STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari, dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO XIV.
ITALIA 1819.
INDICE
STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE
CAPITOLO CVI.
I Veneziani riprendono e difendono Padova; loro guerra nel Ferrarese e loro disfatta alla Polisella. Giulio II gli assolve dalla sentenza di scomunica. Campagna del principe d'Anhalt nello stato di Venezia e sue crudeltà.
1509 = 1510.
Tra le angustie in cui si trovò il senato di Venezia dopo la disfatta di Vailate, aveva presa la risoluzione di abbandonare tutti i possedimenti di terra ferma, d'aprire tutte le sue porte ai nemici, di richiamare tutte le guarnigioni, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, per ultimo di rinunciare tutto ad un tratto a ciò che per più secoli era stato l'oggetto della sua politica, e di ridursi egli medesimo in più basso stato che non avrebbe potuto farlo la contraria fortuna dopo molte e tutte infelici battaglie. Una così strana risoluzione veniva da molti risguardata come una singolare testimonianza della pusillanimità di così illustre senato, da altri come quella della sua profonda politica. Coloro che lo videro riconquistare in appresso con tanta difficoltà e col dispendio di tanto danaro e di tanto sangue, ciò che aveva abbandonato in un'ora sola, inclinavano ad accusarlo di vergognosa debolezza. Altri per lo contrario, i quali osservavano, che con tale abbandono, che aveva posto il colmo alla sua malvagia fortuna, la repubblica aveavi ancora posto un termine; e che dopo tale epoca aveva cominciato ad essere secondata da favorevoli circostanze, preferirono di credere che il senato avesse prevedute tali circostanze, ed anticipatamente calcolati tutti i vantaggi che poteva ottenere coll'atto romoroso, col quale si assoggettava alla sorte. La signoria, che aveva grandissimo interesse di far credere al popolo, che in verun tempo non si era mai allontanata da quella prudenza, su di cui fondava il suo miglior diritto al comando, si vantò in appresso d'avere colla sua abilità dissipata la burrasca; e tutti gli storici veneziani gli attribuirono in questa stessa occasione il merito della più profonda antiveggenza.
Conviene non pertanto riconoscere che tutte le circostanze di questo avvenimento annunziano un grandissimo e giustissimo terrore. Tutti i mezzi erano in un medesimo istante venuti meno: l'armata trovavasi totalmente disciolta; e le poche reclute che vi si conducevano con inauditi sagrificj non compensavano le giornaliere perdite che arrecava la diserzione. Il generale, conte di Pitigliano, non meno che il suo collega Bartolomeo d'Alviano, allora prigioniere, erano ambidue vassalli di Ferdinando il Cattolico. Vero è che prima della battaglia avevano ricusato di ubbidire all'ordine di abbandonare il servigio de' nemici del loro re[1], ma poteva temersi che non fossero inaccessibili a nuove profferte quando fosse loro tolta ogni ragionevole speranza di buon successo a più ostinata resistenza. Le città, spaventate dalla minaccia del saccheggio e dalla ferocia degli oltremontani, non si mostravano altrimenti apparecchiate a sostenere un assedio per conservarsi fedeli alla repubblica. All'avvicinarsi di una rivoluzione, si risvegliavano le loro antiche fazioni, ed i Guelfi ed i Ghibellini erano a vicenda lusingati dalla speranza di essere protetti dal vincitore. I gentiluomini veneziani, incaricati del comando delle piazze, vedevansi esposti ad inevitabile prigionia, che avrebbe ruinate le loro famiglie per le esorbitanti taglie che da loro esigeva il re di Francia. Tutto pareva perduto; ogni cosa disperata; ed è perciò probabile che la maggior parte de' senatori, scoraggiati da tanta sciagura, piegassero in faccia ad un turbine cui credevano di non poter resistere.
Ma se per lo contrario i più abili politici tra i pregadi avevano calcolate le conseguenze della sommissione, i risultamenti non ingannarono la loro aspettazione. Più d'uno stato venne distrutto dal funesto errore dei popoli, che speravano di migliorare la loro sorte per l'invasione degli stranieri. Il peso de' mali presenti, l'illusione di un nuovo avvenire, persuasero spesse volte le città ad aprire le loro porte ai pretesi liberatori. La è cosa utilissima il non lasciar ignorare ai popoli che il nemico è sempre nemico. Se questo popolo non manca di virtù correggerà egli medesimo i vizj del proprio governo; ove ne manchi, li soffra pazientemente, riflettendo che non deve aspettare la riforma dal nemico. Tosto che questi avrà occupata la città, ed avrà in sua mano la provincia, non tarderà a far sentire quanto il suo giogo sia più duro e più vergognoso che non quello de' suoi compatriotti. In allora i traditori che lo avevano chiamato, e che si davano vanto d'un amore ipocrita per il popolo, perdono ogni credito presso i loro partigiani, e sono l'oggetto dell'orrore e del disprezzo de' loro concittadini. Di quanti vantaggi il senato veneto potè sperare dal subito abbandono di tutte le sue fortezze, fu questo il primo che raccolse. Non erano ancora passate sei settimane da che le truppe francesi e tedesche erano entrate nelle città veneziane, che i capi di parte, che le avevano chiamate, più non ardivano sostenere lo sguardo de' loro compatriotti.
Per lo contrario se i Veneziani avessero voluto ostinarsi in una inutile resistenza, il delitto d'avere chiamati i nemici, che non attribuivasi che a pochi individui, sarebbe stato quello di tutti gli abitanti. Da Bergamo fino a Padova tutte le città sarebbersi rendute colpevoli di ribellione per evitare gli orrori d'un assedio, e tutte sarebbersi in conseguenza trovate costrette dalla loro ribellione a difendere i nuovi possessori per sottrarsi alla vendetta degli antichi padroni. Sciogliendole tutte dal giuramento di fedeltà, il senato diede loro licenza di cedere alle circostanze senza rimorsi e senza timore dell'avvenire. Si scaricò egli stesso di tutta l'odiosità della guerra; ed oltre al non avere ancora loro chiesto verun doloroso sagrificio, cercava pure di salvarle nell'istante medesimo in cui da loro si separava; lasciando così sulle spalle de' nemici tutte le vessazioni inseparabili dagli assedj e dalle ostili conquiste.
Questa politica otteneva pure un utile risultamento sia presso le potenze nemiche che presso le neutrali. La coalizione di tutti contro un solo, quand'è offensiva, è sempre imprudente ed impolitica. Giugne tosto o tardi l'istante in cui ogni potenza sente il pericolo d'avere rovesciato l'equilibrio degli stati. Altronde ognuna, cominciando a dare esecuzione ai suoi progetti, vede sorgere imprevedute difficoltà ed ostacoli, e la divisione delle spoglie del debole diventa la prima cagione della divisione tra i forti. Finchè Venezia conservava una parte delle province destinate ad altri dal trattato di Cambrai, si andava dilazionando ogni discussione intorno alla nuova divisione, e la lega, intenta solamente a vincere rimaneva sempre unita. Ma evacuando le armate veneziane tutta la terra ferma, chiamarono gli alleati a dare immediata esecuzione al trattato di Cambrai, e permisero che si manifestassero tutte le gelosie ed i timori che quel trattato dovea produrre. Frattanto il senato avea il vantaggio di avere tra le lagune un sicuro asilo, ove la sede del governo, il tesoro, l'armata e la flotta potevano tenersi senza sospetto, aspettando che le vessazioni dei nemici dessero nuovi alleati alla buona causa.
Mentre Massimiliano, che nulla aveva fatto, nè attenuta veruna promessa, proponeva di spingere ancora più in là quei successi, cui egli non aveva contribuito, di prendere la stessa città di Venezia, di dividerla in quattro giurisdizioni, fabbricando in ognuna una fortezza, e dandone una in guardia ad ogni potenza alleata[2], Ferdinando il Cattolico, pago d'avere ricuperati i suoi porti di mare, cominciava di già a desiderare il ristabilimento della potenza veneziana; Lodovico XII, che aveva acquistato tutto quanto eragli assegnato dal trattato di Cambrai, e che non aspirava ad occupare altri paesi, aveva licenziata la sua formidabile armata, e ritornava in Francia; finalmente Giulio II si rimproverava di avere schiacciata la Custode delle porte d'Italia, e di avere introdotti i barbari in seno a così bel paese. Le potenze neutrali tremavano per la funesta preponderanza ottenuta dagli stati condividenti, e quelle stesse, che per debolezza e per timore avevano preso parte all'alleanza, facevano voti per vederla disciolta.
Andrea Foscolo, ambasciatore della signoria a Costantinopoli, scrisse al senato che il sultano Bajazette II gli aveva manifestato il dolore con cui udì i disastri della repubblica, ed il suo rincrescimento che i Veneziani non fossero a lui ricorsi, quando si videro minacciati da così potente lega; aggiugneva d'essere apparecchiato ad assisterli con tutte le sue forze di terra e di mare, come buono e fedele alleato e vicino. Questa notizia giunse a Venezia quasi contemporaneamente alle prime lettere degli ambasciatori mandati a Roma, che davano parte dell'estremo orgoglio con cui erano stati ricevuti da Giulio II, e delle insultanti sue inchieste. Aveva domandato che la repubblica abbandonasse a Massimiliano tutti i suoi stati di terra ferma; che rinunciasse alla sovranità del golfo Adriatico, ed a tutte le sue immunità ecclesiastiche, ed umilmente confessasse d'avere peccato contro la santa sede. Lorenzo Loredano, figlio del doge, propose alla signoria di domandare immediatamente gli ajuti del sultano contro Giulio, certo meno papa che carnefice de' Cristiani; ma i più savj senatori, che conoscevano il carattere di Giulio II, pensarono che si dovesse qualche cosa condonare alla di lui alterigia ed impetuoso temperamento, e che quando non si rompessero con lui le negoziazioni, si ridurrebbe in breve ad abbracciare con calore gl'interessi di quella stessa repubblica ch'egli sembrava ancora perseguitare[3].
Massimiliano tenevasi sempre ai confini dell'Italia, continuando a passare da un luogo ad un altro, senza che i suoi più favoriti cortigiani ne sapessero mai il motivo. Credeva con tale profondo segreto d'acquistarsi nome di grande politico, come colla incessante sua attività quello di sommo capitano. Intanto l'armata, ch'egli avrebbe dovuto ragunare, ancora non trovavasi in verun luogo, e le città che gli si erano volontariamente date non avevano guarnigione bastante per tempi di pace. Leonardo Trissino con trecento fanti tedeschi e Brunoro di Serego con cinquanta cavalieri occupavano Padova, sebbene questa città, vicinissima a Venezia, fosse una delle più esposte. I gentiluomini padovani avevano quasi tutti abbracciato il partito imperiale, ed eransi tra di loro divisi i palazzi ed i poderi che avevano i Veneziani nel loro territorio[4]. Avevano sperato, dichiarandosi per l'imperatore, che otterrebbero distinzioni alla sua corte, e che col di lui appoggio otterrebbero di stabilire il sistema feudale nelle belle pianure della Lombardia. Desideravano ardentemente di far rientrare i borghesi ed i contadini di Padova in quello stato di abbietta sommissione, in cui tenevano i loro vassalli e servi i gentiluomini dell'Austria e dell'Ungheria. I Tedeschi non avevano comandato in Padova che quarantadue giorni, e la nobiltà di quella terra aveva di già avuto il tempo di far sentire a tutti i loro compatriotti quella arroganza che andava crescendo in ragione che la patria era più umiliata; ma quanto più la nobiltà rendevasi ligia all'Austria, la repubblica poteva avere maggiore fiducia nell'attaccamento di tutti i contadini e di quasi tutti i borghesi[5].
Per altro il doge Loredano non credeva ancora giunto l'istante di riprendere l'offensiva; ma il senatore Molino comunicò ai senatori il coraggio di ricominciare le battaglie. L'armata francese era licenziata, Giulio II e Ferdinando lasciavano sperare che potrebbero staccarsi dalla lega: il Molino giudicò quest'istante opportuno per azzuffarsi con Massimiliano, e ritorgli colla forza ciò che gli era stato ceduto senza resistenza. Il provveditore Andrea Gritti s'incaricò di sorprendere Padova, ove teneva segrete intelligenze. Era cominciato il raccolto de' secondi fieni, ed ogni mattina entravano in città carichi di questa derrata tanti carri, che impedivano ai landsknechts, che stavano di guardia alle porte, di vedere a qualche distanza. La mattina del 17 di luglio Andrea Gritti fece avanzare per la porta di Coda Lunga un grosso convoglio di carri di fieno; ma tra il quinto ed il sesto carro trovavansi sei uomini d'armi veneziani, con sei pedoni dietro di loro. Nell'istante in cui trovaronsi entro la porta, ognuno uccise un landsknecht, indi suonarono il corno per chiamare i rinforzi. Il Gritti, che li seguiva a poca distanza, occupò la porta con quattrocento uomini d'armi, due mila cavaleggieri e tre mila fanti, prima che gli imperiali avessero potuto apparecchiarsi alle difese. Nello stesso tempo Cristoforo Moro, l'altro provveditore, con trecento fanti e due mila contadini, faceva un falso attacco al portello per deviare l'attenzione de' nemici[6].
Padova era in allora, come lo è presentemente, una vastissima ma deserta città, i di cui quartieri sono separati dalle mura, e formano altrettante diverse città. In quelle strade senza abitatori la stessa notizia dell'attacco non aveva potuto diffondersi, ed era presa la città prima che la metà dei Padovani sapessero d'essere minacciati. Il Trissino ed il Serego si ordinarono in battaglia colla loro poca truppa in sulla piazza, sperando d'essere bentosto raggiunti dai gentiluomini, ch'eransi mostrati così zelanti per la loro causa; ma niuno si mosse per soccorrerli. I Tedeschi furono respinti con perdita nella fortezza, la quale non essendo provveduta di vittovaglie dovette arrendersi dopo poche ore. Non fu possibile di contenere i contadini, i quali saccheggiarono i palazzi di ottanta gentiluomini i più parziali per gli alleati, ed il quartiere degli Ebrei. La folla dei contadini del vicinato accorreva per aver parte al saccheggio; e per lo stesso oggetto partivano numerose barche da Venezia e rimontavano la Brenta ed il Bacchiglione; finalmente prima di sera arrivò l'intera armata del Pitigliano: ma i provveditori fecero bandire che cessasse il sacco sotto pena di morte; ed in tal modo sottrassero Padova al totale esterminio. All'indomani la fortezza capitolò, ed i suoi comandanti furono mandati prigionieri a Venezia[7].
Il giorno in cui fu ricuperata Padova si consacrò dal senato ad una solenne festa di rendimento di grazie: ed infatti in questo giorno potè fissare l'epoca del risorgimento della repubblica. Tutto il territorio di Padova seguì immediatamente la sorte della sua capitale. Vicenza, che pure trovavasi in sul punto di sollevarsi, fu a stento contenuta da Costantino Cominates, che v'introdusse tutte le truppe imperiali che gli riuscì di raccogliere. Legnago colle sue fortezze aprì le porte ai Veneziani, e diede loro un punto d'appoggio per essere a portata di attaccare come loro meglio piacesse o Vicenza, o Verona. La torre Marchesana, lontana otto miglia da Padova, che apriva l'ingresso del Polesine di Rovigo, non fu salvata che dai pronti soccorsi mandati dal cardinale d'Este[8].
Il vescovo di Trento, che si era incaricato della difesa di Verona, non aveva in quella città che dugento cavalli e settecento fanti: temeva di vedersela tolta ad ogni istante, e chiamò in suo ajuto il marchese di Mantova. Questi, essendosi avanzato in sui confini del Veronese fino all'isola della Scala, terra aperta in riva al Tartaro, press'a poco ad eguale distanza tra Mantova e Verona, entrò in negoziazione con alcuni Stradioti, che sperava di far disertare dall'armata veneziana; ma essi lo ingannavano con un doppio trattato. Avevano avvisato Lucio Malvezzi e Zittolo di Perugia, ch'eransi segretamente recati a Legnago con dugento cavalli ed ottocento pedoni, e che investirono la Scala la notte del 9 agosto. Gli Stradioti, avvicinandosi, andavano ripetendo il grido di guerra del marchese, onde non eccitare la diffidenza delle sue guardie: altronde i contadini erano tutti per loro, e loro se ne aggiunsero bentosto più di mille cinquecento. Boissì, luogotenente del marchese, e nipote del cardinale d'Amboise, venne arrestato nel suo letto e fatto prigioniere con tutti i suoi soldati; il Gonzaga fuggì in camicia fuori da una finestra, e si nascose in un campo di miglio turco; ma, scoperto dai contadini che ricusarono con inaudito disinteresse le prodigiose somme loro promesse per la sua liberazione, lo consegnarono alla signoria, che lo tenne in prigione nella torre del palazzo pubblico[9].
Erasi da principio creduto che questi due così subiti rovesci avuti dalla lega, tratterrebbero Lodovico XII, che trovavasi tuttavia a Milano, e non gli permetterebbero di tornare in Francia; ma questo monarca, dopo d'avere conquistate le province altra volta milanesi, solo oggetto della sua ambizione, cominciava ad avvedersi d'avere con un fallace calcolo sagrificata la sicurezza del totale all'acquisto d'una parte. La volubilità di Massimiliano gli faceva sentire quanto poco potesse fidarsi d'un tale alleato, e malgrado la diffidenza che in allora mantenevasi viva tra questo monarca e Ferdinando, l'avanzata età dell'ultimo faceva prevedere vicino l'istante in cui il loro comune nipote riunirebbe sul di lui capo le corone della Germania a quelle della Spagna: allora quella stessa casa d'Austria, la di cui alleanza era sì poco utile, diventerebbe una pericolosa nemica, ed il possedimento delle province venete, che la Francia aveva poste in sua mano, comprometterebbero il ducato di Milano.
Lodovico XII non desiderava, nè la vittoria de' Veneziani, troppo giustamente contro di lui irritati, nè quella di Massimiliano, che porrebbe tutta l'Italia a discrezione de' Tedeschi. L'imperatore chiedeva ragguardevoli soccorsi d'uomini e di danaro, e non era prudente consiglio il rifiutarli, perciocchè l'incostanza del suo carattere, e la conosciuta disposizione delle altre potenze, rendevano possibile agli occhi del re di Francia una alleanza di Massimiliano coi medesimi Veneziani, colla Chiesa e con Ferdinando, per iscacciare i Francesi d'Italia. Fra tanti dubbj e timori, accresciuti da così luminose vittorie, Lodovico XII risolse di lasciare ai confini del Veronese la Palisse con cinquecento lance, cui si unirono Bajardo e dugento gentiluomini volontarj; loro ordinò di soccorrere, in caso di bisogno, l'imperatore; ma egli tornò subito in Francia per togliersi ad ulteriori istanze di più potenti ajuti. Sperò che l'imperatore ed i Veneziani s'anderebbero reciprocamente consumando con una ruinosa guerra, e che Massimiliano in circostanze d'estremo bisogno gli venderebbe Verona, colla quale acquisterebbe la chiave dell'Italia dalla banda del Tirolo[10].
Prima d'abbandonare la Lombardia aveva Lodovico XII conchiuso ad Abbiategrasso un nuovo trattato d'alleanza col cardinale di Pavia, legato di Giulio II. Il papa ed il re si obbligavano reciprocamente a difendere gli stati l'uno dell'altro, riservandosi l'uno e l'altro la libertà di trattare con chiunque volessero, purchè ciò non tornasse in pregiudizio d'una delle due parti contraenti; ma il re prometteva dal canto suo di non accettare la protezione di veruno mediato o immediato feudatario della Chiesa, espressamente annullando qualunque protezione di tale natura cui potesse inaddietro essersi obbligato. Distruggeva in tal modo i solenni trattati che aveva stipulati coi duchi di Ferrara, alleati ereditarj della casa di Francia. Il papa si riservava la nomina ai beneficj attualmente vacanti in tutti gli stati del re; ma accordava a Lodovico la nomina di quelli che si renderebbero in appresso vacanti[11].
Pareva finalmente che Massimiliano cominciasse ad arrossire dell'estrema sua negligenza; egli risguardava la perdita di Padova come un affronto personale, e le sue truppe, tanto tempo aspettate, arrivavano finalmente ai confini. Rodolfo, fratello del regnante principe d'Anhalt, entrò nel Friuli con dieci mila uomini. Dopo avere attaccato invano Montefalcone, occupò Cadore[12], di cui uccise la guarnigione; mentre i Veneziani s'impadronivano di Serravalle[13] e di Belluno. Dall'altro canto il duca di Brunswick dovette abbandonare l'assedio di Udine, poi strinse Cividale del Friuli, che Giovanni Paolo Gradenigo, provveditore di quella provincia, valorosamente difese con cinquecento pedoni. In Istria Cristoforo Frangipani, generale ungaro al servizio di Massimiliano, dopo avere battuti i Veneziani presso Verme, occupò Castelnuovo e Raprucchio, mentre che Angelo Trevisani, capitano delle galere della repubblica, riprendeva Fiume ed attaccava Trieste. Tutte le quali province, diventate il teatro della guerra, erano ridotte nella più spaventosa desolazione, perciocchè la stessa città, lo stesso castello, erano in pochi giorni presi e ripresi, ed ogni volta saccheggiati. I soldati delle due armate erano egualmente barbari, egualmente stranieri al paese in cui combattevano, e la loro cupidigia nella vittoria non veniva contenuta da veruna disciplina. I Tedeschi, non contenti di tormentare i contadini che cadevano nelle loro mani, aveano ammaestrati certi cani per discoprire le donne ed i fanciulli appiattati ne' campi[14].
Non dubitavano i Veneziani, che quando fosse tutta unita l'armata dell'imperatore, non attaccasse Padova; onde nulla ommisero per porla in istato di resistere lungamente. Vi fecero entrare il conte di Pitigliano, loro generale, con tutta la sua armata. Bernardino del Montone, Antonio de' Pii, Lucio Malvezzi e Giovanni Greco, comandavano la loro cavalleria, composta di seicento uomini d'arme, di mille cinquecento cavaleggieri e di mille cinquecento Stradioti. Erano alla testa di dodici mila fanti, i migliori dell'Italia, Dionigi Naldo, Zittolo di Perugia, Lattanzio di Bergamo e Saccoccio di Spoleti; tutti i quali capitani eransi acquistato gran nome nelle lunghe guerre d'Italia. Inoltre il senato aveva mandati a Padova dieci mila fanti, schiavoni, greci o albanesi, levati dalle galere della repubblica, che sebbene inferiori agli Italiani chiamati Brisighella, erano pure capaci di rendere importanti servigj[15].
I capitani veneziani avevano condotto a Padova un magnifico treno d'artiglieria; ed avevano approfittato dei due fiumi che attraversano la città per introdurvi tutte le munizioni necessarie in un lunghissimo assedio. I contadini di tutta la provincia, temendo il vicino arrivo de' Tedeschi, eransi affrettati di trasportare in Padova le messi in allora raccolte, e vi si erano rifugiati ancor essi colle loro famiglie e colle loro gregge: di modo che così vasta città, che d'ordinario era quasi deserta, aveva potuto raccogliere entro le sue mura una popolazione quasi quattro volte maggiore della consueta. Nè tanta gente erasi tenuta oziosa, perciocchè coll'ajuto di tante braccia si aggiunsero ogni giorno nuove fortificazioni al ricinto della città. Le fosse eransi riempiute d'acqua fin quasi al livello del terreno, le porte furono tutte coperte da opere avanzate, ed alle cortine, giudicate troppo lunghe, erano stati aggiunti nuovi bastioni. Tutte queste opere esteriori erano minate, e caricate le mine, onde poterle far saltare quando gli assediati fossero forzati ad abbandonarle. Le mura venivano sostenute in tutta la loro estensione da un largo terrapieno, dietro al quale erasi cavata una seconda fossa larga sedici braccia, ed altrettanto profonda, ed internamente difesa da casematte. Finalmente, al di dietro di questa fossa, cingeva tutta la città un nuovo baluardo ancor esso armato d'artiglieria. In tal modo veniva Padova difesa da una triplice linea di fortificazioni, che presentava quasi l'immagine di quelle che costumansi nell'età presente[16].
Affinchè la costanza degli assediati fosse proporzionata agli immensi apparecchj destinati a sostenere l'assedio, i Veneziani vollero dare una luminosa prova ai Padovani ed all'armata, ch'essi associavano la salvezza della repubblica a quella di questa città, e che perduta questa non si riserbavano altre speranze. Le leggi e le costumanze della repubblica escludevano i gentiluomini veneziani dal servigio delle armate di terra, mentre gli avevano in ogni tempo incoraggiati a servire sulle flotte. Ma in un'assemblea del senato il venerabile doge, Leonardo Loredano, persuase i suoi compatriotti a deviare da quest'antica costumanza, ed a permettere ai giovani gentiluomini di dar prove del loro zelo, ovunque il loro valore potrebbe riuscire utile alla patria, dichiarando che i suoi due figli, Luigi e Bernardo, anderebbero a chiudersi in Padova con cento fanti da loro assoldati. Il suo esempio eccitò una nobile emulazione, e cento sessanta nobili veneziani andarono a rinforzare la guarnigione di Padova, tutti conducendo un numero di militari proporzionato alla ricchezza della loro famiglia[17].
Finalmente Massimiliano aveva raggiunta la sua armata, e stabilito il suo quartiere generale al ponte della Brenta, tre miglia lontano da Padova; mentre stava colà aspettando l'artiglieria che gli doveva essere condotta dalla Germania, aveva attaccati i castelli dei Monti Euganei: Este e Monselice furono presi d'assalto, e Montagnana capitolò. In appresso Massimiliano occupò Limena, dove una fortezza protegge la divisione delle acque della Brenta, facendone scorrere una parte verso Padova, e l'altra per Vico d'Arzere al mare. Di già i suoi zappatori avevano atterrata porzione dell'argine che impedisce al fiume di scorrere con tutte le sue acque pel letto naturale, quando il lavoro venne d'ordine dell'imperatore improvvisamente interrotto, senza che mai si potesse penetrarne il motivo; e fu lasciato in tal modo ai Padovani il godimento delle loro acque. Massimiliano aveva inoltre tentato d'impadronirsi del divisorio delle acque del Bacchiglione a Longara, ma gli Stradioti, che battevano la campagna, mai non permisero a' suoi guastatori di terminare i loro lavori[18].
Quando giunse l'artiglieria tedesca, Massimiliano stabilì il suo campo in faccia alla porta di santa Croce; e perchè vi si trovava troppo esposto al fuoco degli assediati, lo trasportò avanti a quella del Portello, che conduce a Venezia, tra la Brenta ed il Bacchiglione. Colà pose il suo quartiere generale soltanto il giorno 15 di settembre, dopo avere guastato tutto il paese vicino, ma dopo avere altresì dato ai Veneziani tutto il tempo necessario per terminare i loro apparecchj di difesa[19].
Trovavansi sotto gli ordini di Massimiliano, La Palisse con settecento lance francesi, Luigi Pico della Mirandola con dugento lance di papa Giulio II, il cardinale Ippolito d'Este con altrettante del duca di Ferrara, il cardinale Gonzaga con un numero simile di Mantova, e seicento uomini d'arme italiani al soldo dell'imperatore sotto diversi condottieri. L'infanteria consisteva in diciotto mila fanti tedeschi, ossia landsknecht, in sei mila Spagnuoli, in sei mila avventurieri di varie nazioni, ed in due mila Ferraresi. Eransi condotti dalla Germania centosei pezzi d'artiglieria montati sulle loro ruote; sei bombarde erano così grosse, che non si erano potute collocare sui loro carri; quando erano poste al loro luogo rimanevano immobili, e non potevano tirare più di quattro volte al giorno. Erano giunti da Milano e da Ferrara due altri treni d'artiglieria, ed in tutto contavansi nel campo dell'imperatore dugento cannoni sui loro carri. Da più secoli non eransi impiegate mai tante forze nell'attacco e nella difesa di una città. L'armata di Massimiliano ammontava dagli ottanta ai cento mila uomini, e sebbene non fosse quasi mai pagata, il soldato, che amava la bravura e la prodigalità dell'imperatore, che sapeva di essere da lui amato, e che si rifaceva sopra gli sventurati abitanti della mancanza di danaro del suo generale, non pensava ad abbandonarlo[20].
Fin allora l'imperatore non avea dato agl'Italiani che lo spettacolo della sua versatilità, della sua mancanza di fede e delle sue prodigalità; ma ne' primi giorni dell'assedio di Padova, dispiegò ai loro occhi quell'attività, quell'intelligenza militare e quel valore personale, che rendettero ai Tedeschi tanto cara la di lui memoria. Egli aveva il suo alloggio nel convento di sant'Elena, lontano un quarto di miglio dalle mura; il suo campo, che occupava tre miglia d'estensione, trovavasi in quasi tutta la sua linea sotto al fuoco della piazza; e Massimiliano vi si esponeva continuamente. Vedevasi sempre in mezzo agli operaj per dirigere ed affrettarne i lavori; ed infatti colla sua attività le batterie si aprirono su tutta la linea nel termine di cinque giorni[21].
Quattro giorni dopo che le batterie giuocavano, furono aperte nelle mura diverse brecce praticabili, onde all'indomani Massimiliano ordinò in battaglia l'esercito per dare l'assalto; ma durante la notte i Padovani avevano potuto introdurre nuove acque nelle fosse, e l'attacco venne giudicato impraticabile, finchè non fossero diminuite. Convenne impiegare ventiquattr'ore per farle scolare, dopo di che Massimiliano attaccò il bastione che cuopre la porta di Coda Lunga; ma fu respinto; risoluto però di voler prenderlo ad ogni modo, fece avanzare da questa banda l'artiglieria francese, che allargò notabilmente la breccia, e dopo due altri giorni diede un secondo assalto. I fanti tedeschi e spagnuoli, incoraggiati dall'emulazione fra le due nazioni, penetrarono all'ultimo per la breccia dopo una furiosa zuffa, nella quale perdettero moltissima gente, e si stabilirono sul bastione. Ma non l'ebbero i Veneziani appena abbandonato, che diedero fuoco a tutte le mine, la di cui esplosione fece perire la maggior parte de' vincitori, tra i quali i più distinti compagni d'armi e soldati della scuola di Gonsalvo di Cordova[22]. Nello stesso tempo gli imperiali costernati vennero furiosamente attaccati da Zittolo di Perugia, e scacciati da tutte le opere che avevano con tanto loro danno occupate[23].
Questa rotta scoraggiò tutta l'armata, ed intiepidì l'ardore di Massimiliano. Gli assediati non tenevansi chiusi entro le mura; e gli Stradioti, che avevano voluto mantenersi ne' sobborghi, battevano continuamente la campagna. Vero è che non mancavano agli assedianti le vittovaglie, perciocchè, malgrado tutta l'autorità del governo veneziano e lo zelo dei contadini, non era stato possibile di spogliare affatto così ricca campagna; onde i saccomanni non ebbero mai bisogno di allontanarsi più di sei miglia dal loro quartiere per trovare munizioni da bocca. Ma se l'assedio si fosse protratto ancora alcun tempo, le truppe avrebbero all'ultimo provate le conseguenze della loro indisciplina e della povertà del loro capo[24].
Prima che i Veneziani avessero chiusa la breccia per la quale erano entrati gli Spagnuoli ed i Tedeschi, e dove tanto avevano sofferto, Massimiliano fece proporre alla Palisse di far mettere piede a terra ai suoi uomini d'armi per montare all'assalto coi landsknecht. Ma, così consigliato da Bajardo, La Palisse rispose, che questo corpo francese era tutto composto di gentiluomini, e che non sarebbe cosa onesta il farli combattere in compagnia dei pedoni tedeschi, ch'erano ignobili. Se l'imperatore, soggiunse, voleva far mettere piede a terra a' suoi principi ed alla sua nobiltà tedesca, la nobiltà francese loro mostrerebbe la strada della breccia. Massimiliano comunicò questa provocante risposta ai Tedeschi, i quali risposero che non combatterebbero che come si conveniva a gentiluomini, cioè a cavallo. Massimiliano impazientato abbandonò il campo, allontanandosi quaranta miglia in sulla strada della Germania, e lasciando ordine ai suoi luogotenenti di levare l'assedio[25]. Questi ritirarono la loro artiglieria il tre di ottobre, sedici giorni dopo l'apertura della trincea, e portarono il quartiere generale a Limena, lungo la strada di Treviso. Dopo pochi giorni Massimiliano li ricondusse a Vicenza, ove poi ch'ebbe ricevuto da quel popolo solenne giuramento di fedeltà, congedò la maggior parte del suo esercito[26].
Con questo inutile tentativo aveva Massimiliano perduta gran parte della sua riputazione, e Chaumont era venuto nel Veronese per conferire con lui. L'imperatore gli disse: che ove il re di Francia non gli desse potenti ajuti, troverebbesi in breve esposto ancor esso a perdere le sue conquiste; che i Veneziani di già pensavano ad attaccare Cittadella e Bassano; che non mancherebbero di portare in appresso le loro armi contro di Este, Monselice e Montagnana, e che il solo mezzo di tenerli a freno era quello di attaccare Legnago colle forze riunite francesi e tedesche. Ma il governo francese non era altrimenti disposto ad incaricarsi solo delle spese e dei pericoli di una guerra, i di cui vantaggi non erano suoi; e quando Massimiliano, dopo molte irrisoluzioni, prese la strada di Trento, La Palisse ritirò le sue truppe dal territorio veronese per rientrare nello stato di Milano[27].
Le armate di questa lega, in addietro così formidabile, eransi ritirate da tutte le bande. Omai i Veneziani, invece di temere per sè medesimi, minacciavano coloro che avevano invase le loro province; ed inoltre la malintelligenza cominciava ad introdursi tra i loro nemici. Lagnavasi Massimiliano d'essere stato abbandonato dai suoi confederati, incolpandoli de' suoi infelici successi. Il re di Francia si doleva del papa, che, fondandosi sulla circostanza che il vescovo di Avignone era morto nella corte di Roma, aveva conferito quel vescovado, invece di lasciarne la nomina al re; ed il risentimento del re si spinse tant'oltre, che furono per suo ordine confiscate tutte le entrate degli ecclesiastici romani nel ducato di Milano[28].
Finalmente cedette Giulio II, ma suo malgrado: altero, impetuoso e ad un tempo diffidente, verun altro sentimento più omai non nodriva per la corte di Francia, che la malevolenza ed il desiderio di vendicarsi: fondavasi sul religioso rispetto dei popoli e sulle forze della Chiesa, e non voleva essere spalleggiato da verun confederato: s'alienava nello stesso tempo da tutti, e, se pure prendeva tuttavia qualche parte nella guerra, era in favore dei Veneziani. Pure non gli aveva per anco assolti; voleva preventivamente farli rinunciare alla giurisdizione del loro Visdomino in Ferrara, come cosa indecente in un feudo della Chiesa, ed all'esclusivo diritto che si arrogavano della navigazione e del commercio nel mare Adriatico[29].
I Fiorentini, accecati a dismisura dalla loro gelosia contro Venezia, desideravano prosperi successi alla lega di Cambray, ed avevano mandato ambasciatori a Massimiliano, quando era entrato in Italia, per regolare con esso lui tutte le pretese della camera imperiale, rispetto alla quale non avevano potuto andare d'accordo un anno prima. Massimiliano avanti che lasciasse Verona accolse questi ambasciatori, tra i quali trovavasi Pietro Guicciardini, padre dello storico. Le sue finanze erano affatto esauste, urgenti i suoi bisogni, e perciò le sue domande furono assai più moderate di quelle fatte a Macchiavelli nel 1508. Mercè il pagamento di quaranta mila fiorini, da farsi in quattro termini avanti la fine di febbrajo, assolse i Fiorentini da tutti i censi non pagati, e da tutte le investiture di cui potessero andargli debitori; riconfermò i loro privilegj su tutti i feudi imperiali ch'essi possedevano, ed inoltre si obbligò a non turbare, nè ad attaccare giammai il loro governo[30].
Intanto le armate Veneziane andavano facendo rapidi progressi. Il provveditore, Andrea Gritti, si accostò a Vicenza, e la vista delle insegne di san Marco cagionò subito una sollevazione in quella città, di cui gli furono aperte le porte il 26 di novembre. Il principe d'Anhalt, che ne aveva il comando, ritirossi nella cittadella con Fracassa di Sanseverino, ma dopo tre giorni fu costretto a capitolare[31]. Se, invece di perdere un tempo troppo prezioso nell'assedio di questa fortezza, il Gritti si fosse immediatamente recato sotto Verona, questa città, che di già tumultuava, gli avrebbe pure aperte le porte. Il vescovo di Trento, cui Massimiliano l'aveva data in guardia, ebbe tempo di farvi entrare trecento lance francesi sotto gli ordini di Daubignì, ed un grosso corpo d'infanteria spagnuola e tedesca. Non pertanto tutte queste truppe appena bastavano a contenere gli abitanti, i quali, minacciati, insultati, saccheggiati a vicenda dai soldati di tutte le nazioni che alloggiavano nelle loro case, ardentemente desideravano il paterno governo degli antichi padroni. L'armata veneziana, dopo un mal diretto attacco sopra Verona, si divise in due corpi, uno de' quali ricuperò Bassano, Feltre, Cividale e Castelnovo del Friuli, l'altro riprese Monselice, Montagnana ed il Polesine di Rovigo[32].
Questo corpo d'armata, teneva ordine di dare esecuzione contro la casa d'Este ad una vendetta che sommamente stava a cuore alla repubblica. I Veneziani non sapevano perdonare al debole loro vicino, che aveva tanto tempo vissuto sotto la loro protezione, d'essersi approfittato dei loro disastri per attaccarli, quando si trovavano oppressi da tutti i loro nemici; l'insulto de' piccoli, che abusano del momentaneo trionfo de' loro alleati, eccita assai più profondi risentimenti che le più gravi ingiurie de' potenti. Il primo uso che far voleva il senato delle sue forze tendeva a dimostrare che non era poi caduto in così basso stato da non potersi far rispettare da un duca di Ferrara. Angelo Trevisani, che aveva il comando della flotta, dopo avere incendiato Trieste proponevasi d'attaccare Ancona, Fano o le città di Ferdinando nella Puglia; ma la signoria lo richiamò, e malgrado la sua ripugnanza ad innoltrarsi nel letto di un fiume, gli ordinò di andare, di concerto coll'armata di terra, a punire il duca Alfonso nella sua stessa capitale[33].
La flotta veneziana entrò in Po per la foce delle Fornaci, bruciò Corbola, e si avanzò fino a Lago Scuro, bruciando lungo le due rive da lei percorse i palazzi, i castelli ed i villaggi. Lago Scuro è il porto di Ferrara sul Po; non è discosto più di due miglia dalla città; ed i cavaleggieri veneziani ch'erano venuti a porsi sotto la protezione della flotta, partivano da Lago Scuro per portare la desolazione in tutto il territorio ferrarese. Il gusto che aveva Alfonso, duca di Ferrara, per le arti meccaniche, gli aveva procurata la più bella artiglieria dell'Europa. La fonderia dei cannoni era stata il suo maggior divertimento, l'oggetto principale del suo lusso, ed ora giovò alla sua difesa. Egli innalzò le sue batterie a Lago Scuro, sulle rive del fiume, e costrinse la flotta del Trevisani a ritirarsi fin sotto a Polisella, ov'ella gettò l'ancora dietro una piccola isola[34].
Per porre in tale situazione i suoi vascelli in sicuro, il Trevisani alzò due bastioni sulle due rive del fiume, e gli unì con un ponte. Il 30 dicembre Alfonso tentò di sorprendere questi trinceramenti, e fu respinto con grave perdita. In questa zuffa fu fatto prigioniero dagli schiavoni Ercole Cantelmo, emigrato di Napoli, e figlio del duca di Sora; e perchè non potevano fra di loro accordarsi gli schiavoni rispetto alla divisione di così ricca preda, uno di loro gli troncò il capo con un colpo di sciabola. L'Ariosto invocò la compassione delle future età per questo giovine, uno de' più distinti cortigiani del duca, e l'amico del poeta[35].
Frattanto Chaumont, non volendo lasciar perire il duca di Ferrara, venne a Verona, e diede voce di marciare sopra Vicenza, con che sforzò l'armata veneziana ad allontanarsi dalla flotta per difendere gli stati della repubblica; il cardinale d'Este, approfittando della circostanza che il Trevisani non era più padrone della campagna intorno alla Polisella, fece di notte trasportare un grosso treno d'artiglieria in faccia alla flotta. Le acque del fiume erano in modo cresciute per le dirotte piogge, cadute in que' giorni, che le navi sorgevano quasi a livello delle dighe. Il cardinal d'Este fece in queste praticare alcune aperture, e collocarvi con grandissimo silenzio parecchi cannoni al dissopra ed al dissotto della flotta. Il rumore delle acque, che in allora scorrevano impetuose oltre l'usato, celarono i lavori del nemico al Trevisani, il quale non aveva altronde preveduto che il subito innalzamento del fiume permetterebbe di collocare l'artiglieria a fior d'acqua. Il 22 dicembre allo spuntare del giorno fu risvegliato dal continuo fuoco di queste batterie a lui ignote, ed alle quali le sue navi non potevano sottrarsi nella lunghezza di tre miglia. Non avendo sufficienti truppe da sbarco per attaccarle ed impadronirsene, perdette il senno, ed in cambio di far tagliare la diga del fiume, per la quale operazione, spargendosi le acque sul territorio ferrarese, sarebbersi in modo abbassate nell'alveo del fiume, che la flotta non sarebbe stata così esposta al fatal fuoco della batteria, egli, credendo la cosa affatto disperata, fuggì sopra una piccola barca in principio dell'azione. Quasi tutti gli equipaggi de' vascelli seguirono l'esempio del loro capo, quando videro una galera bruciata e due altre colate a fondo. Quasi due mila persone perirono sotto i colpi del nemico, o furono sommerse; e furono dal cardinale d'Este condotte in trionfo a Lago Scuro quindici galere, molte piccole navi, e sessanta bandiere. Il Trevisani avrebbe dovuto pagare colla sua testa tanta imprudenza e tanta viltà; ma così grande era il numero dei gentiluomini che avevano prevaricato nell'ultima campagna, che formavano un partito nello stato, e reciprocamente si difendevano, onde il Trevisani non fu punito che coll'esilio di tre anni[36].
Per tal modo la campagna del 1509 terminava pei Veneziani con una disfatta quasi egualmente strepitosa quanto quella che avevano avuta in principio. Ma la distruzione della flotta alla Polisella non ebbe le funeste conseguenze di quella dell'armata di terra a Vailate. Da niun canto trovavansi avere addosso nemici in istato di trarne vantaggio. I Francesi vendevano la loro protezione a Massimiliano, e si facevano cedere il castello di Valleggio sul Mincio, che solo mancava alla loro linea di difesa. Spedivano inoltre a Verona soldati e danaro per pagare la truppa tedesca, a condizione però che occuperebbero le principali fortezze di quella città; ma nemmeno con tali sussidj i generali tedeschi erano in grado di tenere la campagna. Bajardo, che coi Francesi era entrato in Verona, non sapeva trovare pascolo alla sua attività che combattendo cogli stratagemmi e colle sorprese il suo antagonista Gian Paolo Manfrone; ed intanto macchiava la sua gloria con frequenti crudeltà, ricordate con ostentazione dal suo leale servitore, perchè non venivano esercitate che sopra soldati ignobili, ai quali i gentiluomini non credevano dovuta niuna compassione[37].
Il duca di Ferrara era ancora meno degli altri a portata di approfittare dei suoi vantaggi: il papa, che non perdeva veruna occasione di far sentire che questo duca era feudatario della Chiesa, e che di già pensava a riconciliarlo coi Veneziani, da loro chiese ed ottenne, che non spingerebbero più oltre le loro vendette contro Ferrara, e che restituirebbero ad Alfonso la città di Comacchio presa e bruciata il 4 di settembre. Il duca si riputò felicissimo di potere a tal prezzo sospendere le ostilità[38].
In principio del seguente anno 1510, i Veneziani perdettero il supremo comandante delle loro armate, che tanto si confaceva col suo pacato e cauto carattere alla prudenza del senato, sebbene a motivo della sua lentezza e diffidenza potesse forse accagionarsi della disfatta di Vailate. Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, sfinito dalle fatiche sostenute nella difesa di Padova, si era fatto portare a Lonigo, nel territorio di Vicenza, ove morì di lenta febbre in sul finire di febbrajo in età di sessantott'anni. La signoria fece trasferire il suo cadavere a Venezia, e gl'innalzò un magnifico mausoleo con statua equestre nella Chiesa de' santi Giovanni e Paolo[39].
Frattanto i Veneziani avevano acconsentito a tutto quanto loro chiedeva il papa: avevano rinunciato all'appello al concilio generale; promesso di non frapporre ne' loro stati ostacoli alla giurisdizione ecclesiastica; rinunciato al diritto di nominare un visdomino in Ferrara, e per ultimo dato licenza a tutti i sudditi della Chiesa di navigare e di commerciare liberamente nel mare Adriatico[40]. Avevano mandata a Roma un'ambasciata composta di sei de' più riputati cittadini della repubblica, ed il pontefice loro accordò il 24 febbrajo del 1510, seconda domenica di quaresima, l'assoluzione dalle censure, senza imporre ai loro ambasciatori altra penitenza che quella di visitare le sette basiliche di Roma; levò inoltre dal ceremoniale d'assoluzione i colpi di bacchetta, che il papa ed i cardinali in tempo della recita del Miserere dovevano dare agli scomunicati, colpi che in alcune fresche circostanze eransi scambiati in dura flagellazione sulle spalle de' penitenti spogliati di tutte le loro vesti[41].
Gli ambasciatori di Massimiliano e di Lodovico XII eransi caldamente adoperati per impedire questa riconciliazione de' Veneziani colla Chiesa; ma Giulio II non si lasciava facilmente svolgere dalle sue risoluzioni; egli aveva concepito un sommo disprezzo per Massimiliano, che giudicava incapace di mai eseguire ciò che aveva premeditato; invece Lodovico XII gli si era renduto estremamente sospetto; il papa non temeva meno il di lui potere che la di lui debolezza, e condiscendenza a tutte le volontà del cardinale d'Amboise, ch'egli risguardava sempre come apparecchiato a contrastargli il pontificato. Perciò Giulio II si adoperava caldamente per distruggere la grande autorità che Lodovico XII erasi nell'ultima guerra acquistata in Italia: e cercava nello stesso tempo di fargli muovere guerra dall'Inghilterra, di disgustarlo cogli Svizzeri e di staccarlo dal duca di Ferrara.
Enrico VII, re d'Inghilterra, era morto il 21 aprile del 1509; e sebbene, morendo, avesse caldamente raccomandato a suo figliuolo, Enrico VIII, di tenersi in pace colla Francia, questi, potendo disporre di un ragguardevole tesoro, e vedendo ricercarsi avidamente la sua alleanza da tutte le potenze d'Europa, era montato in tanto orgoglio, che credeva di avere in suo potere la bilancia del continente. Nelle feste di Pasqua del 1510, Giulio II gli mandò la rosa d'oro, regalo in allora spedito ogni anno dalla santa sede a quel sovrano di cui maggiormente apprezzava la protezione[42]. Non pertanto, nell'istante medesimo in cui Giulio II gli faceva queste aperture per ridurlo ad attaccare la Francia, Enrico VIII soscriveva in Londra il 23 marzo del 1510 un nuovo trattato di pace con Lodovico XII, non riservandosi che il diritto di potere difendere la Chiesa quando fosse dal re di Francia attaccata[43].
Miglior fine ebbero le pratiche di Giulio II cogli Svizzeri. Orgogliosi costoro per tutte le vittorie ottenute in Italia da Carlo VIII e da Lodovico XII, volevano che tutta la gloria ne fosse data alla loro fanteria; si persuadevano che le armate francesi non potessero combattere senza di loro, e pretendevano un prezzo assai maggiore alla loro alleanza. Perciò ricusavano di rinnovare il trattato, omai giunto al suo termine, quando la Francia non acconsentisse di accrescere di sessanta mila franchi l'annua pensione che loro pagava, oltre molti altri particolari stipendj agli uomini più autorevoli di ogni cantone. Lodovico XII, irritato da tale inchiesta, dichiarò che in verun modo non assoggetterebbe la corona di Francia all'insolenza di un'aggregazione di contadini e di montanari. Fece una parziale convenzione coi Valesani e coi Grigioni, e pensò di non aver bisogno de' soccorsi de' cantoni. Dall'altro canto Giulio II si era guadagnato Matteo Schiner, che nel 1500 era stato promosso al vescovado di Sion, e che sempre erasi fatto conoscere accanito nemico de' Francesi. Colla di lui interposizione trattò colla confederazione: promise ad ogni cantone una pensione di mille fiorini del Reno; li persuase ad accettare la protezione degli stati della chiesa, facendosi accordare il privilegio di levare nella Svizzera, e per conto della santa sede, tutti i soldati di cui potesse avere bisogno[44].
Giulio II erasi lusingato di essersi obbligato senza limiti il duca di Ferrara, facendogli restituire la città di Comacchio, e non lasciando che i Veneziani lo attaccassero durante l'inverno. Era questi il solo feudatario della Chiesa cui avesse mostrato de' riguardi, e perciò se ne riprometteva un'illimitata ubbidienza: ma estrema fu la di lui collera, quando vide il duca di Ferrara stringere sempreppiù i legami che aveva colla Francia, e rendere la sua politica subbordinata a quella di Lodovico XII. Siccome il papa era tuttavia in pace con questo monarca, e non si dipartiva dal trattato di Cambray, non poteva ascrivere a delitto ad Alfonso un'alleanza, che a niente l'obbligava che contrario fosse ai suoi doveri verso la santa sede. Andò perciò in traccia di altri torti: gli fece proibire di far sale a Comacchio in pregiudizio delle saline pontificie stabilite a Cervia. Rispose Alfonso, che quando i Veneziani possedevano Cervia, lo avevano per forza obbligato ad una convenzione, che gli vietava di raccogliere il sale che la natura formava sul di lui territorio; ma che non era stretto dalla stessa obbligazione verso la Chiesa, e che Comacchio, ove raccoglieva il sale, non era altrimenti un feudo della santa sede, ma dell'impero. Voleva Giulio II annullare nuovamente il contratto dotale fatto da Alessandro VI pel matrimonio di sua figlia; chiedeva che l'annuo censo pagato da Ferrara fosse portato dai cento fiorini ai quattro mila, e che i varj castelli di Romagna, recati da Lucrezia Borgia in dote ad Alfonso, fossero renduti alla Chiesa. Rispondeva il duca che il suo trattato con Alessandro VI era della stessa natura di tutti quelli che stipulava la Chiesa; ch'era stato sanzionato colle medesime autorità, e che, non avendolo egli violato, non era giusto che l'altra parte contraente si sciogliesse dalle sue obbligazioni[45].
Lodovico XII prendeva le difese del duca di Ferrara, in virtù del trattato con cui erasi obbligato a proteggerlo pel prezzo di trenta mila ducati. Ma questo stesso trattato era un nuovo delitto agli occhi del papa, perchè contrario alla lega di Cambray ed alla posteriore convenzione di Abbiate Grasso. Lodovico XII, che temeva di romperla affatto coll'impetuoso pontefice, cercava invano espedienti per conservare la sua influenza sul ducato di Ferrara, risguardato come importantissimo alla sicurezza del Milanese, e per soddisfare Giulio II riconciliandolo con Alfonso[46].
Non avendo avuto effetto queste negoziazioni, Lodovico XII giudicò conveniente di stringere più intimamente la sua alleanza con Massimiliano, e di ricominciare la guerra contro Venezia con forze abbastanza considerabili da intimidire il papa, e troncare tutte le di lui pratiche. Chaumont entrò nel Polesine di Rovigo con mille cinquecento lance, e dieci mila fanti di diverse nazioni. A questi aggiunse Alfonso dugento uomini d'armi, cinquecento cavaleggieri, e due mila fanti; dal canto suo il principe d'Anhalt trasse fuori da Verona l'armata imperiale, composta di trecento lance francesi, di dugento uomini d'armi, e di tre mila fanti tedeschi; e dopo essersi unito a Chaumont tutta l'armata si avanzò alla volta di Vicenza[47].
Per fare testa a quest'invasione, i Veneziani erano impazienti di dare un successore al conte di Pitigliano. I diversi condottieri che si erano separatamente obbligati al loro servigio, non erano subbordinati gli uni agli altri, e tale era la vicendevole gelosia, che, dando la preferenza ad alcuno di loro, il senato temeva di dare motivo a tutti gli altri di ritirarsi. D'uopo era, per soddisfare al loro amor proprio, che il generalissimo fosse principe sovrano. Questa difficoltà consigliò la signoria a dare il comando delle sue truppe a Francesco Gonzaga, duca di Mantova, ch'ella teneva allora in prigione. Il doge lo fece venire in palazzo e gli comunicò quest'inaspettata disposizione, che fu ricevuta colla più alta riconoscenza. Il doge si limitò soltanto a chiedergli un pegno della sua più che dubbiosa fedeltà; Gonzaga offrì tosto in ostaggio suo figlio Federico, e scrisse subito alla consorte di consegnarlo ai Veneziani. Ma la Marchesana ed il suo consiglio erano affatto devoti alla Francia, e, non volendo esporsi al risentimento de' Francesi e de' Tedeschi, che da ogni banda circondavano lo stato di Mantova, ricusarono di consegnare il figlio, e Francesco Gonzaga restò prigioniere[48].
In allora i Veneziani cercarono un generale tra i feudatarj della Chiesa, a ciò il papa acconsentendo. Avevano essi assoldati due Vitelli di città di Castello, nipoti di quel Vitellozzo, che Cesare Borgia aveva fatto perire: a Lorenzo Orsini, signore di Ceri, che ottenne poi tanta celebrità sotto il nome di Lorenzo di Ceri, avevano dato il comando di tutta la loro infanteria; ed all'ultimo risolsero di dare il bastone di generalissimo a Gian Paolo Baglioni di Perugia, che, per le sue aderenze colla repubblica fiorentina, aveva dato luogo a molti dubbj intorno alla sua fedeltà, e che non pertanto si mostrò degno della confidenza in lui dal senato riposta[49]. L'armata, che la repubblica gli affidava, era in allora composta di seicento uomini d'armi, di quattro mila cavaleggieri e Stradioti, e di otto mila fanti; e non trovandosi abbastanza forte per resistere all'armata combinata de' Francesi e degl'imperiali, si andò sempre ritirando, abbandonando il Vicentino ai nemici fino alla Brentella, ove si afforzò. Era in tal luogo coperta da tre fiumi, dalla Brenta, dalla Brentella e dal Bacchiglione, mentre che faceva custodire Treviso e Mestre da sufficienti guarnigioni[50].
Gli sventurati Vicentini trovavansi esposti a tutta la ferocia de' loro nemici. I Veneziani non avevano creduta la loro città in istato di tenere lungamente, ove fosse assediata, e non vollero esporsi a perdere la guarnigione che avrebbe dovuto difenderla. I Vicentini spedirono una deputazione al principe d'Anhalt, generale di Massimiliano, per impetrare grazia. Ma il principe, che stava in Vicenza quando si era sollevata la città, rispose che i Vicentini erano colpevoli di ribellione contro il loro legittimo sovrano l'imperatore; che altro partito loro non restava che quello di porre a sua discrezione i loro beni, l'onore e la vita, senza lusingarsi ch'egli chiedesse così assoluta sommissione soltanto per dare maggiore risalto alla sua magnanimità, loro perdonando; che anzi dichiarava di volerli a sua discrezione, perchè Vicenza fosse al mondo miserando esempio del castigo che merita la ribellione[51].
I deputati Vicentini non riportarono ai loro compatriotti che questa desolante risposta; ma l'insolente barbarie dei Tedeschi contribuì ad ingannare la loro cupidigia. Fin dal principio della guerra i Vicentini avevano dovuto affaticarsi sempre nel salvare le loro ricchezze dal saccheggio. Non essendo la città loro lontana più di diciotto miglia da Padova, aveva colà poste in sicuro le loro donne, i figli, ed i migliori effetti. Il corso del Bacchiglione aveva facilitato il trasporto delle cose loro: onde quando si avvicinarono i Tedeschi, gli uomini seco trasportarono anche gli oggetti di minore importanza che tuttavia restavano in Vicenza; e questa città, abbandonata dal principe d'Anhalt al saccheggio, non satollò in verun modo la cupidigia dei suoi soldati[52].
Parte de' Vicentini e degli abitanti delle vicine campagne avevano scelto un altro luogo di rifugio. Ne' monti, alle di cui falde è posta Vicenza, trovasi un vasto sotterraneo, chiamato la grotta di Masano o di Longara, scavata dalla mano degli uomini per levarne le pietre che servirono a fabbricare Vicenza e Padova. Assicurasi che si stende a molta profondità, formando un labirinto, i di cui scompartimenti non comunicano gli uni cogli altri che per mezzo di angusti passaggi, e che talvolta sono pure occupati dalle acque.
Non avendo questo sotterraneo che un angusto ingresso, può facilmente essere difeso, e nella precedente campagna aveva servito di rifugio agli abitanti del vicinato. Vi si erano ritirati coi loro effetti sei mila sventurati; le donne ed i fanciulli occupavano il fondo della grotta, gli uomini ne custodivano l'ingresso. Un capitano di avventurieri francese, chiamato l'Herisson, scoprì questo ritiro, ed invano cercò di penetrarvi colla sua truppa; vietandoglielo l'oscurità e gli andirivieni del luogo; ma risolse di soffocarvi tutti coloro che vi si trovavano, e perciò riempì di fascine la parte che aveva occupata, e vi appiccò il fuoco. Alcuni gentiluomini Vicentini, che trovavansi tra i rifugiati, supplicarono allora i Francesi, che fosse loro permesso di redimere con una taglia sè stessi, le loro mogli e figli, e tutti coloro che appartenevano a nobil sangue. Ma i contadini, loro compagni d'infortunio, gridarono che tutti dovevano assieme perire o salvarsi. Frattanto tutta la caverna ardeva, e la sua bocca rassomigliava quella di una fornace. Gli avventurieri aspettarono che il fuoco avesse terminati i suoi guasti, prima di visitare il sotterraneo e di estrarne la preda acquistata con tanta crudeltà. Tutti i miseri rifugiati erano periti soffocati, ad eccezione di un giovinetto, che, trovandosi vicino ad uno spiraglio, riceveva un poco d'aria. Verun corpo era stato danneggiato dal fuoco, ma la sola loro attitudine faceva conoscere le angosce che sofferte avevano prima di morire. Molte donne gravide avevano partorito fra que' tormenti, ed i loro figliuoli erano morti colle madri. Quando gli avventurieri portarono la loro preda al campo, e raccontarono come l'avevano conquistata, eccitarono l'universale indignazione: il cavaliere Bajardo recossi alla caverna col carnefice dell'armata, e fece appiccare in sua presenza, in mezzo a questa scena d'orrore, due di que' miserabili che avevano acceso il fuoco. Ma nè pure questo castigo potè presso gl'Italiani cancellare la memoria di tanta inumanità[53].
Altronde la negligenza di Massimiliano nel mandare il soldo alle sue truppe esponeva le città, in cui queste soggiornavano, alle più crudeli vessazioni: la sola Verona, dice il Fleuranges, ch'era presente, fu saccheggiata tre volte in una settimana dai Landsknecht, che non avevano nè viveri, nè denaro[54]. Massimiliano sempre loro annunciava l'imminente suo arrivo, ma omai cominciavasi a non prestar fede alle sue parole, o alle sue promesse, ed i soldati Tedeschi, impazienti di aspettare inutilmente, partivano senza congedo.
Il Chaumont, gran maestro di Francia e governatore di Milano, era oramai stanco di continuar solo una guerra, i di cui frutti non erano raccolti dal suo padrone. Prima per altro di ritirarsi, trovò conveniente di porre in sicuro le precedenti sue conquiste, impadronendosi della città e del porto di Legnago, che, posto in su le due rive dell'Adige, dava ai Veneziani grandissima facilità di portare la guerra su quello de' vicini stati che meglio amassero di attaccare.
La guarnigione di Porto Legnago aveva avuta la precauzione d'inondare tutto all'intorno il paese posto sulla sinistra dell'Adige; ma il capitano Molard, entrando co' suoi avventurieri, che formavano la vanguardia di Chaumont, nell'acqua fino al petto, sloggiò la fanteria italiana, la pose in fuga, e la inseguì con tanta rapidità, ch'entrò insieme alla medesima in Porto Legnago. Tentarono i fuggiaschi di attraversare l'Adige, ma vi si annegarono quasi tutti. La guarnigione della città, posta sulla destra del fiume, non tenne miglior contegno. Carlo Marino, provveditore veneziano, fu il primo ad abbandonare vilmente il suo posto, per salvarsi nella cittadella, ch'egli rese bentosto per capitolazione, restando così prigioniere de' Francesi con tutti i gentiluomini veneziani, mentre i soldati furono rimandati senz'armi[55].
Il piacere che poteva dare a Chaumont la conquista di Legnago, venne amareggiato dalla notizia, che colà ricevette della morte di suo zio, il cardinale d'Amboise, al di cui favore andava egli debitore della sua rapida fortuna. Giorgio d'Amboise, che aveva esercitato il più assoluto impero sul suo padrone, e che, dopo la coronazione di Lodovico XII, aveva solo diretta la politica francese, era morto a Lione il 25 di maggio del 1510. Sebbene i suoi talenti non si sollevassero oltre la mediocrità, la di lui perdita fu universalmente compianta: egli, se non altro, intendeva gli affari, e conosceva le potenze con cui la Francia doveva trattare, ed i varj loro interessi; invece Lodovico XII, il quale, dopo la morte del suo favorito, pretese di governare da sè solo, non aveva nè conoscenza degli uomini e delle cose, nè memoria, nè applicazione. Diventato geloso della propria autorità, più non permise che i ministri operassero in di lui nome, senza consultarlo; e non osando questi ricordargli ciò che poteva riuscirgli spiacevole, la negligenza e la dimenticanza facevano andare a male i migliori progetti. Florimondo Robertet che successe al cardinale nella direzione delle finanze e degli affari esteri, non dissimulò egli stesso a Niccolò Macchiavelli, che in allora trovavasi legato della repubblica fiorentina in Francia, il danno grandissimo che la morte del suo predecessore cagionerebbe agli affari[56].
Al cardinale d'Amboise devono ascriversi quel buon ordine nelle finanze e que' riguardi pei popoli nella percezione delle imposte, che rendettero cara la memoria di Lodovico XII, malgrado la debolezza del suo spirito, e le sciagure del suo regno. Ma questo ministro economo e ordinato non era altrimenti disinteressato. Lasciò un'eredità di undici milioni di lire, equivalenti a cinquantacinque milioni della moneta presente, acquistati in dodici anni d'un'amministrazione di cui non rendeva verun conto. Col suo testamento dispose per trecento mila scudi in legati; Giulio II pretese che tali somme derivassero dai beni della Chiesa, de' quali il cardinale d'Amboise non aveva diritto di disporre, e li riclamò per la camera apostolica. Questa bizzarra inchiesta non fece che accrescere la malintelligenza tra la Chiesa e la Francia[57].
Stando ancora a Legnago il Chaumont ricevette l'ordine di licenziare la fanteria de' Grigioni e del Valese che teneva sotto i suoi ordini; di lasciare cento lance e mille fanti nella terra di nuovo conquistata, e di ricondurre il rimanente dell'armata nello stato di Milano: per altro pochi giorni dopo ebbe un contr'ordine ottenuto dalle pressanti istanze di Massimiliano. Il re gli ordinava di continuare ad assecondare i Tedeschi per tutto il mese di giugno, ed infatti in sul declinare di questo mese prese Cittadella, Marostica e Bassano, indi Scala e Covolo[58]. Ma Lodovico XII era ad ogni modo determinato di non voler tenere in campagna un'armata tanto ragguardevole senza proprio vantaggio, e sperava, minacciando ogni giorno di richiamare il Chaumont, di ridurre all'ultimo Massimiliano a cedergli Verona e la sua provincia. Per lo contrario l'imperatore credevasi sempre vicino all'esecuzione de' suoi progetti, e mai non rinunciava alle sue speranze, sebbene fosse sempre incapace di ridurle ad effetto. Chiese un secondo dilazionamento di un mese, promise che nel termine di un anno rimborserebbe i cinquanta mila ducati, che in questo mese costerebbe al re l'armata di Chaumont; che inoltre rimborserebbe altri cinquantamila ducati, di cui era precedentemente debitore, e che, non facendolo, lascerebbe Verona e tutto il suo territorio per pegno nelle mani del re di Francia[59].
Massimiliano aveva trattato con Ferdinando il Cattolico per avere la sua cooperazione in questa campagna, nella quale riponeva le sue vaste speranze; gli aveva a tale oggetto abbandonata senza riserva l'amministrazione della Castiglia, eredità del comune loro nipote, ed il cardinale d'Amboise era stato il mediatore di questo trattato così poco conforme agl'interessi della Francia. Per ottenere che Massimiliano desistesse dalla tutela di Carlo, Ferdinando aveva promesso tutto quanto gli si era chiesto, con ferma intenzione di fare in appresso nascere ostacoli all'esecuzione delle promesse. Erasi riservata l'alternativa di spedire all'armata imperiale nel Veronese o truppe o danaro; e perchè Massimiliano, sempre mancante di danaro, desiderò piuttosto danaro che gente, appunto per tale ragione Ferdinando mandò i soccorsi in natura. Il duca di Termini si pose in viaggio con quattrocento lance spagnuole per raggiugnere l'armata; ma si avanzò così lentamente, che non arrivò al quartier generale prima della fine di giugno[60].
L'armata combinata cominciò poi a mancare di vittovaglie, perchè si era condotta con tanta barbarie ed indisciplina in queste due campagne, che aveva assolutamente spogliato d'ogni cosa questo paese de' più ricchi e fertili del mondo; oltre di che aveva provocato contro di sè il più implacabile odio de' contadini, e reso più tenace il loro attaccamento per la repubblica. Erano questi affezionati con tanto entusiasmo al governo della loro patria, che nè le minacce, nè le promesse, nè l'aspetto del patibolo stesso potevano ridurli ad abiurare san Marco, ed a gridare viva l'imperatore! Il vescovo di Trento ne fece appiccare molti in Verona, onde punire così nobile costanza[61]. L'assistenza de' contadini rendeva facili e sicure le spedizioni degli Stradioti. Essi intercettavano i convogli ed i carrettieri, e sorprendevano i corpi staccati: in una di queste occasioni cadde nelle loro mani Soncino Benzone di Crema, e, sebbene questo capo di parte si trovasse in allora ai servigi del re di Francia, Andrea Gritti lo fece immediatamente appiccare, perchè, essendo gentiluomo veneziano ed incaricato di un comando in Crema, sua patria, aveva data per tradimento questa città ai Francesi[62].
Il castello di Monselice era uno dei principali asili degli Stradioti per le scorrerie loro alle spalle dell'armata nemica: desso è posto sopra una delle più elevate cime de' monti Euganei, che s'innalzano essi medesimi in mezzo ad un piano formato e livellato dalle acque, tra Vicenza, Padova, Rovigo e Legnago: era circondato quel castello da tre ricinti, il più basso de' quali richiedeva per lo meno due mila uomini per difenderlo, ed i Veneziani non ne tenevano in Monselice che sette cento sotto gli ordini di Martino di Borgo san Sepolcro. Non pertanto questi sortirono con estrema audacia per attaccare un corpo di landsknecht. Ma oppressi dal numero, vivamente inseguiti, essi soggiacquero alla fatica; vennero forzati nel primo ricinto, ed inseguiti con tanta rapidità che non ebbero tempo di chiudersi nel secondo; non valsero a difendersi nel terzo, sebbene le mura si andassero ristringendo, come richiede la forma della montagna a guisa di pane di zucchero: e la stessa torre, posta in sulla sommità del colle, non valse a salvarli. Invano offrirono d'arrendersi; salva soltanto la vita; i Tedeschi non vollero dar quartiere; appiccarono il fuoco alle legne ammucchiate nel fondo della torre, e ricevettero sulla punta delle picche quegli sciagurati che tentavano di fuggire per le feritoje. Con eguale furore i Tedeschi distrussero tutte le case di quella grossa borgata, una delle più ridenti dell'Italia[63].
Malgrado le tante volte ripetute promesse, Massimiliano non giugneva mai all'armata. Dopo la perdita fatta nel precedente anno sotto Padova, più non lusingavasi di avere quella piazza, ma faceva istanza a Chaumont d'attaccare Treviso, che credeva di poter occupare con maggior facilità. Gli rispondeva il Chaumont: che quella città era egualmente difesa da una forte armata; ch'egli non vedeva ingrossarsi la sua colle promesse truppe tedesche, e senza le quali nulla poteva intraprendere; ch'era stato di già forzato a staccare il duca Alfonso d'Este e Chatillon, per difendere lo stato di Ferrara pel quale cominciava ad essere inquieto; che tutta la campagna all'intorno di Treviso era guastata, onde l'armata non vi troverebbe vittovaglie, e difficilmente vi farebbe giugnere i convogli, perchè gli Stradioti battevano la campagna, ed erano secondati con zelo da tutti i contadini. Ma mentre ancora duravano queste dispute tra Chaumont e Massimiliano, il primo ebbe dal suo signore espresso ordine di lasciare all'armata imperiale Preci con quattrocento lance e mille cinquecento fanti spagnuoli, che teneva al suo soldo, e di ricondurre con sollecitudine il resto dell'armata nel ducato di Milano, dove lo rendevano necessaria inaspettati pericoli[64].
CAPITOLO CVII.
Giulio II fa attaccare i Francesi a Genova, a Ferrara e nel Milanese. — Dirige l'assedio della Mirandola, ed entra in questa città per la breccia; è costretto a fuggire da Bologna; e la sua armata viene dispersa a Casalecchio.
1510 = 1511. La maggior parte de' papi ottiene il pontificato in un'età, che d'ordinario ammorza le passioni, spegne un'ambizione di cui non rimane il tempo di raccogliere i frutti, e che fa desiderare un riposo, renduto quasi necessario dall'indebolimento degli organi. Inoltre l'educazione avuta dagli ecclesiastici d'ordinario non è tale da sviluppare una grande energia; e la religione, che forma la parte principale de' loro studj, deve loro inspirare moderazione e tolleranza, piuttosto che violenza o determinazione di tutto assoggettare alla loro volontà. Non pertanto molti papi, da Gregorio VI fino a Sisto V, manifestarono nel loro carattere un'ostinazione invincibile, un irritamento contro tutto ciò che non cedeva alla loro volontà, uno sdegno contro coloro che gli avevano offesi, sconvenienti alla loro età, alla loro educazione, al loro ministero. E spesso quest'inflessibile carattere non si manifestò in loro, che quand'ebbero ricevuta la tiara, e di uomini dolci e modesti, quali erano stati fin allora creduti, diventarono dopo il loro innalzamento implacabili vendicatori delle più leggieri offese, e crudeli persecutori degli antichi loro amici.
Questo cambiamento del loro carattere sarebbe forse una conseguenza della persuasione dell'infallibilità delle loro decisioni, comune ai papi ed a tutti i loro fedeli[65]? Tale credenza viene in ajuto di un'inclinazione di già anche troppo naturale all'uomo. Chiunque può riconoscere la superiorità d'un altro sopra di sè medesimo per conto delle facoltà dello spirito; ma siccome altra misura egli non ha del giudizio che il suo proprio giudizio, non accade mai, a suo credere, che un altro abbia il giudizio più retto di lui. Dietro il suo proprio istinto, pargli sempre di potere rettificare il giudizio degli altri; e sotto qualsiasi modesto nome ch'egli indichi in sè medesimo questa facoltà, sotto quello di senso comune o di buon senso, è sempre al suo tribunale che assoggetta tutte le umane opinioni.
Ammesso il principio che la consacrazione di un papa apporti seco tutti i doni dello Spirito Santo, viene in certo modo a santificarsi in chi la riceve quest'interno ed universale pregiudizio. Il presentimento, che fin allora non era stato da lui risguardato che come un felice istinto, sebbene creduto infallibile, è per lui diventato il linguaggio stesso della divinità. Il proprio raziocinio, cambiasi a' suoi occhi in evidenza, le sue decisioni più non vanno soggette a dubbj o ad incertezza, e coloro che ardiscono opporsi alle volontà ch'egli esprime di conformità a questa eterna sapienza da cui credesi inspirato, gli sembrano ribelli, che disprezzano ad un tempo tutte le autorità divine ed umane.
Oramai il carattere di Giulio II era dominato da questo stesso irritamento contro tutti coloro che prontamente non accorrevano ad assecondare i suoi disegni. Tutto ciò ch'egli aveva una volta determinato, parevagli talmente conforme ai dettami dell'eterna giustizia, ch'era sempre apparecchiato a punire come nemici del cielo coloro che frapponevano qualche ostacolo all'esecuzione de' suoi progetti. Le sue impetuose volontà eccedevano quasi sempre i confini che avrebbero dovuto contenere l'uomo di Dio; ma egli poteva sempre rendere testimonianza a sè medesimo, che le sue risoluzioni non erano figlie di personali interessi, e che, formandole, non aveva ascoltata che una certa elevazione, una certa grandezza d'animo ed ancora un certo dettame di giustizia a lui naturale. Ne' primi tempi del suo regno aveva cercato di ricuperare alla Chiesa il suo patrimonio scandalosamente dilapidato dai suoi predecessori. Aveva conseguito cotale intento coi piccoli feudatarj; ma i soli Veneziani avevano fatto argine ai suoi progetti, ed avevano eccitato il suo risentimento. Allora aveva creduto che la gloria della stessa Chiesa richiedesse di castigarli, e gli aveva infatti severamente castigati; ma dopo averli ridotti ad un'umile penitenza, voleva che gli altri imitassero il di lui esempio e gli perdonassero: voleva che i disastri dell'Italia terminassero ad un suo cenno, come avevano ad un suo cenno cominciato. Lo irritavano le personali viste, la cupidigia, la crudeltà de' suoi antichi alleati; e dopo di avere adoperato il braccio dei Barbari per castigare gl'Italiani, credevasi dalla propria conscienza e dal patriottismo italiano obbligato a scacciare questi stessi Barbari dall'Italia.
Ferdinando il Cattolico, che per interesse seguiva quella stessa politica che Giulio aveva adottata in conseguenza dei suoi principj, non dissentiva da lui; e Massimiliano, che per propria colpa aveva perdute le conquiste che le vittorie dei Francesi avevano poste in di lui potere, non eccitava che il suo disprezzo. Giulio altamente accusava la di lui incapacità e la di lui instabilità, e lo contava tra i suoi nemici senza temerlo. Di affatto diversa natura era il sentimento del papa verso Lodovico XII, l'odiava e lo temeva, sebbene non lo stimasse. Conosceva il debole carattere e la poca abilità di questo monarca; ma d'altra parte non ignorava quale fosse l'irresistibile valore delle armate francesi, il cieco attaccamento al loro governo, la virtù de' loro ufficiali, e l'attività con cui giugnevano al loro scopo qualunque volta i falli de' loro re non cagionavano la loro ruina. Sapeva che Lodovico XII aveva saputo farsi amare in Francia dal suo popolo, onde poteva disporre a posta sua di tutte le forze di così vasta monarchia; ch'era padrone di Milano e di Genova, e che la metà del rimanente dell'Italia cercava la sua alleanza. Conosceva dunque che per vincerlo aveva bisogno di riunire contro di lui le forze di quasi tutta l'Europa, e non osò attaccarlo che con una dissimulazione, che non pareva conveniente al suo focoso carattere.
Lodovico XII, sinceramente pio, rispettava la santa sede; inoltre era dominato dagli scrupoli di Anna, sua consorte, onde risguardava una rottura col papa come un grande disastro. Cercava però tutti i mezzi di soddisfare Giulio II rispetto agli affari di Ferrara, ch'egli credeva essere il solo oggetto di controversia tra di loro. Ma in questo stesso tempo il papa stava contro di lui preparando un triplice attacco a Ferrara, a Genova e sui laghi di Lombardia, e negoziava per unire al suo partito Ferdinando d'Arragona ed Enrico VIII d'Inghilterra. Siccome ben tosto conobbe l'impossibilità di nascondere tutte queste pratiche, fece se non altro in modo che quelle che potrebbero essere scoperte dai suoi avversarj, si attribuissero al progetto ch'egli dissimulava meno degli altri, dell'attacco di Ferrara.
Lodovico XII aveva fatte a Giulio II alcune proposizioni relativamente alla protezione da lui accordata al duca di Ferrara, le quali avrebbero dovuto piacere al pontefice, se questi non avesse portate le sue mire molto al di là degli antichi feudi della Chiesa. Vero è che il re di Francia aveva scelto per quest'affare un cattivo negoziatore, cioè Alberto Pio, conte di Carpi, il quale, avendo egli stesso motivo di temere il duca di Ferrara per la conservazione del suo piccolo feudo, fu accusato di avere pregiudicato presso la corte pontificia quello che aveva ordine di proteggere[66]. Non erano per anco rotte le negoziazioni, quando il 9 agosto del 1510 Giulio II fulminò una bolla contro Alfonso d'Este. Lo chiamava figlio d'iniquità ed allievo di perdizione; gli rimproverava la sua ingratitudine verso la santa Chiesa, la sua disubbidienza, le imposte estorte al popolo, le immunità ecclesiastiche violate, il sale che faceva in Comacchio a pregiudizio delle saline di Cervia, e in ultimo l'ambita protezione del re di Francia. A motivo di tanti delitti lo dichiarava decaduto da tutti gli onori, da tutte le dignità, da tutti i feudi dipendenti dalla santa sede, scioglieva i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, i suoi soldati dall'ubbidienza; inoltre loro ingiungeva di prendere le armi contro di lui per darlo in mano alla giustizia di Dio, lo scomunicava, ed assoggettava alla stessa sentenza tutti i preti che avrebbero con lui comunicazione[67].
Un mese prima di questa ostile denuncia Giulio II aveva stretta intima alleanza con Ferdinando il Cattolico: gli aveva il 7 di luglio accordata l'investitura del regno di Napoli, che fin allora non aveva voluto dargli, fissandone l'annuo tributo su quello che erano soliti pagare i re arragonesi; aveva dichiarato che annullava la clausola del trattato di Blois, in forza della quale la riversione dell'Abruzzo e della Campania veniva accordata alla corona di Francia, qualora Germana di Foix, moglie di Ferdinando, morisse senza prole: in ricompensa delle quali concessioni aveva obbligato il re d'Arragona a promettergli per difendere la Chiesa trecento uomini d'armi, che desso re farebbe marciare ad ogni richiesta del papa. Lusingavasi Giulio II che queste truppe ausiliarie farebbero l'effetto di strascinare la Spagna in una guerra colla Francia, e si compiaceva dell'animosità che risvegliava annullando di propria autorità il trattato di Blois: imperciocchè Lodovico XII non dava colpa di quest'atto arbitrario al solo papa, ma accusava pure Ferdinando d'averlo impetrato, incaricando i suoi ambasciatori di farne espressa doglianza alle Cortes d'Arragona[68].
Tutti gli andamenti del papa davano apertamente a conoscere la di lui animosità contro la Francia; di già egli risguardava i cardinali francesi come ostaggi o prigionieri alla sua corte. Il cardinale d'Auch era uscito da Roma il giorno di san Pietro per andare alla caccia con cani e reti, ed il papa, supponendo che volesse fuggire in Francia, lo fece arrestare e custodire nelle prigioni di castel sant'Angelo. Pochi giorni dopo obbligò il cardinale di Bayeux a giurare che non si allontanerebbe dalla corte di Roma, ed a riconoscere che, facendolo, perderebbe con questo solo atto la dignità cardinalizia[69].
Ma sebbene più non fosse dubbiosa l'inimicizia del papa, Lodovico XII non sapeva prevedere il punto in cui eseguirebbe il primo attacco. Giulio non aveva mai saputo perdonargli il crudele trattamento fatto ai Genovesi in onta alla sua raccomandazione; era egli stesso originario della riviera di Genova, e la sua famiglia apparteneva al partito popolare oppresso dal re; perciò aveva accolti alla sua corte moltissimi esiliati liguri, e cercava per mezzo delle sue corrispondenze di ravvivare la speranza di tutti coloro che bramavano l'antica libertà[70]. Volendo giovarsi del loro odio, pensò di dirigere contro Genova le prime ostilità. Promise ad Ottaviano Fregoso, uno degli emigrati che stavano presso di lui, la corona ducale che avevano portata suo padre e suo zio; con tutti gli altri rifugiati lo mandò a bordo di una galera pontificia, che unì per questa spedizione ad undici galere veneziane; fece in pari tempo passare nello stato di Lucca Marc'Antonio Colonna, ch'egli aveva persuaso a lasciare il servizio de' Fiorentini; gli fece adunare cento uomini d'armi, settecento fanti e molti emigrati genovesi, dando a credere che meditasse di attaccare Ferrara; poi tutt'ad un tratto gli fece attraversare tutta la riviera di Levante per accamparsi nella valle di Bisagno, mentre la flotta, della quale niuno in Italia aveva avuto sentore, venne nel principio di luglio ad ancorarsi alla foce del fiume d'Entello affatto vicina al porto di Genova[71].
Ma per quanto inaspettato riuscisse quest'attacco, non ebbe i prosperi successi che si ripromettevano il papa e gli emigrati genovesi, o perchè la vista delle bandiere veneziane risvegliasse l'antica gelosia de' patriotti di Genova, o perchè sembrasse ai cittadini in quel punto troppo grande la potenza francese per poterne trionfare. Le città di Sarzana e della Spezia, attraversate dall'armata di terra, e quelle di Sestri, Chiavari e Rapallo, occupate dalla flotta, cedettero alla forza senza dar segno di entusiasmo per coloro che si vantavano loro liberatori. Il figlio di Gian Luigi del Fiesco ed il nipote del cardinale di Finale, avevano ambidue condotti in Genova sette in ottocento fanti per difendere il governo francese ed impedire ogni movimento; nello stesso tempo il signor Prejan entrò in porto con sei galere provenzali, senza che Ottaviano Fregoso o Grillo Contarini, che comandavano la flotta veneziana, potessero trattenerlo. Questi due capi della spedizione perdettero allora ogni speranza di buon successo; Marc'Antonio Colonna s'imbarcò a Rapallo con circa sessanta cavalieri, ma gli altri vollero ritirarsi coll'infanteria per la strada di terra, e furono in cammino spogliati dai contadini irritati pei loro rubamenti. La flotta, ritirandosi, venne inseguita dalla flotta francese fino a Monte Argentaro sulle coste della Sardegna, e rientrò senz'essersi battuta in Cività Vecchia[72].
Intanto una più grossa armata pontificia, sotto gli ordini del nipote del papa, Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino, avanzavasi per attaccare il duca di Ferrara, e togliergli la piccola provincia della Romagna Ferrarese cedutagli da Alessandro VI. Entrò senza incontrare opposizione in Lugo ed in Bagnocavallo; ma mentre stringeva d'assedio la fortezza di Lugo ebbe notizia che si avvicinava il duca Alfonso, e fuggì disordinatamente abbandonando parte della sua artiglieria. Vero è che si riunì di nuovo ad Imola, e riprese subito l'offensiva; e mentre tutta a sè richiamava l'attenzione del duca di Ferrara, Gherardo e Francesco Maria Rangoni, gentiluomini di Modena, aprirono le porte di quella città al cardinale di Pavia, che si era avanzato da Bologna a Castelfranco. Probabilmente sarebbe stato occupato nella stessa maniera anche Reggio, ed invasa la metà degli stati della casa d'Este, se il signore di Chaumont non si fosse affrettato a mandarvi dugento lance[73].
Ma Giulio II aveva apparecchiato un terzo attacco, sul quale fondava più che negli altri le sue speranze. Una dieta adunata a Lucerna, offesa dal costante rifiuto di Lodovico XII di accrescere le pensioni dei cantoni, e strascinata dall'attività e dall'animosità di Matteo Schiner, vescovo di Sion, aveva risoluto di attaccare i Francesi in Lombardia. Il Chaumont per difendersi contro di loro aveva posti cinquecento uomini d'armi ad Ivrea; aveva dal debole Carlo III, duca di Savoja, ottenuta la promessa di non lasciar passare gli Svizzeri per la valle d'Aosta; finalmente aveva fatte ritirare tutte le barche dei laghi che sono alle falde delle montagne, rompere tutti i ponti, riporre tutte le vittovaglie nelle terre murate, e distruggere tutti i mulini[74].
Per lungo tempo gli Svizzeri avevano formata la sola buona fanteria delle armate francesi; onde inspiravano grandissimo terrore agli uomini d'armi, accostumati ad averli per loro appoggio. Ma gli Svizzeri medesimi non avevano meno bisogno per poter tenere la campagna degli uomini d'armi cui erano stati sempre associati, e contro i quali portavano adesso le armi. Gli Svizzeri avevano de' buoni contestabili di reggimento, ma non uno sperimentato generale; onde avevano posto alla testa di quest'impresa il vescovo di Sion[75]: mancavano di ponti, di battelli e d'artiglieria, e poca era la loro cavalleria. Quando passarono il san Gottardo, in principio di settembre, con un corpo di sei mila uomini, non avevano che quattrocento cavalli, metà carabinieri. Due mila cinquecento de' loro fanti erano armati di fucile, cinquanta di lunghi archibugi, gli altri di picche o di alabarde[76].
Gli Svizzeri, essendo usciti dal loro territorio per la strada di Bellinzona, s'impadronirono del ponte della Trezza, mal difeso contro di loro da seicento fanti francesi; poi fecero alto a Varese, aspettandovi un altro corpo di quattro mila uomini, che non si fece lungamente aspettare. Chaumont, che li teneva di vista con cinquecento lance e quattro mila pedoni, aveva determinato di non attaccarli, ma di andarli stancheggiando con piccole scaramucce e con continui movimenti. Mancando loro bentosto i viveri che avevano trovato a Varese, piegarono a sinistra verso Castiglione attraverso di un paese disuguale, marciando a grossi distaccamenti con ottanta o cento uomini di fronte, e coi fucilieri in coda. Si avanzarono con tale ordinanza senza mai lasciarsi avviluppare dalla cavalleria, che s'aggirava sui loro fianchi, bastando loro il far uscire dalla linea cento o cento cinquanta soldati per respingere la cavalleria, indi riprendere il loro luogo.
Il primo giorno l'armata svizzera si trattenne ad Appiano; il secondo attraversava, alla volta di Cantù, il ridente paese che i Milanesi chiamano i Monti di Brianza. Quand'ebbe fatto la metà del cammino, abbandonò la prima direzione per accostarsi alle montagne; restò un giorno nei sobborghi di Como, ed un altro a Chiasso. Tuttavia credevano i Francesi che gli Svizzeri fossero intenzionati di attraversare l'Adda sopra zattere, dov'esce dal lago di Lecco; ma tutt'ad un tratto essi tornarono verso la Trezza, di dove erano venuti, e rientrarono nelle loro montagne, o perchè sentissero l'impossibilità di penetrare senza barche in un paese attraversato da tanti fiumi, o perchè la mancanza de' viveri, e della cavalleria per andare a prenderne a qualche distanza, facesse loro temere la fame, o perchè, come alcuni vogliono, ricevessero settanta mila scudi dal re e dal signore di Chaumont per rinunciare ad un'impresa, per fare la quale ne avevano ricevuti altrettanti dal papa. La loro riputazione di lealtà era totalmente perduta, e più non guerreggiavano che a prezzo d'oro; e se la massa dell'armata non era partecipe di questi vergognosi contratti, la condotta de' condottieri non li liberava da ogni sospetto[77].
Il piano di tutti questi simultanei attacchi era stato da Giulio II assai ben concertato, ma i diversi loro capi non avevano saputo agire nello stesso tempo. Il tentativo sopra Genova aveva preceduto quello di Ferrara e di Modena; in appresso si fece la spedizione degli Svizzeri, e quando questi rientravano nelle loro montagne, l'armata veneziana, sotto gli ordini di Lucio Malvezzi, approfittò della lontananza de' Francesi per avanzarsi. Ricuperò in pochi giorni senza combattere Este, Monselice, Montagnana, Marostica e Bassano; rientrò in Vicenza, che i Tedeschi nè meno tentarono di difendere, e giunsero finalmente presso Verona, incalzando da vicino il duca di Termini, Andrea di Capoa, che si ritirò coll'armata imperiale, da lui comandata dopo la morte del principe di Anhalt accaduta pochi dì prima, e che ebbe l'accortezza di non lasciarsi avviluppare[78].
Poi ch'ebbe ragunate in Verona tutte le sparse guarnigioni, il duca di Termini si vide alla testa di trecento lance spagnuole, di cento lance tedesche o italiane, di quattrocento lance francesi e di quattro mila e cinquecento pedoni. Contavansi nell'armata veneziana ottocento uomini d'armi, tre mila cavaleggieri, quasi tutti Stradioti, e dieci mila fanti. Furono poste in batteria le artiglierie contro le mura della fortezza di san Felice, situata sulla sinistra riva dell'Adige, e dopo pochi giorni avevano aperte larghe brecce e fatto tacere il fuoco degli assediati. Di già i Veneziani si apparecchiavano all'assalto con grandissima probabilità di buon successo, quando mille ottocento soldati tedeschi, sostenuti da alcuni uomini d'armi francesi, fecero di mezza notte una sortita, inchiodarono due cannoni, ruppero la fanteria italiana ed uccisero Zittolo di Perugia, uno de' suoi migliori capitani. Il Malvezzi, trovando all'indomani i suoi soldati scoraggiati, abbandonò l'assedio di Verona e tornò all'antico quartiere di san Martino, lontano cinque miglia[79].
