CAPITOLO CXIV.

Elezione e papato d'Adriano VI; sconfitta de' Francesi alla Bicocca; convenzione di Cremona, in forza della quale sgombrano l'Italia; i Veneziani si staccano dalla Francia; ingresso di Bonnivet in Lombardia; morte di Adriano VI.

1521 = 1523.

La guerra riaccesa in Italia dalla inconsiderata ambizione di Leon X doveva, a seconda de' suoi risultamenti, decidere se gl'Italiani rimarrebbero una nazione indipendente, o se caderebbero sotto il giogo di quegli stranieri ch'essi chiamavano barbari. Non trattavasi al presente della divisione di alcune province tra potentati che potevansi risguardare come compatriotti, ma della intera nazione e della sua medesima esistenza. Nè i più grandi interessi della patria loro trattavansi oramai tra gl'Italiani; chè tutte le potenze d'Europa si occupavano della futura sua sorte; e le cagioni degli avvenimenti che cambiavano i destini dell'Italia dovevano cercarsi in lontani paesi.

Poichè potenze così formidabili quali erano le monarchie di Francia, di Spagna, di Germania, d'Inghilterra erano entrate in campo, le piccole sovranità d'Italia sentirono la comparativa loro debolezza, la quale era smisuratamente cresciuta a cagione delle ruinose guerre che da oltre venticinque anni desolavano questa infelice contrada. Avevano tali guerre consumate tutte le sue ricchezze, e distrutti i mezzi di riproduzione in un paese in addietro il più fertile, in allora il più sgraziato dell'Europa: onde Venezia, Firenze, Siena e Lucca che conservavano tuttavia il nome di repubbliche; i duchi di Milano, di Savoja, di Ferrara, ed i marchesi di Mantova e di Monferrato che si chiamavano ancora sovrani, aspettavano tremanti che la loro sorte fosse decisa dalla politica, dai trattati, o dalle armi degli oltremontani.

Soltanto la sede pontificia si era innalzata in tempo del decadimento degli altri stati italiani. Le conquiste di Alessandro VI, di Giulio II e di Leon X avevano assoggettate ai pontefici province effettivamente indipendenti, sebbene di nome riconoscessero la supremazia della santa sede. Quando in appresso si trovarono aggiunte allo stato della Chiesa Parma, Piacenza, Modena e Reggio; quando in pari tempo il capo di questa Chiesa signoreggiava come assoluto padrone la repubblica fiorentina, i suoi stati sorpassarono di lunga mano in estensione, in popolazione ed in ricchezze quelli de' più potenti principi che l'Italia avesse veduto innalzarsi dal principio del medio ævo. I re di Napoli, i duchi di Milano, o la repubblica di Venezia, non avevano mai disposto di tante forze, principalmente quando si pongano in conto le grandissime entrate, che la camera apostolica sapeva ritrarre dalla superstizione de' popoli degli altri stati della Cristianità.

Se Leon X alla profonda dissimulazione che lo faceva risguardare come un grande politico non avesse associata la prodigalità di principe nuovo e la inconsideratezza di un uomo dedito ai piaceri, avrebbe facilmente potuto mantenere l'equilibrio tra le due potenze che si contendevano l'Europa; avrebbe fatta rispettare non solo la neutralità de' proprj stati, ma ancora di quegli altri che volontariamente si fossero posti sotto la sua protezione; e tutti i popoli d'Italia si sarebbero procacciato a gara questo vantaggio. I diversi avvenimenti d'una lunga contesa che doveva durare quanto il regno di Carlo V, gli avrebbero somministrate molte opportunità per rialzare l'indipendenza nazionale: egli non avrebbe avuto bisogno per essere veramente grande, che del sincero desiderio di voler il bene de' suoi compatriotti, inspirando loro fiducia nella sua buona fede. Ma Leon X per una giovanile ambizione, che non appoggiavasi a verun piano ben ragionato, e non era sostenuta da veruna idea che portasse l'impronto della vera grandezza, cooperò all'annientamento della libertà italiana, mentre lo scandaloso traffico delle indulgenze, cui si appigliò per supplire alle smoderate spese, scosse il trono pontificio, e staccò metà del Cristianesimo dall'ubbidienza fin allora renduta a' suoi predecessori.

In tempo del suo regno e precisamente nel 1517, avea in Germania cominciato la riforma colle prediche di Lutero. Ma sebbene questo coraggioso novatore fosse di già passato dall'attacco contro le indulgenze a dubitare dell'autorità del papa, a sovvertire tutta la disciplina ecclesiastica, e finalmente alle controversie intorno al medesimo domma, non aveva per anco tentato verun cambiamento nella esteriore forma del culto; i suoi settatori non formavano una nuova Chiesa, e non potevasi ancora fondatamente giudicare intorno alla estensione del pericolo che minacciava da questo canto la corte di Roma. Vero è che universale era il fermento di tutta la Germania. Presso i popoli settentrionali la religione associavasi agli affetti del cuore; si univa intimamente a tutto l'uomo; veniva esaminata dalla sua ragione, riscaldata dal suo amore, ed ammessa per norma delle sue azioni. Diversamente disposta rispetto alle idee religiose era la nazione italiana, la quale dopo avere ammesso l'intero sistema dei dommi della Chiesa, li riguardava come non soggetti ad ulteriore disamina, e mostrava il suo rispetto per la fede col non prendersene verun pensiero. Gli uomini di perduti costumi, siccome i più costumati, i più filosofi, come i più superstiziosi, non muovevano mai dubbj intorno al complesso delle dottrine della Chiesa; ma d'altra parte pochissima cura si prendevano delle cose della fede, che non eccitava verun affetto nel loro cuore, e niente influiva sulle azioni della loro vita. La religione segregata affatto dal raziocinio, dalla sensibilità, dalla morale, dalla condotta, altro omai non era che un'abitudine dello spirito, che ordinava certe pratiche, e proscriveva certi pensieri.

In fatti la riforma eccitò in Italia alquanto di maraviglia e d'inquietudine, ma niuna curiosità. Erano gl'Italiani accostumati a resistere al papa, a fargli la guerra, a sprezzare le sue scomuniche; sapevasi da molto tempo, che corrottissimi erano i costumi della sua corte, perfida la politica, e che le più odiose passioni potevano celarsi sotto il manto della religione. Il rimanente del clero non godeva in Italia le immunità e le ricchezze del clero della Germania: pure si era veduto commettere infami azioni; e perchè queste più non erano cagione di scandalo, l'accusa diretta contro di lui più non eccitava la sorpresa della novità. Coloro che volevano riformare la disciplina passavano per entusiasti, che si adiravano contro il corso ordinario delle cose del mondo; coloro, che attaccavano la dottrina, passavano per insensati che sconvolgevano i fondamenti delle opinioni; imperciocchè quelle basi medesime che il pregiudizio ha stabilite, e che sottrae ad ogni esame, non sembrano agli uomini meno solide di quelle fondate dalla ragione. Mentre che nuove dottrine fermentavano in tutta l'Europa, verun Italiano non muoveva dubbj intorno a ciò che gli era stato dato a credere, e passò ancora lungo tempo prima che qualche opinione luterana valicasse le Alpi.

Lo stesso Leon X morì prima d'essersi formato una giusta idea del pericolo ond'era minacciata la Chiesa romana per la sollevazione degli spiriti in Germania; ma la morte lo sottrasse altresì a difficoltà, di cui avrebbe assai più presto sentito il peso; ed erano quelle stesse che si era procacciate colle sue inconsiderate prodigalità. Non solo egli aveva dissipato il ragguardevole tesoro adunato da Giulio II, ed impegnate tutte le gioje e tutti gli effetti preziosi di san Pietro; ma aveva inoltre contratto un grosso debito, e venduti tanti nuovi impieghi che i soli loro salarj avevano accresciute di quaranta mila ducati le annue spese delle Chiesa[1].

Leon X sarebbesi trovato in grandissime difficoltà, dovendo continuare, senza avere danaro, la guerra da lui cominciata in Lombardia; ma i luogotenenti che lasciava morendo in sua vece, trovaronsi in una situazione ancora più difficile che la sua. I cardinali di Sion e de' Medici che avevano fin allora sostenuto il peso degli affari, si affrettarono di abbandonare l'armata, per passare a Roma onde assistere al conclave. Carlo V trovavasi abbastanza occupato dalla guerra che gli facevano i Francesi ne' Paesi Bassi; la Castiglia si era ribellata, ed i regni di Valenza e di Majorica erano desolati dalla guerra mossa ai nobili dalle comunità, talchè tutte le forze della Spagna venivano consumate da queste intestine discordie. La piccola armata che l'imperatore teneva in Lombardia non era pagata; essendosi fin allora fatta la guerra coi soli tesori della Chiesa; ed essendo questi mancati tutt'ad un tratto, Prospero Colonna ed il marchese di Pescara furono costretti di licenziare tutti i Tedeschi e tutti gli Svizzeri che tenevano al loro soldo, ad eccezione di mille cinquecento uomini. Nello stesso tempo gli ausiliari fiorentini che non erano chiamati in questa guerra da un immediato interesse, e che ignoravano perfino se sarebbero o no gli alleati del futuro pontefice, tornarono in Toscana[2].

Se dal canto suo il signore di Lautrec non fosse stato abbandonato a cagione della scandalosa negligenza di Francesco I, che d'altro non prendevasi pensiero che de' suoi piaceri e delle sue galanterie, e che non gli mandava danaro per pagare le truppe, avrebbe potuto facilmente ricuperare Milano e tutte le piazze che aveva perdute. Aveva ancora guarnigione ne' castelli di Milano, di Novara, di Trezzo e di Pizzighettone; comandava in Cremona, in Genova, in Alessandria, in Arona, ed in tutto il Lago Maggiore; ma senza danaro non poteva adunare fanteria. Poco conto poteva fare de' suoi uomini d'armi scoraggiati; e quando tentò di sorprendere la città di Parma, ove comandava lo storico Guicciardini, fu respinto dalle sole compagnie della milizia[3].

Intanto scoppiavano in ogni parte degli stati della Chiesa ammutinamenti o rivoluzioni. I piccoli principi, che Leon X aveva spogliati della loro sovranità, invocavano l'ajuto de' loro partigiani per riavere lo stato de' loro padri. Il duca di Urbino erasi collegato coi due fratelli Baglioni, ed avevano, a spese comuni, adunati in Ferrara dugento uomini d'armi, trecento cavaleggieri e tre mila fanti. Con questa piccola armata attraversarono senz'ostacolo la Romagna. Il duca d'Urbino fu ricevuto con entusiasmo dagli antichi suoi sudditi, e ricuperò senza sguainare la spada il ducato d'Urbino, mentre che il contado di Montefeltro, da Leon X ceduto ai Fiorentini, fu difeso dalle loro guarnigioni. Orazio e Malatesta, figliuoli di Giampaolo Baglioni, si presentarono ancor essi alle porte di Perugia. Vitello Vitelli, che ne aveva il comando, fece una breve resistenza; perciocchè essendo stato leggiermente ferito in un piede, colse avidamente questo pretesto per farsi portare a Città di Castello sua patria, siccome colui che copertamente desiderava che i feudatarj della Chiesa ricuperassero l'antica indipendenza. Subito dopo la di lui partenza Siena capitolò, ed aprì le porte ai figli di Baglioni il 5 gennajo del 1522. In pari tempo Sigismondo di Varano scacciava da Camerino Giammaria della stessa famiglia, cui Leone X aveva dato il titolo di duca di quel piccolo stato, e vi si stabiliva in sua vece[4].

Gli emigrati di Todi vennero ricondotti in quella città a mano armata da Camillo Orsini. Il duca d'Urbino dopo di essersi occupato pochi giorni a ristabilire la propria autorità ne' suoi stati, volle altresì riporre in Siena i figli di Pandolfo Petrucci; ma fu respinto dall'attività in particolare de' Fiorentini, affezionati al cardinale de' Medici[5]. Nè forse questi non avrebbero schivata una rivoluzione nella loro patria se all'istante della morte di Leon X non avessero ordinato l'arresto nel palazzo pubblico a tutti i cittadini più conosciuti pel loro attaccamento alla libertà[6]. Sigismondo Malatesta, figliuolo di Pandolfo, venne introdotto in Rimini dagli antichi partigiani di sua famiglia, e per poco tempo ricuperò una sovranità, di cui suo padre era stato privato vent'anni prima da Cesare Borgia[7]. Finalmente quello che più aveva sofferto dalla nimicizia, quello che più d'ogni altro doveva temere le ultime prosperità di Leone, Alfonso, duca di Ferrara, si affrettò di ricuperare tutto quanto aveva perduto. Era costui colpevole agli occhi del papa per avere pochi mesi prima impedita la conquista di Parma con un'ardita diversione. Perciò dopo i primi felici avvenimenti dell'armata di Prospero Colonna, una seconda armata pontificia era venuta ad attaccare Finale e san Felice, ed aveva in appresso occupato il Bondeno e saccheggiato; mentre che dalla banda della Romagna, gli agenti della Chiesa s'impadronivano di Lugo, di Bagnacavallo, di Cento e della Pieve; mentre i Fiorentini acquistavano la Garfagnana, e Francesco Guicciardini entrava nel Frignano colle truppe modenesi. Alfonso, minacciato d'assedio nella sua stessa capitale, apparecchiavasi a vendere a carissimo prezzo la propria vita quand'ebbe la notizia della morte di Leone. Nell'entusiasmo della sua gioja fece coniare una moneta d'argento, nella quale vedevasi un pastore che strappava dalla bocca d'un leone un agnello, con questa leggenda presa dal libro dei re: de ore leonis. Egli in pochi giorni ricuperò il Bondeno, Finale, san Felice, il Frignano, la Garfagnana, Lugo, Bagnacavallo, e soltanto fu perdente sotto al Bondeno valorosamente difeso dai Bolognesi[8].

Frattanto i cardinali, moltiplicati dalle promozioni di Leon X, erano entrati in conclave il 16 di novembre. Sapevasi essere divisi tra il partito imperiale ed il partito francese. L'ultimo avrebbe voluto portare sul trono pontificio il cardinale di Volterra, fratello di Piero Soderini, il quale era stato perpetuo gonfaloniere; e questi era il rivale più temuto da Giulio de' Medici, che rimasto alla testa delle creature di suo cugino poteva disporre di sedici suffragi, cioè più di un terzo e meno della metà; perciocchè questa volta il conclave conteneva quaranta cardinali; e Giulio senz'essere abbastanza forte per farsi nominare, lo era bastantemente per l'esclusione d'ogni altro[9].

Il cardinale de' Medici aveva sperato di essere secondato da tutto il partito imperiale. Era stato il principale ed il più esperto ministro di suo cugino Leon X; anzi quello che lo aveva persuaso a fare alleanza coll'imperatore; i successi della guerra di Lombardia venivano in gran parte attribuiti ai suoi consiglj ed alla sua abilità; ed egli solo poteva aggiugnere alla potenza della Chiesa quella della repubblica fiorentina di cui era capo. Ma Giulio aveva nel sacro collegio e nel partito dell'impero un rivale, come lui militare prima di essere prelato, giovane come lui, e non meno di lui ambizioso; questi era Pompeo Colonna, il quale piuttosto che favorire il Medici parve apparecchiato a darsi al partito francese. Di già costui rappresentava ai suoi colleghi la vergogna di portare un bastardo sulla santa sede; poichè Giuliano, fratello del magnifico, non era mai stato marito d'Antonia del Cittadino, dalla quale era nato Giulio il 26 maggio del 1478. Ricordava le crudeltà commesse da Leon X dopo scoperta la supposta congiura di Petrucci, e faceva sentire il pericolo di perpetuare la dignità pontificia nella stessa famiglia[10].

Mentre i cardinali andavano opponendo l'intrigo all'intrigo, ogni mattina, come è l'usanza dei conclavi, procedevano ai voti intorno a qualche nuovo soggetto che loro si proponeva. Uno di loro, il giorno 9 di febbrajo, nominò il cardinale Adriano Florent, vescovo di Tortosa, Fiammingo, il quale era stato precettore di Carlo V, e che l'imperatore aveva ultimamente nominato governatore di Castiglia. Adriano nato in Utrecht il 7 maggio del 1458 da padre fabbricatore di tappeti o di birra, non era mai venuto in Italia, e non sapeva la lingua italiana, non conosceva verun cardinale, aveva mostrato poco ingegno nell'amministrazione affidatagli dal suo illustre alunno, e pareva esservi così poca apparenza per la sua elezione, che tutto lo squadrone del Medici (così veniva chiamato il suo partito) senza volerlo gli diede il suo voto. Il cardinale di san Sisto prese da ciò motivo per encomiarlo lungamente, e perchè i cardinali desideravano d'uscire di prigione, gli diedero i loro suffragi quasi senza riflettere, e lo nominarono così inconsideratamente, che non potendo in appresso giustificare innanzi a sè medesimi o agli altri la loro imprudenza, l'attribuirono a subita inspirazione dello Spirito Santo[11].

Non fu che in sul declinare d'agosto che il nuovo pontefice, il quale prese il nome d'Adriano VI, arrivò in Italia per prendere possesso della tiara. Ne' primi nove mesi dell'anno la Chiesa fu amministrata a nome del sacro collegio de' cardinali da una signoria somigliante assai a quella delle antiche repubbliche toscane. Tiravansi a sorte ogni mese tre priori tra i membri del sacro collegio, i quali formavano il governo. Ma questi prelati mal d'accordo fra di loro, ed ogni mese mutando sistema, non erano in istato di difendere il potere papale. Ad altro non pensarono che a guadagnare tempo ed a mantenere un'apparente pace, pel quale oggetto conchiusero un armistizio col duca d'Urbino, che pose fine alle rivoluzioni dell'Umbria[12].

Il cardinale de' Medici, umiliato dalla esclusione dal pontificato, e credendosi tradito dal partito imperiale, tornò per mare a Firenze, ove temeva di trovare compromessa la sua autorità; fece il suo ingresso il 21 di gennajo del 1522, portando il corrotto di suo cugino, e cogli indizj in fronte della tristezza e del sospetto[13]. In fatti i repubblicani di Firenze credevano giunto l'istante di ricuperare la libertà della loro patria; il signore di Lescuns loro prometteva l'appoggio del re di Francia; le sue truppe dovevano entrare in Toscana per la via della riviera di Genova, nello stesso tempo che Renzo di Ceri vi giugnerebbe dalla banda di Siena. Il duca d'Urbino ed i Baglioni favorivano caldamente un progetto che doveva vendicarli dei Medici. In Firenze queste pratiche erano dirette da Giambattista Soderini, nipote del cardinale di Volterra, e del gonfaloniere perpetuo. Ingrossava il suo partito la società de' poeti e de' filosofi, che diede tanta celebrità agli Orti Rucellai, nei quali si adunava. Vi si contavano Luigi Alamanni, Zanobio Buondelmonti, Cosimo Rucellai, Alessandro de' Pazzi, Francesco e Jacopo Diaceto, e per ultimo Niccolò Macchiavelli che loro dedicò i suoi Discorsi sopra Tito Livio, e la sua arte della guerra. Educati ne' medesimi principj desideravano tutti la libertà di Firenze, ma non avevano verun odio personale contro il cardinale de' Medici, anzi accordavano che di tutta la sua famiglia era quello che si era più dolcemente e cittadinescamente comportato nella sua amministrazione, onde preferivano di ricuperare i loro diritti con un compromesso piuttosto che di strapparglieli colla forza[14].

Il cardinale de' Medici che conosceva la propria debolezza, e la necessità di accarezzare i suoi avversarj, convenne che il supremo potere male s'accordava colle sue funzioni ecclesiastiche, e colla carriera che gli era aperta alla corte di Roma, dando voce d'essere apparecchiato a rinunciarlo. I giovani patrizj degli Orti Rucellai diedero facilmente fede alle speranze che loro dava il cardinale, ed invece d'agire contro di lui, si ristrinsero a meditare intorno alla migliore costituzione da darsi alla repubblica all'atto che si rinnoverebbe; fu questo l'argomento di tre opere politiche del Macchiavelli, di Zanobio Buondelmonti, e di Alessandro de' Pazzi, tutte dedicate al cardinale de' Medici[15].

Frattanto il signore de Lescuns, troppo occupato in Lombardia, e lasciato dal re di Francia senza danaro, aveva abbandonato il progetto d'entrare in Toscana per lo stato di Genova. Renzo di Ceri si era ostinato nell'assedio del piccolo castello di Turrita nello stato di Siena, e non passò mai oltre. Il partito francese, ch'era quello della libertà, andava declinando in tutta l'Italia, onde il cardinale de' Medici credette giunto il momento favorevole di trarre d'inganno coloro che avevano potuto lusingarsi ch'egli renderebbe alla sua patria la libertà. Fu arrestato un corriere francese mandato a Renzo di Ceri, dal quale il cardinale si procurò con un sacrilegio la manifestazione del suo segreto, mandandogli in prigione invece del confessore da lui domandato, una spia della polizia vestita da prete. E per tal modo venne in cognizione della corrispondenza di Giacomo di Diaceto con Renzo di Ceri. Giacomo, posto in prigione il 22 di maggio, e minacciato di tortura, confessò quello che ancora non si sapeva, d'avere voluto assassinare il cardinale perchè avesse ingannato i repubblicani con fallaci speranze. L'interrogatorio del prevenuto essendo stato differito di ventiquattr'ore, i di lui amici, Luigi Alamanni il poeta, e Zanobio Buondelmonti ebbero il tempo di salvarsi; ma un altro Luigi Alamanni subì l'ultimo supplicio con Jacopo di Diaceto il giorno 7 di luglio. I figli di Paolo Antonio Soderini dovettero fuggire, ed i loro beni furono sequestrati; mentre il loro zio, Pietro Soderini, ch'era stato gonfaloniere perpetuo, moriva in Roma il 14 di giugno, lasciando eterno desiderio di sè presso tutte le persone dabbene[16].

Le rivoluzioni degli stati della Chiesa e della Toscana erano opera degl'Italiani, ma l'influenza loro era limitatissima; per lo contrario quelle della Lombardia erano opera degli oltremontani, e da queste dipendevano non solo la futura sorte dell'Italia, ma ancora quella dell'Europa. Francesco I colla sua inconsiderata prodigalità aveva lasciato che si perdesse nel precedente anno lo stato di Milano, mentre il suo cancelliere Duprat aveva con nuove imposizioni, con intollerabili estorsioni e colla vendita de' beni della corona, raccolto assai più danaro che non sarebbe abbisognato per mantenere la più formidabile armata. Francesco tutt'inteso a' suoi amoreggiamenti ed alle feste che dava alle sue amiche, dissipava il danaro strappato a' suoi popoli, o lasciava che sua madre ne disponesse, compromettendo l'onore nazionale colle sconfitte delle sue armate, e col mancare a tutte le convenzioni fatte co' suoi alleati. Vantavasi d'essere il primo re di Francia, che si fosse liberato dalla tutela de' suoi familiari, perchè disponeva solo, ed a voglia sua di tutti gli scrigni de' suoi sudditi, mentre che prima di lui le domestiche spese de' suoi predecessori erano a carico de' beni della corona, ch'essi non si facevano lecito d'impegnare, concorrendo liberamente alle spese della guerra i tre ordini dello stato. Ma il vescovo di Beucaire non dubitò di dire che Francesco cambiò la libertà francese in una miserabile schiavitù; e le sciagure provocate sul di lui regno mostrano abbastanza che colla libertà de' suoi sudditi sagrificò pure la personale sua gloria ai suoi capriccj[17].

La gloria nazionale era stata pure sagrificata in altra maniera da lui e da' suoi predecessori all'ingrandimento della sua autorità o di quella de' gentiluomini. Era stato severamente vietato l'uso delle armi al terzo stato, onde tenerlo in una assoluta dipendenza dai suoi padroni: erasi con ciò renduto vile ed incapace di servire nelle armate, di modo che era cosa maravigliosa il vedere una delle più valorose nazioni dell'Europa ridotta a non avere fanteria nazionale. I suoi re erano forzati di ricorrere agli Svizzeri per tutte le loro guerre, perchè, ad eccezione degli uomini d'armi tutti presi tra la nobiltà, la Francia non aveva soldati. La Svizzera, che non contava l'ottava parte della popolazione della Francia, le somministrava i suoi battaglioni; ma per ottenerli, bisognava che i Francesi si ponessero in balìa della venalità, dell'orgoglio, dell'incostanza di que' montanari, renduti arroganti dal vedersi accarezzati da tutti i sovrani. Francesco I, che di fresco aveva perduto Milano per la loro mala fede, fu ridotto a mercanteggiare separatamente con ogni cantone, e profondere doni tra i loro magistrati, a promettere pensioni agli uomini che avevano fra loro maggiore riputazione, e ad inghiottire senza lagnarsene la loro arroganza. A questo prezzo Renato, bastardo di Savoja, gran maestro di Francia, e Galeazzo di Sanseverino, grande scudiere, persuasero nella primavera del 1522 circa due mila Svizzeri a passare il san Bernardo ed il san Gottardo per iscendere in Italia[18].

Dal canto suo il Lautrec adunò la cavalleria francese dispersa nella pianura lombarda; la riunì presso Cremona all'armata veneziana comandata da Andrea Gritti e da Teodoro Trivulzio; poi andò ad unirsi agli Svizzeri, ed il primo giorno di marzo passò l'Adda per venire ad accamparsi con tutta la sua armata due sole miglia lontano da Milano[19].

Prospero Colonna difendeva questa città con Alfonso d'Avalos, marchese di Pescara. Il cancelliere del ducato, Girolamo Moroni, vi teneva la rappresentanza del suo signore, che per anco non aveva potuto fare il suo ingresso nella capitale. Esortava i Milanesi a conservare la loro indipendenza; loro mostrava i pericoli delle vendette de' Francesi; e per aggiugnere inoltre un sentimento religioso all'amore della patria, aveva persuaso un eloquente monaco dell'ordine di sant'Agostino, Andrea Barbato, a riscaldare lo zelo de' Milanesi con una serie di sermoni contro i barbari[20]. Con tale pratica ottenne il Moroni dai suoi compatriotti volontarie contribuzioni abbastanza copiose per assoldare dieci mila Tedeschi. Girolamo Adorno, e Giorgio Frundsberg ne condussero cinque mila con tanta rapidità a traverso alla Valtellina ed al Bergamasco, che entrarono in Milano prima che arrivassero i Francesi; gli altri vi furono condotti alquanto più tardi dallo stesso Francesco Sforza[21].

Dall'altra parte l'armata francese aveva ancor essa ricevuto un inaspettato rinforzo, essendo stata raggiunta da Giovanni de' Medici, che le condusse a Cassano tre mila pedoni e dugento cavalli. Queste truppe avevano bandiere nere in segno di corrotto per la morte di papa Leon X, ond'ebbero poi il nome di Bande Nere; nome che in appresso esse rendettero famoso rivendicando la gloria della fanteria italiana. Queste Bande avevano fino a tale epoca combattuto nell'armata della lega; ma trovandosi Giovanni de' Medici in libertà per la morte di Leon X, le aveva condotte ai servigj della Francia, che gli aveva offerte migliori condizioni[22]. Circa lo stesso tempo, un colpo di colombrina, che alcuni pretesero essere stato diretto dallo stesso Prospero Colonna, uccise Marcantonio Colonna, suo nipote, che serviva nell'armata francese, e Camillo, figliuolo del maresciallo Gian Giacopo Trivulzio. Il cadavere del primo fu mandato in Milano allo zio, che fu estremamente afflitto per avere veduto cadere tra le file nemiche un nipote che grandemente amava[23].

Prospero Colonna ed il Pescara avevano approfittato della lentezza de' Francesi per riparare tutte le fortificazioni di Milano, e per circondare il castello con una circonvallazione, che non permettesse a Lautrec di soccorrere la guarnigione assediata. Questi, prevenuto ne' suoi progetti, non aveva avuto che il debole compenso della presa di Novara; in appresso aveva attaccato Pavia, difesa dal marchese di Mantova; ma fu forzato ad abbandonarne l'assedio, vedendo avvicinarsi coll'armata imperiale Prospero Colonna. Finalmente erasi diretto per la via di Landriano alla volta di Monza, onde accostarsi ad Arona, ove sapeva trovarsi il danaro mandatogli dalla Francia per pagare le sue truppe[24].

Sapevano gli Svizzeri che il danaro destinato pel loro soldo era stato condotto ad Arona, sul lago Maggiore, e che Anchise Visconti, che occupava Busto con un corpo di truppe milanesi, impediva al convoglio di venire fino all'armata. Perciò facevano calde istanze al Lautrec di forzare il passo fino al lago Maggiore onde far loro avere il danaro, mentre Andrea Gritti, generale de' Veneziani, protestava dal canto suo che non si allontanerebbe cotanto dai confini della sua repubblica, e che, se gli Svizzeri prendevano la strada del lago Maggiore, egli prenderebbe quella di Verona[25]. Desiderava il Lautrec di calmare l'impazienza degli Svizzeri: ma l'armata imperiale soffriva ancora più che la sua per mancamento di danaro e di vittovaglie; e di già intere compagnie di disertori avevano abbandonate le insegne del Colonna per porsi sotto quelle di Lautrec; onde questi sperava, tenendo la campagna ancora qualche tempo, di disperdere l'armata nemica[26].

Ma gli Svizzeri, entrando in campagna, si erano ripromessi più rapidi successi, ed il saccheggio delle più ricche città della Lombardia. Di più terre da loro attaccate, la sola città di Novara era venuta in loro potere, ed era stata da loro barbaramente saccheggiata. Avevano sofferto assai sotto Pavia, ove continue piogge avevano impedita la condotta delle vittovaglie. Mostravansi annojati d'una guerra di posizioni e di marcie, ed accostumati come erano a far tutto cedere ai loro capriccj, si adunarono intorno alla tenda di Lautrec per domandare con altissime grida o la battaglia o il loro congedo[27].

Il Lautrec e tutti i generali francesi impiegarono inutilmente il loro credito presso gli Svizzeri, per persuaderli a confidare ne' loro capi, ad approfittare dei patimenti del nemico, ad aspettare se non altro pochissimi giorni, ne' quali il generale francese, con un nuovo movimento, forzerebbe Prospero Colonna a mutare posizione: tutto fu inutile, e gli Svizzeri risposero a tutti i ragionamenti degli ufficiali dell'armata con una sola voce: domani, o il congedo, o la battaglia[28].

Lautrec, prima di cedere, incaricò Crequì, signore di Pontdormì, di andare a riconoscere il nemico con quattrocento uomini d'armi e sei mila Svizzeri. Prospero Colonna si era accampato alla Bicocca, casa di campagna di un signore milanese, lontana tre in quattro miglia da Milano. Una strada, più bassa de' fondi laterali, gli teneva luogo di fossa; ed egli ne aveva coperti gli orli con artiglieria e con archibugeri; a destra ed a manca il suo campo era chiuso da due canali d'acqua corrente destinata all'irrigazione; ed a non molta distanza dietro al campo uno de' canali era attraversato da un ponte di pietra. Crequì, dopo avere esaminata questa posizione, riferì al generale francese che riuscirebbe difficilissimo il forzarla; onde il consiglio di guerra tentò nuovamente di persuadere gli Svizzeri a rinunciare ad una battaglia che doveva avere un'infelice riuscita. Risposero questi, che attaccherebbero di fronte la linea del nemico e che colle loro picche e colle alabarde s'impadronirebbero di quelle batterie credute tanto formidabili. Dichiararono in pari tempo che domani si metterebbero in cammino per tornare nei loro paese ove non fossero condotti alla battaglia. Il solo Pietro Navarro propose di far morire i più sediziosi e di ridurre così gli altri all'ubbidienza; ma gli altri generali e lo stesso Lautrec, che conoscevano gli Svizzeri, e che si sentivano assolutamente tra le loro mani, preferirono la dubbiosa sorte d'una battaglia alla certezza d'una sconfitta, necessaria conseguenza della partenza di tutta la loro fanteria; e sebbene vivamente sentissero l'imprudenza che stavano per commettere, nondimeno ordinarono alle loro truppe di apparecchiarsi per combattere nel susseguente giorno[29].

In fatti il Lautrec sortì da Monza la mattina del 29 aprile, giorno di Quasimodo, e marciò alla volta della Bicocca. A seconda della loro domanda aveva incaricati otto mila Svizzeri del principale attacco sulla fronte del nemico; Montmorencì col conte di Montforte, i signori di Miolans, di Granville, d'Auchì, di Launai e molti altri marciavano a piedi alla loro testa. Giovanni de' Medici aveva avuto ordine di celare il loro avanzamento, tenendo occupato il nemico colle evoluzioni della sua cavalleria e della sua fanteria leggiere. Lescuns, maresciallo di Foix, con trecento lance ed una parte dell'infanteria doveva girare intorno alla sinistra dell'armata imperiale, passare il ponte di pietra ch'era stato riconosciuto, e piombare alle spalle di Prospero Colonna, ove stava di guardia Francesco Sforza colle milizie milanesi uscite di città, per prender parte nella battaglia; il Lautrec col restante della cavalleria e della fanteria francese doveva piegare a destra; e per penetrare nel campo nemico aveva fatto prendere ai suoi soldati la croce rossa, che portavano gl'Imperiali, invece della bianca che portavano i Francesi; poichè non si costumavano ancora gli uniformi. L'armata veneziana formava la retroguardia e non era chiamata a prendere immediatamente parte nella battaglia[30].

I varj corpi dell'armata francese, non avendo un eguale spazio da percorrere, non potevano giugnere alla rispettiva posizione nello stesso tempo: onde il Montmorencì, giunto a poca distanza dagl'imperiali, ordinò agli Svizzeri di trattenersi per dare tempo al maresciallo di Foix di fare il giro che gli era stato ordinato. Ma gli Svizzeri, pieni di disprezzo pei loro nemici, e volendo avere soli l'onore della vittoria, mai non vollero ubbidire, continuando ad avanzarsi di fronte al nemico, ove trovavansi Giorgio di Frundsberg colla fanteria tedesca ed il marchese di Pescara colla fanteria spagnuola. Questi aveva insegnato ai suoi fucilieri a fare un continuo fuoco, loro facendo ricaricare il fucile stando in ginocchio, mentre che la linea di dietro tirava. L'attacco degli Svizzeri fu ricevuto con un fuoco così sostenuto, tanto dei fucilieri, che delle batterie, ch'erano caduti morti più di mille Svizzeri prima ch'essi giugnessero alla strada bassa, la quale fu da loro trovata assai più profonda che non credevano, conciossiachè, scesi nella medesima, potevano a stento colla punta delle loro picche ferire i landsknecht che ne custodivano gli orli. Ventidue de' loro capitani e più di tre mila soldati furono uccisi in questo sciagurato attacco, senza quasi potere offendere il nemico. All'ultimo si ritirarono in buon ordine, riconducendo i quattordici pezzi d'artiglieria che loro erano stati dati; ma disprezzando anche in sul finire del combattimento, siccome avevano fatto in principio, gli ordini dei loro capi, non vollero trattenersi in faccia al campo di battaglia in aspetto minaccioso per assecondare gli attacchi del maresciallo di Foix e di Lautrec, che non erano giunti a portata del nemico che quando gli Svizzeri si erano di già ritirati[31].

Il Maresciallo di Foix, che gl'imperiali avevano veduto avanzare sulla loro sinistra, e che sospettavano aver presa la strada di Milano, era finalmente giunto al ponte di pietra che attraversava il canale; era entrato nella posizione di Prospero Colonna, aveva rovesciati i Milanesi di Francesco Sforza ed avrebbe guadagnata la battaglia se fosse stato seguito dalla sua fanteria, o se gli Svizzeri, rinnovando il loro attacco, avessero impedito a Prospero Colonna di condurre tutti i suoi landsknecht ed i fanti spagnuoli contro di lui. Il Lautrec, dopo d'avere posti in fuga sulla diritta i cavalli di Girolamo Adorno, calcolava che i suoi cavalieri entrerebbero assieme con loro nel campo nemico, ove li farebbe ricevere la croce rossa che portavano; ma Prospero Colonna, di ciò prevenuto, aveva ordinato ai suoi soldati di porsi in sul capo una frasca; sicchè, riconoscendo i nemici, gli fu facile di tenerli fuori de' suoi alloggiamenti[32].

I tre corpi dell'armata francese essendo stati tutti respinti, questa ritirossi in buon ordine, coperta dalle bande nere di Giovanni de' Medici, e protetta dall'armata veneziana, che non aveva combattuto. Il Pescara voleva inseguirla, ma Prospero Colonna vi si ricusò perentoriamente, perchè un movimento sedizioso tra i suoi landsknecht che in premio dell'ottenuta vittoria domandavano doppia paga, poteva rendere per lui pericolosa una nuova azione. Gli Svizzeri lo liberarono bentosto da ogni timore, essendosi ritirati a Monza con tutta la loro artiglieria ed i loro equipaggi. All'indomani Lautrec avviossi verso Trezzo e passò l'Adda; colà più non gli fu possibile di trattenere gli Svizzeri al tutto determinati di tornare ne' loro paesi. Dopo averli inutilmente eccitati a rimanere, affidò a suo fratello Lescuns, maresciallo di Foix, il comando degli uomini d'armi francesi, e la difesa delle terre che la Francia possedeva ancora in Lombardia; si congedò da Andrea Gritti, che coll'armata veneziana prese a coprire i confini della repubblica; e, fermo nella risoluzione di volersi personalmente giustificare innanzi al re, accompagnò gli Svizzeri, che rientravano ne' loro paesi attraversando il territorio bergamasco, e passò alla corte di Francia[33].

Il Lautrec era fratello di madama di Chateaubriand, amante del re; e questa era la cagione della grandezza di lui, e di quella di Lescuns e di Lesparre di lui fratelli, uno dei quali perdette il Milanese e l'altro la Navarra. Pure Francesco I rimproverò al maresciallo di Lautrec le sue perdite. Rispose questi d'avere prevenuta S. M. che non potrebbe difendere il Milanese senza danaro; che gli uomini d'armi avevano servito diciotto mesi senza soldo; che gli Svizzeri non gli avevano imposta la legge, e non l'avevano finalmente costretto a combattere alla Bicocca che per non essere stati pagati. Francesco I maravigliando dimandò cosa fosse accaduto dei quattrocento mila scudi che gli aveva mandati. Confessò Semblanzai d'avere avuto ordine di mandarli, ma di esserne stato in seguito impedito da Luigia di Savoja, madre del re, che aveva il titolo di reggente di Francia. Questa, gelosa di Lautrec, e volendo che andasse a male la di lui spedizione, si era fatto dare quel danaro che diceva a sè dovuto. L'onore della madre del re veniva compromesso dalla pubblica processura di Semblanzai. Il cancelliere di Francia Duprat, per salvare la madre del re e per perdere il sovraintendente, suo nemico, lo fece giudicare da alcuni commissarj, e strascinare al supplicio in età di sessantadue anni pel solo delitto d'avere ubbidito alla madre del re, che nè pure fu interpellata in questa causa[34].

Il maresciallo di Foix Lescuns non difese lungamente ciò che ancora possedevano i Francesi in Lombardia. Sei compagnie di uomini d'armi, che aveva posti in Lodi sotto gli ordini di Federico da Bozzolo e di Bonneval, vi si lasciarono sorprendere e far prigionieri, mentre che la città venne saccheggiata dagl'imperiali[35]. Pizzighettone, che poteva lungamente resistere e che tenevasi tra le migliori fortezze d'Italia, capitolò alle prime minacce fattegli dal marchese di Pescara. Finalmente in Cremona, dove si era ritirato il maresciallo di Foix, sollevaronsi le truppe di Giovanni de' Medici chiedendo il loro soldo, drizzarono la loro artiglieria contro i Francesi, e minacciarono di consegnare agl'Imperiali una porta della città. Lescuns cercò di soddisfarle, prendendo a prestito il vasellame di tutti i suoi amici e distribuendolo ai soldati; ma sentì l'impossibilità di sostenersi più lungamente in Italia, e propose a Prospero Colonna una capitolazione che fu subito accettata. Convenne di evacuare non solo Cremona, ma tutta la Lombardia, ad eccezione dei tre castelli di Novara, Milano e Cremona, se prima che passassero quaranta giorni una nuova armata francese non forzava il passaggio del Po, o non occupava una delle grandi città di Lombardia. Fino allo spirare del termine stabilito dalla capitolazione, che fu sottoscritta il 26 di maggio, le ostilità dovevano cessare intorno a Cremona, dovevano essere somministrate le vittovaglie all'armata francese. Ma perchè passarono i quaranta giorni senza che il re potesse mandare soccorsi al maresciallo di Foix, questi evacuò la Lombardia, ad eccezione dei tre castelli eccepiti dalla capitolazione, e ricondusse la sua armata in Francia[36].

Uno de' motivi che determinarono Prospero Colonna ad accordare ai Francesi la capitolazione di Cremona, fu il desiderio di trovarsi in libertà per attaccare Genova. Finchè i Francesi avevano in mano quella città, egli non risguardava come sicura la conquista della Lombardia. Vero è che la dolcezza di Ottaviano Fregoso, luogotenente del re, aveva accostumati i cittadini ad un giogo straniero, di modo che Antoniotto e Girolamo Adorno, che seguivano il campo imperiale e che si lusingavano di sollevare la loro fazione colla promessa di tornare alla repubblica l'antica libertà, non cagionarono, avvicinandosi a Genova, verun movimento negli abitanti. Pure i generali imperiali, senza perdere un solo istante, avevano approfittato della capitolazione di Cremona. Prospero Colonna era entrato coi landsknecht nella Valle di Bisagno, ed il marchese di Pescara in quella della Polsevera. Non trovavansi in Genova che due mila soldati, cui era venuto ad aggiugnersi da Marsiglia Pietro Navarro, e perchè i Genovesi non volevano nè sollevarsi contro Ottaviano Fregoso, nè armarsi per difenderne l'autorità, ogni resistenza pareva impossibile. Dodici ufficiali della balìa furono incaricati di trattare una capitolazione. Ma nel tempo che questi trattavano, e che la promessa della sospensione delle ostilità rendeva le guardie più negligenti, alcuni soldati spagnuoli si avvidero che una breccia delle mura non era difesa; essi se ne impadronirono e vi chiamarono i loro commilitoni. Per tal modo l'accidente diede Genova in mano ai nemici il 30 di maggio, senza che i generali ne avessero ordinato l'assalto. La città fu presa, e gli abitanti, che non avevano voluto difendersi, furono saccheggiati, senza distinzione di partito, con estrema barbarie. Pietro Navarro ed Ottaviano Fregoso rimasero prigionieri, e molti altri ufficiali fuggirono per mare. Quella città, in altri tempi la più commerciante e la più ricca dell'Italia, fu ruinata e ridotta ad una assoluta dipendenza dagli stranieri; ma nello stesso tempo riconobbe per doge Antoniotto Adorno[37].

Francesco I, per soccorrere Cremona o Genova, aveva bensì fatte passare le Alpi al duca Claudio di Longueville con quattrocento uomini d'armi e sei mila fanti; ma questi, arrivato a Villanuova di Asti, ebbe la notizia dell'occupazione di Genova, e non trovandosi abbastanza forte per dare battaglia all'armata imperiale, o per istornare la convenzione di Cremona, ebbe ordine dal re di ritirarsi; ed i Francesi abbandonarono per quest'anno ogni loro progetto sull'Italia, tanto più che dovevano difendersi contro l'aggressione inaspettata d'Enrico VIII, che il 29 di maggio aveva dichiarata la guerra alla Francia, facendo in pari tempo sbarcare a Calais il conte di Surrei con sedici mila uomini, per secondare l'armata di Carlo V in Fiandra[38].

La cacciata de' Francesi non apportò verun sollievo ai popoli d'Italia oppressi dalla guerra. L'armata di Prospero Colonna non riceveva verun sussidio nè da Carlo V, nè dal regno di Napoli: ed i soldati tedeschi e spagnuoli vivevano a discrezione nel Milanese. Ogni giorno i generali angustiavano le città con inaudite contribuzioni o con prestiti forzati; il più piccolo ufficiale, posto con un distaccamento in un villaggio, credevasi autorizzato ad inventare una nuova tassa; tutto si riportava alla decisione della violenza militare, e l'ubbidienza si cimentava con crudeli supplicj dettati dal capriccio de' soldati spagnuoli[39]. Omai il Milanese era così ruinato che più alimentare non poteva le truppe necessarie alla sua difesa. Il marchese di Pescara le acquartierò negli stati della Chiesa, loro permettendo di vivervi a discrezione, malgrado la stretta alleanza dei papa coll'imperatore. Carlo di Lannoi, nuovo vicerè di Napoli, di concerto con don Giovanni Manuel, ambasciatore dell'imperatore a Roma, tassò nello stesso tempo gli stati indipendenti dell'Italia, per far loro mantenere l'armata imperiale. Obbligarono il ducato di Milano a pagar loro venti mila ducati al mese, Firenze quindici mila, Genova otto mila, Siena cinque mila, e Lucca quattro mila. Dovettero pure pagare una contribuzione i marchesi di Monferrato e di Saluzzo: e, malgrado le loro rimostranze, tutti questi stati sovrani dovettero assoggettarsi agli ordini che loro davano subalterni ministri[40].

Lusingavansi gl'Italiani che giugnendo Adriano VI a Roma, arrecherebbe qualche sollievo alle loro miserie; ma il nuovo papa erasi di già trattenuto sei mesi in Ispagna dopo ricevuta la notizia della sua elezione, e non apparecchiavasi ancora alla partenza: e ciò che in ultimo lo persuase a porsi in viaggio, fu precisamente la circostanza cui fin allora erasi attribuito ogni suo ritardo. Sapevasi che Carlo V, che ancora trovavasi in Fiandra, annunciava di voler passare in Ispagna, e credevasi che Adriano, che era stato suo precettore, indi suo ministro, volesse conferire con lui prima di venire in Italia a prendere le redini della propria sovranità. Ma Adriano aveva fermamente stabilito d'agire qual comune padre de' fedeli, ed egli si era intimamente persuaso che il suo dovere lo chiamava prima di tutto a ristabilire la pace nella Cristianità, e che doveva far tacere la sua parzialità per Carlo V, se voleva che Francesco I l'accettasse per mediatore. Aveva scritto a quest'ultimo, a Luigia di Savoja di lui madre, alla duchessa d'Alenzon di lui sorella[41], per incoraggiarli ad adottare sentimenti di pace, promettendo loro la sua benevolenza. Stimò che aspettando Carlo V a Barcellona, siccome quegli gliene faceva istanza, avrebbe rendute sospette le sue parole; e quando seppe che Carlo, dopo avere fatta una visita ad Enrico VIII per tenerlo costante nella sua alleanza, era sbarcato a Villaviciosa, nelle Asturie, si affrettò di partire il 4 di agosto dalle coste della Spagna; e dopo avere dato fondo a Genova, indi a Livorno, fece il suo ingresso in Roma il giorno 29 dello stesso mese[42].

Adriano VI aveva le virtù ed il sapere di un monaco, ed andava debitore della sua celebrità e della sua grandezza ai sorprendenti progressi che aveva fatti nello studio della teologia e della filosofia scolastica. Era di buona fede, zelante, temperato, umile, nemico del fasto, della simonia e della corruzione della corte di Roma. Ma bentosto agli occhi de' Romani parve un barbaro, straniero affatto alle loro arti, ai loro costumi, alla loro politica, siccome al loro linguaggio. Leone X aveva raccolti nella sua corte i principali poeti del secolo; Adriano, invece di accordar loro il suo favore, li risguardava quali profani imitatori de' gentili, che macchiavano il Cristianesimo. Quando gli fu mostrato il Laocoonte del Belvedere, siccome il più bel monumento delle antiche arti, ne torse gli occhi con orrore, gridando «questi sono idoli dei pagani!» Cominciavasi a temere, che, come narrasi di san Gregorio, ordinasse un giorno di far calce per il tempio di san Pietro con tutte quelle statue, ultimo monumento della gloria e della grandezza romana[43].

Le eresie di Lutero offendevano assai più Adriano VI che il suo predecessore, perchè attaccavano quella filosofia scolastica, ch'egli risguardava come la prima scienza; ma d'altra parte aveva le stesse opinioni del riformatore intorno alla corruzione della disciplina; voleva seriamente mettere mano alla riforma degli scandali che avevano sollevata la Germania; ed i suoi pii disegni, forse più che la sua barbarie, facevano tremare i Romani che vivevano col prodotto degli abusi della corte di Roma. Oltre a ciò, per terminare di renderlo del tutto esoso al popolo, due calamità resero celebre l'epoca della di lui venuta in Italia: da un canto la peste manifestossi in Roma, di dove passò anche a Firenze; ed Adriano, risguardando tutte le precauzioni sanitarie, ed i lazzeretti come superstizioni italiane, sospese le rigorose discipline, che vietavano ogni comunicazione cogli appestati, e contribuì in tal modo a dilatare il contagio[44]: d'altra parte nella stessa epoca fu da Solimano presa l'isola di Rodi al gran maestro Villiers de Lille Adam, dopo un memorando assedio, nel quale i cavalieri di Malta mostrarono estremo valore, mentre che l'imperatore, il re di Francia ed il papa, non pensavano a soccorrerli. Solimano fece il suo trionfale ingresso in Rodi lo stesso giorno di Natale del 1522, e così ebbe fine questo calamitoso anno per la Cristianità[45].

Frattanto Adriano VI cercava di restituire la pace agli stati della Chiesa: non trovò ostacolo a scacciare da Rimini Sigismondo Malatesta; perciocchè i popoli, che da principio lo avevano accolto con entusiasmo, non avevano tardato ad accorgersi che questo piccolo principe non rendeva loro i vantaggi de' passati tempi, che avevano sperato di ricuperare con lui. I sudditi dei duchi di Ferrara e d'Urbino nutrivano affatto opposti sentimenti; essi conservavano un reale affetto verso le case d'Este e della Rovere, e quest'affetto regolò la condotta d'Adriano VI. Egli accordò al duca d'Urbino l'assoluzione da tutte le censure incorse sotto i due precedenti pontificati, e gli diede una nuova investitura de' suoi stati; ma lasciò il contado di Montefeltro ai Fiorentini, ai quali questo feudo era stato ceduto in pagamento dei debiti della Camera apostolica[46]. Accordò pure al duca Alfonso d'Este una nuova investitura del ducato di Ferrara, cui aggiunse i castelli di san Felice e di Finale in Romagna: gli avrebbe egualmente rendute Modena e Reggio, la restituzione delle quali al duca era stata effettivamente promessa da Carlo V con un trattato firmato a Ferrara il 29 novembre del 1522; ma i ministri ed i cortigiani di Adriano, che risguardavano quest'atto di giustizia come una prova di debolezza o d'imbecillità, riuscirono ad impedirgli di rinunciare così alle conquiste de' suoi predecessori[47].

Adriano VI, appena giunto a Roma, aveva scelto per suo principale ministro e confidente il cardinale di Volterra Soderini: desideroso com'egli era di riconciliare l'imperatore col re di Francia, aveva trovato nel Soderini, segreto partigiano della Francia, un linguaggio di moderazione e d'imparzialità, il quale gli si confaceva. Aveva ricusato di dare verun soccorso alla lega formata dal suo predecessore, e le sue offerte di mediazione erano state considerate come parziali per la Francia, a segno d'irritare assai don Giovanni Manuel, ambasciatore dell'impero[48]. Ma Francesco I, che aveva accolte con grandissima deferenza tutte le proposizioni del papa, e che sempre aveva protestato di non desiderare che la pace, credeva impegnato il suo onore a non rinunciare al ducato di Milano. Perciò ne chiedeva la restituzione come principale condizione del trattato, e questa condizione non poteva in verun modo piacere a Carlo V; il quale, dopo tale conquista avendo acquietate le turbolenze della Castiglia e rinnovata l'alleanza coll'Inghilterra, era più a portata di difendere questo ducato, che non lo era stato di conquistarlo. L'ostinazione di Francesco I a domandare una restituzione che non poteva ottenere, persuase il papa che Francesco non desiderava sinceramente la pace. Nel mese di febbrajo[49] Adriano cominciò a minacciare scomuniche e censure ecclesiastiche contro que' principi che ricusassero di accettare ragionevoli condizioni di pace. In tale stato di cose il duca di Sessa intercettò alcune lettere del cardinale Soderini a suo nipote, il vescovo di Saintes, colle quali esortava Francesco I ad attaccare la Sicilia, ove un partito sarebbesi dichiarato per lui. Tre grandi ufficiali di quest'isola vennero squartati a cagione delle loro intelligenze coi Francesi. Il papa, irritato che il suo proprio ministro, esortandolo alla pace, cercasse celatamente di accendere la guerra, fece arrestare e trarre in giudizio il Soderini, ed anche prima che fosse condannato ordinò la confisca de' suoi beni, ch'erano moltissimi, e nello stesso tempo abbracciò il partito dell'imperatore[50].

Le armi di Carlo V erano in Italia onnipotenti. La capitolazione di Cremona e la presa di Genova avevano poste in sua mano tutte le grandi città; ed i castelli, ne' quali i Francesi avevano lasciato guarnigione, cadevano uno dopo l'altro. Quello di Milano erasi renduto il 14 d'aprile, ed il duca Francesco Sforza ne aveva fatto prendere il possesso dai generali imperiali il 24 dello stesso mese[51]. Francesco I annunciava di nuovo grandiosi apparecchj per riconquistare il Milanese; ma alle sue parole non rispondevano gli effetti; e siccome era continuamente occupato de' suoi piaceri, e sempre prodigo de' tesori dello stato per le sue feste e per i suoi amori, poteva credersi che mai non sarebbe in istato di ricuperare ciò che aveva perduto. Altro alleato più non gli restava che la repubblica di Venezia, la quale credevasi bensì obbligata a difendere il possedimento dei Milanese, ma non già a riconquistarlo per lui, dopo ch'egli avealo perduto. Venezia era tuttavia, in faccia all'imperatore, sotto la protezione della tregua che aveva terminata la guerra della lega di Cambrai. Finchè Carlo V avea dovuto lottare contro le ribellioni de' suoi sudditi e contro formidabili esterni nemici, aveva cercato di non accrescere il numero degli ultimi, ed acconsentito a non risguardare i Veneziani come in guerra con lui, malgrado i soccorsi che si erano obbligati di dare alla Francia. Ma quando cominciò a sentirsi più potente, parlò con un tuono più orgoglioso, e dichiarò di non volere più lungamente soffrire che uno stato quasi chiuso da ogni banda tra i suoi, godesse di tutti i vantaggi della pace, nel mentre che desso stato si manteneva per lui continuamente ostile[52].

Il papa, di concerto coll'imperatore, esortava tutte le potenze d'Italia a collegarsi per la difesa comune, volendo che reciprocamente si guarentissero gli attuali possedimenti. Dava inoltre per motivo di quest'alleanza il desiderio di mettere l'Italia in istato di difesa contro Solimano, imperatore dei Turchi, la di cui ambizione, riscaldata da nuove conquiste, facevasi sempre più minacciosa: ma i Veneziani, che conoscevano l'ordinaria sorte delle leghe formate dalla Chiesa, e che si applaudivano d'essere in pace col sultano, non volevano essere strascinati dal papa in guerra con quel formidabile vicino, a rischio d'essere poi abbandonati da tutti i loro alleati. Questo timore ed il rincrescimento di rinunciare all'alleanza della Francia, alla quale avevano fatti così grandi sagrificj, li tennero lungamente dubbiosi. La negoziazione si prolungò nove mesi, ne' quali fecero vani sforzi per sapere se Francesco I era finalmente disposto ad assecondarli potentemente, o se dovevano abbandonare un principe che abbandonava sè stesso. Il vescovo di Bayeux e Federico da Bozzolo furono mandati a Venezia dal re di Francia per attraversare una negoziazione di cui temeva i risultamenti; ma le magnifiche loro promesse, così spesso smentite dalla esperienza, più non ispiravano confidenza. Dall'altro canto Girolamo Adorno, ambasciatore di Carlo V, morto prima di avere condotta a fine la negoziazione di cui era incaricato, venne rimpiazzato da Marino Caraccioli, protonotaro apostolico. Finalmente dopo lunghi contrasti, duranti i quali era pure morto il doge Antonio Grimani, cui era succeduto Andrea Gritti, fu sottoscritto, in sul finire di luglio, il trattato d'alleanza tra l'imperatore, suo fratello l'arciduca Ferdinando, Francesco Sforza, duca di Milano, e la repubblica di Venezia[53].

Le potenze contraenti si guarentivano reciprocamente i loro stati d'Italia, ma soltanto contro i principi cristiani; perchè la repubblica di Venezia, ferma nella presa risoluzione di non lasciarsi strascinare in veruna guerra contro i Turchi, ricusò perentoriamente di promettere la garanzia del regno di Napoli contro di loro. Il reciproco soccorso promesso dall'imperatore a nome del duca di Milano, e dai Veneziani, era di seicento uomini d'armi, seicento cavaleggieri e sei mila pedoni. Inoltre il senato si obbligava a somministrare, in caso di bisogno, venticinque galere per la difesa del regno di Napoli. Ferdinando, fratello dell'imperatore, pienamente rinunciava per la somma di dugento mila ducati, che la repubblica obbligavasi a pagargli nel termine di otto anni, a tutte le pretese dell'arciduca d'Austria e dell'impero sullo stato veneziano[54].

Questo trattato, che, staccando i Veneziani dalla Francia, gli obbligava alla difesa de' suoi nemici, sembrava che dovesse rimuovere Francesco I da ogni nuovo tentativo sulla Lombardia, ove più non doveva trovare alleati. Pure il trattato non era appena sottoscritto, che si seppe che il re di Francia adunava nella Svizzera, a' piè dei Pirenei ed ai confini dell'Italia, una numerosa fanteria, e sembrava apparecchiato a dare esecuzione alle minacce che andava da gran tempo facendo. A tale notizia Adriano VI credette di dovere abbandonare le parti di pacificatore cui fin allora erasi conservato fedele. L'Italia era in pace, sebbene continuamente divorata dall'armata imperiale, ed omai seguiva una sola bandiera; ma l'invasione di Francesco I vi riconduceva la guerra. Il papa giudicò che non si scosterebbe dal carattere di comun padre de' fedeli guarantendo lo stato attuale, e respingendo di concerto con tutti gli altri Italiani una straniera invasione: per ciò il 3 di agosto sottoscrisse in Roma col vicerè di Napoli una confederazione che si andava da lungo tempo trattando, colla quale il papa, l'imperatore, il re d'Inghilterra, l'arciduca d'Austria, il duca di Milano, il cardinale de' Medici a nome de' Fiorentini, i Genovesi, i Sienesi, i Lucchesi, obbligavansi a provvedere in comune alla difesa dell'Italia. Tra questi confederati, gli uni doveano somministrare l'artiglieria e le munizioni, altri il danaro, altri i soldati. La nomina del generalissimo spettava al papa ed all'imperatore; ed in quest'occasione l'imperatore affidò il comando di tutte le forze dell'Italia a Prospero Colonna. Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, che nella precedente campagna aveva con lui diviso il comando, geloso dei favori che l'imperatore accordava al suo vecchio collega, con cui erasi disgustato, aveva rinunciato alla carica di comandante della fanteria spagnuola, ed erasi recato a Valladolid, alla corte di Carlo V, per fare le sue lagnanze[55].

Le ostilità erano in sul punto di ricominciare, ma furono precedute dall'esplosione di due cospirazioni, che scoppiarono contemporaneamente in due opposte parti. Tra i cortigiani di Francesco Sforza, duca di Milano, trovavasi Bonifacio Visconti, suo ciambellano, che nudriva un segreto odio contro di lui e contro il Moroni, a motivo dell'assassinio di Ettore Visconti, suo parente, ch'egli credeva giustiziato per ordine loro, e perchè da loro era stato spogliato della prefettura di Val di Sesia. Il 25 di agosto, mentre tornava col duca da Monza a Milano, aveva questi ordinato ai dugento cavalli della sua guardia di tenersi a qualche distanza da lui per non incomodarlo colla polvere che facevano sollevare. Il duca cavalcava una mula, e trovavasi lontano da tutta la sua gente, quando Bonifacio Visconti, che aveva un gagliardissimo cavallo turco, corse a briglia sciolta verso di lui in atto di ricevere qualche ordine; ma, fattosegli vicino, gli diede un colpo di pugnale in sul capo. L'impazienza del cavallo turco, e la paura della mula del duca, fecero strisciare il colpo, e lo Sforza non rimase che leggermente ferito in una spalla. Il Visconti, spronando il suo cavallo, fuggì con tanta rapidità, che invano fu inseguito dalla cavalleria del duca, e potè porsi in sicuro prima in Piemonte, poscia in Francia. All'istante Galeazzo Birago, Milanese del partito francese, avuto avviso della cospirazione, e non dubitando della morte del duca, s'impadronì di Valenza in sul Po e della sua cittadella, per aprire ai Francesi questa porta della Lombardia; ma non arrivarono i soccorsi di Francia che gli erano stati promessi; ed Antonio de Leyva, che aveva il comando di Pavia, venne subito co' suoi Spagnuoli ad assediare Valenza, che fu presa dopo due giorni, senza che questa cospirazione avesse altri risultamenti, che di far trarre alla tortura, indi al supplicio molti gentiluomini milanesi sospetti di avervi avuto parte[56].

Il ritardo dei soccorsi francesi, aspettati dal Birago, procedeva in parte dalla cospirazione del contestabile di Borbone. Francesco I, dopo di avere respinti gli Inglesi ed i Fiamminghi in Picardia, aveva posta ogni sua cura nel formare una potente armata per riconquistare il ducato di Milano. Aveva caricate tutte le città e tutte le province d'inaudite imposte, e pressochè intollerabili; aveva domandate decime al clero, impegnate le sue entrate ai mercanti lionesi per procurarsi danaro contante; e con tali modi aveva infatti ragunato un sufficiente tesoro per supplire ai bisogni della più dispendiosa campagna. Scontento di tutti coloro che fin allora avevano comandate le sue armate, volle condurre egli medesimo le sue truppe in Italia, e tali erano i suoi apparecchj, che gli presagivano un buon successo. Aveva adunate mille ottocento lance, sei mila Svizzeri, due mila Valesani, due mila Grigioni, sei mila Landsknecht, tre mila Italiani e dodici mila avventurieri francesi, che finalmente si era determinato di chiamare al mestiere delle armi, dopo avere sperimentato quanto gli fosse riuscita fatale la sua confidenza nelle truppe straniere[57].

Quest'armata erasi di già riunita tra Lione e le montagne del Delfinato, quando Francesco I ebbe i primi indizj del tradimento che meditava contro di lui il contestabile di Borbone. Carlo III, conte di Montpensieri e duca di Borbone, era il più ricco ed il più rispettato di tutti i principi del sangue; era capo del ramo di Borbone-Montpensieri, che, nel suo diritto alla corona, avrebbe preceduti i Borboni-Vendomi, avi d'Enrico IV. A grande valore ed a molte belle qualità univa un orgoglio irascibile, una smisurata ambizione, ed una prodigalità senza limiti che gli aveva fatti contrarre enormi debiti. Due anni prima aveva risentita con indignazione l'ingiustizia che pretendeva essergli stata fatta da Francesco I nelle guerre di Fiandra, quando questi aveva data al duca d'Alenzon, suo cognato, piuttosto che a lui, contestabile di Francia, il comando della sua vanguardia[58]. Ma ciò che aveva spinto all'estremo il suo risentimento era il processo che gli aveva intentato innanzi al parlamento di Parigi Luigia di Savoja, madre del re, per riclamare da lui una parte dell'eredità di sua moglie, morta da poco tempo. Credeva non potere sperare giustizia dai tribunali in questa sua lite colla reggente, e risguardava questo processo come una prova della gelosia di Francesco I, che voleva ruinare la sua fortuna per poterlo più facilmente opprimere[59].

In Francia ed in altre monarchie feudali eransi frequentemente veduti i grandi signori ed i principi del sangue cospirare contro il capo dello stato, e non solo cercare di limitarne l'autorità, ma di precipitarlo dal trono, e di levargli la vita. Pure era riservato al Borbone di cospirare, non solo contro il suo re, ma altresì contro la sua patria; di volere distruggere l'indipendenza nazionale, e la stessa esistenza del nome francese; di adoperarsi perchè la nazione francese, cui aveva l'onore di appartenere, fosse divisa tra gli stranieri, di lei ereditarj nemici. Il Borbone erasi venduto ad Adriano di Buren, deputato dell'imperatore, ed a Russel, deputato d'Enrico VIII. Col danaro da loro ricevuto erasi obbligato ad assoldare dodici mila uomini, e ad attaccare alla loro testa la Borgogna, tostocchè Francesco I avrebbe colla sua armata valicate le Alpi. In premio di questo tradimento la Provenza doveva essere per lui eretta in regno; egli dovea sposare Eleonora, sorella dell'imperatore Carlo V, e vedova d'Emanuele, re di Portogallo: tutto il restante della Francia doveva essere diviso tra l'imperatore ed il re d'Inghilterra; ed il nome di Francese doveva essere cancellato dai nomi delle nazioni[60].

Avendo alcuni indizj eccitati i sospetti del governo, Boisì, fratello di La Palisse, San Valorì, direttore generale delle poste, ed il vescovo d'Autun, tutti complici della cospirazione del Borbone, furono arrestati. Francesco I andò a Moulins a visitare il duca di Borbone, che fingeva d'essere ammalato; gli comunicò i sospetti che si erano formati contro di lui, ma soggiunse che veruna prova non potrebbe parergli bastante a convincere suo cugino di così enorme delitto; e dichiarò che più non dubiterebbe della sua innocenza, se Borbone gliene dava la sua parola d'onore, e si obbligava nello stesso tempo a seguirlo in Italia. Il Borbone prese la mano del re con apparente trasporto di riconoscenza; gli protestò d'essere accusato a torto; domandò perdono della inconsideratezza de' suoi discorsi, che senza dubbio avevano dato motivo di calunniarlo, e giurò che, infermo come egli era, voleva farsi portare in lettiga dietro l'armata reale. In fatti questa lettiga seguì due giorni il re; ma non era destinata che ad ingannarlo. Borbone era partito la stessa notte da Moulins, e, fuggendo a precipizio, era giunto a Besanzon, fortezza in allora dell'imperatore, dove aveva ordinato ai gentiluomini associati agl'infami suoi progetti di raggiugnerlo[61].

Grande era il numero di coloro che avevano congiurato contro la patria, e molti appartenevano alle più illustri famiglie. Vi si annoveravano Filiberto di Chalons, principe d'Orange, destinato come il Borbone a figurare nelle calamità dell'Italia; Pomperano, Le Pelloux, Lurcì, Montbardone, Lalliere, Aymar di Prie, Hennuyer della Mothe, che si erano renduti gloriosi nelle precedenti guerre; e Francesco I stendeva i suoi sospetti, e non senza ragione, sul duca di Vendome e su tutta la casa di Borbone: quindi pensò di non potere in tale istante allontanarsi dal suo regno senza pericolo[62].

Dall'altro canto egli non voleva lasciar d'approfittare della più bella armata che avesse mai adunata. Sgraziatamente ne affidò il comando a Guglielmo di Gouffier, più noto sotto il nome di ammiraglio Bonnivet, il più amabile tra i suoi cortigiani, quegli che più d'ogni altro sapeva adulare e piacere al suo padrone; ma quegli altresì ch'era men d'ogni altro capace di condurre un'armata, e che non aveva imparato ciò che saper deve un generale[63].

Prospero Colonna, che, come generalissimo della lega, trovavasi incaricato della difesa dell'Italia, giaceva a quest'epoca abbattuto da lunga malattia, che non gli aveva soltanto indebolito il corpo ma ancora lo spirito. Erasi dato a credere di non aver a temere un'invasione francese, ed aveva licenziata parte della sua truppa; non aveva riparate le fortificazioni di Milano; per l'abituale negligenza dell'imperatore trovavasi senza danaro; e quando seppe, in principio di settembre, che i Francesi passavano le Alpi, sentì tutto il pericolo della sua posizione. Ad ogni modo egli sperava tuttavia di potere difendere contro l'armata francese il passaggio del Ticino; mentre che Antonio di Leyva, abbandonando tutto il paese posto al di là di questo fiume, erasi ritirato a Pavia colla fanteria spagnuola, e che la difesa del Cremonese restava affidata ad una guarnigione di mille fanti[64].

