventati più furibondi e crudeli in ragione della grandezza del pericolo, continuarono lungo tempo la carnificina anche dopo terminata la pugna. Essi non davano quartiere a verun prigioniero, non curavansi di far bottino, ma si andavano avanzando da una in altra strada, uccidendo senza distinzione d'età o di sesso tutti coloro che cadevano loro tra le mani. Ne' quartieri da loro corsi non si salvarono che que' pochi che gettandosi in mare dalla sommità degli scogli, poterono salvarsi a nuoto. Non sarebbe sopravvissuto verun abitante di Gaeta, se la notte, che sopravvenne, non avesse posto fine a tale carnificina. Ed in tal modo l'uccisione ed il sacco degli abitanti di due fiorenti città, poste una sol golfo Adriatico, l'altra sul mar Tirreno, eseguitosi in una dai soldati greci de' Veneziani, nell'altra dai Francesi, furono come il preludio delle calamità che i barbari recavano all'Italia col loro nuovo sistema di guerreggiare[390].
Intanto Ferdinando II riduceva alla sua ubbidienza le piccole città della Calabria. Avendogli sant'Agata aperte le sue porte, egli s'innoltrò verso Seminara, dove sorprese e fece prigioniere un piccolo corpo di truppe francesi. Aubignì, che aveva il comando della Calabria, sentì la necessità di comprimere all'istante questi movimenti d'insurrezione. Aveva pochissime truppe sotto di lui, ma le ingrossò con tutte le milizie provinciali che poterono somministrargli i baroni del partito d'Angiò e col piccolo corpo francese che Precì, fratello d'Ivone d'Allegro, comandava nella Basilicata. Questi seppe nascondere la sua marcia a Ferdinando, il quale non ebbe contezza di tale unione. Ad ogni modo Gonzalvo di Cordova consigliava il re a non venire a battaglia, perchè di tutta la sua armata credeva di non potere far capitale che de' suoi settecento cavalieri spagnuoli, e non pensava pure che questi potessero stare a fronte degli uomini d'armi francesi[391]. Ma le milizie calabresi, che si erano adunate intorno a Ferdinando, lo andavano eccitando a condurle alla battaglia. I suoi gentiluomini gli dicevano che superavano due o tre volte di numero la piccola armata francese; che bisognava rilevare le prostrate speranze dei popoli con una vittoria, e che non si giugnerebbe a riconquistare il regno, mostrando sempre la stessa pusillanimità con cui si era perduto. Ferdinando, desideroso egli medesimo di ricuperare la sua riputazione militare, fece uscire le sue truppe da Seminara, e si presentò al nemico[392].
Il d'Aubignì aveva circa quattrocento corazze ed ottocento cavalleggeri; gli aveva schierati nella pianura lungo il fiume che attraversa la strada tre miglia al di là di Seminara verso Terranova. Stava dietro alla cavalleria la fanteria svizzera; e le milizie del paese, piuttosto destinate a far numero che a combattere, formavano la retroguardia. Ferdinando aspettava di essere attaccato sull'altra riva del fiume presso alle colline che si prolungano fino a Seminara. Il d'Aubignì non tardò ad attraversare il letto del fiume ed a venire a caricare la cavalleria spagnuola, la quale, sentendosi inferiore, fece, secondo l'usanza dei Mori coi quali era avvezza a combattere, un'evoluzione in addietro per tornare alla carica. A tutta la fanteria napolitana questo movimento sembrò il segno della sua sconfitta. Fuggì subito disordinatamente senza avere combattuto, ma, raggiunta dalla cavalleria, fu maltrattata colle sciable prima d'avere sperimentato l'urto degli Svizzeri[393]. Ferdinando dopo avere inutilmente tentato di riordinare i suoi soldati, venne strascinato dai fuggiaschi. In un passaggio sdrucciolevole il suo cavallo gli si rovesciò addosso, ed egli ritenuto dalle staffe e dagli altri arcioni della sella, era vicino a cadere in mano ai nemici, quando Giovanni d'Altavilla, fratello del duca di Termini, lo rialzò, gli diede il proprio cavallo e lo fece partire; ma d'Altavilla, rimasto a piedi in mezzo ai nemici, fu poco dopo ucciso[394].
Ferdinando fuggì a Valenza e Gonsalvo a Reggio; in appresso s'imbarcarono ambidue, e si riunirono di bel nuovo in Sicilia. Ma lungi dal lasciarsi scoraggiare da questo sinistro avvenimento, ne approfittarono per rinnovare le corrispondenze nell'interno del regno, di cui questa breve spedizione aveva fatto loro conoscere il malcontento; e prima che la fama della loro sconfitta si fosse sparsa nelle altre province, Ferdinando volle sbalordire i Francesi con una nuova intrapresa. Adunò a Messina tutti i vascelli arragonesi, siciliani e calabresi, che potevano far numero, sebbene quasi non avesse soldati da mandare a bordo. In tal modo si trovò di avere sessanta navi con ponte, e venti vascelli scoperti. Con questa flotta, comandata dal capitano spagnuolo Requesens, entrò nel golfo di Salerno, press'a poco nello stesso tempo in cui Carlo VIII giugneva colla sua armata a Pontremoli. Salerno, Amalfi e la Cava spiegarono subito le insegne d'Arragona[395].
Ferdinando condusse poscia la sua flotta in faccia a Napoli, ove risvegliò il più vivo fermento. Graziano Guerra, che in allora si trovava in quella capitale, conobbe che la flotta arragonese non aveva che un'ingannatrice apparenza, senza forza reale, e pregò il vice-re, Gilberto di Montpensier, ad attaccarla, prima che avesse strascinato il popolo nell'insurrezione; ma il numero de' vascelli francesi parve troppo sproporzionato a petto a quello dei nemici, e mentre che Ferdinando per tre giorni consecutivi bordeggiava nel golfo di Napoli, il Montpensier stette vigilante per prevenire una sollevazione, di cui credevasi ad ogni istante minacciato. Infatti i partigiani d'Arragona non ardivano mostrarsi, e Ferdinando, perdendo la speranza d'eccitare una rivoluzione, aveva di già ordinato alla sua flotta di far vela verso la Sicilia, quando coloro che avevano avuta con lui corrispondenza, temendo di essere omai scoperti, e che i Francesi aspettassero soltanto un più quieto istante per assicurarsi di loro, fecero invitare il re a tentare uno sbarco, promettendogli dal canto loro di prendere le armi[396].
Dietro tale invito il 7 di luglio, giorno susseguente a quello in cui aveva avuto luogo la battaglia di Fornovo, Ferdinando venne a prender terra alla foce del piccolo Sebeto in vicinanza della Maddalena, al levante di Napoli. Il Montpensier sortì subito dalla città col fiore de' suoi uomini d'armi per opporsi allo sbarco degli Arragonesi; e nello stesso tempo ordinò di arrestare i capi dei malcontenti, tra i quali trovavansi Andrea Gennaro, Alberico Caraffa, Giovanni Cinicelli, Cola Brunaccio, i Sangri, i Pignatelli ed il poeta Sannazzaro, la di cui fedeltà per la casa d'Arragona mai non erasi smentita. Ma appunto quest'atto di rigore fece scoppiare la rivoluzione lungamente sospesa; ognuno sentendosi colpevole si credette chiamato a difendere i più esposti; la campana a stormo suonò tutt'ad un tratto in ogni quartiere della città; il popolo si gittò furibondo addosso ai Francesi ch'erano rimasti in città, e tutti gli uccise: si chiuse la porta per la quale era sortito il Montpensiero, e Ferdinando, che, dopo averlo tratto fuori di città, era passato sull'opposta riva innanzi all'isola di Nisida, fu dai segnali richiamato in porto, e ricevuto da tutto il popolo con vivi trasporti di allegrezza[397].
Per altro la sua situazione era ben lontana dall'essere sicura. Vero è che il Montpensiero trovavasi fuori di città, e segregato dalle fortezze, che sono tutte a ponente; ma la difficoltà del cammino per fare al di fuori il giro delle mura non poteva trattenerlo che poche ore: infatti egli ricondusse la cavalleria sulla piazza del castel Nuovo prima che Ferdinando ed i due fratelli d'Avalos avessero potuto barricare tutte le strade. Il Montpensiero, alla testa di una colonna di uomini d'armi, cercava di avanzarsi fino alla piazza dell'Olmo, mentre che Ivone d'Allegre con un'altra colonna seguiva la strada Catalana. Dall'altro canto il popolo napolitano gli opponeva un'intrepida resistenza: e mentre che coloro sotto le di cui finestre passavano i Francesi gli opprimevano a colpi di pietre, nel rimanente della strada ognuno portava fuori della propria casa botti, carri, concime, onde formare mobili barricate: e di mano in mano che il popolo guadagnava terreno sugli uomini d'armi, se ne guarentiva il possedimento con nuovi trinceramenti. Ivone d'Allegre, che combatteva in una più angusta strada, fu assai più maltrattato e costretto a ritirarsi prima del Montpensiero, il quale si sostenne fino a notte; ma in allora dovette ritirarsi sulla piazza del castello. Ferdinando approfittò di quella notte con istraordinaria attività. I cittadini, i marinai della sua flotta, i soldati lavoravano tutti intorno alle fortificazioni dirette dai fratelli d'Avalos, chiudevano tutte le comunicazioni colla piazza del castello con gabbioni riempiuti d'arena, botti piene di sassi e carri di concime, disposti in guisa da lasciare delle feritoje per l'artiglieria; si praticarono pure delle aperture nelle interne muraglie delle case, affinchè i difensori potessero passare a seconda del bisogno dalle une alle altre; e mentre che i Francesi andavano procurandosi una sicura comunicazione fra le tre fortezze del castel Nuovo, Castel dell'Uovo e forte sant'Elmo, e che piantavano le loro tende nello spazio che le divide, non solo i Napolitani avevano tagliata ogni comunicazione tra quelle fortezze e la città, ma avevano inoltre chiuse tutte le uscite verso la campagna; di modo che all'indomani il Montpensiero trovossi assediato nel ricinto in cui si era affrettato di entrare[398].
Sei mila Francesi trovavansi chiusi ne' castelli di Napoli, i di cui magazzini, sebbene abbondantemente provveduti, non potevano lungamente supplire ai bisogni di tanta gente. Ai cavalli mancarono i foraggi, ed in pochi giorni ne perirono molti. Vero è che una così forte e valorosa guarnigione non si lasciò chiudere senza tentare parecchie sortite sui nemici; ed alcune furono condotte con tanto coraggio, con tanto impeto, che tennero sospesi i destini di Napoli e della monarchia; e non si richiedeva meno del valore e dell'attività dei d'Avalos per renderle tutte vane, e per iscacciare i Francesi da tutte le posizioni di dove potevano recare maggiori molestie alla città. Ebbero appena questi due fratelli conseguiti tali vantaggi, che il più giovane fu ferito in una di queste zuffe, ed il maggiore, Alfonso d'Avalos, venne a tradimento ucciso da un Moro che gli aveva promesso di dargli nelle mani il forte di Monte santa Croce[399].
La morte del marchese di Pescara riuscì oltremodo dolorosa a Ferdinando, che amava quella famiglia, non solo per un giusto titolo di riconoscenza, ma ancora pel suo amore verso Costanza, sorella del marchese. Fu per qualche tempo incapace di occuparsi de' pubblici affari; ma Prospero Colonna ne prese in vece sua la direzione. Questi, ch'era dai Francesi risguardato come il capitano italiano di cui potevano meglio fidarsi, per essersi associato prima degli altri alla loro causa, ed essere stato premiato da loro coi più larghi doni, era di fresco passato al partito arragonese ad insinuazione del papa e del cardinale Ascanio Sforza. Bentosto suo cugino, Fabrizio Colonna, ne aveva imitato l'esempio, e per dare un pegno del suo attaccamento al nuovo partito che abbracciava, aveva maritata sua figlia Vittoria Colonna, che in seguito fu così celebre poetessa, a Ferdinando d'Avalos, figliuolo ancora giovinetto del marchese di Pescara poc'anzi ucciso. I pretesti coi quali i Colonna cercarono di giustificare la loro condotta non purgarono del tutto il loro onore: si mostrarono più intenti a salvare le proprie ricchezze in una rivoluzione, che a difendere quegli da cui le avevano ricevute[400].
Frattanto il partito d'Arragona andava ogni giorno acquistando nuove forze. Capoa, Aversa, Mondragone, e le principali città della provincia avevano seguito l'esempio di Napoli, ed Alfonso, rincorato dalla notizia dell'ingresso di suo figlio nella capitale, gli fece chiedere la restituzione del trono che gli aveva rinunciato soltanto per politica. Ferdinando rispose con qualche amarezza, che più prudente consiglio sarebbe il lasciargli prima il tempo di meglio consolidarlo, affinchè Alfonso non si trovasse esposto ad abbandonarlo un'altra volta[401].
Il Montpensiero, chiuso ne' castelli di Napoli, cominciava a mancare di vittovaglie. Riponeva ogni sua speranza nella flotta che Carlo VIII, dopo il suo arrivo ad Asti, aveva fatta armare a Villafranca; ma questa flotta, avendo scoperta presso l'isola di Ponza quella di Ferdinando, assai superiore di numero, fuggì precipitosamente verso Livorno, dove non ebbe appena preso terra, che tutti i suoi soldati disertarono. Questo disastro scoraggiò affatto il Montpensiero, il quale fece avvisare i generali francesi che tuttavia tenevano la campagna nel regno di Napoli, che se non veniva subito soccorso era forzato a capitolare. Infatti dopo tre mesi d'assedio, cominciò ne' primi giorni d'ottobre a dare orecchio alle proposizioni di Ferdinando, precisamente nell'epoca in cui Carlo VIII soscriveva il trattato di Vercelli[402].
I generali, avendo interpellati i più zelanti partigiani della casa d'Angiò, convennero di riunire tutti i loro soldati in due armate; con una il d'Aubignì s'incaricò di andare contro Gonsalvo di Cordova, che aveva ricevuti rinforzi dalla Sicilia, e che aveva ricominciata l'invasione della Calabria: coll'altra Precì ed il principe di Bisignano dovevano accostarsi a Napoli per liberare il Montpensiero. Infatti gli ultimi s'innoltrarono dalla Basilicata, dov'erano acquartierati, fin presso ad Eboli, diciotto miglia lontano da Salerno, e posto sullo stesso golfo. Ferdinando incaricò Tommaso Caraffa, principe di Matalona di trattenerlo, mentre negoziava col Montpensiero, cui non voleva che giugnesse l'avviso dell'armata che si avanzava per soccorrerlo[403].
L'armata del principe di Matalona era quattro volte più numerosa di quella di Precì. Questi non aveva che mille cavalieri, tra uomini d'armi o cavalleggeri, tanto italiani che francesi, mille Svizzeri ed ottocento fanti calabresi, che seguivano l'armata per far numero. I Napolitani, che mai non avevano combattuto, sprezzavano così piccola armata, e la loro jattanza inspirò una falsa confidenza al principe di Matalona, che lusingossi di avviluppare i Francesi e di distruggerli. Mentre che questi prendevano la via di Salerno, dopo avere passato il Sele, l'antico Silari, egli allargò le due ale per togliere loro la ritirata verso il mare, o verso la vicina foresta. Nello stesso tempo molti de' suoi uomini d'armi partirono dalla fronte dell'armata napolitana per caricare i Francesi prima di averne avuto l'ordine. Egualmente la fanteria arragonese slanciossi correndo contro gli Svizzeri: ma l'immobilità de' nemici fece rimanere senza effetto questo intempestivo attacco. La cavalleria napolitana respinta ripiegò addosso alla fanteria, e la disordinò; gli Arragonesi, giunti a fronte degli Svizzeri, si trovarono nell'impossibilità di ferirli a traverso al bosco di lancie e di alabarde ond'erano coperti. Nello stesso istante, succedendo il terrore ad una folle confidenza, l'armata napolitana fu dispersa in mezz'ora. Ma non aveva sufficiente agilità per sottrarsi alla cavalleria francese, ed all'impeto degli Svizzeri: l'infanteria, raggiunta nella sua fuga, fu quasi tutta uccisa; ed in particolare non salvossi quasi veruno di una coorte ch'era stata levata in Napoli tra gli assassini di professione. Questi sciagurati formavano un corpo assai numeroso nelle due Sicilie, ed il governo li risparmiava, sperando che dopo essersi avvezzati al sangue, dovessero riuscire buoni soldati[404].
Il principe di Matalona fuggì con tre cento cavalli alla volta di Eboli, ed a stento potè persuadere quegli abitanti atterriti a riceverlo entro le loro mura. Se Precì lo avesse inseguito, lo avrebbe probabilmente fatto prigioniero col rimanente della cavalleria napolitana. Ma non erasi quasi meno maravigliato egli della sua vittoria, che i suoi nemici della loro sconfitta, e non ne vide subito l'estensione. Accordò qualche istante di riposo ai suoi soldati ed al principe di Bisignano per farsi medicare le ferite, onde non arrivò che nel susseguente giorno a Sarno, lontano quindici miglia da Napoli, ove gli si apparecchiava una nuova resistenza[405].
Aveva Ferdinando mandati in questa città Tuttavilla e Prospero Colonna per tentare di trattenere i Francesi, i quali trovarono rotto il ponte del fiume di Sarno: Precì lo fece rimettere senza attaccare la città e continuò il suo cammino alla volta di Napoli. Ferdinando vi si trovava nella più grande perplessità. Il Montpensiero, mancante di viveri, e perduta ogni speranza di soccorso, era entrato in negoziazioni per capitolare, ma il più piccolo accidente, lo zelo di qualche Napolitano del partito angiovino, la cattura di un solo prigioniero poteva annunziargli l'avvicinamento di Precì e la sua vittoria d'Eboli. Inoltre Ferdinando temeva ad ogni istante che il Montpensiero non udisse il cannone de' Francesi, o non vedesse i loro stendardi sulle montagne. Chiamò i suoi nemici ad una conferenza, loro intimando che se non accettavano entro quel giorno le sue proposizioni, non darebbe loro quartiere. Pure i capi, che in egual numero si erano adunati sopra un vascello, invece di venire a qualche conclusione pareva che si riscaldassero disputando. Ogni minuto era prezioso; ma Ferdinando temeva, col mostrarsi impaziente, di risvegliare i sospetti del nemico. Affettò dell'indifferenza, ordinando ai suoi commissarj di ritirarsi se i Francesi non accettavano all'istante il suo ultimatum. Il Montpensiero si lasciò intimorire e sottoscrisse. La convenzione portava che ogni ostilità cesserebbe per lo spazio di trenta giorni, a meno che non sopraggiugnesse un'armata francese che obbligasse Ferdinando ad abbandonare la campagna. Durante lo stesso tempo il re di Napoli si obbligava a mandare di giorno in giorno i viveri agli assediati. Se prima del pattuito termine il Montpensiero non veniva soccorso, doveva rimettere a Ferdinando tutte le fortezze di Napoli, ed essere ricondotto in Francia con tutta la guarnigione e gli equipaggi. Ivone d'Allegre, Roberto de la Mark, la Chapelle d'Angiò, Roccabertino e Genlis, furono dati in ostaggio agli Arragonesi per l'osservanza di tali convenzioni[406].
Ma questa stessa capitolazione non faceva però Ferdinando al tutto sicuro; la sua armata, scoraggiata dalle sconfitte, più non pareva in istato di far testa ai Francesi, e molti de' suoi capitani lo consigliavano a lasciar entrare nelle fortezze il Precì, non dubitando che per quanto fosse grande il convoglio che seco condurrebbe, una nuova armata avrebbe bentosto consumati i magazzini della guarnigione. Ferdinando per lo contrario pensò che Precì, dopo avere vittovagliati i castelli, si sarebbe affrettato di uscirne con Montpensiero e colla maggior parte della guarnigione. Risolse adunque di fare un altro sforzo per trattenerlo. Di già i Francesi avevano fatto il giro della città e s'accostavano alle fortezze lungo la spiaggia occidentale; ma questa spiaggia, chiusa tra il mare e gli scogli, offriva molti punti che agevolmente potevano difendersi. Prospero Colonna attentamente afforzò il passaggio intorno al promontorio di Eccia, presso Posilippo; ordinò in battaglia l'armata napolitana dietro quei trinceramenti. I tamburi, le trombe e le continue scariche dell'artiglieria, gli davano una bellicosa apparenza, che probabilmente la prova avrebbbe smentita[407].
Ma più ancora che dal guerriero contegno dell'armata napolitana, il Precì fu sorpreso dal silenzio di Montpensiero e dell'artiglieria de' castelli. A stento potè fargli giugnere col mezzo di alcuni pescatori la notizia della vittoria di Eboli, e de' soccorsi che gli conduceva. Il Montpensiero rispose tristamente, che si era legate le mani, che finchè Ferdinando terrebbe la campagna, più non gli era permesso di combattere; ma che se Ferdinando veniva respinto entra la città, ancor esso farebbe una vigorosa sortita. Il Precì non aveva sufficienti forze per attaccare ne' suoi trinceramenti una grossa armata che aveva inoltre a suo favore il vantaggio del terreno. La flotta arragonese si era accostata alla spiaggia, e cominciava a molestarlo col suo fuoco, onde si vide costretto a ritirarsi. La cavalleria napolitana lo inseguì fino a Nola, ma sempre tenendosi ad una certa distanza per non essere costretta a venire a battaglia. Colà credette di sorprendere in una taverna alcuni uomini d'armi francesi che vi si erano trattenuti; ma questi fecero bentosto fuggire i loro assalitori, i quali fuggendo sparsero un timore panico in tutta l'armata; e se nubi di polvere affatto impenetrabili non avessero vietato ai Francesi di vedere il disordine dell'armata nemica, questa avrebbe in quell'incontro sofferta una terza sconfitta più fatale delle precedenti. Precì che non poteva pure sospettarlo continuò a ritirarsi per la via di Sarno e di Sanseverino, e diede alle sue truppe i quartieri d'inverno[408].
Il Montpensiero, vergognandosi di avere fatta mancare una spedizione così ben diretta per la sua liberazione, vergognandosi di essere stato ingannato dalla fermezza ostentata da Ferdinando nell'istante in cui questo re era minacciato da così urgente pericolo, inoltre consigliato dal principe di Salerno, il più accanito nemico della casa d'Arragona, non si mostrò gran fatto sottile osservatore della capitolazione che aveva sottoscritta. Prima che terminasse il mese approfittò della lontananza della flotta napolitana per imbarcarsi di notte con due mila cinquecento uomini, chiusi con lui nelle fortezze, e trasportarli a Salerno. Egli non lasciò alla custodia de' castelli che tre cento uomini, che ricusarono di consegnarli nel prefinito termine, e si difesero finchè loro affatto non mancarono i viveri, sebbene Ferdinando minacciasse più volte di far appiccare gli ostaggi che aveva in suo potere. All'ultimo Castel Nuovo gli fu consegnato in sul finire dell'anno, e castel dell'Uovo in principio del susseguente[409].
Tutte le perdite che i Francesi avevano fatte nel regno di Napoli erano per loro tanto più amare, quanto più conoscevansi lontani dalla loro patria, ed affatto abbandonati dal loro sovrano. Mentre essi combattevano, e successivamente perdevano la capitale e le migliori città del regno, sapevano che Carlo VIII andava sempre più allontanandosi, e che finalmente, giunto ne' suoi stati, aveva abbandonato ogni pensiero di governo per ingolfarsi ne' piaceri de' quali erasi mostrato così avido. Se deboli erano essi medesimi, non erano fin allora stati attaccati che da un nemico egualmente debole; ma essi volgevano con inquietudine lo sguardo su tutta l'Italia, e vedevano i loro nemici acquistarsi una irresistibile preponderanza, mentre che nuovi errori facevano perdere al loro re anche gli ultimi suoi partigiani. La repubblica di Firenze era la sola alleata che restasse alla Francia. Per mezzo degli stati di lei soltanto Carlo VIII poteva mantenere ancora qualche comunicazione con Montpensiero; e co' di lei sussidj poteva tuttavia far rimettere qualche danaro all'armata: pure invece di restituire ai Fiorentini le fortezze che aveva da loro avute contro promessa di restituirle, aveva lasciata parte delle sue truppe al servigio de' loro nemici. Un corpo di soldati Guasconi era rimasto al soldo dei Pisani; era stato adoperato tutta la state a danno de' Fiorentini nel ricuperare le fortezze del territorio pisano, ed aveva in Toscana introdotte tali abitudini di ferocia, di cui le antiche guerre d'Italia non avevano esempio. I soldati italiani avevano imparato dai Francesi ad inghiottire prima di venire a battaglia tutto l'oro che avevano, per sottrarlo ai nemici quando fossero fatti prigionieri; in appresso i Guasconi insegnarono agl'Italiani a sventrare i prigionieri per cercare nelle loro viscere l'oro nascosto al vincitore. Tali atrocità si rinnovarono da ogni banda, finchè furono spenti quasi tutti i Guasconi dopo la conquista fatta dai Fiorentini de' castelli di Ponsacco, Lario, Peccioli, Tojano e Palaja[410].
Guid'Ubaldo, duca d'Urbino, e Rannuccio di Marciano avevano preso servigio nella repubblica fiorentina, ed ottenuti molti vantaggi sui Pisani nell'ultima parte della campagna. Non pertanto la signoria, più che dalla forza, sperava dalle negoziazioni il riacquisto di Pisa. I suoi ambasciatori avevano seguito il re in Asti, ed approfittando della sua dimenticanza delle cose dei Pisani quando si trovò da loro lontano, avevano ottenute con nuovi sagrificj di danaro quante promesse sapevano desiderare. Pagarono i trenta mila ducati che tuttavia gli dovevano in forza del primo trattato, dopo avere ricevute in pegno alcuni giojelli della corona, che non dovevano restituire che quando venissero loro consegnate le fortezze. Promisero inoltre di prestare settanta mila ducati ai generali francesi nel regno di Napoli, e di ricevere in pagamento una obbligazione di quattro ricevitori generali della Francia[411].
Niccolò Alamanni, che aveva sottoscritto questo trattato per la sua repubblica, tornò a Firenze il 7 di settembre, portando a tutti i comandanti delle fortezze l'ordine di consegnarle immediatamente ai Fiorentini, ed a tutti i soldati del re l'ordine di abbandonare il servigio de' Pisani. Il comandante di Livorno si prestò a questi ordini il 15 di settembre, e lo stesso fecero i fratelli Vitelli, che passarono da Pisa al campo fiorentino con tutta la loro cavalleria[412]. Ma d'Entragues, governatore della cittadella di Pisa, protestò d'avere ricevuti segreti ordini dal suo padrone non ancora rivocati. Il Lignì, che gli aveva procurata quella carica, erasi renduto risponsabile della sua disubbidienza. I governatori di Pietra Santa, di Montrone, di Sarzana e di Sarzanello non volevano ricevere ordini che da d'Entragues, il quale, innamorato essendo della figlia di Luca del Lante, gentiluomo pisano, abbracciò gl'interessi della città in cui comandava con uno zelo non inferiore a quello de' suoi antichi cittadini[413].
Per altro d'Entragues non dissimulava ai Pisani, che per proteggerli non avrebbe sempre formalmente potuto disubbidire agli ordini del suo sovrano. Perciò li consigliava a cercare altrove soccorsi, che Silvestro Poggio, loro ambasciatore, effettivamente ottenne da Lodovico Sforza e dai Veneziani[414]. Egli aveva loro permesso di chiudere la fortezza con una circonvallazione, in modo che i Fiorentini non potessero giugnere fino a lui, nel supposto che fosse costretto a promettere d'aprire le porte. Ma questo nuovo trinceramento, che realmente venne dai Pisani innalzato dalla porta del sobborgo fino all'Arno, fu perduto per effetto del loro inconsiderato impeto. Essendosi l'armata fiorentina avvicinata alle mura, essi l'attaccarono in aperta campagna malgrado la debolezza delle loro forze; furono respinti e caldamente inseguiti fino a mezzo il sobborgo; e fu preso il nuovo bastione, e lo sarebbe stata per poco anche la città, se d'Entragues non avesse in quel frangente dirette dalla fortezza alcune cannonate sui combattenti, e con ciò sforzate le due parti a separarsi[415].
Nel susseguente giorno Fracassa Sanseverino giunse da Genova con alcuni soldati milanesi in ajuto de' Pisani; un commissario veneziano loro recò pure una somma di danaro per levare soldati; e finalmente il d'Entragues acconsentì a far con loro un trattato, col quale si obbligava a consegnar loro la fortezza dopo cento giorni, se il re entro tale termine non rientrava in Italia. Fino a tale epoca dovevano i Pisani pagargli ogni mese due mila fiorini per il soldo della guarnigione, e quattordici mila nell'atto che loro cederebbe la fortezza. Si consegnarono ostaggi dalle due parti per guarenzia del contratto[416]. Poco dopo si ebbe in Toscana notizia del trattato di Vercelli; e perchè nello stesso tempo Piero de' Medici era giunto a Siena, e teneva pratiche in Cortona per sorprendere quella piazza, mentre che gli Orsini si andavano avvicinando al territorio fiorentino in minaccioso aspetto, la repubblica fiorentina fece il 10 di ottobre evacuare il sobborgo di Pisa dalla sua armata, onde prendendo i quartieri d'inverno, divisa in tre diversi corpi[417], venisse a coprire tutti i suoi confini.
Il termine fissato da d'Entragues doveva scadere il primo di gennajo del 1496. Infatti in cotal giorno adunò l'assemblea del popolo; e nell'atto di consegnarle la fortezza, domandò che giurassero fedeltà al re di Francia. Voleva che questa formalità scusasse la sua disubbidienza, ed i Pisani non vi si rifiutarono. Ma riusciva loro difficilissimo il trovare il danaro necessario per pagarlo; perchè oltre i promessi quattordici mila scudi, bisognava darne altri venti mila per l'artiglieria e per le munizioni che d'Entragues loro cedeva. Le gabelle in tempo di guerra fruttavano pochissimo, ed ogni cittadino aveva di già fatti per la patria sagrificj superiori alle sue sostanze. Tutte le signore pisane portarono alla signoria tutti i loro giojelli; una nave portoghese, che la burrasca aveva fatto incagliare alle foci del Serchio, fa venduta a profitto del pubblico tesoro; e finalmente i Genovesi ed i Lucchesi gli prestarono pure qualche somma. D'Entragues fu pagato, e la ceduta fortezza fu spianata in poco tempo coll'ostinato lavoro di tutta la popolazione[418].
La compassione, i nodi dell'ospitalità, i precedenti impegni del re e dell'armata, potevano in parte scusare la condotta d'Entragues a Pisa; ma per disporre di tutte le altre fortezze d'Entragues non si consigliò che colla sua cupidigia. Il 26 di febbrajo vendette ai Genovesi Sarzana e Sarzanello per ventiquattro mila fiorini; ed il 30 di marzo il bastardo di Roussi, suo luogotenente, vendette Pietra Santa ai Lucchesi per trenta mila fiorini[419]; di modo che le fortezze che Carlo VIII aveva solennemente promesso di restituire ai Fiorentini, e che non per tanto loro aveva fatte riacquistare a così alto prezzo, passarono tutte nelle mani de' loro nemici.