Dopo queste brevi spedizioni, ogni spirito d'intrapresa parve da tutti abbandonato, fuorchè dal pontefice: il senato di Venezia fu alcun tempo in qualche agitazione per l'imperiosa domanda fattagli dal re d'Ungheria di tutte le terre della Dalmazia, che gli venivano accordate nel trattato di Cambrai; ma diversi magnati si affrettarono di rassicurare l'ambasciatore veneziano, protestando che il loro re non procederebbe più in là dell'intimazione, fatta soltanto per compiacere a Massimiliano ed a Lodovico XII, e che la nazione ungara non somministrerebbe danaro per attaccare la repubblica[80]. I comandanti, francesi, tedeschi, spagnuoli, ferraresi, guastavano il paese all'intorno delle loro stazioni, ma non intraprendevano veruna cosa d'importanza. Soltanto Giulio II pareva accendersi di nuovo ardore ad ogni disfatta, ed il di lui irritamento veniva maggiormente esacerbato dalle pratiche di Lodovico XII presso il clero di Francia.
Il re risguardava come crudeli ingiurie i non preveduti attacchi che il pontefice avea contro di lui provocati a Genova, in Lombardia e nel Ferrarese; aveva palesato al Macchiavelli, che trovavasi in legazione presso di lui, l'ardente suo desiderio di vendicarsi esemplarmente; aveva perciò voluto persuadere i Fiorentini ad entrare in guerra contro il papa, facendo loro sperare il possedimento di Lucca o del ducato d'Urbino. Voleva ad ogni modo levare questo ducato al nipote di Giulio II, per fargli sentire nella propria famiglia gli amari frutti della guerra[81]; ma nello stesso tempo voleva combattere contro il papa colle armi spirituali, e ne' primi giorni di settembre adunò a Tours un concilio della Chiesa Gallicana, al quale denunciò questo papa, eletto con mezzi così poco canonici, e che col suo bellicoso temperamento turbava in così crudele maniera tutta la Cristianità. Il concilio francese autorizzò il re a respingere le armi del papa colle armi, ed a portare innanzi ad un concilio ecumenico, convocato di concerto coll'imperatore, le sue lagnanze contro il capo della Chiesa[82].
Queste pratiche di Lodovico XII accrebbero a dismisura l'odio di Giulio contro la Francia ed il suo desiderio di vendicarsene, onde ricominciò i suoi attacchi. Da un canto rimandò in faccia a Genova la sua flotta, unita a quella dei Veneziani, per suscitarvi a forza aperta la rivoluzione che poc'anzi aveva invano tentato di eccitare per sorpresa: la cosa non ebbe effetto, ed egli avrebbe ben dovuto prevederlo[83]. D'altra parte risolse di recarsi in persona fino a Bologna, per ridurre Ferrara sotto il diretto dominio della Chiesa. Egli non aveva abbandonato i suoi progetti coll'imperatore, con Enrico VIII e con Ferdinando il Cattolico, che sempre lusingavasi di potere scatenare contro la Francia, ma ripromettevasi di potere, anche senza il loro ajuto, fare coi Veneziani la riconquista di Ferrara; dal canto loro i Veneziani, senza spingere tant'oltre le loro speranze, credevano vantaggioso di assecondarlo con tutte le loro forze, per tenerlo fermo nella loro alleanza. Giulio II aveva con insolita fierezza, che ogni giorno facevasi sempre maggiore, rigettate le proposizioni fattegli dalla Francia per una separata pace. Lodovico XII lasciò travedere che non rinuncierebbe alla protezione del duca di Ferrara; ma pretese subito il pontefice che rinunciasse ancora ad ogni sovranità sopra Genova. Il Macchiavelli fu incaricato da Robertet di persuadere la repubblica di Firenze ad offrire la sua mediazione, ma il papa la rifiutò disdegnosamente. Per lo stesso motivo venne ancora più maltrattato un segretario d'ambasciata del duca di Savoja. Giulio II lo accusò di spionaggio, lo fece gettare in prigione, e poco dopo sottomettere alla tortura[84].
Il 22 di settembre Giulio II fece il suo solenne ingresso in Bologna con tutta la sua corte, mentre che la sua armata si avanzava nel Ferrarese fino al Po. Per compiacerlo i Veneziani nello stesso tempo facevano rimontare il fiume a due loro flotte, una per la bocca delle Fornaci, l'altra per il Po di Primaro. I soldati veneziani e pontificj guastavano senza riguardo il territorio ferrarese, ma senza mai avvicinarsi alla città; il papa era stato ingannato intorno alla qualità ed al numero de' soldati ch'egli pagava; e la sua armata non aveva bastanti forze per intraprendere un assedio di tanta importanza[85].
I Veneziani avevano più di un anno tenuto in prigione il duca di Mantova; ma lo avevano di fresco rilasciato dietro le riunite istanze del papa e dell'imperatore de' Turchi, Bajazette II. Fino dal principio del suo regno Giovanni Francesco Gonzaga aveva cercato di guadagnarsi la grazia del gran signore, gli aveva mandati diversi regali, ed aveva avuta cura d'intrattenere con lui una non interrotta corrispondenza: e Bajazette, riconoscente di questa lunga confidenza, avvalorò le sue istanze pel marchese di Mantova con tali minacce, che non permisero al senato di discutere l'affare[86]. Ad ogni modo i Veneziani rilasciarono al papa il loro prigioniere, poichè per una singolare circostanza egli aveva inallora eccitata la compassione del papa e del sultano; e Giulio II, che aveva solennemente privato il duca di Ferrara del titolo di gonfaloniere della Chiesa, accordò tale dignità al Gonzaga, sperando in tal modo di vincolarlo irrevocabilmente alla sua lega coi Veneziani. Il marchese di Mantova trovavasi in una difficilissima posizione tra la politica e la riconoscenza. I Veneziani lo avevano ancor essi nominato capitano generale della loro armata col soldo di cento uomini d'armi e di mille dugento fanti; pure s'egli si attaccava alla lega, in cui volevano strascinarlo il papa ed il senato veneto, i suoi stati erano i più esposti agli attacchi de' Francesi. Infatti questi colsero tale istante per invadere il Mantovano, ed il Gonzaga, che forse aveva fatto istanza al signore di Chaumont di somministrargli questo pretesto, abbandonò le altre dignità che gli erano state accordate, per occuparsi della difesa de' suoi sudditi[87].
Intanto il pontefice era caduto gravemente infermo, e si curava contro il parere di tutti i medici, come trattava la guerra contro il sentimento di tutti i militari. Egli non voleva essere consigliato, le difficoltà non lo scoraggiavano, e sempre affrettava l'attacco de' nemici[88]. Ma la discordia tra il duca d'Urbino ed il cardinale di Pavia, che dividevano tra di loro il comando dell'armata, rendeva questo attacco pericolosissimo. Il duca d'Urbino, in un primo impeto di collera, fece arrestare e condurre a Bologna il cardinale di Pavia, per esservi giudicato come colpevole di tradimento; ma il cardinale seppe così pienamente giustificarsi presso al papa, che ricuperò maggior credito ed autorità che prima non aveva[89].
Finalmente il duca d'Urbino aveva potuto far sentire al papa, che prima di attaccare Ferrara doveva aspettare che si unissero all'armata le truppe veneziane composte di trecento uomini d'armi, di molta cavalleria leggiere e di quattro mila fanti, ch'eransi avanzati sul Po fino a Ficheruolo ed erano secondati da alcune galere. Alfonso d'Este precludeva la strada a questa truppa: attaccava separatamente con molta attività le galere veneziane, e faceva loro sentire a quanto rischio si esponessero, avanzandosi nel letto dei fiumi[90]. Mentre Alfonso non permetteva alle galere di rimontare più alto verso Ferrara, il signore di Chaumont, così consigliato dai Bentivoglio, risolse di portarsi rapidamente sopra Bologna, e di sforzare Giulio II alla pace. Prese, cammino facendo, Spilimbergo e Castelfranco, che non si difesero che un giorno, ed il 12 di ottobre si accampò a Crespolano, lontano dieci miglia da Bologna, con intenzione di presentarsi all'indomani sotto le mura della città.
Non si trovavano allora in Bologna che pochi e mal disciplinati soldati pontificj: vero è che il papa aspettava trecento uomini d'armi, che il re d'Arragona doveva mandargli, e l'armata veneta trattenuta a Ficheruolo; ma non sembrava probabile che potesse sostenersi fino all'arrivo degli uni e degli altri, tanto più che i partigiani dei Bentivoglio cominciavano a darsi qualche movimento, e che la massa del popolo, dimenticando tutti i vecchi torti, si andava attaccando al loro partito per quella cieca affezione che lega tutti gli uomini al tempo passato. I prelati ed i cortigiani, accostumati soltanto agli agi ed alle delicatezze di Roma, lagnavansi amaramente che il papa gli avesse seco strascinati in così pericolosa situazione per le sostanze loro e per la gloria della santa sede. Con caldissime istanze, che prima d'allora Giulio II non avrebbe in verun modo tollerate, lo andavano affrettando a provvedere alla comune sicurezza con una pronta ritirata, o trattando con Chaumont a quelle condizioni che potesse ottenere più sopportabili[91].
Giulio II, senza promettere di seguire i loro consiglj, chiamò gli ambasciatori veneziani e dichiarò loro che se all'indomani prima di sera non riceveva in Bologna un rinforzo, staccato dalle truppe ch'essi avevano nel campo della Stellata, tratterebbe coi Francesi. Adunò in appresso il consiglio ed i collegj di Bologna, loro dipinse con vivissimi colori l'antica tirannide dei Bentivoglio, dalla quale gli aveva egli sottratti; gli esortò a difendere il paterno governo della Chiesa e la libertà di cui godevano; loro raccomandò di procurarsi vittovaglie per sostenere un assedio, accordando per questa circostanza esenzione di gabelle alle porte. Ma Giulio II, malgrado la debolezza dell'età e della malattia, era il solo uomo che in quel momento di pericolo conservasse il vigore dell'animo. Fece venire sulla pubblica piazza tutti i Bolognesi che avevano promesso di combattere, e venne assicurato che non v'erano meno di quindici mila pedoni e di cinque mila cavalli. Giulio II stava in allora a letto, preso da un accesso di febbre; tosto che udì le grida del popolaccio, balzò dal letto, si affacciò alla finestra, diede alle truppe la benedizione nelle forme adoperate quando marciano alla battaglia, ed, abbandonandosi ad un trasporto di gioja, gridò ch'era di già vittorioso dell'armata francese[92].
Ma intanto questa gente, che aveva salutato il papa colle sue grida, non prendeva le armi per combattere. I cortigiani si mostravano sempre più atterriti; gli ambasciatori dell'imperatore, del re Cattolico, dell'Inghilterra, pressavano Giulio II ad entrare in negoziazione. All'ultimo si lasciò vincere, e mandò a domandare a Chaumont un salvacondotto pel conte Francesco Pico della Mirandola, che voleva incaricare di trattare con lui. Nello stesso tempo fece partire alla volta di Firenze i più preziosi giojelli della Chiesa, e tra questi la mitra giojellata, che chiamasi il triregno[93].
Sapeva il Chaumont che Lodovico XII era tormentato dagli scrupoli, combattendo contro il papa, e che quasi ad ogni patto avrebbe con lui fatta la pace; perciò accondiscese di buon grado a trattare. Domandò l'assoluzione di tutte le censure pronunciate contro Alfonso d'Este, i Bentivoglio e loro aderenti; la restituzione ai Bentivoglio de' loro beni, a condizione ch'essi starebbero per lo meno ottanta miglia lontani da Bologna; domandò che fossero rimesse al giudizio di arbitri le difficoltà tra il papa ed il duca di Ferrara; che fosse deposta Modena tra le mani dell'imperatore, e finalmente sospese le ostilità per sei mesi, nel corso de' quali ognuno conserverebbe ciò che possedeva[94].
Tali condizioni sembravano a Giulio II infinitamente dure; lagnavasi a vicenda dell'insolenza de' Francesi e della lentezza de' Veneziani; contro il suo costume ascoltava le istanze de' cardinali, ma non prendeva verun partito, e lasciava passare il tempo, quando poco prima di sera del giorno 13 d'ottobre Chiappino Vitelli entrò in Bologna con seicento cavaleggieri veneziani, e con un corpo di cavalleria turca in servigio della repubblica, e ritornò al papa la perduta audacia e la consueta alterigia.
Erasi il Chaumont innoltrato fino al ponte del Reno, a tre miglia da Bologna; aveva accettata la mediazione degli ambasciatori dell'imperatore, del re di Spagna e del re d'Inghilterra; ma la vegnente mattina tutto aveva mutato faccia; il papa più non voleva discendere a verun accordo, gli amici dei Bentivoglio non avevano in Bologna fatto alcun movimento, un secondo corpo di Stradioti doveva prima di notte entrarvi per una porta, mentre che Fabrizio Colonna vi condurrebbe per un'altra parte degli uomini d'armi spagnuoli e della cavalleria leggiere; onde Chaumont poteva credersi ancor esso in pericolo. Vergognoso e disperato d'essere stato uccellato dal vecchio pontefice, ritirossi lentamente verso Castel Franco, poi sopra Rubiera. Giulio gli aveva fatto sapere che non darebbe orecchio a verun trattato, se per condizione preliminare la Francia non rinunciava alla difesa del duca di Ferrara; ed intanto non sapeva darsi pace che i suoi generali non avessero inseguita e distrutta l'armata francese. Tanto dispetto aggravò in modo la di lui malattia, che il 24 di ottobre disperavasi della sua vita[95].
Quando cominciava appena a riaversi scrisse una circolare a tutti i principi cristiani. Accusò il re di Francia d'avere fatta avanzare la sua armata contro il papa ed i suoi cardinali con una esecranda sete del sangue del romano pontefice. Dichiarò che non darebbe orecchio a veruna negoziazione, se prima non gli veniva consegnata Ferrara; ed affrettò caldamente i Veneziani ad unire la loro armata alla sua per istringere di assedio quella città[96].
Infatti l'armata pontificia si unì in Modena a quella de' Veneziani, ma stavano ambedue aspettando il marchese di Mantova che aveva avuto il titolo di capitano generale, e che fece loro perdere un tempo prezioso, senza mai assumere il comando. Nello stesso tempo la flotta veneziana venne attaccata a Bondeno dal duca di Ferrara e dal signore di Chatillon, e fu costretta ad abbandonare con perdita il Po. Finalmente si mosse l'armata pontificia, ed intraprese l'assedio di Sassuolo; e il pontefice ebbe il conforto di udire, stando nella sua camera, il rumore della propria artiglieria, ed espresse la sua gioja colla stessa vivacità con cui pochi dì prima aveva manifestato il suo malcontento udendo l'artiglieria de' nemici a Spilamberto. Dopo due giorni Sassuolo capitolò; e Giulio II, rinunciando all'attacco di Ferrara, fece avanzare l'armata contro la Mirandola. Questo castello e quello della Concordia formavano il piccolo feudo o principato della famiglia dei Pichi, tanto illustre nella storia delle lettere. Il conte Lodovico Pico della Mirandola aveva sposata la figliuola del maresciallo Gian Giacopo Trivulzio, chiamata Francesca: era costei rimasta vedova, ed erasi senza riserva abbandonata alla direzione di suo padre, che aveva fatto della Mirandola una piazza d'armi francese, mentre che il conte Giovan Francesco Pico, cugino di Lodovico, il quale pretendeva l'eredità di questo feudo, erasi interamente dedicato al papa[97].
Il duca di Ferrara trovavasi spossato dai lunghi sforzi che aveva dovuto fare; omai più non aveva che poche truppe nella sua capitale, e Chaumont non era in troppo buono stato per poterlo soccorrere; onde dovette ascrivere a sua somma ventura che l'armata del papa si volgesse contro la Mirandola, e non contro di lui. Si credette pure che il cardinale di Pavia fosse stato segretamente guadagnato da lui o dalla Francia, quando consigliò il papa ad attaccare la Mirandola. Frattanto il Chaumont mandò Marino di Montchenu e Chantemerle, nipote del signore di Lude, con cento fanti e due cannonieri a rinforzare la guarnigione della Mirandola, ove la contessa Francesca e suo cugino, Alessandro Trivulzio, si apparecchiavano a sostenere un assedio[98].
L'armata pontificia era lenta in tutte le sue operazioni, e sempre esposta ai raggiri di coloro che volevano celatamente attraversare l'esecuzione dei disegni del papa, onde non potè avvicinarsi a Concordia che circa nella metà di dicembre. La piazza fu presa lo stesso giorno in cui si aprirono le batterie, la cittadella capitolò, e l'armata pontificia passò ad assediare Mirandola.
Non cominciò il fuoco contro la Mirandola che quattro giorni dopo l'arrivo dell'armata. L'impaziente Giulio II non sapeva accomodarsi a tanta lentezza; altronde diffidava di tutti; accusava ora l'uno ora l'altro de' suoi capitani, e lo stesso suo nipote, il duca d'Urbino, di incapacità, o di perfidia. Finalmente nei primi giorni del 1511 risolse di dare al mondo uno spettacolo non meno scandaloso che inaspettato: il due di gennajo si fece portare in lettiga da Bologna al campo sotto Mirandola coll'accompagnamento di tre cardinali[99]. Si alloggiò nella piccola casa di un contadino, distante soltanto due tiri di balestra dalle mura, ed esposta al fuoco del cannone della piazza; colà, senza lasciarsi atterrire dalle continue nevi, indispettito dalla viltà degli operaj che faceva adunare e che fuggivano ad ogni scarica d'artiglieria, o perchè mancavano le vittovaglie, cominciò egli stesso a dirigere i lavori a far mettere sotto i suoi occhi i cannoni in batteria, e ad affrettare il fuoco. Dopo aver tenuto dietro ai suoi lavoratori nell'eccessivo freddo di un rigorosissimo inverno con un'attività che non sarebbesi mai aspettata da un vecchio infermo, non che da un papa, tornò a Concordia, quando tutte le batterie furono aperte, per sentirne l'effetto. Ma sebbene non si trovasse che poche miglia lontano dal campo, per la sua impazienza era tuttavia troppo lontano, e tornò il quarto dì ad alloggiarsi a canto alle sue batterie ancora più vicino alle mura, di quel che lo fosse la prima volta. In allora, tutto abbandonandosi all'impeto del suo carattere, rampognava quando l'uno e quando l'altro de' suoi capitani, tranne Marc'Antonio Colonna; visitava in seguito l'armata, castigava alcuni soldati, altri incoraggiava, e a tutti prometteva di non capitolare, per lasciare che i soldati saccheggiassero la piazza[100].
Il cavaliere Bajardo trovavasi in allora nel campo del duca di Ferrara presso il Po: ebbe avviso che il papa, che passava quella notte nel castello di san Felice, doveva ripartire all'indomani per tornare alla Mirandola. Bajardo sapeva trovarsi su questa strada a due miglia da san Felice ed a quattro dalla Mirandola due o tre case abbandonate a motivo della guerra; andò prima di giorno ad appostarvisi con cento uomini d'armi. «Domattina, disse al duca di Ferrara, quando il papa sloggierà da san Felice, sono informato che non ha che i suoi cardinali, vescovi e protonotarj, e circa cento cavalli di guardia; uscirò dalla mia imboscata, e non mi fuggirà dalle mani.» Il progetto del cavaliere senza paura e senza difetti fu altamente approvato, e tutto puntualmente si eseguì a seconda de' suoi ordini. Di già i primi chierici del corteggio del papa erano passati oltre l'imboscata, da cui uscì Bajardo per caricarli ed inseguirli. «Ma il papa, che era partito ultimo, fu appena pochi passi lontano da san Felice, che cominciò a cadere la più aspra ed impetuosa neve che si fosse veduta da cent'anni in qua.» Prima che i fuggiaschi, sottrattisi all'imboscata, fossero giunti fino al papa, il cardinale di Pavia lo aveva di già persuaso a rientrare nel castello per lasciar passare il cattivo tempo. «Quando il buon cavaliere giugneva a san Felice, il papa rientrava appunto nel castello, ed, udendo le grida de' soldati, ebbe tanto spavento che subitamente e senza che persona lo ajutasse uscì di lettiga, ed egli stesso ajutò ad alzare il ponte; ed in ciò mostrossi uomo di molto spirito, perchè se avesse tanto ritardato quanto abbisogna di tempo per dire un Pater noster, era preso.... Il papa, rimasto nel castello di san Felice, tremò tutto il giorno di febbre per la paura che aveva avuta, e la notte mandò a darne avviso a suo nipote, il duca d'Urbino, il quale venne a prenderlo con quattro cento uomini d'armi e lo condusse all'assedio[101].»
Alessandro, nipote del maresciallo Gian Giacopo Trivulzio, difendeva la Mirandola. Aveva sotto il suo comando quattrocento fanti stranieri, e mostrava tanta maggiore ostinazione e coraggio, quanto tenevasi più sicuro di essere soccorso dal signore di Chaumont: ma questi, che detestava il maresciallo Trivulzio, non vedeva con dispiacere che la figlia del suo rivale perdesse l'eredità, e non curavasi di accorrere in suo soccorso.
Una palla di cannone aveva traforata la casa in cui alloggiava il papa ed uccisi due uomini nella sua cucina; ma quest'accidente non fece che accrescere la collera di Giulio II. Finalmente il violento freddo agghiacciò le fosse della Mirandola in tal modo che l'acqua che dovea servire a difenderla aprì per lo contrario un passaggio onde giugnere fino sulla breccia. Vide allora Alessandro Trivulzio l'impossibilità di sostenere un assalto, e capitolò il 20 di gennajo. Pagò una contribuzione di sei mila ducati per salvare la Mirandola dal saccheggio; ed il papa, cedendo alle istanze di tutti i suoi cortigiani, l'accettò. Alcuni ufficiali restarono prigionieri di guerra, mentre il rimanente della guarnigione potè ritirarsi libera; e perchè le porte della città, che erano state afforzate per di dietro con terrapieni, non erano più praticabili, il vecchio pontefice non fu abbastanza paziente per aspettare che si sgombrassero: montò per una scala sulla breccia, e dopo aver fatto in tal maniera il suo ingresso in questa città, ne diede il possesso al conte Giovan Francesco Pico, parente del conte Lodovico, sebbene suo nemico[102].
Dopo la presa della Mirandola il papa ed i Veneziani tentarono di nuovo d'impadronirsi della Bastia sul basso Po, onde impedire il trasporto dei viveri a Ferrara; ma mentre assediavano questo castello vi furono sorpresi dal duca Alfonso d'Este, in conseguenza di un piano datosi dal cavaliere Bajardo, e perdettero tanta gente che più non pensarono all'assedio di Ferrara[103].
Intanto Lodovico XII, disperando omai di ridurre colle negoziazioni a pacifici pensieri un papa, che in tutte le sue azioni annunciava tanta violenza, ordinò al signore di Chaumont di attaccarlo vivamente e di fargli sentire quale fosse la potenza di un re di Francia. Chaumont, che dalla sola protezione di suo zio, il cardinale d'Amboise, riconosceva l'alta riputazione di cui godeva, dopo la morte dello zio veniva giudicato secondo il vero suo merito. Non gli si attribuivano nè singolare ingegno, nè bastante perizia dell'arte della guerra, nè la debita deferenza all'avviso di coloro che l'avevano meglio di lui studiata, nè la necessaria attenzione pel mantenimento della disciplina, che omai più non era osservata nel campo francese. Gli si rimproverava un'eccessiva gelosia verso il maresciallo Gian Giacopo Trivulzio, il quale avrebbe condotta la guerra a più felice fine, se Chaumont avesse più frequentemente seguiti i suoi consiglj. Non è questi, a dir vero il carattere che gli attribuisce il maresciallo di Fleuranges, che lo chiama: «il più savio uomo dabbene in ogni stato che io mi ricordi d'avere mai veduto, e della più grande diligenza, e del più raro spirito.» Ma Fleuranges era nipote di Chaumont, e gli doveva in parte il suo avanzamento[104].
Il Trivulzio tornava appunto dalla corte di Francia, quando fu presa la Mirandola; fu chiamato ad un consiglio di guerra in cui doveva essere deciso il piano di attacco da seguirsi contro il papa. L'armata veneziana erasi fortificata al Bondeno sul Panaro[105] presso alla sua foce in Po. Questa posizione nello stato di Ferrara veniva renduta quasi inattaccabile a cagione delle inondazioni e de' numerosi canali. Proponeva il Trivulzio di non cercare di forzarla; di piegare a mezzodì, minacciando Modena e Bologna; di sorprendere queste città se non venivano difese, e, se l'armata veneziana abbandonava la sua forte posizione per accorrere in difesa di quella città, di tentare di distruggerla in una battaglia. Ma bastò agli occhi di Chaumont e de' suoi adulatori, che questo consiglio fosse uscito di bocca al Trivulzio, per seguirne uno contrario. Egli rappresentò, che Alfonso d'Este non doveva lasciarsi più lungamente esposto alla desolazione del suo paese; che se non accorrevasi prontamente in suo soccorso, Ferrara avrebbe dovuto arrendersi; che per quanto fosse forte la posizione de' Veneziani al Bondeno, il valore francese e la superiorità dell'artiglieria francese avrebbero trionfato di tutto; finalmente che, avvicinandosi agli stati di Mantova, trarrebbe il marchese Gonzaga dalla sua lunga irrisoluzione e si unirebbe alle armate francesi, come ne aveva fatto celatamente conoscere il desiderio[106].
Infatti l'armata francese si pose in movimento lungo la destra riva del Po, e giunta che fu a Sermidi in riva a questo fiume, il Chaumont si avanzò con alcuni ufficiali fino alla Stellata per avere una conferenza col duca Alfonso. Questi gli fece meglio conoscere lo stato del paese fino al Bondeno, e di là fino a Finale ed a Cento, ove trovavansi alloggiati i soldati della Chiesa e gli Spagnuoli. Erano state rotte tutte le dighe dei fiumi, tutto il piano inondato, ed era lungo lo stretto argine, che sostiene le acque dei canali o quelle del Panaro, ch'era forza avvicinarsi al nemico. Questi argini erano stati in più luoghi tagliati e guarniti di truppe e d'artiglieria. Vero è che Alfonso, il quale sospirava di sbarazzarsi di ospiti che facevano più compiuta la sua ruina, sforzavasi di provare colle carte degli ingegneri che la disposizione del terreno sarebbe sempre vantaggiosa all'artiglieria francese. Ma in un secondo consiglio di guerra, tenuto a Sermidi, il Trivulzio dimostrò l'estrema imprudenza di avventurare un'intera armata, in mezzo ad un paese inondato, sopra l'angusta linea di una diga, ove il più piccolo accidente accaduto all'artiglieria o ai carri delle munizioni poteva rompere ogni comunicazione dalla testa alla coda della colonna, e il più piccolo ritardo farla perire per mancanza di vittovaglie. Questo progetto, accarezzato più lungo tempo che non conveniva, fu dunque abbandonato nell'istante in cui volevasi eseguire[107].
Nè il Chaumont fu più felice nel persuadere il marchese di Mantova ad uscire dalla sua neutralità. Questi seppe contenersi con molta destrezza tra le due parti. Supplicava i Veneziani di non obbligarlo a dichiararsi, finchè il suo paese trovavasi circondato da tante armate nemiche, che non avrebbe potuto unirsi a loro senza abbandonare tutto il territorio mantovano al guasto dei Francesi. Supplicava egualmente il Chaumont a pazientare ancora poche settimane, mentre stava trattando col papa per levargli dalle mani suo figlio che gli avea dato in ostaggio. Così mostrandosi cogli uni e cogli altri disposto ad abbracciare la causa loro, obbligava gli uni e gli altri a rispettare la sua neutralità[108].
Il cardinale Ippolito d'Este pretendeva d'avere delle corrispondenze in Modena, e faceva istanza al signore di Chaumont di attaccare quella città per tornarla alla sua famiglia. Ma frattanto le negoziazioni del re d'Arragona avevano provveduto alla sua difesa. Ferdinando vedeva di mal occhio la potenza francese estendersi verso il mezzogiorno d'Italia; e cercava con ogni mezzo di separare gl'interessi di Massimiliano da quelli di Lodovico XII. Alfonso d'Este teneva Modena in feudo dall'impero, e Massimiliano aveva giusti titoli di lagnarsi del papa, perchè avesse occupata una città totalmente dipendente dall'imperatore. Ferdinando si sforzò di persuadere a Giulio II che lasciando questa città in deposito nelle mani del capo dell'impero, provvederebbe più efficacemente alla sua difesa, e getterebbe semi di divisione tra Lodovico XII e Massimiliano. Per determinare Giulio II a rinunciare alle pretese che cominciava a formare sovra Modena, fu d'uopo che concepisse timore dell'avvicinamento dell'armata francese; egli non cedette che quando il pericolo si fece urgentissimo, e per sottrarvisi consegnò Modena a Witfrust, ambasciatore di Massimiliano presso di lui[109].
Soltanto dopo di avere inutilmente tentato di sorprendere Modena, e dopo avere provata l'impossibilità di far avanzare la sua artiglieria, implicata ne' profondi fanghi di Carpi, il Chaumont acconsentì a riconoscere il depositario imperiale, a condizione che questi dal canto suo si obbligasse a tenersi neutrale nella guerra tra il suo re ed il papa. Questa serie di cattivi successi aveva fatta perdere a Chaumont la confidenza dell'armata e della corte; si teneva per cosa certa che avesse lasciata prendere la Mirandola a cagione del suo odio verso il maresciallo Trivulzio, e si fosse per incapacità lasciata fuggire di mano l'occasione di ricuperare Modena o di liberare Ferrara. Egli stesso si accorgeva che la sua riputazione andava declinando, e che aveva omai perduto il favore del suo padrone; oltre a che era tormentato dai rimorsi di dover combattere contro il papa. L'eccesso del cordoglio lo rese infermo; un accidente che lo rovesciò da un ponte nell'acqua, mentre trovavasi assai riscaldato, contribuì pure ad accrescere le sue infermità; ma egli stesso si credette avvelenato e lo disse a suo nipote Fleuranges, congedandosi da lui. Si fece portare a Coreggio, e da quell'istante non ebbe più altro pensiere che di ottenere dal papa l'assoluzione per avere portate le armi contro di lui. Quest'assoluzione gli fu di fatti accordata, ma Carlo di Chaumont d'Amboise, gran maestro di Francia, e governatore di Milano, era di già morto, l'undici febbrajo del 1511, quando arrivò ai suoi amici[110].
Tutti i nemici del papa non avevano la coscienza così timorata; il cavaliere Bajardo non erasi fatto scrupolo di tendergli un'imboscata; e se dobbiamo credere al suo leale servitore, che scrisse le sue memorie, il duca Alfonso d'Este andò ancora più in là: egli sedusse un segretario del papa, chiamato Agostino di Guerlo, che gli era stato mandato per distaccarlo dall'alleanza coi Francesi, e lo persuase a promettergli di avvelenare Giulio II; ma avendo il duca comunicato il suo progetto a Bajardo, questi gli rispose: «Ah, monsignore, io non crederò mai che un così gentil principe, come voi siete, acconsenta a così grande tradimento; e quando io lo sapessi, vi giuro sull'anima mia, che prima che fosse notte ne darei avviso al papa.» — «Poichè voi non l'approvate, disse il duca, la cosa non si farà; ma se Dio non vi provvede voi ed io dovremo pentircene.» Dobbiamo per altro dire per la riputazione del duca di Ferrara, che si può spesse volte dubitare della veracità dei racconti del servitore di Bajardo, che ha scritte queste memorie[111].
Alla morte di Chaumont prese il comando dell'armata il maresciallo Trivulzio, in aspettazione degli ordini del re; ma finchè non seppe se gli restava o no il comando, non volle tentare un'impresa che non era sicuro di poter condurre a termine. Accordò dunque ai suoi soldati un riposo, di cui le altre potenze approfittarono per entrare in attive negoziazioni.
Massimiliano, sempre dominato dal suo risentimento contro i Veneziani, aveva fin allora continuato nella sua alleanza colla Francia, ed aveva mostrata un'insolita costanza. Era vivamente entrato nei progetti di Lodovico XII per la riforma della Chiesa nel capo e nelle membra, ed aveva convocata in Augusta un'adunanza di vescovi tedeschi, onde persuaderli a domandare un concilio: ma nella sua nazione aveva trovata una più gagliarda opposizione che non credeva[112]. Soltanto in allora diede orecchio al re d'Arragona che lo consigliava ad assicurarsi con un trattato di pace di quanto possedeva in Italia, e di ciò che ancora pretendeva, e di mettere fine a tutte le controversie che aveva col papa, persuadendosi che i Veneziani si accomoderebbero alle volontà del loro solo alleato.
Dietro questo consiglio Massimiliano mandò Matteo Lang, vescovo di Gurck, suo segretario intimo, a Mantova, per tenervi un congresso; ed invitò il papa, il re di Francia e quello di Arragona a mandarvi i loro ambasciatori. Giulio II colse avidamente quest'apertura, credendo di potere disporre dei Veneziani a suo piacimento; e, quando potesse riconciliarli con Massimiliano, punto non dubitava di potere inimicare questi colla Francia, contro la quale nudriva un odio implacabile. Dall'altro canto Lodovico XII accolse quest'invito con estrema diffidenza; conosceva la volubilità del suo alleato, e temeva che il papa glielo togliesse, o coll'offrirgli il Milanese, oppure col dare al vescovo di Gurck la dignità cardinalizia, e colmarlo de' favori della Chiesa. Nè Lodovico temeva meno rispetto a Ferdinando, i di cui ipocriti avvisi intorno ai pericoli di turbare la pace della Chiesa con un concilio, di distrarre lui medesimo dalla sua santa spedizione contro gl'infedeli dell'Africa, probabilmente celavano qualche pernicioso progetto[113].
Malgrado questi sospetti Lodovico XII mandò il vescovo di Parigi, prelato assai versato nel diritto, al congresso di Mantova, sia per iscoprire gli andamenti dei nemici, sia per non essere accusato di volere solo la guerra. Questo vescovo vi arrivò nel mese di marzo, pochi giorni dopo il vescovo di Gurck e don Pedro d'Urrea, ambasciatore del re d'Arragona alla corte dell'imperatore. Vi arrivò non molto tempo dopo anche Girolamo di Vich di Valenza, ambasciatore di Ferdinando presso la santa sede; ma a solo fine di persuadere Matteo Lang a visitare subito Giulio II a Ravenna, onde disporlo favorevolmente a suo pro, rendendogli nello stesso tempo un omaggio che il papa aveva diritto di ripromettersi per parte di un vescovo incaricato di trattare con lui. Il segretario di Massimiliano, uomo arrogante ed altero, contrastò lungo tempo rispetto alla condiscendenza che gli si domandava, sebbene gli si facesse travedere che sarebbe probabilmente ricompensata con alcuna delle principali dignità della Chiesa. Finalmente partì il 26 di marzo per incontrare il papa; e Giulio II, che voleva ad ogni costo guadagnarsi questo favorito, lusingarne l'orgoglio e risvegliarne l'ambizione, risolse di andargli incontro fino a Bologna; locchè eseguì dopo d'avere nominati in pieno concistoro otto nuovi cardinali, tra i quali trovavasi l'accanito nemico de' Francesi, Francesco Mattia Schiner, vescovo di Sion, e dopo avere dichiarato, col consenso del sacro collegio, che teneva il nono in petto, onde poter offrire quest'esca al vescovo di Gurck[114].
L'ingresso del vescovo di Gurck in Bologna, ch'ebbe luogo tre giorni dopo l'arrivo del papa, venne celebrato colla pompa che poteva convenire ad un sovrano. Assumeva il titolo di luogotenente dell'imperatore in Italia, ed era seguito da molti signori e gentiluomini, che spiegavano ne' loro equipaggi la più grande magnificenza. Nè meno magnifico era l'accoglimento che gli veniva preparato; lo stesso ambasciatore di Venezia alla corte pontificia si frammischiò modestamente ancor esso tra coloro che volevano fargli onore; ma Matteo Lang protestò con estrema insolenza che riputavasi offeso, vedendo presentarsi innanzi a lui l'ambasciatore dei nemici del suo padrone. Il papa gli accordò una pubblica udienza in pieno concistoro, nella quale il vescovo di Gurck dichiarò alla presenza di tutti i cardinali, che Massimiliano lo mandava in Italia, perchè preferiva di riacquistare ciò che gli apparteneva piuttosto colla pace che colla guerra, ma che non tratterebbe che a condizione di ricuperare dai Veneziani tutto ciò che gli avevano usurpato, o del territorio dell'impero o dei dominj di casa d'Austria, pel quale si fosse titolo[115]. Parlò colla medesima arroganza nella privata udienza del pontefice; e maggiore insolenza dimostrò finalmente all'indomani; perchè avendo saputo che il papa aveva delegati per conferire con lui i tre cardinali di san Giorgio, di Reggio e de' Medici, risguardò come cosa indegna del suo rango il trattare con tutt'altri che col sommo pontefice, e deputò tre de' suoi gentiluomini per conferire con loro[116].
Il papa era troppo orgoglioso perchè non gli sembrasse cosa dura l'arroganza di questo subalterno; pure pazientava, sperando di riuscire con questa negoziazione ad inimicare l'imperatore coi Francesi. Il suo odio contro di loro andava sempre rinforzandosi, e ne diede una prova colle scomuniche fulminate il giorno di Pasqua, leggendo la bolla In cœna Domini. Sebbene le negoziazioni fossero attualmente aperte, vi comprese, indicandoli nominativamente, Alfonso d'Este, Gian Giacopo Trivulzio, ed i magistrati di Milano e delle altre città di Lombardia, che ajutavano il re a percepire le imposte, di cui questo monarca faceva uso contro la Chiesa. Fu compreso, ma implicitamente, lo stesso Lodovico XII tra coloro che avevano posto ostacolo alla giurisdizione ecclesiastica, ed ammesse le opinioni degli scomunicati[117].
Stando alle proteste del vescovo di Gurck, Massimiliano non avrebbe acconsentito di lasciare ai Veneziani Padova e Treviso, unici avanzi di tutto il loro territorio, a meno che non pagassero dugento mila ducati per una prima investitura di queste due città, obbligandosi in appresso ad un annuo tributo di cinquanta mila ducati. I Veneziani, vedendosi dal papa abbandonati, furono costretti di accondiscendere a trattare sulla base di così esorbitanti domande, ed offrirono di pagare in varie rate a lunghi termini i dugento mila ducati. Ottennero una diminuzione dell'annuo censo che loro si domandava; e più non restava altro titolo di contesa che il patriarcato d'Aquilea, che pretendevano di conservare[118], quando il vescovo di Gurck domandò al papa una seconda udienza per trattare egualmente intorno alle differenze del re di Francia e del duca di Ferrara colla santa sede. Gli dichiarò che Lodovico XII, mosso dal più ardente desiderio di fare la pace, era apparecchiato di acconsentire al sagrificio di molti de' più cari interessi della casa d'Este; ma Giulio II non potè soffrire di ascoltarlo più oltre. Egli disse che non alcune concessioni, ma soltanto un intero abbandono poteva renderlo soddisfatto; perciocchè era determinato di esporre senza riserva la sua tiara ed anche la vita per castigare il duca di Ferrara. Soggiunse di non comprendere come mai Massimiliano non approfittava dell'occasione, che gli veniva offerta, di vendicarsi colle armi e col danaro altrui delle ingiurie senza numero ricevute dai Francesi; che tale essere doveva lo scopo di tutti i trattati, ed il prezzo de' sagrificj ch'egli imponeva ai Veneziani per riconciliarli all'impero.
Il vescovo di Gurck disputò alcun tempo intorno a queste proposizioni, ma sentivasi che non le aveva prevedute; in breve conobbe l'impossibilità di conciliare le pretese di Giulio II colle affatto diverse istruzioni che aveva ricevute dal suo padrone. Allora, atterrito dall'impeto del pontefice, dichiarò di voler partire all'istante; ed infatti, appena terminata l'udienza, partì da Bologna il 25 d'aprile alla volta di Modena, amaramente lagnandosi del papa, ed intimando agli ambasciatori di Spagna di far ritirare le trecento lance che il re Cattolico, come sovrano di Napoli, aveva fin allora tenute al servigio della santa sede[119].
Il maresciallo Gian Giacopo Trivulzio era stato raffermato nel comando dell'armata francese in Italia, ma nello stesso tempo aveva avuto ordine di non disturbare le conferenze per la pace. Quando furono rotte per la partenza del vescovo di Gurck, risolse di mostrare il partito che un vecchio capitano poteva tirare dai mezzi che fin allora erano stati trascurati dagl'inesperti e prosontuosi luogotenenti di Lodovico XII. Si mosse in principio di marzo con mille dugento lance e sette mila fanti, e nel primo giorno s'impadronì di Concordia[120]. Non volle egualmente attaccare la Mirandola, onde non mostrarsi soltanto sollecito degli stati tolti a sua figlia; ma, diretto dalla di lui esperienza, Gastone di Foix, duca di Nemours, arrivato all'armata nel precedente anno, fece prigioniero a Massa di Finale Gian Paolo Manfroni, distinto capitano de' Veneziani, che colà si trovava con trecento cavaleggieri[121].
Aveva il papa mandato a Genova Alessandro Fregoso, vescovo di Ventimiglia, per tentare di farvi nascere una ribellione. Questo prelato venne arrestato per la vigilanza del Trivulzio, e fu condotto a Milano, ove confessò tutti gl'intrighi di cui era incaricato[122]. Il Trivulzio risolse di tirarne vendetta. Dopo avere rimontato il Panaro, sempre in vista dell'armata nemica, lo passò finalmente a guazzo tra Spilamberto e Piumaccio, e venne ad acquartierarsi in quest'ultimo villaggio, lontano tre sole miglia dall'armata ecclesiastica. Questa, più non si trovando coperta dal fiume, e non volendo avventurare una battaglia, ritirossi al ponte di Casalecchio dietro al Reno, tre miglia sotto Bologna, in un luogo forte, e reso famoso in principio del precedente secolo da una grande battaglia[123].
Giorgio di Frondsberg, che in appresso acquistossi tanta riputazione nelle guerre d'Italia, aveva raggiunto il Trivulzio con due mila cinquecento landsknecht, che gli conduceva da Verona[124]; il Trivulzio, dopo avere occupato Castelfranco, venne ad appostarsi sulla grande strada tra questa fortezza e la Samoggia, irrisoluto intorno al partito che prenderebbe. Giudicava pericoloso l'attaccare l'armata pontificia nella forte posizione da lei occupata, e credeva ancora meno sicuro il tentare un colpo di mano sopra Bologna, malgrado le istanze dei Bentivoglio, che promettevano di eccitare nello stesso tempo una sollevazione per mezzo de' loro partigiani. Il Trivulzio accordava poca fede alle speranze degli emigrati, di cui il Chaumont aveva di fresco sperimentata la vanità; ma la notizia che Giulio II aveva abbandonata Bologna, troncò tutto ad un tratto le sue irrisoluzioni.
Il coraggio de' preti, siccome quello delle donne, è d'ordinario il risultato dell'ignoranza del pericolo; così poche volte trovasi proporzionato alla circostanza; talvolta sorprende colla sua temerità, e talora si smentisce, quando uno spirito più tranquillo, o meglio istrutto non vedrebbe ragione alcuna di turbarsi. Sentendo Giulio II che il Trivulzio si era mosso, egli partì alla volta della sua armata, onde colla sua presenza persuadere i suoi capitani a venire a battaglia. Il duca di Urbino vi si era fin allora sempre rifiutato, e la ritirata degli Spagnuoli, dopo la rottura delle negoziazioni col vescovo di Gurck, lo teneva fermo in quest'opposizione, malgrado tutte le lettere del papa. Aveva questi intenzione d'alloggiare il primo giorno a Cento; ma fu costretto di trattenersi alla Pieve, perchè mille fanti, che occupavano Cento, non volevano uscirne, se non se gli pagava il loro soldo. Irritato dalla loro ostinazione, tornò all'indomani a Bologna; egli fu colà che nuove particolarità intorno alla marcia del Trivulzio gli inspirarono tutto ad un tratto quella paura, che pareva non avere fin allora conosciuta. Pensò di ritirarsi a Ravenna in sicuro dai pericoli della guerra; ma prima di partire, chiamò presso di sè il senato de' quaranta di Bologna. Fece sentire ai senatori ch'egli era stato quello che gli aveva liberati da dura schiavitù, che loro aveva accordate molte esenzioni, distribuite grazie pubbliche e private, che loro aveva abbandonata la nomina de' loro magistrati e l'amministrazione delle pubbliche entrate, che il legato che loro dava altro non era in Bologna che un monumento dell'alta signoria della Chiesa, perciocchè limitatissimo era il di lui potere, e sempre regolavasi a seconda de' loro consiglj. Che in fatto dopo che Bologna era tornata sotto l'autorità della santa sede, il suo commercio aveva prosperato, le manifatture eransi fatte più attive, e molti dei suoi concittadini avevano ottenute le più sublimi dignità della gerarchia. Che il tempo era venuto di mostrare se sapevano apprezzare così grandi vantaggi, difendendo la città loro con energia contro quest'improvviso attacco. Che dal canto suo non si prenderebbe minor cura della difesa di Bologna, di quello che farebbe della stessa Roma; che aveva dato ordine ai Veneziani di gettare un ponte a Sermidi sul Po, e di venire a raggiugnere la sua armata; che aveva mandato danaro agli Svizzeri per farne scendere dieci mila in Lombardia; che dimandava soltanto ai Bolognesi di dirgli francamente se volevano o non volevano difendere la loro città. Il priore del senato dei quaranta riepilogò nella sua risposta tutte le espressioni di riconoscenza, di fedeltà, di divozione, di coraggio, che gli somministrava lo studio della rettorica; e Giulio II partì senza muovere alcun dubbio intorno alla bella difesa che farebbero i Bolognesi[125].
Sebbene il pontefice fosse scortato dalle trecento lance spagnuole che tornavano nel regno di Napoli, non osò prendere la diritta strada di Ravenna, e passò per Forlì. Giulio II confidava oltremodo nel cardinale di Pavia, cui aveva lasciato il comando di Bologna col titolo di legato. Per altro questo prelato, signore di Castello del Rio, discendente dell'antica famiglia degli Alidosi, ch'era stata sovrana d'Imola, aveva invano domandato a Giulio II di rimettere i suoi nipoti nell'antico loro principato, che da lungo tempo loro era stato tolto, ed i suoi nemici pretesero, che, offeso dai rifiuti di Giulio, avesse fin d'allora segretamente cercato tutti i mezzi di vendicarsi. Di concerto col senato dei quaranta aveva il cardinale di Pavia fatto scelta dei venti capitani della milizia sotto i quali tutta la gioventù di Bologna era stata inscritta; e sia per imprudenza, o sia per infedeltà aveva acconsentito che si prendessero quasi tutti tra i partigiani dei Bentivoglio. La fazione, che richiamava questi antichi signori, e che si rallegrava, vedendoli avvicinarsi nel campo del Trivulzio, erano in allora assecondati dai ricchi proprietarj di terre che temevano che l'armata francese guastasse le loro campagne, dai mercanti che temevano ancora più pei loro magazzini e per le loro botteghe, in ultimo da tutti coloro che senza avere precisamente sofferto sotto Giulio II sentivansi umiliati dal governo de' preti. Costoro non tardarono ad avvedersi d'essere in Bologna il partito più numeroso, e siccome per l'imprudenza del legato trovavansi armati e padroni delle porte, questi non aveva verun mezzo di farli ubbidire[126].
Quando il cardinale si avvide tutto ad un tratto della cattiva disposizione delle milizie, volle far credere che il duca d'Urbino gli avesse dato l'ordine di spedirle a Casalecchio: ma le milizie ricusarono di uscire di città; volle in appresso far entrare mille uomini di fanteria, comandati da Ramazzotto, ma gli stessi capitani delle milizie non vollero ammetterli.
Questa doppia disubbidienza atterrì il cardinale di Pavia, il quale sapeva di avere molti nemici e tra la nobiltà e tra il popolo; e che di fresco aveva fatti ingiustamente perire tre o quattro distinti cittadini. Quando fu notte, uscì travestito dal palazzo per rifugiarsi nella fortezza, e così grandi erano il suo terrore e la sua precipitazione, che dimenticò perfino di prendere il suo danaro ed i suoi giojelli. Li mandò a cercare quando si vide in luogo di sicurezza, ed appena ebbe ricevuta la sua cassetta uscì dalla fortezza per la porta esterna, e si ritirò ad Imola con i cento cavalli che gli erano rimasti per la sua guardia[127].
Quando si seppe in Bologna il 21 di maggio la fuga del legato, Lorenzo Ariosti e Francesco Rinucci, due de' capitani della milizia, conosciuti pel loro attaccamento ai Bentivoglio, attaccamento ch'era divenuto maggiore per via delle persecuzioni sofferte, accorsero alle porte di san Felice e di Lame, le atterrarono a colpi di scure, e le consegnarono ai Bentivoglio, cui il Trivulzio aveva dato cento lance per occuparle.
Il campo del duca d'Urbino stendevasi da Casalecchio fino alla porta chiamata Saragozza. Bentosto si ebbe avviso della fuga del legato e della sollevazione del popolo bolognese; ed un panico terrore s'impadronì all'istante del generale e dei soldati. Il duca d'Urbino ordinò la ritirata, sebbene fosse già notte avanzata; le truppe si posero in marcia con estremo precipizio, abbandonando tutte le loro tende, i loro equipaggi, ed i loro commilitoni, che stavano di guardia sull'opposta riva del fiume, ove non ricevettero verun ordine. I Bolognesi osservavano dalle loro mura questo movimento dell'armata pontificia, ed i Bentivoglio ne diedero avviso al Trivulzio. Il popolo, sempre ardito contro coloro che fuggono, fece un'impetuosa sortita per attaccare i soldati della Chiesa che passavano lungo le mura. Nello stesso tempo i paesani scesero dalle montagne con ispaventose grida per partecipare al saccheggio del campo. L'oscurità che accresce il terrore e diminuisce il sentimento della vergogna, l'impensata rivoluzione de' cittadini e dei contadini, il timore dell'armata francese, diedero bentosto alla ritirata l'aspetto della fuga. Se Raffaello de' Pazzi, che aveva il comando delle truppe lasciate sull'altra riva del Reno non avesse al ponte di Casalecchio opposta ai Francesi una ostinata resistenza, pochi o niun soldato del duca avrebbero potuto salvarsi. All'ultimo la di lui posizione fu forzata, ed egli fatto prigioniere; allora gli uomini d'armi francesi, inseguendo l'armata fuggiasca, raggiunsero bentosto gli equipaggi e ricondussero al loro campo tante bestie da soma cariche di bottino, che chiamarono questa disfatta, ottenuta senza combattere, la giornata degli asini. Vennero in potere dei Francesi ventisei pezzi di cannone, quindici de' quali di grosso calibro, la bandiera del duca d'Urbino e molte altre, parte degli equipaggi dell'armata della Chiesa, e quasi tutti quelli dell'armata veneziana. Furono fatti prigionieri Orsino da Mugnano, Giulio Manfrone e molti altri capitani, e fu dispersa quasi tutta l'infanteria: il solo Ramazzotto, che con un corpo dell'armata veneziana occupava la montagna di san Luca, riuscì, sebbene fosse assai tardi avvisato della disfatta de' suoi compagni d'armi, a condurre a traverso alle montagne le sue truppe fino in Romagna, senza perdere un solo uomo[128].
Quando Giulio II ebbe avviso a Ravenna della presa di Bologna, ne fu oltremodo dolente, perchè attaccava a quella conquista grandissima importanza, risguardandola la più gloriosa impresa del suo pontificato. La condotta del popolo bolognese lo afflisse ancora di più; egli, a dir vero, non vi aveva sparso sangue, nè fatta violenza a veruna persona della nobiltà o del popolo, ma furono riservati a lui solo tutti gli oltraggi: la sua statua colossale di bronzo, lavoro di Michelangelo Buonarotti, ch'era stata innalzata sulla facciata della chiesa di san Petronio fu dal popolo atterrata in mezzo agli insulti ed al disprezzo, ed i Bentivoglio la fusero per formarne un doppio cannone, col quale il quinto giorno dopo la rivoluzione tirarono contro la fortezza[129]. Era questa assai vasta e ben fortificata, ma nel momento del bisogno si trovò sprovveduta di guarnigione, di vittovaglie, ed in particolare di munizioni da guerra, di modo che il vescovo Giulio Vitelli, che ne aveva il comando, fu costretto ad arrendersi dopo una settimana. I Bentivoglio, i quali temevano che il re di Francia mettesse guarnigione nella cittadella, indussero il popolo a spianarla. Il duca di Ferrara, approfittando della ritirata dell'armata pontificia, avea ricuperato Cento, Pieve, Cotignola, Lugo, e le altre piazze della Romagna toltegli dal papa. Il Trivulzio avrebbe pure potuto occupare Imola; ma volle aspettare gli ordini della corte di Francia, prima di spingere più oltre una guerra, che ripugnava alla coscienza del re, e più ancora a quella della regina Anna di Bretagna[130].
Francesco degli Alidosi, vescovo e cardinale di Pavia, e legato di Bologna, poteva essere accusato come cagione di tanto disastro; la di lui amministrazione aveva eccitato l'odio dei Bolognesi contro la Chiesa, la sua imprudenza sollevata la città, e la sua viltà fatto perdere e Bologna e l'armata che doveva difenderla. Tutti gli ufficiali, che si erano sottratti alla disfatta di Casalecchio, rigettavano tutta sopra di lui la vergogna del loro terrore e della loro fuga; ed il duca di Urbino, suo antico nemico, l'accusava più scopertamente degli altri. Dal canto suo il cardinale per giustificarsi accusava il duca d'Urbino di tradire il papa, perchè sua moglie Eleonora Gonzaga era figliuola d'Isabella d'Este, sorella d'Alfonso, che aveva sposato il marchese di Mantova. Il duca, egli diceva, non cercò mai di buona fede di spogliare lo zio della sua sposa; ed infatti lo stesso Fleuranges replica più volte, che il duca d'Urbino era di cuore francese, e che desiderava la pace[131].
L'Alidosi si portò a Ravenna per giustificarsi, e Giulio II, che lo amava, ed a lui ciecamente fidavasi, lo accolse con piacere, e lo invitò a pranzare lo stesso giorno con lui. Infatti mentre tornava a palazzo, scortato da suo cognato Guido Vaina, capitano della sua guardia, fu incontrato dal duca d'Urbino. Questa pompa militare nel momento in cui le disgrazie dell'armata procedevano tutte da lui, accrebbe oltremodo la collera del duca; egli innoltrossi in mezzo ai soldati del legato, che per rispetto gli facevano luogo, e lo pugnalò in sugli occhi di tutti. Quando pochi istanti dopo fu dato avviso al papa di tale violenza, egli si abbandonò a furibonde e disperate grida. Non dolevasi soltanto della morte d'un cardinale, a lui tanto caro, ma ancora dell'offesa recata alla dignità ecclesiastica, cui in tutto il corso del suo pontificato aveva in ogni modo cercato di rendere più venerabile e sacra, e cui adesso vedeva così sfacciatamente oltraggiata sotto i suoi proprj occhi, ed inoltre dal suo proprio nipote. Lo stesso giorno, sempre oppresso dal più angoscioso dolore, ripartì da Ravenna per tornare a Roma[132]; ma era di poco giunto a Rimini, che per colmo di amarezza seppe che in tutti i luoghi pubblici, a Modena, a Bologna ed in molte altre città, si affiggevano cedole di convocazione di tutti i prelati ad un concilio generale in Pisa per il giorno primo di settembre; e che veniva citato egli stesso a recarvisi, affinchè la Chiesa fosse riformata nel suo capo e nelle sue membra[133].
CAPITOLO CVIII.
Amministrazione del gonfaloniere Soderini a Firenze. — Concilio di Pisa; alleanza di Ferdinando il Cattolico con Giulio II e coi Veneziani. — La loro armata combinata s'innoltra verso Bologna. — Gastone di Foix la costringe a retrocedere, e ricupera Brescia che si era ribellata.
1511 = 1512. La maggior parte degli stati italiani erano scomparsi dalla scena del mondo, e quelli che tuttavia conservavano un'ombra d'indipendenza, cercavano salvezza nella propria nullità, mentre tutti i gravissimi interessi della patria si decidevano, bensì in mezzo a loro, ma senza di loro, da quelle potenze la di cui superiorità era tale che sarebbe stato affatto impossibile il volervi far testa. Alle porte dell'Italia il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato non lasciavano di chiamarsi sovrani; ma il re di Francia, diventato duca di Milano ed in pari tempo doge di Genova, li circondava da ogni banda colle sue province; egli faceva continuamente passare per i loro stati le sue armate, si valeva dei loro arsenali, dei loro magazzini, delle stesse loro fortezze, e non credeva omai più necessario di chiedere il loro assenso, o di cercare la loro alleanza ed in tempo di queste guerre, che li ruinavano, questi principi non facevano mai sentire la loro esistenza. Vero è che l'uno e l'altro paese avevano in tale epoca sovrani senza talenti e senza carattere. Guglielmo IX, figlio e successore di Bonifacio V, regnava nel Monferrato. Era salito sul trono nel 1493, in età di soli sette anni, e ne' primi tempi aveva avuta per tutrice sua madre Maria, affatto ligia alla Francia; morta questa, la tutela del giovanetto marchese era passata nelle mani di Costantino Cominate, di lui parente. Quando Guglielmo giunse alla maggiorità, obbligò Costantino ad abbandonare il Monferrato, ed allora quest'uomo intrigante ed accorto si attaccò a Massimiliano ed ebbe una parte attivissima nelle negoziazioni dell'imperatore e del papa. Il giovane marchese per lo contrario non uscì dall'oscurità in cui era stato tenuto fino dall'infanzia: aveva il 31 agosto del 1508 sposata Anna, figlia di Renato, duca d'Alençon, dalla quale ebbe un figlio che gli successe nel 1518, e la figliuola che portò in appresso l'eredità del Monferrato alla casa Gonzaga. Dopo la morte di questa prima moglie, Guglielmo IX sposò Maria, figlia di Gastone IV, conte di Foix. Egli aveva scelta l'una e l'altra sposa tra le signore francesi, come s'egli avesse effettivamente sentito, che, dacchè i possedimenti della Francia lo circondavano da ogni banda, egli più non era un sovrano indipendente, ma soltanto un principe francese.
Nello stesso tempo, e dopo il 1504, Carlo III era succeduto nelle signorie della Savoja e del Piemonte a suo fratello, Filiberto II figlio di Filippo, lungo tempo conosciuto sotto il nome di conte di Bresse. Quando era salito sul trono, aveva trovata la maggior parte de' suoi stati obbligati per gli appannaggi di tre vedove duchesse; onde gli restavano scarsissime entrate e poca autorità. Egli non oltrepassava i diciotto anni, era di carattere debole e tutte le altre sue facoltà non uscivano dall'ordinario. Non era sperabile, che da sè ricuperasse quell'importanza, che gli avvenimenti anteriori al suo regno avevano tolti alla di lui corona. Quindi, finchè potè vivere ignorato ed ozioso nella dipendenza della Francia, preferì alla gloria militare questa tranquilla oscurità. Ma gli avvenimenti della guerra lo chiamarono suo malgrado a figurare tra i sovrani; e fu costretto a scegliere tra due potentati nemici, che trasportarono ne' suoi stati il teatro delle loro battaglie. La sua indecisione fu causa che allora perdesse tutti i suoi stati; ma le sue lunghe calamità non cominciarono che dopo i tempi in cui propriamente perì l'indipendenza d'Italia[134].
Il duca di Ferrara ed il marchese di Mantova, dopo avere con imprudente ambizione preso parte nella lega di Cambrai, avevano perduto, il primo la libertà, l'altro la metà de' suoi stati. Per altro Gian Francesco Gonzaga era riuscito in mezzo al turbine a rientrare nella mal abbandonata neutralità. Per lo contrario Alfonso d'Este sosteneva il più grande sforzo della guerra; pareva che la sorte dell'Italia dipendesse interamente da quella de' suoi stati, tanto era l'accanimento con cui lo trattavano il papa ed i Veneziani. I regni di Napoli e di Sicilia più non appartenevano agl'Italiani; tutti i principi, tutte le repubbliche, che così lungamente avevano conservata l'indipendenza nello stato della Chiesa, erano state spogliate della loro sovranità da Alessandro VI o da Giulio II; quelli che tuttavia conservavano qualche autorità erano scesi al rango di feudatarj ubbidienti e timorosi innanzi al loro abituale signore: ed il duca d'Urbino, generale e nipote del papa, che solo tra tutti sembrava essere stato fin allora risparmiato, era incorso per la morte del cardinale di Pavia in una sentenza di deposizione, che veramente non ebbe mai esecuzione, anzi venne rivocata dopo cinque mesi[135].
In tutta l'Italia omai non restavano altri stati indipendenti, oltre Venezia, la Chiesa, e quelli che abbiamo or ora ricordati, che le tre repubbliche di Toscana, Firenze, Siena e Lucca, tutte tre neutrali e spettatrici inquiete d'una guerra cui erano attaccati i destini della loro contrada; tutte tre si stavano immobili e bramose di far dimenticare colla presente nullità l'attività passata, onde non fossero istigate ad associarsi a qualcuna delle potenze belligeranti. Da lungo tempo Lucca e Siena avevano per la debolezza loro adottato questo sistema. Era più nuovo per Firenze, la quale erasi tanto lungamente risguardata come il centro di tutte le negoziazioni d'Italia: ma senza molti anni di riposo non poteva questa repubblica rifarsi dallo spossamento in cui l'avevano gettata la guerra accesa da Carlo VIII, e la ribellione di Pisa. Il gonfaloniere, Pietro Soderini, il 22 dicembre 1510, rendendo conto della sua amministrazione al gran consiglio, assoggettò all'esame de' suoi concittadini gli stati delle esazioni e delle spese di otto anni, che ammontavano a 908,300 fiorini d'oro, ossia a 10,899,600 franchi; e sebbene questa somma, avuto riguardo al valore del danaro in quell'epoca, fosse ragguardevole, dimostra una grandissima diminuzione delle ricchezze della repubblica, ove si paragoni a ciò che Firenze poteva spendere, senza grave incomodo nelle guerre coi signori della Scala, o co' Visconti[136].
All'indomani dello stesso giorno, in cui il gonfaloniere aveva dato all'Italia il nuovo esempio di chiamare il pubblico ad esaminare la sua contabilità, si scoprì in Firenze una congiura contro di lui tramata per assassinarlo. Si era questa formata in Bologna alla corte del papa, e l'implacabile odio di Giulio II contro chiunque ardiva opporsi alle sue volontà, le aveva dato cominciamento. Non poteva Giulio perdonare al Soderini la sua parzialità verso la Francia: gli è vero che lo vedeva mantenere la sua repubblica nella neutralità, ma lo aveva però sospetto a cagione delle segrete offerte di Lodovico XII e temeva che la repubblica fosse inclinata a dichiararsi contro di lui in una critica circostanza. Il Soderini lo aveva particolarmente offeso accordando salvacondotto ed asilo in Firenze a cinque cardinali che attraversavano la Toscana. Questi prelati eransi spaventati a cagione della morte d'uno de' loro colleghi in Ancona, ed avevano ricusato di raggiugnere il papa a Bologna. Sdegnavasi Giulio II, o di essere sospettato autore della morte del cardinale, o di vedere sottratti alla sua vendetta coloro ch'egli voleva perdere. I cinque cardinali di santa Croce, Cosenza, Bayeux, san Malò e Sanseverino, che, partendo da Firenze presero la strada di Milano, si posero subito nel clero alla testa della fazione contraria a Giulio II, ed abbracciarono tutti gl'interessi della Francia[137].
Giulio II, confondendo nella sua collera il Soderini con Lodovico XII e coi cardinali ribelli alla sua autorità, pensò di spogliarlo d'ogni potere e di cambiare il governo di Firenze. Prinzivalle della Stufa, cittadino fiorentino, dell'età di venticinque anni, figlio di uno zelante partigiano dei Medici, trovavasi in allora a Bologna: egli era abbastanza destro e coraggioso per eseguire le più difficili imprese, e si offrì spontaneamente a servire la collera del papa uccidendo il gonfaloniere. Marc'Antonio Colonna promise di trovargli dieci uomini scelti per assecondarlo, e Prinzivalle partì alla volta di Firenze onde associare al suo attentato alcuni nobili fiorentini. Parlò dapprima a Filippo Strozzi, che aveva sposata una sorella dei Medici, e ch'egli perciò credeva affezionatissimo a quella famiglia; ma lo Strozzi rispose di avere dichiarato ai suoi cognati che tosto rimanderebbe loro la sorella, qualora gli facessero parlare di politica; non volle pure promettere di tenere segreta la confidenza che gli era stata fatta; e Prinzivalle, dopo avere cercato invano d'intimorirlo, fuggì subito a Siena, onde salvarsi dalle indagini de' decemviri, ai quali lo Strozzi lo aveva denunciato. Fu in sua vece tratto in giudizio suo padre, Luigi della Stufa, e rilegato per cinque anni nel vicariato di Certaldo, sebbene non fosse altrimenti provata la sua complicità[138].
Intanto essendosi il 29 dicembre adunato il gran consiglio per eleggere i gonfalonieri delle compagnie, alzossi Piero Soderini, ed informò i suoi concittadini della congiura scopertasi contro di lui. I congiurati, egli disse, avevano trovato difficile l'ucciderlo nel suo appartamento nel pubblico palazzo, pericoloso l'assalirlo in pieno consiglio, e, siccome egli non usciva giammai che colla signoria in occasione delle pubbliche cerimonie, si erano veduti forzati ad aspettare una di queste solennità. La scoperta della loro congiura costringerebbe bensì i nemici a mutare i loro progetti, ma non perciò lusingavasi egli che la sua vita venisse ad essere così posta in sicuro, essendo già per lui apparecchiato il veleno. Egli non affettò nè un coraggio nè un'indifferenza ai quali non era stato predisposto dalla passata sua vita: altamente convinto del proprio pericolo, non vi si rassegnò che con dolore, ed il suo discorso venne spesso interrotto dalle lagrime. Pure lo confortava il testimonio della propria coscienza, di non avere mai meritato l'odio de' suoi concittadini, nè i pugnali da cui vedevasi circondato; e invocò sulla propria condotta il giudizio di tutti i Fiorentini che avevano con lui seduto nella signoria. Più di trecento cittadini erano stati priori durante gli otto anni ne' quali egli era stato capo dello stato: gli scongiurò di dire, se giammai erasi egli proposto altro scopo che il bene della comune loro patria, se giammai aveva seguite private viste, o personali interessi, se aveva mai raccomandato qualche individuo al podestà, ai tribunali, ai corpi di mestieri, per sottrarlo al rigore delle leggi. Non volle per sè chiedere veruna guardia, nè adoperare per la sua difesa che quella stessa dignità di cui il popolo lo aveva rivestito; ma invitò i consiglj a prendersi cura della difesa dello stato popolare, piuttosto che di quella della sua persona. Egli non era già lo scopo principale degli attentati de' nemici, bensì lo erano la libertà, l'eguaglianza, e quello stesso consiglio per via del quale tutti i Fiorentini partecipavano all'amministrazione della repubblica. I partigiani dell'oligarchia miravano a chiudere il gran consiglio; e la sua morte, per la quale avevano cospirato, altro non doveva essere che il segnale di quella più importante rivoluzione ch'essi meditavano[139].
Effettivamente il gran consiglio risguardò l'attentato contro la vita del Soderini, come l'indizio di un progetto tendente a rovesciare lo stato popolare; e perchè il partito vincitore aveva sempre trovato facile di sanzionare una rivoluzione in Firenze coll'adunare un parlamento, il consiglio volle privare i faziosi di questa dannosa facilità, quando ancora riuscissero ne' loro criminosi progetti. Il 20 gennajo del 1511 proclamò una legge, nella quale previde il caso in cui i cospiratori privassero la repubblica del suo gonfaloniere, de' suoi priori, de' suoi colleghi, oppure distruggessero le borse destinate all'estrazione della magistratura, talchè l'autorità delegata dal popolo sembrasse sospesa; volle in tal caso, che, invece di adunare un parlamento, che mai non delibererebbe individualmente e liberamente, fosse al medesimo gran consiglio, o alla parte di questo consiglio che potrebbe adunarsi, devoluto il diritto di formare il nuovo governo della repubblica[140].
Circa lo stesso tempo andava a terminare la tregua convenuta in aprile del 1506 tra Pandolfo Petrucci ed i Sienesi; dessa era stata protratta due anni, mentre ancora durava la guerra di Pisa, ed i Fiorentini avevano acconsentito a non riclamare per tutto quel tempo i loro diritti sopra Montepulciano. Ma oramai niuna ragione giustificava una simile accondiscendenza. Lodovico XII, che bramava di valersi dei Fiorentini contro il papa, loro prometteva potenti soccorsi, e faceva loro sperare l'acquisto non solo di Montepulciano, ma della stessa Siena. Per approfittare del favore del re, il gonfaloniere spedì il Macchiavelli a Siena, incaricandolo di denunciare a questa repubblica la cessazione della tregua, dichiarando in pari tempo, che Firenze non sarebbe mai per rinnovarla, se non venivano restituiti Montepulciano ed il suo territorio. Intanto il gonfaloniere mandò ai confini gli uomini d'armi che teneva nello stato di Pisa[141].
Come i Fiorentini si affidavano alla protezione della Francia, così i Sienesi speravano in quella di Giulio II. Pandolfo Petrucci, che disponeva a voglia sua di questa repubblica, nulla aveva dimenticato per procacciarsi il favore del vecchio pontefice; aveva di fresco riacquistato ed a lui offerto in dono il castello della Suvera, principal luogo e residenza degli antichi conti di Ghiandaroni, nello stato di Siena. Nello stesso tempo la balìa aveva riconosciuto in Giulio II un discendente di quell'estinta famiglia, che portava come lui lo stemma della quercia; ma la loro agnazione non poteva quasi provarsi con altro, che con quella della ghianda della Rovere colle ghiande dei Ghiandaroni. Il papa, che ardentemente desiderava di procacciare lustro alla propria famiglia plebea ed oscura, accolse questo dono con vivissimo piacere; d'allora in poi non ommise di comprendere Siena in tutte le sue alleanze; accordò il cappello di cardinale ad Alfonso, figlio di Pandolfo Petrucci, e si dichiarò il difensore di tutti gl'interessi di quello stato[142].
Non perciò poteva Giulio incoraggiare i Sienesi ad entrare in guerra pel possedimento di Montepulciano. Quanto Lodovico XII desiderava questa guerra per volgere tutte le forze dei Fiorentini contro la Chiesa, altrettanto la temeva il pontefice, perchè apriva un più vasto confine agli attacchi de' Francesi; onde avrebbe dovuto misurarsi con loro non solo nella Romagna, ma ancora in Toscana. Mandò dunque ai Sienesi Giovanni Vitelli e Guido Vaina, per proteggerli, con alcune compagnie d'uomini d'armi e di cavaleggieri; ma in pari tempo si offerse mediatore tra le due repubbliche. Fece sentire a Pandolfo l'estremo pericolo d'introdurre i Francesi in Toscana; ottenne dai Fiorentini un perdono senza eccezione pei ribelli di Montepulciano e la restituzione di tutti i loro privilegj; il 3 di settembre del 1511 fece finalmente soscrivere un trattato d'alleanza tra le due repubbliche per venticinque anni, in forza del quale Montepulciano fu restituito con tutto il suo territorio ai Fiorentini, che dal canto loro si obbligarono a guarentire tutti gli altri possedimenti della repubblica di Siena, ed a mantenervi l'autorità di Pandolfo Petrucci e de' suoi figli[143].
Non perchè avesse adottate più pacifiche disposizioni, ma tutt'al contrario per tener dietro con minori impedimenti ai bellicosi suoi progetti di cacciare, secondo soleva egli ripetere, i barbari dall'Italia, erasi il papa fatto mediatore tra le due repubbliche toscane. La vittoria de' Francesi sotto le mura di Bologna, e la totale dispersione della sua armata, avevano lasciato il papa a discrezione del re di Francia, il quale avrebbe potuto senza trovare ostacolo spingere le sue armate fino a Roma, e colà dettare la pace a Giulio II. Ma Lodovico XII, in mezzo ai suoi prosperi avvenimenti, non lasciava di essere agitato dagli scrupoli di fare la guerra alla Chiesa. Appena ebbe avviso della disfatta dell'armata pontificia, che ordinò a Gian Giacopo Trivulzio di ricondurre le truppe nel Milanese; vietò ogni pubblica dimostrazione di gioja per vittorie di cui si vergognava; e dichiarò, che, sebbene non credesse d'aver commesso errori, era pronto, per ottenere la pace, ad umiliarsi ed a chiedere perdono alla santa sede[144].
Per lo contrario il papa, conoscendo la debolezza del re, non rinunciava alle sue prime domande, e pareva che nelle sue perdite trovasse motivi di accrescere la sua arroganza. Un vescovo Scozzese, ambasciatore del suo re in Roma, aveva offerta la sua mediazione e riaperte le negoziazioni abbandonate dal vescovo di Gurck. Giulio II gli comunicò le sue pretese. Chiedeva che il duca di Ferrara rinunciasse a tutto quanto aveva ricevuto pel suo matrimonio con Lugrezia Borgia; che pagasse alla camera apostolica l'antico tributo; che restituisse Lugo e tutta la Romagna Ferrarese, e ricevesse in Ferrara un visdomino pontificio, invece del visdomino veneziano che vi avea ricevuto in addietro. Lodovico era disposto ad accettare queste condizioni, sebbene gli sembrassero dure; ma in questo tempo Gian Giacopo Trivulzio, dopo avere rioccupata la Mirandola, aveva licenziata la sua armata, ad eccezione di cinquecento lance e di mille trecento fanti tedeschi che aveva mandati a Verona. Quando il papa ebbe di ciò avviso, trovandosi liberato dal timore di quell'armata vittoriosa, mutò linguaggio, e mise in campo nuove condizioni, affatto inammissibili, oltre le già proposte. Voleva che la pace tra Massimiliano ed i Veneziani si conchiudesse nello stesso tempo che la sua colla Francia; che Alfonso d'Este gli pagasse tutte le spese della guerra; e che i Bentivoglio ed i Bolognesi ribellati fossero abbandonati alla sua vendetta. Questi ultimi avevano di già cercato di placarlo, offrendo alla camera apostolica il tributo che pagavano i loro padri ed i loro antenati, e richiamando in palazzo, come luogotenente del papa, il vescovo di Chiusi, prima loro prigioniere. Ma Giulio II aveva corrisposto colle censure alla loro sommissione, ed aveva incaricati due suoi capitani, Marc'Antonio Colonna e Ramazzotto, di guastare senza pietà il territorio bolognese[145].
Lodovico XII aveva sperato che la domanda del concilio, fatta dal clero di Francia, riuscirebbe molesta ad un papa, la di cui elezione era stata così poco canonica, ed il di cui guerriero carattere era cagione di continuo scandalo. Aveva persuaso Massimiliano a concorrere alla convocazione del concilio, e tutti e due avevano invano eccitato Ferdinando ad unirsi a loro. Eransi in appresso rivolti al papa, per intimargli di dare esecuzione al canone del concilio di Costanza, che ordinava la tenuta di un concilio ecumenico ogni dieci anni: gli avevano ricordato il suo proprio giuramento all'atto della sua consacrazione, col quale erasi obbligato sotto pena di spergiuro e di anatema ad adunare, prima che spirassero due anni, un concilio universale. Finalmente lo avvisavano che il conclave da cui era stato eletto, avendo pronunciato che i due terzi dei cardinali avevano il diritto di convocare il concilio, se il papa non lo faceva, essi erano determinati, dietro la sua negativa, di rivolgersi a questi[146].
Tale domanda presentata al papa altro non era che una vana formalità: nè l'imperatore, nè il re di Francia avevano sperato ch'egli se ne farebbe carico; essi pensavano di convocare il concilio di propria loro autorità, o con quella de' cardinali che avevano abbandonato Giulio e si erano ritirati a Milano. Ma li trattenne alcun tempo la scelta della città in cui adunarlo; Massimiliano stava per Costanza, Lodovico XII per Lione, ed i prelati Italiani non volevano uscire d'Italia. I due monarchi risolsero di compiacerli; e, coll'assenso de' Fiorentini, scelsero Pisa, dove un secolo prima, quasi nelle stesse circostanze, era stato tenuto un altro concilio. La vicinanza di Roma, la facilità di andarvi per la via del mare, e la protezione di un governo neutrale, parevano dover togliere al papa ogni pretesto di ricusare d'intervenirvi co' suoi prelati.
Gli ambasciatori dell'imperatore e del re di Francia proposero, il 16 maggio, ai cardinali rifugiati a Milano di convocare a Pisa un concilio ecumenico; questi sotto certe condizioni, tendenti ad assicurare la libertà dell'assemblea, acconsentirono all'inchiesta, e pubblicarono le loro lettere di convocazione pel primo di settembre. Altre ne aveva pubblicate Massimiliano in proprio nome, nella sua qualità di avvocato e di protettore della Chiesa, fin dal 16 di gennajo, ed altre ancora in data del 15 febbrajo Lodovico XII, esortando i vescovi francesi e tedeschi a recarsi a Pisa[147].
Ma per quanto fossero grandi l'autorità dei due monarchi, la sommissione del loro clero, e lo scontento generale della Chiesa, Giulio II nulla arrischiava in questa contesa; ed egli lo vedeva; infatti opponeva l'ardire e l'impeto del suo carattere ai risguardi ed agli scrupoli de' suoi avversarj, che colle loro medesime apologie, col mostrare avido desiderio di entrare in negoziazioni, sembravano confessare di non essere assistiti dalla giustizia. Giulio II, per togliere loro qualunque pretesto, convocò egli stesso con una bolla del 18 luglio un concilio in san Giovanni di Laterano pel 19 aprile del 1512. Pubblicò nello stesso tempo un monitorio contro i cardinali ribelli, per privarli del cardinalato e di tutti i loro beneficj ecclesiastici, qualora entro sessanta giorni non si presentassero a lui per giustificarsi[148].
Gli apparecchj per due concilj vennero tutt'ad un tratto sospesi a cagione della malattia del papa, il quale, essendosi trovato male il 17 di agosto, fu dopo quattro giorni ridotto all'estremo. Cadde in un deliquio che durò più ore; tutti coloro che lo assistevano lo tennero per morto; se ne sparse la voce in città; vennero ovunque spediti corrieri per portarne la notizia; ed i cardinali assenti da Roma, senza eccettuare quelli che avevano convocato il concilio di Pisa, si affrettarono di porsi in cammino per ritornarvi. Frattanto Giulio II, rinvenuto dalla sua letargia, volle ordinare gli affari di sua famiglia, che poteva da un secondo attacco simile essere improvvisamente privata del suo capo. All'indomani adunò un concistoro, nel quale accordò al duca d'Urbino, suo nipote, la grazia per l'omicidio del cardinale di Pavia, rimettendolo nel godimento di tutti i feudi ricevuti dalla Chiesa. Nello stesso tempo pubblicò una bolla intorno all'elezione del nuovo papa, per prevenire o punire colle più severe pene una simonia simile a quella di cui egli stesso erasi renduto colpevole, quando aveva ottenuta la tiara[149].
In pochi giorni Giulio si trovò sano come per lo innanzi, sebbene continuasse a non curarsi de' consigli de' medici, ed a tenere un regime di vita direttamente opposto a quello ch'essi gli prescrivevano. Colle forze andò pure ricuperando il suo ardore guerriero, e sempre più si confermò nel favorito suo progetto di cacciare i barbari d'Italia. Le lagnanze e le miserie dei popoli, oppressi dagli oltremontani, avrebbero somministrati a Giulio i più giusti motivi per quest'impresa, se le sue forze fossero state proporzionate alla lotta in cui voleva entrare.
Frattanto la campagna di quest'anno non aveva prodotto verun'azione clamorosa. Massimiliano, sempre consentaneo a sè medesimo, si andava perdendo in vasti progetti che non era capace d'eseguire. Sebbene i Veneziani fossero assai snervati, non aveva potuto approfittare della diversione fatta dalla Francia per spingere con vigore la guerra contro di loro. Vero è che guastava il territorio friulano, e spargeva la più spaventosa desolazione in quelle contrade; ma, lungi dal conquistare Treviso o Padova, cui non aveva mai voluto rinunciare, non avrebbe pure conservata Verona, senza la guarnigione francese mandata in questa piazza da Lodovico XII. L'imperatore erasi recato ad Inspruck, e si proponeva ancora di marciare colla sua armata fino a Roma, per ristabilire l'impero germanico in tutte le prerogative possedute ai tempi di Carlo Magno o di Ottone il grande; ma le truppe dell'impero, sulle quali egli faceva sempre fondamento, non arrivavano mai, e le proprie non bastavano per tener testa alla repubblica di Venezia. Così passava rapidamente da una smisurata ambizione allo scoraggiamento, e mai non mantenevasi con costanza nell'una o nell'altra disposizione. Talvolta dava orecchio alle proposizioni che gli venivano fatte da Ferdinando il Cattolico, di riconciliarsi coi Veneziani e colla Chiesa, e di attaccare di concerto i Francesi. In uno de' suoi accessi di scoraggiamento, invitò pure i Veneziani a mandargli un inviato per trattare con lui. Il senato fece subito partire alla volta d'Inspruck Antonio Giustiniani, e fece fare in ogni chiesa preghiere pel felice successo della sua missione; ma Massimiliano aveva prima del suo arrivo mutato parere. Ridusse a soli otto giorni il salvacondotto del Giustiniani, e rigettò tutte le proposizioni che gli recava[150]. Non erano ignote a Lodovico XII queste di lui irrisoluzioni, e sapeva che questo alleato, ch'egli pagava, e pel quale doveva combattere, era sempre in procinto di passare nelle file dei suoi nemici[151].
Dal canto suo Giulio II appena degnavasi di contare Massimiliano tra i suoi nemici, sebbene lo avesse veduto prendere parte alla convocazione del concilio; egli fondava le sue speranze nel re d'Arragona, in quello d'Inghilterra e negli Svizzeri, e di già le sue negoziazioni presso queste tre potenze prendevano il più favorevole aspetto. La constante politica di Ferdinando il Cattolico era quella di coprire la propria ambizione colla maschera della religione; onde dacchè il papa erasi dichiarato alleato dei Veneziani, non avea cessato mai di dare a Lodovico XII ipocriti consiglj intorno all'empietà di far guerra al capo della Chiesa. Fino a tale epoca erasi egli occupato intorno alle sue conquiste nell'Africa; il suo generale, Pietro Navarra, gli aveva sottomesse Orano e Bugia; i re di Algeri e di Tremisene si erano dichiarati suoi feudatarj, e pareva che un nuovo impero spagnuolo fosse vicino a stabilirsi al di là dello stretto di Gibilterra[152]. Ma quand'ebbe notizia della disfatta di Bologna, richiamò dall'Africa Pietro Navarra, e lo mandò nel regno di Napoli con tre mila de' suoi migliori fanti spagnuoli, per non lasciare questo regno in balìa di un monarca vittorioso, che vi aveva dei diritti.
Enrico VIII d'Inghilterra, cedendo alle istanze di Giulio II, aveva acconsentito a fare di concerto con Ferdinando calde rimostranze a Lodovico XII intorno allo scisma ch'egli andava a suscitare nella Chiesa, gli aveva domandato pel bene della cristianità di mandare i cardinali ed i prelati del suo regno al concilio di Laterano, e di permettere alla Chiesa di ricuperare la sua città di Bologna. Gonfio d'orgoglio, e fidando nelle immense ricchezze lasciategli da suo padre, egli credevasi l'arbitro dell'Europa, e risguardava tutte le istanze fattegli da questi monarchi, quali omaggi dovuti al suo potere ed ai suoi talenti.
Per altro il papa riponeva negli Svizzeri le principali sue speranze; e l'imprudenza di Lodovico XII lo aveva ancora meglio servito che le proprie negoziazioni. Questo monarca in un movimento d'orgoglio aveva di nuovo ricusato di riconciliarsi cogli Svizzeri e di accrescere le loro pensioni. Aveva giurato di non lasciarsi taglieggiare da paesani, ed aveva proibita l'esportazione delle granaglie dalla Francia e dalla Lombardia ne' paesi Svizzeri. Aveva creduto di ridurli colla carestia a ricevere da lui la legge, ed invece, esasperandoli, gli aveva precipitati nell'alleanza del papa e de' Veneziani[153].
Finalmente i progetti di Giulio II cominciavano a prendere migliore consistenza; ed i nemici, che andava suscitando alla Francia, incoraggiati dalla loro unione, affettavano verso di lei un più minaccioso contegno. Gli ambasciatori d'Inghilterra e d'Arragona fecero unitamente nuove rappresentanze a Lodovico XII rispetto alla protezione da lui accordata al concilio di Pisa ed ai Bentivoglio; il re rispose loro di essere apparecchiato a desistere, purchè i cardinali del suo partito fossero di nuovo rimessi dal papa nella sua grazia, ed i Bentivoglio venissero conservati nella stessa subordinazione feudale, in cui da circa un secolo erano stati tenuti i loro antenati; ma non volendo gli ambasciatori ammettere queste basi di negoziazioni, all'ultimo Lodovico XII dichiarò loro, che non poteva senza scapito dell'onor suo abbandonare la protezione di Bologna, non altrimenti che quella della sua propria città di Parigi[154].
Tosto che seppesi in Roma la risposta di Lodovico XII, il giorno 5 di ottobre si pubblicò solennemente nella chiesa di santa Maria del popolo una confederazione tra il papa, il re cattolico ed il senato di Venezia. Dichiaravano i confederati che gli oggetti della loro alleanza erano: l'unione della Chiesa, minacciata d'uno scisma dal conciliabolo di Pisa; la restituzione alla santa sede di Bologna e di ogni altro feudo, che mediatamente o immediatamente poteva appartenerle, volendo indicare con queste parole lo stato di Ferrara; per ultimo la cacciata dall'Italia con una potente armata di chiunque s'opporrebbe a questo doppio oggetto, vale a dire del re di Francia. Per formare quest'armata il papa prometteva quattrocento uomini d'armi, cinquecento cavaleggieri e sei mila fanti; la repubblica di Venezia ottocento uomini d'armi, mille cavaleggieri ed otto mila fanti; il re d'Arragona mille dugento uomini d'armi, mille cavaleggieri, e dieci mila fanti spagnuoli. Ma ritenendosi il contingente dell'ultimo come sproporzionato alle sue finanze, il papa ed il senato si obbligavano a pagargli ciascheduno venti mila ducati al mese, finchè durerebbe la guerra. L'armata della lega doveva essere comandata da don Raimondo di Cardone, Catalano, vicerè di Napoli. Una flotta, di dodici vascelli catalani e di quattordici veneziani, doveva nello stesso tempo portare la guerra sulle coste della Francia. Tutti quei paesi conquistati dai confederati, che in addietro avessero appartenuto ai Veneziani, dovevano essere loro restituiti. L'imperatore ed il re d'Inghilterra potevano, ove lo desiderassero, essere ricevuti in quest'alleanza. Il papa aveva stipulata questa riserva a favore del primo colla fortuita speranza di staccarlo dalla Francia; ed il cardinale di Yorck, ambasciatore del secondo, ed uno de' negoziatori della lega, non avendo ancora ricevute le opportune istruzioni per sottoscrivere, aveva domandata la stessa riserva pel suo padrone[155].
Fatta quest'alleanza, Giulio II trattò con maggior rigore i prelati disubbidienti. Passato il termine del monitorio, il 24 ottobre dichiarò in concistoro decaduti dalla loro dignità, e soggetti a tutte le pene dalla chiesa inflitte agli eretici ed agli scismatici, i cardinali di santa Croce, di san Malò, di Cosenza, di Bayeux. Pubblicò poi un altro monitorio contro il cardinale di Sanseverino, che aveva risparmiato fin allora, e fulminò l'interdetto e le scomuniche contro i Fiorentini, che avevano permessa ne' loro stati l'adunanza di un conciliabolo scismatico[156].
Il concilio che tanto irritava il papa, era stato convocato per il primo giorno di settembre; ma a tale epoca non eransi presentati a Pisa che un commissario dell'imperatore, uno del re di Francia ed un ecclesiastico, a nome di alcuni prelati ed abati. Questi tre personaggi chiesero la licenza de' magistrati fiorentini, i quali dichiararono di avere ordine di non prendere parte nelle loro operazioni. In appresso i commissarj si recarono alla chiesa cattedrale, ove fecero cantare la messa dello Spirito Santo e le litanie per l'apertura del concilio; immediatamente dopo la quale ceremonia tutti i preti italiani, che si trovavano a Pisa, si ritirarono dalla città per non trovarsi avvolti nell'interdetto fulminato dal papa contro tutti i luoghi in cui si adunerebbe il concilio[157].