I Veneziani, per soddisfare agli obblighi contratti coll'imperatore, avevano tolto il comando delle loro truppe a Teodoro Trivulzio, zelante partigiano della Francia, e datolo a Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino. Il senato non poteva scegliere altro generale che nel modo di fare la guerra meglio accordare si potesse colla sua prudente politica: pareva che verun altro scopo non si proponesse nel comando delle armate, che quello di evitare ogni battaglia, ogni pericolo; e quando Prospero Colonna lo affrettò ad occupare Lodi, ad avanzarsi sulle sponde dell'Adda, o a passare questo fiume per proteggere Milano, egli vi si ricusò costantemente per tema d'incontrare i nemici[65].

Era stato da Adriano VI nominato gonfaloniere della Chiesa il marchese di Mantova, il quale aveva allestita un'armata in riva al Po; ma questi ancora era egualmente disposto a non passare Parma, per non compromettersi; onde non dava a Prospero Colonna alcuno effettivo soccorso. Giovanni de' Medici, comandante delle Bande nere, che suo cugino il cardinale Giulio aveva persuaso a lasciare il servizio della Francia per ritornare di nuovo a quello dell'imperatore, non aveva adottata così timida maniera di guerreggiare, ma le sue forze erano poco considerabili. Finalmente la barriera del Ticino, sulla quale principalmente confidava Prospero Colonna, per una straordinaria siccità, che aveva diminuite assai le acque del fiume, non presentava la consueta difficoltà al nemico. Questo vecchio generale, sebbene infermo, erasi fatto portare in lettiga in faccia a Vigevano, dove si era accampato Bonnivet. Bentosto trovandosi colà sotto il cannone del nemico, e vedendo che non solo la cavalleria francese, ma ancora i pedoni potrebbero guadare il Ticino, ne abbandonò le sponde, e ripiegò verso Milano senza avere perduto un solo uomo[66].

Il 14 di settembre del 1523, nello stesso giorno in cui l'armata di Bonnivet passò il Ticino per cominciare una decisiva campagna, un impreveduto avvenimento cambiò un'altra volta la bilancia delle parti, e gettò il disordine nella lega che aveva preso a difendere l'Italia contro i Francesi. Papa Adriano VI aveva celebrata la Messa il giorno 4 d'agosto sul monte Esquilino, ove festeggiavasi un miracolo della Vergine, e lo stesso giorno aveva con grande cerimonia pubblicata la lega conchiusa coll'imperatore. Affaticato da queste funzioni, rendute più penose da un eccessivo caldo, si era ritirato per desinare alla villa Mellini: colà lo assalì una leggiere febbre, ch'egli non credette in verun modo pericolosa; nè i suoi medici lo prevennero che corresse alcun rischio. Pure il suo male andava peggiorando, senza che veruna delle persone che lo assistevano paressero accorgersene; ed egli morì il 14 di settembre, quasi senza aver avuto il tempo di apparecchiarvisi[67].

Appunto in tale epoca cominciava la guerra, nella quale Adriano aveva impegnata la Chiesa; gl'Italiani sapevano di già per esperienza tutto quanto avrebbero a soffrire dall'invasione di un'armata barbara, e temer potevano con ragione di essere, a cagione della morte del pontefice, del burrascoso conclave che pareva promettere l'animosità de' contrarj partiti abbandonati quasi senza difesa ai Francesi da loro provocati. Tuttavia agli occhi de' Romani non eravi calamità che potesse pareggiare quella d'avere alla testa del loro governo un papa barbaro, che non sapeva il loro linguaggio; che aborriva la poesia e le arti, cui essi dovevano quasi tutta la presente loro gloria; un papa che colla sua avarizia aveva ruinate tutte le famiglie arricchite sotto i precedenti pontificati; che aveva confiscati tutti gli ufficj venduti dai suoi predecessori; che mai non accordava una grazia, e che pareva essersi fatto un dovere di rimandare malcontenti tutti quelli che a lui si presentavano. Perciò la notizia della sua morte risvegliò in Roma un generale tripudio; ed all'indomani fu trovata la porta del suo medico, Giovanni Antracino, ornata di festoni di fiori con questa iscrizione: Il senato ed il popolo romano al liberatore della patria[68].

CAPITOLO CXV.

Elezione di Clemente VII. Disastrosa campagna de' Francesi in Italia sotto l'ammiraglio Bonnivet; campagna ancora più infelice di Francesco I, che viene fatto prigioniero nella battaglia di Pavia.

1523 = 1525. La gioja manifestata dai Romani per la morte di Adriano VI non deve inappellabilmente fissare la nostra opinione intorno al carattere ed alla politica d'un pontefice, contro il quale avevano le più gagliarde prevenzioni nazionali. Adriano non visse che un anno fra di loro, e sopra un così breve regno difficile cosa sarebbe il portare giudizio intorno alle sue opinioni ed a' suoi progetti. Da lungo tempo non erasi veduto sulla cattedra di san Pietro un papa di più buona fede; ma questa lealtà non era, per vero dire, troppo utile alla Chiesa, o allo stato da lui governati; questa lo rendeva più intollerante de' suoi predecessori intorno a tuttociò che spettava alla fede; lo dava quasi del tutto in balìa agl'intrighi de' suoi consiglieri negli affari di stato, che egli confessava di non conoscere. Pure i torti che gli venivano più severamente rinfacciati, dipendevano dalle circostanze e dallo stato di spossamento in cui Leon X aveva lasciate, morendo, le finanze della Chiesa.

Più istrutto che il suo predecessore intorno all'importanza delle nuove opinioni che si diffondevano in Germania, il 25 di novembre del 1522 aveva addirizzato alla dieta dell'impero, adunata a Norimberga, un breve, con cui severamente condannava le opinioni di Lutero, e richiamava contro quest'eretico e contro i suoi seguaci l'applicazione delle più rigorose pene. Ma in pari tempo candidamente confessava la corruzione della corte romana, e prometteva d'occuparsi intorno alla riforma de' di lei numerosi abusi, chiedendo intorno a questa necessaria riforma i consiglj della dieta. Fu questa domanda, che persuase i principi secolari della Germania a pubblicare quella lista, famosa nella storia della riforma, dei cento gravami contro la corte di Roma, lista che appoggiava le principali accuse de' luterani, e che mostrava quanto tutti gli spiriti erano nelle parti settentrionali disposti ad abbracciare le nuove opinioni[69].

Il religioso zelo d'Adriano gli aveva fatto adottare tutti i pregiudizj e tutti gli odj degli Spagnuoli contro i Giudei ed i Mori convertiti, numerosa classe d'uomini, che chiamavansi Marrani, e che si sospettavano sempre segretamente affezionati al culto che avevano dovuto abbandonare per forza; questi erano venuti in grosso numero a Roma con tutte le loro ricchezze, per sottrarsi all'inquisizione di Spagna. Adriano VI, quando morì, stava contro di loro apparecchiando i più severi editti; egli voleva altresì assoggettare a nuove e più rigorose pene i bestemmiatori ed i simoniaci; gli pareva che questa parte della legislazione appartenesse più strettamente a' suoi favoriti studj della teologia; per altri rispetti non aveva volontà sua propria intorno ai pubblici affari, e conosceva di non intenderli bene[70].

Per altro Adriano non aveva confidenza nel collegio de' cardinali; sembravagli che per la scandalosa loro condotta i membri del sacro collegio dovessero essere il primo oggetto della riforma che meditava; ma perchè sentivasi costretto d'abbandonarsi a coloro che conosceva più di lui illuminati, sceglieva un ristretto numero di confidenti e di ministri, ai quali affidava un'eccessiva autorità. Poco dopo diffidava di loro, e gli spogliava d'ogni potere; in tal guisa offendeva i cardinali ed i principali signori di Roma; rendeva la propria autorità vacillante; e non si guadagnava nemmeno il cuore di coloro, cui momentaneamente accordava il suo troppo precario favore.

Il primo d'ottobre del 1523, entrarono in conclave trentasei cardinali per iscegliere un successore ad Adriano VI. Appena chiuso il conclave si videro collocarsi quasi tutti i cardinali sotto la direzione di due capi, che, gelosi l'uno dell'altro, si davano a vicenda l'esclusione, e tennero cinquanta giorni diviso il sacro collegio. Da un canto Pompeo Colonna, potente presso Carlo V in ragione dell'irremovibile attaccamento della sua famiglia alla causa imperiale, veniva riconosciuto come capo dai vecchi cardinali creati ai tempi di Giulio II, o prima; dall'altro canto Giulio de' Medici disponeva di sedici suffragj tra i cardinali ch'erano stati creati sotto suo cugino Leon X. Rispetto a Wolsey, cardinale di York, che, dirigendo la politica dell'Inghilterra, aveva quasi sempre mirato a guadagnarsi i suffragj per una prossima elezione, e che aveva prima ottenuta la promessa di tutto il favore di Francesco I, poi di Carlo V, era al presente dimenticato dai due monarchi, e scartato da tutti i partiti. Altronde, dopo il malcontento cagionato dall'elezione d'Adriano VI, più non si sarebbe pensato a dare la tiara ad un oltremontano[71].

La decisa opposizione del Colonna e della sua fazione, avendo impedita l'elezione del cardinale de' Medici, il quale per altro fin dal principio aveva avuti ventun voti, molti altri cardinali si misero successivamente in rango per essere nominati, come Fieschi, Farnese, Monti, Grassi, Soderini e Carvajale; essi reciprocamente cercavano d'acquistar voti senza per altro esporsi al rimprovero di simonia, e l'espediente, che loro sembrava più convenientemente tranquillizzare le loro coscienze, era quello delle scommesse. Così i partigiani del Medici offrivano a tutti i cardinali del contrario partito di scommettere dodici mila ducati contro cento che il Medici non sarebbe papa; i partigiani del Soderini ne offrivano ancor essi dieci mila; e quest'ultimi avevano favorevole tutto il partito francese[72].

Questa lotta tra le due fazioni si andava prolungando con sì poca apparenza di conciliazione, che si cominciava a temere, che le due parti non si appigliassero a qualche pretesto per uscire dal conclave, formare due assemblee, ed eleggere due papi ad un tratto. Perciò i due capi rendevansi egualmente odiosi al popolo. Accusavansi il moderno Giulio ed il moderno Pompeo di volere colle loro discordie ruinare Roma un'altra volta. Un orribile fetore, che si era sparso nel conclave, ne rendeva insoffribile il soggiorno: i cardinali cadevano infermi, e soprattutto i più vecchi non potevano lungamente sostenere una così penosa reclusione. Il cardinale di Clermont propose Franciotto Orsini, ed il Medici finse di volergli dare i suffragj di tutta la sua fazione, che, uniti a quelli della Francia, avrebbero decisa l'elezione. Temette allora il Colonna di vedere il supremo pontificato passare in una casa ereditaria nemica della sua; sentì la necessità di cedere, e, recandosi presso il cardinale de' Medici, gli offrì di farlo papa, purchè Giulio desse garanzie della sua riconoscenza[73].

Le proposizioni del Colonna furono tutte accettate; domandava che il Medici si riconciliasse col cardinale Soderini, e gli restituisse tutti i suoi beni; che perdonasse egualmente a tutti coloro che avevano operato contro di lui; che cedesse al Colonna l'ufficio di vicecancelliere della Chiesa col magnifico palazzo che occupava, fabbricato da Raffaele Riario. A tali condizioni Giulio fu la stessa notte adorato da quasi tutti i cardinali, ed all'indomani, il 18 di novembre, anniversario del giorno in cui due anni prima era entrato vittorioso in Milano, fu proclamato sotto il nome di Clemente VII. Era questo nome destinato a convalidare la promessa che aveva data di perdonare a Pompeo Colonna, al Soderini ed a tutti i suoi nemici. A fronte dell'apparente unanimità de' voti, questa elezione dispiacque in modo ai vecchi cardinali, che ai sostenuti patimenti del conclave aggiugnendosi questo rammarico, in pochi giorni morirono Soderini, Grassi, Fieschi e Carvajale[74].

Pochi pontefici erano giunti al trono pontificio con una più alta riputazione di Clemente VII: egli si era guadagnato l'amore de' Fiorentini, che governava da più anni con una quasi assoluta autorità, ed aggiugneva in tal modo alle forze della Chiesa quelle di questa repubblica ancora ricca e temuta malgrado il suo decadimento. Sapevasi ch'era stato il ministro principale di Leon X in tempo del suo pontificato, ed a lui s'ascrivevano tutte le più gloriose cose fatte da suo cugino, senza temere di trovare in lui i medesimi difetti. Non veniva accusato nè di amore disordinato per i piaceri, nè di prodigalità, nè di vana pompa, ed erano conosciute la sua applicazione ed attitudine al lavoro; perciò la sua elezione fu celebrata con trasporti di giubbilo, e dai letterati, che da lui speravano i medesimi beneficj ond'erano stati colmati da Leon X, e dal popolo[75].

Il ristabilimento della pace negli stati della Chiesa fu il primo oggetto delle cure di Clemente VII. Alfonso, duca di Ferrara, aveva approfittato della morte di Adriano per riprendere Reggio e Rubbiera, dove lo aveva chiamato l'amore dei popoli; ed era entrato nella prima città il 29 di settembre. Due giorni prima erasi presentato ancora a Modena, ma la fermezza del Guicciardini, che n'era governatore, e l'attaccamento del popolo al dominio della Chiesa, gli avevano impedito d'impadronirsi di questa città. Tuttavolta il Guicciardini non aveva che pochi soldati, ed Alfonso si apparecchiava ad un secondo tentativo, quand'ebbe l'avviso dell'elezione di Clemente VII, la quale gli fece rinunciare a' suoi progetti. Così alcune turbolenze eccitate in Romagna da Giovanni di Sassatello a nome del partito guelfo, ma col segreto appoggio de' Francesi, si acquietarono al solo nome del Medici[76][77].

Il governo di Firenze richiamò in seguito le cure del nuovo pontefice; era questa città tenuta da' partigiani del Medici in uno stato di abietta ubbidienza; e questi ne avevano dato prova in occasione dell'elezione di Clemente VII. Un riputato cittadino di sessantatre anni, il quale nella prossima estrazione dovea essere gonfaloniere di giustizia, Pietro Orlandini, aveva scommesso che il Medici non sarebbe papa. Quando gli fu chiesto il pagamento della scommessa, egli esclamò che l'elezione non aveva potuto essere canonica. Per questa sola parola, che sembrava manifestare mancanza di rispetto verso la casa de' Medici, gli otto della balìa lo fecero arrestare il giorno 24 di novembre, e due ore dopo decapitare[78].

A Clemente VII spiacque quest'esecuzione, che doveva rendere odiosa la di lui autorità. In qualche maniera più non esisteva la famiglia de' Medici; egli stesso era stato legittimato, e consideravasi ancora come rappresentante Cosimo padre della patria, suo avo; ma dopo di lui più non restavano che due bastardi, Ippolito inallora di sedici anni, figliuolo naturale di Giuliano, duca di Nemours, il terzo de' figliuoli del magnifico Lorenzo, ed Alessandro, figliuolo naturale di Lorenzo, duca d'Urbino, figliuolo di Pietro, figlio primogenito del magnifico. Alessandro era nato da una schiava nel 1512, e la paternità di Lorenzo era per lo meno incerta. Non pertanto Clemente VII gli fece ottenere un ducato nel regno di Napoli, e dichiarare abile ad esercitare tutte le cariche della repubblica. Mandò questi due giovanetti a Firenze, Ippolito il giorno 30 luglio del 1524, ed Alessandro il 19 giugno del 1525. Il primo fu fino da principio risguardato come capo dello stato, ed ebbe il titolo di magnifico. I suoi concittadini conservavano per lui l'amore che avevano avuto pel duca di Nemours, di lui padre, mentre Alessandro aveva ereditato l'odio eccitato tra i Fiorentini dall'arroganza di suo padre Lorenzo. Ad ogni modo nè l'uno, nè l'altro era ancora capace di governare lo stato, onde Clemente mandò a Firenze, col titolo di legato, Silvio Passerini, cardinale di Cortona, che fece il suo ingresso l'undici maggio del 1524, ed andò a prendere alloggio nel palazzo de' Medici, amministrando la repubblica con tutta l'autorità usurpata dai Medici dopo la loro tornata[79].

Ma Clemente VII cominciava a governare la Chiesa in difficilissime circostanze, in cui la sorte di tutta l'Italia pareva attaccata alla sorte delle battaglie che avrebbero luogo nelle pianure della Lombardia. L'ammiraglio Bonnivet con quattro mila cavalli e trenta mila fanti aveva passato il Ticino, e cominciate le ostilità il 14 di settembre, nel qual giorno era morto papa Adriano VI. Ne' due mesi che passarono fino all'elezione del suo successore, Bonnivet avrebbe potuto agevolmente ricuperare il Milanese e cacciare gl'imperiali da tutta la Lombardia, ma in quello spazio di tempo fece in cambio conoscere la sua incapacità, e calmò il terrore che aveva prima eccitato.

Prospero Colonna era stato sorpreso, le sue forze non erano in verun modo proporzionate all'estensione del paese che doveva difendere, o ai mezzi del suo nemico; e quando si vide forzato ad abbandonare le rive del Ticino, ed a ripiegare sopra Milano, suppose che non potrebbe mantenersi in questa città. Infatti tutto ciò che potevano promettere gl'ingegneri era di ridurre la città in tre giorni a non essere esposta ad un colpo di mano, facendo intorno alle sue mura lavorare tutti gli zappatori che si potrebbero porre a loro disposizione; mentre che a Bonnivet non abbisognava che una mezza giornata per presentarsi sotto le mura, e non era credibile che egli trascurasse d'approfittare d'un tempo così prezioso[80].

Pure Prospero fece inallora lavorare intorno alle fortificazioni come se fosse stato sicuro d'avere il tempo di ridurre il lavoro a fine; e Bonnivet per lo contrario, temendo di meritarsi i rimproveri d'inconsideratezza e di precipitazione fatti agli altri generali francesi, si trattenne tre giorni senza verun motivo sulle sponde del Ticino. Sperava che Prospero Colonna evacuerebbe spontaneamente la capitale, dalla quale egli allora potrebbe tirare immensi mezzi per la guerra, quando invece l'avrebbe esposta al saccheggio cercando di attaccarvi il nemico[81].

Quando Bonnivet seppe che Prospero Colonna, in cambio di ritirarsi, si fortificava in Milano, venne ad accamparsi a san Cristoforo, presso alle mura della città, tra le porte Ticinese e Romana, in un luogo renduto forte dai canali; di là mandò distaccamenti di cavalleria per il paese onde intercettare le vittovaglie, lusingandosi di forzare in tal modo il Colonna ad uscire da una città nella quale troverebbesi tra poco esposto a grandi privazioni[82]. Bajardo e Federico da Bozzolo occuparono Lodi il 20 di settembre, e vittovagliarono il castello di Cremona, sperando di potere per mezzo del castello occupare ancora la città; ma sebbene conducessero trecento lance ed otto mila fanti, non ottennero l'intento loro[83]. In appresso si avanzarono verso Caravaggio e Monza, per togliere ai Milanesi le vittovaglie dei monti di Brianza. Prospero Colonna, sopraffatto da una malattia che doveva bentosto condurlo al sepolcro, facevasi rappresentare dal duca di Termes e da Alarcone, comandante della fanteria spagnuola. Aveva colla sua attività adunati in Milano ottocento uomini d'armi, ottocento cavaleggieri, quattro mila fanti spagnuoli, sei mila cinquecento tedeschi e tre mila italiani. Faceva avanzare il marchese di Mantova al mezzogiorno del Po dalla banda di Pavia; aspettava ogni giorno nuovi rinforzi dalla Germania e dal regno di Napoli; e di già intercettava ai Francesi i viveri ch'essi avevano creduto di tirare dalla Lomellina[84].

Erasi Bonnivet dato vanto di non imitare l'impeto e l'imprudenza degli altri capitani francesi, ma di fare la guerra agl'Italiani colle precauzioni italiane: pure così perdeva i vantaggi proprj della sua nazione senza poter acquistare quelli d'un'altra. Ogni picciola scaramuccia gli costava alcuni soldati, ed ognuna di tali perdite scoraggiava le sue truppe ed accresceva l'ardire dei nemici. I frequenti rovesci provati da' suoi distaccamenti lo forzarono all'ultimo a non far venire i suoi convoglj che con grosse scorte, a non ispedire a foraggiare che numerosi distaccamenti, ed a richiamare i corpi d'armata che chiudevano ai Milanesi le strade del monte di Brianza, facendo accampare tutte le sue truppe tra Marignano ed Abbiategrasso[85].

La lentezza di Bonnivet aveva dato tempo agli alleati di adunare tutte le loro armate. Oltre le truppe spagnuole e tedesche che Prospero Colonna aveva in Milano, e quelle che Antonio di Leyva teneva sotto i suoi ordini a Pavia, il vicerè di Napoli, Carlo di Lannoy, si avvicinava col marchese di Pescara, il quale aveva ripigliato il comando della fanteria spagnuola. Il marchese di Mantova, a richiesta di Prospero Colonna, si era avanzato fino a Pavia coll'armata della Chiesa, il Vitelli, che comandava tre mila fanti al soldo de' Fiorentini, copriva la strada di Genova, ed il duca d'Urbino coll'armata veneziana era giunto in riva all'Adda. Malgrado il loro avvicinamento Bonnivet si era ostinato a mantenere la sua posizione sotto Milano, per tenere dietro ad una trama ordita da alcuni soldati di Giovanni de' Medici, che promettevano di dargli una porta della città; ma quando seppe che questi erano stati scoperti e condannati alla pena di morte, fece proporre a Prospero Colonna un armistizio fino al mese di maggio, obbligandosi a cedere tutte le conquiste fatte oltre il Ticino. Ma i generali imperiali non volevano accettarla che a condizione che fosse evacuata tutta la Lombardia; e Bonnivet, senz'avere ottenuta una sospensione d'armi, fu costretto da abbondanti nevi a ritirarsi. Il 27 di novembre portò tutta la sua armata tra il Ticinello ed il Ticino ad Abbiategrasso ed a Rosate; e malgrado le istanze de' soldati, Prospero Colonna, fedele all'invariabile suo sistema di non fidare mai all'accidente ciò che ottenere poteva dall'ordinario corso delle cose, lasciò che tranquillamente si ritirasse[86].

A dir vero quest'era l'ultima prova che Prospero faceva della particolare sua tattica. Questo grande generale, che dava a vedere d'aver preso per modello Fabio Cunctatore, operò in certo qual modo una rivoluzione nell'arte della guerra. Fu egli il primo ad insegnare con quale arte, scegliendo le posizioni, ed eseguendo movimenti ben calcolati, un generale debole, o che diffida delle sue truppe, può stancheggiare l'attività de' suoi nemici, ammorzarne l'impeto e dissiparne le forze, senza lasciar loro il conforto di dare una sola battaglia. Ne' tempi in cui visse i suoi talenti erano appunto quelli che si richiedevano dal suo partito per ammorzare l'impeto de' Francesi, o rendere inutile il cieco valore degli Svizzeri. Fu egli il primo a difendere senza venire a giornata un paese che da trent'anni era sempre stato o guadagnato, o perduto in una sola battaglia. Pure in quest'epoca stessa veniva già da otto mesi divorato dalla malattia che lo portava al sepolcro. La gelosia che fin allora aveva sentita contro Carlo di Lannoy, vicerè di Napoli, dovette dar luogo all'eccesso del dolore. Chiamò egli stesso a Milano questo ministro dell'imperatore; ma il Lannoy non volle che i moribondi occhi del suo rivale vedessero il successore che tanto avevano temuto. Si avanzò lentamente, onde entrare in Milano col marchese di Pescara solamente quando Prospero Colonna agonizzante avesse perduti i sentimenti. Questo grand'uomo morì il 30 dicembre del 1523[87].

Bonnivet, avendo presi i suoi quartieri d'inverno, licenziò la fanteria francese levata nella Linguadocca e nel Delfinato, siccome quella che conosceva poco utile sebbene fosse molto dispendiosa. Calcolava d'avere in vece un corpo di fanteria svizzera, che faceva assoldare per l'imminente primavera. In pari tempo, per aprirsi una più facile comunicazione coi Cantoni, incaricò Renzo di Ceri di attaccare Arona sul lago Maggiore, dandogli per tale impresa sette mila fanti italiani. Ma Anchise Visconti, che difendeva questa fortezza con una guarnigione milanese, gli oppose una così ostinata resistenza, che Renzo di Ceri si vide costretto a levare l'assedio dopo avere battuta la fortezza trenta giorni, lanciandovi sei mila palle[88].

Era altresì giunto in Milano il contestabile di Borbone con un rinforzo di sei mila Landsknecht. L'imperatore, che voleva protrarre il matrimonio del Borbone con Eleonora di Portogallo, e che cercava pretesti perchè non avesse effetto, invece di permettere al contestabile di venire in Ispagna, gli aveva dato il supremo comando dell'armata d'Italia, incaricando il Pescara del comando della fanteria spagnuola, ed il Lannoy dell'amministrazione civile. Dal canto suo il duca d'Urbino aveva avuto ordine dal senato di Venezia di passare l'Adda, e di raggiugnere a Milano l'armata imperiale: onde era questa diventata più numerosa assai di quella di Bonnivet; ma era in preda al disastro che mai non abbandonava le armate dell'Austria; conciossiachè Carlo V non le mandava danaro. I soldi erano da molto tempo arretrati; i soldati saccheggiavano gli abitanti che loro davano l'alloggio; ed i varj stati dell'Italia venivano angariati dai generali, che da loro pretendevano enormi contribuzioni per supplire alle spese della guerra[89].

L'armata imperiale, a motivo de' prosperi risultamenti della precedente campagna, era piena di confidenza; scoraggiata per lo contrario era quella de' Francesi; e que' medesimi capitani, che fin allora erano stati i favoriti della fortuna, cominciavano a provarla contraria. Il cavaliere Bajardo era stato incaricato di difendere Robecco coi signori di Mezieres e di San-Mesmes con dugento uomini d'armi, quattrocento cavaleggieri, e la fanteria del signore di Lorges: ma egli vi si lasciò sorprendere una notte del mese di febbrajo dal Pescara e da Giovanni de' Medici. Tre mila Spagnuoli, che per riconoscersi portavano sopra le armi una camicia bianca, cinsero da ogni banda la borgata, ed attaccarono i Francesi mentre dormivano; questi, quasi senza difendersi, furono in gran parte uccisi e fatti prigionieri; furono presi quasi tutti i loro cavalli; e Bajardo stesso si salvò a stento combattendo[90].

Bonnivet aspettava in primavera potenti soccorsi che gli dovevan giugnere dalla Svizzera. Egli aveva bruciato il borgo di Rosate per riunire tutte le sue truppe in Abbiategrasso; ed avendo il Ticino alle spalle, poteva tirare dal paese coperto da quel fiume abbondanti provvigioni, che dovevano porlo in istato d'aspettare tranquillamente nel suo campo fortificato la nuova stagione. Attaccandolo in tale posizione i nemici non potevano lusingarsi di felice riuscita; ma il marchese di Pescara propose l'ardito movimento di portare l'armata imperiale al di là del Ticino per porre Bonnivet tra quest'armata e Milano. Calcolò che i Francesi scoraggiati non oserebbero d'attaccare la capitale della Lombardia; ad ogni modo vi mandò il duca Francesco Sforza e Giovanni de' Medici con sei mila uomini; ed il 2 di marzo l'armata imperiale passò sopra tre ponti il Ticino, e venne ad accamparsi a Gambalò[91].

Temendo il Bonnivet d'essere circondato, e di perdere ogni comunicazione col Piemonte, di dove riceveva le vittovaglie, passò ancor esso il Ticino, dopo avere lasciata una grossa guarnigione ad Abbiategrasso, e venne ad accamparsi a Vigevano sulla diritta del fiume. Intanto il duca d'Urbino avea attaccato e preso d'assalto Garlasco, terra assai forte tra l'armata imperiale e Pavia, che trovavasi occupata da' Francesi; questi in ogni scaramuccia avevano perduti molti soldati e cavalli, onde Bonnivet, piuttosto che vedere così consumarsi la sua armata, presentò, sebbene più debole, due giorni di seguito la battaglia agl'imperiali. Ma Lannoy ed il contestabile di Borbone avevano determinato di non esporre all'incertezza di una battaglia generale i vantaggi che loro non potevano venir meno, preferendo di sorprendere alla spicciolata le posizioni del nemico. Attaccarono successivamente ed occuparono san Giorgio e Sartirana; persuasero la città di Vercelli a dichiararsi per loro; e prendendo una vantaggiosa posizione all'Arco di Mario, tra Vercelli e Novara, di già si lusingavano di costringere Bonnivet, che si era chiuso in Novara, a capitolare[92].

Ma il generale francese aveva avviso che da ogni banda si avanzavano truppe in suo soccorso. Claudio di Longueville, duca di Rothelin, gli conduceva pel monte Ginevra quattrocento uomini d'armi, i quali erano di già arrivati a Susa. Attraversando il san Bernardo erano giunti a Gattinara, al di là della Sesia, dieci mila Svizzeri; e cinque mila Grigioni, assoldati nel loro paese da Renzo di Ceri, erano entrati nel Bergamasco, e stavano per unirsi a Federico da Bozzolo, che gli aspettava a Lodi con un grosso corpo di fanteria italiana. Ma Giovanni de' Medici si affrettò di passare nel territorio di Bergamo con dugento cavalli e quattro mila fanti, ed unitovisi ad alcune truppe veneziane, chiuse la strada ai Grigioni; indi attaccandoli ogni giorno colla cavalleria o coll'infanteria leggiere, loro intercettando i convoglj, sorprendendo i loro distaccamenti, gli stancheggiò in maniera, che dopo tre giorni li forzò a ritirarsi ne' loro paesi[93].

Dopo aver fatti ritirare i Grigioni, Giovanni de' Medici prese Caravaggio, e ravvicinatosi al Ticino ruppe a colpi di cannone il ponte di Boffalora, che serviva di comunicazione tra il quartiere generale di Bonnivet a Novara ed Abbiategrasso dove teneva molti magazzini. Il duca Francesco Sforza risolse di sforzare il napolitano Caraccioli che comandava mille fanti in Abbiategrasso; onde andò a raggiugnere Giovanni de' Medici sotto le mura di questa piazza colla milizia milanese, e dopo un vivo cannonamento la prese d'assalto. Vero è che i Milanesi pagarono assai caro questo vantaggio. La lunga dimora dell'armata francese in quella terra, i patimenti, la miseria, la sudiceria vi avevan generata la peste. I soldati saccheggiando Abbiategrasso contrassero essi medesimi il contagio; lo portarono a Milano col loro bottino, e questo flagello rapì in quella estate cinquanta mila abitanti alla capitale della Lombardia[94].

Intanto Bonnivet, sempre più chiuso nel suo campo, ogni giorno perdendo qualche posto avanzato, più non potendo tirare vittovaglie dal Piemonte, e più non ritrovandone nelle ruinate vicinanze di Novara, vedeva consumarsi continuamente la sua armata per la malattia e per la diserzione. Non solo i mercenarj che formavano la sua fanteria, ma gli stessi uomini d'armi, tutti appartenenti alla nobiltà francese, lo abbandonavano ogni giorno, dopo d'avere perduti i loro cavalli per mancanza di foraggi, ed avere lottato otto mesi contro le malattie e contro la fame. Dieci mila Svizzeri, che avevano valicato il san Bernardo, erano finalmente arrivati a Gattinara nella Valsesia; ma questi pensavano piuttosto a liberare i loro compatriotti del campo di Bonnivet, che a ricominciare una campagna che loro sperar non lasciava troppo prosperi avvenimenti. Malgrado le istanze di Bonnivet, non vollero passare la Sesia ingrossata da continue piogge; e ricusando di recarsi al suo campo, lo costrinsero a raggiugnerli dove si trovavano[95].

Partì dunque Bonnivet da Novara una notte in sul cominciare di maggio, onde nascondere la sua ritirata ai nemici, e prese la strada di Romagnano, terra quasi in faccia di Gattinara. Sebbene il marchese di Pescara fosse avvisato della di lui partenza, ed avesse progettato di prevenirlo, prendendo una più breve via di cui era padrone, l'armata francese arrivò a Romagnano alcune ore prima dei nemici, ed ebbe tempo di gettare un ponte sulla Sesia. Gli Spagnuoli, che l'avevano inseguito troppo precipitosamente, e che, respinti in alcune scaramucce, avevano prese pericolose posizioni, sarebbero stati facilmente sconfitti, se Bonnivet avesse potuto ridurre gli Svizzeri, arrivati presso Gattinara, a passare essi medesimi la Sesia ed a piombare con lui sopra i nemici che lo avevano inseguito: ma invano egli ne fece loro calde istanze; e quando vide di non poterli persuadere a ricominciare la guerra, passò nella stessa notte la Sesia con tutta la sua armata, per unirsi a loro[96].

Fin qui la ritirata di Bonnivet erasi eseguita abbastanza felicemente, sebbene egli avesse lasciati sette cannoni sulla riva sinistra della Sesia. Aveva trovate le truppe fresche degli Svizzeri, le quali avevano ricevuto in mezzo alle loro schiere i suoi equipaggi e le sue truppe affaticate, ed allo spuntare del giorno prendeva con loro il cammino d'Ivrea per tornare in Francia pel Basso Valese. Aveva collocata sulla riva del fiume una batteria per impedire agl'imperiali di passarlo, e ne aveva affidata la guardia a due battaglioni di Corsi e di Provenzali. Ma il marchese di Pescara ed il duca di Borbone, avendo trovato un luogo guadabile, cominciarono ancor essi a passare la Sesia; onde i Corsi spaventati abbandonarono i loro cannoni. Bonnivet per ricuperarli condusse egli medesimo un corpo di cavalleria col signore di Vandenesse, fratello di La Palisse. Bonnivet, ferito da una palla nel braccio sinistro, dovette ritirarsi dalla zuffa, e Vandenesse, ferito più gravemente in una spalla, morì dopo tre giorni[97].

Bonnivet, trovandosi incapace di supplire più a lungo alle funzioni di comandante, affidò la condotta dell'armata al cavaliere Bajardo, il quale si pose coi suoi uomini d'armi nell'ultima linea, onde coprire la ritirata della fanteria. Aveva appena presa questa posizione che vedendosi stringere dagli archibugeri spagnuoli, li caricò colla sua cavalleria per respingerli. «Ma, come Dio volle, fu tirato un colpo d'archibugio, la di cui pietra venne a ferirlo a traverso alle reni, e gli ruppe tutto il grosso osso della schiena. Quando sentì il colpo, si fece a gridare, Gesù! Poi soggiunse: Ah! mio Dio, io sono morto! Prese la sua spada per l'impugnatura, e baciò l'elsa come segno della croce, dicendo ad alta voce, miserere mei Domine![98] »

«Frattanto Bajardo si fece levare da cavallo dal suo maestro di casa, che mai non l'abbandonò, e si fece porre a piè d'un albero col viso rivolto verso il nemico, ove il duca di Borbone, che inseguiva il nostro campo, venne a trovarlo, e disse al detto Bajardo che sentiva molta compassione di lui, vedendolo in quello stato per essere così virtuoso cavaliere. Cui il capitano Bajardo rispose, signore, voi non dovete compiangere me che muojo da uomo onorato, ma bensì io compiango voi, vedendovi servire contro il vostro principe, la vostra patria, il vostro giuramento. E poco dopo il detto Bajardo spirò, e fu rilasciato un salvacondotto al di lui maestro di casa per portare il di lui corpo nel Delfinato, dove aveva avuti i natali[99]

Gl'imperiali continuarono ad inseguire l'armata che si ritirava; ma l'ultimo corpo svizzero, più soffrire non potendo tanta molestia, si gettò su di loro con tanto furore a piena corsa, che li ruppe e li pese in fuga. Questo corpo di quattrocento uomini, che si era troppo slontanato dal corpo d'armata, fu in appresso, a dir vero, avviluppato ed interamente distrutto; ma la sua ostinata resistenza, ed il ritardo dell'artiglieria imperiale, diedero tempo a Bonnivet di eseguire la sua ritirata sopra Ivrea, ove i nemici cessarono d'inseguirlo. Lasciò ancora nella valle d'Aosta, nel forte di Bar, venti cannoni, disperando di poterli condurre a traverso al san Bernardo, e ricondusse pel Valese la sua armata in Francia[100].

Il duca di Longueville, sentendo a Susa che Bonnivet si era ritirato, riprese il cammino del monte Ginevra senza avere veduto il nemico. Novara si arrese a Giovanni de' Medici: Boisì e Giulio di Sanseverino, che comandavano in Alessandria, consegnarono questa città al marchese di Pescara, e Federico da Bozzolo abbandonò Lodi al duca d'Urbino. In poche settimane più non rimase un solo francese in Italia; anzi al contrario Bozzolo e Sanseverino avevano condotti nella Provenza e nel Delfinato circa cinque mila Italiani al soldo della Francia[101].

L'Italia era omai liberata dall'invasione francese, ed erasi ottenuto lo scopo delle due leghe contratte dall'imperatore sia coi Veneziani, sia col papa e coi piccoli stati d'Italia. Tutti gl'Italiani, oppressi dalle spese e dagli sforzi di una ruinosa guerra, altro omai non bramavano che la pace; il papa lusingavasi di far guarentire lo stato attuale dell'Italia dal re d'Inghilterra che aveva contribuito alla vittoria, e dagli Svizzeri che coprivano i confini, e che in addietro si erano così vivamente adoperati per l'indipendenza della Lombardia. Clemente VII ordinava al suo nunzio in Inghilterra d'invocare i buoni ufficj d'Enrico VIII, per porre un termine all'arroganza ed alle vessazioni de' ministri dell'imperatore in Italia, per far rispettare la santa sede, cessare le contribuzioni straordinarie ricevute ogni mese dai Fiorentini, ristabilire il duca di Milano in un'assoluta indipendenza, e far godere ai Veneziani i vantaggi che si erano riservati in forza del loro trattato. Insomma trattavasi di far vedere se l'Italia aveva combattuto per iscuotere un giogo straniero, o soltanto per mutare il padrone; e dal tuono della lettera del datario apostolico scorgevasi che Clemente VII si era di già accorto che i frutti della vittoria non erano gran fatto meno amari di quelli della guerra[102].

Ma i generali, che avevano trionfato in Italia, desideravano che la guerra producesse nuove guerre. Niun pensiero prendevansi della felicità degli stati che pretendevano difendere; bramavano di continuare il loro mestiere, di farsi nome con nuove imprese, e di trovare altre occasioni di esercitare un assoluto potere sulle fortune e sulla vita degli uomini. Il contestabile di Borbone prendeva maggiore interesse che gli altri per la continuazione della guerra. Scriveva all'imperatore ed al re d'Inghilterra essere giunto l'istante di superare i confini della Francia, di vendicarsi dei loro nemici, e di precipitare dal trono Francesco I. Diceva che al nome di Borbone si solleverebbero i suoi antichi vassalli, e verrebbero spontaneamente a collocarsi sotto le insegne straniere. Ignorava costui che il solo delitto d'avere chiamati gli stranieri nella sua patria, cambiava in odio ed in disprezzo tutto l'affetto che i Francesi avevano potuto avere per lui[103]. Carlo V ed Enrico VIII credettero imprudentemente alle di lui parole; il primo ordinò alla sua armata di penetrare nella Provenza; l'altro gli mandò soccorsi, e promise in pari tempo di attaccare le province settentrionali della Francia.

Fu nel mese di luglio che il contestabile di Borbone ed il marchese di Pescara passarono il Varo per entrare nella Provenza con sette mila landsknecht, sei mila fanti spagnuoli, due mila Italiani, e sei cento cavaleggieri: il vicerè Lannoy aveva promesso di seguirli a poca distanza con mille uomini d'armi. Ugo di Moncade con sedici galere costeggiava la Provenza per proteggere l'armata e trasportare l'artiglieria: ma Andrea Doria, che aveva il comando di una flotta francese più forte, prese una di queste galere e fece prigioniere il principe d'Orange; ne forzò tre altre a rompere sulla costa, le quali il Pescara fece bruciare perchè non venissero in mano del nemico; e costrinse il Moncade, dopo avere sbarcata la sua artiglieria ad Aix, a chiudersi nel porto di Monaco[104].

Voleva il Borbone approfittare della sorpresa del re di Francia e dello spossamento cui era stata ridotta la sua armata nell'ultima campagna, per portarsi subito sopra Avignone o sopra Lione. Calcolava che nello stesso tempo un'armata spagnuola penetrerebbe nella Guienna, una inglese nella Picardia, e forse una tedesca nella Borgogna. Ma Carlo V ed Enrico VIII non si curavano di soddisfare per questo rispetto le promesse che gli avevano fatte; ed il marchese di Pescara, non volendo compromettere la sua armata conducendola nel cuore del regno, si ostinò perentoriamente a volere ristringere le sue operazioni all'assedio di Marsiglia[105].

A Filippo di Brion, conte di Chabot, era stata dal re affidata la difesa di Marsiglia, cui venne bentosto giù pel Rodano ad unirsi Renzo di Ceri coi cinque mila Italiani che avevano seguito Bonnivet nella sua ritirata. Tra costoro trovavansi molti gentiluomini, costretti dalle rivoluzioni d'Italia ad esiliarsi per sempre dalla loro patria. Tra gli altri vi si vedevano alcuni emigrati pisani, determinati a non voler più soggiacere al giogo de' Fiorentini, e che, per la valorosa difesa che fecero in Marsiglia, acquistarono il diritto di cittadinanza francese, e vi si stabilirono colle loro famiglie. L'assedio fu infatti sostenuto colle più luminose prove di valore. L'artiglieria imperiale aveva aperte nelle mura larghissime brecce; ma il Pescara, dopo aver fatte riconoscere le disposizioni degli assediati, ricusò di dare l'assalto. Sapeva che Francesco I, accompagnato da La Palisse, erasi avanzato fino ad Avignone; che aveva colà ragunata una formidabile artiglieria, otto mila cavalli, quattordici mila Svizzeri, sei mila landsknecht, e dieci mila tra Francesi ed Italiani.

Sia che l'armata del Pescara venisse respinta in un assalto, sia che prendesse la città dopo avere perduta molta gente nell'attacco, correva pericolo di essere soverchiata da forze tanto superiori. Dichiarò adunque in un consiglio di guerra, che il solo partito da prendersi era quello di una subita ritirata. E la necessità di questo consiglio parve ancora più urgente, quando seppesi nel campo imperiale, che Francesco I, dopo di avere passato il Rodano, aveva spinta la sua vanguardia fino a Salon di Crau posta a metà strada tra Avignone e Marsiglia. Il Borbone s'arrese alla superiore esperienza del suo collega; fu imbarcata la grossa artiglieria; ma perchè il mare non era libero, si spezzò la maggior parte de' cannoni, e si caricò il bronzo sui muli, onde fonderli nuovamente giunti che fossero in Italia; ed alla fine di settembre l'assedio di Marsiglia, che mantennesi quaranta giorni, fu levato dall'armata imperiale, che s'avviò a marcie forzate alla volta di Nizza[106].

Non pertanto i marescialli di Chabannes e di Montmorencì avevano raggiunta la coda dell'armata che ritiravasi con tanta celerità, e che, carica d'un immenso equipaggio, entrava in un povero paese, deserto ed alpestre, ove soffrì infinitamente. Il Pescara potè lodarsi di questa ritirata, siccome della sua più bella impresa militare, poichè salvò da un imminente pericolo la sua armata e più di dodici mila bestie da soma; ma i capi che lo inseguivano hanno pure potuto darsi il vanto d'avere più d'una volta cambiata questa ritirata in una vera fuga, e d'avere arricchiti i loro soldati con una immensa preda. Il Pescara continuò a ritirarsi per Nizza, Albenga e Finale, e finalmente fece in un solo giorno la strada da Alba a Voghera, la quale è lunga ben quaranta miglia. Il vicerè Lannoy lo aspettava a Pavia, ove i generali imperiali erano impazienti di tenere un consiglio di guerra intorno ai mezzi di difendere la Lombardia[107].

Infatti lo stesso giorno in cui il Pescara, uscendo dalle montagne della Liguria, era giunto ad Alba, Francesco I aveva fatto il suo ingresso in Vercelli. Invece di tener dietro all'armata imperiale sulla strada da lei tenuta, Francesco aveva sperato di ottenere più luminosi successi prevenendola in Italia. Egli aveva per difesa della Francia adunata una così potente armata, che parvegli capace delle più grandi conquiste. Vedeva come Carlo ed Enrico non erano in istato di attaccarlo nè in Picardia, nè nella Guienna, e supponeva che l'armata che aveva eseguita una così faticosa ritirata a traverso alle montagne della Liguria, mal potrebbe contro di lui difendere la Lombardia. Si dice che questo progetto fu concepito dal solo re; che La Tremouille, Lescuns, d'Aubigni e Chabannes tentarono ogni via perchè non avesse effetto, mentre Bonnivet, La Barre, Chabot e San-Marsault lo incoraggiavano ad eseguirlo: ma che Francesco I, fermo nel suo pensamento, non volle aspettare sua madre, per la quale aveva sempre mostrata tanta deferenza, e che le aveva chiesta la grazia di abboccarsi con lei prima di partire. Qualunque si fosse l'autore di questo progetto, non deve essere giudicato dalla riuscita; poichè, se la campagna fosse stata condotta con intelligenza eguale all'ardore con cui venne cominciata, sarebbe stata probabilmente coronata da felice riuscita[108].

Ma e Francesco I ed il suo favorito Bonnivet avevano il valore del soldato, non i talenti del generale: invece di regolarsi a seconda delle sole presenti circostanze, pareva che ad altro non pensassero che a correggere gli errori ne' quali erano precedentemente caduti; e perchè le circostanze più non erano le medesime, ciò che evitavano come un errore, spesso sarebbe stato loro di sommo vantaggio. Bonnivet non aveva pensato che a precauzionarsi contro la precipitazione e la temerità francese, e con dilungamenti inopportuni aveva perduta l'occasione di conquistare il Milanese. Dal canto suo Francesco I voleva correggere gli errori di Bonnivet tenendo una condotta affatto diversa. Prima di tutto volle occupare Milano, indi Pavia; ed invece avrebbe dovuto distruggere l'armata fuggitiva, che, scoraggiata da così lunga ritirata, non gli avrebbe potuto tener testa, s'egli non le avesse dato riposo.

Le prime operazioni del re erano state ben dirette. Il signore di Lannoi evacuando Asti prima del di lui arrivo, aveva lasciati due mila uomini in Alessandria, sperando che l'armata francese si tratterrebbe ad assediarla; ma Francesco I voleva avanti tutto occupare Milano, persuaso che le piazze che lasciavasi alle spalle s'arrenderebbero in appresso. La peste, che tutta la state aveva infierito in Milano, e fatte perire cinquanta mila persone, aveva costretto Francesco Sforza ed il suo cancelliere Moroni ad abbandonarla. Questi, malgrado le istanze del Pescara, ricusarono di rientrarvi per sostenere un assedio, e per lo contrario autorizzarono i cittadini a sottomettersi ai Francesi; onde il Pescara, che più non trovava ne' Milanesi, avviliti da tante calamità, nè zelo per la loro indipendenza; nè soccorsi pecuniarj, nè braccia pel lavoro, credette prudente consiglio di non tenere la sua armata in una città infetta di peste, che poteva diventare il suo sepolcro; perciò diede ordine di evacuarla, ed il 26 ottobre del 1524 le ultime truppe imperiali, comandate da Alarcone, uscirono per la porta Romana, mentre che le francesi vi entravano per le porte Ticinese e Vercellina. Il 30 ottobre vi fu mandato la Tremouille per assumere il comando come luogotenente del re: aveva con lui il conte di San-Paul, il signore di Vaudemont, il maresciallo di Foix e Teodoro Trivulzio. Settecento fanti spagnuoli formavano la guarnigione del castello abbondantemente approvigionato[109].

Il disordine in cui trovavasi l'armata imperiale, lo scoraggiamento de' soldati che da oltre un mese ritiravansi a marcie forzate innanzi al nemico; la mal intelligenza che supponevasi tra i generali; l'impossibilità in cui si erano trovati di difendere Milano; tutto faceva conoscere che dovevansi inseguire caldamente senza lasciarli respirare. Il marchese di Pescara, uscendo di Milano, erasi ritirato a Lodi; ma sapevasi che la maggior parte de' di lui soldati, oppressi dalla fatica, e non sentendosi abbastanza forti per difendersi, avevano gettate le armi; che quasi tutta la cavalleria era smontata, avendo perduti i cavalli nelle lunghe marcie sulle montagne; che Lodi non poteva resistere più di Milano; e che, potendo i Francesi passare l'Adda prima degl'imperiali, l'armata degli ultimi non poteva a meno di non essere tagliata fuori e distrutta, o fatta prigioniera. Sgraziatamente avevano persuaso a Francesco I che una guerra reale, una guerra in cui egli comandava personalmente le armate, non doveva trattarsi colle comuni regole della tattica, e che avanti tutto dovevasi osservare ciò che richiedeva l'onore della corona. Quest'onore, gli si diceva, non permetteva ch'egli entrasse in Milano finchè la fortezza era nelle mani de' nemici; che si lasciassero alle spalle piazze non sottomesse; e per ultimo che si perdonasse a coloro che in una terra mal fortificata avevano l'insolenza di resistergli[110].

L'ammiraglio Bonnivet era colui che più d'ogni altro intratteneva il re di questa fallace gloria; e fa pure lo stesso Bonnivet che lo persuase a richiamare le truppe di già in cammino alla volta di Lodi, per far loro prendere la strada di Pavia, non convenendo alla dignità del re di Francia di andare in traccia di nemici lontani, quando altri ne aveva più vicini[111]. I generali imperiali in questa loro disfatta si erano separati. Antonio di Leiva erasi incaricato di difendere Pavia con cinque mila Tedeschi, cinquecento Spagnuoli, e due compagnie di cavalleria comandate da Garzia Manrique. Il marchese di Pescara trovavasi in Lodi col rimanente della fanteria spagnuola, intenzionato di continuare la sua ritirata: ma quando vide che i Francesi lo lasciavano respirare, pensò di afforzarvisi. Il Lannoi passò l'Adda e si accampò in Soncino colla cavalleria; mentre il Borbone recossi precipitosamente in Germania, onde ottenere dall'arciduca Ferdinando potenti soccorsi, senza i quali l'Italia era irremissibilmente perduta per la casa d'Austria. Francesco Sforza ed il cancelliere Moroni si chiusero in Pizzighettone, e poco dopo in Cremona[112].

Francesco I aveva in allora sotto i suoi ordini due mila lance, otto mila fanti tedeschi, sei mila Svizzeri, sei mila avventurieri in gran parte francesi, e quattro mila Italiani. Con questa formidabile armata andò il 28 ottobre ad accamparsi a san Lanfranco presso le mura di Pavia, facendo dall'altra parte del Ticino occupare il sobborgo di sant'Antonio dal signore di Montmorencì. Siccome per prendere questa posizione bisognava impadronirsi di un ponte sul fiume, protetto da una torre, fece appiccare coloro che la custodivano per avere ardito di resistere ad un re di Francia[113].

Il re fece subito porre allo scoperto una batteria in faccia alle mura, e tentò per due giorni di seguito di praticarvi una breccia. Ma dietro la breccia, ch'egli effettivamente aprì nella muraglia esterna, trovò larghe e profonde trincee, ben fiancheggiate, e le case con feritoje occupate dagli archibugeri. Dopo avere perduti molti buoni ufficiali nell'assalto che fece dare, conobbe che contro una guarnigione così numerosa, comandata da così esperimentato capitano qual era Antonio di Leiva, si doveva procedere a regolare assedio. Cominciò dunque ad aprire delle trincee per collocare i cannoni in batteria, coprendo i suoi fianchi con cavalli di frisa. In pari tempo fece cavare delle mine nelle quali bisognava disputarsi il terreno palmo a palmo. Cercò pure col consiglio dei suoi ingegneri di svolgere uno de' due rami del Ticino, per lasciare a secco le mura a piè delle quali scorreva: infatti questo fiume, due miglia al disopra di Pavia, dividesi in due rami, uno de' quali bagna le mura della città, l'altro, chiamato il Gravellone, se ne scosta un buon miglio e si riunisce di nuovo al primo, avanti di mettere foce in Po. Trattavasi di far passare nel Gravellone tutta la massa delle acque. Ma in quasi tutte le circostanze l'impeto delle acque non rispettò i lavori degl'ingegneri militari. Abbondanti piogge distrussero in poche ore l'opera di molte settimane; l'assedio aveva di già assorbito un tempo prezioso, e consumato molto danaro e molta gente, senza che l'armata francese avesse ottenuto verun vantaggio[114].

Mentre che l'assedio di Pavia avanzava con estrema lentezza, facevano maggior danno all'imperatore le negoziazioni che non le armi francesi. Il cardinale Wolsei cercava segretamente di alienare Enrico VIII, suo padrone, dall'alleanza, cui egli stesso avevalo più degli altri consigliato. Il papa Clemente VII protestava di non volere, come padre comune de' fedeli, soccorrere un monarca contro l'altro. Erasi rifiutato di rinnovare la federazione sottoscritta dal suo predecessore, e dopo la ritirata dell'ammiraglio Bonnivet nel precedente anno, si era considerato come straniero in una guerra continuata dalla sola ambizione di Carlo V. I Veneziani sospiravano dietro l'antica loro alleanza colla Francia, ed aspettavano consiglio dagli avvenimenti; tutti avevano osservato con estrema diffidenza, che l'imperatore, non contento di disporre a voglia sua dello stato di Milano come se fosse cosa sua, aveva pretestati i più frivoli motivi per non accordarne l'investitura a Francesco Sforza. Ma quando il papa ebbe certa notizia che l'armata imperiale, incapace di resistere ai Francesi, non faceva verun movimento per liberare Pavia dall'assedio, al malcontento che gli aveva dato Carlo V si aggiunse il timore d'irritare Francesco I. Egli non volle essere più oltre creduto nemico di un principe contro il quale niuna armata ardiva mantenersi in campagna, e mandò Giovanni Matteo Giberti, vescovo di Verona e datario apostolico, a trattare coi Francesi[115].

Presentavasi il Giberti come mediatore ed aveva perciò visitati a Soncino il vicerè e gli altri capitani imperiali, portando loro parole di pace; ma questi, incoraggiati dalla resistenza di Pavia, gli avevano risposto che non tratterebbero con Francesco I, finchè questi conservasse un palmo di terra nel ducato di Milano. Quando in appresso il Giberti arrivò presso il re di Francia, questi che dalla lentezza del fuoco degli assediati supponeva che cominciassero a mancare di munizioni, gli rispose che una fiorente armata qual era la sua, non era destinata alla sola conquista di Milano e di Genova, ma che lusingavasi di ricuperare anche il regno di Napoli[116].

Dopo questi esperimenti di generali negoziazioni, il vescovo di Verona si fece a parlare della riconciliazione del suo padrone colla Francia. Il re altro non gli chiedeva che una semplice neutralità; ed infatti Clemente VII obbligossi in nome proprio ed a nome dei Fiorentini, a non dare veruna nè segreta nè palese assistenza ai nemici del re. Dal canto suo Francesco prometteva la sua protezione al papa ed ai Fiorentini, e si obbligava a mantenere in Firenze l'autorità de' Medici. Nello stesso tempo, ed alle stesse condizioni Clemente VII trattò per i Veneziani, e la negoziazione da lui intavolata venne confermata dal senato di Venezia in principio di gennajo del 1525. Ambidue provavano i medesimi timori sia che i Francesi o gl'Imperiali fossero vittoriosi; ambidue desideravano ardentemente una pace, finchè le forze loro erano press'a poco eguali; ambidue avrebbero voluto impedire alle potenze belligeranti di venire ad un fatto decisivo. Ma il debole carattere di Clemente VII, la sua avarizia, la sua irrisoluzione, lo ritrassero dal seguire i consigli che gli davano i suoi più saggi ministri, cioè di far avanzare una formidabile armata sul Po, di riunirla a quella de' Veneziani, rendendo così rispettabile la neutralità de' due più potenti stati d'Italia, invece di lasciarla in balìa del vincitore[117].

Il mezzo che Clemente VII riputò più conveniente per affrettare le negoziazioni di una pace generale, fu quello di tenere inquieti i generali imperiali rispetto al regno di Napoli. Pare adunque, che consigliasse da principio a Francesco la spedizione del duca d'Albanì nel mezzogiorno d'Italia, dal che però cercò in appresso di dissuaderlo. Francesco I, che vedeva l'impossibilità di spingere vivamente l'assedio di Pavia durante la cattiva stagione, e che di mal animo teneva oziosa una così numerosa armata, aveva date a Giovanni Stuard, duca d'Albanì, dugento lance, seicento cavaleggieri ed otto mila pedoni, perchè s'incamminasse alla volta di Napoli[118].

Tosto che la fazione francese nel regno di Napoli ebbe sentore della mossa del duca d'Albanì, cominciò subito a sollevarsi; i baroni angiovini, la città dell'Aquila e tutti gli Abruzzi, sembravano apparecchiati a tentare una rivoluzione. Il consiglio di Napoli scrisse al signore di Lannoy, che, se non voleva perdere il regno affidatogli, doveva sollecitamente ricondurvi l'armata imperiale per respingere l'invasione straniera, e contenere i malcontenti. Infatti il vicerè, spaventato da questi avvisi, voleva accorrere alla difesa del suo territorio; ma vi si oppose il marchese di Pescara onde non s'indebolisse l'armata di Lombardia. Egli dimostrò che conveniva difendere Napoli e Pavia, conciossiachè un solo vantaggio avuto sopra Francesco I bastava per richiamare il duca d'Albanì anche vittorioso, mentre invece, ove pure il duca rimanesse perdente nel regno di Napoli, i di lui rovesci non potrebbero por fine alla guerra di Lombardia. Si prese quindi il partito di mandare a Napoli il duca di Traietto con ordine di levare contribuzioni nel paese, e di provvedere nel miglior modo che potrebbe alla difesa del regno colle sole milizie nazionali, mentre che si terrebbero in Lombardia tutte le forze imperiali[119].

L'assedio di Pavia procedeva poco vigorosamente, perchè i Francesi cominciavano a mancare di munizioni: dall'altro canto il duca d'Albanì attraversava l'Italia con estrema lentezza, accrescendo così fede all'universale opinione, che piuttosto cercasse d'intimorire gl'Imperiali, che di fare realmente la conquista del regno. Pure la sua marcia serviva ai Francesi per formare nuove alleanze, facendo dichiarare per loro i deboli stati, che il solo timore aveva strascinati nella lega dell'imperatore. Alfonso d'Este, duca di Ferrara, domandò di essere nuovamente ricevuto sotto la protezione francese, e la comperò con un sussidio di settanta mila fiorini, venti mila de' quali vennero pagati in munizioni d'artiglieria. Giovanni de' Medici, il celebre comandante delle bande nere, venne incaricato di condurre a Pavia queste munizioni; egli aveva di fresco mutato nuovamente partito, lagnandosi d'essere stato dagl'Imperiali trascurato nella precedente campagna, ed era giunto al campo francese il 4 di dicembre colla formidabile sua truppa. Il duca d'Albanì penetrava in Toscana per la via della Garfagnana. In principio di gennajo gli si unì Renzo di Ceri con tre mila fanti italiani sbarcati da una flotta francese. Lucca gli pagò dodici mila ducati e gli diede alcuni cannoni. Firenze lo accolse come generale di una potenza amica; Siena non solo acquistò la protezione della Francia con una contribuzione, ma dovette acconsentire al richiamo del figlio di Pandolfo Petrucci, nelle di cui mani Clemente VII desiderava di vedere riposto il governo di quella città. Finalmente il papa, quando l'Albanì fu vicino a Roma, pubblicò il trattato di neutralità conchiuso colla Francia, e fin allora tenuto segreto[120].

Ma sebbene il duca d'Albanì fosse entrato nello stato di Roma, e che assoldasse nuovi fanti nelle terre degli Orsini, mentre che dal canto loro i Colonna ne assoldavano altri a Marino per difendere il regno di Napoli, gli occhi di tutta l'Europa non erano volti a questi avvenimenti, ma soltanto a ciò che accadeva in Lombardia. Il Borbone era colà tornato verso la metà di gennajo, conducendo dalla Germania cinquecento cavalli borgognoni e sei mila fanti che gli erano stati dati dall'arciduca Ferdinando, con un corpo di quasi altrettanti volontarj assoldati dalle città imperiali e dalla nobiltà immediata. Marco Sittich d'Embs e Niccolò, conte di Salm, comandavano i primi, Giorgio Frundsberg gli altri. I Veneziani, che non eransi obbligati che ad una perfetta neutralità, loro accordarono il libero passaggio[121].

Dopo avere ricevuto questo rinforzo, l'armata imperiale si trovò superiore a quella di Francia, ma mancava assolutamente di danaro; Carlo V, seguendo la sua pratica, non ne mandava nè dalla Spagna, nè dalla Fiandra: non poteva somministrarne il regno di Napoli chiamato a difendere sè medesimo; il ducato di Milano, che fin allora aveva mantenuto l'armata, oltre l'essere interamente ruinato, era in gran parte occupato da' Francesi; e gli stati indipendenti d'Italia non pagavano più le contribuzioni loro precedentemente estorte a viva forza. In Pavia Antonio di Leiva non aveva più polvere, mancava di vino e d'ogni altra vittovaglia, ad eccezione del pane. I soldati, anche prima che cominciasse l'assedio, non ricevevano da lungo tempo il loro soldo, e di già cominciavano a domandarlo con minacciose grida, onde Leiva temeva che non dessero la città ai nemici. Prese perciò tutti gli argenti delle chiese, e ne coniò una nuova moneta che loro distribuì; il Pescara trovò il modo di fargli passare tre mila ducati, la quale piccola somma servì a far credere agli assediati che il danaro pel loro soldo si trovava nel campo imperiale; ma ch'era quasi impossibile il farlo giugner loro a traverso alle linee degli assedianti. Finalmente il comandante de' Tedeschi, il conte Eitel Federico di Zollern, il di cui nome viene dal Giovio travisato sotto quello d'Azornio, avendo eccitata la diffidenza di Antonio di Leiva, fu da lui avvelenato in un pranzo[122].

Il marchese di Pescara, Lannoy, e Borbone, sentivano ancora più vivamente il bisogno del danaro per l'armata con cui pensavano di far levare l'assedio di Pavia. Non solo era dovuto il soldo a tutte le loro truppe da molti mesi, ma non ne avevano abbastanza per far trasportare l'artiglieria, per provvedere alcune vittovaglie, nell'istante in cui, volendo trar fuori le truppe da' quartieri d'inverno, più non sarebbero alimentate dagli abitanti. Però i generali imperiali sentivano la necessità di attaccare il campo francese prima che il re ricevesse le nuove truppe che faceva levare nella Svizzera, in Italia ed in Francia, prima che la miseria inducesse gli assediati a capitolare, e prima che per mancanza di pagamento le loro truppe si disperdessero[123].

Il marchese di Pescara cercò di calmare i soldati, i quali avevano dichiarato che non uscirebbero da' quartieri d'inverno finchè non sarebbero loro pagati i mesi arretrati. Cominciò col risvegliare il naturale orgoglio degli Spagnuoli, il loro odio verso i Francesi e la loro cupidigia, promettendo loro le ricche spoglie dell'armata reale. Dopo avere ottenuta la loro promessa di servire ancora un intero mese senza soldo, adducendo il loro esempio si volse ai Tedeschi, e gli esortò a mostrare la medesima generosità in una causa in cui erano più particolarmente interessati, poichè trattavasi di liberare i loro compatriotti assediati in Pavia. Giorgio Frundsberg, il di cui figliuolo Gaspare era chiuso in Pavia con Antonio di Leiva, fece con tutto il suo zelo e con tutto il suo credito valere questo motivo presso i suoi compatriotti, e fece in modo che ottenne da loro la medesima promessa che il Pescara aveva ottenuto dagli Spagnuoli. Solo restavano a persuadersi gli uomini d'armi ch'erano a Soncino con Carlo di Lannoy, i quali si mostravano meno docili degli altri. Il loro orgoglio era umiliato, perchè non avevano avuto occasione di mostrare il proprio valore nelle precedenti campagne. Il Pescara aveva riposta tutta la sua fiducia nella fanteria, ed in particolar modo ne' fucilieri ed archibugieri spagnuoli da lui formati; e gli uomini d'armi, lasciati oziosi, erano non infrequentemente l'oggetto della derisione de' pedoni. Per persuaderli a marciare, d'uopo fu che il Pescara e gli altri capi dividessero tra gli uomini d'armi il privato loro danaro. Egli finalmente ottenne in tal modo che raggiugnessero il restante dell'armata; e il 25 di gennajo si pose in cammino da Lodi per Marignano[124].

Il re, avvisato della marcia dell'armata imperiale, suppose dapprima che fosse intenzionata di occupare Milano, ma quando seppe che, partendo da Marignano, aveva piegato a sinistra lungo il Lambro per avvicinarsi a Pavia, richiamò da Milano all'armata La Tremouille e Lescuns, ed adunò un consiglio di guerra per risolvere intorno al partito da prendersi. Tutti i più vecchi generali, La Palisse, Galeazzo di Sanseverino, La Tremouille, Teodoro Trivulzio, il duca di Suffolck della Rosa Bianca, ed il bastardo Renato di Savoja, si sforzavano di far sentire al re che la peggiore situazione era quella di aspettare d'essere attaccato nel proprio campo, tra una città assediata, ove trovavasi una grossa guarnigione, ed un'armata più numerosa della sua; che non doveva tardare a levare l'assedio di Pavia, portando l'armata tra questa città e Milano a Binasco o alla Certosa; che il paese, tutto intersecato di canali, offriva molti vantaggiosi accampamenti, e ch'era facile lo sceglierne uno, in cui la sua armata tutt'adunata non potrebb'essere attaccata senza un eccesso di temerità; che gl'imperiali, senza danaro e senza viveri, non potrebbero lungamente tenersi in campagna, e che l'imbarazzo loro verrebbe accresciuto col ricevere nel proprio campo la guarnigione di Pavia, cui si era fatto credere che il soldo fosse in pronto, e la quale, non ricevendo danaro dopo tante privazioni, ecciterebbe facilmente una sollevazione in mezzo a truppe tutte egualmente malcontente; che bastava guadagnare tempo per ottenere tutti i frutti della più compiuta vittoria; e che, se la disperazione riduceva il Pescara a cercare la battaglia, la più comune prudenza insegnava al re a schivare ciò che il suo nemico desiderava[125].

Ma Francesco I non ascoltava che Bonnivet, perchè questi lo intratteneva sempre della sua gloria. Indegna cosa sarebbe, questi gli diceva, della maestà di un re di Francia di lasciarsi dagli stessi nemici svolgere dai suoi disegni, di rinculare quand'essi avanzavano, e di abbandonare un'impresa che si era impegnato di condurre a fine in faccia a tutta l'Europa. Che i generali ordinarj potevano lasciarsi guidare da queste comuni considerazioni di prudenza o di tattica militare; ma che, trovandosi compromessa la maestà reale, l'onore della corona doveva essere la prima base dell'arte della guerra. Dietro una così fallace opinione dell'onore e del dovere di un re, Francesco I risolse di continuare l'assedio di Pavia in presenza del nemico, contro il parere de' suoi più sperimentati generali, e contro le istanze del papa[126].

Francesco I ristrinse il suo accampamento, e ne guarnì i trinceramenti con una formidabile artiglieria, credendo in tal modo essersi posto in sicuro contro ogni attacco. Quando era cominciato l'assedio aveva divisa la sua armata in tre campi. Il primo a san Lanfranco, dove comandava in persona, era posto in su la sinistra del Ticino, dalla banda in cui giugne a' piedi delle mura della città; il secondo, in cui comandava La Palisse, era egualmente sulla sinistra del Ticino, ma sotto alla città; il terzo sotto gli ordini di Montmorencì era in su la destra del Ticino nell'isola che forma col Gravellone. Francesco I, avvicinandosi gl'imperiali, abbandonò il suo campo di san Lanfranco, e si unì a La Palisse, chiamandovi ancora il Montmorencì, e non lasciando nell'isola che un piccolo corpo di truppe sotto gli ordini del signore di Clermont. Per tal modo tutte le sue forze si trovarono riunite in un solo campo al levante della città, in riva al Ticino, e sulla strada che tenevano i nemici. Era questo campo fortificato in faccia, verso Lodi, da un parapetto e da una fossa che stendevasi fino al fiume, a destra dal Ticino, ed a sinistra dal muro di un vasto parco, che circondava la casa di caccia dei duchi di Milano a Mirabello. Il re fece in tre luoghi atterrare questo muro, onde formare altrettante porte, per le quali poteva entrare nel parco; il rimanente del muro serviva di difesa al suo campo, e chiudeva ai nemici la via della città[127].