Ai Fiorentini recava molta inquietudine la vicinanza di Pietro de' Medici, e questo capo di partito mai non si avvicinava ai loro confini senza che la repubblica tenesse aperti gli occhi su tutti i suoi movimenti con estrema gelosia. Pure la di lui condotta faceva conoscere che non aveva nè i talenti, nè il carattere, nè altri mezzi che potessero porre in pericolo la loro libertà. Era fuggito da Venezia per raggiugnere Carlo VIII, quando si avanzava per fare l'impresa di Napoli, e sempre era rimasto alla sua corte dimenticato; il suo partito s'indeboliva a Firenze per lo stabilimento d'un governo veramente popolare. Mille ottocento cittadini all'incirca avevano provato che i loro antenati partecipavano agli onori dello stato, ed erano stati conseguentemente ammessi nel gran consiglio. Questo consiglio, meglio composto che i precedenti, trovavasi in istato di riempire da sè medesimo le proprie funzioni, invece di non essere altra cosa che una macchina in mano del partito dominante. Si era particolarmente sentito ch'era eminentemente proprio a fare delle buone elezioni; e dopo il primo luglio del 1495, aveva solo nominati tutti i magistrati della repubblica[420].
Ma gli emigrati si figurano sempre che tutto il pubblico abbia le loro opinioni ed i loro sentimenti, essi non corrispondono che colle genti del loro partito, non fanno verun conto degli altri, e si persuadono che la più debole resistenza straniera basterebbe per ristabilirli nella loro patria. Pietro de' Medici suppose le circostanze favorevoli per attaccare Firenze. Virginio Orsini, suo parente, che in tempo della battaglia di Fornovo si era sottratto alla sua prigionia, e riparatosi nel suo feudo di Bracciano, gli offriva l'ajuto de' suoi uomini d'armi, purchè Pietro dal canto suo gli somministrasse abbastanza danaro per adunarli ed armarli di nuovo. Pisa, Siena e Lucca erano in guerra coi Fiorentini; Perugia gli offriva pure l'assistenza della sua popolazione guerriera. Questa città dipendente dalla Chiesa, ma che appena l'ubbidiva, era governata a nome del partito guelfo dalla famiglia dei Baglioni, che non aveva meno autorità in questa repubblica di quella che avessero i Medici in Firenze, o i Bentivoglio in Bologna. Questi capi di partito facevansi un principio di politica di mantenere in tutte le repubbliche l'autorità degli usurpatori; e perciò acconsentirono a Pietro de' Medici d'adunare i suoi partigiani sul lago di Perugia, a non molta distanza da Cortona, sulla quale aveva formati de' progetti; ed assoldarono Virginio Orsini per dargli opportunità di far avanzare i suoi uomini d'armi ai confini fiorentini[421].
Ma in questa stessa epoca i Baglioni furono in procinto d'essere dagli Oddi, loro rivali, scacciati dalla patria. Gli Oddi erano i capi di parte ghibellina, ed avevano per loro gli abitanti di Foligno e d'Assisi ed una numerosa clientela. Il 3 di settembre del 1495 sorpresero una delle porte di Perugia, entrarono in città alla testa della loro cavalleria, posero in fuga i Baglioni, e di già si credevano sicuri del successo, quando furono sorpresi da panico terrore, che strappò loro di mano la vittoria. Giunti a breve distanza dal palazzo, erano occupati nell'atterrare uno steccato, che loro impediva d'avanzarsi; le prime tre file, strette dalla folla che le seguiva, non potevano liberamente adoperare le loro braccia, nè alzare le scuri. Uno degli Oddi si volse a coloro che lo spingevano gridando: Indietro, ritiratevi, questo grido, ripetuto di fila in fila, sembrò ai più discosti il segno della fuga; onde tutti si dispersero, e la truppa vittoriosa, senz'essere inseguita da verun avversario, uscì di città più rapidamente che non vi era entrata. I Baglioni rimasti padroni furono tanto più crudeli verso i loro nemici, quanto più grande era stato il corso pericolo[422].
Poi ch'ebbe ridotta a numero la sua compagnia, Virginio Orsini, sotto pretesto di servire i Baglioni, prese le loro insegne, passò le paludi delle Chiane con trecento uomini d'armi e tre mila fanti, ed andò a stabilirsi ai confini del Sienese in faccia a Sansovino, dove ebbe qualche scaramuccia con Rannuccio di Marciano, generale fiorentino, che occupava Cortona. Nello stesso tempo Giuliano de' Medici faceva istanze a Giovanni Bentivoglio d'attaccare i Fiorentini, ed il cardinale Giovanni, suo fratello, era passato a Milano per far entrare nella sua causa lo Sforza ed i Veneziani. I Medici emigrati avrebbero voluto sollevare tutti i principi d'Europa contro la loro patria; e per grandi che potessero essere le sciagure che attiravano sopra Firenze, sarebbero rimasti contenti se a qualunque prezzo avessero potuto risalire sul trono; ma non trovarono le altre potenze apparecchiate ad entrare nella coalizione che loro proponevano. Il Bentivoglio fece dire al governo fiorentino che non farebbe torto alla loro buona vicinanza: il duca di Milano, rammentando che aveva ingannato Pietro de' Medici, non volle porlo in istato di vendicarsi. I Veneziani erano tutti intenti al regno di Napoli: e la repubblica fiorentina, avendo posta una taglia sulla testa dei due Medici, Pietro ritirossi a Roma, e Giuliano andò a Milano presso il cardinale suo fratello[423].
Due agenti di Carlo VIII, Camillo Vitelli e Jomella, avevano nello stesso tempo aperta una negoziazione con Virginio Orsini per farlo entrare ai servigj della Francia. La sua compagnia erasi nuovamente adunata, ed armata col denaro dei Medici e dei Baglioni: più non poteva sperare gran cose in Toscana; e poichè i Colonna, suoi rivali, avevano preso servigio sotto il monarca arragonese, doveva avidamente cogliere l'occasione di combatterli. Diede suo figlio in ostaggio ai Francesi per guarentire la sua fedeltà, e si obbligò di condurre seicento cavalli nel regno di Napoli, dopo essersi unito a Camillo ed a Paolo Vitelli, che per parte loro dovevano condurne quattrocento[424].
Fu questo il solo rinforzo che Carlo VIII facesse passare a' suoi cavallieri francesi, che in numero infinitamente minore difendevano l'onore della sua corona nel regno di Napoli. Omai più non pensava che alle feste della sua corte, ai tornei, ed in particolare a quella galanteria che tanto più l'occupava, in quanto che la sua presenza e la sua debole complessione lo rendevano a ciò meno proprio. Egli sempre prometteva ajuti che mai non giugnevano, dava ordini che non venivano eseguiti, e di cui non curavasi di chiederne conto; follemente dissipava tutte le entrate della Francia, senza prendersi pensiero delle spese necessarie, cui avrebbe dovuto provvedere; e mentre che ponevasi nell'impossibilità di salvare il regno di Napoli, rifiutava d'accomodarsi col principe che stava per toglierlo. Aveva mandato il Comines a Venezia per persuadere quel senato a ratificare il trattato di Vercelli: i senatori veneziani non vi acconsentirono, ma offrirono d'obbligare Ferdinando a riconoscersi feudatario della corona di Francia, ed a pagare pel regno di Napoli cinquanta mila ducati annui, dando ai Francesi molte fortezze per pegno della sua fedeltà. Carlo VIII per tutta risposta rifiutò perentoriamente d'abbandonare veruna parte d'una conquista, che non si prendeva cura di difendere[425].
La guerra trattavasi contemporaneamente in molte parti del regno di Napoli, ma ovunque debolmente. Il duca di Montpensiero occupava le vicinanze di Sanseverino e di Salerno, ed aveva a fronte il re Ferdinando. Il Montfaucon, Villeneuve e Sillì, si difendevano nella Puglia contro don Federico e don Cesare, fratello naturale del re. Graziano Guerra aveva il comando de' Francesi negli Abruzzi, ed aveva contro di lui il conte di Popoli. Giovanni della Rovere, prefetto di Sinigaglia, che aveva condotti dugento uomini d'armi al soldo di Carlo VIII, occupava e guastava il vicinato di Monte Cassino. Aubignì difendeva la Calabria ed il Principato ulteriore contro Gonsalvo di Cordova; ma il clima aveva vinto colui che non potevano atterrare gli sforzi de' nemici; egli soggiaceva ad una lunga malattia, e non poteva proseguire i vantaggi che da principio aveva ottenuti. In tutte le province da ambedue le parti trattavasi la guerra languidamente. Ai due partiti mancavano egualmente i mezzi di proseguirla con vigore; le distrutte città, le campagne ruinate, più non pagavano le imposte; e Ferdinando, non meno povero de' Francesi, non poteva trionfare d'un branco d'uomini rimasti soli nel suo regno per resistergli[426].
Ferdinando non era stato compreso nella lega d'Italia sottoscritta a Venezia nel precedente anno. Pregava perciò i Veneziani ad ammettervelo, ma questi, volendo approfittare delle difficoltà in cui si trovava, non gli offrivano soccorsi che a condizione ch'egli pagar ebbeli loro con immoderate usure. Essi avrebbero voluto conchiudere un trattato di sussidj e non un'alleanza. Obbligaronsi infatti a mandargli il marchese di Mantova, loro generale, con settecento uomini d'armi, altrettanti Stradioti e tre mila fanti, promettendo inoltre di somministrargli quindici mila ducati; ma Ferdinando dovette riconoscersi verso loro debitore per dugento mila ducati, e dar loro per guarenzia di tale somma le città d'Otranto, Brindisi, Trani, Monopoli e Pugliano. Il duca di Milano, che per anco non voleva contravvenire apertamente al trattato di Vercelli, fece nello stesso tempo segretamente passare alcuni soccorsi al re di Napoli. Francesco Gonzaga partì da Mantova in sul cominciare di febbrajo, ed entrò nel regno di Napoli per san Germano, Capoa e Benevento[427].
Nello stato di penuria in cui si trovavano le due armate, era per loro un oggetto di grande importanza l'assicurarsi il pedaggio de' bestiami della Puglia, che viene pagato per il passaggio delle gregge presso al Monte Gargano, quando lasciano i pascoli dell'inverno delle campagne della Puglia per quelli dell'estate nelle montagne degli Abruzzi e di Sulmona. Dovevano passare nel corso d'un mese pel luogo del pedaggio non meno di seicento mila montoni, e di dugento mila tra buoi e vacche, pagando in tutto dagli ottanta ai cento mila ducati; lo che formava il più depurato reddito della corona. I capi delle due armate sentirono egualmente che se reciprocamente venivano ad impedire la percezione del pedaggio, trattenendo le gregge, ruinerebbero la metà del regno; che le bestie perirebbero di fame nel corso dell'estate nelle campagne della Puglia, e che i pascoli delle montagne dell'Abruzzo sarebbero infruttuosi, se non erano consumati dalle mandre. Convennero dunque che quello di loro che terrebbe la campagna percepirebbe solo il pedaggio, senza che l'altro potesse molestarlo, o ritenere le gregge. Dopo avere sottoscritta questa convenzione i due partiti d'altro più non si presero cura che di rendersi più forti nelle campagne della Puglia. Ferdinando, che di quel tempo trovavasi nella contea di Molise venne ad accamparsi a Foggia. Il Montpensiero, ricusando il consiglio di Virginio Orsini, che gli rappresentava essere quello il favorevole istante d'attaccare Napoli per la lontananza del re, prese ancor esso la strada della Puglia, ove l'Orsini teneva di già il suo quartiere a Sansevero. Ambo i generali, spiegando tutte le loro forze, speravano d'atterrire il nemico, obbligarlo a ricusare la battaglia, a chiudersi nella città, ed a confessare in tale maniera la sua inferiorità. A ciò mirando, per accorrere più prontamente in soccorso degli Orsini, il Montpensiero lasciò a Casarbore l'artiglieria pesante di cui non credeva di avere bisogno; si unì all'Orsini innanzi a Selva Piana nel territorio di Troja; e l'armata francese contò allora mille cento corazze, mille quattrocento cavalleggeri, sei mila tra Svizzeri e Tedeschi, e dieci mila Guasconi o regnicoli[428].
Prima della riunione del Montpensiero coll'Orsini, Ferdinando aveva invano cercato di provocare l'Orsini, cui era superiore di forze, a battaglia. Ma dopo l'arrivo del Montpensiero, l'armata francese, avendo acquistata la superiorità, cercò a vicenda di provocare Ferdinando a battaglia, avanti che giugnesse a rendergli la perduta superiorità il marchese di Mantova. Frattanto Ferdinando chiudevasi in Foggia, mentre una seconda divisione della sua armata, sotto gli ordini di Fabrizio Colonna, difendeva Troja, ed una terza, comandata da Prospero Colonna, occupava Luceria. I Francesi per recarsi a Manfredonia, dove si percepiva il pedaggio dovevano passare sotto le mura di Luceria e di Troja. Mentre si avanzavano per questa strada, si scontrarono in settecento fanti tedeschi al soldo del re di Napoli, i quali erano usciti da Troja per recarsi a Luceria, senz'essere protetti dalla cavalleria. I Vitelli, che dirigevano la vanguardia dell'armata francese, furono i primi ad attaccarli co' loro uomini d'armi, senza poterli disordinare, e bentosto tutta l'armata gli avviluppò; pure nè Heiderlin, che comandava questi valorosi soldati, nè altri della sua truppa diede verun segno di timore. Camminavano disposti in battaglione quadrato, senza rallentare il passo, e presentando da tutti i lati un bosco di picche agli attacchi della cavalleria. I Vitelli, fuori di speranza di rompere quell'ordinanza, li fecero soltanto circondare a qualche distanza dai cavalleggeri, i quali colle frecce e colle carabine atterravano molti Tedeschi senza esporsi alle loro picche. Heiderlin giunse in tal modo fino alle rive del Chilone, per passare il qual fiume fu costretto di rompere la linea de' suoi soldati, allora Camillo Vitelli fece subito metter piede a terra a' suoi uomini d'armi, e conducendoli nel letto del fiume, attaccò i Tedeschi corpo a corpo. Questi, da che più non furono in ordine di battaglia, non poterono più fare alcun uso delle loro lunghe picche, mentre che gli uomini d'armi a piedi, coperti d'impenetrabile armatura, erano tanto più formidabili quanto più si avvicinavano. Per questi Tedeschi era perduta ogni speranza di salute; ma non si scoraggiarono perciò, che anzi si difesero disperatamente, e furono tutti uccisi fino all'ultimo[429].
Dopo questa carnificina, volendo il Montpensiero approfittare dello spavento che aveva cagionato ai Napolitani, andò ad offrire battaglia sotto le mura di Foggia: Ferdinando non la ricusò, ma così destramente dispose la sua armata sotto il cannone della città, che il generale francese, che aveva imprudentemente lasciato addietro la sua grossa artiglieria, non osò attaccare il re. Senza un cotal fallo avrebbe forse potuto terminare la guerra in questo luogo con una grande vittoria. Rinunciando a questa speranza proseguì il suo cammino verso Manfredonia, mentre giugneva al campo di Ferdinando il duca di Mantova. Dopo la sua venuta l'armata reale attaccò e guastò le città della contea di Molise, che avevano spiegate le bandiere dei Francesi. Il Montpensiero era bensì giunto al luogo in cui dovevasi percepire la gabella, ed i pastori della Puglia giugnevano presso al suo campo colle loro mandre; ma Ferdinando veniva ad inseguirli alla testa de' suoi cavalleggeri; e siccome l'uno e l'altro capo teneva la campagna, riusciva cosa impossibile il decidere in forza della precedente convenzione, a chi appartenesse la gabella. In breve perdettero ambidue la speranza di percepirla; onde abbandonarono i pastori in balìa de' loro soldati: i buoi ed i montoni della metà del regno, che si trovarono nello stesso tempo nelle loro mani furono uccisi; i campi si videro in breve coperti de' loro cadaveri, mentre che i soldati non si caricavano che delle pelli che speravano di vendere[430].
Sebbene venuto meno il principale oggetto che aveva tratte le due armate nelle campagne della Puglia, le due parti facevano sempre avanzare le rimanenti loro forze verso la stessa provincia; ottocento tedeschi del ducato di Gueldria ed alcuni Guasconi e Svizzeri, di fresco sbarcati a Gaeta, avevano colà raggiunto il Montpensiero; dall'altra parte Ferdinando, dopo il marchese di Mantova, che in giugno lo aveva raggiunto, aveva ricevuto consecutivamente i rinforzi di Giovanni Gonzaga, di Giovanni Sforza, signore di Pesaro, e di don Cesare d'Arragona. Le due armate si minacciavano da vicino, e pareva che non potessero tardare lungamente a decidere la sorte della guerra con una battaglia[431].
Prima che le cose giugnessero a tale estremo gli emigrati italiani, che avevano seguito Carlo VIII, non avevano trascurato di eccitarlo, affinchè, a seconda delle sue promesse, mandasse gagliardi ajuti al Montpensiero, ed alle armate che difendevano il partito francese. Gli ambasciatori de' Fiorentini, il cardinale Giuliano della Rovere, Giovan Giacomo Trivulzio, Vitellozzo, Carlo Orsini ed il conte di Montorio, non gli permettevano di dimenticare i commilitoni che aveva lasciati nel pericolo. Quella stessa parte della nobiltà francese ch'erasi opposta alla prima spedizione di Carlo VIII, omai conveniva che l'onore nazionale era chiamato a difendere ciò che si era acquistato col di lei sangue: ogni illustre famiglia aveva qualche suo membro nell'armata che combatteva nel regno di Napoli, ed istantemente chiedeva che non vi fosse abbandonato. Carlo VIII, risvegliato in qualche modo dal suo letargo, annunziò che stava per tornare in Italia con un'armata più potente di quella che lo aveva accompagnato nel precedente anno. Gian Giacomo Trivulzio ebbe ordine di partire alla volta di Asti con ottocento lance, due mila Svizzeri, ed altrettanti Guasconi; il duca d'Orleans ed in appresso il medesimo re dovevano in breve seguirlo. Tutti i cantoni svizzeri avevano promesse truppe, ad eccezione di quello di Berna, che aveva assunti contrarj obblighi col duca di Milano. Trenta vascelli dovevano spiegare le vele dai porti francesi sull'Oceano, ed unirsi in Provenza con altrettante galere, per portare a Gaeta vittovaglie, munizioni di guerra e danaro; e Rigault, maestro della casa del re, fu spedito a Milano per domandare al duca di far in Genova armare le galere promesse nel trattato di Vercelli, assicurandolo in pari tempo, che, qualora sinceramente si attaccasse di nuovo alla Francia, verrebbe posta in dimenticanza la sua passata condotta[432].
Ma quest'ardore guerriero non poteva lungamente sostenersi in un così futile e così instabile carattere qual era quello di Carlo VIII. Il cardinale di san Malo, sovrintendente delle finanze, temeva una guerra che accrescerebbe gl'imbarazzi in cui lo avevano di già posto le inconsiderate spese della corte. Senza opporsi al suo padrone, faceva ogni giorno nascere ostacoli all'esecuzione de' suoi progetti, e Carlo mai non aveva la pazienza di esaminarli, nè la perseveranza di sventarli. Tutto ad un tratto il re, che soggiornava in Lione, dichiarò in sul finire di maggio, che, prima di porsi in cammino, voleva ancora fare un viaggio a Tours ed a Parigi, onde raccomandarsi a san Martino ed a san Dionigi nelle loro principali chiese, e per impegnare in pari tempo le sue buone città a fargli sovvenzioni di danaro. Il vero motivo era quello di rivedere a Tours una delle dame d'onore della regina di cui era in allora innamorato. Invano tutti coloro che prendevano parte alla difesa del regno di Napoli gli rappresentavano, che, allontanandosi dai confini dell'Italia nell'istante in cui i di lui nemici erano atterriti, nell'istante in cui i suoi soldati tutte in lui riponevano le loro speranze, rincorerebbe i primi, e farebbe cadere le armi di mano ai secondi; Carlo VIII fu irremovibile: dopo avere ancora consumato un mese in Lione, partì per le parti settentrionali della Francia; abbandonò il progetto di mandare il duca d'Orleans in Italia; non diede al Trivulzio che pochissimi soldati, ed altro non fece a favore del Montpensiero, che ordinare ai Fiorentini di mandargli quaranta mila ducati[433].
Ma il Montpensiero più non era in istato di aspettare l'esito di così lunghe deliberazioni. Egli stringeva d'assedio Circello, lontano dieci miglia da Benevento, e Camillo Vitelli uno de' suoi migliori ufficiali vi aveva perduta la vita nell'istante in cui si era posto a piedi alla testa dei Guasconi per incoraggiarli a combattere. Ferdinando, volendo fare una diversione, andò ad attaccare Frangetto di Monforte, quattro miglia lontano dal campo francese. Il re aveva sotto i suoi ordini mille dugento uomini d'armi, mille cento cavalleggeri e quattro mila fanti, e credevasi in istato di avventurare una battaglia. I Francesi abbandonarono Circello per soccorrere Frangetto, ma, giunti sulla sommità di una collina in faccia a quella borgata, videro ch'era di già presa. Ciò nondimeno il Montpensiero e Virginio Orsini volevano avanzarsi ancora, con intenzione di attaccare i soldati di Ferdinando, mentre che, occupati nel saccheggio non potrebbero opporre gagliarda resistenza. Ferdinando, prevedendo questo pericolo, aveva schierata la sua armata in battaglia avanti al castello di Frangetto, ed aveva posto il fuoco alla borgata per iscacciarne i saccomanni; pure tanta era la loro avidità di ammassare il bottino, o il loro terrore di venire a fronte dell'armata francese, che la metà de' soldati errava ancora in mezzo alle fiamme, e non poteva ridursi a entrare nelle linee. Ma nel consiglio di guerra dell'armata francese, Precì, Bartolommeo d'Alviano, e Paolo Orsini, s'accordarono a rappresentare, che per attaccare i Napolitani dovevasi entrare in un'angusta valle e pericolosa assai, signoreggiata dal castello di Frangetto; onde non potevasi sperare salvezza che dalla follia di coloro contro cui si doveva combattere. Mentre si stava ancora deliberando, gli Svizzeri ed i Tedeschi dell'armata, i quali da che servivano nel regno non avevano avuto che il soldo di due mesi, chiedevano di essere pagati prima di entrare in battaglia. La loro indisciplina, e l'insolenza loro andavano crescendo coll'incertezza de' loro capi, ed il Montpensiero, costretto a cedere, perdette così l'ultima occasione in cui poteva sperare di rimettere gli affari de' Francesi nel regno di Napoli[434].
Dopo quel giorno gli Svizzeri ed i Tedeschi mai non cessarono di minacciare i loro generali per ottenere un pagamento che questi non potevano in verun modo eseguire. I principi di Salerno, di Bisignano e di Conza, abbandonarono l'armata, e tornarono ne' loro feudi per difendersi contro Consalvo di Cordova; i Napolitani al soldo de' Francesi non perdevano veruna occasione di disertare: non solo non erano meglio pagati degli altri, ma si trovavano inoltre esposti all'insolenza de' loro commilitoni Francesi e Tedeschi, che sempre pretendevano di avere e viveri ed alloggio prima dei regnicoli. Finalmente Precì e Montpensiero mai non erano d'accordo, e le loro contese dividevano tutto il consiglio di guerra[435].
L'armata, che ogni giorno s'indeboliva, dovette all'ultimo ritirarsi; tentò di rientrare nella Puglia, e dalle bande di Ariano e di Benevento portarsi alla volta di Venosa. Perchè Ferdinando non si accorgesse della sua ritirata, partì in sul cominciare della notte, e fece venticinque miglia senza riposarsi. Sperava inoltre che Ferdinando, inseguendola, avrebbe dovuto trattenersi alquanto sotto il castello di Gesualdo, che in altri tempi aveva sostenuto un assedio di quattordici mesi: e, fidati a questa considerazione, avendo i Francesi incontrata resistenza ad Atella, presero quella città e la svaligiarono, consumando più tempo che non avrebbero dovuto. Ferdinando occupò Gesualdo senza difficoltà, e raggiunse i Francesi, prima che fossero usciti da Atella; allora il Montpensiero si trovò costretto di appigliarsi al partito, che più gli conveniva, di difendersi in Atella, onde dar tempo al suo re di soccorrerlo[436].
Atella, dove stava chiusa l'armata francese, non è quella città che diede il suo nome alle favole Atellane, e ch'era posta presso a poco nel luogo oggi occupato dalla città di Aversa. Atella della Basilicata giace in una fertile pianura, ma un miglio al di là delle sue mura cominciano le montagne, che s'innalzano da tre bande formando un ricco anfiteatro largo tre quarti di miglio. Il loro pendio non è scosceso, e ne' pensili che forma si fa uso dell'aratro per lavorare i campi, e dove il terreno è più inclinato si coltivano viti ed alberi fruttiferi d'ogni maniera. Quest'anfiteatro si apre dalla banda di mezzogiorno, e lascia vedere a sinistra la città di Melfi, a destra la strada di Conza coperta da folti boschi. Un ruscello irriga la pianura, attraversandola al ponente estivo dopo avere circondato con largo giro la borgata di Atella. Colà le acque, trovandosi chiuse tra più alte rive, volgono alcuni mulini, poi si gettano nell'Ofanto. Dalla banda di Levante la borgata di Ripa Candida, posta sulla strada di Venosa, era occupata da una guarnigione francese; e da quella banda l'armata francese sperava di ricevere vittovaglie e soccorsi, tanto più che tutto il paese si era dichiarato pel partito Angiovino; ma la cavalleria leggiera degli Stradioti non tardò ad impratichirsi di tutti i sentieri, e chiuse tutte le comunicazioni ai partigiani de' Francesi[437].
Ferdinando non voleva venire a battaglia con un'armata disperata, ed invece pensò a chiuderle tutte le strade, a rendere difficile ogni mezzo di vittovagliarla ed a distruggere i mulini di cui si serviva. I Tedeschi, che si trovavano nell'armata Francese, e che da gran tempo avevano minacciato di disertare se non erano pagati, arrivarono dopo pochi giorni al campo di Ferdinando, il quale in appresso ebbe avviso che Consalvo di Cordova aveva sorpresa presso al castello di Lario, posto sul fiume Saprio, che divide la Calabria dal Principato, una piccola armata colà raccolta dai partigiani della Francia; che aveva fatti prigionieri undici baroni angiovini, e quasi tutta la fanteria. Dopo questa vittoria, la prima che Consalvo di Cordova riportasse nel regno di Napoli, venne con sei mila uomini ad unirsi sotto Atella al re Ferdinando; e la sua venuta fece agli assediati perdere ogni speranza[438].
Il Montpensiero, che cominciava ad avere penuria di vittovaglie, il 5 di luglio fece partire alla volta di Venosa la terza parte della sua cavalleria, onde scortare un convoglio; ma sebbene questa uscisse a mezzodì, quando doveva supporsi che i nemici, per timore degli eccessivi calori della Basilicata, si riposassero, fu scoperta dagli Stradioti, sorpresa e sconfitta. In questo fatto i Francesi perdettero più di tre cento cavalieri, e più che la perdita gli affliggeva la considerazione che i loro uomini d'armi erano stati battuti da una cavalleria leggiera da loro sprezzata. Dopo questa battaglia Ferdinando conquistò Ripa Candida, e si accampò sulla strada di Venosa, sicchè veniva a chiudere agli assediati qualunque uscita[439].
Lo stesso giorno in cui arrivò presso Atella, Gonzalvo di Cordova aveva attaccati i mulini degli assediati, e gli aveva totalmente distrutti, onde cominciavano a non avere più farine. Bentosto provarono un'altra più crudele privazione, più non potendo attignere acqua dal ruscello che bagnava le mura di Atella senza azzuffarsi coi nemici, e dovendo così pagare col loro sangue ogni botte di acqua. Avevano formato nel fiume un abbeveratojo, coperto di alcuni trinceramenti, che avevano dati in guardia ai loro Svizzeri; ma questi essendo stati vigorosamente attaccati, perdettero coi trinceramenti trecento uomini. Fu trovato tra i morti un alfiere cui era stata troncata la mano destra e gravemente ferita la sinistra, e che morto com'era strigneva tuttavia coi denti lo stendardo che gli era stato confidato[440].
Erano già passati trentadue giorni da che i Francesi trovavansi chiusi in Atella; vedevano ogni giorno andar crescendo il numero de' loro nemici, e scemare quello de' proprj soldati; loro mancavano i foraggi, i viveri e l'acqua, quando risolsero finalmente di venire a patti. Precì, Bartolommeo d'Alviano ed un capitano svizzero furono spediti a Ferdinando. Chiesero che Gilberto di Montpensiero potesse spedire un corriere al suo re per avere soccorsi, e se non li riceveva entro trenta giorni, doveva, spirato questo termine, consegnare a Ferdinando tutte le piazze che da lui dipendevano, colla loro artiglieria. Fino a tal tempo Montpensiero non doveva tentare d'uscire da Atella, ove il re gli somministrerebbe i viveri giorno per giorno. Quando poi i Francesi rassegnerebbero la piazza, dovevano essi avere la libertà di passare in Francia, gl'Italiani fuori del regno, ed i Napolitani quindici giorni di tempo per assoggettarsi al re, che loro prometteva intero perdono, e la restituzione di ogni loro avere. Questa convenzione venne sottoscritta il giorno 20 di luglio del 1496, e le tre città di Venosa, Gaeta e Taranto, i di cui governatori erano stati immediatamente nominati dal re, furono espressamente eccettuate[441].
Sembra che il Montpensiero non aspettasse i trenta giorni accordati nella convenzione per cedere Atella; ma che, stretto da bisogno di danaro, e dalla impazienza de' suoi soldati, consegnasse dopo tre dì quella piazza a Ferdinando per dieci mila fiorini, che distribuì alle sue truppe a conto del loro soldo[442].
Uscì da Atella con circa cinque mila uomini, che furono condotti a Baja ed a Pozzuolo per aspettarvi un imbarco. Nello stesso tempo diede al re tutte le fortezze del suo governo, ma Ferdinando chiedeva tutte quelle del regno, molte delle quali ricusavano di riconoscere l'autorità del luogotenente del re. Mentre si disaminava questa parte della capitolazione, l'armata francese fu ritenuta nel cuore dell'estate sulla spiaggia pestilenziale di Baja, e fu bentosto sorpresa da terribile epidemia. Uno de' primi a morire fu Gilberto di Montpensiero; poi la mortalità si estese ai cavalieri ed ai pedoni e non gli abbandonò nel loro viaggio, quando fu loro permesso di partire; onde di cinque mila uomini usciti da Atella appena ne arrivarono in Francia cinquecento[443].
Alessandro VI, che destinava le spoglie degli Orsini ai suoi figliuoli, e che voleva da prima sterminare quella famiglia, non solo sciolse Ferdinando II dal giuramento dato per l'esecuzione della capitolazione di Atella, ma minacciò di punirlo colle pene ecclesiastiche se vi dava esecuzione. Per ubbidire al papa il re Ferdinando fece imprigionare Virginio e Paolo Orsini in castel dell'Uovo. Le loro truppe italiane che si ritiravano, attraversando l'Abruzzo sotto gli ordini di Giovan Giordano Orsini e dell'Alviano, furono attaccate dal duca d'Urbino e svaligiate. In pari tempo Graziano Guerra, più non potendo sostenersi nell'Abruzzo, ritirossi a Gaeta con ottocento cavalli; il d'Aubignì, dopo di avere difesa per qualche tempo la Calabria, fu forzato di capitolare a Groppoli, ottenendo la libertà di ritirarsi in Francia.
I principi di Salerno e di Bisignano approfittarono dell'amnistia, e rientrarono nella grazia di Ferdinando dopo avergli consegnate le loro fortezze. Finalmente, ad eccezione di Taranto, ove comandava Giorgio di Sillì, di Gaeta in cui si era chiuso il siniscalco di Belcario e di monte sant'Angelo, ove valorosamente si difendeva Giuliano di Lorena, i Francesi furono scacciati da tutte le loro conquiste, e tutto il regno di Napoli ridotto all'ubbidienza di Ferdinando[444].
