I.

PRIMA RIVOLUZIONE DI MILANO.

Dalle tombe levarono il venerabile capo gli eroi della Tassera e di Legnano, insusurrarono misteriose parole, sparsero un alito di fuoco e di vita, e la moderna Milano, la Sibari dell’Italia, la città degli agi e delle feste, delle mollezze e dei piaceri, la città che trentatrè anni di sempre vigile e sempre artificiosa corruzione, sembrava l’avessero snervata, imbastardita per sempre, questa città si trovò all’improvviso trasformata in una palestra di eroi.

Bianchi-Giovini.

I fatti che sto per narrare non richiedono poesia, non esaltazione, ma purità di stile senza ricercatezza; e quindi con anima schietta e corrucciata, e colla più santa verità ricordo a’ miei amati fratelli d’Italia cose orrende, non credibili al nostro secolo, non credibili all’intera Europa, e tali che desteranno sul Tedesco l’esacrazione universale. Le epoche in cui la nostra Lombardia ricorda i nomi di Attila, di Uraja, di Federico Barbarossa e delle barbare soldatesche Scile, Unne, Gote, Visigote, Ostrogote e Borgognone, sono epoche troppo felici messe a riscontro dei trentaquattr’anni della ultima dominazione austriaca su questa bella parte d’Italia; e gli storici che con orrore ci tramandarono i fatti d’allora, certo sarebbero d’opinione diversa, chiamando orde barbariche i Tedeschi del secolo XIX, ed Eroi quelle nordiche legioni dei primi tempi della bella Milano!

Il frequente soggiorno degli imperatori in questa città, e particolarmente di Massimiano Erculeo, le donò lustro, ricchezze e magnificenza, ciò che formò la sua rovina: mentre i Barbari del Settentrione, che a torme calavano a devastar l’impero di Roma, allettati da sì belle pompe le si avventarono addosso furiosamente e la resero infelice per più secoli.

Milano diede già il suo nome ad uno dei più ragguardevoli ducati d’Europa. Questo paese, abitato in antico dagli Insubri, fu sottomesso ai Romani l’anno 221 avanti Cristo, e passò quindi nell’anno 568 dell’era nostra, insieme colle provincie vicine, sotto alla dominazione dei Longobardi. Lo Stato di Milano con gran parte dell’Italia cominciò allora a riaversi dal suo abbattimento e a respirare dai lunghi mali onde in parte era lacerato. I Longobardi del Settentrione coi loro figli e le loro donne scesero tra noi, e fugati o distrutti gli altri Barbari, formarono un nuovo regno, dove, per le savie leggi in uso presso quelle genti crebbe e si rinvigorì la popolazione pressochè distrutta, e le campagne da prima coperte di squallore e deserte, ritornarono a rifiorire tra le speranze del laborioso agricoltore; regno in fine, al dir degli storici, il più felice che paragonar si potesse alla favolosa età dell’oro. Sede dei re longobardi fu Pavia.

L’ambizione e la diffidenza di alcuni pontefici, a cui dovette l’Italia gran parte delle sue ruine, come ci lasciò scritto Macchiavello, spinse i Francesi sotto Carlo Magno a scendere in questa provincia, e con la disfatta di Desiderio ultimo re de’ Longobardi, a stabilirvi il regno dei Franchi. Pipino, primogenito di Carlo Magno, ebbe questa provincia con titolo di regno d’Italia.

Indi dalla storia si vede come estintasi la linea Carolina fu usurpato dai principi italiani, l’ultimo de’ quali, Berengario I, fu disfatto da Ottone I imperatore, che ben meritamente seppe acquistarsi il nome di Grande.

Nel dominio della stirpe Carolina gli arcivescovi di Milano salirono al loro più eminente grado di autorità. È pur cara la memoria degli arcivescovi Ansperto da Biassono ed Eriberto d’Intimiano. Il primo, sottraendosi da ogni comando straniero si attese con zelo a ristorare la città dalle passate disgrazie e ruine, ad abbellirla di utili fabbriche e a cingerla di valide mura, cercando nel tempo stesso di cattivarsi l’amore e la giusta riconoscenza del popolo: il secondo, coll’aver insegnata ed aperta la strada della gloria a’ suoi concittadini, conducendoli in campo contro le città vicine e i re della Germania, e riconducendoli trionfanti ai patrii lari fra i viva dei congiunti e degli amici seppe dalla grata posterità meritarsi un posto luminoso tra i benefattori del suo paese.

La vittoria di Ottone gli sottomise l’Italia, che egli ed i suoi successori riguardarono di poi come una dipendenza dell’Impero. Dopo il dominio d’alcuni re che successivamente godettero con interrotte vicende questa sovranità, ottenne finalmente la corona italica l’imperatore Arrigo IV, principe di pessima indole ed incapace di regnare, il quale riempì co’ suoi disordini tutto il paese di confusioni e di turbolenze. Fu allora la prima volta che i Milanesi a viva forza si sottrassero dal giogo imperiale, e si misero in libertà. Nei primi momenti della repubblica ebbe molta autorità l’arcivescovo, indi fu eretto un consiglio generale, le cui attribuzioni erano di far la guerra e la pace, stringere confederazioni, spedire ambasciatori, eleggere i consoli ed altre dignità primarie. Il consiglio generale eleggeva un altro consiglio particolare, o senato, appellato Consiglio di credenza, cui spettavano il governo delle cose di giustizia e delle pubbliche entrate.

In questo stato d’indipendenza continuò Milano sino all’anno 1152, in cui ascese al trono Federico Enobarbo, o Barbarossa.

II.

IL GIURAMENTO DI PONTIDA.

In Pontida l’han giurata La disfatta del Tedesco.

Antica leggenda.

Il nome di Federico I, imperatore, comunemente conosciuto col soprannome di Barbarossa, non è ignoto a veruno anche del popolo di Milano. Ognuno sa che Milano fu distrutta da lui. Molte favolose tradizioni, come accade, si frammischiarono colla verità. Federico Barbarossa però si ricorda come un barbaro. L’epoca di questo imperatore è stata funesta. Siamo stati avviliti, ma non vili, nè senza gloria. I Romani ebbero due epoche di somma umiliazione; le forche Caudine e l’invasione de’ Galli. Noi avemmo Uraja e Federico.

Verri, Cap. vii.

Federico, straziato dalla forte smania d’ingrandimento, fissò pure lo sguardo sull’Italia. Assicurato dell’appoggio del pontefice Eugenio, dei Baroni della Puglia, del Marchese di Monferrato, dei Consoli di Lodi e di Como, discese nel 1154 per la prima volta in Italia alla testa di poderoso e ben agguerrito esercito. Egli venne tra noi non qual conquistatore, ma qual mediatore od arbitro di contese. Nondimeno eccolo imporre ai Milanesi che lo provvedano di vittovaglie, e coglier pretesti per dichiararsi loro nemico. Era nella politica di Federico l’estinguere in Lombardia la libertà, il soggiogare coll’ajuto delle minori la città maggiore, e quindi tutte nella sua obbedienza ridurre[1].

Federico co’ suoi soldati scorre il territorio Milanese, ed ovunque porta il sacco, il fuoco, la distruzione ed il macello di uomini, di donne, di fanciulli. Rosate, Trecate e Galliate ne sentirono il maggior danno. Tortona, perchè amica dei Milanesi, viene assediata, ed intorno alla città sono piantate alcune forche per appiccarvi tutti i prigionieri fatti nelle varie sortite dei Tortonesi, che sostennero valorosamente un assedio di settantadue giorni. Tortona data alle fiamme si arrese salva la vita dei suoi cittadini. Federico si porta quindi a Roma, ove fu coronato imperatore e re d’Italia da Adriano IV, e compiute le feste della sua incoronazione, stanchi i suoi soldati della guerra, lo costrinsero a far ritorno in Germania. Passando per Verona tenne un gran consiglio, nel quale spogliò la Milano del diritto di zecca, che concedette a Cremona, città a lui affezionata.

In questo torno di tempo i Milanesi rialzarono la città di Tortona, concorrendo alla spesa nobili, cittadini, popolani e campagnuoli. Tentarono pure colle armi di riprendersi qualche città o terra che loro si era ribellata, e la potenza loro ritornava al pristino stato, quando le discordie insorte tra il Pontefice e l’Imperatore costrinsero quest’ultimo a ritornarsene in Italia nel 1158 con un esercito di 100,000 combattenti capitanati da Ladislao, re di Boemia, Corrado, duca di Rottenburgo, Lodovico, conte palatino del Reno, Federico, duca di Svevia, Enrico, duca d’Austria, Alberto, conte del Tirolo, Ottone, conte palatino di Baviera, Federico, arcivescovo di Colonia, Arnaldo, arcivescovo di Magonza, Hellino, arcivescovo di Treveri, Vikmanno, arcivescovo di Magdeburgo, il principe di Zaringhen ed altri principi sovrani. A questo formidabile esercito si unirono contro di noi le forze di quasi tutte le città d’Italia del partito imperiale, siccome abbiamo da Vincenzo di Praga, cronista contemporaneo, il quale nomina tra esse Pavia, Cremona, Lodi, Como, Verona, Mantova, Bergamo, Parma, Piacenza, Genova, Tortona, Asti, Vercelli, Novara, Ivrea, Padova, Alba, Treviso, Aquileja, Ferrara, Reggio, Modena, Bologna, Imola, Cesena, Rimini, Ancona ed altre città che tutte avevano mandate le loro truppe. Così fatta spaventosa unione di forza atterrì i Milanesi, e li costrinse, dopo alcune sortite, ad un trattato di pace per interposizione del conte Guido di Biandrate[2]. Non fu di lunga durata, poichè l’Imperatore rinforzato l’esercito di nuove truppe venute di Lamagna, tormentò di nuovo i Milanesi, fino a tanto che questi avendo avuto la peggio dovettero arrendersi alla discrezione del nemico, che abusandosi delle sue forze sfogò la più canina rabbia sopra la bella capitale degli Insubri. Rifugge l’animo al solo pensiero di tante vittime sacrificate e di tanti danni riportati in quell’occasione. Basti il dire, che a fine di tutto manomettere e distruggere entro di essa, commise ciascuna porta di Milano all’insolenza e all’arbitrio d’altre città nemiche, le quali vendicarono i torti antichi con lo sfogare in quella il loro proprio furore. Tesori e monumenti di inestimabile magnificenza e rara antichità caddero nella rovina di una tanta distruzione. Lo storico Sire Raul, altro autore contemporaneo, ci descrive molte crudeltà praticate dall’Imperatore ai prigionieri che andava facendo in alcune scorrerie de’ nostri. Ad alcuni fece tagliar le mani, a cinque nobili milanesi fece cavar gli occhi, e ad un sesto gliene fece cavar uno solo, acciocchè servisse di guida a ricondurre nella città i suoi compagni; le donne venivano violate, mutilati gli uomini. Nè men barbari erano i guasti fatti per le campagne: tagliate le viti e gli altri alberi fruttiferi, abbruciate le messi, incendiati i casolari. Ai Cremaschi, intimando di arrendersi sotto pena della sua indignazione, fa impiccare 40 ostaggi dei loro presi in tempo di pace, ed insieme con questi vengono morti con lo stesso supplizio sei deputati Milanesi mandati a Piacenza, uno dei quali era nipote dell’Arcivescovo[3]. Fece inoltre costruire una torre di travi posta sulle ruote e legarvi gli altri ostaggi cremaschi, e spingendola verso la città obbligava in quel modo i Cremaschi alla scelta o di essere i carnefici dei loro concittadini, dei loro parenti ed amici, ovvero di sacrificare la patria loro.

I Milanesi vagavano raminghi per alcuni anni nei dintorni della loro desolata patria, quando il mal governo di Federico fece conoscere a gran parte della Lombardia il bisogno di unirsi, di formare una lega e di abbattere in Federico stesso il comune nemico. Agli interessi de’ Milanesi aveva congiunti i suoi il pontefice Alessandro III, guidati tutti dal solo principio di torsi dalla dispotica dominazione dell’Imperatore. L’assunto era malagevole, nè pareva possibile il formare una lega fra molte città oppresse, dominate e sospettosamente custodite da un terribile vincitore; nè il papa aveva forze bastanti per farvi contro. Dell’opera dei frati si pretende che il Comitato, come ora direbbesi, dei congiurati siasi servito per condurre a buon termine questa memorabile impresa. Essi in ciascuna città mantenevano pratiche cogli uomini più accreditati, sì che tornò facile di insinuare il progetto di questa liberazione e di prepararne i mezzi che ne assicurassero la buona riuscita.

Il congresso per formare la lega si tenne segretamente nel monastero di Pontida, posto sopra un piccolo colle tra la distrutta Milano e Bergamo. Ivi i Lombardi, tutti d’un sol pensiero, strette insieme le valorose destre pronunciarono il fatale giuramento di liberarsi dall’abborrito giogo tedesco, e presero il nome di Lega Lombarda per rispetto ai Milanesi che s’avevano meritato la compassione e l’ammirazione de’ loro stessi nemici.[4]

III.

LA BATTAGLIA DI LEGNANO.

Nel coglier dell’uve, nel mieter del grano Dovunque è una gioia, sia sempre Legnano L’altera parola che il canto dirà.

Ma guai pei nipoti, se ad essi discesa Diventa parola che muor non compresa; Quel giorno l’infame dei nostri sarà.

Berchet.

E voi, spose, se salva una prole Dalle verghe tedesche bramate, Al marito l’amplesso negate Finchè libera Italia non è.

Vallotti.

Il primo articolo trattato e conchiuso nel congresso di Pontida fu quello di ristabilire i Milanesi nella loro patria, di riparare le fortificazioni, di aiutarli a ripristinare le case loro, e così dare ancor nuova vita alla città che doveva essere la prima della confederazione[5]. Per condurre a termine questo disegno vi voleva l’aiuto de’ collegati, i quali, a ben riuscir nell’impresa, aspettarono che Federico si trovasse sotto le mura di Roma per discacciarne il Papa. Le novelle di Milano indussero l’Imperatore ad abbandonare la Romagna e a rivolgersi verso la Lombardia. I Milanesi non si perdettero di coraggio. Si portarono ad assediare il castello di Trezzo presidiato dagli Imperiali, e fecero prigioniera la guarnigione che condussero a Milano, e costringendo di poi Lodi ed altre città ad entrare nella Lega. Le città di Lombardia che erano entrate nella Lega furono poste al bando dell’impero. Federico tenta alcune scorrerie, ma è respinto. Doveva lottare con ben 23 città, che unite avevano giurato la sua rovina, e la distruzione dei Tedeschi. Erano collegate fra esse Milano, Cremona, Lodi, Bergamo, Ferrara, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Venezia, Bologna, Ravenna, Rimini, Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Bobbio, Tortona, Vercelli e Novara. L’Imperatore fu costretto a ritirarsi nuovamente nella Germania per la strada della Savoja, l’unica che gli rimaneva. Tutto questo aveva saputo preparare e condurre l’accorto Alessandro III.

Fermata la loro unione le città confederate pensarono di fortificare i confini della Lombardia verso le Alpi, ed in particolare quelli che toccavano le terre del Marchese di Monferrato, possente signore, che colla città di Pavia rimaneva del partito imperiale; ed a rendere immortale la fama del Sommo Pontefice, vollero creare una città che ne ricordasse ai secoli futuri il nome ed il beneficio.

«Adunque[6] alli 22 del mese di aprile 1168, le milizie di Cremona, Milano e Piacenza si portarono fra il confine del Marchese di Monferrato, ed il confine pavese oltre Po; quivi i confederati fecero scelta di un luogo che natura istessa pareva aver fortificato; era il confluente della Bormida e del Tanaro, e là dove sorgeva il piccolo castello di Rovereto, concorsi gli abitanti di Marengo, Foro, Gamondo e di parecchi altri liguri castelli, fu per opera d’uomo innalzata una nuova città abitata in un subito da quindici mila persone, alle quali giorno per giorno venivano ad aggiungersi molte nobili famiglie di Milano e di Tortona. La città fu ben presto circondata da un fosso scavato all’ingiro e da terrapieni a modo di mura, chè mura vere così in fretta non si erano potute fare per la vicinanza del Marchese di Monferrato che instava coll’armi, e per tema d’altra repentina discesa di Federico». Il Conte di Savoja, il Marchese di Monferrato, i Pavesi stimolavano l’imperatore Federico perchè venisse con un potente esercito nella Lombardia a distruggere la nuova Lega. Accettò l’invito, e con poderosa armata e’ si trovò nel 1174 sotto le mura della nuova città, e la cinse di un assedio che durò tutto l’inverno. Nella primavera del 1175 gli alleati misero insieme un forte esercito e si portarono in soccorso di Alessandria per la via di Piacenza, onde obbligarlo a toglierne l’assedio, come avvenne. L’Imperatore è costretto a domandar un trattato di pace, ma in capo a 12 mesi, impiegati dagli arbitri nel discuterne gli articoli, egli riceve nuovo soccorso di gente; nè anche gli alleati erano stati colle mani alla cintola. Federico smania e si dibatte. Unisce le sue forze a quelle di Como, di Pavia, del Marchese di Monferrato e del Conte di Savoja che gli erano stati fedeli. Ma nell’istante appunto che la schiavitù d’Italia pareva inevitabile e sicuro il trionfo del tedesco, nella celebre battaglia data presso Legnano il 29 maggio del 1176, una coorte milanese appellata Coorte della Morte, si slancia come lione affamato sulla preda, scompone, incalza e distrugge le falangi nemiche, e costringe Federico a non più tentare la sorte delle armi contro i Milanesi[7].

L’esito della battaglia presso Legnano, fu tanto felice per i Milanesi, che tutto l’esercito dell’Imperatore venne annientato. Molti restarono sul campo. I fuggitivi inseguiti fin al Ticino, vi furono gettati ed affogarono. Il rimanente si arrese, ed i prigionieri furono condotti a Milano. Fra questi ultimi si trovavano il duca Bertoldo, un Principe, nipote dell’imperatore, ed il fratello dell’Arcivescovo di Colonia. La cassa militare, lo scudo e la lancia dell’imperatore, vennero in potere dei Milanesi.

Il signor Felice Govean (vivendo sotto gli auspici del generoso Carlo Alberto, re di Sardegna, che non ultimo fra i principi Italiani, accordava a’ suoi sudditi la libertà della stampa) diede in quest’anno non dubbie prove del suo ingegno e del suo sentire veramente italiano, illustrando alcuni fatti celebri della storia d’Italia. Fra questi lavori trovasi pure descritta la battaglia di Legnano, da cui riporto i seguenti particolari.

Nel 1176 ai 29 di maggio[8], un giorno di sabbato, giorno del Signore, o popolo italiano, ricordati bene di questa data; o madri italiane, imparatela ai vostri bimbi, l’esercito dei Lombardi si trovò a fronte dell’esercito imperiale.

Il cielo era bello e sereno, e le armature risplendevano per i torrenti di luce che il sole pioveva.—Natura istessa pareva ansiosa per l’esito della gran lite.—Fra poche ore il ladro tedesco incrudelirà padrone sulla terra d’Italia, oppure morderà la polvere sotto il fiero vincitore dei repubblicani. Forse le ombre fiere degli antichi Romani, che tante volte avevano debellati i barbari Goti e Cimbri, vagolavano in quel momento taciturne e tementi che i loro figli fossero imbelli.

Dio Onnipossente non guardare ai nostri peccati, ma muoviti nella tua misericordia a far salva la cara contrada che creasti con divina compiacenza per dare agli uomini un presagio della bellezza del tuo paradiso.

Ecco spuntare da lungi la vanguardia tedesca, una schiera dei nostri spronano ad incontrarla, spronano i tedeschi. A metà cammino s’urtano, e così cominciò la battaglia. Mentre i due eserciti eseguivano i loro movimenti, gli antiguardi menavano le mani.

E Iddio sin dal principio di quella tremenda giornata, volle dare un pegno del suo amore per noi.

Imperocchè la disciplina tedesca male reggendo alla furia degli Italiani, la vanguardia imperiale fu costretta a retrocedere, ripiegando all’indietro ed a stento conservandosi in nodo.

Gli Italiani non concedono sosta; animati da quel primo favore, scostandosi troppo dai loro inseguono e ricacciono gl’imperiali sin contro alla grossa testa dell’esercito nemico.—A quel punto la vanguardia tedesca scompare riparandosi dietro la gran massa della cavalleria, la quale scuote le briglie, abbassa le lancie e sprona in lunghissima linea contro la vanguardia italiana, che per vicenda di guerra dovè retrocedere a sua posta.

Alto come una torre sul mezzo della sua sterminata cavalleria a spron battuto procede trionfante il Barbarossa, dinanzi a lui come per fiero turbine il terreno si spazza.

Allora i settecento della morte si sacrificarono per la patria; ristretti assieme quei soli si gettano sulla via del Barbarossa. Urtati da migliaja e migliaja di lancie non si rimovano dal luogo, avevano giurato di non retrocedere, trafitti cadono senza cedere sotto le zampe dei cavalli ungaresi, e morti ricoprono il posto che vivi occuparono combattendo.

La strage che fecero dei nemici fu cosa di spavento. Figuratevi che disperato valore mostrassero uomini che avevano deciso morire, e che per tanta disparità di numero sapevano dover morire.

Di questa coorte 600 perirono, un centinajo dalle lancie nemiche stretti da ogni parte e quasi sollevati da terra, venivano per incontrastabile forza portati addietro, sempre però guardando il nemico in faccia, sempre gettandosi a petto perduto contro migliaja di punte, inviperiti, furiosi, colla spuma alle labbra bestemmiando la sorte che loro non voleva togliere la vita.

Ora tutto lo sforzo imperiale, cavalleria, fanteria, le schiere dei frombolieri, balestrieri, le macchine di guerra si rovesciano sopra le sei schiere dei cittadini che stavano davanti al carroccio; dietro in lontananza e silenziosi stavano i trecento.

Il Barbarossa giunse a forare, spezzando in due le schiere dei Lombardi, di modo che una metà rimase a difesa del carroccio.—Ed egli sempre animando i suoi si getta sulle file degli Italiani, ad ogni poco queste si diradano, si rassottigliano, si mostrano sceme.—O sacro carro della libertà, a te d’intorno i tuoi difensori cadono rotti come le canne dinnanzi al petto di fiero cinghiale.—La vittoria abbandona i repubblicani, e Federico imperversa nell’opera di distruzione; tempestando già s’avvicina al Carroccio, sprona il suo possente cavallo fiammingo, il quale nitrendo, lacerato nei fianchi si rizza sulle coscie e batte colle ferrate zampe del davanti sul tavolato del Carroccio.—Gli accesi candelieri caddero d’in sull’altare, un traverso della croce si ruppe, ed il Cristo rimase col braccio destro inchiodato e disteso.... Come in atto di fulminare.—Ogni cosa era sossopra, il sangue correva a rivi fumanti. Davanti all’eremita i nostri guerrieri si facevano scannare, uno gli rottola ai piedi inzozzandogli le mani e gli abiti pontificali di sangue; in quel mentre Federico trafigge a furia di sproni il suo cavallo, e tenta farlo salire di sbalzo sul carro.—L’eremita gli si pianta di faccia, e sollevata la destra insanguinata, scaglia sul capo del Barbarossa le parole della scomunica fulminategli dal papa, Anathema, anathema tibi sit!

Il volto di Federico diventò livido come cenere; il suo cavallo sbuffando, a criniera svolazzata, retrocesse, e colle larghe narici fiutò lungamente il terreno. Federico, come leone che si flagelli colla propria coda, cercava ridestar la sua smarrita ferocia.

Frattanto cosa fanno i trecento, perchè non si precipitano essi pure a morire per la patria e per la libertà?

I trecento sono discesi da cavallo, hanno posto il ginocchio a terra e baciano il suolo.—A quella vista l’imperatore con alta voce di scherno grida: «Ecco i vili Italiani che mi domandano misericordia».

O Imperatore imbecille, gl’Italiani non dimandano misericordia che a Dio.

I trecento non risposero, tranquillamente risaliti in sella abbassarono le visiere, calarono le lancie, e solo allora ruppero il silenzio con un terribile: Viva l’Italia! e spronarono.

Parve che il Dio delle vendette avesse finalmente sprigionato i suoi fulmini. Accanto a Federico era un Alfiere che portava lo stendardo imperiale; trapassato da una lancia, cade ravvolto nella sua odiata bandiera dell’aquila a due teste. —Viva l’Italia! in un momento gli approcci del carroccio sono sgombri da ogni peste tedesca, la martinella torna a suonare a distesa. L’ira degli Italiani si rovescia in Federico. Invano Ungari e Fiamminghi tentano di fargli riparo, quel riparo è superato; gl’Italiani sono addosso a Federico.

O per Iddio! finalmente ci sei, o Barbarossa, a corpo a corpo coi nostri guerrieri. Per la tua vita io non darei l’ultima moneta di rame.

Un milanese aveva lasciata l’azza nelle interiora d’un Fiammingo, la spada l’aveva fatta a pezzi fendendo quattro elmetti di seguito, il pugnale rotto sino al manico crepando la corazza del vescovo di Magdeburgo. Così senz’armi colla sola manopola di ferro alza la destra a modo di ferrea tanaglia su Federigo, la piena degli Ungaresi lo respinge, ritorna alla prova e questa volta le sue unghie strisciano sulla corazza del Barbarossa, gli strappa l’imperiale collana e gliela sbatte sul viso. La pugna che si faceva intorno all’imperatore era così terribile; i giganti Fiamminghi, i bravi Ungaresi morivano anch’essi da eroi per il loro padrone, ferivano a tutta possa per liberarlo. Ma se in quel punto agl’Italiani fosse anche fuggita l’anima di petto, credo che non se ne sarebbero accorti. Un Piemontese grida al Milanese della manopola:—Qua, qua fratello, che ti dia una mano e s’apra la strada a questo modo: distende un pugno sull’elmo ed un Magontino, il quale capitombola versando il sangue dalla visiera, segno che era morto,—tira via un altro tedesco prendendolo pel braccio e lo fa ululare, segno che il braccio glielo aveva rotto; arriva a Federigo, gli mette a modo nostro la destra sul collo, e colla sinistra lo stringe alla vita; Veronesi, Piemontesi e Milanesi son tutti sopra al tiranno; il Milanese poi della manopola fattosi, Dio sa come, nuovamente largo, piomba su Federico, e mentre il Piemontese lo scuote alla vita, egli afferratolo per le punte della corona gli fece battere e ribattere la testa sulla testa del cavallo, gridando: Muori assassino della mia patria—ed il Piemontese gridava egli pure: Ammazzalo, ammazzalo questo cane; ed un Toscano: Ne voglio un lacerto per farlo cuocere—a pezzi a pezzi—vivo vogliamo mangiarlo!—vogliamo vedergli il cuore—a brani a brani.—E veramente la cosa sarebbe terminata a questo modo, ma un’ondata di Fiamminghi, fatto uno sforzo estremo, tentò di rompere quel cerchio. La zuffa andò in un convulso di uomini e cavalli, italiani e tedeschi, di gambe che si agitavano in aria, di mani che tentavano appoggiarsi in terra, e si sentivano masticare le dita dai denti di chi era sotto calpestato da tanti piedi e ginocchi. Era un turbine di cento mila diavoli che si divoravano fra di loro.—I gridi di Viva l’Italia, ammazza, scanna quei cani, rochi per l’arsura delle gole, crescono, oramai non sentesi più altro.—Dov’è la famosa guardia imperiale dei giganti Fiamminghi? uccisa.—Dove gli Ungaresi? uccisi.—E Federico Barbarossa?—Il suo cavallo è là sventrato, attorno sono i pezzi dell’armatura.—Il suo corpo? chi può riconoscerlo fra tanti cadaveri che han tronche le mani, le gambe e la testa? L’imperatore è morto[9].—Su tutti i punti del campo i Tedeschi, gettate le armi, fuggono alla disperata, fuggono chiedendo misericordia, ma non la trovano che nella fuga.

Per otto miglia di seguito la furia degli Italiani perseguitò i fuggiaschi imperiali, per otto miglia di seguito lo spazio fu seminato di carne tedesca. Sin sulle sponde del Ticino le spade repubblicane continuarono a ferire, e le acque di quel fiume andarono rigonfie pel barbaro annegato bestiame.

I Lombardi ritornando dal cacciare i nemici, ripassarono nel campo di Legnano dov’era rimasto ad aspettargli il carroccio. Quivi quei prodi Lombardi trattisi l’elmo, col sorriso sulle labbra asciugarono il sudor dalla fronte, altri frammezzo ai compagni festanti pestavano, rompevano e sfracellavano gli esecrati stendardi dell’aquila a due teste. Quindi caricato il Carroccio delle spoglie imperiali, cantando i cantici della vittoria fra le grida di Viva l’Italia, fra lo suonare a festa di mille trombe trionfalmente rientrarono in Milano.

IV.

GIROLAMO OLGIATI.

Dal Visconteo castello Ove ogni fe’ tradì, Già l’Attila novello Dal ferro ultor fuggì.

Fur di Milano i figli Eroi più che guerrier.... E li dicean conigli Dell’Austria i masnadier!

Di schiavi in man le spade Non son che un giunco, un stel; In man di libertade Son fulmini del ciel.

O. T....

Diamo un rapido sguardo a questi tempi per vedere a quali tristi condizioni si trovò nuovamente esposta la bella capitale di Lombardia. Pertanto cessate le guerre e rassicurato lo Stato a forza di combattimenti, sembrava che i Milanesi dovessero godersi in pace i frutti delle loro fatiche in seno delle amate consorti e framezzo ad una diletta corona di figli; ma no, la fiaccola incendiatrice della discordia nata nella culla stessa della libertà ed accresciuta fra i partiti pone la città in continue combustioni e tumulto, di maniera che tutta fu piena di turbolenze e di rivoluzioni, conseguenza di così abbominevol mostro distruttore d’ogni buon governo, e da cui venne l’orribil crollo alla libertà di Milano. I tanti partiti si ridussero a due soli, ognuno dei quali s’era nominato il suo capo. Il popolo dirigevasi dalla famiglia Torriani, ed i nobili dai Visconti. Sì gli uni che gli altri lottavano aspramente fra loro, ed ingannandosi vicendevolmente disputavansi a vicenda il principato a scapito della libertà.

La celebre battaglia data da Ottone Visconti, arcivescovo di Milano, ai Torriani, a Desio, decise del loro destino, ed i Visconti, ora con simulazione, ora con promesse, trassero il popolo milanese a dura servitù, e posero sotto un nuovo tirannico giogo i nostri padri.

