CAPITOLO XCIX.
Negoziazioni di Lodovico XII in Italia. — Continuazione della guerra di Pisa; questa città, abbandonata dai Veneziani, continua a difendersi. — I Francesi conquistano il ducato di Milano. — Lodovico Sforza vi rientra dopo cinque mesi, ma per tradimento degli Svizzeri è fatto prigioniere a Novara.
1498 = 1500.
Nell'istante in cui il Savonarola, abbandonato dal favore popolare, vedeva cambiarsi in accuse contro di lui quelle rivelazioni con cui aveva in Firenze pasciuti i suoi seguaci, pareva che la più importante sua profezia avesse adesso compimento. Aveva predetto a Carlo VIII che Dio lo aveva scelto per liberare l'Italia dai suoi tiranni e per riformare la Chiesa; dopo ciò mai non aveva lasciato di rimproverargli a nome del cielo irritato la lentezza sua nell'esecuzione di questa grand'opera, e di minacciargli un esemplare gastigo. Il Savonarola aveva cercato di far risguardare come principio di tale gastigo la successiva morte di due delfini, che Carlo VIII perdette in tenera età; ma un nuovo gastigo, diceva egli, minacciava tuttavia il monarca abbandonato in preda ai piaceri, e nello stesso giorno in cui doveva fare sulla piazza di Firenze la terribile prova della sua dottrina, mandando il suo discepolo, Domenico Buonvicini, in mezzo alle fiamme, il 7 aprile del 1498, vigilia della domenica delle Palme, Carlo VIII fu colpito da apoplessia nel suo palazzo d'Amboise, e non si potendo trasportare fuori della galleria in cui allora si trovava, passaggio lordo d'immondezze ed il più indecente luogo di quel palazzo, dice il Comines, fu steso sopra un letto di paglia, ove morì entro nove ore[1].
Carlo VIII non lasciava figli, e la sua corona passava al duca d'Orleans il più vicino principe del sangue. Era questi nato a Blois, il 27 di giugno del 1462; era figlio di Carlo, nipote di Lodovico, lo sposo di Valentina Visconti e pronipote di Carlo V. Questo principe quantunque genero di Lodovico XI, ed il più prossimo erede del trono aveva passati i suoi giorni fra le sciagure; si era più volte fatto capo dei partiti malcontenti della Francia, aveva a vicenda sofferti i mali della prigionia e dell'esilio, ed aveva dalla fortuna avuta la sola educazione, che possa far conoscere ai re la condizione degli altri uomini. Era giunto ai trentasei anni quando salì sul trono sotto il nome di Lodovico XII, e sebbene non fosse provveduto di una mente assai vasta e capace di lunga applicazione, sebbene avesse manifestata la propria debolezza col continuato bisogno di un favorito; non pertanto ispirava agli stati limitrofi maggiore considerazione e timore assai che non Carlo VIII, di cui ne avevano conosciuta l'instabilità e l'inapplicazione[2].
Ma più che a tutt'altri, salendo sul trono Lodovico XII, poteva incutere timore agl'Italiani. Egli aveva sempre cercato di far valere i diritti sul ducato di Miliano di sua ava, Valentina Visconti. Affinchè questi pretesi diritti fossero valutabili sarebbe stato necessario che la sovranità di Milano stata fosse uno stato necessariamente ereditario di padre in figli, e non già una signoria italiana, nella quale il diritto del principe non aveva verun altro fondamento fuorchè il presunto assenso del popolo; sarebbe stato inoltre necessario che questa eredità potesse cadere in una femmina, lo che non era meno contrario al diritto pubblico francese che all'italiano. Carlo, duca d'Orleans, padre di Lodovico XII, ora prigioniero de' francesi, ora capo di parte nelle guerre civili della Francia, non aveva potuto fare colle armi esperienza de' suoi diritti, ed era morto lasciando suo figliuolo in età di tre anni. Intanto Lodovico XI si era collegato cogli Sforza; Carlo VIII aveva conservata la medesima alleanza, e lungi dall'appoggiare le pretese di suo cugino sul ducato di Milano, allorchè fece l'impresa d'Italia, aveva più che in tutt'altro riposte le sue speranze nell'ajuto di Lodovico il Moro, figliuolo di Francesco Sforza. Dopo avere sperimentata la mala fede di questo principe, non aveva pure valuto privarlo d'ogni speranza di riconciliazione, mentre nello stesso tempo si era invece dato a conoscere diffidente e geloso del duca d'Orleans, allorchè questi, dimorando in Asti, aveva minacciato d'invadere il Milanese. Ma montando sul trono Lodovico XII, non tardò a manifestare l'intenzione di far valere le pretese che non gli si era permesso per tanto tempo di mandare ad effetto. Al titolo di re di Francia aggiunse quelli di duca di Milano e di re delle due Sicilie e di Gerusalemme, e non dissimulò le sue intenzioni di sostenere questi titoli con tutte le forze d'una potente monarchia[3].
Era di que' tempi l'Italia da tante passioni agitata, che questa seconda invasione de' Francesi, la quale, dopo i mali prodotti dalla prima, doveva essere da tutti temuta, nutriva per lo contrario le speranze di molti potenti stati; di modo che prima d'intraprenderla Lodovico XII trovò il mezzo di variare il sistema delle alleanze del suo predecessore, e di guadagnarsi utili cooperatori per le meditate conquiste.
La guerra di Pisa rimasta accesa, come una fiaccola destinata ad eccitare un nuovo incendio, aveva più che ogni altra circostanza contribuito a cambiare le inclinazioni de' diversi partiti. Aveva questa guerra ruinati i Fiorentini, facendo loro provare tutta la mala fede di Carlo VIII e de' suoi luogotenenti, e lasciando nel cuor loro vivissimo rincrescimento di avere data fede alle promesse della Francia. La stessa guerra, dopo di avere solleticate le speranze di Lodovico il Moro, più non prometteva che ai suoi rivali il prezzo cui egli stesso aspirava. Trovavasi per la seconda volta deluso dai propri calcoli, seguendo quell'astuta politica di cui tanto si gloriava; ed omai cominciava a desiderare un ravvicinamento coi Fiorentini per iscacciare di Pisa i Veneziani, dopo avere in qualche modo posta egli medesimo questa città nelle loro mani. Dall'altro canto i Veneziani, che si davano il vanto di avere due volte salvato il Moro, erano così sdegnati di quella che dicevano sua ingratitudine, che per vendicarsi di lui erano disposti a commettere lo stesso errore ch'era stato così aspramente rimproverato al Moro, ed a provocargli contro un antagonista di loro e di lui più potente[4].
Infatti non ebbero appena avviso della morte di Carlo VIII, che ordinarono al segretario della loro repubblica, residente in Torino, di recarsi alla corte del suo successore, il quale fu bentosto seguito da tre ambasciatori, incaricati di scusarsi delle precedenti ostilità, e di fargliele risguardare come una conseguenza di una contesa terminata colla morte dell'ultimo re. Il papa, che circa lo stesso tempo aveva determinato di sciogliere suo figlio, Cesare Borgia, dagli ordini sacri, e di farlo passare dal grado di cardinale a quello di principe temporale, colse dal canto suo con premura quest'occasione di eccitare nuove guerre, e di vendere ad un possente alleato tutto l'appoggio della sua temporale sovranità e tutte le grazie spirituali ch'erano in suo arbitrio. Sapeva che il re di Francia aveva di lui bisogno per soddisfare alle sue passioni ed alla sua politica; che, trovandosi da vent'anni ammogliato con una figlia di Lodovico XI, che mai non aveva amata, desiderava di fare da lei divorzio; che, da gran tempo avendo concepita una calda passione per la vedova del suo predecessore, desiderava di sposarla e di conservare con tal mezzo la Bretagna alla Francia. Alessandro VI era il solo che potesse sanzionare questo divorzio, e questa nuova unione; incaricò i suoi ambasciatori di farne l'offerta al re di Francia, contando di vendere a caro prezzo lo scandalo che con tale atto darebbe alla Cristianità. Dal canto loro i Fiorentini mandarono ambasciatori a Lodovico XII per rinnovare l'antica loro alleanza, e ricordargli tuttociò che avevano di fresco sofferto per essersi conservati fedeli alla causa della Francia. Tutti questi ambasciatori furono dal nuovo re egualmente ben accolti, e con tutti aprì negoziazioni, ma con fermo proposito di non fare l'impresa d'Italia senza avere preventivamente posti in sicuro i confini della Francia con nuove convenzioni con tutti i suoi vicini[5].
Infatti consacrò il primo anno del suo regno alle cure dell'interna amministrazione de' suoi stati, ed alle negoziazioni esterne che rimasero sepolte nel silenzio del gabinetto. Soltanto si potè conoscere che quelle che manteneva col papa avevano avuto il felice risultamento di ravvicinare strettamente le due corti, quando si vide Giorgio d'Amboise, favorito di Lodovico XII ed arcivescovo di Roven, ricevere il 17 di settembre il cappello cardinalizio. Nel susseguente mese Cesare Borgia rinunciò in pieno concistoro la romana porpora, protestando la violenza fattagli da suo padre per farlo entrare negli ordini ecclesiastici; partì in appresso alla volta della Francia per trattare a nome di Alessandro intorno al divorzio del re. Poco mancò per altro che per avere adoperata soverchia accortezza non perdesse il prezzo cui sperava di vendere questa grazia. Pretese di non avere seco portata la bolla del papa che annullava il precedente matrimonio di Lodovico, il quale, avvisato dal vescovo di Cettes che la bolla era stata spedita, invece di fare istanza perchè fosse a lui consegnata, il 12 dicembre del 1498 fece pronunciare dai giudici ecclesiastici da lui dipendenti la sentenza di divorzio, e l'8 marzo del 1499 passò a seconde nozze con Anna di Bretagna. Allora Cesare Borgia cercò di riconciliarsi col re, di sottoscrivere il trattato che si andava tra di loro discutendo, e di rimettergli la bolla di suo padre, ricevendo in ricompensa da Lodovico il ducato di Valenza nel Delfinato, onde prese il titolo di duca Valentino, invece di quello di cardinale vescovo di Valenza in Ispagna che aveva fin allora portato. Ma egli più non perdonò al vescovo di Cettes lo aver rivelato al re il suo segreto, e l'avergli fatto in pari tempo conoscere, che quand'era spedita la bolla, sebbene a lui non consegnata, la sua coscienza doveva essere pienamente tranquilla. Il vescovo di Cettes morì poco dopo avvelenato dal Borgia[6].
Mentre che Lodovico XII formava in Italia nuove alleanze, e si apparecchiava a portarvi le sue armi, in Toscana si continuava la guerra. Questa aveva ricominciato intorno a Pisa in ottobre del 1497, all'epoca in cui cessava l'armistizio stipulato dai re di Francia e di Spagna, senza che per altro fino al maggio del 1498 producesse avvenimenti di qualche importanza. In tale epoca i Pisani spedirono Giacomo Savorgnano, capitano veneziano al loro soldo, nello stato di Volterra per saccheggiarlo. Desso ritornava da questa spedizione alla volta di Pisa, carico di bottino, con settecento cavalli e mille pedoni, quando presso san Regolo fu attaccato dal conte Rinuccio da Marciano e da Guglielmo de' Pazzi, generali dei Fiorentini. Il Savorgnano fu sconfitto, ma, nel mentre che i vincitori stavano saccheggiando i suoi equipaggi, furono attaccati da Tommaso Zeno, che giugneva allora da Pisa con soli cento cinquanta cavalli, e che, trovandoli disordinati, liberò i prigionieri, ricuperò il bottino, e fece grande uccisione dei nemici[7]. In questo fatto i Fiorentini perdettero molta gente, e perchè i loro generali reciprocamente s'incolpavano di questa disgrazia, il sei di giugno la repubblica diede il comando delle sue forze ad un capo più rinomato, ma la cui ambizione poteva inspirar loro maggiori timori: fu questi Paolo Vitelli di città di Castello, il quale aveva opinione di avere imparato nell'armata francese tuttociò che gli oltremontani sapevano nell'arte della guerra[8]. La stessa disfatta consigliò Lodovico il Moro a soccorrere efficacemente i Fiorentini, per impedire che facessero la pace, acconsentendo che i Veneziani si stabilissero in Pisa. Spedì loro tre cento alabardieri; prese al suo soldo in comune con loro Gian Paolo Baglione, signore di Perugia, ed il signore di Piombino, e loro sovvenne in diverse volte tre cento mila ducati[9].
I Veneziani tenevano in allora in Pisa sotto gli ordini di Marco Martinengo quattrocento uomini d'armi, ottocento Stradioti e due mila fanti. Non avevano fin allora incontrata difficoltà veruna nel far giugnere rinforzi a quest'armata; ma il duca di Milano, scopertamente abbracciando l'alleanza de' Fiorentini, chiuse il passo alle truppe destinate contro di loro: inoltre persuase Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, a fare lo stesso, ed il suo esempio fu seguito da Catarina Sforza, madre di Ottaviano Riario, signore d'Imola e di Forlì, e dalla repubblica di Lucca; così fu chiusa alle truppe veneziane la più diretta strada a Pisa pel Ferrarese pel Modonese e per lo stato di Lucca: oltre di che il duca di Milano si era incaricato di ridurre i Genovesi a non accordare il passaggio ai nemici de' suoi alleati[10]; la strada di Romagna sembrava egualmente chiusa dal Bentivoglio e dal Riario; ma siccome questi piccoli principi potevano temere di compromettersi colla potente repubblica di Venezia, i Fiorentini, per impedire che si prendessero a ritroso i loro confini, vollero pure guadagnarsi la neutralità di Siena, onde non avere verun vicino nemico. Sottoscrissero una tregua di cinque anni con Pandolfo Petrucci, che col solo favore della guarnigione di Siena, di cui era capitano, si usurpava la tirannia di quella repubblica[11].
I Fiorentini, dopo di avere tolta ai Pisani ogni comunicazione coi loro alleati, spedirono contro di loro Paolo Vitelli con forze superiori a quelle comandate dal Martinengo, il quale fu malmenato assai in un'imboscata presso Cascina; egli perciò abbandonò la campagna, ed il Vitelli, avanzandosi lungo la destra riva dell'Arno, prese i castelli di Buti, di Calcinaja, di Vico Pisano e la Vallata di Calci, che di tutto il territorio Pisano è la più ricca contrada e la più facile a difendersi, perchè fortificata dagli scoscendimenti dei monti di san Giuliano e dalle acque del lago di Bientina[12].
I Veneziani, che avevano accolti i Pisani sotto la loro protezione, avevano ad ogni modo determinato di non lasciarli privi de' loro soccorsi. Vero è che non restava loro aperta veruna strada fino al territorio pisano, ma quella non era chiusa che metteva ai confini di Firenze. Il signore di Faenza aveva riconosciuta la loro protezione, e non poteva loro ricusare il passaggio per Valle di Lamone da lui dipendente. Carlo Orsini e Bartolommeo d'Alviano, partendo dalla Romagna veneziana, giunsero per tale strada fino a Marradi, rocca assai forte che loro chiudeva l'ingresso della Romagna toscana. Pietro e Giuliano dei Medici, sempre apparecchiati ad unirsi a tutti i nemici della loro patria, perchè speravano di rientrarvi col favore delle armate straniere, erano passati nel campo de' Veneziani, ed avevano promesso ai loro capi che troverebbero traditori fra i comandanti fiorentini de' castelli dell'Appennino, non potendo essere che non si abbattessero in qualche antico partigiano della loro famiglia. Infatti la terra di Marradi, sotto la quale si presentarono in settembre, aprì loro le porte senza resistenza; ma la rocca, chiamata Castiglione, che signoreggia e chiude la via della Toscana, fu ostinatamente difesa da Dionigi Naldo, con che si diede tempo ai Fiorentini di adunare su quel punto le truppe destinate a proteggerli[13].
Mentre che l'armata veneziana era trattenuta negli Appennini, quella de' Fiorentini, comandata da Paolo Vitelli, proseguiva prosperamente le sue operazioni contro Pisa, ed in sul cominciare d'ottobre conquistò Librafratta[14]. I generali veneziani cercavano di penetrare sollecitamente in Toscana per soccorrere i Pisani: tentavano tutte le vie, ma tutte le trovavano chiuse da gagliarde rocche. All'ultimo un piccolo signore feudatario, Ramberto di Sogliano, di un ramo cadetto della casa Malatesta, aprì loro il castello da lui posseduto ai confini tra lo stato d'Urbino ed il Casentino[15]; Bartolommeo d'Alviano approfittò colla celerità sua propria del passaggio accordatogli. In una sola notte, per la via di Sogliano, si recò da Cesena all'Abbazia di Camaldoli, dove arrivò mentre i monaci cantavano il mattutino senza credersi esposti a verun pericolo. Assicurano i monaci che san Romualdo, fondatore del loro convento, li difese, e che fu veduto, finchè durò l'assalto, lanciare con vigorosa mano mattoni contro gli assalitori. Per lo contrario i Veneziani sostengono di essersi impadroniti del convento, e certo è almeno che non trattenne l'Alviano[16]. Questi mandò immediatamente, come venisse dai dieci della guerra, un falso avviso a Bibbiena di apparecchiare l'alloggio per cinquanta cavalieri dell'armata del Vitelli, e tenendo dietro immediatamente al messo, entrò in Bibbiena il 15 di ottobre con cento uomini d'armi, prima che il paese sapesse ch'egli aveva passati i confini, e fu ricevuto in quella terra murata come capitano fiorentino. Lo seguiva da vicino il grosso dell'armata veneziana, e Carlo Orsini assicurò con ottocento cavalli una conquista, che l'Alviano doveva non meno all'inganno che alla sua intrepidezza[17].
Bartolommeo d'Alviano aveva sperato di spingere più oltre questi suoi primi vantaggi, e di occupare senza grande difficoltà il castello di Poppi, che in sua mano sarebbe diventato la chiave di Val d'Arno e dell'Aretino, e gli avrebbe dato modo di scendere finalmente nelle pianure della Toscana; ma Antonio Giacomini, uno de' più valorosi e risoluti cittadini fiorentini, trovavasi in allora commissario a Poppi, e fece andare a vuoto l'ardita intrapresa dell'Alviano[18].
L'autunno era di già innoltrato, e la guerra trovavasi trasportata nella più aspra e più montuosa provincia della Toscana; paese sterile, chiuso da strette gole, e le di cui montagne erano coperte di alte nevi. Paolo Vitelli, premurosamente chiamatovi dai Fiorentini, e che non aveva lasciato nella campagna di Pisa che le guarnigioni delle conquistate fortezze, era altrettanto cauto e metodico, quanto l'Alviano impetuoso. Aveva sotto di lui Fracassa Sanseverino, mandato dal duca di Milano, e Rinuccio di Marciano. La sua armata, cui i Fiorentini spedivano continui rinforzi, si trovò bentosto più numerosa di quella de' Veneziani, che pure contava, sotto Carlo Orsini, Bartolommeo d'Alviano ed il duca d'Urbino, settecento uomini d'armi e sei mila fanti, tra i quali si trovavano alcune compagnie di Tedeschi. Ma il Vitelli aveva fissato di non venire a battaglia, potendo più facilmente trionfare de' nemici col chiuderli nello sterile paese che in allora abitavano. Con tale vista occupò i passi dell'Avernia, di Chiusi e di Montalone, pei quali l'armata veneziana poteva avere comunicazione colla Romagna, ed afforzò Arezzo e tutte le gole del Casentino. Dalla banda della Toscana, eccitò i contadini ad armarsi, e a porsi ovunque in su le difese contro i nemici: per tal modo, sempre più rinserrandoli entro augusti confini, gli espose bentosto a mancare di vittovaglie e di foraggi[19].
Con ciò l'armata che i Veneziani avevano spedita in Toscana, per far levare l'assedio di Pisa, trovavasi assediata; ed il duca d'Urbino lungi dal poter liberare Marco Martinengo, siccome portavano le sue commissioni, aveva invece bisogno di essere liberato egli medesimo. La repubblica non perdette tempo ad occuparsene, e mandò a Ravenna, in principio del 1499, il conte Niccola di Pitigliano per ragunarvi un'altra armata. Tosto che questi ebbe sotto i suoi ordini quattro mila fanti si avanzò ad Elci, rocca situata ai confini del ducato d'Urbino, con intenzione di penetrare da quella banda nel Casentino e liberare l'armata assediata. Ma il Vitelli venne ad accamparsi in faccia al Pitigliano, a Pieve di santo Stefano, per chiudergli il passo. Le due repubbliche, egualmente stancheggiate dalle enormi spese di una ruinosa guerra, affrettavano i loro generali di venire ad una decisiva battaglia; ma i due capitani, Pitigliano e Vitelli, educati secondo il cauto sistema della scuola militare italiana, chiusero le orecchie a tutte le istanze che loro si facevano, e non vollero affidare la propria riputazione all'incerto esperimento di una battaglia[20].
E a dir vero le due repubbliche avevano le più gagliarde ragioni di allontanarsi nella presente circostanza dalla consueta loro prudenza, e di porre in balìa di una dubbiosa battaglia la sorte loro. Ognuna sperava, ottenendo la vittoria, di fare la pace a più vantaggiose condizioni, ed ognuna sentiva che, anche soffrendo una sconfitta, a tanta distanza dalla capitale ed in paese così facile a difendersi, la sua esistenza non sarebbe altrimenti compromessa. Forse ambedue avrebbero piuttosto desiderato che una sconfitta le forzasse a rinunciare alle loro pretese, anzi che continuare con poca speranza una ruinosa interminabile contesa. I Veneziani erano impazienti di liberare le loro tre armate ridotte all'immobilità in Pisa, a Bibbiena e ad Elci; i Fiorentini non desideravano meno di licenziare il loro generale Paolo Vitelli, contro del quale avevano concepiti gagliardi sospetti. Aveva questi di fresco accordato un salvacondotto al duca di Urbino, che era ammalato, e Giuliano dei Medici aveva approfittato di tale salvacondotto per uscire di Bibbiena col duca, onde i Fiorentini si erano amaramente lagnati che un ribelle della loro repubblica, assediato dalla loro armata, fosse stato sottratto dal proprio loro generale al gastigo comminatogli dalle leggi[21].
Le due repubbliche erano ancora più bramose della pace che della battaglia, e due potenti mediatori si offrirono contemporaneamente per trattare fra di loro. Da un canto Lodovico XII cercava di avere l'alleanza sì dell'una che dell'altra repubblica; e per riconciliarle chiedeva che Pisa si depositasse nelle sue mani, promettendo segretamente ai Fiorentini di rendere loro quella città, ed ai Veneziani di procurar loro larghi compensi nello stato di Milano[22]. Dall'altro canto Lodovico il Moro, affrettando i Fiorentini a riconciliarsi coi Veneziani, sperava con tal mezzo di rappacificarsi egli medesimo cogli ultimi. Vedeva il re di Francia tener dietro ai progetti manifestati ne' primi giorni del suo regno d'invadere la Lombardia, era informato delle negoziazioni di quel monarca col papa, della sua nuova alleanza col re d'Inghilterra e della tregua convenuta per più mesi con Massimiliano, senza che questi, in conformità della sua promessa, vi avesse fatto comprendere il ducato di Milano; nello stato di guerra tutto doveva il Moro temere dal risentimento de' suoi vicini; ma se giugneva a ristabilire la pace in Italia, poteva sperare che la repubblica di Venezia, tornando a più prudenti consiglj, abbandonerebbe i progetti di vendetta troppo per lei medesima pericolosi[23].
Avendo Lodovico XII rinunciato alle parti di mediatore per unirsi più strettamente alla repubblica di Venezia, i Fiorentini, che vivamente desideravano la pace, diedero perciò più facile orecchio ai consiglj di Lodovico il Moro. Dal canto loro i Veneziani, che secretamente si apparecchiavano ad una guerra contro il duca di Milano, che sapevano che i Turchi armavano per attaccare i loro possedimenti nella Grecia, che per ultimo erano inquietati dalle strane pretese e dalle minacce di Massimiliano, sebbene accostumati a vederle sfumare, non vollero essere distratti dalla guerra di Pisa in circostanze che potevano diventare più difficili. Gli affari di Pisa si passarono dal consiglio de' pregadi a quello de' dieci, risguardato siccome meno accessibile alle generose passioni, ed assai più dominato dalla sola politica. Questo consiglio, accettando la proposizione fatta da Lodovico il Moro, sottoscrisse un compromesso, in forza del quale riponeva tutti i diritti della repubblica in mano d'Ercole d'Este, duca di Ferrara, suocero del duca di Milano, il quale obbligò pure i Fiorentini ad accettare lo stesso arbitro: e furono accordati otto giorni per proferire la sentenza tra le due repubbliche, che si obbligarono ad assoggettarvisi[24].
Il 16 aprile del 1499 il duca di Ferrara pronunciò la sentenza tra le due repubbliche che l'avevano scelto per arbitro. Obbligò i Veneziani a ritirare prima della prossima festa di san Marco tutte le loro truppe dal territorio pisano, da Bibbiena e dal Casentino; ed ingiunse ai Fiorentini di pagare per dodici anni ai Veneziani, a titolo delle spese della guerra, quindici mila ducati all'anno. Volle ancora che i Fiorentini accordassero un'illimitata amnistia agli abitanti di Bibbiena e di Pisa, e che agli ultimi accordassero inoltre la licenza d'esercitare, siccome i Fiorentini, ogni specie di mercatura tanto per mare quanto per terra; che lasciassero ai Pisani le loro fortezze, a condizione d'ottenere l'assenso della signoria fiorentina per tutti i capitani che prenderebbero al loro servigio, e di ridurre le guarnigioni al numero de' soldati che vi tenevano i Fiorentini prima della ribellione. Il duca di Ferrara ordinò pure che i giudizj civili si pronuncierebbero in Pisa da un podestà forestiere scelto dagli stessi Pisani in un paese alleato di Firenze, e che le sentenze criminali si farebbero dal capitano di giustizia fiorentino, ma sotto l'ispezione d'un assessore nominato dal duca di Ferrara[25].
Potrebbe risguardarsi come prova dell'imparzialità del duca di Ferrara il generale malcontento eccitato da questo arbitramento. Altra sentenza mai non venne accolta tanto sfavorevolmente da tutte le parti. I Veneziani, vergognandosi di mancare apertamente a tutti gli obblighi contratti coi Pisani, non vollero che un atto pubblico potesse far prova della loro mala fede, e sebbene eseguissero la sentenza, e richiamassero dalla Toscana nel fissato termine le loro truppe, non acconsentirono giammai ad assoggettarvisi formalmente. Dolevansi i Fiorentini, che loro non venisse restituita Pisa, finchè lasciavansi le fortezze in mano ai loro sudditi ribelli, e che fossero ingiustamente condannati a pagare le spese d'una guerra, nella quale erano stati attaccati senza avere provocati i nemici. Pure accettarono espressamente la sentenza arbitramentale; ma la loro accettazione rimase senza effetto; perchè i Pisani, risguardando tutte le guarenzie loro offerte dal duca di Ferrara come facili ad eludersi, e preferendo la morte alla servitù, ricusarono di sottomettersi, e quantunque da tutti abbandonati, protestarono di volere difendersi, affrettandosi a far uscire dalla loro città e fortezze le truppe veneziane per paura che non le consegnassero ai loro nemici[26].
Quando i Fiorentini ebbero avviso della risoluzione presa dai Pisani di continuare a difendersi, richiamarono dal Casentino Paolo Vitelli colla sua armata, e lo mandarono contro Pisa, che a loro credere non poteva fare lunga resistenza. Lodovico il Moro, sempre più atterrito dagli apparecchj di guerra che facevano i Francesi, come aveva eccitati i Fiorentini ad accettare l'arbitramento del duca di Ferrara, eccitava non meno i Pisani ad accomodarvisi, e faceva ogni sforzo per ristabilire la pace in Toscana, ed assicurarsi i soccorsi di quella provincia; ma non trovava chi gli credesse. Rammentavansi i Pisani, che sotto colore di proteggere la loro libertà egli aveva tentato d'insignorirsi della loro città; ed i Fiorentini lo avevano sospetto di covare tuttavia questi progetti, e d'incoraggiare segretamente i loro nemici a fare resistenza. Perciò gli uni e gli altri, chiudendo le orecchie a' suoi consiglj, ed abbandonando la Lombardia alle rivoluzioni che dovea destarvi una nuova invasione, ricominciarono le ostilità fra di loro con maggiore accanimento di prima.
Il 25 di giugno Paolo Vitelli si unì al conte Rinuccio di Marciano sotto Cascina, che fu subito attaccata con tanto vigore, che dopo 26 ore questa ragguardevole terra dovette capitolare[27]. Le deboli guarnigioni pisane che tuttavia occupavano la torre di Foce d'Arno ed il ridotto dello Stagno si ritirarono alla prima intima che venne loro fatta, onde più non restavano ai Pisani in tutto il loro territorio che la fortezza della Verrucola, e la piccola torre d'Ascagno. Invece d'attaccarle, Paolo Vitelli credette opportuno l'istante di cominciare l'assedio della stessa città. Il primo di agosto si avanzò a tracciare il suo campo sotto le mura di Pisa, seco conducendo tanta cavalleria che bastava anche sola a tenere la campagna, una formidabile artiglieria e diecimila pedoni. Fece sapere alla signoria di Firenze, che dietro i suoi calcoli l'assedio non poteva durare più di quindici giorni. Le mura di Pisa non erano circondate da fosse, nè sostenute da terrapieni, ma tanta era la grossezza loro e la tenacità del cemento, che ben potevano più d'ogni altra muraglia resistere ai guasti dell'artiglieria. I Pisani non avevano al loro soldo verun altro capitano forastiere che Gurlino Tombasi, valoroso ufficiale ravennate, che aveva abbandonato per loro il servigio de' Veneziani. Ma tutti gli abitanti della città, tutti i contadini, che vi si erano rifugiati, agguerriti da cinque anni di continue battaglie, potevano risguardarsi come non inferiori alle migliori truppe di linea[28].
Il Vitelli aveva collocato il suo campo alla sinistra dell'Arno, e piantate le batterie contro il muro attiguo alla torre o rocca di Stampace. Accampandosi sull'altra riva avrebbe più efficacemente prevenuto l'arrivo di ogni rinforzo; ma nella posizione in cui trovavasi in allora l'Italia, non credeva che veruna potenza pensasse a soccorrere i Pisani, e sapeva inoltre che questi dal lato di Lucca avevano internamente afforzate le loro mura, lo che non avevano creduto necessario di fare dal lato che guarda Livorno.
Si continuarono nello stesso tempo due attacchi, uno fra sant'Antonio e Stampace, l'altro fra Stampace e la porta a Mare, con venti pezzi d'artiglieria. Il Vitelli, fedele all'antica tattica italiana, nè volendo combattere senza essere sicuro di vincere, aveva determinato di non venire all'assalto finchè le brecce aperte dalla sua artiglieria non offrissero un libero passaggio alle sue squadre. Di già erano caduti larghi pezzi di muro, ma egli credeva che la breccia non fosse ancora praticabile; ed intanto i suoi indugj davano agio ai Pisani d'innalzare dietro la muraglia ch'egli batteva in breccia un gagliardo parapetto difeso da una fossa. L'ardore de' Pisani non era vinto da verun pericolo; l'artiglieria scopava i loro lavori, senza che le donne o i fanciulli lasciassero il badile. Due sorelle lavoravano assieme; una fu uccisa da una palla da cannone; l'altra, raccogliendo all'istante le sparse sue membra, le seppellì entro lo stesso gabbione che stava riempiendo, e nell'atto che le dava colle lagrime e coi singhiozzi l'estremo addio, proseguiva il suo lavoro, esposta al fuoco della stessa batteria che le aveva tolta la sua compagna[29].
Finalmente le mura che univano Stampace alle fortificazioni della città erano state abbattute dall'una banda e dall'altra di quella gran torre. Il conte Rinuccio era stato ferito in una scaramuccia; e Paolo Vitelli, rimasto solo al comando dell'armata, risolse il decimo giorno dell'assedio di dare l'assalto alla torre. Questa era già stata in più luoghi ruinata, e sebbene i Pisani opponessero un'ostinata resistenza, i Fiorentini inalberarono la loro bandiera sulla sommità della Stampace. Nel primo terrore cagionato da questo avvenimento credettero i Pisani che anche la città loro più non avesse riparo. Pietro Gambacorti fuggì per l'opposta porta verso Lucca con quaranta arcieri a cavallo che militavano sotto di lui, e la guardia del parapetto, che oramai formava la sola difesa della città, era atterrita ed in sul punto di fuggire: ma il Vitelli aveva ordinato soltanto di dare l'assalto alla rocca e non alla città. Era troppo contrario al suo carattere ed alla sua pratica militare il porre in pericolo un vantaggio di già ottenuto volendolo spingere più in là, e coglierne frutti che non si fosse prima proposto di conseguire. Temeva d'essere avviluppato in una città difesa da una valorosa popolazione, e fece ritirare i suoi soldati che aspiravano a dare un secondo assalto. Bentosto perdette per sempre la propizia occasione di cui non volle prevalersi. Moltissimi Pisani, che avevano cercato di nascondersi nelle proprie case, furono dalle loro mogli confortati a tornare contro al nemico, e rioccuparono la breccia coraggiosamente. La loro artiglieria fu diretta dalle vicine mura contro gli assalitori, e dopo la presa di Stampace si trovò che la città poteva ancora difendersi[30].
Il Vitelli aveva pensato di collocare una batteria sopra la stessa torre di Stampace, onde signoreggiare le opere degli assediati; ma la torre, di già ruinata dalle brecce fattevi da lui medesimo ed in appresso dai Pisani, non fu creduta abbastanza forte per sostenere i cannoni che di già vi aveva fatti portare. Intanto continuava a far battere in breccia le mura della città: vi era di già stata fatta un'apertura di cinquanta braccia, e non era ancora soddisfatto. Egli non voleva che i suoi soldati fossero esposti a verun pericolo, o piuttosto, come apertamente e concordemente lo dicevano i Fiorentini, egli non voleva prendere la città, ma desiderava di conservare il più che poteva gli onori e gli emolumenti del comando, di restare alla testa di potente armata per offrire il suo ajuto al miglior offerente tosto che le rivoluzioni di Lombardia determinassero una delle potenze in guerra a chiamare un nuovo condottiere, e forse a farsi pagare da' Pisani il prezzo della sua moderazione o della sua lentezza. Ma tali ambiziosi progetti vennero distrutti dalla natura. Nell'umido suolo del piano di Pisa le fosse sono d'ordinario piene d'acqua nella maggior parte della state; ma verso la metà d'agosto sono asciugate dal sole, i di cui raggi, percuotendo sulla putrefatta melma ne sollevano pestilenziali esalazioni. In due soli giorni la metà dell'armata si trovò assalita dalla febbre maremmana. Paolo Vitelli aveva dato avviso che il giorno 23 d'agosto darebbe l'assalto: la breccia era praticabile, ed il successo sarebbe stato sicuro, s'egli avesse potuto mettere in movimento un sufficiente numero di soldati per dare esecuzione a' suoi progetti; ma i suoi ufficiali, i commissarj fiorentini presso l'armata, ed egli medesimo, erano tutti presi dalla stessa malattia. Frattanto si diede ordine di spedire al campo nuovi rinforzi per abilitare il generale a dare nello stabilito giorno un assalto che doveva essere decisivo. Ma ogni loro diligenza tornò vana; il numero degli ammalati superava sempre quello de' nuovi venuti onde il Vitelli trovavasi sempre più inabile a fare uno sforzo vigoroso. Dietro alla siccità vennero le piogge calde, che invece di purgare l'aria accrebbero la mortalità. All'ultimo, perduta ogni speranza di buon successo, il Vitelli abbandonò l'assedio, e traslocò la sua armata a Cascina. Fece imbarcare sull'Arno la sua grossa artiglieria per mandarla a Livorno, e parte di questo convoglio cadde in potere de' Pisani. Malgrado le calde istanze de' commissarj fiorentini egli abbandonò la torre di Stampace, dichiarando che trovandosi così maltrattata dalle proprie batterie, non poteva difendersi, e che la guarnigione che vi lascerebbe sarebbe tosto fatta prigioniera di guerra[31].
Quanta era stata grande l'opinione de' Fiorentini ne' talenti militari di Paolo Vitelli, tanto maggiore fu il loro sdegno nel vedere il cattivo esito dell'impresa. Credettero che gli esagerati indugj e le precauzioni del generale non potessero essere che l'effetto della sua perfidia. Di già gli rimproveravano il salvacondotto dato al duca d'Urbino ed a Giuliano de' Medici per uscire da Bibbiena; avevano pure palesata molta diffidenza per le conferenze avute dal Vitelli collo stesso Giuliano e con Pietro de' Medici, sebbene fossero state pubbliche alla presenza di due armate, e stando gli uni sopra la destra, gli altri sulla sinistra riva dell'Arno. Ma dopo il colloquio il Vitelli aveva regalati i Medici; aveva tenuta una corrispondenza quasi egualmente sospetta con Pandolfo Petrucci, tiranno di Siena; era entrato in negoziazioni con Lodovico XII per prendere servigio sotto di lui, e tutto il complesso della sua condotta era oggetto de' pubblici sospetti e delle più gravi accuse. Altronde mantenevasi più che mai viva la gelosia tra il Vitelli ed il conte Rinuccio di Marciano, che aveva con lui divisi gli onori del comando. Il Vitelli si era strettamente legato colla fazione degli arrabbiati e coll'aristocrazia, che segretamente si ravvicinava ai Medici. Rinuccio per lo contrario aveva tutto il favore de' piagnoni e de' discepoli del Savonarola, i quali, avendo perduto il loro maestro, condannato a crudele supplicio, colsero avidamente l'occasione di vendicarsi contro la creatura e lo strumento del contrario partito[32].
Avendo il Vitelli condotta la sua armata a Cascina, chiedeva alla signoria di spedirgli sufficienti rinforzi onde ricominciare l'assedio tosto che cessassero le piogge. Infatti i Fiorentini gli mandarono altri soldati, di cui potevano fidarsi, sotto gli ordini di due commissarj, Antonio Canigiani e Braccio Martelli, ai quali i decemviri della guerra avevano dati segreti ordini. I commissarj recaronsi nella rocca di Cascina, posta dieci miglia al levante di Pisa sulla sinistra dell'Arno, dalla qual rocca il campo del Vitelli era lontano un miglio. Ma questo capitano, dietro invito de' commissarj fiorentini, si portò presso di loro a Cascina, e pranzò con loro. Vitellozzo Vitelli, fratello di Paolo, che pure era stato invitato allo stesso abboccamento, era rimasto ammalato al campo. Perciò i commissarj spedirono alcuni uomini fidati per arrestarlo. Di già Vitellozzo era stato senza rumore posto a cavallo, e veniva condotto alla volta di Cascina, quando, scontratosi in alcuni de' suoi uomini d'armi, uno di loro gli porse la lancia che portava, esortandolo a non si lasciar condurre come una pecora al macello. Vitellozzo la prese, e l'adoperò vigorosamente per liberarsi. Gli arcieri che lo conducevano, vedendo i soldati disposti a difenderlo, non osarono di provocare una più aperta resistenza, e lasciarono fuggire Vitellozzo, che salvossi in Pisa, dove fu ricevuto con trasporti di gioja. I commissarj fiorentini, cui era male riuscito il loro attentato contro di lui, fecero arrestare Paolo Vitelli e lo spedirono subito a Firenze, ove fu immediatamente posto alla tortura per cavargli di bocca la confessione de' tradimenti che gli venivano imputati. Non eravi contro di lui veruna prova autentica, veruna carta da lui scritta, ed i tormenti ch'egli sostenne con maschia costanza non gli estorsero alcun nuovo argomento di reità, alcuna confessione. Non pertanto fu condannato a morte, e questa crudele sentenza si eseguì la mattina del susseguente giorno, primo ottobre, in una delle sale del palazzo[33].
La barbara giurisprudenza che ammetteva l'uso della tortura avrebbe pure dovuto salvare la vita di Paolo Vitelli, perchè quest'odiosa procedura non era stata inventata che dal credersi necessaria la confessione del prevenuto al di lui convincimento. La condotta tenuta dal Vitelli era stata sospetta; le sue secrete relazioni cogli Orsini, amici e parenti dei Medici, dovevano far pensare che mirasse come loro a ristabilire i Medici in Firenze. La corrispondenza de' suoi segretarj, trovata tra le sue carte, non lasciava verun dubbio che non avesse parte in una segreta trama, di cui non si arrivò a conoscere l'oggetto. La prudenza voleva che gli si levasse un comando che gli si era incautamente affidato, ma la giustizia richiedeva di rispettare la di lui vita, poichè non era convinto di verun delitto. Il di lui supplicio fu altrettanto impolitico quanto crudele, lasciò ne' signori di Città di Castello un violento desiderio di vendetta contro Firenze, del quale Firenze ebbe a soffrire finchè si mantenne nello stato di repubblica; irritò egualmente tutti i generali francesi che avevano militato coi fratelli Vitelli nella guerra di Napoli, e che gli stimavano assai. Ma mentre ciò succedeva in Toscana, in Lombardia avevano avuto luogo tali avvenimenti che consigliavano potentemente i piccoli stati d'Italia ad accarezzare il re e l'armata francese.
Precisamente nell'epoca in cui la repubblica di Venezia accettava il duca di Ferrara come arbitro delle sue contese con Firenze, e ritirava le sue armate dalla Toscana, conchiudeva con Lodovico XII un assai più importante trattato, e prendeva parte ad un'alleanza che sembrava smentire l'antica sua riputazione di prudenza e di moderazione. Il trattato tra la repubblica di Venezia e Lodovico XII fu sottoscritto il 9 di febbrajo del 1499, ma per tre mesi si mantenne nascosto ai sospetti di Lodovico il Moro e di tutta l'Italia: e quando fu pubblicato portava la data di Blois del 15 di aprile[34]. Con questo trattato i Veneziani riconoscevano i diritti di Lodovico XII sul ducato di Milano, e si obbligavano a concorrere colle loro forze a dargliene il possedimento. Dovevano perciò somministrargli mille cinquecento cavalli e quattro mila pedoni, che sarebbero spesati dal re; nello stesso tempo promettevano d'attaccare il ducato di Milano ai confini verso levante, nello stesso tempo in cui l'armata francese l'attaccherebbe dalla banda d'occidente. In ricompensa di questo servigio Lodovico XII loro cedeva Cremona e la Ghiara d'Adda fino alla distanza di ottanta piedi dal fiume di tal nome; ed i due stati sì promettevano la vicendevole garanzia di tali possedimenti, divisi prima di conquistarli[35].
Senza avere avuta diretta notizia di questo trattato Lodovico il Moro non ignorava quanto i Veneziani l'odiassero, e con quanta attività Lodovico XII apparecchiavasi a muovergli guerra; onde dal canto suo cercava di fortificarsi con nuove alleanze. Aveva particolarmente riposta la sua fiducia in quella di Massimiliano, che aveva sposata la di lui nipote, e che in ricompensa delle sue proteste di attaccamento e di protezione si faceva continuamente prestare danaro. Massimiliano nudriva contro i Francesi un'animosità sempre pronta a scoppiare; egli voleva far rivivere sulle province venete e su tutta l'Italia i diritti dell'impero, da più secoli dimenticati. Pareva dunque che i suoi interessi e le sue passioni dovessero portarlo a difendere Lodovico il Moro; ma non poteva farsi maggior conto de' suoi progetti che delle sue promesse: conciossiacchè, non prendendo consiglio che dalle presenti circostanze, egli si riduceva quasi sempre a fare ciò che non aveva preveduto e ciò che non aveva voluto. Erasi obbligato verso Lodovico il Moro a non fare convenzioni colla Francia senza comprendervelo, e ciò non gli aveva impedito di prolungare fino alla fine d'agosto la tregua che aveva fatta con Lodovico XII, senza far parola del duca di Milano[36]. Intanto egli faceva la guerra nella Gueldria; ma essendo scoppiata in sul finire di febbrajo qualche ostilità fra i suoi sudditi e gli Svizzeri ne' paesi posti alle sorgenti del Reno, la lega di Svevia prese a difendere i possedimenti austriaci, e Massimiliano vi si recò immediatamente per porsi alla testa delle sue armate. Fece dichiarare l'impero contro gli Svizzeri; entrò nel loro paese con forze di lunga mano maggiori, e non pertanto venne sempre respinto: senza poter venire ad una generale battaglia, vide le sue truppe consumarsi in sanguinose scaramucce. Assicurasi che perirono ventimila uomini in così breve guerra, e che un numero ancor maggiore perì vittima della fame e della miseria. Massimiliano, che aveva presa parte in questa lite piuttosto per collera e per orgoglio che per politica, faceva bruciare le case, le capanne, i granai, i villaggi, lusingandosi di far perire di fame, in mezzo ai loro ghiacci ed alle loro rupi, i contadini, che non aveva potuto raggiugnere. Ma cotali atti di ferocia producevano orribili rappresaglie, e Lodovico Sforza, vedendolo consumare tutte le sue forze contro gli Svizzeri, nulla poteva da lui sperare[37].
Lodovico il Moro aveva pure chiesto ajuto a Bajazette II, imperatore de' Turchi, al quale oggetto gli spedì due segretarj per rappresentargli che Lodovico XII rinnovava i progetti di conquiste del suo predecessore, e minacciava l'impero di Oriente; che essendosi collegato coi Veneziani, aveva maggiori mezzi di nuocere alla Porta ottomana che non aveva avuto Carlo VIII; che perciò era d'uopo prevenirlo col fare una diversione contro i Veneziani, e che i Turchi salverebbero la Grecia attaccando l'Italia. Federico di Napoli appoggiò con tutta la sua influenza i deputati di Lodovico Sforza, onde Bajazette, cedendo alle loro istanze, ordinò d'attaccare i Veneziani nel Peloponneso, nella Macedonia e nell'Istria[38].
Diffatti in ottobre del 1499 Scander Bassà, governatore della Bosnia, penetrò nel Friuli colla sua cavalleria, e tutta la saccheggiò fino alla Livenza, distruggendo e bruciando tutte le ricchezze del paese che scorreva. Vi aveva fatto un grandissimo numero di schiavi, ma quando ritirandosi giunse in sulle rive del Tagliamento non volle imbarazzare la sua armata con tanta gente, e dopo avere scelti coloro che potevano essere più utili, fece uccidere tutti gli altri[39].
Sebbene i re di Spagna non avessero quasi preso parte nella guerra contro Carlo VIII, erano non pertanto entrati nella precedente lega d'Italia: ma il duca di Milano più non poteva avere in loro veruna fidanza avendo essi rinunciato ai precedenti loro obblighi, ed avendo col trattato sottoscritto da Ferdinando e da Isabella con Lodovico XII a Marcussi il 5 agosto del 1498, nominato, tra gli alleati che si riservavano di poter difendere contro la Francia, soltanto l'imperatore, l'arciduca suo figlio, il duca di Lorena ed il re d'Inghilterra, senza aver fatto un'eguale riserva a favore di verun sovrano d'Italia[40].
Il papa aveva dato qualche speranza a Lodovico il Moro: tutta la sua ambizione aveva per iscopo di fare sposare a suo figlio, Cesare Borgia, una principessa di sangue reale, ed aveva fissate le sue viste sopra Carlotta, figliuola di Federico, re di Napoli. Incaricò Lodovico il Moro di trattare per lui questo matrimonio, che doveva essere seguito da un'intima alleanza tra il papa, il re di Napoli ed il duca di Milano. Ma e Federico, e sua figlia Carlotta sentivano pel prete apostata, bastardo e figlio d'un prete, per l'assassino del proprio fratello, per l'amante della propria sorella, una così invincibile ripugnanza, che non vollero a tale prezzo comperare la loro sicurezza. A cagione del loro rifiuto Cesare Borgia sposò Carlotta, figlia d'Alano d'Albretto, e sorella del re di Navarra. Il quale parentado lo univa alla reale famiglia di Francia e lo attaccava al partito francese[41].
Il re Federico di Napoli aveva promesso a Lodovico il Moro di mandargli Prospero Colonna con quattrocento cavalieri e mille cinquecento fanti; ma, spossato com'egli era dalla precedente guerra, non tenne la promessa, sebbene l'avesse fatta non meno pel vantaggio del suo alleato che pel proprio. I Fiorentini, implicati trovandosi nella guerra di Pisa, non potevano ajutare il duca di Milano, ed il duca di Ferrara, quantunque suo suocero, non volle promettergli il più leggiere ajuto per timore di compromettere la sua neutralità in faccia al re di Francia.
Lodovico Sforza, da tutti abbandonato, non perciò perdette il coraggio; fortificò diligentemente il castello d'Annone, posto a breve distanza da Asti, come pure Alessandria e Novara; incaricò Galeazzo di Sanseverino d'opporsi ai Francesi che volessero dal Piemonte o dal Monferrato penetrare in Lombardia; gli diede seicento uomini d'armi, mille cinquecento cavalleggieri, diecimila fanti italiani e cinquecento tedeschi, perciocchè la guerra tra la lega sveva e gli Svizzeri non gli avea accordato d'assoldare presso gli ultimi maggiore quantità di gente. Contava d'opporre ai Veneziani il marchese di Mantova con un'altra armata, ma scontentò il marchese per fare cosa grata a Galeazzo Sanseverino, la cui vanità non poteva soffrire che un altro generale avesse un più elevato grado del suo: onde dietro il rifiuto del Gonzaga diede quest'armata al conte di Cajazzo. Dicesi per cosa certa che un servitore fedele avvisò Lodovico il Moro, che quel Galeazzo di Sanseverino, cui aveva affidato col comando di tutte le sue forze una quasi assoluta autorità, lo tradiva. Lodovico, dopo avere alcun tempo ponderati gl'indizj che gli si davano di tale perfidia, rispose sospirando che non poteva figurarsi tanta ingratitudine, e che quand'anche fosse vera non saprebbe come rimediarvi; che niuno poteva avere maggiori diritti alla sua confidenza quanto coloro ch'egli aveva colmati di beneficj, e che tornava lo stesso l'arrischiare di essere tradito dagli amici, quanto l'esporsi a perdere i loro ajuti per mal fondati sospetti[42].
Lodovico Sforza aveva raccomandato a' suoi generali di schivare ogni decisiva battaglia, di chiudersi nelle fortezze, e di condurre la guerra in lungo, per dar tempo a Galeazzo Visconti, che aveva mandato tra gli Svizzeri, di negoziare un trattato di pace tra Massimiliano ed i cantoni, e di condurre a' suoi servigi quelle armate che si andavano consumando in una guerra impolitica. Infatti il Sanseverino non si mosse contro i Francesi che si andavano adunando in Piemonte, ed aspettò d'essere attaccato. Questi valicavano le Alpi sotto gli ordini di Gian Giacomo Trivulzio, di Lodovico di Lussemburgo, conte di Lignì, e di Everardo Stuardo, signore d'Aubignì, i quali tenevano sotto i loro ordini 1,600 lance, ossia 9,600 cavalli, cinque mila Svizzeri, quattro mila Guasconi, e quattro mila avventurieri levati nelle altre province della Francia. Lodovico XII era rimasto a Lione, di dove dirigeva i movimenti de' suoi generali ed i rinforzi che loro abbisognavano[43].
L'armata francese, essendosi finalmente adunata, attaccò il 13 agosto del 1499 la rocca d'Arazzo posta in riva al Taro in faccia d'Annone. Sebbene difesa da cinquecento pedoni questa fortezza fu vilmente ceduta ai primi colpi di cannone, e subito dopo venne attaccato Annone. Questa grossa terra era stata diligentemente fortificata da Lodovico Sforza, ma i settecento uomini di guarnigione erano fresche reclute, e quando il Sanseverino volle mandarvi qualche rinforzo, più non potè farlo. La breccia fu aperta il secondo giorno; Annone presa d'assalto, e passata a fil di spada tutta la guarnigione. Allora i Francesi si allargarono per tutto il paese d'Oltrepò. Il Trivulzio faceva ai popoli in loro nome le più lusinghiere promesse; i soldati italiani non ardivano di venire alle mani con quelle barbare armate, ed i borghesi temevano la sorte degli abitanti d'Annone; perciò Valenza, Bassignana, Voghera, Castel Nuovo, Ponte Corone, ed all'ultimo Tortona colla sua rocca affrettaronsi d'aprire ai Francesi le loro porte[44].
Il popolo di Milano soffriva di mal animo la signoria di Lodovico Sforza; lagnavasi delle eccessive contribuzioni ond'era aggravato; trovava ridicolo l'orgoglio del sovrano, la sua politica imprudente e macchiata di mala fede; ed inoltre non gli perdonava l'usurpato dominio, cui aggiugneva il sospetto dell'avvelenamento di suo nipote. Frattanto quando Lodovico il Moro conobbe la sua potenza vacillante per le rapide conquiste de' Francesi, tentò di riacquistare la popolarità, onde avere i sudditi in sua difesa. Adunò un consiglio, al quale chiamò tutte le più distinte persone di Milano per nobiltà, per ricchezze o per riputazione. Spiegò loro la sua condotta e la necessità in cui erasi trovato di mantenere molte truppe, di pagare sussidj a straniere potenze, e perciò di dover levare considerabili imposte per allontanare la guerra dai confini dello stato. Ricordò che durante la sua lunga amministrazione i Milanesi mai non avevano veduti soldati forastieri, che se il suo governo aveva costato al popolo molto danaro, era però stato sempre giusto ed eguale; ch'egli stesso erasi sempre fatto accessibile ai suoi sudditi, che mai non aveva trascurate le cure ed i lavori amministrativi per darsi in braccio ai piaceri, che non gli si poteva rimproverare veruna crudeltà, e che non eravi sovrano in Italia che avesse al pari di lui risparmiati i supplicj ed il sangue. Invitò i Milanesi a confrontare la sua liberale amministrazione con quella che dovevano aspettarsi dai Francesi, stranieri di costumanze e di lingua, orgogliosi e sempre disposti a sprezzare e ad opprimere la nazione italiana. Non trattavasi, loro diceva egli, che di opporre un poco di fermezza e di costanza al primo urto del nemico, perchè i soccorsi del re di Napoli, dell'imperatore e degli Svizzeri non tarderebbero[45].
Ma questi ragionamenti facevano pochissimo effetto sullo spirito di un popolo scosso ed intimidito, che cercava scuse al suo terrore affettando il malcontento. Lo Sforza aveva fatto fare in Milano le liste di tutti gli uomini in istato di portare le armi; aveva in pari tempo abolite alcune delle più odiose imposte, ma non altro si ravvisava in queste troppo tarde misure che il suo terrore e la sua debolezza. Quantunque i Veneziani, attaccandolo contemporaneamente ai Francesi, si fossero di già impadroniti di Caravaggio[46], egli richiamò il conte di Cajazzo destinato a far loro testa, per farlo passare a Pavia, onde unirsi poi a suo fratello presso Alessandria. Ma questo fratello, favorito e genero di Lodovico il Moro, questo Galeazzo di Sanseverino, che aveva opinione d'essere un gran militare, perchè trattava con grazia la lancia ne' tornei, e vinceva in simulate battaglie, era di già stato segretamente guadagnato dai Francesi. Tre giorni dopo l'arrivo di questi presso Alessandria, egli fuggì vilmente nella notte del 25 di agosto dalla sua armata che tuttavia contava mille dugento uomini d'armi, altrettanti cavalleggeri e tremila fanti. Lo accompagnò Giulio Malvezzi, ed in breve, essendosi in Alessandria sparsa la voce della sua fuga, più ad altro i soldati non pensarono che a fuggire, o a nascondersi, e tutta l'armata si disperse[47].
I Francesi entrarono in Alessandria nella susseguente mattina, svaligiarono i soldati italiani che non erano fuggiti, ed abbandonarono la città al saccheggio. Frattanto il Sanseverino per coprire il suo fallo spargeva voce d'avere avuti pressanti ordini da Lodovico il Moro di tornare a Milano. Credettero alcuni che le lettere da lui citate fossero state falsificate da suo fratello, il conte di Cajazzo, e nell'universale disordine non fu possibile di riconoscere se fu perfido o ingannato, onde Lodovico il Moro non lo privò della sua confidenza. Intanto i Francesi, avendo passato il Po, attaccarono Mortara e ricevettero la capitolazione di Pavia prima di giugnere alle sue porte. In pari tempo i Veneziani s'erano impadroniti della fortezza di Caravaggio, ed i loro avamposti arrivavano fino a Lodi. Tutte le città della Lombardia erano in grandissimo fermento, e nella stessa Milano il popolo già sollevato uccise di bel mezzogiorno Antonio Landriano, tesoriere del duca, nell'atto che usciva dal castello[48]. Conoscendo lo Sforza l'impossibilità di sostenersi più oltre, fece partire i figli alla volta della Germania sotto la custodia di suo fratello, il cardinale Ascanio, con il residuo del suo tesoro in allora ridotto a 240,000 ducati. Pose in libertà Francesco Sforza, figliuolo di Giovan Galeazzo, suo nipote e suo predecessore, e lo consegnò a sua madre, Isabella d'Arragona, eccitandola per altro a sottrarlo alla gelosa diffidenza di Lodovico XII. Isabella, cui egli mostrava un troppo tardo affetto, lo temeva assai più che i suoi nemici. Invece di ritirarsi in Germania volle aspettare i Francesi per porre nelle loro mani il suo figliuolo; ma questi vindici da lei invocati non tardarono a mostrarsi ancora verso di lei più crudeli che non lo era l'usurpatore cui felicitavasi d'essersi sottratta[49].
Lodovico il Moro fece entrare nel castello di Milano, che in allora veniva risguardato come inespugnabile, approviggionamenti e munizioni di guerra bastanti per sostenere un lungo assedio. Portò la guarnigione a tre mila fanti, diretti da ufficiali da lui scelti con estrema diligenza, e ne affidò il comando a Bernardino Corte nativo di Pavia, e da lui educato, e nel quale aveva tanta confidenza che lo preferì a suo fratello Ascanio, che volontariamente si offriva di chiudersi nel castello. Lasciò il comando di Genova ad Agostino ed a Giovanni Adorno; accordò grazie ai principali gentiluomini di Milano, ed il 2 di settembre uscì dal suo castello protetto da un piccolo corpo di truppe, comandato da Galeazzo di Sanseverino e da Giulio Malvezzi, e si avviò per la Valtellina in Germania[50]. Ma non era appena uscito di Milano che gli si accostò il conte di Cajazzo per dirgli che, abbandonando egli i suoi stati, veniva con ciò a sciogliere i suoi soldati dal giuramento di fedeltà, e li lasciava in libertà di provvedere come meglio loro piaceva alla propria sicurezza. Nello stesso tempo alzò le insegne della Francia, e colla truppa formata a spese del duca di Milano tenne dietro al principe come nemico, finchè questi si trovò fuori de' suoi stati. Lo Sforza, giunto a Como, s'imbarcò sul lago alla volta di Bellagio di dove passò a Bormio ed in appresso ad Inspruck[51].
I Francesi avanzarono rapidamente per approfittare della sollevazione della Lombardia e del terrore della famiglia Sforza. In distanza di sei miglia da Milano incontrarono i deputati di quella città che venivano ad offrire le chiavi delle sue porte, colla riserva per altro di capitolare collo stesso re, quando verrebbe a prendere il possesso de' suoi nuovi stati. Cremona, di già assediata da' Veneziani, chiese di arrendersi ai Francesi; ma questi addirizzarono i deputati della città ai generali della repubblica. Genova si arrese colla medesima facilità; e gli Adorni e Giovan Luigi del Fiesco facevano a gara nel mostrarsi più affezionati alla Francia. All'ultimo il comandante del castello di Milano, che lo Sforza aveva scelto fra tutti i suoi più affezionati per affidargli una fortezza di tanta importanza, non aspettò pure il primo colpo di cannone, e la cedette al nemici per una grossa somma di danaro dodici giorni dopo il loro arrivo: ma in appresso que' medesimi che lo avevano corrotto, gli mostrarono tanto disprezzo, che, sostenere non potendo tanta infamia, morì disperato dopo pochi giorni[52].
La conquista del ducato di Milano erasi dai Francesi effettuata in venti giorni. Il popolo, oppressato dal governo cui era stato fin allora subordinato, erasi volontariamente posto sotto il giogo degli stranieri. Lodovico XII appena ebbe avviso dell'accoglimento fatto a' suoi capitani, che si affrettò di scendere in Italia per prendere possesso de' suoi nuovi acquisti. Quando seppesi il suo imminente arrivo tutti gli ordini de' cittadini si portarono per riceverlo tre miglia fuori di Milano: lo precedevano nel suo ingresso quaranta fanciulli vestiti di stoffe di seta e d'oro, cantando inni in onor suo, e chiamandolo il gran re, il liberatore della patria. I senatori, i giudici, il clero, la nobiltà, i mercanti, tutti s'affrettavano di fargli corona come se Lodovico XII recasse alla loro patria la pace e la libertà[53].
Il primo pensiero di Lodovico fu quello di rassodarsi ne' suoi nuovi possedimenti, facendo trattati cogli stati d'Italia suoi vicini. Trovò nella sua capitale gli ambasciatori di tutti i sovrani d'Italia, a riserva di quello del re di Napoli, don Federico. Accolse con dimostrazioni di singolare favore il marchese di Mantova, cui tenevasi obbligato per non avere preso servigio sotto Lodovico Sforza; ma non volle ricevere sotto la sua protezione nè il duca di Ferrara, nè Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, che mediante l'esborso di ragguardevoli somme, come compenso del favore che mostrato avevano verso il Moro. Accolse ancora più ostilmente gli ambasciatori di Firenze. Tutti i capitani del suo esercito accusavano quella repubblica d'avere fatto ingiustamente perire Paolo Vitelli, che aveva con loro militato nel regno di Napoli e guadagnata la loro stima ed affetto. Altronde non avevano dimenticata l'antica loro parzialità per i Pisani, che trovarono meritevoli di maggiore stima dopo la generosa loro resistenza. Dimenticavano invece i lunghi servigj e l'antica alleanza de' Fiorentini per non ricordarsi che della fresca loro alleanza con Lodovico Sforza. All'ultimo, dopo infinite difficoltà, il re acconsentì a rinnovare l'alleanza fra i due stati. Prometteva che, venendo attaccati i Fiorentini, li difenderebbe con seicento lance e con quattro mila fanti; ed i Fiorentini si obbligavano a guarentire gli stati del re in Italia con quattrocento lance e tre mila fanti; inoltre si obbligavano a somministrargli cinquecento lance e cinquanta mila ducati per l'impresa di Napoli; ma ciò soltanto dopo che avrebbero ricuperata Pisa. A tali condizioni il re prometteva d'ajutarli a riacquistare Pisa e Montepulciano[54].
Lodovico XII non si trattenne in Milano che poche settimane, ma in quel breve spazio di tempo tutto perdette quel favore popolare che gli aveva procurato il dominio della Lombardia. I partigiani della Francia, per prevenire il popolo in suo favore, avevano sparsa voce che il re era bastantemente ricco per abolire tutte le imposte, o almeno per ridurle nello stato in cui si trovavano ai tempi de' Visconti. Infatti Lodovico XII accordò alcune grazie pecuniarie ai nuovi suoi sudditi, ma minori di lunga mano delle imprudenti speranze che si erano loro date, di modo che il malcontento fu così generale, quanto fallace era stata la speranza. Altronde Gian Giacopo Trivulzio, che il re, partendo, aveva nominato suo luogotenente nel ducato di Milano, era piuttosto fatto per acquistare un nuovo stato che per conservarlo. Era costui capo del partito guelfo, e non sapeva dimenticare questa parzialità nell'istante in cui soltanto avrebbe dovuto pensare a governare con eguale giustizia le due fazioni, ed a ravvicinare l'una all'altra. I nobili ghibellini altro in lui non vedevano che un capo di faziosi, ed i cittadini un soldato che portava in una grande città la rozzezza e la ferocia degli accampamenti. Era stato veduto uccidere colle proprie mani alcuni macellaj sulla piazza del mercato, perchè si rifiutavano al pagamento della gabella, e co' suoi modi arbitrarj ed arroganti aveva eccitato l'odio universale contro di sè medesimo e contro il sovrano da lui rappresentato[55].
Intanto Lodovico il Moro ed il cardinale Ascanio, giunti alla corte di Massimiliano, l'avevano trovato rappacificato cogli Svizzeri. Erano da lui stati accolti con quel vivo interesse che doveva eccitare il loro infortunio, ed avevano ottenute larghe promesse di soccorsi, delle quali Massimiliano era così prodigo. Ma questo principe mai non aveva saputo condurre a compimento una sola delle grandi cose da lui annunciate: diceva uno de' suoi consiglieri, ch'egli non volle giammai gli altrui consigli, nè mai fece ciò ch'egli voleva, perchè, nascondendo nel più profondo segreto i suoi disegni, non ammetteva veruno a disaminarli con lui profondamente; e quando li faceva conoscere, allorchè cominciava ad eseguirli, lasciavasi scoraggiare dalle prime opposizioni che gli venivano fatte[56]. Massimiliano, dopo avere promessi i più potenti ajuti al duca di Milano, di cui aveva sposata la nipote, non si vergognò di chiedergli, per levare la sua armata, quel danaro che lo Sforza aveva, e che era il solo avanzo della passata sua potenza. Non ignorava il Moro che tutto il danaro che presterebbe al re de' Romani sarebbe immediatamente dissipato tra i suoi favoriti; onde preferì d'impiegare questo residuo de' suoi tesori nell'assoldare egli medesimo un'armata. La guerra della Svizzera, poc'anzi terminata, aveva lasciato nello stesso paese in cui egli si trovava molti soldati senza impiego. Gli fu dunque facile d'adunare e prendere al suo soldo cinquecento uomini d'armi borgognoni ed ottomila fanti svizzeri; e senza aspettare che tutta questa gente fosse interamente ragunata sotto le sue insegne, s'incamminò verso i confini della Lombardia[57].
Quando Gian Giacopo Trivulzio ebbe avviso che si avvicinava lo Sforza, domandò al senato di Venezia di far avanzare le sue truppe sull'Adda, e richiamò Ivone d'Allegre, che si era recato in Romagna per ispalleggiare i progetti di Cesare Borgia. Ma la rapidità dello Sforza non lasciò tempo di riunirsi ai Francesi e ai loro alleati. In sul cominciare di febbrajo del 1500 egli valicò le Alpi, ed attraversò il lago di Como colle barche che trovò alle sue rive. Gli abitanti di Como, quand'ebbero avviso della sua venuta, manifestarono così vivamente la loro parzialità per lo Sforza, che i Francesi si videro costretti a ritirarsi, abbandonandogli quella città. I cittadini di Milano, ed in particolare coloro che appartenevano alla fazione ghibellina, sentendo che trovavasi in Como Lodovico il Moro, ne festeggiarono il ritorno con un entusiasmo che incuteva terrore agli attuali loro ospiti. Il Trivulzio, credendo vicina a scoppiare una sollevazione, si chiuse precipitosamente in castello, e dopo avervi posta una sufficiente guarnigione, ne uscì il susseguente giorno e si ritirò verso Novara, inseguito dal popolo sollevato fino alle rive del Ticino. Il Trivulzio lasciò pure quattrocento lance in Novara, indi condusse il rimanente della sua armata a Mortara, per ricevere colà gli ajuti che aveva caldamente chiesto al re di mandargli dalla Francia[58].
Appena si erano i Francesi ritirati da Milano, quando vi rientrò il cardinale Ascanio, e poco dopo suo fratello. Era questi uscito dalla sua capitale il 2 di settembre del 1499, accompagnato dalle maledizioni del popolo che affrettava la sua fuga, vi rientrò cinque mesi dopo, il 5 febbrajo del 1500, ed i Milanesi sembravano inebbriati di gioja nel rivedere l'antico loro sovrano. Questi rapidi cambiamenti non devono risguardarsi come indizj dell'incostanza del popolo: questo popolo abborriva sempre egualmente le vessazioni arbitrarie, le estorsioni de' finanzieri, le perfidie della corte ed il despotismo: soltanto porgeva troppo facile orecchio alle promesse de' principi; inconsideratamente rigettava con troppo favorevole prevenzione tutti i vizj de' sovrani sui loro ministri, attribuendo ai primi tutti i nobili e generosi sentimenti; troppo facilmente davasi a credere che la disgrazia avrebbe emendati coloro che vedeva esposti a' suoi colpi; ed il sovrano presente, non iscordando giammai di scioglierlo dalla data fede colla violazione delle sue promesse, il popolo non aveva altro torto che quello di conservare una troppo tenera memoria del precedente sovrano; era troppo più sedotto dalla costanza delle sue affezioni che dalla sua leggierezza.
Tutta la Lombardia era animata dai medesimi sentimenti verso lo Sforza. Parma e Pavia proclamarono immediatamente l'antico loro duca, Lodi e Piacenza erano sul punto di fare lo stesso; ma l'armata veneziana, rapidamente marciando verso quelle città, riuscì a tenerle in dovere. Alessandria e tutto il paese d'oltre Po, trovandosi più esposti agli attacchi de' Francesi, aspettavano gl'avvenimenti per decidersi; Genova non volle prendere parte nella rivoluzione. Frattanto lo Sforza non perdeva tempo, e niente trascurava di tutto quanto poteva contribuire a dare maggiore consistenza a' suoi nuovi successi; mandò il cardinale di Sanseverino a Massimiliano per informarlo de' primi avvenimenti e chiedergli soccorso, ed il vescovo di Cremona a Venezia per offrire a quella repubblica d'accettare qualunque condizione piacesse al senato d'imporgli: fece chiedere ai Fiorentini qualche pagamento in conto d'alcune somme loro sovvenute, ciò che questi ricusarono di fare con maggior lode di prudenza che di buona fede. I piccoli principi colsero avidamente quest'occasione di riprendere un servigio attivo: il fratello del marchese di Mantova, i signori della Mirandola, di Carpi e di Correggio, Filippo de' Rossi ed i conti del Verme, ricuperarono i feudi ch'erano stati confiscati a loro pregiudizio da' Francesi o dallo stesso Sforza, ed in appresso raggiunsero il duca di Milano colle compagnie d'uomini d'armi che ognuno di loro aveva formate. Coll'ajuto di costoro lo Sforza riunì mille cinquecento uomini d'armi e molti fanti italiani: incaricò suo fratello Ascanio dell'assedio del castello di Milano, mentre ch'egli, passato il Ticino, prese Vigevano ed assediò Novara. Frattanto Ivone d'Allegre, tornando di Romagna coll'armata francese, e con tutti gli Svizzeri rimasti in Italia al soldo della Francia, attraversò il territorio di Parma e di Piacenza dopo avere con questi due popoli patteggiata una sospensione delle ostilità durante il passaggio della sua armata. Giunto presso Tortona ricevette una deputazione dei Guelfi di quella città che gli chiedevano vendetta contro i Ghibellini, i quali, secondo essi dicevano, avevano segrete intelligenze con quelli di Milano, e si rallegravano per la ritirata de' Francesi. Ivone d'Allegre s'incaricò volentieri di questa vendetta; si fece aprire le porte della città, e l'abbandonò tutta al saccheggio senza fare distinzione tra Guelfi e Ghibellini. Dopo ciò continuò il suo cammino alla volta d'Alessandria[59].
Gli Svizzeri, che in addietro dimoravano chiusi nelle loro montagne, e non guerreggiavano che per difesa della propria libertà, erano da sei anni in poi diventati quasi i soli soldati dell'Europa. Non eravi altra fanteria che potesse fargli fronte, onde tutte le potenze mettevano all'incanto i loro servigj. Permettendo loro tutti gli eccessi dell'indisciplina, esse li cuoprivano di oro, e conducendoli ne' più ricchi e più voluttuosi paesi dell'Europa, gli avvezzavano a tutte le delizie dell'opulenza. Una spaventosa corruzione era stato il frutto di così subita mutazione in tutte le abitudini di un popolo in addietro tanto riputato per la purità de' suoi costumi e per la sua buona fede. Tutta la nazione era diventata avventuriera e mercenaria; la Svizzera aveva somministrato alle varie armate delle potenze belligeranti assai maggior numero di uomini, di quello che un saggio governo non armerebbe nemmeno per difendere la patria nel più grave pericolo. L'abitudine di non vedere altro nella guerra che il danaro da guadagnare, ed i piaceri di una vita indipendente, erasi sparsa in tutta la popolazione; l'antico punto d'onore veniva sagrificato alla cupidigia ed al gusto de' piaceri, e finchè si mantenne l'incantesimo di questa nuova bevanda, la nazione non fu più riconoscibile. In allora fu perfino in procinto di macchiare la sua gloria con odiosi tradimenti.
I Francesi furono i primi a soffrire i danni della mala fede degli Svizzeri. Quattrocento di loro, che con Ivone d'Allegre si erano chiusi in Novara per rinforzare la guarnigione, non tardarono ad avere comunicazione coi loro compatriotti che gli assediavano; e sentendo da questi che nel campo nemico si viveva meglio e si aveva più grosso soldo, e che, per quanto potevano essi giudicarne, si avevano più fondate speranze di buon successo, passarono tutti sotto le bandiere dello Sforza. Il loro arrivo agevolò la presa di Novara, che si arrese per capitolazione. Lo Sforza fece religiosamente condurre a Vercelli la guarnigione francese rimasta in Novara, ed intraprese l'assedio della rocca, che forse era miglior senno di abbandonare per andare ad attaccare l'armata francese a Mortara, prima che ricevesse nuovi rinforzi[60].
Infatti Lodovico XII opponeva alla diligenza dello Sforza un'eguale diligenza: dopo avuta notizia della rivoluzione di Milano aveva affrettata la partenza di tutti i suoi uomini d'armi; aveva mandato il balivo di Digione ad assoldare nuovi Svizzeri, e lo stesso suo ministro, il cardinale d'Amboise, aveva passate le Alpi e si era fissato in Asti per affrettare l'unione dell'armata, che in poco tempo s'ingrossò a dismisura: perciocchè la Tremouille vi condusse mille cinquecento lance e sei mila fanti francesi, ed il balivo di Digione dieci mila Svizzeri. Quest'armata ne' primi giorni di aprile, trovandosi più numerosa di quella dello Sforza, andò ad accamparsi tra Novara e Milano. In ambedue le armate gli Svizzeri formavano essi soli quasi tutta l'infanteria, e, trovandosi in procinto di venire alle mani gli uni contro gli altri, ricominciarono ad unirsi agli avamposti, ad abboccarsi fra di loro, ed a ristringere le relazioni d'amicizia o di parentela che gli univa gli uni agli altri. Coloro che militavano nell'armata francese erano stati levati con espressa licenza della federazione, ed avevano alla loro testa le bandiere de' rispettivi cantoni: per lo contrario quelli del duca erano individualmente entrati al suo soldo, senza l'assenso dei loro governi. Sì gli uni che gli altri ricevettero nello stesso tempo un ordine della dieta, che li richiamava in patria, e loro vietava di spargere reciprocamente il sangue de' proprj fratelli. Gli Svizzeri del duca, sedotti dalle pratiche de' loro compatriotti, e probabilmente dall'oro francese, si tennero come più particolarmente obbligati ad ubbidire. Essi dichiararono che, combattendo contro le bandiere de' loro cantoni, rendevansi colpevoli di ribellione e si esponevano a capitale castigo. Frattanto andavano cercando qualche pretesto per abbandonare il principe cui servivano, e chiesero allo Sforza con minacciose e tumultuarie grida di pagar loro il soldo arretrato. Il duca corse subito tra le loro linee, e raccomandandosi alla loro generosità, distribuì tutta l'argenteria e tutti gli effetti preziosi che aveva con sè: inoltre attestava con giuramento di avere fatto chiedere danaro a Milano, e li supplicava a pazientare tanto solamente che giugnesse questo danaro. Ottenne in tal modo di calmarli per brevi istanti; indi scrisse a suo fratello per affrettarlo a condurgli quattrocento cavalli ed otto mila fanti italiani ch'egli aveva adunati, onde servirgli di difesa in mezzo a così barbara soldatesca[61].
Intanto i Francesi si andavano avanzando fra il Ticino e Novara, sicchè, volendo Lodovico Sforza mantenersi libera la comunicazione con Milano, era costretto di venire a battaglia; e così risolse di fare: il 10 d'aprile fece uscire dalle mura la sua armata, e cominciò la battaglia colla sua cavalleria leggiera e co' suoi uomini d'armi borgognoni. Ma gli Svizzeri, di già disposti in ordine di battaglia, dichiararono di non volere combattere contro i loro compatriotti, e di volere immediatamente prendere la strada della loro patria. Nello stesso tempo rientrarono disordinatamente in città, e tutti gli altri soldati, vedendosi da loro abbandonati, furono costretti a seguirli. Lo Sforza, disperando di poterli ricondurre sul campo di battaglia, o di essere vittorioso con truppe così mal disposte, domandò almeno nella più commovente maniera, che le truppe che volevano ritirarsi provvedessero prima alla sua sicurezza, e lo conducessero con loro. Era questo il preciso dovere degli Svizzeri, e l'onore della nazione vi era talmente interessato, che l'avrebbero sentito gli stessi loro compatriotti che militavano nell'armata nemica, e non sarebbe stata difficil cosa che la ritirata dello Sforza fosse stata per espressa condizione convenuta nella loro capitolazione. Ma gli Svizzeri lo ricusarono aspramente, e solo offrirono al duca ed a quelli dei suoi generali che potevano avere ragioni di essere personalmente maltrattati, di nascondersi travestiti tra i loro squadroni. Lo Sforza, di già vecchio, di colore oscuro, e di scarna corporatura, non poteva passare per uno di que' robusti montanari. Prese un abito di frate francescano, e, postosi sopra un cattivo cavallo, tentò di passare pel loro cappellano. Galeazzo di Sanseverino, il Fracassa ed Anton Maria, suoi fratelli, vestirono gli abiti di soldati Svizzeri, e sfilarono così tra le linee dell'armata francese, ma furono tutti quattro riconosciuti e fatti prigionieri senza che i pretesi loro fratelli d'armi si movessero in loro difesa. Alcuni traditori accrebbero in tal modo l'infamia degli Svizzeri, additando queste quattro vittime ai loro nemici[62].
Gli Svizzeri, dopo essersi infamati con questo tradimento, ripigliarono la via delle loro montagne. Pure, passando per Bellinzona, quelli di loro ch'erano usciti dai quattro cantoni posti in sulle rive del lago di Lucerna, occuparono quella piccola città, che diventava per loro la chiave della Lombardia, ed approfittarono della circostanza in cui Lodovico XII trovavasi implicato in mille affari per assicurarsi una conquista fatta in tempo d'intera pace[63].
Le truppe italiane, abbandonate in Novara dagli Svizzeri, vennero svaligiate. Il cardinale Ascanio non potendo in Milano difendersi colle poche truppe che gli restavano, fuggì coi principali capi della nobiltà ghibellina. Prese la strada dello stato di Piacenza per recarsi nel regno di Napoli; ma giunto essendo a Rivolta presso Corrado Lando, gentiluomo suo parente e suo antico amico, gli chiese ospitalità per riposarsi una notte, trovandosi stanco all'estremo. Corrado gli promise piena sicurezza, ed intanto fece avvisati dell'emergente alcuni capitani veneziani, che si trovavano in Piacenza, i quali durante la notte circondarono la sua casa e fecero prigioniere Ascanio con tutti i gentiluomini che lo accompagnavano. Lodovico XII, sapendo in appresso che questi prigionieri erano stati tradotti a Venezia, li domandò al senato. Egli non voleva lasciare in mano di un popolo vicino pretendenti allo stato che aveva allora conquistato, ed accompagnò le sue inchieste con tanta alterigia e tante minacce, che non solo il cardinale Ascanio e tutti gli arrestati con lui furono consegnati alla Francia, ma le furono inoltre ceduti altri gentiluomini Milanesi, ai quali aveva accordata una formale salvaguardia[64].
Francesco Sforza aveva fondata la sua sovranità co' suoi talenti militari, ed aveva dovuto credere la propria dinastia solidamente stabilita; per lo contrario Lodovico XII, che risguardavasi quale legittimo erede del ducato di Milano, era animato da non minore invidia che odio contro colui ch'egli chiamava l'usurpatore. Egli fece conoscere questi suoi sentimenti dopo la vittoria, e trattò tutti i membri della famiglia di Francesco Sforza caduti in suo potere con quella implacabile durezza con cui la mediocrità suole vendicarsi quando la fortuna le fa buon viso. Tra i prigionieri del re trovavansi due figliuoli del grande Francesco Sforza, Lodovico il Moro ed Ascanio, un nipote legittimo, Ermes, e due bastardi, Alessandro e Contino, tutti e tre figliuoli di Galeazzo, e finalmente un pronipote, Francesco, figlio di Gian Galeazzo e d'Isabella d'Arragona, la quale aveva avuto l'imprudenza di porlo essa medesima in mano di Lodovico XII. Il re forzò quest'ultimo a vestire in Francia l'abito monastico[65]. Fece chiudere il cardinale Ascanio in quella medesima torre di Bourges in cui era stato egli stesso da due anni prigioniere. Fece gettare i tre figli di Galeazzo in un oscuro carcere. Lodovico il Moro, di tutti il più pericoloso per i suoi straordinari talenti, per la sua eloquenza, pel suo spirito insinuante, per la memoria di suo padre, e per la compassione che ispiravano la sua fortuna e le sue disgrazie, fu condotto a Lione ove in allora trovavasi il re. Venne introdotto in quella città di pieno mezzo giorno tra un affollato popolo che rallegravasi della sua miseria; fece calda istanza per vedere il re, ma gli fu rifiutata questa grazia, e dopo essere stato traslocato da Pietro in Scisa al Lis San Giorgio, venne chiuso nella rocca di Loches, dove terminò i suoi giorni, dopo dieci anni di prigionia, di assoluta solitudine, di rigorosi trattamenti e di dolori[66].
CAPITOLO C.
Conquista della Romagna fatta da Cesare Borgia e sua invasione della Toscana. — Alleanza di Lodovico XII con Ferdinando il Cattolico contro Federico d'Arragona. — Si dividono tra di loro il regno di Napoli.
1499 = 1501. In sul finire del quindicesimo secolo la Chiesa aveva per capo l'uomo più immorale della cristianità, un uomo che il pudore più non frenava nelle sue dissolutezze, la buona fede non legava ne' suoi trattati, la giustizia non tratteneva nella sua politica, non moderava nelle vendette la compassione. Questo prete, che non pertanto mostrava di voler essere il difensore della fede, ed il vindice delle eresie, non aveva maggior rispetto per le cose della religione di cui era sommo pontefice, di quel che avesse riguardi per le umane cose, e scandalizzava i fedeli non meno con decisioni contrarie alle leggi della sua Chiesa, che colla sua condotta. I divorzj dei principi, i voti dei prelati, i tesori destinati dai cristiani per la guerra sacra, tutto a' suoi occhi era subordinato alla politica, tutto sagrificato al più leggiere vantaggio temporale di sè medesimo o di suo figlio.
Ma se alcuna cosa può giustificare o spiegare in parte la profonda immoralità del sovrano di Roma, è la deplorabile corruzione del paese soggetto al di lui governo. Forse in allora lo stato della Chiesa era di tutti i paesi della terra il più male amministrato: ogni giorno si avevano sotto gli occhi tanti esempi di assassinj, di perfidia e di ferocia, e l'abitudine di vederli rinnovati ad ogni istante aveva talmente diminuito l'orrore che devono naturalmente inspirare, che la pubblica morale aveva perduta la sua maggiore guarenzia, che consiste nella maraviglia e nello spavento che dovrebbe sempre produrre l'aperta violazione delle sue leggi fondamentali.
La parte del territorio ecclesiastico più vicina a Roma era quasi tutta caduta sotto il dominio di due potenti famiglie, Orsini e Colonna. Gli Orsini in particolare avevano vasti dominj nel patrimonio di san Pietro dalla banda occidentale del Tevere, i Colonna nella Sabina e nella Campagna di Roma dalla banda di levante e di mezzodì dello stesso fiume. I primi venivano risguardati come capi dei Guelfi, gli altri de' Ghibellini; e questi nomi di fazioni, che omai più non indicavano opposte opinioni, ma soltanto la memoria d'antichi odj, davano non pertanto maggiore accanimento a tutte le contese che lordavano di sangue Roma ed il suo territorio. Tutta la nobiltà seguiva queste due insegne; i Savelli ed i Conti stavano d'ordinario pel partito Ghibellino, i Vitelli per quello de' Guelfi.
Queste famiglie avevano fondata la loro potenza nella professione delle armi e nell'amore de' soldati, mentre che i governi avevano imprudentemente abbandonata a gente mercenaria la difesa dello stato. Tutti gli Orsini e tutti i Colonna, i Savelli, i Conti, i Santacroce, e, per dirlo in una parola, tutti i nobili feudatari romani erano condottieri: ognuno di loro comandava ad una compagnia di uomini d'armi più o meno numerosa, ma loro sommamente affezionata; ognuno separatamente trattava coi re, colle repubbliche, coi papi, per porsi al loro servigio; ognuno negl'intervalli di riposo, che loro lasciavano l'esterne guerre, riparavasi in uno de' suoi castelli, lo afforzava diligentemente, e cercava di addestrare nell'arte della guerra i suoi vassalli, per trovare fra di loro onde mettere a numero la compagnia; e per tal modo quanti più giovani capi contava una famiglia, e più riputavasi potente.