Ma nello stesso istante in cui questo giovane principe rientrava in Napoli, di ritorno da una guerra che gli aveva fruttato un regno, e nella quale aveva date luminose prove di coraggio, di costanza, di perizia nell'arte della guerra, e di accortezza nel cattivarsi gli animi, sorprese la Cristianità con un matrimonio, che mai non dovrebb'essere autorizzato da veruna dispensa politica. Sposò la propria sua zia, Giovanna, sorella di suo padre, che aveva press'a poco l'età sua. Nè questa scelta gli era stata suggerita dalla politica, ma dall'amore, e quest'amore gli riuscì funesto. Ferdinando tornava da faticosissima campagna, in un paese malsano, dove tutti i capi delle due armate erano caduti infermi. Egli non abbadò all'effetto che tante fatiche avevano dovuto fare sulla sua fisica costituzione, suppose di avere tutto il vigore della sua sanità, e si comportò come se effettivamente lo avesse; ma appena fu egli andato colla sua sposa a soggiornare in Somma, villa posta alle falde del Vesuvio, che morì d'esanimamento il 7 di settembre del 1496, in età di ventisette anni un mese ed undici giorni. Perchè non aveva figli, Federico, suo zio, salì sul trono di Napoli, che nello spazio di tre anni era stato occupato da cinque re: infatti Ferdinando I, Alfonso II, Carlo VIII, Ferdinando II e Federico II, si erano succeduti con una sgraziata rapidità, che aveva accresciute le miserie di un regno di già desolato da crudele guerra[445].
CAPITOLO XCVIII.
Guerra di Pisa; i Pisani soccorsi dal duca di Milano, dai Veneziani e dall'imperatore Massimiliano. — Tregua in Italia. — Il Savonarola va perdendo in Firenze l'opinione. — Prova del fuoco che gli viene proposta da un monaco; sua condanna e sua morte.
1496 = 1498. La scossa data a tutta la politica dell'Italia dalla spedizione di Carlo VIII pareva sospesa: questo monarca, tornato nell'ordinaria sua residenza, d'altro omai non prendevasi cura che di tornei, di feste e di una vana pompa cavalleresca, che gli faceva dimenticare quella stessa guerra di cui era l'immagine. Sempre avviluppato in donneschi raggiri a cagione de' suoi moltiplici incostanti amori, più non dava alle cose d'Italia che qualche fuggitiva occhiata. Di quando in quando annunciava ancora di voler liberare i suoi commilitoni, da lui esposti a tanti pericoli, o che già languivano per cagion sua nelle prigioni e nella miseria; parlava di vendicare gl'insulti fatti al suo nome, e di ricuperare la gloria che aveva acquistata a così poco prezzo e così rapidamente perduta; ma bentosto ricadeva nella mollezza e nella dimenticanza d'ogni cosa; ed omai nè le sue minacce atterrivano, nè le sue promesse fomentavano la speranza.
La morte di Ferdinando II e l'innalzamento di Federico I sul trono di Napoli parevano contribuire coll'indolenza di Carlo VIII a dare maggiore consistenza a quella monarchia. Federico era da gran tempo caro ai Napolitani; egli era quello stesso principe che i baroni malcontenti avevano voluto nel 1485 sostituire a suo padre, il vecchio Ferdinando, ed a suo fratel maggiore, Alfonso; era quello che aveva preferito di restare in prigione tra le mani de' faziosi, piuttosto che farsi strada al trono con un delitto. Tutti i partiti conoscevano la sua moderazione e la sua imparzialità, tutti avevano in lui la medesima confidenza. Il suo predecessore, Ferdinando II, non aveva lo stesso vantaggio; erasi veduto spiegare somma costanza e valore nell'ultima guerra, ma gli Angiovini temevano sempre di veder ricomparire nel suo carattere il vecchio lievito arragonese, la perfidia e la crudeltà, che sembravano ereditarie in quella famiglia. Raccontavano pure, che, di già preso dalla malattia che lo condusse al sepolcro, aveva ordinato di far perire il vescovo di Teano, che teneva in prigione, e che, temendo che la sua gente, credendo vicina la sua morte, non gli dicessero d'avere eseguiti i suoi ordini senz'averli eseguiti, erasi fatta recare la di lui testa sul suo letto di morte[446].
Federico, salendo sul trono in mezzo ad un popolo diviso in tante fazioni, e ruinato da guerre civili e straniere, sentiva che doveva presentarsi ai Napolitani piuttosto come conciliatore, che come vincitore. Accolse tutti i partiti con eguale indulgenza, mostrando a tutti un eguale rispetto pel valore e per la sventura; rimandò in Francia gli avanzi dell'armata, che aveva capitolato ad Atella, ed eransi sottratti al cattivo aere di Baja; si riconciliò del tutto col principe di Bisignano e con quello di Conza, che durante il loro lungo esilio in Francia avevano apparecchiata la guerra che riuscì tanto funesta al regno, e promise la stessa indulgenza al principe di Salerno, che invitò alla festa della sua incoronazione. Ma questo principe, invecchiato nelle fazioni e più volte vittima de' reali tradimenti, non potè prestar fede alle leali promesse del nuovo re; gli attribuì un attentato d'assassinio contro suo fratello, che poi non era che una privata vendetta[447]. Ricominciò adunque la guerra, ed inseguito di castello in castello nella Lucania, fu finalmente costretto ad uscire dal regno, ed a ritirarsi a Sinigaglia nel piccolo principato di Giovanni della Rovere, prefetto di Roma, presso il quale morì esule dopo non molto tempo[448].
Daubignì, che aveva gloriosamente comandato ai Francesi in Calabria, non credette di dovere più a lungo protrarre una guerra che per la Francia era senza speranza, e che riduceva i suoi antichi partigiani all'estrema miseria e pericolo. E non solo ottenne per sè medesimo e pe' suoi compagni d'armi onorevoli condizioni, ma inoltre persuase Oberto di Rosset, che si era difeso in Gaeta con maravigliosa costanza e coraggio, a conservare i suoi soldati per meno infelici tempi, ed a rilasciare quella città a Federico. Verso lo stesso tempo Graziano Guerra abbandonò gli Abruzzi; e vennero a patti le guarnigioni di Venosa e di Taranto; di modo che i Francesi non conservarono nel regno di Napoli verun pegno della rapida loro conquista[449].
Ma la guerra che Carlo VIII aveva suscitata nel suo passaggio per la Toscana, rendendo la libertà a Pisa, non era ancora spenta, ed era una scintilla capace di cagionare in Italia un nuovo incendio. La quale guerra si trattava secondo la vecchia tattica delle guerre italiane, e la lentezza delle sue operazioni stranamente contrastava coll'impeto che poc'anzi avevano spiegato i Francesi. Assedj di piccoli castelli, sorprese, scaramucce d'avamposti, esaurivano tutta l'arte de' capitani, sebbene si vedessero alla testa delle due armate uomini riputatissimi nell'arte della guerra; perciocchè comandavano le truppe fiorentine Francesco Secco e Rannuccio di Marciano, e le pisane Lucio Malvezzi di Bologna, casualmente secondato dai più esperti condottieri del duca di Milano e de' Veneziani. Vero è che la guerra trattavasi tra di loro in una più sanguinosa maniera di quel che si facesse nella precedente età, perchè molti soldati forastieri, che servivano nell'una e nell'altra armata, nè accordavano, nè chiedevano quartiere. Se i Fiorentini avessero una sola volta levata un'armata abbastanza numerosa per farsi strada fino a Pisa, piantare le loro artiglierie sotto le sue mura ed aprirvi una breccia, avrebbero risparmiato ad un tempo molto sangue e molto danaro. Ma essi speravano tuttavia d'avere Pisa col mezzo delle negoziazioni che avevano intavolate con tutte le potenze: essi non erano in guerra dichiarata con veruna, e furono consecutivamente chiamati a combattere i Francesi, l'imperatore, i Milanesi, i Genovesi, i Lucchesi, i Sienesi, i quali si presentarono uno dopo l'altro come ausiliarj de' Pisani; essendo in allora ammesso come principio di diritto pubblico, che uno potesse fare la guerra pel suo alleato, senza dichiararla egli medesimo.
Nella stessa maniera per una bizzarra complicazione di maneggi politici, i Fiorentini per ricuperare Pisa dovettero combattere contro i Francesi, loro veri alleati, e contro tutti i nemici de' Francesi: i Pisani dal canto loro raccomandarono nello stesso tempo la loro repubblica a Carlo VIII ed a tutti i nemici di Carlo VIII. In un sol giorno furono mandati dalla signoria di Pisa, Mariano Peccioli a Lodovico Sforza, Agostino Donizzo a papa Alessandro VI, Bernardino Agnelli alla repubblica di Venezia, e Pietro Griffo alla corte di Francia[450]. Erano questi ambasciatori partiti prima che d'Entragues cedesse ai Pisani le loro fortezze. Coloro che si recarono presso i nemici della Francia ebbero il più felice esito; lo Sforza mandò ai Pisani Lodovico della Mirandola con uno squadrone di cavalleria e trecento fanti tedeschi; ed i Veneziani loro spedirono Paolo Manfroni con dugento cavalli ed una somma di danaro per far leva di fanteria[451].
Lodovico Sforza, che si teneva sempre sicuro di potere colla finezza della sua politica tutto dirigere e dominare a voglia sua, lasciava frequentemente, per avarizia, di spendere quanto richiedevasi per l'esecuzione de' suoi progetti; ed in allora sperava con un tratto della sua accortezza di ridurre i suoi nemici a sostenere le spese ch'egli avrebbe dovuto fare. Con questa mira aveva caldamente consigliati i Veneziani a difendere Pisa, facendo loro sentire che, tendendo questa guerra ad indebolire i Fiorentini, i soli alleati conservatisi fedeli ai Francesi, tornava egualmente utile il farla agl'interessi di Venezia e di Milano, e che perciò le spese dovevano farsi in comune. In allora non poteva sospettare che i Veneziani pensassero giammai ad insignorirsi di Pisa, città separata da tanti stati dal loro territorio; mentre che facilmente poteva essere unita alla Liguria, di cui egli era sovrano[452].
Ma i Pisani più non avevano per Lodovico Sforza quell'inclinazione che avevano mostrata in principio della guerra. Scoraggiati dalla sua avarizia, aombrati dalle sue negoziazioni coi Fiorentini, avevano apertamente letti i suoi segreti disegni nelle proposizioni che loro faceva di dare la signoria della città alle sue creature i fratelli Sanseverini; onde omai riponevano ne' soli Veneziani ogni loro fiducia. Avevano da tutte le potenze della lega avuto promessa di guarentire la loro libertà. Massimiliano aveva riconosciuti i loro diritti con un privilegio imperiale; il papa aveva loro diretto un breve per incoraggiarli a difendersi, e gli ambasciatori spagnuoli avevano detto che il loro padrone vedrebbe con piacere le porte della Toscana chiuse ai Francesi dallo stabilimento d'una repubblica rivale di quella di Firenze[453].
In sul cominciare di marzo del 1496, avevano i Fiorentini ottenuto qualche vantaggio in quella parte del territorio pisano che giace tra il lago di Bientina, le montagne e l'Arno. Avevano preso Buti, san Michele di Verrucola e Calci; ma nello stesso tempo si pubblicarono in tutto il territorio pisano con grandissime dimostrazioni di gioja le lettere che la signoria aveva ricevuto dal doge Agostino Barberigo, colle quali dichiarava che la repubblica di Venezia riceveva sotto la sua protezione quella di Pisa[454].
Questa pubblica dichiarazione, che in qualche maniera obbligava l'onore de' Veneziani a difendere Pisa, era stata lungamente discussa e contrariata ne' medesimi consigli di Venezia dai più vecchi senatori, e da quelli che avevano maggiore opinione di sperimentata prudenza. Pareva loro che in quest'occasione la repubblica si esponesse al doppio pericolo di risvegliare la gelosia di tutti gli altri stati colla confessione d'un'insaziabile ambizione, e nello stesso tempo d'intraprendere ciò che non potrebbe mantenere con onore[455].
Da quell'istante le cose de' Pisani cominciarono a prosperare. Francesco Secco fu da loro sorpreso in principio di aprile; gli uccisero da cinquanta uomini, gli presero dugento venti cavalli e lo sforzarono a levare l'assedio della Verrucola. Pochi giorni dopo lo stesso Secco, desideroso di vendicarsi, attirò presso Vico in un'imboscata i Pisani, comandati da Paolo Manfroni; li ruppe infatti, ma nell'atto che gl'inseguiva fu mortalmente ferito da una palla da archibugio. La di lui perdita equivaleva pei Fiorentini ad una seconda sconfitta[456]. Il 30 di maggio Lucio Malvezzi, capitano de' Pisani, sorprese e saccheggiò Ponsacco, dove fece prigioniero Lodovico da Marciano, fratello di Rannuccio, che comandava l'armata fiorentina[457]. Finalmente ne' primi giorni di giugno Giustiniani Morosini, gentiluomo veneziano, giunse a Pisa con ottocento Stradioti. Questi barbari soldati, che si erano renduti formidabili a tutta l'Italia, che avevano più volte fatto testa agli uomini d'armi francesi, e che avevano fatto conoscere tutto quanto poteva ripromettersi da una cavalleria leggiera, riempirono in breve tutta la Toscana del terrore delle loro armi. Il 23 di giugno si gettarono in Val di Nievole; passarono sotto Monte Carlo, ed avendo trovata resistenza a Buggiano lo presero, lo saccheggiarono e lo bruciarono unitamente a Steggiano, facendo provare ai Fiorentini, quanto grande sventura fosse quella d'un popolo ridotto al più alto grado di civiltà, che veniva invaso da soldati appena usciti dalla barbarie[458].
Gli avvenimenti del precedente anno avevano ingrandita la presunzione di Lodovico Sforza; davasi vanto di avere chiamati i Francesi in Italia e d'averli scacciati; d'avere gastigata la casa di Arragona, e d'averla in appresso rimessa in trono, e d'avere disposto delle fortezze che i Francesi ricevuto avevano dai Fiorentini, come se le avesse egli stesso avute in custodia. Egli aveva adottato il soprannome di Moro, che gli aveva fatto dare la sua bruna carnagione; ma voleva che vi si scorgesse l'emblema della sua accortezza e della sua forza, le due qualità, che, a suo credere, lo rendevano superiore agli altri uomini[459]. Aveva veduto con piacere i Veneziani prendere parte nella guerra di Pisa, e compiacevasi di dire che per lui solo versavanvi i loro tesori ed il loro sangue.
Per altro quando cominciò ad accorgersi che i Pisani erano più inclinati per i Veneziani che per lui, credette giunto il momento d'introdurre in Italia un nuovo potentato che ripromettevasi di guidare a posta sua con quella facilità con cui credeva dirigere tutti gli altri. A tale oggetto spedì ambasciatori a Massimiliano, re de' Romani, invitandolo a venire a prendere a Milano la corona di Lombardia, ed a Roma quella dell'impero, onde ripristinare in tutta l'Italia l'autorità imperiale. Aveva Massimiliano sposata una nipote di Lodovico Sforza, e fin da quell'epoca si era mostrato propenso a seguire i suoi consiglj. Altronde quel monarca, sempre senza danaro, e le di cui forze, sproporzionate co' suoi titoli e colla estensione de' suoi stati, mai non bastavano a condurre a fine le intraprese che aveva cominciate, era sempre tormentato da un vago desiderio di gloria senza avere in sè medesimo nè costanza per tenerle dietro, nè veri talenti per ottenerla. Gettavasi appassionatamente in tutte le nuove avventure, perchè gli servivano di pretesto per abbandonare le precedenti. Era sempre ansioso di dirigere gli affari altrui, perchè gli servivano di pretesto per trascurare i proprj; e perchè si vedeva sempre contrariato ne' suoi stati, cercava ogni circostanza di uscirne. Era adunque allo Sforza meno difficile l'attirarlo in Italia che persuadere i Veneziani ad unirsi a lui per chiamarvelo. Per altro siccome Carlo VIII non lasciava di minacciare, e credendosi che le sue armate fossero apparecchiate a valicare le Alpi, perciocchè era noto che aveva di fresco tentato lo Sforza onde rientrasse nella sua alleanza, i Veneziani ebbero timore che il duca di Milano, il quale diffidava di loro, non si gettasse di nuovo nelle braccia del re di Francia, ed acconsentirono di mandare dal canto loro ambasciatori a Massimiliano per promettergli un sussidio[460].
Massimiliano si avanzò fino a Manshut ai confini del Tirolo e della Valtellina; e colà recossi a trovarlo Lodovico il Moro cogli ambasciatori di Venezia e del papa. Convenne con lui che gli alleati d'Italia gli pagherebbero per tre mesi quaranta mila ducati al mese, cioè i Veneziani 16,000, egli stesso 16,000, ed il papa 8,000, a condizione che Massimiliano entrerebbe in Italia con un'armata degna d'un imperatore, e che l'adopererebbe in quei tre mesi in servigio della lega. Il giorno susseguente a quello in cui fu sottoscritto il contratto, Massimiliano in abito da caccia passò ancor esso le Alpi, e venne a Bormio a rendere visita a Lodovico il Moro, ed ebbe con lui un'altra conferenza. Tornò poi subito in Germania per levarvi la promessa armata[461].
Per altro prima di porsi in viaggio alla volta dell'Italia spedì due ambasciatori a Firenze, i quali si presentarono alla signoria il giorno 19 d'aprile. Le dichiararono che, volendo l'imperatore volgere le armi della Cristianità contro gl'infedeli, aveva proposto di consolidare da prima il riposo d'Italia, distruggendo tutti i semi di discordia sparsi dai Francesi, e riunendola tutt'intera in una sola lega. I Fiorentini, soggiunsero, sono i soli che mantengonsi fuori dell'alleanza comune; quindi vengono da Massimiliano invitati a deporre le armi, che prese hanno contro i Pisani, e ad assoggettare le loro pretese verso quella città alle leggi dell'impero ed al suo arbitramento[462]. Risposero i Fiorentini, che avevano di già nominati due de' loro più riputati cittadini per recarsi presso l'imperatore, e portargli l'omaggio del loro rispetto e della loro ubbidienza. Che i suoi ambasciatori gli esporrebbero i diritti della loro repubblica sopra di Pisa, e che invocherebbero a favore della medesima le leggi dell'impero, in forza delle quali veruno stato era obbligato ad assoggettare ad un arbitramento le sue pretese, se preventivamente non era rimesso in possesso di tutto quanto gli era stato tolto colla violenza[463].
Bentosto i Pisani furono avvisati dai loro alleati che l'imperatore eletto in breve giugnerebbe tra le loro mura; ma di già senza la di lui assistenza trovavansi in aperta campagna superiori ai Fiorentini. Ogni giorno ricevevano nuovi soccorsi dai Veneziani; due provveditori di san Marco, Morosini e Domenico Delfino, erano venuti a soggiornare nella loro città; il conte Braccio di Montone loro aveva condotto un corpo d'uomini d'armi, ultimo avanzo dell'antica scuola del suo avo. Poco dopo Annibale Bentivoglio, figliuolo di Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, era pure giunto tra di loro. Vero è che i Veneziani avevano spedito il Bentivoglio meno per soccorrere Pisa che per acquistare in quella città una decisa preponderanza sopra il duca di Milano. Avevano sospetto che Lucio Malvezzi, generale de' Pisani, fosse totalmente ligio alla casa Sforza, e volevano ridurlo a rinunciare egli stesso al servigio di quella repubblica. Ora il Malvezzi apparteneva a quella famiglia che nel 1488 aveva in Bologna congiurato contro i Bentivoglio; tutti i suoi parenti erano stati da loro uccisi, era stato dai medesimi posta una taglia alla sua testa; non era probabile che si tenesse sicuro in una città, dove il suo più accanito nemico riceveva un comando. Effettivamente, quando Giulio Malvezzi vide entrare in Pisa il Bentivoglio, chiese ed ottenne il suo congedo[464].
I Pisani, sotto gli ordini di Gian Paolo Manfroni, attaccarono successivamente tutte le terre murate che i Fiorentini possedevano nel loro territorio, cercando particolarmente di togliere loro ogni comunicazione con Livorno. Se ciò ottenere potevano, se in tal modo riuscivano ad allontanare i Fiorentini dal mare, avrebbero loro tolta la speranza di ricevere ajuti dalla Francia, avrebbero nello stesso tempo interrotto tutto il loro commercio marittimo, ed avrebbero loro cagionato una così grave perdita da consigliarli a chiedere la pace. In principio di settembre il Manfroni prese i castelli di Sojana, Moranna, Chianna, Terricciuola e Cigoli. Fu meno fortunato in una zuffa presso il lago di Bientina, che si terminò colla ritirata delle due armate, dopo avere ambedue perduta molta gente; ma bentosto, ricominciando i suoi attacchi contro i castelli delle colline, prima del 20 di settembre occupò san Regolo, san Luzio, Usigliano, Casa nuova ed alcune altre terre murate. Pietro Capponi, commissario de' Fiorentini presso l'armata, quello stesso che aveva stracciate le proposizioni di Carlo VIII, ed uno de' più eloquenti e più coraggiosi cittadini di Firenze, volle metter fine a tali conquiste e riprendere Sojana; ma mentre faceva condurre l'armata fiorentina contro quel castello, ed egli si avanzava per un luogo scoperto per piantare una batteria, fu colpito nel capo da una palla di falconetto, che lo fece cader morto. Firenze pianse in questo cittadino l'uomo coraggioso che l'aveva salvata colla sua fermezza, ed il degno rappresentante d'una famiglia, che, anche ne' tempi in cui maggiormente imperversavano le fazioni, si era sempre distinta per le sue virtù pubbliche, senza abbandonarsi a verun partito[465].
Intanto Massimiliano era sceso in Italia, ma invece dell'armata imperiale promessa ai confederati aveva appena con sè trecento cavalli e mille cinquecento pedoni. Perciò, sentendo egli stesso di corrispondere troppo male all'aspettazione de' popoli, sottraevasi alla folla che adunavasi per vederlo. Prese una strada rimota per non attraversare Como, dove gli era stata apparecchiata una magnifica festa, e si trattenne a Vigevano per non lasciarsi vedere a Milano[466]. Gli chiedevano gli alleati di costringere il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato a staccarsi, nella loro qualità di membri dell'impero, dall'alleanza francese; ma le sue forze non erano tali da far rispettare i suoi decreti. Volle ancora far rinunciare il duca di Ferrara alla sua neutralità, e gl'intimò come a suo feudatario pei ducati di Modena e di Reggio di presentarsi alla sua corte; ma Ercole d'Este ricusò d'ubbidire, dichiarando che ciò sarebbe un dipartirsi dalla mediazione che egli aveva accettata nel trattato colla Francia, e mancare all'obbligo contratto quando aveva accettato in deposito il Castelletto di Genova. Non potendo Massimiliano fare verun altro uso della sua imperiale potenza, prese la strada di Genova per recarsi a Pisa[467].
Sebbene l'armata dell'imperatore fosse poco considerabile, la sua venuta riusciva ai Fiorentini assai molesta: essi avevano contro di loro tutta la lega che aveva scacciati i Francesi dall'Italia. I sovrani della Spagna ed il papa, se non agivano vigorosamente contro di loro, manifestavano se non altro la loro nimicizia, e sovvenivano danaro ai loro nemici. Il duca di Milano ed i Veneziani gli opprimevano colle grandi forze mandate in ajuto de' Pisani, e tutti i piccoli popoli della Toscana, tutti i vicini di Firenze, che non avrebbero ardito di prendere una parte attiva nella guerra contro un più grande potentato, adoperavano tutte le forze loro contro una repubblica di cui erano gelosi. Firenze, smunta da tre anni di guerra, e dai prodigiosi sussidj pagati alla Francia, mentre aveva perdute le dogane di Pisa e del mare, che formavano una ragguardevole parte delle sue entrate, non sembrava in istato di portare questo nuovo peso. Aveva troppe riprove dell'instabilità e della mala fede di Carlo VIII, e non era sperabile che questo monarca soccorresse i suoi alleati, dopo che aveva abbandonati nell'estrema miseria le proprie armate del regno di Napoli. Se la repubblica non si fosse consigliata che colla politica mondana, avrebbe senza verun dubbio già da gran tempo accettata l'offerta fattale da Lodovico Sforza di farla ricevere nella lega italiana: ma il partito de' piagnoni, che in allora dominava in Firenze, era composto d'uomini che ogni giorno andavano ad imparare alle prediche di Girolamo Savonarola in qual modo dovevano governare la repubblica; che in tutte le perdite che provava lo stato vedevano il gastigo de' vizj de' privati e non quello degli errori del governo; che non isperavano che nella forza delle preghiere e nella prudenza delle ispirazioni. Ora il Savonarola loro prediceva continuamente che i tempi delle prove erano vicini a terminare, che la Chiesa di Dio sarebbe bentosto riformata dalla potenza de' Francesi, e che, qualora i Fiorentini si mantenessero fedeli al partito che avevano abbracciato, si troverebbero, dopo tutte le loro tribolazioni, padroni non solo dell'antico territorio, ma di tutta la Toscana. Queste predizioni inspirarono ai consiglj della repubblica una costanza tale, che mai non fu posta a più dura prova[468].
Il vescovo Pazzi e Francesco Pepi, legista, che la repubblica aveva mandati come ambasciatori presso Massimiliano, arrivarono a Tortona il giorno dopo la sua partenza alla volta di Genova. Lo seguirono in quella città, ma dopo la loro udienza di presentazione, l'imperatore li mandò per la risposta al cardinale di santa Croce, legato del papa, mentre che il giorno 8 di ottobre egli andava a bordo per passare a Pisa. Il cardinale li rimandò al duca di Milano, che in allora trovavasi a Tortona. Avanti di presentarsi al duca scrissero alla repubblica per informarla del modo con cui venivano rimandati dall'uno all'altro. Per altro seguirono lo Sforza a Tortona ed a Milano, e colà ebbero ordine dalla signoria di prendere da lui congedo senza esporgli la commissione. Il borioso signore, sempre premuroso di far pompa agli occhi d'un numeroso pubblico del suo potere e della sua eloquenza, aveva invitati tutti gli ambasciatori della lega e tutti i senatori di Milano alla pubblica udienza che aveva destinato di dare ai Fiorentini. Aveva apparecchiato uno studiato discorso, nel quale veniva rammentando i consiglj che loro aveva dati, e gli errori contro i quali gli aveva avvisati di cautelarsi. Voleva loro dimostrare essere appunto quelli in cui erano caduti, e di cui ne provavano le tristi conseguenze. Ma gli ambasciatori introdotti innanzi a lui si ristrinsero a dirgli, che, tornando a Firenze, non avevano temuto di allungare la via per avere l'opportunità d'attestargli il loro rispetto, e la ferma intenzione della loro patria di restare con lui in sul piede dell'antica loro amicizia. Lo Sforza, sconcertato da questo complimento, chiese loro quale risposta avevano avuta dall'imperatore. — Per le leggi della nostra repubblica, gli risposero, non possiamo esporre le sue commissioni che al principe presso al quale siamo stati mandati, e perciò non rendiamo conto che alla nostra signoria delle sue risposte. — Ma io so, soggiunse il duca, che l'imperatore vi ha rimandati a noi per avere la risposta; non volete voi dunque averla? — Niuna legge ci proibisce d'ascoltare, essi ripigliarono, e non abbiamo alcun diritto d'impedire a vostra altezza di parlare. — Ma noi, replicò il duca, non possiamo dare una risposta senza che ci esponiate la domanda che gli avete fatta. — E noi, dissero gli ambasciatori, non possiamo eccedere la commissione che ci fu data. Ma se l'imperatore ha incaricata l'altezza vostra di rispondere, le avrà naturalmente comunicata la nostra proposizione. Il Moro, non potendo avere da loro una più espressa domanda, li licenziò all'ultimo con tutta l'assemblea, innanzi alla quale aveva creduto di brillare coll'umiliarli, ed alla quale non seppe pure nascondere il suo dispetto[469].
Massimiliano aveva a Genova trovate sei galere veneziane, che lo stavano aspettando, e vi s'imbarcò gli 8 d'ottobre con mille fanti tedeschi: mille altri fanti con cinquecento cavalli andarono per terra alla Spezia; e le galere genovesi trasportarono sulle coste della Toscana una numerosa artiglieria[470]. Avendo Massimiliano riuniti questi due corpi di truppe, entrò in Pisa alla testa delle medesime. Fu ricevuto alla porta della città dai dieci anziani e dai procuratori di san Marco, che colà risiedevano a nome de' Veneziani, e fu accompagnato all'alloggio che gli era stato apparecchiato nel palazzo che i Medici avevano fabbricato in Pisa. Il di lui arrivo venne festeggiato con pubblici divertimenti, e lo scudo di marmo carico di giglj d'oro, ch'era stato innalzato sul ponte in onore di Carlo VIII, fu gettato nel fiume per far luogo agli stemmi di Massimiliano. Nel susseguente giorno, l'imperatore, che risguardava l'acquisto di Livorno siccome lo scopo principale della sua spedizione, andò a bordo d'una galera veneziana per recarsi a riconoscere quella piazza. I Fiorentini vi avevano mandata una buona guarnigione ed una numerosa artiglieria: l'avevano di fresco renduta più forte con nuove opere, e datone il comando a Bettino Ricasoli, quello di tutti i cittadini di Firenze che aveva date prove di più grandi talenti militari[471].
L'assedio di Livorno fu all'istante intrapreso dalla banda di terra e di mare; ma se Massimiliano aveva desiderio d'illustrare la sua venuta in Toscana con una conquista, nè i Veneziani, nè lo Sforza lo assecondavano di buona fede. Non avevano ancora convenuto a chi di loro toccherebbe Livorno: ed in pendenza della decisione di questo punto così importante attaccarono colla loro artiglieria tre torri, poste sopra gli scogli fuor del porto, il di cui possedimento non riusciva vantaggioso a veruno. Massimiliano trattava la guerra da principe; credeva di dare esempj di valore ai soldati con certa quale militare galanteria di cui faceva professione, e credeva pure di dirigere i loro capitani coll'assistere a tutti i loro consiglj; egli non si accorgeva che le continue scariche della sua artiglieria non avevano alcun utile scopo, e davano oggetto di ridere alle due armate[472].
Frattanto due sortite fatte dalla guarnigione di Livorno avevano dispersi gli assedianti, ed uccisa loro molta gente presso ponte di Stagno. Dall'altro canto eransi innoltrati nelle Maremme al di là di Cecina quattrocento cavalli ed altrettanti fanti tedeschi, ed avevano occupato la grossa borgata di Bolgheri. La saccheggiarono, ed uccisero gli abitanti colla più insigne crudeltà, svenando le donne ed i fanciulli fino ai piedi degli altari. Castagneto, che come Bolgheri apparteneva ai conti della Gherardesca, s'affrettò d'arrendersi per sottrarsi a tanta sciagura, e stava per fare lo stesso anche Bibbona, quando si vide in tempo di grossa burrasca giugnere in faccia al porto di Livorno una flotta francese di sei vascelli e due galeoni, carica di frumento e di soldati. La violenza del vento obbligava la flotta degli alleati a porsi al coperto dietro la Meloria, di modo che i Francesi trovarono libero l'ingresso del porto, e vi entrarono a piene vele[473]. Il Savonarola aveva da gran tempo annunciato un divino soccorso, ed i Fiorentini, sempre animati dai discorsi del loro predicatore, aspettavano infatti un miracolo, e credettero di vederlo nell'arrivo inaspettato di quella flotta. Vero è che la signoria aveva comperati in Francia, già da molto tempo, sei mila moggia di frumento, ed aveva preso al loro soldo il signore d'Albigeon con mille soldati; ma nè tutto il grano che avevano comperato, nè tutti i militari che avevano assoldati giugnevano su questa flotta, ed il più grosso de' vascelli ch'erano entrati in porto, ne ripartì subito, per continuare il suo viaggio alla volta di Gaeta, ove doveva portare de' rinforzi. Pure questo piccolo soccorso giugneva così a proposito, che gli assediati riprendevano coraggio, ed i nemici tremavano come se in sui loro occhi si fosse operato un prodigio[474].
