CAPITOLO CXXI.
Apparecchj de' Fiorentini per difendere la loro libertà; sono assediati dal principe d'Orange. Imprese nello stato fiorentino di Francesco Ferrucci, commissario generale; viene a battaglia col principe d'Orange, e nella mischia periscono ambidue; capitolazione di Firenze.
1529 = 1530.
Mentre che tutti gli altri stati d'Italia, traditi dai loro capi, saccheggiati dagli stranieri, spossati da lunga guerra, divisi da una mal intesa politica, e venduti dai loro alleati, si andavano, senza resistenza, assoggettando al giogo che loro dava Carlo V, la repubblica di Firenze apparecchiavasi, sebbene sola, a cadere coraggiosamente in nobile olocausto, piuttosto che rinunciare all'antica sua libertà. Depositaria di tutto lo splendore, di tutte le virtù, di tutto il sapere di quelle repubbliche de' secoli di mezzo, tra le quali si era innalzata, e le quali tutte aveva superate in fama, in potenza, in ricchezze, dessa pareva ricuperare le antiche forze colla ricordanza della passata gloria; e se più non aveva speranza, se la sua resistenza non poteva essere coronata da felice avvenimento, non perciò si credeva meno obbligata a difendersi per l'onore delle sue rimembranze.
Firenze non era mai stata repubblica militare; ed anche in que' tempi, in cui, tenendo il primo posto tra le potenze d'Italia, poneva argine alla potenza dei duchi di Milano, dei re di Napoli e degl'imperatori, non aveva nella sua armata quasi verun cittadino. Quegli stessi uomini, che, in mezzo alle più terribili sciagure, mostravano ne' consiglj una costanza, una fermezza invincibile, non sapevano esporsi a personali pericoli; ma quando un'estrema ruina venne a minacciare la loro patria, gli stessi Fiorentini impugnarono le armi. Abbandonati dalla Francia, minacciati da tutte le forze della Chiesa, dell'impero e dei regni di Spagna e di Napoli, sentirono di non potere in altro confidare che nel proprio valore. Senza trascurare veruno de' mezzi che poteva tuttavia attaccare alla loro causa, in qualità di condottieri, i piccoli principi loro vicini, previdero che potevano essere da costoro abbandonati nell'istante del bisogno; e si fecero a reggimentare ed addestrare la milizia nazionale, che sola non poteva venir meno. E sebbene lo spirito di parte abbia potuto presiedere allo stabilimento dei varj corpi di questa milizia, uno stesso zelo militare e patriotico animava tutto il popolo, e lo fece capace di un'eroica resistenza.
Il popolo fiorentino, prendendo successivamente le armi, aveva formato tre diversi corpi; il primo, che si era raccolto in dicembre del 1527 per la guardia pel pubblico palazzo e del gonfaloniere, era composto di trecento giovani quasi tutti appartenenti a nobili famiglie. Ma perchè l'amore di libertà era tra questi giovani più vivo, che non tra i vecchi, così erano essi ancora più proclivi alla diffidenza. Gli estremi riguardi di Niccolò Capponi verso i Medici li teneva inquieti; avevano di già concepito qualche sospetto intorno alla segreta di lui corrispondenza con papa Clemente VII, e si risguardavano meno destinati a fargli la guardia, che a custodire il palazzo pubblico contro di lui[1].
Ma con una vista affatto diversa erasi formata la guardia nazionale de' cittadini fiorentini, dietro un ordine del gran consiglio del 6 novembre del 1528. Doveva questa essere composta di sedici compagnie, cadauna di dugento cinquant'uomini, sotto il comando dei sedici gonfalonieri di quartiere, i quali formavano il collegio della signoria; pure non si trovarono sui ruoli che mille settecento archibugieri, mille armati di picca, e trecento alabardieri, ossiano soldati armati di alabarde e di spade a due mani, in tutto tre mila uomini, dell'età dai diciotto ai trentasei anni, ed appartenenti a padri ammessi a prendere posto nel gran consiglio. La signoria accordò ad ogni compagnia, in principio del 1529, il diritto di nominare il proprio capitano, ed affidò l'addestramento di questo corpo a varj distinti ufficiali, che avevano militato nelle bande nere. Questo corpo in breve superò la migliore truppa di linea[2].
Per ultimo il terzo corpo era formato delle milizie del territorio fiorentino, che chiamavansi tuttavia le bande dell'ordinanza. Questa milizia, arrolata sotto il gonfaloniere Pietro Soderini dietro i consiglj datigli dal Macchiavelli, era stata dai Medici licenziata e disarmata, e di nuovo ragunata nel 1527. Nella prima revista si era trovata non minore di dieci mila uomini; era formata dal fiore dei contadini dell'età dai diciotto ai trentasei anni, che ogni mese venivano addestrati a tirare coll'archibugio, e ricevevano un tenue pagamento anche quando non erano forzati ad abbandonare le proprie case: eransi fatte venire per loro dalla Germania armi d'ogni qualità, ed erano essi stati divisi in trenta battaglioni, secondo le province cui appartenevano. I sedici battaglioni della destra riva dell'Arno erano stati, in giugno del 1528, posti sotto gli ordini di Babbone di Bersighella, nipote di quel Naldo di Val di Lamone, che primo d'ogni altro aveva illustrata la fanteria italiana nella battaglia di Agnadello; i quattordici battaglioni della sinistra erano stati affidati a Francesco del Monte. E questi due capitani avevano seco condotti cadauno cinquecento uomini di truppe di linea, per esercitare la milizia[3].
In sul finire del 1528 i Fiorentini scelsero per capitano generale dei loro uomini d'armi don Ercole d'Este, figlio del duca Alfonso di Ferrara, il quale era in allora tornato dalla Francia, dove aveva sposata madama Renata, figlia di Luigi XII e cognata di Francesco I. Pareva impossibile che questi l'abbandonasse, ed i Fiorentini credevano attaccarsi più fortemente alla casa di Francia, scegliendo un generale che le apparteneva così da vicino; e di ciò gli aveva assicurati il Visconte di Turenna, ambasciatore del re presso la repubblica. Dall'altro canto mantenevasi un odio ereditario fino dai tempi di Leon X tra la casa d'Este ed i Medici, ed Alfonso, minacciato su tutti i punti dei suoi stati da Clemente VII, pareva dovere essere il più fedele alleato della repubblica contro un nemico ad ambidue egualmente formidabile[4].
Le fortificazioni cominciatesi in Firenze nel 1521, per ordine del cardinale Giulio de' Medici, prima di avere il papato, non erano ancora ultimate. Non potevansi condurre a termine senza distruggere o danneggiare i poderi di alcuni cittadini, e la magistratura dei nove della milizia fu incaricata, in principio d'aprile del 1529, di fare stimare tutti que' terreni, dandone credito ai proprietarj sul libro del Monte coll'interesse del cinque per cento. In pari tempo Michel Angelo Bonarruoti venne creato direttore generale delle fortificazioni della città[5].
A misura che il pericolo si andava avvicinando, i dieci della guerra facevano nuovi sforzi per accrescere le difese della repubblica. Siccome avevasi opinione che le province d'Arezzo e di Cortona somministrassero i migliori soldati di Toscana, i Fiorentini vi mandarono Raffaele Girolami, loro quartier mastro generale, ed otto capitani, che tutti avevano militato nelle bande nere, con ordine di levarvi cinque mila fanti. Presero nello stesso tempo al loro soldo, in maggio del 1529, Malatesta Baglioni, signore di Perugia, dandogli il titolo di governatore generale, con mille fanti. Il Baglioni era figliuolo di quel Gio. Paolo, che Leon X aveva fatto tanto ingiustamente morire; e perciò egli desiderava di vendicarsi del Medici, egli doveva temere l'ambizione del papa, ed occupava a Perugia un'importante situazione per chiudere la strada della Toscana ad un'armata che venisse da Napoli e da Roma. Molti altri distinti capitani, quali erano Stefano Colonna, Mario Orsini e Giorgio Santa Croce, presero servigio dai Fiorentini; questi per altro eran forzati ad accarezzare l'orgoglio di tutti questi piccoli principi, che, non avendo verun grado in un'armata di già stabilita, non volevano riconoscere altra superiorità che quella dei sovrani. Era appunto per questo motivo che nè l'incapacità di Ercole d'Este, nè la più volte sperimentata malvagia fede di Malatesta Baglioni, non avevano ritratti i Fiorentini dal porre gli occhi sopra di loro per il comando. Si sarebbero potuti preferire migliori capitani; ma gli altri ufficiali non avrebbero voluto esser loro subordinati[6].
Mentre che la repubblica si premuniva con attività contro i pericoli onde era da ogni banda minacciata, fu atterrita dalla scoperta di cosa che a bella prima parve una congiura del suo primo magistrato. Il gonfaloniere, Niccolò Capponi, confidava assai meno in tutti i mezzi di difesa che riunivano i dieci della guerra, che nelle negoziazioni che potevano disarmare la collera del papa. Egli stesso di moderato carattere, e nulla avendo sofferto sotto il governo de' Medici, apparteneva ad una famiglia, che aveva saputo conservare una tal quale neutralità nelle dissensioni della sua patria. Suo padre Piero, ed i suoi antenati Neri e Gino, non si erano trovati arrolati nè sotto le insegne degli Albizzi, nè sotto quelle de' Medici, ed in tempo di quelle amministrazioni avevano saputo rendere eminenti servigj allo stato. Dacchè il Capponi era gonfaloniere, erasi studiato di calmare il furore del popolo, di difendere i partigiani de' Medici, ed in pari tempo di addolcire il risentimento del papa con esteriori dimostrazioni di rispetto. Egli non aveva trovate le medesime disposizioni in coloro che i suffragj del popolo ponevano con lui alla testa dello stato; ma aveva seguita l'usanza praticata dai Medici, e prima di loro dagli Albizzi, di chiamare alle deliberazioni i cittadini che, senza essere rivestiti di veruna autorità, avevano acquistata una lunga abitudine de' pubblici affari. A queste consulte, che a Firenze avevano il nome di pratica, il Capponi chiamava moltissimi cittadini, conosciuti pel loro attaccamento ai Medici, tra i quali egli trovava sempre chi spalleggiasse le misure di conciliazione ch'egli andava proponendo[7].
I consiglieri nominati dal popolo, ed in possesso della confidenza pubblica, lagnavansi acerbamente perchè le deliberazioni, invece di decidersi coi loro suffragj, dipendessero da quelli di persone senza missione, che il gonfaloniere chiamava a votare con loro, e non pochi dei quali, come Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e Matteo Strozzi, si erano renduti così sospetti pel loro attaccamento ai Medici, che il popolo non aveva voluto affidar loro veruna incumbenza. Perciò una legge regolò la pratica, che doveva tener luogo di consiglio ai dieci della guerra; questa legge la formò dei dieci magistrati che uscivano in allora di carica, e di venti aggiunti scelti dal grande consiglio ogni sei mesi, cinque per cadaun quartiere della città. Il gonfaloniere, privato da questa legge del suo consiglio abituale, non per questo rinunciò a lasciarsi dirigere dai soli uomini di stato che si fossero guadagnati la sua confidenza, e d'allora in poi li tenne quasi sempre ne' suoi appartamenti per consultarli in ogni occorrenza[8].
Questi suoi privati consiglieri lo avevano incoraggiato a tener viva una segreta corrispondenza con Clemente VII, per cercare di calmare la di lui collera; questa corrispondenza aveva cominciato ne' tempi in cui Lautrec assediava Napoli. Temeva questo generale che l'irritamento di Clemente VII contro i Fiorentini non lo consigliasse a porsi tra le braccia dell'imperatore, ed aveva egli medesimo eccitato il gonfaloniere a mostrare dei riguardi verso il papa, ed a dargli delle speranze[9]. Dopo la sconfitta di Lautrec, il Capponi aveva continuato a carteggiare con Jacopo Salviati, che dopo la ritirata dalla corte pontificia di G. M. Chiberti, era diventato il principale segretario di Clemente VII[10]. Certo Jachinotto Serragli era il segreto mezzano di tale corrispondenza, che il gonfaloniere teneva nascosta alla signoria. Una lettera, caduta di seno al Capponi, fu raccolta il 16 aprile del 1529 nella stessa sala dei priori da Jacopo Gherardi, priore egli stesso, e forse quegli che di già nudriva i più gagliardi sospetti contro il gonfaloniere. La lettera rendeva conto in ristretto di un abboccamento avuto tra il Serragli, che la scriveva, e Jacopo Salviati; dessa annunciava che il papa, sotto certe condizioni, acconsentirebbe a mantenere la libertà fiorentina; ma chiedeva al gonfaloniere di spedire segretamente a Roma suo figliuolo, per intendersi intorno a ciò che non potevasi convenientemente affidare ad uno scritto[11].
Questa lettera, comunicata dal Gherardi ai più violenti avversarj del gonfaloniere, fu da loro risguardata come una manifesta prova di tradimento: venne denunciata alla signoria, che per l'indomani convocò il consiglio degli ottanta, proponendogli che fosse deposto e tratto in giudizio il gonfaloniere. Niccolò Capponi, atterrito dalla violenza dei suoi nemici, invece di giustificare la propria condotta, si limitò a dichiarare con estrema perturbazione, che suo figlio non era in verun modo colpevole, non avendo pure contezza di quest'affare. Con ciò veniva quasi a confessarsi egli stesso delinquente; onde fu deposto nel medesimo giorno, e nel susseguente il grande consiglio nominò suo successore Francesco, figlio di Niccolò Carducci, che doveva occupare tale carica fino alla fine dell'anno[12].
Questa deposizione e la nuova elezione eransi fatte con una precipitazione e violenza proporzionate al turbamento ed alla timidità mostrata dal Capponi nella propria difesa, ed all'accanimento di coloro tra i suoi nemici che speravano di rimpiazzarlo. Tosto che fu nominato il di lui successore, e che i di lui invidiosi nemici perdettero la speranza d'avere le sue spoglie, il loro furore si calmò, ed egli medesimo ricuperò quella tranquillità e presenza di spirito che si conveniva al suo stato. Tratto innanzi alla signoria giustificò con nobile fermezza le sue intenzioni e la sua condotta; sostenne d'avere fatto per la repubblica precisamente quello che far doveva, e la sola cosa che potesse salvarla. Di già più non eravi alcuno cui fosse ancora sospetta la di lui buona fede; coloro ch'erano a parte delle di lui segrete negoziazioni, e coloro, che senza averne contezza, interamente si affidavano alla di lui lealtà, lo difendevano caldamente, di modo che venne onoratamente assolto dal giudizio; ed il popolo, per compensare la fattagli ingiuria, lo ricondusse con pompa alla di lui casa[13].
Appena aveva il nuovo gonfaloniere preso possesso del suo impiego, quando la repubblica ricevette una dopo l'altra le più sconfortanti notizie. Alla sconfitta di San-Paolo, alla di lui prigionia, alla dispersione di tutta l'armata francese, tennero subito dietro gli avvisi del trattato di Barcellona, nel quale Carlo V abbandonava i Fiorentini alle vendette del papa, e prometteva di rimettere nella loro città la tirannia della casa dei Medici. Pochi giorni dopo si ebbe notizia del trattato di Cambrai, col quale Francesco I, ad onta dei più solenni trattati, escludeva i Fiorentini dalla pace generale, e si obbligava a non dar loro protezione. Si seppe nello stesso tempo essere Carlo V sbarcato a Genova con un'armata spagnuola, e scendere in Italia un'armata tedesca per raggiugnerlo. Questi replicati colpi erano fatti per atterrire il più saldo coraggio; e tanto più grande era lo spavento sparso in Firenze, in quanto che i preti ed i monaci, ravvivando la setta del Savonarola, e secondando con tutte le forze loro il governo popolare, avevano accertato, come cosa loro palesata per divina rivelazione, che quest'anno l'imperatore non sarebbe venuto in Italia. Questo primo avvenimento, che smentiva le loro profezie, fece vacillare la fede che il popolo accordava a tutte le altre[14].
Non pertanto i Fiorentini, determinato avendo di far testa a questi nuovi pericoli con indomabile coraggio, adottarono in allora le più energiche misure per potere resistere. Il gonfaloniere, fornito di irremovibile costanza, comunicava il proprio vigore ai consiglj ed al popolo. Era in particolar modo secondato da Bernardo di Castiglione, Gio. Battista Cei, Niccolò Guicciardini, Jacopo Gherardi, Andrea Niccolini e Luigi Soderini, i quali tutti si erano dichiarati pel partito popolare[15].
Prima d'ogni altra cosa conveniva trovar modo di sostenere le spese di una guerra, che i più ricchi monarchi non potevano lungo tempo sopportare. Il gonfaloniere ottenne una prima legge derogante alla costituzione fiorentina, colla quale veniva autorizzato il gran consiglio a fissare qualunque prestito o nuova imposta colla sola maggioranza de' suffragj[16]. In fatti le leggi fiscali, che la necessità fece emanare in tempo dell'assedio, non avrebbero giammai potuto essere sanzionate secondo le antiche forme; poichè dovendosi sostenere inaudite spese, in tempo che tutte le ordinarie entrate erano cessate a motivo dell'occupazione del territorio e della soppressione delle gabelle delle porte, convenne aver ricorso a misure arbitrarie e rigorose per levare danaro. Più volte si percepirono prestiti forzati da coloro che i commissarj, nominati per quest'oggetto, indicavano come i cinquanta, i cento, i dugento più ricchi cittadini della repubblica. Tutti gli argenti delle chiese, e tutti quelli de' privati, vennero portati alla zecca; furono date in pegno le pietre preziose che ornavano le reliquie, e venduta la terza parte dei poderi ecclesiastici, degli immobili delle corporazioni delle arti e mestieri e dei beni dei ribelli. Con tali mezzi spesso violenti, ma giustificati dalla necessità, la repubblica si vide in istato di opporre lunga resistenza ad un'armata destinata a spogliarla, non meno della sua proprietà che della sua libertà[17].
Il gonfaloniere e la signoria ordinarono in seguito alle genti del contado di riporre in Firenze, o nelle terre murate, tutte le loro granaglie; ma i raccolti erano in quell'anno stati così ubertosi, che quest'ordine venne male eseguito; onde i nemici, assai più che i cittadini, approfittarono di tanta ricchezza di messi. Le città di Borgo san Sepolcro, Cortona, Arezzo, Pisa e Pistoja, ove il governo non era amato, dovettero dare ostaggi a Firenze. In tutte le altre ed in tutte le fortezze, la signoria mandò fidati comandanti. All'ultimo furono nominati sette commissarj con quasi dittatoriale autorità, per vegliare alla salvezza della repubblica; ma sgraziatamente la scelta cadde sopra uomini troppo disuguali per talenti, per esperienza, per energia, i quali nè furono abbastanza d'accordo fra di loro, nè abbastanza pronti nelle loro risoluzioni, perchè l'opera loro riuscisse di grande utile[18].
Avvicinandosi il pericolo, i dieci della guerra intimarono ad Ercole d'Este di recarsi al suo posto, e nello stesso tempo gli mandarono il soldo dei mille fanti che doveva seco condurre. Ma di già il duca di Ferrara di lui padre stava negoziando per riconciliarsi coll'imperatore e col papa, e non voleva esacerbarli mandando il figliuolo ai servigj dei loro nemici. Dopo avere accettato il danaro de' Fiorentini, e promesso che il figliuolo suo non tarderebbe a porsi in istrada colle sue truppe, andò, sotto varj pretesti, procrastinando la di lui partenza; poi rifiutò perentoriamente, senza rendere il danaro che aveva ricevuto. Poco dopo richiamò da Firenze il suo ambasciatore, ed all'ultimo prestò al papa artiglieria e due mila zappatori, per adoperarli contro i Fiorentini[19].
Allorchè la signoria ebbe notizia dello sbarco dell'imperatore a Genova, credette di dovergli mandare una deputazione. Questo passo somministrò un pretesto avidamente accolto da tutti gli alleati dei Fiorentini, per pretendere violata la lega. In fatti le potenze italiane si erano obbligate a non trattare separatamente; e fin allora niun'altra aveva scopertamente mancato a tale promessa. D'altronde la deputazione fiorentina era stata scelta altrettanto male, quanto mandata inopportunamente. I quattro membri che la componevano tenevano opinioni e partiti diversi, onde mai non furono uniti per agire concordemente. L'imperatore ricusava di trattare con loro, se preventivamente non si riconciliavano col papa, e risguardò come insufficienti le loro facoltà, sebbene queste portassero che la repubblica acconsentiva a tutte le condizioni che le verrebbero imposte, eccettuata l'alienazione della propria libertà. Il gran cancelliere dell'imperatore dichiarò loro, che, a motivo degli ajuti dati alla Francia, avevano meritato di perdere questa libertà, ed ogni altro loro privilegio, e non volle ammettere la risposta dei deputati, i quali dicevano essere Firenze uno stato indipendente, che non riconosceva i suoi privilegj da qualche concessione degli imperatori, ma dai suoi proprj diritti. In appresso gli ambasciatori vennero congedati; ma non pertanto due di loro, atterriti dalle disposizioni della corte imperiale, non ripresero la strada della loro patria. Matteo Strozzi rifugiossi a Venezia e Tommaso Soderini a Lucca. Niccolò Capponi, l'antico gonfaloniere, che era il terzo ambasciatore, quando giunse a Castelnuovo di Garfagnana, scontrossi in Michel Angelo Bonarruoti, che fuggiva con Rinaldo Corsini, e che gli diede le più tristi notizie intorno ai rovesci di già provati dalla repubblica. Il Capponi, oppresso dalla fatica, dall'età, dal dolore, venne subito sorpreso da una malattia che lo trasse al sepolcro il giorno 8 di ottobre. Raffaello Girolami tornò solo a Firenze a rendere conto della sua ambasciata, ed incoraggiò i suoi concittadini ad affrontare coraggiosamente la burrasca ond'erano minacciati[20].
L'imperatore aveva commessa la conquista di Firenze ed il compimento delle vendette di Clemente VII al principe di Orange, in allora vicerè di Napoli. Clemente stava dunque per volgere contro la sua patria quello stesso generale e quell'armata medesima, che tre anni prima l'avevano con tanto rigore tenuto assediato, che avevano saccheggiata sotto i suoi occhi la sua capitale con sì atroce barbarie, e che non gli avevano renduta la libertà, che dopo avergli estorta una scandalosa taglia. Il prezzo pel quale il papa acconsentì a perdonare tante ingiurie, era l'assunto che prendeva cotal gente ferocissima di trattare colla stessa barbarie la di lui città natale. L'esercito che aveva saccheggiata Roma, e che aveva vissuto in Milano a discrezione, fu richiamato sotto le bandiere dei suoi capi dalla speranza di saccheggiare Firenze; e furono veduti alcuni soldati spagnuoli, che erano trattenuti innanzi ai tribunali per cause civili, protestare alla parte avversaria tutti i danni e perdite nei quali incorrere potrebbero per non avere parte al sacco di Firenze[21].
Pure, quando in sul finire di luglio, il principe d'Orange recossi a Roma per avere un abboccamento col papa intorno ai mezzi occorrenti per dare cominciamento alla spedizione, venne qualche tempo trattenuto dall'avarizia e dalla diffidenza di Clemente VII, il quale non voleva privarsi del danaro che gli si chiedeva. All'ultimo acconsentì a stento a pagare trenta mila fiorini contanti, ed a prometterne altri quaranta mila entro breve termine[22]; ma trovò un altro mezzo per cattivarsi l'amore de' soldati, senza danno del suo tesoro. Questi, abbandonando Roma il 17 febbrajo del 1528, non avevano terminato di riscuotere le taglie ed il prezzo de' riscatti che avevano arbitrariamente imposto ai cittadini, e dopo tale epoca più non credevano potere pretenderne il pagamento. Clemente VII loro accordò il privilegio di farsi pagare tutto quanto era loro dovuto ad estinzione delle cedole da loro estorte ai Romani colla violenza[23].
L'esercito del principe d'Orange adunossi tra Foligno e Spello ai confini dello stato perugino. Vi si trovavano tre mila cinquecento Tedeschi, avanzo dei tredici mila landsknecht, che Giorgio Frundsberg aveva condotti al Borbone nel 1526; gli altri erano caduti vittime della peste di Roma e della fame di Napoli: vi si trovavano pure cinque mila Spagnuoli del marchese del Guasto, invecchiati come i Tedeschi in tutte le guerre d'Italia. Soltanto dopo la pace di Lombardia vi si videro inoltre giugnere sotto Pietro Velez di Guevara due mila Spagnuoli di fresco sbarcati a Genova, che per anco non avevano militato, e che giunti essendo, secondo il consueto delle reclute spagnuole, affatto ignudi, chiamavansi dagl'Italiani Bisogni: circa lo stesso tempo il conte Felice di Wirtemberga condusse altre reclute tedesche: il rimanente dell'esercito consisteva in soldati italiani, ed era la maggior parte che servivano sotto i loro più distinti capitani, senza paga e per la sola speranza del saccheggio. Quando il principe d'Orange entrò in campagna, in sul cominciare di settembre, non aveva sotto i suoi ordini più di quindici mila soldati; ma avanti che terminasse l'assedio ne contò più di quaranta mila[24].
Per entrare in Toscana l'Orange doveva attraversare lo stato di Perugia, difeso da Malatesta Baglioni con tre mila uomini al soldo de' Fiorentini. Il castello di Spello, posto in sull'estremo confine del Perugino, ove l'abate Leone de' Baglioni, fratello naturale del Malatesta, erasi chiuso, trattenne alcun tempo i nemici. Giovan d'Urbina, luogotenente generale dell'armata imperiale, vi fu ucciso; ma Spello all'ultimo fu preso il primo dì di settembre e saccheggiato con estrema crudeltà[25]. L'esercito giunse in appresso sotto Perugia; ma l'assedio di questa città posta in sulla vetta d'una piccola montagna, ed in gagliarda situazione, offriva grandissime difficoltà. Il principe d'Orange, che non osava intraprenderlo, offrì a Malatesta Baglioni onorate e vantaggiose condizioni. Obbligavasi a farlo assolvere dal papa da tutte le censure ecclesiastiche che aveva incorse, a fargli permettere di continuare nel servigio dei Fiorentini colla sua compagnia di ventura, e finalmente a conservargli la signoria di Perugia, purchè evacuasse questa città, che l'Orange nè voleva assediare, nè lasciarsi alle spalle in mano de' nemici. Il Baglioni chiese ai Fiorentini, o di acconsentire a questo trattato, o di accrescere considerabilmente la sua armata. Siccome questi non potevano interamente affidarsi al Baglioni, nè ai Perugini, accettarono il primo partito. Si sottoscrisse il trattato il 10 di settembre, ed il 12 Malatesta Baglioni prese la via d'Arezzo colle truppe sue e fiorentine[26].
Il principe d'Orange gli tenne dietro da vicino: il 14 di settembre s'accostò a Cortona difesa da soli 700 fanti di guarnigione, e dopo avere sofferto qualche perdita in un assalto, ch'egli fece dare lo stesso giorno alla città, la ricevette all'indomani per capitolazione. In appresso l'Orange, seguendo la cominciata strada sopra Arezzo, dove era stato mandato per commissario Francesco Albizzi con due mila uomini; ma questi, sconcertato dal vedere sopraggiugnere Malatesta Baglioni, e dalla pronta capitolazione di Cortona, evacuò Arezzo colla sua truppa, e, ritirandosi precipitosamente a Firenze, sparse la costernazione in tutta Val d'Arno disopra. Affermarono i nemici del gonfaloniere, che questi, senza partecipazione della signoria e dei dieci della guerra, aveva ordinato a Francesco Albizzi di ritirarsi, onde riunire in Firenze tutta la fanteria, invece di perderla alla spicciolata nel sostenere assedj. Anche in tale supposizione il disordine di questa ritirata sarebbe stato non meno colpevole che imprudente[27].
Arezzo, evacuato dai Fiorentini, aprì il 18 settembre le porte all'armata imperiale. Allora questa città sperò di ricuperare la sua antica libertà: fece battere moneta, spedì commissarj in tutte le castella dell'antico suo territorio, rifece la sua amministrazione sotto il nome di repubblica d'Arezzo, e durante l'assedio di Firenze somministrò agl'imperiali continui ajuti, senza prevedere che all'istante che fosse presa Firenze, Arezzo ricaderebbe sotto il giogo[28].
Alla perdita di Cortona e di Arezzo tenne dietro immediatamente quella di Castiglione Fiorentino, di Firenzuola e di Scarperia: l'armata imperiale si andava avanzando, e pareva che verun ostacolo non potesse più trattenerla. Il suo avvicinamento riempì Firenze di terrore; ed allora si videro fuggire dalla città coloro che la pusillanimità o l'attaccamento ai Medici consigliava a non partecipare alla sorte della loro patria. Ne diede l'esempio Bartolomeo o Baccio Valori, e fu imitato da Roberto Acciajuoli, da Alessandro Corsini, da Alessandro de' Pazzi, e finalmente dallo storico Francesco Guicciardini, il quale, dopo avere menata vita principesca nel suo governo di Parma e di Modena, non credeva che nella sua repubblica si avesse per lui abbastanza rispetto e riconoscenza. Egli recossi al campo nemico; ebbe una parte odiosa nelle vendette della fazione trionfante, e contribuì in una maniera ancora più fatale al finale stabilimento della tirannide, adoperando la sua abilità politica nella ruina del proprio paese. L'odio che in Firenze, anche quando questa città fu fatta schiava, perseguitò in appresso tutti coloro che avevano tradita la libertà, pare aver consigliato il Guicciardini a scrivere la storia de' suoi tempi onde ricuperare la pubblica stima. E senza dubbio lo stesso motivo trasse Filippo de' Nerli a dettare i suoi commentarj. Si era costui renduto talmente sospetto col suo zelo pei Medici, che il giorno 8 ottobre del 1529 venne arrestato con altri diciotto cittadini, e custodito in palazzo fino alla fine dell'assedio[29].
La signoria aveva di fresco spediti quattro ambasciatori al papa; ma troppo limitate erano le facoltà loro date, per soddisfare all'ambizione della casa de' Medici. Clemente VII rispose loro che il suo onore richiedeva che la città gli si rendesse a discrezione; che allora farebbe a vicenda vedere al mondo ch'egli ancora era Fiorentino, e che amava la sua patria[30]. Questa risposta fu comunicata ad un'assemblea generale de' cittadini adunati nella sala del gran consiglio; in appresso questi si divisero in sedici sezioni per deliberare sotto i loro gonfalonieri, e quindici di queste sezioni dichiararono, che preferivano di sagrificare i loro beni e le loro vite in una battaglia piuttosto che l'onore e la libertà in un trattato[31].
Malgrado i progressi fatti dall'arte di attaccare le città, le fortificazioni di Firenze erano tuttavia risguardate come quasi inespugnabili dalla banda del piano; ma quella parte delle mura che attraversa le colline al mezzodì dell'Arno, era mal situata, signoreggiata in più luoghi ed assai debole. Della porzione montuosa di questo ricinto, chiamato Monte a Samminiato, fu affidata la difesa a Stefano Colonna, che poca cura prendevasi del rimanente dell'assedio, e che nel suo quartiere non riconosceva verun superiore[32]. Gli indugj del principe d'Orange, che consumò quasi quindici giorni in Val d'Arno, quando aspettavasi di vederlo ad ogni istante giugnere sotto la città, diedero il tempo di afforzare, con nuovi lavori, quelle mura che si credevano più deboli; permisero pure di dare effetto ad un ordine emesso il 19 di ottobre dal consiglio degli ottanta, ciò era di spianare tutti i sobborghi, tutte le case, tutti gli orti entro il raggio di un miglio dalle mura di Firenze. Quest'ordine, che sagrificava migliaja di ricchi edificj e di deliziosi orti nella più popolata e più riccamente coltivata situazione d'Italia, venne eseguito con uno zelo veramente patriotico dai medesimi proprietarj, i quali si vedevano entrare in città carichi di fascine che avevano tagliate per le fortificazioni, tra gli oliveti, le ficaje, gli aranci ed i cedri de' loro proprj giardini[33].
Soltanto il 14 di ottobre il principe d'Orange venne ad alloggiarsi a Pian di Ripoli, sotto Firenze. Aveva chiesta dell'artiglieria ai Sienesi, che, prestandola a mal in cuore, la facevano avanzare assai lentamente. Perciò le prime batterie non si scoprirono che sul principio di novembre; ed in quell'intervallo i Fiorentini avevano lavorato con tanta costanza intorno alle loro fortificazioni, che più non credevano di dover temere gli attacchi de' loro nemici. La repubblica pagava allora il soldo di diciotto mila fanti e di seicento cavalli: ma effettivamente non aveva che tredici mila soldati in attività, sette mila de' quali in Firenze, e sei mila nelle guarnigioni di Prato, Pistoja, Empoli, Volterra, Pisa, Colle e Montepulciano. Malatesta Baglioni aveva sotto il suo comando tre mila Perugini, ed il capitano Pasquino, a lui subordinato, tre mila Corsi; Stefano Colonna comandava ai tre mila uomini della milizia urbana, che servivano non altrimenti che se fossero truppe di linea. Tutta la popolazione aveva contratte abitudini militari, e tranne i lavori affatto meccanici erasi in città abbandonata ogni altra occupazione. La spesa di questo nuovo stato di guerra ammontava ogni mese a settanta mila fiorini[34].
Per difendere le più lontane parti del territorio, ed in particolare Borgo san Sepolcro e Montepulciano, i Fiorentini avevano stipendiato Napoleone Orsini, più conosciuto sotto il nome di abate di Farfa, sebbene già da lungo tempo egli avesse riconsegnata quest'abazia per far il mestiere di condottiere. Era costui uno dei più formidabili tra que' gentiluomini che passavano la loro vita tra la guerra e gli assassinj. Aveva nel suo feudo di Bracciano adunato un numeroso corpo di soldati e di banditi, coi quali, per vendicare, secondo egli diceva, i Romani, esercitava grandi crudeltà contro gli imperiali, e poi contro i soldati del papa[35]. Da principio servì utilmente i Fiorentini coi trecento cavalli che aveva seco; ma in appresso si lasciò sorprendere da Alessandro Vitelli tra Borgo san Sepolcro e Città di Castello: la di lui truppa fu totalmente dispersa, ed egli medesimo salvossi a stento, abbandonando, dopo quest'accidente, il servigio de' Fiorentini[36].
Altri fatti d'armi di non molta importanza accaddero ne' contorni di Firenze, sia lungo le linee che voleva formare il principe d'Orange, sia nell'attacco delle piccole fortezze di Val d'Arno, ch'egli cercava di occupare. Francesco Ferrucci segnalossi in queste scaramucce per la sua intrepidezza e per le sue cognizioni militari, e si acquistò non meno la confidenza de' suoi concittadini che la stima de' nemici. Sebbene antica fosse la famiglia del Ferrucci, era povera, e da più generazioni non aveva dato verun distinto magistrato. Suo avo Antonio si era fatto nome negli assedj di Pietra Santa e di Sarzana. Egli e suo fratello Simone avevano militato sotto Anton Giacomino Tebalducci, il migliore ufficiale che i Fiorentini avessero avuto da lungo tempo: avevano da lui imparata l'arte della guerra, e si erano poi fatto nome nelle bande nere sotto Giovanni de' Medici. Francesco Ferrucci aveva sempre servito in questa ragguardevole milizia, e nella spedizione di Napoli, di dove era recentemente tornato, aveva le incumbenze di pagatore[37]. Dalla signoria fu spedito in qualità di commissario generale prima a Prato, in appresso ad Empoli; e dopo avere poste quelle piccole città in istato di difesa, egli tenne la campagna con tanto vantaggio, e prese così spesso ai nemici grossi convoglj di cavalleria o di vittovaglie, seppe mantenere tanta disciplina nella sua piccola armata, che i soldati, che egualmente lo amavano e rispettavano, credevansi sotto i di lui ordini invincibili[38].
Gli Spagnuoli, appena giunti presso Firenze, avevano preso Samminiato, dove avevano lasciato dugento fanti, che, spalleggiati dagli abitanti della terra, infestavano tutto il circostante paese, e rendevano più difficile la comunicazione tra Firenze e Pisa. Avendo il Ferrucci determinato di scacciarli, andò ad assalirli con sessanta cavalli e quattro compagnie di fanteria; fu il primo a piantare la sua scala contro le mura, ed il primo a salirvi; e sebbene gli Spagnuoli facessero, coll'ajuto degli abitanti, una vigorosa resistenza, il Ferrucci prese Samminiato d'assalto, ed occupò pure la fortezza, uccidendo quasi tutti gli Spagnuoli che avevano difese le mura. Mentre che stava eseguendo questa spedizione, fu attaccato dagl'imperiali il castello della Lastra posto sulla stessa strada, ma più di Samminiato vicino a Firenze. Questo castello oppose una gagliardissima resistenza, e gli Spagnuoli avevano di già perduta molta gente, quando fecero avanzare l'artiglieria. Allora gli assediati chiesero di trattare, ed ottennero un'onorata capitolazione. Ma gli Spagnuoli, appena passata la porta, assalirono la guarnigione che stava senza sospetto, e tutta la passarono a fil di spada[39].
Fin qui l'esercito imperiale nulla aveva tentato contro la stessa piazza di Firenze; ma il 10 di novembre, vigilia di san Martino, supponendo l'Orange che i Fiorentini non facessero attenta guardia in quella notte consacrata al piacere, approfittò della profonda oscurità, renduta ancora maggiore dall'abbondante pioggia che cadeva, per tentare la scalata: furono poste in opera quattrocento scale lungo le mura, dalla porta di san Niccolò fino a quella di san Friano; cioè in tutta la più montuosa parte di Firenze; ma in ogni luogo le sentinelle chiamarono all'armi, la guardia nazionale gareggiò colla truppa di linea, ed il nemico fu respinto[40].
Appunto un mese dopo questo primo sperimento, Stefano Colonna, che comandava nel quartiere che gl'imperiali avevano tentato di sorprendere, si provò ancor egli di attaccarli all'impensata nelle loro linee. Era egli personalmente nemico di suo parente Sciarra Colonna, che serviva nel campo nemico, e la notte dell'undici di dicembre andò ad attaccarlo nel suo quartiere di santa Margarita a Montici, con cinquecento fanti, ai quali aveva fatto porre sopra le armi, per conoscersi nell'oscurità, delle camicie bianche. Gl'imperiali, sorpresi in mezzo a tanta oscurità, perdettero molta gente prima che potessero ordinarsi, ed un ridicolo accidente accrebbe ancora il loro disordine: i Fiorentini, andando dovunque in traccia de' nemici, forzarono le porte d'una stalla, nella quale erasi chiusa una mandra di majali delle Maremme quasi selvaggi, i quali, spaventati dalle voci dei soldati, precipitaronsi tra i fuggiaschi con orribili grugniti, ed atterrarono moltissimi soldati, che nulla potendo discernere in così grande oscurità credevansi inseguiti dai nemici. Di già erano accorsi il principe d'Orange e don Ferdinando Gonzaga per soccorrere le loro genti, ed andavano ponendo qualche ordine nelle difese, quando da tre porte di Firenze sortirono, secondo il preventivo accordo fatto con Stefano Colonna, tre nuovi corpi d'armata per attaccare gl'imperiali. Gli assedianti vennero forzati in molte posizioni, e più volte si credettero in sul punto di essere scacciati dal loro campo. Finalmente Malatesta Baglioni fece suonare a raccolta assai più presto che non abbisognava; e forse perdette così l'unica occasione di mettere fine alla guerra con una vittoria[41].
Due giorni dopo il commissario Ferrucci tese presso Montopoli un'imboscata al colonnello Pirro di Stipicciano, della casa Colonna, e gli uccise o prese molta gente. Questi fatti, benchè di non molta importanza, giovavano però a rianimare il coraggio degli assediati, ed a far dimenticare le loro perdite. N'ebbero spesso di assai dolorose. Il 16 di dicembre due de' loro migliori capitani, Mario Orsini e Giorgio Santa Croce, furono uccisi da un solo colpo di colombrina, mentre stavano ordinando certi cambiamenti da farsi alle fortificazioni[42]. Lo stesso giorno i Fiorentini ricevettero una notizia che li liberò da un cocente pensiero; Girolamo Moroni era morto il 15 di dicembre nel campo degli assedianti. Quest'uomo così versato in tutte le arti dell'intrigo, che aveva governato con dispotica autorità Massimiliano, indi Francesco Sforza, e che aveva avuta tanta parte nelle rivoluzioni della Lombardia, era passato all'armata imperiale come prigioniero del Pescara. Era di già condannato a pena capitale, quando giunse ad acquistarsi il favore del Borbone, che lasciossi poscia da lui governare fino alla sua morte sotto le mura di Roma. Il principe d'Orange aveva coll'armata raccolto il consigliere del suo predecessore, ed oramai non faceva nulla senza il di lui parere: lo stesso Clemente VII era vinto dalla opinione del sorprendente ingegno politico del Moroni, e gli perdonava il male che aveva da lui ricevuto in visto del male che sperava di poter fare col di lui mezzo ai nemici. Pareva che il Moroni tenesse dietro alla fortuna piuttosto che ad un determinato oggetto; voleva rendere potenti coloro cui erasi attaccato, e condurre a felice fine le loro imprese; del resto pareva indifferente rispetto alle persone ed ai principj, e dopo avere lavorato per escludere gli stranieri d'Italia, si adoperava con eguale ardore per servirli contro gl'Italiani. Morì naturalmente e quasi senza malattia in età decrepita. Lusingavansi i Fiorentini che la di lui morte lascerebbe il principe d'Orange senza mezzi nel consiglio, e senza opinione nell'armata, perchè credevano che il destro Moroni fosse stato fin allora l'anima del campo nemico[43].
Frattanto le negoziazioni di Bologna si accostavano al loro fine, e colla mediazione del papa tutti gli stati d'Italia si andavano riconciliando coll'imperatore, abbandonando i Fiorentini. Questi vedevano separarsi da loro un dopo l'altro tutti i membri di quella lega, chiamata santa, per la quale il re d'Inghilterra, il re di Francia, il duca di Milano, i Veneziani, il duca di Ferrara, eransi obbligati a difendere la loro repubblica ed a non trattare senza di lei; ma li ferì tanto più l'abbandono de' Veneziani che avevano maggior ragione di risguardarsi come uniti da una medesima causa, e che ancora recentemente avevano raffermata la loro alleanza[44]. D'altra banda mentre perdevano i loro alleati vedevano crescere i nemici, perciocchè una delle condizioni della pacificazione di Lombardia portava che Carlo V ne ritirerebbe le sue truppe; ed infatti negli ultimi giorni di dicembre circa venti mila tra Spagnuoli e Tedeschi passarono gli Appennini con una numerosa artiglieria, e vennero ad accamparsi sulla riva destra dell'Arno, che fin allora si era preservata dai guasti della guerra[45]. I Fiorentini, atterriti dall'arrivo di questi nuovi nemici, evacuarono Pistoja e Prato con quella stessa precipitazione con cui al sopraggiugnere della prima armata avevano evacuata Cortona ed Arezzo. Le più lontane fortezze di Pietra Santa e di Motrone aprirono volontariamente le loro porte agl'imperiali, di modo che prima che terminasse l'anno l'autorità della repubblica più non era conosciuta che in Livorno, Pisa, Empoli, Volterra, Borgo san Sepolcro, Castrocaro e nella cittadella d'Arezzo[46].
Malgrado i pericoli dello stato, la prima magistratura veniva ricercata con eguale ardore. Francesco Carducci, ch'era stato sostituito al Capponi negli otto ultimi mesi del 1529, aveva dato prove del vigore del suo carattere e del suo ingegno. Desiderava di essere confermato pel susseguente anno, ed espresse abbastanza chiaramente tale suo desiderio nel gran consiglio, ove rappresentò ai suoi concittadini che in così difficili circostanze, non potevasi quasi mutare il capo dello stato, senza esporsi altresì a cambiare tutte le misure, ed a sovvertire tutti i progetti maturati lungo tempo innanzi. Ma questo stesso avvertimento parve offendere coloro che credevansi non meno di lui capaci di sostenere la prima carica della stato, ed il Carducci non venne pure annoverato tra i sei candidati designati pel gonfalone. Il gran consiglio scelse il 2 di dicembre Raffaele Girolami, il solo degli ambasciatori mandati a Carlo V a Genova, che fosse tornato in patria a rendere conto della sua missione. Dopo tal giorno il Girolami visse nel palazzo del pubblico, ed assistette alle deliberazioni della signoria, sebbene non entrasse in funzione che il primo gennajo del 1530[47].
Dopo l'arrivo della seconda armata imperiale provegnente dalla Lombardia, Firenze era circondata da ogni banda, ed il principe d'Orange aveva una formidabile artiglieria, e più che bastante per istringere vivamente l'assedio; pure non cercò di battere in breccia le mura, e solo tentò, e quest'ancora con infelice riuscita, di atterrare alcune torri dalla di cui artiglieria veniva incomodato, limitandosi a bloccare la città colla speranza di affamarla[48].
Oltre l'ordinaria numerosa sua popolazione, Firenze conteneva in allora molti contadini che vi si erano rifugiati dalle circostanti campagne, e dodici in quattordici mila soldati. Gli ultimi non si erano accostumati in veruna delle precedenti guerre d'Italia a soffrire le privazioni. La loro moderazione, la loro disciplina, la loro pazienza formarono un singolare contrasto colle vessazioni sofferte dalle altre città per parte de' soldati ricevuti entro le loro mura. Senza dubbio Firenze andava di ciò debitrice alla guardia urbana, che colla sua lodevole condotta serviva d'esempio alle altre truppe, e le teneva in dovere. Nondimeno tutti i granaj di Firenze sarebbersi a lungo andare vuotati, se il commissario generale Francesco Ferrucci non avesse trovato il mezzo, mercè una costante attività ed uno zelo eguale al suo coraggio, d'introdurre in città varj convoglj di bestiami, di granaglie e di foraggi, e di farvi passare le munizioni che si trovavano ammassate ad Empoli, a Volterra ed a Pisa[49].
L'accordo d'Ercole d'Este in qualità di capitano generale era terminato col 1529, senza ch'egli si fosse mai recato al suo posto. Gli uomini d'armi da lui mandati avevano ubbidito al conte Ercole Rangoni, di lui luogotenente; ma si erano contenuti assai mollemente, dietro gli ordini stessi ricevuti da Ferrara. Alla fine dell'anno il principe li richiamò. Egli più non desiderava di conservare il posto di capitano generale, ed i Fiorentini non avevano verun pensiero di confermarlo in cotale carica. I dieci della guerra procedettero a nominargli un successore; ma pendevano incerti tra Malatesta Baglioni, che ancora non aveva titolo di governatore generale, e Stefano Colonna, generale della loro ordinanza; ma quest'ultimo, uomo circospetto, e che trasparire non lasciava le segrete sue intenzioni, dichiarò che continuava a considerarsi come soldato del re cristianissimo, ch'egli rimaneva in Firenze per di lui servigio, e che non desiderava verun'altra distinzione[50]. Per lo contrario il Baglioni faceva pratiche per avere la prima carica. Sebbene indebolito e quasi storpiato da lunghe malattie, non era meno illustre per coraggio, che per militari talenti; aveva gloriosamente militato negli eserciti veneziani; sapeva farsi amare e rispettare dai soldati, sebbene facesse mantenere la più severa disciplina; e comecchè in appresso l'esperienza dimostrasse, che preferiva il suo personale interesse al dovere, ebbe, mancando ancora a quest'ultimo, certi riguardi per l'onor suo, che il più delle volte venivano dai condottieri trascurati. Fu il 26 di gennajo che il gonfaloniere Raffaele Girolami gli consegnò lo stendardo della repubblica ed il bastone del comando, dopo averlo esortato in presenza di tutto il popolo a versare, se il bisogno lo richiedesse, il suo sangue per la difesa della libertà fiorentina, e dopo avere ricevuto il di lui giuramento[51].
Pochi dì avanti Francesco I, per fare cosa grata al papa ed all'imperatore, aveva fatto dare ordine a questo stesso Malatesta Baglioni, ed allo stesso Stefano Colonna, di abbandonare il servigio de' Fiorentini, dichiarando di non li volere incoraggiare nella loro ribellione contro la Chiesa e contro l'impero; ma in pari tempo che loro pubblicamente mandava quest'imbasciata, li faceva segretamente avvisare di non ubbidire. Richiamava il signore de Viglì, ma vi lasciava Emilio Ferreto in qualità di segretario dell'ambasciata, commettendogli di sostenere il coraggio de' Fiorentini, e di accertarli, che ricuperati che avesse i figliuoli col pagamento della loro taglia, tornerebbe a dar loro aperti ajuti[52].
Dietro una decisione del gran consiglio, il nuovo gonfaloniere aveva spediti ambasciatori all'imperatore ed al papa a Bologna per chiedere la pace. Erano essi incaricati di offrire il richiamo de' Medici in Firenze, a condizione che tutto lo stato fiorentino sarebbe restituito alla repubblica, che sarebbe conservata la di lui libertà, e che la presente costituzione non verrebbe alterata. Carlo V non volle trattare con loro, e sempre li rinviò al papa; questi parve volere accordare le due prime condizioni, ma si alterò grandemente contro coloro che proponevano la terza; giurò che rovescierebbe un governo abbandonato alla plebaglia, che opprimeva tutto ciò che la nazione avrebbe dovuto rispettare; e costrinse gli ambasciatori, a mezzo febbrajo, ad uscire immediatamente da Bologna senza avere niente convenuto[53].
Ma nè la durezza dell'imperatore e la collera del papa, nè l'abbandono del re di Francia, nè la fuga di varj capitani che passarono tra i nemici, nè le trame dei partigiani de' Medici, perseguitati con un rigore e con forme di giudizj indegni di una repubblica, nè la successiva perdita di tutto il dominio dello stato, ebbero forza di scoraggiare i Fiorentini. I monaci del convento di san Marco ed i proseliti di Girolamo Savonarola avevano ricominciate le loro prediche. Fra Benedetto da Fojano di santa Maria Novella, e fra Zaccaria, domenicano di san Marco, erano tra costoro i due più eloquenti oratori, e quelli che il popolo ascoltava con maggiore entusiasmo. Incoraggiavano essi i divoti colla promessa che Cristo, nominato loro re, penserebbe a difenderli, e profetizzavano che quando parrebbe impossibile ogni umano soccorso, quando gl'imperiali avrebbero di già innalzate sulle mura le loro insegne, gli Angeli del Signore scenderebbero in mezzo alla battaglia, e scaccierebbero colle infuocate loro spade i nemici del Signore dalla città che si era data in di lui potere[54].
Mentre i Fiorentini aspettavano ogni venerdì di essere attaccati dal principe d'Orange, perchè gli Spagnuoli risguardavano tale giorno siccome fausto, non lasciavano dal canto loro passare un sol dì senza tentare con qualche sortita di sorprendere alcun posto de' nemici. In molte di queste zuffe perirono parecchj uomini che alla repubblica erano utilissimi, e si prese da ciò motivo di accusare Malatesta Baglioni di aver voluto spossare la guarnigione con questa piccola guerra. Con ciò, a dir vero, il Baglioni riuscì a rendersi affatto dipendente il consiglio di guerra, perchè gli ufficiali, che si andavano perdendo in queste scaramucce, venivano sempre rimpiazzati da creature proposte da lui medesimo; e dall'altra parte potev'essere fondato a credere che con queste piccole perdite non comperava a troppo caro prezzo il vantaggio di agguerrire i suoi soldati, d'inspirar loro confidenza e di dissipare quell'impazienza e quella noja che spesso riescono alle truppe assediate più funeste che le spade nemiche[55].
Alcune delle sortite de' Fiorentini avevano un piano più generale. Sorprendendo di notte i quartieri de' nemici, potevano lusingarsi di disordinare tutto l'esercito e di forzarlo a levare l'assedio. Queste notturne sorprese chiamavansi incamiciate, perchè gli assalitori si coprivano con una camicia bianca, ad oggetto di riconoscersi nell'oscurità. Talvolta i Fiorentini non temevano di attaccare i loro nemici in pieno giorno; ed il 21 di marzo, dietro gli ordini di Malatesta Baglioni, cinque corpi, cadauno di cinque in sei cento uomini, sortirono da cinque diverse porte per attaccare contemporaneamente gl'imperiali, onde occupare un ridotto, chiamato il cavaliere, innalzato dal principe d'Orange in faccia alla porta Romana: un corpo doveva condurre a fine quest'impresa, mentre gli altri distrarrebbero l'attenzione del nemico. Sgraziatamente i Fiorentini furono traditi da un disertore, che uscì di città mezz'ora prima di loro; pure, sebbene gl'imperiali si trovassero da per tutto apparecchiati a riceverli, l'attacco dei Fiorentini fu così vivo, che molti di loro giunsero sul Cavaliere; e quando si ritirarono all'avvicinarsi della notte, avevano fatto ai nemici assai maggior male che non ne avevano ricevuto[56]. Rinnovarono lo stesso attacco il 28 di marzo, ma meno felicemente. Il giorno di Pasqua ed i seguenti giorni, ebbero ancora luogo alcune brillanti scaramucce. Intanto l'imperatore era partito alla volta della Germania, il papa era tornato a Roma, e l'armata dell'Orange cominciava a sentire il bisogno di danaro. I Fiorentini erano persuasi che se riusciva loro in tale circostanza di ottenere qualche importante vantaggio sull'armata imperiale, farebbero levare l'assedio; mentre che invece sottomettendosi ad un più lungo blocco, la fame avrebbe all'ultimo consumate le loro forze[57].
Sentendosi Malatesta Baglioni accusato dal popolo di trarre in lungo la guerra, vedendo che le guardie nazionali desideravano di fare una sortita generale, e che la volevano i dieci della guerra e la signoria, dichiarò che condurrebbe i Fiorentini alla battaglia, sebbene egli non lo credesse utile agli assediati. In fatti il 5 di maggio fece sortire più di mezza guarnigione fuori di porta Romana e di due altre porte dallo stesso lato dell'Arno; prese d'assalto il convento di san Donato, difeso dagli Spagnuoli; gettò il disordine in tutta l'armata del principe d'Orange, e se avesse fatto uscire il restante delle truppe di cui poteva disporre, o se Amico di Venafro, da lui destinato a comandare una delle tre colonne, non fosse stato ucciso nel precedente giorno, avrebbe probabilmente costretto il principe d'Orange a levare l'assedio[58].
Dal canto suo Stefano Colonna diresse un attacco contro il campo de' Tedeschi in sulla destra dell'Arno, dove il conte Luigi di Lodrone era subentrato a Luigi di Wirtemberga. Il Colonna sortì dalla città il 10 di giugno, alcune ore prima che facesse giorno, per la porta di Faenza, onde marciare direttamente contro i nemici, mentre dovevano assecondarlo, il capitano Pasquino Corso uscendo dalla porta di Prato, e Malatesta Baglioni tenendo d'occhio il fiume per impedire che il principe d'Orange non ajutasse i Tedeschi. Il Colonna combattè valorosamente; forzò la doppia trincea de' Tedeschi, e loro uccise molta gente: ma il capitano Pasquino non venne in suo ajuto, secondo gli era stato imposto, e Malatesta Baglioni, nel caldo della battaglia, invece di avanzarsi egli stesso, fece suonare a raccolta. Stefano Colonna la fece in buon ordine riportando un immenso bottino, preso ne' quartieri del nemico[59].
Nello stesso tempo si combatteva ancora in altre parti dello stato fiorentino. Lorenzo Carnesecchi era commissario generale nella Romagna toscana; risiedeva d'ordinario a Castrocaro; e con pochissimi soldati e senza danaro, trovò il modo di allestire una piccola armata in questa provincia; rispinse gli attacchi delle truppe papali; portò invece il terrore ed i guasti in tutta la Romagna pontificia, e sforzò il governatore della legazione a chiedergli una parziale tregua. Il Carnesecchi non vi acconsentì, che quando ebbe egli medesimo esaurite tutte le sue forze per continuare la guerra[60].
La cittadella d'Arezzo, assediata dagli Aretini, capitolò il 22 di maggio. I soldati che vi stavano di guarnigione si erano ammutinati, per non assoggettarsi più lungo tempo alle privazioni rendute necessarie dallo stato d'assedio. Gli Aretini non l'ebbero appena in loro potere che la spianarono all'istante, affinchè il principe d'Orange non potesse mandarvi guarnigione[61]. Il 23 di giugno si arrese agli Spagnuoli per capitolazione Borgo san Sepolcro, senza avere prima sostenuto un assedio[62]. Volterra si era data alle truppe del papa il 24 di febbrajo[63]: ma perchè questa città credevasi di somma importanza, i dieci della guerra, dopo avere nominato Francesco Ferrucci commissario generale, ed avergli date illimitate facoltà, e tali che mai non le aveva avute verun cittadino fiorentino, lo incaricarono di soccorrere la fortezza di Volterra, che tuttavia si difendeva, e di tentare, se fosse possibile, di riavere ancora la città.
Il Ferrucci aveva adunata la sua piccola armata in Empoli, dove aveva pure raccolti abbondantissimi magazzini di vittovaglie, che successivamente spediva a Firenze; ed aveva posta quella città in così buono stato di difesa, ch'egli accertava che le sole donne avrebbero potuto coi loro fusi respingere gli Spagnuoli; egli partì il 27 di aprile, a seconda degli ordini ricevuti, e affidò il comando della città ad Andrea Giugni ed a Pietro Orlandini[64].
La partenza del Ferrucci ebbe per Empoli funeste conseguenze: il principe di Orange spedì Diego Sarmiento, coi Bisogni spagnuoli, per assediarla; vi aggiunse tutta la cavalleria di don Ferdinando Gonzaga, e varie vecchie bande del marchese del Guasto. Nello stesso tempo Fabrizio Maramaldo batteva la campagna, e vietava al Ferrucci di avvicinarsi all'assediata città. Le batterie spagnuole cominciarono a battere Empoli il 24 di maggio, ed il 28 gl'imperiali diedero alla piazza un sanguinosissimo assalto; ma dopo molte ore di battaglia furono respinti. Nella susseguente notte, gli abitanti d'Empoli, temendo i patimenti di un assedio, mandarono segretamente al campo spagnuolo per capitolare, ed avendo ottenuta una salvaguardia per le persone e proprietà loro, non fecero parola dei soldati che gli avevano valorosamente difesi. I due capitani Giugni ed Orlandini avevano avuto parte in questa vergognosa transazione. Quando in seguito gli Spagnuoli vennero introdotti entro le mura di Empoli, disprezzarono la capitolazione, ed abbandonarono al saccheggio non solo i ricchissimi magazzini adunati con tanto zelo e stento dal Ferrucci per assicurare l'approvvigionamento di Firenze, ma inoltre tutte le case degli abitanti[65].
Intanto Francesco Ferrucci aveva condotta a buon fine la sua spedizione: partito da Empoli il 27 d'aprile, con circa mille quattrocento fanti e dugento cavaleggieri, cui aveva fatto prendere provvigioni per due giorni, giunse non pertanto lo stesso giorno a Volterra, tre ore prima di notte. Dopo essere entrato nella cittadella per la porta del soccorso, ed avere dato un'ora di riposo a' suoi soldati, scese nella città e forzò i primi trinceramenti innalzati dai Volterrani, e gl'inseguì vivamente fino alla piazza di sant'Agostino, dove eransi eretti altri trinceramenti. Intanto era sopraggiunta la notte, ed i suoi soldati, oppressi dalla fatica del lungo cammino fatto e dalla recente ostinata battaglia, più non potevano reggersi in piedi; fu d'uopo perciò trincerarsi sulla piazza, aspettando il vegnente mattino. All'indomani ricominciò la battaglia in sul fare del giorno. I Volterrani attendevano ad ogni istante gli ajuti loro promessi da Fabrizio Maramaldo, il quale occupava la provincia con due mila cinquecento Calabresi, i quali, non ricevendo il soldo, vivevano a discrezione. Ma il Ferrucci costrinse i Volterrani a capitolare, prima che il Maramaldo potesse soccorrerli[66].
Il Ferrucci si affrettò di mettere Volterra in istato di difesa: doveva nello stesso tempo tenersi in guardia contro gli abitanti della città, pieni di rancore verso i Fiorentini, e contro Fabrizio Maramaldo, che non tardò ad attaccarlo colla sua infanteria leggiere. Prolungaronsi fra di loro le zuffe tutto il mese di maggio con un accanimento che si cangiò in odio personale. Dopo la presa di Empoli, il marchese del Guasto e don Diego di Sarmiento raggiunsero Maramaldo coi loro corpi d'armata. Il 12 di giugno scoprirono le loro batterie contro le mura di Volterra, e vi aprirono larghe brecce. Il Ferrucci rimase gravemente ferito in due parti durante quest'attacco; ma senza dar tempo di farsi medicare, fecesi portare sopra una seggiola in tutti i posti più minacciati dal nemico, e continuò egli solo, senza perdere un solo istante, a dirigere la difesa[67]. Il 17 di giugno, il marchese del Guasto, che aveva ricevuto dal campo del principe d'Orange un rinforzo d'artiglieria, aprì nuovamente larghe brecce nelle mura della città. La febbre erasi aggiunta alle ferite del Ferrucci; ma non pertanto questi, lasciando in non cale ogni cura della sua salute, fece testa al nemico, e dopo un'accanita zuffa lo costrinse a levare vergognosamente l'assedio[68].
Dopo avere assicurato il possedimento di Volterra, il Ferrucci rivolse il pensiero ad eseguire la commissione che gli era stata data dai dieci della guerra; cioè di ragunare tutti i soldati fiorentini che trovavansi nelle varie parti del territorio tuttavia soggetto al governo della repubblica, e di venire, dopo avere in tal guisa ingrossato il più che poteva la sua piccola armata, ad attaccare il campo degli assedianti, mentre che i Fiorentini lo asseconderebbero con una vigorosa sortita; imperciocchè il gonfaloniere, la signoria, i dieci della guerra, e lo stesso consiglio degli ottanta, desideravano la battaglia, ed ordinavano ai loro generali d'attaccare il nemico. Invano Malatesta Baglioni e Stefano Colonna dichiaravano di non poter condurre le milizie contro soldati veterani, superiori di numero, e protetti dai loro trinceramenti in gagliarde posizioni: i consiglj replicavano l'ordine d'attaccare il nemico, onde almeno conservare alcuna possibilità di prosperi avvenimenti, mentre che la fame, ch'essi vedevano non lontana, e la peste, che dal campo nemico era entrata in città, gli andavano distruggendo, quasi con tanta rapidità come avrebbe fatto la battaglia, senza lasciar loro nè gloria, nè speranza[69].
Il Ferrucci ricevette il 14 di luglio le nuove facoltà che gli venivano affidate, le quali lo rendevano in autorità eguale alla signoria ed all'intero popolo di Firenze; in pari tempo ebbe ordine di porsi in cammino per salvare la sua patria, che tutte in lui solo riponeva le sue speranze. Egli aveva sotto i suoi ordini venti compagnie, sette delle quali lasciò alla custodia di Volterra, e seco condusse le altre tredici, che non ammontavano in tutto a più di mille cinquecento uomini, sebbene in origine fossero tutte composte di dugento soldati. Scese la Cecina, ed arrivò per Vado e Rossignano a Livorno, senza lasciarsi trattenere dagli archibugieri di Maramaldo, che tentavano di precludergli la strada. Da Livorno recossi a Pisa, ove il signore Giampaolo Orsini lo stava aspettando con un corpo quasi eguale al suo. Era questi figliuolo di Renzo di Ceri, e nel maggior pericolo della repubblica, le si era offerto con una specie di cavalleresco sagrificio, onde avere parte in quest'ultima battaglia in favore della libertà e dell'indipendenza italiana[70]. Per pagare queste due piccole armate, convenne levare danaro in Pisa col mezzo d'arbitrarie contribuzioni; e mentre che il Ferrucci, oppresso dalle fatiche e dalle cure, doveva provvedere personalmente a tutto, fu sorpreso da violenta febbre, che lo tenne tredici giorni in una forzata e disperante inazione[71].
Il piano che stava per eseguire il Ferrucci non era suo. Egli aveva offerto alla signoria di condurre la sua piccola armata contro Roma, dove sapeva trovarsi il papa senza veruna difesa; avrebbe dato voce d'andare a mettere a sacco per la seconda volta la corte romana, ed avrebbe richiamati così sotto le sue insegne la folla dei mercenarj senza onore e senza religione, che non guerreggiavano che per bottinare: soprattutto contava di guadagnare facilmente i Bisogni spagnuoli di Diego Sarmiento. Il papa, atterrito all'avvicinarsi di questa truppa, avrebbe fatta la pace, o per lo meno avrebbe richiamato il principe d'Orange per difendersi. Ma la signoria ricusò di approvare cotale progetto, da lei giudicato troppo ardito[72].
Francesco Ferrucci, avendo finalmente ricuperate le forze, prese tutte le convenienti misure per la sicurezza di Pisa; in pari tempo si provvide d'artiglieria, di fuochi artificiali, e di tutto quanto poteva dare alla sua piccola armata maggiore fiducia in se medesima; indi si pose in cammino la notte del 30 luglio, tre ore dopo il tramontare del sole, con un'armata di tre mila pedoni e di quattro in cinquecento cavalli. Uscì di Pisa per la porta di Lucca, ed attraversando tutto lo stato lucchese tentò da prima di entrare nel piano di Pescia pel ponte di Squarcia Boccone; ma perchè vi trovò qualche resistenza, penetrò nelle montagne lucchesi, e si accampò la prima notte a Medicina; indi passò la seguente a Calamecca nelle montagne di Pistoja. Sperava di ragunare in questa provincia tutta la fazione dei Cancellieri, i quali erano ben affetti alla repubblica, e, dopo avere ingrossata la sua armata con bande d'insorgenti, d'impadronirsi di Pistoja, ove potrebbe adunare i magazzini che destinava a vittovagliare Firenze. Ma i partigiani dei Cancellieri, ch'egli trovò a Calamecca, volendo approfittare del di lui arrivo per vendicarsi del partito nemico de' Panciatichi, lo traviarono dalla strada che avrebbe dovuto tenere, e lo condussero a San Marcello, ove signoreggiavano i Panciatichi. Infatti il Ferrucci prese questa terra, la saccheggiò, e la bruciò, perdendo in tal modo un tempo prezioso. Una dirotta pioggia gli fece inoltre differire alcune ore la partenza; egli condusse poi la sua armata a Gavinana, castello spettante alla fazione dei Cancellieri, lontano quattro miglia da San Marcello ed otto dalla città di Pistoja[73].
Ma qualunque stata fosse la rapidità del Ferrucci e l'accortezza della sua marcia, che, girando la metà de' confini toscani, lo conduceva in soccorso di Firenze per la parte più opposta a quella ond'era partito, egli era quasi circondato da tutte le bande. Fabrizio Maramaldo trovavasi sulla di lui manca, e lo aveva sempre seguito senza tentare di venire alle mani. Alessandro Vitelli stava alla destra col corpo dei Bisogni spagnuoli, che poc'anzi si erano ammutinati e ritirati ad Alto Pascio, di dove egli aveali ricondotti all'ubbidienza colla speranza di una battaglia. Il Bracciolini lo seguitava con un migliaja d'uomini della fazione dei Panciatichi, armati sulle montagne. Pure il Ferrucci credevasi ancora in situazione di sottrarsi a tutti, o di attaccarli e vincerli separatamente, quando lo stesso principe d'Orange gli si fece incontro con mille veterani tedeschi, altrettanti spagnuoli e quattro colonnelli italiani[74].
Il principe d'Orange, che confidato aveva il comando dell'armata, durante la sua assenza, a don Ferdinando Gonzaga, ed al conte di Lodrone, non poteva allontanarsi tanto da Firenze, che sull'appoggio di un tradimento. Sapeva il gonfaloniere che la salvezza della repubblica era tutta ridotta nel solo Ferrucci, onde voleva assecondarlo col più vigoroso attacco contro il campo degli assedianti. Qualunque si fosse la superiorità della posizione, del numero o della disciplina degli Spagnuoli e de' Tedeschi, voleva affrontarla, ed ordinò a Malatesta Baglioni di apparecchiarsi ad una generale sortita. Dichiarò in pari tempo che si porrebbe egli stesso alla testa della scelta milizia fiorentina, e che seguirebbe la truppa di linea ovunque il Malatesta la condurrebbe, lasciando la guardia di Firenze ai vecchi ed all'ordinanza dei contadini[75].
Ma il Baglioni non aveva più che sperare o temere dalla repubblica fiorentina, e non voleva più oltre legare la propria fortuna a quella di uno stato che vedeva in sul punto di perire. Aveva segretamente negoziato col principe d'Orange, e per mezzo di lui anche con Clemente VII; erasi fatta confermare la sua sovranità di Perugia e promettere nuovi favori ecclesiastici e temporali, obbligandosi per iscrittura verso il principe d'Orange a non attaccare il campo, mentre il principe ne starebbe lontano per andare contro il Ferrucci. Successivamente oppose tre proteste agli ordini datigli dalla signoria di attaccare il nemico; ed il suo collega Stefano Colonna ebbe la debolezza ancor esso o la falsità di sottoscriverle. Diceva in queste scritture che la battaglia cui volevasi sforzarlo cagionerebbe l'irreparabile ruina della sua armata e della repubblica; e quando all'ultimo ebbe un perentorio ordine di marciare, vi si prestò con tanta lentezza, che prima ch'egli si fosse mosso, i Fiorentini ebbero notizia dell'esito della spedizione del Ferrucci[76].
Il principe d'Orange era partito dal suo campo la sera del primo giorno di agosto; camminò tutta la notte, ed all'indomani diede riposo alle sue truppe a Lagone, villaggio posto tra Gavinana e Pistoja: colà stavano mangiando nella stessa ora in cui quelle del Ferrucci facevano lo stesso a San Marcello. Le due armate ripresero di nuovo il cammino press'a poco nello stesso istante, e giunsero nello stesso tempo innanzi a Gavinana. La campana a stormo che suonavasi in questo villaggio, avvisò il Ferrucci dell'avvicinarsi del nemico, senza che per altro potesse sospettare che fosse lo stesso principe d'Orange, ed una tanto ragguardevole parte della di lui armata, che avessero abbandonato il campo sotto Firenze[77].
La fanteria del Ferrucci era divisa in due corpi, ognuno di quattordici compagnie; egli comandava il primo, e Giampaolo Orsini il secondo, che serviva di retroguardia. Era egualmente divisa in due squadroni la cavalleria; uno de' quali era condotto da Amico d'Ascoli, l'altro da Carlo di Castro e dal conte di Civitella[78]. Prima di venire a battaglia, il Ferrucci esortò brevemente i suoi commilitoni; loro ricordò che la salvezza di Firenze e l'ultima speranza della repubblica erano riposte nella piccola loro armata, e non altro domandò loro che di seguirlo dovunque lo vedessero avanzarsi[79].
Il Ferrucci, essendosi rimesso il caschetto, scese da cavallo ed entrò in Gavinana colla picca in mano nell'istante medesimo in cui Fabrizio Maramaldo, avendo fatto atterrare un muro secco, vi entrava per un'altra strada. La fanteria delle due armate s'incontrò sulla piazza del castello, intorno ad un alto castagno che ne occupava il centro; ed in tal luogo la pugna fu più lunga e più accanita, mentre che il principe d'Orange colla sua cavalleria attaccava impetuosamente quella del Ferrucci, ch'erasi trattenuta fuori delle mura. I cavalieri fiorentini tennero saldo; alcuni archibugieri, frammischiati nelle loro linee, fecero replicate scariche contro i cavalli nemici e gli sgominarono. Il principe d'Orange, cercando di riordinarli, attraversò solo di galoppo una ripida costa sotto il fuoco de' Fiorentini, e colpito nello stesso tempo da due palle nel collo e nel petto, cadde subito morto. Antonio d'Herrera ed il rimanente de' cavalieri, presenti alla caduta del principe, si posero in fuga, e non si trattennero che a Pistoja, ove sparsero il terrore nella loro fazione. I soldati del Ferrucci trovarono nelle tasche del principe d'Orange lo stesso viglietto di Malatesta Baglioni, con cui il Malatesta gli prometteva di non attaccare il di lui campo[80].
La cavalleria del Ferrucci, dopo avere dispersa quella del principe d'Orange, ed ucciso questo generale, faceva echeggiare l'aria colle grida della vittoria. Ma nello stesso tempo Giampaolo Orsini era stato attaccato da Alessandro Vitelli; la retroguardia da lui comandata aveva perdute le insegne disordinandosi, e Giampaolo era stato forzato a ritirarsi a piedi in Gavinana, dove aveva raggiunto il Ferrucci. Questi dal canto suo aveva cacciato fuori di Gavinana Maramaldo ed i di lui Calabresi, i Landsknecht ed i cavalli del principe; ma dopo avere combattuto tre ore sotto un cocente sole di agosto, egli riposavasi appoggiato sulla sua picca, quando venne attaccato da un altro corpo di Landsknecht che non aveva per anco combattuto; in quell'istante il Ferrucci e Giampaolo non avevano presso di loro che pochi ufficiali, essendosi alquanto allontanati i loro soldati per riposarsi qualche minuto. Con questo piccolo corpo scelto l'Orsini ed il Ferrucci si difesero ancora lungo tempo. Frattanto Giampaolo, ferito, e coperto di polvere, più non vedendo speranza di salvezza, rivoltosi al Ferrucci gli disse: Signor commissario, non vogliamo ancora arrenderci? No! rispose il Ferrucci, e scagliossi contra un nuovo squadrone di nemici che veniva ad attaccarlo. Infatti lo respinse fuori delle porte; ma mentre lo inseguiva vide chiudersi le porte alle spalle. La terra era presa, tutti i suoi soldati morti, feriti, o fuggitivi; lo stesso Ferrucci aveva ricevuto più d'una ferita mortale, e nel di lui corpo omai rimanevano poche parti sane; finalmente egli si arrese ad uno spagnuolo, che, per guadagnare il di lui riscatto, procurava di salvargli la vita. Ma Maramaldo, fattoselo condurre innanzi sulla piazza del castello, lo fece disarmare e lo pugnalò colle sue mani. Il Ferrucci si contentò di dirgli: tu uccidi un uomo di già morto[81].
Nello stesso tempo fu fatto prigioniere Giampaolo Orsini, che poi riebbe la libertà pagando una taglia; era venuto in mano de' vincitori anche Amico d'Ascoli, ma il di lui personale nemico, Muzio Colonna, lo comperò per seicento ducati da colui che lo aveva preso, per ucciderlo poi a voglia sua; Guglielmo Frescobaldi, che il Ferrucci aveva pel suo migliore luogotenente, morì a Pistoja in conseguenza delle sue ferite; rimasero sul campo di battaglia circa due mila morti, ed ancor maggiore fu il numero de' feriti. L'armata del Ferrucci era distrutta; ma gl'imperiali avevano a caro prezzo acquistata la vittoria: grandissima era la perdita dell'armata imperiale, e la morte del suo generale poteva disordinarla, tanto più che il marchese del Guasto l'aveva in allora abbandonata per passare ai servigj di Ferdinando d'Ungheria[82].
Vero è che il Ferrucci era ancora più necessario ai Fiorentini, che non il principe d'Orange agl'imperiali. Allorchè il 4 di agosto si ebbe in Firenze la notizia della morte di lui, tutta la città fu compresa da dolore e da spavento. Invano il gonfaloniere e la signoria si sforzavano di rianimare gli abbattuti spiriti, e di far mostra de' mezzi che tuttavia restavano. La sconfitta del Ferrucci veniva in parte attribuita ad una dirotta pioggia che aveva spente le trombe a fuoco, specie di artificio che i fanti fiorentini portavano attaccato alle loro picche, e che, costantemente vomitando fiamme, spaventava i cavalli. Ma il gonfaloniere ricordava che quella stessa pioggia che aveva perduto il Ferrucci, poteva salvare la città; che le acque dell'Arno erano così gonfie, che varj quartieri del campo nemico non potevano più avere comunicazione cogli altri; e che i Fiorentini, con una generale sortita, potevano avere il vantaggio del numero, attaccando ad uno ad uno i posti nemici. Affrettava perciò Malatesta Baglioni a venire a battaglia, e la signoria, per affezionarsi i capitani delle sue truppe di linea, prometteva loro per premio della vittoria la continuazione del soldo finchè vivrebbero; ma Malatesta Baglioni ricusò di ubbidire, e dichiarò altamente di volere oramai salvare una città, vicina a perdersi a cagione dell'ostinazione e della temerità de' suoi capi[83].
Il Baglioni trovava in Firenze un grosso partito che faceva eco al suo rifiuto di combattere. Tutte le persone deboli e pusillanimi, tutti gli egoisti e coloro che sospiravano dietro i godimenti d'una vita tranquilla, desideravano la pace, e l'avrebbero accettata a qualunque patto. I partigiani dell'aristocrazia più non si curavano di esporsi ulteriormente pel mantenimento dell'autorità popolare: i segreti partigiani dei Medici osavano essi pure di manifestare i loro voti; e gli storici di questo partito confessano il tradimento del Baglioni per fargliene un merito[84]. Oramai i cittadini attaccati alla libertà non venivano indicati con altri nomi che con quelli di ostinati e di arrabbiati. Il Malatesta dichiarò che piuttosto che attaccare il campo imperiale, comandato, dopo la morte del principe d'Orange, da don Ferdinando Gonzaga, darebbe la sua dimissione. I dieci della guerra credettero di poterlo prendere in parola, e l'otto agosto gli spedirono Andreolo Niccolini per portargli il congedo dettato colle più lusinghiere espressioni. Estrema fu la sorpresa del Baglioni quando lo ricevette, e maggiore della sorpresa la rabbia: senza volerlo accettare, senza volerlo leggere, si fece addosso al Niccolini che lo recava, e lo ferì con ripetute pugnalate[85].
Il gonfaloniere volle fare un altro esperimento per mantenere la vacillante autorità della repubblica; ordinò a tutte le compagnie della milizia di adunarsi in piazza, e si pose alla loro testa per andare contro il Baglioni. Ma il terrore aveva di già sbandita ogni subordinazione, ed invece delle sedici compagnie, otto sole si trovarono sulla piazza. Dall'altro canto Malatesta Baglioni aveva di già introdotto nel suo bastione il capitano imperiale, Pirro Colonna di Stipicciano; aveva disarmata o congedata la guardia fiorentina della porta Romana, ed aveva rivolta contro la città l'artiglieria destinata a difendere le mura[86].
Firenze era perduta, e non eravi umana forza che potesse salvarla. Mentre che molti cittadini volevano ancora morire liberi e colle armi alla mano, gli altri conoscevano che verun ostacolo più non poteva oramai trattenere quella feroce armata, che si era infamata colla tirannide esercitata in Milano, e col sacco di Roma: si riparavano nelle chiese colle loro donne, i figliuoli e le loro ricchezze, e senza potersi appigliare a verun partito, senza nutrire veruna speranza, più non ubbidivano alle magistrature, e non facevano che imbarazzare coloro che non avevano per anco tutto perduto il coraggio, e mostravano ancora costanza.
La signoria colla più profonda umiliazione, e col più acerbo dolore, restituì il bastone del comando al Malatesta, in arbitrio del quale stava il permettere agli imperiali d'inondare la città, o l'imporre loro qualche condizione. Quattrocento giovani, tra i quali si videro con dolore i figli ed i generi del gonfaloniere Niccolò Capponi, eransi schierati in armi sulla piazza di santo Spirito, risoluti di appoggiare il Baglioni e di non riconoscer più la signoria. Fece questa un estremo sforzo per richiamarli sotto le sue insegne; rappresentò loro, che separandosi dai proprj concittadini in così difficili circostanze, esponevano la patria e sè medesimi ai più spaventosi pericoli; ma per tutta risposta non ebbe che insulti e minacce da quei giovani che vennero in armi sulla piazza del palazzo, e costringerla a porre in libertà tutti coloro che ella teneva custoditi a motivo del loro attaccamento alla fazione dei Medici[87].
Fra tanto perturbamento la signoria nominò quattro ambasciatori, che spedì al campo di Ferdinando Gonzaga per chiedere una capitolazione. Scelse Baldo Attuiti, Jacopo Morelli, Lorenzo Strozzi e Pier Francesco Portinari. Non ebbero questi d'uopo di cercare lontano coloro coi quali dovevano trattare, perchè Bartolomeo Valori, uno degli emigrati che il papa aveva nominato suo commissario in Toscana, e che a nome dei Medici governava tutto il paese occupato dall'armata imperiale, era venuto in quella medesima casa dei Pini, in cui abitava Malatesta Baglioni. Le condizioni che ottennero gli ambasciatori erano più vantaggiose che sperare si potessero in così tristi circostanze; ma le condizioni sono di poca importanza, quando vengono giurate da sovrani senza fede, ed in seguito riclamate da uomini senza potenza. È probabile che il papa avesse ordinato al Valori di acconsentire a tutto, riservandosi poi l'interpretazione del trattato a modo suo. L'imperatore nulla affatto somministrava pel soldo e pel mantenimento dell'esercito sotto Firenze, e Clemente VII non aveva più credito per essere state le sue entrate assorbite da lunghe guerre, e le sue ricchezze perdute nel sacco di Roma: perciò non poteva più oltre sostenere cotali spese, che oltrepassavano i settanta mila fiorini al mese[88].
Il trattato, che venne sottoscritto il 12 di agosto del 1530 a santa Margarita di Montici, portava che la forma del governo di Firenze sarebbe regolata dall'imperatore entro il termine di quattro mesi, a condizione che sarebbe salva la libertà. Prometteva la repubblica di pagare all'armata cinquanta mila scudi in danaro sonante, e trenta mila in cambiali; ed in compenso le truppe imperiali dovevano immediatamente allontanarsi. Dovevansi consegnare al commissario del papa le fortezze di Pisa, di Volterra e di Livorno. Per guarenzia del pagamento delle cambiali, della consegna delle fortezze e dell'ubbidienza del popolo a quel governo che gli darebbe l'imperatore, i Fiorentini dovevano dare nelle mani di Ferdinando Gonzaga cinquanta ostaggi a sua scelta. Finalmente a nome del papa e dell'imperatore veniva accordata un'amplissima amnistia, tanto a tutti i Fiorentini senza eccezione per tutto ciò che potessero avere fatto contro la casa dei Medici, quanto a tutti i sudditi dell'impero e della Chiesa che gli avevano serviti in tempo della guerra, portando le armi contro i loro abituali signori[89].
In conseguenza di questo trattato, che bentosto si rimase negli archivj, quale monumento della scandalosa mancanza di fede dei due sovrani, in nome de' quali era stato convenuto, tutti gli emigrati fiorentini ed i commissarj del papa rientrarono in città. Bartolomeo Valori fece occupare il 20 di agosto la piazza del palazzo da quattro compagnie di soldati corsi; costrinse in appresso la signoria a scendere sul balcone, e fece suonare la maggiore campana per adunare il popolo a parlamento. Appena si trovarono adunati nella piazza trecento cittadini; taluno di coloro che voleva andarvi per emettere per l'ultima volta un libero suffragio, venne respinto a colpi di pugnale[90]. Salvestro Aldobrandini volgendosi a questa irrisoria assemblea del popolo, gli domandò se acconsentiva, «che si creassero dodici uomini che avessero essi soli altrettanto d'autorità e di potere, quanto ne aveva tutt'insieme il popolo di Firenze.» Tre volte fu rinnovata questa domanda, e tre volte il popolaccio ed i fanciulli risposero: Sì! sì! le palle, le palle! (stemma dei Medici) i Medici! i Medici! Dopo questo preteso assenso popolare, furono dal commissario apostolico nominati dodici signori della balìa. Questi deposero la signoria, i dieci della guerra, gli otto della guardia e balìa, ossiano supremi giudici criminali. Fecero deporre le armi al popolo, e così la libertà fiorentina soggiacque per l'ultima volta. Avanti che spirasse l'autorità di costoro, lo stesso nome di repubblica venne annullato[91].
CAPITOLO CXXII.
Violazione della capitolazione di Firenze; persecuzione di tutti gli amici della libertà. Regno e morte di Alessandro de' Medici: successione di Cosimo I al titolo di duca di Firenze. Siena, oppressa dagli Spagnuoli, abbraccia il partito francese: assedio ed ultima capitolazione di questa città.
1530 = 1555. L'indipendenza dell'Italia, che aveva cominciato col XII secolo, e che era stata solennemente riconosciuta in forza delle vittorie della lega lombarda sopra Federico Barbarossa, cessò all'epoca del coronamento dell'imperatore Carlo V a Bologna, o a quella dell'occupazione di Firenze fatta da' generali imperiali in marzo o in agosto del 1530. Prima del dodicesimo secolo, l'Italia, rammentando ancora l'antica sua grandezza, sdegnavasi di essere ridotta in servitù dai vicini popoli. Credevasi meritevole di miglior sorte; ma pure ubbidiva. L'Italia faceva prima parte dell'impero de' Franchi, poi di quello della Germania. La sua sorte era regolata dalle passioni, dalla politica e dalle vittorie de' popoli d'oltremonti, dei quali essa non conosceva nemmeno il linguaggio. Tale tornò ad essere la sua situazione dal 1530 fino all'età nostra.