Le frequenti accanite guerre dei Colonna cogli Orsini avevano affatto spogliate le campagne di agricoltori. Tutti gli abitanti dimoravano entro le terre murate, perchè ne' villaggi aperti non potevano trovare sicurezza per i loro ricolti, pei bestiami e per le stesse loro persone. Tutto ciò che avessero lasciato in una casa isolata sarebbe stato preda de' soldati; non potevano nè pure sperar profitto da verun genere di coltivazione che occupasse lungamente il suolo. Ne' crudeli guasti cui andavano così frequentemente esposti, erano state svelte tutte le viti e bruciati gli ulivi, onde più non ritraevano dai loro fondi che gli uniformi prodotti annuali del pascolo e delle messi. Così andavasi allargando la desolazione delle campagne romane, che, prive di abitanti e di alberi, senz'ornamenti, senza siepi, non distinguevansi dai deserti che a cagione di un lavoro fuggitivo, che dopo un anno non lasciava veruna traccia. Pure i villaggi murati, la di cui vicina campagna veniva tuttavia ravvivata da un annuale lavoro, non potevano essere ruinati dalla guerra senza che l'intero distretto cessasse di essere coltivato. Spesse volte dopo che un villaggio era stato bruciato e trucidati i suoi abitanti, i loro eredi si trovavano tuttavia a portata di rialzare le mura, e di porvisi in istato di difesa; ma se non avevano forza o danaro per farlo, se le loro brecce restavano aperte, e se non erano in istato di resistere ad un colpo di mano, invano si sarebbero lusingati di godere essi medesimi i frutti de' loro sudori; perivano di miseria, oppure, abbandonando quelle proprietà che non erano di veruna utilità, portavano il loro lavoro in paesi ove potesse procurar loro un sicuro sostentamento. Bentosto il cattivo aere del deserto occupava gli abbondanti campi, e se in più tranquilli tempi i loro antichi abitatori ardivano di ritornarvi, soggiacevano alle febbri maremmane. Vero è per altro che, finchè i gentiluomini abitarono le loro rocche in mezzo ai proprj vassalli, si fecero un essenziale dovere di riparare i disastri della guerra, e finchè non mancarono loro affatto i mezzi, ripararono sempre le ruinate fortificazioni, e mantennero ancora ne' loro feudi qualche ramo d'industria, qualche popolazione, qualche ricchezza. Ma quando in tempi più tranquilli stabilirono la loro dimora nella capitale, gli estremi effetti delle funeste guerre de' loro antenati si fecero sentire alla posterità, e gli ultimi avanzi della popolazione scomparvero dalle campagne di Roma.
Alessandro VI non erasi conservato neutrale tra i Colonna e gli Orsini, e ne' primi tempi del suo pontificato si era dichiarato contro i primi, che aveva trovati partigiani della Francia, mentre egli stava per gli Arragonesi di Napoli. Vero è che nel susseguente anno i Colonna passarono sotto le insegne di Ferdinando II, e con ciò si riconciliarono per qualche tempo col papa; ma questi si dichiarò bentosto per l'opposto partito, ed essendosi unito alla Francia, si fece di nuovo a perseguitare i Colonna. Armava sempre una di quelle famiglie contro l'altra, e qualunque delle due rimanesse perdente o ruinata, egli credevasi egualmente avvantaggiato. Cesare Borgia, duca del Valentinese, e di lui figliuolo, s'appigliava per maggiormente abbassarli ad un altro mezzo: erasi fatto egli medesimo condottiere; aveva raccolti sotto le sue bandiere tutti i gentiluomini che prima servivano sotto i Colonna e gli Orsini, e largamente pagandoli e loro dando soldati e castella, aveva sostituito l'attaccamento per la sua persona all'antico spirito di parte, che favoriva i Colonna e gli Orsini[67].
Se l'autorità del pontefice era pochissimo conosciuta nella stessa campagna di Roma, e s'egli era forzato a guerreggiare perfino nelle strade della sua capitale ora contro i Colonna ora contro gli Orsini, era cosa naturale che le più lontane province avessero scossa ancora più compiutamente la sua autorità. Alcune città avevano sempre mantenuta se non altro la forma di un'amministrazione repubblicana; Ancona, Assisi, Spoleto, Terni, Narni, eransi sottratte al giogo de' domestici tiranni, o l'avevano scosso; ma le proprie loro fazioni e le continue guerre de' loro vicini, le avevano sempre tenute in uno stato di debolezza e di oscurità. Le altre città erano venute in balìa de' vicarj pontificj, i quali, mercè la promessa di un annuo censo che mai non pagavano, avevano ottenuta una intera indipendenza. Quasi tutta la Marca era divisa tra le due case di Varano e di Fogliano, e la prima si era sollevata alla sovranità di Camerino. Giulio di Varano regnava allora in quel piccolo principato: Giovanni di Fogliano, che non molto dopo fu barbaramente assassinato da suo nipote Oliverotto, regnava in Fermo[68]. Sinigaglia nel 1471 era stata data in feudo da Sisto IV a suo nipote, Giovanni della Rovere, col titolo di prefetto di Roma, e questo principe era nello stesso tempo genero e presuntivo erede del duca d'Urbino. L'alpestre provincia posta tra le Marche e la Toscana era governata da Guid'Ubaldo, illustre ed ultimo erede dell'antica casa di Montefeltro: questa provincia comprendeva il ducato d'Urbino da cui s'intitolava, il contado di Montefeltro e la signoria d'Agobbio. L'Italia non aveva nè più bellicosa gente, nè altra corte più letterata e più gentile. A ponente il ducato d'Urbino confinava colle due sovranità che si erano formate nella Vallata del Tevere Gian Paolo Baglioni a Perugia, e Vitellozzo Vitelli a Città di Castello. Avevano ambidue abbracciata la professione delle armi, ed il Vitelli aveva renduto importante il suo piccolo stato coi rari talenti militari da lui spiegati e da' suoi quattro fratelli, e coll'eccellente disciplina introdotta tra i suoi vassalli.
Dalla banda della Romagna trovavasi successivamente Pesaro, piccolo principato staccato nel 1445 da quello dei Malatesta da Francesco Sforza, a favore del ramo cadetto della sua famiglia; n'era sovrano in allora Giovanni Sforza, che nel 1497 aveva fatto divorzio con Lucrezia Borgia, figliuola del papa. Il principato di Rimini che veniva in seguito più non conservava la potenza cui era stato innalzato da Pandolfo III e da suo fratello Carlo nel quattordicesimo secolo; era in quel tempo governato da Pandolfo IV, che aveva cominciato a regnare nel 1482. Questo principe, figliuolo naturale di Roberto Malatesta e genero di Giovanni Bentivoglio, non si era per anco dato a conoscere che colle sue dissolutezze e colle crudeltà; ma trovavasi sotto la protezione della repubblica di Venezia, che per dilatare più sicuramente la sua influenza su tutte le coste dell'Adriatico, offriva soldo a tutti i principi di quella provincia. Coloro che volevano accettarlo non erano tenuti a condurre essi medesimi le compagnie degli uomini d'armi che si obbligavano a mantenere, altro ciò non essendo che un pretesto per avere un'onorevole pensione. Cesena, posta a ponente di Rimini, trovavasi in allora sotto l'immediato dominio della Chiesa, che l'aveva tolta ad un ramo della casa Malatesta[69]. Ma Forlì, antica signoria degli Ordelaffi, era del 1480 passata in Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, che nel 1473 era pure stato investito da suo zio della signoria d'Imola. Questi due principati, separati l'uno dall'altro da quello di Faenza, fino dal 1488 erano soggetti al giovane Ottaviano Riario, sotto la tutela di sua madre, la coraggiosa Catarina Sforza, figlia naturale di Galeazzo, duca di Milano. Aveva costei sposato in seconde nozze Giovanni de' Medici appartenente al ramo cadetto di quella casa, da cui ebbe un figliuolo, che acquistò poi tanta celebrità nelle guerre d'Italia. Suo marito era morto nel 1498, ma Catarina non aveva perciò conservato minore attaccamento verso la repubblica fiorentina, la quale per arra della sua protezione pagava un soldo al giovane Ottaviano Riario. Tra i principati di Forlì e d'Imola trovavasi chiuso quello di Faenza, che per la valle del Lamone si stendeva fino ai confini della Toscana. I Veneziani avevano data somma importanza all'apertura di questo passaggio per attaccare la repubblica fiorentina; si erano procurata la tutela del giovane Astorre III di Manfredi, che aveva soltanto sedici anni; avevano compresse le guerre civili tra Astorre e suo fratello naturale Ottaviano, ed erano quasi assoluti padroni di Faenza e di Val di Lamone[70]. Gli stessi Veneziani si erano impadroniti di Ravenna e di Cervia, togliendo la prima alla casa di Pollenta, l'altra ad un ramo cadetto della casa Malatesta. Giovanni Bentivoglio fino dal 1462 regnava con assoluto potere sulla ricca e potente città di Bologna. Per ultimo il duca Ercole d'Este era il più lontano ed il più indipendente de' feudatarj della Chiesa. Egli riconosceva da questa il Ferrarese, che da più secoli era governato dalla sua famiglia; lo univa ai feudi imperiali di Modena e di Reggio, ed appena pensava che la sua causa potesse aver nulla di comune con quella degli altri vicarj pontificj.
Le numerose corti di tanti piccoli signori davano alla Romagna un'apparenza d'eleganza e di ricchezza: ogni capitale era ornata di templi e di palazzi vagamente fabbricati, ognuna aveva la sua biblioteca, ed ogni corte cercava in tal maniera di abbellirsi col lusso dell'ingegno: alcuni poeti, alcuni eruditi, alcuni filosofi si trovavano sempre tra i cortigiani d'ogni principe, e la rivalità di tutti questi piccoli stati giovava indubitatamente ai progressi delle lettere, sebbene il più delle volte avvilisse il carattere de' letterati. Ma l'assoluta potenza suole generare dispendiosi vizj; tutti gli adulatori del più piccolo sovrano ripongono la munificenza nel novero delle sue virtù, ed egli stesso non sa porre maggior limite ai suoi desiderj che se fosse sovrano del più vasto impero. Perciò ogni principe della Romagna trovava sempre le sue entrate sproporzionate ai bisogni della sua difesa, della sua vanità, dei suoi piaceri. Era sempre attento ad approfittare di ogni occasione per istrappare a' suoi sudditi qualche parte delle loro sostanze; e siccome le imposte non bastavano di lunga mano, vi aggiugneva il prodotto delle ammende e delle confische. «Uno de' loro disonesti modi di far danaro, era, dice Machiavelli, quello di pubblicare leggi proibitive di qualche azione; erano poi i primi a dar motivo di violarle, e si astenevano dal punire i delinquenti, finchè un grandissimo numero di cittadini fossero caduti nello stesso fallo. Allora gli attaccavano tutti ad un tratto, non per amore dell'osservanza delle leggi, ma per guadagnare le ammende. Così i popoli diventavano poveri senza correggersi; e quand'erano ridotti in miseria, cercavano di riavere quello che avevano perduto a danno di coloro che non potevano difendersi»[71].
V'hanno certi delitti che sembrano di esclusiva pertinenza di quelle famiglie, che, separate da tutte le altre, sciolte da ogni legame sociale, non appresero a sentire come la comune degli uomini, e non si credono soggette alla stessa morale. In fatti le case sovrane della Romagna avevano dati al popolo frequenti esempi d'assassinj fra i congiunti, d'avvelenamenti e di tradimenti d'ogni genere. Le nobili famiglie credevano inoltre di comprovare l'indipendenza di cui godevano colla crudeltà delle loro vendette. Numerose bande di sicarj venivano continuamente adoperate per attaccare o per difendersi: i nemici non erano soddisfatti, finchè conservavasi un solo individuo, di qualunque sesso egli si fosse, nella casa che volevano distruggere. Quando Arcimboldo, arcivescovo di Milano, fu nominato cardinale di santa Prassede e legato di Perugia e dell'Ombria, trovò in quella provincia un gentiluomo, che aveva schiacciato contro le pareti il capo de' figliuoli del suo nemico e strozzata la consorte di lui gravida; dopo di che, avendo scoperto un altro figlio dello stesso uomo ch'era rimasto vivo, l'aveva inchiodato alla porta della propria casa quale trionfo della sua vendetta, come talvolta i cacciatori vi appiccano le aquile e i gufi da loro uccisi. E ciò che più importa, tanta atrocità non era sembrata ai suoi compatriotti una cosa straordinaria[72].
Siccome la desolazione della campagna di Roma è ancora ai nostri giorni un testimonio delle antiche guerre dei Colonna e degli Orsini, così l'attuale carattere dei Romagnoli ricorda tuttavia l'educazione che diede loro il governo dei piccoli loro principi, e l'esempio troppo frequente di tante famiglie sovrane. Dante fino nel 1300 li denunciava all'Italia come crudeli e perfidi, ed i loro vicini hanno di loro anche nell'età presente la stessa opinione[73].
Un così fatto governo non potev'essere amato dal popolo; la forza lo aveva stabilito, e la forza lo manteneva: se poteva altresì essere rovesciato dalla forza, non doveva riuscire assai difficile lo stabilirne un altro, che gettasse nel cuore dei sudditi più profonde radici. Avendo Alessandro VI presa la risoluzione d'ingrandire suo figlio a spese del patrimonio della Chiesa, Cesare Borgia non s'ingannò, giudicando, che, ove potesse occupare i piccoli stati di Romagna, que' popoli gli condonerebbero tutti i delitti, tutte le crudeltà, tutti i tradimenti diretti soltanto contro i loro antichi signori, purchè lo stato loro diventasse più tranquillo. e vi si mantenesse la giustizia e la pace[74].
La segreta condizione in forza della quale Lodovico XII aveva ottenuta l'alleanza del papa e la bolla pel suo divorzio, era stata la promessa del re di Francia di assecondare Cesare Borgia nella sua impresa della Romagna. Infatti non appena fu per la prima volta conquistato il ducato di Milano dai Francesi, che il duca Valentino, il quale era con loro tornato dalla Francia, ottenne che si staccassero dalla loro armata trecento lance pagate dal re, sotto gli ordini d'Ivone d'Allegre, e quattro mila Svizzeri, comandati dal balivo di Digione, e pagati dalla Chiesa[75]. Con queste truppe il Borgia si presentò sotto Imola in sul finire di novembre del 1499. La città, ch'era mal fortificata, capitolò immediatamente, ma la rocca oppose qualche resistenza, e negli ultimi tre giorni di novembre il suo fuoco recò molto danno ai Francesi. All'ultimo dovette capitolare il 9 di dicembre[76]. Il Valentino si presentò subito dopo a Forlì. Catarina Sforza aveva prudentemente mandato a Firenze suo figlio e tutti i suoi più preziosi effetti; e perchè non giudicò la guarnigione sotto i suoi ordini sufficiente a tenere la città, si chiuse nella rocca, e la difese con un coraggio degno di quello col quale aveva salvata la medesima rocca nel 1488 dalle mani degli assassini di suo marito. Intanto l'artiglieria francese fece una larga breccia nelle mura, che cadendo strascinarono seco il terrapieno che sostenevano, e colmarono parte della fossa. Catarina ed i suoi soldati, abbandonando allora il restante della fortezza, vollero difendere ancora la torre maestra, ma i Francesi, che montavano all'assalto, vi penetrarono coi fuggiaschi, uccisero la maggior parte della guarnigione, e mandarono Catarina prigioniera a Roma. Il papa la tenne per alcun tempo chiusa in Castel sant'Angelo, ma Ivone d'Allegre, vergognandosi del male che fatto aveva ad una donna così illustre, fece per lei così calde istanze, che venne posta in libertà[77].
Di quest'epoca le conquiste di Cesare Borgia vennero interrotte dalla rivoluzione di Milano. Ivone d'Allegre fu dal Trivulzio richiamato in Lombardia, allorchè il duca Valentino era in procinto d'attaccare Pesaro[78]. La rivoluzione di Milano fu inoltre cagione di qualche raffreddamento tra il papa ed il re, perchè Alessandro ricusava di prestare veruna assistenza ai Francesi. Ma Giorgio d'Amboise, cardinale di Rovano, e favorito di Lodovico, credeva cosa di troppo grande importanza l'alleanza colla corte di Roma, perchè non riuscisse ad Alessandro di riconciliarsi facilmente colla Francia. Il prezzo di tale riconciliazione fu la missione di legato a latere in Francia, che il papa accordò al cardinale per diciotto mesi, obbligandosi in pari tempo ad ajutare il re con tutte le sue forze, allorchè questi farebbe l'impresa del regno di Napoli; in contraccambio Lodovico rimandò d'Allegre in Romagna con trecento lance e due mila fanti, facendo inoltre partecipare a tutti i potentati d'Italia che risguarderebbe come un'ingiuria fatta a lui medesimo ogni opposizione alle conquiste di Cesare Borgia[79].
Le minacce di Lodovico XII riuscivano a Cesare Borgia assai più vantaggiose che non lo sarebbero state le sue armate. La seconda vittoria de' Francesi nel Milanese aveva incusso un terrore universale, ed i loro alleati non tremavano meno de' loro nemici. Giovanni Bentivoglio, che a stento aveva ottenuto il perdono dei soccorsi dati allo Sforza, mediante una contribuzione di quaranta mila ducati[80], si astenne dal prestare ajuto ad Astorre III di Manfredi, sebbene fosse figlio d'una sua figliuola. Il duca di Ferrara ed i Fiorentini si mostrarono egualmente paurosi di offendere la Francia, e ricusarono ogni soccorso; per ultimo i Veneziani, che si erano obbligati a proteggere gli stati di Manfredi e di Malatesta, quando avevano fatto con loro un trattato d'alleanza e di condotta, fecero sapere ad Astorre III, signore di Faenza, ed a Pandolfo IV, signore di Rimini, che ritiravano la loro protezione e rinunciavano alla loro alleanza. In pari tempo fecero inscrivere il duca Valentino nel loro libro d'oro, ammettendolo in tal modo nel numero de' loro gentiluomini sovrani della repubblica[81].
Avendo Cesare Borgia uniti alle truppe francesi settecento uomini d'armi di sua spettanza e sei mila fanti, entrò in Romagna. Al suo avvicinarsi i signori di Rimini e di Pesaro fuggirono e gli abbandonarono senza fare veruna resistenza le capitali e stati loro; ma per lo contrario il giovane Astorre di Manfredi si apparecchiò a difendersi in Faenza, sebbene altro appoggio non avesse che lo zelo e l'amore de' suoi concittadini. Per altro la metà del suo piccolo stato non aveva seguite le disposizioni della capitale; e Valle di Lamone colla rocca di Bersighella, che n'era la chiave, era stata ceduta al duca Valentino da Dionigi Naldo, il più riputato personaggio di quella valle, che da gran tempo trovavasi ai servigj del duca. In appresso il Borgia andò ad accamparsi sotto Faenza tra i fiumi Lamone e Marzano, e scoprì le sue batterie il 20 di novembre dal lato che guarda Forlì e chiamasi il Borgo, sebbene chiuso entro il ricinto delle mura. Il quinto giorno diede un assalto che fu valorosamente sostenuto dagli assediati; onde, incoraggiati da quello avvenimento, i Faentini attaccarono gli assalitori con frequenti sortite, e quasi sempre felicemente. Avevano essi bruciate tutte le case poste intorno alle mura, e tagliati tutti gli alberi fino ad una considerabile distanza dalla città; e perchè di già cominciava a farsi sentire un rigoroso inverno, e perchè le truppe degli assedianti trovavansi sepolte in profonde nevi, il duca Valentino dovette nel decimo giorno levare il campo per ritirarsi ai quartieri d'inverno. Per altro giurò che nella vegnente primavera si vendicherebbe della inaspettata resistenza che gli aveva opposta un fanciullo[82].
In principio di gennajo del 1501 il Borgia tentò di sorprendere Faenza, dandole la scalata, ma venne respinto; riaprì la campagna in sul cominciare di primavera, prese diverse rocche dipendenti da quel piccolo principato, ed il 12 di aprile fece giuocare le sue batterie contro la città dalla banda della rocca; il 18 di aprile fece dare un primo assalto che fu respinto; il 21 Vitellozzo, Paolo e Giulio Orsini ne diedero un altro; essi superarono la muraglia, ma furono trattenuti da una fossa che avevano a fronte, mentre l'artiglieria della piazza li batteva di fianco. Dopo avere sofferto una perdita considerabile furono costretti a ritirarsi. Per altro i Faentini avevano dal canto loro perduta molta gente nei diversi fatti; non eravi alleato che si muovesse a soccorrerli, e le fortificazioni della città erano ruinate. Offrirono perciò di capitolare, a condizione che il loro giovane signore, Astorre Manfredi, sarebbe libero di ritirarsi dove gli piacesse, conservando le sue entrate patrimoniali. L'accordo fu sottoscritto, e le porte di Faenza si aprirono al Valentino il 22 di aprile del 1501. Il duca accolse con apparente benevolenza il giovane Manfredi, che non aveva allora più di diciotto anni; dichiarò di volerlo ritenere alla propria corte, onde addestrarlo nel mestiere delle armi. Con tale pretesto di là a pochi giorni lo mandò a Roma, dove il giovane principe di Faenza, dopo essere stato vittima delle lubricità del papa o di suo figlio, fu strozzato con suo fratello naturale, e tutti e due gittati di notte nel Tevere[83].
La conquista della Romagna era compiuta colla sommissione di Faenza, ma tuttavia mancava un atto che potesse chiamarsi legittimo, il quale servisse di fondamento al nuovo potere del duca Valentino. Il papa non poteva alienare i dominj della Chiesa senza l'assenso dei cardinali; perciò Alessandro VI con una nuova promozione volle assicurarsi la maggiorità del concistoro. Dodici nuovi cardinali, comperando a danaro contante i loro cappelli, rifecero il tesoro del pontefice, oltre l'avere anticipatamente obbligati i loro voti[84]. Il sacro concistoro acconsentì all'alienazione della Romagna, la quale si eresse in ducato a favore di Cesare Borgia, che, dopo averne ricevuta l'investitura, aggiunse questo nuovo titolo a quello di duca dei Valenziani[85].
Cesare Borgia non aveva risparmiato verun tradimento per rendersi padrone della Romagna, e non lasciava ancora di tendere lacci ai piccoli principi che egli aveva spogliati per farli perire, conoscendo, che fin a tanto che rimarrebbero le antiche famiglie sovrane in istranieri paesi, cercherebbero sempre di eccitare contro di lui sollevazioni, ed il suo trono sarebbe sempre vacillante. Ma voleva nello stesso tempo adonestare agli occhi del popolo tali atti di crudeltà con un'amministrazione che facesse nei suoi stati fiorire la giustizia e la sicurezza. Erano quelle province da tanti malfattori infestate, erano in preda a così crudele anarchia, che trovò necessario di reprimere in sul principio tanti delitti con estrema severità. Creò governatore di quello stato messer Bamiro d'Orco, uomo attivo ed inesorabile, più severo per carattere che per principj, e che sembrava trovar diletto nell'ordinare supplicj. Valendosi dell'illimitata autorità accordatagli da Cesare Borgia questo supremo giudice sparse il terrore in tutte le città con sanguinose esecuzioni; perseguitò i malfattori fino negli ultimi loro nascondigli, moltissimi ne fece perire, forzò gli altri a fuggire dalla provincia, nella quale fece rivivere quella regolarità di polizia, e quella piena sicurezza nelle strade e nelle campagne, che da gran tempo più non si conoscevano. Ad ogni modo il Valentino non voleva che gli si attribuissero le crudeltà dell'amministrazione del suo luogotenente: l'ordine era ristabilito, la crudeltà più non era necessaria, e gli abitanti di Cesena furono una mattina compresi da profondo orrore e da maraviglia, trovando sulla pubblica piazza innalzato un palco sul quale stava diviso in due parti l'uomo terribile innanzi al quale avevano fin allora tremato. Il ceppo, la scure insanguinata e le due metà del cadavere rimasero esposti agli occhi di tutti senz'altra spiegazione[86].
La conquista della Romagna, ben lungi dal soddisfare l'ambizione di Cesare Borgia, non servì che ad invogliarlo di più alte intraprese. Il Bolognese, la Toscana, le Marche ed il ducato d'Urbino stuzzicavano a vicenda la sua cupidigia, e sembravangli premj promessi ad ulteriori imprese. La Toscana contava nuovamente quattro repubbliche, Firenze, Pisa, Siena e Lucca, oltre il piccolo principato di Piombino. Ma questo paese non era mai stato ridotto a tanta debolezza come al presente da imprudenti guerre, nè meno atto a resistere ad un esterno nemico. Una di queste repubbliche, quella di Siena, pareva inoltre che avesse rinunciato a quella libertà, che l'aveva renduta gloriosa. Si era data un padrone, che aveva bisogno di tutta la propria accortezza e di tutta la sua possanza per istare in sulle difese contro i suoi proprj concittadini, e per conseguenza più non poteva valersi al di fuori di una forza che consumavasi in seno allo stato.
Nel 1495, temendo i Sienesi la vendetta de' Fiorentini, cui avevano tolto Montepulciano, introdussero nella loro città un corpo permanente di truppe di linea, cui avevano dati per capi due loro concittadini Lucio Bellanti e Pandolfo Petrucci. Avevano in pari tempo accordato a questi due capitani un'illimitata autorità giudiziaria per castigare le cospirazioni da cui si credessero minacciati. Le funzioni di questi due giudici militari non dovevano durare che pochi mesi[87]; ma Pandolfo Petrucci era troppo ambizioso per rinunciare ad un potere di cui era stato una volta rivestito, e troppo accorto per lasciarselo rapire. A lui solo essendo affezionati i soldati da lui dipendenti, fece accusare Lucio Bellanti, suo collega, di segrete pratiche coi Fiorentini e con ciò lo costrinse a fuggire. E perchè suo suocero, Niccolò Borghese, capo d'una fazione opposta alla sua, cercava ancora di limitare la di lui autorità, Pandolfo lo fece tagliare a pezzi sulla pubblica piazza il giorno 19 di luglio del 1500[88]. Fu questa, a dir vero, la sola circostanza in cui versò sangue; ma con ciò atterrì gli altri suoi avversarj, che presero volontario esilio. Egli palliò la sua autorità sotto quella dell'ordine dei Nove cui apparteneva e cui mostrava di servire; nè mai prese verun titolo, nè mai si allontanò dalle costumanze di semplice cittadino: nè col proprio matrimonio, nè con quello dei suoi figliuoli cercò d'imparentarsi con famiglie principesche, ma soltanto coi suoi concittadini, fin allora suoi eguali. Conservò sempre le semplicità delle vesti, il mantello nero che portavano tutti i Sienesi; e ne' suoi pranzi si contenne costantemente entro i limiti di modesto ed economo cittadino; non edificò che una privata comoda abitazione, senza darle la sontuosa eleganza de' palazzi; e per dirlo in una parola, in tutto il corso del viver suo cercò di coprire e di far dimenticare l'assoluta sua autorità[89].
Non pertanto il duca Valentino risguardava il nuovo principato di Pandolfo Petrucci e la piccola signoria di Piombino, appartenente a Giacomo IV d'Appiano, come le due parti della Toscana che potrebbe attaccare con migliore speranza di felice successo, e quelle che dovevano fargli strada ai suoi vasti disegni di conquiste; nello stesso tempo gli altri stati della provincia gl'inspiravano poco timore; perciocchè la repubblica di Firenze, che ne' precedenti tempi era sempre stata la gelosa custode dell'indipendenza italiana, trovavasi talmente spossata dalla guerra di Pisa, dallo spirito rivoluzionario de' suoi sudditi, e dai disordini dell'interna sua amministrazione, che tutto aveva a temere dall'ambizioso vicino che attaccava un dopo l'altro e si assoggettava tutti i confinanti stati, prima di venire con essa all'esperimento delle armi.
Mentre che Cesare Borgia terminava colle truppe francesi la conquista della Romagna, i Fiorentini avevano cercato di sottomettere Pisa, valendosi ancor essi delle truppe francesi, ma non avevano provati che rovesci. Lodovico XII, dopo la conquista di Milano e mentre si apparecchiava a fare l'impresa di Napoli, aveva cercato di tenere in Italia esercitati i suoi soldati e di mantenerveli a spese de' suoi alleati, ed aveva con tali viste prestato orecchio alle contrarie negoziazioni dei Fiorentini e de' Pisani. I primi chiedevano al re l'adempimento de' trattati tante volte rinnovati con Carlo VIII, e la restituzione di Pisa e delle sue fortezze; domandavano gli altri che sostenuta fosse una indipendenza loro data dalla Francia, e di concerto coi Sienesi, coi Genovesi, coi Lucchesi, offrivano cento mila ducati per prezzo della libertà di Pisa, di Montepulciano e di Pietra Santa; inoltre promettevano l'annuo tributo di cinquanta mila ducati, se il re obbligava i Fiorentini a rendere a Pisa il porto di Livorno, che in addietro apparteneva a quella repubblica. Gian Giacopo Trivulzio e Gian Luigi del Fiesco caldamente appoggiavano i Pisani, ma in quest'occasione il cardinale d'Amboise preferì l'onore e la parola del re all'esca del danaro che venivagli offerto. Con tutti i suoi trattati la Francia aveva guarentita la restituzione di Pisa ai Fiorentini, e pareva che questi avessero acquistati ulteriori diritti alla riconoscenza del re collo zelo con cui avevano somministrati sussidj in danaro per ricuperare lo stato di Milano dopo l'invasione di Lodovico il Moro. Perciò Giorgio d'Amboise stipulò con loro un nuovo trattato, in forza del quale loro prometteva di ajutarli a ricuperare Pisa e Pietra Santa, ed obbligavasi a mandar loro a tal fine pel primo di maggio del 1500 seicento lance e cinque mila Svizzeri, coll'artiglieria e munizioni necessarie. Durante questa spedizione gli uomini d'armi dovevano essere al soldo del re; ma gli Svizzeri dovevano essere pagati dalla repubblica fiorentina[90].
Il re aveva determinato di dare il comando di quest'armata ad Ivone d'Allegre, uno de' suoi migliori ufficiali; ma i Fiorentini, che più volte avevano avuto cagione di non essere contenti de' generali francesi, un solo ne conoscevano nel quale avessero intera confidenza, e questi era Ugone di Belmonte, il quale, essendo stato nella precedente guerra incaricato del comando di Livorno, avea loro consegnata quella piazza nel convenuto termine, senza cercare pagamento per aver fatto il suo dovere, e senza pensare come i suoi colleghi a vendere a' nemici del suo padrone l'ingresso della sua fortezza. Perciò chiesero premurosamente a Lodovico XII il Belmonte per comandare la loro armata, e l'ottennero, sebbene il re trovasse questo gentiluomo di meno elevato grado che non si conveniva per tenersi ubbidiente e rispettosa una così ragguardevole armata[91].
Intanto il Belmonte si pose in cammino; ma prima che giugnesse ai confini della Toscana, i Fiorentini ebbero nuove occasioni di lagnarsi della mala fede de' Francesi. Fin dal primo di maggio i pedoni erano al soldo della repubblica; si era calcolato che costerebbero ventiquattro mila ducati al mese, lo che corrisponde ad una lira e 92 centesimi dell'attuale moneta al giorno per ogni pedone svizzero. Non pertanto tutto il primo mese si consumò nel porre a contribuzione i piccoli signori di Carpi, di Correggio e della Mirandola, che si erano dichiarati a favore di Lodovico Sforza. Dopo avere estorti a questi piccioli principi di Lombardia venti mila ducati ed altri quaranta mila a Giovanni Bentivoglio[92], l'armata francese entrò finalmente in Toscana per la strada di Pontremoli; ma le prime ostilità furono dirette contro Alberico Malaspina, alleato della repubblica, che i Francesi spogliarono della signoria di Massa per darla a suo fratello Gabriele. Colà i commissarj fiorentini, Giovan Battista Ridolfi e Luca Antonio Albizzi, trovarono l'armata del Belmonte e la passarono in revista. Avevano seguite le bandiere due mila Svizzeri di più di quelli ch'erano stati domandati; e fu d'uopo cominciare dal pagar loro due mesi di soldo senza che avessero prestato verun servigio. Per altro l'armata si avanzò e si fece aprire le porte di Pietra Santa; ma invece di consegnare quella fortezza ai Fiorentini, in conformità del trattato, la ritenne in deposito, finchè il re potesse decidere, dopo la sommissione di Pisa, intorno alle ragioni di coloro che la pretendevano[93].
Finalmente l'armata arrivò sotto Pisa, e il 29 di giugno aprì la trincea tra la porta a Mare e la porta di Calci: durante la notte furono posti i cannoni in batteria, ed all'indomani, tre ore prima di notte, erano di già state atterrate quaranta braccia di mura. I Francesi e gli Svizzeri corsero subito all'assalto senza voler altro aspettare e senza aver fatta riconoscere la breccia. Ma quand'ebbero appena passata la muraglia, furono trattenuti da una larga fossa, che non credevano di trovare, e che non potevano superare. Dopo avere fatto qualche inutile sforzo per attraversarla ed avere perduta molta gente, furono dall'oscurità della notte costretti a ritirarsi nel loro accampamento; e dopo questo sperimento più non vollero tentare verun vigoroso attacco[94].
Non è già che alle truppe francesi mancasse il coraggio, ma sibbene la volontà di nuocere ai Pisani. Appena avevano questi veduto avvicinarsi l'armata destinata ad espugnarli, che avevano trovato il modo di risvegliare nella medesima col loro affetto, colla loro confidenza, e nello stesso tempo col loro valore l'antica parzialità tanto chiaramente dichiarata ai tempi di Carlo VIII. L'armata francese trovavasi ancora nel territorio di Lucca, allorchè due ambasciatori pisani eransi presentati al Belmonte per dichiarargli che ponevano la loro città sotto la protezione del re di Francia. Altri nello stesso tempo erano stati a portare una simile dichiarazione a Filippo di Rabenstein, governatore di Genova a nome del re, e questo capitano l'aveva imprudentemente accettata a nome di Lodovico XII. Allorchè il Belmonte spedì un araldo d'armi ad intimare ai Pisani d'aprirgli le porte della città, risposero di non aver altro desiderio che quello d'ubbidire al re di Francia, e di ricevere la sua armata entro le loro mura; al che non mettevano che una sola condizione: che il re non gli assoggetterebbe giammai ai Fiorentini[95].
Dal canto suo il Belmonte aveva mandato ai Pisani due gentiluomini, Giovanni d'Arbouville ed Ettore di Montenart, per invitarli a darsi volontariamente agli antichi loro padroni. Questi cavalieri, condotti in cerimonia al palazzo del comune, vi trovarono il ritratto di Carlo VIII esposto alla venerazione del popolo col titolo di liberatore di Pisa: furono supplicati a non distruggere l'opera di questo re, protettore della libertà pisana, ma piuttosto ad invitare il loro capo a ricevere sotto il dominio francese i liberti di Carlo, o almeno ad accordar loro un asilo in Francia, poichè i Pisani erano apparecchiati ad abbandonare le case e la patria loro, piuttosto che tornare sotto il comando de' Fiorentini. Cinquecento fanciulle, vestite di bianco, si fecero loro intorno, e stringendo le loro ginocchia, e piangendo gli andavano scongiurando a mostrarsi, secondo il loro giuramento di cavalleria, i difensori delle matrone e delle vergini contro la brutale insolenza de' loro nemici: «Se voi non potete, soggiunse una di loro, accordarci l'ajuto delle vostre spade, non ci rifiuterete quello delle vostre preghiere;» ed all'istante li trassero innanzi all'immagine della Beata Vergine, dove cominciarono a cantare in così pietosi modi e con tali lamentevoli voci, che cavavano le lagrime a tutte le persone[96].
Il Belmonte aveva ottenuto di spingere le sue truppe al primo assalto, perchè il sentimento dell'onore e della militare disciplina avevano fatto tacere gli affetti del cuore. Ma dopo essere stati perdenti in questo primo attacco, i Francesi cercarono avidamente qualche pretesto per non tentarne altri. I Pisani mai non ricusavano, fosse di giorno o di notte, di aprire le porte ai soldati francesi che desideravano di entrare in città. Sempre gli accoglievano colla medesima ospitalità e collo stesso affetto; li colmavano di doni, e loro mostravano pure le batterie coperte, affinchè i loro amici, che stavano al campo, non vi si esponessero. I Francesi non erano meno attenti a gratificare i Pisani, lasciando entrare i rinforzi che loro giugnevano dalle altre città della Toscana, e lasciando tra gli altri passare Tarlatino di Città di Castello, luogotenente di Vitellozzo, che tanto si rese illustre in questa guerra coll'intelligenza somma e colla costanza con cui diresse dopo tale epoca la difesa dei Pisani. Dall'altro canto i Francesi saccheggiarono i convoglj di vittovaglie, che venivano condotti al proprio accampamento, per avere poi occasione di lagnarsi dei Fiorentini che loro mancar lasciassero i viveri. Ogni giorno manifestavasi sempre più contro di questi la loro animosità. Non potendo il Belmonte rimettere la disciplina nel suo campo, all'ultimo disse a Luca degli Albizzi, commissario rimasto presso di lui, ch'egli era determinato di levare l'assedio; e perchè l'Albizzi si opponeva con vivacità per l'onore medesimo del re di Francia e delle sue armi, gli Svizzeri lo fecero prigioniero, dichiarando di volerlo custodire come pegno di certi soldi dovuti ad alcuni loro compatriotti fin dal tempo della guerra di Livorno. Convenne assoggettarsi a questa nuova violenza; Luca degli Albizzi venne redento con mille trecento ducati, e l'armata, che aveva fatta una così vergognosa campagna, ripigliò il 18 di luglio la strada della Lombardia[97].
La ritirata delle truppe francesi ridusse i Fiorentini alla disperazione. Contando essi sulla potente loro assistenza, e non potendo nel medesimo tempo sostenere una duplicata spesa, avevano licenziati i proprj soldati, di modo che si trovavano quasi del tutto disarmati, onde i Pisani non durarono fatica a riprendere Librafratta ed il bastione della Ventura. Inoltre Lodovico XII, siccome usano di fare le potenze alleate a più deboli stati, imputava ai Fiorentini la cagione del mal esito, dovuto all'indisciplina delle sue proprie truppe. Estremo era il suo sdegno contro la repubblica, ch'egli accusava d'avere lasciato il campo senza vittovaglie, d'avere male assecondati i suoi generali, ed in particolare di essersi ostinata a scegliere il Belmonte piuttosto che Ivone d'Allegre. Convenne che i Fiorentini pensassero a giustificarsi innanzi a quegli di cui avevano ragione di dolersi, e convenne addolcire il rifiuto, che la repubblica credette di dover fare, di condurre nel susseguente anno una nuova armata francese sotto Pisa per attaccare quella città con maggiore vantaggio[98].
Dopo così sgraziata campagna, Firenze rimase debole e circondata di nemici: le rivali città di Genova, di Lucca e di Siena si rallegravano della sua umiliazione, ed apertamente soccorrevano i Pisani. Nello stesso territorio fiorentino, in proporzione delle sventure della metropoli, si accrescevano il malcontento e le disposizioni alla ribellione. A Pistoja le due fazioni dei Cancellieri e dei Panciatichi ricominciarono una guerra civile di cui credevasi spenta ogni ricordanza dopo un intero secolo di un più fermo governo. In sul cominciare del 1501 tutti i Panciatichi furono cacciati di città; il 25 di febbrajo furono condannati come ribelli, e si bruciarono le loro case, abbandonando ai soldati i loro effetti. In appresso i Cancellieri li perseguitarono anche fuori di città fino a san Michele e gli assediarono nella chiesa di tal nome; ma vennero colà sorpresi dai partigiani de' Panciatichi, che si erano adunati in gran numero per liberare i loro capi, e gli assedianti perdettero più di dugento persone[99]. La repubblica fiorentina, che non aveva quasi più soldati sotto i suoi ordini, ed il di cui tesoro era stato affatto smunto dalle incessanti domande del re di Francia, nè poteva tenere la campagna contro Pisa, nè frenare i Pistojesi, nè gastigare i capi delle nuove sedizioni.
La libertà toscana pareva minacciata dal più triste avvenire; un'invincibile gelosia acciecava tutti i vicini di Firenze e li faceva cospirare alla ruina di lei; un generale fermento faceva temere nuove rivoluzioni tra i sudditi di lei; l'instabilità di un governo che rifacevasi ogni due mesi, e che non conservava per verun rispetto la tradizione dell'antica sua politica, inspirava uguale diffidenza agli stranieri ed ai cittadini. Venezia aveva preso a proteggere la famiglia usurpatrice, che voleva risalire sul trono; il duca di Milano ed il re di Napoli più non tenevano alternativamente la bilancia dell'Italia, ed il re di Francia, ch'era succeduto al primo e stava per rovesciare l'altro, più non proteggeva la repubblica. Il papa di lei più prossimo vicino era pure il di lei più pericoloso nemico, perciocchè, sagrificando ogni sentimento di dovere, ogni cura dell'indipendenza della Chiesa, e la buona fede ed il pudore all'ingrandimento di suo figlio, aggiugneva le perfidie ed i falsi giuramenti alle armi spirituali e temporali per assoggettare la Toscana a Cesare Borgia.
La repubblica, costretta dalla sua povertà a deporre le armi, pareva comprovare ai suoi vicini le pacifiche sue disposizioni, ed invece somministrò precisamente con tale atto a Cesare Borgia il pretesto che desiderava per cominciare le ostilità. Questi, dopo avere occupata Faenza il 22 aprile del 1501, disponevasi ad attaccare Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, quando il condottiere Rinuccio di Marciano, licenziato dai Fiorentini, passò al soldo di questo signore colla sua compagnia; il papa e suo figliuolo si dolsero subito altamente che la repubblica spedisse soccorsi ai loro nemici, cercando soltanto di travisarli con una troppo comune astuzia[100].
Cesare Borgia si era innoltrato verso i confini del Bolognese fino a castel san Piero sulla strada d'Imola. Colà ebbe ordine da Lodovico XII di non passar oltre, perchè il Bentivoglio si era posto sotto la speciale protezione della Francia[101]. Infatti si astenne dall'attaccarlo, ma si valse dello spavento che gli faceva per dettargli nuove condizioni. Da lui ottenne la cessione di Castel Bolognese posto tra Imola a Faenza, la promessa di un tributo di nove mila ducati, e quella di cento uomini d'armi e di due mila fanti, che il Borgia contava di adoperare contro Firenze. Per prezzo di questa nuova alleanza il perfido Borgia rivelò al Bentivoglio le intelligenze che aveva coi Marescotti, potente e ricca famiglia e seguìta da numerosi clienti, la quale fin allora erasi mostrata interamente attaccata al principe. Il Bentivoglio ordinò a suo figliuolo Ercole di assassinare Agamennone Marescotti, capo di quella famiglia, ed in seguito fece uccidere altre trentaquattro persone tra fratelli, figli, figlie o nipoti, e altre dugento parte parenti e parte amici. Finchè tanta carnificina non fu terminata, le porte di Bologna si tennero chiuse. Il Bentivoglio costrinse tutti i figli delle più nobili famiglie a prendervi parte, per renderli odiosi al partito contro cui voleva inferocire, e per attaccarli alla propria fortuna col timore della rappresaglia[102].
Il duca Valentino non aveva mai calcolato di trattenersi lungamente per soggiogare Bologna. Firenze era l'oggetto de' suoi apparecchi; egli aveva chiamato alla sua armata Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello, che ardentemente desiderava di vendicare la morte di suo fratello, e gli Orsini, parenti ed alleati dei Medici. Fino dal mese di gennajo aveva mandati a Pisa alcuni rinforzi sotto gli ordini di Ranieri della Sassetta, e di Pietro Gambacorti[103]. Poi ch'ebbe terminata la conquista della Romagna, mandò a Pisa altri distaccamenti comandati da Oliverotto di Fermo, favorito ed uno de' più riputati luogotenenti del Vitelli[104]. Aveva avuti alcuni abboccamenti con Giuliano de' Medici, che si era portato fino a Bologna, e sperava col di lui mezzo di armare contro la sua patria tutti i partigiani della sua esiliata famiglia. Egli ben sapeva che i Medici sarebbero sempre disposti ad accettare alle più vergognose condizioni qualunque si fosse parte della sovranità della Toscana che offrisse loro; ed infatti Giuliano de' Medici, dopo avere tutto convenuto con Cesare Borgia, partì in posta alla volta della Francia, onde persuadere Lodovico XII a rifiutare ogni soccorso ai Fiorentini[105].
Pure tutte le operazioni del Valentino dovevano rimanere subordinate ai vasti progetti che Lodovico XII aveva formati contro Napoli. E di già l'esercito destinato a tale impresa cominciava a porsi in cammino. La più forte colonna, condotta dal d'Aubignì, doveva attraversare la Romagna, e raccogliervi le truppe francesi, che sotto il comando d'Ivone d'Allegre avevano fin allora secondato il duca Valentino; un'altra colonna, sotto gli ordini del balivo d'Occan, doveva tenere la strada della Lunigiana, attraversare Pisa ed unirsi nello stato di Piombino con Cesare Borgia, ch'erasi obbligato a seguire i generali francesi nel regno di Napoli. E precisamente in occasione di questa sua andata alla volta di Piombino, egli pensava di dare compimento alle rivoluzioni di cui minacciava la Toscana.
Cesare Borgia entrò in quella provincia dalla banda di Bologna con settecento uomini d'armi e cinque mila fanti, partecipando alla repubblica fiorentina di volere attraversare il suo territorio come amico, per passare a Roma, e altro non chiedendo che vittovaglie contro pagamento a danaro. Ma quando ebbe passate le gole delle montagne, e fu arrivato a Barberino, mutò linguaggio. Allora dichiarò di non potere mostrarsi l'amico della repubblica, fintanto che non la vedesse sottomessa ad un governo del quale potesse fidarsi; che la chiamata dei Medici poteva sola rispondere a' suoi occhi di una stabile amministrazione; che in conseguenza chiedeva il ristabilimento di Piero de' Medici in tutta l'autorità che aveva avuta in addietro; e questi stava aspettando a Lojano, villaggio posto al confine del Bolognese, il risultamento di tali minacce. Inoltre il Borgia chiedeva, che sei cittadini, indicati da Vitellozzo, fossero posti in suo potere, onde portare la pena dell'ingiusta sentenza pronunciata contro Paolo Vitelli; che la signoria si obbligasse a non soccorrere il signore di Piombino; e finalmente che prendesse lui medesimo al suo soldo con una condotta conveniente all'elevata sua dignità[106].
I Fiorentini avevano in allora alla testa della loro repubblica una signoria che non inspirava nè rispetto nè confidenza, molti suoi membri si avevano sospetti di essere segretamente d'accordo coi Medici o col Borgia per sopprimere il gran consiglio, e per ritirare la sovranità dalle mani del popolo. Verun uomo di straordinario ingegno, veruno di grande riputazione si era acquistata una decisiva influenza sulle risoluzioni del governo; e perchè le circostanze erano realmente difficili, niuno osava prendere ardite misure per uscire d'imbarazzo. Vero è che la signoria armò una parte della milizia delle campagne, che pose alla loggia de' Pazzi, a Fiesole ed a Bello Sguardo per difendere Firenze; ma nello stesso tempo vietò qualunque ostilità, minacciò di punire severamente i contadini che opporrebbero qualche resistenza ai soldati del Borgia, ed accordò a costui di attraversare a piccole giornate il territorio fiorentino, saccheggiando e guastando tutto ciò che incontrava, sebbene pretendesse sempre di essere l'amico ed il confederato della repubblica.
Tra i capitani di Cesare Borgia eranvene due, che non parevano fatti per inspirare diffidenza ai Fiorentini. Raffaele dei Pazzi e Marco Salviati discendevano da due famiglie, rendute illustri dalla congiura del 1478, e poco doveva temersi che facessero causa comune coi Medici. Tuttavolta la vanità offesa delle grandi famiglie suole piuttosto riconciliarsi con ogni specie di tirannide che col governo popolare. I due figli di coloro che avevano congiurato a favore della libertà, congiurarono per l'assoluto potere; concertarono coi loro amici di Firenze, che i partigiani dei Medici si renderebbero padroni del palazzo, mentre ch'essi medesimi coi soldati dei Vitelli si presenterebbero alle porte della città[107]. Questa cospirazione era in sul punto di scoppiare, quando Cesare Borgia, che non aveva che pochi giorni da trattenersi in Toscana, e che, nell'istante in cui dovrebbe partire alla volta di Napoli, non potrebbe cavarne tutto quel partito che poteva sperarne in migliore congiuntura, preferì di protrarre i suoi progetti, e di approfittare del timore che aveva inspirato ai capi della repubblica per estorcere una grossa somma di danaro. Infatti si fece promettere per tre anni l'annuo soldo di 36,000 ducati, promettendo di tenere trecento uomini d'armi pronti a soccorrere la repubblica in ogni suo bisogno. Costrinse la signoria a rinunciare alla protezione del signore di Piombino, ma non si ostinò rispetto al domandato cambiamento della costituzione, o riguardo alla soddisfazione da darsi a Vitellozzo[108].
Non fu che il 4 luglio del 1501, che Cesare Borgia entrò finalmente nel territorio di Piombino. Il signore di quel piccolo stato, Giacomo IV di Appiano, aveva preventivamente guastato il proprio paese, bruciati i foraggi, tagliati gli alberi e le viti, e distrutte le poche fonti che somministravano acque salubri. Erasi in appresso chiuso nel castello di Piombino co' suoi più affezionati vassalli, e con alcuni Corsi che aveva preso al suo soldo. In pochi giorni Suvereto, Scarlino, l'isola d'Elba e quella di Pianosa si arresero al duca Valentino; ma il castello di Piombino richiedeva un regolare assedio; ed esso aveva di già resistito più giorni, quando il Borgia si vide forzato ad allontanarsi il 28 di giugno per seguire l'armata francese[109]. Nulladimeno lasciò ai suoi luogotenenti, Vitellozzo Vitelli e Gian Paolo Baglioni, l'ordine di stringere l'assedio. Giacomo d'Appiano, che vedevasi vicino a doversi arrendere, e che temeva di cadere in mano del crudele Borgia, passò il 17 di agosto a Livorno, ed in appresso a Genova, sperando di persuadere i Genovesi a comperare il suo piccolo feudo, e porlo così sotto la protezione della Francia; ma la guarnigione, che più non veniva incoraggiata dalla presenza del capo, si arrese il giorno 3 di settembre, ed il Borgia pose allora il primo fondamento della sua potenza in Toscana[110].
Il compimento degli ambiziosi disegni del Borgia veniva sospeso dal passaggio dell'armata francese a traverso all'Italia, e la politica di tutti i potentati della penisola era subordinata a quella della corte di Francia, la quale omai non risguardava la conquista del Milanese che come un passo necessario per far quella del regno di Napoli; l'imprudente intrapresa di Carlo VIII pareva diventata pel di lui successore di facile ed indubitata esecuzione. Le truppe francesi, quando avevano valicate le Alpi, trovavano in Lombardia abbondanti granai e fortissime città, di cui liberamente disponevano, e che loro assicuravano il cammino fino nel centro dell'Italia. La repubblica di Venezia, che aveva contrariati i progetti di Carlo VIII, era alleata di Lodovico XII; e trovavasi inoltre implicata in una pericolosa guerra coll'impero turco, onde non poteva temersi che volesse provocare ostilità sugli opposti confini. La Toscana divisa e debole dipendeva dagli ordini della Francia, e non erano meno ubbidienti i principi confinanti coi Veneziani. Il papa, non prendendo consiglio che dall'ambizione di suo figliuolo, era diventato egli stesso un affezionato servitore del re. Don Federico, riposto sul trono dall'affetto dei popoli, non aveva nè tesoro nè armate; il suo regno guastato, le fortezze atterrate, gli arsenali vuoti, non gli lasciavano quasi verun mezzo di resistenza; ed i suoi sudditi, ruinati da una guerra crudele, non potevano pagare le imposte necessarie per ristaurare tutto ciò ch'era stato distrutto.
Ma se Lodovico XII risguardava facile la conquista del regno di Napoli, non vedeva la stessa facilità di conservarlo; aveva timore dei re di Spagna, i quali dai porti della Catalogna e della Sicilia potevano con estrema facilità spedire rinforzi al re di Napoli, e nello stesso tempo fare una diversione dalla banda dei Pirenei; temeva Massimiliano, che, pubblicando in ogni dieta il proprio risentimento, poteva finalmente armare contro di lui la Germania; non si fidava degli Svizzeri, che, fatti più inquieti ed intrattabili dopo avere tradito Lodovico Sforza, mostravano di voler cancellare con qualche luminoso fatto la vergogna di cui si erano coperti, e che da Bellinzona, in cui si afforzavano, minacciavano tutta la Lombardia. All'ultimo Lodovico XII temeva che le proprie truppe cadessero vittime di quel clima meridionale, di cui avevano di già sperimentata la funesta influenza.
Dal canto suo don Federico tutta conosceva la propria debolezza, e non aveva risparmiate nè le preghiere, nè le più rispettose pratiche per ottenere la pace. Aveva offerto di riconoscersi feudatario del re di Francia, di pagargli un tributo, di dargli in mano le più forti sue piazze e di ricevervi guarnigione francese. Si era insomma fatto conoscere apparecchiato di cedere al re tutti i vantaggi di una conquista, senza esporre i soldati alle vicende della guerra, nè i paesi contestati ai loro guasti[111]. Per uno strano accecamento Lodovico XII rifiutò tutte queste offerte, e preferì di trattare a meno vantaggiose condizioni con un uomo, che doveva inspirargli maggiore diffidenza, e che, non potendo secondarlo senza commettere una perfidia, avrebbe dovuto farlo arrossire di così fatta alleanza.
Lodovico XII riaprì adunque con Ferdinando il cattolico le negoziazioni cominciate sotto Carlo VIII, e ch'egli aveva rotte, smentendo le facoltà de' suoi agenti, quando aveva creduto di non aver che temere da quel monarca. Pretendeva Ferdinando che Alfonso I non avesse avuto il diritto di disporre del regno di Napoli, da lui conquistato, a favore di suo figlio naturale; e, dichiarandosi egli medesimo erede di quel monarca, offriva a Lodovico XII di dividere quel regno, sul quale la casa di Francia pretendeva di avere legittimi diritti quale erede della casa d'Angiò, e la casa di Arragona quale erede di quella di Durazzo, senza venire nuovamente all'esperimento delle armi per cotali diritti controversi che avevano tanto tempo lordato di sangue l'Italia. Ferdinando facevasi garante verso Lodovico XII del buon successo dell'impresa; conciossiachè Federico aprirebbe egli medesimo le migliori sue piazze alle truppe spagnuole, che vi sarebbero ricevute per difenderle, ma che invece non vi entrerebbero che per darle alla Francia. L'undici di novembre del 1500 venne sottoscritto in Granata questo trattato d'Alleanza tra Lodovico XII e Ferdinando ed Isabella, ma si tenne gelosissimamente segreto. Le parti contraenti convennero di attaccare contemporaneamente il regno di Napoli, e di dividerselo in maniera, che a Lodovico restasse Napoli, la Terra di Lavoro e gli Abbruzzi coi titoli di re di Gerusalemme e di Napoli, ed al re Ferdinando toccasse la Puglia e la Calabria col titolo di duca di quelle due province. I due re non si obbligavano ad ajutarsi reciprocamente nell'acquisto delle province rispettive, ma soltanto a non nuocersi. In seguito dovevano ambidue ricevere l'investitura dal papa, riconoscendosi immediatamente dipendenti dalla Chiesa[112].
Nello stesso tempo in cui Ferdinando sottoscriveva questo trattato, prendeva le opportune misure per eseguirlo, senza nè risvegliare i sospetti di don Federico, nè di verun principe dell'Europa, ma per lo contrario affettando, secondo la consueta sua politica, di essere soltanto inteso ai vantaggi della Chiesa ed alla difesa della Cristianità. Erasi mostrato vivamente commosso dalle vittorie ottenute dai Turchi sopra i Veneziani nel Peloponneso e nell'Adriatico, ed aveva mandato in ajuto della repubblica il suo migliore generale, Gonsalvo di Cordova, con una flotta di quasi sessanta vascelli armati a Malaga, e montati da mille dugento cavalli e da otto mila fanti della miglior milizia. Quest'armata, di cui dovremo parlare in appresso, secondò valorosamente i Veneziani, poi svernò in Sicilia, per essere pronta ad eseguire i segreti disegni di Ferdinando il Cattolico[113].
Lodovico XII più svelatamente apparecchiavasi alla guerra per eseguire un trattato non meno imprudente che vergognoso, in forza del quale introduceva in quell'Italia, di cui era arbitro, un rivale che un giorno potrebbe scacciarnelo. Il suo esercito, comandato dal d'Aubignì, contava mille lance, quattro mila Svizzeri e sei mila tra Guasconi ed avventurieri. In pari tempo Filippo di Rabenstein, fratello del duca di Cleves, governatore di Genova, conduceva sulle coste del regno di Napoli sedici vascelli brettoni e provenzali, sei caracche genovesi e sei mila cinquecento uomini da sbarco[114].
Dal canto suo don Federico, il quale aveva preso al suo soldo i Colonna, teneva sotto i suoi ordini settecento uomini d'armi, seicento cavalleggeri e sei mila fanti; ma riponeva ogni sua speranza in Gonsalvo di Cordova, che sapeva trovarsi in Sicilia con un'armata composta di eccellenti truppe, e che gli era annunciato da suo cugino Ferdinando come apparecchiato a difenderlo. Federico affrettava Gonsalvo a raggiungerlo a Gaeta, e gli faceva aprire tutte le città della Calabria, nelle quali diceva il generale esservi bisogno di porre guarnigioni per guarentire le posizioni della sua armata. Nello stesso tempo Federico faceva istanza all'imperatore dei Turchi di difendere un regno che poteva risguardare come antimurale del suo impero. Mandò a Taranto, la più forte città de' suoi stati, il suo figliuolo primogenito Ferdinando, sebbene ancora fanciullo; ed egli andò ad accamparsi a san Germano, dove dovevano raggiugnerlo tutte le truppe che gli conducevano i Colonna e quelle di Gonsalvo di Cordova[115].
Ma il 6 di giugno del 1501, essendo l'armata francese, divisa in due colonne, entrata già nello stato della Chiesa, gli ambasciatori francesi e spagnuoli presentaronsi insieme al papa ed al sacro collegio per partecipar loro il trattato di divisione del regno di Napoli, sottoscritto già da sei mesi dai proprj sovrani. Nello stesso tempo dichiararono che i loro padroni non miravano ad altro, mettendosi in possesso del regno di Napoli, che ad acquistare nuovi mezzi per attaccare di concerto l'impero ottomano. Chiesero al papa di appoggiare così pia intenzione, accordando ai loro sovrani l'investitura delle province toccate nella divisione all'uno ed all'altro. Alessandro VI non poteva che applaudire ad un accomodamento che veniva a farlo arbitro fra i suoi due potenti feudatarj. Pure non pubblicò la sentenza che spogliava Federico del trono di Napoli che quando l'esito della guerra era già deciso, sebbene cotale sentenza fosse già stata pronunciata in un segreto concistoro tenuto il 25 di giugno[116].
Ferdinando era il più prossimo parente di don Federico, ed il suo più intimo alleato; gli aveva inspirato una illimitata confidenza; aveva di fresco impetrato ed ottenuto il soprannome di Cattolico, e sempre ostentava in faccia alla Cristianità l'ipocrita suo zelo pel dilatamento della fede e per la difesa della Chiesa; onde l'insigne suo tradimento eccitò quasi tanta indignazione negli stranieri che nello stesso don Federico. Gonsalvo di Cordova, volendo fino alla fine ingannare questo sventurato principe, gli scrisse per ismentire ciò che l'ambasciatore spagnuolo aveva pubblicato in Roma, e per dichiarare d'essere sempre disposto a difendere colla sua armata il nipote ed il più caro alleato del suo padrone. Queste proteste gli servirono a calmare le province ch'egli voleva attraversare, ed a facilitargliene l'occupazione: e soltanto dopo che l'armata francese toccò i confini del regno, Gonsalvo, confessando la vergognosa sua commissione, spedì sei galere a Napoli per levare le due vecchie regine, una sorella, l'altra nipote dei suo re[117].
I mezzi di resistenza che Federico aveva apparecchiati più non bastavano contro questa doppia aggressione. I suoi soli alleati, i Colonna, erano dal canto loro attaccati ad Alessandro VI, ed avevano preso il necessario partito di abbandonare tutte le loro terre, ad eccezione di Amelia e di Rocca di Papa, nelle quali avevano poste guarnigioni[118]. La ribellione era di già scoppiata in san Germano e ne' vicini luoghi, non perchè Federico non fosse amato più che i Francesi, ma perchè i suoi sudditi non volevano prender parte in una guerra che loro non lasciava veruna speranza. Federico, tuttavia incerto sul partito cui doveva appigliarsi, e non potendo mantenersi in campagna, chiuse le sue truppe nelle migliori piazze, per darsi tempo di prendere più maturi consiglj. Fabrizio Colonna, cui fu dato per compagno il conte Rinuccio di Marciano, entrato recentemente al servizio di Napoli, fu incaricato della difesa di Capoa con trecento uomini d'armi, alcuni cavalleggeri e tre mila fanti; don Federico occupò Aversa con un'altra parte della sua armata, e Prospero Colonna prese sopra di sè la difesa di Napoli[119].
Frattanto il d'Aubignì aveva, avanzandosi, bruciato Marino, Cavi ed altri castelli dei Colonna, per vendicare alcuni baroni, partigiani della Francia, che questi avevano fatto uccidere in Roma. Giulio Colonna, che doveva difendere Montefortino, abbandonò quella piazza in un modo poco onorevole, e l'armata francese si trovò padrona di tutto il paese di confine fino al Volturno. Questo fiume sarebbesi difficilmente passato in faccia a Capoa, ma il d'Aubignì, avvicinandosi alle montagne, lo attraversò a minore distanza dalla sua sorgente, ed occupò Aversa, da cui Federico dovette ritirarsi, indi sottomise Nola e tutto il paese fino a Napoli. In seguito ripiegò verso Capoa e la investì contemporaneamente dalle due bande del fiume. La guarnigione rispinse valorosamente il primo assalto dato dai Francesi, ma si trovò molto danneggiata: aveva veduto da vicino il pericolo, e temeva di soggiacere in un altro attacco; di modo che il 24 di luglio del 1501 domandò di capitolare. Il conte di Cajazzo venne ricevuto sul bastione ad un abboccamento con Fabrizio Colonna, per trattare intorno alle condizioni della resa. La guarnigione, che già da otto giorni veniva chiamata alla custodia delle mura, credette non essere più necessaria tanta vigilanza, quando erano omai convenute le condizioni della resa; e mentre si stava trattando, i Francesi penetrarono in città. Assicurasi che un borghese ne aprì loro le porte, ma che fu all'istante ucciso dai vincitori. Capoa, sorpresa mentre credeva di arrendersi, venne trattata con tutta la crudeltà in allora propria delle guerre degli oltremontani in Italia: furono uccisi sette mila abitanti nelle strade[120], tutte le proprietà saccheggiate, e tutte le donne abbandonate alla brutale libidine de' soldati; ma tanto grande era l'orrore che inspiravano, che non poche matrone si precipitarono nei pozzi per sottrarsi colla morte al disonore. Nè più degli altri luoghi furono rispettate le chiese ed i conventi, e finchè agli sventurati Capoani rimase qualche cosa da perdere, i generali francesi, che in faccia a que' nuovi sudditi pretendevano di rappresentare il legittimo sovrano, non li coprirono colla loro protezione. Finalmente il saccheggio era cessato, il soldato era calmato e ristabilita la disciplina, quando si seppe che una torre della città aveva servito di rifugio a molte donne. Cesare Borgia le fece tutte condurre presso di sè, e dopo averle diligentemente esaminate, scelse le quaranta più belle e le mandò nel suo palazzo di Roma per formare il suo serraglio[121].
Fabrizio Colonna, don Ugo di Cardone, e più altri distinti capitani rimasero tra i prigionieri. Il conte Rinuccio di Marciano, ferito da una freccia, era pure rimasto in mano de' soldati del Valentino, ma morì il secondo giorno; e fu creduto che Vitellozzo Vitelli avesse fatte avvelenare le sue ferite, sovvenendosi che la rivalità di questo capitano con suo fratello Paolo era stata una delle cagioni del di lui supplicio[122].
La perdita di Capoa portò l'ultimo colpo alla di già vacillante fortuna di Federico. Egli abbandonò la sua capitale, che più non poteva difendere, si chiuse in Castel Nuovo, e permise alle città di Napoli e di Gaeta di aprire, senza essere attaccate, le porte ai Francesi. La prima si riscattò dal sacco con una contribuzione di sessanta mila ducati; ed il 25 di agosto, sei giorni dopo l'ingresso dei Francesi in Napoli, don Federico consegnò loro anche Castel Nuovo. Egli convenne col d'Aubignì di porlo pacificamente in possesso di tutto ciò che ancora possedeva in quella parte del regno di Napoli, che dava ai Francesi il trattato fatto con Ferdinando il Cattolico, riservandosi soltanto l'isola d'Ischia che per lo spazio di sei mesi non potrebbe essere attaccata. Nello stesso tempo stipulò un'amnistia per tutti coloro che si erano dichiarati contro la Francia dopo la conquista di Carlo VIII, e riservò ai cardinali Colonna e di Arragona il godimento delle rendite ecclesiastiche che avevano nel regno[123].
Giammai non si erano vedute più illustri vittime delle politiche rivoluzioni, di quelle che allora si trovavano nell'isola d'Ischia. Eravi in quel castello Beatrice d'Arragona, sorella di don Federico, da prima consorte del gran Mattia Corvino, re d'Ungheria, poi di Uladislao, re di Boemia. Costei aveva col suo favore procurata ad Uladislao la corona d'Ungheria; e questi in contraccambio l'aveva ripudiata per isposare un'altra donna. Eravi pure Isabella, duchessa di Milano, nipote di don Federico, che aveva tutt'ad un tratto perduta la sua sovranità, quella di suo padre, il consorte e il figlio; finalmente lo stesso Federico, che trovavasi in quella rocca con sua moglie e quattro figliuoli in tenera età. Vero è che non istette lungamente in questo ritiro, dove avrebbe più prudentemente adoperato, aspettandovi qualche cambiamento di fortuna. Così violenta era la sua indignazione contro suo cugino, Ferdinando d'Arragona, che preferì di darsi in braccio ad un nemico che lo aveva sempre combattuto a forza aperta. Egli si attenne al consiglio di Filippo di Rabenstein ch'era giunto presso Ischia colla sua flotta: da quest'ammiraglio ebbe un salvacondotto per passare in Francia con cinque galere leggeri, mentre spedì la maggior parte de' suoi uomini d'armi a Taranto che si difendeva ancora a nome di suo figlio primogenito. Affidò il comando d'Ischia al marchese del Guasto ed alla contessa di Francavilla. Lasciò pure in quell'isola Fabrizio e Prospero Colonna, il primo de' quali era stato forzato a riscattarsi dai Francesi dopo la presa di Capoa. Lodovico XII, commosso dalla confidenza di don Federico, gli accordò infatti il ducato d'Angiò e trenta mila scudi di rendita, invece del regno che aveva perduto; ma a condizione che mai non uscirebbe dalla Francia: e sebbene non fosse suo prigioniere, e fosse venuto sotto la fede di un salvacondotto, Lodovico XII lo pose sotto la sopravveglianza del marchese di Rothelin, che con trecento uomini ebbe ordine di fare onorevole guardia alla sua persona, ma in fatto per tenerlo ubbidiente[124].
La conquista dell'altra metà del regno di Napoli che faceva Gonsalvo di Cordova non fu così rapida; l'aveva cominciata più tardi e con più deboli forze, ed inoltre aveva incontrato maggior resistenza negli abitanti. Vedevano questi con estremo dolore la loro patria divisa, e poichè dovevano cessare d'avere il proprio re, avrebbero almeno preferito di passare sotto il dominio francese. Pure, perchè il loro sovrano gli aveva abbandonati, e niun altro principe prendeva a difenderli, si andarono assoggettando di mano in mano che gli Spagnuoli intimavano loro di arrendersi. Le sole città di Manfredonia e di Taranto sostennero un assedio: breve fu quello di Manfredonia, ma quello di Taranto lunghissimo, sebbene diretto dallo stesso Gonsalvo. La città, posta in un'isola unita da due ponti al continente e abbondantemente provveduta di vittovaglie, era abbastanza forte per rendere lungamente vani tutti gli sforzi degli assedianti; e Giovanni di Guevara, conte di Potenza, governatore del giovanetto Ferdinando, che vi comandava, affidato alla naturale forza della piazza, evitava le sortite, le scaramucce ed ogni piccola zuffa che ad altro non avrebbero servito che ad indebolire la guarnigione. All'ultimo avendo Gonsalvo trasportato una ventina di navi armate entro al seno di diciotto miglia di circuito, detto dai Tarentini mare interno, il conte di Potenza, che non credeva di essere attaccato da quella banda, e non vi aveva fatte nuove opere di difesa, si mostrò disposto a capitolare, tanto più che il Gonsalvo gli aveva fatte offrire onoratissime e vantaggiose condizioni. Il generale del re cattolico giurò sull'ostia nella più solenne forma, che accorderebbe al giovane Ferdinando, duca di Calabria, la libertà di ritirarsi ove più gli piacesse. La città fu ceduta a tal patto, ed il giovane principe si affrettò, in conformità agli ordini avuti da suo padre, di prendere la strada di Bitonto per passare nella parte del regno occupata dai Francesi. Ma non era appena giunto in quella città, che fu arrestato per ordine di Gonsalvo, ricondotto a Taranto, e di là imbarcato e mandato prigioniero in Ispagna, malgrado le rimostranze sue e del governatore, che amaramente rimproveravasi d'averlo precipitato nella rete. Gonsalvo di Cordova era un uomo religioso fino alla superstizione ed al fanatismo; e non pertanto si rendeva per politica colpevole del più insigne spergiuro; ma non volendo illuminare la propria coscienza, rimettevasi in tutto al suo direttore, e trovò teologi che gli dissero e pubblicarono per sua difesa, che aveva giurato non per sè medesimo, ma pel suo padrone, onde non era personalmente vincolato, come non lo era pure il suo sovrano, poichè il Gonsalvo erasi per lui obbligato senza sua saputa[125].
Così cadde per non rialzarsi più questo ramo della casa d'Arragona, che aveva regnato a Napoli con tanto splendore per lo spazio di sessantacinque anni, e avuto tanta influenza nell'incremento delle lettere italiane. Federico colla troppo precipitosa sua ritirata si privò dei mezzi che poteva presentargli la mala intelligenza dei monarchi che si erano diviso il suo regno. Egli morì in Angiò il 9 di settembre del 1504. Suo figlio Ferdinando, duca di Calabria, morì in Ispagna soltanto nel 1550, dopo essersi ammogliato due volte, ma sempre, secondo le viste della politica spagnuola, con donne conosciute sterili. Alfonso, il secondogenito, che aveva seguito il padre in Francia, morì a Grenoble nel 1515 non senza sospetto di veleno, e l'ultimo, Cesare, morì a Ferrara in età di diciott'anni. Tra le figlie del re Federico, la sola Carlotta, maritata col conte di Laval, lasciò prole[126].
CAPITOLO CI.
Guerra nel regno di Napoli tra Lodovico XII e Ferdinando il cattolico; rivoluzione d'Arezzo; conquiste di Cesare Borgia; carnificina di Sinigaglia; battaglia di Cerignole; i Francesi scacciati dal regno di Napoli.
1501 = 1503. Gli oltremontani, che in principio del sedicesimo secolo guerreggiavano in Italia, non dissimulavano in verun modo i sentimenti di diffidenza, di disprezzo, o di odio che nudrivano verso la nazione che venivano a combattere. Questi sentimenti mostravansi scopertamente nelle scritture de' contemporanei, e perchè i successivi avvenimenti più d'una volta li giustificarono, contribuirono a fondare in tutta l'Europa un pregiudizio svantaggioso alla nazione che all'ultimo soggiacque. Pure, almeno a quell'epoca, l'avversione degli oltremontani per gli Italiani altro non era che l'odio che nutrono tutti i barbari contro le nazioni ridotte a maggiore civiltà. Sentivano la superiorità dello spirito, del senno, delle cognizioni dei loro nemici, ma si esasperavano perciò contro la nazione. Essi rappresentavano questi vantaggi come necessariamente legati alla dissimulazione ed alla perfidia; si appropriavano invece la palma del valore e della lealtà, ed abbandonavano con dispregio agli Italiani il merito dell'astuzia e dell'avvedutezza. Ogni nazione, paragonandosi agli Italiani, si attribuiva qualità incompatibili con que' meschini artificj che sono proprj di un popolo giunto all'estrema civiltà; vantavano a vicenda la buona fede teutonica, la rozza franchezza elvetica, l'onore francese, la lealtà castigliana. Per altro ognuna di queste nazioni parve farsi carico di dare nel periodo di pochi mesi, in seno alla stessa Italia, tali prove di mala fede, che i più diffamati politici italiani non avrebbero mai pareggiate.
Massimiliano d'Austria, che ambiva di essere ancora più cavaliere che re, non aveva fino a tale epoca presa veruna importante parte negli affari d'Italia; soltanto più tardi ed in occasione delle sue contese con Venezia mostrò in particolar modo il suo disprezzo per le proprie promesse. Pure la sua inconseguenza aveva di già renduta la di lui alleanza fatale a coloro che l'avevano comperata: questa aveva ingannati i Pisani, cagionata la ruina di Lodovico Sforza, e contribuito a quella di Federico d'Arragona. Questo re di Napoli aveva prestati a Massimiliano quaranta mila fiorini, a condizione che non farebbe accordi colla Francia senza comprendervelo. Ma Massimiliano, che dalla sua insensata prodigalità veniva reso dipendente da tutti gli avvenimenti, e che durante tutto il suo regno altro non fece che dare parole a prezzo di danaro, e che mancare di fede per ricevere altre somme, acconsentì per un sussidio pagatogli dalla Francia a fare con questa una tregua di più mesi senza comprendervi don Federico, dando così tempo a Lodovico XII d'attaccare il re di Napoli e di precipitarlo dal trono[127].
Il tradimento degli Svizzeri a Novara, di cui fu vittima Lodovico Sforza, lasciava a quella nazione pochi titoli per vantare la sua lealtà; tanto più che quella transazione fu preceduta e seguita da molte altre, che, sebbene meno strepitose per l'importanza degli avvenimenti, e meno funeste nelle loro conseguenze, non perciò riuscivano meno contrarie alla fedeltà ed all'onore militare.
La condotta del governo francese era quasi sempre stata macchiata da un'eguale mala fede: aveva trafficate le sue alleanze coi Pisani, coi Fiorentini, col duca Valentino; aveva per una somma di danaro abbandonati ai suoi nemici coloro cui avevano più solennemente accordata protezione; e la costante sua alleanza con Cesare Borgia l'aveva fatto partecipe di tutti i delitti di quell'uomo perfido. Ad ogni modo la Spagna superava tutte le altre potenze per la impudenza della sua mala fede. Pareva che Ferdinando il Cattolico si recasse a merito di non promettere che per mancare, si facesse un trastullo de' giuramenti, come i fanciulli de' fantocci, e pigliasse diletto a moltiplicare gl'inganni anche più che non richiedeva il buon esito de' suoi disegni. I due spagnuoli, Alessandro VI e Cesare Borgia suo figlio, fondarono in certo qual modo col loro esempio la terribile scuola machiavellica; e lo stesso eroe della Spagna, Gonsalvo di Cordova, si espose più volte al rimprovero di perfidia.
Ma veruna transazione del secolo non portava l'impronta d'una violazione più perfida di tutti i diritti, di tutti i doveri, quanto il trattato di Granata per la divisione della monarchia di Napoli: verun'altra transazione disvelava in coloro che sottoscrissero un più alto disprezzo per le obbligazioni morali e per le leggi dell'onore. Bisognava essere accecati dalla cupidigia per isperare che l'una parte o l'altra eseguirebbe di buona fede una convenzione fondata sopra la sovversione di ogni fede, di ogni principio. Una tale convenzione non poteva produrre che la guerra e non la pace; ed infatti appena fu terminata la conquista del regno di Napoli dai due principi che avevano concertato tale tradimento, che cominciarono a contendersene le province.
Il trattato di divisione di Granata aveva avuto per base l'antica divisione del regno di Napoli in quattro province, attribuendosene due ogni potenza. La Campania comprendeva ciò che oggi chiamasi Terra di Lavoro ed i due principati; l'Abbruzzo comprendeva i due moderni Abbruzzi e la contea di Molise. Queste erano le province assegnate alla Francia. La Puglia comprendeva la Capitanata, la terra di Bari e quella di Otranto; la Calabria comprendeva la Basilicata e le due moderne Calabrie. Per altro quest'antica divisione di province era stata cambiata dal re Alfonso I. Le province della Capitanata e della Basilicata, staccate una dalla Puglia l'altra dalla Calabria, non erano state chiaramente indicate nel trattato di Granata siccome devolute al re di Spagna. Alcune città della prima erano state occupate, senza rimostranze in contrario, a nome del conte di Lignì, cui erano state accordate in feudo da Carlo VIII: altronde pareva che la Capitanata non si potesse separare dagli Abbruzzi; il quasi intero prodotto delle quali due province consisteva nelle gabelle delle mandre che in tempo d'estate pascolavano le erbe delle alte montagne dell'Abbruzzo e nell'inverno quelle delle aduste campagne della Puglia[128].
Le ostilità cominciarono ad Atripalda nella Basilicata; i Francesi vi si erano stabiliti, e gli Spagnuoli li sorpresero e li discacciarono. Pure nè gli uni, nè gli altri erano apparecchiati ad una nuova guerra. Luigi d'Armagnacco, duca di Nemours, vicerè di Napoli a nome di Lodovico XII, acconsentì di scontrarsi con Gonsalvo di Cordova nella chiesa di sant'Antonio tra Atella e Melfi, per regolare i punti intorno ai quali non andavano d'accordo. Convennero che in pendenza della decisione dei loro monarchi per la dilucidazione del trattato, le città controverse sarebbero governate in comune dai due vicerè, che vi spiegherebbero le insegne delle due nazioni, e che le gabelle pel pedaggio delle mandre, che davano cento mila ducati all'anno, e che formavano il reddito più depurato del regno, ma che sarebbe stato totalmente perduto pei Francesi se avessero rinunciata la Capitanata, verrebbe in eguali porzioni diviso fra loro e gli Spagnuoli[129].
Quest'accomodamento favorevole ai Francesi non era stato dal Gonsalvo accettato che per conoscersi più debole; egli diede il tempo di scrivere alle corti. Confessarono i due re di non conoscere il paese e di non avere prevedute le difficoltà che si affacciavano; ma sentendo ambidue l'impossibilità di conservare la pace, invece di commettere al rispettivo luogotenente di ultimare la controversia all'amichevole, l'invitarono ad approfittare il più che potesse delle presenti circostanze, ed a spiegare a suo vantaggio tutto ciò che fosse oscuro. L'uno e l'altro volevano la guerra, ma i Francesi trovaronsi apparecchiati a sostenerla prima degli altri. Perciò il 19 di giugno del 1502 il Nemours fece dichiarare al Gonsalvo, che se non gli veniva restituita la Capitanata, i Francesi si farebbero da sè giustizia colle armi; e subito dopo attaccò Atripalda, l'occupò di nuovo, e nello stesso tempo fece cominciare le ostilità su tutta la linea. Il Gonsalvo, sentendo che i principi di Salerno e di Bisignano eransi dichiarati a favore dei Francesi, e che tutto il paese era in fermentazione, fuggì di notte da Atella, e si ritirò successivamente verso Andria, Bitonto e Barletta, distribuendo tutte le truppe che gli restavano nelle fortezze, ed abbandonando la campagna alle incursioni de' Francesi[130].
Gonsalvo di Cordova aveva scelta Barletta per riunirvi la sua armata, aspettarvi i soccorsi della Spagna, e lasciar tempo ai Francesi di snervarsi in una guerra di avamposti. Questa città, fabbricata dall'imperatore Eraclio al sud-est della foce dell'Ofanto, era stata spesse volte la sede degli antichi re di Napoli: angusto era il suo porto e non sicuro per tutti i venti, e le vecchie sue mura non avevano terrapieni. Ma il Gonsalvo vi adunava i suoi più valorosi soldati, ed i baroni del regno che si erano dichiarati a favore della Spagna. Le era rimasto fedele l'antico partito arragonese, il quale non aveva preso parte al vivissimo sdegno di Federico, e mentre che questo re aveva preferito di porsi in mano della Francia, piuttosto che commettersi a suo cugino, quasi tutti coloro che l'avevano seguito nel suo esilio, e particolarmente Prospero Colonna trovavansi in allora presso Gonsalvo. Per lo contrario l'antica fazione d'Angiò si era ovunque dichiarata favorevole ai Francesi, ed era appunto più potente nelle province cedute alla Spagna.
Nel consiglio di guerra tenuto dal duca di Nemours intorno al suo piano di campagna, Andrea Matteo d'Acquaviva, duca d'Adria, il più riputato tra i baroni angiovini e come letterato e come guerriero, propose di assediare Bari, la più florida città ed il miglior porto che gli Spagnuoli avessero sull'Adriatico. Diceva che la sua conquista trarrebbe seco quella di Giovenazzo e di Bitonto, e la rivoluzione di tutta la provincia. Ma Isabella di Arragona, figlia di Alfonso II e vedova di Giovan Galeazzo Sforza, aveva il comando di Bari assegnatale per suo appannaggio; ed i generali francesi non sapevano senza ripugnanza risolversi ad attaccare una donna, il di cui padre e marito erano stati da loro privati del trono, e di cui ne tenevano in prigione il figliuolo; una donna fatta da loro tanto infelice, e di cui rispettavano il carattere. Ivone d'Allegre e la Palice dissero ch'essi credevano più conveniente al carattere de' cavalieri francesi ed in pari tempo alle regole dell'arte militare di attaccare lo stesso Gonsalvo nella città in cui si era chiuso, di non dargli tempo di accrescere le fortificazioni, e di approfittare dell'impeto francese per terminare la guerra sulle medesime brecce di Barletta[131].
Il duca di Nemours, che non aveva nè talenti distinti nè carattere, appigliossi, come il più delle volte sogliono fare gli uomini mediocri, ad un partito di mezzo tra i due che gli venivano proposti, e con una fallace prudenza rinunciò ai vantaggi dell'uno e dell'altro. Attaccando Bari, temeva di lasciare il Gonsalvo in libertà; temeva, assediando Barletta, di avere a lottare coi talenti di un grande generale e col vigore di una grossa armata, e risolse di bloccare soltanto Barletta. Luigi d'Ars, Chatillon de Formant, e Chandieu o Chandenier, comandante degli Svizzeri, furono dello stesso parere. Il d'Aubignì fu staccato con un terzo dell'armata francese per fare un'invasione nella Calabria. Egli si era fatto amare e rispettare in quella provincia in tempo della precedente guerra colla giustizia e colla dolcezza del suo governo; ed infatti non vi fu appena rientrato, che i principi di Salerno e di Bisignano, della casa di Sanseverino, ed il conte di Mileto, si posero sotto le sue bandiere; tutte le città, e la stessa Cosenza, capitale della provincia, aprirono le loro porte ai Francesi; e le guarnigioni ed i magistrati spagnuoli si ritirarono in Sicilia, lasciando che il d'Aubignì stendesse il suo dominio fino allo stretto di Messina[132].
Intanto il duca di Nemours andava prendendo varie posizioni intorno a Barletta, ed occupando tutti i vicini castelli; tentava di togliere al Gonsalvo i viveri e le comunicazioni colle altre parti del regno: egli non entrava colle sue truppe che in iscaramucce di poca importanza; e rinnovava l'errore in cui caddero diversi generali francesi, di lasciar languire il soldato, di annojarlo ed impazientarlo, dissipando in tal modo quell'ardore e quell'impeto nazionale, che gli avrebbero data la vittoria.
Mentre che i due generali scansavano le regolari battaglie e le azioni sanguinose, uno per prudenza l'altro per imperizia, le due armate, la di cui cavalleria era tutta formata di coraggiosa nobiltà, cambiava la guerra in tornei ed in duelli nelle forme. Gli uomini d'armi francesi, confessando il valore della fanteria spagnuola, sprezzavano la cavalleria, che risguardavano come formata nella scuola dei Mori, e più fatta per caracollare che per combattere. Loro rispondevano gli Spagnuoli, che con armi eguali ed in egual numero, non temevano i Francesi. Si convenne perciò che si proverebbero undici cavalieri contro undici. Erano i più distinti tra i campioni francesi, Bajardo, il cavaliere senza paura e senza macchia, e Francesco d'Urfè, signore d'Orose; tra gli Spagnuoli Diego de Vera e Diego Garcia de Paredes. I Veneziani, che comandavano a Trani, e che osservavano una perfetta neutralità fra le due armate, accordarono lo steccato e nominarono i giudici della zuffa. Doveva terminare al tramontare del sole, e coloro che verrebbero scavalcati, o cacciati fuori dell'aringo più non dovevano prendervi parte. Al primo urto furono rovesciati sette francesi o uccisi i loro cavalli; ma i quattro che rimanevano, cioè Bajardo, Orose, Torci, luogotenente de la Palice, e Montdragon, chiudendosi come in un baluardo dietro i cavalli de' loro compagni, stesi sul campo di battaglia, vi si difesero tanto valorosamente e con tanta costanza, che dopo sei ore d'inutili sforzi, essendo caduto il sole, i giudici della battaglia divisero i combattenti, e dichiararono la gloria fra di loro eguale[133].
Le due nazioni avevano fatto un accordo pei prigionieri, e si facevano un punto d'onore di trattarli con umanità. Don Alonzo de Sotomajor, il quale era stato prigioniere del cavaliere Bajardo, lagnavasi di essere stato trattato con soverchia severità. Protestava il Bajardo di non averlo ristretto che dopo che il Sotomajor aveva tentato di fuggire malgrado la data parola. I due cavalieri terminarono la loro lite in uno steccato, ove il Sotomajor fu ucciso; e gli stessi Spagnuoli fecero plauso alla vittoria del guerriero che rispettavano, risguardandola come un giudizio di Dio contro il loro compatriotta[134].