I venti, che di già avevano così bene serviti i Fiorentini, loro rendettero nuovi servigi. Il 14 di novembre una burrasca assalì all'improvviso la flotta che assediava Livorno. Il vascello genovese, la Grimalda, a bordo del quale l'imperatore era stato molto tempo, venne a rompere contro la fortezza; due galere veneziane furono gettate sulla costa presso san Giacomo, e le altre navi vennero talmente danneggiate, che si conobbe l'impossibilità di continuare l'assedio. Massimiliano ricondusse a Pisa la sua armata, dichiarando di non potere nello stesso tempo fare la guerra a Dio ed agli uomini[475]. Disse che porterebbe altrove le sue armi, e fece gettare de' ponti sull'Arno e sul Cilecchio presso Cascina e Vico Pisano. Il 19 di novembre si avanzò infatti verso Monte Carlo; ma un contadino lucchese, preso dalla vanguardia, gli appalesò che si trovavano in quel forte due mila fanti e mille cavalli colà arrivati nel precedente giorno. O sia che quest'uomo fosse stato appostatamente tenuto in sulla strada da Antonio Giacomini, comandante di Monte Carlo, o dallo stesso imperatore, che cercava un pretesto per ritirarsi, Massimiliano lo credette, o s'infinse di crederlo. Egli prese subito la via di Sarzana, senza voler nemmeno parlare al conte di Cajazzo, che lo accompagnava a nome di Lodovico il Moro, e senza manifestare a verun'altra persona i motivi di questa sua improvvisa risoluzione. Passò così in Lombardia per la strada di Pontremoli, dopo essersi trattenuto meno d'un mese a Pisa[476].
Giunto a Pavia Massimiliano dichiarò a' suoi alleati che urgenti ragioni lo richiamavano in Germania. Pure si trattenne alcun tempo in quella città per sapere quali proposizioni gli si farebbero per conto di un nuovo sussidio. Offrì di soggiornare ancora tutto l'inverno in Italia, ai servigj de' confederati, colla poca truppa che gli era rimasta, purchè gli si pagassero ventidue mila fiorini del Reno al mese. Gli alleati ne avevano di già offerti venti mila. Massimiliano, aspettando un definitivo riscontro da Venezia, si fermò nella Lomellina, e tornò a Cussago, invece d'andare a Milano, dov'era aspettato; poi bruscamente partì alla volta di Como, sempre deludendo l'aspettazione de' negoziatori che trattavano con lui, e facendo in pari tempo conoscere la sua incostanza e la sua avidità. All'ultimo rientrò in Germania pel lago di Como, e lasciò negl'Italiani una spregievole opinione di sè per la sua instabilità; opinione che mai non potè cancellare poscia nella lunga serie di quelle guerre colle quali egli desolò il loro paese[477].
Lodovico il Moro, che non aveva calcolato di stabilirsi in Pisa che coll'appoggio dell'imperatore, quando si vide da lui abbandonato richiamò le truppe che tuttavia teneva in Toscana, e trovò qualche conforto alle deluse sue speranze nelle spese che cagionò ai Veneziani, suoi vicini, sui quali faceva ricadere tutto il peso della guerra. Dal canto loro i Veneziani cominciarono a scoraggiarsi; ed i Fiorentini, approfittando della mala intelligenza de' loro nemici, ricuperarono nell'inverno la maggior parte de' castelli che avevano perduti nelle colline[478].
Ma nel mentre che il vicendevole spossamento de' combattenti riduceva la guerra di Toscana a semplici scaramucce, l'ambizione d'Alessandro VI ne risvegliava un'altra nello stato di Roma, che poteva, non meno che la precedente, chiamarvi straniere armate. Ad altro non pensava il papa che ad ingrandire i suoi figliuoli; credette giunta la propizia circostanza d'arricchirli, senza eccitare i riclami della Chiesa, col sequestrare tutti i feudi degli Orsini, mentre che tutti i capi di quella famiglia erano tenuti in prigione a Napoli. Il primo di giugno del 1496 aveva condannato Virginio Orsini come ribelle per essere passato al soldo de' Francesi, ed avere per loro portate le armi nel regno di Napoli. Aveva nello stesso tempo intimato a Ferdinando di ritenerlo prigioniero a dispetto della capitolazione d'Atella[479]. Il ventisei ottobre susseguente pronunciò in segreto concistoro la pena della confisca contro Virginio Orsini e tutta la sua famiglia, incaricando suo figlio, Francesco Borgia, duca di Gandia, e Bernardino Lunato, cardinale di Pavia, di spogliarlo de' suoi feudi. Oltre di ciò volle essere sicuro della cooperazione dei Colonna, sempre apparecchiati a combattere gli Orsini, loro rivali e loro vicini, e malgrado la ripugnanza dei Veneziani per questa nuova guerra, ottenne che il duca d'Urbino, il di cui soldo pagavasi a metà da loro e dalla camera apostolica, sarebbe mandato a Roma per secondarlo. Prima che terminasse l'anno l'armata pontificia aveva occupati la maggior parte de' castelli degli Orsini[480], e ne' primi giorni del susseguente attaccò Triboniano, indi l'Isola, ed all'ultimo Bracciano. Ma durante l'assedio delle due ultime piazze Bartolommeo d'Alviano sorprese Cesare Borgia, che conduceva l'artiglieria del papa, sconfisse la sua cavalleria, e lo inseguì fino alle porte di Roma. L'Alviano apparteneva ad un ramo cadetto, o forse bastardo degli Orsini; era stato educato nella loro casa, e da loro aveva imparata l'arte della guerra; ed in tempo della prigionia de' suoi padroni, loro diede le prime prove della sua fedeltà, de' suoi talenti, e di quell'intraprendente attività che lo rendette famoso tra tutti i capitani italiani[481].
Bracciano veniva risguardato come il capo luogo del principato degli Orsini. Virginio vi avea lanciata sua sorella Bartolommea, il di cui maschio ed intrepido coraggio non si lasciava sgomentare dai pericoli della guerra. Questa fanciulla aveva raccolti tutti i soldati de' suoi fratelli, che tornavano fuggiaschi dal regno di Napoli; aveva loro date nuove armi e nuovi cavalli; aveva fatta riparare l'artiglieria danneggiata, rialzare le fortificazioni di Bracciano, e guarnire i parapetti di pietre e di combustibili da lanciarsi contro gli assalitori; aveva fatti ammaestrare nell'esercizio delle armi i contadini; e prendeva confidentemente sopra di sè sola il comando delle fortezze, mentre che Bartolommeo d'Alviano, tenendo la campagna, inquietava i saccomani del nemico, e cercava di adunare un'armata che potesse liberarla[482].
Frattanto era stato preso Triboniano, e l'assedio di Bracciano stringevasi caldamente. Malgrado i prosperi successi degli attacchi dell'Alviano, e sebbene fosse riuscito in più riprese ad inchiodare i cannoni ed a distruggere le opere degli assediane i, era stato costretto all'ultimo di chiudersi nella piazza, la quale sarebbe stata presa entro poco tempo, se gli alleati degli Orsini non riuscivano a formare un'armata capace di far levare l'assedio. Carlo Orsini, figliuolo di Virginio, e Vitellozzo Vitelli, erano arrivati dalla Francia a bordo della piccola flotta, che aveva così opportunamente soccorso Livorno, ed avevano portato del danaro che loro aveva dato Carlo VIII per rimontare i loro uomini d'armi. Recaronsi a Città di Castello, ove erano sovrani i Vitelli. I due fratelli di Vitellozzo, Paolo e Camillo, che contavansi a ragione fra i migliori condottieri d'Italia, avevano cercato d'introdurre nel loro piccolo principato la tattica militare che tanto riusciva utile agli oltremontani. Avevano posti i loro cannoni sopra carri alla francese, assai più facili a muoversi che quelli degl'Italiani; avevano armati i loro fanti di picche, simili a quelle degli Svizzeri, ma due piedi più lunghe, e gli avevano addestrati a trattarle. Per tal modo i Vitelli avevano adottato tutto ciò che aveano trovato di meglio nella pratica militare degli oltremontani, che pure non avevano imparato a conoscere che da circa tre anni. Erano questi signori intimamente legati cogli Orsini, ed apertamente vedevano che, perduti questi, il papa volgerebbe le sue forze contro di loro.
Malgrado la sproporzione delle loro forze, si determinarono adunque ad attaccare il pontefice. Persuasero le città di Perugia, di Todi, di Narni a somministrar loro alcuni ajuti; e colla loro piccola ma valorosa armata si avanzarono alla volta di Bracciano. Il duca d'Urbino, avvisato del loro arrivo, levò l'assedio, e si fece loro incontro a mezza strada in sulla via di Soriano. Lunga ed accanita fu la battaglia; ma un corpo di ottocento Tedeschi, il fiore dell'armata pontificia, venne distrutto dalla fanteria di Città di Castello, la quale li trapassava colle lunghe sue picche senza poter essere da loro ferita. Tutto il restante dell'armata del papa fu bentosto sgominato, e fu fatto prigioniero lo stesso duca d'Urbino con molti gentiluomini. Il duca di Gandia, ferito nel viso, si salvò a Ronciglione col legato e con Fabrizio Colonna; ma tutti i loro equipaggi e tutta l'artiglieria cadde in potere de' vincitori, i quali ne' susseguenti giorni ricuperarono tutti i castelli tolti agli Orsini, tranne l'Anguillara e Triboniano[483].
Il papa lasciavasi facilmente scoraggiare dai primi disastri, perchè paventava ogni occasione di spendere danaro. Perciò diede volentieri orecchio alle proposizioni di pace che gli fece fare Vitellozzo dopo la sua vittoria. Questi ben sentiva dal canto suo che, non avendo alleati in Italia, sarebbe bentosto abbandonato dalla Francia; che il suo piccolo tesoro, non meno che quello degli Orsini, sarebbe presto esaurito, e che a lungo andare dovrebbe soggiacere. Le due parti, egualmente desiderose della pace, convennero facilmente intorno alle condizioni. Gli Orsini ed i Vitelli ottennero l'assenso del papa per mantenersi al servigio della Francia fino alla fine del loro contratto, a condizione per altro che mai non porterebbero le armi contro la Chiesa. Gli Orsini promisero settanta mila fiorini per le spese della guerra. Tutti i prigionieri si dovevano restituire senza taglia dall'una e dall'altra parte ad eccezione del solo duca d'Urbino. Giovanni Giordani e Paolo Orsini, prigionieri di Federico, re di Napoli, dovevano essere posti in libertà nell'istante in cui sarebbero pagati i primi ventimila fiorini; Virginio Orsini era morto in Castel dell'Uovo, probabilmente avvelenato, otto giorni prima. Veniva accordato agli Orsini un termine di otto mesi pel pagamento della restante somma; ma per guarenzia del debito dovevano lasciare in mano ai cardinali Sforza e Sanseverino i castelli dell'Anguillara e di Cervetri, ed il loro prigioniere il duca di Urbino. Quest'ultimo fu perciò costretto a redimersi dallo stesso papa, servendo al quale era stato fatto prigioniere. Alessandro, il quale sapeva che gli Orsini non avevano danaro, aveva eccepito il solo duca d'Urbino dalla vicendevole restituzione de' prigionieri, e non si vergognò di ricevere a conto del tributo loro imposto i quaranta mila ducati, che il suo proprio generale pagò per la sua taglia[484].
Dall'altra banda Carlo VIII, che mai non era stabile nelle sue risoluzioni sia per proteggere i suoi amici in Italia, sia per mandare ad effetto i suoi progetti, più non poteva interamente rinunciare a conquiste cui appoggiava tutta la gloria che credeva d'avere acquistato. Alcune ostilità ai confini dell'Arragona, in occasione delle quali le sue truppe avevano presa e bruciata la città di Salse, essendosi terminate con un armistizio di due mesi, Carlo trovossi in libertà di spedire maggiori forze verso l'Italia. Fece passare in Asti, sotto gli ordini di Gian Giacomo Trivulzio, mille lance, tre mila Svizzeri ed altrettanti Guasconi, onde sostenere Battistino Fregoso ed il cardinale di san Pietro ad vincula, che volevano fare un tentativo sopra Genova. Nello stesso tempo Ottaviano Fregoso andò ad eccitare i Fiorentini perchè attaccassero i Genovesi nella Lunigiana, e Paolo Battista Fregoso con sei galere minacciò la riviera di Ponente[485].
Gl'Italiani più non davano fede alle minaccie di Carlo VIII, di modo che l'attacco di Gian Giacomo Trivulzio li sorprese come se non fosse stato annunciato. Il Trivulzio sorprese Novi, di dove il conte di Cajazzo dovette ritirarsi; indi prese Bosco nell'Alessandrino, e pareva volere troncare ogni comunicazione tra Milano e Genova. Di già il Milanese, dove Lodovico Sforza aveva moltissimi nemici, era in sul punto di provare una rivoluzione; ma il Trivulzio, che aveva avuto ordine d'attaccare i Genovesi e non la Lombardia, non ardì spingere più in là i suoi vantaggi, e diede tempo al duca di Milano d'adunare le sue truppe, e di ricevere potenti ajuti da Venezia. Il cardinale della Rovere erasi avvicinato a Savona con dugento lance e tre mila fanti; ma, non avendo potuto eccitarvi una sollevazione, si vide forzato a dare addietro all'arrivo di Giovanni Adorno; nè fu del cardinale più fortunato sotto Genova, cui erasi molto avvicinato, Battistino Fregoso. I Fiorentini ricusarono di compromettersi, prima d'avere veduto che i Francesi mandassero in Italia maggiori forze. La Rovere e Fregoso dovettero in breve raggiugnere presso a Bosco il Trivulzio, il quale, vedendo che l'armata veneziana, comandata da Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, riceveva ogni giorno ragguardevoli rinforzi, si ritirò verso Asti senza avere ottenuto alcun vantaggio da questa spedizione[486].
Al Trivulzio non poteva riuscire prosperamente l'attacco contro Genova, se non nel caso che lo seguisse a breve distanza il duca d'Orleans con una nuova armata, siccome lo aveva annunciato Carlo VIII; ma la sanità di questo monarca cominciava di già a dare molestia a' suoi cortigiani e speranze al suo successore. I suoi figliuoli erano morti prima di lui in tenera età, ed il duca d'Orleans, che non aveva chi potesse contrastargli il trono, non voleva allontanarsi dalla corte. Credevasi dall'altro canto che Lodovico Sforza spedisse ragguardevoli somme al duca di Borbone e al cardinale di san Malo, per guadagnarli, onde facessero andare a nulla qualunque impresa diretta verso l'Italia. Sia che il loro tradimento assecondasse o no l'incostanza di Carlo, tutti i suoi progetti furono abbandonati appena concepiti, ed i suoi partigiani sagrificati un'altra volta[487].
Era di già cominciata qualche negoziazione tra Carlo VIII da una parte e Ferdinando ed Isabella dall'altra; il primo aveva sempre desiderato di rendere sicuri i suoi confini colla Spagna, il secondo non aveva più pretesti per continuare la guerra dopo che il loro cugino era risalito sul trono di Napoli. Pareva adunque che dovesse riuscire cara alle due parti una tregua; ma Carlo VIII voleva che questa lo mettesse in situazione di continuare la guerra in Italia, ed i monarchi spagnuoli non si facevano scrupolo d'abbandonare i loro alleati, tanto più che li supponevano in istato di difendersi da sè medesimi; ma volevano per altro risparmiarsi in parte la vergogna di quest'atto di mala fede, e richiedevano che la tregua fosse in principio comune anche ai loro alleati, perchè stipulandola apparisse che avessero pensato anche ai loro interessi. Il cattivo esito della spedizione di Genova consigliò Carlo VIII a moderare le sue pretese; e la tregua tra i monarchi francesi e spagnuoli, i sudditi e gli alleati cui nominerebbero le due parti, fu sottoscritta il 5 di marzo, per durare a tutto ottobre; tutti gli stati italiani vi furono compresi, cominciando dal 25 di aprile, ed in forza della medesima fu pure sospesa la guerra di Pisa con grandissimo rincrescimento de' Fiorentini, i quali per cinque soli mesi non potevano congedare la loro armata, e perciò trovavansi obbligati a sostenere le stesse spese come se continuate fossero le ostilità[488].
Fiorenza trovavasi più che in altri tempi sotto l'influenza di quei virtuosi cittadini, ma rigoristi ed entusiasti, ai quali Girolamo Savonarola aveva predicata la riforma. Il primo gonfaloniere di quest'anno era stato Francesco Valori, che poteva considerarsi come il capo di quel partito. La sua statura alta ed imponente, ed il suo nobile aspetto, accrescevano agli occhi del volgo l'alta opinione che gli davano i suoi talenti governativi e le sue pubbliche e private virtù. Sempre attento a fortificare più che poteva il partito popolare, fece ammettere nel maggiore consiglio tutti i giovani dai ventiquattro ai trent'anni, richiedendo in pari tempo con una nuova legge, che per prendere una decisione dovessero essere presenti in consiglio almeno mille individui[489].
La proibizione fatta ai consiglj di deliberare, quando non sono a numero, ha senza dubbio l'inconveniente di permettere alla minorità d'impedire colla sua assenza le deliberazioni della maggiorità; ed egualmente pericoloso riesce l'obbligo ingiunto ai consiglieri d'intervenire e di votare, perchè frequentemente gli sforza ad emettere un voto anche quando non hanno alcuna decisa opinione, e trasforma questo voto in legge. Nè sono minori gl'inconvenienti dell'opposta regola. Quando una parte de' membri d'un consiglio s'accostuma ad assentarsi, la sovrana volontà si trova cambiata secondo che assistono o no alle assemblee; la quale fluttuazione, dopo d'avere fatto prendere allo stato contraddittorie deliberazioni, può precipitarlo in violente rivoluzioni. Fiorenza di quei tempi sperimentava quest'inconveniente, che rendevasi tanto più sensibile in quanto che la suprema magistratura sedeva per un più breve tempo. Tosto che un partito aveva ottenuto qualche vantaggio, o fatta un'elezione di suo soddisfacimento, diventava meno vigilante, astenevasi dalle vicine successive deliberazioni, ed intanto la parte avversaria, meglio combinando le segrete sue pratiche, otteneva un'elezione in un affatto opposto senso. A Francesco Valori successe Bernardo del Nero, che aveva avuta intima famigliarità con Lorenzo de' Medici, che favoriva tutti i partigiani di quella casa, cui lo stesso Pietro soleva chiamare suo padre[490].
Durante la magistratura di Bernardo del Nero si pubblicò in Firenze la tregua conchiusa tra la Francia e la Spagna, e si cominciarono le negoziazioni per la pace generale. Lodovico Sforza, aombrato dai Veneziani, proponeva, per impedir loro di stabilirsi in Pisa, di restituire quella città ai Fiorentini, purchè a tal patto entrassero di buona fede nella lega d'Italia. Alessandro VI adottò quest'opinione, e spedì a Firenze il vescovo Pazzi per offrire la restituzione di Pisa, se i Fiorentini depositavano in mano de' confederati o Livorno, o Volterra, come pegno del loro attaccamento agl'interessi dell'indipendenza italiana. Ma nè i Veneziani volevano acconsentire all'evacuazione di Pisa, nè i Fiorentini a dare una fortezza in sua vece; di modo che per gli opposti loro sforzi la negoziazione si ruppe. Per altro in tempo delle negoziazioni, i Fiorentini, che avevano mostrata da principio tanta avversione e tanto disprezzo per il papa, si credettero nuovamente obbligati ad accarezzarlo[491].
Le negoziazioni con Roma diedero altresì opportunità a Pietro de' Medici di ricominciarne di più segrete co' suoi partigiani di Firenze. Gli alleati cominciavano a desiderare il suo ritorno in una città in cui il partito repubblicano sembrava troppo affezionato alla Francia. Incoraggiato da loro, credette di dover tentare un'altra volta la sua fortuna, prima che l'amico suo, Bernardo del Nero, uscisse d'impiego. Il 23 d'aprile recossi a Siena, dove Pandolfo Petrucci e suo fratello, che avevano acquistata sopra questa repubblica una quasi assoluta autorità, gli erano del tutto ligi. Colà venne a raggiugnerlo Bartolommeo d'Alviano con ottocento cavalli e tre mila fanti; dopo ciò avanzossi rapidamente, di notte e per rimote strade, fino alle porte di Firenze, ove si presentò la mattina del 29 aprile. Ma la porta Romana, che aveva sperato di sorprendere, si trovò custodita e difesa da Paolo Vitelli, giunto il precedente giorno da Mantova. Rannuccio da Marciano, che aveva il comando dell'armata fiorentina ai confini del Pisano, era stato richiamato all'istante in Firenze, onde Pietro de' Medici, dopo essersi trattenuto quattro ore in faccia alla porta senza avere il coraggio d'attaccarla, ritirossi quando vide che in città non facevasi, verun movimento. Suo fratello Giuliano, che nello stesso tempo era penetrato nella Romagna fiorentina, vide in pochi giorni disperdersi la sua piccola armata[492].
Ma questo imprudente attacco diventò bentosto non meno fatale ai partigiani de' Medici, che lo avevano provocato, che ai loro nemici, che lo punirono. Lamberto dell'Antella, esiliato da Firenze, venne arrestato sul territorio fiorentino, e sebbene deponesse ch'egli tornava in patria per manifestare la cospirazione, di cui aveva avuta contezza, fu posto alla tortura; perciocchè in allora non credevansi vere che quelle deposizioni che venivano riconfermate col mezzo di terribili supplicj. Costui incolpava i più riputati cittadini ed in particolare Bernardo del Nero, che usciva in allora dall'ufficio di gonfaloniere. Gli otto giudici del tribunal criminale non osarono prendere sopra di loro il giudizio d'una causa di tanta importanza, e furono invitati cento sessanta de' più ragguardevoli cittadini ad esaminare le risultanze del processo.
Niccolò Ridolfi, il di cui figlio aveva sposata una sorella del Medici, Lorenzo Tornabuoni, ancor esso suo parente, Giovanni Cambi e Giannozzo Pucci, tutti e due da lui adoperati in affari di stato, furono accusati d'aver chiamato Pietro de' Medici, colla promessa di dargli una porta della città. Bernardo del Nero fu accusato d'avere avuto sentore della loro trama, e di non averla manifestata, in tempo che le sue incumbenze di gonfaloniere di giustizia l'obbligavano più che tutti gli altri cittadini a prendersi cura della conservazione della repubblica e della sua difesa.
Il delitto de' prevenuti non sembrò dubbioso ad alcuno di coloro cui era affidata la disamina del processo; ma ciò ch'era delitto agli occhi de' repubblicani, diventava un atto d'eroismo a quelli de' partigiani dei Medici. Non era dunque nè sul fatto, nè sul diritto, che i giudici dovevano sentenziare, ma sulla stessa base del governo. Se condannavano gli accusati venivano a risguardare come criminoso ogni attacco contro lo stato popolare; se per lo contrario gli assolvevano, condannavano con ciò la rivoluzione del 1494, e mostravano di riconoscere nei Medici una legittima autorità. Essendo così assoggettata ai giudici una quistione di politica, parve alla signoria di dover loro dare una direzione. Adunò adunque tutti i primi magistrati dello stato, i capitani di parte guelfa, i conservatori delle leggi, gli ufficiali del monte di pietà, ed il consiglio de' richiesti, ossia dei cento sessanta notabili che avevano esaminata la processura. Quest'assemblea, consultata nelle forme legali, ordinò al tribunale degli otto di giustizia di condannare alla pena di morte i prevenuti, e di confiscare i loro beni. Infatti la sentenza fu pronunziata il 17 d'agosto[493].
In forza della legge che Girolamo Savonarola aveva fatta emanare quando fu stabilito il governo popolare, ogni condannato a pena capitale poteva appellare al gran consiglio. Infatti i condannati chiesero di essere ammessi a godere del beneficio della legge; essi avevano non piccole speranze d'essere assolti dall'assemblea generale de' loro concittadini. L'età avanzata di due di loro, le onorifiche cariche ond'erano stati rivestiti, il numero de' loro parenti, quello de' clienti, le potenti raccomandazioni delle corti di Roma, di Milano e di Francia, avrebbero dato maggior forza ai sentimenti di compassione così naturali in una grande assemblea. Certa cosa è intanto che l'amministrazione della giustizia non era mai stata nella repubblica di Firenze imparziale, ed il governo si era sempre mostrato alla testa d'una fazione. Se questo governo restava perdente in un tentativo, fatto per far punire i suoi avversarj, sembrava condannato dal popolo, e questa sola sconfitta poteva trarsi dietro la sua caduta. Gli errori de' Fiorentini e le abitudini sovversive dell'ordine sociale, ch'essi avevano lasciate introdurre nella loro repubblica, rendevano pericoloso l'esercizio de' più sacri diritti de' cittadini. Il 21 d'agosto si adunò un nuovo consiglio de' richiesti per decidere intorno all'appello al popolo. Il partito della libertà fu appunto quello che fu veduto dichiararsi più gagliardamente contro l'esecuzione d'una legge liberale, sanzionata da lui medesimo. Francesco Valori, e tutti gli amici del Savonarola, protestarono contro l'appello al popolo, e dichiararono che i cospiratori non sarebbero appena assolti, che i Medici verrebbero richiamati in Firenze.
Per altro la signoria non era d'unanime parere di rigettare l'appello al popolo. Ora, secondo la forma delle sue deliberazioni, rendeva necessario che uno de' priori presentasse in giro la proposizione intorno alla quale dovevasi dare il voto. Colui che per un giorno era incaricato di questa funzione di proporre, chiamavasi il proposto. In quel giorno era Luca Martini, che, giudicando equitativa l'ammissione dell'appello al popolo, dichiarò che non porrebbe alle voci una proposizione contraria alle vigenti leggi. Due de' suoi colleghi sostennero la di lui opinione. Decisiva era la loro opposizione, ma tutti i gonfalonieri di compagnie, ed i dodici buoni uomini, che sedevano presso la signoria, si alzarono con minacciose grida, dichiarando che per salvare la patria non si lascerebbero trattenere dall'opinione de' suoi nemici. Il gonfaloniere Domenico Bartoli, prendendo sopra di sè la violazione del regolamento, fece egli stesso la proposizione: portava questa che per evitare i pericoli dell'appello al popolo, si eseguirebbe la sentenza in quella stessa notte. Allora il proposto dichiarò che per mantenere il regolamento egli acconsentirebbe a fare la proposizione enunciata dal gonfaloniere, se questa riuniva sei de' nove suffragj della signoria. Gl'insensati clamori del più violento partito lo fecero tacere, e lo costrinsero a dare il suo assenso senz'altra condizione. I regolamenti di deliberazione della repubblica fiorentina rendevano assai difficile il vincere un partito. Era necessario l'assenso del proposto, di due terzi della signoria, di due terzi del collegio e del corpo de' gonfalonieri. I suffragj raccoglievansi separatamente, poscia cumulativamente ed in segreto, con fave bianche e nere deposte nelle urne. Tutte queste formalità, secondo il vero spirito d'un regolamento di deliberazione, erano le protettrici della minorità, vale a dire dirette ad impedire che la sua determinazione non fosse violenta; furono sempre scrupolosamente mantenute, ma soltanto in apparenza e non nel loro spirito. Il partito vittorioso non passava oltre in onta all'opposizione del partito più debole, ma sforzava questo a togliere l'opposizione. Quando si procedette allo scrutinio segreto, quattro suffragj, ossia quattro fave bianche nell'urna della signoria, furono contrarie al proposto decreto. Un nuovo più violento tumulto che non era stato il primo levossi allora nell'assemblea. Si alzarono tutti i gonfalonieri di compagnia, minacciando di uccidere i quattro priori sospetti d'opposizione, e siccome i membri del collegio si frapposero per salvarli, i gonfalonieri dichiararono che uscirebbero colle loro insegne, e farebbero dalle loro compagnie saccheggiare le case di coloro che volevano in tal modo perdere la repubblica. A stento il gonfaloniere di giustizia ottenne che l'assemblea sedesse di nuovo per un secondo giro di scrutinio. Il terrore si era impadronito de' più coraggiosi, e l'appello fu rigettato a pieni voti. La sentenza di morte si eseguì in quella stessa notte del 21 d'agosto; ed i più furibondi non vollero abbandonare la sala del consiglio, finchè non ebbero avviso che i loro nemici più non vivevano[494].
Da prima questa vendetta parve un trionfo del partito democratico, ma questo trionfo era foriero d'una sconfitta. Il pubblico non perdonava a coloro che si dicevano amici della libertà d'avere pei primi violata senza necessità la legge protettrice della libertà, sanzionata da loro medesimi. Confrontavano i vecchi discorsi del Savonarola intorno all'amnistia colla condotta de' suoi partigiani, col di lui silenzio nell'istante in cui, per la difesa de' suoi nemici illegalmente posti in giudizio, avrebbe dovuto tuonare dal suo pulpito, da lui fatto tribuna per arringare. Lo accusavano di darsi a conoscere non meno cattivo cristiano, che malvagio profeta; gli domandavano dov'erano que' miracolosi soccorsi che aveva promessi a' suoi concittadini, strascinandoli soli in una lotta contro tutta l'Italia; ed ogni argomento dell'instabilità e dell'imbecillità di Carlo VIII, rappresentato dal Savonarola quale inviato del Signore, era contro di lui prodotto con amarezza da coloro che volevano vendicare le ultime vittime, o da coloro che la corte di Roma aveva guadagnati al suo partito.
Il Savonarola non temeva di provocare tutta la collera d'Alessandro VI. Non poteva riconoscere in un uomo tanto scellerato il rappresentante degli Apostoli, e la riforma ch'egli predicava doveva cominciare dal capo della Chiesa. Era scandalizzato di vedere un'amante del papa, Giulia Farnese, chiamata Giulia bella, intervenire con ostentazione a tutte le feste della Chiesa, e dare alla luce in aprile di quest'anno medesimo un nuovo figlio del pontefice[495]. E così grave scandalo era poca cosa a petto a quello che due mesi dopo diede la famiglia del papa. Francesco Borgia, duca di Gandia, figlio primogenito di Alessandro VI, fu assassinato il giorno 14 di giugno nelle strade di Roma, mentre usciva da un banchetto. Si seppe bentosto che il suo uccisore era stato il di lui fratello, Cesare Borgia, cardinale di Valenza; e per accrescere l'orrore di questo delitto si sparse una sorda voce, che avesse aguzzato il pugnale di Cesare contro il fratello la gelosia concepita contro di lui per essere egli suo rivale in amore per Lucrezia loro sorella[496]. Il papa, profondamente afflitto da questa perdita, aveva colle lagrime e coi singhiozzi deplorati in pieno concistoro i disordini della sua passata vita e la corruzione della sua corte, che avevano provocato sopra di lui questo giusto gastigo del cielo. Si era solennemente obbligato ad un'immediata riforma; ma bentosto un nuovo allagamento di vizj e di delitti era succeduto a questi nuovi progetti d'emendazione.