La libertà aveva dati all'Italia quattro secoli di grandezza e di gloria. In quei quattro secoli fece poche conquiste al di là de' naturali suoi confini; ma non pertanto assicurò a' suoi popoli il primo posto tra le nazioni dell'occidente. L'Italia mai non esercitò la sua potenza sugli stati limitrofi in modo di porre in pericolo la loro indipendenza; divisa in molti piccoli stati, le era assolutamente interdetta quest'ambiziosa carriera; ma quella stessa divisione, che gli toglieva ogni esterno dominio, aveva moltiplicati i suoi mezzi e sviluppato lo spirito ed il carattere in tutte le sue piccole capitali. In allora gl'Italiani non avevano d'uopo di conquiste per farsi conoscere come grande nazione. I Tedeschi, i Francesi, gl'Inglesi, gli Spagnuoli avevano e privilegj municipali, e feudatarj, e monarchi da difendere: soltanto gl'Italiani avevano una patria, e lo sentivano. Essi avevano rialzata l'umana natura degenerata, e dando a tutti gli uomini i diritti che all'uomo si convengono, e non privilegj, avevano essi i primi studiate le teorie de' governi, e dati agli altri popoli modelli di liberali instituzioni. Gl'Italiani avevano ridonate al mondo la filosofia, l'eloquenza, la storia, la poesia, l'architettura, la scultura, la pittura, la musica, ed avevano fatti far rapidi progressi al commercio, all'agricoltura, alla nautica, alle arti meccaniche; in una parola erano stati i precettori dell'Europa. Appena si potrebbe nominare una scienza, un'arte, una nozione qualunque, di cui non abbiano insegnati i principj ai popoli che dopo gli hanno superati[92]. Questa universalità di cognizioni aveva sviluppato il loro ingegno, il loro gusto, le loro maniere, e per lungo tempo conservarono quella civiltà anche dopo perduti tutti gli altri vantaggi; l'eleganza e la gentilezza sopravvissero all'antica dignità: ma questa n'era stato il fondamento, e durò quanto la libertà italiana. Tale fu la grandezza della nazione ne' tempi della sua gloria; e certo questa grandezza non aveva bisogno di vittorie per sostenersi.
Avanti il XII secolo alcuni piccoli principi italiani si credevano indipendenti, alcuni popoli poco numerosi si credevano liberi, e forse erano tali. Pure pei soli duchi di Spoleto o di Benevento, e per le repubbliche di Amalfi o di Napoli, non abbiamo creduto di dover cominciare la storia dell'Italia dalla caduta dell'impero romano in occidente; e parimenti non crediamo doverla continuare dopo la caduta di Firenze, pei duchi di Toscana o di Parma, e per le repubbliche di Venezia o di Genova.
In tutto il tempo che gl'Italiani furono veramente nazione, abbiamo cercato di raccogliere con iscrupolosa esattezza tutti i fatti che potevano dipingere il loro carattere, spiegarne la politica, far conoscere i motivi delle loro leggi, e risvegliare ne' loro discendenti istruttive memorie, o servire di specchio agli altri popoli liberi. Non abbiamo temuto di scendere a troppo minute particolarità; cotali particolarità non sono inutili, quando giovano a dipingere gli uomini. Non abbiamo inoltre temuto di mescolare alla nostra narrazione i principali avvenimenti degli altri paesi d'Europa; perciocchè l'influenza dell'Italia facevasi sentire sopra tutti, e non poteva intendersi la politica de' suoi stati senza volgere di quando in quando lo sguardo sulla Grecia, la Spagna, l'Ungheria, la Francia, la Turchia e la Germania. Abbiamo in appresso veduto l'abbassamento di quest'influenza italiana sopra le straniere contrade. Abbiamo veduta l'Italia, vittima a vicenda della falsa politica dei suoi capi, della mala fede degli oltremontani, della ferocia de' soldati mercenarj; guastata dalle armate, dalla peste e dalla fame pel corso di trentasette anni di quasi continue guerre; l'abbiamo veduta nell'estremo esaurimento. Siamo finalmente giunti all'epoca in cui cessò di esistere. Abbiamo osservato per l'ultima volta un imperatore di Germania venire in una chiesa italiana per ricevervi la corona d'oro dalle mani del papa; e questa cerimonia, diventata futile, più non si rinnovò dopo Carlo V. Nel 1530 egli aveva cominciato a regnare pel solo diritto della spada; egli più non aveva bisogno, per assumere il titolo d'imperatore, che un rappresentante dell'Italia sanzionasse la sua inaugurazione con un'autorità religiosa.
Da quest'epoca fino all'età nostra, otto in dieci principi continuarono in Italia a credersi sovrani, ma senza godere di veruna indipendenza, senza mai difendersi colle proprie forze, senza giammai esercitare sopra gli stranieri quell'influenza che gli stranieri esercitavano continuamente sopra di loro. Tre e se vogliamo ancora quattro repubbliche, comprendendovi San Marino, continuarono a respingere dal loro seno il potere di un solo, ma senza mantenere la loro libertà, senza conservare verun'ombra nè della sovranità del popolo, nè della guarenzia de' diritti e della sicurezza de' cittadini. D'allora in poi l'Italia altro non fu che un vasto museo, nel quale trovansi deposti sotto gli occhi de' curiosi i monumenti della morte. Più non si ebbe occasione di chiedere una sola volta a Vienna, a Madrid, a Parigi, a Londra cosa vorrebbero, cosa farebbero i principi ed i popoli d'Italia. I popoli avevano cessato di avere o di esprimere una volontà; ed i principi, distruggendo lo spirito vitale de' loro sudditi, si erano distrutti essi medesimi. L'Italia snervata più non parlava che alla memoria; e che l'interpellava intorno a ciò che aveva fatto in altri tempi, era certo ch'ella non si rianimerebbe mai più.
Non perciò abbandoneremo questi popoli, co' quali abbiamo, per così dire, vissuto tanto tempo, senza gettare un'ultima rapida occhiata sulla sorte che loro era riservata nella nuova organizzazione. Siccome ne' sei primi capitoli di quest'opera abbiamo corso lo spazio di sei secoli, e ci siamo appagati di fissare nella nostra memoria alcune date ed alcuni principali tratti, così speriamo che il nostro lettore indulgente ci vorrà permettere di concedere ancora pochi capitoli ai tre ultimi secoli, affinchè la nostra storia comprenda, sebbene in differentissime proporzioni, la prima fanciullezza, la virilità e la decrepitezza della nazione italiana.
La Toscana, che per così lungo tempo era stata la patria della libertà, a sè richiama i primi nostri sguardi. La storia di Firenze non sembra totalmente terminata colla capitolazione di questa città; finchè i cittadini, che si erano veduti animati da così ardente patriottismo, erano ancora vivi, finchè continuavano a lottare contro l'assoluto potere, la repubblica fiorentina esisteva tuttavia, almeno nella loro memoria, e noi dobbiamo ammirare i loro estremi sforzi. Essi seppero associare la loro causa a quella della libertà di Siena, e la caduta di quest'ultima repubblica merita altresì dal canto nostro qualche attenzione.
La repubblica fiorentina venne distrutta (1530) con forme repubblicane. Per creare una balìa si convocò un parlamento, e venne consultata una pretesa assemblea di tutto il popolo fiorentino. Si era chiesto a questo popolo di conferire la totalità del suo potere ai commissarj che dovevano riordinare la tirannide. Ciò era un riconoscere la sovranità del popolo, nell'istante medesimo in cui il popolo rinunciava per sempre a tale sovranità. Ma il parlamento fiorentino che creò la balìa del 1530 doveva essere l'ultimo; ed infatti fu in appresso ordinato di spezzare la campana che serviva ad adunarlo, onde più servire non potesse dinnanzi a tale uso[93].
Firenze fu per parecchj mesi governata in proprio nome dalla sola balìa, e non già a nome del papa o de' Medici. Ma era Clemente VII che aveva così voluto, affinchè i suoi commissarj, che in ogni cosa operavano soltanto dietro i suoi ordini e che aspettavano da Roma la decisione di tutti gli affari, non si credessero legati dalla capitolazione sottoscritta a nome suo da Bartolomeo Valori. Il papa e l'imperatore avevano promesso a Firenze libertà ed amnistia; ma Clemente pretendeva che se la repubblica voleva ella medesima mutare le sue leggi, e castigare i suoi cittadini, non poteva esserne impedita dalla capitolazione. Ed affinchè la balìa sembrasse ancora meglio rappresentare la repubblica, il papa volle che fosse formata da un corpo più numeroso, depositario della sovranità; perciò nel mese di ottobre fu eletta una seconda balìa di cento cinquanta individui, tra i quali trovavansi tutti i capi di quella parte dell'aristocrazia che si era mostrata affezionata a' Medici[94].
Allora cominciarono le vendette del papa e de' suoi partigiani. I più riputati membri dell'antico governo vennero assoggettati ad una rigorosa tortura; indi furono condannati a perdere la testa il Carducci, per lo addietro gonfaloniere, Bernardo di Castiglione, ed altri quattro di que' venerandi magistrati[95]. L'altro gonfaloniere, Raffaele Girolami, ottenne grazia della vita per l'intercessione di Ferdinando Gonzaga, ma venne chiuso nella cittadella di Pisa, ove poco dopo morì di veleno[96]. Il predicatore Benedetto da Fojano fu dato nelle mani del papa, e tradotto a Roma. Clemente, nell'atto di farlo imprigionare in castel sant'Angelo, ordinò che ogni giorno gli si diminuisse la razione di acqua e di pane, e con tal mezzo lo fece lentamente morire di fame. Frate Zaccaria, ch'era egualmente cercato, trovò modo di fuggire travestito da contadino. Riparossi a Ferrara, poi a Venezia, ed all'ultimo morì a Perugia, dov'erasi recato per gittarsi ai piedi di Clemente VII ed implorare perdono[97]. Una ventina di coloro che si credevano più compromessi si sottrassero al supplicio colla fuga. Infatti furono condannati a morte in contumacia, e confiscati vennero i loro beni. Cento cinquanta cittadini all'incirca furono relegati per tre anni in determinati luoghi, e d'ordinario a grandissima distanza dalla loro patria e dai loro affari; ma il nuovo governo, che invece di colpire tutti ad un tratto i suoi nemici diventava più severo di mano in mano che si andava rassodando nella sua autorità, desiderò bentosto un'occasione di condannare quei medesimi esiliati come ribelli, e di confiscarne i beni. Poichè que' miseri si furono conformati alla loro condanna con gravissimo dispendio, la balìa, passati i tre anni, li relegò in un altro esilio più incomodo del primo, e costrinse in tal guisa la maggior parte di loro a disubbidire[98].
Pareva che la repubblica esistesse ancora; un corpo aristocratico assai numeroso sembrava investito della sovranità; il papa, che non aveva voluto mandare a Firenze niuno della sua famiglia, e che fingeva di non esercitarvi la più assoluta autorità, onde non essere risponsabile de' supplicj che ordinava, lasciava agire Bartolomeo Valori, lo storico Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e Roberto Acciajuoli. Questi parevano i capi della repubblica, e questi versarono il sangue e confiscarono le sostanze de' più virtuosi cittadini; questi condannarono a perpetuo esilio coloro che mostravano di risparmiare; questi con arbitrarie tasse ruinarono tutti coloro ch'eransi fatti conoscere affezionati alla libertà; questi fecero restituire senza verun compenso tutti i beni patrimoniali o ecclesiastici venduti d'ordine della giustizia; questi fecero disarmare il popolo, promulgando le più severe pene contro qualunque ritenesse armi, e questi finalmente furono coloro che per conservare la propria autorità col terrore, assoldarono due mila de' Landsknecht che avevano assediata Firenze[99].
Ma Clemente VII che riponeva ogni fiducia nello zelo de' capi di partito per vendicarsi, non ignorava che non sarebbero poi egualmente proclivi ad eseguire i suoi ulteriori progetti, ed a mutare la costituzione della loro patria, per farne un'assoluta sovranità a favore di uno de' suoi nipoti. Aveva perciò mandato Alessandro de' Medici in Germania ed in Fiandra alla corte di Carlo V, per sollecitare l'imperatore a regolare il governo di Firenze a norma delle facoltà conferitegli dalla capitolazione. Sebbene l'imperatore avesse promessa ad Alessandro la sua figlia naturale, era ben lontano dal corrispondere all'impazienza del papa. Aveva non solo lasciati decorrere i quattro mesi fissati dalla capitolazione, ma quasi un anno intero, prima di rimandare a Firenze Alessandro dei Medici, che di già portava il titolo di duca di Cività di Penna. Questo giovane signore fece il suo ingresso soltanto il 5 di luglio del 1531; e nel susseguente giorno Giovan Antonio Mussetola, ambasciatore di Carlo V, comunicò alla signoria ed alla balìa il decreto sottoscritto dall'imperatore in Augusta il 21 ottobre del precedente anno, col quale rimetteva i Fiorentini nel possedimento degli antichi loro privilegj, a condizione che riconoscerebbero per capo della repubblica Alessandro de' Medici, e dopo di lui i suoi figliuoli, ed in loro mancanza il più attempato degli altri Medici, e ciò a perpetuità, e per ordine di primogenitura[100].
Sembrava che il decreto d'Augusta non sovvertisse interamente lo stato; perciocchè apparentemente esso conservava tuttavia la libertà e la riforma repubblicana. Il decreto imperiale non accordava alla casa de' Medici che le prerogative di cui godeva avanti il 1527, trasmutandole in diritti, ed assicurava al duca Alessandro ventimila fiorini d'oro di pensione, invece di lasciare in di lui arbitrio tutte le entrate dello stato. Ma Clemente VII non si accontentava di questa limitata autorità, e non erano del tutto tranquilli coloro che lo avevano servito nelle sue vendette. Sapevano costoro di essere l'oggetto dell'odio, non già di una fazione, ma di tutti i proprj concittadini, e temevano di essere di bel nuovo cacciati da Firenze alla morte del papa, o quando accadesse la prima rivoluzione d'Italia. Il Guicciardini, interpellato da Clemente VII, rispose non essere possibile che il governo acquistasse veruna popolarità; che altro mezzo non gli rimaneva per minorare l'odio pubblico che quello di darsi dei compagni; che doveva meno pensare a formarsi de' partigiani fra gli uomini ricchi e versati negli affari, che a comprometterli con tutto il popolo, affinchè, come il governo medesimo, e come quelli che avevano tenute le di lui stesse direzioni, costoro ancora si persuadessero non esservi per loro salvezza che nel mantenimento della casa de' Medici. Dietro questi principj si apparecchiò una nuova rivoluzione[101].
Il papa, disponendo ed ordinando ogni cosa, volle ancora che i cittadini fiorentini che di que' tempi governavano, si addossassero soli la responsabilità del nuovo cambiamento. Mandò il suo piano bello e fatto da Roma, ma ne commise l'esecuzione a Bartolomeo Valori, al Guicciardini, a Francesco Vettori, a Filippo de' Nerli ed a Filippo Strozzi. Non ignorando quest'ultimo di essere l'oggetto della diffidenza e del segreto odio di Clemente VII, cercava di ricuperare la di lui grazia, eseguendo i di lui voleri con maggiore zelo che tutti gli altri[102].
Questi confidenti del papa forzarono in certo qual modo la balìa ad ordinare, il 4 aprile del 1532, la creazione di un comitato di dodici cittadini incaricati della riformagione del governo dello stato e della città di Firenze; dello stato e della città dissero, conciossiachè d'allora in poi si cessò di pronunciare il nome di repubblica. Fu accordato loro il termine di un mese per terminare questo lavoro; ma perchè tutto era stato preventivamente apparecchiato dal papa, questi commissarj furono a portata di pubblicarlo ancora più presto[103].
La nuova costituzione venne pubblicata il 27 di aprile del 1532. Questa sopprimeva il gonfaloniere di giustizia e la signoria, e vietava per sempre il ristabilimento di tale magistratura, ch'erasi con tanta gloria mantenuta dugento cinquant'anni. Dichiarava Alessandro dei Medici capo e principe dello stato, col titolo di doge, ossia duca della repubblica fiorentina, trasmissibile a perpetuità ai suoi discendenti per ordine di primogenitura, e stabiliva due consiglj vitalizj per dividere con lui le cure del governo. Uno, chiamato i dugento, comprendeva tutti gli attuali membri della grande balìa e quasi un centinajo d'altre persone, delle quali Alessandro si era riservata la nomina; l'altro, detto il senato, doveva essere composto di quarantotto membri scelti fra i dugento dell'altro consiglio, che avessero oltrepassati i trentasei anni. Quattro consiglieri eletti ogni tre mesi, ogni volta da un quarto del senato, dovevano tener luogo della signoria nelle onorifiche sue funzioni; il gonfaloniere o per meglio dire tutta la repubblica dovea venire rappresentata dal doge o dal suo luogotenente. Il doge solo od il suo luogotenente, potevano proporre progetti alla deliberazione dei consiglj, e niun progetto poteva avere forza di legge senza il loro formale assentimento; i nuovi consiglj non diedero un solo esempio di una proposizione del principe, che non fosse con servile sollecitudine sanzionata[104].
Alessandro de' Medici fu tale quale doveva essere un principe posto sul trono da straniere armate, contro il voto di tutti i suoi concittadini, dopo una guerra che aveva affatto ruinata ed umiliata la sua patria. Diffidando di tutti, e sforzandosi di ottenere col terrore ciò che sperare non poteva dall'amore, si circondò di stranieri soldati, capitano dei quali creò Alessandro Vitelli di Città di Castello, perchè lo conosceva irritato contro i Fiorentini e lo stato popolare, che aveva fatto morire il di lui padre Paolo Vitelli. Afforzò in riva all'Arno un bastione che poteva servirgli di rifugio in caso d'insurrezione popolare; ma non credendosi con ciò abbastanza sicuro, il 1.º giugno del 1534, fece porre i fondamenti di una fortezza nel luogo in cui trovavasi la porta di Faenza, e vi fece lavorare con tanta attività che prima che terminasse l'anno fu messa in istato di difesa. Alessandro assecondò vigorosamente la disposizione data dai commissarj per disarmare i cittadini, e pronunciava la pena di morte e la confisca dei beni contro coloro nelle di cui case si trovavano armi: nello stesso tempo aveva formata una milizia di sudditi della repubblica, armandola ed accordandole privilegj, onde tenere in dovere gli antichi sovrani col timore de' loro antichi vassalli[105].
I soldati d'Alessandro tutto credevano permesso al loro libertinaggio ed all'avarizia loro; e non eravi oltraggio, pel quale i cittadini chiedessero giustizia, che venisse mai punito in verun militare, nè in veruno ufficiale o servitore della casa del duca. Pareva che questi mirasse continuamente ad umiliare i suoi compatriotti, paragonandoli sempre agli stranieri. Aveva successivamente offesi quasi tutti coloro che gli si erano mostrati più affezionati; i capi di quelle grandi famiglie che avevano diretta la fazione de' Medici, e che in tempo dell'assedio avevano portate le armi contro la loro patria, di bel nuovo abbandonata avevano quella patria, dove più non potevano vivere sotto il tiranno ch'essi medesimi le avevano dato. Francesco Guicciardini, che Clemente VII aveva nominato governatore di Bologna, non provava ancora il dolore di ubbidire dove aveva comandato; ma Bartolomeo Valori, sebbene governatore della Romagna a nome del papa, non si poteva dar pace della parte avuta nella rivoluzione, e della schiavitù in cui egli medesimo erasi ridotto. Filippo Strozzi, malgrado tutti i suoi sforzi per guadagnarsi la benevolenza del duca, lo sapeva geloso delle smoderate sue ricchezze, e sempre apparecchiato ad offenderlo; perciò in occasione del matrimonio di Catarina dei Medici col duca d'Orleans, nel 1533, recossi alla corte di Francia, e nel susseguente anno vi chiamò pure la sua numerosa famiglia. Tutti i cardinali fiorentini, che in allora erano quattro, si erano uniti ai nemici di Alessandro; ma di tutti il più caldo era Ippolito de' Medici, di lui cugino, il quale risguardandosi come più onoratamente nato di Alessandro, e di età maggiore, non sapeva darsi pace che si fossero concesse ad un bastardo d'incerto padre e di madre infame quelle prerogative di cui aveva egli stesso goduto alcun tempo, ed alle quali sapevasi pure chiamato dall'amore de' suoi concittadini[106].
Infatti la stessa madre di Alessandro non sapeva se fosse figliuolo di Lorenzo duca d'Urbino, di Clemente VII, o di un mulattiere. Nel primo caso sarebbe stato fratello germano di Catarina dei Medici, unica figliuola di Lorenzo e di Maddalena della Torre d'Alvergna, cui Clemente VII aveva procurato un collocamento al di là delle sue speranze. Clemente, incerto nella sua politica ed instabile nelle sue alleanze, si era ravvicinato alla Francia; era stato a Nizza per abboccarsi con Francesco I; era di là passato a Marsiglia; ed all'ultimo aveva maritata Catarina, il 27 ottobre del 1533, con Enrico d'Orleans, secondogenito di Francesco I, cui quest'Enrico successe nel trono di Francia[107]. La pace durava tuttavia tra Francesco e Carlo V; e Clemente VII, alleandosi colla Francia, non si era perciò dichiarato contro l'imperatore, dal quale conoscevasi dipendente: il matrimonio del suo prediletto Alessandro colla figlia naturale di Carlo V, sebbene da gran tempo convenuto, non si eseguiva ancora a motivo della tenera età di Margarita d'Austria, ed il papa non voleva esporsi a farlo rompere: sapeva che Alessandro non troverebbe verun appoggio in Catarina, che lo detestava come tutti i suoi parenti; ma più Alessandro aveva nemici e più Clemente VII gli si affezionava: rallegravasi vedendo questo giovane esercitare le proprie vendette, lo dirigeva, approvava tutti gli atti del governo di lui, e lo copriva col manto di una protezione che sapeva dovergli in breve mancare, perciocchè in giugno del 1534 Clemente VII era stato sorpreso da lenta febbre, della quale morì il 25 di settembre dello stesso anno, lasciando il suo protetto esposto agli attacchi de' molti nemici che s'era procacciati[108].
Da principio Clemente VII aveva avuto intenzione di far continuare ogni sei mesi le liste di proscrizione in occasione che si rinnovava il tribunale degli otto di balìa, e ne fu soltanto impedito dalle grida che contro di lui s'innalzarono in tutta l'Europa[109]. Pure infinito era di già il numero degli esiliati e degli emigrati fiorentini; e quando Clemente intimò al duca di Ferrara di cacciarli da' suoi stati, eransene trovati in quella sola provincia più di trecento[110]. Il loro partito si fece ancora più formidabile dopo la morte del papa. Paolo III, della casa Farnese, che gli successe, favoreggiava tutti i nemici di Clemente e della memoria di lui; e con ciò aveva incoraggiati i cardinali fiorentini a dichiararsi più scopertamente.
Il cardinale Ippolito de' Medici aspirava alla gloria di restituire la libertà alla sua patria. Gli Strozzi, ch'erano i più ricchi privati d'Europa, i Valori, i Ridolfi, i Salviati, che nell'ultima guerra si erano dichiarati tutti per la fazione dei Medici, eransi adunati in Roma per trovare i mezzi di rovesciare il tiranno. Tutti gli altri fuorusciti, avendoli raggiunti, vennero formando fra di loro una specie di governo, e spedirono in Ispagna all'imperatore tre de' principali cittadini di Firenze, per impetrare che privasse della sua protezione un principe, la di cui crudeltà, dissolutezza e perfidia non potevano paragonarsi che a quelle di un Falaride o di quei pochi altri famosi mostri dell'antichità, e per riclamare l'osservanza della capitolazione di Firenze[111].
Carlo V, maravigliato delle orribili ingiustizie, delle atroci crudeltà, degli assassinj, degl'imprigionamenti infiniti che udiva imputarsi ad Alessandro, promise di esaminare la di lui condotta, quand'egli stesso tornerebbe dalla sua spedizione di Tunisi. Infatti, mentre riposavasi in Napoli dalle fatiche sostenute in quell'impresa, gli emigrati fiorentini gli deputarono il cardinale Ippolito dei Medici per terminare d'illuminarlo intorno alla condotta di Alessandro; ma Alessandro aveva prese le opportune misure per disfarsi del suo antagonista. Il cardinale giunto ad Itri, in sulla strada da Roma a Napoli, fu avvelenato il giorno 10 d'agosto dal suo coppiere, e morì dopo tredici ore di atroci tormenti. Morirono all'indomani, vittime dello stesso veleno, Dante di Castiglione e Berlinghiero Berlinghieri che lo accompagnavano: ma il duca non riuscì a fare assassinare Filippo Strozzi, sebbene lo avesse più volte tentato, e furono egualmente scoperte le insidie che tendeva agli altri suoi nemici[112].
La morte d'Ippolito, liberando Alessandro dal suo più formidabile nemico, aggiugneva non pertanto una nuova macchia alla sua riputazione. Infami erano i suoi costumi, viziose tutte le sue abitudini; e perchè aveva riempita tutta l'Europa dei suoi nemici, i suoi delitti venivano dovunque predicati. Gli era stata promessa la figlia dell'imperatore; ma essa non gli era per anco stata data, e dacchè il suo parentado non era più un'arra dell'alleanza della Chiesa, poteva temere che Carlo V non cogliesse con piacere un plausibile pretesto di rompere i progettati sponsali, e per disporre del suo stato a favore di un altro. Ma Carlo nudriva un inveterato odio contro le repubbliche, e contro le pretese dei popoli alla libertà; diffidava principalmente dei Fiorentini che sapeva da tanto tempo attaccati alla Francia, colla quale stava per ricominciare la guerra; ed Alessandro, fidato a questa parzialità, passò a Napoli, per perorare personalmente la sua causa alla corte dell'imperatore[113].
Il duca aveva saputo riguadagnare al suo partito Bartolomeo Valori, che seco condusse a Napoli, come pure Francesco Guicciardini, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi. Anche gli emigrati si erano nello stesso tempo recati a Napoli, e tra gli altri vi si trovavano Filippo Strozzi co' suoi figliuoli, i cardinali Salviati e Ridolfi, ed i loro fratelli, tutti prossimi parenti di coloro che tenevano le parti del duca. La città e la corte erano pieni di Fiorentini de' due partiti, e quelli che stavano per la libertà della loro patria sembravano favorevolmente accolti dai ministri dell'imperatore. Furono invitati a presentare in iscritto le loro accuse, e Filippo Parenti, e dopo di lui lo storico Jacopo Nardi, lo fecero con molta forza, dando circostanziate prove de' varj delitti di Alessandro, e delle spaventose estorsioni colle quali ruinava la Toscana. Francesco Guicciardini prese a confutare queste scritture articolo per articolo, ed accrebbe in tal guisa verso di sè medesimo l'odio popolare, cui di già si lagnava di vedersi esposto. Finalmente l'imperatore pronunciò in febbrajo del 1536 la sentenza che gli veniva chiesta. Tutti gli esiliati ed emigrati fiorentini dovevano, secondo il suo rescritto, essere richiamati in patria, rimessi nel possedimento de' loro beni, e guarentiti nelle persone; ma non si dava verun provvedimento intorno alla costituzione dello stato, nè si accordava al popolo verun privilegio[114].
In allora tutti gli emigrati fiorentini, sebbene molti sentissero di già il peso per sua guarenzia della miseria, si riunirono per ricusare un compromesso che tendeva soltanto a salvare le loro persone, e sagrificava la patria loro. La loro risposta, una delle più nobili che si conservino negli archivj della diplomazia, cominciava con queste parole: «Non siamo qui venuti per chiedere alla imperiale maestà sotto quali condizioni dobbiamo servire il duca Alessandro, nè per ottenere il di lui perdono, dopo avere volontariamente, con giustizia, e secondo il dover nostro, lavorato per mantenere o ricuperare la libertà della nostra patria. Non l'abbiamo invocata per ritornare schiavi in una città, dalla quale siamo usciti poc'anzi liberi, nè per riavere i nostri beni. Ma siamo ricorsi all'imperiale maestà, affidati alla di lei bontà e giustizia, affinchè si degnasse di restituirci quell'intera e verace libertà, che gli agenti e ministri di lei si obbligarono a conservarci nel trattato del 1530.... Altra cosa non sappiamo dunque rispondere al decreto che ci fu rimesso per parte di sua maestà, se non che siamo tutti determinati di vivere e di morire liberi, quali siamo nati, e che nuovamente supplichiamo sua maestà di sottrarre questa sventurata città al giogo crudele che l'opprime....[115].»
Francesco Sforza, duca di Milano, era morto il 24 ottobre del 1535. Suo fratello naturale, Giovanni Paolo Sforza, marchese di Caravaggio, che aveva qualche pretesa alla successione, perchè nelle investiture vi era stato chiamato in mancanza della linea legittima, fu avvelenato mentre passava per Firenze in poste, onde recarsi alla corte dell'imperatore; la di lui morte risolse a favore della casa d'Austria una lite assai difficile. Stava per ricominciare tra l'Austria e la Francia una furiosa guerra: il duca Alessandro prometteva danaro, e non era dubbiosa la di lui fedeltà, mentre la repubblica fiorentina, se fosse stata ripristinata, non avrebbe tardato ad ascoltare l'antica sua inclinazione verso la Francia. Carlo V non fu più incerto tra le due parti: il 28 di febbraio maritò sua figlia naturale, Margarita d'Austria, al duca Alessandro, ed in contraccambio ricevette da lui una ragguardevole somma di danaro; e rimandandolo più potente, che prima non era, ne' suoi stati. Il matrimonio d'Alessandro, fu per la seconda volta festeggiato in Firenze il 13 giugno del 1536[116].
Erano pochi mesi passati dopo la celebrazione di questo matrimonio, ed Alessandro era vissuto nelle abituali sue dissolutezze, portando alternativamente il libertinaggio ed il disonore ne' conventi e nelle più nobili case di Firenze, quando fu assassinato il 6 di gennajo del 1537, da un uomo che aveva saputo guadagnarsi la sua confidenza. Era costui Lorenzino de' Medici, suo cugino, primogenito del ramo cadetto di questa casa, e quegli stesso che il rescritto imperiale chiamava successore di Alessandro, qualora questi mancasse senza figli. Lorenzino, assai più stimato pel suo raro ingegno e pel suo gusto pelle lettere che pei suoi costumi o pel suo carattere, era vissuto ne' piaceri, ed aveva servito da vile adulatore il duca Alessandro ne' di lui impudici amori. Lo aveva ajutato a sedurre parecchie nobili donne, e spesso prestava la propria casa attigua a quella del duca, in Via larga, pel loro abboccamento. Gli promise di condurgli la consorte stessa di Lionardo Ginori, sorella di sua propria madre, ma di questa assai più giovane. La bellezza della dama aveva già da lungo tempo ferito il duca, fin allora respinto dalle di lei virtù. Dopo cena lo stesso giorno dell'Epifania, in cui comincia il carnovale, Lorenzino avvisò il duca, che, se voleva trovarsi in sua casa affatto solo, e mantenendo il più profondo segreto, vi troverebbe sua zia Catarina Ginori. Alessandro accettò l'abboccamento, allontanò tutte le sue guardie, si tolse di vista a tutti coloro che potevano osservarlo, ed entrò senza che veruno lo vedesse nella casa di Lorenzino. Trovavasi affaticato, e voleva riposare; ma prima di gettarsi sul letto, si discinse la spada, e Lorenzino prendendola dalle sue mani per attaccarla alla spalliera del letto, fece passare il cinturone intorno all'elsa in maniera che non fosse facile il poterla sguainare. Uscì in appresso, dicendogli di riposarsi intanto ch'egli andava in cerca della zia, e lo chiuse sotto chiave. Tornò un istante dopo con un sicario, chiamato per soprannome Scoronconcolo, ch'egli aveva preventivamente appostato, dicendogli di volersi servire di lui per disfarsi di un ragguardevole personaggio di corte, che non nominò; conciossiachè Lorenzino era giunto fino all'estremo momento dell'esecuzione senza manifestare a veruno il proprio segreto.
Entrando pel primo nella camera, Lorenzino disse al duca: Signore, dormite? e nello stesso tempo lo passò da banda a banda con una spada corta che teneva in mano. Alessandro, quantunque mortalmente ferito, tentò di lottare contro il suo uccisore; ma Lorenzino, per impedirgli di gridare, nell'atto di dirgli, signore, non abbiate paura, gli cacciò due dita in bocca. Alessandro lo morse con quanto aveva di forza, rotolandosi sul letto con Lorenzino, che teneva strettamente abbracciato. Scoronconcolo, non potendo ferire l'uno senza pericolo di ferire anche l'altro, cercava di giugnere Alessandro tra le gambe di Lorenzino, mentre si dibattevano; ma tutti i suoi colpi si perdevano ne' materassi. All'ultimo si ricordò di avere un coltello in tasca, e cacciandolo nella gola del duca, lo uccise[117].
Lorenzino era ben sicuro che per quanto si gridasse nel suo appartamento, niuno si accosterebbe a chiederne la cagione, essendo i suoi servitori a ciò accostumati. Niuno sapeva il suo segreto; egli aveva più ore di vantaggio, nelle quali non sarebbe da chicchessia fatta inchiesta del duca, nè avvertita la di lui mancanza; ora d'altro più non si trattava che di raccogliere i frutti della congiura da lui condotta a fine con tanta destrezza e così segretamente. Ma Lorenzino colla precedente sua vita aveva eccitata la diffidenza di tutte le persone dabbene; non aveva amici cui chiedere consiglio o assistenza; non aveva partigiani; non aveva mai dato indizio di quello zelo di libertà che affettò in appresso, e che forse non era che un mascherato eroismo. Sebbene fosse il primo de' Medici nella linea della successione, niuno a lui pensava, o perchè non dubitavasi che Alessandro, giovane vigoroso e di fresco ammogliato, non dovesse aver prole, o perchè non risguardavasi lo stato monarchico come abbastanza solidamente stabilito per supporre che la successione fosse per passare in un ramo lontano. Egli era agitato dall'azione commessa, dal timore di Scoronconcolo suo complice, e forse ancora dal dolore cagionatogli dalla sua mano violentemente morsicata da Alessandro. Altronde egli suppose distrutto il presente governo dalla morte del tiranno, il quale non aveva figliuoli, nè fratelli pronti a succedergli; egli stesso era il più prossimo erede, e non poteva nemmeno prevedere a qual persona il partito de' Medici potesse deferire l'autorità monarchica. Ad altro adunque più non pensò che a porsi egli stesso in salvo pei primi momenti di effervescenza, ed a riunire gli emigrati che dovevano raccogliere il frutto del suo ardire. Chiuse la porta della sua camera, e ne portò seco la chiave; poi, facendosi dare un ordine perchè gli si aprissero le porte della città e gli si somministrassero cavalli di posta, sotto pretesto che aveva avuto avviso della malattia di suo fratello in villa, partì subito alla volta di Bologna, e di là per Venezia con Scoronconcolo[118].
Lorenzino raccontò a Salvestro Aldobrandini a Bologna, ed a Filippo Strozzi a Venezia, d'avere dato morte al tiranno. Il primo non volle credergli, l'altro rimase lungamente incerto, ed all'ultimo, dandogli fede, lo chiamò il Bruto di Firenze, e gli promise che i due suoi figliuoli sposerebbero le due sorelle di Lorenzino. Ad ogni modo la dissimulazione del nuovo Bruto, che venne in allora celebrato dai poeti e dagli oratori di tutta l'Italia, non ebbe i felici risultamenti di quella del primo. Il senato, ch'era stato creato per secondare Alessandro, non aveva verun motivo di essere contento del governo del duca; ma quanto più violenta e crudele era stata la rivoluzione che lo aveva stabilito, tanto più coloro che vi avevano contribuito temevano il ritorno e le vendette degli emigrati. Il cardinale Cibo, principale ministro d'Alessandro, fu il primo ad essere informato che il duca non si trovava nel suo appartamento, che quella notte non si era veduto tornare, e che non sapevasi dove si trovasse. La subita partenza di Lorenzino, della quale ebbe poco dopo notizia, gli fece sospettare l'accaduto; ma sebbene il popolo fosse disarmato e spaventato dalla fortezza eretta dal duca, nutriva tanto odio verso i Medici e verso tutti i loto agenti, che si doveva temere una sollevazione nell'istante che sarebbe pubblicata la morte del duca. Il cardinale Cibo fece dire a tutti i cortigiani che venivano a palazzo, che il duca riposava ancora, perchè aveva vegliato tutta la notte. Nello stesso tempo mandò un corriere ad Alessandro Vitelli, comandante della guardia, per affrettarlo a tornare all'istante con tutti i soldati che potrebbe adunare, perciocchè Lorenzino aveva scelta per l'esecuzione del suo progetto la circostanza in cui il Vitelli erasi recato a città di Castello. Il Cibo fece pure avvisare tutti i comandanti di piazza, tutti i capitani d'ordinanza, di tenersi pronti; e non fu che nella notte del 7 all'8 gennajo, ch'egli ebbe coraggio di far aprire col più profondo segreto l'appartamento di Lorenzino, ove trovò il duca giacente nel proprio sangue[119].
Lorenzino de' Medici aveva bensì fatto dare notizia della morte del duca ad alcuni patriotti fiorentini; ma o questi non l'avevano creduta, o non avevano osato promulgare un così pericoloso segreto. Quando finalmente cominciava questo segreto a divulgarsi tra il popolo, si vide giugnere in poste Alessandro Vitelli, il lunedì mattina, 8 di gennajo, e tutti i luoghi forti della città, ed i capi strada principali, munirsi di soldati e di artiglieria. La difficoltà di tirare vantaggio da un avvenimento di cui tutti si rallegravano, ma di cui veruno non osava per anco tenersi sicuro, andava di mano in mano crescendo. Frattanto i quarantotto senatori si adunarono nel palazzo de' Medici sotto la presidenza del cardinale Cibo. Uno di loro, Domenico Canigiani, propose di deferire la dignità a Giulio, figlio naturale, ancora nell'infanzia, di Alessandro; Francesco Guicciardini propose per capo della repubblica Cosimo, figlio di Giovanni, l'illustre capitano delle bande nere. Questo giovinetto, ignorando ciò che accadeva, trovavasi in allora nella sua villa di Trebbio in Mugello, lontana quindici miglia da Firenze. Ma Palla Rucellai si oppose sdegnosamente a queste due proposizioni. Poichè la provvidenza, disse egli, ci ha liberati da un odioso tiranno, consolidiamo questa libertà che il cielo ci accorda, e rendiamo alla repubblica l'antica sua costituzione: soprattutto non adottiamo veruna risoluzione, mentre tanti nobili cittadini esiliati o emigrati, i quali hanno i medesimi diritti di noi alla sorte della patria comune, si trovano lontani[120].
La maggior parte de' senatori stavano per l'opinione del Rucellai, ma tremavano tuttavia innanzi ai quattro uomini che avevano avuta la maggiore influenza nell'ultimo governo; e questi, cioè Francesco Vettori, il Guicciardini, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi, credevano di non potersi con altro mezzo salvare dall'odio dei loro concittadini, che innalzando un nuovo principe in luogo di quello ch'era perito. Rappresentarono ai senatori tuttociò che l'oligarchia aveva a temere dall'indignazione del popolo, e dalle vendette degli emigrati; e non potendo condurli ad una più precisa risoluzione, li persuasero almeno a deferire per tre giorni piena autorità al cardinale Cibo, il quale, essendo figliuolo di una sorella di Leon X, poteva essere risguardato quale rappresentante della casa de' Medici, sebbene non fosse fiorentino[121].
Ma questa risoluzione non bastava a contentare il Guicciardini ed i suoi compagni: sapevano essi che la fazione repubblicana teneva dal canto suo segrete adunanze, pensavano che una più lunga irrisoluzione poteva ruinare la loro fazione, e tennero di notte un segreto comitato, cui furono presenti, oltre i quattro capi del partito, il cardinale Cibo, Alessandro Vitelli, comandante della guardia, ed il giovane Cosimo de' Medici, che sollecitamente era giunto da Trebbio per cogliere l'occasione che gli veniva dalla fortuna offerta. Convennero di adunare nuovamente all'indomani mattina il senato, e di persuaderlo ad eleggere Cosimo de' Medici non in qualità di duca, ma come capo e governatore della repubblica fiorentina, con limitati poteri, adoperando, ove il bisogno lo richiedesse, la forza per affrettare la risoluzione de' senatori. Infatti, mentre questi, il martedì 9 di gennajo del 1537, tenevansi ancora titubanti di accettare e sanzionare le condizioni che Francesco Guicciardini aveva scritte, Alessandro Vitelli, che aveva fatta empire tutta la strada di soldati, fece risuonare le grida di viva il duca ed i Medici! e avvisò i senatori di affrettarsi, perchè più non si potevano contenere i soldati. In tal guisa si risolse in senato l'elezione di Cosimo I con grande maggiorità di voti[122].
Cosimo de' Medici, figliuolo di Giovanni, che era egli medesimo pronipote di Lorenzo, fratello del vecchio Cosimo, aveva concetto di lentezza e di timidità. Il Guicciardini, che aveva avuta la principale parte nell'elezione di lui, tenevasi sicuro di governare questo giovane privo di esperienza, e che supponeva non avere inclinazione che per la caccia e per la pesca. Aveva fatto ristringere a dodici mila scudi il trattamento annuale del duca, mentre credevasi diventato egli stesso il vero sovrano di Firenze. Ma niun giovane più di Cosimo de' Medici seppe ingannare l'universale aspettazione: sotto il suo contegno taciturno e riservato nascondeva la più sospettosa gelosia del potere, la più smisurata ambizione, la più profonda dissimulazione; colui che tutti speravano di governare, non ebbe confidenti, e non volle ricevere consiglj da veruno[123].
I tre cardinali fiorentini, Salviati, Ridolfi e Gaddi, quand'ebbero avviso di quest'elezione, partirono subito da Roma alla volta di Firenze con due mila uomini di truppe levate a loro spese. Bartolomeo Valori, che aveva abbandonato il duca Alessandro nel suo ritorno da Napoli, e che dopo tale epoca erasi associato agli emigrati, accompagnò i cardinali con moltissimi fuorusciti. Dal canto suo Filippo Strozzi erasi da Venezia recato a Bologna, e vi assoldava truppe. Il più piccolo attacco poteva bastare a rovesciare il nuovo governo; ma perchè i figliuoli dello Strozzi avevano preso servizio in Francia, e perchè gli emigrati speravano di già ajuti da questa corona, i generali dell'imperatore si affrettarono di dare assistenza a Cosimo, facendo passare in Toscana due mila Spagnuoli in allora sbarcati a Lerici. Frattanto il duca di Firenze aveva dirette ai cardinali le più rispettose proteste coll'invito di rientrare senz'armi nella loro patria, accertandoli del suo desiderio di uniformarsi in ogni cosa alle loro volontà. Il cardinale Salviati, riconosciuto dagli altri prelati e da tutti gli emigrati per loro capo, era fratello della madre di Cosimo; e questa stretta parentela pareva che dovesse agevolare le negoziazioni. Gli emigrati acconsentirono a licenziare le loro truppe; entrarono in Firenze con doppio salvacondotto di Cosimo de' Medici e di Alessandro Vitelli; ma non tardarono ad accorgersi di essere stati ingannati, perciocchè le truppe spagnuole, che, secondo le promesse di Cosimo, dovevano essere rimandate nello stesso tempo che le loro, si andavano invece sempre più avvicinando a Firenze, che la cittadella era stata occupata per sorpresa da Alessandro Vitelli ed era guardata a nome dell'imperatore, che non si accordavano loro le condizioni che si erano fatte loro sperare, finalmente che il Vitelli cominciava a farli minacciare da' suoi soldati: perciò tutti si ritirarono di bel nuovo precipitosamente il 1.º di febbrajo dopo la breve dimora in Firenze di nove giorni. E perchè il cardinale Salviati, credendo di non avere che temere da suo nipote, era rimasto in città dopo di loro, Alessandro Vitelli fece circondare la di lui casa da' suoi soldati, e minacciandolo di farlo tagliare a pezzi, lo costrinse a fuggire[124].
L'imprudenza ed i replicati falli di coloro che gli emigrati avevano riconosciuti per loro capi, perchè erano i soli del partito che fossero abbastanza ricchi per fare la guerra col loro privato peculio, contribuivano a consolidare il governo di Cosimo I. Cotale governo acquistò maggiore stabilità per la venuta di Ferdinando di Silva, conte di Sifonte, ambasciatore dell'imperatore, il quale in un'adunanza del senato del 21 giugno produsse una bolla imperiale del 28 di febbrajo, colla quale Cosimo de' Medici veniva dichiarato legittimo successore di Alessandro nel principato di Firenze, mentre che Lorenzino, il fratello di lui, e tutti i discendenti di Pier Francesco, venivano per sempre privati del loro diritto all'eredità a motivo dell'uccisione dell'ultimo principe. Vero è che questa sentenza attaccava crudelmente l'indipendenza dello stato fiorentino, ed era inoltre accompagnata da condizioni ancora più contrarie agli antichi diritti della repubblica. Le fortezze di Firenze e di Livorno ricevettero guarnigione imperiale, e non furono restituite al sovrano della Toscana che nel 1543[125].
Non però per questo gli emigrati avevano deposta la speranza di rovesciare colla forza il governo di Cosimo I. Dopo essere rimasti perdenti colle truppe assoldate a loro spese, ricorsero all'assistenza della Francia. Era scoppiata la guerra tra Carlo V e Francesco I, senza che le armate dell'ultimo avessero potuto penetrare al di qua del Piemonte. Ma il conte della Mirandola si era conservato sotto la protezione della Francia; aveva aperta ai Francesi la sua fortezza, e questi tentavano tuttavia di ricuperare presso gli stati d'Italia quell'opinione di cui avevano goduto nell'ultima guerra. Perciò alla Mirandola col danaro di Francesco I e con quello di Filippo Strozzi gli emigrati assoldarono in principio di luglio quattro mila fanti e trecento cavalli sotto gli ordini di Pietro Strozzi, primogenito di Filippo, di Bernardo Salviati, priore di Roma e di Capino di Mantova[126].
Tutta la provincia di Pistoja era in aperta insurrezione; le antiche fazioni de' Panciatichi e de' Cancellieri avevano ricominciato ad attaccarsi con furore. Uno de' capi de' Panciatichi, Niccolò Bracciolini, offrì a Filippo Strozzi di dargli in mano Pistoja, che dipendeva quasi totalmente da lui; egli lo tradiva ed era fin allora d'accordo con Alessandro Vitelli; pure riuscì ad ispirare tanta confidenza agli emigrati, che Filippo Strozzi, che fino a tale punto aveva dato prove di singolare prudenza, Bartolomeo Valori e quasi tutti gli altri capi della fazione, risolsero di entrare in Toscana in sul finire di luglio del 1537, sotto la protezione di alcune compagnie di cavalleria; essi s'innoltrarono fino a Montemurlo, castello posto in vantaggiosa posizione, alle falde degli Appennini, tra Pistoja e Prato, mentre che Capino ed il Salviati venivano più lentamente dalla Mirandola per raggiugnerli[127].
Tutti gli emigrati fiorentini avevano raggiunta l'armata di Pietro Strozzi e del priore di Roma, e tutti gli scolari fiorentini delle università di Padova e di Bologna eransi fatto un dovere di venire a combattere per la libertà. Dal canto suo Cosimo de' Medici aveva al suo servigio un grosso corpo di veterani spagnuoli e tedeschi, che l'imperatore gli aveva dati per mantenere la di lui autorità, ma più ancora per assicurarsi della di lui ubbidienza. Aveva inoltre sufficienti truppe italiane per farsi rispettare; pure affettò la più viva inquietudine, richiamò in città tutte le sue truppe spagnuole, e non prese che misure difensive. Con questo simulato terrore ingannò tanto bene gli emigrati, che Filippo Strozzi, Bartolomeo Valori e gli altri ch'erano meno accostumati alle fatiche della guerra, andarono ad alloggiarsi come in piena pace nella casa dei Nerli a Montemurlo, che in addietro aveva servito di rocca, ma che ora non ne conservava che il nome; mentre che Pietro Strozzi con poche centinaja d'uomini stava a piè del colle, e che l'armata, trattenuta da dirotte piogge, trovavasi tuttavia distante quattro miglia[128].
Cosimo de' Medici approfittò accortamente della confidenza che aveva saputo ispirare a' suoi nemici: nella notte del 31 di luglio fece uscire tutta la sua armata sotto gli ordini di Alessandro Vitelli, e la mandò senza far alto a Montemurlo. Pietro Strozzi aveva divisa la piccola sua truppa per tendere un'imboscata ad un debole corpo di cavalleria, col quale si era battuto nel precedente giorno. Sandrino Filicaja, che aveva il comando de' soldati appiattati, sorpreso di vedersi passare innanzi un'intera armata invece di uno squadrone, non uscì d'aguato, e non potè prevenire Pietro Strozzi; questi fu sorpreso nel suo quartiere, la sua truppa sgominata, ed egli medesimo fatto prigioniere, ma senz'essere conosciuto; onde trovò in appresso il modo di fuggire, attraversando a nuoto un piccolo fiume[129].
Quando si raccontò a Filippo Strozzi che suo figliuolo era stato ucciso o fatto prigioniere, egli si smarrì, e sebbene fosse ancora in tempo di salvarsi, aspettò di essere attaccato da Alessandro Vitelli. Questi, giunto sotto l'antica rocca di Montemurlo, che gli emigrati avevano barricata alla meglio, la fece attaccare ed appiccare il fuoco alla porta. Dopo una sanguinosa pugna, che durò più di due ore, gli assalitori penetrarono da ogni banda nella fortezza, e gli emigrati si diedero prigionieri ai soldati, italiani o spagnuoli, ch'erano i primi ad arrestarli. Per tal modo Filippo Strozzi, che fin allora era stato creduto il più felice privato cittadino d'Italia, siccom'era ancora il più ricco, si arrese allo stesso Vitelli. Avendo questi avviso che l'armata di Capino e del priore Salviati avvicinavasi, ed era di già arrivata a Fabbrica, poco distante da Montemurlo, egli non volle aspettarla ed esporre all'incertezza d'una nuova pugna i molti prigionieri che aveva fatti. Rientrò in Firenze il primo giorno d'agosto colla sua vittoriosa truppa, conducendo prigionieri nella loro patria per lo meno un individuo di ognuna delle illustri famiglie dell'antica repubblica; mentre che l'armata degli emigrati, informata della sventura de' suoi capi, si ritirava a precipizio oltre gli Appennini[130].
Era Cosimo persuaso che non sarebbe mai sicuro del suo potere finchè non avesse distrutti tutti coloro che amavano la loro patria, e che vi avevano qualche considerazione. Ma sebbene tutti i suoi nemici fossero prigionieri della sua armata, non poteva ancora disporre della loro sorte; perciocchè, essendosi essi arresi in una battaglia ai soldati come prigionieri di guerra, erano diventati proprietà di coloro che gli avevano presi. Cosimo incaricò il supremo tribunale di balìa di entrare in trattato coi soldati per acquistare da loro i proscritti, e di sorpassare le taglie che le loro famiglie sarebbero disposte a dare. Il dispotismo avvilisce talmente coloro cui confida le sue dignità, che i giudici e i magistrati accettarono questa vergognosa incumbenza. La più parte de' soldati spagnuoli ricusarono di trattare con loro; ma gl'Italiani furono meno delicati, ed appunto tra le loro mani si trovavano i più illustri prigionieri[131].
Cosimo I aveva voluto vedere tutti i prigionieri nello stesso giorno in cui erano entrati in Firenze, ed aveva seco loro parlato con apparente moderazione; pure all'indomani il tribunale degli otto, avendone riscattati alcuni dai soldati, li fece porre alla tortura, ed in appresso decapitare sulla piazza della signoria. Nello spazio di quattro giorni ne perirono in tal modo quattro al giorno, ed era il duca intenzionato di continuare lungamente; ma, intimidito dai clamori del popolo, egli spedì gli altri, tra i quali trovavasi Niccolò Macchiavelli, figliuolo dello storico, nelle carceri di Pisa, di Livorno, di Volterra, ove perirono in breve. I prigionieri più illustri, cioè Bartolomeo Valori, Filippo suo figlio, ed un altro Filippo suo nipote, Anton Francesco Albizzi ed Alessandro Rondinelli, vennero riservati a morire il 20 d'agosto, anniversario del giorno in cui lo stesso Valori aveva, sett'anni prima, adunato il parlamento, violata la capitolazione di Firenze, ed assoggettata la sua patria alla tirannia di quegli stessi Medici, che lo ricompensavano a quel modo che i tiranni sogliono ricompensare chi li serve. Prima del supplicio vennero tutti cinque posti alla tortura, ed il duca, per seminare sospetti in tutto il partito degli emigrati, si fece carico di pubblicare che le loro deposizioni svelavano una privata ambizione e personali progetti, che ognuno di loro nascondeva sotto la maschera del patriottismo e dell'amore di libertà[132].
Filippo Strozzi era tuttavia prigioniero di Alessandro Vitelli; e questo generale aveva avuta l'antiveggenza di chiuderlo nella fortezza di cui era padrone, trattandolo colà con molti riguardi. Ricusava di consegnarlo a Cosimo, prometteva d'interporsi presso l'imperatore per la liberazione di lui, e con tali mezzi riusciva ad estorcere dal suo prigioniere ragguardevoli somme. Filippo Strozzi, sposo di Clarice de' Medici, nipote del magnifico Lorenzo, aveva contribuito al ritorno dei Medici nel 1530; aveva prestato danaro al duca Alessandro per fabbricare quella stessa rocca, ove si trovava chiuso, e non aveva abbandonato il partito di lui, che dopo avere provato come ogni grandezza, ogni vantaggiosa opinione, ogni indipendenza di fortuna, riuscivano sospette ad un assoluto padrone. L'immensa sua ricchezza non era la sola circostanza che richiamava sopra di lui gli sguardi dell'Europa; egli era rinomato pel suo sapere, pel suo gusto in fatto di arti e di letteratura, pel suo cortese contegno, per la generosità del suo carattere. Aveva date prove di quest'ultima coll'accoglimento che aveva fatto a tutta la famiglia di Lorenzino de' Medici, scacciata da Firenze e spogliata d'ogni avere. Aveva ricevuti la madre ed il fratello in propria casa, ed aveva maritate le due sorelle ai due suoi figliuoli, senz'altra dote che quella di appartenere al Bruto fiorentino[133].
Per qualche tempo Carlo V difese Filippo Strozzi contro la vendetta di Cosimo; all'ultimo, vinto dalle reiterate istanze del duca, acconsentì nel 1538, che questo illustre cittadino fosse posto alla tortura, ed in appresso mandato al supplicio; ma nello stesso giorno in cui giugneva a Firenze l'assenso dell'imperatore, ne fu dato avviso a Filippo Strozzi, il quale, temendo che il dolore lo riducesse ad accusare i suoi amici, si tagliò egli stesso la gola, dopo avere scritto sul muro della sua prigione quel verso di Virgilio: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor! cui parve conformarsi l'intera vita di suo figlio Pietro, in appresso maresciallo di Francia[134].
Lorenzino de' Medici non si trovava cogli emigrati che s'innoltrarono fino a Montemurlo contro Cosimo: egli non ignorava d'essere nello stesso tempo perseguitato dal duca di Firenze e dall'imperatore, e che la sua vita era dovunque in pericolo. Perciò da Venezia, dove si era da principio riparato, passò in Turchia; di là tornò in Francia, ma non facendosi conoscere, e stando sempre in guardia contro le insidie; poi ritornò a Venezia, ove all'ultimo fu assassinato, nel 1547 col suo zio Soderini, per ordine di Cosimo[135].
Il nuovo duca di Firenze non si era per anco liberato che dai suoi nemici; ma non erano costoro ch'egli più temesse o più odiasse. Sapeva che mentre una repubblica non ha ragioni di temere coloro che l'hanno istituita o salvata, un tiranno può compensare i servigj, ma perdonare i beneficj non mai. Andrea Doria poteva tutto ripromettersi dall'amore e dalla riconoscenza de' Genovesi, ma Cosimo doveva sempre paventare coloro che avevano contribuito a collocarlo sul trono. E siccome questi non potevano essere persuasi d'avere fatta una buona azione, così non potevano in sè medesimi trovare la costanza di mantenerla. Cosimo colla battaglia di Montemurlo e col patibolo erasi di già liberato dalla maggior parte di coloro che nel 1530 avevano chiamata la casa de' Medici alla sovranità di Firenze; ma egli temeva inoltre coloro che direttamente gli avevano trasmessa l'eredità di Alessandro, e che credevano con tale segnalato beneficio d'avere acquistati diritti alla sua gratitudine; questa rivoluzione era stata l'opera del cardinale Cibo, di Alessandro Vitelli e di quattro Fiorentini, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi; onde egli pensò a disfarsi a poco a poco ancora di questa gente.
Il cardinale Cibo si era presa la cura di educare i figli naturali di Alessandro. Scoprì, o credette di scoprire, che uno speziale, chiamato Biagio, era stato sedotto dai ministri del duca per avvelenare Giulio, il maggiore di que' fanciulli, e quello stesso ch'era stato a bella prima proposto per successore ad Alessandro. Egli ne fece lagnanza, e Cosimo si dolse ancora più altamente col cardinale di un'accusa, com'egli diceva, affatto calunniosa, tanto lo minacciò che lo costrinse a ritirarsi a Massa di Carrara presso la marchesa sua cognata[136].
Alessandro Vitelli aveva forzato il senato ad eleggere Cosimo col terrore de' suoi soldati, ed aveva in appresso consolidato il di lui trono colle vittorie. Vero è che se n'era fatto ampiamente pagare; che aveva ammassati grandissimi tesori in occasione delle rivoluzioni di Firenze; e che, quantunque bastardo della sua casa, era più ricco che i capi della linea legittima. Si era inoltre impadronito per sorpresa della fortezza di Firenze, e ne aveva dato il possesso all'imperatore piuttosto che a Cosimo. Questi si adoperò molto tempo invano per iscreditare il Vitelli presso l'imperatore; finalmente ottenne nel 1538 che gli fosse dato per successore don Giovanni de Luna nel comando della fortezza di Firenze, e ch'egli fosse allontanato da questa città[137].
I quattro senatori fiorentini che avevano innalzato Cosimo sul trono, sentivansi ad un tempo esposti al disprezzo ed all'odio dei loro compatriotti, ed alla gelosa diffidenza del tiranno, che li teneva lontani da tutti gli affari: costoro, abbandonati ai loro rimorsi, non tardarono a cadere vittime del loro pentimento. Francesco Vettori più non uscì dalla sua casa dopo la morte di Filippo Strozzi, con cui aveva avuta la più stretta famigliarità, per essere portato al sepolcro. Il Guicciardini ritirossi colmo di dolore nella sua villa, ove morì nel 1540 non senza sospetto di veleno. Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi lo seguirono in breve. Maria Salviati, madre di Cosimo, morì nel 1543. Francesco Campana, intimo di lui segretario, che aveva avuta grandissima parte nella di lui elezione, morì pure disgraziato; ed in allora Cosimo sentì finalmente che non aveva più amici e che cominciava a regnare[138].
Le scintille di libertà, che rimanevano tuttavia disperse in Italia, si andavano n poco a poco spegnendo. Negli stati del papa Ancona aveva conservata un'amministrazione repubblicana ed indipendente fino al mese d'agosto del 1532: essa godeva senza strepito di questa libertà, quando Clemente VII fece avvisati i magistrati di questa piccola città, che una flotta di Solimano, entrata nell'Adriatico, apparecchiavasi ad attaccarla; ed in pari tempo gli offrì l'ajuto di una piccola armata sotto gli ordini di Luigi Gonzaga. Gli Anconitani accolsero senza diffidenza le truppe del papa; ma queste, avendo occupati le porte, arrestarono tutti i magistrati, tagliarono la testa a sei di loro, disarmarono tutti i cittadini, fabbricarono una rocca sul monte San Ciriaco, e privarono la città di tutti gli antichi suoi privilegj[139].
La repubblica d'Arezzo, che era risorta in tempo dell'assedio di Firenze, non aveva durato lungamente. Dopo avere nudrita l'armata imperiale per tutto il tempo che Firenze si difese, dopo avere fatti i più grandi sagrificj, questa città fu ancor essa attaccata dai suoi vittoriosi alleati, ed il 10 ottobre del 1530 venne forzata a ritornare sotto il dominio dei Fiorentini[140]. Il conte Rosso di Bevignano, che aveva avuta tanta parte nella sollevazione d'Arezzo contro la repubblica fiorentina, e che così vigorosamente aveva assistiti Clemente VII ed i Medici, venne arrestato nello stato pontificio, dato nelle mani del duca Alessandro ed appiccato[141]. Cosimo I fece rifabbricare una rocca in Arezzo nel 1538, ed un'altra in Pistoja; fece disarmare gli abitanti delle due città, e si assicurò in tale maniera della loro sommissione[142].
La repubblica di Lucca tentava l'ambizione del nuovo duca di Firenze; egli la costrinse ad uscire dalla sua oscurità, approfittando di tutte le occasioni di offendere il di lei governo per trarla in una guerra che sperava di potere terminare colla conquista di quel piccolo stato. Si esercitarono più volte degli atti ostili tra i villani dei due dominj; e la gelosia e l'odio di vicinato scoppiarono tra di loro con un carattere che mai non avevano avuto fin ch'era durata la repubblica fiorentina. Ma i Lucchesi, conoscendo la loro debolezza, avevano riposta ogni speranza nella protezione dell'imperatore. Comperavano con ragguardevoli somme di danaro difensori nel di lui consiglio, ed in tal guisa evitarono un attacco cui probabilmente avrebbero dovuto soggiacere[143].
Furono più fortunati i progetti di Cosimo I sopra la repubblica di Siena. La prudenza, la dissimulazione e la costanza del duca trionfarono di una città indebolita da una lunga anarchia, e più ancora dalla contraria fortuna de' Francesi, che, strascinando la repubblica di Siena nel loro partito, la ruinarono coi medesimi loro soccorsi, come avevano già ruinati i Fiorentini abbandonandoli.
Sebbene la repubblica di Siena fosse da gran tempo attaccata alla parte imperiale, il trattato di Cambrai le aveva fatto, come a tutti gli altri stati dell'Italia, perdere la sua indipendenza. Carlo V la lasciava in preda senza rammarico a tutti gl'inconvenienti dell'anarchia, purch'ella gli desse una sufficiente guarenzia del costante suo attaccamento al partito imperiale. Altronde la corte, per via di quell'inclinazione naturale ai principi, ai cortigiani ed ai ministri, riservava all'aristocrazia sola tutti i suoi favori; e la repubblica di Siena, invece d'essere agitata, come nel precedente secolo, dalle tumultuose passioni del popolo, lo era allora dalle contese non meno sanguinose che violente delle grandi famiglie.
Il duca d'Amalfi, Alfonso Piccolomini, discendente da un nipote di Pio II, era stato prescelto mediante l'influenza dell'imperatore, in maggio del 1538, per capo della repubblica di Siena[144]. D'allora in poi era stato il principale agente di Carlo V presso di questo stato; ma perchè era egli medesimo poco capace di governare, erasi totalmente abbandonato ai consiglj di Giulio Salvi e de' sei fratelli di costui, la di cui famiglia si era sollevata ad un cotal grado di potenza e di arroganza, che sprezzava tutte le leggi ed assoggettava alla sua tirannide le sostanze, le mogli e le figlie dei cittadini. I Sienesi portarono le loro lagnanze all'imperatore, che ritornava dalla sua spedizione di Algeri; e Cosimo de' Medici diede a queste maggior peso, denunciando a Carlo V un supposto trattato, ch'egli pretendeva d'avere scoperto tra Giulio Salvi ed il signore di Montluc, in allora segretario d'ambasciata a Roma pel re di Francia. Lo scopo di questo trattato doveva essere quello di dare Porto Ercole in mano de' Francesi, di que' tempi in procinto di ricominciare la guerra contro l'imperatore, d'introdurli da quel porto in Toscana, di attaccare la repubblica di Siena alla loro alleanza, e di dar loro il mezzo in tal modo d'influire nuovamente negli affari d'Italia[145].
Infatti i Francesi cercavano avidamente l'occasione di rinnovare qualche negoziazione coll'Italia, e di ricuperarvi qualche considerazione; e l'imperatore si adoperava con egual zelo a precludere loro ogni comunicazione con que' piccoli stati. Carlo V incaricò il Granvella di riformare il governo di Siena; questi recossi in questa città colla guardia tedesca di Cosimo de' Medici; ed affidò la sovranità ad una balìa, o stretta oligarchia di quaranta membri, trentadue dei quali vennero nominati dai diversi Monti, ossia ordini de' cittadini, ed otto dallo stesso Granvella. La presidenza de' tribunali fu riservata ad un suddito dell'imperatore, da nominarsi ogni tre anni dal senato di Milano o da quello di Napoli. Tale era la libertà che Carlo V lasciava alle repubbliche sue più antiche alleate, quando acconsentiva di proteggerle[146].
Siena era scontenta assai di questa nuova costituzione, e senza le truppe che Cosimo I aveva ai confini, questa repubblica non avrebbe tardato ad iscuotere il giogo[147]. Nella guerra che si era riaccesa tra la Francia e l'impero, Pietro Strozzi e suo fratello Leone, priore di Capoa, sempre meditando di vendicare il loro padre Filippo e di rovesciare dal suo trono Cosimo I, cercavano una piazza d'armi in Toscana, ove potere unire i soldati che loro dava la Francia ai malcontenti sempre apparecchiati ad assecondarli. Lo stato di Siena sembrava loro eminentemente opportuno a ricevere i loro sbarchi; e perchè Francesco I aveva fatto contro Carlo V alleanza coll'impero turco, e che la flotta francese si univa tutti gli anni a quella del famoso Barbarossa, queste due flotte unite attaccarono più volte i porti dello stato sienese, ed all'ultimo il Barbarossa occupò nel 1544 Telamone e Port'Ercole, ed assediò pure Orbitello che gli fece resistenza. I Sienesi erano atterriti, vedendo i Turchi sbarcare sulle loro coste; pure loro riuscivano ancora più sospetti gli ajuti offerti da Cosimo I. Un tale stato di alterni sospetti e pericoli si protrasse fino al trattato di Crespi, del 18 settembre 1544, col quale per poco tempo si ristabilì la pace tra la Francia e l'impero[148].
Dopo la pace don Giovanni de Luna continuò a tenere a Siena una piccola guarnigione spagnuola sotto colore di mantenere l'ordine in città, ma infatto per mantenerla dipendente dal partito imperiale. Carlo V però mai non mandava danaro ai suoi soldati, ed in tempo di pace lasciava che vivessero a discrezione nelle province suddite o alleate, le quali perciò non soffrivano meno dalla crudele avidità degli Spagnuoli, che non un paese nemico in tempo di guerra[149]. Il malcontento cagionato dalle ruberie degli Spagnuoli era di già arrivato all'estremo, e venne accresciuto dal costante favore che don Giovanni de Luna, d'accordo con Cosimo I, mostrava all'aristocrazia. Volevano questi due che ogni potere fosse concentrato nella nobiltà e nel monte dei nove, che quasi colla nobiltà si confondeva; e mostravano agli altri ordini quel disprezzo che i borghesi soffrivano nelle monarchie. Il popolo, spinto agli ultimi estremi, sollevossi il 6 di febbrajo del 1545; furono uccisi circa trenta gentiluomini, e gli altri cercarono rifugio in palazzo presso don Giovanni de Luna. Cosimo I, che teneva le sue truppe apparecchiate ai confini per approfittare di questo tumulto, cui forse ebbe qualche parte, voleva che don Giovanni le lasciasse entrare in città; ma questi mancò di risoluzione o di antiveggenza; lasciò licenziare la propria guarnigione spagnuola, ed all'ultimo fu costretto ad uscire egli medesimo di Siena il 4 di marzo del 1545 con un centinajo di membri dell'aristocrazia; nello stesso tempo tutto il monte dei nove venne privato d'ogni partecipazione al governo[150].
Mentre che in Toscana omai più non restava orma dell'antica libertà, che tutta l'Italia aveva perduta la sua indipendenza, e che veruna potenza estera pareva in istato di soccorrerla, un gonfaloniere di Lucca formò l'audace disegno di richiamare in vita tutte quelle antiche repubbliche, di unirle con una confederazione, di scuotere il giogo dell'imperatore, in allora trattenuto in Allemagna dalla lega di Smalcalde, di schivare d'assoggettarsi a quello della Francia, e di riconquistare nello stesso tempo l'indipendenza dell'Italia, la libertà politica dei cittadini e la libertà religiosa, di cui ne aveva a Lucca inspirato il desiderio la predicazione della riforma. Francesco Burlamacchi, autore di questo progetto, era uno de' tre commissarj dell'ordinanza ossia milizia del territorio di Lucca. Aveva sotto il suo comando circa mille quattrocento uomini, e poteva portarli a due mila senza dare sospetto. Secondo l'usata pratica di ogni anno, contava di farli passare in rassegna sotto le mura di Lucca, e quando le porte della città si chiuderebbero dopo la rassegna, voleva sotto finto pretesto condurre la sua truppa, a traverso al monte di san Giuliano, a sorprendere Pisa che non aveva guarnigione, ed ove il comandante della rocca era con lui d'accordo; voleva rendere ai Pisani quella libertà per la quale avevano combattuto quarant'anni prima con tanto valore; unirli ai suoi Lucchesi per marciare insieme sopra Firenze, ed approfittare dell'universale malcontento dei popoli, e della sicurezza dei tiranni, per dilatare ovunque la rivoluzione. Un altro corpo di truppe doveva incamminarsi verso Pescia e Pistoja, ove lo spirito di fazione aveva mantenute le abitudini militari. Arezzo che di fresco aveva mostrato il suo attaccamento alle idee repubblicane, Siena che temeva il risentimento dell'imperatore, Perugia che nel 1539 aveva pure cercato di scuotere il giogo del papa[151], Bologna che lo sopportava impazientemente, dovevano entrare nella nuova lega, la quale doveva ad ogni città guarentire la rispettiva libertà e tutti i necessarj mezzi di resistenza. I due fratelli Strozzi avevano promessi trenta mila scudi in effettivo danaro, i soccorsi della Francia, e l'attiva cooperazione degli emigrati fiorentini; ma essi persuasero il Burlamacchi a differire l'esecuzione del suo disegno per aver tempo di conoscere i risultamenti della guerra incominciata dall'imperatore contro i protestanti della Germania: intanto un Lucchese, che i congiurati volevano associarsi, andò a Firenze a darne avviso al duca Cosimo I. Il Burlamacchi era in allora gonfaloniere; e sebbene la sua carica non potesse sottrarlo al gastigo meritato da una tanto ardita impresa, fatta senza l'assenso della sua patria, avrebbe ancora avuto tempo di fuggire quando seppe che il suo disegno era stato rivelato a Cosimo, se le generose cure ch'egli volle avere per alcuni emigrati sienesi che temeva di avere compromessi, e che lo denunciarono ai consiglj di Lucca, non fossero stati, trattenendolo, cagione del di lui arresto. Cosimo I persuase l'imperatore a domandare un prigioniere che aveva voluto sollevare tutta l'Italia. I Lucchesi non ebbero il coraggio di ricusarlo: e il Burlamacchi fu tradotto a Milano, posto alla tortura, poi condannato all'estremo supplicio[152].
La congiura del Burlamacchi diede all'imperatore un nuovo motivo per assicurarsi del governo di Siena. Temeva che il malcontento che ogni giorno vedeva farsi maggiore, non ispingesse questa repubblica a cercare un più leale protettore, ad aprire le sue porte ai Francesi, ed in tal modo a dar loro un'importante stazione nel centro dell'Italia: perciò, malgrado la ripugnanza dei Sienesi, risolse d'introdurre di nuovo nella loro città una guarnigione spagnuola, in sul piede di quella di don Giovanni de Luna, ch'essi avevano rimandata. Ne affidò il comando a quel don Diego Hurtado de Mendoza, che si acquistò gran nome tra i letterati colla sua Storia della guerra di Granata, le sue poesie, ed il suo romanzo di Lazarillo di Tormes, ma che in Italia si rendette detestabile colla sua alterigia, colla sua avarizia e colla sua perfidia. La guardia spagnuola entrò in Siena il 29 di settembre del 1547; ed il Mendoza, ch'era nello stesso tempo ambasciatore a Roma, e che, di là dirigendo gl'intrighi spagnuoli, era troppo contento d'avere in vicinanza e sotto i suoi ordini una piazza d'armi, recossi a Siena il 20 di ottobre, poi nel 1548 vi fece entrare altre truppe, disarmò i cittadini, e mutò il governo in maniera da renderlo affatto dipendente dal suo volere. Il 4 di novembre del 1548 vi creò una nuova balìa di quaranta membri, venti de' quali furono eletti dall'antico senato e venti da lui medesimo. La sovranità della repubblica venne conferita a questo corpo; ma dopo tale epoca vi comandava tanto dispoticamente l'imperatore, che potè offrire Siena al papa Paolo III invece di Parma e Piacenza, come se avesse pieno diritto di disporne[153].
Per essere ancora più certo dell'ubbidienza di questa repubblica, il Mendoza ottenne precisi ordini dall'imperatore di fabbricare in Siena una rocca, malgrado la costante ed unanime opposizione di tutte le classi dei cittadini. Gli Spagnuoli si comportavano con tanta insolenza, era così difficile l'ottenere giustizia dei furti, degli omicidj, degli oltraggi di ogni sorta, di cui si rendevano colpevoli, che i cittadini li vedevano con sommo terrore assicurarsi sempreppiù il possedimento della loro città. Lo storico Malavolti fu egli stesso deputato presso Carlo V, per supplicarlo di rinunciare ad un progetto che metteva nella disperazione i suoi compatriotti. Riuscirono vane le sue rappresentanze; ma il piano adottato dal Mendoza per l'erezione della rocca era così vasto, richiedeva così ragguardevoli spese, che le opere cominciate non bastarono a coprire i soldati che dovevano difenderle, quando sopraggiunse il pericolo[154].
Niuno stato d'Italia fu forse più che la repubblica di Siena ostinato, prima nell'antico partito ghibellino, poi, quando questo nome cominciava ad essere dimenticato, nel partito imperiale per opposizione a quello della Francia. Tutte le fazioni che si erano fatte la guerra e strappato di mano a vicenda il timone della repubblica, avevano professate le stesse opinioni; ma l'avarizia spagnuola e l'iniqua fede del Mendoza avevano alla fine trionfato di questo lungo attaccamento; e quando nel 1552 si rinnovò la guerra in Piemonte ed in Germania fra Carlo V ed Enrico II, i Sienesi si rivolsero alla Francia ed implorarono il di lei ajuto per sottrarsi alla dura tirannia che cominciava a pesare sul loro capo[155].
Il duca di Firenze, che teneva aperti gli occhi su questo vicino stato, scoprì la corrispondenza de' Sienesi coi Francesi; egli aveva cagione di essere scontento del Mendoza e del governo di Spagna. Invece di essere trattato qual principe indipendente, egli sentiva che si cercava di farlo scendere ogni giorno al rango di vassallo dell'imperatore; temeva lo stabilimento degli Spagnuoli in Siena quasi quanto quello dei Francesi; ma ad ogni modo il suo principale interesse era sempre quello di contenere il malcontento de' Fiorentini, e di conservare la propria signoria a dispetto dell'odio de' suoi sudditi. Perciò, a fronte delle umiliazioni che soffriva per parte dell'imperatore o dei suoi ministri, non lasciava di conservarsi loro fedele. Nella presente circostanza offrì gagliardi ajuti a don Diego Mendoza; ma questi, più geloso del duca che premunito contro il comune nemico, ricusò di ricevere le truppe di Cosimo in Siena[156].
Erasi formato un attruppamento nei contadi di Castro e di Pitigliano, sotto il comando di Niccolò Orsini, che aveva preso servigio sotto i Francesi: due emigrati sienesi, Enea Piccolomini ed Amerigo Amerighi, eransi fatti capi di un corpo d'insorgenti, che, attraversando lo stato di Siena, s'ingrossò fino al numero di circa tre mila. Il Piccolomini si presentò la sera del 26 luglio del 1552 alle porte di Siena, proclamando il nome di libertà. Il popolo, sebbene disarmato, si sollevò; non eranvi in città che quattrocento Spagnuoli, sotto gli ordini di don Giovanni Franzesi, essendo stati gli altri mandati ad Orbitello ed in varj porti delle Maremme, mentre il Mendoza trattenevasi in Roma. I Sienesi aprirono le porte al Piccolomini, e subito scacciarono gli Spagnuoli dal convento di san Domenico, dove questi si erano afforzati, e gl'inseguirono fino alla rocca, che l'avarizia del Mendoza aveva lasciata male armata, e mal provveduta di vittovaglie. Cosimo dei Medici si affrettò di mandare soccorsi agli Spagnuoli; ma in seguito, temendo di tirarsi addosso le armi della Francia, mentre Carlo V, vivamente attaccato da Maurizio di Sassonia, sembrava inabilitato a secondarlo, richiamò le sue truppe, e si fece mediatore di una capitolazione, in forza della quale la fortezza innalzata a porta di Camullia fu, il 3 agosto del 1552, data in mano ai Sienesi, che la demolirono, e la guarnigione spagnuola si ritirò a Firenze[157].
Enrico II colse avidamente l'occasione che venivagli offerta di far penetrare le sue armate nel cuore dell'Italia, e di approfittare dell'universale malcontento per invitare i popoli a scuotere il giogo della corte di Spagna. Fece passare ai Sienesi alcuni gentiluomini francesi per dirigerli, soldati per difenderli, e soccorsi d'ogni maniera. Il duca di Termini, in addietro governatore di Parma, venne l'11 di agosto a soggiornare in Siena, ed in breve fu stipulato un trattato tra la repubblica ed il re di Francia[158].
Cosimo I vedeva con estrema inquietudine lo stabilimento de' Francesi alle sue porte. Ad ogni modo non credeva le circostanze favorevoli per discacciarli a forza aperta; aveva promesso di tenersi neutrale, ed Enrico II si era obbligato a rispettare la di lui neutralità. Cosimo cercava di far sentire a Carlo V, che colla pazienza e coll'accortezza giugnerebbe a' suoi fini ugualmente che colle armi. Ma il 2 di agosto l'imperatore aveva sottoscritta la pace di religione a Passavia, e così trovandosi liberato da Maurizio di Sassonia, il suo più temuto nemico, risolse di punire i Sienesi di una rivoluzione, ch'egli risguardava per sè disonorevole, ed ordinò a don Pedro di Toledo, vicerè di Napoli, e suocero di Cosimo I, di recarsi per mare a Livorno colle forze di cui poteva disporre[159].
Il vicerè, uno de' più crudeli ed avari fra quei ministri di Carlo V, che avevano in Italia renduto odioso il nome dell'imperatore, non ebbe tempo di meritare le maledizioni dei Toscani, come aveva raccolte quelle dei Napolitani. Giunse in Firenze in sul cominciare del 1553 e vi morì nel susseguente febbrajo, dopo essere sembrato per tutto quel tempo assorto intieramente nei piaceri di un fresco matrimonio, che mal conveniva alla sua vecchiaja[160]. Cosimo I, cui Carlo V voleva affidare il comando di quest'impresa, lo ricusò: don Garzia di Toledo, figlio del vicerè, n'ebbe perciò l'incarico. Costui trovossi alla testa di un'armata di sei mila Spagnuoli e di due mila Tedeschi che aveva condotti in Toscana suo padre, e di otto mila Italiani raccolti nella provincia di Val di Chiana da Ascanio della Cornia, nipote del papa. Con tale esercito don Garzia entrò nel Sienese; prese Lucignano, Monte Fellonico e Pienza; guastò quasi tutto il territorio della repubblica, e pose l'assedio a Montalcino[161]. Ma frattanto i Francesi avevano invocata l'assistenza della flotta turca, che ogni anno veniva a saccheggiare le coste degli stati dell'imperatore in Italia, e che ogni anno rendeva inefficace la sua assistenza colla sua lentezza a trovarsi al luogo concertato, e colla sua prontezza a ritirarsi. La di lei comparsa sulle coste del regno di Napoli costrinse non pertanto don Garzia di Toledo a levare l'assedio di Montalcino, ed a ricondurre il suo esercito nell'Italia meridionale[162].
Cosimo I, abbandonato in giugno dagli Spagnuoli, trovavasi in un crudele imbarazzo; ricusando di rinunciare apertamente alla sua neutralità aveva vivamente irritato l'imperatore, aveva assai più offesi i Sienesi ed il re di Francia, poichè, sotto la maschera della neutralità, aveva dati soccorsi d'ogni genere ai loro nemici; si era fatto cedere Lucignano, una delle piazze conquistate sopra di loro, ed all'ultimo aveva, per mezzo del suo ambasciatore, ordita in Siena una cospirazione ch'era stata scoperta, ed aveva costato la vita a Giulio Salvi, che n'era capo, ed a molti di lui complici. Cosimo, vedendosi esposto al risentimento de' Francesi, de' Sienesi e degli emigrati fiorentini che erano venuti a Siena, si affrettò di trattare la pace, che si conchiuse in giugno del 1553. Lucignano fu restituito ai Sienesi con tutte le conquiste fatte nel loro territorio; e questi promisero di non ricevere nel loro stato i nemici del duca[163].
Ad ogni modo Cosimo I era ben lontano dal volere religiosamente osservare il trattato che aveva conchiuso; egli non poteva mantenersi sul trono, a dispetto dell'odio di tutti i suoi sudditi, senza essere spalleggiato da estera potenza; onde gli era impossibile di conservarsi neutrale tra la Francia e l'impero. Al servigio della Francia vedeva ricolmo di onorificenze Pietro Strozzi, figliuolo di quel Filippo ch'era perito nelle sue prigioni. Pietro, favoreggiato dalla regina Catarina de' Medici sua cugina germana, andava non pertanto assai più debitore della sua fortuna al proprio valore ed al singolare suo ingegno; era maresciallo di Francia e luogotenente del re in Italia, e non aveva altro più ardente desiderio che quello di balzare Cosimo I dall'usurpato suo trono. Cosimo non poteva dunque fare a meno di non attaccarsi al contrario partito, e di non assecondare l'imperatore; e benchè fosse stato più volte ingannato dai ministri di Carlo V; benchè fosse stato strascinato in enormi spese per la difesa di Piombino, che poi questo monarca gli aveva ritolto senza verun compenso, dopo averglielo dato; benchè si aspettasse d'avere lo stesso trattamento quando riuscisse a conquistare Siena a proprie spese; risolse nulladimeno di entrare in guerra, di sostenerne tutto il peso, e di prendere in oltre sopra di sè la vergogna di cominciarla con un tradimento[164].
I Sienesi si riposavano tranquillamente sul trattato fatto con Cosimo I, ed improvvidi ad esempio de' Francesi, loro alleati e loro ospiti, non pensavano che a godersi il presente senza apparecchiare i mezzi di difesa per l'avvenire. Intanto Cosimo faceva guardare severamente i suoi confini, onde niuno potesse dare ai Sienesi notizia de' suoi apparecchj; assoldava nuove genti, poneva in movimento le sue milizie e dava ordine ad ogni corpo della sua armata di trovarsi il 26 gennajo del 1554 a Poggibonzi, ultimo castello dello stato fiorentino sulla strada di Siena. Cosimo non prendeva giammai egli stesso il comando delle sue truppe, e nominò supremo comandante di queste Gian Giacomo Medici, o Medichino, da prima conosciuto sotto il nome di castellano di Musso, poi di marchese di Marignano, uomo intraprendente, e non pertanto cauto, perseverante, crudele, e che risguardavasi come uno de' migliori generali dell'imperatore. Nello stesso tempo, per lusingare la di lui vanità, finse Cosimo di trovare tra i Medici di Milano e quelli di Firenze un parentado che mai non aveva esistito[165].
Il 27 gennajo del 1554 il territorio sienese doveva contemporaneamente essere attaccato su tutti i punti; ma le dirotte piogge che caddero la notte sospesero tutti gli attacchi ad eccezione di quello del marchese di Marignano. Essendosi questi partito da Poggibonzi due ore prima di notte con quattro mila fanti e trecento cavaleggieri, arrivò senz'essere conosciuto fino alla porta di Siena, detta Camullia, e prese d'assalto il bastione destinato a difenderla, ch'era stato lasciato in piedi quando il popolo, scacciando gli Spagnuoli, aveva spianata la fortezza eretta da don Diego di Mendoza[166].
Il cardinale di Ferrara, don Ippolito d'Este, che risiedeva in Siena a nome del re di Francia, erasi lasciato ingannare dalle carezze e dalle adulazioni di Cosimo I, e, credendo di non dover nulla temere da lui, passava il tempo in continue feste. Trovavasi al ballo nell'istante in cui fu sorpresa porta Camullia, ed i Sienesi poterono trattenerlo a stento in città quando n'ebbe avviso. Ma siccome questi opposero una vigorosa resistenza al Marignano, e gli vietarono di penetrare in città, il cardinale di Ferrara si rassicurò, e subito dopo Pietro Strozzi, che in allora visitava Grosseto, Massa, Porto Ercole e le altre fortezze della Maremma, rientrò in Siena, e la pose in migliore stato di difesa. Il Marignano credette cosa imprudente l'aprire le sue batterie contro le mura di Siena, coperte di buona artiglieria e difese da numerosa guarnigione, e giudicò più conveniente di bloccare la città. I raccolti del precedente anno erano stati distrutti dalla guerra, e sembrava facile il distruggere altresì quelli dell'anno che cominciava. La città, sorpresa da inaspettato attacco, non aveva potuto fare grandi approvvigionamenti, ed il Marignano, prendendo successivamente i castelli che signoreggiavano tutte le strade che conducono a Siena, lusingavasi d'impedire che vi si recassero vittovaglie da esteri paesi[167].