Queste battaglie in isteccato chiuso, questi cavallereschi riguardi tra i soldati delle due armate non avevano luogo che tra i gentiluomini; i pedoni ignobili non erano trattati con minore crudeltà che in addietro, nè i contadini spogliati meno barbaramente. Intanto il Gonsalvo andava ogni giorno afforzando Barletta con nuove opere, ed il Nemours, che aveva trascurato di attaccarlo vivamente nel primo istante, non avrebbe oramai potuto farlo con isperanza di riuscita. Si limitò quindi ad occupare le fortezze del vicinato, Cerignole, l'antica rocca di Gerione, che aveva resistito ad Annibale, e dove Zarate e d'Acunha comandavano agli Spagnuoli, e Canosa difesa da Pietro Navarro. Questi due assedj furono valorosamente sostenuti; ma conoscendo il Gonsalvo che finalmente quelle guarnigioni avrebbero dovuto cedere, e non volendo esporsi a perdere così buoni ufficiali e tanti valorosi soldati, ordinò loro di evacuare quelle due città e di ritirarsi a Barletta[135].
Erano di già più mesi passati da che Gonsalvo di Cordova teneva chiusa la sua armata entro le mura di una povera città, che gli offriva così pochi mezzi. La corte di Spagna colla consueta sua lentezza nulla aveva fatto per soccorrerlo. Egli più non aveva nè danaro, nè vesti; ed ai suoi soldati cominciavano pure a mancare le vittovaglie e le armi, ma loro aveva saputo inspirare tanto amore, aveva così profondamente penetrato il carattere spagnuolo, e approfittato così destramente dell'orgoglio, della costanza e della sobrietà nazionali, che in mezzo a tante privazioni i suoi soldati non diedero verun indizio d'impazienza, d'indisciplina, o di scoraggiamento. Finalmente una nave siciliana portò a Gonsalvo il frumento di cui aveva urgentissimo bisogno; un'altra gli recò da Venezia armi, vesti, scarpe, che affatto mancavano alla sua truppa; comperò tutti questi oggetti sul credito di Isabella di Arragona e de' più ricchi mercanti di Bari, e mentre trovavasi affatto senza danaro, fece credere ai suoi soldati che un forziere, che loro mostrava, fosse tuttavia pieno d'oro, e che lo teneva in serbo per pagare il loro soldo il giorno dopo la battaglia[136].
In tal modo si consumò tutta la campagna del 1502. Frattanto il duca di Nemours, avanti di distribuire le sue truppe ne' quartieri d'inverno, le condusse sotto le mura di Barletta, ed invitò il Gonsalvo per mezzo di un araldo d'armi a misurarsi con lui in aperta campagna. Il Gonsalvo lo ringraziò della sua offerta, ma gli fece dire che gli sarebbe ancora più tenuto, se da lui otteneva di aspettare la propria convenienza, tanto più ch'egli non aveva costume di ricevere consiglio dal suo nemico circa al tempo di combattere o no. Il Nemours, contento di avere terminata la campagna con questa braveria, si ritirò verso Canosa, e senza temere un nemico che ricusava di venire a battaglia, non camminava ordinatamente, lasciando che i suoi battaglioni si sbandassero a molta distanza gli uni dagli altri. Tutt'ad un tratto Diego di Mendoza, che gli teneva dietro con Prospero Colonna, piombò sulla retroguardia, l'avviluppò cogli uomini d'armi italiani, e gli fece moltissimi prigionieri[137].
Trovavasi tra costoro Carlo Hennuyer de la Mothe, illustre ufficiale francese, che co' suoi compagni di sventura, fu il giorno susseguente invitato ad un banchetto in casa del Mendosa, di cui era prigioniero. Il capitano spagnuolo, rendendo giustizia al valore francese, attribuì tutta la riuscita della vigilia all'intrepidezza ed alla precisione dei movimenti della cavalleria italiana comandata da Prospero Colonna. I Francesi erano ben contenti di dividere la palma del valore cogli Spagnuoli, ma risguardavano come un insoffribile affronto il paragone cogl'Italiani. Il La Mothe sostenne caldamente che gl'Italiani, tante volte vinti, non potevano con verun'arme, in veruna sorta di zuffa essere eguali ai Francesi. Non si astenne nel susseguente giorno di ripetere a sangue freddo le stesse ingiuriose parole in faccia a Prospero Colonna, che lo aveva interpellato appostatamente, e che in risposta gli diede una mentita. L'onore delle due nazioni parve interessato in questa privata contesa; e i due generali furono contenti che si venisse solennemente all'esperimento delle armi. Tredici Italiani e tredici Francesi armati di tutto punto dovettero trovarsi in campo chiuso per battersi fino all'ultimo sangue. Il campo venne scelto ad eguale distanza tra Barletta, Quadrata e Andria; gli fu dato l'estensione di un ottavo di miglio quadrato, e segnato con semplice solco d'aratro: e fu convenuto che chiunque verrebbe spinto fuori di questo recinto, si riconoscerebbe per vinto, nè più potrebbe rientrare nella pugna. I due generali in capo, che avevano acconsentito ad una tregua, eransi avanzati colle loro armate in ordine di battaglia per la guardia del campo. I campioni erano stati diligentemente scelti, ed in particolare dal lato degl'Italiani, il di cui onore sembrava più gagliardamente compromesso. In conformità della disfida di La Mothe ogni parte doveva armarsi a piacere, e come troverebbe più vantaggioso di fare; sicchè le armi non erano eguali. Gl'Italiani usavano lance più lunghe di un piede, ed avevano inoltre piantato sul campo di battaglia due spiedi di riserva per uso de' cavalieri che si troverebbero scavalcati. I vinti dovevano restar prigionieri dei vincitori, a meno che non si riscattassero con cento scudi d'oro per cadauno.
Questo conflitto, cui gl'Italiani diedero maggiore importanza che ad una formale battaglia, ebbe luogo il 13 di febbrajo del 1503. I loro campioni erano stati scelti tra gli uomini d'armi di Prospero Colonna, il quale per altro aveva avuto l'avvedutezza di prenderne qualcuno di ogni provincia d'Italia. I voti dei generali, dell'armata, del popolo, gli accompagnarono; e non dobbiamo maravigliarci, che una nazione oppressa, assai più divisa che vinta, e che versava il proprio sangue per gli stranieri, senza trovare occasione di spargerlo per la propria indipendenza, cogliesse avidamente l'occasione di salvare il proprio onore, quando aveva perduta ogni altra cosa, e che accogliesse poi con trasporti di gioja e con entusiasmo i campioni che lo difesero. Questi campioni furono vittoriosi. Invece di mettere in piena corsa i loro cavalli, come fecero i loro avversarj, gli aspettarono di piè fermo, ed ingannandoli rispetto allo spazio che dovevano percorrere, li disordinarono. Alcuni cavalli francesi oltrepassarono il solco, ed i loro cavalieri rimasero esclusi dalla pugna. Altri cavalieri furono rovesciati dalle più lunghe lance degl'Italiani, senza che potessero raggiugnerli colle loro. Due cavalieri italiani, caduti nel primo urto, diedero di mano agli spiedi posti in serbo, ed atterrarono varj cavalli francesi. Un solo francese fu ucciso; i suoi camerata, scavalcati gli uni dopo gli altri, s'arresero successivamente agl'Italiani che li fecero prigionieri, e dopo un'ostinata lotta si diedero per vinti e furono condotti in trionfo a Barletta: niuno di loro aveva portati i cento scudi pel suo riscatto, perchè niuno aveva creduta possibile la loro sconfitta[138][139].
Mentre che i generali francesi conservavano la loro superiorità nel regno di Napoli, piuttosto pel vantaggio del numero, che per quello de' talenti, i loro commilitoni non erano senza qualche inquietudine nel ducato di Milano. I figli di Lodovico il Moro si erano rifugiati alla corte di Massimiliano, re de' Romani. Questo principe, che aveva sposata una loro cugina, ed era vincolato col loro genitore non meno dall'amicizia che dai trattati, nudriva da gran tempo tanta gelosia contro la Francia, che non aspettava che l'istante propizio di manifestarsi. Egli non aveva riconosciuti i pretesi diritti della casa d'Orleans; rifiutava a Lodovico XII l'investitura del ducato di Milano, e con tale rifiuto annullava, secondo il diritto feudale, la di lui conquista. Il ministero francese mai non aveva potuto ottenere da Massimiliano che tregue di pochi mesi, e le aveva tutte comperate col danaro. Temeva ad ogni istante che l'imperatore invadesse la Lombardia, e con ciò mettesse in pericolo il regno di Napoli. Il cardinale d'Amboise, primo ministro di Lodovico XII, risoluto di non risparmiare alcuna cosa per conservare la pace con Massimiliano, recossi a Trento per avere con lui un abboccamento. Lodovico XII non aveva figli maschi, ed il cardinale offrì la figlia del suo re, madama Claudia di Francia, in matrimonio al nipote di Massimiliano, Carlo, figliuolo di Filippo e di Giovanna di Castiglia, il quale trovavasi ancora in fasce. Questi due sposi fanciulli dovevano avere per loro appannaggio il ducato di Milano, di cui Massimiliano darebbe loro l'investitura. Filippo, sovrano de' Paesi Bassi, era stato illuminato dall'interesse de' suoi industri sudditi; desiderava conservare la pace colla Francia, ed incaricavasi con zelo delle parti di mediatore tra Massimiliano, suo padre, e Lodovico XII, suo formidabile vicino. Perciò la negoziazione, cominciata molto prima dell'abboccamento di Trento, pareva portata a buon termine: il cardinale d'Amboise vi aveva aggiunto il progetto della riforma della Chiesa nel suo capo e nelle sue membra, credendo con ciò di farsi strada al papato. Si mostrò quindi facile rispetto alle condizioni accessorie, e tra le altre cose promise di porre in libertà Lodovico Sforza, il cardinale Ascanio e gli altri prigionieri milanesi. Ma non era facile a regolarsi la quistione principale. Lodovico XII poteva ancora avere un figlio, e non voleva preventivamente diseredarlo a favore di sua figlia: e l'imperatore non volle mai acconsentire alla riserva che Lodovico avrebbe voluto fare di questo diritto contingente, onde si ruppe la conferenza di Trento, senz'altro risultamento che quello di aver prolungata di pochi mesi la tregua[140].
Intanto Massimiliano, che credevasi chiamato a far rivivere tutti i diritti della casa di Sassonia o di Hohenstauffen sopra l'Italia, vi spedì due ambasciatori, il marchese Ermes Sforza ed il proposto di Brixen, per rivendicare le prerogative de' suoi predecessori. Costoro entrarono solennemente in Firenze il 21 di febbrajo del 1502. Esposero alla signoria che il loro padrone, apparecchiandosi a venire a prendere la corona imperiale a Roma, per andare in appresso ad attaccare i Turchi, domandava alla loro repubblica, quale parte dell'impero, ed in conformità delle antiche sue obbligazioni il pagamento di cento mila fiorini per le spese della spedizione, metà subito, e l'altra metà nel passaggio del monarca, che a questo prezzo dichiaravasi disposto a porre in obblio la predilezione che i Fiorentini avevano sempre mostrato per la casa di Francia[141].
I Fiorentini non avevano altrimenti vaghezza di trattare con Massimiliano, particolarmente a così onerose condizioni; ma la sola apparenza di questa negoziazione riuscì loro vantaggiosa. Lodovico XII, dopo la sgraziata spedizione del signore di Belmonte, non aveva loro perdonati i torti suoi proprj, gli aveva privati della sua protezione, ed abbandonati alle malvage pratiche del duca Valentino. Ebbe finalmente paura che i Fiorentini stancheggiati cercassero in Massimiliano un altro protettore, ed il 16 di aprile acconsentì a sottoscrivere con loro un trattato, col quale, mercè un annuale sussidio di quaranta mila fiorini, assicurava per tre anni i loro attuali possedimenti, e lasciava che colle forze loro tentassero di ricuperare ciò che avevano precedentemente perduto[142].
Il solo nome della protezione di Francia era per la repubblica una potente salvaguardia, che la guarentiva dagli aperti attacchi di Cesare Borgia, il quale, circondando di già i di lei confini, ed avendo in sul piede di guerra un formidabile corpo d'uomini d'armi, minacciava ad ogni istante la stessa di lei esistenza. Il Borgia, padrone della Romagna, arbitro supremo di tutto lo stato della Chiesa, aveva di fresco afforzata la sua casa con una potente alleanza. Il 4 di settembre del 1501 aveva fatta sposare sua sorella Lucrezia ad Alfonso, figliuolo primogenito del duca di Ferrara; ed il 5 di gennajo del 1502 Lucrezia era partita da Roma per recarsi alla corte degli Estensi[143].
Il duca di Ferrara aveva veduto Cesare Borgia attaccare successivamente tutti i vicarj pontifici; l'aveva veduto ajutato dalla Francia, accarezzato dai Veneziani, non trovare chi si opponesse a' suoi disegni. Onde non sapeva qual sorte si riservasse a lui medesimo, e si pose premurosamente al coperto degli attacchi di così potente ad un tempo e perfido vicino con un parentado, che a dir vero la casa d'Este doveva trovare alquanto vergognoso. Lucrezia Borgia, sebbene ancora giovane assai, aveva di già avuto tre mariti. Suo padre prima di giugnere al pontificato l'aveva data ad un gentiluomo napolitano mentre ella non era ancora nubile. Ma poichè fu fatto papa, pronunciò il suo divorzio per maritarla a Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Tra poco parve ai Borgia che il parentado di così piccolo principe non fosse corrispondente al grado loro, ed il papa nel 1497 pronunciò un secondo divorzio per maritare sua figlia nel susseguente anno ad Alfonso d'Arragona, duca di Biseglia, principe di Salerno, e figliuolo naturale di Alfonso II re di Napoli[144]. Mentre ciò si trattava, il regno di Napoli fu conquistato dai Francesi; il principe di Biseglia, che non aveva che diciassette anni nel momento del matrimonio, invece di essere il nipote di un gran re, più non fu che quello di un proscritto. I Borgia non avevano mai avuta l'ambizione di mantenersi fedeli a coloro che la fortuna abbandonava. Il 15 di luglio del 1501 il terzo sposo di Lucrezia venne assassinato sulla scala della basilica di san Pietro. Si vietò qualunque processura contro gli uccisori; e perchè non moriva abbastanza sollecitamente per le riportate ferite, il 18 di agosto fu strozzato nel suo letto[145]. I disordini della privata vita di Lucrezia superavano ancora lo scandalo de' suoi matrimoni e dei suoi divorzj: perciocchè il pubblico l'accusava di essere stata l'amante di suo padre e de' suoi fratelli: era stata veduta presiedere ai banchetti delle cortigiane ed alle scandalose feste con cui Alessandro infamava il Vaticano: invece di tornei Lucrezia instituiva lotte di libertinaggio; giudicava co' suoi occhi il valore de' combattenti, e distribuiva premj ai vincitori[146][147].
Lucrezia portò al suo sposo cento mila ducati di dote, la cessione di alcuni feudi ecclesiastici in Romagna, e la protezione del papa per la casa d'Este, che valeva più di tutt'altra cosa. L'alleanza poi del duca di Ferrara copriva il nuovo ducato di Romagna dalla banda de' confini più esposti, e lasciava a Cesare Borgia la facoltà di volgere tutte le sue forze e tutta la sua attenzione verso la Toscana e verso l'Ombria. In fatti partì da Roma il 13 giugno del 1502 per avvicinarsi a quelle province[148].
Il giorno 1.º di maggio del precedente anno il papa aveva pronunciato in concistoro una sentenza contro Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino, colla quale, per castigo dell'assassinio di suo fratello Rodolfo, e dell'asilo che aveva accordato ai banditi ed ai ribelli dello stato della Chiesa, il Varano era spogliato del suo feudo, ed il piccolo principato di Camerino riunito alla camera apostolica[149]. Il duca Valentino, poichè fu arrivato ai confini del territorio perugino, diede voce che stava per dare esecuzione a tale sentenza. Mandò il duca di Gravina Orsini ed Oliverotto di Fermo, suoi luogotenenti, a guastare la Marca di Camerino; e nello stesso tempo domandò a Guid'Ubaldo di Montefeltro, duca d'Urbino, di prestargli tutti gli uomini d'armi e tutta l'artiglieria che aveva; e perchè Guid'Ubaldo non aveva veruna contesa col pontefice e niun motivo di diffidenza, si affrettò di ubbidire, onde non compromettersi con un così formidabile vicino. Ma quando il Borgia ebbe in sua mano tutti i mezzi di difesa del duca, condusse improvvisamente le sue truppe nel suo ducato, ed occupò lo stesso giorno Cagli, una delle quattro città di quello stato. Guid'Ubaldo spaventato fuggì senza far resistenza, si ritirò a Ravenna in abito di contadino e di là passò a Mantova; suo nipote, Francesco Maria della Rovere, prefetto di Roma e signore di Sinigaglia, fuggì nello stesso tempo, e Cesare Borgia non incontrò verun ostacolo a ridurre in suo potere tutto il ducato d'Urbino, tranne le fortezze di san Leo e di Majolo[150].
Questa è una delle occasioni assai rare in cui viene dagli storici accennata la repubblica di san Marino. Due villaggi presso la sommità del monte Titano formano tutt'intero quel piccolo stato, che si era fin allora conservato libero, ma sotto la protezione del duca d'Urbino. Gli abitanti, spaventati dalla ruina del loro protettore, offrirono ai Veneziani di darsi a loro, se volevano difenderli contro Cesare Borgia; ma i Veneziani non ardirono di accettarli. Dall'altra banda il Borgia loro domandò soltanto di ricevere un podestà dalle sue mani; i cittadini di san Marino vi acconsentirono, ed approfittarono delle prime rivoluzioni della Romagna per riporsi in libertà[151].
Mentre il Valentino conquistava il ducato d'Urbino, e teneva aperti gli occhi sulle rivoluzioni che scoppiavano in Toscana, il suo luogotenente, Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello aveva intavolata una cospirazione con alcuni cittadini d'Arezzo per farsi dare in mano la città. Guglielmo de' Pazzi, ch'era colà commissario della repubblica fiorentina, la scuoprì, e fece arrestare due de' più colpevoli; ma il partito de' ribelli, ch'era più numeroso ch'egli non credeva, fece che prendesse le armi tutta la città per liberarli, ed avendo imprigionato il commissario stesso con tutti i suoi ufficiali, gli Aretini proclamarono nello stesso giorno, il 4 giugno del 1502, il ristabilimento dell'antica loro repubblica, e cinsero d'assedio la rocca[152].
Cosimo de' Pazzi, vescovo d'Arezzo e figlio del commissario, essendosi chiuso nella rocca, fece frettolosamente chiedere soccorsi a Firenze: ma quelli de' ribelli erano più vicini, e Vitellozzo Vitelli entrò quasi subito in Arezzo cogli uomini d'armi di Città di Castello. Gian Paolo Baglioni, signore di Perugia lo seguì immediatamente, seco conducendo Fabio, figliuolo di Paolo Orsini, ed i due Medici, Pietro e suo fratello cardinale, sempre apparecchiati ad unirsi a tutti i nemici della loro patria. Pandolfo Petrucci loro mandò da Siena danaro ed artiglieria, ed il 18 di giugno la rocca d'Arezzo, che i Fiorentini non avevano potuto soccorrere, dovette arrendersi[153].
Tutti i capitani che avevano preso parte nella rivoluzione d'Arezzo, Vitellozzo, gli Orsini, Baglioni e Petrucci erano al soldo del duca Valentino; e se questi non erasi immischiato nella trama, almeno sembrava tenersi pronto a coglierne i frutti; ma quando era in sul punto di entrare in Toscana, ebbe comunicazione del trattato di protezione soscritto il 16 di aprile tra il re di Francia e la repubblica fiorentina, ed un formale divieto di Lodovico XII di molestare i Fiorentini. Egli si vide costretto ad ubbidire, almeno in apparenza, e si accontentò di far passare segretamente a Vitellozzo tutti gli uomini d'armi di cui poteva disporre[154]. Nello stesso tempo rivolse le sue forze dalla banda di Camerino, entrò in quella città per sorpresa, si assicurò della persona di Giulio Cesare di Varano e di due de' suoi figliuoli, e li fece subito strozzare[155].
Intanto Vitellozzo teneva sotto i suoi ordini ottocento uomini d'armi e tre mila fanti; assumeva il titolo di generale dell'armata della Chiesa, e continuava la guerra contro Firenze. E perchè tutto il raccolto era ancora ne' campi, i contadini, temendo di esporli ad essere bruciati, non osavano fare resistenza; onde Vitellozzo non incontrò difficoltà alcuna ad impadronirsi di Monte Sansovino, di Castiglione Aretino, di Cortona e di tutte le terre murate di Val di Chiana[156]. Se si fosse immediatamente avanzato nel Casentino sarebbe giunto fino alle mura di Firenze, non vi essendo armata apparecchiata a resistergli; perchè la fanteria adunata a Quarata nell'istante della ribellione d'Arezzo, era stata compresa da tale terrore per l'occupazione de' Castelli di Val di Chiana, che si era tutta dispersa. Ma Vitellozzo non si prendeva verun pensiero di rimettere i Medici in Firenze, finchè poteva sperare di tenere in suo dominio le conquiste che farebbe ne' contorni del suo piccolo stato di Città di Castello. Invece adunque di passare avanti, piantò le sue batterie da principio contro Anghiari, in appresso sotto Borgo san Sepolcro, e prese quelle due terre. D'altra parte i Fiorentini avevano ricorso in principio di questa guerra a Chaumont d'Amboise, governatore del Milanese, per avere i soccorsi cui Lodovico XII si era obbligato. Di già dugento lance francesi, comandate dal capitano Imbault, erano giunte a Firenze, ed altre dugento si avvicinavano. Vitellozzo, che aveva fatto intimare la resa al castello di Poppi, quand'ebbe avviso della loro venuta, si ritirò immediatamente e si chiuse in Arezzo[157].
Il Vitellozzo non era entrato in quest'intrapresa senza l'assenso del duca Valentino; ma tosto che il duca vide che realmente eccitava la collera del re di Francia, che le lagnanze di tutta l'Italia contro di lui avevano scosso Lodovico XII al suo arrivo in Asti, e l'avevano finalmente persuaso a tarpare le ali alla di lui ambizione; che il re aveva mandato a Parma Lodovico della Tremouille con dugento lance e con grosso treno d'artiglieria; che vi faceva andare tre mila Svizzeri, e che si apparecchiava a frenare i troppo turbolenti capitani dello stato della Chiesa, si affrettò di negare le commissioni date al suo luogotenente; anzi minacciò di attaccarlo a forza aperta, e Vitellozzo, che ben sapeva che dal suo padrone non aveva a sperare nè pietà nè buona fede, che ne' freschi esempi del duca d'Urbino e del signore di Camerino vedeva fin dove poteva giugnere la sua crudeltà e la sua perfidia, temeva di essere da lui sagrificato. Per tirarsi con qualche onore dalla sua spedizione si affrettò di trattare col capitano Imbault; il 1º di agosto gli consegnò Arezzo, e tutto ciò che aveva conquistato in Toscana, assoggettandosi al giudizio del re di Francia intorno alla sorte di quella provincia[158].
La collera di Lodovico XII contro Cesare Borgia pareva essere foriera di una rapida rivoluzione nello stato della Chiesa: tutti i nemici di quest'uomo crudele e perfido, tutte le vittime che si erano sottratte ai precedenti suoi tradimenti, tutti coloro che temevano di esserne in breve le vittime, eransi riuniti in Asti presso il re di Francia per affrettarlo a liberare dal padre e dal figlio la Chiesa e l'umanità. Ma dal canto loro Alessandro e Cesare Borgia non si tenevano inattivi, ed avevano spediti presso Lodovico e presso il cardinale; d'Amboise i loro più destri negoziatori. Sapevano che quel cardinale aspirava alla tiara, e che per giugnervi aveva bisogno di far entrare alcune sue creature nel sacro collegio; perciò Alessandro VI gli promise di fare una promozione di sua scelta, gli riconfermò per diciotto mesi il titolo di legato a latere in Francia, e lusingò la sua vanità facendolo figurare quale protettore della Chiesa. Il cardinale d'Amboise, guadagnato dai Borgia, rappresentò allora a Lodovico XII che non poteva riporre veruna confidenza nelle sue negoziazioni con Massimiliano; che le pretese dei quattro cantoni sopra Bellinzona potevano essere cagione di dissapori con tutto il corpo elvetico; che la guerra di Napoli coi re di Spagna poteva riuscire molesta; che i Veneziani, sempre occupati nella guerra coi Turchi, vedevano con occhio geloso i progressi della Francia; che il papa e suo figlio erano alla fine le sole potenze d'Italia che avessero un'armata, un tesoro ed una posizione degna di essere comperata. Tosto che fu noto a Cesare Borgia che Lodovico XII erasi lasciato calmare da tali considerazioni politiche, partì in posta da Roma il 3 agosto del 1502 e recossi a Milano alla corte del re[159]. Lodovico XII lo accolse con tali onorificenze e testimonianze di affetto, che ridussero alla disperazione coloro che avevano contro di lui implorata giustizia. Si confermò l'alleanza tra la Francia e la casa Borgia; le truppe francesi mandate in Toscana furono richiamate; la repubblica di Siena e Pandolfo Petrucci, pagando quaranta mila ducati, vennero nuovamente ricevuti sotto la protezione della Francia; due mila Svizzeri e due mila Guasconi ebbero ordine di passare nel regno di Napoli per raggiugnervi il duca di Nemours; e Lodovico XII, contento di avere così regolati gli affari d'Italia, ripartì in settembre per tornare in Francia[160].
Le condizioni della nuova alleanza del Valentino col re non si conobbero che dopo la partenza di questi, ed eccitarono l'universale indignazione. Lodovico XII, associandosi alle sue perfidie, gli prestava trecento lance francesi per continuarle impunemente. Egli non avea riclamato a favore del principe di Piombino e del duca d'Urbino, ambidue suoi alleati, e che avevano somministrati i piccoli loro contingenti alle sue armate. Era pure alleato di Giovanni Bentivoglio, ed aveva ricevuto in danaro il prezzo della protezione che gli aveva promessa, pure lo sagrificava egualmente al Valentino. Le trecento lance che prestava a costui dovevano impiegarsi contro Bologna, Perugia e Città di Castello, per cacciarne il Bentivoglio, Gian Paolo Baglioni e Vitellozzo Vitelli[161].
Non sapevasi se la repubblica fiorentina fosse stata egualmente abbandonata dal re alla cupidigia di Cesare Borgia, ma il trattato che la univa a Lodovico XII, e ch'essa aveva fin allora risguardato come la sua guarenzia, non era nè più chiaro, nè più sacro che quelli del principe di Piombino, del duca d'Urbino, del Bentivoglio, che vedevansi posti in non cale. Altronde sapevasi che Alessandro VI e suo figlio si erano accusati di pusillanimità per non avere spinti più vivamente i vantaggi che ottenuti avevano contro i Fiorentini, resi sicuri dalla conoscenza che fatta avevano della corte di Francia, che questa perdonerebbe sempre le cose fatte, e che se avessero aspettato a trattare colla medesima dopo essersi impadroniti di Firenze, non avrebbero trovate maggiori difficoltà a fare la loro pace, di quello che ne avessero incontrate rispettando quella città[162].
Ai Fiorentini erano state restituite in agosto tutte le città e castelli che Vitellozzo loro aveva tolti; ma essi non andavano debitori di tale restituzione che ad una protezione straniera, mentre che le loro perdite facevano conoscere la loro debolezza. Spossati da otto anni di guerra con Pisa, questa interna piaga rodeva continuamente le loro finanze, mentre che con tutto il restante dell'Italia erano partecipi de' mali dell'invasione straniera e di tutte le pubbliche calamità. Avendo il re fatto conoscere che gl'increscerebbe che prendessero al loro soldo il duca di Mantova, ch'egli risguardava come suo nemico, essi nè avevano preso questo capitano, nè verun altro per rispettare tale insinuazione, e si trovavano quasi disarmati[163].
A questi esterni pericoli aggiugnevansi pei Fiorentini quelli che dipendevano dall'instabilità del proprio governo. Dopo che non avevano più la balìa, non più elezioni fatte alla mano, non più fazioni estranee all'amministrazione, che segretamente governassero i magistrati; dopo che questi venivano scelti ogni due mesi dai suffragi del gran consiglio, si sentiva più gagliardamente l'inconvenienza di non avere nello stato una stabile autorità. La politica esterna aveva tutt'affatto mutata natura: trovavasi presentemente concentrata nel gabinetto di pochi principi assoluti; richiedeva segreto, accortezza, ed una personale conoscenza degli uomini e de' ministri; richiedeva l'impiego non de' buoni cittadini, ma de' diplomatici. Le potenze straniere non cessavano mai di rinfacciare ai Fiorentini quel continuo rinnovamento della loro amministrazione, che non permetteva di penetrare per entro ai misterj della politica. Il duca Borgia ed il re di Francia, nelle loro negoziazioni colla signoria, avevano più volte osservato, che il confidarle i loro segreti era lo stesso che pubblicarli. I partigiani dei Medici non avevano verun altro pretesto da mettere in campo pel ristabilimento della tirannide, e dal canto loro gli amici della libertà sentirono che in una così pericolosa crisi dovevano dare alquanto più di stabilità al loro governo. Alamanno Salviati, uno de' priori, propose alla signoria di porre alla testa della repubblica un gonfaloniere a vita, quale era il doge di Venezia; d'alloggiare questo gonfaloniere in palazzo, assegnandogli pel suo mantenimento dugento ducati al mese; d'accordargli il diritto d'intervenire a tutti i consiglj e tribunali, e metà dell'iniziativa col proposto giornaliero della signoria; ma in pari tempo di dichiarare che queste eminenti incumbenze non lo assolvevano da un giudizio capitale se venisse contro di lui pronunciato dal supremo tribunale degli otto di balìa. Questa proposizione, approvata da principio dalla signoria e dai collegi, venne sanzionata il 16 agosto del 1502 dal gran consiglio[164].
Nell'istante in cui si portò questa legge, i voti del popolo non si erano per anco riuniti a favore di verun individuo; ma il gran consiglio in cui si adunarono più di due mila cittadini, consultato da uno scrutinio segreto, presentò per questa sublime dignità tre candidati, il giudice Antonio Malegonnelle, Giovachino Guascone e Piero Soderini. L'ultimo in un secondo giro di scrutinio riunì la pluralità assoluta, e fu proclamato il 22 di settembre, sebbene non dovesse entrare in carica che il primo di novembre. Era questi un uomo di matura età, d'una indipendente fortuna, d'una illustre famiglia, d'una riputazione intangibile. E perchè non aveva figli, non si aveva ragione di temere che l'ambizione di famiglia nuocesse ai suoi sforzi pel bene di tutti[165]. Poco tempo prima era stato in Firenze riformato anche l'ordine giudiziario. Una legge del 15 aprile del 1502 aveva soppressi gli uffici di podestà e di capitano di giustizia, e fondata la ruota fiorentina, composta di cinque giudici, quattro dei quali dovevano essere d'accordo per portare una sentenza. Si era per altro conservato pel presidente del tribunale il titolo di podestà. Ogni membro esercitava per turno quest'incumbenza sei mesi; e fu appunto questa rotazione, che in Italia fece dare ai tribunali il titolo di ruota[166].
Dopo di avere con queste interne riforme consolidata la stabilità del loro governo, i Fiorentini si posero in istato di difendersi: ottennero da Lodovico XII cento cinquanta lance francesi, cui pagavano essi il soldo, e nello stesso tempo spedirono Gio. Vittore Soderini ambasciatore a Roma, e Niccolò Machiavelli, lo storico, ad Imola presso al duca Valentino per sapere fino a qual punto potevano contare sulla durata della pace[167].
I vicarj pontificj ed i condottieri, contro i quali il duca Valentino aveva dichiarato di voler condurre la sua armata e le genti sovvenutegli dalla Francia, erano tutti segreti o dichiarati nemici della repubblica fiorentina: tutti dall'altro canto si trovavano ancora in principio di quest'anno medesimo al soldo dei Borgia, ed avevano lungo tempo servito d'istrumenti alla sua politica. I Fiorentini potevano adunque temere, o che l'apparente loro discordia non fosse che una astuzia destinata ad ingannare i loro vicini, o che la loro riconciliazione non si facesse a spese della repubblica. Ma que' capitani conoscevano essi meglio degli altri il pericolo che loro sovrastava. Il Borgia aveva dichiarato di volere ricondurre all'ubbidienza della Chiesa Bologna, Perugia e Città di Castello: con ciò veniva a dire ch'egli voleva occupare quelle città, e far perire le famiglie de' loro signori come aveva fatto rispetto a quelle dei Varani e dei Manfredi. Gli Orsini, strettamente uniti ai Vitelli, ben sentivano che verrebbe presto la volta loro. Pandolfo Petrucci vedevasi stretto da ogni banda dalle conquiste del Valentino, il quale, padrone della Romagna, dell'Ombria e del Patrimonio, afforzava ancora Piombino. Tutti e due avevano, siccome Vitellozzo, i medesimi diritti alla riconoscenza di Borgia, e tutti due più non potevano dubitare che la sua riconoscenza non avesse alcuna influenza sulla sua anima. Questi capitani, che vedevano il turbine vicino a cadere sopra di loro, si riunirono segretamente alla Magione, nello stato di Perugia, per concertare i comuni mezzi di difesa. I più di loro trovavansi tuttavia al soldo di Cesare Borgia, ma avevano avuta la precauzione di far ritirare in luogo sicuro i loro uomini d'armi; e, secondo i calcoli loro, trovarono di potere adunare all'istante settecento uomini d'armi, quattrocento alabardieri a cavallo e nove mila fanti. Altronde occupavano tutto il paese posto tra la Romagna e Roma, e speravano di potere impedire ogni comunicazione tra Cesare Borgia e suo padre[168].
Trovavansi alla dieta della Magione il cardinale Orsini, che aveva sprezzato il divieto del papa di passare a Milano presso Lodovico XII, e che più non ardiva di tornare a Roma; Paolo Orsini suo fratello, il quale era padrone di molta parte del Patrimonio di san Pietro; Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello; Giovan Paolo Baglioni, signore di Perugia; Ermes Bentivoglio, che rappresentava suo padre Giovanni, signore di Bologna; Antonio di Venafro, ministro e confidente di Pandolfo Petrucci, signore di Siena; e per ultimo Oliverotto, che con esecrabile perfidia si era fatto padrone della signoria di Fermo e della sua Marca[169]. Rimasto questi orfano in tenera età, era stato allevato da Giovanni Fogliano, suo zio materno, e trattato con tutta la tenerezza di un padre verso un prediletto figlio. Volendo il Fogliani farlo entrare nella carriera militare, l'aveva posto presso Paolo Vitelli, sotto il quale Oliverotto si distinse. Dopo la morte di Paolo venne annoverato tra i più bravi ed intraprendenti luogotenenti di Vitellozzo, e finalmente la spedizione del Borgia contro Camerino lo ricondusse ai confini della sua patria. Scrisse in allora al Fogliani, che desiderava di rivedere la casa paterna, e mostrarvisi cogli onori acquistati in guerra, facendosi accompagnare da cento de' suoi cavalieri. Il Fogliani ottenne per lui la licenza d'introdurli in città; gli procurò il più lusinghiero accoglimento; lo alloggiò in sua casa con tutta la truppa, e pochi giorni dopo, per onorarlo, diede un banchetto a tutta la magistratura di Fermo. A mezzo il pranzo Oliverotto fece entrare i soldati che l'avevano seguito, fece assassinare il Fogliani e tutti i commensali, indi, assediata la signoria ch'era rimasta in palazzo, la costrinse a riconoscerlo per principe di Fermo e del suo territorio[170].
I nemici di Cesare Borgia non erano quindi nè meno perfidi, nè meno di lui macchiati di delitti; e non potevano avere confidenza gli uni negli altri, nè ispirarne ai loro vicini. Invano cercarono che i Fiorentini prendessero parte nella loro associazione; questi vi si rifiutarono costantemente[171]. I Veneziani, sia per lo stesso motivo, sia a motivo dell'imbarazzo e dell'inquietudine che loro dava continuamente la guerra coi Turchi, ricusarono egualmente di entrare nella loro lega; ma scrissero a Lodovico XII per dissuaderlo dall'assecondare per lo innanzi le intraprese del duca Valentino. Gli rappresentavano quanto torto facesse alla sua riputazione ed al nome di Cristianissimo ch'egli portava, spalleggiando un mostro, la di cui ambizione non era frenata da verun pudore, da verun sentimento d'umanità; un tiranno che non risparmiava nè donne, nè fanciulli, nè i proprj fratelli; che faceva perire i prigionieri ricevuti sotto la fede del giuramento; che raggiugneva col ferro o col veleno coloro che cercavano di sottrarsi alla sua potenza, e che aveva dati al mondo esempj di ferocia fin allora sconosciuti: Lodovico XII rispose alle rimostranze de' Veneziani, come sogliono fare i potenti il di cui orgoglio si offende trovandosi colto in fallo: dichiarò che niuno poteva vietare al pontefice di disporre come più gli piaceva delle terre della Chiesa, che niuno poteva dargli colpa ch'egli ajutasse il papa in così legittima impresa, e che, se i Veneziani tentassero di porvi ostacolo, li tratterebbe come nemici. Non contento di avere così risposto, mandò copia della sua lettera al duca Valentino, che la fece leggere al Machiavelli[172].
I confederati della Magione invitarono pure il duca d'Urbino, allora rifugiato in Venezia, ad entrare nella loro lega. Questi, che, tutto avendo già perduto, non correva verun rischio, accettò avidamente l'offerta. Sbarcò a Sinigaglia, dove una congiura gli diede in mano il forte san Leo, e tutti i popoli del ducato di Urbino che lo amavano, prendendo subito le armi in favor suo, gli diedero modo di ricuperare i proprj stati colla stessa rapidità con cui gli aveva perduti[173]. In tal guisa scoppiò in principio di ottobre la sommossa de' capitani di Cesare Borgia contro di lui: a ciò egli non era apparecchiato; molti di loro facevano ancora parte della sua armata, ed egli aveva calcolato di assicurarsi de' soldati di tutti gli altri prima di attaccare il Bentivoglio, il solo ch'egli avesse scopertamente minacciato. Nel momento in cui ebbe notizia della rivoluzione del ducato d'Urbino, trovavasi in Imola con poche truppe; ed il Bentivoglio, che aveva alcune compagnie a Castel san Pietro, ordinò loro di battere il paese fino a Doccia a breve distanza da Imola. Il Valentino scrisse frettolosamente a don Ugo di Cardone ed a don Michele, due de' suoi capitani ch'erano nel ducato d'Urbino, di schivare ogni zuffa, di piegare in faccia al nemico, e di condurgli a Rimini cento uomini d'armi, dugento cavaleggieri e cinquecento fanti da loro comandati. Ma i due luogotenenti non ubbidirono ai suoi ordini: tentati da un'occasione che si presentò loro d'impadronirsi della Pergola e di Fossombrone, rientrarono nel ducato d'Urbino, e si lasciarono sorprendere presso Cagli da Paolo Orsini e dal duca di Gravina, suo cugino, che avevano con loro seicento fanti di Vitellozzo. Le truppe del Borgia furono battute, Ugo di Cardone fatto prigioniere, ucciso il suo luogotenente, e don Michele, rifugiatosi a Fano, si ritirò poscia a Pesaro[174].
Il Valentino trovavasi in Imola in grandissimo pericolo, e vi ragunava quanti più soldati poteva; ma quelli che gli erano stati promessi dal re di Francia non erano ancora arrivati, e gl'Italiani che prendeva al suo soldo non avevano meno ragione di diffidare di lui che quelli che avevano allora prese contro di lui le armi. Un subito impetuoso attacco de' confederati l'avrebbe probabilmente sgominato; ma questi temevano particolarmente di provocare lo sdegno del re di Francia, cui avevano fatto dichiarare che ben lungi dal voler combattere contro i suoi soldati, erano apparecchiati ad eseguire i suoi ordini. Avevano pure ricusato di ricevere i Colonna nella loro lega pel solo motivo che erano aperti nemici della Francia. Questi vani riguardi diedero tempo a Cesare Borgia ed a suo padre di negoziare, tanto per riconciliarsi coi capi nemici, quanto per seminare tra loro la discordia. In particolare Alessandro VI cercava di riacquistare la confidenza del cardinale Orsini per mezzo di suo fratello, Giulio Orsini, che si era trattenuto in Roma[175].
Cesare Borgia era dotato di singolari talenti per le negoziazioni, e di una straordinaria facilità di guadagnarsi l'affetto di coloro che lo avvicinavano. Questo così falso e perfido tiranno sapeva sopra tutto prendere a voglia sua il linguaggio della franchezza e della confidenza. Trovasi nelle lettere che il Machiavelli scriveva alla signoria in tempo della sua legazione presso il Valentino l'impronta di quel tuono di bonomia che prendeva nelle sue negoziazioni. Spesso il segretario fiorentino riferisce le precise parole dell'abboccamento avuto col duca. «Quando tu sei venuto per la prima volta, gli diceva il Borgia, il 23 di ottobre, io non ti ho parlato così apertamente (del mio intero soddisfacimento della condotta tenuta dalla repubblica, e del mio desiderio di servirla), perchè io mi trovava allora in difficilissima situazione; Urbino si era ribellato, e non sapevo su quale appoggio contasse presso di me tutto era disordine, e nulla poteva parere stabile con quei nuovi stati; perciò io non voleva che i tuoi signori si dessero a credere che la paura che io aveva mi facesse abbondare in promesse. Presentemente che ho meno da temere, ti prometto assai più; e quando non temerò più nulla, i fatti, ove fia d'uopo, terranno dietro alle promesse». Il Machiavelli dopo di avere nella sua lettera dello stesso giorno riferita circostanziatamente questa conversazione soggiugne: «Voi vedete, o signori, di quali parole si serve questo signore, sebbene io non ne scriva che la metà; le loro signorie considereranno d'altra parte la persona che parla, e giudicheranno secondo la consueta loro prudenza»[176].
L'immobilità del Borgia, che dopo il cominciamento della guerra si tenne dieci settimane in Imola senza nè avanzare, nè retrocedere, fece credere ai confederati che sentisse la propria debolezza, e che a qualunque patto si riconcilierebbe; entrarono perciò di buon animo in negoziazioni con lui, tanto più che nello stesso tempo le loro truppe andavano facendo nuovi acquisti. Il popolo di Camerino si era ribellato ed aveva richiamato dal suo esilio all'Aquila Giovan Maria di Varano, figlio dell'ultimo signore; Vitellozzo aveva presa la fortezza di Fossombrone, poscia le rocche di Urbino, Cagli ed Agobbio; di modo che nel ducato d'Urbino agli ufficiali di Borgia non restava che sant'Agata; Fano e tutta la provincia erano stati egualmente occupati dai confederati. Intanto il Valentino chiamava da ogni banda al suo soldo lance spezzate; che così si chiamavano que' piccoli gentiluomini, che non avendo sotto i loro ordini che cinque o sei cavalli, pure prendevano soldo separatamente. Siccome non si presentavano per compagnie da sè, e che non erano comandati da un riputato capitano, pareva che non formassero corpo[177].
Il Valentino voleva ridurre Paolo Orsini a venire a trattare con lui personalmente in Imola, e per averlo acconsentì di mandare ai confederati in ostaggio il cardinale Borgia. In fatti Paolo Orsini giunse ad Imola il 25 di ottobre[178]. Il Valentino lo accolse amichevolmente; convenne che non doveva accusare che la propria imprudenza, se que' capitani che lo avevano fin allora servito con tanta fedeltà, si erano tutt'ad un tratto da lui alienati; che era tutta sua colpa il non avere con loro agito in maniera da liberarli da così mal fondati sospetti; ma che poichè questa mal intelligenza non avea avuto verun reale motivo, sperava che ben lungi da lasciare tra di loro semi d'inimicizia, servirebbe per lo contrario a formare tra di loro una perpetua indissolubile unione; perciocchè da una banda vedendo i suoi capitani che il re di Francia lo ajutava con tutta la sua potenza, si convincerebbero di non lo potere opprimere; e dall'altra egli stesso aveva per questa esperienza aperti gli occhi, e confessava ingenuamente che dai loro consiglj e dal loro valore doveva riconoscere tutta la sua felicità e la sua riputazione[179].
Le proteste di Cesare Borgia venivano accolte con tanta maggiore confidenza da Paolo Orsini, in quanto ch'egli era persuaso non potersi un papa mantenere, quando aveva nello stesso tempo contro di sè la sua famiglia e quella dei Colonna. E tale fu la sua cocciutagine, che, non credendosi per parte del duca esposto a verun pericolo, poichè questi non dava segno di veruno risentimento, sottoscrisse con lui il 28 di ottobre una convenzione in forza della quale tutte le ricevute vicendevoli ingiurie dovevano essere dimenticate. Il soldo che i condottieri confederati avevano inaddietro avuto dal duca doveva essere loro conservato; essi obbligavansi ad ajutarlo a ricuperare con tutte le loro forze gli stati d'Urbino e di Camerino, senza per altro essere obbligati a venire in persona nelle sue armate, od a porsi in poter suo. Finalmente le vertenze del papa con Giovanni Bentivoglio, rispetto alla sovranità di Bologna, dovevano decidersi dal cardinale Orsini, dal duca Valentino e da Pandolfo Petrucci[180].
Ma questa convenzione, che fu comunicata al Machiavelli da un segretario del duca con un sorriso ironico[181], perchè avesse effetto era necessario che venisse ratificata dal papa e dai singoli confederati. Non fu difficile il portare in lungo tale formalità, e di accrescere in tal maniera la diffidenza del Bentivoglio, che con estremo rincrescimento vedeva tenersi in sospeso i suoi interessi, mentre che regolati erano quelli di tutti gli altri. Il Valentino seppe approfittarne per conchiudere con lui, per mezzo di suo figlio il protonotajo, un parziale trattato di pace che fu sottoscritto in Imola il giorno 2 di dicembre. Il Bentivoglio si obbligò a staccarsi assolutamente dai Vitelli e dagli Orsini; promise di servire il duca a proprie spese nelle sue guerre con cento uomini d'armi e con cento alabardieri a cavallo; ed a tale prezzo fu dalla Chiesa riconosciuta la sua sovranità sopra Bologna: inoltre doveva pagare a Cesare Borgia sotto il titolo di condotta, per cento lance, dodici mila ducati all'anno. Suo figliuolo Annibale doveva sposare la sorella del vescovo d'Enna, nipote del duca Valentino. Finalmente il re di Francia, che non vedeva volentieri l'incorporazione di Bologna allo stato della Chiesa, il duca di Ferrara ed i Fiorentini, dovevano essere garanti di questo trattato[182].
Intanto essendo giunta la ratifica del trattato degli Orsini, ed essendo sottoscritto il trattato del Bentivoglio, il duca d'Urbino sentiva che, per quanto fosse grande l'affetto che gli mostravano i suoi sudditi, non potrebbe in verun modo difendere il suo principato. Si affrettò dunque a demolire tutte le sue fortezze, onde non avere bisogno di assediarle in più felici tempi, e ritirossi a Città di Castello. Il Valentino fece pubblicare un perdono universale pei popoli sollevati del ducato d'Urbino, i quali rientrarono sotto la sua ubbidienza l'otto di dicembre[183].
Lo stato di Camerino seguì l'esempio di quello d'Urbino, ed il signore fuggì di nuovo nel regno di Napoli. Vitellozzo ritirò le sue truppe da Fano, e la guerra pareva terminata. E questo fu l'istante scelto dal Valentino per muoversi colla sua armata. Partì da Imola il dieci di dicembre[184].
La marcia del Borgia con una così potente armata, che pareva essergli diventata inutile sparse l'inquietudine e lo spavento ne' vicini stati. I Veneziani facevano così attenta guardia alle loro terre di Romagna, come se il nemico fosse accampato sotto le loro mura; i Fiorentini temevano che la riconciliazione di tanti capitani, da loro egualmente temuti, non si fosse fatta a danno loro; ma più d'ogni altro i condottieri rientrati di fresco in grazia col duca cominciavano a credere che potrebbero essere vittime della sua doppiezza[185]. Ma, tutto ad un tratto, il 22 dicembre, le quattrocento cinquanta lance francesi, che accompagnavano il duca, lo abbandonarono a Cesena e ripigliarono la strada di Bologna, senza che si potesse sapere se ciò fosse l'effetto di qualche subito disgusto colla Francia, o se fossero chiamate a Milano da qualche impreveduto bisogno[186]. Comunque la cosa fosse, il Borgia, perduta la metà delle sue forze, e disgustato, almeno in apparenza, dall'alleato che aveva inspirato tanto terrore, continuò ad avanzare colla sua armata con meno minaccioso apparato. Oliverotto di Fermo fu il primo de' confederati della Magione che ardisse raggiugnerlo. Consultarono assieme se attaccherebbero la Toscana o Sinigaglia, ed il Borgia si decise per Sinigaglia. Questo piccolo principato veniva governato da una figlia del precedente duca d'Urbino, Federica, che chiamavasi prefettessa. Papa Sisto IV l'aveva fatta sposare a suo nipote Giovanni della Rovere, ch'egli aveva nominato prefetto di Roma. Rimasta vedova, ella aveva mandato in Francia suo figlio, Francesco Maria della Rovere, per sottrarlo alle trame del Valentino; quegli era il presuntivo erede del ducato d'Urbino, poichè il duca regnante, Guidubaldo, suo zio, non aveva figliuoli. La prefettessa era rimasta in Sinigaglia sotto la protezione dei confederati della Magione, e conoscendo che non poteva difendersi senza di loro si ritirò per mare a Venezia; ma coloro cui aveva affidato il comando della rocca, dichiararono di non volerla cedere che allo stesso duca Valentino, onde Oliverotto e gli Orsini lo invitarono ad avvicinarsi per prenderne possesso[187].
Il Borgia, che aveva di già rinviate le truppe francesi per dissipare i sospetti dei capitani confederati, conobbe quanto poteva ripromettersi dalla loro confidenza quando si vide chiamato da loro medesimi. Li fece avvisare di distribuire i loro soldati ne' villaggi del territorio di Sinigaglia, per lasciare ai suoi il quartiere nella stessa città, ed il 31 di dicembre partì da Fano per giungere lo stesso giorno in quella città, avendo con lui almeno due mila cavalli e due mila fanti. Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini e Francesco Orsini, duca di Gravina, si avanzarono disarmati per incontrare il duca Valentino e fargli onore. Prima di giugnere a lui dovettero attraversare tutta la sua cavalleria ch'era distribuita in due file ai due lati della strada. Il duca li salutò amorevolmente, e li consegnò a due gentiluomini destinati a corteggiarli, ed a non abbandonarli finchè non fossero giunti al palazzo. Mancava tuttavia Oliverotto, il quale comandava la parata della sua compagnia, che sola era rimasta in Sinigaglia per onorare la venuta del Valentino. Uno de' confidenti del duca andò ad avvisarlo, che se non faceva prendere ai suoi soldati i loro quartieri, non potrebbesi impedire alle truppe che giugnevano di occuparli. Oliverotto in allora licenziò i suoi uomini d'armi, e si portò presso al duca, che lo accolse non meno gentilmente degli altri tre; ma che sotto lo stesso pretesto di fargli onore, lo fece come gli altri guardare a vista. Scesero tutti assieme da cavallo all'alloggio destinato al duca; ma non appena i quattro capitani vi furono entrati che trovaronsi arrestati. Allora il Valentino rimontò subito a cavallo, e conducendo i suoi uomini d'armi ad attaccare i quartieri di Oliverotto, fece svaligiare i di lui soldati. Nello stesso tempo ordinò di attaccare quelli degli Orsini e del Vitelli che trovavansi a cinque in sei miglia di distanza; ma questi, essendo stati a tempo avvisati di ciò che accadeva, si ritirarono in buon ordine. La stessa sera il Borgia fece strozzare Vitellozzo ed Oliverotto, e protrasse fino al giorno 18 la morte di Paolo Orsini e del duca di Gravina, perchè voleva prima sapere se suo padre aveva eseguito quanto aveva seco concertato contro gli altri membri della casa Orsini[188].
La perfidia colla quale Cesare Borgia trattò i capi delle bande adunate a Sinigaglia non indisponeva i popoli contro di lui. Questi capitani erano quasi tutti amati dai loro soldati e detestati dai loro sudditi; il solo timore poteva tenere i popoli ubbidienti verso un governo puramente militare, e che non conosceva nè giustizia, nè moderazione; e Cesare Borgia era troppo accorto per non rendere il proprio giogo meno pesante ai nuovi suoi sudditi. Volle subito approfittare dello spavento de' suoi nemici, persuaso che i popoli si dichiarerebbero a suo favore; ed il primo di gennajo del 1503 partì alla volta di Conrinaldo, Sassoferrato e Gualdo per avvicinarsi ad Agobbio e di là minacciare nello stesso tempo Perugia e Città di Castello[189]. Il 4 dello stesso mese ricevette gli ambasciatori di Città di Castello, che gli annunciavano che il vescovo di quella città e tutti i Vitelli erano fuggiti, e che gli abitanti si affrettavano di manifestargli la loro ubbidienza. Giulio Vitelli, rimasto il capo della sua famiglia dopo che i suoi quattro fratelli maggiori, tutti rinomati guerrieri, erano successivamente periti di morte violenta, era partito alla volta di Venezia col duca d'Urbino, dopo di avere mandati i suoi nipoti a Pitigliano[190]. Gian Paolo Baglioni era fuggito da Perugia, tostocchè gli era giunta la notizia della carnificina di Sinigaglia; e gli abitanti di quella città avevano fatto chiedere alla repubblica di Firenze di ajutarli a mantenere la loro libertà; ma i Fiorentini risposero, che in ogni altra occasione avevano potuto fare sì poco conto dell'amicizia e dei buoni ufficj di Perugia che non volevano per salvare così fatti vicini correre rischio di romperla con un papa tanto potente. I Perugini spedirono in allora ambasciatori al duca Valentino, i quali gli si presentarono il 5 di gennajo per dichiarargli che le truppe degli Orsini, dei Vitelli e dei Baglioni avendo evacuata la loro città per ritirarsi a Siena, essi lo avevano proclamato loro sovrano. Pure il Borgia, o perchè così gli avesse ordinato suo padre, o perchè gli convenisse di tenere celati i suoi ulteriori disegni, non ricevette l'omaggio di Perugia e di Castello che come gonfaloniere della Chiesa, e non in proprio nome. Dichiarò di avere determinato di scacciare tutti i tiranni dai paesi ereditarj de' romani pontefici, e di spegnervi le fazioni; ma che non voleva dilatare la propria signoria al di là del suo ducato di Romagna, e che perciò lusingavasi che qualunque si fosse il papa che occuperebbe dopo Alessandro VI la cattedra di san Pietro, desso papa gli saprebbe buon grado dell'avere distrutti i nemici dell'autorità pontificia. Egli non volle pure entrare nelle due sottomesse città, ne ricondurre gli esiliati a Perugia, ma si apparecchiò subito a scacciare da Siena Pandolfo Petrucci. Egli risguardava quest'uomo, distintissimo per la sua accortezza, siccome l'anima del partito. Lo vedeva chiuso in una fortissima città, provveduto di danaro, e circondato da numerosa armata a lui affezionatissima; perciò chiese al Machiavelli di persuadere la sua repubblica ad unirsi a lui per iscacciare quest'ultimo nemico, che i Fiorentini non dovevano temere meno di quello ch'egli lo temeva. Desiderava che questi mandassero gente ai confini, mentre ch'egli si avanzerebbe colle sue truppe; e nello stesso tempo Alessandro VI intavolava negoziazioni con Pandolfo Petrucci per ingannarlo, se possibile fosse, e trovar modo di averlo nelle sue mani[191].
I Sienesi non erano disposti ad esporsi ai pericoli di un assedio al solo oggetto di salvare il Petrucci; ma nello stesso tempo diffidavano del papa e del suo figliuolo, ed erano determinati a difendersi fino all'ultimo sangue, se sotto pretesto di scacciare un tiranno Cesare Borgia voleva entrare nella loro città, o faceva qualche tentativo per rendersene padrone. Pandolfo Petrucci approfittò di questa disposizione per negoziare e non cedere alla burrasca che a seconda del bisogno. Acconsentì di uscire da Siena, purchè il duca Valentino, che si era avanzato fino a Pienza, uscisse in pari tempo dal territorio della repubblica. Questa convenzione si eseguì il 28 di gennajo: Pandolfo Petrucci si ritirò a Lucca con Gian Paolo Baglioni, e gli avanzi delle truppe dei Vitelli; ma i suoi partigiani continuarono ad esercitare in Siena la suprema autorità, mentre che il Valentino ricondusse la sua armata alla volta di Roma, per approfittare della carnificina di Sinigaglia, e terminare l'abbassamento degli Orsini[192].
Il papa si era dato tutto l'impegno di assecondare i delitti di suo figlio; dietro i suoi avvisi dell'accaduto in Sinigaglia fece invitare il cardinale Orsini a portarsi al Vaticano per un abboccamento. Il cardinale aveva avuta l'imprudenza di tornare a Roma; viveva senza sospetti, e niente sapeva dell'arresto de' suoi due parenti; onde recossi a palazzo, ove fu subito imprigionato. Nello stesso tempo Alessandro VI fece prendere nelle loro case Rinaldo Orsini, arcivescovo di Firenze, il protonotajo Orsini, l'abbate d'Alviano, fratello di Bartolommeo e Giacomo di Santa Croce. Questi prigionieri, spaventati dalle minacce del papa, acconsentirono di dargli tutte le loro fortezze, ed a tale prezzo riebbero la libertà, ad eccezione del cardinale; perchè Alessandro voleva obbligare questi a consegnargli tutti i suoi beni. Il papa aveva di già fatta occupare la di lui casa a Monte Giordano, e trasportarne gli effetti ed i mobili tutti al palazzo pontificio. Esaminando i libri delle ragioni del cardinale, trovò che questi aveva un credito di due mila ducati verso qualcuno il di cui nome non era stato scritto; vide inoltre che aveva acquistata pel prezzo di due mila ducati una perla che non si trovava. Perciò il primo di febbrajo fece vietare l'ingresso della prigione del cardinale a coloro che gli portavano da mangiare per parte di sua madre, dichiarando che questo sciagurato prelato più non mangerebbe finchè non si rinvenissero que' due effetti. La madre del cardinale pagò subito col proprio danaro i due mila ducati, e l'amica di lui, vestita da uomo, andò in persona a consegnare al pontefice la perla che aveva ricevuta dal prelato. Alessandro acconsentì allora che si portassero al cardinale i cibi che gli venivano mandati, ma prima gli fece dare una bevanda avvelenata che lo trasse a morte il 22 di febbrajo[193].
Ma non tutti gli Orsini erano caduti nelle mani del pontefice o di suo figliuolo; la loro famiglia era assai numerosa, perchè tutti i figli cadetti, appigliandosi al mestiere delle armi, trovavano sempre una carriera aperta: Giulio Orsini con molti suoi parenti si afforzava a Pitigliano; Fabio, figliuolo di Paolo Orsini, strozzato a Sinigaglia, ed Organtino Orsini adunavano la loro cavalleria a Cervetri. Muzio Colonna era tornato dal regno di Napoli, ed era entrato in Palombara che aveva tolta al papa. I Savelli si erano rappattumati cogli Orsini, di modo che tutta l'alta nobiltà di Roma faceva causa comune contro i Borgia. Gian Girolamo Orsini era in allora ai servigj del re di Francia, nel regno di Napoli; Niccolò, conte di Pitigliano, al servigio dei Veneziani; e questi due capitani interessavano alla loro difesa i potenti padroni per cui guerreggiavano. Il Borgia volle tentare di opprimerli prima che potessero ottenere assistenza, persuaso che gli riuscirebbe più facile la giustificazione, quando non vi fosse più rimedio per coloro che voleva distruggere. Ma sebbene riuscisse ad impadronirsi di Palombara e di Ceri, le altre fortezze degli Orsini gli opposero una resistenza abbastanza lunga da dare tempo ai Veneziani ed al re di Francia di dichiarare altamente, che prendevano Gian Giacomo Orsini ed il conte di Pitigliano sotto la loro protezione[194].
Le minacce del re determinarono Cesare Borgia a levare l'assedio di Bracciano, ma non senza lagnarsi amaramente della Francia; mentre che Alessandro VI faceva condannare dai tribunali ecclesiastici tutti gli Orsini come ribelli. Lodovico XII, vedendo che i Borgia cominciavano a mancare di rispetto alla sua autorità, e perchè nello stesso tempo era di già inquieto rispetto agli affari di Napoli, risolse di mettere fine al rapido ingrandimento della potenza del duca Valentino; prevedendo che, quando sentirebbe la propria indipendenza, si farebbe pagare a troppo caro prezzo la sua amicizia. Parvegli più di tutto importante di porre in salvo la Toscana da nuovi attentati; a tale oggetto trovò opportuno di formare un'alleanza tra Firenze, Siena, Lucca e Bologna, ed incaricò di negoziarla Francesco Cardulo di Narni, protonotajo apostolico. Questi presentossi il giorno 14 di marzo alla balìa di Siena, ed offrì ai partigiani di Pandolfo Petrucci di ricondurre nella città loro questo capo di parte coll'assenso de' Fiorentini, ai quali si prometteva la restituzione di Montepulciano. L'alleanza venne sottoscritta, e Pandolfo tornò a Siena il 29 di marzo del 1503, senza che la rivoluzione che l'aveva scacciato, o quella che lo richiamava, fossero accompagnate da verun disordine[195].
Ma non sì tosto trovossi Pandolfo in Siena, che chiese dilazione alla restituzione di Montepulciano. Pretese che i Sienesi fossero in modo attaccati a questo possedimento da non voler comperare a sì alto prezzo l'amicizia de' Fiorentini; questi dal canto loro, malgrado le istanze del ministro francese, non volevano entrare nella lega che a tale condizione; onde non potevasi avere la ratifica del trattato, senza del quale sembrava che la Toscana rimanesse in balìa del duca Valentino[196].
Altronde gli affari di Pisa, che da quasi dieci anni avevano sempre riaccese guerre vicine a spegnersi, eccitavano nuovamente la diffidenza e l'animosità dei popoli toscani. I Fiorentini avevano fatto capitano delle loro armate il balivo d'Occan, capitano francese, il quale coll'assenso del re aveva condotte cinquanta lance; eransi lusingati che le bandiere francesi sarebbero per loro una salvaguardia contro le intraprese del papa e di suo figlio, dalle quali non li guarentiva la santità dei trattati. Avevano mandata la loro armata nello stato di Pisa per guastare le messi, sperando che quella città si ridurrebbe colla fame, se perdeva per più anni consecutivi i suoi raccolti: e di già nel precedente anno avevano distrutto prima che maturasse tutto il frumento dei Pisani. Questa volta ruinarono soltanto le campagne del Val d'Arno, non avendo potuto penetrare nella vallata del Serchio meglio difesa[197].
Intanto il balivo d'Occan, poi che ebbe guastato il paese, condusse la sua armata sotto Vico Pisano, difeso da cento fanti svizzeri al soldo dei Pisani. Il balivo li minacciò di farli appiccare se portavano le armi contro un re alleato della loro nazione; nello stesso tempo i Fiorentini loro offrirono del danaro, onde gli Svizzeri, atterriti o corrotti, il 16 di giugno aprirono le porte della fortezza che dovevano difendere. Il loro tradimento spianò ai Fiorentini la strada della fortezza assai più importante della Verrucola, che, attaccata dal lato fin allora inaccessibile di Vico Pisano, si arrese il 18 di giugno. Questa signoreggiava il piano di Pisa, e così bene lo scopriva tutto intero, che nulla entrar poteva o sortire dalle porte della città senz'essere veduto dalla Verrucola. E quanto questa posizione era stata utile ai Pisani per prevenire gli attacchi dei loro nemici, altrettanto poteva riuscirle fatale dopo ch'era venuta in mano de' Fiorentini[198].
Questa perdita risvegliò l'interesse de' Sienesi e de' Lucchesi a favore de' loro vicini. Scordarono gli uni e gli altri la lega toscana, sebbene Pandolfo Petrucci andasse debitore ai Fiorentini del fresco suo ristabilimento in patria, e spedirono ajuti ai Pisani, i quali dal canto loro fecero fare l'offerta al duca Valentino di darsi a lui. Veruna città era da questo principe più ardentemente desiderata, risguardandola egli come quella che gli darebbe modo di conquistare tutta la Toscana. Ma finchè il re di Francia trovavasi in Italia onnipotente, il Valentino per non esporsi alla sua collera non aveva osato di accettare una così seducente offerta. Ma da qualche tempo pareva che la fortuna abbandonasse le armi francesi, ed il Valentino, che mai non era l'ultimo ad allontanarsi da coloro cui la fortuna volgeva le spalle, cominciava a prendere coi generali di Lodovico XII un più audace contegno; trattava segretamente con Gonsalvo di Cordova e colla Spagna, temporeggiava coi Pisani, si armava, metteva la sua alleanza a più alto prezzo, e non pertanto aspettava per prendere una definitiva decisione un ultimo esperimento delle forze dei due re, che pareva dover essere imminente[199].
Ferdinando il cattolico aveva lasciato, in tutto il primo anno della guerra, il suo generale, Gonsalvo di Cordova, senza soccorsi. I rinforzi che aveva per lui apparecchiati non lo raggiunsero che quando era già cominciata la campagna del 1503. Anche prima che questi giugnessero, il generale Spagnuolo ricevette a Barletta un sollievo dovuto soltanto all'imprudente avarizia de' generali francesi. Ivone d'Allegre aveva presa la città di Foggia, dove aveva trovati grandissimi magazzini di grani, formati coi raccolti di quella ubertosa provincia. Invece di acconsentire che si vendessero a credenza ai Napolitani, che ne avevano urgente bisogno, o di tenerli custoditi per l'armata, la mancanza di danaro lo consigliò a venderlo ad alcuni mercanti veneziani che lo trasportarono a Barletta[200]. Subito dopo l'ammiraglio spagnuolo, Liscano, ottenne presso alla punta della terra di Otranto, ossia l'antico promontorio Japiga, una vittoria sopra il signore di Prejan, che aveva il comando della flotta francese, la quale sarebbe stata interamente distrutta, se non avesse trovato un rifugio nel porto d'Otranto che apparteneva ai Veneziani, ed era egualmente rispettato dalle due nazioni belligeranti. Dopo questa vittoria il mare rimase libero ai vascelli spagnuoli e siciliani, che poterono trasportare senza pericolo soldati, vittovaglie e danaro a Barletta. Le quali cose si facevano senza che i Francesi potessero impedirle, anzi senza che niente sapessero di ciò che accadeva in mare[201].
Non pertanto l'armata francese continuava ad acquistar terre nell'interno del regno. Da una parte il Nemours aveva ridotte alla sua ubbidienza tutte le città della Puglia, che formavano un circolo intorno a Barletta; cioè Canosa, Altamura, Cerignole, Quadrata, Robio, Foggia e Siponto: dall'altra erasi avanzato fino all'estremità della terra d'Otranto, ed aveva costretto Lecce, san Piero, Nardo, Rodea, Oria e Matula ad arrendersi. Vero è che non aveva potuto occupare Gallipoli, nè Taranto, ma bensì costretto aveva il conte di Conversano a passare al suo partito, ed aveva lasciata guarnigione in Castellaneta, onde reprimere le incursioni delle truppe spagnuole che Pietro Navarra comandava a Taranto[202].
Il Nemours era di già tornato sotto Barletta, quando seppe che gli abitanti di Castellaneta, più soffrire non potendo l'insolenza de' soldati francesi alloggiati nella loro città, aveano aperte le loro porte agli Spagnuoli di Taranto, e dati prigionieri i loro ospiti. Accecato dalla sua collera, il Nemours non volle dare orecchio alle rimostranze dell'Acquaviva, che gli dava avviso che il Gonsalvo uscirebbe presto in campagna. Partì coll'armata alla volta di Castellaneta, e, non ascoltando che il caldo suo desiderio di vendetta, non volle ricevere gli abitanti alle condizioni da loro offerte. Ma Gonsalvo di Cordova, approfittando della sua lontananza, uscì di notte da Barletta con tutte le sue genti, e lasciò pure quella città così sguarnita, che per essere sicuro della sua fedeltà trovò necessario di condurre con sè i magistrati in ostaggio, e passò a sorprendere Rubio, dove comandava La Palice. Colle prime scariche la sua artiglieria aprì varie brecce nelle mura; i suoi soldati volarono intrepidamente all'assalto, e sebbene i Francesi si difendessero per sette ore con non minor valore, fu fatto prigioniere La Palice ferito, e la città di Rubio presa e saccheggiata. Il Gonsalvo non cercò pure di conservarla; trasportò frettolosamente tutto il bottino a Barletta, dov'era rientrato avanti che il Nemours, che per opporsi al Gonsalvo aveva abbandonato l'assedio di Castellaneta, fosse tornato a Rubio colla sua armata[203].
Intanto Ugone di Cardone aveva ragunati in Sicilia tre mila fanti e tre mila cavalli che trasportò a Reggio. Incontrò prima Giacomo di Sanseverino, conte di Mileto, che sconfisse, poi liberò Diego Ramirez assediato nella fortezza di Terranuova, saccheggiò e bruciò quella città, fugò il principe di Rossano e fece prigioniere il signor d'Humbercourt. In quest'ultima zuffa Antonio di Leyva, che era di fresco giunto dalla Spagna, e che serviva ancora in qualità di semplice soldato, fece le sue prime prove in Italia; egli doveva in appresso passare per tutti i gradi della milizia prima di comandare in capo le armate, e di essere annoverato tra i primi generali di Carlo V[204].
Mentre il Cardone sbarcava le sue genti, il d'Aubignì trovavasi occupato in un'altra parte della Calabria; ma si affrettò di accorrere per attraversare i di lui disegni; ed i principi di Salerno e di Bisignano, della casa Sanseverino, si unirono a lui a Cosenza con molti baroni angioini. Don Ugone di Cardone, avvisato della loro marcia, ebbe prima pensiero di ritirarsi verso le montagne, ma fu ritenuto dall'arrivo di don Emmanuele di Benavides, che gli conduceva quattrocento cavalli e quattro battaglioni d'infanteria siciliana; altronde le sue spie gli avevano dato motivo di credere che al d'Aubignì abbisognavano ancora due giorni per raggiugnerlo, allorchè lo vide sboccare nel piano dalla banda di mezzodì di Terranuova. I cavalieri siciliani e spagnuoli non sostennero l'impeto degli uomini d'armi del d'Aubignì, ed in particolare degli Scozzesi; la fanteria venne egualmente maltrattata dagli Svizzeri e dai Guasconi; l'armata di Ugone di Cardone fu sgominata e dispersa, ed egli medesimo si salvò a piedi tra le montagne, dopo avere tagliata la corda magna al suo cavallo. Il signore di Grignan, luogotenente del d'Aubignì, che aveva più d'ogni altro contribuito a questa vittoria, fu ucciso mentre inseguiva il nemico[205].
La battaglia di Terranuova non bastava a consolidare il dominio de' Francesi nella Calabria, tanto più che in quel tempo la nuova flotta che Ferdinando aveva armata a Cartagena era giunta in Sicilia e poco dopo a Reggio. Eranvi su questa seicento cavalli, comandati da Alfonso Carvajale, e cinque mila fanti di Galizia, di Biscaglia e delle Asturie, sotto gli ordini di Ferdinando d'Andrades. Il re di Spagna aveva dato il generale comando di questa spedizione a Porto Carrero, della casa Boccanegra di Genova, scelto dal re, perchè egli ed il Gonsalvo avevano sposate due sorelle, e che perciò doveva sperarsi che agirebbero di perfetto accordo. Ma passò lungo tempo avanti che quest'armata fosse in istato di combattere; prima perchè la flotta fu contrariata dai venti nel suo tragitto, poi perchè Porto Carrero, appena giunto in Reggio, fu preso da grave malattia in conseguenza della quale morì, dopo d'avere nominato d'Andrades suo successore[206].
Inquietanti notizie intorno agli affari di Napoli circolavano di già in tutte le altre province d'Italia, quando i tre piccoli cantoni svizzeri che si erano fatti padroni di Bellinzona, non potendo soffrire che la Francia loro contrastasse il possedimento di quella città, attaccarono impetuosamente Locarno sul lago maggiore, e la Murata. Dopo parecchj assalti s'impadronirono dell'ultima, che altro non era che una lunga muraglia fatta per frenare le loro incursioni; ma non poterono conquistare Locarno, e bentosto trovaronsi bloccati dai Francesi ed esposti a crudeli privazioni. Frattanto Lodovico XII, che sentiva quanto gl'importasse di evitare una guerra nel Milanese, mentre che aveva così gravi affari nel regno di Napoli, e che aveva più di tutto bisogno di mettere a numero le sue armate colla fanteria svizzera per opporla a quella dei Tedeschi e degli Spagnuoli, ordinò ai suoi commissarj di contentare gli Svizzeri a qualunque condizione. Dietro ciò l'undici aprile del 1503 fu sottoscritto un nuovo trattato di pace fra la Francia e la lega elvetica nel campo sotto Locarno, e Lodovico XII accordò ai tre piccoli cantoni la contea di Bellinzona in piena sovranità[207].
Mentre la guerra tra la Francia e la Spagna si faceva nel regno di Napoli con maggior vigore, l'arciduca Filippo d'Austria, figlio di Massimiliano e genero di Ferdinando e d'Isabella, attraversava la Francia per tornare nella sua sovranità de' Paesi Bassi. Pochi mesi prima aveva accompagnata sua moglie per la prima volta alla corte di Spagna, e l'aveva colà abbandonata bruscamente il 22 dicembre del 1502, lasciando Ferdinando di lui geloso, Isabella scontenta de' pochi riguardi che aveva per sua figlia, e Giovanna, la di cui seconda gravidanza era avanzata, in uno stato di disperazione che turbò la sua mente. Filippo venne in Francia ricevuto con quel rispetto ond'era stato onorato in occasione del suo primo passaggio. Egli desiderava la pace pel vantaggio de' suoi stati de' Paesi Bassi, la desiderava ancora per accrescere il suo credito alla corte di Castiglia, e se ne fece con premura il mediatore. L'accompagnavano due ambasciatori del re d'Arragona e di Castiglia, i quali intervennero alle conferenze che Filippo tenne con Lodovico XII, ed il 5 d'aprile sottoscrissero con loro a Lione un trattato di pace fra le due monarchie. Tutti i diritti della Francia sul regno di Napoli dovevano darsi per dote a madama Claudia di Francia, figlia di Lodovico XII, che Carlo, figlio di Filippo, poi Carlo V, doveva sposare. I due sposi fanciulli dovevano essere dichiarati re e regina di Napoli; ma fino alla consumazione di questo matrimonio, il trattato di divisione di Granata doveva avere piena esecuzione[208].
Pareva che questa convenzione terminasse la guerra a condizioni d'equità, sebbene tutto il vantaggio fosse per la Spagna, poichè l'oggetto in disputa era ceduto interamente all'erede di quella monarchia. Perciò Filippo aveva mostrata molta premura di conchiuderla; e perchè erano illimitate le facoltà da lui prodotte, Lodovico XII non dubitò punto che il trattato di Lione non venisse ratificato; onde più non si prese cura di spedire soccorsi ai suoi luogotenenti in Italia, ai quali solamente raccomandò di schivare ogni fatto d'armi, finchè il cambio delle ratifiche facesse interamente cessare le ostilità. Ma Gonsalvo di Cordova, dopo essere stato lungamente confinato in un angolo del regno di Napoli, cominciava a travedere la possibilità di conquistarlo interamente. Egli non volle andare debitore ad un trattato di ciò che poteva ottenere a forza aperta; ed i suoi padroni, quando meglio conobbero lo stato degli affari, ebbero la stessa ambizione, e ricusarono di ratificare il trattato di Lione.
Ferdinando d'Andrades prese il comando dell'armata di Calabria; egli avea riunito alle sue truppe, condotte da Porto Carrero, gli avanzi di quelle di Ugone di Cardone, e, dopo aver loro pagati i soldi arretrati, le condusse attraverso alla Calabria fino presso a Seminara. In questo stesso luogo sette anni prima Ferdinando II e Gonsalvo erano stati battuti dal d'Aubignì, e Terranuova, dove lo stesso d'Aubignì aveva ottenuta una più fresca vittoria sugli Spagnuoli, trovatasi pure a breve distanza; perciò questo generale francese avanzavasi pieno di confidenza, punto non dubitando di liberare la Calabria dai nemici con una terza vittoria. Sebbene le sue forze fossero alquanto inferiori a quelle d'Andrades, egli lo sfidò a battaglia. Le due armate s'incontrarono il 21 d'aprile al passo di Fiume Secco tra Gioja e Seminara. Emmanuele Benavides, che aveva il comando della vanguardia spagnuola, si trattenne sopra una delle rive del fiume per parlamentare col d'Aubignì, che trovavasi sulla riva opposta. Mentre che l'ultimo era distratto da tale conferenza, il Carvajale, che comandava la retroguardia spagnuola, passò il fiume un miglio al di sopra, e venne a piombare alle spalle dell'armata francese nello stesso tempo che veniva attaccata di fronte. Un istante di confusione e di disordine bastò a perderla; gli uomini d'armi sgominati dovettero fuggire, ed il d'Aubignì con loro: Onorato ed Alfonso di Sanseverino, che comandavano il secondo ed il terzo corpo d'armata, composti di Calabresi, non opposero lunga resistenza; ambidue furono fatti prigionieri; ed in mezz'ora di tempo quasi tutta la fanteria francese fu passata a fil di spada. Il d'Aubignì era fuggito a Gioja, dove trovò il capitano della sua fanteria Mallerbe; essi continuarono a ritirarsi assieme, ma, giunti al forte d'Angitula, furono costretti a chiudervisi, perchè gli Spagnuoli stavano loro alla coda; e questi, non volendo lasciarsi fuggire di mano il più temuto di tutti i generali francesi, lo assediarono appena entrato in Angitula[209].
Press'a poco nel tempo in cui d'Andrades sbaragliava l'armata di d'Aubignì a Seminara, Gonsalvo di Cordova vide giugnere a Barletta un corpo di due mila Tedeschi che gli conduceva Ottaviano Colonna, e che dopo essere uscito dalle montagne della Carniola si era imbarcato a Trieste. Erano sette mesi che il Gonsalvo si trovava chiuso in Barletta, ed aveva ottenuto colla forza del suo carattere e colla sua accortezza nel guidare a voglia sua gli animi di sostenervi la costanza de' soldati in mezzo a tutte le privazioni. Tutte le città di quel vicinato erano in potere de' Francesi, ad eccezione di quella di Andria, ma non ebbe appena ricevute le truppe tedesche che aveva così lungamente aspettate; che risolse di porsi in campagna, e fece passare a Pietro Navarra ed a don Lodovico di Errera l'ordine di condurgli da Taranto tutti que' soldati che potrebbero. Dal canto suo il Nemours, avvisato dei movimenti che si facevano in Barletta, volle pure adunare in un solo corpo i suoi migliori ufficiali. Scrisse ad Andrea Matteo d'Acquaviva che stava a Conversano di recarsi ad Altamura, per incontrarvi Lodovico d'Ars, e ritornare con lui. Questi due ufficiali ebbero qualche corrispondenza insieme per concertare il loro cammino; ma una delle lettere dell'Ars essendo caduta in mano di Pietro Navarra, questi venne a conoscere la strada dell'Acquaviva, e gli tese una imboscata. L'Acquaviva, attaccato all'impensata, fu gravemente ferito e fatto prigioniere, ucciso suo fratello Giovanni, e tutta la sua cavalleria presa o dispersa[210].
L'arrivo a Barletta di Navarra e di Errera, che conducevano prigioniere il più savio e più rispettato barone angiovino e varj capitani dell'armata nemica, parve a Gonsalvo ed a' suoi soldati di buon augurio. Onde non vollero frapporre ulteriore ritardo a rompere il blocco nel quale erano stati così lungamente chiusi. Il 28 di aprile l'armata spagnuola uscì di Barletta, passò l'Ofanto, e dirigendosi verso ponente giunse nello stesso giorno sotto Cerignole. Il calore era di già estremo nelle pianure della Puglia; il soldato non trovava acqua in quelle arse campagne, e soffriva crudelmente la sete, sebbene Gonsalvo, nel passaggio dell'Ofanto, avesse fatte riempire d'acqua molte otri che faceva portare dietro l'armata. Per sollevare i pedoni oppressi dal caldo ordinò ancora ad ogni cavaliere di prenderne uno in groppa, ed egli stesso ne diede agli altri l'esempio facendo dietro di sè montare sul suo cavallo un porta insegne tedesco. Cerignole, lontana soltanto dieci miglia da Barletta, è un castello posto sulla sommità di un colle, i di cui fianchi sono tutti coperti di viti. Il fondo di queste vigne è separato dalla pianura da una fossa. Prospero e Fabricio Colonna, che vi erano giunti prima degli altri, disegnarono di accampare l'armata dietro questa fossa; la allargarono, e colla terra che avevano levata innalzarono sulla sponda interna un piccolo parapetto. Il Gonsalvo diresse in persona questi lavori, e vi fece immediatamente collocare i cannoni in batteria[211].
Il Nemours, partito da Canosa, era giunto presso Cerignole, quasi nello stesso tempo che il Gonsalvo. Nel consiglio di guerra da lui tenuto il Chatillon e Lodovico d'Ars insistevano perchè si differisse la battaglia fino al susseguente giorno, onde meglio conoscere la posizione del nemico, e dar tempo ai soldati di riposarsi. Per lo contrario il Chandieu, che aveva il comando degli Svizzeri, ed Ivone d'Allegre volevano che si approfittasse dell'ardore francese per attaccare in quell'istante. La disputa tra i capitani si protrasse oltre il dovere e fece perdere un tempo prezioso. Per inconsiderata vivacità d'Allegre disse che la lentezza del generale gli rendeva sospetto o il suo coraggio o la sua abilità. Il Nemours, ferito nell'onore, ebbe la debolezza di risolversi contro la propria opinione a venire a battaglia per purgarsi da questo rimprovero: ma prese questa risoluzione così tardi, che nell'istante in cui cominciò la battaglia non restava che mezza ora di giorno. Nell'armata francese eranvi cinquecento lance, mille cinquecento cavaleggeri e quattro mila pedoni[212]. L'armata spagnuola contava mille ottocento uomini di cavalleria pesante, cinquecento cavaleggeri, due mila fanti spagnuoli ed altrettanti Tedeschi[213]. Il Nemours condusse le sue truppe contro il nemico nell'ordine obbliquo, nascondendo la sua sinistra. Egli era con Lodovico d'Ars alla testa dell'ala destra che doveva cominciare la pugna; il Chandieu cogli Svizzeri stava nel centro alquanto a dietro, ed il d'Allegre col resto della cavalleria era alla sinistra ed ancora più a dietro[214].
Il Gonsalvo, che aveva divisa la sua armata in sei battaglioni, aveva mandata avanti tutta la sua cavalleria leggiera sotto gli ordini di Fabrizio Colonna e di don Diego di Mendoza per ritardare il nemico. Nelle arse campagne della Puglia i piedi de' cavalli sollevavano un così denso polverìo, che ai Francesi impedì totalmente di vedere le posizioni degli Spagnuoli. I finocchj, che in que' campi sono d'una smisurata grandezza, occultavano affatto la fossa ed il parapetto che chiudevano il campo; e l'artiglieria col suo fumo accrebbe maggiormente l'oscurità. Una delle prime scariche appiccò il fuoco al magazzino della polvere degli Spagnuoli. Il Gonsalvo, lungi dal mostrarsene spaventato, gridò: «Gli è questo un felice presagio; noi non abbiamo bisogno di polvere perchè nostra è la vittoria.» Frattanto il Nemours, che si avanzava contro i Tedeschi e contro la cavalleria della loro sinistra, fu improvvisamente trattenuto dalla fossa, di cui non sospettava l'esistenza, e mentre cercava un passaggio rivolgendosi di fianco, fu colpito da una palla e cadde morto alla testa delle sue truppe. In quell'istante il Chandieu giugneva in riva al fosso cogli Svizzeri. Ma i Tedeschi, che tenevano l'opposta riva li rispingevano colle loro alabarde, mentre che gli archibugeri spagnuoli li prendevano di fianco, ond'essi si disordinarono e perdettero molta gente. Il Chandieu, che si faceva conoscere in mezzo a loro a motivo delle penne bianche che ornavano il suo caschetto, e che si batteva a piedi alla loro testa, fu ucciso mentre era sceso nella fossa per attraversarla. Vedendo il d'Ars ed il d'Allegre rotti i loro compagni, si posero in fuga; ed il Chatillon, che fuggiva dietro di loro, fu preso e ricondotto prigioniero dalla cavalleria spagnuola. Nello spazio di mezz'ora l'armata francese era stata dispersa, ed aveva perduti tre in quattro mila uomini. Tutti i suoi equipaggi e tutti i viveri vennero in potere del nemico[215].
Il Gonsalvo fece conoscere i suoi singolari talenti col profitto che seppe trarre da questa vittoria. L'oscurità della notte, che era sopraggiunta quando appena cominciava ad essere decisa la sconfitta de' Francesi, aveva salvati i fuggiaschi; ma Lodovico d'Ars ed Ivone d'Allegre non avevano presa la medesima strada; il primo si era posto su quella di Venosa, l'altro su quella che conduce al ducato di Benevento. Il Gonsalvo li fece rapidamente inseguire per impedirne la riunione. Garzia de Paredes inseguì Lodovico d'Ars, e don Fedro de Paz il d'Allegre. Questi nella sua fuga si era riunito a Trajano Caraccioli, conte di Melfi; ma per quanto cercassero di affrettare la loro fuga, erano sempre preceduti dalla notizia del loro disastro; onde tutte le città, tutte le fortezze chiudevano loro le porte in faccia; ed appena a forza di preghiere e di danaro potevan essi ottenere che loro si calassero giù dalle mura colle corde pochi viveri entro le ceste. Ivone d'Allegre, dopo essersi trattenuto un solo giorno ad Atripalda, prese la strada di Napoli; ma nell'avvicinarsi a quella città seppe bentosto che il popolo si era sollevato, e che la guarnigione lasciatavi erasi chiusa ne' castelli coi tesori del re, coi magistrati francesi e coi più dichiarati partigiani della Francia. Piegò a tale notizia verso Capoa e Suessa, e senza trattenersi in quelle città andò fino a Gaeta, dove ragunò gli avanzi dell'armata francese tra quella fortezza e Tragitto[216].