Tornando al suo scellerato tenore di vita, il papa perdonare non sapeva all'eloquente predicatore che lo denunciava a tutta la Cristianità. L'opinione di cui il Savonarola godeva in Firenze metteva il suo trono in pericolo; ed inoltre egli sapeva che questo monaco aveva mutati i costumi della repubblica e ne aveva sbanditi i vizj, e di più temeva che un tale esempio non si rivolgesse contro la corte di Roma. Egli aveva accusato il Savonarola come eretico; gli aveva fatto vietare la predicazione; ma lo sforzato silenzio di questo religioso, che facevasi in allora rappresentare da fra Domenico Bonvicini di Pescia, suo discepolo e suo amico, non bastava nè alla politica, nè alla vendetta d'Alessandro VI[497]. Egli fece alleanza con tutti coloro che avevano qualche motivo di inimicizia contro il Savonarola per attaccamento ai Medici, o al partito dell'aristocrazia, o perchè non volevano assoggettarsi ai rigori monacali che il riformatore voleva sostituire all'antica scostumatezza. I nemici del monaco, sentendosi appoggiati da Roma, osarono attaccarlo pubblicamente nella sua propria chiesa in una maniera villana ed indecente. Mentre andava per predicare il giorno dell'Ascensione, trovò il pulpito occupato da un asino imbottito di paglia. I libertini, approfittando del disordine che questa pasquinata aveva cagionato in chiesa, insultarono il predicatore con minacciose grida, e proposero al suo uditorio o di scacciarlo, o d'ucciderlo[498]. Nello stesso tempo i monaci di sant'Agostino, mossi da gelosia di corporazione contro l'ordine di san Domenico, si prestavano ai desiderj di vendetta del papa, e denunciavano ne' loro sermoni il riformatore domenicano come eretico e scomunicato. Appena scorsero venti anni da tale epoca fino all'istante in cui i Domenicani si armarono a vicenda contro Lutero, riformatore agostiniano[499].
La signoria fiorentina, dacchè si sentiva abbandonata dal re di Francia, usava maggiori riguardi alla corte di Roma; aveva bisogno del papa per le sue negoziazioni colla lega italiana, e non voleva spreggiare il di lui risentimento. Gli scrisse gli otto di luglio per giustificare il Savonarola[500], ma nello stesso tempo persuase il monaco a sospendere le sue prediche. Era stato in maggio scomunicato come annunciatore di dottrine eretiche, e la sentenza veniva estesa a tutti coloro che converserebbero con lui. Da principio il Savonarola riconobbe l'autorità della corte di Roma, e cercò di farvi giugnere le sue giustificazioni. Ma non molto dopo, opponendo alla persecuzione i medesimi principj e quella fermezza, che poi sostennero Lutero, quando il 10 di dicembre del 1520 fece bruciare a Wittemberga la bolla di scomunicazione di Leon X[501], dichiarò coll'autorità di papa Pelagio, che un'ingiusta scomunica era senza efficacia, e che colui che ne è l'oggetto non deve neppure cercare di farsi assolvere[502]. Affermò che una divina inspirazione l'obbligava a scuotere l'ubbidienza d'un tribunale corrotto, ed il giorno di Natale celebrò pubblicamente la messa nella sua chiesa di san Marco; comunicò co' suoi monaci, e con moltissimi laici; condusse una solenne processione intorno alla chiesa; pubblicò la sua apologia ed il libro del trionfo della croce, e tornò a predicare nella chiesa cattedrale innanzi ad una numerosa udienza, che tale mai non aveva avuta in addietro[503].
Leonardo de' Medici, vicario dell'arcivescovo di Firenze, pubblicò un ordinanza per proibire ai fedeli di ascoltare le prediche del Savonarola. Coloro che le ascoltassero non dovevano essere ammessi alla confessione ed alla comunione, nè i loro corpi alla sepoltura; ma la signoria, ch'era entrata in carica in principio del 1498, era tutta favorevole al Savonarola, ed ordinò al vicario arcivescovile d'uscire entro due ore dalla città[504].
L'ultimo giorno di carnovale, volendo il Savonarola trasmutare quella festa mondana in un giorno di religiosa contrizione; persuase moltissimi fanciulli a dividersi per bande, ed a scorrere la città, gridando di casa in casa che loro si consegnassero tutti i libri disonesti, tutte le pitture indecenti[505], tutte le carte e dadi da giuocare, tutte le viole, arpe ed altri strumenti musicali, tutte le parrucche, il muschio, le acque nanfe, belletti ec.; i ragazzi chiedevano tutte queste cose sotto pena di scomunica; poi le portarono nella pubblica piazza, dove formarono un'immensa catasta, e le bruciarono, cantando intorno al fuoco salmi ed inni religiosi. Sotto la direzione del Savonarola avevano fatto lo stesso nel precedente anno, ed avevano ridotti in cenere la maggior parte degli esemplari del Boccaccio e del Morgante maggiore[506].
Ma in ragione che il Savonarola andava acquistando credito, cresceva ancora nel papa l'inquietudine e la collera, la quale veniva sempre eccitata da fra' Mariano di Ghinazzano, generale degli Agostiniani, uomo affezionato al Medici, e che in Firenze era stato mal accolto. Un predicatore, chiamato frate Francesco della Puglia, minore osservante, fu mandato per rivalizzare col Savonarola. Predicò nella chiesa di santa Croce di Firenze, ed accusò violentemente l'eresiarca che seduceva la repubblica; nello stesso tempo il papa con un nuovo breve ordinava alla signoria di far tacere il Savonarola, se non voleva esporre tutte le sostanze, che i mercanti fiorentini tenevano in esteri paesi, ad essere confiscate, lo stesso territorio della repubblica ad essere posto sotto l'interdetto, e forse invaso dalle truppe della Chiesa. I Fiorentini, abbandonati dalla Francia, non avevano verun altro alleato; e perchè inoltre tenevano bisogno del papa, ubbidirono, dando il 17 di marzo ordine al Savonarola d'astenersi dal predicare. Infatti costui si congedò da' suoi uditori con un eloquente ed ardito ragionamento[507].
In mezzo a questi movimenti il monaco Francesco della Puglia, che predicava a santa Croce, dichiarò in pulpito, che aveva udito dire, che il Savonarola parlava di provare le sue false dottrine con un miracolo; che offriva di scendere nel sepolcro con un monaco francescano, se tutto l'opposto partito si obbligava a riconoscere per vera la dottrina del primo dei due che risusciterebbe un morto[508]. Frate Francesco dichiarava di essere peccatore, e che non aveva la presunzione di contare sopra un miracolo; ma che per lo contrario proponeva al suo avversario d'entrare con lui in mezzo ad una catasta ardente. «Io sono certo di perirvi, diceva il francescano, ma la carità cristiana m'insegna a non risparmiare la mia vita, se a tale prezzo posso liberare la Chiesa da un eresiarca, che di già ha strascinato e strascinerà tante anime nell'eterna dannazione.»
Così strana proposizione fu subito riferita al Savonarola: essa non gli andava a sangue, non perchè diffidasse del suo potere di operare miracoli, ma perchè temeva che entro vi si nascondesse qualche laccio de' suoi nemici; ma il suo più fidato discepolo, fra Domenico Bonvicini da Pescia, più ardente e più entusiasta del maestro, dichiarò subito di essere apparecchiato ad assoggettarsi alla prova del fuoco in conferma delle verità enunciate ne' sermoni del suo maestro; egli punto non dubitava che per la di lui intercessione non lo dovesse salvare un miracolo di Dio. Nello stesso istante tutto il basso popolo accolse con insolito ardore così terribile sfida, voglioso di provare in un pubblico esperimento i ministri della nuova riforma. I divoti si rallegrarono di ottenere un luminoso trionfo contro di Roma pel miracolo che di già credevano di tenersi in pugno; i loro nemici non erano meno contenti di vedere un eresiarca condannarsi da sè medesimo alle fiamme, di cui lo credevano meritevole; tutta la gente desiderava uno spettacolo così straordinario, ed i magistrati abbracciavano con piacere un'occasione di liberarsi dalla critica situazione in cui si trovavano tra la Chiesa ed il riformatore. Dal canto suo il papa scrisse l'undici d'aprile ai Francescani di Firenze, ringraziandoli dello zelo con cui si apparecchiavano a sagrificare la loro vita per difendere l'autorità della santa sede; e dichiarando che la memoria di così gloriosa impresa non perirebbe in eterno[509].
Ma frate Francesco della Puglia protestò che non entrerebbe nelle fiamme che insieme a frate Savonarola medesimo, non volendosi esporre ad indubitata morte, che per avere compagno del suo eccidio il grande eresiarca. Frattanto si offrirono subito due altri monaci francescani per fare la prova con frate Domenico da Pescia; uno di costoro, frate Niccolò di Pilli, sentì subito venir meno il suo coraggio e si disdisse; ma l'altro, frate Andrea Rondinelli, converso dello stesso convento, stette fermo nella domanda della prova. Dall'altro canto i partigiani del Savonarola si offrirono con sorprendente gara ad entrare per lui nel fuoco. Frate Roberto Salviati fu quegli che fece pratiche per quest'onore colle più vive istanze; ma bentosto tutti i Domenicani della Toscana, molti preti e secolari, e perfino donne e fanciulli imploravano dalla signoria di essere preferiti, o almeno di permettere loro di entrare nello stesso tempo tra le fiamme, onde partecipare al favore di Dio, di cui tenevansi sicuri. Pure la signoria limitò lo sperimento a frate Domenico Bonvicini di Pescia, ed a frate Andrea Rondinelli. Nominò dieci cittadini, cinque per cadaun partito, per regolare tutto quanto abbisognava, e determinò che la prova si eseguirebbe il giorno 7 di aprile dei 1498 nella piazza del palazzo[510].
Era stato innalzato in mezzo alla piazza un palco, alto cinque piedi, largo dieci e lungo ottanta, coperto di terra e di mattoni crudi per preservarlo dalla violenza del fuoco. Furono poste su questo palco due cataste di grossi legni, tramischiati di fascine e di stoppie facili ad infiammarsi. Un viale, largo due piedi aprivasi longitudinalmente tra le due cataste di combustibili, che avevano ambidue quattro piedi di larghezza; quest'apparato era spaventoso. Vi si entrava per la loggia dei Lanzi, ch'era stata divisa in due parti con una tramezza per darne la metà al Francescani e l'altra ai Domenicani. I due monaci dovevano entrare insieme da questo portico ed attraversare in tutta la sua lunghezza il rogo infiammato; o piuttosto uno dei due dichiarava che in ogni caso era ben sicuro di perirvi, poichè quand'anche si dovesse operare un miracolo, non poteva essere che a suo danno. I Francescani arrivarono senza strepito nella parte della loggia loro assegnata, mentre che Girolamo Savonarola recossi alla sua colle vesti sacerdotali, colle quali aveva in allora celebrata la messa, e portando entro un tabernacolo di cristallo il sacramento. Frate Domenico da Pescia portava un crocifisso e tutti i loro monaci li seguivano salmodiando e portando in mano alcune croci rosse; indi venivano molti cittadini con fiaccole accese. Restavano ancora sei ore di giorno, e la piazza, le finestre, i tetti delle case erano pieni di spettatori. Non solo tutta la città, ma tutti gli abitanti del territorio fino ad una ragguardevole distanza, erano accorsi per essere testimonj di così strano spettacolo. La maggior parte delle aperture della piazza erano state chiuse, e gl'ingressi delle due strade lasciate aperte venivano custoditi da due numerose guardie. La parte della loggia occupata dai Domenicani era come un cappella, e per lo spazio di quattro ore mai non cessarono di cantare antifone.
Intanto il terribile sperimento veniva ritardato da sempre rinascenti difficoltà promosse dai Francescani. Forse, dicevano essi, il padre domenicano è un incantatore, e tiene sopra di sè qualche sortilegio; perciò chiesero che venisse spogliato delle sue vesti, e ne prendesse delle altre scelte da loro. Dopo lunghi contrasti frate Domenico si assoggettò a questa umiliante visita, ed a questo cambiamento di tonaca. Allora il Savonarola gli consegnò il tabernacolo che conteneva il sagramento, da lui risguardato come la sua salvaguardia; ma i Francescani gridarono essere un atto empio l'esporre l'ostia ad essere bruciata, e che questo probabilissimo avvenimento farebbe vacillare la fede de' più deboli fedeli. Ma su questo punto il Savonarola si mostrò inflessibile; rispose che, da questo solo Dio che portava, il suo compagno ed amico poteva sperare salvezza. La disputa si prolungò più ore; frattanto il popolo, che, per meglio vedere questo spettacolo, era venuto allo spuntare del giorno ad occupare i tetti delle case, e che soffriva la fame e la sete, più non sapeva contenere la sua impazienza, e sebbene i Francescani fossero veramente quelli che si opponevano all'esperimento, gli stessi seguaci del Savonarola convenivano, che, sicuro come egli era di un miracolo, avrebbe dovuto più facilmente piegarsi a tutte le inchieste del suo avversario. La maggior parte del popolo ignorava i motivi allegati dall'una e dall'altra parte; vedeva soltanto quello spaventoso rogo, cui avrebbe voluto che subito si appiccasse il fuoco, e ben sentiva che i due campioni ricusavano di entrarvi; il loro terrore, che pur troppo era ben fondato sembravagli ridicolo; la plebe si credeva delusa, e questo intero giorno di aspettazione cambiò in disprezzo o in indignazione tutto il suo entusiasmo. Finalmente avvicinandosi la notte, e le due fraterie non essendo ancora d'accordo, una violenta inaspettata pioggia bagnò la pira e gli spettatori, e consigliò la signoria a licenziare l'assemblea[511].
Girolamo Savonarola, rientrando nel suo convento di san Marco, salì immediatamente sul pulpito, e raccontò alla folla che lo aveva seguito tuttociò ch'era accaduto. Ma di già il basso popolo lo aveva insultato, quando egli si recava al convento. All'indomani, domenica delle Palme, predicò ancora con molta unzione, prendendo in certo qual modo congedo dai suoi uditori, ed annunciando che si offriva in sagrificio a Dio. Infatti i suoi nemici approfittavano della delusa aspettazione del popolo per ammutinarlo contro di lui. La società dei libertini, conosciuta sotto il nome di compagnacci, che l'aveva sempre trattato da ipocrita, invitava il popolo a non lasciarsi più oltre guidare da un falso profeta, che nell'istante del pericolo si era sottratto alla prova della sua missione, offerta da lui medesimo. Ella si attruppò nella cattedrale, ed in tempo del sermone dei vesperi fece risuonare la chiesa: «alle armi! a san Marco!» E di subito una plebe sfrenata la seguì al convento di san Marco e lo attaccò colle armi, colle scuri, colle torchie accese. Trovavasi colà adunata molta gente per assistere al divino servizio, la quale si difese per qualche tempo, sebbene fosse senz'armi; ma quando furono bruciate le porte, e che mancò ogni mezzo di trattenere gl'insorgenti, capitolò, e Girolamo Savonarola, Domenico Bonvicini e Silvestro Maruffi, tutti e tre arrestati nel convento, furono tratti in prigione in mezzo agli insulti della plebaglia[512].
Erano di già le sette ore della sera, quando cominciò l'assedio del convento di san Marco, e doveva supporsi che la notte calmerebbe i faziosi. Ma una fazione da gran tempo nemica, ed ora fieramente esasperata dal supplicio dei suoi capi, non voleva perdere quest'occasione di vendicarsi. Nella susseguente mattina la folla recossi alla casa di Francesco Valori: egli fu preso, e mentre si conduceva in prigione, Vincenzo Ridolfi, parente di quegli che pochi mesi prima era stato mandato sul patibolo, gli si gettò addosso e lo uccise: anche sua moglie venne uccisa nell'atto che affacciavasi alla finestra per implorare grazia, e la loro casa fu saccheggiata e bruciata, e la stessa sorte toccò alla casa del suo amico Andrea Cambini. Tutti coloro che si erano mostrati affezionati al Savonarola furono lasciati in balìa agl'insulti del popolaccio, il quale, chiamandoli ipocriti e penitenti, loro non permetteva di mostrarsi in pubblico. La signoria, ch'era entrata in carica in principio di marzo, avrebbe forse potuto frenare gl'insorgenti, ma era segretamente del loro partito; conciossiachè di nove membri ond'era formata, ve n'erano sei nemici del Savonarola. Nel supremo consiglio tutti coloro che gli erano affezionati non osarono recarsi al loro posto, di modo che il contrario partito si tenne sicuro di una grande maggiorità. Egli ne approfittò subito per nominare altri decemviri della guerra, altri giudici criminali, ossia gli otto di balìa, deponendo coloro che in allora occupavano quelle cariche, e ch'erano favorevoli al Savonarola. Per tal modo l'autorità della repubblica passò in altre mani; tutti coloro che l'avevano esercitata fin allora furono deposti o proscritti; ed i nuovi capi del governo, volendo far conoscere l'odio loro per l'austerità del riformatore, e per l'ipocrisia ond'era accusato, si fecero premura d'incoraggiare i giuochi, i passatempi ed anche i vizj, ch'egli aveva così severamente rampognati[513].
Lo stesso giorno dell'insurrezione, era stato spedito un corriere al papa per partecipargli la prigionia del Savonarola. Pareva che Alessandro VI sentisse che altro più non abbisognava al partito della riforma che un capo coraggioso per rovesciare un edificio scosso da tanto tempo: la sua sicurezza richiedeva la morte del Savonarola; egli domandò caldamente che gli si consegnasse quest'eretico, e nello stesso tempo, accordando varie indulgenze ai Fiorentini, ordinò che fossero riconciliati alla chiesa tutti coloro che per avere assistito ai sermoni del monaco avevano incorsa la scomunica[514]. Ma la signoria volle che il processo del Savonarola si facesse in Firenze, e soltanto domandò al papa di mandare dei giudici ecclesiastici per assistervi. Alessandro VI nominò infatti frate Gioachino Turriano di Venezia, generale dell'ordine dei Domenicani, e Francesco Romolini, dottore di legge Spagnuolo; e nell'atto che li faceva partire, pronunciò anticipatamente la condanna di frate Girolamo Savonarola, e lo dichiarò eretico, scismatico, persecutore della santa sede e seduttore dei popoli[515]. Il processo, formato nello stesso tempo avanti al nuovo tribunale degli otto nel quale non eranvi che nemici del Savonarola e davanti ai deputati del papa, cominciò colla tortura, che si diede in varie riprese al monaco. Quest'uomo, di debole costituzione e di fibra irritabilissima, non potè sostenere i dolori che gli si facevano soffrire. Confessò, perchè cessassero di tormentarlo, che le sue profezie non erano che semplici conghietture. Ma quando si vollero avere le sue deposizioni senza tormenti, sostenne nuovamente la verità delle sue rivelazioni e di tutta la sua predicazione. Quando gli si opposero le confessioni strappategli di bocca colla tortura, rispose che riconosceva o la sua poca costanza o la debolezza de' suoi organi per sostenere i tormenti; che qualunque volta verrebbe posto alla corda, sentiva che smentirebbe sè stesso; ma che la verità non si trovava che nelle parole ch'egli proferiva, quando il dolore o il terrore non turbavano il suo spirito. Gli si fecero realmente soffrire nuovi tormenti, che lo forzarono a nuove confessioni, sempre in appresso smentite; ed i giudici, non volendo esporsi al rischio di fargliele smentire un'altra volta, non gli fecero leggere la sua confessione, secondo la pratica, perchè, la riconoscesse pubblicamente[516].
In tempo della sua prigionia, che durò un mese, il Savonarola compose un commentario del miserere, ossia del salmo 51, che aveva ommesso quando scriveva l'esposizione degli altri salmi, avendo in allora dichiarato che riservava questo lavoro pel tempo delle sue proprie calamità. Questa esposizione è stampata colle altre sue opere. Intanto il 23 di maggio una nuova pira venne innalzata su quella medesima piazza in cui il suo amico avrebbe dovuto volontariamente entrare nel fuoco. I tre religiosi, Girolamo Savonarola, Domenico Bonvicini e Silvestro Maruffi, dopo essere stati degradati dai giudici ecclesiastici, furono in mezzo alla catasta legati ad un palo. Quando il vescovo Paganotti loro dichiarò che li separava dalla Chiesa, il Savonarola rispose soltanto, dalla militante, volendo far sentire che stava per entrare nella Chiesa trionfante. Altro non disse; e fu appiccato il fuoco alla catasta da uno de' suoi nemici, che prevenne l'ufficio del carnefice. Così morì fra i due suoi discepoli il padre Girolamo Savonarola in età di quarantacinque anni ed otto mesi. Erano stati dati dalla signoria severissimi ordini per raccogliere le ceneri dei tre religiosi e gettarle nell'Arno. Pure ne vennero sottratte alcune reliquie da que' medesimi soldati che custodivano la piazza, e queste conservaronsi fino al presente esposte in Firenze all'adorazione dei devoti[517].
FINE DEL TOMO XII.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XII.
Capitolo XCI. Considerazioni intorno al carattere ed alle rivoluzioni del quindicesimo secolo. pag. 3
Revista dello stato prospero dell'Italia quando cominciò la lotta per la sua indipendenza 3
Importanza dell'epoca in cui ci siamo trattenuti 4
Fino al 1492 l'Italia occupa il primo posto tra le nazioni europee 4
Calamità che cominciarono in quest'epoca e ridussero l'Italia in servitù 5
Rapida occhiata sull'intera storia d'Italia 6
Avvi fondamento di accusare gl'Italiani d'avere meritato di perdere la loro indipendenza? 7
La più saggia nazione non può signoreggiare tutti gli avvenimenti che formano il suo destino 8
La nazione inglese fu in preda più volte alle medesime vicende che perdettero l'Italia 9
Gl'Italiani non avrebbero conservata la propria indipendenza, riunendosi in una sola monarchia. Esempio degli Spagnuoli 10
L'Italia non poteva far testa a tutte le nazioni che l'attaccarono contemporaneamente 13
Una guerra civile poteva egualmente aprire l'Italia agli stranieri, quand'anche non avesse formata che una sola monarchia 14
Diritti eventuali di successione che una monarchia lascia sempre agli stranieri 15
L'Italia piuttosto avrebbe potuto salvarsi coll'unione delle repubbliche 16
Gli stati d'Italia erano potenti nel XV secolo quanto quelli della Francia e della Germania 18
L'Italia non poteva prevedere il pericolo che la minacciava 19
L'indebolimento dello spirito di libertà diminuì in Italia la sua forza di resistenza 20
Considerabile diminuzione nel numero de' cittadini sovrani 21
La potenza d'una repubblica sopra di sè medesima accresciuta dalla partecipazione di tutti alla sovranità 21
Il giogo imposto alle città suddite delle repubbliche aggravato nel XV secolo 23
Diminuzione della libertà politica nelle stesse capitali delle repubbliche 25
Diminuzione del sentimento d'indipendenza ne' principati italiani durante il XV secolo 26
Molte antiche dinastìe innalzate dal popolo perdono nel XV secolo la sovranità 28
Gli stati monarchici cessarono di appoggiarsi ad un principio di legittimità 29
Malgrado questi semi di futuri disordini, il XV secolo fu un'epoca di grande prosperità 31
Uomini illustri che brillarono nel XV secolo 31
Le guerre del XV secolo si fecero con umanità 32
Di quest'epoca la milizia italiana si fece onore in faccia agli stranieri 33
Entusiasmo di tutta la nazione per le lettere 34
Considerazione politica dei letterati in tutti gli stati d'Italia 35
Emulazione eccitata a motivo dei molti piccoli stati 35
Grandissima differenza tra le province e le capitali rispetto ai progressi dell'incivilimento 37
Utilità pratica. Risultamento dei progressi delle scienze 39
La storia di un paese libero fa conoscere tutti i patimenti degli individui, quella de' paesi non liberi li dissimulano 40
Indagini intorno alla felicità reale d'una nazione in tutte le classi della società 42
Stato di felicità de' paesani italiani paragonato a quello delle altre nazioni 42
Prosperità dell'agricoltura nel XV secolo 43
Province oggi incolte erano allora ben coltivate 44
Allora i contadini italiani erano riuniti in terre murate 46
Importanza politica loro data da tale unione 47
Condizione dei popoli delle città più felice che la presente 49
Attività di tutte le manifatture 50
Gli artisti contribuivano alla pubblica prosperità 51
Attività del commercio italiano esercitato dalla principale classe della nazione 52
Prodigioso accrescimento del capitale italiano 53
Speranza sempre offerta a tutti i padri di famiglia 55
Prosperità delle arti e delle lettere, altra prova di quella della nazione 56
Carattere di opulenza in tutti gli edificj del XV secolo a differenza della presente miseria 56
La magnificenza dell'Italia era in allora affatto spontanea, e non deve confondersi col fasto dei governi 58
Trovansi ovunque monumenti dell'universale prosperità del XV secolo; dopo tale epoca non si videro che avvenimenti che dovevano distruggerla 59
Capitolo XCII. Elezione di Alessandro VI; progetti di riforma di Girolamo Savonarola; vanità di Pietro de' Medici, nuovo capo della repubblica fiorentina. Lodovico Sforza invita Carlo VIII a far valere i suoi diritti sul regno di Napoli; fermento di tutta l'Italia, Ferdinando I muore prima d'essere attaccato. 1492-1494 61
La potenza temporale dei papi erasi accresciuta nel XV secolo 61
Trovavansi alla testa degli stati indipendenti dell'Italia 62
1492 25 luglio. La loro potenza vacilla alla morte d'Innocenzo VIII 63
Egoismo dei 23 cardinali adunati in conclave 64
Opinione e ricchezze di Roderigo Borgia, vice cancelliere 65
Costumi del Borgia e suoi cinque figli 67
Rivali del Borgia, Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere 68
11 agosto. Simoniaca elezione del Borgia, che prende il nome di Alessandro VI 69
Tripudio de' Romani in principio del suo regno 71
Desiderio di riforma sparso in tutta la Cristianità 73
Carattere della riforma, quale fu cominciata in Italia 74
1452 21 settembre. Nascita di Girolamo Savonarola 75
1483 Prime prediche profetiche del Savonarola 76
1489 Suo arrivo a Firenze 77
La riforma del Savonarola non si estende che ai costumi ed alla disciplina, ma non tocca il domma 78
1492 Il Savonarola ricusa di assolvere Lorenzo de' Medici al letto della morte, perchè Lorenzo non vuole rendere la libertà a Firenze 79
Vanità ed incapacità di Pietro che succede a Lorenzo dei Medici 80
1493 Gelosia di Pietro de' Medici contro i suoi cugini, figli di Pier Francesco, ch'egli esilia da Firenze 82
Il Savonarola predica in Firenze la riforma politica e religiosa 83
Predice all'Italia le calamità che doveva apportarle la guerra 85
Pronostici di prossima guerra nelle pretese della casa di Francia, erede di quella di Angiò 85
Lodovico il Moro, governatore di Milano, vuole riunire l'Italia contro gli oltremontani 86
1493 Pietro de' Medici si oppone per vanità a quest'unione 87
Irritazione di Lodovico il Moro, e sua inquietudine per la segreta alleanza di Pietro dei Medici con Ferdinando di Napoli 89
22 aprile. Si lega segretamente con Venezia e con Alessandro VI 90
Lodovico il Moro temeva che il re di Napoli non volesse proteggere suo nipote 91
Incapacità di Giovanni Galeazzo, sovrano nominale di Milano 92
Rivalità di sua consorte Isabella d'Arragona e di Beatrice d'Este, sposa di Lodov. il Moro 93
20 agosto. Massimiliano succede a suo padre Federico III, imperatore 94
Lodovico il Moro marita sua nipote con Massimiliano, e da lui segretamente ottiene l'investitura del ducato di Milano 95
Chiede l'alleanza della Francia, prima di spogliare il nipote e di prendere egli medesimo il titolo di duca 96
1483 30 agosto. Carlo VIII era succeduto a suo padre Lodovico XI 97
1483 Carattere di Carlo VIII, secondo il Guicciardini, e secondo il Comines 97
Suo mostruoso aspetto e sua incapacità 98
1493 Offerte d'alleanza di Lodovico il Moro a Carlo VIII 100
Negoziazioni del conte di Cajazzo di concerto cogli emigrati napolitani 101
Negoziazioni del conte di Belgiojoso presso i favoriti di Carlo VIII 101
Convenzione tra Lodovico il Moro e Carlo VIII, stipulata da Briçonnet e dal Siniscalco di Belcario 103
Negoziazioni di Carlo VIII con tutti i suoi vicini 104
1492 3 novembre. Trattato d'Etaples con Enrico VII d'Inghilterra 105
1493 23 maggio. Trattato di Senlis con Massimiliano, re de' Romani 105
19 gennajo. Trattato di Barcellona col re di Spagna 106
Negoziazioni di Perron de' Baschi a Venezia 107
L'ambasciata francese passa a Firenze 108
1494 Indi a Siena 109
Ed all'ultimo a Roma 109
1493 Negoziazioni di Ferdinando con Carlo VIII col mezzo di Camillo Pandone 110
Sua alleanza col papa, e matrimonio di don Goffredo Borgia 110
Aperture di riconciliazione fatte da Ferdinando a Lodovico il Moro 112
Apparecchi di guerra di Ferdinando 113
Nuovo malcontento ed artificj del papa 114
Fermento di tutta l'Italia 115
Ferdinando pensa ad abboccarsi in Genova con Lodovico il Moro 116
1494 25 gennajo. Ferdinando muore inopinatamente di 70 anni 117
Carattere di Ferdinando e del suo regno 118
Sua figura e sue maniere 119
Capitolo XCIII. Apparecchi di difesa d'Alfonso II. Primi attacchi de' Francesi nello stato di Genova ed in Romagna. Discesa di Carlo VIII in Italia. Pietro de' Medici gli dà nelle mani tutte le fortezze della Toscana. Ribellione di Pisa; rivoluzione di Firenze; esilio dei Medici. 1494 121
1494 Alcune rivoluzioni si fanno a dispetto dell'abilità, altre a dispetto della reciproca inesperienza 121
1494 La guerra d'Italia si sostenne con eguale imperizia dalle due parti 122
25 gennajo. Alfonso II viene proclamato re di Napoli 123
Suoi apparecchi di difesa colle negoziazioni e colle armi 124
Sue negoziazioni con Bajazette II 124
Alessandro VI si unisce a lui per chiedere l'assistenza dei Turchi 125
Alfonso rende più intima la sua alleanza con papa Alessandro VI 126
Favori accordati alla casa Borgia nel regno di Napoli 127
Alleanza d'Alfonso con Pietro dei Medici, le repubbliche toscane, ed i principati della Romagna 128