Non si può non rabbrividire scorrendo la storia dei Visconti nel leggere le loro avanie, le crudeltà di Luchino[10], di Barnabò[11] e di Galeazzo suo fratello, la perfidia di Gian Galeazzo e di Filippo Maria. Se si volesse ricercare tra loro un’ombra di virtù, ben ci sarebbe malagevole, e non avremmo che a correre tra i rivi di sangue d’uomini onesti ed innocenti, fra l’ombra inspirata di una sorda e tirannica politica, e fra le grida dello sventurato popolo oppresso, e a tal segno conculcato da non essergli talvolta permesso di mostrare le sue piaghe, non che di risanarle. In tempi così luttuosi parve che Dio stesso si servisse del braccio di questi despoti per fargli piovere sopra di lui peste, fame, guerre e ruine, e tutti in somma i flagelli dello sdegno celeste e delle umane passioni. Tali furono mai sempre le conseguenze d’una spirata libertà[12].

In Filippo Maria spenta rimase la famiglia dinastica Visconti sebbene altre linee naturali vivessero ancora in Milano, alcune delle quali continuano anche a’ giorni nostri. Il popolo, stanco dei sofferti disagi sotto il tirannico governo dei tristi che per più di un secolo e mezzo li governò, volle proclamare la libertà e reggersi in comune. Ma esso non era più il popolo che aveva giurato la disfatta dei tiranni a Pontida, non era più quello che sbaragliò e sconfisse il nemico a Legnano. Era un popolo senza fermezza, senza coraggio, privo di quel maschio valore che fa superare ogni ostacolo, col quale avrebbero trionfato anche questa volta, e Francesco Sforza, marito di Bianca Visconti, che tutta possedeva l’arte di fingere e simulare, seppe approfittarsi di queste circostanze per ingannare i Milanesi e gettarli di bel nuovo in un mare di guai, facendosi proclamare loro duca[13]. I suoi successori ora ambiziosi e deboli, ora crudeli e capricciosi, rinnovarono le triste scene dei Visconti.

Galeazze Maria Sforza destò l’indignazione in tutti i suoi sudditi. I primordi del suo governo furono quelli di principe cattivo e dissoluto. Si mostrò ingrato verso la propria madre, la quale volendo egli lontana da sè, fu costretta ritirarsi nel castello di Melegnano, ove chiuse solitaria e trista i suoi giorni. Oltre ad essere cattivo, dissoluto ed ingrato, la storia lo qualifica per libidinoso, impudente, feroce e brutale. Si narra che egli facesse seppellir vivo un uomo, e che ad un altro caduto in sua disgrazia per aver violate alcune leggi da lui promulgate intorno alla caccia, volesse far inghiottire una lepre intera. Tante atrocità gli suscitarono contro una congiura, a capo della quale erano i nobili Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti. Il Duca venne trucidato sul limitare della chiesa di S. Stefano in mezzo alle stesse sue guardie il giorno 26 dicembre del 1476, mentre solennemente entrava nel tempio per onorare la festività di quel santo protomartire.—E Girolamo Olgiati, pieno di fuoco per il santo amor di patria, inutilmente si affannò di richiamare alla perduta libertà, colla morte del tiranno, l’avvilito popolo Milanese, il quale anzi che dare ajuto ai congiurati che lo salvavano dall’oppressione, li perseguitò. L’Olgiati caduto nelle mani della giustizia, morì da uomo grande e valoroso nell’età di anni 23, proferendo queste parole: Girolamo fatti cuore: il dolore è di breve durata, ma eterna ne sarà la memoria.

Gli Sforza non godettero tranquilli i frutti delle loro usurpazioni, perchè vennero in mille guise sbalzati ora dai Re di Francia pretendenti all’eredità del ducato di Milano per ragione di Valentina Visconti, maritata nella loro famiglia da Gian Galeazzo di lui padre, ed ora dagli Austriaci e dagli Spagnuoli per la ragione dell’Impero. Cessata però la linea retta degli Sforza, dopo vari combattimenti or favorevoli ai Francesi, ora agli Spagnuoli sempre di grave danno ai Milanesi, la fortuna arrise all’imperatore Carlo, re di Spagna.

V.

SPAGNUOLI, FRANCESI E TEDESCHI o IL GIRO DI TRE SECOLI.

Non sempre i fatti che hanno la maggior importanza in sè stessi, e la maggior estensione pei loro effetti, sono poi anche i meglio conosciuti, sia ne’ loro principj, sia nella loro mole. Il più delle volte il pubblico non prende per guida de’ suoi giudizj che pure apparenze. Le sue opinioni si modellano sui racconti che egli riceve, per lo più da mani le meno versate nella materia, l’onore è attribuito a chi non tocca, il biasimo è applicato a chi nulla ha fatto per meritarlo. Così l’errore va circolando e prendendo piede, e la credulità dei contemporanei tramanda alle generazioni che succedono un retaggio d’erronee nozioni, frutto dell’ignoranza degli uni e della confidenza degli altri, o nell’affermare ciò che ignorano, o nell’ammettere ciò che trovano affermato. Formasi quindi una falsa istoria, specie di favola convenuta, che nulla insegna, che fa anzi qualche cosa di peggio, poichè insegna l’errore, sfigura i fatti, e mette gli attori fuori del suo posto.

Di Pradt, Sulla ristaurazione del Governo reale in Francia.

Carlo V, che nell’età di diciannove anni era stato creato imperatore, era il più potente sovrano di Europa. A lui come ad assoluto padrone obbedivano le Spagne, l’America, i regni di Napoli e di Sicilia, i Paesi Bassi, gli Stati Austriaci, e per ultimo, tutti gli Stati del ducato di Milano, lasciatigli da Francesco Sforza ultimo duca. Questo monarca, il primo che possedesse tanta estensione di stati dopo Carlo Magno, volle prima di morire dividerli tra suo figlio Filippo II e suo fratello Ferdinando, e fece il primo re di Spagna, dell’America, dei Paesi Bassi e del ducato di Milano, chiamando questo ramo primogenito austro-spagnuolo; al secondo lasciò tutti gli Stati austriaci, distinguendolo dall’altro come secondogenito, chiamandolo austro-tedesco. Passata così la Lombardia sotto i Re di Spagna, e dallo strepito della guerra, all’ozio della pace, vediamo il commercio estinto, l’agricoltura negletta e disprezzata, le imposte esorbitanti, il pubblico erario per cattiva amministrazione sempre esausto. La politica spagnuola spirò nei Lombardi insensibilmente mollezza, pusillanimità ed un pensar superstizioso, che terminò di cancellare ogni traccia di quel carattere fermo e guerriero che distinse gli antichi nostri avi. Nel cuor dei nobili nacque un puerile orgoglio, nella plebe inerzia e viltà, che continuarono sino all’epoca della prima rivoluzione di Francia, con grave rammarico di chi ama l’onor nazionale. Dalle quali cose tutte pur troppo si comprende che i Milanesi sempre più avidi d’imitare i costumi ed il carattere delle straniere nazioni alle quali furono soggetti che di sostenere il loro proprio.

Morto nel 1701 Carlo II, re delle Spagne, senza figli del miglior sesso, per la sua successione si accese lunga ed accanita guerra tra i principali sovrani d’Europa, che aspiravano all’eredità di uno stato florido ed ubertoso; la qual guerra scompigliò tutte le cose d’Italia e non ebbe fine se non per la pace d’Utrecht, tra la Francia, l’Inghilterra e la Casa di Savoja, e per la pace di Rastadt, conchiusa nel 1714 colla Corte di Vienna. In questi trattati si riconobbe Filippo V, duca d’Angiò, re delle Spagne, e Carlo VI, imperatore di Germania della famiglia austriaca, ebbe il regno di Napoli, gli Stati della Toscana, la Sardegna, il territorio Milanese e la Fiandra. Così dopo sanguinose contese la Lombardia venne all’ultimo in potere della germanica Casa d’Austria.

L’imperatore Carlo VI morendo pure senza prole, chiamò all’eredità de’ suoi Stati l’arciduchessa Maria Teresa, già moglie a Francesco di Lorena, la quale seppe coraggiosamente sostenere i diritti della sua eredità, che le venivano contrastati dai principali Sovrani d’Europa. Emanò provvide leggi amministrative, tra le quali deve annoverarsi quella del censimento, immaginata sino dai tempi di Carlo V, proseguita sotto Carlo VI, e compita solamente nel suo regno. A lei succedeva il figlio Giuseppe II, principe, al dire del Botta, per vigor di mente e per amor verso l’umana generazione facilmente il primo se si paragona ai principi dei suoi tempi estranei alia sua casa, il primo forse ancora, od il secondo se si paragona a Leopoldo suo fratello, che molto pensò e molto operò in beneficio delle austriache dominazioni. Fu in questo torno di tempo che Milano vide fiorire i Beccaria, i Verri, ed altri cospicui suoi cittadini, i quali animati d’un fervido amor di patria, osavano insegnarci col loro esempio a rompere la gran folla degli errori in cui eravamo perdutamente avvolti. Ma il dispotismo monarchico, l’orgoglio feudale, la mollezza dei potenti, la corruzione de’ costumi di un popolo abbrutito nella schiavitù e nell’infingardaggine, avea estinto quello spirito eroico di libertà, onde tanto s’erano un giorno illustrati i Lombardi. La politica di Giuseppe II, di Leopoldo e di Francesco II parea dover per sempre raffermare la schiavitù in Lombardia, quando la rivoluzione di Francia (1789) nell’atto che crollava dai fondamenti il grand’edificio della monarchia, divenuto troppo pesante alla massa del popolo, venne all’Europa tutta preparando una rigenerazione politica che sarà mai sempre di esempio e di ammirazione a tutti i popoli della terra.

I sovrani, soliti a vedersi circondati da folla di gente, cui era perfino delitto il pensiero d’indipendenza, credevano che la sommossa della Francia sarebbe soffocata nel suo nascere. L’austriaco Imperatore congiunto con i vincoli del sangue alla famiglia dei Borboni, fu il primo a prendere le armi per porre un argine ai progressi della rivoluzione. Ma nè gl’inconsiderati tentativi della Corte di Berlino, nè gl’impotenti attacchi della Spagna, nè tutti i dispendiosi sforzi dei gabinetti di Londra e di Germania, nè tampoco la debole barriera opposta dal Re di Sardegna, poterono trattenere le vittoriose falangi della Francia, le quali, non più curando le inaccessibili sommità delle Alpi, piombano in Italia, fugano per ogni dove gli eserciti de’ suoi dominatori e recano ai popoli da loro conquistati quella libertà che da più secoli avevano perduta.

Milano, abbandonata dall’ultimo suo governatore, l’arciduca Ferdinando, divenne conquista del vincitore, intantochè immersa nelle sue antiche abitudini, spaventata da’ falsi presagi di un avvenire burrascoso, ondeggiò per qualche tempo fra la speranza ed il timore, e la discordia che divideva spesso l’opinione de’ cittadini, ritardavale un’epoca che in apparenza la doveva restituire al lustro delle sue antiche glorie. Alcuni personaggi che sostenevano la rappresentanza del popolo, avendo chiesto di costituirsi in repubblica, sebbene tuttora fervesse la guerra tra la Francia e la Germania, il supremo generale Bonaparte accordò loro, il 9 luglio 1797, la desiderata nuova forma di Stato col titolo di Repubblica Cisalpina, al governo della quale era un direttorio esecutivo, composto dai cittadini Serbelloni, Moscati, Paradisi e Sommariva, e un corpo legislativo, il tutto sul modello della repubblica francese. La solennità di questo giorno sacro alla libertà della Lombardia ebbe luogo nel Lazzaretto fuori di porta Orientale, che chiamossi Campo di Marte. Alli 17 ottobre dello stesso anno, vinta l’Austria dal valore delle truppe francesi, dovette l’Imperatore segnare il trattato di Campo Formio. Ma l’Austria aveva sottoscritto questo trattato col solo fine di prender tempo, per rimettersi in forza ed indurre l’imperatore delle Russie a mandar ad effetto i trattati di un’antica alleanza che sussisteva fra le due corti imperiali. Cosicchè quando i Milanesi credevano di esser sollevati dai pesi di una guerra così lunga e rovinosa si videro di nuovo involti in un turbine ancora più spaventevole. Calati i discendenti de’ Goti in Italia ad accrescere le forze, in quel breve spazio di tregua aumentate, della Casa d’Austria, le falangi repubblicane non potendo resister a questi primi urti impetuosi, dovettero in pochi mesi cedere quanto si erano acquistato in Italia, e Milano riprende l’antica livrea. L’imperatore di Germania non ritenne di aver segnato a Campo Formio l’indipendenza dei Milanesi, e dichiarò intruso un governo che egli stesso aveva riconosciuto coll’atto istesso. Tutto venne soppresso, distrutto, proscritta ogni ricordanza del passato sistema, e coloro i quali si erano mostrati più caldi per la causa della libertà vennero perseguitati coi più barbari modi e confinati nelle bastiglie dell’Adriatico e del settentrione. Così si estinsero un’altra volta al loro nascere i semi dell’indipendenza che cominciavano a germogliare negli animi dei Milanesi, ed il fasto dei potenti, il dispotismo e la mollezza ristabilirono in Lombardia la loro sede. Poco godettero gli Austriaci il nuovo acquisto che loro avea costato gravi sacrifici d’oro e di sangue. Essi trascurarono il porto e la città di Genova che si doveva espugnare a tutto costo, prima anche di prendere le altre piazze d’Italia; fra i comandanti austriaci e russi nacquero sanguinose gare; la spedizione nella Svizzera delle truppe Moscovite sotto il comando del generale Suwarov andò fallita; le gloriose vittorie del generale francese Massena; più di tutto lo strepito delle armi di Bonaparte, che sebbene impegnato nella spedizione d’Egitto, al primo avviso che l’Italia era ritornata in potere degli antichi suoi tiranni, volò in Francia e sciolto il Direttorio, che era forse stato causa degli sconvolgimenti militari in Italia, raccolse all’infretta un’armata di coscritti a Digione, penetrò nella Svizzera al rinnovar della stagione, fe’ arrampicare i suoi combattenti sulle impraticabili cime del gran San Bernardo, precipitò nel Vallese, scorse il Piemonte ed entrò il giorno 2 giugno dell’anno 1800 nuovamente fra le acclamazioni in Milano, che trovavasi abbandonata dal generale Melas, mentre teneva occupate le sue genti nell’inutil blocco di Genova.

Due giorni dopo il Governo di questa città manifestò a’ suoi cittadini i generosi sentimenti del Primo Console della prima nazione, Bonaparte, pubblicando le seguenti norme da inviolabilmente osservarsi:

I. Sarà riorganizzata la repubblica Cisalpina come nazione libera ed indipendente.

II. Dovrà da chiunque essere rispettato il libero e pubblico esercizio della religione Cattolica, secondo gli usi che praticavasi al tempo che il prelodato Primo Console come generale in capo dimorava in Milano; venendo perciò vietato qualunque disprezzo contro la medesima e li suoi ministri; in modo che non ne venga impedito in tutta la sua estensione il libero e pubblico esercizio della medesima, nè per alcun modo sia fatto disprezzo ai simboli che la riguardano, sotto le più rigorose pene estensibili anche alla morte a giudizio delle autorità competenti.

III. Saranno pure rispettate le proprietà e le persone di tutti i Cittadini indistintamente, e per conseguenza non potrà alcuno farsi lecito di usare de’ termini che possono in qualunque maniera indicare divisione di partito e di sentimenti.

IV. In conseguenza di queste massime regolatici riesce disgustoso all’Amministrazione provvisoria di vedere che molte persone abbiano abbandonata la loro patria, e quindi per espresso ordine del sullodato Primo Console diffida chiunque si è allontanato dalla patria stessa di doversi restituire al più presto a misura della lontananza in cui ciascuno si troverà al tempo della pubblicazione del presente: eccettuati però quelli che avrebbero prese le armi contro la repubblica Cisalpina dopo il trattato di Campo Formio, dovendo questi ritenersi come traditori e nemici della patria.

V. Dovendosi poi considerare come non avvenute le leggi promulgate dal giorno dell’invasione delle truppe austriache fino al glorioso ritorno delle armate francesi per essere stato questo dominio riconosciuto libero, ed indipendente dalla maggior parte delle Potenze d’Europa e dallo stesso Imperatore, in forza del surriferito trattato di Campo Formio, restano perciò tolti tutti li sequestri posti sopra li fondi, che per diritto di proprietà e legittimo acquisto appartenevano dapprima a ciascun legittimo acquirente, qualunque siasi il titolo del fatto sequestro.

VI. Non dovranno d’ora innanzi avere corso alcuno le cedole di banco di Vienna sparse in questo Stato nè alle casse pubbliche nè per contratti fra privati.

Crede l’Amministrazione Provvisoria che da queste preliminari disposizioni ognuno degli abitanti nella repubblica Cisalpina riconoscerà che il ritorno delle armate francesi e del glorioso Eroe che le dirige, tende alla repristinazione della libertà e dell’indipendenza; onde animati tutti da sentimenti di vera gratitudine saranno per concorrere di buona voglia in questi tempi con ogni sforzo al migliore mantenimento e sussistenza delle armate medesime, all’effetto che venga posto fine al terribile flagello della guerra, unico oggetto che dopo la riacquistata libertà resta a desiderarsi.

Milano dalla Casa del Comune, 15 Pratile anno VIII ( 4 giugno 1802 ).

L’Amministrazione Provvisoria

Marliani Sacchi Goffredo } Delegati

Levato l’assedio di Genova, sebbene le truppe francesi presidiassero di già la Lombardia, pure il supremo comandante Melas alla testa di 40,000 combattenti, senza contar quelli che poteva levare dalle guarnigioni delle fortezze, disegnò di venir a giornata col grosso dell’esercito Francese, che continuava a sfilare in Lombardia per la via del Piemonte. Questa è la celebre battaglia di Marengo, vinta come ognun sa dai Francesi, e da quell’epoca la Repubblica Cisalpina prese di nuovo la sua stabile esistenza. La guerra tuttavia fra le due potenze francese ed austriaca, durò a flagellare i popoli sino alla pace di Luneville, celebrata il 9 febbrajo del 1801, nella quale l’imperatore rinunciò alla Lombardia in favore della Cisalpina. Questa importante trattato faceva sperare che la repubblica avesse stabilite le sue solide basi, e che noi come i nostri padri ed i nostri figli avremmo a godere di tutti quei vantaggi che sotto mille aspetti si presentavano[14].

Il Primo Console, dopo che vide accettati i preliminari della pace anche dalla sola potenza che ancor impugnasse le armi contro la Francia, e aperto in Amiens un congresso che doveva determinare i compensi a’ Principi che per le guerre cessate erano rimasti senza Stato, pensò chiamare a Lione una consulta straordinaria Cisalpina, formata da tutti i ceti più rispettabili dello Stato, coll’approvazione dei quali diede una stabile costituzione, chiamandola col nome di repubblica Italiana, e proclamò un governo costituzionale, composto dal vicepresidente Francesco Melzi, dal consigliere di Stato Guicciardi, dal gran giudice Spanocchi, da una consulta di Stato rappresentata dai cittadini Marescalchi, Serbelloni, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Containi, Luosi, Moscati; da un consiglio legislativo; da un collegio Elettorale di Possidenti, da un collegio di Commercianti e da un collegio di Dotti.

Poi rivolto all’illustre Assemblea così disse:

«La repubblica Cisalpina riconosciuta a Campo Formio ha di poi provate molte vicende. I primi sforzi fatti per costituirla riuscirono male. Invasa dalle armate nemiche, la sua esistenza non parea più neppur probabile, quando il popolo francese scacciò per la seconda volta colla forza delle sue armi i vostri nemici dal vostro territorio. Dopo questo tempo si è tutto tentato per smembrarla.... La protezione della Francia ha vinto ... voi siete stati riconosciuti a Luneville. Accresciuta la Repubblica di un quinto, ora esiste più potente, più solida, con speranze lusinghiere! Composta di sei nazioni diverse sarà riunita sotto il reggime di una costituzione adattata ai vostri costumi ed alle circostanze vostre. Io ho riuniti Voi, come i principali cittadini della Cisalpina, intorno a me in Lione. Voi mi avete dati i lumi necessari ad adempiere l’augusto incarico che m’imponeva il mio dovere; come primo magistrato della repubblica Francese e come quelli che ha più degli altri contribuito alla vostra creazione».

«Nè spirito di partito, nè spirito di località mi hanno diretto nella scelta che ho fatta per le vostre primarie magistrature. Non ho trovato tra voi veruno che avesse ancora abbastanza diritto alla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di località, e che avesse resi tanto grati servigi alla patria da poterglisi affidar la carica di presidente. Il processo verbale che mi avete fatto presentare dalla vostra commissione dei Trenta, ed in cui sono analizzate con precisione e con verità le circostanze interne ed esterne della vostra patria, mi ha determinato di aderire al vostro voto, e sinchè le stesse circostanze lo vorranno, io m’incaricherò del pensiero de’ vostri affari. Tra le cure continue che esige il posto in cui mi trovo, tutto ciò che v’interesserà e potrà assicurare la vostra esistenza e la prosperità vostra sarà sempre uno degli oggetti più cari al mio cuore. Voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali: il vostro popolo non ha che costumi locali, ed è necessario che acquisti costumi nazionali. Voi finalmente non avete armate, e le potenze che potrebbero divenir vostre nemiche, ne hanno delle molto forti ... Ma voi avete tutto ciò che può produrle; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l’esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell’Europa.»

Non voglio in questo luogo narrare tutte le gesta di Napoleone che condurrebbero la mia storia al 1814; sono fatti troppo a noi vicini. Molti a lui compagni d’armi vivono ancora. A migliaja si scrissero le storie di questa epoca, le sue vicende troppo strepitose si raccontano dovunque e si vedono impresse nelle medaglie, nelle armi, nei monumenti. Napoleone più fortunato che saggio, nel momento che sbalordiva il mondo collo strepito delle sue armi lo ingannava colla sua politica. Egli che era già stato creato imperatore de’ Francesi, della repubblica Cisalpina formò un regno. Invitato dalla Consulta di Stato e dalle deputazioni de’ Collegi elettorali radunati a Parigi a cingersi il diadema de’ Longobardi, vi aderì e volle esser incoronato a Milano. Assiso sul trono d’Italia con nuove leggi e più adatte compose il governo del regno. Nominò il figlio suo adottivo vicerè, diede ad ogni ramo di pubblica azienda un ministro, creò un consiglio di Stato ed un senato consulente; decretò l’aprimento del canal di Pavia, ed il compimento della sontuosa fabbrica del Duomo.

Formato il regno annullò la repubblica Ligure, Genova fu unita alla Francia; della repubblica di Lucca si formò un principato, e quindi ritornossene in Francia.

«Dopo il 18 brumale, in cui la Francia è stata soggiogata (scrive l’autore del Quadro politico dello Stato d’Europa dopo la battaglia di Lipsia ), come lo fu dopo la Lombardia a Marengo, e la Prussia a Jena, Bonaparte facendosi precorrere dal terrore, non era stato vittorioso, se non perchè prima di combattere i suoi nemici erano vinti. Innanimato da ogni nuova intrapresa, egli avea raddoppiato la sua audacia, a misura che si era raddoppiata l’altrui timidezza, e soffocando la verità, avea traversata l’Europa appoggiando la reale sua forza sopra una forza immaginaria». Invasa dopo la tremenda pugna di Lipsia da mezzo il mondo la Francia, e tradito da’ suoi in Parigi, Napoleone è balzato dal trono. L’Italia nel 1814 venne da tutte le parti assalita da soldatesche alemanne. Tutti i trattati che i diversi gabinetti ebbero conchiusi colla Francia furono annullati col fatto delle guerre che ebbero luogo: l’atto istesso con cui Bonaparte era stato riconosciuto imperatore venne distrutto a motivo della condotta che egli tenne dopo che gli venne accordato. Napoleone apparteneva ad una dinastia molto distinta nella storia del medio evo d’Italia, ma i suoi avi costretti ad emigrare nelle turbolenze delle fazioni si stanziavano in Ajaccio di Corsica, ove dell’antico lustro non conservavano che una debole apparenza. Quando egli entrava nel mondo, quando uscito dal collegio militare di Brienne s’incamminava nella carriera delle armi, la sua condizione non troppo splendida gli additava la via dell’onore, non dell’ambizione. Quando un avventuriere si solleva tant’alto, la Provvidenza non soffre simili stravaganze, se non a condizione che ne risulti un grande compenso. Bonaparte non aveva che a formare la felicità dei Francesi, ed i Francesi gli sarebbero stati sottomessi. La pace di trenta milioni d’uomini avrebbe prevalso ai diritti di una sola famiglia. Riconosciuto capo di una grande Monarchia egli non aveva che ad entrar nelle mire politiche dell’Europa, occuparvi modestamente il posto già occupato dagli scaduti re di Francia, animare la confidenza degli altri potentati anzichè spaventarla, conservare invece di distruggere, calmar le procelle, e far vedere in sè medesimo, mentre l’Europa ne sperava tutto il bene, l’iride annunciatrice all’uomo di un bel sereno dopo la tempesta. A queste condizioni le Potenze Europee lo avrebbero ammesso nella loro famiglia, non avrebbero arrossito di avergli conferito un nome di cui egli avrebbe procurato di rendersi degno, ed il titolo di sovrano in luogo di essere un tributo, sarebbe divenuto una ricompensa.

In mezzo a tutto questo havvi però chi lo difende, chi tuttavia lo chiama il Grand’Uomo, l’eroe del nostro secolo, chi attribuisce la sua caduta all’essersi stretto in parentela colla Casa d’Austria, chi all’aver condotto prigioniero il Papa, e all’averlo obbligato a scioglierlo dei primi voti per passare in seconde nozze con Maria Luigia. Ma siamo giusti, egli aveva ben altri nemici a combattere, segreto l’uno, l’altro palese, i quali s’erano intesi fra loro per abbattere il colosso. La Russia, mossa da gelosia, e l’Inghilterra, che prevedeva la rovina del suo commercio e del suo potere. Non solo colle armi ed in campo aperto gli si faceva la guerra, ma prezzolati libelli dall’Inghilterra si pubblicavano a suo danno: chi gridava contro l’assassinio del Duca d’Enghien, chi contro il cospiratore di Bajona, chi contro il carceriere di Ferdinando VII, chi contro l’incendiario di Mosca.

Tutto intero il nord, compresovi anche l’Austria, si solleva contro di lui, egli si dibatte sotto la mano di ferro del suo destino, ma questa lo trascina. Vincitore a Dresda, sconfitto a Lipsia, non mai rinculando fra le grida dei popoli che contro di lui risuonavano, e i clamori delle madri che piangevano estinti i loro figli, con fronte tranquilla sostenne la caduta del grande edificio di sua mano innalzato. Circondato da generali disanimati e da nemiche popolazioni; malamente sostenuto, per istanchezza, dalla nazione di cui era il capo; accerchiato da tutte le parti da forze venti volte superiori alle sue; non ritrovando nell’interno che resistenza, e non appoggiandosi che sulla sua armata e sulla sua spada difese a palmo a palmo il terreno. In quell’eroica campagna di Francia che doveva aver fine colla resa di Parigi e colla sua abdicazione, egli non piegossi sotto il destino che all’ultimo momento, allorquando di tutto il suo regno altro non gli rimase che Fontainebleau. Tentò avvelenarsi; il robusto suo temperamento ne trionfò, gli venne poi dalla volontà dei vincitori assegnata a residenza l’isola d’Elba; egli rassegnossi e partì.

Abbandonando la Francia a’ suoi antichi padroni, gli alleati non avevano calcolate le resistenze che sarebbonsi presentate, e le difficoltà di contenere sotto il monarchico scettro di Luigi XVIII tutti i nuovi ed inveleniti elementi che la rivoluzione aveva fatti scaturire e insieme costretti. Indarno la precedenza del legittimo re tentò di comprimere o d’annullare queste segrete e terribili agitazioni; troppo difficile è a governarsi un popolo appena uscito da una rivoluzione.

Non passò intero un anno che l’antico fermento di odio popolare contro le monarchiche istituzioni del passato, sviluppandosi con veemenza in grembo alla Francia, offerse a Napoleone il destro di ritentare la fortuna e di riprendersi la corona.

Egli s’imbarca su d’un piccolo vascello, tocca terra in Provenza, e poco dopo si rimette in sede alle Tuillerie, intanto che tutte le Potenze Europee s’armano per cacciarlo di nuovo. Nè fu guari difficile chè sparito ogni prestigio, quest’ultimo sforzo del gigante, oramai impotente, andò a rompersi contro il disastro di Vaterloo. Per terminare degnamente questa vita sì fortunosa, l’Europa, vinta per tanti anni, rimandò in esiglio in un’isola quasi deserta, a sant’Elena, l’uomo che tanto la spaventava.

Ma ritorniamo alle cose di Lombardia. Allora che il gran colosso veniva abbattuto da tutte le Potenze, i Milanesi sentivano pur sempre il peso delle continue imposizioni del cessato regno d’Italia, e soprattutto delle leggi del bollo e delle incessanti leve di coscritti. Il ministro Prina, creduto autore di queste nuove imposte, fu assassinato dall’aizzata rabbia del popolo, che si era ammutinato attorno al suo palazzo, il 20 aprile 1814, e dopo di aver trascinato il ministro fuori di casa e ammazzatolo di mille morti e trattone il mutilato cadavere per la città, ne saccheggiò il palazzo e lo distrusse fino ai fondamenti, formandovi la piazza detta di San Fedele. Intanto il partito della Casa d’Austria, che ancora mantenevasi in Lombardia, fece de’ proseliti, e ben tosto, colla lusinga di migliorar condizione, i Tedeschi furono chiamati in città e ricevuti con acclamazioni di gioja.

Un proclama del conte di Bellegarde[15] assicurava pace e protezione alle provincie Lombarde poste sotto la tutela dell’imperatore Francesco, il quale le aggregò alle provincie Venete, formandone il regno Lombardo-Veneto, e destinandovi a vicerè il di lui fratello Raineri.

VI.

GLI ULTIMI 54 ANNI DELLA DOMINAZIONE AUSTRIACA.

All’armi, Italiani!

Li 22 febbrajo la tirannide impenitente dell’Austria intimava a Venezia e a Milano la legge marziale.

Deh! pietà vi prenda, o fratelli, che da un anno sollevate la testa, pietà de’ Lombardi che gemono in luride carceri, che ora forse boccheggiano assassinati lungo le vie, che vi stendano le braccie, salutando il natio bellissimo cielo, trascinati da’ birri in esilio per vedove e inospitali regioni. Pietà vi prenda, o fratelli, della vostra fama, dell’ingiuriato stendardo, dell’onor nazionale, di questa carissima patria, alla quale fu tersa una lacrima. In ogni palmo di terra italiana sia per voi tutta Italia; uniti dalla fraterna legge sarete forti; ciascuno per tutti, tutti per ciascuno, e sarete invincibili. Il nemico s’arma, armatevi rapidamente; non iscuse, non soste! dichiarate la patria in pericolo! i governi che indugiano pensano già a tradirvi; i governi che non si battezzano combattendo sono traditori! e che dovete aspettare?

De Boni, La crociata sull’Austriaco.