Le truppe spagnuole e tedesche, che dall'imperatore erano state promesse a Cosimo I, arrivarono le une dopo le altre quando era già cominciata la guerra, e l'armata sotto Siena contò in breve ventiquattro mila fanti e mille cavalieri. Dall'altro canto arrivarono pure a Pietro Strozzi, o per mare, o a traverso allo stato romano truppe francesi o al soldo della Francia; ma queste erano sempre in minor numero che quelle che giugnevano al Marignano, onde questi, a seconda del suo piano di campagna, potè dare principio all'attacco de' castelli del territorio sienese. Il primo che prese fu l'Ajuola, i di cui abitanti si arresero a discrezione dopo averlo valorosamente difeso. Il Marignano li fece appiccare quasi tutti, dichiarando che riservava lo stesso trattamento a tutti coloro che aspetterebbero in una rocca da nulla il primo colpo della sua artiglieria[168]. Ma questa barbarie non ebbe altro risultamento che quello di accrescere gli orrori della guerra; i contadini sienesi con una costanza degna di miglior sorte, mostraronsi sempre irremovibili nella loro fedeltà verso la patria, qualunque si fosse il governo della medesima. Turrita, Asinalunga, la Tolfa, Scopeto e la Chiocciola opposero la medesima resistenza e provarono lo stesso trattamento. Un generale, che si piccava di bravura e di lealtà, diede ovunque in mano ai carnefici quegli uomini valorosi cui altro non poteva rimproverare che la loro fedeltà ed il loro valore[169].
Dal canto loro i Sienesi ebbero alcuni vantaggi che sostennero la loro costanza. In sul declinare di marzo il Marignano aveva mandato il suo generale di fanteria, Ascanio della Cornia, con Ridolfo Baglioni a Chiusi, che, secondo la promessa di alcuni traditori, doveva essergli consegnato. Ma i traditori, ch'egli credeva di avere sedotti, lo avevano ingannato; Ascanio della Cornia fu fatto prigioniero, il Baglioni fu ucciso, e la loro truppa, che ammontava a più di quattro mila uomini, fu interamente distrutta[170]. Ma Cosimo I si affrettò di somministrare altri fondi per fare nuove leve di soldati e riparare questa perdita. Poi ch'ebbe ricevuti alcuni rinforzi, il Marignano continuò l'assedio e l'incendio delle terre murate dello stato di Siena. Prese successivamente i castelli di Belcaro, Lecceto, Monistero, Vitignano, Ancajano e Mormoraja. Ogni terra gli costò ostinate pugne, ed ogni terra fu trattata con eguale barbarie; parte degli abitanti fu mandata al supplicio, tutte le messi immature distrutte, e guastate tutte le campagne[171].
Estrema era la desolazione del territorio sienese, gli ajuti della Francia tardi ed insufficienti, e la sorte della guerra che nello stesso tempo trattavasi in Fiandra era contraria ad Enrico II. Nondimeno le speranze dei Sienesi e quelle dello Strozzi venivano ravvivate dall'odio universale che i Fiorentini portavano alla casa de' Medici. Ovunque due Fiorentini si scontrassero, fuori del dominio di Cosimo, essi riconoscevansi tosto per le maledizioni che scagliavano contro il tiranno. Coloro che il commercio aveva adunati a Roma, a Lione, a Parigi, aprivano soscrizioni per mandare danaro a Pietro Strozzi, onde ajutarlo a scuotere il vergognoso giogo che opprimeva la loro patria[172].
Sapendo Pietro Strozzi che si adunavano alla Mirandola alcuni corpi di truppe francesi, egli risolse di aprire loro la strada di Siena. Uscì l'undici di giugno dalla città assediata con circa sei mila uomini[173]; passò l'Arno a Pontedera, e si avanzò, per la macchia di Cerbaia, verso lo stato di Lucca, che poi attraversò. Colà infatti ricevette i promessigli rinforzi di truppe che avevano tenuta la strada di Pontremoli; ma la flotta francese, che nello stesso tempo doveva giugnere a Viareggio, non comparve; essa fu ritardata più di quaranta giorni, ed il priore Strozzi, fratello di Pietro, che stava aspettandola con due galere, fu ucciso presso Scarlino. Due dì dopo la morte del gran priore, Biagio di Montluc, che Enrico II aveva scelto per comandare a Siena, venne a sbarcare a Scarlino con dieci compagnie francesi ed i tedeschi di Giorgio di Ruckrod, che di là passarono a Siena[174].
La spedizione del maresciallo Strozzi più avere non potendo quel successo che egli ne aveva sperato, quando aveva creduto di tener solo la campagna e di assediare Firenze coll'ajuto delle truppe che dovevano essergli condotte dalla flotta, egli ripassò l'Arno colla medesima rapidità e felicità con cui l'aveva guadato la prima volta, e ricondusse la sua armata a Casoli, nello stato di Siena[175].
Non pertanto la spedizione dello Strozzi aveva sparso il terrore in tutti i partigiani del duca in Toscana, e pareva promettere i più felici risultamenti. Il Marignano, che lo aveva seguito con tutta l'armata dell'assedio, soprappreso da panico terrore, erasi ritirato da Pescia verso Pistoja; e già stava in sul punto di abbandonare anche Pistoja come aveva fatto Pescia[176]. La fertile provincia di Val di Nievole si dichiarò pel partito dello Strozzi e della repubblica; i castelli di Monte Catini e di Monte Carlo avevano ricevuto guarnigione francese, e l'ultimo sostenne non molto dopo un assedio di più mesi; finalmente l'allontanamento delle due armate in tempo del raccolto avrebbe dato opportunità agli abitanti di Siena di fare grossi approvvigionamenti di vittovaglie, se avessero saputo approfittarne[177].
Ma quest'anno la terra era stata sterile; altronde la guerra aveva impedito ai contadini di lavorare e di seminare i campi intorno alla città, ed i Sienesi o non fecero abbastanza grandi sagrificj, o non ebbero il tempo necessario ne' quindici giorni che le loro strade furono libere, per importare da più lontane parti i loro approvvigionamenti. Di già si cominciava in città a mancare di viveri; ed i due campi dello Strozzi e del Marignano, ch'erano tornati nello stato di Siena, penuriavano egualmente di vittovaglie. Pareva che il Marignano fosse convinto della sua inferiorità: un secondo terrore panico gli fece abbandonare il suo campo, presso la porta Romana di Siena, con non minore precipizio di quello che aveva fatto Pescia poche settimane prima[178].
Pietro Strozzi, volendo coll'allontanamento delle armate lasciar respirare Siena, risolse di trasportare la guerra in Val di Chiana; il 20 di luglio occupò Marciano ed Oliveto, ed accampò la sua armata al ponte della Chiana. Il Marignano gli tenne dietro ed ottenne sopra di lui un notabile vantaggio in una scaramuccia a Marciano, nella quale quasi le due intere armate presero parte; ma questo non fu che un preludio di maggiore disastro. Lo Strozzi, che soffriva nel suo campo mancanza di acqua e di vittovaglie, volle ritirarsi; il Marignano lo seguì, e lo costrinse di venire a formale battaglia, il 2 agosto, sotto Lucignano. Il Marignano aveva due mila Spagnuoli, quattro mila Tedeschi e sei in sette mila Italiani con mille dugento cavaleggieri. Lo Strozzi aveva press'a poco un egual numero di combattenti; ma tre mila soltanto all'incirca erano Francesi, gli altri Tedeschi, Grigioni ed Italiani. La viltà della sua cavalleria, che fuggì in principio della battaglia, e la poca fermezza dei Grigioni, diedero la vittoria agl'imperiali: ma non pertanto venne lungamente contrastata dal valore e dall'abilità di Pietro Strozzi, ed il campo di battaglia rimase coperto da più di quattro mila morti[179].
Dopo la sconfitta di Lucignano, più non restava a Siena speranza di salute; pure i cittadini, incoraggiati da Montluc, che comandava la guarnigione francese, e dai vantaggi ottenuti dal signore di Brissac in Piemonte, non lasciaronsi sgomentare da veruna privazione o pericolo: essi dovevano difendersi contro il più freddamente crudele di tutti i generali imperiali, il cui carattere distintivo pareva essere la ferocia: e se il viaggiatore vede anche nell'età presente lo stato di Siena ridotto a vasto deserto, deve in gran parte darne colpa al marchese di Marignano ed a Cosimo I. Tutte le volte che i Sienesi facevano uscire dalla loro città alcune bocche inutili, il Marignano le faceva uccidere senza misericordia; qualunque volta i contadini Sienesi tentavano d'introdurre viveri in città, il Marignano li faceva appiccare; tutti coloro che ne' loro villaggi o castelli facevano qualche resistenza all'armata, venivano passati a filo di spada; tutte le provvigioni, tutti i viveri degli infelici contadini erano saccheggiati dagli Spagnuoli, e ciò che non si consumava dai soldati distruggevasi rigorosamente. Tutta la provincia di Siena provava gli orrori della fame: la popolazione della Maremma venne allora distrutta, ed in appresso non potè mai più rinnovarsi, essendo l'aria di questa fertile contrada pestilenziale. L'esperienza ha più volte dimostrato che il movimento di una numerosa popolazione migliora l'aere cattivo, mentre lo fa più pernicioso la mancanza degli abitanti. Altronde tutte le abitazioni, tutti i lavori dell'uomo erano stati distrutti dalla ferocia spagnuola; e coloro che dopo quest'epoca vennero da lontane contrade per coltivare quelle campagne, sonosi per la maggior parte trovati allo scoperto, senza veruna comodità della vita, ed esposti alle intemperie di un funesto clima[180].
Il Marignano fondava soltanto nella fame ogni speranza di prendere Siena; tentò, a dir vero, in gennajo del 1555, d'aprire alcune batterie presso porta Ovila e presso porta Ravaniano; ma quest'attacco non ebbe verun effetto, ed il Marignano vi rinunciò[181]. Erasi lo Strozzi lusingato che i vantaggi ottenuti da Brissac in Piemonte moverebbero l'imperatore a richiamare l'armata che assediava Siena, per contrapporla ai Francesi; ma Cosimo non risparmiava nè danaro, nè munizioni, nè viveri per appagare quelle truppe, la cui avidità andava sempre crescendo in ragione ch'esse sentivano diventare più importanti i loro servigj. Pure il timore di vedere richiamata l'armata del Marignano, gli fece ardentemente desiderare la pace. Scrisse al governo di Siena per accertarlo che non voleva distruggere la libertà della repubblica; che null'altro domandava se non che tornasse sotto la protezione imperiale, e ch'egli si offriva per mediatore di un trattato con Carlo V, che gli guarentirebbe tutti i suoi privilegj[182].
Infatti dopo che i Sienesi ebbero sofferti gli orrori del blocco, con una pazienza ed un coraggio a tutta prova, e al di là di tutti i calcoli che avevano fatti da prima; dopo ch'ebbero talmente consumati i loro viveri, che non avevano più nulla nel susseguente giorno, ottennero ancora da Cosimo I onorate condizioni, e press'a poco eguali a quelle che venticinque anni prima aveva ottenuto Firenze; ma desse furono altresì egualmente violate colla medesima impudenza. L'imperatore accolse sotto la sua protezione la repubblica di Siena, promise di conservarle la sua libertà ed i suoi ordinarj magistrati, di perdonare a tutti coloro che si erano adoperati contro di lui, di non fabbricarvi fortezze, di pagare egli stesso la guarnigione che terrebbe in città per la di lei sicurezza, e di permettere a tutti coloro che volessero emigrare di ritirarsi liberamente coi loro beni e famiglie in quella parte dello stato Sienese che non era sottomessa. Il trattato venne sottoscritto il 2 di aprile; ma perchè i viveri non terminarono che il 21, soltanto in questo giorno la guarnigione francese uscì di Siena, e vi entrarono gl'imperiali[183].
La riserva stipulata a favore de' Sienesi che volessero emigrare, non era una inutile precauzione. Moltissimi illustri cittadini, non pochi de' quali avevano mostrato grandissimo zelo per la libertà della loro patria, uscirono di Siena colla guarnigione francese, il 21 di aprile, e si ritirarono a Montalcino, piccola città posta sopra una montagna a poca distanza dalla strada che conduce da Siena a Roma; colà essi mantennero l'ombra della repubblica Sienese fino alla pace di Cateau-Cambresis, del 3 aprile 1559, che gli assogettò alla sorte dell'intera Toscana[184].
Rispetto alla metropoli, non venne eseguito verun articolo della capitolazione; e la violazione di questo sacro patto non fu meno impudente di quella della capitolazione di Firenze. Perciò, Cosimo I, che aveva conquistata Siena a sue spese e colle sue armi, non ne ottenne subito il possesso. Filippo II, a favore del quale Carlo V aveva abdicata la corona, voleva conservare questo stato per meglio assicurare il suo alto dominio sopra la Toscana. La guerra accesa dall'ambizione di Paolo IV e dei Caraffa, di lui nipoti, gli fece porre in disamina se dovesse loro cedere lo stato di Siena in compenso di que' paesi cui essi aspiravano. Finalmente Filippo trovò più utile di valersene per acquistare la cooperazione del duca di Firenze. Con un trattato, conchiuso in luglio del 1557, acconsentì di cedere lo stato di Siena a Cosimo I, il quale ne prese possesso il 19 di luglio, come di una provincia suddita. Ad ogni modo Filippo riservò alla monarchia spagnuola i porti di questa repubblica, cioè Orbitello, Porto Ercole, Telamone, Monte Argentaro, e Porto santo Stefano. Dopo quest'epoca quella piccola provincia formò lo stato detto de' Presidj; la separazione di questa dal rimanente della Toscana privò lo stato di Siena dell'antica sua comunicazione col mare e del suo commercio, e contribuì a perpetuare quello spaventoso stato di desolazione, cui trovasi ridotta la Maremma Sienese[185].
CAPITOLO CXXIII.
Rivoluzioni di diversi stati d'Italia, dopo la perdita dell'indipendenza italiana, fino alla fine del sedicesimo secolo.
1531 = 1600. La storia d'Italia nel sedicesimo secolo dividesi in tre epoche, ognuna delle quali offre un assai diverso carattere. La prima si stende dal principio del secolo fino alla pace di Cambrai, dell'anno 1529. Fu questo un periodo di continue guerre e di desolazione, durante il quale la potenza della Francia e quella della casa d'Austria parvero bastantemente equilibrate, perchè i popoli d'Italia non potessero prevedere quale sarebbe la trionfante. Essi attaccaronsi alternativamente all'una ed all'altra; sperarono mantenere fra le medesime la loro indipendenza, e non si avvidero che gl'Italiani avevano cessato di esistere come nazione soltanto nell'istante in cui Francesco I li sagrificò col trattato delle dame sottoscritto da sua madre.
Il secondo periodo comincia alla pace di Cambrai, del 5 agosto 1529, e termina con quella di Cateau-Cambresis del 3 aprile 1559. Con questa Enrico II e Filippo II posero fine alla lunga rivalità delle loro due case, e le riunirono col matrimonio di Filippo con Elisabetta di Francia. Questo periodo di trent'anni venne insanguinato quasi con altrettante guerre che il precedente, e sempre tra gli stessi rivali. Ma queste guerre più non si presentavano agl'Italiani sotto lo stesso aspetto, e più in loro non risvegliavano le medesime speranze. Tutti i diversi loro stati o erano caduti sotto l'immediato dominio di casa d'Austria, o avevano riconosciuta la di lei protezione con trattati che loro non lasciavano veruna indipendenza. Se in questo spazio di tempo alcuni di loro si staccarono momentaneamente da quest'alleanza, che si era loro imposta, vennero piuttosto trattati come ribelli che come nemici pubblici. La Francia, non isperando di trovare fra di loro degli alleati, invece di guadagnarseli colle ricompense, sforzavasi di distruggere le loro ricchezze, persuasa che tutti i loro soldati e tutti i loro tesori sarebbero sempre a disposizione dal suo costante nemico. Fece perciò alleanza contro di loro coi Turchi e coi Barbareschi, ed abbandonò le coste dell'Italia ai guasti dei Musulmani.
I trentanove anni che decorsero dopo la pace di Cateau-Cambresis fino a quella di Vervins, sottoscritta il 2 di maggio del 1598, da Enrico IV, Filippo II ed il duca di Savoja, dovrebbero, paragonati ai due primi periodi, considerarsi come un tempo di profonda pace; imperciocchè in tutto questo tempo le province d'Italia non furono attaccate da veruna armata straniera; e gli stati italiani, contenuti dalla coscienza della propria debolezza, giammai fra di loro non si abbandonarono a lunghe ostilità. Per altro l'Italia non gustò in questa sgraziata epoca i vantaggi della pace. La Francia, lacerata da civili guerre, più non aveva peso nella bilancia politica dell'Europa, mentre che il feroce Filippo II, sovrano d'una gran parte d'Italia, e che quasi comandava egualmente ai suoi alleati come a' suoi sudditi, aveva determinato di schiacciare il partito protestante ne' Paesi bassi, in Francia ed in Germania. Durante tutto il suo regno, Filippo non cessò di combattere gli Olandesi ed i Calvinisti della Francia, e di dare ajuto agli imperatori suoi alleati, Ferdinando suo zio, Massimiliano II e Rodolfo II, che tutti parimenti furono di continuo impegnati nelle guerre coi protestanti di Germania, e coi Turchi. Gl'Italiani militarono continuamente in tutto questo periodo ne' lontani paesi in cui Filippo portava la guerra. I loro generali come i loro soldati rivalizzarono di gloria, d'ingegno e di coraggio colle vecchie bande spagnuole, delle quali parevano avere adottato il carattere. In tal guisa la nazione andò ricuperando la sua virtù militare in servigio degli stranieri; e se l'avesse in seguito adoperata in difesa della patria, forse non l'avrebbe pagata troppo cara con tutto il sangue ch'ella versò; ma continuò sempre a servire, finchè nuovamente perdette l'abitudine del combattere.
La più grande disgrazia, inseparabile da questo stato abituale di guerra straniera, fu la continuazione del regime militare, la dimora o il passaggio delle truppe spagnuole nelle diverse province italiane, e più di tutto le insopportabili imposte colle quali la corte di Madrid opprimeva i popoli. L'ignoranza de' ministri spagnuoli, che non conoscevano verun principio di economia politica, era ancora più funesto che la loro rapacità, e le loro dilapidazioni. Essi mai non inventarono un'imposta che non sembrasse destinata a schiacciare l'industria ed a ruinare l'agricoltura. Le manifatture andavano in decadimento, scompariva il commercio, le campagne si disertavano, e gli abitanti, ridotti alla disperazione, erano in ultimo costretti ad abbracciare, come una professione, l'assassinio. Capi distinti pei loro natali e pei loro talenti si posero alla testa di compagnie d'assassini, che formaronsi in sul declinare del secolo nel regno di Napoli e nello stato della Chiesa; e la guerra dei malandrini pose più volte in pericolo la stessa sovrana autorità. In questo tempo le province restavano senza soldati, le coste senza vascelli da guerra, le fortezze senza guarnigione. Nulla opponevasi ai guasti dei Barbareschi, che, non contenti delle prede che potevano far sul mare, eseguivano sbarchi alternativamente su tutte le coste, e strascinavano in ischiavitù tutti gli abitanti. Tutte le atrocità con cui la tratta dei Negri afflisse l'Africa negli ultimi due secoli, vennero nel sedicesimo praticate dai Musulmani in Italia. Questi avidi mercanti di schiavi mantenevano egualmente dei traditori sulle coste per avvisarli e dar loro nelle mani gli sventurati Italiani; egualmente veniva sempre offerta una mercede al delitto, e l'estrema sventura pendeva sempre sul capo della famiglia che credeva poter riporre la sua fiducia nella propria innocenza ed oscurità. Tali erano le calamità, sotto il peso delle quali, in sul finire del sedicesimo secolo, l'Italia piangeva la perdita della sua indipendenza.
Abbiamo negli ultimi volumi esposti circostanziatamente tutti gli avvenimenti del primo dei tre periodi ne' quali si è diviso il sedicesimo secolo. Abbiamo altresì nel precedente capitolo raccolti alcuni de' fatti spettanti, per ciò che risguarda il tempo, al secondo periodo, sebbene sembrino avere tuttavia alcuno dei caratteri del primo; e questi sono l'estrema lotta sostenuta in Toscana per la libertà, e gli sforzi de' Sienesi per respingere il giogo che loro voleva imporre Carlo V. Oramai più non ci resta che di dare un'idea degli avvenimenti che nello stesso tempo o nel susseguente periodo mutarono le relazioni tra gli stati d'Italia, influirono nella sorte de' popoli, o ne alterarono il carattere nazionale. Per farlo terremo dietro ad uno ad uno ai governi tra i quali trovavasi divisa l'Italia, e daremo compendiosamente un cenno delle loro rivoluzioni.
Gli stati della casa di Savoja, i primi che i Francesi scontravano sul loro cammino entrando in Italia, eransi sottratti ai guasti delle prime guerre del secolo. Le relazioni di parentela del duca Carlo III coi due capi delle case rivali aveva al certo contribuito ad ispirar loro de' riguardi per lui. Questa stessa parentela fu poi cagione dell'invasione del Piemonte, quando del 1535 si rinnovò la guerra tra Francesco I e Carlo V. Il duca di Savoja aveva sposata Beatrice di Portogallo, sorella dell'imperatrice, e si era lasciato da lei strascinare in una confederazione colla casa d'Austria. Francesco, per vendicarsene, riclamò una parte della Savoja come eredità di sua madre Luigia, sorella del duca regnante; e sotto questo pretesto la maggior parte della Savoja e del Piemonte fu invasa dai Francesi; mentre dal canto loro gl'imperiali posero guarnigione nelle poche città che poterono sottrarre agli attacchi de' loro nemici. Per lo spazio di vent'otto anni il Piemonte fu il principale teatro della guerra tra i re di Francia e di Spagna. Quando Carlo III morì a Vercelli, il 16 agosto del 1553, trovavasi spogliato di quasi tutti i suoi stati, non meno dai suoi amici che dai suoi nemici; e sebbene suo figlio, Emmanuele Filiberto, si fosse di già acquistato nome di valoroso generale al servigio dell'imperatore, e che continuasse nelle guerre di Fiandra a coprirsi di gloria, non trovò riconoscenza ne' principi pei quali aveva combattuto. La pace di Cateau-Cambresis, che in certo qual modo fu dettata da Filippo II alla Francia, non assicurò gl'interessi d'Emmanuele, avendo essa pace lasciati nelle mani del re francese, Torino, Chiari, Civasco, Pignerolo e Villanuova d'Asti coi loro territorj, e nelle mani del re di Spagna Vercelli ed Asti. Soltanto le guerre civili della Francia persuasero Carlo IX a restituire nel 1562 al duca di Savoja le città che tuttavia occupava in Piemonte[186].
Di quest'epoca soltanto la casa di Savoja fu veduta innalzarsi in Italia quanto gli altri stati erano decaduti. Emmanuele Filiberto, e suo figlio Carlo Emmanuele, che gli successe nel 1580, non avevano più che temere dalla Francia, in allora lacerata dalle guerre di religione. Anzi l'ultimo per lo contrario fece delle conquiste e contese al maresciallo di Lesdiguieres il possedimento della Provenza e del Delfinato. Filippo II, che cominciava a veder declinare la sua potenza, sentì la necessità di accarezzare un principe bellicoso, che copriva i confini dell'Italia; ed il duca di Savoja era il solo tra gli alleati della Spagna, che avesse meno cagioni di lagnarsi dell'insolenza de' vicerè e dei generali di Filippo. Quand'ebbero fine le guerre di religione, il duca di Savoja venne vantaggiosamente compreso nella pace di Vervins del 2 di maggio del 1598. Gli restava tuttavia una vertenza con Enrico IV rispetto al possedimento del marchesato di Saluzzo. In tempo delle guerre d'Italia questi marchesi si erano attaccati alla corte di Francia, che gli aveva colmati di favori: essi avevano richiamate in vita alcune antiche carte, in forza delle quali si riconoscevano feudatarj dei Delfini del Viennese. La loro famiglia dopo essere stata divisa da alcune guerre civili, nelle quali s'immischiò Francesco I, si spense nel 1548, e la Francia occupò il marchesato di Saluzzo che gli apriva la porta dell'Italia. Dall'altro canto il duca di Savoja approfittò delle guerre civili della Francia per andare al possedimento dello stesso feudo nell'anno 1588[187]. I due trattati del 27 di febbrajo 1600, e del 17 gennajo 1601, terminarono queste vertenze tra la Savoja e la Francia, cui tutta l'Italia dava la più grande importanza. Enrico IV accettò la Bresse invece del marchesato di Saluzzo, e con questa transazione egli escluse affatto sè medesimo dall'Italia privando così gli stati di questa contrada della speranza che quel re andava fomentando di ristabilire un giorno la loro indipendenza[188].
In questo secolo aveva la casa d'Austria estesa la sua sovranità sopra quattro de' più potenti stati d'Italia, il ducato di Milano, il regno di Napoli, il regno di Sicilia e quello di Sardegna. Il duca di Milano, Francesco II, ultimo erede della casa Sforza, era morto il 24 ottobre del 1535, dopo aver fatto un inutile esperimento per iscuotere il giogo di Carlo V, che parevagli insopportabile. Egli aveva intavolati col re di Francia pericolosi trattati, ed aveva ottenuto che un ambasciatore di quella corona fosse mandato alla sua corte con una segreta missione; poi tutt'ad un tratto, spaventato dalla collera di Carlo V, aveva fatto decapitare quest'inviato, chiamato Maraviglia, o Merveilles, in occasione di una disputa intentatagli da lui medesimo[189]. Questa fu la cagione principale del rinnovamento della guerra tra la Francia e l'impero, nel 1535; e si pretende che la paura delle vendette del re affrettasse la morte del duca.
Il possedimento del Milanese, quando si spense la famiglia Sforza, non era stato definitivamente regolato nel trattato di Cambrai, e Carlo V, avanti di ricominciare la guerra, lusingò alcun tempo Francesco I, intraprendendo una negoziazione tendente ad infeudare il Milanese al secondo o terzo figliuolo del monarca francese. Nello stesso tempo fece avanzare le sue armate, ed approvvigionò le sue fortezze; e perciò quando scoppiarono le ostilità, i Francesi mai non riuscirono a sottomettere le piazze più importanti del ducato, ed i loro vantaggi si limitarono al guasto de' paesi confinanti.
I Milanesi non potevano in verun modo, sotto l'amministrazione spagnuola, rialzarsi dai disastri sofferti nelle precedenti guerre. Assurde imposte ne avevano ruinate le manifatture ed il commercio; e se le leggi non riuscirono ad isterilire quelle ricche campagne, rendettero almeno miserabili coloro che le coltivavano. Il governo volle inoltre aggravare l'odioso giogo che portavano i Milanesi collo stabilimento dell'inquisizione spagnuola. Quella dell'Italia che da molto tempo era di già stabilita in Milano, non soddisfaceva del tutto il feroce fanatismo, o la politica di Filippo II. Il duca di Sessa, governatore di Milano, annunciò nel 1563 questa reale determinazione alla nobiltà ed al popolo; ma eccitò cotale proposizione una così violenta fermentazione, ed i Milanesi parvero così determinati ad opporsi armata mano allo stabilimento di questo sanguinario tribunale, che il governatore persuase Filippo a rinunciare a questo suo divisamento[190].
Il regno di Napoli trovavasi da molto più tempo che non il Milanese sotto il dominio spagnuolo. Era stato invaso in sul finire del precedente secolo da Carlo VIII, e ne' primi anni del sedicesimo da Luigi XII; ma durante il bellicoso regno di Francesco I le armate francesi non vi furono che momentaneamente sotto il signore di Lautrec, e durante il regno di Enrico II, figlio di Francesco, e la spedizione del duca di Guisa, nel 1557, sebbene concertata con papa Paolo IV, non penetrò al di là dei confini degli Abruzzi. Questa provò che il partito angioino non era del tutto spento in quelle province; ma non pose un solo istante in pericolo la monarchia austriaca in Napoli.
D'altra parte il regno di Napoli fu lasciato quasi senza difesa ai saccheggi de' Turchi e delle potenze barbaresche, che, durante questo stesso secolo, sollevaronsi ad una grandezza fin allora senza esempio. Horuc ed Ariadeno Barbarossa (Aroudi e Khair-Eddyn) figliuoli di un corsaro rinegato di Metelino, dopo avere acquistato nome colla loro audacia come pirati, pervennero ad avere il comando delle flotte di Solimano, ed a salire sui troni di Algeri e di Tunisi[191]. Il mestiere di corsaro, ch'era stato il primo grado della loro grandezza, fu sempre d'allora in poi la scuola de' loro soldati e dei loro marinai, e la sorgente principale delle loro ricchezze. Dal 1518 al 1546, epoca del regno del secondo Barbarossa, si videro flotte di cento e di cento cinquanta vele armate pel solo oggetto di guastare le coste, di rapirne gli abitanti e venderli come schiavi. Il regno di Napoli, che presentava una lunga linea di littorali senza difesa, i di cui abitanti avevano sotto un giogo oppressivo perduto tutto il coraggio e lo spirito militare, e le di cui leggi cacciavano fuori della società numerose partite di banditi, di contrabbandieri, di facinorosi, sempre apparecchiati a servire al nemico in ogni impresa, fu più che tutto il rimanente dell'Italia esposto ai guasti dei Barbareschi. Nel 1534 tutto il paese che stendesi da Napoli a Terracina fu saccheggiato, e gli abitanti fatti schiavi. Nel 1536, la Calabria e la Terra d'Otranto provarono la stessa sorte; nel 1537 furono pure ruinate la Puglia e le adiacenze di Barletta; nel 1543 fu bruciato Reggio di Calabria, e fino alla fine del secolo pochissimi anni passarono senza che i Barbareschi, sotto il comando di Dragut Rayz dopo la morte del Barbarossa, poi di Piali e di Ulucciali, re di Algeri, non predassero e riducessero in servitù gli abitanti di molti villaggi, e talvolta di parecchie città[192].
Mentre che le province napolitane stavano in continuo timore di essere saccheggiate dai Barbareschi e dai malandrini; mentre ognuno doveva ad ogni istante tremare di vedersi rapiti i suoi beni, la moglie ed i figli, o di essere tratto egli medesimo in ischiavitù, l'amministrazione spagnuola affliggeva la capitale con un altro genere di calamità. Don Pedro di Toledo, che fu vicerè di Napoli quattordici anni, e che diede il proprio nome alla più bella strada di quella città, da lui aperta verso il 1540[193], fu in certo qual modo l'istitutore della amministrazione spagnuola a Napoli; ed i suoi successori non fecero che seguire le sue pedate. Fu il Toledo, che, riservando allo stato il monopolio del commercio dei grani, espose la capitale a frequenti carestie, e la ridusse a non avere, negli anni più abbondanti, che un pane di qualità inferiore a quello che negli anni di sterilità mangiavano i poveri quand'era libero il commercio[194]. Egli fu che diede origine a quell'odio che costantemente si mantenne inappresso, e che spesse volte scoppiò in battaglie sanguinose tra la guarnigione spagnuola ed i soldati della città. Egli fu che, geloso della nobiltà napolitana, la rese sospetta all'imperatore, e l'oppresse di mortificazioni che spinsero varj suoi capi alla ribellione. Per ultimo fu il Toledo che in aprile del 1547 volle stabilire l'inquisizione a Napoli; ma trovò nel popolo e nella nobiltà una resistenza, che credeva non doversi aspettare nè dallo stato d'oppressione cui era ridotta la nazione, nè dal di lui fanatismo religioso. I Napolitani risguardarono lo stabilimento dell'inquisizione presso di loro, come ingiurioso all'onore dell'intera nazione, quasi ch'ella fosse colpevole di eresia o di giudaismo: altronde essi sapevano che quest'odioso tribunale era un cieco istrumento nelle mani del despota, per ischiacciare e ruinare ingiustamente tutti coloro che gli si rendevano sospetti. Tutta la città impugnò le armi; si sparse alternativamente il sangue de' Napolitani e degli Spagnuoli; il Toledo e Carlo V dovettero all'ultimo rinunciare al progetto dell'inquisizione; ma quasi tutti coloro che si erano dichiarati protettori della causa del popolo, ed avevano ardito di opporsi ai voleri della corte, furono in appresso sagrificati[195].
Il regno di Sicilia, che dopo i vesperi siciliani era unito alla monarchia arragonese, ed il regno di Sardegna, aggiunto alla stessa monarchia verso la metà del quattordicesimo secolo, dopo tale epoca più non avevano avuta influenza sulla politica d'Italia che per dare ajuto a coloro che dovevano opprimere l'indipendenza nazionale. Nel sedicesimo secolo i popoli di queste due isole, trovandosi sudditi dello stesso governo che possedeva la maggior parte del continente, ricominciarono a risovvenirsi di essere italiani, ma soltanto per soffrire e gemere insieme ai loro compatriotti. L'amministrazione spagnuola aveva di già fatte retrocedere le due isole verso la barbarie; aveva spogliate le città del commercio e delle manifatture; aveva lasciate le campagne in balìa de' banditi e de' contrabbandieri, ed abbandonate le coste ai guasti de' corsari barbareschi. Nel 1565 la Sicilia si trovò esposta ad essere miseramente invasa dalla flotta ottomana, che Solimano aveva spedita per conquistarla; ma, contro i consiglj del pascià Maometto, comandante della spedizione, volle il sultano che prima di scendere sulle coste della Sicilia si assediasse Malta. Questa imprudente risoluzione salvò la Sicilia, che il vicerè, Garzia di Toledo, non avrebbe potuto difendere. Tutta la potenza dei Turchi andò a rompersi contro l'eroica resistenza del gran maestro La Valette e de' suoi cavalieri. Dragut Rayz, re di Tripoli, vi fu ucciso il 21 di giugno del 1565. Hassem, figliuolo di Barbarossa, re d'Algeri, ed i pascià Piali e Mustafà furono respinti; e l'armata, dopo quattro mesi di battaglie, fu costretta a ritirarsi in disordine dall'assedio[196].
Le guerre, che ne' primi anni del secolo avevano precipitata l'Italia nella schiavitù, erano state quasi tutte accese dall'ambizione o dalla politica dei papi Alessandro VI, Giulio II, Leon X e Clemente VII. L'ultimo, dopo essere stato crudelmente punito delle sue pratiche, si era non pertanto alla conclusione della pace trovato sovrano di più vaste province, quali la Chiesa non mai aveva riunite sotto il suo governo. Vero è che tali province erano ridotte in povertà e spopolate da trent'anni di guerre, e più che dalle guerre dalla ferocia de' vincitori spagnuoli; ma la cieca pietà dei Cattolici portava tuttavia alla santa sede ogni anno ricchi tributi; il nome del papa era sempre temuto: desso pareva rendere più formidabili le leghe cui prendeva parte; e passò alcun tempo prima che i successori di Clemente VII si accorgessero, che, sebbene il trattato di Barcellona avesse loro rendute tutte le province che questo pontefice aveva perdute, non avevano però colle province ricuperata l'indipendenza.
Clemente VII ebbe per successore Alessandro Farnese, decano del sacro collegio, il quale, eletto il 12 di ottobre del 1534, prese il nome di Paolo III. Non meno ambizioso che Clemente VII, egli ebbe la stessa passione di dare alla sua famiglia il grado di casa sovrana. Questa famiglia, che possedeva il castello di Farneto nel territorio d'Orvieto, aveva nel quattordicesimo secolo dati alla milizia alcuni distinti condottieri. Ma Paolo III le diede un nuovo lustro, accumulando tutti gli onori di cui poteva disporre sul capo di suo figlio naturale Pier Luigi, e dei figli di questi. Nel 1537 cominciò ad erigere in ducato le città di Nepi e di Castro in favore di Pier Luigi Farnese; e la seconda di queste città, situata nelle Maremme toscane, diventò poi l'appannaggio d'Orazio, il secondo de' nipoti pontificj. Pier Luigi, nominato nello stesso tempo gonfaloniere della Chiesa, segnò lo stesso anno in cui ricevette i primi feudi della camera apostolica, con uno scandaloso eccesso commesso contro il giovane vescovo di Fano, prelato non meno commendevole per la sua santità che per la sua avvenenza. Il tiranno, che assoggettò quest'uomo ad un'indegna violenza, con sì enorme delitto non tanto provava le abituali sue dissolutezze, quanto il desiderio di offendere la pubblica morale e la religione, di cui suo padre era sommo sacerdote[197].
Paolo III non ristringeva le sue viste ai piccoli ducati dati al figliuolo; egli sentiva che per istabilire la grandezza di casa Farnese conveniva porre a prezzo l'alleanza della santa sede, e trovò i due rivali, che si contendevano il dominio dell'Europa, disposti a dare lo stesso prezzo che avevano di già pagato a Clemente VII. Carlo V, per guadagnarsi l'amicizia del papa, accordò nel 1538 sua figlia Margarita d'Austria, vedova di Alessandro de' Medici, ad Ottavio Farnese, nipote di Paolo III, creandolo in pari tempo marchese di Novara. Inoltre il papa acquistò per lui nel susseguente anno il ducato di Camerino[198]. D'altra banda Paolo III ottenne nel 1547 per Orazio, duca di Castro, suo secondo nipote, una figlia naturale di Enrico II.
Ma sebbene Paolo III facesse a vicenda sperare all'imperatore ed al re di Francia di unire le sue alle loro armate, seppe fino alla fine del suo pontificato sottrarsi a qualunque impegno di guerra. Per lo contrario cercò più volte di mettere pace fra i due rivali. Vero è che nello stesso tempo mirava a raccogliere per sè medesimo grandi vantaggi; perciocchè, ammettendo sì l'uno che l'altro essere conveniente al riposo dell'Europa che l'eredità dello Sforza passasse in una nuova famiglia di feudatarj, Paolo III chiedeva il ducato di Milano per suo figlio Pier Luigi, ed offriva ai due sovrani per tale concessione ricche ricompense[199].
Per altro Paolo III non tardò ad avvedersi che il riposo dell'Europa non era il primo oggetto cui mirassero i due monarchi, e che non pensavano a dare il ducato di Milano ad un terzo, che perchè perdevano la speranza di conservarlo per sè medesimi. Carlo V essendosi all'ultimo appropriato questo ducato, Paolo si ristrinse a formare uno stato a suo figlio a spese di quello della Chiesa. Finalmente in agosto del 1545 ottenne l'assenso del sacro collegio per accordare a Pier Luigi Farnese gli stati di Parma e di Piacenza, col titolo di ducato dipendente dalla santa sede. In contraccambio il nipote del papa rinunciò ai due ducati di Nepi e di Camerino, che vennero riuniti alla camera apostolica; ed i cardinali, comperati con ricchi beneficj, credettero, o finsero di credere che tornava più vantaggioso alla santa sede la nuova incorporazione di queste piccole due province, che si trovavano nel centro de' stati pontificj, anzi che la conservazione di due altre, veramente più grandi, ma rispetto alle quali erano tuttavia dubbiosi i diritti della Chiesa, e che più non avevano veruna comunicazione coll'altro suo territorio[200].
Tale principio ebbero i ducati di Parma e di Piacenza, e la nuova grandezza di casa Farnese. Questa si collocò tra le case sovrane quasi nello stesso tempo che quella dei Medici; e la rivalità di queste due case, che si spensero nello stesso tempo, si tenne viva due secoli. Entrambe queste case scosse nella loro origine dall'odio de' loro sudditi e dalla violenta morte del fondatore della loro dinastia, non parevano destinate a durare lungo tempo. Pier Luigi Farnese aveva appena regnato due anni, quando fu assassinato il 10 settembre del 1547 dai nobili di Piacenza, ai quali erasi renduto esoso colle disolutezze, coll'avarizia e colle crudeltà sue. Don Ferdinando Gonzaga, governatore del Milanese a nome dell'imperatore aveva tenuto mano a questa congiura, ed occupò subito Piacenza in nome del suo padrone[201]. Paolo III, non dubitando che non venisse bentosto attaccata anche Parma, la riunì nuovamente agli stati della Chiesa, per dare maggior peso ai diritti della santa sede sopra questa città. Egli offrì in contraccambio ad Ottavio lontane speranze, che questi non osava lusingarsi di vedere ridotte ad effetto a cagione della decrepita vecchiaja di suo avo. Resistè finchè gli fu possibile al volere del papa, ma finalmente dovette cedere. Ferdinando Gonzaga erasi impadronito de' luoghi più forti del circondario di Parma e teneva la città quasi bloccata; nello stesso tempo l'imperatore domandava imperiosamente al papa che gli fosse restituita Parma, siccome parte del ducato di Milano. Il vecchio pontefice cercava di far valere i diritti della santa sede con Memorie e con Manifesti; ma egli si andava sempre più indebolendo: la contesa mantenevasi già da due anni, e le speranze d'Ottavio Farnese diminuivano ogni giorno. Finalmente, supponendo di non avere più tempo da perdere, egli si recò in poste a Parma, e tentò di occuparla di nuovo. I comandanti della città e del castello non vollero ubbidirgli; e Paolo III, avvisato di quest'intrapresa e delle offerte di accomodamento fatte da Ottavio a don Gonzaga, ne concepì tanto dolore, che ne morì dopo quattro giorni il 10 novembre del 1549 in età di ottantadue anni[202].
Sarebbesi dovuto credere che la casa Farnese più non avrebbe potuto rialzarsi da tante calamità. Ottavio era stato spogliato della metà de' suoi stati dall'imperatore suo suocero, e dell'altra metà dal papa suo avo. Più non aveva nè tesori, nè armate, nè fortezze, e pareva ridotto a non avere più speranze, siccome più non aveva nè forze proprie, nè alleati. Ma Paolo terzo nel suo lungo pontificato aveva creati più di settanta cardinali. Sedevano tra gli altri nel sacro collegio due suoi nipoti, i quali ebbero bastante influenza e destrezza per far cadere l'elezione, il 22 di febbrajo del 1550, sopra il cardinale del Monte, creatura del loro avo, che assunse il nome di Giulio III. Questi, due giorni dopo la sua elezione, ordinò che Parma colla sua fortezza si restituisse ad Ottavio Farnese; confermò l'investitura del ducato di Castro ad Orazio Farnese di lui fratello; lasciò ad ambidue le importanti cariche di prefetto di Roma e di gonfaloniere della Chiesa, ed in fine fece per quella casa ciò che Paolo III con tutta la sua ambizione non aveva potuto fare[203].
Ma non per questo poteva credersi assicurata la sorte del duca di Parma: l'imperatore pareva avere dimenticato d'averlo egli stesso scelto per suo genero, e pretendeva di spogliarlo del restante de' suoi stati. Lo ridusse con ciò a gettarsi nelle braccia del re di Francia, a nome del quale Ottavio Farnese fece la guerra dal 27 di maggio del 1551 fino al 29 d'aprile del 1552, ed al servigio del quale Orazio, duca di Castro, fratello di Ottavio, militò fino al 18 di luglio del 1553, ch'egli fu ucciso in Hesdin mentre difendeva questa città contro gl'imperiali[204]. Ma Piacenza non fu restituita al duca Ottavio che il 15 settembre del 1556 da Filippo II, il quale, spaventato dall'invasione del duca di Guisa in Italia, volle procurarsi l'alleanza del Farnese[205]. Ad ogni modo Filippo conservò una guarnigione nella rocca di quella città, che restituì soltanto trent'anni più tardi, nel 1585, in segno di riconoscenza per gli eminenti servigi prestatigli da Alessandro Farnese, figlio d'Ottavio e principe di Parma.
Ottavio andò in parte debitore alla lunga sua vita dello stabilimento della sua sovranità, ch'egli lasciò ai suoi discendenti. Morì il 18 settembre del 1586; e suo figlio Alessandro, che da lungo tempo mieteva allori alla testa delle armate spagnuole in Fiandra, non governò giammai personalmente gli stati da lui renduti illustri. Egli ancora guerreggiava ne' Paesi Bassi, quando morì in Arras il 2 dicembre del 1592, lasciando suo figlio Rannuccio solidamente stabilito nei due ducati di Parma e di Piacenza sotto la duplice protezione della Chiesa e del re di Spagna[206].
Paolo III fu l'ultimo di quegli ambiziosi pontefici che smembrarono il dominio della Chiesa per dare stato alla loro famiglia. Giulio III, che gli successe il 9 febbrajo del 1549, credette di non avere ottenuta la tiara che per abbandonarsi senza ritegno alla pompa ed ai piaceri. Egli soltanto ottenne da Cosimo de' Medici Monte Sansovino sua patria, nel territorio d'Arezzo; eresse quella terra in contea, a favore di suo fratello Baldovino del Monte, e diede a questo stesso fratello il ducato di Camerino, dal Farnese restituito alla camera apostolica. Del resto parve che a null'altro pensasse che a colmare di ricchezze e di onori ecclesiastici un giovanetto da lui amato. Lo fece adottare da suo fratello; lo creò cardinale in età di diciassette anni, sotto il nome d'Innocenzo del Monte, e lo corruppe in modo con tanti favori, che questo giovane, tolto dalla più bassa classe del popolo, diventò a cagione de' suoi vizj lo scandalo del sacro collegio, dal quale lo scacciarono i successori di Giulio III[207].
Questo pontefice degno di non molta stima e di poco biasimo, morì il 29 di marzo del 1555, ed ebbe per successore Marcello II di Monte Pulciano, che regnò soltanto ventidue giorni, dal 9 al 30 aprile. L'immatura morte di lui fece luogo a Giovan Pietro Caraffa, Napolitano, che nell'avanzata età di ottanta anni fu eletto il 23 maggio del 1555 sotto il nome di Paolo IV[208].
Da gran tempo la santa sede non aveva avuto che uomini unicamente animati da mondane viste, che si erano successivamente proposto di soddisfare al loro gusto pei piaceri, per le arti, per la magnificenza o per la guerra. Gli uni avevano voluto dilatare la stessa monarchia della chiesa, gli altri per lo contrario staccarne de' feudi per innalzare le loro famiglie; in tutti l'uomo politico aveva coperto l'uomo di chiesa, ed il fanatismo religioso aveva avuta pochissima influenza sulla loro condotta. Tale fu il carattere dei papi in tutto il tempo che decorse dal concilio di Costanza a quello di Trento; ma papa Paolo IV aveva un affatto diverso sentimento.
Il pericolo che sovrastava alla chiesa romana pei progressi della riforma, mutò alla fine il carattere de' suoi capi. Erasi fin allora veduto il basso clero geloso del clero superiore, i vescovi gelosi della corte di Roma, i cardinali gelosi del papa, e dal canto loro i superiori sempre diffidenti o sempre gelosi dei diritti dei loro inferiori. Avevano i papi lungo tempo risguardati i vescovi come loro segreti ma costanti nemici, e questi avevano effettivamente mostrato uno spirito repubblicano che mirava a limitare il potere del capo della chiesa. Ma nello stesso tempo i riformatori avevano attaccato il basso e l'alto clero e l'intera chiesa; coloro che si erano divisi per attirare a sè tutto il potere, sentirono in allora la necessità di unirsi per la comune difesa. I re, cui il clero aveva tanto tempo contrastata l'autorità, si trovarono dopo quest'epoca in guerra collo spirito repubblicano de' riformatori; perciò fecero alleanza cogli antichi loro nemici contro i nuovi avversarj, e tutti coloro che per qualunque titolo e sotto qualsiasi protesto proponevansi di vietare agli uomini di operare e di pensare da sè, riunironsi in una sola lega contro tutto il resto del genere umano.
Fu questo nuovo spirito di resistenza alla riforma che diede al concilio di Trento un carattere così diverso da quello de' precedenti concilj. Dietro le calde istanze di Carlo V questo concilio erasi convocato da Paolo III ad oggetto di decidere tutte le quistioni di fede e di disciplina che la riforma aveva fatto nascere in Germania. Era stato aperto a Trento il 15 dicembre del 1545; ma poco dopo Paolo III, diffidando di quest'assemblea, l'aveva nel 1547 traslocata a Bologna, affinchè fosse più dipendente dalla santa sede. Giulio III acconsentì nel 1551 a farlo tornare a Trento. Le vittorie di Maurizio di Sassonia contro Carlo V, ed il subito avanzamento verso il Tirolo dell'armata protestante, la disperse nel 1552. Il concilio si riaprì di nuovo nella stessa città di Trento, il giorno di Pasqua del 1561, da papa Pio IV, e durò fino al 4 di dicembre del 1563[209].
Il concilio di Trento si adoperò con eguale ardore a riformare la disciplina della Chiesa, come ad impedire ogni riforma nelle credenze e negl'insegnamenti di lei. Egli allargò la breccia tra i cattolici ed i protestanti; sanzionò come articoli di fede le opinioni più invise a coloro che volevano far uso della ragione o de' loro naturali sentimenti per dirigere la loro coscienza[210]. Spinse al più alto grado il fanatismo dell'ortodossia; ma in pari tempo ritornò al clero il primiero vigore da gran tempo indebolito. I preti avevano troppo apertamente sagrificata la propria riputazione ai loro piaceri; tutti gli abusi che si erano introdotti nella disciplina miglioravano la loro condizione, ma in pari tempo diminuivano la loro riputazione ed il loro potere. Per lo contrario la politica del concilio mirò a renderli rispettabili agli occhi dei divoti, a vincolarli più strettamente collo spirito di corporazione, ad assoggettarli alla regola; e questa stessa ubbidienza avrebbe loro data un'irresistibile forza, ed essi avrebbero signoreggiati i consigli di tutti i re, se i progressi dello spirito umano non si fossero avanzati con maggiore rapidità che questa riforma del clero.
Si sentì l'influenza del nuovo spirito che animava la chiesa, e che si era esteso fino al sacro collegio, nelle prime elezioni che seguirono la convocazione del concilio di Trento. Incominciando da quest'epoca i pontefici furono spesso più fanatici e crudeli che non i loro predecessori; ma più non furono visti disonorare la santa sede coi vizj e con un'ambizione affatto mondana. Vero è che Giulio III, il quale fu eletto dopo essersi adunato il concilio, non corrispose alla vantaggiosa opinione che si era di lui concepita; tuttavolta quest'opinione era fondata sulle virtù e sull'austera condotta di cui diede prove prima di giugnere alle ultime grandezze. Marcello II, che gli successe, e che regnò pochissimi giorni, era riputato un uomo santissimo. Paolo IV, creato il 23 di maggio del 1555, si era dato a conoscere per uno de' più dotti cardinali; era stato in particolar modo notato il di lui zelo per l'ortodossia e l'ordine dei Teatini da lui fondato, gli dava grande riputazione di santità[211].
Il fanatismo persecutore salì con Paolo IV sulla sede di san Pietro. L'intolleranza de' precedenti pontefici non era, per così dire, che l'effetto della loro politica; ma quella di Paolo IV era ai suoi occhi medesimi la giusta vendetta del cielo irritato, e della propria disprezzata autorità. L'impetuoso carattere di questo vecchio napolitano non ammetteva nè modificazioni, nè ritardo nell'ubbidienza ch'egli esigeva; qualunque esitanza parevagli una ribellione, e perchè confondeva in coscienza le sue proprie opinioni colle suggestioni dello spirito santo, avrebbe creduto di peccare egli stesso, se avesse accordato un solo istante a coloro i quali erano tanto empi d'avere l'ardire di opinare diversamente da lui. Era egli stato, fin sotto il regno di Paolo III, il principale promotore dello stabilimento dell'inquisizione in Roma, ed aveva egli stesso coperta la carica di grande inquisitore. Quando salì sul trono raddoppiò il rigore degli editti de' suoi predecessori, e moltiplicò i suplicj di coloro che nello stato della Chiesa rendevansi sospetti di favoreggiare le nuove dottrine.
Filippo II e Paolo IV cominciarono a regnare nello stesso tempo, ed erano ambidue animati dallo stesso fanatismo; pure questa passione non formò tra di loro l'unione che poteva aspettarsi. Sdegnato il papa della dipendenza in cui la casa d'Austria aveva ridotta la chiesa romana, aveva determinato di scuotere cotal giogo; fece perciò alleanza con Enrico II, che, sebbene amico fosse degli eretici di Germania e de' Turchi, trattava i protestanti francesi con non minore ferocia e perfidia del monarca spagnuolo. Quest'alleanza strascinò la corte di Roma in una breve guerra contro Filippo II, la quale fu l'estrema che i papi intraprendessero nel presente secolo per motivi di pura politica; questa ebbe un esito assai più felice che non poteva sperarsi dalla debolezza del papa, e dalla inconsideratezza dei suoi tre nipoti, de' quali aveva troppo ascoltati i consigli, e lusingata l'ambizione. Il duca d'Alba, che comandava gli Spagnuoli, in sul cominciare di dicembre del 1556, entrò nello stato della chiesa ed occupò molti luoghi forti senza quasi incontrare resistenza. Il duca di Guisa accorse in ajuto del papa con un'armata francese; ma la disfatta del contestabile di Montmorencì a san Quintino sforzò bentosto Enrico II a richiamarlo. Il papa restava senza alleati e senza mezzi, quando Filippo II, che non poteva risolversi a stare in guerra contro la santa sede, il 14 settembre del 1557, comperò la pace al prezzo delle più umilianti condizioni. Per altro si vendicò dei Caraffa, che Paolo IV, loro zio, aveva arricchiti colle spoglie della casa Colonna, e ch'egli sagrificò negli ultimi anni della sua vita, conoscendo d'essere stato da loro ingannato[212].
A Paolo IV, morto il 18 d'agosto del 1559, successe Pio IV, fratello del marchese di Marignano della casa de' Medici di Milano. Comincia con lui la serie di que' pontefici, che gli storici ortodossi lodano senza restrizione; Pio V, che gli successe il 17 di gennajo del 1560, e Gregorio XIII, che fu creato il 13 di maggio del 1572, avevano press'a poco lo stesso carattere. Tutti tre d'altro non parvero occupati che della cura di combattere e di sopprimere l'eresia: affatto rinunciando ad ogni disputa per istabilire l'indipendenza della santa sede, ad ogni gelosia verso la corte di Spagna, intimamente si collegarono con un monarca, che col suo zelo per l'inquisizione, per l'uccisione de' Giudei di Arragona, dei Musulmani di Granata, de' protestanti dei Paesi Bassi, che colle sue continue guerre contro i Calvinisti di Francia, gl'Inglesi ed i Turchi, mostravasi il più affezionato figliuolo della chiesa. I papi più non pensarono a fare la guerra pel temporale interesse de' loro stati o delle loro famiglie, ma largamente contribuirono coi tesori e coi soldati della chiesa alle imprese del duca d'Alba ne' Paesi Bassi, al sostentamento della lega di Francia ed alle guerre coi Musulmani. Sotto questi tre papi si videro di nuovo le legioni romane in riva alla Senna ed al Reno, mentre altre guerreggiavano contro i Turchi sulle sponde del Danubio e sulle coste di Cipro e dell'Asia Minore: e Marc'Antonio Colonna, generale delle galere pontificie, ebbe una parte essenziale alla vittoria di Lepanto, ottenuta il 7 ottobre del 1571, da don Giovanni d'Austria sopra i Musulmani[213].
In mezzo a questa serie di papi egualmente onorati per la decenza de' loro costumi, per la sincerità del loro zelo religioso, e per la non curanza de' loro personali interessi, Sisto V, successore di Gregorio XIII, che regnò dal 24 aprile del 1585 fino al 20 agosto del 1590, si distingue pel vigore del suo carattere, per le sue grandiose imprese, per la magnificenza de' monumenti con cui abbellì Roma, e per le forme pronte, severe, dispotiche della sua amministrazione. Egli liberò i suoi stati dagli assassini e vi mantenne una rigorosa polizia; accumulò col mezzo di gravissime imposte un immenso tesoro, e si meritò ad un tempo l'ammirazione e l'odio de' suoi sudditi[214].
Urbano VII, Gregorio XIV, Innocenzo IX, che tennero soltanto alcuni mesi il papato, avevano le stesse virtù ed i medesimi difetti de' loro predecessori dopo il concilio di Trento. Clemente VIII, che fu eletto il 30 gennajo del 1592, protrasse il suo regno fino al 30 di marzo del 1605. Dovremo parlarne, allorchè indicheremo compendiosamente le rivoluzioni del susseguente secolo.
L'amministrazione di tutti i papi che si succedettero dopo l'apertura del concilio di Trento fino alla fine del secolo, è macchiata dalle atroci persecuzioni esercitate contro i protestanti d'Italia. Gli abusi della corte di Roma erano in questo paese assai meglio conosciuti che oltremonti; vi si erano coltivate più presto le lettere, e con maggior cura; la filosofia vi aveva fatti più grandi progressi, ed in principio del secolo aveva discusse le stesse materie religiose con grandissima indipendenza. La riforma si era fatta tra i letterati non pochi partigiani; ma meno assai nella classe povera e laboriosa, che l'adottò con tanto ardore in Germania ed in Francia. I papi riuscirono a spegnerla nel sangue; l'inquisizione, in tutto il secolo, fu la strada che più sicuramente condusse al trono pontificio[215].
I papi non mostrarono meno il loro crudele fanatismo nella parte che presero alle guerre civili e religiose del restante dell'Europa. Pio V, per ricompensare il duca d'Alba dell'atroce sua condotta verso i Fiamminghi, gli mandò nel 1568 il cappello e lo stocco gemmato, che i suoi predecessori avevano talvolta mandati ai gran re[216]. Gregorio XIII aveva fatto rendere grazie a Dio per l'assassinio del giorno di san Bartolomeo[217]. I successori di questo papa ricusarono di ricevere gli ambasciatori di Enrico IV, quando vennero per concertare l'abjura di Enrico, ed ancora quando Enrico stesso si fu pubblicamente ricreduto. Tutti questi pontefici non cessarono di fomentare le guerre civili della Francia, della Fiandra, della Germania, e le congiure contro la regina d'Inghilterra; di modo che le calamità degli ultimi cinquant'anni del sedicesimo secolo furono, in tutta l'Europa, costantemente l'opera dei papi.
I sudditi dei papa, durante la seconda metà del sedicesimo secolo, non furono più felici che quelli della Spagna: un governo non meno assurdo gli opprimeva senza proteggerli, mentre che le più onerose gabelle, i più ruinosi monopolj distruggevano ogni industria; un'amministrazione arbitraria e violenta, vincolando il commercio dei grani, era cagione di frequenti carestie, sempre seguite da contagiose malattie. Quella del 1590 e 1591 rapì alla sola Roma sessanta mila abitanti, molte castella; e molti doviziosi villaggi dell'Ombria rimasero dopo tale epoca affatto spopolati[218]. In tal modo stendevasi la desolazione sopra campagne in addietro tanto feraci, le quali diventavano indi preda d'un aere malsano: in appresso l'effetto si faceva a vicenda causa, e gli uomini più non potevano vivere dove que' flagelli avevano distrutte le precedenti popolazioni.
Sebbene lo stato pontificio avesse il vantaggio di una profonda pace, tutte le sue truppe non bastavano a proteggere i cittadini, nè contro le incursioni dei Barbareschi, nè contro i guasti dei masnadieri. Questi, renduti arditi dal loro numero, e facendosi gloria di combattere contro il vergognoso governo della loro patria, erano giunti a segno di risguardare il proprio mestiere come il più onorato di tutti; lo stesso popolo, da loro taglieggiato, applaudiva al loro valore e risguardava le loro bande come semenzai di soldati. I gentiluomini addebitati, i figli di famiglia sconcertati ne' loro affari, recavansi ad onore di avervi servito per qualche tempo in queste bande, ed alcune volte varj grandi signori si posero alla loro testa per sostenere una regolare guerra contro le truppe del papa. Alfonso Piccolomini, duca di Monte Marciano e Marco Sciarra, furono i più destri ed i più formidabili capi di questi facinorosi: il primo ruinava la Romagna, l'altro l'Abruzzo e la campagna di Roma. Siccome l'uno e l'altro avevano ai loro ordini più migliaja di uomini, non si limitavano a svaligiare i passaggeri, o a somministrare assassini a chiunque volesse pagarli per eseguire private vendette; ma sorprendevano i villaggi e le piccole città per saccheggiarle, e forzavano le più grandi a riscattarsi con grosse taglie, se i loro abitanti volevano salvare dall'incendio le loro ville e le messi[219].
Questo stato di abituale assassinio fu sospeso durante il regno di Sisto V, che col terrore della sua militare giustizia, ottenne di liberare i suoi stati dai banditi, dopo averne fatte perire diverse migliaja; ma così rapide e così violenti furono l'esecuzioni da lui ordinate, che non pochi innocenti vennero avviluppati ne' supplicj de' colpevoli. Altronde gli assassinj ricominciarono sotto il regno de' suoi successori con più furore di prima; i signori dei feudi continuarono a dare asilo ne' piccoli loro principati ai delinquenti perseguitati dai tribunali, ed a riguardare quest'asilo come il più bel privilegio delle giurisdizioni signorili. Quest'usanza si mantenne in vigore fino all'età nostra, e furono più volte veduti i signori avere la parte loro de' prodotti del delitto. Le abitudini nazionali ne rimasero pervertite, ed anche oggi in quella parte dello stato romano ove non fu distrutta tutta la popolazione, specialmente nella Sabina, il contadino non si fa scrupolo di associare il mestiere d'assassino e di ladro a quello di agricoltore.
Abbiamo di già osservato quali furono in questo secolo il principio ed i progressi del ducato di Parma e Piacenza, il più vasto feudo della Chiesa. Quello di Ferrara, che di poco gli cedeva in estensione ed in popolazione, doveva avere una sorte tutt'affatto diversa negli ultimi anni del secolo.
Alfonso I d'Este, che possedeva questo ducato unitamente a quelli di Modena e di Reggio, durante i pontificati di Giulio II, di Leon X e di Clemente VII, morì il 31 ottobre del 1534, un mese più tardi dell'ultimo di questi pontefici, di cui aveva sperimentata la crudele nimicizia[220]. Ercole II, che gli successe, sentì che l'Italia aveva affatto perduta l'indipendenza, e più non si considerò che come un luogotenente di Carlo V. Pure la sua consorte era francese e figlia di Lodovico XII: sua figliuola aveva sposato il duca d'Aumale, che poi fu duca di Guisa; tutte queste relazioni lo attaccavano alla Francia; onde fidando nella forza naturale del suo paese sparso di canali e di paludi, in quella della sua capitale e nella vicinanza de' Veneziani che segretamente favoreggiavano la Francia, egli tentò due volte di scuotere un giogo che provava troppo pesante. Quando il duca Ottavio Farnese fu costretto nel 1551 a porsi sotto la protezione d'Enrico II, il duca di Ferrara non cessò mai di mandargli approvvigionamenti di munizioni; e benchè non la rompesse apertamente coll'imperatore, eccitò in lui il più vivo risentimento[221]. Di nuovo, quando in principio del regno di Filippo II, Paolo IV si alleò colla Francia contro questo monarca, Ercole II accettò nel 1556 le funzioni di generale dell'armata della lega, e colla sua piccola armata venne talvolta a battaglia ai confini de' suoi stati col duca di Parma, che in allora si era dato al partito imperiale. Filippo, poichè si fu riconciliato col papa, incaricò i duchi di Firenze e di Parma di castigare Ercole II; e questi, dopo avere sofferto i guasti delle loro truppe, si dovette credere troppo felice di poter ottenere una pace umiliante colla Spagna, il 22 aprile del 1558. Egli morì il 3 d'ottobre del susseguente anno[222].
Alfonso II, figliuolo d'Ercole, quello stesso principe che si acquistò un'odiosa celebrità colle persecuzioni esercitate contro il Tasso, non si provò giammai a scuotere il giogo della Spagna, nè a rivendicare un'indipendenza ch'era d'uopo risguardare come perduta. Altronde il piccolo e vano suo spirito non era fatto per concepire un progetto che richiedesse vera fierezza; ed egli non cercava altra gloria che quella che potevano dargli le feste della sua corte. Esaurì in una profonda pace le finanze de' tre ducati coi suoi splendidi divertimenti, con tornei e con pompe d'ogni genere; raddoppiò tutte le imposte, e ridusse i suoi popoli alla disperazione. Tutta la carriera politica di Alfonso II si limitò a dispute di precedenza col sovrano della Toscana, ed a dispendiose pratiche per acquistare i suffragj de' Polacchi nel 1575, onde ottenere la corona di quel regno. Sebbene ammogliato tre volte, non ebbe prole, e la legittima linea della casa d'Este finì in lui il 27 ottobre del 1597[223].
Ma Alfonso I aveva avuto, poco prima di terminare i suoi giorni, un figlio naturale da Laura Eustochia, poscia, secondo dicevasi, da lui sposata. Questo figlio, chiamato come lui Alfonso, era stato autorizzato a portare il nome della casa d'Este, ed era stato dato in isposo a Giulia della Rovere, figlia del duca di Urbino, dalla quale aveva avuto un figlio chiamato Cesare, che Alfonso II nominò suo erede. Non era questa la prima volta che l'eredità di casa d'Este passava in mano di bastardi, ed i papi non si erano opposti alla successione di Lionello e di Borso, nel quindicesimo secolo. Sebbene la casa d'Este avesse riconosciuto di tenere il ducato di Ferrara come un vicariato della Chiesa, da circa quattrocento anni n'era effettivamente sovrana, ed i papi si erano accontentati dei vani onori della suprema signoria[224].
Ad ogni modo l'ambizione che Giulio II, Leon X e Clemente VII avevano manifestata nelle loro guerre contro Ferrara, si risvegliò nel loro successore alla morte di Alfonso II. Clemente VIII, conosciuto prima sotto il nome di cardinale Ippolito Aldobrandino, era salito il 30 gennajo del 1592 sul trono pontificio. Quand'ebbe avviso della morte di Alfonso, si affrettò di dichiarare tutti i feudi ecclesiastici della casa d'Este devoluti alla santa sede per l'estinzione della legittima discendenza, e di mandare verso il Ferrarese suo nipote, il cardinale Pietro Aldobrandino, con una grossa armata. Don Cesare, che mancava di talenti e di vigore di carattere si lasciò atterrire dall'avvicinamento delle milizie pontificie. Non cercò di difendere uno stato che offriva grandissimi mezzi, ed il 13 gennajo del 1598 sottoscrisse un vergognoso trattato, col quale rilasciava alla santa sede Ferrara e tutti i feudi ecclesiastici da lui posseduti, riservandosi solamente i beni patrimoniali de' suoi antenati. Ritirossi in appresso ne' ducati di Modena e di Reggio, il di cui possedimento non gli venne contrastato dall'imperatore Rodolfo II, che ne aveva il supremo dominio[225].
Ferrara, cadendo sotto il dominio ecclesiastico, perdette la sua industria, la sua popolazione, le sue ricchezze. Al presente più non trovasi in questa deserta e ruinata città veruna immagine di quella splendida corte, in cui i letterati e gli artisti venivano accolti con tanto favore. Modena per lo contrario, diventata la sede del governo di casa d'Este, si arricchì sulle ruine della sua vicina, e vestì un aspetto di eleganza, d'industria e di attività che mai conosciuto non aveva ne' migliori tempi de' suoi primi duchi.
Anche i ducati d'Urbino e di Camerino erano feudi della santa sede, meno importanti assai di quelli di Parma e di Ferrara; ma la riputazione militare del duca Francesco Maria della Rovere, e la protezione de' Veneziani, de' quali aveva tanto tempo comandati gli eserciti, contribuivano alla sua sicurezza. Nel 1534 aveva fatta sposare a Guid'Ubaldo, suo figliuolo, Giulia, figlia di Giovan Maria di Varano, ultimo duca di Camerino, e sperava con ciò di riunire questi due piccoli stati; ma Ercole di Varano riclamava Camerino come feudo maschile; e non trovandosi abbastanza potente per fare da sè medesimo valere i proprj diritti, li vendette a papa Paolo III. Quando venne a morte Francesco Maria della Rovere, il primo di ottobre del 1538, suo figlio Guid'Ubaldo, che gli successe, acconsentì a comperare l'investitura di Urbino colla cessione al papa del ducato di Camerino, che fu di nuovo infeudato prima ai Farnesi, indi ai conti del Monte, nipoti di Giulio III, e che all'ultimo ricadde alla camera apostolica[226].
Guid'Ubaldo II, che governò il ducato d'Urbino dal 1538 al 1574, non giunse di lunga mano alla gloria paterna. I suoi confini mai non furono esposti a veruna minaccia, ed il suo montuoso paese era poco esposto al passaggio delle armate. Non aveva coste che potessero essere saccheggiate dai Barbareschi; ma pure la vanità ed il lusso del principe erano tali, che riuscivano ai popoli quasi non meno pesanti che le guerre straniere. Le eccessive imposte ridussero gli abitanti in estrema miseria, cui tennero dietro necessariamente la carestia e le malattie contagiose. Nel 1573 scoppiarono alcune sedizioni, che Guid'Ubaldo punì con estremo rigore, facendo perire in mezzo ai tormenti molti suoi sudditi. Egli morì nel susseguente anno, e gli successe suo figlio Francesco Maria II, il di cui regno fu ancora meno fecondo d'avvenimenti che non quello del padre[227].
I marchesi di Monferrato e di Mantova contavansi ne' precedenti secoli fra i principi indipendenti d'Italia. Federico II, duca di Mantova, raccolse l'eredità di queste due dinastie nell'epoca in cui era moribonda l'indipendenza italiana; ma dopo tale unione egli si trovò meno potente di quel che lo fossero i suoi antenati, quando non erano che semplici marchesi di Gonzaga.
Bonifacio, marchese di Monferrato, era morto per una caduta da cavallo, nel 1531, in sul fiore dell'età. Altri non restava della nobilissima famiglia de' Paleologhi che il zio Bonifacio, Giovan Giorgio, che depose per succedergli le insegne ecclesiastiche, e due sorelle, la maggiore delle quali sposò il duca di Mantova Federico II[228]. Allorchè il giorno 30 aprile del 1533 morì Giovan Giorgio, i commissarj imperiali occuparono il Monferrato, aspettando che Carlo V decidesse a chi spettava quest'eredità. Al duca di Mantova riuscì facile il dimostrare che il Monferrato era un feudo femminile, e che era entrato nella casa Paleologa per mezzo di donne. Ad ogni modo non ne ottenne dall'imperatore il possesso che il 3 di novembre del 1536; e l'imperatore a questo modo rinunciò appena a conservarlo per sè medesimo. I Gonzaghi, che si succedettero in quel secolo, e che nel 1574 ottennero che il Monferrato fosse eretto in ducato come lo era di già il Mantovano, governarono questi due paesi come se fossero luogotenenti della casa d'Austria. Federico II morì il 28 di giugno del 1540. Dopo di lui regnarono i due suoi figliuoli, da prima Francesco III il primogenito che si annegò, il 21 di febb. del 1550, nel lago di Mantova, poi il secondogenito che morì il 13 agosto del 1587, lasciando erede l'unico suo figlio don Vincenzo. Tutta la storia di questi principi non versa che intorno ai sontuosi accoglimenti fatti ai sovrani che attraversarono i loro stati, intorno ai loro proprj viaggi, ed a pochi sussidj dati agli imperatori per fare la guerra ai Turchi.
Nel precedente capitolo abbiamo veduto quale si fosse fino alla metà del secolo il governo del duca di Firenze. Cosimo de' Medici diffidente, dissimulato, crudele, sostenevasi in trono a dispetto di tutta la nazione da lui governata. Meno libero, meno indipendente che gli efimeri magistrati della repubblica da lui soppressa, egli doveva rispettare non solo gli ordini dell'imperatore e di Filippo II, ma quelli inoltre di tutti i loro generali, e dei governatori di Napoli e di Milano, che gli facevano crudelmente sentire tutto il peso dell'insolenza spagnuola. Per dare un compenso all'antico orgoglio de' cittadini fiorentini, egli li decorò con nuovi titoli di nobiltà. Nel mille cinquecento sessanta instituì un nuovo ordine religioso e militare sotto il patrocinio di santo Stefano. I ricchi cittadini di Firenze e del territorio toscano, sedotti dall'allettamento di questa onorificenza, ritirarono dal commercio i loro fondi, impiegandoli nell'acquisto di terreni, che obbligarono in sostentamento delle nuove dignità che ottenevano per le loro famiglie con fedecommessi, sostituzioni perpetue e commendarie. Era questo lo scopo cui mirava Cosimo I, che credeva più facile il bandire da Firenze l'antico suo commercio, che non il piegare lo spirito d'indipendenza di quei ricchi mercanti[229].
Non era lungo tempo passato da che Cosimo erasi liberato dal timore inspiratogli da Pietro Strozzi, ucciso nell'assedio di Thionville del 1558, quando la sua casa fu insanguinata da tragici avvenimenti, avvolti entro dense tenebre, che mai non si dissiparono affatto agli occhi della posterità. Si pretende che don Garzia, il terzo de' suoi figli, assassinasse don Giovanni il secondo, di già decorato del cappello cardinalizio, e che Cosimo lo vendicasse colle proprie mani, uccidendo don Garzia col suo pugnale tra le braccia della madre Eleonora di Toledo, che ne morì di dolore[230]. Sebbene il duca cercasse di nascondere al pubblico così tristi avvenimenti, dessi contribuirono però ad inspirargli il desiderio di ritirarsi dalla scena più attiva del mondo, ed a scaricarsi delle principali cure del governo sopra suo figliuolo primogenito don Francesco. Egli eseguì tale risoluzione nel 1564. Nè meno perfido, nè meno crudele del padre, ma più dissoluto, più vano, più iracondo, don Francesco non aveva i talenti con cui Cosimo aveva fondata la grandezza della sua famiglia. Fu perciò, più che il padre, l'oggetto dell'odio dei popoli, il quale odio non era temperato da verun sentimento di rispetto per l'ingegno di lui. Per altro Cosimo erasi riservata la suprema direzione degli affari, inoltre tutte le relazioni diplomatiche, e la cura continua di lusingare Pio V, dando in mano all'inquisizione di Roma tutti i suoi sudditi che il papa credeva infetti d'eresia, e perfino il proprio confidente Pietro Carnesecchi; le quali cose gli guadagnarono in modo l'affetto del pontefice, che, nel 1569, ottenne da lui il titolo di gran duca di Toscana[231].
La Toscana non era, nè mai era stata, un feudo della Chiesa, di modo che il papa non poteva a buon diritto cambiare il titolo del suo sovrano. Perciò quest'innovazione non solamente eccitò la collera di tutti i duchi, i quali vedevano innalzarsi al di sopra di loro quello di Firenze, ma altresì quella dell'imperatore, che sentiva il torto fatto alle sue prerogative. Cosimo I morì il 21 di aprile del 1574, prima di avere veduto condotte a fine le negoziazioni colle quali cercava di ridurre i sovrani dell'Europa a riconoscere il suo nuovo titolo[232]. Ma don Francesco, che gli successe nel 1575, ottenne dall'imperatore Massimiliano II, che gli conferisse egli stesso il 2 di novembre il titolo di gran duca di Toscana, come una nuova grazia, e senza fare memoria della precedente concessione del papa[233].
Una congiura contro il gran duca, che fu scoperta nel 1578, e punita con molti supplicj, fu l'ultimo sforzo che in Firenze facessero gli amici della libertà per iscuotere l'odiato governo dei Medici[234]. Questo governo erasi stabilito già da quarantott'anni, ed aveva lasciati morire in esilio tutti coloro che avevano un elevato carattere; il commercio fiorentino era distrutto; eransi mutate le costumanze nazionali, e la recente educazione aveva accomodate le anime al giogo.
Il gran duca aveva incaricato Curzio Picchena, suo segretario d'ambasciata a Parigi, di liberarlo dai distinti emigrati che tuttavia si trovavano alla corte di Catarina de' Medici. Gli fece avere sottili veleni, per formare i quali Cosimo I aveva eretta nel suo palazzo un'officina, che diceva essere un laboratorio chimico per le sue esperienze; gli diresse inoltre alcuni assassini italiani superiori a tutti gli altri; e promise il premio di quattro mila ducati per ogni omicidio, oltre il rimborso di tutte le spese che sarebbero occorse. Nel 1578 Bernardo Girolami fu la prima vittima di questa trama; e la di lui morte atterrì in modo tutti gli altri emigrati fiorentini, che questi per salvarsi si dispersero per le province della Francia e dell'Inghilterra. Ma ovunque furono inseguiti dai sicarj di don Francesco, e tutti coloro che avevano recata qualche molestia al gran duca perirono[235].
Don Francesco visse e morì totalmente subordinato a Filippo II: e perciò mostrossi agli occhi de' suoi sudditi sempre spalleggiato da tutta la potenza spagnuola; e sebbene nel 1579 si rendesse più spregievole, che non lo era prima, colle sue nozze coll'accorta e dissoluta Bianca Cappello[236], sebbene nella sua famiglia si andassero continuamente rinnovando gli assassinj, gli avvelenamenti, i delitti d'ogni sorta, i Fiorentini più non tentarono di sottrarsi alla sua autorità; ma soltanto non dissimularono la loro gioja, quando, il 19 ottobre del 1587, Francesco e sua moglie morirono avvelenati a Poggio a Cajano, in occasione di un convito di riconciliazione che colà egli dava al cardinale Ferdinando de' Medici, suo fratello[237].
Questo Ferdinando, che gli successe, e che depose le vesti ecclesiastiche per ammogliarsi, fu il primo a rialzare la nazione toscana dall'oppressione in cui essa aveva sospirato sessant'anni. Egli aveva tutta quell'attitudine al governo che può avere un uomo senza virtù, e tutta la fierezza che può conservarsi senza nobiltà d'animo. Si propose di sottrarsi al giogo spagnuolo che aveva così duramente oppressi i suoi due predecessori: volle di nuovo opporre la Francia alla casa d'Austria, e fu il primo sovrano cattolico che riconoscesse Enrico IV, e si alleasse con lui. In appresso s'interpose per la di lui riconciliazione col papa, e gli ottenne l'assoluzione. Ma il trattato di Parigi del 27 febbrajo del 1600, tra la Francia ed il duca di Savoja, togliendo alla prima la comunicazione coll'Italia pel marchesato di Saluzzo, fece ricadere il gran duca sotto il giogo della Spagna, che aveva cercato di scuotere[238].
Tale fu in compendio la storia di tutti i principi sovrani che in questo secolo contava l'Italia. Quella delle tre repubbliche che tuttavia conservavano la loro libertà fu ancora più povera d'importanti avvenimenti. In Toscana la repubblica di Lucca aveva conservata la sua indipendenza. Se si vuole farne giudizio dalle sue forme esteriori, essa continuava a governarsi democraticamente: la sovranità risiedeva in tre corpi che dovevano approvare tutte le leggi; questi erano, la signoria formata da un gonfaloniere e da 9 anziani che mutavansi ogni due mesi; il senato formato di 36 membri che si rinnovavano ogni sei mesi all'anno; ed il consiglio generale formato di 90 individui che sedevano un anno[239]. Ma perchè i magistrati in esercizio nel corpo dell'anno formavano essi medesimi il corpo elettorale, dal quale venivano nominati i magistrati del susseguente anno, gli stessi uomini trovavano il destro di occupare sempre tutti gl'impieghi, soltanto col cambiare fra di loro le rispettive funzioni, perchè la legge non acconsentiva di essere rieletti senza intervallo. Per ciò gli emigrati fiorentini, assai numerosi in Lucca, rinfacciavano ai loro ospiti di avere abbandonata la repubblica ad una stretta oligarchia, detta burlevolmente i signori del cerchiolino[240].
Alcuni oppressivi regolamenti emanati a favore de' capi manifatturieri contro gli artigiani, ed in particolare contro i tessitori di seta, diedero motivo, il primo maggio del 1531 ad un'insurrezione che costrinse la signoria a transigere col popolo, e ad accrescere di un terzo il numero de' consiglieri, onde accordare queste piazze ad uomini nuovi; ma prima che terminasse l'anno la signoria si fece autorizzare a prendere una guardia di cento soldati forastieri per difendere il palazzo pubblico, e coll'ajuto di questa e delle milizie del territorio, ristabilì l'antico sistema, il 9 aprile del 1532, ed annullò tutte le leggi fatte in favore delle classi inferiori[241].
Per altro non fu che dopo la capitolazione di Siena, e quando la libertà era di già stata esiliata da tutto il rimanente della Toscana, che il gonfaloniere Martino Bernardino, il 9 dicembre del 1556, propose e fece sanzionare la legge che i Lucchesi risguardarono poi come il fondamento della loro aristocrazia, e come equivalente al serrar del consiglio di Venezia, e che intitolarono dal suo autore legge Martiniana. Martino, che voleva ridurre la sovranità in pochissime famiglie, accarezzava non pertanto ancora la pubblica opinione, e non aveva infatti espresso ancora tutto ciò che voleva stabilire. La legge Martiniana vuole soltanto che ogni figlio o di forastiere o di campagnuolo sia perpetuamente escluso da qualunque magistratura. Con tali indiretti modi il corpo aristocratico, che di già era stato ridotto a poche famiglie, si assicurò di non essere mai più rinnovato, perchè tutti i nuovi candidati che vi si sarebbero potuti introdurre, non potevano essere che stranieri naturalizzati, o di già sudditi dello stato fatti nobili. In questo modo la sovranità venne trasmessa per ereditario diritto ad un sempre più ristretto numero di famiglie nobili[242]. Sembra infatti che nell'anno 1600 l'aristocrazia lucchese non contasse che cento sessant'otto famiglie, le quali, nel 1797 in occasione degli ultimi comizj adunati per l'elezione delle magistrature, trovaronsi ridotte a sole ottant'otto, e queste non somministravano un sufficiente numero d'individui per tutti gl'impieghi dello stato[243].
La costituzione che si era data la repubblica di Genova, quando Andrea Doria le aveva renduta la libertà, aveva colmati di riconoscenza tutti i Genovesi, perchè chiamava a governare il maggior numero di loro, nell'istante in cui avevano potuto temere che la sovranità venisse usurpata da un solo: pure questa costituzione era puramente aristocratica, e tendeva a sempre più restringere il circolo dei depositarj della suprema autorità. D'altronde l'assoluta dipendenza in cui si erano poste, rispetto alla Spagna, la famiglia Doria e la repubblica doveva altresì riuscire vantaggiosa all'oligarchia per via di tutti i pregiudizj di nobiltà fomentati dall'orgoglio di Filippo II e della sua corte[244].
Dacchè Andrea Doria, giunto ad una estrema vecchiaja, e molestato dalla gotta, più non usciva di casa, suo nipote Giannettino, aveva preso il comando delle sue galere; onorato come lo zio del favore dell'imperatore, aveva pure le prime parti nella repubblica: ma egli si era arrogata maggior potenza d'assai di quella che aveva avuta lo zio, e la esercitava con maggiore orgoglio. Il popolo, afflitto di vedersi escluso dall'amministrazione della repubblica, e la primaria nobiltà, gelosa della potenza del Doria, sentivano ogni dì crescere il loro malcontento. Giovanni Luigi del Fiesco, conte di Lavagna e signore di Pontremoli, ascoltando l'antico odio della sua famiglia contro i Doria, ed offeso dall'orgoglio di Giannettino, progettò di sottrarre la sua patria tutta ad un tratto all'autorità dell'aristocrazia, a quella dei Doria ed a quella della Spagna. Si assicurò degli ajuti di Pier Luigi Farnese, nuovo duca di Parma e di Piacenza, e di quelli della Francia; trasse ne' suoi interessi molti cittadini affezionati all'antica fazione popolare, e gli avanzi del partito dei Fregosi; finalmente fece venire da' suoi feudi molti suoi vassalli, e circa dugento fidati soldati, sotto colore di armare quattro sue galere per andare in corso contro i Barbareschi[245].
Giovan Luigi del Fiesco aveva invitati molti giovani, di coloro ch'egli credeva più scontenti del governo, ad un convito che diede il 2 di gennajo del 1547; e quando gli ebbe tutti adunati in casa sua, e che le porte furono chiuse e custodite da gente fidata, dichiarò apertamente tutto il piano della sua congiura, loro chiedendo di secondarlo e di seguirlo, se volevano salvare la propria vita. I più di costoro, atterriti dalle minacce di lui, piuttosto che strascinati dalle proprie passioni, si obbligarono con giuramento. Giovan Luigi del Fiesco divise in allora la truppa coi suoi fratelli, onde attaccare nello stesso tempo il porto ove il Doria teneva le sue galere, la porta di Bisagno, e quella che conduceva al palazzo ove dimoravano i due Doria fuori di città. La notte era di già molto inoltrata quando la zuffa cominciò contemporaneamente in ogni luogo. Giannettino Doria, avvisato dal tumulto che si era eccitato, fu ucciso presso la porta della città nell'atto che vi accorreva per calmarlo: allora Andrea Doria, credendo la città e le sue galere perdute, fuggì fino a Sestri. In fatti la cospirazione aveva dovunque avuto buon esito; la flotta, che aveva quaranta galere era di già venuta in mano degl'insorgenti, e le porte della città erano state sorprese. Ma invano si andava cercando Luigi del Fiesco per incamminarsi verso il palazzo, scacciarne la guardia della signoria, e mutare il governo; ma Luigi, volendo passare a bordo della galera capitana nell'istante in cui questa si scostava dalla riva, era caduto in mare col ponte su cui passava, ed il peso delle sue armi gli aveva impedito di salvarsi a nuoto. I di lui partigiani, perduto avendo il coraggio alla notizia della sorte di lui, più non osarono di occupare il palazzo, e, sebbene di già vincitori, trattarono colla signoria come se stati fossero vinti; offrirono di cedere le porte a condizione di avere un'intera amnistia, la quale poichè fu accordata e solennemente giurata, i Fieschi si ritirarono a Montoglio[246]. Ma un governo che ubbidiva all'influenza spagnuola non credevasi tenuto all'osservanza delle sue promesse: crudelissime furono le vendette del vecchio Andrea Doria, e non ebbero fine che colla di lui vita, che si prolungò fino ai novantaquattro anni, e si spense il 25 di novembre del 1560[247].