Alfonso vuole chiudere colle armi le strade di Toscana e di Romagna, ed il mare con una flotta comandata da suo fratello don Federigo 130
13 luglio. Congresso di Vicovaro per regolare la difesa d'Italia 130
Diversione cagionata dal papa, che adopera le forze napolitane contro i suoi particolari nemici 131
1494 Una parte dell'armata viene incaricata di contenere i Colonna 132
Ferdinando, duca di Calabria, conduce l'altra parte in Romagna 133
Proposizione del vecchio Paolo Fregoso di fare una rivoluzione in Genova 134
Carlo VIII aveva fatta apparecchiare una magnifica flotta in Genova 136
Vi aveva mandati il duca d'Orleans e due mila Svizzeri 137
Fine di luglio. Don Federigo e gli emigrati genovesi attaccano Porto Venere, e sono respinti 138
4 settembre. Sbarca a Rapallo, e mette a terra Ibletto dei Fieschi cogli emigrati genovesi 140
Gli emigrati attaccati a Rapallo per mare e per terra 141
Rapallo è preso; prime crudeltà degli oltremontani 143
Fuga d'Ibletto dei Fieschi e di suo figlio 144
Luglio. Don Ferdinando conduce la sua armata in Romagna 144
Il sire d'Aubignì ed il conte di Cajazzo gli fanno fronte 145
I consiglieri di Ferdinando non gli permettono d'attaccare d'Aubignì 146
1494 Ferdinando si ritira sotto le mura di Faenza 148
Irrisoluzione di Carlo VIII 148
Il cardinale Giuliano della Rovere lo persuade a fare l'impresa d'Italia 150
23 agosto. Carlo VIII parte da Vienna per passare le Alpi con una numerosa armata 150
Il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato, ambidue minori, non custodiscono i passaggi delle Alpi 152
9 settembre. Carlo VIII è visitato in Asti da Lodovico il Moro e dalla sua corte 153
Malattia di Carlo VIII in Asti 154
Abboccamento di Carlo VIII con Gian Galeazzo ed Isabella sua sposa 154
20 ottobre. Morte di Gian Galeazzo. Lodovico proclamato duca di Milano 156
Spavento che la morte di Gian Galeazzo, che si crede avvelenato, cagiona nell'armata francese 157
Carlo VIII prende la via di Pontremoli per entrare in Toscana 158
Sollevazione dei Colonna in Roma, che impedisce al papa di accorrere in difesa della Toscana 159
1494 Deboli apparecchi di difesa dei Fiorentini 159
L'armata francese potev'essere trattenuta presso Sarzana e Pietra Santa 160
Agitazione dei Fiorentini contro i Medici all'avvicinarsi dei Francesi 162
Pietro de' Medici spaventato si reca al campo francese 163
Novembre. Il Medici cede le fortezze dei Fiorentini ai Francesi 164
Irritamento de' Fiorentini contro Pietro de' Medici 166
8 novembre. Il Medici torna a Firenze, e non è ricevuto nel palazzo della signoria 167
9 novembre. È forzato dal popolo ad uscire da Firenze coi suoi fratelli 168
Pietro de' Medici si rifugia a Bologna 170
Giovanni Bentivoglio gli rinfaccia di non avere saputo morire al suo posto 170
Saccheggio delle ricchezze e delle preziose raccolte dei Medici 171
Decreto della signoria contro i Medici, e per una mutazione di governo 172
Negoziazioni del nuovo governo con Carlo VIII 173
1494 Girolamo Savonarola parla al re di Francia come un profeta inspirato 173
Fermento del popolo di Pisa all'avvicinarsi di Carlo VIII 176
Il governo di Firenze nelle città suddite era diventato più oppressivo durante la grandezza dei Medici 177
L'agricoltura e la salubrità di Pisa ruinate dall'abbandono dei canali e delle dighe 178
Il commercio all'ingrosso e le manifatture proibite ai Pisani 179
Pisa non conta più storici dopo il 1406. Nota 180
Unanimità dei Pisani per iscuotere il giogo 181
Lodovico il Moro manda ad eccitarli Galeazzo da Sanseverino 181
Simone Orlandi domanda a Carlo VIII la libertà di Pisa 182
Carlo VIII la promette inconsideratamente 183
9 novembre. I Fiorentini scacciati da Pisa, la quale si pone in libertà 184
Carlo VIII si concerta con d'Aubignì prima di andare verso Firenze 184
Ottobre e novembre. Ferdinando abbandona la Romagna e d'Aubignì 184
1494 D'Aubignì raggiugne Carlo VIII presso Firenze 187
Carlo VIII vuole rimettere il Medici in Firenze, ma questi, da lui chiamato, non torna 187
17 novembre. Ingresso in Firenze di Carlo VIII 188
Negoziazioni di Carlo VIII colla signoria 190
Ardire di Piero Capponi, che straccia le proposizioni del re, e si appella alle armi 191
26 novembre. Convenzione di Carlo VIII colla repubblica di Firenze 192
28 novembre. Partenza di Carlo VIII alla volta di Siena 193
Capitolo XCIV. Terrore ed irrisoluzione del papa all'avvicinarsi di Carlo VIII. Questo monarca entra in Roma: abdicazione e fuga di Alfonso II. Dispersione dell'armata di Ferdinando II. Il regno di Napoli si assoggetta a Carlo VIII. 1494-1495 194
1494 Opinione di accortezza di Alessandro VI fondata sulla sua mala fede 194
La politica, quando non va d'accordo colla morale, rimane insufficiente nel pericolo 195
Versatilità della condotta d'Alessandro coi Francesi 196
1494 Avvicinandosi Carlo VIII vuole negoziare con lui 197
9 dicembre. Incoraggiato dalla presenza dell'armata del duca di Calabria, fa trattenere i negoziatori che venivano a lui 199
2 dicembre. Ingresso di Carlo VIII in Siena 200
Ritirata di Ferdinando, duca di Calabria, a traverso all'Ombria fino a Roma 200
19 dicembre. Nuovo sperimento di negoziazione del papa coi Francesi 201
I feudatarj della Chiesa fanno le loro paci parziali coi Francesi 202
Tutta la campagna di Roma viene in potere dei Francesi 202
Motivi di Carlo VIII per trattare col papa 203
I suoi consiglieri si lusingano di ottenere dal papa le principali dignità della Chiesa 205
31 dicembre. Il re entra in Roma alla testa della sua armata, mentre che il duca di Calabria esce per un'altra porta 207
Aspetto di quest'armata. Gli Svizzeri 207
I Guasconi, gli uomini d'armi 208
1494 I cavalleggieri, la casa del re 209
L'artiglieria 210
1495 gennajo. Il papa, ritirato in Castel sant'Angelo con sei soli cardinali, viene due volte minacciato dall'artiglieria francese 211
11 gennajo. Pace tra il re ed il papa, e sue condizioni 212
Il sultano Gem viene dal papa consegnato al re 213
Anteriori negoziazioni di Bajazette col papa per far avvelenare suo fratello 214
L'ambasciatore di Bajazette e quello del papa cadono nelle mani dei loro nemici 215
26 di febbrajo. Il sultano Gem muore avvelenato 216
Fabrizio Colonna conduce un corpo di Francesi negli Abruzzi 217
28 gennajo. Carlo VIII parte da Roma alla volta di Napoli, per la strada di san Germano 218
30 gennajo. L'ambasciatore di Spagna dichiara a Carlo VIII, che i suoi padroni difenderanno il re di Napoli 219
Risposta de' Francesi, e collera dell'ambasciatore 221
1495 Fuga del cardinale di Valenza, che doveva rimanere ostaggio presso il re 222
Presa, sacco e carnificina di Monte Fortino e di Monte san Giovanni 222
Terrore d'Alfonso II, ed irritamento del popolo contro di lui 224
Uccisione dei prigionieri di stato nell'istante in cui salì sul trono 226
Superstiziosi terrori d'Alfonso 227
23 di gennajo. Alfonso si chiude in Castel dell'Uovo 228
Soscrive un atto d'abdicazione in favore di suo figlio, e fa imbarcare i suoi tesori 229
3 febbrajo. Parte alla volta di Mazari in Sicilia 230
19 novembre. Muore dopo molti atti di penitenza 230
24 gennajo. Inaugurazione di Ferdinando II a Napoli, dopo la quale riparte per l'armata 231
Si fortifica a san Germano 232
La sua armata atterrita abbandona san Germano. Egli ripiega sopra Capoa 234
19 febbrajo. Sollevazione del popolo in Napoli 235
Ferdinando s'affretta di passare a Napoli, per acquietare la sollevazione del popolo 236
1495 Durante la di lui assenza la sua armata si disperde, e Capoa si solleva contro di lui 237
20 febbrajo. Vani sforzi di Ferdinando per ricondurre alla ubbidienza gli abitanti di Capoa 239
Si ritira nel castello di Napoli 240
21 febbrajo. S'imbarca per timore d'essere tradito dai suoi soldati tedeschi 241
Si rende padrone dell'isola d'Ischia 242
22 febbrajo. Ingresso di Carlo VIII in Napoli 243
Carlo attacca le fortezze di Napoli 244
6 marzo. Capitolazione del Castello Nuovo di Napoli 245
15 marzo. Capitolazione del castello dell'Uovo 246
Dispersione dell'armata di don Cesare d'Arragona che difendeva gli Abruzzi e la Puglia 247
Terrore dei Turchi sull'altra riva dell'Adriatico 248
Pratiche dell'arcivescovo di Durazzo e di Costantino Arianite per apparecchiare una ribellione nell'Albania 249
Disordine ed orgoglio dell'armata francese 249
1495 Tutti i grandi signori napolitani accorrono alla corte di Carlo VIII 251
Il re scontenta tutti i partiti 252
Si abbandona ai piaceri ed all'ignavia 253
Tutte le fortezze vengono disarmate per l'imprudenza de' suoi ufficiali 255
Capitolo XCV. Rivoluzioni cagionate in Toscana dal passaggio di Carlo VIII. — Sforzi de' Fiorentini per riconstituire la loro repubblica, assoggettare Pisa e sottrarsi alla malevolenza de' Sienesi, dei Lucchesi, dei Genovesi. — Inquietudini dei Veneziani per i progressi di Carlo VIII; lega dell'Italia per mantenere la sua indipendenza, 1494-1495 256
1494 Stato della Toscana prima della spedizione di Carlo VIII 256
Rivoluzioni che eccita in Firenze, in Pisa, in Siena, in Lucca 257
I Fiorentini, ricuperando la libertà, appena sanno in che consista 258
La felicità che desidera ogni uomo è proporzionata alla sviluppo delle sue facoltà. Non è la stessa per tutti 259
Lo scopo del governo è quello di rendere felice il maggior numero d'uomini possibile, innalzandoli, non abbrutendoli 260
1494 La libertà politica è il più potente mezzo d'innalzare gli uomini 260
Confusione della libertà politica e della libertà individuale 262
Ambidue venivano pochissimo rispettate in Venezia 263
Pure Venezia prosperava a motivo della sua prudenza, ed il suo governo era l'oggetto dell'universale ammirazione 264
Tutti i politici fiorentini propongono d'imitare in Firenze la costituzione de' Veneziani 265
In Firenze tre opposti partiti adducono tutti a favor loro l'esempio di Venezia 268
Partito dei Piagnoni , diretto dal padre Savonarola, da Valori e da Soderini 269
Partito degli Arrabbiati , diretto da Dolfo Spini e da Guid'Antonio Vespucci 270
Partito dei Bigi , affezionato ai Medici assenti 271
2 dicembre. Il parlamento adunato accorda alla signoria l'autorità della balìa 271
La balìa nomina venti elettori, incaricati di eleggere tutti i magistrati 273
1494 I venti elettori non possono convenire tra di loro, e perdono ogni credito 274
Il Savonarola propone le elezioni popolari, un consiglio formato di tutti i cittadini, ed un'amnistia 275
23 dicembre. Viene sanzionata la formazione del gran consiglio 276
1495 1.º luglio. Le elezioni sono restituite al popolo 277
1494 I Pisani riconstituiscono la loro repubblica 277
Deferiscono la sovrana autorità alle magistrature municipali, da cui erano stati governati in tempo di servitù 278
1495 gennajo. Prime ostilità tra i Pisani ed i Fiorentini 279
Negoziazioni dei Pisani presso Carlo VIII per conservarsi la protezione della Francia 281
Briçonnet va a Firenze per eseguire il trattato, per ricevere il danaro e consegnare Pisa 283
24 febbrajo. Dichiara di non aver potuto persuadere i Pisani, e riparte alla volta di Napoli 284
Negoziazioni de' Pisani con Siena, Lucca e col duca di Milano 284
1495 Il duca di Milano li rimette ai Genovesi 286
Arringa degli ambasciatori pisani al senato genovese 286
Soccorsi dai Genovesi accordati ai Pisani 288
Primi vantaggi ottenuti da Giulio Malvezzi, capitano dei Pisani 289
26 di marzo. Monte Pulciano si ribella ai Fiorentini, e si pone sotto la protezione di Siena 291
I Fiorentini ricorrono invano a Carlo VIII 292
Carlo VIII manda soccorsi ai Pisani contro Firenze 293
Il Savonarola persuade i Fiorentini, colle sue profezie, a non abbandonare l'alleanza della Francia 295
Inquietudine e scontentezza degli altri stati d'Italia 296
Lagnanze di Lodovico il Moro contro i Francesi 297
Animosità dei re di Spagna e dei Romani 298
Negoziazioni di Filippo di Comines a Venezia per unire questa repubblica alla Francia 299
Congresso di Venezia per formare un'alleanza contro la Francia 301
1495 Terrore de' Veneziani alla notizia della conquista di Napoli 303
Pericolo del re se la lega dell'alta Italia toglieva Asti al duca d'Orleans 305
31 marzo. La lega contro la Francia si sottoscrive in Venezia, tra il papa, i re di Spagna, il re de' Romani, i Veneziani e Milano 306
Partecipazione di tale lega a Filippo di Comines 308
Segreto delle negoziazioni e turbamento del Comines 309
Articoli pubblici dell'alleanza puramente difensivi 309
Articoli segreti che la rendono offensiva 310
Debolezza di Massimiliano, che non può soddisfare ai suoi obblighi 312
Il duca di Ferrara ed i Fiorentini ricusano d'entrare nella lega 313
Apparecchi di guerra dei confederati e ritirata degli ambasciatori 314
Capitolo XCVI. Carlo VIII abbandona il regno di Napoli; attraversa Roma e la Toscana; si apre un passaggio a Fornovo a dispetto de' confederati, e giugne ad Asti. Tratta in Vercelli col duca di Milano, libera il duca d'Orleans assediato in Novara, e ripassa le Alpi. 1495 316
1495 Notificazione di Carlo VIII per minorare le imposte in Napoli, riducendole alle tariffe dei re angioini 316
Importanza della nobiltà del regno feudale di Napoli 317
Carlo la scontenta non meno del popolo 319
Non conosce nè i nomi, nè gli interessi, nè i servigj degli antichi signori napolitani 319
Si desidera la prudente e regolare amministrazione degli Arragonesi 320
La nazione si sente umiliata da un giogo straniero 321
I Francesi impazienti di ritornare nella loro patria 322
La notizia della lega di Venezia accresce questa loro impazienza 322
12 maggio. Carlo VIII prende la corona di Napoli senza aspettare l'investitura del papa 323
Discorso del Pontano in occasione di tale inaugurazione 324
1495 Carlo assegna comandanti a varie province, e lascia loro la metà della sua armata 325
Cerca di guadagnarsi i Colonna, i Savelli ed i Sanseverini coi beneficj 326
20 maggio. Parte da Napoli colla metà dell'armata per tornare in Francia 327
30 maggio. Il papa si ritira da Roma, quando si avvicinano i Francesi 328
Carlo fa restituire al papa le fortezze di Cività Vecchia e di Terracina 329
13 giugno. Giugne a Siena, e vi si trattiene per far dare la signoria di quella città al signore di Lignì 330
I Fiorentini fanno a Carlo VIII nuove offerte per ridurlo a ridar loro Pisa 332
Esigono che Pietro de' Medici non entri nel loro territorio 333
Si pongono in istato di difesa, e Carlo abbandona il pensiero di passare per la loro città 334
Nuove suppliche dei Pisani a Carlo VIII pel mantenimento della loro libertà 335
Vivo interesse che l'armata francese prende a favore dei Pisani 336
1495 Carlo VIII protrae la sua decisione intorno alla sorte di Pisa, e rinnova le guarnigioni delle fortezze pisane 338
Inquietudine dell'armata francese, udendo cominciate le ostilità in Lombardia 339
Lodovico il Moro provoca il duca d'Orleans rimasto in Asti 339
11 giugno. Il duca d'Orleans sorprende Novara 341
È poi assediato in Novara da Galeazzo di Sanseverino 342
23 giugno. Carlo VIII parte da Pisa per Pontremoli 343
Stacca un piccolo corpo d'armata per fare un tentativo sopra Genova 344
Questa piccola armata è battuta ed a stento si riunisce a quella del re 344
29 giugno. La vanguardia francese brucia Pontremoli 345
L'artiglieria francese attraversa a stento l'Appennino sopra Pontremoli 346
L'esercito dei confederati, di circa quaranta mila uomini, e comandato dal marchese di Mantova, aspetta i Francesi a Fornovo 348
La vanguardia francese avrebbe potuto facilmente distruggersi dai confederati a Fornovo 349
1495 5 luglio. L'armata francese riunita a Fornovo non conta più di nove mila uomini 351
Le due armate si accampano in vicinanza l'una dell'altra sulla destra del Taro, nella valle di Fornovo 352
Il re spedisce il Comines al marchese di Mantova per trattare 353
Gli alleati tardano ad attaccare i Francesi 354
6 luglio. Il re fa nuovamente chiedere il passo che gli viene negato 355
Disposizioni della sua armata per farsi strada colla forza 356
Viene attaccato dai Veneziani 358
Il marchese di Mantova, che lo attacca alla coda, è respinto 360
Gli Stradioti, che dovevano attaccarlo ai fianchi, lasciano la battaglia per saccheggiare l'equipaggio de' Francesi 361
Il conte di Cajazzo, che doveva attaccare la vanguardia francese, prende la fuga 362
I Francesi non ardiscono di attaccare in appresso gli Italiani 364
La pugna benchè breve fu assai micidiale pegli Italiani 365
Estremo terrore nell'armata italiana; invano il Pitigliano cerca di persuaderla ad attaccare il campo francese in quella notte 366
1495 7 luglio. Il re alloggia in Medesana, sempre in presenza del nemico 367
Il Comines viene incaricato di nuove negoziazioni 368
8 luglio. Il re leva tacitamente il suo campo, durante la notte, e s'avvia verso Borgo san Donnino 369
I Francesi guadagnano un giorno di cammino sugli Italiani 370
9 e 10 luglio. Pericolo dell'armata francese divisa dalla Trebbia 371
Continua la sua ritirata sempre inseguita dal conte di Cajazzo 372
Patimenti e costanza de' Francesi in questa ritirata 373
15 luglio. L'armata francese arriva in Asti, dove si pone in sicuro 375
Carlo dimentica la sua armata per una pratica amorosa 377
Patimenti del duca d'Orleans chiuso in Novara 379
Desiderio de' Francesi per la pace 380
L'armata italiana si fortifica intorno a Novara 381
1495 Il Comines, spedito alla corte del marchese di Monferrato, riprende nuove negoziazioni per la pace 382
Novara viene evacuata dal duca d'Orleans 383
Il baglivo di Digione conduce al re dugento mila Svizzeri invece dei cinque mila che doveva assoldare 384
Il duca d'Orleans cerca di persuadere il re ad approfittarne per rinnovare la guerra 386
I suoi nemici si oppongono a tali progetti 387
Rendono sospetti gli Svizzeri venuti all'armata 387
Carlo VIII tratta col duca di Milano un parziale trattato 388
10 ottobre. Trattato di Vercelli col duca di Milano 388
Scontento degli Svizzeri che il re vuole rimandare con un mese di soldo 389
20 ottobre. Il re parte da Torino ed entra in Francia pel Delfinato 391
Nuova malattia sparsa in tutta l'Europa in occasione della spedizione di Carlo VIII 391
Capitolo XCVII. Ferdinando II rientra nel regno di Napoli e ricupera la sua capitale. — I Francesi vendono ai nemici dei Fiorentini le fortezze che occupavano in Toscana. Sono ridotti a capitolare ad Atella, ed evacuano il regno di Napoli. Morte di Ferdinando II. 1495-1496 394
Gloria acquistata da Carlo VIII, siccome il solo dei re di Francia che facesse acquisto in lontane parti 394
Immoralità di un re che tenta una conquista che non può conservare 395
Altri conquistatori vengono scusati da progetti di miglioramento, di liberazione dei popoli, d'ingiurie all'onore nazionale da cancellarsi 396
Carlo VIII non fa la guerra che per dar valore a certi diritti ereditarj privi di giustizia 397
Prima d'entrare in Napoli, poteva prevedere che non vi si manterrebbe 398
1495 Abboccamento di Ferdinando II con suo padre e con Gonsalvo di Cordova a Messina 399
Maggio. Occupa Reggio di Calabria 400
I Veneziani prendono Monopoli, e la saccheggiano 401
1495 Gaeta si solleva contro i Francesi, ma gl'insorgenti sono vinti, svaligiati ed uccisi 402
Primi prosperi successi di Ferdinando II in Calabria 403
È sconfitto a Seminara dal d'Aubignì 405
Fine di giugno. Si presenta sotto Napoli con una flotta 407
7 luglio. Ferdinando è ricevuto in Napoli dal popolo, mentre che il Montpensiero viene chiuso fuori delle mura 408
Sforzi de' Francesi per rientrare in Napoli dalla banda della piazza di Castel Nuovo 409
8 luglio. La città viene chiusa con palafitte, e tolta ai Francesi, chiusi nelle fortezze, ogni comunicazione colla campagna 410
Frequenti sortite de' Francesi chiusi ne' castelli di Napoli 411
Prospero e Fabrizio Colonna prendono servigio sotto il re Ferdinando 412
Ottobre. Il Montpensiero tratta per l'evacuazione dei castelli di Napoli 414
Il Precì si avanza per liberare il Montpensiero 415
Sua vittoria ad Eboli sul principe di Matalona 416
1495 Ferdinando riduce con accortezza il Montpensiero a soscrivere la capitolazione 418
Suo imbarazzo per chiudere la strada di Napoli a Precì 419
Fortifica i passi presso di Posilippo 420
Precì in forza della capitolazione di Montpensiero è costretto a ritirarsi 421
Il Montpensiero esce di notte dai castelli di Napoli, che poi non si consegnano a norma della capitolazione 422
I Francesi del regno di Napoli sono compromessi dall'imprudente politica del loro sovrano in Toscana 423
Ferocia dei Guasconi lasciati dal re in servigio dei Pisani 424
Carlo VIII si obbliga nuovamente a dare Pisa ai Fiorentini contro un accrescimento di sussidj 425
15 settembre. Livorno renduto ai Fiorentini 426
D'Entragues ricusa di ubbidire agli ordini del re, e di cedere Pisa e le sue fortezze 426
20 settembre. D'Entragues promette ai Pisani di dar loro entro cento giorni la rocca 427
1496 1.º gennajo. I Pisani, posti in possesso della loro fortezza, la spianano 430
26 febbrajo. Sarzana e Sarzanello renduto ai Genovesi 430
30 marzo. Pietra Santa venduta ai Lucchesi 430
Piero de' Medici si avvicina ai confini de' Fiorentini 431
Chiede ajuto a tutti i nemici de' Fiorentini 432
1495 3 settembre. Tentativi degli Oddi contro i Baglioni a Perugia 433
1496 Virginio Orsini, dopo avere adunate le sue truppe a nome dei Baglioni, si avanza per spalleggiare Pietro de' Medici 435
I principi d'Italia abbandonano Piero de' Medici 435
Virginio Orsini si obbliga a passare nel regno di Napoli con i Vitelli in servigio di Carlo VIII 436
Carlo VIII non porge altro soccorso ai suoi generali nel regno di Napoli 436
La guerra si faceva simultaneamente in ogni luogo nel regno di Napoli, ma in ogni luogo assai mollemente 438
I Veneziani mandano il marchese di Mantova al re di Napoli con un'armata, chiedendo in compenso cinque città sulla costa dell'Adriatico 439
1496 Importanza della dogana di Manfredonia, che percepisce un pedaggio sulle gregge di passaggio 440
Ferdinando e Montpensiero vogliono avere quella dogana 441
Settecento fanti tedeschi al soldo di Ferdinando combattono contro tutta l'armata francese, e si fanno tutti uccidere 442
Le due armate offrono la battaglia sotto le mura di Foggia, ma non l'accetta nè l'una nè l'altra 444
Le mandre di passaggio da Manfredonia sono lasciate in balìa de' soldati; questi le uccidono per venderne la pelle 445
Le due armate chiamano a sè i distaccamenti sparsi in tutte le province del regno 445
Carlo VIII viene pressato a mandare soccorsi al Montpensiero 446
Annuncia una spedizione in Italia, ed in appresso la trascura 447
Il Montpensiero lascia l'assedio di Circello per soccorrere Frangetto di Monforte 449
1496 Gli Svizzeri ricusano di combattere se il Montpensiero non paga i soldi arretrati 451
Gran parte della sua armata si disperde 451
Il Montpensiero vuole ritirarsi sopra Venosa, ma è sopraggiunto ad Atella dove viene assediato 452
Situazione di Atella nella Basilicata 453
Gonsalvo di Cordova, dopo avere battuti a Laino i baroni angiovini, si unisce a Ferdinando sotto Atella 454
5 luglio. Sconfitta di un corpo degli uomini d'armi francesi 455
Sconfitta degli Svizzeri all'abbeveratojo di Atella 456
20 luglio. Capitolazione di Montpensiero in Atella 457
23 luglio. Il Montpensiero esce da Atella con cinque mila uomini ed è condotto a Baja ed a Pozzuolo 458
Il Montpensiero muore vittima dell'aere malsano colla maggior parte de' suoi soldati 459
Virginio e Paolo Orsini sono posti in prigione ad istanza d'Alessandro VI 459
1496 Tutto il rimanente del regno di Napoli, tranne tre piazze forti, si assoggetta a Ferdinando II 460
Agosto. Ferdinando II sposa sua zia paterna, Giovanna 461
7 settembre. Muore di consunzione, in età di 27 anni 461
Capitolo XCVIII. Guerra di Pisa; i Pisani soccorsi dal duca di Milano, dai Veneziani e dall'imperatore Massimiliano. — Tregua in Italia. — Il Savonarola va perdendo in Firenze la sua riputazione. — Prova del fuoco che gli è proposta da un monaco; sua condanna e morte. 1496-1498 463
1496 Carlo VIII abbandona l'Italia per darsi tutto in preda ai piaceri 463
Tutti i Napolitani riconciliati alla casa d'Arragona a cagione dell'elezione di don Federico 464
Il solo principe di Salerno rifiuta la pace e muore in esilio 466
Sommissione delle città in cui i Francesi conservaronsi più lungamente 466
Guerra di Pisa in Toscana, condotta secondo il sistema militare che precedette l'invasione di Carlo VIII 467
1496 I Fiorentini guerreggiano a Pisa nello stesso tempo contro i nemici de' Francesi e contro i Francesi 468
Politica di Lodovico Sforza, chiamando i Veneziani in ajuto de' Pisani 470
I Pisani si alienano dallo Sforza 470
La repubblica di Venezia li riceve pubblicamente sotto la sua protezione 472
Vantaggi ottenuti dai Pisani sopra i Fiorentini coll'ajuto degli Stradioti mandati da Venezia 472
Lodovico Sforza, per tenere i Veneziani in soggezione, chiama in Italia Massimiliano, re de' Romani 475
I Veneziani acconsentono di pagare, d'accordo collo Sforza e col papa, un sussidio al re de' Romani 476
Massimiliano ordina ai Fiorentini di entrare nella lega d'Italia 477
Molti rinomati capitani passano a soccorrere i Pisani 479
Essi cercano di troncare ogni comunicazione tra Firenze e Livorno 480
Morte di Piero Capponi sotto al castello di Sojana 480
1496 Massimiliano attraversa la Lombardia con una così piccola armata, che non ardisce passare per le grandi città 481
Angustie de' Fiorentini attaccati contemporaneamente da tanti nemici 482
Le esortazioni del Savonarola li conservano fedeli al partito francese 483
Gli ambasciatori de' Fiorentini, rimandati dall'imperatore al duca di Milano, non vogliono esporgli la loro commissione 484
8 ottobre. Massimiliano s'imbarca a Genova per passare a Pisa 486
Intraprende l'assedio di Livorno 487
Crudeltà commesse dalle sue truppe a Bolgheri 489
Arrivo di sei vascelli francesi a Livorno, che vittovagliano il presidio 489
14 novembre. Burrasca che disperde la flotta dell'imperatore, e lo costringe a levare l'assedio 490
19 novembre. L'imperatore parte subito alla volta di Sarzana e Pontremoli 491
Dopo nuove negoziazioni cogli alleati in Lombardia torna in Germania 492
1496 Durante l'inverno i Fiorentini ricuperano le castella loro tolte dai Pisani 494
26 ottobre. Alessandro VI pronuncia la confisca dei beni degli Orsini, che vuole dare ai suoi figliuoli 495
1497 Assedio di Bracciano sostenuto da Bartolommea Orsini 496
I Vitelli di città di Castello formano un'armata per soccorrere gli Orsini 498
L'armata pontificia è battuta dai Vitelli, ed è fatto prigioniere il suo generale, il duca d'Urbino 499
Pace tra il papa, gli Orsini ed i Vitelli 500
Carlo VIII manda G. G. Trivulzio in Italia con una piccola armata 501
Il Trivulzio tenta di eccitare una rivoluzione in Genova di concerto coi Fregosi, ma è costretto a ritirarsi 502
Il duca d'Orleans non scende in Italia per assecondare il Trivulzio, per non allontanarsi dalla Francia nell'istante della morte di Carlo VIII 504
5 marzo. Tregua sottoscritta tra la Francia e la Spagna, cui possono intervenire tutti gli stati d'Italia 505
1497 A Firenze la suprema autorità passa alternativamente dal partito dei piagnoni a quello degli arrabbiati 507
Negoziazioni dei Fiorentini colla lega d'Italia 508
29 aprile. Piero de' Medici ne approfitta per tentare di sorprendere Firenze 509
Il gonfaloniere e quattro de' più riputati cittadini accusati di essere entrati nella trama di Piero de' Medici 511
17 agosto. Sentenza di morte pronunciata contro i prevenuti coll'adesione del consiglio de' Richiesti 512
21 agosto. Il consiglio de' Richiesti rigetta l'appello al popolo, interposto dai condannati 513
La signoria dubita di ordinarne l'esecuzione 514
Forme complicate delle deliberazioni della signoria, rispettate anche in tempo che si fa violenza agl'individui 515
La sentenza di morte si eseguisce durante la notte 517
20 agosto. Il Savonarola perde il credito, per non essersi opposto al supplicio de' suoi nemici 518
1497 Provoca la corte di Roma predicando contro la condotta di Alessandro VI, e de' figliuoli di lui 519
14 giugno. Francesco Borgia assassinato da Cesare, suo fratello 519
Alessandro VI eccita tutti i nemici del Savonarola 520
La signoria di Firenze ordina al Savonarola di non predicare 522
Il Savonarola dichiara che la scomunica del papa non ha forza quando è ingiusta, e torna a predicare 523
1498 Il Savonarola fa distruggere sotto pena d'anatema, tuttociò che sembragli concorrere al vizio o alla mollezza 524
Il papa fa predicare a santa Croce contro il Savonarola 525
L'antagonista del Savonarola offre di subire con lui la prova del fuoco 527
Domenico Bonvicini di Pescia accetta la disfida pel suo maestro 528
Ardore di tutto il popolo fiorentino per affrettare la prova del fuoco 528
7 aprile. Rogo apparecchiato per la prova dei due monaci 530
1498 I Francescani promovono diverse difficoltà per ritardare la prova 531
Il Savonarola non vuole acconsentire che il suo discepolo deponga il sagramento per entrare nel fuoco 532
Una violenta pioggia divide l'adunanza, senza che abbia luogo la prova 533
Irritazione del popolo contro il Savonarola, perchè per cagion sua mancò l'aspettato spettacolo 534
Viene assalito in convento di san Marco, ed il Savonarola condotto in prigione con due dei suoi monaci 535
8 aprile. Francesco Valori è arrestato dal popolaccio ed assassinato da Vincenzo Ridolfi 535
La sovrana autorità viene in mano della parte nemica del Savonarola 536
Alessandro VI manda due giudici a Firenze per assistere il processo del Savonarola; ma egli lo condanna anticipatamente 537
Colla tortura strappano al Savonarola confessioni, in appresso da lui smentite 538
1498 23 maggio. Il Savonarola viene bruciato sulla pubblica piazza con Domenico Bonvicini e Salvestro Maruffi, suoi discepoli 540
Fine della Tavola.