Da quest’epoca infausta ai giorni dell’ultima rivoluzione quanto ebbero a soffrire i popoli della Lombardia e della Venezia, non è mestieri il dirlo. Sempre in aspettativa delle concessioni, delle leggi, delle abolizioni di alcuni diritti, delle esenzioni da alcune tasse, secondo che loro era stato promesso, si vedevano al contrario accresciute le imposte, il tempo del militare servigio da quattro anni portato ad otto, la carta bollata da pochi centesimi ridotta proporzionalmente a 60 lire al foglio; gl’impieghi più cospicui e lucrosi, così nell’amministrazione come nella giustizia, e i primi gradi nelle milizie, conferiti ai Tedeschi, e si va dicendo di tutto il resto. Quanto s’erano ingannati questa volta i Lombardi nel ricevere di nuovo fra le loro mura l’Imperatore e la podestà imperiale! Un giusto e sincero quadro dell’infame condotta del ministero austriaco viene dal Governo Provvisorio centrale della Lombardia rappresentato alle nazioni Europee in data del 12 aprile, e da esso noi prendiamo le seguenti parole onde porle sotto gli occhi di tutti a giustificazione della condotta dei Milanesi, facendovi a quando a quando qualche noterella di fatti veri.

.....i modi che tenne con noi il Governo austriaco dal funesto 28 aprile 1814 al giorno della sua cacciata, furono tali da rendercelo incomportabile pel sentimento della nostra dignità d’uomini e di cristiani. Sicuri nella quistione di diritto, siamo tanto vittoriosi nella quistione di fatto che sentiamo il bisogno di contenere in faccia all’Europa la nostra parola, perchè non paja che vogliamo farci spettacolo di miracolosa pazienza.

Il Governo austriaco s’affaticò del continuo non solo a diseredarci della Patria nostra e a farci credere uomini, contrada e provincia dell’Austria, ma ben anco intese ad avvilirci innanzi a noi stessi come apostati della famiglia italiana: intese a corromperci, a toglierci ogni coscienza, ogni vita. Nel 1815, quando lo sgomentava la fuga di Napoleone dall’Isola d’Elba e il moto italico di Gioachino Murat, promettevaci rispettata la nostra nazionalità, una costituzione, una rappresentanza italiana; e tante promesse riescivano alla bugiarda rappresentanza delle Congregazioni centrali e provinciali, che di mano in mano venivano spogliate d’ogni iniziativa, d’ogni diritto ed anche di quello di consigliare e supplicare. Promettevaci conservare quella nostra milizia che sui campi di battaglia di Napoleone aveva gloriosamente ricevuto il battesimo del fuoco; e subito la scioglieva, e la mescolava con le milizie dell’altre provincie dell’Impero, facendo così del nobile mestier dell’armi una schiavitù vergognosa per noi, uno stromento di schiavitù per noi e per altri. Prometteva pagare i debiti che s’era assunti, ereditando del Regno d’Italia, e li riconosceva per giusti: poi li disconosceva e non pagava, aggravando invece il Monte Lombardo-Veneto, cassa italiana, di debiti austriaci, e facendoli di soppiatto pagare con turpe mistero.

Nessuna ci serbava delle sue promesse il Governo austriaco, ed il ricordo medesimo ne sbeffeggiava e puniva.

Violator della fede, nell’arbitrio non doveva aver freno, e non l’ebbe. Ci gravò d’imposte smodate sui beni, sulle persone, sulle necessità: ci obbligò ad assicurarlo dal fallimento, a cui le sue scompigliate finanze, stolidamente e ladramente amministrate, d’ora in ora lo strascinano. Ci condusse intorno una siepe d’impiegati foretieri, pubblici funzionarj e spie segrete, mangianti il nostro pane, amministranti i nostri interessi, giudicanti i nostri diritti, ignari di nostra lingua e d’ogni nostra consuetudine. C’impose leggi bastarde, inefficaci per la loro moltiplicità, c’impose una procedura criminale lunghissima, inestricabile, ove non era di pubblico, di solenne, di vero che la sentenza e la condanna, la prigione e la gogna, il carnefice e il patibolo. C’impigliò in una rete di regolamenti civili e militari, giuridici ed ecclesiastici, tutti inceppanti, tutti mettenti capo al centro di Vienna, che doveva aver sola il monopolio de’ pensieri, delle volontà, dei giudizj. Ci vietò ogni sviluppo di nostro commercio, d nostra industria per servire agli interessi delle altre provincie e delle fabbriche privilegiate erariali, privata speculazione de’ viennesi oligarchi. L’ordinamento municipale e comunale, antico vanto di queste contrade, prezioso deposito del lucido buon senso italiano, assoggettò a una tutela minuziosa, molesta, tutta negl’interessi del fisco, tutta rivolta a stringere, a impastojare. La religione finse proteggere per usarla a strumento di dispotismo, e la fe’ schiava delle ignobili sue paure. Alla pubblica beneficenza tolse ogni azione spontanea, la inintricò nelle lungaggini amministrative, la ridusse una docile macchina dell’aulica onnipotenza. Non permise, od a stento permise, ed armandosi delle cautele più basse, che la carità cittadina sorgesse a soccorrere la pubblica miseria, a frenare e purgare il contagio della corruzione abbandonato a sè stesso sulle vie e ne’ tugurj, ne’ ricoveri e nelle carceri. S’impadronì del patrimonio de’ pupilli obbligando i tutori ad investirlo nelle carte pubbliche lasciate alla balía delle misteriose sue frodi. Le professioni liberali ammiserì, assoggettando il loro esercizio alle prescrizioni più grette, più vessatorie. Perseguitò la scienza italiana, cercò distruggerla coi moltipli studj introdotti nel pubblico insegnamento, tutti falsati, tutti confusi, perchè l’idea non restasse in noi libera, perchè il peso e la massa fiaccassero lo slancio e facessero abortire l’ingegno. Sollevò ridicoli scrupoli, inciampi odiosi e infiniti alla stampa italiana, alla diffusione della stampa forestiera, per mortificare in noi l’intelletto ed il cuore, per appartarci dalla civiltà europea[16]. Insidiò, martoriò gli uomini più chiari, protesse in cambio le intelligenze e le nature servili: organizzò la vendita infame delle coscienze, organizzò in esercito lo spionaggio: eresse la delazione e il sospetto in sistema: fe’ arbitra la Polizia della libertà, delle vite, delle fortune: imputò colpa al desiderio, inflisse pena alla parola, intimò minaccia al pensiero: confuse e disperse le vittime del patrio amore con gli assassini e coi falsarj.

E tutto questo e di peggio noi soffrimmo per tanti anni, soffrimmo l’onta che ce ne gravava in faccia a noi stessi, in faccia all’Europa: tutto soffrimmo col coraggio della pazienza, procacciando a grande studio che in noi non si spegnesse la favilla del sentimento nazionale. Poco aspettavamo, nulla desideravamo dal Governo austriaco; ma ci ratteneva l’idea della terribile responsabilità che ci saremmo addossata, gettando forse prematuramente, in mezzo all’Europa la gran quistione della nostra indipendenza. I moti del 1821 e del 1830 ci agitarono, ci scossero nel profondo, e il grido che uscì pel mondo delle crudeli torture di Spielberg, annunciò quanti nobili ingegni, quante anime ardenti avessero fra noi giurato sin d’allora di sacrificarsi alla causa nazionale. Tuttavia il paese intero continuò nella sua longanimità, nella sua perpetua, ma tacita protesta contro il Governo austriaco, e mostrò d’essere deliberato ad aspettare sino a quel giorno, in cui fosse colma la misura delle sue oppressioni e della nostra pazienza.

E quel giorno venne. Alla voce del gran Pontefice che Dio suscitò per la salute d’Italia, per l’affrancamento di tutte le genti cristiane, noi ci sentimmo rinfiammati di tutti i nostri cittadini affetti; noi ci sentimmo più che mai Italiani. Fattici del suo nome il simbolo delle nostre speranze, de’ nostri intenti, cominciammo ad effondere gli animi nostri da sì gran tempo compressi, a manifestare il nostro sentimento nazionale con un tributo unanime d’ammirazione, di gratitudine, d’amore a Pio IX. Ed ecco il Governo austriaco spiegar lutto l’apparato della sua forza per impedire che ci mostrassimo Cattolici ed Italiani, per farci complici quasi del suo odioso attentato di Ferrara: eccolo rompere ogni freno alla cieca e crudele ira sua, e sull’inerme popolo milanese, festeggiante nel nome di Pio IX l’ingresso nella sede del suo novello Arcivescovo, sguinzagliare i suoi sgherri, i suoi soldati trasformali in sgherri, e imbrattare di sangue incolpevole le piazze e le vie. Ah! quel sangue avrebbe dovuto farci gridar guerra irreconciliabile al Governo austriaco; eppure noi avemmo ancora pazienza; volemmo vedere, volemmo che l’Europa vedesse fin dove potesse giungere il dispotismo della Casa di Lorena[17].

Da quel giorno noi ci demmo a moltiplicare le proteste, i reclami, le domande: le Congregazioni centrali, le provinciali, le municipali, tutti i Corpi costituiti amministrativi, giudiziarj, scientifici, i cittadini più distinti si associarono, senza saputa gli uni degli altri, in una supplica sola, in una sola protesta: fu una voce sola in tutto il paese, un solo lamento, una sola manifestazione, che proruppe in ogni maniera d’atti: mai non fu veduto un accordo così unanime di tutto un popolo. Ma il Governo austriaco mostrò d’accorgersene solo per eluderlo, per volgerlo in deriso, per soggiogarlo. Dal nostro canto il rispetto della legalità recato fino allo scrupolo: dal canto suo le provocazioni e gl’insulti, gli arresti arbitrarj, le proclamazioni insensate. Ma fece di più. Organizzò l’assassinio, lo consigliò, lo protesse: sprigionò sicarj pagati in vino e in denaro contro uomini inermi, contro cittadini pacifici: non dubitò disonorare in opera sì nefanda la militare assisa; e Milano per la seconda volta nel 3 gennajo d’infame e dolorosa memoria[18] e Pavia e Padova videro rinnovate le stragi di Galizia.

Eppure noi durammo ancora ad essere pazienti, e benchè il cuore ce ne sanguinasse, accennammo dar fede alle parole lusinghevoli con che si cercò sopire la nostra indegnazione: parole bugiarde benchè movessero dal seggio più vicino al trono: parole tosto disdette dalle proscrizioni, dalle deportazioni, dal nuovo apparato militare diretto a fulminare la nostra Città, dalla proclamazione del giudizio statario. Durammo ancora ad essere pazienti, e ci rassegnammo a divorar gli scherni più amari, gli oltraggi più crudeli per oltre due mesi lunghissimi, che ci furono una continua agonia.

Finalmente il 18 di marzo usciva in Milano un bando, in cui s’annunziava che il Governo austriaco s’era deliberato di concedere a’ suoi popoli istituzioni più larghe, e promettevasi la libertà della stampa e la convocazione in Vienna pel mese di luglio delle Rappresentanze di tutti gli Stati della Monarchia. Nel tempo stesso spargevansi le novelle del moto viennese, da cui raccoglievasi che il Governo austriaco aveva dovuto cedere a fronte dell’insurrezione. Quel bando e quelle novelle rivelavano che si trattava d’una promessa estorta, da eludersi o rinnegarsi appena le circostanze mutassero. E però noi risolvemmo tentar l’ultimo esperimento e chiarire le intenzioni di Vienna all’Europa: vittima ch’eravamo da tanti anni dei soprusi e delle frodi della Polizia, domandammo che questa fosse disciolta, e che a tutela dell’ordine pubblico venisse armata una milizia cittadina.

Ci fu risposto a colpi di moschetti e di cannone.

Allora noi sentimmo giunto il momento di operare, e sorgemmo: cessammo allora d’esser pazienti: allora ci deliberammo di farla finita e per sempre.

VII.

18 MARZO (SABATO)

Suonata è la squilla,—già il grido di guerra Terribile eccheggia per l’Itala terra: Suonata è la squilla,—su presto fratelli, Su presto corriamo la patria a salvar:— Brandite i fucili, le picche, i coltelli, Fratelli, fratelli corriamo a pugnar.—

Canto del Crociato.

Via da noi Tedesco infido, Non più patti, non accordi: Guerra! Guerra! ogn’altro grido È d’infamia e servitù. Su que’ rei di sangue lordi, Il furor si fa virtù.

L. Carrer.

Le Autorità di Milano parte venivano chiamate a Vienna, parte fuggivano. Fra le prime furono il plenipotenziario Ficquelmont, che sperava con un buon teatro farci dimenticare e Pio IX e patria e patimenti, ed il conte di Spaur governatore della Lombardia; delle seconde fu l’arciduca Ranieri, vicerè di queste provincie e delle Venete.—La città restava abbandonata a Radetzky, capo del militare, ed a Torresani, direttore della Polizia, ambo di un solo pensiero distruttore verso di noi, i quali fino ad ora non conosciamo l’origine di tant’odio.

La rivoluzione vittoriosa della Sicilia aveva destato il nostro entusiasmo, quella di Francia la nostra ammirazione; ma quella di Vienna ci scosse e non ci lasciò pensare più oltre. Quest’ultima rivoluzione strappava all’Imperatore una promessa di future concessioni che perveniva anche tra noi[19]. Ma i nostri cittadini, parte corrucciati dalle condizioni lagrimevoli in cui veniva abbandonata la bella Milano, parte stanchi delle insolenze e ribalderie della Polizia; intuonarono l’inno di guerra. Su molti angoli della città furono affisse e diffuse le seguenti

DOMANDE

DEGLI ITALIANI DELLA LOMBARDIA.

Proclamiamo unanimi e pacifici, ma con irresistibil volere che il nostro paese intende di esser italiano, e che si sente maturo a libere istituzioni.

Chiediamo offrendo pace e fratellanza ma non temendo la guerra:

1. Abolizione della vecchia Polizia, e nomina di una nuova, soggetta alla Municipalità.

2. Abolizione della legge di sangue ed istantanea liberazione dei detenuti politici.

3. Reggenza provvisoria del Regno.

4. Libertà della stampa.

5. Riunione dei Consigli Comunali e dei Convocati, perchè eleggano deputati all’assemblea Nazionale, da convocarsi in breve termine.

6. Guardia Civica sotto gli ordini della Municipalità.

7. Neutralità e sussistenza guarantita alle truppe Austriache.

Alle ore 3 trovarsi alla Corsia de’ Servi.

ORDINE E FERMEZZA.

Milano, 18 marzo 1848.

Questo ritardo impazientava i cittadini. L’agitazione era al colmo, quando a mezzodì la popolazione traboccava da ogni parte, tutta dirigendosi al palazzo Municipale e gridando armateci, dateci la Guardia Civica. Il podestà conte Gabrio Casati, colui che altre volte aveva esposta la propria vita per il bene de’ suoi amati concittadini, in compagnia dell’assessore Greppi, cercarono d’acquietare la moltitudine e persuaderla che era uopo rivolgersi al Governo. E il popolo dimandava un capo che il guidasse. Ebbene vi precederò io, disse il Podestà; e si mise coi corpi Municipali e Provinciali alla testa del popolo fra le acclamazioni di una moltitudine festante che agitava nell’aria e fazzoletti e cappelli, ed adornavasi il petto di coccarde tricolori, molte delle quali venivano dalle donne d’ogni condizione gittate dalle finestre lungo il Corso.

Giunto il lieto popolo al ponte di S. Damiano, i soldati posti a guardia del palazzo di Governo scaricarongli contro i loro moschetti. Quello sparo fu la scintilla che doveva destare il più grande incendio che fosse mai. In un attimo i due granatieri ungaresi di guardia furono uccisi, gli altri soldati disarmati e spogliati, il palazzo invaso, e salva ogni proprietà domestica, distrutti tutti quei documenti per noi di troppo funesta ricordanza[20].

Tutti i consiglieri si raccomandarono alle gambe, gli impiegati alcuni seguirono l’esempio de’ loro capi d’ufficio, altri passarono fra il popolo a partecipare, di quella poca gioja che questa prima vittoria gli faceva gustare. Il solo O’ Donell, capo, in assenza del conte Spaur, l’unica autorità lasciata ad un popolo posto sotto il giudizio statario, rintanato nel suo gabinetto non voleva discendere a patteggiare colla moltitudine. Poco dopo tra le acclamazioni giunsero monsignor Arcivescovo e l’arciprete Opizzoni fregiati essi pure della coccarda tricolore, i quali avendo assicurato il Vice presidente che la sua vita non avrebbe corso pericolo, l’indussero a presentarsi sul verone del palazzo, donde, palido e tremante, spiegando un fazzoletto bianco gridava: Farò quello che volete, tutto quello che volete. E il popolo a rincontro gridava: Abbasso la Polizia, Guardia Civica; ed il conte O’Donell: Sì abbasso la Polizia, la Guardia Civica. Il popolo replicava: Lo vogliamo in iscritto; ed egli l’assicurò che l’avrebbe fatto. Tradotto quindi in casa Vidiserti, contrada del Monte n. o 2634 C., sottoscrisse i seguenti editti che poche ore dopo venivano pubblicati dalla Congregazione Municipale[21].

Milano, 18 marzo 1848.

Il Vice Presidente, vista la necessità assoluta per mantenere l’ordine, concede al Municipio di armare la Guardia Civica.

Firmat. Conte O’Donell.

La Guardia della Polizia consegnerà le armi al Municipio immediatamente.

Firmat. Conte O’Donell.

La Direzione di Polizia è destituita: e la sicurezza della città è affidata al Municipio.

Firmat. Conte O’Donell.

LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA CITTA’ DI MILANO.

In conseguenza di ciò sono invitati tutti i Cittadini dai 20 ai 60 anni che non vivono di lucro giornaliero a presentarsi al palazzo Civico dove sarà attivato il Ruolo della Guardia Civica.

Interinalmente è affidata la Direzione di Polizia al signor dottor Bellati, Delegato Provinciale.

I Cittadini che hanno le armi dovranno portarle con sè.

CASATI, podestà. Beretta, assessore. Greppi, assessore.

Silva, segretario.

Da questo punto ebbe principio la rivoluzione che da tutti gli scrittori, fu gridata la più giusta, la più morale, la più santa di quante mai si possano leggere nelle antiche e moderne istorie. Ignazio Cantù (fratello a Cesare, ingegno conosciuto e pel suo merito letterario e per le sue peripezie fatto segno della rabbia Teutonica) narrando di questo fatto[22], scrisse: « La rivoluzione di Milano si è compiuta nel modo più energico, più moderato, più giusto. Sradicò da Italia una progenie che piantata fra noi con galanterie di nozze, scalzata dalla pace di Costanza, rialzata ancora da quel Carlo V, che esecrava e spegneva fino al midollo il nome di libertà; alternata poi con Spagna e con Francia, venne finalmente dopo fughe e sconfitte a ricollocarsi pacificamente sul trono che ora ci parve incredibile abbiano potuto tollerare per sei lustri.» Ed il Giornale Il 22 Marzo, per tacere di tutti gli altri giornali ed opuscoli che a centinaja s’ammucchiano sopra il mio tavolo, così s’esprime:

La causa della nostra indipendenza è vinta, vinta nel fallo come lo era già prima nelle idee e nei desiderj di tutti. Lo straniero, che da tanti anni occupava le nostre contrade fugge cacciato dalle armi cittadine e si ritrae verso l’Adige, inseguito dall’odio e dall’esecrazione universale. Tra non molto tutto il Paese sarà sgombro, ed i Lombardi potranno abbracciare i loro fratelli colla coscienza e coll’orgoglio d’una libertà dovuta alla concorde energia dei loro sforzi. È questo un trionfo, che non ha riscontro nella storia, uno di quegli avvenimenti che la provvidenza suscita, quand’è il tempo, a rinnovare sui popoli il miracolo dell’amore, e a rintegrare la fede sui destini dell’umanità. Ormai la vergogna di trentaquattro anni è espiata, espiata coll’audacia del conflitto e colla sublime mansuetudine del perdono. Il nostro popolo s’è ribattezzato degnamente nel sangue de’ suoi martiri, ed è risorto più forte e più glorioso di quel che lo fosse, sette secoli fa, nei campi di Legnano. La Lombardia ha ora anch’essa il suo Vespro, ma questo potrà dirsi una volta l’ultimo Vespro italiano.

Al cospetto dì avvenimenti così grandi, così prodigiosi, come quelli de’ cinque giorni trascorsi, fra le grida entusiastiche, i palpiti, le lagrime, le speranze e gli abbracciamenti, è impossibile assumere ufficio di storico ed esporre distesamente i fatti di questa rivoluzione, unica nelle vicende delle Nazioni. Il cuore commosso non può che ammirare ed esultare; e la parola non vale a tener dietro al volo del pensiero che s’infiamma per essa di nuove ed inusate speranze. L’Eroismo ha le sue ebbrezze come la gioja; e noi nel tumulto concitato degli effetti, mal sapremo trovare adesso la calma dello scrittore che dipinge e che narra. Crediamo anzi che nessuna parola varrebbe a descrivere l’aspetto di questa grande Crociata Nazionale, di questo piano Lombardo, gremito di città e di borgate in armi, vigilanti alla difesa come ardite all’assalto, munite da mille e mille barricate sorte come per incanto, di questo piano, in cui ogni casa è una torre ed ogni petto d’uomo un baluardo inespugnabile. Crediamo che nulla sia atto a render imagine di questo insorgere unanime di popoli che riconquistano la propria indipendenza, di questo magnanimo conflitto d’una moltitudine incomposta, impreparata e quasi inerme contro un esercito agguerrito e numeroso che stette così a lungo fra noi, oppressore e spauracchio de’ principi e dei popoli italiani. La fantasia più imaginosa s’annienta davanti alla grandezza del fatto; nè si può far altro che adorare la Provvidenza redentrice delle nazioni che sanno sperare e volere.

Ma ritorno al mio assunto. A mezzo giorno l’allarme s’era fatto generale. Il maresciallo Radetzky uscendo dalla casa Cagnola in compagnia del generale Wallmoden, di altri tre generali e di diversi officiali vide chiudersi le porte, le botteghe, le gelosie delle finestre e tutta la gente in moto. Domanda la ragione di questo scompiglio e gli viene risposto esservi la rivoluzione a Porta Renza. Compreso di maraviglia e di dispetto, il Maresciallo rientra nella casa Cagnola, e poco dopo n’esce il generale Wallmoden a cavallo con altri dello Stato Maggiore, avviandosi verso il castello. Circa mezz’ora dopo le truppe Austriache cominciarono a disporsi sulla piazza del castello in vari corpi separati. Di tratto in tratto qualche colpo di moschetto caricato a polvere serviva a tenere all’erta la milizia presidiata in castello[23]. Quindi un nerbo di soldati si portò ad occupare i punti principali della città.—Nove ussari uscendo dal portone di Piazza Mercanti e percorrendo la contrada di Pescheria Vecchia, furono salutati a fischi. Il caporale a briglia sciolta e a sciabola sguainata, cominciò a correre la via e ferì un cittadino nella spalla. Gli altri soldati seguitarono il caporale a lento trotto sino al Campo Santo. Una scarica di archibugi venuta dalle finestre ne uccise due e cinque ne ferì. Mezz’ora dopo dieci gendarmi seguendo la stessa via, non conosciuti, furono ricevuti con una grandine di pietre. Ma quando un prete dal balcone battendo le mani, gridava: No, no, sono Italiani: viva la Gendarmeria italiana, furono rispettati e poterono passare, senz’essere offesi, alla Corte[24].

I cacciatori Diegher verso le ore due e mezzo si portarono all’arcivescovato preceduti dai loro zappatori. Questi a colpi di scure sfondarono il portello del cortile de’ Monsignori, quindi atterrarono la porta che dallo stesso cortile mette alla strada sotterranea che conduce al campanile, e così rompendo tutte le porte sino all’ultima giunsero ad impossessarsi dello spianato superiore del Duomo, da dove fecero lungo la giornata varie scariche sopra quelli che, o inscientemente, o imprudentemente, passavano per la piazza del Duomo; ma le barbare insidie loro non costaron la vita che di un solo cittadino.

L’invito del Municipio che chiamava tutti i cittadini non viventi di lavoro giornaliero da’ 20 a’ 60 anni, traeva uomini d’ogni età e d’ogni condizione al palazzo di Polizia, da dove respinti colle armi fra le grida di viva Pio IX, viva l’indipendenza, viva l’Italia corsero a farsi inscrivere al palazzo Municipale. Il bisogno d’essere armati era imminente, poichè alcune pattuglie erano già partite dal Generale Comando, e si temeva fortemente di un’insurrezione, poichè il Direttore di Polizia, ed il generale Radetzky non vollero riconoscere i provvedimenti del Vicepresidente. Alle ore tre pomeridiane le bandiere e le nappe tricolori andavano a generalizzarsi per ogni dove. Le barricate, costume sconosciuto nei nostri paesi, si cominciarono in tutte le contrade, il selciato in un momento fu tutto scomposto da uomini, da donne, da fanciulli. Le case si fornirono di una quantità di ciottoli pronti a slanciarsi dalla finestra alla prima scorreria del nemico per le contrade. Sopra i tetti si posero sentinelle preparate a versar tegole e pietre sul capo dei nemici, i mobili più belli e più pesanti già erano avvicinati alle finestre per essere precipitati sopra gli esecrati nostri oppressori; i focolari ardevano sotto caldaje d’acqua, di olio; insomma nulla si tralasciava di quanto la disperazione ed il furore suggerivano.

Un nuovo bando concepito nei seguenti termini fu affisso lungo le vie della città verso le ore quattro pomeridiane:

POPOLO DI MILANO.

L’Europa ha gli occhi su di noi per decidere se il lungo nostro silenzio venisse da magnanima prudenza o da paura; le provincie aspettano da noi la parola d’ordine. Il destino d’Italia è nelle nostre mani, un giorno può decidere la sorte di un secolo.

Ordine! Concordia! Coraggio!

Il consigliere Bellati erasi recato in questo frattempo al Direttore di Polizia per intimargli che facesse consegnare al Municipio le armi delle guardie di Polizia, ma non fu ascoltato. Se ne domandò ragione a Radetzky, e questi disse che ne avrebbe data risposta alle ore otto della sera.

Intanto le compagnie dei militari che uscite dai vari quartieri correvano la città, non lasciarono di tratto tratto di fare qualche scarica, senza tuttavia gran danno dei nostri. Fra queste scaramucce vuol notarsi quella che ebbe luogo sul corso di Porta Romana, dicontro alla chiesa di S. Nazaro e l’altra in contrada del Bocchetto, le quali durarono circa un’ora, rispondendo il popolo alle schioppettate con una pioggia di tegole[25]. Tutti questi soldati unitisi in grosso corpo andavano frattanto rinforzando alla Gran Guardia di Piazza Mercanti, all’ex Palazzo Vicereale, sullo spianato del Duomo ed in Piazza Fontana[26], sempre molestati da qualche pietra lanciata, o da qualche moschettata scaricata dai nostri bersaglieri.

Verso le ore tre pomeridiane uno stormo di cittadini che andava a prender armi si trovò dall’armajuolo Sassi in contrada di S. Maria Secreta, chiedendo inutilmente arme. Una divisione di granatieri diretti dal loro generale a cavallo, uscendo dal castello, prese la via di S. Vincenzino e mise in fuga l’affollata popolazione. I militari presero la contrada di santa Maria Secreta; l’albergatore di S. Carlino, Costantino Beretta, che prevedendo sinistri avvenimenti dai rumori della mattina, si era ben provvisto di ciottoli, mattoni e di ogni altra cosa atta ad offendere, mandò tre suoi famigli sul tetto, altri otto a ciascuna finestra, ed appena veduti i soldati diede l’ordine dell’attacco. Il Generale a quella pioggia di tegole e sassi ordinò il fuoco, il combattimento durò molto tempo, quando il Generale colto sulla testa da un vaso di fiori, che si crede gettato dalla coraggiosa Albergatrice, dovette abbandonare l’impresa. Il Generale fu trasportato alla piazza Mercanti da quattro suoi soldati, e la truppa tutta in disordine lo seguiva; si trovò quindi qualch’arma e qualche cappello, che i soldati smarrirono nella pugna.

Sgombra di nuovo la contrada, la popolazione ritornò al negozio dell’armajuolo Sassi, atterrò la porta e s’impadronì delle armi.

La Congregazione Municipale continuava la sua seduta in Broletto, impiegati appositi continuavano a far le liste della Guardia Civica già numerosissima; quando un assessore venne a portar la notizia che tutti erano traditi, e che due batterie di artiglieria dovevano dar l’assalto al Broletto. Il timore invase tutti gli astanti: alcuni procurarono colla fuga uno scampo, altri non vollero abbandonare il loro posto, preferendo una morte onorata alla continua sommessione ad un giogo abborrito. Un grido ripetuto da molte voci annunziava a chi non avesse armi di ritirarsi. Poco dopo giunse al Municipio la seguente lettera di Radetzky data dal castello, che la fece accompagnare da una mezza divisione di granatieri.

IL MARESCIALLO RADETZKY ALLA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA R. CITTA’ DI MILANO

Dal Castello di Milano, 18 marzo 1848, ore 8 della sera.

Dopo gli avvenimenti della giornata non posso riconoscere i provvedimenti dati per cambiare le forme del Governo e per riunire ed armare una Guardia Civica in Milano. Intimo a codesta Congregazione Municipale di dare immediatamente gli ordini pel disarmamento dei cittadini, altrimenti domani mi troverò nella necessità di far bombardare la città. Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre all’ubbidienza una città ribelle. Ciò mi riuscirà facile avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di 100,000 uomini e 200 pezzi di cannone. Aspetto al momento un riscontro alla presente intimazione.

Radetzky, Maresciallo.

Gli assaliti combatterono contro gli assalitori da valorosi ma troppo deboli per resister loro. Alcuni impiegati si portarono sui tetti, e con una salva di tegole ne uccisero tre, e ferirono diversi assalitori. Altri tedeschi furono gravemente feriti con arme da fuoco, con sassi e con mobili gettati dalle finestre della contrada. Ma i soldati atterrata colla scure la bottega di contro alla porta del Broletto trascinandovi entro il cannone, vi poterono manovrare al coperto, per cui la porta fu atterrata, e più di cento persone che trovavansi in palazzo, furono condotte prigioniere in castello fra gli strapazzi e le ingiurie dei soldati e del tempo che mandava dirottissima pioggia.

A sera tardi fu fatto circolare il seguente proclama:

CITTADINI!

Le prime prove d’oggi dimostrano che in voi è ancora il valore de’ Padri nostri. Perchè queste non siano infruttuose bisogna che proteggiate quello che già avete fatto. Conviene adunque che neppur la notte vi stanchi e v’inviti a riposo, perchè il nemico veglia contro di voi. Difendete le barricate, armatevi, e vittoria e libertà sono con voi.

ORDINE! CONCORDIA! CORAGGIO!