In tutto il restante del secolo i Genovesi furono sempre soggetti agli Spagnuoli, e perdettero nel 1566 l'isola di Scio, conquistata da Solimano sopra i Giustiniani, loro concittadini, che se n'erano arrogata la sovranità. Furono pure in pericolo di perdere la Corsica, che, dopo essere stata invasa dai Francesi nel 1553[248], si sollevò nel 1564, e continuò a respingere con tutte le sue forze il giogo oppressivo della repubblica, fino al 1568, in cui fu di nuovo sommessa[249]. Più non vi fu pace in Genova. Dopo la congiura dei Fieschi i più ricchi e più potenti membri dell'aristocrazia, temendo di vedersi tolto di mano il governo dall'odio popolare, avevano risolto di rialzare una rocca alla Lanterna, con intenzione d'introdurvi una guarnigione spagnuola, onde tenere la città in dovere e consolidare la propria autorità. Questo progetto doveva avere esecuzione nel 1548, in occasione del passaggio per Genova di don Filippo, principe di Spagna: e don Ferdinando di Gonzaga, governatore del Milanese, doveva spalleggiarlo con tutte le sue forze. Ma malgrado la loro ubbidienza, i Genovesi abborrivano gli Spagnuoli; onde pregarono Andrea Doria di opporsi a così vergognoso progetto, cui lo spirito di vendetta lo aveva in sulle prime ridotto ad acconsentire; gli raccomandarono la libertà della repubblica, di cui era il secondo fondatore, ed ottennero da lui la promessa, che nè il principe di Spagna, nè le truppe di lui sarebbero ricevute in città[250].
Nuove dissensioni scoppiarono nella seconda metà del secolo tra l'antica e la nuova nobiltà, i di cui diritti non erano ben definiti; e tanto s'innoltrarono queste da dare speranza a Giovanni d'Austria di potere occupare Genova, quando nel 1571 passò davanti a questa città colla flotta, che in appresso conseguì la vittoria di Lepanto[251]. In questa circostanza papa Gregorio XIII prese sotto la sua protezione la repubblica, e contribuì potentemente a riconciliare le fazioni. Nel 1575 ottenne da queste, che rimettessero le ragioni loro in arbitrio di tre mediatori, cioè egli stesso, l'imperatore ed il re di Spagna. Le tre corti modificarono la costituzione della repubblica, ed in parte distrussero l'opera di Andrea Doria. La recente loro legge, pubblicata il 17 marzo del 1576, accrebbe i privilegj dei nuovi nobili, ma sempre come nobili: restarono dimenticati i diritti dei cittadini, e la libertà venne bandita da questa repubblica quasi come dagli assoluti principati[252].
La libertà non era meglio conosciuta a Venezia; questa città, dopo avere esaurite le proprie forze per resistere alla lega di Cambrai, pareva cercare l'oscurità facendo di tutto per seppellirsi nel silenzio, diffidare de' suoi cittadini, de' suoi alleati, e de' suoi nemici, ed allegando i pericoli che la stringevano ora dal canto della Turchia, ed ora dal canto dell'Austria, sottrarsi dal far mostra di sè medesima. Due crudeli guerre coi Turchi privarono effettivamente la repubblica di molti de' suoi più importanti possedimenti nel Levante. Cominciò la prima nel 1537 col guasto di Corfù, e finì il 20 ottobre del 1540 colla cessione fatta a Solimano di tutte le isole dell'Arcipelago che di già si trovavano in potere dei Turchi, e delle forti città di Napoli e di Malvagia, o Epidauro, che la repubblica possedeva ancora nel Peloponneso[253]. L'altra fu dai Turchi intrapresa nel 1570 per conquistare l'isola di Cipro; la quale, difesa con prodigj di valore e con infiniti sagrificj di uomini e di danaro, fu all'ultimo perduta dai Veneziani, ed abbandonata colla pace che sottoscrissero nel mese di marzo del 1573[254].
Il timore dei Turchi, che in tutte le guerre aveva avuti costanti vantaggi contro la repubblica, costringeva questa ad allearsi colla casa d'Austria. Circondata dagli stati di questa casa, costretta di ricorrere a lei contro un nemico ancora più terribile, la repubblica non ardiva pretendere ad un'assoluta indipendenza. Finchè le due monarchie dei Turchi e degli Spagnuoli conservarono tutto il loro vigore, i Veneziani furono abbastanza fortunati di sottrarsi al pericolo coll'oscurità, e di evitare ogni azione che attirare potesse su di loro gli sguardi dell'Europa.
Tali furono in tutti gli stati d'Italia le rivoluzioni accadute nel sedicesimo secolo. Il nome di questo secolo richiama a principio un periodo di gloria, perchè i primi anni di questo vennero illustrati dai più grandi ingegni che l'Italia producesse nelle lettere e nelle arti. In mezzo ad orribili calamità, ogni speranza non era in allora per anco perduta, e questa sosteneva i talenti di coloro ch'erano nati, o che si erano formati in più felici tempi. Tutti i grandi uomini onde si onora l'Italia appartengono a questa prima metà del sedicesimo secolo, in cui l'Italia sentivasi ancora libera. Il solo Tasso è di tutti il più moderno, perciocchè non pubblicò il suo poema che nel 1581, e di già in allora si trovava isolato, quale rappresentante degli andati tempi, in mezzo ad una degenere nazione. Il genio sparve con lui dalla terra, dalla quale era stata scacciata la libertà; e la fine del sedicesimo secolo, in cui l'umana specie fu in Italia colpita dalle più spaventose sventure, non dev'essere ricordata che coll'orrore che ispirano il delitto, i patimenti e l'avvilimento dei nostri simili.
CAPITOLO CXXIV.
Rivoluzioni de' varj stati d'Italia nel corso del diciassettesimo secolo.
1601 = 1700. Mentre che presso gli altri popoli inciviliti gli ultimi secoli svilupparono tanti nuovi interessi, e nuovi sentimenti e nuove passioni, che più non potrebbesi ristringere la loro storia nell'angusto circolo che bastava ai precedenti secoli, la storia d'Italia diventa più sterile di mano in mano che ci avviciniamo all'età nostra. Ma tutte le altre nazioni giugnevano lentamente all'esistenza, mentre che la nazione italiana perdeva la sua. Anche dopo terminata l'ultima contesa per l'indipendenza, fu ancora necessario qualche tempo per disingannare gli uomini dai sogni della loro ambizione, per convincerli che più non restava loro a sperare nè libertà, nè grandezza, nè gloria; molti genitori avevano instillati ne' loro figli i sentimenti di cui si erano essi medesimi nudriti in più felici tempi; molti caratteri erano stati di nuovo rinvigoriti dall'esilio, dalle persecuzioni, dai patimenti della guerra e da tutte le calamità dei primi anni del sedicesimo secolo; molti uomini energici, avendo presa una falsa direzione, e servito il comune nemico, erano stati accarezzati da que' medesimi che opprimevano tutti gli altri, ma che sentivano il bisogno di riservarsi alcuni strumenti abbastanza forti per signoreggiare il paese. Molti altri, senz'avere alcuno determinato scopo o speranza di miglior sorte, si andavano tuttavia agitando per l'abitudine delle rivoluzioni, in quello stesso modo che la materia conserva il movimento, per la forza d'inerzia, allorchè l'ha ricevuto una volta. Così tutto il sedicesimo secolo ebbe ancora un'apparenza di vita, ed è per questo, a non dubitarne, ch'egli partecipò tutt'intero alla gloria che gli procacciarono eterna i poeti, i letterati, gli artisti, che fiorirono principalmente ne' primi anni. Per lo contrario il diciassettesimo secolo è un'epoca di compiuta morte; e quanto la storia letteraria lo rappresenta come in preda al più cattivo gusto, alla insipidezza, al languore ed alla sterilità, altrettanto la storia politica lo mostra privo d'ogni azione come d'ogni virtù, d'ogni elevato carattere, d'ogni importante rivoluzione. Di mano in mano che andiamo avanzando ci è forza di rimanere convinti, che la storia, non solo delle repubbliche, ma dell'intera nazione italiana, finì coll'anno 1530.
Ma si verserebbe in un grand'errore, se, osservando che la storia quasi d'altro non si occupa che delle disgrazie degli uomini, si supponesse che i tempi di cui essa non parla siano stati meno infelici. Non tutte le calamità sono istoriche, loro abbisognando un certo qual grado di grandezza e di nobiltà perchè possano richiamare la nostra attenzione, ed imprimersi nella nostra memoria. Acciocchè gli stessi contemporanei ci trasmettano i fatti circostanziati dell'età loro, d'uopo è che le calamità siano comuni a molti individui, e che si possa a prima vista comprendere il rapporto che corre fra la cagione e l'effetto. Le disgrazie del diciassettesimo secolo erano di diversa natura; erano tacite, e non sembravano dipendenti dalla politica: ognuno soffriva, ma ognuno soffriva nella propria famiglia, come uomo e non come cittadino. Avvelenate erano le private relazioni, distrutte le speranze, diminuita la fortuna, mentre che i bisogni di ognuno andavano ogni giorno crescendo: la coscienza invece di essere di sostentamento nella sventura, rinfacciava continuamente le passate colpe; ed aggiugnendosi la vergogna al dolore, ognuno sforzavasi ancora di nascondere agli occhi del mondo le sue pene e d'involarne la memoria alla posterità.
Perciò non si pensò ad enumerare tra le pubbliche calamità dell'Italia la cagione forse più generale de' privati patimenti di tutte le famiglie italiane; il torto, dico, fatto al sacro nodo del matrimonio con un altro nodo, risguardato come onorevole, e che gli stranieri vedono sempre in Italia con eguale stupore, senza poterlo comprendere; ed è quello de' cicisbei, o de' cavalieri serventi. Questa sciagurata moda essendo stata una volta introdotta nel diciassettesimo secolo dall'esempio delle corti, ed essendo posta sotto la protezione di tutte le vanità, la pace delle famiglie fu bandita da tutta l'Italia; verun marito più non risguardò la sua consorte come una fedele compagna, associata a tutta la sua esistenza; più non trovò in essa un consiglio nel dubbio, un sostegno nell'avversità, un salvatore nel pericolo, una consolatrice nella disperazione; niun padre osò assicurarsi che i figliuoli a lui dati dal matrimonio fossero suoi; niuno si sentì legato a loro dalla natura; e l'orgoglio di conservare il proprio casato, sostituito al più dolce ed al più nobile affetto, avvelenò tutte le domestiche relazioni. Quanto non demeritarono dell'umanità que' principi, che riuscirono ad impedire che i loro sudditi conoscessero qualcuno de' dolci affetti di sposi, di padri, di fratelli e di figli!
Sebbene l'instituzione di tutti i ridicoli doveri de' cicisbei fosse per avventura il più efficace mezzo di calmare gli spiriti irrequieti di fresco ridotti in servitù, di snervare i coraggi troppo maschi, d'effeminare i nobili ed i cittadini intolleranti del giogo, facendo loro scordare che avevano perduto ciò che più non dovevano cercare, forse si viene a far troppo onore alla penetrazione di coloro che mutarono le costumanze d'Italia, supponendo che prevedessero tutte le conseguenze delle nuove mode ch'essi introducevano; pure l'istinto del delitto conduce più volte tanto direttamente allo scopo, quanto il calcolo.
Fino alla metà del sedicesimo secolo l'abitudine del lavoro era stata la qualità distintiva degl'Italiani: a Firenze, a Venezia, a Genova il primo ordine era dei mercanti; e le famiglie decorate di tutte le dignità dello stato, della Chiesa o dell'armata, non perciò rinunciavano al commercio. Filippo Strozzi, cognato di Leon X, padre del maresciallo Strozzi e del gran priore di Capoa, amico di molti sovrani, il primo cittadino dell'Italia, erasi fino alla fine della sua vita mantenuto capo di una casa di banco. Ebbe sette figli; ma, malgrado la sua immensa ricchezza, non ne aveva destinato veruno all'ozio. I principi vollero sostituire a questa formidabile attività ciò che essi intitolarono un nobil ozio; le armi castigliane inondavano l'Italia, ed essi chiamarono in loro ajuto i pregiudizj castigliani, che coprivano con un profondo disprezzo ogni specie di lavoro. Trassero tutti i loro cortigiani a convertire le loro sostanze in terre, a destinarle a perpetuità al primogenito della loro famiglia, sagrificando in tal modo all'orgoglio i più giovani fratelli e le femmine, e condannando ad una costante inerzia tutti i figli primogeniti per alterigia, tutti i figli cadetti per impotenza.
Per occupare l'ozio di tutto ciò che era cortigianesco, di tutto ciò che venne onorato col titolo di nobiltà, per offrire nello stesso tempo un compenso a quella folla di cadetti privati di ogni speranza, e per sempre esclusi dal matrimonio, furono inventati i diritti ed i bizzarri doveri dei cicisbei, o cavalieri serventi; questi furono interamente fondati sopra due leggi che s'impose il bel mondo: niuna femmina più non potè con decenza mostrarsi sola in pubblico; verun marito non potè, senza esporsi al ridicolo, accompagnare sua moglie.
L'esempio de' traviamenti de' grandi contribuì senza dubbio assai a corrompere il popolo: quello della impudica Bianca Capello, e di tutti i principi e principesse della casa Gonzaga, nel diciassettesimo secolo, non poteva essere senza influenza: ma sebbene i costumi delle corti fossero più corrotti, si era conosciuto l'intrigo e la galanteria fino ne' tempi delle repubbliche, e questo disordine non bastava solo a distruggere il carattere nazionale. Ciò che distingue il secolo diciassettesimo è l'origine d'un pregiudizio antisociale, più del libertinaggio funesto, dietro il quale facevasi pomposa mostra di ciò che in addietro si nascondeva. Non fu già perchè alcune donne ebbero degli amanti, ma perchè una donna non potè più mostrarsi in pubblico senza un amante, che gl'Italiani cessarono d'essere uomini.
Mentre che tutti i legami di famiglia furono rotti nel diciassettesimo secolo con queste nuove costumanze, che, risguardate in seguito come sole, consentanee all'eleganza, vennero bentosto imitate dalla intera massa del popolo, il commercio fu oppresso da un mortal colpo per la subita ritirata degli uomini industri e dei capitali; ne consumarono la ruina i monopolj e le assurde gabelle sopra ogni vendita di tutti gli oggetti commerciabili, stabilite dagli Spagnuoli in tutte le province loro soggette. Frattanto il fasto andava crescendo a misura che diminuivano i mezzi; quanto, secondo gli antichi costumi, erano apprezzati l'ordine e l'economia, altrettanto furono tenuti in pregio nelle corti lo splendore e il lusso, e a norma di questi furono fissati i gradi. Gl'Italiani impararono in questo secolo (e furono loro maestri gli Spagnuoli) l'arte di economizzare sui più pressanti bisogni per accordare di più all'apparenza, di sopprimere tutti i comodi non veduti per accrescere il fasto che abbacina gli occhi del pubblico. La spesa diventò la misura della considerazione, e si diede lode al capo di famiglia di tutto ciò che accordava al suo fasto ed a' suoi piaceri.
Ne' tempi delle repubbliche, i cittadini, non cercando altra decorazione che i suffragj de' loro concittadini, temevano di eccitare la loro gelosia con ambiziose distinzioni. Nè ricevevano, nè davano titoli, e non mettevano alla tortura il loro linguaggio per trovare formole più ossequiose. In ogni cosa le nuove corti sostituirono la vanità all'orgoglio nazionale; e le questioni di precedenza occuparono tutta la loro politica. La rivalità tra la casa d'Este e la casa dei Medici, fra questa e la casa di Savoja, non aveva altra vera cagione che la rispettiva pretesa di ciascuna di andare innanzi all'altra nelle cerimonie in cui si scontravano i loro ambasciatori. Successivamente i sovrani si andavano arrogando nuovi titoli, mentre ne attribuivano altresì dei nuovi a tutta la loro corte. Mentre passavano essi medesimi per tutti i gradi d'illustrissimi, di eccellenze, di altezze, di altezze serenissime, di altezze reali, creavano pei loro sudditi patenti senza fine di marchesi, di conti, di cavalieri, loro cedendo in appresso la qualificazione che essi avevano portata, e che cominciavano a disprezzare. Tali decorazioni scendevano sempre più a basso nella folla; più non iscrivevasi trent'anni sono al proprio calzolajo senza chiamarlo molto illustre: ma col moltiplicare i titoli, non si erano moltiplicati che i malcontenti e le mortificazioni; ognuno in cambio di ciò che gli era accordato, non vedeva che quanto gli era ricusato; e non eravi così magro gentiluomo, così piccolo ufficiale di milizia, che non si tenesse mortalmente ferito quand'era per errore chiamato chiarissimo ed eccellentissimo, quand'egli aspirava all' illustrissimo.
Le leggi, le costumanze, l'esempio, la stessa religione, tal quale era praticata, miravano a sostituire in ogni cosa l'egoismo ad ogni mobile più nobile. Ma mentre che si sforzavano gli uomini di riportare ogni cosa a sè medesimi, nello stesso tempo si privavano di tutte le soddisfazioni che avrebbero potuto trovare in sè medesimi. Il padre di famiglia, ammogliato con una donna non di sua scelta, da lui non amata, e dalla quale non era amato, circondato da figliuoli di cui non sapeva di essere padre, che non pensava ad educare, e de' quali non si curava di acquistare l'amore, continuamente disturbato nella propria famiglia dalla presenza dell'amico di sua moglie, separato da alcuni de' suoi fratelli e sorelle, e ch'erano stati fino dalla fanciullezza chiusi ne' conventi, e stancheggiato dall'inutilità degli altri, i quali, per loro parte d'eredità, avevano sempre diritto alla sua mensa, non era da tutti risguardato che come l'amministratore del patrimonio della famiglia. Egli era soltanto risponsabile della sua economia, mentre che tutti gli altri, fratelli, sorelle, moglie e figli, erano entrati in una segreta lega per deviare a loro profitto il più che potevano della comune entrata, per godere, per mettersi essi medesimi al largo, senza curarsi delle difficoltà in cui poteva trovarsi il loro capo.
Questo capo di famiglia più non era il vero proprietario del fondo patrimoniale; più non aveva verun mezzo di accrescerlo, mentre che le imposte, le pubbliche calamità e l'accrescimento del lusso lo andavano sempre diminuendo. La sostanza che ricevuto aveva da' suoi maggiori era tutt'intera sostituita a perpetuità. Dessa non apparteneva alla vivente generazione, ma a quella che non era ancora nata. Il padre di famiglia non poteva nè ipotecare, nè mutare, nè vendere; se qualche stravaganza giovanile gli aveva fatto contrarre un debito, le sole sue entrate potevano essere prese per pagarlo, ed intanto egli doveva per vivere contrarne un altro. Il legame impostogli dal suo antenato per conservare la sua sostanza, gl'impediva di usarne. Per ogni impreveduto bisogno doveva valersi dei capitali destinati all'agricoltura, i soli di cui potesse disporre, ed i soli che avrebbero dovuto essere intangibili. Con ciò ruinava quelle terre che non aveva diritto di vendere, e le numerose famiglie de' coloni erano con lui vittime della sua inconsiderazione, di quella de' suoi parenti, o dell'accidentale disgrazia che aveva danneggiata la sua sostanza.
S'egli cercava onori per sottrarsi ai dispiaceri che trovava nella propria casa, si vedeva ad ogni istante mortificato da tutte le vanità gelose della sua; se voleva mettersi in sulla strada de' pubblici impieghi, non poteva avanzarsi che colle arti dell'intrigo, coll'adulazione e colla bassezza; e se aveva delle processure, le sue ragioni venivano compromesse dalle interminabili lentezze del foro, o sagrificate dalla venalità de' giudici; se aveva nemici, i suoi beni, la libertà, la vita, erano in balìa di segreti delatori, di arbitrarj tribunali. Non amando che sè medesimo, non trovava in sè medesimo che pene e cure. Per sottrarsi ai suoi dispiaceri era in certo qual modo costretto a seguire l'universale tendenza della sua nazione verso i piaceri sensuali, ed abbandonandovisi, apparecchiavasi ancora in mezzo a questi nuove pene e nuovi tormenti.
Tale era nel diciassettesimo secolo la situazione di quasi tutti i sudditi italiani; ed in tal guisa tra le feste ed i divagamenti della vita, la sventura li raggiugneva in ogni luogo senza lasciare veruna traccia nella storia. Rispetto agli avvenimenti del secolo di cui lo storico vuole farsi carico, ove si confronti col precedente, vi si troveranno per avventura minori calamità generali e più umiliazioni, un minor numero di quei patimenti violenti e rapidi che sembrano esaurire le forze della natura umana, ma altrettanta miseria e maggiore avvilimento.
Carlo V aveva unita l'Italia alla monarchia spagnuola. Filippo II nel lungo suo regno l'aveva mantenuta in una stretta dipendenza; e sebbene tutti gli stati che gli erano subordinati avessero cominciato a deperire nell'istante in cui erano passati in suo potere, pareva che sotto di lui la monarchia spagnuola andasse riparando con esterne conquiste la perdita delle interne sue forze. Invano l'oppressione aveva spinti alla ribellione i Mori di Granata e gli Olandesi ne' Paesi bassi; invano l'Oceano aveva inghiottite le formidabili flotte di Filippo; invano la Francia e l'Olanda erano lorde del sangue de' suoi soldati; invano il sempre crescente disordine delle sue finanze l'aveva ridotto a fare un ignominioso fallimento; ad onta di tutto ciò quando venne a morte il 13 di settembre del 1598 era tuttavia il più formidabile monarca d'Europa. Non eravi sovrano che ardisse tentare con lui la sorte delle armi, e niuno stato poteva conservare a lui vicino la propria indipendenza. Il diciassettesimo secolo vide regnare tre principi della linea austriaca di Spagna, successori di Filippo. Suo figlio Filippo III morì il 31 marzo del 1621; Filippo IV, suo nipote, mancò il 7 settembre del 1665; e suo pronipote Carlo II morì il primo di novembre del 1700. La crescente incapacità di questi tre sovrani, la debole loro pusillanimità, e l'imprudenza de' loro favoriti e de' loro primi ministri, affrettarono il decadimento della monarchia spagnuola, e fecero che il disprezzo sottentrasse allo spavento che aveva inspirato.
Pure questo decadimento della monarchia spagnuola non somministrò all'Italia i mezzi di spezzare le sue catene. I tentativi fatti dalle province suddite del re di Spagna furono mal combinati e mal diretti, e non ottennero che una più crudele oppressione: rispetto ai piccoli sovrani che si erano posti sotto la protezione della Spagna, più non avevano bastante energia per desiderare maggiore libertà. Talvolta pendevano incerti tra questo giogo e quello della Francia; si avvicinavano momentaneamente a Lodovico XIV, di cui conoscevano l'ascendente; ma bentosto non sentendosi appoggiati da bastante buona fede, ricadevano nelle antiche loro abitudini, e non volevano, per la speranza di lontano ajuto, esporsi all'inimicizia de' loro prossimi vicini.
L'autorità di Filippo III sopra l'Italia non fu turbata dalla rivalità del re di Francia. Vero è che durante parte del suo regno ebbe per antagonista il grande Enrico; ma questo principe, che voleva rialzare i suoi stati dallo spossamento cui gli avevano ridotti le guerre civili, evitò le battaglie, e si chiuse in certo qual modo l'ingresso dell'Italia. La reggenza tutt'affatto austriaca di Maria de' Medici più non diede alla Spagna motivo d'inquietudine. Filippo IV, più debole che suo padre, ebbe più formidabili antagonisti. I due ministri Richelieu e Mazarino, durante tutta la loro amministrazione, altro scopo non si proposero che l'abbassamento della casa d'Austria. Cominciando dal 1621, in cui Richelieu prese a proteggere contro gli Spagnuoli i diritti de' Grigioni protestanti sopra la Valtellina, fino alla pace de' Pirenei del 7 di novembre del 1659, la Spagna e la Francia furono quasi sempre in guerra: ma la Francia non aveva in allora nè un re che sapesse mettersi alla testa delle armate, nè ministri guerrieri; onde non si lasciò allettare da lontane spedizioni. Non perciò fu meno prodiga di sangue e di tesori che in tempo dei più gloriosi regni di Lodovico XII e di Francesco I: ma le sue armi in Italia quasi non oltrepassarono i confini della Valtellina e del Piemonte. Per vero dire i principali suoi sforzi venivano diretti contro la Fiandra e la Germania, ma non devesi perciò meno notare quale proprio carattere di tutte le guerre dirette dai due cardinali, che lo scopo loro fu piuttosto la devastazione che la conquista, e che ruinavano la Spagna senza riuscire utili alla Francia.
Il terzo periodo stendesi dalla pace de' Pirenei fino alla guerra della successione di Spagna, e corrisponde al regno di Carlo II, siccome agli anni più gloriosi di quello di Lodovico XIV. In questo tempo gli ultimi monarchi austriaci di Madrid, tutta sentendo la propria debolezza, cercavano ad ogni prezzo di schivare la guerra, mentre che il Francese, credendo di non potere acquistare gloria che colle armi, avidamente coglieva tutte le occasioni di attaccare i suoi vicini, senza perdere tempo a pesare la giustizia o l'apparente validità dei pretesti che egli impiegava. Nè Lodovico XIV, nè veruno de' suoi consiglieri, hanno potuto credere ben fondati i titoli della regina madre reggente di Francia a dividere la successione di Filippo IV. Altro vero motivo non aveva la guerra che il sentimento della forza opposta alla debolezza, ed i manifesti altro non erano che una grossolana ipocrisia, che sarebbe stato meglio di risparmiare. Non pertanto in questo periodo, che costò tanto sangue all'umanità, l'Italia fu meno che il rimanente dell'Europa il teatro della guerra generale. Le armi francesi quasi non la visitarono che allorquando la vanità di Lodovico XIV compiacquesi nel 1662 di umiliare papa Alessandro VII, in occasione del preteso insulto fatto dai Corsi al suo ambasciatore, e quando nel 1684 desolò la repubblica di Genova con un barbaro bombardamento. Altronde i piccoli principi, imbarazzati dalla libertà che loro rendeva l'indebolimento della Spagna, si volsero verso l'imperatore per deferirgli il loro vassallaggio, ed essere spalleggiati dalla sua protezione; quantunque Leopoldo I, che salì sul trono imperiale nel 1658, e che vi si tenne fino al 1705, non si facesse in Italia conoscere che colle vessazioni e colla rapacità dei suoi generali.
Il ducato di Milano ed i regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, rimasero tutto il diciassettesimo secolo sotto il dominio degli Spagnuoli. Non avendo il ducato di Milano in questo spazio di tempo manifestate nè una volontà nazionale, nè una risoluzione che gli appartenesse, desso, non altrimenti che le altre province della vasta monarchia austriaca, non può essere argomento di separata istoria; desso soffrì come le altre il fasto e l'impero del duca di Lerma, del conte duca d'Olivarès, di don Luigi di Haro, i quali, essendo primi ministri e favoriti, dispoticamente governavano il re ed il regno; soffrì ancora più delle altre province, perchè la guerra tra la Francia e la casa d'Austria, avendo in tutto il secolo avuto per oggetto, in Italia il possedimento del Piemonte, del Monferrato, della Valtellina e del ducato di Mantova, mai non si allontanò dai confini del Milanese. Pure questa guerra si trattò, se non con minore crudeltà, almeno con minore attività che non si trattarono quelle del precedente secolo; ed i suoi guasti, come i giornalieri errori del governo, non bastarono a controbilanciare la maravigliosa fertilità di quel bel paese, o a distruggere le dispendiose opere colle quali gli antichi suoi proprietarj avevano signoreggiate le acque, facendole servire ad accrescere le ricchezze delle campagne.
In questo secolo la storia conserva un perfetto silenzio intorno al vice-regno di Sardegna; ma i regni di Napoli e di Sicilia fecero almeno parlare di loro cogl'infruttuosi loro sforzi per iscuotere la tirannide spagnuola.
Le entrate del regno di Napoli, alla metà del XVII secolo, ammontavano a sei milioni di ducati; e le spese dell'amministrazione della flotta e dell'armata, comprese ancora le ambascerie d'Italia, non assorbivano più di un milione e trecento mila ducati. Riputavasi, a dir vero, che settecento mila ducati erano impiegati nel regno in segrete spese, o dilapidati dagli ufficiali del re; ma quattro milioni di ducati, o i due terzi delle ordinarie entrate uscivano ogni anno del regno per pagare i debiti o le armate della Spagna[255]. Un tale impiego dei tributi del popolo a pro di una politica per la quale egli non prendeva verun interesse, lo rendeva estremamente scontento; ma il di lui cattivo umore veniva in oltre accresciuto dal progressivo accrescimento di tutti i carichi. In forza dei privilegj dello stato, riconosciuti da Ferdinando e da Carlo V, veruna nuova imposta poteva essere ordinata senza l'assenso del parlamento, che rappresentava la nobiltà ed il popolo; ma da gran tempo il parlamento più non si adunava, ed ogni giorno i vicerè, stimolati dalla loro corte, inventavano qualche nuova gabella, e sempre più angustiavano con insopportabili pesi un popolo di già estremamente oppresso. Gli Spagnuoli, in conseguenza della consueta loro ignoranza dell'economia politica, gravavano con queste gabelle quasi tutte le derrate di prima necessità, tassando successivamente le carni, il pesce, la farina, ed all'ultimo le frutta. I poveri, costretti di rinunciare ad una consumazione che le imposte rendevano sempre più cara, si andavano successivamente privando degli oggetti tassati. La gabella sulle frutta, che si valutava per la sola città di Napoli quattrocento mila ducati, parve loro fatta per rapir loro l'ultimo rifugio, togliendo loro il solo cibo non ancora sproporzionato ai loro mezzi. Si sollevarono il 7 di luglio del 1647 contro il duca d'Arcos, allora vicerè: un giovane pescatore d'Amalfi, detto Maso o Tommaso Aniello, si fece loro capo; bruciarono le baracche ove precisavasi l'imposta; minacciarono il vicerè, e lo costrinsero a fuggire in castel sant'Elmo; incendiarono le case di coloro che si erano arricchiti colle malversazioni delle finanze; richiamarono i privilegj loro guarentiti da Carlo V; ed all'ultimo sforzarono il governo, vinto in varj incontri, a trattare con loro[256].
Di quest'epoca uno spirito di libertà pareva che tutta animasse l'Europa. Gli Olandesi avevano fatto riconoscere e rispettare la loro repubblica; gl'Inglesi tenevano Carlo I prigioniero ad Hampton-Court; i Francesi facevano la guerra a Mazarino ed alla reggente; i Portoghesi avevano scosso il giogo della Spagna; i Catalani erano sollevati; ed in Sicilia era scoppiata un'insurrezione, prima ancora di quella che poi si manifestò in Napoli. Ma quasi in ogni luogo l'inquietudine ed i lunghi patimenti avevano sollevati i popoli contro intollerabili abusi, prima che i popoli stessi avessero bastanti lumi per correggere i loro governi, o per fondarne di nuovi sopra migliori principj. Il popolaccio si pose alla testa de' movimenti degl'insorgenti e loro diede uno spaventoso carattere. Gli uomini di più elevato ordine, che più ancora della plebe avevano bisogno di libertà, abbandonarono non pertanto una causa pur troppo frequentemente macchiata dai delitti; vedevano da un canto lo stendardo del dispotismo, dall'altro quello dell'anarchia, e non sapevano quale seguir dovessero. I patimenti del popolo e la stessa sua ignoranza, ch'erano l'opera del governo, giustificavano, a dir vero, il suo odio; ma la più dannosa di tutte le passioni cui gli oppressi possano darsi in preda, è quella della vendetta, la quale fa andare a male quasi tutte le rivoluzioni.
Il duca d'Arcos diffidava non meno de' gentiluomini napolitani che del popolo; sapeva di avere violati tutti i privilegj, di avere amaramente mortificati quei gentiluomini che potevano per altro sollevare tutte le province, col credito loro presso i contadini loro vassalli, ed aggiugnerle alla capitale. Giudicò adunque essere prima di tutto conveniente cosa di spargere tra loro la disunione. Perciò incaricò i gentiluomini di dare al popolo simulate proposizioni di conciliazione; li persuase a leggere un falso privilegio di Carlo V, a rendersi garanti di false scritture, e li trasse così avanti nelle proprie perfidie, che il popolaccio, credendoli essere stati strumenti degl'indegni artificj del vicerè, rivolse contro di loro quel furore che a bella prima concepito aveva contro gli Spagnuoli, ne uccise molti, ed incendiò le loro case. Gli altri gentiluomini, sebbene convinti che il solo vicerè era colpevole del sangue de' loro fratelli, furono costretti di assecondarlo, perchè più non ottenevano confidenza, nè trovavano sicurezza nell'opposto partito[257].
Non la data fede, non i giuramenti per quanto fossero solenni, potevano incatenare le vendette del governo spagnuolo. Fu in mezzo alla chiesa del Carmine, nell'istante in cui faceva leggere al popolo gli articoli della pace che aveva in allora giurata, che il duca d'Arcos fece fare una scarica di archibugiate sopra Masaniello ed i compagni di lui[258]. Questo capo di fazione, per una straordinaria felicità, non rimase ferito, ed il vicerè, dichiarando di non conoscere i banditi da lui adoperati, li sagrificò al furore del popolo per ricuperare il proprio credito; poi, continuando a trattare della pace, invitò Masaniello ad un convito di riconciliazione, nel quale gli fece servire una bevanda che lo trasse di senno. Il favorito del popolo perdette allora la confidenza del suo partito a motivo delle sue stravaganze e delle sue crudeltà; ed il duca d'Arcos ne approfittò per farlo assassinare il 16 di luglio[259].
Ne' pochi giorni in cui si mantenne il suo potere, Masaniello aveva esercitata sul popolo la più illimitata autorità. I naturali talenti del giovane pescivendolo, e la pronta ubbidienza della plebaglia ai voleri di lui, avevano atterrito il duca d'Arcos, e strappategli tutte le concessioni colle quali aveva cercato di calmare la sedizione; ma le ritirò tutte tostochè si fu disfatto del suo nemico. Credette allora di potere annullare senza pericolo le obbligazioni recentemente contratte; ma il 21 di agosto ricominciò la sedizione con maggior furore che mai, e gli Spagnuoli, conoscendosi troppo deboli, si ridussero a fare una nuova capitolazione[260]. Ad ogni modo quando colle più solenni promesse ebbero persuaso il popolo a deporre le armi, i tre forti che signoreggiano Napoli, e la flotta di don Giovanni d'Austria, ch'era entrata in porto, cominciarono tutt'ad un tratto, il 5 ottobre a mezzodì, a cannonare ed a bombardare la città; e mentre il popolo disarmato, atterrito, sorpreso, chiedeva tuttavia la cagione di così impreveduto attacco, sbarcarono dalla flotta sei mila uomini delle bande spagnuole, con ordine di uccidere tutto quanto incontrerebbero[261].
Ma la popolazione di Napoli ammontava a più di quattrocento mila uomini. Gl'insorgenti, quasi tutti senza casa e senza beni, non avevano che temere dal bombardamento: combattendo essi senza ordine, non si accorgevano di tutte le perdite che andavano facendo, e l'uccisione che accadeva in una strada non era conosciuta nella vicina, ove cominciava la zuffa. Il popolaccio camminava dall'uno all'altro tetto gettando pietre e tegole sopra i soldati, poscia fuggiva prima che dalla truppa di linea potesse essere raggiunto. Dopo due giorni di battaglia, gl'insorgenti attaccarono i soldati oppressi dalla fatica, e, cacciandoli da tutti i posti, li costrinsero a ripararsi nelle tre fortezze, o sopra la flotta, restando essi padroni della città[262].
Solamente dopo questo fatto i Napolitani cominciarono a trattare coi Francesi, chiamando in loro ajuto Enrico di Lorena, duca di Guisa, che in allora trovavasi a Roma. Costui, per parte di donne discendendo dalla seconda casa d'Angiò, credeva di avere alla corona di Napoli legittimi diritti, che sperava di mettere in campo in così favorevole occasione, e faceva capitale sui soccorsi della Francia. Si recò subito a Napoli, ove fu dichiarato generalissimo e difensore della libertà. Di già cominciava ad essere proferito il nome di repubblica di Napoli, e ad essere accolto con entusiasmo dal popolo, ed in tutte le province, che si erano sollevate in sull'esempio della capitale[263].
Ma il popolo napolitano, sotto il dominio degli Spagnuoli, non aveva acquistati nè i costumi, nè le abitudini, nè le opinioni colle quali si fonda una repubblica. Egli non pensava che a far passare in altre mani l'autorità arbitraria, invece di distruggerla; ubbidì ciecamente a Masaniello poi a Gennaro Annese ed al duca di Guisa, nello stesso modo che aveva ubbidito al vicerè; loro permise di regnare coi supplicj, e non vi fu mai giustizia sommaria più pronta nè più ingiusta che quella di questi favoriti della plebaglia. Nella sua cieca superstizione quel popolo contò assai più sui miracoli della Madonna del Carmine, su quelli dello stesso Masaniello, che risguardava quale santo, che sopra i proprj sforzi. Passando da una cieca confidenza ad una insensata diffidenza, fu tradito da tutti coloro cui affidò il suo potere, e trasmutò in accaniti nemici tutti coloro che perseguitò con ingiuriosi sospetti; soprattutto continuò troppo lungamente a proclamare colle sue grida il re di Spagna, a pretendere di mantenersegli fedele, ed a rigettare sugli Spagnuoli il nome di ribelli. Gli è questo un grand'errore, di credere che le parole adoperate contro il loro senso naturale possano fare illusione sul fondo delle cose. È meno pericoloso per coloro che si ribellano il confessarsi apertamente ribelli; ed i Napolitani avevano bastantemente sperimentato il carattere di Filippo IV e del suo ministero, per essere certi che Filippo non verrebbe con loro a patti che per ingannarli.
Il duca di Guisa, invece di costituire la repubblica che lo sceglieva per suo capo, non pensò che ad attribuirsi un assoluto potere; si mostrò geloso di tutti i diritti della nazione, di tutti quelli dei suoi magistrati, ed in particolare dell'opinione che aveva presso il popolo Tomaso Annese, il più destro partigiano della libertà ed il vero capo della rivoluzione. Siccome il Guisa nulla aveva fatto pel popolo, così non ottenne dal medesimo que' generosi sforzi che inspira il solo amore della libertà. Gennaro Annese, irritato di non avere altro fatto che mutare padrone, e temendo per sè medesimo la gelosia del Guisa, cominciò celatamente a trattare cogli Spagnuoli. All'ultimo vendette loro la propria patria, aprendone loro le porte il 4 aprile del 1648, mentre che il Guisa aveva fatta una sortita con un piccolo corpo d'armata per agevolare l'arrivo delle vittovaglie. Ad un giogo più assai pesante del primo venne assoggettata la città di Napoli, ed altro conforto non ebbe il popolo che quello di vedere coloro che lo avevano tradito cadere vittima della propria perfidia. Il duca d'Arcos aveva perduta la carica di vicerè, ed era stato richiamato in Ispagna; il duca di Matalona ed il principe don Francesco Toralto, da lui persuasi con altri gentiluomini napolitani a tradire i loro compatriotti, vennero uccisi dal popolo furibondo; il duca di Guisa, fatto prigioniero dagli Spagnuoli, non ottenne la sua libertà che nel 1652; e Gennaro Annese, che aveva restituita la corona a Filippo IV, e data la sua patria in mano agli Spagnuoli, perì sopra un patibolo, per ordine di quel re ch'egli aveva ristabilito, insieme a quasi tutti coloro che avevano avuta qualche parte nelle turbolenze; provando in tal maniera che verun servigio, per quanto possa essere grande, cancella agli occhi di un despota le passate ingiurie, e che verun giuramento lo lega verso coloro che una volta tentarono di scemare la sua potenza[264].
La sollevazione di Palermo, scoppiata il 20 maggio del 1647, fu meno lunga e meno importante che quella di Napoli; ma press'a poco andò soggetta alle stesse crisi. Il vicerè di Sicilia, don Pedro Faxardo de Zuniga, marchese de los Velez, non fu nè meno perfido, nè meno crudele del duca d'Arcos. Giuseppe d'Alessi, filatore d'oro, nativo di Polizzi in Sicilia, ebbe in quest'insurrezione le stesse parti che Masaniello a Napoli; come lui fu ucciso il 22 di agosto da' suoi partigiani, comperati dal vicerè, e come lui fu pianto da quel popolo che avrebbe dovuto difenderlo. Per ultimo a Palermo come a Napoli, dopo un'amnistia solennemente accordata, fu tirato nelle strade a mitraglia sopra il popolo, vennero appiccati tutti i capi, e le gabelle, che avevano cagionata la ribellione, e che il vicerè aveva abolite, furono ristabilite in tutta la loro estensione[265].
Ma nello stesso secolo venne scossa in Sicilia l'autorità spagnuola da un'altra sollevazione, dalla quale potevano aspettarsi più serie conseguenze, perchè gl'insorgenti trovavansi spalleggiati da Lodovico XIV, in allora giunto al più elevato grado della sua possanza. Tale insurrezione scoppiò in Messina in agosto del 1674. Sola di tutte le città della Sicilia Messina era di que' tempi governata, piuttosto come repubblica che come municipio, da un senato scelto in città, di cui il governatore spagnuolo altro non era che il presidente con limitatissima autorità. La libertà aveva conservata a Messina una prosperità sconosciuta in tutti gli altri regni di casa d'Austria. La città contava sessanta mila abitanti; il commercio vi aveva adunate grandissime ricchezze; le arti, le manifatture, l'agricoltura venivano egualmente incoraggiate; ma gli Spagnuoli risguardavano tanta prosperità come un pericoloso esempio per le vicine città, alle quali la vista di cotale prosperità poteva far desiderare i privilegj che avevano da gran tempo perduti. Altronde i governatori hanno tutti la stessa avversione per quei diritti che autorizzano i loro amministrati a resistere loro, e sono sempre solleciti di sopprimerli. Don Diego Soria, governatore di Messina, oppressava la città con nuove gabelle, sprezzava apertamente i diritti del senato, e cadde pure in sospetto d'aver voluto far perire tutti i senatori un giorno che li fece arrestare nel proprio palazzo. Questo forse malfondato timore fece scoppiare l'insurrezione. Gli Spagnuoli, scacciati dalla città, si ripararono nelle quattro fortezze che la circondano. Alcuni deputati spediti al duca d'Etrèe, ambasciatore in Roma di Lodovico XIV, gli offrirono pel suo re il possedimento di Messina, e con essa la sovranità della Sicilia. Tale offerta fu dall'ambasciatore avidamente accettata ed in appresso dalla sua corte. Lodovico XIV venne in Messina proclamato re di Sicilia; ed il commendatore Alfonso di Valbella si recò con sei navi da guerra a prendere possesso di quella città[266].
Nel susseguente anno il duca di Vivonne, ed in appresso il signore di Quesne intrapresero la conquista delle altre città della Sicilia, e la difesa di quelle che di già erano dai Francesi possedute. Accanite zuffe ebbero luogo tra i Messinesi e gli Spagnuoli, tra i Francesi e gli Olandesi alleati della corte di Spagna. Fu appunto nella più sanguinosa di tali battaglie che il valoroso ammiraglio Olandese Ruyter fu mortalmente ferito il 22 aprile del 1676[267].
Però Lodovico XIV aveva perduta la speranza di occupare tutta intera la Sicilia; e quando si aprirono in Nimega le conferenze per la pace, conobbe bentosto che una delle condizioni, cui sarebbe forzato di accettare, sarebbe l'evacuazione di Messina. Facendo di cotale cessione un articolo del trattato, avrebbe potuto facilmente ottenere un'amnistia per coloro che l'avevano servito, e fors'anco la ratifica degli antichi loro privilegj; ma parvegli che il proprio orgoglio avrebbe meno sofferto evacuando spontaneamente la città, senza condizione, senza esservi forzato, e come una semplice operazione militare. Prima del 17 di settembre del 1678, giorno in cui fu sottoscritta la pace di Nimega colla Spagna, Lodovico XIV mandò ordine al maresciallo de la Feuillade, che aveva il comando di Messina, di rassegnare la guardia della città agli abitanti, e di partire immediatamente con tutti i Francesi. Il senato ricevette questo crudele avviso, allorchè quasi tutti i Francesi erano di già imbarcati; desso supplicò la Feuillade di sospendere la sua partenza almeno pochi giorni, poichè non gli sovrastava verun pericolo, e di accordare in tale maniera agli sventurati Messinesi il tempo d'imbarcarsi con lui, onde sottrarsi ai carnefici della Spagna; per somma grazia non potè ottenere dal maresciallo che quattr'ore di ritardo. In così breve spazio di tempo si rifugiarono sulla flotta francese sette mila persone, ma con tanto precipizio che tutte le famiglie si trovarono separate, e che in questa scena di spavento non vi fu una sola madre di famiglia che non perdesse lo sposo, il fratello, o taluno de' suoi figliuoli, non un fuggiasco che potesse seco trasportare soltanto tutto il suo effettivo danaro, o i suoi più preziosi effetti. Bentosto, il maresciallo, temendo che la sua flotta non fosse troppo carica, fece spiegare le vele, mentre due mila persone gli tendevano ancora dalla riva le braccia, e chiedevano ad alte grida di essere ricevuti a bordo.
Pur troppo giusto era lo spavento di quegli sciagurati. Il vicerè don Vincenzo Gonzaga pubblicò, gli è il vero, un'amnistia quando entrò in Messina, ma la corte di Madrid non tardò ad annullarla. Vennero confiscati tutti i beni de' fuorusciti; la città fu privata di tutti i suoi privilegj, e vi s'innalzarono monumenti ond'eternare la memoria del suo gastigo; furono banditi tutti coloro che avevano avuto qualche impiego sotto i Francesi, e condannati a morte quelli che avevano presa una parte più attiva nella ribellione. Di sessanta mila abitanti che popolavano quella città, appena ne rimasero undici mila; e questa misera città non potè mai più rifarsi da tanto infortunio[268].
Dall'altro canto coloro, che dopo essersi sagrificati per la Francia, confidavano nella riconoscenza di Lodovico, e che il maresciallo de la Feuillade aveva condotti sulla sua flotta, vennero ripartiti in varie città della Francia e mantenuti a spese del re per un anno e mezzo; ma questi improvvisamente ordinò loro sotto pena della vita di uscire dal suo regno, e li privò d'ogni sussidio. Si videro allora uomini d'illustri natali, che fin allora avevano vissuto nell'opulenza, ridotti alla mendicità, ed altri riuniti in bande farsi assassini di strada. Mille cinquecento de' più disperati passarono in Turchia, ove abjurarono la fede, non volendo altri compagni che coloro, i quali abborrivano com'essi tutti i principi cristiani. Per ultimo soli cinquecento ottennero passaporti dagli ambasciatori spagnuoli per rientrare in patria; ma il nuovo vicerè di Sicilia, il marchese de las Navas, gli fece imprigionare di mano in mano che arrivavano; e tutti, ad eccezione di quattro, furono condannati o alla forca o alle galere[269].
Gli altri stati d'Italia furono ben lontani dal provare in questo secolo rivoluzioni di tanta importanza. Di tredici papi, che successivamente occuparono la cattedra di san Pietro, da Clemente VIII a Clemente XI, tre soltanto richiamano l'attenzione dello storico sul loro regno per avvenimenti di qualche importanza. Paolo V, dal 1605 al 1621, per le sue contese colla repubblica di Venezia; Urbano VIII, dal 1623 al 1644, per la guerra de' Barberini; ed Alessandro VII, dal 1655 al 1677, per gli oltraggi ricevuti da Lodovico XIV.
Paolo V, conosciuto prima sotto il nome di cardinale Camillo Borghese, godeva somma riputazione per l'integrità de' suoi costumi, pel suo zelo per la religione, ed in particolare pel suo grande attaccamento alle immunità ecclesiastiche, le quali fino nel primo anno del suo regno si credette chiamato a difendere, perchè il consiglio del dieci aveva, in Venezia, fatti imprigionare un canonico di Vicenza, ed un abbate di Nervesa, accusati di enormi delitti, e perchè in tale occasione la repubblica aveva pure richiamata in vigore un'antica legge che vietava agli ecclesiastici l'acquisto di nuovi stabili. Paolo V intimò al doge di Venezia, sotto pena di scomunica, di dare in mano al nunzio Mattei i due prigionieri ecclesiastici e di rivocare una legge che sembravagli contraria ai diritti della Chiesa. Paolo V era persuaso che niun sovrano oserebbe resistere all'autorità pontificia; lo zelo religioso era stato riscaldato dai papi allevati nei tribunali dell'inquisizione che si erano succeduti in sul declinare del precedente secolo, dal fanatismo di Filippo II, dalla riforma del concilio di Trento, e dalla violenza delle guerre di religione di fresco terminate in Francia, e non ancora spente in Fiandra. La fermezza della repubblica di Venezia gli recò non poco stupore, e forse fu cagione che non procedesse a nuove usurpazioni. Piuttosto che cedere, i Veneziani incorsero la scomunica e l'interdetto contro di loro fulminati il 17 aprile del 1606. Ordinarono, sotto pena della vita, a tutti i preti e monaci dello stato di risguardare come non avvenuto quest'interdetto, e di continuare la celebrazione de' divini ufficj. I Gesuiti, i Teatini ed i Cappuccini, avendo ricusato di ubbidire, furono costretti ad uscire dal territorio della repubblica, ed i primi non vi furono nuovamente ricevuti che nel 1657. Paolo V, non volendo cedere, cominciò a fare leva di truppe per ispalleggiare colle armi i suoi decreti. I Veneziani fecero lo stesso, e chiesero l'assistenza del re di Francia, loro alleato. Questi (Enrico IV) s'interpose con zelo per terminare una lite che poteva risvegliare una guerra generale. Spedì il cardinale di Giojosa a Venezia, indi a Roma per trattare; ed appoggiò così bene la fermezza del senato di Venezia, che la repubblica, nell'accomodamento conchiuso in Venezia, il 21 aprile del 1607, nè rinunciò al diritto di tradurre gli ecclesiastici innanzi ai tribunali secolari, nè alla legge che proibiva loro l'acquisto di beni stabili, e soltanto consegnò al cardinale di Giojosa i due ecclesiastici ch'erano stati imprigionati, dichiarando di farlo solo per deferenza verso il re di Francia[270].
Durante il suo lungo papato Paolo V arricchì a dismisura i suoi nipoti; una ragguardevole parte dell' Agro Romano fu data ai Borghesi: e que' vastissimi poderi, di mano in mano ch'erano posseduti da più ricchi proprietarj, vedevano scemare il numero de' loro abitanti. I Borghesi troppo ricchi per non dissipare con principesco lusso l'entrate loro procurate dallo zio, non lo erano bastantemente per far coltivare la provincia che possedevano, e che rimaneva perciò destinata al pascolo.
Il cardinale Maffeo Barberini, innalzato alla santa sede il 6 d'agosto del 1623, sotto il nome di Urbano VIII, fu ancora più prodigo dei beni della chiesa verso i suoi nipoti. Nel periodo di ventun anni di regno, loro abbandonò tutta la direzione degli affari della chiesa, e fece loro avere più di cinquecento mila scudi d'entrata. Ma i Barberini non si appagavano delle ricchezze; volevano approfittare del loro predominio sullo spirito dello zio pressocchè rimbambito per acquistare i ducati di Castro e di Ronciglione, feudi di casa Farnese, posti tra Roma e la Toscana[271].
Di quest'epoca que' due ducati, siccome ancora quelli di Parma e di Piacenza, erano governati da Odoardo Farnese nipote di Alessandro, l'illustre rivale di Enrico IV. Credeva Odoardo di essere per ereditario diritto un eroe ed un valente generale. Avendo contratti in Roma gravissimi debiti, di cui non pagava le usure, aveva dato al governo pontificio un plausibile pretesto per ordinare l'apprensione de' suoi feudi e per proporgli in seguito un trattato di vendita o di permuta; ma alle pretese dei Barberini egli oppose un'alterigia eguale alla loro, e non volle sapere di convenzioni. In tale occasione scoppiò una guerra tra la chiesa ed il duca di Parma nel 1641: e fu questa la sola in tutto questo secolo che avesse origine italiana. Tutte le altre guerre, che durante questo periodo insanguinarono il suolo della penisola, erano state provocate da oltremontani interessi. Il duca di Modena, il gran duca di Toscana, e la repubblica di Venezia presero parte in questa guerra come alleati di Odoardo Farnese; fu guastato molto paese, e ruinate le finanze della chiesa e del ducato di Parma; ma non pertanto questa guerra fu ancora più ridicola che pregiudicevole ai combattenti. Taddeo Barberini, prefetto di Roma e generale della chiesa, che aveva adunati nel Bolognese diciotto in ventimila uomini, fuggì colla sua armata, che interamente si disperse alla sola notizia dell'avvicinamento del Farnese, sebbene si sapesse che questa non aveva più di tre mila cavalli. Ma lo stesso Odoardo per la sua instabilità, per una presontuosa ignoranza, e per una inconsiderata prodigalità, perdette tutto il vantaggio che gli avevano dato la viltà de' suoi nemici e la cooperazione de' suoi alleati. Perciò dovette riputarsi felice che, colla pace sottoscritta in Venezia il 31 maggio del 1644, si rimettessero le parti belligeranti nello stato in cui si trovavano prima della guerra[272].
Nel diciassettesimo secolo i papi più non avevano sullo stato politico dell'Europa quell'influenza che i loro predecessori avevano esercitata nel sedicesimo. I Borboni non avevano loro mostrata giammai la medesima deferenza che i monarchi spagnuoli. Pure dovevano i papi risguardarsi per lo meno come sovrani ne' loro stati, ed in potere in tale qualità di amministrare liberamente la giustizia nella propria capitale. Lodovico XIV parve disposto a contrastare ad Alessandro VII tale prerogativa, mantenendo, sotto nome di franchigia, la protezione che il suo ambasciatore accordava agli abitanti di tutto un quartiere di Roma, contro la giustizia papale. La disputa intorno alle franchigie, cominciata nel 1660 e rinnovata nel 1662, spinse agli estremi i Corsici della guardia del papa, i quali, dopo essere stati malmenati dai servitori dell'ambasciata francese, vennero in corpo ad insultare ed attaccare il duca di Crequì, ambasciatore di Francia. Per vendicarlo, Lodovico XIV rinviò il nunzio pontificio, occupò Avignone ed il contado Venosino, ed apparecchiò un'armata per attaccare Alessandro VII nella sua stessa capitale. In pari tempo chiese con alterigia una pubblica soddisfazione; e l'ottenne col trattato di Pisa del 12 febbrajo del 1664, avendo il papa ed i suoi nipoti accondisceso alle più umilianti condizioni[273].
La disputa delle franchigie si rinnovò con maggiore acerbità sotto Innocenzo XI. Avendo egli ottenuto dagli altri ambasciatori d'Europa l'abolizione delle loro franchigie, volle approfittare della morte del duca d'Etrès, accaduta in Roma il 30 gennajo del 1687, per abolire, prima che il re gli desse un successore, quelle di cui aveva goduto come ambasciatore di Francia: Lodovico XIV non volle acconsentirvi, e destinò ambasciatore presso la corte di Roma il marchese di Lavardino, colà mandandolo con una guardia di ottocento spadaccini per minacciare il papa perfino nella sua capitale. Costoro si afforzarono nel palazzo di Francia; e difesero le franchigie dell'ambasciatore francese colle armi, non solo villanamente mancando al rispetto dovuto dal re al capo della sua chiesa, ma perfino ai riguardi che il più potente monarca avrebbe dovuto mostrare verso il più piccolo sovrano. L'affare delle franchigie non ebbe fine che nel 1693 sotto il papato d'Innocenzo XII, nella quale epoca Lodovico fu contento di desistere da un preteso diritto che manteneva l'anarchia, e favoreggiava il delitto negli stati del capo della cattolica religione[274].
Gli stati della Savoja e del Piemonte furono successivamente governati, in questo secolo, da cinque duchi, tre de' quali si resero illustri pel loro singolare ingegno. Pure questa casa, che nel susseguente secolo doveva acquistare tanta preponderanza in Italia, a stento potè in questo conservare quello stato di potenza cui era giunta ne' primi anni del medesimo. Se i suoi confini si mantennero press'a poco gli stessi, se le sue fortezze crebbero di numero e d'importanza, i suoi sudditi vennero crudelmente ruinati dalle guerre che si trattarono continuamente nel loro paese.
Carlo Emmanuele I, che in sul cominciare del secolo, regnava già da venti anni in Torino, e che morì soltanto il 26 di luglio del 1630, alle qualità che formano il grande capitano univa i talenti del sommo politico, ond'era risguardato come il più illustre principe d'Italia; ma la sua insaziabile ambizione, gl'intrighi, la mala fede dovevano finalmente inimicarlo con tutti i suoi vicini. Aveva a vicenda cercato di occupare Ginevra, l'isola di Cipro, Genova ed il Monferrato; ma non si era ristretto a muovere guerra soltanto a piccoli stati, aveva pure alternativamente attaccate la Francia e la Spagna, ed attirate nei suoi stati le armate di quelle grandi potenze; onde quando egli venne a morte, le sue migliori città si trovavano in potere de' suoi vicini[275].
Vittorio Amedeo, figliuolo di Carlo Emmanuele I, che aveva sposata Cristina di Francia, figlia d'Enrico IV, non fu meno valoroso, nè meno accorto di suo padre; ma più leale nella sua politica, e più costante nelle sue amicizie, non si attaccò che alla Francia. Ne' sette anni di continua guerra ch'egli sostenne, durante il breve suo regno, contro gli Spagnuoli, padroni del Milanese, non potè ricuperare che una parte di ciò che aveva perduto suo padre. La sua morte accaduta il 7 ottobre del 1637, riuscì fatale alla casa di Savoja; la sua vedova Cristina fu dichiarata tutrice de' figli, il maggiore de' quali, Francesco Giacinto, morì il 4 d'ottobre del 1638, ed il secondo, Carlo Emmanuele II, non aveva che quattro anni quando successe alla corona. Ma due fratelli di Vittorio Amedeo, il cardinale Maurizio ed il principe Tommaso, fondatore del ramo di Savoja Carignano, vedevano con estremo rincrescimento la reggenza in mano di una donna forestiera, che a parer loro non conosceva i veri interessi, nè la politica della loro casa. Contrastarono a Cristina l'autorità, e gli stati di Savoja trovaronsi avviluppati in lunghe guerre civili, per le quali Cristina implorò i soccorsi della Francia, ed i cognati di lei quelli della Spagna. Questi alleati posero a carissimo prezzo i loro sussidj: Cristina provò tutto l'orgoglio ed il despotismo del cardinale di Richelieu, i principi non soffrirono meno per la mala fede degli Spagnuoli, ed i popoli per lo spazio di oltre vent'anni furono tormentati dai Francesi e dagli Spagnuoli[276].
Carlo Emmanuele II, anche dopo uscito di tutela, non illustrò in verun modo il suo regno; e dopo la sua morte, accaduta il 12 giugno del 1675, i suoi stati sperimentarono nuovamente le disgrazie di un'altra minorità. Suo figlio Vittorio Amedeo aveva allora soltanto nove anni: ad ogni modo la reggenza della madre di lui, Giovanna Maria di Nemours, non fu così torbida come quella di Cristina. Vittorio Amedeo II, quando entrò negli affari, diede prove di somma abilità. Il 4 giugno del 1690 si associò alla lega della Spagna, dell'Inghilterra e dell'Olanda per contenere l'ambizione di Lodovico XIV. Abbandonò questo partito il 29 d'agosto del 1696 per entrare nell'alleanza del re di Francia; ed in tale circostanza si mostrò più pieghevole ed accorto che leale: cogli stessi artificj destramente adoperandosi tra rivali di lui più potenti assai, innalzò nel susseguente secolo la sua casa ad un più elevato grado, che prima non teneva, tra quelle de' principi d'Europa[277].
La Toscana, che ne' precedenti secoli ebbe così gran parte nella storia d'Italia, si fece appena osservare nel diciassettesimo. Il gran duca Ferdinando I regnava tuttavia in Firenze nel principio del secolo, che morì il 7 febbrajo del 1609. Dagli antichi Medici egli aveva ereditato quella considerazione pel commercio che gli altri principi italiani non sapevano apprezzare; cercò d'inspirare ai Toscani il gusto delle spedizioni marittime, cui non sono naturalmente inclinati; cambiò la fortezza di Livorno in città, abbellì il suo porto con magnifici lavori, e gli accordò quelle esenzioni che vi richiamarono quasi tutto il commercio di cabotaggio del Mediterraneo[278]. Nello stesso tempo incoraggiò i cavalieri dell'ordine di santo Stefano ad armare in corso contro i Barbareschi. Nel 1607 sei galere tentarono di sorprendere Famagosta, e saccheggiarono Ippona nel susseguente anno[279]. Cosimo II, figlio e successore di Ferdinando I, si mostrò ancora più zelante del padre per la gloria della marina toscana; e sebbene la sua mal ferma salute e la povertà dell'ingegno non gli consentissero di parteciparvi personalmente, niuno fu di lui più appassionato per la gloria militare. Nel breve suo regno di dodici anni l'ordine di santo Stefano, in sull'esempio di quello di Malta, intraprese ogni anno qualche spedizione contro i Barbareschi[280]; ma Cosimo II morì il 28 febbrajo del 1621; e Ferdinando II, suo figliuolo, essendo ancora fanciullo, tennero la reggenza la madre e l'ava[281].
Il lungo regno di Ferdinando II, che morì soltanto il 23 maggio del 1670, portò tutto intero il carattere delle donne che lo avevano educato; fu dolce, pacifico debole. Questo principe fu buono e non privo di talenti; ma un languore mortale si stendeva su tutte le parti dell'amministrazione; e sotto il suo regno ebbe cominciamento quell'universale apatia, che successe all'antica attività de' Toscani. Per altro la corte di Ferdinando II venne illustrata da uno zelo glorioso per le scienze naturali: le proteggeva caldamente suo fratello il cardinale Leopoldo de' Medici; e sotto i di lui auspicj nel 1657 fu fondata l'accademia del Cimento, la quale fece le sue più belle sperienze a spese de' Medici[282].
Cosimo III, che del 1670 successe a suo padre Ferdinando II, aveva ricevuto da sua madre Vittoria della Rovere uno spirito minuzioso e diffidente, un ridicolo fasto, un eccessivo bigottismo. Aveva egli sposata Margarita Luigia d'Orleans, cui il suo carattere lo rendette in breve odioso oltre ogni credere. Le loro contese, la ritirata della gran duchessa alla corte di Lodovico XIV, le di lei imprudenze, e la costanza del marito di lei a perseguitarla, sono le sole cose di cui parlano gli annali della Toscana fino alla fine del secolo. Intanto Cosimo III prodigava i suoi tesori nel comperare a caro prezzo nuovi convertiti, e nell'abbellire le Chiese; e la corte e la nazione, strascinate dall'esempio del principe, si abituavano all'ipocrisia ed alla dissimulazione[283].
I ducati di Parma e di Piacenza furono nel XVII secolo governati da quattro principi della casa Farnese, de' quali niuno seppe meritarsi l'amore de' suoi popoli, o il rispetto della posterità. Rannuccio I, che nel 1592 era succeduto a suo padre Alessandro, non aveva ereditata alcuna delle grandi qualità di questo eroe. Gli è vero che aveva sotto i di lui ordini dato prove di valore nelle guerre di Fiandra; ma il suo carattere era cupo, severo, avaro, diffidente: non voleva regnare che per mezzo del terrore, e questo terrore declinò bentosto in un accanito odio. Egli accusò la nobiltà d'avere contro di lui tramata una congiura, ed il 19 maggio del 1612, dopo un segreto processo, fece decapitare molti nobili, appiccare un maggior numero di plebei, e confiscare tutti i loro beni. Niuno in Italia si persuase della delinquenza de' giustiziati. Il duca di Toscana, cui Rannuccio aveva mandata copia del processo, manifestò apertamente la sua incredulità, rimandandogli un processo egualmente in così buona forma contro l'ambasciatore di Parma, come colpevole d'un omicidio in Livorno, mentre era a tutti noto che l'ambasciatore mai non era stato in quella città. Il duca di Mantova, che risguardava suo padre come accusato di avere avuto parte nella congiura, fu in procinto di dichiarare la guerra a quello di Parma per lavare quest'ingiusto sospetto[284]. Rannuccio I aveva da principio chiamato a succedergli suo figlio naturale Ottavio; ma in seguito avendo avuto figliuoli legittimi, si aombrò del bastardo, e lo chiuse in un'orrida prigione, ove lo lasciò miseramente perire. Rannuccio morì in sul cominciare di marzo del 1622; e perchè il suo figliuolo primogenito era sordo e muto, gli successe Odoardo Farnese II[285].
Odoardo Farnese era, più che eloquente, satirico, mordace, e presontuoso oltre misura. Voleva tutto fare da sè, e voleva dai suoi ministri ubbidienza e non consiglj. Sopra tutto credevasi nato per la guerra, e destinato a far rivivere i maravigliosi talenti di suo avo Alessandro. Pure l'eccessiva sua corpulenza, che in appresso trasmise ai suoi figliuoli, e che riuscì fatale a casa Farnese, doveva dargli poca attitudine ad ogni faticoso esercizio. Nel 1635 fece alleanza coi Francesi contro gli Spagnuoli, e questa prima guerra di Odoardo, terminata nel 1637, diede poco risalto ai talenti ch'egli supponeva di avere, ed espose i suoi stati a gravissimi danni. La sua seconda guerra coi Barberini, dal 1641 al 1644, che si era tirata in su le braccia a cagione della sua irregolarità nel pagare le usure de' grandiosi suoi debiti, fece ancora più apertamente conoscere la sua imprudenza e la sua poca abilità. Morì il 12 di settembre del 1646, liberando i suoi sudditi dalla fatica che cagiona l'attività quando non è sostenuta dai talenti, e dal pericolo in cui gli strascinava continuamente un principe mediocre che voleva parere uomo grande[286].
Il di lui erede, Rannuccio II, non aveva la ferocia di Rannuccio I, nè la presunzione di Odoardo; ma non perciò i Parmigiani furono più felici; perchè dall'indolenza e dalla debolezza del loro padrone si trovarono abbandonati alla prepotenza d'indegni favoriti. Uno di costoro, il marchese Godefroi, primo ministro di Rannuccio II, e ch'era stato suo precettore di lingua francese, nel 1649 lo trasse in una guerra colla corte di Roma, che fece perdere alla casa Farnese gli stati di Castro e di Ronciglione. Godefroi aveva fatto assassinare il vescovo di Castro; ed Innocenzo X, facendo cadere la vendetta di tale attentato sopra gl'innocenti, fece atterrare Castro, non lasciando sussistere tra le ruine di quella città che una colonna con un'iscrizione[287]. In appresso Rannuccio II fece decapitare il suo ministro e confiscarne le sostanze; ma senz'essere perciò in istato di governare da sè medesimo, e senza che i suoi sudditi raccogliessero verun beneficio da questo cambiamento, perchè nuove sanguisughe avevano preso il posto delle antiche. Rannuccio II morì soltanto l'undici dicembre del 1694, quando poteva di già prevedere la vicina estinzione della sua casa. Suo figlio primogenito Odoardo era morto prima di lui, il 5 settembre del 1693, soffocato da soverchia pinguedine, lasciando una figlia, Elisabetta, che fu poi regina di Spagna. Gli altri due figliuoli di Rannuccio II, Francesco ed Antonio, regnarono uno dopo l'altro, ma l'eccessiva loro corpulenza dava motivo di credere che non avrebbero prole[288].
Fra le famiglie sovrane dell'Italia la casa d'Este fu quella che nel diciassettesimo secolo produsse maggior numero di principi amati dai loro popoli; ma i suoi dominj, ridotti ai piccoli stati di Modena e di Reggio, più non le davano quell'importanza che aveva avuto nel precedente secolo. Cesare, che per la sua debolezza aveva perduto il ducato di Ferrara, morì soltanto l'11 dicembre del 1628. Suo figlio primogenito, Alfonso III, non regnò che circa sei mesi. Quest'uomo, temuto pel suo violento e sanguinario carattere, fu così scosso dalla morte di sua moglie, che abbandonò la sovranità il 24 di luglio del 1629, e ritirossi in un convento del Tirolo, ove si fece cappuccino[289].
Francesco I, che successe a suo padre Alfonso, si acquistò la riputazione di essere uno de' migliori capitani d'Italia, e de' migliori amministratori. In principio del suo regno aveva sposati gl'interessi della monarchia spagnuola, e per essa nel 1635 fece la guerra al duca di Parma, Odoardo Farnese, suo cognato. Per compensarlo di tali servigj nel 1636 l'imperatore gli concesse il piccolo principato di Correggio, che venne incorporato a' suoi stati[290].
Del 1647 Francesco I passò al partito della Francia, e fece sposare a suo figlio Laura Martinozzi, nipote del cardinale Mazarino, che gli recò in dote grandissime ricchezze; ed egli fu nominato allora generalissimo delle armi francesi in Italia. Fu più volte vittorioso degli Spagnuoli; ma senza che ciò compensasse a' suoi sudditi i guasti cui trovaronsi esposti. Questo principe morì il 14 di ottobre del 1658 in conseguenza d'una malattia contratta nell'assedio di Mortara[291].
Alfonso IV, che successe a Francesco suo padre, e che morì il 16 luglio del 1662, non fece verun atto degno di ricordanza, tranne il particolare trattato di pace fatto cogli Spagnuoli l'11 marzo del 1659. Il figlio di lui, Francesco II, che fu per una metà del suo regno sotto la reggenza di sua madre, e per l'altra volontariamente subordinato all'autorità di don Cesare, suo fratello naturale, morì il dì 6 settembre del 1694, senza lasciare memoria alcuna del suo debole governo; e Rinaldo, in allora cardinale e secondo figlio di Francesco I, successe a suo nipote. Le disgrazie che gli si apparecchiavano nella guerra della successione della Spagna non ebbero cominciamento che col susseguente secolo[292].
La casa di Gonzaga, sovrana nel diciassettesimo secolo dei due ducati di Mantova e del Monferrato, accese pel proprio interesse molte guerre che guastarono l'Italia, senza che un solo dei suoi capi siasi meritato nelle sue calamità la stima o la compassione. Vincenzo I, Francesco IV, Ferdinando e Vincenzo II, che occuparono successivamente il trono fino alla morte dell'ultimo, accaduta il 26 dicembre del 1627, furono uomini affatto perduti ne' piaceri e nella dissolutezza, che diedero ai loro sudditi l'esempio d'ogni genere di scandali, e gli oppressero colle più onerose imposte, ora per soddisfare al loro gusto di prodigalità ed al loro fasto, ora per collocare con ruinose doti sul trono imperiale principesse della casa Gonzaga. Vincenzo II morì senza figliuoli, ed il ramo de' Gonzaga, duchi di Nevers, stabilito in Francia, ed in allora rappresentato da Carlo, nipote del duca Federico II, ch'era morto nel 1540, venne chiamato alla successione di Mantova. Quella del Monferrato era un feudo femminino, e doveva passare a Maria, figlia di Francesco IV e di una principessa di Savoja. Ma la stessa notte in cui morì Vincenzo II, Carlo duca di Rethel, figlio di Carlo duca di Nevers, ch'era venuto a Mantova per raccogliere l'eredità di suo cugino, di cui prevedeva il vicino fine, sposò Maria, erede del Monferrato; di modo che l'intera eredità dell'ultimo duca passò nel ramo di Nevers[293].
Questa successione di un principe francese nel centro dell'Italia offese in pari tempo il duca di Savoja Carlo Emmanuele, che non era stato interpellato intorno al matrimonio di sua nipote, e l'imperatore Ferdinando II, da cui non aveva il nuovo duca aspettata l'investitura. Il ducato di Mantova fu invaso da quelle stesse armate imperiali accostumate al saccheggio ed alla ferocia nella lunga guerra contro i protestanti che allora desolava la Germania, e che in appresso fu poi intitolata la guerra de' trent'anni. Mantova fu sorpresa il 18 di luglio del 1630 dal conte di Collalto, Altringer e Gallas, e saccheggiata con orribile crudeltà[294]. Le calamità del Monferrato, sebbene meno appariscenti, furono più lunghe e più dolorose. Fino alla pace dei Pirenei nel 1659, il Monferrato fu costantemente il teatro delle battaglie delle grandi potenze, ed a vicenda saccheggiato dai Francesi, dagli Spagnuoli, dai Savojardi e dai Tedeschi, diviso da ogni trattato fra i diversi principi, e quasi abbandonato dai suoi duchi che sentivano l'impossibilità di difenderlo[295].
Il 25 settembre del 1637, Carlo II era succeduto a suo padre Carlo I, e Ferdinando Carlo successe il 15 di settembre del 1665 a suo padre Carlo II, senza che la sorte degli abitanti del Monferrato si rendesse migliore. L'ultimo di questi principi, più dissoluto, più insensibile al disonore, più non curante delle disgrazie de' suoi sudditi che non lo erano stati i suoi predecessori, vendette nel 1681 Casale, la capitale del Monferrato, a Lodovico XIV, per andare a dissipar nei piaceri del carnevale di Venezia il danaro, che mai non bastava alle sue stravaganze. I suoi sudditi di Mantova gemevano sotto il peso di enormi tasse, e quelli del Monferrato si trovavano esposti alle estorsioni de' militari, mentre egli s'aggirava mascherato nelle sale da ballo e ne' postriboli, e non arrossiva di far conoscere i suoi vergognosi piaceri ad un popolo straniero che non aveva bisogno di dissimulare il suo disprezzo, e ad un senato che vietava ai nobili di Venezia perfino d'intrattenersi con lui[296].
La casa sovrana dei duchi d'Urbino si spense in principio del XVII secolo. Il vecchio duca Francesco Maria della Rovere, che regnava fin dal 1574, avendo veduto nel 1623 morire vittima delle sue dissolutezze l'unico suo figlio il principe Federico, acconsentì ad abdicare nel 1626 la sua sovranità a favore della Chiesa. Sua nipote, Vittoria della Rovere, maritata con Ferdinando II dei Medici, non portò a Ferdinando in eredità che i beni patrimoniali di sua famiglia. Il ducato d'Urbino, riunito alla diretta della santa sede, perdette la sua opulenza, la sua popolazione e tutti i vantaggi che gli aveva saputo procurare la più gentile corte d'Italia; ed il vecchio duca, che morì soltanto nel 1636, ebbe tempo di vedere il decadimento dei paesi che tanto tempo avevano prosperato sotto il dominio della sua famiglia[297].
Il governo di Lucca, vedendo di non potersi mantenere che nel silenzio, e col farsi dimenticare dalle potenze che avevano in mano i destini dell'Europa, aveva vietato di pubblicare veruna storia nazionale; perciò la repubblica di Lucca non lasciò di sè in questo secolo verun'altra memoria che quella di due piccole guerre contro il duca di Modena nella Garfagnana, cominciate senza motivi nel 1602 e nel 1613, e terminate senza gloria coll'intervento della Spagna[298].
Nel corso di questo secolo la repubblica di Genova si lasciò strascinare dall'influenza della corte spagnuola in due guerre col duca di Savoja, nel 1624 e 1672. Non era appena terminata la prima, che l'ambasciatore di Savoja risvegliò le sopite fazioni della nobiltà e dell'ordine popolare, e nel 1628 trasse Giulio Cesare Vachero, ricco mercante dell'ordine popolare, in una congiura ordita per rovesciare la costituzione[299].
Dopo l'atto di mediazione del 1576, la repubblica di Genova erasi conservata divisa in due fazioni. Comprendeva la prima circa cento settanta famiglie registrate nel libro d'oro, e che avevano il diritto di sedere in consiglio. Parte di queste appartenevano all'antica nobiltà; altre erano state di fresco aggregate all'aristocrazia; e tra queste erano scoppiate le ultime dissensioni calmate dall'atto di mediazione. Ma un secondo ordine nella repubblica era composto delle famiglie non inscritte, tra le quali contavansene allora più di quattrocento cinquanta che possedevano non meno di cinquanta mila fino ai settecento mila scudi, ed erano decorate di prelature, di feudi, di commende e di titoli di contee e di marchesati. Le prime, rese orgogliose dal privilegio di possedere esclusivamente la sovranità, affettavano sommo disprezzo verso le altre, che pure si credevano non da meno di loro. L'atto di mediazione aveva bensì ordinato che ogni anno s'inscrivessero dieci famiglie nuove nel libro d'oro, cioè sette della capitale e tre delle città delle due riviere; ma questa legge veniva quasi sempre delusa, oppure il senato, quand'era forzato a procedere alla scelta, o non ammetteva che celibatarj e persone fuori di speranza d'avere successione, onde non accrescere il numero delle famiglie dominanti, o finalmente soltanto famiglie affatto povere, affinchè queste rimanessero più dipendenti dall'oligarchia[300].
Era appunto l'insolenza de' più poveri cittadini inscritti nel libro d'oro, che più vivamente offendeva i ricchi mercanti ed i signori feudatarj esclusi dal governo. Giulio Cesare Vachero, sebbene mercante, aveva adottate le costumanze che di que' tempi risguardavansi come proprie de' gentiluomini: camminava sempre armato ed in abito militare, ed era circondato da sicarj, che spesso adoperava per vendicarsi con assassinj. Parecchi saluti più volte a lui ricusati da persone del governo, parecchi moti, sogghigni derisorj, ed insulti sofferti da sua moglie erano di già stati puniti collo spargimento di molto sangue; ma nuove offese accrescendo sempre il suo risentimento, egli associò alle sue vendette moltissimi ricchi cittadini esclusi dal libro d'oro; moltiplicò il numero de' suoi sicarj; diffuse grandi somme di danaro tra il popolo onde averlo ubbidiente, senza avere bisogno di partecipargli il suo progetto, e risolse di attaccare il palazzo il giorno primo di aprile del 1628, di forzare la guardia tedesca, di gettare giù dai balconi i senatori, di uccidere tutti i cittadini registrati nel libro d'oro, e di riformare la repubblica, della quale egli sarebbe dichiarato doge, sotto la protezione del duca di Savoja. La trama fu scoperta il 30 di marzo da un capitano piemontese cui il Vachero aveva palesato il segreto. La maggior parte de' congiurati ebbe tempo di fuggire; ma vennero arrestati il Vachero ed altri cinque o sei, i quali tutti, dopo una processura che rendeva aperto il loro delitto, furono giustiziati malgrado le rimostranze del duca di Savoja, che si levò affatto la maschera, si dichiarò capo della congiura, e minacciò la repubblica di rappresaglie[301].
Un'altra volta la repubblica di Genova richiamò sopra di sè gli sguardi dell'Europa pel barbaro trattamento fattole da Lodovico XIV, il 18 di maggio del 1684, quando questo monarca, senza poter rinfacciare ai Genovesi verun atto d'ostilità, veruna prova di cattiva volontà, niun altro torto finalmente, fuorchè quello d'avere impedito il contrabbando del sale nel proprio territorio, ed armate quattro galere per la propria difesa, mandò in faccia alla città una squadra comandata dal marchese di Seignelay. In tre giorni vi fece piovere quattordici mila bombe; distrusse la metà de' suoi magnifici edificj, ed all'ultimo chiese che lo stesso doge si portasse a Versailles per iscusarsi degl'immaginarj torti della repubblica[302].
La repubblica di Venezia rialzossi in questo secolo con nuovo vigore dallo spossamento cui pareva dovesse soggiacere nel precedente secolo; e sola osò mostrarsi premurosa della difesa dell'italiana indipendenza. Abbiamo di già osservato con quanta costanza rispinse gli attacchi di Paolo V, e conservò i diritti della sua sovranità malgrado gl'interdetti e le scomuniche di Roma. In principio del secolo, nel 1601 e 1615, difese collo stesso vigore la sua sovranità sull'Adriatico contro le piraterie degli Uscocchi di Signa, sebbene questi popoli schiavoni, protetti dall'arciduca Ferdinando di Stiria, potessero strascinarla in una guerra con tutta la potente casa d'Austria[303].
I Veneziani, tratti dalle ostilità loro col papa e colla casa d'Austria, si avvicinarono al partito protestante, poichè di quest'epoca l'Europa era piuttosto divisa dalla religione che dalla politica. Infatti nel 1617 contrassero alleanza cogli Olandesi, mentre che il duca di Savoja loro alleato si assicurò de' soccorsi del maresciallo di Lesdiguieres, capo de' protestanti del mezzodì della Francia. Queste due potenze furono le prime in Italia che osarono cercare appoggio tra gli eretici. Perciò, quando scoppiò la guerra dei trent'anni, i protestanti di Germania si affidarono ai soccorsi di queste due potenze. Il conte di Thurn, Bethlem Gabor, il conte di Mansfeld e Ragotzi ricevettero più volte dal senato danaro e munizioni, senza che questi venisse giammai ad aperte ostilità colla casa d'Austria[304].
I duchi d'Ossuna e di Toledo, orgogliosi vicerè spagnuoli che allora governavano il regno di Napoli ed il ducato di Milano con una quasi assoluta indipendenza, risguardarono la repubblica di Venezia come una nemica che si doveva distruggere. Impiegarono alternativamente contro di lei la forza aperta ed i tradimenti, e d'accordo col marchese di Bedmar, ambasciatore di Spagna a Venezia, ordirono nel 1618 una congiura, che pareva piuttosto diretta all'intera ruina della città, che alla sovversione del suo governo: i principali colpevoli furono puniti, ma il senato, temendo il risentimento della corte di Spagna, non osò rendere pubbliche queste processure, o apertamente accusare i veri instigatori de' congiurati[305].
Conoscendo tuttociò che temere dovevano dall'ambizione e dalla nimicizia della casa d'Austria, i Veneziani si aombrarono vedendo nel 1619 gli Spagnuoli tentare di assicurarsi una comunicazione colla Germania per via delle fortezze che fabbricavano nella Valtellina, sotto colore di proteggere i cattolici di quella provincia contro i Grigioni protestanti, loro sovrani. I Veneziani si collegarono coi Grigioni; sollecitarono l'intervento della Francia, e persuasero il cardinale di Richelieu a secondarli. La pace che fissò la sorte della Valtellina si conchiuse il 6 marzo del 1626; ma per la lentezza e per gli artificj degli Spagnuoli, i Grigioni non riebbero il possedimento della sovranità di quella provincia che nel 1637, guarentendo il mantenimento della cattolica religione[306].
Nella seconda metà del XVII secolo i Veneziani dovettero portare le loro forze in altro luogo; e l'improvviso attentato de' Turchi contro l'isola di Candia, ch'ebbe luogo il 23 giugno del 1645, li ravvicinò di nuovo alla casa d'Austria, colla quale ebbero allora comuni interessi[307]. La guerra che di quei tempi ebbe cominciamento tra i Veneziani ed il sultano Ibrahim fu la più lunga e la più ruinosa che la repubblica avesse mai sostenuta contro l'impero Ottomano: durò venticinque anni, e fu illustrata da gloriose vittorie navali. Due fra l'altre ne furono riportate ai Dardanelli, una il 21 giugno del 1655 da Francesco Morosini, l'altra il 26 di giugno del 1656 da Lorenzo Marcelli. Ma a dispetto de' miracolosi sforzi di valore, e malgrado i loro vantaggi, che sarebbero stati decisivi con un nemico meno potente, i Veneziani non poterono fare in modo che il gran Visir non assediasse la stessa città di Candia il 22 di maggio del 1667. Quest'assedio fu sostenuto con indicibile valore dai Cristiani, che furono soccorsi da quasi tutti i principi dell'Occidente. Prodigiosa fu la mortalità da ambedue le parti; la peste saccheggiò il campo musulmano; ogni opera avanzata, ogni rivellino, ogni bastione fu difeso finchè trovossi ridotto in un mucchio di ruine. Il duca di Beaufort vi perdette la vita; il duca di Navailles abbandonò la difesa della città, e s'imbarcò con tutti i Francesi malgrado le caldissime istanze di Francesco Morosini, che credeva di potersi ancora difendere. All'ultimo Candia fu costretta a capitolare il 6 di settembre del 1669. La repubblica rinunciò al dominio dell'isola di Creta, e conservò gli altri suoi possedimenti in Levante[308].