I Fiorentini avevano accordata la loro città di Pisa per la celebrazione del concilio, persuasi che, procedendo d'accordo il re di Francia e l'imperatore di Germania, l'assemblea de' vescovi di queste due nazioni sarebbe abbastanza numerosa per inspirare rispetto alla Cristianità e timore al papa. Si trovarono però assai sconcertati, quando videro che il concilio cominciava con tre sole persone, tanto più quando seppero che non si era posto in cammino un solo prelato tedesco, e che i ventiquattro vescovi francesi, che per ordine del re avevano abbandonato le loro diocesi, procedevano assai lentamente e con estrema ripugnanza. Nè il clero italiano si pronunciava anticipatamente contro il concilio con minor forza; di modo che vedevasi impossibile che un'assemblea aperta con tali auspicj acquistasse giammai qualche credito. D'altra parte le censure del papa, le minacce di confisca, la nomina del cardinale dei Medici alle legazioni di Perugia e di Bologna, inspiravano un altissimo terrore alla repubblica. I decemviri della libertà e della balìa il 10 dicembre spedirono il Macchiavelli ai cardinali, che si erano trattenuti a san Donnino, ed al re di Francia, per dissuaderli dal tenere il concilio in Pisa, e persuaderli a trasferirlo in altra città, se non riputavano cosa ancora più conveniente lo scioglierlo e rappacificarsi col papa[158].
Ma il Macchiavelli altro non potè ottenere dal re, che di trasferire il concilio in un'altra città, dopo che avrebbe tenute a Pisa le prime due o tre sessioni. I quattro cardinali non osavano avventurarsi a Pisa senza la protezione di una guarnigione francese; ed i Fiorentini si mostravano difficili a riceverla. All'ultimo i cardinali arrivarono a Pisa con alcuni prelati il primo giorno di novembre. Vollero adunarsi nella cattedrale, ma il popolo ammutinato non vi acconsentì. Recaronsi successivamente ad alcune altre chiese, che furono loro similmente chiuse; finalmente si stabilirono a stento nella chiesa di san Michele per cantarvi la prima messa[159].
I cardinali ed i prelati francesi erano giunti a Pisa protetti da una guardia di cinquanta arcieri, comandati da Odetto di Foix, signore di Lautrec, e da Chatillon; ma, sebbene questa guardia fosse un oggetto di gelosia pei Fiorentini, non era però sufficiente a far rispettare i prelati in Pisa, nè a porli in salvo da un insulto per parte di Roma. Il clero italiano mostrava per loro una smisurata avversione, ricusando loro tutti gli arredi delle chiese, onde non li profanassero; ed il popolo gl'insultava per le strade con amare invettive. Essi medesimi operavano contro la propria coscienza, per quella deferenza verso l'autorità reale che fu così frequentemente la sola conseguenza delle libertà riclamate dalla chiesa gallicana contro la santa sede. Essi desideravano che loro si offrisse qualche motivo di abbandonare una città, ove trovavansi così a disagio, ed approfittarono di un'occasione che male si conveniva alla dignità della loro assemblea. Essendo nata contesa il 13 di novembre tra i loro servitori ed alcuni giovani pisani a cagione di certe prostitute, gli arcieri accorsero in ajuto dei primi, e tutto il popolo in ajuto de' giovani pisani: Lautrec e Chatillon furono feriti nella mischia mentre cercavano di separarli, e, sebbene per le cure loro e degli ufficiali fiorentini si calmasse il tumulto, all'indomani i cardinali abbandonarono Pisa, dopo avere intimata la loro riunione a Milano[160].
La fuga da Pisa de' padri del concilio ammansò alquanto Giulio II contro il gonfaloniere Soderini, e rallentò l'esecuzione de' progetti che formati aveva per levargli la suprema magistratura della repubblica; tanto più che Pandolfo Petrucci gli rappresentò, che, attaccandolo a forz'aperta, avrebbe messe a disposizione della Francia tutte le forze dei Fiorentini, che di presente altro non chiedevano che la neutralità. Giulio, senza portare la guerra nello stato fiorentino, lasciò che avessero libero corso le pratiche del cardinale de' Medici, che egli aveva ravvicinato ai confini della repubblica confidandogli le legazioni di Perugia e di Bologna[161].
Durante la sua amministrazione il gonfaloniere Soderini aveva perduti alcuni suoi partigiani, e si erano accresciuti quelli de' Medici in tempo del loro esilio; o fosse a motivo della naturale disposizione dei popoli di desiderare il tempo passato, che hanno veduto colle illusioni della gioventù, e di perdere più facilmente la memoria de' mali che quella de' beni, sebbene sentano i primi con maggiore vivacità quando sono presenti; o fosse perchè la prudenza del gonfaloniere accompagnata alle volte della debolezza, eccitando l'invidia senza temperarla col timore; o fosse finalmente perchè il cardinale de' Medici aveva ottenuto con molta accortezza e prudenza di cancellare l'animosità eccitata da suo fratello Piero. Egli erasi in ogni occasione mostrato in Roma il protettore de' Fiorentini, manifestando la stessa benevolenza verso coloro che avevano operato contro la sua famiglia, come verso quelli che le si erano mantenuti attaccatissimi. Ascriveva la nimicizia de' primi agli sgraziati errori di suo fratello, e voleva che la memoria loro rimanesse spenta colla di lui morte[162].
Il gonfaloniere, che vedeva avvicinarsi il turbine, non voleva in verun modo, per mettere la repubblica in istato di difesa, chiedere al popolo nuove contribuzioni, onde non fare maggiore il malcontento di lui. Giudicò adunque più conveniente di far portare ai soli ecclesiastici le spese di una guerra eccitata dagli stessi ecclesiastici. Domandò al clero fiorentino una sovvenzione di cento mila fiorini, da pagarsi in quattro termini. Tale somma doveva poi restituirsi ai sovventori entro l'anno, se non vi era guerra colla Chiesa, entro cinque, se la guerra scoppiava. Si ottenne con difficoltà l'approvazione dei consiglj per questo prestito; perciocchè in ogni famiglia trovavasi un prete, che, per difendere le proprie entrate ed i suoi beneficj, faceva valere le censure ecclesiastiche, e tratteneva i suffragj de' suoi parenti[163].
La stagione più propria a tenere la campagna era passata senza che accadesse verun'azione clamorosa. Il re di Francia aveva licenziata la sua armata dopo la battaglia di Bologna, ed altro non teneva in presenza del nemico che un ristretto numero di uomini d'armi di guarnigione a Verona. I Veneziani, compatendo la debolezza del vecchio Lucio Malvezzi, avevano avuta la compiacenza di lasciarlo alla testa delle loro armate, sebbene più non fosse in istato di condurle, perchè non avevano potuto persuaderlo a chiedere la sua dimissione, e non volevano affliggere negli estremi suoi giorni un uomo che in altri tempi aveva ben meritato della repubblica. Questi morì finalmente, e gli fu dato per successore Gian Paolo Baglioni[164]. Massimiliano si era alternativamente fatto vedere in Inspruck, a Trento, a Bruneck. Di là aveva negoziato colla Francia, col papa, con Venezia, e sempre minacciata l'Italia di nuova invasione; ma, quando si credeva imminente la sua comparsa, tutt'ad un tratto si allontanava per una partita di caccia; recavasi in un'altra città, in un'altra provincia, ove non era aspettato, e credeva dar prove di sottile politica, quando rendeva vani tutti i calcoli fatti dagli altri sopra di lui[165].
Intanto le province veneziane e quelle del ferrarese continuavano ad essere guaste con più furore che mai. I borghi ed i castelli venivano presi e ripresi, taglieggiati e saccheggiati, quando potevano sottrarsi all'incendio; le campagne erano affatto spogliate, ed i contadini, ridotti alla disperazione, perivano nella miseria. Massimiliano, cagione di tutti questi mali, non rinunciava ad alcuna delle sue pretese, sebbene non fosse in istato di farle valere. Egli non voleva la pace, e non faceva la guerra. Per lo contrario Lodovico XII voleva la pace, e faceva la guerra per un alleato che non lo assecondava, e che gl'inspirava una giusta diffidenza. Egli dolevasi delle inutili spese che Massimiliano gli cagionava, e, siccome alquanto inclinava all'avarizia, ricusava spesso di sostenere alcune spese, che, riducendo la guerra ad una pronta conclusione, avrebbero prodotta una reale economia. I Veneziani bramavano ardentemente la pace, ma non potevano ottenerla dalla volubilità di Massimiliano; non meno ardentemente la desiderava il duca di Ferrara, ma gli veniva rifiutata dall'ostinazione del papa.
Essendo rimaste senza effetto tutte le negoziazioni per la pace, ed essendosi pubblicata in principio d'ottobre la lega del papa con Ferdinando, Lodovico XII ordinò al signore della Palisse di ragunare di nuovo l'armata francese, d'assoldare la fanteria, e di attaccare la Romagna prima che gli Spagnuoli vi fossero giunti. Proponevasi di scendere egli stesso in Italia nella vegnente primavera con istraordinarie forze, onde finalmente obbligare i suoi nemici a fare la pace. Ma prima che a questi ordini fosse data esecuzione, la Lombardia fu agitata dalla notizia che gli Svizzeri si apparecchiavano ad una seconda invasione.
Lodovico XII non erasi limitato a ricusare agli Svizzeri l'accrescimento di venti mila franchi alla domandata pensione; ma inoltre aveva in ogni occasione parlato di loro con disprezzo, ed offeso il loro orgoglio nazionale. In Lombardia aveva fatto arrestare con umilianti circostanze un corriere de' cantoni di Schwitz e di Friburgo, secondando in tal modo gl'intrighi del papa, che cercava di eccitare quei fieri alpigiani promettendo loro la gloria di scacciare i Francesi dall'Italia. Gli Svizzeri avevano fatto chiedere a Venezia cinquecento uomini di cavalleria ed alcuni pezzi di cannone[166]; avevano pure ricevuto da questa repubblica qualche somma di danaro, ed in principio di novembre valicarono il san Gottardo, e si adunarono a Varese in numero di dieci mila uomini, con un treno di sette piccoli cannoni da campagna e varj grossi archibugj portati dai cavalli. La dieta aveva a quest'armata accordato quello stendardo, che, spiegato nel precedente secolo a Nancì contro il duca di Borgogna, non era più stato dopo quell'epoca portato in guerra. Questo venerato stendardo allettava continuamente nuovi volontarj, onde in breve l'armata si trovò forte di sedici mila uomini. I Francesi non avevano in Lombardia che mille trecento lance e dugento gentiluomini volontarj; inoltre parte di queste truppe servivano a custodire Verona, Brescia e Bologna, onde Gastone di Foix per trattenere gli Svizzeri non aveva con sè che trecento uomini d'armi e due mila fanti[167].
Gli Svizzeri si erano avanzati da Varese a Gallarate, e di là a Busto senza trovare opposizione. Gastone di Foix e Gian Giacopo Trivulzio si tenevano ai loro fianchi per molestarli, ma non osavano dar loro battaglia; intanto Teodoro Trivulzio faceva fortificare Milano, ed i Milanesi, sebbene detestassero il governo francese, temevano ancora più la venuta di questi barbari montanari, ed assoldavano fanti a loro proprie spese per custodire le mura. I generali francesi andavano bensì spargendo di non avere verun timore, ed essere facil cosa il difendere la città; ma si vedevano nello stesso tempo vittovagliare il castello, e fare tali apparecchj, che svelavano la loro intenzione di ritirarvisi.
Gli Svizzeri, non trattenuti nella loro marcia, si avanzarono a sole due miglia dalle porte di Milano; ivi bruscamente piegarono sopra Monza, e, probabilmente conoscendosi incapaci di attaccare le città, non tentarono nemmeno di occupar questa; ma parvero intenzionati di passare l'Adda, le di cui opposte rive venivano dai Francesi cautamente fortificate onde impedire agli Svizzeri di unirsi all'armata veneziana. A Milano si stava tuttavia in grandissimo timore, quando un capitano svizzero, munito di salvacondotto, venne a nome de' suoi compatriotti ad offrire di ritirarsi, purchè loro si pagasse un mese di soldo. Egli ripartì, per informare gli Svizzeri di un'offerta molto inferiore alla loro domanda, e tornò all'indomani con pretese molto più alte. Gastone di Foix aggiunse qualche cosa all'offerta fatta nel precedente giorno, ma non quanto bastava a soddisfare gli Svizzeri, ed il trattato fu rotto; ciò nullameno, con sorpresa di tutta l'Italia, gli Svizzeri presero nel susseguente giorno la via di Como, e ripatriarono[168]. Loro non era stato pagato il danaro che avevano chiesto per l'armata; e se l'inquietudine che loro dava Gastone di Foix, fu, come lo suppone il Giovio, il solo motivo che li persuase a ritirarsi[169], non si sa concepire perchè non abbiano accettata l'ultima offerta. Vero è che altri scrivono che i capitani svizzeri furono corrotti dal danaro che Foix loro fece celatamente pagare, e viene indicato per negoziatore di questo vergognoso contratto un capitano d'Alt-Sax, o di Super-Sax[170].
Per la seconda volta gli Svizzeri avevano delusa la confidenza del papa e de' Veneziani, che gli avevano pagati; e la loro mala fede, o la loro imperizia, andavano scemando quell'alta opinione che si erano acquistata col loro valore nelle guerre in cui avevano combattuto appoggiati dagli uomini d'armi francesi. Per altro la breve loro invasione faceva sentire tutto il pericolo della situazione de' Francesi, coll'armata del papa e di Raimondo di Cardone in faccia, quella de' Veneziani da un lato, Genova sempre agitata dagl'intrighi del papa dall'altro, e gli Svizzeri alle spalle. Lodovico XII spaventato mandò in Italia a Gastone di Foix tutte le truppe di cui poteva disporre; gli ordinò di nulla risparmiare per la leva di un nuovo corpo d'infanteria, ed eccitò i Fiorentini a mostrarsi fedeli alleati della Francia, a mandargli non già trecento lance, secondo l'obbligazione dei trattati, ma tutte le forze che potevano riunire; ricordò loro che la causa per cui gli eccitava a combattere non era meno la sua che la loro propria, poichè, conoscendo essi l'odio di Giulio II e l'ambizione di Ferdinando, non potevano dubitare che questi principi non abusassero della vittoria contro di loro, sia che i Fiorentini prendessero le armi, o si mantenessero neutrali[171].
Il gonfaloniere Soderini sentiva tutta la forza delle ragioni addotte dal re di Francia; era persuaso del principio così spesso ripetuto dal Macchiavelli, che il partito di mezzo è di tutti il più pernicioso; e che, chi non si dichiara per una parte o per l'altra, scontenta sempre entrambe le parti. Vedeva che, dopo avere offeso il papa, si offenderebbe ancora il re di Francia, il quale non troverebbe che si fosse per lui fatto abbastanza, mandandogli soltanto i soccorsi stipulati dal trattato, e che ciò non pertanto sarebbe un'ostilità agli occhi di Ferdinando d'Arragona. Ma il partito, che si opponeva al gonfaloniere con intenzione di perderlo, s'ingrossava in tale occasione di tutti quelli che la debolezza del loro carattere attaccava alle misure di mezzo, e di tutti quelli che un giusto risentimento contro Lodovico XII e la casa di Francia, per le transazioni relative alla guerra di Pisa, rendeva diffidenti verso una famiglia che gli aveva così lungo tempo ingannati. Perciò, malgrado tutti gli sforzi del gonfaloniere, la repubblica si attenne strettamente all'esecuzione del trattato conchiuso con Lodovico XII, e mandò inoltre lo storico Francesco Guicciardini ambasciatore presso Ferdinando, onde scusarsi d'avere dati questi soccorsi al di lui nemico[172].
In sul finire di dicembre l'armata spagnuola e pontificia cominciò ad avanzarsi verso la Romagna. Il vicerè, don Raimondo di Cardone, si trattenne ad Imola per aspettare il rimanente delle sue truppe e la sua artiglieria, e intanto mandò Pietro Navarro, capitano generale della fanteria spagnuola, ad attaccare i possedimenti del duca di Ferrara in Romagna. Tutte le borgate e le fortezze, che il duca possedeva al mezzodì del Po, si arresero a Navarro alla semplice intimazione di un trombetta, tranne la bastia della Fossa Geniolo, ch'era stata attaccata nel precedente anno, ed opportunamente da Bajardo soccorsa. Vestidello Pagano, distinto ufficiale del duca di Ferrara, che vi comandava una guarnigione di cento cinquanta fanti, oppose una gagliarda resistenza agli attacchi di Pietro Navarro fino all'ultimo giorno dell'anno, in cui la bastia fu presa d'assalto. La guarnigione fu passata a fil di spada, e Vestidello, ferito, oppresso dalla fatica e costretto ad arrendersi, fu in seguito ucciso a sangue freddo dai Musulmani, che formavano in allora il grosso della fanteria spagnuola[173].
Il possedimento della bastia di Geniolo era della più alta importanza agli occhi del duca Alfonso per l'attacco o la difesa di Ferrara, perchè questa fortezza signoreggiava la navigazione del Po. Perciò, quando Alfonso seppe che il Navarro era tornato presso al vicerè, e che non vi aveva lasciati che dugento uomini di guarnigione, venne ad attaccarla con nove pezzi di cannone. Le muraglie della bastia erano ancora squarciate dal sostenuto assedio, e gli Spagnuoli non avevano avuto tempo di riparare tutte le brecce; di modo che Alfonso la prese d'assalto lo stesso giorno; ma egli riportò una ferita nel capo, ed i suoi soldati, per vendicar lui e lo sventurato Vestidello, uccisero il capitano e tutta la guarnigione, senza lasciarne un solo che portasse al papa la notizia della rotta. Tutti questi piccoli fatti ottennero un'importanza classica nel poema dell'Ariosto: essi accadevano sotto gli occhi del poeta, erano il principale titolo della gloria del di lui padrone, ed egli gli illustrò coi suoi versi[174].
Frattanto l'armata del re di Spagna e del papa erasi riunita in Imola, e da molto tempo non erasene veduta altra più formidabile. Vi si contavano al soldo di Ferdinando mille uomini d'armi, ottocento cavaleggieri di quei, che gli Spagnuoli chiamavano Ginetti ad esempio de' Mori, ed otto mila fanti spagnuoli. Fabrizio Colonna militava sotto il vicerè, col titolo di governatore generale; Prospero Colonna aveva ricusato di servire sotto il comando di un altro. Lo stesso orgoglio aveva ritratto il duca d'Urbino dall'accettare il comando dell'armata pontificia, la quale doveva essere subordinata a quella di Raimondo di Cardone; il duca di Termini, che Giulio II aveva voluto sostituirgli, era di fresco morto a Cività Castellana; ed era perciò il cardinale legato, Giovanni de' Medici, che comandava l'armata del papa, avendo sotto i suoi ordini Marc'Antonio Colonna, Giovanni Vitelli, Malatesta Baglioni e Raffaello de' Pazzi, con ottocento uomini d'armi, ottocento cavaleggieri ed otto mila fanti[175].
Il più ardente desiderio di Giulio II era quello di ricuperare Bologna, e l'armata combinata cominciò la campagna coll'assedio di quella città. Si accampò il 26 di gennajo del 1512 sul terreno coperto di nevi tra la montagna e la gran strada che va da Bologna in Romagna, mentre che Fabrizio Colonna venne colla vanguardia, composta di settecento uomini d'armi, di cinquecento cavaleggieri e di sei mila fanti, ad appostarsi sulla strada di Lombardia tra Bologna ed il ponte del Reno, occupando nello stesso tempo a sinistra le eminenze di san Michele in Bosco, e di santa Maria del Monte. Gli assedianti cominciarono subito a svolgere i canali, che conducono le acque del Reno e della Savenna nelle fosse di Bologna, ed a formare le loro spianate intorno alla città per appostarvi le batterie[176].
Odetto di Foix, signore di Lautrec, ed Ivone d'Allegre avevano il comando della guarnigione francese di Bologna, composta di dugento lance francesi e di due mila fanti tedeschi. I quattro fratelli Bentivoglio avevano dal canto loro armati tutti i loro partigiani. Pure le antiche fortificazioni di Bologna, che non si aveva avuto tempo di appoggiare con nuove opere, non sembravano tali da potere lungamente resistere all'artiglieria: troppo vasto era il giro delle mura, il popolo atterrito, e molti capi della nobiltà ai Bentivoglio sospetti[177].
Vero è che l'attacco di Bologna non presentava minori difficoltà di quello che la difesa ne presentasse. Gli assedianti avevano avuto avviso che Gastone di Foix era giunto a Finale, a metà strada tra la Mirandola e Ferrara, e ad una breve giornata da Bologna; che la sua armata era di già considerabile assai, e che andava sempre ingrossandosi con nuove truppe. Non potevasi in tanta vicinanza lasciare l'avanguardia di Fabrizio Colonna al di là di Bologna, mentre che il rimanente dell'armata trovavasi dall'altro lato; conveniva dunque richiamarla presso al quartiere generale, o andare a raggiugnerla: nel primo caso lasciavasi la città aperta ai soccorsi che cercherebbero d'introdurvi i Francesi; nel secondo l'intera armata sarebbe esposta a mancare di vittovaglie. Se, come lo consigliava Pietro Navarro, si ordinava a tutti i soldati di provvedersi di viveri per cinque giorni, s'arrischiava ancora che Bologna resistesse più a lungo, o che l'armata, costretta a ritirarsi, provasse, passando in allora sotto le mura della città, tutti gl'inconvenienti ch'erano riusciti così fatali nella rotta di Casalecchio. D. Raimondo di Cardone, incerto fra questi due partiti, non ardiva mettere in batteria la grossa artiglieria, temendo di non avere tempo per ritirarla, se Gastone di Foix veniva a dargli battaglia. D'altra parte il cardinale de' Medici, che non conosceva il mestiere della guerra, non sapendo persuadersi di tutte queste difficoltà, lo andava caldamente eccitando a cominciare l'attacco di Bologna con una insistenza che offendeva i militari spagnuoli[178].
Finalmente il Cardone, avvisato che Gastone di Foix aveva preso a sottomettere Cento, la Pieve ed altri castelli bolognesi dalla parte di Ferrara, mentre si andava ragunando la sua armata, pensò che avrebbe tempo di stringere l'attacco di Bologna; ed aprì le sue batterie verso porta a santo Stefano, che conduce in Toscana, avvicinandosi alla sua vanguardia. In breve tempo fu aperta nelle mura una breccia di più di cento braccia di lunghezza, e la torre della porta fu talmente danneggiata, che gli assediati furono forzati ad abbandonarla. Dopo ciò si sarebbe potuto dare l'assalto con qualche speranza di prospero successo; ma Pietro Navarro volle che si aspettasse l'esplosione di una mina ch'egli faceva scavare sotto la cappella del Barracano, onde attaccare contemporaneamente la città sopra due punti. Intanto Nemours, informato del pericolo di Bologna, vi mandò cent'ottanta lance e mille fanti[179].
La mina apparecchiata da Pietro Navarro era terminata; egli vi appiccò il fuoco; ma non produsse lo sperato effetto: il muro non crollò, e la piccola cappella rimase al suo luogo. Pretesero gli assalitori d'avere veduto nell'istante dell'esplosione la piccola cappella alzata in aria, la città aperta, ed i soldati ordinati in battaglia entro la medesima; ma che ricadendo nello stesso luogo in un solo blocco, dessa cappella aveva riempita esattamente la breccia che aveva prima lasciata. Si prestò fede avidamente a coloro che pretendevano di avere veduto questo miracolo frammezzo ad un denso fumo in un istante di terrore e di pericolo; non si domandò punto al capitano Brisson, banderale del maresciallo di Fleuranges, che difendeva questa stessa cappella, in qual modo non si fosse accorto del prodigio: ed il piccolo santuario si trasformò in un tempio colle offerte dei devoti[180].
Questo miracoloso avvenimento fu seguito da un altro, che non pare meno incredibile. Gli assedianti, informati dei soccorsi che Nemours aveva introdotti in Bologna, supposero ch'egli avesse rinunciato al progetto di avvicinarsi coll'armata alla città, e diventarono più trascurati a guardare la campagna. Frattanto Nemours aveva sentita la necessità di respingere gli Spagnuoli prima che si avanzassero i Veneziani, onde non avere addosso nello stesso tempo le due armate; perciò era partito da Finale la notte del 4 al 5 di febbrajo, con mille trecento lance, sei mila fanti tedeschi, ed ottomila tra francesi ed italiani, per entrare in Bologna. Era stato in viaggio continuamente accompagnato da un vento e da una neve terribili, e non aveva trovato in verun luogo, presso i molti canali che avea dovuto attraversare, nè corpi di guardia, nè scolte; verun contadino per la malvagità del tempo era uscito di casa per portarne notizia al nemico, e due ore prima di notte il Nemours era entrato in Bologna senza aver dato un colpo di lancia. Si era a bella prima determinato ad attaccare gli Spagnuoli la mattina del susseguente giorno, 6 di febbrajo; ma perchè non dubitava che il nemico non fosse informato della di lui venuta, e non isperava di sorprenderlo, facilmente si accomodò al parere di coloro che lo consigliavano di dare un giorno di riposo alle sue truppe dopo una tanto penosa marcia. Ad ogni modo Raimondo di Cardone non ebbe avviso della venuta del Nemours lo stesso giorno, nè all'indomani prima del mezzodì. Quando gliene diede avviso un cavaleggiere, fatto prigioniere dalle sue truppe, egli giudicò subito necessario di ritirarsi. Nella notte del 6 al 7 di febbrajo fece levare i cannoni dalle batterie, e la seguente mattina, appena fatto giorno, si recò ad Imola, lasciando il fiore delle sue truppe in coda dell'armata per respingere gli attacchi dei Francesi[181].
Ma Nemours, mentre faceva levare l'assedio di Bologna, provava le più vive inquietudini sul conto di Brescia. In questa città ed in tutte quelle della Lombardia veneta il governo francese era detestato: i contadini mantenevano il più vivo attaccamento verso la repubblica, l'armata veneziana s'avvicinava ai confini, ed era comandata dal provveditore Andrea Gritti, che alla politica di un senatore veneziano aggiugneva l'attività di un generale. I timori di Nemours non tardarono a realizzarsi; il 3 di febbrajo, due giorni prima dell'ingresso dell'armata francese in Bologna, Andrea Gritti erasi impadronito di Brescia, ed aveva assediata la fortezza[182].
I Francesi avevano pensato di tenere Brescia ubbidiente col rigore. Avevano fatto decapitare il conte Giovan Maria Martinengo; avevano mandati in Francia, come ostaggi, molti altri gentiluomini, ed in una contesa, accaduta tra il conte Gambara ed il conte Luigi Avogaro, avevano mostrato contro il secondo una parzialità che lo avea determinato alla vendetta[183].
L'Avogaro scrisse al consiglio dei dieci a Venezia per offrirgli la sua assistenza e quella di un numeroso partito, onde ricondurre la sua patria sotto l'autorità della repubblica. Egli erasi trattenuto in Brescia per dare esecuzione alla trama che aveva formata; ma al primo avvicinarsi d'Andrea Gritti, la moglie di uno dei congiurati, amica del comandante della fortezza, rivelò a questi la congiura: l'Avogaro appena ebbe tempo di sottrarsi all'arresto ordinato dal comandante. Intanto il Gritti erasi incamminato verso Brescia con trecento uomini d'armi, mille trecento cavaleggieri, e tre mila fanti: aveva passato l'Adige ad Alberé presso Legnago, ed il Mincio tra Goito e Valeggio, e si era presentato nel convenuto giorno alla porta che doveva essergli aperta dal conte Avogaro; ma la fuga d'Avogaro e la scoperta della sua trama, resero vano il tentativo, ed il figlio dell'Avogaro venne dai Francesi posto in prigione[184].
Questa stessa sventura raddoppiò l'attività del conte ed il suo desiderio di vendicarsi. Egli si recò nella val Trompia e nella val Sabbia, tra i fiumi Mella e Chiesa, chiamò alle armi tutti i montanari e gli abitanti delle rive del lago di Garda, ed il giorno 3 di febbrajo rinnovò l'attacco di concerto con Andrea Gritti. Mentre questi richiamava l'attenzione dei Francesi ad una delle porte, una banda di contadini passò sotto le mura attraversando la griglia che chiude il canale del ruscello, detto Garzetta, là dove questo ruscello sbocca fuori dalla città. Bentosto in tutte le contrade si udì gridare: san Marco! san Marco! ed il signore di Lude, che aveva il comando della guarnigione di Brescia, i suoi soldati e i gentiluomini attaccati al partito francese si ripararono nella rocca; le loro case furono dal popolo saccheggiate, come pure gli equipaggi della guarnigione; furono uccisi molti Francesi che si trovarono sparsi per le strade, e demolito il palazzo del conte Gambara rivale dell'Avogaro[185].
Alla sollevazione di Brescia tenne dietro subito quella di tutti i paesi che i Francesi avevano occupati nel territorio della repubblica. Bergamo inalberò lo stendardo di san Marco, e la guarnigione francese si ritirò ne' due castelli che signoreggiavano la città: Orci Vecchi, Orci Nuovi, Pontevico, e tutti i castelli bresciani e bergamaschi aprirono le loro porte ad Andrea Gritti. Cremona e Crema aspettavano ansiosamente che si avvicinasse; ma i Veneziani, che festeggiarono queste conquiste con trasporti di gioja, e all'istante nominarono governatori per tutte le piazze che avevano ricuperate, non adoperarono un'eguale diligenza nello spedir loro i necessarj soccorsi. Per altro ordinarono a Giovan Paolo Baglioni di far avanzare la sua armata per secondare il Gritti, e per attaccare la cittadella di Brescia, le di cui mura erano di già mezzo aperte, e dove il de Lude col capitano Herigoye non avevano che poche vittovaglie[186].
All'indomani della ritirata degli Spagnuoli, Gastone di Foix ricevette a Bologna il messo del signor de Lude, che gli partecipava la perdita di Brescia, e gli chiedeva pronti soccorsi. Egli lasciò trecento lance e quattro mila fanti nella città che aveva liberata, e ripartì subito col rimanente dell'armata, che fece camminare con una sollecitudine fin allora sconosciuta. Per tenere una linea più diritta attraversò il Mantovano, senza chiederne licenza al sovrano, che dopo essere di già entrato nel di lui territorio; a tre miglia d'Isola della Scala sorprese Gian Paolo Baglioni, che non lo sospettava vicino, e che non sapeva adoperare tanta diligenza. Gastone attaccò immediatamente coi pochi uomini d'armi che aveva intorno il Baglioni, il quale sostenne il primo urto assai valorosamente; ma l'armata francese andava sempre ingrossando, ed il Baglioni fu costretto a fuggire dopo avere perduta molta gente. Gastone dopo ciò proseguì il suo viaggio, e giunse innanzi a Brescia il nono giorno dopo la sua partenza da Bologna[187].
La porta esterna ossia del soccorso del castello di Brescia era aperta all'armata francese; la porta interna, che comunicava colla città, non era per anco chiusa che da un terrapieno innalzato in fretta da Andrea Gritti, ma difeso da otto mila uomini di buone truppe. Nemours fece loro intimare la resa della piazza, loro promettendo salve le persone e gli averi. Risposero che la città apparteneva ai Veneziani, e che speravano, coll'ajuto di san Marco, di potergliela conservare. All'indomani, 19 di febbrajo, giorno del giovedì grasso, i Francesi in su lo spuntare dell'aurora scesero dal castello nella corte. «Tutta l'armata del re di Francia, dice il leale servitore, non contava allora più di dodici mila combattenti; ma non eravi da che dire sul poco numero, perchè era tutto fiore di cavalleria[188].» Il capitano Bajardo, avendo domandato d'essere il primo ad attaccare, si pose alla testa della colonna francese colla sua compagnia di cento cinquanta uomini d'armi, che aveva fatti smontare da cavallo; stavano a' suoi fianchi i capitani Molart e Herigoye coi loro Baschi a piedi; venivano in appresso due mila landsknecht del capitano Jacob, ed in ultimo circa settemila fanti francesi sotto i capitani Bonnet, Maugiron ed il bastardo di Cleves. Il duca di Nemours veniva in coda coi suoi uomini d'armi ch'eran pure smontati da cavallo e con Luigi di Breze, gran siniscalco di Normandia, coi cento gentiluomini della casa del re. Ivone d'Allegre era stato lasciato fuori di città con trecento uomini d'armi a cavallo onde custodire la porta di san Giovanni, la sola che i Bresciani non avessero murata[189].
Una leggiera pioggia aveva renduto il terreno sdrucciolevole, e gli uomini d'armi, coperti delle loro pesanti armature, colle quali non erano accostumati a camminare a piedi, sdrucciolavano frequentemente, tanto nello scendere dal castello, che nel salire sul bastione con cui il Gritti aveva chiusa la città. Il duca di Nemours diede a tutti l'esempio di levarsi le scarpe, per tenersi più fermo sul terreno, e la cavalleria francese, avendo l'abitudine dei più duri esercizj, marciava a piedi ignudi con passo più sicuro[190]. L'assalto fu violento; ostinata la resistenza; finalmente Bajardo superò il primo il bastione; ma quando l'ebbe appena oltrepassato ricevette nella parte superiore della coscia un così fiero colpo di picca, che la picca si ruppe, ed il ferro e parte dell'asta rimasero nella ferita. «Ben pensò, al dolore che sentì, di essere mortalmente ferito, e voltosi al signore di Molart, gli disse: compagno, fate avanzare le vostre genti; la città è presa; per me altro non posso fare, perchè io sono morto.» Due de' suoi arcieri, staccando una porta, ve lo posero sopra, e lo portarono in una delle più appariscenti case della città, che la presenza del cavaliere salvò dal saccheggio[191].
La caduta del cavaliere senza paura e senza difetti aveva inspirato ai soldati francesi che lo seguivano un vivo desiderio di vendicarlo. I ripari erano stati superati, ed i Veneziani inseguiti si erano ritirati avanti al palazzo del capitano di giustizia sulla piazza del Broletto. Subito dopo di loro vi giunsero i Francesi, e la battaglia ricominciò con maggiore accanimento. Gli abitanti non si scoraggiavano, e facevano piovere dalle finestre e dai tetti, pietre, tegole, travi infiammati, ed acqua bollente sopra gli assalitori. La truppa veneziana diede sulla piazza del Broletto una seconda battaglia non meno ostinata di quella sostenuta sui bastioni; ma essa venne egualmente respinta, e dopo ciò più non trovò rifugio. I vincitori l'andavano inseguendo di strada in strada per farne un'orribile carnificina. Il Gritti e l'Avogaro speravano tuttavia di fuggire per la porta di san Giovanni; ma appena fecero abbassare il ponte levatojo, che Ivone d'Allegre vi si precipitò, attaccandoli di fronte, mentre che avevano Nemours alle spalle. Ambidue furono fatti prigionieri, e veruno de' loro soldati fu risparmiato. L'uccisione si andò continuando, finchè durò la resistenza in qualche lato; onde i più moderati contano sette in otto mila morti, le Memorie di Bajardo ventidue mila, e quelle di Fleuranges quaranta mila[192].
Il saccheggio non cominciò che quando si cessò di spargere il sangue; ma l'avidità del soldato non fu minore della sua ferocia. Non contento di prendere tutti i mobili delle case, e tutto ciò che aveva qualche valore, fece prigionieri gli abitanti, e li forzò coi tormenti a palesare in qual luogo avessero nascoste parte delle loro ricchezze. Spesse volte, quando non potevano ridurli a manifestare il segreto, o quando sospettavano che quegli sventurati non avessero palesata ogni cosa, li facevano perire sotto la tortura. Tutto ciò ch'era stato deposto nelle chiese e ne' conventi diventò preda de' soldati; le donne più illustri, e le stesse claustrali non si sottrassero alle ultime violenze. Bajardo difese da ogni insulto la signora che lo aveva accolto nella sua casa, e le due di lei figlie, ma la profonda loro riconoscenza provò quanto quest'atto di generosità fosse parso raro. Due interi giorni vennero accordati a tutti gli orrori della militare licenza. Finalmente Gastone di Foix fece cessare il saccheggio, ed uscire le sue truppe dalla città; ma fece decapitare sulla pubblica piazza il conte Avogaro, e poco dopo i di lui due figliuoli. Il sacco di Brescia fu valutato trecento milioni di scudi, e fu osservato che inflisse egli stesso ai vincitori la punizione delle crudeltà che l'avevano macchiato. «Niente è così certo, dice il leal servitore di Bajardo, che la presa di Brescia fu in Italia la ruina de' Francesi; imperciocchè avevano essi tanto guadagnato in questa città, che la maggior parte tornarono in Francia stanchi della guerra, e sarebbero pure stati utili nella giornata di Ravenna siccome voi intenderete tra poco[193].»
CAPITOLO CIX.
Battaglia di Ravenna; morte di Gastone di Foix, ed indebolimento dell'armata francese; Giulio II si ostina a ricusare la pace; dissimulazione di Massimiliano; irritamento degli Svizzeri; questi si uniscono ai Veneziani e scacciano i Francesi d'Italia.
1512. Uno dei più grandi mali cagionati dalla violenza delle passioni popolari, è quello di distruggere nel cuore umano le primitive nozioni del giusto e dell'ingiusto, di confondere ciò che è onesto con ciò che è turpe. Quando giudichiamo con calma la condotta de' partiti e dei loro corifei, ci sorprende e ci affligge per l'umana natura il vedere interi popoli applaudire a rivoltanti azioni, individui distinti per le loro belle qualità macchiarsi senza rimorso con atti di ferocia e di perfidia che oltraggiano l'umanità. Noi saremmo a tal vista tentati di dubitare dell'universale potere della coscienza, primaria legge della nostra esistenza, se non volgessimo lo sguardo alla prepotente influenza, che gli altrui giudizj esercitano sopra di noi. L'amore del bello e del giusto è dato ad ogni uomo; ma la conoscenza di ciò che è bello, di ciò che è giusto non è rapida abbastanza per andare innanzi all'istruzione che gli viene offerta dagli altri. La lentezza del suo spirito, e più di tutto la sua infingardaggine, hanno bisogno d'essere diretti dalla pubblica opinione; ed il più delle volte l'universale consenso ha segnata quella linea morale, che cadauno separatamente avrebbe potuto a stento determinare. E per tal modo la coscienza diventò quasi sempre l'eco della voce popolare; ed anche l'uomo d'eminente intelletto, non avendo tempo di esaminare partitamente tutte le quistioni della morale, abbraccia per lo più il giudizio suggeritogli dagli altri, ma ch'egli crede dovuto ad affezioni od a ripugnanze innate in un cuore onesto.
Ma quando lo spirito di parte, impadronendosi d'una società, la divide in due, ogni parte ammette una credenza, che per coloro che la seguono, presentasi con tutti i caratteri della pubblica opinione, e diventa in sua vece il regolatore ed il supplimento della coscienza individuale. La violenza dello spirito di parte si attacca quasi sempre a quistioni morali, che vengono decise dal pregiudizio, ed intorno alle quali la ragione rimane in sospeso. Tali sono, l'origine del potere e la sua legittimità, i doveri de' sudditi, i diritti de' cittadini, la fedeltà che i primi credono dovuta al loro monarca, che i secondi credono di potere pretendere dal loro governo. L'esame di cadauna di tali quistioni, da cui può dipendere la condotta dell'uomo d'onore, nelle più importanti occasioni, spaventa colla sua difficoltà: ma gli uomini di partito non si curano di esaminarle; adottano il pro o il contro con una cieca fede, che poi risguardano come il loro sentimento morale, come la voce della loro coscienza; accusano di mala fede coloro che hanno abbracciato il contrario sistema, e, sentendosi appoggiati dall'assenso de' soli uomini con cui essi parlano, disprezzano i loro avversarj, e non vedono che colpevoli in tutti coloro che essi combattono. Il solo filosofo conosce quanto difficile sia lo stabilire principj nelle astratte quistioni della politica, e sotto quanti differenti aspetti esse si presentino ai migliori ingegni: per tal modo egli abbraccia tutte le opinioni, tutte le scuse, ed altro non vede nelle politiche dissensioni che vincitori e vinti.
Il conte Luigi Avogaro, ed il numeroso partito da lui strascinato nella ribellione, potevano giustificare la loro causa con tutti i nomi tra gli uomini più sacri. Quando l'Avogaro volle ristabilire nella sua patria quella stessa autorità della repubblica veneta, sotto la quale egli era nato, e sotto la quale vissuto era suo padre, prendeva le armi per ciò che gli uomini hanno convenuto di chiamare legittimo potere: nello stesso tempo combatteva per la libertà, che l'Italia credeva di vedere nel governo repubblicano di Venezia; combatteva per l'indipendenza italiana contro il giogo d'una nazione straniera; finalmente combatteva per la religione e per la Chiesa, perciocchè il papa aveva abbracciata la difesa di Venezia, ed i suoi avversarj erano macchiati col nome di scismatici. Pure uno degli eroi della Francia, Gastone di Foix, condannò l'Avogaro al supplicio coi due suoi figli; cercò d'infamarlo col nome di traditore; non credette di sagrificarlo alla politica, ma alla giustizia, e volle egli stesso trovarsi presente ad un'esecuzione, di cui pareva gloriarsi. Un poeta francese, risguardando l'Avogaro quale uomo abbandonato all'infamia, non si fece scrupolo di calunniarlo con perfide supposizioni; e quanto più ristretto è in Francia il numero delle tragedie storiche, tanto più l'odioso carattere che Du Belloy ha dato al conte Avogaro, ha lasciata contro di lui una gagliarda impressione popolare[194]. Finalmente gli storici francesi, lungi dal vergognarsi della carnificina di Brescia, sonosi compiaciuti di esagerarne le conseguenze. Non vi scorsero che fatti gloriosi per Lodovico XII, il padre del popolo, e per Nemours, l'idolo dell'armata; ed hanno coperto col loro disprezzo quelli che erano stati vinti dai loro compatriotti, senza farsi carico de' nobili sentimenti che loro avevano poste le armi in mano.
La riputazione ed il carattere di Gastone di Foix, duca di Nemours, sono altri esempi dell'influenza dei pregiudizj di partito. Questo principe, nato il 10 dicembre del 1489, e che di poco era entrato nel suo ventesimo terzo anno, ove si debba giudicare dalla sua gloria, è uno de' più grandi uomini che producesse la Francia, ove poi si esaminino le azioni sue, sembra uno de' più feroci capi d'esercito. Durante la battaglia, egli eccitava continuamente i suoi soldati alla carnificina, e poche volte dava quartiere ai nemici; verun capitano trattò con maggiore asprezza i popoli delle città conquistate, o gli assoggettò a più pesanti contribuzioni: nel suo campo, in cui la negligenza del signore di Chaumont aveva permesso che s'introducesse l'indisciplina, non era stato da altro generale rimesso l'ordine con una più costante severità e con più inflessibile rigore: per ultimo niuno risparmiava meno di lui la vita dei soldati, che strascinava con rapidissime marcie a traverso ai pantani o tra le profonde nevi, e teneva le intere notti a cielo aperto in mezzo ai ghiacci nel più rigoroso inverno.
Ma un generale, più ancora che un politico, è l'opera del suo secolo e di quel potente pregiudizio che copre di tanta gloria le militari fortunate imprese. È cosa ingiusta il rendere un individuo risponsabile d'un'opinione popolare, cui forse cadauno di noi ha contribuito. Gli applausi che i più deboli diedero in ogni occasione ai forti, quell'entusiasmo che il più timido sesso sente per il valore, quella corona di gloria onde i poeti cinsero la fronte de' vincitori, furono altrettante offese fatte all'umanità. La pubblica opinione si compiacque d'inebbriare i guerrieri per iscatenarli in appresso contro la società; riserbò tutti i suoi allori per le loro vittorie, senza farsi da costoro rendere conto nè dei motivi delle guerre, nè de' mezzi adoperati per ottenere la vittoria; ella rimane sola risponsabile della formidabile frenesia de' conquistatori. Questi non sono che ciò che li fa il mondo; e Gastone di Foix, uno forse degli uomini che recarono maggior danno alla umanità, in proporzione della sua breve carriera, per l'elevazione della sua anima e per i singolari suoi talenti, era meritevole della stima che gli fu accordata.
Gastone di Foix, che di ventidue anni aveva ottenuto l'importantissimo comando della Lombardia, aveva date nella sua prima gioventù tali prove di talenti militari, che pochi vecchi guerrieri pareggiarono. Circondato da nemici, tutti egualmente pericolosi, aveva nel cuore dell'inverno fatto testa a tutti successivamente colla stessa armata; e sempre gli aveva sopraggiunti in una perfetta sicurezza, mentre lo supponevano in faccia ad altre armate. Dal mese di novembre in poi aveva inquietati gli Svizzeri scesi in Lombardia, e forzatili a rientrare nelle loro montagne; aveva costretta l'armata del re di Spagna e del papa a levare l'assedio di Bologna, ed a ritirarsi in Romagna; aveva battuto Gian Paolo Baglioni coi Veneziani tra l'Adige ed il Mincio, e finalmente aveva ripresa Brescia, distruggendovi l'armata del Gritti e dell'Avogaro. Dopo quest'ultima vittoria Gastone pareva abbandonarsi ai piaceri, non d'altro occupandosi che delle feste del carnovale; ma frattanto la sua armata era in cammino, ed apparecchiavasi a nuove intraprese; e per tirarlo da questo apparente dissipamento non abbisognavano gli eccitamenti di Lodovico XII, che gli pervennero uno dietro l'altro, affrettandolo di correre alla battaglia[195].
Lodovico XII vedeva finalmente addensarsi sul proprio capo tutti i turbini che Giulio II da tanto tempo andava preparando. Aveva Ferdinando saputo approfittare della sua influenza sul suo genero, il re d'Inghilterra, per persuaderlo a firmare in Londra, il 17 novembre del 1511, un'alleanza il di cui oggetto manifesto era quello di far ricuperare all'Inghilterra il possedimento della Guienna, mentre Ferdinando contava di approfittarne per riconquistare egli stesso la Navarra. Giovanni d'Albretto, re di Navarra, era ciecamente entrato in tutti gli interessi della Francia: per far cosa grata a Lodovico XII aveva riconosciuto il concilio di Pisa, e si trovava colpito dalle scomuniche fulminate contro i fautori di Lodovico. Ferdinando non credeva d'abbisognare di verun altro pretesto per invadere i suoi stati; ma conveniva rendere altrove necessarj i soccorsi che avrebbe potuto dargli la Francia. A tale oggetto Ferdinando persuadeva Enrico VIII ad attaccare la Guienna, e gli offriva per ajutarlo a conquistarla cinquecento uomini d'armi, mille cinquecento cavaleggieri e quattro mila fanti[196].
Enrico VIII tenne per qualche tempo segreto il trattato che sottoscritto aveva con Ferdinando; negò a Lodovico XII, che ne aveva avuto qualche sentore, l'esistenza del medesimo; ed il 9 di dicembre ricevette da questi l'ultimo pagamento de' sussidj, che il re di Francia aveva promesso di dargli pel mantenimento della pace[197]. Ma in occasione dell'apertura del parlamento, il 4 febbrajo 1512, partecipò a quest'assemblea il suo progetto di attaccare la Francia, per isciogliere il concilio di Pisa, e far restituire Bologna alla Chiesa. Ottenne dal parlamento considerabili sussidj per l'esecuzione di tali progetti, che pure sembravano affatto stranieri all'Inghilterra[198]. Una nave del papa, la prima che spiegasse bandiera pontificia nelle acque del Tamigi, giunse a Londra carica di vini greci e di frutta del mezzogiorno, che il papa mandava in dono ai prelati, ai lordi ed ai membri della camera dei comuni: questo nuovo inaudito onore sedusse non meno gl'Inglesi che il loro re; e l'intera nazione si associò con entusiasmo ad una guerra senza motivo[199].
Lodovico XII doveva temere l'attacco degl'Inglesi su tutte le coste, quello di Ferdinando su tutta la linea de' Pirenei, quello degli Svizzeri sulla Borgogna o in Italia. Nella quale ultima contrada il papa, il vicerè di Napoli ed i Veneziani, minacciavano di nuovo il suo luogotenente, il duca di Nemours, mentre che Massimiliano, il suo solo alleato, pel quale erasi fin allora esaurito di uomini e di danaro, non solo non lo assecondava, ma inoltre gli faceva ad ogni istante temere di porsi coi suoi nemici. Massimiliano gli aveva nuovamente promessa la continuazione della sua amicizia, ma l'aveva accompagnata con tali esorbitanti domande, con lagnanze tanto ingiuste e ridicole, che facevano presagire una vicina rottura[200]; e siccome egli non manifestava i suoi segreti a verun confidente, non si sa accertare se fin d'allora avesse intenzione d'ingannare Lodovico XII, o se cedesse senza un premeditato progetto alla sua abituale instabilità.
I medesimi Fiorentini vacillavano nell'alleanza colla Francia; i loro soccorsi non giugnevano all'armata; il termine dell'alleanza andava a spirare entro pochi mesi, ed essi ricusavano di rinnovarla; intanto negoziavano con Ferdinando e con don Raimondo di Cardone, ed avevano ottenuto dal papa l'assoluzione della scomunica contro di loro pronunciata. Egli è vero che il duca di Ferrara ed i Bentivoglio mantenevansi fedeli a Lodovico XII; ma la loro alleanza era piuttosto un carico che un beneficio; incapaci di difendersi da sè medesimi, non isperavano salvezza che dalla Francia. Ogni speranza di Lodovico XII era riposta nell'armata di Gastone di Foix; la quale, se batteva Raimondo di Cardone, poteva inspirare a Giulio II tanto terrore da ridurlo a sottoscrivere la pace[201].
Quando Gastone di Foix seppe che l'armata era giunta a Finale di Modena, si affrettò di raggiugnerla: aveva ricevuto rinforzi dalla Francia, ed aveva a sua disposizione mille seicento lance, cinque mila fanti tedeschi, cinque mila Guasconi ed ottomila tra Italiani e Francesi. Il duca di Ferrara gli condusse pure cent'uomini d'armi, dugento cavaleggieri, ed un treno d'artiglieria, il più bello che allora si vedesse presso verun principe d'Europa. Il cardinale di Sanseverino, che dal concilio di Pisa trasferitosi a Milano, si era fatto dare il titolo di legato di Bologna, aveva raggiunta l'armata con militare apparato, trovandosi felice di poter abbandonare un'assemblea che non riceveva che mortificazioni, perciocchè i prelati non erano stati più favorevolmente ricevuti a Milano, di quello che lo fossero stato a Pisa. Il popolo li caricava d'ingiurie nelle strade, ed il clero, assoggettandosi all'interdetto pronunciato dal papa, aveva sospeso i divini ufficj[202].
Il 26 di marzo Gastone partì da Finale di Modena per innoltrarsi nella Romagna. Quant'egli desiderava di venire a battaglia, altrettanto Raimondo di Cardone cercava di schivarla. Aveva questi sotto i suoi ordini mille quattrocento uomini d'armi, mille cavaleggieri, sette mila fanti spagnuoli, e tre mila Italiani: aspettava inoltre sei mila Svizzeri, che il cardinale di Sion aveva promesso di condurgli a spese comuni del papa e de' Veneziani. Frattanto Ferdinando gli avea ordinato di non esporsi ad una battaglia, per aspettare che l'invasione degl'Inglesi obbligasse Lodovico a richiamare dall'Italia la sua armata. Perciò si andava Raimondo ritirando in faccia all'armata francese, occupando sempre vantaggiose posizioni, ove non poteva essere attaccato che con grande svantaggio[203].
Gastone tentò da principio di penetrare tra Castel Guelfo e Medicina, al levante di Bologna, e gli Spagnuoli presero posto in distanza di quattro miglia, sotto le mura d'Imola. Gastone andò a cercarli, avvicinandosi fino ad un miglio dall'armata nemica; ma conoscendone la posizione quasi inattaccabile, continuò a marciare verso Forlì. Mentre le due armate erano vicine, gli Spagnuoli credendosi in sul punto di essere attaccati si andavano affollando intorno al legato Giovanni dei Medici, per ottenere l'assoluzione de' loro peccati. Avevano un così vivo desiderio di toccare le sue vesti, che, abbandonando le loro insegne e le loro file per affollarsi intorno a lui, eccitarono ne' loro capitani la più viva inquietudine. Intanto, racconta Giovio, che il legato piangeva di gioja, vedendo come questi tanto feroci Spagnuoli, dediti alla rapina ed alle stragi, nudrivano nello stesso tempo così religiosi sentimenti. Il Medici si recò fra di loro con una croce d'argento, pronunciò la loro assoluzione, loro promettendo l'eterno premio, se venivano uccisi per la difesa dell'autorità papale; ma nello stesso tempo gli scongiurò a non uscire dalle loro file, finchè il nemico si trovava così vicino[204].
Ne' susseguenti giorni Nemours cercò con accorte marcie di tirare gli Spagnuoli fuori della loro posizione; ma questi tenevano appoggiata la loro sinistra all'Appennino, e trovavano sempre vantaggiosi accampamenti, tenendo quest'ala per perno; mentre i Francesi, che si avanzavano in una pianura bassa e tagliata da frequenti canali, mai non trovavano una posizione in cui potessero con vantaggio dare battaglia[205].
Mentre i due generali spiegavano la loro cognizione militare in questi movimenti, Gastone di Foix ricevette da Lodovico XII un corriere per affrettarlo a venire a battaglia. Il re aveva penetrato che Massimiliano coll'intervento del papa aveva conchiusa una tregua di dieci mesi coi Veneziani, a condizione che questi gli pagherebbero 50,000 fiorini, e che l'una e l'altra potenza conserverebbero ciò che possedevano. Nello stesso tempo Girolamo Cavanilla, ambasciatore del re d'Arragona, aveva domandata l'udienza di congedo, lo che sembrava annunciare un vicino attacco dalla banda de' Pirenei. Lo stesso Gastone aveva ricevute notizie tali che accrescevano la sua impazienza di combattere, ma che teneva cautamente celate a tutti i suoi ufficiali. Il capitano de' suoi landsknecht, Giacomo von Embs, o Empser, trovavasi da molto tempo al servigio della Francia; era stato ben trattato dal re, e, sebbene non parlasse l'idioma francese, aveva un onorato grado nella milizia. L'8 di aprile, il giorno susseguente alla venuta di Bajardo al campo, Empser ricevette un ordine dall'ambasciatore dell'imperatore Massimiliano a Roma, diretto a tutti i Tedeschi che militavano nell'armata francese, col quale veniva loro ingiunto a nome dell'imperatore di abbandonare immediatamente l'armata e di ricusare di combattere contro le truppe del papa o del re d'Arragona. Giacopo Empser, senza comunicare quest'ordine a chicchessia, lo portò a Bajardo, chiedendogli consiglio. Bajardo lo condusse al duca di Nemours; e tutti due persuasero il capitano Giacomo a promettere di tenere la cosa segreta: ma un secondo corriere poteva recare un somigliante ordine ad altri capitani tedeschi; e se questi ubbidivano, se i loro compatriotti, che formavano il terzo dell'armata francese, si ritiravano, quest'armata era perduta senza combattere[206]. Tali motivi consigliarono Nemours a volgersi bruscamente verso Ravenna, persuaso che Raimondo di Cardone non acconsentirebbe che fosse presa sotto i suoi occhi una così importante città, e accorrendo per difenderla gli offrirebbe la bramata occasione di tentare la sorte d'una battaglia[207].
Infatti il Cardone risolse di difendere Ravenna; vi mandò Marc'Antonio Colonna con sessanta uomini d'armi, cento cavaleggieri e seicento fanti spagnuoli; ma per ridurre Marc'Antonio a chiudersi in quella città convenne che il vicerè, il legato, Fabrizio Colonna e Pietro Navarro, obbligassero la loro fede a soccorrere Ravenna, se i Francesi l'assediavano.
I due primi fiumi che scendendo dagli Appennini mettono foce in mare e non nel Po, il Ronco ed il Montone, passano uno a destra, l'altro a sinistra di Forlì, a non molta distanza dalla città, e, riunendosi sotto le mura di Ravenna, si gettano in mare tre miglia più abbasso. Il Nemours erasi avanzato fra questi due fiumi, vi aveva preso e saccheggiato il forte castello di Russi, indi aveva segnato il suo accampamento innanzi a Ravenna, appoggiando l'ala destra al Ronco, e la sinistra al Montone ed aveva aperte le sue batterie. Di già cominciavano a mancargli le vittovaglie; i suoi saccomanni dovevano fare sette o più miglia di strada per trovare qualche cosa da prendere in campagna, ed i Veneziani, padroni del Po, gli toglievano ogni comunicazione con Ferrara[208].
Conveniva ad ogni modo uscire bentosto da così pericolosa situazione, ed il Nemours, avendo colla sua artiglieria aperta nelle mura di Ravenna una breccia larga trenta braccia, risolse di dare l'assalto, sebbene detta breccia fosse alta tre braccia, e non vi si potesse giugnere che colle scale. Per risvegliare l'emulazione tra le nazioni che servivano insieme nella sua armata, la mattina del 9 aprile, giorno del venerdì santo, fece marciare separatamente all'assalto i Tedeschi, gl'Italiani ed i Francesi. Avanti ad ogni corpo marciavano a piedi dieci uomini d'armi compiutamente armati, e scelti fra tutta la cavalleria. Gli assalitori montarono infatti sulla breccia colla maggiore intrepidezza, e vi si mantennero sotto il fuoco dei nemici con grandissima ostinazione; ma l'apertura fatta nella muraglia era così angusta e di così difficile accesso, che dava ai suoi difensori tutto il vantaggio. Gli Spagnuoli si mantennero immobili al loro posto, ed i Francesi furono respinti. Francesco di Beusserailhe, signore de l'Espì, comandante dell'artiglieria, e Chatillon, furono mortalmente feriti; Federico di Bozzolo, cadetto della casa Gonzaga, che in appresso si rendette così famoso, fu ancor esso ferito; e rimasero sul campo di battaglia, morti dall'una e dall'altra parte, circa mille cinquecento uomini[209].
L'armata spagnuola stava sotto Faenza, fuori della porta che mette a Ravenna: quand'ebbe avviso dell'intrapresa di Gastone di Foix, si avanzò immediatamente, passò il Montone a Forlì, e dopo d'avere camminato alcun tempo fra i due fiumi, passò di nuovo il Ronco, e si avanzò sulla sua riva destra. Voleva Fabrizio Colonna che l'armata facesse alto in distanza di tre miglia dal campo di Nemours, onde tenere così i Francesi in timore. Se questi prendevano Ravenna, siccome il loro generale non avrebbe potuto impedire che gli avventurieri si disperdessero per saccheggiare, gli Spagnuoli sarebbero piombati sopra di loro in quel momento di disordine, e facilmente gli avrebbero compiutamente disfatti[210]. Se poi si restavano inattivi, la mancanza delle vittovaglie non poteva tardare a riuscir loro molesta, ed a ridurli agli estremi. Ma il Navarro non approvava giammai gli altrui consiglj; egli desiderava una battaglia, nella quale dar prova della superiorità della sua fanteria, e persuase Raimondo di Cardone ad avanzare; infatti il 10 d'aprile il Cardone presentossi tutto ad un tratto innanzi all'armata francese sull'altra riva del Ronco, mentre che questa stava esaminando le proposizioni che facevano, per arrendersi, gli abitanti di Ravenna[211].
Il Nemours fece subito ritirare i cannoni dalle batterie per dirigerli contro l'armata spagnuola; adunò nello stesso tempo un consiglio di guerra per iscegliere tra i diversi partiti che si offrivano. Se permettevasi agli Spagnuoli d'entrare in Ravenna, perduta era ogni speranza di prendere quella città, e la ritirata poteva riuscire pericolosa e vergognosa; per fermarli rendevasi necessario di passare il Ronco sotto i loro occhi, ed attaccarli nella loro marcia; ma, anche ciò facendo, non potevasi impedir loro di giugnere, se volevano, alla pinaja che stendesi fino al mare, e di arrivare alle porte della città senza venire a battaglia[212].
L'errore o la presunzione del Cardone trasse il duca di Nemours dall'imbarazzo in cui si trovava. Il primo, invece d'entrare in Ravenna, come avrebbe potuto farlo, segnò il suo campo in faccia ai Francesi, tre miglia distante dalla città, con intenzione di metterli tra due fuochi; ed impiegò tutta la notte nel coprire con una larga e profonda fossa la fronte della sua armata. Il Nemours, avvisato di ciò che stava facendo il generale nemico, fece sentire al suo consiglio di guerra che non dovevasi ritardare l'attacco de' nemici, malgrado i loro trinceramenti. Fece perciò in tempo di notte gettare dei ponti sul Ronco e spianare gli argini che lo contengono in tempo di piena; in appresso in sullo spuntare del giorno, la domenica di Pasqua, 11 aprile del 1512, fece passare il ponte alla sua fanteria tedesca, mentre il restante dell'armata guardava il fiume. Lasciò soltanto sulla sinistra del Ronco Ivone d'Allegre con quattrocento lance e l'infanteria della retroguardia, per tenere in dovere la guarnigione di Ravenna; e diede a due capitani italiani, i fratelli Scotti, mille fanti, per guardare il ponte del Montone, e tenere aperta, in caso di sinistro successo, la strada su cui avrebbe dovuto ritirarsi l'armata[213].
Il Nemours dispose la sua armata in semicerchio; appoggiò al fiume l'estremità dell'ala destra, colla quale voleva cominciare l'attacco, rinculò il suo centro, ed avanzò di nuovo l'ala sinistra. Aveva collocata sulla diritta l'artiglieria comandata dal duca di Ferrara, e settecento uomini d'armi francesi; dopo di questi veniva la fanteria tedesca; indi otto mila fanti, parte Guasconi e parte Picardi, formavano il corpo di battaglia; per ultimo cinque mila Italiani, comandati da Federico di Bozzolo, componevano l'ala sinistra, la quale era coperta da tre mila arcieri o cavaleggieri. La Palisse aveva il comando d'una retroguardia di seicento lance, collocate in riva al fiume, e con lui trovavasi il cardinale Sanseverino, legato del concilio, che si era coperto da capo a piedi di lucidissima armatura, ed era a motivo della gigantesca sua statura conosciuto a molta distanza[214].
Gastone di Foix non aveva preso il comando di verun corpo in particolare, per trovarsi in libertà di andare con un certo numero di gentiluomini, ove lo chiamasse il bisogno. «Ed il detto signore Nemours, dice il maresciallo di Fleuranges, era solito, per amore della sua dama, di non portare armatura dal gomito fino alla manopola, e di tenere coperta colla sola camicia questa parte del braccio. Egli pregava tutta la compagnia d'uomini d'armi, loro dolcemente parlando e caldamente scongiurando, che volessero in questo giorno prendersi cura dell'onore della Francia, del suo e del loro, e che volessero seguirlo. Soggiunse, che vedrebbero ciò che in quel giorno farebbe per amore della sua dama; ed all'istante partì, e fu il primo uomo d'armi che ruppe la sua lancia contro i nemici»[215].
Così consigliato da Pietro Navarro, Raimondo di Cardone non aveva attaccati i Francesi mentre passavano il fiume; ma si era afforzato nel suo campo, coperto da un canto dal fiume Ronco, dall'altra dal fosso ch'egli aveva fatto scavare. Questo fosso era verso il mezzo interrotto da un'apertura di quaranta piedi di larghezza, che aveva lasciata per poter far uscire la sua cavalleria; ma aveva collocati di dietro dell'apertura una ventina di carri, armati di lance e carichi di grossi archibugi, che compivano la fortificazione. All'angolo formato dal fiume colla fossa trovavasi Fabrizio Colonna, che comandava la sinistra con ottocento uomini d'armi, e sei mila fanti; veniva dopo di lui il corpo di battaglia, composto di seicento lance e di quattro mila fanti, sotto gli immediati ordini del vicerè e del marchese della Palude. Vi si trovava pure il cardinale de' Medici; ma o sia che la sua corta vista lo tenesse lontano da ogni esercizio militare, o che considerasse detto esercizio come contrario ai doveri del suo stato, egli aveva conservato in mezzo alla battaglia il pacifico abito di prelato. La retroguardia finalmente, che formava ancora la diritta dell'armata, e che aveva egualmente alle spalle il fiume e avanti la fossa, era composta di quattrocento uomini d'armi e di quattro mila fanti comandati da Carvajale. L'estremità della diritta era poi coperta da un corpo di cavaleggieri sotto gli ordini del giovane Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, che faceva allora i primi fatti d'armi. Tutta la fronte era guarnita d'artiglieria[216] consistente in venti pezzi, tra cannoni e lunghe colombrine, e in circa dugento archibugi a miccia, posti sopra carri armati di spontoni, i quali tenevano il di mezzo tra i moschetti ed i cannoni[217].
L'armata francese aveva passato il Ronco circa due miglia al di sotto del campo di Cardone, e vedendo che gli Spagnuoli non uscivano dai loro trinceramenti, si avviò verso di loro, conservando la sua ordinanza, senza che la sua diritta abbandonasse la riva del fiume, e tenendo sempre la forma d'una mezza luna. Quando si trovò a quattrocento passi distante dal fosso, fece alto, e cominciò il cannonamento. L'infanteria francese era quasi affatto scoperta, ed esposta ad un fuoco terribile: ma quella degli Spagnuoli per ordine di Navarro si era buttata col ventre per terra dietro la linea del fiume, e non soffriva quasi nulla dall'artiglieria nemica. Il grande Fabiano, uno de' migliori capitani della fanteria tedesca fu la prima vittima del cannone. Giacopo Empser ed il signore di Molart si posero a sedere sotto il fuoco alla testa della loro truppa e si fecero recare da bere, ma l'uno e l'altro furono uccisi. Di quaranta capitani d'infanteria francesi ne rimasero sul campo di battaglia trentotto; e questa fanteria aveva di già perduti sei mila uomini, quando gli altri, più non potendo soffrire tanta carnificina, vollero dare l'assalto alle batterie di Pietro Navarro. Colà fu ucciso il signore di Maugiron sopra una carretta che voleva prendere. Dopo avere perduti più di mila dugento uomini in quest'attacco, i Francesi furono respinti; ma quando gli Spagnuoli vollero inseguirli, furono a vicenda respinti da un corpo di Landsknecht e di Picardi, che non avevano avuto parte nell'azione: indi ciascuno rientrò nel suo posto, e continuò il cannonamento[218].
Intanto il duca di Ferrara aveva rapidamente fatta passare una parte de' suoi cannoni dietro la linea francese dall'ala destra, ove si trovavano prima, all'estremità dell'ala sinistra. Colà egli vedeva perfettamente scoperto il fianco degli Spagnuoli, e questa nuova batteria colpiva longitudinalmente tutta la loro linea. Le palle giugnevano pure fino all'ala destra francese, e vi fecero non poco guasto. Fu detto, che, volendo taluno per questo rispetto far sospendere il fuoco, Alfonso gridasse a' suoi cannonieri: «coraggio amici! non importa sapere chi sia colpito, sono tutti stranieri, e perciò tutti agl'Italiani nemici»[219]. La fanteria spagnuola, sempre appiattata per terra, non era molto esposta ai colpi dei cannoni; ma lo erano assaissimo gli uomini d'armi, ch'erano più alti, ed occupavano una superficie maggiore. Bentosto il campo di battaglia si vide coperto delle sparse membra de' soldati e de' cavalli. Pietro Navarro, che aveva egli stesso formata la fanteria spagnuola, e che tutta riponeva in questa la sua confidenza, vedeva con perfetta indifferenza la distruzione de' suoi uomini d'armi italiani; pensava che i Francesi non soffrirebbero minor danno, e calcolava che quando gli uomini d'armi delle due armate sarebbero stati egualmente distrutti dall'artiglieria, la fanteria spagnuola, che egli aveva conservata intatta, non mancherebbe di far presto a pezzi la fanteria tedesca e francese[220].
Ma gli uomini d'armi erano sotto il comando de' più illustri personaggi dell'armata, e di coloro che meno degli altri rassegnarsi potevano a vedersi sagrificati alla salvezza di un corpo ch'essi disprezzavano. Fabrizio Colonna mandò messi sopra messi al vicerè per chiedergli licenza di uscire dai suoi trinceramenti e di caricare il nemico. Non lo potendo ottenere, nè più oltre contenere i suoi uomini d'armi, gridò: «Non s'aspetta a noi altri il morire vergognosamente a cagione dell'ostinazione e della gelosia d'un malcreato Marrano. Non vogliamo sagrificargli più in là l'onore della Spagna e dell'Italia. Sortiamo; e se dobbiamo morire, si cada per lo meno vendendo a caro prezzo la nostra vita ai Francesi.» Trasse così senz'averne ricevuto l'ordine la sua truppa al di là della fossa, e caricò i nemici. Questo movimento costrinse Pietro Navarro a seguirlo, il quale fece alzare la sua fanteria spagnuola, fin allora rimasta col ventre per terra, e la condusse con furioso impeto contra la fanteria tedesca[221].
Gli uomini d'armi di Fabrizio Colonna, anche prima della battaglia, non erano stimati eguali ai Francesi; ma dopo la spaventosa perdita che avevano sofferta sotto il fuoco dell'artiglieria, più non potevano venire con questi alle mani con qualche speranza di buon successo. Mentre si avanzavano contro l'artiglieria del duca di Ferrara, furono assaliti di fianco da Ivone d'Allegre, che al romore dell'artiglieria era giunto con tutta la retroguardia, e malgrado la più ostinata difesa furono rotti, rovesciati o posti in fuga. Fabrizio, circondato da un branco di cavalieri, si andava ancora difendendo, quando Alfonso d'Este gli si avvicinò e gli disse: «Romano, non ti fare uccidere per la tua ostinazione; riconosci che la battaglia è perduta, e renditi a me. — Chi sei tu, rispose Fabrizio, tu che mostri di conoscermi? Io sono Alfonso d'Este; da me non puoi nulla temere. — Io mi arrendo volentieri a così generoso nemico, ma a condizione che tu non mi darai nelle mani dei Francesi, nemici della mia famiglia.» Alfonso alzò la mano per prometterlo, ed in quell'istante ebbe cominciamento un'amicizia, che non molto dopo salvò il duca di Ferrara dalla prigionia[222].
Il vicerè e Carvajale, dopo il primo urto della cavalleria, presero la fuga troppo presto per l'onor loro, e mentre la vittoria potev'essere ancora contrastata. Antonio de Leyva, che serviva tuttavia in oscura condizione, gli scortò nella loro ritirata. Il marchese della Palude, che aveva condotta alla carica la seconda battaglia di già assai maltrattata dall'artiglieria, fu fatto prigioniere dopo avere perduto un occhio; non ebbero miglior sorte i cavaleggieri, ed il loro capo, il giovane Pescara, destinato in appresso a tanta gloria, cominciò la sua carriera militare colle ferite e colla prigionia[223].
La pugna dell'infanteria non fu così presto decisa. I fanti spagnuoli avevano attaccati i Tedeschi: la loro armatura non era eguale. I Landsknecht portavano una picca di sedici a diciotto piedi di lunghezza, ed una sciabola al fianco. Il loro petto era coperto da un corsaletto di ferro, e non avevano nè scudo, nè altra arma difensiva. Per lo contrario gli Spagnuoli non avevano per armi offensive che la spada ed il pugnale; ma essi portavano lo scudo, e la loro testa, le gambe, le braccia e tutto il corpo erano difesi da un'intera armatura[224]. Al primo urto i Tedeschi, avanzandosi colla picca abbassata, rovesciarono molti Spagnuoli; ma questi non per ciò si sgomentarono, e spingendosi innanzi, riuscirono all'ultimo a penetrare fra le picche. Allora i Tedeschi, in certo modo disarmati, trovaronsi esposti a tutti i colpi; le picche, invece di servir loro di difesa, loro impedivano di muoversi, e le loro stesse sciabole, quando le sguainavano, richiedevano spazio e tempo per ferire di taglio, mentre che gli Spagnuoli li ferivano di punta, e penetravano facilmente ove mancava l'armatura. Spaventosa fu la carnificina, ed i Tedeschi sarebbero tutti periti sotto i colpi de' fanti spagnuoli, che spesso s'introducevano, chinandosi a terra, tra le loro gambe e li ferivano col pugnale, se Ivone d'Allegre e subito dopo Gastone di Foix non sopraggiugnevano in loro soccorso con tutta la cavalleria francese, cui dalla spagnuola era stato abbandonato il campo di battaglia[225].
Ivone d'Allegre aveva nel precedente anno perduto Melilot, uno de' suoi figliuoli in una scaramuccia presso Ferrara; l'altro, il signore Viverots, fu ucciso sotto i suoi occhi nella battaglia di Ravenna, nell'istante in cui attaccava gli Spagnuoli. D'Allegre, non volendo sopravvivere a quest'ultima sventura, si gettò in mezzo ai nemici, bramoso soltanto di vendetta, e non di salvare la propria vita, e cadde traforato da mille colpi. La fanteria spagnuola si andava non pertanto ritirando in buon ordine, lentamente e sempre combattendo, lungo la sponda del fiume, tra le acque e l'argine. Gastone di Foix, irritato dalla spaventosa carnificina che questa aveva fatto della sua gente, non volle permetterle la ritirata senza cercare di avvilupparla. La caricò in persona colla sua cavalleria, e cadde ferito da cavallo. Lautrec, che stava al suo fianco, invano gridava al soldato spagnuolo, che lo aveva gittato a terra: «non l'uccidete, egli è il nostro vicerè, il fratello della vostra regina.» Lo spagnuolo gl'immerse la sua spada nel seno. Anche Lautrec fu lasciato per morto carico di venti ferite. La cavalleria francese, atterrita per la caduta de' suoi capi, si fermò, e la fanteria spagnuola continuò la sua ritirata senz'essere molestata[226].
In questo secolo, insanguinato da tante battaglie, niuna aveva ancora uguagliato in accanimento quella di Ravenna: in niuna non avevano preso parte all'azione tutti i corpi di così grosse armate, nè il campo di battaglia era rimasto coperto di tanti morti. Quasi tutti gli storici ne contano diciotto in venti mila, due terzi de' quali appartenevano all'armata alleata; il solo Guicciardini, più moderato ne' suoi calcoli, li porta in tutto a dieci mila[227]. Gli equipaggi, le insegne e l'artiglieria dei vinti caddero in potere dei vincitori. Il cardinale de' Medici, legato del pontefice, che pochi mesi dopo doveva essere papa, fu fatto prigioniero da alcuni Stradiotti di Federico da Bozzolo, e condotto al cardinale di Sanseverino, legato del concilio. Fabrizio Colonna, Pietro Navarro, i marchesi della Palude, di Bitonto e di Pescara, con moltissimi ufficiali d'importanza, contavansi tra i prigionieri; mentre i Francesi piangevano la perdita di Gastone di Foix, d'Ivone d'Allegre, dei capitani della fanteria guascona e tedesca, Molard e Giacomo Empser, e di molti altri distinti ufficiali o capi appartenenti alla più illustre loro nobiltà[228].
«Ognuno seppe la morte di così virtuoso e nobile principe, il gentil duca di Nemours, onde cominciò nel campo francese un così maraviglioso rammarico, ch'io punto non dubito, se fossero giunti due mila uomini freschi e dugento uomini d'armi, che non avessero tutto disfatto, tanto per la pena, che per la fatica sostenuta in quel giorno»[229]. Infatti la morte di Nemours era in quelle circostanze il più fatale avvenimento che accadere potesse all'armata francese. S'egli fosse vissuto, non vi ha dubbio, che seguendo l'ordinaria sua rapidità, e valendosi dell'entusiasmo che inspirare sapeva ai suoi soldati, non si fosse allontanato dal luogo in cui aveva combattuto, per indebolire la memoria di tante perdite; e che, spingendo a Roma la sua vittoriosa armata, non avesse colà dettata la pace al papa, indi distrutta la potenza spagnuola a Napoli, ove non era apparecchiata veruna resistenza, e forse conquistato quel regno per sè medesimo: perciocchè era comune opinione che Lodovico XII gli avesse ceduti quegli stessi diritti, che in un precedente trattato avea trasferiti alla di lui sorella, Germana di Foix, in allora regina di Spagna[230]. Ma i Francesi, piangendo il duca di Nemours, non erano disposti ad ubbidire a verun altro; il loro rammarico e le numerose perdite che avevano fatto ispiravano loro quasi tanto scoraggiamento, come se fossero stati vinti. Il cardinale di Sanseverino contrastava a la Palisse il comando dell'armata; e non potendo accordarsi, erano stati costretti di ricorrere al re di Francia per chiedere nuovi ordini. Intanto l'amministratore delle finanze, che portava il titolo di generale di Normandia, e che comandava a Milano, non consultando che una sordida economia, aveva, secondando le inclinazioni del re, licenziata tutta la fanteria italiana, e gran parte della francese[231].
I fuggiaschi dell'armata della lega avevano presa la strada di Cesena, di dove in appresso si sparsero nelle vicine province. Il vicerè si fermò solamente in Ancona, ove giunse accompagnato da pochi cavalieri. Gli altri cadevano quasi tutti nelle mani de' contadini sollevati, e sempre apparecchiati ad opprimere ed a spogliare i vinti. Per altro la repubblica fiorentina protesse coloro che si erano rifugiati nel suo territorio, mentre che il duca d'Urbino, dopo d'aver fatto per mezzo del conte Baldassare Castiglioni, celebre autore del Cortigiano, la sua pace parziale col re di Francia, inseguì egli stesso i fuggitivi[232].
Marc'Antonio Colonna, perduta ogni speranza di poter difendere Ravenna, dopo la rotta dell'armata che veniva per soccorrerlo, si ritirò nella cittadella. Gli abitanti chiesero subito di capitolare; ma mentre si trattavano le condizioni, Jacquin, capitano degli avventurieri, s'avvide che più non eravi chi custodisse la breccia, e condusse i suoi camerata all'assalto ed al saccheggio. Jacquin, accusato d'avere in tal modo macchiato l'onore francese, venne appiccato per ordine del signore della Palisse; ma il comando de' capi più non poteva contenere i soldati; e la città fu saccheggiata con una barbarie incredibile dai soldati, resi più feroci dalle perdite fatte nella battaglia[233]. Il quarto giorno Marc'Antonio Colonna rese la fortezza; bentosto le città d'Imola, di Forlì, di Cesena, di Rimini, e molte delle loro fortezze, mandarono la loro sommissione al campo francese; ed il cardinale legato di Sanseverino prese possesso di tutte a nome del concilio di Milano[234].
La notizia della disfatta di Ravenna era stata portata a Roma in quarantotto ore da Ottaviano Fregoso e vi aveva sparsa la costernazione. I cardinali, affollandosi intorno al papa, lo avevano supplicato d'approfittare delle pacifiche disposizioni manifestate da Lodovico XII, per salvare Roma e la Chiesa da una invasione che omai niuna umana forza più non poteva impedire. Gli rappresentavano che lo stesso suo nipote era d'accordo coi Francesi; che tra i baroni romani, Roberto Orsini, Pompeo Colonna, Antonio Savelli, Pietro Margano, Renzo de Ceri, avevano ricevuto danaro dal re per assoldar gente, e si apparecchiavano a raggiugnere l'armata; all'ultimo che doveva risguardare come un giudizio di Dio la sconfitta che rovesciava i suoi progetti per l'indipendenza d'Italia. Dall'altro canto gli ambasciatori del re d'Arragona e de' Veneziani gli andavano ricordando i mezzi che ancora gli restavano, ed i soccorsi che doveva ripromettersi dagli Svizzeri e dal re d'Inghilterra. Ravvivavano la sua collera contro il concilio di Pisa, ed in particolare contro i cardinali di Sanseverino e di Carvajale: gli facevano calde istanze perchè non tardasse a porsi colla sua corte in luogo sicuro, o nel regno di Napoli, o nello stato di Venezia, e gli rappresentavano che l'occupazione di Roma non sarebbe in ultimo che la disgrazia d'una città, mentre che la pace trarrebbe seco la perdita dell'autorità pontificia[235].
Giulio II, abbandonandosi alternativamente al terrore o alla collera, non prendeva verun partito, ed a tutti rispondeva quasi sempre con ingiuriose parole. Coloro avidamente ascoltava che gli facevano travedere qualche mezzo di resistenza; ma l'idea di abbandonare Roma, e farsi dipendente da un'altra potenza, gli riusciva oltremodo odiosa. Aveva fatto venire a Cività Vecchia il genovese Biascia, capitano delle sue galere, affinchè la flotta fosse pronta a riceverlo qualunque volta fosse costretto a fuggire; ma poco dopo lo rimandò senza manifestare quale partito avesse preso. Acconsentì finalmente a dare orecchio alle proposizioni di pace che erano incaricati di fargli, a nome di Lodovico XII, i cardinali di Nantes e di Strigonia. Queste condizioni erano state mandate prima che la corte di Francia avesse notizia della battaglia di Ravenna; e sapendo quanto il re desiderasse la pace, i cardinali non credettero di doverle cambiare, sebbene fossero vantaggiosissime pel papa. Lodovico XII offriva lo scioglimento del concilio di Pisa, la restituzione di Bologna, la cessione di Lugo e di tutti i possedimenti di casa d'Este in Romagna, finalmente la rinuncia al diritto di far sale in Comacchio, e non chiedeva in contraccambio che la revoca dell'interdetto e di tutte le sentenze ecclesiastiche, e la restituzione dei loro beni ai Bentivoglio. Il papa, dopo le reiterate preghiere de' suoi cardinali, acconsentì di trattare su queste basi, e ne diede la commissione al cardinale di Finale ed al vescovo di Tivoli, che risedevano in Francia; ma non gli autorizzò a conchiudere; anzi dichiarò agli ambasciatori d'Arragona e di Venezia, che questa apparente condiscendenza non era che uno stratagemma per disarmare la Francia e guadagnar tempo[236].
Infatti Lodovico XII, lungi dall'invanirsi per la vittoria di Ravenna, di fidarsi alle proteste di Massimiliano che prometteva di non ratificare l'armistizio con Venezia, segnato senza suo ordine, o di riposarsi sull'alleanza che i Fiorentini avevano rinnovata nel primo terrore della vittoria de' Francesi, non manifestava che maggior ardore per riconciliarsi col papa. Accettò la mediazione offerta dai Fiorentini, e mandò loro il presidente del parlamento di Grenoble colla sua accettazione delle proposizioni che gli erano state fatte[237].
Ma intanto il papa, avendo saputo da Giulio de' Medici, mandatogli dal cardinale legato, in quale disordine si trovava l'armata francese, si andava alquanto rassicurando. Aveva Ferdinando promesso di rimandare in Italia il gran capitano Gonsalvo di Cordova, il di cui solo nome rianimava le speranze di tutto il suo partito, e di già vi aveva mandato Solis con due mila soldati spagnuoli, ed Ugone di Moncade, vicerè di Sicilia[238]. Il duca d'Urbino aveva domandato ed ottenuto di rientrare in grazia del papa, suo zio; gli aveva promessi dugento uomini d'armi e quattro mila fanti, ed era stato nuovamente dichiarato generale dell'armata pontificia[239]. I baroni romani, che avevano trattato colla Francia, eransi di nuovo accomodati col papa, ed avevano convenuto di tenere il danaro ricevuto, dispensandosi dalle contratte obbligazioni[240]. Finalmente La Palisse, sulla vociferazione di una prossima invasione degli Svizzeri, erasi ravvicinato a Milano, e non aveva lasciato al cardinale di Sanseverino per proteggere la Romagna che trecento lance, trecento cavaleggieri e sei mila fanti[241]. Allora il papa, deponendo ogni pacifica disposizione, scrisse a Venezia al cardinale di Sion, che invece di levare per lui sei mila Svizzeri, ne levasse dodici mila, o pure che accettasse al suo servigio tutti coloro che si fossero presentati[242].
Era giunta l'epoca annunciata per l'apertura del concilio di Laterano, e, malgrado la guerra, molti prelati d'Italia, di Spagna, d'Inghilterra e d'Ungheria, eransi adunati in Roma. Tre settimane dopo la battaglia di Ravenna, il giorno 3 di maggio, Giulio II potè fare la solenne apertura del concilio; e trovaronsi alla prima sessione ottantatre vescovi[243]. Sentendosi appoggiato dalla Chiesa adunata, volle Giulio ispirare coraggio ai cardinali, che fin allora lo avevano consigliato alla pace. Fece leggere in pieno concistoro le proposizioni di Lodovico XII; ma il cardinale di Ebora, suddito del re d'Arragona, e quello di Jorck, suddito del re d'Inghilterra, chiesero ambidue la parola, per rappresentargli che sarebbe cosa vergognosa il trattare col comune nemico senza tutti gli alleati. Il papa mostrò d'acquietarsi al consiglio che si era fatto suggerire; e per dare a conoscere che aveva rinunciato ad ogni pensiere di pace, pubblicò un monitorio contro il re di Francia, per ordinargli, sotto tutte le pene che può pronunciare la Chiesa, di mettere in libertà il cardinale de' Medici, da lui tenuto prigioniere[244].
Agli Svizzeri appoggiava Giulio II le principali sue speranze, ed aveva trovato nel cardinale di Sion un agente presso di loro, nè meno impetuoso, nè meno costante di lui ne' suoi odj. La contesa degli Svizzeri colla Francia, cominciata per avarizia, era per loro diventata un affare d'orgoglio. Non erano più le ricusate pensioni, ma il tuono insultante del re, era il disprezzo di lui per gente di contado ed ignobile, che loro mettevano le armi in mano. I partigiani della Francia avevano, finchè era stato loro possibile, resistito nella dieta di Zurigo al torrente dell'odio popolare, ed avevano prevenuta una dichiarazione di guerra; ma non avevano potuto impedire che non si desse licenza al papa di levare ne' cantoni dieci mila uomini; ed in appresso il cardinale di Sion aveva facilmente potuto aumentare questa leva a suo piacere[245].
Malgrado i riclami della Francia, la prima unione di quest'armata si fece a Coira. I Grigioni dichiararono, che tra la loro alleanza coi cantoni e quella colla Francia, doveva preferirsi la prima siccome la più antica. L'esperienza degli ultimi due anni aveva provato, che gli Svizzeri, per tenere la campagna, non potevano dispensarsi dall'avere un corpo d'uomini d'armi e di cavaleggieri. Perciò vedevano la necessità di unirsi ad un'armata veneziana o pontificia, prima di entrare nel territorio nemico. La più breve strada per giugnere nello stato veneto era quella che attraversa il vescovado di Trento, ed ottennero da Massimiliano la licenza di toccare il suo territorio.
Si può dubitare se la condotta di Massimiliano debba attribuirsi all'instabilità del suo carattere o alla sua perfidia; ad ogni modo i risultamenti furono quelli della più insigne mala fede. La città di Verona era sempre stata custodita da una guarnigione francese, qualunque fosse stato il bisogno in cui si fosse trovato Lodovico XII di valersi altrove delle sue truppe. Massimiliano aveva in proprio nome convocato il concilio di Pisa, ed in appresso non erasi curato di farlo riconoscere sia nell'impero che nei suoi stati ereditarj, lasciando a Lodovico XII tutta l'odiosità d'avere eccitato uno scisma. In Roma il suo ambasciatore aveva sottoscritta, il 6 d'aprile, una tregua di dieci mesi coi Veneziani, non solo senza comprendervi il suo alleato, che in allora trovavasi attaccato da potenti nemici, ma cercando inoltre di levargli parte delle sue truppe. Massimiliano aveva giurato di non ratificare questa tregua, e mercè una nuova gratificazione di dieci mila fiorini la ratificava, ma celatamente. Nascondendo a Lodovico XII tale transazione, ne accresceva il pericolo per la Francia. Finalmente accordando agli Svizzeri un passaggio a traverso ai proprj stati per attaccare i Francesi, passava, senz'esserne provocato, da un'intima alleanza ad un aperto atto d'ostilità.
L'accortezza di Ferdinando il Cattolico, il più falso ed il più versipelle monarca d'Europa, aveva diretta la condotta, e mutate tutte le disposizioni di Massimiliano. Questi, anche nel tempo della sua più intima unione colla Francia, non aveva giammai deposto l'antico suo odio contro quella corona: altronde egli formava sempre giganteschi progetti, che poi abbandonava prima di dar loro esecuzione. Ferdinando, per consolarlo di non aver terminata la conquista dello stato di Venezia, e di non avere in seguito condotta in trionfo un'armata tedesca a Roma ad oggetto di prendervi la corona imperiale, gli propose di scacciare i Francesi da tutta la Lombardia, di far valere sui paesi ch'essi occupavano i diritti dell'impero, da gran tempo dimenticati, finalmente di restituire il ducato di Milano al cugino germano di sua moglie, a Massimiliano Sforza, figliuolo di Lodovico il Moro, che da molto tempo erasi rifugiato alla di lui corte. In tal modo, risvegliando la di lui ambizione e vanità, lo ridusse ad associarsi alla santa lega, cui poteva riuscire utile[246].
Sei mila Svizzeri al soldo del papa, ed altrettanti al soldo de' Veneziani, dovevano adunarsi a Coira; ma sebbene il primo per avarizia, gli altri per la povertà cui erano stati ridotti da lunga guerra, non mandassero che lentamente il danaro necessario alle reclute, sebbene queste due potenze non pagassero per l'arrolamento che un fiorino del Reno per uomo, mentre i Francesi avevano sempre data un'assai maggior somma; nondimeno tale era l'odio del popolo per questi ultimi, ed il furore con cui gli Svizzeri prendevano parte in una guerra che risguardavano come nazionale, che l'armata adunata in Coira si trovò numerosa di venti mila uomini, e nella sua marcia pel vescovado di Trento e pel Veronese soffrì senza lagnarsene il ritardo della paga, la mancanza delle vittovaglie ed ogni genere d'incomodità[247].