Il Pescara, cui Borbone e Lannoy, tratti dall'irresistibile sentimento della superiorità de' di lui talenti, avevano abbandonata la direzione dell'attacco andava frattanto avvicinandosi, ma lentamente e con precauzione, all'armata reale. Aveva trovato in sul passaggio del Lambro il castello di sant'Angelo difeso da Pirro da Bozzolo, fratello di Federico, con dugento cavalli ed ottocento fanti. Sebbene questo posto fosse fortissimo, e che il re, che lo aveva fatto di fresco riconoscere, si tenesse sicuro che resisterebbe lungamente, il Pescara lo prese in un giorno, essendo entrato egli stesso il secondo per la breccia nella piazza, colla temerità di un granatiere, piuttosto che colla prudenza di un generale[128].

Circa lo stesso tempo altre perdite indebolirono successivamente l'armata del re. Egli aveva ordinato al marchese di Saluzzo di condurgli sollecitamente da Savona, dov'egli trovavasi, quattro mila Italiani precedentemente destinati contro Genova. Questi, attraversando senza precauzione l'Alessandrino, furono sorpresi nel passare la Bormida da Gaspare Maino, comandante delle truppe dello Sforza, ed interamente disfatti o fatti prigionieri[129]. Gian Luigi Palavicino con un corpo ancora più numeroso lasciossi sorprendere il 18 di febbrajo a Casal maggiore, di dove avanzavasi per attaccare Cremona, e fu pure fatto prigioniere[130]. Finalmente Giovan Giacomo Medici, milanese, il quale non apparteneva alla famiglia fiorentina dello stesso nome, riuscì con uno stratagemma a privare il re dell'assistenza di sei mila Grigioni, che servivano nel di lui campo. Costui sorprese la città ed il castello di Chiavenna all'estremità del lago di Como[131], e con tale inaspettato attacco spaventò talmente la lega grigia, che dessa ordinò a tutti i Grigioni che trovavansi nell'armata del re di accorrere in difesa della loro patria; e questi furono accompagnati da alcuni battaglioni svizzeri, i quali dichiaravano che il loro più pressante dovere era quello di soccorrere i loro confederati[132].

L'armata imperiale andava sempre più accostandosi a Pavia. Il primo di febbrajo era venuta ad accamparsi a Vistarino; il 3 dello stesso mese si stabilì nei prati di santa Giustina, due miglia e mezzo distante dalla città, e ad un solo miglio da' corpi avanzati dell'armata francese. Le due armate trovaronsi in allora così vicine, che potevano cannonarsi senz'uscire da' loro campi. Un fiumicello, detto la Vernacula, li separava, e perchè era profondo ed aveva le rive alquanto alte serviva egualmente di difesa agli uni ed agli altri. Ma il Pescara non si era tanto avvicinato che per venire a battaglia, onde andava studiando le posizioni de' Francesi; si avanzava frequentemente sotto il loro fuoco per meglio conoscerle, e per sapere a quale corpo particolare era affidata cadauna parte del campo. Per tal modo aveva conosciuto che sarebbe quasi impossibile di sforzare i Francesi ne' loro trinceramenti; perciò gli andava stancheggiando con continue scaramucce di giorno e di notte, e lusingavasi che alcuna di quelle parziali zuffe potrebbe cambiarsi in generale battaglia. Infatti più d'una volta le due armate si mossero interamente per un accidentale attacco. Un branco di montoni, preteso da ambo le parti, fu in sul punto di cagionare una battaglia generale; pure dopo che Lannoy e Borbone, che Bonnivet e lo stesso Francesco I furono entrati nella mischia, le due armate si ritirarono nel proprio campo press'a poco con eguale danno[133].

Ma il più delle volte gli attacchi del Pescara avevano più felici risultati: egli sorprese consecutivamente i Landsknecht della banda nera comandati dal duca di Suffolck, indi gl'Italiani della banda nera di Giovanni de' Medici. Questi per vendicarsi tirò in un'imboscata una sortita della guarnigione di Pavia; ma mentre, dopo averle uccisa molta gente, stava indicando a Bonnivet il campo di battaglia, e gli andava spiegando le sue disposizioni, fu il 20 di febbrajo ferito in una coscia così dolorosamente da una palla, che fu costretto d'abbandonare l'armata, facendosi trasportare a Piacenza per esservi medicato[134].

In mezzo al ricinto, le di cui gagliarde muraglie coprivano uno de' fianchi del campo francese, era fabbricato il palazzo di Mirabello, antica casa di caccia dei duchi di Milano. Il re vi aveva mandato, come in luogo più lontano da' pericoli, i suoi ministri ed ufficiali che seguivano il campo senz'essere addetti alla milizia, come pure Aleandro, legato del papa. Varj mercanti e magazzinieri avevano nello stesso luogo aperta una specie di fiera, e vi erano protetti dagli uomini d'armi della retroguardia. Disperando il Pescara di forzare i trinceramenti del campo francese, formò il progetto di penetrare nel parco e di avanzarsi sopra Mirabello. Se ciò gli riusciva, contava in appresso di circondare l'armata francese dalla parte sinistra, e di aprirsi una comunicazione colla guarnigione di Pavia. Se il re voleva vietargliene il passaggio, era forzato di rinunciare al vantaggio de' suoi trinceramenti per dargli battaglia nel parco. Però affinchè l'affare si rendesse generale, bisognava per altro che il Pescara facesse entrare la sua armata nel parco prima che i Francesi avessero sentore del suo progetto, altrimenti ne avrebbero difese le muraglie collo stesso vantaggio con cui difendevano i loro trinceramenti. Incaricò adunque lo spagnuolo Salsede di fare nella notte che precedeva il 25 di febbrajo una breccia nelle mura del parco, non già coll'artiglieria, onde non levare a rumore tutto il campo nemico, ma col montone e cogli zappatori, facendo nello stesso tempo eseguire altri attacchi in diversi luoghi per traviare l'attenzione, e soffocare il fracasso; indi avvertì Antonio di Leiva di tentare una sortita ad un convenuto segnale[135].

Soltanto a due ore prima di giorno si trovò la breccia aperta nella muraglia del parco. Il Pescara, che aveva fatta indossare a tutti i suoi soldati una camicia bianca sopra le armi, onde si riconoscessero nell'oscurità, fece da prima entrare nel parco Alfonso d'Avalos, marchese del Guasto, suo cugino, con sei mila fanti tedeschi, spagnuoli ed italiani, e tre squadroni di cavalleria, ordinandogli di portarsi direttamente sopra Mirabello. Lo stesso Pescara gli tenne dietro con un secondo corpo d'armata composto di fanteria spagnuola. Il Lannoy ed il contestabile di Borbone conducevano il terzo ed il quarto corpo, tutto formato di Tedeschi. Gl'imperiali erano di già entrati nel parco, senza che i Francesi si fossero accorti del loro disegno. Ma finalmente questi si erano mossi e posti in ordine di battaglia, onde gl'imperiali, per portarsi a Mirabello, dovevano passare sotto il fuoco dell'artiglieria francese, diretta da Giacomo Galliot, siniscalco d'Armagnacco. Siccome gl'imperiali correvano per sottrarsi più presto alle continue scariche, il re credette che fuggissero, ed uscì dalle sue linee per caricarli. Fidavasi nella superiorità della sua cavalleria in una pianura accomodata alle grandi evoluzioni; ma con tale movimento venne a cuoprire la sua artiglieria, la forzò a sospendere il fuoco, e trovò la cavalleria nemica frammischiata agli archibugeri spagnuoli, le di cui scariche atterrarono bentosto non pochi de' suoi più valorosi cavalieri[136].

Quando il Pescara vide attaccata la battaglia, fece richiamare il marchese del Guasto; ma questi, sentendo il cannone, aveva prevenuti i suoi ordini e di già si trovava in linea. L'armata imperiale poteva in allora contare sedici mila tra fanti spagnuoli e tedeschi, mille italiani e mille quattrocento cavalli. Francesco I credeva di avere nella sua mille trecento lance, e venticinque mila fanti; ma era ingannato da' suoi capitani e dagl'ispettori alle reviste, i quali gli facevano pagare il soldo di moltissimi soldati che più non esistevano, o che mai non avevano esistito[137]. Francesco I affidò a Bussì d'Amboise la custodia del suo campo e la sua difesa contro le sortite d'Antonio di Leiva; oppose i suoi Svizzeri ai Tedeschi, ed i suoi Landsknecht delle bande nere agli Spagnuoli. Nel cominciamento della battaglia Philippe di Chabot e Federico da Bozzolo presero cinque cannoni agli Spagnuoli, e la banda nera de' Landsknecht respinse fino nella Vernacula un corpo di cavalleria leggiere: ma questi medesimi vantaggiosi avvenimenti tornarono in danno de' Francesi; perciocchè gli uomini d'armi, credendo vinta la battaglia, slanciaronsi disordinatamente addosso ai nemici, sguarnirono i fianchi degli Svizzeri e de' Landsknecht, che dovevano proteggere, e fecero cessare affatto il fuoco dell'artiglieria francese, nella quale stava la vera superiorità di Francesco I[138].

Terribile fu questa carica degli uomini d'armi: giammai nelle guerre d'Italia non erasi combattuto con maggiore accanimento; nè mai infatti non furono attaccati alla sorte d'una sola battaglia più grandi destini. Si fu in quest'urto che Ferdinando Castriotto, marchese di sant'Angelo, ultimo discendente di Scanderbeg, fu ucciso, per quanto si disse, dallo stesso Francesco I. Gli uomini d'armi borgognoni, giunti di fresco dalla Germania col contestabile di Borbone furono posti in fuga; e già parevano dover presto cedere anche gli squadroni di Lannoy e di Borbone, allorchè ottocento fucilieri spagnuoli diretti dal Pescara si sparsero sui fianchi degli uomini d'armi francesi, ed uccisero tanti cavalieri che gli altri dovettero separarsi. Quando gli uomini d'armi tornavano poi ad unirsi per dar addosso ai fucilieri, questi disperdevansi egualmente, e colla loro agilità si sottraevano sempre ad un nemico che non cessavano di molestare. Frattanto il marchese del Vasto, approfittando del disordine della cavalleria francese, aveva attaccata l'ala destra composta di Svizzeri comandati da Montmorencì. Questi non sostennero l'antica loro riputazione, malgrado gli sforzi del Montmorencì e del maresciallo di Fleuranges, che furono ambidue fatti prigionieri; essi vilmente fuggirono. Giovanni di Diesbach, il primo de' loro capitani, piuttosto che partecipare al loro disonore, non avendo potuto trattenerli, si gettò a corpo perduto fra i nemici e si fece uccidere. I Landsknecht della banda nera resistettero soli da questo lato all'attacco degl'imperiali; ma, chiusi da un accorto movimento di Frundsberg in mezzo a tre battaglioni, furono quasi tutti uccisi. Colà perirono con Longman d'Ausburgo, loro comandante, Riccardo di Suffolck della Rosa Bianca, pretendente al trono d'Inghilterra, Francesco di Lorena, fratello del duca regnante, Wirtemberg di Lauffen, e Teodorico di Schomberg, fratello del primo segretario di Clemente VII. La Palisse scavalcato, e di già fatto prigioniere, fu ucciso da un soldato spagnuolo; La Tremouille cadde morto presso al re per un colpo d'archibugio; Galeazzo di Sanseverino, grande scudiere, che cercava di trattenere i fuggitivi, fu pure ucciso in sugli occhi del re. L'ammiraglio Bonnivet, dopo aver inutilmente tentato di riordinare gli Svizzeri, e non volendo sopravvivere ad una sconfitta di cui sentivasi colpevole, corse a visiera alzata ove i nemici erano più fitti, e cadde ferito da più colpi di spada nel volto. Il re, avendo di già perduta la maggior parte de' suoi commilitoni, si andava valorosamente difendendo colla sua spada; ma mentre spingeva il suo cavallo verso il ponte della Vernacula, questo cavallo, ferito in più luoghi, cadde presso Diego Abila e Giovanni d'Urbieta, che senza conoscere Francesco vollero farlo prigioniero. La Mothe Hennuyer, che lo riconobbe sebbene ferito nel viso, gli propose di arrendersi al duca di Borbone; ma Francesco domandò il vicerè signore di Lannoy, ed a lui solo acconsentì di consegnare la spada[139].

Poichè i Francesi intesero la prigionia del re, più non fecero resistenza, e più non cercarono che di salvare la propria vita; ma i vincitori si mostrarono senza pietà, ed in particolare quelli della guarnigione di Pavia, che non ebbero parte nella battaglia che quando i nemici erano in fuga, uccidendo barbaramente coloro che i loro commilitoni avevano vinti. Molti Svizzeri, per sottrarsi al furore degli Imperiali, gettaronsi nel Ticino, in cui, non sapendo la maggior parte nuotare, miseramente perirono. Bussì d'Amboise ricondusse sul campo di battaglia la truppa che gli era stata data per la guardia del campo, ma fu dispersa da' Tedeschi di Frundsberg, ed egli medesimo ucciso. Contaronsi tra i morti Giacomo di Chabanes, Lescuns, maresciallo di Foix, Aubignì, il conte di Tonnerre, una ventina de' più grandi signori di Francia, e circa otto mila soldati. Trovavansi tra i prigionieri il re di Navarra, il bastardo di Savoja, Anna di Montmorencì, Francesco di Borbone, conte di san Paolo, Filippo di Chabot, Laval, Chandieu, Ambricourt, Fleuranges, Federico da Bozzolo, due Visconti, e moltissimi altri signori. Gl'imperiali non avevano perduti che settecento uomini[140].

Il duca d'Alenson, cognato del re, che aveva il comando della retroguardia, abbandonò i suoi equipaggi, e si ritirò nel Piemonte con una celerità che fece grandissimo torto alla sua riputazione, onde egli morì bentosto accorato di dolore e di vergogna. Il conte di Clermont, che comandava nell'isola del Ticino, passò il Gravellone, si fece tagliare i ponti alle spalle, e ritirossi in buon ordine. Teodoro Trivulzio, alla prima notizia dell'infelice fine della battaglia, evacuò immediatamente Milano, e ritirossi per il lago Maggiore senz'essere inquietato da' nemici. Prima che terminasse il giorno in cui si diede la battaglia, i Francesi marciavano già da tutte le parti per uscire dal ducato di Milano, senza che gl'imperiali pensassero ad inseguirli. Questi adunavano il ricchissimo bottino che fu per loro il frutto della vittoria, e pensavano a porre in luogo sicuro il loro prigioniere, che deposero sotto una stretta guardia nel castello di Pizzighettone, prodigandogli per altro la testimonianza del loro rispetto e della loro compassione[141].

CAPITOLO CXVI.

Inquietudine e pericoli delle potenze d'Italia; progetto di una lega fra di loro per difesa della propria indipendenza; vi si associa il Pescara, poi li tradisce, e spoglia de' suoi stati il duca di Milano. — Francesco I ricupera la libertà in conseguenza del trattato di Madrid.

1525 = 1526. La battaglia di Pavia e la prigionia di Francesco I atterrirono le potenze italiane. Fin allora avevano queste creduto di contare qualche cosa di per sè, e di potere farsi rispettare o temere, senza aver bisogno di nulla esporre nel terribile giuoco della guerra. Fidando nella loro politica abilità e nell'antica loro riputazione, si erano persuase che i due principi rivali s'indebolirebbero vicendevolmente in una lunga guerra, e che giugnerebbe l'istante in cui esse si porrebbero tra di loro colle proprie forze ancora intere, e gli obbligherebbero ad evacuare l'Italia. Tutt'ad un tratto s'accorsero, per la sconfitta di Francesco I, che si trovavano in balìa del vincitore, e che il di lui spossamento medesimo, gl'infiniti debiti ond'era caricato, il disordine delle di lui finanze e l'indisciplina delle di lui truppe che chiedevano invano i soldi arretrati, non facevano che accrescere il loro pericolo. Esse si trovarono disarmate, con ai loro confini una numerosa armata, vittoriosa, affamata, e che non aveva che troppo contratta l'abitudine di conculcare tutti i diritti delle genti, e di non avere rispetto alcuno nè per i nemici nè per gli amici.

I più vicini al pericolo erano i Veneziani; ma non per questo i più esposti, perchè erano i soli che in Italia avessero tenuta in piedi un'armata ben pagata, ben disciplinata ed in istato di farsi rispettare. Avevano mille uomini d'armi, seicento cavaleggieri e dieci mila fanti[142]. Vero è che la timida politica del senato, non meno che il carattere del suo generale il duca d'Urbino, teneva sempre quest'armata lontana dalle battaglie. A qualunque partito fosse associato, il duca non faceva che marciare e prendere nuove posizioni, ma non giugneva mai al tempo della battaglia.

Dopo terminate le guerre eccitate dalla lega di Cambrai, i Veneziani, spossati dalle spese enormi che avevano sostenute per difendersi, dalla ruina delle loro più industri e fertili province, dalla nuova direzione che le scoperte de' Portoghesi avevano fatto prendere al commercio, e dalla diminuzione delle pubbliche entrate cagionata da questi diversi motivi, sforzavansi di riparare in silenzio alle loro perdite; evitavano di compromettersi, per non dare la misura delle loro forze; e si coprivano sotto il manto dell'antica riputazione. Per altro un segreto disordine aveva viziate le più nobili parti dello stato. In tempo della passata disastrosa guerra, il senato per far danaro aveva dovuto vendere le magistrature, i governi delle città, gl'impieghi di giudicatura e la nobiltà che dava il diritto di entrare nel sovrano consiglio. Per tali pratiche il potere erasi trovato spesse volte affidato a mani indegne di esercitarlo. Molti privilegj commerciali, monopolj, esenzioni di tasse avevano avuta la medesima origine, ed il commercio e le finanze dello stato ne provavano i funesti effetti. I Veneziani cercavano di non essere in vista, di non essere nominati, di non parere attivi in verun affare, perchè effettivamente lo stato loro altro non era omai che l'ombra dell'antica potenza, onde temevano di venire ad una singolare lotta nella quale il loro avversario avrebbe sentito che non combatteva che con una fantasma senza corpo.

Secondo in potenza dopo i Veneziani era lo stato della chiesa, il quale poteva egualmente considerarsi come una repubblica; ed inoltre ravvisavansi diversi esterni rapporti di forma tra l'un governo e l'altro. A Venezia un doge elettivo presiedeva ad un collegio di nobili, siccome a Roma un pontefice elettivo presiedeva ad un collegio di preti. Nell'uno e nell'altro stato la suprema potenza veniva rappresentata da un monarca a vita; era nell'uno e nell'altro limitata da un'aristocrazia, senza che il popolo avesse la più piccola parte nell'uno o nell'altro governo.

Ma l'aristocrazia veneziana era composta di uomini che, consacratisi dalla loro fanciullezza a' pubblici affari, facevano del governo lo studio della loro vita, e non potevano sperare di guadagnare la stima de' loro compatriotti, e di ottenere i loro suffragj nelle elezioni, che in ragione dei talenti che mostravano nella carriera degl'impieghi. Per lo contrario lo stato della chiesa veniva governato da uomini essenzialmente e costantemente inesperti degli affari che dovevano decidere. Non era già per abuso o a caso che il papa ed i cardinali ignoravano affatto l'arte della guerra, dell'amministrazione civile e della politica; anzi era soltanto per abuso che talvolta si trovavano in istato di soddisfare alle loro funzioni. Quanto più santamente avevano corsa la carriera della loro professione, quanto più dovevano la loro elevazione alle sole virtù del loro stato, tanto più per dovere e per coscienza dovevano tenersi lontani dagl'interessi mondani. La monarchia elettiva e costituzionale della chiesa è probabilmente l'unico stato al mondo, in cui l'essenziale condizione dell'elegibilità pel primo magistrato, sia quella di essersi in tutta la sua vita tenuto affatto lontano dalle funzioni cui viene chiamato ad assumere.

Perciò il governo di Venezia, nel lungo corso di quattordici secoli, s'illustrò colla sua prudenza; ed il governo della chiesa, in un periodo poco meno lungo, diede continue prove d'inesperienza e d'incapacità. Molti papi, molti cardinali mostrarono sommi talenti nella politica esterna, nell'arte delle negoziazioni e degli intrighi, in cui più d'una volta avevano avuta occasione d'istruirsi ne' capitoli dei conventi. A quest'abilità la chiesa andò debitrice delle sue conquiste e del suo progressivo ingrandimento. Ma forse non si trovò un solo papa che fosse buon amministratore, un solo che prosperar facesse l'agricoltura, l'industria, il commercio, la popolazione negli stati da lui dipendenti, un solo che vi stabilisse savie leggi, o vi mantenesse una buona giustizia. Perciò di mano in mano che un nuovo stato veniva sottomesso al dominio della chiesa, svanivano tutte le prerogative che l'avevano fin allora distinto, desso cessava in certo qual modo di esistere per l'Italia, conciossiachè perdeva la propria indipendenza, e non pertanto nulla aggiugneva alla potenza dei papi.

Clemente VII, che allora regnava, sentiva più che veruno de' suoi predecessori la propria debolezza, la propria impotenza. Egli ne poteva incolpare in parte ciò ch'era stato fatto prima del suo pontificato, ed in parte i suoi proprj difetti. Le insensate prodigalità di Leon X avevano anticipatamente dissipate tutte le entrate della chiesa. Leone s'era valso de' suoi capitali e delle sue entrate come colui che non aveva nè famiglia, nè successori; non aveva pensato che al presente; erasi compiaciuto nell'accarezzare progetti giganteschi, senza tenersi i modi di eseguirli; ed era morto opportunamente nel momento in cui aveva terminato di consumare gli ultimi suoi mezzi.

Adriano VI non aveva, in tempo della sua breve amministrazione, arrecato verun riparo ai disordini del predecessore, e Clemente VII le cui province erano ruinate e il tesoro esausto, trovavasi in su le spalle una dispendiosa guerra. Cercò di apportare qualche rimedio a tanto disordine con una talvolta sordida economia, piuttosto che con una buona amministrazione. Non corresse gli abusi, non impedì i rubamenti, non soppresse i monopolj; ma sottrasse tutto il danaro destinato ai pubblici lavori, abolì le pensioni, ristrinse gli assegnamenti de' funzionarj dello stato, il numero de' soldati ed il loro soldo. Ridusse questo a così piccola cosa, che gli uomini d'armi non potevano alimentare i loro cavalli, erano ridotti a miserissimo stato, e tutti coloro che servivano il papa erano apparecchiati ad abbandonarlo tosto che loro si presenterebbe un altro padrone. Spesso quell'avarizia onde i sovrani vengono accusati dai loro cortigiani, forma la felicità de' popoli; ma quella di Clemente VII era la ripugnanza di un usurajo a privarsi di uno scudo, non il prudente calcolo di un padre di famiglia. I preti erano stati aggravati da insolite decime; erano state soppresse le mercedi de' professori delle arti liberali, e chiuse le borse de' collegj per i poveri scolari. Il prezzo del frumento e del pane era stato tre volte aumentato, non a motivo del cattivo raccolto, ma per accrescere i profitti della camera apostolica, che ne appaltava il monopolio. Erano state atterrate molte case sotto lo specioso pretesto di abbellire le strade di Roma; ma invece d'indennizzare i proprietarj di quelle, il papa gli aveva lasciati esposti all'insolenza, ai capricci, alle ruberie degl'ispettori di que' lavori[143].

Clemente VII era accusato come il solo autore de' patimenti del popolo, e non pertanto questi erano in gran parte dipendenti dalle prodigalità di Leon X; ma gli uomini non erano abbastanza giusti per risalire alle cause del disordine: benedivano la memoria di un papa che aveva goduto e fatto godere dissipando le pubbliche finanze, e detestavano il successore che voleva con poca accortezza riparare un male non fatto da lui. Pochi papi erano stati odiati tanto dal popolo quanto Clemente VII; egli fu tanto più severamente giudicato, che maggiori erano state le speranze che si erano concepite della bontà del suo governo. La sua prudenza, che gli aveva procurata l'universale considerazione, non parve in pratica che astuzia e raffinamento; e inutile gli si rese la sua conoscenza del mondo e degli affari, perchè mancavano al suo carattere decisione per appigliarsi ad una risoluzione, e fermezza per mantenerla.

La repubblica fiorentina, che altro più non era che una provincia sottomessa alla casa de' Medici, parve da principio affezionarsi al governo di Clemente VII, a cagione del vantaggioso confronto con quello di Lorenzo, duca d'Urbino, che lo aveva preceduto; ma bentosto i difetti di Clemente si erano renduti più sensibili, e le di lui buone qualità erano scomparse: la memoria dell'antica libertà, quella dell'amministrazione del Savonarola e di Pietro Soderini si andavano ravvivando nel cuore dei Fiorentini, ed i cittadini, senza poter prevedere gli avvenimenti, senza rendersi conto di ciò che desideravano, si andavano rallegrando di tutti gl'imbarazzi, di tutte le calamità che opprimevano il capo dello stato, sperando di vedere alla fine scossa la di lui autorità[144].

I Veneziani ed il papa deploravano egualmente la propria sventura d'avere affidate le loro speranze, e tutte le eventualità d'indipendenza per l'Italia, non ad una nazione, ma ad un uomo; di modo che la contraria fortuna di quest'individuo decideva della loro esistenza, e, sto per dire, di quella dell'Europa. Infatti non era stata battuta a Pavia la nazione francese, ma il re; se Francesco I non fosse caduto prigioniere, o se, venuto in mano ai nemici, non fosse stato risguardato come comprendente in sè solo tutto lo stato, la sconfitta di Pavia non avrebbe avuta cosa alcuna che la diversificasse da tant'altre battaglie guadagnate o perdute, nel corso de' trent'anni precedenti, senza che decidessero in verun modo della sorte degl'imperj. Era stata sconfitta un'armata di circa ventimila uomini, e la perdita, stando ai più alti calcoli, ammontava ad otto mila; ma questi, ad eccezione di mille, o mille dugento uomini d'armi, non erano Francesi; erano per lo più Svizzeri, Italiani o della Bassa Germania. Eransi perduti ricchi equipaggi, e bellissime artiglierie; ma la Francia non era in verun modo esausta, i suoi confini non erano violati, ed erano ovunque coperti dalle naturali loro fortificazioni o da quelle innalzate dall'arte.

Non vi può essere sicurezza per una monarchia militare, quando non vi si riconosca come principio fondamentale, che un re cessa d'essere re nell'istante che vien fatto prigioniere; che il suo potere passa legittimamente nelle mani del suo successore, e che il nemico non tiene in cattività un sovrano, ma soltanto un uomo di elevato rango, la di cui taglia non dev'essere mai pagata col sagrificio degl'interessi della nazione. Se Francesco I si fosse affrettato d'invocare questo principio; se avesse riconosciuto che la sovrana autorità risiedeva sempre in Francia, e non nella sua persona; se, assoggettandosi alla sua prigionia, non si fosse mostrato premuroso d'uscirne o di fare la pace; Carlo V in vista di questa non curanza sarebbesi fatto premura di trattare con lui, gli avrebbe accordate più vantaggiose condizioni, e Francesco, ricuperando forse più presto la sua libertà, sarebbe risalito sul trono senza dover poscia arrossire di aver violato i suoi giuramenti.

Non era dunque vero che tutto fosse perduto, salvo l'onore, come Francesco I scriveva a sua madre, Luigia di Savoja; il solo monarca era perduto, e la monarchia non era altrimenti in pericolo, che per risguardo di lui. I soldati che avevano ottenuta la vittoria di Pavia, sebbene arricchiti da un immenso bottino, non volevano rinunciare ai loro soldi arretrati; anzi li chiedevano più risolutamente che mai, protestando che non tornerebbero in campagna finchè non ricevessero tutti i loro arretrati. In quest'intervallo moltissimi di loro andavano ogni giorno disertando per depositare la loro preda in seno alle proprie famiglie; gli altri, consumando in continue feste e stravizj quanto avevano guadagnato, disprezzavano ogni militare disciplina. Giammai l'armata imperiale era stata meno subordinata ai suoi generali, giammai era stato più difficile di farla tener dietro ai vantaggi che di già aveva ottenuti. La guarnigione di Pavia erasi portata all'eccesso d'impadronirsi de' cannoni della piazza, di fortificarvisi, e di dichiarare che più non ubbidirebbe ai suoi ufficiali finchè non fosse pagata; il rimanente dell'armata pareva disposto a seguire quest'esempio, ed ogni giorno scoppiavano parziali ammutinamenti[145].

La penuria dell'imperatore, il quale possedeva la Spagna, i Paesi Bassi, l'America e gran parte dell'Italia, che inoltre disponeva a voglia sua delle forze e delle entrate di suo fratello, l'arciduca d'Austria, e degli stati dell'impero, è un fenomeno che non può spiegarsi che pei disordini della sua amministrazione. Senza dubbio tra le province suddite molte godevano grandi privilegj, e spesso gli ricusavano i tesori ch'egli dissipava con mano così prodiga. In tempo della spedizione di Francia, le cortes di Castiglia gli avevano rifiutata una sovvenzione straordinaria di quattrocento mila ducati, ch'egli aveva loro domandata; ma le ordinarie entrate de' paesi i più ricchi, i più industriosi dell'Europa, avrebbero dovuto bastare per sostenere le spese di una guerra trattata con così piccole armate, quali erano le sue. I re di Castiglia, di Arragona, di Granata, di Navarra, di Sicilia, di Napoli; i sovrani de' Paesi Bassi e quelli dell'Austria, avevano tutti in diverse circostanze mantenute armate egualmente numerose, e sostenute spese tanto considerabili quanto quelle ond'era caricato l'imperatore, sovrano di tutti questi diversi stati. Altronde fra questi stati molti non avevano costituzione, nè assemblea rappresentativa; ed il regno di Napoli e il ducato di Milano dovevano assoggettarsi a tutti i carichi che il vicerè o il duca Sforza loro imponevano per conto dell'imperatore; e così la maggior parte de' più piccoli stati, sebbene indipendenti di nome, non potevano rifiutarsi di pagare continue contribuzioni di guerra. Ma in tutte le province sulle quali stendevasi l'autorità di Carlo V, si vedeva stabilire un sistema distruttore di ogni economia politica. I monopolj si moltiplicavano, la giustizia era subordinata ad un'autorità arbitraria e capricciosa; il commercio vincolato, le proprietà incatenate dai fedecommessi, l'ozio risguardato come onorevole, l'industria come una macchia; e gli stati, poc'anzi più floridi, trovavansi in breve ridotti all'ultima miseria.

I generali imperiali sentivano l'impossibilità di condurre in Francia un'armata insubordinata; diedero quindi alla reggente ed a' suoi consiglieri tutto il tempo di provvedere alla difesa del regno, di cercare l'alleanza dell'Inghilterra, di assicurarsi degli Svizzeri, e di concertarsi cogli stati d'Italia; ma Francesco I non supponeva nè pure che si potesse resistere al nemico, dov'egli non si trovava; e dopo la sua prigionia egli risguardava la Francia come assolutamente perduta; di già internamente rinunciava a tutti i suoi progetti sull'Italia, e non riponeva le sue speranze di terminare la guerra che nella lealtà e nella generosità del suo vincitore. Perciò affrettossi di accordare al commendatore Pennalosa, che portava in Ispagna all'imperatore la relazione della battaglia di Pavia, un passaporto per attraversare la Francia, onde più sicuramente e più presto arrivasse a quella corte; lo stesso motivo gli fece in appresso dare orecchio alle proposizioni del signore di Lannoy, che voleva condurlo in Ispagna, promettendogli che al primo abboccarsi con Carlo V terminerebbero le sue pene[146].

L'armata che il duca d'Albanì aveva condotta verso il mezzogiorno dell'Italia, era tuttavia intatta, e non aveva passati i confini del regno, quando il duca ricevette, presso Velletri, la notizia della battaglia di Pavia e della prigionia del re. Risolse all'istante di ritirarsi verso Bracciano, onde porre la sua armata in luogo sicuro, ne' feudi, ed in mezzo alle fortezze degli Orsini affezionati alla Francia. Ma i Colonna, che apertamente si mostravano partigiani dell'imperatore, attaccarono un corpo di truppe italiane che andava a raggiugnere il duca d'Albanì in vicinanze delle Tre Fontane, a non molta distanza da Roma; lo inseguirono fino entro Roma, ed uccisero i soldati degli Orsini nel Campo di Fiore, facendo in tal modo sentire al papa quanto la sua autorità fosse poco rispettata, e come la sua stessa persona poteva, quando che fosse, facilmente cadere nelle mani dell'uno o dell'altro partito. Frattanto il duca d'Albanì continuò la sua ritirata verso Bracciano, senza provare altri danni, e la sua armata conservavasi sempre in istato di farsi temere[147].

In mezzo al turbamento che dava a Clemente VII il disastro di Francesco I, ed il sapere caduta in mano degl'imperiali nel campo francese la sua corrispondenza con quel re, la quale mostrava apertamente la sua parzialità per il medesimo[148], le minacce de' generali imperiali e le loro esorbitanti inchieste di sussidj per l'armata, finalmente l'audacia dei Colonna, il papa ripigliò un poco di coraggio quando i Veneziani, che sentivano egualmente i loro pericoli, gli proposero di collegarsi per la comune sicurezza; di farvi entrare il duca di Ferrara, i di cui stati facevano che quelli della chiesa comunicassero direttamente con quelli della repubblica; di prendere in comune al loro soldo dieci mila Svizzeri, e d'invitare la reggente di Francia ad aggiugnere alla loro armata il duca d'Albanì, e le quattrocento lance che il duca d'Alenson aveva ricondotte da Pavia. Gli rappresentavano i Veneziani, che i generali imperiali, non meno poveri che prima della battaglia, e sprovveduti d'artiglieria di munizioni e di carriaggi, non potevano essere gran fatto formidabili, se le potenze d'Italia si mettevano subito in situazione di opporre loro una valida resistenza; che se per lo contrario si dava loro tempo, i più deboli potentati farebbero la pace pagando contribuzioni, e somministrando col danaro italiano il mezzo di soggiogare l'Italia[149].

Ma mentre il papa dava orecchio a queste proposizioni, e che di già occupavasi di far entrare nella stessa lega il re d'Inghilterra, ch'egli conosceva geloso di Carlo V[150], Niccolò di Schomberg, suo segretario e consigliere, che aveva mandato in Ispagna, tornò presso di lui con proposizioni del vicerè di Napoli. I generali imperiali, che volevano cavare danaro da Clemente VII e da' Fiorentini, avevano poste le loro truppe ai quartieri d'inverno negli stati di Parma e di Piacenza, abbandonando que' vassalli della Chiesa a tutte le vessazioni d'una sfrenata soldatesca. Mentre che i deputati di Piacenza imploravano la protezione del papa, il vicerè offriva la sua alleanza e la garanzia dell'imperatore per la casa de' Medici contro una somma di danaro. Clemente VII, sempre irresoluto, sempre privo di vigore, accettò queste proposizioni che lo liberavano da una difficoltà presente, e sospendevano il pericolo. Il 1.º di aprile segnò in Roma, senza l'intervento de' Veneziani, un'alleanza tra l'imperatore ed il duca di Milano da una parte, e la Chiesa ed i Fiorentini dall'altra, per la quale i Fiorentini dovevano pagare cento mila ducati ai generali dell'imperatore, ed altrettanti il papa, ma quest'ultimo soltanto dopo che sarebbe rimesso in possesso di Reggio e di Rubbiera, che il duca di Ferrara aveva rioccupate in tempo dell'interregno[151].

Tostocchè il papa si fu ricomperato a prezzo d'oro, la predizione de' Veneziani si trovò giustificata. I generali imperiali, più non temendo gl'Italiani riuniti, pretesero da cadauno stato spaventose contribuzioni per pagare la loro armata. Domandarono cinquanta mila ducati al duca di Ferrara, quindici mila al marchese di Monferrato, dieci mila ai Lucchesi, quindici mila ai Sienesi, ma in cambio autorizzavano questi ultimi a scuotere la tirannide del monte de' Nove e della famiglia Petrucci: mentre ancora numeravasi il danaro, Girolamo Severini, uno de' capi del partito della libertà, ch'era stato mandato ambasciatore presso il vicerè, uccise Alessandro Bichi, capo dell'ordine de' Nove, che il papa aveva indicato per presiedere al governo[152]. Verso lo stesso tempo arrivarono per mano dei banchieri genovesi ai generali imperiali dugento mila ducati da lungo tempo promessi; e l'armata fu pagata, perchè tuttociò che mancava per saldare gli arretrati venne somministrato dal duca di Milano[153].

Tostocchè le truppe furono pagate, i generali imperiali cercarono di riandare i contratti, in forza de' quali avevano ottenuto il danaro. Riclamarono da' Fiorentini venticinque mila fiorini oltre i promessi. Invece di ritirare le loro guarnigioni dallo stato della Chiesa, spedirono altri soldati nel Piacentino per vivere a discrezione presso gli abitanti; avevano prese contraddittorie obbligazioni col papa e coi duchi di Ferrara e di Milano. Avevano promesso al primo la restituzione di Reggio e di Rubbiera, di cui avevano guarentito il possedimento al secondo; e dopo avere con quest'esca tratto Clemente VII ad alienarsi un principe, la cui alleanza poteva riuscirgli vantaggiosissima a motivo della posizione dei di lui stati, della di lui ricchezza e della di lui potente artiglieria, ricusarono poi di sagrificarglielo. Avevano pure promesso al papa, che in avvenire il ducato di Milano consumerebbe il sale delle saline di Cervia; ma in seguito ricusarono d'accordare questa specie di gabella nel ducato di Milano agli intraprenditori delle saline della Chiesa. Frattanto, dopo avere dichiarato che l'imperatore ricusava di approvare questi due articoli, non vollero restituire al papa il danaro che aveva loro pagato in corrispettivo di tali vantaggi[154].

Nè Carlo V mostravasi di migliore buona fede, nè dopo la vittoria mostravasi più moderato de' suoi generali. Vero è che nel primo istante in cui ricevette il 10 di marzo a Madrid la notizia della battaglia di Pavia ed una lettera scritta di proprio pugno da Francesco I, vietò con ipocrita umiltà di festeggiare un così straordinario avvenimento con tripudj e con fuochi di gioja, dichiarando che questi segni d'allegrezza dovevano riservarsi per le vittorie contro gl'infedeli. Nello stesso tempo aveva manifestato il suo ardente desiderio di ristabilire la pace nella Cristianità, ed aveva protestato, che ciò che più lo lusingava in questa vittoria accordatagli era la certezza di fare bentosto cessare lo spargimento del sangue cristiano[155].

Ma d'altra parte le proposizioni che Carlo V fece fare da Buren, signore di Roeux a Francesco I, mentre che questi era tuttavia tenuto in Pizzighettone, mostravano l'assoluta mancanza di generosità, di compassione o di moderazione pel suo rivale. Domandava non solo la rinuncia di tutte le pretese del re sull'Italia e su la Fiandra, ma inoltre la cessione della Borgogna alla casa d'Austria, e quella della Provenza e del Delfinato al duca di Borbone, per farne, coi feudi che di già aveva, un regno indipendente. Per quanto Francesco I fosse ansioso di uscire di prigionia, rispose di essere contento di rimanervi finchè vivesse, piuttosto che acconsentire allo smembramento della Francia[156].

In pari tempo Carlo V cessò di mostrare al cardinale di Wolsey i riguardi che gli aveva fin allora usati. E per tal modo si alienò quest'orgoglioso ecclesiastico, che non tardò ad accrescere in Enrico VIII una gelosia, che la grandezza di Carlo V aveva di già fatta nascere nel di lui animo. Dall'altro canto i generali imperiali insistevano presso i Veneziani per avere da loro cento mila ducati in compenso de' sussidj cui si erano obbligati per la difesa del ducato di Milano, e che non avevano pagati nella precedente guerra. I Veneziani ne avevano offerti ottanta mila; ma perchè l'offerta loro non fu accettata, ed ebbero più sicuri indizj del malcontento del re d'Inghilterra, si troncò la negoziazione, e le due parti rimasero in libertà[157].

Quando il duca d'Albanì conobbe il trattato di Clemente VII coll'imperatore, giudicò inutile il trattenersi più lungamente negli stati della Chiesa. Coll'assenso del vicerè si fece prestare le galere del papa, e vi si imbarcò per passare in Francia con Renzo di Ceri, coll'artiglieria che si era fatta dare da' Sienesi e dai Lucchesi, con quattrocento cavalli, mille Landsknecht e pochi Italiani, essendosi sbandato il restante della sua armata[158]. Ma nello stesso tempo erasi pure indebolita assai l'armata del marchese di Pescara. A misura che questi aveva pagati i Landsknecht, gli aveva quasi tutti licenziati; e perchè in Italia più non aveva nemici da combattere, e non si sentiva abbastanza forte per tentare un'invasione in Francia, aveva voluto sollevare il tesoro imperiale da uno, quanto esorbitante, altrettanto inutile dispendio[159].

Frattanto tutta l'Italia fermentava; l'armata imperiale sì sbandava, e forse avvicinavasi l'istante in cui un vigoroso sforzo de' partigiani della Francia poteva mettere Francesco I in libertà. Ma il vicerè di Napoli, signore di Lannoi, che aveva saputo acquistarsi la confidenza di Francesco, voleva approfittarne per condurlo in Ispagna, sperando di attribuirsi in tal maniera l'onore principale della vittoria di Pavia. Fece sentire al re che le esorbitanti condizioni presentategli da Adriano di Buren erano state concertate per accontentare il contestabile di Borbone; ma che se Francesco poteva direttamente trattare coll'Imperatore lontano dal suo proprio suddito ribelle, troverebbe in Carlo quella stessa generosità, ch'egli medesimo avrebbegli mostrata, se Carlo si fosse trovato nella presente sua condizione. Accrebbe così il di lui desiderio d'avere un abboccamento coll'imperatore, e lo persuase a tenere il progetto affatto segreto. Il Lannoi ottenne il consentimento de' suoi due colleghi, perchè Francesco I fosse tradotto a Napoli; e a questo fine Francesco medesimo somministrò sei galere francesi per trasportarvelo. Il 7 di giugno Lannoi s'imbarcò col re a Porto Fino presso di Genova, ed otto giorni dopo lo sbarcò a Roses sulle coste della Catalogna, senza che il contestabile di Borbone ed il marchese di Pescara avessero nemmeno sospettato che si volesse sottrarre alla loro dipendenza il prigioniere, che agli occhi stessi dell'armata era il pegno delle sperate ricompense[160].

Quando gli stati d'Italia seppero che Francesco I era stato condotto in Ispagna, e che aveva egli stesso desiderato di andarvi, ben conobbero che nuovi pericoli minacciavano la loro indipendenza. Il re di Francia, con tanta premura di recarsi presso il suo rivale, mostrava l'estremo suo desiderio di trattare con lui. Bentosto si seppe quali condizioni aveva fatte proporre a Carlo V dal signore di Buren. Offriva di sposare la regina di Portogallo, sorella dell'imperatore, accontentandosi per dote de' diritti che Carlo V poteva avere sopra la Borgogna. Voleva in contraccambio dare la propria sua sorella, la duchessa d'Alenson, a Carlo, e con questa tutti i suoi diritti sul regno di Napoli e sul ducato di Milano. Dicevasi apparecchiato a pagare al re d'Inghilterra enormi somme per farlo rinunciare alle proprie pretese, ed a Carlo, per sua taglia, la stessa somma che aveva pagata il re Giovanni prigioniere degl'Inglesi; finalmente offriva di far accompagnare l'imperatore da una flotta e da una possente armata francese, allorchè questi andrebbe a Roma a prendere la corona dell'impero; ciò che in altri termini tornava lo stesso che promettergli d'ajutarlo ad assicurarsi la sovranità d'Italia[161].

Non eravi un solo principe in Italia, il quale, dopo avere provata l'insolenza e le vessazioni de' ministri imperiali, potesse contemplare senza terrore il giogo sotto cui stava per cadere la comune patria. Giunto era l'istante di fare un estremo sforzo per l'indipendenza italiana, che più non potrebbesi salvare quando i due monarchi avessero riunite a di lei danno le loro forze. Ma prima che il re di Francia avesse trattato, pareva facil cosa il far sentire a lui, alla reggente, ed ai principi che con lei governavano, che tornava meglio impiegare tutti i tesori del regno per liberare il re colla forza delle armi, di concerto con tutti gli stati d'Italia, gli Svizzeri ed il re d'Inghilterra, che prodigare quei medesimi tesori a titolo di taglia al più costante nemico della Francia, e somministrargli così i mezzi d'incatenarli tutti quanti. Il papa e la repubblica di Venezia, a nome di tutti gli stati italiani, invitarono adunque la reggente a mostrare fermezza ai negoziatori di Carlo V, ed a rifiutare ogni vergognosa condizione, accertandola che in breve l'unione di tutta l'Europa basterebbe forse, senza venire all'esperimento delle armi, per costringere Carlo V a porre il di lui figlio in libertà, purchè dal canto suo ella volesse riconoscere e garantire la libertà dell'Italia[162].

Effettivamente non era la libertà dei soli stati che dicevansi tuttavia indipendenti, ma quella di tutta l'Italia che i ministri di Clemente VII, di concerto col senato di Venezia, lusingavansi di far riconoscere. Tutta l'Italia abborriva egualmente il giogo di coloro che chiamava barbari; tutta l'Italia sentivasi oramai legata da un medesimo interesse, e pareva disposta a fare unanimi sforzi per la propria indipendenza. Francesco II Sforza, a nome del quale era stato conquistato il ducato di Milano, non aveva altro raccolto dal sovrano potere che il triste privilegio d'ascoltare il primo le lagnanze de' suoi popoli, al quali egli non poteva in verun modo apportare rimedio. Gli sgraziati Lombardi, abbandonati a tutta la licenza militare, dovevano a vicenda pagare enormi contribuzioni, e ricevere a discrezione nelle proprie case i soldati spagnuoli, il di cui carattere avaro, dissimulato, orgoglioso, era loro in particolar modo antipatico. Ricorrevano al loro duca, di cui avevano così ardentemente desiderato il ritorno; ma questi, ben lungi dall'esercitare l'autorità di un sovrano, era il primo schiavo de' ministri e de' generali dell'imperatore[163].

Sapeva Francesco Sforza che l'imperatore, non abbastanza pago di averlo ridotto al rango di semplice governatore di provincia, aveva più volte posto in deliberazione, se non dovesse levargli il ducato di Milano per farne un dono a suo fratello, l'arciduca Ferdinando d'Austria, il quale desiderava di unire questo stato ai suoi possedimenti di Germania. Sapeva che questo progetto era senza dubbio in cagione dell'affettata dilazione che apportavasi nella corte di Madrid alla spedizione dell'investitura del suo ducato; e perchè trovavasi di già infermiccio, e non aveva figliuoli, sembrava che, se l'imperatore permettevagli di regnare, egli era soltanto perchè sperava di raccogliere in breve, dopo la sua morte, l'eredità. Quindi tosto che il duca di Milano ed il suo confidente e principale ministro, il cancelliere Moroni, si furono assicurati che la reggente rinuncierebbe a nome di suo figliuolo alle sue pretese sulla Lombardia, che riconoscerebbe la casa Sforza, e si obbligherebbe a mantenerla nella sua sovranità, il duca entrò nella lega italiana, ed il suo cancelliere ne diventò uno dei più caldi promotori[164].

Infatti fu Girolamo Moroni che s'incaricò di una difficile e dilicata negoziazione, che doveva guadagnare alla lega italiana un possente difensore. Egli era stato testimonio dell'indignazione con cui il contestabile di Borbone ed il marchese di Pescara avevano ricevuta la notizia della soperchieria di Lannoi; egli conosceva la loro gelosia verso questo favorito ministro di Carlo V, e gli aveva uditi accusare con impeto il loro padrone d'ingratitudine e d'ingiustizia. Il Borbone si era affrettato di andare in Ispagna per contrastare al vicerè il merito della vittoria, che pareva volersi attribuire[165], ed il Pescara era rimasto solo in Italia, incaricato del supremo comando. Sebbene avesse questi adottati i costumi ed i pregiudizj spagnuoli, che quasi sempre parlasse castigliano, e si dolesse frequentemente di non essere nato in Castiglia, il Pescara era Italiano. La sua famiglia, quella degli d'Avalos, erasi stabilita nel regno di Napoli da quasi un secolo; perciò il Moroni suppose che avesse conservati i sentimenti d'un Italiano, il desiderio di vedere la sua patria indipendente, e che tale desiderio si risveglierebbe in lui, se al risentimento, che di già provava, vi si aggiugnesse un'offerta così luminosa da superare d'assai tutte le sue più ambiziose speranze[166].

Il Moroni, dopo avere incoraggiato il Pescara ad esalare tutta la sua indignazione contro l'imperatore, gli fece travedere che non dipendeva che da lui di dare compimento al voto, da tanto tempo formato da tutta l'Italia, di cacciare tutti i barbari dalla penisola; e che, in ricompensa della sua cooperazione, il papa ed i Veneziani erano pronti ad unirsi per porre sul suo capo la corona di Napoli. Il Pescara era violentemente irritato, smisurata era la sua ambizione, il suo carattere artificioso e non facilmente accessibile agli scrupoli: egli accolse con ardore le proposizioni del Moroni, o perchè si abbandonasse alla speranza che gli si presentava, o perchè avesse di già in animo di farsi un merito presso l'imperatore col tradire i suoi socj. Chiese schiarimenti intorno alla trama in cui volevasi farlo entrare, ed il Moroni, con una confidenza contro la quale Giovan Matteo Ghiberti, datario apostolico, l'aveva invano posto in guardia, comunicò al Pescara tutti i progetti de' congiurati[167].

L'armata imperiale, che occupava la Lombardia, era pochissimo numerosa; tutti i Tedeschi erano stati licenziati; degli Spagnuoli molti si erano dispersi per porre in luogo sicuro la preda fatta nell'ultima campagna; altri avevano seguito in Ispagna il vicerè, ed altri vi avevano accompagnato il contestabile di Borbone. Altre truppe non restavano in Italia che quelle d'infanteria spagnuola comandate da Antonio di Leiva, e pochi fanti italiani. Il marchese di Pescara, supremo comandante dell'armata imperiale, poteva facilmente acquartierarla, in modo che riuscisse facile il sorprendere separatamente tutti que' soldati di cui crederebbe di non potersi fidare, e disarmarli o disfarsi di loro. Quando avrebbe esclusi così gli stranieri dalla penisola, dovevano bastare le forze d'Italia per chiuder loro per sempre le porte: pure non si sarebbero adoperate queste sole, perchè la Francia e l'Inghilterra si dichiaravano garanti della di lei indipendenza, e la Svizzera aveva promessi i suoi soldati per difenderla[168].

A questi progetti il Pescara oppose alcuni scrupoli, mostrandosi desideroso di vederli dissipati. Come feudatario del regno di Napoli, riconosceva, diss'egli, che il papa era il supremo suo signore, e che l'imperatore non era che il suo signore diretto; tuttavolta bramava d'essere assicurato dall'autorità de' canonisti e de' giureconsulti, se gli ordini di chi aveva la suprema signoria bastavano a dispensarlo dall'ubbidienza al signore diretto; e se il papa lo poteva sciogliere da un giuramento militare, come da un ordinario giuramento di vassallaggio; per ultimo se il suo onore sarebbe in salvo, ed in riposo la sua coscienza, quando avesse preso parte alla trama che gli veniva proposta contro il suo padrone. Per avere tali schiarimenti spedì a Roma il genovese Domenico Sauli, uno de' più caldi partigiani dell'indipendenza italiana, incaricandolo di abboccarsi col papa e col suo datario. La corte di Roma sapeva con quanta facilità poteva dissipare gli scrupoli del Pescara; ma stava ancora dubbiosa sul conto della di lui buona fede; onde gli mandò il romano Menteboni, uno de' confidenti del Datario, per iscandagliarlo ancora, mentre il cardinale Accolti ed il giureconsulto Angelo Cesi scrivevano a nome del papa dei trattati per tranquillizzare la coscienza del generale[169].

Nello stesso tempo gli agenti della corte di Roma lavoravano in ogni parte per dare esecuzione ad un progetto così bene concertato. Enrico VIII, re d'Inghilterra, aveva fatte a Carlo V le più esorbitanti domande dopo la battaglia di Pavia: egli ne voleva per sè quasi tutti i frutti, e chiedeva che gli si dessero la maggior parte delle province di quella Francia di cui i suoi predecessori, dopo Enrico V, chiamavansi re. Queste esagerate domande non si facevano da Enrico VIII, che per ottenere un rifiuto dall'imperatore, e aver così un pretesto di corrucciarsi con lui[170]. In fatti egli aveva di già accolte le proposizioni della corte di Roma, che voleva ravvicinarlo alla Francia, e renderlo favorevole alla indipendenza italiana; egli era entrato ne' progetti comunicatigli da Girolamo Ghinucci, auditore apostolico, e nunzio alla sua corte: aveva mandato a Roma il vescovo di Bath ed il cavaliere di Casale, per trattare col papa; onde i confederati tenevansi sicuri del di lui appoggio[171].

Il vescovo di Veruli, Ennio Filonardo, nunzio del papa nella Svizzera, fino dall'undici giugno, ma più apertamente il primo di luglio, fu incaricato di scandagliare la dieta elvetica, ed ogni cantone in particolare intorno all'universale desiderio degl'Italiani di armarsi per la propria indipendenza; di far sentire agli Svizzeri in quale pericolo si troverebbero essi medesimi, se la casa d'Austria, venendo a stabilirsi in Lombardia, circondasse quasi da ogni lato i loro confini; di esortarli a non perdere l'occasione di riparare il loro onore militare, crudelmente compromesso dalla cattiva condotta delle loro truppe nelle quattro ultime campagne; finalmente di porsi in istato, di potere, quando ne avrebbe l'ordine, far entrare otto o dieci mila Svizzeri in Lombardia, col patto di portarsi, ove il bisogno lo richiedesse, anche nel regno di Napoli[172].

Finalmente Luigia di Savoja, reggente di Francia, fece dichiarare a Venezia, il 24 di giugno, per bocca di Lorenzo Toscano, suo inviato segreto, che riconosceva Francesco Sforza come duca di Milano; che somministrerebbe all'Italia possenti ajuti, ove questa si determinasse a scuotere il giogo; e che pagherebbe agli alleati, come sussidio, quaranta mila scudi al mese fin che durerebbe la guerra. A fine di proseguire queste negoziazioni, ella mandò ambasciatore a Venezia il conte Luigi di Canossa, vescovo di Bayeux, uno de' più destri diplomatici fra gl'Italiani ch'erano allora ai servigj della Francia, e presso la santa sede, Alberto Pio, conte di Carpi, fratello del conte di Canossa. Nè l'uno nè l'altro di questi negoziatori erano muniti di pieni poteri onde conchiudere, e per più settimane minuziose difficoltà impedirono la soscrizione degli articoli convenuti. Sigismondo Sanzio, segretario del conte di Carpi, fu spedito in poste a Parigi con tutti i trattati, onde farli approvare dalla corte; ma Sanzio venne assassinato da alcuni ladri, mentre, attraversando il territorio di Brescia, si dirigeva per la Svizzera alla volta della Francia. Non ricevendo da lui nessuna notizia, la corte di Roma credette alcun tempo che gli Spagnuoli, fattolo arrestare, non si fossero impadroniti di tutta la sua corrispondenza, e ne fu altamente atterrita; ciò per altro non era la sola causa de' suoi timori. Il Ghiberti temeva molto più ancora di essere tradito dalla reggente; rincrescevagli oltremodo che le fosse stato confidato il segreto della cooperazione del Pescara, e pensava che questa madre, impaziente di ridonare la libertà a suo figliuolo, facilmente potrebbe minacciare gli Spagnuoli di una insurrezione generale dell'Italia, far loro conoscere quanto vicino fosse il momento dell'esplosione, ed ottenere da loro, in vista di cotale imminente pericolo, che suo figliuolo, il quale era già apparecchiato di far loro grandissimi sagrifizj, venisse riposto in libertà sotto moderate condizioni[173].

Sembra cosa fuori di dubbio che questo timore del Ghiberti si verificasse. La duchessa d'Alenson, sorella di Francesco I erasi recata in Ispagna per negoziare un trattato di pace, una delle cui basi doveva essere il suo proprio matrimonio con Carlo V, e quello di Francesco I con Eleonora di Portogallo. È probabilissimo che a fine di meglio riuscire, la duchessa non temette di compromettere il segreto delle potenze italiane; almeno seppesi in Roma, verso la metà di settembre, che Carlo V aveva avuto avviso delle offerte fatte al marchese di Pescara, come pure di tutte le particolarità della negoziazione intavolata colla Francia. La corte di Roma sospettava successivamente tutti i suoi alleati, e tutti forse potevano a buon diritto esserle sospetti: aveva sentito a dire che il Moroni ed il Pescara non aveano mostrato d'entrare nella cospirazione, se non per mettere a prova i principi italiani; ma la corte di Roma comprendeva assai bene che il Pescara, onde conservarsi la confidenza dell'imperatore, e condurre a buon fine i suoi progetti, era stato egli medesimo costretto di dare alla sua corte quegli avvisi, che altri pure nel medesimo tempo le davano; e finchè tali avvisi erano confusi, finchè non erano seguiti da niuna misura di precauzione, si potevano assai bene conciliare colla condotta d'un cospiratore. La condotta tenuta dalla Francia era molto più sospetta; e il datario, in parecchie lettere dirette al vescovo di Bayeux, ne manifestò vivissimo risentimento[174].

Egli è impossibile di sapere se il Pescara siasi da principio impegnato di buona fede nella cospirazione italiana, oppure se, come lo asserì poscia egli medesimo, non vi entrasse che per isvelarla all'imperatore. Diversi avvenimenti, occorsi durante la negoziazione, furono causa forse che cangiasse divisamento; egli prese gran parte all'agitazione cagionata dalla repentina sparizione di Sigismondo Sanzio, e potè credere alcun tempo che le sue carte fossero venute alle mani di Antonio de Leiva; ebbe contezza dell'andata della duchessa d'Alenson a Madrid, e dei progetti della Francia: oltre a ciò fu avvisato forse delle prime rivelazioni fatte dalla duchessa, ed approfittò, per passare dalle parti di cospiratore a quelle di spia, delle confuse e mal certe informazioni, che, per sua propria sicurezza, aveva di già date all'imperatore. Finalmente circa alla medesima epoca Francesco Sforza infermò gravemente; e nel mentre che gli stati italiani chiedevano alla Francia di riporre in libertà Massimiliano, fratello di Francesco, e di assicurargli il possedimento del ducato di Milano, che voleano guarentire alla casa Sforza, il Pescara si lusingò forse d'ottenere egli medesimo dall'imperatore, in guiderdone di un eminente servigio, questa sovranità, che la morte allora toglieva al presente possessore. Egli è certo almeno che giunse a tanta bassezza, di eccitare alla ribellione, per poscia tradirli, coloro stessi che offrivano d'esporre gli averi e la persona per servirlo. Dopo avere comunicato all'imperatore, per mezzo del suo segretario Giovanbattista Castaldi, il segreto della congiura, egli continuò le sue conferenze col Moroni, coi ministri del papa e de' Veneziani, onde impegnare ciascuno de' socj a compromettersi separatamente[175].

Francesco II Sforza ricevette frattanto, nel mese d'agosto, l'investitura del ducato di Milano, spedita da Carlo V; ma vincolata ad onerosissime condizioni. Egli doveva versare nel primo anno cento mila ducati alla camera imperiale, ed obbligarsi a pagarne altri cinquecento mila a termini più lontani; oltre a che doveva costringere d'ora innanzi tutto il Milanese a provvedersi di sale alle saline dell'arciduca Ferdinando d'Austria, e ciò era un abbandonare a questo principe straniero la gabella più importante degli stati di Milano[176]. Francesco Sforza accettò questa investitura, e oltre alle somme enormi ch'egli aveva già consegnate ai generali imperiali, pagò ancora cinquanta mila ducati a conto di quella che gli era recentemente domandata; ma la sua malattia, che peggiorò molto in breve tempo, e manifestavasi con sintomi tali che davano assai da temere, ritardò tutte le misure degli alleati. Alla morte di Francesco Sforza, la quale era da tutti creduta imminente, il di lui feudo doveva cadere all'imperatore. Il Pescara mostrò ai congiurati, che, in vista di cotale avvenimento, egli non si potea dispensare dal raccorre le guarnigioni spagnuole sparse in Lombardia, e dal chiamarvi inoltre due mila landsknecht; per cui era forza d'abbandonare il pensiero di opprimere a un tratto l'armata imperiale. Il Moroni, cui erasi cercato di rendere sospetto il Pescara, aveva fino allora risposto, ch'egli sarebbe stato sempre padrone di arrestarlo nel castello di Milano con tutti i capitani imperiali, ove quel generale avesse voluto abbandonare la causa italiana[177].

Un altro avvenimento ancora teneva sospesi i congiurati; seppesi bentosto che Francesco I, cruciato oltremodo di non avere potuto nel corso di due mesi ottenere un abboccamento con Carlo V, era caduto gravemente ammalato nel castello di Madrid, e pareva, anche a dire dei medici, non dovere ormai vivere che pochi giorni. La di lui morte avrebbe privato a un tratto Carlo V di tutti i vantaggi ch'egli avea creduto ritrarre dalla battaglia di Pavia; perciò l'imperatore, temendo per la vita del suo prigioniero, erasi affrettato di visitarlo, aveagli dato le più lusinghiere speranze, e s'era mostrato vicinissimo a riconciliarsi con lui. Da un momento all'altro un trattato di pace poteva essere sottoscritto fra questi due monarchi, e desso avrebbe rotte tutte le precauzioni della lega, ponendo, per quanto era da supporsi, l'Italia nell'assoluta dipendenza dell'imperatore[178].

Ma i due ammalati, della vita de' quali omai disperavano tutti, risanarono; ed il Pescara fu assalito dalla malattia che dovea prima di due mesi strascinarlo al sepolcro. Egli però non volle aspettare più tardi a levarsi la maschera dal volto; la sua lentezza e la sua apparente irresoluzione aveano di già inquietato non poco gli alleati italiani[179]. Dal canto loro gli ufficiali spagnuoli s'erano accorti delle pratiche che si andavano maneggiando intorno a loro; e Antonio di Leyva aveva pubblicamente minacciato di fare uccidere il Moroni, che i suoi compatriotti odiavano a morte[180].

Il 14 d'ottobre, il marchese di Pescara, che sentivasi già oppresso da grave malattia, invitò il cancelliere Moroni a venirlo a trovare nel castello di Novara, dove risiedeva. Il Moroni, tenuto da tutti pel più astuto, pel più diffidente, pel più doppio degli Italiani, non istimava il marchese, ed avealo più volte rappresentato come il più perfido e crudele fra gli uomini: diceva che qualora avesse dovuto arrestarlo, avrebbe approfittato dell'istante in cui questo generale visitava il duca ammalato nel castello di Milano; pure si lasciò prendere egli medesimo in simigliante insidia. Venne al marchese, che giaceva ammalato nel castello di Novara; entrò di bel nuovo in tutte le particolarità del suo progetto per disperdere i soldati spagnuoli, sorprenderli, svaligiarli o assassinarli. Il Pescara, che lo interpellava, aveva fatto nascondere Antonio di Leyva dietro una tappezzeria, onde potesse udire la loro conversazione. Quando il Moroni uscì dalla stanza, fu arrestato e condotto nel castello di Pavia, ove si recò in breve anche il Pescara per interrogarlo come giudice intorno ad una cospirazione, nella quale era fino allora egli medesimo entrato come complice[181].

Il Pescara, coll'arrestare il Moroni e col cominciare con pubblicità il di lui processo, aveva soprattutto in vista di compromettere il duca di Milano, e di somministrare occasione all'imperatore di dichiararlo scaduto dal suo feudo. Egli aveva di già guarnigione in Lodi ed in Pavia; ma, onde porre in sicurezza l'armata ch'egli comandava, chiese ancora al duca la consegna di Cremona, di Trezzo, di Lecco e di Pizzighettone. Il duca, gravemente ammalato, e che aveva perduto col suo grande cancelliere Moroni il più fermo appoggio del suo carattere, e tutta la prudenza del suo consiglio, cedette senza resistenza. Il Pescara, dopo essersi fatte consegnare queste piazze, dimandò ancora che gli fosse data in mano la fortezza di Cremona, e che il duca, al quale concedeva per abitazione la fortezza di Milano, non gl'impedisse di circondare la medesima con opportuni trinceramenti, e di cominciare tutte le fortificazioni necessarie a metterlo in grado di eseguire senza ritardo gli ordini che riceverebbe dall'imperatore. Francesco Sforza ricusò queste nuove domande, e non volle nè anche dare in consegna al Pescara nè il suo proprio segretario, Giannangelo Ricci, nè Poliziano, segretario del Moroni. Non aveva avuto tempo di raccorre se non che pochi viveri nel castello di Milano; nulla meno vi si rinchiuse coraggiosamente con ottocento fanti scelti, e quando gli Spagnuoli cominciarono ad aprire le trincee per assediarlo, fece fuoco sopra i lavoratori[182].

L'occupazione del ducato di Milano sbigottì tutti i consiglj delle potenze d'Italia; le pratiche loro col Moroni erano palesi, ed esponevanli a tutta la vendetta dell'imperatore, nel tempo ch'essi non erano ancora apparecchiati a fargli la guerra. A quest'epoca il protonotaro Caraccioli, ambasciatore di Carlo V a Venezia, offriva di accettare, sotto condizione che la repubblica rientrasse nell'alleanza imperiale, gli ottanta mila ducati che il senato erasi mostrato disposto di pagare in compenso di que' sussidj che la repubblica medesima avrebbe dovuto somministrare nell'ultima guerra. Ma per grande che fosse il pericolo in cui trovavasi la repubblica di Venezia, ella non si potè risolvere a fabbricarsi in tal modo da se stessa le proprie catene, e il senato ricusò di sottoscrivere, infino a tanto che il ducato di Milano sarebbe occupato dagl'Imperiali; conciossiachè, soggiugneva esso, era appunto per impedire la riunione di questo ducato agli stati di un altro sovrano, già padrone del regno di Napoli, che s'era impegnato per trent'anni continui in tante guerre diverse. La malattia del Pescara, che andava peggiorando ogni giorno, impedì che le ostilità tenessero dietro a questo rifiuto[183].

Nel medesimo tempo due uomini che aveano macchiati coi tradimenti i più rari talenti e un carattere che non era privo di nobile grandezza, conobbero a prova che il favore dei principi non è sufficiente risarcimento alla perdita della pubblica stima sagrificata per compiacer loro. Il contestabile di Borbone era giunto a Toledo il 14 novembre presso all'imperatore. Egli era stato accolto da lui colle maggiori dimostrazioni di stima e d'amicizia, ed onorato siccome quegli che doveva sposare la sorella del monarca ed ascendere un giorno sul trono; ma quanto erano grandi e molte le carezze che Carlo V prodigavagli, altrettanto era umiliante il dispregio in cui i nobili castigliani mostravano di tenerlo. Quest'uomo, che aveva venduto agli stranieri il proprio suo re e la sua patria, non pareva loro potere con nessuna virtù con niuno servigio cancellare cotanta infamia; e quando Carlo V dimandò al marchese di Villena che volesse prestare il suo palazzo al contestabile, questi rispose che non poteva ricusar nulla al suo sovrano, ma che, appena partito il Borbone, egli incendierebbe colle sue proprie mani il palazzo, siccome quello che sarebbe stato infamato dalla presenza di un traditore[184].

Dall'altro canto il Pescara, che, per conciliarsi più sicuramente il favore di Carlo V, erasi avvilito a ciò che v'ha di più abjetto nella condotta d'una spia, a corrompere egli medesimo coloro che voleva denunciare, era divenuto bersaglio dell'orrore e del disprezzo di tutti gl'Italiani che aveva traditi. Nato nel casato catalano d'Avalos, già venuto nel regno di Napoli e domiciliatovisi con Alfonso I, egli aveva cominciato i suoi primi fatti d'armi alla battaglia di Ravenna, nella quale era stato fatto prigioniero. D'allora in poi erasi trovato presente a tutte le guerre d'Italia, e benchè non oltrepassasse i trentasei anni, aveva acquistata grandissima esperienza; erasi distinto col suo ingegno inventore, la sua attività, il suo coraggio, i suoi stratagemmi; avea saputo rendersi caro all'infanteria spagnuola, cui comandò lungo tempo, e soleva dire che gli rincresceva di non essere nato piuttosto in Ispagna che in Italia. In quell'epoca medesima egli era oppresso da una malattia che non aveva diligentemente curata, e morì in Milano il 30 di novembre, nel mentre che Vittoria Colonna, sua moglie, celebre nella letteratura, era partita in tutta fretta da Napoli per venirlo ad assistere, e non aveva ancora oltrepassato Viterbo[185].