Ma i Veneziani mal sapevano accomodarsi alla perdita di Candia; tenevano aperti gli occhi, onde approfittare della prima opportunità per rifarsi sull'impero Ottomano; e credettero di averla trovata in tempo della guerra che la Porta dichiarò all'Austria nel 1682. Il 5 marzo del 1684, colla mediazione di papa Innocenzo XI, i Veneziani si allearono coll'imperatore Leopoldo e con Giovanni Sobieschi, re di Polonia. Diedero il comando delle loro truppe a Francesco Morosini, che si era acquistata tanta gloria nella guerra di Candia, e con un singolare tratto di confidenza, di cui la loro repubblica aveva dati rarissimi esempj, gli lasciarono il comando degli eserciti anche dopo averlo nominato doge. I loro sforzi furono coronati da luminosi successi; e questa seconda guerra, che durò quindici anni, riparò ai disastri della precedente. Nel 1684 i Veneziani conquistarono Santa Maura, nel 1686 e 1687 occuparono tutta la Morea, ed a queste conquiste aggiunsero nel 1694 quella dell'isola di Scio, che perdettero nel susseguente anno. Al generale Svezzese conte di Konigsmark, che aveva preso servigio sotto le bandiere della repubblica, si dovette il principale merito di queste vittorie. Ma perchè Venezia si esauriva colla lunghezza di questa guerra, dessa accettò con piacere la tregua di Carlowitz del 26 di gennajo del 1699, che le lasciava il possedimento della Morea, dell'isola d'Egina, di Santa Maura, e di molte altre fortezze conquistate in Dalmazia[309].
CAPITOLO CXXV.
Ultime rivoluzioni degli antichi stati dell'Italia dopo l'apertura della guerra per la successione di Spagna fino all'epoca della rivoluzione francese.
1701 = 1789. Da oltre un secolo e mezzo l'Italia aveva piegato il collo sotto il giogo straniero; la libertà era stata distrutta nelle repubbliche, l'indipendenza de' principi negli stati assoluti, ovunque la guaranzia sociale de' cittadini. Sotto il peso di questa calamità qualunque orgoglio nazionale dovette spegnersi nel petto degl'Italiani, cessare dovette qualunque virtù pubblica, e gl'Italiani vedendo di più non poter aspirare alla gloria, si abbandonarono alla mollezza ed al vizio. Più non sursero ingegni che si preservassero dai difetti della debolezza, cioè dalla dissimulazione e dalla doppiezza; le lettere si corruppero colla pubblica morale, e l'ingegno non tardò a soggiacere alla sorte delle virtù. Il gusto de' così detti seicentisti non fu meno depravato della politica de' loro coetanei. I Marini e gli Achillini nella poesia, il Bernino nelle arti, ebbero una riputazione analoga a quella dei Concini, dei Mazarini, delle Catarina e Maria dei Medici nel governo e nell' intrigo; e la terra ridotta in servitù più non produsse che frutta viziate.
L'Italia fu ruinata dalla guerra nella prima metà del diciottesimo secolo, presso a poco come nella prima metà del sedicesimo. Erano i medesimi popoli, Francesi, Spagnuoli e Tedeschi, che se ne contrastavano il possedimento; ma la loro maniera di combattere era di già diventata meno crudele, e lasciava ai popoli più lunghi intervalli di riposo. Essi volevano disporre delle province italiane, secondo che loro meglio conveniva, o a seconda de' pretesi diritti di famiglia, senza avere verun riguardo agl'interessi de' popoli, ai loro diritti, ai loro desiderj: ma il risultamento de' loro sforzi fu precisamente il contrario di quello che avevano avuto le guerre del sedicesimo secolo. Queste avevano ridotti i più nobili principati d'Italia in province di estere monarchie; le guerre del secolo diciottesimo loro restituirono sovrani nazionali. Desse crearono ai più esposti confini una nuova potenza capace di difendere l'Italia; e fissarono un giusto equilibrio tra i suoi vicini.
La pace d'Aquisgrana del 18 ottobre 1748 avrebbe ristabilita l'indipendenza dell'Italia, se potesse sussistere indipendenza senza libertà e senza spirito nazionale. Sagge e giuste erano le basi di questa pace per quanto si poteva sperarlo da un congresso in cui i popoli non avevano rappresentanza; perciò l'Italia ci presenta in questo secolo una grande esperienza politica, i di cui risultati sono degni di osservazione. L'Europa, dopo di avere in certo qual modo distrutta una grande nazione, sente il male che ha fatto a sè medesima, privandola dell'esistenza. Le quattro guerre di un mezzo secolo terminarono con altrettanti trattati, che rialzarono sempre più l'indipendenza italiana. Non avvi cosa che gli stranieri non facciano per gl'Italiani, fuorchè quella di rendere loro la vita. Alle guerre succedono quarant'anni di pace, e sono questi quarant'anni di mollezza, di debolezza, di dipendenza; di modo che con questo esperimento i diplomatici dovrebbero convincersi, che non si ristabilisce l'equilibrio d'Europa, quando non si oppongono che forze morte a forze vive; e che non si guarentisce l'indipendenza di una nazione, quando non si chiama quella medesima nazione a difendere il proprio interesse e che non le si dà nè onore, nè energia per mantenersi.
Con quattro successive guerre si cambiò l'equilibrio d'Italia sul principio del diciottesimo secolo, ed i quattro trattati che le terminarono, stabilirono nuove dinastie, che poco più poco meno presero il luogo delle antiche.
La guerra della successione di Spagna dal 1701 al 1718 si era cominciata da quasi tutte le potenze d'Europa contro la casa di Borbone per contrastare a questa l'eredità di Carlo II, ultimo monarca del ramo austriaco di Spagna. Lodovico XIV aveva preteso di raccoglierla tutt'intera pel secondo de' suoi nipoti, cui aveva di già posto in possesso dei quattro grandi stati che Carlo V aveva lasciati in Italia ai suoi discendenti, Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Ma le forze dell'Europa unite contro di lui, dopo avere lungamente guastate le province, ch'egli pretendeva difendere, una dopo l'altra gliele ritolsero. La defezione del duca di Savoja, che nel 1703 passò al partito de' suoi nemici, contribuì più di tutto a fargli perdere l'Italia. Il 13 marzo del 1707 i Francesi furono forzati ad evacuare la Lombardia; il 7 di luglio dello stesso anno perdettero il regno di Napoli; e la Sardegna fu tolta alla casa di Borbone alla metà d'agosto del 1708. Di tutta l'eredità della casa d'Austria in Italia Filippo V più non aveva che la sola Sicilia, la quale poi cedette col trattato di pace; di modo che i trattati d'Utrecht dell'11 aprile del 1713 e di Rastad del 6 marzo 1714, che terminarono la guerra della successione di Spagna, disposero di tutti i paesi che Carlo Quinto aveva riuniti alla monarchia Spagnuola, e coi quali aveva renduto dipendente da quella monarchia il resto dell'Italia[310].
Il Milanese, il regno di Napoli e la Sardegna furono ceduti alla casa d'Austria tedesca, che inoltre acquistò in Italia il Mantovano, confiscato a pregiudizio dell'ultimo Gonzaga. Queste province passavano da monarca straniero a monarca straniero, e l'indipendenza italiana invece di guadagnare a questi cambiamenti, forse perdeva, perchè il nuovo monarca era più vicino. Ma da un altro canto il sovrano più militare dell'Italia acquistò province che davano maggiore consistenza a' suoi stati, e lo mettevano più a portata di farsi rispettare in avvenire. Il Monferrato venne aggiunto al Piemonte con alcuni piccoli distretti staccati dalla Francia, e nello stesso tempo il regno di Sicilia fu accordato a Vittorio Amedeo II, di modo che l'Italia contò nuovamente in quest'epoca un re tra i suoi principi[311].
Il cardinale Alberoni, che dispoticamente governava la Spagna a nome di Filippo V, sempre schiavo di un favorito, non poteva darsi pace che pel trattato d'Utrecht la Spagna avesse perduto quel dominio d'Italia che aveva conservato quasi due secoli. Colle forze rendute alla Spagna da quattro anni di pace e da un'amministrazione alquanto meno oppressiva, volle tentare di ricuperare in Italia la perduta influenza. Facendo adottare al gabinetto borbonico di Madrid la politica del gabinetto austriaco, cui era succeduto, principiò con un tradimento. In mezzo alla pace, un'armata spagnuola sbarcata in Sardegna il 22 d'agosto del 1717 occupò quell'isola cacciandone gli Austriaci. Lo stesso fece nella Sicilia a danno de' Piemontesi nel susseguente anno, dopo avere egualmente ingannata la corte di Torino. Questa guerra ricevette il suo nome dalla quadruplice alleanza formata per frenare la Spagna. La Francia in allora governata dal reggente duca d'Orleans, geloso del re di Spagna, e l'Inghilterra e l'Olanda si unirono all'imperatore per difendere l'Italia contro l'ambizione del cardinale Alberoni. Questa guerra fece spargere poco sangue, e cagionò pochi guasti. La vicina estinzione delle case Medici e Farnese, alle quali più non rimaneva speranza di successione, dava alle potenze mediatrici il modo di prendere compensi nel continente dell'Italia, essendo loro piaciuto di risguardare come vacanti, per l'estinzione delle sovrane famiglie, gli stati di Parma e di Toscana. La corte di Spagna fu soddisfatta nel suo desiderio d'aggrandimento, quando il 17 febbrajo del 1720 accedendo essa alla quadruplice alleanza, le fu promessa invece delle isole di Sicilia e di Sardegna, ch'essa aveva conquistate, la successione de' Medici e dei Farnesi per don Carlo, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, cui quest'ambiziosa madre cercava di formare uno stabilimento indipendente da suo fratello primogenito. Fu egualmente soddisfatta l'ambizione di casa d'Austria, perchè riprese a Vittorio Amedeo la Sicilia, popolata di 1,300,000 abitanti, e gli diede invece la Sardegna che non ne contava che 423,000. I piccoli principi ed i popoli furono i soli sagrificati. Pure travedevasi tuttavia un pensiere dell'indipendenza italiana nella formazione di una nuova sovranità pel principe di Spagna che veniva a stabilirsi in Italia, invece di aggiugnere gli stati che gli si davano all'una o all'altra delle grandi monarchie che s'arrogavono il diritto di disporre della sorte de' popoli indipendenti[312].
La terza guerra che variò l'equilibrio d'Italia in questo secolo fu egualmente breve ed accompagnata da pochi guasti. Per rispetto alla sua origine non sarebbesi dovuto credere che potesse esserne il teatro l'Italia, essendosi questa eccitata nel 1733 per la contrastata elezione di un re di Polonia. Ad ogni modo perchè i re di Francia di Spagna e di Sardegna entrarono nella stessa lega contro l'Austria, questa sperimentò i pericoli annessi ai lontani possedimenti presso un popolo di costumi e di lingua diverso, che invece di sagrificarsi per difendere il suo padrone, fa di già molto quando non si prevale dell'occasione per ribellarsi e scuotere il giogo. La casa d'Austria fu spogliata di tutti i suoi stati in Italia; i Francesi uniti ai Piemontesi conquistarono il Milanese; gli Spagnuoli i regni di Napoli e di Sicilia; di modo che l'Austria dovette accomodarsi alle svantaggiose condizioni che le vennero imposte dai preliminarj sottoscritti a Vienna il 3 ottobre del 1735, e riconfermati col trattato di Vienna del 18 novembre del 1738[313].
Questa terza pace restituì alle due Sicilie l'indipendenza che avevano perduta da più secoli. Il regno di Napoli era passato sotto il dominio di un'estera potenza fino dal 1501, e quello della Sicilia fino dal 1409. Più di sei milioni di sudditi italiani furono di nuovo assoggettati ad un sovrano nato da un'italiana, educato alcun tempo in Italia, e destinato a fissarvi la sua residenza e quella de' suoi figliuoli. Questi due regni parevano riunire tuttociò che danno la forza e la ricchezza, grossa popolazione, delizioso clima, prodotti di ogni genere, facile navigazione e confini di facile difesa. La stessa pace dilatò i confini del re Sardo; furono staccati dal Milanese Novara e Tortona coi loro territorj per essere uniti al Piemonte. Dall'altro canto il rimanente dello stato milanese e del ducato di Mantova furono restituiti alla casa d'Austria; ed in compenso di quanto questa aveva perduto, il trattato di Vienna le accordò pure il ducato di Parma, che doveva essere di nuovo unito a quello di Milano, ed il gran ducato di Toscana che doveva formare un principato indipendente per Francesco duca di Lorena, sposo di Maria Teresa e futuro imperatore[314].
Ma il trattato di Vienna non procurò all'Italia che un breve riposo. Il ramo tedesco della casa d'Austria si spense nell'imperatore Carlo VI il 20 ottobre del 1740, pochi anni dopo il ramo spagnuolo. Invano aveva questo monarca cercato di assicurare la successione dei suoi stati a sua figlia Maria Teresa; gli stessi sovrani che avevano guarentita la prammatica sanzione (così Carlo VI intitolò la legge pubblicata nel 1713, colla quale chiamava le figlie alla successione de' suoi stati), presero le armi dopo la sua morte, per contrastarne l'eredità a sua figlia. I tre rami della casa di Borbone di Francia, di Spagna e di Napoli si associarono al re di Sardegna per attaccare la casa d'Austria in Italia. La lotta fu lunga ed accanita; e di principal danno all'Italia fu lo essersi il re Sardo staccato in settembre del 1743 dalla lega della casa borbonica per unirsi a Maria Teresa, che gl'Inglesi avevano preso a difendere. Quasi tutta l'Italia trovossi esposta ai guasti delle armate, ed i paesi neutri, lo stato della chiesa in particolare, contrastati fra i combattenti, non soffrirono forse meno di quelli delle potenze belligeranti. Finalmente, dopo sette anni di guerra e di disgrazie, gli articoli preliminari sottoscritti ad Aquisgrana il 30 aprile del 1748 e seguiti da un definitivo trattato di pace del 18 ottobre dello stesso anno rendettero la pace all'Italia, e stabilirono le relazioni dei suoi diversi stati. I ducati di Milano e di Mantova furono i soli stati d'Italia conservati sotto il dominio di estera potenza, perchè restituiti alla casa d'Austria; ma ne vennero staccati alcuni distretti a favore del re di Sardegna. I ducati di Parma e di Piacenza, che i precedenti trattati avevano uniti al Milanese, furono staccati un'altra volta per farne una sovranità indipendente a favore di un quarto ramo della casa di Borbone, di don Filippo, fratello del re di Spagna e del re di Napoli. Il gran ducato di Toscana fu restituito all'imperatore, ma per essere ceduto al suo secondogenito, onde formare la sovranità di un secondo ramo della sua casa. Il duca di Modena e la repubblica di Genova, che si erano alleati ai Borboni, furono rimessi in tutti i loro possedimenti, e l'indipendenza dell'Italia fu intera, per quanto potevano darla i re che regolavano la di lei sorte[315].
Ma l'Italia, dopo la pace di Aquisgrana, non acquistò maggiore potenza politica di quella che avesse per lo innanzi, nè potè più che farsi per lo innanzi rispettare o temere dai suoi vicini; essa non trovò i suoi abitanti apparecchiati a difendere un nuovo ordine politico che loro non procacciava nè gloria nè felicità; e sebbene essa superasse quasi tutti i popoli del continente in popolazione ed in ricchezze, mai non ottenne di lunga mano il rispetto che aveva ottenuto al suo piccolo popolo il sovrano delle arenose marche del Brandeburgo. Il restante della storia generale d'Italia, dopo la pace di Aquisgrana, più non offre avvenimenti; gli scrittori periodici, che si credevano obbligati a dare le notizie dell'Italia nei loro giornali, per lo spazio di quarant'anni non intrattennero il pubblico che intorno a dispute teologiche, ad alcuni nuovi regolamenti fatti da' principi di loro motu proprio e senza consultare i loro popoli, di feste, di matrimonj, di funerali e di viaggi de' sovrani. Quegli avvenimenti ch'ebbero qualche influenza sui susseguenti tempi, si presenteranno opportunamente nella rapida occhiata storica de' varj stati dell'Italia.
Fino dal 12 giugno del 1675 la Savoja ed il Piemonte erano governati da Vittorio Amedeo II, che per altro non oltrepassava i trentaquattr'anni in principio del decimottavo secolo. Nel 1697 e 1701 aveva maritate le due sue figliuole ai due nipoti di Lodovico XIV, il duca di Borgogna ed il duca d'Angiò, poscia re di Spagna; ed aveva preso in principio della guerra della successione di Spagna il comando delle armate francesi e spagnuole in Italia, col titolo di generalissimo. Ma più che il paterno affetto era in lui potente l'ambizione; e nel 1696 egli aveva di già mostrato di non essere troppo scrupoloso osservatore delle sue promesse. Credeva di non avere più sicuro mezzo d'ingrandire i suoi stati, che quello di accordare la sua alleanza al migliore offerente; e se il Milanese veniva una volta in mano della casa di Borbone, poca speranza gli restava di fare nuove conquiste. L'imperatore e le potenze marittime gli fecero segretamente vantaggiose condizioni, ch'egli accettò in luglio del 1703. Il duca di Vandome, che aveva sotto i suoi ordini nel Mantovano un corpo di truppe piemontesi, avuto sentore dell'accaduto, le fece disarmare il 29 di settembre, ed il giorno 3 dicembre dello stesso anno Lodovico XIV dichiarò la guerra a Vittorio Amedeo[316].
Il duca di Savoja aveva preferiti alleati potenti, ma lontani, a quelli che lo circondavano da ogni banda, e ch'erano tuttavia abbastanza forti per punirlo crudelmente della sua diserzione. I suoi stati furono nello stesso tempo invasi su tutti i punti dalle armate francesi e spagnuole: tutta la Savoja fu conquistata; e Vercelli, Susa, la Brunetta, Ivrea, Aosta, Bardi, Verrua, Civasco, Crescentino e Nizza, furono successivamente occupate nel 1704 e 1705 dai duchi di Vandome e della Feuillade; la stessa capitale, Torino, fu assediata nel 1706; onde il duca quasi spogliato di tutti i suoi stati, fu forzato a cercare in Genova un asilo alla sua famiglia, mentre ch'egli si chiudeva in Cuneo. In tale circostanza andò debitore della sua salvezza ad un eroe della sua casa, il principe Eugenio di Savoja, in allora generale dell'imperatore, e nipote di quel Tommaso Francesco di Savoja, principe di Carignano, che verso la metà del XVII secolo aveva così lungamente travagliata la reggenza di sua cognata, la duchessa Cristina. Il principe Eugenio ruppe sotto Torino, il 7 settembre 1706, le linee delle armate del duca d'Orleans, della Feuillade e di Marsin, e fece levare l'assedio. La Francia perdette in quell'incontro venti mila uomini, ed il duca di Savoja ricuperò, oltre tutto quello che aveva perduto, il Monferrato, Alessandria, Valenza e la Lumellina, che gli alleati gli avevano promesso in premio della sua adesione[317].
L'unione del Monferrato al Piemonte variava l'esistenza di questa potenza; i confini de' due stati erano talmente intralciati, che la loro inimicizia faceva perdere ogni maniera di buona amministrazione all'uno ed all'altro in tempo di pace, e di difesa in tempo di guerra. La piccola provincia del Vigevanasco era pure stata promessa al duca di Savoja; ma dacchè gli Austriaci ebbero ricuperato il Milanese, più non vollero privarsi di veruna parte di questo stato. Cotale disparere fu cagione di qualche raffreddamento tra Vittorio Amedeo e l'imperatore Giuseppe, e ritrasse il primo dal prendere una parte attiva nella guerra fino alla conchiusione della pace d'Utrecht, nel 1713, che assicurò le precedenti conquiste della casa di Savoja, e vi aggiunse la Sicilia[318].
Il viaggio che Vittorio Amedeo fece in Sicilia con tutta la sua corte per farvisi coronare, e la permanenza di un anno in Palermo, esaurirono le finanze del Piemonte quasi quanto la guerra che aveva di fresco terminata. Quando giunse in quest'isola entrò in ostilità d'altra natura con papa Clemente XI, onde mantenere le prerogative della corona contro l'autorità della santa sede: diversi ministri del re furono scomunicati e molte città poste sotto l'interdetto; mentre che Vittorio Amedeo bandì dalla Sicilia più di quattrocento ecclesiastici, che tenevano contro di lui le parti del papa: queste religiose turbolenze riempirono il breve regno di Vittorio Amedeo in Sicilia[319]. Mentre Vittorio Amedeo confidava interamente nell'alleanza di Filippo V, re di Spagna, Palermo venne improvvisamente attaccato il 30 giugno del 1718 dall'armata spagnuola, e fu costretto a capitolare. Il vicerè di Vittorio Amedeo difese Siracusa, Messina, Trapani e Melazzo; ma tutto faceva credere che i Piemontesi non potrebbero mantenervisi lungo tempo; il re era troppo lontano e troppo debole per mandare sufficienti soccorsi; e il 2 agosto dello stesso anno, il quadruplice trattato d'alleanza, negoziato a Londra dall'abate Dubois, offrì a Vittorio Amedeo, in vece di protezione, il cambio sommamente svantaggioso della Sardegna per la Sicilia, cui non pertanto Vittorio dovette soscriversi il 18 ottobre del 1718. Allora, rinunciando alle sue pretese sulla Sicilia, che gl'imperiali contrastavano agli Spagnuoli, e prendendo il titolo di re di Sardegna, sebbene non vi possedesse un palmo di terreno, Vittorio Amedeo II consacrò l'anno 1719 a sottomettere all'autorità reale, in Piemonte i suoi proprj feudatarj, abolendone i privilegj e confiscandone le regalie. Quando finalmente Filippo V ebbe acceduto alla quadruplice alleanza, rimise, in agosto del 1720, il possesso della Sardegna ad un inviato dell'imperatore, che la consegnò immediatamente alle truppe di Vittorio Amedeo[320].
La Sardegna non dava al suo re che un vano titolo: ma l'acquisto del Monferrato, dell'Alessandrino, della Lumellina aveva procurata al Piemonte una tale consistenza che mai non aveva avuto prima del regno di Vittorio Amedeo II. Questo principe, che può essere risguardato come il fondatore della sua monarchia, consacrò gli ultimi dieci anni del suo regno ad accrescere le fortificazioni delle sue città e le sue forze militari, a formare valenti ingegneri, finalmente a ravvicinare i suoi sudditi agli oltremontani per mezzo di un'educazione più proporzionata ai progressi dei lumi in tutta l'Europa: fino all'età sua il Piemonte non aveva quasi preso nessuna parte alla gloria letteraria dell'Italia: rialzando il sentimento dell'onore nazionale ne' Piemontesi, Vittorio Amedeo sviluppò tra di loro distinti ingegni; riparò nello stesso tempo i disastri dell'agricoltura, del commercio e delle manifatture; semplificò l'amministrazione della giustizia ne' tribunali; e si occupò con pari attività che intelligenza a chiudere tutte le piaghe dello stato. Dopo avere lungamente richiamati gli sguardi dell'Europa sulla luminosa carriera ch'egli aveva percorsa, Vittorio Amedeo, giunto all'età di 64 anni, fece, il 3 settembre del 1730, maravigliare tutti coll'abdicazione della corona a favore di suo figlio Carlo Emmanuele III, allora in età di trent'anni. Per altro i suoi sudditi, che avevano più sofferto pella sua inquieta attività, e pel suo despotismo, che non approfittato delle sue riforme, di cui non raccoglievano ancora i frutti, non dissimularono la gioja che loro cagionava quest'avvenimento. Vittorio Amedeo aveva fatto fondamento nella riconoscenza e nel rispetto di suo figlio; ma le relazioni de' principi fra di loro non sono quelle del sangue; la diffidenza ed il sospetto gli assediano, l'affetto non ha veruna parte nella loro educazione, la riconoscenza viene soffocata nel cuor loro dall'adulazione, e la voce della coscienza pervertita dai consiglj de' cortigiani. Vittorio Amedeo II fu per ordine di suo figlio arrestato la notte del 28 al 29 di settembre del 1731, colle più ributtanti circostanze: nella sua prigionia ed in tempo dell'ultima sua malattia, non potè ottenere colle più calde preghiere, che suo figlio andasse a trovarlo; e finalmente morì il 31 ottobre del 1732 nel castello di Moncalieri, ove era rinchiuso, distante tre miglia da Torino[321].
Carlo Emmanuele III non tralignò dai principi suoi predecessori, nè per la sua abilità nelle cose della politica, della guerra e dell'amministrazione, nè per l'instabilità delle sue alleanze, che, come quelle dei suoi antenati, furono sempre vendute al migliore offerente. Nella guerra dell'elezione del re di Polonia, egli sorprese gli Austriaci, cui il suo primo ministro, il marchese d'Ormea, avea date in iscritto le più formali assicurazioni ch'egli non si era alleato alla casa di Borbone; in breve tempo conquistò tutto il Milanese, e ne fu ricompensato nel trattato di pace colla cessione di Novara e di Tortona coi loro territorj[322].
Nella guerra della successione dell'Austria, il re di Sardegna offrì da prima la sua alleanza alla casa di Borbone; ma la corte di Spagna, che pretendeva di ricuperare il Milanese già da venticinque anni staccato da quella monarchia, non esibì a Carlo Emmanuele per comperare la sua alleanza che piccolissimi distretti di quel ducato, che probabilmente avrebbe ancora rivendicati quando la vittoria avesse coronate le sue armi. Allora il re di Sardegna fece un trattato provvisionale con Maria Teresa per la difesa del Milanese, cui riservavasi però di potere rinunciare, dandone avviso alla regina un mese prima. Questo trattato fu soscritto il primo febbrajo del 1742[323], ed obbligò Carlo Emmanuele ad entrare in guerra cogli Spagnuoli, i quali, sotto il comando dell'infante di Spagna, don Filippo, invasero tutta la Savoja, mentre che i Piemontesi uniti agli Austriaci sconfissero gli Spagnuoli nella Lombardia oltrepadana. Ma non perciò il re di Sardegna interrompeva le sue negoziazioni colla casa di Borbone, cui la sua alleanza avrebbe dato in mano il Milanese; ma egli poneva a cotale alleanza un altissimo prezzo. Diede a questi negoziati abbastanza pubblicità affinchè la corte di Vienna, e più ancora il suo alleato Giorgio II, sentissero la necessità di guadagnarlo al loro partito. Infatti, il 13 settembre del 1743, conchiusero con lui un trattato sottoscritto a Worms, col quale gli si promettevano Piacenza, Vigevano e l'alto Novarese, e per confini a Levante la Nura, il Ticino ed il lago Maggiore[324].
Dopo quest'alleanza Carlo Emmanuele agì vigorosamente contro i Francesi e contro gli Spagnuoli; ma mentre li combatteva, non lasciava di negoziare per tornare al loro partito: v'ebbero perfino de' preliminari sottoscritti a Torino, il 26 dicembre del 1745, tra la Francia e la Sardegna, le di cui condizioni avrebbero consolidata la potenza della casa di Savoja, ed assicurata l'indipendenza degli stati d'Italia. Si aboliva perfino il nome del santo romano impero, cagione di tante vessazioni pei pretesi stati feudali, e si escludevano i Francesi, gli Spagnuoli ed i Tedeschi da ogni possedimento nella penisola. Ma la diffidenza del re sardo, gl'indugj della corte di Spagna, e la rapida discesa in Italia di un'armata della regina d'Ungheria fecero rompere queste negoziazioni. Allora Carlo Emmanuele, unendosi di nuovo agli Austriaci, si mantenne costante nella loro alleanza fino alla pace d'Aquisgrana, che press'a poco gli accordò i vantaggi acquistati col trattato di Worms, tranne Piacenza, cui dovette rinunciare[325].
L'ultima parte del regno di Carlo Emmanuele fino alla morte che lo sorprese il 20 gennajo del 1773, ed il regno di Vittorio Amedeo III, che gli successe, furono sempre pacifici; e perchè in un paese in cui non si permette al popolo d'immischiarsi nelle cose del governo e della politica, i tempi di pace non offrono allo storico verun avvenimento, può risguardarsi la storia del Piemonte come affatto nulla in tutto questo periodo. Il governo non avrebbe tollerato che se ne conservasse qualche memoria, e veruno scrittore volle infatti esporsi a dispiacergli, narrando ciò che la suprema autorità seppelliva in un profondo segreto.
Il ducato di Milano, che durante la guerra della successione di Spagna, passò sotto il dominio di casa d'Austria, ebbe la sventura di essere saccheggiato in ogni guerra da tutte le potenze belligeranti, e smembrato in tutti i trattati di pace. La capitale perdette assai in popolazione ed in ricchezze, quando molte delle sue migliori province vennero sottratte al suo dominio e date al re di Sardegna. Le campagne in tempo della guerra non soffrirono meno della capitale; ma la loro prosperità venne più rapidamente repristinata, sia a cagione della maravigliosa loro fertilità, sia perchè il governo austriaco fu assai più giusto e più ragionevole che non quello degli Spagnuoli. In particolare la casa di Lorena si fece conoscere superiore all'antica casa d'Austria, e l'amministrazione del conte di Firmian (1759-1782) lasciò una grata memoria. Era omai questa la sorte dell'Italia di ricevere dall'estero i lumi ch'ella aveva sì lungamente sparsi in addietro; e le province, governate da stranieri monarchi, approfittavano dei progressi nelle scienze politiche, che i nazionali non avevano per anco fatti. Giuseppe II intraprese con zelo e con buona fede, ma spesso con troppo precipizio, le riforme oramai diventate necessarie. La pubblica opinione era tuttavia così traviata dall'ignoranza dei diritti del principato, che condannava quasi tutto ciò che questo sovrano faceva pel vantaggio del paese. Non perciò i suoi sforzi riuscirono del tutto vani; le lettere, i lumi ed alcune virtù pubbliche cominciarono a rigermogliare in Lombardia, e fu questa la provincia che fece più d'ogni altra sperare il risorgimento di una nazione italiana.
In principio del secolo i Gonzaga perdettero il ducato di Mantova, che da Giuseppe II venne assoggettato a quello di Milano, in compenso di ciò che aveva perduto dalla banda del Piemonte. L'imprudente Ferdinando Carlo Gonzaga si era lasciato vincere dal danaro sul principio della guerra della successione di Spagna, ed aveva acconsentito a ricevere in Mantova guarnigione francese, in conformità del trattato ch'egli soscrisse a Venezia il 24 febbrajo del 1701[326]. Con ciò, non solo richiamò la guerra ne' suoi stati, mentre egli nelle dissolutezze di Venezia cercava di scordare le sventure de' suoi sudditi, ma inoltre diede un pretesto all'imperatore di porlo al bando dell'impero. In fatti, avendo i Francesi, in virtù della convenzione di Milano del 13 maggio 1707, evacuata la Lombardia, Mantova e tutto il suo ducato vennero occupati dagl'imperiali; fu dichiarato il duca colpevole di fellonìa, ed i suoi feudi riuniti alla diretta dell'impero; poco dopo Ferdinando Carlo morì in Padova il 5 di luglio del 1708 senza prole. Rimaneva di questa famiglia un ramo cadetto, quello dei duchi di Guastalla e di Sabbionetta, principi di Bozzolo, formato da Federico di Gonzaga, illustre generale del sedicesimo secolo. Ma invano questi richiamarono la successione d'uno stato che loro apparteneva per le leggi dell'impero, e che rimase confiscato. Anche questa linea si spense in Giuseppe Maria Gonzaga che morì il 15 d'agosto del 1746, e la pace di Aquisgrana aggiunse i piccoli stati di lui a quelli di Parma e di Piacenza[327].
Ne' primi anni del diciottesimo secolo i ducati di Parma e di Piacenza erano governati da Francesco Farnese, succeduto a Rannuccio II, suo padre, l'undici dicembre del 1694. Fino dalla sua più fresca giovinezza trovavasi oppresso da una straordinaria grassezza, diventata ereditaria nella sua famiglia; inoltre balbettava, ed a questi esteriori difetti rispondeva la debolezza del suo spirito, onde aveva contratto un estremo timore di mostrarsi in pubblico, e tenevasi a tutti celato. Durante la guerra della successione di Spagna, ricevette guarnigioni pontificie, onde far rispettare la sua neutralità e quella della Chiesa di cui riconoscevasi feudatario. A fronte di ciò i Tedeschi violarono più volte il suo territorio. Non avendo avuti figliuoli da Dorotea di Neuburgo, vedova di suo maggior fratello, ch'egli aveva sposata il 16 settembre del 1714, maritò Elisabetta Farnese, figlia di suo fratello, a Filippo V, re di Spagna. Sebbene le femmine non fossero chiamate all'eredità de' feudi della Chiesa, fu però Elisabetta che trasmise alla casa di Borbone quelle pretese sui ducati di Parma e di Piacenza, che fecero dare quei ducati al secondo de' di lei figli[328].
Francesco Farnese mai non aveva voluto dare a suo fratello Antonio una sufficiente entrata per potersi ammogliare; altronde Antonio non aveva che un anno meno del duca, ed aveva la stessa mostruosa corpulenza, lo che faceva risguardare come di già spenta la casa Farnese, quando nel 1720 il trattato della quadruplice alleanza impose leggi alla Spagna, per terminare la guerra eccitata dal cardinale Alberoni. L'eredità di Parma e quella della Toscana furono assegnate ad un figlio di Elisabetta Farnese e di Filippo V, che non fosse re di Spagna; i ducati di Parma e di Piacenza vennero dichiarati feudi imperiali, malgrado le rimostranze di Clemente XI, e fu convenuto che per la guarenzia di questa eventuale successione sarebbero, durante la vita degli ultimi principi Farnesi, occupati da guarnigioni svizzere. Questi accomodamenti furono inoltre raffermati dal trattato fatto il 30 aprile del 1725 tra l'Austria e la Spagna[329].
L'infante don Carlo, cui erano destinati questi principati italiani, non recossi nella penisola che dopo la morte del duca di Parma, Francesco, accaduta il 26 di febbrajo del 1727. Suo fratello, don Antonio, allora in età di quarantotto anni, si affrettò di cercarsi una consorte per conservare ancora, se era possibile, la casa Farnese; ed in febbrajo del 1728 sposò Enrichetta d'Este, terza figlia del duca di Modena. Il papa Benedetto XIII e l'imperatore Carlo VI gli prescrissero nello stesso tempo di ricevere dalla Chiesa e dall'impero l'investitura dei suoi ducati; ma, temendo di compromettersi con sovrani tanto di lui più potenti, e per non dare la preferenza a veruno di loro, egli ricusò l'uno e l'altro. In tali circostanze la Francia, l'Inghilterra e la Spagna convennero, in forza di un trattato sottoscritto in Siviglia il 9 novembre del 1729, che sei mila Spagnuoli verrebbero destinati a formare le guarnigioni di Livorno, Porto Ferrajo, Parma e Piacenza, onde guarentire la successione a don Carlo. Tale sostituzione delle truppe spagnuole alle svizzere spiacque all'imperatore, il quale rifiutò di accettare il trattato di Siviglia, e fece passare trenta mila uomini in Lombardia, per opporsi all'introduzione delle guarnigioni spagnuole[330].
I duchi di Parma e di Toscana, che vedevano, mentre ancora erano vivi, e malgrado loro, altri liberamente disporre della propria eredità, non temevano meno le truppe estere, che, occupando i loro stati, vorrebbero dar loro la legge, di quello che temessero la guerra che l'imperatore mostravasi apparecchiato ad intraprendere per tenerle lontane. Il loro regno si andò consumando in tristi negoziazioni, le quali tutte avevano per oggetto l'epoca della loro morte, creduta assai vicina, sebbene fossero ambidue pieni di vita e non ancora usciti dalla virilità. Però le truppe spagnuole non erano per anco sbarcate in Italia, quando Antonio, ultimo duca della casa Farnese, morì il giorno 20 gennajo del 1731. Ne' pochi anni del suo regno costui risguardò le finanze de' suoi stati come un'entrata vitalizia; sagrificò le generazioni che dovevano seguirlo a' suoi piaceri del momento, non limitando in verun modo le sue prodigalità, sia che si trattasse di appagare i suoi gusti, o di guadagnare la riconoscenza degli adulatori e dei favoriti che lo circondavano[331].
La duchessa Enrichetta, vedova dell'ultimo duca di Parma, credevasi incinta, e non riconobbe d'essersi ingannata che in settembre dello stesso anno, nella quale epoca lasciò Parma per tornare a Modena. Tale incertezza diede tempo alle altre potenze di convenire intorno alle rispettive pretese. Nel giorno 23 di gennajo del 1731, il generale imperiale aveva preso possesso di Parma e di Piacenza, veramente per conto dell'infante di Spagna, ma con truppe tedesche: un commissario pontificio, che in allora si trovava a Parma, protestò solennemente il giorno 24 contro un tale atto di possesso, contrario al supremo dominio della Chiesa. Una nuova convenzione, sottoscritta il 22 luglio del 1731, tra l'imperatore, il re di Sardegna e l'Inghilterra, riconfermò le convenzioni della quadruplice alleanza. L'infante don Carlo non arrivò a Livorno che il 27 di dicembre seguìto dalle truppe spagnuole, che dovevano per lui occupare i suoi nuovi stati. Dopo essersi trattenuto parecchj mesi in Toscana presso il gran duca Giovan Gastone de' Medici, che in certo qual modo veniva obbligato ad adottarlo ed a riconoscerlo quale suo presuntivo erede, don Carlo entrò trionfalmente in Parma il 9 di settembre del 1732[332].
L'imperatore Carlo VI aveva dato per tutori a don Carlo la di lui ava materna, la duchessa Dorotea, vedova di Odoardo, poi di Francesco Farnese, ed il gran duca di Toscana; ma nel susseguente anno la casa di Borbone, avendo attaccata quella d'Austria, don Carlo, che il 20 di gennajo del 1733 era giunto a diciassette anni, dichiarossi egli stesso maggiore, ed in pari tempo prese il comando dell'esercito spagnuolo in Italia. Siccome dal canto suo il duca di Savoja, Carlo Emmanuele III, si era posto alla testa delle truppe francesi, ed avea fatta rapidamente la conquista del Milanese, così don Carlo, che più non era in Lombardia necessario, in principio di gennajo del 1734 prese colle truppe spagnuole la strada di Napoli, onde tentare la conquista di quel regno. Sperando allora di cambiare i due piccoli ducati di Parma e di Piacenza con una vasta monarchia, e più non supponendo di entrare nell'eredità a lui destinata da tanti anni, don Carlo spogliò i palazzi Farnesi de' loro più ricchi effetti, per portarli seco. Il duca di Montemar, che dirigeva le sue operazioni, il 27 di maggio sconfisse presso Bitonto la piccola armata imperiale, la sola che avesse osato di resistergli, perciocchè fin dal 9 aprile la capitale aveva aperte le sue porte agli Spagnuoli: e prima che terminasse la campagna, i due regni di Napoli e di Sicilia furono totalmente assoggettati a don Carlo[333].
Sebbene questo principe, allorchè partiva da Parma, avesse mostrato di rinunciare a quella sovranità, la facile conquista del regno di Napoli risvegliarono la sua ambizione e quella di suo padre. Si lusingarono di ricuperare tutto ciò che la pace d'Utrecht aveva tolto in Italia alla corona di Spagna; e nel 1735 il duca di Montemar si rimise in cammino alla volta della Lombardia per intraprendervi nuove conquiste. Ma il cardinale di Fleurì era omai stanco di servire all'ambizione spagnuola; il 3 di ottobre fece sottoscrivere in Vienna i preliminarj della pace coll'imperatore; ed ordinò al duca di Noailles di non dare più ajuto al generale spagnuolo; onde il duca di Montemar, stretto improvvisamente dai Tedeschi, si vide forzato a ritirarsi precipitosamente a traverso alla Toscana alla volta del regno di Napoli[334].
In aprile del susseguente anno le guarnigioni spagnuole, che occupavano Parma e Piacenza, evacuarono quelle due città, seco trasportando le biblioteche e la galleria dei Farnesi, tutti i quadri, tutti i mobili e tutti gli effetti preziosi de' palazzi saccheggiati; di modo che al dolore di perdere la propria indipendenza i popoli aggiunsero quello di vedersi spogliati di tutti gli ornamenti delle loro città. Allora i ministri spagnuoli, a nome di don Carlo, dichiararono i sudditi di Parma e di Piacenza sciolti dal loro giuramento di fedeltà, e subito partirono senza consegnare quegli stati agli Austriaci: ma non si furono appena ritirati che il principe di Lobkowitz ne prese il possesso, il giorno 3 di maggio del 1736, a nome dell'imperatore[335].
Parma e Piacenza non rimasero lungamente unite al ducato di Milano, perciocchè cinque anni dopo tale cessione, si estinse la casa d'Austria; ed il re di Spagna vantando diritti sull'eredità di Carlo VI, il duca di Montemar sbarcò il giorno 9 dicembre del 1741 ad Orbitello con un esercito spagnuolo destinato a fare in Italia nuovi acquisti. La regina di Spagna, Elisabetta Farnese, aveva un altro figlio, chiamato don Filippo, nato il cinque di marzo del 1720. Quest'ambiziosa principessa, che continuamente lagnavasi di avere perduta l'eredità della propria famiglia, risolse di formare a suo figlio uno stato in Italia. Lo pose alla testa di un'armata spagnuola adunata nel 1742 ai confini della Provenza, la quale, sebbene occupasse subito la Savoja, non potè che dopo lungo tempo penetrare in Italia. Il re di Napoli era stato costretto dall'ammiraglio Matheus a dichiararsi neutrale il 19 agosto del 1742, onde non vedere bombardata la sua capitale. Il duca di Modena, che aveva abbracciato il partito francese, era stato cacciato dai suoi stati: ed i ducati di Parma e di Piacenza erano caduti in mano dei Tedeschi; onde soltanto in settembre del 1745 l'infante don Filippo potè entrare negli stati che pretendeva di sua ragione[336].
Appena cominciava don Filippo ad avere in Lombardia la fortuna propizia, che la corte di Spagna pensò a formargli uno stato, non più delle sole città di Parma e di Piacenza, ma di tutto il Milanese. Era entrato in Milano il 16 di dicembre del 1745, quando la pace parziale fatta dal re di Prussia con Maria Teresa permise a questa sovrana di portare la maggior parte delle sue forze in Italia; allora don Filippo fu costretto ad abbandonare Milano il 19 di marzo, e tutti i Francesi e gli Spagnuoli furono scacciati dalla Lombardia prima che terminasse la campagna del 1746[337].
Nella stessa campagna aveva don Filippo perduto il suo principale appoggio in Filippo V, suo padre, morto il 9 di luglio del 1746. Ferdinando VI, figlio di Filippo V, del primo letto, succedutogli alla corona di Spagna, non prendeva un troppo vivo interesse allo stabilimento de' figliuoli di sua matrigna. Perciò la corte di Spagna fu contenta di ottenere, col trattato di Aquisgrana, i due ducati di Parma e di Piacenza, che tornarono a ricuperare l'indipendenza il 18 ottobre del 1748, ed ebbero qualche ingrandimento coll'unione fattavi del piccolo ducato di Guastalla[338].
La guerra della successione d'Austria aveva in certo qual modo interessata tutta l'Europa alla trasmissione dell'eredità dei Farnesi ad un ramo dei Borboni. Ma dopo quest'avvenimento gli stati di Parma e di Piacenza ricaddero nell'oscurità sotto il regno dell'infante don Filippo, che morì il 18 luglio del 1765, e sotto quello di suo figlio e successore don Ferdinando. Per altro il gusto di don Filippo per le lettere e per la filosofia, la protezione da lui accordata agli scrittori francesi, la scelta fatta per educare suo figlio dell'abate di Condillac, furono cagione che s'introducessero in Lombardia nuove idee, con un certo sentimento di libertà civile e religiosa, che dal governo spagnuolo era stato per lo innanzi severamente proscritto. Le città di Parma e di Piacenza, che nei precedenti secoli avevano avuta così piccola parte alla gloria letteraria dell'Italia, parvero animate da nuova vita, e vi fiorirono molti uomini illustri.
Nella prima metà del diciottesimo secolo i ducati di Modena e di Reggio non furono meno sventurati di quelli di Parma e di Piacenza. Rinaldo d'Este, che regnava in Modena fino dal 1694, abbracciò il partito imperiale nella guerra della successione di Spagna. Perciò tutti i suoi stati furono invasi dai Francesi, ed egli medesimo fu costretto a ripararsi in Bologna fino al 1707, in cui la Lombardia venne evacuata dalle armate dei Borboni. La pace d'Utrecht gli ratificò il possedimento di tutto ciò che aveva prima della guerra, e vi aggiunse nel 1718 il piccolo ducato della Mirandola, comperato dall'imperatore, che lo aveva confiscato a pregiudizio di Francesco Pico, ultimo principe di questa famiglia. Rinaldo, conservandosi fedele allo stesso partito, fu per la seconda volta costretto a ripararsi in Bologna nella guerra del 1734, mentre che i suoi stati vennero occupati dai Francesi e dagli Spagnuoli. Finalmente rientrò nella sua capitale il 24 di maggio del 1736, ove morì diciassette mesi dopo, il 26 di ottobre del 1737, in età di ottantadue anni[339].
Il duca Rinaldo, che era stato cardinale, che non aveva deposto l'abito ecclesiastico che in età di quarant'anni, e ch'era giunto ormai ad avanzata vecchiaja in tempo dell'ultima guerra in cui erasi trovato suo malgrado avviluppato, non prendeva veruna parte nelle operazioni militari. Suo figlio Francesco III, che gli successe, era stato militarmente educato, ed aveva gusto per le cose della guerra. Prima di salire sul paterno trono aveva fatta una campagna contro i Turchi; ricercò l'alleanza della casa di Borbone nella guerra della successione dell'Austria, e fu nominato generalissimo delle armate francesi e spagnuole, che in Italia militavano contro Maria Teresa. Egli diede con ciò motivo agli Austriaci di invadere i suoi stati, di guastarli e d'opprimerli colle contribuzioni, mentre ch'egli conduceva il suo esercito nello stato pontificio, ove si mantenne lungamente; indi venne nella riviera di Genova, in Provenza ed in Savoja, dov'ebbe comune fortuna coll'infante don Filippo. Fu rimesso finalmente ne' suoi stati nel 1748 dal trattato di Aquisgrana; ma li trovò ruinati dalle truppe austriache e piemontesi, che gli avevano occupati più anni, ed egli aggiunse ancora alla loro miseria col peso di nuove imposte e col cattivo sistema delle sue finanze. Morì di ottantadue anni il 23 febbrajo del 1780. La fama dei due più eruditi italiani, Muratori e Tiraboschi, suoi sudditi e suoi pensionati, sparse qualche gloria sul suo regno.
Era ne' destini dei ducati di Modena e di Reggio di essere governati da vecchi principi. Ercole III, figliuolo di Francesco III, era ammogliato da circa quarant'anni quando successe a suo padre. Aveva sposata in settembre del 1741 Maria Teresa Cibo, unica figlia ed erede di Alderano Cibo, ultimo duca di Massa e di Carrara, ed aveva per tal modo fatto entrare nella sua famiglia un quarto ducato, oltre quelli di Modena, di Reggio e della Mirandola[340]. Il ducato di Massa e Carrara era uno de' molti piccoli feudi imperiali posseduti dai marchesi Malaspina tra la Liguria, la Lombardia e la Toscana. Due secoli e mezzo prima era passato, per mezzo di una femmina, sotto il titolo di marchesato, a Franceschetto Cibo, figlio d'Innocenzo VIII; era stato eretto in ducato nel 1664; e di nuovo passò per una donna alla casa d'Este[341]. Diventato duca in età avanzata, Ercole III fu accusato, ancora più de' suoi due predecessori, di avarizia, vizio che spesso si rimprovera alla vecchiaja. Egli accumulò un tesoro, che invece di servire alla sua difesa nell'istante del bisogno, accrebbe il suo pericolo, eccitando la cupidigia dei suoi nemici. Il 14 ottobre del 1771 maritò l'unica sua figlia coll'arciduca Ferdinando d'Austria; e questa principessa è rimasta l'unica rappresentante de' principi d'Este, in addietro sovrani di Ferrara, Modena e Reggio; dei Malaspina e dei Cibo, signori di Massa e di Carrara; dei Pichi, sovrani della Mirandola, e dei Pii, sovrani di Carpi e di Correggio; perciocchè tutte le case sovrane d'Italia sembravano percosse dallo stesso destino, e la stessa casa d'Este era pure vicina a spegnersi, allorchè perdette i suoi stati nelle guerre della rivoluzione.
Si erano vedute spegnersi in Napoli le case dei Durazzo, d'Angiò e d'Arragona; a Milano quelle de' Visconti e degli Sforza; quella de' Paleologhi nel Monferrato; dei Montefeltro e della Rovere in Urbino; dei Gonzaga a Mantova, Guastalla e Sabionetta; dei Farnesi in Parma e Piacenza; e l'Italia vide pure spegnersi nel diciottesimo secolo, prima delle case Cibo e d'Este, la casa dei Medici, che, erede di una gloria acquistata da rimotissimi antenati, era illustre a motivo dei grandi cittadini di Firenze da lei prodotti, non per i suoi gran duchi.
Cosimo III regnava in Firenze fin dal 1670, ed anche salendo sul trono la sua vita era amareggiata dalle sue contese con Margarita d'Orleans, sua sposa, cui era diventato insoffribile a cagione de' suoi sospetti e della sua domestica tirannide: ma egli dall'altro canto non aveva avuto a soffrir meno pelle stravaganze di questa principessa francese, e pel disprezzo ch'essa gli mostrava. Egli stesso, disgraziato nel suo interno, pareva che non potesse interessarsi in un matrimonio senza renderlo altresì disgraziato ed infecondo. Il suo maggior figliuolo, Ferdinando, che morì prima di lui, il 30 di ottobre del 1713, sebbene di già in età di cinquant'anni non aveva avuto prole da Violante Beatrice di Baviera sposata nel 1688: e sua figlia, Anna Maria Luigia, che nel 1691 aveva sposato Giovanni Guglielmo, elettore palatino, fu pure infeconda. Il suo secondo figliuolo, Giovan Gastone non ebbe pure figli dalla principessa di Sassonia Lavemburg, sposata nel 1697[342]; onde per non vedere spenta la sua famiglia entro pochi anni, Cosimo III persuase, all'ultimo, nel 1709, suo fratello Francesco Maria, di già in età di cinquant'anni, a deporre la sacra porpora, ed a sposare Eleonora di Gonzaga, figlia del duca di Guastalla; ma nè questo matrimonio fu più fecondo degli altri. Ferdinando e Francesco Maria morirono prima di Cosimo III; Giovan Gastone, separato dalla moglie, e pieno d'infermità, non poteva più nutrire speranze di prole; e Cosimo vedeva con amaro dolore le principali potenze dell'Europa disporre, mentre ancor viveva egli e suo figlio, della sua eredità. Riclamò invano a favore dei diritti della repubblica fiorentina, di cui i suoi antenati non erano stati che semplici rappresentanti, ed alla quale doveva perciò ritornare la sovranità dopo estinta la linea dei Medici[343]. Tentò pure di farne passare l'eredità alla figliuola, quella che più amava di tutti i suoi figli; volle almeno decidere egli stesso tra i pretendenti alla corona di Toscana; ma i diplomatici europei, non valutando più i suoi diritti che quelli del suo popolo, non degnaronsi pure di ascoltarlo nel disporre de' suoi stati. Finalmente egli morì il 31 d'ottobre del 1723 dopo avere sofferte le più amare mortificazioni, ed avere avuti tanti dispiaceri quanti erano stati i mali che aveva fatti soffrire al suo popolo[344].
Giovan Gastone, che successe a Cosimo III, era stato lo scopo delle persecuzioni degl'ipocriti che infestavano la corte di suo padre; egli non aveva mai trovato nel suo palazzo, che noja, suggezione e tristezza. Tosto che si vide liberato dall'oppressione in cui aveva vissuto fino ai cinquantadue anni, cercò col circondarsi di buffoni e di persone non ad altro intese che a tenerlo allegro, di dimenticare come meglio poteva, e le sue infermità che lo ritenevano frequentemente a letto, e la divisione della sua eredità, di cui facevasi tanto rumore in Europa. Giovan Gastone era un buon uomo, ma non sapeva leggere nell'avvenire; non pensava alla miseria de' suoi sudditi, che mai non vedeva, e non poneva limiti alle sue prodigalità, affinchè tutti coloro che lo avvicinavano si ritirassero con volto soddisfatto. Le finanze furono dilapidate, l'amministrazione cadde tra le mani de' serventi, e di gente affatto spregievole. Finalmente egli morì di sessantasei anni, il 9 di luglio del 1737, lasciando a' suoi successori il troppo difficile incarico di rimediare ai mali della Toscana[345].
Francesco, duca di Lorena, sposo di Maria Teresa, cui era stata data la Toscana, venne, in gennajo del 1738, a visitare i suoi nuovi stati; ma vi si trattenne poco tempo. Il principe di Craon, Marco di Beauvau, suo mentore, era stato destinato a ricevere il giuramento dai nuovi sudditi di Francesco, e governò la Toscana coll'autorità di un vicerè. Fu ajutato nella sua amministrazione dal conte di Richecourt, il più illustre ministro del nuovo gran duca, che nel 1745 ottenne il titolo d'imperatore. Occuparonsi l'uno e l'altro della riforma delle leggi della Toscana, del miglioramento delle finanze, e della più regolare ed imparziale amministrazione della giustizia.
La vedova dell'elettore palatino, sorella di Giovan Gastone, ch'era tornata alla corte di suo padre nel 1717, e che aveva sopra di lui esercitata grandissima influenza, sopravvisse anche al fratello che non l'amava, e che non era da lei amato. Questa principessa, il 31 ottobre del 1737, si lasciò persuadere a rinunciare alla casa di Lorena tutta l'eredità mobile ed immobile della casa de' Medici, contro una pensione vitalizia di quaranta mila scudi fiorentini. Il gran duca Francesco le accordò il titolo di reggente, le diede delle guardie al palazzo e tutte le apparenze d'una corte. Ella morì finalmente in Firenze il 18 di febbrajo del 1743 in età di settantasei anni, ma in lei non si spense affatto la casa de' Medici; se ne conservò tuttavia un ramo, discendente da uno degli antenati di Cosimo, il padre della patria; ma perchè non era stato contemplato dal decreto di Carlo V, non si trattò giammai di chiamarlo alla successione della corona ducale[346].
L'imperatore Francesco I, che in Toscana portava il nome di Francesco II, morì a Vienna il 18 di agosto del 1765. Mentre che il suo primo figliuolo, Giuseppe II, gli succedeva negli stati dell'Austria, il secondo, Pietro Leopoldo, allora in età di diciotto anni, fu dichiarato gran duca di Toscana, e venne a prendere possesso del suo principato l'undici di settembre del 1765. Veruno stato d'Italia non ebbe mai più grandi obblighi al suo sovrano, quanto la Toscana a Pietro Leopoldo. Questi, continuamente occupato a riformare tutti gli abusi introdottisi nel lungo spazio di oltre dugent'anni di una difettosa amministrazione, semplificò le leggi civili, addolcì le criminali, diede la libertà al commercio, disseccò intere provincie, dividendone la proprietà fra industri coltivatori, che caricò di una leggiere contribuzione: ed in tal modo raddoppiò i prodotti dell'agricoltura, e rendette ai suoi sudditi quell'attività e quell'industria che avevano da tanto tempo perdute. Tentò altresì di correggere la corruzione de' costumi, e di comprimere gli eccessi della superstizione; ma non devesi dissimulare che talvolta stancheggiò i suoi sudditi con una troppo inquisitoriale vigilanza, e che scontrò una violenta opposizione alle sue riforme ecclesiastiche per parte del concilio provinciale che adunò il 23 aprile del 1787. I pregiudizj del clero ed i vizj del popolo si collegarono contro un principe forse troppo attivo nel suo desiderio di fare il bene; e quando la morte di Giuseppe II chiamò Leopoldo a cedere il gran ducato al secondo de' suoi figliuoli, per prendere la corona imperiale, il popolo toscano non mostrossi abbastanza riconoscente verso un principe così grande.
I due regni di Napoli e di Sicilia, ai quali la guerra dell'elezione di Polonia aveva nel 1738 restituito un monarca indipendente, ebbero motivo di lodarsi delle opinioni e dell'energia che loro recava una straniera nazione. I popoli lungamente corrotti dal dispotismo cadono finalmente in un letargico sonno, dal quale più non si possono risvegliare colle sole loro forze, se non si arrecano loro nuove idee da straniere contrade, se non si pongono loro avanti agli occhi nuovi esempi, e se una mescolanza di diversi elementi non risveglia nel loro seno un vivificante fermento. Tre figliuoli di Filippo V, Ferdinando VI in Ispagna, Carlo VII a Napoli e Filippo a Parma, risvegliarono, introducendovi una corte francese, libri, instituzioni e pensare francesi, l'attività da gran tempo sopita dei popoli meridionali ch'essi governavano in Ispagna ed in Italia. Parve che i figli di Filippo V nulla ritenessero della timida superstizione del padre, nè degli artificiosi intrighi della madre. Mostrarono nella loro amministrazione il desiderio del bene, indipendenza di spirito, ed anche idee liberali.
Don Carlo, che si fece chiamare Carlo VII di Napoli, Carlo V di Sicilia, e che all'ultimo fu Carlo III di Spagna, giovò molto ai due primi regni negli undici anni che li governò dopo la pace d'Aquisgrana. Pure il suo lavoro era appena cominciato, e sarebbe stato d'uopo che fosse stato lungo tempo continuato dietro i medesimi principj, per produrre una durevole riforma in un paese in cui doveva mutarsi ogni cosa. Carlo poteva appena lusingarsi che il suo successore fosse a portata di tener dietro alle sue viste: sommamente desolante era lo stato in cui egli vedeva la sua famiglia, la quale pareva tocca nelle facoltà intellettuali da un vizio ereditario. Filippo V, suo padre, aveva passata gran parte della sua vita in una sospettosa malinconia, che gli rendeva odiosa la compagnia degli uomini, e che in un privato avrebbe avuto il nome di follia[347]. Ferdinando, suo fratello, signoreggiato da sua moglie, principessa portoghese, dopo la di lei morte, accaduta il 27 agosto del 1758, erasi ridotto in uno stato ancora più deplorabile, alternando furiosi accessi di frenesia con alcuni istanti di cupa disperazione, cui davasi il nome di lucidi intervalli. Questo delirio durò quasi un anno, dopo il quale Ferdinando morì il 10 agosto del 1759; e perchè non lasciava figliuoli, Carlo passò dal trono di Napoli a quello di Spagna. Il suo maggiore figliuolo, Filippo Antonio, allora di dodici anni, era a tale stato d'imbecillità ridotto, che fu necessario privarlo della corona; ed in vece di lui Carlo fece riconoscere per principe delle Asturie il secondo, in età di undici anni, che fu poi Carlo IV di Spagna; e dichiarò il terzo, che aveva 9 anni, re delle due Sicilie, ed è Ferdinando IV, attualmente regnante. Durante la sua minorità, ed anche molto tempo dopo il suo termine legale, Carlo III mantenne una decisiva influenza sui consiglj delle due Sicilie[348].
In verun secolo ebbe la Chiesa romana sulla cattedra di san Pietro uomini più distinti per moralità, per rettitudine di spirito, talvolta per talenti amministrativi ed anche per liberali opinioni. Con tutto ciò questi papi, degni di tanto rispetto e di tanta stima, non hanno potuto fare argine allo spaventoso e sempre più rapido decadimento dello stato della Chiesa, nè porgere rimedio ai vizj di un governo fondato sul principio di affidare tutti i rami dell'amministrazione a coloro che ben conoscono la teologia e poco gli affari.
Clemente XI (Gian Francesco Albani), che regnò dal 24 novembre 1700, fino al 9 di marzo del 1721, fu, quasi suo malgrado, l'autore delle persecuzioni dirette in Francia contro i Giansenisti. La famosa costituzione Unigenitus, a lui estorta dall'intrigo, compromise la sua autorità, e fu il grand'affare politico del suo regno. La guerra della successione di Spagna trattavasi ai confini de' suoi stati; e mentre che dalla sua debolezza egli veniva forzato a riconoscere quello dei due emuli di cui aveva più ragione di temere, ambidue gli rimproveravano ciò che accordava all'altro, ed il castigo cadeva sopra i suoi sudditi[349].
Il cardinale Michel Angelo Conti, che fu creato papa il 28 di maggio del 1721, sotto il nome d'Innocenzo XIII, non ebbe un regno abbastanza lungo per lasciare una circostanziata memoria della sua amministrazione, non essendo quasi altro di lui noto che l'obbligo impostogli di nominare cardinale l'abate Dubois, e la riabilitazione del cardinale Alberoni, contro al quale il suo predecessore aveva fatta cominciare una legale processura[350].
Innocenzo XIII morì il 7 di marzo del 1724; ed il cardinale Vincenzo Maria Orsini, che gli fu dato per successore, il 29 di maggio del 1724, prese il nome di Benedetto XIII. Di già sommamente indebolito dalla sua troppo avanzata età, egli non fece nulla di conforme alle sue pie e pacifiche intenzioni; la privata sua condotta fu costantemente piena di dolcezza, di umiltà, di carità; volle sinceramente mettere un termine alle persecuzioni del giansenismo, ma le sue bolle produssero un affatto contrario effetto. La sua amministrazione fu in Roma macchiata dalle concussioni e dalla avarizia del cardinale Coscia di Benevento, cui aveva accordata una cieca confidenza; e ne risultò una mancanza di circa cento venti mila scudi romani nelle entrate della camera apostolica, la quale fu forza coprire con nuovi prestiti, accrescendo in tal modo la massa di già enorme de' precedenti debiti. Benedetto XIII morì il 21 febbrajo del 1730, e nello stesso istante scoppiò in Roma una sollevazione. Il popolo voleva colle proprie mani vendicarsi del cardinale Coscia e di tutti i ministri subalterni da lui chiamati da Benevento, accusati d'avere venduta la giustizia, gl'impieghi e le grazie ecclesiastiche. Le grida del pubblico costrinsero il successore di Benedetto XIII a fare il processo del cardinale Coscia ed a chiuderlo in castel sant'Angelo[351].
Successore di Benedetto XIII fu Lorenzo Corsini, fiorentino; che fu eletto il 12 luglio del 1730, e che prese il nome di Clemente XII. Aveva, quando fu eletto, settantott'anni, e visse altri dieci anni; perciocchè tale è la malvagia sorte degli stati romani, che il supremo potere si trovi sempre affidato ad un uomo che deve imparare l'arte difficilissima del sovrano, in quell'età in cui converrebbe piuttosto ritirarsi da tutti gli affari. Clemente XII trovavasi in difficilissime circostanze: verun monarca, nemmeno dei paesi che parevano tuttavia oppressi dal giogo della superstizione, più non conservava verso la santa sede quello spirito di sommissione, di cui si erano fatti un dovere i loro predecessori. La corte di Portogallo era entrata colla corte di Roma in tali contese di etichetta, che prendevano un serio carattere; quella di Torino aveva aggiunti al dominio della corona molti feudi ecclesiastici; quella di Francia faceva bloccare la contea di Avignone per contestazioni di contrabbando; e le corti di Vienna e di Madrid disponevano dei ducati di Parma e di Piacenza, come se fossero stati feudi dell'impero, mentre che da circa dugent'anni erano riconosciuti per feudi della Chiesa. Sebbene Clemente XII di leggieri si potesse avvedere del cambiamento dello spirito del secolo, non sapeva risolversi a rinunciare ad alcuni dei diritti esercitati dai suoi predecessori, e tutto il suo regno si passò in penose dispute[352].
Dopo i preliminari di pace, sottoscritti in sul finire del 1735, tra la Francia e l'Austria, senza che avesse voluto soscriverli anche la Spagna, il conte di Kevenhuller strinse l'armata spagnuola del duca di Montemar, che andava ritirandosi verso il regno di Napoli. Il generale austriaco entrò nelle tre legazioni con trenta mila austriaci, lasciando che vivessero a discrezione presso gli sventurati abitanti del Bolognese, del Ferrarese e della Romagna; mentre che gli Spagnuoli ed i Napolitani non risparmiavano Velletri e la stessa Roma; di modo che lo stato della Chiesa, senz'avere violata la neutralità, sperimentò sotto Clemente XII quasi tutti i disastri della guerra[353].
Nell'ultimo anno del papato di Clemente XII il cardinale Alberoni, nominato suo legato in Romagna, tentò di unire alla santa sede la piccola repubblica di san Marino, troppo debole e troppo povera per tentare prima di tale epoca l'ambizione di chicchefosse. Il governo di quella terra aveva degenerato in oligarchia, e l'Alberoni aveva preteso che i malcontenti, che formavano il grosso della popolazione, desiderassero di assoggettarsi al dominio della santa sede; bastarono al cardinale dugento soldati, ajutati dai birri della Romagna, per impadronirsi verso la metà di ottobre del 1739 di tutto lo stato di san Marino. Ma furono portate al papa le rimostranze degli abitanti; e il papa ebbe l'integrità di riconoscere, che aveva con soverchio precipizio dato l'assenso al suo legato: ordinò che gli abitanti di san Marino fossero invitati ad emettere liberamente il loro voto, e quando li vide unanimamente domandare la loro indipendenza, li fece riporre in libertà. Questo pontefice sopravvisse pochi giorni a così onorevole azione; da lungo tempo era forzato a starsi in letto, ed aveva perduta la vista quando morì il 6 febbrajo del 1740[354].
Clemente XII ebbe per successore Benedetto XIV, già Prospero Lambertini, il più virtuoso, il più dotto, il più amabile dei Romani pontefici. Era nato il 13 marzo del 1675, e fu eletto il 17 agosto del 1740. Benedetto XIV seppe il primo rinunciare dignitosamente alle pretese della corte romana, uniformandosi allo spirito del secolo, senza scuotere violentemente la propria Chiesa; assopì le controversie giansenistiche; ottenne il rispetto e la considerazione de' principi e dei popoli protestanti, e dei filosofi di tutte le nazioni e di tutte le sette[355]; ma i sovrani cattolici violarono crudelmente la neutralità da lui professata, e distrussero la tranquillità de' suoi stati: egli aveva ultimate nel primo anno del suo regno tutte le controversie eccitate da' suoi predecessori colle corti di Spagna, di Portogallo, delle due Sicilie e di Sardegna; quando nello stesso anno la guerra per la successione dell'Austria accrebbe le difficoltà ed i pericoli dello stato della Chiesa. Il duca di Montemar, generale spagnuolo, fu il primo a violare la neutralità del papa, entrando in febbrajo del 1742 nel territorio di san Pietro coll'armata sbarcata ad Orbitello, e che andava ad unirsi in Romagna a quella del duca di Castro-Pignano, generale dei Napolitani. La loro presenza attirò negli stati della Chiesa l'esercito austriaco e piemontese, che si avanzava per venire a battaglia; dopo tale epoca, e finchè durò questa guerra, lo stato della Chiesa fu continuamente attraversato, e spesso guastato dalle due armate. La battaglia di Velletri, dell'undici agosto del 1744, tra il principe di Lobkowitz, il re di Napoli ed il duca di Modena, fu assai più fatale a quest'infelice città che all'una od all'altra armata, che pure vi sparsero molto sangue[356]. Dopo la pace di Aquisgrana, Benedetto XIV ottenne qualche indennizzazione pei mali sofferti da' suoi sudditi; ma troppo mancava perchè fosse bastante compenso ai sofferti danni. La saviezza e l'economia del papa riuscirono loro assai più vantaggiose, perciocchè colmarono il vuoto delle finanze, minorarono il debito, e cominciarono a ristabilire il commercio e l'agricoltura. La morte che lo rapì il 3 maggio del 1758, non gli permise di fare tutto il bene che desiderava.
Carlo Rezzonico, veneziano, successe il 6 di luglio del 1758 a Benedetto XIV, e prese il nome di Clemente XIII. Mostrò dal canto suo molto zelo per la riforma de' costumi, per la difesa della fede e per la correzione del clero; ma non aveva di lunga mano nè l'ingegno, nè l'accorgimento, nè la moderazione, nè la fermezza del suo predecessore. Fu strascinato in passi contraddittorj e talora imprudenti, per provvedere alla carestia che tribolò i suoi stati dal 1764 al 1766; volle sostenere le vecchie pretese della santa sede sul ducato di Parma, e per tale motivo si disgustò nel 1768 colla casa di Borbone; sicchè la Francia occupò Avignone, Napoli e Benevento, e la Spagna minacciò di trattenere le entrate della Chiesa. La soppressione dell'ordine dei Gesuiti, caldamente chiesta dalle medesime corti, gettò il Rezzonico in più gravi imbarazzi: colse l'istante in cui la loro società era stata proscritta in Portogallo ed in Francia, per raffermare tutti i loro privilegj colla bolla Apostolicam e per fare il più magnifico panegirico de' loro servigj e de' loro talenti. La malintelligenza tra il papa e quelle corti andava vestendo il più inquietante carattere, allorchè Clemente XIII morì quasi improvvisamente nella notte del 3 di febbrajo del 1769.
Fu dato per successore al Rezzonico un degno emulo del Lambertini nella persona di Lorenzo Ganganelli, che prese il nome di Clemente XIV. Egli seppe calmare con una costante saggezza, con un profondo segreto, con un'estrema moderazione tutte le contese eccitate dal suo predecessore: ricuperò Avignone e Benevento; soppresse nel giovedì santo la lettura della bolla in Cœna Domini, che aveva risvegliate le lagnanze della Spagna; fece lentamente ed imparzialmente esaminare le accuse portate contro i Gesuiti; ed il 21 di luglio del 1773 pubblicò finalmente il breve che aboliva il loro ordine. Lasciò un nobile monumento del suo amore per le arti nella fondazione del museo del Campidoglio, che fu chiamato Pio-Clementino, perchè si aggiunse al suo nome quello del suo successore. Morì il 22 di settembre del 1774 in conseguenza di una assai lunga malattia, che l'odio, che in allora si portava ai Gesuiti, fece attribuire a lento veleno da loro apparecchiato.
Pio VI, che gli successe il quindici di febbrajo del 1775, a sè non richiamò l'attenzione dell'Europa, prima dei tempi della rivoluzione, che pel suo viaggio fatto in Germania nel 1782, ad oggetto d'impedire le troppo precipitose riforme di Giuseppe II[357]. L'esterna influenza dei papi aveva infinitamente declinato, onde Pio VI volse le sue cure all'interna amministrazione de' suoi stati. Verun paese era tanto a dietro nelle cognizioni di economia politica. Le campagne di Roma, in altre età così ricche e così popolate, erano trasmutate in un vasto deserto. I pastori della Maremma ed i contadini della Sabina e dell'Abbruzzo, più accostumati ai ladronecci che all'agricoltura, erravano sempre armati, conducendo le loro mandre a cavallo, e colla lancia alla mano, quali selvagge popolazioni in seno dell'Italia. Pio VI si adoperò con molto zelo a ristaurare l'agricoltura, ma senza conoscere i veri principj dell'amministrazione; onde con molto dispendio e molto lavoro, altro quasi non fece che accrescere il male. Egli fece eseguire magnifiche opere a traverso alle paludi pontine per diseccarle; ma in appresso accordò a suo nipote, il duca Braschi, il terreno ricuperato, di cui formò una sola proprietà indivisibile, sebbene fosse tanto vasto da potersi piuttosto risguardare come una provincia che come un podere. Così grave fallo fece mancare in quella terra i capitali, la popolazione e l'industria; e le paludi pontine, a malgrado de' tesori versati da Pio VI, si rimasero come prima insalubri e deserte. Lo stesso duca Braschi ottenne pure varj monopolj sul commercio de' grani, che ruinarono sempre più l'agricoltura, ed accrebbero la miseria dei poveri. Ogni nuovo pontificato giova a fare maggiormente conoscere l'imprudenza di accordare negli ultimi suoi giorni la sovranità ad un uomo, che ha sempre fatto professione di rinunciare al mondo.
Le repubbliche d'Italia continuarono in questo secolo a tenersi in una profonda oscurità ed immobilità, quasi avessero temuto, che, richiamando sopra di loro gli sguardi delle altre potenze, il solo nome di libertà, loro caro per antiche memorie piuttosto che per presenti godimenti, non le rendesse sospette ai re, e che mentre si andavano sempre facendo nuove divisioni di stati, non si prendesse a risguardarle come beni vacanti di cui, per non avere esse padroni, si poteva liberamente disporre. Venezia ricusò d'immischiarsi nella guerra della successione di Spagna: armò le sue città e le sue fortezze, ed accrebbe le truppe di linea per farsi rispettare dai suoi vicini: non perciò ottenne di sottrarsi a tutte le vessazioni delle potenze belligeranti; ma nè violazioni del territorio, nè veruna ingiustizia, la spinse ad uscire dall'adottata neutralità.
Nell'attenersi a questo sistema la repubblica di Venezia mostrava se non altro vigore ed antiveggenza, mentre non vedevasi che corruzione, negligenza e peculato ne' suoi possedimenti d'oltremare. I sudditi greci della repubblica erano in modo travagliati dalle ingiustizie de' governatori veneziani e dai monopolj dei mercanti, che preferivano il giogo dei Turchi. Il danaro erogato dal tesoro pubblico pel mantenimento delle fortezze, delle guarnigioni, e per gli approviggionamenti delle munizioni, era dai comandanti delle piazze e da quelli delle truppe estorto a privato loro profitto, sicchè il regno della Morea, che la repubblica possedeva nel cuore dell'impero ottomano, veniva lasciato senza verun mezzo di difesa. Achmet III ebbe avviso di questa inconcepibile negligenza, ignorata dal senato veneto; apparecchiò un formidabile armamento di terra e di mare, e rompendo, senz'esserne provocato, la tregua di Carlowitz, passò l'istmo di Corinto il 20 giugno del 1714, ed in un mese occupò tutta la Morea[358]. Le varie fortezze che nella precedente guerra erano state conquistate con dispendio di tanto tempo, di tanti tesori, di tanto sangue, fecero pochissima o niuna resistenza. Nel susseguente anno i Turchi attaccarono altresì Corfù; ed in Venezia omai disperavasi di potere contro di loro difendere quell'isola e quella città, quando essi medesimi si ritirarono spontaneamente dietro la notizia avuta della sconfitta della loro armata presso Petervaradino. Vero è che la flotta veneziana sostenne l'antica sua riputazione nelle battaglie che diede ai Turchi con indeciso vantaggio in maggio ed in luglio del 1717. La tregua per ventiquattro anni, conchiusa in Passarowitz il 27 giugno del 1718 colla mediazione dell'Inghilterra e dell'Olanda[359], consumò il sagrificio della Morea, e fissò definitivamente i confini dei Veneziani coi Turchi. Dopo quest'epoca la repubblica trovò la maniera di sottrarsi interamente alla storia, e di non lasciare veruna memoria della propria esistenza[360].
La repubblica di Lucca ebbe ancora più piccola parte negli avvenimenti del secolo. Nella prima metà del mentovato secolo fu più volte ruinata dal passaggio delle truppe, e senz'essere in guerra ne sostenne i mali. Quando tutte le parti deposero le armi nel 1748, essa ricuperò l'integrità de' suoi confini; ma mentre andava crescendo la popolazione delle sue campagne e forse oltre misura, e che la divisione delle proprietà in troppo piccoli poderi, dopo avere portata l'industria rurale alla più alta perfezione, riduceva i contadini a valutare pochissimo il loro lavoro ed a vivere in una troppo costante ristrettezza, la città perdeva le sue manifatture, il suo commercio, la sua industria. I cittadini, troppo ravvicinati al piccolo corpo della nobiltà, trovavansi altresì troppo umiliati dalla loro esclusione da tutti gli impieghi, e più non conservando verun affetto per la loro patria, avevano perduto con questo sentimento quell'attività e quell'energia di cui avrebbero avuto bisogno per battere una privata carriera e sollevarsi alla fortuna.
La repubblica di Genova, caduta parimenti sotto il giogo d'un'oligarchia, rendutasi odiosa al rimanente del popolo, non pareva fatta per figurare davvantaggio in questo secolo. Nel 1713 i Genovesi acquistarono dall'imperatore pel prezzo di un milione e dugento mila scudi il marchesato di Finale, feudo in addietro posseduto dalla casa di Carretto. Ma essi trattavano con tanta ingiustizia e durezza i loro sudditi, che questi nuovi vassalli passarono con estrema ripugnanza sotto il loro dominio. Con altrettanta ingiustizia che fallace politica avevano essi lungo tempo oppressa la Corsica; onde quest'isola, più estesa e più fertile che tutto il rimanente del loro territorio, erasi conservata quasi barbara tra le loro mani, mentre che sotto una buona amministrazione avrebbe potuto infinitamente accrescere le ricchezze e la potenza del loro stato. Le vessazioni de' Genovesi fecero, nel 1730, scoppiare in Corsica una ribellione, che la repubblica volle invano comprimere colle armi, coi supplicj e talvolta ancora con atti di perfidia. Fu questo un tarlo che consumò le sue finanze e le sue forze per più della metà del secolo. Fino dal 1737 i Genovesi avevano invocato l'ajuto della Francia per soggiogare i Corsi ribelli. Impegnaronsi per tal modo in una lunga serie di trattati di sussidj con quella corona, con che accrebbero sempre più i loro debiti, senza fare verun avanzamento verso la conquista di quest'isola, i di cui abitanti mostravano tutti le stesso orrore pel loro giogo. Finalmente il 15 di maggio del 1768 risolsero di sottoscrivere col signore di Choiseul un ultimo trattato, col quale cedevano al re di Francia l'isola di Corsica in pagamento di tutte le somme che questi loro aveva sovvenute per sottometterla[361].
Ma in mezzo alla sua debolezza ed al suo decadimento, si vide la repubblica di Genova inaspettatamente risplendere, quando nel 1746 cacciò dal suo seno gli Austriaci di già padroni delle sue porte, e ricuperò la sua libertà con un atto di disperato eroismo. Nella guerra contro Maria Teresa per la successione dell'Austria, i Genovesi avevano unite le loro forze a quelle dei Borboni per impedire al re Sardo di occupare il marchesato di Finale, sul quale esso re pretendeva avere delle ragioni. Essi avevano divisi i vantaggi della campagna del 1745; ma i rovesci di quella del 1746 li lasciarono esposti soli alla vendetta de' loro nemici. Dopo la rotta avuta dagli alleati sotto Piacenza il 16 di giugno, l'infante don Filippo, il duca di Modena, il marchese de Las Minas, generale spagnuolo ed il generale francese, maresciallo di Maillebois, si ritirarono tutti dalle pianure della Lombardia sopra Genova, e di là per la riviera di Ponente continuarono a ritirarsi in Provenza. Gli Austriaci, inseguendoli, arrivarono per la valle della Polsevera sotto Genova, e si accamparono a san Pier d'Arena, mentre che una flotta inglese, che si fece vedere nello stesso tempo nel golfo, minacciava la città dalla banda del mare. Le mura di Genova erano provvedute di formidabile artiglieria e difese da una buona guarnigione; ma il senato, che conosceva il giusto malcontento del popolo, non ardiva invitarlo a prendere le armi; ed essendosi perduto di coraggio al primo pericolo, il giorno 4 di settembre offrì di trattare, ed il 6 fece una convenzione col marchese Botta Adorno, generale austriaco, in forza della quale gli furono date in mano le porte della Lanterna e di san Tomaso[362].
Tosto che gli Austriaci si videro padroni della città, fecero conoscere le nuove condizioni ch'essi arbitrariamente aggiugnevano alla pace. Tutte le truppe della repubblica dovevano essere prigioniere di guerra, tutte le armi e munizioni venire consegnate agli Austriaci, e tutti i disertori essere restituiti; per ultimo doveva essere pagata una contribuzione di 9 milioni di fiorini dell'impero in tre termini, l'ultimo de' quali non oltrepassava i 15 giorni. Il tesoro della banca di san Giorgio, l'argenteria delle Chiese, quella de' particolari, ogni cosa si requisì dal senato per soddisfare a così esorbitanti domande; ma l'assoluta impossibilità di trovare tutto il richiesto danaro, malgrado le continue minacce di esecuzione militare, di saccheggio e d'incendio, persuase finalmente il generale austriaco ad accordare qualche respiro. Non pertanto il senato non ardiva pur di pensare a far resistenza; ma dalla più infima classe del popolo partì la scintilla elettrica che riaccese la fiaccola della libertà[363].
Il giorno 5 dicembre del 1746 gli Austriaci conducevano per le strade di Genova uno de' molti mortaj ch'essi avevano tratti dall'arsenale della repubblica, per servirsene nella spedizione che meditavano di fare in Provenza. La volta di un sotterraneo, che stava sotto la strada, ruppe sotto il peso; il mortajo rimase imbarazzato tra le ruine, e gli Austriaci col bastone in mano vollero forzare il popolo di Genova a trarnelo con corde. La pazienza di questo coraggioso popolo era stata spinta all'estremo: un giovane prese un sasso e lo scagliò contro i soldati; fu questo il segno d'una generale esplosione. Da ogni banda la plebe assalì a sassate gli Austriaci, che furono bentosto presi da panico terrore. Tutti i loro distaccamenti si trovavano isolati in auguste e tortuose strade, che formavano come un laberinto da cui non sapevano uscire. Smarrendosi ad ogni passo, più non sapevano nè dare, nè ricevere ajuto. Intanto i sassi grandinavano sopra di loro dai tetti e dalle finestre, e gli schiacciavano nelle strade, senza ch'essi sapessero contro chi vendicarsi; perciocchè le massiccie mura de' palazzi, ne' quali non entra pressochè niuna materia combustibile, presentavano loro altrettante fortezze, che avrebbero richiesti regolari assedj. I generali, partecipi del terrore de' soldati, lasciaronsi respingere fino fuori della città, ed offrirono poi di venire a patti[364].
Il doge, il senato e tutto l'ordine della nobiltà, non avevano per anco presa veruna parte nell'insurrezione; per lo contrario cercavano di acquietare una sollevazione, di cui temevano di essere essi soli le vittime. Ma tosto che gli Austriaci furono fuori di città, gl'insorgenti s'impadronirono degli arsenali, e vi trovarono armi e munizioni; onde guarnirono le mura di artiglierie in modo da signoreggiare il campo austriaco, e si presentarono in così terribile aspetto, che il marchese Botta, che aveva perduti in città i suoi magazzini, il 10 di dicembre si avviò per la Bocchetta alla volta della Lombardia. Non fu che dopo passato questo primo pericolo che il senato e la nobiltà si unirono ai valorosi insorgenti; allora si affrettarono di chiedere ajuti alla Francia ed alla Spagna; ed infatti il duca di Boufflers loro condusse circa quattro mila uomini il 30 aprile del 1747, e ragguardevoli somme furono pure loro spedite dalla Francia. Il duca di Richelieu successe in appresso al duca di Boufflers; e le due leghe, fralle quali era divisa l'Europa, cominciarono a battersi ad armi eguali nella riviera di Genova fino al susseguente anno, nel quale la repubblica venne compresa nel trattato di pace di Aquisgrana, e ricuperò i suoi antichi confini in tutta la loro integrità[365].
La sollevazione di Genova è il solo avvenimento del diciottesimo secolo che appartenga realmente alla nazione italiana. È il solo che ci mostri il popolo penetrato del suo antico onore, sensibile ai ricevuti oltraggi, e determinato alla difesa de' suoi diritti; il solo in cui un'azione pericolosa sia la conseguenza di un generoso sentimento e non del calcolo. La salvezza di Genova non si dovette nè alla costanza de' suoi nobili, nè alla saviezza del suo governo, nè alla fedeltà degli alleati, ma all'intrepido coraggio ed al patriottismo disinteressato di una classe d'uomini pei quali nulla ha fatto la società, e ch'è tanto più sensibile alla gloria nazionale in quanto che non può aspirare a veruna gloria personale.
Ma gli altri avvenimenti che abbiamo toccati in questo secolo non possono meritare il nome di storia italiana. L'intera nazione era esclusa da tutte le risoluzioni politiche e da tutte le azioni. Divisa fra stranieri sovrani che possedevano province nel di lei seno, e tra sovrani, figli di stranieri, che si erano stabiliti nei suoi paesi; indifferente alle contese dei Borboni di Parma, dei Borboni di Napoli e di Sicilia e dei Borboni padroni della Corsica; degli Austriaci di Milano e di Mantova, e dei Lorenesi di Toscana, ella non trovavasi presente alle loro battaglie che per soffrire; ubbidiva ai padroni senza riconoscerli per suoi capi naturali; non era legata all'autorità monarchica da veruna illusione, nè da ereditario affetto, nè da entusiasmo. Si assoggettava, perchè era più prudente cosa il cedere che non il resistere, e perchè in un ordine politico che abbia spenti tutti gli affetti, la sola prudenza conserva il diritto di farsi ascoltare; poco pensava ai suoi generali interessi, perchè non vi ravvisava che cose tristi ed umilianti; prendeva piccolissima parte agli avvenimenti di cui era il teatro; ed in tutta la storia italiana del secolo trovasi a stento un nome italiano. In quel modo che le risoluzioni prendevansi ne' gabinetti degli stranieri, erano ancora dagli stranieri eseguite sul campo di battaglia. Gli storici che le riferiscono, in mezzo ai riguardi che loro inspirava il timore dei potenti, non lasciano travedere che il sentimento di una vaga curiosità. E veramente non si può sentire nè entusiasmo, nè parzialità, quando non si ha patria; e l'Italiano, nel mentre che le sue campagne andavano ad essere allagate di sangue, non sapeva cui dovesse desiderare la vittoria, se non cercava che il bene del suo paese.