La condizione del signore de La Palisse, che comandava l'armata francese, era diventata estremamente difficile. Poco d'accordo col cardinale di Sanseverino, legato del concilio, che gli contrastava l'autorità, non lo era meglio col generale di Normandia incaricato della civile amministrazione del ducato di Milano, il quale, risguardando la guerra con occhio da finanziere, piuttosto che da uomo di stato, dopo la vittoria si era affrettato di licenziare l'infanteria italiana, e che poscia, quando diede a Federico da Bozzolo l'ordine di levare di bel nuovo sei mila uomini, si trovò senza danaro per pagare il loro arrolamento, e senza credito a motivo del rapido cambiamento della fortuna. Altronde La Palisse non era che generale interinale, e non abbastanza elevato di rango per far tacere tutte le gelosie de' suoi subordinati, o per soddisfare pienamente al loro orgoglio; perciò non poteva ottenere da loro l'ubbidienza mostrata a Gastone di Foix. Gli uomini d'armi francesi davano agli altri corpi l'esempio dell'indisciplina: stanchi di così lunga guerra, e con poca speranza di prosperi successi, desideravano la perdita del ducato di Milano, per potersi ritirare in Francia. Altronde le censure della Chiesa, e la vergogna di combattere per sostenere uno scisma, facevano impressione sullo spirito de' soldati. Erasene avuta manifesta prova quando il cardinale de' Medici era stato condotto prigioniere a Milano; egli era stato, sotto gli occhi del concilio nemico, ricevuto con infinito rispetto; e siccome Giulio II gli aveva accordata l'autorità di sciogliere dalle censure ecclesiastiche que' soldati che si fossero obbligati a non servir più contro la Chiesa, e d'accordare ai moribondi la sepoltura in luogo sacro, un'avida folla gli stava sempre intorno per ottenere tali grazie, ed i generali francesi, malgrado le rimostranze del concilio, non si opponevano alla distribuzione delle medesime[248].
Per formare l'armata da opporre al re d'Inghilterra Lodovico XII aveva richiamati in Francia i dugento gentiluomini, e gli arcieri della sua guardia, come pure dugento lance: d'altra parte aveva riclamati dai Fiorentini i trecento uomini d'armi ch'erano obbligati a somministrargli. Non restavano a La Palisse, che mille trecento lance francesi, e dieci mila fanti; ma anche queste truppe trovavansi disperse sopra una vasta estensione di paese, in Romagna, al Finale di Modena, a Parma ed ai confini del Veronese. Ordinò a tutti d'adunarsi a Pontoglio, per essere a portata d'osservare e di fermare gli Svizzeri; e per questo motivo fu costretto a lasciare scoperta Bologna, per difendere la quale i Francesi avevano fin allora fatti così grandi sagrificj[249].
Gli Svizzeri, scesi pel vescovado di Trento nel Veronese, avevano trovato a Villafranca presso Verona Gian Paolo Baglioni, generale de' Veneziani, con quattrocento uomini d'armi, ottocento cavaleggieri, sei mila fanti ed una buona artiglieria. Nel mentre che dopo tale unione erano incerti se dovessero o no incamminarsi verso Ferrara, fu loro portata una lettera del signore de La Palisse al generale di Normandia, che loro fece conoscere l'impossibilità in cui trovavansi i Francesi di difendere Milano, onde risolsero di volgere da quella banda le loro armi. La Palisse si era da prima avanzato da Pontoglio a Castiglione delle Stiviere, poi a Valeggio sul Mincio; ma disperando di conservarsi in questa posizione, ripiegò sopra Gambara, poi sull'Oglio a Pontevico. Intanto l'armata spagnuola e pontificia, cui erasi lasciato tutto il tempo di potersi rifare, aveva ricuperato Rimini, Cesena, Ravenna, con tutte le fortezze e tutte le piazze della Romagna; e già minacciava Bologna, per difesa della quale, La Palisse, cedendo alle istanze dei Bentivoglio, aveva fatto avanzare le trecento lance lasciate a Parma. Sotto gl'immediati suoi ordini La Palisse non aveva a Pontevico che mille lance francesi, e tutt'al più sei in sette mila fanti; il rimanente trovavasi distribuito nelle piazze di Brescia, di Peschiera e di Legnago[250].
La Palisse seppe bentosto che l'armata del Baglioni e degli Svizzeri aveva passato il Mincio sulle terre del marchese di Mantova, il quale non poteva ricusare il passaggio a chicchefosse. Il suo consiglio di guerra giudicò cosa impossibile il far testa ai nemici in altra maniera, che distribuendo l'armata nelle piazze forti, per istancheggiare l'impeto degli Svizzeri, ed esaurire le finanze del papa e de' Veneziani. Per tale oggetto mandò due mila fanti a Brescia con centocinquanta lance francesi, e cento uomini d'armi fiorentini; a Cremona cinquanta lance e mille fanti; a Bergamo cento uomini d'armi e mille fanti, e più non gli rimasero a Pontevico che settecento lance, due mila fanti francesi e quattro mila tedeschi. Non aveva appena fatta questa distribuzione, che un araldo d'armi di Massimiliano venne ad intimare a tutti i Tedeschi, che si trovavano nell'armata francese, d'abbandonarla e d'astenersi dal combattere contro il papa. I Tedeschi, quasi tutti Tirolesi ed immediati sudditi dell'imperatore, ubbidirono immediatamente, contenti di separare la sorte loro da quella d'un'armata che si andava ritirando, e che cominciava a provare le avversità. La loro partenza lasciò La Palisse nell'impossibilità di difendere il ducato di Milano; onde la sua armata abbandonò Pontevico con movimento tumultuoso, per ritirarsi a Pizzighettone sull'Adda[251].
Gli Svizzeri andavano sempre avanzando; passarono l'Oglio, e giunsero il 5 di giugno avanti Cremona, che il movimento retrogrado di La Palisse aveva lasciata scoperta. La guarnigione ritirossi subito nella cittadella, e la città offrì di capitolare; ma i Veneziani pretendevano che fosse loro consegnata, e gli Svizzeri volevano prenderne possesso a nome di Massimiliano Sforza, duca di Milano: i Veneziani cedettero agli Svizzeri, che temevano di disgustare, e fu in Cremona rialzata la bandiera del duca di Milano; nello stesso tempo Bergamo si sollevò senza straniero soccorso, ed aprì le sue porte ai Veneziani[252].
Avendo La Palisse richiamate le trecento lance francesi che occupavano Bologna, passò l'Adda a Pizzighettone, e recossi in due giorni a Pavia. Milano trovavasi allora affatto scoperto. Gian Giacopo Trivulzio, il generale di Normandia, Antonio Maria Palavicino, Galeazzo Visconti e tutti i Francesi partirono per salvarsi in Piemonte. Condussero con loro il cardinale de' Medici; ma nel tempo che questi stava per passare il Po, tra Pieve del Cairo e Bassignano, alcuni de' suoi amici sommossero i contadini del vicinato, e levatolo di mano alle guardie che lo custodivano, lo posero in libertà. I fuggitivi avanzi del concilio di Pisa avevano abbandonato Milano pochi giorni prima. Quest'assemblea dividendosi pronunciò con ridicola millanteria una sentenza di scomunica contro Giulio II, dichiarandolo sospeso dall'amministrazione spirituale e temporale della Chiesa[253].
Credeva La Palisse di potersi mantenere a Pavia, mentre che il Trivulzio ed il generale di Normandia gli rappresentavano che, in un paese apparecchiato a sollevarsi in ogni luogo, non potrebbe senza fanteria lottare contro un'armata così formidabile quale era quella che lo attaccava. Stavano ancora disputando, quando l'armata della lega, avendo occupato Lodi senza trovare resistenza, si presentò sotto Pavia, e cominciò a tirare contro il castello. I Francesi, che temevano di vedersi preclusa ogni ritirata, evacuarono Pavia, collocando nella retroguardia i pochi fanti tedeschi ch'erano loro rimasti; ma gli Svizzeri entrarono in città prima che gli altri ne fossero usciti, e scaramucciarono per tutta la lunghezza delle strade. L'armata, che si ritirava, dopo essere uscita di Pavia per il ponte di pietra sul Ticino, doveva ancora passare sopra un ponte di legno il ramo dello stesso fiume, chiamato Gravellone. Nella precipitosa marcia, l'artiglieria, i cavalli, gli equipaggi si affollarono sul ponte che si ruppe sotto il soverchio peso, e tutta quella parte della retroguardia ch'era rimasta sull'altra riva fu uccisa o fatta prigioniera[254].
Il Gravellone ed il Po impedirono che l'armata francese fosse più inseguita dai nemici, onde continuò a ritirarsi senz'essere molestata; ma tutti i paesi che si lasciava addietro mutavano subito governo. I Bentivoglio erano fuggiti da Bologna, che fu subito occupata dal duca d'Urbino colle truppe della Chiesa. Il papa, non potendo ai Bolognesi perdonare gli oltraggi che avevano fatti alla sua statua, li privò della nomina de' loro magistrati e di tutti i loro privilegj, condannò i principali cittadini a grosse ammende, e stette alcun tempo incerto se dovesse spianare la città e trasportarne gli abitanti a Cento[255].
Giulio II non aveva abbandonato il suo progetto di liberare Genova, sua patria; ed incaricò dell'esecuzione di tale progetto Giano Fregoso, che in allora stava al soldo de' Veneziani. Ma ricordandosi i Genovesi troppo vivamente de' mali sofferti a cagione della loro ultima ribellione contro la Francia, erano intenzionati di non fare verun movimento, ed inoltre dichiararono al loro governatore, Francesco della Rochechouart, che lo seconderebbero con tutte le loro forze. Questi per altro sapeva troppo bene quanto per le sue vessazioni si fosse renduto odioso, onde volersi fidare sulle loro promesse. Quando intese che Giano Fregoso s'avvicinava, rifugiossi nella fortezza della Lanterna colla sua guardia, e non volle uscirne, malgrado le più calde istanze de' Genovesi. La città si tenne tre giorni senza governo fino alla venuta di Giano Fregoso, che il 29 di giugno del 1512 fu finalmente nominato doge per acclamazione. L'indipendenza della repubblica venne riconosciuta dagli alleati, mediante il pagamento di dodici mila ducati fatto nelle mani del cardinale di Sion per conto degli Svizzeri; ed il nuovo doge Fregoso s'affrettò d'assediare le due fortezze occupate dai Francesi. Quella del Castelletto capitolò dopo otto giorni, ma quella della Lanterna tenne ancora molto tempo[256].
Il cardinale di Sion, il quale dal pontefice era stato nominato legato presso l'armata alleata, prendeva possesso di tutte le città della Lombardia a profitto della santa lega, ed il figlio di Lodovico il Moro, Massimiliano Sforza, che era proclamato duca di Milano, e sotto il di cui nome ottenevansi tali vittorie, vedevasi taglieggiato o tradito da tutti i suoi pretesi alleati; sorte altrettanto giusta quanto inevitabile d'ogni sovrano, che, per risalire sul trono, adopera armi straniere, e vuole regnare a prezzo di tutte le sciagure del suo paese. Gli Svizzeri opprimevano i suoi sudditi con ruinose contribuzioni; avevano imposta a Milano una taglia di sessanta mila ducati, di quaranta mila a Pavia, di trenta mila a Lodi, di venti mila a Parma e d'altrettanti a Piacenza[257]. Era appena terminata la dieta di Zurigo, che nuovi corpi di truppe svizzere avevano valicate le montagne, non per soccorrere i loro compatriotti, che non ne abbisognavano, ma per dividere con loro le spoglie della Lombardia. Non contenti delle contribuzioni, occuparono la città di Locarno ed il suo territorio; i Grigioni, Chiavenna e la Valtellina; ed il papa, con un'assai più patente violazione de' diritti del suo alleato, riunì alla Chiesa Parma e Piacenza coi loro territorj, sotto pretesto che queste città, che avevano volontariamente aperte le loro porte alla sua armata, avevano appartenuto in altri tempi all'esarcato di Ravenna, accordato da Carlo Magno alla Chiesa; di modo che il diritto della santa sede alla loro sovranità era di lunga mano anteriore alle pretese degl'imperatori tedeschi ed alla fondazione del ducato di Milano[258].
CAPITOLO CX.
Sommissione del duca di Ferrara al papa, e sua fuga da Roma. Ingresso degli Spagnuoli in Toscana; sacco di Prato; deposizione del Soderini; richiamo dei Medici al governo di Firenze. Discordie tra i confederati della santa lega; nuove negoziazioni; morte di Giulio II.
1512 = 1513. Quando osserviamo atti di ferocia, ingiuste e vergognose violenze, macchiare le rivoluzioni colle quali i popoli servi tentarono di ricuperare la propria indipendenza, ci sentiamo spesse volte inclinati a supporre in queste nazioni un odio profondo, inveterato, implacabile contro i loro oppressori, a credere che l'abbiano saputo dissimulare finchè non si era presentata loro l'opportunità di scuotere il giogo, e che al presentarsi di favorevole occasione gli dessero libero sfogo. Sebbene l'odio, o lo spirito di vendetta annoverare non si possano tra i nobili sentimenti dell'uomo, una tal quale involontaria ammirazione si attacca a tutti i vigorosi affetti; la sola loro intensità eccita una specie di simpatia, e sonosi veduti talvolta uomini umani e filosofi scusare, e predicare perfino, quelle vendette popolari che loro sembravano acconce a ravvivare l'energia degli oppressi.
Per altro facevano quasi sempre soverchio onore ad una malvagia azione, attribuendola ad un nobile motivo. La ferocia de' popoli è d'ordinario il sintomo della viltà e della debolezza. L'odio che si manifesta con una così violente esplosione, nasce per l'ordinario solamente nell'istante in cui non si corre verun pericolo nel soddisfarlo. La è una delle cattive inclinazioni della natura, un'inclinazione che si manifesta in ogni occasione negli animali, ne' fanciulli e nel popolo ignorante, quella d'attaccare colui che sembra incapace di difendersi. I timidi uccelli opprimono col becco il compagno ammalato; i cani inseguono con furore l'uomo o l'animale che fugge; i fanciulli insultano l'idiota, lo scemo, che loro dovrebbe ispirare compassione; e la bassa plebe oltraggia con ogni specie d'insulti lo sciagurato esposto alla berlina, quantunque talvolta non ne conosca il delitto. Tostocchè le viene indicata come oggetto della sua collera una setta, un partito, una nazione, la plebe, senza esaminare i loro torti, senza neppure intenderne il nome, s'irrita, si agita e si porta agli estremi oltraggi, ai più sfrenati atti di ferocia, sebbene niun ragionevole motivo abbia potuto eccitare il suo risentimento. A stento un'armata che fugge può sottrarsi alla persecuzione di que' medesimi contadini, che prima della battaglia facevano voti perchè fosse vittoriosa.
I Francesi erano obbligati ad evacuare l'Italia; ognuno credette d'avere contro questi spossessati padroni i più legittimi motivi di malcontento, perchè ognuno volle far uso di tutto il potere che momentaneamente aveva, e perchè, esaltato dall'emozione che sempre comunica la moltitudine, suppose essere un suo proprio sentimento l'effetto delle grida e delle ingiurie che risuonavano alle sue orecchie. Pochi giorni prima l'armata spagnuolo-pontificia era stata sconfitta nella battaglia di Ravenna, ed i fuggitivi, attraversando di nuovo lo stesso stato del papa, erano stati spogliati, maltrattati, uccisi; gl'Italiani dai loro compatriotti, gli Spagnuoli da uomini, che ancora non avevano avuto tempo d'essere da loro vessati. Qualunque volta i Tedeschi erano perdenti nella Marca Trivigiana o nel Friuli, lo scatenamento de' contadini di quelle contrade, che tanto avevano sofferto, era lo stesso contro di loro. Venne la volta loro anche pei Francesi, quando meno se l'aspettavano, e furono esposti come i loro rivali a tutti i furori del popolaccio.
Le quattro straniere nazioni, che in allora guerreggiavano in Italia, avevano tutte dato prova d'insaziabile cupidigia e di terribile ferocia. Gli Spagnuoli, i Tedeschi, gli Svizzeri, i Francesi, non potevano per questo rispetto vicendevolmente nulla rimproverarsi. Soltanto i Francesi non aggiugnevano all'avidità, comune a tutti, l'avarizia degli altri. Tutto quanto si erano fatto dare, od avevano preso, abusando della vittoria, tutto dispensavano in appresso con mano liberale; e dopo pochi giorni si trovavano così privi di danaro, come prima del saccheggio. Nel seguire la vittoria, nel sacco d'una città, nel primo stabilimento de' loro quartieri, pareva che la loro rabbia mai non potesse saziarsi di sangue, e l'arroganza loro non risparmiava chicchessia; ma pochi giorni, e talvolta poche ore bastavano, per istringere domestichezza cogli abitanti presso cui si erano alloggiati: la sociabilità, che così eminentemente li distingue, e che per essi è un bisogno e quasi un istinto, loro faceva bentosto cercare ciò che poteva ravvicinarli ai loro ospiti; desideravano di dissipare sulla fronte loro il mal umore che li rattristava; cercavano di rendere qualche piccoli servigj a coloro che avevano maltrattati; lavoravano con loro intorno alla capanna che doveva tener luogo della casa ch'essi avevano bruciata, e bevevano insieme con tutta la famiglia il vino che aveano rubato nelle di lei cantine. Comunque non conoscessero la lingua de' loro ospiti, pure discorrevano con loro e sapevano indovinare ciò che non poteano capire. Se spesse volte davano motivo di gelosia agli amanti, ai mariti, ai genitori, non era altrimenti colla brutalità d'inesorabili vincitori, ma colle officiose attenzioni d'una militare galanteria.
Gli Spagnuoli, sobrj, taciturni, alteri, vendicativi, non abusavano meno de' Francesi dell'istante della vittoria; non perchè fossero come questi esaltati dalla frenesia delle battaglie, ma perchè rispettavano ancora assai meno la vita degli uomini, e non erano in verun modo sensibili all'altrui dolore. Il soldato spagnuolo quale si era mostrato il primo giorno, tale mostravasi ancora in appresso in tutte le relazioni che potevansi formare con lui. Egli aveva spogliato per avarizia, e quest'avarizia non veniva mai meno, andando sempre egualmente in traccia e di nuovi guadagni e di nuovi risparmj, sebbene talvolta lo stesso uomo spendesse per orgoglio e per sembrare magnanimo in una clamorosa circostanza ciò che aveva con gran pena ammassato in più anni. Quest'orgoglio mai non gli permetteva d'ammettere un forastiere a veruna famigliarità con lui; sempre si manteneva alla stessa distanza dalla famiglia de' suoi ospiti, e sebbene il suo idioma si avvicinasse in modo all'italiano da potere senza troppo studio intendere e apparare quello degli abitanti, mai non lo adoperava che per alcune frasi di cerimonia, cui avvezzava i suoi ospiti; egli loro insegnava i riguardi dovuti ad un senhor soldado, ma non si abbassava a conversare con loro.
Gli Svizzeri ed i Tedeschi, senz'essere considerati come uno stesso popolo, avevano tali rapporti gli uni cogli altri, che gl'Italiani non potevano assegnare un distinto carattere a questi formidabili ospiti. Gli Svizzeri, superbi de' loro prosperi successi negli ultimi vent'anni, avevano un più insolente contegno. Non accostumati a riconoscere verun superiore, più difficilmente degli altri si assoggettavano alla disciplina; e non avendo da lungo tempo militato che come soldati mercenarj, altro fine non vedevano nella guerra che quello di guadagnare danaro; ed a questo fine frequentemente sagrificavano la loro fede ed il loro onore. Altronde le due nazioni erano, a gara l'una dell'altra, feroci rispetto ai vinti, avide ed insaziabili nel saccheggio, ed avare per conservare ciò che avevano acquistato. Ambedue si abbandonavano allo stesso genere d'intemperanza; ed il diritto d'ubbriacarsi loro sembrava il più alto premio della vittoria. Affatto indifferenti pei popoli coi quali vivevano, senza curarsi di conoscerne i costumi o le opinioni, gli Svizzeri ed i Tedeschi, dopo le loro orgie, si abbandonavano ad un indolente riposo: essi non tentavano nè meno di farsi intendere dai loro ospiti, lasciandoli dubitare che potessero, come gli altri uomini, pensare, amare, sentire.
Ravenna fu la prima città in cui i Francesi furono vittima di quell'odio popolare che improvvisamente scoppiava contro di loro. Vero è ch'essi l'avevano crudelmente provocata col saccheggiarla nell'istante in cui i di lei magistrati sottoscrivevano la capitolazione. Giulio Vitelli, vescovo di Città di Castello, che aveva comandato nella fortezza di Ravenna, vi s'avvicinò con un corpo di truppe, quando seppe che l'aveva abbandonata La Palisse. I Francesi offrirono ancor essi di capitolare, ed il vescovo accordò loro un'onorevole capitolazione; ma riserbavasi d'usare odiose rappresaglie per la violazione della precedente capitolazione. Non curandosi della sua parola, abbandonò al popolaccio i quattro principali ufficiali della guarnigione, e permise in onta del suo carattere di vescovo e di luogotenente del papa, che fossero sepolti vivi sotto i suoi occhi in una fossa colla sola testa fuori della terra, e che si lasciassero colà perire in un lungo e crudele supplicio[259].
Nel tempo in cui i Francesi evacuavano la Lombardia, l'accanimento del popolo contro di loro si manifestò con eguale crudeltà. La feccia della plebaglia milanese trucidò tutti i soldati francesi ch'erano rimasti nelle loro caserme o ne' loro spedali dopo la partenza de' capi; attaccò in seguito le botteghe ed i magazzini de' mercanti francesi per saccheggiarle, e si dice che rimasero vittima del popolo furibondo mille cinquecento individui. Gli stessi orrori rinnovaronsi in Como subito dopo evacuata la città. I Francesi nella loro ritirata non potevano scostarsi dal grosso dell'armata; perciocchè tutti coloro che si disperdevano, e che più non erano in istato di difendersi, erano uccisi dai forsennati contadini; onde questa ritirata costò al loro esercito più soldati che una battaglia[260].
Credevano gl'Italiani che tanti oltraggi dovessero restar sempre impuniti: i Francesi altro omai non possedevano in Italia, che Brescia, Crema e Legnago, colle fortezze di Milano, di Novara, di Cremona e della Lanterna di Genova[261]. Altronde venivano occupati al di là dalle Alpi da una potente invasione. Mentre che l'ammiraglio Howard guastava le coste della Bretagna, il marchese di Dorset aveva, il 18 giugno, fatto uno sbarco nella Guipuscoa, ed avendo raggiunto Ferdinando con sei mila fanti inglesi, minacciava nello stesso tempo la Guienna e la Navarra. Non era presumibile che con tali nemici in su le braccia, Lodovico XII potesse, durante tutta la campagna, pensare alla Lombardia[262].
La sorte degli alleati della Francia non era diversa da quella de' soldati che si erano sbandati dall'armata. Il più esposto d'ogni altro era Alfonso d'Este, duca di Ferrara. Egli era stato perseguitato da Giulio II col più fiero accanimento; il suo stato trovavasi inondato da barbari soldati, esauste erano le forze, e perduta la speranza d'ogni esterno soccorso. In tale estremità egli si abbandonò all'amicizia ed alla riconoscenza di Fabrizio Colonna. Dopo aver fatto prigioniero questo generale nella battaglia di Ravenna, aveva costantemente ricusato di cederlo ai Francesi; per sottrarlo alle inchieste ed alle minacce di La Palisse l'aveva mandato a Ferrara, ed all'ultimo liberato senza taglia. Fabrizio chiamò in favore d'Alfonso tutta la sua potente famiglia, e persuase l'ambasciatore del re Cattolico ad intercedere per lui presso il papa, rappresentandogli che Alfonso era figliuolo d'una principessa d'Arragona[263]. Il marchese di Mantova interpose ancor esso i suoi buoni ufficj a di lui favore. Tanti intercessori chiedevano soltanto un salvacondotto pel duca di Ferrara, in forza del quale potesse andare a Roma a gettarsi ai piedi del papa per ottenere perdono. Fu accordato il salvacondotto, e l'ambasciatore d'Arragona con Fabrizio e Marc'Antonio Colonna guarentirono la libertà del duca.
Alfonso d'Este passò a Roma, apparecchiato a sottomettersi alle umiliazioni, nelle quali pareva omai soltanto riposta la conservazione della sua sovranità. Vi arrivò il 4 di luglio, ed il pontefice, contento di questo passo del duca, parve raddolcirsi verso di lui. Sospese le censure contro di lui pronunciate, ed acconsentì che gli fosse data l'assoluzione, non alle porte della Chiesa colla corda al collo, e dopo essere stato battuto con bacchette dal penitenziere, ma nel concistoro de' cardinali. Paride de Grassis, maestro delle cerimonie del papa, ne concertò con lui preventivamente le formalità, e convenne intorno a ciò che direbbe il duca, e che Paride scrisse in appresso nel suo giornale. «Beatissimo e clementissimo padre, gli disse Alfonso, gettandosi a' suoi piedi, io conosco veramente e confesso che ho peccato in molti intollerabili modi sia contro la divina Maestà, sia contro Vostra Santità, vicario di N. S. Gesù Cristo, e contro la santa sede apostolica; e ciò tanto più gravemente, che io stesso ed i miei antenati e fratelli ne avevamo ricevuti i più grandi beneficj; perciò mi trovo pieno di pentimento e di dolore per essermi renduto colpevole d'ingratitudine verso Vostra Santità, e per averle fatto ingiuria.» Dopo aver pronunciate queste parole doveva piangere e sparger lagrime, poi ripigliare così: «Per tal cagione io mi prostro supplicante ai piedi di Vostra Beatitudine, ed abbraccio le sue ginocchia, implorando la mia grazia per la divina misericordia, e la pietà della Santità Vostra. Prometto che in avvenire non commetterò verun mancamento contro Vostra Santità, e mi dichiaro apparecchiato ad espiare quelli che ho commessi, sopportando nella mia persona, nel mio principato, nella mia fortuna, tutte le pene che Vostra Santità vorrà infliggermi nella sua misericordia.» Il papa, rispondendo, riepilogò in un lungo discorso tutti i delitti d'Alfonso d'Este; gli rinfacciò di non umiliarsi anche in allora che per forza, ma terminò coll'assolverlo[264].
In appresso furono nominati da Giulio II sei cardinali per conchiudere con Alfonso il trattato di pace; ma pochi giorni dopo costoro dichiararono che il papa aveva determinato di far rientrare Ferrara sotto l'immediato dominio della Chiesa. Soltanto, siccome Giulio pretendeva che tutto il paese posto a mezzogiorno del Po appartenesse alla santa sede, desso contava di farsi restituire la città d'Asti, occupata dai coalizzati, e di darla ad Alfonso in compenso dell'antico ducato. Questa proposizione fu pel duca di Ferrara un colpo di fulmine: vi ravvisò la malizia d'Alberto Pio, conte di Carpi, suo personale nemico, ed uno de' privati consiglieri del papa. Seppe bentosto che Reggio aveva aperte le porte alle truppe della Chiesa, e che la Garfagnana era stata conquistata dal duca d'Urbino: temette che Ferrara, di cui aveva affidata la guardia al cardinale Ippolito, suo fratello, fosse attaccata in tempo della sua assenza, e domandò il suo congedo per tornare a casa sua. Il papa lo ricusò con isdegno; ma l'ambasciatore d'Arragona ed i Colonna dichiararono che non soffrirebbero in verun modo che si abusasse del loro nome per sedurre il loro raccomandato, e violare una parola di cui si erano dichiarati essi garanti. All'indomani Fabrizio e Marc'Antonio Colonna condussero Alfonso alla vicina porta di san Giovanni di Laterano; e sebbene vi fosse stata posta doppia guardia, essi la forzarono, e condussero armata mano il loro ospite al proprio castello di Marino, di dove trovarono poi modo di farlo passare ne' suoi stati[265].
La santa lega provava di già la sorte di tutte le confederazioni. I suoi membri si erano creduti d'accordo, quando non trattavasi che di difendersi, ma non avevano prevedute le conquiste che la fortuna poneva nelle loro mani; i prosperi avvenimenti avevano fatto germogliare una nuova ambizione in petto a tutti gli alleati. Il papa, prima d'ogni altro, aveva, sotto certi rispetti, rotto il legame dell'associazione, occupando Parma e Piacenza; egli così violava i diritti riclamati dall'imperatore sopra tutta la Lombardia, e quelli del nuovo duca di Milano, Massimiliano Sforza, che la lega aveva promesso di rimettere sul trono, e quelli dei popoli, che vedevano con rincrescimento lo sfasciamento in piccole parti del loro antico ducato. Il papa, per giustificare l'inaudita estensione che voleva dare all'esarcato di Ravenna, comprendendovi tutti i paesi posti a destra del Po, pretese che la loro subordinazione alla Chiesa aveva durato fino al 1272; pure in quest'epoca, ch'egli stesso indicò al suo maestro delle cerimonie[266], non era in Lombardia accaduto verun fatto che cambiasse o ristringesse il potere del papa; soltanto il vicariato dell'Impero, che la Chiesa romana pretese d'esercitare in tempo del lungo interregno che tenne dietro alla morte di Federico II, e che terminò nel 1273 colla elezione di Rodolfo d'Apsburgo, lasciò forse negli archivj della Chiesa alcune confuse memorie, che Giulio II suppose comprovanti il diritto di sovranità[267].
Le pretese di Massimiliano non erano meno di quelle del papa contrarie alle precedenti convenzioni passate tra i confederati. Questo vano monarca, che mai non aveva misurati i suoi progetti colle sue forze, e che, dopo la conchiusione della lega di Cambrai, mai non aveva soddisfatti i suoi obblighi in veruna delle guerre nelle quali aveva strascinati i suoi alleati, non voleva, mutando partito, rinunciare a veruna delle speranze che aveva una volta concepite. Egli era entrato nella lega de' Veneziani, ma senza rinunciare alla pretesa che questi gli abbandonassero tutti i loro stati di terra ferma: altronde egli non voleva restituire a Massimiliano Sforza, suo cugino, il ducato di Milano, ch'era stato per lui conquistato. Ma gli Svizzeri, che occupavano tutt'intero questo ducato, e Giulio II, che voleva scacciare dall'Italia i barbari di qualunque nome, insistevano per lo ristabilimento dello Sforza sul trono de' suoi maggiori[268].
Raimondo di Cardone aveva nuovamente adunata l'armata spagnuola ai confini del regno di Napoli, e voleva avanzarsi in Lombardia per far vivere le sue truppe a carico di que' paesi, e per avere maggiore influenza nella ripartizione degli stati occupati dalla santa lega. Perciò chiedeva al papa ed ai Veneziani di pagargli i sussidj di quaranta mila ducati al mese, che si erano obbligati di corrispondergli finchè i Francesi fossero scacciati da tutta l'Italia, e pretendeva che non si potessero dire scacciati finchè le loro guarnigioni occupavano Brescia, Crema e molte altre piazze. Dall'altro canto il papa ed i Veneziani non desideravano di tirare in quelle province una nuova armata, o di caricarsi di così ragguardevole dispendio. Intanto gli Svizzeri continuavano a mettere a contribuzione il ducato di Milano. Essi avevano persuaso Carlo III, duca di Savoja, a sottoscrivere con loro a Bade nel mese di maggio un'alleanza difensiva per venticinque anni, e ne approfittavano per istaccarlo interamente dalla Francia e dal marchese di Saluzzo[269]. I Veneziani, senza partecipazione dei loro alleati, fecero alcuni tentativi contro Crema e Brescia, che non ebbero effetto. Gli alleati si accusavano a vicenda, e si lagnavano gli uni degli altri; e l'universale diffidenza annunciava il prossimo scioglimento di una lega cui inaspettati successi non permettevano di conservarsi unita.
Soltanto in una cosa i confederati sembravano consentire, cioè nell'abusare della superiorità delle loro forze contro la repubblica fiorentina. Eppure questa non aveva offeso veruno di loro; non aveva mancato a nessuno de' suoi obblighi, ed altri soccorsi non aveva dati al re di Francia che quelli cui erasi obbligata con un trattato negoziato di concerto con Ferdinando il Cattolico: altronde ella si era scrupolosamente confermata, con tutte le altre potenze, ai doveri di buon vicinato; ai soldati fuggitivi dell'armata rotta a Ravenna aveva accordato un asilo, invano da' medesimi cercato negli stati del papa. Vero è che la di lei politica era stata timida e vacillante. Per timore d'attirare sopra di sè l'attenzione delle altre potenze e di compromettersi, non erasi unita con tutte le sue forze ai Francesi; non gli aveva nè pure abbandonati, accettando le proposizioni del re d'Arragona, nè aveva cercato di far rispettare la sua neutralità ponendosi in istato di difesa. Erasi conservata neutrale senza che veruno gli sapesse buon grado della sua neutralità. Ma la sorte d'uno stato debole il più delle volte è affatto indipendente dai suoi prudenti o mal accorti consiglj; il risentimento di Giulio II, le pratiche dei Medici e la cupidigia dei generali influirono assai più nella ruina di Firenze, che la politica del Soderini.
Il papa e l'imperatore, facendo sentire alla repubblica il loro scontento, parvero offrirle sì l'uno che l'altro una via per sottrarsi al turbine. Il papa le mandò in luglio il suo Datario per chiederle di deporre il Soderini, d'unirsi alla santa lega contro i Francesi, e di richiamare tutti gli esiliati, offrendole a tale prezzo di ridonarle la sua amicizia. Dopo tre giorni di deliberazioni, i consiglj di Firenze ricusarono di assoggettarsi a queste condizioni[270]. D'altra parte Matteo Lang, vescovo di Gurck, e segretario di Massimiliano, che veniva a rappresentare il suo padrone in un congresso delle potenze della lega convocato a Mantova, offeriva ai Fiorentini di prenderli sotto la protezione imperiale mercè una contribuzione di quaranta mila fiorini; ma conoscendo questi quanto potevano fare poco fondamento sulle promesse dell'imperatore, non seppero risolversi a privarsi del loro danaro per acquistare una così debole garanzia[271].
Frattanto i Fiorentini spedirono il giureconsulto Vittore Soderini, fratello del gonfaloniere, alla dieta di Mantova per difendere i loro interessi, e farli comprendere nella universale pacificazione. Giuliano de' Medici, il terzo de' figliuoli del magnifico Lorenzo, si presentò alla stessa dieta, per domandare il ristabilimento della sua famiglia in Firenze. Il suo esilio, e tutte le sue sventure, egli disse, erano l'opera de' Francesi; non potevasi perciò dubitare dell'attaccamento della casa Medici al partito dell'imperatore e della Spagna, nè per conseguenza di quello dei democratici fiorentini ai Francesi; e se le armate della lega abbisognavano di danaro, i Medici ne saprebbero ragunare a Firenze assai più per compiacere i loro amici, che non poteva offrirne il partito popolare per calmare i suoi nemici. In fatti il danaro era il solo convincente argomento sullo spirito degli alleati. Raimondo di Cardone trovavasene affatto sprovveduto; aveva fatto avanzare l'armata spagnuola fino a Bologna, ma questa ricusava di andare più in là se non era pagata. Massimiliano desiderava che entrasse in Lombardia per contenere gli Svizzeri e spaventare i Veneziani; ed ambidue avrebbero preferito il danaro contante de' Fiorentini alle lontane promesse dei Medici. Si fece di nuovo sentire a Gian Vittore Soderini, che per quaranta mila fiorini poteva salvare la repubblica; ma invece di appigliarsi rapidamente a questo partito, egli si credette obbligato a giustificare la sua patria, a provare che nulla doveva, e che non aveva commesso verun fallo: si lasciò fuggire l'occasione, e la dieta risolse di far marciare l'armata spagnuola ed il cardinale de' Medici, legato di Toscana, sopra Firenze, per mutarne il governo[272].
Una mal intesa economia, ed il timore di richiamare sopra di loro l'attenzione de' vicini, avevano impedito ai Fiorentini d'armarsi nel momento in cui le violenti convulsioni che provava l'Italia ne faceva loro un dovere di prudenza. Essi avevano somministrati trecento uomini d'armi al re di Francia, parte de' quali trovavansi in allora chiusi in Brescia, mentre gli altri, svaligiati dai Veneziani, tornavano scoraggiati, e perciò soli dugento allora ne rimanevano loro, i di cui capi non avevano veruna riputazione. Le milizie dell'ordinanza non avevano nè disciplina, nè pratica di guerra, nè confidenza in sè medesime. Si erano sollecitamente assoldate alcune migliaja di fanti stranieri; ma perchè non si aveva avuto tempo di sceglierli, non potevano stare a fronte di quelli de' Veneziani o del papa, meno ancora dei Tedeschi e degli Spagnuoli[273].
Nè le forze con cui il vicerè don Raimondo di Cardone andava ad attaccare i Fiorentini erano molto ragguardevoli. Egli non aveva che dugento uomini d'armi, due cannoni presi a Bologna e veruno degli equipaggi necessarj ad un'armata. Ma il Cardone contava nella sua cinque mila di quegli Spagnuoli che avevano così ostinatamente combattuto a Ravenna, e dopo avere distrutta una considerabile parte della fanteria tedesca e francese, eransi gloriosamente ritirati senza cedere alle cariche ripetute di tutta la cavalleria vittoriosa. Nell'attraversare gli Appennini con questa piccola armata il vicerè non trovò verun ostacolo[274]: giunto a Barberino, lontano quindici miglia da Firenze, mandò a dichiarare ai Fiorentini, che non era intenzione sua, nè della lega, d'attaccare le loro proprietà, le loro leggi o la loro libertà; che non domandava che due cose, l'allontanamento dei gonfaloniere Soderini, ch'era sospetto a tutti i confederati, e l'accettazione de' Medici in Firenze, non come principi, ma come semplici cittadini[275].
Il gonfaloniere in tempo della sua amministrazione aveva date frequenti testimonianze della moderazione del suo carattere e del suo amore per la libertà; ma non aveva egualmente fissata la stessa opinione rispetto a quella risolutezza e fermezza di carattere, che nelle difficili circostanze sono necessarie ai capi dello stato. Adunò il gran consiglio per fargli parte delle domande de' nemici, e dichiarò, che lungi dal volere che per la sua difesa si esponesse la repubblica, era apparecchiato non solo a sagrificare la sua dignità, ma la libertà e la vita per la salvezza della medesima: invitò soltanto i suoi concittadini a considerare, se potrebbero contenere sotto l'autorità delle leggi i Medici ricondotti in Firenze da un'armata straniera; e nel supposto che ne conoscessero l'impossibilità, li supplicò a non risparmiare nè le loro sostanze, nè il sangue de' soldati, nè quello de' cittadini, per salvare la loro libertà, il più prezioso di tutti i beni. «Niuno di voi si persuada, aggiunse egli, che i Medici siano adesso per governare come avanti la loro cacciata. Allora erano essi stati allevati in mezzo di noi, come cittadini, in privata condizione; grandissime erano le loro ricchezze, niuno gli aveva offesi, ed essi contavano sull'universale benevolenza. Essi associavano ai loro consiglj i principali cittadini, e lungi dal volere far pompa della loro potenza, si sforzavano di coprirla sotto il manto delle leggi. Ma oggi che da tanti anni vivono fuori di Firenze, che contrassero nuove straniere costumanze, che mal conoscono quelle della nostra patria, che d'altro non si ricordano che dell'esilio e dei rigori contro di loro esercitati, oggi che la personale loro ricchezza è distrutta, che sentonsi offesi da tante famiglie, che sanno che la maggior parte, e quasi la totalità della nazione, ha in orrore la tirannide, più non potranno fidarsi ad alcuno. La povertà ed il sospetto li renderanno proclivi a tutto riferire a sè medesimi, a sostituire in ogni cosa la forza e le armi alla benevolenza ed all'amore, di modo che questa città si troverà in breve tempo ridotta alla condizione di Bologna ne' tempi de' Bentivoglio, a quella di Siena o di Perugia. Ho voluto richiamare tutte queste cose a coloro che danno così smisurate lodi al governo di Lorenzo de' Medici: era ancora quella una tirannide, ma più dolce assai di tutte le altre; ed a petto di quella che ci viene minacciata, sarebbe un'età dell'oro. Oramai s'aspetta a voi il risolvere con prudenza, mentre che le mie parti saranno o di rinunciare con costanza e con gioja a questa magistratura, o se voi giudicate altrimenti, di coraggiosamente provvedere alla conservazione ed alla difesa della vostra patria[276].»
L'inquietudine che cagionava l'avvicinamento dell'armata spagnuola, e più ancora lo stato ostile di tutta l'Europa, disponeva tutti i cittadini a porgere orecchio alle moderate proposizioni fatte dal vicerè; ma quando si fecero a riflettere allo stato in cui troverebbesi la repubblica, perdendo il suo capo appunto nell'istante medesimo in cui la città sarebbe obbligata di ricevere entro le sue mura ambiziosi esiliati, che ravviverebbero le pretese di tutto un partito; quando pensarono che l'armata nemica, introdotta dai Medici nel seno della loro patria, sarebbe sempre ai loro ordini per ischiacciare ogni libertà; che gli stranieri desideravano il consolidamento della tirannide, affinchè desse ai nuovi principi il diritto di levare più ampie contribuzioni, ed in appresso di prodigar loro i tesori de' Fiorentini, tutti i Fiorentini sentirono un'eguale avversione per le proposizioni del vicerè. Il grande consiglio si divise in sedici sezioni, sotto la presidenza di sedici gonfalonieri di compagnia, e dopo una lunga deliberazione tutte le sezioni unanimamente dichiararono che acconsentirebbero al ritorno de' Medici, purchè soltanto il gonfaloniere rimanesse alla testa dello stato, e che non si facesse mutazione nel loro governo o nelle loro leggi[277].
Frattanto il vicerè era giunto sotto Prato: i Fiorentini avevano posto in quella città il condottiere Luca Savelli, che invecchiando tra le armi non vi aveva acquistata nè esperienza, nè riputazione; egli aveva sotto il suo comando cento uomini d'armi di quegli svaligiati in Lombardia, e due mila fanti quasi tutti presi nell'ordinanza o milizie di campagna. Non si aveva avuto tempo di provvedere la città di munizioni di bocca, e di artiglieria; ma non pertanto credevasi in istato di sostenere l'attacco degli Spagnuoli, e di fare una vigorosa resistenza. Il Cardone giunse in faccia alla porta di Mercatale, e cercò di sfondarla colla sua artiglieria, o di atterrare la vicina muraglia; ma da questo lato le fortificazioni si trovavano in buono stato, e dopo poche ore gli assalitori cessarono di far fuoco, riconoscendone l'inutilità[278].
Il vicerè non era totalmente persuaso che fosse vantaggioso al suo re il ristabilimento dei Medici a Firenze; onde il suo principale oggetto era quello di atterrire i Fiorentini, per ridurli al pagamento di una contribuzione: offrì dunque nuovamente di trattare, ma a condizione che fossero somministrate le vittovaglie alla sua armata, finchè continuerebbero le negoziazioni, perchè la campagna era deserta, ed i contadini avevano trasportati i raccolti nelle terre murate. O sia che in quest'occasione il gonfaloniere si rendesse più ardito che non comportava l'abituale suo carattere, lusingandosi che la mancanza dei viveri forzasse quest'armata a ritirarsi, o sia che avesse malamente provveduto al trasporto delle vittovaglie al campo spagnuolo, il fatto sta che gli Spagnuoli cominciarono bentosto a provare la fame, e i soldati impazienti di soffrire ricominciarono i loro attacchi contro Prato, ov'erano certi di trovare abbondanti viveri. Nella notte del 29 al 30 cambiarono gli alloggiamenti e vennero ad accamparsi innanzi alla porta del Serraglio, ove aggiustarono di nuovo i loro due cannoni in batteria. Nelle prime scariche uno si ruppe, e continuarono a battere le mura con un solo. In poche ore vi fecero una breccia larga venti piedi, molto alta dal suolo, ma alla quale per altro un rialto di terra attiguo al muro ne agevolava l'ingresso. Alcuni soldati spagnuoli salirono su quest'apertura, ed uccisero due fanti che vi stavano di guardia; ciò bastò per atterrire tutti gli altri; e sebbene vi fosse al di là del muro un corpo di fucilieri e di uomini armati di picche, i quali avrebbero potuto difenderlo con estrema facilità, non appena videro gli Spagnuoli sulla breccia, che cominciarono tutti a fuggire.
I vincitori, sorpresi da tanta viltà, entrarono in Prato da ogni banda, e fecero bentosto sentire ai fuggitivi quanto la paura sia peggiore consigliere che il coraggio. Appena qualche centinajo di loro sarebbero periti sostenendo anche il più sanguinoso assalto, mentre la fuga li diede quasi tutti in preda alla morte senza difesa. In quest'occasione gli Spagnuoli vinsero di lunga mano in crudeltà gli oppugnatori di Brescia e di Ravenna. La maggior parte degli storici porta a cinque mila il numero di coloro che senza combattere, senza difendersi, senza avere provocato, furono inumanamente uccisi: tutte le case, tutte le chiese vennero saccheggiate con eccessivo rigore; e gli abitanti, spogliati d'ogni cosa, furono inoltre assoggettati ad orrende torture, onde i loro amici e parenti, mossi a compassione, si ridussero a redimerli. Soltanto la cattedrale, dove si erano rifugiate molte donne, fu sottratta a questi orrori da una salvaguardia che aveva per quella chiesa ottenuta il cardinale de' Medici[279].
La notizia della presa e dell'uccisione di Prato empì Firenze di spavento e di costernazione. Stavano adunati in città sedici mila uomini dell'ordinanza; ma i loro compagni avevano data una tale prova di viltà, che non potevasi riporre in loro la più leggiere speranza. La grande maggiorità de' cittadini non desiderava un cambiamento, ma mancava d'ogni coraggio militare; non si sentiva abbastanza forte per respingere il nemico, e non voleva esporre la capitale alle sciagure di Prato. Il vicerè non aveva rotta ogni negoziazione; ma essendosi sottratto al bisogno, ed avendo trovati in Prato danari e viveri in abbondanza, aveva ingrandite assai le sue pretese, e non chiedeva meno di cento cinquanta mila fiorini. Tutta la città trovavasi in uno stato di terribile fermento; la signoria era scoraggiata e lo stesso gonfaloniere, che più non dissimulava il suo terrore, aveva offerto di abdicare[280].
In questi frangenti, venticinque in trenta giovani delle più illustri e ricche famiglie di Firenze, che da lungo tempo avevano costume di adunarsi negli orti, diventati per essi famosi, di Bernardo Rucellai, onde intrattenervisi intorno alle cose delle lettere e delle arti, risolsero di procedere essi medesimi a mutare il governo; o perchè risguardassero l'intera libertà de' loro antenati come contraria al loro gusto per la poesia e pei godimenti del lusso, o perchè, giudicando necessario di cedere dolcemente alla burrasca, volessero, dirigendo essi la rivoluzione, salvare il gonfaloniere. Essi erano ben persuasi, che, se non venivano assecondati dai loro concittadini, non troverebbero neppure presso di loro opposizione. Erano alla loro testa Bartolommeo Valori, che aveva sposata la nipote del Soderini, e che veniva da lui risguardato come suo genero, Paolo Vettori, Anton Francesco degli Albizzi, i Rucellai, Capponi, Tornabuoni e Vespucci, che quasi tutti avevano strette relazioni colla famiglia del Soderini e co' suoi aderenti[281].
I giovani congiurati, che pochi mesi prima avevano avute segrete corrispondenze con Giulio de' Medici, entrarono nel palazzo pubblico la mattina del 31 agosto all'indomani della presa di Prato. Arrivarono senza incontrare resistenza fino all'appartamento del gonfaloniere, che non aveva presa veruna misura per difendersi, e che si abbandonava alla sorte. Lo minacciarono di morte se non usciva subito di palazzo, e per lo contrario promisero di salvarlo, se prestavasi ai loro desiderj. Tutta la città erasi posta in movimento alla notizia di cotale intrapresa; ma ne' diversi attruppamenti, che si andavano formando nelle strade, udivansi pochissime voci accusare il gonfaloniere, e niuno eravi che ardisse prenderne le difese. I congiurati trassero il gonfaloniere nella casa di Paolo Vettori, posta sul lung'Arno, ove lo tennero quella notte. Nello stesso tempo fecero adunare la signoria, i collegj, i capitani di parte guelfa, i decemviri della libertà, gli otto della balìa, ed i conservatori delle leggi. Domandarono a quest'assemblea di deporre il gonfaloniere; tuttavolta di quasi settanta membri presenti, nove soli votarono per la deposizione del Soderini. Francesco Vettori allora prese a dire ad alta voce: «concittadini! coloro che oggi credono salvare il gonfaloniere, votando a suo favore, rendono sicura la sua perdita, perchè i suoi nemici lo uccideranno se non possono farlo deporre.» Questa minaccia ottenne il desiderato effetto, ed il Soderini fu legalmente privato della sua dignità; fu poi fatto partire di notte per la strada di Siena alla volta di Roma, ma avendo egli udito per istrada che il papa aveva fatti confiscare i suoi beni, piegò subito verso Ancona di dove passò a Ragusi[282].
Furono all'istante mandati ambasciatori al vicerè, per avvisarlo che la repubblica si era uniformata ai voto da lui espresso, e per conoscere quali fossero le sue intenzioni. Il Cardone prima di tutto chiese danaro: volle ottanta mila fiorini per l'armata spagnuola, quaranta mila per l'imperatore, venti mila per sè, e volle che Firenze per pegno del suo attaccamento alla santa lega prendesse al suo soldo il marchese della Palude, e lo ricevesse entro le sue mura con dugento uomini d'armi spagnuoli. Rispetto ai Medici chiese soltanto che fossero ricevuti nella patria loro come cittadini, ed avessero la facoltà di riacquistare i loro beni ch'erano stati confiscati; di modo che sembrava lasciar la speranza di conservare l'antica libertà[283].
I Fiorentini e gli stessi capi della rivoluzione accolsero avidamente questa speranza, e trovarono nel dolce e conciliante carattere di Giuliano de' Medici molta condiscendenza per una nuova sistemazione, che pareva soddisfare tutti i partiti. Giuliano, senz'aspettare che una sentenza de' magistrati annullasse la sua precedente condanna, era entrato in città il 2 di settembre, ed aveva preso alloggio nella casa degli Albizzi, in allora i più caldi suoi partigiani, sebbene i loro antenati fossero stati per molto tempo i rivali della sua famiglia. Una nuova legge, fatta di suo consenso, venne presentata al gran consiglio il 7 di settembre per modificare la democrazia senza affatto distruggerla. Le funzioni di gonfaloniere, invece di essere perpetue, venivano ridotte ad un anno; il gran consiglio doveva essere rimpiazzato da una balìa, incaricata della maggior parte delle elezioni; ma questo consiglio, di cui si ristringevano le attribuzioni, non era per altro soppresso: finalmente Giambattista Ridolfi veniva proposto ai suffragj de' concittadini per essere sostituito al Soderini. La legge fu sanzionata dal gran consiglio, e di mille cinquecento suffragj, il Ridolfi ne riunì a suo favore mille cento tre. Era prossimo parente dei Medici; ma durante l'amministrazione del Savonarola erasi mostrato zelante per la libertà e per lo stato popolare, ed i suoi concittadini apprezzavano la sua prudenza e la sua fermezza[284].
I più zelanti partigiani de' Medici non erano soddisfatti di tanti riguardi, avendo sperata una più compiuta rivoluzione; e finchè non era affatto soppresso il gran consiglio, finchè un amico della libertà era capo del governo, temevano sempre che il partito che godeva il favore del popolo non riacquistasse la primiera autorità, tostochè si fosse allontanata l'armata spagnuola, e forse non procedesse di nuovo all'esilio dei Medici. Si addirizzarono al cardinale Giovanni, e gli esposero i pericoli della soverchia condiscendenza di suo fratello Giuliano. Lo trovarono apparecchiato a spingere più in là i suoi vantaggi, approfittando per compiere la rivoluzione della permanenza in Toscana dell'armata spagnuola. Fin allora il cardinale erasi trattenuto a Prato, al quartiere generale degli spagnuoli: all'ultimo fece il suo ingresso in Firenze il 14 di settembre; ma invece di presentarsi, nella sua qualità di legato della Toscana, con un corteggio di preti e di cittadini, volle avere un accompagnamento tutto militare, e lo compose di uomini d'armi e di fanti spagnuoli e bolognesi. Andò a smontare al palazzo de' Medici, ove ricevette le visite de' principali cittadini dello stato; e soltanto due giorni dopo recossi al palazzo pubblico cogli ambasciatori del papa e del vicerè, per visitare la signoria[285].
Il Ridolfi, ch'erasi sempre mostrato di un partito contrario al Soderini, aveva licenziata l'antica guardia che faceva il servizio presso il gonfaloniere e presso la signoria, ma non aveva avuto il tempo di formarne un'altra, di modo che il palazzo pubblico non era difeso. Il corteggio che aveva accompagnato il cardinale de' Medici vi entrò con lui, e se ne impadronì senza trovare opposizione[286]. Allora i partigiani dei Medici fecero risuonare la piazza di minacciose grida; e Giuliano, presentandosi al consiglio degli ottanta, chiese a questo ed alla signoria di chiamare il popolo a parlamento.
Da lungo tempo queste tumultuose assemblee erano il segno di una rivoluzione; onde, formando il gran consiglio, che comprendeva tutti i cittadini, si aveva avuto di mira di abrogare in certo modo i parlamenti. La signoria ed i collegj resistettero qualche tempo alle domande dei Medici; ma finalmente dovettero cedere alla forza; e la maggior campana suonò per adunare il popolo. I cittadini non si recarono che in piccolo numero sulla piazza, ed i Medici ebbero l'accortezza di farla riempire di soldati e di gente straniera, che risposero colle loro grida a nome del popolo fiorentino. Due ore avanti notte la signoria si presentò alla balaustrata destinata ad arringare il popolo, e colà lesse le nuove proposizioni, delle quali i Medici chiedevano l'approvazione. Dovevano essere abolite tutte le leggi emanate dopo il 1494; doveva per un anno essere investita una nuova balìa di tutti i poteri appartenenti al popolo di Firenze; e questa balìa doveva essere composta del gonfaloniere, degli otto nuovi priori, di dodici membri scelti in cadauno dei quattro quartieri, i di cui nomi indicati dai Medici furono pure letti al popolo, finalmente di undici arruoti, ossia aggiunti, i quali, dopo essere stata fatta la prima nomina dal segreto comitato de' Medici, avevano per singolar favore ottenuto di venire compresi nello stesso corpo. Questa balìa, cui si accordò il diritto di assumere nuovi membri, doveva pure avere quello di protrarre d'anno in anno la propria autorità; ed infatti fu lo stesso corpo, che oramai abbracciando i poteri di tutta la repubblica, continuò le sue funzioni, senza nuova missione, fino al 1527, quando i Medici furono per l'ultima volta espulsi da Firenze. La stessa balìa doveva delegare sotto il nome di accoppiatori un determinato numero de' suoi membri, cui era accordata la facoltà di eleggere oramai arbitrariamente il gonfaloniere ed i priori. Rispetto a quello che in allora sedeva, Giambattista Ridolfi, fu invitato il primo di novembre a dimettersi dalle proprie funzioni[287].
Tale fu la stretta e vergognosa oligarchia, che venne sostituita al libero e costituzionale governo della repubblica. Il parlamento sanzionò la rivoluzione; perchè i soli cittadini apparecchiati ad approvare ogni cosa si recarono sulla pubblica piazza, in mezzo ai soldati che facevano violenza alla loro patria. La nuova balìa pronunciò poche condanne, ma abolì quasi tutte le magistrature protettrici della libertà; inoltre licenziò il 18 settembre l'ordinanza, ossia milizia fiorentina, e fece disarmare il popolo. Un governo stabilito dagli stranieri colla violenza deve temere ogni forza nazionale, e per mantenersi disarmare ed avvilire la soggetta nazione[288].
Riusciva non agevole cosa il trovare subito il danaro necessario per soddisfare gli alleati. Il 23 di settembre la balìa fu forzata di aprire un prestito forzato di ottanta mila fiorini, col di cui prodotto furono pagati gli Spagnuoli[289]. Ogni membro della balìa fu in appresso autorizzato ad indicare otto cittadini del suo quartiere tra coloro che si credevano più affezionati ai Medici, e più contrarj ai principj popolari. La lista di costoro, che montava a cinquecento quarantotto cittadini, fu ridotta a dugento da uno scrutinio segreto; e questi furono considerati come formanti la rappresentazione nazionale o il consiglio della repubblica, che fu poi detto il consiglio degli arruoti. I Medici, formando questo consiglio, ebbero particolar cura di non lasciarvi entrare veruno degli antichi partigiani di Savonarola, i quali eransi proposti di volere ad un tempo guarentire la libertà e riformare la Chiesa. Di tutti i partiti che conoscevansi in Firenze questo fu il più rigorosamente escluso da qualunque carica governativa[290].
Il primo gonfaloniere, eletto il 2 di novembre da' venti accoppiatori della balìa, per succedere a Giambattista Ridolfi, fu Filippo Buondelmonti allora in età di settantatre anni. Niun membro di questa così antica famiglia, il di cui nome ricordava le prime contese dei Guelfi coi Ghibellini, non era stato per anco onorato del gonfalone, perchè tutti i suoi antenati, ed egli medesimo avevano in ogni tempo professate opinioni aristocratiche, e mostrato grande disprezzo per il popolo. Tale elezione riuscì perciò oltremodo spiacevole agli amici della libertà; e nella stessa signoria si fece più volte sentire al Buondelmonti che non aveva la confidenza de' suoi concittadini[291].
Il risultamento di questa rivoluzione fu quello di far rientrare in Firenze il cardinale Giovanni de' Medici e suo fratello Giuliano, ambidue figliuoli del magnifico Lorenzo, Giulio, cavaliere di Malta, e priore di Capoa, figliuolo naturale di Giuliano fratello del Magnifico, e Lorenzo II, figlio di Piero, il primogenito de' tre figli del Magnifico, il quale si era annegato nel Garigliano. Conducevano inoltre con loro due fanciulli, Ippolito, figliuolo naturale di Giuliano II, e Giuliano, figliuolo naturale di Lorenzo II, ne' quali si spense l'antica stirpe de' Medici, niuno dei capi della quale aveva legittimi figli[292].
Appena i Medici si trovarono di nuovo capi del governo, che si vide sorgere nella repubblica una classe di cortigiani, che sembravano stranieri agli antichi costumi ed al di lei carattere. Molti dipendevano da famiglie rendute illustri dal loro amore per la libertà: ma la vanità, il gusto del piacere, e la speranza di ristabilire col favor di una corte la loro cadente fortuna, loro facevano preferire il servigio de' principi alla partecipazione della sovranità in uno stato libero. Vantavano essi allora l'inalterabile loro fedeltà alla casa de' Medici, e sebbene si fosse fatta la rivoluzione colle armi straniere, davano ad intendere d'averla preparata colle loro segrete pratiche, ed agevolata co' loro tradimenti. Dicevano d'avere essi dato in mano degli Spagnuoli i passi dell'Appennino, Campi e Prato, e d'avere impedito che queste città si approvigionassero. Avevano, dicevano essi, tenuta viva una lunga corrispondenza con Giulio de' Medici, il principale agente del cardinale suo cugino, e le loro lettere senza addirizzo e senza sottoscrizione erano poste in un buco della muraglia del cimitero di santa Maria Novella, ove un messo deponeva in seguito le risposte, senza conoscere il nome, la dimora o la figura di chi manteneva la corrispondenza. In premio di queste lunghe pratiche contro la loro patria riclamavano da' Medici alcuni favori; ma i loro sforzi non ottennero che d'indicarli al disprezzo de' loro concittadini e delle età future[293].
Il vicerè, don Raimondo di Cardone, era ripartito da Prato il 18 di settembre, ed aveva raggiunto coll'armata spagnuola i Veneziana che assediavano Brescia. Il signor d'Aubignì, che difendeva quella città, e che aveva poca speranza di potervisi tenere lungamente, dopo aver ricusato di arrendersi ai Veneziani, offrì di capitolare col Cardone, per gettare in tal modo semi di malcontento tra gli alleati della santa lega; egli ottenne onoratissime condizioni. Peschiera aprì egualmente le porte agli Spagnuoli, Legnago al vescovo di Gurck, ministro di Massimiliano, e la sola Crema si assoggettò ai Veneziani[294].
Il vescovo di Gurck andò in appresso a Roma, attraversando Firenze; e giammai ambasciatore, nè prelato alcuno, fu ricevuto nella capitale della cristianità con tanti onori e contrassegni di rispetto[295]. Il papa, che vedeva la lega divisa da sorde nimicizie, e vicina a sciogliersi, voleva assicurarsi la gratitudine di questo segretario dell'imperatore, che sembrava il solo che si fosse guadagnata la di lui confidenza: gli accordò il cappello di cardinale, di cui lo andava lusingando da oltre un anno, e cercò col suo mezzo di unirsi più intimamente con Massimiliano[296].
Si adunava in Roma un congresso delle potenze della lega per regolare i destini dell'Italia, e terminare le controversie ch'erano di già scoppiate in Mantova. Una generale gelosia pareva armare tutti gli alleati gli uni contro gli altri. Lagnavasi il papa che Ferdinando avesse promessa la sua garanzia a Firenze, Siena, Lucca e Piombino, e richiedeva per la libertà della santa sede che il sovrano di Napoli non si arrogasse veruna autorità sopra la Toscana. D'altra parte gli Spagnuoli volevano estendere la loro protezione non solo su questa contrada, ma ancora sopra Fabrizio e Marc'Antonio Colonna, i quali dopo l'evasione del duca di Ferrara erano caduti nella disgrazia del papa. In pari tempo essi riclamavano il sussidio di quaranta mila fiorini al mese, loro promessi dal trattato della santa lega, e che da qualche tempo loro non erano più pagati. Gli Svizzeri, che il papa aveva proclamati i difensori della libertà ecclesiastica, loro mandando una bandiera, una spada, ed un caschetto da lui benedetti, volevano che il ducato di Milano fosse restituito a Massimiliano Sforza, che loro assai importava d'avere vicino piuttosto che un grande potentato; e volevano consegnargli essi medesimi le chiavi di Milano, per dare ad intendere ch'essi soli lo avevano conquistato. L'imperatore Massimiliano pretendeva di avere per sè medesimo il Milanese, e ricusava al cugino l'investitura ed il titolo di duca. Lo stesso Massimiliano, d'accordo cogli Spagnuoli, lagnavasi del pontefice, che aveva occupata Piacenza, Parma e Reggio, in pregiudizio dei diritti dell'impero[297].
Ma più complicate di tutte e più difficili a conciliarsi erano le contese tra Massimiliano ed i Veneziani. Il primo, che occupava sempre Verona, chiedeva ancora Vicenza, e non si accontentava di lasciare ai Veneziani il possesso di Padova, Treviso, Brescia, Bergamo e Crema, ch'egli riclamava sempre come terre dell'impero, se non mediante il pagamento di dugento mila fiorini d'investitura ed un annuo tributo di trenta mila. D'altra parte i Veneziani non potevano acconsentire, nè di rinunciare all'alta signoria di cui avevano goduto per più d'un secolo, nè di fare un così enorme sagrificio di danaro nello stato di esaurimento in cui si trovavano le loro finanze, nè di perdere ogni comunicazione colle province, che loro si rendevano al di là del Mincio, ed il di cui possedimento sarebbe in conseguenza sempre stato per loro precario[298].
Giulio II adoperò tutto il suo ascendente, tutta la sua attività per conciliare così opposte pretese; offrì ai Veneziani di sovvenire loro parte del danaro domandato dall'imperatore; gli andò vivamente esortando a cedere per la pace dell'Europa; ma non potendo persuaderli, li minacciò coll'abituale suo impeto di rovesciare sopra di loro tutte le pene ecclesiastiche, se protraevasi per colpa loro la pace d'Italia, e subito dopo conchiuse coll'imperatore, e pubblicò il 25 novembre una nuova alleanza, cui gli ambasciatori d'Inghilterra e di Arragona ricusarono d'intervenire. In forza di questa Massimiliano aderì al concilio di Laterano, annullò tutti gli atti per i quali erasi unito al concilio di Pisa, promise di non soccorrere in verun modo nè Alfonso d'Este, nè i Bentivoglio, e di richiamare i Tedeschi che trovavansi ai servigj del primo. Dal canto suo Giulio si obbligò ad impiegare le armi spirituali e temporali per mettere l'imperatore eletto in possesso di tutte le province che gli erano state date per sua parte nella lega di Cambrai. La persecuzione di Giulio contro i Colonna, ed i contraddittorj diritti dell'Impero e della Chiesa sopra Parma, Piacenza e Reggio, dovevano rimanere sospesi fino alla fine della guerra[299].
Tuttavolta il papa non ruppe le sue negoziazioni colla repubblica; sperava ancora di sottrarla a nuove ostilità, e non voleva attaccare Ferrara avanti il ritorno della bella stagione. In questo intervallo di pace, il cardinale di Gurck, quello di Sion, ed il vicerè di Napoli, si recarono a Milano per dare a Massimiliano Sforza il possesso della sua capitale: il cardinale di Sion gli consegnò le chiavi alle porte della città, il 29 di dicembre, a nome della confederazione elvetica. I Milanesi, dopo avere tanto sofferto, speravano di trovare sotto un sovrano italiano e sotto il nipote del grande Francesco Sforza tutta la felicità degli andati tempi: la memoria dello stesso Lodovico il Moro era loro diventata cara pel contrapposto del dominio degli stranieri; e la capitolazione della fortezza di Novara contribuì ad abbellire le feste della inaugurazione del nuovo duca. Ai Francesi null'altro omai restava in Italia che i castelli di Milano, Cremona, Trezzo, e la Lanterna di Genova[300].
Ma intanto Lodovico XII non rinunciava altrimenti al Milanese, la di cui conquista era stato l'oggetto dell'ambizione di tutta la sua vita. Ritirando le sue truppe dall'Italia, le aveva portate sui Pirenei, aggiungendovi nuovi corpi di uomini d'armi francesi, e Landsknecht della bassa Germania; e prima che terminasse l'anno aveva ricuperata ai confini della Spagna una grande superiorità di forze a fronte del suo avversario Ferdinando. Ma la campagna del 1512 era stata fatale al suo fedele alleato Giovanni d'Albret, re di Navarra. I generali francesi, che lo difendevano, avevano commessi errori sopra errori; ed egli medesimo, prendendosi maggior cura delle cerimonie della chiesa che degli affari dello stato, passava gran parte del tempo ascoltando messe, sebbene fosse scomunicato come scismatico, ed una bolla pontificia lo privasse del suo piccolo regno. Ferdinando ne riconobbe la conquista, piuttosto che dal valore delle sue truppe e dall'abilità del suo generale, il duca d'Alba, dagli artificj con cui ritenne a Fontarabia il marchese di Dorset cogl'Inglesi, in modo di fare in suo favore una potente diversione[301]. Quando finalmente il regno di Navarra fu perduto, questo stesso rovescio lasciò la libertà a Lodovico XII di far riprendere alla sua armata la strada della Lombardia; e nel principio del 1513 cercò con nuove negoziazioni di sciogliere la lega che gli aveva tolto il Milanese, e di procurarsi in Italia nuovi alleati.
La lega trovavasi di già talmente divisa da opposti interessi, che in certo modo Lodovico XII era padrone di scegliere a suo piacimento i suoi nuovi alleati. Ferdinando, che in ogni sua azione coprivasi sempre ipocritamente col manto della religione, gli aveva mandati in Francia due monaci per trattare con lui, proponendogli o una pace generale, o una parziale alleanza; ma perchè la prima proposizione di Ferdinando richiedeva che Lodovico XII abbandonasse la Navarra, questi rispose che l'onor suo voleva che soccorresse un re che si era gettato nel pericolo soltanto per attaccamento verso di lui[302]. Dall'altro canto la regina Anna di Bretagna aveva fatto fare delle aperture di negoziazione al cardinale di Gurck, che erano state accettate; e Massimiliano aveva in cambio fatto proporre a Lodovico di unire in matrimonio il suo piccolo nipote, l'arciduca Carlo, colla seconda figlia del re, purchè questa gli portasse in dote i diritti della Francia sul Milanese e sui regno di Napoli. Chiedeva inoltre che la giovane principessa si mandasse immediatamente alla corte imperiale per essere colà educata fino all'epoca del matrimonio, e che il re secondasse Massimiliano nel suo progetto di ruinare affatto i Veneziani[303]. La regina Anna non volle acconsentire alla separazione di sua figlia, ed i consiglieri di Lodovico XII lo dissuasero dal contrarre alleanza con un imperatore, che non era mai di buona fede nelle sue promesse, e che, quand'anche lo fosse, e quand'anche avesse perdonate alla Francia le diciassette offese che diceva avere da questa ricevute, si poneva sempre nell'impossibilità di soddisfare ai suoi impegni[304].
Lodovico XII non ignorava le funeste conseguenze della sua malintelligenza cogli Svizzeri, ed ardentemente desiderava di riconciliarsi, ma questa negoziazione presentava maggiori difficoltà che non le altre. Sapeva essere stato sottoscritto un trattato tra gli ambasciatori svizzeri e Massimiliano Sforza, in forza del quale la confederazione prendeva sotto la sua protezione la casa Sforza, permettendole di levare per la difesa del Milanese quante truppe le piacesse; ed il duca prometteva cento cinquanta mila ducati nell'atto di entrare in possesso de' suoi stati, e per venticinque anni quaranta mila ducati all'anno. Lodovico caldamente desiderava di fare in modo che la dieta non ratificasse questo trattato, lo che non era fin allora accaduto. Soltanto per ottenere che i suoi ambasciatori potessero presentarsi a questa dieta, cedette agli Svizzeri le fortezze di Lugano e di Locarno: ed a tale condizione il signore de la Tremouille ebbe la licenza di portarsi a Lucerna, ov'era adunata l'assemblea. Vi si recò nello stesso tempo ancora Gian Giacopo Trivulzio, sotto pretesto di trattarvi alcuni suoi particolari interessi; ma subito gli Svizzeri gli proibirono di comunicare con la Tremouille, ed alla presenza dell'uno e dell'altro ratificarono la convenzione conchiusa collo Sforza, e ricusarono al re di Francia ogni leva di soldati, ed ogni altra domanda[305].
Nello stesso tempo Lodovico XII avea preso a negoziare coi Veneziani col mezzo del Trivulzio e di Andrea Gritti, che trovavasi tuttavia prigioniere dopo la battaglia di Ghiara d'Adda, e che il re aveva fatto venire alla sua corte. Ma sebbene queste pratiche si continuassero segretamente, Massimiliano n'ebbe qualche sentore, e per romperle si mostrò disposto a recedere dalle sue pretese, rinunciando alla restituzione di Vicenza. Risposero i Veneziani al cardinale di Gurck, che non tratterebbero, se non a condizione che fosse loro restituita Verona, senza la quale città il loro territorio si trovava diviso in due parti; soltanto offrirono in compenso all'imperatore d'accrescere il tributo loro domandato. Il che non avendo potuto essi ottenere, sottoscrissero col segretario del Trivulzio, mandato segretamente a Venezia, un trattato d'alleanza colla Francia. Servì di base a questo nuovo trattato quello del 1499 tra le due medesime potenze, in forza del quale davansi ai Veneziani Cremona e la Ghiara d'Adda[306], e a Lodovico XII tutto il restante del ducato di Milano.
Il segretario del Trivulzio, che aveva redatto questo trattato per la Francia, aveva fatta l'espressa riserva, che terrebbesi come non avvenuto, qualunque volta non fosse dal re ratificato entro un determinato tempo. Perciò fin allora nulla era conchiuso, e ciascuno tirava avanti nelle sue contraddittorie negoziazioni. Lodovico XII aveva mandato a Massimiliano il signore d'Asparoth, fratello di Lautrec, per continuare le negoziazioni relative alle proposizioni del matrimonio di madama Renata di Francia. Dall'altro canto Ferdinando confortava caldamente Massimiliano a cedere Verona ai Veneziani e ad accettare invece dugento cinquanta mila ducati d'investitura, e cinquanta mila di annuo censo. Gli proponeva di adoperare questo danaro per portare la guerra in Borgogna, e prendersi larghi compensi in Francia alle conquiste che abbandonava in Italia. Egli aveva impegnato il cardinale di Gurck, ch'era perfettamente entrato nelle sue viste, a recarsi in Germania per appoggiarle, e lo aveva fatto accompagnare da don Pedro di Urrea, suo ambasciatore, e dal conte di Cariati, suo ministro presso la repubblica di Venezia. Per dare più largo tempo a tutte queste negoziazioni, si stipulò una tregua a tutto marzo tra i Tedeschi ed i Veneziani[307].
Il più attivo in queste così complicate negoziazioni era però sempre Giulio II. Stava con impazienza aspettando la buona stagione per attaccare Ferrara, il di cui duca, abbandonato da tutti i suoi alleati, non poteva opporgli lunga resistenza. Aveva segretamente pel prezzo di trenta mila ducati acquistati da Massimiliano i diritti dell'impero sopra Siena, e contava di farne un dono a suo nipote, il duca d'Urbino: mercè un'altra somma di quaranta mila ducati Massimiliano doveva pure consegnargli Modena in pegno. Egli minacciava i Lucchesi, ai quali voleva togliere la Garfagnana, che avevano conquistata sopra Alfonso d'Este in tempo delle sue calamità. Era scontento dei Medici, che trovava più attaccati alla corte di Spagna che a lui, e meditava di mutare nuovamente la costituzione di Firenze. Aveva tolta al cardinale di Sion la legazione di Milano, e lo aveva richiamato a Roma, per gastigarlo delle concussioni colle quali questo prelato erasi formata in Lombardia un'entrata di trenta mila ducati. Apparecchiavasi a scacciare da Perugia Giovanni Baglioni, per sostituirgli Carlo Baglioni, e a far deporre Giano Fregoso, doge di Genova, per far eleggere in sua vece Ottaviano Fregoso. I soli Svizzeri continuavano a parergli degni della sua stima e dell'amor suo. Col loro soccorso egli sperava di terminare di cacciare i barbari d'Italia, secondo la favorita sua espressione, e di disfarsi un giorno degli Spagnuoli; ed il cardinale Grimani avendo detto in sua presenza che il regno di Napoli rimaneva sempre in mano degli stranieri, Giulio II, battendo sul suolo col suo bastone, disse, che se il cielo gli dava vita non tarderebbe a liberare anche i Napolitani dal giogo che gli opprimeva[308]. Finalmente nell'implacabile sua collera contro la Francia trasferiva con una bolla al re d'Inghilterra il titolo di Cristianissimo, privava Lodovico del regno di Francia, e lo accordava al primo occupante[309].
Tutti questi progetti fermentavano nello stesso tempo nel capo di Giulio II, quando una leggiere ma ostinata febbre, cui ben tosto s'aggiunse la dissenteria, gli fece sentire che poco gli rimaneva a vivere. Chiamò presso di sè i cardinali in concistoro, e fece loro confermare la bolla contro la simonia, ch'egli aveva pubblicata dopo la sua prima malattia. Fece loro dichiarare, che i cardinali scismatici sarebbero esclusi dal conclave, al quale, e non già al concilio adunato, lasciò l'elezione del suo successore; persuase di nuovo i cardinali a confermare il vicariato di Pesaro a suo nipote, il duca d'Urbino, in vista che questa era la sola grazia ch'egli accordava alla propria famiglia. Infatti non si presentò nella storia una sola occasione di parlare di Madonna Felicia, sua figlia, maritata a Gian Giordano Orsini. Egli mai non le aveva accordato verun favore; ed un giorno ch'ella caldamente gli chiedeva il cappello di cardinale per Guido di Montefalco, suo fratello per parte di madre, glielo rifiutò aspramente, dichiarando che non erane degno. Giulio II conservò fino all'ultimo istante la stessa fermezza, la stessa costanza, tutto il vigore della sua anima e tutto il suo discernimento. Ricevette i sacramenti della Chiesa, e morì dopo più giorni di patimenti nella notte del 21 febbrajo nel 1513[310][311].
CAPITOLO CXI.
Leon X succede a Giulio II; spedizione di La Tremouille in Lombardia; sua sconfitta a Novara; rotta di Bartolommeo d'Alviano all'Olmo; la guerra si rallenta in Italia; negoziazioni; morte di Lodovico XII.
1513 = 1515. Le rivoluzioni che avevano agitata l'Italia negli ultimi dieci anni, e le crudeli guerre che l'avevano insanguinata, potevano per la maggior parte attribuirsi al violento ed impetuoso carattere di Giulio II, ed a quell'accanimento con cui teneva dietro al compimento de' suoi progetti, o delle sue vendette. Le sue passioni confondevansi a' suoi occhi co' principj da lui adottati, ed egli si era fatti dei doveri conformi alla sua ambizione. Quasi tutti i progetti da lui formati avevano un lato nobile e generoso; abbastanza elevati erano i suoi pensieri, abbastanza disinteressati i suoi desiderj, per giustificare la sua condotta ai proprj occhi; e malgrado le criminose violenze con cui ne affrettò l'esecuzione, Giulio II non era affatto indegno degli elogj che gli furono prodigati dal cardinale Bellarmino, dall'annalista della Chiesa Rainaldi, e dagli altri apologisti della santa sede[312].
Giulio II, che non poteva soffrire veruna opposizione, veruna resistenza, e che spingeva agli ultimi eccessi il dispotismo delle sue volontà, nutriva per altro in massima, rispetto ed amore per la libertà: voleva assicurare quella dell'Italia, non sapeva soffrire l'idea di vedere questa contrada signoreggiata dagli stranieri, ed il suo più ardente desiderio era quello di liberarla dal giogo de' barbari, siccom'egli chiamava tutti gli oltremontani. Conosceva altresì il prezzo della libertà civile: aveva tentato di restituire l'indipendenza alla repubblica di Genova, e di salvare quella di Venezia, sebbene fosse stato egli il primo ad adunare il turbine che l'oppresse: aveva rispettata la libertà di Bologna e delle altre città dello stato della Chiesa, dalle quali avea scacciati i tiranni, ed alle quali avea cominciato a rendere un'amministrazione repubblicana sotto la protezione della santa sede. Vero è che, scontrando in queste città qualche opposizione, la sua collera non aveva più confini; che ravvisava nell'opposizione una ribellione, e puniva all'istante la città rubella, togliendole quella libertà, che le aveva data, e che egli risguardava come il primo de' beni.
Avea concepita un'altissima stima degli Svizzeri, perchè vedeva in essi un popolo libero, guerriero e docile alla sua voce; e siccome le loro montagne cuoprono un'importante parte de' confini dell'Italia, aveva concepito il progetto, degno d'un animo elevato, di costituirli custodi della libertà italiana. Aveva contribuito alla deposizione del gonfaloniere Piero Soderini, perchè nel bollore della sua collera non poteva condonargli nè il suo attaccamento alla Francia, nè l'asilo dato al concilio di Pisa; ma egli non aveva altrimenti acconsentito che i Medici riducessero Firenze in servitù, ed altamente biasimava il cardinale Giovanni d'essere entrato nella sua patria circondato di picche e di alabarde, e d'avere con armi straniere fondata la tirannide della sua casa. Dichiarava di non avere avuto mai intenzione di dar mano allo stabilimento d'una nuova tirannide, e che anzi il voto del suo cuore era di rovesciarle e di distruggerle ovunque si trovavano[313].
Ma sebbene Giulio II fosse riuscito ne' suoi progetti assai più felicemente che non poteva sperarsi dai calcoli ordinarj della politica, e sebbene il suo impetuoso carattere, confondendo i suoi avversarj e prevenendo i loro disegni, gli fosse spesse volte tornato più utile che non la stessa prudenza, di modo ch'egli aveva dilatati i confini della Chiesa più che verun altro de' suoi predecessori, egli era stato non pertanto cagione di tante disgrazie, aveva fatto versare tanto sangue, e chiamate in Italia tante barbare nazioni, nell'istante medesimo in cui pretendeva di combattere per liberarla, che la di lui morte venne risguardata come una pubblica felicità; ed i cardinali, i Romani, gl'Italiani, e tutti i popoli della Cristianità desideravano egualmente che il suo successore non fosse a lui somigliante. Egli era vecchio, e perciò preferivasi un giovane pontefice; era turbolento, impaziente, collerico, e si cercò colui che l'amore per le lettere, per i piaceri, per una vita epicurea, faceva credere d'una tempra affatto diversa da quella di Giulio II. Egli non aveva mai sofferti nè consiglj, nè opposizione, onde si cercò di porre il suo successore prima d'eleggerlo sotto la tutela di tutti gli altri cardinali, e di vincolare la potenza papale coi giuramenti e colle convenzioni. Ma questo tentativo, tante volte rinnovato ne' conclavi, era sempre tornato vano; ed il nuovo papa mai non ommetteva d'abolire colla sua plenipotenza il giuramento emesso quand'era cardinale. Le convenzioni giurate dopo la morte di Giulio II dai venticinque cardinali, adunati per eleggere il suo successore, non ebbero un più felice risultamento, e l'annalista della Chiesa non riputò necessaria cosa il registrarle ne' suoi annali[314].
Terminati i funerali di Giulio II, i ventiquattro cardinali, che si trovavano in Roma si chiusero il 4 di marzo in conclave. Sebbene Giovanni de' Medici fosse immediatamente partito da Firenze, trovandosi egli affetto da un ascesso, e costretto a viaggiare lentamente in lettiga, non giunse a Roma che il giorno 6, e fu l'ultimo ad entrare in conclave. Il cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV, essendo inallora decano del sacro collegio, e nello stesso tempo il più ricco e meglio provveduto d'ecclesiastiche dignità, da principio aveva aspirato alla tiara. Ma le sue personali qualità e la memoria dello zio non erano tali da ottenergli molti suffragj; egli fu bentosto escluso.
L'influenza delle famiglie principesche d'Italia aveva fatti introdurre nel sacro collegio alcuni giovani cardinali, i quali, d'ordinario vinti dalla deferenza loro verso il capo della propria famiglia, poca parte aver potevano nelle decisioni del corpo cui appartenevano. Ma la violenza e l'austerità del vecchio Giulio II aveva accresciuto grandemente il credito della gioventù; onde per la prima volta si vide formarsi nel conclave una fazione di giovani cardinali. Alfonso Petrucci, figliuolo del signore di Siena, era uno de' più attivi e zelanti di questo partito, e non tardò ad averne una mala ricompensa. Giovanni de' Medici, che inallora non contava che trentasette anni, era il più giovane di tutti coloro sui quali i giovani cardinali potevano decentemente riunire i loro suffragj. Nè tale scelta ripugnava a molti de' più attempati cardinali, i quali, in mezzo alle turbolenze ed ai pericoli d'Italia, risguardavano come sommamente vantaggioso allo stato della Chiesa l'avere per sovrano il capo della repubblica fiorentina, ed il far causa comune colla Toscana.
Ma il cardinale Soderini, che meritamente godeva grandissima opinione nel sacro collegio opponevasi con tutti i suoi amici all'esaltazione del capo della famiglia de' suoi nemici. Perciò i partigiani del Medici si adoperarono caldamente per riconciliare queste due famiglie. Offrirono al cardinale Soderini, quale prezzo del suo suffragio, di richiamare da Ragusi il gonfaloniere Soderini, di accordargli un asilo in Roma, di riporlo nel godimento di tutti i suoi beni sequestrati in Firenze, e di unire la sua famiglia a quella de' Medici con un matrimonio. Queste proposizioni furono accettate e religiosamente eseguite, e l'elezione del Medici fu assicurata nel conclave di giovedì sera, 10 marzo. Per altro i cardinali non procedettero alla formalità de' suffragj che il giorno 11, ed al cardinale Giovanni fu data l'incumbenza dello spoglio dello scrutinio che lo dichiarava papa. Egli prese il nome di Leone X[315].
Il Medici non era ancora che diacono, e fu d'uopo ordinarlo prete prima di coronarlo come papa; questa cerimonia si eseguì il 15 di marzo; poi fu consacrato il 17, e coronato il 19 in san Pietro. Si dovettero affrettare queste funzioni a motivo della settimana santa; ma Leone X non volle rinunciare ad una più solenne coronazione, la quale richiedeva lunghi apparecchi. Ebbe questa luogo l'11 d'aprile a san Giovanni di Laterano, la quale chiesa viene considerata come la propria vescovile de' papi. Il Medici aveva scelto il giorno anniversario della battaglia di Ravenna, nella quale era stato fatto prigioniero dai Francesi, e montò in questa cerimonia il cavallo di cui si era valso nella battaglia[316].
Si potè conoscere in questa coronazione quanto fosse mutato lo spirito della corte di Roma. Giulio II serbava tutte le entrate dello stato per la guerra, ed aveva ridotti all'estrema economia tutti gli altri rami della pubblica amministrazione; aveva proscritti nella sua corte ogni lusso ed ogni pompa, ed anche in mezzo alla guerra non aveva lasciato di ammassare danaro per l'esecuzione de' più vasti suoi progetti; onde lasciò, morendo, trecento mila fiorini in danaro sonante, che il di lui successore trovò nel tesoro, ottanta mila fiorini che i cardinali spesero o si appropriarono durante l'interregno, oltre le pietre di grandissimo valore, colle quali avea arricchita la mitra, detta il triregno. Per lo contrario Leone X, salendo sul trono, volle sorprendere il popolo collo splendore della sua magnificenza, e poca cura prendendosi della guerra in cui la Chiesa trovavasi allora impegnata, o forse supponendo inesauribili i rinvenuti tesori, consumò cento mila fiorini nelle sole feste della sua coronazione. In questa cerimonia fece portare il gonfalone della Chiesa dal duca Alfonso d'Este, e parve in tal modo presagire la di lui riconciliazione colla santa sede[317].
Tosto che Leon X si trovò seduto sul trono, rivolse le sue prime cure alla propria famiglia, onde arricchirla coi beni della Chiesa. Era morto appunto in quest'epoca, il 9 aprile, Cosimo de' Pazzi, arcivescovo di Firenze. Leone diede quest'arcivescovado a suo cugino Giulio, allora cavaliere di Rodi, e figliuolo naturale del vecchio Giuliano. In settembre lo creò cardinale, e poco dopo legato di Bologna. Accordò in pari tempo la porpora ad Innocenzo Cibo, figliuolo di sua sorella, a Bernardo Bibbiena, suo segretario, ed a Lorenzo Pucci, protonotaro apostolico e creatura de' Medici. Non permettendo i canoni di conferire le alte dignità ecclesiastiche ai bastardi, Leone accordò una dispensa a suo cugino, prima di nominarlo arcivescovo di Firenze; ma quando si trattò di farlo cardinale s'appigliò all'espediente di far deporre con giuramento al fratello della madre di lui e ad alcuni religiosi, ch'ella era stata sposa di Giuliano[318].
La notizia dell'elezione di Leon X venne accolta in Firenze con trasporti di gioja non solo dai partigiani de' Medici, ma ancora dagli antichi repubblicani; o sia che sperassero, che i nuovi progetti che formerebbe Leone, come capo della Chiesa, farebbero diversione al piano che egli aveva di già formato per ridurre in servitù la sua patria, o sia che i vantaggi del commercio ed i favori che potevano sperare dalla corte di Roma, facessero loro dimenticare gl'interessi della libertà. «Io ben intendo,» disse il genovese Lomellini osservando le feste de' Fiorentini, «come voi, non avendo ancora veduto verun vostro cittadino diventare papa, possiate rallegrarvi di questa nuova dignità; ma quando avrete l'esperienza de' Genovesi, saprete quai tristi effetti producano così fatte grandezze nelle città libere[319].»
Vero è che inallora Firenze aveva pochi diritti al nome di città libera. Appunto nell'epoca in cui il cardinale de' Medici mettevasi in via per recarsi al conclave in cui fu eletto, una lista coi nomi di diciotto in venti giovani, conosciuti pel loro patriottismo e pel loro amore di libertà, cadde di tasca a Pietro Paolo Boscoli, e fu portata al tribunal criminale, detto la magistratura degli otto. Il tribunale credette di ravvisarvi l'indizio d'una cospirazione per assassinare Giuliano e Lorenzo; tanto più che il Boscoli era già tenuto di vista per alcune imprudenti espressioni. Costui fu posto alla tortura, e così pure Agostino Capponi ed altri molti, il più ragguardevole de' quali era senza dubbio Niccolò Macchiavelli, stato di già spogliato nel precedente novembre dell'impiego di segretario di stato da lui lungo tempo occupato[320].
La violenza de' tormenti inflitti ai prevenuti non istrappò loro di bocca veruna confessione di cospirazione, ma molti confessarono d'avere sparlato del presente governo, e d'averne desiderato lo scioglimento. Tanto bastò per condannare alla morte Boscoli e Capponi, facendo eseguire la sentenza all'indomani della partenza del cardinale verso di Roma. Gli altri, tra i quali contavansi Niccolò Valori, Giovanni Folchi, Guccio Adimari, Niccolò Macchiavelli, Bonciani e Serragli, furono relegati in diversi luoghi[321].