Gli Spagnuoli vincitori si avanzavano da tutte le bande dietro i fuggiaschi, ed occupavano tutte le province del regno. Fabrizio Colonna si portò verso l'Aquila, e soggiogò gli Abbruzzi; Prospero Colonna si fece aprire le porte di Capoa e di Suessa, ed occupò tutta la Campagna Felice, cacciando i Francesi al di là del Garigliano. Tutte le città della Puglia e della Capitanata, informate prima delle altre della vittoria, si erano ancora per le prime sottomesse al vincitore. Le Calabrie aveano preso lo stesso partito, quando aveano avuta notizia della battaglia di Seminara. Il d'Aubignì difendevasi tuttavia nella rocca d'Angitula; ma quando fu pienamente infirmato del rovescio de' suoi commilitoni, capitolò, sagrificandosi solo ad essere prigioniere, mentre che tutti i soldati che servivano sotto di lui ebbero la libertà di tornare in Francia[217].
Gonsalvo di Cordova accolse ad Acerra i deputati di Napoli, che gli portavano le chiavi della città, e gli chiedevano la conferma de' privilegj della capitale; egli lo promise a nome de' suoi padroni, e fecevi il suo solenne ingresso il 14 di maggio. Nel susseguente giorno ricevette a nome di Ferdinando il giuramento de' sei seggi, che rappresentavano la nobiltà ed il popolo di Napoli. I due castelli, in cui si erano ritirati i Francesi, e che d'ordinario opponevano alle armate che gli assediavano una lunga resistenza, soggiacquero in pochi giorni agli attacchi di Pietro Navarra, il quale aveva il primo introdotto nella guerra l'arte di far giuocare le mine colla polvere, e che colle sue inaspettate esplosioni aveva inspirato ai soldati nemici tanto terrore, che i loro capi non avevano ancora potuto vincere. Quando il giorno 11 di giugno le mine del Navarra rovesciarono una metà delle mura di Castel Nuovo sopra i difensori, ed aprirono agli Spagnuoli una spaventosa breccia per la quale montarono all'assalto, Gonsalvo di Cordova cedette a' suoi soldati tutto il saccheggio de' ricchi magazzini che vi erano stati adunati, e de' tesori che vi si erano posti colla fede di metterli in luogo sicurissimo. Pure non era appena terminato questo saccheggio che molti soldati vennero al Gonsalvo, lagnandosi di non avere avuta la parte loro. «Per indennizzarvi andate a saccheggiare il mio palazzo, disse loro ridendo il generale;» ed infatti quello in cui era stato alloggiato, ed apparteneva al principe di Salerno, fu dagli Spagnuoli immediatamente svaligiato[218].
Il Castello dell'Ovo, posto sopra uno scoglio isolato, ai piedi del promontorio di Sant'Elmo, ed in mezzo alle acque, fu preso ventun giorni dopo Castel Nuovo, e cogli stessi mezzi. L'esplosione rovesciò parte della rupe sulla Cappella, dove in quell'istante il comandante della fortezza aveva adunato un consiglio di guerra: quasi tutti coloro che vi assistevano furono schiacciati sotto i rottami della montagna. Ed in tal modo tutto il regno si trovò in potere degli Spagnuoli, ad eccezione di Gaeta, dove tutti si erano uniti gli avanzi dell'armata francese; di Santa Severina, in cui il principe di Rossano era assediato, e di Venosa, dove Lodovico d'Ars con una lunga e valorosa resistenza si coprì di gloria[219].
CAPITOLO CII.
Guerra dei Veneziani coi Turchi. Morte di Alessandro VI. Elezione di Pio III e di Giulio II. Disastri del Valentino; sconfitta dei Francesi al Garigliano. Tregua tra la Francia e la Spagna.
1499 = 1504. Le due più importanti rivoluzioni che potesse provare l'Italia, l'espulsione della dinastia degli Sforza e quella della linea bastarda di Arragona, la conquista del Milanese fatta dai Francesi e quella del regno di Napoli fatta dagli Spagnuoli, si erano condotte a fine senza che il più saggio e più potente stato d'Italia, senza che la repubblica di Venezia potesse aver parte nell'una o nell'altra. Vero è che Venezia trovavasi impegnata in un'alleanza nominale con Lodovico XII contro la casa Sforza, ma senza per altro associarsi attivamente nella guerra. Non era intervenuta al trattato di divisione del regno di Napoli a Granata; non aveva difesa la casa d'Arragona, nè contribuito a balzarla dal trono; e non aveva preso parte nella guerra, che quasi subito dopo era scoppiata fra gli spogliatori. Fin dalla prima ritirata dei Francesi, dopo la spedizione di Carlo VIII, la repubblica possedeva molte fortezze nella Puglia, sulle coste dell'Adriatico; ma dalle mura di Trani, di Monopoli, di Brindisi e di Otranto, i comandanti veneziani guardavano le battaglie de' Francesi cogli Spagnuoli senza prendervi parte, osservando una rigorosa neutralità. Certo non avevano veduto senza una viva inquietudine gli oltramontani acquistare le due più ricche e più popolate regioni dell'Italia; ma le pretese di Massimiliano sopra quelle province, e le continue sue minacce, gli avevano costretti ad acconsentire alla ruina di Lodovico Sforza, ed anche a concorrervi, sperando che i Francesi, loro nuovi vicini, li difenderebbero, in caso di bisogno, contro i Tedeschi. La pericolosa guerra, che di quest'epoca dovettero sostenere coll'impero ottomano, fu cagione che non prendessero parte negli affari di Napoli, e che lasciassero in quel regno balzar dal trono un monarca italiano per sostituirvi un vicerè spagnuolo: tanto è vero che l'Italia non soggiacque agli attacchi degli oltramontani che per essersi questi tutti riuniti contro di lei sola; e che i Turchi, sebbene nemici degli Spagnuoli, e che i Tedeschi, sebbene nemici dei Francesi, contribuirono alle conquiste de' loro avversarj, perchè con incessanti attacchi esaurirono quella nazione italiana, che sola avrebbe dovuto far testa a tutti.
La guerra dei Turchi con Venezia aveva cominciato nello stesso tempo che quella di Lodovico XII colla casa Sforza. Ella occupò dunque la repubblica in tutto quello spazio di tempo la di cui storia è compresa nei tre ultimi capitoli, e per tutto questo tempo impedì al più potente degli stati italiani di potere opporsi all'ambizione de' Francesi, a quella degli Spagnuoli, ed a quella di papa Alessandro VI e di suo figliuolo. Bajazette secondo, il nono sultano ottomano, non era nè tanto inquieto, nè tanto crudele quanto suo padre Maometto II, o quanto suo figlio Selim. Il suo gusto per gli studj, per la filosofia e pel riposo lo fece perfino tenere, in confronto degl'illustri guerrieri della sua stirpe, per un principe neghittoso. Pure Bajazette II aveva sostenuto una gloriosa guerra contro Cait-Bey, soldano dei Mamelucchi d'Egitto, e contro i Croati ed i Valacchi. Egli aveva, siccome il suo predecessore, allontanati i confini dell'impero ottomano, ed il terrore che aveva inspirato questa costante successione di conquiste, non si era per anco dissipato sotto il suo regno. La repubblica di Venezia, che confinava colla Turchia per una lunga estensione di paesi, e che sola custodiva contro di lei l'Italia e tutto l'Occidente, non entrava senza spavento in una guerra col gran signore; e quando aveva un così potente nemico da combattere, metteva da canto ogni altra rivalità; implorava i soccorsi, e cercava di conciliarsi l'affetto di tutti i principi cristiani. Invece di pensare ancora a tenere la bilancia in bilico tra di loro, il suo primo oggetto era per lo contrario quello di tutti riunirli per la comune difesa.
Varj motivi vengono da varj storici assegnati alla guerra che scoppiò in sul finire del quindicesimo secolo tra Bajazette II e la repubblica di Venezia. Forse tutti contribuirono ad accenderla o come cagione o come pretesto. Bajazette, in seno alla pace, cercava d'indebolire i suoi vicini, incoraggiando l'assassinio ai confini. La Dalmazia veneziana era sempre infestata da bande armate di ladri che uscivano dall'Albania: nè solo assalivano i mercanti ed i viaggiatori, ma saccheggiavano le borgate, bruciavano i villaggi, conducevano gli abitanti in ischiavitù, e gli sforzavano a riscattarsi con ricche taglie; e da tutti i porti dell'impero turco uscivano nello stesso tempo pirati, che saccheggiavano le coste ed interrompevano il commercio. Quando i mercanti veneziani portavano le loro lagnanze a Bajazette, il sultano, invece di prendere le difese di que' malfattori, dichiarava che li vedrebbe volentieri castigati, e ch'egli confortava i suoi vicini a trattarli con estrema severità. Frattanto le province, contro le quali era intenzionato di portare in appresso le armi, venivano da prima così ruinate; la popolazione fuggiva, ed all'ultimo riusciva impossibile il difenderle[220].
Nello stesso tempo il sultano era sempre apparecchiato a porgere orecchio ai traditori che offrivano di dargli in mano qualche fortezza de' suoi vicini posta presso le frontiere. Una trama di tale natura fu formata a Corfù, e Bajazette allestì un potente armamento per occupare quell'isola così importante; ma fortunatamente il capitano della flotta veneziana, che tornava di Candia, sia che segretamente avesse avuto contezza dei traditori, o che il solo accidente lo abbia favorito, fece imbarcare, passando a Corfù, tutti coloro che avevano trattato cogli Ottomani, e rifece la guarnigione dell'isola. Bajazette non volle lasciar sospettare che fosse stato prevenuto; condusse nella Bulgheria e nella Valacchia l'armata che aveva adunata; nello stesso tempo spedì i suoi luogotenenti a saccheggiare i monti della Chimera, i di cui abitanti si mantenevano indipendenti, e conquistò il piccolo stato di Giorgio Czernowitsch, in vicinanza di Cattaro. Ma sospettando che i suoi disegni sopra Corfù fossero stati scoperti dal balivo di Venezia, dichiarò di non voler più soffrire spie presso di sè, e scacciò il balivo da Costantinopoli con tutti gli altri ambasciatori o residenti de' principi cristiani[221].
Verso lo stesso tempo Niccolò Pesaro, ammiraglio della flotta veneziana, incontrò una galera turca che ricusò d'ammainare le vele secondo la cerimonia di pratica. Il Pesaro la colò a fondo. Il senato, inquieto per questo atto di severità e pel rinvio del suo balivo, mandò a Costantinopoli Andrea Zancani per regolare tutte queste differenze colla Porta, e per ottenere dal sultano un nuovo trattato. Pareva che le negoziazioni non incontrassero difficoltà. Bajazette non mostrossi adirato e sottoscrisse il trattato che gli fu presentato dall'ambasciatore. Ma questo trattato era scritto in latino, ed il sultano riservavasi di protestare contro tutto ciò che potev'essere espresso nella lingua degl'infedeli, ch'egli non intendeva. Lodovico Sforza, che ancora aveva la signoria di Milano, e che sperava di salvarsi con una potente diversione, gli aveva di quei tempi spediti accorti negoziatori che lo esortavano ad attaccare la repubblica di Venezia[222]. Bajazette II promise di farlo, e tenne la cosa segretissima. E cominciò a fare grandiosi apparecchj, senza che si sapesse contro quale provincia dell'Asia o dell'Europa erano destinati. Credevano molti che volesse attaccare l'isola di Rodi, posseduta dai cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme. Quando i suoi apparecchj furono terminati, l'irruzione di due mila cavalli turchi nel territorio di Zara fu il principio delle ostilità; e nello stesso tempo tutti i mercanti veneziani, stabiliti in Costantinopoli, furono posti in catene e confiscate le loro proprietà. Trovavasi tra costoro Andrea Gritti, che doveva uscire di prigione per terminare questa guerra e per salire dopo alcun tempo sul trono ducale[223].
La flotta ottomana, di cui Bajazette aveva dato il comando al sangiacco di Gallipoli, e che gli storici veneziani pretendono che fosse composta di dugento settanta vele, si avanzò in traccia de' Cristiani verso le coste della Morea, nelle acque della Sapienza e di Modone. Dal canto suo il senato di Venezia diede il comando di una flotta di cento quaranta vele, con cui sperava di difendere i suoi possedimenti del Levante, ad Antonio Grimani, gentiluomo che, fino all'età di sessantaquattro anni cui era allora pervenuto, aveva goduta una costante felicità. La sua famiglia, sebbene nobile, era assai povera; ma egli aveva in poco tempo ammassate immense ricchezze. Sapevasi che possedeva più di cento mila ducati in capitali o in numerario, oltre i poderi ch'erano considerabili. Aveva costui esercitato il commercio con tanta prosperità, che tutti gli altri mercadanti prendevano il di lui esempio per norma delle loro speculazioni, comperando quando lo vedevano comperare e vendendo quando lo vedevano vendere. Era stato ammesso in senato, e dopo tale epoca aveva occupate le più luminose cariche della repubblica, ed erasene mostrato degno colla sua eloquenza, colla sua prudenza, col suo coraggio. Aveva maritate le sue figlie nelle principali case di Venezia; aveva ottenuto da Alessandro VI, pel prezzo di trenta mila ducati il cappello cardinalizio pel suo figliuolo primogenito, ed in appresso dal senato il patriarcato d'Aquilea. Gli altri suoi figli avevano ottenuto dalla repubblica onoratissimi impieghi, ed egli stesso era rivestito della dignità di procuratore di S. Marco; la prima dello stato dopo quella del doge. Aveva comandate non senza gloria le flotte della repubblica nella guerra di Carlo VIII, e conquistato Monopoli; e il suo ritorno da quella spedizione era stato un trionfo. Pure aveva ricusato con non so quale spavento il comando che gli veniva affidato contro i Turchi, quasi prevedesse che la lunga sua prosperità stava per abbandonarlo; ma quando era stato forzato ad addossarsi tanta responsabilità aveva mandato al tesoro pubblico, come un dono patriottico, venti mila ducati per concorrere alle spese dell'armamento della flotta ch'egli doveva comandare[224].
La flotta veneziana incontrò in agosto presso Modone la flotta turca. La prima aveva poco più che la metà meno delle vele dell'altra; anzi tra le sue cento quaranta navi non vi erano che quarantasei galere; e tutti gli altri bastimenti erano poco proprj ai movimenti militari. Dalla banda dei Turchi non vedevasi che un prodigioso numero di navi male armate, male governate, ed i di cui equipaggi, ignoranti e tolti di fresco all'aratro, non sentivano veruna disciplina; e perciò i musulmani temevano la battaglia non meno di quello che i cristiani la desiderassero, nella ferma fiducia di uscirne vittoriosi.
Le due flotte manovrarono parecchi giorni l'una in faccia all'altra, ma qualunque volta pareva che il Grimani si disponesse all'attacco, i Turchi si ritiravano in Porto Longo. Nella loro flotta trovavasi un vascello di enorme grandezza, della portata di quattro mila tonnellate, il quale pareva sollevarsi in mezzo agli altri come una rocca. Era comandato da Barach Raiz. Il 22 di agosto del 1599 questo vascello si trovava in faccia a Chiarenta, alquanto lontano dagli altri, e fu subito investito dalle due galere d'Andrea Loredano, e dell'Albanese d'Armier, che attaccatesi a lui coi ramponi, vennero all'abordaggio. La zuffa fu accanita, e senza che gli altri equipaggi vi prendessero parte, o perchè tenuti distanti da una subita perfetta calma, come dicono alcuni, o perchè il Grimani, invidiando la gloria del Loredano, come fu creduto dai più, fosse contento di vederlo perire. Più di mille soldati difendevano il vascello turco, e la battaglia pendeva ancora indecisa, quando il fuoco s'appiccò ad uno de' tre bastimenti, e rapidamente comunicossi agli altri due senza che potessero separarsi; così perirono tutti e tre in mezzo alle acque. Quando il Loredano vide affatto perduto il suo, taluno gli propose di salvarsi a nuoto; egli prese per tutta risposta lo stendardo di San Marco che volteggiava sul ponte; È sotto quest'insegna, egli disse, che io sono nato, che ho vissuto e che voglio morire; e dicendo queste parole entrò tra le fiamme. Varie lance turche circondavano i combattenti e raccoglievano le loro genti che si gittavano in mare; ma i Veneziani, abbandonati dai loro compatriotti, perirono quasi tutti[225].
Finchè durò questa zuffa le due flotte si erano cannonate senza troppo accostarsi; ma l'incendio delle navi del Loredano e del Darmier scoraggiò tutti i Veneziani, i quali invece di desiderare la battaglia come avevano fatto fin allora, cominciarono a temerla, ed il Grimani, cedendo alle circostanze, si ritirò sulla Costa del Peloponneso. Colà ebbe avviso che una flotta francese di ventidue galere, che Lodovico XII aveva fatta armare a Genova per soccorrere i cavalieri di Rodi, e che in appresso aveva offerta al senato quando seppe che Rodi non era minacciata, stava ancorata a Zante. Il Grimani andò subito a raggiugnerla e tornò colla medesima in cerca de' Musulmani. Pure allorchè fu a vista della loro flotta, la stessa irrisoluzione, o la stessa pusillanimità, ond'era stato incolpato precedentemente, lo dissuase dall'attaccarli. Le due flotte si limitarono a ricambiarsi alcune cannonate, ed i Francesi, soffrire non potendo questa timida maniera di combattere, si congedarono dall'ammiraglio veneziano, e si ritirarono[226].
Nello stesso tempo i Turchi avevano assediato Lepanto; ed il Grimani non osò soccorrere quella città che si arrese quando vide allontanarsi la flotta veneziana[227]. Il Grimani per ristabilire il suo nome fece dal canto suo un tentativo sopra Cefalonia, ma senza successo. Allora ricondusse la sua flotta a Corfù, e vi trovò Melchiorre Trevisani, che il consiglio dei Dieci gli aveva mandato per successore, e che aveva ordine di spedirlo a Venezia carico di catene per dare conto della sua condotta. La bella flotta da lui comandata pareva ai Veneziani bastante per distruggere quella dei Turchi, e fare in appresso la conquista del Peloponneso e dell'Eubea; ed in ragione delle alte speranze che avevano concepite, erano più inclinati a dare colpa della cattiva riuscita a viltà, o a tradimento. Forse peraltro non calcolavano abbastanza i progressi fatti dai Turchi nell'arte della guerra marittima, ed il Grimani accostandosi ad una flotta di lunga mano superiore alla sua di navi e di equipaggi, aveva conosciuto che più non trattavasi di una moltitudine disordinata come supponevasi a Venezia. I pochi vantaggi ottenuti dagli ammiragli che succedettero al Grimani, ed il trionfo ch'era a lui riservato, quando nell'estrema sua vecchiezza di ottantasette anni fu eletto doge di quella medesima repubblica che lo aveva condannato, sono indizj della sua innocenza. Ma quando arrivò a Venezia, troppo gagliarda era la prevenzione contro di lui perchè potesse resistervi. Invano suo figliuolo, il cardinale Grimani, accorse da Roma per riceverlo, e vestito pontificalmente portò le catene di suo padre, e quando questi attraversò il ponte, e quando fu tradotto innanzi al gran consiglio; la severità di quell'assemblea non si lasciò addolcire. Ella aveva a sè richiamato questo giudizio, temendo che il prevenuto non adoperasse un'illecita influenza sul consiglio dei Dieci, sia colle sue ricchezze che colle aderenze della sua famiglia. Il Grimani venne condannato alla relegazione nelle isole di Cherso e di Ozero nel golfo del Quarnero: dopo alcun tempo fuggì da questo luogo di esilio, e rifugiossi a Roma presso suo figlio cardinale[228].
Le truppe di terra non si comportarono meglio di quelle di mare. Il Zancagno aveva avuto ordine di adunare le milizie dei confini della Carniola, di porre in istato di difesa le rive dell'Isonzo, e di stabilire il suo campo a Gradisca. Ma Scander bassà, sangiacco di Bosnia, avendo condotti sull'Isonzo sette mila cavalli, il 29 di settembre ne mandò due mila al di là del fiume. Il Zancagno non oppose loro veruna resistenza, e tenne i suoi soldati chiusi in Gradisca. I contadini, che vivevano in piena sicurezza dietro l'armata della repubblica, furono presi da estremo terrore quando videro vicine quelle barbare truppe; le rive della Piave e del Tagliamento furono abbandonate, sebbene capaci di difesa. Numerose bande di fuggiaschi lasciarono il Friuli; Treviso e la stessa Padova si salvarono in Venezia, e la campagna fu ruinata fin presso alle Lagune. I Turchi, dopo aver fatto un grosso numero di prigionieri, parte de' quali furono uccisi prima di ripassare il Tagliamento, rientrarono ne' loro paesi, senza aver trovato occasione di combattere[229].
In principio del 1500 i Veneziani, scoraggiati dalla cattiva riuscita dell'ultima campagna, e desiderando di poter volgere tutta la loro attenzione agli affari dell'Italia, le di cui rivoluzioni facevansi ogni di sempre più importanti, spedirono a Costantinopoli per lagnarsi col gran signore di essere stati attaccati senza precedente provocazione, e per ripetere i loro mercanti fatti prigionieri in tutta l'estensione dell'impero turco, e la restituzione di Lepanto; ma Bajazette rispose loro che non accorderebbe la pace alla repubblica che a condizione che questa gli cedesse Modone, Corone e Napoli di Malvasia, e si obbligasse a pagargli l'annuo tributo di dieci mila ducati[230].
Durante l'inverno la flotta turca si era divisa ne' due golfi d'Ambracia e di Lepanto. Melchiorre Trevisani, che aveva preso il comando della flotta veneziana, voleva impedire ai Turchi di riunirsi, ed a tal fine occupava le acque di Corfù e di Cefalonia; ma i nemici ingannarono la sua vigilanza e si riunirono presso al promontorio di Leucade; dopo di che trovandosi più forti fecero dar a dietro i Veneziani. Daüth pascià entrava nel Peloponneso con una formidabile armata, mentre che la flotta turca attaccava dalla banda del mare le città di cui Bajazette aveva chiesta la cessione. I Turchi furono respinti sotto Napoli di Malvasia e sotto Zonchio, l'antico Pilos di Nestore; ma occuparono il sobborgo di Modone, ed all'istante cominciarono l'assedio di quella città di tanta importanza[231].
Girolamo Contarini fu sostituito nel comando della flotta veneziana a Melchiorre Trevisani morto di malattia naturale sotto Cefalonia. Il nuovo ammiraglio volle soccorrere Modone, ma avendo incontrata la flotta turca presso Pilos l'attaccò con isvantaggio, perdette alcune galere, e fu forzato a rifugiarsi a Zanto[232]. Pure perchè non sapeva risolversi ad abbandonare gli assediati, si presentò per la seconda volta il nove di agosto sotto Modone, non con intenzione di venir a battaglia, ma per distrarre l'attenzione de' nemici, mentre che cinque galere, le più leggieri al corso, entrerebbero in porto coi rinforzi e colle munizioni destinate agli assediati. Parve che il suo disegno riuscisse, perciocchè quattro delle cinque galere, attraversando la flotta turca, arrivarono fino allo steccato che chiudeva il porto. Tutti gli abitanti di Modone si affollavano verso le galere per iscaricarle più presto, e la stessa guardia scese dalle mura in riva al mare. Del che avvedutisi i Turchi, dierono in quell'istante l'assalto e superarono le mura. Invano gli abitanti vollero fare resistenza; ma troppo tardi, essendo i musulmani già scesi nelle strade. Pure nè i Greci nè i Veneziani, sebbene perduta avessero ogni speranza, tentarono di fuggire, e, continuando a combattere, furono quasi tutti uccisi sulla piazza, mentre che il fuoco, appiccato dagli assalitori alle prime case, andava rapidamente dilatandosi per tutta la città; ed in breve tempo l'incendio si fece universale come la carnificina. Modone cadde in potere degli Ottomani; ma omai più non vi erano nè edificj, nè abitanti[233].
Il terrore, che questa catastrofe sparse in tutta la Morea, consigliò gli abitanti di Pilos e di Corone ad arrendersi senza fare resistenza. Il generale turco attaccò in appresso Napoli di Malvasia: fece condurre sotto le mura di quella città Paolo Contarini da lui fatto prigioniere a Modone, e lo minacciò di condannarlo al più crudele supplicio se non eccitava gli assediati ad arrendersi. Il Contarini cercò di parlare a quegli abitanti, ma mentre gli arringava, vedendo che le sue guardie distratte non lo tenevano d'occhio, spronò il suo cavallo, e sottraendosi a loro, varcò con un salto la prima fossa delle fortificazioni e giunse in città senz'essere colpito dai dardi o dalle palle che i Turchi facevano piovere sopra di lui; e contribuì potentemente alla difesa di Napoli dove si era rifugiato[234].
Il consiglio dei Dieci aveva incaricato Benedetto Pesaro del comando della flotta veneziana. Questo nuovo capitano la trovò scoraggiata, indebolita e dispersa da una burrasca che aveva sofferta. La riunì a Corfù ed a Zante, vi ristabilì la disciplina, severamente gastigando gli ufficiali che avevano mal fatto il loro dovere, ed in appresso la condusse in traccia di quella dei Turchi; ma era in tempo che questi, soddisfatti degli ottenuti vantaggi, si ritiravano a Costantinopoli. Il Pesaro, rimasto padrone del mare, occupò Egina, saccheggiò Mitilene e Tenedo, prese molte navi da trasporto della flotta turca, e condannò a morte tutti i loro equipaggi, lasciandoli appesi alle forche piantate sulle due rive dell'Europa e dell'Asia, affinchè tutte le navi che attraversavano i Dardanelli vedessero gli effetti della sua crudeltà, ch'egli credeva di giustificare col nome di rappresaglie. Prima di lasciare quelle acque ridusse l'isola di Samotracia sotto il dominio della repubblica[235].
La flotta che Ferdinando ed Isabella avevano armata a Malaga sotto gli ordini di Gonsalvo di Cordova, e che destinavano a fare la conquista del regno di Napoli, sebbene volessero ancora per qualche tempo nascondere i loro disegni, era arrivata a Messina, indi passata a Zante, ove dietro l'invito di Gonsalvo doveva trovarsi Benedetto Pesaro. Colà i due generali furono di parere di attaccare l'isola di Cefalonia, ed approfittando di un vento favorevole entrarono a forza ne' due porti di quell'isola, sbarcarono le loro truppe e strinsero d'assedio la capitale. Era questa difesa dall'epirota Gisdar, che sostenne il loro attacco con valorosa costanza. Gli Spagnuoli soffrirono e fame e malattie crudeli; ma diedero in quest'assedio una prima prova di quella costanza e di quella confidenza nel loro capo che due anni più tardi doveva a Barletta farli trionfare de' loro nemici. Finalmente Pietro Navarra fece una larga breccia nelle mura di Cefalonia con una mina caricata; la città fu presa d'assalto il 1.º di novembre del 1500, e la guarnigione fu passata a fil di spada. Zonchio o Pilos si ricuperò parimenti per sorpresa; ed il Pesaro avrebbe voluto attaccare anche Modone, quando si seppe che i Turchi vi avevano mandati gagliardi rinforzi; onde il Cordova dichiarò di essere costretto a ricondurre la sua flotta ne' porti della Sicilia. Non pertanto, volendo la repubblica mostrarsi grata ai di lui servigj, lo fece inscrivere nel libro d'oro tra i nobili veneziani[236].
Il Pesaro continuò tutto l'inverno la guerra contro i Turchi. Prese o distrusse molti loro vascelli che si stavano fabbricando alla Prevezza, nel golfo d'Ambracia[237]; tentò di bruciare una parte della loro flotta nel fiume di Loüs, ma venne respinto con molta perdita di gente[238]; finalmente accettò la sommissione d'Alessio che si arrese alla repubblica. Dall'altra banda la città di Zonchio e di Durazzo furono di nuovo prese dai Turchi: e tutti questi prosperi avvenimenti o perdite venivano accompagnati da atroci crudeltà tanto per parte de' Cristiani che dei Turchi. Si rendevano responsabili della sorte della guerra gli sventurati abitanti, ai quali, benchè mal difesi dalle guarnigioni, facevasi rendere conto, riprendendoli, dell'infortunio, cui davasi il nome di ribellione; e rispetto ai soldati prigionieri perivano quasi tutti in mezzo ai supplicj[239].
I Veneziani, minacciati di perdere quasi tutti i loro possedimenti d'oltremare, avevano chiesti soccorsi a tutti i principi della Cristianità; tutti risguardavano tuttavia come un dovere la guerra contro gl'infedeli; tutti convenivano intorno alla necessità di soccorrere Venezia nella lotta disuguale in cui si era posta; pure sembravano più disposti a salvare l'onor loro con un momentaneo servigio, che a somministrare ai loro alleati una reale assistenza. Alessandro VI fece armare venti vascelli, de' quali diede il comando a Giacomo Pesaro, vescovo di Pafo, che li condusse in rinforzo della flotta veneziana; ma il più efficace soccorso proveniente dal papa fu la cessione del prodotto delle indulgenze vendute nello stato veneto, che ammontò ad 80,000 ducati[240]. Il Ravenstein, governatore di Genova a nome della Francia, condusse a Zante una flotta francese destinata a secondare quella della repubblica; ma non era stata pagata che per tre mesi, due e mezzo de' quali erano di già scorsi prima che giugnesse ne' mari di Grecia, onde si ritirò senza rendere ai Veneziani verun servigio. Anche una flotta portoghese comparve nello stesso luogo, ma il suo comandante non volle prendere parte negli assedj, dichiarando di avere soltanto ordine di porsi nella linea di battaglia de' Veneziani, e si ritirò ancor essa quando vide che nel presente anno i musulmani non sembravano intenzionati di venire a battaglia[241].
Prima che terminasse l'anno, Filippo di Ravenstein ricondusse la flotta francese in ajuto de' Veneziani; attaccò di concerto con loro l'isola di Mitilene, ma l'indisciplina de' suoi soldati lo costrinse ad abbandonare l'intrapresa quando era quasi sicura la vittoria[242]. Tutti questi efimeri ausiliarj avevano probabilmente impedito alla Porta di far uscire in quest'anno dai Dardanelli la sua flotta, ma non avevano procurato veruno stabile vantaggio ai Veneziani. Lo stesso non deve dirsi dell'attacco di Uladislao, re d'Ungheria e di Boemia, ai confini de' Turchi; perciocchè le scorrerie degli Ungheri costrinsero Bajazette II a mandare le sue armate verso il Danubio. Dal canto loro i Polacchi cominciavano a porsi in movimento, ed il loro re aveva promesso alla repubblica di Venezia di fare una diversione in di lei favore. La morte di questo re impedì, a dir vero, la guerra della Polonia, ma la sola voce de' suoi apparecchi era stata utile ai Veneziani[243].
Nel susseguente anno 1502 un nuovo, e più dei precedenti inaspettato, ausiliario recò pure qualche sollievo alla repubblica. Fu questi Ismaele Sofì, che armò la Persia contro Bajazette II, invase la parte dell'Armenia soggetta ai Turchi, e richiamò in Asia le armi del Sultano[244]. Il Pesaro, che aveva ricevuti alcuni soccorsi dai cavalieri di Rodi, dal re di Francia e da Alessandro VI, volle approfittarne per attaccare l'isola di Leucade o di Santa Maura, che fu da lui conquistata[245]. Questa fu press'a poco la sua sola intrapresa in quest'anno. I Turchi, distratti da due potenti diversioni in Europa ed in Asia, più non diressero i principali loro sforzi contro la repubblica. Ma questa, ancora atterrita dai passati pericoli, e temendo di vedere ogni anno invaso il Friuli, e consumata la conquista del Peloponneso, evitava di provocare maggiormente la collera del Sultano. In sul finire di quest'anno la repubblica ricevette da Achmet, uno de' Pascià di Bajazette II, alcune aperture di pace, che partecipò al re d'Ungheria; e siccome questi non volle acconsentirvi, non ricusò di trattare sola. Andrea Gritti, uno de' mercanti che i Turchi avevano arrestati in principio della guerra, e che in allora trovavasi nelle prigioni di Costantinopoli, trattò a nome della sua patria; avendo la fortuna destinato questo uomo, che non era meno distinto per nobiltà, per la bellezza della persona, e per la forza del suo corpo, che per i militari e politici talenti, a conchiudere in tempo della sua prigionia due de' più importanti trattati che facesse la repubblica. Il Gritti, che alquanto più tardi acquistò tanta gloria nella guerra della lega di Cambray, e che dopo riconciliò la sua patria colla Francia; che all'ultimo, salito sul trono ducale, l'occupò quindici anni, e sottoscrisse il trattato di pace che in principio del 1503 riconciliò la repubblica di Venezia coll'impero turco, e che non fu rotto prima del 1537. I Veneziani restituirono Santa Maura o Leucade ai Turchi, rinunciarono ai loro diritti sopra Lepanto, Modone e Corone, che avevano perdute nel corso della guerra, ed ottennero invece soltanto la restituzione delle private proprietà che dal sultano erano state confiscate in principio della guerra[246].
Questo trattato, che Andrea Gritti non portò a Venezia che in novembre del 1503, fu ricevuto con esultanza dalla repubblica, sebbene sanzionasse la perdita di alcune delle sue migliori fortezze possedute in Levante. Ma finchè era durata la guerra, i Veneziani eransi trovati in faccia ai principi cristiani loro vicini in uno stato di costante umiliazione e d'inquietudine. Ora erano stati forzati ad assecondare gli ambiziosi progetti di Lodovico XII, spesso a soffrire l'insolenza de' suoi luogotenenti, talvolta a chiudere gli occhi sulle pratiche del duca Valentino. Essi nè avevano potuto dar peso alle loro raccomandazioni, nè far rispettare i proprj interessi; e lo stato di crisi in cui erasi trovata l'Italia ne' precedenti anni, non pareva vicino a terminare. La guerra di Napoli aveva accesa l'ambizione di tutti gli oltremontani, ed i sovrani della Francia, della Spagna, della Germania, manifestavano più apertamente che mai le loro pretese sulle province della penisola.
Il re di Francia non poteva darsi pace della perdita del regno, che così rapidamente gli era stato rapito dalla mala fede del re cattolico. Egli si doleva all'arciduca Filippo, che gli avesse legate le mani con una ingannevole negoziazione di pace. Questi, che aveva lealmente trattato, e che trovavasi investito de' più estesi poteri di suo suocero, lagnavasi che il suo onore fosse stato crudelmente compromesso. Ferdinando ed Isabella avevano da prima cercati pretesti per ritardare la ratifica del trattato conchiuso dal loro genero; ma quando ebbero sicuri avvisi de' vantaggi ottenuti da Gonsalvo di Cordova, ricusarono assolutamente di sottoscrivere il trattato, accusando Filippo di avere ecceduti i suoi poteri. Pure proponevano ancora altre negoziazioni per ingannare di nuovo Lodovico XII[247]. Ma questo monarca, conoscendo finalmente che con principi senza fede la sola forza può dare qualche valore ai trattati, risolse di attaccare nello stesso tempo la Spagna dalla banda di Bajona e di Fontarabia, e dalla banda del contado di Rossiglione; di far guastare le coste della Catalogna e di Valenza da una flotta francese, finalmente di mandare nel regno di Napoli un'armata tale da restituirgli la perduta superiorità[248].
Il comando di quest'armata fu dato a Lodovico della Tremouille; e sotto di lui doveva servire Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, quello stesso che si era opposto ai Francesi a Fornovo, e che aveva comandata l'armata veneziana spedita contro di loro nella Puglia. Il Balivo di Bissì aveva avuta la commissione di levare e condurre gli Svizzeri. I Fiorentini, i Sienesi, i principi di Ferrara, di Mantova e di Bologna avevano promessi i loro contingenti; l'armata di La Tremouille doveva contare mille ottocento lance, e circa diciotto mila fanti; doveva secondarla una potente flotta, e non si erano mai veduti in Francia più formidabili apparecchi[249]. Pure La Tremouille, prima d'ingolfarsi nel regno di Napoli, voleva essere sicuro della condotta del papa e di suo figliuolo. Ai timori renduti tanto legittimi dal loro carattere aggiugnevasi da qualche tempo la diffidenza che ispirar dovevano le loro contraddittorie negoziazioni; le insolenti pretese del papa, che voleva perseguitare e spogliare de' suoi feudi Gian Giordano Orsini, sebbene fosse sotto l'immediata protezione del re[250]; la licenza data agli Spagnuoli di reclutare in Roma, e le non ignote pratiche del Valentino con Gonsalvo di Cordova. Il Valentino, che aveva sotto i suoi ordini cinquecento uomini d'armi, offriva di unirli all'armata francese, purchè Lodovico XII gli sagrificasse non solo Gian Giordano Orsini, ma ancora lo stato di Siena; ed i Francesi erano in procinto di sottoscrivere così vergognoso trattato allorchè il Borgia ne propose uno meno ignominioso, ma più pericoloso. Egli offriva il passo per lo stato della Chiesa, conservando egli stesso una neutralità armata. Facilmente si comprendeva, che sua intenzione era quella di dichiararsi a seconda delle circostanze per opprimere i vinti; o pure che, malgrado le sue promesse, mentre i Francesi sarebbero nel regno di Napoli, attaccherebbe la Toscana da loro lasciata senza truppe[251]. Ma in mezzo a tali progetti ed a tali speranze, il 18 di agosto, papa Alessandro VI fu colpito da quasi improvvisa morte: il duca Cesare Borgia, suo figlio, ed il cardinale di Corneto furono nello stesso tempo portati a Roma quasi moribondi da una vigna in cui dovevano cenare con lui, ed il corpo di Alessandro VI, copertosi di subito da negra spaventosa gangrena, diede motivo a tutto il pubblico di sospettare, che il papa, il figliuolo ed il commensale fossero vittime di un veleno apparecchiato dallo stesso papa per un altro[252].
L'intera vita d'Alessandro Borgia era stata contraddistinta da tanti delitti, ed egli si era per tanti titoli meritato l'odio di Roma, dell'Italia e di tutta la Cristianità, che non è maraviglia che la di lui morte si attribuisse a quegli stessi delitti cui aveva accostumata la sua corte, e che si cercasse di trovare nel rapidissimo rovesciamento della sua famiglia, e nel giusto gastigo della sua malvagità, una conseguenza degli scellerati mezzi da lui praticati per accrescere la sua fortuna. In tutto il corso del suo pontificato erasi veduto Alessandro VI ricavare molto danaro dalle promozioni al sacro collegio, che in forza delle costituzioni ecclesiastiche aveva il diritto di fare. In undici promozioni aveva creati quarantatrè cardinali[253], e quasi niuna di tali promozioni era stata gratuita. Da ognuna aveva ricavato almeno dieci mila fiorini; quella di Francesco Soderini, fratello del gonfaloniere di Firenze, era stata pagata ventimila: trentamila quella di Domenico Grimani, figliuolo del procuratore di san Marco; ed altre probabilmente un prezzo ancora maggiore. Ma pel papa non era gran cosa la vendita di questa principalissima dignità ecclesiastica. I cardinali da lui adoperati nell'amministrazione si arricchivano rapidamente; ed il papa fu accusato di averne fatti perire moltissimi per usurpare le loro eredità, e disporre nuovamente de' loro beneficj, che ricadevano alla santa Sede. Questi erano, si diceva, i criminosi mezzi con cui il papa suppliva alle enormi spese che richiedevano il mantenimento delle armate del duca Valentino, il lusso della corte pontificia, le prodigalità di Lugrezia Borgia, e il collocamento degli altri figli e nipoti di Alessandro. Fu raccontato e creduto in tutta l'Italia, che il papa aveva invitato il cardinale Adriano di Corneto ad un convito nella sua vigna di Belvedere presso al Vaticano con intenzione di avvelenarlo, come aveva altra volta avvelenati i cardinali di sant'Angelo, di Capoa e di Modena, prima suoi zelantissimi ministri, poi vittime della sua cupidigia; che il duca Valentino aveva mandato una bottiglia di vino avvelenato al coppiere del papa, senza palesargli il mistero, facendogli soltanto dire di non mandarla in tavola senza suo espresso ordine; che nella momentanea assenza di questo coppiere, il suo sostituto avea dato per errore di questo vino al papa, a Cesare Borgia ed al cardinale di Corneto. Quest'ultimo disse egli medesimo molto tempo dopo a Paolo Giovio, che, appena inghiottita tale bevanda, avea sentito nelle sue viscere un ardente fuoco, che subito avea perduta la vista, ed in appresso l'uso di tutti i sensi, e che dopo una lunga malattia, la sua guarigione era stata preceduta dalla totale escoriazione della sua pelle[254].
Gli scrittori contemporanei meglio informati e che più minutamente parlarono di tale avvenimento, convengono rispetto alle circostanze. Pure un giornale della corte di Roma e le lettere dell'ambasciatore della casa d'Este sembrano provare che la malattia del papa durasse otto giorni, che fosse giudicata febbre perniciosa e come tale medicata[255]. Inoltre non sappiamo con precisione l'epoca del banchetto nella vigna di Belvedere: è probabile che avesse luogo il 10 di agosto; che la malattia, prodotta dal veleno diviso in tre invece di essere preso da un solo, abbia durato otto giorni, e che in tale tempo non gli si desse il suo vero nome, per non accusare il papa e suo figlio ancora vivi ed onnipotenti[256].
Alessandro VI, il di cui solo nome ricorda tanti delitti e tante infamie, dovette in tempo del suo pontificato pronunciare a nome della Chiesa Romana molte decisioni che hanno ancora presentemente forza di leggi. Perciò gli scrittori ecclesiastici cercano di provare, che a fronte degli enormi suoi vizj egli non si slontanò mai un solo istante dalla purità della fede[257]. Alessandro VI fu uno degl'istitutori dell'ordine de' Minimi di san Francesco di Paola, ch'egli ratificò colla sua bolla del 1.º di maggio del 1501, e di quello delle sorelle di Maria Vergine, fondato da Giovanna di Valois, moglie divorziata di Lodovico XII[258]. La Chiesa romana gli deve inoltre un'istituzione, che forse più d'ogni altra contribuì a conservare la sua autorità contro gli assalti della filosofia ed i progressi dello spirito, quella della censura ecclesiastica dei libri. Alessandro VI, con suo breve del nove di giugno del 1501, ordinò agli stampatori sotto pena di scomunica di non istampare verun libro senza l'assenso degli arcivescovi o de' loro vicarj ed ufficiali, ed ordinò a questi di far sequestrare e bruciare ogni libro contenente dottrine eretiche, contrarie alla fede cattolica, empie e malsonanti[259].
Il duca Valentino diceva al Machiavelli, che credeva di avere pensato a tuttociò che potrebbe accadere nella circostanza della morte di suo padre, e che a tutto aveva trovato rimedio; ma che mai non aveva pensato che nella circostanza di tale avvenimento potrebbe egli medesimo trovarsi mortalmente infermo[260]. Aveva contato che l'elezione del nuovo pontefice sarebbe in gran parte del voler suo, dovendo, a suo credere, conservarsi da lui dipendenti i cardinali nominati da suo padre, ed in particolare gli otto Spagnuoli ch'egli aveva fatti entrare nel sacro collegio. Aveva ridotta sotto la sua clientela quasi tutta la piccola nobiltà degli stati romani, ed aveva in modo oppressata l'altra nobiltà, che credeva di non aver che temere dalla medesima. Tutte le fortezze tanto in Roma che nel suo territorio erano guardate dai suoi soldati, e l'armata con cui faceva la guerra agli Orsini trovavasi acquartierata ne' contorni di Roma. Ma d'altra parte egli si trovava colpito appunto nell'istante in cui, incerto di decidersi per la corte di Francia o per quella di Spagna, non poteva far capitale del favore dell'una o dell'altra; anzi sentivasi nello stesso tempo stretto dalle due armate nemiche: pure per quanto travagliato fosse dalla malattia, non si lasciò scoraggiare. Mentre che il popolo affollavasi a San Pietro con indicibile gioja per saziare la sua vista sul cadavere di Alessandro VI, ed esprimere tutto l'orrore ond'era verso di lui compreso, Cesare Borgia si tenne nel palazzo del Vaticano; entrò in trattato coi Colonna che suo padre aveva spogliati de' loro feudi; loro restituì Chiazzano, Capo d'Anzo, Frascati, Rocca di Papa e Nettuno, che Alessandro VI aveva notabilmente fortificato, ed a tal prezzo comperò la loro neutralità[261].
Il duca Valentino non aveva abbastanza soldati per potere vietare ai suoi nemici l'ingresso in Roma, e contenere nello stesso tempo il popolo che lo detestava. Era tornato in patria Prospero Colonna alla testa di tutto il suo partito. Dal canto suo Fabio Orsini era rientrato in possesso dei palazzi della sua famiglia a Monte Giordano; aveva fatte saccheggiare le case e le botteghe de' cortigiani e de' mercanti spagnuoli, così favoreggiati sotto il regno dell'ultimo papa, ed altamente domandava la testa dello stesso Cesare Borgia in espiazione del sangue di suo padre e de' suoi parenti che questo tiranno avea versato. Le truppe del Valentino erano tutte acquartierate in Borgo e ne' contorni del Vaticano; di modo che i cardinali, per non cadere nelle loro mani, si adunarono nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva; ma non si affrettarono di cominciare l'esequie del papa, che dovevano durare nove giorni, e terminarsi prima del conclave[262].
Fuori delle porte di Roma, e negli stati fin allora occupati dal Valentino, le convulsioni politiche erano ancora più rapide. Gian Paolo Baglioni si era associato a Bartolommeo d'Alviano, capitano della casa Orsini, al servigio de' Veneziani. Col di lui ajuto era rientrato in Perugia, aveva cacciata da Viterbo la fazione dei Gatti; da Todi quella di Chiaravalle; ed aveva uccisi o svaligiati tutti que' cittadini addetti ai due partiti, che gli erano venuti in mano. Fabio Orsini, perseguitando in compagnia de' Savelli nel patrimonio di San Pietro tutti i partigiani del Valentino, ed avendo ucciso un individuo della famiglia Borgia, si lavò le mani e la bocca col di lui sangue[263]. Tutti i baroni romani avevano ricuperate le rocche loro tolte dal papa; i Vitelli erano tornati in Città di Castello, Giacomo d'Appiano in Piombino, il duca d'Urbino, ed i signori di Pesaro, di Camerino e di Sinigaglia negli stati che avevano perduti[264]. Soltanto la Romagna non si mosse, e si mantenne ubbidiente al duca Valentino. Le altre sue conquiste erano più fresche; in quella di Romagna aveva avuto tempo di far gustare i vantaggi del suo governo. Quest'uomo, tanto crudele e di così perversi principj politici, ottimamente conosceva ciò che poteva formare la felicità de' suoi sudditi; egli faceva fare tra di loro rigorosa giustizia, e manteneva inviolabile la pubblica sicurezza. Tutte le fazioni erano compresse; tutti i furti de' magistrati e de' principi erano cessati; tutti gli uomini più distinti avevano nel Borgia un illuminato protettore; i militari trovavano avanzamento nelle armate, o nel comando delle rocche del duca; i letterati venivano riccamente provveduti di benefici ecclesiastici: finalmente lo stato prosperava, e verun Romagnuolo poteva senza timore figurarsi il ritorno de' piccoli antichi signori[265].
Lodovico de La Tremouille, che doveva avere il comando dell'armata francese, era trattenuto in Parma da una malattia che più non gli acconsentì di aver parte nell'impresa di Napoli. Gli era succeduto nel comando il Marchese di Mantova come luogotenente del re; ma in fatto quasi tutta l'autorità era nelle mani del balivo d'Occan e di Sandricourt, perchè i Francesi sdegnavano di ubbidire ad un principe straniero. Era quest'armata entrata in Toscana per la via di Pontremoli, avanzando lentamente a motivo degli Svizzeri, che di mal animo prendevano parte nelle disastrose spedizioni del regno di Napoli. Finalmente attraversò lo stato di Siena, ed arrivò tra Nepi e l'Isola nell'istante in cui i cardinali stavano per entrare in conclave. Il primo ministro della Francia ed il favorito del re, il cardinale d'Amboise, giugneva nello stesso tempo frettolosamente col cardinale d'Arragona e col cardinale Ascanio Sforza, ai quali aveva renduta la libertà, nella ferma fiducia che i loro suffragj sarebbero regolati dal suo. Appoggiato da tutta la protezione del suo padrone, dalla libertà di valersi a voglia sua de' tesori del re, e di una potente armata, giunta presso le mura di Roma, credeva d'avere in pugno la tiara pontificia, e subordinò alle sue personali viste le negoziazioni del gabinetto, ed i movimenti dell'esercito francese. In particolar modo cercò il duca Valentino, che dicevasi arbitro di tutti i voti de' cardinali spagnuoli; e per guadagnarlo al suo partito non temette di scontentare gli Orsini fin allora affezionati alla Francia. Il Borgia dal canto suo sentì che l'armata francese era a lui più vicina che non quella di Spagna, e che poteva fargli più bene e più male; onde troncò le negoziazioni intavolate con Gonsalvo di Cordova per mezzo dei Colonna, ed il primo di settembre sottoscrisse cogli ambasciatori francesi un nuovo trattato, in forza del quale si obbligava a servire Lodovico XII con tutte le sue forze nella guerra di Napoli; a condizione che quel monarca si rendesse garante degli stati che ancora possedeva, e gli promettesse il suo ajuto per riconquistare i perduti[266]. Gonsalvo di Cordova, quand'ebbe avviso di questo trattato, ordinò a tutti i capitani spagnuoli che militavano nell'armata del Borgia, di abbandonarlo per servire sotto le insegne della Spagna, se non volevano farsi colpevoli di alto tradimento. Quest'ordine privò il duca di Ugo di Moncade, di Girolamo Olorico, di Pietro de Castro, di Diego Chignones, e di altri riputatissimi ufficiali[267].
La cessione dei suffragj de' cardinali dipendenti dalla casa Borgia, non formava un'esplicita condizione del trattato del Valentino, sebbene fosse questo il principale motivo che aveva consigliato il cardinale d'Amboise a sottoscriverlo. Ma questi cardinali, di cui si credevano disponibili i voti, miravano assai più ai futuri loro vantaggi che a mostrarsi riconoscenti de' passati beneficj. Desideravano in particolar modo la propria libertà e quella della loro elezione; perciò non acconsentirono di chiudersi in conclave finchè il cardinale d'Amboise non ebbe promesso che l'armata francese non si avanzerebbe oltre Nepi, e finchè Cesare Borgia non fu partito da Roma con dugento uomini d'armi e trecento cavaleggieri per raggiugnere l'armata[268].
I cardinali non avevano ancora presi fra di loro gli opportuni concerti per procedere ad una definitiva elezione. Giorgio d'Amboise non aveva presso il conclave tutta l'influenza che si era ripromessa, ma sperava di guadagnare col tempo nuovi partigiani; invece i suoi avversarj non dubitavano che non perdesse qualche suffragio tosto che l'armata francese sarebbesi allontanata da Roma: d'altra parte tutti i partiti conoscevano egualmente quanto sarebbe pericolosa cosa per la libertà loro e per l'indipendenza della Chiesa il protrarre il conclave in mezzo a tanti militari movimenti. Tutti adunque convennero di scegliere per papa un cardinale, di cui l'estenuate forze, e la conosciuta infermità facevano prevedere vicina la morte. Fu questi Francesco Piccolomini, nipote di papa Pio II, dal quale era stato fatto arcivescovo di Siena ed in appresso cardinale. Questo decano del sacro collegio, che veniva da tutti risguardato come uomo assai virtuoso, riunì i suffragj di trentasette de' suoi fratelli, su trent'otto che si trovavano in conclave. Fu proclamato il 22 di settembre, e coronato l'8 di ottobre sotto il nome di Pio III[269].
Dopo quest'elezione, l'armata francese, che non aveva più motivo di trattenersi, passò il Tevere e proseguì il suo cammino verso il regno di Napoli: ed il duca Valentino, che sempre era ammalato, e che si era fatto portare in lettica a Nepi, si fece nello stesso modo riportare a Roma, dove si afforzò nel Borgo con dugento cinquanta uomini d'armi, altrettanti cavaleggeri, ed ottocento fanti. Gli Orsini, che sospiravano l'istante di potersi vendicare di lui erano essi pure tornati in città colle loro truppe, e si afforzavano in un altro quartiere. Avevano essi chiamati Gian Paolo Baglioni e Bartolommeo d'Alviano, ed ogni giorno venivano alle mani colla gente del Valentino. Nel momento in cui la guerra andava a ricominciare, trattavano come condottieri per mettersi al soldo dell'una o dell'altra potenza. La loro inclinazione li piegava verso la Francia, e quest'inclinazione veniva accresciuta dalla loro rivalità coi Colonna, che servivano nell'esercito spagnuolo. Ma il cardinale d'Amboise gli aveva vivamente offesi col favore accordato al Valentino: aveva in appresso mercanteggiati i loro servigj, come se non facesse gran conto della loro assistenza, o credesse che per difendersi dai Colonna gli Orsini sarebbero sempre obbligati a porsi anche senza soldo sotto le insegne francesi. Bartolommeo d'Alviano, che aveva lasciato il servigio della repubblica di Venezia per venire a Roma a riunirsi alla sua famiglia, si sentì offeso da questa mancanza di riguardi, e trattò con Gonsalvo di Cordova a nome di tutti gli Orsini, promettendo di condurre ai servigj della Spagna cinquecento uomini d'armi per sessanta mila ducati all'anno. Ma volle in contraccambio che il Gonsalvo promettesse di rimettere i Medici in Firenze dopo finita la guerra[270].
L'ambasciatore di Venezia in Roma si adoperava per questa riconciliazione degli Orsini cogli Spagnuoli, ed aveva prestato agli ultimi il danaro necessario per fare il primo pagamento: in appresso gli ajutò ancora a rappattumarsi coi Colonna, che militavano nella medesima armata. Il Valentino, spaventato da questa coalizione, che suppose diretta contro di lui, volle in allora uscire da Roma. Gian Giordano Orsini non aveva fatto causa comune co' suoi parenti, ed aveva promesso al cardinale di Roano che condurrebbe il Borgia sicuro fino all'armata francese; onde il Borgia si mosse per andare a trovarlo a Bracciano; ma nello stesso tempo Fabio Orsini e Gian Paolo Baglioni avevano attaccata la porta del Torrione e l'avevano bruciata, indi erano entrati nel quartiere del Valentino ed aveano caricati i di lui soldati con forze molto superiori. Quando Cesare Borgia vide che la sua cavalleria cominciava a fuggire, si riparò col principe di Squillace suo fratello ed alcuni cardinali spagnuoli nel palazzo del Vaticano, di dove coll'assenso del papa passò in castel Sant'Angelo. Il comandante del castello era una creatura d'Alessandro VI, e non solo promise di difendere il Borgia contro i suoi nemici, ma ancora di lasciare che si ritirasse qualunque volta lo vorrebbe. Intanto l'armata del duca, inseguita dagli Orsini e dal Baglioni, si dissipò interamente, ed i brillanti sogni dell'ambizioso Borgia si dissiparono coll'armata[271].
Pio III non ingannò l'aspettazione de' cardinali, che avevano calcolato sopra un brevissimo papato; dopo ventisei soli giorni di regno, morì il 18 di ottobre in età di sessantaquattro anni e cinque mesi. Fin da quando era stato eletto aveva in una gamba una piaga che poteva farsi pericolosa; non pertanto si sospettò che fosse stata avvelenata per commissione di Pandolfo Petrucci, tiranno di Siena, che temeva di trovare in lui i risentimenti di un gentiluomo sienese, e quindi nemico dell'ordine dei Nove, col di cui appoggio regnava Pandolfo[272].
Durante il breve regno di Pio III i cardinali avevano prese migliori misure; le diverse fazioni avevano conosciute le proprie forze; e quelle che non isperavano di trionfare, avevano se non altro ottenuto di vendere a più alto prezzo la loro adesione. Giorgio d'Amboise pel primo era stato forzato di conoscere ch'egli non otterrebbe mai più la tiara, ed in conseguenza impiegò i suffragj di cui poteva disporre a favore di quel cardinale che al tempo della spedizione di Carlo VIII si era totalmente dedicato agl'interessi della Francia. Era costui il cardinale di San Pietro ad vincula, Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, il quale, per vendicarsi di Alessandro VI, suo personale nemico, aveva chiamate le armi de' Francesi in Italia, ed, esigliato da Roma, era quasi sempre vissuto alla corte di Francia. Possedeva questo cardinale immense ricchezze e molti beneficj ecclesiastici de' quali poteva disporre a favore de' suoi partigiani.
Alessandro VI, che lo detestava, aveva contribuito a procacciargli riputazione di sincerità, replicatamente dichiarando di conoscere in lui questa sola virtù in mezzo a vizj senza numero; e Giuliano approfittò dell'universale confidenza che ispirava la sua sincerità per meglio ingannare. Ognuno credeva così implicitamente alla sua parola ed alle sue promesse, che moltissimi amici gli affidarono ogni loro sostanza e tutti i loro beneficj ecclesiastici, ond'egli se ne valesse per comperare partigiani. Il cardinale Ascanio Sforza, conoscendo assai meglio che Giorgio d'Amboise lo spirito ambizioso ed inquieto del La Rovere, vide che questo preteso partigiano della Francia era di tutto il sacro collegio l'uomo più disposto a strappare il ducato di Milano dalle mani de' Francesi per restituirlo alla sua famiglia. Finalmente il Valentino, ridotto in così pericolosa situazione da non poter più seguire le regole della consueta sua politica, prestò facile orecchio alle promesse che aveva costume di sprezzare: suppose o volle supporre che freschi beneficj potrebbero far dimenticare le vecchie ingiurie, e il 29 di ottobre sottoscrisse col La Rovere un compromesso confermato con giuramento, in forza del quale assicurò al cardinale i suffragj di tutti i cardinali spagnuoli, mediante la promessa del gonfalone della Chiesa, della conservazione di tutti i suoi stati, e del matrimonio di sua figlia con Francesco Maria della Rovere, nipote del futuro papa. Con questi varj trattati e con tutte queste pratiche l'elezione di San Pietro ad vincula era così bene concertata, che lo stesso giorno 31 di ottobre in cui i cardinali entrarono in conclave, senza che si avesse avuto il tempo di rinchiuderveli, proclamarono Giuliano della Rovere, che prese il nome di Giulio II[273].
Ben furono necessarie grandi sventure per determinare il Valentino a dare le voci di cui disponeva al suo più antico nemico. Ma in fatti dopo la sconfitta della sua piccola armata intorno al Vaticano, la sua potenza era quasi venuta al nulla. Le città della Romagna, che si erano lusingate del suo ritorno, vedendo caduta la sua fortuna, avevano voluto acquistarsi merito presso gli antichi loro padroni, dandosi spontaneamente nelle loro mani. Cesena era tornata sotto l'immediato dominio della Chiesa: a Imola era stato ucciso il comandante della rocca, e la città era divisa tra i partigiani dei Riarj e quelli della Chiesa. Forlì aveva aperte le porte ad Antonio Ordelaffi, erede della famiglia che aveva regnato in quel piccolo stato prima che se ne impadronisse Girolamo Riario. Giovanni Sforza era rientrato in Pesaro, Pandolfo Malatesta in Rimini, di dove fu ben tosto scacciato da Dionigi Naldo, soldato di Cesare Borgia. Faenza aspettò più lungamente il Valentino che niun'altra città di Romagna; ma all'ultimo, perdendo la speranza di vederlo ricuperare l'antica potenza, si diede a Francesco, figliuolo naturale di Galeotto di Manfredi, il solo erede di una famiglia, della quale tutti i legittimi discendenti erano stati uccisi dal Borgia. Le rocche di tutte queste città non presero parte a queste rivoluzioni e furono fedelmente custodite dai loro capitani a nome del duca Valentino[274].
Ma ormai sembrava che la sorte della Romagna dovesse assai meno dipendere dai voti del popolo, dai mezzi del duca Valentino, o dai maneggi dello stesso papa, che dalle armi della potente repubblica, la quale aveva sempre risguardata questa provincia come più particolarmente sommessa alla sua influenza; la quale già da gran tempo dava pensioni ai suoi piccoli principi, ed aveva pure conquistata qualche città. In primavera di questo stesso anno Venezia aveva sottoscritto il suo trattato di pace coi Turchi; Andrea Gritti, che lo aveva negoziato non era peranco tornato da Costantinopoli, e di già la repubblica faceva sentire a' suoi vicini, che le di lei forze più non erano compresse dal terrore degli Ottomani; che i suoi consiglj più non erano esclusivamente occupati intorno ai costanti progressi degl'infedeli, e che trovavasi nuovamente in istato di farsi rispettare e temere. Giacomo Venieri, che comandava a Ravenna, vi adunava ragguardevoli forze; si procurava intelligenze in Cesena, ed all'ultimo tentò di sorprenderla; ma ne fu respinto. Poco dopo Dionigi Naldo, più non isperando di vedere il duca Valentino, e non si volendo assoggettare ai Manfredi, contro i quali si era precedentemente ribellato, consegnò ai Veneziani le fortezze di Val di Lamone, e persuase il comandante della rocca di Faenza a venderla ai medesimi a prezzo d'oro. Queste due vendite non si trassero però dietro la sommissione della capitale, perchè i suoi abitanti, irritati di vedere che il comandante della rocca ed i contadini di Val di Lamone pretendevano di disporre della sorte loro, si difesero ostinatamente, e fecero in pari tempo domandare ajuto a Giulio II ed ai Fiorentini[275].
Tutti gli altri piccoli principati di Romagna erano simultaneamente attaccati dai Veneziani, ai quali aprirono le porte Forlimpopoli ed altre diverse fortezze. Fano, che volevano sorprendere, si difese; Rimini venne loro volontariamente abbandonato da Pandolfo Malatesta, che loro chiese soltanto in cambio la signoria di Cittadella nello stato di Padova, ed il grado di gentiluomo veneziano[276].
Giulio II, di fresco salito sulla cattedra di san Pietro, non ancora abbastanza conosceva quali erano le sue forze, e non voleva affrettarsi a dispiegarle. Pure non poteva vedere senza sdegno occuparsi dai Veneziani le città dipendenti dalla Chiesa. I vicarj, che le possedevano in addietro, ed il duca Valentino stesso, erano dalla loro debolezza e dai giornalieri loro bisogni ricondotti alla dipendenza della santa sede; ma la repubblica di Venezia, sempre potente e sempre ugualmente formidabile, più non restituiva ciò che una volta aveva preso. Giulio II che ancora non ardiva romperla con lei tentò le vie della persuasione. Spedì il vescovo di Tivoli a Venezia, per lagnarsi degli affronti che il senato gli faceva sul bel principio del suo pontificato, attaccando una città della Chiesa, quando egli aveva sperato di potere far capitale dell'amicizia della repubblica, che d'altronde credeva essersi meritata col suo attaccamento ai di lei interessi quand'era ancora cardinale[277].
I Veneziani erano allora traviati da quella medesima ambizione, che loro aveva fatta accettare la protezione di Pisa, la divisione del ducato di Milano ed i porti del regno di Napoli: cercavano di dilatare il loro dominio in Toscana, in Lombardia, e lungo le coste dell'Adriatico, senza pensare che ogni conquista provocava contro di loro un nuovo nemico; e non li trattenne il timore di aggiugnere agli altri anche il papa. Perciò risposero con vaghe proteste d'amicizia, e coll'offerta di pagare per Faenza lo stesso tributo che pagavano i precedenti vicarj; rappresentavano nello stesso tempo, che da più secoli quella città più non era sotto l'immediato dominio della Chiesa, e promettevano di essere così fedeli vassalli quanto lo erano stato i Manfredi o il duca Valentino. Mentre che in apparenza tenevano questo moderato linguaggio le loro truppe andavano gagliardamente stringendo l'assedio di Faenza: si erano accampate presso la Chiesa dell'osservanza, e cominciavano a battere in breccia le mura della città. I Fiorentini, che in sulle prime avevano mandato a Faenza un piccolo soccorro di dugento uomini, quando non si videro assecondati dal papa non vollero entrar soli in così pericolosa guerra; onde gli assediati abitanti, più non isperando di potersi difendere, capitolarono il 19 di novembre a condizione che i Veneziani corrisponderebbero al giovane Francesco Manfredi una pensione annua di trecento ducati[278].
In allora i Veneziani avevano acquistato in Romagna, oltre i due principati di Faenza e di Rimini, Monte fiore, sant'Arcangelo, Verucchio, Porto Cesenatico e sei altre terre murate. Loro non sarebbe stato difficile di occupare ancora Imola e Forlì, ma si rattennero per non irritare soverchiamente il papa. Il duca Valentino altro omai non possedeva che le rocche di Forlì, Cesena, Forlimpopoli e Bertinoro. Le offrì al papa in deposito, affinchè non venissero in mano dei Veneziani; ma questi, dice il Guicciardini, la di cui sincerità non era peranco affatto corrotta dall'abitudine del potere, le ricusò per non esporsi in appresso alla tentazione di mancare di parola[279].
Giulio II aveva fatte al Valentino onorate accoglienze, mostrando esternamente una sincera riconciliazione; il 3 di novembre gli aveva dato alloggio nel Vaticano, dove il duca era circondato da una quarantina de' suoi ufficiali, e gli andava promettendo che nel primo concistoro lo dichiarerebbe Gonfaloniere della Chiesa[280]. Cesare Borgia, avvezzo alla prosperità, non aveva trovato nel suo spirito le necessarie forze per giudicare le circostanze del suo presente stato. Quest'uomo, che mai non aveva con chicchessia mantenute le sue promesse, dava piena fede alla parola del suo più antico nemico, ed aspettava con intera confidenza il gonfalone della Chiesa, che Giulio II aveva promesso di dargli, protraendo fin dopo tale nomina la sua partenza alla volta della Romagna. Pensava in allora di ragunare alcuni uomini d'armi che lo aspettavano, di attraversare la Toscana, o forse di passare per mare a Genova, di là in Lombardia, indi coll'ajuto de' suoi partigiani soccorrere i castellani che avevano fedelmente custodite le fortezze. Quando il Machiavelli, che in allora trovavasi in legazione a Roma, andò il 5 di novembre a partecipargli l'intrapresa de' Veneziani contro Faenza, il Borgia si alterò contro i Fiorentini, i quali con soli cento uomini d'armi avrebbero potuto, volendolo, salvare tutti i di lui possedimenti. Giurò che non dissiperebbe tra le mani de' banchieri di Genova i danari che gli restavano, i quali ammontavano a più di dugento mila fiorini, per difendere invano una città che stava per perdere; che piuttosto darebbe egli stesso le sue fortezze ai Veneziani per avere la soddisfazione di vederli in appresso attaccare Firenze e ruinarla. Pochi mesi prima tali minacce avrebbero potuto fare una profonda impressione; ma più non si conveniva al Borgia questo modo di parlare; e lo stesso cardinale d'Amboise, che sempre lo proteggeva, e che lo risguardava come un utile alleato della Francia, quando il Machiavelli gli riferì questo discorso, si fece a dire: «Dio mai non lasciò verun peccato impunito, e nemmeno perdonerà quelli di quest'uomo[281] ».
Il papa ancora non voleva mancare di parola al Valentino, pure desiderava di sbarazzarsi presto di lui; e sebbene cercasse di approfittare di quell'avanzo di credito che ancora gli restava per difendere la Romagna contro i Veneziani, si rallegrava di vederlo abbandonato da tutti i suoi amici. Egli, non meno che il cardinale d'Amboise, lo aveva incoraggiato a chiedere un salvacondotto ai Fiorentini per mandare la sua piccola armata ai confini della Romagna[282]; ma non ebbe dispiacere che questo salvacondotto gli fosse rifiutato; cercò soltanto di trattenere il duca con fallaci speranze di un accomodamento coi Fiorentini per ridurlo a partire[283].
Finalmente il Valentino si pose in viaggio il 19 di novembre circa la mezza notte con intenzione d'imbarcarsi ad Ostia e di farsi trasportare con quattrocento o cinquecento uomini alla Spezia. Aveva ordinato di trovarsi colà a settecento cavalli, che vi mandava per la strada della Toscana[284]. Era questo precisamente l'istante in cui Faenza, stretta dai Veneziani, stava in procinto di capitolare. Giulio II, spaventato dai loro progressi, si persuase che il solo mezzo di farvi argine fosse quello di farsi rilasciare le fortezze che tuttavia il Valentino possedeva in Romagna. Il duca partendo aveva lasciata la corte di Roma in potere de' suoi nemici, i quali tutti incoraggiavano Giulio II a mancargli di fede, ed anticipatamente facevano plauso al gastigo d'un uomo perfido dal papa detestato. Questi non oppose lunga resistenza alle loro insinuazioni. Fece partire alla volta di Ostia il cardinale di Volterra, fratello del gonfaloniere Pietro Soderini, per domandare al Valentino la consegna di tutte le sue fortezze. I venti contrarj ritardavano la partenza del duca, ed il Volterra lo trovò tuttavia in Ostia il 22 di novembre; ma il Borgia, nell'istante medesimo in cui intraprendeva un viaggio per tentare di riconquistare la Romagna, non poteva rinunciare al suo titolo su quella sovranità, nè alle rocche che ancora vi possedeva, e ricusò di prestarsi all'inchiesta del pontefice. Giulio II, troppo orgoglioso e troppo irascibile per sopportare un rifiuto, fece subito arrestare il Valentino, che rimase prigioniero in faccia ad Ostia sopra una galera francese[285]. Si sparse ben tosto voce che il papa l'aveva fatto gettare nel Tevere. Tutti applaudirono anticipatamente a quest'atto di perfidia, e mostraronsi in seguito dolenti, sentendo che non erasi eseguito[286]. Nello stesso tempo la piccola armata del Valentino, comandata da Michele di Coreglia, era giunta ai confini di Perugia e di Firenze, dove fu attaccata dalla gente di Giovanni Paolo Baglioni, e svaligiata. Don Michele restò prigioniere dei Fiorentini, che cedendo alle calde preghiere del papa glielo consegnarono; e Giulio II si mostrò soddisfattissimo, che gli ultimi mezzi che restavano a colui, al quale aveva promesso di perdonare, fossero finalmente distrutti[287].
Per grande che fosse l'odio che Giulio II nutriva in fondo al cuore contro il Valentino, mai del tutto non dimenticò che gli andava debitore della tiara, e che gli aveva promessa la sua riconoscenza. Lo fece condurre al palazzo del Vaticano, e sempre insistendo per avere un ordine diretto ai suoi castellani, di consegnargli le loro rocche, gli mostrò tali riguardi, che da lui non si aspettavano. E con tali mezzi almeno apparentemente vi riuscì. Il 2 di dicembre il Valentino sottoscrisse l'ordine che gli si chiedeva, e Pietro d'Oviedo, uno de' suoi luogotenenti, incaricato di recarlo, partì alla volta della Romagna, onde farlo eseguire. Dopo ciò il Borgia ebbe maggiore libertà, ed il papa promise di lasciarlo partire per la Francia, tostocchè avesse notizia dell'ingresso delle truppe pontificie nelle rocche della Romagna[288].
Nelli stesso tempo, e quasi in su le porte di Roma una più importante lite decideva del destini dell'Italia ed in qualche modo di quelli dell'Europa. Le due potenti armate dei Francesi e di Gonsalvo di Cordova trovavansi in faccia l'una all'altra su le rive del Garigliano; si aspettava ad ogni istante una battaglia generale, che le continue piogge facevano di giorno in giorno differire; la fortuna tenevasi in bilico, ed in tale stato di ansiosa incertezza, nè il papa, nè i Fiorentini osavano di fare novità. Su gli altri punti la guerra tra le due monarchie non aveva prodotto verun grande avvenimento. L'armata francese che si avanzava a traverso della Guascogna si era tosto dispersa per mancanza di danaro e per l'imprudenza di colui che ne aveva il comando; la flotta, dopo avere minacciate senz'effetto le coste della Catalogna, erasi chiusa nel porto di Marsiglia; l'armata del Rossiglione erasi trattenuta all'assedio di Salses, posto alle falde de' Pirenei, e dopo di avere consumati quaranta giorni sotto quella piazza, che valorosamente si difese, erasi ritirata all'avvicinarsi dell'armata di Spagna comandata dallo stesso re. Frattanto Federico, titolare re di Napoli, cui Lodovico XII e Ferdinando promettevano egualmente di riporre in trono, aveva tra di loro negoziata una tregua di cinque mesi, nella quale non era compresa l'Italia intera; egli dava fede alle loro parole, e non si accorgeva che ambidue i re cercavano di cancellare la vergogna del precedente tradimento, senza rinunciare ai frutti che ne avevano raccolti[289].
Ma l'armata francese, che il cardinale d'Amboise aveva così lungamente tenuta presso di Roma per esercitare maggiore influenza sul sacro collegio, aveva in appresso presa la via di Napoli, sotto gli ordini del marchese di Mantova. Quest'armata, in numero superiore d'assai a quella che poteva opporle il Gonsalvo, era stata abbondantemente provveduta di danaro e di vittovaglie dalla antiveggenza del re; e soltanto la fanteria svizzera, che ne formava una parte essenziale, non era stata scelta con tanta cura come nelle precedenti spedizioni, e perciò era più debole assai di quella che aveva servito nelle precedenti armate. Gli uomini d'armi francesi più non volevano assoggettarsi a verun ordine o disciplina dopo che più non erano comandati da La Tremouille; il loro orgoglio si trovava offeso dell'averla il re assoggettata ad un generale italiano; ed il marchese di Saluzzo, il balivo d'Occan, e Sandricourt, suoi luogotenenti generali, erano poco d'accordo tanto tra di loro quanto col loro capo[290].
In tempo delle affrettate marcie e nel caldo delle battaglie, l'indisciplina francese era difficilmente osservabile; ma diventava particolarmente pericolosa nelle zuffe degli avamposti, e qualunque volta le operazioni si traevano in lungo. Perciò la lenta marcia dell'armata francese a traverso all'Italia, ed il suo lungo soggiorno presso Roma, avevano avuta la più fatale influenza sulle disposizioni de' combattenti. Pure non fu che quando si videro cominciare le piogge dell'autunno, che in quest'anno furono assai più lunghe e più ostinate che all'ordinario, che si potè conoscere quanto la personale ambizione del cardinale d'Amboise, e le sue pratiche per salire sul trono pontificio fossero riuscite pregiudicevoli alla Francia. La campagna aveva cominciato con abbastanza felici auspicj. Il marchese di Saluzzo, dopo avere valorosamente difesa Gaeta cogli avanzi dell'armata che in primavera era stata sconfitta a Cerignole, aveva riconquistato il ducato di Trajetto, e la Contea di Fondi fino alle rive del Garigliano, ed indi aveva raggiunta l'armata del marchese di Mantova tra Pontecorvo e Cepperano.
Gonsalvo di Cordova aveva stabilito il suo quartier generale a san Germano con intenzione di difenderne il passaggio, protetto dalle due fortezze di Rocca-Secca e di Monte Casino. Un capitano spagnuolo, chiamato Vitalba, erasi chiuso in Rocca-Secca, ed avendo valorosamente respinti due assalti dati dall'armata francese, tenne a cagione della sua resistenza sette giorni i Francesi nelle vicinanze di Pontecorvo. Il paese era ruinato, nè bastava a provvederli di vittovaglie, e le continue piogge inondavano i loro quartieri. All'ultimo, dopo avere sofferta la fame e l'umidità, abbandonarono l'assedio di Rocca-Secca, ed il progetto di forzare il passo di san Germano, e ripiegando sulla loro destra a scirocco delle montagne di Fondi, tentarono d'entrare nel regno per la strada che costeggia il mare; e s'inoltrarono così fino alla torre posta al passo del Garigliano, dove credesi che anticamente fosse fabbricata la città di Minturno. La sponda del fiume, più alta dal canto loro che dall'opposta parte, riusciva vantaggiosa per gettare un ponte; e mentre stavano costruendolo si trovavano in un paese amico. Essi possedevano le città di Gaeta, Itri, Fondi e Trajetto, e la loro flotta, padrona del mare, poteva tenerli provveduti di vittovaglie fino alla foce del fiume. Gonsalvo di Cordova, a dir vero, senza lasciarsi scoraggiare da queste sfavorevoli circostanze, venne immediatamente ad occupare l'opposta sponda del Garigliano, ed a contrastare il terreno ai lavoratori francesi; ma questi, coperti dalle loro batterie, il 5 di novembre terminarono il ponte a fronte dell'opposizione del Gonsalvo[291].
Quando ebbero stabilito il loro ponte, i Francesi attraversarono il Garigliano senza incontrare gagliardi ostacoli, e s'impadronirono di alcuni pezzi d'artiglieria abbandonati dagli Spagnuoli sull'opposta riva. Ma il Cordova non si era ritirato che un miglio a dietro, e, tagliando il basso piano alla sinistra del fiume con una profonda fossa, che ben tosto si trovò piena di acqua, aveva innalzato in riva alla medesima assai migliori fortificazioni che non erano quelle che aveva dovute abbandonare al Garigliano. Non potendo i Francesi passare oltre, lasciarono soltanto una guardia avanzata sulla sinistra del Garigliano e tornarono al consueto loro quartiere. Don Pietro de Paz, il più fortunato cavaliere dell'armata spagnuola, sebbene la sua piccola e contraffatta presenza non annunciasse verun vigore nè di animo nè di corpo, tentò di sorprendere il barone di Sandricourt, che aveva il comando della guardia avanzata: egli è senza dubbio a questo attacco che devesi riferire l'impresa alquanto romanzesca che il leale servitore racconta del suo padrone Bajardo, allorchè dice, che questi tutto solo fece testa a dugento cavalli spagnuoli, e difese contro di loro il ponte del Garigliano[292]. Comunque andasse la bisogna, in questa sanguinosissima scaramuccia, Fabio figlio di Paolo Orsini, giovane capitano che degnamente si avanzava sulle orme di suo padre, fu ucciso; i Francesi rimasero padroni del ponte, ma conobbero la necessità di afforzarvisi, onde porsi al coperto dagli attacchi del nemico[293].
Il paese che stendesi al sud-est del Garigliano è pantanoso e quasi deserto; i soldati del Cordova erano perciò ridotti a starvi quasi allo scoperto in mezzo al fango mentre che le continue piogge inondavano il paese. L'opposta riva era più coperta assai di abitazioni e per conseguenza il quartiere de' Francesi assai migliore; ma in cambio i loro corpi sembravano meno proprj a soffrire le intemperie del clima e i loro animi meno tolleranti. Mentre il Gonsalvo riteneva tutte le sue truppe con inalterabile costanza entro un miglio di raggio intorno alla testa del ponte de' Francesi, questi, che avevano le loro truppe sparse fino a Fondi ed Itri ad otto miglia di distanza, sostenevano con pena la pioggia, le privazioni, e le cattive stazioni[294].
Forse un più rischioso e più ubbidito generale, che non era il marchese di Mantova, avrebbe attaccati gli Spagnuoli per uscire da così difficile situazione; forse avrebbe cercato di cambiare il teatro della guerra, e di uscire da que' pantani renduti dalle piogge impraticabili. Ma la sua superiorità stava tutta negli uomini d'armi francesi e nell'artiglieria, mentre che la sua fanteria era di lunga mano inferiore a quella degli Spagnuoli; la sua cavalleria non avrebbe potuto liberamente muoversi nelle inondate pianure al di là del Garigliano, ed i suoi cavalli d'attiraglio non avrebbero potuto trarre dal fango l'artiglieria; altronde se il tempo tornava sereno, questo stesso piano gli offriva il più vantaggioso campo di battaglia per agire contro gli Spagnuoli; ed aveva pochi giorni prima sperimentati gl'inconvenienti della guerra tra le montagne. Quanto più le piogge avevano continuato, tanto più lusingavasi il marchese di Mantova di vederle bentosto terminare. I suoi quartieri erano migliori, le sue truppe meglio alimentate, ricco il suo tesoro, mentre che al Gonsalvo mancava ogni cosa; credeva perciò di poter aspettare più pazientemente che gli Spagnuoli; e pareva dimostrato, che colui che più lungamente sosterrebbe gl'inconvenienti di questa situazione sarebbe vittorioso[295].
Ma i Francesi, tormentati dall'umidità da cui non si potevano salvare, dal deperimento de' loro cavalli, dalle malattie e più di tutto dalla noja, attribuivano ai loro generali tutte le intemperie del clima. Sandricourt accusava il marchese di Mantova di timidità e di lentezza; ed in una numerosa adunanza aveva detto, ch'era ben cosa strana che in tutta la nobiltà francese il re non avesse trovato un solo uomo che sapesse guidarla, invece di assoggettarla ad uno di quegli Italiani, ch'egli additò coll'ingiurioso epiteto dato abitualmente dai soldati a tutta la nazione. Questo motto così offensivo pel Gonzaga venne applaudito da tutti i Francesi. Il marchese di Mantova più non otteneva ubbidienza nè regolarità di servizio; i commissarj dei viveri, credendosi tutto permesso sotto un capo così poco rispettato, rubavano al soldato con impudenza e lo lasciavano esposto a tutti i bisogni. Il marchese di Mantova, più nulla sperando da un'armata da cui non poteva farsi temere, sentendo offeso l'onor suo, e non volendo addossarsi la responsabilità de' funesti avvenimenti che prevedeva, colse il pretesto di una leggiera febbre quartana, che lo travagliava, per abbandonare il 1.º di dicembre il comando dell'armata e ritirarsi ne' suoi stati[296].
Le piogge, le nevi, i perversi tempi continuavano sempre con una costanza che non pareva doversi supporre nel clima della Campania felice. L'armata francese si andava indebolendo per le malattie e per le diserzioni; molti cavalieri, molti soldati, che tollerare non sapevano tanti patimenti e tanto ozio, si allontanavano dal campo con congedo, o senza; ed i ladronecci dei commissarj de' viveri andavano raddoppiando le privazioni di coloro che restavano al campo. Gonsalvo di Cordova, sebbene la sua situazione sembrasse ancora peggiore, aveva saputo farla dimenticare ai suoi soldati colla confidenza che loro aveva inspirata; altronde egli aveva ricevuti i rinforzi condottigli da Bartolommeo d'Alviano con tutti gli Orsini, mentre che Giampaolo Baglioni, che nella stessa epoca si era posto al soldo de' Francesi, mai non aveva loro condotta la sua compagnia. Il Gonsalvo contava nel suo esercito novecento uomini d'armi, mille cavaleggeri e novemila fanti spagnuoli. Con queste forze si dispose finalmente ad offrire la battaglia invece di aspettare che i Francesi lo attaccassero; e dopo essere rimasto cinquanta giorni nello stesso luogo in faccia al nemico, incaricò Bartolommeo d'Alviano di gettare durante la notte un ponte di barche a Sugio quattro miglia al di sopra del campo francese.
Il ponte degli Spagnuoli si fece senza incontrare opposizione nella notte del 27 di dicembre, e Bartolommeo d'Alviano occupò il villaggio di Sugio. Ne fu però subito portato l'avviso al quartier generale de' Francesi; ed Ivone d'Allegre tentò invano con un impetuoso attacco di cacciare l'Alviano al di là del fiume, mentre che la cavalleria francese, sparsa in tutto il vicino paese, adunavasi tumultuariamente intorno al marchese di Saluzzo. Questi non tardò ad avvedersi che il Gonsalvo aveva passato il fiume sul ponte dell'Alviano col suo corpo di battaglia, e che una retroguardia, lasciata in faccia ai Francesi, attaccava la testa del loro ponte. Vedendo di non potersi mantenere nella sua posizione, nè difendere lungamente il passaggio del fiume colla poca gente che aveva ragunata, abbandonò prima che facesse giorno la torre del Garigliano per ripiegare sopra Gaeta dopo di avere rotto il ponte, lasciando nel suo campo nove grossi pezzi d'artiglieria, la maggior parte delle munizioni e moltissimi soldati ammalati o feriti[297].
Il Gonsalvo, avvisato della ritirata dei Francesi, mandò loro dietro Prospero Colonna, per ritardare la loro marcia. I Francesi camminavano in buon ordine, avevano mandata innanzi l'artiglieria, cui teneva dietro la fanteria, ed in coda stava la cavalleria, che quasi sempre era alle mani col nemico che la inseguiva. Tenevano con quest'ordine la strada lungo la riva del mare, facendo alto a tutti i ponti, a tutti i passi angusti per dar tempo all'armata di sfilare. Ma la retroguardia di Gonsalvo, lasciata alla torre del Garigliano, avendo raggiunte le barche che i Francesi avevano abbandonate alla corrente dopo tagliato il ponte di battelli, rifece ben tosto questo ponte; passò immediatamente il fiume, prendendo via più retta verso il Molo di Gaeta, e trovossi ben tosto in sul fianco ed ancora più avanzata dei Francesi. L'armata degli ultimi, giunta al ponte che trovasi a poca distanza di Molo, si fermò di nuovo per dar tempo di sfilare all'artiglieria, che cominciava a cagionare del disordine sulla strada. La zuffa fu ostinata; ma vedendo i Francesi che alcuni corpi spagnuoli li soverchiavano di fianco, essi abbandonarono la loro posizione con qualche disordine, e quando giunsero al bivio delle due strade, una delle quali conduce ad Itri l'altra a Gaeta, si posero apertamente in fuga. La loro artiglieria e tutti gli equipaggi vennero in potere dei vincitori; molti Francesi rimasero sul campo di battaglia, altri in assai maggior numero, coloro cioè che si erano dispersi per le campagne, o che, alloggiati a qualche distanza dall'armata, non avevano potuto raggiugnerla, furono spogliati dai contadini e fatti prigionieri; i più fortunati si salvarono in Gaeta, e furono inseguiti fino ai piedi delle mura[298].