Altre notizie di questo giorno. Il cittadino Francesco Maglia, munito d’un archibugio a due canne, caricato a quadrettoni, dalla propria casa in contrada de’ Borsinari, fece una scarica sul capitano d’un drappello di soldati che ivi si erano posti, e coltolo nel petto costrinse gli altri immediatamente alla ritirata.

Il cittadino negoziante Giuseppe Paganuzzi, dalla finestra della sua abitazione uccise con un colpo di schioppo un granatiere che serviva di spione al comandante de’ suoi, mentre ordinava le truppe sulla piazza del Duomo.

Fra coloro che si distinsero per zelo e per santo amor di patria devesi annoverare il cittadino Vernauy, che a porta Vercellina incontratosi prima coi Pompieri, gridava ad alta voce: Bravi Pompieri la rivoluzione giustamente e santamente è incominciata in Milano. Vi mandano in città per battere il popolo. Ricordatevi di non far fuoco sui vostri fratelli, altrimenti perderete l’onore e fors’anche la vita. Poco di poi incontratosi coi Gendarmi, gridava le istesse parole, aggiungendo: Viva la Gendarmeria Italiana. S’adoperava quindi nella costruzione delle barricate, e colla voce e colla forza diede non dubbie prove di sè.

Giuseppe Ferrario, impiegato presso la strada ferrata di Porta Tosa, fu pure de’ primi che invasero l’ex palazzo di Governo, che s’impadronirono di O’Donell, e che piantarono la bandiera tricolore su quel palazzo. Nei susseguenti giorni combattè valorosamente, predando molte armi che consegnò al Comitato di Guerra.

Il conte di Neiperg, già troppo noto come uno dei più infami istigatori degli eccessi del 3 gennajo, suggellava la propria ignominia in questa giornata. Attraversando con una forte pattuglia la piazza Castello, e giunto a san Protaso al Foro, si fece incontro al signor Prina, persona da lui conosciutissima, e con giudaica ipocrisia abbracciandolo lo invitava a recarsi al castello per intavolare trattative di pace. Il Prina non volle però seguirlo e si ritirò in sua casa.—Lo stesso signor Prina mostrò al Governo provvisorio una grossissima medaglia di piombo recante l’immagine di Pio IX, che quegli assassini scagliarono contro alla sua casa insieme alla mitraglia.—Però delle 60 persone che ivi trovavansi ricoverate nessuna venne offesa[27].

«Appena giunse a Torino la prima notizia[28] dei gloriosi avvenimenti di questo giorno, alcuni egregi nostri patriotti che si trovavano colà, si affrettarono di invocare da S. M. il Re di Sardegna quegli aiuti che avevamo diritto d’aspettarci e per la nostra qualità di Italiani fratelli da altri Italiani, e per la eroica temerità della nostra impresa contro il nemico comune d’Italia, e per le notorie simpatie in ogni occasione manifestata colà in nostro favore dai gloriosi popoli Liguri e Subalpini. A queste preghiere dei patriotti Milanesi fu risposto che sarebbe stato impossibile al governo di S. M. di prendere l’iniziativa di un sussidio militare in Lombardia, a meno che non pervenisse a S. M. una diretta domanda da parte del popolo di Milano. Un benemerito nostro concittadino, il signor Enrico Martini, s’incaricò di portare a noi questa notizia a traverso i mille pericoli che si opponevano al suo ingresso in Milano. Giunse la mattina del giorno 21: con che gioja fosse accolto dal Governo Provvisorio, è facile imaginarlo: ebbe subito missione di riportare a S. M. il Re di Piemonte i sensi della nostra gratitudine, i fervidi nostri voti, perchè le gloriose sue truppe accorressero in nostro soccorso. Insuperabili difficoltà provenienti dalla sospettosa vigilanza dei soldati Austriaci si opposero per alcune ore alla partenza del signor Enrico Martini: ma finalmente il valore dei cittadini gli aprì la porta della città, ed egli ne approfittò, volando a Torino.»

«Ivi espose il desiderio del popolo Milanese, rappresentato dal Governo Provvisorio, ed ottenne da S. M. il Re le seguenti formali promesse: 1. o La partenza immediata di un esperimentato e patriottico Generale il Conte Passalacqua, il quale arrivò a Milano la sera del giorno 24 per cooperare all’ordinamento delle nostre milizie. 2. o Il passaggio del Ticino d’un corpo di fanteria pronto ad entrare in Milano alla prima rinchiesta del Governo Provvisorio. 3. o Queste truppe porteranno una bandiera neutrale, nè Piemontese nè Lombarda, ma l’italiana, in segno di delicato rispetto verso le future deliberazioni del paese quando sarà legalmente convocato a decidere i proprj destini. 4. o Finalmente il Re di Piemonte si propone di venire egli stesso alla testa del rimanente suo esercito in Lombardia; ma disse al signor Martini queste parole: Io non entrerò in Milano prima di avere sconfitti in battaglia gli Austriaci, perchè a gente tanto valorosa non voglio presentarmi se non dopo aver ottenuta una vittoria che mi faccia conoscere egualmente valoroso ».

Ecco il generoso proclama che il magnanimo Carlo Alberto pubblicava in seguito a questa conferenza il giorno 23[29].

CARLO ALBERTO

PER GRAZIA DI DIO

RE DI SARDEGNA, DI CIPRO E DI GERUSALEMME,

ECC. ECC.

Popoli della Lombardia e della Venezia!

I destini d’Italia si maturano: sorti più felici arridono agl’intrepidi difensori di conculcati diritti.

Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, Noi ci associammo primi a quell’unanime ammirazione che vi tributa l’Italia.

Popoli della Lombardia e della Venezia, le Nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell’aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall’amico l’amico.

Seconderemo i vostri giusti desiderii fidando nell’aiuto di quel Dio, che è visibilmente con Noi, di quel Dio che ha dato all’Italia Pio IX, di quel Dio che con sì maravigliosi impulsi pose l’Italia in grado di fare da sè.

E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana vogliamo che le Nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia portino lo Scudo di Savoja sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana.

Torino, 23 marzo 1848.

CARLO ALBERTO.

VIII.

19 MARZO (DOMENICA)

Dal palagio al tetto umile Tutto tutto il bel paese Guerra eccheggi, e morte al vile Che tant’anni ci calcò. Guerra suonino le chiese Che il ribaldo profanò.

L. Carrer.

O Tedeschi, tanto le nostre donne, le nostre città, la patria nostra ha sofferto per voi! Cotanto è il tesoro d’odio contro di voi accumulato da secoli, da secoli nutrito con sangue, con lacrime, che per voi sarebbe consiglio di unica salute non che tentare l’ira nostra, ma ginocchioni pregare Iddio che non faccia spuntare il giorno in cui a spade c’incontreremo con voi; perchè in quel giorno combatteremo come gente che non vuole, che non concede quartieri, perchè in quel giorno avremo da esigere da voi, o Tedeschi, per due vendette. Feroce vendetta per le madri, per i nostri padri che dormono sonni invendicati nei loro sepolcri; feroce vendetta per noi loro figli, a cui ora vorreste perfino contendere la luce del sole.

Govean, Stamura d’Ancona.

Ad una notte piovosa, impiegata da tutti i cittadini a formar barricate d’ogni genere, come anderò descrivendo, successe il più bel mattino, che irradiato dal sole pareva arridere alla nostra vicina vittoria. Iddio è con noi. Viva Pio IX, viva l’Italia, morte ai tiranni! Lo sparo de’ moschetti e di tratto in tratto del cannone, il suono a stormo delle campane di tutte le chiese, fanno eco a quelle grida entusiastiche.

I primi movimenti delle truppe sono verso Porta Comasina e S. Giovanni sul Muro, dove scorrono divisi in vari drappelli. Diverse pattuglie a cavallo ed a gran trotto fanno lo stesso, e vengono praticati molti arresti di persone tranquille, le quali sono tradotte in castello e spinte con pugni e puntate di bajonetta. Quindi vanno a rinforzare le guardie alle porte della città, munendole di alcuni pezzi di artiglieria e chiudendone i cancelli onde impedire l’ingresso nella città dei contadini che a migliaja vi accorrono in soccorso dei cittadini: molte pattuglie percorrono i bastioni. Non erano i cento mila ben agguerriti guerrieri che Radetzky ci minacciava colla sua lettera, ma pure un esercito formidabile, in confronto ai nostri, che armati di archibugi da caccia non oltrepassavano a quest’ora i cinquecento, tutti valorosi cacciatori. Questa volta il pigmeo doveva scacciare il gigante.

Un altro reggimento dei nostri si era formato d’ogni sorta di gente, armata la maggior parte d’armi da taglio che venivano somministrate qua e là. Altri portavano, bajonette, altri coltelli da cucina e da tavola, altri picche, lance, chiodi legati a bastoni altissimi, ed ogni altro arnese che si potesse servire a offendere. E quando a questi arnesi si supplì colle carabine e coi fucili? Quando si strapparono di mano al nemico e si vuotarono le caserme prese d’assalto.

All’avanzarsi della mattina persone d’ogni stato e di ogni età van procacciandosi arme di qualunque specie, anche antiche, svaligiando negozi, officine e private gallerie.

Fra quest’ultime ci piange l’animo a veder distrutto, nella galleria d’arme del cittadino Ambrogio Uboldo, il più bel monumento del medio evo che esistesse in Milano. Non vi era principe, non sovrano, non persona cospicua d’ogni nazione che passando per la capitale della Lombardia non si portasse a visitarla e ad ammirare insieme colla quantità degli svariati preziosi oggetti di quella bell’epoca il buon gusto dell’illustre raccoglitore. Alle ore otto di questo giorno, più di cinquanta individui si portarono a questo venerando tempio dell’antichità a nome del Municipio per impossessarsi di tutte le armi. Il cittadino Uboldo accondiscese volentieri a voler distribuire le armi da fuoco e da taglio meglio servibili. Ed oh quanto sacrificio gli dovea costare la sua generosità! Ma il popolo non contento penetra nei corritoi, nelle sale, ed ovunque s’impossessa delle lance, spade, spadoni, pugnali, brandistocchi delle più scelte fabbriche di Milano dei secoli XIV e XV, sciabole moderne con intarsiature a pietre preziose d’ogni nazione, kangiar, archibugi, stutzen, pistole, ec., strumenti di valore inestimabile del numero di circa 350 pezzi, dei quali fino ad ora non arrivò a riacquistare la cinquantesima parte! Fra le armi moderne, molte, consistenti in sciabole, squadroni, spade, giberne, ed un cannone con carro completo, appartennero al cessato governo Napoleonico. In questa specie di saccheggio ebbe pure a soffrire altri guasti di diversi mobili preziosi, e tra questi un tavolo con pietra agata fu rovesciato a terra e spezzato. Vollero inoltre i saccheggianti munizione per le armi da fuoco, ed anche in questo furono fatti contenti dalla generosità dello stesso signore. In mezzo alla sala maggiore eravi un trofeo formato di diverse lance colla tiara ed altri emblemi pontificj, che venne miracolosamente rispettato[30].

Anche il cittadino Merelli, impresario dei grandi teatri alla Scala e Canobbiana, aprì a chi era privo d’armi la poca armeria del teatro, consistente in ischioppi vecchi, molti dei quali inservibili, ed in lance e spade per l’uso della scena e dei mimi, che nelle mani degli ardenti cittadini diventarono brandi d’eroi.

Furono pure svaligiate le sale d’armi del cittadino Pezzoli, consistenti similmente in arme antiche e moderne di molto valore; e alla stessa guisa si andò a prendere tutte quelle da fuoco e da taglio che si trovavano in alcune botteghe d’antichità.

Le barricate che quasi per incanto si erano alzate nel giorno antecedente, si formarono col lastricato delle contrade, con casse e cassoni pieni di ciottoli, con carrozze, carri, panche di chiese e di scuole, tavole, materassi, sedie, pagliaricci, ed ogni altra sorta di masserizie. Fra le moltissime furono distinte a porta Romana che si fecero con tutte le carrozze di Corte trovate nella soppressa chiesa di S. Giovanni in Conca. Al teatro della Scala con tutte le scranne del teatro. Al Giardino con tutti ali attrezzi che servirono per le feste dell’incoronazione dell’imperatore Ferdinando in re della Lombardia e Venezia di fatale ricordanza, nella contrada del Monte dello Stato con tutte le diligenze della ditta Franchetti. Al Cordusio con alcune centinaja di balle di libri bollettarj presi nel cortile dell’ufficio del Bollo. A Porta Tosa si fecero delle barricate mobili con immensi rotoli di fascine[31]. Al Leone di Porta Orientale si trovò pure un piano-forte a coda, di ottave sei e mezzo, dell’autore Fritz, che il signor Antonio Vago, fabbricatore e negoziante di piani-forti, volle somministrare al bisogno; e dopo otto giorni avendolo ritirato lo trovò intattissimo, sebbene avesse ricevuto ed acqua e sole, e fosse stato tutto coperto di terra.

Tralascio di parlare e lodare coloro che più o meno si adoperarono nell’erezione di questi potenti ripari contro il nemico, rimettendo il lettore a quanto già scrisse il narratore dei Racconti di 200 e più testimoni oculari. Sebbene taccia di molti non devo passar sotto silenzio fra i valorosi il piemontese Valenzasca, il pittore Bareggi, l’ingegnere Tarantola, il geometra Lilliè, i fratelli Carentico, i seminaristi Giulio Rimoldi, Rosa Verza, Candiani Luigi, Alessandro Ponzoni e Valentini Gottardo, dei quali tutti molto si narra nel citato libro.

A guardia delle barricate restavano intanto giorno e notte quelli che non avendo arme da fuoco non potevano esporsi al nemico. La più ricca e la più nobile gioventù, quella che allevata nella mollezza dalla politica austriaca sembrava effeminata ed indolente, fu la più coraggiosa ed intraprendente. Nulla curando il pericolo si affacciava al nemico coll’istessa indifferenza che si sarebbe presentata ad una festa da ballo, valorosa nel combattimento, generosa coi vinti: mentrechè quella sorta di gente la più allevata, come si direbbe, alle risse, al coltello, se ne stava neghittosa e non si moveva che a forza di denaro. E le nostre damine? Esse riposero il telajo dei ricami per attendere con le delicate mani a scavar ciottoli per poi portarli ai piani superiori, a far filacce, a medicar feriti, ad incoraggiar i combattenti, a sopravvedere le barricate se ben custodite, a fabbricar cartucce ed altre munizioni da guerra, ed a distribuir coccarde. La letizia è sul loro volto come nel loro cuore. Esse pure odiano i Tedeschi, e si adoperano per distruggerne la razza. Le donne del popolo avvilite e piangenti, pregano Iddio per la redenzione d’Italia, per la salvezza dei loro mariti, dei loro fratelli! La santa e volontaria incumbenza di esser utile alla patria colla fabbricazione delle cartucce e colle somministrazioni di bende, filacce, ec., viene tutt’ora esercitata da uno scelto numero di gentili signore.

La ferocia austriaca (come più tardi siamo stati edotti dalla corrispondenza trovata presso la scaduta Direzione Generale della Polizia) ci avea preparato un bel regalo per questo giorno. Cinquecento cittadini milanesi d’intemerata vita e di alti natali, oltre quelli delle provincie, dovevano essere arrestati, e chi sa qual sorte sarebbe loro toccata, se non quella espressa nelle due infami lettere del giovine arciduca Raineri al suo fratello Ernesto[32]! Due cannoni celati fuor di porta Romana, dovevano mitragliare l’inerme popolazione che si sarebbe trovata al corso Pio[33]. Ma gli accidenti di jeri avevano messo tutti gli attori fuori di scena, e di ben altro spettacolo eravamo noi attenti ammiratori, il quale ci lasciava fra le angosce e le speranze a desiderarne lo scioglimento.

Tanti di fatto sono gli accidenti di questo giorno, che con diverso aspetto si presentano or favorevole, or contrario a’ nostri; tanti gli attacchi col nemico ed in tutte le parti della città, che difficilmente riesce allo scrittore di narrarli con quell’ordine e quella chiarezza che l’argomento esigerebbe. Procurerò di far alla meglio, ed il lettore mi avrà per iscusato se non giungerò a contentarlo in tutto.

Duomo, piazza mercanti e direzione della polizia. Terribili furono le lotte sostenute in piazza del Duomo per impossessarsi del palazzo vicereale e della piazza dei Mercanti, dove risedea la Gran Guardia, munita di due cannoni e di soldati. Il primo circondario di Polizia era collocato su quest’ultima piazza. I cittadini inferociti nel combattimento e tripudianti tra il fischio delle palle, lo assalirono; e riuscirono a impadronirsene dopo un eroico combattimento. Di là passarono alla residenza della Direzione generale in S. Margherita, posto fortificatissimo di guardie, di poliziotti ed anche di pompieri. Ma quest’ultimi se non si mossero in nostro favore, non si mossero contro: ed anche qui nuova vittoria. Si cercò di Torresani e di Bolza, ma inutilmente: fu sparsa voce che si fossero salvati colla fuga la notte precedente.

Alcuni granatieri ungheresi al palazzo già vicereale vengono appostati alle finestre con moschetti, e di là uccidono quanti passano. Lo stesso fanno i Trabanti dalla parte di contrada Larga, dalle finestre e dal tetto uccidendo il droghiere Ottolini e altri del vicinato. In tutte le contrade vicine al palazzo v’era un allarme spaventevole.

I cannoni della piazza de’ Mercanti, uno collocato al posto della Gran Guardia, l’altro all’uscita della piazza verso i Ratti, soffiavano con palle di enorme grossezza. I soldati di linea a tre a tre rimpiattati nelle porte delle contrade degli Orefici, de’ Ratti e de’ Fustagnari sortivano di tanto in tanto a far fuoco. Uno dei cannoni fu preso dai nostri dopo di aver uccisi tre cannonieri, ed indescrivibile fu la gioja dei vincitori.

Alle ore dodici e mezzo se ne dava l’avviso a tutti i cittadini col seguente proclama:

CITTADINI!

La vittoria è sicura—due cannoni presi a piazza de’ Mercanti e a porta Ticinese. Il nemico in fuga a Porta Orientale, a Borgo Monforte e a Porta Nuova. Como è armata, Crema parimenti. Bergamo marcia a nostro soccorso. A Magenta vi sono i Piemontesi. Gli amici aumentano per ogni parte, introduceteli in città e avrete armi e munizioni. Il nostro quartiere generale è organizzato, la Guardia Nazionale in attività.

Continuate a suonare a stormo.

Broletto. I soldati di stazione in Broletto coi loro obizzi e mortaj cannoneggiavano giù per la contrada di Santa Maria Segreta, gettando e piccole bombe e razzi incendiarj; ma alcuni valorosi giovani col riparo di una barricata formata con alcuni cassoni di contro alla farmacia Ravizza, si difesero tutto il giorno.

Porta nuova. Il combattimento di Porta Nuova fu uno dei più accaniti, e tiene un luogo principale nella storia di questa gloriosa rivoluzione. In esso ebbe importantissima parte anche il celebre Augusto Anfossi, che avendo respinto un drappello di granatieri ed un cannone, vi piantò, baciandolo, il vessillo tricolore. Egli rimase vittima del suo valore alla presa del Genio.—Il sacerdote Alessandro Piola, abitante sulla piazza del nuovo Seminario, fu testimonio dalle sue finestre degli scontri fra i Tedeschi e la valorosa Gioventù Lombarda, e ci assicura che l’accanimento della battaglia in questo giorno e nel successivo superò ogni altro.—Il giorno seguente restati per qualche tempo gli Austriaci padroni del campo, penetrarono per la porta dei preti della canonica di San Bartolomeo, forzandoli ad inginocchiarsi, gridando: Pei preti niente perdono; e quindi ne trassero cinque prigioni alla Zecca. Altri invasero la casa dove abitava il predicatore che rinchiuso se ne stava studiando, e non contenti di stenderlo al suolo con un colpo di moschetto, lo pugnalarono. Ascesero di poi sul campanile e di là incominciarono a tirare sui nostri, i quali rispondendo bravamente coi loro archibugi, uccisero fin colassù uno dei loro, il che tanto valse a spaventarli, che stimando inutile ogni tentativo, si diedero a precipitosa fuga, e sempre inseguiti dai nostri bersaglieri, s’intanarono nella Zecca e di là non si mossero. Al martedì gli Austriaci avanzarono un cannone che scaricarono sulla piazza di S. Bartolomeo contro l’imprendibile baluardo del ponte di Porta Nuova non superato giammai, dacchè fu fortificato colla barricata di marmo, custodita notte e dì dai nostri prodi.

Porta Orientale. Tre volte il nemico si spinse verso S. Damiano, ed altrettante venne ributtato. Una palla di cannone portò via di netto una gamba ad un ragazzo di 12 anni, ed egli esclamò: benedetti coloro che muojono per la patria!

Porta Tosa. In sull’albeggiare di questo giorno gli attacchi a porta Tosa incominciarono così gagliardi per parte dei nostri che misero i Tedeschi in grande apprensione. Verso le dieci ore gli abitanti dei sobborghi esterni, caldissimi anch’essi per giusta causa, si portarono per prendere la polveriera, così detta della Bicocca. Era un colpo certo se non fosse stato attraversato dal tradimento. Il conduttore della birreria, situata sul bastione (originario tedesco), si portò dal comandante de’ soldati, accampati lungo il muro del magazzino Cagnola, e lo persuase ad entrare nella casa della birreria stessa, come la più atta a difendere la polveriera, ed a scacciare gl’insorti borghigiani. La disperazione si impadronì tosto degli animi di quegl’inermi inquilini che dovettero sloggiar tutti e ridursi in un solo canto per lasciare ai barbari che li minacciavano della vita il luogo libero donde bersagliare quei che volevano distruggere la polveriera.—Un pezzo d’artiglieria scortato da dodici uomini di cavalleria, giunse da porta Romana circa il mezzo giorno. Si combattè per alcune ore, e nel progresso della pugna si faceva più forte il coraggio dalla parte dei nostri. Un colpo di cannone fu diretto al campanile di S. Pietro in Gessate, che lo colpì sotto all’orologio senza atterrarlo. Quel continuo suonare a stormo scendeva tremendo nell’animo degli avviliti Tedeschi. Due altri cannoni vennero più tardi appostati avanti la birreria. La pugna andò rallentandosi coll’approssimarsi della sera. I nostri s’imboscarono dietro la siepe dell’osteria del Giardinetto, nelle circostanti ortaglie, sopra i tetti, dietro le gelosie delle finestre[34].

Porta Romana. Giovanni Cappietti col solo schioppo protesse la ritirata degli alunni del collegio Calchi Taeggi, mentre una masnada di croati ne svaligiava l’abitazione.

Porta Ticinese. Un fatto d’armi alla casa del tenente de’ Poliziotti al ponte delle Pioppette procurò arme e munizioni a quei pochi dei nostri che si erano cimentati.—Nel locale detto della Vettabia si combattè per alcune ore coi Raisingher, cinque dei quali furono fatti prigionieri con l’acquisto di altrettanti moschetti e qualche sciabola.—Il colonnello dei Raisingher, che aveva il suo alloggio in casa Orelli a S. Calocero, chiamò quivi a difesa cento dei suoi soldati che continuarono a bersagliare tutto il giorno su gl’inermi passaggieri e sulle finestre intorno. Portatisi a combattere quella soldataglia una mano de’ nostri prodi, fra’ quali i cittadini Giacomo Colombo, Borletti e Biancardi, e dopo breve combattimento tolsero ad una compagnia di soldati due forgoni carichi delle robe del colonnello, ed il cavallo carico di munizioni da guerra che portava ai cento di guardia: l’ufficiale ferito fu steso al suolo, non pochi di quelli che scortavano il carriaggio furono uccisi e gli altri messi in fuga.—Fra i prodi combattenti di Porta Ticinese in questo giorno, va distinto il nome di Giovanni Onetti, che senza aver riguardo al numero bersagliava intrepido il nemico e riusciva sempre vittorioso. E da una dichiarazione del Comitato di pubblica difesa, risulta che egli consegnò tredici prigionieri compiutamente disarmati, del reggimento Sigismondo, da lui presi fuori di Porta Tosa, azione d’inaudito coraggio, molto più sapendo egli che mentre combatteva per la patria, la sua casa veniva svaligiata dalla rabbia tedesca. Ma tanto era l’ardor suo che nei momenti di tregua anzichè badare alle cose sue e a darsi qualche riposo, tutto era in faccende a medicare e confortare i suoi compagni feriti.

Porta Comasina. Alla mattina di buon’ora una pattuglia di circa cento soldati sparando i loro moschetti, s’avviavano dalla Foppa al magazzino delle vivande per provvedersi di pane: ma non sono ancora giunti alla metà della contrada, che vengono respinti da una pioggia di tegole.—Verso sera però vi ritornano e fanno atroce vendetta dell’accoglimento della mattina sugli abitanti della casa che trovasi sull’angolo di detta contrada. Diedero prima il sacco, poi incendiarono due botteghe, abbruciarono vive tre donne, indi fecero prigionieri due giovani, e trascinatigli sui vicini spalti gli attaccarono legati insieme ad una pianta, facendoli così servire da bersaglio ai loro colpi per lunga ora, e quindi semivivi li lasciarono in una crudele agonia fino alla mattina, che furono trovati dai nostri, da’ quali furono subito sciolti, e così poterono terminare il loro martirio coi conforti della religione.

Altri fatti di questo giorno. Nella contrada de’ Bossi, un povero vecchio inerme che andava per provvedersi del pane, incontratosi in alcune compagnie di granatieri (che si portavano a rinforzare il presidio al Broletto) venne dapprima infamemente maltrattato e percosso, e dappoi, perchè si era inginocchiato implorando la vita, uno dei soldati abbassando la bocca del moschetto gli scaricò una palla nel petto. Durò cinque quarti d’ora in angosciosa angonia quell’infelice, chiedendo un sorso d’acqua o la morte; ma non venne soccorso, poichè nessuno poteva uscire senza pericolo della vita, e dovette morire lambendo il proprio sangue a cercar di ammorzare la sete che lo struggeva. Narra l’autore delle lettere Infamie e crudeltà degli Austriaci, che sulla piazza del Duomo un giovinetto, che all’abito bianchiccio sembrava o un fornajo od un garzon da cucina, ebbe la valentia di stendere con quattro colpi quattro cannonieri. A S. Vittore, in una casa nel Borgo delle Oche, essendosi nascosti cinque inermi cittadini, sorpresi da una grossa pattuglia dei Raisingher, furono prima percossi coi moschetti, quindi mutilati, ed infine barbaramente trucidati. Questo atroce assassinio succedeva verso le ore 2 pomeridiane.

Narrano tutti d’accordo gli scrittori di questa gloriosa rivoluzione, ed io pure lo sentiva narrare il giorno dopo che successe questo fatto da un popolano, che dopo di aver uccisi e feriti molti del reggimento Kaiser, gli fu portato via il dito annulare della sinistra, e che egli fattosi fasciare strettamente la ferita per impedire l’emorragia, continuò ancora a combattere, mostrando il suo dito ai circostanti con queste parole: Una testa di legno mi ha fatto saltar via questo povero dito; e quindi se lo riponeva in saccoccia. Peccato che non si sia potuto conoscere il nome di questo valoroso cittadino[35]. Il corpo delle guardie di Finanza abbracciò questa mattina il nostro santo partito. Attaccate le coccarde sui loro berretti, sguainarono la spada e si unirono ai cittadini, distribuendo a loro le armi dei veterani inabili a combattere.—Verso sera fu veduto passare sul corso di Porta Romana il console Sardo, accompagnato da sei cittadini armati e da quattro pompieri per recarsi dal Console di Francia a concertare una energica protesta da farsi a Radetzky, contro l’assassinar del popolo che le sue truppe facevano. Il Console Francese fu il primo a farci sentire le sue intenzioni col seguente proclama che fu affisso agli angoli della città, alle ore quattro pomeridiane[36].

CITTADINI!

Il Console Generale della Repubblica Francese protesta contro l’arbitrio del nemico che noi stiamo vincendo.

Le grandi Nazioni sono fatte per intendersi.

Viva la Patria e la Vittoria.

Quartiere generale della Sicurezza pubblica.

ORDINE! CONCORDIA! CORAGGIO!

Nella notte del sabbato alla domenica, il Torresani, vedendo inevitabile la caduta del suo potere, ordinò che si abbruciassero le carte, i registri, le relazioni, e tutto quanto poteva mettere in chiaro le sue ribalderie, e scoprire gl’infami agenti de’ suoi misfatti[37]. Poco mancò che il fumo di tale incendio non soffocasse i poveri carcerati della Polizia, alcuni dei quali gridavano a piena gola che si aprissero le finestre, altri pregavano che si aumentasse il martirio per essere più presto spacciati, parendo loro men doloroso il morir soffocati che morir di fame, dopo trentacinque ore senza che a loro si somministrasse alcuna sorta di vitto. Altra prova della iniquità del signor Torresani si è l’ordine da lui dato al cavaliere Palladini, direttore della casa di Correzione, di scarcerare, nel caso che il tumulto popolare continuasse, i quattrocento sessanta detenuti che si trovavano nella stessa casa, e di armarli alla meglio, onde confusi col popolo, uccidessero, assassinassero ed ardessero ogni cosa. Ma il disegno andò fallito, mentre il Palladini si rifiutò di eseguire così infame comando.

Abbiamo a piangere la morte di Giuseppe Broggi, uno dei più segnalati eroi della nostra rivoluzione. Egli morì martire per la patria, la mattina di questo giorno, colpito da una palla di cannone, mentre incoraggiando i nostri, incuteva co’ suoi ben diretti colpi lo sgomento nell’animo de’ nemici[38].

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IX.

20 MARZO (LUNEDÌ).

Evviva l’Italia!... tremate o stranieri! Su... via... ricalcate gli Alpini sentieri;

Fuggite... già l’ora del sangue è suonata... Reclama vendetta la madre oltraggiata: E i figli han giurato—nei liberi deschi, Morte ai Tedeschi.

I volontari Napoletani in Italia.

Non ci attristi più lo sguardo L’abborrito giallo e nero; Sorga l’Italo stendardo E sgomenti l’oppressor. Sorga, sorga e splenda altero Il vessillo tricolor.