NOTE:
1. Italia illustrata di Flavio Biondo, trad. di Lucio Fauno. Venez., 1542 in 8.º Regione III, f. 94. Ostia, che ne' tempi Romani contava per lo meno cinquanta mila abitanti, non contiene adesso che trenta uomini nella buona stagione, e dieci nella malsana con due o tre donne. In un raggio di dieci miglia da ogni lato, la campagna non ha un solo abitante, fuorchè a Porto, città ancora più desolata di Ostia.
2. Questo calcolo non è una misura determinata, ma un minimum. Tutto il frumento che viene portato al mercato non è necessariamente consumato nelle città; i contadini, che non coltivano che vigne ed uliveti, ne assorbono una gran parte. Questa sproporzione si è accresciuta dopo che le vaste campagne delle Maremme e della Puglia sono state abbandonate e deserte. La sola parte della campagna italiana che sia tanto popolata quanto lo era nel quindicesimo secolo, è quella che riacquista il grano portato al mercato; la minorazione della coltura dei grani nei paesi oggi deserti fu già proporzionata alla popolazione delle città; e perciò alcuni economisti pretendono che oggi i quattro quinti della nazione italiana appartengano alla classe de' coltivatori.
3. Ho sostituito marmo statuario, per singolarizzare quella qualità di marmo, che in allora come al presente era la sola che serviva pei principali lavori di scultura. N. d. T.
4. Ne' tempi di cui parla l'autore le tele servivano pochissimo ai pittori; e non tutte le scuole di pittura ebbero fondatori toscani. N. d. T.
5. Da oltre un mezzo secolo, in diverse parti d'Italia si è cominciato anche dai grandi proprietarj a dare maggior valore ai prodotti del suolo, coll'industria e col commercio, e non pochi de' grandi proprietarj del Milanese, del Veneziano ec. professano la mercatura. N. d. T.
6. Il signor Ginguenè, di fresco rapito alle lettere, la di cui Istoria della Letteratura Italiana può considerarsi come complemento della Storia Italiana de' secoli di mezzo. N. d. T.
7. Forse l'amore dell'Italia rese il nostro autore alquanto parziale ai moderni nel confronto che fece degli Edificj greci e romani con quelli del XVI secolo. N. d. T.
8. Stef. Infessura Diar. Rom., t. III, Scrip. Rer. It., t. II, p. 1243. — Ann. Eccl. Rayn., 1492, § 22, t. XIX, p. 412.
9. Rayn. An. Eccl., 1492, § 28, p. 414.
10. Onof. Panvino vite de' Pontefici. In Aless. VI, p. 472.
11. Jacob. Volaterranus Diar. Rom., t. XXIII, Rer. It. p. 130. — Ann. Eccl. Rayn., 1492, § 25, t. XIX, p. 413.
12. Ann. Eccl., 1492, § 24, p. 413.
13. Josephi Ripamontii Hist. Urbis Mediol., l. V, p. 653.
14. Stef. Infessura Diario Rom., p. 1244.
15. An. Eccl., 1492, p. 413. Per altro alcuni scrittori indicano un diverso giorno. Il giornale di Siena fa seguire l'elezione il 10 di agosto: Allegr. Allegretti, t. XXIII, p. 826; Onofrio Panvinio nel primo.
16. Stef. Infessura Diar. Rom., p. 1244. — Franc. Guicciardini, l. I, p. 4. — Ist. di Gio. Cambi, Deliz. Erud., t. XXI, p. 71.
17. Cæsare magna fuit, nunc Roma est nascima sextus: = Regnat Alexander. Ille vir iste Deus. = Epistola Petri Delphini, l. III, Ep. 38. — Rayn. Ann. Eccl. § 27, p. 414.
18. Stef. Infessura, p. 1244.
19. Gli Spagnuoli chiamano marranos i mori convertiti; pochi spagnuoli sottraevansi di quei tempi al rimprovero di Apostasia.
20. Le nozze di Lucrezia si celebrarono il 9 e 10 giugno del 1493. Infessura Diar. Rom., p. 1246. — Alleg. Allegretti, p. 827.
21. Della storia e delle gesta del padre Girolamo Savonarola, l. IX, dedicati a P. Leopoldo, 1782, 4.º, l. I, § 2, p. 2.
22. Vita di Savonarola, l. I, § 3, p. 5.
23. Vita di Savonarola an. 1478, § 9, p. 13. — Anno 1482, § 11, p. 15.
24. Ivi, § 19, p. 22.
25. Vita di Savonarola, l. I, § 15, p. 19.
26. Stor. del P. Girol. Savonarola, l. I, § 22, p. 25.
27. Ivi, § 26, p. 33.
28. Scip. Ammirato Stor. Fior., l. XXVI, p. 187.
29. Jac. Nardi Stor. Fior., l. I, p. 15.
30. Jac. Nardi Stor. Fior., l. I, p. 16. — Comment. di Filippo de' Nerli, l. III, p. 58.
31. Comment. di Ser Filippo de' Nerli, l. III, p. 58. — Storia di F. Girolamo Savonarola, l. I, § 35, p. 49.
32. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 188. — Franc. Belcarii Comment. Rer. Gallic., l. V, p. 114. Lugduni 1625 in fol.
33. Franc. Guicciardini, l. I, p. 6. — Ricordanze di Tribaldo de' Rossi, Deliz. degli Erud., t. XXIII, p. 280.
34. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 189.
35. Allegr. Allegretti Diarj Sanesi, t. XXIII, p. 826.
36. Franc. Guicciardini, l. I, p. 8. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 189.
37. Alleg. Allegretti Diari Sanesi, t. XXIII, p. 827. — And. Navagero Stor. Venez., t. XXIII, p. 1201.
38. Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, p. 1250. Termina con tale avvenimento questa voluminosa cronaca. Negli ultimi anni fu scritta assai diffusamente giorno per giorno, ma spesse volte con poca precisione, secondo che le cose venivano raccontate in Venezia. Il suo autore, figliuolo di Leonardo Sanuto, era senatore veneziano, e viveva tuttavia nel 1522. Il Muratori, che per la prima volta pubblicò queste vite nel vol. XXII Script. Rer. Ital., p. 400, p. 1252, ritiene che la cronaca veneta, pubblicata nel vol. XXIV, della p. 1 alla p. 154, sia una continuazione scritta dallo stesso autore.
39. Mémoires de Philippe de Comines, l. VII, c. II, p. 143.
40. Petri Bembi Rer. Ven. Hist., l. II, p. 22.
41. Josephi Ripamontii Hist. Mediol., l. VI, p. 652. — Franc. Guicciardini, l. I, p. 9. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 187. — Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. I, p. 8; edit. Basil. 1578. — Carlo de' Rosmini Ist. di Gian Jacopo Trivulzio, l. V, p. 198. 2 Vol. in 4.º Milano 1815.
42. Barthol. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 534.
43. Guicciardini Ist., l. I, p. 24, 25, ediz. 1645 in 4.º — Jos. Ripamontii Hist. Mediol., l. VI, p. 654.
44. Mémoir. de L. de la Trémouille ch. VI e VII, t. XIV, p. 137.
45. Ivi, ch. VIII, p. 145, tom. XIV des mém. pour servir à l'hist. de la France.
46. Mémoir. de Phil. de Comines, l. VII, Proposit., p. 128, et chap. V, p. 163, t. XII des Mémoires pour servir à l'hist. de la France.
47. Franc. Guicciardini Storia, l. I, p. 18.
48. Fran. Guicciardini, l. I, p. 43. — Bern. Oricellarii de bello Italico Commentarius, p. 91.
49. Fr. Guicciardini, l. I, p. 14. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 11. — Phil. de Comines Mém., l. VII, ch. III, p. 148.
50. Ivi, c. II, p. 138, 142, c. III, p. 150. — Petri Bembi Hist. Ven., l. II, p. 23.
51. Godefroi, observat. sur l'hist. du roi Charles VIII, p. 658 Edit. Paris. fol. 1684. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 18. — Pauli Jovii, l. I, p. 15. — Phil. de Comines, l. VII, c. III, p. 149.
52. Fr. Guicciardini, l. I, p. 19.
53. Il trattato d'Etaples viene letteralmente riportato da Dionigi Godefroi. Observ. sur l'hist. de Charles VIII, p. 629-637. — Vely, Hist. de France, t. X, p. 378, edit. in 4.º.
54. Il trattato di Senlis viene riferito da Godefroi, p. 640. — Phil. de Comines, l. VII, ch. IV, p. 153. — Vely, t. X, p. 381.
55. Testo del trattato in Dionigi Godefroi, p. 662. — Guicciardini Ist., l. I, p. 16. — Vely, t. X, p. 382.
56. Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, ch. V, p. 158. — And. Navagero Stor. Ven., t. XXIII, p. 1201. — P. Bembi Stor. Ven., l. II, p. 21.
57. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 192-197. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 26, 29.
58. Orlando Malavolti Storia di Siena, p. III, l. VI, f. 97. — Allegr. Allegretti Diari Sanesi p. 529.
59. Fran. Guicciardini, l. I, p. 30. — Rayn. Ann. Eccl. 1494, § 18, p. 432.
60. Fran. Guicciardini, l. I, p. 21. — Paoli Jovii, l. I, p. 19.
61. Fran. Guicciardini, l. I, p. 27.
62. Fran. Guicciardini, l. I. p. 22. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 192. — Machiavelli Framm. Stor., t. III, p. 1.
63. Questa duchessa, figlia di Ferdinando e suocera di Lodovico il Moro, morì l'undici ottobre del 1493. Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 286.
64. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 193.
65. Machiavelli Fram. Ist., t. III, p. 5. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 25.
66. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 194.
67. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 194. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 26.
68. Fr. Guicciardini, l. I, p. 28. — Machiavelli, Fram. Stor., t. III, p. 4.
69. Fr. Guicciardini, l. I, p. 27. — Pauli Jovii Hist., l. I, p. 20. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 195. — Petri Bembi Hist. Venet., l. II, p. 24. — Summonte Ist. di Napoli, l. V, t. III, p. 539. — Giannone, l. XXXIII, c. 2, p. 621.
70. Summonte Ist. di Napoli, t. III, l. V, p. 540, ediz. in 4.º di Napoli, 1675.
71. Summonte dell'istoria del regno e città di Napoli, l. VI, c. I, p. 481, ediz. napolitana, in 4.º 1675.
72. Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. I, p. 20.
73. Phil. de Comines Mémoires, l. VII, c. V, p. 163.
74. Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. I, p. 20. — Franc. Guicciardini Ist., l. l, p. 34.
75. Ivi, p. 39.
76. Bulla Alex. ad regem Francorum 8 idus octob. 1494. — Raynaldi An. Eccl. § 16, t. XIX, p. 431.
77. Ann. Eccl Rayn., t. XIX, p. 432, § 21. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 39.
78. Stor. Veneta, t. XXIV, Rer. It. p. 8.
79. Rayn. An. Eccl., 1494, § 3-5, p. 417. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. I, p. 482.
80. Scip. Ammirato, l, XXVI, p. 197. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 28.
81. Ivi.
82. Ivi, p. 31.
83. Fr. Guicciardini, l. I, p. 38.
84. Ivi.
85. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 199.
86. Pauli Jovii Hist. sui tem., l. I, p. 24. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. I, p. 496.
87. Fr. Guicciardini, l. I, p. 55.
88. Fr. Guicciardini, l. I, p. 29. — Barth. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 539. — All. Allegretti Diar. Sanesi, t. XXIII, p. 829. — Stefano Infessura, Diar. Rom., p. 1252. — Con questo avvenimento chiude l'Infessura il suo curioso giornale, che in mezzo a molte novelle popolari ed a non poche maldicenze dipinge così bene il governo pontificio del 15.º secolo. Il Muratori lo pubblicò sopprimendo alcune cose, t. III, Rer. It. p. 1105. Eckard lo riprodusse tutto intero.
89. Fr. Guicciardini, l. l, p. 36.
90. Fr. Guicciardini, l. I, p. 35. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 24. — Phil. de Comines, l. VII, c. V, p. 164.
91. Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. I, p. 24. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 36. — Orl. Malavolti, p. III, l. VI, f. 98.
92. Barth. Senaregae de reb. Genuens., t. XXIV, p. 539. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 34.
93. Ub. Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 663. — Barth. Senaregae de reb. Genuens., p. 539. — Phil. de Comines, l. VII, c. V, p. 165.
94. Barth. Senaregae de reb. Gen., p. 542.
95. Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, c. V, p. 162.
96. Fr. Guicciardini, l. I, p. 37. — Fr. Belcarii, Comment. Rer. Gallic. l. V, p. 129.
97. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 199. — Uberti Folietæ Hist. Gen., l. XII, p. 664. — Giustiniani Ann. di Genova, l. V, f. 249.
98. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 25. — Franc. Guicciardini Ist., l. I, p. 37. — Bart. Senaregae de reb. Gen., p. 540. — Ub. Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 664.
99. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 26. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 44.
100. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p, 27.
101. Barth. Senaregae de reb. Genuens., t. XXIV, p. 542. — Mémoir. de Phil. de Comines, l. VII, c. VI, p. 168.
102. Barth. Senaregae de reb. Genuens., t. XXIV, p. 542.
103. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 28. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 44. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 199. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 17. — Belcarius Comm. Rer. Gall., l. V, p. 130.
104. P. Bembi Hist. Ven., l. II, p. 27. — Scip. Ammirato l. XXVI, p. 199. — Fr. Guicciardini l. I. p. 35.
105. Phil. de Comines, Mém., l. VII, ch. VI. p. 167 e nota p. 482.
106. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 29. — Fran. Guicciardini, l. I, p. 38. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 200. — Franc. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. V, p. 131. — Bern. Oricellarii de bello Italico, p. 26.
107. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 29.
108. Rosmini Ist. di Gian Giacopo Trivulzio, l. V, p. 214.
109. P. Jovii Hist. sui temporis, l. I, p. 30. — Fr. Guicciardini Ist. d'Italia, l. I, p. 48.
110. Phil. de Comines, l. VII, ch. V, p. 164.
111. Fr. Guicciardini, l. I, p. 40. — P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 22. — Bern. Oricellarii de bello Ital., p. 2.
112. Fr. Guicciardini, l. I, p. 42. — P. Jovii, l. I, p. 23. — Phil. de Comines, Mémoires, l. VII, ch. VI, p. 166.
113. Mém. de Louis de la Trémouille, ch. VIII, p. 145, l. XIV des Mém.
114. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 28.
115. Mém. de la Trémouille, ch. VIII, p. 146. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 46. — Belcarius Comment. Rer. Gall., l. V, p. 132.
116. Guichenon Hist. génér. de la maison de Savoie, t. II, p. 160-162.
117. Benvenuti de sancto Georgio Hist. Montis Ferrati, t. XXIII, p. 756.
118. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, ch. VI, p. 166. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 41.
119. Diar. Ferr., t. XXIII, Rer. Ital., p. 288. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 45. — Bern. Oricellarii de bello Ital., p. 34.
120. Josephi Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VI, p. 654. — Pauli Jovii Hist., l. I, p. 30.
121. P. Jovii, l. I, p. 30. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 45. — Scipione Ammirato, l. XXVI, p. 199. — Roscoe Vita di Leon X, c. 3, p. 186. — Arnoldus Ferrarien. Burdigal. de reb. Gall., l. I, p. 4.
122. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, ch. VII, p. 177. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 48. — Bernardi Oricellarii de bello Ital., p. 35.
123. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 50. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 6.
124. Lodov. Cavitellii Crem. Ann., t. III, Thesaur. Ant. Ital., p. 1469.
125. Fr. Guicciardini, l. I, p. 49. — P. Jovii Hist. sui temporis, l. II, p. 37. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VI, p. 655. — P. Bembi Hist. Ven., l. II, p. 27. — Navagero Stor. Ven., p. 1201. Ma questi attribuisce i sofismi a Lodovico e la resistenza al senato.
126. Barth. Senaregae de reb. Gen., p. 543. — Egli raggiunse il re a Villa, poco distante da Sarzana.
127. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 21.
128. Ciò accadde prima di abboccarsi col principe d'Orleans a Villa presso Sarzana. N. d. T.
129. Bern. Oricellarii de bello Ital., p. 37, ediz. Fior. in 4.º 1733 colla data di Londra.
130. Fr. Guicciardini, l. I, p. 47. — P. Jovii, l. I, p. 23.
131. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 202.
132. Fr. Guicciardini, l. I, p. 51. — Jac. Nardi Stor. Fior., l. I, p. 17.
133. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 31. — Barth. Senaregae de reb. Gen., p. 544. — Belcarii Rer. Gallic., l. V, p. 137.
134. Suppongo che debba dirsi Versilia, antica denominazione di questo littorale, sebbene nei posteriori secoli i marchesi di Lunigiana avessero esteso il loro dominio fino ai confini di Pietra Santa centro della Versilia. N. d. T.
135. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 198. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 32.
136. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 196. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 32. — P. Jovii Hist., l. l, p. 32. — Jac. Nardi Istor. Fior., l. I, p. 16.
137. Fr. Guicciardini Hist., l. I, p. 52. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 203. — Phil. de Comines Mémoir., l. VII, c. IX, p. 185.
138. Bern. Oricellarii de Bello Ital. Comment., p. 39.
139. Fr. Guicciardini Ist., l. I, p. 53. — P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 31. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 203. — Jac. Nardi Istor. Fior., l. I, p. 18. — Phil. de Comines, Mémoires, l. VII, c. IX, p. 185. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 6.
140. P. Jovii Hist., l. I, p. 31. — Jac. Nardi l, I, p. 15. — Phil. de Comines, l. VII, c. VI, p. 171.
141. Fr. Guicciardini, l. I, p. 54.
142. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 204. — Jac. Nardi, l. I, p. 21. — P. Jovii Hist., l. I, p. 32. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 55. — Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, c. X, p. 191. — Belcarii Comm. Rer. Gall., l. V, p. 138.
143. Ist. di Gio. Cambi Deliz. degli Erud., t. XXI, p. 78. — Diari Sanesi d'Allegr. Allegretti, t. XXIII, p. 833. — Bernardi Oricellarii de bello Ital., p. 41.
144. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 22. — Fr. Guicciardini Ist., l. I, p. 55.
145. Phil. de Comines, l. VII, ch. XI, p. 106. — B. Oricellarii, p. 42-52.
146. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 25. — P. Jovii Hist., l. I, p. 33. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 204. — Ist. di Gio. Cambi, p. 79.
147. Mémoires de Phil. de Comines, l. VIII, ch. VI, p. 172.
148. Vita del Savonarola, l. II, § VI, p. 68, dal compendio stampato delle sue rivelazioni.
149. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 23.
150. Dopo il 19 ottobre del 1406.
151. Machiavelli Discorsi sopra Tito Livio, l. II, c. 24 e 25, t. V, p. 374.
152. Le lagnanze de' Pisani per quest'oggetto sembrano smentite dall'Istituzione dell' Uffizio dei Fossi, magistratura sanitaria incaricata della cura de' canali fino dal 1477. Forse in allora il male cagionato ai Pisani da una bassa gelosia cominciava a rendersi sensibile a tutto lo stato.
153. Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. XII, p. 667. — Franc. Guicciardini Hist., l. II, p. 74.
Conviene risguardare come una conseguenza della desolazione cui fu ridotta Pisa il silenzio degli storici non solo durante la sua lunga servitù, ma ancora in tempo della contesa sostenuta con tanta generosità e costanza contro i Fiorentini, dopo avere scosso il loro giogo. Nella collezione del Muratori non trovasi veruno storico pisano dopo la metà del quattordicesimo secolo. Paolo Tronci, e quello che venne allegato sotto il nome di Marangoni, sono separatamente stampati e terminano ambidue la loro narrazione nel 1406, sebbene i loro autori vivessero nel diciassettesimo secolo. La casa Roncioni, a Pisa, conserva ne' suoi doviziosi archivj, tra molti curiosi diplomi, la cronica di Pisa, scritta da un canonico Raffaello Roncioni, e dedicata al gran duca Ferdinando II. Ma l'ammutinamento del 1494 non occupa che poche linee dell'ultima pagina di questa cronica. Nella cancelleria del comune conservasene un'altra, pure manoscritta, depostavi dall'autore Jacopo Arrosti il 26 aprile del 1655. L'ultima guerra di Pisa vi si trova trattata alquanto circostanziatamente, ma soltanto attenendosi al Guicciardini, a Giovio, a Nardi, ed agli storici fiorentini: non vi s'incontra nè un fatto nuovo, nè l'indicazione di verun monumento di origine pisana. Finalmente nello stesso archivio conservansi i registri dei signori anziani di Pisa; quelli d'ogni anno formano un volume. Vi si troverebbe, senza dubbio, in mezzo a molte inutilità, e ad affari privati, alcune curiose annotazioni per la storia particolare di Pisa; ma perchè quasi ogni seduta trovasi scritta con diverso carattere, e con infinite abbreviature, converrebbe assoggettarsi a troppo lungo e nojoso lavoro per imparare a leggere, indi ad un secondo assai più lungo lavoro per raccogliere le non molte cose degne di figurare nella storia.
154. Fr. Guicciardini, l. I, p. 56. — Mém. de Phil. de Comines, l. VII, ch. IX, p. 187. — Franc. Belcarii Comment., l. V, p. 139.
155. P. Jovii Hist. sui temp., l. I, p. 34.
156. P. Jovii Hist., l. I, p. 34. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 7.
157. P. Jovii Hist., l. I, p. 35. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 56. — Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, ch. IX, p. 189. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 204. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 18. — Alleg. Allegretti Diar. Sanese, p. 833.
158. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 203. — P. Jovii, l. II, p. 36.
159. P. Jovii Hist., l. II, p. 36. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 54. — Jac. Nardi, l. I, p. 19.
160. P. Jovii Hist., l. II, p. 37. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 54. — Phil. de Comines, l. VII, ch. VIII, p. 180.
161. Fr. Guicciardini, l. I, p. 67. — Jac. Nardi, l. I, p. 21.
162. Pauli Jovii, l. II, p. 35. — Belcarii Comm. Rer. Gall., l. V, p. 140.
163. Fr. Guicciardini, l. I, p. 39. — Bern. Oricellarii de bello Ital. Comment., p. 55.
164. Fr. Guicciardini, l. I, p. 58. — Jac. Nardi Ist., l. I, p. 25. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 36. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 80. — Andrè de la Vigne, Journal de Charles VIII dans Godefroy, p. 118.
165. Jac. Nardi Hist. Fior., t. I, p. 24.
166. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 25. — Bernardi Oricellarii Comment., p. 54. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 60. — Pauli Jovii, Hist. sui temp., l. II, p. 36. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 205.
167. Jac. Nardi Hist., l. I, p. 28. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 206. — Fran. Guicciardini, l. I, p. 61. — P. Jovii, l. II, p. 59. — Phil. de Comines, Mémoir., l. VII, c. IX, p. 197.
168. Fr. Guicciardini, l. I, p. 63.
169. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 39.
170. Fr. Guicciardini, l. I, p. 62. — Pauli Iovii Hist. sui temp., l. II, p. 40. — Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XII, p. 203. — Burchardi Diar. ap. Raynaldum, 1494, § 23, p. 434. — Alleg. Allegretti Diari Sanesi, p. 836.
171. Ivi, t. XXIII, p. 835. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 61. — Arnaldi Ferronii, l. I, p. 8.
172. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 39.
173. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XI, p. 197.
174. Fr. Guicciardini, l. I, p. 62.
175. Rayn. An. Eccl., 1494; § 26, t. XIX, p. 434.
176. Fr. Guicciardini, l. I, p. 62. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 40. — Bern. Oricellarii Comm., p. 61.
177. Fr. Guicciardini, l. I, p. 63. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 40.
178. Phil. de Comines, Mém. l. VII, ch. IX, p. 198.
179. Fr. Guicciardini, l. I, p. 71. — Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XII, p. 201.
180. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XII, p. 202.
181. Fr. Guicciardini, l. I, p. 63. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 40. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gallic., l. V, p. 143. — Rayn. Ann., 1494, § 30, p. 435. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 9.
182. Tutta questa descrizione si è tolta da Paolo Giovio, che senza dubbio trovavasi presente, l. II, p. 41. Si osservino ancora le Mémoires de Louis de la Trémouille, v. XIV, p. 148. — André de la Vigne presso Godefroi, p. 122.
183. P. Jovii Hist. sui temp. l. II, p. 40.
184. Fr. Guicciardini, l. I, p. 64. — Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XV, p. 219.
185. Detto ancora Zizim. N. d. T.
186. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 43. — Phil. de Comines, l. VII, c. XV, p. 221. — Rayn. ex Burchardi Diario, 1495, § 2, p. 438.
187. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 43.
188. Lettere de' principi, t. I. f. 4. Nella lettera riportata dal Burcardo leggesi 300,000.
189. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 44. — Burchardus in Diar., l. II, ap. Rayn., 1494, § 28, p. 435.
190. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 44. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 65.
191. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 47. — Ber. Oricellarii Com., p. 64. — P. Bembi Hist. Ven, l. II, p. 30. — Cron. di Venez., Anon., t. XXIV, Rer. Ital, p. 16. — Fr. Guicciardini, l, II, p. 85. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. II, p. 511.
192. P. Jovii Hist., l. II, p. 45. — Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XVI, p. 226.
193. Allegr. Allegretii Diari Sanesi, p. 858.
194. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 46. — Fr. Guicciardini Ist., l. II, p. 87. — Barth. Senaregae de rebus Genuens., t. XXIV, Rer. Ital., p. 545. — Fr. Belcarii Rer. Gal. l. VI, p. 149.
195. P. Jovii, l. II, p. 46.
196. Ivi, p. 47.
197. Fr. Guicciardini, l. I, p. 66. — P. Jovii Hist., l. II, p. 50. — Diar. Ferrar., p. 293. — Andrè de la Vigne, Journal dans Godefroy, p. 129. — Phil. de Comines, Mémoires, l. VII, c. XVI, p. 323.
198. Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XIII, p. 209.
199. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XIII, p. 206. — Si osservi il precedente c. LXXX, v. X, ed il c. LXXXIX, v. XI.
200. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 48.
201. Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XIII, p. 210.
202. Fran. Guicciardini, l. I, p. 66. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, p. 502.
203. Barth. Senaregae de rebus Genuens., t. XXIV, p. 546.
204. Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. I, p. 500. — Bern. Oricellarii Comm., p. 60.
205. P. Jovii, l. II, p. 49.
206. Fran. Guicciardini, l. II, p. 66. — Pauli Jovii, l. II, p. 49.
207. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XIV, p. 215. — P. Bembi Ist. Venez., l. II, p. 29. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 145. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. I, p. 500. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 9.
208. Barth. Senaregae de rebus Genuens., p. 546. Allegretto Allegretti Diari Sanesi, p. 839. — Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 291. — Il Guicciardini racconta la cosa diversamente. Pretende che Ferdinando non si trovasse in Napoli, e non sia stato neppure consultato nell'istante della rinuncia di suo padre.
209. Burchardi Diar. ap. Raynald. An. 1495, § 5 e 6, p. 440.
210. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 47. — Franc. Guicciardini Storia, l. I, p. 67. — Mém. de Phil. de Comines, l. VI, c. XV, p. 218. — Andrè de la Vigne, Journal de Charles VIII, in Godefroy, p. 130.
211. P. Jovii Hist., l. II, p. 50.
212. Fr. Guicciardini, l. I, p. 67. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 50. — Phil. de Comines Mém., l. VII, ch. XVI, p. 224. — Il re dormì a san Germano il 13 di febbrajo. André de la Vigne, Journal, p. 130.
213. P. Jovii, l. II, p. 51.
214. P. Bembi Stor. Ven., l. II, p. 29.
215. P. Jovii Ist., l. II, p. 51. — Il 19 di febbrajo secondo il Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. II, p. 511.
216. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 51. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 68. — Franc. Belcarii com. Rer. Gall., l. VI, p. 151. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 10. — Il nuovo biografo del Trivulzio, signor Rosmini, cerca di giustificare questa diserzione, l. V, p. 227; ed assicura che il Trivulzio ottenne un congedo da Ferdinando, prima di passare ai servigi del suo nuovo signore, ma ci sembra che non riesca a levare questa macchia al suo eroe.
217. P. Jovii Hist., l. II, p. 51. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 69.
218. Fr. Guicciardini, l. I, p. 70. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 52. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 14.
219. Fran. Guicciardini, l. I, p. 70. — Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. II, p. 52. — Belcarii Rer. Gallic., l. VI, p. 152. — Summonte l. VI, c. II, p. 513.
220. Fr. Guicciardini, l. I, p. 71. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 54. — Petri Bembi Hist. Ven., l. II, p. 30.
221. André de la Vigne, Journal de Charles VIII, p. 132. — Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 294. — Diar. Sanese Allegr. Allegretti, p. 480. — Rayn. An. Eccl. § 7, p. 440. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. II, p. 513.
222. Fran. Guicciardini, l. I, p. 71. — Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. II, p. 52. — Phil. de Comines, l. VII, c. XVI, p. 225. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. VI, p. 153. — Arnold. Ferronii, l. I, p. 11.
223. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 53. — Franc. Guicciardini Ist., l. II, p. 83. — Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, c. XVII, p. 231.
224. Fr. Guicciardini, l. II, p. 83. — P. Jovii Hist., l. II, p. 54. — Burchardi Diarium, ap. Raynald. Ann., 1495, § 7, p. 440.
225. P. Jovii, l. II, p. 54. — Phil. de Comines Mém., l. VII. c. XVI, p. 226.
226. P. Jovii, l. II, p. 55. — Petri Bembi Hist. Ven., l. II, p. 51.
227. Maria, madre e tutrice di Guglielmo Giovanni di Monferrato, era nipotina di Stefano, ultimo despota della Servia. Essa chiamò, nel 1486, Costantino Arianite, suo zio, alla sua corte, e questi cominciò da quel punto ad acquistare sull'animo di Maria un impero assoluto. Benvenuto de Sancto Georgio Hist. Montisferrati, t. XXIII, p. 756.
228. Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XVII, p. 232. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 86.
229. Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XIV, p. 212.
230. Phil de Comines Mém., l. VII, c. XVI, p. 226. — Fr. Guicciardini Ist., l. II, p. 84.
231. Barth. Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 547.
232. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XVI, p. 227.
233. Mém. de Phil de Comines, l. VII, c. XVII, p. 230.
234. P. Jovii Hist., l. II, p. 55. — Burchardi Diar. ap. Rayn. 1495, § 10, p. 442. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 154.
235. Phil. de Comines, l. VII, c. XVII, p. 228. — Franc. Guicciardini, l. II, p. 84. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 11.
236. Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XVII, p. 231. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 86. — Hist. de France par un gentilhomme du duc d'Angoulême, pubbliée par Denys Godefroy: Charles VIII, p. 103.
237. Fr. Guicciardini, l. II, p. 77.
238. Ivi, p. 80.
239. Vita di Girolamo Savonarola, l. II, c. 17, e seg. p. 85. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 29.
240. Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XVIII. p. 243.
241. Machiavelli disc. sopra T. Livio, l. I c. 5 e 6.
242. Comment. di Filippo Nerli, l. IV, p. 68.
243. Fil. de' Nerli. Comm., l. IV, p. 68.
244. Filippo de' Nerli Comment., l. IV, p. 49.
245. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 206. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 82.
246. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 206. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 82.
247. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 83.
248. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 207.
249. Fr. Guicciardini, l. II, p. 82.
250. Jac. Nardi Ist. Fior., l. I, p. 29.
251. Fr. Guicciardini, l. II, p. 83. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 34.
252. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 90.