Pietro de' Medici, che seguiva il campo francese, erasi imbarcato sul Garigliano con quattro pezzi d'artiglieria che sperava di condurre a Gaeta; ma una folla di fuggiaschi gettandosi nella sua barca la travolsero, ed il Medici si annegò con tutti quelli che si trovavano a bordo[299].
Gonsalvo di Cordova si acquartierò quella notte a Castellone ed a Molo; ed all'indomani, avvicinandosi a Gaeta, occupò senza difficoltà i borghi e la Montagna d'Orlando, che i Francesi nella confusione cagionata dalla loro sconfitta non avevano pensato a porre in istato di difesa. Essi avevano in città assai più gente che non abbisognava per sostenere un lungo assedio, ed essendo libero il mare, non potevano temere che loro mancassero le vittovaglie. Ma la loro costanza era venuta meno; ad altro non pensavano che a tornare subito in Francia e domandarono immediatamente di capitolare. Convennero che il d'Aubignì e tutti gli altri loro prigionieri sarebbero posti in libertà senza taglia, e potrebbero ritirarsi in Francia con tutti i loro effetti; ed il primo giorno di gennajo del 1504 consegnarono la fortezza di Gaeta a Gonsalvo di Cordova. La loro capitolazione era stata fatta con così poca precisione, oppure l'uomo con cui trattavano aveva così poca buona fede, che gli Spagnuoli non vollero comprendere i baroni napolitani tra i prigionieri che si era convenuto di porre in libertà; e Andrea Matteo Acquaviva, Alfonso ed Onorato di Sanseverino, furono gettati in un fondo di torre in Castel nuovo di Napoli. Del resto i Francesi, ai quali il Gonsalvo diede la libertà non furono quasi più fortunati. La maggior parte di coloro che partirono da Gaeta perirono per istrada di freddo, di miseria, e delle malattie che contratte avevano ne' cinquanta giorni di accampamento in mezzo al fango. Alcuni giunsero in Francia, tra i quali il marchese di Saluzzo, Sandricourt ed il balivo di Bissì; ma la morte gli aspettava al loro arrivo. Di tutta quella fiorente armata, che la Tremouille aveva condotta in Italia, e che sembrava bastante a condurre a fine in pochi mesi la conquista del regno di Napoli, quasi non sopravanzò alcun uomo in istato di servire ancora la patria, sebbene pochissimi fossero periti sotto il ferro de' nemici[300].
La sconfitta del Garigliano coprì la Francia di lutto; immerse Lodovico XII nel più profondo dolore; decise la sorte del regno di Napoli, e fece temere che il restante dell'Italia non cadesse in pochi giorni in mano agli Spagnuoli. I Francesi più non avevano forze in Lombardia; i loro soldati, disgustati delle guerre d'Italia, ricusavano di passare le Alpi; ed i Fiorentini, i soli alleati che avesse il re, non erano in istato di far testa a tutti i suoi nemici. Pure contro l'universale aspettazione questa sconfitta fu seguita da un riposo generale. Gonsalvo di Cordova, che il re Cattolico aveva lasciato senza danaro, doveva alle sue truppe più di un anno di soldi arretrati; non poteva senza pagarle tentare di condurle nell'alta Italia; e per soddisfarle, fu ridotto ad alloggiarle a discrezione nelle provincie del regno di Napoli, ove le loro ruberie ed i loro oltraggi terminarono di ruinare gl'infelici abitanti.
Lodovico d'Ars, capitano francese, mantenevasi solo nel regno di Napoli: dopo la sconfitta di Cerignole occupava sempre Venosa, Troja e Sanseverino. Il Cordova ristrinse le sue imprese a cacciarlo da quelle città; e Lodovico d'Ars, dopo di averle valorosamente difese, sdegnò di capitolare, e si aprì la strada colla lancia sulla coscia per ricondurre i suoi uomini d'armi in Francia[301].
Giulio II, allegando per pretesto gl'imbarazzi della sua situazione mentre saliva sul trono, seppe mantenersi neutrale tra la Francia e la Spagna, sebbene tutti i suoi voti fossero per i Francesi; di modo che la disfatta del Garigliano non lo compromise personalmente col vincitore. La sua condotta verso i Francesi non cambiò a seconda de' rovesci che avevano provati; egli soccorse generosamente tutti gli sventurati che attraversarono lo stato della Chiesa. La sua politica limitavasi interamente a difendere la Romagna contro i Veneziani, e sebbene più non potesse per quest'oggetto valersi dell'appoggio della Francia, non si ostinava perciò meno a stringere il Valentino perchè gli cedesse le sue fortezze. Pietro d'Oviedo era stato mandato con un ordine del Borgia per consegnarle al papa; ma quando era entrato nella rocca di Cesena, Diego di Chignones, che ne teneva il comando, lo aveva fatto appiccare, dichiarando di risguardare come un traditore colui che assumevasi il carico di eseguire ordini così pregiudicevoli al suo padrone, quando ben sapeva che gli erano stati estorti a forza, e mentre stava in prigione[302].
Quest'atto di rigore riuscì vantaggioso a Cesare Borgia, il quale l'aveva forse segretamente ordinato. Vedendo Giulio II che la violenza riusciva inutile, acconsentì a consegnare il suo prigioniero nella fortezza d'Ostia a Bernardino Carvajale cardinale spagnuolo. Questi si obbligò a porlo in libertà all'istante che le rocche di Cesena, Bertinoro e Forlì sarebbero consegnate al pontefice, ed inoltre sottoscrisse una polizza di quindici mila ducati per guarenzia della sua promessa. In allora Cesare Borgia diede ai suoi luogotenenti ordini senza restrizioni, e colla ferma volontà che si eseguissero. Frattanto sospirava l'istante di uscire dalle mani del papa, e fece segretamente chiedere a Gonsalvo di Cordova un asilo, che questi gli promise mandandogli un salvacondotto. Poco dopo il cardinale Carvajale ebbe avviso che le rocche della Romagna erano state consegnate alle genti del papa, e senza aspettare gli ordini di Giulio II, di cui egli diffidava non senza ragione, il 19 di aprile del 1504, pose il duca Valentino in libertà[303].
Cesare Borgia, caduto da così alte speranze, ed altro non conservando della passata sua fortuna che il danaro che aveva deposto presso i banchieri di Genova, si riputava ancora felice d'avere ricuperata la libertà; s'imbarcò a Nettuno sopra una felucca, che lo trasportò a Mondragone, di dove passò per terra a Napoli. Il Cordova lo accolse con tutte le dimostrazioni di affetto e di rispetto, che avrebbe potuto prodigare ai più grandi personaggi. Cominciò subito a trattare con lui intorno agli affari d'Italia, ed in particolare rispetto al progetto del Valentino di gettarsi in Pisa. Gli promise per quest'impresa sei galere e gli diede licenza di assoldar gente nel regno. Non pertanto scrisse a Ferdinando il cattolico per sapere quale condotta doveva tenere col Borgia, e quand'ebbe ricevuti i suoi ordini lo fece arrestare il giorno 26 o 27 di maggio nell'atto che usciva da una conferenza, nella quale gli aveva rinnovate le proteste della più perfetta confidenza, e del più vivo affetto, e dopo averlo più volte abbracciato. Le fece trasportare sopra una galera, dove non gli lasciò che un solo paggio per servirlo, e lo fece immediatamente partire per la Spagna. Quest'uomo, colpevole di tanti tradimenti, e vittima a vicenda di non meno neri tradimenti, fu gettato al suo arrivo nella fortezza di Medina del Campo, che Ferdinando il Cattolico, dal Valentino non offeso giammai, destinava a servirgli di sepolcro[304].
Alcun tempo prima della caduta di questo principe, che aveva così lungamente turbata l'Italia colla sua ambizione e co' suoi delitti, si seppe che le negoziazioni tra il re di Francia e di Spagna, che si erano sempre continuate anche nel tempo in cui la guerra pareva più viva, avevano prodotta una tregua sottoscritta il 31 di marzo del 1504, nella quale era compresa l'Italia come tutti gli altri loro stati. Questa tregua doveva durare tre anni, e ciascuno contraente aveva tempo tre mesi a nominare i suoi confederati ed a farveli comprendere. Soltanto le fortezze che Lodovico d'Ars teneva ancora a nome della Francia nel regno di Napoli, non furono comprese; ma questo capitano, avendo perduta ogni speranza di difenderle, non tardò ad evacuarle. Il restante dell'Italia si riposò con timore, non potendo darsi a credere che la tregua, segnata all'abbazia di nostra signora della Misericordia, ponesse fine a così violenti nimicizie, e non vedendo nella divisione degli stati, che aveva stabilita la forza, una bilancia di potere che lungamente mantenere potesse la tranquillità[305].
CAPITOLO CIII.
Riposo e servitù dell'Italia; piccole guerre in Romagna ed in Toscana; Giulio II sottomette alla Chiesa le città di Perugia e di Bologna.
1504 = 1506. La tregua, conchiusa tra i re di Francia e di Spagna in febbrajo del 1504, aveva restituito il riposo all'Italia, poichè que' due potenti monarchi potevano dopo tale epoca decidere a posta loro della sorte della penisola, ed i piccoli stati italiani, oramai subordinati alla politica oltremontana, aspettavano la licenza dai loro alleati per prendere o per deporre le armi. Per quanto umiliante, triste e precaria fosse cotal pace, fu dai popoli ricevuta con gioja, perchè renduta necessaria dal loro spossamento e dalla stanchezza dei sovrani. Per ragunare nuove forze di cui valersi in altre guerre, essi abbisognavano di tempo, e bisognava inoltre alcun tempo perchè si potessero dimenticare i funesti mali della guerra, e perchè si osasse ricorrere a questo terribile ma passaggero rimedio de' mali permanenti. I primi mesi di pace ritornano alle forze vitali di una nazione l'azione loro lungamente sospesa: l'agricoltura, le manifatture, il commercio rigermogliano spontaneamente, il potere passa dai comandanti militari ai magistrati ed ai tribunali civili, il di cui giogo sembra più leggiero. Se tuttavia soffresi ancora qualche vessazione, si risguarda come necessaria conseguenza dello stato di guerra di cui si esce, e non di quello in cui si entra; il ritorno delle abitudini lungamente sospese rammenta ad ogni uomo la sua infanzia, la sua gioventù o più felici tempi. Si crede di entrare in una nuova epoca di prosperità; e, l'immaginazione oltrepassando gli stessi confini del possibile, il popolo chiede alla pace la restituzione di tuttociò che gli rapì la guerra; vuole che si realizzino tutti i suoi sogni e tutte le sue non meno fantastiche rimembranze. Intanto scorrono i mesi, e l'età matura più non trova i piaceri della giovinezza; le ricchezze, dissipate dalla guerra, non rinascono all'istante; le imposte, che la guerra rendette più pesanti, non vengono soppresse, mentre che gli abusi della pace risorgono assai più rapidamente che le utili istituzioni. I potenti lasciano trapelare i loro disegni d'usurpazione, e la cabala va acquistando favore ed importanza; la forza, che dovrebb'essere protettrice, diventa ostile per la società, ed il popolo finalmente, sentendo diventare le sue catene sempre più pesanti, desidera nuovamente di romperle col mezzo della guerra, per quanto ella sia terribile e dolorosa.
Veruno stato d'Italia aveva ottenuto colla tregua, nè poteva sperare che si negoziasse in tempo di pace, ciò che senza dubbio era stato lo scopo de' suoi desiderj prima che si cominciassero le ostilità: ciò era un governo conforme agl'interessi del popolo. Il regno di Napoli, perduta la sua indipendenza, era suddito di straniera nazione e governato da un vicerè; il ducato di Milano aveva parimenti perduta l'indipendenza ed i suoi antichi sovrani. Gli Spagnuoli non erano più amati nel mezzodì dell'Italia, che i Francesi nella parte settentrionale della medesima. Gli uni e gli altri offendevano egualmente la nazione sommessa co' loro barbari costumi, coll'insolenza, col disprezzo. I malcontenti, che nel 1494 avevano ardentemente desiderata una rivoluzione, ed ajutate le armi che dovevano eseguirla, in verun luogo non avevano ottenuta una riforma che li compensasse di tutti i loro patimenti. Intanto le loro forze erano esauste, cadute in fondo le loro speranze, ed essi si accomodavano sotto una tirannia peggiore di quella che avevano cercato di distruggere, onde acquistare a così caro prezzo qualche intervallo di riposo.
La repubblica di Venezia non si era immischiata quasi niente in una guerra che pel corso di dieci anni aveva guastata tutta l'Italia; erasi sottratta alle calamità, e la prosperità del suo territorio eccitava l'invidia de' vicini popoli, che avevano veduto saccheggiare le loro città, e guastare le loro campagne. In questi dieci anni aveva Venezia acquistato il Cremonese nel ducato di Milano, tre o quattro fortezze della Puglia, e due piccoli stati in Romagna, ma le sue perdite nella Morea e nella Dalmazia non erano forse minori degli acquisti fatti in Italia. In mezzo alle importanti rivoluzioni che si erano operate in questi dieci anni, pareva che così piccole conquiste non avessero tanto valore da eccitare vivamente la gelosia degli altri stati; ma i Veneziani erano soli felici in mezzo ad una nazione afflitta, e gli altri Italiani non sapevano perdonar loro di non essere stati partecipi de' mali comuni. Il papa non pensava che ad eccitare contro di loro gli oltremontani, dai quali avrebbe piuttosto dovuto cercare di liberare l'Italia; i Fiorentini, che avevano avuto motivo di dolersi dei Veneziani, desideravano la loro ruina, ed il Machiavelli, lo stesso accorto Machiavelli, trovandosi in legazione presso la corte di Francia, soffiava il fuoco della vendetta, e si rallegrava, vedendo Massimiliano, Lodovico XII e Ferdinando, proporre di già la divisione degli stati di quella repubblica, che sola poteva conservare l'indipendenza d'Italia[306].
Giulio II erasi proposto di richiamare, in tempo del suo pontificato, sotto il diretto dominio della santa sede tutti i feudi da lei dipendenti; egli attaccava il suo onore alla felice riuscita di questo disegno, e la impazienza e l'irascibilità del suo carattere gli facevano risguardare come una imperdonabile offesa l'opposizione che vi avevano fatta i Veneziani. Ad ogni modo, perchè non aveva ancora avuto il tempo di ammassare un tesoro, di adunare truppe e di fortificarsi con alleanze, non adoperava per sottomettere la Romagna che il timore che incuteva il conosciuto suo impetuoso carattere. Le rocche di Cesena e di Bertinoro gli erano state consegnate dai luogotenenti di Cesare Borgia, mentre questi stava ancora in Ostia; quella di Forlì non gli era stata data che dopo il ritorno de' messaggi che quel castellano aveva spediti al Borgia a Napoli. Siccome questi riferirono che il duca era stato mandato prigioniero in Ispagna, il castellano vendette per quindici mila ducati una rocca, che non aveva più motivo di difendere[307]. Raffaello Riario di Savona, cardinale del titolo di san Giorgio, persuase gli abitanti d'Imola a dare la loro città al papa, sperando poi che questi ne cederebbe la sovranità ad Ottaviano Riario, spogliatone da Cesare Borgia. Ma, sebbene Ottaviano fosse parente di Giulio Il, il papa non volle arricchirlo a spese della Chiesa. Desso fu però meno scrupoloso rispetto ad un suo parente, Francesco Maria della Rovere, figlio di suo fratello; poichè non solo ristabilì questi nelle signorie di Mondovì e di Sinigaglia, e nell'ereditario ufficio di prefetto di Roma, ma persuase ancora Guid'Ubaldo di Montefeltro, che non aveva figliuoli, ad adottarlo come figlio di sua sorella ed a chiamarlo alla successione del ducato di Urbino. Giulio II ratificò quest'adozione colla sua bolla del 10 di maggio 1504, nella quale determinò l'annuo censo del ducato d'Urbino a favore della camera apostolica in 1340 fiorini, come gli avevano di già annualmente pagati i conti di Montefeltro[308].
Verso lo stesso tempo Antonio degli Ordelaffi morì a Forlì. Lodovico, suo fratello naturale, che gli successe, sentendosi troppo debole per sostenere quel piccolo principato, volle venderlo ai Veneziani; ma la repubblica non ardì esporsi alla collera del pontefice, e rifiutò di farne l'acquisto. Lodovico fu allora costretto a fuggire, e Forlì aprì le sue porte alle truppe pontificie[309].
Giovanni Sforza, signore di Pesaro, sposò in sul finire dello stesso anno la figlia di Matteo Tiepolo, uno dei più potenti cittadini di Venezia, sperando con tal mezzo di guadagnarsi la protezione della repubblica, mentre che l'influenza del cardinale Ascanio Sforza, suo parente, ritraeva Giulio II dal pensiero di attaccarlo[310]. Il papa riclamava sempre dai Veneziani la restituzione dei piccoli principati che avevano acquistati in Romagna; li faceva alternativamente minacciare dal re di Francia e dall'imperatore Massimiliano; Giulio inspirava a questi principi il suo odio contro i Veneziani, e gettava di già con loro i fondamenti di quella lega che poco dopo si vide formata contro la repubblica. I Veneziani tentarono di placare il papa, offrendogli la restituzione di tuttociò che avevano acquistato in Romagna, ad eccezione di Faenza e del suo territorio, purchè la santa sede li riconoscesse come suoi vicarj in quel piccolo principato, ricevendo da loro lo stesso tributo che pagavano i Manfredi: ma Giulio II sdegnosamente rispose che non voleva lasciar loro una sola torre di tuttociò che avevano usurpato, e che aveva ferma speranza di ritor loro ancora Ravenna e Cervia, sulle quali non avevano più fondati titoli che sul rimanente, sebbene le possedessero da più gran tempo[311]. Aveva fin allora rifiutato di ricevere i loro ambasciatori, che poi accolse in principio del susseguente anno; ma i Veneziani per ottenere questa grazia, che non fu accompagnata da veruna promessa, gli restituirono una decina di fortezze ne' territorj di Cesena, d'Imola e di Forlì; dopo di che le due parti rimasero in pace per alcuni anni, senza che i rispettivi diritti venissero meglio discussi[312].
La Toscana non aveva ricuperata la pace in forza della tregua tra i re di Francia e di Spagna; e le contese delle sue repubbliche erano state risguardate come indipendenti dalle grandi contese che avevano fin allora travagliata l'Italia. Da che i Pisani avevano scosso il giogo de' Fiorentini, mai non avevano cessato di combattere per difesa della loro libertà. Firenze aveva provate diverse violenti rivoluzioni, si era più volte veduta esposta ai più grandi pericoli, ed aveva potuto temere per la propria indipendenza, senza avere mai pensato a fare la pace con coloro ch'ella risguardava come sudditi ribelli, e non liberi cittadini. Dall'altro canto Pisa, doppiamente esausta da ottantasette anni di schiavitù, e da dieci anni di sanguinosa distruggitrice guerra, Pisa, che aveva perduto il commercio e la maggior parte della sua popolazione, e che vedeva ogni anno guastati i suoi campi, si assoggettava a tutte le privazioni, offriva di darsi a vicenda a tutti i principi stranieri, piuttosto che tornare sotto l'abborrito giogo de' Fiorentini. In tempo delle grandi spedizioni de' Francesi e degli Spagnuoli la guerra di Pisa non era mai stata interrotta, e solo trattavasi alquanto più lentamente; ma tosto che si posavano le armi nelle altre parti d'Italia, trovavasi sempre nello stesso stato, e sempre minacciava di riaccendere l'incendio generale che con tanta fatica si era potuto spegnere.
Il re di Francia aveva nominati i Fiorentini tra i suoi alleati nel trattato di tregua col re di Spagna, il quale non aveva nominati i Pisani; ma si sapeva che Gonsalvo di Cordova li favoreggiava, e che aveva determinato di valersi di loro per assoggettare la Toscana al suo padrone. I Fiorentini, avendo determinato di spingere vigorosamente i loro attacchi, spedirono un ambasciatore al Cordova per accertarsi della sua neutralità[313]. In pari tempo assoldarono Gian Paolo Baglioni, Marc'Antonio Colonna, i Savelli, ed alcuni altri condottieri; e dando il comando della piccola loro armata ad Ercole Bentivoglio, aprirono la campagna il giorno 25 di maggio[314]. Le forze loro non bastavano ad assediare così vasta città com'era Pisa, e perchè i Pisani non osavano di tenersi in campagna, non vi fu tra di loro verun fatto d'importanza: ma il Bentivoglio guastò tutto il territorio fin sotto alle mura della città e costrinse il castellano di Librafratta ad arrendersi a discrezione[315].
Antonio Giacomini Tebalducci, commissario de' Fiorentini presso l'armata, irritato dal vedere che i Lucchesi mai non cessavano di mandare soccorsi ai Pisani, fece pure due scorrerie nel loro territorio, esportandone molto bestiame e diversi prigionieri. Gli sventurati contadini di Pisa, dopo avere perdute le loro messi, avevano seminato grano turco e miglio ne' loro campi; ma l'armata fiorentina tornò in agosto nello stato pisano per distruggere anche questa estrema speranza della tarda stagione. Nello stesso tempo i Fiorentini presero al loro soldo don Dimas di Requesens, partigiano del re Federigo di Napoli, che lo aveva seguito in Francia, e che, avendo alle vicende della sua passata fortuna sottratte tre galere, serviva con queste chiunque voleva adoperarlo. Requesens in tutto il corso dell'estate diede la caccia alle piccole navi pisane che uscivano dall'Arno; ma il 5 di novembre fu sorpreso nel golfo di Rapallo da un colpo di vento così gagliardo che lo fece perire colle sue tre galere[316].
Alcuni ingegneri fiorentini proposero alla signoria di deviare il corso dell'Arno cinque miglia sopra Pisa, onde privare in tal modo la città delle acque che formavano la sua salubrità, e lasciarla aperta ne' luoghi in cui entra ed esce il fiume. Era già fatta la livellazione, e gl'ingegneri assicuravano che tutta l'opera non richiedeva che trentacinque in quaranta mila giornate di operaj. Infatti cominciarono ad innalzare una diga alla Fagiana, che doveva tagliare il vecchio letto del fiume, mentre che si aprivano due nuovi canali di venti e di trenta braccia di larghezza e sette braccia profondi per condurre le acque al mare[317]. Ma la forza e l'impeto dei fiumi quasi mai non rispetta i calcoli degl'ingegneri: eransi di già impiegate ottanta mila giornate d'operai, ed il lavoro non era ancora fatto per metà, quando una di quelle violenti piogge che gonfiano tutt'ad un tratto i fiumi d'Italia[318], rovesciò la diga, colmò i lavori, e fece rinunciare per sempre a così ardito progetto. Per altro le acque già deviate dal loro alveo eransi sparse nel piano di Pisa, riducendo que' campi, prima così fertili, in pantani, ed accrescendo l'insalubrità dell'aria[319].
I Pisani, che vedevano ogni giorno diminuire i loro mezzi, offrirono ai Genovesi di porsi sotto il loro dominio, per avere in tal modo anche la protezione del re di Francia. Lodovico XII partecipò queste offerte a Nicolò Valori ed al Machiavelli, ch'erano inviati della repubblica fiorentina presso di lui, dicendo loro che, s'egli acquistava la signoria di Pisa, non tarderebbe a darne loro il possesso. Ma i Fiorentini cercarono di sconsigliarlo da questo trattato; ed egli stesso, dopo avere maturato l'affare, ordinò ai Genovesi di rompere le negoziazioni, temendo che, autorizzandoli a fare delle conquiste, e rendendo loro le abitudini repubblicane, non venisse ad accrescere in loro il desiderio di tornare in libertà[320].
Il primario oggetto della tregua stipulata tra Lodovico XII ed i re di Spagna era quello di agevolare fra di loro un trattato di pace. Effettivamente le due corti mai non avevano cessato di negoziare, e Ferdinando il cattolico, vergognandosi della parte che aveva rappresentato nello spogliare suo cugino del regno di Napoli, o piuttosto spaventato dal giudizio che tutta l'Europa aveva pronunciato intorno a tanta perfidia, proponeva in queste negoziazioni di rimettere in trono Federico. Aveva pure ottenuto di far credere a questo principe ch'egli pensava di buona fede a rendergli ciò che gli aveva tolto; e Lodovico XII, che aveva perduta la speranza di ricuperare il regno di Napoli, avrebbe di buon grado acconsentito a questo accomodamento; voleva soltanto ottenere una perfetta amnistia ai baroni napolitani che si erano per lui dichiarati. Ma nello stesso tempo aveva preso parte in un'altra negoziazione con Massimiliano e il di lui figliuolo l'arciduca Filippo, sovrano delle Fiandre. Trattavasi con loro di far rivivere il trattato di Lione, di effettuare il matrimonio di Carlo, figlio dell'arciduca, con madama Claudia di Francia e di dare per dote a questa principessa i diritti che suo padre pretendeva di avere sopra Napoli. Credeva Lodovico XII di ravvisare nella lentezza di Ferdinando e d'Isabella a sottoscrivere il loro trattato una segreta intenzione di attraversare quello del loro genero Filippo, di cui erano gelosi; e che quando fosse abbandonata questa negoziazione, essi ancora romperebbero la loro. Perciò in una pubblica udienza congedò gli ambasciatori della Spagna, aspramente loro rinfacciando la mala fede de' loro padroni. In appresso, il 22 settembre del 1504, sottoscrisse a Blois tre diversi trattati con Massimiliano e Filippo, che in allora per anticipazione prese il titolo di re di Castiglia: col primo Massimiliano accordava a Lodovico l'investitura del ducato di Milano, per lui e i di lui eredi maschi, ed in mancanza loro a Claudia di lui figlia, colla riserva, di un pagamento di cento venti mila fiorini, metà da sborsarsi all'atto e metà nel termine di sei mesi, e dell'annua presentazione, nel giorno di Natale, di un pajo di speroni d'oro a titolo di omaggio. Col secondo Claudia di Francia veniva promessa a Carlo d'Austria, e se Carlo moriva prima del matrimonio, al di lui fratello Ferdinando col ducato di Milano per dote. Col terzo la Francia ed il re de' Romani si collegavano contro Venezia con obbligo di attaccare di comune accordo quella repubblica e di dividere i suoi stati di terra ferma. Si accordavano quattro mesi al re di Spagna per accedere a questo trattato[321].
Federigo d'Arragona, che fin allora si era lusingato di rimontare sul paterno trono in conseguenza della concordia dei due re, morì a Tours il 9 di settembre del 1504 pochi dì prima che fossero sottoscritti questi trattati[322], ed il 26 di novembre dello stesso anno morì pure, dopo una lunga e penosa malattia, Isabella di Castiglia, che col suo matrimonio con Ferdinando aveva riunite le due corone di Spagna e fatta così potente quella nuova monarchia. L'unica sua figlia Giovanna e suo genero, l'arciduca Filippo, avrebbero dovuto alla di lei morte succedere immediatamente alla corona di Castiglia; ma Isabella aveva adottata la diffidenza concepita da suo marito verso suo genero, e conservandola fino alla morte aveva nominato con suo testamento Ferdinando d'Arragona governatore del regno di Castiglia, ed aveva voluto che suo genero Filippo gli fosse subordinato[323].
Finalmente il 25 di gennajo del susseguente anno 1505 anche l'Italia perdette un principe che in mezzo alle violenti rivoluzioni che l'avevano squarciata aveva conservata l'opinione di accorto negoziatore e di buon amministratore. Ercole d'Este, che fino dal 20 agosto del 1471 regnava sopra Ferrara, Modena e Reggio, morì in matura vecchiaja, lasciando tre figli legittimi. Gli successe Alfonso, sposo di Lugrezia Borgia, il quale, mandato da suo padre nelle corti d'Europa per imparare a conoscerle, trovavasi allora in Inghilterra; suo fratello Ferdinando era rimasto in Ferrara, ed Ippolito era stato nominato cardinale da Alessandro VI nel 1493. Ercole lasciava inoltre un figlio naturale, chiamato Giulio. Avendo dovuto suo malgrado prendere parte nelle guerre di Sisto IV, aveva in quell'epoca veduti i suoi ducati guastati da potenti nemici; ma dopo tale epoca aveva trovato il modo di conservarsi in pace, anche ne' tempi in cui veruna parte d'Italia aveva potuto sottrarsi alle disgrazie della guerra. Le sue relazioni con Lodovico il Moro, di cui era suocero, coi Veneziani che conservavano contro di lui molto odio, coi Francesi diventati suoi vicini in forza delle loro conquiste, non gli fecero mai vestire verun altro carattere che quello di mediatore e di pacificatore. La sua corte diventò l'asilo dei letterati, e Ferrara, da lui arricchita di magnifici edificj, fu quasi nuovamente rifatta sotto il di lui regno[324].
Se il re Ferdinando d'Arragona aveva cercata la pace colla Francia ne' tempi in cui la sua unione con Isabella metteva a sua disposizione tutte le forze della Spagna, aveva ancora maggior ragione di desiderarla dopo la morte di quella regina, onde conservare il regno di Napoli, sua conquista, e potere, senz'essere distratto da altre cure, pensare come mantenere sopra la Castiglia un'autorità, che cominciava a vedere contrastata. Dal canto suo Lodovico XII vedeva di mal animo che Massimiliano non avesse per anco ratificato il trattato di Blois e temeva che la naturale versatilità di quel monarca, non rovesciasse di bel nuovo i fondamenti sui quali aveva creduto di stabilire la pace. Finalmente Massimiliano e Filippo si recarono ad Haguenau, che avevano di fresco tolto al conte Palatino cui facevano guerra; non tardò a raggiugnerli il cardinale di Amboise, ed il 4 di aprile ottenne da loro la ratifica dei trattati di Blois: nel susseguente giorno in nome di Lodovico XII prestò fede ed omaggio pel milanese a Massimiliano, ottenne l'investitura di quel ducato, e pagò i primi sessanta mila fiorini promessi al re de' Romani. Il secondo pagamento doveva farsi quando il monarca entrerebbe in Italia per cominciare la guerra contro i Veneziani: ma Massimiliano dichiarò subito che non era apparecchiato a cominciare in quell'anno le ostilità[325].
Lodovico XII, che non aveva verun giusto motivo di odio contro i Veneziani e veruna ragione di attaccare quella repubblica, fuorchè l'opinione, abbastanza radicata tra i re, che un paese non soggetto a verun monarca rimane a discrezione del primo occupante, poteva senza alcuno inconveniente differire l'esecuzione de' suoi ambiziosi progetti. Egli non voleva cominciare la guerra senza il concorso di Massimiliano, e non vedeva senza gelosia la crescente grandezza di quel monarca e di suo figliuolo Filippo; perciò affrettossi di rinnovare le negoziazioni proposte da Ferdinando il cattolico, ed il 12 di ottobre sottoscrisse con lui a Blois un nuovo trattato di pace e di alleanza. Perdendo ogni speranza di mai più ricuperare il regno di Napoli, cedeva in dote alla figlia di sua sorella, Germana di Foix, che Ferdinando doveva sposare, i diritti che gli dava sopra una porzione del regno di Napoli il trattato di Granata del 1500. Egli non si riservava il diritto di rientrarvi se non nel caso che Ferdinando premorisse senza prole alla nuova sua sposa, e rinunciava ai titoli di re di Napoli e di Gerusalemme. Dal canto suo Ferdinando si obbligava a rimborsare entro dieci anni settecento mila fiorini al re di Francia per le spese della guerra, a riconoscere trecento mila fiorini di dote a Germana di Foix, ad ajutare Gastone di Foix, suo fratello, nella conquista del regno di Navarra sul quale voleva far valere i suoi diritti, e ad accordare una generale amnistia a tutti i baroni napolitani che avevano seguito il partito francese. Fu pure convenuto in questo trattato che Isabella di Baux, vedova di Federico re di Napoli, sarebbe rimandata dalla Francia, e che soggiornerebbe presso di suo figlio in Ispagna; ma Isabella non seppe risolversi a porsi tra le mani di un monarca, che aveva imparato a conoscere da una serie di tradimenti; e, costretta a lasciare la Francia, preferì di ritirarsi a Ferrara, dove antiche parentele gli davano diritto alla compassione ed all'assistenza[326].
Per tal modo essendosi con nuovi trattati raffermata la pace tra le esterne potenze che disponevano dell'Italia, più non restava nella penisola che la guerra de' Fiorentini e de' Pisani, che si andava protraendo d'anno in anno. Pareva che i primi desiderare non potessero più favorevoli circostanze per trionfare finalmente del loro avversarj; ma da dieci anni in poi avevano sempre sofferto qualche rovescio ogni volta che i loro nemici sembravano privi di qualunque soccorso. Luca Savelli, loro generale, dopo di avere guastato il piano di Pisa con quattrocento cavalli e cinquecento fanti, volle vittovagliare Librafratta. Veniva da Cascina, ed avendo di già passato il ponte Capellese sull'Osori, teneva con molte bestie da soma cariche la strada alquanto angusta tra quel fiume e la montagna di Pisa, allorchè il 25 di marzo venne così bruscamente attaccato da Tarlatino, generale dei Pisani, che, sebbene questi non avesse che quindici uomini d'armi, quaranta cavalleggeri e sessanta pedoni, tutta la colonna del Savelli fu sgominata. Dessa non potendosi ordinare alla difesa a cagione delle bestie da soma con cui trovavasi frammischiata, prese vergognosamente la fuga ed abbandonò cento venti cavalli di guerra, cento bestie da soma cariche, ed un numero di prigionieri che superava quello de' vincitori[327].
Questa scaramuccia rialzò il coraggio de' Pisani, e rendette i Fiorentini non meno diffidenti de' loro soldati che dei loro generali; ma questo fatto non decideva della sorte della campagna. I Fiorentini non lasciarono di distruggere le messi nel piano di Pisa siccome avevano fatto nel precedente anno; pagarono il suo soldo a Gian Paolo Baglioni, che aveva con loro una convenzione, pregandolo di venire a raggiugnere la loro armata. Ma il Baglioni dichiarò di non potere in quell'anno abbandonare Perugia dove pretendeva di dover temere le pratiche di segreti nemici. Il Machiavelli, spedito dalla signoria presso di lui l'8 di aprile onde dicifrare i motivi del suo rifiuto, pensò che fosse d'accordo cogli Orsini, con Pandolfo Petrucci e coi Lucchesi, tutti nemici di Firenze, per privare all'improvviso la repubblica di una ragguardevole parte della sua cavalleria, ponendola in tal modo nell'impossibilità di distruggere quest'anno i raccolti dei Pisani[328].
Infatti gli Orsini, sempre alleati dei Medici, non avevano rinunciato al progetto di ricondurre quella famiglia colla forza delle armi a Firenze, e di riporla nell'antico suo dominio. Pandolfo Petrucci senz'essere alleato dei Medici desiderava che ricuperassero la loro sovranità, affinchè la repubblica di Siena, da lui dispoticamente governata, non avesse alle sue porte l'esempio della libertà; lo stesso motivo moveva pure Gian Paolo Baglioni, che aveva usurpati i diritti della repubblica di Perugia; erano ambidue segretamente spalleggiati ed incoraggiati da Gonsalvo di Cordova. Questo generale aspettava l'istante di poter cacciare i Francesi dall'Italia; e con ragione risguardava i Fiorentini come i loro più fedeli partigiani. Aveva creduto di trovare opportuna occasione di tentare una rivoluzione, facendo uso del nome del cardinale Ascanio Sforza sempre caro ai popoli di Lombardia. Lodovico XII, gravemente infermo di pleuritide, era stato da' suoi medici posto fuori di speranza di guarigione, ed in Italia si era pure sparsa la voce della di lui morte. Tutto sembrava presagire generali convulsioni, e gli Spagnuoli non aspettavano che la sicura notizia della morte del re per rompere la tregua e proclamare Ascanio duca di Milano. Ma contro l'universale aspettazione non si tardò a sapere la guarigione di Lodovico XII, e la quasi subita morte del cardinale Ascanio accaduta in Roma il 18 di maggio, dove era stato attaccato dalla peste[329].
Trovandosi così rovesciati i progetti degli Spagnuoli sopra la Lombardia, parte delle truppe destinate ad eseguirli cominciarono a minacciare la Toscana. Bartolommeo d'Alviano, che le aveva ragunate nello stato di Roma, s'infingeva corucciato con il Cordova; e ne aveva approfittato per giovare al livore degli Orsini che continuavano a vantarsi capi di parte guelfa contro i Colonna e contro tutti coloro cui davano il nome di Ghibellini. In Orvieto, in Rieti, in Città di Castello, avevano avuto luogo odiose carnificine sotto la protezione di quella piccola armata, che contava trecento uomini d'armi e cinquecento fanti di ventura. Ma dessa entrava in un paese in cui tutti i piccoli principi facevano il mestiere di condottieri ed erano uniti per la stessa causa; onde in pochi giorni potev'essere ingrossata dai soldati di coloro cui era stata utile nell'esecuzione delle loro vendette[330].
Bartolommeo d'Alviano, che conduceva quest'armata d'avventurieri, senza riconoscere le insegne di verun sovrano, non cercava pure di nascondere la sua intenzione di attaccare Firenze per rimettervi i Medici. Contava di trovare Firenze sprovveduta, abbandonata da Gian Paolo Baglioni, ingannata dal marchese di Mantova, che l'aveva lungo tempo nudrita di vane speranze di porsi al di lei soldo, ed aombrata dai movimenti di Gonsalvo di Cordova che aveva posta guarnigione spagnuola in Piombino[331]. Pandolfo Petrucci, signore di Siena, aveva voluto approfittare dell'imbarazzo de' Fiorentini, ed aveva offerto al Machiavelli, inviato presso di lui, di disperdere l'armata dell'Alviano, purchè la repubblica rinunciasse in suo favore ai diritti che aveva sopra Montepulciano[332]. Ma i Fiorentini non vollero accordare tanta confidenza ad un tiranno, loro segreto nemico. Preferirono di approfittare dell'amorevolezza di Prospero Colonna, che in allora serviva la Spagna, e che per la nimicizia che portava agli Orsini desiderava che andasse a male l'intrapresa dell'Alviano: rinunciarono al guasto delle messi dei Pisani; fecero inoltre verbalmente dire a Gonsalvo di Cordova che per quell'anno non avrebbero molestata Pisa, ed in cambio ottennero dal vicerè spagnuolo la promessa di non ajutare Bartolommeo d'Alviano[333].
L'Alviano si andava sempre avanzando, e dopo d'avere minacciati i Fiorentini ora dalla banda del littorale, ora da quella di Val di Chiana, il 1.º di luglio del 1505 entrò nella Maremma di Volterra, nel luogo detto le Macchie, in vicinanza di Campiglia, con intenzione di prendere la strada di Pisa[334]. Ma l'Alviano, il di cui coraggio confinava colla temerità, trovavasi associato a persone troppo caute, la di cui astuzia e riguardi spesso si accostavano alla perfidia. Pandolfo Petrucci gli aveva prestato danaro per assoldare pedoni nello stesso tempo che negoziava contro di lui coi Fiorentini. Gian Paolo Baglioni gli aveva promesso di raggiugnerlo colla sua compagnia d'uomini d'armi. Chiappino Vitelli doveva condurgli le truppe di Città di Castello, ed essere posti dovevano sotto i suoi ordini gli Spagnuoli sbarcati a Piombino. Tenendosi sicuro di questi ajuti l'Alviano si era avanzato solo fino ai confini di Campiglia; ma colà ricevette ordine da Gonsalvo di lasciare la sua intrapresa; i Pisani gli fecero dire che in forza di un ordine del Gonsalvo non potevano riceverlo nella loro città; le truppe del Petrucci e del Baglioni, adunate a Grosseto rifiutarono di raggiugnerlo, finchè con qualche primo fatto non avesse loro fatto conoscere ciò che potevano sperare dalla sua intrapresa. E per tal modo l'irrisoluzione o la dissimulazione de' suoi alleati gli fecero consumare molte settimane nelle Maremme, e diedero tempo alla repubblica fiorentina di ragunare cinquecento cinquanta uomini d'armi e trecento cavaleggeri. Il comando di tali forze fu dato ad Ercole Bentivoglio ed al commissario Antonio Giacomini Tebalducci, il solo Fiorentino che conoscesse l'arte della guerra[335].
L'armata della repubblica era di già superiore a quella dell'Alviano; ma il governo, siccome voleva la sua timida politica, aveva ordinato ai suoi capitani di non attaccare, nè di porsi in posizione in cui poter essere attaccati. Pure l'impetuosità dell'Alviano offrì loro quell'occasione di combattere che i magistrati loro ricusavano. Questo generale vedeva ogni giorno andar crescendo le difficoltà della sua situazione in un paese malsano e spopolato, onde pensò di aprirsi una strada per arrivare a Pisa. Il Bentivoglio si era accampato sulle alture in distanza di mezzo miglio da Campiglia, e l'Alviano doveva passare costeggiando il mare di fianco a quelle colline. Il terreno era tutto coperto di piante, che agevolavano ai Fiorentini il modo di nascondere i loro movimenti ai nemici in luoghi di cui conoscevano tutte le sinuosità. Quando l'Alviano la mattina dei 27 agosto si fu innoltrato fino alla torre di san Vincenzo, posta in riva al mare al di sopra di Castagneto, si trovò tutt'ad un tratto attaccato alla testa ed alla coda; e malgrado la più vigorosa resistenza, malgrado gli sforzi di valore coronati momentaneamente da felici risultamenti, fu all'ultimo compiutamente sconfitto. Egli si salvò con altri nove nello stato di Siena; Chiappino Vitelli, press'a poco con altrettanti cavalieri, arrivò a Pisa; tutti gli altri furono uccisi o fatti prigionieri. Mille cavalli di guerra ed un maggior numero ancora di cavalli di equipaggio vennero in potere dei vincitori con un grandissimo bottino, che quell'armata aveva raccolto col saccheggio de' paesi attraversati[336].
I generali fiorentini, che avevano ottenuta questa vittoria, scrissero subito al governo per ottenere la licenza di approfittarne attaccando Pisa. Rappresentavano che questa città era atterrita, che i Sienesi ed i Lucchesi, che l'avevano in addietro difesa, erano scoraggiati, finalmente che Pandolfo Petrucci offriva di prendere parte in questa spedizione per avere pace colla repubblica. Per lo contrario altri volevano che l'armata vittoriosa, che di già si trovava ai confini di Siena, ne approfittasse per vendicarsi dello stesso Petrucci, per iscacciarlo, se possibile fosse, dalla signoria, e per impadronirsi almeno di alcune terre del Sienese, che in appresso si potrebbero cedere in cambio di Monte Pulciano. Opponevano all'attacco di Pisa quella specie di convenzione fatta con Gonsalvo di Cordova per l'intromissione di Prospero Colonna; trovavano pericoloso il chiamare truppe spagnuole in Toscana, e pericoloso egualmente l'esporre l'armata alle malattie che producevano sempre le piogge e l'infetto aere del piano di Pisa. Il gonfaloniere perpetuo, Pietro Soderini, spalleggiava gagliardamente il primo progetto, ed approfittando dell'entusiasmo eccitato dalla vittoria portò al gran consiglio la proposizione di porre alle voci cento mila fiorini per la guerra. Quest'adunanza del popolo avendo il 19 di agosto data la sua sanzione alla proposizione del gonfaloniere, l'attacco di Pisa fu deciso.[337]
L'armata vittoriosa si acquartierò a san Casciano, cinque miglia distante da Pisa, finchè le giugnesse l'artiglieria d'assedio. I dieci della guerra avevano da principio avuto intenzione di farle guastare lo stato di Lucca per punire i Lucchesi de' continui soccorsi mandati a Pisa in danno de' Fiorentini[338]. Ma i generali temevano che si perdesse troppo tempo, ed essendo loro arrivati undici cannoni d'assedio e sei mila fanti di nuove leve, andarono a porre le loro batterie verso san Francesco presso alla porta a Calci, nello stesso luogo in cui nell'ultimo attacco avevano anche i Francesi poste le loro. Il fuoco cominciò il 7 di settembre alle undici della mattina. All'indomani alle tre circa dopo mezzodì era di già aperta una breccia di circa sessanta piedi di larghezza, onde i generali fiorentini disposero le loro truppe all'assalto. Ma mentre che le milizie pisane si schierarono intrepidamente sulla breccia, quelle de' fiorentini, formate di contadini che mai non avevano veduto il fuoco, mostravansi irrisolute e vili. Tre colonnelli cercarono uno dopo l'altro di fare scendere i loro soldati nella fossa, e sempre inutilmente. Ognuno di loro conduceva mille fanti; e altri sette mila restavano ancora nel campo; pure non si volle venire alla prova anche di questi per non compromettere la riputazione di tutta l'armata; e fu invece determinato di fare un'altra breccia tale che la grandezza dell'apertura non lasciasse veruna speranza ai difensori, nè verun pretesto alla viltà degli assalitori[339].
Infatti, avendo il fuoco continuato altri tre giorni, furono dalle artiglierie atterrate cento trentasei braccia di mura a breve distanza dalla precedente breccia. La mattina del 13 i generali fiorentini vollero dare l'assalto; ma tanta era la viltà della fanteria che doveva adoperarsi in questo genere di attacco, che il colonnello eletto dalla sorte per dare l'assalto ricusò di farlo, senza che nè le preghiere, nè le minacce di Ercole Bentivoglio e di Antonio Giacomini valessero a risvegliare nel suo cuore il sentimento dell'onore. Si fecero istanze agli altri nove di sottentrare nel posto di quel vile, e tutti egualmente rifiutarono. I loro soldati protestarono pure più apertamente di non voler salire sulla breccia, ed alcuni si lasciarono uccidere dai loro ufficiali piuttosto che andare avanti. All'ultimo l'armata coperta d'indelebile vergogna, tornò ai suoi alloggiamenti senza avere tentato un attacco. Intanto si ebbe avviso, che i trecento spagnuoli della guarnigione di Piombino erano entrati in Pisa; ed i generali fiorentini, temendo che ne giugnessero degli altri, sentirono la necessità di levare l'assedio. Il 14 di settembre a mezzodì ritirarono l'artiglieria, trasportando il campo a Ripoli, lontano undici miglia da Pisa, dove fu licenziata la fanteria, e la cavalleria mandata ai quartieri d'inverno[340]. I Pisani, riprendendo coraggio, verso la metà di ottobre spinsero le loro scorrerie fino nella Lunigiana, mentre entrarono in Pisa mille cinquecento soldati spagnuoli. Ma siccome più non abbisognavano per difendere la piazza, si rimbarcarono dopo pochi giorni, e continuarono il loro cammino per passare da Napoli in Ispagna[341].
Oltre la guerra di Pisa la storia particolare d'Italia non offre quest'anno che un solo tragico avvenimento, cui servì di teatro la corte di Ferrara. Il cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca regnante Alfonso, era perdutamente innamorato di una donna, sua parente, che nello stesso tempo veniva corteggiata da don Giulio d'Este, fratello naturale d'Ippolito. Rinfacciata la signora dal cardinale della preferenza che accordava al di lui rivale, se ne scusò col linguaggio degli amanti, incolpandone il potere de' begli occhi di don Giulio. Il cardinale furibondo, avendo saputo che suo fratello si trovava alla caccia, andò a sorprenderlo in campagna, lo fece smontare da cavallo, e gli fece dai suoi scudieri strappare quegli occhi che avevano in lui risvegliata tanta gelosia. Ma sebbene il cardinale fosse presente a così atroce fatto, pare che si eseguisse incompletamente, e che don Giulio non perdesse interamente la vista[342].
Questo delitto non procacciò al di lui autore nè gastigo, nè veruna pubblica dimostrazione di malcontento per parte del principe. Alfonso abbandonavasi alternativamente ai suoi piaceri ed alla sua inclinazione per le cose della meccanica. Consumava molta parte del giorno in una officina di tornitore dove faceva con sufficiente intelligenza varj lavori in legno; poscia talvolta con un gusto più degno di un principe fondeva cannoni di bronzo. Ammetteva nell'intima sua confidenza i buffoni, le persone facete, ed ancora qualche poeta; ma pareva che poco si occupasse delle cose del governo, onde dai suoi sudditi veniva riputato poco degno del trono. Una smisurata ambizione ingrandiva questi difetti agli occhi del suo secondo fratello, don Ferdinando, ed un ardente desiderio di vendetta animava l'infelice don Giulio; ed ambidue cercavano compagni per rovesciare il governo. Il conte Albertino Boschetti di Modena e Gherardo Roberti, cittadino Ferrarese, si unirono a loro, allettati dalla promessa d'avere le prime magistrature sotto un nuovo governo. Cercavano insieme i mezzi di disfarsi del principe; don Giulio voleva assalire Alfonso ed Ippolito col ferro e col veleno, ma Ferdinando, che non covava lo stesso odio, avrebbe voluto farsi principe senza sagrificare i fratelli. Altronde era difficile l'attaccarli ambidue ad un tratto, non usando essi di trovarsi assieme che in occasione di grandi cerimonie, ed in allora erano circondati da grossa guardia. Mal non mangiavano alla stessa mensa. Alfonso colla piacevole sua compagnia pranzava di buon'ora; Ippolito per lo contrario colla pompa e colla squisitezza di un prelato protraeva i suoi banchetti fin oltre la mezza notte.
I congiurati, aspettando di cogliere una favorevole occasione, non avevano ancora fatto verun tentativo, sebbene il cantante Gianni, complice della congiura, fosse stato più volte ricevuto nella conversazione del principe, e trattato con tanta famigliarità che lo aveva legato colle proprie mani nei giuochi che facevano assieme. Ma Ippolito più diffidente, e non dimentico della passata sua crudeltà, teneva sempre aperti gli occhi sopra don Giulio; all'ultimo in luglio del 1506 sorprese il segreto della congiura. Don Giulio ebbe tempo di fuggire a Mantova, ma dal marchese Giovan Francesco II Gonzaga fu consegnato ad Alfonso. Il cantante Gianni era pure fuggito, ma fa consegnato dal papa. Col mezzo della tortura si ebbero dai prevenuti nuovi lumi intorno alla congiura di cui erano accusati. Il Boschetti, Roberti e Gianni furono condannati a pena capitale; Ferdinando e don Giulio, condannati allo stesso supplicio, ottennero grazia quand'erano di già condotti sul patibolo, e fu commutata la loro pena in una perpetua prigionia. Ferdinando morì in carcere nel 1540, Giulio ottenne la libertà nel 1559 dopo cinquantatre anni di prigionia[343].
La casa d'Este era in allora la principale protettrice dei letterati; la maggior parte dei dotti, degli storici, dei poeti cercavano di piacere ad Alfonso, e questi crudeli avvenimenti furono travisati ne' loro racconti, o quasi affatto soppressi. Il Giovio schiva di dare verun biasimo al cardinale Ippolito, che colla sua barbarie era stato cagione de' traviamenti de' suoi fratelli. Giovan Battista Giraldi ne' suoi commentarj della storia di Ferrara dissimula gli avvenimenti, e l'Ariosto introducendo i due sventurati fratelli tra le ombre presentate a Bradamante non volle in loro ravvisare che una luminosa prova della clemenza di Alfonso[344]. Siamo giunti ad un'età in cui gli stessi incoraggiamenti dati ai letterati chiamarono i principi ad occuparsi assai più della storia, e gli storici ad essere molto più adulatori; la veracità ne sentì detrimento, e le loro narrazioni non meritano sempre intera fede.
L'Italia, perdendo la direzione de' proprj affari, trovavasi sempre più dipendente dalla politica degli estranei, e dopo che il re di Spagna fu nello stesso tempo re di Napoli, e quello di Francia duca di Milano, le negoziazioni che trattavansi oltre l'Alpi decidevano frequentemente dei destini di una nazione, che più non si governava da sè medesima. Perciò di quest'epoca tutti gli occhi in Italia erano volti verso la Spagna, ove l'arciduca Filippo, diventato re di Castiglia per la morte d'Isabella, si era recato per mare colla consorte, col secondo suo figlio Ferdinando e con una grossa armata. Egli non aveva voluto accomodarsi al testamento d'Isabella, che conoscendo il debole spirito di sua figliuola Giovanna l'aveva assoggettata alla tutela del padre, piuttosto che a quella del marito. Questi aveva intimato a Ferdinando di cedergli l'amministrazione del suo regno di Castiglia; e vedendolo inclinato a nuocergli a segno di voler privare dell'eredità la propria figlia, pel qual motivo principalmente si era determinato a sposare Germana di Foix, Filippo ordinò ai suoi ambasciatori di sottoscrivere a Salamanca il 24 di novembre del 1505 con Ferdinando un trattato che altro scopo non aveva che quello di addormentarlo in una fallace sicurezza; indi salpò in gennajo dai porti delle Fiandre[345].
Una burrasca aveva gettato Filippo sulle coste dell'Inghilterra, ed Enrico VII per fare cosa grata al vecchio Ferdinando avea ritenuto tre mesi il giovane principe nella sua Isola, prima di permettergli che s'imbarcasse. Finalmente egli arrivò a Biscaglia, e vi fu ricevuto con eguale entusiasmo dalla nobiltà e dal popolo, cui Ferdinando non era caro. Abbandonato da' suoi medesimi cortigiani, e non si sentendo abbastanza forte per misurarsi con suo genero, il vecchio re acconsentì il 27 giugno del 1506 ad un nuovo trattato, col quale rinunciò all'amministrazione della Castiglia, riservandosi soltanto finchè vivesse la metà delle entrate dei nuovi acquisti d'America, la carica di gran maestro dei tre ordini di san Giacomo di Compostella, di Alcantara e di Calatrava, venticinque mila ducati di rendita, e l'esclusivo possesso del regno di Napoli. A tali condizioni abbandonò la Castiglia, e promise di non più tornarvi[346].
Ferdinando, umiliato di trovarsi ingannato da un politico assai più giovane e meno destro di lui, e di essere stato abbandonato dai suoi cortigiani e dai sudditi, preferiva di non vedere il trionfo di suo genero in Ispagna. S'imbarco dunque a Barcellona il 4 di settembre con intenzione di visitare i suoi nuovi sudditi del regno di Napoli, e di sistemare l'amministrazione de' paesi da lui conquistati. La sua gelosia verso Gonsalvo di Cordova era pure uno de' motivi che lo chiamavano in Italia. Gonsalvo, onnipotente a Napoli, amato dal soldato, e riverito dagl'Italiani, poteva a voglia sua o riservare questo regno pel re di Castiglia di cui era suddito naturale, o farsene padrone egli stesso. Di già richiamato da Ferdinando, erasi scusato sotto varj pretesti dall'ubbidire, onde sembrava che la sola presenza del monarca potesse sospendere l'autorità del suo orgoglioso vicerè[347].
I più potenti sovrani dell'Europa parevano apparecchiati a visitare tutti nello stesso tempo l'Italia: Massimiliano, che non aveva che il titolo d'imperatore eletto, perchè non aveva dalle mani del papa ricevuta la corona imperiale, mostravasi oltre modo voglioso di venire a prenderla a Roma, onde potere in appresso ridurre gli elettori a nominare suo figliuolo re de' Romani; aveva di già spediti ambasciatori in Italia per annunciare la vicina sua venuta, e chiedere alle terre dell'Impero la sovvenzione di pratica per la coronazione degl'imperatori; ne aveva altri mandati a Lodovico XII per invitarlo a mettere in cammino le cinquecento lance, che il re aveva promesse per tale occasione, per chiedere che gli emigrati milanesi venissero rimessi nel possedimento de' loro beni, e che fossegli anticipato il pagamento dei sessanta mila ducati dovutigli dalla Francia. Lodovico XII non mostrossi renitente che rispetto a questa anticipazione: rispose colle espressioni della più sincera amicizia, attestando il suo vivo desiderio di conservare la buona armonia fra i due stati. Per altro non poteva vedere senza una estrema diffidenza la crescente grandezza della casa d'Austria; temeva la nomina di un re de' Romani per le stesse ragioni che la facevano desiderare a Massimiliano; e per impedire che questi scendesse in Italia, si adoperava celatamente presso gli Svizzeri e presso i Veneziani, ed in segreto soccorreva il duca di Gueldria, allora in guerra con Filippo[348].
Omai Lodovico XII erasi sciolto dalla clausola principale del trattato di Blois, quella che risguardava il matrimonio di sua figlia con Carlo d'Austria. Si fece presentare delle rimostranze contro l'unione di questa principessa con uno straniero da tutti gli stati e da tutte le corti sovrane del suo regno, e mostrando in appresso di cedere alla violenza che si faceva fare, la promise in isposa al duca d'Angoleme, suo presuntivo erede[349]. Dall'altro canto Massimiliano, informato della malattia di Uladislao, re di Polonia e di Ungheria, ed aspirando alla corona di quest'ultimo regno, che gli era stata guarentita da una convenzione con tutti i magnati ungari, non voleva trovarsi lontano da' suoi stati, qualora Uladislao morisse, e rinviò ad un altro anno i suoi disegni sull'Italia[350].
Di quest'epoca Giulio II, di cui si erano più volte notati i vasti progetti e l'impetuoso e turbolente carattere quando non era che cardinale, nulla peranco aveva fatto dopo avere conseguito il papato che giustificasse l'universale aspettazione. Si era più volte lasciato uscire di bocca di voler purgare lo stato della Chiesa da tutti i tiranni, che se lo erano diviso; di voler ritirare dalle mani de' Veneziani anche la più piccola torre che possedessero nella Romagna; pure nè i tiranni dello stato della Chiesa, nè i Veneziani venivano da lui molestati. Ma Giulio voleva che i suoi disegni avessero intera esecuzione, e perciò gli andava cautamente maturando. Egli accumulava danaro con una economia che non erasi fin allora osservata nel suo carattere; voleva nello stesso tempo combinare gli sforzi di tutte le potenze d'Europa contro Venezia, prima di rompere apertamente con quella repubblica. Aveva da principio trovati grandemente inclinati Lodovico XII, Massimiliano e Ferdinando alla divisione loro proposta, e di già in uno de' trattati di Blois eransi gettate le basi dell'alleanza che venne in appresso stipulata a Cambrai. Ma Lodovico XII, ammaestrato intorno ai suoi veri interessi dalla gelosia che gli dava Massimiliano, sentiva allora quanto imprudente cosa fosse il distruggere la sola potenza che chiudeva alla casa d'Austria la porta d'Italia; perciò erasi ravvicinato ai Veneziani, e col mezzo loro sperava d'impedire che Massimiliano andasse a prendere a Roma la corona dell'impero. Si accontentava adunque di dare buone parole a Giulio II; era liberale promettitore, perchè sperava che mai non giugnerebbe il momento di dare esecuzione alle sue promesse; e per la nomina dei due cardinali d'Aix e di Bayeux, che aveva ottenuto dal papa, assumeva con lui obbligazioni contrarie ai suoi trattati con altre potenze, ed ai suoi proprj progetti[351].
Giulio II sentiva la necessità di sospendere il suo attacco contro Venezia; ma perchè non voleva più oltre languire nell'inazione, a mezza estate risolse di ricondurre sotto il diretto dominio della Santa Sede le due più potenti sue città, Bologna e Perugia, che da gran tempo ubbidivano a principi indipendenti. Invece di accertare la riuscita di quest'intrapresa con negoziati che avrebbero potuto ritardarne l'esecuzione, troncò le difficoltà col tuono autorevole con cui parlò e coll'impeto proprio del suo carattere. Per riuscire contro Bologna aveva bisogno de' soccorsi della Francia e della neutralità de' Veneziani; intimò a Lodovico XII di mandargli soldati, ed ai Veneziani di non muoversi. Nè il re, nè la repubblica, presi all'impensata, vollero romperla con un papa di cui temevano la collera, e si prestarono forzatamente a' suoi voleri, contro la propria persuasione[352].
Lodovico XII aveva solennemente preso sotto la sua protezione Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, ed aveva quello stesso interesse a mantenerlo nella sua sovranità che avevano avuto tutti i suoi predecessori i duchi di Milano. Altronde l'istante sembravagli particolarmente pericoloso per acconsentire che si facessero movimenti di veruna sorte in Italia: imperciocchè aveva saputo che Massimiliano erasi procurata una nuova convenzione col re d'Ungheria in conferma della precedente, e che, trovandosi nuovamente in libertà di passare in Italia, aveva indirettamente fatta offrire la sua alleanza ai Veneziani, loro proponendo di attaccare simultaneamente la Francia, e di dividere tra di loro il ducato di Milano.[353]. Vero è che il cardinale d'Aix aveva portata al papa una commissione sottoscritta dal re, e comunicata all'ambasciatore fiorentino, colla quale Lodovico esortava Giulio II ad attaccare il Bentivoglio, promettendogli perciò potenti soccorsi[354]. Ma questa altro non era che una di quelle astuzie con cui i capi del governo hanno così frequentemente compromesso l'onore e la buona fede della nazione francese. Lodovico XII, per dissuadere il papa da ciò che temeva, gli consigliava ciò che non lo credeva disposto di fare; e quando seppe che Giulio II, determinato di attaccare Bologna, erasi dato vanto in pieno concistoro di essere sicuro degli ajuti della Francia, de' Fiorentini e delle altre potenze d'Italia, soggiunse con amara ironia, che per certo in quel giorno il santo padre aveva meglio pranzato che gli altri giorni, alludendo all'ubbriachezza di cui davasi generalmente colpa a Giulio II[355].
Ad ogni modo Giulio II era partito da Roma il 27 di agosto del 1506, accompagnato da ventiquattro cardinali, ed alla testa di quattrocento uomini d'armi[356]. Prese lentamente la strada di Perugia, per dar tempo ai Francesi di prestarsi ai suoi inviti. Gian Paolo Baglioni viveva in allora pubblicamente in una incestuosa relazione con sua sorella, dalla quale aveva avuti dei figli; aveva usurpato la sovrana autorità di Perugia, facendo uccidere molti suoi cugini e nipoti. Egli aveva confiscati i beni di coloro ch'erano fuggiti per sottrarsi alla sua tirannide, e quasi tutti i proscritti si trovavano presso l'armata pontificia. La maniera con cui aveva ingannati i Francesi, prendendo il loro denaro prima della battaglia del Garigliano per entrare al loro servigio, ed in appresso mancando a' suoi obblighi, aveva eccitato il risentimento di Lodovico XII; ed anche i Fiorentini, da lui ingannati nel precedente anno, vedevano con piacere la sua ruina. Ma il Baglioni, che teneva a' suoi ordini cento uomini d'armi e cento cinquanta cavaleggeri, e ch'era padrone della più forte città degli stati della Chiesa, di una città i di cui abitanti erano i più bellicosi, poteva per qualche tempo resistere colle proprie forze[357].
Pure preferì di ricorrere alla protezione de' potenti amici ch'egli aveva nel sacro collegio ed alla corte del papa. Il duca d'Urbino e tutti coloro che avevano qualche feudo della Chiesa erano inquieti e sconfortati vedendo che il papa si faceva a spogliare i più potenti della loro classe; onde cercavano di calmare Giulio II, e nello stesso tempo incoraggiavano Giampaolo Baglioni a placarlo con un'apparente sommissione, acciò guadagnar tempo. All'ultimo essi si costituirono garanti della sua sicurezza, ed il Baglioni, cedendo ai loro conforti, andò l'8 di settembre a trovare il papa ad Orvieto, ed a porsi nelle sue mani[358]. Giulio II, sensibile a tanta confidenza, gli promise che potrebbe continuare a soggiornare in Perugia, godendovi di tutti i suoi beni. Inoltre lo prese al suo soldo con tutti gli uomini d'armi che aveva, per fare la spedizione di Bologna; ma richiese che gli si consegnassero le porte e le rocche di Perugia, onde poter riformare il governo di quella città e renderle l'antiche libertà[359].
Quand'ebbe sottoscritta questa convenzione, il Baglioni ripartì subito alla volta di Perugia, onde apparecchiarsi ad accogliervi il papa, che viaggiava più lentamente e visitava i castelli delle rive del lago. Infatti Giulio II, il cui ardente carattere non conosceva pericoli, entrò il 13 di dicembre in Perugia con tutta la sua corte senza avere avuta la custodia di una sola porta della città, ponendosi in tal modo in balìa di un uomo da lui offeso, ed alle di cui promesse nè egli nè altri in Italia davano fede. Vero è che il Baglioni non si assicurò degli ostaggi che si erano da sè medesimi imprudentemente rimessi fra le sue mani; ma fu piuttosto per mancanza di coraggio o di presenza di spirito, che per uno scrupolo ch'egli non conosceva[360]. La città, dopo partiti il Baglioni ed il papa, il quale lentamente prendeva la strada della Romagna, rimase ancora qualche tempo sotto l'influenza dei partigiani del Baglioni; ma all'ultimo i cittadini lungamente oppressi cominciarono a riprendere confidenza nelle leggi; la magistratura dei Dieci della Balìa instituita dal tiranno, per mezzo della quale egli manteneva la sua autorità, venne solennemente abolita, e Perugia ricominciò a godere sotto la protezione della Chiesa i privilegj di città libera[361].
Giulio II riponeva ancora maggior zelo nella riforma di Bologna. Giovanni Bentivoglio non aveva usurpato l'assoluto potere, che ruinando tutte le potenti famiglie che fin allora godevano qualche opinione nella sua patria. Egli aveva quattro figli, la di cui insolenza era diventata insopportabile ai loro concittadini, ed il di cui lusso e largo spendere aggravavano la pubblica miseria. Egli più non cercava di guadagnarsi gli animi colla clemenza e colla dolcezza ma per lo contrario a contenerli colle armi, ad atterrirli coi supplicj[362]. Credevasi assicurato in sul trono dalle alleanze strette co' suoi vicini; ma egli stesso aveva loro insegnato a sacrificarle senza scrupolo ad un presente vantaggio. I Fiorentini, malgrado il loro trattato col Bentivoglio, avevano mandato il Macchiavelli al papa nell'atto che questi era uscito di Roma promettendogli di unire i loro uomini d'armi alla sua armata. Il marchese di Mantova, dopo avere ottenuto l'assenso della Francia, aveva pure poste le sue truppe sotto le bandiere pontificie; i Veneziani avevano offerto a Giulio II di cacciare essi medesimi il Bentivoglio da Bologna, purchè a tale condizione Giulio ratificasse il loro possesso di Faenza e di Rimini. La sola cosa che potesse sembrare dubbiosa era la cooperazione della Francia, perchè se il re l'aveva promessa al papa, aveva ancora solennemente promesso al Bentivoglio di difenderlo, e gliene aveva riconfermata la promessa dopo che Giulio trovavasi in cammino colla sua armata[363].
Ma l'impeto di Giulio spaventava coloro che dovevano trattare con lui. Il cardinale d'Amboise rappresentò al re: che non cedendo egli in questa occasione, renderebbe il papa suo accanito nemico; onde Lodovico si svincolò dalla protezione promessa al Bentivoglio con un indegno sotterfugio: dichiarò di essersi obbligato a difenderlo nel possesso de' suoi stati, ma non già in quello degli stati della Chiesa, ed ordinò al signore di Chaumont, governatore del milanese, di avanzarsi contro Bologna con seicento lance, tre mila fanti svizzeri e ventiquattro pezzi d'artiglieria[364].
Tosto che Giulio II ebbe avviso dell'avvicinamento de' Francesi, entrò in Romagna pel ducato di Urbino, rimettendo la pace nelle città che attraversava, richiamandole all'ubbidienza della Chiesa, e non pertanto schivando di mettere piede nel territorio di Rimini, o di Faenza, per non sanzionare nemmeno con una sola occhiata l'occupazione di que' principati fatta dai Veneziani[365]. Giunto a Forlì, sei ambasciatori bolognesi gli presentarono le condizioni colle quali il Bentivoglio era apparecchiato a sottomettersi; voleva tra le altre cose che il papa non potesse entrare in Bologna che colla sua guardia di dugento cinquanta in trecento svizzeri, obbligandosi a non soggiornarvi oltre un determinato tempo. Ma questo non era il modo che doveva adoperarsi trattando con un vecchio orgoglioso ed irascibile: invece di rispondere a tali proposizioni, Giulio II il 10 di ottobre pubblicò in Cesena una bolla contro Giovanni Bentivoglio ed i suoi partigiani, dichiarandoli ribelli alla santa Chiesa; abbandonava le loro sostanze al saccheggio e le persone loro alla schiavitù di chi le prenderebbe; accordava indulgenza plenaria a chiunque combatterebbe o ucciderebbe i fautori del Bentivoglio; indi ordinò immediatamente al particolare deputato del Bentivoglio di sortire subito dagli stati della Chiesa, minacciandolo dell'ultimo supplicio, se giammai ricadeva nelle sue mani[366].
Il papa giunse ad Imola il 20 di ottobre alla testa di un'assai ragguardevole armata, di cui diede il comando al marchese di Mantova. Oltre ai quattrocento uomini d'armi coi quali Giulio era partito da Roma, Giovan Paolo Baglioni ne conduceva cento cinquanta; Marc'Antonio Colonna, condottiere de' Fiorentini, ne aveva cento; cento il duca di Ferrara; il marchese di Mantova dugento cavaleggeri; e v'erano di più cento Stradioti venuti dal regno di Napoli, e parecchie migliaja di fanti levati nel ducato di Urbino, nella Toscana e nella Romagna. Dall'altra parte lo stesso giorno in cui il marchese di Mantova attaccava san Pietro, primo castello de' Bolognesi dalla banda d'Imola, il signore di Chaumont con seicento lance francesi e tre mila Svizzeri entrava in Castel-Franco, primo castello del Bolognese dalla parte di Modena. Per tal modo il papa aveva ottenuto di far sì che quello tra i suoi feudatarj, la di cui indipendenza contrariava più d'ogni altra i suoi ambiziosi progetti, fosse da que' medesimi attaccato che avrebbero avuto maggiore interesse a difenderlo[367].
In tutti i suoi discorsi, in tutte le sue dichiarazioni, Giovanni Bentivoglio aveva fin allora affettato molto coraggio ed una ferma risoluzione di respingere la forza colla forza. Infatti aveva armate le milizie ed afforzata la sua capitale; ma non sapeva risolversi a spendere per la sua difesa quel danaro che risguardava come l'estremo suo appoggio se perdeva la sovranità. Non aveva perciò fatte sufficienti leve; altronde comunicava a' suoi sudditi la propria diffidenza, lasciandola travedere, ed inimicavasi tutti coloro ai quali chiedeva que' sacrificj cui dubitava di fare egli stesso. Pure perchè i suoi vicini, che lo volevano salvare, non cessavano di lusingarlo d'interporsi a di lui favore; e perchè il signore di Chaumont gli fece sapere ch'egli non lo attaccherebbe, il Bentivoglio faceva ancora buon contegno. Ma il 15 di ottobre il signore di Chaumont gli fece intimare che dovesse entro due giorni assoggettarsi a tutti gli ordini del papa, se non voleva perdere la protezione della Francia ed essere immediatamente da lui attaccato. Nello stesso tempo, purchè ubbidisse subito, il Chaumont gli assicurava il godimento di tutte le proprie sostanze patrimoniali, e la libertà di vivere in Bologna come semplice privato co' suoi figliuoli[368].
Quand'ebbe questa intimazione, il Bentivoglio perdette ogni speranza, dimenticò le sue proteste d'irremovibile costanza, ed i sarcasmi coi quali aveva accolto Pietro de' Medici, allorchè questi senza combattere aveva abbandonato la città in cui regnava. Questo principe, di già in età di settant'anni, si recò il 2 di novembre al campo francese colla sua sposa, Ginevra Sforza, e tutti i suoi figliuoli, per implorare dal signore di Chaumont migliori condizioni. Ebbe costui tanta viltà di farsi pagare dodici mila ducati dal principe fuggitivo per patrocinare i di lui interessi. In appresso convenne col papa che il Bentivoglio conserverebbe a Bologna il godimento di quegl'immobili di cui proverebbe il legittimo acquisto, che liberamente esporterebbe il danaro ed i mobili, e che potrebbe vivere in perfetta sicurezza colla sua famiglia nel ducato di Milano[369].
Appena partito il Bentivoglio, i Bolognesi spedirono altri ambasciatori al papa, per chiedergli soltanto l'assoluzione dalle pene ecclesiastiche, e la guarenzia che l'armata francese non entrerebbe nella loro città. Giulio II non aveva al certo intenzione di ricevere que' pericolosi alleati; perciocchè temeva egualmente e l'indisciplina de' soldati, e l'ambizione del governo, che potrebbe voler conservare alcuni diritti nella sua conquista. Di già l'armata del Chaumont si era innoltrata sin presso le mura tra le porte di Saragossa e di san Felice, e ad alte grida chiedeva il sacco di quella così ricca e commerciante città. Trovandosi l'armata schierata lungo il canale che conduce le acque del Reno a Bologna, il papa diede licenza ai Bolognesi di chiudere la porta di ferro che attraversa il canale a' piè delle mura, e di far così rifluire le acque sulla campagna in cui stavano i Francesi. Questi, scacciati dall'inondazione, si ritirarono disordinatamente al ponte del Reno, lasciando nel fango una parte della loro artiglieria e dei loro equipaggi. In appresso il papa congedò il signore di Chaumont, facendogli un dono di otto mila ducati per lui e di dieci mila da distribuirsi all'armata, e aggiungendovi la promessa di accordare un cappello cardinalizio al di lui fratello. Il vescovo d'Alby. Poscia l'undici di novembre, giorno di san Martino, fece con gran pompa il suo solenne ingresso in Bologna; conservò alla città i suoi privilegi e la sua amministrazione repubblicana, ma ne mutò la costituzione. Fin allora Bologna era stata governata da sedici magistrati; Giulio ne escluse tre dalla signoria, cioè Giovanni Bentivoglio e due de' suoi più zelanti partigiani; incorporò gli altri tredici in un nuovo senato, composto di quaranta membri, al quale affidò tutta l'autorità. Dopo tale epoca e fino a questi ultimi tempi l'oligarchia de' quaranta di Bologna amministrò quella provincia con varie prerogative, che ricordavano la sua libertà e l'antica indipendenza. La loro situazione, in opposizione a quella della corte di Roma, li rendeva, a dispetto di una stretta oligarchia ereditaria, i veri rappresentanti del popolo, ed i costanti propugnatori de' suoi privilegj. Con ciò ottennero di far rifiorire nella loro città le arti ed il commercio sbandeggiati dagli altri stati della Chiesa; ma dopo quest'epoca Bologna più non venne annoverata tra gli stati indipendenti d'Italia, e più non iscosse che una sola volta e per breve intervallo il giogo impostole da Giulio II[370].
L'Italia non fu quest'anno turbata da verun altro movimento militare; i Fiorentini, spossati dalla guerra di Pisa, soffrivano un'estrema carezza di frumento in primavera del 1506. Vi avevano provveduto colla consueta loro generosità, senza nemmeno scacciare i poveri forastieri che da ogni banda si affollavano nella loro città per partecipare alle pubbliche carità[371]; ma in questa campagna non fecero veruna spedizione contro Pisa, neppure per guastarne il territorio. Avevano pure in aprile del 1506 rinnovata per tre anni la loro tregua con Pandolfo Petrucci e coi Sienesi, rinunciando per tutto questo tempo a far valere i loro diritti sopra Montepulciano, ed obbligandosi ancora a non accettare questa borgata quand'anche offrisse di darsi spontaneamente. Avevano preferito di fare quest'accordo con un vicino di cui non si fidavano, ma che non temevano, al pericolo di chiamare in Toscana un alleato, che sarebbesi portato da padrone; ed avevano rifiutate le offerte del re di Francia, che loro proponeva di mandare contro Pandolfo Petrucci cinquecento lance e due mila svizzeri da mantenersi a spese comuni[372].
La tranquillità di cui godeva l'Italia raddoppiava la sua attenzione ai movimenti di Ferdinando il Cattolico, diventato uno de' suoi più potenti sovrani. Questo monarca si era imbarcato a Barcellona il 4 di settembre ed aveva dato fondo con una flotta di cinquanta galere prima in Provenza, indi a Genova, ove fu ricevuto con infinite onorificenze: poco dopo, trattenuto dai venti a Porto Fino nella riviera di Levante, vi ricevette l'inaspettata notizia della morte di suo genero, Filippo I, accaduta in Burgos il 25 di settembre del 1506 dopo una breve malattia. Questo principe, che aveva mostrata tanta premura di regnare e che aveva per così dire spinto in esiglio il suo suocero per occupare il di lui trono, non aveva potuto goderlo più di tre mesi. Alcuni attribuivano la sua morte ad uno smoderato esercizio, altri ad una malattia epidemica, altri all'intemperanza propria di un Fiammingo, diventata assai più pericolosa in un clima tanto diverso dal suo. Molti finalmente, i quali sapevano con quanto rincrescimento avesse Ferdinando ceduta la Castiglia, lo sospettavano vittima di lento veleno[373]. Pure invece di tornare addietro per riprendere le redini di un governo che aveva abbandonato con tanto dispiacere, Ferdinando continuò il suo viaggio alla volta di Napoli. Arrivò il giorno 18 ottobre a Gaeta, ma si trattenne in quella città o a Portici fino al primo di novembre, giorno da lui destinato al suo solenne ingresso in Napoli. Gonsalvo di Cordova, che sapevasi avere così vivamente eccitata la gelosia di Ferdinando, e che aveva avuto amichevoli avvisi di non porsi tra le di lui mani, non fece difficoltà di andare a bordo della di lui galera, e di affidarsi a lui interamente[374]. Ferdinando, accolto con entusiasmo dai Napolitani, che gli diedero magnifiche feste, volle partecipe di tutti questi onori il gran capitano che gli aveva conquistato il regno. Volle che il solo Gonsalvo gli presentasse tutta la nobiltà di Napoli e tutti coloro che meritavano i suoi favori; lo colmò di distinzioni e di gloria; gli confermò il possesso del ducato di sant'Angelo, de' suoi beni nel regno di Napoli, che gli fruttavano ventimila ducati, e vi aggiunse l'ufficio di grande contestabile del regno; ma era al tutto determinato di non lasciarlo dietro di sè a Napoli, e facevagli sperare la carica di gran maestro dell'ordine di san Giacomo di Compostella per compensarlo degli onori e dell'autorità cui Gonsalvo doveva rinunciare lasciando l'Italia per la Spagna[375]. L'Europa, che conosceva la fede di Ferdinando il Cattolico, non vide senza una certa sensazione di duolo il grand'uomo che l'aveva tanto tempo intrattenuta colle sue imprese, ripartire di là a cinque mesi col suo padrone per rientrare nell'oscurità.
CAPITOLO CIV.
Sollevazione di Genova, e sua punizione per parte di Lodovico XII; abboccamento di questo monarca con Ferdinando il cattolico; Massimiliano minaccia la Francia, attacca i Veneziani, poi fa con loro la pace; miseria di Pisa e sua sommissione ai Fiorentini.
1506 = 1509. Non eravi stato verun periodo nella storia d'Italia, in cui Genova avesse meno richiamato l'attenzione degli altri popoli, e provato minor numero di quelle intestine convulsioni di cui abbiamo parlato. Vero è che la repubblica più non era libera, più non aveva volontà propria, nè più dipendeva dalle sue deliberazioni il partito cui s'appiglierebbe; Genova, che la violenza delle sue rivoluzioni aveva gettata sotto il dominio degli Sforza, era in appresso passata sotto l'autorità del re di Francia, quasi facesse parte del ducato di Milano. Pure in forza di una volontaria capitolazione ella aveva accordate al sovrano di Lombardia press'a poco le stesse prerogative che prima esercitava il suo proprio doge. Questa capitolazione sussisteva sempre tra Genova e la Francia, e sebbene la libertà più non fosse intera, sebbene la pubblica energia fosse scemata nella stessa proporzione che i diritti dei cittadini, sebbene non avessero più flotte dominatrici del Mediterraneo, non armate che disputassero l'impero dell'Italia, non tesori con cui assoldare le potenze straniere, non commercio finalmente che potesse rivalizzare con quello di Venezia, o soltanto di Firenze, pure la sua amministrazione era tuttavia repubblicana, la costituzione rimasta press'a poco conforme all'antica, e passabilmente guarantita la sicurezza delle persone e delle proprietà.
Le fazioni che non molti anni prima avevano dato a Genova una così formidabile potenza, sentivansi contenute dal timore del monarca, nè più versavano sangue, nè più si disputavano la suprema autorità colle armi alla mano. La legge aveva divise le magistrature in eguali porzioni tra la nobiltà e la plebe, e tutti erano rimasti lungo tempo soddisfatti di questa divisione. Ma dopo che un governatore francese occupava in Genova la carica di doge, questo governatore, vanaglorioso de' suoi natali, aveva data una decisa preferenza alla nobiltà del paese da lui amministrato. Egli più non ammetteva che nobili nella sua società, loro accordava il vantaggio in tutte le contestazioni, e quando ancora faceva eseguire tra di loro ed il popolo la disposizione delle capitolazioni, si maravigliava che uomini da nulla avessero osato di dettare leggi a persone di qualità.
La nobiltà genovese, approfittando del favore del governatore, aveva preso verso le classi inferiori un contegno insolente, che non si era mai permesso di mostrare, finchè, secondo le antiche leggi dello stato, il doge erasi scelto esclusivamente nell'ordine plebeo. Nello stesso tempo, sagrificando ogni altra considerazione ai suoi personali vantaggi, la nobiltà più non prendevasi pensiero dell'indipendenza della patria, e ad ogni contesa abbracciava sempre l'interesse del padrone straniero che signoreggiava la repubblica[376].
L'opposizione tra il pubblico interesse de' cittadini, e l'interesse del cortigiano, che animava i nobili, si manifestò quando i Pisani nel 1504 vollero darsi ai Genovesi, impetrando colle più calde istanze ciò che in altro tempo i Genovesi avrebbero risguardato come il più luminoso vantaggio. Tutto il partito popolare si mostrò desideroso di accettare tale proposizione; per lo contrario la nobiltà, conoscendo le intenzioni della corte, vi si oppose con estrema ostinazione[377]. Colui che fra gli altri nobili si adoperò con maggior zelo per rendere vano il comune voto de' suoi concittadini, fu Gio. Lodovico del Fiesco, di quest'epoca il più ricco di tutti i membri della nobiltà, e quello che contar poteva sopra un maggior numero di clienti; perciocchè da un canto possedeva nella riviera di Levante ragguardevoli feudi, dall'altra aveva ricevuto dalla bontà del re importanti governi nella riviera di Ponente. Giovan Lodovico del Fiesco opponevasi all'acquisto di Pisa, perchè voleva tenere la repubblica genovese in uno stato di debolezza tale da potervi con minori ostacoli fondare il credito di sua famiglia; perchè voleva piacere a Lodovico XII, che vedeva con gelosia accrescersi la potenza dei Genovesi; finalmente perchè accarezzava i Fiorentini, dall'oro dei quali la pubblica opinione accusavalo in Genova d'essere stato guadagnato[378]. Ma il ragionamento con cui cercò di far prevalere la propria opinione manifesta lo strano indebolimento della repubblica; invece di marinai e di soldati la popolazione di Genova più non contava che tessitori e manifatturieri; di modo che difficilmente trovavasi gente da armare due o tre galere per la guardia del porto, mentre non v'era tesoro, e non si voleva, o non si poteva sopportare straordinarie imposte[379].
L'irritamento del popolo contro la nobiltà andò sempre crescendo dopo questa contestazione intorno all'acquisto di Pisa. Il popolo cominciò ad accusare la nobiltà di avere sagrificato l'onore della patria ai personali vantaggi che si riprometteva dalla corte. Altronde di quest'epoca il nome di nobiltà ristringevasi in Genova ai soli discendenti delle quattro potenti famiglie che avevano pel corso di un secolo esercitata la sovranità in quella repubblica; mentre che i discendenti di coloro che prima del tredicesimo secolo avevano divisa l'amministrazione coi Doria e cogli Spinola, coi Fieschi e coi Grimaldi, o di coloro che si erano innalzati dopo il 1339, erano egualmente confusi sotto il nome di popolo. Quest'ultimo ordine pareggiava quello dei nobili in ricchezze ed in talenti, e non credevasi pure per conto dei natali da meno di loro. Sì gli uni che gli altri si consacravano al commercio, che suole inspirare sentimenti di eguaglianza; e quando i nobili cominciarono ad armarsi di pugnale, sul di cui manico avevano fatto incidere castiga villano, i plebei, che si sentivano ad un tempo minacciati ed oltraggiati da tanta insolenza, giurarono di vendicarsi di un disprezzo così poco meritato[380].
Ogni giorno qualche gentiluomo insultava qualche cittadino dell'ordine del popolo; ma questi non poteva sperare soddisfacimento, perchè la metà di tutti i tribunali e di tutti i consiglj era composta di nobili, determinati a sottrarre i loro compagni ad ogni castigo, e perchè il governatore reale era sempre disposto ad assecondarli. Perciò dopo qualunque oltraggio, dopo qualsiasi atto violento, il popolo si adunava sempre per domandare, che, postocchè le famiglie dell'ordine popolare, illustri, ricche e da gran tempo in possesso del governo, erano il doppio più numerose di quelle dei nobili, ottennessero altresì i due terzi de' pubblici impieghi. Questa domanda, presentata più volte, era dai nobili sdegnosamente respinta e dal governatore delusa. Ma questi cominciava a concepire qualche inquietudine dell'universale fermento, per calmare il quale si adottò la norma, qualunque volta un nobile faceva ingiuria ad un popolano di bandire l'offensore e l'offeso; onde sottrarli così ambidue agli occhi de' faziosi che potevano inasprirsi.
Quest'artificio ritardò per qualche tempo una esplosione che sembrava inevitabile, ma non potè impedirla. Una contesa, accaduta in un mercato per leggierissimo motivo tra Visconti Doria, gentiluomo altronde universalmente stimato, ma orgoglioso ed irascibile come i suoi pari, ed un popolano[381], fece immediatamente prendere a tutti le armi. Paolo Battista Giustiniani ed Emmanuello Canali, ambidue dell'ordine del popolo, sebbene appartenenti ad illustri famiglie, si posero alla testa de' sollevati. Visconti Doria fu ucciso, un altro Doria ed alcuni altri nobili feriti, e Roccabertino, luogotenente del re, non ottenne di calmare il popolo che col promettere che d'ora innanzi l'ordine del popolo avrebbe due parti nelle elezioni, e la nobiltà la terza. La proposizione fu portata nel susseguente giorno al supremo consiglio; approvata; ed ebbe forza di legge[382].