L. Carrer.

Ad una cupa e silenziosa notte interrotta da qualche grido di all’erta, da qualche colpo di fucile tien dietro un giorno che si presenta a noi sotto un aspetto molto tristo, e per la dirotta pioggia che cade, e pel continuo suonar a stormo, e per l’incessante tuonar del cannone. Pure i nostri animi non si abbattono, ed i nostri cuori, come spinti da forza ignota, si abbandonano ad insolita gioja, foriera di quella vittoria che andiamo a conquistare.—I trionfi dei due giorni precedenti han rinfrancato il nostro coraggio. Tutto seconda le nostre brame. Iddio è con noi! Pio IX ha benedette le nostre armi! Iddio è con noi! ripetiamo questo grido. «La croce sanguigna sia il nostro vessillo. O Tedesco infesto alla nostra nazione, odi quel funereo suono de’ sacri bronzi? Egli ti annunzia la tua miserabile fine!—Maledetto da Dio, maledetto dagli uomini, in chi speri tu ancora? Tu fuggirai, ma il marchio d’infamia che t’improntarono gli Italiani, al mondo intero ti farà manifesto e tutti i viventi malediranno e fuggiranno in te il ladro, l’infame assassino dell’Italia.—E tu, o Radetzky, ben degno condottiere di questa masnada, saldo appoggio del vacillante trono Austriaco, perchè non isfoderi quella vantata spada che per sessantacinque anni sfolgoreggiò a difesa del tuo principe? temi forse spezzarla contro i nostri petti di bronzo? N’hai ragione, noi non dobbiamo incontrarci. Tu non devi morire per mano di un prode. Vile come le orde che tu comandi, te ne stai intanato co’ tuoi satelliti a preparare la nostra distruzione coll’armi del tradimento.—E chi ponesti a presidio del Palazzo di Giustizia, dell’Arcivescovile, della Corte, della Direzione di Polizia, della Piazza de’ Mercanti? Vigliacchi tuoi pari che rifiutando di combattere, ci presentano il bianco vessillo di pace per coglierci nella rete e piombarci poi addosso coll’arma dell’assassino.—Ma la giustizia divina ci ha salvati tutti, noi abbiamo vinto: voi siete nelle nostre mani! Ora ci domandate la vita in dono, ci domandate del pane?... Avrete tutto. L’Italia è un popolo di leoni, tanto valoroso quanto magnanimo. Le vostre ossa andrebbero tritolate come il grano turco: ma questa fatica l’affidiamo al diavolo, se pure vorrà addossarsela.

Veniamo alla narrazione storica.

Di buon mattino tutti i soldati che si trovavano di presidio al palazzo vicereale, e con essi molte famiglie, dietro invito del generale Radetzky, nel massimo disordine fuggivano a ritirarsi in castello, preceduti dal generale Ratt. Il popolo a quel rumore si fe’ addosso alla truppa e si portò al detto palazzo dov’era già entrato un corpo di Poliziotti, che spaventati dallo strepito dei nostri stivali si era nascosto in una cantina[39]. I nostri scorrono tutto il palazzo deserto e svaligiato. Frugano ogni parte per trovar arme da fuoco o da taglio: ma trovano solo venti alabarde dei Trabanti. I Poliziotti dietro suggerimento del parroco e del tesoriere di Corte escono dal loro nascondiglio e depongono vilmente le armi.—Gli ammalati che si trovavano nelle infermerie di quel palazzo, intimoriti si nascosero sotto i loro letti, da dove tratti, furono assicurati da qualunque molestia, e vennero accompagnati all’Ospedale, preceduti da un vessillo con l’iscrizione, rispetto ai feriti. Tutto quanto stava nel palazzo fu rispettato, e soli sei cavalli che vennero condotti via nel trambusto, furono restituiti in capo a pochi giorni.

Verso alle ore otto e mezzo la Congregazione Municipale pubblicava i seguenti due avvisi:

LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA CITTA’ DI MILANO.

Milano, 20 marzo 1848, ore 8 antim.

Considerando che per l’improvvisa assenza dell’Autorità Politica viene di fatto ad aver pieno effetto il Decreto 18 corr. della Vice-Presidenza di Governo, col quale si attribuisce al Municipio l’esercizio della Polizia, non che quello che permette l’armamento della Guardia Civica a tutela del buon ordine e difesa degli abitanti, s’incarica della Polizia il signor delegato Bellati, o in sua mancanza il signor dottor Giovanni Grasselli, aggiunto; assunti a collaboratori del Municipio il conte Francesco Borgia, il general Lecchi, Alessandro Porro, Enrico Guicciardi, avvocato Anselmo Guerrieri e conte Giuseppe Durini.

Firmato Casati, Podestà. Firmato Berretta, Assessore.

Il Municipio ha già decretato lo scarceramento dei detenuti politici che avrà luogo immediatamente.

Firmato Casati, Podestà.

LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA CITTA’ DI MILANO.

Milano, 20 marzo 1848.

In aggiunta all’avviso 18 corrente, col quale venivano invitati tutti i cittadini dai 20 ai 60 anni che non vivono di lucro giornaliero, sono novellamente invitati i buoni cittadini, compresi in quella categoria, affine che il numero sia sufficiente a garantire la sicurezza pubblica. Sono invitati ugualmente a portar seco le armi tutti quelli che ne avessero.

Le riunioni delle Guardie si faranno presso ciascuna Parocchia, ove si organizzeranno in compagnia di cinquanta ed eleggeranno provvisoriamente il loro capo, il quale si metterà in corrispondenza col Municipio per le successive disposizioni.

Casati, Podestà. Berretta, Assessore.

Poco dopo sventolarono i vessilli tricolore sulla maggior guglia del Duomo, piantati dai valorosi cittadini Luigi Torelli di Valtellina e Scipione Bagaggia di Treviso, e le campane della Cattedrale fanno eco a quelle delle principali chiese della città.

L’esempio dato dai soldati posti a custodia del palazzo Vicereale, fu imitato anche dai Poliziotti, o polizai, come il popolo li chiama, forte baluardo posto a difesa del palazzo della Direzione Generale di Polizia. Come s’impossessassero i nostri di questo infame nido, quali atti magnanimi usassero coi vinti, l’arresto di Bolza e di Galimberti ci vengono descritti con molto garbo dall’autore delle lettere che portano il titolo di Infamie e crudeltà austriache, valore e generosità dei Lombardi nel marzo 1848; ed io crederei di far torto a quel distinto scrittore (che ci vuole tacere il nome) se dovessi servirmi altrimenti che delle sue parole per quest’importante fatto della giornata.

«Appena fatto chiaro il lunedì 20 marzo, molti della contrada S. Margherita fecero occhiolino dalle imposte spiando cautamente lungo la via, e non veggendo alcun poliziotto, e non scorgendo alcun soldato, si fecer coraggio ad allungare il capo fuori dalle finestre, e non conoscendosi assaliti nè minacciati da armi da fuoco, si azzardarono a farsi brevi domande e brevi risposte coi vicini di contro. Sono andati, pare?—Indietro, potrebbero essere in agguato!!—Che vi possa essere un tradimento?—Sono Tedeschi!—Ei Pietro, Rosina, indietro, vi è un tradimento.—Ma un coraggioso che venia ornato di coccarda e munito di bastone dalla Piazza dei Mercanti, annunziando che le Piazze del Duomo e dei Mercanti eran vuote, fece sorgere un cicalio, una gioja, un coraggio da non dire. Giù dalle scale, fuori dalle porte, eccoti non pochi correre all’ingresso del covacciolo del lupo. Ma.... e se vi è un tradimento?.... Un giovane dello speziale di fianco all’abbandonata Polizia, si fa animo, entra inerme....Ritorna poco dopo recando un fucile ed una giberna dei fuggiti Poliziotti: allora non vi fu più freno; il correre, l’entrare, l’escire, chi con uno schioppo, chi con una sciabola, chi con una accetta, chi con un piccone, chi con una pentola, chi con un secchio, chi con una cazzeruola, chi con una montura da poliziotto fu un punto solo; i portanti le prime corsero diffilati nelle vicine contrade a chiamar gente, onde vengano ad armarsi: chi recava le seconde, ed erano robe del custode delle carceri, le gettano per terra, le calpestano, le stracciano, le fracassano. Gli antivegenti però ed i più cauti traggono invece subito a far barricate; tavole, panche, sedie, casse, tutto si pone insieme. Una mano dei più ardenti prontan le scale per istrappare l’abborrita aquila, il pesante stemma della Polizia; e senza istrumenti tanto fanno, che alla fin fine la smuovono, la fanno cadere, e fra i fischi e gli urli la collocano arrovesciata a far parte della più vicina barricata. La contrada allora prende un carattere nuovo; dal silenzio, passa repentina ad un fracasso forsennato: chi con zappe comincia a strappar i ciottoli, chi con leve cerca alzar i lunghi marmi del selciato, chi grida, chi ordina, chi consiglia, chi lavora, chi getta dalle finestre materiali ad ingrossar le barricale, sembra insomma una vera Babilonia».

«Una voce sonora però nel frastuono si fa sentire a chiedere: Ed i prigionieri?—Fuori i prigionieri, libertà ai prigionieri! —fu la risposta in coro. E pochi minuti appresso, eccoti le prime vittime. Chi erano mai? Erano.... quelle donne della gioja.... quella peste della società.... No, no, fuori i prigionieri politici, sentesi a gridare, e voi, o donne, a casa....Vengono invece faccie pallide, brutte, sinistre, le quali appena sortite da quella porta vi sporgano la mano cercando pane confessando che sono 40 ore che non mangiano! fra le quali due, padre e figlio che dicono essere un anno che penano, e che non fu nemmeno loro cominciato il processo, e che ignorano la causa della loro carcerazione!!—Ma i prigionieri politici dove sono? Dopo un quarto d’ora si sente rispondere— Che s’ignora ove si trovino.—Allora l’oste della contrada dei Due Muri, che nel suo commercio vendeva vino e commestibili ai custodi dei detenuti, e che da loro sapea il numero della stanza nella quale erano rinchiusi, grida che questi si trovano nelle carceri ai numeri 18, 30, 36 e 37. Rinvenute le chiavi, eccovi persone civili, fra le quali il marchese Villani, il sig. Ravizza, il sig. Marcora ed altri precipitar da quel crudo ingresso. Al loro apparire grida di gioja gli accolgono, tutti corron loro incontro, i conoscenti balzan loro al collo, gli baciano con calde labbra, gli stringon tutti con quella consolante allegrezza, che anche i cuori i più indifferenti avrebbe mosso a dolci lagrime. Se avesti veduto, o Torresani, le tue vittime come venivano accolte, e con qual giubilo! Tu, uom senza cuore, anzi col cuor da tigre, avresti....Ma che dico? Ti narrerò invece, amico lettore, un altro tratto della bontà di cuore del prelodato Torresani. Spogliata la Polizia dell’armi da fuoco che saran state 22, o 15, e di un centinajo di armi da taglio, si passò a correre le camere degli ufficj, alcune delle quali si trovarono spoglie di libri, e specialmente la segretaria, che, come dissi, furono bruciati nella notte della domenica, come ne fanno fede le rinvenute ceneri, e gli illeggibili avanzi quasi tutti scritti in francese. In altri locali si trovarono gli effetti rubati, che la paterna Polizia non restituiva mai, o quasi mai ai proprietarj, e nella chiesuola del locale 5 cadaveri di poliziotti uccisi, un altro di costoro morto in sul solajo, e tre feriti, in fine penetrarono i cittadini nelle eleganti stanze da dove imperava il Torresani: dato mano a rompere ed a fracassare qualche mobile, passarono di là in un elegante gabinetto, nel quale trovarono giovine signora vestita di seta nera, stringentesi al seno una bambina con a lato una cameriera, entrambe pallide, tremanti stavano ginocchioni. Mandò questa uno straziante gemito all’entrar del primo, credendosi vicina ad essere sacrificata, poichè misurato il cuore di questi dal cuore del suo suocero, giacchè dessa era la giovine contessa Giovio, vedova di un figlio del Torresani con il frutto di tale malaugurato connubio, si credette perduta e morta colla sua bambina. Ma l’entrato, che era munito di fucile da caccia a due canne, il cui nome ignoro e che volentieri pubblicherei accompagnandolo della lode che bella si merita, confortandola invece, e dato ordine che con modesto sciallo si coprisse la testa e la faccia lagrimosa, presala sotto il braccio, e chiamato un altro cittadino armato in suo ajuto, disceser le scale per escire. Alla insperata moderazione degli occupanti si fecer animo anche le donne del portinajo del Torresani e qualche servo di casa a seguire quei pietosi cittadini armati, i quali apertasi la via tra la moltitudine, guidarono quel derelitto convoglio alla casa paterna dei conti Giovio, ma trovatala chiusa, lo ripararono presso la famiglia dei signori Morandi.»

«La moglie poi del Torresani caduta anch’essa in potere dei nostri, non che una fra le tante concubine dello sporco Radetzky sono trattate con tanta amorevolezza da chi le ricovera, che se lo sapessero i nemici nostri, come lo sapranno, dovrebbero non arrossire, ma morir di vergogna nel confronto. Io qui ti fo riflettere, o cittadino lettore, se il Torresani avesse almen sentito i dolci vincoli della famiglia, avrebbe potuto abbandonare, e la propria donna e colei che per unirsi al suo figlio abbandonò la propria famiglia, i propri parenti, i propri amici, il proprio nome, il proprio onore, giacchè chi prima era famigliare della giovine contessina Giovio, non la riconobbe più fattasi moglie al figlio di un Torresani? Ma non ragioniam più oltre di lui, se la mano degli uomini non lo potrà afferrare, la mano di Dio graviterà sicura sul suo capo; ed il rimorso, il più fiero dei martirj, lacererà a quest’ora quell’anima, se un’anima informa quel crudele.—Chi lo dice nel seguito della fuggitiva armata austriaca, chi lo dice nascosto ancora qui in Milano, chi lo dice fuggito per altre vie sotto mentite spoglie. Ove sarà, un dì lo sapremo.»

«Si posero allora all’opra i sempre crescenti armati cittadini ad inseguire il nemico che vilmente abbandonava i posti, ed a far caccia de’ sparpagliati oppressori della caduta Polizia. Primo tra questi ultimi che smaniosamente si cercava era il famigerato Luigi Bolza. Scorsero alcune ore avanti averne notizie, ma spiato da due suoi dipendenti, che coraggioso era corso a nascondersi nel fieno sulla soffitta in un ripostiglio vicino alla sua dimora, lo trovarono difatto dopo un’accurata indagine pallido, contraffatto, coi capegli irti, chiedente, pietà, misericordia, quella pietà e quella misericordia che mai sentì per gl’infelici che per tanti anni da vero carnefice tormentò ed uccise. Lo trovaron, dissi, sotto un forte strato di fieno. Cavatolo di là apparve la sua grottesca figura: e fatte sulla sua persona le diligenti inquisizioni se avesse armi, onde non potesse tradire, od uccidersi, giacchè lo si credeva un coraggioso, capace di bruciarsi le cervella, gli si rinvennero invece le tasche colme di pane e formaggio!! Figurati, lettore cittadino, la faccia scomunicata di quel laido vecchio, smorta e sbasita, con quella bocca puzzolente che grugnisce come il porco, e quella persona tremante, coperta tutta di pagliuzze di fieno, che colle braccia aperte si lascia frugare nelle tasche, e ne cavano invece di stili o di pistolle, ne cavano pane e formaggio!! L’ira dei più accaniti, si volse in riso, e dimenticando che avrebbe meritato una fine più crudele di quella data al Prina lo si condusse invece in casa dei Conti Borromeo, ove dimorò sino al giovedì, dopo fu tradotto in casa Vidiserti, sorvegliato e custodito dal Marchese Villani, quello stesso uscito poche ore prima dalle carceri politiche di santa Margherita, e dopo tre giorni, di notte fu tradotto alle carceri del Criminale, ove, in onta a’ suoi meriti, è trattato con quella generosità che è propria dell’attuale Governo Provvisorio, generosità che lo rende a tutta l’Europa chiaro e riverito.»

«Nella contrada dei Due Muri, all’albeggiare della Domenica si sentirono dei colpi di martello nel muro sopra la prima finestra dell’abitazione del Garimberti, e poco dopo si vide cader calce e pezzi di quadrello, poi una mano a strappare un grosso mattone, tenerlo sospeso nell’aria per qualche tempo, sino a che un passaggiere si avvicinasse, e credutolo a tiro, fu scagliato, ma non rasentò che alla distanza di due dita lungi la testa dello sfortunato passante: era il Garimberti o i servi del Garimberti che da quel momento fatta pria la breccia, e coi rottami di questa fattine altrettanti mezzi di morte pei cittadini, finiti questi bersagliarono tutta la domenica sui passaggieri, come dissi, ed anche nella giornata del lunedì con armi da fuoco, specialmente da un grosso fumajuolo. Ma corso tutto il palazzo della fuggita Polizia, e non trovato il Garimberti, alcuni armati cittadini vennero nella contrada de’ Due Muri, ove aveva la sua abitazione, tentando con una trave atterrarne la porta: il che non potendo ottenere perchè era per di dentro ben fortificata, e sentito un colpo di fucile, che fu scaricato dal buco suddescritto, posero l’allarme in tutta la stretta contrada. In questo il facchino dello spedizionere Pezzoni diede ai cittadini una leva a ruota, e questi poggiandola inclinata verso la porta, e ben assicurata contro il selciato, con forza tale ne girano il manubrio dell’interna ruota dentata, che alla fine la sgangherano, e s’impossessano dell’ingresso, vicino al quale catturano il servo del Garimberti. Minacciato costui, promise additar loro il padrone, qualora lasciasser loro la vita, ed assicurato di ciò, li condusse di sopra in una stanza, nella quale erasi in quel momento riparato il Garimberti. Intimatolo di arrendersi e costituirsi prigione, mordendosi le labbra, cedette e venne tradotto nella casa dei Conti Borromeo.—Tu, amico, mi tacciasti che io sono inviperito contro gli agenti della tirannica cessata Polizia, ma dimmi tu dopo il detto, che si merita il Garimberti?»

Jeri abbiamo veduto come il Console francese sia stato il primo a promovere la protesta alle minacce del Radetzky, e come abbia invitato gli altri consoli ad aderirvi. Qual effetto poi producesse nel gran Feld Maresciallo, non lo sappiamo, ma è facile immaginarselo. Egli avrebbe voluto far un mucchio di pietre di questa città ribellata che non si ricordava più del valore delle sue truppe del gennajo.—Egli lo avrebbe fatto, ma ostava la responsabilità verso le estere Potenze che reclamavano; imprudentemente lo avrebbe fatto, ma, signor Maresciallo, come stavate di munizioni di guerra, che da tutti credevasi vi trovaste all’ablativo?

Intanto colla seguente lettera spera di prender tempo.

Signori!

Accuso la ricevuta del dispaccio dei signori Consoli d’Inghilterra, di Francia, di Sardegna, del Belgio e della Svizzera, nella quale manifestano il desiderio di non vedermi prendere misure che non potrebbero mancare di tornar funeste per la città di Milano, e per le quali dimanderebbero almeno una dilazione che permettesse a loro di provvedere alla sicurezza dei loro compatriotti. Il governo dì S. M. l’Imperatore e le truppe sotto il mio comando sono state attaccate all’improvvista, in un modo contrario ad ogni diritto delle genti, senza che queste avessero fatto nessuna provocazione.

Si cominciò a saccheggiare il Palazzo di Governo, a sorprendere ed uccidere parte della debole guardia che vi era posta, per assicurarsi della persona del capo di Governo, esigere da lui delle concessioni che non era in suo potere di firmare, e che non appartengono che al Sovrano.

Concepirete da ciò, Signori, che da uomo d’onore e da soldato, non potrò mai compromettere nè l’uno nè l’altro, come obbliga il mio dovere verso l’Imperatore.

Sta in voi, Signori, se avete influenza sui capi del movimento rivoluzionario, se potete deciderli ad astenersi da ogni atto ostile; perchè per tutto quel tempo che sarò attaccato, che i miei soldati saranno uccisi sotto i miei occhi, mi difenderò col coraggio che loro inspira il modo di cui furono assaliti, e a me il sentimento dell’odiosa sorpresa cui si sono serviti verso di loro.

Ad ogni effetto, per rispetto ai Governi di cui siete l’organo, sospenderò le misure severe che io mi credo obbligato di prendere contro Milano sino all’indomani giorno 21, a patto che ogni ostilità abbia a cessare dalla parte avversa.

Aspetto i risultati dei passi che farete per mia norma.

Milano, il 20 marzo, undici ore antimeridiane.

Conte Radetzky.

Ai signori Consoli d’Inghilterra, di Francia, di Sardegna, del Belgio e della Svizzera.

Milano.

Nel corso della giornata d’oggi, furono pubblicati ancora i seguenti proclami:

PRODI CITTADINI

Conserviamo pura la nostra vittoria. Non discendiamo a vendicarci nel sangue di que’ miserabili satelliti che il potere fuggitivo lasciò nelle nostre mani.

Basti per ora custodirli e notificarli. È vero che per trent’anni furono il flagello delle nostre famiglie e l’abbominazione del paese. Ma Voi siate generosi come foste prodi. Puniteli col vostro disprezzo, fatene un’offerta a PIO IX.

Viva PIO IX! Viva l’ITALIA!

FRATELLI!

La Vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al Castello ed ai Bastioni. Correte; stringiamo una porta fra due fuochi ed abbracciamoci. Dateci intanto notizie di voi e del Mondo politico.

VIVA L’INDIPENDENZA ITALIANA! VIVA L’EROICA MILANO!

CITTADINI!

La bandiera italiana sventola sui portoni di Porta Nuova. I cittadini vi si fortificano e fanno prodigi.—Le truppe non osano avvicinarsi. Costanti saranno vincitori e liberi. Non vi stancate di far barricate lungo il corso di Porta Orientale e di Porta Nuova siccome sono le posizioni che più premono ai Tedeschi. Fra un giorno o due i nostri nemici lasceranno questa sacra terra ai buoni Italiani. Ogni cittadino questa notte rimanga alla propria barricata, la custodisca, la rinforzi, che Iddio protegge la nostra causa, e in questo modo conserveremo i vantaggi di quest’oggi. Vigilanza e coraggio.

ORDINE! CONCORDIA! CORAGGIO!

Innumerevoli sono i tradimenti dei nemici in questo giorno, gli strattagemmi ed i tentativi per incendiar le barricate: ma sono inutili sforzi; mentre gli uomini cogli archibugi, colle tegole e coi sassi vi scacciano i soldati, le donne coraggiose vanno gettandovi sopra dell’acqua.

Porta Romana. Alcuni Croati che si trovavano nella polveriera di S. Apollinare, messi in fuga da un drappello di cittadini, si rifuggirono sul far della notte nelle vicine ortaglie di Quadronno. I valorosi Nova e Grilloni, con altri, li inseguirono, e fermatisi ad una voce che gridava pietà, entrarono nella casa di un ortolano, dove fecero prigionieri cinque Croati, che condussero in casa Trivulzio. In quella casa si trovò mutilato in modo orrendo il corpo di una donna e di tre suoi figli ancor fanciulli.

Porta Tosa. In questo giorno il numero de’ combattenti va ingrossandosi sempre più, ed intrepidi al continuo fuoco del cannone stringono il nemico da tutti i lati. I contadini al di fuori fanno altrettanto. Il primo numero del giornale Fratellanza, ci riporta il seguente fatto successo mentre fervea più accanita la pugna. «Un ragazzo di 12 o 14 anni al più, si distingueva fra gli altri, salutando colle beffe e coi fischi ogni colpo di cannone e la grandine delle palle austriache».

«Allo scherno aggiungeva la disfida; onde arrampicatosi sul ciglio di una barricata fra le più vicine al nemico, vi si pose a cavalcione, e col gesto usato dal basso popolo allorchè esprime il piacere d’averla fatta o di volerla fare a qualcuno, andava provocando quei soldati ad avvicinarsi a coglierlo».

«In quello stesso tempo un altro giovinetto di qualch’anno più avanzato in età, stava intento come a sollazzo, unitamente a varj suoi coetanei e più vicini, a raccogliere le palle che d’ogni intorno piovevano a terra, quando a poca distanza vide cader di rimbalzo dal muro dell’attigua casa una palla di cannone. Correr dietro a quella, fermarla e prenderla fu l’opera d’un momento; d’un salto si trasse alla vicina barricata, e di colà con quanta forza potè adoperare, rigettolla verso i cannonieri a più riprese, loro gridando: tornate a mandarla giacchè non andò bene; sarebbe munizione perduta

Le campane di S. Pietro in Gessate cominciarono a suonare a stormo verso le ore dieci antimeridiane, ed intanto dietro le barricate verso il borgo di Monforte, nelle ortaglie e nelle contrade circostanti al Conservatorio, l’ingegnere Cardani col conte Archinto figlio, coi fratelli Modorati e con altra scelta gioventù ed alcuni arditi pompieri, incominciarono un fuoco, che andò sempre crescendo, di schioppi da caccia e moschetti contro i Croati e la cavalleria, che in vari drappelli, percorrendo i bastioni dal borgo di Monforte alle case di questo dazio, e dietro il muraglione del magazzino Cagnola, moschettavano sui nostri combattenti.

Due volle il nemico tentò di rinforzare questa porta con due altri cannoni che conduceva da porta Orientale, ed altrettante fu respinto dal continuato fuoco della compagnia del valoroso Vernay. A più riprese si combattè dai diversi drappelli de’ nostri contro i Croati. Partiti i cannoni, Vernay colse l’occasione per correre co’ suoi bravi a dar l’assalto alla porta e vi giunse vittorioso[40].

Porta Nuova. Narra la Gazzetta officiale di Milano del giorno 8 aprile, i seguenti due fatti: Il giorno 20 marzo alle ore otto di mattina i valorosi della nostra patria costrussero una barricata in capo alla contrada di S. Giuseppe verso Brera, onde impedire alla guardia del palazzo del Genio la ritirata, e precludere al presidio del Comando Militare la via di soccorrerla, indi i pochissimi nostri tiratori, fra le acclamazioni dei cittadini che dalle finestre confortavanli a combattere, si avanzarono dirigendo le palle dei loro archibugi al Palazzo del Comando Militare, cui presidiavano una compagnia di granatieri ungaresi ed un’altra del reggimento Raisinger. Questi mandarono allora un officiale con bandiera bianca a chieder pace; ma poscia, tosto che un animoso giovane si fu presentato al loro capitano intimando che cedessero le armi, venne scoperta l’insidia di quel messaggio, il capitano ricusò di far deporre le armi alla soldatesca, e tradimento! fu il grido che risuonò per tutta la contrada, tradimento! Nè quel grido falliva, perchè non erasi appena finita la barricata, che il fuoco della moschetteria nemica si avanzava dalla contrada dei Fiori, e ne fu colpito alla mano sinistra ed alla coscia l’ex militare Luigi Perdoni, ultimo a dipartirsi dall’opera: raccolto però in una casa nella contrada di Brera, il Perdoni ebbe tosto ajuto, poichè il dottor Buzzi con le cure pronte dell’arte lo avviò a sicura guarigione.

In questo stesso dì verso le ore due e mezzo dopo il mezzo giorno, una banda di quei soldati masnadieri sfondò le porte dell’antica osteria di Brera, Lorivoli, sull’angolo del Monte di Pietà, ed entrativi misero tutto a sacco e ruina sotto la condotta del proprio colonnello.

Porta Comasina. Verso il mezzogiorno un Maggiore ungarese, preceduto da una truppa di gente, dal castello si avanza al Ponte Vetro, agitando in aria un fazzoletto bianco e gridando pace, pace, ed assicurando che a Porta Comasina aveva fatto sospendere il fuoco a’ suoi Ungheresi, e che non avrebbe riprese le ostilità, purchè le sue truppe non fossero molestate. Vado dal Generale in Capo in castello per un accomodamento: chi vuol venire con me si farà persuaso. Il sacerdote D. Pietro Mauri, della parocchia di S. Tommaso, accompagnò il Maggiore insieme con un altro ufficiale degli Ussari che era venuto in quel mentre.—Alcuni asseriscono di aver osservato un Tirolese di picchetto all’imboccatura della contrada, che dimenando il capo faceva segno di non fidarsi.—Poco dopo un Poliziotto, disarmato scortato da tre militari italiani col moschetto abbassato e senza bajonetta, si porta dal prestinajo in contrada del Baggio a prendere un gran cesto di pane di formento che fa portare con sè. Questo momento fu propizio anche per gli abitanti che andarono a provveder pane e commestibili.—Il Poliziotto ritorna di nuovo per prendere dell’altro pane, ed intanto quelli che aspettavano il prete, non vedendolo a ritornare, afferrarono il poliziotto e gliene dimandarono conto. Costui risponde che stava parlando col Maresciallo; ma le guardie civiche non fidandosi di queste parole, trattennero il soldato di Polizia, rimandando gli altri soldati a prendere il Prete, intimando loro che se non ritornavano presto avrebbero fatto a brani il Poliziotto. Il Prete ritorna poco dopo dimenando il capo e gridando al consiglier Decio, che lo stava aspettando: siamo traditi! Ed il fatto non andò a lungo a verificarsi, mentre poco dopo i soldati ripresero le ostilità, e le moschettate ed i colpi di spingarda ripresero il loro corso[41].

Atroce caso successe nella casa di certo signor Torelli, verso S. Marco, nella quale tenevasi osteria. Gli Austriaci sforzarono la porta, ed entrati uccisero il cuoco ed altre tre persone dopo averle martirizzate in ogni foggia; poi arrostiti vivi due bambini, e cacciata nel ventre ad una donna incinta a varie riprese la bajonetta, diedero fuoco alla casa e quindi si ritirarono nel palazzo del General Comando.

Porta Ticinese. La caserma dei Poliziotti a S. Bernardino alle Monache cedette al valore de’ nostri, che dopo accanita pugna giunsero ad incendiar la porta esposti ad una pioggia di moschetteria. Solo il picchetto che trovavasi a S. Simone in guardia della Polizia, dopo di avere spiegata una bandiera bianca in segno di pace, colse il popolo festante sotto le finestre, e quindi i traditori scaricarono contro i loro fucili, per modo che de’ nostri, due restarono morti ed uno ferito. Così infame tradimento, invece di avvilire, accrebbe il coraggio dei cittadini che si portarono sin sotto alle finestre, ed ivi bersagliando que’ tristi, li costrinse cedere al loro valore.

Siccome in questo giorno, come abbiamo detto, la città venne in possesso, mercè la prodezza de’ nostri combattenti, di varj palazzi che si era appropriati il cessato governo Austriaco, il Municipio pensò bene di metterli tutti con le cose in essi contenute, sotto la salvaguardia delle Guardie civiche, col seguente proclama:

CITTADINI

Si pregano istantemente tutte le Guardie Civiche di prendere sotto la loro immediata protezione tutti i pubblici Stabilimenti e tutti gli oggetti che vi si contengono e soprattutto le carte che possono essere preziose per le famiglie.

D’ora in poi tutte le cose che erano del Governo, sono nostre. Dunque conserviamole.

Ordine e Concordia!

In questo stesso giorno si lessero pure affissi sugli angoli della città i due proclami che seguono, col primo dei quali si stabiliva un Governo Provvisorio alla direzione d’ogni cosa.

LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA R. CITTA’ DI MILANO

Milano, 20 marzo 1848, ore una pomerid.

Le terribili circostanze di fatto per le quali la nostra città è abbandonata dalle diverse autorità, fa sì che la Congregazione Municipale debba assumere in via interinale la direzione d’ogni potere allo scopo della pubblica sicurezza. Egli è perciò che si fa un dovere di far noto a’ cittadini che sino a nuovo avviso essa concentrerà momentaneamente le diverse attribuzioni onde condurre le cose al fine desiderato dell’ordine e della tranquillità. Ai membri ordinari della Congregazione vendono aggiunti in via provvisoria i signori.