Questi terribili rigori delle creature de' Medici diedero occasione a Leon X di cominciare il suo regno con un atto di clemenza, facendo liberare tutti gli accusati, richiamando tutti gli esiliati per titolo di congiura, e stendendo questo favore a tutti i Soderini ch'erano stati precedentemente rilegati[322]. Nello stesso tempo fece sentire ai Fiorentini i benefici effetti della sua protezione nelle relazioni de' loro vicini. Alcune dispute di confini nelle vicinanze di Barga erano state cagione in luglio ed in agosto del 1513 d'ostilità tra i Fiorentini ed i Lucchesi: Leon X si fece mediatore tra le due repubbliche; ma con arbitramento del 12 ottobre obbligò la più debole a restituire ai Fiorentini Pietra Santa e Mutrone, fortezze che i Lucchesi avevano usurpate in tempo della guerra di Pisa; ed a tale condizione fece sottoscrivere un'alleanza perpetua fra le due repubbliche[323].
Tostocchè si ebbe in Lombardia la notizia della morte di Giulio II, Raimondo di Cardone si era avvicinato a Piacenza, poi a Parma, ed aveva persuase queste due città a darsi al duca di Milano[324]. Sebbene queste fossero state occupate da Giulio II senza verun diritto, Leon X non fu appena salito sul trono pontificio, che ne riclamò la restituzione, determinato a non volere permettere che in tempo della sua amministrazione si smembrassero gli stati della Chiesa, o piuttosto pensando già fin d'allora a formare con queste nuove conquiste della santa sede uno stato per suo fratello Giuliano, o per suo nipote Lorenzo[325]. Finchè non fu che cardinale, erasi mostrato nemico della Francia, ed aveva con tutta la sua attività secondata la lega formata da Giulio II contro quella corona. Perciò generalmente credevasi di vederlo camminare sulle orme del suo predecessore; altronde le negoziazioni cominciate, quando ancora non si prevedeva la morte di Giulio, avevano avuto qualche risultamento prima che Leone avesse potuto decidersi.
Da un canto Ferdinando il Cattolico, il quale era troppo povero per fare la guerra a proprie spese, era sempre inclinato a far cessare le ostilità ai confini della Spagna, perchè non poteva farvi vivere le sue armate a spese de' nemici. Cercava soltanto di lasciare aperta una via alla fortuna; onde il 1.º d'aprile sottoscrisse ad Orthes, nel Bearn, la tregua d'un anno colla Francia riguardo soltanto ai confini della Spagna[326]. Stando al carattere che a Ferdinando attribuisce il Macchiavelli, questo re, più astuto che accorto politico, si affidava alla propria fortuna, e voleva compromettere i suoi alleati per far loro sentire il bisogno che avevano di lui, aspettando intanto consiglio dagli avvenimenti. Non pertanto la tregua da lui conchiusa era totalmente vantaggiosa alla Francia, la quale trovavasi in libertà di ricondurre le sue armate in Italia[327].
D'altra parte venne sottoscritto un trattato d'alleanza tra la Francia e la repubblica di Venezia a Blois, il 24 marzo del 1513, da Andrea Gritti, che di prigioniero era diventato ambasciatore. La negoziazione tra queste due potenze risguardava le rispettive loro pretese sopra province che più non erano possedute dalle parti contraenti, e che trattavasi di togliere di mano ai loro nemici. I Veneziani, in conformità de' primi articoli convenuti e del loro antico trattato colla Francia, domandavano la Ghiara d'Adda e Cremona. I Francesi avrebbero voluto ritenere queste province; ma all'ultimo acconsentirono a prometterne la restituzione, però sotto la segreta condizione di contraccambiarle poscia con Mantova, il di cui marchese fu dalla Francia sagrificato alle convenienze del senato[328]. I Veneziani obbligavansi ad entrare in campagna circa nella metà di maggio con ottocento uomini d'armi, mille cinquecento cavaleggieri, e dieci mila fanti, mentre che Lodovico XII invaderebbe nello stesso tempo la Lombardia con una potente armata[329].
A tale oggetto Lodovico XII fece adunare a Susa, sotto il comando di Lodovico de la Tremouille, mille dugento uomini d'armi, ottocento cavaleggieri, ottomila landsknecht, che aveva condotti Roberto de la Marck, signore di Sedan, ed i suoi due figliuoli, Fleuranges e Jametz, ed otto mila avventurieri francesi. Il re non volle dare il comando di quest'armata al vecchio maresciallo Trivulzio, cui però diede ordine d'accompagnarla, per timore che la di lui manifesta parzialità pei Guelfi non ispaventasse i Ghibellini e li riducesse ad una più ostinata difesa[330]. In pari tempo Bartolommeo d'Alviano era giunto a Venezia dopo essere stato posto in libertà dal re, il quale l'aveva sempre tenuto prigioniere dopo la battaglia della Ghiara d'Adda. Il senato gli diede il comando dell'armata che si adunava a San Bonifacio nello stato di Verona. Per ultimo una flotta francese presentavasi a Genova, ove gli Adorni ed i Fieschi si apparecchiavano ad assecondarla. Mentre che così imponenti forze si accostavano contemporaneamente da tre diversi lati, il vicerè don Raimondo di Cardone sembrava risoluto di non volersi loro opporre: erasi ritirato sulla Trebbia, chiamandovi i pochi soldati che guardavano Tortona ed Alessandria: avea apertamente manifestata la sua intenzione di ricondurre la sua armata nel regno di Napoli; e, datone avviso allo stesso maresciallo Trivulzio, si era infatti di già posto in marcia; ma, avendo tra Piacenza e Firenzuola ricevute nuove lettere da Roma, che per quanto pare lo rassicuravano intorno alle disposizioni del papa, egli ritornò nella sua prima posizione[331].
I soli Svizzeri attaccavano il loro amor proprio nazionale alla difesa della Lombardia. Avevano chiesti al papa i soccorsi promessi dal suo predecessore; ma Leon X non voleva ancora apertamente prendere parte nella guerra, e mandò al cardinale di Sion quarantadue mila fiorini, onde li desse agli Svizzeri come pagamento di un debito anteriore, e non come un sussidio. Non perciò gli Svizzeri si astennero dallo scendere in gran numero dalle loro montagne; si avanzarono fino a Tortona, ove furono raggiunti dal duca di Milano, ed invitarono anche il Cardone ad unirsi a loro coll'armata spagnuola. Avendo quel generale ricusato di farlo, lo Sforza si ritirò coll'armata Svizzera a Novara, mentre che il Trivulzio aveva occupate Alessandria ed Asti: nulla più si opponeva all'armata francese che poteva liberamente portarsi sopra Milano, ed infatti lo Sforza permise ai Milanesi di capitolare colla Francia. Sacramoro Visconti, ch'egli aveva lasciato in Milano con cent'uomini d'armi, fece spiegare sulle mura le bandiere della Francia, ed acconsentì che fosse vittovagliato il castello sempre occupato dai Francesi[332].
L'entusiasmo scoppiato pochi mesi prima alla venuta dello Sforza, erasi di già compiutamente spento. L'incapacità e la miseria del duca, e le vessazioni degli Svizzeri avevano bentosto fatto comprendere ai popoli quanto avessero a torto nudrite troppo lusinghiere speranze: onde le città s'affrettavano d'alzare spontaneamente lo stendardo dell'armata creduta più forte. Per mettere Parma e Piacenza al coperto dell'invasione francese, il Cardone le restituì agli ufficiali del papa. L'Alviano occupò Valeggio, Peschiera e Cremona, ed incaricò Renzo di Ceri di entrare in Brescia, mentre Soncino e Lodi spiegavano le insegne francesi; onde l'armata veneziana fu tosto in comunicazione colla francese. Pure i progressi dell'Alviano non erano in Venezia veduti senza inquietudine: si osservava che egli s'andava troppo allontanando dalle province che più importava di difendere, tanto più che la guarnigione tedesca di Verona aveva ricevuto alcuni rinforzi, ed ottenuti diversi vantaggi alle spalle dell'armata veneziana[333].
I Francesi, che così rapidamente andavano occupando le province perdute nel precedente anno, non avevano per anco combattuto in verun luogo, fuorchè nelle montagne di Genova. Dopo essersi seduto sul trono ducale, Giano Fregoso aveva stretto con ardore l'assedio della Lanterna, nuova fortezza, che nello stesso tempo signoreggiava il porto e la città di Genova, e che i Francesi avevano sempre conservata. Un vascello, uscito dai porti di Normandia, senza avere preso lingua in verun luogo, era giunto in gennajo fino sotto la fortezza per vittovagliarla, e cominciava a scaricare le munizioni che teneva a bordo, quando Emmanuele Caballo, marinajo rinomato per la sua intrepidezza, domandò al doge una galera, sulla quale fece montare i più risoluti volontarj; indi non si curando delle palle di cannone che i Francesi facevano piovere sopra di lui, andò, tostocchè fu a vista della Lanterna, a porsi tra il vascello normanno e la fortezza; venne all'abordaggio della nave nemica, la prese, e la condusse in trionfo nel porto[334].
Ma quando in primavera le truppe di La Tremouille e di Trivulzio cominciarono a dilatarsi nel Piemonte, una flotta francese presentossi in faccia a Genova, mentre i fratelli Antoniotto e Girolamo Adorno, aperti partigiani de' Francesi, si avvicinavano alla città con quattro mila fanti. Il doge, per non trovarsi esposto nello stesso tempo agl'interni ed agli esterni nemici, fece uccidere, mentre usciva di senato, Girolamo Fieschi, il quale aveva di fresco co' suoi discorsi dato a conoscere il suo attaccamento per la Francia. Questo assassinio, che il doge aveva risguardato come un colpo da grande politico, fu invece quello che lo perdette: il senato ed il popolo, risguardandolo oramai con orrore, ricusarono di più difenderlo, ed i suoi soldati furono nelle montagne battuti dagli Adorni. Suo fratello Zaccaria cadde nelle mani de' Fieschi, che lo uccisero per vendicare il loro parente; il signore di Prejan, che aveva il comando della flotta francese, non trovò verun ostacolo per entrare in porto; Giano Fregoso ritirossi colla sua flotta genovese alla Spezia, ed Antoniotto Adorno, riconosciuto da Lodovico XII come suo luogotenente, fu nello stesso tempo proclamato doge dal senato e dal popolo[335].
Genova si era data ai Francesi; l'armata veneziana occupava la metà dello stato milanese; La Tremouille e Trivulzio colle truppe francesi occupavano l'altra, ed in tutto il ducato Massimiliano Sforza altro più non aveva che Como e Novara. In quest'ultima città si era il duca unito all'armata svizzera; ma tutto il mondo, vedendolo colà chiuso, rammentava che i medesimi La Tremouille e Trivulzio avevano assediato in Novara il padre di quel duca Sforza, che vi si difendeva adesso; ch'era egualmente in mano degli Svizzeri, che l'avevano venduto ai Francesi, e che molti di que' capitani e soldati, che circondavano il figlio, avevano contribuito a tradire il padre. Queste vicine memorie stringevano il cuore di spavento a Massimiliano, ed accrescevano fiducia a La Tremouille; onde scriveva a Lodovico XII, che in breve farebbe prigioniere il figlio nello stesso luogo in cui aveva fatto prigioniere il padre[336].
Questa speranza aveva persuaso La Tremouille ad assediare Novara, invece d'attenersi al consiglio d'Andrea Gritti, che avrebbe voluto che i Veneziani uniti ai Francesi cacciassero, prima di null'altro intraprendere, gli Spagnuoli di Lombardia, perciocchè inallora restando gli Svizzeri senza cavalleria, senza artiglieria, senza equipaggi da guerra, non potrebbero tenere lungamente la campagna[337].
Si cominciò l'assedio di Novara, ed il signore de la Fajette, che comandava l'artiglieria, piantò in pieno giorno le batterie contro le mura, ed in quattro ore vi aprì una breccia capace di ricevere cinquant'uomini di fronte; ma per scendere dalla breccia in città, eranvi quindici piedi d'altezza. Intanto il generale svizzero fece dire ai Francesi che non consumassero inutilmente la loro polvere, e che, se pensavano di dare l'assalto, attaccassero pure la porta, poichè egli la lascerebbe aperta. Infatti gli Svizzeri si accontentarono di fare stendere alcuni lenzuoli a guisa di tende sì dietro la porta che dietro la breccia, onde i nemici non vedessero le evoluzioni de' loro soldati, e ricusarono di acconsentire alle inchieste di Silvio Savelli, di Giovanni Gonzaga, d'Alessandro Bentivoglio e di Camillo Montani, principali capitani dell'armata dello Sforza, i quali volevano scavare una fossa dietro la breccia e dietro la porta, oppure fiancheggiare le mura con terrapieni[338].
Massimiliano aveva presso di sè in Novara gli Svizzeri d'Uri, Schwitz ed Underwald, i quali, sotto gli ordini de' loro landamani, erano scesi prima degli altri in Italia senza ricevere nè soldo, nè ingaggio. Si avvicinava un secondo corpo composto delle milizie di Glaritz, Zug, Lucerna e Sciaffusa; ed un altro di circa cinque mila uomini, colle milizie di Berna e di Zurigo, si avanzava sotto gli ordini del capitano Alt-Sax dalla banda de' Grigioni alla volta di Chiavenna[339].
I Francesi, apparecchiandosi a dare l'assalto, avevano di già fatto stare tre giorni e tre notti i loro Landsknecht nella trincea, la quale era finalmente abbastanza profonda per metterli al coperto dell'artiglieria della città, quando furono avvisati dai loro cavaleggieri che avvicinavasi il secondo corpo dell'armata svizzera, e che desso cercherebbe d'entrare in Novara lo stesso giorno. Roberto della Marck consigliava che si andasse ad attaccarlo in aperta campagna, prima che giugnesse il terzo corpo, che non aveva per anco potuto passare il Ticino; ma il Trivulzio giudicò più prudente consiglio d'opporre la lentezza all'impeto degli Svizzeri. Bastava, egli diceva, onde fossero forzati in breve a capitolare, d'intercettare i loro convoglj, d'inquietarli colla cavalleria, di far loro soffrire la fame, e di non venire a battaglia. Persuase a La Tremouille di portare il campo francese due miglia addietro, alla Riotta, presso al fiume Mora, in mezzo a' suoi proprj poderi, ed in un paese che egli conosceva minutissimamente[340].
I Francesi si allontanarono da Novara il 5 di giugno, alla volta del Po, come se avessero voluto andare a Milano per la strada di Abbiategrasso. Lodovico il Moro aveva derivato dall'Agogna un canale, chiamato la Mora, che irrigava quella pianura in cui tutti si trovavano i vasti poderi del Trivulzio; un piccolo bosco stendevasi lungo il canale da Novara fino presso Trecase. I generali francesi si accamparono da principio alla Riotta intorno ad un'abbazìa alquanto elevata; ma i Landsknecht trovavansi su questo piccolo rialto esposti all'artiglieria della città, ed una palla, entrata per la finestra, attraversò la camera stessa in cui si adunava il consiglio di guerra. Perciò i generali scelsero un'altra posizione intorno a Trecase. Il Trivulzio, per salvare questa sua terra, aveva ottenuto che non vi entrassero le truppe. Il signore di Sedan aveva inventata una specie di fortificazione portatile, che suo figlio chiama: «un parco, fatto a guisa di scala, il quale era maravigliosamente buono; dentro il parco stavano cinquecento archibugj a miccia, e se si fosse potuto porre in assetto, forse la bisogna non sarebbe andata come andò;» ma i Francesi in piena sicurezza non pensarono a fortificarsi in quella prima notte[341].
Intanto il secondo corpo degli Svizzeri, condotto dal capitano Jacob Mottino d'Altorfio, e da Graf, borgomastro di Zurigo, entrò in Novara, il 5 di giugno, senza avere trovata opposizione. Questi due capi, informati della ritirata di La Tremouille, e sapendo che nello stesso tempo valicava le Alpi il signore d'Aubignì con un corpo di cavalleria, stimarono non doversi dar tempo ai Francesi d'allontanarsi, o di trarre in lungo la guerra. Rappresentarono ai loro compagni d'armi, che il nemico riposava in seno ad una temeraria sicurezza, e non sospettava ch'essi osassero d'attaccarlo prima che giugnesse il capitano Alt-Sax col terzo corpo; che tutta volta la gloria loro sarebbe più splendida, se ottenevano la vittoria prima dell'arrivo de' loro compatriotti. Tutti i capitani svizzeri, vinti dalle persuasioni di coloro ch'erano venuti di fresco, ordinarono ai loro soldati di mangiare e di riposarsi qualche tempo, e prima che facesse giorno, il 6 giugno del 1513, marciarono verso Riotta e Trecase[342].
Gli Svizzeri, nascosti dalle tenebre della notte e dal bosco che stendevasi tra Novara ed il campo francese, s'avanzarono, contro il loro costume, tacitamente, divisi in tre colonne, e giunsero presso il campo nemico senz'essere scoperti: allora si diressero impetuosamente verso l'artiglieria, senza lasciarsi sgominare da una vigorosa carica fatta da Roberto della Marck alla testa di trecento uomini d'armi, e senza ributtarsi nel vedere caduti molti loro capitani e perfino intere file di soldati sotto il fuoco dell'artiglieria nemica. Avanzando sempre intrepidi in mezzo a tanta strage, s'impadronirono delle artiglierie, e le volsero contro i nemici da loro posti in fuga. La fanteria tedesca, comandata da Fleuranges e Jametz, figliuoli di Roberto della Marck, era il principale oggetto dell'odio e della gelosia degli Svizzeri, perchè essa aveva preso il loro luogo nelle armate francesi: questa, essendo attaccata con maggior furore, e coraggiosamente difendendosi, fece agli Svizzeri grandissimo danno; ma furono altresì uccisi sul campo di battaglia più della metà dei Landsknecht. La cavalleria francese, raffrenata dai fossi, o imbarazzata in luoghi pantanosi, non agiva che pochissimo contro gli Svizzeri; l'artiglieria era di già conquistata, e adoperata contro i Landsknecht, de' quali i pochi superstiti, perduta ogni speranza di salute, dovettero arrendersi alzando le loro lance. Fleuranges e Jametz, gravemente feriti fin dal principio della battaglia, erano ambidue caduti in mano ai nemici. Il loro padre con una furiosa carica de' suoi uomini d'armi sgominò il battaglione che li calpestava, fece rialzare i suoi figliuoli, il primo de' quali non aveva meno di quarantasei ferite, e li fece portare sul collo de' cavalli de' suoi soldati[343].
Gli uomini d'armi francesi, che fino a quest'epoca erano stati risguardati come la più valorosa soldatesca d'Europa, non avevano sofferta altra così vergognosa sconfitta come questa nella battaglia di Novara. La sorpresa, la perdita dell'artiglieria, la notizia divulgatasi nel campo che una delle tre colonne svizzere era penetrata per di dietro nel campo e che stava saccheggiando gli equipaggi, riempirono di terror panico que' cavalieri fin allora così valorosi; non si vergognarono di gettare le armi per non essere impediti nella fuga, e si disse che un solo non aveva conservata la sua lancia dopo passata la Sesia. Se Massimiliano Sforza avesse soltanto avuti dugento uomini d'armi per inseguirli, avrebbe in quel giorno distrutta l'armata francese: ma gli Svizzeri colla sola loro fanteria non potevano nè meno tentarlo. Altronde si accerta, che, arrolandosi sotto le bandiere, giuravano di non far grazia a colui che trovavano armato sul campo di battaglia e di non seguire colui che si ritirava. L'azione non aveva durato che un'ora e mezzo; e gli Svizzeri, dopo essersi tenuti alcune ore in buona ordinanza, onde assicurarsi il possedimento del campo di battaglia, condussero in trionfo in Novara ventidue pezzi d'artiglieria coi loro cavalli d'attiraglio e tutti gli equipaggi. I Francesi perdettero circa dieci mila uomini, la metà de' quali soltanto fu uccisa sul campo di battaglia, e furono tutti Landsknecht. L'altra metà fu uccisa dai contadini, e furono i fanti guasconi, che nella loro fuga, oppressi dalla fatica e dalla fame, e disarmati, e sdrajati ne' campi o presso le siepi, venivano trucidati senza difendersi[344].
I Francesi non osarono fermarsi in Piemonte, e ripassarono immediatamente le montagne, malgrado le istanze d'Andrea Gritti, il quale loro rappresentava, che quest'atto di viltà, assai più funesto che la sconfitta, sarebbe cagione della ruina di tutti i loro amici in Italia. Infatti tutte le città, che avevano spiegate le insegne francesi, si affrettarono di mandare i loro atti di sommissione a Massimiliano Sforza, redimendosi dal commesso errore con somme di danaro, che furono distribuite tra gli Svizzeri. Don Raimondo di Cardone, che aveva ricusato di partecipare ai pericoli della guerra, si affrettò di raccogliere i frutti della vittoria. Staccò tre mila fanti spagnuoli sotto gli ordini del marchese di Pescara per iscacciare, di concerto con Ottaviano Fregoso, i Francesi e gli Adorni da Genova. Ma di già la flotta francese, comandata da Prejean, aveva lasciata Genova; e la flotta genovese, che poche settimane prima erasi ritirata nel golfo della Spezia, si presentò nuovamente in faccia alla città. Gli Adorni non vollero attirare sulla loro patria le calamità d'un assedio; volontariamente rinunciarono alla loro autorità, ed abbandonarono la città, seco portando i ringraziamenti del senato ed i voti del popolo; mentre che Ottaviano Fregoso, ch'era assai più stimato dai suoi compatriotti che non Giano Fregoso, cui egli veniva a rimpiazzare alla testa dello stesso partito, fu eletto doge il 17 di giugno, e fece dai Genovesi pagare ottanta mila fiorini al marchese di Pescara per le spese della sua spedizione[345].
Sacramoro Visconti, il quale aveva preso possesso di Milano a nome del re di Francia, era uscito da quella città con settecento uomini d'armi per raggiugnere il campo francese, ed era arrivato alle rive del Ticino, quando udì il cannone della battaglia di Novara. Non tardò ad avere avviso della sconfitta de' Francesi; onde, allontanandosi rapidamente, andò a raggiugnere a Cremona Bartolomeo d'Alviano e l'armata veneziana. Questi, che trovavasi a fronte degli Spagnuoli, udendo che il vicerè aveva passato il Po il 13 giugno, non volle aspettare che le due armate si riunissero contro di lui, e ritirossi subito sopra Verona colla rapidità usata in tutte le sue operazioni; tentò, passando, d'impadronirsi di quella città, e nello stesso giorno piantò le batterie, aprì una breccia e diede l'assalto; ma non avendo avuto felice riuscita, ritirò i suoi cannoni, continuò la sua marcia, e si accampò a Tomba nel territorio di Vicenza[346].
Intanto Raimondo di Cardone si avanzava senza incontrare opposizione nelle province dall'Alviano abbandonate, e le trattava colla ferocia e coll'avarizia proprie degli Spagnuoli, saccheggiando Cremona, levando enormi contribuzioni sopra Brescia, Bergamo ed altre città, e guastando le borgate ed i villaggi. L'Alviano, che sentiva l'impossibilità di tenere la campagna contro tanti nemici riuniti, si chiuse in Padova, e nello stesso tempo Gian Paolo Baglioni in Treviso, e Renzo di Ceri in Crema; tranne queste tre città, tutto il rimanente della terra ferma veneziana fu abbandonato al dilapidamento de' nemici[347].
Gli Svizzeri, che non avevano verun motivo di nimicizia contro i Veneziani, non si curavano di attaccarli, limitandosi a stabilirsi nel ducato di Milano, e levandovi contribuzioni grandissime; mentre che i generali spagnuoli, facendo la guerra, quasi altr'oggetto non si proponevano che quello di mantenere co' saccheggi i loro soldati. Tra Ferdinando ed i Veneziani non sussistevano nè motivi di nimicizia, nè dichiarazione di guerra; anzi il re di Spagna aveva recentemente offerta la sua mediazione per riconciliare la repubblica coll'imperatore. Leon X aveva ancor esso offerta la sua mediazione accompagnata dalle più affettuose espressioni; ma nè l'uno, nè l'altro aveva ottenuto l'intento, perchè Massimiliano non aveva voluto rinunciare a veruna pretesa, e il senato veneto area sempre ricusato con eroica costanza d'entrare in negoziazione, se l'imperatore non restituiva prima Verona e Vicenza. Ma per lo meno queste amichevoli offerte non dovevano far presumere vicine ostilità; perciò quando Raimondo di Cardone fece avanzare la sua armata per unirla a quella dell'imperatore, e fare la guerra in suo proprio nome, rendette visibile con tale condotta la barbara indifferenza d'un condottiere, che ad altro non pensa che ad arricchire i suoi soldati, senza prendersi pensiero se ciò accada con danno de' nemici o degli amici. Ancora più amara riuscì ai Veneziani la condotta di Leon X, il quale scelse quest'istante di contraria fortuna per mandare i suoi uomini d'armi all'armata spagnuola, sotto gli ordini di Troilo Savelli e di Muzio Colonna, bruttamente dimenticandosi che nel lungo corso delle sue sciagure non aveva mai cessato d'essere beneficato dalla repubblica, e di averle promesso riconoscenza[348].
Raimondo di Cardone andò ad unirsi all'armata imperiale a san Martino presso Verona; e perchè non poteva attaccare i Veneziani che dicendosi ausiliario di Massimiliano, si assoggettò in gran parte all'autorità del cardinale di Gurck, il quale risiedeva in Verona, ed era il solo luogotenente dell'imperatore in Italia. Questi annunciava sempre vastissimi progetti, pei quali chiedeva frequenti sussidj a' suoi alleati, e dissipando il danaro più sollecitamente che non l'aveva ottenuto, trovavasi poi sempre inabilitato a mandare ad effetto ciò che meditava. Le sue truppe mai non erano pagate; nè lo erano meglio quelle di Ferdinando; onde le due armate dovevano vivere a carico delle sventurate province veneziane, dove avevano portata la guerra. Il marchese di Pescara aveva il comando della fanteria spagnuola, che ammontava a quattro mila cinquecento uomini all'incirca; Jacopo Landau, Giorgio di Frundsberg e Giorgio di Lichtenstein erano i capi de' pedoni tedeschi, che erano tre mila cinquecento. La cavalleria, sotto gli ordini di don Pedro de Castro, era composta di circa novecento cavalieri, in gran parte truppa leggiere; e l'artiglieria consisteva in dodici falconetti di bronzo. Tale era la forza di quest'armata, più formidabile pel valore de' veterani ond'era principalmente composta e per la virtù de' suoi capitani, che per il numero de' soldati[349].
Il cardinale di Gurck volle che Cardone attaccasse Padova. Questa città, risguardata dai Veneziani come l'ultimo loro baluardo, era ancora la conquista che più d'ogni altra stava a cuore a Massimiliano; ma egli l'aveva invano tentata con una poderosa armata, e ciò che non aveva potuto ottenere con quasi cento mila uomini, non doveva meglio riuscire ai suoi luogotenenti con otto in nove mila. L'assedio cominciò il 28 di luglio. L'Alviano, per difendere Padova, aveva sotto di lui una numerosa armata; un figlio del doge e molti gentiluomini veneziani vi si erano con lui chiusi, e la città era una delle più forti che allora contasse l'Italia. Il Cardone, esposto in ogni lato al fuoco delle di lui batterie non poteva adunare quanti guastatori bastavano per iscavare le trincee e porsi al coperto; e le malattie che sogliono regnare nelle campagne umide e pantanose cominciavano a incrudelire nella sua armata; onde il 16 agosto si vide costretto a levare l'assedio ed a ritirarsi a Vicenza. Ma questo svantaggio raddoppiò la crudeltà de' soldati, i quali si dispersero in quelle già così ricche campagne, e vi distrussero tutto quanto ancora restava dell'antica loro opulenza[350].
Dopo avere alcun tempo continuati questi guasti, il vicerè volle poter darsi il vanto d'avere diretta la sua artiglieria contro i palazzi di Venezia. Condusse la sua armata fino alle rive della Laguna, vi bruciò Mestre, Marghera e Fusina, e montò in batteria sulla riva alcuni pezzi di cannone, le di cui palle percossero le mura del convento di san Secondo. Questa bravata del generale spagnuolo cagionò ai Veneziani un profondo dolore. Essi vedevano di giorno il fumo, di notte le fiamme de' loro palazzi e de' loro villaggi, che gli Spagnuoli, i Tedeschi ed anche i soldati del papa bruciavano con barbaro accanimento. Chiesero vendetta all'impetuoso Bartolomeo d'Alviano, che a stento aveva acconsentito di chiudersi entro le mura d'una città, e che vedendo i suoi soldati animati dalla stessa sua collera, dal sentimento della loro forza e dalla confidenza ne' loro capitani, si credette sicuro d'ottenerla[351].
Gli Spagnuoli si erano troppo avanzati, eransi lasciati alle spalle la Brenta ed il Bacchiglione coi loro infiniti canali, e due città, ognuna delle quali conteneva un'armata. I contadini, scacciati dalle loro case, spogliati de' loro averi, spesso maltrattati anche nella persona, mostravansi apparecchiati a sagrificare le loro vite in servigio della repubblica contro così feroci nemici. L'Alviano li chiamò a sè; fece loro occupare le rive dei fiumi, le gole delle montagne, mettere ovunque le loro vittovaglie in luoghi sicuri, e fortificare coi loro lavori i varj trinceramenti che faceva occupare alla sua armata. Il Cardone, per tirarsi dalla pericolosa situazione in cui si era posto, aveva presa la strada tra Padova e Treviso. Giunto a Cittadella, poco lontano dalla Brenta, aveva attaccato questo castello, ed era stato respinto. Ebbe la stessa sorte, quando tentò poco al di sotto di passare la Brenta[352].
Finalmente la sua cavalleria leggiere, rinnovando gli attacchi nello stesso luogo, mentre che il Pescara guardava il fiume tre miglia al di sopra, riuscì ad ingannare la vigilanza dell'Alviano. Gli Spagnuoli erano omai giunti sull'opposta riva della Brenta, ma non erano perciò fuori di pericolo. L'Alviano si trovò bentosto sulla loro strada per precluder loro la ritirata sopra Vicenza. Fece occupare Montecchio, lungo la via della Germania, da Gian Paolo Baglioni, che giugneva allora da Treviso. Collocò dell'artiglieria in tutte le vantaggiose posizioni, e col rimanente dell'armata andò ad occupare ad Olmo un piccolo rialto che pareva fortificato dalla natura, e che trovavasi due sole miglia lontano da Vicenza a cavaliere della strada di Verona[353].
Erano gli Spagnuoli circondati da ogni banda; passarono la notte un mezzo miglio lontani dai Veneziani alla portata della loro artiglieria, e furono costretti di spegnere tutti i loro fuochi, perchè non servissero di punto di mira ai nemici. Attaccare la posizione dell'Alviano all'Olmo era un'intrapresa affatto disperata; essi vi rinunciarono dopo averne conosciuti i pericoli; e la mattina del 7 d'ottobre volsero le spalle ai nemici, per prendere a traverso alle montagne la strada di Bassano e di Trento. Di già avevano bruciata una parte dei loro equipaggi, ed erano apparecchiati a perdere il rimanente, e tutti i loro cavalli, riputandosi abbastanza felici, se potevano giugnere colle loro armi in Germania. Siccome erano partiti senza battere il tamburo e senza suonare le trombe, e che una densa nebbia li copriva, l'Alviano tardò alquanto ad avvedersene: ma quando lo seppe, li fece inseguire da Bernardo Antoniola, figliuolo di sua sorella, con un corpo di cavalleria leggiere e due piccoli cannoni. Questi sgominò i Tedeschi, che presero tutti la fuga, e non venne trattenuto che dalla fanteria spagnuola colla quale il Pescara gli fece testa. Gli Stradioti, sparsi in sui fianchi dell'armata, l'andavano stancheggiando nella sua marcia; i contadini a migliaja scendevano dalle montagne, e senza esporsi a verun rischio, ferivano i soldati coi loro archibugj: i carri dell'equipaggio cominciavano ad intralciarsi ed a cagionare disordine nella fanteria; anguste erano le strade, chiuse da fossi da tutti due i lati, e la truppa che ritiravasi non aveva ancora fatte due miglia a passo veloce, sebbene in buon ordine, che vide oltremodo cresciuto il suo pericolo[354].
L'Alviano aveva determinato di non dare battaglia, ma soltanto d'accrescere la confusione dell'armata nemica tenendola tribolata, di spingerla tra le montagne, in luoghi sterili, ove le mancassero assolutamente le vittovaglie, e sforzarla in tal modo a capitolare. Ma Andrea Loredano, provveditore veneziano, che lo accompagnava, si fece a dire, ch'era finalmente giunto l'istante di vendicare tutte le atrocità commesse dagli Spagnuoli nel Padovano, che una vigorosa carica poteva tutta distruggere l'armata nemica, poichè il confine tedesco non era tanto lontano, che colla pazienza e colla sobrietà spagnuola questa stessa armata non potesse arrivarvi anche senza viveri. L'impetuoso Alviano lasciavasi facilmente persuadere, quando trattavasi di combattere. Distribuì con molta intelligenza le sue truppe, e le condusse contro il nemico; ma nè i talenti, nè il coraggio del generale, nè il favore delle circostanze possono bastare, quando i soldati non vogliono esporsi a verun pericolo. I fanti romagnuoli, comandati da Naldo di Brisighella, che dovevano cominciare l'attacco, vennero ricevuti dalla fanteria spagnuola coll'ordinario suo vigore; onde gettarono bentosto le loro picche, e cominciarono a fuggire. Tutto il rimanente dell'armata seguì così vergognoso esempio: lo stesso Alviano fu strascinato dai fuggitivi, ed andò a chiudersi in Padova: la maggior parte aveva contato di ricoverarsi in Vicenza; ma questa città chiuse le sue porte, ed i fuggiaschi vennero uccisi sotto le sue mura, o sulle rive del Bacchiglione, nel quale molti si annegarono volendolo passare a nuoto. Tutti gli equipaggi dell'armata veneziana caddero in mano degli Spagnuoli, come pure non pochi prigionieri, tra i quali Gian Paolo Baglioni, Giulio, figlio di Gian Paolo Manfroni, e Malatesta di Sogliano. Si rinvennero fra gli estinti Alfonso Muto di Pisa, Antonio de' Pii e suo figliuolo Costanzo, Carlo di Montone, Meleagro di Forlì, Francesco Sassatello, Sacramoro Visconti ed Ermes Bentivoglio. Il provveditore Loredano, di già fatto prigioniere, fu ucciso da coloro che vennero a contesa per la sua cattura. La totale perdita de' Veneziani si valutò quattrocento uomini d'armi e quattro mila fanti[355].
Questa sconfitta non ebbe pei Veneziani le disastrose conseguenze che potevano dapprima temerne; o sia perchè gli Spagnuoli, stanchi della precedente campagna, non volessero di nuovo avventurarsi in un paese nemico, o perchè la stagione delle piogge, che s'approssimava, rendesse infatti pericolosa la continuazione della guerra in quelle basse terre. Il Cardone ed il Pescara posero le loro truppe ai quartieri d'inverno in Este ed in Montagnana fra le ridenti colline Euganee, che terminarono di guastare. Prospero Colonna, che senza avere il primo rango nella loro armata, gli aveva colla sua esperienza sottratti a molti pericoli, gli abbandonò per passare nell'armata di Massimiliano Sforza, di cui ebbe il comando; il senato veneto con una irremovibile costanza scrisse all'Alviano di non disperare della salute della repubblica; e nello stesso tempo gli mandò danaro per adunare una nuova armata[356].
Altronde dopo che i più potenti tra i sovrani che si disputavano il possedimento dell'Italia, più non erano gl'Italiani, le principali azioni militari più non erano ristrette al suolo d'Italia. Così ruinato era il paese, che omai trovavansi a stento i viveri per le armate, e riusciva ancora più difficile in sforzare le città a pagare grosse contribuzioni. Il popolo era così calpestato, ed era stato così barbaramente trattato, ch'egli stava sempre apparecchiato a ribellarsi; ogni armata ben sapeva, che se aveva la sventura d'essere disfatta, tutti i fuggiaschi verrebbero uccisi dai contadini. Perciò invece di mandare da lontane parti soldati in Italia, e con loro munizioni, armi, danaro e vittovaglie, le potenze rivali, le quali vedevano che la guerra più non nudriva la guerra, cominciavano a trovare più comodo di combattere in maggiore vicinanza della loro residenza[357].
In questo stesso anno i nemici della Francia l'avevano attaccata ne' suoi proprj confini. Enrico VIII d'Inghilterra, in esecuzione del trattato di Malines, conchiuso il 5 d'aprile col papa, coll'imperatore e col re d'Arragona, aveva nel mese di maggio fatto passare la sua armata a Calè, ed il 17 di giugno aveva assediata Terovane[358]. A quest'assedio diede celebrità una nuova sciagura della Francia. Il duca di Longueville, che comandava l'armata di Lodovico XII, volendo introdurre soccorsi in Terovane, mandò il 16 d'agosto un corpo d'Albanesi a gettare nelle fosse della città alcune munizioni ch'essi avevano caricate sul collo de' loro cavalli, e nello stesso tempo aveva fatti avanzare da un'altra banda i suoi uomini d'armi con ordine di ritirarsi di galoppo, tostocchè vedrebbero gl'Inglesi, onde allontanarli da Terovane. Ma questi cavalieri, che si scontrarono negl'Inglesi più presto che non credevano, eseguirono con tanta sollecitudine l'ordine del loro generale, che gli uni comunicando agli altri il terrore, tutta l'armata fu posta in rotta. Il duca di Longueville, Bajardo, La Faiette e Bussy d'Amboise, furono fatti prigionieri, sebbene non inseguiti che da quattro in cinquecento cavalli. Questa sconfitta senza battaglia conservò il nome di giornata degli speroni; cui il 22 agosto tenne dietro la presa di Terovane, ed il 24 di settembre quella di Tournai[359].
La repubblica di Venezia non solo riceveva danno dalle sventure della Francia, ma risentiva ancora i contraccolpi del disastro del re di Scozia, alleato di Lodovico XII. Questo re, chiamato Giacomo IV, mosso da un sentimento cavalleresco, aveva voluto fare una diversione a favore del re di Francia, che vedeva avere sulle braccia quasi tutta l'Europa; ma nella fatale battaglia di Flowden era stato ucciso il 9 di novembre con mille dugento Scozzesi, tredici lordi, moltissimi baroni ed otto in dieci mila soldati[360].
In pari tempo quindici mila Svizzeri erano entrati in Borgogna accompagnati da Ulrico, duca di Wirtemberga, con un corpo di cavalleria tedesca e di nobiltà della Franca Contea. Essi avevano assediato Digione, ove La Tremouille si era valorosamente difeso sei settimane. Ma quando questo generale conobbe che non poteva più lungamente resistere, e che l'acquisto di Digione aprirebbe agli Svizzeri tutte le province interne della Francia, si fece in settembre a trattare con loro senz'esserne autorizzato dal re. Promise che Lodovico loro pagherebbe quattrocento mila scudi d'oro, ch'egli evacuerebbe tutte le fortezze che ancora occupava in Italia, e rinuncierebbe a tutti i suoi diritti sul ducato di Milano. Per l'esecuzione di tali promesse, che pure non lusingavasi troppo di vedere ratificate dal re, La Tremouille consegnò per ostaggi il proprio nipote, il signore di Mezieres, figlio del cancelliere di Francia, e quattro borghesi di Digione[361].
A tante sventure s'aggiunse ancora la burrasca che il 15 d'ottobre sorprese la flotta francese tra Calè ed Honfleur, e fece perire molte navi[362]; e l'incendio di Venezia, cominciato accidentalmente, il 13 di gennajo, nelle botteghe del ponte di Rialto, e che, spinto da gagliardo vento, si estese sulla più popolata e mercantile parte della città. Furono consumati due mila tra case e magazzini con tutte le ricchezze che contenevano; e la repubblica, di già spossata da cinque anni d'infelice guerra, perdette tanto in una sola notte, quanto avrebbe speso in tutta una campagna[363].
Ma quegli stessi che fin allora avevano lavorato con tanto accanimento per la ruina della Francia, cominciavano ad essere inquieti de' troppo prolungati successi de' suoi nemici. Il papa non ignorava che Lodovico XII aveva più volte proposto a Massimiliano di fare sposare sua figlia Renata ad uno de' di lui nipoti, dandole in dote il Milanese. Di già s'avvicinava l'istante in cui Carlo, il primogenito dei nipoti di Massimiliano, riunirebbe le due immense eredità delle case d'Austria e di Spagna. L'unione di tanti stati, che doveva distruggere ogni indipendenza per la santa sede e per l'Italia, richiamava a dir vero l'attenzione degli uomini assai meno che non sarebbesi creduto; tanto è difficile il trasportarci col pensiero a tempi assolutamente diversi da quelli che si hanno continuamente innanzi gli occhi. Ma senza fissare i loro sguardi sopra un avvenimento così vicino, e che loro sembrava tanto lontano, sentivano i politici dell'Italia, che l'assoluto abbassamento della Francia li lasciava in balìa alla rapacità degli Spagnuoli, alla brutalità dei Tedeschi, ed alla insolenza degli Svizzeri, che, più formidabili di tutti gli altri, si erano di già renduto vassallo il duca di Milano, e che non tarderebbero, vendendo la loro protezione agli altri piccoli stati d'Italia, di tutti ridurli nel medesimo stato di dipendenza[364]. D'altra parte le rivoluzioni accadute nello stesso tempo nell'impero ottomano inspiravano grandissimo terrore a tutta l'Europa: Selim aveva balzato dal trono suo padre, Bajazette II, l'11 aprile del 1512, ed aveva in appresso fatti perire i suoi fratelli e tutti i loro figli. Sapevasi che il nuovo sultano non era meno valoroso che crudele, ch'era amato dai soldati, che desiderava la guerra e che aspirava a conquistare l'Italia, ove i Cristiani colle loro nimicizie si erano inabilitati a resistergli. In fatti, se le provocazioni d'Ismaele Sofì non avessero richiamato sulla Persia il turbine che minacciava l'Europa, è verosimile che in tale epoca l'Italia sarebbe caduta in potere dei Turchi[365].
Finalmente Leone X pensò di proposito a porre l'Italia in sicuro da tanti pericoli. La guerra di Massimiliano colla repubblica di Venezia era il solo pretesto della continuazione delle ostilità: Leone, avendo inutilmente cercato di riconciliare le due potenze, e non potendo ridurre l'imperatore ad acconsentire a moderate condizioni, ottenne per lo meno di essere dalle parti scelto per arbitro. I Veneziani acconsentirono a rinunciare alla restituzione di Verona, purchè i castelli di Gange e di Valeggio fossero loro lasciati, onde conservare una comunicazione colle province situate al di là del Mincio. Dal canto suo Massimiliano promise che si sospenderebbero le ostilità finchè durerebbero le negoziazioni; ma i suoi ufficiali tedeschi, non altrimenti che i generali spagnuoli, lungi dall'osservare la tregua, ne approfittarono, abusandosi della sicurezza che questa inspirata ai contadini, per ricominciare i loro saccheggj: il cardinale di Gurck cercò di attraversare il negoziato, e riusciva farlo andare a monte[366].
In pari tempo Leon X si mostrò disposto a riconciliarsi colla Francia, purchè Lodovico XII rinunciasse allo scisma ed alla protezione del concilio di Pisa. Era questo talmente caduto in dispregio, che il sostenerlo omai più non offriva verun vantaggio politico, mentre che Anna di Bretagna, moglie di Lodovico XII, punto non dubitava che le scomuniche della santa sede non dovessero produrre l'eterna sua dannazione e quella di suo marito. Due de' cardinali che lo avevano convocato, Bernardo Carvajale e Federico di Sanseverino, erano stati fatti prigionieri in Toscana, mentre recavansi al conclave in cui fu creato Leon X. Si erano questi umiliati innanzi a lui, avevano abbjurato lo scisma, ed erano perciò stati ristabiliti nella loro dignità[367]. Pochissimi prelati trovavansi tuttavia adunati in Lione per servire alla politica del re; ma la gran massa de' Francesi gli aveva in conto di scismatici, ed essi stessi si credevano probabilmente colpevoli. Finalmente Lodovico XII acconsentì ad abbandonarli. Con un atto firmato a Corbia, il 26 d'ottobre, e letto nel concilio di Laterano nell'ottava sessione, il 17 di dicembre, Lodovico rinunciò al conciliabolo di Pisa, aderì al concilio di Laterano, e premise che sei de' prelati che avevano seduto tra gli scismatici verrebbero similmente ad abbjurare in Roma a nome di tutta la chiesa gallicana[368].
Tosto che la Francia ebbe rinunciato allo scisma, Leon X si credette autorizzato a riprendere verso di lei il carattere di comun padre de' Cristiani, ed a non dare più soccorso ai di lei nemici. Cercò pure in principio del 1514 di renderle più segnalati servigj, ed in particolare a riconciliarla cogli Svizzeri: rappresentò ai cantoni tutta l'estensione del pericolo cui si esponevano riducendo Lodovico XII a una separata convenzione con Massimiliano, il di cui prezzo sarebbe l'abbandono del ducato di Milano alla casa d'Austria; quanto la lunga nimicizia degli Austriaci renderebbe, rispetto a loro, perniciosa l'unione dell'Italia alla Germania sotto il dominio di quella ambiziosa casa. Dall'altro canto Leon X voleva persuadere Lodovico XII a ratificare la convenzione di Digione, rappresentandogli che se giammai le circostanze diventavano più favorevoli, non troverebbesi imbarazzato a far rivivere sul ducato di Milano i diritti, cui oggi volevasi che rinunciasse[369].
Nello stesso tempo Ferdinando aveva rinnovata per un altro anno la tregua di Orthes tra la Francia e la Spagna; e per tal modo mancava formalmente agl'impegni contratti con suo genero Enrico VIII; lo aveva lusingato colla vana speranza delle conquiste da farsi in Francia, e lo abbandonava poi quando si doveva ridurre la promessa ad effetto. Era la terza volta dopo il cominciamento di questa guerra, che lo ingannava, sagrificandolo alla privata sua ambizione. Enrico VIII, sdegnato di vedersi ingannato così sfacciatamente da suo suocero, si mostrò disposto a pacificarsi colla Francia. Era morta il 9 di gennajo del 1514 Anna di Bretagna: Lodovico XII, rimasto vedovo, fece chiedere in matrimonio Maria, sorella d'Enrico VIII, perchè servisse di arra ad una intera riconciliazione tra la Francia e l'Inghilterra. La negoziazione fu lunga; ma sospese le ostilità fino al 7 agosto del 1514; nel qual giorno due trattati furono sottoscritti in Londra, uno per ristabilire la pace tra la Francia e l'Inghilterra, e in questo la repubblica di Venezia fu nominata tra gli alleati delle due corone, l'altro per regolare le condizioni del matrimonio tra Lodovico XII e la principessa Maria[370].
Così da ogni banda era sospesa la guerra ai confini della Francia: imperciocchè, sebbene gli Svizzeri cercassero d'offendere questa corona col più ingiurioso procedere, non uscivano per altro dalle loro montagne. Lodovico XII, spossato dai rovesci del precedente anno, aveva per questa campagna rinunciato a mandare un'armata in Italia, ancorchè annunciasse gli apparecchi d'una nuova spedizione, per non iscoraggiare del tutto i suoi alleati. Finalmente le fortezze, che i Francesi avevano conservate in Italia, dopo essersi difese con eroico coraggio, furono forzate di capitolare; quelle di Milano e di Cremona in giugno del 1514, e la Lanterna di Genova soltanto il 26 d'agosto. Ottaviano Fregoso, doge di Genova, per ridurre alla resa la guarnigione della Lanterna, che aveva di già consumate le vittovaglie e le munizioni, le pagò ventidue mila scudi di soldo arretrato: fece poscia spianare la fortezza, affinchè nè un principe straniero, nè un altro doge, nè egli stesso, potessero valersene per tenere la patria in ischiavitù[371].
La guerra omai più non facevasi che nel territorio della repubblica di Venezia; ed anche colà l'esaurimento di tutte le potenze l'aveva ridotta ad essere trattata con deboli armate, che mai non conducevano a fine veruna strepitosa azione. Massimiliano, sempre egualmente incoerente, sempre incapace di tener dietro ai suoi progetti con sufficiente costanza per condurli a termine, o per abbandonarli quando vedeva l'impossibilità di eseguirli, si ostinava a non fare la pace coi Veneziani; pure egli non recavasi contro di loro personalmente, e non mandava per questa guerra nè generali, nè soldati, nè munizioni, nè danaro. Dopo la morte di sua moglie aveva formato il progetto d'approfittare della prima vacanza della santa sede per farsi nominare papa. Prometteva in tal caso di rinunciare alla corona imperiale in favore di Carlo, suo nipote, ed impegnava Ferdinando il Cattolico a favoreggiare questa bizzarra ambizione[372]. Nello stesso tempo i suoi vassalli ed i suoi contadini tenevano viva la guerra ai confini dello stato veneto. Alcuni baroni tedeschi, seguiti da alcune migliaja d'uomini levati nelle milizie del vicinato, penetravano ora nel Friuli, ora nella Marca Trivigiana; sorprendevano le piccole città, bruciavano i castelli, guastavano le campagne, e tornavano bentosto ai loro focolari dopo avere accresciuta la miseria e la disperazione degli sventurati agricoltori, senza però in verun modo aver contribuito a terminare la lunga lite del loro padrone[373].
Tra i più attivi e crudeli vassalli di Massimiliano che trattavano questa piccola guerra, si distinse Cristoforo, figliuolo di Bernardino Frangipane; un giorno sorprese un villaggio del territorio di Marano, i di cui abitanti avevano dato singolari prove del loro attaccamento alla repubblica, e fece a tutti cavare gli occhi e tagliare l'indice della mano destra[374]. Verun altro contribuì più di costui alla desolazione del Friuli, veruno lo invase più frequentemente, commettendovi maggiori guasti o crudeltà. D'altra parte diede motivo ad alcuni capitani veneziani d'acquistarsi nome combattendolo, tra i quali ricorderò Girolamo Savorgnano, che difese contro di lui Osofo, e Giovanni Vettori, che all'ultimo lo fece prigioniere[375].
Bartolommeo d'Alviano, che aveva adunata una nuova armata a Padova ed a Treviso, colla quale faceva testa a Raimondo di Cardone ed agli Spagnuoli, otteneva sopra di loro piccoli vantaggi; e colla sua risoluzione, colla prontezza e sagacità delle sue misure, avvezzò nuovamente i soldati ad affrontare il pericolo, e loro ispirò confidenza. Condusse parte della sua armata nel Friuli, sconfisse il Frangipane, e gli fece levare l'assedio d'Osofo, indi tornò alla sua stazione a Padova, prima che gli Spagnuoli avessero potuto approfittare della sua lontananza. Anzi pochi giorni dopo sorprese gli Spagnuoli ad Este, di cui s'impadronì, e nella quale trovò i loro magazzini; all'ultimo sorprese ancora Rovigo, ove smontò quasi tutta la loro cavalleria, facendo loro molti prigionieri. Sebbene schivasse sempre una generale battaglia, dietro espresso ordine del senato, ottenne poco a poco di distruggere quell'armata, ch'era stata si lungo tempo così formidabile[376].
Renzo di Ceri sostenevasi sempre in Crema con una guarnigione veneziana; e non solo vi si difendeva contro tutti gli attacchi de' nemici, contro la fame e la peste, malgrado privazioni d'ogni genere; ma faceva inoltre delle sortite per levare contribuzioni in tutte le vicine piazze, per sorprendere i quartieri delle truppe di Massimiliano Sforza, per occupare la stessa città di Bergamo, che dovette in appresso evacuare per capitolazione; ed in queste province, separate dalla capitale dalle armate nemiche, mantenne l'onore del nome veneziano e la confidenza nella fortuna della repubblica[377].
Fino a tale epoca non si vedeva quale vantaggioso effetto avessero prodotto le negoziazioni che Leon X manteneva tra la repubblica di Venezia e Massimiliano, tra il re di Francia e gli Svizzeri; veruna delle incominciate pacificazioni eransi ridotte a fine, ed omai si cominciava a diffidare della di lui buona fede. In fatti nelle sue lettere confidenziali, egli affrettava tanto più Lodovico XII ad entrare quest'anno medesimo in Italia, quanto meno lo credeva disposto a tale intrapresa[378]; lo assicurava del suo attaccamento agli interessi della Francia, e faceva sposare a suo fratello, Giuliano, Filiberta di Savoja, sorella della madre di Francesco I; insisteva intorno a questo matrimonio, conchiuso il 10 maggio del 1513, ma che non si celebrò in Torino che in febbrajo del 1515[379]; e nello stesso tempo mandava Pietro Bembo in legazione a Venezia per persuadere questa repubblica a staccarsi dalla Francia ed a riconciliarsi coll'imperatore e col re di Spagna[380].
Il nuovo pontefice punto non si rassomigliava al suo predecessore, nulla avendo di quel carattere severo, irascibile, implacabile di lui. Per lo contrario aveva co' suoi familiari maniere affatto amene e graziose; la protezione che accordava alle arti ed alle lettere, i beneficj che a larga mano spargeva sui dotti, sui poeti, sugli artefici venivano celebrati in tutta l'Europa con profusione di lodi. Ma d'altra parte Leone non aveva nè la lealtà, nè l'elevato carattere di Giulio II. Tutte le sue negoziazioni erano associate alla falsità ed alla perfidia; sempre parlando di pace, ovunque soffiava il fuoco della guerra; ed i popoli d'Italia, oppressi da tante barbare armate, non valevano a risvegliare la di lui pietà, nè influivano sulla di lui condotta. La sua ambizione non era minore di quella di Giulio II, e non poteva vestirla agli occhi proprj con così rispettabili titoli. Non erano più l'indipendenza dell'Italia, o la potenza della Chiesa, che dirigevano le azioni del pontefice, ma solamente l'aggrandimento della propria famiglia.
Aveva Leon X promesso a suo fratello Giuliano di formargli un illustre stato, ed a tale condizione lo aveva persuaso a rinunciare a favore di Lorenzo, figlio di Pietro de' Medici, alla direzione della repubblica fiorentina. Aveva intenzione di formare per Giuliano una nuova sovranità cogli stati di Parma e di Piacenza, ai quali voleva aggiugnere Modena e Reggio, spogliandone la casa d'Este; perciocchè sebbene avesse da principio prodigato al duca Alfonso le più lusinghiere promesse, sebbene gli avesse, in occasione del suo coronamento, fatto tenere il gonfalone della Chiesa, non aveva ancora rivocate le sentenze contro di lui pronunciate dal suo predecessore. Gli aveva promessa la restituzione di Reggio entro un determinato tempo; ma due volte era scaduto questo termine, e due volte aveva mancato alla sua promessa. Finalmente aveva fomentata una congiura dei Rangoni, gentiluomini modenesi, che in settembre del 1514 avevano arrestato Vito Fürst, governatore imperiale della loro città; e, mediante il pagamento di quaranta mila fiorini, egli si era dall'imperatore fatto cedere il dominio di quella città[381].
Col mostrarsi affezionato alle case d'Austria e d'Arragona sperava Leon X d'ottenere l'assenso loro per formare a favore di suo fratello una sovranità cispadana, smembrandola dai ducati di Milano e di Ferrara; ma i Veneziani gli facevano sperare l'ajuto della Francia per un progetto di tutt'altra importanza, quello di collocare suo fratello sul trono di Napoli, cacciandone il re d'Arragona. L'universale desiderio degl'Italiani di scuotere il giogo de' barbari poteva in fatti procacciare applausi a questo tentativo, e la vicendevole gelosia delle potenze straniere, le quali non volevano lasciare ai loro rivali ciò ch'esse erano forzate di abbandonare, poteva procurargliene l'appoggio. I Medici portavano le loro speranze non solo a conseguire il regno di Napoli per Giuliano, ma ancora ad avere il ducato di Milano per Lorenzo, ed appoggiavano i loro politici calcoli alle profezie d'un monaco, di cui mostravano una lettera, ch'esso, dicevano, aveva scritta dopo la sua morte[382].
Frattanto Leon X correva rischio di trovarsi preso dalle sue capziose negoziazioni. Lodovico XII lo affrettava a dichiararsi, e ad appoggiarlo nella spedizione che meditava per la campagna del 1515. Gli mostrava come i Veneziani si andavano rialzando colla loro costanza dalle sofferte perdite, mentre Bartolomeo d'Alviano, loro generale, ricuperava con una serie di felici sebbene piccoli avvenimenti quella riputazione che perduta aveva in due grandi sconfitte. Gli ricordava l'alleanza ch'egli aveva recentemente conchiusa con Enrico VIII d'Inghilterra, e che gli assicurava per la vicina spedizione i soccorsi di quella stessa potenza che aveva fatta mancare la precedente. Faceva riflettere al pontefice quanto sarebbe imprudente consiglio l'affidarsi alle promesse di Ferdinando e di Massimiliano, de' quali non era meno nota la povertà che la mala fede. Lo invitava a mettersi in guardia contro l'ambizione di questi due principi, che aspiravano niente meno che al dominio di tutta l'Italia; mentre ne' tempi in cui egli medesimo ne possedeva i due più potenti stati, egli aveva rispettata l'indipendenza di tutti gli altri. Nello stesso tempo non aveva Lodovico XII tenuti segreti gl'inviti fattigli da Leon X di passare in Italia, ed aveva in tal modo renduto il pontefice sospetto agli altri di lui alleati. Pareva giunto l'istante in cui vedrebbesi il papa forzato a dichiararsi scopertamente, e far conoscere chi avesse voluto ingannare, o il re di Francia, o gli Svizzeri, o Massimiliano e Ferdinando, oppure i Veneziani[383].
Ma l'inaspettata morte di Lodovico XII, accaduta il 1.º di gennajo del 1515 ritardò ancora per poco tempo una dichiarazione che sembrava imminente. Lo sproporzionato matrimonio di questo monarca, in età di cinquantaquattro anni, con una bellissima principessa di diciotto, venne risguardato come cagione della sua morte. La breve malattia che conducevalo al sepolcro aveva tutti i caratteri del rifinimento. In tempo delle medesime feste delle nozze fatte in Abeville il 9 ottobre, e continuate in Parigi per sei settimane con giostre e tornei, il re trovavasi così debole, che rimase costantemente sul suo letto di riposo. «A cagione di sua moglie, dice il leale servitore di Bajardo, aveva il re mutata affatto la sua maniera di vivere, perciocchè invece che era solito di pranzare alle otto ore, conveniva che pranzasse a mezzogiorno; invece di porsi a letto secondo il suo costume alle sei ore della sera spesso non si coricava che a mezzanotte, onde cadde infermo in sulla fine di dicembre; dalla quale malattia non potendolo liberare veruno umano rimedio, spirò il primo di gennajo seguente, dopo la mezzanotte[384].»
Lodovico XII, che per alcuni mesi venne riconosciuto come re di Napoli, e che regnò più di dieci anni sul ducato di Milano, dev'essere considerato come uno de' sovrani d'Italia; ed il suo carattere non ebbe che troppa influenza sui destini di questa contrada. Fu generalmente accusato d'avarizia; ed infatti alienò gli Svizzeri, e per un risparmio mal inteso e fuori di luogo fece spesso mancare i successi delle sue armate. Pure quest'economia, sebbene eccessiva, fu quasi la sola virtù che gli meritò l'onorato titolo di padre del popolo; perciocchè risparmiò le imposte de' suoi sudditi più ancora che i proprj tesori. Altronde non ravvisavasi in lui veruna di quelle qualità che si ammirano ne' grandi uomini o ne' grandi re. Privo di forza di carattere, e di spirito indeciso, era abitualmente condotto, ed aveva bisogno di esserlo; ma non sapeva prendere per sue guide uomini a lui superiori. I suoi favoriti erano quasi tutti deboli al pari di lui, la loro politica quasi sempre male intesa, ed inoltre quasi sempre senza fede. Non meno ambizioso che se la natura gli avesse dati i talenti d'un conquistatore, mai non cessò di combattere pel possedimento del regno di Napoli e del ducato di Milano, e perdette l'uno e l'altro per propria colpa, dopo avere attirati sopra la Francia i più sanguinosi disastri[385]. Non meno perfido, che se invecchiato fosse nello studio della politica, detta macchiavellica, fu infedele a tutti i trattati, indegnamente tradì l'amicizia de' suoi alleati, i Fiorentini, i Veneziani, il re di Navarra, il duca di Ferrara, i Bentivoglio, i piccoli principi di Romagna, ed il principe di Piombino. Fu il principale autore della lega di Cambrai contro i Veneziani, suoi alleati; e questa perfidia pareggiava quella cui erasi associato contro Federico, re di Napoli. Per altro non era alla ragione di stato ch'egli sagrificava in tal guisa la sua parola ed il suo onore; poichè ognuna di queste violazioni de' trattati non era meno imprudente ed impolitica, che contraria alla buona fede.
Quando Lodovico XII si trovò personalmente alla testa delle sue armate, ed in particolare nella prima campagna contro i Veneziani, diede non dubbie prove di crudeltà. Ma in mezzo alle battaglie i patimenti ed i pericoli personali spengono tutti i più delicati sentimenti; e le atrocità commesse contro il governatore di Peschiera e di suo figliuolo, sono una minor prova della durezza del suo cuore, che il crudele trattamento fatto al suo rivale, Lodovico Sforza. Egli lo tenne dieci anni in una prigione o in una gabbia di ferro; gli negò la consolazione inutilmente invocata d'avere libri e mezzi di scrivere nella sua solitudine, e permise che morisse disperato, senza veruna distrazione, senza verun alleviamento di spirito[386].
Lodovico XII fece nascere lo scisma nella Chiesa. Visse lungo tempo scomunicato, e tenne il suo regno sotto l'interdetto: ciò non pertanto era superstizioso, e dopo di avere lungo tempo sagrificata la religione alla politica, sagrificò l'una e l'altra alla bigotteria. La privata dolcezza del suo carattere non merita maggiori elogj della sua condotta pubblica. Il divorzio della prima moglie fu un insigne esempio d'ingratitudine, di falsità, di disprezzo per ogni decenza. Non ebbe altro motivo che l'amore da lui compito per la seconda, allora moglie di suo cognato; e quando in età avanzata perdette anche quest'ultima, consacrò appena qualche settimana alla di lei memoria, e chiese subito la mano d'una terza sposa nel fiore dell'età, il di cui amore gli costò la vita. Questa dal canto suo, per una specie di rappresaglia, non gli recava che un cuore di già consacrato a Carlo Brandon, duca di Suffolck, che sposò segretamente due mesi dopo la morte di Lodovico XII[387].
CAPITOLO CXII.
Francesco I assume il titolo di duca di Milano; passa le Alpi; batte gli Svizzeri a Marignano e conquista il Milanese; invasione di Massimiliano in Lombardia, e sua ritirata; diversi trattati che pongono fine alle guerre prodotte dalla lega di Cambrai.
1515 = 1517. Alla morte di Lodovico XII, suo genero il duca d'Angoleme, primo principe del sangue, salì sul trono di Francia sotto il nome di Francesco I. Era egli nato il 12 settembre del 1494, e pronipote dello stesso Lodovico, duca d'Orleans, figlio di Carlo V, di cui Lodovico XII era nipote. Prese nello stesso tempo il titolo di duca di Milano, come erede di Valentina Visconti, sua bisavola, e come nominato nelle investiture accordate da Massimiliano, in conseguenza del trattato di Cambrai[388]. L'Italia fu in qualche modo così avvisata, che il nuovo monarca aspirava a ricuperare colla forza delle armi la sovranità ch'era stata tolta al suo predecessore.
La Francia aveva avuta la felicità di vedere succedersi due monarchi nati in privata fortuna, i quali portavano sul trono virtù, o talenti, che la reale educazione non può sviluppare. Lodovico XII, che, come principe del sangue, si era mostrato uomo debole e mediocre, si conservò quale sempre era stato; ad ogni modo andò debitore alla sua ristretta e spesso contraria fortuna delle abitudini di regolarità, d'economia, di rispetto per la giustizia e di compassione per le miserie del popolo, che gli fruttarono l'amore de' suoi sudditi. Francesco I era stato dalla natura assai più favorito: era egli giovane di bella presenza, e di una forza ed agilità singolari in tutti gli esercizj militari; la sua affabilità, la gentilezza delle sue maniere e la sua generosità gli guadagnavano il cuore di chiunque lo avvicinava. Finalmente era il primo re francese che fosse stato liberalmente educato; amava le lettere, le arti, la poesia, e le coltivava egli stesso non infelicemente. Sebbene Lodovico XII, fuori di speranza d'aver figliuoli, lo risguardasse di già come presuntivo erede della corona, e lo avesse perciò scelto per suo genero, promettendogli Claudia di Francia, sua primogenita, la regina Anna di Bretagna, non aveva permesso finch'ella visse che questo matrimonio avesse effetto. L'odio che costei nudriva contro Luigia di Savoja, madre di Francesco I, stendevasi anche sopra il di lei figliuolo. Il matrimonio non si celebrò che in maggio del 1514[389]; e fino a quest'epoca Francesco sostenne il peso dello sfavore, e quello della necessità d'ubbidire.
Le luminose qualità di Francesco I eccitavano l'attenzione dell'Italia, che sentivasi minacciata dalle sue prime mosse, e rammentavasi che Gastone di Foix, pervenuto alla stessa età con eguali talenti, ma con minore potenza per farli valere, erasi di già renduto famoso con tante vittorie. Frattanto i nemici della Francia, posti in guardia dagli apparecchi di Lodovico XII, credettero di avere per la di lui morte guadagnato, se non altro, una dilazione; sembrava loro affatto inverisimile che il nuovo re volesse intraprendere una guerra straniera ne' primi mesi del suo regno, allontanandosene prima d'avere avuto il tempo di consolidare la propria autorità. Francesco I nulla omise che convalidare potesse questa opinione, e sebbene portasse a quattro mila lance il numero delle sue compagnie d'ordinanza, non annunciò quest'armamento che come una misura di difesa[390].
Infatti prima d'entrare in campagna, Francesco I voleva conoscere la disposizione de' suoi vicini. Trovò ch'Enrico VIII, re d'Inghilterra, non era meno di lui desideroso di rinnovare il trattato di alleanza conchiuso col suo predecessore; e questo nuovo trattato fu soscritto a Londra il 5 di aprile[391]. L'arciduca Carlo, sovrano de' Paesi Bassi, si mostrò egualmente disposto a stipulare in Parigi, il 24 di marzo, un trattato di alleanza in forza del quale prometteva di sposare Renata di Francia, figliuola di Lodovico XII, e cognata di Francesco I, tostocchè questa sarebbe nubile[392].
Ma d'altra parte Ferdinando il Cattolico non volle rinnovare la tregua d'Orthes, se non a condizione che vi si comprendesse il Milanese, al che Francesco non volle acconsentire. Massimiliano ricusò d'entrare in negoziazioni; gli Svizzeri non vollero ricevere gli ambasciatori francesi, quando non fossero apportatori della ratifica della convenzione di Digione; il papa promise di tenersi neutrale, ma nello stesso tempo negoziava segretamente con Massimiliano, con Ferdinando e cogli Svizzeri, ed in luglio sottoscriveva un trattato di guarenzia per il ducato di Milano[393]. I Veneziani dal canto loro riponevano ogni speranza nei soccorsi della Francia; affrettavano il re a scendere in Italia, mentre che l'assistenza loro poteva ancora essere efficace; e rinnovarono con lui, il 27 di giugno, l'alleanza che avevano conchiusa col di lui predecessore[394].
Il doge di Genova, Ottaviano Fregoso, era stato ricondotto in patria dalle armi degli Spagnuoli e del papa, onde la lega contraria alla Francia credeva di poter contare sopra di lui; pure ella non lo accarezzava più di quello che fatto avesse il duca di Milano medesimo, e mentre opprimeva questi colle contribuzioni, e continuamente lo minacciava di cedere i suoi stati ad un altro, gli offriva nello stesso tempo la signoria di Genova, a condizione ch'egli pagasse alla lega una grossa somma di danaro; di modo che il Fregoso non ignorava che, sotto la protezione del papa e del re di Spagna, la sua patria veniva in certo modo posta in vendita al migliore offerente. Accolse dunque con piacere le segrete proposizioni di Francesco I, che chiedeva la sua alleanza. Conchiuse un trattato col contestabile di Borbone, che non doveva essere pubblicato che dopo che le armate francesi sarebbero entrate in Italia; allora il Fregoso doveva aprir loro i passaggi della Liguria, secondarle con un determinato numero di fanti, e deporre il titolo di doge, per assumere quello di perpetuo governatore di Genova a nome del re di Francia[395].
Finalmente a Francesco I restava un ultimo alleato in Italia, ma di tutti il più debole, ed era il marchese di Saluzzo, che, spogliato di tutti i suoi stati per cagione del suo attaccamento alla Francia, altro più non conservava che la città di Revello, che dalla sua posizione per altro alle falde delle montagne era renduta importante[396].
Ma Francesco primo contava meno sopra i suoi alleati che sulle proprie forze della Francia, e sull'entusiasmo con cui questa apparecchiavasi a secondare il suo giovane re nella prima di lui impresa. Volendo Francesco cancellare la vergogna delle sconfitte di Novara e di Guinegattes, ragunava la più poderosa armata che fin allora fosse stata condotta in campagna da un re di Francia. Riunì nel Delfinato duemila cinquecento lance francesi, il fiore di tutta la nobiltà francese; e perchè la gelosia di questa casta teneva in Francia disarmato il terzo stato e lontano da ogni militare esercizio; e perchè d'altra parte le ultime guerre avevano fatta sentire la decisiva importanza dell'infanteria, quand'essa presentava o la massa impenetrabile e coperta di picche degli Svizzeri, o l'agilità unita alla costanza degli Spagnuoli; Francesco I si procurò ventidue mila Landsknecht per far testa agli Svizzeri, e dieci mila Baschi da opporsi agli Spagnuoli. Erano i primi sotto il comando del duca di Gueldria, del capitano Tavannes, la di cui gente, che ammontava a sei mila uomini, chiamavasi la banda nera, del duca di Suffolck, del conte di Volff-Brandeck, e di Michele di Openberg[397]. L'avarizia di Ferdinando, che mai non aveva voluto pagare la taglia del suo illustre capitano Pietro Navarro, fatto prigioniero nella battaglia di Ravenna, somministrò ai Francesi un eccellente capo per formare l'infanteria basca. Il Navarro, stanco di così lunga prigionia, restituì a Ferdinando tutti i feudi che aveva da lui ricevuti, entrò al servigio della Francia, e levò parte nel Bearn e parte nel Delfinato i dieci mila uomini, cui egli diede la forma, la disciplina e le armi colle quali la sua fanteria spagnuola erasi lungo tempo distinta[398].
Raimondo di Cardone, dopo di avere minacciato il Vicentino, e forzato a rinculare Bartolommeo d'Alviano, che aveva dal senato ricevuto espresso ordine di non esporsi a formale battaglia, aveva ricondotta a Verona l'armata spagnuola. Giuliano de' Medici, che suo fratello Leon X aveva nominato gonfaloniere della Chiesa, adunava tra Piacenza e Reggio un'armata composta di truppe pontificie e di truppe della repubblica fiorentina. Finalmente gli Svizzeri si affrettavano soli di prevenire i Francesi, occupando i passi delle Alpi. Avevano stabilito il loro quartiere generale a Susa, ove tenevano di già un'armata di oltre venti mila uomini, la quale custodiva le aperture delle due valli d'Exiles e della Novalese, con tutte le gole del monte Cenisio e del monte Ginevra[399].
D'altra parte l'armata di Francesco I occupava le spalle delle stesse Alpi nel Delfinato, tra Grenoble e Briançon. Il passaggio del monte Ginevra, pel quale i Francesi erano nelle precedenti guerre scesi in Italia, veniva loro chiuso: ed il re giudicava impossibile di sforzare gli Svizzeri in anguste gole, ove la sua cavalleria non poteva agire, e dove il più piccolo ritardo avrebbe esposta la sua armata a perire di fame. In tale stato di cose il maresciallo Trivulzio s'addossò il carico di visitare le montagne, per informarsi da tutti i pastori intorno alle strade per le quali l'armata francese potrebbe passare e prendere alle spalle l'armata svizzera; s'attenne in ultimo a quella, che, dalle rive della Duranza, conduce per Guillestre e per l'Argentiera alle sorgenti della Stura, ed ai piani del marchesato di Saluzzo[400].
Già era il 10 d'agosto, e più non si vedevano nevi nelle gole delle montagne che si dovevano attraversare coll'artiglieria; ma verun'armata non aveva fin allora penetrato in così alpestre valli, sconosciute perfino dai condottieri di merci, e praticate solamente da alcuni cacciatori di camozzi. L'intrapresa di condurvi un treno d'artiglieria, tutti gli uomini d'armi francesi, e trenta mila pedoni, doveva dunque sorprendere l'immaginazione. Da Grenoble l'armata erasi recata ad Embrun per Vizille e la Mura. Colà provvedutasi di vittovaglie per cinque giorni, penetrò nelle montagne pei villaggi di san Clemente e di Crispino. Aveva lasciato a sinistra il monte Genievre, guadata la Duranza, e trovata la sua prima stazione a Gilestre. Di là fu d'uopo aprirsi col ferro una strada a traverso alla rupe di san Paolo, che chiudeva il passaggio: questo si eseguì il secondo giorno, e l'armata andò a passare la notte a Barcellonetta. Il terzo giorno si doveva valicare la catena centrale delle Alpi, quella che, tra Barcellonetta e l'Argentiera, divide le acque che scendono nel Rodano da quelle che vanno nel Po. Qua e là dovevansi far saltare degli scogli per aprirsi la via, o gettar ponti a traverso ai precipizj, o innalzare sull'erta delle montagne lungo i precipizj delle gallerie di legno. Settantadue grossi pezzi d'artiglieria dovevano passare per questa strada colla colonna centrale dell'armata, la cavalleria pesante e gli equipaggi; ed in oltre due mila cinquecento pontonieri e zappatori, raccolti in corpo e pagati come la fanteria, i quali dovevano aprire le strade; ma lo zelo dei semplici soldati era ancora più efficace; essi strascinavano l'artiglieria invece dei cavalli, e mostravano altrettanta avvedutezza e destrezza che coraggio per superare le inudite difficoltà che loro opponeva la natura. La terza stazione dell'armata fu ne' villaggi di Larchia e di Ehergia. L'armata era omai giunta nella valle della Stura; ma la montagna di Piè di Porco gli chiudeva tuttavia il passaggio: essa la superò il quarto giorno, ed il quinto si trovò in Lombardia nelle pianure del marchesato di Saluzzo[401].
Mentre la colonna del centro teneva questa strada, continuamente lottando con pericoli e con difficoltà che verun altro generale non aveva per anco tentato di superare, altre divisioni dell'armata tenevano le strade della Dragoniera, di Rocca Perotta e di Cuneo, senza mai scontrarsi negli Svizzeri, che con tanto vantaggio avrebbero potuto vietarne il passaggio.
Con una di queste divisioni La Palisse era stato incaricato di portarsi da Briançon a Villafranca, e di là per Sestrieres alle sorgenti del Po. Egli formava in tal modo l'ala sinistra di tutta l'armata francese, e siccome colui che trovavasi più vicino agli Svizzeri, era altresì quegli che più particolarmente copriva l'artiglieria. Bajardo, Humbercourt e d'Aubignì camminavano con questa divisione. Bajardo ebbe avviso che Prospero Colonna, capitano generale del duca di Milano, aveva il suo quartiere a Carmagnola, alle falde di quelle stesse montagne, e seppe inoltre che, sebbene la strada di Rocca Sparviera non avesse mai veduti cavalli, era non pertanto praticabile. Bajardo e La Palisse risolsero di sorprendere il generale nemico. Al Colonna riuscì in quest'occasione dannoso il suo circospetto carattere; perchè non potè credere possibile ciò ch'egli medesimo non avrebbe osato di tentare. Infatti egli non aveva verun sospetto dell'avvicinamento de' Francesi; pure era partito da Carmagnola per Pignerolo la mattina medesima del 15 agosto, giorno in cui, attesa la sollecitudine usata, La Palisse e Bajardo avevano sperato di sorprenderlo nella prima di queste due città: ma, avvisati della sua partenza, gli tennero dietro di galoppo. Il Colonna, che aveva con lui trecent'uomini d'armi, alcuni cavaleggieri, e molti cavalli di rimonta, erasi trattenuto a Villafranca per desinare. Non volle dar fede alle sue spie che vennero a partecipargli l'imminente arrivo de' Francesi. Il corpo di guardia, posto all'ingresso di Villafranca, vedendo venire il nemico volle chiudere le porte; ma due uomini d'armi francesi, che avevano preceduta la compagnia, si precipitarono avanti con sì grande impeto, che uno di loro riuscì a cacciare la sua lancia tra le imposte della porta che si chiudeva, ed a tenervela finchè sopraggiunsero i suoi camerata. Prospero Colonna, sorpreso, non potè fare veruna resistenza e fu fatto prigioniere colla maggior parte dei suoi uomini d'armi, e più di settecento cavalli[402].
L'Italia seppe nello stesso tempo la discesa dalle Alpi di un'armata francese tanto formidabile, e la prigionia del suo più riputato generale. Queste notizie scoraggiarono gli alleati, e li fece più diffidenti gli uni degli altri; onde essi volsero tutte le loro cure a cercare separatamente i mezzi di porsi al sicuro dal comune pericolo. Giuliano de' Medici, sorpreso da una pericolosa febbre, aveva abbandonata l'armata, per recarsi a Firenze, lasciandone il comando a suo nipote Lorenzo. Leon X si affrettò di far dire a quest'ultimo di non avanzarsi contro i Francesi, di non violare la neutralità, e di cogliere il pretesto della rivoluzione di Guido Rangoni, per trattenersi nel Modenese all'assedio di Rubiera. Nello stesso tempo spedì il suo confidente, Cinzio di Tivoli, a Francesco I, per iscusare i suoi primi passi, ed intavolare qualche negoziazione; ma questo emissario fu arrestato dagli Spagnuoli, e le carte che gli si trovarono addosso fecero conoscere a Raimondo di Cardone, cui furono rimesse, quanto poco fondamento doveva fare sul papa[403].
Il Cardone aveva concentrato in Verona tutte le forze della Spagna, e stava colà aspettando i soccorsi della Germania, che Massimiliano prometteva sempre e non mandava mai. Altronde egli aveva fin allora mantenute le sue truppe senza danaro a carico del paese ch'esse guastavano, conciossiachè non si può dire che rifacessero la guerra. Ferdinando non mandava verun sussidio; però nell'istante in cui avrebbe dovuto porsi in cammino, il generale non poteva dispensarsi dal pagare ai soldati almeno una parte de' soldi arretrati. Bartolommeo d'Alviano gli si era di nuovo avvicinato, occupando colla sua armata il Polesine di Rovigo; e, senza voler tentare la dubbia sorte di una battaglia, riteneva gli Spagnuoli, loro non permettendo di andare ad unirsi agli Svizzeri[404].
Gli stessi Svizzeri avevano con qualche perturbamento udita la notizia del passaggio di Francesco I: eransi da principio avviati verso Pignerolo con intenzione di liberare Prospero Colonna, ed avevano costretto La Palisse a ripiegarsi sopra Fossano; ma quando seppero che tutta l'armata, e lo stesso re alla testa della medesima avevano passate le Alpi, chiesero una sospensione d'armi per ritirarsi a Vercelli, lo che da Francesco, che ardentemente bramava di riconciliarsi con loro, fu subito accordato. Nella loro ritirata saccheggiarono Chivasso e Vercelli, ed infine si fermarono a Novara[405].
Dopo il cominciamento della guerra gli Svizzeri si trovavano divisi in due fazioni; gli uni, strascinati dal cardinale di Sion, implacabile nemico della Francia, non volevano udire ragionamenti di accordo; gli altri, i di cui principali capi erano Alberto della Pietra e Giovanni di Diesbach, capitani de' Bernesi, e Giorgio di Super-Sax Valesano, desideravano di riconciliarsi con una monarchia, che risguardavano come la naturale amica della loro nazione; e si lagnavano, che si facesse loro versare il più puro lor sangue per una contesa affatto straniera alla svizzera. L'ambizione di coloro che volevano signoreggiare l'Italia ed opprimere la Francia, era sproporzionata affatto colla loro forza, e pareva loro che la Svizzera dovesse essere egualmente perduta, sia che la Francia cessasse di esistere, o sia che la Francia vittoriosa volesse vendicarsi de' suoi più prossimi vicini. Il timore, che inspirava l'armata di Francesco I, consigliava gli Svizzeri a dare orecchio alle persuasioni di Diesbach e di Alberto, che volevano che si accettasse la mediazione loro offerta dal duca di Savoja, e dal bastardo di lui fratello[406].
Ma gli Svizzeri, che il giorno d'una battaglia si assoggettavano ad una rigorosa disciplina, conservavano nelle loro armate, qualunque volta non si trovavano in presenza del nemico, tutte le più focose abitudini democratiche. I ragionamenti de' loro capi gli strascinavano a vicenda ad estremi partiti. Gli uni, di già carichi di preda, desideravano di trasportarla nelle loro montagne, altri domandavano la guerra, perchè non avevano ancora nulla guadagnato; tutti si lagnavano, perchè i quaranta mila ducati al mese, loro promessi dal papa e dal vicerè, mai non giugnevano al campo. In un istante di mal umore saccheggiarono la cassa del commissario pontificio, e di già si ponevano in cammino per tornare nella Svizzera, quando arrivò il danaro. Allora si calmarono, e si accamparono a Gallarate, ove aspettarono venti mila loro compatriotti, che passavano le Alpi per raggiugnerli[407].
Frattanto il bastardo di Savoja ed il signore di Lautrec avevano seguiti gli Svizzeri a Gallarate per continuare le loro negoziazioni; e perchè questi offrivano danaro contante, mentre che gli alleati avevano di già fatta conoscere la loro povertà, la maggior parte dei venti commissarj svizzeri, nominati per trattare con loro, erano disposti ad un accomodamento. Diffatti venne all'ultimo dalle due parti firmato un trattato, in forza del quale gli Svizzeri acconsentivano che il ducato di Milano tornasse alla Francia, non esclusi i piccoli distretti posti al piè delle Alpi ch'essi avevano staccati, a condizione che Francesco Sforza sposasse una principessa del sangue reale di Francia, e ricevesse per appannaggio il ducato di Nemours, oltre una pensione di dodici mila franchi. Dal canto suo il re promise di pagare in diversi termini seicento mila scudi per la capitolazione di Digione, e trecento mila pei villaggi conquistati, che gli Svizzeri restituivano. Ritornò ai cantoni le antiche loro pensioni, e l'alleanza rinnovatasi tra di loro doveva durare tutto il suo regno e dieci anni dopo la sua morte[408].
Francesco I, premuroso di fare un primo pagamento agli Svizzeri, e di porre in tal modo il suggello alla pace, richiese a tutti i principi e gentiluomini di prestargli ciò che avevano in danaro contante ed in vasellame d'oro e d'argento. Ciascuno non si serbò che quanto era necessario pel proprio mantenimento di otto giorni: ed il danaro fu mandato a Buffalora, ove il signore di Lautrec doveva consegnarlo ai deputati della lega. La pace sembrava talmente sicura che il duca di Gueldria, capitano di tutti i Landsknecht, ripartì a tutta fretta per respingere un'invasione dei Brabantesi fatta ne' suoi stati; e quando ebbe a Lione la notizia della battaglia di Marignano, cadde per dispiacere pericolosamente infermo[409].
Frattanto Rosten[410], borgomastro di Zurigo, che per l'età e per la sua sperienza militare era stato da' cantoni nominato generale di tutte le loro truppe in Italia, arrivò da Bellinzona al campo, ch'erasi trasportato a Monza, con una nuova divisione di venti mila uomini. Gli Svizzeri, che prima si sentivano più deboli, credettero allora di avere ricuperata la superiorità. I nuovi venuti non sapevano risolversi a tornare in patria senza combattere; portavano invidia alle ricchezze acquistate dai loro compagni, e dichiararono che giammai i cantoni non acconsentirebbero alla restituzione delle podesterie italiane, secondo portava il trattato. Invano i partigiani della Francia rappresentavano quanto vergognosa cosa sarebbe il violare una convenzione così solennemente stipulata; la maggior parte di quella moltitudine di Svizzeri domandava la battaglia; essi proponevano, con due subiti attacchi, d'impadronirsi del danaro ch'era stato portato a Buffalora, e di sorprendere il re, che colla sua armata erasi avvicinato a poche miglia di Milano. Alberto della Pietra e Giovanni di Diesbach, non volendo prendere parte a quest'atto di mala fede, abbandonarono il campo per tornare in patria, e con loro si posero in cammino sei in sette mila de' loro commilitoni. Il signore di Lautrec, prevenuto a tempo da alcune spie de' progetti degli Svizzeri, partì precipitosamente da Buffalora, e pose in sicuro il danaro a lui affidato[411].
Intanto l'armata francese aveva omai occupata la maggior parte della Lombardia. Aymar di Prie con quattrocento lance e cinque mila fanti erasi avvicinato a Genova, onde sollecitare Ottaviano Fregoso a dichiararsi per la Francia; e questi aveva subito spiegate le bandiere francesi, e rinforzata con quattro mila fanti l'armata d'Aymar di Prie, che occupava tutto il paese a mezzogiorno del Po[412]. Dalla banda settentrionale di questo fiume, il re si era avanzato da Vercelli verso Novara, che non aveva fatto che una debolissima resistenza; indi, passato il Ticino, si trattenne a Buffalora e ad Abbiategrasso, mentre che Pavia gli apriva le porte, e che Gian Giacopo Trivulzio si avanzava fino a quelle di Milano: quest'ultimo veniva incontrato da una deputazione del popolo di questa città, la quale lo supplicava di non compromettere, prima della battaglia, la capitale della Lombardia, che trovavasi tra le due armate, e di astenersi dall'entrarvi per umanità, e per riconoscenza dell'attaccamento dei Milanesi verso la corona di Francia[413].
Il cardinale di Sion trovavasi presso Raimondo di Cardone, che aveva stabilito il suo campo al confluente dell'Adda e del Po. Quando seppe che i suoi compatriotti avevano determinato di continuare la guerra, sollecitò il Cardone ad unire la sua armata alla loro, e non lo potendo ottenere, si recò egli presso gli Svizzeri a Monza, con Muzio Colonna, Luigi di Pitigliano, quattro cento cavaleggieri ed alcuni uomini d'armi. Gli Svizzeri non avevano altra cavalleria nella loro armata[414].
Il Cardone, dopo avere lasciate guarnigioni in Verona ed in Brescia, andò ad unirsi a Piacenza a Lorenzo de' Medici con settecento uomini d'armi, seicento cavaleggieri, e sei mila fanti. Dal canto suo il Medici aveva sotto di sè settecento uomini d'armi, ottocento cavaleggieri e quattro mila fanti. Queste due armate, riunite alle spalle de' Francesi, erano abbastanza forti per tenerli inquieti; ma intanto l'Alviano aveva passato l'Adige, e, rimontando la sinistra del Po fino a Cremona, era venuto ad accamparsi in faccia al vicerè, che aveva di già apparecchiato il suo ponte di battelli sotto Piacenza. L'armata veneziana, che sotto gli ordini dell'Alviano contava novecento uomini d'armi, mille quattrocento cavaleggieri e nove mila fanti, teneva in dovere tutte le forze della Spagna, del papa e de' Fiorentini, e con così maestro movimento agevolava ai Francesi il modo di sperimentare co' soli Svizzeri la sorte della guerra[415].
Francesco I, per assicurare la sua comunicazione coll'Alviano e per troncare assolutamente quella del campo spagnuolo cogli Svizzeri, era venuto ad accamparsi a Marignano, posto sulla strada di Piacenza a Milano, lontano trenta miglia dalla prima di queste due città, dieci dalla seconda. L'Alviano occupava dieci miglia più in là di Marignano Lodi verso Piacenza; onde il Cardone, dopo avere fatto passare il Po a parte delle sue truppe, conoscendo l'impossibilità di avanzare, aveva ripassato il fiume. Gli avamposti francesi stendevansi fino a tre miglia presso Milano, a san Donato ed a santa Brigida; e gli Svizzeri, dopo l'arrivo del cardinale di Sion nel loro campo di Monza, erano rientrati in Milano in numero di circa trentaquattro mila uomini[416].
Il 13 di settembre il cardinale di Sion fece battere il tamburo per adunare tutti gli Svizzeri sulla piazza del castello di Milano. Egli vi si era fatto innalzare un pulpito dal quale gli arringò, eccitandoli a combattere per la santa Chiesa; conveniva, diceva egli, sorprendere il re, vendicarsi in una sola volta di tutte le offese ricevute, ed aggiugnere nuovi allori a quelli che avevano di già colti a Novara. Nello stesso tempo fece dare un falso allarme da Muzio Colonna, che rientrò precipitosamente in città, e chiese il soccorso di tutta l'armata, come se fosse inseguito dai Francesi. Allora quegli stessi, che fino a tal giorno erano stati per la pace, diedero di piglio alle loro armi col medesimo impeto degli altri, onde non abbandonare i loro compatriotti nell'istante del pericolo[417].