La potenza dell'uomo risiede nelle forze morali, e non nelle fisiche. Dallo spirito e non dal corpo vengono i mezzi di resistenza e di conquista; perciocchè trovansi nello spirito la volontà, il coraggio, l'ubbidienza, la pazienza, la rassegnazione al sagrificio. Lo stesso despotismo non può far a meno di certe forze morali; ma egli le teme e non le impiega che con economia; mentre per lo contrario la libertà le adopera tutte. Per mantenere il primo, conviene che l'uomo sia meno uomo che si possa: per consolidare la seconda, conviene trovare nell'uomo tutto quanto può dare l'umana natura. Il despota crederà lungo tempo di avere accresciute le forze della nazione concentrandole tutte in sè, perchè avendo così soppresse tutte le resistenze può impiegare tutto il rimanente vigore nell'esecuzione delle sole sue volontà; ma quando verrà chiamato a misurarsi con un popolo, le di cui forze morali tutte siansi sviluppate, conoscerà bentosto la propria impotenza. L'Italia, in sul declinare del diciottesimo secolo, aveva ancora soldati, ricchezze, una numerosa popolazione, una fiorente agricoltura, commercio e manifatture che presentavano tuttavia grandi mezzi, uomini versati nelle scienze, altri naturalmente atti ad acquistarle in breve tempo; ma le mancavano il sentimento e la vita, e quando scoppiò la rivoluzione francese, non fuvvi alcuno in Europa che non vedesse che l'Italia non aveva nè la volontà, nè la forza di difendere la sua indipendenza, e che una nazione che più non aveva patria, non poteva resistere nè per garantire sè stessa, nè per la sicurezza de' suoi vicini.
CAPITOLO CXXVI.
Intorno alla libertà degl'Italiani nei tempi delle loro repubbliche.
Basta paragonare l'Italia quale era nel quindicesimo secolo, all'Italia quale diventò del diciottesimo, per accertarsi che gl'Italiani avevano in quello spazio di tempo perduto il più prezioso dei beni sociali. Non era altrimenti una teoria vana e fatta soltanto per lusingare l'immaginazione quella libertà per la quale essi combatterono con tanta costanza, che non si videro tolta senza immenso rincrescimento e cordoglio, e che tentarono più volte di ricuperare a rischio anche di esporre la loro patria alle più violenti convulsioni. Palpabili erano gli effetti di questa libertà, ed hanno coperta la terra di tali monumenti che conservansi ancora nella presente età; aveva questa svolti nell'intera massa della nazione l'ingegno, il gusto, l'industria e tutti i godimenti di una somma prosperità; il popolo che la conservò lungamente, era composto d'individui ad un tempo più felici e più illuminati; desso erasi egualmente avvicinato ai due fini che si propongono i più saggi filosofi e l'uomo volgare; cioè, aveva fatto molto cammino verso la perfezione e la felicità.
Fra tutti gli oggetti che trattengono i nostri sguardi nell'Italia, non ve n'ha un solo il quale non contribuisca a provare ed i sorprendenti progressi fatti dagl'Italiani in tutte le arti della civilizzazione prima del quindicesimo secolo, ed il loro decadimento dopo quest'epoca. Veruna nazione eresse più magnifici templi nelle città, ne' villaggi e perfino ne' deserti. Si giugne dall'estremità dell'Europa per ammirarli; ma quando si confrontano col povero gregge che ora si aduna sotto la loro volta per esercitarvi un culto, ognuno è forzato di chiedersi dove si troverebbero adesso le necessarie ricchezze per fabbricarli?
Di dieci in dieci miglia trovansi nelle pianure della Lombardia, o ne' colli della Toscana e della Romagna, e perfino nelle adesso deserte campagne del patrimonio di san Pietro, delle città pomposamente fabbricate, nelle quali molti palagi mezzo rovinati ci dicono che da secoli più non furono ristaurati: tutto ciò che è durevole conserva il carattere dell'opulenza e dell'antica eleganza, e tutto ciò che è passaggiero è perito senza venire più rifatto. Rimangono i portici, le colonne, gli architravi; ma i legni marciscono, rotti sono i cristalli, e levati i piombi dai tetti. Da Novara fino a Terracina, ci dimandiamo tristamente, in ogni città, dove sia la popolazione che poteva avere bisogno di tante case, dove il commercio che poteva riempire tanti magazzini, dove le ricche famiglie che potevano alloggiare in tanti palazzi, dove finalmente il lusso dei vivi che deve prendere il luogo di quello degli estinti, de' quali rimangono ovunque i monumenti.
Molta parte delle terre viene anche adesso coltivata nella più industre come nella più dispendiosa maniera; senza mai esaurire il terreno, l'agricoltura vuole ogni anno nuovi frutti, e gli ottiene più abbondanti che in qualunque altra contrada. Un giudizioso avvicendamento di ricolte apparecchia e purga i campi prima di coglierne i succhi nutritivi per le piante cereali, e sempre li va migliorando senza mai lasciarli riposare. Ma questo avvicendamento di raccolti fu inventato e sostituito all'antico sistema dai contadini italiani che in allora erano una razza di uomini intelligente ed osservatrice, mentre che in tutto il rimanente dell'Europa i contadini di quell'epoca erano abbrutiti dalla schiavitù ed incapaci di scoprire i vizj delle antiche consuetudini, e di correggerle.
L'intera Lombardia è tagliata da canali che, suddividendosi all'infinito, tutta la ricuoprono a guisa di una rete; essi distribuiscono sui campi le acque apportatrici della fertilità, e sono disposti a riceverle di nuovo, dando loro un pronto scolo, quando quest'acque cessano di essere salutari. Una ragguardevole parte della Toscana è divisa in regolari terrapieni, che trattengono la terra sul fianco delle colline sempre battute da burrascose piogge, dando così il modo di coprire di castagneti, di viti, di ulivi, di ficaje, ripidi declivi che, lasciati quali naturalmente sono, non presenterebbero che nudi sassi. Ma in quel tempo in cui gl'Italiani destinavano a rendere fertili le loro campagne un capitale, che poteva bastare per l'acquisto di una superficie assai più vasta, le altre nazioni ad altro ancora non pensavano che a spogliare la terra di tutto ciò che poteva produrre; ed i Francesi cercavano perfino di rendere ignominioso l'impiego del capitale destinato alla coltura delle terre, coll'assoggettarlo all'umiliante imposta della taglia.
Finalmente, sia che si osservi tutta intera l'Italia, o si esamini la natura del suolo, o le opere dell'uomo, o l'uomo medesimo, sempre si crede essere nel paese degli estinti, vedendo nello stesso tempo la debolezza dell'attuale generazione, e la possanza di quelle che la precedettero. Non sono certo gli uomini che si vedono, che avrebbero potuto fare le cose che ci stanno sotto gli occhi; furono fatte nell'epoca di una vita che sentiamo essere terminata; perciocchè nell'istante in cui questa nazione perdette ciò ch'ella chiamava la sua libertà, perdette nel medesimo tempo tutta la sua creatrice potenza.
Pure quando ci chiediamo in che mai consistesse una cotale libertà, che produsse così grandi cose e che lasciò di sè così amaro desiderio, non troviamo veruna soddisfaciente risposta nè tra le nozioni che ne avevano que' medesimi che la possedettero, nè nelle leggi che la sostenevano, nè nelle costumanze ch'ebbero da lei origine. Rimaniamo soprattutto convinti esservi un errore capitale nella lingua; che ciò che noi diciamo libertà, non è ciò che dagl'Italiani era così chiamato; e che l'intero scopo dell'ordine sociale si presentava loro sotto un punto di vista affatto diverso da quello che noi lo vediamo.
Forse abbastanza non riflettiamo che le nuove teorie intorno alla libertà sono di moderna invenzione; che i nostri filosofi, cercando di sapere in che consista, sonosi proposto uno scopo affatto diverso da quello cui miravano gli antichi; che la libertà de' Greci o de' Romani, degli Svizzeri o de' Tedeschi, come pure quella degl'Italiani, non era altrimenti la libertà degl'Inglesi; che per ultimo fino al diciassettesimo secolo la libertà del cittadino fu sempre risguardata come una partecipazione alla sovranità del suo paese; e che non è che l'esempio della costituzione britannica, che c'insegnò a considerare la libertà come una protezione del riposo, della felicità e della domestica indipendenza. Ciò che noi desideriamo prima di tutto, non risguardavasi dai nostri antenati che come un vantaggio accessorio e di second'ordine; e ciò che vollero i nostri antenati, non viene da noi risguardato che quale mezzo più o meno imperfetto di ottenere o di conservare quanto desideriamo noi medesimi. Però l'uno e l'altro scopo dell'associazione politica viene egualmente indicato col nome di libertà. Quando si volle distinguerli, e che si chiamò libertà civile quella facoltà affatto passiva, quella guarenzia contro l'abuso del potere, in qualunque mano si trovi, cui aspirano i moderni, e che si riservò il nome di libertà politica alla facoltà attiva, alla partecipazione di tutti al potere esercitato sopra di tutti, all'associazione dell'uomo libero alla sovranità, non si è bastantemente schivata la confusione; perchè i vocaboli che si adoprano non contrastano abbastanza l'uno coll'altro. Ambidue, tranne la sola diversità della loro origine greca e latina, significano egualmente, che è propria al cittadino; ma non dovrebbe dirsi cittadino se non quello che gode della libertà attiva, ed è partecipe della sovranità; mentre che, senza essere cittadino, ogni uomo ha diritto egualmente alla libertà passiva, ossia alla protezione contro ogni abuso del potere.
Per una specie d'istinto gl'Italiani si erano attaccati alla libertà politica; ma non erano pervenuti a definirla con precisione. Questa era agli occhi loro una prerogativa esclusiva del governo repubblicano; e con tal nome indicavano soltanto il governo dei più, per distinguerlo da quello di un solo. Quest'ultimo, il principato assoluto, sembrava loro sempre incompatibile colla libertà; il primo, governo dei più, pareva loro che sempre meritasse il nome di governo libero, sia che questa sovranità appartenesse a tutti i cittadini, come a Firenze, sia ad una sola classe, come a Venezia; e ciò senza avere riguardo all'esercizio di un'arbitraria autorità dei magistrati sopra i sudditi, che, dietro i presenti nostri principj, potrebbero farci considerare l'uno e l'altro come tirannico.
Non conoscendo gl'Italiani che la libertà politica, e non essendosi eglino formata una precisa idea della libertà civile, non dobbiamo maravigliarci che accordassero il nome di governo libero a quello che non poneva verun confine all'estensione dei poteri esercitati a nome della nazione. I cittadini, esposti a qualsivoglia arbitraria misura, non perciò si riputavano meno liberi, poichè l'atto arbitrario che ad alcuno recava danno era l'opera di un magistrato, che ognuno poteva risguardare quale suo mandatario. Ma al primo aspetto sembra contrario ai medesimi principj da loro adottati, il chiamare libero quel governo in cui veniva esercitata un'illimitata autorità da una sola classe della nazione, senza che gli altri potessero aver parte in quella sovranità di cui si erano impadroniti pochi cittadini. Ben può concepirsi come Firenze loro sembrasse libera anche quando il gonfaloniere, i priori, i podestà delegati dal popolo, facevano il più violento uso del momentaneo potere deposto nelle loro mani; ma non vediamo in che mai consistesse la libertà di Venezia, dove dal consiglio de' dieci, che rappresentava soltanto la nobiltà, esercitavasi un così arbitrario potere.
Per altro questa confusione d'idee non è propria solamente degl'Italiani; dessa trovasi in tutte le antiche e moderne repubbliche. Le aristocrazie ed oligarchie greche, tedesche ed italiane, invocarono tutte egualmente il nome della libertà, e tutte pretesero di averla conservata qualunque volta non si assoggettarono al potere di un solo. Infatti, lasciando da un canto la libertà civile ossia libertà passiva, poteva dirsi con verità che sempre esisteva una libertà nello stato, quando un'intera classe era partecipe della sovranità; ma in allora non era la nazione che fosse libera, unicamente bensì quelle famiglie ch'erano proprietarie della libertà.
Presso gli antichi, che avevano conservati gli schiavi anche nelle più libere repubbliche, non erasi cercata l'origine dei diritti dell'uomo nella stessa dignità della specie umana, nè si era convenuto che ogni pubblica instituzione dovesse mirare alla felicità di tutti. I diritti umani parvero loro fondati sopra leggi positive, e non sulla legge naturale. Vedevano in ogni paese uomini ingenui e schiavi; e questo fatto, che ammisero senza disamina, non parve loro più ripugnante nelle loro città che nelle loro famiglie. La libertà diventò per loro un bene ereditario, come le altre sostanze; e quest'eredità potev'essere trasmessa soltanto ad un ristretto numero di famiglie in mezzo ad una grossa popolazione, siccome a Sparta ne' tempi della lega Achea, e a Lucca nel diciottesimo secolo: non pertanto si continuò a chiamare libero lo stato in cui le famiglie proprietarie della libertà non erano esse medesime diventate proprietà di un altro individuo, e dove conservavano fra di loro la sovranità sopra di sè medesime: se queste medesime famiglie avevano poi sudditi nello stato e schiavi nelle case, questa sudditanza di una parte della popolazione estranea alla città, nè variava, nè costituiva la natura del governo. Cotale stato era pur sempre una repubblica.
Ma la schiavitù domestica più non esisteva nelle repubbliche italiane, e questa sola differenza le pone a molta distanza da quelle dell'antichità. Dall'abolizione della schiavitù domestica ne risultarono un maggiore rispetto per la libertà dell'uomo, una più estesa felicità in tutte le classi, maggiore industria, maggiore attività, maggiori potenze produttrici ed in conseguenza maggiori ricchezze. Le repubbliche, quando appena cominciavano a prendere questo titolo, e non si consideravano ancora che come comunità libere, sotto la protezione dell'imperatore, cominciarono colla liberazione degli schiavi; il grosso della loro popolazione consisteva in uomini che avevano di fresco spezzate essi medesimi le loro catene, e che aprirono quasi sempre un asilo entro le loro mura ai servi che fuggivano dalle terre dei signori loro vicini. In tal modo ebbe principio l'abolizione della schiavitù, cui la religione e la filosofia si gloriarono poscia di avere operato; ma che dal solo personale interesse fu eseguito.
Questa progressiva abolizione della schiavitù, che si estese dalle città alle campagne, è un avvenimento troppo importante nella storia della libertà italiana, per non richiamare per qualche tempo la nostra attenzione. Sotto il regno degl'imperatori romani, i liberi agricoltori erano assolutamente scomparsi dal suolo dell'Italia; i ricchi proprietarj, che in un solo possedimento riunivano talvolta intere province, di cui la repubblica romana, dopo parecchj anni di guerra, aveva trionfato ne' suoi più bei giorni, facevano coltivare le loro terre da numerose gregge di schiavi. I campi più non avevano case isolate, nè villaggi, nè capanne, e di già avevano l'aspetto che presenta adesso l' Agro romano, egualmente deserto, egualmente diviso in poderi di dieci in dodici miglia d'estensione: soltanto facevano le veci di quelle armate di lavoratori che scendono oggi dalle montagne della Sabina, infiniti sventurati che la sola forza obbligava al lavoro senza speranza di veruna ricompensa.
I barbari, invadendo l'Italia, ne fecero in breve tempo scomparire tutta la popolazione, perchè gli schiavi erano la preda che loro meglio si conveniva, siccome quella che più vantaggiosamente potevano vendere, e trasportare altrove con minore imbarazzo. Gli schiavi, sempre solleciti di mutare condizione, seguivano volentieri i loro nuovi padroni, dai quali speravano di essere più dolcemente trattati; pure d'ordinario perivano ne' lunghi viaggi a traverso ai boschi della Germania e della Scizia, come mill'anni dopo si videro perire i non meno numerosi schiavi che i Turchi predavano in tutte le province dell'Adriatico, e dei quali non si è conservata la razza. I proprietarj, come i nobili romani dell'età presente, cercarono, dopo tale epoca, non già a moltiplicare i prodotti delle loro terre, ma a diminuirne le spese; e calcolarono, come si fa pure presentemente, che per quanto fosse grande la diminuzione del prodotto lordo dell'agricoltura per mancanza di popolazione, non perciò veniva minore la rendita netta delle loro terre.
Finalmente i barbari, invece di guastare le province dell'impero, vi si stanziarono stabilmente. È noto che in allora ogni capitano, ogni soldato del settentrione, venne ad alloggiarsi presso un proprietario romano, sforzandolo a dividere con lui le sue terre ed i raccolti. Tutti gli antichi schiavi che rimasero in Italia, non cambiarono la loro condizione; ma i liberi agricoltori, obbligati a risguardare come loro padrone il Tedesco o lo Scita che dicevasi loro ospite, furono costretti a darsi essi medesimi al lavoro. Oltre la parte incolta di terreno che questi nuovi abitanti si fecero cedere in tutta loro proprietà per tenervi le loro mandre, vollero pure essere a parte del ricolto de' campi, degli uliveti, delle vigne: ed allora indubitatamente ebbe principio quel sistema di coltivazione a metà frutto, che mantiensi tutt'ora in quasi tutta l'Italia, e che tanto contribuì a perfezionare l'agricoltura ed a rendere migliore la condizione de' suoi contadini.
Quando il lavoro degli uomini liberi si trovò in concorrenza con quello degli schiavi, la sua superiorità fu troppo chiara per non far sì che il barbaro padrone lo preferisse a quello degli schiavi. Il castaldo, quasi sempre disceso da qualche antico proprietario romano, viveva, egli e la sua famiglia, colla metà del prodotto di quella terra che era stata un giorno possedimento dei suoi antenati; mentre lo schiavo, che dovevasi assai bene alimentare, quantunque la sua inerzia e la negligenza scemassero le sue forze produttrici, consumava i due terzi dei frutti da lui raccolti. Allora il Barbaro cominciò ad accordare la libertà, ed una parte del deserto di cui si era renduto padrone, al suo schiavo, perchè ne formasse un nuovo podere. Il signore delle terre ebbe sempre più motivo di vie meglio convincersi che non manterrebbe giammai i suoi schiavi a così buon patto come il suo gastaldo, e che non otterrebbe da loro giammai altrettanto lavoro, perchè l'interesse attivo ed industrioso è migliore economo d'assai che la forza: così ogni giorno, coll'incremento delle generazioni, un maggior numero di schiavi ebbe nelle campagne la libertà.
Senza che la legge avesse veruna parte nell'abolizione della schiavitù, senza che il vergognoso commercio degli uomini fosse proibito, la schiavitù cessò in ogni luogo. Ne' secoli inciviliti, e fino alla fine del sedicesimo, si dividero tuttavia degli schiavi nelle più ricche case, ma più non se ne trovavano nelle campagne. I soldati, abusando della loro vittoria, vendettero talvolta al migliore offerente tutti gli abitanti di una città presa d'assalto; e tale fu la sorte che l'armata di Francesco Sforza fece subire del 1447 alla sventurata città di Piacenza. I papi, cedendo alla sterminata loro collera, condannarono ancora più frequentemente tutti i sudditi di uno stato nemico ad essere ridotti in ischiavitù, autorizzando a venderli chiunque se ne impadronisse. In tal modo vennero condannati tutti i vassalli dei Colonna da Bonifacio VIII; tutti i Fiorentini da Sisto IV, tutti i Bolognesi nel 1506, ed i Veneziani nel 1509, da Giulio II. Ma coloro che comperavano questi schiavi, trovavano subito più utile il dar loro la libertà per una qualche somma di danaro, che non il mantenerli pel poco lavoro che farebbero per conto loro. In veruna descrizione di città o di villaggi vedonsi in queste varie epoche indizj di schiavitù; soltanto il fanatismo potè conservarne gli ultimi avanzi in Italia a dispetto del personale interesse. I prigionieri di guerra mori e turchi incatenansi nelle galere, in odio della loro religione, e la schiavitù loro dura anche al presente, sebbene costino allo stato più che gli uomini liberi.
Il fanatismo tentò pure più volte in altri paesi di far rinascere la schiavitù; e riconoscere dobbiamo dai missionarj portoghesi, che circa la metà del quindicesimo secolo, diressero le prime spedizioni sulla costa occidentale dell'Africa, quella schiavitù de' Negri alle Antille, che forma l'obbrobrio dell'età presente. Il fanatismo fece condannare in Ispagna ed in Portogallo, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, molte centinaje di Giudei e di Mori ad essere ridotti in ischiavitù. Pure l'interesse personale, assai più potente che lo zelo di un clero persecutore, ridonò costantemente la libertà a coloro che la Chiesa condannava alle catene. Nell'età presente la schiavitù non si mantiene in tutta l'Europa orientale dalla Russia fino all'Ungheria, che a motivo che i proprietarj delle terre non hanno saputo approfittare del lavoro degli uomini liberi; e perchè in cambio di dividere con loro i frutti della terra, gli sforzarono a dar loro la metà del tempo; onde nei giorni di ogni settimana che sono di diritto del padrone ungaro o boemo, l'uomo libero non lavora con maggiore zelo, attività o intelligenza, di quello che farebbe lo schiavo.
Quando, in tempi a noi più vicini, i filosofi volsero di nuovo i loro sguardi alla costituzione della società, non ebbero sotto gli occhi oggetti eguali a quelli che colpivano i filosofi dell'antica Grecia. Da un canto il lavoro manuale più non era fatto dagli schiavi, dall'altro canto quasi tutti i paesi ridotti a civiltà erano governati da monarchi. Noi confondiamo quasi sempre la natura delle presenti instituzioni colla natura stessa delle cose: gli antichi non avevano potuto comprendere come si sarebbe potuto fare da meno degli schiavi; i moderni come si possa stare senza re. I politici del XVIII secolo si occuparono meno di ciò che in realtà era la società umana, che di ciò che avrebbe dovuto essere. Ebbero minore rispetto per diritti stabiliti, perchè in nessun luogo ne trovarono che fossero incontrastabili; ma rispettarono maggiormente il carattere dell'uomo; essi accomodarono le loro teorie all'interesse dell'autorità sotto la quale vivevano, e fissarono il principio che ogni governo era stabilito per la felicità dei popoli a lui soggetti, sebbene i principi avessero fin allora creduto di non avere altro interesse ed altro dovere, che quello della propria conservazione, o di ciò che chiamavano loro gloria.
Essendo la libertà degli antichi una proprietà del cittadino, non era essenziale di esaminare fino a qual segno contribuiva alla felicità, come non si esamina, per conservare a ciascheduno la sua eredità, se le ricchezze formano, o no, la felicità dell'uomo saggio. Ma la libertà dei moderni venendo considerata come il mezzo pel quale i governi giungono allo scopo per cui furono instituiti, cioè la comune felicità, fu necessario di esaminare, onde stabilire il diritto dei popoli ad essere liberi, in qual modo la libertà formi la felicità, o fino a quale grado vi contribuisca.
L'uno e l'altro raziocinio è egualmente logico, ma ciascuno parte da diversi principj. Quello degli antichi è forse il primo nell'ordine delle idee; essi considerarono l'origine delle società, e si chiesero donde veniva il potere che vedevano stabilito; allora loro parve soltanto libero quell'uomo, che non fosse subordinato che a quel potere che aveva formato o contribuito a formare egli stesso. Così la linea che separava il cittadino dal suddito era patentemente segnata, e non poteva ammettere verun dubbio. La libertà de' moderni dev'essere valutata sopra molto più dilicate differenze. Per determinarne i confini, conviene esaminare fino a qual punto convenga agli uomini uniti in società di essere governati, o pure a qual prezzo loro convenga di acquistare la protezione della forza pubblica contro i loro interni ed esterni nemici; in appresso fino a qual punto ognuna delle umane facoltà abbia bisogno di essere contenuta pel comune vantaggio; finalmente in quale caso torni meglio diminuire in parte la forza di tutti, piuttosto che ristringere di soverchio la felicità o la sicurezza individuale.
Quest'esame guidò a riconoscere che lo scopo dell'unione degli uomini essendo quello di assicurare la vicendevole protezione delle loro persone, del loro onore, delle loro proprietà, dei loro morali sentimenti, quel governo che si farebbe giuoco della vita, della fortuna e dell'onore degl'individui, offendendo i sentimenti di giustizia, di umanità e di pubblica decenza, mancherebbe assolutamente al suo scopo, e dovrebbe risguardarsi come una tirannide, sebbene fosse anche stato stabilito dall'universale volontà.
In appresso si riconobbe, che l'uomo non aveva domandato al proprio governo di proteggerlo contro di sè medesimo, ma soltanto contro gli altri; dal che si è conchiuso che l'esercizio di qualunque facoltà, che non abbia azione sugli altri, non è dipendente dal governo. Su questa regola è fondata la libertà del pensiere e quella della coscienza; mentre che avvi tirannide, qualunque volta il governo procede a punire altra cosa che gli atti esteriori, o che in loro cerca le tracce del malcontento, e della malevolenza, per vendicarsi di queste opinioni.
Finalmente si è conosciuto che il male che risulterebbe per tutti dalla repressione di certe azioni che possono diventare nocive, sarebbe ancora maggiore del male che potrebb'essere prodotto da queste azioni. Perciò si risguardò come tirannico quel governo che proibisce di parlare, di scrivere, di stampare[366]; che gastiga con troppo sospettosa vigilanza certi falli, certi vizj, che non si potrebbero comprimere senza un'inquisizione insopportabile per tutti. E si è conchiuso che un governo è tanto più libero, quanto è sentita meno la sua azione; che è libero, non solo perchè non gastiga che ciò che è vietato dalla legge, ma ancora perchè la legge non proibisce tuttociò che potrebbe proibire.
Dopo avere in tal modo definita questa libertà puramente difensiva, questa libertà affatto negativa, cui deve tendere ogni buon governo, si cercò di darle per guarenzia i diritti politici de' cittadini. Allora cominciarono a considerarsi, non più come principio essi medesimi della libertà, ma soltanto come sue salvaguardie. I moderni collocarono nel primo grado tra questi diritti politici la libertà della stampa propriamente detta, ossia il diritto di provocare la pubblica attenzione intorno agli affari dello stato, con iscritture pubblicate senza precedente licenza del governo; la libertà della disputa nelle adunanze politiche; per ultimo il diritto di petizione, o sia il ricorso aperto ad ogni oppresso fino alla sovrana autorità, interpellata da cittadini associati a tale oggetto sotto gli occhi di tutto il pubblico. Queste varie prerogative non formano parte della libertà civile, ma piuttosto sono le armi poste in mano al popolo per difenderla.
Dopo avere conosciuto quanto l'idea che fino all'ultimo secolo formavansi della libertà i nostri antenati è diversa da quella che noi ci formiamo adesso, avremo minor cagione di fare le maraviglie, vedendo che in tutte le repubbliche dell'antichità, in tutte quelle della Svizzera e della Germania, in tutte quelle finalmente dell'Italia, intorno alle quali versammo così lungo tempo, non fossero guarentiti i diritti di cui abbiamo fin ora sviluppata l'origine.
Le repubbliche italiane non avevano pensato a proteggere la vita, l'onore, o la proprietà de' cittadini con una legislazione, o con una forma di processura migliori di quelle ch'erano in vigore negli stati più dispotici. I magistrati, i tribunali e le leggi avrebbero avuto bisogno d'una totale riforma, per guarentire la libertà civile, e la felicità delle persone loro commesse. Oggi è dimostrato che compromettesi la libertà, quando gli amministratori si trasformano in giudici, armandoli dell'autorità di castigare que' medesimi ch'essi incontrarono come antagonisti nelle politiche contese. Perciocchè il magistrato, chiamato frequentemente dalla sua carica a sostenere le parti di un capo di partito, ed a sposarne le passioni, viene investito del diritto di giudicare la parte avversaria, cioè quegli uomini che nella causa del popolo vollero mettere argine alle sue usurpazioni, ed opporsi alle sue ingiuste misure. Le repubbliche italiane non erano cadute affatto in quest'errore comune a tutte le altre. Il potere giudiziario vi si trovava abitualmente separato dall'amministrativo: la signoria, che si rifaceva ogni due mesi a sorte, scegliendosi tra i cittadini attivi, era incaricata della generale direzione degli affari, mentre alcuni giudici forestieri, assistiti da legisti pure forestieri, amministravano la giustizia civile e criminale. Ma perchè questa divisione del potere civile e giudiziario non lasciasse verun titolo di timore, avrebbe dovuto essere perfetta; sarebbe stato d'uopo che i magistrati fossero sempre obbligati di rimettere ai tribunali coloro che gli avevano offesi, e che in qualunque caso non fossero seduti essi medesimi in giudizio. Per lo contrario nelle repubbliche italiane, non escluse le meglio ordinate, si vide più volte la signoria momentaneamente riprendere il potere giudiziario, e mandare alla tortura o al patibolo coloro che avevano di fresco attentato alla sua autorità.
Non solamente i giudici non disponevano soli della vita, dell'onore, e delle sostanze de' cittadini; ma non erano pure costituiti in maniera di dare una bastante guarenzia delle loro parzialità o della loro umanità. Richiedeva la legge che fossero forestieri, perchè non isposassero nella repubblica verun partito; che non rimanessero molti anni in carica, onde non adottassero le passioni de' cittadini; finalmente che uscendo d'impiego andassero soggetti ad un sindacato intorno alla loro amministrazione, onde si guardassero dal lasciarsi corrompere coi regali. Ma la legge non aveva separato il giudizio del diritto da quello del fatto; non aveva chiamati i semplici cittadini, come presso i Romani e presso gl'Inglesi, a sentenziare sulla vita de' loro concittadini: non aveva posto ogni uomo sotto la guarenzia dell'interesse de' suoi eguali, nè avanti l'esecuzione di una sentenza capitale aveva richiesto il concorso di un tribunale popolare, che essenzialmente unisse la misericordia al rigore. Non esisteva veruna legge penale che moderasse le sentenze de' giudici, o che preventivamente illuminasse gl'imputati intorno alla loro sorte. Non era nè meno vietato ai podestà di ascoltare le voci della passione o della collera; e perchè giudicavano quasi sempre soli, non erano obbligati di esporre ai loro collega le circostanze della causa, a trattarla ad alta voce, a dare i motivi delle loro sentenze. I motivi e le ragioni che le avevano dettate chiudevansi nel più profondo di tutti i segreti, quello di un uomo colla sua propria coscienza.
La processura dava ancora minore guarenzia che la costituzione del tribunale, segreta era l'istruzione, ed il prevenuto, privo di consiglio nella sua prigione e di avvocato per difendersi, veniva abbandonato a tutte le conseguenze della sua debolezza, de' suoi terrori, della sua ignoranza, o della sua incapacità. La spaventosa processura cominciava colla tortura; e la legge non poneva verun limite ai tormenti co' quali potevasi stringere un accusato, come non aveva determinato quale indizj si richiedessero per esporlo a così barbara prova. Non pertanto le confessioni strappategli di bocca dall'atrocità de' dolori, venivano ritenute quali sufficienti prove contro di lui, e contro i supposti suoi complici. Finalmente la legge permetteva supplicj non meno spaventosi che quelli delle monarchie, e l'umanità veniva offesa non meno dalle esecuzioni che dalle processure.
In tal modo adunque, anche in tempo ordinario, la società non guarentiva l'onore, la vita, o le sostanze degli individui, co' suoi magistrati, co' suoi giudici, colle sue leggi. Ma nelle rivoluzioni, pur troppo frequenti, l'abuso di una pretesa giustizia diventava ancora più molesto. Allora i capi di un partito, facendosi investire di una illimitata autorità, sotto il nome di balìa, gastigavano in massa, senza informazione, senza processura, senza giudizio, tutti i membri del contrario partito, coll'esilio, colla confisca de' beni, spesso con capitale supplicio.
Non avevano gl'Italiani pensato giammai che lo stesso scopo della formazione della società prescrivesse confini alla sovrana autorità; essi non avevano veduto, che gli uomini non hanno potuto assoggettargli che le loro relazioni degli uni verso gli altri; ed essi avevano permesso ai governi di penetrare nell'interno dei loro pensieri, per dirigerne le opinioni e punirne i sentimenti. Tutte le repubbliche italiane eransi formate in seno alla cattolica religione, e questa religione, assoggettando, col mezzo della confessione, il pensiero al tribunale de' preti, gli spiriti si erano abituati a risguardare il segreto delle coscienze come dipendente dall'autorità. La persecuzione ed il castigo dell'eresia era una necessaria conseguenza della sommissione delle repubbliche alla Chiesa. Quella della magia era pure riservata ai preti; ed ammessa una volta la funesta opinione dell'azione degli uomini sulle potenze infernali, la magia dovette entrare nelle attribuzioni de' tribunali, poichè risguardavasi con un mezzo con cui un uomo poteva nuocere ai suoi simili. Ma non potevasi perseguitare questo delitto, che si commette senza testimonj nell'oscurità della notte, senza dar luogo alle più sospettose, più arbitrarie e più tiranniche processure.
Del resto non era soltanto allorchè trattavasi di perseguitare l'eresia o la magia, che i tribunali italiani credevano di avere diritto di scendere nel cuore dell'uomo e di punirne i moti segreti, ma si arrogavano il diritto di assoggettare alla pubblica vendetta ogni sentimento di scontentezza o di odio contro il governo; ne cercavano spesso gl'indizj in una parola, in un gesto, in un sospetto; e nelle circostanze di rivoluzione furono vedute le repubbliche adottare le usanze ed i principj de' principi assoluti, e punire coi supplicj, non già gli atti esteriori, ma il nascosto pensiero di cui erano l'indizio.
Se i governi italiani non si erano astenuti dal giudicare i sentimenti ed i pensieri, che non dipendono in verun modo dalla pubblica autorità, con più ragione non eransi fatto scrupolo di armare una metà de' cittadini contro l'altra, d'incoraggiarne molti ad esercitare l'infame mestiere di delatore, quando hanno con ciò potuto sperare di reprimere abitudini viziose o nocive, che si vorrebbero certamente sbandire da ogni ben regolata repubblica, ma che non si potrebbero castigare senza assoggettare tutti i cittadini ad una insopportabile inquisizione.
La bestemmia diventò uno de' principali oggetti della vigilanza de' magistrati, e venne sottomessa a tutta la severità dei tribunali stabiliti al solo oggetto di comprimerla. Soltanto in Ispagna ed in Italia s'incontra questa viziosa abitudine, affatto sconosciuta presso i popoli protestanti, e che non dobbiamo confondere con quei rozzi giuramenti che il popolo in tutti i paesi frammischia ai suoi discorsi. In tutti gli accessi di collera, i popoli meridionali se la prendono cogli oggetti del loro culto, li minacciano, e li caricano di parole ingiuriose alla stessa divinità, al Redentore o ai Santi. Trovansi tracce di tale scandalosa abitudine nel linguaggio e in alcuni modi proverbiali degli altri popoli, ma la volontà d'insultare la divinità con questa specie d'attacco non si poteva conservare che in un paese in cui la superstizione, sempre in guerra coll'incredulità, ha rimpiccioliti tutti gli oggetti del culto, e fattili scendere fino al livello degli uomini. La processura contro i bestemmiatori occupò in ogni tempo i tribunali d'Italia. Pure cotale delitto non lascia veruna traccia, e quegli stesso che lo ha commesso, il più delle volte se ne dimentica, i testimonj sono quasi sempre implicati nella contesa che vi diede motivo, ognuno tosto o tardi cade nello stesso errore, e la inquisizione del bestemmiatore, senza diminuirne l'abitudine, ha dato luogo alle più inique ed arbitrarie processure.
Molti altri delitti di pure parole vennero considerati come egualmente punibili; si videro più volte condannati a gravi pene, coloro che avevano con qualche motto cercato di coprire di ridicolo o di biasimo il governo, e coloro che nelle loro scritture avevano manifestate opinioni riprovate, non solo in fatto di religione e di politica, ma ancora in argomenti puramente filosofici. Si vide ancora, ma soltanto in alcune circostanze, altre viziose abitudini punite con severissime pene, le quali non potevano colpire i delinquenti che in conseguenza di un'inquisizione totalmente contraria ad ogni attuale idea di libertà. Ne' tempi in cui era in Firenze dominante la fazione de' piagnoni, si perseguitò il mal costume perfino nell'interno delle famiglie con segrete denuncie, sebbene la pubblica decenza ordinariamente soffra assai più da tali rivelazioni, che dall'abuso che si lascia sussistere. Il giuoco nell'interno delle case private, il lusso della mensa, degli abiti, degli equipaggi, furono risguardati come oggetti di pertinenza delle leggi, e tutte le abitudini dell'uomo privato vennero regolate con atti del sovrano potere.
Le varie prerogative che i popoli moderni considerarono quali guarenzie della sicurezza e della libertà de' cittadini, mai non si conobbero nelle repubbliche d'Italia. La nozione della libertà della stampa non erasi nemmeno presentata ai loro legislatori. Appena si trovano in tutta l'istoria dell'Italia due o tre esempi di scritture pubblicate intorno alle cose del governo, ed i loro autori avevano sempre avuta la precauzione di farle stampare in estero stato; ma non pertanto qualunque volta si poterono arrestare o l'autore o i distributori, questi furono sempre puniti con eccessiva severità. Nè il partito dell'opposizione, nè il partito governante non cercarono mai d'illuminare la pubblica opinione, e non si supponeva che le deliberazioni intorno agli affari della patria potessero uscire dalla sala de' suoi consigli. In contraccambio, dobbiamo pur dirlo, gli storici delle repubbliche, che prima dell'invenzione della stampa si appellavano non ai presenti tempi, ma alla posterità, diedero prova nelle loro scritture di grande coraggio e di rara imparzialità; e dal modo con cui in ogni occasione giudicano i loro compatriotti e magistrati, sempre si conosce la mano dell'uomo libero.
Il diritto di petizione non fu dagl'Italiani meglio conosciuto che quello della stampa: essi non altro avevano fatto che rimuovere dal proprio luogo l'assoluto potere, togliendolo dalle mani di un solo per affidarlo a molti. Essi non pensavano punto a limitarlo, e soprattutto a contenerlo per via della pubblica opinione. Ogni cittadino poteva, per vero dire, portare riclami all'autorità da cui immediatamente dipendeva; ma non poteva giammai, con una petizione, tradurre quest'autorità avanti ad un'altra incaricata di sindacarla; meno poi trasmutare il suo privato affare in un affare di stato, unendosi ai suoi concittadini per dare maggior peso alle proprie lagnanze. Nel primo caso sarebbe stato ammonito, come se avesse voluto confondere tutte le podestà e l'ordine stabilito; nel secondo sarebbe stato severamente punito, come tendente alla ribellione.
Ma ciò che può sembrare strano, si è che la libertà stessa della disputa ne' consigli non era altrimenti assicurata. Pure questa è la sola cosa che possa garantire l'esercizio de' diritti della sovranità, dei quali gli antichi repubblicani erano altrettanto gelosi, quanto lo erano poco della sicurezza individuale.
I consiglj di una repubblica sono chiamati intorno ad ogni affare a due distinte operazioni, cioè deliberare ed emettere il voto; lo che risponde a quelle della disputa, poi del giudizio ne' tribunali. Gl'Italiani avevano quasi totalmente trascurata la prima; essi non davano nè guarenzia, nè solennità alla disputa; pareva che non si prendessero cura che i consiglieri s'illuminassero gli uni gli altri colle loro opinioni, e riducevano tutto lo studio loro a rendere con un profondo segreto liberi i suffragi. Ne' consigli parlavasi assai poco. Il primo magistrato ne faceva talvolta l'apertura con un discorso di etichetta, che imparava a memoria, o che leggeva; talvolta ancora qualche giovane oratore figuravasi d'imitare gli antichi, pronunciando un ampolloso sermone, che veniva piuttosto risguardato come un pezzo accademico, che come un mezzo di persuadere; talvolta alla proposizione fatta dal magistrato teneva dietro una tumultuaria conversazione in ogni panca; ma d'ordinario si passava subito ai suffragi con un profondo silenzio. A Firenze, ogni consigliere per dare il suo voto, riceveva fave bianche e nere; a Venezia pallette di legno; e le urne eran distribuite in modo che il votante poteva porvi la mano, senza far conoscere in quale senso avesse votato. In appresso si contavano i suffragj, la di cui semplice maggiorità non bastava giammai per dare forza di legge ad una proposizione. Il più delle volte, perchè si potesse, giusta l'espressione legale, vincere il partito, rendevasi necessario di riunire i tre quarti de' suffragj di cadauno de' diversi corpi che trovavansi adunati nella stessa sala per emettere i voti separatamente; a Firenze, per modo d'esempio, dei priori di buoni uomini, e dei gonfalonieri di compagnia. Se in taluno di questi tre corpi il quarto soltanto dei membri aveva poste nell'urna delle fave bianche, la legge veniva rigettata.
Affinchè i consiglj siano veramente liberi, è necessario che la minorità abbia tutta la libertà di far udire le sue ragioni, di discutere ampiamente la sua causa, e di rappresentarla sotto tutti gli aspetti; ma non è meno essenziale di far prendere tutte le decisioni colla sola maggiorità de' suffragj, onde il piccolo numero, tra consiglieri tutti eguali, e che hanno tutti la medesima missione, non imponga al maggior numero. Gl'Italiani astanti non avevano conosciuti questi due principj; avevano circondato da tanti pericoli l'uso della parola, avevano giudicate con tanta severità le aringhe che pronunciavansi innanzi ai consiglj, avevano assoggettati gli oratori a così pesante risponsabilità, tanto per mezzo di un pubblico biasimo, che per clamorosi gastighi, per qualunque poco misurata frase fosse sfuggita di bocca all'oratore nel calore della disputa, che niuno osava entrare in disamina: e non si era coltivata la sola eloquenza popolare, quella di parlare improvvisamente, perchè la minorità non aveva giammai occasione di motivare la sua opposizione, di cercare di persuadere i suoi avversarj, e di trattare apertamente la propria causa. Ma mentre tutti opinavano con timore, una taciturna minorità contrariava co' suoi segreti suffragj le operazioni del governo, e faceva rigettare una proposizione, contro la quale niuno aveva ardito di muovere obbiezioni.
Questa taciturna opposizione, eccitando un profondo risentimento, fu spesso cagione della più scandalosa violazione della libertà dei suffragj. A Firenze si vide più volte la signoria far ricominciare replicatamente l'operazione dello scrutinio, perchè non si era potuto vincere il partito. Fu veduta minacciare coloro che darebbero la fava bianca, e fu pure veduta in qualche circostanza far cadere sopra di loro le più acerbe pene. Ora di qual uso potevano essere i consiglj, se i consiglieri non avevano libertà? E quando una costituzione vuole che i suffragj riuniti de' magistrati possano esprimere soli una volontà sovrana, qual è la superiore autorità che possa prescrivere in quale senso debba manifestarsi questa volontà? Così addiviene che un primo errore nella legislazione ne produca degli altri; così dopo di avere imprudentemente dato ne' consiglj alla minorità il potere di legare la maggiorità, si fu poi costretto più volte a dovere permettere, che l'assenso di questa minorità si ottenesse colla violenza.
Dopo di avere brevemente esaminati tutti i diritti che nell'età presente ci sembrano i più preziosi, e dopo avere osservato che sul conto loro le leggi protettrici non erano migliori nelle repubbliche italiane che nelle monarchie, o che anzi erano assolutamente le medesime, e permettevano che tutti questi diritti fossero in certe occasioni compressi o annullati, si accresce la nostra maraviglia nel contemplare i miracolosi effetti dello spirito repubblicano; e ci andiamo ancora interpellando in qual cosa consistesse adunque quella libertà, che poteva stare insieme alla più crudele tirannia; quella libertà, che veniva difesa con così eroici sforzi, la di cui privazione eccitava così amare lagrime, e che i popoli non perdevano senza perdere ad un tempo la loro prosperità, la loro gloria, i loro talenti e le loro virtù.
Ma d'uopo è ricordarsi che nelle repubbliche i medesimi uomini si presentano sotto un doppio aspetto e con un doppio carattere; prima come governati, poi come governanti. Oggi per valutare la libertà, cerchiamo in che consista pei governati; fino al nostro secolo per lo contrario si cercava in che consistesse pei governanti; e questa attiva libertà, questa libertà tutta composta di prerogative sovrane, che al primo colpo d'occhio sembra dover contribuire molto meno che non la sicurezza individuale alla prosperità dei cittadini, trovasi per lo contrario avere per essi un incanto che nulla pareggia. Dessa è una bevanda inebriante, è il nettare degli Dei: quando un mortale ha potuto gustarla un sola volta, sdegna ogni umano nutrimento: ma inoltre trova in sè medesimo nuove forze, ed una nuova virtù; la sua natura è del tutto cambiata; e sedendo a quella mensa, egli sente che si pareggia agl'immortali.
Alcuni fondamentali assiomi possono rappresentare tutto il sistema della libertà degli antichi tempi; sono questi l'espressione de' diritti politici della nazione considerata in corpo, e non di quelli dei singoli individui nelle loro relazioni colla nazione. Verun'altra repubblica non professò forse così apertamente, nè più religiosamente osservò questi assiomi, quanto quelle d'Italia ne' secoli di mezzo.
Ogni autorità esercitata sopra il popolo è emanata dal popolo. Questo primo assioma de' popoli liberi era risguardato come fondamentale in tutte le repubbliche italiane. La sovranità vi era sempre rappresentata come appartenente al popolo o al comune; i suoi capi temporarj non prendevano che il titolo di anziani, signori, priori del popolo o del comune. Il governo non veniva mai rinnovato senza invocare la sovranità del popolo: così a Firenze era sempre in di lui nome che trasmettevasi, per mezzo de' suffragj del parlamento, ad una nuova balìa un'autorità eguale a quella di tutto il popolo fiorentino. Si dirà forse che questa non era che una frase vuota di senso, e che i vocaboli non sono privilegj; ma questi vocaboli non erano nè senza effetto, nè senza conseguenze; inspiravano ad ogni cittadino un'alta opinione della sua dignità; lo trattenevano, qualunque volta potev'essere tentato di commettere una bassa o indecente azione; conciliavano al cittadino nella privata sua condizione i riguardi ed anche il rispetto di coloro che trovavansi momentaneamente constituiti in dignità; perciocchè sapevano i capi del popolo, che tutta la loro autorità procedeva da coloro che temporariamente ubbidivano, e che ella ritornerebbe ai medesimi; per ultimo, questi stessi vocaboli di sovranità del popolo, rendevano la patria cara a tutti i suoi figli; ognuno sapeva che lo stato gli apparteneva in quel modo ch'egli medesimo apparteneva allo stato; ognuno era pronto a tutto arrischiare, per salvare la cosa più onorata e più preziosa da lui posseduta, cioè la sua parte nella sovranità; ognuno conosceva i doveri che gli erano imposti da così luminosa prerogativa, da così sacro carattere; ognuno era disposto a rendersene degno, anche, se bisognava, col sagrificio della vita.
L'autorità dei mandatarj del popolo ritorna al popolo dopo un determinato tempo; niuno de' mandati del popolo è irrevocabile. Questo secondo assioma dei repubblicani italiani loro sembrava, più che ogni altra cosa, essere il fondamento della loro libertà, e l'essenza delle loro repubbliche; perciò non ammisero giammai nè autorità, nè magistrature ereditarie, tranne la prerogativa di cittadino. Ed ancora quando queste repubbliche degenerarono più tardi in aristocrazie o in istrettissime oligarchie, non fu per questo abbandonato il principio fondamentale dell'amovibilità di tutte le magistrature. Non furono già i diritti delegati dal popolo, che vennero dati a vita, o renduti ereditarj, ma i diritti del popolo medesimo che si trovarono concentrati in un ristrettissimo numero di famiglie, dopo che si erano spente tutte le altre. La nuova nobiltà non era che la rappresentazione degli antichi popolani; e perciò che risguarda l'antica nobiltà, gl'Italiani, lungi dal tenere questo titolo come un diritto esclusivo a governare, non le perdonavano neppure l'impero ch'essa esercitava sull'opinione in onta alle leggi; così spesso esclusero da ogni pubblico impiego i grandi, renduti troppo formidabili dalle loro ricchezze e da' loro clienti nelle campagne.
La repubblica di Venezia era la sola in cui si vedesse un magistrato, anzi lo stesso capo dello stato, eletto a vita: e per molti rispetti Venezia poteva considerarsi come una monarchia elettiva; la sua costituzione, assai più antica che tutte le altre, ne aveva fatto da principio un ducato; ma col lungo volgere de' secoli si erano sempre andate diminuendo le prerogative del doge per darle alla repubblica. Una sola volta si volle anche in Firenze creare un gonfaloniere perpetuo; ma si era preventivamente indicata l'autorità che potrebbe deporlo, ed effettivamente venne deposto dopo dieci anni. In queste due repubbliche, siccome in tutte le altre, la durata delle funzioni di tutti i magistrati era temporaria.
Per altro coll'andare del tempo quasi tutte le repubbliche italiane ebbero un capo discendente da una famiglia favorita da' voti del popolo; ma la costituzione non riconosceva in questo capo verun potere ereditario. La confidenza del popolo trasmetteva al figlio di un Medici, di un Bentivoglio o di un Baglioni, l'autorità esercitata da suo padre; ma tale autorità era rivocabile tosto che cessava la confidenza del popolo; e verun cittadino, per potente che si fosse, non era supposto avere diritti indipendenti da quelli della repubblica.
Rispetto alle magistrature, non solo il mandato del popolo in virtù del quale si esercivano, era rivocabile, ma era limitato da brevissimo termine. La suprema autorità nello stato era poche volte confidata per più di due mesi; in ragione della minore importanza dell'impiego, se ne protraeva alquanto più la durata; non pertanto, ad eccezione di Venezia, non eravi pubblica carica che continuasse più di un anno.
L'esistenza di facoltà irrevocabili in una repubblica implica una specie di contraddizione. Come può mai supporsi che il popolo, dal quale emana l'autorità, dichiari a' suoi mandatarj che gli autorizza a conservarla, sia che ne facciano abuso o no, sia che giustifichino le speranze dei loro committenti, o sia che si mostrino indegni della loro confidenza; sia che l'avanzamento dell'età li renda più atti alle funzioni che esercitano, o sia che li renda incapaci di adempirle? Quindi l'amovibilità di tutte le cariche è in qualche modo la guarenzia della costante attività di coloro che le occupano, e de' continui loro sforzi per rendersene degni. Ma questo principio era probabilmente stato spinto troppo in là nelle repubbliche italiane, ed i loro legislatori avevano dimenticato, che, se importa assai che i magistrati non rimangano troppo a lungo in carica, affinchè non diventino meno attivi, importa egualmente che il loro regno non sia circoscritto a troppo pochi giorni, affinchè lo stato non abbia a soffrire dal tirocinio incessantemente ripetuto dei nuovi eletti.
Finalmente, chiunque esercita un'autorità emanata dal popolo è risponsabile verso il popolo dell'uso che ne fa. Era precisamente per dare a quest'ultima massima una più illimitata applicazione, che si era circoscritta a così breve tempo la durata di tutte le magistrature. In alcune affatto moderne costituzioni, si è trovato il modo di far pesare la risponsabilità sui ministri, anche in mezzo alle loro funzioni, senza attaccare l'autorità da cui emana il loro potere. Nelle repubbliche, tranne il caso di rivoluzione, la risponsabilità non viene esercitata sui magistrati, che dopo la cessazione delle loro funzioni. Nell'uno e nell'altro sistema, l'effetto è sempre il medesimo: lo stato non ha giammai bisogno di affrettare il supplicio di alcuni grandi colpevoli; non corre nessun rischio, aspettando ch'escano di carica; ma bensì ha bisogno d'inspirare a tutti i depositarj del potere un timore salutare; di far loro sentire che, per quanto grandi si figurino di essere, per quanto sembrino indipendenti le loro funzioni, giugnerà sempre l'istante in cui si troveranno deboli in faccia ad altri più potenti di loro; in cui dovranno rendere conto della loro gestione a chi avrà diritto di chiederlo, ed in cui non rimarrà impunito verun abuso del potere, veruna violazione delle leggi o della libertà del popolo, veruna malversazione.
La distinzione tra la responsabilità del ministero inglese, che si esercita quando il ministro è ancora in funzione, e la responsabilità repubblicana che non comincia che quando il magistrato è tornato semplice cittadino, è più apparente che reale. Non avvi alcun ministero inglese che non possa, col mezzo di arti ben note, o almeno collo scioglimento del parlamento, ritardare per un anno intero la prova della sua responsabilità. Ma nel corso di un anno i primi magistrati della repubblica fiorentina avevano sei volte deposto il bastone del comando, sei volte altri nuovi signori, rientrati nel grado di semplici cittadini, si erano trovati soggetti al giudizio di coloro che potevano chieder conto della loro amministrazione.
Per vie meglio accertare la responsabilità di tutti gli uomini rivestiti di qualche potere, tutte le costituzioni repubblicane d'Italia avevano leggi analoghe al divieto ed al sindicato de' Fiorentini. Il divieto era un forzato riposo cui erano ridotti i magistrati quando uscivano di carica. Dovevano essi astenersi dalle magistrature per lo meno tanto tempo, quanto era stato quello delle loro funzioni, e spesso ancora per un tempo molto più lungo: rientravano allora nell'eguaglianza repubblicana; trovavansi allora soggetti, come tutti gli altri particolari, all'impero delle leggi, all'autorità di coloro cui avevano precedentemente comandato, all'azione dei tribunali, che loro potevano chiedere conto della condotta che avevano tenuta. Il sindicato era una disamina politica, che teneva dietro alla cessazione dell'impiego di tutti coloro che avevano avuto parte in un'amministrazione di danaro, o nell'autorità giudiziaria; per costoro la responsabilità non era soltanto eventuale, ma necessaria; dovevano purgarsi da ogni sospetto intorno alla passata loro amministrazione, entro quel determinato numero di giorni che seguiva immediatamente la cessazione delle loro funzioni.
Tutto il sistema della libertà italiana può risguardarsi come rappresentato da questi tre assiomi; e secondo lo spirito de' secoli passati, se si applica ai vocaboli il loro primitivo significato, non quello che si è loro dato ne' moderni tempi, le costituzioni che sono fondate su questi tre principj erano realmente le più libere di tutte. Infatti le repubbliche italiane erano più libere che tutte quelle della Germania, che le città imperiali ed anseatiche, che i Cantoni svizzeri, che le corporazioni delle Province unite, e forse ancora più che le repubbliche dell'antichità. Sì le une che le altre non si erano proposte lo scopo di proteggere i cittadini contro il governo, ma di creare un governo, che compiutamente rappresentasse il popolo, e che fosse in qualche maniera identico con lui; sì le une come le altre dopo di averlo costituito, eransi astenute con una cieca ed illimitata confidenza dal porre limiti all'esercizio del suo potere.
Ma le costituzioni italiane facevano derivare tutti i poteri dal popolo, e li facevano tutti risolvere nella sovranità del popolo, ben più che quelle di origine tedesca. Conoscevano esse più esplicitamente questa sovranità; esse stabilivano un'amovibilità di tutti gl'impieghi più universale, ed una rotazione più rapida; ed assicuravano assai meglio la responsabilità de' pubblici funzionarj. La costituzione di Ginevra era forse la più perfetta, e la più libera delle costituzioni svizzere: a Ginevra, i sindaci, primi magistrati dello stato, duravano un anno, ma non erano che i presidenti di un consiglio esecutivo eletto a vita; gli ordini da loro dati si confondevano con quelli di questo consiglio, e il sindaco non era chiamato a veruna responsabilità. Gli avvieri a Berna, i borgomastri a Zurigo, i landamanni negli altri cantoni, trovavansi nella medesima relazione tra un consiglio inamovibile ed il popolo. Uscendo di carica dopo un anno, essi restavano sempre membri di questo consiglio, che non solo aveva concorso a tutte le loro misure, e perciò risguardavasi obbligato a difenderli, ma che era inoltre depositario di tutta l'autorità giudiziaria dello stato, che solo aveva il diritto di condannare il magistrato colpevole, e che in favor suo e contro al popolo si trovava nello stesso tempo e giudice e parte. Tutti i magistrati romani, lasciando le loro funzioni, rientravano egualmente nel senato, e se dovevano riconoscere un altro giudice fuori del senato, erano almeno sempre protetti da questo corpo potente.
Per lo contrario un gonfaloniere ed un priore di Firenze, di Lucca, di Siena, di Bologna, o di Perugia, non solo più non era in carica dopo due mesi, ma dopo un anno più non trovava nella repubblica un corpo che fosse ancora composto dei medesimi individui che formavano il detto corpo al tempo della sua amministrazione. Il collegio de' gonfalonieri, quello de' buoni uomini, il consiglio comune, quello del popolo, tutto era stato rinnovato; niuno di loro prendeva interesse pel magistrato tratto in giudizio, niuno aveva avuto parte ne' di lui atti arbitrarj, e non si adoperava per sottrarlo dalle mani della giustizia. Dopo spirate le sue funzioni, il primo magistrato della repubblica più non era in faccia alla legge che un semplice cittadino.
La responsabilità de' magistrati, la dignità de' cittadini, l'emulazione di tutte le classi della nazione, devono essere considerate come i veri principj della libertà italiana, e le vere cagioni della prosperità degli stati repubblicani. Questo è ciò che veramente li distingue dagli assoluti principati che esistevano contemporaneamente in Italia; ed infatti se si esaminano i necessarj risultamenti di questi principj, si vedrà che devono produrre nelle repubbliche una gran massa di felicità e più ancora una gran massa di virtù.
E prima, sebbene l'insieme delle garanzie, che noi risguardiamo oggi come costituenti l'essenza della libertà, non fosse stata ricercata dal legislatore, nè riclamata dal cittadino, pure questa civile libertà, questa sicurezza di ogni individuo, non può essere violata senza cagionare un male comune. Quindi ogni magistrato, che sentivasi risponsabile di qualunque atto d'oppressione, di severità, o d'ingiustizia, sentivasi trattenuto, quando le sue passioni avrebbero potuto strascinarlo, da un sentimento di timore che non era ragionato.
Il giudice forastiero non riceveva altra istruzione che quella che gli era data negli assoluti principati; egli poteva a voglia sua impiegare a Firenze, come a Milano o a Napoli, le più crudeli torture per iscuoprire i delitti, i più spaventosi supplicj per punirli. Ma a Firenze la sua autorità spirava dopo un anno, ed in allora la sua condotta veniva esaminata da persone da lui indipendenti, che non erano a lui legate da alcun partito, e che per lo contrario, siccome quelle che battevano la carriera de' pubblici impieghi, avevano bisogno del pubblico favore. Se esso giudice aveva esercitate non necessarie crudeltà, se aveva contro di sè stesso provocato l'odio del pubblico, non poteva in verun modo sottrarsi al giudizio del sindicato.
I primi magistrati, senza essere i giudici abituali della repubblica, potevano qualche volta occupare il potere giudiziario; potevano esercitare un giudizio statario contro i loro nemici o contro i loro emuli; potevano violentare gli stessi consiglj; potevano punire non le sole azioni, ma le scritture, le parole, e perfino i pensieri; ma dopo due mesi altri priori, scelti dal popolo tra una grande moltitudine di eleggibili, dovevano essere rivestiti di tutta quell'autorità che i primi avevano deposta. Questi nuovi priori potevano essere gli amici, i parenti, i fratelli di coloro ch'erano stati vessati, e potevano vendicarsi colle medesime armi. La costituzione della repubblica ripeteva sempre ad ogni uomo in carica questa massima del Vangelo: Non giudicate, e non sarete giudicati.
Finalmente non era stabilito verun limite alla manìa de' regolamenti: la legge poteva colpire il cittadino in una quantità di particolari, che non dovrebbero essere di sua competenza; ma tutti coloro che concorrevano a fare questa legge, non ignoravano che altri e non essi avrebbero l'incarico di farla eseguire, e che entro poche settimane, o tutt'al più entro pochi mesi, vi sarebbero ancor essi subordinati come gli ultimi de' loro concittadini. Quindi sebbene la civile libertà, quale l'intendiamo nella presente età, non fosse nè conosciuta, nè definita, sebbene non avesse alcuna delle guarenzie credute più necessarie, dessa era assai meglio rispettata nelle repubbliche italiane che in verun altro stato dell'Europa; ogni cittadino si credeva sicuro in vita del godimento della sua sostanza e del suo onore; non temeva che arbitrarie restrizioni fossero imposte alla sua industria; ogni sua facoltà aveva un libero sfogo; tutte le vie che conducono alla fortuna erano aperte alla sua attività, ai suoi talenti: e la fiducia nella propria sicurezza si faceva maggiore, quando confrontava la protezione che gli dava la repubblica col continuo stato di timore e di dipendenza in cui vivevano i sudditi dei vicini principi.
Pure la forma repubblicana e quasi democratica del governo contribuiva meno alla sicurezza del cittadino, che ai progressi della sua virtù ed all'intero perfezionamento della sua anima. Considerando la libertà come noi facciamo, pare che si faccia consistere la felicità nel riposo; gli antichi la riponevano invece in una costante attività; il desiderio del cittadino non era in allora quello di dormire in pace in casa sua, ma di distinguersi con singolari talenti sulla pubblica piazza, ne' consiglj, e nelle magistrature, cui chiamavalo la sorte a vicenda; voleva conseguire da sè medesimo tuttociò che la natura gli aveva permesso di ottenere, compiere con un pubblico corso la sua educazione come uomo fatto, e trasmettere a' suoi figli, come eredità, la gloria che avrebbe acquistata.
Quest'emulazione, che non esiste nei governi dispotici, che ne' moderni governi rappresentativi è l'appannaggio soltanto di un piccolo numero di persone, nelle repubbliche italiane era comune all'intera massa del popolo. La rapidità con cui si rinnovavano tutte le magistrature, tutti i consiglj, chiamava a vicenda in brevissimo spazio di tempo tutti i cittadini ad esercitare la propria influenza sulla repubblica. Non eravi un solo individuo, il quale per soddisfare ai doveri cui sarebbe bentosto chiamato, non dovesse fissare la sua opinione sull'esterna politica di tutta l'Europa, su quella che si confaceva alla sua patria, sulle finanze, sull'amministrazione, sulla legislazione e la giustizia; non eravi un solo individuo che non dovesse agire dietro questa propria opinione, che non potesse essere chiamato a renderne ragione, e che in appresso non si trovasse risponsabile di ciò che dessa gli avrebbe fatto fare.
Se dobbiamo risguardare come il migliore de' governi quello che procura a tutti i cittadini maggiori godimenti e felicità, sarà giusto di tener conto del continuo divertimento di una nazione; poichè, a non dubitarne, il governo che le procura quest'aggradevole occupazione dello spirito, contribuisce assai più alla sua felicità, che quello che le procurerebbe tutti i piaceri fisici. Sotto questo punto di vista non si può dubitare che una nazione, i di cui cittadini tutti hanno lo spirito sempre svegliato, sempre occupato, e rinnovato da idee variate, profonde, ed ingegnose, non trovi in questo solo esercizio un continuo piacere; piacere che non potrebbero farle gustare nè le meccaniche occupazioni cui sarebbero soltanto addette tutte le classi inferiori se non fossero libere, nè i grossolani sollievi che le offrirebbero i diletti de' sensi dopo il lavoro. Non eravi minore diversità tra i piaceri cui poteva aspirare un cittadino fiorentino, e quelli cui doveva limitarsi un gentiluomo napolitano, di quella che può esservi tra i piaceri del filosofo o del letterato, e quelli dell'operajo. La felicità e la sventura sono proprie di tutte le umane condizioni, e forse la loro somma è abbastanza egualmente compensata; ma la felicità dell'uomo che ha coltivato il suo spirito ed il suo cuore e sviluppate tutte le sue facoltà, è più conforme alla dignità della nostra natura, ed in pari tempo più nobile e più dolce: e quando si è gustata una sola volta, più non si vorrebbe farne cambio con quella che è frutto soltanto del riposo e dei materiali piaceri.
Pure non è il divertimento, parte così essenziale della felicità, non è la felicità medesima, che debbano essere lo scopo della nostra vita, o quello del governo; ma sibbene il perfezionamento dell'uomo. Spetta al governo il dare compimento alla destinazione che l'umana natura ha ricevuta dalla provvidenza; e può credersi che abbia conseguito il suo scopo, quel governo che quando ha proporzionalmente sollevato un maggior numero di cittadini alla più alta dignità morale di cui sia suscettibile l'umana natura. Ora, nella storia del mondo intero, forse nulla ci dà l'idea di una maggiore propagazione di lumi, di ragionevolezza, di cognizioni politiche morali ed amministrative, di coraggio civile, di prontezza e giustezza di spirito, quanto lo spettacolo che presenta Firenze, quando, fra ottantamila abitanti che conteneva questa città, due in tre mila cittadini occupavano con un rapido giro tutte le principali cariche dello stato, e dirigevano il loro governo con tanta saviezza, con tanta dignità, con tanta fermezza, che gli davano, tra gli stati dell'Europa, un posto infinitamente superiore alla misura della sua popolazione e delle sue ricchezze. La signoria, rinnovata dalla sorte ogni due mesi, sopra una lista composta di mercanti e di artigiani chiamati ad entrare sei volte all'anno ne' segreti della politica, dava ai consiglj de' re ed ai senati delle aristocrazie lezioni di prudenza e di giustizia, che questi sarebbero stati felici di poter seguire.
Il più potente mezzo d'incoraggiare i progressi dello spirito, è senza dubbio quello di far gustare i piaceri ch'essi procurano. Niuno di coloro che potevano associare alle domestiche loro occupazioni, ai loro meccanici lavori, le alte meditazioni che richiede l'esercizio della sovranità, si privava di questo piacere: perciò quanto la posterità di questi medesimi uomini è notabile per la sua non curanza intorno a tutto ciò che trovasi fuori della ristrettissima periferia de' suoi interessi del giorno, altrettanto i repubblicani fiorentini erano animati da una insaziabile avidità d'imparare. Non eravi veruna cognizione, per quanto lontana fosse dal domestico loro stato, che non potesse trovare la sua applicazione nella pratica del governo. Giammai l'oscurità della loro condizione rendeva impossibile che la loro patria facesse uso delle loro cognizioni; e se in allora facevasi manifesta la loro ignoranza, essi venivano messi in ridicolo, o svergognati dai loro concittadini.
Mentre che il punto d'onore ed il timore del biasimo gli spingevano costantemente verso la scienza, verso la virtù, e verso il morale sviluppo di tutte le loro facoltà; l'insieme della loro esistenza era pubblico: e soltanto coll'acquistare la stima de' loro concittadini, potevano altresì sperare di ottenerne i suffragj. Qualunque volta si procedeva ad uno scrutinio generale e si rinnovavano tutte le borse della signoria, non era un solo cittadino nello stato la di cui pubblica o privata condotta, le di cui virtù ed i politici talenti, le di cui maniere, la di cui capacità non diventassero oggetto dell'osservazione di tutti. Una certa quale censura era in allora esercitata dalla pubblica opinione sul complesso della vita d'ogni membro dello stato; e non eravi alcun uomo, nel quale il timore del biasimo o la speranza degli onori, non risvegliassero que' virtuosi sentimenti, che senza questo stimolo sarebbero facilmente rimasti assopiti nel fondo del suo cuore.
Tale era il sistema dell'antica libertà, ed in particolare della libertà italiana; sistema tanto diverso da quello adottato ai nostri giorni, che appena coloro che tengono dietro al primo possono intendere l'altro. Noi siamo oggi arrivati ad una dottrina più filosofica intorno all'essenza del governo, a principj più applicabili ad ogni specie di costituzione. Ma sebbene il sistema degli antichi fosse affatto diverso dal nostro, sebbene non desse le molte guarenzie che noi a tutta ragione risguardiamo come essenziali alla sicurezza de' cittadini, conteneva però il germe di più grandi cose, e doveva produrre degli uomini che i nostri governi meglio costituiti forse non produrranno giammai. La libertà degli antichi, siccome la loro filosofia, aveva per iscopo la virtù; la libertà de' moderni, siccome la loro filosofia, non si propone che la felicità.
La migliore lezione che possa ricavarsi dal confronto di questi sistemi, sarebbe d'imparare a combinarli assieme. Invece di escludersi a vicenda, essi sono fatti per darsi vicendevolmente la mano. Una delle specie di libertà pare sempre essere la più breve via e la più sicura per giugnere all'altra. Oramai il legislatore più non deve perdere di vista la sicurezza de' cittadini, e le guarenzie che i moderni hanno ridotte in sistema; ma deve altresì ricordarsi che d'uopo è cercare il maggiore sviluppo morale. La sua opera non è compiuta, quando è giunto a rendere il popolo solamente tranquillo: e quando ancora questo popolo è contento, e felice, può rimanere ciò nulla meno qualche cosa da farsi al legislatore, perchè il suo assunto lo obbliga a terminare la morale educazione dei cittadini. Moltiplicando i loro diritti, chiamandoli a parte della sovranità, accrescendo il loro interessamento per la cosa pubblica, loro insegnerà a conoscere i proprj doveri, ed instillerà loro in pari tempo il desiderio e la facoltà di adempierli.
CAPITOLO CXXVII.
Quali sono le cause che mutarono il carattere degl'Italiani dopo essere state ridotte in servitù le loro repubbliche.
Nel leggere la storia degl'Italiani del quindicesimo e sedicesimo secolo, trovando ad ogni tratto nomi di famiglie, di città, di villaggi tuttavia esistenti, trovando che il linguaggio non è mutato, che la natura è ancora la medesima, rapportiamo sempre, involontariamente e per così dire senz'avvedercene, ciò che conosciamo de' moderni Italiani a quelli di cui studiamo le azioni; suppliamo per mezzo del confronto a ciò che manca nel quadro istorico, e ci persuadiamo di esserci formata un'idea tanto più esatta de' tempi passati, quanto meglio conosciamo i tempi attuali. Pure questo stesso confronto risveglia una certa quale incredulità che costantemente accompagna il lettore; la di lui diffidenza sta sempre in guardia contro tutte le narrazioni di cose grandi ed eroiche, ed il severo giudizio che diedero le altre nazioni intorno ai moderni Italiani, viene dal pregiudizio esteso fino a coloro, ai quali deve l'Europa il rinnovamento della civilizzazione.
E per ispirare confidenza nelle antiche virtù, e per ottenere indulgenza a favore dei deboli moderni, è conveniente e giusto di mostrare per quali potenti cagioni si mutò il carattere degl'Italiani; in qual modo dalla prima infanzia fino all'estrema vecchiaja si fanno loro bevere corrompitori veleni; con quanta cura venne distrutta la loro energia, la loro vivacità condannata all'ozio, umiliata la loro fierezza, e corrotta la loro sincerità. Una profonda compassione per una nazione così riccamente dotata dalla natura, così crudelmente depravata dagli uomini, dev'essere il risultato di quest'esame. Rimontando all'esterna cagione che innestò in essa tutti questi difetti, si rimane facilmente convinto, che non sono inerenti alla di lei natura; e si è più disposto a saperle buon grado di tutte le qualità che tuttavia le rimangono, e di tutte le virtù che potè sottrarre alla perniciosa influenza sotto la quale viene educata. Fra quanti vizj noi osserveremo nelle istituzioni della moderna Italia, non avvene un solo che non faccia in certo modo l'apologia degl'Italiani.
Il sole dell'Italia non è meno caldo, nè la terra meno fertile, che per lo innanzi; le svariate viste degli Appennini sono egualmente ridenti, i suoi fianchi egualmente sparsi di abbondanti acque, egualmente coperti da una rigogliosa e magnifica vegetazione. Tutti gli animali, indivisibili compagni dell'uomo, conservano la pristina loro bellezza, e le loro abitudini; l'uomo stesso, nascendo in questa terra tanto favorita dal cielo, riceve ancora la stessa vivace e pronta immaginazione, la stessa suscettibilità di passionate impressioni, la stessa attitudine di spirito per colpir tutto, per imparar tutto nello stesso tempo. Pure il solo uomo è mutato, perchè l'organizzazione sociale lo riceve dalle mani della natura e lo modifica, la sua potenza lo investe nello stesso tempo da ogni lato, e le quattro istituzioni che hanno un'influenza più universalmente estesa, la religione, l'educazione, la legislazione ed il punto d'onore, si combinano per agire contemporaneamente sopra tutti gli abitanti.
Di tutte le forze morali cui l'uomo va soggetto, quella che può fargli maggior bene o maggior male, è la religione. Tutte le opinioni che si riferiscono ad interessi superiori a quelli di questo mondo, tutte le credenze, tutte le sette esercitano sui sensi morali e sul carattere umano una prodigiosa influenza. Niuna per altro penetra più avanti nel cuore dell'uomo quanto la religione cattolica, perchè niun'altra è così gagliardamente costituita, niuna si è così compiutamente assoggettata la filosofia morale, niuna ridusse in più stretta servitù le coscienze, niuna instituì, com'essa fece, il tribunale della confessione, che riduce tutti i credenti nella più assoluta dipendenza del suo clero, niuna ha ministri più indipendenti da ogni spirito di famiglia, e perciò più intimamente uniti dall'interesse e dallo spirito di corporazione.
L'unità della fede, che non può essere che il risultamento di un'assoluta servitù della ragione alla credenza, e che conseguentemente non trovasi presso verun'altra religione in così eminente grado come nella cattolica, obbliga tutti i membri di questa chiesa a ricevere i medesimi dommi, ad assoggettarsi alle stesse decisioni, ad uniformarsi a' medesimi insegnamenti. Non pertanto l'influenza della religione cattolica non è eguale in tutt'i tempi ed in tutti i luoghi; ella operò diversamente assai in Francia ed in Germania, da quello che fece in Italia e nella Spagna; anche la di lei influenza non fu pure sempre uniforme in questi ultimi paesi; ella variò press'a poco all'epoca del regno di Carlo V, che corrisponde, rispetto all'Italia, alla distruzione delle repubbliche de' secoli di mezzo. Le osservazioni che saremo chiamati a fare intorno alla religione dell'Italia, o della Spagna, ne' tre ultimi secoli, non devonsi applicare a tutta la chiesa cattolica[367].
Siamo qui ridotti ad accennare soltanto la rivoluzione che si operò nella chiesa romana verso la metà del sedicesimo secolo: perchè abbisognerebbero discussioni troppo lunghe ed estranee al nostro soggetto, per farne tutta comprendere l'estensione. I papi Paolo IV, Pio IV, Pio V, e Gregorio XIII, furono quelli che operarono tale rivoluzione; il loro spirito persecutore cambiò del tutto lo spirito della corte di Roma e quello della chiesa italiana; e nello stesso tempo il concilio di Trento sostituì la più gagliarda e più imponente organizzazione al legame spesso rilasciato che univa i principi della Chiesa colla numerosa loro milizia. Fino a quell'epoca, avevano i papi contratta una specie d'alleanza coi popoli contro i sovrani; non avevano fatte conquiste che a danno de' re; dovevano il loro innalzamento e tutti i loro mezzi di resistenza al potere dello spirito opposto alla forza brutale, e più ancora per politica che per gratitudine si erano creduti obbligati di sviluppare questo potere dello spirito. Essi avevano fatto nascere, essi dirigevano, e chiamavano in loro ajuto la pubblica opinione; proteggevano le lettere e la filosofia, ed inoltre permettevano, con una tal quale liberalità, a' filosofi ed a' poeti di deviare dall'angusta linea dell'ortodossia; per ultimo fomentavano lo spirito di libertà, e proteggevano le repubbliche. Ma quando una metà della chiesa, seguendo le insegne della riforma, scosse il loro giogo, e ritorse contro di loro que' lumi della filosofia ch'essi avevano lasciato risplendere, allora un terrore profondo, incusso loro da questo spirito medesimo di libertà che avevano incoraggiato, da questa pubblica opinione che fuggiva loro di mano e diventava possente di per sè sola, li determinò a cambiare tutta la loro politica. Invece di mantenersi alla testa dell'opposizione contro i monarchi, sentirono il bisogno di fare causa comune con loro, onde contenere avversarj più formidabili de' sovrani. Contrassero perciò la più stretta alleanza con questi, e particolarmente con Filippo II, il più dispotico di tutti; e d'allora in poi ad altro non pensarono che a comprimere le coscienze, ed a ridurre in ischiavitù lo spirito umano: infatti gli posero un cotal giogo, che gli uomini non avevano mai portato.
Si disse più volte ne' paesi protestanti, che la riforma era riuscita utile anche alla Chiesa romana; nè quest'osservazione si scosta affatto dal vero. In Francia, in Germania, ed in tutti i paesi in cui le due comunioni trovansi in faccia l'una all'altra, l'esempio e la rivalità del culto contribuiscono a renderle ambedue migliori[368]. Cadauno evitò di dare all'altra occasione di redarguirla o di accusarla; e l'alto clero della corte di Roma partecipò in un'altra maniera a questa riforma. Una grandissima mutazione ne' suoi costumi, un grande accrescimento di fervore nel suo zelo, illustrarono il nuovo periodo che comincia col concilio di Trento. Dopo quest'epoca, la corte romana cessò di essere una pietra di scandalo. I papi ed i cardinali furono d'allora in poi sempre sinceramente e costantemente animati dallo spirito della loro religione. La loro autorità crebbe a dismisura ne' paesi da' quali poterono tenere affatto lontana la riforma: ma la conseguenza di tale autorità, e dello zelo cui andava debitrice, non furono per avventura apprezzate pel giusto loro valore.
Esiste a non dubitarne un'intima unione tra la religione e la morale, ed ogni uomo dabbene dev'essere convinto che il più nobile tributo che la creatura possa dare al Creatore, si è quello di avvicinarsi a lui colle sue virtù. Però la filosofia morale è una scienza assolutamente distinta dalla teologia[369]: ha le sue leggi nella ragione e nella coscienza; porta con sè il proprio convincimento, e dopo avere dato uno sviluppo allo spirito colla indagine de' suoi principj, soddisfa il cuore colla scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente. La Chiesa si rese padrona della morale, siccome di cosa di sua pertinenza; sostituì l'autorità de' suoi decreti, e le decisioni de' padri a' lumi della ragione e della coscienza, lo studio de' casisti a quello della filosofia morale, e così mise in luogo del più nobile esercizio dello spirito una servile abitudine.
La morale, del tutto snaturata tra le mani de' casisti, diventò straniera non meno al cuore che alla ragione: perdette di vista i mali che ogni nostro fallo poteva arrecare a qualche creatura, per non avere altre leggi che le supposte volontà del Creatore; rigettò la base che le aveva data la natura nel cuore di tutti gli uomini, per formarsene una affatto arbitraria. La distinzione de' peccati mortali da' veniali cancellò quella che trovavamo noi stessi nella nostra coscienza tra le offese più gravi e le più perdonabili: e si videro disposti gli uni a canto agli altri i delitti che ispirano il più profondo orrore, co' falli che la nostra debolezza è appena capace d'evitare.
I casisti presentarono all'esecrazione degli uomini, nel primo ordine tra i più colpevoli, gli eretici, gli scismatici, i bestemmiatori. Talvolta riuscirono a risvegliare contro di loro l'odio il più violento, e quest'odio era più criminoso che l'errore che lo aveva eccitato: altre volte non poterono trionfare della compassionevole ragione del popolo, il quale non iscorgeva in questi grandi colpevoli che uomini strascinati dall'ignoranza, dall'errore, o da irriflessa abitudine. Nell'un caso e nell'altro, il salutare orrore che deve ispirare il delitto fu considerabilmente diminuito; l'assassino, l'avvelenatore, il parricida, vennero associati ad uomini che si conciliavano un involontario rispetto. Le buone azioni degli eretici accostumarono a dubitare della virtù medesima; la loro dannazione fece risguardare la riprovazione come una sorta di fatalità; ed il numero de' colpevoli si andò talmente moltiplicando, che l'innocenza parve quasi impossibile[370].
La dottrina della penitenza sovvertì vie maggiormente la morale di già confusa dall'arbitraria distinzione de' peccati. Era senza dubbio una consolante promessa quella del perdono del cielo pel ritorno alla virtù, e quest'opinione è tanto conforme a' bisogni ed alle debolezze dell'uomo, che formò parte di tutte le religioni. Ma i casisti avevano snaturata questa dottrina, imponendo precise forme alla penitenza, alla confessione ed all'assoluzione[371]. Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato bastante per cancellare una lunga lista di delitti. La virtù, invece di essere lo scopo costante di tutta la vita, più non fu che un conto da liquidarsi in punto di morte. Più non vi fu un peccatore così accecato dalle sue passioni, che non progettasse di dare, prima di morire, alcuni giorni alla cura della sua salvezza, e che sedotto da tale confidenza non rallentasse la briglia alle sue sregolate inclinazioni. I casisti avevano oltrepassato il loro scopo col fomentare tanta confidenza, ed invano predicarono poi contro il ritardo della conversione: erano essi soli i creatori di questo sregolamento dello spirito, sconosciuto agli antichi moralisti; si era presa l'abitudine di non considerare che la morte del peccatore, e non la sua vita, e quest'abitudine diventò universale.
La funesta influenza di tale dottrina si rende in Italia oltremodo sensibile, qualunque volta viene condotto al patibolo qualche grande delinquente. La solennità del giudizio e la certezza della pena colpiscono sempre il più ostinato di terrore, poscia di pentimento. Veruno incendiario, veruno assassino, veruno avvelenatore, viene tratto al patibolo senza avere fatta, con profonda compunzione, una buona confessione, e senza fare in seguito una buona morte: il confessore dichiara la sua vera fede, dichiara che l'anima del penitente ha di già presa la via del cielo; ed il popolo sciocco si contrasta a' piè del patibolo le reliquie del nuovo santo, del nuovo martire, i di cui delitti l'avevano forse per più anni compreso di spavento.
Nulla dirò dello scandaloso traffico delle indulgenze, e del vergognoso prezzo che si pagava da' penitenti per ottenere l'assoluzione del prete. Il concilio di Trento si prese il pensiero di minorarne l'abuso; per altro anche presentemente il prete riconosce il suo sostentamento da' peccati e da' terrori del popolo; il peccatore moribondo versa con mano prodiga in messe ed in rosarj il danaro spesse volte raccolto con iniqui mezzi; fa tacere a prezzo d'oro la sua coscienza, e si forma agli occhi degli ignoranti un concetto di pietà[372]. Ma si risguardarono le indulgenze gratuite, quelle che in forza delle concessioni pontificie si ottenevano con qualche esteriore atto di pietà, come meno abusive; ad ogni modo non si saprebbe conciliarne l'esistenza con verun principio di moralità. Quando vedonsi, per modo d'esempio, promessi dugento giorni d'indulgenza per ogni bacio fatto alla croce posta in mezzo al Coliseo, quando si vedono in tutte le chiese d'Italia tante indulgenze plenarie che si guadagnano con tanta facilità, come mai conciliare o la giustizia di Dio o la sua misericordia col perdono accordato a così debole penitenza, o co' gastighi riservati a colui che non trovasi a portata di guadagnarle per così facile strada?
Il potere attribuito al pentimento, alle cerimonie religiose, alle indulgenze, tutto si era riunito per persuadere al popolo, che l'eterna salute o l'eterna dannazione dipendevano dall'assoluzione del sacerdote; e fu forse questo il più funesto colpo dato alla morale. L'accidente e non la virtù fu così chiamato a decidere dell'eterna sorte dell'anima del moribondo. L'uomo della più specchiata virtù, quello la di cui vita era stata la più pura, poteva essere sorpreso da subita morte nell'istante in cui la collera, il dolore, o la sorpresa, gli avevano strappato di bocca uno di que' profani vocaboli, che l'abitudine ha renduti così comuni, ma che, giusta le decisioni della Chiesa, non possono pronunciarsi senza cadere in peccato mortale; allora eterna doveva essere la dannazione di costui, perchè non si era trovato presente un sacerdote per accettare la di lui penitenza ed aprirgli le porte del paradiso. Il più scellerato di tutti gli uomini, coperto d'ogni delitto, poteva per lo contrario provare uno di que' momentanei ravvicinamenti alla virtù, che non sono sconosciuti a' cuori più depravati; poteva fare una buona confessione, una buona comunione, una buona morte, ed assicurarsi il paradiso.
Così la morale fu interamente pervertita, ed i lumi naturali, quelli della ragione e della coscienza, che giovano a distinguere l'uomo dabbene dal malvagio, furono costantemente contraddetti dalle decisioni de' teologi, i quali dichiaravano dannato il primo, che una funesta vicenda aveva precipitato in un irremissibile errore, e beato l'altro, che, toccato dalla grazia, aveva offerto un efficace pentimento[373].
Nè la cosa si ristrinse entro questi confini: la Chiesa collocò i suoi comandamenti a canto alla gran tavola delle virtù e de' vizj, il di cui conoscimento fu stampato nel nostro cuore. Essa non gli spalleggiò con una sanzione tanto formidabile quanto quelli della divinità, e non fece dipendere dalla loro esecuzione l'eterna salute; ma diede loro una forza che mai non ottennero le leggi della morale. L'omicida, ancora tutto lordo dei sangue poco anzi versato, mangia di magro divotamente anche nell'atto che sta meditando un altro assassinio; la prostituta colloca presso al suo letto un'immagine della Vergine, innanzi alla quale recita divotamente il suo rosario; il sacerdote, convinto di avere giurato il falso, non caderà giammai nell'inavvertenza di bere un bicchiere d'acqua prima di dire la messa: perciocchè quanto più un uomo vizioso fu severo osservatore de' precetti della Chiesa, tanto più si sente nel suo cuore dispensato dall'osservanza di quella celeste morale, cui sarebbe d'uopo sagrificare le sue depravate inclinazioni.