La morte del Pescara accrebbe il coraggio de' Veneziani, e di tutti coloro che in Italia volevano assicurare coll'armi la propria indipendenza: supponevano che l'armata imperiale fosse tanto più indebolita da una perdita così grande, che il contestabile di Borbone e il vicerè Lannoy erano assenti entrambi; perciò sollecitavano il papa di sottoscrivere, mentre Francesco Sforza era ancora padrone del castello di Milano, una lega necessaria per salvare l'Italia dall'assoluta schiavitù che la minacciava. La reggente di Francia prometteva di sovvenir loro cinquecento lance francesi e quaranta mila ducati al mese, i quali bastavano ad assoldare diecimila Svizzeri; e nel medesimo tempo doveva cominciare la guerra sulle frontiere della Spagna per impedire a Carlo V di mandare soccorsi in Italia. Enrico VIII, che verso il finire di agosto aveva sottoscritta colla reggente un'alleanza difensiva, e che aveavi messa per condizione ch'ella non abbandonerebbe nessuna provincia del regno per riscattare suo figliuolo, facevasi mallevadore delle promesse cui si obbligava il governo francese. Il papa e i Veneziani, de' quali il primo trattava anche a nome de' Fiorentini, ed i secondi a nome anche del duca di Ferrara, dovevano somministrare a spese comuni mille ottocento uomini d'armi, due mila cavaleggieri e venti mila fanti; la flotta veneziana, unita alla francese, doveva attaccare contemporaneamente Genova o il regno di Napoli[186].

Ma un progetto così difficile e così pericoloso da eseguirsi avrebbe incusso timore anche ad un uomo di carattere più fermo e deciso, che non lo era Clemente VII. Questi, dacchè era salito sul trono, avea delusa l'aspettazione di tutti coloro che credevano conoscerlo; e dava allora a divedere che se l'amministrazione sua era stata gloriosa durante il regno di suo cugino Leon X, ciò doveasi attribuire molto più alla fermezza e risoluzione di Leone, che all'abilità sua nel servirlo. Sempre indeciso, e pronto a disdirsi, sbigottito sempre dagli ostacoli quando s'appigliava ad una risoluzione, e dimenticandosi allora di tutti quelli per cui aveva abbandonata la risoluzione contraria, egli fluttuava sempre fra partiti estremi, lasciava passare il momento d'agire, e quand'era poi costretto a decidersi, ora si abbandonava da disperato a ciò che riguardava come una fatalità, ora cedeva alle sollecitazioni dei suoi ministri, senza essere per altro persuaso di quelle ragioni che per avventura gli allegavano. Questa irrisoluzione veniva accresciuta ancora dalla scissione manifestatasi nel suo più intimo consiglio. Erano confidenti di Clemente VII frate Nicola di Schomberg, dominicano tedesco, creato dal papa arcivescovo di Capoa, e Giovan Matteo Ghiberti, che occupava la carica di datario apostolico; Clemente operava il più delle volte dietro i consiglj di costoro. Ma il Schomberg aveva abbracciato con zelo il partito dell'imperatore; e il Ghiberti, quantunque riponendo poca fiducia nella Francia, ed amaramente lagnandosi del difetto di discrezione e di fede di questa corte, voleva unirsi a lei per difendere l'indipendenza italiana; costoro non temevano di dare la maggiore pubblicità alle loro contese, e le loro alternative vittorie scemavano il credito del papa. Questi erasi finalmente risolto a sottoscrivere la lega proposta; tutti gli articoli erano già convenuti, ed era pure giunto il giorno fissato alla conclusione, quando sentendo egli arrivato a Genova il commendatore Errera con muove proposizioni dell'imperatore, sospese ogni cosa per sentirle[187].

Questi articoli erano tali da lusingare Clemente, e ciò s'era procurato a bella posta per distorlo da un'alleanza che Carlo V temeva. Gli si promettevano la restituzione di Reggio e Rubbiera, il mantenimento di Francesco Sforza nel ducato di Milano, ed ove questi morisse senza eredi, la cessione del ducato medesimo al contestabile di Borbone, che Clemente VII aveva imprudentemente proposto egli stesso, sebbene poscia si fosse di leggieri avveduto che questo ducato non sarebbe meno dipendente dall'imperatore, qualora venisse tra le mani del Borbone, di quello che lo sarebbe se governato fosse da un vicerè; ma presto si potè conoscere che questa proposizione artificiosa era un'insidia tesa al papa. Benchè Carlo V avesse avuto avviso già da due giorni dell'arresto del Moroni e della spogliazione del duca di Milano, egli però non ne faceva alcun cenno negli articoli che presentava, onde aver campo di potere dichiarare in seguito, che tali avvenimenti, venuti posteriormente alla sua saputa, cambiavano lo stato degli affari, e che il prevaricamento del duca di Milano, dovendo essere dietro le leggi imperiali punito almeno colla morte civile, lasciava aperta la successione del duca, e piena libertà all'imperatore d'investirne immediatamente il duca di Borbone[188].

Gli ambasciatori imperiali promettevano di far correggere quest'ommissione, e stipulare la guarenzia del ducato di Milano in que' termini stessi che il papa vorrebbe dettare; ma chiedevano due mesi di tempo per ricevere risposta dalla Spagna, e volevano che fino a quell'epoca Clemente VII non s'impegnasse in nessun modo coi loro nemici. Il papa comprese di leggieri non esser altro cotale dimanda se non che un'astuzia diretta a guadagnar tempo; ma dimostrò a' suoi consiglieri che poteva accordare senza nulla perdere il termine richiesto. Egli giudicava con molta accortezza che un trattato, da lui sottoscritto prima che il re di Francia fosse posto in libertà, non sarebbe che uno spauracchio di cui la reggente approfitterebbe per ottenere dall'imperatore la libertà di suo figliuolo, e ch'ella porrebbe sempre fra le sue prime offerte l'abbandono de' suoi nuovi alleati d'Italia. Ma s'egli invece lasciava che la reggente trattasse come potrebbe coll'imperatore, non eravi quasi più dubbio che le condizioni di questi non fossero intollerabili, e non fossero in conseguenza quasi immediatamente violate. Dall'abuso della vittoria doveva necessariamente nascere una nuova guerra; e tornava assai più conto agl'Italiani trattare con Francesco impaziente di vendicarsi, anzi che con Francesco mercanteggiante ancora per la propria libertà[189].

Tale era lo stato delle negoziazioni al principio del 1526. Carlo V poteva a sua scelta o, trattando con moderazione Francesco I, obbligarselo coi benefizj, e lasciandogli la Francia intatta, persuaderlo ad abbandonare l'Italia alle armi imperiali; o al contrario, accontentando gli stati italiani, tranquillandoli intorno ai suoi progetti di monarchia universale, e sciogliendo così la loro lega, ed assicurandosi dell'amicizia loro, spingere poscia i suoi vantaggi contro la corona di Francia e spogliarla di alcune province. Ognuno di questi progetti era suggerito ed appoggiato da alcuno de' consiglieri di Carlo: ma egli, che per più capi somigliava al suo avo Massimiliano, che, siccome usava quest'ultimo, non misurava giammai i suoi progetti colle sue forze, e dimenticavasi che il denaro gli veniva meno quasi sempre nel primo mese di ogni campagna, s'appigliò egli solo a un terzo partito più gigantesco degli altri due: ciò era di stendere contemporaneamente il suo scettro sull'Italia e sulla Francia, di assicurarsi del ducato di Milano, di ridurre all'ubbidienza il papa e i Veneziani, chiusi entrambi allora nei suoi stati, e di strappare nel medesimo tempo di mano a Francesco I alcuna delle migliori province del di lui regno[190].

Formato cotale divisamento, l'imperatore, a malgrado dell'opposizione costante del suo gran cancelliere Mercurio Gattinara, dettò al suo prigioniero il trattato di Madrid, che fu sottoscritto il 14 di gennajo del 1526. Il re, impaziente della sua cattività, e riguardandosi a cagione della violenza che gli si faceva, sciolto da quegli impegni cui si obbligava, acconsentì a quasi tutto ciò che gli venne dimandato. Abbandonò all'imperatore il ducato di Borgogna, il contado di Charolois, le signorie di Noyers e di Castel-Chinone, il viscontado d'Ausonna e la terra di san Lorenzo; rinunciò alla signoria della Francia sui contadi di Fiandra e d'Artois; s'obbligò pure a rendere al duca di Borbone, e a tutti i ribelli che lo avevano seguito, le loro terre, i loro feudi e le signorie loro. Nel mentre ch'egli sagrificava in questo modo diritti così importanti della corona di Francia, abbandonava anche i suoi alleati alla cupidigia dell'imperatore. Prometteva di ridurre Enrico d'Albretto, fatto ancor egli prigioniere alla battaglia di Pavia, ma sottrattosi poscia alla cattività in grazia dell'ardimento del suo paggio, a rinunciare al nome e alle armi di re di Navarra; cedeva all'imperatore tutte le sue pretese sul regno di Napoli, il ducato di Milano, Genova ed Asti, e prometteva di somministrargli truppe di terra e di mare, che l'accompagnassero in Italia, quando andrebbe a pigliare la corona imperiale; con che esprimeva chiaramente che lo ajuterebbe a soggiogare il papa, i Veneziani, i Fiorentini, i duchi di Milano e di Ferrara, nuovi alleati del re, che soli potevano, colla resistenza che avessero per avventura voluto opporre, far nascere il bisogno di un'armata imperiale in Italia all'istante dell'incoronazione. A guarenzia di questo trattato Francesco I doveva sposare Eleonora, regina di Portogallo, sorella dell'imperatore, e il Delfino sposare Maria, figliuola di Carlo V. Ad onta però di questa unione delle due famiglie, il re dovea consegnare come ostaggi all'imperatore due de' suoi figliuoli, onde assicurare l'osservazione del trattato, che egli medesimo oltre a ciò era tenuto di ratificare, tostocchè sarebbe libero, nella prima città del suo regno[191].

A tali condizioni Francesco I fu rilasciato in cambio de' suoi due figliuoli, il giorno 18 marzo 1526, in una barca legata nel mezzo del fiume Andaye, il quale divide Fontarabia da Bajonna. L'Italia, consapevole delle clausole e dell'esecuzione di questo trattato, stette tutta tremante in aspettazione delle prime operazioni del re di Francia, onde vedere se egli aveva in animo di osservare le sue promesse, e di condannarla così a perpetua schiavitù[192].

CAPITOLO CXVII.

Lega degl'Italiani per difendere la loro indipendenza. Sono abbandonati dalla Francia, e mal serviti dal duca d'Urbino; crudeltà degl'Imperiali in Lombardia. Clemente VII sorpreso nel Vaticano dai Colonna è forzato di acconsentire ad una tregua, che poi viene da lui violata.

1526. L'Italia mai non erasi mostrata tanto disposta ad armarsi per la propria indipendenza come nell'istante in cui le fu noto il trattato di Madrid. L'espulsione dei barbari era il voto di tutti gli stati, di tutte le province, di tutte le condizioni: e di questo nome di barbari, che gl'Italiani davano allora ad una voce agli oltremontani, non eransi giammai in altri tempi renduti più meritevoli tutti i popoli che guastarono la bella Italia ne' trent'anni che precedettero quest'epoca. La civiltà aveva, a dir vero, fatti progressi nelle corti e nelle capitali dei principi oltremontani; ma la barbarie regnava tuttavia tra la generalità dei popoli, ed in particolare nelle armate. Giammai tanta cupidigia, tanta crudeltà, tanta perfidia non eransi a gara mostrate dalle diverse nazioni. Giammai le città non erano state più frequentemente e più inumanamente saccheggiate; giammai i contadini ridotti a tale eccesso di disperazione. Dall'una all'altra estremità d'Italia, ogni provincia aveva più d'una volta sperimentata l'asprezza de' comandanti stranieri, l'insolenza e la rapacità dei soldati. La Sicilia, la di cui antica costituzione non veniva più rispettata, dacchè il suo monarca regnava sopra la metà dell'Europa, era così insofferente del giogo spagnuolo, che il timore de' supplicj non bastava a frenare i cospiratori, tenuti ubbidienti soltanto dalla continua forza che gli opprimeva. Il regno di Napoli, dopo avere lungo tempo sofferto il giogo francese, era ridotto a desiderarlo, dacchè i soldati spagnuoli, accantonati senza paga nelle loro campagne, rifacevansi sugl'infelici contadini delle ruberie dei tesorieri reali; dacchè i vicerè opprimevano il commercio coi monopolj, moltiplicavano gli asili accordati ai facinorosi, e non si prendevano verun pensiero della giustizia. Lo stato della Chiesa, ruinato dall'inquieto carattere di tre pontefici che si erano succeduti con eguale ambizione, piagneva tuttavia le perfidie di Alessandro VI, quando Giulio II e Leon X vi chiamarono nuovi sciami di stranieri. La lunga guerra di Pisa aveva lasciata nella desolazione metà della Toscana; e nel sacco di Prato quest'industriosa contrada aveva imparato a conoscere l'avarizia e la crudeltà degli Spagnuoli. In tutta l'estensione degli stati veneziani non si trovava un piccolo distretto che non avesse avuto triste esperimento della brutalità de' Tedeschi, e che nelle guerre eccitate dalla lega di Cambrai non fosse stato più volte saccheggiato. Genova era stata di fresco abbandonata al sacco degli Spagnuoli dal marchese di Pescara. Gli stati di Ferrara, che sì lungo tempo aveano tentata l'ambizione di Giulio II e di Leone X, erano stati irrigati di sangue, e quelli di Mantova esposti ai medesimi guasti. Più sventurata di tutte le altre province, la Lombardia non aveva mai cessato d'essere il teatro della guerra dopo la prima spedizione di Carlo VIII; presa più volte e ripresa dai Francesi, dagli Spagnuoli, dai Tedeschi, dagli Svizzeri, non sapeva quale di questi barbari popoli dovesse più abborrire. Il Piemonte ed il Monferrato, senz'essere in guerra per proprio conto, n'erano ogni anno il teatro, e gli sventurati loro abitanti venivano puniti da un partito per essere stati esposti alle violenze di un altro. In questo universale stato di patimenti, di cui nulla presagiva il fine, gl'Italiani, poichè non potevano sperar pace, invocavano almeno una guerra nazionale, una guerra nella quale combattessero e soffrissero per la loro libertà, per la loro indipendenza, per un governo scelto da loro, e non per passare dalle mani di un padrone che detestavano a quelle di un altro egualmente abborrito.

Le circostanze presenti non sembravano meno favorevoli alla liberazione dell'Italia di quel che lo fosse questa generale disposizione degli spiriti. Lo spogliamento di Francesco Sforza aveva disvelata l'insaziabile ambizione di Carlo V e corrucciati tutti i sudditi di questo sventurato principe, allora assediato nel castello di Milano; e non ve n'era un solo che non si credesse chiamato ad impugnare le armi per difendere un sovrano riconosciuto da tutta l'Europa, ed in favore del quale erano stati conchiusi tanti trattati. In fatti universale era il fermento e le insurrezioni anche in Milano giornaliere, mentre l'armata dell'imperatore, indebolita dalle diserzioni, mancante di munizioni, mal pagata, e per le continue sue vessazioni diventata l'oggetto dell'odio universale, lungi dal poter resistere ad un attacco straniero, non sembrava pure in istato di potersi sostenere contro gli abitanti del paese.

Di quest'epoca Carlo V aveva sposata Isabella di Portogallo, che gli aveva recata in dote la prodigiosa somma di novecento mila ducati; vale a dire quanto abbisognava per mantenere un anno un'armata di venti mila uomini di milizia svizzera, che di tutte era la più dispendiosa; ma tale era il disordine delle finanze dell'imperatore, che anche in tale circostanza aveva trovata la maniera di essere senza danaro. La ribellione dei contadini che aveva cominciato nella Svevia, e che minacciava tutto l'impero, aveva acceso il fuoco nella Germania. La Spagna non si era per anco riavuta dall'ultima sua guerra civile, nè ancora mostravasi prontamente ed interamente ubbidiente al monarca. L'Ungheria, che ne' due precedenti secoli aveva presa tanta parte nelle cose dell'Italia, più non poteva abbadarvi, essendo costretta a sostenere sola, per la difesa della Cristianità, il terribile peso della guerra de' Turchi; ed il giovane Lodovico II, re d'Ungheria e di Boemia, diede il 29 di agosto di questo stesso anno la fatale battaglia di Mohacz, in cui perì colla maggior parte della sua nobiltà, porgendo così occasione a Ferdinando, fratello di Carlo V, di raccogliere quelle due corone, ma nello stesso tempo richiamando tutta la sua attenzione verso i confini de' Turchi[193]. Gli altri, potentati posti in guardia dall'ambizione di Carlo V, vedendolo nello stesso tempo minacciare col trattato di Madrid l'Italia e la Francia, desideravano che gl'Italiani si rendessero indipendenti, ed erano disposti a soccorrerli. Il re di Francia rinunciava a' suoi pretesi diritti sul Milanese e sul regno di Napoli; ed il re d'Inghilterra eccitava il papa a farsi capo di una lega, che assicurasse colla libertà del suo paese quella dell'Europa.

Ma perchè un paese possa liberarsi dal giogo degli stranieri, d'uopo è che i suoi popoli si accostumino alla milizia, e che i suoi capi non manchino di risolutezza: e queste due qualità mancavano agl'Italiani. La fanteria comune levata nel paese era universalmente riconosciuta inferiore alla tedesca, alla spagnuola, alla svizzera. Non è perciò che non si fossero veduti particolari corpi, formati da buoni capitani, uguagliare in valore le migliori truppe d'Europa: Federico da Bozzolo, Renzo di Ceri e Giovanni de' Medici, avevano dato alle loro bande italiane una riputazione confessata da tutte le nazioni; ma la maggior parte de' fanti, assoldati mensilmente e licenziati alla fine d'ogni campagna non potevano pareggiarsi a quelle truppe scelte. Altronde il carattere de' soldati non indicava quello della massa del popolo. Le persone di mala vita, i vagabondi, gli assassini, erano quasi i soli che si lasciassero persuadere ad entrare nelle armate; i contadini non avevano veruna abitudine al servizio, ed i borghesi erano ancora più timidi. Quasi in ogni luogo i sudditi dello stato erano disarmati; e se qualche governo aveva avuto la saviezza d'arrolare e d'esercitare le sue milizie, mancando lo spirito militare nei capi, non poteva diffondersi nella massa del popolo. Per tal modo l'ordinanza de' Fiorentini, ch'era forse la milizia d'Italia e la meglio organizzata, era diventata un continuo oggetto di ridicolo a cagione della sua viltà.

Ma più che il coraggio militare alle truppe, mancava il coraggio di spirito ai governi. Quello che in addietro animava i consiglj della repubblica fiorentina, più non trovavasi in veruna parte d'Italia. I Veneziani erano famosi per conto della loro prudenza, ma il loro sistema riducevasi a salvare il presente a spese dell'avvenire, a sottrarsi con destrezza alle difficoltà, e ad aspettare soccorso dal tempo. Dopo avere lungo tempo fatta buona prova, doveva all'ultimo necessariamente produrre disastri. Clemente VII, la di cui profonda politica era stata lungamente ammirata quando era consigliere di Leon X, e quando credevasi ch'egli avesse tutto calcolato e tutto preveduto, mancava essenzialmente di risoluzione. Nè egli sapeva prendere opportunamente un partito, nè sostenerlo con costanza; scioccamente sagrificava per avarizia i suoi mezzi di difesa; e quand'erasi in tal modo dato in mano de' nemici, era solito d'entrare per pusillanimità in impegni contrarj ai suoi interessi.

Non pertanto i Veneziani ed il papa erano le sole potenze che ancora conservassero in Italia il sentimento della loro indipendenza; e loro toccava il dirigere l'ultimo sforzo a pro della libertà italiana. Essi lo sentivano, e non abbandonarono i progetti formati in tempo della cattività di Francesco I; e quando lo seppero tornato ne' suoi stati, si affrettarono di spedire a Parigi i loro ambasciatori sotto colore di felicitarlo, ma in sostanza per iscandagliare le sue disposizioni, dissuaderlo dall'osservanza del trattato di Madrid, e piuttosto consigliarlo ad entrare con loro in una lega, che porrebbe limiti all'ambizione ed alle usurpazioni dell'imperatore[194].

Gli ambasciatori del papa e di Venezia non tardarono a conoscere le disposizioni del re. Lagnavasi egli altamente della violenza che gli si era fatta per costringerlo a sottoscrivere il trattato di Madrid, e dell'estrema durezza usata a suo riguardo. Andava replicando che il giuramento a cui era stato astretto, era meno valido assai e meno solenne che non quello della sua consacrazione, col quale erasi obbligato verso i suoi sudditi a non ismembrare la Francia. Sua madre e sua sorella, madama d'Alenson, le di cui negoziazioni in Ispagna erano tornate vane, professavano i medesimi principj. I grandi, non meno che il popolo, sembravano impazienti di lavare l'affronto ricevuto dal loro re; ed in pari tempo i ministri francesi si affrettavano di dichiarare agli ambasciatori italiani, che, rinunciando oramai ad un'ambizione ch'era riuscita fatale alla Francia, essi più non muovevano pretese nè sopra Milano, nè sopra Napoli, e soltanto desideravano che quelle province non ingrandissero i possedimenti d'un monarca rivale, ma che l'Italia tutta fosse libera e scuotesse ogni giogo straniero[195].

Queste assicurazioni sembravano proprie ad affrettare la conclusione della lega italiana, che, secondo i desiderj di Francesco I, trattavasi in Francia, affinchè gli ambasciatori inglesi vi potessero più facilmente intervenire: ma coloro che meglio penetravano nell'animo del re avrebbero potuto avvedersi che il suo coraggio, la confidenza nella propria fortuna e la sua ambizione erano stati domati dalla sventura: che oramai non desiderava che la pace; che si affretterebbe di ricuperare a qualunque altissimo prezzo i figliuoli dati in ostaggio; e che, quando Carlo V non gli chiedesse lo smembramento della Francia, e rinunciasse a privarlo della Borgogna, Francesco dal canto suo non farebbe difficoltà di sagrificare l'indipendenza d'Italia; di modo che quando stringeva gl'Italiani ad associarsi a lui, non facevalo che per potere trattare egli stesso poscia con maggior suo vantaggio, e vendere a più caro prezzo l'abbandono de' suoi alleati[196].

Francesco I aveva adunati a Cognacco i principi ed i notabili del regno; gli aveva consultati intorno al trattato che aveva sottoscritto, e ricevuta la loro dichiarazione, ch'egli non aveva il diritto di alienare la Borgogna. Gli stati di questa provincia avevano protestato contro la loro separazione dal regno; e Francesco, da che trovavasi in libertà, avea rifiutato al signore di Lannoi, vicerè di Napoli, che l'aveva seguito, di ratificare il trattato di Madrid. Poco dopo questo rifiuto, il 22 di maggio del 1526, sottoscrisse un trattato d'alleanza con Clemente VII, i Veneziani e Francesco Sforza, il quale trattato, per essere il papa capo della confederazione, fu chiamato la santa lega[197].

Lo scopo di questa lega era quello di far mettere in libertà i figli di Francesco I contro il pagamento di una taglia; di far restituire il ducato di Milano a Francesco Sforza, e la contea d'Asti colla sovranità abituale di Genova al re di Francia. Se Carlo V ricusava queste condizioni, i confederati, per costringerlo ad accettarle, obbligavansi ad unire in Italia a spese comuni un'armata di due mila cinquecento uomini d'armi, tre mila cavaleggieri e trenta mila fanti, mentre due armate francesi penetrerebbero, una in Lombardia e l'altra in Ispagna. Nello stesso tempo i confederati dovevano attaccare il regno di Napoli con una flotta di ventotto galere veneziane e pontificie. Dopo averne cacciati gli Spagnuoli, il papa doveva disporre di questo regno a favore di un principe italiano, il quale pagherebbe al re di Francia, in tacitazione de' suoi diritti, un annuo canone di settantacinque mila fiorini[198].

I confederati sentivano la necessità di non perdere tempo a far avanzare le loro truppe in soccorso dell'infelice duca di Milano, che, assediato nel castello della sua capitale, aveva dichiarato di non avere vittovaglie per tutto il mese di giugno[199]. Le violenze esercitate in Milano dalle truppe spagnuole vi avevano eccitata una sollevazione; ma sebbene il duca ne approfittasse per fare una sortita, non aveva trovati apparecchiati nè soccorsi, nè munizioni, ed era stato forzato a rientrare nel castello senza avere ottenuto verun vantaggio. Dal canto suo il popolaccio si era trattenuto a saccheggiare la corte vecchia in cui risiedeva il tribunale criminale, e dato così tempo agli Spagnuoli di porsi sulle difese. Non pertanto Antonio di Leiva, che li comandava di concerto con Alfonso d'Avalos, marchese del Guasto, e cugino del Pescara, conoscendo il pericolo della sua situazione, promise ai Milanesi per calmarli, che farebbe uscire di città tutte le truppe strettamente non necessarie all'assedio del castello[200]. Intanto altri Spagnuoli taglieggiavano gli stati di Parma e di Piacenza, e la stessa autorità del pontefice veniva o disprezzata o attaccata dagli agenti dell'imperatore[201].

In fatti il papa ed i Veneziani si affrettarono, anche prima che si conchiudesse la lega, di porsi in istato di agire. Il duca d'Urbino, generale dei Veneziani, si avanzò sull'Adda con tutti i suoi uomini d'armi, e sei mila fanti italiani; Guido Rangoni, generale del papa, si portò dal canto suo fino a Piacenza con altri sei mila fanti. Per rendere più formidabili queste due armate, sentivasi il bisogno di unirvi gli Svizzeri. L'istante era giunto di strignere le negoziazioni intavolate già da un anno coi cantoni dal vescovo di Veruli; ma gli si era così strettamente ordinato di non prendere verun positivo impegno, di non lasciar penetrare il segreto, di non compromettere il papa, che non potè far marciare gli Svizzeri colla desiderata prestezza. Gian Giacomo de' Medici, Milanese, che veniva contraddistinto col titolo di castellano di Musso, dal nome di un castello di cui si era impadronito in vicinanza de' Grigioni[202], e che cominciava a farsi nome colle armi e cogl'intrighi, promise al papa di assoldare sei mila Svizzeri ad un mezzo ducato l'uno d'arrolamento: Ottaviano Sforza, vescovo di Lodi, che pretendeva pure di avere grandissimo credito presso i cantoni, promise di levarne un egual numero pei Veneziani: ed i confederati si riposarono sulle promesse di questi raggiratori, cui affidarono il loro danaro in principio di giugno, raccomandando loro estrema diligenza[203].

Ma in questo tempo il re di Francia era entrato in nuove negoziazioni con Carlo V, cui aveva offerti due milioni di scudi d'oro per la taglia de' suoi figliuoli, purchè a tale prezzo potesse conservare la Borgogna; minacciandolo in pari tempo colla lega che si stava formando contro di lui. Per guadagnare tempo intanto coi confederati, ricusava di sottoscrivere il trattato di Cognacco, finchè non avesse ricevute le ratifiche del papa e dei Veneziani; e con tale pretesto non pagava i quaranta mila scudi promessi ogni mese per levare gli Svizzeri, nè faceva avanzare le sue truppe[204].

Gli alleati italiani avevano ordinato di cominciare le ostilità; mandavano ogni giorno rinforzi all'armata; Vitello Vitelli era giunto a quella del papa colle truppe fiorentine; vi si era recato ancora Giovanni de' Medici, dichiarato capitano della fanteria italiana, mentre che lo storico Guicciardini era stato nominato luogotenente del papa in tutti gli stati della Chiesa, ed era partito da Roma il giorno 7 di giugno per recarsi all'armata con una quasi illimitata autorità[205].

Ma in mezzo agli apparecchj di guerra si continuavano le negoziazioni. Ugo di Moncade, che vantavasi d'essersi formato alla scuola di Cesare Borgia, era stato mandato da Carlo V prima al re di Francia, poi a Milano, indi a Roma, per cercare di sciogliere la lega, e per trattare separatamente o cogl'Italiani, o coi Francesi. Il Moncade aveva rifiutati i due milioni offerti dal re in cambio della Borgogna. Aveva date buone speranze al duca di Milano; ma giudicando che questi non potrebbe lungamente difendersi, non aveva voluto far sospendere l'assedio del castello. Giunto presso Clemente VII, gli aveva press'a poco offerto tutto ciò che poteva desiderare per l'Italia, a condizione che egli ed i Veneziani rinuncierebbero al trattato col re di Francia. Clemente per onore e per politica aveva risposto che oramai vi si era obbligato, e che più accettare non poteva condizioni, che in addietro aveva inutilmente domandate all'imperatore. Tutto adunque disponevasi per la guerra, ed i capitani imperiali, che si trovavano in Milano con pochissime truppe, in mezzo ad una popolazione ridotta a disperazione dai loro cattivi trattamenti, e tra nemici più forti, risguardavano omai come pericolosissima la loro situazione[206].

Ma sgraziatamente per l'Italia e pel riposo d'Europa i Veneziani avevano affidato il comando della loro armata a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino; e siccome il rango di questo generale era di lunga mano superiore a quello del conte Guido Rangoni, comandante delle truppe pontificie, il primo dirigeva solo tutte le operazioni degli alleati. Non mancavano al duca d'Urbino talenti militari, nè fors'anco valore personale; ma prendendo per suo modello Prospero Colonna, egli ne aveva esagerato il metodo. Egli riduceva tutta la tattica militare a prendere inattaccabili posizioni, schivando sempre di venire a battaglia, per quanto le sue forze fossero più numerose di quelle del nemico: veruna circostanza sembravagli tanto stringente da determinarlo ad un'ardita azione, ed ostinandosi a non volere arrischiar nulla, giugneva alla certezza di perdere ogni cosa. Egli dichiarò che non si avvicinerebbe ai nemici finchè non sarebbero arrivati alla sua armata gli Svizzeri che gli erano stati promessi.

Ma questi mai non arrivavano: i due negoziatori, che dovevano arrolarli, non godevano presso quella nazione di tutta l'opinione che avevano millantata; altronde un'inopportuna economia non aveva lasciato che il papa vi pensasse a tempo. Gian Giacopo de' Medici ad altro quasi non pensava che a svolgere in suo profitto una parte del danaro che gli era stata affidata per quest'oggetto, e Vespasiano Sforza, vescovo di Lodi, uomo prosontuoso, che aveva menato tanto rumore intorno alle sue aderenze cogli Svizzeri, era loro appena noto[207]. Antonio di Leiva ed il marchese del Guasto, conoscendo che sarebbero attaccati tostocchè arriverebbero gli Svizzeri, vollero in prevenzione assicurarsi dei Milanesi, comprimerli col terrore, e rompere il trattato ch'essi avevano conchiuso con loro. Avevano segretamente fatti entrare nuovi Spagnuoli in città, cui avevano fatto occupare i luoghi più forti: contemporaneamente tutta l'armata ebbe ordine d'avanzare; ed in allora, desiderando che si eccitasse una sollevazione, fecero, per avere un pretesto di punire il popolo, uccidere in faccia sua il 17 di giugno un borghese che aveva ommesso di salutarli, ed immediatamente dopo tre di lui amici, che essi avevano veduti compiangere la di lui sorte. Come lo previdero, il popolo diede subito mano alle armi: ma le loro genti distribuite nelle case provvedute di feritoje, e ne' luoghi forti che signoreggiavano le principali strade, fecero subito fuoco addosso alla moltitudine. Moltissimi Milanesi caddero uccisi senza quasi poter danneggiare i nemici. Però la zuffa mantenevasi ancora, quando si sparse la notizia che il rimanente dell'armata si trovava già presso alle porte; onde i Milanesi si dispersero vinti da subito spavento. D'altra parte il Leiva non voleva abbandonare al saccheggio la capitale della Lombardia, che destinava ad essere più lentamente, più crudelmente, più regolarmente spogliata. Si fece una nuova convenzione col popolo, il quale acconsentì a lasciarsi disarmare, ed all'esilio di tutti i suoi capitani della milizia e di tutti suoi magistrati[208].

Le violenze degl'imperiali non si ristringevano alla sola Milano, ma si rinnovavano in tutte le città, in tutte le borgate della Lombardia, ed ovunque eccitavano il medesimo risentimento. Fabrizio Maramaldo, ufficiale calabrese, era stato posto a Lodi da Antonio di Leiva con settecento fanti italiani al soldo dell'imperatore, ai quali si permetteva la più sfrenata licenza. Lodovico Vistarini, gentiluomo lodigiano, che pure serviva nell'armata imperiale, non potendo più lungamente sostenere quest'oppressione della sua patria, nella notte del 24 di giugno sorprese una piccola torre sopra un bastione di questa città, ove stavano soltanto sei uomini di guardia, che furono da lui uccisi. Padrone d'una pusterla, prima che niuno fosse ancora informato della sua intrapresa, uscì di città per andare incontro al duca d'Urbino, che aveva prevenuto del suo disegno. Malatesta Baglioni entrò prima degli altri in Lodi per questa pusterla con tre in quattro mila fanti veneziani, ed il duca d'Urbino lo seguì poche ore dopo. Maramaldo, sorpreso, ritirossi non pertanto in buon ordine nella fortezza, ove venne bentosto da Milano a raggiugnerlo con tre mila Spagnuoli il marchese del Guasto; ma dopo un sanguinoso combattimento gl'imperiali non avendo potuto ricuperare la città, risolvettero altresì di evacuare la fortezza, e ricondussero tutte le loro truppe a Milano[209].

La conquista di Lodi poteva essere per la lega della più grande importanza; con ciò si assicurava il passaggio dell'Adda, era tolto ogni ostacolo all'unione dell'armata pontificia con quella di Venezia, e rotta la comunicazione tra Milano e Cremona, sicchè niente più impediva all'armata degli alleati di portarsi fin sotto le mura di Milano, dove il popolo invocava un liberatore, e dove lo sventurato Sforza, assediato nel castello, avendo consumate tutte le munizioni, sforzavasi non pertanto di tenersi fino all'arrivo degli alleati. Non contansi più di venti miglia da Lodi a Milano, ed altrettante da Lodi a Pavia: di modo che, essendo minacciata ancora questa seconda città, gl'imperiali, per difenderla, dovevano dividere le loro forze. L'armata alleata aveva più di venti mila fanti, una buona artiglieria, uomini d'armi e cavaleggieri in grosso numero, mentre che gl'imperiali non avevano che tre mila tedeschi, pochissimi cavalli, pochissime vittovaglie, ed erano affatto senza danaro[210].

Ma il duca d'Urbino, alla sua esagerata prudenza e ad una soverchia diffidenza delle truppe italiane, aggiugneva un segreto desiderio di vedere umiliato Clemente VII con tutta quella famiglia de' Medici, la di cui nimicizia gli era stata tanto funesta. Egli non volle mai piegarsi alle calde istanze che Francesco Guicciardini ed i capitani della Chiesa, che lo avevano raggiunto il 26 di giugno, gli facevano, di marciare rapidamente sopra Milano. Sarebbe un'imperdonabile imprudenza, egli loro diceva, il venire a battaglia cogl'imperiali prima d'avere ricevuti i soccorsi degli Svizzeri; e tutto quanto acconsentì di fare per compiacerli, fu di accostarsi lentamente a Milano facendo tre o quattro miglia un giorno e consumando l'altro nel campo per dar tempo agli Svizzeri di arrivarlo. Infatti il 6 di luglio giunse al suo campo a san Martino, lontano tre miglia da Milano, un corpo avanzato di cinquecento Svizzeri; ma le sue lentezze avevano dato tempo al duca di Borbone di arrivare da Genova a Milano con circa ottocento fanti spagnuoli, e cento mila scudi che recava di Spagna per pagare le truppe[211].

Malgrado questo rinforzo, estremamente pericolosa era la situazione dell'armata imperiale in Milano. Con meno truppe assai de' nemici, doveva continuare l'assedio del castello, contenere il popolo, in ogni luogo disposto a ribellarsi, e difendere o il troppo vasto ricinto de' sobborghi, o, abbandonandoli, quello della città che presentava infinite difficoltà. Per ciò i capitani della lega non dubitavano che l'armata imperiale non si ritirasse innanzi a loro. Lo stesso duca d'Urbino ebbe un giorno la stessa credenza, ed il 7 di luglio fece avanzare la sua armata fino ad un tiro di fucile, e fece tirare alcune cannonate contro le porte; ma scoraggiato nel trovare qualche resistenza, fece in principio di sera chiamare i capitani della Chiesa, e loro dichiarando d'avere ordinato alle truppe veneziane di ritirarsi, li consigliò di fare lo stesso se volevano evitare una sconfitta. I comandanti delle truppe della Chiesa, ed in particolare il Guicciardini, vivamente pregarono il duca a rivocare quest'ordine, non sapendo essi ravvisare verun pericolo nella loro posizione; ma il duca trattava il Guicciardini con affettato disprezzo, siccome uomo forense che non poteva comprendere le operazioni militari. Egli fu inflessibile, e la precipitosa ritirata della sua armata, nel cuore della notte, ebbe quasi un'apparenza di fuga; e se può darsi fede alle notizie che ricevette la corte di Roma, quando il duca d'Urbino prese così pusillanime risoluzione, i generali imperiali avevano di già ordinato d'abbandonare Milano[212].

Lo stesso giorno di questa vergognosa ritirata, l'otto di luglio, era stato prescelto dagli alleati per pubblicare solennemente la loro confederazione a Roma, a Venezia ed in tutta la Francia. E la notizia di questa ritirata, che tenne subito dietro a quella dell'alleanza, fu dal popolo risguardata come un cattivo augurio per la continuazione della guerra[213].

Pareva infatti che confermasse l'espressione proverbiale degl'Italiani, che le armi de' Veneziani e quelle della Chiesa non tagliavano. La diffidenza, che è cagione della ruina di quasi tutte le leghe, cominciava di già a manifestarsi in questa. Il re di Francia non aveva ancora fatto nulla, preferendo d'appoggiarsi piuttosto agli sforzi de' suoi confederati che ai proprj; e si appigliava a dispute di parole intorno agli articoli del trattato, onde protrarre la sua cooperazione. Pareva che il duca d'Urbino si fosse proposto soltanto di compromettere il papa, senza esporre l'armata veneziana da lui comandata; e Clemente VII, che lasciavasi ributtare da ogni difficoltà, spaventare da ogni pericolo e da ogni spesa, cominciava di già a lagnarsi amaramente d'essere entrato in questa guerra. Una piccola guarnigione spagnuola, che occupava Carpi, arrestava i corrieri nello stato di Parma e di Piacenza, e faceva poco sicuro quel paese. I Colonna ne' loro castelli, il duca di Sessa ed Ugo di Moncade ai confini del regno di Napoli minacciavano Roma e lo stato della Chiesa, e di già il danaro che il papa avrebbe dovuto apparecchiare per una lunga guerra, mancava nelle prime mosse delle armate[214].

Ma il dolore che la ritirata dell'armata cagionò a tutti i confederati non era in verun modo paragonabile a quello che provarono gli sventurati abitanti di Milano. Antonio di Leiva ed il marchese del Guasto li credevano abbastanza avviliti per non dover più nulla temere da loro, e se avevano ancora avuto qualche riguardo, qualche ombra di disciplina o di giustizia, vi rinunciarono affatto dopo quest'epoca. Essi non ricevevano danaro per pagare la truppa, e conoscevano abbastanza Carlo V per sapere che non dovevano da lui sperarne; ma Milano poteva ancora lungamente mantenere la loro armata, dacchè si arrogavano il diritto di disporre di tutte le ricchezze che aveva la città. Dopo avere diligentemente disarmati gli abitanti, di già ridotti a piccolo numero dall'ultima peste e dalla continua emigrazione, essi acquartierarono i loro soldati in ogni casa, obbligando gli abitanti a somministrar loro non solo i più dilicati cibi, ma tutto ciò che sapevano desiderare, o tutto il danaro che chiedevano per soddisfare ai loro desiderj. Tutte le botteghe erano chiuse, tutte le officine senza lavoratori, vuoti tutti i magazzini. I proprietarj avevano procurato di nascondere le loro merci, ma i soldati frugando in ogni luogo, sotto pretesto di cercar armi, prendevano a discrezione tutto quanto trovavano. Le donne ed i fanciulli erano sempre esposti alla loro libidine; e quando uno Spagnuolo aveva tutto consumato, e più non trovava cosa che gli convenisse nella casa del suo ospite, lo forzava con prolungati tormenti a provvedere nuovamente a' suoi bisogni. Molti di loro tenevano il principale della casa sotto custodia, e legato per essere sicuri di trovarlo qualunque volta avessero qualche nuova inchiesta da fargli. Una severa guardia impediva, alle porte della città, che gli abitanti fuggissero abbandonando ogni loro proprietà; perciò, sebbene il suicidio sia sempre stato presso gl'Italiani rarissimo, ogni giorno si sentiva che qualche sciagurato erasi precipitato ne' pozzi o strozzato, per sottrarsi a così atroce tirannide[215].

Quando giunse a Milano il duca di Borbone, lusingaronsi gli abitanti che sarebbe meno barbaro che gli altri capitani imperiali, in paesi, di cui dicevasi che Carlo V gli aveva promessa l'investitura. I gentiluomini milanesi gli mandarono una deputazione per ricordargli tutte le testimonianze di attaccamento date dalla nobiltà all'impero. Lo stesso Borbone n'era stato testimonio; sapeva che dalla mano dell'imperatore avevano ricevuto quel principe, al quale loro si rimproverava d'essere fedeli, mentre i supplicj che loro s'infliggevano per punirneli, sorpassavano in crudeltà quelli che le leggi riservavano ai più odiosi delinquenti[216]. Il Borbone parve compassionarli, scusò i suoi commilitoni a cagione della necessità de' tempi e dei bisogni dell'armata, e nello stesso tempo promise, che quando i Milanesi potessero dargli trenta mila ducati, onde saziare in parte l'avidità de' soldati, li farebbe uscire tutti di città. Invocò sul proprio capo tutte le vendette del cielo se mancava a questa promessa, ed i suoi giuramenti ottennero fede; ma nello stato di totale esaurimento in cui era caduta una così doviziosa città, trenta mila ducati diventavano un'enorme somma. Ad ogni modo tutti cercarono di contribuire, privandosi delle ultime monete che loro rimanevano; ed il Borbone, quand'ebbe ricevuto il danaro, mancando impudentemente alla parola, non ritirò i soldati dalla città, nè diede veruna salvaguardia agli abitanti[217].

Lo sventurato Sforza, chiuso nel castello di Milano, vedeva finalmente avvicinarsi l'istante in cui la mancanza di vittovaglie lo sforzerebbe a capitolare. Per risparmiare le poche munizioni che ancora gli restavano, risolse di far sortire trecento di coloro che si erano con lui chiusi in castello e non erano capaci di difenderlo. Siccome gli assedianti non vi si opposero, questi infelici attraversarono, nella notte del 17 luglio, le trincee che li circondavano, le quali avevano così poca profondità, che sebbene fossero tutti o vecchi, o donne, o fanciulli, le passarono senza difficoltà. Questi fuggiaschi, giunti al campo di Marignano, rappresentarono ai generali della lega, da un canto l'estremità cui era ridotto il duca di Milano, dall'altro la facilità di soccorrerlo, tenendo la medesima strada che essi avevano battuta[218].

Erano di già arrivati al campo del duca d'Urbino cinque mila Svizzeri con Gian Giacomo de' Medici, castellano di Musso, e sebbene il duca volesse sempre aspettare le truppe della stessa nazione che doveva somministrare il re di Francia, ma che mai non giugnevano, si lasciò strascinare dalle importunità di tutti i suoi luogotenenti, e si avanzò fino a due miglia da Milano; soltanto impiegò quattro giorni in un viaggio che un pedone fa in tre ore, ed andò ad accamparsi il 22 luglio tra l'abbadìa di Casaretto ed il Navilio. Fortissima era la posizione del suo campo, ma per liberare una guarnigione assediata trattavasi di attaccare, non già di difendersi. Tutti gli ufficiali del duca d'Urbino lo supplicavano di condurli alle trincee; il castellano di Musso e gli Svizzeri glielo chiedevano per l'onor loro; ma il duca differiva sempre d'uno in altro giorno, e stava ancora deliberando il 24 di luglio, quand'ebbe avviso che Francesco Sforza, non avendo più viveri, aveva capitolato. A tale notizia il duca d'Urbino disse in pieno consiglio, che ciò lo alleggeriva d'un gran peso, poichè il desiderio di soccorrere un alleato era in procinto di strascinarlo a commettere un'imprudenza[219].

Lo Sforza aveva resistito fino all'ultima estremità, e quando più non poteva tenere che alcune ore, aveva ancora ottenuta dal Borbone un'onorevole capitolazione, tanta era l'inquietudine che dava a questo l'assedio del castello di Milano in vicinanza di un'armata più numerosa della sua. Lo Sforza e tutti coloro ch'erano stati con lui assediati, potevano liberamente ritirarsi ovunque loro piacesse; i diritti del primo vennero conservati nella loro integrità, ed il Borbone gli promise di dargli il possesso della città di Como, che gli fu assegnata per sua residenza. Ma quando vi si recò, dopo aver fatto visita agli alleati nel loro campo, la guarnigione spagnuola di Como ricusò d'evacuare la città; e Francesco Sforza non volle porsi tra le mani degli imperiali. Egli tornò al campo degli alleati, ratificò la lega dal papa e dai Veneziani conchiusa in suo nome col re di Francia, e gli fu dato il possesso della città di Lodi, affinchè una piccola parte almeno del ducato di Milano riconoscesse la sua autorità[220].

Gli affari della lega non procedevano più felicemente in Toscana, dove il papa aveva trovato necessario di mutare il governo di Siena, perchè questo piccolo stato essendo solo che si fosse dichiarato pel partito imperiale, posto tra Firenze e Roma, poteva servire ai nemici della casa de' Medici per attaccare Clemente nell'una o nell'altra delle suddette città. Da principio il papa aveva tenuta qualche pratica con alcuni emigrati sienesi per tentare di sorprendere la loro patria; ma questi movimenti essendo stati scoperti e puniti, aveva poi voluto ricondurre quegli emigrati a forza aperta ne' loro focolari. Virginio Orsini, conte dell'Anguillara, Luigi, conte di Pitigliano, Gentile Baglione ed altri capitani furono incaricati di adunare una piccola armata sulle rive dell'Arbia. Questi si presentarono il 17 di giugno sotto le mura di Siena con nove pezzi d'artiglieria, mille dugento cavalli e più di otto mila fanti; ma una parte di questi erano contadini adunati nello stato fiorentino, che non erano abituati alla guerra, e mancavano di disciplina e di coraggio. Erasi l'armata imprudentemente accampata in un lungo sobborgo, che non aveva veruna uscita laterale: ed i commissarj avevano permesso, che i vivandieri imbarazzassero coi loro banchi la sola strada che loro serviva di sfogo, di modo che non restavano a questa quindici piedi di larghezza. Tanto disordine regnava nell'armata, ed i soldati, de' quali molti disertavano ogni giorno, mostravansi così indisciplinati e vili, che Clemente, non potendo ripromettersi nulla di buono da questa spedizione, ordinò di ritirare l'artiglieria e di allontanarsi. Quest'ordine doveva eseguirsi il 26 di luglio, ma il 25 a due ore dopo mezzo giorno quattrocento soldati usciti di Siena vennero ad attaccare la guardia che copriva l'artiglieria, composta per la maggior parte di Corsi venuti col conte dell'Anguillara; questi si diedero subito alla fuga, e quando i vivandieri li videro ritirarsi sopra di loro, si fecero a raccogliere i loro effetti, ed ingombrarono talmente l'unica strada per cui i fuggitivi dovevano passare, con bestie da soma cariche di attrezzi e di barili, che più non restò luogo nè per combattere, nè per fuggire. La confusione accrebbe il terror panico: verun soldato più non ascoltò la voce de' capitani; pedoni, cavallieri, capitani e vivandieri più non formarono che un solo ammasso, il di cui terrore pareva andar crescendo a misura che si andavano allontanando dal pericolo. Otto mila uomini vennero disfatti da quattrocento soldati, e fuggirono per dieci miglia fino a Castellina, sebbene i Sienesi non gli avessero inseguiti più d'un miglio fuori della città; abbandonarono dieci cannoni dei Fiorentini e sette dei Perugini, che furono trasportati in trionfo a Siena con tutti i loro equipaggi: finalmente, giunti alla Castellina, sebbene a tanta distanza dai nemici, fecero chiudere le porte, come se fossero tuttavia esposti a vicino pericolo[221].

La vergognosa sconfitta dei Fiorentini forse in parte giustificava la risoluzione del duca d'Urbino di non avere confidenza nella fanteria italiana, e di evitare ogni battaglia. Parevagli che la lega avesse grandi mezzi pecuniari, mentre che i disordini delle finanze dell'imperatore esponevano sempre la di lui armata a disperdersi per mancamento di danaro. Pure avrebbe ancora dovuto pensare che per incoraggiare i popoli, attaccarli al suo partito e rannodare più strettamente i vincoli della lega, aveva bisogno di qualche luminoso fatto; che uno stato, che solo si difende contro molti, può salvarsi temporeggiando, perchè qualunque lentezza non può in esso eccitare la diffidenza; ma che le leghe, sempre esposte a sciogliersi, hanno altrettanti più rischj contro di loro, quanto è maggiore il tempo che richiedono le loro operazioni. Ogni rovescio può privarle di un confederato, e quando fanno conoscere la diffidenza nelle proprie forze, risvegliano ancora in oltre la diffidenza de' loro sudditi.

Infatti i confederati avevano di già gagliarde ragioni per diffidare gli uni degli altri, ed il papa particolarmente poteva a buon diritto lagnarsi d'essere abbandonato da que' medesimi pei quali era entrato nel pericolo. I re di Francia e d'Inghilterra si erano associati alla lega d'Italia, ma avevano lasciato passare più della metà del tempo opportuno ad entrare in campagna senza dare verun soccorso agl'Italiani. La corte di Roma ed il senato di Venezia non potevano omai più dubitare che tanta negligenza non ascondesse qualche segreto progetto. Il vescovo di Bayeux, ambasciatore di Francia a Venezia, scrisse egli stesso il 22 luglio al re Francesco I ed a sua madre, per domandare il suo richiamo, lasciando abbastanza chiaramente conoscere ch'egli credeva gl'Italiani traditi dalla corte di Francia, e che non voleva cooperare alla ruina della sua patria[222]. Giovan Battista Sanga, confidente del datario, ed uno de' più destri politici di Roma, fu mandato in Francia ed in Inghilterra, per far sentire a quelle due corti che il ritardo loro rendeva sicura la vittoria dell'imperatore, per iscandagliare e scoprire le segrete viste di quella di Francia, e per offrire a Francesco I il ducato di Milano, qualora fosse impossibile di farlo concorrere alla guerra disinteressatamente; imperciocchè se la corte di Roma ottenere non poteva il suo principale oggetto di cacciare i barbari fuori d'Italia, crederebbe non pertanto d'avere guadagnato qualche cosa, se faceva in modo che le forze loro vi fossero bilanciate[223].

La missione del Sanga in Francia convinse i confederati che il re era di buona fede, ma che per adesso aveva posto da banda ogni pensiero per rispetto all'Italia, e che sua madre ed i suoi consiglieri vivamente si opporrebbero a qualunque suo disegno di volervi nuovamente dominare: che l'inaudita lentezza de' tesorieri nel pagare il promesso danaro, de' generali per mettersi in marcia, de' marinai nel salpare, dipendevano dal disordinato gusto di Francesco I per i suoi piaceri, dalla sua non curanza e dall'estrema negligenza con cui era servito dai suoi ministri. Dopo avere con vivacità parlato intorno agli affari, il re ne rimetteva sempre la decisione al suo consiglio; questi faceva nuovamente consultare Francesco rispetto ad ogni articolo; ma il re si trovava alla caccia, o dava qualche festa, e perdevansi così sempre due o tre giorni per ogni articolo, intorno al quale avrebbe dovuto bastare una mezz'ora[224]. All'ultimo il Sanga ottenne che il marchese di Saluzzo si mettesse in viaggio per entrare in Piemonte con cinquecento lance francesi, mentre una flotta di sedici galere e quattro gallioni, sotto gli ordini di Pietro Navarro, salperebbe dai porti della Provenza per unirsi a quella degli alleati italiani[225].

Lo stesso nunzio ottenne ancora meno in Inghilterra, ove Enrico VIII ed il suo favorito, il cardinale Wolsey, ricusarono per quest'anno di prendere veruna parte negli affari d'Italia, e si ristrinsero a vane promesse di soccorrere il papa nel seguente anno, qualora l'ambizione dell'imperatore lo mettesse in reale pericolo[226]. Questo pericolo di già esisteva. Carlo V faceva armare nei porti della Catalogna una flotta di venticinque navi, destinate a ricondurre in Italia il signore di Lannoy, vicerè di Napoli, con sette in otto mila uomini di truppe veterane. Non poteva ancora sapersi con precisione nè quando il vicerè farebbe vela, nè dove contava di approdare sulle coste d'Italia. Ad ogni modo la lega, e particolarmente la corte del papa vedevano con estrema inquietudine che gl'imperiali avessero a loro disposizione i porti di Genova e quelli dello stato di Siena; perchè sbarcando ne' primi, mettevano in pericolo l'armata italiana di Lombardia, e scendendo ne' secondi minacciavano Firenze e Roma. Perciò il nunzio del papa e l'ambasciatore veneto affrettavano Pietro Navarro a mettersi in mare colla flotta francese, ed a unirsi alla loro, non solo per opporsi al passaggio del vicerè, ma ancora per assediare Genova e mutarne il governo[227].

L'attacco di Genova, cui di già si apparecchiava Andrea Doria con undici galere pontificie, e tredici veneziane, non poteva riuscire senz'essere secondato dall'armata di terra. Il duca d'Urbino, che non aveva voluto attaccare gli Spagnuoli a Milano, poteva ancora prendere questo partito per ristabilire la riputazione della sua armata; ed il Guicciardini mandò presso di lui il Macchiavelli per persuadernelo[228]. L'armata del duca era stata ingrossata da cinque mila Svizzeri, ed un mese più tardi, dopo infiniti indugi, erano arrivati ancora quelli promessi dal re di Francia, di modo che ne contava nel suo campo tredici mila. Ogni pretesto sarebbegli mancato per restarsene inattivo; ma invece di accingersi ad un'impresa veramente utile, il 6 agosto prese ad assediare Cremona. E quest'assedio fu pure condotto coll'ordinaria sua lentezza e timidità; il duca vi si ostinò malgrado le rimostranze del papa e del commissario generale Guicciardini, ed in tale maniera rese la sua armata inutile alla lega fino al 23 di settembre in cui Cremona capitolò[229].

Intanto le tre flotte della lega si erano finalmente riunite a Livorno, ed il 29 d'agosto Pietro Navarro assediò Genova dalla banda del mare. Le galere francesi avevano un sicuro rifugio in Savona, quelle del papa e de' Veneziani a Porto Fino; e perchè avevano ridotte sotto la loro ubbidienza la maggior parte delle due riviere, impedivano il commercio de' Genovesi, e facevano di già provare alla città grandissima penuria di vittovaglie, era a credersi che Genova non tarderebbe a capitolare, quando fosse attaccata ancora dall'armata di terra[230].

Ma in tale circostanza si potè pure comprendere quanto sia dannoso ad una lega il perdere il tempo, conciossiachè resta così esposta agli accidenti che possono separatamente sopraggiugnere all'uno o all'altro alleato. Il papa scoraggiato dai cattivi successi avuti in Toscana ed in Lombardia, e spaventato dai reclutamenti di soldati che don Ugo di Moncade ed il duca di Sessa andavano facendo ne' feudi dei Colonna, diede orecchio alle proposizioni d'accomodamento, che Vespasiano, figlio di Prospero Colonna, nel quale Clemente fidava assai, venne a fargli a nome di tutta la sua famiglia. Il ventidue agosto fu tra di loro sottoscritto un trattato, in forza del quale i Colonna si obbligavano ad evacuare Anagni ed a ritirare tutti i loro soldati nel regno di Napoli, che si riservavano espressamente di potere difendere contro qualunque potenza; il papa in contraccambio loro prometteva il perdono d'ogni offesa, e sopprimeva il monitorio pubblicato contro il cardinale Pompeo Colonna. Dopo la soscrizione di questi articoli, Clemente VII, che sempre pensava a moderare le sue spese, si affrettò di licenziare tutti gli uomini d'armi, e quasi tutti i pedoni che aveva levati per la propria difesa[231].

Ma Pompeo Colonna, che nudriva contro il papa un implacabile odio non aveva fatta intavolare con lui questa negoziazione che per sorprenderlo più sicuramente. Don Ugo di Moncade, degno allievo di Cesare Borgia, gli aveva consigliato questo tradimento, assicurandolo che Carlo V desiderava di far perire Clemente VII, o per lo meno di farlo deporre da un concilio; e che tutto il partito imperiale si adoprerebbe poscia perchè la tiara passasse sul capo del Colonna. Il duca di Sessa, ambasciatore ordinario dell'imperatore, era allora morto a Marino: Moncade ne faceva le veci; era l'anima di tutti gl'intrighi dei Colonna, e favoreggiava gli adunamenti di truppe che questi facevano ne' loro feudi intorno al lago Albano[232].

Questi militari movimenti non erano rimasti affatto ignoti ai ministri del papa: pure non prevedevano ancora vicina veruna ostilità, quando la mattina del 20 di settembre seppero, che nella precedente notte i Colonna avevano occupata la porta di san Giovanni di Laterano, che si erano innoltrati in que' quartieri disabitati senza incontrare resistenza, e che finalmente erano giunti alla piazza dei santi Apostoli, ove trovasi il loro palazzo. Il cardinale Pompeo, Vespasiano, cui il papa aveva data tanta confidenza, ed Ascanio Colonna erano alla testa di sette in otto mila uomini armati, quasi tutti levati ne' loro feudi[233].

Si mandarono due cardinali ai Colonna per sapere il motivo di questa loro ostile venuta in Roma, e per riclamare che fosse mantenuta la pace conchiusa un mese prima; ma i Colonna non vollero ascoltarli. Due altri cardinali furono mandati al Campidoglio per chiamare il popolo romano alle armi ed alla difesa della santa sede; ma il popolo, che dava colpa al papa di tutti i disordini dell'amministrazione, si rallegrava, in vece di prendere le armi, della di lui disgrazia, ed apriva senza diffidenza le finestre e le porte delle botteghe per veder passare le truppe dei Colonna[234].

Queste attraversarono il più popolato quartiere della città per giugnere a Ponte Sisto; poi, dal quartiere di Transtevere, seguirono il Borgo Vecchio fino al Vaticano. Clemente VII voleva aspettarli nel suo palazzo e sul suo trono; voleva sperimentare se la sua presenza imprimerebbe qualche rispetto, od affrontare la morte di cui lo minacciavano le sacrileghe loro grida. All'ultimo le istanze de' suoi cardinali lo persuasero verso il mezzo giorno a ritirarsi in Castel sant'Angelo, quando i soldati di già occupavano il suo palazzo ed il tempio di san Pietro, e trattenevansi a saccheggiare i suoi mobili e gli ornamenti sacri. Per lo spazio di tre ore la chiesa metropolitana della Cristianità, ed il palazzo del sommo pontefice furono in preda alla loro rapacità. In appresso i soldati si sparsero per le case de' cardinali e de' cortigiani; saccheggiarono altresì il terzo press'a poco di Borgo Nuovo; ma l'artiglieria di Castel sant'Angelo non permise loro di andare più avanti[235].

A notte assai innoltrata i Colonna ritirarono le loro truppe cariche di preda verso il quartiere dove hanno i loro palazzi. Frattanto Clemente VII fece invitare don Ugo di Moncade, luogotenente generale dell'imperatore, e che pareva capo di questa spedizione, ad un colloquio in Castel sant'Angelo. Questi si fece prima dare per ostaggio due cardinali nipoti del papa. Egli era ben lontano dal credere che l'avarizia o la malversazione degli ufficiali pontificj fossero state tali, da non aver provveduto Castel sant'Angelo di viveri per ventiquattro ore; di modo che avrebbevi potuto prendere il papa a discrezione. Perciò si limitò a chiedere al papa una separata tregua di quattro mesi, che fu bentosto conchiusa. Clemente VII doveva immediatamente ritirare tutte le sue truppe sulla riva meridionale del Po, fare che Andrea Doria abbandonasse colle sue galere l'assedio di Genova, perdonare ai Colonna ed a tutti coloro che lo avevano offeso, e dare ostaggi per l'osservanza di queste condizioni[236].

Pompeo Colonna ed i suoi amici si disperarono, perchè il Moncade avesse fatto un trattato che non solo rovesciava le loro speranze, ma che in avvenire li lasciava in balìa del papa, malgrado tutte le guarenzie che gli si domandavano: ma il ministro imperiale aveva ottenuto il suo scopo, e la lega era disciolta. Il Guicciardini, trovandosi nel campo sotto Cremona, ricevette il 24 settembre la notizia della tregua; il marchese di Saluzzo con le cinquecento lance francesi da tanto tempo aspettate, e così crudelmente ritardate, doveva giugnere all'indomani. Il Guicciardini offrì di fingere per due o tre giorni di non avere avute notizie da Roma, se in questo tempo si poteva tentare qualche importante fatto sopra Milano; ma trovò la consueta irrisoluzione e timidità nei capi cui era associato, onde il 7 di ottobre ricondusse le sue truppe a Piacenza sull'opposta riva del Po[237]. Giovanni de' Medici non volle per altro seguirlo; e dichiarando d'essere al soldo del re di Francia, continuò a tenersi nel campo de' confederati con quattro mila fanti[238].

Malgrado la partenza del contingente pontificio, l'armata della lega conservavasi sempre assai superiore di numero a quella degl'imperiali. Il marchese di Saluzzo vi aveva condotte cinquecento lance e quattro mila fanti; vi si contavano inoltre quattro mila fanti italiani di Giovan de' Medici, quattro mila Svizzeri, due mila Grigioni, e la fanteria veneziana che credevasi non minore di dieci mila uomini, sebbene molto al di sotto del numero che avrebbe dovuto avere; ma il duca d'Urbino, che ne aveva il comando, pareva che andasse in traccia di pretesti per non venire alle mani. Se si fosse solamente fatto vedere avanti a Genova, sempre bloccata, e che soffriva crudeli privazioni di vettovaglie, l'avrebbe persuasa ad arrendersi; ma in vece egli si trattenne nel suo campo presso Cremona fino all'ultimo giorno di ottobre. Passò in appresso a Pioltello, ov'ebbe una gagliarda scaramuccia col duca di Borbone; e contava ancora di fortificare Monza, poi Marignano, e forse Abbiategrasso, prima d'avvicinarsi a Genova[239].

Ma gl'imperiali non gli diedero abbastanza di tempo per condurre a termine così tardi progetti. Carlo V, a cui i confederati avevano denunciata la lega soltanto il 4 di settembre, dettandogli le condizioni sotto le quali avrebbe potuto esservi ammesso, le aveva rifiutate come vergognose. Continuava a far armare a Cartagena la flotta che doveva ricondurre il vicerè in Italia con sei mila fanti, e nello stesso tempo eccitava il fratello Ferdinando a mandargli soccorsi dalla Germania; ma perchè non gli mandava danaro, e Ferdinando era assai povero, oltrecchè la sconfitta degli Ungari a Mohacz apriva la Germania ai Turchi, questi ajuti avrebbero ancora potuto tardare lungamente. L'armata che difendeva il ducato di Milano, dopo avere consumato tutto il paese, sarebbe stata a vicenda distrutta dalla miseria, se lo stesso Giorgio Frundsberg, che aveva condotti i Tedeschi in soccorso di Pavia, non avesse supplito colle private sue sostanze e col suo credito a ciò che far non poteva Carlo V. Suo figliuolo Gaspare trovavasi allora chiuso in Milano, come lo era stato nel precedente anno in Pavia: Giorgio Frundsberg per liberarlo chiamò gli antichi suoi commilitoni; loro promise un nuovo ricchissimo bottino da farsi in quelle campagne d'Italia, che i generali più non proteggevano contro veruna depredazione; richiamò con vivi colori alla loro memoria quella licenziosa vita che avevano essi medesimi così lietamente menata, e che tuttavia gustavano i loro commilitoni; e li persuase a seguirlo con un solo scudo d'arrolamento, riponendo nella loro sola spada ogni speranza di più generosa paga, e d'abbondanti provvigioni ovunque si recherebbero. Adunò tra Bolzano e Marrano tredici in quattordici mila landsknecht, con cinquecento cavalli che gli erano stati regalati dall'arciduca Ferdinando, sotto gli ordini del capitano Zucker; ed in sul cominciare di novembre si pose in cammino per iscendere in Italia[240].

I Veneziani non seppero chiudere a Frundsberg la strada delle montagne: egli sboccò per Val Sabbia, Rocca d'Anfo e Salò, e giunse fino a Castiglione delle Stiviere nello stato di Mantova. Il duca d'Urbino, per chiudergli la via, aveva stabilito il suo quartiere a Vaprio sull'Adda, fra Trezzo e Cassano, di dove partì il 19 di novembre, non per attaccare i landsknecht, ma per istancheggiarli nella loro marcia con tutta la sua cavalleria leggiere, toglier loro le vittovaglie e far prigioni i soldati che si allontanavano dal corpo. Frundsberg pareva incerto nei suoi progetti, e non potevasi chiaramente argomentare, se voleva passare l'Adda e portarsi sopra Milano, o passare il Po e marciare alla volta di Modena e di Bologna. Quest'armata aveva di già sparso il terrore in Firenze ed in Roma, perciocchè si temeva, che, attirati dalle ricchezze di quelle capitali, i barbari che la componevano non andassero a saccheggiarle, sapendo che non troverebbero ostacoli. Il 24 di novembre Frundsberg si avvicinò a Borgo forte sul Po, ed entrò in quella doviziosa campagna, circondata di fiumi, che chiamasi il Serraglio di Mantova. Il duca d'Urbino lo seguì, e Giovanni de' Medici lo stringeva assai da vicino col suo consueto ardore. Questi, sapendo che i Tedeschi erano scesi in Italia senza artiglieria, credevasi al sicuro dal loro fuoco: ma il duca di Ferrara aveva loro prestati quattro falconetti, alla seconda carica de' quali Giovanni de' Medici perdette una coscia. Egli fu quindi trasportato in Mantova, ove morì il 30 di novembre[241]. Sebbene nella fresca età di trentanove anni, si era di già acquistata grandissima riputazione, ed era dagl'imperiali il più temuto di quanti capitani si trovavano nell'esercito del duca d'Urbino. Il suo valore, il suo impeto eransi comunicati a tutti i suoi soldati, che per la seconda volta continuarono a formare un corpo separato indicato col nome di bande nere, perchè di nuovo mutarono le loro bandiere di bianche in nere, in segno di dolore, come avevano fatto la prima volta in occasione della morte di Leon X[242].

Siccome vedevasi ogni giorno svilupparsi in Giovanni de' Medici la scienza militare, l'antiveggenza e la giustezza delle viste; siccome ogni giorno egli andava acquistando esperienza e maturità, gl'Italiani si lusingavano di vederlo superiore a tutti i generali del secolo, e da lui solo speravano di vedere restituite all'Italia l'antica gloria delle sue armi e la sua indipendenza. Il Macchiavelli mostravasi penetrato da tale speranza in una lettera scritta al Guicciardini il 15 marzo del 1525, per essere comunicata al papa. Avrebbe voluto che Clemente VII, invece di prendere parte direttamente in una guerra che tanto lo esponeva, e che gli riusciva così fatale, ajutasse segretamente Giovanni de' Medici a formare una compagnia di ventura, in sul fare di quelle del quattordicesimo secolo; e che il Medici, seguendo questa indipendente carriera, non contasse che sulla guerra per nutrire la guerra, e lavorasse all'espulsione dei barbari dall'Italia, onde formarne per sè medesimo una potente monarchia. Ma il papa troppo ardito giudicò questo progetto, e non volle adottarlo[243].