Malgrado la nuova determinazione presa dagli Svizzeri i loro negoziatori e quelli de' Francesi trovavansi tuttavia uniti a Gallarate; ed il re era sempre di sentimento che sarebbesi fatta la pace; quando il tredici di settembre, tre ore dopo mezzogiorno, il maresciallo di Fleuranges, ch'era stato mandato verso Milano per osservare il nemico, e aveva probabilmente cagionato l'allarme da cui il cardinale di Sion seppe tirare partito, vide sortire dalla città tutta l'armata degli Svizzeri al suono delle terribili trombette d'Uri e d'Underwald, che tenevansi in serbo pei giorni di battaglia. Egli corse verso il re per avvisarlo di armarsi e chiamare i Francesi a raccolta. Bartolommeo d'Alviano trovavasi allora in conferenza nella tenda del re, che lo prese per mano, e gli disse: «signor Bartolommeo, io vi prego di recarvi sollecitamente alla vostra armata, e venite colla medesima il più presto che potrete sia di giorno o di notte, dove io sarò, giacchè voi ben vedete qual affare ho sulle braccia[418].»
Il re, che non pensava di essere attaccato, non aveva presa a santa Brigida una vantaggiosa posizione; la strada di Milano, per la quale era ripartito il maresciallo di Fleuranges con dugento uomini d'armi, per fare una carica contro gli Svizzeri, seguiva una retta linea ed era fiancheggiata di fosse da ambedue le parti, di modo che la cavalleria non poteva prendere i nemici di fianco, nè volteggiare intorno a loro. Alcuni corpi di Landsknecht erano disposti al di là della fossa, ma non potevano farvi che un debole servigio; altronde le lunghe negoziazioni ch'essi avevano veduto trattarsi tra il re e gli Svizzeri, li teneva in qualche diffidenza; temendo essi per avventura che il re gli avesse abbandonati a quei formidabili nemici[419].
Gli Svizzeri giunsero agli avamposti francesi quando omai non rimanevano che due ore di giorno. Essi vanzavano sulla fronte dell'armata colla picca abbassata, non ricorrendo a veruno studiato movimento, nè altr'arte militare adoperando che la forza del corpo e la loro intrepidezza. Essi marciavano contro l'artiglieria senza lasciarsi spaventare dalle scariche delle batterie, che prendevano in pieno le loro file; dopo la caduta de' loro commilitoni serravano di nuovo le file ed avanzavano sempre. Gli uomini d'armi si scagliarono contro di loro, condotti dal re alla testa de' gentiluomini della sua guardia. Scriveva egli stesso a sua madre: «Da cinquecento e da cinquecento vi fu fatta una trentina di belle cariche; e al certo più non si dirà che gli uomini d'armi sono lepri armate; perciocchè a non dubitarne essi fecero l'esecuzione[420].» Però questo corpo di cavalleria, che non poteva tenere che la retta linea della grande strada ed attaccare gli Svizzeri di fronte, veniva trattenuto dal bosco di picche, contro le quali esso urtava. A misura che gli squadroni piegavano, gli Svizzeri, che mai non si erano lasciati intaccare, s'avanzavano contro di loro in buon ordine. Alcune migliaja di Landsknecht tentarono di passare la fossa per prendere gli Svizzeri di fianco, ma vi perirono quasi tutti[421].
La prima batteria che venne attaccata dagli Svizzeri non era composta che di sette pezzi di cannone, sotto il comando di Pietro Navarro: era coperta da una larga fossa che veniva difesa da un corpo di fanteria basca e guascona. Fu attaccata dal battaglione svizzero della gioventù perduta, che era un corpo di giovani soldati scelti in tutti i cantoni, che portavano il distintivo di alcune piume bianche sul capo, ed avevano doppio soldo. Questi perdettero nell'attacco moltissima gente, ma all'ultimo s'impadronirono della batteria[422].
La luce del giorno era da molto tempo mancata ai combattenti, ma era stata rimpiazzata da una chiarissima luna, e la pugna continuava. Ciò nulla meno i capì più non potevano discernere l'andamento della battaglia, nè dirigere le cominciate operazioni, e tutti separatamente si battevano contro coloro che accidentalmente si trovavano a fronte. I corpi francesi erano di già separati dagli Svizzeri, ma combattevano ancora per conservare il posto che avevano preso. Dopo quattro ore di notturna battaglia, la stanchezza ed il non conoscere la situazione de' nemici fecero deporre le armi a tutti. Tutti rimasero al proprio luogo, cercando di ricuperare col sonno le perdute forze[423].
«Sopraggiunse la notte, dice Fleuranges, e gli Svizzeri cominciarono a cacciare gli uomini d'armi da un canto e dall'altro; perciocchè più non sapevano dove andassero, e venivano uccisi dovunque si trovavano. Nello stesso stato erano i Landsknecht ed i fanti francesi, tutti smarriti come gli altri. Il re si fermò presso l'artiglieria, e non aveva un uomo a piedi presso di lui; e fece una carica con circa venticinque uomini d'armi, i quali lo servirono maravigliosamente; e poco mancò che il re non impazzisse, e vi giuro in su l'onor mio, che fu uno de' più valorosi capitani della sua armata, non avendo mai voluto abbandonare la sua artiglieria, e facendo intorno a sè ordinare il più di gente che poteva. E gli Svizzeri furono assai vicini all'artiglieria, ma non la videro: ed il detto re fece spegnere un fuoco ch'era vicino alla menzionata artiglieria, perchè trovandosi gli Svizzeri vicini, non la vedessero custodita da così poca gente. Ed il detto signore chiese da bere, essendo molto assetato; e fuvvi un pedone che andò a prendergli dell'acqua ch'era lorda di sangue, la quale fece tanto male al detto signore, ch'era soverchiamente riscaldato, che lo costrinse a rigettare tutto quello che aveva in corpo. Egli si coricò sopra un carro dell'artiglieria per riposarsi alquanto, e sollevare il suo cavallo ch'era malamente ferito. Aveva vicino un trombetta italiano, chiamato Cristoforo, che lo servì assai bene, perchè gli si tenne sempre accanto, ed il suono della sua tromba vinceva quello di tutte le altre del campo; e perciò sapevasi ove stava il re, e la gente si andava ristringendo verso di lui[424].»
E fu in tal modo che durante la notte si ragunarono circa venti mila Landsknecht e tutti gli uomini d'armi nel luogo ove trovavasi il re presso l'artiglieria. I capitani francesi, approfittando del breve intervallo tra l'una e l'altra battaglia, ritiravano le batterie che credevano troppo avanzate, le collocavano vantaggiosamente, rifacevano la loro linea rotta in varj punti, e combinavano gli attacchi che la cavalleria doveva tentare ai fianchi o alle spalle per rompere la falange degli Svizzeri[425].
Questi dal canto loro eransi riuniti al suono de' due corni d'Uri e d'Underwald, che si udirono suonare tutta la notte. Il cardinale di Sion loro aveva fatte portare vittovaglie da Milano, e i loro corpi s'intendevano ancora senza vedersi. Il prelato aveva spediti corrieri in varie parti per annunziare, dietro l'accaduto nel primo attacco, che gli Svizzeri erano vittoriosi e l'armata francese disfatta[426].
«Quando si fece giorno (il venerdì 14 settembre) ognuno si ritirò sotto le proprie insegne, dice Martino di Bellay, e ricominciò la battaglia più furiosa che la sera, di modo che io vidi uno dei principali battaglioni de' nostri Landsknechts rinculare più di cento passi; ed uno Svizzero, passando tutte le linee della battaglia, arrivò a toccare colla mano un pezzo dell'artiglieria del re, ove fu ucciso; e senza la cavalleria, che sostenne gran parte dell'urto svizzero, si era in pericolo[427].» Ma malgrado l'intrepidezza degli Svizzeri, e l'eccellente loro ordinanza, potevasi di già prevedere che il risultato della battaglia non riuscirebbe loro favorevole. L'artiglieria francese faceva orrendi guasti ne' loro battaglioni, ed ogni loro sforzo per impadronirsene tornava vano. I replicati attacchi della cavalleria sui loro fianchi, sebbene non li disordinassero, ne impedivano la marcia, e loro uccidevano molta gente. «E cominciavano, dice Fleuranges, a girare intorno al loro campo da ogni lato per vedere se potevano assalirli; ma non vi riuscivano; cercarono di rompere una banda che si era mossa, ma quando si videro abbassate contro le picche, passarono avanti senza toccarla[428].»
Mentre gli Svizzeri cominciavano già ad essere titubanti, Bartolommeo d'Alviano, ch'era stato a Lodi a prendere la sua truppa e che aveva camminato tutta la notte, giunse sul campo di battaglia con soli cinquantasei cavalieri, prevenendo la sua armata, che avanzavasi più lentamente ordinata a colonne. Ma il grido de' Veneziani Marco! Marco! le loro insegne e la grande opinione che si aveva della rapidità dell'Alviano fecero credere ai due campi che tutta la sua truppa arrivasse con lui. Gli Svizzeri non giudicarono conveniente di aspettarlo; strinsero nuovamente le loro file e ripiegarono verso Milano in buona ordinanza, e con sì fiero contegno, che niun corpo dell'armata francese di fanteria o di cavalleria, ardì molestarli. Soltanto due loro compagnie, che si riposavano ne' granai di un villaggio, perirono tra le fiamme, che vi accesero i cavaleggieri dell'armata veneziana[429].
Il maresciallo Trivulzio, ch'era stato presente a diciotto battaglie campali, non le risguardava che come giuochi da fanciullo a petto di quella terribile di santa Brigida o di Marignano, che aveva costume di chiamare una battaglia di giganti. Si può credere che tra l'una e l'altra armata rimanessero sul campo circa diciotto mila uomini, due terzi de' quali Svizzeri. Ma gli storici delle due parti, per adulare la vanità nazionale, danno intorno al risultamento della battaglia un calcolo assai diverso. Nell'armata svizzera eranvi pochi nomi illustri; in quella dei Francesi moltissimi, e portarono il lutto le più nobili famiglie. Francesco fratello del duca di Borbone, Imbercourt, il conte di Sancerre, il signore di Bussy nipote del cardinale d'Amboise, Giovanni di Muy signore della Meilleraye, il principe Carlo di Talmont, unico figlio di Luigi della Tremouille, il signor di Roye fratello del maresciallo di Fleuranges, ed il giovane conte di Pitigliano, venuto coll'Alviano dall'armata veneziana, rimasero tra i morti[430].
«La sera del venerdì, in cui terminò la battaglia con onore del re di Francia, si fece allegria nel campo e parlossene in più maniere. E si trovò che gli uni avevano fatto meglio degli altri; ma si trovò soprattutto che il buon cavaliere (Bajardo) si era nelle due giornate mostrato tal quale avea costume di essere in tutti i luoghi in casi simili. Il re volle fargli molto onore, ricevendo l'ordine di cavaliere dalle di lui mani. Ed aveva ben ragione, perchè non avrebbe saputo prenderlo da altri migliore di Bajardo[431].» Il re, dopo fatto cavaliere, accordò lo stesso ordine a molti altri gentiluomini, che avevano valorosamente combattuto. « Io ben conosco, disse al maresciallo di Fleuranges, che in quante battaglie vi siete trovato, non avete mai voluto essere cavaliere; io lo fui oggi, e vi prego a volerlo essere ancora voi di mia mano; ciò che il fortunato Fleuranges gli accordò di buon cuore, ringraziandolo dell'onore che gli compartiva[432].»
Bajardo, che aveva ricevuto dal re un così segnalato favore, aveva nella precedente notte corso un grandissimo pericolo. «Il suo cavallo, punto dalle picche e sbrigliato, quando si sentì senza freno si pose a correre, ed a dispetto di tutti gli Svizzeri e delle loro ordinanze, passando oltre, portava a dirittura il buon cavaliere in mezzo ad un corpo di Svizzeri, se non che, entrato in un campo in cui le viti erano tese da un albero all'altro, si dovette fermare. Il buon cavaliere ebbe grande paura, e non senza cagione, perciocchè era senza rimedio morto, se veniva in mano dei nemici. Non si perdette per altro di coraggio, ma scese dolcemente da cavallo, ed in parte si disarmò, e seguendo le rive di una fossa, a quattro gambe si incamminò verso il luogo in cui credeva trovarsi il campo francese, ed ove udiva gridare Francia, Dio gli fece la grazia che vi giugnesse sano e salvo; ed inoltre, ciò che molto gli giovò, che si scontrasse nel gentile duca di Lorena, uno de' suoi signori, che fu sorpreso di vederlo così a piedi. Onde il detto duca gli fece subito allestire un gagliardo cavallo[433].»
Gli Svizzeri rientrati in Milano cercavano un pretesto per ritirarsi da una guerra, da cui non potevano più nulla sperare. Chiesero a Massimiliano Sforza i tre mesi di soldo che questi aveva loro promessi, ma che evidentemente egli più non poteva pagare dopo la perdita di tutti i suoi stati. Dietro il suo rifiuto, malgrado le istanze del cardinale di Sion, cui non davano più tanta credenza dopo la perdita della battaglia, si posero all'indomani in cammino per ritirarsi per la strada di Como ne' loro paesi. Massimiliano Sforza si chiuse nel castello di Milano con Girolamo Morone, suo principale ministro, Giovanni Gonzaga, pochi gentiluomini milanesi, mille cinquecento Svizzeri, e cinquecento Italiani. Suo fratello Francesco Sforza, duca di Bari, passò in Germania col cardinale di Sion, per affrettare i soccorsi dell'imperatore. Gli Svizzeri dal canto loro avevano, partendo, promesso, che non tarderebbero a ritornare in maggior numero per vendicarsi della loro sconfitta, e liberare i loro compatriotti[434].
Però la battaglia di Marignano aveva decisa la sorte del ducato di Milano. Tutte le città si affrettarono d'assoggettarsi a Francesco I, e di manifestare il loro giubbilo d'essere state liberate dall'insolenza e dalla rapacità della soldatesca svizzera. I soli castelli di Milano e di Cremona rimasero in potere di Massimiliano Sforza, e Pietro Navarro si obbligò col re Francesco ad impadronirsi del primo avanti che passasse un mese[435].
Il castello di Milano era abbondantemente provveduto d'ogni maniera di vittovaglie e di munizioni da guerra; la sua guarnigione più numerosa che non richiedevalo l'estensione del suo ricinto; e le sue mura, che avevano di già sostenuti lunghi assedj, si giudicavano presso che inespugnabili. Ma Pietro Navarro, che aveva il primo di tutti portata in Italia l'arte delle mine caricate e che l'aveva perfezionata; che col mezzo loro aveva molti anni avanti presi i tre castelli di Napoli, e che pretendeva non potergli lungamente resistere veruna fortezza, ispirava grandissimo terrore a tutti coloro ch'erano chiusi nel castello di Milano. E più d'ogni altro il duca ed i suoi ufficiali civili temevano di dovere ad ogni istante essere vittime d'una terribile esplosione. Potevano ben essi tenersi lontani da ogni conflitto e dai pericoli inseparabili dalla difesa d'una breccia: ma una mina nella sua esplosione non rispettava più il sovrano del plebeo, e poteva raggiungere il duca ne' suoi più segreti appartamenti, ed in qualunque ora del giorno o della notte seppellirlo sotto le ruine delle mura. Massimiliano Sforza, che non aveva nè coraggio, nè forza di carattere, era desideroso di sottrarsi a qualunque prezzo a tanto pericolo. Egli non aveva un solo istante goduto dell'indipendenza o della ricchezza annessa al sovrano potere. Quando l'uno, e quando l'altro de' suoi alleati, aveva proposto d'abbandonarlo, e di far ricadere i suoi stati o all'imperatore, o al re di Francia. Gli Svizzeri mantenevano il suo potere, ma per tenerlo subordinato alla loro volontà, facendolo ministro d'insopportabili esazioni, per le quali egli si era già renduto odioso a' suoi sudditi. Il 4 ottobre, venti giorni dopo la battaglia, sottoscrisse una capitolazione, colla quale dava in mano del re non solo i castelli di Milano e di Cremona, ma tutti i suoi diritti sul Milanese, obbligandosi a passare il rimanente de' suoi giorni in Francia; mentre che il re dal canto suo gli prometteva d'interessarsi per ottenergli un cappello di cardinale, e d'assegnargli trenta mila scudi di rendita in beni stabili[436]. Nell'atto che sottoscriveva il trattato, Massimiliano gridò, che allora si sottraeva finalmente alla schiavitù degli Svizzeri, alle estorsioni dell'imperatore, ed agl'inganni degli Spagnuoli.
Francesco I non volle fare il suo solenne ingresso in Milano che dopo la capitolazione del castello, credendo sconveniente alla dignità d'un sovrano di Francia l'entrare in una città che non gli apparteneva tutta intera. Queste bizzarre nozioni intorno a ciò che egli chiamava l'onore della sua corona gli fecero più tardi commettere grandissimi mancamenti, ch'ebbero su tutti i suoi destini una fatale influenza. In questa circostanza il ritardo del suo ingresso in Milano era di poca importanza, non gli togliendo il tempo d'approfittare colle armi e colle negoziazioni degli ottenuti vantaggi.
Le negoziazioni erano attivissime: gli alleati nemici del re si andavano vicendevolmente confortando alla costanza; ma ognuno cercava di ritirarsi dalla difficile lotta, lasciandovi implicati i compagni. Il papa era più d'ogni altro spaventato dalla fortuna de' Francesi; perciocchè non solo vedeva essere esposti a così potente nemico gli stati della Chiesa, ma anche per parte di Firenze doversi da un momento all'altro temere una rivoluzione. I Medici erano stati ricondotti in questa repubblica dal Cardone, a nome dell'imperatore e del re di Spagna; onde i patriotti professavano alla Francia il più caldo attaccamento. Per questo attaccamento avevano permesso che si tenesse il concilio di Pisa nel loro territorio, provocando la collera di Giulio II e di Ferdinando, locchè era stato all'ultimo cagione della loro ruina. La politica, d'accordo colla riconoscenza, suggeriva al monarca francese l'obbligo di ristabilire la fedele sua alleata, la repubblica fiorentina, per servire d'avamposto al ducato di Milano: una volgare prudenza lo ammoniva di fidarsi piuttosto a sperimentati amici che a nemici costretti dalla forza a cercare la pace.
L'avversione de' re per le repubbliche, e l'avversione che aveva Francesco I ad entrare in guerra colla Chiesa, gli fecero abbracciare la contraria decisione. Il vescovo di Tricarico ed il duca di Savoja trattavano con lui a nome di Leon X, e lo ridussero a sottoscrivere un trattato preliminare, con cui il re guarentiva l'autorità de' Medici sopra la repubblica fiorentina; onde il papa, omai riavutosi da quel primo terrore che lo aveva invaso, cominciò a muovere difficoltà intorno alla ratifica de' preliminari, perchè aveva avuto notizia degli scrupoli del re. Intanto egli andava indagando cosa potrebbe ottenere da Massimiliano o dagli Svizzeri per continuare la guerra, e se gli sarebbe possibile di staccare i Veneziani dalla Francia. Quando conobbe che da questo canto non poteva riuscire, fece finalmente il 13 ottobre sottoscrivere in Viterbo il suo trattato d'alleanza col re. Egli evacuava Parma e Piacenza, che dovevano di nuovo riunirsi al ducato di Milano, mentre il re prometteva a Giuliano ed a Lorenzo de' Medici, oltre il mantenimento dell'autorità loro sopra Firenze, onori, pensioni e comando di truppe; obbligandosi inoltre a fare che il ducato di Milano si provvedesse di sali alle saline di Cervia con pregiudizio di quelle de' Veneziani[437].
Gli Svizzeri avevano adunata una dieta in Zurigo, nella quale si declamava altamente contro la Francia, e si parlava intorno ai modi di soccorrere il castello di Milano. Frattanto i loro soldati avevano abbandonate le podesterie italiane, ed altro non conservavano al di qui dei monti che le fortezze di Bellinzona e di Locarno. Raimondo di Cardone, che trovavasi coll'armata spagnuola prima d'ogni altro esposto agli attacchi dell'armata francese, e che non ignorava che l'Alviano era impaziente di vendicarsi di lui, che i soldati spagnuoli avevano eccitato contro di loro l'odio universale in tutti gli abitanti della Lombardia, era premuroso di ricondurre la sua armata nel regno di Napoli; egli chiese ed ottenne d'essere compreso nella negoziazione del papa: e Francesco I acconsentì che senz'essere molestato attraversasse colle sue truppe lo stato della Chiesa[438].
Quattro ambasciatori, i più qualificati personaggi che avesse la repubblica di Venezia per le dignità loro e per i loro impieghi, erano stati mandati a Milano per felicitare Francesco I intorno alla sua vittoria, e per ricordargli le promesse fatte ai Veneziani, di far loro ricuperare tutto ciò che degli stati della repubblica occupava l'imperatore. La conquista dello stato di Milano non poteva risguardarsi come terminata, finchè i Francesi non la venivano assicurando da nuove invasioni dalla banda della Germania, rendendo Verona e Brescia ai Veneziani, siccome dal canto dell'Italia spagnuola, scacciando i Medici da Firenze, e forzando il papa a fare la pace. Se Francesco I avesse saputo approfittare della sua vittoria, avrebbe potuto col solo spavento che inspirava ottenere tutti questi vantaggi senza nuove battaglie: ma la sua politica era troppo personale, perchè potesse comprendere quanto il più delle volte torni in utile proprio il servire vivamente i suoi alleati. Sebbene accogliesse gli ambasciatori veneziani con dimostrazioni di singolare amicizia, e loro si mostrasse pieno di zelo per gl'interessi della repubblica, tardò assai a mandar loro le sue truppe; e queste ancora pareva che affatto avessero dimenticato il valore e l'impeto francese[439].
I Veneziani, abbandonati alle proprie forze, vollero non pertanto tentare di ricuperare le perdute città. Lo spagnuolo Hijar comandava a Brescia, e Marc'Antonio Colonna in Verona. Quest'ultima città aveva una numerosa guarnigione, l'altra una piccolissima; onde l'Alviano ebbe ordine dal senato d'accostarsi a Brescia: ma Hijar, prevedendo il vicino attacco, chiede al Colonna i soccorsi creduti necessarj; e mille fanti partiti da Verona, girando intorno al lago di Garda, entrarono in Brescia prima che l'armata veneziana giugnesse sotto le mura[440].
Bartolommeo d'Alviano, che per la prima volta in sua vita lasciavasi vincere da un altro in celerità, non lo fu che per sopraggiuntagli infermità. Le fatiche sostenute nella battaglia di Marignano, sproporzionate all'età sua ed alla debole sua costituzione, gli avevano cagionata un'ernia: egli si fece trasportare a Ghedo, non molto distante da Brescia, ove morì il 7 d'ottobre dopo avere sofferti acerbissimi dolori. Quest'uomo, che dal rango di semplice soldato, passando per tutti i gradi della milizia, era giunto ad essere supremo comandante d'eserciti, non pareva dalla natura dotato di quelle facoltà che abbisognano per una vita attiva. Era piccolissimo, assai curvo, e d'una quasi deforme bruttezza. Il suo impeto, talvolta imprudente, sembrava piuttosto una qualità conveniente ad un soldato che ad un generale; e sebbene questo l'avesse esposto a sanguinose sconfitte, egli sapeva compensare tale difetto colla sua celerità ed intrepidezza, e coll'arte che aveva di guadagnarsi l'affetto e la confidenza del soldato, anche assoggettandolo alla più rigorosa disciplina. Verun uomo seppe meglio di lui ispirare coraggio alla fanteria italiana, e farle riacquistare la considerazione de' Tedeschi, degli Svizzeri, degli Spagnuoli, cui non vergognavasi di confessarsi inferiore. Morì di sessant'anni, amaramente pianto da' suoi soldati, che, non volendosi privare della sua presenza, lo tennero venticinque giorni alla testa dell'armata, facendogli rendere nella sua tenda gli onori convenienti al loro generale. Essi mai non acconsentirono che si chiedesse un salvacondotto a Marc'Antonio Colonna, comandante di Verona, per far passare il di lui corpo a Venezia, e vollero accompagnarlo armata mano attraverso al territorio nemico. Il senato lo fece seppellire nella chiesa di santo Stefano, ed accordò pensioni alla di lui vedova e figli, che lasciava poveri[441].
Dopo la morte dell'Alviano parve che l'armata veneziana più non avesse il coraggio di misurarsi col nemico; ed i medesimi rinforzi, che le mandava il re di Francia, giugnendo al campo veneziano contraevano in certo modo lo stesso spirito di timidità e d'indisciplina. Gian Giacopo Trivulzio, che le condusse settecento lance francesi e sette mila fanti tedeschi, ed intraprese l'assedio di Brescia, si lasciò intimidire da difficoltà, di cui non sarebbesi preso cura se fosse stato ai servigj del re. I Tedeschi si ammutinarono, dichiarando di non voler servire contro le insegne imperiali che vedevano sulle mura di Verona e di Brescia. Fu d'uopo rimandarli, e chiamare in vece loro cinquemila Biscaini comandati da Pietro Navarro. Una sortita di mille cinquecento soldati tedeschi e spagnuoli della guarnigione di Brescia pose in fuga più di sei mila uomini dell'armata veneziana, togliendo loro dieci cannoni. Le mine cominciate dal Navarro per penetrare sotto le fortificazioni vennero sventate dagli assediati, furono uccisi i minatori, e le gallerie distrutte. Finalmente avendo il Trivulzio cambiato l'assedio in blocco, ridusse colla fame la guarnigione a promettere, che, se non veniva soccorsa entro venti giorni, evacuerebbe la città: ma prima che spirasse il prefinito termine, il barone di Rockandolf[442] adunò otto mila Tirolesi di milizie de' paesi confinanti, ed avanzandosi pel contado di Lodrone e Rocca d'Anfo, che vilmente gli si arrese, vittovagliò Brescia, da cui al suo avvicinamento erasi scostata l'armata nemica. I Veneziani non ottennero in quest'anno verun altro vantaggio dalle vittorie de' loro alleati, che di ricuperare Peschiera, Asola e Lonato, evacuate dal marchese di Mantova[443].
Frattanto Leone X aveva chiesta a Francesco I una conferenza, desiderata ancora da questi per meglio stringere l'alleanza tra di loro conchiusa. I due sovrani convennero di trovarsi in Bologna, ove il papa arrivò l'otto di dicembre, due giorni prima del re. Leon X non aveva torto di confidare nell'influenza che gli darebbero sul giovane monarca la sua accortezza e le sue maniere. Francesco I, negoziando in Viterbo, aveva richiesto a favore del suo fedele alleato, il duca di Ferrara, la restituzione di Modena e di Reggio, a condizione che gli fossero restituiti i quaranta mila ducati pei quali la prima di queste città era stata impegnata. Era questa la sovranità che Leon X aveva destinata a suo nipote; e vedevasi forzato a spogliare la propria famiglia degli stati per lei conquistati sulla destra del Po. Rinunciandovi voleva collocare altrove Lorenzo de' Medici; e gli destinò il ducato d'Urbino, per confiscare il quale a pregiudizio dell'attuale possessore non poteva allegare che il di lui attaccamento verso la Francia. Leone domandò che il duca d'Urbino fosse sagrificato al suo rancore ed alla sua ambizione; e Francesco ebbe la debolezza d'acconsentirvi. Inoltre il papa chiese che si abolisse la prammatica sanzione, che formava la guarenzia della libertà della Chiesa gallicana; e Francesco si lasciò piegare a fissare con lui le basi del concordato, che infatti le venne sostituito nel susseguente mese d'agosto. In contraccambio di così umilianti cessioni e così contrarie alla politica, Francesco ottenne il cappello di cardinale per Adriano di Boisì, fratello del gran maestro di Francia, la promessa d'un soccorso di cinquecento uomini d'armi, ed il soldo di tre mila Svizzeri, per difendere lo stato di Milano qualunque volta fosse attaccato[444].
Prima di recarsi a Bologna aveva Francesco I colla mediazione del duca di Savoja conchiuso cogli Svizzeri un più importante trattato per la difesa dello stato di Milano. Erasi obbligato a pagar loro i seicento mila ducati convenuti nel trattato di Digione; i trecento mila promessi a Gallarate per prezzo delle podesterie italiane, ed inoltre ad accrescere le loro annue pensioni: questi dal canto loro promettevano di restituire al ducato di Milano le podesterie italiane, e di servire la casa di Francia verso e contro tutti, tranne il papa e l'imperatore, con quel numero di truppe che il re troverebbe opportuno d'assoldare. Per tal modo, malgrado la sanguinosa vittoria di Marignano, il re accordava agli Svizzeri press'a poco le medesime condizioni, ch'essi avevano domandate a Gallarate avanti la loro sconfitta; tanto era egli penetrato dell'importanza della loro alleanza per procurare alle sue armate quell'infanteria, che la politica sua non gli permetteva di formare tra i suoi sudditi. Ma il trattato sottoscritto a Ginevra il 7 di novembre non venne ratificato che da otto cantoni, avendo gli altri cinque, che davano un altissimo valore alle podesterie italiane, ricusato di ratificarlo. Francesco, senza aspettare l'assenso degli ultimi, mandò il promesso danaro a tutti i cantoni che avevano approvato il trattato, e gli affezionò così più caldamente al suo partito[445].
Aveva Francesco I concepiti più vasti progetti; pensava a rinnovare le sue pretensioni sopra il regno di Napoli, e ne aveva parlato col papa nella sua conferenza di Bologna. Ma Leon X gli aveva rappresentato che Enrico VIII, re d'Inghilterra, e genero di Ferdinando il Cattolico, si mostrava di già aombrato delle vittorie conseguite dalla Francia, che la cupidigia, o le personali animosità del suo favorito, il cardinale di Wolsey, potevano persuaderlo a rinnovare la guerra; ch'egli aveva il 9 d'ottobre rannodati con più stretti legami la sua alleanza con suo suocero, il re d'Arragona[446]; e che in quest'istante opporrebbe un valido ostacolo alla conquista di Napoli, se attaccava le coste della Francia: che d'altra parte erasi avuto avviso che Ferdinando, di già vecchio assai, era caduto infermo, e che probabilmente non viverebbe ancora molto; che accadendo la di lui morte, il suo successore, Carlo, non potrebbe sperare molto nell'alleanza dell'Inghilterra, e che allora, angustiato dalle difficoltà che accompagnano le successioni contestate, probabilmente cederebbe alla Francia, senza combattere, il regno di Napoli. Il vero ed unico motivo che muoveva Leon X a dare questo consiglio era quello d'acquistar tempo: Francesco I si lasciò facilmente persuadere; onde, licenziata la maggior parte della sua armata per liberarsi da una eccessiva spesa, non si riservò per la difesa del Milanese che settecento lance, sei mila fanti tedeschi e quattro mila baschi ossiano avventurieri francesi[447].
Non tardarono a verificarsi i pronostici intorno alla morte di Ferdinando il Cattolico, il quale spirò a Madrigaleggio il 15 di gennajo del 1516, un mese più tardi del gran capitano Gonsalvo di Cordova che tanto aveva illustrato il di lui regno, e che non pertanto egli lasciava da circa dieci anni languire in esilio. La scaltrezza di Ferdinando, l'ipocrisia e la costante sua prosperità avevano ingannato il volgo, il quale lo risguardava come il più accorto politico del suo tempo, come il monarca che sapeva meglio calcolare tutte le vicissitudini degli avvenimenti, e farle servire a' suoi fini[448]. I preti ed i monaci, da lui costantemente favoriti, portarono ancora più in là i loro encomj; il gesuita Mariana, che termina col di lui regno la storia della Spagna, lo dice «il principe più eccellente di quanti vissero nella Spagna, pel suo amore della giustizia, per la sua prudenza e grandezza d'animo. Ovunque dobbiamo incontrare qualche vizio, tale è l'umana condizione; altronde l'invidia e la malizia sono sempre apparecchiate ad attribuire ai grandi uomini errori di cui non sono colpevoli: ma colla temperata modestia del comando, coll'amore della religione, collo zelo per gli studj, con tutte le qualità di giusto, dolce, benefico e veramente cristiano re, Ferdinando si rendette lo specchio nel quale devono guardarsi tutti i principi, il fondatore della pace, della sicurezza, della gentilezza, della grandezza della Spagna[449].»
Ma quest'uomo così astuto, ingiusto, crudele, che formò la disgrazia di tanti popoli, e che mostrossi costantemente inaccessibile alla pietà, non ingannò già il Macchiavelli nè colla sua prosperità, nè colla sua ipocrisia. Il segretario fiorentino, che raccolse in un corpo di dottrina la pratica de' principi del suo tempo, e che spesso si mostrò indulgente pei delitti loro, quando li trovò utili per istabilire o per corroborare la potenza, altro non vide in Ferdinando che un uomo astuto e fortunato, e non già un uomo savio e prudente; il suo amico Francesco Vettori, svolgendo questa stessa opinione del Macchiavelli, notò in tutte le azioni di Ferdinando dal 1494 in poi un'imprudenza non minore della sua perfidia. Quasi sempre quando ingannava il suo cugino Federico, i suoi alleati, i suoi generali, i suoi popoli, provocava inutili pericoli; e tutt'al più giugneva lentamente per obbliqua via allo scopo cui avrebbe potuto arrivare più onoratamente battendo la strada diretta[450].
Poco tempo prima di morire Ferdinando aveva mandati cento venti mila fiorini a Massimiliano, per porlo in istato di far argine ai Francesi in Italia: ed Enrico VIII, ad istigazione di Francesco Sforza, che pretendeva l'eredità del ducato di Milano dopo che suo fratello, l'ultimo duca, aveva rinunciato a' suoi diritti, aveva pure fatto passare all'imperatore un ragguardevole sussidio. In quest'istante l'Europa teneva tutti gli occhi rivolti alla successione dell'arciduca Carlo, nipote di Massimiliano, alle corone della Spagna, ed all'opposizione che incontrar potrebbe l'arciduca dal canto de' suoi nuovi sudditi; di già Carlo negoziava con Francesco I, e voleva essere sicuro della di lui amicizia prima di recarsi in Castiglia, quando suo avo invase improvvisamente l'Italia. Questi, che mai non aveva saputo porsi in istato d'agire quando era aspettato da' suoi alleati, adunò agevolmente una grande armata nel momento in cui tutte le altre potenze licenziavano le loro. Non avendo avuto abbastanza di tempo per dissipare in oggetti estranei alla guerra tutti i sussidj ricevuti dalla Spagna e dall'Inghilterra, se ne valse per riunire sotto le sue bandiere cinque mila Tedeschi, quindici mila Svizzeri, assoldati ne' cinque cantoni che avevano ricusata l'alleanza della Francia, e dieci mila fanti italiani e spagnuoli[451].
Abbandonando l'Italia, Francesco I aveva lasciato il governo del Milanese al contestabile di Borbone, ed aveva altresì chiamato a Milano il maresciallo Trivulzio, mentre Teodoro Trivulzio, suo nipote, aveva preso il comando dell'armata veneziana, cui erasi unito Odetto di Foix, signore di Lautrec con quasi tutte le forze francesi rimaste in Lombardia. Teodoro e Odetto avevano ricominciato l'assedio di Brescia. Rockandolf era tornato in Germania colla maggior parte de' soldati cui aveva fatto prendere le armi nel precedente anno; Brescia mancava di vittovaglie, ed i soldati trovavansi da lungo tempo senza paga, sebbene gli abitanti fossero stati oppressi da intollerabili contribuzioni per supplire ai bisogni della guarnigione. Hijar in una ribellione de' soldati erasi trovato esposto a gravissimi oltraggi; e la città pareva vicina a capitolare, quando Massimiliano entrò per la strada di Trento in Italia col formidabile esercito che aveva ragunato[452].
Teodoro Trivulzio, generale de' Veneziani, aveva sotto Brescia due mila cinquecento cavalli e sette mila fanti; Lautrec aveva condotti allo stesso assedio quattro mila Guasconi e cinquecento lance, ed il contestabile di Borbone aveva tenuti in Milano ed in altre città del ducato settecento lance e quattro mila fanti parte guasconi e parte italiani. Quando aveva avuto avviso dell'armamento di Massimiliano, aveva mandato ad assoldare sedici mila Svizzeri negli otto cantoni alleati della Francia; ma prima che questi giugnessero, i generali francesi e veneziani non si credettero abbastanza forti per tener testa all'imperatore, onde levarono l'assedio di Brescia, e si stabilirono lungo il Mincio per impedirgliene il passaggio[453].
Desideravano i Veneziani che l'armata loro non si tenesse troppo lontana dalla capitale. Non pertanto i Francesi, all'avvicinarsi del pericolo, andavano perdendo il coraggio, onde rinunciando alla difesa del Mincio, passarono l'Oglio, e ritiraronsi nel Cremonese, ove li raggiunse il contestabile di Borbone col rimanente delle truppe. Il cardinale di Sion, che a motivo dell'ardente suo odio contro i Francesi, aveva presa grandissima parte nell'arrolamento degli Svizzeri comandati da Massimiliano, voleva persuadere l'imperatore a marciare direttamente sopra Milano, approfittando del terrore incusso dalla subita sua apparizione, per terminare la guerra nella capitale. Ma il castello di Asola posto in riva al fiume Chiesa, non lontano dalla foce di questo fiume nell'Oglio, aveva chiuse le porte all'imperatore: e Massimiliano, credendo compromesso l'onor suo se non lo conquistava, consumò molti giorni nel formarne l'assedio, valorosamente sostenuto dal provveditore veneziano Francesco Contarini; Massimiliano, dopo essere stato rispinto innanzi a così piccolo castello, ripigliò il cammino alla volta di Milano[454].
I Francesi avevano abbandonate le rive dell'Oglio, ed in appresso quelle dell'Adda, come eransi prima ritirati da quelle del Mincio, senza tentare di difenderle, e si erano chiusi in Milano dopo averne bruciati i sobborghi, onde l'imperatore non potesse fissarvi i suoi alloggiamenti. Massimiliano, quando si trovò sei miglia lontano dalla città, intimò ai Milanesi di scacciare i Francesi e di aprirgli le porte entro tre giorni, se non volevano essere più severamente trattati che non lo erano stati i loro antenati da Federico Barbarossa. Estremo era il terrore nella città, e debolissimi i mezzi di difesa. Sapevasi, a dir vero, che gli Svizzeri del partito francese si erano posti in cammino; ma sapevasi ancora che la dieta, vergognandosi che i suoi concittadini andassero a battersi gli uni contro gli altri per istraniere cagioni, aveva spedito ordine ai suoi sudditi delle due armate, di ripatriare immediatamente; ma si temeva che quelli ai servigj della Francia s'affrettassero d'ubbidire a quest'ordine, più assai che gli altri, cui avevano poste le armi in mano la focosa eloquenza del cardinale di Sion e la propria animosità. A calmare tanta inquietudine giunse opportunamente in Milano Alberto della Pietra, capitano de' Bernesi con dieci mila suoi compatriotti, che promisero di difendere la città[455].
Trovavansi di già adunati nel Milanese trenta mila Svizzeri divisi tra le due armate; e sebbene fossero gli uni condotti dal cardinale di Sion, gli altri da' suoi più caldi nemici, Alberto della Pietra e Francesco, figlio di Giorgio Supersax, tutti dichiararono ad una voce di non voler combattere contro i loro compatriotti. Vedevansi conferire tra di loro, corrispondere, concertarsi, e scuotere assolutamente l'autorità de' due sovrani cui servivano. Unendosi tra di loro potevano in quell'istante dettare la legge ad ambidue; onde le loro conferenze si rendevano gagliardamente sospette alle due armate. Non avevano i Francesi dimenticato che metà di quegli stessi uomini avevano contro di loro combattuto nel precedente anno nella terribile battaglia di Marignano; che l'intera nazione aveva mostrato un estremo odio contro la Francia, e che negli ultimi anni aveva dato più volte motivo d'accusarla di mala fede. Pure il maresciallo Trivulzio trovò modo di risvegliare più violenti sospetti ancora nello spirito di Massimiliano, facendo cadere tra le di lui mani due sue lettere dirette a Stapffer ed a Goldhill, capitani svizzeri a' servigj dell'imperatore, colle quali gli eccitava a dare senza ulteriore ritardo esecuzione alle loro promesse. Massimiliano non ardiva di far arrestare questi ufficiali in mezzo ai loro soldati, nè di confidare a chicchessia i suoi sospetti, quando Giacomo Stapffer, capitano generale di quegli Svizzeri, gli chiese il soldo arretrato dovuto alla sua truppa. Massimiliano, che, secondo il consueto, non aveva danaro, temendo, se lo palesava, d'essere trattenuto come ostaggio, o d'essere consegnato ai nemici, rispose che recavasi in persona ad affrettare la trasmissione del danaro che aspettava; e presi con lui dugento cavalli, s'avviò subito alla volta di Trento, senza provvedere al comando della sua armata, e senza manifestare a veruno i suoi progetti; era già lontano più di venti miglia dall'armata, quando al campo fu palese la sua fuga[456].
Massimiliano senza trattenersi si fece dare sedici mila ducati dai Bergamaschi, e trenta mila ne ricevette per parte di Enrico VIII, che mandò subito alla sua armata, la quale, per rifarsi degli arretrati, saccheggiò Lodi, poi Sant'Angelo. Mentre ciò accadeva, gli Svizzeri del campo francese e dell'imperiale eseguirono nello stesso tempo gli ordini della dieta, e presero la strada del loro paese. Tre mila fanti, parte tedeschi e parte spagnuoli, abbandonarono le bandiere imperiali per passare sotto quelle de' Francesi, ed il rimanente di quest'armata, che aveva prodotti in Italia così vivi timori, si disperse, arrossendo dell'esito vergognoso della sua spedizione, e dell'instabilità del suo capo[457].
Dopo la partenza dell'imperatore, il duca di Borbone, richiamato da Francesco I, tornò in Francia, e lasciò il comando dell'armata e del paese al signore di Lautrec, col titolo di luogotenente generale in Italia[458]. Questi andò bentosto a raggiugnere sotto Brescia l'armata veneta, che ne avea ricominciato l'assedio. Sette mila Tedeschi, che si avanzavano per soccorrerla, furono dai Veneziani trattenuti a Rocca d'Anfo; onde non restando in Brescia che seicento fanti e quattrocento cavalli, ed essendo loro impossibile di difendersi, il 24 maggio del 1516 la città di Brescia aprì le porte ai Veneziani[459].
Desiderava il senato che la stessa armata passasse sotto Verona, ed eccitava il Lautrec ad intraprendere l'assedio di quella città, la quale, quando fosse ritornata in potere de' Veneziani, avrebbe chiusa l'Italia ai Tedeschi; ma il Lautrec mostravasi inquieto per Parma e Piacenza, dove avea scoperto che il papa ordiva qualche trama per mezzo di Prospero Colonna. Probabilmente altresì voleva aspettare il fine delle negoziazioni che sapeva intavolate a Noyon tra il nuovo re Cattolico e Francesco I, e ritirossi a Peschiera, del qual luogo le sue truppe guastavano i territorj di Verona e di Mantova; mentre Marc'Antonio Colonna, comandante della truppa tedesca in Verona, il 28 luglio avendo sorpresa Vicenza mal guardata dai Veneziani, l'abbandonava al saccheggio[460].
Nella stessa epoca Carlo, nipote di Massimiliano e di Ferdinando, in appresso così celebre sotto il nome di Carlo V, desiderava di riconciliarsi con tutti i suoi vicini, per raccogliere senz'ostacolo la successione del secondo de' suoi avi. Antonio di Croy, signore di Chievres, che l'aveva educato, e che prendevasi tuttavia cura della di lui gioventù, aveva aperte in Noyon delle conferenze con Arturo di Gouffier, signore di Boisì, gran maestro di Francia, ch'era stato il precettore di Francesco I. Questi due plenipotenziarj, che godevano l'intera confidenza de' padroni da loro educati, sottoscrissero, il 13 d'agosto del 1516, un trattato che servì di base alla pace d'Europa. Soltanto due oggetti erano rimasti indecisi tra l'ultimo re Cattolico ed il re di Francia; da un canto i riclami del re di Navarra, spogliato del suo regno a motivo del suo attaccamento ai Francesi; dall'altro i diritti della Francia sopra il regno di Napoli, che, secondo il convenuto nel trattato di Blois nel 1505, dovevano ricadere alla Francia, poichè Germana di Foix non aveva avuto figliuoli da Ferdinando. Il trattato di Noyon non provvedeva alla pendenza della Navarra. Carlo obbligavasi solamente di dare stato entro otto mesi alla regina Catarina, rimasta vedova, in giugno di quest'anno, del re di Navarra; e Francesco I riservossi il diritto di soccorrere lei ed i suoi figliuoli di truppe e di danaro, senza mancare alla pace, se questa dopo gli otto mesi non dichiaravasi paga di quanto le offrirebbe il re di Spagna. I diritti delle due corone sul regno di Napoli si confusero con un maritaggio stabilito preventivamente tra Carlo e la figlia primogenita di Francesco I, che inallora non contava che un anno[461].
Il trattato di Noyon ristabiliva la pace soltanto tra la Francia e la Spagna, e lasciava libero Francesco I di soccorrere i Veneziani contro Massimiliano. Ma se questi voleva esservi compreso, le parti contraenti avevano per lui stipulato, che renderebbe Verona ai Veneziani, ricevendo invece da loro dugento mila ducati, e che conserverebbe Riva di Trento, Roveredo e tutto ciò che aveva acquistato nel Friuli. Per non apportare pregiudizio ai diritti e alle pretese dell'impero, non si dava a queste condizioni che una tregua di diciotto mesi[462].
Erano stati accordati a Massimiliano due mesi per accettare il trattato di Noyon; e perchè Francesco I prevedeva la di lui ripugnanza a rinunciare a veruna delle passate pretese, ordinò al signore di Lautrec d'unirsi all'armata veneziana, per cominciare l'assedio di Verona. Infatti le due armate si presentarono sotto le mura di quella città il 20 agosto, una sulla riva destra, l'altra sulla sinistra dell'Adige; e malgrado la valorosa resistenza di Marc'Antonio Colonna, che conservava tuttavia sotto il suo comando ottocento cavalli, cinque mila fanti tedeschi, e mille cinquecento spagnuoli, avanti la metà d'ottobre furono aperte nelle mura varie breccie assai larghe. Ma il Lautrec desiderava d'evitare ogni effusione di sangue in una guerra che non dubitava doversi in breve terminare con un trattato di pace. Malgrado le istanze del senato di Venezia, ricusò di procedere all'assalto; non volle nemmeno venire a battaglia con Rockandolf, che si avvicinava con una debole armata tedesca, e s'accontentò piuttosto di levare l'assedio, non senza eccitare le lagnanze e i sospetti dei Veneziani. Vero è che questi non tardarono a conoscere, che tale moderazione aveva salvata Verona per loro vantaggio, che questa città sarebbe in breve loro renduta intatta, mentre che, se l'avessero presa d'assalto, non avrebbero guadagnato che ruine[463].
Effettivamente tutte le guerre, tutte le nimicizie eccitate dalla lega di Cambrai sembravano tendere ad un fine comune, e l'anno 1516 fu l'epoca delle paci più importanti. I cinque cantoni svizzeri, che nel precedente anno non avevano voluto accedere al trattato di Ginevra, conchiusero, il 29 novembre del 1516, d'accordo cogli altri cantoni, un nuovo trattato colla Francia, cui fu dato il nome di pace perpetua, trattato che infatti durò quanto la monarchia francese. Regolavasi in esso la pensione che in avvenire la Francia pagherebbe ai tredici cantoni ed ai loro alleati, si lasciava alla decisione d'un arbitramento tutte le differenze che potessero insorgere, ed al re si accordava la facoltà di levare tra gli Svizzeri quante truppe vorrebbe[464].
Fu nello stesso anno che Francesco I stipulò colla corte di Roma il trattato che porta il nome di concordato, sottoscritto il 18 d'agosto del 1516, ed approvato dal concilio di Laterano il 19 di dicembre. Questo trattato, che aboliva la prammatica sanzione e le più preziose libertà della Chiesa gallicana, era stato fatto da due sovrani che reciprocamente si rinunciavano ciò che loro non apparteneva. Il papa accordava al re la collazione de' beneficj del regno, di spettanza de' capitoli e delle comunità: il re cedeva al papa le annate, ossiano l'entrate d'un anno bel beneficio ch'egli conferiva, e che spettava alle pie fondazioni[465].
Il trattato del concordato fu cagione di profondo dolore alla Chiesa francese, e fu un oggetto di trionfo per la corte di Roma. Era la conseguenza della politica di Francesco I, il quale voleva a qualunque prezzo guadagnarsi il papa. Pure il re aveva potuto sperimentare anche recentemente quanto verso di lui implacabile fosse l'odio di Leon X, e quanto poco fondamento dovesse fare sopra i di lui trattati e sopra le di lui promesse. In tempo della spedizione di Massimiliano, che aveva minacciato il ducato di Milano, Leon X, invece di spedire in ajuto de' Francesi i cinquecento uomini d'armi ed i tre mila Svizzeri promessi, aveva anzi mandato il cardinale Bibbiena al campo imperiale per complimentare Massimiliano, e per rendere più intima la di lui alleanza colla santa sede. Inoltre non aveva mai cessato di confortare i Veneziani a staccarsi dalla Francia per entrare nella lega de' di lei nemici, di ravvivare lo sdegno degli Svizzeri, d'attraversare i Francesi in tutte le loro negoziazioni; e lo stesso giorno in cui sottoscriveva il concordato, 18 agosto 1516, metteva il colmo alla ruina d'uno de' più fedeli alleati della Francia, del duca d'Urbino, dando l'investitura del di lui ducato al proprio nipote, Lorenzo de' Medici.
Leon X più non aveva bisogno di pensare a fondar la grandezza di due principi della sua casa: suo fratello Giuliano, che aveva sposata Filiberta di Savoja, sorella minore di molti anni della madre di Francesco I, e che per cagione di questo matrimonio aveva da lui ricevuto il titolo di duca di Nemours, era morto il 17 di marzo del 1516. Giuliano, che durante il suo esilio da Firenze avea trovato asilo alla corte del duca d'Urbino, riconoscente de' ricevuti beneficj, avea difeso finchè era vissuto il duca contro l'ambizione di suo fratello[466]. Ma non fu appena morto Giuliano, che Leon X pubblicò un monitorio contro Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino, nel quale lo accusava dell'assassinio del cardinale di Pavia, del quale delitto era di già stato assolto; lo accusava d'avere negoziato con Lodovico XII, quando ancora viveva Giulio II; d'avere attaccati i soldati dispersi dell'armata spagnuola e pontificia dopo la sconfitta di Ravenna; finalmente d'avere ricusato d'unirsi all'armata di Lorenzo de' Medici contro Francesco I. Per tutte questa cagioni privava Francesco Maria della Rovere de' suoi stati, ed incaricava Lorenzo de' Medici, e sotto i suoi ordini Renzo di Ceri, di dare esecuzione a questa sentenza[467].
Il ducato d'Urbino, col contado di Montefeltro e colle signorie di Pesaro e di Sinigaglia, non dava un'entrata maggiore di venticinque mila ducati. Con così deboli sussidj il duca, abbandonato da tutti i suoi alleati, ed in particolare da quello pel quale erasi compromesso, sprezzando la collera del suo abituale signore, non poteva sperare di resistere a tutte le forze della Chiesa. Quando seppe che Lorenzo de' Medici era giunto al confine de' suoi stati con un'armata composta di truppe fiorentine e pontificie, fuggì a Pesaro, indi passò a Mantova, dove precedentemente aveva mandati la consorte ed il figlio. Il 30 maggio Lorenzo de' Medici entrò in Urbino; e nel termine di quattro giorni gli si arresero tutti i castelli di quel piccolo stato. Poca resistenza opposero ancora le fortezze di Sinigaglia, di Pesaro, di Majuolo di San Leo; quest'ultima, che credevasi inespugnabile, fu presa per iscalata dopo tre mesi[468].
Leon X, costantemente occupandosi intorno all'ingrandimento della sua casa, rompeva per tale cagione i vincoli della riconoscenza che doveano legarlo a Francesco Maria della Rovere, protettore della sua famiglia in tempo del suo lungo esilio. Egli voleva ad ogni modo procurare una sovranità a suo nipote Lorenzo, figlio di Pietro, suo fratello maggiore, e dell'orgogliosa Alfonsina Orsini, le di cui istanze affrettarono, per quanto si dice, cotale decisione. Non dubitò quindi d'accordare il ducato d'Urbino e la signoria di Pesaro a Lorenzo de' Medici, lo stesso giorno in cui la sottoscrizione del concordato sembrava assicurare alla sua famiglia la protezione della Francia. Ottenne che il decreto d'investitura venisse confermato in pieno concistoro da tutti i cardinali, ad eccezione del solo Grimani, vescovo d'Urbino, il quale per questa sua opposizione fu forzato ad abbandonare Roma[469].
La pace tra Carlo e Francesco I, quella tra gli Svizzeri e la Francia, e quella tra il papa e quest'ultima potenza avevano finalmente scossa l'ostinazione di Massimiliano. Egli aveva conosciuto che potrebbe difficilmente continuare solo la guerra, senza i sussidj pecuniarj d'altra potenza, ed il 4 di dicembre aveva dato il suo assenso al trattato di Noyon. Tuttavolta per salvare il suo amor proprio, e non parer di cedere a' suoi nemici, acconsentì soltanto di consegnare la città di Verona a suo nipote il re Cattolico, affinchè questi la consegnasse ai Francesi, i quali poi dovevano darla in mano ai Veneziani. Il vescovo di Trento, incaricato d'eseguire questa commissione, aprì le porte di Verona al signore di Lautrec il 23 di gennajo del 1517, e da lui ricevette a conto dei dugento mila scudi che dovevano pagare i Veneziani, il danaro necessario per pagare il soldo arretrato della guarnigione. Il Lautrec consegnò nello stesso istante le chiavi della città ad Andrea Gritti ed a Giampaolo Gradenigo, provveditori veneziani. Quattrocento uomini d'armi, il fiore dell'armata, e due mila fanti, presero possesso della città, mentre che i generali ed i provveditori veneziani si recarono alla cattedrale in mezzo ad un popolo ebbro di gioja, per rendere grazie al cielo della fine di così orribile guerra, e del ristabilimento in tutta la Venezia della benefica autorità del senato veneziano[470].
CAPITOLO CXIII.
Rivoluzione e guerra d'Urbino: cospirazione de' cardinali contro il papa: ambizione di Leon X. Sua alleanza con Carlo V contro Francesco I. Le loro armate conquistano il Milanese; morte di Leon X.
1517 = 1521. Nell'istante in cui la repubblica di Venezia ricuperò, contro ogni speranza, il possedimento di quasi tutto lo stato di terra ferma, che le aveva fatto perdere una sola battaglia, e pel quale aveva in appresso combattuto otto anni contro le principali potenze d'Europa, il senato scelse due de' suoi più illustri membri, Andrea Gritti e Giorgio Cornaro, per visitare tutte le città e le province della repubblica, conoscere i loro bisogni, consolare la loro miseria, rassodare la loro fedeltà, e loro promettere più felici tempi. I due deputati percorsero tutta la terra ferma veneziana; esaminarono le fortificazioni di Salò, di Peschiera, Bergamo, Brescia, Crema, Verona, Padova, Treviso, Rovigo, Udine e di tutte le piazze del Friuli[471]; mentre che dal canto loro tutte le città spedirono deputati al senato per rinnovare il loro giuramento di fedeltà, ed offrirgli le loro felicitazioni. La repubblica, che aveva resistito alla più formidabile lega che si fosse mai formata dopo la caduta dell'impero romano, che aveva contemporaneamente provati tutti i disastri nell'interno delle sue città, nelle sue armate, nelle sue flotte, e che non aveva in fine di così lunga ed acerba guerra perdute che alcune poco importanti città della Romagna, ed alcuni porti che teneva in pegno nel regno di Napoli, poteva credersi sicura della sua immortalità. Ella aveva trovati inesauribili mezzi, e spiegata una tale costanza ed energia, che non sarebbersi forse trovate in verun altro stato della Cristianità, ed il senato pareva avere fondamento d'esortare i suoi sudditi a riporre ogni loro fidanza nella fortuna di san Marco.
Non pertanto la guerra della lega di Cambrai aveva essiccate molte parti vitali della repubblica, e dopo quest'epoca più non si vide ricuperare il primiero vigore. Aveva supplito all'enorme dispendio cui era stata forzata di soggiacere per lo spazio d'otto anni, non solo con prestiti che le assorbivano per molti anni tutte le pubbliche entrate, ma ancora col vendere al migliore offerente quasi tutte le principali cariche dello stato. Allorchè fu ristabilita la pace, i consiglj posero fine a questa vergognosa maniera di distribuire gl'impieghi della repubblica, ma non potevano impedire che i corpi risguardati fin allora come il fiore della nazione non fossero stati formati a prezzo d'oro, e che molti impieghi non venissero occupati da persone portate ai medesimi dalle sole ricchezze[472].
Il commercio aveva fondata la potenza veneziana, ma questo commercio aveva sofferto in tutte le sue parti. Quasi tutte le officine delle manifatture stabilite nel territorio veneto erano state distrutte dalla guerra: Giulio II aveva sforzati i Veneziani a dividere coi direttori delle sue saline di Cervia il monopolio dei sali, lungo tempo esercitato esclusivamente dai primi in tutta l'Italia. Selim, imperatore dei Turchi, aveva conquistato il Cairo ed Alessandria, e distrutto l'impero dei Mamelucchi[473]. L'Egitto, ch'egli aveva occupato, era uno di que' paesi in cui i Veneziani esercitavano il più lucrativo commercio; ed il regime de' Turchi, più oppressivo che quello del soldano, lo fece bentosto languire, e annullò tutti gli utili, sebbene il senato non avesse ommesso di mandare subito un'ambasciata a Selim per felicitarlo intorno alle sue conquiste, rinnovare con lui i trattati di commercio e pagargli il tributo del regno di Cipro, antico feudo del soldano[474].
In pari tempo la navigazione dei Portoghesi intorno al capo di Buona Speranza dava una nuova direzione al commercio delle Indie; il quale, invece di farsi soltanto per gli scali del mar Rosso e d'Alessandria, paesi ne' quali i Veneziani, per l'influenza loro, s'erano procurato una specie di monopolio, era venuto in mano de' mercanti di Lisbona, che andavano direttamente a cercare le spezierie alle Molucche e ne approvvigionavano tutta l'Europa. Finalmente il commercio de' Veneziani coll'Africa e colla Spagna aveva ricevuto un funesto colpo dall'imprudente avidità de' ministri del nuovo re Cattolico. Una flotta veneziana faceva regolarmente ogni anno il giro del Mediterraneo per fare tutti i cambj tra i diversi porti di questo mare. Le galere ond'era composta, e che dicevansi galere del traffico, partivano da Venezia per Siracusa in Sicilia; davano in appresso fondo a Tripoli, all'isola di Gerbi presso alle Sirti, a Tunisi, a Tremizene, a Orano, e ad altri porti dei regni di Fez e di Marocco: giugnevano in cadauno di questi porti nell'epoca di fiera annuale, cui i Mori recavano la loro polvere d'oro, per cambiarla coi metalli lavorati e colle stoffe dell'Europa. Questa stessa polvere d'oro veniva in seguito portata dalle galere del traffico ne' porti spagnuoli d'Almeria, Malaga e Valenza, dove serviva a comperare sete, lane e frumento. Queste mercanzie ne' tempi di Ferdinando erano state assoggettate ad un diritto d'esportazione del dieci per cento del loro valore, lo che aveva danneggiato l'interesse de' produttori, senza far torto al commercio. I ministri del successore di Ferdinando duplicarono l'imposta, e ne posero un'altra simile sopra l'importazione delle merci recate dai Veneziani; e, credendo in tal modo di quadruplicare le loro entrate, distrussero invece il commercio e l'agricoltura della Spagna; ma in pari tempo fecero cessare uno de' più ricchi traffichi de' Veneziani[475].
In mezzo a queste difficoltà, il senato occupavasi incessantemente intorno ai mezzi di ristabilire la passata prosperità del territorio della repubblica, col richiamare ai campi gli agricoltori, alle officine i dispersi operaj; col rialzare le dighe abbattute, ristaurare i canali d'irrigamento e di navigazione, accrescere ovunque le fortificazioni che difendevano il paese, e particolarmente quelle di Verona e di Padova, di cui voleva formare i baluardi dello stato. Per ultimo riaprì l'università di Padova, la quale era stata chiusa otto anni, chiamandovi i più celebri professori, i quali vi attirarono di nuovo la folla degli scolari[476].
Le numerose armate che l'imperatore, il re di Francia e la repubblica licenziavano nel medesimo istante, potevano in tempo di pace apportare alle province d'Italia una nuova calamità colle ruberie delle milizie sbandate. Pareva difficile di assoggettare tutto ad un tratto all'autorità delle leggi uomini da lungo tempo accostumati a disprezzarle, che lasciavansi senza mezzi di sussistenza, ed erano persuasi d'aver essi la forza in mano. Non dobbiamo perciò maravigliarci che il senato ed il luogotenente del re in Lombardia, favoreggiassero un tentativo del duca d'Urbino, che li liberava da questi formidabili avanzi delle armate, ed addensava la burrasca, che gli aveva minacciati, sopra gli stati d'un sovrano, di cui avevano lungo tempo sperimentata l'inimicizia e la mala fede.
Francesco Maria della Rovere si era lasciato spogliare senza fare resistenza del ducato d'Urbino, persuaso che in tempo d'una guerra generale, le potenze, che cercavano l'alleanza del papa, lo avrebbero sagrificato alla sua ambizione. Appena fatta la pace, la loro gelosia verso la corte di Roma, lungo tempo compressa, poteva rinascere, o per lo meno non era presumibile che per cagion della santa sede volessero ricominciare le ostilità; ed altro non domandava al rimanente dell'Europa, che di lasciare che si misurasse colle sole sue forze contro le sole forze della Chiesa. Quando si licenziavano le armate adunate sotto Verona, propose loro di seguirlo in una spedizione somigliante a quelle delle antiche compagnie di ventura. Federico di Bozzolo, cadetto della casa di Gonzaga, che si era acquistato nome militando per la Francia, e ch'era personalmente nemico di Lorenzo de' Medici, offrì di porsi alla testa dell'armata. Si unirono sotto le sue bandiere cinque mila fanti spagnuoli comandati dal capitano Maldonato, ed ottocento cavaleggieri in gran parte albanesi. Andrea Bua, Costantino Boccali, il brabantese Zucker e molti altri ufficiali, che si erano acquistata celebrità nella precedente guerra, si attaccarono all'armata del duca d'Urbino. I talenti dei capitani e lo sperimentato valore de' soldati formavano tutta la forza del duca, poichè egli non aveva nè danaro, nè artiglieria, nè munizioni, nè equipaggi di guerra. Pure partì dalle vicinanze di Mantova colla sua piccola armata il 23 di gennajo del 1517, lo stesso giorno in cui Verona fu consegnata ai Francesi[477].
Leone X, informato dell'aggressione diretta contro suo nipote, vi ravvisò la mano di Francesco I. Egli sapeva con quanti segreti raggiri, con quante piccole perfidie aveva provocata la di lui collera. Ad ogni modo volle chiedere soccorso a lui medesimo, accusando Lautrec solo, suo luogotenente, d'avergli suscitato contro un nuovo nemico in mezzo alla pace. Ma quando si rivolse nello stesso tempo al re di Spagna ed all'imperatore per avere la loro assistenza, rappresentò loro l'aggressione, ond'era minacciato, come opera dello stesso Francesco[478]. Nello stesso tempo incaricò suo nipote Lorenzo di adunare in Romagna tutte le truppe della repubblica fiorentina e della Chiesa, per chiudere la strada ai nemici.
Ma perchè Lorenzo non conosceva l'arte militare, il papa gli aveva dati per consiglieri Renzo Orsini di Ceri, Giulio Vitelli di Città di Castello, e Guido Rangoni di Modena, tutti tre assai distinti ufficiali. Altronde gli aveva particolarmente raccomandato di non si esporre alle vicissitudini d'una battaglia, persuaso che prolungando la guerra, il più ricco dei due rivali non poteva restare perdente. Lorenzo de' Medici si fece prestare dai cittadini fiorentini cinquanta mila fiorini d'oro; fece marciare alla volta della Romagna dieci mila uomini presi nella milizia della campagna; provvide di guarnigioni le città, e lasciò libero il passo al duca d'Urbino, che si presentò il 5 di febbrajo innanzi alla sua capitale. Il duca sconfisse lo stesso giorno Francesco del Monte, che voleva tenerlo lontano dalle mura della città, e nel susseguente giorno fu ricevuto dagli abitanti con trasporti di gioja. Questi gli professavano lo stesso attaccamento come ai tempi del duca Borgia, e non sapevano accomodarsi all'alterigia ed al duro carattere di Lorenzo de' Medici[479].
Tutto il ducato d'Urbino aveva rialzate le bandiere dell'antico loro padrone; ma in mezzo all'insurrezione, Lorenzo de' Medici si era accampato su due montagne poste sopra Pesaro ed in faccia ad Urbino, e vi riceveva i rinforzi che Leon X aveva domandati ai sovrani. Il conte di Potenza gli aveva condotte quattrocento lance dal regno di Napoli per conto del re Carlo. Dal canto suo Francesco I faceva marciare trecento lance francesi; e somministrando al papa questo soccorso gli chiedeva in contraccambio la restituzione tante volte promessa di Modena e di Reggio al duca di Ferrara[480]. Senza contare questi uomini d'armi francesi cui il papa non permise di giugnere sul teatro della guerra, Lorenzo aveva di già adunati mille uomini d'armi, mille cavaleggieri e quindici mila fanti. Ma i soldati, entrando ai servigj del papa, parevano rinunciare al loro antico punto d'onore ed al loro valore: sapendo i capitani che nè il sovrano, nè il generale non potevano giudicare de' loro mancamenti, essi cercavano di non recar danno a' loro avversarj, e di tirare in lungo la guerra per prolungare i loro profitti. L'armata pontificia si lasciò fuggire tutte le occasioni d'ottenere qualche vantaggio contro il duca d'Urbino fino al 4 d'aprile, in cui Lorenzo de' Medici fu ferito nella testa all'assedio del castello di Mondolfo da un colpo d'archibugio[481].
Lorenzo II de' Medici, erede di tutto l'orgoglio di sua madre Alfonsina Orsini, aveva passata la sua giovinezza nell'esilio, inteso a procacciare nemici ai Fiorentini, od a cercare colle sue pratiche i mezzi di ricuperare un'autorità, cui credeva d'avere ereditarj diritti. Aveva con ciò offesi in mille modi i suoi compatriotti, ed era da loro detestato, siccome egli in segreto li detestava. Allorchè fu ferito, avendogli i suoi medici ordinato il silenzio ed il riposo, niuno fu ammesso a visitarlo in Ancona, dove si era fatto trasportare; ed i Fiorentini si persuasero bentosto che fosse morto. Accertavano che Lorenzo era spirato nella notte del venerdì al sabbato santo; che il di lui feretro era già stato deposto a nostra Signora di Loreto, e che lo aveva detto un ossesso, la di cui asserzione si preferiva a quella de' testimonj oculari[482]. I consiglj, con una segreta gioja, nominarono tre commissarj della repubblica per dirigere l'armata durante l'assenza del di lei capo: ma Leon X, che ravvisò in questa nomina, consentanea agli antichi usi, il progetto di ricuperare un'autorità ch'egli si arrogava tutta intera, vietò ai commissarj di recarsi al quartiere generale[483].
Soltanto dopo quaranta giorni, Lorenzo de' Medici, risanato dalla sua ferita, andò a Firenze per disingannare coloro che lo credevano morto, e per calmare un movimento che poteva farsi pericoloso. Rientrò bruscamente in patria la domenica, 24 di maggio, ed all'indomani girò per le strade onde tutti potessero vederlo: ma la voce della di lui morte si era talmente accreditata, che molti cittadini andavano dicendo non essere il principe che loro si mostrava adesso, che un corpo privo di vita, animato da uno spirito maligno[484].
Invece dei commissarj della repubblica, Leone X spedì il cardinale di Bibbiena ad assumere il comando dell'armata abbandonata dal nipote. Questo favorito del papa, cui andiamo debitori del rinnovamento della commedia, e che tra i letterati ed i cortigiani aveva grandissima riputazione d'uomo dotato di squisito gusto, di amenità e di erudizione, era ben lontano dall'avere la stessa riputazione presso i soldati; e la sua campagna fu ancora più infelice che quella del suo predecessore. Una contesa insorta nel suo campo tra i soldati spagnuoli e tedeschi, dopo essergli costata più di cento soldati, lo costrinse a dividere in due campi l'armata. Francesco Maria della Rovere seppe approfittarne: sebbene da circa tre mesi non avesse più potuto pagare i suoi soldati, persuase i Baschi ed i Tedeschi, che militavano per il papa, e che si vergognavano d'essere subordinati al comando dei preti, di unirsi a lui; altrettanto avevano fatto molti Spagnuoli; e si vide quasi tutta un'armata abbandonare il sovrano, che generosamente e puntualmente la pagava, per seguire quegli che non poteva offrirle che le eventualità della guerra. Il cardinale di Bibbiena, sorpreso ne' suoi quartieri a Monte imperiale, dopo avere perduta molta gente, si ritirò a Pesaro[485].
Frattanto il duca d'Urbino, avendo raddoppiata la sua armata senza accrescere i suoi proventi, sentì la necessità di portarla a vivere in paese nemico. La condusse perciò in Toscana per predare le vittovaglie e gli armenti, che il popolo senza verun sospetto lasciava sparsi nelle campagne; sforzò Giampaolo Baglioni a redimere Perugia da un attacco con una contribuzione di dieci mila ducati; minacciò città di Castello e Siena; e dopo avere arricchiti i suoi soldati col saccheggio, li ricondusse rapidamente nel ducato d'Urbino, per cacciarne il cardinale di Bibbiena, che vi era penetrato durante la di lui lontananza. Leone X scrisse il 16 ed il 17 di maggio al Baglioni ed alla repubblica di Siena per ringraziarli della buona condotta da loro tenuta, ed esortarli alla costanza[486]. Di que' dì all'incirca, le genti della Chiesa trovando più facile il vincere il duca d'Urbino colle cospirazioni che colle armi, avevano comperati de' traditori nel di lui campo. Maldonato, Soares e due altri capitani spagnuoli promisero di dare Francesco Maria nelle mani del cardinale di Bibbiena o di assassinarlo. Il duca ebbe sentore delle loro trame; e li denunciò ai loro compatriotti adunati, che chiamò a giudici di tanta perfidia; gli Spagnuoli sdegnati li condannarono alla morte, ed eseguirono essi medesimi tale sentenza contro i quattro capitani che avevano tentato di tradire il principe cui servivano[487].
Non contento di avere cacciato fuori de' suoi stati il cardinale di Bibbiena, il duca d'Urbino lo inseguì nella Marca d'Ancona; ma perchè aveva poca artiglieria e pochissime munizioni da guerra, non vi potè occupare veruna città. Ripassando l'Appennino, estese i suoi guasti nello stato fiorentino tra borgo San Sepolcro ed Anghiari; ma la sua armata non pagata si era renduta formidabile non meno agli amici che ai nemici, e la sua situazione rendevasi ogni giorno più difficile; verun alleato aveva voluto assumersi di proteggerlo, mentre che tutte le grandi potenze spedivano soccorsi al papa, e che lo stesso Francesco I mostravasi sollecito di terminare questa guerra[488]. All'ultimo Francesco Maria perdette la speranza di potersi più lungo tempo difendere, ed accettò la mediazione che gli offriva il signore di Lescuns, fratello di Lautrec, inviato dal re di Francia presso il papa. In agosto o in settembre del 1517 venne sottoscritto un trattato, in forza del quale Leon X si obbligava di pagare all'armata del duca d'Urbino tutti i soldi arretrati, che ammontavano a più di cento mila ducati; lo assolveva da tutte le censure ecclesiastiche; accordava un'intera amnistia, che poi non osservò, a coloro che si erano dichiarati per il duca; e permetteva a Francesco Maria di far trasportare a Mantova, ove si ritirò, la sua artiglieria e la bella biblioteca raccolta in Urbino da suo avo, Federico di Montefeltro[489].
Non era ancora terminata la guerra d'Urbino, quando la corte di Roma venne agitata dalla scoperta di una congiura contro il papa, ed in appresso dal supplicio di uno de' principali dignitarj della Chiesa. Il capo di tale congiura era quello stesso cardinale Alfonso Petrucci che si era adoperato con tanto zelo nella nomina di Leone, e che lo aveva poi annunciato al popolo con sì vivo trasporto di gioja, gridando: vivano i giovani! Pandolfo Petrucci, suo padre, aveva governata la repubblica di Siena con prudente accortezza, rispettando le abitudini de' cittadini, de' quali aveva abolite le leggi, e si era acquistata così fama tra i più grandi politici del suo secolo. Morì Pandolfo di sessantatre anni, il 21 maggio del 1512[490], lasciando tre figli; Borghese, il primogenito, che non aveva più di vent'anni; Alfonso, il secondo, ch'era stato creato cardinale nel 1509 in età di appena sedici anni; ed il terzo, Fabio, che non era per anco giunto all'adolescenza. Niuno di loro aveva ereditati i talenti nè la forza di carattere del padre, sebbene il primogenito gli succedesse nell'autorità presso la repubblica di Siena, e venisse riconosciuto capo della balìa, e comandante della guardia[491].
In questa stessa famiglia de' signori di Siena Leon X aveva un favorito, Raffaello Petrucci, vescovo di Grosseto, persona a lui devota e fedele, ma illetterato, e di depravati costumi. Il papa lo aveva nominato castellano di castel sant'Angelo; ed in appresso pensò di metterlo alla testa del governo di Siena, affinchè questa repubblica, chiusa fra gli stati della Chiesa e de' Fiorentini, fosse da lui dipendente non meno che gli stati che la circondavano. Vitello Vitelli condusse a Siena il vescovo di Grosseto con dugento cavalli e due mila fanti, e lo installò il 10 marzo del 1515 nella signoria, mentre che Borghese Petrucci uscì di città senza avere il coraggio di fare uno sforzo per conservare la sua autorità. Il nuovo signore richiamò alcuni emigrati, ed in iscambio esiliò tutti coloro che avevano avuto molta parte nell'ultimo governo; in breve rendette la sua tirannide odiosa a tutti i Sienesi[492].
Il cardinale Alfonso Petrucci non poteva perdonare a Leon X l'ingratitudine di cui si vedeva vittima. Suo padre Pandolfo era stato il più costante alleato dei Medici; aveva preso parte per favorirli nelle più pericolose guerre, aveva loro dato asilo in quella stessa patria da cui i Medici scacciavano i suoi figliuoli, confiscandone i beni. In un inconsiderato impeto di gioventù, Alfonso si lasciava talvolta uscire di bocca, ch'era tentato di gettarsi in concistoro sopra Leon X con un pugnale in mano, per disfarsi di lui in mezzo al sacro collegio. Aveva pure pensato di guadagnare il chirurgo Battista di Vercelli, perchè avvelenasse un'ulcera che obbligava Leon X a farsi medicare ogni giorno. Per altro questo chirurgo, invece d'essere al servigio del papa, non trovavasi neppure in Roma, ed esercitava la sua professione in Firenze; tutte le pratiche di Petrucci per eseguire questo progetto, se realmente vi aveva fatto entrare il Vercelli, si ristringevano all'avere raccomandato inutilmente questo chirurgo, per farlo ricevere nella corte del papa[493].
Ma il Petrucci aveva preso in odio il soggiorno di Roma, ov'erasi renduto sospetto co' suoi violenti discorsi. Se ne allontanò, e vi fu richiamato. In tempo della guerra d'Urbino si pronunciò vivamente favorevole a Francesco Maria della Rovere, e si allontanò di nuovo. Vennero sorprese certe sue lettere dirette al suo segretario Antonio Nino: esse esprimevano i medesimi sentimenti o i medesimi progetti di vendetta; e Leone X le trovò sufficienti per servire di fondamento ad un processo criminale. Bisognava con inganno assicurarsi della di lui persona, prima di tradurlo in giudizio; ed il papa gli scrisse un'affettuosa lettera per richiamarlo, mandandogli un salvacondotto. Nello stesso tempo diede di propria bocca parola all'ambasciatore di Spagna, che il Petrucci, ritornando, non si esponeva a verun pericolo. Infatti Alfonso tornò a Roma, e presentossi al palazzo del pontefice col suo amico il cardinale Bandinello Sauli di Genova, che aveva pure assai contribuito all'elezione di Leon X. L'uno e l'altro, invece di essere introdotti all'udienza del papa, furono arrestati ed immediatamente condotti in castel sant'Angelo. L'ambasciatore di Spagna si lagnò che il papa violasse il salvacondotto e la parola a lui data; ma rispose Leon X che tutte queste sicurezze erano distrutte da un'accusa di lesa maestà e di avvelenamento. Con tale risposta impegnava in certo modo anche l'ambasciatore a trovare gli accusati colpevoli[494].
Colla processura usata in quel secolo niun uomo poteva lusingarsi di far apparire la propria innocenza, se i giudici erano determinati di trovarlo colpevole, poichè tutta l'informazione era tenuta in un profondo mistero. I due cardinali vennero assoggettati ad una rigorosa tortura. Pocointesta di Bagnacavallo, ch'era stato sotto il Petrucci comandante della guardia di Siena, e Battista di Vercelli ch'era stato arrestato in Firenze, furono egualmente posti alla tortura, e fu loro estorta la confessione di un progetto d'avvelenamento. Furono arrestati altri cardinali, siccome colpevoli d'avere uditi i violenti detti e le minacce del Petrucci senz'averne dato avviso; cioè Raffaello Riario, decano del sacro collegio, già cardinale da oltre quarant'anni, il più prudente, il più circospetto de' capi della Chiesa, che tutti avanzava in dignità, in lusso ed in ricchezze; Adriano, cardinale di Corneto, e Francesco Soderini, cardinale di Volterra, l'uno e l'altro tra' più ricchi prelati della Chiesa[495].
Quando fu terminata l'informazione del procuratore fiscale, e letta nel sacro collegio, Petrucci e Sauli furono degradati e consegnati al braccio secolare. Il primo fu strozzato in prigione il 21 giugno, ventiquattr'ore dopo la sentenza. Allo stesso supplicio fu condannato anche Bandinello Sauli, ma Leon X mutò la sentenza di morte in perpetuo carcere: e perchè il prigioniere fece offrire una grossa somma di danaro per avere la libertà, Leon X gli mandò il suo maestro delle cerimonie, Paride de' Grassi, per accettare l'offerta e condurre il cardinale penitente in concistoro, a condizione che non cercherebbe di giustificarsi, e che per lo contrario confesserebbe tutte le colpe ond'era stato accusato[496]. Il Sauli si assoggettò alla proposta condizione; fu posto in libertà, ma morì poco tempo dopo, non senza sospetto, come corse voce, che prima di rilasciarlo il papa gli avesse fatto somministrare un lento veleno per sbarazzarsi di lui. Il cardinale Riario, dopo essere stato degradato, fu rimesso nella pristina dignità mercè il pagamento d'una grossa somma di danaro. I cardinali di Corneto e di Volterra avevano, stando inginocchiati in pieno concistoro, confessato d'aver udito le parole minacciose d'Alfonso Petrucci, e che, attribuendole alla sua leggerezza di mente, non le avevano denunciate. Leon X li fece porre in libertà dopo averli obbligati a pagare venticinque mila ducati. Questa somma doveva essere divisa fra loro due, ma le spese della guerra d'Urbino avendo sconcertate le finanze del papa, egli pretese che tale somma doveva essere da entrambi pagata individualmente. Allora i due cardinali fuggirono: non si seppe più nulla d'Adriano di Corneto, che venne senza dubbio assassinato; il Soderini si ritirò a Fondi sotto la protezione di Prospero Colonna, e vi stette fino alla morte del papa: Vercelli, Mino e Pocointesta perirono in mezzo ad orrendi supplicj[497].
Il sacro collegio era oppresso dallo spavento; non essendosi da lungo tempo trattati i suoi membri con tanto rigore. I condannati, e non escluso lo stesso Petrucci, non erano colpevoli che d'imprudenti parole; e quando Leon X non faceva grazia agli antichi suoi amici, ed a coloro che avevano contribuito alla sua elezione, gli altri non potevano sperare un migliore trattamento; di già si sentivano ai suoi occhi colpevoli, poichè le loro preghiere a pro de' colpevoli eransi risguardate come un'offesa. Il quinto concilio di Laterano, che trovavasi adunato nell'epoca dell'assunzione al pontificato di Leon X, non poteva più mettere limiti al di lui dispotismo; desso era stato da Leone terminato il 16 marzo del 1517, cinque anni dopo la sua convocazione. In così lungo spazio di tempo non aveva tenute che dodici sessioni, quasi d'altro non occupandosi che di vane formalità e di sermoni di etichetta. Non aveva giammai riuniti più di sedici cardinali e di novanta o cento vescovi ed abati mitrati; e niuno doveva infatti lusingarsi di vederne di più in un'assemblea, che il papa cercava di spogliare d'ogni autorità reale[498].
Dopo la congiura del Petrucci non rimanevano nel sacro collegio che dodici cardinali, e Leon X seppe approfittare del loro terrore per fare in una sola volta una promozione di trentuno cardinali, che metteva il loro concistoro sotto assoluta di lui dipendenza. Una nomina così numerosa e così sproporzionata col corpo ch'essa riempiva, era senz'esempio. I cardinali atterriti dal fresco supplicio de' loro colleghi, sebbene si vedessero in tal modo rigettati in una impotente minorità, non osarono di fare veruna rimostranza. La lista si chiuse il 26 di giugno, e fu pubblicata il 1.º di luglio[499]. In quest'occasione Leon X collocò nel senato della Chiesa due figli delle sue sorelle, e varie altre creature che non vantavano altro titolo per così sublime dignità che il favore del pontefice: ma nello stesso tempo accordò il cappello cardinalizio a molti gentiluomini romani, che la politica dei suoi predecessori aveva studiosamente esclusi dal sacro collegio; innalzò pure alla stessa dignità molti celebri letterati, che illustrarono il nome di Leone per riconoscenza della protezione loro accordata; per ultimo vendette questa dignità a danaro contante a tutti gli altri, e la fece pagare perfino a coloro ch'era più inclinato a favorire; ma il prezzo cresceva in ragione inversa del minor merito che il candidato aveva per così alta dignità[500].
Nelle ultime sessioni del concilio non erasi parlato che di progetti di lega contro i Turchi. Pareva che l'Europa si apparecchiasse ad una nuova crociata, ed infatti la guerra sacra che predicava il papa, sembrava una necessaria misura per difendere e salvare la Cristianità. Selim colla conquista dell'Egitto e colle vittorie riportate sopra il Sofì di Persia aveva quasi raddoppiata l'estensione del suo impero ed i suoi mezzi d'attacco. Era noto il suo odio verso i cristiani, la sua passione per nuove intraprese, la sua dissimulazione, la sua crudeltà. Le stesse coste dell'Italia cominciavano ad essere esposte agli sbarchi de' Turchi. Leone scriveva a Massimiliano, ch'erano venuti a saccheggiare successivamente Recanati ed Ostia[501]. Francesco, Carlo e Massimiliano sottoscrissero a Cambrai, l'undici marzo del 1517, un trattato d'alleanza contro l'impero ottomano: tutto era preventivamente convenuto; il numero delle truppe che ognuno somministrerebbe, la maniera con cui ogni monarca eseguirebbe il proprio attacco e l'assistenza che chiederebbero alle altre potenze. Pareva che i principi cristiani cercassero di superarsi l'un l'altro colle più splendide promesse per difesa della patria e dell'incivilimento. Ma il più leggiere vicino vantaggio bastava, perchè più non si pensasse ad un pericolo creduto lontano; e Leon X, che sembrava tanto zelante per la lega cristiana, fu facilmente quegli che contribuì più d'ogni altro ad impedire che si adunasse[502].
Mentre Francesco I rinnovava l'8 di ottobre la sua alleanza colla repubblica di Venezia, Leon X aveva cercato di unirsi più strettamente con questo monarca; Carlo era passato dai Paesi Bassi nella Spagna, e sembrava che dovesse trovarvisi lungamente occupato nel ricondurre i popoli all'ubbidienza. Massimiliano, di già vecchio, non era mai stato un alleato in cui si potesse fare fondamento, e Leon X, sempre pensoso della grandezza di sua famiglia, giudicò di non la potere meglio assicurare che per mezzo dell'alleanza colla Francia. In gennajo del 1518 ottenne per suo nipote Lorenzo, duca d'Urbino, la mano di Maddalena, figliuola di Giovanni della Tour, conte d'Alvergna e di Boulogne, e di una sorella di Francesco di Borbone, conte di Vendome. Con tale matrimonio univa Lorenzo alla casa di Francia, e per onorarlo maggiormente, Francesco lo scelse per padrino d'un figlio che gli era nato nel mese di febbrajo. Dopo il battesimo, celebrato il 25 d'aprile con molta pompa, Francesco restituì a Lorenzo la carta sottoscritta da Leon X, colla quale si obbligava a tornare al duca di Ferrara le città di Modena e di Reggio. In contraccambio il papa non fu meno generoso delle altrui proprietà verso il re. Gli concesse di disporre liberamente delle decime che aveva levate sul clero francese per fare la guerra ai Turchi, dando così il primo esempio di abbandonare quel progetto della crociata per l'esecuzione del quale aveva tanto insistito[503].
Leon X ebbe la felicità di associare il suo nome alla più splendida epoca delle lettere e delle arti in Italia: salito sul trono nell'istante in cui tutte le carriere erano corse nello stesso tempo da uomini di straordinario ingegno, formati prima di lui, egli distribuì fra di loro, colla prodigalità che adoperava in tutte le altre cose, i tesori della Chiesa, i ricchi beneficj de' quali aveva la collazione in tutta la cristianità, e le prodigiose somme ricavate dal commercio delle indulgenze. I poeti, gli storici, gli artefici, arricchiti dalle di lui beneficenze, hanno per gratitudine celebrato il di lui nome, ascrivendogli tutto il merito de' lavori di cui, mercè le di lui largizioni, avevano l'ozio d'occuparsi. Ma e come pontefice e come sovrano Leon X non era propriamente degno di tante lodi. Nel precedente anno, di fresco terminato, Martino Lutero aveva in Germania cominciato ad alzarsi contro lo scandaloso traffico delle indulgenze, e si era gradatamente condotto, esaminando la propria fede, a gittare i fondamenti di quella riforma, ch'egli in appresso condusse a fine con tanta gloria[504]. Era in allora egli stesso ben lontano dal prevedere le conseguenze cui lo condurrebbe l'esame della dottrina della Chiesa. La riforma non poteva essere che un'opera progressiva, e non era che successivamente, che uno spirito religioso poteva portare la fiaccola dell'esame intorno a tutte le credenze lungo tempo ricevute come fondamentali. Non è maraviglia che Leon X sia morto senz'avere avuto sospetto della rivoluzione, che durante il suo regno si era in Germania eseguita negli spiriti, poichè in tutto il tempo abbracciato da questa storia, ed anche molto tempo dopo, dessa non fu in Italia ben conosciuta, e poichè l'atto energico, con cui la ragione infranse il giogo che aveva portato, fu dalla corte di Roma confuso colle oscure eresie, che tante volte aveva vedute nascere e morire ne' conventi. Ma Leon X mancò di prudenza, di penetrazione e di filosofia, non apprezzando meglio il suo secolo, lasciando temerariamente crescere in un'età abbondante di lumi tutti gli abusi che non s'erano potuti tollerare che in quella della più barbara ignoranza, e incoraggiando finalmente con una improvvida cupidigia lo scandaloso traffico delle cose sacre, onde ricompensar poscia col profitto medesimo di così vergognoso commercio i letterati ed i filosofi che dovevano in appresso spezzare le catene della superstizione.
Infatti Leon X, giunto alla più sublime dignità umana, da quell'istante risguardò la sua vita come un continuo carnovale, nel quale ad altro pensare non doveva che a godere. Egli divideva il suo tempo tra i banchetti e la caccia; amava la compagnia de' buffoni, ch'egli si compiaceva di tormentare e di coprire del più vile ridicolo; fomentava la vanità di coloro che di già conosceva vanissimi; e sotto coperta d'accordar loro nuove onorificenze, gli esponeva all'universale dileggio. Egli non temeva di spingere fino alla pazzia con questo crudele dileggiamento uomini di merito, o rispettabili vecchi. La riputazione di continenza che si era acquistata, essendo cardinale, non aveva sostenuto un più severo esame, e la sua famigliarità co' suoi paggi dava luogo a vergognosi sospetti. La di lui liberalità, che stendevasi su tutti coloro che lo avvicinavano, e ch'era più proporzionata al suo buon umore ed alla riuscita della caccia che al merito dei beneficati, altro infine non era che una disposizione egoistica: egli voleva vedersi intorno visi ridenti, voleva raccogliere le benedizioni di coloro che lo avvicinavano, e punto non curavasi del modo con cui ammassava, sia colle gravose gabelle sui popoli, sia col rendere venale tutto quanto era dalla Chiesa riputato più sacro, i tesori che poi dissipava con tanta prodigalità[505].