Ma la vittoria dovevasi ad una sollevazione di tutto il popolo, mentre che le illustri famiglie dell'ordine popolare sembravano aver voluto riservarne a sè sole tutti i frutti; ben tosto più non furono padrone delle classi inferiori da loro poste in movimento. Tre giorni dopo ch'era stata portata la legge che cambiava la divisione de' pubblici onori; la plebaglia sollevossi di nuovo, andò ad attaccare le case dei nobili, ed a saccheggiarle. I capi dell'ordine popolare si opposero con tutte le forze che avevano a questo anarchico tumulto; i nobili fuggirono ed implorarono contro la loro patria l'assistenza degli stranieri[383].
I nobili genovesi fuggiaschi avevano convenuto di trovarsi in Asti, ove si adunarono presso Filippo di Ravenstein, che Lodovico XII aveva nominato governatore di Genova, affinchè l'alto rango di questo signore, e la memoria del potere da lui in altri tempi esercitato in quella città, rendesse più facilmente i cittadini ubbidienti. Ma mentre che Giovan Lodovico dei Fieschi e tutti i gentiluomini fuggitivi eransi ragunati intorno al Ravenstein, giunsero presso di lui gli ambasciatori della repubblica per giustificare la condotta de' loro concittadini, ed assicurare il governo dell'intera loro sommissione. Il Ravenstein entrò in Genova il 15 di agosto, circondato dalle truppe e preceduto dai magistrati a piedi. Egli cercava d'inspirar terrore, ed invece eccitò la diffidenza ed il risentimento. L'aristocrazia plebea, che aveva cominciata la rivoluzione, temeva di compromettersi in faccia al governatore, ed altronde temeva la rivalità delle classi inferiori: ma queste fecero col loro vigore comprendere al Ravenstein il pericolo di provocare una potente città, che il più leggiere abuso d'autorità potrebbe spingere alla ribellione. Egli costrinse Giovan Lodovico del Fiesco ad uscire da Genova; acconsentì che si nominassero i magistrati in conformità del decreto che faceva una nuova divisione de' pubblici onori; e non si oppose alla creazione di otto tribuni scelti dal popolo per essere i loro protettori[384].
La stessa causa che si agitava innanzi al Ravenstein, trattavasi ancora innanzi a Lodovico XII, cui dalla repubblica era stato spedito il giureconsulto Nicolò Oderici, in qualità di ambasciatore, per difendere le pretese del popolo. Il motivo col quale i nobili avevano principalmente cercato d'irritare il re, fu appunto quello che gli fece sentire il bisogno di procedere con moderazione, avendo essi rappresentati i loro avversarj in atto di deliberare se dovessero assoggettare la repubblica ad un altro principe estero.
Di quest'epoca Filippo I, re di Castiglia, viveva ancora; e Lodovico XII, che lo vedeva camminare rapidamente a quella potenza cui giunse in seguito Carlo V, aveva di lui concepita un'estrema diffidenza. Per non dargli occasione di prendere piede a Genova, Lodovico acconsentì a sanzionare egli medesimo il decreto che riduceva i nobili al terzo de' pubblici onori; ma vi aggiunse una condizione: che tutti i feudi che Giovan Lodovico del Fiesco possedeva nella Riviera di levante gli sarebbero restituiti. In tempo delle turbolenze il partito popolare gli aveva attaccati, e conquistatone il maggior numero. Michele Rizio, giurisconsulto ed emigrato napolitano, venne incaricato di recare a Genova il decreto, e di dargli esecuzione[385].
Gli uomini più distinti del partito popolare erano contenti, e non chiedevano di più. Ma il popolo ed i tribuni da lui scelti non erano di ciò soddisfatti; essi dicevano, che richiamando in Genova un gentiluomo orgoglioso, vendicativo, e che aveva abjurata la patria per vendersi alla corte, che restituendogli que' feudi che gli davano il modo di avere a sua disposizione alcune migliaja di vassalli e le migliori rocche della Liguria, non potevasi trovare veruna guarenzia nelle leggi ch'egli aveva così frequentemente violate. Erano ben contenti di ricevere entro la loro città Giovan Lodovico del Fiesco, ma a condizione che i suoi feudi fossero governati dalle leggi comuni, e subordinati ai magistrati della repubblica. Si è più volte rinfacciato ai riformatori di non aver saputo contenersi entro un limite nelle loro riforme: in fatti il rimprovero è fondato; volendo sempre avanzare, compromettono ciò che hanno di già acquistato, ed arrivano frequentemente a perdere un vantaggio certo per avere voluto ottenerne un altro di cui avrebbero potuto far senza. Ma non dobbiamo dimenticare quale sia lo stato della legislazione, quale sia l'ordine pubblico ne' paesi in cui s'intraprendono tali riforme; ovunque non s'incontrano che abusi, usurpazioni e patimenti. I riformatori hanno quasi sempre giustissimi motivi per distruggere ciò che attaccano, sebbene avrebbero mostrato maggiore prudenza e moderazione conservando una parte dell'edificio ed approfittandone mentre che rifacevano l'altra parte. In appresso vengono severamente giudicati dietro le istituzioni con cui rimpiazzarono le abolite; ma quelle non hanno a favor loro nè l'appoggio dell'esperienza che supplisce al raziocinio, nè la sanzione del pregiudizio, che dispensa dalla disamina. La forza d'inerzia conserva ancora lungamente il movimento acquistato di una cattiva macchina; la stessa forza si oppone altresì lungamente al movimento, che si vuole dare ad una macchina migliore d'assai, ma che non fu peranco adoperata.
Era indubitatamente dannoso alla repubblica il lasciare in mano di Giovan Luigi del Fiesco, dichiarato nemico dell'ordine popolare, la metà delle terre murate nelle due riviere, e quelle in particolare da cui la città traeva le sue vittovaglie; di modo che questo cittadino poteva all'ombra della pace tenere la sua patria come assediata. Per altro le persone prudenti avrebbero desiderato di assoggettarsi a quest'inconveniente, piuttosto che esporsi al pericolo assai più grave di ricusare l'aggiustamento proposto dal re: per lo contrario il popolo, invece di voler rendere al suo nemico de' feudi, che non possedeva con altro titolo che con quello di un'antica usurpazione, risolse di riconquistare un altro feudo egualmente tolto alla repubblica da una famiglia nobile, quello di Monaco, di cui erasi impadronito Luciano Grimaldi, e di cui, sotto la protezione di una fortissima rocca, aveva formato un asilo pei pirati armati a danno del commercio di Genova. I tribuni del popolo chiamarono da Pisa Tarlatino, che aveva con tanto valore difesa quella città, e che nel presente anno vi si credeva inutile, perchè i Fiorentini avevano sospesi i loro attacchi. I Tribuni gli diedero due mila uomini con due galere ed alcuni piccoli vascelli, e gli ordinarono in sul finire di settembre di attaccare Monaco[386].
Il Ravenstein, irritato da questa mancanza di riguardi, il 25 di ottobre abbandonò una città dove l'autorità reale più non era rispettata. Altronde la gelosia del signore di Chaumont, nipote del cardinale d'Amboise e governatore di Milano, e quella del luogotenente del re, Roccabertino, che aveva comandato in tempo di sua assenza, rendevano la sua situazione critica e spiacevole. Altri emigrati della nobiltà avevano invocata la protezione di Lodovico XII, il quale, liberato per la morte di Filippo, re di Castiglia, dai timori che aveva concepiti per conto dell'Italia, risolse di ristabilire con aperta forza la sua autorità in Genova, di condurvi egli medesimo la sua armata, onde non esporsi ai danni che la divisione dell'autorità aveva in addietro cagionato ai suoi luogotenenti, e di approfittare di questa spedizione per avere in Bologna col papa un abboccamento intorno agli affari di Venezia, che Giulio II chiedeva caldamente già da qualche tempo[387].
Mentre che Lodovico XII adunava le sue truppe per la spedizione d'Italia, ordinò al comandante del Castelletto di Genova, ed al signore di Chaumont, di trattare i Genovesi come nemici. Il primo, uomo crudele ed avido, colse con piacere quest'occasione che gli si offriva di far del male. Una festa aveva chiamata alla chiesa di san Francesco, attigua al Castelletto, una numerosa congregazione: il comandante, senza prima avere denunciato il cominciamento delle ostilità, occupò le porte di quella chiesa, e dopo averne fatti uscire i gentiluomini e le donne, fece porre in carcere tutti i cittadini che vi si trovarono, ai quali non diede la libertà che pel prezzo di dieci mila fiorini. Subito dopo cominciò a bombardare la città ed il porto; calò a fondo molti vascelli e distrusse parecchie case, ove gli abitanti erano affatto fuori di sospetto dall'aspettarsi una tale violenza. Nello stesso tempo Roccabertino lasciò una città che risguardava come ribelle, sebbene lo stendardo reale continuasse ancora lungo tempo a sventolare sul pretorio. Il signore di Chaumont vietò ai Genovesi ogni commercio colla Lombardia, e loro ricusò il frumento che solevano esportarne. Intanto Ivone d'Allegre s'incamminò verso Monaco per costringere il Tarlatino a levarne l'assedio[388].
Carlo Domenico del Carretto, cardinale di Finale, esortava i Genovesi, suoi compatriotti, a pacificarsi col re, onde non provocare contro di loro tutte le di lui forze, in un tempo in cui si vedevano senz'alleati; offrì loro la sua mediazione, promettendo di conservare tutti i privilegi alla città ed al partito popolare. Ma i Genovesi non si credevano così privi di mezzi come effettivamente lo erano. Avevano essi implorata l'assistenza del papa, il quale, nato a Savona, era loro compatriotto, e che per conto di sua famiglia apparteneva al partito popolare. Giulio II aveva infatti scritto al re assai caldamente in favore della sua patria, e perchè le sue rimostranze erano rimaste infruttuose, aveva dispettosamente abbandonata Bologna il 22 di febbrajo per tornare a Roma, rendendo in tal modo impossibile l'abboccamento che il re si era proposto di avere con lui in Italia, e tanto più mostrandosi sollecito di partire, quanto maggiori erano le istanze del cardinale d'Amboise per trattenerlo[389].
I Genovesi avevano pure trovato favorevole accoglimento presso l'imperatore Massimiliano, di cui avevano invocata la protezione. Questo monarca, sempre apparecchiato a tutto intraprendere, sempre incapace di condurre a fine verun suo disegno, sempre compromettendo la sua dignità imperiale col suo ardore di voler far rivivere certi diritti dell'impero andati in desuetudine e colla debolezza e coll'instabilità con cui poco dopo gli abbandonava, scrisse caldamente a Lodovico XII per raccomandargli i Genovesi; gli rammentò che dipendevano dalla camera imperiale, e che avevano diritto alla sua protezione; e perciò offriva la sua mediazione pel ristabilimento della pace. Questa lettera vivamente eccitò la gelosia di Lodovico XII, poichè questi risguardolla come una prova della defezione dei Genovesi, i quali scuotevano il giogo della sua autorità per porsi sotto quella dell'imperatore. Peraltro egli conosceva bastantemente per lunga esperienza il carattere di Massimiliano, onde essere sicuro che le sue parole non sarebbero seguite dai fatti; e questa lettera non produsse altro effetto che quello di affrettare la sua spedizione[390].
Le vane speranze con cui Massimiliano aveva nudriti i Genovesi, gli spinsero finalmente ad iscuotere del tutto il giogo dell'autorità francese, che avevano fin allora rispettata. Nominarono un doge, lo che tornava lo stesso che proclamare la loro indipendenza; e perchè le illustri famiglie dell'ordine popolare si tenevano lontane, sia per timore del risentimento del re, sia per gelosia delle classi inferiori che si erano poste in movimento, il 15 di marzo conferirono questa sublime dignità a Paolo di Novi, direttore d'una tintoria di seta, uomo di non distinti natali, e probabilmente povero; ma che aggiungeva a molta forza di carattere, ed a somma integrità, un'attitudine agli affari ed un coraggio degni di più felici circostanze[391].
I primi atti della sua amministrazione sembravano presagire prosperi risultamenti. Tre mila fanti ed uno squadrone di cavalleria, comandati da Girolamo, figlio di Giovan Lodovico dei Fiesco, e da suo cugino Emmanuele, si avanzavano verso Rapallo e Recco, per riacquistare il possesso di quelle due terre del dominio dei Fieschi; Paolo di Novi fece attaccare questa gente in su la strada e la sconfisse. Orlandino dei Fieschi, che cercava di penetrare nello stesso feudo per un'altra strada, fu egualmente respinto e fugato. Il Castellaccio, vecchia rocca nella più alta parte delle mura, ove i Francesi non avevano che una piccolissima guarnigione, fu forzato ad arrendersi; un nuovo riparo venne innalzato sul promontorio della lanterna, per tagliare la strada agli assalitori; e si cominciò l'assedio del Castelletto, mentre che si ebbe l'antiveggenza di levare tutti i viveri e tutti i foraggi dalla valle della Polsevera, affinchè l'armata francese non vi si potesse mantenere[392].
Ma veruna combinazione militare può avere un felice risultamento, allorchè ne viene affidata l'esecuzione a milizie di nuova leva. Il loro coraggio è sostenuto momentaneamente dall'entusiasmo; ma poi tutto ad un tratto si lascia vincere da panici terrori, che niuna cosa poteva far prevedere. L'immaginazione, che nel soldato è una facoltà in parte soggiogata dalla disciplina, rimane sempre il più possente mobile della moltitudine. Lodovico XII, che aveva ragunata in Asti la sua armata, innoltravasi, a metà d'aprile all'incirca, per la via di Borgo de' Fornari e di Sarravalle. Perchè il paese in cui andava a portare la guerra non era fatto per la cavalleria, non conduceva che ottocento cavalieri di pesante armatura, e mille cinquecento cavaleggeri; ma loro faceva tener dietro sei mila svizzeri e sei mila fanti francesi. Paolo di Novi non aveva trascurato di fermarli alle prime gole delle montagne; aveva fatti occupare i più importanti passi da seicento fanti genovesi, perchè un maggior numero di gente sarebbe stato inutile in quegli angusti passi, e la più piccola resistenza pareva sufficiente per fermarvi il nemico. Ad ogni modo il 26 di aprile, i Genovesi, alla vista della grossa armata francese che stava per attaccarli, furono compresi da subito terrore; si posero tutti ad un tratto vergognosamente in fuga senza nè pure aver tentato di combattere; abbandonarono senza fare la menoma resistenza tutti i passi delle montagne ai Francesi, e si ripararono in Genova ove furono accompagnati da tutta la moltitudine degli abitanti della Polsevera, che cercavano di sottrarsi al saccheggio coi loro effetti e bestiami[393].
Un eguale terrore colpì gli abitanti di Genova all'arrivo di questa fuggitiva truppa. L'armata del re era di già penetrata nella Polsevera; le formidabili montagne, veri propugnacoli di Genova, erano state forzate, ed il recinto delle sue mura più non ispirava confidenza agli abitanti. Tutti si apparecchiavano ad essere saccheggiati, e d'altro omai non si occupavano che di nascondere le cose più preziose; spesso, diffidando della propria nemica fortuna, credevano più sicura della propria la casa di un altro, ed affidavano le proprie ricchezze al vicino egualmente atterrito. Per altro i cittadini facevano sui loro tetti approvvigionamenti di pietre, di dardi e di projettili, come fossero le loro case che dovevansi difendere, e non le mura della città. Queste mura erano abbandonate, e Paolo di Novi vedevasi ridotto a far barricate alle strade dopo aver alloggiati i fuggitivi della Polsevera nelle case de' nobili assenti, e ad apparecchiare la resistenza entro la città medesima, poichè non poteva persuadere i suoi concittadini a difenderne valorosamente il recinto[394].
Ad ogni modo si ristabilì in Genova qualche ordine, prima che i Francesi potessero arrivare in faccia alle porte. Tarlatino, ch'era stato richiamato dall'assedio di Monaco, non aveva potuto entrare in città, perciocchè un corpo nemico gli tagliava la strada per terra, ed i venti contrarj gli chiudevano la via del mare; ma il suo luogotenente, Giacomo Corso, venne incaricato della difesa del promontorio che cuopre il porto: otto mila uomini di milizia sortirono con lui dalla città il 27 di aprile ed occuparono l'altura di Belvedere sotto al castello. I Francesi, ch'erano schierati in battaglia a Rivarolo, gli attaccarono e furono respinti con grave perdita fino all'istante in cui il Chaumont, avendo potuto far avvicinare due pezzi di cannone, prese di fianco i Genovesi e li costrinse a ritirarsi. Mentre riguadagnavano le montagne dietro di loro, la guarnigione, che doveva difendere il nuovo forte della Lanterna ed il suo promontorio, temette di trovarsi tagliata fuori, e fuggì vilmente senza aspettare il nemico. La truppa che ritiravasi dalla battaglia più non potendo entrare in città per Belvedere e per la Lanterna, fu costretta a tentare gli scoscesi sentieri delle alture, ove perdette molta gente[395].
I Genovesi, costernati da questo secondo disastro, spedirono al re Stefano Giustiniani e Battista Rapallo per offrire di capitolare. Il cardinale d'Amboise loro dichiarò che Lodovico era determinato di non riceverli che a discrezione; che peraltro voleva promettere di rispettare le private proprietà. Mentre che si stava negoziando, una numerosa truppa che vedeva con dolore la vergogna che questa capitolazione apparecchiava alla sua patria, scese dalle alture di Castellaccio verso di Belvedere, per tentare di riconquistare quel ridotto; ma dopo una zuffa di tre ore, sostenuta con grande valore, fu costretta a rinunciare alla sua intrapresa. Andato a vuoto questo tentativo, i magistrati spedirono altri deputati a Lodovico, con facoltà di accettare tutte le condizioni, che vorrebbe imporre; mentre che il doge Paolo di Novi e tutti coloro che avevano troppo figurato nelle passate turbolenze per isperare perdono, si ritirarono a Pisa[396].
Il re voleva domare i Genovesi e loro inspirare un durevole timore; ma non ruinarli. Quando gli furono consegnate le porte, ne affidò la guardia ad uomini d'armi francesi, e non voleva che gli Svizzeri, cui non avrebbe potuto impedir di rubare, entrassero in città. Egli stesso fissò di farvi il suo ingresso il 29 di aprile[397], e lo fece a cavallo, armato di tutto punto, tenendo la spada sguainata in mano. I magistrati, che si erano avanzati ad incontrarlo, lo ricevettero in ginocchioni, supplicandolo di condonare alla loro città una ribellione che non era contro di lui diretta. Le loro preghiere e quelle delle donne e de' fanciulli, che chiedevano grazia portando in mano tralci d'ulivo, parve che lo commovessero: dichiarò ai Genovesi che loro perdonava; ma era un perdono di re. S'innalzarono patiboli in molte parti della città, e molti cittadini furono appiccati dopo una processura sommaria: un falso amico, cui Paolo di Novi erasi confidato a Pisa per gire a Roma, lo vendette ai Francesi; questo rispettato doge fu ricondotto a Genova per esservi giustiziato; la sua testa fu posta in cima ad una picca sulla torre del Pretorio, e le sue membra divise in quarti vennero esposte sulle porte della città. La massa de' cittadini fu condannata ad una contribuzione militare di trecento mila fiorini, che il re poscia ridusse a dugento mila. Si edificò alla Lanterna una rocca inespugnabile, e tale da signoreggiare nello stesso tempo l'ingresso del porto e la città; finalmente tutti i privilegi di Genova, ed il suo trattato col re di Francia si bruciarono pubblicamente. Per altro Lodovico rendette alla comune un governo municipale, ma come una concessione fatta di suo beneplacito e non come un diritto, e vi ristabilì i nobili nella metà degli onori pubblici. Questa sentenza fu da tutti i cortigiani celebrata come un monumento della clemenza del re, e trovasi registrata da tutti gli storici come un testimonio della maravigliosa sua bontà[398].
Lodovico XII trovavasi solo in Italia alla testa di una formidabile armata, mentre che tutti gli altri potentati erano disarmati; ma egli ben sapeva quanto così eccitasse la loro gelosia, ed in particolare quella di Massimiliano e de' principi tedeschi; onde per calmare i loro timori si affrettò di licenziare le sue truppe, ed il 14 di maggio passò a Milano, aspettando avviso che Ferdinando il Cattolico, con cui doveva avere un abboccamento in Savona, si fosse imbarcato a Napoli.
Ferdinando era stato accolto nel regno di Napoli colle più vive speranze; non erasi dubitato che non ritornasse la pace alle province, e non ponesse fine ai disordini ed alle intollerabili estorsioni sotto cui gemevano. Ma Ferdinando era povero, ed inoltre era avaro; si era obbligato di restituire ai baroni angiovini i poderi confiscati da lui e da' suoi predecessori; e siccome in appresso erano stati cotesti poderi donati o renduti ad altri gentiluomini del partito arragonese, che Ferdinando non osava spogliare, era costretto a ricomprarli; perciò talvolta non li pagava che per metà, o non li rendeva che incompletamente; e per farlo era pure forzato di raddoppiare tutte le imposte, e di opprimere il popolo con insolite estorsioni; di modo che scontentava egualmente le due classi dei gentiluomini, e tutti i contribuenti[399].
Ferdinando non aveva meglio saputo cattivarsi l'amore dell'unico suo vicino, Giulio II, che de' suoi proprj sudditi. Gli aveva chiesta un'investitura piena ed intera di tutto il regno in suo proprio nome, sebbene a seconda del suo trattato colla Francia, l'Abbruzzo e la Campania, ch'erano stati ceduti a Lodovico XII col trattato di Granata, dovessero risguardarsi come formanti la dote di Germana di Foix, sua consorte. Inoltre chiedeva Ferdinando che il censo annuale, che il regno doveva alla Chiesa, fosse per lui ridotto come lo era stato per i suoi predecessori: per lo contrario Giulio insisteva per l'intero pagamento del tributo com'era regolato dalle antiche investiture. Questi punti controversi non erano ancora stati definiti, quando Ferdinando risolse di partire dal regno di Napoli per tornare a Barcellona. Salpò dalla sua capitale il 4 di giugno, e non volle approdare ad Ostia, sebbene sapesse che il papa lo stava colà aspettando per avere con lui un abboccamento[400].
Ferdinando era sollecitamente richiamato in Ispagna dal bisogno di provvedere al governo del regno di Castiglia. La di lui figlia, Giovanna, dopo la morte di Filippo, suo sposo, era oppressa dal dolore; e pareva che non comprendesse se non ciò che risguardava il perduto suo sposo, e non si poteva intorno a qualsiasi altro argomento ottenere da lei risposta. Sebbene la sua condotta sembrasse frequentemente straordinaria, ed eccessivo il suo dolore, non perciò erasi ancora conosciuto che aveva perduta la ragione. Un tale sospetto presentasi sempre tardi ai cortigiani, ed è lungamente respinto malgrado l'evidenza. Pure la regina non voleva dare verun ordine, non voleva sottoscrivere decreti, e l'inalterabile attaccamento de' Castigliani alle loro forme legali gettava il regno in una assoluta anarchia. La nobiltà di ogni paese era divisa in fazioni, che cominciavano a farsi giustizia da loro colle armi alla mano; la nazione non era per anco accostumata all'orrore delle procedure dell'inquisizione stabilita da Isabella, e Cordova erasi sollevata per iscuotere il giogo degl'inquisitori[401]. Ferdinando era da tutti i partiti richiamato in un regno, da cui era stato espulso pochi mesi prima; pareva che la sola sua mano potesse mettere fine all'anarchia.
Ferdinando più non doveva trovare in Ispagna il celebre avventuriere che vi aveva fatto condurre prigioniero. La libertà del duca Valentino, Cesare Borgia, era stata da Ferdinando rifiutata al re di Navarra, di cui egli aveva sposata la sorella, al duca di Ferrara che aveva sposata la sua, e che si faceva garante pel Valentino, finalmente ai cardinali spagnuoli debitori della loro elezione ad Alessandro VI[402]. Ma il Borgia aveva potuto salvarsi colla fuga, valendosi di una scala di corda per iscendere dalle mura della fortezza di Medina del Campo dov'era stato chiuso, ed erasi rifugiato presso suo cognato Giovanni d'Albret, re di Navarra. Questi, che in allora trovavasi in guerra col conte di Lerin, credette di non poter confidare a miglior capitano il comando della sua armata. Pure Cesare Borgia il 10 di marzo fu tratto da un corpo di cavalleria, che fuggiva innanzi a lui, in un'imboscata che gli si era apparecchiata in vicinanza di Viane; rovesciato da un colpo di lancia dal suo cavallo, continuò ancora a difendersi valorosamente a piedi, finchè, oppresso dal numero, fu ucciso. Quest'uomo, renduto celebre da tanti delitti, non era privo di virtù; valoroso, eloquente, accorto, prodigo de' suoi beneficj senza mai sbilanciare le sue finanze, zelante per la conservazione della giustizia ne' suoi stati, abbastanza illuminato per dar loro un'amministrazione che li fece in poco tempo prosperare, egli seppe rendersi caro ai suoi sudditi ed a' suoi soldati, mentre era l'orrore e lo spavento de' principi suoi vicini e di coloro che non erano a lui soggetti[403].
Ferdinando arrivò a Savona il 28 di giugno, e vi trovò Lodovico XII, che lo stava attendendo, e colà i due sovrani si trattennero quattro giorni in segrete famigliarissime conferenze. Lodovico XII era stato il primo a visitare Ferdinando sulla sua galera; lo ricevette in appresso a vicenda in casa sua; e l'Italia non poteva concepire come questi due monarchi, tanto tempo nemici, e di così poco dilicata parola, si fidassero alternativamente l'uno dell'altro. Gonsalvo di Cordova accompagnava il re cattolico, che non aveva voluto lasciarlo solo a Napoli; Lodovico XII, pieno di ammirazione pel generale che gli aveva fatto tanto male, volle che solo degli uomini privati fosse ammesso alla mensa a cui mangiavano i due re e la regina. Tutta la corte di Francia mostrava lo stesso rispetto per Gonsalvo; ma fu questo l'ultimo giorno di trionfo di quel gran capitano: tanti onori non servirono che ad accrescere la diffidenza di Ferdinando, il quale, ricusandogli la carica di gran maestro di Compostella, cercando di scemare la sua ricchezza, di abbassare la sua famiglia, di perderlo nell'opinione de' suoi amici, lo ritenne a Loxa, lontano 10 miglia da Granata, in una specie d'esilio fino al 2 di dicembre del 1515, in cui Gonsalvo morì di doppia febbre quartana nell'età di sessantatre anni[404].
Le risoluzioni prese dai due re nella loro conferenza di Savona, e che seppersi in seguito avere avuto per principale oggetto gli affari di Venezia e quelli di Pisa, rimasero alcun tempo ancora avviluppate in profondo segreto; mentre che l'ingresso di Lodovico XII in Italia con una potente armata, che la sommissione di Genova, che il suo soggiorno in Milano ed il suo abboccamento in Savona con Ferdinando, sorprendevano tutti i popoli, e spaventavano tutte le corti. Lo scioglimento dell'armata francese, ed il ritorno di Lodovico in Francia, non calmarono questi timori che dopo di aver loro lasciato il tempo di produrre importanti effetti. Tanti stati si trovavano in allora in una precaria situazione; tanti malcontenti e segrete gelosie dividevano i governi, che verun di loro non vedeva senza un estremo terrore un monarca straniero comandare in Italia un'armata, che sola bastare poteva a regolare i destini di tutto il paese.
In particolare Giulio II, sebbene avesse più volte eccitato Lodovico XII ad unirsi a lui contro i Veneziani, presentemente accoglieva contro di lui i più ingiuriosi sospetti. La subita collera e la diffidenza succedevansi nell'animo di questo papa con una strana rapidità; ed il suo carattere bollente ed impetuoso manifestava maggior debolezza che verace magnanimità. Annibale Bentivoglio aveva cercato di rientrare in Bologna con seicento fanti assoldati nel Milanese; il papa non si accontentò di prendere motivo da questo tentativo per fare spianare dal popolo ammutinato il palazzo del Bentivoglio a Bologna, monumento della più bella architettura[405], ma domandò ancora che tutti i Bentivogli gli fossero consegnati, o per lo meno scacciati dallo stato di Milano. Per costringere il re ad assoggettarsi a così indegna condizione, ricusò il cappello di cardinale al vescovo d'Albi, fratello di Chaumont, cui lo aveva promesso, e nello stesso tempo addirizzò un breve all'imperatore, nel quale gli annunziava che il re di Francia non aveva avuto altro scopo, entrando in Italia con una così potente armata, che quello d'innalzare alla santa sede il suo favorito, il cardinale Giorgio d'Amboise, dopo di avere invasi gli stati della Chiesa; che quest'ambizione di Lodovico XII e del suo favorito più non si potevano dissimulare al mondo; che quegli aveva di già cercato di dominare il conclave col terrore delle sue armi, nelle due precedenti elezioni, e che l'altro suo segreto pensiero di farsi all'ultimo conferire la corona dell'impero dal papa ch'egli avrebbe creato, e che gli sarebbe interamente ligio, più non poteva richiamarsi in dubbio[406].
Massimiliano, che di quest'epoca aveva fatto un viaggio in Fiandra per domandare agli stati di quelle province l'amministrazione e la tutela dell'eredità di suo nipote, e che non aveva potuto ottenerla, tornò a Costanza, dove aveva adunata una dieta dell'impero. Espose in quell'assemblea con molto calore ed eloquenza le lagnanze del papa, ed i disegni de' Francesi: Massimiliano era coraggiosissimo, aveva eleganti maniere, ed un'affettazione cavalleresca, che seduceva la sua corte, e che presso di quella lo faceva passare per un grand'uomo, sebbene la sua prodigalità e la sua instabilità avessero da molto tempo fatto conoscere il poco conto che poteva farsi di lui. Egli parlò ai Tedeschi della loro gloria militare, di cui i Francesi tentavano di rapir loro il premio, usurpando la corona imperiale; dei pericoli che avevano sprezzati; de' sagrificj che avevano di buon animo sostenuti, per salvare l'onore della nazione; della lunga discordia del corpo germanico, sola cagione della sua debolezza; e per ultimo di quella potenza con cui potrebbe dettare leggi alla Francia e riconquistare l'Italia, quando volesse soltanto spiegarla. Veruna dieta dell'impero era stata da lungo tempo così numerosa, veruna aveva manifestato un così vivo entusiasmo, veruna erasi mostrata così disposta ad adottare le più vigorose determinazioni. Massimiliano aveva domandato che fosse posto sotto i suoi ordini un esercito, non al solo oggetto di prendere la corona imperiale in Italia, ma ancora di ricuperare il Milanese, la di cui investitura a favore del re di Francia, condizionata al matrimonio di Claudia di Francia con Carlo, era stata annullata dopo la rottura di detto matrimonio. La dieta dell'impero accolse avidamente questa proposizione, e parve determinata a mettere sotto il comando del suo capo assai maggiori forze di quelle che mai non avesse avute veruno de' suoi predecessori[407].
Intanto i principi tedeschi non tardarono ad avere notizia che Lodovico XII aveva licenziato il suo esercito dopo la conquista di Genova, di modo che non poteva avere più vasti progetti di quelli che aveva annunciati. Altronde i segreti agenti del re di Francia si erano separatamente diretti a ciascheduno de' principi tedeschi e protestando che il loro padrone non covava ostili intenzioni nè contro la Chiesa nè contro l'impero, avevano risvegliata l'antica loro diffidenza verso l'imperatore: lo avevano essi rappresentato siccome colui che cercava sotto vani pretesti di disporre di tutte le loro forze per ridurli in ischiavitù, ed avevano avvalorate queste insinuazioni col danaro sparso tra i principi e tra i loro ministri. Volendo la dieta regolare i sussidj che aveva promessi, domandò che la spedizione d'Italia si facesse in di lei nome, che dalla dieta si nominassero i generali, e che le conquiste appartenessero a tutto il corpo germanico. Massimiliano rifiutò tali condizioni, e con ciò accrebbe la diffidenza de' Tedeschi. Dichiarò che preferiva di ricevere piccoli sussidj, e restare solo capo dell'intrapresa; in conseguenza la dieta gli accordò un'armata di otto mila cavalli e di ventidue mila fanti, pagati per sei mesi, a datare dalla metà di ottobre, ed inoltre un sussidio di 120,000 fiorini per l'artiglieria e per le spese straordinarie. Dopo di ciò si sciolse il 20 di agosto, senza avere meglio provveduto delle precedenti diete all'esecuzione di così magnifiche promesse[408].
Massimiliano, il quale credeva che tutta l'arte del regnare consistesse nel celare a tutti i proprj segreti, assegnò tre luoghi molto distanti per l'unione delle tre armate dell'impero. Una doveva raccogliersi in Trento per minacciare il Veronese, l'altra a Besanzone per minacciare la Borgogna, l'ultima nella Carniola per minacciare il Friuli[409]. Non permetteva che i ministri esteri si trattenessero presso di lui, tenendoli in certo qual modo relegati in qualche piccola città, a Trento, a Bolzano, a Morano, lontani dalla corte e dall'armata; e con ciò li poneva nell'impossibilità di penetrare i suoi disegni, o di valutare le sue forze[410].
Prima di scendere in Italia come nemico, Massimiliano negoziava colla repubblica di Venezia. Le aveva spediti tre ambasciatori, non pel solo oggetto di chiederle il passo a traverso ai suoi stati, ma ancora per proporle un'alleanza, i di cui risultamenti dovevano essere la divisione dello stato di Milano. Affinchè i Veneziani rinunciassero alla fedeltà loro verso Lodovico XII, che il monarca francese non meritava, aveva loro comunicato il trattato di Blois, il di cui oggetto era la divisione di tutti gli stati della repubblica, facendo loro sentire che Lodovico ne sollecitava ancora l'esecuzione. Dall'altra parte Lodovico aveva saputo che Massimiliano cercava l'alleanza degli Svizzeri, e che si era guadagnato fra loro un potente partito. Quest'alleanza avrebbe privato il re di Francia della sola buona fanteria che serviva nelle sue armate; onde procurava di riconciliarsi pienamente coi Veneziani, dissipando ogni loro sospetto, e loro facendo le più vantaggiose offerte per indurli a difendere d'accordo con lui l'Italia minacciata dall'imperatore; e perchè la repubblica ricusasse il passaggio ai Tedeschi, le prometteva la perpetua guarenzia de' di lei stati di terra ferma[411].
I Veneziani tutto sentivano il pericolo della loro situazione; non si fidavano nè delle promesse di Massimiliano, nè di quelle di Lodovico XII, e temevano ad ogn'istante di vedere questi due rivali contro di lei riuniti; ma se per impedire questa coalizione essi dichiaravansi per l'uno o per l'altro sovrano, non perciò temevano meno di vedersi un giorno abbandonati da colui che sarebbesi valso della loro alleanza, e di dovere poi sostenere soli tutto il peso di una guerra in cui non avrebbero che un interesse secondario. Dopo lunghe deliberazioni, finalmente determinarono di non abbandonare il partito della Francia, e l'alleanza, colla quale essi garantivano a Lodovico XII lo stato di Milano in compenso di una somigliante garanzia, che la Francia aveva promessa per le loro province di terra ferma. In conseguenza parteciparono a Massimiliano, che in forza de' loro trattati non potevano acconsentire al passaggio del suo esercito pel loro territorio; che, quand'anche l'imperatore attaccasse il Milanese sopra altri punti, si troverebbero in dovere di somministrare alla Francia un certo numero di truppe per sua difesa; che soddisfarebbero scrupolosamente agli obblighi loro, ma che non anderebbero più in là; poichè nel tempo stesso che volevano fare il debito loro verso il re di Francia, loro alleato, desideravano altresì di conservare la buona armonia e la buona vicinanza coll'impero e coll'imperatore. Finalmente dichiararono a Massimiliano, che, se voleva pacificamente entrare in Italia per ricevere a Roma la corona d'oro, verrebbe accolto in tutti i loro stati con tutte le onorificenze che avevano sempre rendute al capo dell'Impero[412].
Per quanto i Veneziani avessero cercato in questa risposta di non offendere Massimiliano, questi però si sentì tanto più vivamente ferito quanto si teneva più sicuro di loro. Quest'imperatore non fondava mai sui proprj mezzi il buon successo delle sue intraprese, e sempre sperava negli altrui soccorsi, che poi si maravigliava di non ricevere. Aveva cominciato a trattare coi Cantoni per levare dodici mila Svizzeri, e la dieta elvetica, non dando troppo orecchio alle rimostranze della Francia, non si era mostrata aliena dal somministrargli i soldati: ma il danaro promesso dalla dieta germanica di Costanza non bastava per fare così grosse leve, e Massimiliano l'aveva di già quasi tutto consumato in dispendiosi trasporti d'artiglieria. Egli aveva inoltre fatto fondamento sui sussidj degli stati d'Italia; ma aveva loro fatte così esorbitanti domande, che tutti si erano da lui alienati. Il vescovo di Brixen non aveva domandato ai Fiorentini meno di cinquecento mila ducati[413]: e questo fu il motivo che li consigliò, quando ancora durava il loro terrore, a far raggiugnere dal Macchiavelli, loro ambasciatore, in Inspruck Francesco Valori, per avere migliori condizioni. Ma non avendo l'imperatore voluto scendere ad alcuno ragionevole termine, cercarono dal canto loro dilazioni alla conclusione dell'affare, finchè fosse chiaro quale sarebbe il risultato di tante minacce e degli apparecchi annunciati con tanta enfasi a tutta l'Europa[414].
Massimiliano faceva pure domandare non meno esorbitanti somme a tutti gli altri stati d'Italia, siccome prestazioni dovute in occasione della sua coronazione: ma inoltre domandava ad Alfonso, duca di Ferrara e di Modena, la restituzione della dote di Anna Sforza, prima moglie di quel duca, di cui pretendeva essere erede l'imperatrice Beatrice Sforza. Di già Massimiliano credeva di poter disporre delle immense somme che ricercava, come se in fatto le avesse ricevute: pure di tutto questo danaro non ebbe che sei mila ducati, di cui i Sienesi si confessarono debitori verso la camera imperiale[415].
Intanto sopraggiunse il mese di ottobre, e le truppe ordinate dalla dieta germanica cominciavano ad adunarsi; ma non si vedevano comparire che pochi battaglioni; mentre che Massimiliano passava rapidamente dai confini della Borgogna a quelli dell'Italia, e che, facendo marciare i contingenti su tutte le direzioni, e non facendo parlare l'Europa che dei movimenti delle sue truppe, lasciava tutti incerti se attaccherebbe la Francia, lo stato di Milano, o i Veneziani[416].
Lodovico XII non trascurò di apparecchiarsi a respingere quest'attacco. Ottenne licenza dal re cattolico di assoldare 2500 fanti spagnuoli; mandò soccorsi al duca di Gueldria per tenere occupato l'imperatore in Germania; levò il castello d'Arona, posto sul lago maggiore, alla famiglia Borromei, di cui non fidavasi, e vi pose guarnigione; mandò Gian Giacopo Trivulzio ai Veneziani con quattrocento lance francesi e quattro mila fanti, e considerabilmente accrebbe il numero delle sue truppe nello stato di Milano. I Veneziani dal canto loro avevano richiamati al loro soldo il conte di Pitigliano e Bartolommeo d'Alviano: il primo aveva il comando di quattrocento uomini d'armi nelle parti di Verona e di Roveredo; il secondo di ottocento verso il Friuli. Per altro queste truppe non impedirono una rapida scorreria di Giovan Battista Giustiniani e di Fregosino, emigrati Genovesi, che con mille fanti tedeschi si erano lusingati di attraversare lo stato veneziano, poi quello di Parma, per entrare nella Liguria, ma che furono poi dai Francesi trattenuti alle falde delle montagne di Parma. Tornarono a dietro, ed i Veneziani acconsentirono che rientrassero negli stati dell'impero, a condizione di deporre le armi nell'entrare nel territorio della repubblica per riceverle poi all'opposto confine[417].
Questa breve spedizione non erasi tampoco risguardata come un cominciamento d'ostilità: i Veneziani, che non erano personalmente attaccati, invece di attribuirla a Massimiliano, non avevano voluto ravvisarvi che la conseguenza di qualche pratica di Giulio II. Sapevano che questo pontefice permetteva nello stesso tempo un adunamento di emigrati genovesi in Bologna; che accusava il Bentivoglio d'avere tentato di farlo avvelenare da un prete, e che aveva spedito il cardinale di santa Croce a Massimiliano per muoverlo contro i Francesi[418]: Ma Giovanni Bentivoglio, che teneva Giulio II in tanti sospetti, morì a Milano in febbrajo del 1508, in età di settant'anni. Aveva goduta quarant'anni nel suo principato una inalterabile prosperità, di cui andava più debitore alla fortuna che ai suoi talenti o alle sue virtù, e non seppe poi sostenere le traversie che vennero in appresso. Poco dopo la di lui morte, Annibale il primogenito, ed Enrico l'ultimo de' suoi figliuoli, sorpresero a Bologna la porta di san Momolo coll'ajuto dei Pepoli e di alcuni altri gentiluomini: ma bentosto furono scacciati dal popolo, che preferiva il dominio della Chiesa a quello de' suoi antichi signori; ed il re di Francia, irritato per questo intempestivo attacco dei Bentivogli, li fece uscire dalla Lombardia, ordinando al signore di Chaumont di difendere Bologna contro chiunque volesse turbare la Chiesa nel possesso di quella città. Il papa, soddisfatto della protezione offertagli da Lodovico XII, impose silenzio al suo odio contro la Francia, e non volle avere parte nella guerra che andava a scoppiare[419].
Massimiliano era giunto a Trento in principio dell'anno, per mettersi alla testa della spedizione da tanto tempo annunciata. Il giorno 3 di febbrajo recossi processionalmente alla Chiesa, preceduto dagli araldi d'armi dell'Impero e portando la spada sguainata in mano. Il suo cancelliere, Matteo Langen, vescovo di Gurck, salì sopra un'alta tribuna per annunziare al popolo, che Massimiliano entrava in Italia alla testa del suo esercito, e che recavasi a Roma a prendere la corona imperiale. Infatti l'imperatore eletto partì da Trento nella seguente notte con mille cinquecento cavalli e quattro mila fanti tirolesi, mentre che il marchese di Brandeburgo con cinquecento cavalli e due mila fanti avanzavasi per un'altra strada sopra Roveredo. Ma il marchese, non avendo potuto entrare in questa città, tornò subito a dietro; e Massimiliano, dopo aver guastato il territorio dei sette comuni, dove alcuni montanari quasi indipendenti vivevano sotto la protezione della repubblica di Venezia, il quarto giorno si allontanò bruscamente dai confini, e tornò a Bolzano, senza che si potesse spiegare la bizzarria di questo movimento retrogrado[420].
Dalla banda del Friuli quattrocento cavalli e cinque mila fanti austriaci entrarono nel territorio di Cadore, i di cui abitanti erano affezionatissimi ai Veneziani. Mentre che i Tedeschi assediavano in quel paese alcune rocche, Massimiliano andò a raggiugnerli con sei mila fanti: scorse circa quaranta miglia di paese al di là dei confini veneti, commettendovi grandissimi guasti; ma tutt'ad un tratto tornò con celerità ad Inspruck in sul finire di febbrajo per impegnarvi tutti i suoi giojelli; giacchè il danaro, che avea creduto bastante per tutta la campagna, era di già consunto. Quando giunse in quella città, seppe che gli Svizzeri, non ricevendo da lui danaro, avevano dato licenza al re di Francia di levare soldati nel loro paese, e che infatti cinque mila Svizzeri al soldo di Lodovico XII e tre mila al soldo della repubblica veneziana erano di già entrati in Italia. Massimiliano irritato volò ad Ulma per addirizzarsi alla lega delle città imperiali della Svevia, e persuaderla ad attaccare gli Svizzeri; nello stesso tempo esortava gli elettori a continuargli per altri sei mesi il servigio delle truppe dell'impero, perciocchè i sei primi mesi che gli erano stati accordati erano quasi terminati[421].
Intanto i Tedeschi, ch'egli aveva lasciati a Trento, erano rientrati nella valle del Cadore in numero di circa nove mila, ed avevano colà prese diverse fortezze; ma in appresso si lasciarono chiudere dall'Alviano, il quale, prevenendoli colla consueta sua rapidità, occupò i passaggi per i quali pensavano di ritirarsi, e fece custodire tutti i sentieri delle montagne da contadini affezionati ai Veneziani.
I Tedeschi, formando un battaglione quadrato, nel di cui centro posero le loro donne ed equipaggi, tentarono di aprirsi un passaggio il 2 di marzo: accanita fu la battaglia e d'infelice riuscita; essendo più di mille di loro rimasti sul campo, e gli altri tutti fatti prigionieri. Dopo questa vittoria l'Alviano attaccò la fortezza di Pieve di Cadore e la riconquistò. Carlo Malatesta, uno de' signori di Rimini spogliati dal papa, fu ucciso in questa battaglia[422].
Essendosi in tal guisa dissipata l'armata austriaca, ed allontanatosi l'imperatore per cercare nuovi soccorsi, Bartolommeo d'Alviano entrò negli stati di Massimiliano con intenzione di spogliarlo di tuttociò che possedeva sul golfo di Venezia. Infatti in pochi giorni prese Gorizia, che fortificò per servire di difesa all'Italia contro i Turchi; Trieste, cui impose una grossa contribuzione, onde punirla dei contrabbandi co' quali si era arricchita; Pordenone, che poi la repubblica diede in feudo allo stesso generale per ricompensarlo de' suoi servigj; ed all'ultimo Fiume ai confini della Schiavonia[423].
I Tedeschi, che non davano unione alle loro operazioni, tentarono nello stesso tempo di avanzarsi dalla banda di Trento e del lago di Garda, ed ottennero qualche vantaggio a Calliano. Ma due mila Grigioni, che si trovavano nella loro armata, essendosi ritirati, perchè mal pagati, anche gli altri dovettero allontanarsi. Le due armate, veneziana ed austriaca, separate dalla muraglia che taglia la valle dell'Adige tra Pietra e Calliano, si limitarono per qualche tempo ad osservarsi, non facendo che qualche leggiera scaramuccia; in appresso la veneziana ritirossi a Roveredo, e l'altra a Trento, ove si disperse. Massimiliano non aveva mai potuto avere nello stesso tempo nella sua armata più di quattro mila uomini di truppe dell'impero: quando giugneva un contingente per cominciare il suo servigio, l'altro aveva di già terminati i suoi sei mesi e si ritirava. La dieta convocata in Ulma era stata prorogata; e Massimiliano, invece di tornare alla sua armata, erasi recato a Colonia. Per alcune settimane non si seppe nemmeno dove fosse; ed a ragione indispettito per tanti disastri, egli sarebbesi volentieri sottratto agli sguardi di tutto il mondo. Se i Francesi, che si erano uniti a Roveredo all'armata veneziana, avessero voluto attaccare Trento, potevano facilmente spingere molto avanti le loro conquiste; ma il Trivulzio dichiarò che aveva ricevuto ordine dal re di difendere i passaggi dell'Italia, e non di attaccare la Germania[424].
Finalmente il prete Luca Renaldi, comunemente chiamato il prete Luca, che aveva la confidenza di Massimiliano, recossi a Venezia per fare alcune proposizioni di pace. Offriva ai Veneziani una tregua di tre mesi, che venne altamente da questi rifiutata, quando seppero che l'imperatore non voleva comprendervi la Francia. Troppo ruinati erano gli affari di Massimiliano, perchè egli potesse star fermo in tale pretesa; acconsentì ad una tregua di tre anni per l'Italia. Ma Lodovico XII vi si rifiutò perchè voleva farvi comprendere il duca di Gueldria. Il senato di Venezia non aveva veruna alleanza con questo duca, e risguardava la sua contesa come cosa affatto estranea alla politica d'Italia, e ad una guerra trattata soltanto ai confini della penisola. Dopo di avere fatto calde istanze agli ambasciatori di Francia di accettare la tregua tal quale veniva offerta, alfine l'accettò egli stesso semplicemente, e senza nemmeno aspettare la risposta di Lodovico XII, cui era stato spedito un corriere. Questa tregua si pubblicò il 7 di giugno ne' due campi: doveva essere comune a tutti gli alleati, che dall'una o dall'altra parte sarebbero nominati entro tre mesi, e non comprendere che l'Italia. Massimiliano nominò subito il papa, i re di Spagna, d'Inghilterra e d'Ungheria, e tutti gli stati dell'impero; i Veneziani nominarono i re di Francia e di Spagna, e tutti gli stati italiani loro alleati. Tutte le conquiste fatte nella presente guerra dovevano essere conservate da chi le aveva fatte; e l'una e l'altra potenza riservavasi il diritto d'innalzare entro la linea dei suoi confini tutte le fortificazioni che troverebbe convenienti[425].
Una guerra che pareva minacciasse tutta l'Italia di una nuova invasione degli oltremontani, era così terminata in pochi mesi; ma per altro lasciava dietro di sè molti semi di malcontento. Massimiliano sentivasi profondamente umiliato d'avere annunciate così grandi cose, di averne eseguite di così piccole, e di avere in due mesi perduti tutti i porti di mare ch'egli possedeva sul golfo Adriatico, porti così preziosi pel commercio de' suoi stati. I Veneziani avevano fatto esperimento della gelosia de' Francesi, ed erano irritati per l'abbandono del Trivulzio, che non aveva voluto ajutarli a proseguire le loro conquiste. Finalmente Lodovico XII affettava di essere vivamente offeso perchè i Veneziani avessero sottoscritta la tregua contro il parer suo, e senza pure aspettare l'ultima sua risposta.
Per altro niuno aveva meno ragione di Lodovico XII di lagnarsi in questa occasione. Non solo i Veneziani avevano usato dei loro diritti, consultando piuttosto i proprj che i di lui interessi, e ricusando di continuare una guerra senza scopo, per fare una diversione a favore del duca di Gueldria con cui non avevano che fare; essi conoscevano abbastanza la perfida condotta del re di Francia per non credersi obbligati ad avere troppi riguardi alle sue raccomandazioni.
Lodovico XII era legato coi Veneziani da molti trattati, quando avea conchiuso con Massimiliano il trattato di Blois, in forza del quale egli e l'imperatore stipulavano la divisione degli stati di quella repubblica; e non aveva verun motivo di lagnarsi della medesima. Di nuovo le si era legato colle più strette relazioni, nello stesso tempo in cui nel precedente anno aveva avuto con Ferdinando l'abboccamento di Savona, ed aveva cercato d'interessare nella stessa divisione questo secondo potentato. In mezzo alle più amichevoli negoziazioni, in seno alle più intime alleanze Lodovico XII non cessava di aguzzare la spada con cui ferì la repubblica nell'istante della lega di Cambrai. Verun altro motivo non potrebbe darsi a questa perfida condotta, se non che i governi assoluti risguardano sempre le repubbliche come fuori del diritto delle genti, e cercano ogni occasione di distruggerle.
Infatti nello stesso tempo la condotta di Lodovico XII verso la seconda, in potenza, delle repubbliche d'Italia, non era quasi meno falsa nè meno ingiusta. Malgrado la sua alleanza coi Fiorentini, malgrado lo zelo che questo stato aveva sempre mostrato per il partito francese, egli protraeva la conquista di Pisa, che i Fiorentini erano in sul punto di effettuare; contrariava tutte le loro operazioni militari, ed all'ultimo metteva sfacciatamente a prezzo il suo assenso alla riduzione di una città, ch'egli medesimo risguardava come ribellata, e che più volte erasi obbligato a far rientrare nell'ubbidienza.
Dopo la conferenza del precedente anno col re Ferdinando, Lodovico XII aveva cominciato a riguardare come oggetto di speculazione finanziera la sommissione di Pisa. I Pisani, indeboliti da così lunga guerra, più non potevano ricevere soccorsi da Genova dopo la scossa provata da quella città, e pochissimi e nascostamente ne ricevevano da Lucca e da Siena. Sentivano avvicinarsi la loro ultima ora; i contadini rifugiati in città, e che in allora formavano più della metà della sua popolazione, cominciavano a sospirare l'istante di tornare ai loro campi, e la loro ostinazione più non era quella di prima. Pisa sarebbe probabilmente caduta fino dal 1507 in potere dei Fiorentini, se i due potenti monarchi, che in allora dettavano alternativamente le leggi all'Italia, non avessero voluto farsi pagare un avvenimento che non doveva dipendere da loro. Il re d'Arragona dichiarò agli ambasciatori fiorentini, che gli furono mandati per complimentarlo, che Lodovico XII aveva in lui rimessi gli affari di Pisa, e ch'egli prenderebbe quella città sotto la sua protezione, e non ne permetterebbe la conquista, se prima la repubblica non prometteva ai due re un onesto compenso pel loro assenso. Lodovico XII confermò questo discorso; ed all'ultimo i due re convennero di domandare ognuno cinquanta mila ducati. Promettevano a tale prezzo di mandare in Pisa una guarnigione, che i Pisani avrebbero ricevuta senza diffidenza, che dopo otto mesi avrebbe aperta la città ai Fiorentini. Questa proposizione non fu accettata, ma impedì ai Fiorentini di fare in quell'anno guastare il territorio di Pisa[426].
Dopo la partenza dei due re, i Fiorentini ricominciarono le loro spedizioni nel piano di Pisa: anzi fu questa la prima impresa della milizia ch'essi avevano ordinata in battaglioni dietro proposta del Macchiavelli, secondo i principj da lui esposti nel suo Trattato dell'Arte della guerra. La legge ch'egli medesimo aveva redatta intorno all' Ordinanza Fiorentina fu approvata nel gran consiglio il 6 dicembre del 1506. Un corpo di dieci mila contadini venne scelto in tutto il territorio della repubblica, vestito per la prima volta dell'assisa fiorentina, con abito bianco, con calzoni per metà bianchi e rossi, ed armato come le truppe svizzere e tedesche, e come quelle esercitato tutti i giorni di festa. Questa milizia, che fu detta l' Ordinanza costò alla repubblica molto meno che non costavano le truppe straniere, e si mostrò molto più disciplinata ed ubbidiente ai suoi ufficiali[427].
Tostocchè Lodovico XII si trovò liberato dall'inquietudine che gli aveva cagionato l'attacco di Massimiliano, spedì ai Fiorentini Michele Rizio per rimproverar loro le negoziazioni avute coll'imperatore. Essi avevano mostrato, diceva egli, soverchia premura di pagare un tributo alla camera imperiale, quando il loro danaro doveva essere adoperato contro il re di Francia o suoi alleati. A tale oggetto essi avevano spedito fino in Germania i loro deputati, e nello stesso tempo con un imprudente attacco contro di Pisa avevano arrischiato di accendere la guerra nel centro dell'Italia, e di fare in tal guisa una pericolosa diversione alle armi del re[428].
I Fiorentini sentirono ciò che voleva dire un tale messaggio, e tali lagnanze che non avevano verun fondamento. Pisa trovavasi ridotta alle ultime estremità; il partito de' campagnuoli, che desiderava la pace, si faceva ogni giorno più numeroso; i nobili ed i cittadini, che avevano difesa l'indipendenza della loro patria con una irremovibile costanza, in gran parte distrutti dal ferro nemico, ruinati, invecchiati, scoraggiati, più non opponevano la medesima resistenza. Avvicinavasi l'istante in cui Pisa doveva volontariamente arrendersi ai Fiorentini; ma Lodovico voleva approfittare della miseria di quella città per vender loro la sua sommissione; e perciò cercava contro di loro una lagnanza priva di fondamento, per mettere in seguito a più alto prezzo la sua condiscendenza. La signoria rispose, che nel suo trattato col re di Francia aveva espressamente riservati i diritti dell'impero; che lo stesso Lodovico XII aveva così ben riconosciuti questi diritti, che non si era in verun modo obbligato a proteggere i Fiorentini contro Massimiliano; che dunque era stato necessario di cercar di regolare la legittima prestazione dovuta dalla repubblica all'imperatore quando riceveva la corona imperiale; che per altro i loro ambasciatori avevano schivato di nulla conchiudere con Massimiliano; che non gli avevano dato danaro, e che soprattutto non avrebbero mai sottoscritta con lui una convenzione, che potesse riuscire pregiudicievole alla Francia; che rispetto alla loro spedizione contro di Pisa, doveva tanto meno inquietare i loro vicini, in quanto che erasi fatta senza artiglieria, e che si era ristretta al guasto delle messi; che nel loro trattato colla Francia, nel 1502, si erano espressamente riservati il diritto di continuare la guerra contro di Pisa, e che altronde non sapevano comprendere per qual cagione volesse il re più particolarmente interessarsi per quella città dopo che aveva somministrati soccorsi ai Genovesi contro di lui, e staccarsi dai Fiorentini che gli erano sempre stati fedeli[429].
A tali rimproveri, come i Fiorentini lo avevano presagito, tennero subito dietro le proposizioni. Michele Rizio offrì di dar loro il possesso di Pisa per un determinato prezzo da convenirsi; ma Ferdinando il cattolico si ostinava a volere intervenire nel contratto e ritrarne profitto. Per tale motivo mandò un ambasciatore in Toscana, che prima recossi a Pisa per esortare quegli abitanti a difendersi, facendo loro sperare i soccorsi del re. In appresso quest'ambasciatore passò a Firenze, e cominciò a trattare colla signoria in concorso dell'ambasciatore francese. Così questa lunga guerra, che poteva essere terminata dalle sole armi toscane, diventava un oggetto di negoziati tra la Francia e la Spagna. Bentosto tali negoziazioni, invece di continuarsi in Toscana, si portarono a Parigi; ed i popoli d'Italia ebbero un'altra occasione di accorgersi che i proprj destini più non dipendevano da loro, poichè le proprie loro liti, sostenute colle sole loro armi e coi soli loro mezzi, dovevano decidersi dagli stranieri[430].
Frattanto, siccome la miseria di Pisa andava crescendo, i re di Spagna e di Francia, temendo di perdere l'oggetto del loro traffico, gettarono più scopertamente la maschera. I Fiorentini avevano il 25 di agosto preso al loro soldo Bardella, corsaro di Porto Venere, che pel pagamento di sei cento fiorini al mese, obbligavasi a chiudere la foce dell'Arno con tre piccoli vascelli[431]. Questi fece così bene il dover suo, che Chaumont, governatore del Milanese, scrisse in Francia di apporvi rimedio, altrimenti Pisa caderebbe da sè in mano ai Fiorentini. Il re gli ordinò subito di mandarvi Giovan Giacopo Trivulzio con trecento lance, ond'essere sicuro che la città non si arrenderebbe prima che la Francia non si fosse fatta pagare il suo assenso[432]. I Fiorentini, confusi nel vedere che Lodovico XII, senza avere riguardo all'espresso tenore dei trattati, spediva soccorsi contro di loro, suoi alleati, a que' medesimi che di fresco si erano mostrati non meno suoi nemici che nemici loro, si rassegnarono finalmente a ricomprare le proprie conquiste dalle mani di coloro che si arrogavano il diritto di venderle. Offrirono cento mila ducati divisibili tra le due corti, purchè l'una corte e l'altra si obbligasse a non attraversare la loro intrapresa. Lodovico XII non volle vendere il suo assenso a meno di cento mila ducati per la sola sua parte, e non pertanto insistette perchè Ferdinando avesse dal canto suo una somma di danaro. All'ultimo i Fiorentini promisero cento mila ducati al re cristianissimo, e cinquanta mila al re cattolico; e perchè l'ultimo non si offendesse di questa diversità posta tra di loro, la fecero oggetto di un trattato segreto, col quale si riconobbero debitori di questi altri cinquanta mila ducati sotto mentito pretesto. Questa convenzione fu sottoscritta il 13 marzo del 1509: e perchè in quell'istante tutte le potenze d'Italia erano occupate da troppo più gravi interessi in occasione della lega di Cambrai, lasciarono ai Fiorentini la libertà di proseguire la guerra contro Pisa[433].
In novembre del 1508 Bardella era stato richiamato dal servizio fiorentino per espresso ordine della signoria di Genova. Lodovico XII aveva fatto dare quest'ordine per procurare un breve respiro ai Pisani, finchè fosse terminata la sua negoziazione; ma quando ebbe venduto il suo assenso, Bardella tornò al servigio della repubblica fiorentina, e la debole sua scorta bastò per chiudere la foce dell'Arno. Dal canto loro i Lucchesi non avevan cessato di soccorrere i Pisani con armi e con vittovaglie. Il commissario della repubblica presso l'armata fiorentina ebbe ordine dalla signoria di farne vendetta. Egli entrò sul territorio lucchese, e tutto lo guastò, recando con questa spedizione alla repubblica di Lucca il danno di oltre dieci mila fiorini[434], e giovò pure a farle sentire la sua debolezza ed il pericolo di provocare ancora il risentimento dei suoi potenti vicini, e la determinò a cercare finalmente di buona fede l'alleanza di Firenze. Il trattato tra queste due repubbliche fu sottoscritto l'undici di gennajo del 1509. I Lucchesi si obbligarono d'impedire ai Pisani ogni comunicazione col loro territorio, e di impedire essi medesimi ai loro contadini, troppo parziali per Pisa, di portare soccorsi a quella città. Se questa guerra doveva prolungarsi, il trattato tra Firenze e Lucca non doveva durare che tre anni; ma se Pisa cadeva entro l'anno, l'alleanza tra i Fiorentini ed i Lucchesi doveva tenersi rinnovata per dodici anni[435].
In febbrajo i Genovesi tentarono ancora di spedire a Pisa un sufficiente carico di grani per alimentare quella sgraziata popolazione fino al prossimo raccolto: si presentarono all'imboccatura dell'Arno un grande vascello, quattro gallioni, quindici brigantini e trenta barche; ma questa piccola flottiglia trovò così ben chiuse le foci del Serchio e del fiume Morto, come lo era quella dell'Arno. Tre campi trincerati erano stati stabiliti dai Fiorentini a san Piero in Grado, a Bocca di Serchio ed a Mezzana; un ponte sull'Arno e delle palafitte negli altri fiumi, con bastioni coperti d'artiglieria, chiudevano assolutamente il passo. Il corsaro Bardella dava la caccia ai più piccoli battelli che tentavano di avvicinarsi alla riva: furono presi tre brigantini genovesi carichi di frumento, e gli altri tornarono a Lerici affatto convinti che più non potevansi soccorrere i Pisani[436].
I magistrati di Pisa e coloro che mai non si erano smossi dalla risoluzione di difendere fino alla morte l'indipendenza della loro patria, più non sapevano come resistere alle grida del popolo ed in particolare de' contadini, che perivano di fame e domandavano di trattare. Per soddisfarli furono in marzo costretti di rivolgersi al signore di Piombino, implorando la sua mediazione. Giacomo d'Appiano, signore di Piombino, invitò diffatti i Fiorentini a mandargli negoziatori; ed il Macchiavelli, che di già trovavasi all'armata passò a Piombino il 14 di marzo, per trovarvi i deputati pisani; ma non tardò ad avvedersi che questi non volevano che guadagnar tempo e non avevano intenzione di conchiudere. Avevano essi chieste guarenzie pel mantenimento dell'assoluta amnistia, che loro prometteva Firenze; e quando il Macchiavelli gli strinse a spiegarsi, dichiararono che altra non ne conoscevano che quella di custodire essi medesimi la loro città, abbandonando ai Fiorentini tuttociò che era fuori delle mura. A tale inchiesta fu rotta la conferenza ed il Macchiavelli tornò al campo per affrettare gli attacchi[437].
A Pisa mancavano affatto il vino, l'olio, l'aceto ed il sale; il frumento vi si vendeva due scudi d'oro ogni stajo, o circa sessanta franchi al quintale. Più non v'era cuojo per fare scarpe, ed i soldati ed i cittadini camminavano a piedi nudi[438]. L'ora di Pisa era finalmente giunta. Dopo quattordici anni e sette mesi di guerra, sostenuta con maraviglioso coraggio, con una costanza e con una rassegnazione di cui forse non trovasi esempio in altri popoli, convenne cedere alla necessità. Le minute circostanze di questa lunga lotta non ci furono trasmesse che dai nemici dei Pisani; niuna cronaca contemporanea di quella città non fu scritta nè conservata; veruno storico ci lasciò un quadro degli sforzi interni, delle deliberazioni, de' consigli, de' sacrificj dei cittadini. Appena ci fu conservato il nome di tre o quattro Pisani in un'epoca in cui tanti uomini meritarono per il loro attaccamento, pel loro valore, per l'eloquenza, per la destrezza delle loro negoziazioni, un'eterna fama; pure a traverso alle prevenzioni nemiche di coloro che soli ci trasmisero la memoria di questi avvenimenti, si scuopre una grandezza ed un eroismo che non trovansi presso verun'altra città d'Italia.
Tarlatino, che con tanto valore comandò la guarnigione di Pisa, avendo il venti di maggio fatto chiedere salvacondotti al campo fiorentino, quattro deputati di Pisa si recarono presso i tre commissari della repubblica, domandando loro passaporti per dodici ambasciatori, che la loro patria aveva finalmente determinato di spedire a Firenze per capitolare. Questi deputati non lasciarono dubbiezze intorno alla sincerità delle loro intenzioni; ed i tre commissarj, Antonio Filicaja, Alamanno Salviati e Nicola Capponi, che colla instancabile loro attività avevano ridotta Pisa a tali estremi, furono altresì i primi a far conoscere ai Pisani che il loro ardore per la riuscita poteva combinarsi coll'umanità e colla più nobile generosità. Le negoziazioni, trattate ora in Firenze ora nel campo, durarono diciotto giorni, nei quali i Pisani sotto mille pretesti visitavano il campo fiorentino, onde ottenere alimenti dall'ospitalità dei soldati e portarli alle loro famiglie[439].
Finalmente il trattato sottoscritto a Firenze il 4 di giugno e ratificato a Pisa da tutto il popolo, il 7, ebbe esecuzione nel susseguente giorno. L'armata fiorentina entrò in Pisa l'8 di giugno del 1509 e restituì l'abbondanza agli assediati estenuati. Non solo furono perdonate tutte le offese e restituiti ai Pisani tutti i loro poderi; ma la signoria fece ancora pagare ad ogni cittadino le rendite, i frutti ed il prezzo degli annui affitti, che erano stati percetti sul territorio pisano. Lo storico Giacomo Nardi, che fu egli stesso incaricato di regolare questi conti, ci accerta che la signoria fiorentina lo fece con tanta liberalità, che pareva piuttosto ricevere che dare la legge[440]. La capitolazione fu egualmente liberale per ogni rispetto; confermò tutti gli antichi privilegj e tutte le magistrature indipendenti del comune di Pisa; restituì ai Pisani la franchigia del commercio e delle manifatture di cui erano stati in addietro privati; loro aprì un appello per le cause criminali avanti ai medesimi tribunali che giudicavano i Fiorentini, ed alleviò, per quanto poteva farlo una capitolazione, il dolore di perdere la loro indipendenza[441].
Ma nè l'orgoglio de' Pisani, nè il loro patriottismo potevano accomodarsi alla servitù. Tutti coloro che pel loro nome godevano di qualche considerazione all'estero, che colle loro ricchezze potevano conservare qualche indipendenza, o che coi loro talenti militari e col loro valore potevano acquistare la ricchezza che loro mancava, abbandonarono una patria fatta serva. I Torti, gli Alliati e molti altri rifugiati passarono a Palermo, ove dopo tale epoca trovaronsi quasi tutti i nomi della nobiltà pisana; i Buzzacarini, ramo della casa Sismondi, passarono a Lucca con molti loro concittadini; altri cercarono un asilo in Sardegna; e finalmente un numero ancor maggiore andò a raggiugnere l'armata francese, che aveva di già invaso il territorio veneziano. Rinieri della Sassetta e Pietro Gambacorti avevano adunati cento cinquanta fanti pisani in Lombardia[442]. Una folla di altri, tra i quali un ramo di Sismondi, si posero sotto le medesime insegne. Rinnovando coi capitani francesi quei legami d'ospitalità, che con tacito studio avevano essi cercato di stringere in occasione del passaggio di Carlo VIII, e che avevano più volte rendute inutili le negoziazioni del gabinetto e salvata Pisa per opera delle armate medesime che l'assediavano, si fecero una patria del campo francese, rimpiazzarono la libertà civile coll'indipendenza delle armi, trovarono nella gloria qualche conforto al loro esilio, e senza avere un sicuro domicilio continuarono a sentirsi come a casa loro in tutta l'Italia, fino all'epoca in cui l'armate francesi ne furono scacciate, ed in cui queste proscritte famiglie andarono a cercare nelle province meridionali della Francia una immagine del bel clima della Toscana cui esse avevano rinunciato[443].
CAPITOLO CV.
Lega di Cambrai, battaglia di Vailate o di Agnadello, conquista di tutto lo stato di terra ferma dei Veneziani.
1508 = 1509. La lega conclusa a Cambrai tra le grandi potenze dell'Europa per attaccare e spogliare i Veneziani, fu, dopo le crociate, la prima intrapresa eseguita di concerto, con uno scopo comune da tutti gli stati inciviliti. Per la prima volta i padroni delle nazioni convennero di dividere fra di loro uno stato indipendente; per la prima volta fecero essi rivivere col sussidio d'una pedantesca erudizione inveterate pretese; finalmente per la prima volta riclamarono gl'imprescrittibili diritti della loro legittimità. Le crociate avevano mostrato un'unione europea fondata sullo zelo e sull'entusiasmo religioso; nella lega di Cambrai si vide un nuovo accordo europeo, che altro principio non aveva fuorchè il personale momentaneo interesse dei forti che spogliavano il debole, non altra sanzione che le pretese da gran tempo abbandonate di coloro che risguardavano i loro titoli come non caduchi. Pure gli è a questo avvenimento che può attribuirsi l'origine del diritto pubblico, che da tre secoli e fino ai nostri giorni ha governata l'Europa. Questo diritto cominciò colla più clamorosa ingiustizia; e la scienza diplomatica, che in qualche modo si vide nascere nel sedicesimo secolo, fu dopo tal epoca adoperata il più delle volte a somministrare pretesti alla rapacità ed alla mala fede.
Non è questa l'idea che abbiamo costume di formarci del diritto pubblico o internazionale: l'umana società avrebbe bisogno di un'altra guarenzia; avrebbe bisogno di una legislazione che regolasse le nazioni nelle relazioni fra di loro, in quel modo che il diritto civile regge i cittadini in una stessa nazione. I nostri desiderj ci persuadono agevolmente che abbia esistito ciò che noi desideriamo. Qualunque volta proviamo grandi abusi di potere, confrontiamo avidamente i presenti tempi, in cui trionfa l'ingiustizia, con quel passato, che ci dipinge l'immaginazione, in cui non si ricorreva alla guerra che per dare esecuzione a diritti di già stabiliti dai trattati e in cui la conquista medesima non somministrava pretese al possesso ove non fosse sanzionata da legittimi titoli. Ma noi cerchiamo invano nella storia quell'epoca in cui la giustizia prendeva il luogo della forza, ed in cui la potenza dei trattati o degli imprescrittibili diritti incatenava la stessa violenza.
Tre basi assolutamente diverse sono date al diritto pubblico; i loro principj sono direttamente contraddittorj, e fino a tanto che la scelta fra questi principj venga fissata di concerto da tutte le nazioni, ciaschedun sovrano troverà sempre il modo d'accomodar la propria causa all'uno o all'altro sistema, ed egli sarà ancor sempre impossibile, com'è stato finora, d'intendersi sopra alcun fatto o sopra alcuna conseguenza. Queste tre basi sono la legittimità imprescrittibile, il diritto dei trattati, e le convenienze nazionali. Per la prima volta, all'occasione della lega di Cambrai, questi tre principj furono messi in opposizione. L'imperatore ed il re di Francia annunziarono che prendevano le armi per ricuperare i loro diritti imprescrittibili, l'uno sulle terre dell'impero della Venezia, e l'altro sul ducato di Milano. I Veneziani difendendosi invocavano il diritto pubblico dei trattati che loro guarentivano tutti i loro possedimenti di terra ferma. Il papa, dopo avere egli medesimo ricuperato ciò che pretendeva essere di suo imprescrittibile diritto, più non fece valere nel secondo anno della guerra che le convenienze nazionali, l'indipendenza dell'Italia, dalla quale voleva scacciare i Barbari; la sovranità di un popolo sul proprio territorio, ed il vantaggio di una nazione che non può essere vincolata dal primitivo contratto forse favoloso co' suoi sovrani, nè dai trattati impostile dalla forza.
Ciascheduno di questi sistemi politici è in sè stesso difettoso, e nella sua applicazione soggetto a grandi difficoltà: ma quanto non lo diventano ancora di più, allorchè confondonsi l'uno coll'altro; allorchè, dopo avere riclamato a favor suo diritti imprescrittibili, si pretende poi di limitare quelli degli altri coi trattati, o di spiegarli dietro l'interesse dei popoli. Pure niuna potenza non si è mai fedelmente attenuta all'una o all'altra di queste ruinose basi, e non ha confessate tutte le conseguenze che discendevano dal primo principio: perciò la scienza del diritto pubblico altro mai non è stata che un vano studio di sofismi; col suo ajuto sonosi risvegliate le passioni dei popoli onde secondassero l'ambizione dei loro governi, e col mezzo di questi si è dissimulata agli occhi dei primi l'ingiustizia dei pretesi diritti.
Lodovico XII, quando aveva voluto togliere a Lodovico Sforza il ducato di Milano, aveva egli medesimo cercato l'assistenza dei Veneziani, ai quali per ricompensa aveva anticipatamente accordato Cremona e la Ghiara d'Adda, che effettivamente rimasero in potere della repubblica allorchè i Francesi furono padroni del Milanese. Pure Lodovico XII, oramai riconosciuto quale legittimo successore di Valentina Visconti, desiderava quelle province che pretendeva inalienabili, credendo di conservare imprescrittibili diritti sopra possedimenti da lui medesimo ceduti. Ma ciò non basta, i Visconti, de' quali egli aveva raccolta l'eredità, avevano essi medesimi, in occasione delle loro guerre coi Veneziani, perdute Brescia e Bergamo, che prima si risguardavano come parte del ducato di Milano; e sebbene queste città colle loro province fossero incorporate alla repubblica di Venezia fino dal 1426, e che gli stessi Visconti non le avessero possedute così lungamente quanto i Veneziani, Lodovico XII le risguardava come comprese nella sua inalienabile eredità, pretendendo conservare sopra di loro tali diritti, che niun tempo, niun trattato, niuni prestati servigj, potevano distruggere.
Dal canto suo Massimiliano si risguardava come il legittimo successore non solo de' più potenti monarchi germanici, ma ancora degli imperatori romani: perciò credevasi autorizzato ad attivare tutti i diritti che avevano esercitati Federico Barbarossa ed Ottone il Grande, e lo stesso Trajano ed Augusto. Parevagli che la repubblica di Venezia si fosse innalzata sulle ruine dell'impero, e credevasi chiamato a spogliarla di queste antiche usurpazioni. A' suoi occhi, Treviso, Padova, Verona e Vicenza erano sempre terre dell'impero, e questa opinione, spalleggiata dall'autorità degli antiquarj, era in allora generalmente ricevuta, e niuno storico del tempo dubitò de' diritti di Massimiliano. Pure questi diritti non erano fondati che sopra un'antica conquista. I monarchi tedeschi non avevano potuto mantenere più di cento cinquant'anni un dominio dubbioso e spesso interrotto: in appresso, pel corso di tre secoli, alcune repubbliche ed i principi di Carrara e della Scala avevano colle armi difesa la loro sovranità; loro era finalmente succeduta da circa un secolo la repubblica di Venezia; ma in questo sistema i potenti non possono mai perdere i loro diritti, ed i deboli mai non possono acquistarne.
Tuttavolta è difficile il farsi illusione sull'assurdità di questo sistema d'imprescrittibile legittimità, che verun trattato, veruna convenzione tra gl'interessati, veruna umana autorità non può cambiare. Fermando ogni movimento nelle cose di questo mondo, respingendo tutti i progressi, tutte le innovazioni, cotale sistema riconduce gli uomini ad uno stato primitivo, e perciò sconosciuto; ad uno stato, che avendo preceduto lo sviluppo delle società ed i loro nuovi interessi, non potrebbe essere mantenuto senza rendere stazionarj, l'incivilimento, la popolazione, le cognizioni e lo stesso ordine politico. I diritti che Massimiliano e Lodovico XII pretendevano di attivare contro i Veneziani, erano stati prescritti da un tranquillo possesso, che rispetto ad alcune province contava due e tre secoli. Ma se niuna durata di possesso, nè veruna specie di trattati potevano fondare i diritti de' Veneziani, gli antichi sovrani rappresentati da Massimiliano e da Lodovico XII non avevano potuto acquistarne di più cogli stessi mezzi. Converrebbe provare che la legittimità non abbia mai cominciato, onde concluderne che non deve giammai aver fine; altrimenti le medesime cause che avevano dato origine ai diritti degli imperatori e dei re di Francia, potevano altresì dare origine ai diritti dei loro successori. D'uopo è inoltre convenire che il principio della legittimità o non esiste per chicchessia, o esiste egualmente in tutte le linee della sovranità. L'espropriazione del più piccolo principe non ferisce meno questo principio che quella del più grande monarca. Venezia, che si presentava come il più antico stato della cristianità, come la sola legittima figlia della repubblica romana, poteva allegare diritti anteriori a quelli di tutti i sovrani. Le famiglie de' principi di Padova e Verona, cui era succeduta, non erano meno legittime che quelle dei re di Francia e di Germania. O tutti dovevano essere ristabiliti ne' loro antichi diritti, o niuno poteva pretenderlo.
Il sistema del diritto dei trattati è certamente assai meno assurdo che quello della legittimità. Non avendo le nazioni giudici al disopra di loro, nè altra autorità che decida tra di loro, tranne la forza, le loro reciproche convenzioni possono soltanto mettere fine alle loro contese. Esse medesime devono avere la facoltà di obbligarsi, o di rinunciare ai loro diritti; che se non fosse niuno l'avrebbe per loro, e le guerre sarebbero eterne. La violenza loro fatta non potrebbe annullare i loro contratti senza annullare nello stesso tempo tutti i possibili trattati; imperciocchè ogni trattato è opera della forza o della minaccia, ogni trattato è stato fatto per terminare la guerra o per evitarla, ogni trattato è una concessione che il più debole fa al più forte, sagrificando una parte de' suoi diritti per salvare il rimanente, ogni trattato è una concessione di questo rimanente che il più forte fa al più debole in ragione de' suoi mezzi di resistenza.
Ma se il diritto de' trattati non è che una conseguenza del diritto del più forte, è difficile che lungamente si conservi obbligatorio dopo che la bilancia delle forze avrà cambiato. Una nuova lotta, il di cui risultamento sarà diverso, darà luogo ad un nuovo trattato non meno legittimo del precedente: e per tal modo si distruggerebbe ogni idea del giusto e dell'ingiusto, e diventerebbe impolitica ogni moderazione del vincitore, poichè tutte le forze che col favore di un trattato lascerebbe al suo nemico, potrebbero in breve rivolgersi contro di lui.
La terza base del pubblico diritto, l'interesse dei popoli, è la sola che sostener possa una profonda disamina, e che possa nello stesso tempo ammettere alcune parti degli altri due sistemi. Richiede l'interesse de' popoli la conservazione del loro riposo; e per guarentire questo riposo ammette la legittimità non come un diritto, ma come una presunzione della volontà nazionale. Ammette ancora la prescrizione non come un diritto, ma come una presunzione della vicendevole soddisfazione delle parti. Ammette i trattati, siccome l'unico mezzo di disarmare gli odj popolari, e di salvare il vinto dalla rabbia del vincitore. Ammette ancora la violazione di questi medesimi trattati, come unico e necessario rimedio, quando condizioni crudeli o disonoranti furono imposte dall'abuso della forza. Questa violazione può allora diventare giusta, perciocchè nè il governo che ha stipulato aveva il diritto di legare la nazione ad una cosa vergognosa o ruinosa, nè l'attuale generazione aveva il diritto, pel suo proprio vantaggio, di legare la posterità. L'interesse nazionale, che lascia una speranza ai vinti cui viene imposto un disonorevole trattato, insegna ai vincitori pel loro proprio vantaggio a non abusare della vittoria.
Fu in nome di questo nazionale interesse che Giulio II pretese nel corso della presente guerra, che veruna linea legittima, veruna successione, nè verun trattato avesse potuto trasferire una parte della sovranità dell'Italia ai barbari; che ogni convenzione era nulla, quando così essenzialmente derogava all'interesse ed all'onore dei popoli; che qualunque linea di legittimità doveva essere riguardata come interrotta, quando dava per capi alle nazioni dei re, che avevano interesse non già alla loro grandezza ma all'abbassamento ed alla ruina loro. Pure i governi che abbracciarono questo sistema ne temettero sempre le applicazioni contro di loro medesimi, e sono caduti in contraddizioni inestricabili, perchè non si potesse loro domandar conto poscia dell'interesse e dell'onore dei proprj loro popoli.
Del resto per quanto fallaci fossero gli argomenti con cui i potentati colorivano le loro pretese, la cupidigia, la gelosia, ed il timore di umilianti paragoni, erano i veri motivi che loro ponevano le armi in mano. Le grandi potenze non potevano vedere senza invidia la ricchezza, la prudenza ed i prosperi costanti successi della repubblica di Venezia. Con meno di tre milioni di sudditi sopra un'estensione di territorio minore della decima parte della Francia, della Spagna o della Germania, Venezia si era innalzata al livello de' più grandi imperj; aveva sostenuti a vicenda gli attacchi de' Musulmani, de' Francesi, degli Spagnuoli e de' Tedeschi, senza dar segni di debolezza; il più vivo commercio animava la capitale, numerose manifatture fiorivano in tutte le città suddite, le campagne prosperavano mercè un'industre agricoltura, vaste opere erano state terminate per l'irrigazione di un suolo che coprivasi di ricche messi, ed i contadini erano felici. I sudditi de' vicini monarchi, paragonando la loro miseria con tanta forza, tanta opulenza e sicurezza, potevano essere tentati di chiedere da che procedesse tale diversità, e rispondere a sè medesimi: che non vedevansi in Venezia, nè lo stolido lusso di una corte voluttuosa, nè le ruberie dei ministri e de' loro subalterni, nè la petulante ignoranza e i ruinosi intrighi di giovani favoriti. Senza voler dare ammaestramenti, senza avvicinarsi alla perfezione, Venezia era una viva satira degli altri governi, i quali per istinto e senza rendersi conto de' loro motivi, da gran tempo desideravano di distruggerla.
Fino dall'anno 1504, Lodovico XII, Massimiliano e Giulio II, avevano progettata la divisione degli stati di Venezia, piantandone i fondamenti nel trattato di Blois del 22 di settembre; ma la versatilità di Massimiliano, la diffidenza di Giulio II, la gelosia di Ferdinando, avevano a quell'epoca sottratta la repubblica alla congiura contro di lei formata. Il violento risentimento di Massimiliano, dopo le sconfitte avute in principio del 1508, lo persuase a rinnovare le stesse negoziazioni, ed a ricercare l'alleanza de' Francesi, da lui detestati, per vendicarsi coll'ajuto loro della repubblica che lo aveva umiliato[444].
La tregua di tre anni, che il re de' Romani aveva di fresco conchiusa colla repubblica di Venezia e co' suoi alleati, non comprendeva il duca di Gueldria allora in guerra con lui e con suo nipote. Era questo duca protetto dalla Francia, e sotto pretesto di fare la sua pace particolare, si aprirono delle conferenze a Cambrai tra il cardinale d'Amboise, ministro e confidente di Lodovico XII, e Margarita d'Austria, figlia dell'imperatore Massimiliano e vedova del duca di Savoja. Il cardinale e la principessa avevano l'intera confidenza de' loro committenti. L'una aggiugneva tutta la forza di spirito di un uomo a tutta l'accortezza di femmina; l'altro conservava odio contro Venezia, fin dall'epoca dei due conclavi in tempo de' quali erasi trovato in Roma, e nel consiglio del re non aveva voluto ascoltare Stefano Poucher, vescovo di Sens, il quale rappresentava quanto la conservazione di Venezia fosse necessaria alla difesa del Milanese; quanto la Francia si era pochi anni prima pentita di aver chiamato un potentato straniero a dividere il regno di Napoli, e quanto doveva temersi che la progettata divisione della Lombardia la precipitasse tutta intera sotto il dominio della casa d'Austria[445].
Il cardinale d'Amboise e Margarita d'Austria, essendosi uniti a Cambrai sotto colore di trattarvi gli affari di Gueldria, non ammisero alle loro conferenze gli ambasciatori di Ferdinando il cattolico, sebbene Lodovico XII avesse comunicati a questo monarca i suoi disegni sopra Venezia nell'abboccamento di Savona, e gli avesse offerto come prezzo della sua cooperazione le città marittime della Puglia, che i Veneziani tenevano in pegno del danaro somministrato alla casa d'Arragona: non ammisero nemmeno il nunzio del papa, sebbene Giulio II, per ricuperare le sue città di romagna, fosse stato il primo a suggerire l'idea di questa associazione. Il cardinale e la principessa deliberarono soli e senza assistenti, e le loro negoziazioni diedero luogo a così vivi alterchi, che Margarita scriveva, poco mancò che il signor legato ed io non ci prendessimo pei capelli; ma queste negoziazioni furono tosto terminate da due trattati sottoscritti il 10 di dicembre del 1508. Col primo le vertenze del duca di Gueldria coll'arciduca Carlo vennero conciliate, siccome ancora quelle intorno all'eredità dei feudi dei Paesi Bassi dipendenti dalla corona di Francia; ed in conseguenza Massimiliano si obbligò di dare a Lodovico XII una nuova investitura del ducato di Milano[446]. Col secondo fu stipulata la lega dell'Europa contro Venezia, tenendosi per certi i due plenipotenziarj di ottenere la ratifica degli altri sovrani, sebbene il nunzio del papa, interpellato, rifiutasse la sua per mancanza di formale istruzione.