253. Può vedersi l'enumerazione di tutte le varie magistrature di Pisa nel 1316, in un trattato di pace della repubblica con Roberto re di Napoli. Racc. di Diplomi Pisani di Flam. del Borgo, n.º 27, p. 237, e confrontarla con quelle che tuttavia esistevano il 6 dicembre del 1535. Ivi, 432.
254. Scipione Ammirato, l. XXVI, p. 207.
255. P. Jovii Hist., l. II, p. 58. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 33. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 73. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 208.
256. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 62.
257. Fr. Guicciardini, l. II, p. 74.
258. Diar. Sanese d'Allegr. Allegretti, p. 835.
259. Fr. Guicciardini, l. II, p. 75.
260. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 208.
261. Fr. Guicciardini, l. II, p. 77. — Jac. Nardi, l. II, p. 33. — Scipione Ammirato, l. XXVI, p. 209.
262. Dissert. sopra la stor. Lucchese. Diss. VIII, t. II, p. 218.
263. Fr. Guicciardini, l. II, p. 73.
264. Fr. Guicciardini, l. II, p. 73.
265. Barth. Senaregae de rebus Gen., t. XXIV, p. 548. — Agost. Giustiniani Comm. di Genova, l. V, f. 250.
266. Bart. Senaregæ de reb. Gen., p. 549. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 58. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 77.
267. Hieron. de Bursellis Ann. Bonon., t. XXIII, p. 912.
268. P. Jovii Hist., l. II, p. 58. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 211.
269. P. Jovii, l. II, p. 59.
270. Jac. Nardi delle Istor. Fior. l. II, p. 34.
271. Machiavelli Framm. Ist.
272. Allegr. Allegretti Diari Sanesi, p. 842. — Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 100. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 210.
273. Fr. Guicciardini, l. II, p. 89.
274. P. Jovii Hist., l. II, p. 60. — Jacopo Nardi Hist. Fior., l. II, p. 35. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 212.
275. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 61.
276. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 210.
277. Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 34.
278. Vita del P. Savonarola, l. II, § 14, p. 81. — Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. III, p. 270. — Jac. Nardi, l. II, p. 36.
279. Fr. Guicciardini, l. II, p. 86. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 31. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 56.
280. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 56. — Guicciardini, l. II, p. 87. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 31.
281. Phil de Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 244.
282. Ivi, p. 245.
283. P. Bembi 1st. Ven., l. II, p. 32. — Cron. Venez. attribuita a Marin Sanuto, t. XXIV, p. 16.
284. Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 248.
285. Phil. De Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 250. — Rayn. Ann. Eccl. 1495, § 13, p. 441.
286. Phil. de Comines, l. VII, c. XIX, p. 251. — P. Bembi 1st. Ven., l. II, p. 33.
287. Convien dire che il Comines parli del castello di Napoli. N. d. T.
288. Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XX, p. 252.
289. Mém. de Phil. de Comines l. VII, c. XX, p. 254. — Non trovansi meno di sei lettere scritte dal 14 al 20 aprile dal duca d'Orleans al duca di Borbone per chiedergli soccorsi. Sono riportate da Dionigi Godefroy Hist. de Charles VIII, p. 70.
290. P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 32. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 210. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 17.
291. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XX, p, 256. Nel trasportare questo ed il precedente testo di questo antico storico, ho cercato di non perdere quel carattere d'ingenuità e di buonomia che ha l'originale. — Arnoldi Ferroni de Gestis Franc., l. I, p. 12.
292. P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 30.
293. Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 299. — Rayn. Ann. Eccl. 1495, § 14, t. XIX, p. 441.
294. Fr. Guicciardini l. II, p. 88. — P. Jovii, l. II, p. 56. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 32. — And. Navagero Stor. Ven., t. XXIII, p. 1204. — Fr. Belcarii Comm. rer. Gallic., l. VI, p. 157.
295. P. Jovii Hist., l. II, p. 56.
296. È nell'articolo III del trattato di Perpignano che trovasi quest'obbligazione, ma per altro senza nominare il re di Napoli. I re di Spagna si obbligano soltanto a preferire l'alleanza della Francia: Aliis quibuscumque ligis et confederationibus factis, vel faciendis, cum quocumque principe, vel principibus, Vicario Christi excepto. Den. Godefroy Hist. de Charles VIII, p. 664.
297. Fr. Guicciardini, l. II, p. 87.
298. P. Jovii, l. II, p. 56. — And. Navagero, t. XXIII, p. 1202.
299. Fr. Guicciardini, l. II. p. 88.
300. Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. XXVII, t. V, p. 369.
301. Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 298.
302. Diar. Ferrar., p. 302.
303. Fr. Guicciardini, l. II, p. 89. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 210.
304. P. Jovii, l. II, p. 56.
305. Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XX, p. 259.
306. Ivi, p. 260.
307. Fr. Guicciardini, l. II, p. 89. — Mém. de Phil. de Comines, l. II, c. XVII, p. 230.
308. Mémoires de Phil. de Comines, l. VII, c. XVI, p. 226.
309. Ivi, p. 262. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gallic., l. VI, p. 155.
310. Fr. Guicciardini, l. II, p. 89.
311. Fr. Guicciardini, l. II, p. 90.
312. Fr. Guicciardini, l. II, p. 90. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 156.
313. André de la Vigne, Journal de Charles VIII, dans Denys Godefroy, p. 147. — Fr. Belcarii Rer. Gallic., l. VI, p. 159.
314. Fr. Guicciardini, l. II, p. 93.
315. Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. I, p. 264.
316. P. Jovii Hist., l. II, p. 57. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VI, p. 160. — Arnoldi Ferroni, l. I, p. 13.
317. Fr. Guicciardini, l. II, p. 91. — Fr. Belcarii, l. VI, p. 160.
318. Fr. Guicciardini, l. II, p. 91. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 47. — Phil. de Comines, Mém., l. VIII, c. II, p. 266.
319. P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 57.
320. Fr. Guicciardini, l. II, p. 94. — André de la Vigne, Journal de Charles VIII, p. 150. — Ber. Oricellarii de bello Ital., p. 73. — An. Navagero Stor. Ven., t. XXIII, p. 1204. — P. Bembi, l. II, p. 33.
321. Fr. Guicciardini, l. II, p. 94.
322. P. Jovii Hist., l. II, p. 37. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 94. — André de la Vigne, Journal, p. 151. — P. Bembi Hist. Ven., l. II, p. 34. — An. Eccl. Raynald, 1495, § 22 e 23, p. 444. — Arnoldi Ferronii, l. I, p. 14.
323. Phil. de Comines Mémoires, l. VIII, c. II, p. 267.
324. Orl. Malavolti stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 101. — Alleg. Allegretti Diari Sanesi, p. 847.
325. Or. Malavolti, p. III, l. VI, f. 101. — Fr. Guicciardini, l. II, p, 95. — Mém de Phil, de Comines, l. VIII, c. II, p. 269. — Alleg. Allegretti Diarii Sanesi, p. 849 e 853.
326. Fr. Guicciardini, l. II, p. 95. — Phil. de Comines Mém., l. VIII, c. II, p. 268.
327. Lettere di Pietro Delfino ad Agostino Barbadigo doge di Venezia, del 7, 17 e 21 giugno. Rayn. An. Eccl., t. XIX, p. 444, § 24-26. — Bern. Oricellarii Comm., p. 75.
328. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 213.
329. Fr. Guicciardini, l. II, p. 98. — Vita del P. Savonarola, l. II, § 15, p. 82. — Mém. de Comines, l. VIII, c. III, p. 270. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 214.
330. Fr. Guicciardini, l. II, p. 99. — Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. IV, p. 273. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 61. — Arn. Ferronii de reb. ges. Gallor., l. I, p. 14. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 215. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 164. — André de la Vigne, Journal de Charles VIII, p. 154.
331. Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. IV, p. 274.
332. Ivi, c. II, p. 267.
333. Fr. Guicciardini, l. II, p. 96.
334. P. Jovii Hist. sui tem., l. II, p. 62. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 97. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. VI., p. 162. — Arnoldi Ferroni, l. II, p. 20.
335. Fr. Guicciardini, l. II, p. 97. — P. Jovii Hist., l. II, p. 63. — Phil. de Comines, l. VIII, c. IV, p. 276. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 162.
336. André de la Vigne, Journal de Charles VIII, p. 154.
337. Agost. Giustiniani Ann. di Genova, l. I, p. 251. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 99 e 111. — P. Jovii Hist., l. II, p. 63, e l. III, p. 76. — Phil. de Comines, l. VIII, c. V, p. 279. — Barthol. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 556. — Uberti Folietae, l. XII, p. 670.
338. Fr. Guicciardini, l. II, p. 99. — Phil. de Comines Mém., l. VIII, c. V, p. 282. — Ar. Ferroni, l. I, p. 15.
339. Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. VII, p. 287. — Journal de Charles VIII, par André de la Vigne, p. 155.
340. P. Bembi Hist. Ven., l. II, p. 35. — Phil. de Comines, l. VIII, c. V.
341. Fran. Guicciardini, l. II, p. 100. — Pauli Jovii Hist. sui temporis, l. II, p. 64.
342. Fr. Guicciardini, l. II, p. 100. — Phil. de Comines, l. VIII, c. VII, p. 289. — Petri Bembi Hist. Ven., l. II, p. 36.
343. Phil. de Comines, l. VIII, c. II, p. 267.
344. P. Jovii, l. II, p. 65. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 101. — Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. IX, p. 295. — Fr. Belcarii, l. VI, p. 167. — Bern. Oricellarii de Bello Ital., p. 77.
345. Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. IX, p. 298.
346. Fr. Guicciardini, l. II, p. 101.
347. Mém. de Comines, l. VIII, c. IX, p. 299. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 102.
348. Mém. de Comines, l. VIII, c. X, p. 305.
349. Andrè de la Vigne Journal de Charles VIII, p. 158. — Phil. de Comines, l. VIII, c. XI, p. 307. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 103. — P. Jovii, l. II, p. 68. — Arn. Ferronii, l. I, p. 16.
350. Fr. Guicciardini, l. II, p. 104. — P. Jovii, l. II, p. 69. — Barth. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 554. — P. Bembi, l. II, p. 38. — An. Navagero Stor. Venez., p. 1205.
351. De Comines Mém., l. VIII, chap. XI, p. 308. — P. Jovii Hist. sui tem., l. II. p. 68.
352. Mémoir. de Comin., l. VIII, chap. XI, p. 309. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 105. — P. Jovii, l. II, p. 71. — P. Bembi, l. II, p. 38.
353. Mémoir. de Comines, l. VIII, chap. XII, p. 313.
354. Phil. de Comines Mém., l. VIII, ch. XII, p. 318. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 107. — Pauli Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 72. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VI, p. 169. — An. Ferroni, l. I, p. 17.
355. Rosmini Ist. di Gio. Giacomo Trivulzio, l. VI, p. 250. — Frane. Guicciardini, l. II, p. 107. — P. Jovii, l. II, p. 73. — André de la Vigne, Jour. de Charles VIII, p. 166. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 38. — Bern. Oricellarius, p. 75-83. Ma questi, per tenere uno stile più classico, sopprime tutte le circostanze che aggiugnerebbero verità al suo racconto.
356. Fr. Guicciardini, l. II, p. 107. — Phil. de Comines, l. VIII, ch. XII, p. 315.
357. Fr. Guicciardini, l. II, p. 109. — Mém. de Comines, l. VIII, c. XII, p. 318. — P. Jovii, l. II, p. 72 e 74. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 38.
358. Fate buona guardia.
359. Phil. de Comines, l. VIII, c. XIII, p. 322. — André de la Vigne, Journ. de Charles VIII, p. 166 — P. Jovii, l. II, p. 75.
360. Mém. de Comines, l. VIII, p. 328.
361. Journ. d'André de la Vigne, p. 167.
362. Phil. de Comines, l. VIII, chap. XIII, p. 330. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 110. — André de la Vigne, Journal, p. 168.
363. Mém. de Comines, l. VIII, chap. XIII, p. 332.
364. Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. XIV, p. 334. — Bern. Oricellarii de bello Italico, p. 86.
365. Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XIV, p. 337. — André de la Vigne Journal des Charles VIII, p. 170. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 111. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 76.
366. Phil. de Comines, l. VIII, c. XIV, p. 338. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 111. — P. Bembi, l. II, p. 41. — P. Jovii, l. III, p. 93. — Bern. Oricellarii Comm., p. 87.
367. Phil. de Comines, l. VIII, c. XV, p. 339. — Partì il giorno 15 di agosto. André de la Vigne, p. 172.
368. «Senza scomporsi, tossire, nè sputare, nè variare in verun modo, dice Andrea della Vigna,» Journal de Charles VIII, p. 171. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 118. — P. Jovii, l. III, p. 93.
369. Fr. Guicciardini, l. II, p. 118. — P. Jovii, l. III, p. 95. — Fr. Belcarii Comm. l. VII. p. 181. — Ber. Oricellarii, p. 88.
370. Phil. de Comines, l. VIII, c. XVI, p. 345. — Arn. Ferroni, l. II, p. 21.
371. Phil. de Comines, Mém., l. VIII, c. XVI, p. 346. — P. Jovii, l. III, p. 97. — Fr. Belcarii Comm., l. VII, p. 183.
372. Fr. Guicciardini, l. III, p. 118. — P. Jovii Hist., l. III, p. 96.
373. Phil. de Comines, l. VIII, c. XVI, p. 350. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 122. — Fr. Belcarii Rer. Gall., l. VII, p. 184.
374. P. Jovii, l. III, p. 97.
375. Fr. Guicciardini, l. II, p. 123. — Phil. de Comines, Mém., l. VIII, c. XVI, p. 357.
376. Phil de Comines Mém., l. VIII, c. XVII, p. 360.
377. Phil. de Comines, l. VIII, c. XVII, p. 363. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 123. — P. Jovii, l. III, p. 97. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VII, p. 186.
378. Fr. Guicciardini, l. II, p. 123. — Phil. de Comines, l. VIII, c. XVII, p. 364.
379. Ber. Oricellarii Comm. de Bello Ital., p. 89.
380. Lo stesso Trattato in 46 articoli viene riportato da Dionigi Godefroy, Observations sur l'Hist. de Charles VIII, p. 722, 727. — Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. XVIII, p. 366. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 124. — André de la Vigne, Journal, p. 186. — Chron, Ven., t. XXIV, p. 28. — P. Jovii Hist., l. III, p. 98. — Ber. Oricellarii Somm., p. 91. — Ant. Ferroni, l. II, p. 22.
381. Phil. de Comines Mém., l. VIII, c. XVIII, p. 369.
382. Fr. Guicciardini, l. II, p. 129.
383. André de la Vigne, Journal de Charles VIII, p. 187. — Questo scrittore chiude il suo giornale coll'ingresso del re in Lione il 7 novembre del 1495, p. 189. Costui era segretario di Anna di Bretagna, ed era per espressa volontà e comando del re ch'egli scriveva questa narrazione. È ingenua e talvolta dilettevole, ma spesse volte adula il re o la vanità de' suoi compatriotti, senza punto curarsi della verità.
384. Bart. Senaregæ de Reb. Genuens., l. XXIV, p. 558.
385. Guicciardini, l. II, p. 130. — Fr. Belcarii, l. VII, p. 189. — L'imperatore Massimiliano, persuadendosi che questa malattia fosse una conseguenza delle bestemmie che spesse volte pronunciavano le persone dissolute ne' postriboli, in tale occasione pubblicò in Worms, il 7 agosto del 1495, un editto severissimo contro i bestemmiatori. Extat ap. Raynal., t. XIX, p. 446, § 39, 40 e 41. — Agost. Giustiniano Ann. di Genova, f. 253. Sembra che allora niuno sapesse ancora la maniera con cui questa malattia si comunica.
386. P. Jovii de vita Magni Consalvi Cordabensis, l. I, p. 176, edit. Flor. in fol. 1551.
387. Fr. Guicciardini, l. II, p. 112. — P. Jovii, l. III, p. 79. — Summonte delle Ist. di Napoli, l. VI, c. II, p. 516.
388. P. Jovii vita Magni Consalvi, l. I, p. 176. — Fr. Guicciardini, l. II. p. 112. — P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 80. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 175.
389. P. Jovii Hist., l. III, p. 80. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 114. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 47.
390. Ber. Oricellarii Com., p. 93. — P. Jovii Hist., l. III, p. 81. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 45. — Fr. Belcarii, l. VI, p. 176.
391. P. Jovii de vita Gonzalvi, l. I, p. 177.
392. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 84.
393. P. Jovii, l. III, p. 84. — Id. vita Cons., l. I, p. 178. — Fr. Belcarii Comm., l. VI, p. 176.
394. Mém. de Grill. de Villeneuve, t. XIV, p. 64. — P. Jovii, l. III, p. 85. — Idem, vita Consalvi, l. I, p. 179. — Fr. Guicciardini, l. I, p. 112. — Ber. Oricellarii de Bello, Ital., p. 92. — Summonte Stor. di Napoli, l. VI, c. II, p. 516.
395. Fr. Guicciardini, l. II, p. 113. — P. Jovii vita Magn. Cons., l. I, p. 180. — Fr. Belcarii l. VI, p. 177.
396. Fr. Guicciardini, l. II, p. 113. — P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 86. — Bern. Oricellarii, p. 98.
397. P. Jovii, l. III, p. 86. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 113. — Summonte, Ist. di Napoli, l. VI, c. II, p. 519.
398. P. Jovii Hist., l. III, p. 88. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 114. — Bern. Oricellarii Comm., p. 102.
399. P. Jovii Hist., l. III, p. 91. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 115. — Bern. Oricellarii Comm., p. 107. — Summonte, l. VI, c. II, p. 620.
400. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 92. — F. Guicciardini, l. II, p. 115.
401. Ber. Oricellarii Comm., p. 107.
402. Fr. Guicciardini, l. II, p. 115. — P. Jovii, l. III, p. 111. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VI, p. 178.
403. P. Jovii, l. III, p. 111. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 116.
404. P. Jovii, l. III, p. 112.
405. Ivi, p. 113. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 116. — Fr. Belcarii Com. l. VI, p. 139.
406. P. Jovii Hist., l. III, p. 114. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 116.
407. P. Jovii, l. III, p. 116. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 116.
408. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 118.
409. Castel Nuovo l'8 di dicembre, e quello dell'Uovo il 17 di febbrajo. P. Jovii Hist. sui temp., l, III, p. 119. — Fr. Guicciardini, l. II, p. 116. — Chron. Venet., t. XXIV, p. 31-34. — Alleg. Allegretti, p. 834. — Mém. de Guille de Villeneuve, t. XIV. p. 47.
410. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 216. — P. Delphini, l. IV, ep. 47 ap. Rayn. Ann. 1495, § 32, t. XIX. — P. Jovii, l. III, p. 100. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 135. — Jac. Nardi, l. II, p. 42.
411. Fr. Guicciardini, l. II, p. 120.
412. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 218. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 134.
413. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 219. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 134. — P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 101. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gallic., l. VII, p. 190. — Chron. di Pisa di Jacopo Arrosti in archiv. Pisano, f. 205, verso.
414. Fr. Guicciardini, l. III, p. 133. — P. Jovii Hist. Fior. l. III, p. 102.
415. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 104. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 135. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 43.
416. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 106.
417. Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 220. — P. Jovii, l. III, p. 107.
418. P. Jovii, l. III, p. 108. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 93.
419. Allegr. Allegretti Diar. San., t. XXIII, p. 853. — Bar. Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 558. — P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 108. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 224. — Fr. Guicciardini., l. III, p. 141 e 147. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 45. — Fr. Belcarii Comm., l. VII, p. 192.
420. Jac. Nardi, l. II, p. 41.
421. Fr. Guicciardini, l. III, p. 136. — Jac. Nardi, l. II, p. 46. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 121. — Allegr. Allegretti Diar. San., t. XXIII, p. 854. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VII, p. 192.
422. Fr. Guicciardini, l. III, p. 137. — Machiavelli Disc. sopra Tito Livio, l. III. — Allegr. Allegretti, p. 853.
423. Fr. Guicciardini, l. III, p. 138. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 46. — P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 121.
424. P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 121.
425. Phil. de Comines, l. VIII, c. XIX, p. 373. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 141.
426. Fr. Guicciardini, l. III, p. 140. — P. Jovii, l. IV, p. 123.
427. P. Jovii Hist., l. IV, p. 122. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 151. — P. Bembi Hist. Ven., l. III, p. 51. — And. Navagero Stor. Venez., p. 1207. — Cron. Venez., t. XXIV, p. 31.
428. P. Jovii, l. IV, p. 124. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 150.
429. P. Jovii, l. IV, p. 125. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 151.
430. P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 127. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 151.
431. P. Jovii, l. III, p. 128. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 151.
432. Fr. Guicciardini, l. III, p. 152. — Fr. Belcarii Comm. rer. Gall., l. VII, p. 195.
433. Fr. Guicciardini, l. III, p. 155. — Fr. Belcarii Rer. Gall., l. VII, p. 196. — Chron. Ven., p. 34.
434. Fr. Guicciardini, l. III, p. 157. — P. Jovii, l. IV, p. 130. — Ejusdem Vita M. Consalvi, l. I, p. 181. — Fr. Belcarii Comm., l. VII, p. 197.
435. P. Jovii, l. IV, p. 130.
436. Fr. Guicciardini, l. III, p. 158. — Fr. Belcarii Comm., l. VII, p. 198.
437. Pauli Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 132.
438. P. Jovii, l. IV, p. 133. — Ejusd. vita M. Consalvi, l. I, p. 182. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 159.
439. P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 133. — Vita M. Consalvi, l. I, p. 183.
440. P. Jovii, l. IV, p. 135.
441. Fr. Guicciardini, l. III, p. 160. — P. Jovii, l. IV, p. 136. — P. Bembi hist. Ven., l. III, p. 56. — Allegr. Allegretti, p. 857. — Fr. Belcarii Comm., l. VII, p. 199.
442. P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 56.
443. Fr. Guicciardini, l. III, p. 161. — P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 137. — Eius. Vita M. Consalvi, l. I, p. 183. — Fr. Belcarii, l. VIII, p. 200. — Arn. Ferroni, l. II, p. 24.
444. Fr. Guicciardini, l. III, p. 161. — P. Jovii, Hist. sui temp., l. IV, p. 137. — Mém. de Guill. de Villeneuve, t. XIV, Mém. p. 82.
445. Fr. Guicciardini, l. III, p. 161. — P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 138. — P. Bembi, l. III, p. 57. — Summonte Storia di Napoli, l. VI, c. II, p. 523. — Giannone Ist. civ. del regno di Napoli, l. XXIX, c. II, p. 676. — Burchardi Diar., l. II apud Raynaldum An. Eccl. 1496, § 13, p. 452. — Chron. Venet., t. XXIV, p. 39. — Fr. Belcarii Comm. ver. Gall., l. VII, p. 201.
446. P. Bembi Hist. Ven., l. III, p. 57.
447. Fr. Guicciardini, l. III, p. 175.
448. P. Jovii Hist. sui temp., l, IV, p. 138.
449. P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 139. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 172.
450. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 108.
451. P. Jovii Hist. sui temp., l. III, p. 102. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 146. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 227.
452. Fr. Guicciardini, l. III, p. 142.
453. Fr. Guicciardini, l. III, p. 142.
454. Scip. Ammirato, l. XVII, p. 227. — Machiavelli Framm. Ist., t. III, p. 35.
455. Fr. Guicciardini, l. III, p. 143.
456. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 227. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 165. — Machiavelli Framm. Istor., t. III, p. 37. — P. Bembi Istor. Ven., l. III, p. 59.
457. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 236. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 143. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 165.
458. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 230. — Machiavelli Framm., p. 39.
459. Fr. Guicciardini, l. III, p. 147.
460. Fr. Guicciardini, l. III, p. 154. — P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 142.
461. Andr. Navagero Stor. Ven., t. XXIII, p. 1207. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 61. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 163. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 143.
462. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 232. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 167. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 48.
463. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 233. — Machiavelli Framm., p. 46.
464. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 234. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 167. — Machiavelli Framm. Istor., t. III, p. 52. — P. Bembi Histor. Ven., l. III, p. 63.
465. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 233. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 166. — P. Jovii, l. IV, p. 144. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 97. Il solo Machiavelli sembra fare poco conto del Capponi, che accusa d'instabilità. Framm. Istor., l. III, p. 44.
466. P. Jovii Hist. sui temp., l. IV, p. 145. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 163.
467. Fr. Guicciardini, l. III, p. 163. — Bart. Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 561.
468. Fr. Guicciardini, l. III, p. 164. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 235.
469. Fr. Guicciardini, l. III, p. 168. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 234. — Machiavelii Framm. Istor., t. III, p. 50.
470. Fr. Guicciardini, l. III, p. 169. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 145.
471. P. Jovii Hist., l. IV, p. 145.
472. Ivi, p. 146. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 170.
473. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 255. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 98. — Machiavelli Framm. Istor., t. III, p. 54.
474. Fr. Guicciardini, l. III, p. 170.
475. P. Jovii Hist., l. IV, p. 146. — Scip. Ammirato, t. XXVII, p. 236.
476. Machiavelli Framm. Ist., t. III, p. 55. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 237. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 146. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 171.
477. Massimiliano scrisse o fece scrivere una specie di romanzo allegorico, Der Alte Weisse Kunig, nel quale sotto finti nomi celebra le proprie imprese. Non isfugge il rimprovero d'inventare quasi tutto ciò che racconta in sua lode, che coll'estrema confusione della sua narrazione, che spesso impedisce di svelarne la falsità. Per modo d'esempio, parlando della presente spedizione di Livorno, dice che, sebbene la sua truppa ricevesse danno dalla burrasca, assai più soffrirono i suoi nemici, che videro andare a picco sei de' loro vascelli, ed i loro equipaggi sommersi o fatti prigionieri; che la perdita loro ammontò a più di due mila uomini quasi tutti Francesi. Erster Tail, p. 201. Ma di tutte queste circostanze, narrate con un linguaggio enimmatico, non avvene una sola di vera. Vedasi Fr. Guicciardini, l. III, p. 171.
Il giornale di Siena di Allegretto Allegretti finisce all'arrivo dell'imperatore a Pisa. Il suo autore è un uomo del volgo assai ignorante, cattivo critico e peggiore politico: ma perchè scrive a giorno per giorno ci offre con sufficiente esattezza le date degli avvenimenti, e fa conoscere quale sensazione facevano sull'animo del pubblico nello stesso istante. È stampato tra gli Scriptores Rer. Ital. del Muratori, t. XXIII, p. 765-860.
478. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 237. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 171. — Machiavelli Framm. Stor., t. III, p. 57. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 64.
479. Ann. Eccl. Rayn. 1496, § 16, p. 452.
480. Burchardi Diar. ap. Rayn. 1496, § 18, p. 453.
481. P. Bembo, l. IV, p. 77. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 173.
482. Pauli Jovii, l. IV, p. 147.
483. Fr. Guicciardini, l. III, p. 174. — P. Jovii, l. IV, p. 149.
484. Machiavelli Framm. Stor., p. 63. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 175. — P. Jovii Hist., l. IV, p. 150. Qui finiscono i primi quattro libri di Paolo Giovio: il manoscritto de' sei susseguenti si perdette nel sacco di Roma, e più non fu trovato. La storia ricomincia nell'undicesimo col pontificato di Leon X; ma questa seconda parte cede di molto alla prima per l'imparzialità o sia veracità.
485. Franc. Guicciardini, l. III, p. 172. — Machiavelli Framm. Stor., p. 58. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 42. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 65.
486. Fr. Guicciardini, l. III, p. 176. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 43. — Arnoldi Ferroni Rer. Gallic., l. II, p. 30.
487. Fr. Guicciardini, l. III, p. 178.
488. Fr. Guicciardini, l. III, p. 178. — And. Navagero Stor. Ven., t. XXIII, p. 1201. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 44. — P. Bembi, l. IV, p. 69.
489. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 238.
490. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 239. — Commentari di Ser Fil. de' Nerli, l. IV, p. 70.
491. Fr. Guicciardini, l. III, p. 179. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 239.
492. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 240. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 180. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 59. — Comm. di Fil. Nerli, l. IV, p. 71. — Machiavelli Framm. Istor., t. III, p. 65.
493. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 242. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 65. — Gio. Cambi Ist. Fior., t. XXI, p. 106. — Comm. di Fil. de' Nerli, l. IV, p. 72. — Machiavelli Framm., p. 95.
494. Scip. Ammirato, l XXVII, p. 242. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 66. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 111. — Comm. di Fil. de' Nerli, l. IV, p. 73.
495. Chron. Venetum, t. XXIV, p. 44.
496. Fr. Guicciardini, l. III, p. 182. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 241. — Jac. Nardi, l. II, p. 65. — Machiavelli Estratti di Lettere e Diari di Balìa, t. III, p. 93. — Burchardi Diar. apud Raynald. Ann. Eccl. 1497, § 4, p. 461.
497. Lettere di Pietro Delfino di Firenze a Pietro Barrozzi vescovo di Padova. Ap. Raynald., Ann. Eccl. 1496, § 41, t. XIX, p. 460.
498. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 241. — Jac. Nardi, l. II, p. 62. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 105. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 7, p. 253.
499. Jac. Nardi, l. II, p. 62. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 12, p. 264.
500. Ann. Eccl. 1497, § 16, p. 463. — Lettere del papa al convento di san Marco, e risposte di Savonarola. Ivi, § 17-28, p. 465.
501. Lutheri Opera, v. II, p. 320. — È palese l'intenzione dell'autore di trovare conformità tra Savonarola e Lutero. Tutti sanno cosa debba pensarsi dell'ultimo, ma le opinioni intorno al Savonarola sono ancora incerte. N. d. T.
502. Vita del Savonarola, l. IV, c. 10, p. 261, e c. 14, p. 266.
503. Jac. Nardi, l. II, p. 69. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 18, p. 278.
504. Jac. Nardi, l. II, p. 57 e 71. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 5, p. 247.
505. È noto che in questa circostanza perirono tra le fiamme diverse opere in prosa ed in verso, che più non si ebbero, e diverse egregie pitture de' grandi maestri che allora fiorivano in Toscana e fuori. N. d. T.
506. Jac. Nardi, l. II, p. 57 e 71. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 5, p. 247.
507. Jac. Nardi, l. II, p. 72. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 6, p. 251. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 245. — Comm. del Nerli, l. IV, p. 76.
508. Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 23, p. 283.
509. Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 27, p. 288.
510. Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 74.
511. Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 71. — Ist. di Gio. Cambi, l. XXI, p. 115. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 245. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 189. — Raynal. Ann. Eccl. 1498, § 12 e 13, p. 472. — Comm. di Fil. de' Nerli, l. IV, p. 78. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 29-32, p. 290.
512. Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 76. — Ist. di Gio. Cambi, l. XXI, p. 119. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 246. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 34-40, p. 298.
513. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 121. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 77-82. — Comm. di Filippo de' Nerli, l. IV, p. 79. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 42, p. 310.
514. Jac. Nardi Ist., l. II, p. 79. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 43, p. 311.
515. Jac. Nardi, l. II, p. 80. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 126.
516. Jac. Nardi, l. II, p. 81. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 44, p. 312.
517. Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 82. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 127. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 247. — F. Guicciardini, l. III, p. 190. — P. Delphini, l. V, Epist. 73, ap. Raynald. 1498, § 18, p. 473. — Vita del P. Savonarola, l. IV, c. 49. p. 326. — Comm. del Nerli, l. IV, p. 81. — Mém. de Phil. de Comines, l. VIII, c. XXVI, p. 433.