Dopo la morte di Giovanni de' Medici il duca d'Urbino cessò di seguire e d'inquietare i Tedeschi. Questi passarono il Po il 28 di novembre, e sparsero un grandissimo terrore a Modena, a Bologna e fino in Toscana. Ma il Frundsberg, dopo alcuni giorni d'incertezza, cominciò a rimontare a piccole giornate lungo le rive del Po, saccheggiando i territorj di Modena, di Reggio, di Parma e di Piacenza. Il Guicciardini, che a nome della Chiesa comandava in queste province, pregava invano il duca d'Urbino ad accorrere in suo ajuto; questi, dopo averlo lusingato alcuni giorni, si fece dare un ordine dal senato di Venezia di non passare il Po[244].

Frundsberg non attaccava veruna terra fortificata, ma invitava il contestabile di Borbone a venire ad unirsi a lui tra Piacenza ed Alessandria; ed infatti l'ultimo giorno dell'anno stabilì il suo campo tra la Nura e la Trebbia, mentre che il Borbone faceva vani sforzi per trarre fuori di Milano la sua armata. I suoi soldati, cui l'imperatore doveva immensi arretrati, non volevano, senz'essere pagati, lasciare una città abbandonata a tutte le loro esazioni, a tutti i loro capriccj. Il Borbone, per cavare qualche danaro dai Milanesi, adoperò nuove minacce e nuovi supplicj; fece condannare Girolamo Moroni a pena capitale; ma nello stesso giorno destinato all'esecuzione, gli vendette per venti mila ducati la libertà e la vita. Il Moroni, che dopo quest'avvenimento si trattenne presso il Borbone, non tardò ad acquistarsi, colla destrezza del suo spirito, e colle estese sue cognizioni, presso di lui grandissimo credito, e di prigioniero diventò il suo più intimo consigliere e l'arbitro di tutti i suoi movimenti[245].

Il papa aveva osservato, che nel trattato datogli il 21 di settembre in Castel sant'Angelo dal Moncade erano stati sagrificati gl'interessi dei Colonna a quelli dell'imperatore; egli suppose che sarebbero egualmente abbandonati anche in seguito. Sebbene avesse richiamata la sua armata dalla Lombardia, e la sua flotta dai mari di Genova in esecuzione di quella forzata convenzione, non differì che pochi giorni a manifestare la sua collera contro i Colonna. Aveva richiamato a Roma Vitello Vitelli con alcune centinaja di cavalli, due mila Svizzeri e tre mila fanti italiani[246]. Quand'ebbe adunata questa piccola armata, la mandò ne' feudi dei Colonna, con ordine di bruciare e distruggere tutti i loro villaggi. I ridenti colli che circondano il lago d'Albano, e tutto il paese che di là stendesi fino ai confini dell'Abruzzo, vennero allora ruinati così barbaramente, che se ne potrebbero ravvisare le tracce anche al presente. Furono bruciati Marino e Montefortino, spianati Gallicano e Zagarolo, saccheggiati o distrutti altri quattordici villaggi, onde tutto lo stato romano fu inondato da una moltitudine di vecchi, di fanciulli e di donne, costretti ad accattare il pane. In pari tempo un monitorio privò il cardinale Colonna della sua dignità, e condannò tutta la sua famiglia, come colpevole di ribellione e di tradimento. Subiaco, che era il castello favorito di Pompeo Colonna venne trattato con eccessiva crudeltà; e si usò alquanto meno di rigore verso Ghinazzano, ove Prospero Colonna aveva fabbricato un magnifico palazzo. La fortezza di Montefortino e di Rocca di Papa furono le sole che resistessero a tutti gli attacchi delle truppe della Chiesa[247].

Nello stesso tempo la flotta di Cartagena, di cui erasi temuto tanto tempo l'arrivo, uscì allora dal porto, col vicerè Lannoy, trecento cavalli, due mila cinquecento Tedeschi e tre in quattro mila Spagnuoli. Clemente VII ordinò tosto ad Andrea Doria di riprendere il mare colla flotta alleata, per disputare il passo agli Spagnuoli. Ma Luigi Armero, ammiraglio de' Veneziani, era entrato a Porto Venere colla metà delle sue galere: Pietro Navarro era stazionato avanti al promontorio di san Fruttuoso, che divide il seno di Genova da quello di Porto Fino, e non aveva con sè che diciassette galere, quando, avanti il tempo ch'egli credeva, vide comparire nel mese di novembre la flotta del vicerè composta di trentasei galere. Egli non lasciò d'attaccarla, chiamando a sè Luigi Armero; ma il mare burrascoso non permise a questi d'uscire dal porto, e sottrasse bentosto la flotta spagnuola agli attacchi del Navarro e di Andrea Doria; questa per altro perdè due galere, e n'ebbe altre tre così maltrattate, che poca speranza lasciavano di poter essere salvate[248].

Il vicerè andò a ripararsi dalla tempesta e dalla persecuzione de' suoi nemici nel porto di santo Stefano nello stato di Siena. Se colà avesse sbarcata la sua truppa, e presa la strada di Roma, vi avrebbe trovata poca resistenza, e la corte del papa aveva di già perduta ogni speranza[249]. Ma il Lannoy, che giugneva allora in Italia, non sapeva con precisione quale fosse lo stato degli alleati: aveva incontrata molta resistenza per mare, e poteva aspettarne un'eguale per terra; onde giudicò più conveniente di proseguire il suo viaggio alla volta di Gaeta, ove sbarcò le sue truppe. Colà il papa gli mandò il generale dei Francescani per entrare con lui in trattato; ed il Lannoy mostrossi assai inclinato a dare orecchio alle proposizioni del papa. Dall'altro canto Francesco Guicciardini negoziava a nome del papa col duca di Ferrara; gli offriva la restituzione di Modena e di Reggio contro il pagamento di dugento mila ducati, e nello stesso tempo il comando dell'esercito della lega; ma queste proposizioni si fecero troppo tardi, ed Alfonso d'Este, che lungo tempo era rimasto dubbioso a quale delle due parti si dovesse appigliare, si era di fresco aggiustato coll'imperatore[250].

Sembrava nuovamente risplendere la speranza d'una pace generale: pareva che l'imperatore declinasse dalle sue più alte pretese, e gli alleati erano stanchi di vedere i loro sforzi seguiti da avvenimenti di così piccola importanza. Ma sebbene sembrassero d'accordo rispetto a molti punti, la complicazione degl'interessi e la lontananza de' potentati, ritardavano e contrariavano le negoziazioni. Mentre che si andavano chiedendo istruzioni a Parigi, a Madrid ed a Londra per un trattato che si negoziava in Roma, gli avvenimenti succedevansi con rapidità: e colui che aveva avuto qualche vantaggio, si affrettava di ritirare ciò che prima aveva accordato. Così passava il tempo senza ottenere verun risultamento, e l'anno 1526, ch'era stato notato da tanti patimenti e miserie, lasciava, terminando, prevedere pel susseguente maggiori mali e disastri[251].

CAPITOLO CXVIII.

Il contestabile di Borbone conduce l'armata imperiale verso la Toscana: Clemente VII, dopo avere riportato qualche vantaggio nel regno di Napoli, tratta col vicerè. Presa e sacco di Roma, Firenze torna in libertà.

1527. L'Italia, da lungo tempo abbandonata ai guasti delle barbare nazioni, provava sempre nuove più grandi calamità. I suoi abitanti erano di già pervenuti al più alto grado d'incivilimento, avevano di già ottenuta tutta la gloria che le lettere, le arti, le scienze dovevano loro ottenere, conoscevano omai tutti i godimenti che la vita sociale può promettere, e trovavansi intanto immersi in un abisso di miserie, che dai progressi fatti fin allora erano rendute più dolorose. Pure tutti i precedenti mali erano piccola cosa a canto a quelli che apportare doveva l'anno 1527; anno di vergogna per coloro che gli oppressero, e di desolazione per loro; anno nel quale i flagelli della peste, della guerra, della fame si combinarono per istraziarli, e nel quale ognuno di loro venne aggravata da circostanze fin allora inaudite.

Quasi tutte le calamità che affliggono gli uomini s'addolciscono prolungandosi; le une sono rendute sopportabili dall'abitudine; l'esperienza insegna a prevenire le altre; gli sforzi riuniti di quelli che governano e di quelli che sono governati, ristabiliscono in breve tempo qualche ordine, anche dove tutto sembrava prima confusione ed anarchia. Ma la guerra si rende tanto più crudele per lo sventurato paese che n'è il teatro, quanto più lungamente dura. I bisogni sono i medesimi, la consumazione non diminuisce, mentre gli approvvigionamenti sono esauriti, e la riproduzione cessata. L'esazioni del precedente anno sembrano un titolo per cercarne altre simili; mentre appunto perchè si è molto pagato, mancano i mezzi di pagare ancora. Nello spirito de' soldati l'onore delle armi si va sempre più separando dalle antiche nozioni di giustizia, di morale, di umanità. Coloro che uscendo dalla casa paterna avrebbero ancora arrossito di ogni non necessaria violenza, di ogni attentato contro la proprietà, oltre a quelli che sono giustificati dalle leggi della guerra, si accostumano dopo alcune campagne a non riconoscere altra legislazione che la forza, a non curarsi del dolore e della miseria degli altri, e ad insuperbirsi della propria insensibilità. Spesso, senza che il cuor loro sia corrotto, adottano come spirito del loro stato lo spirito del più feroce loro commilitone, e l'opinione del loro corpo, invece di essere il sostegno della loro morale è un abisso nel quale vanno a cadere inavvertiti tutti i delitti. Allora essi distruggono per distruggere, maltrattano per godere degli altrui patimenti, ed il loro cuore, chiuso alla compassione, più non conserva alcuno di que' pietosi sentimenti che vi avevano fatti nascere gl'insegnamenti delle loro madri.

A tale stato di ferocia erano in allora giunti i soldati che divoravano l'Italia. Quelli che in Milano ubbidivano al Borbone avevano vissuto tutto un anno a discrezione presso gli sventurati abitanti abbandonati a tutti i loro cattivi trattamenti. Essi li tenevano legati nelle loro proprie case per istrappar loro coi tormenti tutto ciò che poteva soddisfare a' loro capricci. Facevansi giuoco di disonorare in loro presenza le consorti e le figlie: le loro orecchie eransi indurite alle disperate grida di quegli sventurati; e quando l'ospite prigioniero poteva fuggire dalle loro mani per precipitarsi da una finestra o gettarsi in un pozzo, onde mettere fine alla sua miseria, l'avaro castigliano se ne consolava, pensando che probabilmente non aveva più nulla da perdere, e prendeva un altro milanese per assoggettarlo ai medesimi tormenti.

I Tedeschi che Frundsberg conduceva in Italia, se per anco non si erano macchiati colle medesime crudeltà, erano per lo meno usciti dalla loro patria, allettati dal racconto che delle medesime era stato loro fatto. Si erano persuasi a formare un'armata non pagata, soltanto a condizione che verrebbero abbandonati alla loro discrezione i ricchi abitanti delle città. Essi conoscevano il disordine del loro imperatore, e la povertà del generale; ma si erano loro promessi i vini e le donne d'Italia, e toccava alle loro avide mani il procurarsi di per sè il pagamento de' loro servigi.

Pure questo soldo, che non era mai pagato, era loro dovuto: i mesi passavano, ed il debito riconosciuto dai loro generali si andava sempre ingrossando. Sapevano i soldati che mai non sarebbero pagati, ma non rinunciavano perciò alle loro pretese. Per lo contrario se ne formavano un diritto per iscuotere affatto il giogo di ogni disciplina. Se un capitano più umano voleva intromettersi in favore di qualche sventurato abitante, il soldato subito gli chiedeva il soldo arretrato; lo domandava pure se veniva destinato ad un servigio faticoso o disaggradevole; se riceveva ordine di uscire da un accantonamento di sua soddisfazione. Colla risposta, pagatemi, era sicuro di far tacere i suoi superiori, e cominciava di già a rendersi non meno formidabile ai suoi capi che a' suoi ospiti.

La venuta di Frundsberg faceva sperare ai generali imperiali di potere approfittare per qualche strepitoso fatto d'un'armata così formidabile come la loro, ed il proprio interesse più ancora che la compassione loro faceva desiderare di metter fine ai patimenti de' Milanesi. Ma gli Spagnuoli non vollero uscire da una città ove si erano trovati così bene, e domandavano ad alte grida i loro soldi arretrati; e volevano che i generali qualora non li potessero pagare cacciassero fuori di Milano tutti gli abitanti, che, secondo loro, gli affamavano, non ritenendo in città che le donne ed i domestici per servirli. Nello stesso tempo accorsero affollati alle chiese ed ai luoghi fin allora rispettati, e li saccheggiarono[252]. Non vi volle meno di tutta l'arte del Borbone, e di tutto il credito d'Antonio di Leiva e del marchese del Guasto per far partire alla volta di Pavia, uno dopo l'altro, i battaglioni cui potevansi pagare cinque mesi di soldo arretrato. Le tratte sopra Genova che Carlo V aveva mandate, i tributi estorti all'Italia, le somme prese a prestito o esatte sul credito di tutti i generali, tutto fu impiegato nel pagare questi cinque mesi di soldo; e il 30 di gennajo le truppe condotte da Borbone passarono il Po. Ma nell'atto che intraprendevasi questa spedizione niente rimaneva nella cassa militare nè per le spese necessarie de' trasporti, nè per pagare le truppe di Frundsberg, cui si dovevano unire quelle di Borbone[253].

Quando i due corpi d'armata si furono uniti in riva alla Trebbia, il duca di Borbone trovò d'avere sotto i suoi ordini tredici in quattordici mila Tedeschi condotti da Frundsberg, cinque mila Spagnuoli, due mila Italiani, cinquecento uomini d'armi, e circa il doppio numero di cavaleggieri[254]. La prima città che incontravano sulla strada era Piacenza. Il Borbone si trattenne in quelle vicinanze una ventina di giorni, forse sperando che gliene fossero aperte le porte dalla viltà delle truppe pontificie; o forse perch'era ancora incerto su ciò che dovesse fare. Frattanto stringeva Alfonso d'Este, duca di Ferrara, colle più calde istanze a voler dimostrare il suo attaccamento alla causa imperiale, nella quale aveva preso parte, somministrandogli artiglieria e danaro. Alfonso non temeva forse meno la vicinanza di così formidabile truppa amica, che se fosse stato in guerra coll'imperatore. Si sforzò dunque di persuadere al Borbone, che il solo partito che gli restava a prendere era quello di andare avanti, di sorprendere i suoi nemici nel centro della loro potenza o a Firenze o a Roma, e di alimentare le sue truppe in un paese sempre nuovo. Gli rappresentò che quando ancora gli riuscisse di prendere Piacenza, i vantaggi di questa conquista non sarebbero una sufficiente ricompensa del danaro, della gente e del tempo perduto per acquistarla. Il Borbone sentì l'importanza di questo consiglio, e siccome veniva accompagnato da una sovvenzione somministrata dal duca di Ferrara, il Borbone con questo danaro pagò due scudi ad ogni Tedesco di Frundsberg: questo era il primo pagamento che ricevevano i Tedeschi dopo essere entrati in Italia[255].

Il Borbone s'avviò alla volta di Bologna ma assai lentamente. La sua situazione era pericolosissima, perchè non avendo danaro per far condurre le vittovaglie, e pochissima cavalleria per procurarsene a qualche distanza, era costretto di distribuire la sua truppa sopra una vasta estensione di paese perchè potesse alimentarsi con quello che trovava. Ma il Borbone aveva che fare con un generale troppo lento e troppo cauto per temere qualche sorpresa. Il duca d'Urbino, dopo essersi lungamente consigliato se passerebbe il Po coll'armata veneziana, aveva in ultimo adottato il bizzarro progetto di tenere continuamente il duca di Borbone fra due armate, che sempre ricuserebbero di venire a battaglia. L'una davanti anderebbe sempre rinculando di mano in mano che il Borbone avanzerebbe, lasciando guarnigione in tutte le città, presso alle quali doveva passare il Borbone; e quest'armata comandata dal marchese di Saluzzo era composta di Francesi, di Svizzeri e di soldati della Chiesa. L'altra, alle spalle, comandata dal duca d'Urbino, doveva essere formata da tutte le truppe veneziane, e tenere dietro agl'imperiali a trenta miglia di distanza per inquietarli nella loro marcia, tagliar loro le comunicazioni, ed impedir loro di ricevere rinforzi[256].

Un tale progetto non era altrimenti fatto per mettere coraggio ai paesi minacciati dal Borbone, ed in particolare alla Toscana e allo stato del papa[257]. Imperciocchè l'armata del marchese di Saluzzo doveva ogni giorno indebolirsi per le guarnigioni che lascerebbe nelle città, e conoscevansi abbastanza il duca d'Urbino ed i Veneziani, onde tenere per certo, che il primo non si allontanerebbe troppo da' confini della repubblica. Ma il duca d'Urbino fermo nel suo sistema di non venire mai a battaglia, per conservarsi la riputazione d'invincibile, non era troppo facile a persuadere. Altronde aspettava per sè medesimo qualche vantaggio dallo spavento di Clemente VII e de' Fiorentini; era per lui un mezzo di ottenere la restituzione di san Leo e della contea di Montefeltro; e pretestò una leggiere febbre che lo assalì il 3 di gennajo a Parma, per farsi portare a Casal Maggiore, indi a Gazzuolo, ove si trattenne fino alla metà di marzo, lasciando libero il campo agli imperiali[258].

Mentre che il Borbone si andava lentamente avanzando verso Bologna, altre armate combattevano ne' contorni di Roma, e Clemente VII a seconda de' loro progressi regolava tali negoziazioni che ammorzavano il coraggio de' suoi generali. Il re di Francia, che incoraggiava sempre il papa colle più splendide promesse, non s'adoperava però mai perchè giugnessero in tempo nè i soldati nè i sussidj da lui promessi. Renzo di Ceri, che si era fatto un illustre nome nell'armata francese colla difesa di Marsiglia, era giunto il primo di dicembre del precedente anno a Savona con due galere francesi, e tre giorni dopo era stato raggiunto dal restante della flotta francese, ch'erasi subito portata sotto Genova colle galere del papa e di Venezia per ricominciare il blocco di quella città[259]. Renzo era poscia giunto a Roma col conte di Vaudemont, cui pensavasi ad assicurare il regno di Napoli, facendogli sposare Catarina de' Medici, nipote del papa, ch'ebbe poi sì gran nome come regina di Francia[260]. Il conte di Vaudemont era fratello del duca di Lorena, e perchè Francesco primo rinunciava ai suoi diritti alla corona di Napoli, si pensava a far rivivere nella casa di Lorena gli antichi diritti trasmessile dalla casa d'Angiò.

L'arrivo di un principe francese all'armata destinata a far l'impresa di Napoli, fece supporre al papa che il re manterrebbe finalmente le sue promesse tante volte rinnovate, e che i pattuiti sussidj, gli Svizzeri, gli uomini d'armi francesi, tutto finalmente arriverebbe. Infatti gli si diceva, che il danaro ch'egli aspettava gli sarebbe a giorni portato da messere Martino di Bellay, signore di Langei, quello che ci lasciò le più accurate memorie francesi di quest'epoca[261]. A ciò fidandosi il papa, l'armata della Chiesa sotto gli ordini di Agostino Trivulzio e di Vitello Vitelli si adunò a Ferentino, mentre che il vicerè trovavasi a Cepperano con quella di Napoli[262].

Quest'ultimo aveva raccolti circa dodici mila uomini; ma appena la metà di questo numero era di truppe di linea venute con lui dalla Spagna; le altre erano milizie del regno di Napoli, delle quali facevasi poco conto. In sul finir del precedente anno, egli le aveva condotte all'assedio di Frusolone, borgata senza mura, ma posta in una situazione naturalmente forte. Il Lannoi vi si lasciò sorprendere l'ultimo giorno di gennajo, e fu costretto di rientrare entro i confini del regno dopo avere perduta molta gente[263].

Questo vantaggio, e le istanze e le promesse dell'ambasciatore di Francia, e le speranze che dava Russel, ambasciatore d'Inghilterra, mossero Clemente VII a tentare la conquista del regno di Napoli. Renzo di Ceri con sei mila uomini doveva entrare negli Abruzzi, ravvivare il partito del conte di Montorio, ed occupare l'Aquila, che infatti gli aprì le porte: l'armata principale doveva portarsi dalla banda di san Germano sopra Napoli; e la flotta alleata, sotto gli ordini di Pietro Navarro, cui il papa fece abbandonare il blocco di Genova, doveva minacciare le coste della Campania[264].

Queste diverse spedizioni si cominciarono contemporaneamente a metà di febbrajo con non infelice successo: il vicerè, poco fidandosi de' suoi mezzi di difesa, ritirossi a Gaeta e don Ugo di Moncade a Napoli. La flotta saccheggiò Molo di Gaeta, prese Castellamare, Stabbia, Torre del Greco, Sorrento, e Salerno; Renzo di Ceri non ebbe dal canto suo minori vantaggi nell'Abruzzo, ove occupò Siciliano e Tagliacozzo[265]. Se la guerra si fosse continuata collo stesso vigore con cui fu cominciata, avrebbe potuto avere un felice fine. Ma bastava che i soldati sapessero di ubbidire a prelati, perchè pretendessero assai più che le truppe degli altri potentati, e rendessero molto minori servigi. Niun'altra armata era tanto incomoda ne' paesi amici; niun'era meno ubbidiente ai suoi capi o meno disciplinata; niuna consumava tante munizioni, o più facilmente saccheggiava i proprj convoglj; niuna era meno disposta a combattere; niuna rifiutavasi con maggiore ostinazione alla fatica ed al pericolo, nè aveva l'orgoglio di volere che i suoi capi credessero che tuttociò ch'era difficile fosse impossibile. Dall'altro canto il papa non poteva vincere nè la sua avarizia nè la sua irrisolutezza. Atterrito dalle grandi spese cui doveva supplire, lasciava che l'armata principale mancasse di vittovaglie e di danaro; ed essa per ciò nei primi giorni di marzo di già cominciava a sbandarsi. In pari tempo egli era sempre apparecchiato ad ascoltare le proposizioni di accomodamento che gli si facevano; onde l'imperatore ed il vicerè tenevano sempre alcuni loro negoziatori presso di lui. La flotta s'indeboliva a cagione delle guarnigioni che doveva lasciare nelle città che aveva occupate. Il cardinale Trivulzio ed il Vitelli, mancando di viveri e spaventati dall'insubordinazione dell'armata, si ritirarono da san Germano sopra Piperno; e Renzo di Ceri, abbandonato da una parte de' suoi soldati, lasciò gli Abruzzi per tornare a Roma. Così alla metà di marzo, la spedizione di Napoli che aveva avuto così prospero principio, non lasciava più sperare nessun felice fine[266].

Dalla banda della Lombardia i generali della Chiesa erano costretti a seguire i piani del duca d'Urbino, sebbene in lui non avessero veruna fiducia. Gli Spagnuoli del duca di Borbone, essendosi ammutinati il 17 di febbrajo in occasione di domandare il loro soldo, uccisero il loro sergente maggiore (ufficiale di un grado assai più elevato che non lo è a' dì nostri), perchè cercava di calmarli. Non pertanto il Borbone aveva potuto ricondurli all'ubbidienza, facendo loro comprendere che non avevano altri mezzi di trovare danaro che quello di continuare a seguirlo. Il 22 di febbrajo alloggiarono a san Donnino, che fu da loro saccheggiato; ed il giorno susseguente, il marchese di Saluzzo, il Guicciardini e Niccolò Macchiavelli, inviato dai Fiorentini presso al secondo, si ritirarono da Parma sopra Modena con undici in dodici mila uomini, che formavano l'armata della Chiesa[267].

Il Borbone tenne dietro all'armata che si ritirava; e come aveva attraversato lo stato parmigiano senz'entrare in veruna città, attraversò ancora i territorj di Reggio e di Modena; e di già stava per entrare nello stato di Bologna, quando l'armata veneziana passò il Po il 5 di marzo per trovarsi alle spalle de' nemici. Il duca d'Urbino non raggiunse i suoi soldati che il giorno 18 di marzo, dopo avere assicurato il senato veneto del più felice esito. Egli appoggiavasi non al valore della sua armata, di cui non voleva fare pericoloso esperimento, ma bensì all'imbarazzo de' suoi avversarj. Infatti il 14 di marzo era scoppiata una nuova sedizione fra i Tedeschi dell'armata di Borbone. Avevano tentato di ucciderlo; ed egli non si era sottratto al loro furore che col darsi ad una pronta fuga, mentre essi uccidevano un suo gentiluomo, saccheggiavano i suoi equipaggi. Il Marchese del Guasto calmò i sediziosi con qualche danaro che fece loro dare dal duca di Ferrara. Tre giorni dopo Giorgio Frundsberg, colpito da apoplessia, abbandonò l'armata[268]. Credevasi che i soldati ch'egli aveva adunati col suo credito, e che non vedevano effettuarsi le sue promesse, si disperderebbero, ma si mantennero fedeli ai loro stendardi[269].

Clemente VII trovavasi estremamente angustiato dalle difficoltà della sua posizione. Francesco I l'aveva spinto alla guerra colle più magnifiche promesse; ma non avevane attenuta una sola. Da principio non aveva mandate all'armata della lega le cinquecento lance, ed i quaranta mila ducati al mese, che si era obbligato di somministrare. Non aveva pure mandati i ventimila ducati di più al mese per la guerra di Napoli. Il papa aveva sostenuto solo per tre mesi tutto il peso di questa guerra, ed il primo pagamento mensile non era ancora terminato. Il danaro, che sapevasi trovarsi per istrada, non giugneva mai, e niuna delle tante promesse fatte si verificava. La flotta francese, incaricata di secondare l'impresa di Napoli, non era mai portata a numero. Dodici galere leggieri eransi unite alla flotta pontificia, ma erano assai male approvvigionate anche queste e senza truppe da sbarco. Tra le grosse navi che dovevano raggiugnere la flotta, le une mai non abbandonarono le coste della Provenza, altre non si avanzarono oltre Savona. Eppure tra gli alleati del papa, non trovavasene un altro che meritasse maggiore confidenza. I soccorsi dell'Inghilterra erano troppo incerti e troppo tardi; pareva che i Veneziani non pensassero che a sè medesimi; ed il duca d'Urbino non voleva adottare veruna misura che potesse salvare gli stati di Roma o di Firenze. Il Borbone omai toccava i confini della Toscana. Siena era zelante pel partito imperiale; Firenze, stanca di soffrire il giogo de' Medici, desiderava una rivoluzione. Vero è che nel regno di Napoli la lega da principio aveva ottenuti alcuni vantaggi; ma il papa più non aveva danaro per continuare una così disastrosa guerra, ed opponeva uno scrupolo di coscienza sconosciuto dai suoi predecessori alla proposizione fattagli più volte di vendere alcuni cappelli di cardinale. Il suo datario Ghiberti rispondeva il 17 di dicembre al vescovo di Bayeux, che, senza entrare in disamina intorno a ciò che vi era di vergognoso in questo mezzo, si era assicurato che non basterebbe, potendosene tutt'al più ricavare cento cinquanta mila ducati, che sarebbero bentosto consumati[270].

In tanta perplessità Clemente VII acconsentì all'ultimo alle proposizioni di accomodamento che gli aveva più volte fatte il vicerè; e malgrado il pericolo di separarsi da' suoi alleati, e di mettersi in balìa de' suoi nemici, il 15 marzo sottoscrisse con Cesare Fieramosca e Sernone, ministri del vicerè, una tregua di otto mesi, per prezzo della quale doveva pagare agli imperiali sessanta mila ducati, destinati per l'armata del duca di Borbone; oltre a che dovevano essere restituite le conquiste fatte dalle due parti, abolite le censure fulminate contro i Colonna, il cardinale Pompeo ristabilito nella sua dignità, ed il vicerè doveva venire a Roma per meglio guarentire il papa contro l'armata del contestabile. Se i Veneziani ed il re di Francia accettavano la tregua, durante la quale speravasi di negoziare un trattato di pace, tutte le truppe tedesche dovevano abbandonare l'Italia; se la rifiutavano, queste dovevano ritirarsi solamente dallo stato della Chiesa[271].

Clemente VII abbandonato dai suoi alleati quando la più formidabile armata si avanzava contro di lui, era, non v'ha dubbio, in pieno diritto di provvedere alla sua salvezza con un parziale trattato. Ma sembra che nè il papa, nè il datario Ghiberti, suo principale consigliere, nè altra persona della sua corte, abbia saputo apprezzare il pericolo dell'avvicinamento del Borbone; essendosi Clemente ridotto a trattare piuttosto per l'impazienza che gli cagionava la cattiva condotta delle sue truppe, e per l'imbarazzo delle sue finanze, che per timore degli imperiali. Da principio erasi in Roma dubitato che il Borbone non fosse per accettare la tregua sottoscritta dal vicerè, e seppesi poco dopo, che infatti l'aveva rifiutata. Pure il papa non volle ravvisare in questo rifiuto che una millanteria militare, o uno stratagemma per avere una maggior somma[272]. Avrebbe dovuto meglio conoscere la disordinata truppa con cui aveva che fare, composta di soldati non pagati, disubbidienti, indisciplinati, i quali parevano piuttosto condurre i loro generali che essere condotti da loro. Egli sapeva non meno che tutta l'Italia quale fosse stata pel corso di un anno la loro tirannia in Milano; doveva sapere che Giorgio Frundsberg detestava le superstizioni della Chiesa romana con un odio avvelenato dalle controversie religiose della Germania, e che portava in seno una funicella dorata, destinata, siccom'egli diceva, ad appiccare il papa colle sue mani[273]; non doveva ignorare che una parte de' di lui soldati era stata strascinata sotto le di lui bandiere non meno dal fanatismo della riforma che dall'amore della licenza militare; che gli Spagnuoli, fatti più avidi dalle rapine loro permesse a Milano, aspiravano a mettere la mano sulle ricchezze della più commerciante città d'Italia, e che solevano giurare pel glorioso sacco di Firenze[274]. Fu dunque improvvidissimo consiglio quello di disarmarsi nell'istante in cui fu sottoscritta la tregua e scrivere al cardinale Trivulzio che licenziasse la maggior parte de' suoi soldati; di rallegrarsi perchè quelli di Renzo di Ceri si erano dissipati spontaneamente; e di non ritenere per sua difesa che cento cavaleggieri, e circa due mila fanti delle bande nere formate da Giovanni de' Medici[275].

Il papa ed il vicerè avevano trattato di buona fede, e l'uno e l'altro soddisfecero alle reciproche convenzioni; ma il Borbone, forse non voleva, e certamente non poteva trattenere la sua armata. Dava non pertanto a credere che accetterebbe l'armistizio, se gli veniva assicurata una più ragguardevole somma di danaro da distribuirsi ai suoi soldati in pagamento di due mesi di soldo; e perchè a tale effetto ricominciavano le negoziazioni, negli ultimi otto giorni di marzo fece alcuni lavori intorno a Bologna, come se avesse voluto assediarla. Ma il 31 di marzo dichiarò al Guicciardini che non poteva più oltre contenere i suoi soldati, ed andò ad accamparsi a Ponte a Reno. Un messo del vicerè, che veniva ad intimargli l'ordine d'osservare la tregua, corse pericolo di essere ucciso dai Landsknecht, e dovette salvarsi con una pronta fuga; ed il marchese del Guasto, che si era separato dal duca di Borbone per non disubbidire al vicerè, ed aveva presa la strada di Napoli, fu con una militare sentenza bandito dall'armata[276].

Per altro i progetti del Borbone sembravano tuttavia difficilmente eseguibili: la primavera era assai tarda, ed era caduta molta neve sugli Appennini che l'armata imperiale doveva attraversare per entrare nella Toscana. Dessa trovavasi accampata tra Ferrara e Bologna in terreni fangosi e quasi affatto inondati. Per mancanza d'artiglierie e di munizioni non aveva potuto prendere veruna città, ond'era sempre sprovveduta di magazzini come di danaro, e viveva a giorno per giorno con quello che trovava nelle campagne. Attraversando un paese così sterile come gli Appennini, dove poteva supporre d'incontrare qualche resistenza, doveva necessariamente portare vittovaglie per più giorni; ed appunto per questo motivo il Borbone si trattenne lungo tempo ai confini del Bolognese e della Romagna, mostrando di voler prendere ora l'una ora l'altra strada, sempre minacciando e non avanzando mai[277].

Intanto continuavano con lui le negoziazioni; ma queste non contribuivano che a rendere diffidenti il duca d'Urbino ed il marchese di Saluzzo, che, vedendo il papa tanto sollecito di abbandonarli, erano sempre apparecchiati a ritirarsi. Lo stesso vicerè si pose in cammino per avere un abboccamento col Borbone, ed offrirgli, per soddisfare al debito verso l'armata, oltre il danaro promesso dal papa, altre somme da prendersi sulle entrate di Napoli o sulle straordinarie contribuzioni dei Fiorentini, i quali, trovandosi esposti prima degli altri, dovevano altresì essere i primi a riscattarsi. Ma egli non osava di avventurarsi in mezzo a quella sfrenata soldatesca, e si fermò a Firenze per trattare di colà col Borbone. Dal canto suo il Guicciardini, luogotenente generale della Chiesa in tutte le province della Lombardia, faceva istanze al senato di Venezia, al duca d'Urbino ed al marchese di Saluzzo acciò che l'armata alleata tenesse dietro al Borbone; loro rappresentando, che, quand'anche fosse vero che il papa fosse intenzionato di trattare separatamente, era del loro interesse d'impedire che non venisse oppresso; perciocchè quanto più grande sarebbe la di lui paura, tanto maggiore sarebbe la quantità del danaro che da lui tirerebbe il Borbone, danaro che poi verrebbe tutto impiegato contro la lega[278].

Prima di avanzarsi negli Appennini, il Borbone ingannò i suoi nemici con nuove negoziazioni, e mentre che dal 15 al 25 d'aprile egli si avanzava per Meldola, santa Sofia e val di Bagno, fino a Pieve santo Stefano in val d'Arno superiore, lasciò che i suoi deputati presso il vicerè sottoscrivessero una nuova convenzione, in forza della quale prometteva d'allontanarsi per una grossa somma di danaro. Dall'altro canto il Guicciardini, non essendo tranquillo intorno alla di lui equivoca condotta, aveva persuasi il marchese di Saluzzo ed il duca d'Urbino in compagnia de' quali trovavasi allora in Mugello, a passare ancor essi l'Appennino. I confini del ducato d'Urbino non erano lontani dall'armata imperiale, e questo a non dubitarne, fu il principale motivo che fece risolvere il duca ad avanzarsi[279].

Ma il Guicciardini non poteva riuscire ad ispirare al papa la medesima diffidenza; quanto più grande e più spaventoso era il pericolo, tanto più Clemente VII era determinato di chiudere gli occhi per non vederlo. Quando seppe che a Firenze era stata firmata una nuova convenzione, licenziò subito il rimanente delle sue bande nere, quasi che la conservazione di questo piccolo corpo potesse servire di pretesto all'armata imperiale per venire ad attaccarlo a Roma[280]. Nello stesso tempo rimandò per mare il signore di Vaudemont a Marsiglia, e parve dopo ciò credersi in seno alla più perfetta pace.

Ciò null'ostante poco mancò che una impensata rivoluzione non salvasse Roma a spese di Firenze. Mentre che l'armata della lega doveva acquartierarsi all'Ancisa per coprire quest'ultima città, i Fiorentini, non meno spaventati de' soldati che venivano per difenderli, che di quelli che venivano ad attaccarli, domandarono delle armi al loro governo. Questa domanda venne apertamente e caldamente appoggiata da' più riputati cittadini, quali erano Niccolò Capponi, Matteo Strozzi, ed il gonfaloniere Luigi Guicciardini, fratello dello storico; mentre che i partigiani dei Medici, sebbene conoscessero l'avversione de' loro concittadini pel giogo che sostenevano, non osavano di far palese la loro opposizione ad un così legittimo desiderio. Essi promisero che i sedici gonfalonieri, che avevano parte nel governo, distribuirebbero il 26 d'aprile le armi alle loro compagnie; ma perchè il popolo si affollava intorno al palazzo per riceverle, essi furono atterriti dall'ardore con cui quest'armi erano domandate, e non tennero parola[281]. Nello stesso tempo i tre cardinali che in allora si trovavano a Firenze, Cortona, Cibo e Ridolfi, de' quali i due ultimi vi erano stati mandati dal papa in sul finire del 1526 onde sostenere il credito del primo, si apparecchiavano ad uscire di città col giovane Ippolito de' Medici per rendere visita ai generali dell'armata alleata, acquartierata all'Olmo, non lontano da Firenze: ciò bastò perchè il popolo supponesse, che costoro, risguardando i loro affari come disperati, abbandonassero la città. L'accidente fece nascere questo rumore tra un popolaccio ignorante; ma tutta la città era così stanca del governo de' Medici e di quello de' preti, ogni cittadino sentivasi così umiliato dalla considerazione che una repubblica coperta di tanta gloria fosse ridotta nella dipendenza di un fanciullo e di prelati stranieri, che ognuno avidamente abbracciava la speranza di mettere fine a questa tirannide. Quelli ancora che ciò non credevano, s'infingevano di crederlo, per far nascere l'occasione di scuotere il giogo. La gioventù accorse verso il palazzo, gridando, viva il popolo e la libertà! La guardia loro fece pochissima resistenza, conciossiachè si posero di mezzo i più assennati cittadini, e la persuasero a ritirarsi. Gl'insorgenti si presentarono alla signoria, capo della quale era in allora Luigi Guicciardini, gonfaloniere, fratello dello storico; la costrinsero a decretare che tutti coloro che i Medici avevano condannati per delitti di stato, verrebbero ristabiliti nelle loro prerogative; che il governo verrebbe costituito come al tempo del gonfaloniere Soderini, e che i Medici sarebbero esiliati e dichiarati ribelli[282].

I cardinali, con Ippolito de' Medici, avevano imprudentissimamente continuato il loro viaggio verso l'Olmo, sebbene avessero avviso di ciò che accadeva in Firenze. Coloro che avevano apparecchiata la sollevazione, alla testa de' quali osservavasi Pietro Salviati, che le sue ricchezze e le sue parentele chiamavano ai principali onori della città, sentivano la necessità di porre immediatamente una forte guardia alle porte, di occupare gli arsenali, di far dare il giuramento ai soldati, e di trattare colla lega per procurare il di lei appoggio alla repubblica; ma loro non fu possibile di calmare abbastanza la popolare effervescenza per ottenere attenzione ed ubbidienza; e mentre che il popolo era ancora ne' trasporti della gioja, gli altri cominciavano di già a tremare per le conseguenze d'un'insurrezione, che non si trovavano più in caso di dirigere[283].

Il Salviati ed i suoi amici avevano bensì ordinato che si suonasse campana a stormo; ma i tre cardinali erano di già tornati col duca d'Urbino, il marchese di Saluzzo e mille cinquecento fanti, avanti che si fossero chiuse le porte; questi s'incamminarono subito verso la piazza e cominciarono l'assedio del palazzo, diventato la cittadella degl'insorgenti. Forse Firenze non erasi mai trovata in più grave pericolo; imperciocchè se i Medici fossero stati obbligati a far entrare nella città l'armata alleata per impadronirsi della sede del governo, avrebbero difficilmente potuto contenere i soldati, sempre avidi di saccheggio, ed ancora più difficilmente avrebbero potuto in appresso opporli all'armata del Borbone che si avvicinava. Il Guicciardini, che sentiva tutto il pericolo della sua patria, s'interpose tra le due parti; cercò di atterrire gli uni e gli altri mettendo loro sott'occhio le conseguenze della loro ostinazione, e li ridusse ad un accordo in forza del quale gl'insorgenti abbandonarono il palazzo e lo resero ai Medici, dopo avere in contraccambio ottenuta da questi un'intera amnistia, che non fu però perfettamente osservata[284].

Il duca d'Urbino prese motivo da quest'insurrezione, che abbastanza manifestava le disposizioni de' Fiorentini rispetto al papa, per domandare che questa repubblica prendesse parte in suo proprio nome nella lega con Venezia e colla Francia; di modo che più non si trovasse compresa nelle negoziazioni che Clemente VII proseguiva anche allora cogl'imperiali. Infatti la signoria si obbligò a non conchiudere verun trattato di pace coll'imperatore senza il consentimento di tutti i confederati; ed i cardinali, luogotenenti del papa, furono costretti di aderire a questo trattato che fu sottoscritto il 28 di aprile nel palazzo de' Medici[285]. Il duca d'Urbino non approfittò meno per la lega che per sè medesimo della sua presenza in Firenze con un'armata. Egli non volle partire finchè non gli furono dalla repubblica restituite la forte piazza di san Leo, principale luogo della contea di Montefeltro, e la fortezza di Majolo. Egli le riebbe in qualche modo colla forza, senza pubblica deliberazione, e senza l'approvazione dei consigli, cui soli apparteneva il dare così fatti ordini[286].

L'insurrezione di Firenze aveva avuto principio e fine in un solo giorno; pure fu cagione agli alleati di gravissimo pregiudizio, avendo impedito alla loro armata di prendere posto all'Ancisa, e potere così più facilmente tener d'occhio il duca di Borbone; accrebbe la diffidenza del duca d'Urbino e de' Veneziani, i quali, vedendo come lo stato di Firenze era poco sicuro, temettero più che mai di allontanarsi dalle proprie province; finalmente fece loro perdere un tempo prezioso, di cui il Borbone seppe approfittare[287].

Infatti questi partì il venti di aprile, dai contorni di Arezzo, alla volta di Roma, senza artiglieria, senza carri, senza munizioni; e non si lasciò trattenere nè dalle piogge, che in quella stagione furono grandissime, nè dalla mancanza di viveri. Ottenne a Siena, in allora attaccata al partito imperiale, alcuni soccorsi, che lo ajutarono a proseguire il cammino; ma non si trattenne in quello stato, come erasene lusingato Clemente VII[288]. Nel suo cammino saccheggiò Acquapendente a san Lorenzo alle Grotte; fu introdotto in Viterbo da alcuni emigrati di quella città; occupò in appresso Ronciglione, e finalmente arrivò il 5 di maggio sotto alle mura di Roma, prima che il papa avesse voluto persuadersi della sua partenza dalla Toscana[289].

Clemente VII aveva cercato una seconda volta in quegli ultimi istanti di mettersi in su le difese; ordinò nuove leve per rimpiazzare i soldati che aveva con tanta imprudenza licenziati; vendette tre cappelli di cardinale, ma non ebbe neppure il tempo di riceverne il danaro. Domandò una contribuzione volontaria ai più ricchi abitanti di Roma; ma questi, ritenendo con avara mano effetti che presto dovevano perdere, non diedero che pochi scudi, quando trattavasi di difendere tutto il rimanente de' loro beni, l'onor loro e la vita[290].

Renzo di Ceri, della casa Orsini, era stato incaricato dal papa della difesa di Roma. Quest'uomo, che in tempo della guerra della lega di Cambrai erasi renduto illustre sostenendo l'assedio di Crema, aveva veduto la sua riputazione scemare ogni giorno. In particolare Clemente VII faceva di lui pochissimo capitale; pure, per un'imbecillità che pareva strascinarlo alla sua ruina, egli gli accordò in tale occasione la più grande confidenza. Il signore di Bellay, che arrivò in poste da Firenze per avvisare il papa della marcia del Borbone, divise con Renzo di Ceri le cure di provvedere alla difesa di Roma[291]. Per rimpiazzare gli antichi soldati, che tutti erano stati di fresco licenziati, arrolarono tra i servitori de' prelati ed i bottegai di Roma, una truppa senza coraggio e senza disciplina, ed aggiunsero alcune fortificazioni dalla banda di Borgo. Questi lavori inspirarono a Renzo tanta fiducia, ch'egli si figurò di potere opporre la più ostinata resistenza all'armata di Borbone; perciò scrisse al conte Guido Rangone, che accorreva per difendere Roma con cinque mila fanti ed un piccolo corpo d'artiglieria, che farebbe meglio di andare a raggiugnere l'armata della lega, poichè la capitale aveva tutt'al più bisogno di un ajuto di sette in ottocento archibugieri[292].

Questa lettera, scritta soltanto il 4 di maggio, non trattenne in cammino il Rangone, che aspirava alla gloria di liberare la capitale della Cristianità. Aveva calcolato di giugnervi prima del Borbone, ove questi si fosse caricato di un treno d'artiglieria; e che sarebbe sempre in tempo di unirsi ai difensori della città, ove il Borbone arrivasse prima di lui per non avere condotti cannoni. Ma il 5 di maggio il Borbone presentossi ne' prati sotto Roma, e fece da un trombetta intimare la resa alla città. Clemente VII, che in diverse circostanze aveva mostrato un'eccessiva timidezza, e che anche ultimamente aveva voluto fuggire quando l'armata napolitana si avanzava sopra Frusolone, mostrò in questa circostanza un'inesplicabile fermezza. Rimandò il trombetta con disprezzo; non volle permettere di tagliare i ponti della città, per difendersi al di là del Tevere se il Borgo veniva preso; e per non ispargere il terrore, ordinò alle guardie delle porte di non permettere che si trasportassero fuori di Roma ricchezze o mercanzie[293].

La mattina del 6 di maggio il Borbone condusse le sue truppe all'assalto contro le mura di Borgo tra il Gianicolo ed il Vaticano. Qualunque si fosse lo splendore che lo accompagnava, come generale della più potente armata che allora fosse in Europa, pare che tutta sentisse la vergogna ed il pericolo della propria situazione. Principe del sangue e ribelle al suo re; francese e traditore della sua patria; cattolico e conducente contro il papa un'armata, che era nemica della religione medesima; cavaliere ed associato ad una banda di masnadieri, non poteva dissimulare a sè medesimo che meritava il disprezzo che gli avevano manifestato gli Spagnuoli, e che gli esprimevano tutti coloro che non lo temevano. Una luminosa vittoria poteva sola coprire tanti torti a' suoi proprj occhi o agli occhi degli altri; egli voleva ottenerla, o morire combattendo; e perchè, montando all'assalto, vide che i suoi fanti tedeschi lo seguivano freddamente, prese una scala, l'appoggiò egli stesso contro il muro per incoraggiarli colla propria intrepidezza; ma appena aveva incominciato a salire, che fu colpito nelle reni da una palla di moschetto tirata dall'alto delle mura, che gli passò il fianco e la coscia destra[294]. Sentì subito che il colpo era mortale; pure conservò tanta presenza di spirito da domandare a quelli che gli stavano intorno di coprire il suo corpo col suo mantello, onde i soldati non si accorgessero della sua caduta; così egli spirò ai piedi delle mura, mentre che continuava l'assalto[295].

La morte del Borbone non si potè tenere lungamente nascosta ai soldati; ma invece di scoraggiarli, parve eccitarli alla vendetta. Gli Svizzeri della guardia del papa avevano difese le mura valorosamente, ed una batteria posta sull'alto del colle, che prendeva di fianco gli assedianti, loro uccideva molta gente; ma una densa nebbia, che si levò dopo che il sole apparve sull'orizzonte, impedì agli artiglieri di ben dirigere i loro colpi. Gli Spagnuoli ne approfittarono onde entrare in città per alcune piccole case attigue alle mura; dall'altro canto i Tedeschi superarono le trincee, e s'impadronirono del baluardo. Prima di riuscirvi gli assalitori avevano avuto un migliajo d'uomini uccisi, ma ne fecero orribile vendetta su quella parte della gioventù romana che combatteva sotto le insegne de' proprj caporioni, e che trovavasi chiusa tra gli Spagnuoli ed i Tedeschi. Fu uccisa tutta senza pietà, sebbene la maggior parte di questi giovani avesse gettate le armi, e domandasse la vita in ginocchioni[296].

Durante la battaglia, Clemente VII stava pregando innanzi all'altare della sua cappella in Vaticano. Quando le grida de' soldati gli annunciarono la presa della città, fuggì dal suo palazzo in castel sant'Angelo pel lungo corridojo che, innalzato su doppia muraglia al di sopra delle più alte case, attraversa tutta la città Leonina, e dà comunicazione al Vaticano colla fortezza. Lo storico Paolo Giovio, che seguiva Clemente VII, teneva rialzata la di lui lunga veste perchè potesse più speditamente camminare, e l'aveva coperto col suo cappello e col suo mantello violetto, per timore che il papa, attraversando il ponte che lo lasciava vedere a discoperto, non fosse riconosciuto pel suo rocchetto bianco, e preso di mira da qualche furibondo soldato. Da tutta la lunghezza del corritojo Clemente VII vedeva al di sotto di sè la miserabile fuga de' suoi, ed i barbari che inseguendoli gli assassinavano a colpi di picche e di alabarde. Sette in otto mila romani vennero uccisi in questo primo giorno[297].

Dopo essere entrato in castello, il papa aveva ancora tempo di fuggire pel ponte degli angeli che era sotto la protezione della sua artiglieria, di attraversare le strade di Roma sotto la scorta della sua cavalleria, e mettersi in salvo. La fresca memoria della sua cattività in Castel sant'Angelo doveva fargli sentire quanto quest'asilo fosse mal sicuro; ma lo spavento ond'era compreso non gli permise di passare più avanti; egli si lasciò chiudere coi cardinali ed i prelati del suo seguito in castel sant'Angelo; ove Filippo Serbelloni collo spagnuolo Mendanez lo assediarono[298].

L'armata che si precipitava in Roma, contava in allora quaranta mila uomini. È bensì vero che Frundsberg non aveva condotti che quattordici mila landsknecht, ai quali si erano uniti in Lombardia sei mila Spagnuoli; ma vi si era in appresso aggiunta l'infanteria italiana del Calabrese Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga, chiamato il Rodomonte. Inoltre aveva quest'armata raccolti lungo il cammino moltissimi cavaleggieri, il di cui comando era stato dato a Filiberto di Chalons, principe d'Orange, ed a Ferdinando Gonzaga; erasi ingrossata coi disertori dell'armata della lega e coi soldati licenziati dal papa, coi banditi e coi vagabondi, erranti prima per tutti i paesi che aveva attraversati, e chiamati sotto le sue bandiere dall'allettamento del saccheggio[299].

Il Borgo di Roma ed il quartiere del Vaticano furono subito saccheggiati; ed in quella prima ebbrezza della vittoria il sacrilego furore de' soldati parve meno ributtante, sebbene non avesse risparmiati nè i conventi, nè le chiese, nè il palazzo del papa, nè il tempio di san Pietro, cattedrale del mondo cristiano. Ma i soldati, non contenti delle ricchezze di questi due quartieri, presero ancora d'assalto quello di Transtevere, e perchè i ponti non erano stati tagliati, trovaronsi padroni di tutta Roma, ove Luigi Gonzaga fu il primo ad entrare per ponte Sisto alla testa dell'infanteria italiana[300].

Forse giammai nella storia dell'universo si troverà che una grandissima capitale sia stata abbandonata a più atroce abuso della vittoria; giammai una potente armata si formò di soldati più feroci, e più intolleranti del giogo d'ogni militare disciplina; nè mai il sovrano, nel di cui nome cotesta armata combatteva, era stato più indifferente alle calamità dei vinti. Non bastò già il lasciare in balìa della rapacità de' soldati tutte affatto le ricchezze sacre e profane dalla pietà dei popoli o dalla loro industria adunate nella capitale del mondo cristiano, che ancora le persone degl'infelici abitanti furono abbandonate al capriccio, e alla brutalità di sfrenata soldatesca. Mentre che le donne di ogni condizione erano vittima dell'incontinenza de' vincitori, coloro che rendevansi sospetti di avere ricchezze nascoste, o credito presso gli altri, erano posti alla tortura, ed obbligati con prolungati tormenti a vuotare le borse degli amici che potevano avere in altri paesi. Molti prelati morirono in mezzo ai tormenti; molti altri, dopo essersi riscattati, morirono in conseguenza de' sofferti strapazzi, della loro afflizione, o del loro spavento. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali senza che i soldati volessero distinguere i guelfi dai ghibellini, o accordare una salvaguardia a coloro ch'erano conosciutissimi pel loro attaccamento al partito imperiale. Soltanto fu ad alcuni permesso di riscattarsi col danaro; e perchè i mercanti avevano deposti i proprj effetti nelle loro case supponendo di porli in luogo sicuro, questi mercanti pagarono spesso enormi somme per sottrarle ai soldati. La marchesa di Mantova riscattò il suo palazzo per cinquanta mila ducati, e si dice che suo figlio ne toccasse per la parte sua dieci mila. Il cardinale di Siena, dopo avere pagata la propria taglia agli Spagnuoli, fu fatto prigioniero da' Tedeschi, spogliato d'ogni avere, battuto e forzato di riscattare nuovamente la sua sola persona con cinque mila ducati. La stessa sventura toccò ai cardinali della Minerva e di Ponzetta. Nè i prelati tedeschi o spagnuoli furono da' loro compatriotti risparmiati più che gl'Italiani. Udivansi eccheggiare in tutte le case le grida ed i pianti degl'infelici esposti alla tortura; le piazze avanti a tutte le chiese erano sparse d'arredi d'altari, di reliquie e di tutte le cose sacre, che i soldati buttavano in terra dopo averne strappato l'oro e l'argento. I luterani tedeschi, aggiugnendo alla cupidigia il fanatismo religioso, si sforzavano di mostrare il loro disprezzo per le pompe della chiesa romana, e di profanare tuttociò che rispettavano que' popoli ch'essi dicevano idolatri. Per altro passati i primi giorni di furore, ne' quali essi avrebbero voluto uccidere tutti coloro che avevano impugnate le armi, i Tedeschi più non isguainarono la spada; anzi si addolcirono in modo, che i loro prigionieri si poterono riscattare a bassissimo prezzo. Allora ad altro più non pensarono che a bevere, ad ammassare danaro ed a distruggere i quadri e le statue che loro sembravano monumenti d'idolatria. Ma infinitamente più avidi e più crudeli erano gli Spagnuoli; la loro sete dell'oro mai non iscemava, e perchè il loro cuore era affatto chiuso alla pietà, andavano moltiplicando i tormenti per costringere i loro prigionieri ad iscuoprire tuttociò che tenevano nascosto. Gl'Italiani e specialmente quelli dell'Abruzzo imitavano i vizj delle due nazioni cui si erano associati, e senza pareggiarli nel valore, cercavano se non altro di essere egualmente crudeli ed empj[301].

Il cardinale Pompeo Colonna entrò in Roma due giorni dopo presa la città, per godere dell'umiliazione di Clemente VII. Fu seguito da una folla di contadini dei suoi feudi, che poco prima erano stati barbaramente saccheggiati per ordine del papa, e che si vendicarono saccheggiando tutte quelle case di Roma, ove restavano ancora i meno preziosi effetti che non avevano tentata l'avidità de' soldati. Per altro Pompeo fu compreso da profondo dolore, quando vide la miseria in cui aveva contribuito a precipitare la sua patria; aprì la sua casa a tutti coloro che vi si vollero rifugiare, riscattò col suo danaro i cardinali prigionieri senza distinzione di partito amico o nemico, e salvò la vita a tanti miserabili, che, avendo ogni cosa perduta, sarebbero senza di lui periti di fame[302].

Lo stesso giorno in cui l'armata imperiale era entrata in Roma, il conte Guido Rangone era giunto fino a Ponte Salario co' suoi cavaleggieri ed ottocento archibugieri. Se la città avesse resistito soltanto ventiquattr'ore, sarebbe arrivato a tempo per difenderla e per salvarla. Quando seppe l'accaduto si ritirò fino ad Otricoli per riunirvisi al restante della sua truppa. Il duca d'Urbino ed il marchese di Saluzzo camminavano assai più lentamente: erano partiti soltanto il 3 di maggio da Firenze, ed il marchese non arrivò ad Orvieto che il giorno 11, di dove fece un tentativo per cavare di notte il papa da castel sant'Angelo; ma non riuscì, perchè Federigo da Bozzolo, che conduceva il distaccamento, si ferì cadendo di cavallo. Il duca d'Urbino giunse ad Orvieto cinque giorni più tardi, perchè, in passando, volle fare una rivoluzione in Perugia, di dove scacciò Gentile Baglioni, partigiano de' Medici, per darne il governo ai figliuoli di quel Gian Paolo Baglioni che Leon X aveva fatto morire[303].

Pretese il duca d'Urbino di non poter tentar nulla, perchè, avendo allora passata in revista la sua armata, non trovò che diciassette mila combattenti invece di trenta mila che doveva averne. Pure sotto qualunque altro capo quest'armata sarebbe bastata per iscacciare gl'imperiali da Roma, perciocchè i soldati spagnuoli e tedeschi, perduti nelle dissolutezze d'ogni maniera, più non ubbidivano alla voce de' loro capitani, e non avevano verun rispetto per Filiberto di Chalons, principe d'Orange, ch'essi avevano eletto loro capo invece del contestabile di Borbone. Non si volevano a nessun patto staccare dal saccheggio per soddisfare a verun ufficio militare, e quando un falso allarme faceva chiamare al campo i soldati, niuno veniva a porsi sotto le bandiere[304].

Ma il duca d'Urbino, costante nel suo sistema di non esporre la sua armata ad una battaglia, non aveva nemmeno avuto mai il pensiero di attaccare gl'imperiali; ed apertamente diceva che non penserebbe a farlo, se non che quando potrebbe aggiugnere alla sua armata sedici mila Svizzeri, levati con licenza de' cantoni; e che ne abbisognerebbero anzi ventiquattro mila, se in quest'intervallo di tempo l'armata imperiale riceveva i soccorsi che poteva facilmente tirare dal regno di Napoli[305]. Egli pareva non sentire compassione degli sgraziati Romani, e nel consiglio di guerra adunato ad Orvieto, trattò soltanto intorno al modo di cavare Clemente VII da castel sant'Angelo, ov'era assediato. Quest'impresa, sotto la protezione di così numerosa armata, non sembrava altrimenti difficile; i Francesi ardentemente la desideravano per l'onore del loro re, ed il consiglio dei Pregadi di Venezia aveva dati pressanti ordini al suo generale di soccorrere il suo alleato. Soltanto il duca d'Urbino, il di cui odio e rancore contro la casa de' Medici andavano avidamente in traccia di pretesti nel suo timido sistema di tattica, faceva ogni momento nascere nuovi ostacoli. Il papa lo faceva invitare a venire ad accamparsi alla croce di Monte Mario, fortissima posizione in faccia a castel sant'Angelo, di dove avrebbe a tutte l'ore potuto facilmente intendersi cogli assediati per mezzo di segni, ma egli non volle mai passare al di là di Tre-Capanne. Tuttavolta il suo avvicinamento fece sì che Clemente VII ricusasse di capitolare a condizioni quasi già acconsentite. Allora il duca d'Urbino, dopo avere date agli assediati vane speranze, appunto come aveva praticato nel precedente anno col duca di Milano, s'allontanò da Roma il 1.º di giugno, ed andò ad accamparsi a Monterosi[306].

Il vicerè di Napoli erasi affrettato di portarsi a Roma dietro gl'inviti dello stesso papa, che lusingavasi di avere da lui migliori condizioni; ma questi, accorgendosi che l'armata lo vedeva assai di mal occhio, ripartì alla volta di Napoli. Cammin facendo incontrò il marchese del Guasto, Ugo di Moncade ed Alarcone, che lo persuasero a tornare a dietro, onde conservare qualche autorità sopra un'armata che omai quasi sottraevasi all'imperatore. Tornò infatti; ma non gli si lasciò prendere veruna parte negli affari della guerra o della pace[307].

La capitolazione del papa venne sottoscritta il 6 di giugno, press'a poco alle medesime condizioni rifiutate sei giorni prima. Egli si obbligava di pagare all'armata quattrocento mila ducati; cento mila immediatamente, cinquanta mila entro venti giorni, e gli altri dugento cinquanta mila nel termine di due mesi. Fino all'intero pagamento de' primi cento cinquanta mila ducati, doveva restare prigioniero in castel sant'Angelo, unitamente ai tredici cardinali che lo avevano seguito. In appresso potrebbe recarsi a Napoli o a Gaeta, per aspettare colà gli ordini dell'imperatore. Si obbligava di consegnare alle truppe imperiali le città di Parma, Piacenza e Modena, ed a ricevere guarnigione ne' castelli di sant'Angelo, di Ostia, di Cività Castellana, e di Cività Vecchia. Prometteva di assolvere i Colonna da tutte le censure ecclesiastiche, e di dare ostaggi per l'osservanza di tutte queste condizioni. Dopo aver firmato questo trattato, quello stesso capitano Alarcone, che aveva custodito Francesco I in tempo della sua prigionia, entrò in castel sant'Angelo con tre compagnie spagnuole e tre tedesche, per prendere il papa sotto la sua guardia[308].

La capitolazione fu religiosamente eseguita in tuttociò che spettava al papa; ma il governo della Chiesa pareva disciolto dalla prigionia del suo capo, e le più lontane piazze ricusarono di ubbidirgli. Cività Castellana era custodita dalle truppe della Lega, Cività Vecchia da Andrea Doria che la riteneva come pegno di 14,000 scudi di soldo a lui dovuti, Parma e Piacenza, detestando il governo spagnuolo, non vollero aprire le loro porte al commissario imperiale che si presentò per prenderne possesso. Modena, difesa dal conte Luigi Rangoni, fratello di Guido, con soli cinquecento fanti, fu attaccata in principio di giugno dal duca di Ferrara con dugento lance, sei mila fanti e molta artiglieria, e fu forzata a capitolare il 5 di giugno[309]. Gli stessi alleati del papa vollero approfittare della sua disgrazia; i Veneziani occuparono Ravenna e Cervia perdute in tempo della lega di Cambray, e Sigismondo Malatesta s'impadronì della città e della fortezza di Rimini, antico principato della sua famiglia[310].

Clemente VII non considerava la sua sovranità nello stato della Chiesa che come vitalizia, mentre che la grandezza ereditaria della casa de' Medici era attaccata all'ubbidienza de' Fiorentini. Sebbene non avesse nè figliuoli, nè parenti prossimi, era però tutto intento a perpetuare il potere della sua famiglia, e disposto a sagrificare all'orgoglio del suo nome assai più che Leon X, suo cugino. Ma quantunque volesse conservare Firenze, poca cura prendevasi di risparmiarla; perciocchè quanto preferiva il bene de' suoi eredi a quello della sua patria, altrettanto preferiva sè stesso agli eredi; onde, nelle guerre in cui strascinava la repubblica senza che questa vi avesse verun diretto interesse, tutte le volte che rendevasi necessario un prestito, o che una spesa straordinaria richiedeva una contribuzione di guerra, ne faceva sempre cadere il peso sui Fiorentini, i quali, avendo assolutamente cessato di avere un'importanza politica, di essere contati tra le potenze d'Europa, e di avere un diretto interesse negli avvenimenti, vedevansi non pertanto ruinati dall'ambizione della casa de' Medici. La conquista e la difesa del ducato d'Urbino aveva loro costato cinquecento mila fiorini; indi al primo pericolo erano stati costretti di restituire al duca la fortezza di san Leo, e la contea di Montefeltro, che loro erano state date in compenso delle fatte sovvenzioni[311]. Avevano inoltre spesi cinquecento mila fiorini nella guerra intrapresa da Leon X contro la Francia, ne avevano pagati trecento mila ai capitani imperiali ed al vicerè durante l'amministrazione del cardinale Giulio dei Medici, e dopo che questo stesso Giulio era diventato papa, avevano dati altri sei cento mila fiorini per la guerra ch'egli faceva contro l'imperatore[312]. Da troppi mali erano simultaneamente oppressi; avevano perduta la libertà, e continuavano a portare un peso d'imposte che doveva schiacciare qualunque popolo che non fosse libero. Perciò i Fiorentini avevano quasi tutti lo stesso desiderio di cogliere il momento in cui verrebbe loro fatto di scuotere il giogo de' Medici.

La presa di Roma e la prigionia del papa in castel sant'Angelo distruggevano la potenza di questa casa. I tre cardinali che Clemente VII teneva in Firenze come amministratori della repubblica e tutori dei due bastardi, Ippolito ed Alessandro, non potevano dubitarne. Avevano essi ricevuta la notizia della catastrofe l'undici di maggio; cercarono di tenerla celata, spargendo contrarie voci; ma già da molto tempo il popolo erasi avvezzato a non dar loro credenza[313].

Tutti i più riputati uomini della città, tutti coloro che discendevano da illustri antiche famiglie si recarono presso Silvio Passerini, cardinale di Cortona, nel palazzo de' Medici, non più in abito militare, come nella precedente insurrezione, ma col lucco e col capuccio, abito civile proprio de' Fiorentini che accresceva loro gravità, e gli domandarono di restituire pacificamente alla patria una libertà, alla quale egli più non poteva porre impedimento[314]. Vedevasi alla loro testa Niccolò Capponi il più zelante degli amici della libertà, che di già risguardavasi come il ristauratore del nuovo governo, e con lui Filippo Strozzi suo cognato, che aveva sposata Clarice de' Medici, sorella di Lorenzo II, e figliuola di Pietro. Filippo Strozzi era stato da Clemente VII dato per ostaggio ad Ugo di Moncade in occasione della sua prima prigionia e del primo suo trattato coi Colonna; ma in appresso Clemente non aveva voluto nè dare esecuzione alle condizioni del trattato, nè prendersi cura del riscatto degli ostaggi. Vedendo il Moncade quanto lo Strozzi fosse sdegnato per quest'abbandono, lo pose spontaneamente in libertà, onde nuocere col di lui mezzo al potere pontificio in Firenze[315].

Clarice de' Medici, moglie di Filippo, non era meno irritata dello sposo. Lagnavansi ambidue di Clemente, perchè avendo egli promesso il cappello di cardinale al loro figlio Pietro, ed avendolo con tale lusinga persuaso a vestire l'abito ecclesiastico, aveva ricusato poi costantemente di dare effetto alla sua promessa. Clarice, che pel sesso e per la sua parentela coi Medici non era esposta al risentimento di quel partito, non si guardava dal ricordare a tutti coloro che lungamente erano stati attaccati alla sua famiglia, che al presente non sagrificavano altrimenti pei veri Medici la libertà della loro patria, ma per uno de' loro sudditi di provincia, il cardinale di Cortona, e per due bastardi Ippolito ed Alessandro[316].

Il cardinale di Cortona, Silvio Passerini, era di carattere debole ed irrisoluto; altronde temeva di perdere in una rivoluzione il suo tesoro personale, e difficilmente ascoltava altri consigli che quelli dell'avarizia. Il cardinale Niccolò Ridolfi, sebbene riconoscente verso la famiglia de' Medici, cui andava debitore della porpora, era non pertanto affezionato alla libertà, come lo era tutta la sua famiglia. Onofrio di Montedoglio, comandante la guarnigione di Firenze, che aveva circa tre mila uomini sotto i suoi ordini, era il solo che si mostrasse zelante per la difesa dell'autorità de' Medici. Bastava, diceva egli, di spargere un poco di danaro tra i soldati, e col mezzo loro sarebbesi sicuramente mantenuta la città ubbidiente; ma il tesoriere del comune si era nascosto perchè non si potesse forzarlo a fare una spesa pregiudicevole alla salute della patria; il cardinale Passerini non volle mettere mano al suo particolare peculio, ed il coraggio di coloro che volevano difendersi mancando col danaro con cui desso coraggio doveva essere pagato, in breve altro partito non rimase a' Medici che quello di cedere[317]. Perciò il 16 di maggio si fece una convenzione tra i principali cittadini del partito repubblicano ed il cardinale di Cortona, quale rappresentante de' Medici. Prometteva questi d'uscire di Firenze coi due giovinetti Ippolito ed Alessandro, nel mentre che i Fiorentini in contraccambio guarentivano a' Medici il godimento di tutti i loro beni, ed inoltre l'esenzione per dieci anni da ogni contribuzione straordinaria. In pari tempo si convenne che si richiamerebbe in vigore la costituzione, colla quale era stata regolata la repubblica fino al 1512[318].

Infatti il 17 di maggio i giovani Medici, accompagnati dal cardinale di Cortona, da Filippo Strozzi e da molti loro amici, partirono da Firenze senza strepito e senza violenza, e si trattennero la prima notte a Poggio a Cajano, magnifica villa fabbricata da Cosimo de' Medici. Nel susseguente giorno andarono a Pisa, la di cui fortezza avevano promesso di consegnare alla signoria con quella di Livorno. Veramente in allora sentirono qualche dispiacere di un accomodamento, che i loro amici tacciavano di debolezza, e per non essere forzati ad eseguire la convenzione, si sottrassero a quelli che gli accompagnavano, e ritiraronsi a Lucca[319]. Ad ogni modo i comandanti delle fortezze non tardarono a consegnarle ai commissarj della repubblica[320].