Vitaliano Borromeo. Francesco Borgia. Alessandro Porro. Teodoro Lecchi. Giuseppe Durini. Avv. Anselmo Guerrieri. Avv. Enrico Guicciardi. Gaetano Strigelli. Casati, Podestà. Beretta, Assessore.

CITTADINI!

Uomini coraggiosi hanno superate le mura della città e ci hanno recato notizie delle campagne, e lettere scritte alle porte. Pavia è insorta e chiuse il nemico nel castello. Anche a Bergamo il presidio si è arreso col generale, figlio dell’ex-Vicerè. Evviva ai nostri fratelli di Pavia e di Bergamo! Tutte le popolazioni sulle vie a Gallarate, Busto Arsizio a Milano si sono levate in armi e hanno disarmato le truppe, preso sei pezzi di cannone, impedito che il ponte di Boffalora fosse tagliato. Evviva ai nostri fratelli del contado! Abbracciamoci tutti in un amplesso! ringraziamo Dio. Gridiamo:

VIVA L’ITALIA!—VIVA PIO IX!

Il Governo Provvisorio Casati.—Giulini.—Greppi.—Beretta.

L’ecclisse totale di luna che successe nella precedente sera, 19 marzo, spargeva colla cupa sua oscurità lo scoraggiamento ed il terrore nelle truppe austriache, era cagione di qualche risata tra noi, chè alle barricate dalle guardie si gridava, che la luna era dalla nostra parte, e si aveva messa ella pure la coccarda. La notte susseguente in generale fu del continuo agitata da spari d’archibugio per mantenere le scolte all’erta, e da qualche scaramuccia, ma non di grave momento.

X.

21 MARZO (MARTEDÌ).

Ora che il vil conoscemi Agghiacciar dovrai d’orror!

Col pugnal dell’assassino, Al favor di notte oscura, Egli assale il Pellegrino, Ove passa incendia e fura.... Da sua man la morte scende, Ei presiede ad orgie orrende, Fra i singulti di chi langue Fa danzare la sua gente, Nelle tazze mesce il sangue, Ride ai lagni del morente....

Mortedo, Dramma lirico.

E sempre nuovi tradimenti! Ecco i tristi e codardi capitani austriaci in maschera, alcuni da prete, altri da donna con grandi coccarde tricolore al petto, che procurano di penetrare e d’introdursi colla impostura ove non riescirono colla forza. Quali sono le prove del vostro coraggio? Fremo d’orrore al solo ricordarle, e lo dicano per me le tante giovani vituperate, le spose vedove e desolate, i figli orbati de’ loro genitori, i teneri bambini ed i cadenti vecchi su i quali, perchè incapaci alla difesa, si scatenò più accanita la rabbia dell’assassino..... Lo dicano i tanti villaggi e le case arse e saccheggiate....Lo dicano le tante famiglie che tuttavia si trovano nel pianto e nello squallore. Chi può risovvenirsi delle atrocità commesse a Porta Tosa, a Porta Vercellina, a Porta Comasina ed a Porta Ticinese senza essere compreso d’un tremendo fremito d’orrore, nunzio di vendetta sterminatrice contro que’ barbari? E come mai l’immortale Pio IX, in nome del quale combattemmo per l’indipendenza Italiana, dopo tanti eccessi, come principe temporale e spirituale non ardisce di apertamente sostenere in faccia all’Austria quanto fu giurato da lui fino ad ora in secreto. Un raggiro gesuitico o dell’Austria stessa lo sgomentò forse sotto pretesto d’uno scisma, o furono le frequenti insulsaggini dell’ Allgemeine Zeitung che lo arrestarono sul più bello della sua impresa? Questo nuovo genere di politica non è in correlazione co’ suoi fatti. Ritorni Pio IX, Dio è con noi ed il grido di viva Pio IX sarà il nostro grido di guerra, ed in nome di Dio noi vinceremo: la nostra patria sarà libera dagli oppressori.

Ritorno al mio officio di narratore:

Alle ore 5 del mattino Radetzky fece suonare a raccolta. Sembrava che le cose dovessero avere un prospero fine nella giornata. Il Feld Maresciallo non aveva mai osato mostrarsi alla valorosa gioventù di Milano durante la pugna dei tre giorni precedenti, poichè i traditori si guardano molto dal porre in compromesso il loro grado. Egli esponeva la bandiera bianca e chiedeva un armistizio, ed anche proponeva la pace e lo sgombro di tutte le sue truppe dalla città a patto che i Milanesi dovessero levar le coccarde, la bandiera italiana, gridar viva Ferdinando e dargli trenta milioni di lire austriache. Questa stolida proposizione venne rigettata dal nostro governo dopo lunga discussione, come ben si doveva aspettare. Non abbiamo altra prova di questo che nei Racconti di 200 testimoni, negli editti del Municipio e nella seguente dichiarazione dei Consoli, diretta al Feld Maresciallo alle ore quattro pomeridiane di questo stesso giorno. È a desiderarsi che questo sunto di storia risguardante uno dei principali fatti della rivoluzione sia trattato da penna più dotta della mia: perocchè infruttuose mi riescirono tutte le indagini in proposito, essendoci chi la racconta in un modo, chi in un altro, e tutti, secondo loro, furono testimoni oculari. Ecco dunque l’unica prova che posso dare:

A S. E. IL SIGNOR MARESCIALLO RADETZKY

Signor Maresciallo

Abbiamo il dispiacere di dire a V. E. che la sospensione di ostilità, dietro la domanda che vi abbiamo fatto nella conferenza di questa mattina, che ci avete incaricato di proporre all’autorità municipale della città di Milano, non è stata accettata. I membri componenti la municipalità dopo averci domandato di deliberare sulle proposizioni, che noi abbiamo lor fatto da parte vostra, ci hanno or fatto conoscere questa determinazione. Abbiamo l’onore di trasmettere a V. E. la copia della loro risposta.

In tale stato di cose, dietro le grandi manifestazioni di umanità che V. E. ha voluto farci, e di cui prendiamo nota, speriamo che le misure che ella vorrà prendere non saranno della natura di compromettere l’esistenza e le proprietà dei nostri nazionali a Milano, se diversamente fosse noi stessi saremmo in caso di reclamare quanto ha promesso questa mattina di accordarci il tempo e i mezzi necessarii per metterli in sicurezza; noi ci proporremmo di proteggere la loro uscita accompagnandoli in corpo sino ad una delle porte; e domanderemmo inoltre a V. E. delle Salvaguardie scritte per le nostre abitazioni e cancellerie consolari.

Preghiamo V. E. di risponderci subito in proposito e di aggradire, ecc.

Milano, 21 marzo 1848, alle ore 4 pomerid.

( Seguono le firme dei Consoli ).

La pugna va crescendo, ed in questo giorno che a noi si presenta vestito di così splendido sole di quali trionfi non saremo noi testimonj? I nostri cittadini combattono da veterani colle armi, e colla più fina arte strategica s’impossessano dei posti non ancor nostri ed impediscono agli Austriaci d’unirsi fra i loro corpi diversi e già quasi tutti dalle nostre armi decimati e sgominati.

Diversi comitati nelle urgenti circostanze si sono formati, i quali devono sorvegliare alla pubblica difesa, alla vigilanza e sicurezza personale, alla guerra ed alla finanza[42].

Il bisogno di far conoscere la nostra condizione agli abitanti delle terre circostanti, ci suggerì l’uso dei palloni areostatici, e ben più di venti si videro verso le 10 ore antimeridiane svolazzare per l’aria, i quali portavano i seguenti due proclami:

ITALIA LIBERA

Ormai la lotta nell’interno della città è compiuta. È tempo che le città vicine si scuotano e imitano l’esempio di questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a costituire un consiglio di guerra, che lasci le cose di consueta amministrazione ai Municipj costituiti in Governi Provvisori. Per noi vi è un solo ed unico affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero e le reliquie della schiavitù da tutta l’Italia. Invitiamo tutti i consigli di guerra a limitarsi a questo—Ci sarà grato il ricever loro immediate novelle e intelligenze per mezzo di Commissari che abbiano animo degno dell’impresa.—Noi domandiamo ad ogni città e ad ogni terra d’Italia una piccola deputazione di baionette, che guidate da qualche buon Capitano venga fare una giornata d’assemblea generale a’ piedi delle Alpi, per far l’ultimo e definitivo nostro comento coi barbari.—Si tratta di ridurli coi debiti modi a portarsi immantinente dall’altra parte delle Alpi, ove Dio li renda pure liberi e felici come noi.

VIVA PIO IX.

Dal Consiglio di Guerra in casa Taverna, 21 Marzo 1848.

Cattaneo. Terzaghi. Clerici. Cernuschi.

A TUTTE LE CITTA’ E COMUNI

DEL LOMBARDO-VENETO

Milano vincitrice in due giorni, e tuttavia quasi inerme, è ancora circondata da un ammasso di soldatesche avvilite, ma pur sempre formidabile.

Noi gettiamo dalle mura questo foglio per chiamare tutte le Città e tutti i Comuni ad armarsi immantinente in Guardia Civica facendo capo alle Parocchie, come si fa in Milano, e ordinandosi in Compagnie da 50 uomini, che si eleggeranno ciascuna un comandante e provveditori per accorrere ovunque la necessità della difesa impone.

Ajuto e Vittoria.

W L’ITALIA, W PIO IX.

Entro il circuito del naviglio, non rimanevano a prendersi che il palazzo del Genio Militare, quello del General Comando, e la caserma di S. Francesco, e questi posti, ad eccezione di quello del General Comando, furono le conquiste di questa giornata pei nostri valorosi combattenti. Una lunga serie di editti vengono in oggi pubblicati; alcuni raccomandano la quiete, altri il coraggio e l’unione, altri cercano di regolare la formazione della Guardia civica, ed altri infine vanno pubblicando tutti i nostri vantaggi sul nemico e le circostanze interne ed esterne della città, onde ogni individuo sia istrutto del progresso di questa santa guerra. Ne riferirò alcuni de’ principali a schiarimento della mia storia.

CITTADINI!

I fratelli persistono nell’eroica loro risoluzione.

L’armistizio offerto dal nemico è stato rifiutato. Coraggio e perseveranza; la vittoria è immancabile.

W PIO IX.

I cittadini si sono impadroniti di tutti gli stabilimenti pubblici e delle casse tutte. I detenuti politici sono liberati. La Città è animata dal più vivo eroismo, e va cacciando il nemico alle porte.

Armatevi e venite a soccorrere i vostri fratelli.

FRATELLI!

La vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello ed ai bastioni. Correte; stringiamo una porta fra due fuochi ed abbracciamoci. Dateci intanto notizia di voi e del mondo politico.

VIVA L’INDIPENDEZA ITALIANA VIVA L’EROICA MILANO

CITTADINI!

Il Generale Austriaco presiste, ma il suo esercito è in piena dissoluzione. Le bombe che egli avventa sulle nostre case sono l’ultimo saluto della tirannide che fugge.—I nostri bamboli non cresceranno nell’orrore della schiavitù.

Molti ufficiali si danno prigioni. Interi corpi atterrano le armi avanti al tricolore italiano. Alcuni trattenuti dall’onor militare domandano un istante a deliberare, applicandoci frattanto di sospendere il vittorioso nostro fuoco.

Cittadini, perseverate sulla via che correte. Essa è quella che guida alla gloria ed alla libertà.—Fra pochi giorni il vessillo italico poggerà sulla cresta delle Alpi. Colà soltanto noi potremo stringerci in pace onorata colle genti che ora siamo costretti a combattere.—Cittadini, fra poco avremo vinto. La patria deciderà de’ suoi destini. Ella non appartiene che a sè.—I feriti sono raccomandati alle vostre cure,—per le famiglie povere provederà la patria.

CITTADINI!

I nostri avamposti verso Porta Tosa sono già negli orti della Passione, ove i nostri bersaglieri cominciano a spazzare i bastioni.

Verso Porta Vercellina i nostri sono giunti vittoriosamente sino alle Grazie. Alcuni acquedotti, che passano sotto i bastioni, sono stati asciugati e ci mettono in comunicazione coll’esterno.

Il locale del Genio Militare fu preso dai nostri colla baionetta.

In tre giorni hanno già imparato a battersi come veterani.

Al di fuori cinquanta uomini di Melegnano hanno sorpreso con un’imboscata un battaglione di cacciatori, che credendosi in faccia a un corpo numeroso si diede a precipitosa fuga abbandonando morti e feriti.

Il nemico manca di viveri, gli ufficiali furono visti con pezzi di pane nero in mano.

Il nemico diede un armistizio, certamente per potersi raccogliere e ritirare, ma è troppo tardi. Le strade postali sono ingombre d’alberi abbattuti, la sua ritirata diviene già molto difficile.

Coraggio, avvicinatevi d’ogni parte ai bastioni; date la mano agli amici che vengono ad incontrarvi; questa notte la città deve essere sbloccata da ogni parte.

Alcuni fatti degni d’esser ricordati successero in questo giorno e mi è grata fatica il poterveli riferire, o benevoli lettori.

Porta Nuova. Nella sera del 21 dalle ore 7 alle 10 di notte, moschetti, cannoni, obizzi, razzi e quanto d’infernale il nemico aveva, tutto fu volto a vomitar morte e sterminio nella contrada di Brera, e i nostri prodi gli tengono fronte con soli archibugi da caccia, lo fanno indietreggiare, e lo costringono a rifuggirsi ignominiosamente nel palazzo del Comando Militare. Trascorse alcune ore di continua pugna, i cannoni che, posti avanti alla casa Carpani, sparavan lungo la contrada, furono rivolti verso quella casa e con tre colpi orribili giunsero a spezzarne la porta, facendo cadere tutti i vetri della casa con indescrivibile spavento degli inquilini. Tosto che i soldati furono padroni della casa incominciarono a devastare, a saccheggiare tutti gli appartamenti che trovarono vuoti, per essersi tutti i vicini rifuggiti nell’appartamento Carpani. Entrati poscia in quest’ultimo appartamento fecero soffrire a tutti gli astanti un’ora e mezza di penosa agonia, minacciandoli colle bajonette di passarli da una parte all’altra, mentre un officiale comandante si divertiva suonando dei waltzer sul piano-forte. Vi volle tutta l’eloquenza dei signori consiglieri Riva e Salvetti e della signora Carpani, non che tutto l’oro che avevano con sè tutti gli aggressi per frenare quell’orda di assassini. Nel mentre che alcuni si erano impossessati degli abitanti della casa, e che l’offiziale comandante continuava il suo divertimento, gli altri, scorrendo l’appartamento, fecero un saccheggio generale, e quello che non poterono portar seco, devastarono e distrussero in modo orrendo. Si voleva condur prigione il signor Salvetti, come quello che aveva più denari indosso, ma la moglie, che era incinta, avendolo preso per un braccio, giurò che non l’avrebbe abbandonato. Titubava l’ufficiale nel concedergli la libertà, ma il suono della ritirata che dal vicino Comando Militare si fece sentire, fece ritirare quegli assassini, e la vita fu miracolosamente a tutti salvata.—Il signor Carpani, mal reggendo a quella spettacolosa scena d’orrore, colse il destro di poter fuggire, ed andò a nascondersi arrampicando sulla canna del cammino della cucina, da dove per un’ora e mezza soffrì, sentendo al di sopra le grida di tutta la famiglia che credeva di trovar assassinata. Un suo figlio, con altri trovarono rifugio colla fuga in giardino, sebbene perseguitati da continue moschettate. Altri si salvarono sui tetti, ed altri in cantina.

Porta Ticinese. Verso le ore 5 della sera una mano di soldati irruppe dal dominante bastione di questa Porta, e per la via di un muro di cinta dell’ostiere Fossati, che primo colla moglie fu trucidato, invase la casa posta nel vicolo del Sambuco, num. o 3707, nella quale, trovata la porta aperta, ebbe facile ingresso. Cominciarono a devastare e derubare i pochi arredi del portinajo: indi saliti al primo e secondo piano atterrarono le porte, e trucidate quattro persone le gettarono in corte, gridando: fatevi guarire da Pio IX, e depredate anche qui in quasi tutte le stanze le misere suppellettili, e derubati i pochi danari e le lingerie, unica sostanza degli artigiani che colà abitavano, discesero le scale fino alle cantine dove la maggior parte delle donne s’erano rifuggite; e qui vi senz’altro scaricata una fucilata, colpirono un bambino d’anni tre nelle braccia di suo fratello, egli pure mortalmente ferito; il morente bambino venne poscia barbaramente strappato dalle braccia non più valide del fratello, e gettato sulla siepe della strada confinante.—Pure nella stessa casa vi abitava certo Migliavacca d’anni 43 circa, ammogliato, con due figlie, uomo di specchiata probità, vero e caro padre di famiglia, il quale appena accortosi dei gridi che di subito si sparsero nel vicinato al furioso entrare delle soldatesche, procurò possibilmente di assicurare la propria famiglia chiudendosi in casa, ed opponendo tutta quella resistenza che chiunque avrebbe procurato di tentare nel vedere la propria vita congiunta alle parti più care di sè stesso minacciate da sicura morte. Sua disgrazia volle che vani fossero i suoi sforzi, e riunitisi quei mostri in numero sovrabbondante gli sfondarono la porta; ed appunto per aver loro usato resistenza, appena entrati prima cosa fu di percuoterlo spietatamente ed obbligarlo a chiedere ginocchioni la vita, indi saccheggiarlo di tutto quel poco di meglio che aveva per l’importo di lir. 653, poi risovvenendosi uno di essi che avevano dovuto impiegare qualche fatica per rendersene padroni, senza più riguardo niuno, subito come furia d’averno gli si avventa addosso, e duro freddo qual marmo alle strazianti lagrime della moglie e delle figlie, che quasi fuor di sè stesse dallo spavento chiedevano grazia per l’infelice, gli scaglia un colpo sulla testa e gli altri lo imitano; indi così lo abbandonano estinto al suolo, lasciando gli sventurati suoi cari in uno stato di dolore che ci fa pena il descrivere, bastando il fatto da sè stesso a darne tutto il campo alla considerazione.

A Giovanni Battista Beltrami si deve la salvezza del borgo di Viarenna. Dopo di aver recato soccorsi di vitto e di denari agli abitanti di questa parte della città confinante coi bastioni della Porta, alla testa di pochi uomini eseguì una barricata mobile con fasci di legna, e la spinse avanti l’inimico, il quale vi scaricava contro una grandine di palle ed alcuni colpi di cannone a mitraglia. Infiammati i nostri di furor patrio non temono la morte, e si spingono tanto sotto che costringono l’inimico alla fuga, lasciando tre de’ suoi morti sul campo.—Il Beltrami contribuì ancora alla liberazione di Cittadella.

Narrasi nei citati 200 racconti, che una banda di Zingari scesero verso le ore 11 dalle gradinate verso il tombone di Viarenna, e schierati portaronsi per ispaccare la porta presso il monumento Sforza, quando alzati miracolosamente gli occhi verso il monumento che rappresenta la Madonna del Duomo, e, quasi colpiti da terrore, proseguirono il loro cammino fino alla casa Dacomo, al civico n. o 3577, ove trovata sgraziatamente aperta la porta, si introdussero in numero di nove.—Alcuni dopo di avere spezzato varj usci, si portarono ad ispiare sul tetto se mai vi fossero persone nascoste; altri discesero nella cantina, ed ivi rinvenute nascoste più di venti persone, scaricarono contro loro diversi colpi di moschetto e ne uccisero e ferirono tre. Uno degli uccisori fu ammazzato dai vicini, e gli altri fuggirono.

Porta Tosa. Ad alcuni de’ nostri venne fatto d’uscire dalla città guadando un’acqua che scorre sotto il bastione tra porta Romana e porta Tosa, e di concerto con varj paesani entrarono nella casa dell’osteria delle Asse, dalle cui finestre poi fecero fuoco crivellando di palle anche la casa della Birreria in possesso delle truppe, come abbiamo veduto.

Circa le ore 4 pomeridiane gli alunni e le alunne del Conservatorio di Musica per ordine del loro direttore conte Borromeo furono condotti a ricoverarsi nel palazzo del conte Vitaliano Borromeo scortati da dieci Guardie Civiche. Fino dalla mattina tutti i ricoverati nel Conservatorio, non tenendosi sicuri in questo luogo, erano passati nelle case vicine, e specialmente nella casa Archinto, ove lautamente venivano trattati il signor Prevosto ed i Coadjutori della Passione, le famiglie Cardani e Frasi, e molti altri.

Il casamento del Conservatorio, dietro i progetti proposti dall’ingegnere Grassi, venne destinato a servir di appostamento ai nostri bersaglieri onde tener di colà distratti i soldati dai due lati, ed in tal modo facilitare la presa di Porta Tosa. Quello che avvenne di poi in questo luogo ci viene descritto nei citati Racconti di 200 testimonj, dai quali prendiamo quanto segue:

«A undici ore di notte si radunarono molti patriotti in questo locale per l’esecuzione del suesposto progetto».

«Io con un lumicino accompagnai l’ingegnere Cardani e diversi altri armati di fucili e carabine nel quartiere delle alunne destinate all’uopo; le gelosie delle finestre erano state chiuse tutto il giorno, e nelle diverse scuole e nei dormitorj si apostarono i valorosi.

«Intanto alcuni zappatori diretti dal signor Borgocanti entrarono per la parte della cucina nel giardinetto sotto posto. Io procurai loro una leva di ferro ed altri attrezzi necessarj per aprire una breccia nel muro di cinta; come fecesi colla massima precauzione per non essere scorti dal nemico. L’ ingegnere Cardani, fattosi loro guida li condusse colle scale della Chiesa della Passione, per le ortaglie sui bastioni, ivi furono da noi calate le scale di fuori lungo le mura, onde avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente, e che si dicevano accorsi in aiuto. Sfortunatamente non si vide nessuno, sia però lode egualmente a quelli che progettarono ed eseguirono tale operazione tanto arrischiata ed ingegnosa!»

«Ad un’ora di notte si cominciò dai nostri a tirare contro i militari posti di guardia dietro le piante sul bastione; questi risposero colle loro solite fucilate, poi si videro dei picchetti partire da Porta Tosa e dal borgo di Monforte e venire a schierarsi di dietro le piante su quel punto del bastione, e così a colpi replicati e frequenti d’archibugi si continuò per più di un’ora, quando a un tratto cominciarono le cannonate».

«Un cannone di Porta Tosa, appostato dagli Austriaci in capo alla stradella sul bastione, e un altro al borgo di Monforte nell’atto opposto, cominciarono a tirar contro le finestre del Conservatorio, e ne menarono fiera rovina.»

«Ma Dio vegliava su noi, poichè dei tanti nostri, che per ben cinque ore di seguito continuarono al combattere in questa località, due soli restarono feriti sul detto quartiere delle alunne: uno fu certo Poletti Carlo, che, colpito da una palla di fucile, fu trasportato da prima nella cucina inferiore del Conservatorio, dove gli prestarono soccorso d’ogni sorta, nel che il signor Preposto Radaelli si distinse per carità, coraggio e zelo; quindi fu trasportato al deposito ove morì il 25. Un altro Antonio Donzelli addetto allo studio del signor avvocato Lissoni restò ferito egualmente, mentre l’ingegnere Cardani gli caricava il proprio fucile. Il Donzelli però vive tutt’ora essendogli stata dal chirurgo Valerio levata la palla, e si spera che guarirà. Alcuni de’ nostri più ardimentosi, dalla breccia del muretto del giardino del Conservatorio si spinsero nella prossima ortaglia, e di là sino sul bastione con una scala della chiesa, ma dovettero poi ritrarsi, restandone alcuni morti sotto le palle nemiche.

«Una cosa che ha veramente del miracoloso si è ammirata e si ammira tutt’ora da quanti la videro e la veggano, e si è che, mentre nel detto quartiere delle alunno si raccolsero più di 20 palle di cannone di vario calibro, e alcuni pezzi di palle di obizzi e di razze alla Congréve caduti sul tetto e nel dormitorio dov’erano tutt’ora dieciotto letti coi piumaccini e pagliaricci, pure non vi fu alcun segno d’incendio».

«Di più un quadretto rappresentante la Sacra Famiglia, attaccato alla parete di una stanza, che serviva come sala da lavoro o da ballo alle alunne, dove solevan recitare la terza parte del santissimo Rosario, si vide tutt’ora intatta; mentre una grossa palla di cannone forò la muraglia da parte a parte, e colpì la parete opposta della sala.»

«Varj piccoli quadretti ed acquasantelli posti sopra i letti nel dormitorio si veggono interamente intatti ai loro posti, mentre le pareti a cui sono appesi è tempestata di ogni sorta di palle di fucili e di cannone».

«La cappella del Conservatorio che stava al disotto colle finestre guardanti sul giardino verso il bastione, rimase egualmente intatta, tranne che fu colta da due palle nelle finestre dalla parte della cappella delle alunne; e così pure intatte le finestre della sagrestia della Passione, mentre le altre finestre al di qua e al di là, di sopra e di sotto sulla stessa facciata, furono tutte guaste e ruinate dalle archibugiate e dalle cannonate.»

XI.

22 MARZO (MERCOLEDÌ).

Son giunchi che piegano Le spade vendute: Già l’aquila d’Austria Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, Il sangue Polacco Bevè col Cosacco, Ma il sen le bruciò.

Stringiamci a coorte, Siam pronti alla morte, Italia chiamò.

Mammeli.

Oh giorno memorabile, ultimo della nostra schiavitù, la tua memoria occuperà la più bella pagina della storia d’Italia! Spezzate sono le nostre catene, le nostre vittorie progrediscono, e di mano in mano che i valorosi cittadini petti s’infiammano di quel santo amor di patria, l’avvilimento s’impossessa delle orde austriache, che estenuate di forze mal si reggono in piedi. La notte passò in un continuo all’erta che gridavasi di tratto in tratto da chi stava a guardia delle barricate, e veniva ripetuto da migliaja di voci. Il cannone romoreggiava a Porta Tosa, a Porta Comasina, a S. Celso ed in altri punti importanti dei bastioni, mentre si voleva nella stessa notte stringere il nemico fra due fuochi e dar l’assalto ad una delle porte. Il difetto d’accordo nelle mosse faceva andar a vuoto il disegno. Ordini diversi si succedevano durante il conflitto. Chi gridava: Colle armi a Porta Tosa, chi S’apre la Porta Romana, e simili. Intanto spuntava il giorno sereno e fresco. Una delle prime imprese dei nostri era quella di assaltare il palazzo del General Comando, quando con universal sorpresa fu trovato vuoto, essendosi i soldati che v’erano a guardarlo, vergognosamente giovati dell’oscurità della notte per rifuggirsi in castello. Allora si presero le carrozze di que’ vecchi generali e conducendole nella contrada si formarono delle barricate, come erasi fatto di quelle del Vicerè.—Due obizzi e due razzi si trovarono quella stessa mattina sul balcone dell’attuale Aggiunto nell’ufficio di pubblica Vigilanza signor Grasselli in contrada di Brera.

Più tardi si lessero sugli angoli della città, e si facevano anche circolare i seguenti tre proclami:

CITTADINI!

Milano, 22 marzo 1848.

L’armistizio offertoci dal nemico fu da noi rifiutato ad istanza del popolo che vuole combattere.

Combattiamo adunque coll’istesso coraggio che ci fece vincere in questi quattro giorni di lotta, e vinceremo ancora.

Cittadini! riceviamo di piede fermo quest’ultimo assalto dei nostri oppressori con quella tranquilla fiducia che nasce dalla certezza della vittoria.

Le campane a festa rispondano al fragor del cannone e delle bombe, e vegga il nemico che noi sappiamo lietamente combattere e lietamente morire.

La patria adotta come suoi figli gli orfani dei morti in battaglia, ed assicura ai feriti gratitudine e sussistenza.

Cittadini! questo annunzio vi viene fatto dai sottoscritti costituiti in Governo provvisorio, che reso necessario da circostanze imperiose e dal voto dei combattenti viene così proclamato.

Firmat. Casati, Presidente. Vitaliano Borromeo. Giuseppe Durini. Pompeo Litta. Gaetano Strigelli. Cesare Giulini. Antonio Beretta. Marco Greppi. Alessandro Porro.

CITTADINI!

Mercoledì, 22 marzo.

La caserma di S. Francesco, il palazzo del Comando Militare e la casa del Maresciallo Radetzky sono in poter nostro: è una nuova promessa della nostra vittoria. Sappiatelo per averne la sicurezza che il nostro nemico non può altro che abbandonare la nostra città. Tutto viene ad accrescere la nostra fiducia: ne abbia nuovo stimolo il nostro coraggio!

Viva l’ITALIA-Viva PIO NONO

CITTADINI!

Viene riferito che alcuni travestiti da Prete siano esciti dal castello. Se ne dà notizia perchè si vigili, e ad un tempo stesso perchè i nostri buoni sacerdoti ci rendono il servigio di dare pronti schiarimenti quando ne fossero richiesti.

La spada del maresciallo Radetzky, la spada di sessantacinque anni che fu tinta nel sangue de’ nostri fratelli, è nelle nostre mani, nuovo pegno per ora della nostra vittoria, sarà balocco ai nostri fanciulli.

Sessanta Croati rifiniti dalla fame sono venuti ad implorare la nostra pietà. Eroi nella pugna, noi siamo e saremo generosi nella vittoria. Tutti i molti prigionieri che ci si sono arresi sono da noi trattati come vuole l’onore italiano.

VIVA L’ITALIA—VIVA PIO IX.

Dal Comitato Centrale di Guerra in Casa Taverna, 22 marzo 1848.

Diversi fatti meritevoli di menzione succedettero anche in questo giorno, come vado narrando:

S. Luca, Collegio Militare. Già da tre giorni si dava l’assalto a questo collegio de’ cadetti, quando costretti per mancanza di viveri e di forze dovettero arrendersi. Il signor Severus, direttore dell’istituto, aveva ordinato al maestro Corsich di disporre i 140 alunni sì che sicuri potessero offendere coi fucili e col cannone la gente del popolo inerme che nel secondo giorno della rivoluzione usciva dalle sue abitazioni per provvedersi delle cose di prima necessità. A loro vengono aggiunti 300 cacciatori Tirolesi, e tutti uniti, animati dalle istigazioni del loro direttore, cercano di uccidere a più potere. I soli alunni italiani, che raccapricciavano a tale comando, sono minacciati di 25 colpi di bastone. In questi giorni per non rallentare il fuoco, viene a tutti proibito di portarsi al refettorio, e dal sabato al mercoledì sono nutriti con tre once di pane al giorno. Vedi barbarie del signor Severus, infame satellite di Radetzky!