Pure la vera morale non lasciò mai di essere l'argomento de' sermoni della Chiesa; ma l'interesse sacerdotale corruppe nella moderna Italia tutto quello che toccò. L'amore del prossimo è il fondamento delle virtù sociali; il casista, riducendolo a precetto, dichiarò che si peccava col dir male del prossimo; ma con ciò venne a proibire a tutti il pronunciare quella giusta opinione che deve separare la virtù dal vizio, e soffocò la voce della verità; così, accostumando a far sì che i vocaboli non esprimano il pensiero, altro non fece che accrescere la segreta diffidenza di ogni uomo rispetto a tutti gli altri. La carità è la virtù per eccellenza del Vangelo; ma il casista insegnò a dare al povero pel vantaggio della propria anima, e non per soccorrere il suo simile; rendette comune l'elemosine indistinte che incoraggiarono il vizio e l'infingardaggine; ed all'ultimo deviò a beneficio del monaco mendicante i principali fondi della pubblica carità. La sobrietà e la continenza sono virtù domestiche che conservano le facoltà degl'individui, e mantengono la pace delle famiglie: il casista vi sostituì i cibi detti magri, i digiuni, le vigilie, i voti di virginità e di castità, ed a lato a queste monacali virtù potevano radicarsi nel cuore la gola e l'impudicizia. La modestia è la più amabile qualità dell'uomo posto in qualche elevata carica; ma la modestia non esclude un certo qual giusto orgoglio, che lo sostiene contro le proprie debolezze, e lo consola nelle traversie; il casista vi sostituì l'umiltà, la quale si associa al più insultante disprezzo delle altre persone.
Tale è l'inesplicabile confusione entro la quale i dottori dommatici gettarono la morale, e se ne resero esclusivamente arbitri; così, assistiti dall'autorità civile ed ecclesiastica, proscrissero ogn'indagine filosofica tendente a stabilire le regole della probità sopra altre basi che le loro, ogni disamina di principj, ogni richiamo all'umana ragione. E non contenti di rendere la morale una particolare loro scienza, ne fecero un segreto, depositandola interamente nelle mani de' confessori e de' direttori delle coscienze. Lo scrupoloso cristiano deve, in Italia, rinunciare alla più bella facoltà dell'uomo, quella di studiare e di conoscere il proprio dovere; gli si raccomanda di scacciare ogni pensiero che potesse fargli smarrire la via da loro additata, e l'orgoglio umano capace di sedurlo; e qualunque volta s'abbatte in qualche dubbiezza, qualunque volta si trova in qualche difficoltà, deve ricorrere alla sua guida spirituale. Con ciò la prova delle avversità, così propria ad innalzare l'uomo, lo rende sempre più schiavo; e quegli ancora che fu veracemente e puramente virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che si è egli stesso imposte[374].
Sarebbe quindi impossibile il dire quanto in Italia riuscisse perniciosa alla morale l'istruzione religiosa[375]. Non avvi in Europa verun altro popolo più costantemente addetto alle sue pratiche religiose, e che vi sia più universalmente fedele; pure non ve n'ha alcuno che osservi meno i doveri e le virtù di questo cristianesimo cui mostrasi tanto attaccato. Gl'Italiani imparano non già ad ubbidire alla propria coscienza, ma a deluderla; tutti pongono in salvo le loro passioni, col beneficio delle indulgenze, con mentali riserve, con progetti di penitenza, e colla speranza di una vicina assoluzione; e ben lungi che la probità vi sia guarentita dal più caldo fervore religioso, quanto più un uomo si mostra scrupoloso nelle sue pratiche di divozione, tanto più si deve a ragione diffidare di lui.
Tra le forze morali che agiscono sopra la società l'educazione è la seconda in potenza. Coloro ch'essa ha posti in su la via della virtù possono ancora essere traviati nel corso della loro vita; coloro che furono dall'educazione depravati, possono tuttavia essere ricondotti sul sentiere della virtù e del dovere. Ma la religione stende la sua influenza o benefica o funesta su tutto il corso della vita; trova appoggio nell'immaginazione della gioventù, nell'esaltata tenerezza di un sesso più debole, e ne' terrori dell'età avanzata: segue l'uomo fino ne' suoi più reconditi pensieri, e lo raggiugne anche quand'egli si è sottratto ad ogni umano potere. Pure è così grande la reciproca influenza dell'educazione sulla religione, e della religione sull'educazione, che appena possono separarsi queste due informatrici cagioni de' caratteri nazionali.
Infatti l'educazione mutossi in Italia, quando si mutò la religione. Quando alcuni papi, guidati soltanto dal fanatismo, vennero sostituiti a coloro che non avevano dato retta che all'ambizione, l'educazione fu affidata a nuove mani. I due nuovi ordini de' Gesuiti, e de' Scolopj, s'impadronirono di tutti i collegj; e si vide tutt'ad un tratto e dovunque assolutamente cessare quell'ammaestramento indipendente dato a migliaja di scolari da' celebri filologi, i Guarini, gli Aurispa, i Filelfi, i Pomponio Leto ec. Questa così numerosa classe di precettori, che diedero un così rapido movimento allo studio della letteratura nel quindicesimo secolo e nel principio del sedicesimo, non aveva forse seguita una filosofia affatto scevra da errori, nè aveva avuti troppo liberali opinioni; ma ciascheduno di loro era indipendente; ognuno era spalleggiato dalla propria riputazione; la di lui scuola rivalizzava con tutte le altre; ed egli cercava, spinto da gelosia verso i suoi emuli, di scoprire o di abbracciare un nuovo sistema. Egli adoperava tutta la forza del suo spirito, e tutte risvegliava le facoltà de' suoi scolari, appellandosi sempre della sua parziale dottrina all'esame ed al giudizio del pensiere, unica autorità che potesse decidere tra professori tutti eguali. I monaci, che presero il posto di questi uomini tanto attivi, vennero strettamente legati ad una corporazione. Senza prendersi cura del buono o cattivo esito delle loro scuole, che non poteva alterare il loro voto di povertà, ed unicamente intenti a quello del loro ordine, tutto riferivano alla disciplina che avevano ricevuta, tutto assoggettavano all'autorità spirituale, in nome della quale parlavano, denunciando il richiamo all'umana ragione come una ribellione contro le loro dottrine immediatamente emanate dalla divinità.
Nelle scuole di cotali nuovi istitutori cessò bentosto ogni sforzo dello spirito. Permisero bensì a' loro discepoli di giugnere a quelle cognizioni di già acquistate, ch'essi non giudicarono pericolose; ma loro vietarono l'esercizio delle facoltà che avrebbero potuto farne loro acquistare di nuove. Ogni filosofia venne subordinata alla regnante teologia; e rispetto a tutti gli altri sistemi, tutt'al più si presero da loro gli argomenti co' quali si potevano confutare. Ogni morale venne assoggettata alle decisioni della Chiesa e de' casisti, e più non si permise di ricercare nel cuore que' principj che dall'autorità erano di già stati giudicati. Ogni politica si modellò sull'interesse del governo dominante, ed ogni elevato pensiero venne bandito da una scienza che, invece di essere la più indipendente di tutte, diventò la più servile.
Pure lo studio dell'antichità non fu sbandito dai collegj; ma come poteva mai avere un reale allettamento per la gioventù? Come mai giovare all'istruzione del cuore e della mente, dopo essere stato spogliato d'ogni nobile sentimento? Qual valore poteva darsi all'antica eloquenza, allorchè l'amore di libertà veniva considerato come spirito di ribellione, e l'amore di patria si condannava come un culto quasi idolatro? Quale impressione poteva fare la poesia, mentre che la religione degli antichi trovavasi costantemente opposta a quella de' moderni, siccome le tenebre alla luce, o quando le sensazioni di un cuore appassionato si spiegavano dai monaci ai fanciulli? Quale interesse risvegliare poteva lo studio delle leggi, delle costumanze, delle abitudini dell'antichità, quando non si confrontavano colle astratte nozioni di una veramente libera legislazione, di una pura morale, di abitudini che nascono dal perfezionamento dell'ordine sociale?
Quindi lo studio dell'antichità, siccome ogni altra scienza monastica, diventò una scienza positiva, una scienza di fatti e di autorità, in cui più non ebbero veruna parte nè la ragione, nè il sentimento. S'insegnarono ottimamente ai fanciulli italiani le eleganze della lingua del Lazio, vale a dire i vocaboli e le regole dei vocaboli; ottimamente pure la prosodia, ossia le regole della versificazione, sicchè sapessero fare versi latini, quali possono farsi da chi possiede tutte le qualità proprie del poeta, tranne il pensiero e la passione; venne loro insegnata la mitologia con tanta accuratezza, da fare sovente arrossire quegli uomini medesimi che credono d'avere avuta una classica educazione; ma l'indipendenza del pensiero era talmente sbandita da ogni sistema d'educazione, che non potevasi insegnar loro la rettorica o la poetica, che dietro autorità universalmente ricevute, e formanti quasi una nuova ortodossia; onde la stessa teorica della bella letteratura non produsse in Italia verun'opera singolare[376]. Possiamo domandarci quale nuovo pensiere abbia acquistato un giovane dopo un cotal corso di studj, come siansi sviluppati il suo cuore e la sua mente, e se non gli sarebbe tornato lo stesso vantaggio dallo studio delle antichità peruviane, come da quello delle antichità greche o latine, insegnategli senza il modo di sentirle.
Sotto un tale metodo d'ammaestramento alcuni uomini, felicemente organizzati, svilupparono la loro memoria; e se avevano inoltre ricevuto dalla Natura una feconda immaginazione ed il delicato senso dell'armonia, poterono emergere poeti nel nativo idioma, senza che i loro pedagoghi abbiano potuto soffocare i loro talenti. Ma la parte infinitamente maggiore di loro giacque in un'assoluta inerzia di spirito. Non solo un giovane italiano non pensa, ma non sente neppure il bisogno di pensare; ed il profondo suo ozio sarebbe un supplicio per un uomo de' paesi settentrionali, sebbene fosse questi naturalmente e meno attivo e meno impetuoso. Tale ozio fu dall'abitudine trasformato in bisogno, e quasi in piacere[377]. Si occupò tutta l'età della fanciullezza in modo di non lasciare luogo all'esercizio della facoltà di ragionare. I monaci che dirigono le occupazioni de' giovinetti, tolsero tutto il fervore dalle loro preghiere, tutta l'attenzione dagli studj, tutta l'intenzione da' loro piaceri, tutta l'espansione dalle loro relazioni.
Gli esercizj di pietà occupano una non piccola parte delle ore dello scolaro; ma basta che col suono della sua voce si faccia macchinalmente conoscere presente. Le lunghe monotone preghiere non possono fissare la sua attenzione; lo stesso formolario, le mille volte ripetuto, più non parla nè alla sua mente, nè al suo cuore. Mentre un breve esercizio di divozione avrebbe avvisata la sua coscienza, i rosarj, ripetuti per fino tre volte al giorno senza intenderli, lo avvezzano a separare totalmente il suo pensiero dal suo linguaggio; e questo diventa un esercizio di distrazione, se non lo è d'ipocrisia[378].
Altre ore sono destinate allo studio delle lingue, della mitologia, della prosodia, di alcune epoche della storia; ma si chiama a ricevere queste lezioni la sola memoria, la memoria che non è risvegliata dalle altre più nobili facoltà del nostro essere, la memoria che per ubbidienza si carica d'un peso di cui non conosce l'uso, e che non ravvisa altro scopo nello studio della sua lezione che quello di recitarla. Lo scolaro non si presta che languidamente a tale incumbenza: colui che forse dalla natura era stato dotato della più dichiarata attitudine ad imparare, lascia abbrutire questa facoltà che non viene mai occupata; colui che sente nel suo cuore i semi del più nobile entusiasmo, non trova cosa che serva a svilupparlo. Ambidue risguardano con un certo quale disgusto i vocaboli e le sterili regole affastellate nella loro memoria. Nell'istante in cui la sua educazione è terminata, ognuno discaccia con piacere dal suo capo tutto ciò che vi aveva ricevuto senza incorporarlo giammai al suo pensiere.
Vero è che nelle scuole e nei seminarj d'Italia viene accordato qualche tempo al sollievo del corpo ed agli esercizj; ma l'ubbidienza e la disciplina monastica tengono dietro allo scolaro anche nel breve tempo che pretendesi di accordare ai suoi divertimenti. Ogni giorno, nell'ora medesima, esce dal seminario la lunga processione degli scolari: essi camminano a due a due, vestiti di lunghe sottane: due preti li precedono, altri si trovano frammischiati nelle file, altri stanno alla coda. Nè mai accelerano il passo, nè mai lo rallentano; mai non raccolgono un fiore; mai non osservano l'industria di un insetto; mai non esaminano la conformazione di un sasso; mai non riunisconsi in gruppi per giuocare, per disputare, per parlare con confidenza. L'autorità monastica è sospettosa, avendo imparato a diffidare dell'uomo, ed a non vedere nel presente secolo che corruzione. Nulla v'ha che al pedagogo non dia cagione di timore o pei costumi del suo allievo, o per la disciplina della sua scuola, o per la sua personale autorità. I legami di amicizia tra i suoi discepoli diventano a' suoi occhi un cominciamento di cospirazione, e si affretta di romperli; le confidenze sarebbero lezioni di mal costume, e le rende impossibili; lo spirito di corporazione degli scolari tenderebbe a ristringere la sua autorità, ed egli l'attacca come una ribellione; premia i delatori, e tutto accorda a colui che gli sagrifica il suo compagno.
Infelice quella nazione che viene così educata! Cosa avrebbe potuto imparare nelle sue scuole, fuorchè a diffidare del suo simile, ad adulare, a mentire? Che altro le rimane di tutti i suoi studj, se non se il disgusto di quanto imparò, e l'incapacità di abbandonarsi a nuova applicazione? Il suo lavoro non potè in essa produrre che l'inerzia del pensiere; la distribuzione delle pene e delle ricompense dovette inspirarle l'ipocrisia; i suoi monaci, tenendola lontana da ogni pericolo, ne indebolirono e snervarono gli organi, rendendola diffidente di sè medesima e vile. Gli è un conforto per la nazione italiana d'essere stata in circostanze di provare coll'esperienza, che i vizj che le si rinfacciano non derivano da lei, ma dalle sue instituzioni. Mentre che ella sperimentava i funesti risultati dei sistemi stabiliti nel suo seno, una straniera rivoluzione strascinò violentemente moltissimi suoi giovani allievi nelle scuole degli oltramontani; ed in allora bentosto sviluppando essi quell'attività della mente tenuta così lungamente compressa, avidamente abbracciarono quella scienza dalla quale si erano prima mostrati alieni, e gettarono lontano da loro quella doppiezza, quella pieghevolezza, non da altro loro insinuate che dalla disciplina cui erano stati prima assoggettati. La stessa educazione dei militari campi, o quella dell'amministrazione civile, basta talvolta a far cadere la crosta formata da un'instituzione monastica; e l'Italia vede oggi con orgoglio innalzarsi tra la sua gioventù uomini degni delle sue antiche repubbliche, uomini che, cancellando la servile impronta ond'erano stati segnati, conservarono tutto il genio nazionale.
Sono allievi formati dall'educazione monastica che la legislazione italiana riceve all'uscire dalle scuole, per conformarli al giogo e farne sudditi ubbidienti. I pensieri di questi allievi non s'innalzarono giammai verso veruna specie d'astrazione; giammai non si fecero a disaminare ciò che dev'essere, ma soltanto ciò che è; mai non rintracciarono l'origine di qualsiasi autorità, essendosi loro rappresentata ogni cosa, in questo mondo e fuori, come fondata sull'autorità; e la loro mente si è fatta troppo infingarda per potere giammai risalire alla sorgente di ciò che si sottomette a credere. Guidati come ciechi nella loro educazione, e ciecamente ubbidienti ai loro preti, trovaronsi disposti ad offrire la medesima ubbidienza ai loro principi[379]. Non è già un eroico attaccamento, verso alcune famiglie, che si è radicato in tale o tale altro popolo d'Italia, come spesso si vide in altre monarchie, ma un'ubbidienza indolente, e che non è fondata che nell'avversione della lotta e nel costante desiderio del riposo. Ubbidienza a chi comanda, è una massima proverbiale rappresentante un complesso di tutti i doveri politici e di tutti i precetti della prudenza.
Quindi il dispotismo non ha bisogno di trasvestirsi; un sovrano potere, un illimitato potere viene attribuito al principe; e non avvi verun diritto, sia sacro quanto si voglia, che si creda intangibile dalla sovrana possanza. Le leggi sono semplici emanazioni della volontà del monarca, che non fu consigliato da altra persona; e ciò viene indicato dal nome che portano di motu proprio. Le sentenze civili e criminali possono essere riformate dai suoi rescritti: egli sospende a favore di un individuo le processure de' creditori; accorda ad un altro la restituzione in integrum dei diritti perduti già dal medesimo in forza di preventiva prescrizione; legittima un terzo che è bastardo per farlo succedere co' suoi fratelli, o in pregiudizio de' suoi cugini; scioglie a favore di un quarto i vincoli della primogenitura, perchè possa disporre, con pregiudizio de' suoi figli, dei beni che loro sono sostituiti. I privilegj delle corporazioni non lo trattengono più di quelli delle private famiglie, e cambia a suo piacere e per privato fine le costumanze delle città e le prerogative dei diversi ordini dello stato[380].
Nello stesso modo che tutto dipende dalla sola volontà del principe, tutto si compie ancora dalla medesima, senza discussione, senza pubblica deliberazione, senza che la nazione venga in verun modo chiamata a parte di ciò che si vuole decidere intorno ai suoi destini. La critica dei varj sistemi economici o politici adottati dal governo, sarebbe un delitto; è pure vietato lo scrivere la storia de' moderni tempi, perchè potrebbe tentare i sudditi a giudicare di ciò che devono risguardare come al di sopra del corto loro discernimento. Per ultimo le gazzette, che il generale uso d'Europa costringe a tollerare, mai non contengono, sotto la data d'Italia, che slanci del pubblico tripudio pel passaggio di un principe, pel suo matrimonio, o pei natali de' suoi figliuoli.
La giurisprudenza criminale è quella parte della legislazione che ha più immediato contatto colla libertà de' cittadini; ed è perciò quella che può più d'ogni altra alterarne il carattere. Ne' paesi in cui la processura è tuttavia pubblica, ogni causa criminale è una grande scuola di morale per gli uditori. L'uomo volgare, che spesso ha bisogno di essere sostenuto contro le gagliarde tentazioni che lo circondano, impara all'udienza, che anche il delitto commesso nel segreto della notte, senza testimonj e con tutte le precauzioni che può suggerire la prudenza della malvagità, viene non per tanto al chiaro, condottovi da una serie d'imprevedute circostanze; che la confusa coscienza del colpevole è la prima a tradirlo, e ch'egli non ha ottenuto alcun vantaggio da que' delitti che credeva dovere tutti appagare i suoi desiderj. Conosce che l'autorità che tiene aperti gli occhi sopra di lui è benefica ed illuminata, e che non castiga il delitto che dopo averlo conosciuto. Accompagna con tutto il suo cuore la discussione, e mentre egli lotta a favore dell'innocenza, senza rincrescimento abbandona il colpevole a tutto il rigore delle leggi.
Ma quando la processura si eseguisce segretamente, che non è accompagnata da veruna discussione, da verun dibattimento che chiami il pubblico a parte del giudizio, allora la sentenza capitale non offre verun compenso alla società per la perdita de' suoi membri. Tra coloro che assistono al supplicio, altri, compresi da terrore, accusano il giudice d'ingiustizia e di crudeltà, e prendono soltanto interesse per gli sventurati, dei quali non conoscono che i patimenti; altri si ostinano ne' malvagi loro sentimenti, persuadonsi che il condannato non soggiacque che per propria imprudenza, e che, trovandosi essi nel caso suo, sarebbero più fortunati, perchè più accorti. Tutti infine vanno d'accordo a non trovare nella giustizia criminale che un potere persecutore, un potere odioso; si uniscono per sottrarre egualmente tutti i prevenuti alla di lei azione, e caricano di una specie d'infamia tutti coloro che in qualsiasi modo contribuiscono al compimento della processura.
Questa lega contro la giustizia criminale si è realmente formata in tutta l'Italia a cagione del profondo segreto onde si cuopre la processura; e tanto è radicata la prevenzione contro i suoi ministri, che la stessa legge fu forzata ad adottarla. Gli arcieri dei tribunali, i caporali ed i birri, sono dichiarati infami; ed è facile il comprendere che gli uomini che acconsentono ad abbracciare un mestiere infamato dal pubblico disprezzo e dal disprezzo della stessa legge, si dispongono a meritare l'infamia della loro condizione. Pure fra costoro si sceglie il bargello, che chiamasi egli stesso loro capo, e nello stesso tempo eseguisce le incumbenze di pubblico accusatore innanzi ai tribunali, e di primo magistrato di polizia. L'infamia del suo primo mestiere lo siegue in questa più ragguardevole carica. L'uomo probo si vergogna di avere relazione di qualsiasi sorta col bargello, d'avere da lui ricevuto qualche servigio: a fronte di ciò qualunque cittadino sente continuamente che la sua riputazione, la sua libertà, la sua vita, dipendono dalle segrete informazioni di quest'ufficiale. Non avvi persona che possa dirsi sicura di non essere arrestata nel cuore della notte nella sua propria casa, legato, tradotto in lontano paese, in forza della sola autorità di quest'uomo, che dà conto del suo operato al solo ministro di polizia, o al presidente del buon governo[381]. L'Italia è probabilmente il solo paese del mondo, in cui l'infamia legale, invece di essere incompatibile col potere, sia una condizione richiesta per esercitare una certa autorità.
Sarebbe così turpe cosa e vergognosa l'esporsi ad essere paragonato ad un bargello, ad un birro, che un Italiano di qualunque condizione, quando non abbia perduto ogni buon nome, non concorrerà giammai a tradurre un delinquente nelle mani della giustizia. Un impudente furto, uno spaventoso omicidio, potrebbero eseguirsi in mezzo alla pubblica piazza, che la folla, anzi che moversi ad arrestare il colpevole, si aprirebbe per lasciargli adito alla fuga, e si richiuderebbe per trattenere i birri che lo inseguissero. Il testimonio interrogato intorno ad un delitto commesso sotto i suoi occhi si reputa offeso, perchè si tenti di farlo parlare come un delatore. Così viva è la compassione che eccita il prevenuto, così universale la diffidenza della giustizia del giudice, che ben di rado i tribunali ardiscono sprezzare questa generale opinione e pronunciare una sentenza capitale. Ma ciò non torna a vantaggio dei prevenuti; questi languiscono talvolta nelle prigioni molti anni, o sono rilegati in paesi di cattivo aere, dove la natura fa lentamente e dolorosamente ciò che il giudice non ebbe il coraggio di fare; ma l'esempio della pena che segue il delitto, è perduto affatto pel pubblico.
In quasi tutta l'Italia il giudizio delle cause civili e criminali trovasi abbandonato ad un solo giudice. Forse saranno andati errati negli altri paesi, credendo di moltiplicare i lumi col moltiplicare i giudici; ed egli è il vero che quanto più ristretto è il numero de' giudici, tanto più ognuno di loro sente crescere la propria responsabilità, e si fa debito di attentamente studiare quella causa nella quale il solo suo suffragio può avere tanta influenza; ma si snatura un tribunale ristringendolo ad un solo uomo: più non gli si lascia il mezzo di separare i suoi privati affetti, le sue passioni, i suoi pregiudizj, dalle opinioni che va formando come uomo pubblico; si espongono le parti ad essere danneggiate dal suo cattivo umore e dalla sua impazienza, e gli si toglie il freno salutare che gl'impone la necessità d'esporre i suoi motivi ai proprj colleghi per guadagnarli alla propria opinione. Il cuore dell'uomo viene frequentemente agitato da movimenti contrarj alla giustizia o alla morale, i quali contribuiscono alle sue determinazioni senza ch'egli se ne accorga. Anche colui che li sente ne conoscerebbe tutta la turpitudine, ed arrossirebbe di assoggettarsi alla loro influenza, se fosse costretto a manifestarli. Come mai un giudice si ridurrebbe a dire ad alta voce: «Quest'uomo ha una fisonomia che mi spiace; questi è colui che mi rispose insolentemente, e che mi negò il saluto; è quegli di cui io aveva preveduta la cattiva riuscita; quegli di cui io aveva uditi elogj tanto ridicoli ed inquietanti, e mi è ben caro che sia caduto in errore?» Eppure questa gioja di vederlo colpevole è pur troppo reale, e dispone a trovare tutte le prove bastanti per condannarlo.
Ad ogni modo il prevenuto deve ancora riputarsi felice, quando il solo giudice innanzi al quale deve presentarsi, siede regolarmente sul suo tribunale; ma qualunque volta l'accusatore gode buona opinione presso il presidente del buon governo, o che questi non vuole affatto perdere il colpevole, o che l'accusa verte sopra falli non contemplati da veruna legge, o che trattasi di punire opinioni o sentimenti sepolti nel segreto del cuore, oppure che il ministero vuole spalleggiare la domestica autorità d'uno sposo sopra la consorte o di un padre sopra i figli, il ministro della polizia dà al vicario o al bargello l'ordine di formare il processo per via economica. In questi processi, chiamati economici o camerali, l'accusato non viene ammesso a difendersi, non gli si partecipano nè l'imputazione, nè le prove addotte contro di lui, e tutt'al più ha occasione d'indovinare il titolo dell'accusa dal suo interrogatorio, se pure si dà il caso che venga interrogato. La stessa sentenza contro di lui pronunciata, non dal giudice istruttore, ma da quello della capitale, non è motivata: d'ordinario questa non eccede la prigione in propria casa, o in un convento, la rilegazione o l'esilio; per altro non pochi sciagurati vennero da una sentenza camerale chiusi nel fondo di una torre, o rilegati in paese malsano, per combattere colla febbre pestilenziale delle Maremme; e ne' tempi di politiche turbolenze, si videro ordinati in forma economica molti infamanti supplicj.
E per tal modo il salutare effetto che la giustizia doveva operare sulla moralità del popolo fu interamente perduto in tutta l'Italia, e produsse anzi sulla maggior parte un effetto affatto contrario. Ogni suddito trema innanzi ad una autorità non risponsabile delle sue azioni, che non va soggetta a veruna legge, che, almeno per conto di alcuni suoi ministri, non lo è neppure a quelle dell'onore; ognuno si crede sempre circondato da delatori e da segrete spie, e non potendo mai trovare sicurezza nel testimonio della propria coscienza, si vede forzato a diventare abitualmente dissimulatore, cortigiano e vile. Il castigo non gli sembra giammai una necessaria conseguenza del delitto; i supplicj, non altrimenti che le malattie, diventano ai suoi occhi colpi di un fatalismo che opprime l'umana natura; onde il timore di subirli mai non lo distorna dal cammino del delitto; ed un assassinio non lo priverà nè del pubblico favore, nè degli asili per così lunga età offerti dalle chiese[382], nè di quelli che offrono anche a' dì nostri i vicini numerosi confini dei piccoli stati, ne' quali è divisa l'Italia. Infatti, ad eccezione della Spagna, verun altro paese non fu giammai macchiato da maggior numero di assassinj quasi sempre impuniti.
A tutte queste cagioni d'immoralità, d'uopo è aggiugnervi le abitudini di ferocia, date fino quasi ai presenti giorni dallo spettacolo della tortura. Questo supplicio dei prevenuti, assai più crudele che quello de' colpevoli, era sempre destinato all'esempio, sebbene verun esempio sia forse più funesto che quello dei tormenti di un uomo, contro il quale non si ha alcuna prova, e che deve sempre presumersi innocente. Il governo pontificio prendeva le convenienti misure a fine che, durante il carnevale, si desse ogni mattina un colpo di corda ad un certo numero di prevenuti, riservando tutte le pene capitali per lo spettacolo della settimana grassa, che chiude questi allegri giorni. Questo terribile cumulo di supplicj veniva appoggiato al desiderio di premunire il popolo contro il pericolo delle passioni nel principio di cadauno di que' giorni consacrati al tripudio; ed il popolo, sempre avido di commozioni, non vi cercava che dei dolori fisici, che in appresso andava a cercare nuovamente nei combattimenti dei tori sul molo del sepolcro d'Augusto. Allora Roma moderna non poteva invidiare le pugne de' gladiatori di Roma idolatra: che se l'arena non era bagnata da tanto sangue, più crudeli invece e più lunghi erano i patimenti che formavano lo spettacolo.
La morale influenza della civile legislazione non ha la forza della criminale sopra coloro che sono colpiti dall'ultima; ma la prima è più universale, siccome quella che tocca tutti gl'individui. Tra i sudditi tutte le proprietà si distribuiscono secondo le disposizioni delle leggi civili, e questa distribuzione fu mutata nella circostanza della soppressione della libertà. I principi, creandosi una nuova nobiltà, vollero rendere indipendente da ogni vicenda il patrimonio di quelle famiglie; a tale oggetto incoraggiarono i padri a fondare per testamento perpetue sostituzioni, primogeniture, commende, dando loro in tal maniera, anche dopo la morte, un diritto sulle loro proprietà, spogliandone le susseguenti generazioni, e riducendole a non godere che il fedecommesso di un diritto limitato dall'autorità de' loro antenati, e dall'aspettativa de' loro discendenti. Le più fatali conseguenze non tardarono ad emergere da quest'innovazione nella legislazione, che diseredava i vivi a favore degli estinti e de' figliuoli che non erano ancora nati; furono queste tanto evidenti, che nel diciottesimo secolo i più saggi principi cercarono di abolire i fedecommessi favoreggiati dai loro predecessori. I detentori de' terreni, più non considerandosi che come usufruttuarj, parevano farsi un dovere di danneggiare un fondo di cui non potevano disporre a voglia loro: la loro fortuna più non essendo proporzionata all'estensione de' loro beni, uno stato d'angustia e di miseria, piuttosto che uno stato di opulenza, diventò ereditario colle grandi proprietà; i creditori, ingannati dalle grosse rendite di cui godeva un grande proprietario, trovavansi spogliati, quando esso proprietario moriva, del danaro sovvenutogli. Tale ingiustizia incoraggiava i sovventori all'usura, i sovvenuti alla mala fede, e complicò ed accrebbe all'infinito le procedure tra gli uni e gli altri.
Frattanto l'intera nazione si era abituata ad avere prima d'ogni altra cosa riguardo alla conservazione delle famiglie, e più non v'ebbe alcun padre che nel suo testamento non sagrificasse tutte le sue figlie ai maschi, tutti i minori al primogenito, e la propria vedova alla sua prole. Tutte le domestiche relazioni si mutarono con questa cattiva distribuzione delle proprietà. Fu distrutto il filiale rispetto verso la madre, quando questa si trovò per la propria sussistenza dipendente dal suo figlio: fu esiliata l'amicizia tra i fratelli, perchè questa vuole l'eguaglianza, e non può mantenersi tra un assoluto padrone e prezzolati adulatori.
Non solo i figli minori ebbero una parte minore d'assai di quella dei primogeniti, ma il padre di famiglia si fece un particolar dovere d'impedire ogni divisione della sua proprietà; assicurando soltanto a' suoi più giovani figli la mensa in casa, o come chiamasi dagl'Italiani il piatto, ed in conseguenza condannandoli all'ozio ed alla viltà. Non può attivarsi verun ramo d'industria senza un piccolo capitale; convien fare una qualche spesa per apprendere qualsivoglia professione; non si possono professare le lettere senz'avere impiegato un capitale in una sempre dispendiosa educazione: non si può essere agricoltore senza terreni, mercante senza fondi, fabbricatore senza avere gli strumenti necessarj e le materie prime. La maggior parte de' cadetti, esclusi in Italia a motivo della povertà loro da tutti gl'impieghi, sono forzati a vivere sempre dipendenti e sempre oziosi. E siccome le famiglie vi sono numerose, appunto perchè il padre non è chiamato a provvedere alla sorte de' suoi figli; che un solo fra sei fratelli prende moglie, e lascia tanti figliuoli quanti ebbe fratelli; i quattro quinti della nazione sono dannati a non avere veruna proprietà, verun interesse nella vita, veruna speranza, e a non contribuire con verun lavoro alla prosperità dei loro compatriotti. Una così numerosa classe di oziosi deve necessariamente moltiplicare i vizj.
Le nazionali abitudini di giustizia furono ancora pervertite dalla costante pratica del ricorso alla grazia nelle cause civili. Sagrificando la legge una giustizia reale ad un'apparenza di diritto, aveva di già renduto difficilissimo l'acquisto della prescrizione; questa in molte cause non può allegarsi che dopo un periodo centenario; e quand'ancora si è acquistato questo diritto, è spesso in Italia annullata dal principe con lettere di grazia. È pure necessario in Italia un numero di sentenze maggiore, che in ogni altro paese, per dare ad una decisione la forza di cosa giudicata. Ma, anche dopo l'acquisto di questa definitiva presunzione, il principe accorda nuove lettere di grazia, perchè sia assoggettata a nuovo giudizio quella cosa che più non dovrebbe essere argomento di lite.
Per tutte queste cagioni la totalità de' diritti si andò rendendo incerta; interminabili processure passarono ereditarie nelle famiglie di generazione in generazione. A misura che trascorre il tempo tra l'occasione di una processura e la sua decisione, le prove si rendono sempre più difficili, le presunzioni si vanno maggiormente equilibrando, ed ognuno, sostenendo il proprio interesse, si crede meno esposto alla taccia di mala fede. Dall'altro canto la lunghezza delle processure le moltiplica maravigliosamente. In una città ove nascano dieci liti all'anno, se ognuna venisse terminata entro sei mesi, come a Ginevra, non ve ne sarebbero giammai più di cinque pendenti; ma se, una compensando l'altra, non sono ultimate che in dieci anni, come accade nella parte meglio governata d'Italia, ve ne saranno cento tutte agitate nello stesso tempo: se appena sono terminate in trent'anni, come nella maggior parte delle italiane province, ve ne saranno trecento, e forse in maggior numero che non sono gli abitanti che contiene la città. Infatti, in Italia, sono poche le famiglie che non abbiano una o più liti; ed il carattere di raggiratore o di uomo litigioso si è renduto troppo generale perchè venga imputato a difetto.
Perciò può dirsi che nella moderna Italia la religione, invece di spalleggiare la morale, ne corruppe i principj; che l'educazione, lungi dallo sviluppare la facoltà della mente, le ha rendute più ottuse; che la legislazione, in cambio di attaccare i cittadini alla patria e di riunirli fra loro con fraterni nodi, li rese timidi e diffidenti, dando loro l'egoismo per prudenza, la viltà per difesa. Rimane inoltre una quarta causa, la quale stende la sua influenza su tutte le umane società, e che con una forza minore delle tre precedenti, talvolta tiene in bilico, talvolta seconda la loro azione, e fa, sebbene imperfettamente, riparo al male prodotto dalle viziose istituzioni: gli è questo il punto d'onore, la di cui potenza, superiore alla volontà d'ogni individuo, ne altera le primitive istituzioni, ne appoggia o ne contrasta la morale, e gli segna una condotta uniforme, invece di abbandonarlo all'istantaneo impero delle sue passioni.
La legislazione del punto d'onore racchiude in sè medesima un non so che di liberale; non è altrimenti stabilita da una superiore autorità, ma dal concorso d'opinioni e di volontà indipendenti: onde allorchè gagliardamente si mantiene in un governo monarchico, lo modifica, e non gli permette di declinare in un perfetto despotismo. Dall'altro canto questa legislazione non è mai fondata sopra i veri principj della morale, ed il numero delle naturali inclinazioni che vengono da lei corrotte, vince il numero di quelle che conserva o che rende più forti.
L'impero del punto d'onore rendesi appena sensibile nelle repubbliche, perciocchè la pubblica opinione vi esercita una tale potenza che va sempre modificando i più accreditati pregiudizj, e vi giudica le persone non dietro astratte ed inflessibili regole, ma dietro il complesso delle loro azioni. In una repubblica non si distingue l'uomo virtuoso dall'uomo d'onore; nè questi due caratteri erano pure distinti negli stati dell'antichità. Le prime nozioni del punto d'onore furono portate negli stati meridionali dalle conquiste de' popoli teutonici, ma si mescolarono cogli altri elementi della pubblica opinione, e non formarono un eminente carattere nella storia delle repubbliche italiane. L'introduzione in Europa di alcune opinioni particolari degli Arabi, diede agli Spagnuoli, che furono i primi che da loro le ricevettero, un punto d'onore di diversa natura; il quale punto d'onore venne inseguito adottato in tutti i paesi sui quali la monarchia spagnuola venne stendendo la sua influenza.
La legislazione dell'onore arabo e castigliano fu dunque importata in Italia, nel sedicesimo secolo, da quelle medesime armi spagnuole, che distrussero quelle repubbliche intorno alle quali ci siamo così lungamente intrattenuti. Ella vi si mantenne in pieno vigore, finchè Carlo V ed i tre Filippi, di lui successori, conservarono un assoluto dominio sopra le più belle province d'Italia; s'indebolì negli ultimi anni del diciassettesimo secolo, e cessò affatto nel diciottesimo: può dirsi che riuscì egualmente contraria ai progressi dei lumi e della ragione colla sua durata e colla sua caduta.
Il punto d'onore che gli Spagnuoli avevano ricevuto dagli Arabi, sembra riferirsi a tre primarj fondamenti. Il primo consiste in una esagerata delicatezza rispetto alla castità delle donne: allorchè questa virtù rendesi leggermente in taluna di loro sospetta, non soccumbe essa sola al disonore, ma la stessa infamia copre egualmente il padre, il fratello, il marito. Il secondo è una delicatezza non meno esagerata rispetto al valore degli uomini, che, posto egualmente in luogo di tutte le altre virtù, viene a compromettere tutta la famiglia in un solo individuo. Il terzo è una specie di religione di vendetta, che non ammette verun'altra riparazione per l'offeso che la morte dell'offensore.
L'introduzione di queste opinioni in Italia variò la condizione delle donne, le quali perdettero l'onesta libertà di cui avevano goduto ne' tempi delle repubbliche; ed i padri loro ed i mariti, invece di confidare nella loro virtù e prudenza, più non credettero di trovare sicurezza che tra inaccessibili mura; essi più non dovevano temere per conto della loro sola debolezza; ma un accidente che le esponesse agli occhi della gente, una parola mal ponderata, un'imprudente conghiettura, bastavano a compromettere l'onore della casa, e con ciò la vita e le sostanze di tutti gl'individui che la componevano. Più non teneva aperti gli occhi sopra di loro la gelosia dell'affetto, ma la gelosia assai più sospettosa della vecchiaja, che le guardava in quel modo che l'avaro tien cura del suo tesoro. Quanto più si andavano accrescendo l'esteriori precauzioni, che si moltiplicavano le vecchie custodi che mai non le perdevano di vista, le inferrate che chiudevano le loro case, i veli che le nascondevano a tutti gli sguardi, tanto più veniva trascurata l'educazione morale, che avrebbe loro dati migliori e più virtuosi mezzi di difesa. La sospettosa vigilanza de' loro custodi aveva liberate le loro coscienze da ogni responsabilità. Quanto più grandi erano gli sforzi che si andavano facendo per rendere loro impossibile ogni estranea relazione, tanto più esse volgevano tutti i loro pensieri, tutta l'accortezza del loro spirito verso la galanteria; e per tutto il tempo che furono soggette alla più severa vigilanza, la loro condotta non fu forse più pura che quando diventò di moda lo stesso sregolamento.
Frattanto allorchè, in sul declinare del XVII secolo, si andò rilasciando il punto d'onore spagnuolo, non si sostituì alla virtù femminile verun'altra salvaguardia; non venendo le donne meglio ammaestrate ne' loro doveri, esse non trovarono un più solido appoggio ne' loro proprj sentimenti, e lo stesso buon gusto della società loro non prescrisse veruna legge intorno alla decenza de' loro discorsi e del loro contegno. Le giovanette, educate nei conventi, vi ricevevano tali ammaestramenti, che per la severità loro non erano praticabili. Loro si rappresentavano le sale della danza e dello spettacolo, come luoghi ne' quali il demonio esercita le più formidabili seduzioni; la curiosità di osservare un uomo dal balcone veniva loro rappresentata poco meno criminosa che l'attentato di aprirgli lo stesso balcone per riceverlo di notte nel proprio appartamento. Il desiderio di piacere e gli eccessi dell'amore furono loro posti innanzi sullo stesso livello. Lo sposo che riceve una fanciulla quand'esce di convento, è forzato a disfare l'opera della sua educazione; d'insegnarle che tutte quelle cose che le furono dette doversi fuggire non sono peccati; che tutto ciò che resta vietato alle religiose non lo è alle secolari. Allora crollano tutti i principj di lei; la seduzione del mondo comincia; le corrotte maniere della società le inspirano nuove idee; l'esempio la seduce; lo sposo cui venne accompagnata non fu da lei scelto, ed il più delle volte non veduto prima di sposarlo. Se in appresso la pace domestica, la fedeltà conjugale, la dolce confidenza, sono sbandite dalle famiglie, non debbonsi condannare, ma compassionare le donne italiane; bisogna cercare più in alto la sorgente del disordine, e convenire che l'educazione, le leggi, i costumi, e non la natura le hanno fatte quello che sono.
Abbiamo osservato che nella più fiorente epoca delle repubbliche italiane, il valore, lungi dall'essere apprezzato come meritava a petto alle altre virtù, non otteneva neppure dalla pubblica opinione la debita stima. I soldati altro in allora non erano che mercenarj adoperati nell'eseguire gli ordini di altri uomini, che in una più sublime carriera avevano conseguita una più alta riputazione. Il magistrato, che brillava ne' consiglj colla sua eloquenza, colla prudenza, colle risoluzioni, non si curava di pareggiare il valore militare del soldato che prendeva al suo soldo; dava all'opportunità prove di civile coraggio, spesso meno frequente e più difficile; ma protestava senz'arrossire, che non si credeva capace di combattere. La repubblica fiorentina ebbe a soffrire più d'ogni altra per avere fatto così poco conto del valore; conobbe per reiterate disgrazie, che niuna virtù non dev'essere rifiutata da verun governo, e fu spesso tradita dai generali e dai soldati da lei chiamati da altri paesi, perchè essa aveva trascurato di formarne tra i proprj cittadini.
Ma le spaventose guerre del principio del sedicesimo secolo richiamarono gl'Italiani alle armi, e dopo tale epoca professarono questo nuovo mestiere con tanto maggiore impegno, in quanto che si trovarono esclusi da tutti gli altri. In tutto il sedicesimo secolo si assoldarono in folla sotto le bandiere spagnuole, mentre altri reggimenti italiani erano levati per servizio della Francia, e militavano gloriosamente nelle guerre civili di quel regno. In tutta la seconda metà del sedicesimo secolo la fanteria italiana si risguardò come perfettamente uguale alla spagnuola, e l'una e l'altra occupavano il primo luogo tra le truppe delle più guerriere nazioni d'Europa. Ambedue erano state formate dagli stessi ufficiali, e andavano soggette agli stessi pregiudizj. Il punto d'onore militare italiano non fu diverso da quello degli Spagnuoli. Le due nazioni sentirono nello stesso modo le stesse offese, le stesse provocazioni, i medesimi sospetti.
Ma la milizia spagnuola conservò l'intera sua riputazione in tutto il diciassettesimo secolo, malgrado il decadimento della monarchia; la milizia italiana perdette assai più presto tutto il suo credito. I soldati non si arrolavano che di contro genio in eserciti sempre mal pagati, sempre malcondotti, e che malgrado il loro valore andavano esposti a continue sconfitte. Nelle province suddite d'Italia, che i vicerè spagnuoli governavano con diffidenza, tutto invitava la nobiltà al riposo ed alla mollezza, che soli non eccitano gelosi sospetti. Gl'Italiani avevano mostrato che potevano essere valorosi, ma non lo furono lungamente in così svantaggiose circostanze; e quando deposero le armi, la pubblica opinione più non li chiamò a difendere nuovamente la riputazione del loro valore. Allora si vide, e ciò si vede anche presentemente, uomini distintissimi per natali, pel grado che occupano, e per tutte le circostanze che fanno supporre una liberale educazione, confessare apertamente la loro pusillanimità. Parlano senza vergognarsi della paura avuta; confessano che le loro mogli sono più coraggiose di loro; nè il pronunciare queste parole costa qualche cosa al loro amor proprio; nè cotesta confessione non eccita le fischiate, nè procaccia loro l'universale disprezzo. Pure se il coraggio è una virtù naturale all'uomo, la paura è altresì una delle passioni della sua natura. Conviene che sia compressa, domata dalla volontà, dall'educazione, dalla vergogna. Quando gli si dà intera licenza, essa si rende signora dell'animo, lo guasta, ed invilisce tutta intera la nazione. Si sarebbe potuto temere che tale non fosse per essere la condizione della nazione italiana, e forse ogni altra perdendo il suo punto d'onore avrebbe ancora con lui perduta ogni energia, ma un'inaspettata esperienza ha recentemente dimostrato che quegl'Italiani che avevano così compiutamente dimenticato il coraggio, lo ricuperavano più facilmente che ogn'altra nazione, tosto che veniva in loro risvegliato il punto d'onore, e facevasi loro travedere una vera gloria.
La sanzione di questa legislazione del punto d'onore, che gli Spagnuoli portarono in Italia, nel sedicesimo secolo, fu la necessità imposta ad ogni uomo d'onore di vendicarsi dell'offesa. Senza alcun dubbio il bisogno della vendetta è fino ad un certo punto un sentimento connaturale all'uomo; è composto da un desiderio di giustizia, e da un movimento di collera; ed in questi limiti si trova egualmente presso tutti i popoli, tanto antichi che moderni. Ma il sistema di vendetta che gli Spagnuoli ricevettero dagli Arabi e dai Mori, e che in appresso comunicarono a tutta l'Europa, è tutt'altra cosa che questo naturale sentimento, ed è basato sopra un'idea di dovere. Il Moro non si vendica perchè la di lui collera sia ancora viva, ma perchè la sola vendetta può allontanare dal suo capo il peso dell'infamia che l'opprime. Si vendica perchè a creder suo non avvi che un'anima vile che possa perdonare gli affronti, e conserva il suo rancore, perchè, se lo sentisse spegnersi, crederebbe di avere col rancore perduta una virtù.
Questo codice di vendetta fu presentato alle nazioni settentrionali in quel tempo in cui i duelli giudiziarj erano stati di fresco soppressi. Prese in certo qual modo il loro luogo, ed il duello lavò le offese dell'onore con una sufficiente apparenza di ragione; perciocchè la più mortale offesa essendo quella di porre in dubbio il coraggio di un uomo, il valore con cui presentavasi a singolare certame, era il mezzo più ovvio di dissipare questa dubbiezza. Così videsi presso i Francesi, gl'Inglesi, i Tedeschi, la primitiva idea della vendetta disgiungersi affatto dall'azione medesima che n'era rappresentata come una conseguenza. Un uomo d'onore si batte non già per vendicarsi, ma per tenersi in possesso di quell'onore ch'era sua proprietà, e che sentivasi in diritto di difendere.
Non fu già in tale maniera, che nel sedicesimo secolo fu presentata dagli Spagnuoli agl'Italiani la processura degli affari d'onore; nè così la concepirono i medesimi Italiani, a motivo delle precedenti loro relazioni coi Mori. Gli uni e gli altri credettero di ravvisare un'anima grande nella costanza di questi risentimenti. Pareva loro che l'offeso avesse mostrata maggiore energia, quanto più lungamente aveva conservato il suo rancore, manifestatolo con un'esplosione meno preveduta, e cagionato più acerbo dolore al suo offensore. Non chiedevasi già a colui che si vendicava una prova di coraggio per ristabilire il suo onore, ma bensì una prova d'un implacabile odio. E perciò agli occhi loro l'assassinio lavava l'onore quanto il duello, il veleno quanto il ferro; e la perfidia sembrava loro essere il maggiore trionfo della vendetta, perchè l'offeso si era mostrato più compiutamente padrone di sè medesimo.
Fino dai secoli di mezzo alcune province d'Italia eransi fatte distinguere per l'atrocità de' loro odj, e delle loro ereditarie vendette. Allegavansi principalmente Pistoja in Toscana, la Romagna, tutto lo stato della Chiesa, e più ancora le isole di Sicilia, di Sardegna e di Corsica, ove la mescolanza co' Mori, ed in appresso cogli Spagnuoli aveva data maggiore consistenza a questa barbara legislazione. Pure non fu che nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo che si rese dominante in tutta l'Italia la terribile dottrina che ingiugneva ad ogni uomo d'onore il dovere, non di difendersi, ma di vendicarsi. E allora solamente si videro moltiplicati que' sicarj che appigionavano i loro pugnali, e ridotta a perfezione la formidabile scienza de' veleni. Allora personaggi sommamente riputati nella diplomazia, nella Chiesa, nelle lettere, osarono darsi vanto pubblicamente d'avere compiuta la loro vendetta; allora finalmente più non risguardandosi il duello come una sufficiente soddisfazione, due nemici non acconsentirono a battersi che dopo avere l'offensore chiesto perdono all'offeso; senza la quale preliminare riparazione, il veleno o il pugnale potevano essi soli lavare l'onore oltraggiato.
Grazie al cielo questa infernale dottrina è presentemente affatto dimenticata. Più non si troverebbe in tutta l'Italia un solo assassino salariato, e se vengono ancora commessi orribili delitti, la pubblica opinione almeno più non gli ordina come un dovere. Forse ancora la sanzione del duello è troppo trascurata, e si mostra meno severità che non conviene verso coloro che, non mostrando verun risentimento per le più gravi offese, danno luogo a supporre non già che abbiano perdonato, ma che non abbiano osato domandare soddisfazione[383].
Frattanto il lungo regno di un pregiudizio così contrario ad ogni morale ed al vero onore ebbe la più funesta influenza sulle nazionali opinioni. L'assassinio, a dir vero, non è più un dovere, ma non è neppure un disonore; è un'idea colla quale ognuno trovasi continuamente famigliarizzato. L'Italiano lo risguarda come una funesta conseguenza d'un impetuoso movimento di collera, di gelosia, di vendetta; egli non sente nel suo cuore l'irremovibile certezza che non sarà giammai strascinato a dare un colpo di pugnale, perchè non fu mai avvezzato a risguardare quest'azione con quell'orrore inesprimibile che inspira il pensiere di un gravissimo delitto. Dessa è per lui ciò che il pensiero del duello è per gli uomini scrupolosi delle altre nazioni. Dessa è un gran peccato che la sua coscienza gli vieta di commettere; ma egli sente che per simili falli ogni uomo è peccatore; e quando vede de' sicarj esiliati dal loro paese, o condannati per commessi assassinj a' pubblici lavori, non prova a riguardo loro che la profonda compassione che suole eccitare una grande sventura, non il terrore che deve cagionare un grave delitto.
Nello stato di società in cui trovasi l'Italiano ridotto, tale sentimento diventa giusto, e con analogo sentimento dobbiamo noi pure giudicarlo. Senza dubbio nell'Italiano del XVIII secolo non ritrovasi nè il rappresentante de' Manlj e dei Gracchi, nè quello de' Doria e degli Albrizzi. L'antica virtù non può nascere, nè germogliare in una patria serva, lo spirito non si può sviluppare quando viene allentato da mille ostacoli, ed il sentimento non può innalzarsi all'eroismo, quand'è soffocato nel suo primo nascere. Ma dovremo incolpare lo stesso italiano dello stato deplorabile in cui è caduto? Quando vediamo concorrere tante e così potenti cagioni ad abbassarlo non deploreremo piuttosto in lui l'avvilimento dell'umana dignità, e non sentiremo che la sventura che lo colpì è la sventura che minaccia noi medesimi, che minaccia ogni società, ogni nazione che si lascerà caricare dalle stesse catene?
Ammireremo invece tuttociò che ancora rimane a questa nazione, che pareva fatta per superare tutte le altre: quello spirito così aperto e pronto cui non riesce difficile veruno studio, quando venga intrapreso per uno scopo che lo possa infiammare; quella flessibilità a tutte le nuove forme, che rende l'Italiano proprio alla politica, alla guerra, a tuttociò che intraprende di più inusitato, per mezzo della più rapida educazione; quell'immaginazione creatrice, che gli conserva, dopo l'impero del mondo che ha miseramente perduto, quello, forse più ricco, delle belle arti; quella sociabilità, quelle dolci maniere, che in altri paesi non sono conosciute che dalle persone di alta condizione, e che in Italia sono proprie di tutte le classi; quella sobrietà che allontana il basso popolo dalle orgie e dalle dissolutezze di Bacco in mezzo alle sue feste ed a' suoi piaceri; quella superiorità dell'uomo della natura, che si mostra tanto più degno di stima quanto fu meno cambiato dall'educazione, di modo che il contadino italiano è tanto superiore al cittadino, quanto lo è questi al gentiluomo; finalmente quel maraviglioso potere della coscienza, che trionfa delle più cattive instituzioni, della più fallace educazione, della più bassa superstizione, del più depravato ordine politico, e che, sostenendo l'uomo tra le più violenti tentazioni e le più deboli barriere, diminuisce la frequenza de' delitti assai più che non sarebbesi potuto anticipatamente calcolarlo. Senza dubbio questi Italiani, cui abbiamo consacrato un così lungo studio, sono oggi un popolo sventurato ed avvilito; ma che si ripongano in circostanze ordinarie, che loro si consenta di percorrere le vicende di tutte le altre nazioni, ed in allora si vedrà che non hanno perduto il seme delle grandi cose, e che sono ancora degni di misurarsi in quello stadio che hanno due volte percorso con tanta gloria.
Fine del Volume XVI, ed ultimo.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XVI.
Capitolo CXXI. Apparecchj de' Fiorentini per difendere la loro libertà; sono assediati dal principe d'Orange. Imprese di Francesco Ferrucci, commissario generale, nello stato fiorentino; viene a battaglia col principe d'Orange, e nella mischia periscono ambidue, capitolazione di Firenze. 1529-1530 pag. 3
La repubblica fiorentina difende la sua libertà, nel mentre che il rimanente dell'Italia si sottomette al giogo dell'Austria 3
I Fiorentini, che fino allora non avevano mai atteso a trattar l'arme, le pigliano per difendere la propria libertà 4
1527 Dicembre. Organizzazione dei 300 cittadini della guardia del palazzo 5
1528 6 novembre. Organizzazione delle 16 compagnie della guardia urbana 6
1527 Luglio. Richiamo delle bande dell'ordinanza del territorio fiorentino 7
1528 Dicembre. Ercole d'Este nominato capitano generale degli uomini d'arme 8
1529 Aprile. Sono terminate le fortificazioni di Firenze 9
1529 Maggio. I dieci della guerra prendono Malatesta Baglioni al loro soldo col titolo di governatore generale 10
Il gonfaloniere Capponi tenta di riconciliare la repubblica col papa 11
Il Capponi chiama alle consultazioni o pratiche molti amici de' Medici 12
Diffidenza de' consiglj. Nominano essi medesimi la pratica de' dieci della guerra 12
Corrispondenza segreta del Capponi con Clemente VII 13
16 aprile. Lettera sospetta diretta al Capponi trovata da uno dei priori 14
17 aprile. Il Capponi è dimesso, e gli succede Francesco Carducci 15
Il Capponi si giustifica dell'accusa di tradimento, e viene assolto 16
I Fiorentini ricevono l'une dietro alle altre notizie affliggentissime 17
Il Governo prende le necessarie disposizioni onde trovare del denaro 18
La signoria ordina ai paesani di portare i loro raccolti nelle fortezze 20
Settembre. Ercole d'Este, al quale è mandato l'ordine di recarsi al suo posto, ricusa di ubbidire 21
Ambasceria de' Fiorentini all'imperatore in Genova 21
8 ottobre. Il Capponi muore udendo le relazioni dell'ambasceria; due ambasciatori fuggono 23
Il papa incarica delle sue proprie vendette contro Firenze quel medesimo principe d'Orange, che lo aveva tenuto prigioniere in Roma 23
1529 Fine di luglio. Il papa concede man forte ai soldati del principe d'Orange, onde farsi pagare il rimanente delle taglie dovute loro pel riscatto de' cittadini romani 25
Fine d'agosto. L'esercito del principe d'Orange si raduna a Foligno 26
1 settembre. Presa e saccheggio di Spello sui confini del Perugino 27
12 settembre. Baglioni, mediante un trattato, apre Perugia al principe d'Orange, e conduce la sua infanteria ai Fiorentini 28
14 settembre. Cortona si arrende al principe d'Orange, e i Fiorentini evacuano Arezzo e tutto il Val d'Arno di sopra 28
18 settembre. Arezzo pretende ritornare ad essere repubblica sotto la protezione dell'imperatore 29
Francesco Guicciardini fugge, e si unisce agl'inimici della sua patria 30
Alcuni ambasciatori spediti al papa, sono rimandati con mal tratto 31
19 ottobre. Le case e i giardini sono tutti quanti atterrati fino alla distanza di un miglio intorno a Firenze 32
14 ottobre. Il principe d'Orange pone il suo campo a Pian di Ripoli sotto Firenze 33
Napoleone Orsini, abate di Farfa, al servizio de' Fiorentini 34
Cominciamento de' servigj e della riputazione di Francesco Ferrucci 35
1529 Novembre. Ferrucci riprende d'assalto Samminiato 37
10 novembre. Il principe d'Orange dà la scalata a Firenze ed è respinto 38
11 dicembre. Stefano Colonna sorprende al loro posto gl'imperiali della Sciarra 39
16 dicembre. Morte di Girolamo Moroni nel campo degli assedianti 41
23 dicembre. I Fiorentini abbandonati dai Veneziani, che sottoscrivono una particolar pace coll'imperatore 42
Fine di dicembre. Un altro esercito imperiale viene ad accamparsi sulla sponda destra dell'Arno 43
Raffaele Girolami succede a Francesco Carducci gonfaloniere 44
1530 Blocco di Firenze. Il principe d'Orange non tenta di fare breccia nelle mura 45
Ercole Rangoni via ne conduce i gendarmi d'Ercole d'Este 46
26 gennajo. Malatesta Baglioni è nominato capitano generale 47
Condotta subdola di Francesco I coi Fiorentini 48
Nuove condizioni offerte al papa, e da lui rigettate 49
Predicazioni in Firenze per animare alla difesa della libertà 50
Frequenti attacchi dei Fiorentini sulle linee nemiche 51
21 marzo. Sortita generale dei Fiorentini, e sanguinosa zuffa intorno al cavaliere
di Porta Romana 52
5 maggio. Sortita di Baglioni, che prende d'assalto il convento di san Donato 53
1530 10 giugno. Stefano Colonna attacca il conte di Lodroni e il quartiere dei Tedeschi alla diritta dell'Arno 54
Successi di Lorenzo Carnesecchi nella Romagna Toscana 55
I Fiorentini perdono la cittadella d'Arezzo, di Borgo san Sepolcro e di Volterra 55
27 aprile. Francesco Ferrucci si parte da Empoli per ricuperare Volterra 56
29 maggio. Empoli preso da Sarmiento e da don Ferdinando di Gonzaga 57
27 aprile. Il Ferrucci riprende Volterra con grande spargimento di sangue 58
Aprile, giugno. Il Ferrucci difende Volterra contro Maramaldo e Sarmiento 59
17 giugno. Costringe gl'imperiali a levare l'assedio di Volterra 60
Aduna un esercito per far levare l'assedio di Firenze 61
14 luglio. Parte da Volterra per Pisa 62
È trattenuto in Pisa dalla febbre 63
Piano del Ferrucci, per attaccare Roma, rigettato dalla signoria 63
30 luglio. Il Ferrucci si parte da Pisa attraversando lo stato Lucchese 64
2 agosto. Si avvicina col suo esercito a Gavinana nelle montagne di Pistoja 65
Tradimento di Malatesta Baglioni, per cui il principe d'Orange ha campo di opporsi al Ferrucci 66
1530 2 agosto. Il principe d'Orange ed il Ferrucci giungono nello stesso tempo a Gavinana 68
Il principe d'Orange è ucciso 70
Gian Paolo Orsini è respinto da Vitelli, pel mentre che il Ferrucci respinge Maramaldo fuori di Gavinana 71
Nuovo attacco sopra Gavinana. Il Ferrucci è preso e ucciso da Maramaldo 72
4 agosto. Il gonfaloniere sollecita nuovamente il Baglioni di attaccare gli imperiali 74
Il Baglioni ricusa apertamente di ubbidire al gonfaloniere 74
8 agosto. Il gonfaloniere vuole costringere colla forza il Baglioni ad ubbidire, ma i cittadini lo abbandonano 75
Il Baglioni dà adito agl'imperiali nel bastione di Porta Romana 76
La signoria costretta a porre in libertà i partigiani de' Medici 77
La signoria tratta con Bartolomeo Valori, commissario apostolico, e don Ferdinando di Gonzaga, generale imperiale 78
12 agosto. Capitolazione di Fiorenza dietro promessa di libertà e d'amnistia 79
20 agosto. Bartolomeo Valori nomina una balìa, dietro l'autorità di un preteso parlamento 80
La signoria è dimessa, ed il popolo disarmato 81
Fine della storia di Jacopo Nardi; e la di lui indole 81
Capitolo CXXII. Violazione della capitolazione di Firenze; persecuzione di tutti gli amici della libertà. Regno e morte di Alessandro de' Medici; successione di Cosimo I al titolo di duca di Firenze. Siena, oppressa dagli Spagnuoli, abbraccia il partito francese; assedio ed ultima capitolazione di questa città. 1530-1555 83
L'Italia dopo il 1530 ricade in quello stato di nullità in cui era prima del decimosecondo secolo 83
1122-1530 Grandezza dell'Italia durante i quattro secoli della sua libertà 84
L'indipendenza di alcuni piccoli stati, prima del dodicesimo e dopo il quindicesimo secolo, non basta a far l'Italia meritevole di particolare istoria in quelle due epoche 86
L'incoronamento degl'imperatori in Roma era un simbolo dell'indipendenza italiana che fu soppressa nel 1530 87
Gli stati italiani, che dopo il 1530 vantavano ancora indipendenza, non influivano per niente sul rimanente dell'Europa 88
Ultimi capitoli consacrati alla decrepitezza della nazione italiana 89
L'oppressione del partito della libertà in Siena ed in Firenze richiede maggiori dettagli 89
1530 Balìa creata in Firenze in nome della sovranità del popolo 90
Ottobre. Seconda balìa di 150 membri creata dalla prima 91
Crudeli vendette del papa, eseguite dalla balìa, contro tutti i partigiani della libertà 91
1530 Il papa, di mano in mano che conosce il suo potere più stabile, va aumentando la sua severità e prolungando i supplizj 93
I capi di parte ordinano supplizj in proprio nome, senza valersi dell'autorità di nessun membro della casa de' Medici 93
1531 5 luglio. Alessandro de' Medici entra in Firenze, e viene da un rescritto dell'imperatore dichiarato capo della repubblica 94
Progetti del Guicciardini per mettersi al coperto dell'odio pubblico 96
1532 4 aprile. Commissione incaricata di mutare la costituzione di Firenze 98
27 aprile. Costituzione monarchica data a Firenze con due consiglj 98
Tirannide ed universale diffidenza di Alessandro de' Medici 99
1534 1 giugno. Pone le fondamenta di una fortezza per dominare Firenze 100
Malcontento universale de' capi del partito dei Medici 101
1533 27 ottobre. Catarina de' Medici sposa Enrico di Francia, che fu poi Enrico II 102
1534 25 settembre. Morte di Clemente VII. Alessandro rimane circondato di nemici 104
Il cardinale de' Medici si mette alla testa dei nemici di Alessandro 105
1535 10 agosto. Ippolito, cardinale de' Medici, avvelenato da Alessandro 106
1535 Gli emigrati fiorentini portano le loro lagnanze contro Alessandro dinanzi all'imperatore in Napoli 106
1536 Febbrajo. Carlo pronunzia un'amnistia a favore degli emigrati, senza cambiare il governo 108
Gli emigrati la rigettano 109
28 febbrajo. Carlo marita sua figliuola con Alessandro, e gli promette protezione 111
Lorenzino de' Medici si acquista il favore di Alessandro con vergognosi servigj 112
1537 Uccide il duca, ch'egli aveva ad arte condotto in casa sua 113
Non tenta di sollevare la città, dove non aveva partigiani 114
Parte alla volta di Bologna e di Venezia, prima che siasi divulgato l'assassinio del duca 116
Il cardinale Cibo, ministro di Alessandro, nasconde la disparizione del duca 117
7-8 gennajo. Trova il duca morto nell'appartamento di Lorenzino 118
8 gennajo. Tutte le fortezze vengono occupate da Alessandro Vitelli, comandante della guardia del duca 118
Il senato è sollecitato dal Guicciardini di nominare un successore al duca 120
9 gennajo. Viene costretto dal terrore a eleggere duca Cosimo de' Medici, lontano parente di Alessandro 121
Guicciardini credeva d'influenzare sull'animo di Cosimo, che rigetta un cotal giogo 122
1537 22 gennajo. I cardinali fiorentini entrano a Firenze per modificarne il governo 123
1 febbrajo. Sono ingannati dal Medici e rimandati 124
28 febbrajo. La successione di Cosimo è confermata da una bolla imperiale pubblicata in Firenze il 21 giugno seguente 125
1-15 luglio. Esercito levato dagli emigrati fiorentini alla Mirandola 127
15 luglio. Gli emigrati entrano in Toscana e s'innoltrano fino a Montemurlo 128
31 luglio. I capi degli emigrati sono sorpresi da Alessandro Vitelli nella fortezza di Montemurlo, e la truppa loro viene dispersa 129
1 agosto. Filippo Strozzi e i suoi compagni fatti prigionieri 130
Cosimo riscatta dalle mani de' soldati i prigionieri, onde metterli a morte 131
20 agosto. Supplizio dei principali emigrati, che sett'anni prima avevano fondato il potere della casa de' Medici 132
Filippo Strozzi rimane un anno intero prigioniero di Alessandro Vitelli 133
1538 Filippo Strozzi si uccide in prigione, invocando chi lo vendichi 135
1547 Lorenzino de' Medici assassinato a Venezia dagli sbirri di Cosimo I 136
1538 Cosimo de' Medici allontana da Firenze il cardinale Cibo e Alessandro Vitelli, che lo avevano innalzato sul trono 136
1538 I senatori, che aveano cooperato alla sua elezione, sono tutti allontanati e muojono senza poter ritornare in grazia di lui 138
1532 Agosto. Clemente VII s'impadronisce d'Ancona a tradimento, mette a morte i magistrati, e toglie alla città tutti i suoi privilegj 139
1530 10 ottobre. Arezzo è sottomessa nuovamente ai Fiorentini, ed è soppressa la nuova repubblica 140
La repubblica di Lucca compra a caro prezzo la protezione dell'imperatore 141
1538 Maggio. Alfonso Piccolomini, duca d'Amalfi, è fatto, mediante la protezione dell'imperatore, capo della repubblica di Siena 143
1541 Primi negoziati de' Sienesi coi Francesi, rivelati da Cosimo I all'imperatore 143
Granvella, mandato a Siena, riduce questa repubblica più dipendente dall'imperatore che non lo era per l'innanzi 144
1544 I porti dello stato sienese occupati dai fratelli Strozzi coll'ajuto dei Francesi e dei Turchi 145
1545 4 marzo. Don Giovanni de Luna e la guarnigione spagnuola cacciati fuori di Siena dal popolo ammutinato 147
1546 Congiura di Francesco Burlamacchi per ridonare la libertà a tutte le repubbliche della Toscana 148
Il Burlamacchi, allora gonfaloniere di Lucca, è denunciato da Cosimo I 150
1546 Viene dato in mano all'imperatore, e condannato a pena capitale in Milano 150
1547 20 ottobre. Don Diego di Mendoza mandato a Siena dall'imperatore 152
1548 4 novembre. Il Mendoza ne riforma il governo, e lo riduce ad una intera dipendenza 152
Mendoza si accinge a fabbricare una fortezza in Siena 152
1552 I Sienesi dimandano ajuto alla Francia 153
Insurrezione contro gli Spagnuoli nel territorio di Siena 154
26 luglio. Gl'insorgenti sono accolti in Siena, e gli Spagnuoli discacciati 155
11 agosto. Il duca di Termini introdotto in Siena con una guarnigione francese 157
1553 Gennajo. Don Pedro di Toledo viene in Toscana per soggiogarvi i Sienesi, ma muore in capo a sei settimane 158
Prima guerra contro Siena, cui pon fine l'apparizione della flotta turca sulle coste di Napoli 159
Giugno. Trattato di pace tra Cosimo I e i Sienesi 160
Cosimo I indotto a servire l'imperatore ad ogni costo, per timore di Pietro Strozzi ch'era appoggiato dal favore del re di Francia 160
1554 26 gennajo. Cosimo raguna le sue truppe, sotto gli ordini del marchese di Malignano, a Poggibonzi 162
27 gennajo. Il Marignano prende per sorpresa un bastione alla porta di Siena 163
1554 Il Marignano, non potendo penetrare nella città, intraprende di bloccarla 164
Egli assedia successivamente le castella dello stato sienese, e fa appiccare gli abitanti che si erano difesi 165
Fine di marzo. Rotta di una divisione dell'esercito del Marignano a Chiusi 166
Ajuti spediti dai Fiorentini, domiciliati in Lione e in Roma, all'esercito dello Strozzi, che attaccava Cosimo de' Medici 167
11 giugno. Pietro Strozzi esce da Siena, passa sulla riva sinistra dell'Arno, sottomette Val di Nievole, e rientra in Siena dopo quindici giorni 168
Carestia in Siena e nei due eserciti 170
2 agosto. Rotta di Pietro Strozzi presso Lucignano 172
Difesa ostinata di Siena, diretta dal signore di Montluc 172
Fredda ferocia del Marignano, cagione dell'attuale spopolazione dello stato di Siena 173
1555 Gennajo. Preliminarj di pacificazione, e splendide promesse fatte da Cosimo I ai Sienesi 175
2 aprile. Capitolazione di Siena, che mantiene la libertà della repubblica 176
21 aprile. Gli emigrati sienesi si ritirano a Montalcino, e vi si mantengono in repubblica fino al 3 aprile del 1559 177
La capitolazione di Siena è scandalosamente violata 177
1557 19 luglio. Cosimo I prende possesso di Siena e l'unisce ai suoi stati 178
1527 Lo stato dei Presidj , staccato da quello di Siena, rimane proprietà degli Spagnuoli 178
Capitolo CXXIII. Rivoluzioni di differenti stati d'Italia, dopo la perdita dell'indipendenza italiana, fino alla fine del sedicesimo secolo. 1531-1600 180
1529 5 agosto-1559 3 aprile. Secondo periodo fra questi due trattati. Lotta fra i medesimi rivali, senza speranza pegl'Italiani di miglior fortuna 181
1559 3 aprile al 2 maggio 1598. Terzo periodo. Pace nell'interno dell'Italia 182
Continua guerra straniera, alla quale la nazione era indifferente 183
Oppressione dell'Italia sotto il regime militare Spagnuolo 183
1529-1600 Scorrerie de' briganti e de' Barbareschi per tutta Italia 184
Compendioso racconto della rivoluzione di ogni governo nel corso degli ultimi due periodi del sedicesimo secolo 185
1535-1553 Carlo III, duca di Savoja, spogliato de' suoi stati dai Francesi, e sagrificato dagl'Imperiali 186
1553-1559 Emmanuele Filiberto, suo figliuolo, è privato dei suoi stati 186
1562 Carlo IX gli ritorna le città che occupava in Piemonte 187
1580-1600 Crescente ingrandimento di Carlo Emmanuele; sue conquiste nella Provenza e nel Delfinato, durante le guerre civili di Francia 188
1588-1601 Contese intorno al marchesato di Saluzzo, che resta alla Savoja 188
I quattro più grandi stati dell'Italia, il ducato di Milano, ed i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, sottomessi alla casa d'Austria 189
1535 24 ottobre. Morte del duca di Milano, dopo un nuovo tentativo per iscuotere il giogo dell'Austria 189
1535-1559 Difesa dello stato di Milano, contro gli attacchi de' Francesi 190
Oppressione e rovina dei Milanesi sotto l'amministrazione spagnuola 191
1563 Tentativi infruttuosi del duca di Sessa per istabilire in Milano l'inquisizione spagnuola 191
Il regno di Napoli difeso contro i Francesi 192
1518-1546 Regno e potenza del secondo Barbarossa, re d'Algeri, e suoi guasti sulle coste di Napoli, di Sicilia e di Sardegna 193
1546-1600 Continuazione de' guasti de' Barbareschi comandati da Dragut, Piali e Ulucciali 194
1539-1553 Amministrazione oppressiva di D. Pedro di Toledo a Napoli 194
1547 D. Pedro tenta inutilmente di stabilire l'inquisizione in Napoli 195
Oppressione de' Regni di Sicilia e di Sardegna 196
1565 Assedio e memorabile difesa di Malta, che salva la Sicilia dall'invasione dei Musulmani 197
1530 Ad onta che si andassero allargando i confini dello stato della chiesa, decresce nulladimeno la potenza dei papi 198
1534 12 ottobre-1549 10 novembre. Regno ed ambizione di Alessandro Farnese, papa col nome di Paolo III 199
Paolo III apparenta la casa Farnese con quelle d'Austria e di Francia 200
Chiede l'investitura del ducato di Milano per suo figliuolo Pier Luigi 201
1545 Agosto. Dona a Pier Luigi Parma e Piacenza erigendoli in ducati 202
1547 10 settembre. Pier Luigi assassinato dai nobili di Piacenza, ed i suoi stati invasi dagl'Imperiali 203
1549 10 novembre. Paolo III muore, lasciando suo nipote Ottavio spogliato di tutti i suoi stati 204
1550 22 febbrajo. Giulio III, successore di Paolo III, rende Parma a Ottavio Farnese 205
1551 27 maggio. Il duca di Parma si mette sotto la protezione della Francia; muove guerra all'imperatore, suo suocero 206
1556 15 settembre. Piacenza è resa al duca di Parma da Filippo II 206
1586 18 settembre-1592 2 decembre. Regno d'Alessandro Farnese, figlio e successore d'Ottavio, nel ducato di Parma 207
1549 9 febbrajo-1555 29 marzo. Regno di Giulio III; quanto Giulio III fosse portato pei piaceri 208
1555 23 maggio. Gian-Piero Caraffa, eletto papa col nome di Paolo IV 208
Tutto il clero si riunisce per opporsi agli attacchi de' riformatori 209
1545-1563 Il concilio di Trento cambia lo spirito della Chiesa 209
Desso riforma la disciplina del clero, ma aumenta il fanatismo 210
Cambiamento totale nel carattere dei papi dopo il concilio tridentino 213
1555-1559 18 agosto. Fanatismo persecutore di Paolo IV. Inquisizione 214
1556 settembre-1557 14 settembre. Guerra di Paolo IV contro Filippo II e il duca d'Alba 215
1569-1585 I regni di Pio IV, Pio V e Gregorio XIII, sono ugualmente fanatici 216
1571 7 ottobre. Vittoria della flotta Cristiana sopra i Turchi a Lepanto 217
1585 24 aprile-1590 20 agosto. Talenti e dispotismo di Sisto V 218
1590-1605 Quattro pontefici regnano fino al fine del secolo 218
1563-1600 Persecuzioni de' papi contro i protestanti d'Italia 219
Alimentano le guerre civili, e le macchinazioni del rimanente dell'Europa 220
Cattiva amministrazione degli stati del papa. Miseria, carestia, peste e distruzione della popolazione 221
Si moltiplicano i masnadieri che formano eserciti 221
L'abitudine del ladroneccio corrompe i costumi nazionali e presso i signori feudatarj e presso i paesani della Sabina 223
1534 31 ottobre. Morte di Alfonso I, duca di Ferrara, al quale succede suo figliuolo Ercole II 224
1534-1559 3 ottobre. Regno d'Ercole II, suoi sforzi per sottrarsi al giogo della Spagna 225
1559-1597 27 ottobre. Regno d'Alfonso II. Estinzione della linea legittima della casa d'Este 226
Don Cesare, figliuolo di un figliuolo naturale di Alfonso I, è accennato come successore di Alfonso II 227
1597 Clemente VII dichiara Ferrara unita alla santa sede 227
1598 13 gennajo. Trattato dietro il quale don Cesare abbandona Ferrara alla santa sede, e si ritira a Modena e a Reggio 228
1538 1 ottobre. Morte di Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino 230
1538-1574 Regno di Guid'Ubaldo. Oppressione del ducato d'Urbino 230
1531-1533 30 aprile. Regno di Giovan Giorgio, ultimo de' Paleologhi, nel marchesato di Monferrato 231
1536 3 novembre. Federico II, duca di Mantova, riceve il possesso del Monferrato. Regno e successori di lui 232
Carattere di Cosimo de' Medici, duca di Firenze 233
1560 Cosimo I crea l'ordine di santo Stefano, per distogliere i Fiorentini dal commercio 234
1562 Assassinio di due figliuoli, e morte della moglie di Cosimo I 234
1564 Cosimo I cede l'amministrazione a suo figliuolo Francesco I, ma si riserba l'autorità suprema 234
1569 Pio V accorda a Cosimo I il titolo di gran duca di Toscana, che Massimiliano II conferma al figliuolo di lui il 2 novembre del 1575 235
1574 21 aprile. Morte di Cosimo I. Successione e indole di Francesco I 236
1578 Francesco I fa assassinare o avvelenare tutti i suoi nemici in Francia e in Inghilterra 237
1579 Matrimonio vergognoso di Francesco I con Bianca Capello 238
1587 19 ottobre. Morte di Francesco I. Indole di Ferdinando suo successore 238
Oligarchia Lucchese. I signori del Cerchiolino 239
1531-1532 Sollevazione repressa in Lucca delle classi inferiori 241
1556 9 dicembre. Legge Martiniana , che circoscrive l'oligarchia Lucchese 241
Malcontento in Genova a cagione dello stabilimento dell'aristocrazia 243
Odio di Gian-Luigi del Fiesco contro Giannettino Doria, nipote di Andrea 243
1547 2 gennajo. Cospirazione di Gian Luigi del Fiesco, che muore appunto quando era per riescire il suo progetto 245
1560 25 novembre. Andrea Doria muore, dopo essersi crudelmente vendicato dei Fieschi 246
1566 I genovesi perdono l'isola di Scio, e la Corsica si ribella 247
1548-1571 Due tentativi degli Spagnuoli per soggiogare Genova 247
1576 17 marzo. Atto di mediazione che ristabilisce la pace tra l'antica e nuova nobiltà di Genova 248
1537-1540 Guerra dei Turchi, in cui i Veneziani perdono l'Arcipelago e il resto del Peloponeso 249
1570-1573 Seconda guerra de' Turchi, in cui i Veneziani perdono l'isola di Cipro 250
Il genio letterario muore in Italia dopo la metà del sedicesimo secolo 251
Capitolo CXXIV . Rivoluzione de' varj stati d'Italia nel corso del diciassettesimo secolo. 1601-1700 253
La storia d'Italia si fa più sterile di mano in mano che più s'avvicina ai tempi nostri 253
Il diciassettesimo secolo è un'epoca di morte politica e letteraria 254
Un secolo può essere infelicissimo, anche quando le sue disgrazie non possono essere argomento di storia, e non lasciano di sè niuna rimembranza 255
Colpo portato al santo legame del matrimonio dalla moda de' Cicisbei , cagione universale di calamità in Italia 256
Scopo politico di questa moda introdottasi nelle corti nel diciassettesimo secolo 257
Abitudine del lavoro, onorato nelle repubbliche, a cui sottentra un nobile ozio 257
Nel diciassettesimo secolo ognuno si gloria de' vizj che altre volte cautamente avrebbe nascosti 259
Aumento del lusso in detrimento del commercio 260
Nuovi titoli che eccitano la vanità ed aguzzano le mortificazioni 260
Stato desolante de' padri di famiglia 262
Le sostituzioni perpetue gli spogliavano delle loro proprietà 263
I privati mali di ciascun individuo strascinavano la nazione ai piaceri de' sensi, che le apparecchiavano nuovi patimenti 264
Il diciassettesimo secolo presenta minori calamità; e maggiore umiliazione del sedicesimo 269
Divisione del XVII secolo tra Filippo III, dal 13 settembre 1596 al 31 marzo 1621; Filippo IV, morto il 7 settembre 1665, e Carlo II morto il 1 novembre 1700 270
I principi italiani non approfittano della decadenza della monarchia Spagnuola per ritornare indipendenti 270
1621 7 novembre 1659. Lotta fra la Spagna e la Francia. Carattere delle guerre dei due cardinali Richelieu e Mazarino 271
1665-1700 Arroganza di Luigi XIV, meno sentita in Italia che nel rimanente dell'Europa 272
Patimenti del ducato di Milano nel XVII secolo, senza rimarchevoli avvenimenti 274
Silenzio della storia sulla Sardegna 275
Onerose contribuzioni del regno di Napoli 275
1665-1700 Accrescimento delle gabelle, contrario ai privilegj del regno 276
1647 7 luglio. Sommossa eccitata dalla gabella de' frutti, diretta da Masaniello 277
Fermento simultaneo di tutta l'Europa pella libertà 277
1647 Il duca d'Arcos, vicerè, compromette la nobiltà di Napoli col popolo 278
16 luglio. Masaniello assassinato per ordine del duca d'Arcos 280
21 agosto. Avendo il duca d'Arcos rivocate le sue promesse, ricomincia la sedizione 281
5 ottobre. Il duca d'Arcos fa bombardare la città dopo la pacificazione 281
7 ottobre. Gli Spagnuoli, discacciati dalla città, si ritirano nelle fortezze 282
Il duca di Guisa, chiamato a Napoli, è dichiarato generalissimo della repubblica 283
Il popolo non pensò che a traslocare l'autorità arbitraria invece di distruggerla 283
I Napolitani ingannati dal duca di Guisa e da Gennaro Annese 284
1648 6 aprile. Gennaro Annese si rimette egli stesso a Napoli nelle mani di Filippo IV, che lo fa poi morire 285
1647 20 maggio. Sommossa di Palermo contro il marchese di Los Velez 286
1674 Agosto. Sommossa di Messina cagionata dalla violazione de' suoi privilegj 287
Ajuti mandati da Luigi XIV a Messina 288
1678 Agosto. I Francesi evacuano Messina precipitosamente 290
Misera sorte di 7000 Messinesi imbarcatisi co' Francesi 292
Crudeltà degli Spagnuoli che rientrano in Messina 292
I rifugiati di Messina espulsi dalla Francia e ridotti alla disperazione 292
Rivoluzioni poco importanti dello stato della chiesa nel XVII secolo 292
1605 Contese di Paolo V colla repubblica di Venezia a motivo delle immunità ecclesiastiche 292
1606 17 aprile. La repubblica di Venezia è scomunicata e interdetta 292
1607 21 aprile. Riconciliazione tra Venezia e il papa di cui è mediatore Enrico IV 292
1623 6 agosto. Elezione di Urbano VIII; sua prodigalità verso i Barberini, suoi nipoti 292
1641 I Barberini cercano di togliere ai Farnesi i ducati di Castro e Ronciglione 292
1644 31 maggio. Pace tra i Barberini e i Farnesi, conchiusa dopo una guerra ridicola 295
1662 Dissapori di Luigi XIV con Alessandro VII a cagione delle franchigie del suo ambasciatore 295
1664 12 febbrajo. Trattato di Pisa, e soddisfazione data da Alessandro VII a Luigi XIV 296
1687 30 gennajo. Nuovi tentativi d'Innocenzo XI per abolire le franchigie. Viene insultato dal marchese di Lavardino 296
1687 La casa di Savoja dura fatica, nel diciassettesimo secolo, a mantenersi in quello stato di grandezza cui era salita nel sedicesimo 297
1600-1630 26 luglio. Fine del regno di Carlo Emmanuele I: sua ambizione 298
1630-1637 7 ottobre. Regno di Vittorio Amedeo; suo attaccamento alla Francia 299
1638-1675 12 giugno. Reggenza di Cristina; guerre civili, e regno di Carlo Emmanuele II 300
1675-1700 Principj di Vittorio Amedeo II; sua abilità e poca buona fede 300
1600-1609 7 febbrajo. Fine del regno di Ferdinando I in Toscana; fondazione di Livorno 301
1609-1621 28 febbrajo. Regno di Cosimo II; suo genio pella marina 302
1621-1670 Regno di Ferdinando II; dolcezza, debolezza ed apatia del governo 303
1670-1700 Principj di Cosimo III; diffidenza, fasto e bigotteria di questo principe 303
1592-1622 Marzo. Regno di Rannuccio I a Parma; sua tirannide 304
1622-1646 12 settembre. Regno di Odoardo Farnese; sua presunzione e suo governo 306
1646-1694 11 dicembre. Regno di Rannuccio II, diretto da' suoi favoriti 307
1597-1628 11 dicembre. Regno di Cesare d'Este in Modena 309
1629 24 luglio. Alfonso III, suo figliuolo, si fa cappuccino 309
1629-1658 14 ottobre. Regno e guerre di Francesco I pegli Imperiali, poi pei Francesi 309
1658-1662 Regno di Alfonso IV 310
1662-1694 6 settembre. Regno di Francesco II 310
1600-1627 26 dicembre. Regni e dissolutezze di quattro Gonzaga in Mantova 311
1627 Successione di Carlo Gonzaga, duca di Nevers. Suo figliuolo sposa l'erede del Monferrato 311
1630 18 luglio. Sacco di Mantova, assediata dagl'Imperiali. Calamità del Monferrato 313
1637-1665 15 settembre. Regno di Carlo II di Gonzaga 314
1665-1700 Regno, viltà e scostumatezza di Ferdinando Carlo di Gonzaga 314
1574-1626 Regno di Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino 315
La repubblica di Lucca non presenta in questo secolo nessun avvenimento 315
1626 Due fazioni in Genova; quella delle famiglie inscritte e che governavano, e quella delle famiglie escluse dal governo 316
1628 30 marzo. Congiura di Vachero contro l'aristocrazia di Genova 318
1684 18 maggio. Bombardamento di Genova per ordine di Luigi XIV 319
1600-1619 Vigore della repubblica di Venezia; sua guerra cogli Uscochi, sudditi dell'Austria 320
1617 Alleanza de' Veneziani cogli Olandesi; i Veneziani si avvicinano ai protestanti 321
1618 Congiura del marchese di Bedmar contro Venezia 322
1619-1637 I Veneziani sostengono i diritti de' Grigioni nella Valtellina 322
1645 25 giugno. I Turchi attaccano Candia. Guerra di 25 anni 323
1669 6 settembre. Capitolazione di Candia. Pace coi Turchi 324
1684-1699 Seconda guerra coi Turchi; conquista della Morea; vittorie di Francesco Morosini e di Konigsmark; pace di Carlowitz 325
Capitolo CXXV. Ultime rivoluzioni degli antichi stati d'Italia, dopo l'apertura della guerra della successione di Spagna fino all'epoca della rivoluzione francese. 1701-1789 327
Effetti della schiavitù dell'Italia sulla letteratura e i talenti 327
Le quattro guerre della prima metà del XVIII secolo rendono una specie d'indipendenza all'Italia 328
Ma questa indipendenza non si può mantenere quando lo spirito di vita è distrutto 329
1701-1713 Guerra della successione di Spagna 330
1713 11 aprile. Incremento che riceve la casa di Savoja col trattato d'Utrecht 331
1717-1720 Guerra della quadruplice alleanza 332
1720 17 febbrajo. Pace colla Spagna. Successione eventuale di Parma e di Toscana promessa a don Carlo 333
1733-1735 Guerra dell'elezione di Polonia 334
1738 18 novembre. Trattato di Vienna. Indipendenza del regno delle due Sicilie 335
1741-1748 Guerra della successione d'Austria 336
1748 18 ottobre. Trattato di Aquisgrana: ducato di Parma dato ad un Borbone 337
La Toscana promessa al duca di Lorena 338
Debolezza e nullità dell'Italia ad onta di quanto la pace di Aquisgrana aveva operato pella sua indipendenza 339
1675-1730 Regno di Vittorio Amedeo II di Savoja 340
1703 Luglio. Lascia i Borboni per unirsi all'Austria 340
1706 7 settembre. I Francesi sono sconfitti presso Torino dal principe Eugenio 342
Riunione nel Monferrato al Piemonte; l'Austria non cede il Vigevanasco 342
1714-1718 Vittorio Amedeo, re di Sicilia; le sue contese col Clero 343
1718 18 ottobre. Consente al contraccambio della Sicilia colla Sardegna 344
1720 Agosto. Vittorio Amedeo entra in possesso della Sardegna 345
1720-1730 Attività e talenti di Vittorio Amedeo nella sua amministrazione 345
1730 3 settembre. Abdicazione di Vittorio Amedeo a favore di Carlo Emmanuele III 346
1731 28 settembre. Vittorio Amedeo è arrestato per ordine di suo figlio 346
1735 3 ottobre. Carlo Emmanuele III acquista colla pace Novara e Tortona 347
1742 1 febbrajo. Trattato d'alleanza della Savoja coll'Austria pella difesa del Milanese 348
1743 13 settembre. Trattato di Worms tra i suddetti. Piacenza promessa alla Savoja 349
Nello stesso tempo Carlo Emmanuele tratta colla casa di Borbone 349
1773 20 gennajo. Morte di Carlo Emmanuele III. Vittorio Amedeo III gli succede 350
1701-1748 Smembramento successivo del ducato di Milano 351
1765 18 agosto-1790 Migliore amministrazione della Lombardia sotto Giuseppe II 351
1708 5 luglio. Morte di Ferdinando Carlo di Gonzaga. Il ducato di Mantova confiscato e riunito alla Lombardia Austriaca 352
1746 15 agosto. Morte dell'ultimo Gonzaga di Guastalla; suoi stati riuniti a quelli di Parma 353
1694-1727 26 febbrajo. Regno di Francesco Farnese a Parma e Piacenza 354
1714 16 settembre. Matrimonio d'Elisabetta, nipote di Francesco, con Filippo V di Spagna 355
1720 17 febbrajo. Successione di Parma assicurata ad un figlio d'Elisabetta in forza della quadruplice alleanza 356
1727-1731 20 gennajo. Regno d'Antonio, ultimo de' Farnesi, in Parma 357
1731 Enrichetta d'Este, vedova d'Antonio, dice di essere incinta e resta a Parma fino a settembre 358
1732 9 settembre. Don Carlo, figliuolo primogenito d'Elisabetta Farnese, entra in Parma 359
1733 Don Carlo si dichiara maggiore nell'età di diciott'anni, e prende il comando dell'armata Spagnuola 359
1734 Febbrajo. Intraprende la conquista del regno di Napoli, sotto la direzione del duca di Montemar 360
I due regni di Napoli e di Sicilia conquistati da don Carlo 360
1736 3 maggio. Gli Austriaci entrano in Parma ed in Piacenza, dopo che gli Spagnuoli ne hanno portati via tutti gli effetti preziosi dei Farnesi 361
1742 Don Filippo, secondo figlio d'Elisabetta Farnese, pretende al retaggio di Parma 362
1745 Settembre. Don Filippo occupa Parma poi Milano 363
1718 18 ottobre. I ducati di Parma, Piacenza e Guastalla assicurati a D. Filippo 364
1765 18 luglio. Morte di Filippo. Don Ferdinando gli succede 365
1694-1737 26 ottobre. Regno di Rinaldo d'Este a Modena e Reggio 365
1718 Rinaldo compra il piccolo ducato della Mirandola, confiscato sull'ultimo dei Pichi 366
1737-1780 23 febbrajo. Regno di Francesco III; parte che prende alla guerra della successione d'Austria, come generale de' Francesi 366
1780-1796 Regno d'Ercole III. Riunione de' ducati di Massa Carrara e Modena in conseguenza del matrimonio di questo principe con Teresa Cibo 367
Estinzione del maggior numero delle case sovrane d'Italia 369
1771 14 ottobre. Ultima figlia della casa d'Este, maritata con Ferdinando d'Austria 369
1670-1723 31 ottobre. Regno in Toscana di Cosimo III de' Medici 370
Matrimonj sterili di tre figliuoli di Cosimo, e di suo fratello 370
1723-1737 9 luglio. Regno di Giovanni Gastone, ultimo de' Medici 372
1737-1765 18 agosto. Regno in Toscana di Francesco II, duca di Lorena e imperatore 373
1743 18 febbrajo. Morte della principessa Palatina, sorella dell'ultimo gran duca Medici 373
1765-1790 20 febbrajo. Regno di Pietro Leopoldo in Toscana 374
1738-1759 10 agosto. Regno di don Carlo, Carlo VII e V nelle due Sicilie 376
Stato misero della famiglia di don Carlo, che passa al trono di Spagna 377
1759-1799 Regno di Ferdinando IV a Napoli 378
1700-1721 19 marzo. Regno del papa Clemente XI (Giovanni Francesco Albani) 379
1721-1724 7 marzo. Regno d'Innocenzo XIII (Michel Angelo Conti) 379
1724-1730 21 febbrajo. Regno di Benedetto XIII (Vincenzo Maria Orsini) 380
1730-1740 6 febbrajo. Regno di Clemente XII (Lorenzo Corsini) 381
1735 Gli stati della Chiesa guastati dagli Spagnuoli e gli Austriaci 382
1739 Ottobre. Repubblica di san Marino sorpresa dal cardinale Alberoni, e riunita alla santa sede; poi riposta in libertà da Clemente XII 383
1740-1758 3 maggio. Regno di Benedetto XIV (Prospero Lambertini) 384
1742-1748 Lo stato della Chiesa guastato durante la guerra della successione d'Austria 385
1758-1769 3 febbrajo. Regno di Clemente XIII (Carlo Rezzonico) 386
1769-1774 22 settembre. Regno di Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli) 387
1773 21 luglio. Clemente XIV sopprime l'ordine dei Gesuiti 388
1775-1779 29 agosto. Regno di Pio VI 388
Lavori infruttuosi di Pio VI nelle paludi pontine 389
1700-1713 La repubblica di Venezia non prende alcuna parte alla guerra della successione di Spagna 390
1715-1718 La Morca conquistata sui Veneziani da Achmet III 391
1718 27 giugno. Tregua di Passarowitz, che regola i confini di Venezia coi Turchi 392
1700-1789 La storia della repubblica di Lucca è nulla in questo secolo 392
1713 La repubblica di Genova compra dall'imperatore il marchesato di Finale 393
1730-1768 Guerre de' Genovesi colla Corsica ribellata, che poi cedono alla Francia 394
1746 16 giugno. Sconfitta de' Borboni a Piacenza, che espone Genova alle vendette degli Austriaci 395
6 settembre. Capitolazione di Genova al marchese Botta, generale austriaco 396
Gli Austriaci violano la capitolazione, e riducono Genova alla disperazione 396
5 dicembre. Sommossa del popolo genovese che discaccia gli Austriaci dalla città 397
10 dicembre. Gli Austriaci ripassano la Bocchetta, e si ritirano in Lombardia 399
1748 18 ottobre. La repubblica di Genova compresa nel trattato d'Aquisgrana 400
La sommossa di Genova è il solo avvenimento veramente istorico di questo secolo 400
1748 La nazione italiana, straniera ai suoi monarchi, non prendeva nessuno interesse alla loro politica 401
Distruggendo le forze morali di una nazione, si distrugge la nazione medesima 402
L'Italia, alla guerra della rivoluzione, non ha avuto nè la volontà nè la forza di difendere la sua indipendenza 403
Capitolo CXXVI. Intorno alla libertà degl'Italiani nei tempi delle loro repubbliche. 404
Paragonando l'Italia quale era nel quindicesimo secolo all'Italia quale diventò nel diciottesimo secolo, si conosce la grande influenza della sua libertà 404
Grandezza dei templi esistenti, e miseria dei fedeli che ora vi si raccolgono 405
Frequenza e magnificenza delle città che cadono in rovina 405
Rinnovamento di un dotto metodo di coltivazione, a quell'epoca in cui da per tutto i paesani erano schiavi 406
Immenso capitale impiegato nello scavamento dei canali della Lombardia, e nell'assodamento a foggia di terrapieni del suolo della Toscana 407
L'Italia è la terra dei morti; l'attuale generazione non avrebbe potuto far nulla di ciò ch'ella possiede 408
La libertà che diede tanta vita all'Italia, non era quella che oggi cerchiamo 409
L'antica libertà era una partecipazione alla sovranità; la moderna è una protezione della felicità e dell'indipendenza; quella è attiva, questa passiva 409
Gl'Italiani chiamavano libero qualunque governo repubblicano 410
Nelle oligarchie le sole famiglie proprietarie della sovranità godevano della libertà attiva; la libertà passiva non esisteva per nessuno 411
Il mantenimento della schiavitù presso gli antichi, aveali impediti di ricercare nella dignità dell'uomo l'origine della libertà 412
L'abolizione della domestica schiavitù fece le repubbliche italiane di molto superiori a quelle dell'antichità. In qual modo questa si effettuò 413
Al tempo dell'impero romano, intere campagne quasi deserte erano coltivate da mandre di schiavi 414
La maggior parte degli schiavi delle campagne furono rapiti dai Barbari 415
I Barbari, stabilendosi in Italia, costrinsero gli uomini liberi a lavorare. Invenzione della coltura a metà frutto a favor loro 416
Danno bentosto la libertà ai loro schiavi, perchè il lavoro del libero agricoltore rende loro assai maggior profitto che non quello dei servi 417
La legge non abolisce la schiavitù, e i papi spesso la rinnovarono; ma l'interesse personale l'ha sempre distrutta 418
Il fanatismo religioso ha solo conservato i resti della schiavitù 419
I filosofi hanno fondato le teorie moderne della libertà sull'abolizione della schiavitù e la conservazione della monarchia 420
La libertà degli antichi essendo un diritto, non si esaminava se fosse necessaria alla felicità 421
I moderni hanno esaminato in che modo dalla libertà dipenda anche la felicità; perchè, secondo loro, tutti gli uomini hanno diritto ad uno stato di vita felice 422
Se il governo non protegge cotesta felicità nelle persone, nell'onore, nelle proprietà, nei sentimenti morali di ciascun individuo, qualunque sia l'origine di cotale governo desso è tirannico 422
Il governo deve proteggere ciascun individuo contro gli altri, non contro sè medesimo; e perciò l'azione del governo non si deve estendere nè sui pensieri, nè sulla coscienza 423
È un violare la libertà il perseguitare quelle colpe, le quali non si possono castigare senza un'inquisizione peggiore pella società che non la colpa medesima 423
La libertà della stampa, della pubblica difesa delle proprie opinioni, della petizione, sono le guarenzie politiche di questa libertà passiva 424
La libertà dei moderni non era guarentita nelle repubbliche italiane 425
La processura criminale vi era viziata dai medesimi difetti che negli stati dispotici 425
Divisione dei poteri esecutivi e giudiziarj spesso non conosciuta 426
Insufficienti precauzioni per guarentire l'imparzialità dei giudici 427
Istruzione secreta, tortura e supplizj atroci 428
Sentenze pronunziate dalle balìe con rivoluzionaria autorità 429
Gl'Italiani permettevano al governo di giudicare le opinioni e i pensieri 429
L'eresia, la magia, il malcontento, sottomessi alla giurisdizione dei tribunali 430
La persecuzione della bestemmia fu cagione di processure vessatorie e quasi sempre ingiuste 431
Altri delitti di semplici parole castigati con eccessiva severità 432
Processi pella conservazione dei costumi spesse volte più scandalosi dello stesso disordine 432
La libertà della stampa incognita alle repubbliche italiane 434
Il diritto di petizione similmente incognito 434
La libertà di sostenere le proprie opinioni nei consiglj non era neppure protetta 435
La minorità legava la maggiorità con una muta opposizione 436
L'adesione della minorità spesso ottenuta colla violenza 438
In che cosa consistesse la libertà delle repubbliche italiane 439
Gl'Italiani non erano liberi come governati ma come governanti 440
Presso di loro ogni autorità esercitata sul popolo emanava dal popolo 441
Dopo un determinato tempo, l'autorità dei mandatarj del popolo ritornava al popolo; nessuno de' suoi mandati non era irrevocabile 442
Eccezione; il doge di Venezia 443
Altre eccezioni; le famiglie che s'innalzavano alla tirannide 444
L'esistenza di poteri irrevocabili in una repubblica implica contraddizione 445
Ogni depositario dell'autorità pubblica era risponsabile verso il popolo 446
Nelle repubbliche, la risponsabilità non viene esercitata sui magistrati che quando escono di carica 447
Questo inconveniente è nullo, quando le cariche durano breve tempo 447
Divieto , riposo cui erano tenuti i magistrati che uscivano di carica 448
Sindicato , inquisizione giuridica e necessaria sulla amministrazione di alcuni magistrati allo spirare delle loro funzioni 448
Superiorità delle costituzioni delle repubbliche italiane su quelle delle altre repubbliche antiche 449
La risponsabilità assicurata colla simultanea amovibilità di tutti i consiglj 450
La prosperità nazionale era dipendente dalla risponsabilità dei magistrati, dalla dignità dei cittadini e dall'emulazione di tutte le classi 451
Il timore della risponsabilità pone freno al potere giudiziario 452
I magistrati temevano coloro che sarebbero per succeder loro negl'impieghi 453
Quegli che avea fatto la legge ritornava ad essere semplice cittadino, e un altro era incaricato di farla eseguire 454
La libertà italiana assai più contribuiva alla virtù che alla felicità dei cittadini 455
Emulazione generale eccitata nel popolo dall'aspettazione degl'impieghi 455
È giusto di avere in considerazione il divertimento di una nazione, poich'esso fa parte della sua felicità; desso era costante e nobile 456
Perfezionamento dell'uomo; scopo principale del governo 457
Insaziabile avidità d'imparare, che allora caratterizzava i Fiorentini 458
Censura esercitata dalla pubblica opinione sulla condotta di ciascuno 459
La libertà e la filosofia degli antichi avevano per iscopo la virtù; la libertà e la filosofia de' moderni ha per iscopo la felicità 460
È dovere del legislatore di conciliare le due libertà, e sostenere l'una coll'altra 461
Capitolo CXXVII. Quali sono le cause che mutarono il carattere degl'Italiani dopo essere state ridotte in servitù le loro repubbliche. 463
Egli è un errore comune lo attribuire agl'Italiani di una volta il carattere degl'Italiani d'oggi 463
I vizj delle pubbliche instituzioni d'Italia fanno l'apologia degl'Italiani 464
La religione, l'educazione, la legislazione, e il punto d'onore hanno, ciascuna per la sua parte, contribuito ad alterare il carattere nazionale 465
La religione, fra tutte le forze morali, è quella che può operare il maggior bene e il maggior male 465
La religione cattolica non ha la medesima influenza nel mezzogiorno come nel nord, nè ugualmente dopo come prima del concilio tridentino 466
Rivoluzione che comincia nello spirito della Chiesa col pontificato di Paolo IV 467
Spaventati dalla riforma, i papi abbandonano la causa dei popoli per quella dei re 468
La riformazione ha corretti i costumi e riscaldato lo zelo, ma anche aumentato il potere del clero cattolico 469
La Chiesa, coll'impadronirsi della morale, ha sostituito lo studio dei casisti a quello della nostra propria coscienza 470
I casisti hanno fatta la morale estranea al cuore ed alla ragione 471
Il salutare orrore che debbe inspirare il delitto fu considerevolmente diminuito da una erronea classificazione dei peccati 471
La dottrina della penitenza e dell'assoluzione riduce il dovere costante della vita di ogni buon cristiano ad un conto da regolarsi all'articolo di morte 472
In Italia il castigo dei condannati li fa sempre parere martirj agli occhi del popolo 474
Il concilio tridentino corregge, ma non distrugge il traffico delle indulgenze 474
Le indulgenze gratuite non sono meno fatali alla morale 475
Il caso e non la virtù decise della sorte eterna dell'anima del moribondo, secondo che egli potè o no confessarsi ed essere assolto 476
I comandamenti della Chiesa furono posti invece di quelli di Dio e della coscienza 477
Quanto più l'uomo divoto è regolare nelle sue pratiche di pietà, tanto più si crede dispensato dall'esercitare la virtù 478
L'interesse sacerdotale ha corrotto tutte le virtù ch'egli ha sottomesse alla legislazione dei casisti 478
Lo studio filosofico della morale è severamente interdetto 478
La religione ha insegnato in Italia ad ingannare la propria coscienza, e non ad ubbidirle 479
Educazione : sua influenza intimamente legata a quella della religione 481
Al sedicesimo secolo, l'educazione viene tolta ai filologhi indipendenti, ed è confidata ai monaci 482
Emulazione e attività dello spirito dei primi; servile docilità dei secondi 483
I frati escludono dalle scuole ogni contenzione di spirito 484
Lo studio dell'antichità è continuato nelle scuole, ma separato da ogni sentimento e da ogni riflessione 485
Tra le mani dei frati lo studio dell'antichità diventa una scienza di fatti e d'autorità 486
Inerzia assoluta dello spirito; risultato di questa educazione 487
Le tautologie dell'orazioni sono un esercizio di distrazione se non lo sono d'ipocrisia 488
La memoria sola chiamata alle lezioni, s'incarica con ripugnanza della soma impostale 488
L'ubbidienza e la disciplina monastica impediscono lo scolaro fin nelle sue ricreazioni 489
Disgrazia di una nazione educata a questo modo 490
Legislazione : essa è tutta quanta basata, come la religione e l'educazione, sopra un'ubbidienza cieca ed implicita 492
Il potere dei principi è assoluto; le leggi, la giustizia, i privilegj gli sono sottomessi 493
La legge emana dalla volontà del principe senza discussione, nè deliberazione pubblica 494
L'istruzione pubblica dei processi è grande scuola di morale pel popolo 496
In Italia, ove dessa instruzione è secreta, rende odiosa la giustizia 496
In Italia tutti i ministri della giustizia sono dichiarati infami 497
Il loro capo, quantunque infame siccome loro, ha in mano tutta l'autorità d'un magistrato 497
Tutto il pubblico è legato col malfattore contro la giustizia 498
Il giudizio delle cause lasciato ad un giudice solo; il che libera i magistrati dal più salutare freno, quale quello di far palesi tutti i loro motivi 499
Frequenza dei processi economici, nei quali il prevenuto non conosce l'accusa, e non è ammesso a difendersi 500
La cattiva giustizia d'Italia suggerisce ad ognuno abitudini di dissimulazione, di adulazione e di bassezza 501
Abitudini di ferocia inspirate al popolo dallo spettacolo della tortura 503
Influenza morale della legislazione civile, che si estende su tutti i cittadini 504
L'ordine di successione fu cangiato alla caduta della libertà, coll'instituzione delle sostituzioni perpetue e dei favori accordati alle primogeniture 504
La madre e i fratelli fatti dipendenti dei figliuoli maggiori, il che sovverte tutti i sentimenti di natura 506
I figliuoli minori condannati all'ozio e alla bassezza, perchè ridotti alla sola pensione alimentaria 506
Il ricorso alla grazia nelle cause civili guasta ogni nazionale abitudine di giustizia 507
Infinita moltiplicazione dei processi, che toglie qualunque vergogna al carattere di litigioso 508
Il punto d'onore ; complemento delle instituzioni nazionali 510
Il punto d'onore confondendosi nelle repubbliche coll'opinione pubblica, vi si fa appena rimarcare 510
I Castigliani ricevettero dagli Arabi e portarono in Italia un punto d'onore di un carattere diverso 511
Tre principj fondamentali del punto d'onore arabo e castigliano 512
1.º Delicatezza esagerata sul punto della castità delle donne, la quale toglie loro quell'onesta libertà di cui avevano goduto nelle repubbliche 512
Induce a porre in non cale la morale educazione, che sola può dare alle donne armi da difendersi 513
Cotale punto d'onore abbandonato alla fine del XVII secolo, senza sostituirglisi niuna altra guarenzia della virtù delle donne 514
Lo sposo è costretto di distruggere l'educazione monastica di sua moglie 514
Lo sregolamento delle donne italiane è opera delle instituzioni sociali 515
2.º Delicatezza esagerata sul punto del valore negli uomini. Le repubbliche italiane erano state viziate dall'opposto difetto 515
Le guerre del sedicesimo secolo richiamano gl'Italiani a pigliare le armi, e destano nel loro cuore il punto d'onore castigliano 516
Decadimento della milizia italiana nel XVII secolo; la nobiltà ricade nella mollezza e nel riposo 517
Nel XVIII secolo gl'Italiani confessano senza arrossire il loro difetto di coraggio 518
3.º Necessità imposta all'uomo d'onore di vendicare l'offesa ricevuta 518
Le nazioni del nord si battono per difendere il loro onore, non per vendicarsi 519
I Mori, i Castigliani e poi gl'Italiani vollero mostrare, non già valore, ma forza d'animo e odio implacabile 520
Il veleno e il ferro adoperati per soddisfare l'onore oltraggiato 521
Questo barbaro punto d'onore è abbandonato ne' presenti tempi, ma ha lasciato una fatale indulgenza pella perfidia 522
Indulgenza che meritano i vizj degl'Italiani, perchè sono opera de' loro padroni 523
Virtù ingenite che sono rimaste agl'Italiani 524
Gl'Italiani non hanno perduto il seme delle grandi cose 525
Fine della Tavola.