La tregua che i Veneziani avevano conchiusa con Massimiliano, e che spirava dopo diciotto mesi, fu prolungata, in agosto del 1518, coll'intervento della Francia per cinque anni alle medesime condizioni. L'imperatore avrebbe inoltre di buon grado acconsentito a cambiarla in una perpetua pace; ma vi ostò Francesco I, per timore che i Veneziani, trovandosi senza sospetto, non allentassero i legami co' quali la Francia li teneva sotto la sua clientela[506]. La corte di Francia adombravasi di ogni potere che in Italia sembrasse aspirare all'indipendenza: conservando l'alleanza de' Veneziani, cautamente impediva che non accrescessero in Lombardia il numero de' loro partigiani. Il maresciallo Trivulzio, che avevale renduti così segnalati servigj, le si era fatto sospetto pel suo attaccamento ai Veneziani. Egli era il capo del partito guelfo; e Lautrec, per mortificarlo, colmava di onori Galeazzo Visconti capo dell'opposta fazione. Il Trivulzio, per non trovarsi in balìa degli avvenimenti, domandò ed ottenne la nazionalità de' cantoni svizzeri; ma con ciò non fece che somministrare nuove armi a' suoi nemici. Accusato alla corte, risolse, malgrado l'avanzata sua età, di passare i monti e di presentarsi a Francesco I per giustificarsi. Il re lo accolse duramente, lo rimproverò di godere di una non meritata riputazione, e lo costrinse a ritornare agli Svizzeri le sue lettere di cittadinanza. Poco dopo il Trivulzio infermò a Chartres, ove morì, ludibrio fino alla fine della sua lunga carriera della incostanza della fortuna; al che faceva allusione l'epitaffio scelto da lui medesimo. «Qui riposa Gian Giacopo Trivulzio, che mai non riposò[507].»
Negoziazioni che dovevano decidere non solo della sorte dell'Italia, ma di tutta l'Europa, tenevano in allora occupati tutti gli spiriti. Massimiliano, sentendo finalmente gli effetti della vecchiaja, avrebbe voluto assicurare a suo nipote la dignità imperiale; ma, per le costituzioni dell'impero, non poteva farlo eleggere re de' Romani, finchè egli medesimo non avesse ricevuto la corona d'oro dalle mani del papa: onde pensava o di andare a cercarla a Roma, o di ottenere che Leon X gliela mandasse in Germania per mezzo di un legato, ed intanto cercava di guadagnare i suffragj degli elettori. Malgrado le inquietudini de' principi dell'impero, la gelosia della Francia, e gli artificj della corte di Roma, non avrebbe tardato ad ottenere l'intento. Ma la morte venne a rompere inaspettatamente i suoi disegni, sorprendendolo a Lintz il 19 gennajo del 1519, mentre occupavasi caldamente della caccia, cercando di sbarazzarsi da una leggiere febbre con inopportuni rimedj[508].
La morte di Massimiliano, accaduta prima che fosse eletto un re de' Romani, apriva la porta a tutti i candidati che potevano aspirare a questa prima dignità del mondo cristiano. Pure non la chiesero che i due più potenti monarchi dell'Europa, il re di Spagna ed il re di Francia. Il primo, come arciduca d'Austria e come sovrano de' Paesi Bassi, era di già membro dell'impero; il secondo gli era assolutamente straniero, ma, se avesse ottenuta la corona, avrebbe compromessa quella indipendenza della monarchia francese, cui i Francesi apprezzavano con ragione così altamente, rendendola dipendente per meglio unirla all'impero. Rappresentavano i ministri dei due principi, che in questo momento era necessario alla cristianità un potente monarca, onde mettere argine alle conquiste de' Turchi, che opprimevano l'Ungheria, e minacciavano la Germania. Frattanto tutti i principi e tutti gli stati indipendenti della Germania e dell'Italia tenevano una contraria opinione; vedevano con inquietudine la corona imperiale perpetuarsi nella casa d'Austria fin dal 1438 per via delle successive elezioni d'Alberto II, di Federico IV, e di Massimiliano, e del lungo regno degli ultimi due. Temevano l'assoluta sovversione delle loro libertà, quando l'erede di questi monarchi, che di già non le avevano abbastanza rispettate, sarebbe inoltre sovrano di tutte le Spagne, delle Indie, de' Paesi Bassi e delle due Sicilie. L'elezione di Francesco I, per le abitudini ch'egli porterebbe d'una assoluta monarchia in una monarchia elettiva e limitata, non sembrava meno pericolosa per l'indipendenza di tutti i piccoli stati: e per tal modo mentre i due monarchi facevano girare d'una in altra corte della Germania splendide ambasciate, accompagnate da corpi d'uomini d'armi e di convogli di danaro, onde apertamente guadagnarsi i suffragj, tutti gli amici del loro paese e della libertà europea facevano voti perchè questi due fossero rigettati. Vero è che molti, capo de' quali era Leon X, fingevano di essere attaccati a Francesco I, per impiegare il danaro ed il credito di lui contro il di lui competitore; ma fidavansi al nazionale orgoglio de' Tedeschi, che mai non permetterebbe ad un re di Francia di salire sul primo trono della Germania[509].
Mentre Leon X cercava di tener la bilancia in bilico tra due così potenti principi, l'ultimo legittimo erede della sua propria famiglia moriva in Firenze. Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino, vi aveva condotta sua moglie Maddalena de Latour d'Alvergna; ma le aveva comunicata la vergognosa malattia di cui era egli stesso affetto. Maddalena morì il 23 di aprile nel dare alla luce la troppo famosa Caterina de' Medici; e cinque giorni dopo, il 28 aprile, soggiacque ancora Lorenzo alla malattia che lo andava già da gran tempo distruggendo[510]. Altro discendente non restava di Cosimo de' Medici, padre della patria, che papa Leon X, Caterina, di lui pronipote, varie femmine maritate in diverse case fiorentine, e tre bastardi; cioè, Giulio di già cardinale, Ippolito ed Alessandro tuttavia in età fanciullesca. I discendenti di Lorenzo de' Medici, fratello di Cosimo, che vent'anni prima avevano rinunciato al loro nome per prendere quello di Popolani, e che nelle rivoluzioni di Firenze si erano mostrati partigiani del popolo e della libertà, erano in allora divisi in due rami, nel cadetto de' quali Giovanni de' Medici, figliuolo di Caterina Sforza, cominciava a farsi nome nelle armi. In questo stesso anno gli nasceva un figliuolo, il giorno 11 di giugno del 1519, destinato a ridurre un giorno la sua patria in servitù, ed a portare il primo, col nome di Cosimo, il titolo di gran duca di Toscana[511].
Gli ambiziosi disegni di Leon X per la sua famiglia, cui aveva sagrificata la gloria e l'indipendenza della sua patria, più avere non potevano esecuzione; perciò alcuni cittadini ebbero il coraggio di supplicarlo a rendere a Firenze una libertà che pregiudicare non poteva alla grandezza di lui o della di lui casa: la sorte del cardinale Giulio, gli dicevano essi, era stabilita nella Chiesa, mentre che i due fanciulli, Alessandro ed Ippolito, da Leone X appena riconosciuti, non sembravano inspirargli veruno interesse[512]. Ma Leone nel suo lungo esilio aveva contratto l'odio della libertà: suppose che conserverebbe la Toscana in una maggiore dipendenza dalle sue volontà sostituendo a Lorenzo il cardinale Giulio suo cugino; perciò lo fece subito partire alla volta di Firenze, quand'ebbe notizia della malattia del primo. Giulio, ch'era corucciato con Lorenzo, non entrò nel palazzo Medici finchè non fu morto suo cugino. In allora annunciò ai magistrati che non era sua intenzione di seguire le pedate del suo predecessore; che non era per appropriarsi in sul di lui esempio le nomine a tutti gli ufficj lucrativi; ma che anzi si farebbe debito di rispettare la pubblica libertà: infatti i Fiorentini, sollevati dal giogo che avevano portato, credettero di trovare sotto il cardinale Giulio un immagine della repubblica; e si affezionarono a questo prelato, che si trattenne fra di loro fino al mese di ottobre, e che, ripartendo alla volta di Roma, lasciò nel palazzo de' Medici Goro Gheri di Pistoja, vescovo di Fano, ed il cardinale di Cortona, per governare in vece sua[513].
Dopo estinta la casa Medici, il ducato d'Urbino avrebbe dovuto ricadere alla santa sede. Leon X non volle restituirlo all'antico signore, malgrado il desiderio degli abitanti; anzi per tenerlo sottomesso ne fece smantellare le città. Ma mentre incorporò il ducato d'Urbino all'immediato dominio della Chiesa, accordò la fortezza di san Leo, ed il contado di Montefeltro, che viene formato da una sessantina di castella o villaggi murati, alla repubblica fiorentina in pagamento di cento cinquanta mila fiorini, dovutile a saldo delle somme sovvenute alla santa sede in occasione della guerra d'Urbino[514].
Frattanto le rivalità fra i due pretendenti all'impero si erano continuate con un aspetto di galanteria e di vicendevole rispetto. Francesco I aveva detto agli ambasciatori di Spagna, ch'egli ed il loro padrone dovevano risguardarsi come due innamorati che corteggiano la stessa amante, non già come nemici[515]. Il re di Francia aveva creduto di guadagnare i voti degli elettori, profondendo il danaro: i suoi tre ambasciatori, l'ammiraglio Bonnivet, d'Orval e Fleuranges «avevano sempre, dice l'ultimo, quattrocento mila scudi con loro che gli arcieri portavano in certe loro valigie, ed avevano i detti ambasciatori con loro quattrocento cavalli tedeschi al soldo del re, che li conducevano; ed il fortunato (Fleuranges) aveva inoltre con lui quaranta cavalli, la maggior parte pure tedeschi, tutti vestiti di verde, con i suoi colori ad una manica, i quali rendettero importanti servigj[516].»
Ma il danaro di Carlo fu più utilmente adoperato nell'adunare un'armata, che improvvisamente si avvicinò a Francoforte sotto colore di proteggere la libertà degli elettori. Le quattro voci di Magonza, di Colonia, di Sassonia e del conte palatino, gli furono date dopo che l'elettore di Sassonia ricusò l'offerta della corona; venne in seguito quella di Boemia; e finalmente gli elettori di Brandeburgo e di Treveri furono gli ultimi ad abbandonare gl'interessi del re di Francia; Carlo, che di que' tempi si trovava in Ispagna, fu proclamato imperatore eletto il 28 giugno del 1519, e si fece chiamare Carlo Quinto[517].
In questo stesso tempo la storia d'Italia è povera di avvenimenti. Le province guastate in tempo della guerra cercavano col riposo e coll'economia di rifarsi da tanti disastri. Il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, che nelle guerre della fine del precedente secolo si era acquistata grandissima riputazione, morì il 20 di febbrajo. Gli successe Federico, il maggiore de' suoi tre figli; Ercole fu fatto cardinale; e don Fernando, in appresso duca di Molfetta e di Guastalla, fu uno de' più illustri capitani del secolo[518].
Il duca di Ferrara, don Alfonso d'Este, in novembre dello stesso anno, fu sorpreso da pericolosa malattia, che per alcuni giorni fece credere disperata la sua guarigione. Suo fratello, il cardinale Ippolito, disgustato del soggiorno di Roma, trovavasi in Ungheria nel suo arcivescovado di Strigonia. Alfonso aveva pagati gli enormi debiti contratti in tempo delle sue lunghe guerre; aveva inoltre adunato un ragguardevole tesoro, ma coll'opprimere d'insopportabili imposte i suoi sudditi. In ogni altra cosa avarissimo, spendeva senza misura nel fortificare Ferrara, e nel fare nuove artiglierie e provvedere munizioni da guerra. Aveva ridotta la sua capitale a città quasi inespugnabile; ma aveva a carissimo prezzo acquistato tale vantaggio, cioè perdendo l'amore de' suoi popoli, ruinati dalle imposte e da' suoi monopolj. Dopo la pace aveva licenziate le sue truppe, credendo di non aver più nulla a temere, quando nella stessa epoca in cui cadde infermo, un'inondazione rovesciò ottanta piedi delle mura di Ferrara, e lo espose a nuovi pericoli[519].
Leon X non aveva rendute ad Alfonso d'Este le due città di Modena e di Reggio, nemmeno dopo la morte del nipote, che aveva troncati tutti i disegni d'ingrandimento ch'egli aveva formati a pro della sua famiglia. Lungi di essere da quest'avvenimento richiamato a più moderati sentimenti, Leone quand'ebbe avviso della malattia d'Alfonso e della caduta delle mura della capitale, risolse di approfittarne per privarlo del suo ultimo asilo. A tale oggetto sovvenne dieci mila ducati ad Alessandro Fregoso, vescovo di Ventimiglia, figlio di quel cardinale Paolo Fregoso, il di cui bellicoso carattere aveva suscitate tante rivoluzioni nel precedente secolo. Trovavasi costui in Bologna, perchè suo cugino Ottaviano lo aveva esiliato da Genova. Col danaro del papa assoldò gente nelle terre della Chiesa e della Lunigiana[520], dando voce di voler tentare una rivoluzione in Genova, ciò che facilmente era da tutti creduto. Quando seppe che suo cugino Ottaviano erasi posto in guardia contro i suoi attentati, simulò di esserne afflitto, quasi vedesse contrariati i suoi progetti, ed offrì a Federigo da Bozzolo di ajutarlo colle sue truppe, assoldate già per un mese, in certa lite che aveva con Gian Francesco Pico della Mirandola intorno al possedimento di Concordia. Sotto questo pretesto avvicinossi al Po, sperando di poterlo passare senza ostacolo, e di marciare improvvisamente sopra Ferrara. Un agente del papa gli aveva apparecchiate alcune barche dove la Secchia mette foce in Po; ma, sentendo avvicinarsi questa piccola armata, il marchese di Mantova fece ritirare tutte quelle barche; scoprì i veri disegni del vescovo di Ventimiglia, e ne diede avviso al duca di Ferrara, il quale si pose bentosto in su le difese. Perduta ogni speranza di sorprenderlo, Alessandro Fregoso licenziò le truppe: il duca lo accusò al papa per averlo voluto attaccare in tempo di pace, e Leon X non esitò ad incolpare dell'accaduto il suo agente[521].
Ma l'alta dignità del papato non lascia quasi mai coloro che trovansene rivestiti esposti a soffrire i danni de' proprj mancamenti: le loro provocazioni non sono esposte alle rappresaglie; se commettono una perfidia, si teme di pubblicarla, e non si ardisce attaccare la loro riputazione. Questa specie d'impunità non può a meno di non corromperli. Quando un papa si è una volta abbandonato all'ambizione di dilatare i suoi stati, non si lascia scoraggiare dal cattivo esito di un attentato; anzi una perdita gli dà motivo di rinnovare i suoi sforzi. Alessandro VI aveva cominciata la guerra contro i feudatarj della Chiesa, ed aveva spogliati tutti quelli della Romagna, per ingrandire a loro spese suo figliuolo. Giulio II, con una più generosa ambizione, si era volto contro più potenti principi: aveva cacciati i Bentivoglio da Bologna, espulsi i Veneziani dalla Romagna, e cominciata la guerra contro il duca di Ferrara; ma non aveva spogliati del loro potere coloro che assoggettandosi senza riserva alla Chiesa; altro realmente così non erano che suoi vicarj, come ne avevano il titolo, e non comandavano che in suo nome.
Giampaolo Baglione, signore di Perugia, era il più illustre di questi ultimi. Dopo avere fatta la sua pace con Giulio II, lo aveva servito in tutte le guerre, mostrandosi il più fedele vassallo de' pontefici. Era stato invitato dai Veneziani a comandare le loro armate in tempo della lega di Cambrai, e vi si era acquistato grandissimo nome di capitano prudente, conoscitore de' luoghi e degli uomini, e dell'arte della guerra; di modo che, malgrado molti disastri, i Veneziani non lo privarono della loro confidenza. Dopo la pace era tornato a Perugia. Il papa aveva da prima approvato il suo contegno, quando il duca d'Urbino s'era avvicinato a Perugia colla sua armata: ma in appresso gli rinfacciò una cotale segreta intelligenza col duca, persuaso che il Baglioni non potesse vedere di buon occhio la ruina di quest'ultimo feudatario della Chiesa, suo amico e suo vicino.
Il Baglioni teneva in Perugia un rivale della sua stessa famiglia, chiamato Gentile: Giampaolo lo scacciò nel 1520, e fece perire alcuni di lui partigiani, accusati di avere ordito trame a pro di Gentile. Il papa si fece a difendere Gentile, e citò Giampaolo a presentarsi personalmente a Roma. Giampaolo, ammalato trovandosi, o infingendosi tale, mandò Malatesta, suo figlio, in vece sua, per giustificarsi. Leon X lo accolse graziosamente; ma gli dichiarò di volere che comparisse personalmente a trattare la propria causa il signore di Perugia: e per togliergli qualunque sospetto gli mandò un salvacondotto di proprio pugno, dando in pari tempi parola a Camillo Orsini, genero del Baglioni, e ad altri di lui potenti amici, che non sarebbe esposto a verun pericolo. L'Orsini, dopo avere ottenute queste assicurazioni, cercò di persuadere il suocero ad ubbidire. Il Baglioni vi prestò fede; ed all'indomani del suo arrivo in Roma andò in castel sant'Angelo, ove il papa era andato ad alloggiare; ma invece di essere ammesso all'udienza, fu arrestato dal castellano, e dai carnefici posto alla tortura. Non fu interrogato intorno ad un solo delitto; ma gli si domandò una confessione generale di tutti i falli commessi in vita sua. La sua vita era ben lontana dall'essere irreprensibile; egli confessò varj atti di crudeltà commessi per conservare la tirannide, molte scandalose dissolutezze, e tra queste un incesto con sua sorella, ch'egli non si era curato gran fatto di dissimulare. Dietro tali confessioni, dopo due mesi di prigionia, fu per ordine di Leon X decapitato. La di lui moglie ed i figliuoli si rifugiarono a Padova sotto la protezione de' Veneziani, e Perugia venne interamente assoggettata all'autorità della santa sede[522].
Nello stesso anno Leon X, che aveva preso al suo servigio Giovanni de' Medici, figlio della celebre Caterina Sforza di Forlì e del suo secondo marito, vedendo in questo giovinetto svilupparsi di già quell'ardore marziale, e quell'impeto che gli diedero in appresso tanta riputazione, lo incaricò di scacciare da Fermo Luigi Freducci, che comandava in questa città. Il Freducci era tenuto in concetto di buon capitano, ma non aveva che dugento uomini d'armi, coi quali non poteva sperare di resistere a mille cavalli e quattro mila fanti, che contro di lui conduceva Giovanni de' Medici. Tentò di fuggire da Fermo colle sue due compagnie d'uomini d'armi; ma sopraggiunto dal Medici e circondato da ogni banda, perì combattendo con più di cento suoi soldati, prima che gli altri avessero potuto ottenere quartiere. La morte del Freducci atterrì tutti i piccoli signori o tiranni delle Marche; gli uni fuggirono senza venire all'esperimento dell'armi; altri passarono a Roma per implorare la clemenza del pontefice. Leon X li fece tutti imprigionare, indi assoggettare alla tortura per avere da loro una confessione generale. Non eravi tra costoro chi potesse vantarsi innocente; ed alla confessione loro teneva dietro immediatamente il supplicio. Così Amadei, tiranno di Recanati; Zibicchio, capo di partito a Fabbriano; Ettore Severiani, capo di partito a Benevento, furono appiccati dopo essere stati assoggettati alla tortura, sebbene fossero volontariamente venuti a gettarsi tra le braccia del pontefice, e non fossero stati accusati di verun delitto[523].
Ma di tutte le sovranità dipendenti dalla santa sede, quella di Ferrara più d'ogni altra solleticava l'ambizione di Leone: egli aveva cercato indarno nel precedente anno d'impadronirsene per sorpresa; e nel presente non si vergognò di adoperare più odiosi mezzi. Uberto Gambara, protonotaro apostolico, che poi fu cardinale, venne incaricato di sedurre Rodolfo Hello, tedesco, capitano della guardia del duca. Uberto diede a Rodolfo due mila ducati, e gli fece più larghe promesse, tanto che il tedesco promise di assassinare Alfonso, e di aprire la porta di castel Tealdo, cittadella di Ferrara, alle truppe della Chiesa, le quali arriverebbero da Modena e da Bologna. Era stato fissato il giorno dell'esecuzione; e lo storico Guicciardini, che comandava in Modena, e Guido Rangone, che comandava in Bologna, avevano avuto ordine di far avanzare le truppe pontificie fino alle porte di Ferrara. Ma fino dal principio Rodolfo Hello aveva palesate al duca le profferte fattegli, e con di lui intelligenza aveva mostrato di entrare nella congiura. Quando il duca ebbe in sue mani tutte le lettere del Gambara, e che gli furono aperti tutti i disegni di Leone X, ne fece fare autentico processo cogli interrogatorj di più complici, e lo depose unitamente alle lettere originali del Gambara negli archivj di casa d'Este, ove furono letti dal Muratori; poscia il duca troncò quest'affare, onde schivare, se ancora fosse possibile, di romperla irremissibilmente con Leone X[524].
Questo pontefice, in preda alla mollezza ed ai piaceri, passava la vita in continue feste, occupandosi di musica, di commedie, delle ridicole pompe de' suoi buffoni, inebbriato dalle lodi de' poeti e degli oratori, cui prodigava le sue ricchezze, senza prendersi quasi verun pensiero della burrasca che contro di lui andava addensando in Germania Lutero, e senza parere desiderare una nuova guerra. Le sue prodigalità avevano in breve dissipati in tempo di pace gl'immensi tesori ragunati da Giulio II in mezzo a continue guerre; onde per soddisfare al suo inconsiderato lusso era costretto d'accrescere continuamente lo scandaloso traffico delle indulgenze, e di rendere più aperti que' disordini contro i quali i primi riformatori osavano finalmente d'alzare la voce[525].
Ma una vaga inquietudine di spirito facevagli desiderare nuove scene e nuovi argomenti d'adulazione per i suoi cortigiani; e perchè più non aveva famiglia alla quale tramandare potesse la grandezza che voleva acquistare, invidiava la gloria di Giulio II, che aveva illustrato il suo pontificato colle conquiste fatte per la santa sede; egli ancora si lasciò prendere dal chimerico progetto di cacciare i barbari d'Italia, armando l'uno contro l'altro i due principi rivali; e non rifletteva che colui ch'egli ajuterebbe a vincere, rimarrebbe più ingagliardito dalla vittoria, che indebolito dagli sforzi sostenuti per ottenerla.
Il trattato di Noyon aveva lasciati molti semi di nuove dissensioni tra Carlo V e Francesco I. L'ultimo non aveva ottenuta soddisfazione pel suo alleato, il re di Navarra. Metteva in campo nuove pretese sul regno di Napoli, prendendo argomento dall'antica costituzione de' papi, i quali, fino dai tempi in cui avevano tolto questo regno a Manfredi per darlo alla casa d'Angiò, avevano richiesto che non potesse essere posseduto dal capo dell'impero. Carlo V aveva egli stesso giurato di non riunire le due corone, e poichè doveva abdicare quella di Napoli, credeva il re Francesco d'avere diritto di ripeterla. Carlo, dal canto suo, voleva far rivivere le sue pretese sopra il ducato di Milano e su quello di Borgogna. Tutti e due i re, opponendo gl'imprescrittibili diritti della legittimità alle convenzioni ed ai trattati, si fondavano sopra una dottrina, che, se fosse ammessa, sbandirebbe per sempre la pace e la buona fede di frammezzo agli uomini. La naturale gelosia tra due giovani sovrani, ambiziosi, potenti e rivali di gloria, aguzzava i loro risentimenti, e li rendeva più fermi nelle vicendevoli loro pretese. Ma fin allora le insurrezioni della Spagna, e la guerra della Germania tra la lega di Svevia ed il duca di Virtemberga, avevano dato troppo di che fare a Carlo V, perchè potesse nello stesso tempo avventurarsi a cominciare le ostilità contro la Francia.
Erasi il re Francesco riservata la facoltà di prestare soccorsi al re di Navarra per ricuperare i suoi stati, senza perciò rompere la pace generale conchiusa tra le due corone. Questi soccorsi furono dalla Francia mandati in principio del 1521[526]. Nello stesso tempo un'altra piccola guerra si era accesa nelle Ardenne e nel ducato di Lussemburgo tra Roberto della Marck, signore di Sedan, secondato da suo figliuolo il maresciallo di Fleuranges, e madama di Savoja, governatrice de' Paesi Bassi a nome di Carlo V[527]. Gli è vero che nulla ancora presagiva una diretta guerra tra i due monarchi, e che inoltre questi non poteva estendersi all'Italia, finchè il papa tenevasi neutrale. Gli stati della Chiesa e quelli di Firenze, coprivano il regno di Napoli contro gli attacchi de' Francesi, i quali dall'altro canto non avevano nulla a temere per il Milanese, i di cui confini, dalla banda della Germania, erano coperti dalla loro alleanza colla repubblica di Venezia e da quella che avevano conchiusa a Lucerna cogli Svizzeri, il 5 maggio del 1521[528].
Ma la pace aveva cessato di piacere a Leon X, e le sue negoziazioni, non meno presso Carlo V, che presso Francesco I, tendevano ad armarli l'uno contro l'altro. Il papa pendeva tuttavia incerto a quale dei due si unirebbe. Facendo la guerra ai Francesi poteva loro togliere Parma e Piacenza, ch'era pentito d'avere perduto, dopo che il suo predecessore le aveva conquistate; attaccando l'imperatore, poteva levargli alcune province del regno di Napoli, che ugualmente gli si confacevano. Faceva a vicenda profferte all'uno ed all'altro, mentre che Antonio Pucci, vescovo di Pistoja, aveva per lui assoldati sei mila Svizzeri, ai quali Lautrec aveva senza veruna difficoltà accordata licenza d'attraversare in marzo la Lombardia, siccome a quelli che credeva destinati contro il regno di Napoli. Leon X, che non aveva ancora deciso da qual parte si porrebbe, gli accantonò nella Marca d'Ancona, ove gli Svizzeri, trovandosi oziosi, disertarono quasi tutti[529].
All'ultimo i negoziatori di Leon X convennero con quelli di Francesco I in un trattato d'alleanza, in virtù del quale il papa ed il re si obbligavano ad attaccare di concerto il regno di Napoli. Fattane la conquista, tutto il paese posto tra Roma ed il Garigliano doveva essere riunito alla Chiesa; ed il rimanente doveva formare un regno pel secondo figliuolo di Francesco I. Ma perchè questo secondo figliuolo era inallora ancor fanciullo, tutto il regno, fino alla di lui maggiorità, doveva essere governato da un legato pontificio. Inoltre Francesco I si obbligava a non accordare più la sua protezione al duca di Ferrara, nè a verun altro feudatario della Chiesa; di modo che la conquista di quel ducato era pure uno degli utili che il papa ritrarrebbe da tale alleanza[530].
Questi preliminarj erano stati sottoscritti prima che cominciassero le ostilità nella Navarra, che Asparoth, fratello di Lautrec, conquistò in poco tempo. La sollevazione degli Spagnuoli contro i consiglieri fiamminghi di Carlo V, e la violenza delle guerre civili tra i partigiani del dispotismo e quelli della libertà, ne' due regni di Castiglia e d'Arragona, sembravano dare ai Francesi una favorevole occasione per portare assai più in là questi primi prosperi avvenimenti. In tali circostanze il trattato conchiuso con Leon X venne presentato alla ratifica del consiglio del re. Desso venne esaminato con estrema diffidenza, perciocchè il papa aveva date tante prove della sua nimicizia, che il consiglio non era disposto a credere, che volesse ristabilire i Francesi a Napoli, mentre che dava a conoscere di soffrirli a stento nel Milanese. Temevasi dai più che dopo avere tirata la loro armata nella Campania non si unisse all'imperatore per distruggerla, ed in appresso attaccare il ducato di Milano, rimasto senza difensori. In tanta incertezza, Francesco I non mandava la sua ratifica. Leon X, di già scontento di Lautrec e del vescovo di Tarbes, ambasciatore a Roma, perchè avevano ricusata l'autorità della corte pontificia in tutti gli affari beneficiarj del ducato di Milano, si accostò subito all'imperatore, col quale non aveva mai lasciato di trattare, e con lui l'8 maggio del 1521 sottoscrisse un trattato, con cui i confederati si obbligavano a stabilire nel ducato di Milano Francesco Sforza, secondo figlio di Lodovico il Moro; dopo avere staccato da questo ducato Parma e Piacenza, che unitamente al ducato di Ferrara farebbero parte degli stati della santa sede. Il papa sciolse Carlo V dall'impedimento di possedere nello stesso tempo il regno di Napoli e l'impero, chiedendo in compenso un feudo nel regno di Napoli per Alessandro de' Medici, figliuolo naturale di Lorenzo già duca di Urbino[531].
Francesco Sforza, che i confederati volevano collocare sul trono di Milano, trovavasi allora a Trento, ov'era stato raggiunto da Girolamo Morone, ch'era stato il principale confidente e ministro di suo fratello, e che, dopo averlo persuaso a cedere per capitolazione il castello di Milano, si era accorto d'essere caduto in sospetto ai Francesi, e non dover rimanere lungamente sicuro ne' loro stati. Morone, il più intrigante, il più destro, il più scaltrito, il più doppio degl'Italiani de' suoi tempi, manteneva segreto intelligenze con tutti i malcontenti di Lombardia, moltiplicati a dismisura dai duri ed altieri modi del signore di Lautrec. Aveva il Morone promesso al papa, che una simultanea insurrezione sorprenderebbe i Francesi in tutte le città, prima che questi potessero levare alcuna fanteria o farla venire d'oltremonti; ed i mille uomini d'armi francesi accantonati in Lombardia non si giudicavano sufficienti a difendere questa provincia, neppure per pochi giorni, contro gli attacchi combinati del popolo, del papa e dell'imperatore. L'attivissima cooperazione di questo capo di faziosi fu probabilmente il principale motivo che persuase Leon X a domandare il ristabilimento dello Sforza sul trono di Milano[532].
La lega tenevasi coperta con tutto il segreto d'una congiura; ed infatti doveva, a guisa d'una cospirazione, scoppiare nelle province, nelle quali l'insurrezione era disposta contemporaneamente, dalle montagne comasche fino a Parma. Gli alleati risguardavano inoltre come cosa di maggiore importanza l'operare una rivoluzione a Genova, onde aprire al re di Spagna tutte le comunicazioni per mare colla Lombardia. Girolamo Adorno doveva entrare nel porto di quella città con nove galere, mentre che suo fratello Antoniotto giugnerebbe attraverso alle montagne fin presso alle mura. Affinchè il loro attacco riuscisse più inaspettato, fecero in modo d'intercettare per venti giorni tutti i corrieri che andavano a Genova; ma quest'eccesso di precauzione riuscì loro pernicioso. Ottaviano Fregoso, che governava la Liguria per il re, insospettito da questo universale silenzio, si pose in guardia con più vigilanza che mai; Girolamo Adorno non potè entrare in porto, e sbarcò le sue truppe a Chiavari ed a Recco per unirle a quelle di suo fratello, che s'avanzava dalla banda di Pietra Santa. Tentarono inutilmente d'eccitare una sollevazione tra i loro partigiani; verun Genovese non prese per loro le armi, veruna terra murata aprì loro le porte, talmente che dovettero passare in Lombardia con circa tre mila fanti spagnuoli, dopo d'avere rimandata la flotta a Napoli[533].
Il signore di Lautrec si trovava inallora alla corte di Francia, ed aveva lasciato in suo luogo, per governare la Lombardia, suo fratello, il signore di Lescuns, che, secondo scrive il signor di Fleuranges, «aveva lasciata la berretta rotonda, e da principio era vescovo di Tarbes, ma si sentiva troppo gentil compagno per correre la carriera ecclesiastica; ed io vi accerto che era tale[534].» Lescuns fu avvisato che il Morone era subitamente partito da Trento per passare, deviando dalle più frequentate strade, a Reggio, ove allora era governatore lo storico Guicciardini. Seppe che moltissimi emigrati milanesi eransi adunati nella stessa città, e supponendo che fossero intenzionati di sorprendere Parma si recò immediatamente egli stesso a Reggio, per far che il governatore gli desse schiarimento intorno alle intenzioni del papa, e pretendere da lui che cacciasse gli emigrati, ai quali aveva dato asilo contro il prescritto de' trattati e le regole di buona vicinanza. Frattanto, per dare maggior forza alle sue istanze con un poco di timore, e forse, avendone il destro, per sorprendere la città, prese con sè quattrocento lance, ed ordinò a Federigo di Bozzolo di tenergli dietro a non molta distanza con mille fanti[535].
Il Guicciardini faceva buona guardia, e Reggio non temeva la visita del signore di Lescuns. Questi domandò al governatore una conferenza, che si tenne il 24 di giugno nel rivellino della porta che conduce a Parma. Mentre ch'essi ragionavano delle cose loro, gli emigrati milanesi, ch'erano accorsi sulle mura, credendo, o fingendo di credere che alcuni soldati francesi avessero voluto entrare per forza, fecero fuoco sulla scorta del signore di Lescuns, ed uccisero Alessandro Trivulzio, uno de' capi della fazione contraria alla loro. Vi fu allora una mischia, nella quale lo stesso Lescuns sarebbe rimasto ucciso, se il Guicciardini non lo avesse preso sotto la sua protezione, facendolo entrare in Reggio. Gli uomini d'armi francesi lo supposero fatto prigioniere e si sbandarono; ma perchè non erano inseguiti, e perchè incontrarono per istrada Federico di Bozzolo, che veniva in loro ajuto, si riebbero bentosto dal loro terrore, ed all'indomani il Guicciardini permise al signore di Lescuns di raggiugnere la sua gente[536].
I progetti che il Morone aveva formati sovra Parma, e che dovevano eseguirsi dagli emigrati adunati a Reggio, non ebbero effetto, ed ancora più funesto fine ebbero quelli di Manfredi Palavicini sopra Como. Questo gentiluomo, in addietro partigiano de' Francesi, ma che Lautrec aveva disgustato, erasi associato ad un cotale Giovanni, capo di facinorosi notissimo in quelle montagne, chiamato il matto dei Brizzi, il quale si era obbligato di condurre a Como quattrocento soldati tedeschi ed altrettanti italiani, mentre che i loro amici in città dovevano atterrare un pezzo di muraglia per farli entrare. Ma Graziano delle Guerre, che teneva il comando di Como, sebbene avesse soli dugent'uomini sotto i suoi ordini, supplì col coraggio, colla vigilanza, coll'attività alle deboli sue forze. Sorprese la truppa che veniva per sorprenderlo, e la disperse; fece prigioniere il Palavicini ed il matto dei Brizzi, e li mandò a Milano. Volendo il governo atterrire i suoi nemici, li fece squartare, e condannò allo stesso orribile supplicio molti gentiluomini milanesi, ch'erano stati consapevoli de' loro progetti[537].
Leon X non aveva ancora confessata la sua alleanza coll'imperatore, nè i suoi bellicosi progetti, ma mostrò d'adirarsi fieramente, quando seppe che il signore di Lescuns aveva a mano armata violato il territorio di Reggio. Annunciò al concistoro che i Francesi più non rispettavano i possedimenti della Chiesa, e che, per reprimere la loro audacia, vedevasi forzato ad allearsi coll'imperatore, onde poter cacciarli dall'Italia. Diede il comando delle sue truppe a Federico Gonzaga, marchese di Mantova, che, accettandolo, ritornò al re di Francia la collana dell'ordine di san Michele, di cui era stato decorato. Francesco Guicciardini doveva servirlo, come consigliere, col titolo di commissario generale. Il marchese di Pescara comandava la fanteria spagnuola; e Prospero Colonna fu posto alla testa dell'armata combinata del papa e dell'imperatore, la quale era composta di seicento uomini d'armi della Chiesa o di Firenze, e d'altrettanti dell'imperatore; di quattro mila fanti spagnuoli, di sei mila italiani e di sei in otto mila tedeschi, grigioni o svizzeri. In principio d'agosto quest'armata andò ad accamparsi in sulla Lenza, a sole cinque miglia da Parma[538].
Quando il Lautrec, ch'era a Parigi, ebbe avviso della pubblicazione della lega del papa e dell'imperatore, non tardò ad annunciare al re che il Milanese era perduto se non si affrettava a mandarvi quattrocento mila scudi, onde assoldare una fanteria svizzera che bastasse a difenderlo. Lodovico XII aveva trattato il Milanese come un antico stato ereditario, cui era affezionato; ma Francesco I non lo avea considerato che come una ricca provincia che poteva pagare più delle altre. Gli abitanti erano ad un tempo oppressi da ruinose contribuzioni, da continui alloggi di soldati, dall'insolenza e dai capricci de' comandanti, dalla crudeltà de' tribunali, che punivano con atroci supplicj i malcontenti e le persone sospette. «Riputavasi, dice il signor Martino di Bellay, il numero di coloro che il signore di Lautrec aveva sbanditi da Milano, non minore di quello de' rimasti; e dicevasi che la maggior parte di costoro erano stati esiliati per leggieri motivi, o per usurparne le sostanze; lo che ci procurava molti nemici, i quali in appresso si adoperarono per iscacciarci da Milano, onde riavere i loro beni. Prima che il detto maresciallo di Foix venisse luogotenente del re nel ducato di Milano, essendo, come detto abbiamo, tornato in Francia il signore di Lautrec, rimase in questo frattempo luogotenente del re nel detto ducato il signore di Telignì, siniscalco di Rouergue, il quale colla sua saviezza e gentili maniere aveva guadagnato il cuore de' Milanesi, onde il paese era affatto tranquillo; ma essendo tornato il signore di Lescuns, e partitone il siniscalco, le cose cambiarono aspetto, e così l'opinione degli abitanti[539].»
Parve che Francesco I sentisse tutta l'estensione del pericolo rappresentatogli dal Lautrec, in un paese attaccato da una potente armata, circondato di nemici da ogni banda, e desideroso di rivoluzione. Il dissipamento della sua corte, e lo sfrenato gusto del monarca per i piaceri, avevano di già estremamente disordinate le finanze, di modo che, malgrado molte vaghe promesse, un generale poteva temere di non ricevere a tempo i sussidj che gli venivano promessi; ma il signore di Semblancey, soprintendente delle finanze, si obbligò per espresso ordine del re a far trovare a Lautrec quattrocento mila scudi in Milano lo stesso giorno in cui egli vi arriverebbe. Lautrec partì, e giunto a Milano non trovò il danaro; onde per fare un primo pagamento agli Svizzeri, che cominciavano a ragunarsi sotto le sue bandiere, obbligò tutti i ricchi particolari di Lombardia con minacce e con intollerabile rigore a mandargli tutto il denaro che loro riuscirebbe d'avere anche a credito[540].
Grandissima era l'esperienza di Prospero Colonna nelle cose della guerra, ma la sua tattica era lenta e timida, e la grave età sua lo rendeva ancora più lento e diffidente. Prima d'entrare nel paese nemico volle aspettare i sei mila fanti tedeschi che Ferdinando, fratello dell'imperatore, aveva adunati nella Carinzia, ed i tre mila Svizzeri assoldati dal papa. I Veneziani non poterono chiudere il passaggio a queste truppe, ed il Colonna, poichè le ebbe ricevute nel suo campo, e dopo d'avere perduti tredici giorni sulle rive della Lenza, venne finalmente ad aprire le sue batterie contro Parma, dalla banda de' sobborghi di Codiponte, sulla sinistra del fiume[541].
Il Lautrec aveva affidata la difesa di Parma a suo fratello, il signore di Lescuns; gli aveva promesso d'accorrere bentosto in suo soccorso; ed aveva inoltre fatto sapere ai Veneziani che potenti rinforzi valicavano allora le montagne per raggiugnerlo: per altro le sue truppe si andavano assai lentamente ragunando, e non giugneva mai il danaro che gli era stato così solennemente promesso. Aveva con sè cinquecento lance, sette mila Svizzeri e quattro mila fanti francesi sotto gli ordini del signore di Saint-Valier: l'armata veneziana, comandata da Teodoro Trivulzio e dal provveditore Andrea Gritti, era, dietro sua dimanda, venuta a raggiugnerlo nel Cremonese con quattrocento lance e quattro mila fanti; ma finchè non arrivavano altri sei mila Svizzeri, che tuttavia aspettava, il Lautrec non voleva porsi in luogo ove potesse venire obbligato a combattere[542].
La città di Parma viene divisa dal fiume che porta lo stesso nome, che lascia a sinistra, dalla banda di Piacenza, un quartiere, detto Codiponte, la metà meno considerabile di quello che ha dalla banda destra. L'un quartiere e l'altro era fortificato verso il letto del fiume, che, spesso non avendo che un rigagnolo d'acqua in mezzo ad un largo piano coperto di ghiaja, avrebbe senza di ciò lasciato un libero ingresso al nemico fin nel centro della città. Soltanto il 29 agosto Prospero Colonna aveva attaccato il sobborgo o quartiere di Codiponte, ed in due giorni le sue batterie avevano fatto nelle mura una breccia abbastanza larga perchè il signore di Lescuns conoscesse l'impossibilità di più lunga difesa. Nella notte del 1 al 2 di settembre Lescuns ritirò tutte le sue truppe sulla riva destra; onde gli abitanti, abbandonati a loro medesimi, s'affrettarono di aprire le porte all'armata di Prospero Colonna, esprimendo la loro gioja di poter tornare sotto l'autorità pontificia: ma questa gioja fu di breve durata, perciocchè i soldati, senza farsi caso delle loro buone disposizioni, li saccheggiarono con estrema crudeltà[543].
La stessa notte successiva a tale avvenimento Prospero Colonna ebbe avviso che il duca di Ferrara, per mostrarsi fedele all'alleanza della Francia, aveva attaccato Finale e san Felice con cento uomini d'armi, dugento cavaleggieri e due mila fanti, e che Lautrec era giunto fino al Taro. Trovò pericoloso il continuare l'assedio di Parma con due armate nemiche così vicine; e sebbene il marchese di Mantova, per non macchiare i suoi primi fatti d'armi con un atto di debolezza, rimostrasse come il Lautrec ed il duca di Ferrara erano fuori di stato d'attaccarlo, e quanto fosse vergognosa cosa l'abbandonare in sui loro occhi una città più che a metà presa; sebbene il Guicciardini e Francesco Moroni lo andassero confortando a terminare ciò che aveva così ben cominciato, Prospero Colonna fu inflessibile: il marchese di Pescara fu del medesimo sentimento, dichiarando di volere conservare i suoi soldati per una sicura vittoria; e l'armata si ritirò in riva alla Lenza, per aspettarvi nuovi ordini da Roma e nuovi rinforzi[544].
Questo avvenimento poteva avere per la lega le più funeste conseguenze. I generali del papa erano disposti a credere che quelli dell'imperatore non avevano abbandonata una quasi terminata conquista all'avvicinamento di forze inferiori alle loro, che perchè invidiavano al pontefice l'acquisto di Parma: dal canto suo il Colonna sospettava che Leon X volesse ritirarsi dalla guerra, e lasciare di concorrere al mantenimento dell'armata, tostocchè avrebbe ricuperate Parma e Piacenza, che gli erano state assegnate nel trattato. L'armata della lega si tenne un mese stazionaria, e divisa da una segreta diffidenza. Ma Leon X, più che mai allettato dalla speranza di far nuove conquiste, aveva incaricato il cardinale di Sion di levare per suo conto nuove genti nella Svizzera. Queste arrivarono successivamente nel Modenese; e Prospero Colonna, incoraggiato a riprendere le sue operazioni con nuova attività, passò il Po il primo ottobre per portare la guerra nel Cremonese. Dal canto suo il Lautrec, avendo ricevuti considerabili rinforzi, si lasciò fuggire di mano una bella occasione di batterlo nel passaggio del fiume[545].
L'armata di Lautrec, ingrossata da quasi venti mila Svizzeri, superava di forze quella ch'era venuta ad attaccarla; e sebbene la sua corte lo lasciasse sempre senza danaro, s'egli avesse spinta la guerra ad una pronta decisione, come tutti i suoi capitani lo consigliavano di fare, avrebbe cavato buon servigio da' suoi Svizzeri in una battaglia; ma sgraziatamente egli attaccava la sua vanità a non seguire mai i suggerimenti che gli venivano dati; e per mostrare di saperne più che tutti gli altri, credeva necessario di scostarsi sempre dalla comune opinione. Questa caparbietà gli fece perdere un'occasione unica di distruggere l'armata di Prospero Colonna, che si era imprudentemente acquartierata a Rebecco, in riva all'Oglio, e sotto il cannone della fortezza veneziana di Pontevico, posta sull'altra riva. Il Pescara, conoscendo il pericolo della sua situazione, ed approfittando della lentezza del generale francese, ritirò durante la notte le sue genti da Rebecco, senza lasciar loro conoscere il pericolo in cui si erano trovate. Il Lautrec aveva voluto differire fino all'indomani l'attacco consigliatogli dal duca d'Urbino e da Andrea Gritti; ma all'indomani il suo nemico erasi posto in sicuro[546].
Il Lautrec aveva nella sua armata quasi venti mila Svizzeri; ed il cardinale di Sion ne aveva condotti quasi altrettanti all'armata del papa. La dieta elvetica vedeva con ribrezzo i suoi concittadini sul punto di versare il sangue gli uni degli altri per una causa straniera. Spedì loro perciò l'ordine di rientrare ne' loro focolari, minacciando soprattutto di castigare coloro che, in disprezzo dell'alleanza di fresco conchiusa colla Francia, eransi ridotti a servire contro di lei; ma l'autorità de' magistrati era assai meno potente degl'intrighi di Mattia Schiner, cardinale di Sion, e dell'accortezza del cardinale Giulio de' Medici, che Leon X aveva spedito all'armata in qualità di legato. Altronde l'animosità nazionale, così vivamente eccitata in tempo delle guerre di Lodovico XII, non era stata del tutto spenta nell'ultima pace. Gli Svizzeri dell'armata francese erano offesi dall'alterigia e dalla diffidenza di Lautrec, erano intiepiditi dalla sua lentezza, e non prendevano fiducia ne' suoi talenti. Lagnavansi soprattutto di non essere pagati malgrado le promesse, che mai non si eseguivano. I quattrocento mila scudi, così solennemente promessi al generale per la difesa del Milanese, non erano stati mandati dalla Francia; ed una sovranità veniva sagrificata per un intrigo di corte dalla stessa madre del re, che aveva destinato ad altri usi questo danaro[547].
In breve la diserzione diminuì rapidamente il numero degli Svizzeri che formavano il nervo principale dell'armata di Lautrec. Non si trovando più in istato di tenere la campagna tra l'Oglio ed il Po, egli si ritirò sull'Adda con intenzione di difenderne il passo e di coprire il Milanese. Alzò frequenti ridotti lungo la sponda del fiume, indi pose il suo quartiere a Cassano per tenere d'occhio tutta la linea. Prospero Colonna, giunto in faccia a lui a Rivolta, diede a credere di voler gettare un ponte in questo medesimo luogo, e richiamò così l'attenzione dell'armata nemica. Il Lautrec aveva fatte levare o distruggere tutte le barche del fiume; ma Francesco Moroni, uno degli emigrati milanesi, ne scoprì tre nel Brembo, che si getta poco al di sopra nell'Adda. Con queste cominciò a far passare il fiume ad alcune compagnie italiane a Vaprio, cinque miglia al di sopra del quartiere generale di Lautrec. Questo passaggio non poteva eseguirsi che con estrema lentezza, adoperando le tre piccole barche, ed i fanti italiani, quantunque rinforzati bentosto dagli Spagnuoli del Pescara, a stento potevano sostenersi nel luogo in cui erano sbarcati sulla diritta dell'Adda, prima contro Ugone de' Pepoli, poi contro Lescuns, dal fratello incaricato di respingerli nel fiume. Passarono ben quattordici ore, prima che ricevessero quanta gente bastava per non aver più nulla a temere. Il Lautrec, a cagione della sua lentezza, si lasciò per la terza volta fuggire l'occasione che gli era offerta di conseguire la vittoria, e si ritirò coll'armata scoraggiata in Milano[548].
Le pratiche presso gli Svizzeri dei cardinali di Sion e de' Medici erano così felicemente riuscite, che al Lautrec di venti mila Svizzeri più non restavano che quattro mila. Pure Lautrec risolse di difendere il circondario dei sobborghi di Milano, mentre che Prospero Colonna, invece d'avanzarsi direttamente verso la capitale si trattenne a Marignano, irrisoluto se passerebbe o no a prendere i quartieri d'inverno a Pavia. Le continue piogge avevano totalmente guastate le strade, e tenevano in dietro l'artiglieria; finalmente tre giorni dopo il passaggio dell'Adda, il 19 di novembre, l'avanguardia dell'armata di linea si presentò verso sera alle mura del sobborgo di Milano tra porta Romana e porta Ticinese, che da' Veneziani, incaricati di difenderle furono vilmente abbandonate senza nessuna resistenza. Il marchese di Pescara salì il primo con soli ottanta fucilieri spagnuoli sul bastione di terra recentemente innalzato, gli tenne subito dietro tutta la sua infanteria, ed approfittando dell'avuto vantaggio, entrò in città colla stessa facilità con cui era entrato nel sobborgo, essendogli stata aperta la porta dalla fazione ghibellina[549].
Il Lautrec ancora non sapeva che l'armata della lega avesse abbandonato Marignano, credendo che le piogge cadute continuamente avessero impedito al nemico di far avanzare le artiglierie; e passeggiava disarmato per città in piena sicurezza mentre questa era già presa, e mentre suo fratello Lescuns, oppresso dalle fatiche del precedente giorno, dormiva ancora. La loro negligenza fu cagione della loro ruina; supposero senza rimedio un avvenimento contro cui non eransi apparecchiati; invece di contrastare il terreno, come ancora potevano fare, contro un'armata sorpresa della propria vittoria, e divisa tra la città, il sobborgo e la campagna, abbrividita per essere stata tutto il dì sotto una fredda pioggia, ed inquieta di doversi alloggiare in istrada che non conosceva, in mezzo ai nemici e ad una profonda oscurità, Lautrec e suo fratello si ritirarono quella stessa notte a Como, di dove passarono in seguito a Lonato nel territorio di Brescia, prendendo per quell'inverno i loro quartieri nel territorio veneziano, ove si credevano al coperto da ogni attacco[550].
La sorte del ducato di Milano sembrava un'altra volta decisa piuttosto da una rivoluzione che da una conquista. Lodi e Pavia, e bentosto Piacenza e Cremona si affrettarono di aprire le loro porte ai vincitori. Cremona, a dir vero, fu ripresa dal Lautrec; ma nello stesso tempo i Francesi avevano per di lui ordine evacuata Parma, e vi era entrato Alessandro Vitelli, uno de' capitani pontifici. Il marchese di Pescara aveva occupato Como per capitolazione, ed erasi obbligato inverso il signore di Vandenesse, che ne aveva il comando, a far rispettare le proprietà de' soldati e degli abitanti; ma l'infanteria spagnuola forzò le guardie poste sulla breccia, e saccheggiò la città con quella ferocia ch'era diventata un carattere nazionale, strappando di bocca ai ricchi cittadini con inauditi tormenti la confessione delle loro ricchezze, e lasciando che molti morissero fra le pene della tortura. Il Pescara, che voleva ad ogni costo guadagnarsi l'affetto degli Spagnuoli, chiuse gli occhi su tanta atrocità, ed ischivò la disfida del signore di Vandenesse, che gli chiedeva soddisfazione di cotale mancamento di fede[551].
Ma in mezzo a queste zuffe un inaspettato avvenimento rendette dubbioso l'esito d'una guerra cominciata con così brillanti successi. Il 24 di novembre Leon X, trovandosi alla sua villa della Malliana, ricevette la notizia della presa di Milano; e Castel sant'Angelo festeggiò tutto il giorno questa vittoria col cannone. Leone mostravasi pieno di giubbilo, e si proponeva d'adunare un concistoro, onde partecipare ai cardinali questa fausta notizia, ed ordinare rendimenti di grazie in tutte le chiese: ma entrato nella sua camera, cominciò dopo poche ore a sentirsi alquanto incomodato[552]. Si fece trasportare a Roma, senza per altro credere di trovarsi in pericolo della vita, non manifestandosi la sua malattia che come una febbre catarrale: ma tutt'ad un trattò peggiorò, e morì contro l'universale aspettazione il giorno 1.º di dicembre, dopo avere regnato otto anni, otto mesi e diciannove giorni, ed essere giunto al suo quarantasettesimo anno. Esausto affatto era il suo tesoro, ed avrebbe in breve dovuto lottare contro insormontabili difficoltà per continuare la guerra; ma egli conobbe i prosperi avvenimenti delle sue armi e non le difficoltà che li dovevano seguire. In tempo della sua malattia ricevette la notizia della presa di Piacenza, e lo stesso giorno in cui morì quella dell'acquisto di Parma. Era questo l'avvenimento che più caldamente desiderava: ed aveva detto al cardinale de' Medici, che l'avrebbe volentieri comperato anche a prezzo della propria vita[553].
Questa inaspettata morte d'un papa, che aveva tanti nemici non andò esente da sospetto di veleno. Il suo coppiere, Bernardo Malaspina nel giorno che precedette la di lui malattia gli aveva presentato mentre cenava un nappo di vino, dopo bevuto il quale, il papa si era a lui rivolto pieno di sdegno, chiedendogli dove avesse preso un vino così amaro. Essendo morto Leone la notte del primo di dicembre, lo stesso coppiere volle all'indomani uscire da Roma in sul far del giorno con de' cani come se andasse a caccia. Le guardie della porta di san Pietro, maravigliandosi che un servitore del papa volesse andare a divertirsi la stessa mattina della morte del suo padrone, lo arrestarono su questo solo indizio; ma raccontano il Giovio, il Nardi e Paride Grassi, che il cardinale Giulio de' Medici, tornato a Roma, lo fece porre in libertà, e non volle permettere che si praticassero ricerche intorno all'accusa di veleno, per timore che il nome di qualche gran principe non vi si trovasse implicato, e si rendesse in tal modo l'implacabile nemico della sua famiglia[554].
FINE DEL TOMO XIV.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XIV.
Capitolo CVI. I Veneziani riprendono e difendono Padova: loro guerra nel Ferrarese e loro sconfitta alla Polisella. Giulio II gli assolve dalla scomunica. Campagna del principe d'Anhalt nello stato veneziano, e sue crudeltà. 1509-1510 pag. 3
1509 Il senato veneto scioglie tutti i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà 3
Tale risoluzione da taluno si ascrive a timore, da altri a fina politica 4
Motivi d'estremo scoraggiamento nelle circostanze 5
I sudditi conobbero per esperienza che i nemici sono sempre nemici 6
Non avendo a rimproverarsi verun atto di ribellione, furono più solleciti di tornare sotto l'autorità della repubblica 8
Gli alleati cominciarono più presto a disunirsi a motivo della divisione delle spoglie de' Veneziani 8
Sotto quali diversi aspetti gli alleati risguardavano la guerra 9
Bajazette II offre di soccorrere i Veneziani 10
Estremo orgoglio ed insultanti pretese di Giulio II 11
Vana attività di Massimiliano, che non aveva adunata un'armata 11
I nobili padovani eransi dichiarati partigiani dell'Austria, ma il popolo si conservava fedele alla repubblica 12
17 di luglio. Andrea Gritti sorprende Padova, e vi rialza la bandiera della repubblica 13
Salva quella città dal saccheggio 15
Luglio. Sollevazione a favore della repubblica in tutto il Padovano 16
9 agosto. Il marchese di Mantova viene fatto prigioniere all'isola della Scala 17
Lodovico XII vede senza dispiacere le perdite di Massimiliano 18
Lascia La Palisse ai confini del Veronese per soccorrerlo 19
Conchiude ad Abbiategrasso un nuovo trattato col papa 20
Arrivo del principe d'Anhalt nel Friuli e ferocia de' Tedeschi 21
I Veneziani fanno entrare tutta la loro armata in Padova 22
Vi si rifuggiano pure coi loro raccolti e gregge gli abitanti delle campagne 23
Nuove fortificazioni aggiunte al ricinto di Padova 24
I figli del doge con 176 gentiluomini si chiudono in Padova 24
Massimiliano prende le rocche dello stato di Padova 25
15 settembre. Viene ad assediare Padova 26
Prodigiosa armata di Massimiliano, la più numerosa che da più secoli avesse servito nelle guerre d'Italia 27
Per l'attività di Massimiliano in cinque giorni le batterie giuocano su tutta la linea 28
Primo assalto dato al bastione di Codalunga con cattivo esito 29
Il bastione viene preso in un secondo assalto, ma i Veneziani lo fanno saltare con tutti gli assalitori 29
Gli assedianti sono molestati dagli Stradioti 30
Gli uomini d'armi francesi ricusano di salire la breccia in compagnia de' Landsknecht 31
3 di ottobre. Viene levato l'assedio di Padova 32
Massimiliano invita inutilmente il Chaumont ad attaccare Legnago 32
Giulio II si stacca dai Francesi, e si accosta ai Veneziani 34
Massimiliano accorda ai Fiorentini l'investitura di tutti i loro feudi imperiali per quaranta mila fiorini 35
16 novembre. Vicenza si solleva, ed apre le porte ai Veneziani 35
Il vescovo di Trento contiene a stento Verona coll'ajuto de' Francesi 36
Risentimento de' Veneziani contro Alfonso duca di Ferrara 37
La flotta d'Angiolo Trevisani guasta il Ferrarese 38
Il Trevisani si afforza colla sua flotta alla Polisella 39
22 dicembre. La flotta del Trevisani bruciata o presa dal cardinale Ippolito d'Este 40
Gli alleati non approfittano della disfatta della Polisella 41
Sospensione delle ostilità tra Venezia e Ferrara 42
1510 Fine di febbrajo. Morte di Niccola conte di Pitigliano 43
24 febbrajo. Il papa accorda l'assoluzione ai Veneziani 44
Giulio II disprezza Massimiliano e detesta Lodovico XII 45
23 di marzo. Maneggi di Giulio con Enrico VIII, che soscrive un nuovo trattato colla Francia 46
Mala intelligenza de' Francesi cogli Svizzeri fomentata da Giulio II 46
Cominciamento delle vertenze tra Giulio II ed il duca Alfonso 48
Lodovico XII protegge il duca 49
Ordina al Chaumont di rientrare nel territorio di Venezia 50
I Veneziani offrono il comando della loro armata al marchese Gonzaga 51
La sua consorte non acconsente a dare i figli in ostaggio 51
I Veneziani nominano Gian Paolo Baglioni governatore generale della loro armata 52
Il Baglioni si ritira alle Brentelle, e vi si afforza 52
I Vicentini chiedono perdono al duca d'Anhalt che loro lo rifiuta 53
Abbandonano tutti la città, e si ritirano a Padova 54
Grotta di Masano che serve di rifugio ai contadini 54
I corpi franchi francesi vi soffocano dentro quanti vi si trovavano 55
Furti e crudeltà de' Tedeschi in Verona 57
Il Chaumont occupa Legnago ed il suo porto 57
25 di maggio. Colà riceve la notizia della morte del cardinale d'Amboise suo zio 58
Scandalosa ricchezza acquistata dal cardinale nelle finanze 60
Altre conquiste del Chaumont nel Vicentino 61
Massimiliano ottiene soccorsi da Ferdinando il Cattolico 62
Odio degli abitanti verso l'imperatore, e loro attaccamento alla repubblica 63
I Tedeschi attaccano e prendono Monselice 64
Massimiliano vuole ridurre il Chaumont ad attaccare Treviso 66
Questi si ritira nel Milanese 66
Capitolo CVII. Giulio II fa attaccare i Francesi a Genova, a Ferrara e nel Milanese. Dirige l'assedio della Mirandola ed entra in questa città per la breccia. È costretto a fuggire da Bologna, e la sua armata viene dispersa a Casalecchio. 1510-1511 67
1510 L'età, il ministero e l'educazione de' papi dovrebbero renderli meno irascibili 67
L'inflessibilità di carattere spesso osservata in loro procede forse dal credersi infallibili 68
Giulio II, più che verun altro, si credè l'organo di Dio e si adirò contro ogni opposizione alle sue volontà che credeva divine 69
1510 In origine le sue opinioni ed i suoi progetti erano quasi tutti generosi 70
Odio di Giulio II verso Lodovico XII, e paura che aveva di lui 71
9 agosto. Giulio II scomunica Alfonso, duca di Ferrara 73
7 luglio. Investitura di Napoli accordata a Ferdinando il Cattolico, restringendo la sua alleanza colla santa sede 74
Giulio II fa imprigionare due cardinali francesi 75
Manda una flotta contro Genova per sollevarla, onde dare la corona ducale ad Ottaviano Fregoso 76
I Genovesi difendono il governo francese, e la flotta papale si ritira senza aver nulla operato 78
Attacco del duca d'Urbino nella Romagna ferrarese 79
Agosto. Modena data al cardinale di Pavia che ne prende possesso a nome del papa 79
Negoziazioni di Giulio II cogli Svizzeri per muoverli ad attaccare la Lombardia 80
Settembre. Gli Svizzeri entrano per la strada di Bellinzona in Lombardia 81
Dopo una breve comparsa, rientrano nelle montagne 83
Sospetti concepiti in tale occasione contro gli Svizzeri e contro il Chaumont 83
I varj attacchi contro i Francesi non ebbero effetti perchè fatti in diversi tempi 84
1510 Lucio Malvezzi, coll'armata veneziana, rientra in Vicenza e si avvicina a Verona 85
Una vigorosa sortita de' Tedeschi lo sforza a ritirarsi 86
Il re d'Ungheria minaccia la repubblica di Venezia 86
Concilio di Tours della Chiesa gallicana che approva la guerra di Lodovico XII contro il papa 88
Giulio II rigetta tutte le aperture di negoziazione fatte a nome di Lodovico XII 89
22 settembre. Giulio viene a dimorare in Bologna mentre la sua armata si innoltra nel Ferrarese 90
Il marchese di Mantova posto in libertà dietro le istanze del papa e di Bajazette II 91
L'alleanza del marchese di Mantova cercata nello stesso tempo dai Veneziani e dai Francesi 91
12 ottobre. Il Chaumont, con un'armata francese, minaccia il papa a Bologna 93
Terrore de' cortigiani romani, che affrettano il papa a negoziare 94
Giulio, sebbene infermo, fa armare le milizie di Bologna e le eccita a difendersi 95
Proposizioni di Chaumont al papa per un trattato 96
13 d'ottobre. Le truppe veneziane entrano in Bologna, ed il papa rompe con fierezza le trattative 97
1510 Giulio si lagna con tutti i re cristiani dell'attacco de' Francesi 98
Giulio fa attaccare Sassuolo e lo prende 99
Vuole spogliare Francesco della Mirandola de' suoi feudi 100
Alla metà di dicembre, l'armata pontificia occupa Concordia 101
1511 2 gennajo. Il papa va in persona all'assedio della Mirandola 102
Imboscata tesa al papa dal cav. Bajardo 103
Il Chaumont, per gelosia del Trivulzio, non vuole liberare la Mirandola 105
20 gennajo. La Mirandola si arrende per capitolazione 106
Giulio entra nella Mirandola per la breccia 106
Abbassamento della riputazione del Chaumont 107
Contro il parere del Trivulzio risolve di attaccare l'armata veneziana al Bondeno 109
È forzato ad abbandonare il progetto nell'atto dell'esecuzione 110
Non può ridurre il marchese di Mantova a rinunciare alla neutralità 111
Tenta di sorprendere Modena: ma Giulio II la consegna al deputato dell'imperatore 112
11 di febbrajo. Il Chaumont muore oppresso dai dispiaceri, e tormentato dai rimorsi d'avere fatta la guerra al papa 113
Il duca di Ferrara sospettato d'aver voluto far avvelenare il papa 114
Massimiliano ascolta le proposizioni di pace fattegli da Ferdinando 116
1511 Marzo. Apertura d'un congresso in Mantova per trattare la pace 116
26 di marzo. Matteo Langio, vescovo di Gurck, va all'armata di Giulio II per trattare a nome dell'imperatore 118
Arroganza di questo intimo segretario di Massimiliano 119
16 aprile. Il papa scomunica gli aderenti del re di Francia 120
Esorbitanti inchieste del vescovo di Gurck ai Veneziani 121
25 di aprile. Le conferenze rotte dall'impetuoso carattere di Giulio II 122
Principio di maggio. Il Trivulzio riprende Concordia, e fa prigioniere Gian Paolo Manfrone 123
Il Trivulzio ed il duca d'Urbino, in presenza l'uno dell'altro al ponte di Casalecchio sul Reno 124
Un terrore senza motivo succede alla temerità di Giulio II 125
Esorta i quaranta senatori di Bologna a difendersi 127
Lascia il governo di Bologna al cardinale di Pavia 128
I capitani della milizia scelti dal cardinale sono amici dei Bentivoglio 129
20 maggio. Il legato, spaventato dalla insubordinazione delle milizie, fugge da Bologna 130
21 maggio. I Bentivoglio rientrano in possesso di Bologna 131
Rotta dell'armata del duca d'Urbino a Casalecchio. Giornata degli asini 131
I Bolognesi atterrano la statua del papa 133
1511 La Rocca di Bologna è presa e distrutta dal popolo 134
Il cardinale di Pavia ed il duca d'Urbino si accusano a vicenda di questi rovesci 135
Il duca d'Urbino uccide a pugnalate, in mezzo alle sue guardie, il cardinale di Pavia 136
Ritirata del papa a Roma e suo risentimento 136
Capitolo CVIII. Amministrazione in Firenze del Gonfaloniere Soderini. — Concilio di Pisa; alleanza di Ferdinando il Cattolico con Giulio II e coi Veneziani. — La loro armata combinata si avanza verso Bologna. — Gastone di Foix la costringe a ritrocedere, e ricupera Brescia che si era ribellata. 1511-1512 138
1511 Nullità dei piccoli stati d'Italia 138
1493-1518 Regno di Guglielmo IX, marchese di Monferrato 139
1564-1553 Regno di Carlo III, duca di Savoja 140
Il marchese di Mantova, il duca di Ferrara e quello d'Urbino 141
Le tre repubbliche della Toscana 142
1510 22 dicembre. Conto della sua amministrazione renduto dal Soderini 143
Collera di Giulio II contro il Soderini 144
Congiura di Prinzivalle della Stufa contro il Soderini fomentata da Giulio II 145
29 dicembre. Il Gonfaloniere dà conto al gran consiglio della congiura tramata contro di lui 146
1511 20 gennajo. Legge che trasferisce in ogni evento dal parlamento al gran consiglio il diritto di riorganizzare la repubblica 148
1511 Spira la tregua tra Firenze e Siena 148
Giulio II accorda la sua protezione a Pandolfo Petrucci ed ai Sienesi 150
3 settembre. Trattato di pace e di alleanza tra Siena e Firenze, e restituzione di Montepulciano ai Fiorentini 151
Desiderio di Lodovico XII di riconciliarsi col papa, cui fa nuove offerte 152
Esorbitanti pretese del papa prima di acconsentire alla pace 153
Massimiliano e Lodovico XII chiedono a Giulio II di adunare un concilio 154
16 maggio. S'addirizzano ai cardinali rifugiati a Milano per domandare la convocazione d'un concilio a Pisa 155
18 luglio. Giulio II intima egli stesso un concilio a san Giovanni di Laterano pel susseguente anno 157
20 agosto. Letargo del papa per cui ovunque si sparge la notizia della di lui morte 157
Giulio II, ricuperando la salute, riprende il progetto di cacciare i barbari d'Italia 158
Guerra di Massimiliano ai confini del Friuli 159
Sua irrisoluzione e negoziazioni con Ferdinando e col papa 160
Negoziazioni di Giulio II con Ferdinando il Cattolico 161
Enrico VIII d'Inghilterra si fa pure a proteggere Giulio II 162
1511 Gli Svizzeri si disgustano con Lodovico XII e si attaccano al papa 163
Lodovico XII ricusa agli ambasciatori d'Inghilterra e di Arragona di abbandonare Bologna alle vendette del papa 163
5 ottobre. Confederazione del papa col re Cattolico ed il senato di Venezia, nominata la santa lega, contro la Francia 164
24 ottobre. Il papa degrada i cardinali che avevano convocato il concilio di Pisa 166
1 settembre. Deboli cominciamenti del concilio a Pisa 166
Inquietudine de' Fiorentini quando vedono cominciare il concilio con così poca riputazione 167
10 settembre. I Fiorentini spediscono il Macchiavelli a Lodovico XII per chiedere di traslocare il concilio 168
1.º novembre. Arrivo dei cardinali a Pisa e prima sessione del concilio 169
Cattiva accoglienza fatta dal popolo ai padri del concilio 169
13 novembre. Abbandonano Pisa in disordine a motivo d'una contesa per cagione di alcune prostitute 170
Il Soderini avea perduta la sua popolarità e l'aveano guadagnata i Medici 171
Il Soderini chiede una sovvenzione ai preti dello stato fiorentino 172
La campagna aveva avuto fine senza grandi avvenimenti militari 173
Patimenti e desolazione delle province venete 174
1511 Lodovico XII ordina a La Palisse di attaccare la Romagna 175
Novembre. Scesa degli Svizzeri in Lombardia per Varese 176
Gli Svizzeri si accostano a due sole miglia da Milano 177
Si ritirano nelle loro montagne senza apparente motivo 178
Inquietudine di Lodovico XII intorno alla sua armata e soccorsi che domanda ai Fiorentini 180
I nemici del Soderini non permettono che la repubblica dia potenti ajuti alla Francia 181
Arrivo in Romagna dell'armata spagnuola e pontificia 182
31 dicembre. Presa della bastia di Fossa Geniolo 183
1512 Forza dell'armata adunata ad Imola sotto Raimondo di Cardone 184
26 gennajo. Quest'armata intraprende l'assedio di Bologna 185
Difficoltà nell'attacco di Bologna sotto gli occhi di Gastone di Foix, arrivato a Finale coll'armata francese 186
Le mura di Bologna battute in breccia 188
Preteso miracolo della cappella di Barracano fatta saltare da una mina e ricaduta nello stesso luogo 189
5 febbrajo. Gastone di Foix, duca di Nemours, entra in Bologna colla sua armata senza che gli assedianti se ne accorgano 190
7 febbrajo. Raimondo di Cardone leva l'assedio e ritirasi ad Imola 191
1512 Inquietudini del duca di Nemours per Brescia 191
Il conte Lodovico Avogaro vuole dar Brescia ai Veneziani 192
3 febbrajo. Entra in Brescia coi montanari delle rive del lago di Garda e colle truppe d'Andrea Gritti 193
Sollevazione di Bergamo, degli Orci, di Pontevico e di tutti i castelli 194
Diligenza di Gastone per soccorrere la rocca di Brescia 195
Incontra per via, e sconfigge Gian Paolo Baglioni 195
19 febbrajo. Gastone di Foix attacca Brescia dalla banda della rocca 196
Bajardo pericolosamente ferito nel passaggio del bastione 197
Presa di Brescia, uccisione della guarnigione e degli abitanti 198
Sacco di Brescia e sue funeste conseguenze 200
Capitolo CIX. Battaglia di Ravenna. — Morte di Gastone di Foix ed indebolimento dell'armata francese. — Giulio II si ostina a ricusare la pace; dissimulazione di Massimiliano; irritamento degli Svizzeri, i quali unisconsi ai Veneziani e scacciano i Francesi dall'Italia. 1512 202
1512 La violenza dello spirito di partito travia il giudizio morale dei popoli 202
Influenza dell'opinione pubblica sui giudizj della coscienza 203
Ogni partito crede di sentire un'opinione pubblica che dirige la sua coscienza 204
Il conte Lodovico Avogaro venne dai suoi partigiani risguardato qual martire del patriottismo 205
1512 I Francesi lo risguardarono, ed indicarono, come un traditore 206
Apparente ferocia militare nel carattere di Gastone di Foix 206
Dessa deve ascriversi agl'insensati applausi accordati alle vittorie dei guerrieri 207
Rari talenti di Gastone di Foix per la guerra 208
1511 17 di novembre. Alleanza di Ferdinando con Enrico VIII per attaccare la Guienna e la Navarra 209
1512 4 febbrajo. Enrico VIII pubblica il suo progetto d'attaccare la Francia per difendere il papa 211
Inquietudine che dà a Lodovico XII la condotta di Massimiliano 212
Debolezza degli alleati di Lodovico XII in Italia 212
Gastone di Foix aduna la sua armata al Finale di Modena 213
26 marzo. S'incammina alla volta della Romagna 214
Raimondo di Cardone occupa vantaggiose posizioni, e schiva di venire a battaglia 215
4 aprile. L'ambasciatore di Massimiliano sottoscrive un armistizio di dieci mesi coi Veneziani, e vuol far ritirare i Tedeschi dal campo francese 216
Gastone piega sopra Ravenna per tirarvi Raimondo di Cardone 218
9 aprile. Gastone dà l'assalto alle mura di Ravenna 219
1512 Raimondo di Cardone lascia Faenza per accostarsi a Ravenna 220
10 aprile. Si avanza sull'opposta riva del Ronco in faccia ai Francesi 221
11 aprile. Nemours fa passare il Ronco alla sua armata per venire a battaglia 222
Disposizione dell'armata di Nemours e sua arringa alla truppa 224
Disposizione dell'armata spagnuola nei suoi trincieramenti 225
Cannonamento di due ore tra le due armate 227
Il duca di Ferrara scopre una nuova batteria che prende al lungo tutta la linea spagnuola 228
Gli uomini d'armi del Colonna maltrattati dal fuoco sortono per attaccare i Francesi 230
Gli uomini d'armi spagnuoli sono rotti, ed il Colonna è fatto prigioniere dal duca di Ferrara 231
Furioso attacco tra i landsknecht e la fanteria spagnuola 233
Gli uomini d'armi francesi costringono l'infanteria spagnuola a ritirarsi 233
Gastone di Foix viene ucciso in un'ultima carica contra la fanteria spagnuola 234
Spaventosa carnificina della battaglia di Ravenna 235
Afflizione dei Francesi per la perdita di Nemours e funeste conseguenze della sua morte 237
Gli Spagnuoli malmenati nella loro fuga dai contadini 238
Ravenna presa e saccheggiata dai Francesi 239
1512 I cardinali stringono il papa a fare la pace 240
Gli ambasciatori arragonesi e veneti lo incoraggiano a non cedere 241
Ascolta le proposizioni fattegli a nome del re di Francia 242
Premure di Lodovico XII di trattare la pace col papa 243
Il papa si rassicura e più non ode consiglj di pace 244
3 maggio. Il papa fa l'apertura del concilio di Laterano, e fa che i suoi cardinali lo consiglino a proseguire la guerra 245
La dieta di Zurigo accorda al papa di levare sei mila uomini ne' cantoni 246
Massimiliano accorda agli Svizzeri il passaggio onde unirsi ai Veneziani prima di entrare nel Milanese 247
Motivi di Massimiliano per entrare nella lega contro la Francia 247
Gli Svizzeri si adunano a Coira in numero di venti mila 250
Difficoltà in cui trovasi La Palisse per far testa a tanti nemici, ed indisciplina della sua armata 250
La Palisse riunisce a Pontoglio la sua armata assai più debole che non quella degli alleati 253
Dopo essersi riuniti nel Veronese a G. P. Baglioni, gli Svizzeri risolvono d'incamminarsi verso Milano 253
La Palisse distribuisce una metà della sua armata nelle terre murate della Lombardia 254
Fine di maggio. Tutti i Tedeschi dell'armata di La Palisse richiamati da un ordine dell'imperatore 255
1512 5 di giugno. Gli Svizzeri prendono possesso di Cremona a nome di Massimiliano Sforza, duca di Milano 256
I Francesi abbandonano Milano, ed il cardinale de' Medici fugge loro di mano 256
La Palisse costretto dagli Svizzeri ad evacuare Pavia si ritira in Piemonte 257
I Bentivoglio lasciano Bologna, e questa città è dal papa castigata 258
29 giugno. Giano Fregoso nominato doge di Genova dopo la ritirata del governatore francese 259
Gli Svizzeri taglieggiano il ducato di Milano senza avere riguardo al loro alleato Massimiliano Sforza 260
Giulio II riunisce Parma e Piacenza alla santa sede 261
Capitolo CX. Sommissione del duca di Ferrara al papa, e sua fuga da Roma. Ingresso degli Spagnuoli in Toscana; sacco di Prato; deposizione del Soderini; richiamo dei Medici al governo di Firenze. Discordia tra i confederati della santa lega; nuove negoziazioni; morte di Giulio II. 1512-1513 262
1512 Le vendette popolari non sono prova d'un odio lungamente contenuto 262
Cattiva inclinazione naturale al popolo, d'attaccare quegli che è troppo debole per difendersi 263
Tutte le armate in ritirata sempre inseguite dai contadini 264
Carattere de' soldati francesi nelle guerre d'Italia 265
1512 Carattere degli Spagnuoli 266
Carattere de' Tedeschi e degli Svizzeri 267
Vendette popolari esercitate contro i Francesi a Ravenna 268
Le stesse vendette in Milano ed in tutta la Lombardia 269
8 giugno. Sbarco degl'Inglesi in Guipuscoa, che richiama le armi di Lodovico XII verso la Guienna e la Navarra 270
Pericoli che corre Alfonso d'Este dopo la ritirata de' Francesi 271
Fabrizio Colonna gli procura un salvacondotto per andare a Roma 272
4 luglio. Alfonso d'Este giugne a Roma per impetrare la sua assoluzione 272
Discorso d'Alfonso al papa nell'atto d'ottenere l'assoluzione 273
Non potendo Alfonso ottenere la licenza di ritirarsi, i Colonna sforzano le porte di Roma per porlo in sicuro 276
Discordia della santa lega per la divisione delle conquiste 276
Pretese del papa sugli stati di Parma e Piacenza 276
Pretese di Massimiliano sullo stato veneto e sul ducato di Milano 277
Pretese degli Spagnuoli, degli Svizzeri e de' Veneziani 278
Tutti i confederati d'accordo per opprimere la repubblica di Firenze 279
Luglio. Condizioni sotto le quali il papa offre la sua protezione ai Fiorentini 280
Condizioni loro offerte dall'imperatore 280
1512 Giuliano dei Medici chiede alla dieta degli alleati, adunata in Mantova, di ristabilire la sua famiglia in Firenze 281
I Fiorentini non avendo voluto redimersi, la lega li fa attaccare dall'armata spagnuola 282
I Fiorentini avevano avuto l'imprudenza di tenersi disarmati 283
20 agosto. Raimondo di Cardone attraversa l'Appennino coll'armata spagnuola 284
Il Gonfaloniere consulta il gran consiglio intorno alle domande de' nemici 285
Fa il confronto del carattere de' Medici, prima dell'esilio, con quello che avrebbero dopo la loro tornata 286
I Fiorentini non acconsentono al ritorno dei Medici che a condizione di non cambiar nulla nel loro governo 288
Gli Spagnuoli giungono sotto Prato 289
Nuove trattative tra gli Spagnuoli ed il Gonfaloniere 290
30 agosto. Gli Spagnuoli danno l'assalto e prendono Prato 291
Orribili crudeltà esercitate dagli Spagnuoli in Prato 291
Spavento de' Fiorentini quando hanno notizia della presa di Prato 292
Bartolomeo Valori e i suoi amici vogliono cambiare il governo 293
31 agosto. Arrestano il Gonfaloniere nel palazzo pubblico 294
Il Gonfaloniere deposto si ritira a Ragusi 295
1512 Contribuzioni imposte dal vicerè ai Fiorentini 296
2 settembre. Giuliano dei Medici rientra in Firenze, e mostra di acconsentire alla conservazione della libertà 297
7 di settembre. La nuova legge che modifica la costituzione senza distruggerla. Il Ridolfi eletto gonfaloniere 297
Il cardinale dei Medici ed i suoi amici non sono soddisfatti della nuova legge 298
14 di settembre. Il cardinale fa il suo ingresso in Firenze in apparato militare 298
16 di settembre. Il suo corteggio occupa il palazzo pubblico, e chiede l'assemblea del parlamento 299
Il parlamento investe della sovranità una balìa scelta dai Medici 300
Formazione d'una stretta oligarchia per governare sotto i Medici 301
18 di settembre. La balìa licenzia la milizia e disarma il popolo 301
2 di novembre. Filippo Buondelmonti nominato gonfaloniere 303
Enumerazione degl'individui della casa dei Medici che rientrano in Firenze 304
Cortigiani dei Medici che si vantano di avere tradita la patria 304
18 settembre. L'armata spagnuola lascia Prato per passare in Lombardia 305
25 novembre. Il vescovo di Gurck, segretario di Massimiliano, viene festeggiato in Roma e nominato cardinale 306
Congresso di Roma. Vicendevoli lagnanze degli alleati 307
1512 Pretese di Massimiliano contro i Veneziani 308
25 di novembre. Nuova alleanza del papa coll'imperatore 309
29 dicembre. Il cardinale di Sion consegna le chiavi delle porte di Milano al nuovo duca Massimiliano Sforza 311
L'alleato di Lodovico XII, Giovanni d'Albret, spogliato da Ferdinando del regno di Navarra 312
1513 Lodovico XII fa retrocedere la sua armata verso l'Italia e vi cerca nuovi alleati 313
Ferdinando il Cattolico e Massimiliano offrono la loro alleanza a Lodov. XII 313
Sforzi di Lodovico XII per riconciliarsi cogli Svizzeri, ed impedire la loro alleanza col duca di Milano 314
Trattative di Lodovico XII coi Veneziani 316
Trattato tra Lodovico XII ed i Veneziani 316
Trattative contraddittorie di tutte le potenze 317
Attività di Giulio II, sue negoziazioni e suoi progetti per iscacciare tutti i barbari d'Italia 318
Cade pericolosamente infermo 319
21 febbrajo. Morte di Giulio II 320
Capitolo CXI. Leon X succede a Giulio II; spedizione di La Tremouille in Lombardia; sua sconfitta a Novara; disfatta di Bartolomeo d'Alviano all'Olmo; la guerra in Italia si tratta debolmente; negoziazione; morte di Lodov. XII. 1513-1515 322
1513 Giulio II erasi fatti dei doveri conformi alle sue passioni 322
Aveva amore per la libertà, e la rispettava a Genova, a Venezia e nelle città dello stato della Chiesa 323
Sua stima per la libertà bellicosa degli Svizzeri 324
Accusava i Medici d'avere rapita la libertà alla loro patria 324
Molestia che avea cagionato l'impetuoso carattere di Giulio II 325
Desiderio universale che il suo successore non gli rassomigliasse 325
4 marzo. Venticinque cardinali si chiudono in conclave 326
Il partito dei giovani porta sulla santa sede il card. Gio. de' Medici 327
Riconciliazione de' Medici coi Soderini 328
11 di marzo. Giovanni de' Medici eletto papa sotto il nome di Leon X 328
11 di aprile. Solenne coronazione di Leon X a san Gio. di Laterano 329
Contrapposto tra il risparmio di Giulio II e la prodigalità di Leon X 330
Leon X conferisce l'arcivescovado di Firenze a suo cugino Giuliano 331
Festa dei Fiorentini per l'elezione di Leon X 331
Supposta cospirazione a Firenze, per la quale il Macchiavelli è posto alla tortura 332
Leon X fa riporre in libertà i prevenuti salvatisi dal supplicio 334
12 di ottobre. Costringe i Lucchesi a restituire Pietra Santa e Mutrone ai Fiorentini 334
1513 Raimondo di Cardone occupa Parma e Piacenza, e Leone ripete queste due città 335
1.º d'aprile. Tregua d'Ortes nel Bearnese tra la Francia e la Spagna 336
24 marzo. Trattato d'alleanza di Blois tra la Francia e Venezia 337
Armata del re di Francia sotto gli ordini di La Tremouille e di Trivulzio 338
Bartolomeo d'Alviano si avanza coll'armata veneziana, e Raimondo di Cardone si ritira 339
Gli Svizzeri vengono a difendere il duca di Milano, e si afforzano a Novara 340
Milano si sottomette ai Francesi; sollevazione di tutta la Lombardia 341
Tentativi de' Francesi per vittovagliare la Lanterna di Genova 342
Maggio. Antoniotto Adorno, coll'ajuto de' Francesi, scaccia i Fregosi da Genova, ed è riconosciuto doge 343
Massimiliano Sforza assediato in Novara da que' medesimi generali che avevano fatto prigioniere suo padre 344
Ardire degli Svizzeri che lasciano aperte le porte di Novara 345
4 giugno. Avvicinamento di altri corpi di Svizzeri 346
5 giugno. I Francesi si ritirano a Riotta ed a Trecase, e trascurano di afforzarvisi 348
6 giugno. Gli Svizzeri, appena entrati nel Novarese, vanno ad attaccare i Francesi 349
Prendono l'artiglieria che voltano contro i landsknecht 350
1513 Vergognosa fuga degli uomini d'armi francesi 351
L'armata francese non osa fermarsi in Piemonte, e ripassa le Alpi 353
17 di giugno. Gli Adorni si ritirano da Genova e viene eletto doge Ottaviano Fregoso 354
13 giugno. Il Cardone cogli Spagnuoli passa il Po, e Bartolomeo d'Alviano si ritira nel Vicentino 355
Egli si chiude in Padova, il Baglioni in Treviso, Renzo di Ceri in Crema ed i Veneziani abbandonano il resto del paese 356
Gli Spagnuoli e Leon X attaccano i Veneziani senza essere provocati 356
Il cardinale di Gurck, luogotenente dell'imperatore, prende la direzione della guerra 358
28 luglio. Il Cardone, dietro le istanze del cardinale, assedia Padova 359
16 agosto. È costretto a levare l'assedio 360
Dirige la sua artiglieria contro i palazzi di Venezia 360
6 ottobre. L'Alviano esce di Padova per tagliare la ritirata agli Spagnuoli 361
Gli aspetta all'Olmo lontano due miglia da Vicenza 362
7 di ottobre. Gli Spagnuoli cercano di ritirarsi verso Bassano e Trento 363
Pericolo della loro armata tribolata dagli Stradioti e dai contadini 364
L'Alviano, importunato dal provveditore Loredano, risolve di attaccare gli Spagnuoli 364
1513 Viene battuto a motivo dell'estrema viltà della sua fanteria 365
Gli Spagnuoli prendono i quartieri d'inverno ne' monti Euganei 366
La guerra si trasporta sopra un altro teatro fuori d'Italia 367
16 agosto. Giornata degli Speroni , fuga de' Francesi presso Terovane 368
9 settembre. Battaglia di Flowden, in cui Giacomo IV di Scozia, alleato della Francia, resta sconfitto ed ucciso 369
Settembre. Gli Svizzeri assediano Digione; capitolazione di La Tremouille 370
15 di ottobre. Flotta francese distrutta ad Honfleur dalla burrasca 371
1514 3 gennajo. Incendio del più ricco quartiere di Venezia 371
I nemici della Francia cominciano a temere di averla soverchiamente abbassata 371
Terrore che cagiona all'Italia il nuovo sultano Selim 373
Leon X cerca di negoziare la pace tra l'imperatore ed i Veneziani 373
Riconcilia la Francia alla santa sede 374
1513 17 dicembre. Lodovico XII abjura lo scisma ed il concilio di Pisa 375
1514 Leon X vuole rappattumare la Francia cogli Svizzeri 376
Ferdinando rinnova la tregua colla Francia, ed offende in tal modo il re d'Inghilterra 377
7 agosto. Pace tra la Francia e l'Inghilterra, terzo matrimonio di Lodovico XII 377
1514 26 agosto. La Lanterna di Genova si arrende ad Ottaviano Fregoso, che la fa spianare 378
Massimiliano non vuole fare la pace con Venezia 379
Cristoforo Frangipane guasta il Friuli 380
Il Frangipane battuto da Girolamo Savorgnano e dall'Alviano 381
Vantaggi ottenuti dall'Alviano ad Este e Rovigo contro gli Spagnuoli 382
Bella difesa di Renzo di Ceri a Crema 382
Falsità di Leon X nelle sue negoziazioni 383
La politica del nuovo pontefice meno nobile di quella di Giulio II 384
Settembre. Occupa Modena e vuole formare una sovranità cispadana per Giuliano de' Medici, suo fratello 385
Pensa pure a collocarlo sul trono di Napoli 386
Lodov. XII lo affretta a dichiararsi 387
1515 1.º gennajo. Morte di Lodov. XII cagionata dal matrimonio 388
La somma sua economia fu la principale sua virtù 390
Sua debolezza e mala fede 390
Sua crudeltà in guerra e verso Lodovico Sforza 391
Sua condotta domestica colle tre mogli 392
Capitolo CXII. Francesco I assume il titolo di duca di Milano; passa le Alpi; batte gli Svizzeri a Marignano e conquista il Milanese. — Invasione di Massimiliano in Lombardia e sua ritirata. — Diversi trattati che pongono fine alle guerre prodotte dalla lega di Cambrai. 1515-1517 394
1515 1.º di febbrajo. Successione di Francesco I al regno di Francia, ed al titolo di duca di Milano 394
Successione di due monarchi nati in privata condizione 395
Qualità brillanti sviluppate in Francesco I da una privata educazione 395
Gl'Italiani credono che Francesco I differisca un anno l'annunciata spedizione d'Italia 396
24 di marzo, 5 d'aprile. Francesco rinnova i trattati di alleanza con Carlo d'Austria e con Enrico VIII 397
Ferdinando, Massimiliano, gli Svizzeri ed il papa ricusano di entrare in trattative di pace 398
27 di giugno. Francesco I rinnova l'alleanza della Francia colla repubblica di Venezia 398
Trattato d'Ottaviano Fregoso, doge di Genova, colla Francia 399
Francesco I raguna un'armata nel Delfinato 400
Pietro Navarro passa al suo servigio, e forma per lui un corpo di fanteria basca 401
Gli Svizzeri s'innoltrano fino a Susa per chiudere il passaggio delle montagne ai Francesi 402
Il maresciallo Trivulzio cerca un passaggio per circondare l'armata svizzera 403
10 di agosto. L'armata francese s'interna tra le giogaje e le anguste valli dell'Argentiera 404
1515 14 di agosto. Giugne nelle pianure del marchesato di Saluzzo, in riva alla Stura 405
La Palisse e Bajardo formano l'ala destra dell'armata, e passano per Sestiere 406
15 di agosto. Sorprendono Prospero Colonna a Villafranca, e lo fanno prigioniere 407
Giuliano de' Medici cede il comando dell'armata pontificia a suo nipote Lorenzo 408
Leon X fa dire a suo nipote di non attaccare i Francesi 408
Il Cardone coll'armata spagnuola è tenuto di vista da Bartolomeo d'Alviano e dai Veneziani 409
Gli Svizzeri domandano ed ottengono una sospensione di armi per ritirarsi a Novara 409
Un partito francese tra gli Svizzeri vuol trattare con Francesco I 410
Gli Svizzeri, scontenti di non ricevere i promessi sussidj, saccheggiano la cassa del commissario pontificio 411
Negoziazioni e trattato conchiuso a Gallarate per mezzo del bastardo di Savoja e di Lautrec 412
Francesco spedisce il suo danaro contante a Buffalora, onde fare un primo pagamento agli Svizzeri 413
Arrivo di venti mila nuovi Svizzeri a Monza, che non vogliono accettare la pace 414
Sette mila Svizzeri, non volendo ricominciare la guerra, tornano nella loro patria 415
1515 L'armata francese occupa tutta la Lombardia fino alle porte di Milano 415
Il cardinale di Sion riconduce quattrocento cavalli all'armata svizzera 416
Bartolomeo d'Alviano prende posto a Lodi; ed il Cardone con Lorenzo de' Medici a Piacenza 417
Francesco I colloca la sua armata in faccia a Marignano, a san Donato e a santa Brigida 418
13 di settembre. Il cardinale di Sion eccita gli Svizzeri alla battaglia 418
Escono da Milano per sorprendere il re tre ore prima di notte 420
Il re affretta l'Alviano a condurre l'armata veneziana in suo soccorso 420
Gagliardo attacco degli Svizzeri contro il campo francese, che trovasi in cattiva situazione 421
Gli Svizzeri s'impadroniscono delle batterie del Navarro 422
La battaglia dura quattr'ore al lume della luna 423
Durante la notte i Francesi si raccolgono intorno al re, rimasto quasi solo presso all'artiglieria 424
Ristabiliscono le loro batterie, e prendono una migliore posizione 425
14 di settembre. Si rinnova la battaglia, e gli Svizzeri provano la peggio 426
Bartolomeo d'Alviano giunge al campo di battaglia, e gli Svizzeri, credendolo seguito da tutte le sue genti, si ritirano 427
1515 Spaventosa carnificina della battaglia di Marignano 428
Il re si fa armare cavaliere da Bajardo 429
Arma egli stesso Fleuranges e molti altri 429
Pericolo corso di Bajardo durante la notte 430
15 di settembre. Gli Svizzeri lasciano Milano per tornare nel loro paese 431
Massimiliano Sforza non conserva che i castelli di Milano e di Cremona 432
Pietro Navarro intraprende l'assedio del castello di Milano colle mine cariche 433
4 di ottobre. Il duca spaventato capitola, ed acconsente a vivere in Francia, rinunciando ai suoi diritti 433
Francesco non vuole entrare in Milano che dopo la capitolazione del castello 435
Abbandona il partito de' patriotti a Firenze per trattare col papa 436
13 di ottobre. Convenzione di Viterbo tra Francesco I e Leon X 437
Gli Svizzeri evacuano le podesterie italiane, e Cardone la Lombardia 437
Gli ambasciatori veneziani chiedono a Francesco I i promessi soccorsi 438
Il comandante di Brescia riceve i rinforzi prima che l'armata di Venezia giunga sotto le sue mura 439
7 di ottobre. Morte di Bartolomeo di Alviano a Ghedo 440
1515 Gian Giacopo Trivulzio intraprende l'assedio di Brescia 442
Rockandolf con 8,000 Tirolesi costringe i Francesi ed i Veneziani a levare l'assedio di Brescia 442
10-15 dicembre. Conferenza di Francesco I e di Leon X a Bologna 443
Francesco sagrifica al papa il duca di Urbino e la libertà della Chiesa gallicana 444
7 di novembre. Trattato di Ginevra tra la Francia e gli otto cantoni svizzeri 445
Francesco sospende l'esecuzione dei suoi progetti sul regno di Napoli fino alla morte di Ferdinando il Cattolico 446
1516 Gennajo. Francesco I licenzia la sua armata e parte alla volta della Francia 447
15 di gennajo. Morte di Ferdinando il Cattolico 448
Ritratto che di questo re fa il gesuita Mariana 448
Cosa ne pensavano il Macchiavelli ed il suo amico Fr. Vettori 449
Ferdinando, prima di morire, ed Enrico VIII mandano danaro a Massimiliano 450
Marzo. Questi aduna un grande esercito per attaccare l'Italia 451
Il contestabile di Borbone lasciato governatore a Milano 451
Il Trivulzio ed il Lautrec levano l'assedio di Brescia all'avvicinarsi dell'imperatore 452
1516 Massimiliano si trattiene ad assediare Asola, che non può prendere 454
I Francesi si chiudono in Milano e ne bruciano i sobborghi 454
I Francesi ricevono un rinforzo di dieci mila Svizzeri 455
Conferenze fra gli Svizzeri delle due armate, ed inquietudine che cagionano ai due generali 456
Il maresciallo Trivulzio accresce artificiosamente il terrore di Massimiliano, che teme che gli Svizzeri non lo consegnino ai Francesi 456
Massimiliano abbandona il suo campo improvvisamente e torna in Germania 457
Il Lautrec succede al duca di Borbone nel governo di Milano 458
24 maggio. La città di Brescia capitola, e torna ai Veneziani 458
Il Lautrec ricusa d'assediare Verona, e si pone d'accantonamento presso Peschiera 459
28 luglio. Vicenza presa e saccheggiata dai Tedeschi 459
13 agosto. Trattato di Noyon, tra Carlo re di Spagna e Francesco I 460
Condizioni alle quali Massimiliano poteva accedere al trattato 461
20 agosto. L'armata francese e veneta intraprende l'assedio di Verona, e lo leva all'avvicinarsi di Rockandolf 462
29 novembre. Trattato di pace perpetua tra gli Svizzeri e la Francia 463
1516 18 agosto. Trattato del concordato tra la Francia e la corte di Roma 464
Imprudenza dei sacrificj con cui Francesco cercava di riconciliarsi con Leon X suo implacabile nemico 464
17 marzo. Morte di Giuliano de' Medici, che mette in libertà il papa di pubblicare un monitorio contro il duca d'Urbino 466
30 maggio. Francesco della Rovere spogliato dal papa del ducato d'Urbino 467
4 dicembre. Massimiliano accede al trattato di Noyon 469
1517 28 gennajo. Verona è renduta ai Veneziani, e la pace ristabilita in Italia 469
Capitolo CXIII. Ribellione e guerra d'Urbino. Cospirazione dei cardinali contro il papa. Ambizione di Leon X. S'unisce a Carlo V contro Francesco I. Conquista del Milanese colle armate riunite. Morte di Leon X. 1517-1521 471
1517 I Veneziani consolano, e danno incoraggiamento ai sudditi che vengono loro renduti 471
La guerra della lega di Cambrai aveva attaccato le parti vitali della loro repubblica. Venalità 472
Ruina delle manifatture, del monopolio del sale, del traffico d'Egitto 473
Concorrenza dei Portoghesi al traffico delle Indie 474
Ruina del commercio d'Affrica e di Spagna tenuto vivo inaddietro dalle galere del traffico 475
1517 Il senato si occupa del ripristinamento dell'agricoltura, del commercio, dell'università di Padova 476
Cerca d'allontanare i soldati licenziati che trovavansi in grosso numero ai confini dello stato 477
Il duca d'Urbino si offre a questi soldati per condurli contro la Chiesa, e riavere i suoi stati 477
23 gennajo. Si pone in cammino con un'armata somigliante alle compagnie di ventura 478
Leon X invoca il soccorso della Francia, della Spagna, dell'impero 479
Spedisce Lorenzo de' Medici per arrestare il duca in Romagna 479
5 febbrajo. Il duca d'Urbino rientra nella sua capitale 480
Incapacità di Lorenzo de' Medici, e viltà delle sue truppe 481
4 aprile. Lorenzo è ferito nel capo all'assedio di Mondolfo 482
Gioja de' Fiorentini che lo credono morto 482
24 maggio. Lorenzo entra in Firenze per disingannarli 483
Il cardinale di Bibiena incaricato in di lui assenza del comando dell'armata, è abbandonato da' suoi soldati 483
10-15 maggio. Il duca d'Urbino minaccia Siena e Perugia 484
Scuopre una cospirazione nel suo campo e fa punire i cospiratori dai loro commilitoni 485
Nuove invasioni del duca d'Urbino nella Marca d'Ancona ed in Toscana 486
1517 Agosto. Il duca d'Urbino tratta col papa e si ritira a Mantova 486
Irritamento del cardinale Alfonso Petrucci contro Leon X 488
1515 10 marzo. Leon X avea scacciati i fratelli Petrucci da Siena 489
1517 Discorsi minaccianti dal Petrucci, e suo incerto progetto per far avvelenare Leon X 490
Egli s'allontana da Roma, e Leon X lo richiama mandandogli un salvacondotto 491
Torna; viene imprigionato e posto alla tortura 492
21 giugno. È strozzato in prigione, ed altri cardinali vengono condannati a varie pene 493
Giugno. Spavento del sacro collegio pei rigori usati contro i loro membri 495
16 marzo. Ultima sessione del quinto concilio di Laterano 495
1.º luglio. Promozione di trentuno cardinali in una sola volta 496
11 marzo. Alleanze delle grandi potenze d'Europa contro i Turchi 497
8 ottobre. Rinnovamento dell'alleanza tra la Francia e Venezia 499
1518 Gennajo. Matrimonio di Lorenzo de' Medici con una cugina del re di Francia 500
Riputazione data dai letterati e dagli artisti a Leon X 501
Leone si prende poco pensiero delle prediche di Lutero, e continua lo scandaloso traffico delle indulgenze 502
1518 Non si occupa che de' suoi piaceri, ed anche la sua liberalità è del tutto egoistica 503
Agosto. I Veneziani prolungano per cinque anni la tregua con Massimiliano 504
Disgrazia e morte del maresciallo Gian Giacopo Trivulzio 505
1519 19 di gennajo. Morte di Massimiliano a Lintz 506
Rivalità di Francesco I e di Carlo per la corona dell'impero 506
Desiderio del papa e delle più deboli potenze, perchè sia data ad altri 507
28 aprile. Morte di Lorenzo de' Medici, ultimo maschio legittimo tra i discendenti del vecchio Cosimo 508
Leon X destina il cardinale Giulio de' Medici al governo di Firenze 510
Riunisce il ducato d'Urbino alla Chiesa, e cede Montefeltro alla repubblica fiorentina 511
Sforzi degli ambasciatori francesi per corrompere col danaro gli elettori dell'impero 512
28 giugno. Carlo V eletto imperatore 513
20 febbrajo. Morte di Francesco Gonzaga; successione di Federico II al marchesato di Mantova 514
Caduta delle mura di Ferrara in tempo dell'infermità del duca Alfonso 515
Tentativo di Leon X per sorprendere Ferrara col mezzo del vescovo di Ventimiglia 515
Leon X pensa a spogliare altri feudatarj della Chiesa 517
1520 Cita Giovan Paolo Baglioni a Roma, ed in pari tempo gli manda un salvacondotto 518
Fa perire il Baglioni ed occupa Perugia 519
Fa attaccare ed uccidere Lodovico Freducci, signore di Fermo 520
Fa perire altri signori ch'erano venuti a porsi tra le sue mani 521
Tenta di sedurre il capitano delle guardie del duca di Ferrara, per far avvelenare il suo padrone 522
Cerca di riaccendere la guerra, sperando di scacciare i barbari d'Italia 524
Principj di dissensione tra Carlo V e Francesco I 524
1521 Indirette ostilità nella Navarra e nelle Ardenne 526
5 maggio. Nuova alleanza della Francia cogli Svizzeri conchiusa in Lucerna 527
Il papa assolda degli Svizzeri prima di avere deciso con quale de' rivali monarchi vorrà unirsi 527
Preliminarj d'alleanza del papa con Francesco I 528
Scontento del papa perchè Francesco I tarda a ratificarla 529
8 maggio. Il papa fa alleanza coll'imperatore contro la Francia 529
Gli alleati promettono il ducato di Milano a Francesco II Sforza 530
Apparecchiano una congiura contro i Francesi in tutta la Lombardia 531
Fanno attaccare Genova dai due Adorni, che sono respinti 532
1521 Il signore di Lescuns, fratello del Lautrec, governava in sua assenza Milano 533
24 di giugno. Si presenta sotto Reggio armata mano, e viene arrestato dal Guicciardini, poi rimesso in libertà 534
Manfredo Pallavicini vuole sorprendere Como, e vi è fatto prigioniere, indi mandato al supplicio 535
1.º agosto. Leon X dichiara la guerra alla Francia, e fa avanzare la sua armata fino alla Lenza 536
Malcontento de' Milanesi cagionato dalle vessazioni di Lautrec 540
Lautrec torna a Milano, e non vi trova il danaro promessogli dal re 541
Lentezza di Prospero Colonna, generale della lega, prima d'attaccare i Francesi 542
29 d'agosto. Apre le sue batterie contro Parma 542
1.º settembre. Occupa il sobborgo di Codiponte 544
2 settembre. Si ritira all'avvicinamento di Lautrec e del duca di Ferrara 545
Reciproca diffidenza tra i capitani del papa e dell'imperatore 546
1.º ottobre. Prospero Colonna passa il Po, e porta la guerra nel Cremonese 546
Il Lautrec lascia fuggire l'occasione di battere Prospero Colonna a Rebecco 547
Malcontento e diserzione degli Svizzeri dell'armata di Lautrec 548
16 novembre. Prospero Colonna sforza il passaggio dell'Adda 550
1521 19 novembre. Il Colonna ed il Pescara entrano in Milano 551
Lautrec si ritira nello stato di Brescia per isvernarvi 553
Lodi, Pavia, Piacenza e Parma si danno agli alleati 553
Il Pescara lascia saccheggiar Como, a dispetto della capitolazione 553
24 di novembre. Gioja di Leon X seguita immediatamente da una malattia 554
1.º dicembre. Leon X muore in un modo inopinato 555
Sospetti d'avvelenamento posti in tacere da suo cugino il cardinale de' Medici 556
Fine della Tavola.