Verso le ore dodici il marchese Trivulzio, che molto si segnalò in questi giorni, portandosi con un corpo dei nostri per la consegna, fu ferito in una coscia e si dovette trasportarlo alla sua abitazione. I cadetti che appartenevano a famiglie milanesi vennero consegnati a queste, e gli altri si tennero ostaggi nella casa Barbò. Più estese notizie intorno alla presa di S. Luca si leggono nell’altre volte citato libro dei Racconti di 200 e più testimoni oculari.

Porta Nuova. Reduce alla sera il cavaliere Palladini, direttore dell’Ergastolo, dal Governo Provvisorio ove erasi recato per le importanti sue rivelazioni, delle quali si è già toccato più sopra, presentavasi ai portoni di Porta Nuova con due guardie inermi di quello stabilimento, instando perchè qualcuno dei combattenti di quel forte volesse scortarlo. La sera era oscurissima, e benchè corresse voce che dalla caserma di S. Angelo continuava il fuoco ed incessante fosse lo sparo dei cannoni in quelle vicinanze, s’offersero immantinenti e senza tema i cittadini Luigi Rossignoli e N. Perelli. Percorso lo stradone di S. Angelo ed accortisi che la caserma era già abbandonata dalle truppe, tranquillamente proseguirono il cammino. Alloraquando arrivati al viale che mette alla casa di Correzione, d’improvviso vennero scagliati due colpi di fucile alla distanza di circa sei passi di fronte al Palladini ed al Rossignoli, che precedevano gli altri tre del seguito; ma fu volere d’Iddio che ne rimanessero illesi. Imprudenza sarebbe stata l’avanzarsi più oltre per quella strada, stante l’oscurità della sera, e per essere invasa dalle soldatesche, che, come venne a conoscersi, proteggevano la propria ritirata; onde retrocessi d’alcun poco e fatto aprire un’osteria di contro alla caserma di S. Angelo, fu ivi dato ricovero al cavaliere Palladini, che vi passò la notte in compagnia delle sue due guardie, cui il Rossignoli, prima di allontanarsi col proprio compagno, muniva di due buone pistole perchè vegliassero alla difesa del benemerito suddetto Palladini.

Porta Tosa. Il combattimento che fiero e terribile durò in tutti i cinque giorni a Porta Tosa è uno dei fatti più importanti della rivoluzione di Milano. L’impeto poi con cui si attaccava oggi da tutti i punti il nemico, dava a vedere esser questo il giorno decisivo della battaglia. In questo luogo più che altrove la ferocia delle milizie austriache diede le più orrende e turpi prove di sua barbarie. In questo luogo più che altrove il cannone e le bombe, mitragliando e bombardando, portavano lo sterminio a molti caseggiati. Il saccheggio, l’assassinio ed il fuoco dominavano in tutte le case ove potè penetrare il Tedesco; ben nove incendi appiccati nella giornata, entro e fuori della città, rischiaravano talmente la notte precedente il giovedì, che gli abitanti potevano attendere alle loro cure domestiche nel più fitto della notte senza bisogno del lume[43].

In mille modi ci viene raccontato il combattimento di questo giorno a Porta Tosa dai diversi narratori dei fasti delle gloriose cinque giornate.

I punti principali dell’attacco furono dalla parte del Conservatorio di Musica, e dalla parte del Dazio. Io riporterò quanto si legge in proposito al primo nel n. o 4 nel giornale il Lombardo, in quanto al secondo riferirò le parole del dottor Osio nelle sue Reminiscenze, come quello che più s’accorda colle informazioni da me prese sul luogo e da persone che v’ebbero parte.

1. o Dal giornale il Lombardo:

«Frattanto spuntava il mattino del 22 marzo, rallegrato da un cielo sereno. Suonano le cinque, e mentre il Dal Bono muove verso il Conservatorio, i cittadini che il difendevano colti da improvviso timore, fuggendo esclamano: Siamo perduti! Siamo perduti! Intanto duemila Croati, una banda di Tirolesi ed il cannone irrompevano con fragorosi tuoni per atterrare le mura del Conservatorio. Il pericolo era iminente, imperocchè se fosse stato concesso al nemico di avanzarsi più oltre, i cittadini erano presi alle spalle. Ma udita la causa di quella subitanea mossa, e conosciuto il danno che ne sarebbe avvenuto per l’abbandono di quel posto, il Dal Bono con animoso coraggio rincora i fuggiaschi gridando: Chi non è traditor della patria mi segua, e precede intrepido verso il Conservatorio. I cittadini, scossi a quelle parole, il seguono tutti; ed egli gli dispone con molto avvedimento nei siti meno esposti, parte sulle finestre, parte nei cortili, poscia in mezzo ad una tempesta di palle attraversa un terreno per recarsi sotto il muro di cinta vicino al bastione a parteciparvi delle ferritoje. Il suo esempio è seguito da diversi animosi, ed in breve molti fori furono fatti, da dove 20 e più fucilieri mantennero un vivissimo fuoco. Anche dalle superiori finestre le fucilate non cessarono un istante in tutto il giorno. Durante la mischia il Dal Bono accorreva in ogni parte: ei provvide anche alla difesa del tempio della Passione, collocando archibugieri sulle finestre del coro, e nelle prossime case, per modo che i Croati e i Tirolesi non poterono avanzarsi un sol passo, e furono d’ogni banda uccisi e molestati. Fra gli animosi che segnalaronsi in questa giornata vuolsi ricordare un Belgiojoso, abitante alla Guastalla, un Bianchini, cavallerizzo in casa Archinto, un Carlo Bordoni, assistente all’emporio di belle arti, un impiegato del Tribunale, ed alcuni bravi artisti pittori o scultori, il cui nome non ci è conosciuto, ma che ciò non pertanto meritano la riconoscenza dei propri concittadini. Mentre più ferveva il combattimento, alcune guardie di confine insieme ai varj cittadini furono posti dal Dal Bono alla difesa degli orti che stanno a sinistra della Passione. Il coraggioso Luigi Archinto era in questo sito tra i primi, e dopo un lungo alternar di fuoco i Tedeschi dovettero allontanarsi dalla loro posizione, per cui gli abitanti di quelle case, che già da tre giorni mancavano di ogni alimento, furono veduti correre verso i loro liberatori.»

«Sbandato da queste parti il nemico, conveniva scacciarlo anche dal bastione Monforte, ove erasi del continuo mantenuto malgrado l’accanito combattere de’ cittadini, che per la seconda volta impadronironsi dell’antico Palazzo del Governo. Gli abitanti di quelle case erano già ridotti alla massima ristrettezza: mancanti di alimento, la morte volava sopra di loro, se il crudo nemico fosse rimasto vittorioso. Il Dal Bono alla testa di alcuni prodi, che difeso avevano il Conservatorio, corre verso quella parte: innalza una barricata nel mezzo della strada; fa praticare diversi fori nei muri dei giardini di quelle case, ne sottrae gli abitanti, e tale fu l’accorgimento di quelle operazioni che in breve tempo il nemico dovette anche da quivi sgombrare».

«Allora un grido di gioja scorse da ogni parte, perchè finalmente fu veduto compito il grande eccidio. Tutti contribuirono certamente coll’assidua vece della pugna alla libertà della patria».

2. o Nelle Reminescenze del dottor Osio si legge:

«Spuntò finalmente la tanta sospirata alba del giorno 22, alba che era segnata l’ultima pei nostri nemici; si impiegarono le prime ore nell’ispezionare i diversi quartieri di Porta Tosa, a disporre tutto ordinatamente, e verso le ore sette del mattino si cominciò il trasporto dei due pezzi più grossi nella casa di fianco all’Orfanotrofio di fronte al Dazio, di proprietà della città, e data in affitto a certo Stefano Primo. Fu in quella posizione che si cominciò a caricare i nostri piccoli cannoni, ad appuntarli un dopo l’altro rimpetto al Dazio stesso, giacchè nella foga dei nostri desiderj spingevamo l’ardire fino a credere di poterne atterrare la porta, E qui meritano di essere grandemente encomiati tutti quelli che ajutaronmi in questa impresa, mantenendo e l’ordine e la disciplina, e gareggiando ognuno di vero patrio amore, mostrando un freddo coraggio degno dei più valorosi capitani d’armata. Era in tutti una vera gara nell’assicurarsi che il nostro piccolo pezzo fosse bene appuntato, nè il frequente mitragliarci che facea il nemico valea ad incutere il più piccolo spavento, chè anzi ad ogni colpo, che per fortuna andava fallito, anche i meno coraggiosi diventavano arditi, sfidando collo scherno il Tedesco che, e coi cannoni, e coi moschetti, tentava di farci ritirare dalla nostra strategica posizione».

«Intanto varj coraggiosi giovani eransi inoltrati per la porta dell’Orfanotrofio occupandone le ortaglie e le vicine case, mentre altro drappello si dirigeva verso il lato opposto, ed un terzo verso il Borgo della Fontana».

«I primi tiri dei nostri spingardi non furono infruttuosi; l’artiglieria nemica che stava appuntata al Dazio cominciò a ritirarsi verso i bastioni, ed i soldati verso i luoghi da loro barricati[44]; veduto che l’effetto corrispondeva almeno in parte ai nostri desiderj, vennero trasportati i due pezzi più grossi di fianco a casa Besozzi, appuntandone uno per lato, mentre io manteneva la mia posizione coi pezzi più piccoli, ajutato da diverse carabine appostate dietro il muro della casa, appositamente traforato. Fu allora che mi accorsi che la munizione andava scemando, e che lungo sarebbe stato il combattere: spedii quindi due giovinotti con un biglietto a mio padre perchè consegnasse subito loro una provvigione di polvere che mi trovava avere, consistente in once 33 circa. Intanto si continuava il fuoco rispondendo vigorosamente al nemico, il che contribuì non poco ad assicurarlo come eravamo disposti a combattere con tutti i mezzi possibili, ed a sfidarne intrepidi la rabbia. Nello stesso tempo i nostri bersaglieri tormentavano i soldati coi loro colpi mortali, nè più osavano molestarci apertamente, ma solo dietro gli alberi, o dalle barricate del Dazio, e della casa Tragella. Formai in seguito il progetto di trasportare anche i piccoli pezzi per appuntarli alla casa ove stavansi barricati, e che io già conoscevo, ciò che venne effettuato in un baleno, tanto era caldo il desiderio in tutti di caricare il nemico da vicino. Si passò di casa in casa per le praticate aperture; si atterrò pure in quel mentre anche parte della parete di divisione della casa Borsa colla casa Rossi, ove abitava il Bianchi già menzionato; di là passammo silenziosi in giardino, si caricarono i piccoli spingardi, nè saprei dire quanti colpi fossero lanciati, nè con quale vantaggio; questo solo però posso assicurare che lo spavento e la confusione del nemico andava aumentando, ciò che contribuiva non poco ad accrescere il nostro coraggio prorompendo ad ogni poco con unanime grida di vittoria, vittoria, alle quali grida rispondevano pure i nostri fratelli che stavano nella posizione opposta, e tanto ne era l’aere percossa, che in un coll’entusiasmo che tutti ci animava non vedeasi che il fuoco dei fucili, senza sentirne i colpi, e nemmeno dei cannoni che continuavano a fulminarci dai vicini bastioni».

«Appena arrivati nel giardino del Bianchi in casa Rossi, come già si disse, alcuni di noi si appostarono alla porta, mentre altri si portavano, mediante una sdruscita scala a mano, sul solajo del casino Cagnola ivi confinante, posizione fortissima, e la cui inspirazione non so a chi sia venuta primiero».

«Questo è certo che di là si fece una vera strage, non essendo discosti dal Dazio più di ottanta passi circa, e quindi non più di sessanta dai bastioni, ove dietro gli alberi si nascondevano que’ valorosi campioni di marziale aspetto, ne’ quali Radetzky aveva riposte tutte le sue speranze. Su tutta la linea si continuò il fuoco con ordine e regolarità ed intrepidezza, fuoco che non cessò che al cessare della lotta. Divisi in varj drappelli dall’una e dall’altra parte dal Dazio, non che da diversi altri punti vicini, i nostri colpi mietevano molte vite fra il nemico, e ben era facile l’accorgersene dai cadaveri che vedeansi stesi lungo i bastioni, e dalla confusione che andava crescendo in loro. Le barricate stesse non venivano da noi rispettate, chè quando non si poteva mirarli all’aperto, si lanciavano colpi fra le aperture delle stesse, e ben dovettero provarne danni immensi, giacchè visitato il Dazio il giorno dopo, si trovò sparso di sangue ed il terreno e le pareti».

«Sbaragliato un primo corpo di linea, credo del reggimento Reisingher, venne a questi in soccorso un corpo di cacciatori; sempre più animati dai felici successi dei nostri colpi, continuammo il fuoco su di loro, e buona parte dovettero mordere il terreno, o farsi trasportare feriti, e fra questi un ufficiale. Irritati, o meglio spaventati dal vedersi così frequentemente decimati tentarono col cannone di atterrare le porte ove noi stavamo appostati. Ma Dio era con noi! In mezzo al loro cannoneggiar frequente io non esitai punto a barricare la porta dello stesso giardino goduto dal Bianchi, che potea essere facilmente atterrata, perchè debole, e più delle altre esposta ai colpi del nemico. Fu poco dopo che mi recai nuovamente in casa Ratti, premendomi osservare tutti i posti occupati dai nostri; in quel mentre passando per casa Melas una palla da sedici a dieciotto libbre cadeami a pochi passi distante, ammaccando fragorosamente il muro; io la raccolsi religiosamente e la conservo ad eterna memoria, come pure conservo un pezzo di cartoccio di ferro, entro cui i barbari racchiudevano la mitraglia, e che cadea poco distante dal muro ove noi stavamo freddamente a mirarli e colpirli. Fu pure allora che lanciarono contro di noi dei razzi alla Congrève, tentando di incendiare la casa che ci difendeva; ma i razzi produssero poco effetto, giacchè male diretti, uno cadde in un giardino a noi vicino, affatto innocuo, ed un altro in casa Melas appiccando il fuoco in una sola stanza al secondo piano, fuoco che venne da noi stessi spento con pochissimo danno; fu pure in quel momento che maravigliati scorgemmo cominciare il fuoco anche in casa Tragella, ove il nemico stavasi barricato. Su questo fuoco che andava mano mano crescendo si formarono varie congetture, da chi cioè fosse stato appiccato, se dai nostri, o da loro. Certo che i nostri non lo potevano anche quando lo avessero voluto tentare. Erano circa le ore due e mezzo pomeridiane, e sino a quel momento nessuno di noi aveva ancora osato avvicinarsi cotanto. Convien quindi conchiudere che il fuoco sia stato dato da loro stessi, ed in tal caso è forza il convenire che fino da quel momento, disperando della vittoria, vollero suggellare la loro sconfitta con atti dell’innata loro ferocia, devastando e distruggendo in mille modi quanto non poteano rubare».

«Anche il soccorso dei cacciatori fu di nessun danno per noi, mentre essi provarono e perdita e vergogna, poichè, molti di loro feriti e morti, dovettero ritirarsi fuggendo per avere i superstiti salva la vita».

«Nè posso nè debbo tacere come a questi veramente mirabili successi abbiano straordinariamente contribuite quelle barricate mobili, monumento eterno del genio Italiano. Esse avanzandosi lentamente, spinte dai nostri valorosi armati, nel mentre aumentavano lo spavento nel nemico, permettean loro di potere impunemente avvicinarsi, e ferire dietro quei baluardi inespugnabili. Gloria eterna al suo inventore!»

«Animati dalla loro fuga, resi noi arditi anzi che coraggiosi, formammo il progetto di fare una sortita per caricare il restante colla bajonetta in canna, della quale eravamo quasi tutti forniti; ma non appena fatti quattro o cinque passi fuori del giardino del Bianchi, che vedemmo arrivare correndo, dal lato di Porta Orientale, un drappello di granatieri da quattro a cinquecento circa, e che appostatisi dietro gli alberi stavano per colpirci. Ci ritirammo allora di bel nuovo, e rincominciammo l’attacco, non mai scoraggiati, ma sempre più animati di prima».

«Dopo una lunga lotta anche i granatieri dovettero abbandonare il terreno, con perdita dei loro, e nessuno dei nostri, quantunque fossero essi sempre ajutati dal cannone. Ai granatieri vennero in soccorso i Croati, altro drappello di 500 circa, che furono pure completamente sbaragliati. A questo punto, privo di munizioni, avendo consumate circa 150 cartucce, e da 26 a 28 once di polvere pei cannoni, mi ritirai nel centro cercando alcuni fucilieri freschi, e munizioni per me e pei compagni che cominciavano pure a scarseggiarne, promettendo a tutti sicura la vittoria in meno di un’ora. Comparvero subito alcuni giovani coraggiosi che volentieri si prestarono all’invito, e la munizione venne favorita dal benemerito cittadino conte Belgiojoso, della contrada della Guastalla. Feci immantinente ritorno verso le ore sette e mezza, ma il fuoco era già stato dai nostri appiccato alla porta; i soldati dispersi continuavano a tirare su di noi, e coi fucili e coi cannoni, il che non valse a rallentare il nostro valore, e fortunatamente in una lotta così ostinata, e che non durò meno di dieci ore, noi non avemmo a deplorare che la perdita di tre individui e di pochi feriti. Oh! voi tutti fortunati, che combattendo per la patria incontraste una morte invidiata sul campo della vittoria! La patria riconoscente perpetuerà i vostri nomi scolpiti, e li tramanderà gloriosi ai nepoti, perchè, maravigliati dalle vostre eroiche gesta, e dalle vostre virtù, imparino a sfidare il furore del barbaro che tentasse di invadere questa nostra bella contrada, sacrificando e beni e vita anzichè cedere più mai un palmo solo di questa sacra terra, rigenerata ormai col sangue dei prodi».

XII.

LA VITTORIA.

Le lagrime di gioja, i gridi dei bimbi, dei vecchi e delle donne, che si precipitavano nelle braccia dei loro vincitori guerrieri e li baciavano sulla bocca, furono tali e così profondamente sgorganti dall’anima, che per certo gli angeli del cielo se ne commossero, e toccando le arpe d’oro cantarono un inno di grazie all’Eterno per la vittoria conceduta ai loro mortali fratelli d’Italia.

Govean, La battaglia di Legnano.

Era trascorsa di due ore circa la mezzanotte quando quel forte romoreggiare del cannone che doveva coprire la fuga delle truppe del grand’impero, cessò affatto. Il Feld-Maresciallo credette di usare questo nuovo ingegno di sua strategica per salvare la pelle. Chiamò a raccolta tutte le sue truppe e mano mano che faceva il giro di circonvallazione le raccoglieva, facendo trasportare con esse gli innumerevoli morti e feriti, di che il valore dei nostri prodi aveva coperto il terreno.

Prima ad aprirsi fu la Porta Comasina, e vi tenner dietro Porta Nuova, Porta Orientale, Porta Tosa e Porta Romana. La novella della riportata vittoria si sparge tosto per tutta la città. I nostri accorrono al Castello ed alle porte. Un grido di fuori i lumi, i Tedeschi sono andati, vittoria, vittoria, viene ripetuto per tutte le contrade. Tutti vogliono assicurarsi del fatto. Le contrade vanno stivate di gente cittadina e forese che era corsa in nostro ajuto. Qual commoventissima scena di gioja, quegli amici, quei parenti, quei mariti, quei figli, quei fratelli che durante i cinque giorni di lotta non s’erano più incontrati, ora si abbracciano, si stringono insieme, e gridano: Sì siamo vivi, vivi e redenti, cessino le angosce, Viva l’Italia libera! Noi ci siamo battezzati col sangue de’ nostri fratelli. Noi abbiamo giurato sulle loro esanime spoglie mai più Tedeschi, mai più stranieri! L’Italia si è emancipata, essa può far da sè. La patria di tanti eroi, la bella Milano sarà pareggiata all’antica Roma.

Milano è libera e l’inimico sbandato e fuggiasco si muove in due colonne verso Lodi e Bergamo. Il Governo Provvisorio ne dà tosto avviso coi seguenti editti, invitando ancora i nostri prodi a tenergli dietro onde spegnere del tutto quella razza di barbari e d’assassini.

AI PARROCI E A TUTTE LE AUTORITÀ’ COMUNALI.

Il nemico è in fuga da Milano. Diviso in due colonne, si dirige per Bergamo e Lodi. Si provveda quindi con ogni mezzo alla propria difesa, ed alla pronta distruzione dei resti di queste orde feroci.

Il Presidente del Comitato di Guerra Pompeo Litta.

CITTADINI!

Milano, 23 marzo 1848.

Il maresciallo Radetzky che aveva giurato di ridurre in cenere la vostra città non ha potuto resistervi più a lungo. Voi senz’armi avete sconfitto un esercito che godeva una vecchia fama di abitudini guerresche e di disciplina militare. Il Governo Austriaco è sparito per sempre dalla magnifica nostra città. Ma bisogna pensare energicamente a vincere del tutto, a conquistare l’emancipazione della rimanente Italia, senza la quale non c’è indipendenza per voi.

Voi avete trattato con troppa gloria le armi per non desiderare vivamente di non deporle così presto.

Conservate adunque le barricate: correte volonterosi ad inscrivervi nei ruoli di truppe regolari che il Comitato di Guerra aprirà immediatamente.

Facciamola finita una volta con qualunque dominazione straniera in Italia. Abbracciate questa bandiera tricolore, che pel valor vostro sventola sul paese, e giurate di non lasciarnela strappare mai più.

VIVA L’ITALIA.

Si avverte il Pubblico che il Castello debbe essere consegnato agli incaricati del Governo Provvisorio nei modi stabiliti, locchè è ad eseguirsi immediatamente.

Casati, Presidente. Borromeo Vitaliano. Giulini Cesare. Guerrieri Anselmo. Gaetano Strigelli. Durini Giuseppe. Porro Alessandro. Greppi Marco. Beretta Antonio. Litta Pompeo.

Correnti, Segr.

COMITATO DI PUBBLICA SICUREZZA

Milano, 23 marzo 1848.

CITTADINI!

L’opera gloriosa e santa della nostra rigenerazione fu incominciata col coraggio, coronata colla costanza, ma dev’essere perfezionata coll’ ordine.

Per guarentire la Sicurezza delle persone è necessario che certo numero di que’ cittadini, i quali per mancanza di fucili non possono prender parte attiva nei combattimenti, si adoperano a sostenere colla spada e meglio col buon senno gli ordinamenti del Governo e de’ suoi Comitati.

S’invitano perciò quelli che trovansi in tal condizione a recarsi presso il nostro Comitato in casa Taverna per esservi inscritti in drappelli diretti dai già scelti capitani.

Difender le pubbliche carte, gli effetti preziosi, resistere ai malfattori, esser il braccio della giustizia e uffizio onorevole quant’altro mai, perchè esige valore uguale a virtù.

Cittadini! Non è lontana l’ora in cui torni l’Italia a ripigliare l’antico primato fra le civili Nazioni. Iddio è coi buoni, voi riconoscenti alla Provvidenza saprete colla vostra virtù mostrarvi meritevoli di quei miracoli pei quali vedete trasformarsi i fanciulli in giganti, le donne in eroine, e regnar la pace e la moderazione in mezzo ai tumulti della guerra e alle trasformazioni della società.

VIVA L’ITALIA!—VIVA PIO IX!

IL COMITATO

FAVA.—SOPRANSI.—RESTELLI.—LISSONI.—CARCANO.—CURTI.

I Segretarj, Ancona.—Cominazzi.

ITALIA LIBERA W. PIO IX ESERCITO ITALIANO

Milano, 23 Marzo 1848.

I cinque giorni sono compiuti, e già Milano non ha più un sol nemico nel suo seno. D’ogni parte accorrono con ansia dalle altre terre i combattenti. È necessario raccorli e ordinarli in legioni. D’ora in poi non basta il coraggio, bisogna inseguire con arte in aperta campagna un nemico che può trar tutto il vantaggio dalla sua cavalleria, dai cannoni, dalla mobilità delle sue forze; ordiniamoci dunque almeno in due parti; l’una rimanga come fin qui a difendere colle barricate e con ogni varietà d’armi la città,—l’altra, provveduta completamente d’armi da fuoco, e di qualche nervo di cavalli, e appena che si possa, anche di artiglieria volante, esca audacemente dalle mura, e aggiungendo al valore la mobilità e la precisione, incalzi di terra in terra il nemico fuggente; lo raffreni nella rapina, lo rallenti nella fuga, gli precluda lo scampo.

Siccome la sua meta è di raggiungere quanto più presto si può la cima delle Alpi e la futura frontiera che il dito di Dio fin dal principio dei secoli segnò per l’Italia, noi la chiameremo Legione Prima, l’Esercito della frontiera, Esercito delle Alpi.

I difensori della città si chiameranno Legione Seconda, e per uniformarsi ai fratelli e compiere una grande Istituzione italiana: Guardia Civica.

Valorosi, che accorrete a noi da tutte le vicine e lontane terre, unitevi e all’Esercito, e alla Guardia, secondochè l’imperfetto armamento v’impone. Ma unitevi, ordinatevi, ubbidite al comando fraterno. I vostri comandanti saranno eletti da voi.

Suvvia dunque, viva l’Esercito delle Alpi, viva la Guardia della città.

Il Comitato di Guerra Pompeo Litta—Giorgio Clerici—Giulio Terzaghi Cattaneo—Carnevali—Cernuschi—Lissoni—Torelli.

Prima di por termine a questa mia narrazione vorrei conoscervi tutti o valorosi miei concittadini e coraggiose eroine per decantare i vostri nomi ed i vostri trionfi a tutto il mondo[45]. Sì diciamolo, nella nostra Rivoluzione vi fu del prodigioso, del sovrumano, ma vi fu ancora un eroico coraggio, del quale non v’ha esempio nelle storie dell’incivilita Europa. L’Austria è caduta, e con essa l’infame sua politica che s’appoggiava sul raggiro e sulla frode. «Caduta è l’Austria, ripetiamolo con Bianchi Giovini, e noi gettiamoci sopra di lei, pestiamola, calchiamola, stritoliamola. Vendichiamo tutte le infamie della sua polizia, tutte le malvagità del suo ministero, tutta l’ignoranza de’ suoi ministri, tutte le estorsioni, le truffe, le ruberie, i sacrilegi, le immanità consumate nel troppo lungo periodo di trentatrè anni: e affamata, conquassata, sbigottita, balziamola al di là de’ Tarvisj monti e sia maledetta la sua memoria».

Ora che Milano è libero, ma non tutto il territorio, il Governo Provvisorio continua con energici editti a mantenere in noi quell’entusiasmo e quell’eroismo che tanto ci distinse durante i cinque giorni, riportiamo il seguente:

PROCLAMA IL GOVERNO PROVVISORIO.

Milano, 25 marzo 1848.

Abbiamo vinto: abbiamo costretto il nemico a fuggire, sgomentato del nostro valore e della sua viltà. Ma disperso per le nostre campagne, vagante come frotta di belve, raccozzato in bande di saccomanni, ci tiene ancora in tutti gli orrori della guerra senza darcene le emozioni sublimi. Così ci fan essi comprendere che l’armi da noi brandite a difesa non le dobbiamo, non le possiamo deporre se non quando il nemico sarà cacciato oltre l’Alpi. L’abbiamo giurato; lo giurò con noi il generoso Principe che volle all’impresa comune associati i suoi prodi: lo giurò tutta Italia, e sarà!

Orsù dunque, all’armi, all’armi, per assicurarci i frutti della nostra gloriosa rivoluzione, per combattere l’ultima battaglia dell’Indipendenza e dell’Unione Italiana.

Un esercito mobile sarà prontamente organizzato.

Teodoro Lecchi è nominato Generale in capo di tutte le forze militari del Governo Provvisorio. Soldato d’alto nome dell’antico esercito italiano, congiungerà le gloriose tradizioni dell’epoca militare napoleonica ai nuovi fasti che si preparano all’armi italiane nella gran lotta della libertà.

Combattenti delle barricate! il primo posto è per voi. Voi l’avete meritato. La disciplina che porrà regola ma non misura al vostro coraggio, vi farà operare in campo aperto miracoli non minori di quelli per cui già siete divenuti maraviglia e vanto a tutta la nazione.

Ufficiali e soldati, che avete militato negli eserciti del maggior Guerriero del mondo, anch’esso italiano, accorrete a combattere sotto le bandiere della libertà: mostrate d’essere ringiovaniti nella nuova gioventù della patria vostra.

Uffiziali e soldati, che avete stentato sotto l’angoscioso servigio, sotto le verghe dell’Austria, venite a dimenticare il passato, a cancellarlo sotto la bandiera tricolore, che fra breve sventolerà dall’Alpi ai due mari.

Intrepidi montanari e valligiani di Svizzera, che avete or ora deposte le armi impugnate a difesa de’ vostri politici diritti, ripigliatele per rivendicare con noi i diritti dell’umanità.

Generosi Polacchi, nostri fratelli nella sventura e nella speranza, accorrete, accorrete per riconsolarvi nel nostro amplesso, per farvi tra noi sicuri, che tarda a venire, ma pur viene il giorno in cui risorgono i popoli oppressi e si rinnovellano nel puro etere della libertà. Accorrete a combattere il comune nemico: ogni colpo di che lo percuoterete, vi sarà promessa del vostro non lontano riscatto.

Italiani ... oh! voi siete già accorsi; e, stretti nelle vostre braccia, noi ci siamo sentiti più sicuri di vincere.

Prodi di tutti i paesi, venite, venite: la nostra è la causa di tutti i generosi, di tutti quelli che sentono la virtù dei santi nomi di PATRIA e di LIBERTÀ.

Dio è con noi: già ne ’l presagiva Pio IX in quella sua benedizione a tutta Italia: lo dice il popolo nella robusta semplicità del suo linguaggio: lo dicono i sapienti affascinati dai miracoli di quest’eroica settimana: Dio è con noi!—All’armi, all’armi! Vinciamo un’altra volta, e per sempre.

Casati, Presidente. Borromeo Vitaliano—Giulini Cesare—Guerrieri Anselmo Strigelli Gaetano—Durini Giuseppe—Porro Alessandro Greppi Marco—Beretta Antonio—Litta Pompeo.

Correnti, Segret.

Quindi lo stesso Governo si volgeva al Sommo Pontefice Pio IX, a colui che suonò continuamente sul labbro di tutti, come l’iniziatore del maraviglioso rivolgimento politico dell’Italia, implorando la sua benedizione nel proseguimento della guerra dell’indipendenza italiana. Ecco il tenore dello stesso indirizzo:

IL GOVERNO PROVVISORIO DI MILANO

ALLA SANTITA’ DI PAPA PIO IX.

Beatissimo Padre!

La gran causa dell’indipendenza italiana da Vostra Santità benedetta ha trionfato anche nella nostra città. Noi le abbiamo resa testimonianza di sangue; e ne andiam lieti nella speranza che questo sangue sarà lavacro di rigenerazione per noi e per tutt’Italia.