Questo secondo trattato, che viene propriamente indicato dal nome di Lega di Cambrai, portava: che, avendo l'imperatore ed il re di Francia determinato, dietro le istanze di Giulio II, di fare un'alleanza per portare la guerra contro i Turchi, avevano essi preventivamente convenuto: «di far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni, che i Veneziani hanno apportato non solo alla santa sede apostolica, ma al santo romano impero, alla casa d'Austria, ai duchi di Milano, ai re di Napoli ed a molti altri principi, occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella, come se cospirato avessero per il male di tutti.» Per tutte queste ragioni, aggiungono i monarchi: «noi abbiamo trovato non solo utile ed onorevole, ma ancora necessario, di chiamar tutti ad una giusta vendetta per ispegnere, come un incendio comune, la insaziabile cupidigia dei Veneziani e la loro sete di dominare[447].»
Dopo questo preambolo, il trattato porta: che i confederati agiranno di comune accordo per costringere i Veneziani a rendere alla santa sede, Ravenna, Cervia, Faenza, Rimini, Imola e Cesena. I plenipotenziarj negoziarono con tanta inavvertenza o ignoranza, che non rimarcarono neppure che Imola e Cesena erano già da lungo tempo state cedute al papa. Il trattato aggiugne: che i Veneziani renderebbero all'impero, Padova, Vicenza e Verona, ed alla casa d'Austria, Roveredo, Treviso ed il Friuli; che i Veneziani verrebbero obbligati di cedere al re di Francia, Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda e tutte le dipendenze del ducato di Milano; al re di Spagna e di Napoli, Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli, Mola e Polignano con tutte le città che avevano ricevute in pegno da Ferdinando II; al re d'Ungheria, se entrasse in quest'alleanza, tutte le città della Dalmazia e della Schiavonia, che avevano già un tempo appartenuto alla di lui corona; al duca di Savoja, il regno di Cipro; alle case d'Este e di Gonzaga, i possessi che la repubblica aveva conquistati sui loro antenati; e rispetto alle potenze che non avevano niente a pretendere sulle spoglie di Venezia, come l'Inghilterra, potrebbero ancora quelle essere ammesse a questa alleanza, se lo domandassero avanti che fosse spirato il termine di tre mesi[448].
Quanto ai modi d'esecuzione, era convenuto con questo trattato: che il re di Francia attaccherebbe in persona i Veneziani, il primo giorno d'aprile; che nello stesso tempo il papa fulminerebbe contro loro tutte le censure ecclesiastiche, e che dimanderebbe l'assistenza dell'imperatore come avvocato della chiesa. Questa domanda doveva sciogliere Massimiliano dagli impegni che aveva contratti pochi mesi avanti, e dargli motivo per attaccare i Veneziani, ciò ch'egli prometteva di fare in persona entro quaranta giorni dopo l'attacco del re di Francia. Nello stesso tempo Ferdinando e gli altri alleati dovevano, ciascuno per parte sua, impadronirsi delle province loro assegnate. Ognuno de' confederati doveva agire per conto proprio, e tener dietro alle proprie conquiste senz'obbligo di assecondare i suoi associati.
I coalizzati non si limitavano a promettersi la divisione di uno stato col quale erano legati da solenni trattati; per compiere con maggior sicurezza quest'atto d'iniquità bisognava sorprendere i Veneziani, e togliere loro la notizia del trattato che avevano sottoscritto. Contribuì a coprire lo scopo de' confederati la convenzione fatta nello stesso tempo col duca di Gueldria: i plenipotenziarj si affrettarono di partire da Cambrai, per non richiamar troppo sopra di loro l'attenzione dell'Europa; e l'ambasciatore veneziano, avendo avuto qualche sospetto del turbine che lo minacciava, Lodovico XII gli protestò che nulla erasi conchiuso a Cambrai che potesse riuscire svantaggioso alla sua repubblica, e che egli non prenderebbe mai parte in tuttociò che potesse nuocere a così antichi alleati[449].
Lodovico XII aveva senza esitanza ratificato il trattato di Cambrai. Alberto Pio, signore di Carpi, ed il vescovo di Parigi, deputati di Massimiliano, ottennero altresì immediatamente la sua ratifica; nè più lungo tempo si fece desiderare quella di Ferdinando il cattolico, che, sebbene temesse la potenza degli stranieri in Italia, e diffidasse egualmente di Massimiliano e de' Francesi, non sentendosi però abbastanza forte per difendere i Veneziani, preferì di cominciare ad ingrandirsi a spese loro[450].
L'odio che Giulio II aveva concepito contro i Veneziani veniva accresciuto da due nuove offese: essi avevano accordato ai Bentivoglio un asilo negli stati della repubblica dopo la loro espulsione dal Milanese, e il loro senato aveva rifiutato di ammettere al vescovado di Vicenza il nuovo cardinale di san Pietro ad Vincula, nipote del papa, e da lui recentemente nominato[451]. Pure Giulio II esitava più che gli altri confederati a ratificare il trattato di Cambrai. Sentiva che questa lega accrescerebbe la potenza degli oltremontani in Italia, mentre che l'oggetto de' suoi più ardenti desiderj tendeva a purgarla da coloro ch'egli chiamava barbari. La sua diffidenza verso i Francesi veniva inoltre accresciuta dal suo odio contro il cardinale d'Amboise, ch'egli risguardava come colui che aspirava a succedergli, e di cui temeva le trame contro la propria sua vita. Aveva di fresco provato, in occasione del tumulto di Genova, quanto poco lo rispettassero i Francesi, e non poteva senza timore accrescere ancora la loro preponderanza. Massimiliano non era meno formidabile alla santa sede, sia per le pretese che l'impero aveva sempre avute sopra l'Italia, sia perchè il di lui erede essendo nello stesso tempo quello di Ferdinando, poteva di già temersi di vedere il nipote di questi due sovrani riunire le due monarchie in allora rivali; e se desso aggiugneva il regno di Napoli e la Marca veronese a tanti altri estesissimi stati, la santa sede, chiusa da ogni banda, più sperar non poteva di conservare la propria indipendenza, ed inutili diventavano tutti gli sforzi fatti da Giulio II per riunire le province staccate della Chiesa.
L'Epirota, Costantino Cominates, trovavasi in allora in Roma, ambasciatore di Massimiliano, che lo aveva in grandissimo favore. Era questi colui che in altri tempi ebbe la tutela dei giovani marchesi di Monferrato, e che in appresso, cacciato dai Francesi da quel principato, aveva contro di loro concepito grandissimo odio. Dopo di aver conferito con Giulio II, fu da lui incaricato di parlare segretamente al ministro della repubblica in Roma, Giovanni Badoero. Andò a trovarlo di notte; gli comunicò il trattato di Cambrai, di cui la repubblica non aveva ancora avuta contezza; e nello stesso tempo gli dichiarò che, se il senato voleva restituire al papa Faenza e Rimini, questi si staccherebbe dalla lega; che il senato potrebbe ancora disgustare Massimiliano colla Francia, assecondando i progetti dell'imperatore sul Milanese. Queste aperture furono immediatamente comunicate al consiglio dei dieci, che verso lo stesso tempo aveva da Milano avuto sentore del trattato[452].
Il consiglio dei dieci, prima di trattare col papa, volle tentare se infatti potrebbe staccarsi l'imperatore dall'alleanza della Francia. Gli mandò Giovan Pietro Stella, segretario del senato, colle più vantaggiose proposizioni. Ma quest'inviato non seppe conservare un impenetrabile segreto; l'ambasciatore francese, informato della sua venuta, impedì che fosse ricevuto: fu egualmente rimandato un altro negoziatore. Una conciliatrice proposizione che lo stesso Giulio II fece a Giorgio Pisani, secondo ambasciatore della repubblica a Roma, fu sdegnata da quest'uomo acre e di un carattere contraddicente, che neppure la comunicò ai suoi capi[453]. Finalmente la signoria, dopo avere deliberato intorno ai mezzi di staccare il papa dalla lega contro di lei formata, trovò, dietro il consiglio di Domenico Trevisani, che col cedere alla Chiesa, senza combattere, ciò che questa a stento potrebbe ottenere colle armi, si veniva ad acquistare a carissimo prezzo la neutralità di così debole nemico, e si dava in principio della guerra una troppo pericolosa prova di pusillanimità. Il papa, che aveva protratta fino all'ultimo giorno la ratifica del trattato, finalmente vi acconsentì; ma sotto l'espressa condizione ch'egli non agirebbe scopertamente contro i Veneziani, che quando i Francesi avrebbero di già cominciate le ostilità[454].
Vero è che il loro attacco non doveva più lungamente differirsi; Lodovico XII si era recato a Lione per affrettare la marcia delle sue truppe verso l'Italia; ii cardinale d'Amboise, che avidamente cercava un pretesto per rompere l'antica alleanza, aveva, in presenza di tutto il consiglio, fatti sanguinosi rimproveri all'ambasciatore veneziano, perchè i di lui padroni facevano afforzare l'abbadia di Cerreto, nello stato di Crema, contro il tenore di un trattato conchiuso dalla repubblica con Francesco Sforza il 29 aprile del 1454[455]. Lodovico XII nello stesso tempo si faceva dare, per questa guerra, vascelli dai Genovesi, danaro dai Fiorentini, danaro e soldati dai Milanesi, ai quali stavano sul cuore le province del loro stato cedute dalla Francia alla repubblica di Venezia. Finalmente in sul cadere di gennajo la corte di Francia si cavò la maschera; richiamò da Venezia il suo ambasciatore, rimandò quello de' Veneziani, come pure il segretario della repubblica residente in Milano, e pubblicò il suo manifesto. Per lo contrario Ferdinando il cattolico, seguendo la sua astuta politica, fece dichiarare alla repubblica: ch'egli era entrato nella lega sottoscritta a Cambrai contro i Turchi, ma non in quella contro Venezia; che gli erano ignoti i motivi di Lodovico XII per attaccare la signoria, ma che le offriva tutti i buoni ufficj ch'ella aveva diritto di ripromettersi dal suo affetto e dalla sua ricchezza[456].
Le ostilità erano già cominciate in riva all'Adda tra alcune truppe leggeri francesi e veneziane, allorchè l'araldo d'armi di Francia, introdotto in senato, denunciò la guerra a Leonardo Loredano, doge di Venezia, ed a tutti i cittadini di quella città, qualificandoli come uomini infedeli, che ingiustamente ritenevano le città del sommo pontefice e dei re dopo averle occupate colla violenza. Rispose il Loredano: che la repubblica non aveva mancato di fede a chicchessia, e che se ella non avesse troppo scrupolosamente osservati i suoi impegni verso la Francia medesima, Lodovico XII non avrebbe in Italia tanto terreno da poter riporre il piede. Dopo queste solenni proteste da ambedue le parti, ad altro non si pensò che alla guerra[457].
I Veneziani, sebbene abbandonati agli attacchi di quasi tutta l'Europa, e senza alleati, non disperavano della salute pubblica. Purchè non soggiacessero alla prima aggressione, essi non dubitavano che la lega non si sciogliesse entro pochi mesi: gli alleati erano posti in movimento da troppo discordi interessi, ed il carattere del papa e di Massimiliano promettevano troppo poca costanza per poter credere che lungo tempo persistessero in un'intrapresa tanto contraria ad ogni sana politica. I Veneziani pensarono adunque a porsi in sulle difese; le loro ricchezze, che ancora erano intatte, e la prosperità del commercio, non ancora scemato dai progressi de' Portoghesi nelle Indie, mettevano a loro disposizione tutti i condottieri, e loro permettevano di ragunare sotto lo stendardo di san Marco la più bell'armata che avesse fino allora combattuto nelle guerre d'Italia. Ma queste ricchezze, che formavano tutta la loro forza, furono successivamente disperse da fortuiti accidenti, come se il cielo medesimo si fosse unito alla lega di tanti nemici della repubblica. Il magazzino della polvere dell'arsenale di Venezia scoppiò con orribile fracasso, mentre che il consiglio stava adunato, e quest'incendio coprì l'intera città di ceneri e di brage. La fortezza di Brescia fu colpita da un fulmine, che spaccò le sue mura; una barca, che portava a Ravenna dieci mila ducati per pagare le truppe, affondò. Finalmente gli archivj della repubblica, che contenevano tutte le più preziose carte, furono preda del fuoco: e queste replicate disgrazie non erano tanto dannose per sè medesime, quanto per la funesta influenza che avevano sul coraggio del popolo, il quale le risguardava come altrettanti funesti presagj[458].
I Veneziani avevano preso al loro soldo molti condottieri nati negli stati della chiesa, fra gli altri Giulio e Renzo Orsini, signori di Ceri, di cui portavano il nome, e Troilo Savelli. Questi dovevano condur loro cinquecento uomini d'arme e tre mila fanti, ed essi avevano già ricevuto a conto quindici mila ducati. Ma il papa ordinò loro sotto le più severe pene ecclesiastiche e temporali di rompere il contratto, e nello stesso tempo di non restituire il danaro. I condottieri ubbidirono a quest'ordine del loro sovrano abituale[459]. Malgrado la loro assenza i Veneziani avevano non pertanto presso di Ponte Vico sull'Olio due mila cento lance intere, locchè suppone per ogni lancia quattro ed anche sei cavalli, mille cinquecento cavaleggieri italiani, mille ottocento Stradioti, diciotto mila fanti di linea, e dodici mila uomini di milizie[460]. Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, aveva il titolo di capitano generale di quest'armata, e Bartolommeo d'Alviano, della medesima famiglia, quello di governatore. Stavano presso all'armata a nome della signoria i due provveditori, Giorgio Cornaro ed Andrea Gritti, i quali si erano acquistata grandissima riputazione nelle negoziazioni e nelle armate. Uno era stato nel precedente anno contro Massimiliano nel Friuli, l'altro a Roveredo; ed in quella campagna si erano coperti di gloria[461].
Il re di Francia era in sul punto di attaccare la repubblica, mentre che gli altri confederati erano determinati a non muoversi che dopo aver giudicato dai primi avvenimenti della sorte della guerra. Perciò i Veneziani, destinando tutte le loro forze contro i Francesi, le avevano adunate sull'Olio. Colà due piani di guerra affatto contrarj vennero proposti dai due capi dell'armata. L'Alviano, che si era sempre distinto coll'ardimento de' suoi disegni, e colla prontezza della loro esecuzione, voleva portare la guerra nel paese nemico prima che Lodovico XII avesse potuto ragunare tutte le sue forze; faceva conto di giovarsi del malcontento, che il governo francese aveva destato in tutta l'Italia, per ribellar il ducato di Milano, appropriarsi tutti i mezzi di uomini e di danaro, che aveva la Lombardia, invece di lasciarli a disposizione del nemico; indi attaccare i diversi corpi francesi, di mano in mano che scenderebbero dalle Alpi, prima che potessero mettersi in linea. Per lo contrario il Pitigliano, prudente generale, che niente lasciava alla sorte, ma che l'Alviano accusava d'aggiugnere la timidità di un'età avanzata a quella del suo proprio carattere, avrebbe voluto che non si pensasse pure a difendere le terre della Ghiara d'Adda, che non erano di grande importanza; che si lasciasse che l'impeto francese si smorzasse negli assedj, facendo che l'armata si tenesse nel campo trincerato degli Orci, di cui Francesco Carmagnola e Giacomo Piccinino avevano conosciuta l'importanza nelle precedenti guerre: l'armata colà difesa dall'Olio e dal Serchio, minaccerebbe le truppe che volessero assediare Cremona o Crema, Bergamo o Brescia, travagliandole colla cavalleria leggiere, e avvicinandosi ancora alle medesime per toglier loro le vettovaglie, ma senza giammai abbandonare i luoghi fortificati[462].
Questi due piani di campagna potevano presentare grandi vantaggi; ma, come quasi sempre accade quando le operazioni militari dipendono dalle decisioni de' consiglj civili, i due partiti estremi, che potevano essere egualmente buoni, furono rigettati per prenderne uno di mezzo necessariamente cattivo. Coloro che consigliano intorno a materie che non conoscono, credono, secondo il detto di Necker, di porre il loro consiglio in sicuro, quando si tengono ad eguale distanza dalle opinioni estreme di due uomini dell'arte; e questo calcolo d'amor proprio riuscì fatale a molti stati. Il senato rigettò il consiglio dell'Alviano, come troppo audace, e quello del Pitigliano, come troppo timido; ma ordinò ai generali di condurre l'armata presso l'Adda per difendere la Ghiara d'Adda, loro prescrivendo nello stesso tempo di non venire a battaglia, quando non vi fossero forzati da urgente necessità, o che loro non si presentasse una favorevolissima occasione[463].
Il re di Francia avvicinavasi con più bellicose disposizioni; egli voleva venire a battaglia il più presto che fosse possibile, e sebbene tutte le sue truppe non fossero ancora in sulla linea, si affrettò di cominciare le ostilità, perchè il termine dei quaranta giorni, dopo il quale il papa e l'imperatore dovevano secondarlo, cominciasse a decorrere. Di suo ordine il signore di Chaumont passò l'Adda presso Cassano, il 15 aprile del 1509, con tre mila cavalli, sei mila fanti e poca artiglieria, dirigendosi sopra Treviglio distante tre miglia. L'armata veneziana non aveva ancora lasciato Pontevico; ma Giustiniano Morosini, provveditore degli Stradioti, trovavasi a Treviglio con Vitelli di città di Castello e Vincenzo Naldi, che comandava la buona infanteria dei Brisighella, assoldata in Romagna nel castello di questo nome[464]. Questi capi, credendo di non aver a fare che con un piccolo corpo di cavalleria leggiere, mandarono dugento fanti ed alcuni Stradioti per respingerli. Ma questi furono bentosto incalzati fino alle porte di Treviglio, ed i Francesi, che li caricavano con ardore, impostarono subito alcuni pezzi d'artiglieria contro le mura. Lo spavento sottentrò bentosto ad una imprudente confidenza, e gli abitanti di Treviglio forzarono la guarnigione ad arrendersi. Il provveditore Giustiniano, Vitelli e Naldi, furono fatti prigionieri con circa cento cavaleggieri e mille fanti. Solamente dugento Stradioti si salvarono colla fuga. Lo stesso giorno i Francesi attaccarono ancora i confini veneziani su quattro diversi punti, dai monti di Brianza fino alle vicinanze di Piacenza; ma dopo di avere in tal modo cominciata la guerra, tutti questi corpi si ritirarono, e lo stesso Chaumont tornò a Milano per aspettarvi il re[465].
Non giunse appena a Roma la notizia di queste prime ostilità che il papa pubblicò il 27 di aprile la bolla di scomunica, che aveva tenuta in serbo, contro il doge, i pregadi, il consiglio generale ed i cittadini di Venezia. Rinfacciava in questa alla repubblica di avere usurpate tutte le terre che possedeva in Romagna, e dichiarava, che, fino dall'epoca dell'acquisto di Cervia, l'anno 1468, si trovava colpita dalle scomuniche annuali della bolla in coena domini. Inoltre la repubblica aveva ne' suoi stati turbata l'ecclesiastica giurisdizione, vietando e perfino castigando gli appelli alla santa sede, assoggettando le persone ecclesiastiche ad un foro laico, ed attribuendosi contro la disposizione de' canoni la collazione de' beneficj. In disprezzo delle scomuniche pronunciate contro i Bentivoglio la repubblica aveva dato asilo ne' suoi stati a que' nemici della santa sede, e loro aveva inoltre permesso di stare nelle città più vicine ai confini per favoreggiare le loro pratiche in Bologna. Per tutte queste cagioni, conchiudeva Giulio II, la santa sede avrebbe potuto immediatamente trattare i Veneziani come infedeli, come pagani, come membra infette della chiesa, che conviene distruggere prima che corrompano le altre. Pure il pontefice per un effetto della sua estrema indulgenza voleva ancora denunciar loro le pene nelle quali erano caduti, accordando un termine perentorio di ventiquattro giorni per ravvedersi e restituire alla chiesa tuttociò che possedevano nel suo territorio, purchè gli rimettessero ancora tutti i frutti che avevano percetti in tutti gli anni della loro usurpazione[466].
Se poi i Veneziani differivano oltre il prescritto termine a ravvedersi e a dar prove del loro pentimento, il papa colla stessa bolla assoggettava agli interdetti non solo Venezia, ma tutte le terre del suo dominio, e tutte quelle che darebbero asilo a qualunque veneziano. Dichiarava i cittadini di Venezia colpevoli di lesa divina maestà e perpetui nemici del nome cristiano, permettendo a chiunque di attaccarli, d'impadronirsi de' loro beni e delle loro persone e di venderli come schiavi: tanto è vero che la chiesa romana ha poco meritato l'encomio spesso accordatole d'avere abolita la schiavitù[467].
Frattanto l'armata veneziana trovandosi adunata, si avanzò da Ponte Vico a Fontanella, grossa terra lontana sei miglia da Lodi, dal qual luogo poteva facilmente soccorrere Cremona, Crema, Caravaggio e Bergamo. Colà seppero i suoi generali che il signore di Chaumont aveva ripassata l'Adda, ed in conseguenza credettero venuta l'opportunità di ricuperare Treviglio. Il solo Alviano si oppose a questa risoluzione, rappresentando che non conveniva avvicinarsi al nemico che quando si volesse attaccare, e che era un seguire contemporaneamente due progetti contraddittorj lo avanzarsi contro di lui e il volere stare in sulla difensiva. Ma non essendosi dato orecchio a queste obbiezioni, l'armata veneziana occupò prima Rivolta sulle sponde dell'Adda, ed in appresso attaccò Treviglio, ove il signore di Chaumont aveva lasciate cinquanta lance e mille fanti sotto gli ordini dei capitani Imbauld e Fontrailles. Avendo subito l'artiglieria aperta una breccia dalla banda di Cassano, la guarnigione capitolò; gli ufficiali rimasero prigionieri, ed i soldati si ritirarono disarmati. Per disgrazia i Francesi non capitolarono l'amnistia per gli abitanti, i quali sollevandosi avevano fatto cedere la piazza; onde i generali veneziani per gastigare questa insubordinazione, abbandonarono Treviglio al saccheggio[468].
Ma lo stesso giorno 8 di maggio in cui Treviglio aveva capitolato, Lodovico XII giunse sull'opposta sponda dell'Adda, e nel susseguente giorno fece gettare tre ponti su questo fiume al dissotto di Cassano, senza che i Veneziani, che n'erano lontani alcune miglia, ed intenti al sacco di Treviglio si opponessero alla loro costruzione. La sponda di Cassano è più alta che non la sponda opposta, e la difesa del fiume sarebbe sempre riuscita difficile; pure i Francesi non avevano mai potuto aspettarsi che non si tentasse di farlo; e quando Gian Giacopo Trivulzio vide Lodovico XII con tutta la sua armata sulla riva sinistra dell'Adda, gli disse, «Sire, oggi voi avete vinti i Veneziani[469].» L'Alviano, senza essere informato del passaggio dei Francesi, sentiva la necessità di condurre la sua armata sulle rive del fiume, e non potendo in altro modo strappare i suoi soldati dal saccheggio, fece appiccare il fuoco a Treviglio per iscacciarli; ma a malgrado di questa crudele esecuzione, arrivò troppo tardi; e le due armate più non essendo separate da verun ostacolo, i Veneziani rientrarono nel loro campo intorno a Treviglio, che era situato vantaggiosissimamente, ed i Francesi si accamparono in distanza di un miglio.
Avendo Lodovico XII riconosciuta la posizione de' Veneziani, e giudicando troppo pericolosa cosa l'attaccarli, dopo essere rimasto un giorno in loro presenza, nel susseguente piegò dalla banda di mezzogiorno e discese lungo il fiume fino a Rivolta, di cui s'impadronì. Dopo esservi rimasto un giorno, bruciò quel villaggio, e continuò ad avanzarsi per quella strada onde giugnere a Pandino o a Vailate, e separare in tal modo l'armata veneziana dai magazzini che aveva a Crema ed a Cremona. Mentre che il re camminava lungo le tortuose rive dell'Adda, i Veneziani avrebbero potuto, seguendo la corda dell'arco che descriveva Lodovico XII, giugnere per più breve via ad una seconda posizione più vicina a Crema e non meno buona di quella che occupavano. Il Pitigliano voleva eseguire questo viaggio soltanto all'indomani, e l'Alviano insisteva di porsi subito in cammino onde sopravanzare il nemico. Infatti fu dato l'ordine di partire. Gli alti cespugli, ond'è coperto il paese, nascondevano affatto l'armata veneziana, che teneva la strada a destra, alla vista de' Francesi, che seguivano la manca; e la linea di quella essendo più diretta, essa si trovò bentosto avvantaggiata. Ma precisamente in questo luogo le due strade si ravvicinavano, e l'Alviano, che aveva il comando della retroguardia, ebbe contezza che Carlo d'Amboise e Gian Giacopo Trivulzio, che comandavano l'avanguardia francese, si trovavano a lui vicinissimi[470].
Contavansi nell'armata di Lodovico XII due mila lance, mille svizzeri e dodici mila fanti guasconi o italiani con un bel parco d'artiglieria[471]. L'avanguardia d'Amboise aveva cinquecento lance ed alcuni svizzeri; nella retroguardia dell'Alviano trovavansi ottocento uomini d'armi ed il fiore della fanteria italiana. La battaglia tra queste due divisioni non era disuguale; ma la marcia degli altri corpi allontanava sempre più il Pitigliano dall'Alviano, e per l'opposto ravvicinava sempre più Lodovico XII a Carlo d'Amboise. Non potendo l'Alviano schivar la battaglia mandò subito a dire al suo collega ch'egli era alle mani, e lo invitava nello stesso tempo a fermare la sua colonna ed a soccorrerlo. Il Pitigliano fin dal principio della campagna aveva dovuto lottare contro l'impetuosità dell'Alviano; l'aveva sempre veduto cercare que' pericoli ch'egli credevasi in dovere di evitare, onde, supponendo che in questa occasione l'Alviano volesse costringerlo suo malgrado a combattere, gli fece dire di continuare la sua ritirata in buon ordine, poichè era volontà del senato di non venire a battaglia[472].
Frattanto l'Alviano si era apparecchiato a combattere: aveva collocati i suoi fanti con sei pezzi d'artiglieria sopra un argine destinato a tener a freno le acque di un torrente che in quel momento era secco, ed aveva vigorosamente attaccata la cavalleria francese in un suolo imbarazzato da vigne, ove non poteva liberamente muoversi. L'Alviano approfittò di questo vantaggio, la respinse e la inseguì fino ad un luogo più aperto. Nello stesso tempo giugneva il re col corpo di battaglia e la retroguardia dell'Alviano, che aveva di già ottenuto un notabile vantaggio, trovavasi addosso tutta l'armata nemica. Il valore del generale si era comunicato ai soldati e l'ottenuto vantaggio sosteneva il loro ardore, di modo che continuarono la battaglia tre ore colla più grande intrepidezza. Una dirotta pioggia sopraggiunta in tempo della battaglia faceva pei pedoni sdrucciolevole il terreno; la speranza di veder giugnere il Pitigliano, nei di cui soccorsi era riposta ogni fiducia, cominciava a mancare; ma la fanteria italiana di Brisighella, che era distinta dalle sue casacche mezzo bianche e mezzo rosse, si rese degna della sua nuova riputazione; perciocchè, sebbene costretta a ripiegare fino in un aperto piano, ed ivi esposta agli attacchi della cavalleria, mai non ruppe le sue linee. Circondati, serrati, oppressi, questi fanti romagnoli si fecero quasi tutti uccidere, dopo avere a caro prezzo venduta la loro vita. Avevano costoro ricevuto da Naldo di Brisighella in valle di Lamone il loro nome e la loro organizzazione, e tutta la fanteria di linea dei Veneziani aveva in appresso adottati i loro colori e la loro ordinanza. Questa fanteria lasciò sei mila morti sul campo di battaglia, il doppio press'a poco di ciò che perduto avevano i Francesi. Gli uomini d'armi veneziani non soffrirono molto; ma Bartolommeo d'Alviano, ferito in volto, fu fatto prigioniero, e condotto al padiglione del re. Caddero in potere de' Francesi venti pezzi d'artiglieria: il restante dell'armata veneziana continuò a ritirarsi senza essere inseguito[473].
Questa battaglia, chiamata di Vailate o di Agnadello, nella Ghiara d'Adda, si diede il 14 maggio del 1509. Con questa cominciò un nuovo sistema di guerra distinto da maggior ferocia nella mischia e da sconfitte più sanguinose. Da quindici anni gli oltramontani avevano portate le loro armi in Italia; pure non si era ancora veduto un campo di battaglia coperto da tanti morti, nè l'infanteria avere una parte così importante nell'azione. Ma quanto più le guerre si prolungano, tanto più diventano nazionali; quanto più i patimenti de' vinti rendonsi intollerabili, tanto più ognuno sente essere meglio il difendersi fino all'estremo, che il lasciarsi opprimere senza combattere. Finalmente giugne l'istante in cui i popoli pongono nella lotta la totalità delle loro forze ed in cui la vittoria più non sembra potersi ottenere che coll'esterminio de' vinti: e quanto più gli agressori hanno accresciuto il loro numero ed i loro mezzi di attacco, tanto più ruinosa diventa la loro consumazione ed insoffribile il loro giogo. La resistenza si accresce coll'oppressione. Dopo sanguinose battaglie la medesima ferocia vien portata nell'assedio delle città e nel trattamento de' paesi conquistati. Dall'epoca di questa prima battaglia, ogni anno fu insignito da maggior furore e da più grande effusione di sangue, fino all'istante in cui un generale spossamento costrinse finalmente alla pace le nazioni ed i loro capi, perchè la generazione atta alle armi era quasi affatto distrutta, e perchè non potevansi mettere a numero le armate coi vecchi e coi fanciulli.
Lodovico XII approfittò della sua vittoria con una rapidità, che fece più onore ai suoi militari talenti, che non l'esito medesimo della battaglia. Nel susseguente giorno si presentò sotto Caravaggio, che aprì subito le sue porte; e la rocca, attaccata dall'artiglieria, capitolò il giorno dopo. Bergamo gli mandò le chiavi il giorno 17, ed il re la fece occupare da cinquanta lance e da mille fanti: la rocca non si sostenne che due o tre giorni. In ogni capitolazione Lodovico XII richiedeva sempre che i gentiluomini veneziani che si trovavano nelle città restassero suoi prigionieri. Egli voleva costringerli a pagargli così grosse taglie da rovinare le loro famiglie e porli nell'assoluta impossibilità di soccorrere colle private loro sostanze il pubblico erario. Intanto egli si avvicinava a Brescia, tenendo dietro all'armata veneziana che si era ritirata verso quella città, ed era assai diminuita dalla diserzione. I due provveditori, Giorgio Cornaro ed Andrea Gritti, avevano in vano pregati i Bresciani di riceverli entro le loro mura; il conte Giovan Francesco Gambara, capo della fazione Ghibellina, nel momento in cui aveva avuto avviso della sconfitta di Vailate si era co' suoi partigiani impadronito delle porte, ricusò d'aprire alle truppe venete, ed il ventiquattro di maggio le diede ai Francesi. Il Pitigliano, non si trovando sicuro in vicinanza di una città ribellata, si ritirò a Peschiera coi resti della sua armata[474].
Le calamità si succedevano a danno dei Veneziani con una così spaventosa rapidità, che nè il senato di cui si era tanto vantata la costanza e la fermezza, nè il popolo da cui speravansi atti di patriottismo, non trovavano in loro medesimi abbastanza di forza per resistere. Prodigiosi sforzi erano stati fatti per raccogliere danaro prima dell'apertura della campagna. A tal fine la repubblica aveva adottati espedienti contrarj a tutte le sue costumanze; aveva preso a prestito da qualunque persona; ottenuti doni patriottici da tutti i nobili e da tutte le città suddite; aveva levata la metà dei soldi a tutti i pubblici funzionarj[475], e di già tutti questi tesori erano consumati; e l'armata raccolta a sì gran prezzo era distrutta o dispersa. Omai non trattavasi soltanto di rimontarla, conveniva pensare ancora alla flotta, poichè i Francesi ne armavano una in Genova la quale non avrebbe tardato ad infestare le rive dell'Adriatico. Infatti il senato ordinò di equipaggiare cinquanta galere sotto gli ordini di Angelo Trevisani, ed in pari tempo mandò ordine in tutti i suoi possedimenti marittimi di trasportare a Venezia tutti i grani disponibili, onde mettere almeno la capitale in istato di sostenere un lungo assedio[476].
Subito dopo la sommissione di Brescia, Crema aprì le sue porte al re ad istigazione di Soncino Benzoni, discendente dagli antichi tiranni di quella città; Cremona e la fortezza di Pizzighettone avevano pure capitolato. La sola fortezza di Cremona continuava a difendersi, perchè Lodovico XII aveva preteso che tutti i gentiluomini veneziani che vi si trovavano fossero suoi prigionieri; e Zaccaria Contarini, di cui erano note le grandi ricchezze, vi si era chiuso con molti altri signori, che i Francesi volevano ruinare con esorbitanti taglie. Il conte di Pitigliano aveva abbandonata anche Peschiera per ripiegarsi sopra Verona; ma aveva lasciato in guardia di questa fortezza Andrea di Riva e suo figlio, gentiluomini veneziani, con quattrocento fanti; essendosi lusingato che questi, approfittando della forza della piazza e dei vantaggi della sua situazione, ritarderebbero i Francesi tanto tempo quanto gliene abbisognava per rifare la sua armata.
Il successo non corrispose alle speranze del Pitigliano: non appena l'artiglieria ebbe fatta una stretta breccia nelle mura di Peschiera, che gli Svizzeri ed i Guasconi corsero all'assalto e presero la fortezza. La guarnigione fu tutta passata a fil di spada, e Lodovico XII fece appiccare Andrea di Riva e suo figlio, non per altro motivo che per incutere terrore a coloro che tenterebbero di difendersi. Nello stesso modo aveva fatto pochi giorni prima appiccare quei valorosi che difendevano Caravaggio. Gli uomini deboli sono quasi sempre crudeli; ed i re, che seguono le armate senza essere generali, sono più che gli altri inclinati a crudeltà, perchè risguardano ogni resistenza alla loro volontà, come una personale offesa, che gli assolve dalle leggi della guerra[477].
Erano appena passati quindici giorni dopo la vittoria di Vailate, che Lodovico XII aveva di già conquistata tutta quella parte del territorio veneziano che gli dava il trattato di Cambrai; e la sola cittadella di Cremona, che ancora resisteva, non tenne più di quindici giorni. Le province che aveva occupate accrescevano di più di dugento mila ducati le reali entrate del ducato di Milano. Gli altri alleati, che appena avevano lasciato conoscere la loro nimicizia, finchè Venezia conservava tutta la sua potenza, attaccarono su tutti i punti i confini veneziani quand'ebbero avviso della sconfitta di Vailate. Il papa aveva dato il comando della sua armata a suo nipote, Francesco Maria della Rovere, che nel precedente anno era succeduto nel ducato di Urbino a Guid'Ubaldo da Montefeltro, suo padre adottivo. Contava quest'armata quattrocento uomini d'armi, quattrocento cavaleggieri, e pochi giorni dopo venne pure ingrossata da tre mila Svizzeri assoldati dal pontefice. Dopo aver guastato il territorio di Cervia prese Solarolo, tra Faenza ed Imola, e andò ad attaccare Brisighella, principal luogo della bellicosa provincia di val di Lamone. Giovan Paolo Manfrone era incaricato di difendere questa terra con ottocento fanti ed alcuni cavalli; aveva tentata una sortita senza ben conoscere la forza degli assalitori; ma venne così vigorosamente respinto, che i nemici entrarono coi fuggitivi nella terra. La loro ferocia non era minore di quella degli oltremontani, e tutti gli sgraziati abitanti di Brisighella caddero sotto le loro spade[478].
L'armata pontificia si accostò a Ravenna, ma fu dieci giorni trattenuta dalla fortezza di Russi, posta tra Faenza e Ravenna: Giovanni Greco, comandante degli Stradioti veneziani, fu fatto prigioniero da Giovanni Vitelli; Russi capitolò, e sebbene i generali pontificj non avessero talenti, e non agissero d'accordo, pure tanto scarso era il numero delle truppe veneziane in Romagna, e così grande lo scoraggiamento ed il terrore, che Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia capitolarono, promettendo di aprire le loro porte se non venivano soccorse entro un determinato tempo[479].
Anche Alfonso d'Este, duca di Ferrara, era entrato nella lega di Cambrai, ed il diecinove d'aprile fu dal papa nominato gonfaloniere della chiesa romana. Pure egli aveva aspettata la rotta di Vailate per cominciare le ostilità. Allora congedò il Vismodino, che in Ferrara teneva ragione pei Veneziani; richiamò il suo ambasciatore, ed il diecinove di maggio mandò trentadue pezzi di cannone al campo della Chiesa che attaccava la rocca di Ravenna. Il trenta di maggio entrò in campagna, occupando senza trovar resistenza il Polesine di Rovigo, Este, Montagnana e Monselice, antico patrimonio della sua casa[480].
Il marchese di Mantova non fu meno sollecito ad approfittare della sconfitta de' suoi antichi vicini: s'impadronì d'Asola e di Lunato, che Filippo Maria Visconti aveva conquistati ai tempi del suo bisavo, e che in appresso erano stati ceduti alla repubblica. Avrebbe dovuto avere anche Peschiera; ma questa fortezza conveniva troppo al re di Francia, perchè il marchese ardisse di rifiutargliela; e si accontentò della promessa di essere altrove indennizzato[481].
L'ambasciatore di Spagna, che si era trattenuto in Venezia fin dopo la rotta di Vailate, senza cessar mai di protestare l'attaccamento del suo padrone a Venezia, colse altresì questo istante per domandare la sua udienza di congedo. Ferdinando aveva mandati due mila fanti spagnuoli a Napoli, che, uniti a tre mila fanti napolitani, si erano in sul finire di maggio avvicinati a Trani per formarne l'assedio. Una flotta francese, unita alla siciliana, si era presentata in faccia al porto della stessa città; pure, così persuaso da Fabrizio Colonna, il vicerè di Napoli aveva proceduto a questa spedizione con molta lentezza. I Veneziani, che di già pensavano a staccare Ferdinando dalla lega formata contro di loro, colsero quest'occasione per offrirgli la restituzione di tuttociò che possedevano nel regno di Napoli; richiamarono tutti i comandanti, ordinando loro di consegnare agli Spagnuoli le città che abbandonavano[482].
L'armata di Massimiliano non compariva ancora in verun luogo; ma i suoi vassalli e governatori delle limitrofe province, approfittavano del terrore in cui tutto era immerso lo stato di Venezia per attaccarlo contemporaneamente sopra varj punti. Nell'Istria, Cristoforo Frangipani s'impadronì di Pisino e di Duino; il duca di Brunswik entrò nel Friuli con due mila uomini e prese Feltre e Belluno. Nello stesso tempo Trieste, Fiume e le altre città conquistate in principio del precedente anno rialzarono le insegne di Casa d'Austria; il conte di Lodrone soggiogò alcuni castelli in vicinanza del Lago di Garda; per ultimo il vescovo di Trento occupò Riva di Trento ed Agresto[483]. L'intera repubblica pareva cadere in dissoluzione, ed anche nell'interno di Venezia il senato più non tenevasi sicuro, nè di quella infinita moltitudine di forastieri che vi aveva raccolti il commercio, nè di que' plebei che la costituzione escludeva dalle funzioni governative, e che riclamavano contro un'usurpazione che più non era legittimata dalla prosperità, esterno segno della saviezza de' consiglj[484].
La diserzione aveva ridotta l'armata veneziana in uno stato deplorabile. Abbandonando tutta la terra ferma, allontanandosi da tutte le città che successivamente avevano ricusato di riceverla, si era rifugiata a Mestre in riva alla Laguna, ove più non conservava nè disciplina nè ubbidienza verso i suoi superiori. Il senato non risparmiò nè attività, nè tesori per formare una nuova armata; fece offrire a Prospero Colonna, che allora trovavasi ai confini del regno di Napoli, il comando di tutte le sue truppe, ed un annuo soldo di sessanta mila ducati, purchè il Colonna conducesse subito alla repubblica mille e due cento cavalli[485]. Le guarnigioni ritirate dalle città di Romagna e dell'Adriatico, e le truppe leggeri, che stavano nella Grecia e nell'Illiria, avrebbero potuto riparare le perdite dell'armata; ma la più funesta conseguenza di una sconfitta non è già la morte di alcune migliaia d'uomini, bensì la distruzione della confidenza e della fedeltà del soldato.
In questa universale sciagura i Veneziani non pensarono nemmeno a placare il re di Francia: la mala fede con cui aveva dissimulato il suo odio, la perfidia delle sue trame contro di loro mentre combattevano per lui medesimo, l'accanimento con cui approfittava de' presenti vantaggi, e la sua crudeltà verso i prigionieri ed i vinti, inspiravano per lui un invincibile allontanamento. Non eravi verun altro nemico con cui i Veneziani non desiderassero di riconciliarsi piuttosto che con lui; non eravene alcuno cui non preferissero di cedere quelle piazze che più non isperavano di poter difendere. Avevano di già consegnate a Ferdinando tutte le città della Puglia da questo monarca pretese; cercarono di appagare cogli stessi mezzi l'ambizione del papa e dell'imperatore, onde staccarli dalla Francia. Avevano più volte cercato di mandare deputati in Germania; ma il vescovo di Trento non aveva voluto permetter loro di entrare nel suo paese, perchè erano scomunicati. Finalmente Antonio Giustiniani, nominato ambasciatore presso Massimiliano, potè giugnere alla sua corte; gli chiese grazia con tanta umiltà, con tanto avvilimento della repubblica che avrebbe dovuto ispirare piuttosto il disprezzo, che la compassione, se la stessa pedanteria della sua arringa latina, che ci fu conservata, non avesse fatto conoscere che, secondo il costume dei retori, il Giustiniani esagerava i sentimenti che era incaricato di esprimere e loro dare non sapeva alcuna misura[486].
Ma l'istruzione che aveva quest'oratore era ancora più esplicita che la sua arringa. Egli dichiarò all'imperatore essere la repubblica apparecchiata a consegnargli tutti i suoi stati di terra ferma, ed avere richiamate le sue guarnigioni da tutte le terre dell'impero, che consegnerebbe agli ufficiali di Massimiliano, tosto che si presentassero per riceverle. Tanta sommissione ed umiltà non sortirono verun effetto: il re de' Romani non volle ascoltare verun trattato senza partecipazione del re di Francia. Nello stesso tempo il senato aveva pure spedito in Romagna un segretario di stato con ordine di consegnare al papa la rocca di Ravenna e tutto ciò che ancora restava in quella provincia sotto gli ordini di Venezia, altro non si riservando che l'artiglieria delle piazze di guerra, e la libertà di tutti i prigionieri fatti dall'armata pontificia. In appresso i cardinali veneziani supplicarono il papa d'accordare l'assoluzione alla loro patria a motivo che conformemente al suo monitorio Venezia aveva ubbidito prima che spirassero i ventiquattro giorni che egli le aveva assegnati. Ma il papa dichiarò che questa ubbidienza invece d'essere intera era stata condizionale, che inoltre la repubblica non aveva restituiti i frutti percetti durante la sua usurpazione, e che perciò non poteva assolverla[487]. Per altro il pontefice sospettoso cominciava ad essere spaventato dalla preponderanza che gli oltramontani acquistavano in Italia; il suo orgoglio era lusingato dalla sommissione di una repubblica temuta da' suoi predecessori, e quando gli fu annunziato che un'ambasceria composta di sei dei più distinti membri del senato offriva di venire a Roma a chiedere grazia, non oppose ulteriori ostacoli; ed a dispetto delle rimostranze di Lodovico e di Massimiliano, promise che all'arrivo di questi ambasciadori leverebbe la scomunica e l'interdetto[488].
Intanto le città veneziane di terra ferma non erano più difese da veruna guarnigione, e, vedendo al loro confini la formidabile armata de' Francesi, si disponevano ad aprirle le porte. Quando i Veronesi ebbero notizia della presa di Peschiera, spedirono deputati a Lodovico XII per consegnargli le chiavi della loro città; ma il re di Francia le rifiutò, indirizzandoli agli ambasciatori di Massimiliano che si trovavano nel suo campo. Egli non era intenzionato di spingere più in là le sue conquiste; le sue finanze erano di già probabilmente esauste, ed egli era impaziente di licenziare l'armata e di tornare in Francia. La rocca di Cremona aveva finalmente capitolato; la guerra rispetto a lui era terminata: egli non aveva più che pretendere, ed i Veneziani non sembravano la istato di resistere a coloro che volevano terminare la divisione delle loro province.
Prima di abbandonare l'Italia, Lodovico XII desiderava di vedere Massimiliano. Il cardinal d'Amboise andò a trovarlo a Trento il 13 di giugno, e concertò, che i due monarchi avrebbero un abboccamento a Garda, in sui confini dei due territorj che avevano allora conquistati. Lodovico XII partì per trovarsi colà nel determinato giorno, e Massimiliano si avanzò ancor esso fino a Riva di Garda; ma ossia che si trovasse troppo male accompagnato per la sua sicurezza o per la sua dignità, o pure che abbia avuto qualche altra ragione di cui faceva un segreto, come di tutti i motivi della sua condotta, ripartì dopo due ore da Riva, dichiarando di essere chiamato altrove dalle notizie ricevute dal Friuli. Mandò al re il nuovo vescovo di Gurck, Matteo Langen, suo segretario, per pregarlo di aspettarlo a Cremona. Lodovico XII, offeso senza dubbio da questa mancanza di riguardi, e sapendo quanto si dovesse dar poca fede alle promesse di Massimiliano, prese la strada di Milano, e pochi giorni dopo tornò in Francia[489].
In questa guerra Massimiliano si era condotto come in tutte le altre. Dopo la sottoscrizione del trattato di Cambrai, erasi trattenuto alcun tempo in Fiandra per ottenere i sussidj di que' popoli; ma non appena li ricevette che tutti li dissipò. Il papa desiderava di affrettare la sua spedizione, affinchè l'armata dei Francesi non si trovasse sola in Italia e padrona di tutto il paese; a tale oggetto gli aveva accordato di prendere cento mila ducati sui fondi di riserva della crociata che si era levata in Germania, ma che non poteva convertirsi in usi profani senza l'autorità pontificia. Poco dopo gli aveva ancora mandato Costantino Cominates con cinquanta mila ducati; Lodovico XII gli aveva pagati cento mila ducati per la seconda investitura del ducato di Milano, che aveva ricevuta recentemente: gli stati ereditarj dell'Austria e quelli dell'impero gli avevano accordati dei sussidj. Ma tanti fondi ammassati per la guerra erano di già consumati senza che avesse in verun luogo adunato un'armata imperiale[490]. Massimiliano protestava che la sua riconciliazione con Lodovico XII era senza riserva. Nel suo passaggio da Spira aveva bruciato un libro nel quale erano notate tutte le ingiurie che l'impero aveva ricevuto dai Francesi, dichiarando di non volerne più conservare memoria. Aveva scritto da Trento a Lodovico XII, ringraziandolo d'avergli fatto ricuperare tutte le terre che i Veneziani avevano usurpate sopra di lui e de' suoi antenati. Il tredici di giugno aveva convenuto col cardinale d'Amboise che il re gli presterebbe cinquecento lance francesi per terminare la guerra[491], e non pertanto niente ancora si effettuava. Massimiliano non trovavasi nemmeno a portata di accettare le capitolazioni delle città dello stato veneto che chiedevano di arrendersi.
Finalmente il vescovo di Trento scese in Lombardia con un piccolo corpo di truppe tedesche, e ricevette la sommissione di Verona e di Vicenza. Il 4 di giugno Leonardo Trissino, emigrato vicentino, si presentò a Padova con soli trecento fanti tedeschi ed un araldo d'armi dell'imperatore. Le porte della città gli furono subito aperte.
Treviso aveva ancor essa mandati deputati per sottomettersi a Massimiliano, ma quando il popolo di quella città vide lo stesso Trissino alle sue porte, senza forze, senza armi e senza veruna decorazione, che potesse servire di guarenzia della protezione imperiale, non dissimulò il suo rincrescimento di cambiare il dominio di un senato italiano contro quello dei Tedeschi. Un calzolajo, chiamato Marco Caligaro[492], riprodusse agli occhi del popolaccio lo stendardo della repubblica e riunì i suoi concittadini, gridando viva san Marco! I nobili, che per salvare i loro beni si erano affrettati di arrendersi, videro i loro palazzi abbandonati al saccheggio. Leonardo Trissino e la sua piccola scorta tedesca furono scacciati; si chiamarono dal campo di Mestre settecento fanti italiani, che vennero introdotti in città; e questo primo felice avvenimento, dopo tanti disastri, rincorò i Veneziani siccome presagio di migliore avvenire. La prima città degli stati di terra ferma che si attaccava alla sorte della repubblica quando il senato risguardava il continente come affatto perduto, fu di nuovo accolta con trasporti di riconoscenza. La signoria accordò agli abitanti di Treviso l'esenzione delle imposte per quindici anni. I ruoli de' contribuenti furono bruciati sulla pubblica piazza, ed il campo veneziano che fino allora non aveva fatto che rinculare, si avanzò nuovamente per prendere una forte posizione tra Marghera e Mestre[493].
FINE DEL TOMO XIII.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XIII.
Capitolo XCIX. Negoziazioni di Lodovico XII in Italia. — Continuazione della guerra di Pisa; questa città abbandonata dai Veneziani continua a difendersi. — I Francesi conquistano il ducato di Milano. — Lodovico Sforza vi rientra dopo cinque mesi, ma per tradimento degli Svizzeri è fatto prigioniere a Novara. 1498-1500 pag. 3
1498 7 aprile. Morte di Carlo VIII nello stesso giorno destinato alla prova del fuoco del Savonarola 3
Successione di Lodovico d'Orleans sotto il nome di Lodovico XII 4
Pretese di Lodovico XII sul ducato di Milano 6
Cerca e facilmente trova in Italia alleati per farle valere 7
I Veneziani irritati contro Lodovico il Moro per la guerra di Pisa 8
Il papa vuole ingrandire suo figlio, Cesare Borgia, coll'ajuto della Francia 9
Lodovico XII consuma il primo anno in apparecchi e negoziazioni 10
Ottiene la sanzione del papa pel suo divorzio, e ricompensa Cesare Borgia col ducato del Valentinese 11
Maggio. Varj vantaggi ottenuti dai Pisani sui Fiorentini 11
1498 6 giugno. I Fiorentini affidano il comando della loro armata a Paolo Vitelli di Città di Castello 14
Il duca di Milano chiude il passaggio ai soccorsi mandati dai Veneziani a Pisa 15
I Veneziani tentano di penetrare in Toscana dalla banda della Romagna 15
I Medici si uniscono all'armata veneziana comandata da Carlo Orsini e da Bartolommeo d'Alviano 17
Ottobre. Bartolommeo d'Alviano si apre la strada nel Casentino, ed occupa Bibbiena 18
Viene trattenuto sotto Poppi da Antonio Giacomini 20
Paolo Vitelli mandato nel Casentino per fargli testa 21
L'armata veneziana è assediata in Bibbiena 22
1499 Niccolò, conte di Pitigliano, conduce fino ad Elci un'altr'armata veneta 23
Le due repubbliche affrettano invano i loro generali a venire a battaglia 24
Lodovico XII ed il duca di Milano cercano ambidue di riconciliarli 25
Chiamano arbitro il duca Ercole di Ferrara 27
6 aprile. Sentenza del duca tra i Veneziani ed i Fiorentini sul conto di Pisa 27
I Veneziani ritirano le loro truppe senza accettare l'arbitramento; ed i Pisani ricusano di assoggettarvisi 29
I Fiorentini mandano di nuovo sotto Pisa Paolo Vitelli 31
1499 25 giugno. Il Vitelli attacca e prende Cascina 31
1.º agosto. Si accampa sotto le mura di Pisa alla sinistra dell'Arno 31
Apre larghe brecce nelle mura che i Pisani valorosamente difendono 32
10 agosto. Prende d'assalto la torre di Stampace, ma non approfitta del suo vantaggio quando poteva prendere la città 34
I Fiorentini sospettano il Vitelli di protrarre la guerra per i suoi fini 36
23 agosto. Un assalto ordinato viene differito a cagione delle malattie dell'armata fiorentina 37
15 settembre. Il Vitelli abbandona l'assedio di Pisa e si ritira a Cascina 37
Cade in sospetto di tradimento e d'intelligenza coi Medici 38
Fine di settembre. È arrestato a Cascina e condotto a Firenze 40
1.º ottobre. È condannato alla morte e viene decapitato 41
Risentimento de' suoi fratelli e del re di Francia per la morte di Paolo Vitelli 42
15 aprile. Trattato di Blois tra Lodovico XII e la repubblica Veneta per dividere il Milanese 42
Lodovico il Moro cerca di assicurarsi i soccorsi di Massimiliano re de' Romani 44
Massimiliano, entrato in guerra cogli Svizzeri, abbandona il Moro 45
Negoziazioni del Moro con Bajazette II perchè faccia una diversione attaccando i Veneziani 46
1499 Ottobre. Scander Bassà di Bosnia saccheggia il Friuli 47
I re di Spagna abbandonano Lodovico il Moro 47
Negoziazione di Lodovico il Moro col papa che non ha verun effetto 48
Lodovico il Moro non può ottenere soccorso da Federico di Napoli e dal duca di Ferrara 49
Dà il comando delle sue armate ai Fratelli Sanseverino 49
Agosto. L'armata francese passa le Alpi 51
13 agosto. Attacca Arezzo poscia Annone 52
Tutto il paese d'oltre Po si assoggetta ai Francesi 52
Il popolo di Milano fermenta. Lodovico il Moro aduna i principali cittadini per giustificare la sua condotta 53
Agosto. I Veneziani attaccano il Milanese nello stesso tempo che i Francesi, ed occupano Caravaggio 55
20 agosto. Galeazzo di San Severino abbandona la sua armata che si disperde 55
Lo Sforza fa partire i suoi figli ed i suoi tesori per la Germania 57
2 settembre. Parte egli stesso da Milano lasciando guarnigione nel Castello 58
I Francesi sono ricevuti a Milano ed in tutte le città del Milanese 59
Lodovico XII fa il suo ingresso in Milano, e viene ricevuto con grande entusiasmo 60
1499 Trattato di Lodovico XII col marchese di Mantova, col duca di Ferrara, col signore di Bologna 61
Trattato di alleanza e di protezione coi Fiorentini 62
Lodovico XII sceglie Gian Giacomo Trivulzio per suo luogotenente nel ducato di Milano 63
I Milanesi sono scontenti di lui e della Francia 64
Lodovico il Moro chiede soccorsi a Massimiliano re de' Romani 65
Leva a proprie spese un'armata per rientrare ne' suoi stati 65
1500 Febbrajo. Lodovico il Moro è ricevuto a Como con trasporti di giubilo 66
5 febbrajo. I Francesi evacuano Milano e vi rientra il Moro 67
Gli si sottomettono Parma e Pavia 68
Aduna un'armata colla quale prende Vigevano ed assedia Novara 70
I soli Svizzeri formano l'infanteria della sua armata e di quella de' Francesi 71
Un corpo di Svizzeri abbandona l'armata francese e passa a quella dello Sforza 72
Aprile. La Tremouille conduce l'armata francese tra Novara e Milano 73
Gli Svizzeri di Lodovico il Moro si sollevano sotto pretesto di chiedere il loro soldo 74
10 aprile. Gli Svizzeri schierati in battaglia ricusano di combattere, e rimangono in Novara 75
1500 Danno in mano ai Francesi il Moro, che si era nascosto nelle loro file 76
Occupano Bellinzona 76
Il cardinale Ascanio Sforza arrestato dai Veneziani 77
Viene consegnato a Lodovico XII, che condanna a perpetua prigionia il duca di Milano, e tutti i discendenti del grande Sforza che tiene in suo potere 78
Capitolo C. Conquista della Romagna ed invasione della Toscana fatta da Cesare Borgia. — Alleanza di Lodovico XII con Ferdinando il Cattolico contro don Federico di Arragona. Si dividono il regno di Napoli. 1499-1501 82
1499 Profonda immoralità di Papa Alessandro VI 82
Depravazione dei popoli subordinati alla sede di Roma 83
Anarchia cagionata nel patrimonio di san Pietro e nella campagna di Roma dalla discordia degli Orsini e dei Colonna 84
Tutti i signori delle rocche erano condottieri 84
Desolazione del territorio da loro dipendente 85
La mina di una terra murata forzava ad abbandonare la coltura del suo distretto 85
Alessandro VI perseguita a vicenda ora i Colonna ora gli Orsini 87
Ancona, Assisi, Spoleto ed alcune altre città conservavano un'amministrazione repubblicana 88
1499 Vicarj pontificj; i Varani a Camerino, Fogliani a Fermo, Rovere a Sinigaglia e Montefeltro ad Urbino 89
In Toscana; i Baglioni a Perugia, ed i Vitelli a Città di Castello 89
In Romagna; gli Sforza a Pesaro, i Malatesta a Rimini, i Riario a Forlì ed Imola, i Manfredi a Faenza 90
Ravenna e Cervia ai Veneziani; i Bentivoglio signoreggiano Bologna, i duchi d'Este Ferrara 91
Oppressivo governo di tutti questi piccoli principi 93
Frequenti esempi di atroci delitti dati dalle famiglie sovrane 94
Carattere comunicato al popolo da un tale governo 95
Cesare Borgia progetta di occupare tutti gli stati de' vicarj pontificj 96
Lodovico XII gli accorda Ivone d'Allegre per servirlo in tale intrapresa 97
9 dicembre. Presa d'Imola 97
Presa di Forlì. Cattarina Sforza rimane prigioniera 98
1500 Si rende più intima l'alleanza tra Cesare Borgia e Lodovico XII 99
I Veneziani, il duca di Ferrara ed i Fiorentini abbandonano i principi della Romagna 100
I Malatesta e Sforza fuggono. Astorre III Manfredi resiste in Faenza 101
1501 22 aprile. Faenza si arrende per capitolazione 103
Cesare Borgia viola la capitolazione e fa perire Astorre Manfredi 104
1501 Il papa accorda l'investitura del ducato di Romagna a suo figlio Cesare Borgia 105
Crudele governo in Romagna di Ramiro d'Orco, luogotenente dei Borgia 105
1502 23 dicembre. Supplicio di Ramiro d'Orco 106
Cesare Borgia rivolge gli ambiziosi suoi pensieri verso la Toscana; stato di quella provincia 107
1500 19 luglio. Pandolfo Petrucci fa uccidere suo suocero per innalzarsi alla tirannide 108
Apparente moderazione di Petrucci giunto al supremo potere 109
Spossamento delle due repubbliche di Firenze e di Pisa 110
Trattato di sussidj di Firenze colla Francia, che promette di ajutarla a ricuperare Pisa 111
I Fiorentini domandano che Ugo di Belmonte comandi l'armata ausiliaria francese 112
I Francesi al soldo de' Fiorentini fanno la guerra per conto loro in Lombardia 113
29 giugno. L'armata francese giugne sotto Pisa, ed apre la trincea 114
Si abbandona all'antica sua parzialità pei Pisani 115
I Pisani invocano la generosità de' cavalieri francesi 116
Indisciplina nel campo de' Francesi che più non vogliono combattere 118
18 di luglio. Ugo di Belmonte leva l'assedio di Pisa e si ritira in Lombardia 119
Debolezza de' Fiorentini dopo la ritirata dell'armata francese 119
1501 25 febbrajo. Sollevazione e guerra civile a Pistoja 121
Deplorabile stato in cui si trova la repubblica fiorentina 121
Cesare Borgia cerca di farle carico a cagione di un condottiere dalla medesima rimandato 123
Il Borgia sforza Giovanni Bentivoglio ad essergli tributario 123
Cesare Borgia si concerta con Giuliano de' Medici per attaccare Firenze 125
Maggio. Entra in Toscana, e vuole dettar leggi alla repubblica fiorentina 126
Guasta le campagne, sempre protestando di volersi conservare amico della repubblica 128
Fomenta una congiura in favore de' Medici 129
Tratta coi Fiorentini e da loro ottiene un sussidio 129
4 giugno. Entra colla sua armata nel territorio di Piombino 130
28 giugno. Lascia che i suoi luogotenenti continuino l'assedio di Piombino 131
5 settembre. Piombino si arrende ai suoi luogotenenti, mentre ch'egli segue la spedizione di Napoli 131
Ambizione di Lodovico XII, e suoi progetti sopra Napoli 132
Lodovico teme di essere attraversato dal re di Spagna 133
1501 Rifiuta le offerte di Federico, ed accetta quelle di Ferdinando 134
Progetto di divisione della monarchia di Napoli tra Lodovico XII e Ferdinando 135
1500 11 di novembre. Trattato di Granata che regola questa divisione 135
Ferdinando aduna un'armata in Sicilia sotto pretesto di muovere guerra ai Turchi 136
1501 Giugno. Lodovico XII fa innoltrare la sua armata sotto gli ordini di d'Aubignì 137
Apparecchi di difesa di don Federico, e sua fiducia in Gonsalvo di Cordova 138
6 giugno. Gli ambasciatori di Francia e di Spagna annunciano al papa il trattato di divisione 139
26 giugno. Alessandro VI pronuncia una sentenza contro don Federico per privarlo del regno di Napoli 139
Gonsalvo di Cordova, durante il suo cammino, continua ad ingannare Federico 140
Cattivo stato di Federico ridotto a chiudere ne' forti le sue truppe 141
24 luglio. Presa e sacco di Capoa fatto dall'armata di d'Aubignì 142
Crudeltà de' Francesi e di Cesare Borgia a Capoa 143
19 agosto. I Francesi entrano in Napoli e Gaeta senza trovare opposizione 144
25 agosto. Don Ferdinando consegna le fortezze di Napoli al d'Aubignì, e si ritira ad Ischia 145
1501 Passa in Francia e riceve dal re il ducato d'Angiò 146
Gonsalvo di Cordova s'impadronisce lentamente della Puglia e della Calabria 147
Assedio e lunga resistenza di Taranto, dov'erasi ritirato don Ferdinando, duca di Calabria, primogenito di Federico 148
Il duca di Calabria, ingannato da falsi giuramenti, viene mandato prigioniere in Ispagna 149
1504 9 settembre. Morte di don Federico in Angiò ed estinzione della casa arragonese di Napoli 150
Capitolo CI. Guerra nel regno di Napoli tra Lodovico XII e Ferdinando il cattolico; rivoluzione d'Arezzo; conquiste di Cesare Borgia; carnificina di Sinigaglia; battaglia di Cerignole; i Francesi scacciati dal regno di Napoli. 1501-1503 152
1501 Pregiudizj degli oltramontani sul conto della finezza e della furberia italiana 152
Mala fede di Massimiliano 153
Degli Svizzeri, de' Francesi, dei Borgia Spagnuoli, di Ferdinando, e di Gonsalvo di Cordova 154
Perfidia del trattato di Granata, e guerra che ne risulta 156
La Capitanata e la Basilicata rivendicate dalle due potenze condividenti 157
Cominciamento delle ostilità ad Atripalda 157
Sono sospese, e la controversia viene rimessa ai due re 158
1502 19 giugno. Il duca di Nemours intima la guerra a Gonsalvo di Cordova, che si ritira a Barletta 159
Rinnovazione dei partiti d'Angiò e d'Arragona 159
I Francesi pendono dubbiosi tra l'assedio di Bari e di Barletta 160
Il duca di Nemours si ristringe a bloccare Barletta 162
Il d'Aubignì con un terzo dell'armata scaccia gli Spagnuoli dalla Calabria 162
Il Nemours attacca le città vicine a Barletta 163
Duello in campo chiuso tra undici Francesi ed undici Spagnuoli 163
Duello in campo chiuso di Bajardo e di Sotomayor 165
Miseria di Gonsalvo e della sua armata in Barletta 166
I Francesi offrono battaglia a Gonsalvo, che non l'accetta; ma mentre si ritirano, la loro retroguardia viene da lui disfatta 168
Disprezzo manifestato da un prigioniere francese per gli uomini d'armi italiani 169
Duello in campo chiuso, presso Barletta, fra tredici Francesi ed altrettanti Italiani 170
1503 13 febbrajo. Vittoria dei 13 Italiani 170
1501 Negoziazioni di Lodovico XII con Massimiliano per l'investitura del ducato di Milano 173
30 ottobre. Conferenza di Trento tra il card. d'Amboise e Massimiliano 174
1501 Non possono sottoscrivere un trattato di pace, ma la tregua viene prolungata 175
1502 21 febbrajo. Due ambasciatori, spediti da Massimiliano agli stati d'Italia, giungono a Firenze 175
16 aprile. Nuovo trattato di protezione de' Fiorentini con Lodovico XII 176
1501 4 settembre. Matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso, figlio primogenito del duca di Ferrara 177
Sorte dei tre precedenti sposi di Lucrezia Borgia; uccisione dell'ultimo, ordinata da Cesare Borgia 178
1502 13 giugno. Cesare Borgia parte da Roma, minacciando la Toscana e le Marche 180
Occupa per tradimento il ducato di Urbino 181
La repubblica di S. Marino si pone sotto la sua protezione 182
4 giugno. Vitellozzo Vitelli fa ribellare Arezzo contro i Fiorentini 183
18 giugno. La rocca d'Arezzo si arrende ai Vitelli, Orsini e Medici 184
Il re di Francia vieta a Cesare Borgia di attaccare Firenze 184
Cesare Borgia prende Camerino, e fa strozzare il principe e due suoi figliuoli 185
Conquiste di Vitellozzo in Val di Chiana e nel Casentino prima che gli giungano i soccorsi di Francia 185
1 agosto. Vitellozzo, vedendosi abbandonato da Cesare Borgia, rende le sue conquiste al generale francese mandato da Lodovico XII ai Fiorentini 187
1502 Querele di tutti i nemici del Borgia presso Lodovico XII, venuto ad Asti per regolare le cose d'Italia 188
Il cardinale d'Amboise favorisce i Borgia 189
3 agosto. Cesare Borgia parte da Roma per recarsi a Milano presso Lodovico XII, che lo accoglie favorevolmente 190
Agosto. Lodovico XII sovviene trecento lance a Cesare Borgia per proseguire le conquiste a danno degli amici della Francia 190
Terrore de' Fiorentini, vedendo Cesare Borgia apertamente secondato dal re 191
Inquietudine che loro cagiona l'instabilità del proprio governo a cagione del troppo frequente rinnovamento della magistratura 193
16 agosto. Legge che dà un gonfaloniere a vita alla repubblica 194
22 settembre. Piero Soderini nominato gonfaloniere a vita 195
Tutti i vicarj pontificj, che avevano servito nelle armate di Cesare Borgia, si credono da lui minacciati 197
Dieta alla Magione, e confederazione degli Orsini, Vitelli, Baglioni, Petrucci e Bentivoglio per muovere guerra a Cesare Borgia 198
Perfidia d'Oliverotto da Fermo, uno de' confederati della Magione 199
I confederati non possono persuadere i Fiorentini ad entrare nella loro lega 200
1502 I Veneziani affrettano Lodovico XII ad abbandonare il Borgia, e questo re loro risponde colle minacce 200
Ottobre. Il duca d'Urbino ristabilito ne' suoi stati dai confederati 201
Cesare Borgia richiama ad Imola i suoi capitani che sono battuti 202
Pericolo cui trovasi esposto in Imola Cesare Borgia. Tratta per guadagnare tempo 203
Apparente lealtà di Cesare Borgia, sue negoziazioni col Macchiavelli, segretario della Repubblica fiorentina 204
Cospirazioni negli stati del Borgia, che intanto va sordamente ragunando un'armata 206
Conferenze del Borgia con Paolo Orsini 207
28 ottobre. Trattato di pace coll'Orsini, Vitelli ed Oliverotto 208
2 dicembre. Altro trattato di pace del Borgia col Bentivoglio 210
8 dicembre. Il duca d'Urbino si ritira dai suoi stati, che di nuovo si assoggettono al Borgia 210
19 dicembre. Il Borgia attraversa la Romagna colla sua armata 211
22 dicembre. Licenzia le truppe francesi che aveva seco condotte 213
Cesare Borgia, volendo attaccare Sinigaglia, il comandante dichiara di non voler consegnare che a lui solo la rocca 213
31 dicembre. Il Borgia entra in Sinigaglia dove i confederati della Magione lo stavano aspettando 214
1502 Fa arrestare e strozzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto di Fermo, Paolo Orsini ed il duca di Gravina 214
1503 4 gennajo. Accoglie la sommissione di Città di Castello 217
5 gennajo. Riceve la sommissione di Perugia evacuata da G. P. Baglioni 218
Vuole egualmente scacciare Pandolfo Petrucci da Siena 219
28 gennajo. Pandolfo Petrucci consente di evacuare Siena, ma senza che si faccia mutazione di governo 220
1.º febbraio. Il papa fa arrestare il cardinale e tutti i prelati della casa Orsini 221
22 febbrajo. Fa perire di veleno il cardinale Orsini 222
Il re di Francia ed i Veneziani si fanno a proteggere Gian Girolamo Orsini ed il conte di Pitigliano 223
29 marzo. Il re di Francia ristabilisce a Siena Pandolfo Petrucci 224
Continuazione della guerra tra Firenze e Pisa, che impedisce la proposta lega dei comuni di Toscana 225
16 e 18 giugno. I Fiorentini occupano Vico Pisano e Verrucola 226
Il Valentino cessa di deferire agli ordini della Francia dopo le sconfitte avute da questa nel regno di Napoli 228
Gonsalvo di Cordova rifattosi a Barletta per effetto dell'avarizia de' generali francesi 228
1505 Conquiste del duca di Nemours nella terra di Bari ed in quella d'Otranto 230
Ribellione di Castellaneta, sorpresa e prigionia di La Palisse a Robio 231
Arrivo e primi successi di Ugo di Cardona in Calabria 232
Ugo di Cardona battuto a Terranuova dal d'Aubignì 233
Arrivo in Calabria di una nuova armata spagnuola sotto gli ordini di Porto Carrero 234
11 aprile. Trattato di Locarno tra Lodovico XII ed i cantoni Svizzeri, col quale loro cede Bellinzona in piena sovranità 235
5 aprile. Trattato di Lione negoziato dall'arciduca Filippo d'Austria per assicurare il regno di Napoli a suo figlio Carlo 236
Ferdinando e Gonsalvo ricusano di ratificarlo 238
21 aprile. Seconda battaglia di Seminara; il d'Aubignì totalmente disfatto da Ferdinando d'Andrades 239
Gonsalvo di Cordova riceve un rinforzo di due mila tedeschi, e risolve di entrare in campagna 240
Andrea Matteo Acquaviva fatto prigioniero da Pietro Navarro 241
28 aprile. Gonsalvo di Cordova si reca da Barletta alla Cerignole 242
Il duca di Nemours giugne ancor egli alla Cerignole 243
28 aprile. Il Nemours contro il proprio parere attacca gli Spagnuoli a Cerignole mezz'ora prima di sera 243
1503 Il Nemours è ucciso, sconfitta dell'armata francese 245
Ivone d'Allegre inseguito da don Pietro de Paz fin dietro il Garigliano 246
Gli Abruzzi, la Puglia e la Calabria si assoggettano agli Spagnuoli, ed il d'Aubignì loro si dà prigioniere ad Angitula 248
14 maggio. Gonsalvo di Cordova entra in Napoli 249
11 giugno. Castel Nuovo preso da don Pietro di Navarra dopo lo scoppio di una mina 249
2 luglio. Castel dell'Uovo preso nella stessa maniera, ed i Francesi scacciati da tutto il regno di Napoli 250
Capitolo CII. Guerra dei Veneziani coi Turchi. — Morte di Alessandro VI. — Elezione di Pio III e di Giulio II. — Disastri del Valentino, sconfitta dei Francesi al Garigliano. — Tregua tra la Francia e la Spagna. 1499-1504 252
La repubblica di Venezia non aveva preso parte nelle guerre di Lombardia e di Napoli 252
1499-1505 Trovavasi in allora in guerra coi Turchi 253
Pacifico regno di Bajazette II, che per altro non dissipa il terrore impresso all'Europa dalle armi dei Turchi 254
1449 Motivi della guerra, incursioni de' Turchi ai confini 255
Trama dei Turchi per sorprendere Corfù 257
1499 Niccolò Pesaro cola a fondo una galera turca 258
Bajazette sottoscrive un trattato in latino con intenzione di violarlo 258
Attacca improvvisamente Zara, e così comincia la guerra 259
Il comando della flotta veneziana dato ad Antonio Grimani; inaudita prosperità di quest'uomo 259
Agosto. La flotta del Grimani incontra quella dei Turchi presso Modone 261
12 agosto. Battaglia di due galere veneziane con un vascello turco; tutti e tre periscono incendiati 262
Il Grimani schiva la battaglia, e disgusta colla sua timidità i Francesi che si erano a lui uniti 264
Il Grimani arrestato e tradotto in giudizio a Venezia 265
Viene relegato nelle Isole del Quarnero 266
29 settembre. I Turchi passano l'Isonzo e guastano il Friuli 267
1500 Gennajo. Proposizioni di pace dei Veneziani rigettate dai Turchi 268
I Turchi assediano Modone 269
9 agosto. Girolamo Contarini tenta di soccorrere Modone 269
Modone viene preso e bruciato dai Turchi 270
Pilos e Corone si arrendono ai Turchi; Napoli di Malvasia fa resistenza 271
Prosperi successi di Benedetto Pesaro nuovo ammiraglio Veneziano 273
1.º novembre. Presa di Cefalonia fatta da Pesaro e da Gonsalvo di Cordova 273
1501 Vantaggi ottenuti dal Pesaro alla Prevesa e ad Alessio 274
Soccorsi mandati ai Veneziani dal Papa, dai Francesi e dai Portoghesi 275
Diversione fatta da Uladislao re d'Ungheria e di Boemia 276
1502 Bajazette II attaccato da Ismaele Sofì, re di Persia 277
Proposizioni di pace fatte ai Veneziani 278
1503 Trattato di pace tra la Porta e Venezia sottoscritto da Andrea Gritti 279
Il trattato di pace permette ai Veneziani di riprendere una parte attiva negli affari d'Italia 279
Lodovico XII si apparecchia ad attaccare Ferdinando il Cattolico in Ispagna ed in Italia 280
Potente armata condotta in Italia da La Tremouille 281
Negoziazioni di La Tremouille con Alessandro VI e con Cesare Borgia 282
18 agosto. Subita morte di Alessandro VI e malattia di Cesare 283
Vantaggi pecuniarj che trovava il papa in occasione della morte dei cardinali 284
Comune opinione intorno alla morte di Alessandro VI, cagionata dal veleno ch'egli aveva apparecchiato per il cardinale di Corneto 285
Dubbj insorti intorno a tale diceria, e mezzo di conciliare le due narrazioni 286
Le disposizioni di Alessandro VI in materia ecclesiastica sono sempre in vigore 287
1503 La censura de' libri fu da lui istituita 288
La malattia di Cesare Borgia, nel momento in cui morì suo padre, guastò tutti i suoi divisamenti 288
Si mantiene in Vaticano e tratta coi Colonna 290
I nemici del Borgia rientrano armati in Roma 290
Rivoluzioni contro il Borgia negli stati della Chiesa 291
La Romagna soddisfatta del suo governo si conserva fedele 292
Il marchese di Mantova succede a La Tremouille nel comando dell'armata francese 293
Quest'armata è ritenuta vicino a Roma per favoreggiare le pretensioni del cardinale d'Amboise al papato 294
1.º settembre. Nuovo trattato tra il Borgia e la Francia 294
I cardinali vogliono essere indipendenti da Borgia e dai Francesi 295
22 settembre. Elezione di Francesco Piccolomini, che prende il nome di Pio III 297
Dopo l'elezione del papa i soldati di ogni partito rientrano in Roma 297
Gli Orsini, lasciando il servigio della Francia, passano a quello della Spagna 298
Riconciliazione degli Orsini coi Colonna 299
Mettono in fuga l'armata del Borgia, e costringono lui medesimo a salvarsi in Castel sant'Angelo 299
18 ottobre. Morte di Pio III 300
1503 I suffragj si riuniscono in favore di Giuliano della Rovere. Amboise gli dà quelli del partito francese 301
Ascanio Sforza gli dà quelli degl'Italiani, e Cesare Borgia quelli degli Spagnuoli 302
31 ottobre. Egli viene eletto sotto nome di Giulio II 303
Insurrezione delle città di Romagna contro il Valentino 303
Le rocche di quelle città si mantengono fedeli al Borgia 304
I Veneziani portano la loro ambizione sulla Romagna 305
Essi attaccano Cesena e Faenza, e si fanno cedere Forlimpopoli e Rimini 305
Giulio II tenta colle rimostranze di stornare i Veneziani dalla loro intrapresa sulla Romagna 307
I Veneziani offrono per le città di Romagna lo stesso censo che avevano pagato i precedenti vicarj alla camera apostolica 308
19 novembre. Faenza loro si arrende per capitolazione. Quadro del regno di Manfredi 309
3 novembre. Cesare Borgia viene dal papa alloggiato in Vaticano 311
Vasti progetti di Cesare Borgia sproporzionati alla sua fortuna 311
Dopo aver date tante prove di mala fede, non insospettisce della fede degli altri 312
Giulio II vede con piacere il Borgia abbandonato dagli antichi suoi amici 313
1503 19 novembre. Il Borgia parte alla volta di Ostia con intenzione d'imbarcarsi per la Spezia 313
22 novembre. Giulio II gli fa domandare le rocche della Romagna, e perchè le rifiuta lo fa arrestare 314
L'armata del Valentino viene attaccata e dispersa dai Perugini e dai Fiorentini 315
2 dicembre. Il Valentino, ricondotto al Vaticano, sottoscrive un ordine per consegnare al papa le sue fortezze 316
La guerra tra la Francia e la Spagna, fuori d'Italia, viene illustrata da pochi avvenimenti 317
Dopo l'elezione di Giulio II, l'armata francese, sotto gli ordini del marchese di Mantova, si avanza verso Napoli 318
Indisciplina dell'armata, e fatali conseguenze della sua lunga dimora presso Roma 319
I Francesi, avanzandosi dalla banda di Ponte Corvo, non possono forzare il passaggio di S. Germano 320
Prendono la via di Fondi, e si trattengono al passaggio del Garigliano 320
5 novembre. Gettano un ponte sul Garigliano in onta a Gonsalvo di Cordova 321
6 novembre. Gli Spagnuoli attaccano il ponte de' Francesi, e gli forzano a coprirsi con una testa di ponte 322
Patimenti delle due armate in tempo delle continue piogge 323
1503 Motivi ch'ebbe il marchese di Mantova di aspettare senza fare verun movimento il fine delle piogge 324
I Francesi incolpano il loro generale di tutti i mali che soffrono 325
1.º dicembre. Il marchese di Mantova lascia il comando dell'armata e si ritira ne' suoi stati 326
Scemano le forze dei Francesi mentre ingrossano quelle di Gonsalvo 326
27 dicembre. Gonsalvo fa passare il Garigliano alla sua armata, ed attacca il campo francese 327
Il marchese di Saluzzo taglia il ponte del Garigliano ed abbandona i suoi quartieri per ritirarsi a Gaeta 328
I Francesi si ritirano in buon ordine fino a Molo di Gaeta 329
Si danno poi alla fuga e vengono rotti del tutto 329
Piero de' Medici si annega nel Garigliano 330
1504 1.º gennajo. I Francesi chiusi in Gaeta capitolano e consegnano quella città al Gonsalvo 331
Prodigiosa mortalità tra coloro che si erano salvati dalla sconfitta del Garigliano 332
Il Gonsalvo, trattenuto dalla mancanza del danaro, si accontenta di forzare Lodovico d'Ars ad uscire dal regno 333
Giulio II schiva di compromettersi cogli Spagnuoli 334
Affida Cesare Borgia al cardinale Carvajale con ordine di lasciarlo libero, fatta la consegna delle fortezze della Romagna 335
1504 19 aprile. Cesare Borgia, posto in libertà, passa a Napoli, dov'è ben accolto 336
26 maggio. Gonsalvo lo fa arrestare, lo manda prigioniero in spagna nella fortezza di Medina del Campo 337
11 febbrajo, 31 marzo. Tregua di tre anni tra la Spagna e la Francia 337
Capitolo CIII. Riposo e servitù dell'Italia; piccole guerre in Romagna ed in Toscana. Giulio II sottomette alla Chiesa Perugia e Bologna. 1504-1506 339
1504 La pace, sebbene umiliante, accolta con gioja in Italia 339
Rinascono lentamente gli abusi che fanno nuovamente desiderare la guerra 340
Malcontento che eccitano in Milano ed in Napoli il giogo francese e spagnuolo 341
Gelosia degli altri stati d'Italia contro la repubblica di Venezia, che non avea partecipato alle comuni calamità 342
Progressi di Giulio II nel suo disegno di sottomettere la Romagna 343
10 di maggio. Obbliga l'ultimo dei Montefeltro ad adottare Guidubaldo della Rovere, cui assicura il ducato d'Urbino 344
Sommissione di Forlì al papa. Si spegne la famiglia degli Ordelaffi di Forlì: prospetto cronologico del loro regno 345
Il papa minaccia i Veneziani per forzarli a rendergli Faenza e Rimini 349
1504 Si continua la guerra tra Firenze e Pisa, non avvi guerra fuori d'Italia 350
I Fiorentini cercano d'assicurarsi la neutralità di Gonsalvo di Cordova 351
25 maggio. Essi saccheggiano la pianura di Pisa, e prendono Librafratta 352
Agosto. Ricominciano i loro guasti col distruggere il grano turco 352
Vogliono divertire l'Arno di Pisa, ma non possono riuscirvi 353
I Pisani vogliono darsi ai Genovesi ed a Lodovico XII, che non gli accettano 354
Negoziazioni per la pace tra Lodovico XII e Ferdinando 355
Esse vengono interrotte d'altre negoziazioni con Massimiliano 357
22 settembre. Tre trattati, sottoscritti a Blois, tra Lodovico XII, Massimiliano e Filippo 357
9 settembre. Morte di Federico d'Arragona, re destituito di Napoli 358
26 novembre. Morte d'Elisabetta di Castiglia 358
1505 25 gennajo. Morte d'Ercole d'Este, duca di Ferrara; successione d'Alfonso I 359
Riavvicinamento di Ferdinando il Cattolico e di Luigi XII 360
4 aprile. Ratifica de' trattati di Blois a Haguenau 361
12 ottobre. Trattato di Blois tra Lodovico XII e Ferdinando 362
25 marzo. Continuazione della guerra di Pisa; sconfitta di Lucca Savelli al ponte Capellese 363
1505 8 aprile. I Fiorentini nel momento di bisogno abbandonati da Giovan Paolo Baglioni 365
Congiura de' piccoli tiranni vicini di Firenze, per ristabilire i Medici in questa città 366
Progetti di Gonsalvo di Cordova d'approfittare d'una malattia di Lodovico XII per iscacciare i Francesi dalla Lombardia 366
Le truppe, riunite per quest'oggetto da Gonsalvo, e condotte da Bartolomeo d'Alviano, attaccano il partito ghibellino negli stati della Chiesa 367
Dopo la guarigione di Lodovico XII, Bartolomeo d'Alviano le conduce in Toscana 368
L'Alviano perde i suoi vantaggi per l'irrisoluzione o la dissimulazione de' suoi alleati 369
17 agosto. Egli viene attaccato alla torre di san Vincenzo dall'armata fiorentina 371
Egli è completamente battuto 372
I Fiorentini esitano fra l'attacco di Siena e quello di Pisa 373
La loro armata vittoriosa si determina d'attaccar Pisa 373
8 settembre. Le milizie fiorentine non osano dar l'assalto a breccia aperta 374
13 settembre. Esse rifiutano di nuovo di montare all'assalto, quantunque la breccia sia molto più allargata 375
14 settembre. Alcune truppe spagnuole entrano in Pisa, ed i Fiorentini levano l'assedio 376
1505 Il cardinal Ippolito d'Este fa cavar gli occhi a suo fratello naturale don Giulio 377
Congiura di don Giulio e don Ferdinando d'Este contro i loro fratelli, il duca Alfonso ed il cardinal Ippolito 378
1506 Luglio. La congiura è scoperta, i due principi rinchiusi per sempre, ed i loro complici condannati a morte 379
Questi avvenimenti, dissimulati dagli storici e dai poeti cortigiani 380
Tutta l'attenzione dell'Italia era diretta sopra i principi forestieri che se la dividevano 381
27 giugno. Trattato di Filippo, re di Castiglia, arrivato nella Spagna, con Ferdinando, che gli rimette l'amministrazione del suo regno 383
4 settembre. Ferdinando s'imbarca a Barcellona per passare a Napoli, dov'egli paventava forte il nome di Gonsalvo di Cordova 383
Massimiliano annunzia agli stati d'Italia il suo viaggio a Roma, per prendervi la corona imperiale 384
Lodovico XII cerca di sventare questo progetto, a cui Massimiliano rinunzia per quest'anno 385
Giulio II si prepara coll'economia all'esecuzione de' progetti ch'egli aveva annunziati 386
Egli cerca di riunire i sovrani di Francia, di Germania e della Spagna contro Venezia 387
Egli progetta un attacco contro Perugia e Bologna ed obbliga la Francia e Venezia a darvi mano 388
1506 Lodovico XII aveva preso l'impegno di proteggere Giovanni Bentivoglio, e vedeva di mal occhio la spedizione contro Bologna 389
Non pertanto egli aveva promesso al papa d'assisterlo contro Bentivoglio 390
27 agosto. Giulio II parte per la sua spedizione contro Perugia 390
8 settembre. Gio. Paolo Baglioni viene ad Orvieto per sottomettersi al papa che l'accoglie graziosamente 392
13 settembre. Il papa entra con tutta la sua corte in Perugia, e si confida a Baglioni, che non lo tradisce 393
Egli ristabilisce a Perugia un'amministrazione repubblicana 394
La sua irritazione contro Bentivoglio, e tirannia di questo 395
Bentivoglio abbandonato da tutti i suoi vicini e suoi alleati 396
M. de Chaumont è spedito da Lodovico XII contro Bentivoglio 396
10 ottobre. Giulio II pubblica una bolla di scomunica contro Bentivoglio e suoi aderenti 397
20 ottobre. Giulio II si trova ad Imola alla testa d'una considerabile armata 397
25 ottobre. M. de Chaumont fa intimare a Bentivoglio d'abbandonare il supremo potere 398
2 novembre. Bentivoglio si rifugge al campo francese per implorare la protezione di M. de Chaumont 400
I Bolognesi obbligano i Francesi ad allontanarsi, inondando il loro accampamento 401
11 novembre. Giulio II fa la sua entrata in Bologna, e ne riforma il governo. Egli fonda l'oligarchia de' Quaranta 402
I Fiorentini schivano qualunque ostilità coi Pisani, e fanno una tregua di tre anni coi Sanesi 403
Settembre. Arrivo di Ferdinando il Cattolico in Italia 404
25 settembre. Morte di Filippo I a Burgos 404
1.º novembre. Entrata di Ferdinando il Cattolico in Napoli 405
Egli ricolma d'onori Gonsalvo di Cordova, ma gli fa lasciar Napoli per la Spagna 406
Capitolo CIV. Sollevazione di Genova, ed il suo gastigo da Lodovico XII; abboccamento di questo monarca con Ferdinando il Cattolico; Massimiliano minaccia la Francia; egli attacca i Veneziani, quindi fa la pace con loro; miseria di Pisa, e la sua sommissione ai Fiorentini. 1506-1509 408
1506 Tranquillità di Genova durante l'ultimo periodo 408
Favore accordato dal governo francese alla nobiltà di Genova contro il popolo 409
Insolenza de' nobili genovesi contro il popolo 410
1504 I nobili genovesi rifiutano Pisa che si rende a loro, mentre che i cittadini volevano accettarla 411
1504 Potenza di Giovanni Luigi de' Fieschi, capo del partito de' nobili 411
1506 Gelosia e risentimento delle prime famiglie dell'ordine popolare, che si credevano eguali ai nobili per nascita 412
Il popolo domanda i due terzi degli onori pubblici, lasciandone il terzo ai nobili 414
Visconti Doria ucciso in una contesa con un uomo del popolo 414
Legge, emanata in seguito ad una sollevazione, per accordare all'ordine del popolo i due terzi degli onori pubblici 415
Nuova sommossa popolare, e fuga dei nobili in Asti 416
Filippo de Ravenstein fa la sua entrata in Genova; e vi permette la creazione de' tribuni del popolo 417
Lodovico XII approva il decreto che riserva al popolo i due terzi degli onori pubblici 418
Ma egli esige per condizione che G. L. de' Fieschi sia ristabilito nella sua patria e ne' suoi feudi 418
I tribuni non vogliono consentire alla restituzione dei feudi di G. L. de' Fieschi 418
Settembre. Essi attaccano Monaco, fortezza de' Grimaldi, che serviva d'asilo ai pirati 419
1506 25 ottobre. Ravenstein lascia Genova, che riguarda come in istato di ribellione 422
1507 Il comandante del castello di Genova attacca la città, ed abbrucia alcuni vascelli nel porto senza dichiarazione di guerra 423
Intercessione di Giulio II a favore de' Genovesi, e la sua irritazione contro la Francia 424
Massimiliano dichiara ch'egli accorderà la sua protezione ai Genovesi; ed offre la sua mediazione 425
I Genovesi nominano Paolo de Novi per Doge 426
Primi successi de' Genovesi contro i Fieschi, nella riviera di Levante 427
Aprile. Lodovico XII s'avanza verso Genova con una fortissima armata 428
Le milizie genovesi, colpite da un panico terrore, abbandonano le gole delle montagne 429
Terrore in Genova; vani sforzi di Paolo di Novi, affin di provvedere alla sua difesa 429
I Genovesi scacciati dai Francesi da Belvedere 431
I Genovesi s'arrendono a Lodovico, a discrezione 432
29 aprile. Lodovico XII entra in Genova a spada tratta 433
Punizione de' Genovesi, celebrata come una prova della clemenza del re 434
14 maggio. Lodovico XII licenzia le sue truppe, per calmare i timori delle altre potenze, e viene a Milano 435
4 giugno. Ferdinando il cattolico abbandona Napoli, che lascia disgustata 437
1507 Egli non può andar d'accordo con Giulio II sopra le investiture 436
Ferdinando richiamato in Ispagna per la follia della sua figlia Giovanna 437
Cesare Borgia era fuggito dalle prigioni di Ferdinando 438
10 marzo. Cesare Borgia ucciso in una imboscata presso Viana 439
28 giugno. Conferenza di Ferdinando e di Lodovico XII a Savona 440
Onori compartiti a Gonsalvo di Cordova; suo esiglio e sua disgrazia fino alla sua morte, sopravvenuta il 2 dicembre 1515 440
Spavento che aveva cagionato a tutti gli stati la spedizione di Lodovico XII in Italia 441
Odio di Giulio II contro Lodovico XII, all'occasione d'un tentativo di Bentivoglio sopra Bologna 442
Massimiliano viene a presedere una dieta dell'Impero a Costanza 443
Egli domanda all'Impero un'armata per vendicarsi della Francia, e per assicurare le sue ragioni sopra l'Italia 444
Gli agenti francesi calmano l'irritazione de' principi tedeschi 445
20 agosto. La dieta si separa senza aver prese le misure bastanti per il successo della guerra 446
Massimiliano forma tre armate dell'Impero, lontane l'una dall'altra, perchè non si possa indovinare il suo disegno 447
1507 Massimiliano domanda il passaggio ai Veneziani 448
Lodovico XII cerca d'assicurarsi l'alleanza de' Veneziani 448
I Veneziani si decidono in favore della Francia, ed offrono all'imperatore di riceverlo senza armata 449
Sdegno di Massimiliano contro i Veneziani 450
Egli fa delle domande esorbitanti a tutti gli stati d'Italia 451
Preparativi di difesa di Lodovico XII 452
Prime ostilità, senza risultato, di due emigrati genovesi 453
1508 Severità di Lodovico XII verso i Bentivoglio, che decide Giulio II a restar neutrale 455
5 febbrajo. Massimiliano denuncia il cominciamento della guerra nella chiesa di Trento 455
Inconseguenze, e movimenti retrogradi di Massimiliano 456
2 marzo. Vittoria di Bartolomeo d'Alviano sopra i Tedeschi nella Valle di Cadoro 458
Conquiste dell'Alviano sul golfo adriatico 459
L'armata dell'impero si dissipa interamente, mentre che l'imperatore viaggia al nord della Germania 460
7 giugno. Tregua di tre anni tra l'imperatore e Venezia 461
Germi di malcontento lasciati da questa corta guerra 462
1508 Perfidia del re di Francia ne' suoi rapporti coi Veneziani 463
Cattiva fede del re di Francia ne' suoi rapporti co' Fiorentini 463
1507 Miseria di Pisa, pronta a sottomettersi ai Fiorentini 464
Lodovico XII e Ferdinando il Cattolico convengono di farsi pagare la sommissione di Pisa 465
Impiego della nuova milizia, ossia ordinanza fiorentina contro Pisa 466
1508 Rimproveri che manda Lodovico XII ai Fiorentini e loro giustificazione 467
Lodovico XII e Ferdinando offrono di nuovo di vendere Pisa ai Fiorentini 469
Lodovico spedisce soccorsi a Pisa per difendere la città fin che l'ebbe venduta 471
1509 13 marzo. Trattato di Lodovico e Ferdinando coi Fiorentini per vender loro Pisa 472
11 gennajo. Trattato dei Lucchesi coi Fiorentini, col quale s'impegnano ad abbandonar Pisa 473
Febbrajo. Convoglio di grano, spedito da Genova, che non può entrare in Pisa 474
Marzo. I Pisani domandano la mediazione del signor di Piombino 475
14 marzo. Conferenza di Macchiavelli a Piombino coi Pisani 476
Spaventevole miseria de' Pisani 476
20 maggio. Nuove proposizioni de' Pisani per capitolare 477
1509 8 giugno. Le truppe fiorentine entrano in Pisa 478
I Pisani trattati dai Fiorentini con una grande generosità 479
Emigrazione della maggior parte delle famiglie pisane 480
Il campo francese serve di ritirata a molte di loro, che dopo la fine delle guerre d'Italia si stabilirono in Francia 480
Capitolo CV. Lega di Cambrai; battaglia di Vailate o d'Agnadello, conquista di tutto lo stato della terra ferma de' Veneziani. 1508-1509 482
1508 La lega di Cambrai è la prima transazione diplomatica dove tutta l'Europa sia intervenuta 482
Con quella ebbe principio la scienza del diritto pubblico 483
Tre basi differenti date al diritto pubblico, e riclamate dai re, dai Veneziani e dal papa 484
Confusione del diritto pubblico, fondata sopra principi contraddittorj 485
Pretensioni di Lodovico XII ad alcuni diritti legittimi ed imperscrittibili su tutte le Provincie del Milanese 486
Pretensioni di Massimiliano a diritti della stessa natura sulle terre dell'Impero nel veneziano 487
Falsità di questo sistema; qualunque diritto ch'ebbe un principio può aver una fine 488
1508 La legittimità esiste per tutti i sovrani, o non esiste per nessuno 489
Seconda base del diritto pubblico; i trattati, sempre valevoli, ancorchè accettati per forza 490
Questo principio, spinto al rigore, distrugge ogni nozione del giusto e dell'ingiusto 490
Terza base del diritto pubblico, l'interesse nazionale 491
Giulio II, in nome dell'interesse nazionale d'Italia, riclama contro una legittimità o de' trattati che distruggerebbero la sua indipendenza 492
Veri motivi dell'odio delle grandi potenze contro Venezia 493
Risentimento di Massimiliano contro Venezia, che gli fa desiderare di rinnovare il trattato di Blois 494
Dicembre. Conferenze di Cambrai, sotto pretesto di trattar la pace del duca di Gueldria 495
Il cardinal d'Amboise e Margherita di Savoja deliberano soli e senza assistenti 495
10 dicembre. Trattato pubblico di Cambrai per riconciliare il duca di Gueldria, ed assicurare una nuova investitura del Milanese 496
Trattato secreto, per conchiudere la lega di tutte le potenze contro la repubblica di Venezia 497
Divisione di tutti gli stati di Venezia fra coloro che vi avevano qualche pretensione 498
1508 Il re di Francia s'impegna d'attaccare per il primo giorno d'aprile, l'imperatore ed il papa quaranta giorni dopo 499
Dissimulazione degli alleati, per sorprendere la repubblica 500
Lodovico XII, Massimiliano e Ferdinando ratificano il trattato di Cambrai 501
Esitazione di Giulio II nel ratificare questo trattato 502
1509 Proposizioni fatte al senato da Giulio II per una riconciliazione 503
Tentativi de' Veneziani per negoziare coll'imperatore 504
Essi rifiutano le proposizioni del papa 504
I Francesi cercano de' motivi di contesa coi Veneziani 505
Gennajo. Ambasciatori licenziati; dichiarazione di guerra tra la Francia e Venezia 506
Sforzi de' Veneziani per mettere in piedi una poderosa armata 507
Incendio dell'arsenale, degli archivj, della fortezza di Brescia 508
I Veneziani abbandonati da alcuni condottieri, feudatarj della Chiesa 509
Forza dell'armata veneziana riunita a Pontevico sull'Olio 509
Il conte di Pitigliano e Bartolomeo d'Alviano ne ricevono il comando 509
Piano di guerra offensivo dell'Alviano, sollevando il milanese 510
Piano di guerra difensivo di Pitigliano, dietro l'Olio 511
1509 Il senato sceglie un piano di mezzo, più pericoloso dei due estremi 512
15 aprile. M. de Chaumont passa l'Adda, e prende Treviglio 513
Egli ritorna a Milano per aspettar il re 514
27 aprile. Bolla di scomunica contro il doge e la repubblica 514
Severità delle pene fulminate dalla bolla contro i Veneziani, s'essi non si sottomettono avanti ventiquattro giorni 516
8 maggio. I Veneziani riprendono Treviglio 517
9 maggio. Lodovico XII passa l'Adda a Cassano senz'opposizione 518
Lodovico XII, marciando lungo il fiume, vuol far sortire i Veneziani dalla loro posizione 519
I Veneziani, cambiando di posizione, si trovano ravvicinati ai Francesi 520
14 maggio. L'Alviano attaccato fa domandar soccorso al Pitigliano, che glielo nega 521
Disposizioni dell'Alviano presso la diga di Vailate o d'Agnadello 521
Valore dell'Alviano e delle sue truppe, e la loro disfatta 522
Le guerre cominciano a divenire più feroci e più micidiali 523
Rapidità con cui Lodovico XII profitta della sua vittoria 524
24 maggio. Brescia si dà volontariamente nelle mani dei Francesi 526
Miseria de' Veneziani per rifare di nuovo il tesoro, e formare una nuova armata 526
1509 Sommissione di Crema, Cremona, e Pizzighettone 527
Crudeltà di Lodovico XII verso i suoi prigionieri 528
Tutti gli alleati, dopo la sconfina di Vailate, attaccano le frontiere de' Veneziani 529
Entrata dell'armata pontificia in Romagna; massacro di Brisighella 530
Tutte le città della Romagna capitolano per sottomettersi al papa 531
19 maggio. Il duca di Ferrara comincia le ostilità contro Venezia 531
Il marchese di Mantova attacca ancor egli i Veneziani 532
Le truppe di Ferdinando attaccano i Veneziani a Trani nella Puglia 532
Aggressione de' piccoli feudatarj imperiali sulle frontiere veneziane 533
Stato deplorabile dell'armata veneziana a Mestre 535
I Veneziani offrono di consegnare le loro piazze a Ferdinando, Giulio II, e Massimiliano, per tentare di disarmarli 536
Massimiliano ricusa di trattare senza il re di Francia 537
Il papa comincia a raddolcirsi con Venezia 538
I Veronesi vogliono arrendersi a Lodovico XII, che non gli accetta 539
15 giugno. Conferenze del card. d'Amboise con Massimiliano a Trento 539
Lodovico XII ritorna in Francia senza aver potuto vedere Massimiliano 540
1509 Massimiliano dissipa tutti i suoi mezzi di finanza, e si trova fuori di stato di mettere in piedi un'armata 540
Egli non è più a portata di ricevere le capitolazioni delle città che vogliono arrendersi 542
4 giugno. Padova s'arrende a Leonardo Trissino, emigrato vicentino, che ne prende possesso in nome dell'imperatore 542
Treviso, dopo d'essersi sottomesso allo stesso Trissino, lo scaccia dalle sue mura, e s'abbandona alla sorte della repubblica 545
Fine della Tavola.