Questa repubblica risorgeva dopo un lungo letargo. La balìa, creata da' Medici nel 1512, e che sotto la loro direzione aveva fin allora governato lo stato, adunò il consiglio de' cento, e gli propose di ordinare il ristabilimento della costituzione popolare, qual era nel 1512; cosicchè la rivoluzione si fece ne' modi voluti dalle leggi, e venne sanzionata dalla legittima autorità; dopo ciò la balìa abdicò spontaneamente l'autorità che le era stata affidata[321].

La signoria che allora sedeva, il consiglio de' cento, e tutti i magistrati erano stati nominati da' Medici, e generalmente si conservavano affezionati a quella famiglia. Ma l'intera città, desiderosa di rientrare nel godimento della sua libertà, affrettava co' suoi voti il giorno in cui sarebbe governata da cittadini da lei scelti. I più ardenti, tra i quali distinguevasi come loro capo Anton Francesco degli Albizzi, avrebbero voluto che con aperta forza si cacciassero fuori di palazzo Antonio Nori, uomo affezionatissimo a' Medici, e tutta la signoria. Non sarebbero queste, dicevano costoro, che giuste rappresaglie delle violenze usate contro il perpetuo gonfaloniere Pietro Soderini; ma altri più saggi cittadini persuasero il popolo ad aspettare, ed in pari tempo fecero sentire al consiglio de' cento la necessità di affrettare il giorno in cui il gran consiglio sarebbe legittimamente adunato. La sala delle adunanze di questo consiglio era stata da' Medici destinata ad uso di caserma pei soldati, e bisognava distruggere le interne muraglie che vi si erano alzate. Tutta la nobile gioventù fiorentina (che tale nome erasi di già sostituito a quello più glorioso di cittadini) diede mano al lavoro. Ognuno aspirava all'onore di contribuire ad atterrare questo monumento della schiavitù della patria. La sala del supremo consiglio fu ripristinata e ripulita; indi da' preti aspersa di acqua santa, e consacrata con una messa solenne; sicchè il 21 di maggio vi si potè finalmente ragunare il consiglio generale, nel quale si contarono due mila dugento settanta cittadini fiorentini[322].

In tale consiglio i liberi suffragj del popolo elessero gonfaloniere di giustizia Niccolò Capponi, il quale doveva restare in carica tredici mesi, e dopo questo termine poteva essere riconfermato. Fu eletta una nuova signoria per restare tre mesi in funzione, perchè si volle che col primo giugno subentrasse in luogo delle creature de' Medici, invece di aspettare fino al primo di luglio. Lo stesso gran consiglio elesse ancora i decemviri della libertà e gli otto signori della guardia; creò di nuovo il consiglio degli ottanta, destinato a mantenere l'equilibrio tra il governo ed il popolo. Tutti questi magistrati, veri rappresentanti de' loro concittadini, vennero installati nelle loro funzioni, ed il 2 di giugno una solenne processione di tutti i membri del governo e di tutto il clero, seguita dalla folla de' cittadini, andò in tutte le principali chiese a ringraziare Iddio della ricuperata libertà[323].

CAPITOLO CXIX.

Il Lautrec conduce un'armata francese sotto Napoli, e lo blocca; vittoria ottenuta dalla sua flotta su quella degli Spagnuoli; malattia nel suo campo, sua morte, e capitolazione della sua armata. Andrea Doria passa al partito imperiale, e cambia il governo di Genova.

1527 = 1528. Nel quattordicesimo secolo, mentre i papi tenevano la loro corte in Avignone, dessi erano i soli tra i potentati che non temessero d'avvilupparsi in perpetue guerre. Qualunque si fossero le disgrazie delle loro armate, essi non soffrivano nulla dalla desolazione de' loro popoli, dal saccheggio delle loro città, o anche della loro capitale; stando in Avignone, non si accorgevano de' patimenti intollerabili dell'Italia; le grida del popolo non giugnevano fino a loro per isforzarli a fare la pace; e sempre erano circondati da cortigiani, da ministri, da interessati adulatori, i quali, non potendo migliorare la propria fortuna che colla guerra, sforzavansi di far loro credere, che l'onore, la religione, gl'interessi della fede e quelli della Chiesa richiedevano la continuazione delle ostilità. Ciò che nel quattordicesimo secolo era una particolare condizione della Chiesa Romana, in principio del sedicesimo era quella di tutti i monarchi della Cristianità, ad eccezione del solo papa. Dopo che gli stati eransi molto aggranditi, la guerra non oltrepassava mai i loro confini, e non metteva mai in pericolo l'esistenza de' re.

Carlo V, in età di ventisette anni, aveva di già fatto prigionieri il re di Francia, quello di Navarra, ed il papa; pure fin allora mai non si era posto alla testa di veruna delle sue armate; egli non conosceva il terribile spettacolo di un campo di battaglia, nè la miseria o la desolazione di una città presa d'assalto, nè i prolungati tormenti de' borghesi presso i quali acquartierava senza pagarla un'armata. I suoi cortigiani si davano ogni cura per celare all' invincibile Augusto le particolarità che avrebbero potuto affliggerlo; lo andavano intrattenendo intorno agl'interessi della sua gloria: Carlo V teneva dietro a' progetti della sua ambizione; e quando la prodigalità della sua corte, o l'assurdo sistema delle sue finanze facevano mancare il danaro necessario ai generali per terminare un'intrapresa, tutti facevansi un dovere di dissimulare le calamità d'una lontana provincia, o le rappresentavano quale necessaria conseguenza d'una magnanima politica. In appresso Carlo V condusse egli stesso le sue armate; allora sentì meglio la necessità della pace, e la sua ambizione dovette spesso piegare in faccia alle circostanze. Ma i di lui successori, Filippo II, Filippo III, Filippo IV, che mai non uscivano dalle solitudini dell'escuriale, ed erano inaccessibili agli occhi di tutti, sordi a tutte le lagnanze, a tutti i gemiti, mai non rinunciarono ai loro ambiziosi progetti nè per timore, nè per compassione. Perchè mai non videro la guerra, la fecero continuamente; mai non conobbero le calamità che cagionarono pel corso di un secolo, oppure non vollero aver pietà mai delle altrui miserie. Furono visti protrarre d'uno in altro anno il sacco delle città, i guasti delle campagne, pel possedimento d'una miserabile provincia, per una sterile prerogativa, per una contesa d'etichetta, o talvolta ancora per infingardaggine, perchè non sapevano prendere una risoluzione.

Enrico VIII, re d'Inghilterra, che nella stessa epoca aveva in Europa acquistata una così grande preponderanza, era ancora più che i monarchi di casa d'Austria lontano da' pericoli della guerra; il di lui popolo non ne conosceva il peso che per l'accrescimento delle sue spese; e la vanità d'Enrico VIII veniva lusingata dall'importanza militare che si era acquistata. Figuravasi, secondo il comune errore de' re, che, sebbene non si mostrasse mai alle armate, poteva non pertanto raccogliere gloria dalle battaglie vinte in suo nome, sebbene non vi avesse dato veruna prova nè di talento, nè di valore.

Fino alla battaglia di Pavia, Francesco I era stato egualmente sordo alle lagnanze de' popoli, ed insensibile alle loro calamità. Gloriavasi d'avere liberati i re di Francia dalla tutela de' paggi ( hors de pages ), ossia di essersi condotto a seconda delle sue fantasie senza ascoltare le rimostranze, o senza consultare gl'interessi de' suoi sudditi. Egli non era insensibile, e la vista de' patimenti da lui cagionati avrebbero potuto commoverlo, se l'estrema sua leggerezza e la sua estrema inclinazione per i piaceri non avessero sempre distratta la sua attenzione da' suoi doveri. Mentre le sue armate si disperdevano per non essere pagate; che le sue città mal provvedute e peggio difese venivano prese d'assalto; che le requisizioni de' suoi generali facevano che in Italia si avesse in orrore il nome della Francia; egli prodigalizzava alle sue amanti il danaro dello stato, dissipava in feste inutili i tesori che sarebbero bastati per difendere l'indipendenza e la gloria nazionale. Finalmente la cattività aveva tutt'ad un tratto manifestato a Francesco I, e l'esistenza della sventura, e i pericoli del suo regno, ed il bisogno che i suoi popoli avevano della pace. Dopo quest'epoca aveva perduta l'antica sua confidenza nella propria fortuna, il suo allegro carattere aveva sentito gli effetti della calamità; ed egli, obbligato a continuare la guerra, lo aveva fatto senza ardore, e sempre desiderando, sempre cercando una pace che gli restituisse i suoi figliuoli, e facesse cessare quello stato d'inquietudine e di timore in cui si trovava.

Ma una dura esperienza può cambiare un carattere debole ed incostante, senza per altro riformarlo. Francesco I nella sua prosperità intraprendeva la guerra con leggerezza, ed in appresso la trascurava per instabilità di carattere: dopo avere provata la disgrazia, ascoltò i consiglj di una timidità fin allora a lui sconosciuta; prima di tutto più non volle esporsi; e desiderando la pace, non seppe vedere che uno de' mezzi di ottenerla era quello di spingere vigorosamente la guerra nel momento favorevole. Egli mai non seppe risolversi a dare agl'Italiani quegli ajuti che gli avrebbero fatto infallibilmente trionfare; lasciò che fossero oppressi, prima di muoversi di buona fede, e le loro perdite, cagionate dalle sue lentezze, gli costarono assai più sangue e danaro che non abbisognavano due anni prima per ottenere le più luminose vittorie. Le afflizioni, abbattendo il suo coraggio, non distrussero il suo gusto per i piaceri, l'abitudine del dissipamento era inveterato in lui; la distrazione sembravagli tanto più necessaria, quanto maggiori erano le sue inquietudini; ed una continuata applicazione era per lui diventato un insopportabile peso. I suoi amori, la sua galanteria non lo occupavano meno che avanti la prigionia, e la loro influenza non gli fu dopo quest'epoca meno funesta[324].

Giammai le calamità della guerra non avrebbero dovuto far desiderare più vivamente la pace ai sovrani, che dopo la presa di Roma. Gli è il vero che l'imperatore aveva fatta un'insperata conquista, ma l'aveva ottenuta con un'armata che da molto tempo egli non era più in istato di pagare, e che in certo modo non era più dipendente da' suoi ordini. I suoi soldati ben potevano ruinare affatto i suoi nemici; ma essi più non conoscevano i di lui ordini, nè ubbidivano ai di lui generali, nè gli davano veruna guarenzia per l'avvenire. Così Carlo V dopo il sacco di Roma si trovava tanto lontano dal compimento de' suoi progetti, quanto lo era prima della guerra. Dal canto loro gli alleati avevano sperimentato quanto poco dovessero fidarsi gli uni degli altri; avevano veduto che ognuno di loro cercava di rigettare sui suoi alleati il peso della guerra, e di sottrarsi all'adempimento delle più positive obbligazioni; avevano veduto che il loro generale, il duca d'Urbino, giugneva sempre a tempo per essere testimonio delle calamità delle loro province, giammai per prevenirle; e ben potevano essere persuasi che il generale esaurimento, che la vicendevole diffidenza, e che lo scoraggiamento delle truppe, andrebbero ogni anno crescendo senza ch'essi potessero apporvi rimedio.

La notizia della presa e del sacco di Roma comprese d'orrore e di spavento tutta l'Europa. Lo stesso Carlo V non volle agli occhi de' suoi sudditi rendersi risponsabile delle atrocità commesse in suo nome. Fece sospendere le feste che erano state ordinate in Ispagna per la nascita di suo figlio Filippo; ordinò preghiere per la libertà del papa, come se non fosse in sua mano l'accordarla; e scrisse il 2 di agosto al re d'Inghilterra ed a tutti gli altri sovrani, per giustificarsi di una violenza, che protestava essere stata commessa contro il suo volere[325].

Ma d'altra parte i re di Francia e d'Inghilterra, partecipando ai sentimenti de' loro sudditi e di tutta l'Europa, sembravano disposti a vendicare il papa ed a rendergli colla forza delle armi una libertà ch'egli non aveva perduta che per essere stato da loro abbandonato. Il cardinale Wolsey partì da Londra il 3 di luglio per venire ad abboccarsi in Amiens con Francesco I. Cammino facendo, ricevette le proposizioni che Carlo V avea fatte per la pace generale dopo la notizia degli affari d'Italia, e sebbene le sue proposizioni si avvicinassero alle domande di Francesco I, i due re non vollero accettarle. Il 18 di agosto sottoscrissero un trattato d'alleanza, il di cui scopo era di far rimettere in libertà il papa ed i due figli del re di Francia, fissando il prezzo del riscatto degli ultimi due a due milioni di scudi d'oro, lasciando la Borgogna a Francesco I, ed il ducato di Milano alla casa Sforza. Domandò Enrico VIII che il comando dell'armata francese che scenderebbe in Italia si confidasse al signore di Lautrec, e promise di pagare trentadue mila ducati al mese per le spese della guerra[326].

Nello stesso tempo il cardinale Cibo invitava i cardinali suoi confratelli, che non si trovavano in potere degli Spagnuoli, a riunirsi a Bologna o a Parma, sebbene il re di Francia preferisse Avignone, per occuparsi della liberazione del capo della Chiesa, e per impedire che gli atti che gli si potessero strappare colla violenza in tempo della sua prigionia, non riuscissero pregiudicievoli alla Cristianità. Dopo qualche dubitazione il collegio de' cardinali si adunò a Parma, e di là cominciò a trattare in nome della Chiesa romana cogli alleati[327].

La peste erasi aggiunta a tutti gli altri flagelli che avevano fin allora desolata l'Italia. L'universale miseria, il cattivo alimento de' poveri, i martirj dell'animo che si accoppiavano ai patimenti del corpo avevano preparato il popolo a contrarre la contagione. Dessa era scoppiata nella parte settentrionale dell'Italia, e si era in appresso sparsa di città in città per mezzo delle licenziose armate che trascuravano ogni pulizia, e ricusavano di assoggettarsi ad ogni regolamento sanitario.

I mali trattamenti che i Romani aveano sofferti dall'armata imperiale non gli avevano che troppo disposti a ricevere la comunicazione di questo flagello. Infatti non si fu appena la peste manifestata in Roma, che vi prese un carattere ancora più spaventoso che in tutte le altre parti d'Italia. Il marchese del Guasto e don Ugo di Moncade avevano condotte in questa città le truppe che stavano nel regno di Napoli; ma bentosto l'indisciplina de' loro soldati gli aveva costretti a fuggire per porre in salvo la propria vita. Così pure il principe d'Orange aveva abbandonata l'armata per recarsi a Siena, sotto pretesto di calmare i movimenti sediziosi di quella città. Finalmente il vicerè di Napoli, Carlo di Lannoy, che si era pure allontanato, morì in Aversa in sul declinare di settembre, mentre tornava a Napoli[328].

I soldati, rimasti senza capi, si fecero più formidabili ai loro ospiti. Roma non era già stata esposta al sacco per pochi giorni, ma per più mesi; e le stesse estorsioni, i medesimi orrori che avevano accompagnato il primo ingresso degl'imperiali, si andavano rinnovando ogni giorno. Il timore della peste persuase all'ultimo le truppe spagnuole ed italiane a spargersi per le campagne romane, mentre che i Tedeschi credevano di preservarsene vivendo in una continua dissolutezza. Allora gl'imperiali saccheggiarono Terni e Narni e sforzarono Spoleti a riscattarsi con una contribuzione, mentre che il duca d'Urbino, il quale colla sua armata avrebbe dovuto coprire questa provincia, andava sempre rinculando in faccia a qualunque corpo nemico che si avanzasse[329].

Il papa, chiuso in castel sant'Angelo con tredici cardinali, sotto la guardia di Alarcone, aveva di già veduta la peste penetrare in quella fortezza, e privarlo di alcuni suoi famigliari. Egli riponeva ogni sua speranza nella generosità di Carlo V, cui erasi raccomandato. Aveva schivato di essere tradotto a Gaeta, come volevano prima farlo i luogotenenti dell'imperatore; si sottrasse altresì di essere trasportato in Ispagna, siccome era segreto desiderio di Carlo V. Ma intanto si rendeva ancora più terribile la presente sua condizione, di trovarsi prigioniero in una fortezza in cui si era introdotta la peste[330].

Con estrema difficoltà riuscì a pagare pel suo riscatto i primi cento cinquanta mila ducati, parte de' quali gli fu prestata da alcuni mercanti genovesi a condizione di riaverli sulle decime del regno di Napoli, sulla vendita dei sali a Benevento, e su tutto ciò che il papa poteva ipotecare di più liquido: ma i Tedeschi domandavano guarenzie per le altre somme promesse dal pontefice, e questi stando in prigione, non le poteva in nessun modo trovare. Aveva dati per ostaggi il suo datario G. Matteo Ghiberti, i cardinali Trivulzio e Pisani, e due suoi parenti, Giacomo Salviati, e Lorenzo Ridolfi; uno padre, l'altro fratello de' cardinali dello stesso nome. Tre volte questi ostaggi furono condotti in Campo Fiore ad una forca loro apparecchiata dai forsennati Tedeschi; di già il carnefice gli aspettava; ma i medesimi soldati che minacciavano queste vittime, loro in appresso accordavano un nuovo respiro, per non perdere il solo pegno di cui si credessero sicuri. Finalmente un giorno, dopo una lunga prigionia, questi ostaggi riuscirono in un lauto banchetto ad ubbriacare tutte le loro sentinelle, e fuggendo di notte a piedi e travestiti arrivarono fino al campo del duca d'Urbino[331].

La fuga di questi ostaggi rendette i Tedeschi più trattabili. Il marchese del Guasto tornò a Roma per riordinare l'armata, e dando due scudi ad ogni soldato, cominciò a richiamarli sotto le loro bandiere: ma la peste e la diserzione ne avevano talmente scemato il numero in una sola stagione, che invece di quaranta mila, entrati in Roma col duca di Borbone, più non se ne trovavano che dieci mila[332]. D'altra parte don Francesco Angelio, generale dei Francescani, e Verrei de Milhaud, ciambellano di Carlo V, erano arrivati a Roma con piena autorità dell'imperatore per negoziare col papa. Avevano commissione di trattarlo oramai con rispetto; ma di tenersi in guardia contro il suo risentimento e di non accordargli veruna confidenza[333]. Dopo lunghi contrasti, all'ultimo sottoscrissero con lui il 31 di ottobre una nuova convenzione, che allargava alquanto più il tempo per pagare il suo riscatto. Clemente VII doveva essere posto in libertà dopo un secondo pagamento d'altri cento dodici mila ducati da farsi alle truppe imperiali. Nel corso dei tre susseguenti mesi doveva pagarne altri dugento trent'otto mila; dare in pegno molte fortezze, ed i suoi due nipoti, Ippolito ed Alessandro, come ostaggi; accordare i prodotti d'una crociata e d'una decima ecclesiastica in Ispagna all'imperatore, e finalmente obbligarsi a tenersi neutrale nella guerra che stava per iscoppiare, sia nel ducato di Milano, sia nel regno di Napoli[334].

Ma assai prima che a così dure condizioni ricuperasse la sua libertà Clemente VII, era cominciata la guerra che i re di Francia e d'Inghilterra avevano determinato di portare in Italia. Il Lautrec, che da Francesco I era stato di mal animo nominato generale della sua armata dietro le istanze d'Enrico VIII, e che con estremo rincrescimento aveva ancor esso accettato una commissione non accompagnata dal favore del suo padrone, partì dalla corte il 30 di giugno per recarsi all'armata che si andava adunando nell'Astigiano. Doveva questa essere composta di novecento uomini d'armi, di dugento cavaleggieri e di ventisei mila fanti, sei mila de' quali erano landsknecht sotto il conte di Vaudemont, sei mila Guasconi sotto il conte Pietro Navarro, quattro mila Francesi e dieci mila Svizzeri[335]. Ma tutti questi corpi mai non si mettevano a numero; le rimesse di danaro già procedevano lentamente, ed era facile lo scorgere che con questa ostentazione di grandi forze, Francesco I pensava assai più ad affrettare le negoziazioni intavolate colla corte di Madrid pel riscatto de' suoi figliuoli, che a fare grandi imprese. I Veneziani dal canto loro avevano lasciato ridurre tanto l'armata di terra che di mare in così misero stato, che non potevasene sperare verun servigio. I soli Fiorentini, che ricuperando la loro libertà, avevano sentito risvegliarsi nel cuor loro tutto l'antico affetto per la casa di Francia, somministravano di buona fede all'armata della lega i contingenti cui si erano obbligati[336].

Mentre aspettava che la sua armata si adunasse interamente, il Lautrec, avendo avviso che il conte Luigi di Lodrone levava contribuzioni nell'Alessandrino con un grosso corpo di landsknecht, lo sforzò nel mese d'agosto a gettarsi nel castello di Bosco, ove lo assediò, e dopo dieci giorni di vivissimi attacchi lo costrinse ad arrendersi a discrezione[337]. In pari tempo Andrea Doria, allora ammiraglio della flotta francese, uscì dal porto di Marsiglia con diciassette galere e ricominciò il blocco di Genova, che, sebbene più volte interrotto, aveva omai ridotta quella città in estrema miseria. Egli aveva costrette nove galere imperiali, che portavano a Genova un grosso approviggionamento di frumento, a rifugiarsi nella rada di Porto Fino, ove le tenne alcun tempo chiuse, finchè una burrasca, allontanandolo dalla costa, loro diede opportunità di salvarsi. Pure quest'avvenimento, che pareva dovere assicurar Genova dagli attacchi del partito francese, produsse un effetto affatto contrario, perchè incoraggiò il doge Antoniotto Adorno a tentare la sorte della battaglia. Agostino Spinola, comandante della guardia, dopo avere ottenuto qualche vantaggio sulle truppe da sbarco di Andrea Doria a Porto Fino, fu mandato contro Cesare Fregoso, che staccatosi da Lautrec si era avanzato con un corpo d'armata fino a san Pier d'Arena. Incoraggiato dai precedenti vantaggi, lo Spinola non dubitò di venire a battaglia, e fu sconfitto e fatto prigioniero. I Genovesi, che da molto tempo soffrivano per la causa imperiale, non vollero esporsi a nuovi blocchi; la fazione fregoso prese in città le armi, e fu ingrossata da tutti coloro che desideravano il riposo; due deputati, Ferrari e Lomellini, furono mandati a Cesare Fregoso per offrirgli di riceverlo in città, e di mettere la repubblica sotto la protezione della Francia, purchè egli si obbligasse a non fare proscrizioni, nè vendette. Lo stesso Antoniotto Adorno, che in principio del tumulto erasi ritirato nel Castelletto, prese parte al trattato, e promise di evacuare la fortezza; in tal modo si fece la rivoluzione ne' primi giorni d'agosto senza spargimento di sangue, senza disordine, senza violenza, mercè la moderazione de' capi dei due partiti ai quali il senato decretò in comune rendimenti di grazie. L'Adorno si ritirò a Milano presso Antonio di Leyva, ove morì pochi mesi dopo senza lasciare figliuoli, e Teodoro Trivulzio, mandato a Genova da Lautrec, vi fu riconosciuto come governatore e luogotenente generale del re[338].

Intanto Lautrec stringeva d'assedio Alessandria, ove il conte Battista Lodrone aveva il comando d'una guarnigione tedesca. Il Lodrone sentivasi debole per la prigionia di suo fratello, e pel distaccamento perduto a Bosco; ma Alberico da Barbiano, conte di Belgiojoso, gli condusse cinquecento uomini a traverso alle colline dell'Alessandrino senza che i Francesi se ne accorgessero, e con questi la città si difese finchè giunsero al campo di Lautrec artiglierie e munizioni da Venezia. Gl'imperiali non capitolarono, che quando diverse brecce furono aperte nelle mura[339].

Il Lautrec volle da prima lasciare in Alessandria una guarnigione francese, sembrandogli questa città importantissima per la comunicazione della sua armata colla Liguria e la Francia. Ma Francesco Sforza riclamò contro questa violazione dei trattati, che segnava i primi passi dei Francesi in Lombardia, dovendo tutte le città del ducato di Milano a misura che venivano prese, in conformità dell'alleanza, essere consegnate al duca. I Veneziani s'interposero pel mantenimento del trattato, e Lautrec cedette. Pure non era difficile il conoscere la diffidenza che di già divideva i confederati: temevano gl'Italiani che il re non volesse appropriarsi il Milanese, o conservarsene almeno i mezzi per sagrificarlo poscia onde riavere a tale prezzo i suoi figliuoli. Dal canto suo il Lautrec teneva dalla sua corte segreti ordini di non ridurre gli affari di Lombardia ad una pronta decisione, per paura che i Veneziani, più non avendo che temere dall'imperatore, non prendessero ulteriore interessamento nel rimanente dell'impresa[340].

Dopo la sommissione d'Alessandria l'armata di Lautrec, essendosi unita con quella de' Veneziani in Lombardia, si avanzò fino ad otto miglia da Milano. Antonio di Leyva, che vi comandava, non dubitando d'essere bentosto attaccato, e non avendo per difendersi bastanti forze, richiamò all'istante quattrocento fanti della guarnigione di Pavia; e questo appunto voleva il Lautrec, che ripiegò bruscamente sopra Pavia il 28 di settembre, e non diede tempo di rientrarvi al rinforzo che n'era uscito. Luigi da Barbiano, conte di Belgiojoso, che aveva il comando di quest'ultima città, sebbene non avesse che ottocento uomini, volle pure difendersi. Il quarto giorno dopo l'attacco furono aperte nelle mura alcune brecce, onde il Belgiojoso si lasciò muovere dalle preghiere degli abitanti, ed offrì di capitolare; ma non era più tempo: la città fu presa d'assalto ed abbandonata al furore delle truppe francesi. Il nome di Pavia loro ricordava la prigionia del re e la distruzione della loro armata: ufficiali e soldati, tutti erano animati dallo stesso spirito di vendetta; e gli sventurati abitanti, che non avevano presa la più piccola parte nelle vittorie degl'imperiali furono trattati con un rigore che pareggiava la crudeltà dei Castigliani. Soltanto dopo otto giorni d'eccessi d'ogni genere il Lautrec richiamò le sue truppe alla disciplina e fece cessare il saccheggio[341].

Dopo presa Pavia i Veneziani ed il duca di Milano sollecitavano il Lautrec a terminare la conquista della Lombardia; gli rappresentavano che Antonio di Leyva era infermo, che le sue truppe erano scemate assai e scoraggiate dalle recenti vittorie de' Francesi; ma che, se gli si dava tempo, il Leyva riceverebbe i rinforzi che per lui si levavano in Germania, ed allora opporrebbe un'insuperabile resistenza. Conveniva il Lautrec che questo piano di campagna sarebbe il più conveniente; ma egli vi oppose gli espressi ordini dei re di Francia e d'Inghilterra, i quali non avevano formato la sua armata che per liberare il papa, e proseguì il suo cammino verso il mezzodì dell'Italia[342].

Il Lautrec incontrò a Piacenza gli ambasciatori di Alfonso d'Este, duca di Ferrara, e di Federico, marchese di Mantova, che, come vuole il destino dei piccoli principi, venivano ad ingrossare il partito più forte. Alfonso d'Este, malgrado gli ajuti dati di fresco al duca di Borbone, fu da Francesco I trattato con parzialità. Renata di Francia, figlia di Lodovico XII e cognata del re, fu promessa in matrimonio a suo figliuolo Ercole, portandogli in dote i ducati di Chartres e di Montargis. Il sacro collegio, adunato a Parma sotto la presidenza del cardinale Cibo, rinnovò a nome del pontefice prigioniero l'investitura di Ferrara a favore della casa d'Este, e rinunciò ad ogni sua pretesa sul Modenese. Nello stesso tempo fu promesso il cappello di cardinale ad Ippolito, secondo figlio d'Alfonso, e questi si obbligò invece a somministrare all'armata della lega cent'uomini d'armi e sei mila scudi al mese[343].

Dal canto suo la repubblica di Firenze fu chiamata a rinnovare la sua alleanza colla Francia e coi Veneziani. Il gonfaloniere Niccolò Capponi vedeva con rincrescimento i suoi concittadini prendere parte in questa guerra. Egli avrebbe giudicato più prudente consiglio il tenersi amici i due sovrani che minacciavano l'Italia; e Luigi Alamanni, che aveva di già gran nome come poeta, e che dopo la congiura contro il cardinale Giulio dei Medici era sempre vissuto in Francia, pareva avere conosciuto a quella corte quanto la repubblica dovesse poco contare sulla di lei amicizia; e perciò vivamente esortava i suoi concittadini a collegarsi con Carlo V, piuttosto che con Francesco I. Ma Firenze trovavasi in allora divisa in due partiti, dei grandi e del popolo; di già spargevasi il sospetto che i primi pensassero a richiamare i Medici, e si suppose che il Capponi e l'Alamanni non si opponessero al rinnovamento dell'alleanza che per segretamente favorirli. Tutto il partito popolare dichiarossi vivamente per la Francia; fu rinnovata l'alleanza, e le bande nere che la repubblica aveva da poco tempo prese al suo servizio, e ch'erano state portate a cinque mila uomini sotto gli ordini d'Orazio Baglioni, furono promesse al signore di Lautrec[344]. Dopo queste negoziazioni il rinnovamento della lega si pubblicò a Mantova il 7 dicembre: doveva questa comprendere papa Clemente VII, i re di Francia e d'Inghilterra, le repubbliche di Venezia e di Firenze, i duchi di Milano e di Ferrara, ed il marchese di Mantova[345].

Il papa veniva sempre nominato alla testa della santa lega destinata essenzialmente a fargli ricuperare la libertà. Pure nell'epoca press'a poco in cui si pubblicava questa lega in Mantova, egli ancora usciva dalla sua lunga prigionia di Castel sant'Angelo. Per ragunare il danaro promesso alle truppe imperiali egli era stato obbligato di porre in vendita sette cappelli di cardinale, ed altre principali dignità della Chiesa romana; aveva fatte aprire agl'imperiali le fortezze ch'erano tuttavia in suo potere; aveva dati nuovi ostaggi per guarentire il resto del suo debito; ed il giorno 10 di dic. era finalmente stato fissato per aprirgli le porte della sua prigione. Alarcone per sei interi mesi che l'ebbe in sua custodia aveva adempiuto al suo ufficio colla più rigorosa puntualità; ma l'ultimo giorno, o sia che realmente trascurasse la consueta vigilanza, o che avesse segrete istruzioni di permettere che il papa si sottraesse alle nuove domande che gli potessero essere fatte dall'armata, egli lo lasciò fuggire. Il papa presentossi il 9 di dicembre alla porta di castel sant'Angelo, come un espresso mandato dal suo proprio maestro di palazzo per apparecchiargli viveri ed alloggio; non fu riconosciuto, o le guardie finsero di non riconoscerlo, ed egli passò liberamente coperto il capo con un cappello grandissimo, ed avviluppato il corpo in un grossolano mantello; uscì quindi a piedi da Roma per la porta di un orto, poi trovato fuori delle mura un cavallo spagnuolo che lo stava aspettando, andò tutto solo ad Orvieto dove allora trovavansi accampati gli alleati[346].

Clemente VII, abbattuto da tanti patimenti e da così lunga prigionia, disperando di miglior fortuna, e rinunciando a' suoi vasti progetti, cui aveva fatti fin allora tanti sagrificj, parve, quando giunse presso gli antichi suoi confederati ad Orvieto, non avere oramai altro desiderio che quello di soddisfare al trattato conchiuso cogl'imperiali, e di tornare la pace all'Italia. Supplicò gli alleati a ritirare la loro armata dagli stati della Chiesa, poichè i generali di Carlo V gli avevano promesso di ritirare nello stesso tempo anche la loro armata da Roma; e questa sventurata capitale, esposta sette mesi continui alle ruberie d'una barbara armata, non poteva più a lungo sostenere così crudele calamità. Ma quando in principio del 1528 gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra si presentarono al papa e gli fecero calde istanze perchè si unisse alla loro lega, egli fu visto ritornare all'irrisoluzione, alle simulazioni e alla mala fede che avevano per lui avuto così fatali conseguenze, e lusingare nuovamente tutti i partiti[347].

Sebbene le ostilità si fossero ricominciate da alcuni mesi, solamente il 21 gennajo del 1528 gli ambasciatori di Venezia e d'Inghilterra si presentarono a Carlo V a Burgos per riepilogare in una pubblica udienza le lagnanze de' loro padroni, per intimargli di porre in libertà il papa ed i reali figli di Francia, e per domandare in caso di rifiuto il loro congedo, poichè delle tante proposizioni di pace che si erano discusse nel precedente anno niuna aveva potuto ottenere il vicendevole aggradimento. Agli ambasciatori tennero dietro immediatamente due araldi d'armi, che a nome dei re di Francia e d'Inghilterra dichiararono formalmente la guerra. Questo clamoroso apparato dato alla rottura delle negoziazioni irritò l'imperatore, il quale, sotto colore di provvedere alla sicurezza de' proprj ambasciatori, fece ritenere in distanza di trenta miglia gl'inviati di Francia, di Venezia e di Firenze, e non permise all'inviato del duca di Milano d'abbandonare la sua corte[348].

Francesco I fece, per rappresaglia, arrestare l'ambasciatore dell'imperatore, ed ottenne con tale mezzo che fossero posti in libertà i suoi inviati, i quali, essendo tornati in Francia, gli dissero che l'imperatore l'aveva pubblicamente chiamato mancatore di parola: Francesco rispose il 28 di marzo a Carlo V con un cartello di sfida a singolare duello per provargli che aveva mentito accusandolo: Carlo V rispose il 24 di giugno accettando la disfida, ed offrì per campo di battaglia lo stesso luogo sulla sponda dell'Andaya, ove Francesco I era stato cambiato coi suoi figliuoli. Queste disfide appagarono l'animosità dei due principi, senza che veruno di loro pensasse poi di dare effetto alla disfida[349].

Frattanto Lautrec, quando vide perduta ogni speranza di pace, mosse la sua armata per tentare la conquista del regno di Napoli. Era partito il 9 di gennajo da Bologna, tenendo la strada della Romagna e della Marca per entrare negli Abruzzi; ed infatti passò il Tronto il 10 di febbrajo[350]. Francesco I gli aveva assegnati cento trenta mila scudi al mese pel mantenimento dell'armata; e di già aveva lasciato accumulare un arretrato di dugento mila scudi, quando, dimenticando che aveva fatto perdere il Milanese allo stesso Lautrec per non avergli somministrate le somme necessarie al mantenimento dell'armata, ridusse tutt'ad un tratto a sessanta mila scudi la promessa sovvenzione, facendolo in pari tempo avvisare che non potrebbe continuarla più di tre mesi[351].

Questa notizia fu un colpo di fulmine pel Lautrec, che fin allora aveva fatto più che non erasi sperato. Tutte le città degli Abruzzi gli avevano aperte le porte, e la maggior parte, ricevendolo come loro liberatore, gli avevano mandate le loro chiavi in distanza anche di venticinque e di trenta miglia. I Veneziani gli avevano somministrato, sotto gli ordini di Pietro Pesaro e di Camillo Orsini, un'armata, la di cui cavalleria leggiere, levata nelle montagne dell'Epiro, era la migliore di quante altre allora servivano in Europa[352]. I Fiorentini, cui Lautrec aveva soltanto domandato danaro, preferirono di somministrare il loro contingente in uomini. Sentivano essi la necessità di tornare ad essere militari per difendere la loro indipendenza; avevano prese al loro servigio le bande nere formate quasi interamente di Toscani, e ne avevano affidato il comando ad Orazio, figliuolo di Gian Paolo Baglioni di Perugia; e questa truppa di quattro mila uomini era annoverata tra le più valorose e più temute dell'armata francese[353].

Se Francesco I avesse saputo approfittare dello zelo dei popoli, se con un solo sforzo avesse bastantemente provveduta la sua armata d'uomini e di danaro, avrebbe potuto nel corso d'una breve campagna scacciare gl'imperiali dall'Italia; ma l'armata di Lautrec, che stando ai ruoli mostravasi numerosissima, non fu mai portata a numero, nè vicina ad esserlo. Il Lautrec aveva consumato molto tempo nella Marca d'Ancona, aspettandovi ora gli Svizzeri, ora i Tedeschi, ora i Guasconi. Prima che uno dei corpi ch'egli doveva comandare avesse raggiunte le sue bandiere, un altro aveva di già terminato il tempo del suo servigio; perciò la sua marcia nulla aveva di quell'impeto che era stato il carattere distintivo de' Francesi nelle prime loro campagne in Italia; egli avanzavasi lentamente lasciando tempo ai suoi alleati di scoraggiarsi; e in breve il bisogno di danaro lo costrinse ad alienarsi colle sue estorsioni que' popoli che prima l'avevano ricevuto a braccia aperte[354].

Sebbene il Lautrec fosse di già entrato nel regno di Napoli, il principe d'Orange potè a stento trarre fuori di Roma l'armata imperiale per andare a combatterlo. Questa sfrenata soldatesca non voleva rinunciare alle spoglie ed alle delizie che trovava ancora nella capitale della Cristianità. Nel corso di otto mesi veruna protezione era stata accordata nè alle persone, nè alle proprietà, e siccome andavano di pari passo crescendo l'insolenza de' militari e la miseria degli abitanti, i mali della vigilia erano sempre superati da quelli del susseguente giorno. Bisognava dare danaro all'armata per persuaderla ad ubbidire di nuovo: il principe d'Orange ne domandò al papa, che colla sua corte trattenevasi tuttavia in Orvieto; e questi, malgrado la miseria cui era ridotto, malgrado i voti che faceva per la causa della lega, malgrado il timore di offendere i Francesi, diede ancora quaranta mila ducati al principe d'Orange perchè facesse uscire da Roma la sua armata, la quale infatti entrò in campagna il 17 di febbrajo. Ma sebbene i disertori fossero stati rimpiazzati dai malviventi che da ogni banda dell'Italia affrettavansi di venire a prendere parte nello spoglio della capitale della Cristianità, quest'armata, che otto mesi prima contava per lo meno quaranta mila uomini, si trovò ridotta a mille cinquecento cavalli, quattro mila Spagnuoli, due in tre mila Italiani, e cinque mila Tedeschi; essendo gli altri rimasti tutti vittima della peste[355].

Il principe d'Orange ed il duca del Guasto, avendo preso colla loro armata la strada della Campania, passarono in seguito le montagne presso Serra di Capriola e scesero nella Puglia, ove si accamparono presso le mura di Troja. Dal canto suo il Lautrec invece di portarsi con diligenza sopra Napoli, il di cui possedimento aveva quasi sempre decisa la sorte delle guerre del regno, si era trattenuto nella Puglia per riscuotere la gabella del transito de' montoni, la quale nel mese di marzo produce dagli ottanta ai cento mila scudi, e che in allora formava la principale entrata della corona. Aveva fatta la rassegna delle sue truppe a Sanseverino, ed aveva contati circa trenta mila uomini sotto i suoi ordini; era in appresso andato a Luceria, ove lo aspettava Pietro Navarro; e finalmente le due armate francese ed imperiale si trovarono in vista l'una dell'altra. Le rive d'un ruscello, che scorre tra Luceria e Troja, vennero attaccate e difese con diverse belle scaramucce di cavalleria, ma con poco spargimento di sangue, perchè i fucilieri non entrarono in battaglia[356].

Lautrec offrì più volte la battaglia al principe d'Orange ne' sette giorni che le due armate si tennero a vista l'una dell'altra; ma gl'imperiali non vollero accettarla. Per altro Lautrec non osò di attaccare i loro alloggiamenti, perchè non istimava la sua fanteria abbastanza ferma per un tale assalto; stava però tuttavia aspettando i quattro mila uomini delle bande nere al soldo de' Fiorentini, che conduceva Orazio Baglioni. Quando il principe d'Orange ebbe avviso del loro avvicinamento, risguardandole ancor esso come le migliori truppe di fanteria che in allora guerreggiassero in Italia, giudicò conveniente di ritirarsi sopra Napoli: approfittò d'una densa nebbia per uscire dal suo campo il 21 di marzo, lasciandovi, per ingannare i Francesi, alcuni fuochi accesi; e mentre attraversava le gole di Crevalcuore per rientrare nella Campania, lasciò a Melfi ser Gianni Caraccioli, principe di quella città, colla sua compagnia d'uomini d'armi, due battaglioni spagnuoli e quattro battaglioni italiani, onde trattenere i Francesi[357].

Il Lautrec, accortosi della fuga de' nemici, ed essendo entrato in Troja, ove trovò che avevano ancora molte vittovaglie, adunò un consiglio di guerra per deliberare intorno alle future operazioni. Rappresentavano Guido Rangoni, Renato di Vaudemont, Valerio Orsini, e quasi tutti i capitani, che omai niun oggetto poteva trattenere utilmente l'armata nella Puglia, ave la gabella de' montoni non aveva, a cagione della guerra, prodotto più della metà di ciò che si sperava; che per lo contrario tenendo dietro da vicino al principe d'Orange, era facile di raggiugnere l'armata nemica tuttavia imbarazzata dal bottino fatto in Roma; che questa attaccata nella sua marcia sarebbe sicuramente distrutta, tanto più che il principe d'Orange, essendo apertamente disgustato con Ugo di Moncade, succeduto al Lannoy nella carica di vicerè di Napoli, non otterrebbe da questi verun soccorso. Ma Pietro Navarro, che, come il Lautrec, consigliava sempre diversamente dagli altri, e riponeva in appresso tutto il suo orgoglio nel sostenere acremente le proprie opinioni, insistette perchè l'armata non si lasciasse alle spalle veruna fortezza, ed in particolare Melfi, piazza d'armi di ser Gianni Caraccioli, uno de' più potenti e de' più valorosi baroni del partito imperiale. Si adottò il suo consiglio; fu attaccato Melfi dallo stesso Navarro colle bande nere e colla fanteria guascona; e dopo due sanguinosissimi assalti la città fu presa il 23 di marzo, ed il castello si arrese poco dopo a discrezione: i soldati furibondi per le perdite che avevano fatte, non vollero accordare quartiere; e ad eccezione dello stesso principe di Melfi e di pochi suoi ufficiali, tutti gli altri prigionieri furono uccisi in numero di oltre tre mila, parte in città e parte nella rocca[358].

Il ritardo cagionato dall'assedio di Melfi ebbe le più funeste conseguenze per l'armata francese. Il principe d'Orange ebbe tempo di eseguire la sua ritirata sopra Napoli senza perdere un sol uomo; ebbe agio di calmare una sollevazione de' suoi soldati spagnuoli che gli domandavano i loro soldi arretrati, e di provvedere alla difesa di Napoli. Distribuì nella stessa città la sua armata, malgrado le istanze del marchese del Guasto, che voleva risparmiare ai suoi concittadini così formidabili ospiti, e farli accampare in una forte posizione fuori delle mura. Intanto il Lautrec occupava Barletta, Venosa, Ascoli e tutte le città della Puglia, tranne Manfredonia; e Gio. Moro, che aveva il comando della flotta veneziana a cagione dell'assenza dell'ammiraglio Pietro Lando, scorrendo colle sue galere le coste della terra di Bari e della terra d'Otranto, aveva di già ricevuta la capitolazione di Monopoli e di Trani, ed assediava il castello di Brindisi, dopo avere presa la città. Tre altre città ancora erano state promesse ai Veneziani in forza delle condizioni della lega; cioè Otranto, Pulignano e Molo, ed in tutte tre i popoli manifestavano altamente il loro desiderio di tornare sotto il dominio veneto. Sgraziatamente il provveditore degli Stradioti, Andrea Civran, il più valoroso, il più attivo di tutti i capitani veneziani, venne colpito, nell'assedio di Manfredonia, da una malattia che lo condusse al sepolcro; subito dopo la flotta veneziana fu da Lautrec chiamata innanzi a Napoli, per secondare le operazioni della sua armata[359].

Il Lautrec verso la metà d'aprile aveva lasciata la Puglia per accostarsi a Napoli. Aveva ricevute le capitolazioni di Capoa, di Nola, di Acerra, d'Aversa e di tutte le principali città di terra di Lavoro; per altro avanzavasi con estrema lentezza, a cagione delle grandi piogge che avevano allagato il paese, e per la difficoltà di trovar vittovaglie per una così grande armata; conciossiachè per una imperdonabile negligenza egli aveva permesso che a' suoi soldati si unisse forse il doppio numero di servitori e d'operai. Finalmente il 29 d'aprile arrivò in faccia a Napoli, ed il primo di maggio si accampò sul Poggio Reale[360].

Napoli era in allora riputata fortissima città, e le montagne lungo le quali si stendevano le sue fortificazioni si difendevano facilmente; oltrecchè al presente aveva entro le sue mura piuttosto un'armata che una guarnigione, la quale era tutta composta di soldati invecchiati nella guerra, e de' più esperti ufficiali di tutta l'Europa. Credevasi che la città non fosse sufficientemente approvvigionata; ma la più parte degli abitanti eransi ritirati ad Ischia, a Capri, e nelle altre vicine isolette, onde le loro provvigioni erano rimaste ai soldati. Lautrec, invece d'aprire le sue batterie contro Napoli, e di approfittare con un ardito attacco del naturale impeto de' Francesi, che a dir vero egli aveva di già lasciato intiepidire, si propose di affamare la città con un blocco. Gli fu inutilmente rappresentato, che mai non otterrebbe di chiudere affatto il mare agli assediati, che non sarebbe meno in pericolo di mancare di vittovaglie la sua armata che quella de' nemici, e che cominciando il caldo della state l'aria della campagna di Napoli riuscirebbe fatale ai suoi soldati. Lautrec si faceva un punto d'onore di decidere ogni cosa da sè senz'abbadare agli altrui consiglj. Faceva così grande fondamento sui bisogni degli assediati, che da prima vietò ai suoi soldati di entrare in veruna scaramuccia; ma fu bentosto forzato di rivocare quest'ordine, affinchè l'ozio e la noia non facessero perdere alla sua gente il coraggio e la salute[361].

Le due armate ricominciarono dunque ad intrattenersi ogni giorno in piccole zuffe, che spesso riuscivano sanguinose assai perchè l'infanteria leggiere armata di carabine vi prendeva parte colla cavalleria, e gli Spagnuoli da una banda, ed i Toscani delle bande nere dall'altra, erano assai destri fucilieri. Pure l'armata che difendeva Napoli, avvezza in Roma all'abuso della vittoria ed all'indisciplina, opprimeva crudelmente i Napolitani. Questi fuggivano dalla città qualunque volta potevano farlo, e si rifugiavano in Caprea, in Ischia, in Procida, o sul promontorio di Sorrento. La maggior parte de' fuggiaschi, credendo i Francesi sicuri della vittoria, o desiderando ardentemente di scuotere il crudel giogo degli Spagnuoli, passavano di là al campo di Lautrec, e si affrettavano di giurare fedeltà al re di Francia. Vincenzo Caraffa fu il primo a darne l'esempio, e fu bentosto seguito dal Caraccioli, conte di Murcone, da Ferdinando Pandoni, da Federico Gaetani e da Francesco d'Aquino. Lo stesso ser Gianni Caraccioli, fatto prigioniere a Melfi, di cui era principe, non avendo potuto ottenere d'essere riscattato dal principe d'Orange, dichiarossi pel partito angioino, e ricevette da Lautrec un comando nell'armata[362].

Gli assediati cominciavano di già a provare grandi privazioni, perchè quantunque avessero abbondante approvvigionamento di granaglie, tutti i loro mulini erano in mano de' nemici, ed erano costretti di macinare essi medesimi il frumento. Il vino, che avevano prodigalizzato ne' primi giorni dell'assedio, cominciava pure a mancare: i landsknecht visitavano tutte le cantine de' privati per trovarne, e spinsero l'insolenza loro fino a saccheggiare quelle del marchese del Guasto, uno de' loro generali[363]. Dall'altro canto i Francesi avevano di già moltissimi ammalati nel loro campo; e fu per loro una grave perdita quella d'Orazio Baglioni, colonnello delle bande nere, ucciso il 22 di maggio in una grossa scaramuccia. Gli fu sostituito il conte Ugo de' Pepoli[364].

Sperava Lautrec che il porto di Napoli verrebbe interamente chiuso agli assediati dalle flotte francese e veneziana; ma Andrea Doria, ammiraglio della flotta francese, già da gran tempo disgustato della condotta che tenevano a suo riguardo i generali, e di quella della corte di Francia verso la sua patria, non aveva voluto servire egli medesimo, e si faceva rimpiazzare da Filippino Doria, suo nipote, nel comando delle otto galere genovesi mandate all'assedio di Napoli. Dal canto suo Pietro Lando, ammiraglio dei Veneziani, non sapeva determinarsi ad abbandonare l'assedio del castello di Brindisi, e le conquiste che andava facendo sulle coste della Puglia per la sua repubblica; ad ogni modo, siccome ne aveva ricevuto positivi ordini in sul finire di maggio, gli assedianti cominciarono ad aspettare, e gli assediati a temere la di lui venuta. Don Ugo di Moncade lusingossi di poterlo prevenire, sorprendendo nel golfo di Salerno Filippino Doria, prima che gli si unisse la flotta veneziana: meditava di attaccarlo a bordo colle sue vecchie bande spagnuole, e d'impadronirsi delle sue otto galere, malgrado la superiorità de' marinaj genovesi nel manovrare. Teneva nel porto di Napoli sei galere, quattro fuste e due brigantini, sulle quali navi imbarcò mille archibugieri spagnuoli, il fiore dell'armata; andò a bordo egli stesso con quasi tutti i capitani, ed i più distinti ufficiali che si trovavano in Napoli, e si fece seguire da molte barche pescarecce, che pure caricò di soldati. Aveva sperato di trovare le galere del Doria senza guarnigione; ma questi era stato prevenuto dei progetti del nemico, ed aveva avuto tempo di far passare sulle sue galere trecento archibugieri domandati a Lautrec[365].

Filippino Doria, quando gl'imperiali si mossero per attaccarlo, incrociava nel golfo di Salerno, lungo la costa d'Amalfi, in faccia al piccola promontorio di Capo d'Orco. Non ricusò la battaglia; ma prima di farsi incontro al nemico, staccò tre galere sotto gli ordini di Niccola Lomellini, per prendere il vento a qualche distanza, e tornare in seguito, quando sarebbe attaccata la battaglia, ad urtare ne' fianchi ed in poppa le navi imperiali con tutta la forza del movimento acquistato.

Il marchese del Guasto ed Ugo di Moncade, essendo partiti la mattina del 28 maggio da Posilippo, avevano voluto incoraggiare i loro soldati a questo genere di battaglia, cui non erano accostumati, col far loro apparecchiare un pranzo nell'isola di Caprea, e farli esortare nel medesimo luogo da un eremita spagnuolo a combattere valorosamente per liberare i molti prigionieri della loro nazione che il Doria teneva incatenati nelle sue galere. A questo ritardo l'ammiraglio genovese dovette il vantaggio d'essere prevenuto dell'imminente attacco. Più non rimanevano che tre ore di giorno, quando gli Spagnuoli scoprirono le cinque galere che Filippino s'era tenute. I due vascelli ammiraglj vennero fra di loro a battaglia; ma il Doria si affrettò di far fuoco il primo onde coprirsi col proprio fumo, ed uccise colla prima scarica quaranta uomini sul ponte della galera nemica. I Genovesi, accostumati al servigio di mare, sapevano chinarsi combattendo, e tenersi nascosti dietro alla pavesata; gli Spagnuoli invece conoscevano d'essere inferiori finchè non potessero venire all'abbordaggio, che i loro nemici evitavano. Essi non avevano pavesata, ed erano maltrattati assai dal fuoco che i loro avversarj facevano dall'alto degli alberi. Ad ogni modo due navi genovesi, attaccate da tre imperiali, erano in pessimo stato condotte, e già stavano per arrendersi, quando quelle del Lomellini col vento in poppa tornarono a piene vele contro la flotta di Moncade. L'albero maestro del vascello montato dal Moncade, cadde fracassato nell'urto; Moncade stesso fu ferito in un braccio, e mentre continuava ad incoraggiare i suoi soldati fu ucciso dai sassi e dai fuochi d'artificio che si gettavano sulla sua nave dall'alto delle gabbie nemiche. In sul finire della battaglia la sua nave fu colata a fondo, e lo stesso accadde della galera montata da Cesare Fieramosca. Filippino Doria scelse appunto quest'istante per rompere le catene di tutti gli schiavi barbareschi che teneva sulle sue galere, esortandoli a meritarsi la libertà col fare aspra vendetta degli Spagnuoli loro crudeli nemici. Allora venne all'arrembaggio che aveva prima evitato; ed i barbareschi mezzo ignudi si precipitarono colla sciabola in mano nei vascelli spagnuoli. Quelli del marchese del Guasto e di Ascanio Colonna avevano preso fuoco, spezzati erano i loro remi, ed i loro equipaggi o ribellati o distrutti, quando pensarono di arrendersi. Furono prese anche le fuste, non essendosi salvate fuggendo che due galere imperlali in pessimo stato. Per gastigo di questa sconfitta il principe d'Orange fece appiccare, appena arrivato, uno de' capitani di quelle due galere; l'altro, atterrito da quest'atto di crudeltà, riprese il largo e si arrese a Filippino Doria[366].

La flotta imperiale era distrutta, ucciso il vicerè Moncade, cui i Mori, circondando il suo cadavere, chiedevano con feroce sorriso se pensava tuttavia di fare una seconda discesa sulle coste dell'Africa e di rinnovarvi le spaventose sue crudeltà. Il marchese del Guasto, Ascanio Colonna, Francesco Hijar, Filippo Cerbellione, Giovanni Caietani, e Sernone, erano prigionieri, e nel susseguente giorno lo storico Paolo Giovio, ch'era stato spettatore della battaglia dalle coste d'Ischia, andò a nome della marchesana del Guasto a portare ai prigionieri danaro e conforti sulla galera di Filippino Doria. Questi li mandò poi a suo zio Andrea colle tre galere che aveva prese[367].

Poco dopo questa vittoria, che sembrava accertare la buona riuscita delle intraprese di Lautrec, il 10 di giugno sopraggiunse nel golfo di Napoli con ventidue galere l'ammiraglio veneziano Pietro Lando, il quale chiuse affatto per alcun tempo il mare agli assediati[368]. Gl'imperiali per altro avevano ancora una ragguardevolissima cavalleria leggiere, mentre il Lautrec quasi non ne aveva; ed invece di assoldarne, come veniva consigliato di fare, acconsentì che gli uomini d'armi, che facevano il suo servigio, andassero ad acquartierarsi a Capoa, ad Aversa ed a Nola. Il principe d'Orange, rimasto solo nel comando di Napoli, seppe approfittare di questa inavvedutezza del Lautrec per istancheggiare con frequenti sortite gli assedianti, e far entrare più vittovaglie in città. La fanteria leggiere delle bande nere, che da prima aveva combattuto con molto zelo in ogni scaramuccia, vedendosi costantemente sagrificata, per non esservi più i cavalli a coprirla nelle sue ritirate, si era disgustata di quelle zuffe sempre svantaggiose. Ma quanto più calde erano le istanze che si facevano a Lautrec perchè adoperasse il danaro ricevuto dalla Francia nell'assoldare cavalleria leggiere, tanto più a questo generale pareva ingiurioso che altri pretendesse dargli consiglj, e perciò si ostinava a non seguirli[369]. Omai più non accadevano intorno a Napoli scaramucce di qualche importanza, e tanto gli assediati come gli assedianti erano travagliati dalla fame e dalle malattie. I primi erano condannati a dure privazioni; in città si era manifestata la peste, e molti corpi di fanteria tedesca e di cavaleggieri trattavano segretamente con Lautrec per passare nel campo francese; nel quale per altro frequentissime pure erano le malattie, e tanto guasto avevano fatto tra i zappatori, che più non si potevano terminare le trincee; perciò il Lautrec era ridotto a tale stato di non avere più operaj per continuarne i lavori, nè soldati per custodirle quando fossero terminate. Cotali trincee, rompendo il corso delle acque, erano state cagione che queste si spargessero per le campagne, se restassero stagnanti in più luoghi con grave pregiudizio della salubrità dell'aria. Del resto la campagna che circonda Napoli è sempre micidiale ne' calori estivi, ed oggi un'armata non potrebbe tenervisi ne' mesi in cui Lautrec vi accampò colla sua, senz'andare ugualmente soggetta a febbri pestilenziali. Il primo loro sintomo era un'enfiagione alle gambe che in appresso stendevasi a tutto il corpo, e l'infermo moriva tormentato da crudelissima sete. Tra le prime vittime di questo flagello si contarono il nunzio del papa presso l'armata della lega, Pietro Paolo Crescenzio, e Luigi Pisani, provveditore veneziano, morti entrambi il giorno 15 di giugno. In appresso non passò giorno che non fosse funestato dalla morte di qualche capo dell'armata, sebbene l'epidemia non giugnesse al colmo che il 15 di luglio[370].

L'imperatore ed il re di Francia, informati che l'assedio di Napoli non terminerebbe così presto, ed eccitati dai loro generali a mandare soccorsi, risolsero ambidue di spedire nuove truppe in Italia. Il primo scelse per tale spedizione Enrico il giovane, duca di Brunswick; l'altro Francesco di Borbone, conte di San-Paolo. Doveva il Brunswick condurre rinforzi ad Antonio di Leyva, e poichè avesse ritornata la superiorità agl'imperiali in Lombardia, avanzarsi verso l'Italia meridionale per costringere il Lautrec a levare l'assedio di Napoli. Per lo contrario il San-Paolo, doveva opporsi al passaggio del primo, scacciare da Milano Antonio di Leyva, e dopo avere ridotti gl'imperiali a sgombrare la Lombardia, raggiugnere il Lautrec per terminare con lui la conquista del regno di Napoli[371].

Il duca di Brunswick coll'assistenza di Ferdinando, re d'Ungheria, fratello dell'imperatore, fu il primo a scendere in Italia. Partì da Trento il 10 di maggio con seicento cavalli e dieci mila fanti; passò l'Adige e s'avanzò fino in Lombardia, senza che il duca d'Urbino, generale de' Veneziani, gli si avvicinasse mai tanto da venire a qualche scaramuccia. Aveva questi dichiarato al senato veneto, che, per quanto la sua armata potesse superare di numero la nemica, giammai la sua cavalleria sosterrebbe l'urto della tedesca, nè la sua fanteria quello dei landsknecht; onde, non deviando dalla consueta sua tattica, aveva difese le città e le fortezze, lasciando tempo agli oltremontani di consumare la loro furia[372].

I Tedeschi condotti dal duca di Brunswick avevano abbandonato il loro paese per la speranza d'un saccheggio somigliante a quello che nel precedente anno aveva arricchito i loro compatriotti; e quando trovarono le pianure della Lombardia ruinate da una disastrosa guerra, le terre desolate dalla fame e dalla peste, e le città contro di loro difese non meno dai nemici che dagli amici, non tardarono a disgustarsi d'un faticoso servigio, del quale non erano pagati. Mai non giugneva danaro all'armata imperiale, nè dalla Spagna nè dalla Germania; onde Antonio di Leyva, che aveva da principio persuaso il duca di Brunswick ad assediare Lodi, vedendo che quest'assedio non avanzava, cercava di scoraggiarlo per non avere in Lombardia compagni nel comando o nei rubamenti. Il Brunswick vendicossi di questa opposizione con una crudeltà senza pari; egli non si accontentava di saccheggiare ogni cosa, ma faceva oltre a ciò passare a filo di spada tutti gli uomini che gli venivano tra le mani; bruciava tutte le case isolale, volendo che il suo passaggio fosse contrassegnato da una totale desolazione. Per giustificare tante atrocità, pretendeva il Brunswick che tutti gl'Italiani fossero ribelli all'autorità imperiale, e diceva d'essere venuto a distruggere coloro che i suoi predecessori non avevano saputo castigare. Il duca d'Urbino usò lo stesso trattamento verso i prigionieri tedeschi; onde il 13 di luglio i landsknecht si ammutinarono, e poco dopo il duca di Brunswick tornò per la strada di Como in Germania co' deboli avanzi di un'armata, i di cui soldati erano per la maggior parte disertati, o passati sotto le bandiere d'Antonio di Leyva[373].

Questi continuava a conservare Milano ubbidiente col terrore. Abbandonato dall'imperatore, senza danaro per pagare i soldati, erasi impossessato di tutte le vittovaglie che si trovavano in città, di tutte quelle che giugnevano dalla campagna, e, fattone monopolio, le vendeva tre o quattro volte più dell'ordinario loro prezzo. I poveri, ruinati da tre anni d'estorsioni, ai quali erano preceduti vent'anni di guerra, morivano di fame per le strade, non potendo comperare il pane all'alto prezzo fissato dell'avarizia del generale; i ricchi, prigionieri de' soldati alloggiati presso di loro, erano esposti ad ogni genere d'oltraggi, e spesso alla tortura, qualunque volta tardavano a soddisfare i capriccj de' loro tiranni. Le sentinelle trattenevano alle porte tutti coloro che cercavano di fuggire di città; e se a taluno riusciva di scalare le mura, o di uscire dalle porte travestito, gli si confiscavano i beni, ed annunciavasene la vendita con avvisi stampati in tutti i capi strada[374].

L'armata che il signore di San-Paolo conduceva in Lombardia per liberarla dal giogo degli Spagnuoli, doveva essere composta di cinquecento uomini d'armi, e di cinquecento cavaleggieri sotto il comando del signore di Boisì, di sei mila avventurieri capitanati dal signore di Lorges e di tre in quattro mila landsknecht guidati dal signore di Montejan. Ma colla consueta sua negligenza Francesco I lasciò dissipare il danaro destinato a quest'impresa; i corpi non furono ridotti a numero, non giunsero che lentamente ed a lunghi intervalli al luogo dell'unione, ed il conte di San-Paolo era tuttavia sulle Alpi, quand'ebbe notizia che il duca di Brunswick era tornato in Germania per mancanza di danaro[375]. I Francesi eransi lasciati togliere per sorpresa Pavia, conquista del signore di Lautrec; il conte di San-Paolo l'attaccò di nuovo col duca d'Urbino, ed in sul finire della campagna la riebbe d'assalto[376]; ma trovavasi bastantemente occupato da Antonio di Leyva che gli contrastava l'acquisto delle città di Lombardia, onde non potesse innoltrarsi verso Napoli, dove il signore di Lautrec lo andava invano chiamando.

Malgrado i patimenti di quest'ultimo, che andavano a dismisura crescendo, non potevasi ancora facilmente prevedere quale delle due armate di Lautrec o il principe d'Orange avrebbe dovuto soggiacere la prima alla peste ed alla fame ond'erano egualmente travagliate, quando un'importantissima diserzione, cagionata dalla inconsiderata politica di Francesco I, trasse con sè la ruina dell'armata francese. Andrea Doria, che veniva riputato il più grand'uomo di mare del suo secolo, e che, fino dalla sua gioventù trovandosi al soldo di stranieri potentati, aveva creato una flotta che non aveva ricevuta dalla sua patria, lagnavasi da gran tempo della gelosia e degl'intrighi de' ministri del re di Francia. Era stato associato a Renzo di Ceri in una spedizione da principio destinata contro la Sicilia, poscia contro la Sardegna, la quale era andata a male a cagione della loro malintelligenza[377]. In tempo della spedizione del Borbone in Provenza aveva fatto prigioniero il principe d'Orange; ma la ricca taglia di questo prigioniero gli era stata ritenuta dal re; gli erano inoltre ritenuti ragguardevoli arretrati pel soldo delle sue galere; e Francesco della Rochefoucault, signore di Barbesieux, era stato in di lui pregiudizio nominato ammiraglio dei mari del Levante[378].

Ma queste personali offese non erano la principale cagione che alienasse Andrea Doria dal partito della Francia. Sebbene questo grand'uomo non avesse quasi mai vissuto in patria, era teneramente attaccato alla libertà, ed alla prosperità della medesima. Il sacco di Genova eseguito dall'armata imperiale gli aveva inspirata un'altissima avversione contro gli Spagnuoli; onde dopo tale epoca non volle per alcun tempo a qualsifosse prezzo rilasciare i prigionieri di quella nazione, e li faceva remare incatenati sulle sue galere; non cominciò a perdere forza nell'animo suo tanta avversione, che quando lo sprezzo di Francesco I pei privilegj de' Genovesi, per la loro capitolazione, ed ancora per la privata loro prosperità, lo chiamò a vendicare le fresche offese ad ogni costo, e foss'anche coll'ajuto di coloro medesimi che erano stati autori delle più antiche. Il re si ostinava a tenere Genova come una provincia del regno, non già come una repubblica postasi volontariamente sotto la sua protezione; egli risguardava tutti i privilegj dei popoli, i diritti dei cittadini, e le restrizioni della sua autorità, come altrettante offese fatte alla maestà reale; perciò si compiaceva di emettere ordini che umiliassero lo spirito ribelle de' Genovesi. A tal fine si propose di trasportare a Savona, per quanto poteva da lui dipendere, tutto il commercio di Genova. Accrebbe le fortificazioni di questa città, e volle che dipendesse immediatamente dalla corona; vi traslocò la gabella del sale: e sebbene avesse formati questi progetti ne' tempi in cui Savona gli si era conservata fedele, e quando Genova era passata sotto il dominio dell'imperatore, non volle punto rinunciarvi allorchè ebbe ricuperata questa capitale. Nell'esecuzione di questi progetti, i Genovesi vedevano apertamente il totale esterminio della loro città; implorarono quindi l'ajuto dell'illustre loro concittadino, il quale promise: «di fare pel suo paese tutto quanto l'onor suo gli acconsentirebbe di fare»[379].

Il servizio del Doria col re di Francia spirava coll'ultimo giorno di giugno del 1528. Prima di acconsentire a rinnovarlo, mandò un gentiluomo alla corte di Francesco I per chiedergli giustizia tanto sulle taglie de' prigionieri e sugli arretrati dovutigli, che intorno ai privilegj della sua patria; intanto si rimase in Genova ozioso, ordinando a Filippino, suo nipote, di non usare soverchio rigore nel blocco di Napoli. Il Lautrec, avvedutosi che il Doria pensava ad abbandonare l'alleanza della Francia, e fattone più certo dagli avvisi di Clemente VII, sentì il pregiudizio grandissimo che da ciò ne verrebbe alla sua armata. Spedì dunque al re Guglielmo di Bellay per supplicarlo a ritenere il Doria a suo servizio. Il Bellay, passando per Genova, andò a trovare il Doria che era suo amico; ed udite le sue inchieste, cercò di appoggiarle presso il re; ma il cancelliere Duprat impedì che il re le accettasse. Fu spedito a Genova Barbesieux per prendere il comando della flotta di Andrea, e impadronirsi non solo delle galere del re, ma ancora di quelle del Doria, e se gli riusciva, ancora della persona di lui. L'ammiraglio genovese non aspettò che giugnesse chi era destinato a rimpiazzarlo. Ritirossi colla sua flotta a Lerici, e dichiarò a Barbesieux, che andò a visitarlo: essergli noti gli ordini del re, ed essere non pertanto apparecchiato a rilasciargli le di lui galere; ma determinato però a ritenere le altre come una sua proprietà; e non solamente non essere per darne conto a chicchessia, ma per valersene anzi come meglio crederebbe[380].

Intanto il Doria aveva intavolato un trattato coi prigionieri fatti da suo nipote sotto Napoli, ed in particolare col marchese del Guasto, che cercava di ridurlo ai servigj dell'imperatore. Per mezzo di quest'ultimo il Doria, il 20 di luglio, mandò in Ispagna un segretario incaricato di esporre le condizioni sotto le quali si obbligherebbe a servire l'imperatore con dodici galere, per l'annuo stipendio di sessanta mila ducati. Domandava che Genova fosse posta in libertà e dorinnanzi governarsi come repubblica indipendente; che le fossero di nuovo assoggettate Savona e le altre città della Liguria; che a lui ed a tutto il suo equipaggio l'imperatore condonasse le offese fatte alla sua corona; che per ogni spagnuolo ch'egli rilascerebbe gli si desse un altro uomo egualmente robusto e capace di remare[381]. Tutte queste condizioni furono all'istante accettate, e la flotta di Genova, che il 4 di luglio aveva abbandonata la baja di Napoli, passò al servizio dell'imperatore[382].