NOTE:
1. Ben. Varchi, l. V, p. 49. — Bern. Segni, l. II, p. 34.
2. Ben. Varchi, l. VIII, p. 224. — Bern. Segni, l. II, p. 38.
3. Ben. Varchi, l. VI, p. 134. — Bern. Segni, l. I, p. 17.
4. Ben. Varchi Stor. Fior., l. VII, p. 194, 200. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 349. — Bern. Segni, l. II, p. 51.
5. Ben. Varchi, l. VIII, p. 234. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 349. — Bern. Segni, l. III, p. 75.
6. Ben. Varchi, l. VIII, p. 234. — Bern. Segni, l. II, p. 56. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 349. — Lett. de' Princ., t. II, f. 172 e seg.
7. Jac. Nardi, l. VIII, p. 342-345. — Stor. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 40.
8. Fil. de' Nerli, l. IX, p. 186. — Bern. Segni, l. I, p. 18, l. II, p. 51.
9. Bern. Segni, l. I, p. 27.
10. Lettere de' Principi. Varie lettere di Jacopo Salviati scritte in principio del 1529, t. II, f. 154 e seg.
11. Ben. Varchi, l. VIII, p. 243. — Bern. Segni, l. II, p. 59. — P. Jovii, l. XXVII, p. 86. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 343. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 41. — Fil. de' Nerli, l. VIII, p. 179.
12. Ben. Varchi, l. VIII, p. 244. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 344. — Gio. Cambi, p. 43. — Comment. del Nerli, l. VIII, p. 180. — Bern. Segni, l. II, p. 60. — P. Jovii, l. XXVII, p. 86.
13. Ben. Varchi, l. VIII, p. 251, 271. — Bern. Segni, l. II, p. 61-67. — Comment. di Fil. de' Nerli, l. VIII, p. 182. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 344. — P. Jovii, l. XXVII, p. 89.
14. Ben. Varchi, l. IX, p. 20. — Bern. Segni, l. III, p. 73. — Comment. di Filippo de' Nerli, l. IX, p. 188.
15. Ben. Varchi Stor. Fior., l. IX, p. 30. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 189.
16. Jac. Nardi, l. VIII, p. 353.
17. Fil. de' Nerli, l. X, p. 216. — Bern. Segni, l. III, p. 97.
18. Furono questi Jacopo Morelli, Zanobi Carnesecchi, Anton Francesco Albizzi, Bernardo di Castiglione, Alfonso Strozzi, Agostini Dini e Filippo Baroncini. Ben. Varchi, l. IX, p. 34.
19. Ivi, p. 35.
20. Ben. Varchi, l. IX, p. 38-42. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 354. — Filip. de' Nerli, l. IX, p. 191-195. — Bern. Segni, l. III, p. 75. — Pare che Michel Angelo provasse terrori altrettanto più vivi, quanto più vasta era la sua immaginazione. Vedendo i primi rovesci de' Fiorentini, fuggì fino a Venezia, di dove un sentimento di rimorso e di vergogna lo ricondusse bentosto al suo posto ed alla direzione delle fortificazioni. Quando fu presa la città, venne colpito da nuovo spavento, e si tenne molto tempo nascosto; ma poichè Clemente VII lo ebbe fatto rassicurare, intraprese per riconoscenza le statue dei sepolcri della cappella Laurenziana. Ben. Varchi, t. IV, l. XII, p. 293-294.
21. Ben. Varchi, l. IX, p. 54. — Bern. Segni, l. III, p. 77. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 350.
22. Ben. Varchi, l. IX, p. 50.
23. Ben. Varchi, l. IX, p. 53.
24. Ben. Varchi, l. X, p. 128. — Bern. Segni, l. III, p. 99. — P. Jovii, l. XXVII, p. 116.
25. Ben. Varchi, l. X, p. 132. — Comment. di Fil. de' Nerli, l. IX, p. 192. — Bern. Segni, l. III, p. 78. — P. Jovii, l. XXVII, p. 112.
26. Ben. Varchi, l. X, p. 137. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 350. — Bern. Segni, l. III, p. 86. — P. Jovii, l. XXVII, p. 113.
27. Ben. Varchi, l. X, p. 142. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 351. — Bern. Segni, l. III, p. 88. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 192. — P. Jovii, l. XXVII, p. 114.
28. Ben. Varchi Stor. Fior., l. X, p. 155. — Bern. Segni, l. III, p. 87-90.
29. Ben. Varchi, l. X, p. 170. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 198. — Bern. Segni, l. III, p. 92. — Fr. Guicciardini, l. XIX, p. 532.
30. Ben. Varchi, l. X, p. 167. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 196. — Bern. Segni, l. III, p. 86.
31. Ben. Varchi, l. X, p. 173.
32. Ivi, l. IX, p. 81. — Jac. de' Nerli, l. VIII, p. 356.
33. Ben. Varchi, l. X, p. 185. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 353. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 197 e 202.
34. Bern. Segni, l. III, p. 89.
35. Marco Guazzo Ist. de' suoi tempi, f. 52. — Lett. de' Principi, t. II, f. 137 e seg.
36. Bern. Segni, l. III, p. 99; l. IV, p. 104. — P. Jovii Hist., l. XXVIII, p. 131.
37. Jac. Nardi, l. VIII, p. 363. — Bern. Segni, l. IV, p. 103. — Ben. Varchi, l. X, p. 222.
38. Ben. Varchi, l. X, p. 224. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542.
39. Ben. Varchi, l. X, p. 227. — Bern. Segni, l. IV, p. 103. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 365. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 135. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 540.
40. Ben. Varchi, l. X, p. 229.
41. Ben. Varchi, l. X, p. 238. — Bern. Segni, l. IV, p. 104. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 540. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 130.
42. Ben. Varchi, l. X, p. 243. — Bern. Segni, l. IV, p. 104.
43. Ben. Varchi, l. X, p. 245.
44. Ben. Varchi, l. X, p. 257-261.
45. Ivi, p. 268. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 359. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 540. — Fil. de' Nerli, l. IX, p. 207. — Bern. Segni, l. III, p. 98.
46. Ben. Varchi Stor. Fior., l. X, p. 279. — Filippo de' Nerli, l. IX, p. 206. — Bern. Segni, l. IV, p. 102.
47. Ben. Varchi, l. X, p. 237. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 370. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 47. — Filippo de' Nerli, l. IX, p. 204. — Bern. Segni, l. IV, p. 103.
48. Jac. Nardi, l. VIII, p. 359. — Bern. Segni, l. IV, p. 103. — P. Jovii Hist. sui temp., l. XXVIII, p. 130.
49. Ben. Varchi Stor. Fior., t. IV, l. XI, p. 41. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 541. — Filip. dei Nerli, l. IX, p. 207.
50. Ben. Varchi, t. IV, l. XI, p. 23.
51. Ben. Varchi. l. XI, p. 24. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 358. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 48. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 219. — Bern. Segni, l. IV, p. 103.
52. Ben. Varchi, l. XI, t. IV, p. 19. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 541.
53. Fil. de' Nerli, l. X, p. 217, 218. — Bern. Segni, l. IV, p. 106. — Ben. Varchi, t. IV, l. XI, p. 12-18.
54. Ben. Varchi, l. XI, p. 39, 178. — Bern. Segni, l. IV, p. 116. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 52, 66.
55. Ben. Varchi, t. IV, l. XI, p. 30 e seg. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 359.
56. Ben. Varchi, l. XI, p. 54. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542.
57. Ben. Varchi, l. XI, p. 71.
58. Ben. Varchi, l. XI, p. 77. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 362.
59. Benedetto Varchi, l. XI, p. 100. — Jac. Nardi, l. IX, p. 374. — Filippo de' Nerli, l. X, p. 231. — Ber. Segni, l. IV, p. 117. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 146.
60. Ben. Varchi, l. XI, p. 112.
61. Ben. Varchi, l. XI, p. 117.
62. Ivi, p. 118. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 366.
63. Ben. Varchi, l. XI, p. 131. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542. — Bern. Segni, l. IV, p. 110. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 148.
64. Ben. Varchi, l. XI. p. 93.
65. Ben. Varchi, l. XI, p. 91. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 367. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 543. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 226. — Bern. Segni, l. IV, p. 112. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 153.
66. Ben. Varchi, l. XI, p. 149. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 358. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542. — P. Jovii, l. XXVIII, p. 150. — B. Segni, l. IV, p. 111. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 226. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 54.
67. Ben. Varchi, l. XI, p. 162. — P. Jovii, l. XXIX, p. 134.
68. Ben. Varchi, l. XI, p. 164. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 368. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 544. — Gio. Cambi, t. XXII, p. 66. — B. Segni, l. IV, p. 114. — P. Jovii, l. XXIX, p. 157.
69. Ben. Varchi, l. XI, p. 175, 176. — Jac. Nardi, l. IX, p. 375. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 234.
70. Jac. Nardi, l. IX, p. 375. — Ben. Varchi, l. XI, p. 69.
71. Ben. Varchi, l. XI, p. 208. — Jac. Nardi, l. VIII, p. 370. — Bern. Segni, l. IV, p. 120. — P. Jovii, l. XXIX, p. 160.
72. Jac. Nardi, l. IX, p. 376.
73. Ben. Varchi, l. XI, p. 210. — Bern. Segni, l. IV, p. 121. — Filip. de' Nerli, l. X, p. 236. — P. Jovii, l. XXIX, p. 162.
74. Ben. Varchi, l. XI, p. 213. — P. Jovii, l. XXIX, p. 163.
75. Ben. Varchi, l. XI, p. 191.
76. Ben. Varchi, l. XI, p. 179, 204. — Jac. Nardi, l. IX, p. 385.
77. Ben. Varchi, l. XI, p. 214.
78. Jac. Nardi, l. IX, p. 377.
79. Ben. Varchi, l. XI, p. 215. — Jac. Nardi, l. IX, p. 377. — Bern. Segni, l. IV, p. 122.
80. Ben. Varchi, l. XI, p. 217. — Jac. Nardi, l. IX, p. 377, 385. — Bern. Segni, l. IV, p. 122. — P. Jovii, l. XXIX, p. 164.
81. Ben. Varchi, l. XI, p. 219. — Jac. Nardi, l. IX, p. 378. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 544. — P. Jovii, l. XXIX, p. 168. — Bern. Segni, l. IV, p. 123. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 67. — L'ultimo racconta questi fatti assai inesattamente, sebbene scrivesse giorno per giorno le notizie che si avevano a Firenze.
82. Ben. Varchi, l. XI, p. 221. — Jac. Nardi, l. IX, p. 378. — P. Jovii, l. XXIX, p. 165.
83. Ben. Varchi, l. XI, p. 229. — Bern. Segni, l. IV, p. 124. — Jac. Nardi, l. IX, p. 379. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 68.
84. Fil. de' Nerli, l. X, p. 225. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 545. — P. Jovii, l. XXIX, p. 166.
85. Ben. Varchi, l. XI, p. 235. — Jac. Nardi, l. IX, p. 380.
86. Ben. Varchi, l. XI, p. 239. — Bern. Segni, l. IV, p. 124. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 69.
87. Ben. Varchi, l. XI, p. 245. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 239. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 70.
88. Jac. Nardi, l. IX, p. 381. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 241. — B. Segni, l. IV, p. 119.
89. Ben. Varchi, l. XI, p. 246-250. — Jac. Nardi, l. IX, p. 382, 383. — Fil. de' Nerli, l. XI, p. 244. — P. Jovii, l. XXIX, p. 173.
90. Ben. Varchi, l. XI, p. 257.
91. Bened. Varchi, l. XI, p. 256-260. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IX, p. 387. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 545. — Istor. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 73. — Fil. de' Nerli, l. X, p. 242. — Ber. Segni, l. V, p. 128. — P. Jovii, l. XXIX, p. 175.
La storia di Firenze di Jacopo Nardi termina colla presa della città e collo stabilimento della balìa. È scritta con un certo che di candore e di lealtà che ci affeziona allo storico; vi si ravvisa l'amico della libertà, l'uomo religioso e dabbene. Il Nardi non risguardava il suo libro come terminato, e lo avrebbe distrutto quando stava per morire, se fortunatamente non ve ne fossero stati di già varj esemplari presso altre famiglie. Per altro i primi sei libri, che comprendono l'accaduto dall'anno 1494 fino alla morte di Leon X, sembrano avere ricevuta tutta la perfezione che l'autore poteva loro dare. Lo stesso non può dirsi degli ultimi tre; la narrazione vi si trova appena abbozzata, e pare che l'autore gli scrivesse senza avere sott'occhio i materiali che doveva adoperare. Trovansi in questi ultimi tre libri alcuni errori di fatto e di date, molte ripetizioni, molto disordine, ed alcuni pezzi che non sembrano essere stati dall'autore riletti. Jacopo Nardi ebbe qualche parte nella rivoluzione del 1527; e perciò fu tra gli esiliati, che la balìa del 1530 privò della loro patria. Il Nardi fu in appresso incaricato dagli emigrati di portare le loro lagnanze all'imperatore intorno alla violazione della capitolazione di Firenze, di esporre le loro ragioni in una scrittura che fu mandata a Carlo V. Fino alla fine della sua vita, che terminò in esilio, Jacopo Nardi lavorò, malgrado la povertà e la vecchiaja, a procurare vindici alla libertà della sua patria. La sua storia si stampò in Firenze in 4.º nel 1584 in un volume di 590 pagine.
92. Forse in alcune scienze, ma nelle lettere e nelle arti non mai; del che ne convengono tutti quegli spassionati stranieri che preferiscono all'amor proprio la verità, e che sono a portata di gustare i capi d'opera de' nostri grandi maestri. N. d. T.
93. B. Segni, l. V, p. 129. — Il 12 ottobre 1532. Gio. Cambi, t. XXIII, p. 122. — Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 9.
94. Ben. Varchi, l. XII, p, 317. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 81.
95. Ben. Varchi, l. XII, p. 295. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 79. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 414. — Ben. Segni, l. V, p. 133.
96. Bened. Varchi, l. XII, p. 289.
97. Ivi, p. 275.
98. Ben. Varchi, l. XII, p. 304-312. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 87-95. — B. Segni, l. V, p. 135. — Fil. de' Nerli, l. XI, p. 252. — Fr. Guicciardini, l. XX, p. 546.
99. Ben. Varchi, l. XII, p. 310, e seg. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 79. — Bern. Segni, l. V, p. 131. — Filip. de' Nerli, l. XI, p. 250.
100. Ben. Varchi, l. XII, p. 356-359. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 103. — Scipione Ammirato, l. XXXI, p. 416. — Bern. Segni, l, V, p. 143. — Filip. de' Nerli, l. XI, p. 255.
101. Lettera di Francesco Guicciardini a Niccolò di Schomberg, arcivescovo di Capoa, del 30 gennajo 1532, con una Memoria intorno al governo di Firenze. Lett. de' Principi, t. III, f. 8, e seg.
102. Ben. Varchi, l. XII, p. 367. — Bern. Segni, l. V, p. 149. — Filippo de' Nerli, l. XI, p. 260.
103. Ben. Varchi, l. XII, p. 372. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 419. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 110.
104. Ben. Varchi, l. XII, p. 374 e t. V, l. XIII, p. 12. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 114. — B. Segni, l. V, p. 160. — Filip. de' Nerli, l. XI, p. 262-268.
105. Ben. Varchi, t. V, l. XIII, p. 5; l. XIV, p. 85. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 137. — Bernardo Segni, l. VI, p. 153. — Filippo de' Nerli, l. XI, p. 270-272.
106. Ben. Varchi, t. V, l. XIV, p. 90. — Ber. Segni, l. VI, p. 156.
107. B. Varchi, l. XIV, p. 53. — Bern. Segni, l. VI, p. 161. — P. Jovii, l. XXXI, p. 224.
108. B. Varchi, l. XIV, p. 88. — Gio. Cambi, t. XXIII, p. 141. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 429. — P. Jovii, l. XXXII, p. 234.
109. Ben. Varchi, l. XII, t. IV, p. 315.
110. Ben. Varchi, t. IV, l. XIV, p. 80.
111. Ivi, t. V, l. XIV, p. 108. — B. Segni, l. VII, p. 178. — P. Jovii, l. XXXIV, p. 302. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 430. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 277.
112. Ben. Varchi, l. XIV, p. 132. — Ber. Segni, l. VIII, p. 188. — Filip. de' Nerli, l. XII, p. 278. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 430.
113. Ben. Varchi, l. XIV, p. 138. — Bern. Segni, l. VII, p. 189. — Partì il 19 di dicembre del 1535. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 279.
114. Ben. Varchi, l. XIV, p. 143-219 e 224. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 431. — Bern. Segni, l. VII, p. 189. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 279.
115. Tutte le scritture originali vengono riportate da Benedetto Varchi, questa, dice egli, ebbe molto credito in Italia, l. XIV, p. 229-230.
116. Ben. Varchi, l. XIV, p. 259. — Bern. Segni, l. VII, p. 192-198. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 283, 285. — Della storia di Gio. Battista Adriani, l. I, p. 11. Serve di continuazione al Guicciardini che finisce alla morte di Clemente VII.
117. Ben. Varchi, l. XV, p. 264, 272. — B. Segni, l. VII, p. 204, 206. — Filip. de' Nerli, l. XII, p. 286-290. — Gio. Battista Adriani, l. I, p. 11. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 436. — P. Jovii, l. XXXVIII, p. 387, 391. — Ist. di Matteo Guazzo, f. 159.
118. Ben. Varchi, l. XV, p. 273, ed altri degli storici sovrallegati. Lorenzino de' Medici scrisse egli medesimo una scrittura per giustificare la sua intrapresa. Roscoe la pubblicò nell'appendice alla vita di Lorenzo de' Medici, n.º 84, p. 148-165. Una lettera scritta da Roma, il 15 di marzo, a Mess. Paolo del Tosco, da suo fratello, dà pure alcune circostanze raccontate dallo stesso Lorenzino. Lettere de' principi, t. III, f. 52.
119. Bened. Varchi, l. XV, p. 278. — Com. di Filippo de' Nerli, l. XII, p. 291. — Bern. Segni, l. VIII, p. 208. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 437. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 12. — P. Jovii, l. XXXVIII, p. 391.
120. Ben. Varchi, l. XV, p. 284. — Bern. Segni, l. VIII, p. 213. — Filippo de' Nerli, l. XII, p. 291.
121. Ben. Varchi, l. XV, p. 285. — Ber. Segni, l. VIII, p. 212. — Filip. de' Nerli, l. XII, p. 292. — Gio. Battista Adriani, l. I, p. 14.
122. Ben. Varchi, l. XV, p. 287. — Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 438. — Gio. Battista Adriani, l. I, p. 18. — Bern. Segni, l. VIII, p. 216. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 293.
123. Ben. Varchi, l. XV, p. 326.
124. Ben. Varchi, l. XV, p. 311. — Bern. Segni, l. VIII, p. 219. — Com. de' Nerli, l. XII, p. 294. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 24. — Lettera di cinque cardinali Fiorentini al card. Cibo, Roma 13 gennajo 1537. Lettere de' Princ., t. III, p. 57.
125. Ben. Varchi, l. XVI, p. 373. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 448. — Bern. Segni, l. VIII, p. 223. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 51. — Fil de' Nerli, l. XII, p. 297.
Giunti a quest'epoca, prenderemo congedo da Benedetto Varchi, forse il più verboso storico che producesse l'Italia. Ma tra le infinite minutissime circostanze con cui opprime il lettore, trovansi elevati pensieri, e filosofia. Il suo sedicesimo libro termina al principio del 1538. Pare che l'opera non sia stata ridotta a termine.
126. Bernardo Segni, l. VIII, p. 227. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 54. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 299.
127. Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 54. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 450. — Bern. Segni, l. VIII, p. 227. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 299. — P. Jovii hist. sui temp., l. XXXVIII, p. 409.
128. P. Jovii, l. XXXVIII, p. 411. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 55. — Bern. Segni, l. VIII, p. 228. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 450.
129. P. Jovii, l. XXXVIII, p. 412. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 58.
130. P. Jovii, l. XXXVIII, p. 412. — Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 61. — Bern. Segni, l. VIII, p. 229. — Fil. de' Nerli, l. XII, p. 301. — La sua storia termina con questa sconfitta, ch'egli risguardava come il trionfo del suo partito.
131. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 63. — Bern. Segni, l. IX, p. 234. — Scipione Ammirato, l. XXXII, p. 452.
132. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 66. — Bern. Segni, l. IX, p. 234. — P. Jovii, l. XXXVIII, p. 414. — Marco Guazzo, f. 178. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 453.
133. Ben. Varchi, t. IV, l. XII, p. 321, t. V, l. XIV, p. 60. — Bern. Segni, l. VIII, p. 227. — P. Jovii, l. XXXVIII, p. 415. — Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 71.
134. Ivi, p. 100. — Bern. Segni, l. IX, p. 245. — P. Jovii, l. XXXVIII, p. 415.
135. P. Jovii, l. XXXVIII, p. 396. — Bern. Segni, l. XII, p. 313.
136. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 110, 111. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 458. — Bern. Segni, l. IX, p. 246.
137. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 76-89. — Bern. Segni, l. IX, p. 244. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 455.
138. Bern. Segni, l. IX, p. 248. — Il Guicciardini morì nella sua villa d'Arcetri il 17 di maggio del 1540, in età di 58 anni. Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., t. VII, l. III, c. I, § 39, p. 883.
139. Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 7. — Bern. Segni, l. VI, p. 157.
140. Ben. Varchi, l. XII, t. IV, p. 325-328.
141. Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 17.
142. Bern. Segni, l. IX, p. 246. — Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 97. — Scipione Ammirato, l. XXXII, p. 456.
143. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 95 ad an. 1538, ed altrove frequentemente. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 145 ed altrove.
144. Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VIII, f. 140.
145. Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 133, 134. — Malavolti, p. III, l. VIII, f. 141. — Il Montluc non fa parola di questo trattato. Mem., l. I, p. 124.
146. Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 157, 158. — Malavolti, p. III, l. VIII, f. 142. — Bern. Segni, l. X, p. 265.
147. Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 185, l. IV, p. 208.
148. Gio. Batt. Adriani, l. IV, p. 261. — Bern. Segni, l. XI, p. 295. — Orl. Malavolti, p. III, l. VIII, f. 143. — P. Jovii, l. XLV, p. 599. — La storia di Paolo Giovio termina al trattato di Crespi.
149. Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 293.
150. Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 327. — Malavolti, p. III, l. VIII, f. 144-145. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 475. — Ber. Segni, l. XI, p. 306.
151. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 119. — Ber. Segni, l. IX, p. 251.
152. Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 345-350. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 476. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 146. — Galluzzi Stor. del gran ducato di Toscana, l. I, c. V, t. I, p. 105.
153. Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 383, 401, 421, l. VII, p. 463, 474. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 146, 147. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 481. — Bern. Segni, l. XII, p. 315.
154. Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 515-563. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 148, 150. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 486. — Bern. Segni, l. XIII, p. 339.
155. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 590. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 152. — Giac. Aug. de Thou. Hist. univ., t. II, l. XI, p. 103.
156. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 593. — Bern. Segni, l. XIII, p. 342.
157. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 598. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 489. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 152. — Ber. Segni, l. XIII, p. 343. — J. Aug. de Thou., l. XI, p. 106, 112.
158. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 625. — Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 492. — Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 154. — Pecci Memorie di Siena, t. III, p. 230, 261. — Lettere dei Sienesi ad Enrico II del 5 di agosto. — Lett. de' Principi, t. III, f. 131.
159. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 628. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 156. — Bern. Segni, l. XIII, p. 348. — J. Aug. de Thou., l. XII, p. 165.
160. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 631. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 156. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 493. — Bern. Segni, l. XIII, p. 349.
161. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 634, 637. — Malavolti, l. V, f. 157.
162. Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 648. — Malavolti, p. III, l. X, f. 159. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 497. — Bern. Segni, l. XIII, p. 350.
163. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 649. — Ber. Segni, l. XIII, p. 351. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 161. — J. Aug. de Thou, l. XII, p. 173.
164. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 669. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 499. — Jac. Aug. de Thou, l. XIV, p. 249.
165. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 670. — Malavolti, p. III, l. X, f. 161. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 499. — Bern. Segni, l. XIII, p. 352.
166. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 671. — Bern. Segni, l. XIV, p. 360. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 501. — J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 253.
167. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 673. — Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 503. — Bern. Segni, l. XIV, p. 361. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 165. — Lettere di Cosimo I alla repubblica di Siena, e risposta, 28 e 31 gennajo 1554. Lettere de' Principi, t. III, f. 148.
168. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 691. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 506. — J. Aug. de Thou, Hist. univers., t. II, l. XIV, p. 257 e seg.
169. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 693. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 507-516. — Bern. Segni, l. XIV, p. 363. — Lettere tra Pietro Strozzi ed il marchese di Marignano. Lett. dei Principi, t. III, f. 149 e seg.
170. Gio. Batt. Adriani, l. X. p. 694. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 163. — Bern. Segni, l. XIV, p. 362. — J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 261.
171. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 706-718. — Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 163, 164. — Bern. Segni, l. XIV, p. 368.
172. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 722. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 515. — Bern. Segni, l. XIV, p. 366.
173. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 734. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 517.
174. Mém. de Blaise de Montluc, l. III, p. 115, t. XXIII.
175. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 747. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 520, 522. — Bern. Segni, l. XIV, p. 364. — J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 272.
176. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 743. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 721. — Bern. Segni, l. XIV, p. 365. — J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 274.
177. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 797. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 724. — J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XIV, p. 275.
178. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 761. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 527. — Bern. Segni, l. XIV, p. 367.
179. Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 783-787. — Relazione della battaglia, mandata il 24 d'agosto del 1555, dal marchese di Marignano all'imperatore. Lettere de' Principi, t. III, f. 154. — Bern. Segni, l. XIV, p. 371. — Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 529. — Orl. Malavolti, t. III, l. X. f. 163. — Mém. di Montluc, t. XXIII, l. III, p. 139. — Hist. J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 283.
180. Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 815. — Durante questa guerra la popolazione della città di Siena fu ridotta dalle trenta alle dieci mila anime: si calcolò che perirono nella provincia, di miseria, nelle battaglie, o sotto il ferro del carnefice, cinquanta mila contadini, senza contare quelli che si rifugiarono in estere contrade. Ber. Segni, l. XIV, p. 377. Trovasi una lacuna in Scipione Ammirato fino all'anno 1561, ed il Malavolti non ardisce dare veruna particolarità. — Mémoires de Blaise de Montluc, t. XXIII, l. III, p. 170. — Hist. de J. Aug. de Thou, t. II, l. XIV, p. 288.
181. Giovan Battista Adriani, l. XII, p. 836. — Bern. Segni, l. XIV, p. 379. — Biagio di Montluc, l. III, p. 196-235.
182. Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 488. — Lettera del mar. di Marignano alla signoria di Siena. Letter. de' Princ., t. III, f. 158.
183. Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 864. — Malavolti, p. III, l. X, f. 166. La sua storia finisce con questa capitolazione. — Bern. Segni, l. XIV, p. 380. — Blaise de Montluc, l. III, p. 266, 279. — J. Aug. de Thou, l. XV, p. 314.
184. Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p. 1107-1122. — Bernardo Segni, essendo morto il 13 aprile del 1558, lasciò la sua storia interrotta nel XV.º libro, nel quale racconta la guerra di Cosimo contro i Sienesi di Montalcino. — J. Aug. de Thou, l. XXII, p. 661, 665, t. II.
185. Gio. Batt. Adriani, l. XIV, p. 1000-1015. — Il duca prese possesso di Siena il 19 di luglio del 1557. — Lettere de' Principi, t. III, f. 165 e segu. Tra le altre una Memoria di Pietro Strozzi intorno alla difesa di Siena, p. 177, 180. — Hist. de J. Aug. de Thou, t. II, l. XV, p. 343, l. XVIII, p. 471.
186. Guichenon, Hist. général de la maison de Savoie, t. II, p. 256. — Mém. de M. du Bellay, l. IV, p. 296; l. V e seg. — Hist. de la Diplomatie française, t. II, l. IV, p. 46. — De Thou Hist. génér., t. III, l. XXXI, p. 251. — Muratori Annali d'Italia ad ann.
187. Enrico Cather. Davila delle guerre civili di Francia, l. IX, p. 526. — Guichenon Hist. gén., t. II, p. 287.
188. Ivi, p. 352 e seg. — Hist. de la Diplomatie française, t. II, p. 197 — Hist. univ. J. Aug. de Thou, t. IX, l. CXXIII, p. 325 e l. CXXV, p. 413.
189. Mém. de mess. Martin du Bellay, l. IV, p. 235.
190. Pallavicino Storia del Concilio di Trento, l. XXII, c. VIII, t. V, p. 215, ediz. di Faenza del 1796 in 4.º — De Thou Hist., l. XXXVI, p. 471. — Greg. Leti Vita di Filippo II. l. XVII, t. I, p. 405.
191. P. Jovii Hist., l. XXVII, p. 98 ed altrove. — Bern. Segni, l. III, p. 90, l. VI, p. 166.
192. P. Jovii Hist., l. XLIII, p. 533 ec. — Summonte Istoria di Napoli, t. VIII, c. II, t. IV, p. 146. — Giannone Ist. civ., t. IV, l. XXXII, c. VI, p. 166.
193. Summonte Ist. della città e regno di Napoli, l. IX, c. I, t. IV, p. 173. — Giannone Ist. civ. del regno di Napoli, l. XXXII, c. III, t. IV, p. 87.
194. Summonte Ist. di Napoli, l. IX, c. I, p. 173. — Giannone Ist. civ., l. XXXII, c. II, p. 84. — Bern. Segni, l. XIII, p. 346.
195. Summonte Ist. di Napoli, l. IX, c. I, p. 178-210. — Pallavicini Ist. del Concil. di Trento, l. X, c. I, t. III, p. 82. — Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 402 e seg. — Giannone Ist. civile, l. XXXII, c. V, p. 107. — Fr. Paolo Ist. del Concil. di Trento, l. III, p. 279. — De Thou, Hist. univers., l. III, p. 220.
196. Summonte Ist. di Napoli, l. X, c. V, p. 343-348. — Gio. Batt. Adriani, l. XVIII, p. 1303, 1329. — De Thou, l. XXXVIII, p. 564 e seg. — Gregorio Leti Vita di Filippo II, l. XVIII, p. 442.
197. Ben. Varchi, l. XVI, t. V, p. 389. — Bern. Segni, l. IX, p. 238; l. XI, p. 304. — Belcarius Rer. Gallicar. — J. Aug. de Thou, Hist. univers., l. IV, p. 286. — Jo. Sleidani Comment., l. XXI, p. 376.
198. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 98. — Bern. Segni, l. IX, p. 237.
199. Gio. Battista Adriani, l. II, p. 89. — P. Jovii Hist., l. XLIII, p. 534.
200. Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 305-311. — Bern. Segni, l. XI, p. 302. — Pallavicini Ist. del Concil. di Trento, l. V, c. XIV, t. II, p. 62. — Fra Paolo Ist. del Con. di Trento, l. II, p. 125.
201. Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 414-420. — Ber. Segni, l. XII, p. 319. — Fra Paolo Conc. di Trento, l. III, p. 281. — De Thou Hist. univ., l. IV, p. 283, t. I.
202. Gio. Batt. Adriani, l. VII, p. 479-482. — B. Segni, l. XII, p. 322. — Pallavicini, l. XI, c. VI, t. III, p. 154. — Jo. Sleidani, Comment., l. XXI, p. 375. — De Thou, l. VI, p. 512.
203. Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 495. — Bern. Segni, l. XII, p. 324. — Pallavicini, l. XI, c. VII, t. III, p. 156. — De Thou, l. VI, p. 521.
204. Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 524 e seg.
205. Ivi, l. XIV, p. 947. — J. Aug. de Thou Hist. univers., l. XVII, p. 407.
206. Henr. Cather. Davila Guerre civili di Francia, l. XIII, p. 814, ediz. di Venezia in 4.º 1630. — Card. Bentivoglio Guerra di Fiandra, p. II, l. VI, p. 168, Venezia, in 4.º 1645.
207. Gio. Battista Adriani, l. VIII, p. 497 e seguenti. — Bern. Segni, l. XII, p. 323. — Pallavicini, l. XI, c. VII, t. III, p. 159. — Fra Paolo, l. III, p. 307. — J. Aug. de Thou Hist. univ., l. VI, p. 520, t. I.
208. Gio. Battista Adriani, l. XII, p. 867, l. XIII, p. 876, 890. — Lett. de' Princ., t. III, f. 161. Lettera di un conclavista con diverse curiose circostanze intorno alle cerimonie dell'elezione.
209. Pallavicini stor. del Conc. di Trento. — Fr. Paolo Sarpi stor. del Concil. stesso. — Rayn. An. Eccl. ad An. — Fleury Hist. Eccl., l. 144 e seg. — Labbei Conc. gener., t. XIV, p. 725.
210. Cioè a coloro che più non volevano riconoscere la legittima autorità della Chiesa. N. d. T.
211. Gio. Battista Adriani, l. XII, p. 890. — Ber. Segni, l. XV, p. ult. — Pallavicini, l. XIII, c. XI, p. 310. — Onof. Panvinio vite de' Pont., f. 284, 286. — F. P. Sarpi Istor. del Conc., l. IV, p. 400.
212. Gio. Battista Adriani, l. XIV, p. 980; l. XV, p. 1044. — Onof. Panvinio Vita di Paolo IV, f. 289. — Pallavicini Stor. del Con. di Trento, l. XIII, c. XVI, al l. XIV, c. IV, p. 325 e segu., t. III. — Fr. Paolo Concil. di Trento, l. V, p. 417.
213. Gio. Batt. Adriani, l. XXI, p. 1579-1589. — Ant. Ciccarelli, vita di Pio V, f. 299. — Greg. Leti vita di Filippo II, t. II, l. I, p. 37. — J. Aug. de Thou., l. L, p. 456, t. IV.
214. Ant. Ciccarelli vita di Sisto V, f. 312. — J. Aug. de Thou, l. LXXXII, t. VI, p. 503. — Labbei Concil. gen., t. XV, p. 1190.
215. Muratori Ann. ad ann. 1567, t. X, p. 438. — Gio. Batt. Adriani, l. XIX, p. 1348.
216. Bentivoglio Guerra di Fiandra, p. I, l. V, p. 92.
217. Gio. Batt. Adriani, l. XXII, p. 49. — Cathr. Davila Guerra civ. di Francia, l. V, p. 273. — J. Aug. de Thou, l. LIII, p. 632, t. IV.
218. Ciccarelli vita di Gregorio XIII, f. 336-337.
219. Ciccarelli vita di Gregorio XIII, p. 300. — Galluzzi Istor. del gran ducato, l. IV, t. III, p. 273 e seguenti.
220. P. Jovii vita Alfonsi; della traduzione, p. 144.
221. Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 153. — Jac. Aug. de Thou, l. III, p. 680, t. I.
222. Gio. Battista Adriani, l. XIV, p. 989; l. XVI, p. 1132. — J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XX, p. 559, l. XXIII, p. 712.
223. Galluzzi Istor. del gran ducato, t. II, p. 380, t. IV, p. 317. — J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. CIX, p. 141, t. IX.
224. Muratori Antichità Estensi, t. II. — Dello stesso Ann. d'Italia ad an. 1597.
225. Murat. Antichità Estensi, t. II ed Annali d'Italia all'anno 1498, in principio. — Greg. Leti Vita di Filippo II, p. II, l. XIX. p. 529.
226. Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 103. — Lett. de' Prin. t. III, p. 28.
227. Muratori Annali d'Italia all'anno 1574.
228. P. Jovii Historiarum l. XXXVIII, p. 333.
229. Galluzzi Storia del gran Ducato, t. II, p. 257. — Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p. 1178. — J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XXXII, p. 269, t. III.
230. Cronica del MS. del Settimani all'anno 1562, presso Anguillesi Notizie del palazzo di Pisa, p. 143. — J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XXXII, p. 270.
231. Gio. Batt. Adriani, l. XIX, p. 1348; l. XX, p. 1504. — Galluzzi Stor. del gran Ducato, t. II, p. 310 e 348.
232. Gio. Batt. Adriani, l. XXII, p. 86. — Qui finisce la sua storia. — Galluzzi Storia del gran Ducato, l. III, c. VIII, p. 56, t. III.
233. Galluzzi Storia del gran Ducato, l. IV, c. I, t. III, p. 166.
234. Muratori Ann. d'Italia ad ann.
235. Galluzzi Stor. del gran Ducato, l. IV, c. III, t. III, p. 220.
236. Anguillesi Memorie del Poggio a Cajano, p. 111, estratto dai MS. del Settimani. — Galluzzi, t. II e III.
237. Galluzzi, t. IV, p. 55, l. IV, c. VIII. — Anguillesi Notizie del Poggio a Cajano, p. 117.
238. Galluzzi, l. V, c. VI, VII ed VIII, t. IV.
239. Dissertaz. VIII sopra la Storia Lucchese, t. II, delle Memorie e documenti sopra la Storia Lucchese.
240. Beverini Ann. Lucenses Mans., l. XIV. — Dissert. VIII sopra la Storia Lucchese, t. II, p. 252.
241. A. N. Cianelli Dissertaz. VIII sopra la Storia Lucchese, p. 268.
242. Beverini Ann. Lucenses, l. XV. — Dissertazione IX sopra la Storia Lucchese, t. II, p. 271.
243. Dissert. IX sopra la Storia Lucchese, t. II, p. 301.
244. Ub. Folieta della repubblica di Genova, Dialoghi. — Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 157.
245. Giovan Battista Adriani, l. VI, p. 369. — Bern. Segni, l. XII, p. 316.
246. Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 369-375. — Bern. Segni, l. XII, p. 316. — De Thou, Hist. univers., l. III, p. 203-217. — Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 157.
247. Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p. 1177. — Fil. Casoni Ann. di Genova, l. VI, p. 144. — A queste autorità allegate dal nostro autore, devesi aggiungere la circostanziata descrizione che della congiura dei Fieschi fece elegantemente nella sua storia di Genova Jacopo Bonfadio. N. del T.
248. Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 658.
249. Ivi, l. VII, p. 457. — Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 203.
250. Gio. Batt. Adriani, l. VII, p. 457. — Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 203.
251. Adriani, l. XXI, p. 1569. — Casoni, t. IV, l. VIII, p. 5.
252. Graevi Thes. Rer. Ital., t. I, p. II, p. 1471. — Ciccarelli Vita del papa Gregorio XIII, f. 304. — Fil. Casoni Ann. di Genova, t. IV, l. VIII, p. 72.
253. P. Paruta Ist. Ven., l. X, p. 726. — P. Jovii Hist., l. XXXVI, p. 333; e l. XXXIX, p. 417. — Laugier Hist. de Venise, t. IX, l. XXXVI, p. 480-577. — Vettor Sandi Storia civile veneta, p. III, l. X, c. VI, p. 625.
254. Lett. de' Princ., t. III, f. 243 e seg. — De Thou Hist. univ., l. XLIX, p. 412 e seg. — Laugier Hist. de Venise, l. XXXVIII, t. X, p. 183 e seg. — Vettor Sandi, p. III, l. X, c. XI, p. 667-698.
255. Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 208. Venezia, 1648, 4.º
256. Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 211. — Giannone stor. civile, l. XXXVII, c. II, t. IV, p. 509.
257. Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 216.
258. Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 220.
259. Ivi, p. 225. — Giannone, l. XXXVII, c. II, p. 517.
260. Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. IV, p. 273.
261. Ivi, l. V, p. 278. — Giannone, l. XXXVII, c. III, p. 520.
262. Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. VI, p. 278.
263. Gualdo Priorato, p. 283. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. I, p. 129. — Giannone, l. XXXVII, c. III, p. 521.
264. Gualdo Priorato, p. IV, l. VIII, p. 404. — Gio. Batt. Birago Ist. memorabile de' nostri tempi parte V, annessa all'opera di Alessandro Ziliolo, l. VI, Ven. 1654, in 4.º — Muratori ad ann. — Giannone, l. XXXVII, c. IV, p. 529. — Lahode Histoire de Louis XIV, t. I, l. V, p. 186.
265. Gualdo Priorato, p. IV, l. IV, p. 159, 173. — Ist. memorabili de' nostri tempi di Gio. Batt. Birago, p. V, l. III. — Muratori ad An. — Giannone, Ist. civile, l. XXXVII, c. II, t. IV, p. 511.
266. Muratori An. d'Italia ad an. 1674, t. XI, p. 324. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. VII, t. II, p. 276. — Giannone, l. XXXIX, c. III, p. 609. — Lahode Hist. de Louis XIV, t. III, l. XXXV, p. 516.
267. Muratori An. d'Italia ad an. 1674, 1675, 1676. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. VII, t. II, p. 299-308 e segu. — Abregé de l'Hist. de la Hollande, c. XIV, p. 890, t. III. — Lahode Hist. de Louis XIV, t. IV, l. XXXVII, p. 41.
268. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1678, t. XI, p. 341. — Giannone Ist. civile, l. XXXIX, c. IV, p. 623.
269. Muratori An. d'Italia ad an. 1678. — Lahode Hist. de Louis XIV, l. XXXIX, t. IV, p. 169.
270. Muratori An. ad an. 1605, 1606, 1607. — Hist. de la diplomatie Française 4 periode, l. II, t. II, p. 243-250. — Galluzzi storia di Toscana, l. V, c. XI, t. V, p. 79. — Laugier Hist. de Venise, t. X, l. XXXIX e XL, p. 350 e segu.
271. Ist. del conte Gualdo Priorato, p. III, l. II, p. 84. — Michel le Vassor Hist. de Louis XIII, t. X, l. XLVIII, 2me part., p. 117, seconde édit.
272. Muratori Ann. 1641 e segu. — Ist. del conte Gualdo Priorato, p. III, l. VIII, p. 316. — Ist. della repub. Veneta di Battista Nani, l. XII, p. 553-744, ediz. in 4.º ven. 1663. — Galluzzi stor. di Toscana, l. VII, c. II, e III, t. VI, p. 137 e segu.
273. Hist. de la dipl. Française cinq. période, l. I, t. III, p. 301-314. — Muratori ad an. 1666, 1664. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. V, t. II, p. 38. — Galluzzi Storia del gran ducato, l. VII, c. VIII, t. VI, p. 308.
274. Hist. de la diplom. Franç., cinqu. période, l. V, t. IV, p. 94-106. — Limiers Hist. de Louis XIV, t. II, l. X, p. 469. — Muratori ad an. 1687, t. XI, p. 374 e segu. — Galluzzi storia del gran ducato, l. VIII, c. V, t. VII, p. 108.
275. Istorie memorabili de' nostri tempi di Ales. Zilio, p. I, l. I; Ivi, l. X, p. III, l. III. — Guichenon Hist. généal. de la Maison de Savoje, p. 345-444. — Muratori ad ann. — Le Vassor Hist. de Louis XIII, t. IV, l. XXVIII, p. 364.
276. Gal. Gualdo Priorato, p. II, l. V, p. 131, e segu. — Muratori ad ann. — Guichenon Hist. généal. de la Maison de Savoje, t. III, p. 5, 46, 54. — La storia di Guichenon termina nel 1660 verso la metà del regno di Carlo Emmanuele II. — Le Vassor Hist. de Louis XIII, t. IX, l. XLII e XLIII.
277. Limiers Histoire de Louis XIV, l. X, p. 523; l. XI, t. II. — Muratori Ann. ad ann.
278. I primi fondamenti della nuova città di Livorno erano stati gettati dal gran duca Francesco I, il 28 marzo del 1577, ma in appresso da lui trascurati. Galluzzi stor. del gran ducato, l. IV, c. II, p. 208, t. III.
279. Ivi, l. V, c. XI, t. V, p. 82. — Murat. Annali ad ann.
280. Gabriello Chiabrera Savonese, celebrò colle sue odi i trionfi delle galere toscane, come Pindaro i vincitori de' giuochi olimpici; e se non raggiunse il suo immenso esemplare, fu almeno dopo Orazio, il suo più illustre imitatore. N. d. T.
281. Galluzzi stor. del gran ducato, l. VI, c. I al c. V, t. V, p. 157.
282. Galluzzi, l. VII, c. VII, t. VI, p. 283. — Muratori Annali ad ann.
283. Galluzzi Stor. del gran ducato, l. VIII, c. I al VII, t. VII.
284. Muratori Ann. ad ann. 1612. — Galluzzi, l. VI, c. II, t. IV, p. 203. — Le Vassor Hist. de Louis XIII, l. III, p. 341, t. I.
285. Muratori Annali, ad ann. 1622.
286. Muratori Ann. ad ann. 1646, t. XI, p. 214. — Gal. Gualdo, p. IV, l. III, p. 88. — Galluzzi, l. VI, c. X, t. VI, p. 75; l. VII, c. V, p. 237.
287. Muratori Annali ad ann. — Galluzzi, l. VII, c. V, t. VI, p. 237.
288. Muratori Ann. ad ann. 1694.
289. Muratori Ann. ad ann. 1629.
290. Muratori Ann. ad ann. 1636. — Batt. Nani stor. Ven., l. X, p. 521 ec.
291. Muratori Ann. ad an. 1657. — Antichità Estensi.
292. Muratori Ann. d'Italia. — Ant. Esten.
293. Muratori ann. d'Italia ad ann. 1626-1627. — Istor. memor. d'Alessandro Ziliolo, p. III, l. III, p. 83 e segu. — Ist. della repubblica Veneta di Batt. Nani, l. VII, p. 445 e segu. — Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. V, l. XXIV, p. 699.
294. Alessandro Ziliolo, p. III, l. III, p. 119. — Gio. Batt. Nani, l. VII, p. 407. — Schiller, Geschichte des Dreissigjährigen Krieges. — Le Vassor Hist. de Louis XIII, t. VI, l. XXVII, p. 243; l. XXVIII, p. 382. — Vettorio Siri Memor. recondite, t. VI, p. 742 e segu.; t. VII, p. 123 e seguenti.
295. Ales. Ziliolo Ist. memor., p. III, l. III. — Gio. Batt. Nani, l. VII e segu. — Murat. Ann. d'Italia.
296. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1681, t. XI, p. 354. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. IX, t. II, p. 399.
297. Muratori Ann. ad ann. — Galluzzi Stor. di Toscana, l. VI, c. VI, t. V, p. 298 e segu.
298. Muratori Ann. d'Italia.
299. Ales. Ziliolo, p. III, l. IV, p. 178. — Ann. di Genova di Fil. Casoni, t. V, l. II, p. 61.
300. Aless. Ziliolo Ist. memor., p. III, l. IV, p. 187. — Fil. Casoni Ann. della repub. di Genova, t. V, l. III, p. 136.
301. Aless. Ziliolo, p. III, l. IV, p. 188-199. — Casoni Ann., l. III, p. 140.
302. Muratori Ann. ad ann. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. IX, t. II, p. 423. — Hist. de la diplom. Françoise, l. IV, p. 83. — Filip. Casoni Ann. di Genova, t. VI, l. VIII, p. 214. Questi annali di Genova terminano coll'anno 1700, 6 volumi in 8 Gen. 1800.
303. Aless. Ziliolo Ist. memor., p. II, l. I, p. 1. — Laugier Hist. de Venise, t. X, l. XXXIX, p. 331, e t. X, l. XLI, p. 38.
304. Schiller, Dreissigjährige Krieg, B. I.
305. Gio. Batt. Nani Ist. Ven., l. III, p. 156. — Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. III, l. XII, p. 193. — L'abbé de saint Réal Hist. de conjurat. de Bedmar. — Vettor Sandi stor. civ., p. III, l. XI, c. XI, § II, p. 995. — Vett. Siri Mem. recondite, t. IV, p. 447 e segu. — Laugier Hist. de Venise, l. XLI, p. 107.
306. Gio. Batt. Nani, l. IV, p. 170, 203 e segu. — Aless. Zilioli Hist. memor., p. II, l. VII, p. 173. — Le Vassor Hist. de Louis XIII, l. XXIII, p. 367. — Vett. Siri Mem. recondite, t. VI, p. 92 e segu. — Laugier Hist. de Venise, t. XI, l. XLII, p. 139.
307. Gual. Priorato Ist., p. III, l. X, p. 392. — Laugier Hist. de Venise, t. XI, l. XLIX, p. 332.
308. Muratori Ann. d'It. ad ann. 1669. — Limiers Hist. de Louis XIV, t. II, l. VI, p. 109. — Gir. Brusoni Ist. dell'ultima guerra tra Venez. e Turchi in Candia 1644-1671, 1 vol. in 4.º. — Laugier Hist. de Venise, t. XII, l. XLV, p. 103. — Vett. Sandi Ist. civ. Veneta, p. III, l. XII, c. III, p. 1045.
309. Muratori Ann. d'Ital. ad ann. 1699. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. XIII, t. III, p. 32. — Laugier Hist. de Venise, t. XII, l. XLVI, p. 139-228.
310. Muratori Ann. d'It. ad ann. — Limiers Hist. de Louis XIV, t. III, l. XIII al l. XVIII. — Giannone Istor. civile, l. LX, c. IV, p. 655. È il fine di questa storia.
311. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1713. — Limiers Hist. de Louis XIV, l. XIX, p. 525 e segu. — Hist. de la diplomat. franç. cinquième période, t. IV, l. VII, p. 322.
312. Muratori Ann. d'It. ad ann. — Hist. de la Diplom. fran., l. IV, p. 465-483, sixième période, L. I. — Lacretelle Hist. de France pendant le XVIII siècle, t. I, l. II, p. 280.
313. Muratori Ann. d'It. ad ann. — Will. Coxe Hist. de la Mais. d'Autr. (trad.) c. XC e XCI, t. IV, p. 432 e segu. — Lacretelle dixhuitième siècle, t. II, l. VI, p. 175, 180.
314. Muratori Ann. d'It. ad ann. 1735, 1738. — Hist. de la Diplomatie française, t. V, p. 80, sixième période, l. III. — Galluzzi Ist. di Toscana, t. VIII, p. 195, l. IX, c. IX.
315. Muratori Ann. d'Ital. ad an. Terminano a quest'epoca, o piuttosto all'anno 1749. — Histoire diplomat. franç., t. V, p. 385 e segu. sixième période, l. V. — Will. Coxe Hist. de la Maison d'Autriche, c. CVIII, t. V, (trad.) p. 170. — Lacretelle, t. II, l. VIII, p. 412.
316. Murat. Ann. d'It. ad an. 1703, t. XII, p. 21. — Limiers, Hist. de Louis XIV, l. XIV, t. III, p. 124. — Lahode Hist. de Louis XIV, l. LVI, t. V, p. 373. — Will. Coxe Hist. de la Maison d'Autriche, c. LXIX, t. IV, p. 93.
317. Muratori ann. 1706. — Limiers, Hist. de Louis XIV, t. III, l. XV, p. 205. — Will. Coxe, Hist. d'Autriche, t. IV, c. LXXIII, p. 160.
318. Muratori An. d'It. 1708, t. XII, p. 56.
319. Ivi, 1715.
320. Muratori Ann. d'It. ad an. 1718. — Lacretelle, Hist. du XVIII siècle, t. I, l. II, p. 193, 208.
321. Muratori Ann. d'It. ad ann. 1731. — Will. Coxe Hist. de la Maison d'Autriche, ch. LXXXIX, t. IV, p. 422. — Lacretelle, Hist. du XVIII siècle, t. II, l. VI, p. 114.
322. Hist. de la Diplomatie Franç., t. V, p. 80, sixième période, l. III. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XC, t. IV, p. 438. — Lacretelle, Hist., t. II, p. 175.
323. William Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. CII, t. V, p. 72.
324. Murat. Ann. ad an. 1742, 1743. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CIV, p. 103.
325. Muratori Ann. d'It. ad ann. 1748. — Hist. de la Diplom. Franç., t. V, p. 402, sixième période, l. V. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CVIII, p. 170.
326. Muratori Ann. d'Italia, 1701. — Limiers, Hist. de Louis XIV, l. XIII, p. 69. — Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. VI, l. XXVI, p. 98. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. LXXV, t. IV, p. 211.
327. Muratori Ann. d'Ital. ad ann. 1708. — Ivi, 1746.
328. Muratori Ann. d'Italia, 1714.
329. Muratori Ann. d'Italia, 1720-1725. — Galluzzi Ist. di Tosc., l. IX, c. III, p. 345, t. VII.
330. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1729. — Hist. de la Diplom. franç., sixième période, l. III. — Galluzzi Storia del gran ducato, l. IX, c. VI., t. VIII, p. 66.
331. Muratori Ann. d'Italia ad an. 1731. — Galluzzi Ist. della Toscana, l. IX, c. VII, t. VIII, p. 116. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. LXXXVIII, t. IV, p. 410.
332. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1731, 1732. — Galluzzi Stor. di Toscana, l. IX, c. VII, t. VIII, p. 115.
333. Murat. Ann. d'Italia ad ann. 1734. — Galluzzi Storia di Toscana, l. IX, c. IX, t. VIII, p. 179. — Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XC, t. IV, p. 447.
334. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1734. — Galluzzi, Storia della Toscana, l. IX, c. IX, p. 198. — Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XCI, p. 465.
335. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1736. — Galluzzi Stor., l. IX, c. X.
336. Muratori Ann. d'Italia, 1741 e seg. — Coxe, ch. CVI, t. V, p. 137.
337. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1746. — Oeuvres posthum. de Frédéric II Hist. de mon temps, ch. X-XIV, t. II, p. 77. — Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. CVII, t. V, p. 153.
338. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1748. — Hist. de la Diplom. Franç. sixième période, l. V, t. V, p. 417. — Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. CVIII, t. V, p. 177.
339. Murat. Ann. d'Italia ad an. 1737.
340. Ercole d'Este non possedette mai il ducato di Massa. Dopo la morte della consorte, che viveva separata dal marito in Reggio, questo ducato passò in dominio dell'unica sua figlia Maria Beatrice, moglie dell'arciduca Ferdinando d'Austria, che lo possiede anche al presente. N. d. T.
341. Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1741. — Viani Storia e monete di Massa, c. XIV, p. 59.
342. Galluzzi Stor. di Toscana, l. VIII, c. IV, p. 101, t. VII; Ivi, c. V, p. 125; Ivi, l. IX, c. I, p. 305.
343. Galluzzi Storia del gran ducato, l. VIII, c. IX ad an. 1710, t. VII.
344. Galluzzi Stor. del gran ducato, l. IX, c. IV, p. 22, t. VIII.
345. Galluzzi Stor. di Tosc., l. IX, c. X, p. 210.
346. Galluzzi Stor. del gran ducato, l. IX, c. X ed ultimo, p. 250.
347. Saint Simon, Mém. secrets de la Régence, liv. IV, ch. I, t. VII, Oeuvres, p. 178.
348. Hist. de la Diplom. Franç., 7 période, l. II, t. VI, p. 270.
349. Muratori ad an. 1713. — Bolla Unigenitus, an. 1721.
350. Muratori ad an. 1721.
351. Muratori ad an. 1722, 1729, 1730.
352. Muratori ad an. 1733.
353. Muratori ad an. 1735.
354. Muratori ad an, 1739. — Melchior Delfico Stor. di San Marino, c. VIII, p. 222.
355. Lacretelle, Hist. de France au dix-huitième siècle, t. III, l. X, p. 205.
356. Muratori ad an. 1744. — Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CV, p. 119. Intorno a questa guerra merita di essere letta la Storia di Castruccio Buonamici: De rebus prope Velitram gestis, forse dall'autore non veduta. N. d. T.
357. Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CXXIV, p. 447.
358. Laugier, Hist. de Venise, t. XII, l. XLVII, p. 283.
359. Laugier, Hist. de Venise, t. XII, l. XLVII, p. 330.
360. La storia di Laugier termina col 1750, l. XLVIII, t. 12, ediz. del 1768. — La storia civile di Vittore Sandi comprende in tre volumi in 4.º gli avvenimenti del 1700 al 1767, ma si dura fatica a leggerla.
361. Hist. de la Diplom. Franç. 7. e période, l. V, t. VII, p. 21. — Lacretelle, Hist. du XIII. e siècle, t. IV, l. XII, p. 167.
362. Muratori ad an. 1746. — Coxe, Hist. ch. CVII, p. 155. — Lacretelle, Hist. du XVIII. e siècle, l. VIII, t. II, p. 359.
363. Muratori ad an. 1746. — Vett. Sandi Stor. Ven., t. II, l. IV, p. 153. — Lacretelle, Hist. de France pendant le XVIII. e siècle, t. II, l. VIII, p. 364.
364. Muratori ad an. 1746. — Coxe, Hist., ch. CVII, p. 156. — Oeuvres post. du roi de Prusse, Hist. de la guerre de sept ans, ch. II, t. III, p. 34.
365. Muratori ad an. 1747, p. 413. — Lacretelle, l. VIII, p. 366.
366. La quistione intorno alla libertà della stampa fu ampiamente discussa in ogni paese, e si vorrebbe che non fosse per anco bastantemente illustrata. N. d. T.
367. Giudiziosamente l'imparziale storico previene il lettore di non dar colpa alla Chiesa cattolica, cioè universale, di ciò che può rimarcare di riprensibile in alcune parziali chiese, le quali, sebbene concorrano a formare quella chiesa, che riconosciamo come santa nella sua unità, cattolicità ed apostolicità, non possono però individualmente pretendere alla santità ed infallibilità della dottrina. N. d. T.
368. Intendasi rispetto alla morale, perciocchè rispetto al domma le sette accattoliche non possono in istretto senso migliorare, che abjurando gli errori che le separano dalla vera Chiesa. N. d. T.
369. Anzi la vera e sana teologia non fa che rendere più perfetta la morale. N. d. T.
370. Il lettore cattolico distinguerà il fatalismo dalle conseguenze de' giusti, ma imperscrutabili decreti di Dio, che gratuitamente salva gli eletti, e giustamente condanna i reprobi. N. d. T.
371. Contro le opinioni del nostro autore sul conto della confessione, il lettore cattolico troverà in ottimi libri chiare ed ortodosse istruzioni, senza che il traduttore debba entrare in lunghe disamine. N. d. T.
372. Questi abusi della credulità ingannata sono caldamente detestati dai cattolici illuminati e dallo stesso Clero, cui non devono ascriversi le prevaricazioni e le perfidie di pochi individui. N. d. T.
373. Intorno alla dottrina della predestinazione, leggasi il prezioso libro di sant'Agostino de Correctione et Gratia, che rischiara tutte le opposizioni fondate sull'umano raziocinio. N. d. T.
374. L'autore generalizza forse troppo questi principj; poichè, se non altro in pratica, fu sempre permesso ai dotti l'esame delle verità non rivelate. N. d. T.
375. Cioè di quegl'ignoranti ecclesiastici abborriti anche dai dotti ed illuminati teologhi, che alla semplice e santa morale del vangelo sostituirono superstiziose pratiche ed insegnamenti che non possono, senza ingiustizia, imputarsi alla chiesa. N. d. T.
376. Queste idee dell'autore, alquanto astratte, o peccano d'oscurità, o sono esagerate. Gratuita ad ogni modo può chiamarsi l'asserzione di non avere la bella letteratura prodotta verun'opera singolare. N. d. T.
377. Sebbene alquanto copertamente, si viene dal nostro autore tacciando gl'Italiani di non voler abbandonare il classicismo per seguire i settentrionali. Più modesto del signor Schlegel e di madama de Stael ec., non osa far pompa delle nuove dottrine del così detto romanticismo; ma ne sparge accortamente i semi. Sì: gl'Italiani si gloriano di pensare come i classici greci e latini, e d'imitarli; e penseranno ancora come i settentrionali e gli imiteranno, quando questi sapranno produrre più perfette cose che finora non hanno prodotte. N. d. T.
378. Nel Collegio Romano, risguardato come il principale stabilimento d'educazione del mondo cattolico, ogni scolaro deve ogni giorno ripetere, oltre varie altre preghiere, cento sessanta volte l' Ave Maria.
379. Nel supposto dell'autore, l'ubbidienza che gl'Italiani avrebbero prestata ai loro principi non sarebbe stata libera, ma cieca e servile; e gl'illuminati sovrani della presente età, richiedendo dai loro sudditi una ragionevole ubbidienza, non vorranno abbandonarli più oltre al monachismo. N. d. T.
380. I descritti abusi, forse praticati da qualche sovrano d'Italia, giovano a far meglio sentire la retta e paterna amministrazione degli altri. N. d. A.
381. Coloro che conoscono l'Italia non hanno bisogno che si vadano loro indicando i pochi stati presi qui di mira dallo storico. N. d. T.
382. Malgrado il motu proprio, nello stato ecclesiastico, le chiese servono ancora di rifugio agli assassini ed ai ladri.
383. Intorno al duello possono vedersi presso tutti i pubblicisti gli argomenti addotti pro e contro. Rispetto agli stati che hanno leggi proibitive, la quistione è pienamente decisa. N. d. T.