NOTE:
1. Mém. de Comines, l. VIII, c. XXV, p. 431. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. VII, p. 213. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 187. — Arn. Ferronii Burd., l. II, p. 32.
2. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 191.
3. Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. VIII, p. 216.
4. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 193. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 217.
5. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 194. — Cron. Ven., t. XXIV, Rer. Ital. p. 49. — Arn. Ferroni l. III, p. 36.
6. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 207. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 95. — Machiavelli frammenti stor., p. 127. — Gli annali ecclesiastici del Rainaldo, rispetto a questo divorzio ed in particolare rispetto alle relative scandalose transazioni, sono brevissimi; l'autore si ristringe a riferire il testo dello storico francese Ferronio ad an. 1498, § 4 e 5, t. XIX, p. 471. Brevissimo è pure il vescovo di Belcario. Comm, Ber. Gall. l. VIII, p. 222. — Fr. Ferroni Rer. Gall., l. III, p. 37.
7. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 194. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 248. — Machiavelli Fram. Stor., p. 71. — P. Bembi Ist. Ven., l. IV, p. 73.
8. Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 87. — Cron. di Pisa di Jac. Arrosti in Arch. Pis. MS. I vol. f. 206. — Machiavelli il principe, c. XII, p. 285.
9. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 195. — P. Bembi Stor. Ven., l. IV, p. 75. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 52.
10. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 179. — P. Bembi Ist. Ven., l. IV, p. 74.
11. Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 104.
12. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 249. — Guicciardini, l. IV, p. 198. — Jac. Nardi, l. III, p. 88. — Cron. di Pisa di Jac. Arrosti, f. 207.
13. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 202. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 251. — Jac. Nardi, l. III, p. 89.
14. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 252. — Fr. Guicciardini, l. IV, p. 203. — Machiavelli Frammenti Ist., p. 82. — P. Bembi Ist. Ven., l. IV, p. 77.
15. Ivi, p. 79.
16. Lo stesso generale dei Camaldolesi, Pietro Delfino, attesta questo miracolo, Epis. 83, l. V, ap. Raynald. Ann. Eccl. 1498, § 9, p. 471. Vero è che egli non era presente, e che inoltre osserva a maggior conferma del fatto, che la fede di questo miracolo era più divulgata tra il popolo in ragione che più allontanavasi dalla Toscana. — P. Bembo, l. IV, p. 79. — An. Navagero, t. XXIII, p. 1216. — Mach. Framm. Stor., t. III, p. 124, i quali riferiscono questo avvenimento diversamente l'uno dall'altro.
17. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 252. — Jac. Nardi, l. III, p. 90. — Machiavelli Fram. Stor. p. 119. — Fr. Guicciardini, l. IV, p. 204.
18. Machiavelli Nature d'uomini fiorentini, t. III, p. 139, e Fram. Stor., t. III, p. 121. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 253. — Jac. Nardi, l. III, p. 91. — Marin Sanuto Ist. Ven., t. XXIV, p. 63.
19. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 205. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 253. — Jac. Nardi, l. III, p. 91. — Pet. Bembi Ist. Ven., l. IV, p. 82. — P. Giovio Vita di Leon X, l. I, p. 68. — Il Navagero termina a quest'epoca tutt'ad un tratto la sua storia di Venezia. Potrebbe supporsi che questa non fosse per lui che uno schizzo della storia in dieci libri che stava scrivendo in latino, e che è noto ch'egli ha fatta abbruciare in punto di morte. Infatti il manoscritto che fece stampare il Muratori, Scr. Rer. Ital., t. XXIII, p. 921-1216, ci offre un lavoro imperfetto ed affatto indegno della riputazione del Navagero. Fu questi uno de' ristauratori delle lettere in Italia, amico del Bembo, ed uno de' più illustri uomini di stato di Venezia. Morì a Blois l'8 maggio del 1529, ambasciatore della repubblica presso Francesco I. Pure la parte di questa storia che risguarda il fine del XX.º secolo ha il merito della veracità e l'interesse della ingenuità.
20. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 253. — Jac. Nardi, l. III, p. 93. — Machiavelli Framm. storici, p. 128.
21. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 254. — Fr. Guicciardini, l. IV, p. 216. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 93. — P. Giovio vita di Leon X, l. I, p. 69.
22. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 208.
23. Barth. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 565.
24. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 219. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 96. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 139. — P. Bembo Ist. Ven., l. IV, p. 85. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 69.
25. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 219. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 254. — Diar. Ferrar. anon., t. XXIV, p. 363. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 140. — Chron. Ven., p. 70.
26. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 220. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 255. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 97.
27. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 222. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 255. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 97.
28. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 233. — Jac. Arrosti Chron. di Pisa in Archiv. Pisano, f. 207 v.
29. Jac. Nardi, l. III, p. 98. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f. 210.
30. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 234. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 98. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f. 215.
31. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 235. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 257. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 100. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa MS., f. 219.
32. Comm. di Fil. de' Nerli, l. IV, p. 84.
33. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 235. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 257. — Jac. Nardi, l. III, p. 100. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 44. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f. 219-221.
34. P. Bembo Ist. Ven., l. IV,. 85. — Léonard, Traités de paix, t. I, p. 419 e seg.
35. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 213.
36. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 222. — Barth. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 565.
37. Bilibaldo Pyrckeimer di Norimberga, che militava nell'esercito dell'imperatore, vide ai confini della Valtellina, durante questa guerra, un branco di quaranta fanciulli d'ambo i sessi, condotti ne' campi da due donne attempate per cogliervi erbe crude onde cibarsene. Erano stati uccisi i loro parenti, bruciate le loro case, distrutti i loro approviggionamenti, sicchè non avevano che questo miserabile cibo; essi perivano gli uni dopo gli altri, e di ottanta ch'erano da principio, erano ridotti a soli quaranta; ai quali, se dovevasi giudicarne dalla loro magrezza e pallidezza, non restava che un soffio di vita. Apud Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 14, p. 481.
38. Ann. Eccl. 1499, § 5, p. 480. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 231.
39. Ann. Eccl. 1499, § 7 e 8, p. 480. — Chron. Ven., p. 116. — Jos. Ripamontii Hist Urb. Mediol., l. VII, p. 662. — P. Jovii de Vita magni Consalvi, l. I, p. 188.
40. Garnier Hist. de France, t. XI, p. 53. — Dumont, Corps Diplom., t. III.
41. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 223. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. VIII, p. 232.
42. Fr. Guicciardini, l. IV, p, 255. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VIII, p. 234.
43. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 226. — P. Bembi Hist. Ven., l. IV, p. 86. Quest'ultimo vuole che l'armata francese fosse più grossa.
44. Arn. Ferroni, l. III, p. 38. — Fr Guicciardini, l. IV, p. 226. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 103. — P. Bembo Ist. Ven., l. IV, p. 87. Ma per errore di stampa fu sostituito il nome di Novi a quello di Non o Annone. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 92. — Barth. Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 566. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 233.
45. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 227. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, f. 658.
46. P. Bembi Hist. Ven., l. IV, p. 87. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 98. — Fr. Belcarii, Comm. l. VIII, p. 234.
47. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 228. — P. Bembo Ist. Ven., l. IV, p. 87. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 99.
48. Jos. Ripamontii Hist Urb. Med., l. VII, p. 659.
49. Ivi.
50. Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 104 — Jos. Ripamontii, l. VII, p. 659. — Arn. Ferroni, l. III, p. 38.
51. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 230. — Burchardi Diar. t. V, p. 580. — Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 17, P. 582. — P. Bembo Ist. Ven., l. IV, p. 88. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 100. — Barth. Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 566. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 235.
52. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 231. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 105. — P. Bembo Ist. Ven. l. IV, p. 88. — Agost. Giustiniani Cron. di Gen., l. V, f. 255.
53. Naurclerus, l. II apud Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 20, p. 483.
54. Fr. Guicciardini, che per attestato del Nardi era uno degli ambasciatori, l. IV, p. — Jac. Nardi, l. III, p. 106. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 258.
55. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 107. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 122. — Diar. Ferrar. anon., t. XXIV, p. 375. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, p. 671. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 238.
56. Machiavelli il Principe, c. 23, p. 347.
57. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — P. Bembo Ist. Ven., l. V, p. 99. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 136. — Diar. Ferrar. anon., t. XXIV, p. 378. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, p. 672. — Arn. Ferroni, l. III, p. 39.
58. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 248. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 138. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 239. — Agost. Giustiniani Cron. di Genova, l. V, f. 255.
59. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 249. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 109. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 141.
60. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 249. — Barth. Senaregæ de reb. Gen., t. XXIV, p. 571. — Chr. Ven., t. XXIV, p. 148. — Diar. Fer. anon., t. XXIV, p. 382.
61. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 250. — Jos. Ripamonti Hist. Urb. Med., l. VII, p. 672. — Barth. Senaregae de reb. Genuens., p. 572.
62. Memorie di Lodovico della Tremouille, t. XIV, c. X, p. 162. L'autore dichiara d'avere egli stesso conosciuto ed arrestato Lodovico il Moro in abito di francescano. Gli altri lo dicono travestito da svizzero. — Giovanni d'Auton Storia di Lodovico XII, p. 110. — Mém. pour l'histoire de France, t. XIV, p. 292. — Saint Gelais hist. de Louis XII, publ. par Téod. Godefroi, Paris 1622, 4.º, p. 159. — Garnier, hist. de France, t. XXI, p. 125, 4.º. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 151. — Rodolfo di Salis, detto il Lungo, Grigione, e Gasparo Silen d'Uri, che servivano nell'armata di Lodovico il Moro, sono da Giovio e dopo di lui da Belcario accusati d'averli additati ai Francesi. Comm. Rer. Gallic., l. VIII, p. 240.
63. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 250. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 110. — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 100. — Barth. Senaregae de Reb. Gen., t. XXIV, p. 572. — Josephi Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, p. 673.
64. F. Guicciardini, l. IV, p. 251. — Chr. Ven., t. XXIV, p. 153-155-157. — Jos. Ripamontii Hist. Med., l. VII, p. 673. — Mém. de Mess. Louis de la Tremouille, t. XIV, p. 165.
65. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 24, p. 483. — Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 384.
66. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 252. — Chron. Veneta, t. XXIV, p. 161. — Uberti Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 675. — P. Bizzaro Sen. Pop. que Gen. Hist., l. XVI, p. 378. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. VIII, p. 241. — Orl. Malavolti stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 106, v. — Mémoires de chev. Bayard, c. XVI, t. XV, des. Mém. pour servir à l'Hist. de France, p. 1. — Ag. Giustiniani An. di Gen., l. V, f. 256. — Ar. Ferronii, l. III, p. 41.
67. Machiavelli il Principe, c. VII, p. 54.
68. Machiavelli il Principe, c. VIII, p. 264.
69. Fr. Guicciardini, Stor. Fior., l. IV, p. 245.
70. And. Navagero Stor. Ven., p. 106. — P. Bembi Ist. Ven., l. III, p. 51.
71. Machiavelli dei Discorsi sopra Tito Livio, l. III, c. 29, p. 145.
72. Jos. Ripamontii Hist. Urb. Med., l VII, p. 667.
73. Inferno Cant. XXVII, XXVIII, ed altrove.
74. Machiavelli il principe, c. VII.
75. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 245. — Jac. Nardi, l. III, p. 106.
76. Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 373. — Udivasi, stando a Ferrara, il cannonamento della rocca. — Fr. Guicciardini, l. IV, p. 245. — Jo. Burchardi Diar. Curiae Rom. apud Jo. Georg. Eccardum, script. Med. Aevi, t. II, p. 2109. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259.
77. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 246. — Diar. Ferr., p. 375, 377. — Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2111. — J. Nardi, l. III, p. 106. — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 98.
78. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 246. — J. Nardi, l. IV, p. 109. — P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 99.
79. Fr. Guicciardini, l. V, p. 258. — Fr. Belcarii Com., l. VIII, p. 244.
80. Fr. Guicciardini, l. V, p. 255. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259.
81. Fr. Guicciardini, l. V, p. 258. — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 109. — Diar. Ferrar., p. 389.
82. Fr. Guicciardini, l. V, p. 259. — Jac. Nardi, l. IV, p. 115. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 261. — Diario di Ferrar. p. 390. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. VIII, p. 244.
83. Fr. Guicciardini, l. V, p. 262. — Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2128. — Jac. Nardi, l. IV, p. 118. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 263. — Diar. Ferrar., p. 394, 395. — P. Giovio Vita di Leon. X, l. I, p. 72. — Ann. Eccl. 1501, § 15, p. 507.
84. Fr. Guicciardini, l. V, p. 259.
85. Fr. Guicciardini, l. V, p. 262. — Orl. Malavolti, p. III, l. IV, f. 107, v.
86. Quest'esecuzione ebbe luogo il 23 dicembre del 1502. Machiav. Legaz. I, lett. 19, p. 63. — Idem il Principe, cap. VII.
87. Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 102, v.
88. Id., f. 105.
89. P. Giovio Elogi d'Uomini illustri, l. V, p. 299.
90. Fr. Guicciardini, l. V, p. 254. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 110. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 150.
91. Fr. Guicciardini, l. V, p. 254 — Jac. Nardi, l. IV, p. 110. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259.
92. Fr. Guicciardini, l. V, p. 255.
93. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 255. — Jac. Nardi, l. IV, p. 111. — Scipione Ammirato, l. XXVII, p. 259.
94. Fr. Guicciardini, l. V, p. 255. — Jac. Nardi, l. IV, p. 112. — Scipione Ammirato, l. XXVII, p. 260.
95. Fr. Guicciardini, l. V, p. 256.
96. Garnier Hist. de France, règne de Louis XII, t. XI, p. 130.
97. Fr. Guicciardini, l. V, p. 256. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 260. — Jac. Nardi Ist., l. IV, p. 112. — Istor. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 151.
98. Fr. Guicciardini, l. V, p. 257. — Jac. Nardi, l. IV, p. 113. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 261.
99. Guicciardini, l. V, p. 258. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 262. — Jac. Nardi, l. IV, p. 117. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 152. — Michel Ang. Salvi delle Istor. di Pist., t. III, l. XVIII, p. 15-28.
100. Jac. Nardi Ist., l. IV, p. 117.
101. Fr. Guicciardini, l. V, p. 263. — Raynaldi An. Eccl. 1501, § 16, p. 507.
102. Diar. Ferrar., t. XXIV, Rer. It., p. 395. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 156. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 263. — Jac. Nardi, l. IV, p. 118. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 263.
103. Jac. Nardi, l. IV, p. 116.
104. Fr. Guicciardini, l. V, p. 263.
105. Jac. Nardi, l. IV, p. 116.
106. Fr. Guicciardini, l. V, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 120. — Comm. di Filippo de' Nerli, l. V, p. 88.
107. Vita di Leone X, di P. Giovio, trad. da Mes. Lod. Domenichi. Firenze 1551, in 12.º l. I, p. 74.
108. Fr. Guicciardini, l. V, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 122. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 263. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 161.
109. Fr. Guicciardini, l. V, p. 265. — Jac. Nardi, l. IV, p. 123. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 264. — Or. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 107, v.
110. Bart. Senaregae de reb. Gen., p. 574. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 126. — Burchardi Diar. Curiae Rom., p. 2133. — Orl. Malavolti, p. III, l. VI, f. 108. — Agost. Giustiniani Ann., l. VI, f. 257.
111. Summonte dell'Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 534.
112. Fr. Guicciardini, l. V, p. 260. — Hist. de Louis XII par Jean de Saint Gelais, p. 162. Paris 1622, 4.º — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gal., l. IX, p. 248. — P. Jovii vita Magni Consalvi, l. I, p. 193. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. VI, t. III, p. 535. — Arn. Ferroni, l. III, p. 43.
113. P. Jovii vita M. Consalvi, l. I, p. 191, 192.
114. Fr. Guicciardini, l. V, p. 265.
115. Fr. Guicciardini, l. V, p. 265.
116. Raynald. Ann. Eccl. t. XIX, 1501, § 50 a 72, p. 519-527. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2129-2131. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 266. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. IX, p. 249. — Scip. Ammirato, t. XXVII, p. 264.
117. Fr. Guicciardini, l. V, p. 267.
118. Fr. Guicciardini, l. V, p. 267. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2129.
119. Fr. Guicciardini, l. V, p. 268.
120. Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2132. — Fer. Belcarii Comm. l. IX, p. 250. — Summonte Stor. di Napoli l. VI, c. IV, p. 535.
121. Fr. Guicciardini, l. V, p. 268. — Jac. Nardi l. IV, p. 124. — Orl. Malavolti Stor. di Siena p. III, l. VI, f. 103.
122. Fr. Guicciardini, l. V, p. 269.
123. Fr. Guicciardini, l. V, p. 269. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 125. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2132.
124. Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 537. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 269. — Jean de Saint Gelais Hist. de Louis XII, p. 163. — Barth. Senaregae de reb. Gen. p. 573. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 166. — Rayn. An. Eccl. 1501, § 74, p. 528. — Arnoldi Ferroni, l. III, p. 43.
125. P. Giovio, che riferisce questo sofisma, sembra risguardarlo come un argomento senza replica. Vita Magni Consalvi, l. I, p. 195-199. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 270. — Fr. Belcarii Comm., l. IX, p. 251.
126. Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 537. — Murat. Ann. d'Italia an. 1501, t. X, p. 7. — Nicolò, conte di Laval, governatore ed ammiraglio di Bretagna, che sposò Carlotta, non lasciò che una figlia, Anna di Laval, maritata a Francesco de la Tremoille. Per questa la casa de la Tremoille rivendicò alcuni diritti sul regno di Napoli.
127. Fr. Guicciardini, l. V, p. 260.
128. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. I, p. 199. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 18. Venezia 1574 in 4.º — Fr. Guicciardini, l. V, p. 274. — Fr. Belcarii Comm., l IX, p. 253.
129. Pauli Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 201. — Al. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 18. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 275.
130. Fr. Guicciardini, l. V, p. 275. — P. Jovi Vita M. Consalvi, l. II, p. 202. — Al. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 18.
131. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 203. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. II, f. 18.
132. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 204. — Al. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, p. 19.
133. P. Jovi vita M. Consalvi, l. II. p. 205. — Mém. du chev. Bayard, t. XV, c. 13, p. 36. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 19.
134. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 206. — Ar. Ferroni, l. III, p. 45. — Mém. du chev. Bayard, c. 19-22, p. 15 e segu. — Alf. de Ulloa, l. I, f. 19.
135. Pauli Jovii vita M. Gonsalvi, l. II, p. 207. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 20.
136. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 209. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 20. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295.
137. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 210. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 20, v.
138. Tutti gli storici Italiani parlarono con manifesta compiacenza di questa zuffa ed assai circostanziatamente. Fr. Guicciardini, l. V, p. 296-298. — P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 211-214. — Ejusdem vita di Pompeo Colonna, p. 354. — Summonte istor. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 542, e 552. — Alfonso de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 21. — Arn. Ferroni, l. III, p. 47.
139. Il nostro autore, che d'ordinario si mostra parziale per gl'Italiani, pare che in questa circostanza accordi la vittoria piuttosto all'accortezza che al vero valore de' campioni italiani. Oltre i citati autori e molti altri che non importa ricordare, non dobbiamo ommettere il frammento di un poema latino del Vida, pubblicato in Milano nel 1818, e probabilmente dall'autore non veduto. Io mi limiterò a riferire, secondo lo stesso Vida, i nomi de' guerrieri italiani:
- Fieramosca Capuano
- Miale o Aminale Toscano
- Mariano da Sarni Napolitano
- Pachis, Salamene Siciliani
- Braccaleone Romano
- Capoccio Romano
- Carellario Napolitano
- Fanfulla Cremonese
- Riccio Parmigiano
- Lod. d'Abenavolo Napolitano
- Practius, Gelenus Siciliani
140. Fr. Guicciardini, l. V, p. 271.
141. Fr. Guicciardini, p. 273. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 127. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 265.
142. Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 266. — Jac. Nardi, l. IV, p. 128. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 270.
143. Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 397-405. — P. Bembi Ist. Ven., l. VI, p. 128. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2133 e 2136.
144. Burchardi Diar. Cur. Rom., p, 2096.
145. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2122, 2123. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 126. — Raynal. An. Eccl. 1501, § 21, p. 511.
146. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2134.
147. Il signor Roscoe nella vita di Leon X, t. 1, si sforza di voler difendere da così gravi imputazioni la duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia, ma trattò l'argomento piuttosto da retore che da storico imparziale. Avrebbe fatto miglior senno ad abbandonare le difese della Borgia prima del suo matrimonio con Alfonso d'Este, per dimostrarla savia principessa dopo quest'epoca, ai quale oggetto non doveva che distruggere qualche sospetto di soverchia domestichezza con Pietro Bembo e con qualche altro illustre personaggio; potendosi in generale asserire che alla corte di Ferrara si contenne come si conviene a saggia e colta principessa. N. d. T.
148. Burchardi Diar. Curiae Rom., p. 2138.
149. Rayn. Ann. 1501, § 17, p. 508.
150. Fr. Guicciardini, l. V, p. 278. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2138 — P. Bembi Ist. Ven., l. VI, p. 130. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 132, — Ist. di Gio. Cambi, p. 179.
151. P. Bembi, Ist. Ven., l. VI, p. 130. — Melch. Delfico Mem. Stor. di san Marino cap. VI, p. 175.
152. Jac. Nardi, Ist. Fior., l. IV, p. 129. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 177 — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267.
153. Fr. Guicciardini, l. V, p. 276. — Burchardi Diar., p. 2138. — Jac. Nardi, l. IV, p. 130. — Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 108, v.
154. Fr. Guicciardini, l. V, p. 277. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 132. — Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 109. — P. Giovio Vita di Leon X, l. I, p. 79. — Fr. Belcarii Comm., l. IX, p. 254.
155. Fr. Guicciardini, l. V, p. 279. — Burchardi Diar., p. 2141. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 268. — Jac. Nardi, l. IV, p. 134.
156. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 131. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 178. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267.
157. Fr. Guicciardini, l. V, p. 279. — Jac. Nardi, l. IV, p. 131. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267. — P. Giovio vita di Leone X, l. I, p. 80. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 255.
158. Fr. Guicciardini, l. V, p. 280. — Machiavelli Disc. sopra Tito Liv., l. I, c. 38, p. 167. — Jac. Nardi, Ist. Fior., l. IV, p. 135. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 180. — Scip. Ammirato, l XXVII, p. 268.
159. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2142. — Jac. Nardi, l. IV, p. 136. — Fr. Belcarii, Comm. Rer. Gal., l. IX, p. 256.
160. Fr. Guicciardini, l. V, p. 282. — Jac. Nardi, l. IV, p. 138. — Agost. Giustin., l. VI, p. 258.
161. Fr. Guicciardini, l. V, p. 283.
162. Fr. Guicciardini, l. I, p. 284. — Machiavelli della Natura dei Francesi, t. III, p. 195.
163. Fr. Guicciardini, l. V, p. 284.
164. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 181. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 138. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 269.
165. Fr. Guicciardini, l. V, p. 281. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 183. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 269.
166. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 172. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 270.
167. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 138.
168. Fr. Guicciardini, l. V, p. 284.
169. Fr. Guicciardini, l. V, p. 286.
170. Machiavelli il Principe, c. VIII, p. 264. — Fr. Guicciardini l. V, p. 290.
171. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 139.
172. Machiavelli Legaz. al duca Valentino, Lett. I. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 285. — Fr. Belcarii Comment. Rer. Gal., l. IX, p. 258.
173. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 140. — Burchardi Diar. Curiae Rom., p. 2142.
174. Fr. Guicciardini, l. V, p. 287.
175. Fr. Guicciardini, l. V, p. 286.
176. Machiavelli Legaz. I, lett. I, p. 5 e 6.
177. Machiavelli Legaz. I, lett. IV, p. 16 e passim.
178. Machiavelli Legaz. I, lett. II, p. 8. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 141.
179. Fr. Guicciardini, l. V, p. 287.
180. Il Machiavelli in una sua lettera del 10 novembre manda alla signoria l'intera convenzione. Legaz. I, l. VIII, p. 30. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 141.
181. Machiavelli Legaz. I, l. IV, p. 20.
182. Fr. Guicciardini, l. V, p. 288. — Machiavelli Legaz. I, lett. XIV, p. 48.
183. Machiavelli Legaz. I, lett, XVI, p. 51. — Jac. Nardi, l. IV, p. 142. — P. Bembi Hist. Ven., l. VI, p. 131. — Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2143.
184. Machiavelli Legaz. I, lett. XVII, p. 54. — Jac. Nardi, l. IV, p. 142.
185. Machiavelli Legaz. I, lett. XVII e XVIII, p. 54 e 55.
186. Machiavelli Legaz. I, lett. XIX, p. 60.
187. Machiavelli, del Modo tenuto dal duca Valentino ec., t. III, p. 148. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 289. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 142. — Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2147.
188. Machiavelli Legaz. I, lett. XXI del primo gennajo 1503, p. 67. — Idem, Del modo tenuto ec., l. III, p. 153. — Jac. Nardi, l. IV, p. 143. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 290. — Burchardi Dia. Cur. Rom., p. 2148. — Ist. di Gio. Cambi, p. 184. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 260.
Il signor Roscoe ammette come cosa probabilissima che il Machiavelli fosse a parte del complotto di Sinigaglia ( Vita e Pont. di Leon X, t. l, c. VI, p. 336 della trad. francese nota I ). Questo sospetto, così leggermente promosso contro un uomo che finora non venne accusato di verun delitto, non avrebbe nemmeno potuto venire in mente all'autore, se avesse lette le lettere del segretario fiorentino alla signoria scritte in tempo di questa prima legazione. I naturali progressi de' suoi dubbj, de' suoi timori, delle sue conghietture di mano in mano che gli avvenimenti avanzano, le difficoltà che incontra per parlare al Valentino, perchè egli era un uomo troppo poco importante, le sue replicate inchieste perchè si mandi un ambasciatore in sua vece, per ultimo ogni linea delle 29 sue lettere distrugge vittoriosamente così ingiuriosi sospetti. Il più grande argomento del signor Roscoe è che il Machiavelli, nella separata sua relazione di questo avvenimento, non arricchisce la sua narrazione di veruna considerazione: parmi che non fossero altrimenti necessarie, e che i fatti parlino da sè. Vero è che il Machiavelli non aveva nè stima, nè compassione per questi nemici del suo paese, ed erano in fatti poco degni di stima. Rispetto al Valentino, egli ne ammirava l'accortezza; e vedeva in lui un gran principe. Ma di quell'epoca i vocaboli di principe, di usurpatore, di tiranno erano tutti sinonimi. Il Machiavelli mai non fa distinzione alcuna fra di loro, e non credeva possibile di potervi associare veruna virtù morale, fuorchè grandezza di coraggio, carattere fermo ed accortezza.
189. Machiavelli Legaz. I, lett. XXI, XXII, p. 72. — Jac. Nardi, l. IV, p. 145.
190. Machiavelli Legaz. I, lett. XXV, p. 76. — Jac. Nardi, l. IV, p. 145.
191. Machiavell. Legaz. I, lett. XXVII del 10 gennajo, p. 82. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 291. — Orl. Malavolti, Stor. di Siena, p. II, l. VII, p. 109, f. v.
192. Machiavelli ultima lettera della prima Legazione, N.º XXIX, p. 93. — Jac. Nardi, l. IV, p. 146. — Orl. Malavolti Stor. di Siena p. III, l. VI, f. 110.
193. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2149. — Raphael Volater. apud Raynald. Ann. 1503, $ 8, p. 540. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 291. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 146.
194. Fr. Guicciardini, l. V, p. 293.
195. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 149. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 294. — Fr. Belcarii t. IX, p, 262. — Orl. Malavolti, p. III, l. VI, f. 111.
196. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 309.
197. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 309. — Jac Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 151, 152. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 175 e 187. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 271.
198. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 310. — Jac. Nardi, l. IV, p. 152, 153. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 271. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 193.
199. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 311.
200. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 214. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 23, v.
201. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 214. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 24.
202. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 215. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 24.
203. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 216. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 24, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 296. — Arn. Ferroni, l. III, p. 48.
204. Fr. Guicciardini, l. V, p. 294. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. IX, p. 263. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 24.
205. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 218. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 25. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295. — Arnoldi Ferroni, l. III, p. 49.
206. P. Jovii Vita M. Gonsalvi, l. II, p. 219. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, p. 26. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295.
207. Leonard., t. IV. — Hist. de la Diplomat. Française, t. I, p. 457. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 299. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gal., l. IX, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 149.
208. P. Martiris Anglerii Epist. 255. — Saint Gelais Hist. de Louis XII, p. 170. — Raynald. Ann. Eccl. 1503, § 3, p. 539. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 299. — Jac. Nardi, l. IV, p. 150. — Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 111, v. — Ist. di Gio. Cambi, p. 192. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 265.
209. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 220. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 26. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 301. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 150. — Zurita Annales de Aragon., t. V, l. V, c. 15. — Ann. Eccl. Raynald. 1503, § 5, p. 539. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 266. — Arn. Ferroni, l. III, p. 51.
210. P. Jovii V. Magni Consalvi, l. II, p. 221. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 26, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 301. — Fr. Belcarii, Comm. Rer. Gall., l. IX, p. 266.
211. P. Jovii V. M. Consalvi, l. II, p. 221. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 27.
212. Sabellicus Aeneadum XI, l. II ap. Rayn. Ann. Eccl. 1503, § 6, p. 540.
213. Bart. Senaregae de Reb. Gen., t. XXIV, Rer. Ital., p. 578.
214. P. Jovii V. M. Consalvi, l. III, p. 222. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 27, v.
215. P. Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 223. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 28. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 303. — Saint Gelais Hist. de Louis XII, p. 171. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 15. — Mém. de Louis de la Tremouille, t. XIV, c. XI, p. 166. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 552. — P. Giovio Vita del Card. Pompeo Colonna, p. 355. — Fr. Belcarii Comm., l. IX, p. 267. — Arn. Ferroni, l. III, p. 52.
216. P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 224. — Al. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 28, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 304.
217. Pauli Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 224. — Raynald. Ann. Eccl. 1503, § 6, p. 540.
218. Pauli Jovii vita M. Gonsalvi, l. II p. 225. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 29. — Jac. Nardi, l. IV, p. 150. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 507. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 269.
219. P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 228. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 30. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 308. — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. 14, p. 553.
220. Teodoro Spandugino Cantacuzeno dell'origine dai Turchi. Presso Fran. Sansovino, l. II, f. 210, v. Ven. in 4.º 1568. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 9, v.
221. And. Cambini Fiorentino, Dell'origine dei Turchi, presso il Sansovino, l. II, f. 175. — Teod. Spandugino, ivi, f. 208.
222. P. Bembi Hist. Ven., l. IV, p. 82. — Vettor Sandi Stor. civ. Veneta, l. IX, c. VII, t. IV, p. 203. — Ann. Eccl. Rayn. 1499, § 5, p. 480.
223. P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 91. — Vettor Sandi Stor. civile, l. IX, c. VII, t. IV, p. 204. — Teod. Spandugino presso Sansovino, l. II, f. 208, v.
224. Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 125-130 e seg.
225. Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 104. — Sabellius Gunead. X, l. IX, apud Rayn. 1499, § 9, p. 480. — Theod. Spandugino, f. 208, presso Sansovino l. II, Imperio de' Turchi.
226. P. Bembi Ist. Ven, l. V, p. 93. — Chron. Ven. t. XXIV, p. 103, 110. — And. Cambini, presso Sansovino l. II, f. 176.
227. Rayn. An. eccl. 1499, § 9 e 10, p. 480. — Theod. Spandugino, presso il Sansovino l. II, f. 209.
228. P. Bembi Ist. Ven, l. V, p. 98. — Vettor Sandi l. IX, c. VII, t. IV, p. 207. — Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 124. — Rayn. Ann. eccl. 1499, § 10, e 11, p. 481. — P. Giovio Vita di Antonio Grimani. Ritratti l. V, p. 290.
229. P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 97. — Chron. Ven. t. XXIV, p. 116. — Vettor Sandi l. IX, c. VII, t. IV, p. 205, 206. — Ann. eccl. Rayn. 1499, § 7 e 8, p. 480. — Theod. Spandugino l. II, f. 208.
230. P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 100. — Chron. Ven. t. XXIV, p. 148. — Vett. Sandi Stor. civ. Veneta l. IX, c. VII, t. IV, p. 207.
231. P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 102. — Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 122.
232. P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 103.
233. P. Bembi hist. Ven. l. V, p. 103. — Rayn. Ann. eccl. 1500, § 11 e 12, p. 490, ex Sabellino Ennead X, l. IX. — Andrea Cambini origine dei Turchi f. 176, e Theod. Spandugino f. 209, in Sansovino l. II. — Alfonso de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 7. v.
234. P. Bembi hist. Ven. l. V, p. 104. — Theod. Spandugino in Sansovino l. II, f. 309, v. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 8.
235. P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 105. — Sabellicus Cunead X, l. IX, apud Rayn. 1500, § 17, p. 492 — Theod. Spandugino f. 209.
236. P. Jovii Vita M Consalvi l. I, p. 191, 192. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 8.
237. P. Bembi hist. Ven, l. V, p. 108.
238. Idem, l. V, p. 110.
239. P. Bembi l. V, p. 114. — Vettor Sandi l. IX, c. VII, t. IV, p. 213. — Rayn. An. eccl. 1501, § 77, p. 528. — Theod. Spandugino f. 210.
240. P. Bembi l. V, p. III. — Rayn. Ann. eccl. 1500, § 22, p. 494.
241. P. Bembi hist. Ven. l. VI, p. 121. — Theod. Spandugino f. 210.
242. P. Bembi hist. Ven. l. VI, p. 122. — Rayn. Ann. eccl. 1501, § 81, p. 530. — F. Jovii Epitome Hist. l. VIII, p. 156.
243. Ann. eccl. Rayn. 1501, § 84, p. 530.
244. An. eccl. Rayn. 1502, § 17, p. 536. — Bart. Senaregæ de reb. Genuen. t. XXIV, p. 577.
245. P. Bembi hist. ven. l. VI, p. 129. — Rayn. An. eccl. 1502, § 21, p. 537.
246. P. Bembi hist. ven. l. VI, p. 132. — Vett. Sandi Stor. civ. di Ven, l. IX, c. VII, t. IV, p. 214. — An. eccl. Rayn. 1503, § 2, p. 539. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 333. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X, p. 281. — Theod. Spandugini Cantacuzeni: presso Sansovino l. II, Imp. Turco, f. 211. — P. Giovio ritratti d'uomini illustri l. VI, p. 368.
247. Fr. Guicciardini l. VI, p. 306.
248. Fr. Guicciardini l. VI, p. 312. — Jac. Nardi l. IV, p. 153. — Fr. Belcarii Comm. l. IX, p. 271.
249. Fr. Guicciardini l. VI, p. 313. — Jac. Nardi l. IV, p. 153. — Mém. de la Tremouille t. XIV, ch. XI, p. 167. — P. Giovii V. M. Consalvi l. II, p. 229.
250. Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 151, 154.
251. Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 155.
252. Fr. Guicciardini l. VI, p. 314. — Raphael Volaterranus l. XXII, apud Rayn. An. eccl. 1503, § 10, p. 540.
253. Onofrio Panvino Vita di Alessandro VI, p. 479.
254. P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 82. — Vita del card. Pompeo Colonna, p. 358. — Ejusdem Vita M. Consalvi, l. II, p. 229. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 314. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 31.
255. Muratori An. d'Ital. t. X, p. 15. — Rayn. An. eccl. 1503, § 11, p. 541.
256. P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 133. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 157. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 272. — Ist. di Gio. Cambi, p. 194. — Orlando Malavolti Stor. di Siena p. III, l. VI, f. 112. — Fr. Belcarii l. IX, p. 272. — Onof. Panvino Vita di Alessandro VI, p. 478. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. t. XXIV, Rer. Ital. p. 578.
257. Raynaldi Ann. eccl. 1501, § 22, p. 511.
258. Idem, § 24, p. 511.
259. Idem, § 36, p. 514.
260. Macchiavelli del Principe c. VII, p. 259.
261. Fr. Guicciardini l. VI, p. 315. — P. Giovio Vita del card. Pompeo Colonna, p. 360. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 197. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. IX, p. 273. — P. Jovii V. M. Consalvi l. II, p. 229.
262. Fr. Guicciardini l. VI, p. 316. — Rayn. Ann. eccl. 1503, § 12, p. 541. — P. Bembi Ist. Venez. l. IV, p. 133. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 31, v. — Jac. Nardi l. IV, p. 156.
263. Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32.
264. Jac. Nardi l. IV, p. 156.
265. Fr. Guicciardini l. VI, p. 316. — Macchiavelli il Principe, c. VII, p. 259.
266. Fr. Guicciardini l. VI, p. 317. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 157.
267. P. Jovii V. M. Consalvi l. II, p. 230. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32.
268. Fr. Guicciardini l. VI, p. 318.
269. Onof. Panvino Vita di Pio III, 219, Pontefice p. 481. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 318. — Rayn. Ann. eccl. 1503, § 13, p. 541. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 134. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 158. — Fr. Belcarii l. IX, p. 274. — Arn. Ferroni l. III, p. 54.
270. F. Guicciardini l. VI, p. 319. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 84. — P. Jovii V. M. Consalvi, l. II, p. 230.
271. Fr. Guicciardini l. VI, p. 320. — Rayn. Ann. eccl. 1503, § 15, p. 542.
272. Onof. Panvino Vite de' Pont. p. 482. — Or. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VII, f. 112, v. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32, v. — Il Rainaldo non parla di questo sospetto di veleno. Ann. eccl. 1503, § 16-19, p. 542.
273. Fr. Guicciardini l. VI, p. 321. — Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom. 2159. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. t. XXIV, p. 578. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 158. — Scip. Am. l. XXVIII, p. 272. — Fr. Belcarii Com. l. IX, p. 275.
274. Fr. Guicciardini l. VI, p. 322. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 272. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 157.
275. Fr. Guicciardini l. VI, p. 322. — P. Bembi Ist. Ven. l. II, p. 134.
276. Fr. Guicciardini l. VI, p. 323. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 135. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32, v.
277. Machiavelli Legaz. II (a Roma) t. VI, p. 400. — Leg. Lett. XIII, p. 133. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 136.
278. Fr. Guicciardini l. VI, p. 324, il quale dà per abbaglio al giovane Manfredi il nome di Astorre. — Jac. Nardi Ist. fior, l. IV, p. 157. — Macchiavelli Legaz. II, lett. VII, VIII. IX, X e seg. p. 117. — Opera t. VI, p. 389 e seg. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 136.
Dopo quest'epoca più non avendo la casa Manfredi ricuperata la sua sovranità di Faenza, riputiamo conveniente cosa di riportare in questo luogo una tavola cronologica del regno di questi piccoli principi.
an. C.
1334. Riccardo Manfredi, proclamato dal popolo signore di Faenza e d'Imola.
1350. Giovanni figli di Riccardo, si difendono contro Clemente VI fino al 1358, nel quale sono scacciati dalla loro signoria.
Renieri
1377. Astorre I di Manfredi rientra il 25 di luglio per un acquedotto in Faenza, spalleggiato dai Fiorentini, ed è riconosciuto come Vicario di Faenza e d'Imola. È costretto di vendere queste città a Baldassarre Cossa, che lo fa decapitare il 28 di novembre.
1410. Giovanni Galeazzo Manfredi, figlio d'Astorre I, rientra in Faenza il 18 di giugno. Morto nel 1416.
1416. Guid'Antonio Manfredi, figlio del precedente, signore di Faenza e d'Imola. Morto il 18 giugno 1448.
1448. Astorre II figli di Guid'Antonio Manfredi signore di Faenza. Morto il 2 maggio del 1468.
Taddeo signore d'Imola, vende questa città a Girolamo Riario 1473.
1468. Galeotto, figlio d'Astorre II, signore di Faenza, ucciso da sua moglie il 31 maggio del 1488.
1480. Astorre III, figlio di Galeotto, prigioniere di Cesare Borgia il 22 aprile del 1501; strozzato a Roma il nove luglio del 1501.
1503. Francesco di Manfredi, figlio naturale di Galeotto, proclamato dagli abitanti signore di Faenza in ottobre del 1503, si arrende ai Veneziani il 19 novembre del 1503.
279. Fr. Guicciardini l. VI, p. 324.
280. Burchardus Diar. Cur. Rom. p. 2159.
281. Macchiavelli Leg. II, lett. IV del 6 di novembre, p. 110. Op. lett. IX, t. VI, p. 390.
282. Macchiavelli ivi p. 397, lett. 10 novembre.
283. Ivi, p. 418, lett. del 18 novembre.
284. Macchiavelli Leg. II, p. 424, lett. del 19 di novembre.
285. Macchiavelli Legaz. a Roma, 23 e 24 novembre t. VI, p. 440.
286. Ivi lett. del 16 di novembre t. VI, p. 448. — Fr. Belcarii l. IX, p. 276.
287. Macchiavelli Legaz. a Roma. Lett. del 1.º dicembre, p. 462. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 325. — Jac. Nardi l. IV, p. 158.
288. Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma lett. del 2 di dicembre, p. 468.
289. Fr. Guicciardini l. VI, p. 326. — Macchiavelli Legaz. a Roma, t. VI, p. 447, lett. del 24 novembre.
290. Fr. Guicciardini l. VI, p. 328. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 157. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 231. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 33.
291. Fr. Guicciardini l. VI, p. 327. — Macchiavelli Legaz. a Roma, lett. del 10 di novembre, p. 394. — Sabellicus Ennead. XI, apud Rayn. Ann. 1505, § 15, t. XX, p. 4. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 233. — Alf. de Ulloa l. II, f. 34.
292. Mém. du chev. Bayard t. XV, ch. XXV, p. 45.
293. Fr. Guicciardini l. VI, p. 327.
294. Fr. Guicciardini l. VI, p. 327. — Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma, lett. del 10 di novembre e seguenti giorni, p. 400 ec. — Fr. Belcarii Com. l. X, p. 278. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 234. — Alf. de Ulloa l. I f. 34, v.
295. Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma, lett. XIII a XXVIII, p. 398 a 470. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 235.
296. P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 235. — Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma, lett. del 2 di dicembre, p. 470. — Belcarius Comm. Rer. Gal. l. X, p. 278. — Arn. Ferroni l. III, p. 55.
297. Fr. Guicciardini l. VI, p. 330. — Sabellicus Ennead. XI, l. II, apud Rayn. Ann. eccl. 1503, § 16, t. XX, p. 4. — Belcarius Rer. Gall. Comm. l. X, p. 279. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 238.
298. Fr. Guicciardini l. VI, p. 330. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. IX, p. 239. — Fr. Belcarii Comm. l. X, p. 279. — Saint Gelais, Hist. de Louis XII, f. 173. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 35. — Arn. Ferroni l. III, p. 56.
299. Fr. Guicciardini l. VI, p. 331. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. t. XXIV, p. 579. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. V, p. 159. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 273. — Ist. di Gio. Cambi t. XXI, p. 199. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 240.
300. Fr. Guicciardini l. VI, p. 332. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. p. 579. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 240. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X., p. 280. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 36. — Arn. Ferroni l. III, p. 56.
301. Mém. du chev. Bayard ch. XXV, p. 53, et notes p. 437. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 338. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 241. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall. l. X, p. 282. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 159.
302. Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2159. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, f. 246. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 37.
303. Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2160. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 283. — Epist. Papæ ad Regem et Reginam Hispan. 11 maii. — Rayn. Ann. eccl. 1504, § 12, p. 10. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 37.
304. Fr. Guicciardini l. VI, p. 389. — Burchardi Diar. Cur. Rom. die 29 maii p. 2160. — P. Giovio Vita M. Consalvi l. III, p. 247. — Lo stesso, Vita di Leone X, l. II, p. 83. — Rayn. Ann. eccl. 1504, § 13, t. XX, p. 11. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 37, v.
305. Fr. Guicciardini l. VI, p. 341. — N. Macchiavelli Legaz. II alla corte di Francia, lett. I e seg., p. 501 e seg. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 160. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 283. — Si rileva da una lettera di Niccolò Valori alla signoria, che la ratifica della tregua era seguita alla corte di Francia in Lione, l'11 febbrajo; pure il Leonardi, t. II, la riferisce al 31 di marzo. — Legaz. di Niccolò Macchiavelli alla corte di Francia lett. IX e X, p. 533.
306. Seconda Legaz. di Niccolò Machiavelli alla corte di Francia, passim e special. Lett. di Nicolò Valori di Lione, 11 febbrajo, t. VI, p. 534.
307. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 341. — P. Bembi Ist. Ven. l. VII, p. 140. — Rayn. An. Eccl. 1504, § 9, 10 e 11, t. XX, p. 10.
308. Raynaldi An. Eccl. 1504, § 36 e 37, t. XX, p. 17.
309. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 341. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. X, p. 284. — Lodovico, che fuggì a Venezia, essendo colà morto senza prole, fu l'ultimo della casa degli Ordelaffi. Ecco una tavola cronologica della successione di questi principi.
Mainardo di Susinana, primo signore di Forlì.
1276 Sinibaldo, figlio di Mainardo, ucciso nel suo letto dal popolo.
1310 Scarpetta, Pino e Bartolommeo degli Ordelaffi, posti in prigione da Roberto re di Napoli.
1317 Cecco degli Ordelaffi, capitano perpetuo del popolo di Forlì, morto nel 1331.
1331 Francesco degli Ordelaffi, fratello di Cecco, signore di Forlì, Forlimpopoli e Cesena. Sua moglie, Marzia di Susinana, è forzata di cedere Cesena al papa il 21 giugno del 1357; e Forlì il 4 luglio del 1359. Francesco fa la guerra da condottiere e muore a Venezia nel 1374.
1373 Sinibaldo, figlio di Francesco, rientra in Forlì spalleggiato dai Fiorentini. Viene riconosciuto come vicario della santa sede nel 1379. Tradito da' suoi nipoti, viene posto in prigione il 13 dicembre del 1385.
1385 Cecco II nipoti e successori di Sinibaldo morto il 19 luglio del 1401.
Pino morto l'8 settembre del 1405.
1405 Antonio, figlio in tenera età di Cecco II, ridotto allo stato di cittadino della repubblica di Forlì; esiliato dal legato B. Cossa; arrestato in agosto del 1411 da suo cugino Giorgio; richiamato alla signoria in luglio del 1425; morto il 4 agosto del 1448.
1410 Giorgio Ordelaffi, signore di Forlimpopoli; 1411 signore di Forlì; fa arrestare suo cugino Antonio in agosto del 1411; viene riconosciuto dalla santa sede il 26 dicembre del 1418; muore il 25 di gennajo del 1422.
1422 Teobaldo, figlio di Giorgio, di nove anni, sotto la tutela di Lucrezia degli Alidosi, sua madre, viene scacciato da sua zia Catarina, che stabilisce Antonio; muore in luglio del 1425.
1448 Cecco III figli di Antonio e suoi successori nella signoria di Forlì morto il 22 aprile del 1466.
Pino II morto nel 1480.
1480 Sinibaldo II, figlio naturale di Pino II, è riconosciuto per signore, malgrado l'opposizione de' legittimi figli di Cecco III; scacciato lo stesso anno da Girolamo Riario.
1480 Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, acquista nel 1473 la signoria d'Imola, occupa nel 1480 quella di Forlì: è ucciso il 15 aprile del 1488.
1488 Ottaviano Riario, figlio del precedente, sotto la tutela di sua madre Catarina Sforza; spogliato da Cesare Borgia, in dicembre del 1499 di Imola, ed in gennajo del 1500 di Forlì.
1503 Antonio degli Ordelaffi, figlio di Cecco III, rientra in Forlì in tempo della prigionia del Borgia: muore nel 1504.
1504 Lodovico, suo fratello naturale, vuole dare Forlì ai Veneziani ed è scacciato da Giulio II; vi ritorna, ed è di nuovo scacciato nel 1505. Muore in Venezia.
Da Sansovino, nelle sue Famiglie illustri d'Italia, è riportata al f.º 17 una tavola genealogica degli Ordelaffi; ma molto inesatta. Non diede quella dei Riarj, che non ricuperarono meglio degli Ordelaffi la sovranità di Forlì.
310. P. Bembi Ist. Ven,, l. VII, p. 141.
311. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 347.
312. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 348. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 141. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 169. — Rayn. An. Eccl. 1505, § 1, t. XX, p. 20.
313. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 273.
314. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 161. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 273. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 341.
315. Jac. Nardi, l. IV, p. 163. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 274.
316. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 275. — Jac. Nardi Ist., l. IV, p. 165. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 342.
317. Il braccio di Firenze è di circa 22 pollici.
318. Ciò deve intendersi dei fiumi che hanno le loro sorgenti negli Appennini, e dei torrenti; ma non de' principali fiumi che discendono dalle Alpi, rispetto ai quali l'effetto delle piogge non è sensibile che dopo alcuni giorni. N. d. T.
319. Jac. Nardi, Ist., l. IV, p. 164. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 274. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 342. — Jac. Arrosti Chron. di Pisa, f. 224.
320. Legazione del Machiavelli alla corte di Francia. Lettera di Niccolò Valori del 2 di febbrajo, p. 521 e seguenti passim. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 343. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, 275. — Jac. Nardi, l. IV, p. 169. — Agost. Giustiniani, l. VI, f. 258.
321. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 344. — Fr. Belcarii Comm., l. X, p. 285. — Jac. Nardi, l. IV, p. 165. — Flassan Hist. de la diplom. française, t. I, p. 457.
322. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 275. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 205.
323. P. Jovii v. M. Consalvi, l. III, p. 248. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 345. — Fr. Belcarii Comm., l. X, p. 286. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 167. — Raynal. Ann. Eccl. 1504, § 40, t. XX, p. 18.
324. Muratori An. d'Ital. An. 1505, t. X, p. 29. — Tiraboschi Stor. delle Lett., t. VI, l. I, c. II, § 11, p. 30. — Jac. Nardi Ist. fior. l. VI, p. 168. — Scip. Ammir. l. XXVIII, p. 276. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 206. — Vita di Alf. d'Este di P. Giovio, ad init.
325. Raxis de Flassan, Hist. de la Diplom. française, t. I, p. 285, 458. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 346. — Fr. Belcarii Rer. Gal. Comm., l. X, p. 287.
326. Fr. Guicciardini l. VI, p. 356. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. X, p. 291. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. VI, p. 185. — P. Bembi Rer. Ven., l. VII, p. 142.
327. Fr. Guicciardini l. VI, p. 348. — Jac. Nardi Ist. Fior, l. IV, p. 169. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 277. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. X, p. 287. — Jacopo Arrosti Cron. di Pisa, in Arch. Pisano, f. 225, v.
328. Legaz. di Mach. a Gian Paolo Baglioni, t. VII, p. 1-12. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 170. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 350. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 277.
329. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 350. — Jac. Nardi, l. IV, p. 172. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. X, p. 288.
330. Jac. Nardi, l. IV, p. 167. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 276.
331. Jac. Nardi, l. IV, p. 174. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 275.
332. Legaz. II di Nic. Machiavelli a Siena, dal 16 al 24 di luglio del 1505, l. VII, Op. p. 16-47.
333. Jac. Nardi, l. IV, p. 175. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 351.
334. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 279.
335. Jac. Nardi, l. IV, p. 178. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 353. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 279. — Diario del Bonaccorsi, f. 107 e 115.
336. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 181. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 353. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 280. — Fr. Belcarii Rer. Gall. Comm., l. X, p. 289.
337. Jac. Nardi, l. IV, p. 182. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 281.
338. Spediz. del Machiavelli al campo contro Pisa. Lettera dei X ad Antonio Giacomini, 19 augusti 1505, t. VII, opere, p. 48.
339. Jac. Nardi, l. IV, p. 183. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 281.
340. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 184. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 355. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 282. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. X, p. 289.
341. Fr. Guicciardini, l. IV, p. 356. — Jac. Nardi, l. IV, p. 184.
342. Fr. Guicciardini, l. VI, p. 357. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. X, p. 295.
343. P. Giovio vita d'Alf. d'Este, p. 17. — Muratori An. d'Italia an. 1506, p. 34. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 369. — Fr. Belcarii Com., l. X, p. 295.
344. Orlando Furioso, cant. III, st. 60-62.
345. Robertson's History of the reign of Charles the V. B. I, t. II, p. 12 ed 18. London 1792.
346. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 360. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 187. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. X, p. 291. — Robertson's hist. of Charles the fifth, B. I, p. 16.
347. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 361. — Jac. Nardi, l. IV, p. 189. — P. Jovi v. M. Consalvi, l. III, p. 248. — Alfonso de Ulloa, l. I, f. 52, v.
348. Fr. Guicciardini l. VII, p. 361. — Fr. Belcarii l. X, p. 291.
349. Fr. Guicciardini l. VII, p. 362. — Jac. Nardi l. IV, p. 188. — Fr. Belcarii l. X, p. 292.
350. Fr. Guicciardini l. VII, p. 362. — Jac. Nardi l. IV, p. 188.
351. Fr. Guicciardini l. VII, p. 359. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 293. — Seconda legaz. di Nic. Macchiavelli alla Corte di Roma, lett. I, t. VII, op. p. 69.
352. Macchiavelli Discorsi sopra Tito Livio l. III, c. 44, p. 199.
353. Fr. Guicciardini l. VII, p. 364. — Fr. Belcarii l. X, p. 293.
354. Macchiavelli Legaz. II alla Corte di Roma let. I, p. 69, 70, t. VII.
355. Fr. Guicciardini l. VII, p. 365.
356. Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma l. III, da Viterbo 31 aprile, p. 76. — Jac. Nardi, l. IV, p. 189.
357. Macchiavelli Legaz. lett. VIII, p. 84.
358. Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma lett. dell'8 e del 9 settembre p. 87 e 88. — Jac. Nardi l. IV, p. 189.
359. Macchiavelli Legaz. lett. X, p. 88.
360. Macchiavelli de' discorsi l. I, p. 27, 125. — Idem, Legazione alla corte di Roma, lett. del 13 settembre da Perugia p. 95. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 366.
361. Macchiavelli Legaz. lett. XXVII, Cesena 4 ottobre, p. 122.
362. Fr. Guicciardini l. VII, p. 363. — Fr. Belcarii l. X, p. 292.
363. Macchiavelli seconda Legaz. alla corte di Roma, lett. I alla XX, fino al 25 di settembre p. 64-109.
364. Macchiavelli Legaz. lett. XXVI, Cesena 3 ottobre p. 119 e seg.
365. Fr. Guicciardini l. VII, p. 366. — Macchiavelli Legaz. lett. XXXV, XXXVI, XXXVII, del 16 al 21 ottobre p. 135.
366. Macchiavelli Legaz. lett. XXXI, ex Forlì 10 oct., p. 128. — Bulla apud Rayn. Ann. eccl. 1506, § 25-27, p. 41.
367. Macchiavelli Legaz. l. XXXVIII, ex Imola 22 oct. p. 140. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Fr. Belcarii l. X, p. 294. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 283.
368. Legaz. di N. Macchiavelli l. XL, ex Imola 26 oct., p. 145. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Fr. Belcarii l. X, p. 294.
369. Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Diar. Parisii de Grassis ap. Rayn. 1506, § 29, p. 42. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 190.
370. Fr. Guicciardini l. VII, p. 368. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 191. — Ist. di Gio. Cambi t. XXI, p. 214. — P. Bembi Ist. Ven. l. VII, p. 144.
371. Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 173. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 276. — Gio. Cambi t. XXI, p. 209.
372. Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 186. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 282.
373. Macchiavelli Legaz. a Roma lett. XXIX, ex Cesena 6 oct., t. VII, p. 125. — Jo. Mariana Hist. de las Españas, t. II, p. 225. — P. Jov. Epit. Hist. l. IX, p. 156. — Ejusd. Vita M. Consalvi l. III, p. 251. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 53.
374. Il Guicciardini dice che il Gonsalvo andò incontro a Ferdinando fino a Genova. Il Giovio nella Vita del Gonsalvo, indica che lo aspettava al capo di Miseno.
375. Fr. Guicciardini l. VII, p. 368. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 251. — Belcarii Com. l. X, p. 294. — Macchiavelli Legaz. lett. XXIII, ex Urbino 28 sett. p. 113. — Summonte Ist. di Napoli l. VI, c. V, t. IV, p. 4. — Jac. Nardi l. IV, p. 190. — Ist. di Gio. Cambi t. XXI, p. 213. — P. Bembi Ist. Ven. l. VII, p. 143.
376. Fr. Guicciardini l. VII, p. 370.
377. P. Bizarri Sen. Pop. Gen. Hist. l. XVII, p. 412.
378. Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 681.
379. Ivi l. XII, p. 682.
380. Jean d'Anton Hist. de Louis XII, an. 1506, p. 47. — Observations sur les Mém. de Fleuranges t. XVI, p. 329. — Uberti Folietæ l. XII, p. 687. — Ag. Giustiniani An. di Genova l. VI, f. 258.
381. «Fu un certo Guillon, della classe del popolo, dice Giovanni d'Anton, storico francese contemporaneo, il quale contrattava con taluno che colà si trovava dei funghi, e li voleva portar via; così li voleva pure Visconti Doria, gentiluomo, il quale diede di piglio al paniere dov'erano detti funghi. Il Guillon, che ancora non gli aveva pagati, li volle per sè, dicendo ch'era stato il primo a contrattarli, e che gli avrebbe; ciò vedendo il detto gentiluomo diede un gran pugno sul volto al Guillon, dicendo: Porta via cotesto, ed io i funghi. Ed infatti sguainò una daga e volle ferire il detto Guillon che subito si trasse a dietro, e come oltraggiato d'essere stato battuto, tutto pieno d'ira e di livore cominciò a gridare: Popolo! popolo! addosso ai gentiluomini! onde tutt'ad un tratto il popolo si mosse.... Sicchè in meno di un'ora più di dieci mila villani furono armati per le strade.» Giovanni d'Anton Ist. di Lodovico XII, p. 47. — Observ. sur les Mémoires de Fleuranges t. XVI, p. 330. — Ag. Giust. VI, f. 259.
382. Ub. Folietæ l. XII, p. 690. — P. Bizarro Hist. Gen. l. XVIII, p. 414. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 371. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X, p. 296. — Ag. Giustiniani Ann. l. VI, f. 260.
383. Ub. Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 691. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 192.
384. Ub. Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 692. — P. Bizarri S. P. Hist. Gen. l XVIII, p. 415 — Fr. Guicciardini l. VII, p. 371. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 260, v.
385. Uberti Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 693. — P. Bizarri Hist. Gen. l. XVIII, p. 416. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 372. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall. l. X, p. 296.
386. Ub. Folietæ l. XII, p. 694. — P. Bizarro l. XVIII, p. 416. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 373. — Jacopo Arrosti Cron. di Pisa in Arch. Pisano f. 228, v. — Ag. Giustiniani l. VI, p. 261.
387. P. Bizarro Hist. l. XVIII, p. 417. — Ub. Folietæ l. XII, p. 696. — Fr. Belcarii Comm. l. X, p. 296. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 262.
388. P. Bizarro l. XVIII, p. 417. — Ub. Folietæ l. XII, p. 698. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 374. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 262, v.
389. Ub. Folietæ l. XII, p. 697. — P. Bizarro l. XVIII, p. 417. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 374. — Jac. Nardi l. IV, p. 192. — Parisius a Grassis in Itinere Julii II apud Rayn. An. eccl. 1507, § 1, t. XX, p. 48.
390. Ub. Folietæ Hist. l. XII, p. 699. — P. Bizarri Gen. Hist. l. XVIII, p. 418.
391. Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 699. — P. Bizarri l. XVIII, p. 417. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 375. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 263.
392. Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 700. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 297.
393. Ub. Folietæ l. XII, p. 701. — P. Bizarri S. P. Gen. Histor. l. XVIII, p. 418. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 376. — Fr. Belcarii Com. l. X, p. 298. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 263.
394. Ub. Folietæ l. XII, p. 701. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 263, v.
395. Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 701. — P. Bizarri Genuens. Hist. l. XVIII, p. 419. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 377. — Fr. Belcarii Com. l. X, p. 298. — Mém. du chev. Bayard, t. XV, ch. XXVII, p. 60. — Agost. Giustiniani l. VI, f. 263, v.
396. Ub. Folietae Gen. Hist. l. XII, p. 702. — P. Bizarri S. P. q. Gen. Hist. l. XVIII, p. 420. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 377.
397. P. Bizarro l. XVIII, p. 420. — Fr. Belcarii, Com. l. X, p. 299. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 378. — Ma Giacomo Nardi che s'attiene sempre al giornale del Buonaccorsi protrae tutti questi avvenimenti tre settimane, e fissa l'ingresso del re al 17 di maggio. Hist. Fior. t. IV, p. 193. Ag. Giustiniani l. VI, f. 264, dice il 28 di aprile.
398. Fr. Guicciardini l. VII, p. 379. — P. Bizarro l. XVIII, p. 422. — Jac. Nardi l. IV, p. 194. — Fr. Belcarii l. X, p. 300. — P. Giovio vita di Alfonso d'Este p. 19. — Muratori An. d'Italia 1507, t. X, p. 35. — Agost. Giustiniani l. VI, f. 264. — Arnol. Ferroni l. IV, p. 66.
399. Fr. Guicciardini l. VII, p. 384. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. 4, p. 262. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 195. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 302.
400. Fr. Guicciardini l. VII, p. 384. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. VIII, p. 269. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X, p. 302.
401. Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. III e V, p. 261, 264.
402. Ivi, l. XXVIII, c. XII, p. 240.
403. Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. VI, p. 266. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 199.
404. P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 252 usque ad finem, p. 268. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 385. — Jo. Marianae de reb. Hisp. l. XXIX, c. IX, p. 270. — P. Bizarri Gen., l. XVIII, p. 425. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 198. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X, p. 303.
405. Jac. Nardi, l. IV, p. 191. — P. Jovii Epit. Hist., l. IX, p. 156.
406. Fr. Guicciardini l. VII, p. 380. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. X, p. 300.
407. Fr. Guicciardini l. VII, p. 380. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 199. — Fr. Belcarii, l. X, p. 301.
408. Fr. Guicciardini, l. VII, p, 386. — Fr. Belcarii, l. X, p. 304.
409. Machiavelli Legaz. all'imp. lett. di Bolzano del 17 gennajo 1508, t. VII, p. 161.
410. Lettere del Macchiavelli e Fran. Vettori nella Legaz. all'imp., t. VII, passim.
411. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 387. — Fr. Belcarii, Comm. Rer. Gall., l. X, p. 305.
412. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 387-398. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gallic., l. X, p. 305. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 145.
413. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 398.
414. Niccolò Macchiavelli Legaz., t. VII, p. 156-258.
415. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 399. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. X, p. 306. — Lett. di Franc. Vettori del 24 di Gennajo 1507, p. 172.
416. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400.
417. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400. — Fr. Belcarii, l. X, p. 306. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 146. — Lett. di Fran. Vettori. Bolzano, 17 gennajo 1507. In Macchiavelli, l. VII, p. 168.
418. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400.
419. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 401. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 307. — Sansovino Famiglie illustri d'Italia, f. 187.
420. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 401. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 307. — Lett. di Fr. Vettori da Trieste, 8 febbrajo 1508. In Mach. Legazione, t. VII, p. 183.
421. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 402. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall, l. XI, p. 308. — Lett. di Fr. Vettori del dì 8 di febbrajo da Trento, p. 184.
422. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 403. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 308. — P. Bembi, l. VII, p. 148. — Lett. di Fr. Vettori, d'Inspruk, 22 di marzo. Presso Machiav. Legazioni, t. VII, p. 206.
423. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 404. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 308. — P. Bembi, l. VII, p. 150-152. — Lett. di Fr. Vettori, da Trento, 30 maggio, p. 224.
424. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 404. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 309. — Lett. del Vettori. Trento, 16 aprile e 30 maggio. Machiav. Leg., t. VII, p. 218-232.
425. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 405. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 309. — P. Bembi, l. VII, p. 153. — Jac. Nardi, l. IV, p. 200. — Lett. del Vettori. Trento, 8 giugno 1508; e del Mac. Bologna, 14 giugno, p. 237-257.
426. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 195. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 283. — Jac. Arrosti Chron. di Pisa in Arch. Pisano, f. 230. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 388.
427. Macchiavelli opere, t. IV, p. 331, 356. — Jac. Nardi, l. IV, p. 200. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 284.
428. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 407.
429. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 407. — Jac. Nardi, l. IV, p. 201. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 285. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. XI, p. 310.
430. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 408.
431. Jac. Nardi, l. IV, p. 201. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 285.
432. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 417. — Jac. Nardi, l. IV, p. 202. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 314. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa in Arch., f. 232.
433. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 417. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 203. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 286. — Gio. Cambi Ist. Fior., t. XXI, p. 223.
434. Jac. Nardi, l. IV, p. 203. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 285.
435. Jac. Nardi, l. IV, p. 205. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 286. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 222. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 417.
436. Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 204. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 287. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 417. — Niccolò Macchiavelli commissione al campo contro Pisa, t. VII, p. 240.
437. Commis. data al Macchiavelli 10 marzo e sua lett. da Piombino 15 marzo, t. VIII, p. 246-249. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 288. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 229.
438. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 286. — Gio. Cambi, p. 225.
439. Lettere de' Commissarj generali del 20 di maggio 1509, al 6 giugno. In Macchiavelli Legazioni, t. VII, p. 267-288.
440. Jac. Nardi, l. IV, p. 207-208. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 288. — Gio. Cambi t. XXI, p. 251. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 323. — Jac. Arrosti Chron., f. 233. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 437.
441. Capitolazione per la resa della città di Pisa, sotto al dominio della repubblica fiorentina. Presso Flaminio del Borgo Raccolta di diplomi Pisani 4.º 1765, p. 406-408.
442. Lettera di N. Capponi ed Alamanni Salviati, ex castris apud Mezzanam, die 1 junii 1509. Machiavelli, t. VII, p. 276.
443. È un notabilissimo monumento dell'orrore che inspirava ai Pisani questo giogo straniero, e dell'emigrazione che seguì dopo il suo stabilimento, il registro aperto nel 1566, d'ordine del gran duca Cosimo I, per inscrivervi tutti gl'individui rimasti in Pisa, che potrebbero provare che i loro antenati partecipavano prima del 1494 alla magistratura ed agli onori della città. Comprende tutti i maschi di ogni famiglia, anche i preti, che pure non potevano lasciare discendenza, nè esercitare magistrature; si estende fino alle più basse professioni, e non pertanto non comprende che settecento ventisette nomi; tanto l'emigrazione nel corso di un mezzo secolo aveva scemata la popolazione di una città, capace di tener testa a tutta la Toscana, di una città la di cui lunga e valorosa resistenza aveva richiamata l'attenzione di tutta l'Europa. Trovasi stampato ne' Diplomi Pisani di Flaminio del Borgo in 4.º 1765, p. 433.
444. Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 311.
445. Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 310. — Arn. Ferroni, l. IV, p. 67.
446. De Flassan, Hist. de la Diplom. Française t. I, l. II, p. 286. — Léonard Corps Diplom., t. II.
447. Manifesto di Massimiliano in data del 5 di gennajo del 1509, che serve di preambolo al trattato di Cambrai. Ann. Eccles. Rayn. An. 1509, § 2, 3, 4, t. XX, p. 64.
448. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 412. — Jac. Nardi, l. IV, p. 204. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 311. — Hist. de la diplom. française, t. I, l. II, p. 288. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 53.
449. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 412. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 312. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 54.
450. Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XV, p. 280.
451. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 410.
452. P. Bembi Hist. Ven., l. VII, p. 158.
453. Ivi.
454. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 414. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 312.
455. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 418. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 314.
456. P. Bembi Hist. Ven. l. VII, p. 159.
457. P. Bembi, l. VII, p. 162. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 421.
458. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 419. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 315.
459. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 419. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 165.
460. Muratori Ann. d'Italia, l. X, p. 41, secondo una cronaca manoscritta. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — P. Bembi, l. VII, p. 167. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 317.
461. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 416.
462. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 416. — P. Bembi, l. VII, p. 165. — Fr. Belcarii l. XI, p. 315.
463. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 420.
464. Mém. du chev. Bayard., c. XXIX, p. 70.
465. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 421. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 205. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 316.
466. Rayn. Ann. Eccl. 1509, § 6-9, t. XX, p. 65. Ma non riporta testualmente che questa prima parte della bolla, e sopprime le minacce con cui si chiude.
467. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 422. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 165. — Fr. Belcarii l. XI, p. 316.
468. P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 166. — Fr. Belcarii Com., l. XI, p. 317. — Mém. du chev. Bayard., c. XXIX, t. XV, p. 70.
469. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 424. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 205.
470. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 425. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 168. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 318.
471. Mém. du chev. Bayard., ch. XXIX, t. XV, p. 69.
472. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 318.
473. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — P. Bembi Hist. Ven., l. VII, p. 170. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IX, p. 206. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 318. — Jo. Mariannae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XIX, p. 287. — P. Bizzarri Hist. Gen., l. XVIII, p. 426. — Mém. du chev. Bayard., t. XV, c. XXIX, p. 71. — Arn. Ferronii, t. IV, p. 68.
474. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 427. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 173. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 207. — Fr. Belcarii Comm., l. XI, p. 319.
475. P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 162.
476. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 418. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 175. — F. Belcarii, l. XI, p. 320.
477. Mém. du chev. Bayard., c. XXX, t. XV, p. 73. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 49. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 319. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 429. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 207.
478. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 429. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 164. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320.
479. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 429. — P. Bembi, l. VIII, p. 176. — Jac. Nardi, l. IV, p. 207. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320.
480. Muratori An. d'Italia, l. X, p. 47. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 430. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320.
481. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 434.
482. Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXIX, c. XIX, p. 287. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 433. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 175.
483. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 430. — F. Belcarii, l. XI, p. 321.
484. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 430.
485. P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 175.
486. Il Guicciardini dice espressamente di avere traslatata quest'arringa parola per parola dal testo latino, che fu poi originalmente pubblicato nel 1613 da Goldast, Politica imperialis, p. 977. Pure i Veneziani pretesero che fosse opera del Guicciardini. Se ne lagnarono amaramente, e questa controversia letterario-politica venne sostenuta da ambedue le parti con maggiore asprezza che non si conveniva all'importanza dell'argomento. Veggasi Histoire de la Ligue de Cambrai, l. I, p. 138-160. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 431.
487. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 433. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 321.
488. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 434. — P. Bembi Hist. Ven., l. VIII, p. 178-181. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 322. — Ann. Eccl. Raynaldi, 1509 § 14, p. 68.
489. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 436. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 322. — Mém. du chev. Bayard, c. XXX, p. 75. — Mémoires de Fleuranges, t. XVI, p. 50.
490. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 436. — Fr. Belcarii l. XI, p. 322.
491. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 436.
492. Caligaro, in dialetto veneziano, significa calzolajo.
493. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 435. — Fr. Belcarii l. XI, p. 322. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 180. — Muratori An. d'Italia, l. X, p. 46.