NOTE:
1. Jo. Marianae de rebus Hispaniae, l. XXIX, c. XIX, p. 287.
2. Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXIX, c. XIX, p. 228. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 437.
3. P. Bembi Hist. Ven., l. VIII, p. 183.
4. P. Bembi Hist. Ven., l. VIII, p. 186.
5. P. Bembi, l. VIII, p. 189. — Fr. Belcarii Rer. Gallic. Comm., l. XI, p. 323.
6. Mém. du chev. Bayard, t. XV, ch. XXX, p. 77.
7. Fr. Guicciardini, l. VII, p. 439. — P. Bembi, l. VIII, p. 190. — Anon. Padov. MS. presso Muratori Ann. d'Italia, t. X, p. 50. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 24. — Jacopo Nardi, l. V, p. 209. — Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXIX, c. XX, p. 289. — Fr. Belcarii Comment., l. XI, p. 324.
8. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 440. — P. Bembi, l. IX, p. 193.
9. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 442. — Anon. Padov. MS. presso Murat. Ann. d'Italia, t. X, p. 51. — P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 196. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 50. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. V, p. 210.
10. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 441. — Fr. Belcarii Comment. Rer. Gallic., l. XI, p. 324.
11. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 440. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 324.
12. Cioè il castello di Pieve di Cadore, capitale della provincia di tal nome. N. d. T.
13. Altro non può essere la Val di Sera di cui parla il nostro autore. N. d. T.
14. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 443.
15. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 444-451. — Pietro Bembo, l. IX, p. 199. — Mémoir. du chev. Bayard, t. XV, ch. XXXIII, p. 90.
16. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 451. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 327.
17. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 444. — P. Bembi, l. IX, p. 199.
18. P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 197.
19. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 449. — P. Bembi, l. IX, p. 198.
20. Mémoir. du chev. Bayard, par son loyal serviteur, ch. XXXII, p. 84. — Mém. du jeune adventureux maréchal de Fleuranges, t. XVI, p. 57. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 450. — Petri Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 198. — Jac. Nardi, l. V, p. 211.
21. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 452. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. V, p. 211.
22. Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXIX, c. XX, p. 289.
23. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 453. — P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 201. — Jac. Nardi Hist. Fior., l. V, p. 211.
24. Mém. du chev. Bayard, ch. XXXIV, p. 94.
25. Mém. du chev. Bayard, ch. XXXVII et XXXVIII, p. 116-127. — Mémoir. de Fleuranges, t. XVI, p. 58.
26. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 453. — P. Bembi, l. IX, p. 203. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 24. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 328.
27. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 455. — Bembi Hist. Ven., l. X, p. 205.
28. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 455. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 329. — Parisii de Grassis Diar. Curiae Rom., t. III, p. 485. — Rayn. Ann. Eccl. 1509, § 20, p. 70.
29. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 456.
30. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 454. — Jac. Nardi, l. V, p. 212. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 289. — Diario del Bonaccorsi, p. 144. — Legazione del Macchiavelli a Mantova, missione del 10 di novembre 1509, t. VI, p. 289.
31. Fr. Guicciardini l. VIII, p. 458. — P. Bembi, l. IX, p. 205. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 330. — Macchiavelli Legazione a Mantova, lett. 1, 17 novembre 1509, t. VII, p. 293.
32. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 458. — P. Bembi, l. IX, p. 208. — Macchiavelli Legazione lett. 4, 22 novembre 1509, ex Verona, p. 298.
33. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 459. — P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 207.
34. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 460. — P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 209. — P. Giovio vita di Alfonso da Este, p. 26.
35. Ariosto, Orlando Furioso, canto 36, st. 6-8. — Petri Bembi, l. IX, p. 209. — Paolo Giovio vita di Alfonso, p. 27.
36. P. Bembi Hist. Ven., l. IX, p. 211, l. X. p. 218 — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 462. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 331. — Jac. Nardi Hist. Flor., l. V, p. 213. — Ariosto Orl. Fur., can. III, st. 57.
37. Mémoires de Bayard, c. XXXIX e XL, p. 127-148. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 463.
38. Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 463.
39. Ivi. — P. Bembi, l. X, p. 216.
40. Il trattato di pace presso Rayn. Ann. Eccl 1510, § 2-6, p. 73. — P. Bembi, l. IX, p. 213. — Jac. Nardi, l. V, p. 213.
41. Giornale di Paride de' Grassi, maestro delle cerimonie del papa, presso il Rayn. An. Eccl. 1510, § 7-10, p. 74. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 467. — P. Bembi, l. X, p. 218. — P. Giovio vita di Alfonso, p. 32.
42. Rymer Foedera et Conventiones, t. XIII, p. 275.
43. Ivi, p. 270. — P. Bembi, l. X, p. 221.
44. Fr. Guicciardini l. IX, p. 469. — Josias Symler descriptio Vallesiae et Alpium, l. II, p. 159. — Jac. Nardi, l. V, p. 215. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 335.
45. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 470. — Raynaldi, Ann. Eccl. 1510, § 13, p. 75.
46. Fr. Guicciardini, l. IX, p, 472. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 338.
47. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 471. — P. Bembi Hist. Ven., l. X, p. 228.
48. P. Bembi Ist. Ven., l. X, p. 223.
49. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 469. — P. Bembi, l. X, p. 227.
50. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 473. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 339.
51. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 474. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 339.
52. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 477. — Sembra che in allora, dietro i consigli di Chaumont, siasi accontentato di una contribuzione di 50,000 ducati per salvare le case. P. Bembi, l. X, p. 225. — Gio. Cambi, p. 238.
53. Mémoires du chev. Bayard, c. XL, p. 152. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 55. — Fr. Guicciardini, l. IX, p. 477. — P. Bembi, l. X, p. 225. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 340. — Gio. Cambi, Ist. Fior., p. 239.
54. Mémoires de Fleuranges, t. XVI, p. 63.
55. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 479. — P. Bembi, l. X, p. 226. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 340. — Jac. Nardi, l. V, p. 214. — P. Giovio vita di Alfonso, p. 35. — Mémoires du cheval. Bayard, c. XL, p. 149.
56. Macchiavelli Legaz. alla corte di Francia, lettera 16 da Blois del 2 settembre 1510, t. VII, p. 380. — Mém. de Bayard c. XL, p. 151.
57. Hist. de la Diplomatie française, t. I, l. II, p. 293. — Fr. Guicciardini, l. IX, p. 479. — P. Bembi Ist. Ven., l. X, p. 226.
58. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 479. — P. Bembi, l. X, p. 229.
59. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 480. — Jac. Nardi, l. V, p. 214. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XXIII, p. 294.
60. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 480. — P. Bembi, l. X, p. 229. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XXIII, p, 294. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 337. — Mém. de Bayard, t. XV, c. XL, p. 151.
61. Macchiavelli Legazione a Mantova lettera 6, da Verona 26 novembre 1509, t. VII, p. 304.
62. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 481.
63. Mém. du chev, Bayard, c. XL, p. 157. — Fr. Guicciardini, l. IX. p. 481. — P. Bembi, l. X, p, 230. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 342. — P. Giovio vita d'Alfonso d'Este, p. 36.
64. Fr. Guicciardini l. IX, p. 482. — P. Bembi Ist. Ven., l. X, p. 231. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 342.
65. Anche le persone più attaccate al curialismo di Roma non accordano l'infallibilità al papa che nelle cose risguardanti il domma. N. d. T.
66. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 483. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 342.
67. Ann. Eccl. 1510, § 15, p. 76. — P. Bembi Hist. Ven., l. X, p. 233. — Jo. Marianae de reb. Hispan., l. XXIX, c. XXIII, p. 294. — P. Giovio vita di Alfonso d'Este, p. 41. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 343.
68. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 484. — Rayn. Ann. Eccl. 1510, § 25, p. 80. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 343. — Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXIX, c. 24, p. 295. — Jac. Nardi, l. V, p. 214. — P. Giovio vita d'Alfonso, p. 50.
69. Rayn. Ann. Eccl. 1510, § 18, 19, p. 178. — Fr. Guicciardini, l. IX, p. 484. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 343.
70. P. Bizarri Hist. Genuens., l. XVIII, p. 407.
71. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 485. — Petri Bizarri Hist. Genuens., l. VIII, p. 427. — Ubert. Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 707. — Jac. Nardi Hist. Flor., l. V, p. 215. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 343. — Macchiavelli Legaz. in Francia, lettera 2 da Blois, del 18 luglio 1510, t. VII, p. 326.
72. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 486. — P. Bizarri Hist. Gen., l. XVIII, p. 428. — P. Giovio vita d'Alfonso, p. 57. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 343. — Macchiavelli Legaz. alla corte di Francia, lettera 6, da Blois del 26 di luglio 1510, t. VII, p. 339.
73. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 486. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 344. — P. Giovio vita di Alfonso d'Este, p. 44. — Jac. Nardi, l. V, p. 216. — La notizia dell'occupazione di Modena giunse a Blois il 26 di agosto. Macchiavelli Legaz., t. VII, p. 368.
74. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 487. — Hist. généalog. de la maison de Savoie, par Guichenon, t. II, p. 196.
75. Senza provvedimento di ponti o di navi dice Fr. Guicciardini, l. IX, p. 487; lo che farebbe supporre che anche prima dell'invenzione degli attuali pontoni le armate seco trasportassero piccole barche per formare i ponti.
76. Jac. Nardi, l. V, p. 216. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XXIII, p. 295.
77. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 487. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 344. — Il leal servitore, istorico di Bajardo, racconta una circostanza di questa guerra, che non fa minor torto al generale francese, di quello che la venalità detta di sopra ai generali svizzeri. «Il gran Maestro (il signore di Chaumont) andò ad aspettarli nel piano di Gallarate [Detto volgarmente Brughiera di Gallarate. N. d. T. ], facendo levare lungo la strada tutti i ferramenti de' molini e tutti i viveri. E ciò che è peggio, aveva, secondo si diceva, fatti avvelenare tutti i vini che si trovavano in Gallarate fin dove arrivarono gli Svizzeri, i quali ne bevettero a sazietà, senza che alcuno di loro si trovasse male... Andarono in detto luogo di Gallarate alcuni avventurieri francesi, i quali vollero bevere del vino avvelenato per gli Svizzeri, e ne morirono più di dugento. Convien dire che Dio vi mettesse la sua mano, o che il veleno fosse rimasto nel fondo delle botti.» Mém. du chev. Bayard, c. XLI, p. 159. Ma malgrado l'ingenuità del leal servitore, che inspira confidenza, mai non deve darsi intera fede a così fatte storielle.
78. P. Bembi Hist. Ven., l. X, p. 232. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 58. — Jo. Marianae de rebus Hisp., l. XXX, c. II, p. 301.
79. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 489. — Jac. Nardi, l. V, p. 217. — P. Giovio Vita d'Alfonso, p. 58. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 346. — P. Bembi, l. II, p. 238.
80. P. Bembi Hist. Ven., l. X, p. 232.
81. Macchiavelli Legazione alla corte di Francia, lett. 9. in data di Blois ai 9 d'agosto del 1510, t. VII, p. 353.
82. Macchiavelli Legaz. lett. 18, da Tours il 10 settembre p. 386. — Fr. Guicciardini, l. IX, p. 393. — Raynald. Ann. Eccl. 1510, § 22, t. XX, p. 79. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 348.
83. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 493. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 347.
84. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 494. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 348. — Macchiavelli Legaz. lett. di Blois del 3 agosto 1510, p. 346 e seg.
85. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 395. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 349. — Jac. Nardi, l. V, p. 216. — P. Giovio Vita d'Alfonso, p. 43.
86. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 491. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 350.
87. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 496. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 353. — P. Bembi, l. XI, p. 243.
88. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 496. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 350.
89. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 497. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 350.
90. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 497. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 350.
91. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 500. — Jac. Nardi, l. V, p. 219. — Paris de Grassis Diar. Curiae Rom., t. III, p. 597, apud Rayn. 1510, § 12, p. 79. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 351.
92. Parisii de Grassis Diar., apud Rayn. 1510, § 23, p. 79.
93. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 501.
94. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 502. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 352.
95. Fr. Guicciardini, l. IX. p. 503. — Jac. Nardi, l. XII, p. 353. — Parisii de Grassis Diar. Cur. Rom. ap. Rayn. 1510, § 23, p. 79.
96. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 503.
97. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 507. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 354. — Jac. Nardi, l. V, p. 219. — P. Giovio Vita di Alfonso d'Este, p. 45.
98. Mém. du chev. Bayard, t. XV, ch. XLII, p. 173.
99. Par. de Grassis Diar. Cur. Rom. in MS. arcano Vaticani, ap. Rayn. 1511, § 44, p. 100. — P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 246.
100. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 508. — Jac. Nardi, l. V, p. 220. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 355.
101. Mém. du chev. Bayard, ch. XLIII, p. 175-180.
102. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 510. — Muratori Ann. d'Italia, t. X, p. 64. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. V, p. 220. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 46. — Par. de Grassis Diar. ap. Rayn. 1511, § 46, p. 100. — Mémoir. du chev. Bayard, t. XV, ch. XLIII, p. 180. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 71. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 250. — P. Bembi Hist. Ven. l. XI, p. 346.
103. P. Bembi, l. XI, p. 247. — Mém. du chev. Bayard, ch. XLIV, p. 181-193.
104. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 69. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 51. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. XII, p. 356.
105. Per errore il testo francese dice Tanaro. N. d. T.
106. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 511. — Fr. Belcarii Comm., l. XII, p. 357.
107. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 513. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 358.
108. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 515. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 358.
109. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 515. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 49. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 358.
110. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 70. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 516. — P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 248. — Jac. Nardi, l. V, p. 221. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 51.
111. Mém. du chev. Bayard, c. XLV, p. 195-202.
112. Lettera di Massimiliano alla città di Gelnhause; ap. Lunig R. A., t. XIII, p. 811 e seg. — Schmidt Hist. des Allem., l. VII, ch. XXIV, t. V, p. 456.
113. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 517. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 359.
114. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 521. — Jac. Nardi, l. V, p. 221. — Par. de Grassis Diar. Cur. Rom. ap. Rayn. An. Eccl. 1511, § 47, p. 100.
115. Il suo discorso fu conservato da Michele Coccinio e riportato negli Annali Eccles. del Rajnaldo 1511, § 53, p. 101.
116. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 523. — Fr. Belcarii Comm., l. XII, p. 361. — Jac. Nard., l. V, p. 222.
117. Bulla data Bononiae, 16 Kal. maii. Ann. Eccl. Rayn. 1511, § 50, p. 101.
118. Jac. Nardi Hist. Fior., l. V, p. 222.
119. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 524. — Jac. Nardi, l. V, p. 222. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 362. — Par. de Grassis Diar. ap. Rayn. 1511, § 57 e seg., p. 102.
120. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 72.
121. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 525. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 362. — Mémoir. de Fleuranges, p. 74.
122. Par. de Grassis Diar. Cur. Rom. apud Rayn. Ann. Eccl. 1511, § 58, p. 103.
123. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 526. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 363.
124. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 81.
125. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 527. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 62. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 363. — Parisii de Grassis Diar. ap. Rayn., § 58 p. 103.
126. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 529. — Jac. Nardi, l. V, p. 223. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 64. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 364.
127. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 529. — Diar. Parisii de Grassis ap. Rayn., § 29, p. 103. — Ist. di Gio. Cambi, p. 262. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 364.
128. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 530. — Jac. Nardi, l. V, p. 223. — Mémoires du chev. Bayard, ch. XLVI, p. 208. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 82. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 364. — P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 250.
129. Mémoires de Fleuranges, t. XVI, p. 83.
130. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 530. — Jac. Nardi, l. V, p. 224. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 364.
131. Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. II, p. 302. — Jac. Nardi, l. V, p. 224. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 64.
132. Par. de Grassis Diar. ap. Rayn. 1511, § 60, p. 103. — Mém. du chev. Bayard, ch. XLV, p. 203. — Ist. di Gio. Cambi, p. 263. — Fr. Belcarii Comm., l. XII, p. 365. — P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 251.
133. Fr. Guicciardini, l. IX, p. 532. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 60. — Rayn. Ann. Eccl. 1511, § 1-7, p. 86 e seg. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 365.
134. Guichenon Hist. généal. de la maison de Savoje, t. II, p. 196-230.
135. Raynaldi Ann. eccles. 1511, § 61, p. 104.
136. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 290. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 242.
137. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 290. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 241.
138. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 293. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 243.
139. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 292. — Gio. Cambi, p. 246.
140. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 293. — Gio. Cambi, p. 248.
141. La delegazione del Macchiavelli porta la data del 2 dicembre del 1510. Legazioni, t. VII, p. 389. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 294.
142. Orlando Malavolti storia di Siena, p. III, l. VII, f. 115.
143. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 294. — Orlan. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VII, f. 115. — Ist. di Gio. Cambi, p. 263. — Jac. Nardi, l. V, p. 227. — Fr. Guicciardini, l. X, p. 539.
144. Fr. Guicciardini, l. X, p. 535.
145. Fr. Guicciardini, l. X, p. 536. — P. Bembi Hist. Ven. l. XI, p. 252. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 366.
146. Raynald. An. Eccl. 1511, § 3, p. 87. — Belcarii Comm., l. XII, p. 365. — Fleury Hist. Eccles., l. CXXII, c. 28.
147. Rayn. An. Eccl. 1511, § 1, p. 86. — Labbei concilia Gener., t. XIII, p. 1486. — Jac. Nardi, l. V, p. 226. — P. Bembi, l. XI, p. 253. — Jo. Marianae, l. XXX, c. 1, p. 299.
148. Fr. Guicciardini, l. X, p. 538. — Rayn. An. Eccl. § 9, p. 89. — Jac. Nardi, l. V, p. 226. — P. Giovio vita di Alfonso, p. 66.
149. Fr. Guicciardini, l. X, p. 543. — Par. de Grassis Diar. ap. Rayn. § 34, p. 98. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 261. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 370.
150. P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 255 e 259.
151. Fr. Guicciardini, l. X, p. 540. — Fr. Belcarii Com., l. XII, p. 366.
152. Jo. Marianae Hist. Hispan., l. XXIX, c. 24, p. 296. — Rayn. An. Eccl. 1510, § 30, p. 82. — P. Bizarro Sen. Pop. q. Genuens. Hist., l. XVIII, p. 430.
153. Fr. Guicciardini, l. X, p. 547. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 370.
154. Fr. Guicciardini, l. X, p. 549. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 371.
155. Fr. Guicciardini, l. X, p. 550. — Rayn. An. Eccl. 1511, § 66, p. 105. — Jac. Nardi, l. V, p. 228. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 266. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 372. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. V, p. 305.
156. Fr. Guicciardini, l. X, p. 551. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. V, p. 230.
157. Fr. Guicciardini, l. X, p. 547. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 264. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 295. — Jac. Nardi, l. V, p. 228. — Diar. del Bonaccorsi, p. 163.
158. Istruzione data al Macchiavelli dai decemviri di libertà o balìa il 10 settembre 1511. Legazioni, t. VII, p. 394-401.
159. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 266-272. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 296-298. — Jac. Nardi, l. V, p. 288 — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 374.
160. Fr. Guicciardini l. X, p. 559. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 276. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 299. — Rayn. An. Eccl. § 42, p. 99. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 103. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 374.
161. Fr. Guicciardini, l. X, p. 556. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 296. — Paolo Giovio vita di Leone X, l. II, p. 101.
162. Fr. Guicciardini, l. X, p. 549. — Jac. Nardi, l. V, p. 230. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 371.
163. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 268-271. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 297. — Fr. Guicciardini, l. X, p. 552.
164. P. Bembi Hist. Ven., l. XI, p. 254-257. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 369.
165. Fr. Guicciardini, l. X, p. 560.
166. P. Bembi Ist. Ven., l. XII, p. 270-271.
167. P. Bembi, l. XII, p. 270. — Fr. Guicciardini, l. X, p. 563. — Mém. de cheval. Bayard, c. XLVII, p. 216. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 375.
168. Fr. Guicciardini, l. X, p. 564. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 376.
169. Vita di Alfonso d'Este, p. 77. — Vita di Leon X, l. II, p. 110.
170. L'Anonimo Padovano, presso Muratori Annali d'Italia ad ann. — Mémoir. de Bayard, c. XLVII, p. 217.
171. Fr. Guicciardini, l. X, p. 565. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 577.
172. Fr. Guicciardini, l. X, p. 567. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 377.
173. Ariosto Orl. Fur., c. III, stanza 54 e canto XLII, st. 5. — Fr. Guicciardini, l. X, p. 568. — P. Bembi, l. XII, p. 272. — P. Giovio vita di Alfonso, p. 71. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 377. — Muratori Ann. d'Italia ad An. 1512.
174. Ariosto Orl. Fur., cant. III, e XLII, ne' prealleg. luoghi.
175. Fr. Guicciardini, l. X, p. 568. — Jac. Nardi, l. V, p. 231. — P. Giovio vita di Leon X, l. II, p. 105. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 378. — Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. VI, p. 307.
176. Fr. Guicciardini, l. X, p. 368. — Jo. Marianae de reb. Hispan., l. XXX, c. VII, p. 308. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 378.
177. Fr. Guicciardini, l. X, p. 569. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 85. — Observations sur ces mémoires, p. 343. — P. Giovio vita di Leon X, p. 106.
178. Fr. Guicciardini, l. X, p. 571. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 379.
179. Fr. Guicciardini, l. X, p. 572.
180. Fr. Guicciardini, l. X, p. 573. — Mémoir. du maréchal de Fleuranges, t. XVI, p. 85. — La narrazione del Guicciardini fu copiata da Paolo Giovio, vita di Leon X, p. 108, e da Belcario, l. XIII, p. 380.
181. Fr. Guicciardini, l. X, p. 575. — Jac. Nardi, l. V, p. 231. — P. Bembo, l. XII, p. 275. — P. Giovio Vita di Leone X, l. II, p. 111. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 380. — Jo. Marianae de rebus Hisp., l. XXX, c. VII, p. 309.
182. Fr. Guicciardini, l. X, p. 574.
183. Mém. du chev. Bajard, c. XLVIII, p. 230.
184. P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 272.
185. Fr. Guicciardini, l. X, p. 574. — Mémoires du cheval. Bayard, c. XLVIII, p. 231. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 273. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 381.
186. Fr. Guicciardini, l. X, p. 575. — Mém. de Bayard, c. XLVIII, p. 233. — P. Bembi, l. XII, p. 274.
187. Fr. Guicciardini, l. X, p. 575. — Mém. de Bayard c. XLIX, p. 235-239. — Fleuranges, t. XVI, p. 87. — Jac. Nardi, l. V, p. 232. — P. Bembo, l. XII, p. 275. — P. Giovio Vita di Leone X, l. II, p. 113. — Fr. Belcarii, l. XII, p. 381.
188. Mém. du chev. Bayard, c. L, p. 240.
189. Mém. de Bayard, p. 241. — Mémoires de Fleuranges, t. XVI, p. 87. — P. Bembi Hist. Veneta, l. XII, p. 275. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 115. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 382.
190. Mém. du chev. Bayard, c. L, p. 245.
191. Ivi, p. 247.
192. Fr. Guicciardini, l. X, p. 577. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, f. 281. — Jac. Nardi, l. V, p. 233, il quale assicura che si contarono quindici mila morti. — Mém. de Bayard, c. L, p. 254. — Mém. de Fleuranges, p. 88.
193. Mém. du chev. Bayard, ch. L, p. 245-258. — Fr. Guicciardini, l. X, p. 577. — P. Bembo l. XII, p. 276. — Anon. Padov. MS. presso Muratori An. d'Ital. ad an. 1512. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 281-283. — Jac. Nardi, l. V, p. 233. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 78. — Vita di Leon X, l. II, p. 115. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 382. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. VIII, p. 310. — Arnoldi Ferroni, l. IV, p. 71.
194. Fr. Guicciardini, l. X, p. 577. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 115. — Gaston et Bayard tragédie de Du Belloy, 1771.
195. Jo. Marianae de reb. Hisp. l. XXX, c. VIII, p. 310. — Mém. du chev. Bayard, c. L, p. 256.
196. Rymer Foedera et Conventiones, t. XIII, p. 311. — Rapin de Thoyras, Hist. d'Angleterre l. XV, t. VI, p. 41.
197. Rymer, Foedera et Conv., t. XIII, p. 310.
198. Rapin de Thoyras, l. XV, p. 44. — Hume's History of England, ch. XXVII, t. V, p. 112.
199. Fr. Guicciardini l. X, p. 578. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 383.
200. Fr. Guicciardini, l. X, p. 579. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 383.
201. Fr. Guicciardini, l. X, p. 580. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 384.
202. Fr. Guicciardini, l. X, p. 560 e 581. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 385. — Jac. Nardi, l. V, p. 233.
203. Fr. Guicciardini, l. X, p. 581. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 385. — Mém. du chev. Bayard, ch. L, p. 257.
204. P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 117.
205. Fr. Guicciardini, l. X, p. 582. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 385.
206. Mém. du chev. Bayard, t. XV, ch. LII, p. 258.
207. Fr. Guicciardini, l. X, p. 583. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 386. — P. Giovio Vita di Leone X, l. II, p. 118.
208. Fr. Guicciardini, l. X, p. 584. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 386. — Mém. du chev. Bayard, ch. LII, p. 258. — Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXX, c. IX, p. 312.
209. Fr. Guicciardini, l. X, p. 584. — F. Belcario, che d'ordinario si limita a tradurre, prende i bracci per braccia marine, e dà loro cinque piedi, l. XIII, p. 386. — Mém. du chev. Bayard, c. LII, p. 275. — Mémoir. de Fleuranges, t. XVI, p. 89. — Muratori Ann. d'Italia ad an. 1512. — P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 79.
210. Mém. de Bayard, l. LII, p. 275. — Mém. de Fleuranges, p. 89.
211. Fr. Guicciardini, l. X, p. 585. — Jo. Marianae de reb. Hisp. XXX, c. IX, p. 312.
212. Fr. Guicciardini, l. X, p. 585. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 387. — Jac. Nardi, l. V, p. 234. — P. Giovio Vita di Alfonso, p. 81.
213. Fr. Guicciardini, l. X, p. 585. — Mém. de Fleuranges, p. 91. — Mém. de Bayard, ch. LIV, p. 285. — Jac. Nardi Hist. Fior., l. V, p. 234.
214. Fr. Guicciardini, l. X, p. 586. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 387. — Jac. Nardi, l. V, p. 235. — Mém. du chev. Bayard, ch. LIV, p. 285.
215. Mémoires du jeune adventureux maréchal de Fleuranges, t. XVI, p. 94.
216. Fr. Guicciardini, l. X, p. 588. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 388. — Jac. Nardi, l. V, p. 235. — Mém de Fleuranges, p. 93. — P. Giovio vita di Leon X, l. II, p. 121. — Ejusdem Ferdinandi Davali Piscarii vita, l. I, p. 278.
217. Mémoires de Bayard, c. LIV, p. 301.
218. Mémoires de Fleuranges, p. 94. — Mém. de Bayard, ch. LIV, p. 302. — Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. IX, p. 314.
219. P. Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 83; ma egli soggiugne che Alfonso lo assicurò di non avere mai tenuto questo discorso.
220. Fr. Guicciardini, l. X, p. 589. — Jacopo Nardi Hist. Flor., l. V, p. 236. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 123.
221. Fr. Guicciardini, l. X, p. 589. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 388. — Mém. de Bayard, c. LIV, p. 303. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 124.
222. P. Giovio, che aveva udito questo dialogo dalla bocca dell'uno e dell'altro interlocutore. Vita d'Alfonso d'Este, p. 83.
223. Fr. Guicciardini, l. X, p. 590. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 389. — P. Jovii Ferdinandi Avali Pescarii Vita, l. I, p. 280.
224. Niccolò Macchiavelli dell'arte della guerra, l. II, p. 67. — Herrn Georgens von Frundsberg, Ritters Kriegzsthaten I Buch. f. 15. Francfort, 1568, in fol.
225. Fr. Guicciardini, l. X, p. 590. — Mém. de Fleuranges, p. 96. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 389. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 125.
226. Fr. Guicciardini, l. X, p. 591. — Mém. de Bayard, ch. LIV, p. 311. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 127. — Vita d'Alfonso, p. 86.
227. Fr. Guicciardini, l. X, p. 592. — Nelle Memorie di Bajardo 16,000, 4000 Francesi, c. LV, p. 315. — Jacopo Nardi 12,000 Spagnuoli, 4000 Francesi, Ist. Fior., l. V, p. 237. — Giovanni Cambi, 14,000 Spagnuoli, 6000 Francesi, Ist. Fior. p. 288. — Pietro Bizarro 18,000 in tutto, Hist. Genuens., l. XVIII, p. 431.
228. Fr. Guicciardini, l. X, p. 591. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 389. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. IX, p. 514. — Muratori Ann. d'Italia, t. X, p. 81. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 278. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 128.
229. Mém. du chev. Bayard, ch. LIV, p. 313.
230. Mém. du chev. Bayard, ch. LV, p. 314. — Fr. Belcarii, l. III, p. 590.
231. Fr. Guicciardini, l. X, p. 595. — P. Giovio, Vita di Leon X, l. II, p. 134. — Mémoir. de Fleuranges, p. 102. — Jac. Nardi, l. V, p. 239.
232. Fr. Guicciardini, l. X, p. 591. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 389. — Jac. Nardi, l. V, p. 238.
233. Mémoir. de Fleuranges, p. 100. — Mém. de Bayard, ch. LV, p. 316. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 390. — P. Bembi, l. XII, p. 278.
234. Fr. Guicciardini, l. X, p. 592 — P. Giovio vita di Alfonso d'Este, p. 88. — Jac. Nardi Hist. Fior., l. V, p. 238.
235. Fr. Guicciardini, l. X, p. 593. — Rayn. Ann. Eccl. 1512, § 22, p. 112 — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 390. — P. Bembi, l. XII, p, 280. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 130. — Dello stesso Vita di Alfonso da Este, p. 89.
236. Fr. Guicciardini, l. X, p. 594. — P. Bembi, l. XII, p. 279. — Rayn. Ann. Eccl. 1512, § 23, p. 112. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 390.
237. Fr. Guicciardini, l. X, p. 597. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 302. — Rayn., § 24, p. 112. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 391.
238. Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. IX, p. 315.
239. Fr. Guicciardini, l. X, p. 594. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 391.
240. Fr. Guicciardini, l. X, p. 596.
241. Fr. Guicciardini, l. X, p. 595.
242. P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 131.
243. Fr. Guicciardini, l. X, p. 596. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 302. — Rayn. Ann. Eccl. 1512, § 28, p. 113. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. X, p. 315. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 391.
244. Fr. Guicciardini, l. X, p. 598. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 392.
245. Fr. Guicciardini, l. X, p. 599. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 384.
246. Fr. Guicciardini, l. X, p. 600. — Jac. Nardi, l. V, p. 239. — P. Giovio Vita di Leon V, l. II, p. 135.
247. Fr. Guicciardini, l. X, p. 600. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 280. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 393.
248. Fr. Guicciardini, l. X, p. 598. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 132.
249. Fr. Guicciardini, l. X, p. 600. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 393.
250. Fr. Guicciardini, l. X, p. 601. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 393. — Jac. Nardi, l. V, p. 239. — Jo. Marianae de reb. Hispan., l. XXX, c. XI, p. 317.
251. Fr. Guicciardini, l. X, p. 602. — Fr. Belcarii, l. XIII, p 393. — P. Bizarri Hist. Gen., l. VIII, p. 432. — Mém. de Fleuranges, p. 103. — Mém. du chev. Bayard, ch. LV, p. 318.
252. Fr. Guicciardini, l. X, p. 602. — P. Bembi, l. XII, p. 280. — Jac. Nardi, l. V, p. 240. — Fr. Belcarii, l. XIII. p. 394.
253. Fr. Guicciardini, l. X, p. 602. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 394. — Rayn. Ann. Ecc. 1512, § 59, p. 120. — Jo Marianae, l. XXX, c. X, p. 315. — Mém. du chev. Bayard, ch. LV, p. 318. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 136.
254. Fr. Guicciardini, l. X, p. 603. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 394. — Mém. de Fleuranges, p. 104 — Mémoir. de Bayard, ch. LV, p. 319. — Jac. Nardi, l. V, p. 240. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 139.
255. Fr. Guicciardini, l. X, p. 604.
256. Ubertus Folieta, Genuen. Hist., l. XII, p. 708, 709. — P. Bizarri Sen. Pop. q. Gen. Hist., l. XVIII, p. 432.
257. P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 281. Esprime sempre le somme in lingua classica, in lire d'oro per cento ducati.
258. Fr. Guicciardini, l. X, p. 603. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 394. — Gio. Cambi Ist. Fior., l. XXI, p. 297. — P. Giovio Vita di Leon X, t. II, p. 141.
259. P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 279. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 390.
260. Murat. Ann. d'It., t. X, p. 86 ad an. 1512.
261. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 4.
262. Rapin Thoyras, Hist. d'Anglet., t. XV, p. 45. — Rymer Acta publica, t. XIII, p. 326. — Hume's History, chap. XXVII, t. V, p. 114.
263. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 1. — P. Giovio Vita d'Alfonso, p. 90. — Jac. Nardi Hist. Flor., l. V, p. 241. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. XIII, p. 320.
264. Parisii de Grassis Diar. Cur. Rom., t. III, p. 879, apud Rayn. Ann. 1512, t. XX, p. 122, § 71-76.
265. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 3. — P. Giovio Vita d'Alfonso, p. 91. — Jac. Nardi, l. V, p. 242. — Fr. Belcarii Comm., l. XIII, p. 395.
266. Parisii de Grassis, t. III, p. 898, apud Rayn. Ann. Eccl., t. XX, § 70, p. 122.
267. Chron. Parm. t. IX, Script. Rer. Ital., p. 786. — Chron. Placent., t. XVI, ivi p. 479.
268. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 5. — Fr. Belcarii Comm., l. XIII, p. 396.
269. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 4. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 396. — Guichenon, Hist. généalog. de la maison de Savoie, t. II, p. 196.
270. Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 303.
271. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 6. — Jac. Nardi, l. V, p. 246. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 304.
272. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 8. — Jac. Nardi, l. V, p. 247. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 142. — Comm. di Filippo de' Nerli de' fatti civili di Firenze, l. V, p. 107.
273. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI; p. 9. — Comm. del Nerli, l. V, p. 107.
274. Il Macchiavelli era stato spedito il 20 agosto a Firenzuola per chiudergli la strada, ma giunse troppo tardi, e non aveva quanta gente bastava per occupare il passo dello Stale; più addietro le montagne non avevano gole suscettibili di difesa. Lettere di Macchiavelli, di Francesco Zati, di Baldassare Carducci e di Francesco Tosinghi del 21, 22 e 23 agosto del 1512. Legazioni, t. VII, p. 431-438.
275. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 10. — P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 144. — Jac. Nardi Hist. Flor., l. V, p. 248.
276. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 11. — Filippo de' Nerli, presente al consiglio quando il gonfaloniere tenne questo discorso, dice che il Guicciardini lo riferì con molta eleganza. Comm. l. V, p. 108. Non si deve dunque risguardare come un'invenzione dello storico. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 305.
277. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 12. — Istor. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 306. — Comm. di Ser Filippo de' Nerli, l. V, p. 108. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 306.
278. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 13. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. V, p. 248. — Fr. Belcarii, l. XIII, p. 399. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 306.
279. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 14. — Jac. Nardi, l. V, p. 250. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 306. — Comment. di Filippo de' Nerli, l. V, p. 109. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. XIV, p. 321. — P. Giovio vita di Leon X, l. II, p. 144.
280. Jac. Nardi, l. V, p. 252.
281. Stando alle lettere di Francesco Vettori al Macchiavelli, pare che lo scopo principale di suo fratello Paolo, fosse di giovare al gonfaloniere, e di salvargli la vita. Lettere famigliari del Macchiavelli, t. VII, lett. 16, p. 41. — Jac. Nardi, l. V, p. 253. — Fil. de' Nerli, l. V, p. 107.
282. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 15. — Istor. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 309. — Jac. Nardi, l. V, p. 253. — Filippo de' Nerli, l. V, p. 109. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 307. — P. Giovio vita di Leon X, l. II, p. 146.
283. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 311. — P. Giovio vita di Leon X, l. II, p. 147. — Jac. Nardi, l. V, p. 254. — Comment. di Filippo de' Nerli, l. V, p. 110. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 311.
284. Jac. Nardi, l. VI, p. 259. — Comment. di ser Filip. de' Nerli, l. VI, p. 112.
285. Comment. del Nerli, l. VI, p. 114. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 324.
286. Comment. del Nerli, l. VI, p. 115.
287. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 324. — Commen. di ser Fil. de' Nerli, l. VI, p. 116. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 312. — P. Giovio vita di Leone X, l. III, p. 149. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 17.
288. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 329. — Jac. Nardi, l. VI, p. 263. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 311.
289. Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 330.
290. Comment. del Nerli, l. VI, p. 119. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 351 — Jac. Nardi, l. VI, p. 262.
291. Ist. di Gio. Cambi, l. XXI, p. 340.
292. Jac. Nard. Hist. Fior., l. VI, p. 263.
293. Jac. Nardi, l. V, p, 230, l. VI, p. 264-265.
294. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 18. — P. Bembi Hist. Ven., l. XII, p. 283-284.
295. Un'elegante descrizione dell'ingresso del vescovo Langio in Roma fu scritta in latino da Pierio Valeriano Bolzanio, e pubblicata in Germania. N. d. T.
296. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 19. — Paris de Grassis Diar., t. III, p. 938, apud Rayn. Ann., t. XX, p. 125, an. 1512, § 90. — Ist. di Gio. Cambi, p. 338. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 311. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 401.
297. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 20. — Jac. Nardi, l. VI, p. 266.
298. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 21. — P. Bembi, l. XII, p. 285. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 402.
299. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 21. — Rayn. An. Eccl. 1512, § 91, p. 125. — Fr. Belcarii l. XIV, p. 402.
300. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 22. — P. Bizzarri Gen. Hist., l. XVIII, p. 432. — Jac. Nardi, l. VI, p. 266. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 403.
301. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 23. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. XI, p. 317. — Mém. du chev. Bayard, ch. LVI, p. 329-339. — Mémoir. de Fleuranges, p. 106-116. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 404. — Hume's history of England, ch. XXVII, t. V, p. 115.
302. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 27. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 405.
303. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 27. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 405.
304. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 29.
305. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 28. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 406.
306. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 29.
307. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 30.
308. Paolo Giovio Vita d'Alfonso d'Este, p. 94.
309. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 30. — Rayn. An. Eccl. 1512, § 97, p. 126.
310. Fr. Guicciardini, l. X, p. 31. — P. Giovio, Vita di Leon X, l. III, p. 151. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 4. — Jac. Nardi, l. VI, p. 270. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 311. — P. Bizarri, l. XVIII, p. 433. — Rayn. Ann. Eccl. 1513, § 1-9, p. 132-133. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 407. — La storia di Venezia di Pietro Bembo finisce alla morte di Giulio II, l. XII, p. 286. Dessa è uno de' più deboli libri di questo celebre letterato. Egli sagrifica sempre la sua imparzialità e la sua buona fede a ciò ch'egli crede l'onore della sua patria. Le sue informazioni sono troppo inesatte, e sebbene abbia avuto sott'occhio alcune carte dello stato, che non avevano potuto vedere gli altri storici, il più gran numero de' moltissimi documenti che gli sarebbero stati necessarj gli furono sottratti dalla gelosia del governo. Finalmente anche sotto il rapporto del merito letterario la storia del Bembo, conviene confessarlo, non è degna del nome del suo autore. A molta eleganza e purità di stile egli non seppe aggiugnere quell'interesse, che alletta a leggere la storia; e non si può scorrere quella del Bembo senza molta fatica e senza noja. Io feci uso dell'edizione del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae del Burmanno, nel t. V, p. I, p. 1-286.
311. È cosa notabile che ciò che osserva il nostro autore rispetto al merito della storia del Bembo, altri lo hanno osservato per conto delle altre opere dello stesso autore. Il Bembo ottenne grandissimo nome, ma separatamente esaminando tutte le sue opere, sempre si crede che lo debba a tutt'altra scrittura che a quella che si ha sotto gli occhi. N. d. T.
312. Bellarminus de Potest. sum. Pont. in tempore, c. II, apud Raynald. Ann. 1513, § 12, p. 134.
313. Jac. Nardi, l. VI, p. 265.
314. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 32. — Parisii de Grassis Diarium curiæ Roman. apud Raynald. Ann. 1513, § 13, p. 134.
315. Parisii Diar. Rom. ap. Rayn. Ann. 1513, § 13, 14, 15, p. 134. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, p. 152. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 32. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 408.
316. Acta Sinodalia et Par. de Grassis, apud Rayn. 1513, § 20, p. 136. — Jac. Nardi, l. VI, p. 271.
317. Jac. Nardi, l. VI, p. 272. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 33. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, p. 156. — Id. Vita d'Alfonso, p. 95. — Par. de Grassis Diar. apud Raynald. 1513, § 20, p. 136.
318. Jac. Nardi, l. VI, p. 276. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 313.
319. Jac. Nardi, l. VI, p. 272.
320. Filippo Nerli Comm., l. VI, p. 123. — Vita di Macchiavelli, p. 166.
321. Jac. Nardi, l. VI, p. 268. — Gio. Cambi, t. XXII, p. 5. — Comm. del Nerli, l. VI, p. 123. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 312.
322. Jac. Nardi, l. VI, p. 272. — Gio. Cambi, t. XXII, p. 8. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 313.
323. Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 314. — Gio. Cambi, p. 27, 31.
324. P. Giovio Vita d'Alfonso, p. 99. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 31.
325. Lett. di Vettori a Macchiavelli, n.º 21, p. 63, del 12 luglio 1513.
326. Lettera familiare 17 di Macchiavelli a Francesco Vettori del mese di aprile del 1513. Opere, t. VIII, p. 47.
327. I motivi di questa tregua vengono discussi acutamente tra il Macchiavelli ed il Vettori, t. VIII, p. 41 e segu. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 33. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, p. 161. — Jo. Marianæ Hist. Hisp., l. XXX, c. 18, p. 329.
328. Lettera del Vettori a Macchiavelli del 21 aprile 1513, t. VIII, p. 42.
329. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 36. Fr. Belcarii, l. XIV, p. 409. — Paolo Paruta della Stor. Venez., l. I, p. 19. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 160. — Dopo la lacuna che lasciano i sei libri perduti nel sacco di Roma, l'undecimo di Giovio comincia col pontificato di Leon X.
330. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 36. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 116-119. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 4 e 15. — Hist. de la Ligue de Cambray, vol. II, l. IV, p. 297. — Questa spedizione non essendo riuscita, gli storici francesi diminuiscono le forze della loro armata.
331. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 37. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 161.
332. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 38. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 410. — Mém. de Fleuranges, l. XVI, p. 120. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 163.
333. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 40. — P. Paruta Stor. Venez., l. I, p. 26.
334. Uberti Folietæ Genuens. Hist., l. XII, p. 710. — P. Bizarri Sen. Pop. q. Genuens. Hist., l. XVIII, p. 433.
335. Uberti Folietæ, l. XII, p. 712. — P. Bizarri, l. XVIII, p. 435. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 162.
336. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 42. — Jo. Marianæ Hist. Hisp., l. XXX, c. 20, p. 331.
337. Paruta Ist. Venez., l. I, p. 35.
338. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 42. — P. Giovio Ist., l. XI, p. 165. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 126.
339. P. Jovii Hist., l. XI, p. 163.
340. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 42. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 165.
341. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 119, 129, 130. — Mém. de messire Martin du Bellay seigneur de Langey, t. XVII, l. I, p. 17, 18. — Mém. de Louis de la Tremouille, l. XIV, ch. XIV, p. 183, 190. Ma l'ultimo, che è lo stesso generale vinto, facendo la propria apologia, ha spesse volte avvertitamente confuse le date e gli avvenimenti. Le accuse de' Francesi contro il Trivulzio sembrano affatto prive di fondamento. Il recente biografo del Trivulzio, cav. Carlo Rosmini, dissimulò tali accuse invece di confutarle, come pare che avrebbe potute fare, l. XI, p. 467.
342. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 42. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 167. — P. Paruta Ist. Ven., l. I, p. 37.
343. Mém. de Fleuranges, l. XVI, p. 131, 136. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 44. — P. Jovii, l. XI, p. 169. — P. Paruta, l. I, p. 39.
344. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 45. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 171. — Epist. Leonis X ad Max. Sfortiam, apud Rayn. 1513, § 29, p. 138. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, p. 163. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 413. — P. Paruta, l. I, p. 41.
345. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 45. — P. Jovii Hist. sui temp., p. 173. — Ejusd. Vita Ferdin. Davali Piscarii, l. I, p. 285. — Uberti Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 713. — P. Bizarri, l. XVIII, p. 436.
346. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 46. — P. Jovii Hist., l. XI, p. 172. — P. Paruta Ist. Ven., l. I, p. 44.
347. Fr. Guicciardini, t. II, l. XI, p. 47. — P. Jovii Hist., l. X, p. 173. — P. Paruta, l. I, p. 45 e 52.
348. P. Paruta Ist. Ven., l. I, p. 49. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 49. — P. Jovii de Vita Ferdin. Davali Piscarii, l. I, p. 286.
349. P. Jovii Hist., l. XII, p. 193. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 51. — P. Paruta, l. I, p. 55. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 417. — Herren Georgens von Frundsberg Kriegzsthathen, Buch I, f. 17. Ediz. in foglio. Francoforte, 1568.
350. P. Paruta, l. I, p. 57.
351. P. Jovii Hist., l. XII, p. 198. — P. Paruta, l. I, p. 60. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 53.
352. P. Jovii Hist., l. XII, p. 196. — Ejusd. Vita Ferd. Davali Piscarii, l. I, p. 288. — P. Paruta, l. I, p. 64. — Fr. Guicciardini, l. XI, p. 54.
353. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 55. — P. Paruta, l. I, p. 68. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 197. — Ejusd. Vita Ferdin. Davali Piscarii, l. I, p. 289.
354. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 55. — P. Paruta, l. I, p. 75. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 198. — Ejusd. Vita Ferdin. Davali Piscarii, l. I, p. 290.
355. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 56. — P. Paruta, l. I, p. 77. — P. Jovii Hist., l. XII, p. 199. — Ejusd. Ferd. Davali Piscarii Vita, l. I, p. 291. — Vita di Leon X, l. III, p. 171. — Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. 21, p. 334. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 419. — Georgens von Frundsberg Kriegzsthaten, B. I., f. 18.
356. P. Jovii Vita Ferd. Davali, l. I, p. 292. — P. Paruta, l. I, p. 80.
357. P. Jovii Hist. sui temp., l. XIII, p. 220.
358. Rymer Acta publica, t. XIII, p. 358. — Rapin Thoyras Histoire d'Anglet., t. XV, p. 63. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 421. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 176.
359. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 145. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 21. — Mém. du chev. Bayard, ch. LVII, p. 339-354. — Rapin de Thoyras Hist. d'Anglet., l. XV, p. 72. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 62. — P. Jovii Hist. sui temp., t. XI, p. 176.
360. Buchanani rer. Scot. Hist., l. XIII, p. 429. editio Trajecti ad Rhenum, 1697. — Robertson's History of Scotland, B. I, p. 38. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 178-186. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 64. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 425.
361. Mém. de Louis de la Tremouille, ch. XV, p. 191-199. — Mém. de Fleuranges, p. 139. — Mém. du chev. Bayard, ch. LVII, p. 356. — Mém. de Martin du Bellay, t. XVII, l. I, p. 24. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 187. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 63.
362. P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 190.
363. Ivi, l. XII, p. 203. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 69. — P. Paruta Hist. Ven., l. II, p. 168.
364. Nelle lettere tra il Macchiavelli e Francesco Vettori, nelle quali si pongono in disamina gli avvenimenti che prevedevano, la successione di Carlo V, non è ricordata una sola volta come soggetto di timore, mentre che l'ambizione e l'onnipotenza degli Svizzeri occupano sempre questi due politici. Macch. Lett. fam., N.º 16-39, p. 41-142.
365. Alfonso de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 13 e 42. — P. Paruta Stor. Venez., l. II, p. 85. — Macchiavelli Lett. fam. passim. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XIV, p. 256.
366. P. Paruta Stor. Ven., l. I, p. 139. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 70.
367. Fr. Guicciardini, l. XI, p. 48. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 190. — Par. de Grassis, t. IV, p. 47, ap. Rayn. Ann. Eccles., § 44, t. XX, p. 142.
368. Fleury Hist. Eccl. Liv. CXXIII, § 128. — Ann. Eccl. Rayn. 1513, § 61, p. 147, § 85, p. 154. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XI, p. 191. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 65. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 416.
369. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 66.
370. Rymer Acta publica, l. XIII, p. 413. — Rapin de Thoyras, Hist. d'Anglet., l. XV, p. 87 e seg. — Mém. de Bayard, ch. LVIII, p. 358. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 154, 157. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 27. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 429. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 73. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XIV, p. 289. — P. Paruta Hist. Ven., l. II, p. 146.
371. P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 201, 217. — Uberti Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 715. — Petri Bizarri, l. XVIII, p. 437. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 76.
372. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 65.
373. Ivi, p. 69. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 207. — P. Paruta, l. II, p. 90 e seg.
374. P. Paruta, l. II, p. 91. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 209.
375. P. Paruta Ist. Ven., l. II, p. 102, 115. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 71. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 208.
376. P. Paruta Stor. Ven., l. II, p. 135. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 79. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XII, p. 214.
377. P. Paruta Hist. Ven., l. II, p. 137. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 79. — P. Jovii Hist., l. XII, p. 203.
378. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 75.
379. Guichenon, Hist. généal. de la maison de Savoie, t. II, p. 179. — P. Giovio Vita di Leon X, t. III, p. 174. — Jac. Nardi, l. VI, p. 275.
380. P. Paruta Stor. Ven., l. II, p. 140. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 77.
381. Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 315. — P. Giovio Vita di Alfonso d'Este, p. 96. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 77.
382. Questa lettera sottoscritta Frate Angelo morto venne comunicata in Roma agli amici di Giuliano pochi mesi dopo l'elezione di suo fratello, Jac. Nardi, l. VI, p. 276. — Intorno alla proferta dei Veneziani può leggersi Paol. Paruta Stor. Venez., l. II, p. 121.
383. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 80.
384. Mém. du chev. Bayard, ch. LVIII, p. 361. — Mém. de mess. Martin du Bellay, l. I, p. 37-39. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 163. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 82. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 433. — P. Jovii Hist. sui temp., l, XIV, p. 289.
385. Noi abbiamo un papa savio, e questo grave e rispettato (la lettera doveva venire nelle di lui mani); un imperatore instabile e vario; un re di Francia sdegnoso e pauroso; un re di Spagna taccagno e avaro; un re d'Inghilterra ricco, feroce e cupido di gloria; gli Svizzeri bestiali, vittoriosi e insolenti; noi altri d'Italia poveri, ambiziosi e vili; per gli altri re io non li conosco. Lett. a Fr. Vettori del 26 agosto 1513 t. VIII, p. 88.
386. P. Jovii Hist. sui temp., l. XIV, p. 289. — Lodovico XII raccontando al Macchiavelli, allora in legazione presso di lui, la presa di Monselice, e la carnificina della guarnigione, che fu segnalata da orribili crudeltà, gli disse ridendo: «Io fui tenuto, anno, un mal uomo, quando nella giornata dove io era si ammazzò tanti uomini: adesso monsignore di Ciamonte sarà tenuto quel medesimo.» Macchiav. Legaz. Lett. di Blois 29 luglio 1510, t. VII, p. 343.
387. Rapin Thoyras Hist. d'Anglet., l. XV, p. 98. — Mém. de Fleuranges, p. 169.
388. Fr. Guicciardini, t. II, l. XII, p. 82. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 290.
389. Mém. du chev. Bayard, c. LVIII, p. 360. — Mém de Fleuranges, t. XVI, p. 154-157. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 28.
390. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 83. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 294.
391. Rymer Acta pubblica, t. XIII, p. 473, 475, 476.
392. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 83. — Il trattato trovasi in Dumont t. IV. — Mém. du chev. Bayard, ch. LIX, p. 364. — Mém. de Martin de Bellay, l. I, p. 43. — Fr. Belcarii, l. XIV, p. 436.
393. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 85. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 437. — P. Paruta Stor. Ven., l. III, p. 161.
394. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 84. — Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 42. — Trovasi in trattato presso Leonard, t. IV. — P. Paruta stor. Ven., l. III, p. 150.
395. P. Jovii Hist. sui tem., l. XV, p. 292 e 503. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 87. — P. Bizarri Hist. Gen., l. XIX, p. 445. — Uberti Folietae, l. XII, p. 717. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 439.
396. Mémoir. de Bayard, ch. LIX, p. 365.
397. Mém. de Fleuranges, l. XVI, p. 177. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 88. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 295. — Fr. Belcarii Comm., l. XV, p. 438.
398. Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 47. — Anonimo Padovano presso Murat. ad an. 1515.
399. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 88. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 294. — Paolo Paruta, l. III, p. 158. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 440.
400. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 89. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 298.
401. P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 298. — Mém. de Fleuranges, p. 178. — Mém. de Louis de la Tremouille, c. XVI, p. 200. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 90. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 441.
402. Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 50. — Mém. de Fleuranges, p. 183. — Mém. du chev. Bayard, c. LIX, p. 368-374. — Pauli Jovii Hist., l. XV, p. 299. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 91.
403. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 92. — Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXX, c. XXVI, p. 343. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 300.
404. P. Paruta, l. III, p. 167.
405. P. Jovii Hist., l. XV, p. 361. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 93. — Mém. de Fleuranges, p. 187. — Mémoir. de Martin du Bellay, l. I, p. 53.
406. Mém. de Fleuranges, p. 189.
407. P. Jovii Hist., l. XV, p. 320.
408. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 94. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 304. — Mém. de Fleuranges, p. 189. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 53. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 443.
409. Mém. de messire Martin du Bellay, l. I, p. 54. — Partì il 10 di settembre. Mém. de Fleuranges, p. 195.
410. Il biografo di Frundsberg lo chiama Rösch, e dev'essere seguito di preferenza pei nomi tedeschi, II Buch, f. 23.
411. Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 54. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 304. — Mém. de Fleuranges, p. 191.
412. P. Bizarri, l. XIX, p. 445. — Uberti Folietae, l. XII, p. 717.
413. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 94.
414. P. Jovii Hist. sui temp., l. V, p. 305. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 95.
415. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 95. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 305. — Mém. de messire Martin du Bellay, l. I, p. 55. — Fr. Belcarii Comm., l. XV, p. 444.
416. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 97. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 306. — Mém. de Louis de la Trémoille, c. XVI, p. 201. — Mém. du chev. Bayard, c. LX, p. 376.
417. P. Jovii Hist., l. XV, p. 308. — Mém. de Fleuranges, p. 190. — Paolo Paruta ist. Ven., l. III, p. 174.
418. Mém. de Fleuranges, p. 193.
419. Mém. de Louis de la Trémoille, c. XVI, p. 202. — Mém. de messire Martin du Bellay, l. I, p. 57. — Mém. de Fleuranges, p. 196. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 178.
420. Lettera di Francesco I a sua madre dal campo di santa Brigida, il venerdì 14 di settembre, in seguito alle Mém. de Martin du Bellay, t. XVII, p. 442-451.
421. Mém de Fleuranges, p. 197. — Mém. de Bayard, c. LX, p. 377.
422. P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 310.
423. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 310. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 311. — Paolo Paruta Ist. Ven., l. III, p. 180. — Mém. du chev. Bayard, c. LX, p. 378.
424. Mémoires de Fleuranges, p. 198.
425. Mém. de Fleuranges, p. 200. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 100. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 312.
426. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 100.
427. Mém. de mess. Martin du Bellay, l. I, p. 58.
428. Mém. de Fleuranges, p. 201.
429. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 101. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 315. — P. Paruta, l. III, p. 182. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 446 — Mém. de Bayard, c. LX, p. 381.
430. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 101. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 316. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 183. — Mém. de Louis de la Trémoille, c. XVI, p, 205. — Mém. de Fleuranges, p. 195-203. — Mém. du Bellay, l. I, p. 59. — Mém. du chev. Bayard, ch. LX, p. 381.
431. Ivi, p. 382. P. Jovii Hist., l. XV, p. 317. — Mém. de Fleuranges, p. 194.
432. Mém. de Fleuranges, p. 203.
433. Mém. de chev. Bayard, c. LX, p. 378.
434. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 102. — P. Jovii Hist., l. XV, p. 316. — P. Paruta Hist. Ven., l. III, p. 183.
435. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 102. — Mémoires de Fleuranges, p. 206.
436. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 104. — Mém. de Fleuranges, p. 208. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 63. — Observations sur ces Mémoires, p. 451. — P. Bizarri Gen., l. XIX, p. 444. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 450. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 321, 322.
437. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 103. — Rayn. Ann. Eccl. an. 1515, § 23, p. 193. — Léonard Corps Diplomatique, t. II. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 318. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 448.
438. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 103. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 317. — P. Paruta Hist. Ven., l. III, p. 184.
439. P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 185.
440. P. Paruta Ist. Ven, l. III, p. 191. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 318.
441. P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 318. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 192. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XII, p. 105. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 66. — Fr. Belcarii Comment., l. XV, p. 450.
442. Il biografo di Frundsberg lo dice Giorgio di Lichtenstein; onde probabilmente il nome di Rockandolf, datogli da tutti gl'Italiani, era quello della sua baronia. Buch. II, f. 28.
443. Fr. Guicciardini, t. II, l. XII, p. 106. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XV, p. 319; l. XVI, p. 324. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 205. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 451. — Mém. de mess. Martin du Bellay, l. I, p. 69.
444. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 108. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 325. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 202. — Rayn. Ann. Eccl., § 28 e seg., p. 194. e seg. — Mémoir. de Fleuranges, p. 214. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 66. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 452.
445. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 109.
446. Acta publica, Rymer, t. XIII, p. 520. — Rapin Thoyras Hist. d'Anglet., l. XV, p. 107. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 334.
447. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 109. — Mém. de Fleuranges, p. 220. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 67. — P. Paruta, Ist. Ven., l. III, p. 207.
448. P. Jovii Hist. sui temp., l. VI, p. 335. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 453. — Fr. Guicciardini, t. II, l. XII, p. 110.
449. Jo. Marianae Hist. Hisp., l. XXX, c. XXVII, p. 345.
450. Fra le lettere famigliari del Macchiavelli trovansi curiosissime osservazioni intorno al carattere ed agl'interessi de' principi de' suoi tempi. In una lettera dell'aprile del 1513 al Vettori, t. VIII, p. 46, fa un rigorosissimo ritratto di Ferdinando; ed a vicenda Francesco Vettori scrivendogli il 16 maggio del 1514, p. 116, sviluppa le medesime idee, e passa in revista tutti i delitti del re cattolico.
451. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 112. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 336. — Mém. de mess. Martin du Bellay, l. I, p. 70. — Fr. Belcarii Comment., l. XV, p. 454.
452. P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 330. — P. Paruta Istor. Ven., l. III, p. 212.
453. P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 216. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 112.
454. P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 218. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 337. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 113.
455. P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 340. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 114. — Mém. de Fleuranges, p. 222. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 455.
456. Georgens von Frundsberg Kriegzsthathen, B. II, f. 24. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 341. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 115. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 456. — P. Paruta Ist. Venez., l. III, p. 221. — Mém. de Bayard, ch. LXI, p. 384. — Mém. de Fleuranges, p. 224.
457. P. Jovii Hist. sui temp., l. XVI, p. 342. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 222.
458. Mém. de Fleuranges, p. 224. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 72. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 116.
459. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 116. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVIII, p. 393. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 227. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 72.
460. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 120. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVIII, p. 396. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 459.
461. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 121. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVIII, p. 405. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 458. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 75. — Hist. de la Diplomatie Française, t. I, l. III, p. 319.
462. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 121. — P. Paruta, l. III, p. 242. — P. Jovii Hist., l. XVIII, p. 405.
463. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 122. — P. Jovii Hist. sui temp. l. XVIII, p. 402. — P. Paruta Ist. Ven., l. III, p. 237. — Mém. de Fleuranges, p. 293. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 73.
464. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 123. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 460. — Hist. de la Diplomatie française, t. I, l. III, p. 312.
465. Rayn. Ann. Eccl. 1516, § 12, p. 205 ec. — Labbe Conc. Gen., t. XIV, p. 358-389. — Hist. de la Diplom. franc., l. III, p. 316. — Fleury Hist. Eccl., l. CXXIV, c. 121. e segu. — Spondanus Cont. Ann. Baron., t. II, p. 592 ad an. § 13 e segu.
466. Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 92. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 320. — Fr. Guicciardini, l. XII, p. 117.
467. Par. de Grassis Diarium curiæ Roman. apud Raynald. Ann. 1516, § 33, t. XX, p. 219.
468. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 117. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 457. — Comm. di Filippo de' Nerli, l. VI, p. 130. — Jac. Nardi, l. VI, p. 278. — Ist. di Gio. Cambi, p. 99. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, f. 77, ediz. di Venez. 1557, in 12.º.
469. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 118. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 101. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 278. — Par. de Grassis Diar., l. IV, p. 167 apud Raynald. Ann. Eccl. 1516, § 83, p. 129.
470. Fr. Guicciardini, l. XII, p. 124. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XVIII, p. 405. — Paolo Paruta Hist. Ven., l. III, p. 248. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 460. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 321. — H. Georgens von Frundsberg, Ritters Kriegszthaten, B. II, f. 28.
471. P. Justinian. Hist. Ven., l. XI, ap. Rayn. Ann. Eccl. 1517, § 80, p. 238.
472. P. Paruta Ist. Ven., l. IV, p. 252.
473. P. Jovii Hist. sui temp., l. XVII e XVIII. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 152.
474. P. Paruta Stor. Ven., l. IV, p. 254. — Alfonso de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 45 e seg.
475. P. Paruta Ist. Ven., l. IV, p. 257.
476. Ivi, p. 252.
477. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 126. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, f. 81. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 107. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 322. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 460.
478. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 127, 130. — Lettera di Leon X del 12 delle calende d'aprile, al vescovo di Tortosa. Apud Rayn. Ann. Eccl. an. 1517, § 82, 83, p. 239.
479. Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, Deliz. degli Eruditi Toscani, p. 108. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 127. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, p. 81. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 322. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 461.
480. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 131. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 322. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 462.
481. Ist. di Gio. Cambi, p. 111. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 327. — P. Giovio Vita di Leon X, l. III, f. 81. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 137. — Jac. Nardi, l. VI, p. 279.
482. Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 114. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 279.
483. Ist. di Gio. Cambi, p. 111. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 327.
484. Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 114.
485. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 139. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, p. 86. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 327.
486. Lettera ai Sienesi del 15 delle cal. di giugno, ed a G. P. Baglioni del 16. Presso il Raynaldi § 84, 85, p. 240.
487. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 141. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 328. — P. Giovio vita di Leon X, l. III, f. 82. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 464.
488. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 147. — P. Giovio vita di Leone X, l. IV, f. 87. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 330. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 466.
489. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 150. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 87. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 332. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 467.
490. Orl. Malavolti stor. di Siena, p. III, l. VII, f. 117. — P. Giovio elogi e vite degli uomini illustri, l. V, p. 303.
491. Orl. Malavolti stor. di Siena, p. III, l. VII, f. 118.
492. Ivi, f. 119.
493. Rayn. An. Eccl. 1517, § 89, p. 241.
494. Parisii de Grassis MS. archivii Vaticani, t. IV, p. 200; ap. Raynald. an. 1517, § 91-92, p. 242. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 83. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 144. — P. Bizarri S. P. que Genuens. hist., l. XIX, p. 448.
495. Gio. Cambi Ist. Fior., t. XXII, p. 118. — Rayn. An. Eccl. 1517, § 94, p. 242.
496. Par. de Grassis, apud Rayn. Ann. Eccl. 1517, § 98, p. 243.
497. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 146. — Par. de Grassis Diar. ap. Rayn. An. Eccl. 1517, § 95, p. 242. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 85. — Panvino delle vite de' pontefici, in Leone X, p. 262. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 465.
498. Rayn. Ann. Eccl. 1517, § 1-17, p. 226 e seg. — Fleury, Hist. eccl., l. CXXV, c. 1-4. — Spondanus contin., Rayn. 1517, § 1-2, t. II, p. 593.
499. Paris de Grassis ap. Rayn. 1517, § 101, p. 244.
500. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 146. — P. Jovii Hist. sui temp. Epit., l. XIX, t. II, p. 3. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 86. — Jacopo Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 279. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 124.
501. Epist. Leonis apud Rayn. 1518, § 71, p. 260.
502. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 152. — P. Paruta Ist. Venez., l. IV, p. 259. — Rayn. Ann. Eccl. 1517, § 18 e seg., p. 230. — P. Giovio vita di Leon X, t. IV, f. 88.
503. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 155. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 131. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 333. — Mém. de Bayard c. LXI, p. 387. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 77.
504. Come ciò accadesse, e per quali vie, e per quali non disinteressati motivi, basterà il leggere l'eccellente opera di Giacomo Benigno Bossuet, vescovo di Meaux, Storia delle rivoluzioni delle Chiese protestanti, di cui sonosi fatte più edizioni in lingua italiana. Con questa storia il lettore cattolico potrà rettificare le opinioni del nostro autore, senza che io debba di tratto in tratto prendere la difesa delle dottrine cattoliche. N. d. T.
505. P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 91-96.
506. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 255. — P. Paruta Hist. Ven., l. IV, p. 258.
507. L'epitaffio fu inscritto sul di lui sepolcro nella chiesa di san Nazaro in Milano: Joannes Jacobus Trivultius Antonii filius, qui nunquam quievit, quiescit: tace. — Carlo Rosmini Storia del Trivulzio, l. XII, p. 539. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 157. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 100. — Id. Vite degli uomini ill. l. IV, p. 259.
508. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 169. — Par. de Grassis ap. Rayn. An. Eccl. 1519, § 1-2, p. 277. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 472. — P. Bizarri, l. XIX, p. 449. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 88. — P. Paruta Ist. Ven., l. IV, p. 261.
509. Rayn. An. Eccl. 1518, § 156 e seguenti, p. 273; 1519, § 8, p. 278. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 159. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 89. — Jac. Nardi, l. V, p. 283. — P. Paruta, l. IV, p. 261.
510. Gio. Cambi, p. 144-149. — Fil. Nerli, l. VI, p. 132. — Fr. Belcarii, l. XV, p. 468. l. XVI, p. 470.
511. Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 335.
512. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 162.
513. Ist. di Gio. Cambi, t. XXII, p. 152. — Filip. de' Nerli comment. de' fatti civili di Firenze, l. VII, p. 133.
514. Gio. Cambi, t. XXII, p. 166. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 336. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 163. — P. Giovio vita di Leon X, l. IV, f. 89. — Jacopo Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 279.
515. Fr. Belcarii, l. XV, p. 472.
516. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 248.
517. Lettera del cardinale Caietano a Leon X, scritta da Francoforte il 29 di giugno del 1519. Lettere de' principi, ediz. di Ven. del 1581, t. I, f. 68. — Par. de Grassis, l. XIII, p. 264. — Alfonso de Ulloa vita di Carlo V, l. II, f. 63. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 263. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 475. — Schmidt, Hist. des Allemands, l. VIII, c. I e II, t. VI, p. 163.
518. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1519, p. 160.
519. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 165. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 478.
520. P. Bizarri Genuens. Histor., l. XIX, p. 449.
521. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 166. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 478.
522. Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 170. — Anon. Padov. presso il Muratori Ann. d'Italia ad ann. P. 162. — P. Giovio vita di Leone X, l. IV, f. 90. — Onofrio Panvinio vite de' pontefici in Leone X, p. 262. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 430. — Sansovino Famiglie illustri d'Italia, f. 21.
523. P. Jovii vita Leonis X, l. IV, p. 83. — Anon. Padov. presso il Muratori, Ann. 1520, p. 163.
524. Muratori An. d'Ital. ad an. 1520, t. XIV, p. 164. — Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 171, il quale sopprime nel racconto della trama il progetto dell'assassinio, al quale forse non aveva parte. Il Giraldi e P. Giovio ommettono quest'avvenimento, ed il signor Roscoe si appoggia al loro silenzio per dubitarne. Vita di Leon X, c. XXIII.
525. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 173. — Ann. Eccl. Rayn. 1517, § 56, an. 1518, 1519, 1520. — Fleury Hist. Eccl. Liv. CXXV, ch. 29 e segu. — Spondanus contin. Ann. Baronii 1517, § 12, t. II, pag. 596 e segu.
526. Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 89.
527. Mém. de Fleuranges, p. 285. — Mém. de Martin du Bellay, l. I, p. 92-99.
528. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 176. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 284.
529. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 175. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 481. — Rayn. Ann. Eccl. 1521, § 76, p. 335 e segu. — Muratori Ann. d'Italia, t. X, p. 146 ad annum.
530. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 176. — Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 102. — P. Paruta Stor. Ven., l. IV, p. 277.
531. La bolla del papa che scioglie Carlo V dal giuramento prestato come re di Napoli è del 3 giugno 1521. Rayn. Ann. Eccl., § 81, 86, p. 336 e segu. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 181. — P. Paruta Stor. Ven., l. IV, p. 279. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, p. 97. — Galeat. Capella de bello Mediol., l. I, p. 4. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 483. — Jac. Nardi, l. VI, p. 286. — Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 157. — Ub. Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 721.
532. Galeat. Capella de reb. gest. pro restitutione Franc. II Mediol. Ducis, l. I, f. 4. Edit. princeps 1533, in 4.º — Galeazzo Capella era segretario di Girolamo Morone.
533. Uberti Folietae Gen. Hist. l. XII, p. 722. — Petri Bizarri, Sen. Pop. Q. Gen. Hist., l. XIX, p. 450. — Galeat. Capella, l. I, p. 8. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 183.
534. Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 316.
535. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 184. — Galeat. Capella de bello Mediol., l. I, f. 5.
536. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 185. — Galeat. Capella, l. I, f. 5. — Mém. de Mart. du Bellay, l. I, p. 161. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 491. — P. Jovii Hist. epitome, l. XX, t. II, p. 6.
537. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 186. — Galeat. Capella, l. I, p. 7. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 165. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 99. — Jac. Nardi, l. VI, p. 287.
538. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 187. — Galeat. Capella, l. I, f. 7. — P. Jovii Vita Alfonsi Piscarii, l. II, p. 300. — Mém. de Martin du Bellay, l. II, p. 172. — P. Paruta, l. IV, p. 281. — Jac. Nardi, l. VI, p. 287. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gallic., l. XVI, p. 492.
539. Mém. de Martin du Bellay, l. II, p. 159.
540. Galeat. Capella, l. I, f. 7. — Jac. Nardi, l. VI, p. 288. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 188. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 496.
541. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 189. — P. Paruta, l. IV, p. 282. — Gal. Capella, l. I, f. 8. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 175. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 493. — P. Jovii Vita Piscarii, l. II, p. 300.
542. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 192. — Gal. Capella de bello Mediol., l. I, f. 9. — P. Paruta Ist. Ven., l. IV, p. 283. — P. Jovii Vita Alfonsi Piscarii, l. II, p. 301. — Ejusd. Vita Leon X, l. IV, f. 97.
543. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 194. — Gal. Capella, l. I, f. 9. — P. Jovii Vita Piscarii, l. II, p. 301. — P. Paruta, l. IV, p. 284. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 177.
544. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 197. — P. Jovii Vita Piscarii, l. II, p. 302. — Vita di Leon X, l. IV, f. 98. — Gal. Capella, l. I, f. 9. — Mém. de Martin du Bellay, l. II, p. 178. — Anon. Padov. presso Muratori Ann., t. X, p. 148. — Mém. de Fleuranges, ch. dernier, p. 316, 319. — Jac. Nardi, l. VI, p. 288. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 338.
545. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 201. — Georg von Frundsberg, B. II, f. 32.
546. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 202. — Gal. Capella, l. I, f. 10. — P. Jovii Vita Ferdin. Davali, l. II, p. 303. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 179. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 289.
547. Gal. Capella de bello Mediol., l. I, f. VI. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 205. — Mém. de du Bellay, l. I, p. 181.
548. P. Jovii Vita Ferd. Dav. Piscarii, l. II, p. 306. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 207. — Gal. Capella, l. I, f. 11. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 182. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 340. — Georgens von Frundsberg Kriegzsthaten, B. II, f. 32.
549. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 209. — P. Jovii vita Fer. Davali, l. II, p. 308. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 184. — Gal. Capella, l. I, f. 12. — Georgens von Frundsberg, B. II, f. 32.
550. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 210. — P. Jovii Vita Piscarii, l. II, p. 309. — Gal. Capella, l. I, f. 13. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 185. — P. Paruta Ist, Ven., l. IV, p. 286. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 498. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 100. — Jac. Nardi, l. VI, p. 289. — Gio. Gambi, t. XXII, p. 287.
551. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 211. — P. Jovii Vita Piscarii, l. II, p. 313. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 187.
552. Par. de Grassis Diar. Curiæ Rom., t. IV, p. 384, apud Rayn. Ann. Eccl. 1521, § 109, p. 342.
553. Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 212. — P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 100. — Jac. Nardi, l. VI, p. 290. — Onof. Panvino Vite de' Pontefici in Leon X, f. 262. — Scip. Ammirato, l. XXIX, p. 341. — Fr. Belcarii, l. XVI, p. 499. — Mém. de du Bellay, l. II, p. 192. — Gio. Cambi, t. XXII, p. 189. — P. Bizarri, l. XIX, p. 451. — P. Paruta, l. IV, p. 289. — Gal. Capella, l. I, f. 14.
554. P. Giovio Vita di Leon X, l. IV, f. 101. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. VI, p. 291. — Par. de Grassis apud Rayn. Ann. Eccl. 1521, § 110, p. 343. — Fr. Guicciardini, l. XIV, p. 212. — Gal. Capella, l. I, f. 14.