Giova sommamente a coloro che possono disporre di tutti gli onori e di tutte le ricompense, di far risguardare la costanza nell'ubbidienza militare come il principale dovere di un soldato, e di dissimulare che tutti gli obblighi essendo reciproci, la violazione del contratto per parte di colui che comanda, scioglie dal giuramento quegli che aveva promesso di ubbidire. La posterità fu giusta verso Andrea Doria; non vide nella condotta di lui che eroismo, e non lo accusò di mancanza di fede verso Francesco I. I suoi contemporanei furono talvolta più severi, e l'eroe genovese, che aveva passata la sua vita in mezzo ai soldati, non poteva egli stesso liberarsi da tutti i pregiudizj militari. Il fiorentino Luigi Alamanni, celebre egualmente come patriotto e come poeta, disse un giorno ad Andrea Doria: «Certo, Andrea, che generosa è stata l'impresa vostra; ma molto più generosa e più chiara ancora sarebbe, se non vi fosse non so che ombra d'intorno, che non la lascia interamente risplendere.» Affermò Luigi allo storico Segni che Andrea a tali parole mosse un sospiro, e stette cheto, e poi con buon volto rivoltosi, disse: «Egli è gran fortuna d'un uomo, a chi riesca di adoperare un bel fatto con mezzi ancorchè non interamente belli. So, che non pure da te, ma da molti può darmisi carico, che, essendo sempre stato della parte di Francia e venuto in alto grado co' favori del re Francesco, io l'abbia ne' suoi maggiori bisogni lasciato, ed accostatomi ad un suo nemico; ma se il mondo sapesse quanto è grande l'amore che io ho avuto alla patria mia, mi scuserebbe se, non potendo salvarla e farla grande altramente, io avessi tenuto un mezzo, che mi avesse in qualche parte potuto incolpare. Non vo' già raccontare che il re Francesco mi riteneva i servizj e non mi attendeva la promessa di restituire Savona alla patria, perchè non possono queste occasioni aver forza di rimutar uno dall'antica fede: ma ben puote aver forza la certezza che io aveva, che il re non mai avrebbe voluto liberar Genova dalla sua signoria, nè che ella mancasse d'un suo governatore, nè della fortezza; le quali cose avendo io ottenuto felicemente col ritrarmi dalla sua fede, posso ancora, a chi bene andrà stimando, dimostrare il mio fatto chiaro, senza alcun'ombra che gl'interrompa la luce»[383].

La flotta veneziana di Pietro Lando era così male equipaggiata, e tanto sprovveduta di soldati e di buoni marinai, che difficilmente avrebbe potuto, dopo la partenza di Filippino Doria, chiudere il porto di Napoli alle piccole navi siciliane: ma d'altronde anche questa s'allontanò il 15 di luglio per andare a provvedersi di vittovaglie in Calabria, e non tornò che ne' primi giorni d'agosto. Vero è che Barbesieux era giunto il 18 di luglio colla flotta francese; ma non conduceva a Lautrec che ottocento fanti, ed un branco di giovani gentiluomini che volevano fare a Napoli le prime loro campagne: anche il danaro che aveva per l'armata non era che una piccola parte delle somme dal re promesse a Lautrec. Pure avendo il Barbesieux sbarcati i suoi pochi soldati col danaro consegnatogli, questi si avanzarono fino a Nola. Ma il principe di Navarra, che ne aveva il comando, trovandosi colà troppo debole per andare più avanti, mandò a chiedere un rinforzo a Lautrec. In fatti, quando ritornava al campo, dopo averlo ricevuto, gl'imperiali fecero una così gagliarda sortita, che il signore di Candalles, ed Ugone Pepoli, che avevano condotto il rinforzo, rimasero prigionieri, e furono uccisi dugento de' nuovi venuti. Vero è che il danaro arrivò al campo senz'alcuno accidente, ed il Pepoli fu ricevuto in cambio di un altro prigioniero; ma Candalles morì in conseguenza delle ricevute ferite[384].

Fino a quest'epoca Lautrec aveva sostenuto il coraggio dell'armata francese colla fermezza del suo carattere: ma fu ancor esso sorpreso dalla febbre pestilenziale nello stesso tempo in cui Vaudemont era omai agonizzante. Anche sotto il peso di questa malattia Lautrec oppose sempre l'irremovibile costanza del suo carattere a tutti i mali che lo affliggevano. Destinò il danaro mandatogli dalla Francia per far leve in Italia di fanteria e di cavaleggieri: Renzo di Ceri partì per assoldarne nell'Abruzzo, mentre i Fiorentini mandavano due mila uomini per rimpiazzare i soldati perduti dalle bande nere in questa campagna. Ma questa risoluzione era di già troppo tarda. Il Lautrec, bloccato ancor esso nel suo campo da quella stessa armata ch'egli aveva tenuta tanto tempo assediata, perdeva ogni giorno i saccomani, i convoglj, gli equipaggi. Le vittovaglie che faceva venire cadevano quasi sempre in mano del nemico; e mentre che i suoi soldati, sfiniti dalle fatiche e dalla malattia, mancavano ancora di pane, Napoli abbondava d'ogni cosa, e i soldati tedeschi più non pensavano a disertare[385].

In sul declinare di luglio la malattia che infestava il campo francese, vestì un carattere assai più spaventoso. Di venticinque mila uomini che vi si contavano un mese prima, il 2 agosto quattro mila soltanto erano in istato di adoperare le armi, e di ottocento uomini d'armi più non eranvene che cento. Erano ammalati Pietro Navarro, Vaudemont, Camillo Trivulzio, ed i due maestri di campo; Lautrec, che credevasi guarito, era ricaduto; tutti gli ambasciatori, ed i personaggi distinti, ad eccezione del marchese di Saluzzo e del conte Guido Rangoni, erano ammalati. La fanteria soffriva nello stesso tempo la fame e la sete; tutte le cisterne erano senz'acqua, ed i soldati non potevano procurarsene a Poggio reale, che attaccando i nemici, dal che fare venivano sconsigliati dalla presente loro debolezza. L'estensione del campo era affatto sproporzionata al numero de' suoi difensori, i quali erano perciò continuamente spossati da quasi non interrotte fazioni. Prima di partire alla volta degli Abruzzi Renzo di Ceri aveva fatto istanza a Lautrec d'accamparsi altrove, o di acquartierare le sue truppe nelle città della Campania, facendogli osservare che intorno al campo le acque stagnavano in ogni luogo, e che l'erba foltissima cresceva anche nelle tende dei soldati; ma il Lautrec, con un'insuperabile ostinazione, dichiarò di essere apparecchiato a morire in quel luogo piuttosto che dare un tale trionfo ai nemici[386]; egli credeva egualmente compromesso il suo onore nel ristringere i suoi alloggiamenti, e quantunque infermo, si faceva portare da un posto all'altro, per vedere se i suoi ordini venivano eseguiti, e se si mantenevano i corpi di guardia da lui stabiliti. Ma lungo tempo non sostenne tanta fatica, e morì la notte del 15 al 16 agosto: e come la sua virtù, la sua costanza, erano stati fin allora il più solido sostegno dell'armata, così la sua morte distrusse ogni speranza di salvezza[387].

Era morto ancora il conte di Vaudemont, onde prese il comando dell'armata francese il marchese di Saluzzo, il quale non aveva nè talenti, nè riputazione convenienti a tanto peso. Altronde le difficoltà crescevano ogni giorno, perciocchè Andrea Doria era giunto a Gaeta con dodici galere al soldo dell'imperatore, ed aveva costretta la flotta francese a prendere il largo. Maramaldo, Ferdinando Gonzaga ed altri capi imperiali, cessando di starsi chiusi in città, attaccavano e sorprendevano i corpi staccati de' Francesi a Canoa, a Nola, ad Aversa, tagliando quasi ogni comunicazione tra l'armata e le città ancora ubbidienti alla Francia; onde ogni speranza de' Francesi era omai riposta in Renzo di Ceri, che in allora trovavasi all'Aquila, e di cui il marchese di Saluzzo affrettava la tornata, non più per prendere Napoli, ma per ritirarsi egli medesimo con sicurezza[388].

La ritirata era omai indispensabile, ed il marchese di Saluzzo approfittò di una gagliarda pioggia, accompagnata da lampi e tuoni, che cadde la notte del 29 agosto per eseguirla senza saputa dei nemici. Egli si pose con Guido Rangoni in capo alla vanguardia, affidò la battaglia a Pietro Navarro, mentre che Pomperani, Camillo Trivulzio e Negro Pelisse comandavano la retroguardia; lasciando sulle batterie i cannoni da breccia, ed abbandonando i più grossi bagaglj, l'armata partì senza che si battessero i tamburi o si suonassero le trombe: ma non si erano i Francesi scostati molto dal campo, quando cessò la pioggia, in sul fare del giorno. La cavalleria imperiale, avvisata della partenza de' Francesi, si diede tutta in corpo ad inseguirli. La banda nera dei Toscani la ricevette con una scarica di tutta la moschetteria; ma perchè camminava per una strada stretta e chiusa, nella quale non poteva allargarsi, la cavalleria, facendo una nuova carica, riuscì a romperne le ultime file, ed a disordinare tutta la colonna. La resistenza non poteva essere lunga, perchè i soldati ammalati appena avevano forza che bastasse per alzare i loro fucili o le spade, e rovesciati dal primo urto, domandavano ed ottenevano facilmente la vita. Fu in questa circostanza preso Pietro Navarro, che sopra un picciol mulo cercava di fuggire per una rimota strada. Intanto l'avanguardia era giunta sotto Aversa; ma l'angusta porta che le era stata aperta venendo ogni tratto ingombrata, si consumarono tre ore prima che tutti i fuggiaschi, ammucchiati nella fossa, potessero entrare in città[389].

Le sventure de' Francesi non terminavano giugnendo in Aversa: essi rispinsero a dir vero l'irregolare attacco della cavalleria, che gli aveva inseguiti fin sotto le mura di quella città; ma sopraggiunse il principe d'Orange coll'infanteria e coi cannoni dagli stessi Francesi lasciati nell'abbandonato campo. In breve venne aperta una breccia, mentre il marchese di Saluzzo, ferito in un ginocchio da un pezzo di pietra, era portato alla sua casa fieramente tormentato dalla ferita. Per colmo di sventura Capoa, la più vicina città per cui doveva passare l'armata continuando a ritirarsi, aveva aperte le porte a Fabrizio Maramaldo, dopo che vi erano stati portati la maggior parte degli ammalati dell'armata. Aveva il comando di Capoa il conte Ugo Pepoli, ma egli medesimo era pressochè moribondo; gli abitanti consigliarono la guarnigione a fare una sortita per provvedere la città di buoi e di pecore, ed approfittarono della lontananza di quasi tutti i soldati capaci di trattare le armi per ricevere entro le mura Fabrizio Maramaldo coi suoi Calabresi; questi con estrema crudeltà spogliarono gli ammalati ne' loro letti, e lo stesso Ugo de' Pepoli, morto in quell'istante, sul proprio feretro. Gli abitanti d'Aversa, informati di quest'avvenimento che toglieva ai Francesi ogni speranza di salute, supplicarono il marchese di Saluzzo a non esporli agli orrori di un assalto; e questi, di già vinto dal dolore della sua ferita, incaricò il conte Rangoni di passare al campo nemico per capitolare[390].

La capitolazione portava che il marchese di Saluzzo aprirebbe agl'imperiali la città e la fortezza; che loro lascerebbe l'artiglieria, le munizioni, le bandiere, le armi, i cavalli e gli equipaggi; ch'egli medesimo rimarrebbe prigioniero con tutti i capitani dell'armata; ma che tutti i soldati, tanto quelli chiusi in Aversa, che quelli ch'erano stati fatti in avanti prigionieri, sarebbero rinviati in Francia dopo di essersi obbligati a non servire per sei mesi contro l'imperatore. Il marchese di Saluzzo promise d'interporsi caldamente, perchè tutte le guarnigioni francesi del regno di Napoli accettassero la stessa capitolazione. Il solo conte Guido Rangoni fu dal principe d'Orange lasciato libero in ricompensa dell'avere egli negoziato questo trattato[391].

Per tal modo una delle più belle armate che la Francia avesse fin allora poste in campagna, perì interamente, o sotto il ferro de' nemici, o oppressa dalla malattia, o nella cattività. Gli Spagnuoli con una fredda crudeltà chiusero i prigionieri, quasi tutti infermi, nelle reali scuderie della Maddalena. Il principe d'Orange diede licenza al senato di Napoli di somministrar loro i viveri; ma fu questa la sola cura che egli acconsentì di prenderne. Gli sciagurati, ammucchiati gli uni su gli altri nel fango e tra i cadaveri, perirono ancora più rapidamente che non facevano nel campo. Pochissimi rividero la loro patria; e le loro malattie comunicarono a Napoli una terribile peste, che continuò a devastare la città molto tempo ancora dopo di loro[392].

Cotesta capitolazione pose fine alle bande nere, quasi interamente composte di Toscani, che, formate la prima volta da Giovanni de' Medici, erano riputate la migliore fanteria dell'Europa. Gli è il vero che le bande nere si erano colle loro crudeltà e ruberie rendute ancora più formidabili ai paesi in cui facevano la guerra, che ai loro nemici. Orazio Baglioni, il capo loro dato dalla repubblica fiorentina, era morto sotto Napoli; Ugo de' Pepoli, che gli era succeduto, era perito in Capoa, e Giovan Battista Soderini e Marco del Nero, i due commissarj fiorentini che le accompagnavano, terminarono i loro miseri giorni nelle prigioni di Napoli. Più non rimaneva verun capo che prendesse cura di questo corpo di milizia, che aveva il primo fatto riverberare qualche gloria sui Fiorentini. Molti soldati erano prigionieri, altri morti, altri ammalati; il rimanente si disperse, e più non si riunì[393].

Il marchese di Saluzzo morì bentosto in prigione; e perchè l'afflizione si aggiunse all'infermità per opprimerlo, si credette che volontariamente si affrettasse colle proprie mani la morte. Pietro Navarro fu condotto a Napoli, in quella stessa fortezza ch'egli aveva presa ai Francesi ai tempi del gran capitano, e chiuso in quella stessa prigione in cui il re di Spagna l'aveva dimenticato per tre anni. Fu scritto a Madrid per sapere come dovesse essere trattato, Carlo V ordinò che fosse decapitato; ma il governatore del castello, Francesco Hijar, compassionando quest'illustre vecchio, che dalla condizione di palafreniere del cardinale di Arragona erasi innalzato con tante luminose azioni, e tanti talenti a tanta gloria, andò egli medesimo, affinchè non perisse per mano del carnefice, a strozzarlo in prigione, o, secondo altri, lo fece soffocare sotto le coltri del suo letto[394].

La capitolazione dell'armata francese ad Aversa non fece immediatamente cessare le calamità del regno di Napoli. Il principe d'Orange, che comandava i residui di quelle compagnie avvezzate all'assassinio ed alla crudeltà nel sacco di Roma, era sempre dall'imperatore lasciato senza danaro, e soltanto col terrore colle confische e coi supplicj poteva di nuovo riempiere il suo tesoro. I suoi soldati, che avevano saccheggiata Aversa nell'istante in cui i Francesi l'avevano ceduta, chiedevano tuttavia il pagamento di otto mesi di soldo. Altro mezzo non restava al principe d'Orange per soddisfarli che la confisca de' beni di que' signori che si erano dichiarati pel partito d'Angiò: fece decapitare in Napoli, sulla piazza del mercato, Federico Cajetano, figlio del duca di Trajetto, Enrico Pandone, duca di Goviano, figlio d'una figlia di Ferdinando seniore, re di Napoli, ed altri quattro principali signori napolitani[395]. Ogni città del regno fu insanguinata da somiglianti esecuzioni. E dopo di avere in tal modo sparso il terrore tra i partigiani della Francia, il principe d'Orange si fece a trattare con loro vendendo loro la grazia per una somma di danaro proporzionata alla loro ricchezza. Per altro molti, piuttosto che assoggettarsi a così crudeli ed avidi padroni, preferirono di continuare la guerra, e per qualche tempo furono secondati dai Francesi e da' Veneziani. Federico Caraffa, il principe di Melfi ed il duca di Gravina, continuarono nella Puglia i loro guasti; ed il Romano Simone Tebaldi ottenne qualche vantaggio in Calabria[396]. Ma questi fatti d'armi, piuttosto che come una guerra regolare, devono risguardarsi come il cominciamento di quello stato di violenza e di anarchia, che si prolungò nel regno di Napoli per tutto il tempo del dominio spagnuolo. Al governo avido, oppressivo, perfido e crudele dei vicerè deve ascriversi l'impossibilità che provasi anche al presente di stabilire un regolare andamento di giustizia, di polizia, di pubblica sicurezza in queste provincie tanto favorite dalla natura.

Andrea Doria aveva colla sua flotta contribuito alla ruina dell'armata francese; ma tosto che la capitolazione d'Aversa rendette inutile il suo servigio a Napoli, fece vela verso Genova per raccogliervi il prezzo ch'egli aveva posto alla sua mutazione di partito, e per liberare la sua patria. Allora in Genova infieriva la peste, e Teodoro Trivulzio che vi comandava a nome di Francesco I, non avendo sotto i suoi ordini che una debole guarnigione, aveva inutilmente domandato un rinforzo di due mila uomini; questi non vollero entrare in città per timore del contagio; e il Trivulzio, vedendosi abbandonato, si ritirò nel Castelletto. Ma egli sperava di potere difender Genova colla flotta del signore di Barbesieux, ch'entrava in allora nel porto con alcune compagnie francesi, imbarcate al campo sotto Napoli dopo la rotta dell'armata. Ma ciò fu invano; perciocchè essendosi il 12 di settembre presentato il Doria con tredici galere in faccia a Genova, il Barbesieux ritirossi con tutta la sua flotta nel porto di Savona. Il Doria non aveva che cinquecento uomini di sbarco: li fece di notte scendere sulle scialuppe, e li mandò verso la città sotto il comando di suo nipote Filippino e di Cristoforo Palavicini. I Genovesi, cui aveva preso cura di dare avviso del suo trattato coll'imperatore, trovarono, malgrado la peste, tanto vigore da prendere le armi, assecondare lo sbarco, respingere tutti i Francesi nel castello, ed occupare tutte le fortezze della città[397].

Teodoro Trivulzio, maravigliato della debolezza de' nemici cui aveva in allora ceduto, si volse al conte di San-Paolo, che aveva il comando dell'armata francese in Lombardia, e che aveva di fresco ricuperata Pavia, chiedendogli soltanto tre mila uomini, co' quali confidava di potere di nuovo sottomettere Genova al re di Francia. Ma il duca d'Urbino ricusò di prendere parte in questa spedizione; ed il San-Paolo da lui ritardato, non potè arrivare a Genova che il primo di ottobre con cento lance e due mila fanti. Era di già troppo tardi, i passaggi delle montagne erano custoditi, e San-Paolo non ottenne pure d'introdurre qualche rinforzo nel castello. Ritirossi dopo avere dato ordine al suo luogotenente Montejean di condurre trecento uomini a Savona, in rinforzo di quella guarnigione; ma Montejean non fu di lui più fortunato, e non potè penetrare fino a Savona. I Genovesi, condotti dal Doria, stringevano l'assedio di Savona e del Castelletto. La prima di queste piazze capitolò il 21 di ottobre, l'altra pochi giorni dopo; ed i Genovesi, per assicurare la loro libertà, e soddisfare la loro gelosia, si affrettarono di distruggere la fortezza del Castelletto che li signoreggiava, e di colmare il porto di Savona, di cui avevano tanto temuta la rivalità[398].

CAPITOLO CXX.

Nuove costituzioni delle repubbliche di Genova e di Fiorenza. L'indipendenza italiana viene sagrificata da Clemente VII, e da Francesco I ne' trattati di Barcellona e di Cambray. Coronazione di Carlo V a Bologna e servitù dell'Italia.

1528 = 1530. Press'a poco nell'epoca in cui l'Italia perdeva la sua indipendenza, eransi vedute risorgere due delle più antiche sue repubbliche. Firenze e Genova, non si lasciando scoraggiare dalle spaventose calamità che opprimevano tutta la penisola, sforzavansi di riformare le loro costituzioni. La peste diminuiva la loro popolazione, la fame ne esauriva i mezzi, e la guerra minacciava ad ogni istante la medesima loro esistenza, quando, sottraendosi l'una e l'altra alla tirannide da cui erano state lungamente oppresse, cercavano di non ricadere nello stesso infortunio colla combinazione di nuove leggi. Ma nello stato di miseria cui trovavasi l'Italia ridotta da così lunghe e disastrose guerre, non le bastavano le proprie forze per fissare i nuovi suoi destini da sè medesima; ed i piccoli stati ond'era composta potevano ancora meno guarentire co' loro proprj sforzi la loro esistenza e la loro indipendenza. Essi dovevano soggiacere o sostenersi a seconda della sorte de' loro alleati, piuttosto che della propria; e se Firenze e Genova ebbero diverso destino, procedette dall'avere una di queste seguito il partito imperiale, l'altra il partito francese, e non perchè fosse migliore la costituzione dell'una o dell'altra.

Anche prima che il Doria si presentasse innanzi a Genova, i capi de' contrarj partiti, che si erano così lungamente e con tanto accanimento battuti, e che, vittime de' vicendevoli loro odj, trovavansi tutti ridotti in eguale servitù, avevano finalmente conosciuto che non potevano trovare salvezza che in una sincera riconciliazione. Avevano avute fra di loro alcune conferenze, alle quali avevano chiamati tutti coloro che avevano in Genova opinione di conoscere le leggi e gli affari dello stato. Tutti avevano manifestato un conforme desiderio di concordia, tutti eransi mostrati disposti a grandi sagrificj. Teodoro Trivulzio, in allora luogotenente del re di Francia in Genova, non aveva concepito verun sospetto di tali adunanze; conciossiachè il loro apparente scopo di procurare una pace generale ad una città divisa in tanti partiti, pareva troppo legittimo.[399]. Egli aveva trovati in città dodici magistrati, creati nel precedente anno col titolo di riformatori, i quali dovevano occuparsi della riforma delle leggi, e della riunione delle diverse fazioni. Il Trivulzio aveva lasciato questi che si occupassero liberamente intorno alle funzioni della loro carica; e i riformatori poterono sotto il di lui governo maturare i loro progetti di legislazione, senza prendere veruna misura per mandarli ad effetto[400].

Ma quando Andrea Doria, nel 1528, ebbe costretto Barbesieux ad uscire colla sua flotta dal porto di Genova, e Teodoro Trivulzio a rifugiarsi nella Cittadella, il senato adunato incaricò i riformatori di dare alla patria una nuova costituzione, ed in particolare di fare sparire radicalmente tutti i segni delle fazioni che l'avevano così lungamente lacerata[401]. Pure il senato ignorava tuttavia se il Doria, ad esempio di tutti i suoi predecessori, non vorrebbe raccogliere per sè solo tutti i frutti della sua vittoria e farsi sovrano della sua patria. Infatti Carlo V, che non amava le repubbliche, ed a cui lo zelo a pro della libertà ricordava i freschi torbidi de' suoi regni di Spagna, aveva offerto ad Andrea Doria di riconoscerlo principe di Genova, e di mantenerlo nel possedimento di quello stato; ma questo grand'uomo ricusò costantemente d'innalzarsi con danno della sua patria; si ostinò a chiedere che venisse riconosciuta la di lei costituzione repubblicana, ed altro per sè non volle che la gratitudine dei suoi concittadini[402].

Non era quasi mai per interessi loro proprj, per diritti, o per privilegj contesi tra le varie classi de' cittadini, che le fazioni di Genova avevano prese le armi. Fino dalla metà del XIV.º secolo la prima dignità dello stato era stata dalle leggi riservata ad un plebeo ghibellino, e le fazioni guelfa e patrizia, eransi senza mormorare assoggettate a questa costante esclusione. Ad ogni modo l'una e l'altra aveva continuato ad esistere ed a prendere parte nelle violenti rivoluzioni dello stato. Ma il punto d'onore di cadaun cittadino trovavasi bizzarramente associato piuttosto ad un nome che ad un vero interesse, appoggiandosi le fazioni ad odj personali, non ad opinioni. Erano in Genova Guelfi e Ghibellini, nobili e cittadini, grandi e piccoli borghigiani, partigiani degli Adorni e partigiani dei Fregosi: ogni cittadino si era collocato in alcuna di queste parti, ognuno trovavasi gravemente offeso nelle prerogative, o nell'onore della propria fazione; fors'anche era per sè stesso indifferente rispetto alla cosa che doveva ferirlo, ma se non se ne fosse mostrato offeso, i suoi concittadini lo avrebbero creduto senz'onore e senza coraggio. Era dunque il più delle volte l'immaginazione, era un fatale pregiudizio, e non già reali offese, che avevano tante volte poste le armi in mano di questo popolo focoso, e precipitatolo d'una in altra rivoluzione. Perciò i riformatori si trovarono in dovere di mutare piuttosto i nomi che le cose. Se potevano sopprimere i nomi delle antiche fazioni e quegli ancora delle antiche famiglie, che erano un pegno dell'attaccamento di ogni famiglia ad ogni fazione, confidavano di potere spegnere con que' nomi, anche quelle passioni prive di reale alimento, e tenute vive soltanto dal pregiudizio.

In ogni tempo le potenti famiglie avevano in Genova avuta la costumanza di accrescere la potenza loro coll'adottare altre meno ricche famiglie, meno illustri, meno numerose, cui comunicavano i loro nomi, i loro stemmi, obbligandosi in pari tempo a proteggerle, e facendo in cambio che queste prendessero parte a tutte le loro liti. Le case nelle quali si entrava in tal guisa per adozione, si chiamavano alberghi, ed eranvi poche illustri famiglie che non si fossero aggrandite coll'unione di straniere famiglie. Questa costumanza apparecchiò un nuovo regolamento, col quale i dodici riformatori riformarono la repubblica[403].

Prima di tutto soppressero la legge che assegnava le più eminenti magistrature a' soli cittadini dell'ordine popolare ed ai Ghibellini, volendo che tutti gli antichi Genovesi contribuenti e proprietarj venissero considerati come eguali in diritto: e per uniformarsi alla crescente vanità del secolo, invece di chiamarli cittadini, loro diedero il nome di gentiluomini. Onde meglio cimentare fra di loro l'eguaglianza, vollero che tutti questi gentiluomini fossero classificati in un ristretto numero di case; dichiararono che tutte le famiglie che in allora tenevano in Genova sei case aperte, sarebbero considerate per alberghi, ad eccezione soltanto degli Adorni e dei Fregosi, de' quali volevano sopprimere i nomi, come quelli che rammentavano troppe guerre civili. Le famiglie, che avevano tali requisiti, trovaronsi in numero di ventotto[404]. Essi le obbligarono ad adottare tutto il rimanente de' cittadini genovesi che potevano partecipare agli onori dello stato; in maniera per altro che frammischiarono e confusero tutto quello ch'era prima stato oggetto di distinzione; fecero entrare i Guelfi nelle case anticamente Ghibelline, e i Ghibellini in quelle dei Guelfi; vollero che in ogni albergo vi fossero e nobili e plebei, e partigiani degli Adorni, e partigiani de' Fregosi; in pari tempo risvegliarono la vanità di tutti, legandola al nuovo loro nome di famiglia; e riuscirono così felicemente, che coloro che la legge aveva associati insieme, cominciarono fino d'allora a risguardarsi come parenti[405].

Questa singolare divisione di tutta la repubblica in ventotto famiglie durò quarant'otto anni. Questa aveva fatte cessare le antiche divisioni; ma ne lasciò scoppiare delle altre tra l'antica e la nuova nobiltà, e tra queste due classi che governavano ed il popolo escluso dal governo. Per mettere fine a questa dissensione, che aveva degenerato in guerra civile, il papa, l'imperatore ed il re di Spagna, cui i Genovesi avevano deferito l'ufficio di mediatori, credettero di dovere distruggere l'opera fatta ne' tempi del Doria. Colla legge che pubblicarono il 17 marzo del 1576, furono soppressi i nomi degli alberghi, e fu invitata ogni famiglia a riprendere l'antica sua denominazione[406].

Tutti i gentiluomini genovesi ammessi a partecipare degli onori dello stato dovettero essere ammessi nel senato, nel quale era riposta la sovrana autorità. Questo senato nel 1528 fu formato di 400 membri, che si rinnovavano a vicenda, e che non sedevano che un anno. Quando in seguito l'aristocrazia si andò ristringendo, si trovò più giusto e più conveniente di chiamare tutti ad un tempo in senato i gentiluomini che avevano diritto alla sovranità. Erano in allora ridotti al numero di circa 700, ed entrarono nel gran consiglio tutti coloro che avevano compiuto l'anno 22. mo[407].

A questo primo senato o gran consiglio spettava l'elezione di un altro senato, composto di cento membri, che posteriormente fu portato a dugento, e che rinnovavasi tutti gli anni. Al primo spettava pure la nomina del doge, degli otto consiglieri della signoria e degli otto procuratori di comune, il di cui ufficio durava due anni, e che formavano tra di loro il governo. La nuova costituzione, sopprimendo le distinzioni de' natali, apriva ad Andrea Doria la strada alla dignità ducale, in addietro chiusa ai gentiluomini; ed infatti pareva che la pubblica riconoscenza gliela destinasse. Ma questo generoso cittadino credeva cosa essenziale di conservare alla sua patria la protezione di Carlo V, continuando a servirlo come comandante delle sue flotte; ed un tale impiego era incompatibile colla rappresentanza della sovranità. Perciò il Doria ricusò la corona ducale; e soltanto a motivo di questo suo rifiuto le funzioni di doge furono ridotte a soli due anni, e strette le prerogative entro angusti confini. Il primo nominato doge fu Uberto Lazario Catani. Si volle che tra gli otto signori che formavano il suo più intimo consiglio, due risiedessero a vicenda nel palazzo ducale; e si accordò a tutti coloro che sarebbero in appresso stati dogi, il diritto di prendere posto nel consiglio de' procuratori del comune. Per ultimo si volle che cinque supremi censori o sindaci conservassero una certa quale ispezione su tutte le magistrature, sull'andamento costituzionale di tutte le autorità, e sulle vicendevoli relazioni fra di loro. Andrea Doria fu il primo di questi sindaci; e per una eccezione personale si volle che egli conservasse a vita tale dignità, mentre i suoi colleghi non dovevano restare in carica che quattro anni[408].

La costituzione di Genova, a seconda della nuova riforma, era puramente aristocratica. Stabiliva bensì l'eguaglianza, ma soltanto tra i nobili; limitava ad un numero proporzionatamente assai piccolo d'individui e di famiglie una sovranità che stendevasi non solo sopra una grandissima città, ma inoltre sopra le due Riviere e su tutta la provincia della Liguria. Il popolo genovese, senza influenza sulla casta che si era arrogato il diritto di governarlo, non potevasi in verun modo risguardare come rappresentato; vero è che le lunghe abitudini di una democrazia, la pubblica opinione ed il rispetto per le antiche memorie impedirono all'aristocrazia genovese di rendersi esclusiva come quella di Venezia, o di Lucca. Fino alla fine della repubblica s'introdussero frequentemente nel consiglio, e con una tal quale regolarità, uomini nuovi, tanto della città, che delle due riviere[409]. Venivano in tal modo associati alle prerogative de' governanti; ma non si davano con ciò difensori al popolo. Altronde le antiche famiglie, o spegnevansi interamente, o producevano un minor numero d'individui; il circolo in cui si chiudevano tutti i poteri andava ogni giorno sempre più ristringendosi, e la repubblica, invecchiando, s'andava maggiormente allontanando da quella libertà, di cui conservava tuttavia il nome.

Dal canto suo la costituzione fiorentina partecipava di quello spirito d'aristocrazia, che suole generarsi dall'orgoglio, e che non tarda ad introdursi in quelle medesime famiglie che si sono rese illustri fondando la libertà. Il primo sentimento che diresse i Fiorentini nell'organizzazione dell'antica loro repubblica, era stato il desiderio di far concorrere tutte le volontà e tutte le forze, così alla difesa dello stato come alla sua amministrazione. Pure di mano in mano che la libertà rendeva la città più prospera, il commercio, le manifatture, il solo sentimento della sicurezza, facevano sorgere nella repubblica uomini nuovi, che dalla campagna venivano a stabilirsi in città, o che vi si rifugiavano dagli stati vicini, o finalmente che sorgevano di mezzo alle classi affatto povere, e la di cui esistenza era quasi del tutto ignota. Gli antichi cittadini non avevano deposta ogni gelosia verso coloro che venivano in tal modo a dividere con loro le proprie prerogative; ed il mantenimento degli esclusivi diritti alla sovranità, che gli uni pretendevano, e che gli altri non volevano ammettere, era stato cagione di molte dissensioni.

Quando la repubblica venne nuovamente costituita nel 1527, il principio di limitare il diritto di cittadinanza a coloro che lo avevano ricevuto per eredità dai loro antenati fu riconosciuto da tutte le parti. Non si risguardarono come cittadini fiorentini che coloro i quali poterono provare che i loro antenati erano stati ammessi ai tre maggiori ufficj, della signoria del collegio, e del buoni uomini. E non si tenne pur conto di quest'ammissione, s'era stata accordata dal governo de' Medici, dal 1512 al 1527, perchè si diceva che in questo spazio di tempo molti uomini nuovi avevano ottenuto l'ingresso al collegio col danaro, mentre che niuno era stato dichiarato abile agl'impieghi per mezzo dello scrutinio di una libera magistratura[410]. Per tal modo, in nome dell'aristocrazia e della libertà, i Fiorentini pronunciarono una severa esclusione contro quanti non appartenevano ad una classe poco numerosa. Effettivamente gli abitanti del territorio fiorentino non avevano parte alcuna alla sovranità, riservata ai soli cittadini della capitale. Tra questi ancora non tenevasi verun conto di coloro che non pagavano le imposte dirette, e che venivano indicati col nome di non sopportanti. Rispetto a coloro che trovavansi inscritti nel libro del comune, e che pagavano la decima, quando toccavano l'età di ventiquattro anni, prima della quale non potevano entrare nel gran consiglio, dovevano provare che il nome del loro padre o dell'avo loro era stato posto nelle borse dalle quali si estraevano a sorte le tre supreme magistrature, ed in appresso dovevano essere approvati dalla signoria a scrutinio segreto; locchè loro dava il rango di statuali ossia di cittadini attivi. Tutti i cittadini erano finalmente divisi tra i quattordici mestieri inferiori, ed i sette superiori. I primi, ossiano le arti minori avevano avuto per parte loro il quarto degli onori pubblici, e le arti maggiori i tre quarti; ma questa divisione, che sembra ineguale, era favorevole ai mestieri inferiori. Più non restava che un piccolo numero di antichi cittadini immatricolati nelle arti inferiori; e se fossero stati posti allo stesso livello che gli altri, non avrebbero ottenuto quel quarto degl'impieghi che veniva loro accordato[411].

Sebbene la popolazione dello stato fiorentino non fosse lontana dal milione, non vedevansi giammai sedere nel grande consiglio più di due mila cinquecento cittadini; la quale assemblea propriamente non rappresentava il rimanente della nazione, ma era sovrana di proprio diritto, piuttosto che a nome del popolo: ad ogni modo bastava che la suprema autorità venisse esercitata da un corpo così numeroso, per interessare l'intera nazione alle sue deliberazioni, e per dare ai Fiorentini i vantaggi di un governo popolare.

Ma tutti i membri del gran consiglio non avevano egualmente cara questa popolarità. Vi si distinguevano due fazioni. Capo della prima, ossia di quella de' magnati, era il gonfaloniere Niccolò Capponi. Questi uomini renduti orgogliosi dalle immense loro ricchezze, dal fasto onde si vedevano circondati ne' loro palazzi, dalle eminenti cariche ottenute nella chiesa, dai cappelli cardinalizj, vescovadi, e governi di province ond'erano decorati i loro figli o fratelli, sdegnavano di riconoscere altri uomini loro eguali nella massa dei cittadini fiorentini, e si studiavano di ravvicinare la repubblica alla costituzione oligarchica di Venezia, in allora oggetto dell'universale ammirazione. Alla testa della fazione popolare opposta a questa stava Baldassare Carducci, dottore di legge, che aveva grandissima riputazione, e che, esiliato già da' Medici, aveva alcun tempo risieduto in Padova, ov'era stato arrestato per ordine di Clemente VII. Malgrado la sua assai avanzata età il Carducci si rendeva ancora oggetto della pubblica attenzione, non meno per l'impetuosità del suo carattere, e pel suo odio verso il Capponi e verso tutti i grandi, che per i suoi talenti[412]. Fu un trionfo pel partito aristocratico lo avergli fatto dare l'ambasceria di Francia, che lo allontanava dalla sua fazione. Egli morì durante la sua legazione, in tempo dell'assedio di Firenze[413].

Primeggiava nello stesso partito Dante di Castiglione, il quale assai più nemico de' Medici che dell'aristocrazia, sforzavasi di aprire tra di loro e la sua patria una così larga breccia, che in verun tempo non si potesse più chiudere. Un giorno con un branco d'uomini mascherati, ma ch'erano stati conosciuti sotto la loro maschera, egli entrò a forza nella Nunziata, una delle più ricche chiese di Firenze, e vi rovesciò co' suoi compagni le statue di Lorenzo, di Giuliano, di Leon X e di Clemente VII. Questi forsennati, dopo averle spezzate con disprezzo, passarono a distruggere gli stemmi dei Medici nelle chiese di san Lorenzo, di san Marco e di san Gallo, edifizj eretti o ristaurati da quella famiglia; essi risguardavano questi emblemi come monumenti di una servitù che volevano far dimenticare; disprezzavano la politica di Niccolò Capponi, che temeva di offendere troppo Clemente VII; e sebbene fossero stati conosciuti, il governo non ardì di punire questa violazione dell'ordine pubblico[414].

Niccolò Capponi era sinceramente attaccato alla libertà; ma la dolcezza del suo carattere unita a qualche debolezza, lo portavano ad avere de' riguardi per il papa, e per gli uomini ch'erano stati potenti sotto il governo mediceo, quali erano Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e Matteo Strozzi: egli avrebbe voluto che la repubblica, scuotendo il loro giogo, non lasciasse di rispettarli, onde non provocare il loro risentimento; e così aveva ingrossato il suo partito con tutti coloro che mantenevansi segretamente attaccati ai Medici, o che temevano le vendette del popolo. Contava pure tra i suoi aderenti un'altra classe di uomini, che non avevano veruna relazione co' precedenti: erano costoro gli antichi piagnoni, ossia i settatori di Girolamo Savonarola. Lo stesso Capponi era stato discepolo di quel frate, e non aveva interrotte l'esagerate sue pratiche di divozione nemmeno sotto il precedente governo poco favorevole ai bigotti. I partigiani de' Medici, che dicevansi Palleschi o bigi, avevano lungo tempo conservata la più marcata avversione verso i fautori del Savonarola, da loro detti piagnoni ed ipocriti; ma un interesse comune li riunì sotto le insegne del Capponi, e bentosto sentirono la segreta alleanza che suole unire gli uni agli altri i partigiani del dispotismo dell'aristocrazia e della superstizione.

Le calamità che travagliarono Firenze il primo anno del governo del Capponi, contribuirono ad accrescere il di lui credito, ed a sviluppare in lui l'entusiasmo religioso. La peste era stata portata da Roma a Firenze nel 1522 da un uomo del basso popolo che si era sottratto alle guardie sanitarie. Sebbene in allora il contagio non si estendesse oltre alcune strade, che vennero cautamente separate dal rimanente della città, lo spavento fu in tutti gli abitanti estremo, e la maggior parte de' ricchi cittadini si rifugiarono nelle loro ville o in lontani paesi. La peste, cessata nel caldo della state, ricomparve nel susseguente anno dopo alcune prediche che avevano riunito una grandissima quantità di popolo. All'ultimo ricomparve nel 1527 con maggiore violenza di prima, dopo una processione ordinata per rendere grazie a Dio della ricuperata libertà. In così lungo intervallo il contagio non si era mai spento del tutto, e ne' sei anni che si protrassero i suoi guasti, si calcolò che rapisse sessanta mila uomini a Firenze, e press'a poco altrettanti nel territorio[415].

L'emigrazione ch'era stata nel primo anno grandissima, non si era rinnovata ne' susseguenti, perchè gli uni si erano accostumati al pericolo, gli altri non si trovavano abbastanza ricchi per sostenere così grave dispendio. Ma nel 1527, quando si vide in sul cominciare di luglio morire in Firenze circa dugento persone al giorno, poi tre in quattrocento al giorno in agosto, e più di cinquecento in tre successivi giorni, lo spavento costrinse tutte le persone doviziose a fuggire nuovamente[416]. Allora si rendettero impossibili le adunanze de' consiglj o dei collegj della signoria, e tutte le risoluzioni rimasero ineseguite per non essere sanzionate da sufficiente numero di suffragj. Per uscire da questo stato di anarchia la signoria fece intimare un ordine di recarsi al loro luogo nel gran consiglio a tutti i membri del consiglio degli Ottanta, ed a tutti i cittadini esercenti una qualunque magistratura. Voleva essere autorizzata a poter trascurare in tempo della peste le ordinarie forme della legislazione: ma quest'adunanza non si formò che di novanta cittadini, i quali, dispersi nell'immensa sala del consiglio, tenevansi possibilmente il più lontano che potevano gli uni dagli altri per timore di ogni comunicazione. Varj amici e parenti, che dal principio della malattia fino al presente più non si erano trovati assieme, si rivedevano per la prima volta in questa sala, e apprendevano gli uni dagli altri la morte delle più care persone; perciò si udivano qua e là sospiri e gemiti muovere da quelle quasi deserte panche. L'autorità domandata dal gonfaloniere gli fu in tale circostanza di buon grado accordata da quest'assemblea, ed in appresso la signoria, finchè durò la peste, amministrò la repubblica senza consultare i consiglj. La vigilia della festa dell'Assunta la malattia parve sensibilmente diminuita, ed era quasi affatto cessata il dì d'ogni Santi[417].

Non era gran tempo che la peste più non infieriva, quando in una delle prime sedute del gran consiglio, il 9 febbrajo del 1528, Niccolò Capponi si animò in parlando de' gastighi di Dio e della sua compassione; tenne arringando quasi i termini medesimi adoperati già dal padre Savonarola in pulpito, e terminò la sua allocuzione gettandosi in ginocchioni ed implorando ad alta voce la divina misericordia. Il consiglio, strascinato dal suo esempio, replicò, stando pure in ginocchio, il grido di misericordia e decretò in appresso, dietro proposizione fatta dal Capponi, che Cristo sarebbe dichiarato perpetuo re di Firenze, e fece collocare alla porta principale del palazzo pubblico un'iscrizione che attestava questa nomina. Ma que' medesimi che non si erano opposti al Capponi nelle sue estasi religiose, per timore di cadere in sospetto d'empietà, lo motteggiavano in appresso per la città come imbecille, o lo accusavano d'ipocrisia[418].

Malgrado l'alienamento che avevano pel Capponi tutti gli amici più ardenti della libertà, il 10 giugno del 1528, egli fu confermato per esercitare la seconda volta l'ufficio di gonfaloniere, e tale elezione riuscì universalmente gradita al popolo, che trovava nel capo dello stato moderazione, disinteresse ed amore del ben pubblico[419]. Durante la sua amministrazione egli aveva cercato di riformare i tre più importanti rami del governo, la giustizia, la finanza e la guerra; ed aveva se non altro ottenuto di rendere più tollerabili diverse istituzioni assai viziose.

Erasi fin allora sperimentato che i delitti politici non erano mai in Firenze giudicati imparzialmente; e sebbene alternativamente portati al tribunale del podestà, della signoria, degli otto di balìa e del gran consiglio, le sentenze erano sempre state il trionfo di un partito sull'altro. In giugno si pubblicò una legge che accordava l'interposizione dell'appello di tutti i delitti politici e militari ad un nuovo tribunale detto la quaranzia. Fu composto detto tribunale di quaranta membri estratti a sorte per ogni caso particolare nel consiglio degli ottanta; e vi si trovò il vantaggio d'avere giudici originariamente nominati dal popolo, e preventivamente non conosciuti dai delinquenti. Nello stesso tempo la legge che stabiliva la quaranzia, assicurava la pronta decisione delle cause portate alla sua decisione[420].

La maniera di distribuire le imposte era stata d'ogni tempo quasi affatto arbitraria, ed era forse impossibile l'evitare tale inconveniente in una repubblica mercantile, dove il maggior peso doveva gravitare sul fruttato del commercio, e dove ogni dichiarazione del proprio stato di fortuna; intaccando il credito de' mercanti, non poteva non riuscire odiosa. L'imposta territoriale appoggiavasi ad un catastro fatto con grandissima diligenza. Le imposte indirette sono di loro natura apparentemente volontarie, e non alterano punto la libertà; ma l'imposta diretta sulle ricchezze mobiliari o sopra gli sconosciuti profitti del commercio era la più difficile a regolarsi, ed era riservata soltanto per gli urgenti bisogni e per le straordinarie sovvenzioni. Il gran consiglio, dopo avere ordinata la somma da levarsi in questo modo, sceglieva venti cittadini, cui dava il carico di ripartire la fissata somma fra tutti i contribuenti. Richiedeva, sotto severe pene, che l'operazione loro si terminasse entro un determinato numero di giorni, e stabiliva un minimum ed un maximum per ogni quota di contribuzione. Questi commissarj facevano tutti i loro lavori separatamente, ed in appresso rimettevano ai monaci di qualche convento, designato con pubblico decreto, il proprio ruolo de' contribuenti colla somma che gli era arbitrariamente imposta. I monaci, per determinare la contribuzione di un cittadino, riunivano le venti proposizioni dei commissarj a suo riguardo, levavano preventivamente le sei più alte e le sei più basse, siccome quelle che potevano essere state dettate da odio o da favore, indi addizionavano le otto medie, e dividevano la somma per otto. Questi monaci erano obbligati con giuramento al segreto per tutto questo lavoro; e dopo averlo ultimato ne bruciavano tutti i materiali[421].

Per ultimo la terza riformagione, procurata da questo governo alle leggi di Firenze, tendeva a dare alla repubblica abitudini più militari; e questa era, meno che le altre, opera del gonfaloniere. Nicolò Capponi, sia pel suo carattere pacifico e per l'età sua, o sia per economia, erasi opposto all'accrescimento delle fortificazioni di Firenze, ed aveva tentato d'impedire che si adottasse il dispendioso progetto seguito da Clemente VII quand'era tuttavia cardinale. Soleva frequentemente ripetere che una piccola armata non sarebbe capace di prendere Firenze, e che una grande non potrebbe tanto tempo mantenersi nella campagna fiorentina per intraprendere l'assedio della capitale[422]. Ma non potè interamente resistere all'ardore marziale, che aveva allora invasa la nazione. Un corpo di trecento giovani, appartenenti alle principali famiglie, si era volontariamente formato per guardia del palazzo; era composto de' più caldi partigiani della libertà, cui il Capponi si rendette in breve sospetto a cagione de' suoi riguardi verso i Medici. Il gonfaloniere, ch'erasi lungamente opposto all'armamento del popolo fiorentino, finì col farne egli medesimo la proposizione, onde procurarsi un appoggio contro la guardia del palazzo. Tale proposizione fu riconosciuta come legge il 6 novembre del 1528[423].

La guardia urbana doveva essere formata di quattro mila cittadini dell'età de' diciotto ai quarantacinque anni, tutti di famiglie che avessero diritto di sedere nel gran consiglio. Dividevasi questa guardia in sedici compagnie sotto gli ordini dei sedici gonfalonieri che formavano il collegio della signoria. Ella prestò giuramento di fedeltà alla repubblica in mezzo ad un popolo orgoglioso di ricevere nuovamente le armi, e riconobbe per suo capo Stefano Colonna di Palestrina, che fu incaricato di ordinarla. La ricchezza de' suoi abiti e de' suoi equipaggi le inspirava una confidenza in sè medesima affatto nuova pei Fiorentini. Finalmente dopo la sua creazione il consiglio decise, contro il parere del gonfaloniere, di terminare le fortificazioni di Firenze; ma per impiegare minor numero di gente nel custodirle, se ne ristrinse il circuito. Michel Angelo Buonarotti non isdegnò di farne il piano, dopo avere consultati varj sperimentati militari; ed il più grande artista consacrò i suoi talenti alla prima delle arti, quella della difesa della patria[424].

Ma mentre che la repubblica apparecchiavasi con tanto ardore a difendere la sua libertà, per una singolare circostanza si trovava implicata in una stessa lega con quel principe medesimo, ch'ella doveva più d'ogni altro temere. Lo scopo principale della sua alleanza con Francesco I, Enrico VIII e la repubblica di Venezia, era di costringere Carlo V a riporre in libertà Clemente VII; e non pertanto Clemente VII era colui che la repubblica Fiorentina doveva più d'ogni altro temere. Fin dal principio della rivoluzione, nel 1527, i Fiorentini avrebbero potuto essere tentati di attaccarsi all'alleanza dell'imperatore, che in allora teneva prigioniere il papa loro nemico, e che tanto accanimento mostrava contro la casa de' Medici; ma essi conservavano per la nazione francese la più tenera affezione: avevano potuto fare confronto di questa nazione coi Tedeschi, cogli Spagnuoli, cogli Svizzeri, che tanto tempo avevano guerreggiato in Italia, e l'avevano costantemente trovata umana, leale e generosa. Invano i loro politici, Macchiavelli, Guicciardini, Vettori e Capponi, loro avevano rappresentato che non dovevano confondere la nazione col capo; che quanto questa era, generalmente parlando, valorosa e fedele, altrettanto il suo governo si faceva giuoco senza scrupolo della data fede, come l'avevano essi medesimi sperimentato nella guerra di Pisa, in quella della lega di Cambrai, e nelle negoziazioni colla Spagna. Le maniere ed i cavallereschi discorsi di Francesco I rendevano inutili tutti questi avvertimenti. I Fiorentini avevano in lui tutta riposta la loro fiducia[425]; eransi essi spogliati del necessario per pagargli sussidj, e per portare a numero la di lui armata a Napoli, mentre ch'essi medesimi si trovavano oppressi dalla peste e dalla fame. Le loro bande nere, che gli avevano mandate, erano state lungo tempo il nervo delle di lui armate, ed erano state totalmente disperse trovandosi al di lui servigio. Quando seppero il disastro di Lautrec sotto Napoli, ed in appresso la rivoluzione di Genova, estremi erano stati il loro dolore e lo spavento loro. Pure risguardavano come cosa impossibile che un eroe, pel quale si erano sagrificati, gli abbandonasse: ma l'avvenimento fece vedere che Macchiavelli, Capponi ed Alamanni avevano conosciuto il re assai meglio che non avevano saputo conoscerlo i loro concittadini.

Luigi Alamanni era amico di Andrea Doria; aveva veduto con piacere stabilirsi in Genova un governo libero; ed egli medesimo, proscritto per avere congiurato contro Clemente VII, allora cardinale dei Medici, non doveva cadere in sospetto di parzialità per questo pontefice. Dall'altro canto Andrea Doria vivamente desiderava la libertà fiorentina; egli profondamente paventava per la sua patria la gelosia degli stati dispotici, e calcolava tutti i pericoli che correva Genova se sopravviveva quasi sola alle distrutte repubbliche dell'Italia. Fece perciò sentire all'Alamanni quanto poco poteva sperarsi che i Francesi rimanessero vittoriosi, quanto rischio correvano in particolare i Fiorentini d'essere da Francesco I abbandonati nelle prime trattative di pace; l'avvisò confidenzialmente, che Clemente VII consentiva a riconciliarsi coll'imperatore, se in compenso gli venivano ceduti i Fiorentini, mentre che Carlo V per dare il suo assenso altro non aspettava che di vedere se i Fiorentini gli farebbero qualche offerta. Luigi Alamanni dietro queste prime aperture venne spedito dalla signoria a Barcellona. Tornò in breve per annunciare al governo, che, se voleva prevenire la conclusione del trattato del papa, non aveva un solo istante da perdere; che ad ogni modo Andrea Doria, valendosi del favore che godeva altissimo presso l'imperatore, prometteva ancora di far guarentire la libertà e la sicurezza della repubblica, purchè si affrettasse di trattare. In tale occasione si tennero molte deliberazioni e consulte segrete, tanto fra i membri componenti il governo, come cogli uomini di stato che non erano attualmente in carica; all'ultimo il gonfaloniere assoggettò cotale deliberazione alla signoria, ai dieci della guerra, ed a quelli che dicevansi la pratica segreta, persone da lui medesimo scelte per tenergli luogo di consiglieri. Anton Francesco Albizzi espose in una scrittura i vantaggi della riconciliazione coll'imperatore, la di cui lettura fu ascoltata di controgenio. Tommaso Soderini, rispondendogli, risvegliò l'antico amore de' Fiorentini verso la Francia, e tutti a sè trasse i suffragj; di modo che le trattative si ruppero, e lo stesso Alamanni credette essere prudente cosa l'allontanarsi[426].

Dopo la rottura del trattato di Madrid Francesco nulla aveva avuto più a cuore che di rinnovare le negoziazioni, onde liberare i suoi figliuoli. Si era alcun tempo lusingato di riuscirvi colle vittorie di Lautrec; ma bentosto aveva privato questo generale de' fondi che gli aveva promessi, e ruinata in tal modo la sua armata. La sua negligenza, i suoi dissipamenti, erano stati la prima cagione del disastro de' Francesi sotto Napoli; e questo disastro terminò di scoraggiarlo interamente, e lo dispose ad accettare tutte le condizioni che potrebbero condurre ad una pace di cui sentiva così vivamente il bisogno.

Omai altre armate non restavano al re in Italia, che quella di Francesco di Borbone, conte di San-Paolo, la quale era più debole assai di quello che si diceva, e composta di più cattive truppe che le precedenti: inoltre il re le mandava meno danaro di quello che aveva promesso, e perchè il Borbone era prodigo e negligente, s'appropriava parte di questo danaro, lasciando che i suoi subalterni rubassero il rimanente. Si disgustò col duca d'Urbino, che dal canto suo rifiutavasi ad ogni fatto alcun poco pericoloso. Egli non seppe nè soccorrere Genova, nè assediare Milano, sebbene Antonio di Leyva più non avesse che un pugno di soldati. Gli andò a male un attentato poco onorevole per sorprendere Andrea Doria nella sua casa di campagna[427]; e non seppe impedire a due mila Spagnuoli, di quelli cui l'estrema nudità aveva fatto dare il nome di Bisogni, di passare a Milano, sebbene avessero preso terra a Genova, senza abiti, senza scarpe, senz'armi, senza paga e senza vittovaglie; tutte le sue intraprese si ristrinsero alla presa de' tre castelli di Serravalle, sant'Angelo e Mortara[428].

La campagna del 1529 era di già cominciata, ed i Milanesi si erano trovati doppiamente oppressi, perchè i due mila Bisogni erano giunti a Milano in aprile, ed era stato forza di provvederli d'ogni cosa. Frequentemente costoro fermavano di bel mezzogiorno i cittadini nelle strade per farsi dare le loro vesti, scarpe, cappelli ec.; e quando facevasi di ciò lagnanza ad Antonio di Leyva, non si avevano da lui per tutta risposta che motteggi[429]. In questo tempo il San-Paolo aveva unita la sua armata a quella del duca d'Urbino ed a quella di Francesco Sforza; ma tutti tre insieme si erano trovati più deboli assai che non lo avevano annunziato i loro generali; tutti i reggimenti erano incompleti, non contando che la metà degli uomini che avrebbero dovuto avere. Dopo essersi alcun tempo trattenuti in vicinanza di Milano per privare di vittovaglie quella vasta città, i tre capi sentirono la necessità di separarsi; e partirono da Marignano, i Veneziani per Cassano, il duca di Milano per Pavia, ed il conte di San-Paolo per Landriano[430].

Il conte di San-Paolo era giunto il sabbato sera, 19 giugno, a Landriano, grossa borgata lontana dodici miglia da Milano, e poco meno da Pavia. Questa viene attraversata da un ramo del fiume Olona, che d'ordinario porta pochissima acqua, ma che in quell'istante era così gonfio a cagione di una dirotta pioggia, che si trovò impossibile di farlo guadare all'artiglieria. Il San-Paolo vi si trattenne tutta la domenica, ed Antonio di Leyva, avutone avviso a Milano, risolse di sorprenderlo. Il lunedì mattina, 21 giugno, quando il generale francese aveva già fatta partire la sua vanguardia sotto gli ordini di Guido Rangoni, e faceva passare il fiume all'artiglieria con circa mille cinquecento landsknecht ed un piccolo corpo d'artiglieria, che gli erano rimasti, venne all'improvviso attaccato da Antonio di Leyva, il quale, trovandosi gravemente preso dalla gotta, era costretto di farsi portare sopra una seggiola da quattro uomini alla battaglia. Gli uomini d'armi francesi fecero una valorosa resistenza; ma i Landsknecht si difesero assai debolmente, sicchè all'ultimo il San-Paolo fu fatto prigioniere con Giovan Girolamo Castiglione, Claudio Rangoni, Lignacco, Carbone, ed altri ragguardevoli personaggi. Dopo quest'ultima disfatta, l'armata francese si disperse, e quasi tutti i soldati tornarono in Francia[431].

Intanto a Cambrai si andava trattando la pace. Fino dal mese di maggio Carlo V e Francesco I avevano convenuto di mandare in quella città, il primo sua zia, l'altro sua madre. La prima, Margarita d'Austria, già duchessa di Savoja, sorella del padre dell'imperatore, era governatrice de' Paesi bassi; la seconda, Luigia di Savoja, duchessa di Angouleme, madre di Francesco I, aveva in ogni tempo esercitata grandissima influenza sul suo figlio, che le aveva dato il titolo di reggente. Queste due signore, pienamente informate de' segreti della loro corte, che avevano l'intera confidenza de' sovrani che rappresentavano, ch'erano unite in istretto nodo di parentela, che avevano molto spirito, abilità ed attitudine al maneggio degli affari, furono concordemente di avviso d'escludere dalla loro negoziazione tutte le formalità che tanto ritardo sogliono portare agli affari diplomatici. Recaronsi il 7 di luglio a Cambrai; alloggiaronsi in due vicine case, tra le quali fecero praticare una riservata comunicazione: conferirono ogni giorno senza testimonj, adoperandosi per la pace de' due imperj con una costante attività e con un impenetrabile segreto[432].

Ad ogni modo era di somma importanza per Francesco I di presentarsi sempre a Carlo V come capo di una potente lega, ponendo sulla bilancia tutto il peso de' suoi alleati d'Italia; perciò non lasciò mai, finchè durarono le negoziazioni, di dare ai suoi alleati le più costanti assicurazioni di difendere gl'interessi loro collo stesso zelo de' proprj. Promise replicatamente, ed ancora con giuramento, a Baldassare Carducci, ambasciatore di Firenze, ed a molti di lui concittadini, che mai non abbandonerebbe la repubblica, nè passerebbe a verun trattato senza comprendervela[433]. A ciò aggiunse positive proteste di essere apparecchiato a rinnovare la guerra, e ad entrare personalmente in Italia, ove ciò riuscisse necessario ai suoi alleati; prometteva pure di condurre con sè due mila quattrocento lance, mille cavaleggieri e ventimila fanti, e sollecitava i suoi alleati, i Veneziani, i Fiorentini, ed i duchi di Milano e di Ferrara, a promettergli dal canto loro mille cavaleggieri e venti mila fanti. Egli continuava queste negoziazioni con tanto maggior zelo, quanto meno pensava a dare esecuzione alle sue promesse; e cercava in ogni modo di accrescere la confidenza dei suoi alleati nella costanza e lealtà del suo carattere[434].

Ma mentre il re tentava con tali pratiche d'ingannare i suoi alleati, Clemente VII con una politica non diversa cercava d'ingannare lo stesso re. Voleva il papa vendere a caro prezzo la sua alleanza all'imperatore, facendosi a lui vedere sostenuto da tutta la potenza della santa lega, e mentre dava agli stati, che avevano prese le armi per la sua liberazione, manifeste prove della sua riconoscente fedeltà, mercanteggiava con Carlo V la misura del prezzo pel quale gli avrebbe abbandonati[435].

Nella santa lega Clemente VII trovavasi associato a stati che non odiava meno di Carlo V, o a dir meglio, l'opinione della quasi irresistibile potenza di questo sovrano aveva pressocchè interamente fatto tacere il suo rancore, mentre non sapeva perdonare a più deboli stati altre più leggieri offese. Nel tempo della sua prigionia avevano i Veneziani occupate Ravenna e Cervia, sotto colore di custodirle per la santa sede; ma in seguito avevano rifiutato di restituirle, e per quante istanze loro ne facesse il papa direttamente, e per mezzo del re di Francia, unendovi anche le minacce, le due città continuarono ad avere guarnigione veneziana[436]. Il duca di Ferrara aveva a mano armata riprese le sue terre di Reggio, Modena e Rubbiera, sulle quali la santa sede non aveva altro diritto che quello che poteva darle la violenta occupazione fattane da Giulio II, poi da Leone X. Pure Clemente VII risguardava come un'usurpazione la riconquista fattane dalla casa d'Este; rivolgevasi alternativamente a tutti i sovrani, perchè le facessero restituire alla santa sede, e si maravigliava che il duca Alfonso fosse da loro protetto dopo avere ricuperati i proprj stati[437]. Ma i più odiati dal papa erano per altro i Fiorentini. Egli non poteva perdonar loro il ristabilimento della loro libertà, nè lo scacciamento della sua famiglia, nè il rovesciamento delle sue statue, nè la persecuzione de' suoi partigiani; domandava che gli fosse restituita sua nipote Cattarina de' Medici, figliuola di Lorenzo duca d'Urbino; e malgrado l'interposizione della Francia, non aveva ancora potuto riaverla[438]. Perciò, dopo avere ricuperata la libertà. Clemente VII non aveva voluto con verun atto pubblico violare la neutralità, sebbene dichiarasse ai Francesi che il solo motivo che lo ritraeva dall'entrare apertamente nella lega, era lo stato di miseria e di debolezza cui trovavasi ridotto[439].

Dal canto suo Carlo V, sebbene prendesse co' suoi nemici il contegno di conquistatore, segretamente desiderava di mettere fine ad una guerra che ruinava le sue finanze, e che, riducendo i suoi popoli alla disperazione, poteva alla fine ridondare in suo danno e grave pericolo. Altronde era sommamente agitato dai progressi della riforma in Germania, e da quelli de' Turchi in Ungheria. Egli non poteva lusingarsi che la costante sua prosperità si mantenesse ancora; perciocchè, sebbene le sue truppe mancanti di danaro, di armi e di munizioni, e spesso mal disciplinate, avessero trionfato di numerose popolazioni, ricche ed agguerrite, in una nuova guerra potevano pure restar perdenti. Perciò Carlo desiderava di staccare dalla lega alcuni de' membri che la componevano, persuadendosi che, quando la lega fosse una volta rotta, gli altri individui temerebbero per se medesimi, e si disporrebbero ad abbandonare i loro alleati. Ma più che tutt'altro egli desiderava l'alleanza del papa; voleva cancellare lo scandalo della di lui prigionia; e dopo avergli fatto sentire tuttociò che poteva temere, credeva giunto il propizio istante di affezionarselo coi beneficj.

Per giugnere al suo intento Carlo V accordò a Clemente VII vinto, spogliato e di fresco uscito di carcere, tali condizioni che appena Clemente avrebbe potuto pretendere se fosse stato costantemente vittorioso. La negoziazione cominciatasi in Roma dall'ambasciatore imperiale Mussetola si terminò in Ispagna dal nunzio del papa, Niccola di Schomberg, arcivescovo di Capoa; ed il trattato di pace e di alleanza tra l'imperatore ed il papa fu sottoscritto a Barcellona il 20 di giugno del 1529[440].

Col trattato di Barcellona Clemente VII prometteva a Carlo V la corona imperiale, che questi disponevasi a venire a prendere in Italia; gli accordava l'investitura del regno di Napoli pel solo tributo d'una cavalla bianca, e la licenza di levare contribuzioni sul clero de' suoi stati. Più variati assai erano gli obblighi di Carlo V; dessi risguardavano la santa sede, la casa de' Medici, ed il ducato di Milano. L'imperatore prometteva al papa di fargli restituire Ravenna e Cervia dai Veneziani, e Modena, Reggio e Rubbiera dal duca di Ferrara. La casa de' Medici più non era rappresentata che dal bastardo Alessandro, perciocchè il papa, sorpreso da grave malattia in principio del 1529, per non lasciare i suoi nipoti senza appoggio nel mondo, aveva il 10 di gennajo dato il cappello di cardinale ad Ippolito da lui sempre prediletto, e cui aveva avuto già prima intenzione di unire in matrimonio all'erede di Vespasiano Colonna, sua pupilla[441]; Carlo V prometteva di rimettere Firenze in potere della casa de' Medici, e di maritare sua figliuola naturale Margarita con Alessandro, che il papa destinava al governo di quella repubblica; all'ultimo l'imperatore prometteva di rimettere alla decisione di un giudice non sospetto la sorte di Francesco Sforza e del ducato di Milano[442].

La notizia del trattato di Barcellona portata a Cambrai, vi affrettò la conclusione del trattato delle Dame, che così fu chiamato quello che negoziavano Luigia di Savoja e Margarita d'Austria. Queste dal canto loro sottoscrissero il 5 agosto del 1629 la convenzione che doveva rendere la pace all'Europa. Ma per quanto fosse grande la diffidenza che aveva potuto eccitare la politica delle corti, l'Europa non era apparecchiata allo scandaloso scioglimento di tutti gl'intrighi che per lo spazio di trent'otto anni avevano occupato il gabinetto di Francia. Col trattato di Cambrai Francesco I sagrificava tutti i suoi alleati, senza nemmeno raccomandarli alla clemenza dell'imperatore, cui li lasciava in balìa. Egli abbandonò coloro che avevano prese le armi in tempo della sua prigionia, che avevano fatto tremare gl'imperiali dopo la vittoria di Pavia, che lo avrebbero anche liberato se egli non avesse tanto affrettata la sua andata in Ispagna, che dopo tale epoca avevano costantemente per lui combattuto, sagrificandogli i loro tesori, i loro soldati, le loro province. Niente stipulò a favore di Firenze, la quale dietro i di lui eccitamenti aveva provocata la collera di Carlo V, e rifiutato più volte vantaggiose offerte di neutralità; niente per Venezia, che dal principio del di lui regno fino al presente erasi mantenuta fedele alleata della Francia, e verso la quale egli aveva recentemente assunti più formali impegni. Vero è che i Veneziani ed i Fiorentini trovavansi nominati nel trattato, ma soltanto per esserne esclusi con un'indegna soverchieria. Diceva uno degli articoli: «Inoltre il detto signore re cristianissimo procurerà che il comune di Firenze si convenga coll'imperatore entro tre mesi da contarsi dalla data del presente trattato, e ciò fatto desso comune sarà compreso nel presente trattato, e non altrimenti.» Un altro articolo nominava i Veneziani per obbligarli ad evacuare tutte le piazze del regno di Napoli nel termine di sei settimane[443]. Ma le pretese intorno alle quali dovevano andare d'accordo, i sagrificj che dovevano fare, o i giudici delle loro liti non erano altrimenti indicati; onde questi alleati erano del tutto abbandonati all'arbitraria volontà dell'imperatore, ed erano, fin che questi non avesse loro accordata la pace, esclusi dal trattato.

Parimenti il re di Francia nulla aveva convenuto pel duca di Milano, al quale aveva guarentiti gli stati col trattato dell'ultima alleanza; nulla pel duca di Ferrara, cui, come pegno d'indissolubile amicizia, aveva dato in matrimonio sua cognata, figliuola del suo predecessore; nulla per i baroni Romani, ed in particolare per gli Orsini, che, col loro attivissimo zelo e co' moltiplici loro servigj a favore della Francia, avevano posta in compromesso la propria esistenza, nulla per i Fregosi a Genova, che fortunatamente trovarono maggiore riconoscenza presso la repubblica di Venezia, nulla pel partito d'Angiò in tutto il regno di Napoli, il quale, mosso dalla memoria d'un'antica fedeltà, aveva prese le armi a di lui favore, e trovavasi oramai respinto verso i patiboli; anzi Francesco si obbligò vergognosamente a non dare asilo ne' proprj stati a nessuno di coloro che avessero portate le armi contro Carlo V, privandosi in tal modo della possibilità di poter dare qualche soccorso a quelli, ch'egli aveva spinti alla loro ruina[444].

Quest'abbandono di tutti gli alleati della Francia era tanto più scandaloso in quanto che Carlo V nello stesso trattato dava un esempio tutt'affatto contrario. Egli non dimenticò gl'interessi di coloro che si erano per lui sagrificati. L'art. 35 ristabiliva in tutti i loro beni gli eredi del duca Carlo di Borbone, come se questi mai non avesse abbandonata la Francia; i susseguenti articoli volevano il mantenimento o il ristabilimento de' diritti ed interessi del conte di Pont-de-Vaux, del principe d'Orange, della duchessa di Vandome, del conte di Gavre, del marchese d'Arschott, finalmente di tutti coloro che, pel loro zelo verso l'imperatore, avevano compromessi i loro diritti o le sostanze da loro possedute in Francia[445]. Vero è che Francesco non si curò di rispettare gl'impegni che assumeva, e tosto che riebbe i suoi figli, fece di nuovo sequestrare i beni di tutti i ribelli francesi[446].

Col sagrificio de' suoi alleati, de' suoi impegni, del suo onore, Francesco I aveva ottenuto grandi modificazioni al trattato di Madrid: egli più non rendeva a Carlo V il ducato di Borgogna, il territorio d'Auxerre, il Maconnese, Bar sulla Senna, la viscontea d'Auxonne, e le dipendenze di San Lorenzo, siccome si era obbligato per ricuperare la sua libertà. Soltanto rinunciava a tutti i diritti di supremazia sopra le province della Fiandra, che restavano all'imperatore; come pure ad ogni diritto sopra tutti gli stati d'Italia da' quali obbligavasi a ritirare le sue truppe prima che spirassero sei settimane. In iscambio gli venivano restituiti i suoi figliuoli a condizione di pagare due milioni di scudi, e di sposare Eleonora, sorella dell'imperatore, e regina vedova di Portogallo, siccome era stato convenuto nel trattato di Madrid[447].

Questo trattato, forse il più fatale all'onore della Francia di qualsiasi altro sottoscritto da verun monarca francese, si pubblicò il 5 di agosto nella chiesa di Cambrai. Pochi dì prima, e quando tutti gli articoli erano di già convenuti, Francesco I aveva protestato agli ambasciatori degli alleati, che mai non gli abbandonerebbe, ed aveva rifiutato ai Fiorentini l'assenso loro accordato dal suo predecessore nel 1512 di fare una pace parziale coll'imperatore, assenso caldamente ricercato allora di bel nuovo dal loro ambasciatore[448].

Il re, che in tempo delle negoziazioni si era recato fino a Compiegne, andò a Cambrai per vedere Margarita subito dopo la sottoscrizione degli articoli; ma perchè sostenere non poteva la vista degli ambasciatori che aveva ingannati, ricusò loro udienza sotto diversi pretesti. Finalmente quando si vide costretto a ricevere Baldassare Carducci, ambasciatore dei Fiorentini, gli volle far credere che il trattato di Cambrai non fosse che uno stratagemma necessario per riavere i suoi figliuoli; protestò non essere altrimenti mutate le sue disposizioni, e se ad onta di qualsiasi impegno ch'egli avesse preso, essere sempre pronto ad assistere i Fiorentini, che incoraggiò pure a fare una vigorosa resistenza[449].

Carlo V non aveva aspettato che si conchiudesse il trattato di Cambrai per prendere la strada d'Italia. Aveva spedito Andrea Doria a Barcellona per assumere il comando delle sue galere; lo aveva onorato più che verun altro monarca non avesse fatto mai un cittadino; aveva voluto che si coprisse alla sua presenza, e lo aveva investito del principato di Melfi[450], confiscato a danno di Ser Gianni Caraccioli. Tostocchè si fu accordato col papa, egli infatti recossi a Barcellona, ed il 29 di luglio andò a bordo della flotta genovese, risguardando di già come sicura la pace colla Francia[451]. Il tragitto fu assai penoso; ed egli non arrivò a Genova che il 12 di agosto, ove ricevette gli articoli della pace di Cambrai. Colà trovavasi alla testa d'un'armata appositamente adunata per dare esecuzione alla pace. Prima di lui erano giunti a Genova due mila Spagnuoli; conduceva sulla sua flotta mille cavalli e nove mila fanti, e doveva essere raggiunto in Lombardia dal capitano Felice di Virtemberga, che gli conduceva otto mila Landsknecht. Nello stesso tempo il principe d'Orange radunava all'Aquila il resto dell'armata che aveva presa Roma e difesa Napoli. Vi si trovavano tre mila Tedeschi, in addietro arruolati sotto il contestabile di Borbone e sotto Giorgio Frundsberg, e quattro mila Italiani che servivano senza paga sotto il comando di Fabrizio Maramaldo di Calabria. Una piccola armata spagnuola, composta degli avanzi delle vecchie bande che si erano sottratte a quelle micidiali campagne, spingeva con poca apparenza di buon esito l'assedio di Monopoli in Puglia, sotto gli ordini del marchese del Guasto, e faceva testa ai Veneziani, che in questa provincia avevano ottenuti alcuni vantaggi[452].

Carlo V era entrato in Italia, intenzionato di valersi di tutti i diritti che aveva acquistati colla vittoria e colla rinuncia di Francesco I; e per verità la di lui armata era abbastanza numerosa ed agguerrita per fargli credere agevole l'esecuzione de' suoi progetti. Ma gli alleati d'Italia, sebbene abbandonati dal re di Francia, non mostravansi del tutto scoraggiati. I Fiorentini spedirono a Genova ambasciatori a Carlo; ma essi ostinatamente rifiutavano di trattare con Clemente VII. L'armata de' Veneziani non era per anco stata attaccata; Malatesta Baglioni tratteneva sotto Perugia quella del principe d'Orange; ed il vescovo di Tarbes, ambasciatore di Francia, non lasciava di persuadere gli alleati a fare resistenza, anche dopo pubblicata la pace, facendo loro sperare i soccorsi di una potente armata francese, che diceva essere di già in cammino[453].

D'altra parte l'urgente pericolo del fratello di Carlo V e di tutto l'impero stesso germanico richiamava a sè l'attenzione dell'imperatore. Solimano con un'armata, che facevasi ascendere a cento cinquanta mila uomini, aveva invaso e guastato tutto il regno d'Ungheria, ed il 13 di settembre aveva posto l'assedio a Vienna. Il tradimento del Visir di Solimano, o la destrezza di Ferdinando, costrinsero veramente il turco a levare l'assedio il 16 di ottobre; ma quel superbo monarca, ritirandosi sdegnato, minacciava tuttavia, ed il terrore incusso dal suo prossimo ritorno era proporzionato alla violenza della sua collera. Altronde la Germania, divisa dalle dispute religiose, vedeva lo spirito d'indipendenza andar crescendo cogli avanzamenti della riforma; e l'imperatore sentiva il bisogno di fissarvi per alcun tempo la sua residenza, onde ristabilirvi l'autorità imperiale; finalmente sperimentava egli stesso quella penuria, che spesse volte aveva lasciata provare ai suoi generali. Aveva tutti esauriti i suoi mezzi per equipaggiare la flotta e trasportare la sua armata, ed in principio della campagna si trovava di già senza danaro. Non pertanto egli non aveva cuore di risolversi a far esercitare sotto i proprj occhi le orribili esazioni con cui Antonio di Leiva ed il principe d'Orange avevano tanto tempo mantenute le loro armate[454].

Per tutti questi motivi Carlo V s'impose, trattando cogli stati d'Italia, una moderazione che non potevasi da lui sperare, e che infatti non si accordava col suo carattere. I soli ai quali non volle accordare veruna indulgenza furono i Fiorentini, non perchè avesse qualche particolare motivo di odio contro di loro, ma perchè credeva per sè vantaggioso di soddisfare pienamente a Clemente VII, e perchè era sollecito di togliere ai popoli il pericoloso esempio d'uno stato che la libertà rendeva prospero[455].

Il 30 di agosto era partito da Genova alla volta di Piacenza, e gli ambasciatori fiorentini che l'avevano seguito, non avendo potuto ottenere pieni poteri, dei quali egli voleva che fossero muniti, per trattare col papa, non vennero ammessi alla sua udienza[456].

Frattanto Antonio di Leiva manteneva viva la guerra contro il duca di Milano; ed il marchese di Mantova, che a prezzo d'oro aveva ottenuto di rientrare nell'alleanza dell'imperatore, era stato posto al comando di un'armata che doveva attaccare i Veneziani. Vero è che queste due guerre trattavansi assai mollemente. Il duca di Milano ed i Veneziani, che egualmente cercavano di negoziare coll'imperatore, temevano d'inasprirlo approfittando de' loro vantaggi. Gli ultimi avevano rinunciato all'attacco di Brindisi, e ritirata la loro flotta a Corfù, evitando una battaglia. Il primo aveva lasciato sorprendere Pavia, che Annibale Picinardo, suo governatore, aveva per tradimento venduta ad Antonio di Leiva; ma sperava tuttavia di potere difendere Cremona e Lodi, ed ambidue si erano vincolati a non trattare separatamente l'uno dall'altro[457].

Clemente VII e Carlo V erano d'accordo di avere un abboccamento in Bologna. Il primo vi si recò in sul finire di ottobre, per ricevere l'illustre suo ospite[458]. Carlo, dietro le calde istanze di Alfonso duca di Ferrara, attraversò i ducati di Modena e di Reggio per passare da Piacenza a Bologna; venne accolto ai confini da Alfonso, che da lungo tempo negoziava per riavere la di lui grazia, e che, mai più non abbandonandolo per molti giorni, riuscì finalmente a guadagnarsi il di lui favore. L'imperatore fece il suo ingresso in Bologna il 5 di novembre, ed il restante dell'anno fu consacrato alle negoziazioni, che dovevano finalmente fissare la sorte dell'Italia[459].

Il papa non aveva cessato di proteggere Francesco Maria Sforza, e non aveva pure voluto dare orecchio ad alcune proposizioni che gli si erano fatte di stabilire la casa de' Medici a Milano piuttosto che a Firenze[460]. Ottenne per lo Sforza un salvacondotto, munito del quale questi si recò a Bologna il 22 di novembre. Appena giunto, l'infelice stato della sua salute diede subito a conoscere che non vivrebbe lungo tempo, e che Carlo V nulla arrischiava trattandolo favorevolmente, poichè con lui spegnevasi la di lui famiglia, ed il ducato di Milano ricadeva all'imperatore. Dopo un mese di negoziazioni, delle quali il papa si fece mediatore, il 23 dicembre del 1529 furono sottoscritti il trattato di pace dello Sforza e quello de' Veneziani[461].

Francesco Sforza venne rimesso nel ducato di Milano, e ne ottenne l'investitura imperiale, o piuttosto, ottenne la conferma di quella che aveva già ricevuta molt'anni prima. Ma egli staccò da questo ducato la contea di Pavia, che cedette ad Antonio di Leiva, il quale ne doveva conservare la sovranità per tutto il tempo della sua vita. Lasciò inoltre in mano dell'imperatore la città di Como ed il castello di Milano come guarenzia dei pagamenti che prometteva di fargli nel susseguente anno. Infatti prima che quell'anno terminasse, prometteva di pagare all'imperatore quattrocento mila ducati per prezzo di quest'investitura; e nei dieci successivi anni, doveva ogni anno pagarne cinquanta mila, che in tutto formavano la somma di novecento mila ducati, pel quale prezzo Carlo V gli vendeva il suo ristabilimento nell'eredità de' suoi antenati. Ma per formare così enorme somma in un paese sventurato, guastato da trent'anni di atroci guerre, dalla carestia e dalla peste, d'uopo era di aggravare la mano sui contribuenti con crudeli imposizioni.

Perciò i Milanesi non trovarono sotto Francesco Sforza quel riposo e quella prosperità che da tanto tempo desideravano. Ne' pochi anni che ancora passarono sotto il di lui governo, poterono appena cicatrizzare le profonde piaghe che loro aveva fatte la guerra, e più volte ebbero a dolersi dell'eccessivo prezzo che pagavano pel ritorno del loro principe[462]. Per affezionare Francesco alla sua casa, Carlo V gli fece sposare sua nipote Cristierna, figlia del re di Danimarca, la quale principessa arrivò a Milano in aprile del 1534. Ma questo matrimonio inspirava poca confidenza ai principi ed ai popoli vicini. La salute di Francesco Sforza era a tale termine ridotta, che non potevasi avere lusinga di vederlo godere una lunga vita, nè avere speranza che lasciasse figliuoli dopo di lui. Infatti egli morì il 24 ottobre del 1535, senza posterità, chiamando con suo testamento erede l'imperatore[463].

Per ottenere la pace i Veneziani restituirono al papa le città di Ravenna e di Cervia, ed all'imperatore i porti sull'Adriatico ch'essi avevano conquistati nella Puglia. Essi ad ogni modo richiesero un assoluto perdono per tutti coloro che gli avevano serviti, e che tornavano sotto gli antichi loro sovrani. Dal canto loro accordarono pure il perdono ad una parte de' loro esiliati, e fissarono sui loro beni una pensione a favore di coloro cui non vollero permettere di tornare in patria. Inoltre i Veneziani promisero di pagare a certi termini i dugento mila ducati di cui andavano tuttavia debitori verso l'imperatore, e si obbligarono di aggiungerne altri cento mila come prezzo della pace. Fecero ricevere il duca d'Urbino, loro generale, sotto la protezione dell'imperatore, e finalmente si obbligarono a guarentire i possedimenti dell'imperatore in Italia, e del duca di Milano, ma soltanto contro i principi cristiani, non volendo sottoscrivere verun trattato che potesse strascinarli in una guerra contro i Turchi[464].

Il trattato di pace di Alfonso, duca di Ferrara, fu assai più che non i precedenti difficile a conchiudersi; negli altri due il papa aveva fatte le parti di mediatore, mentre che era ostacolo egli medesimo alla conchiusione di questo. Aveva lungamente cercato d'impedire che Alfonso non fosse ammesso in Bologna, ed a stento acconsentì di accordargli un salvacondotto il 20 marzo del 1530. Dopo tale epoca Alfonso trattò i suoi affari personalmente; ma egli doveva difendere contro il papa la totalità de' suoi stati. Clemente VII riclamava per la santa sede Modena e Reggio, conquistate dai suoi predecessori, e Ferrara che pretendeva avere Alfonso perduta coll'avere egli fatta la guerra al papa, suo supremo signore. Carlo V non desiderava di rendere tanto potente lo stato della Chiesa; egli si riprometteva assai più dell'ubbidienza all'impero di un duca di Ferrara, che di un futuro papa; e soltanto egli voleva aggiustare queste vertenze prima di abbandonare l'Italia, per non lasciare dietro di sè alcun seme di guerra; in conseguenza stimolava Alfonso di prenderlo arbitro di tutti i suoi interessi. Alfonso, che conosceva il trattato di Barcellona, col quale l'imperatore si era obbligato a far restituire alla santa sede Modena, Reggio e Rubbiera, aveva paura di acconsentirvi; Clemente VII dal canto suo non diffidava meno di assoggettare alla disamina de' giureconsulti i diritti totalmente immaginarj della santa sede sopra Modena e Reggio. Per persuaderlo, Carlo V segretamente gli promise, che, dopo l'esame de' reciproci diritti, se i giureconsulti decidevano a favore della santa sede, pubblicherebbe e farebbe eseguire la loro sentenza, che, se accadesse il contrario, la sentenza non sarebbe mai pubblicata, e che, spirato il termine del compromesso, le due parti rientrerebbero ne' rispettivi diritti. Dopo quest'iniqua convenzione, il papa ed il duca di Ferrara si assoggettarono all'arbitramento della camera imperiale con un compromesso sottoscritto il 20 di marzo, e le terre contestate furono depositate in mano dell'imperatore[465].

Carlo V, che tacitamente aveva ritornato in sua grazia Alfonso d'Este, volle dargliene una prima dimostrazione il 25 di marzo, accordandogli l'investitura della città e della contea di Carpi, che aveva confiscata a pregiudizio di Alberto Pio in gastigo del di lui attaccamento alla Francia. Vero è che Alfonso pagò sessanta mila ducati in effettivo danaro per questo favore, promettendo di pagarne altri quaranta mila a lungo termine. I rispettivi diritti dell'impero, della santa sede e della casa d'Este furono in seguito discussi con molte scritture da varj giureconsulti, i quali conchiusero che le città di Modena, Reggio e Rubbiera non erano state altrimenti comprese nella donazione dell'esarcato di Ravenna, fatta ai pontefici da Pipino, o da Carlo Magno; e che perciò queste città non avevano mai cessato di far parte del dominio dell'impero. Per tal modo, piuttosto che riconoscere o i diritti delle popolazioni di essere governate pel loro maggiore vantaggio, o quelli de' trattati, o quelli che dà il possesso, si ricorse ad un'apocrifa transazione di un secolo barbaro, senza farsi carico di sette secoli di successive rivoluzioni. Carlo V, trovandosi in Colonnia il 21 dicembre del 1530, pronunciò la sua arbitramentale sentenza a favore della casa d'Este; soltanto il papa riuscì ad impedirne la pubblicazione fino al 21 aprile del 1531. Con questa si obbligava la santa sede a conferire al duca Alfonso l'investitura di Ferrara, contro il pagamento di cento mila ducati d'oro da farsi alla camera apostolica; mentre che la camera imperiale, la quale dal canto suo si era fatta lautamente pagare, accordò allo stesso duca l'investitura di Modena, Reggio e Rubbiera, come feudi dell'impero[466].

Il duca d'Urbino era stato presentato in Bologna all'imperatore ed al papa dagli ambasciatori veneziani, ed era stato egualmente ben accolto dall'uno e dall'altro[467]. Federico Gonzaga, marchese di Mantova, era stato uno de' primi tra i piccoli potentati a fare la sua pace coll'imperatore, cui apparecchiava uno splendido ricevimento nella sua capitale, ottenendo in contraccambio da lui il 25 di marzo un diploma, col quale il marchesato di Mantova veniva eretto il ducato[468]. Il duca Carlo III di Savoja ed il marchese Bonifacio di Monferrato recaronsi pure personalmente a Bologna per fare la loro corte al monarca diventato il solo arbitro dell'Italia. Il primo era cognato dell'imperatore, essendo sua moglie Beatrice, siccome pure quella di Carlo V, figlia del re di Portogallo; ed era in pari tempo zio di Francesco I, perchè Luigia d'Angoleme, di lui madre, era sua sorella. Questo doppio parentado aveva senza dubbio contribuito a farlo rispettare dai due rivali monarchi in tempo delle guerre che avevano fino allora guastata l'Italia. I suoi stati avevano sofferto assai pel continuo passaggio delle armate, ma per altro erano sempre stati risguardati come neutrali: ma Luigia, duchessa d'Angoleme, morì nel susseguente anno, e Carlo III, perdendo la sua protettrice alla corte di Francia, credette più prudente consiglio di attaccarsi totalmente all'imperatore cui vedeva salito all'apice della potenza; e questo cambiamento di politica trasportò ne' suoi stati le guerre che bentosto si riaccesero tra i due rivali[469].

La repubblica di Genova occupava in allora un altissimo grado nel favore di Carlo, ed il liberatore di lei Andrea Doria aveva ricevuto dal monarca nuove distinzioni. Nella Toscana due altre repubbliche, Siena e Lucca, conservavano nell'oscurità la loro indipendenza: erano da lungo tempo affezionate al partito Ghibellino, e venivano considerate quali feudatarie dell'impero; avevano continuamente somministrati sussidj alle armate imperiali, ed il solo favore che domandavano in contraccambio, era di venire dimenticate; effettivamente al primo aspetto i loro rapporti cogli altri stati non parvero cambiati; ma il consolidamento della potenza imperiale in Italia le faceva sempre più di mano in mano decadere dal rango e dall'importanza di stati indipendenti.

La sola repubblica di Firenze non era compresa in questa pace universale: Carlo V aveva promesso al papa di sagrificargliela; e sul di lei territorio egli andava ragunando tutte le armate che successivamente richiamava dalle diverse province cui rendeva la pace. Tutta questa gente, nudrita nel sangue e ne' delitti, che aveva pel corso di trent'anni spogliate senza pietà ed avvolte nel dolore tutte le contrade dell'Italia, si adunava adesso in Toscana. Ma Carlo V preferiva di non essere testimonio dello sterminio di quell'industre ed illuminato popolo, che tanto aveva contribuito ai progressi delle lettere, delle arti, delle scienze, e che in faccia sua non aveva verun demerito. Egli si era legate le mani col papa, obbligandosi a non avere pietà dei Fiorentini; perciò non volle trovarsi a portata di sentire le loro preghiere, quando dovrebbe ricusar loro ogni compassione; e questo motivo si aggiunse a tutti gli altri sovraccennati, che già lo affrettavano a prendere la strada della Germania.

Carlo V si era proposto di ricevere in Italia le due corone della Lombardia e dell'impero. Secondo l'antica costumanza, avrebbe dovuto cingere la prima a Milano nella chiesa di sant'Ambrogio, e la seconda a Roma nella basilica di san Giovanni Laterano. Ma pare che troppo non desiderasse di vedere queste due città, le quali erano state barbaramente trattate da' suoi generali: pretestò lettere di suo fratello Ferdinando, re d'Ungheria, che lo affrettavano a recarsi in Germania, ed ottenne dal papa che le due coronazioni si facessero in Bologna. Queste cerimonie ebbero dunque luogo, la prima il 22 di febbrajo nella cappella del palazzo pontificio, la seconda il 24 di marzo nella cattedrale di san Petronio. Da ottant'anni a quella parte l'Italia più non aveva veduto coronarsi verun imperatore, e questa fu pure l'ultima coronazione. Tutto adunque contribuì a rendere questa cerimonia magnifica, ed il fasto e la pompa che si spiegarono in tale occasione, ed il rango de' personaggi che in tale circostanza corteggiarono l'imperatore, ed il terrore che inspiravano le vittoriose legioni che lo circondavano, e la gloria militare de' loro capi[470].

Ma la coronazione di Carlo V a Bologna è ancora più notabile, siccome l'epoca della nuova potenza cui erasi l'imperatore innalzato, e dell'intera servitù dell'Italia. Nè Carlo Magno, nè il primo Ottone, non avevano ottenuto in mezzo a tutta la gloria delle loro conquiste un così illimitato potere su tutta l'Italia come quello che vi esercitava Carlo V. I primi erano stati contenuti dalle prerogative della Chiesa, da' privilegj de' principi e delle città, e per quanto si estendessero le loro pretese, scontravano dovunque delle barriere che non potevano superare. Ma nell'istante in cui venne coronato Carlo V, più non eravi alcuna parte d'Italia che potesse chiamarsi indipendente. Il popolo che così lungamente aveva occupata la storia colle sue alte imprese, colle sue virtù, co' suoi talenti e colla sua politica, aveva cessato di esistere come nazione. Al mezzodì i due regni di Sicilia e di Napoli riconoscevano l'immediata sovranità di Carlo V. Lo stato della chiesa, che veniva dopo quelli co' suoi piccoli principi feudatarj, era stato talmente domo dalle vittorie dell'armata imperiale, che il papa aveva perduta ogni confidenza nelle proprie forze, ed ogni idea di resistenza. La Toscana, invasa dalle armate di Carlo, era vicina ad essere convertita in un principato feudale dell'impero. I duchi di Ferrara, di Mantova, di Milano, di Savoja, ed il marchese di Monferrato dovevano l'esistenza loro al beneplacito dell'imperatore, ed in questi ultimi mesi essi medesimi avevano confessate e più strettamente rannodate le loro catene. La repubblica di Genova, libera soltanto entro il recinto delle sue mura, si era colle sue esterne relazioni compiutamente assoggettata alla politica spagnuola. Quella di Venezia si era sottratta tremando ai pericoli che la minacciavano, ma non lasciava perciò di sentire tutta la sua debolezza: ella calcolava l'infelice suo stato meglio assai che non facevano i suoi vicini, e di già si assoggettava a quella timida e sospettosa condotta, con cui protrasse la sua esistenza per lo spazio di quasi tre secoli, rinunciando all'influenza che aveva fin allora esercitata su tutta l'Europa. Dall'una all'altra estremità dell'Italia la potenza dell'imperatore era del tutto illimitata. Colui che avesse avuto la disgrazia d'incontrare il suo risentimento, colui che ardito avesse, nei suoi discorsi, nelle sue scritture, di giudicare liberamente le di lui azioni o quelle de' generali o de' ministri di lui, non avrebbe trovato asilo contro la formidabile di lui collera, nè alla corte dei principi, nè in seno delle repubbliche. Tutti gl'Italiani tremavano ed ubbidivano; e quando Carlo V partì per recarsi in Germania, ne' primi giorni d'aprile del 1530, non aveva verun motivo d'inquietudine rispetto alle province che si lasciava alle spalle[471].

FINE DEL TOMO XV.

TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XV.

Capitolo CXIV. Elezione e papato d'Adriano VI; sconfitta dei Francesi alla Bicocca; convenzione di Cremona, in forza della quale sgombrano l'Italia; i Veneziani si staccano dalla Francia; ingresso di Bonnivet in Lombardia; morte di Adriano VI. 1521-1523 pag. 3

I destini d'Italia si decidevano in forza di una guerra tra gli stranieri 3

Debolezza de' potentati italiani in confronto alle quattro monarchie che in allora disponevano dell'Europa 4

Ingrandimento della potenza territoriale dei papi 5

Leon X mantenendosi neutrale avrebbe accresciuta la sua possanza e protetti i suoi compatriotti 6

La sua inconsideratezza compromette la potenza temporale e spirituale della Chiesa 6

1517-1521 Principj della riforma cui presta poca attenzione 7

La riforma risveglia in Italia inquietudine, non curiosità 8

La fede religiosa era somma; ma la religione non occupava gli animi 9

Prodigalità di Leon X che l'avrebbe posto in grande imbarazzo, se fosse vissuto più a lungo 10

1517-1521 L'armata di Lombardia, abbandonata dalla Chiesa, si discioglie 10

Il signore di Lautrec non sa, o non può approfittare della debolezza de' suoi avversarj 11

Sollevazione negli stati della Chiesa. Francesco Maria della Rovere ricupera il ducato d'Urbino 12

1522 5 gennajo. I Baglioni sono di bel nuovo ricevuti in Perugia 12

Rivoluzioni a Camerino, a Todi, e tentativo sopra Siena 13

Il duca di Ferrara ricupera tutto ciò che aveva perduto 14

1521 26 di dicembre. Apertura del conclave; credito del cardinale Giulio de' Medici 16

Rivalità di Prospero Colonna, che impedisce che sia eletto 16

1522 9 gennajo. Inaspettata elezione d'Adriano Florent, che si fa chiamare Adriano VI 17

Governo della Chiesa durante la lontananza del papa 18

21 gennajo. Il card. de' Medici torna a Firenze 19

Lusinga la società de' giardini Rucellai colla speranza di rendere la libertà alla sua patria 20

Non avendo più che temere per parte de' Francesi, si leva la maschera 22

7 di luglio. Fa perire due repubblicani fiorentini per avere cospirato contro di lui, ed altri ne bandisce 22

Dissipazioni di Francesco I, che fanno mancare le imprese sulla Lombardia 23

1522 Funeste conseguenze di ciò ch'egli soleva chiamare, aveva liberati i re dalla tutela de' loro famigliari 24

Funeste conseguenze della sua diffidenza dei comuni, che priva la Francia d'una infanteria nazionale 24

1.º di marzo. Il Lautrec passa l'Adda e si avvicina a Milano 26

Attività di Prospero Colonna e de' generali imper. nel difendere Milano 26

Morte di M. A. Colonna e di Camillo Trivulzio 28

Il Lautrec prende Novara, ed è respinto sotto Pavia 28

Gli Svizzeri della sua armata chiedono che si avvicini ad Arona 29

Le due armate soffrono egualmente pel ritardo del loro soldo 29

Gli Svizzeri domandano ad alta voce il congedo o la battaglia 30

Crequì, signore di Pondormì, si avanza per riconoscere Prospero Colonna alla Bicocca 31

Gli Svizzeri, malgrado il suo rapporto, sforzano il Lautrec a venire a battaglia 32

29 aprile. Disposizioni del Lautrec per la battaglia della Bicocca 33

Gli Svizzeri attaccano prima che gli altri corpi giungano sulla linea 34

Gli Svizzeri che attaccano di fronte le batterie vengono respinti, dopo avere perduti tre mila uomini 35

1522 Sono pure respinti il maresciallo di Foix ed il Lautrec 36

Gli Svizzeri si ritirano ne' loro paesi, e Lautrec passa alla corte 37

Giustificazione di Lautrec, cui Luigia di Savoja aveva intercettati i sussidj destinatigli dal re 38

Sorpresa di Lodi e dedizione di Pizzighettone agl'imperiali 39

26 di maggio. Convenzione di Cremona, in forza della quale Lescuns promette di evacuare la Lombardia 40

6 di luglio. La convenzione si eseguisce, ed i Francesi si ritirano 40

Prospero Colonna si avanza verso Genova per iscacciarne Ottaviano Fregoso 41

30 maggio. Genova viene sorpresa e saccheggiata dagli Spagnuoli 42

Il duca di Lungavilla, giunto essendo fino a Villanuova d'Asti, si ritira 43

L'Italia oppressa dall'armata imperiale 43

Gli stati indipendenti assoggettati ad arbitrarie contribuzioni 44

Gl'Italiani aspettano con impazienza l'arrivo del papa 45

29 agosto. Adriano VI giugne a Roma dopo essersi sottratto ad un abboccamento con Carlo V 46

Scienza e virtù monastiche di Adriano VI 46

I Romani ravvisano in esso un barbaro, nemico delle arti e delle lettere 47

1522 Progetti di riforma di Adriano VI, tutti dannosi ai Romani 47

Peste in Roma ed in Firenze disseminatasi per la negligenza d'Adriano VI 48

25 dicembre. Solimano il magnifico occupa Rodi 48

1523 Adriano VI riconcilia alla Chiesa i duchi d'Urbino e di Ferrara 49

Il card. Soderini, ministro del papa, propende a favore della Francia 50

Disgrazia del Soderini, per cui il papa entra nel partito imperiale 52

14 aprile. Il castello di Milano si arrende a Prospero Colonna 52

La repubblica di Venezia ufficiata ad abbandonare l'alleanza francese 53

I Veneziani non vogliono esporsi ad una guerra coi Turchi 54

Fine di luglio. Loro alleanza coll'imperatore, con suo fratello, e con Francesco Sforza 55

Condizioni di questa nuova alleanza 55

3 di agosto. Confederazione del papa, dell'imperatore, del re d'Inghilterra, dell'arciduca d'Austria, di Milano, Firenze, Genova, Siena e Lucca 57

25 agosto. Tentativo di Bonifacio Visconti per assassinare il duca di Milano 58

Rivoluzione di Valenza che viene compressa da Antonio di Leyva 59

Possente armata adunata da Francesco I per attaccare l'Italia 60

1523 Segreto malcontento del Borbone contro di lui 61

Cospirazione del Borbone contro la stessa esistenza della Francia 62

Il Borbone inganna il re, e fugge da Moulins a Besanzone 64

Moltissimi gentiluomini implicati nella congiura del Borbone 65

Francesco I rinuncia al comando della sua armata, e lo trasferisce all'ammiraglio Bonnivet 65

Prospero Colonna, cui era affidata la difesa dell'Italia, trovavasi infermo d'animo e di corpo 66

Timidità ed affettati indugj del duca d'Urbino 67

Debolezza dell'armata imperiale, che vuole difendere il Ticino 68

14 di settembre. L'armata francese passa il Ticino per portarsi verso Milano 69

Papa Adriano VI muore lo stesso giorno dopo breve malattia 69

I Romani risguardano la di lui morte come una liberazione 70

Capitolo CXV. Elezione di Clemente VII. Disastrosa campagna de' Francesi in Italia sotto Bonnivet; campagna ancora più infelice di Francesco I, che è fatto prigioniero nella battaglia di Pavia. 1523-1525 72

1523 Lealtà di Adriano VI 72

Questa lo rende intollerante in materia di religione; sua condotta verso Lutero 73

1523 Sua severità verso i Marrani , Giudei e Mori convertiti 74

Lasciava ai cardinali gli affari secolari, senz'avere fidanza in loro 75

1.º ottobre. Entrano in conclave trentasei cardinali 75

Molti aspirano alla tiara 76

Il sacro collegio diviso tra Giulio de' Medici e Pompeo Colonna 76

Pompeo Colonna, per timore del cardinale Orsini, si unisce al Medici 78

18 novembre. Elezione di Giulio dei Medici sotto il nome di Clemente VII 78

Fede dei Romani e dei letterati in Clemente VII 79

29 di settembre. Alfonso d'Este occupa Reggio, ma depone le armi dopo l'elezione di Clemente VII 80

Clemente manda a Firenze i bastardi Ippolito ed Alessandro col card. di Cortona per governare la repubblica 82

14 settembre. L'ammiraglio Bonnivet passa il Ticino, e comincia la campagna in Lombardia 83

Bonnivet perde tre giorni in riva al Ticino e dà tempo al Colonna di fortificare Milano 85

20 settembre. Il Bonnivet si avanza sotto Milano, e fa occupare Lodi, Monza e Caravaggio 85

Molte piccole perdite costringono Bonnivet a riunire le sue truppe 87

27 novembre. È forzato di ritirarsi ad Abbiategrasso 89

Maravigliosi talenti di Prospero Colonna per la guerra difensiva 89

1523 30 dicembre. Questi muore dopo otto mesi di malattia 90

1524 Bonnivet licenzia una parte della sua fanteria 91

Il contestabile di Borbone giugne a Milano con sei mila landsknecht 91

Febbrajo. Bajardo si lascia sorprendere a Robecco 93

2 marzo. Il Pescara fa passare il Ticino all'armata imperiale per tener dietro ai Francesi 94

Bonnivet si chiude in Novara, e gli imperiali tentano di circondarlo 95

Rinforzi che arrivano a Bonnivet dalla Francia, dalla Svizzera e dai Grigioni 95

Gio. de' Medici sforza i Grigioni a tornare ne' loro paesi 96

I Milanesi prendono Abbiategrasso, ma vi contraggono la peste 97

Bonnivet risolve di unirsi agli Svizzeri che erano venuti fino a Gattinara per liberarlo 98

Principio di maggio. Bonnivet conduce di notte la sua armata da Novara a Romagnano sulla Sesia 98

Passa la Sesia, ma resta ferito, e Vandenesse ucciso 99

Affida il comando a Bajardo, che rimane ucciso 100

Eseguisce la sua ritirata per Ivrea, Val d'Aosta e san Bernardo 102

I Francesi abbandonano Alessandria e Lodi, ed evacuano l'Italia 103

Voti degli Italiani dopo la vittoria, e loro malcontento dei ministri dell'imperatore 103

1524 Il Borbone sollecita Carlo V ed Enrico VIII ad attaccare la Francia 105

Luglio. Il Borbone ed il Pescara entrano in Provenza con sedici mila uomini 106

Assedio di Marsiglia in parte difesa dagli Italiani 107

Settembre. Il Borbone ed il Pescara levano l'assedio di Marsiglia e si ritirano precipitosamente 109

Invece d'inseguire i fuggiaschi Francesco I vuole precederli in Lombardia 110

Francesco I, come Bonnivet, non conosceva l'arte della guerra 112

26 ottobre. I Francesi entrano in Milano nell'atto che escono gli imperiali 113

Disordine dell'armata imperiale che ritirasi a Lodi 114

Francesco I non l'insegue a cagione di certe bizzarre sue opinioni dell'onore della corona 115

28 ottobre. Francesco I comincia l'assedio di Pavia 117

Tenta di deviare le acque del Ticino, ma le piogge guastano il suo lavoro 118

Gli alleati dell'imperatore cominciano a staccarsi da lui 119

Clemente VII manda il suo datario a Francesco I per trattare con lui 119

Il papa ed il senato veneto si obbligano a mantenersi neutrali 121

Francesco I manda il duca d'Albanì con un'armata contro Napoli 122

1524 Il Pescara si oppone al progetto di mandar gente in difesa di Napoli 123

L'Albanì richiama all'alleanza francese il duca di Ferrara, Lucca e Siena 124

4 dicembre. Giovanni de' Medici colla banda nera passa al partito francese 125

1525 gennajo. Il Borbone riconduce dalla Germania 12,000 landsknecht 126

Angustie degli imperiali per mancanza di danaro; provvedimento del Leyva in Pavia 127

L'armata del Pescara non ha sufficiente danaro per mettersi in campagna 128

Pescara ottiene dai soldati la promessa di servire ancora un mese senza soldo 129

25 di gennajo. L'armata imperiale si incammina alla volta di Pavia 130

Tutti i generali consigliano il re a levare l'assedio 131

Il Bonnivet lo persuade a rimanere nelle sue linee 132

Francesco I ristringe i suoi alloggiamenti e li fortifica 133

Posizione de' Francesi tra il parco di Mirabello ed il Ticino 133

30 gennajo. Il Pescara prende d'assalto la rocca di sant'Angelo 135

Disfatta del marchese di Saluzzo e di Gian Luigi Palavicino 135

Gian Jacopo Medici, attaccando Chiavenna, sforza le linee a richiamare 6,000 Grigioni dell'armata del re 136

3 febbrajo. L'armata imperiale si alloggia un miglio lontano dai Francesi 137

1525 Il Pescara cerca, scaramucciando, di tirare i Francesi in un fatto generale 137

20 febbrajo. Giovanni de' Medici ferito si fa trasportare a Piacenza 138

Il Pescara si propone d'entrare nel parco, e di avanzarsi sopra Mirabello 139

25 febbrajo. La sua armata entra nel parco due ore prima di giorno 140

Il re, vedendo passare gl'imperiali avanti di lui, entra in battaglia 141

I Francesi in principio della battaglia hanno il vantaggio 142

Gli uomini d'armi vengono disordinati dagli archibugieri spagnuoli 143

Gli Svizzeri fuggono, ed i landsknecht sono uccisi 144

Il re vien fatto prigioniere; i suoi principali signori si fanno uccidere 145

Perdita de' Francesi tra morti e prigionieri 146

Il rimanente dell'armata francese si ritira dal Milanese 147

Capitolo CXVI. Inquietudine e pericoli delle potenze d'Italia; progetto d'una lega fra di loro per difendere la propria indipendenza; vi si associa il Pescara, in appresso li tradisce e spoglia de' suoi stati il duca di Milano. Francesco I ricupera la libertà in forza del trattato di Madrid. 1525-1526 149

1525 Le potenze d'Italia conoscono d'essere in balìa del vincitore di Pavia 149

1525 Armata de' Veneziani sotto il duca d'Urbino 150

Indebolimento della repubblica di Venezia 151

Conformità e differenze tra il governo della Chiesa e quello di Venezia 152

I preti incapaci d'amministrare 153

Rapida ruina di tutti gli stati soggetti alla Chiesa 154

Difficoltà in cui trovavasi Clemente VII a cagione delle prodigalità di Leon X 154

Sordida e mal intesa economia di Clemente VII 155

Odio del popolo romano verso Clemente VII 156

Malcontento de' Fiorentini, e rammarico d'avere perduta la libertà 157

Pentimento del papa e de' Veneziani d'aver fatto dipendere la loro sorte da un uomo, non da una nazione 158

La battaglia di Pavia costava alla Francia poco più della prigionia del re 158

Un re cessa di essere sovrano nell'istante che è fatto prigioniere 159

L'armata imperiale non è in istato di approfittare de' suoi vantaggi 160

Costante penuria dell'imperatore; conseguenza dei disordini della di lui amministrazione 161

Francesco I risguarda la causa della Francia come perduta, perchè egli è prigioniere 163

Il duca d'Albanì si ritira ne' feudi degli Orsini 164

I Veneziani propongono una lega a Clemente VII per difesa della indipendenza italiana 165

Ascolta di preferenza le proposizioni de' generali imperiali 167

1.º aprile. Sottoscrive in Roma un trattato tra l'imperatore, il duca di Milano, i Fiorentini e la Chiesa 167

Spaventose contribuzioni levate dai generali imperiali sugli stati d'Italia 168

Dopo avere ricevuto il danaro del papa, i generali imperiali ricusano di eseguire il trattato fatto con lui 169

Umiltà ipocrita di Carlo V nell'istante della vittoria 170

Esorbitanti proposizioni che fa a Francesco I 171

Disgusta il cardinale Wolsey, e con lui il re d'Inghilterra 171

Il duca d'Albanì s'imbarca a Cività Vecchia cogli avanzi dell'armata 172

7 giugno. Il Lannoy persuade Francesco I ad imbarcarsi per la Spagna, senza saputa del Pescara e del duca di Borbone 173

Francesco, impaziente di riavere la libertà, offre di sagrificare l'Italia all'imperatore 174

Gl'Italiani invitano la Francia ad una lega per obbligar Carlo a mettere Francesco in libertà 176

Oppressione di Francesco Sforza sotto i ministri imperiali 177

Francesco Sforza ed il suo cancelliere Moroni entrano nella lega d'Italia 178

1525 Il Moroni cerca di trarre nella stessa lega il marchese di Pescara 179

Gli offre a nome della lega la corona di Napoli 180

Progetto del Moroni comunicato al Pescara per sorprendere l'armata imperiale 181

Il Pescara fa consultare alcuni teologi intorno a' suoi scrupoli 182

Negoziazioni della corte di Roma con Enrico VIII d'Inghilterra 183

1.º luglio. Negoziazioni del vescovo di Veruli cogli Svizzeri 184

24 giugno. Promessa della reggente di Francia di secondare gli sforzi degl'Italiani per difendere la loro indipendenza 185

La duchessa d'Alenson compromette i disegni degl'Italiani, da lei conosciuti 187

Il Pescara risolve di tradire gli alleati che volevano farlo re di Napoli 189

Agosto. Francesco Sforza riceve l'investitura del ducato di Milano ad onerosissime condizioni 190

Malattia dello Sforza che ritarda le misure degli alleati 191

Malattia di Francesco I a Madrid, che ravviva le di lui negoziazioni coll'imperatore 192

14 ottobre. Il Pescara cava la maschera e fa arrestare il Moroni nel castello di Novara 193

Il Pescara si fa consegnare tutte le fortezze del ducato di Milano 195

1525 Circonda di trincee il castello di Milano e ne comincia l'assedio 196

Il senato di Venezia ricusa di trattare coll'imperatore finchè il ducato di Milano è occupato dalle di lui truppe 196

14 novembre. Disprezzo manifestato dai Castigliani verso il contestabile di Borbone 198

Gl'Italiani hanno in orrore il marchese di Pescara 198

30 nov. Il Pescara muore in Milano 199

Condizioni della lega progettata tra la Francia, l'Inghilterra ed i principi italiani 200

Irrisoluzione di Clemente VII nel sottoscriverla 201

Opposizione tra Niccolò di Schomberg ed il datario Ghiberti 202

Nuove proposizioni dell'imperatore al papa, che protraggono la conclusione della lega 203

Acconsente ad una dilazione di due mesi prima di obbligarsi 204

Smisurata ambizione di Carlo V nel trattare colla Francia 206

1526 14 gennajo. Trattato di Madrid, sagrificj imposti a Francesco I 206

18 marzo. Francesco viene posto in libertà e cambiato co' suoi figli 208

Capitolo CXVII. Lega degl'Italiani per difendere la loro indipendenza. Sono abbandonati dalla Francia e mal serviti dal duca d'Urbino; crudeltà degl'imperiali in Lombardia. Clemente VII, sorpreso nel Vaticano dai Colonna, è forzato ad acconsentire ad una tregua che poi viene da lui violata. 1526 210

1526 Tutti gl'Italiani bramano ardentemente l'espulsione dei Barbari 210

Crudeltà degli oltremontani in tutte le province d'Italia 211

Gl'Italiani, non isperando la pace, desideravano almeno una guerra nazionale 213

Frequenti insurrezioni nel Milanese 213

Spossamento di Carlo V, disordine delle sue finanze 214

I re di Francia e d'Inghilterra disposti a secondare gl'Italiani 215

Alla nazione italiana mancava lo spirito militare 215

Ed ai governi italiani mancava il coraggio morale 217

Il papa ed i Veneziani mandano ambasciatori a Francesco I 218

Francesco I loro dichiara, che non credesi legato dal trattato di Madrid 218

Ma il suo coraggio ed ambizione erano compressi dalla disgrazia 219

22 maggio. Francesco I si unisce a Clemente VII, ai Veneziani ed a Francesco Sforza per la libertà d'Italia 221

Insurrezione a Milano, e convenzione tra gli Spagnuoli ed il popolo 222

Giugno. Le truppe di Venezia e della Chiesa si avanzano verso l'Adda ed il Po, nel mentre che gli alleati ordinano leve di Svizzeri 223

1526 Lentezza e sutterfugj di Francesco I, che negozia coll'imperatore 225

Ugo di Moncade cerca invano di staccare Clemente VII dalla Francia 226

Il duca d'Urbino capo dell'armata della lega, suo carattere e suo timido sistema di guerra 227

Tardanza degli Svizzeri aspettati all'armata del papa 228

17 di giugno. I generali spagnuoli eccitano avvertitamente una sollevazione in Milano per aver motivo di punire il popolo 229

Intollerabili vessazioni degl'imperiali a Lodi 230

Luigi Vistarini, per liberarsene, apre la città all'armata alleata 230

26 giugno. L'armata della Chiesa si unisce a quella del duca d'Urbino, ed i generali di lei lo affrettano ad avanzarsi verso Milano 232

7 luglio. Scaramuccia del duca d'Urbino alle porte di Milano 234

8 luglio. Si ritira a precipizio in tempo di notte 235

Nello stesso giorno si pubblica la lega in Francia, a Roma, a Venezia 235

Principio delle diffidenze, e de' malcontenti fra gli alleati 236

Miseria de' Milanesi, e loro spaventosa oppressione sotto gli Spagnuoli 237

I Milanesi implorano la protezione del duca di Borbone che giugneva allora dalla Spagna 239

1526 Il Borbone gl'inganna, e prende il loro danaro sulla parola che non attiene 239

17 luglio. Il duca di Milano fa uscire dal castello 300 bocche inutili 240

22 luglio. Il duca d'Urbino si accampa a due miglia da Milano 241

24 luglio. Francesco Sforza è forzato a capitolare per assoluta mancanza di vittovaglie 242

Il duca di Milano raggiugne gli alleati che gli danno il possesso di Lodi 243

Il papa vuole mutare il governo di Siena devoto all'imperatore 243

17 di giugno. Armata pontificia e fiorentina sotto Siena 244

25 luglio. Quest'armata è posta in fuga da quattrocento soldati 244

Cattiva politica di temporeggiare del duca d'Urbino 246

Gl'Italiani diffidano del re di Francia; G. B. Sanga viene spedito presso di lui in qualità di nunzio apostolico 247

La lentezza del re di Francia era cagionata dalla sua non curanza, e dal suo gusto pei piaceri 248

Flotta spagnuola armata a Cartagena per portare truppe in Italia 250

Il duca d'Urbino eccitato ad attaccare Genova per terra, mentre la flotta della lega l'attaccava dalla banda del mare 251

6 agosto, 23 settembre. Assedia e prende Cremona 251

29 agosto. Pietro Navarro comincia l'assedio di Genova colla flotta della lega 252

1526 22 agosto. Il papa si rappatuma coi Colonna, soscrive con loro un trattato di pace, e licenzia le sue truppe 253

Pompeo Colonna non aveva firmato il trattato che per sorprendere il papa 254

20 settembre. Pompeo Colonna con otto mila uomini entra in Roma per la porta di san Giovanni Laterano 254

I Romani ricusano d'armarsi per difendere il papa 255

Il Vaticano ed il tempio di san Pietro saccheggiati dai Colonna 256

Clemente VII rifugiato in Castel sant'Angelo tratta con Ugo di Moncade 257

Il papa si obbliga ad una tregua di quattro mesi 257

7 ottobre. Il Guicciardini colle truppe del papa abbandona l'armata della lega, e si ritira sull'opposta riva del Po 258

31 ottobre. Il duca d'Urbino lascia il suo campo di Cremona per avvicinarsi a Milano 259

Giorgio Frundsberg mette i Tedeschi in movimento per soccorrere l'armata imperiale a Milano 260

Novembre. Entra in Italia con 13,000 landsknecht 261

24 novemb. Gio. de' Medici ferito mortalmente presso Borgoforte 263

Progetto del Macchiavelli di far combattere Gio. dei Medici per l'indipendenza d'Italia con una compagnia di ventura 264

1526 28 novembre. Frundsberg passa il Po, e lo rimonta sulla riva destra 265

Il Borbone vende la libertà al Moroni e lo crea suo consigliere 266

Tutti i villaggi dei Colonna saccheggiati dall'armata del papa 267

La flotta del vicerè passa avanti Genova, e combatte quella del Navarro 269

Il Lannoy sbarca le sue truppe a Gaeta, e tratta col papa 270

Negoziazioni delusorie colle quali finisce l'anno 271

Capitolo CXVIII. Il contestabile di Borbone conduce l'armata imperiale verso la Toscana: Clemente VII, dopo avere ottenuti alcuni vantaggi nel regno di Napoli, tratta col vicerè; presa e sacco di Roma. Firenze si dichiara libera. 1527 272

1527 I progressi degl'Italiani nella civiltà ingrandivano i loro patimenti sotto il giogo degli oppressori 272

La guerra si rende più crudele in ragione della lunga sua durata 273

Ferocia dei soldati comandati dal Borbone 274

La domanda del soldo arretrato autorizzava ogni loro eccesso 275

Difficoltà incontrate dal Borbone nel trarre fuori di Milano le sue truppe, e far loro passare il Po 276

30 gennajo. La guarnigione di Milano passa il Po e si riunisce a Frundsberg 277

1527 Dimora dell'armata di Borbone sotto Piacenza, e consiglj del duca di Ferrara 278

20 febbrajo. Borbone s'incammina di bel nuovo alla volta di Bologna 278

Progetto del duca d'Urbino di tenere il Borbone tra due armate 279

3 gennajo, 18 marzo. Il duca d'Urbino si allontana dalla sua armata sotto pretesto di malattia 281

Renzo di Ceri ed il conte di Vaudemont persuadono il papa ad attaccare il regno di Napoli 282

31 gennajo. Lannoy è sorpreso e sgominato a Frusolone dall'armata del papa 284

15 febbrajo. Successi dell'armata e della flotta della lega nel regno di Napoli 284

Indisciplina dell'armata della Chiesa 285

Avarizia ed imbarazzo delle finanze di Clemente VII 286

15 marzo. Viene abbandonata la spedizione contro Napoli 286

17 febbrajo. Ammutinamento nell'armata del Borbone, ch'egli riconduce all'ubbidienza 287

5 marzo. L'armata veneziana passa il Po per seguire il Borbone 288

14 marzo. Nuovo ammutinamento dell'armata imperiale calmato col danaro del duca di Ferrara 288

Francesco I manca a tutte le promesse fatte al papa 289

1527 Angustie cui trovasi ridotto il papa 290

15 marzo. Clemente VII soscrive una tregua di otto mesi col vicerè 291

Clemente VII non conosce il pericolo ond'è minacciato dal Borbone 292

Sua estrema imprudenza nel licenziare le sue truppe mentre si avvicina il Borbone 294

31 marzo. Il Borbone dichiara che non accetta la tregua, e muove l'esercito alla volta di Roma 295

Incertezza del Borbone prima di passare l'Appennino 296

Il vicerè viene fino a Firenze per trattenere il Borbone 297

15, 25 aprile. Il Borbone attraversa l'Appennino, ed entra in Val d'Arno di sopra 298

26 aprile. I Fiorentini chiedono armi al loro governo 300

Sollevazione de' Fiorentini 301

Gl'insorgenti non s'impadroniscono a tempo delle porte 302

I Medici rientrano in città col duca d'Urbino e col marchese di Saluzzo 303

Gl'insorgenti si sottomettono, ed ottengono un'amnistia 303

Il duca d'Urbino esige che i Fiorentini prendano parte in proprio nome nella lega, e che gli restituiscano Montefeltro 304

20 aprile. Il duca di Borbone parte a grandi giornate dai contorni d'Arezzo alla volta di Roma 306

1527 5 maggio. Giugne colla sua armata sotto Roma 306

Renzo di Ceri e Martino di Bellay incaricati della difesa di Roma 307

5 maggio. Fidanza di Clemente VII nel ricevere l'intima del Borbone 309

6 maggio. Il Borbone viene ucciso nell'atto di montare all'assalto presso il Gianicolo 310

Il borgo di Roma preso d'assalto dai Tedeschi e dagli Spagnuoli 311

Clemente VII fugge dal Vaticano in castel sant'Angelo 312

Saccheggio del Borgo di Roma, del Vaticano e di Transtevere 315

L'armata imperiale passa il Tevere, e comincia il saccheggio di Roma 315

Atrocità commesse dall'armata vittoriosa 316

3 maggio. Arrivo di Pompeo Colonna co' suoi vassalli 318

6 maggio. Arrivo del Rangoni al Ponte Salario per soccorrere Roma 319

16 maggio. Il duca d'Urbino giunge ad Orvieto coll'armata veneziana 320

Ricusa d'attaccare gl'imperiali a meno che non riceva potenti rinforzi di truppe svizzere 321

Si avvicina a Roma, poi subito si ritira 322

6 giugno. Capitolazione del papa che resta prigioniere degl'imperiali 323

Le province e le città lontane ricusano d'eseguire la capitolazione del papa 324

5 giugno. Modena presa dal duca di Ferrara, Ravenna e Cervia dai Veneziani 325

1527 Clemente VII più attaccato alla sua sovranità di Firenze che a quella dello stato della Chiesa 326

Prodigiose spese cui Clemente VII sforzava i Fiorentini 326

12 di maggio. La nuova della presa di Roma giugne a Firenze 328

16 maggio. I grandi cittadini di Firenze intimano al cardinale di Cortona di rendere la libertà alla repubblica 328

Filippo Strozzi e sua moglie, Clarice dei Medici, si associano al partito della libertà 329

Il cardinale di Cortona capitola col partito repubblicano 331

17 di maggio. I Medici escono da Firenze 331

La balìa ristabilisce la costituzione popolare, ed abdica i suoi poteri 332

21 maggio. S'aduna di nuovo il gran consiglio, ed elegge magistrati popolari 334

Morte di Niccolò Macchiavelli 335

Capitolo CXIX. Il Lautrec conduce un'armata francese sotto Napoli, e blocca quella città; vittoria della sua flotta sopra quella degli Spagnuoli; malattia nel suo campo; sua morte e capitolazione della sua armata. Andrea Doria passa al partito imperiale, e muta il governo di Genova. 1527-1528 337

1527 Nel sedicesimo secolo i re non vedevano meglio le guerre in cui s'impegnavano di quello che i papi le vedessero nel quattordicesimo 337

Carlo V non conosceva la desolazione da lui cagionata nelle province ed in Italia 338

Enrico VIII non prendeva parte nelle guerre, che somministrando contribuzioni 340

Francesco I, fino alla battaglia di Pavia, aveva egualmente chiuse le orecchie alle lagnanze dei popoli 340

La disgrazia aveva cambiato il suo carattere senza riformarlo 341

La pace egualmente desiderabile per l'imperatore e per gli alleati 342

2 agosto. Carlo V cerca di giustificarsi del sacco di Roma e della cattività del papa 343

18 agosto. Trattato d'Amiens tra Francesco I ed Enrico VIII per costringere l'imperatore a mettere in libertà il papa ed i figli di Francia 345

I cardinali, rimasti liberi, si adunano a Parma per trattare intorno al modo di liberare il loro capo 346

La peste scoppia in Italia, e soprattutto affligge Roma 346

Fine di settembre. Morte di Carlo di Lannoy; l'armata imperiale resta in Roma senza capo 347

Quest'armata si disperde nella campagna di Roma e nell'Ombria 348

1527 La peste penetra in castel sant'Angelo tra le guardie del papa 349

Gli ostaggi del papa maltrattati e minacciati riescono a fuggire 349

31 ottobre. Nuova convenzione col papa, che gli accorda qualche respiro per pagare la sua taglia 351

30 giugno. Il Lautrec parte dalla corte di Francia per porsi alla testa della nuova armata in Italia 352

Agosto. Il Lautrec prende la rocca di Bosco nell'Alessandrino 353

Andrea Doria riprende colla sua flotta il blocco di Genova 353

Principio d'agosto. Genova si assoggetta al re di Francia 355

Il Lautrec prende Alessandria, e la rimette al duca di Milano 355

28 settembre. Il Lautrec inganna Antonio di Leyva, ed attacca Pavia 357

1.º ottobre. I Francesi prendono e saccheggiano Pavia 358

Il Lautrec rifiuta di terminare la conquista della Lombardia, e s'incammina verso il mezzogiorno dell'Italia 358

Riconciliazione del duca di Ferrara colla Francia; suo figlio sposa Renata, figlia di Lodovico XII 359

La repubblica di Firenze rende più intima la sua alleanza colla Francia 360

7 dicembre. Rinnovazione della lega a Mantova 361

9 dicembre. Il papa fugge dal castel sant'Angelo la vigilia del giorno in cui doveva essere posto in libertà 362

1528 Gennajo. Clemente VII riceve ad Orvieto gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra, e dà speranze a tutti i partiti 363

21 gennajo. Gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra dichiarano a Burgos la guerra a Carlo V, e vengono arrestati 364

28 marzo, 24 giugno. Vicendevoli sfide fra il re di Francia e l'imperatore 365

10 febbrajo. Il Lautrec passa il Tronto, ed entra negli Abruzzi 366

Prosperi successi di Lautrec ajutato negli Abruzzi dai Veneziani e dai Fiorentini 367

L'armata di Lautrec resta incompleta, ed il re non le rimette il promesso danaro 368

17 di febbrajo. Il principe d'Orange trae fuori di Roma l'armata imperiale col danaro mandatogli dal papa 369

Metà di marzo. Le due armate in presenza fra Troja e Luceria 371

21 marzo. Il principe d'Orange si ritira da Troja a Napoli 372

Pietro Navarro si oppone a chi consigliava d'inseguire gl'imperiali prima di prendere Melfi 372

23 marzo. Melfi preso e saccheggiato dai Francesi 373

Conquiste di Lautrec e de' Veneziani nella Puglia 374

Metà d'aprile. Il Lautrec entra nella Terra di Lavoro e prende molte città 375

1528 1.º maggio. Si accampa presso Napoli al Poggio reale 376

Il Lautrec risolve di bloccare Napoli 377

Molti Napolitani si dichiarano pel partito francese 378

Gli assediati mancano di vini e di farine 379

22 maggio. Orazio Baglioni, colonnello delle bande nere, è ucciso, ed è rimpiazzato da Ugo di Pepoli 379

Ugo di Moncade vuole sorprendere la flotta genovese che stava avanti Napoli 380

28 maggio. Battaglia navale in faccia a Capo d'Orco nel golfo di Salerno 381

La flotta imperiale distrutta da Filippino Doria 383

10 giugno. L'ammiraglio veneziano, Pietro Lando, giugne avanti Napoli 385

Malattie tra gli assedianti e gli assediati 386

15 giugno. Morte del nunzio del papa e del provveditore veneziano 387

Il re di Francia e l'imperatore apparecchiano soccorsi per le loro armate d'Italia 388

10 di maggio. Il duca di Brunswick parte da Trento ed entra in Lombardia con dieci mila landsknecht 388

Luglio. Dopo avere commesse spaventose crudeltà la sua armata si disperde e torna in Germania 390

Intollerabile oppressione dei Milanesi sotto Antonio di Leyva 391

1528 Agosto. San Paolo entra in Lombardia con circa dieci mila uomini 392

Settembre. Riprende d'assalto Pavia, che i Francesi avevano lasciato sorprendere 393

Malcontento d'Andrea Doria rispetto a' suoi rapporti colla Francia 393

Disprezzo di Francesco I pei privilegj dei Genovesi 395

30 giugno. Andrea Doria termina il servigio convenuto colla Francia, e più non vuole rinnovarlo 396

Luglio. Andrea Doria si ritira a Lerici colle sue galere, mentre Barbesieux prende il comando di quelle della Francia 397

20 luglio. Il Doria offre i suoi servigj all'imperatore a condizione che sarebbe assicurata la libertà della sua patria 398

Opinione del Doria intorno alla propria defezione 399

18 luglio. Il Barbesieux giugne in faccia a Napoli colla flotta francese 401

Il Lautrec cade infermo: spedisce Renzo di Ceri a far levare per lui soldati negli Abruzzi 402

2 agosto. Estrema debolezza cui l'armata francese viene ridotta dalla malattia 403

16 agosto. Morte di Lautrec; il marchese di Saluzzo prende il comando dell'armata 405

29 agosto. Il marchese di Saluzzo vuole ritirarsi sopra Aversa 406

1528 La metà dell'armata è sgominata dalla cavalleria imperiale 407

30 agosto. Il principe d'Orange attacca i Francesi ritirati in Aversa 408

Capoa apre le sue porte a Fabrizio Maramaldo ed ai Calabresi 409

Il marchese di Saluzzo capitola in Aversa pei resti dell'armata 409

Gli Spagnuoli lasciano perire i prigionieri francesi nelle stalle della Maddalena 410

Le bande nere distrutte dall'assedio di Napoli e dalla capitolazione d'Aversa 410

Morte del marchese di Saluzzo e di Pietro Navarro 411

Supplicj ordinati dal principe d'Orange a Napoli e nelle province 412

La guerra si continua per qualche tempo in Puglia ed in Calabria 413

Andrea Doria colla sua flotta fa vela alla volta di Genova per liberare la sua patria 414

12 settembre. Le truppe del Doria sono ricevute in Genova, e si eseguisce la rivoluzione senza spargimento di sangue 415

21 ottobre. Il Castelletto e Savona si arrendono ai Genovesi, che spianano il primo, ed empiono il porto della seconda 416

Capitolo CXX. Nuove costituzioni delle repubbliche di Genova e di Firenze. L'indipendenza italiana viene sagrificata da Clemente VII e da Francesco I ne' trattati di Barcellona e di Cambrai. Coronazione di Carlo V a Bologna, e schiavitù dell'Italia. 1528-1530 418

Le nuove costituzioni di Genova e di Firenze si dettarono in mezzo a crudeli calamità 418

I dodici riformatori di Genova incaricati di pacificare la città e di conciliare i partiti 420

1528 Il senato loro commette di rifondere la costituzione 420

Andrea Doria ricusa la sovranità di Genova offertagli da Carlo V 421

Il punto d'onore genovese associato a' nomi che perpetuavano gli odj 422

Adozione d'una in altra famiglia, praticata in Genova sotto il nome d'Alberghi 423

I riformatori dichiarano tutti i cittadini genovesi attivi gentiluomini ed uguali in diritto 424

Li distribuiscono in 28 alberghi o famiglie adottive 424

La divisione dei Genovesi in alberghi fu soppressa dalla legge di mediazione del

17 di marzo 1576, dopo avere durato quarantotto anni 425

Gran consiglio de' gentiluomini genovesi, corpo elettorale 426

Formazione dell'annuale senato del doge e della signoria 426

La costituzione di Genova puramente aristocratica 428

Pure quest'aristocrazia era meno esclusiva di quella di Venezia 429

1528 La costituzione fiorentina dal canto suo pende verso l'aristocrazia 429

Il diritto di città ristretto a coloro che lo avevano ricevuto per eredità dai loro antenati 430

Divisione degli abitanti dello stato in più classi, una sola delle quali era sovrana 432

Due mila cinquecento cittadini governavano un milione di sudditi, ma se non altro con forme popolari 432

Niccola Capponi coi grandi vuole ristringere l'oligarchia 433

Baldassare Carducci gli si oppone alla testa del partito popolare 433

Dante di Castiglione rompe le statue e gli stemmi dei Medici 434

Niccola Capponi riunisce la fazione Medici, o de' Palleschi , ai discepoli di Savonarola, ossia Piagnoni 435

1522-1527 Peste a Firenze 436

1527 Agosto. Riesce impossibile il ragunare il gran consiglio 438

1528 9 febbrajo. Niccola Capponi fa dichiarare Gesù Cristo re perpetuo di Firenze 439

10 giugno. Il Capponi confermato gonfaloniere per un altro anno 440

Formazione della quarantia per i giudizj politici 441

L'imposta diretta sul capitale mobiliare regolata da venti commissarj 441

Formazione della guardia del palazzo di trecento giovani 443

6 novembre. Formazione della guardia urbana di quattro mila cittadini 444

1528 Attaccamento de' Fiorentini alla nazione francese, il quale li fa persistere nella santa lega 446

Negoziazioni di Andrea Doria con Luigi Alamanni per riconciliare Firenze coll'imperatore 447

I Fiorentini rifiutano le sue proposizioni 449

Disordine dell'armata di Borbone, conte di San Paolo in Lombardia 450

1529 San Paolo coi duchi d'Urbino e di Milano s'avvicina a Milano, ma si trova troppo debole per attaccarlo 451

21 giugno. San Paolo sorpreso a Landriano è fatto prigioniere da Antonio di Leyva 453

7 luglio. Luigia di Savoja e Margarita d'Austria si riuniscono a Cambrai per negoziare la pace 453

Francesco I cerca di persuadere agli alleati che difenderà i loro interessi 455

Anche Clemente VII tenta d'ingannare Francesco I 456

Irritamento di Clemente VII contro i Veneziani, il duca di Ferrara ed i Fiorentini 456

I progressi de' Turchi, e quelli dei protestanti in Germania, fanno desiderare la pace a Carlo V 458

20 giugno. Trattato di pace e di alleanza di Barcellona tra l'imperatore ed il papa 460

10 gennajo. Ippolito de' Medici creato cardinale, ed Alessandro disegnato capo della casa de' Medici 460

1529 5 agosto. Trattato di Cambrai, o delle dame, tra Francesco I e Carlo V 461

Francesco I abbandona i Fiorentini ed i Veneziani all'intera vendetta dell'imperatore 462

Sagrifica ugualmente i duchi di Milano e Ferrara, gli Orsini e Fregosi, e tutti i partigiani della casa Angioina nel regno di Napoli 463

Carlo V in questo trattato guarentisce al contrario gl'interessi di tutti i suoi alleati 464

Pel sagrificio de' suoi alleati Francesco I ottiene condizioni più vantaggiose per sè medesimo 465

Francesco I cerca fin all'ultimo d'ingannare i Fiorentini 466

Carlo V manda a Barcellona Andrea Doria per far passare le sue galere in Italia 467

29 luglio. Carlo V s'imbarca a Barcellona, e sbarca a Genova il 12 di agosto 468

Grossa armata dell'imperatore destinata a dare esecuzione al trattato di pace 468

Gli alleati si pongono in istato di trattare con lui colle armi alla mano 470

La guerra d'Ungheria ed il suo proprio spossamento persuadono Carlo V a trattare con loro 470

Egli esclude i soli Fiorentini dalla pacificazione 471

Gli alleati schivano ogni battaglia coll'imperatore, e continuano a difendersi 472

1529 5 di novembre. Abboccamento del papa e dell'imperatore a Bologna 473

22 novembre. Francesco Sforza si reca pure a Bologna per trattare 474

23 di dicembre. Trattato di pace di Carlo collo Sforza, ed onerose condizioni con cui gli rende il ducato di Milano 474

1529-1535 Sgraziato regno di Francesco Sforza, che muore senza figli 476

25 dicembre. Trattato di pace dell'imperatore coi Veneziani 477

1530 2 marzo. Alfonso d'Este si reca pure a Bologna per trattare 478

21 marzo. Il papa ed il duca di Ferrara si assoggettano all'arbitramento della camera imperiale 479

1531 21 aprile. Sentenza di Carlo V, che accorda alla casa d'Este Ferrara, come feudo della Chiesa, e Modena e Reggio come feudi dell'impero 480

1530 25 marzo. Il marchesato di Mantova cambiato in ducato a favore di Federico Gonzaga 482

Il duca Carlo III di Savoja si attacca unicamente all'imperatore 482

Le repubbliche di Genova, Siena e Lucca si assoggettano ad un'assoluta dipendenza dall'imperatore 482

Tutte le armate di Carlo V, evacuando il rimanente dell'Italia, riunisconsi intorno a Firenze 484

22 di febbrajo, 24 marzo. Carlo riceve a Bologna dalle mani del papa le due corone di Lombardia e dell'impero 484

1530 Fin da quest'epoca la potenza di Carlo V fu più assoluta in Italia che non era stata quella di Carlo Magno e di Ottone 486

Gl'Italiani avevano cessato di esistere come nazione indipendente 486

Aprile. Carlo V va in Germania, e lascia l'Italia in ischiavitù 488

Fine della Tavola.