Nel Nome Vostro, Beatissimo Padre, noi ci preparammo a combattere; scrivemmo il Nome Vostro sulle nostre bandiere, sulle nostre barricate; nel Nome Vostro inermi quasi e improvidi d’ogni cosa, fuorchè della santità pe’ nostri diritti, affrontammo i formidabili apparati del nemico; nel nome Vostro giovani e vecchi, donne e fanciulli, lietamente combatterono, lietamente morirono, ed ora nel Nome Vostro apriamo la gioja de’ nostri cuori a Dio che ha vinto in noi la sua battaglia.

Sì, è Dio che in noi ha vinto: lo proclama la gran voce del popolo, che in questa certezza dimentica tutti i dolori del passato e li perdona, mentre pieno di fede contempla nell’avvenire l’avveramento di quelle magnifiche promesse di che prima gli entrava mallevadrice, o Beatissimo Padre, la Vostra sacrosanta parola. Intrepidi nella lotta, noi siamo stati misericordiosi nella vittoria; e devoti al Vostro Nome che suona mansuetudine e perdono, non ci siamo abbandonati all’ebbrezza del trionfo, non l’abbiamo macchiato d’alcuna esorbitanza, e, quanto lo consentono le severe ragioni della guerra, abbiamo rispettato l’immagine di Dio anche nel nostro spietato nemico.

Spietato nella pugna, più spietato dopo la pugna; perocchè, volgendo in fuga dalla città nostra, si gettò sulle terre vicine e fe’ di tutte le campagne dei nostri contorni all’Adda ed all’Oglio un desolato deserto. Violate le Chiese, i Sacerdoti dispersi e martoriati, in fiamme i casali, gli abitatori taglieggiati, assassinati: carnificina e saccheggio per tutto. Ed anche a noi spietato, pur dopo averci lasciati tanti segni della cieca ira sua: perocchè trascinò con sè molti nostri concittadini che aveva già nei dì della lotta soggettati ad ogni obbrobrio, ad ogni martirio di servitù, Magistrati riguardevoli, giovani nel fior della vita e delle speranze, padri, mariti, figli. Sulla sorte loro noi viviamo in ansietà dolorosissima, sapendoli alla balía d’una sfrenata soldatesca e di sgherri ancor più sfrenati. Ah! queste son tali angoscie che ci avvelenano anche la gioja della vittoria. Ma coll’averla deposta nel cuor paterno della Santità Vostra, ci sembra sentircela già disacerbata, massime che il pensier nostro corre già a vagheggiar la speranza che in pro’ di questi nostri disfortunati s’interporrà, Beatissimo Padre, la Vostra sacrosanta autorità, la Vostra parola propiziatrice.

Intanto, forti del nostro diritto suggellato dal sangue de’ nostri combattenti, forti dell’ajuto che ci presta, da noi domandato, il magnanimo Re di Sardegna, forti del Vostro Nome, noi ci prepariamo a proseguir quella guerra a cui non può metter fine che la completa conquista dell’indipendenza italiana. Sinchè ferve la guerra contro il comun nemico, solleciti di mantener l’ordine, più necessario dentro, quando si combatte fuori, noi provvederemo insieme ai governi provvisorj di altre città di Lombardia sgombre dall’austriaco e con noi affratellate, che dissidj non sorgano sulla forma politica a cui debba comporsi questa nobil parte della gran Patria italiana. A causa vinta, la Nazione deciderà; e certo avrà per noi gran peso l’esempio degli altri nostri fratelli, dacchè siamo fermamente risoluti di rivolgere tutti gli sforzi nostri a rendere più saldi i legami dell’unica unità, senza cui l’Italica indipendenza non sarà mai.

Ma ora si tratta di combattere, si tratta di ricacciare oltre le Alpi il comun nemico d’Italia, quel nemico che contristò anche il paterno Vostro cuore, o Beatissimo Padre, e osò fare del Vostro Nome un segno di contraddizione e di scandalo. Or dunque a Voi ricorriamo come al primo Cittadino d’Italia, come all’iniziatore di questo gran moto che i volonterosi condusse e trascinò i repugnanti, come al nostro padre, come in Cristo che francò tutte le nazioni della terra. Aggiungete alla forza delle nostre armi la forza delle Vostre benedizioni: benediteci nell’effusione della Vostra grand’anima, come avete già benedetto a tutt’Italia: benediteci nella pugna per benedirci nella vittoria: vittoria finale che farà sorgere una voce sola a gridare dall’Alpi ai due mari:

Viva l’Italia libera ed una. Viva Pio IX.

Milano, il 25 Marzo 1848.

Casati, Presidente. Borromeo—Durini—Litta—Strigelli—Giulini Beretta—Guerrieri—Greppi—Porro.

Il Sommo Pontefice in seguito ai felici successi della Lombardia indirizzava ai popoli Italiani le seguenti parole:

PIVS PP. IX.

AI POPOLI D’ITALIA

SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZIONE.

Gli avvenimenti che questi due mesi hanno veduto con sì rapida vicenda succedersi e incalzarsi non sono opera umana. Guai a chi in questo vento, che agita, schianta, e spezza i cedri e le roveri, non ode la voce del Signore. Guai all’umano orgoglio se a colpa o a merito d’uomini qualunque riferisse queste mirabili mutazioni, invece di adorare gli arcani disegni della Provvidenza, sia che si manifestino nelle vie della giustizia o nelle vie della misericordia: di quella Provvidenza, nelle mani della quale sono tutti i confini della terra. E Noi, a cui la parola è data per interpretare la muta eloquenza delle opere di Dio, Noi non possiamo tacere in mezzo ai desiderj, ai timori, alle speranze che agitano gli animi dei Figliuoli Nostri.

E prima dobbiamo manifestarvi, che se il Nostro cuore fu commosso nell’udire come in una parte d’Italia si prevennero coi conforti della Religione i pericoli dei cimenti, e con gli atti della carità si fece palese la nobiltà degli animi, non potemmo per altro, nè possiamo non essere altamente dolenti per le offese in altri luoghi recate a’ Ministri di questa Religione medesima. Le quali, quando pure Noi contro il dovere Nostro ne tacessimo, non però potrebbe fare il Nostro silenzio che non diminuissero l’efficacia delle Nostre benedizioni.

Non possiamo ancora non dirvi che il ben usare la vittoria è più grande e più difficile cosa che il vincere. Se il tempo presente ne ricorda un altro della storia vostra, giovino ai nipoti gli errori degli avi. Ricordatevi che ogni stabilità e ogni prosperità ha per prima ragion civile la concordia: che Dio solo è Quegli che rende unanimi gli abitatori di una casa medesima: che Dio concede questo premio solamente agli umili, ai mansueti, a coloro che rispettano le sue leggi nella libertà della sua Chiesa, nell’ordine della società, nella carità verso tutti gli uomini. Ricordatevi che la giustizia sola edifica; che le passioni distruggono: e Quegli che prende il nome di Re dei Re, s’intitola ancora il Dominatore de’ popoli.

Possano le Nostre preghiere ascendere nel cospetto del Signore e far discendere sopra di voi quello spirito di consiglio, di forza e di sapienza, di cui è principio il temere Iddio: affinchè gli occhi Nostri veggano la pace sopra tutta questa terra d’Italia, che se nella Nostra carità universale per tutto il mondo Cattolico non possiamo chiamare la più diletta, Dio volle però che fosse a noi la più vicina.

Datum Romæ apud S. Mariam Majorem die XXX Martii MDCCCXLVIII, Pontificatus Nostri Anno secundo.

PIVS PP. IX.

Tosto avuta in Torino la nuova del fortunato esito della nostra rivoluzione si ordinò per il giorno 24 dello stesso mese di marzo la celebrazione di un solenne Te Deum nella cattedrale di quella città, cui intervennero S. M. il Re colla R. Famiglia e la Corte, li Supremi Magistrati, il Corpo di città e le regie Università. La Deputazione Lombarda ebbe un posto distinto. Durante la funzione si sentiva un continuo e forte cannoneggiare, e le truppe schierate sulla piazza fecero i fuochi di parata; quindi S. M. con lo Stato Maggiore passò la prima rivista alle 24 compagnie della Guardia Comunale. Alla sera vi fu splendidissima illuminazione per tutta la città, che venne rinnovata la sera vegnente.

A un’ora dopo mezzo giorno della domenica, giorno 26, arrivò fra noi la milizia Sabauda fra le acclamazioni di un popolo esultante che affollatissimo si era portato alla Piazza d’Armi e fuori del Sempione per incontrarla, sebbene il cielo mandasse dirottissima pioggia. V’era pure la nostra Milizia Civica, divisa già in varj drappelli ed in buon numero schierata nei due lati della strada a fare il presentat’arm’. Alcune gentili signore non poteronsi tenere dall’allungare le loro graziose manine e porgere delle coccarde tricolori a que’ garbati ufficialetti, che con molta eleganza se le mettevano sul cuore unite a quella dell’amato loro Sovrano. Le grida di Viva i fratelli Piemontesi, Vivano i Prodi Lombardi, Viva l’Italia libera, venivano contraccambiate tra gli spettatori e gli arrivati.

Lo stesso Carlo Alberto, alla testa di altro poderoso esercito partiva nel medesimo giorno coi Figli, dopo d’aver raccomandati la Regina, la Duchessa ed i Principini alla Guardia Nazionale. Il nobile disinteresse di questo magnanimo Principe, che abbandonò così spontaneo la deliziosa sua reggia per combattere il comun nemico alla testa delle sue truppe, e divider con esse gli stenti della guerra, gli acquistò tanta simpatia nei cuori di tutti gli Italiani e particolarmenle dei Lombardi, che tanto valorosi quanto generosi gli stanno preparando un premio condegno al suo merito. Egli non degenera da quella dinastia veramente italiana, che pel corso di nove secoli vegliò sempre a difesa dell’Italia.

Viva il magnanimo e potente Carlo Alberto, la prima e più valorosa spada nella guerra per la libertà d’Italia!

Venezia, Modena, Reggio, Parma ed altre città inviarono successivamente al Governo Provvisorio, e le più per mezzo di Deputati, indirizzi o di adesione, o di congratulazione, o di fratellanza italiana. Il Governo com’era suo debito rispose loro, e nelle risposte espresse la sua riconoscenza e dichiarò i suoi principj, le norme della sua condotta e le sue speranze sull’avvenire. Tanto gl’indirizzi quanto le risposte furono fatti pubblici per mezzo della Gazzetta officiale.

Pubblichiamo, come documento istorico comprovante un titolo alla stima dei Milanesi, il seguente indirizzo dell’Autore delle Melodie Italiche, reputandolo opportuno a tramandare la memoria di un fatto degno di vivere nella memoria di quanti hanno cara la virtù della gratitudine, il quale spetta al giorno 23 del marzo.

AI VOLONTARJ GENOVESI.

CAPITANATI DA G. DE CAMILLI

E PRECURSORI DEI MILITI ITALICI IN MILANO

Fratelli!

I Lombardi superstiti agli stenti e ai lutti dell’esiglio, quando nella durata di una generazione fecero le due prove per ricuperare un bene, che la forza e la frode dei successori dell’Enobarbo resero infauste, il bene perduto, ma pur sempre caro e sacro retaggio di memorie e di speranze inalienabili, que’ nostri diletti ritornando al supplice desiderio dei rimasti leali alla patria nel posto loro fisso, come a Geremia, tra le desolazioni cittadine, narrarono colla gioia del pianto, che l’astro dei naviganti scorgevali a scampo dalle carceri e dai patiboli del nemico sulla spiaggia di quel mare dove Cristoforo Colombo imparò a governare la vela e il timone per iscoprire le stelle e le isole divinate dall’Alighieri e dal Petrarca nel cielo e nell’oceano dell’Atlantide. E parlavano di voi, magnanimi Liguri, colla esultazione della gratitudine, raccomandandoci la malleveria dì un debito, che non avremo pur sciolto, se compartecipi non siate di ogni nostro titolo alla stima delle nazioni, voi primi venuti all’impresa della fede e dell’amore col generoso fuoruscito, che salutammo l’araldo di giuliva novella, mentre apparve guidandovi ad esaltare il Signore degli eserciti sulle mille trincee, portentosi altari di testimonianza degli oppressi, fatti lioni di Giuda, contro i violenti.

Di quanto sangue grondassero per molte età le tolde di quelle galere, che si contendevano il commercio del Mediterraneo per istipendiare coi tesori dell’Oriente le bande depredanti e struggenti i figli di una stessa madre, quando le tracotanze degli stranieri si avvantaggiavano delle nefande discordie, noi più non rammenteremo: giacchè la fonte delle lagrime fu esaurita da tanta espiazione; e scese il perdono coll’angelo sterminatore dei barbari nel campo di Legnano, annunciandoci le giornate della giustizia riparatrice; e disse al primogenito popolo dell’ultima alleanza, pari all’eletto dell’antica:—cingi ai fianchi sul lucco la daga degli avi, e col bordone de’ Romei ti appresta a seguire la fase dell’Onnipotente per celebrare nella valle di Pontita la pasqua della liberazione, sedendoti nel cenacolo, in cui si confermi dal re de’ nostri sacrificii la religione di un patto statuente l’emblema di propizio avvenire.

E voi sapete, ospiti cordialissimi dei profughi, che il lituo di Pio era operatore di miracoli come la verga di Mosè per ricondurli alle liete imbandigioni di quel convito, disserrando i termini fìssi dal Faraone teutonico alla cattività dell’abbominio. Inesorabile l’odio de’ suoi ministri alla vocazione del nostro destino, ebbe la pena delle tenebre misteriose, mentre le tribù dei militi votivi al martirio consumatore della tirannide ivano nello splendore sfolgorante dal labaro del riscatto; e simili ai Cherubini veglianti l’arca primitiva le immagini di Ambrogio e di Galdino, domatori delle esorbitanze imperiali di Teodosio e di Federigo, precedevano i passi della nostra vittoria. E ai pargoletti chiedenti nel dì delle grazie, perchè le rombe a stormo delle squille innanzi chiamanti al pericolo espandessero allora i placidi suoni del giubilo, i vecchi rispondevano:—ecco il dì della perenne ricordanza, nè opere servili lo profaneranno più mai nel paese dei grappoli e delle spiche, il paese archetipo della redenzione di ogni popolo.

Dolce la lode degli antenati al cuore dei posteri meritevoli di serbarla negli inni della tradizione, se come voi, o nepoti dei prodi propulsatori delle ostili masnade dopo un secolo ricacciate da noi, abbiano una fama loro propria, che stia nel firmamento qual luminare senza tramonto: ma gli asterismi sono storici monumenti, in cui si effigiarono i fatti ordinatori del mondo morale, simboli eterei dei volghi d’Italia, che staranno, come quelli dello zodiaco, permanenti nella individualità di un nome e di un’orbita con armonia di evoluzioni successive e simultanee intorno al sole, occhio sol egli della Provvidenza per noi.

Benedetta la luce di raggi moltiplici ed una vita della materia e dello spirito, elemento originario dell’universo, che il Verbo creatore mise nell’abisso delle cose, e salvatore in quello delle idee! La prima fiaccola figurativa di questa luce per l’orizzonte civile fu locata da voi, abitatori di Genova, sul culmino dell’Apennino, nella notte della veglia dell’armi trionfatrici degli oppressori:—all’erta, gridarono le vedette, accendendone di giogo in giogo sino alle vampe del Vesuvio e dell’Etna: all’erta, ripetevano le scolte delle Alpi, udito il tuono balenante di meteora boreale, fausto presagio delle battaglie degli umili debellatori dei superbi; e si compiranno da quel Giosuè, che le arpe dei leviti e le danze delle vergini accompagneranno col cantico del passaggio dove gli eroi dell’antico carroccio santificavano la terra della seconda promissione per giurarvi la legge perpetua della evangelica fratellanza, su quel campo di maggio, nel giorno XXIX, che ricordi l’anniversario del 1176. E là vi stringeremo la destra, che impugnava per noi il brando del sacrificio, acclamandovi concittadini per iscolpire i vostri nomi nei fasti della Insubrica regione.

Il 12 aprile, 1848.

NOTA

INTORNO ALCUNI DISTINTI INDIVIDUI

Vado riepilogando in quest’ultima nota i nomi di alcuni cittadini che si distinsero con prove di valore, e d’inaudito coraggio sfidando intrepidi le palle nemiche e dirigendo col senno la gran causa nazionale. Cari ci suoneranno mai sempre i nomi dei sacerdoti Volonteri Giuseppe, cappellano di S. Celso, che liberò dai Croati la caserma di S. Apollinare; di Besesti Giovanni, coadiutore nella parrocchia di S. Calimero, uno dei valorosi che sprezzarono ogni pericolo per accorrere incuorando gli animi ove più vivo ferveva il combattimento, per disporre l’occorrente alla difesa delle barricate, per prestare asilo alle famiglie che fuggivano dalle case devastate dal cannone, per contenere la sfrenata licenza dei Croati.—D. Pietro Mauri, di cui abbiamo già fatto cenno alla pag. 124, ed ora aggiungeremo che fu veduto sul tetto della chiesa di S. Tommaso colla croce e colle tegole, gridando ed eccitando i cittadini alla difesa ed all’offesa; precedere impavido il trasporto de’ morti; e per ultimo andare di guardia ambulante col marchese Pallavicini e l’avvocato Turati dal castello all’Arco del Sempione la sera del 23.—Il Prevosto di Missaglia, signor de Gaspari, che fino dal primo giorno dell’insurrezione milanese arringò la popolazione incitandola ad armarsi e ad accorrere in nostro ajuto.—L’abate Malvezzi (conosciuto pe’ suoi lavori letterarj ed artistici) che molto si adoperò nel suo ministero, somministrando gli estremi conforti ai feriti, accompagnando i feriti ed i morti all’ospedale e sorvegliando alla formazione ed alla custodia delle barricate. (V. quanto di lui si scrive ne’ Racconti di 200 e più testimonj oculari ).

La Gazzetta di Milano ci ricorda degni di memoria e di cittadina riconoscenza gli ingegneri Silvestri, Zambelli e Villa; gli aggiunti Locatelli e Pensa; il capo-macchinista Giovanni Miani, ed i macchinisti Kling, Thyss, Callin, Vergottini, Tohnson, Faenza e Giuseppe Miani; tutti i conduttori della strada ferrata Lombardo-Veneta, i quali, scoppiata appena la Rivoluzione Milanese, inalberarono fin dal primo giorno ad esito incertissimo il colorito vessillo della libertà, animando in tal modo i campagnuoli ad armarsi per Milano, indi percorrendo giorno e notte la linea della strada ferrata da Treviglio sino alla cascina Ortiglia e viceversa, condussero gratuitamente nei cinque giorni successivi più di 30,000 foresi in sussidio della Lombarda Capitale. Questi generosi spendevano giornalmente più di duemila lire italiane in fare procaccio di pane, di polvere, di piombo, e convertirono in appuntate aste i picconi e gli altri stromenti che avevano nei magazzini. Essi raccoglievano, copiavano e diffondevano i diversi avvisi mandati fuori, per mezzo dei palloni volanti, dal Governo Provvisorio, e raccozzavano i numerosi campagnuoli, condotti con le strade ferrate, a Calvairate, li fornivano di vettovaglie, danaro e munizioni, e li guidavano verso i bastioni rispondenti al borgo di Monforte, e verso i bastioni tra Porta Romana e Porta Tosa, acciocchè il nemico (trovandosi tra i due fuochi dei Milanesi e dei Campagnuoli) avesse a sgombrare.

Bassi Eugenio e Famboli Antonio, ambidue studenti, alle ore 10 del giorno 21, armati salirono la mura tra Porta Ticinese e Porta Vercellina, entrando in città dal borgo di S. Calocero, per dar notizie dell’armamento della campagna.

Battistotti-Sassi Luigia. Quest’eroina, d’anni 24, nativa della Stradella in Piemonte, ed abitante al Cavo della Vettabia, dal giorno 18 marzo fino al 22 combattè in abito virile come fuciliere nella compagnia de’ Volontari sotto gli ordini del comandante Bolognini. Fu essa la prima a costruire barricate nel suo quartiere abbattendo alberi. Strappata di mano ad un soldato una pistola obbligò altri cinque d’arrendersi, e li fece accompagnare nella Caserma de’ Finanzieri a S. Michele alla Chiusa. Quindi stretti al seno i figli e dato un addio ai congiunti, volò il giorno 19 col marito a dare ajuto ai combattenti, ed un esempio nuovo alle sue pari. A colpi di carabina uccise di piè fermo Croati e cacciatori tedeschi, ed insieme a tutta la compagnia avventossi sul nemico arrestandolo ed inseguendolo sino al bastione di Porta Ticinese sotto una pioggia di palle che dal campanile di S. Eustorgio cadevano sul bastione tra Porta Ticinese e Porta S. Celso. Al borgo di S. Croce arrestò tre guardie della cessata Polizia e le condusse in casa Trivulzio a S. Alessandro. Recatasi al borgo della Fontana, sostenne unita a varii Pompieri, una lunga fucilata contro i Croati colà stanziati. Questa valorosa donna non depose mai le armi se non per portare farina in città dal vicin mulino di Porta Ticinese con grandissimo rischio della sua vita. Per tutti questi suoi meriti verso la Patria, fu dal Governo Provvisorio, in un col prode Sottocorno, rimunerata con una pensione.

L’eroico coraggio della Sassi merita un posto distinto negli annali di Milano come fatto straordinario e prodigioso.

Belloni. Fra i valorosi delle cinque giornate sono meritevoli di speciale ricordo i quattro fratelli Belloni e i loro compagni. Il 18 marzo furono tra i primi a costruire barricate, gittandovi in copia i materiali dei propri magazzini, e facendo lavorare i propri dipendenti. Il 19, avvertiti dal Birigozzi che ferveva la lotta in vicinanza di S. Celso, accorsero colà, e la sostennero animosamente. Poscia ingaggiarono accanito combattimento contro le guardie di Polizia, della cui caserma s’impossessarono il giorno 21. Il 22 ebbero parte nell’occupazione della caserma di S. Francesco, e poi recatisi nella contrada di S. Giovanni sul Muro, di là fecero fuoco sui cacciatori Tirolesi e li obbligarono ad abbandonare il Foro, ed essendosi Luigi Belloni spinto, dopo il mezzo dì dello stesso giorno 22, sul bastione tra Porta Ticinese e S. Calocero, in compagnia solamente di Bellovesi, Fumagalli, e di Antonio Muzziani (il quale era pieno di coraggio, ma privo di arme), si trovò in breve ora soccorso dai fratelli, che avevano con sè alcuni tiratori muniti d’archibugio, e parecchi individui senz’armi diretti dal commerciante Ruffatti. In un baleno tagliarono una dozzina di alberi, e sotto il fuoco dei Tedeschi, in faccia a loro sul bastione, e di pieno giorno eressero due barricate, le tennero per più di tre ore, e così ebbero mezzo di calare dalle mura della città alcuni portatori di importanti dispacci del Governo Provvisorio. In quella posizione fecero prigionieri dodici soldati dell’ex reggimento dell’arciduca Alberto, dai quali seppero che il nemico si apparecchiava a partire dal Castello, e per conseguenza da Milano in quella medesima notte. In quasi tulle queste fazioni ebbero a compagni, oltre ai già nominati, anche Antonio Tamburini, Carlo Chiodoni e Francesco Menghini. Facevano poi l’ufficio di esploratori il Muzziani sopra detto, un Ambrogio Leccardi, un Natale Fabbrica, ed un Carlo Gianbellini, che per grave ferita si dovette ritirare.—Onore ai Valorosi.—Dal 22 Marzo, n. o 51.

Calati Carlo, oste di Corsico, superò due volte le mura in mezzo al moschettar dei nemici per portare notizie al Governo Provvisorio.

Cazzamini Andrea, ingegnere, di Oleggio provincia di Novara, giovine di ottima ed agiata famiglia. Questi dopo di essere stato in varj punti della città con altri de’ nostri prodi nei primi quattro giorni della rivoluzione, nell’ultimo si unì a quelli che entrarono nello Stabilimento dell’Orfanotrofio maschile, ed attraversati alcuni giardini si portarono in vicinanza al bastione di Porta Tosa. Ivi il Cazzamini fece prodigi di valore, avendo, al dire di un suo compagno, uccisi più di trenta de’ nostri nemici, e sempre noncurante della propria vita, perchè tutto intento alla sant’opera della liberazione, fu colpito da una palla di fucile. Ferito mortalmente, venne trasportato nel detto Stabilimento, ove, nonostante le cure prodigategli, dopo ore ventiquattro dovette morire, benedicendo con l’ultime parole, prima di chiudere gli occhi per sempre, Iddio che gli aveva lasciato vedere la città liberata dalla presenza de’ suoi iniqui oppressori.

Curti Ambrogio. Fra gli episodi della nostra rivoluzione, quello va ricordato specialmente in cui figura l’avvocato Pier Ambrogio Curti, membro del Comitato di pubblica sicurezza. La mattina che il palazzo del Tribunale Criminale fu evacuato dal presidio austriaco, e che i detenuti politici furono posti in libertà, nel parapiglio erano state forzate le porte degli stanzoni carcerarj. Trovavasi l’avvocato Curti nella corte del palazzo Criminale quando ad un tratto vide una turba di detenuti, ancora coperti dalle carcerarie schiavine, lanciarsi fuori dalla terrena Guardina, e muniti di grossi bastoni e sassi tentar l’evasione. Coraggiosamente vi si oppose il Curti armato di pistola e squadrone, se non che que’ detenuti alla di lui voce non fecero resistenza, ma d’un tratto si buttarono ginocchioni e colle mani giunte baciando la terra imploravano la libertà, promettendo si adoprerebbero alla difesa della patria. Fu risposto dal Curti che sarebbe provisto perchè fossero più presto spicciate le procedure, e che intanto si ritirassero ne’ loro camerotti. Quegli sgraziati si lasciarono per allora ammansare, forse anche intimiditi pei sorvenuti borghesi armati, onde di bel nuovo vennero rinchiusi nelle carceri. Fu tosto provveduto con organizzarvi una guardia stabile. (Dal Lombardo.)

Dunant, profumiere. «Il 18 marzo di eterna memoria, al comparire della prima sommossa, che dal palazzo del Municipio recavasi a quello dell’ex-Governo, il Dunant spiegava una bandiera tricolore di seta. Questa era la seconda che compariva in mezzo al popolo, e fu tale l’entusiasmo destato a quella vista che tumultuosamente la turba se ne rese padrona; nello stesso tempo fece gettare dalle finestre della sua abitazione che danno sul Corso gran quantità di coccarde nazionali, già ivi preparate, le quali vennero pure con gran giubilo raccolte, poste nei cappelli e portate con pompa alla testa dell’attruppamento.»

«Siccome poi la Galleria poteva e doveva essere sotto ogni rapporto un punto di mira pel nemico, il Dunant mise in opera tutto il suo sapere per fortificarla, e renderne mortali al Tedesco gli accessi, e in un col concorso degli altri inquilini questo edifizio si vide trasformato in una quasi inaccessibil fortezza.»

«Oltre il numeroso personale addetto al proprio stabilimento, lo stesso radunò molti altri individui, che ben forniti d’armi da fuoco e di munizioni appostò ai balconi di sua abitazione nel piano inferiore della Galleria verso la facciata. Tali disposizioni si accordavano con quelle prese da altri inquilini, e già presentavano al nemico una difesa validissima. Intanto il Dunant collocava ad un piano superiore una batteria infernale di nuovo genere, consistente in ben cinquecento libbre d’acido solforico distribuito in varj recipienti da versare e scagliarsi sul nemico e sui loro cavalli da una numerosa vicinanza. Questo liquido micidiale avrebbe fatto strage dei combattenti Tedeschi. I cavalli colpiti sarebbonsi impennati e volti in fuga, precipitando cavalieri e cannoni sulla truppa medesima che doveano proteggere.»

«Preservata in tal modo la Galleria da ogni nemica invasione, gli uomini raccolti dal Dunant si sparsero per la città, volando a combattere dove più urgeva, e al dir loro, fecero gran strage di Austriaci. Anzi quattro di essi, seguendo le loro orde fuggitive, sono partiti per andarli a combattere in aperta campagna.»

«Nelle cinque giornate di blocco lo stesso Dunant dirigeva un’organizzata corrispondenza areostatica nella Galleria medesima per mezzo di palloni, e fra questi uno di forma colossale adorno di quattro bandiere a tre colori, rinchiudente gli Avvisi che giornalmente faceva pubblicare il Governo Provvisorio intorno agli avvenimenti della città. Ne fece anche stampare degli altri separati in caratteri grandi ed intelligibili ad ogni villico, e tutti convenientemente collocava nei palloni, e poscia li spediva traverso le linee degli assedianti portatori della nostra corrispondenza ai campagnuoli, facendo sventolare nel libero aere sulla testa dei primi l’italiana bandiera.»

«In mezzo ad un vivo fuoco d’artiglieria, ed affrontando ogni specie di difficoltà e pericolo, pervenne Dunant a trasportare sul Duomo un grandioso stendardo tricolore fisso alla rispettiva asta, il quale precedentemente era stato dal popolo portato in trionfo intorno alla piazza, e benedetto dal sacerdote Luigi Malvezzi. Questo stendardo fu dal Dunant inalberato in faccia all’inimico sulla sommità della guglia maggiore di fianco alla statua della Madonna. Questo fu il primo vessillo nazionale che siasi veduto sventolare anche da lontani paesi, in quelle cinque giornate, sulla Cattedrale; avendo rispettabili persone ivi addette dimostrato l’insignificanza di altre due banderuole bicolori, cioè bianche e rosse, che con la maggiore facilità furon trasportate per la scaletta interna e collocate ad un ripiano inferiore alla posizione dello stendardo innalzato esternamente a vista e sotto le cannonate dei torrioni del Castello[46].

« Riassumendo quanto sopra oprato in piena luce, e dettagliato nei relativi documenti in mano del Governo, che confermiamo veridici in tutte le loro particolarità, risulta:

«Che Dunant coraggiosamente prese parte attiva e significante alla rivoluzione fin dal suo scoppiare, sebbene incertissimo e pericoloso fosse l’esito della prima sommossa, e dopo dato uno dei più significanti segnali della rivolta efficacemente la sostenne;

«Che personalmente, con mezzi pecuniarj e cogli individui al suo servizio contribuì ad una valida difesa, indi all’attacco, alla sconfitta ed all’inseguimento delle orde austriache».

«Suoi scritti, i palloni e la gran bandiera tricolore sul Duomo, non poco dovettero eccitare ed incoraggiare i circonvicini paesi a muovere in ajuto della città».

«Finalmente fu quello, che al cospetto dei barbari, dava ben alto nel cielo il segnale della vittoria del popolo milanese, proclamava il trionfo della libertà sulla tirannia ed il risorgimento della civiltà; che in mezzo alle palle ed alle bombe piantò il primo stendardo della nazionalità e della gloriosa indipendenza d’Italia tutta».

Leoncini Antonio, pregato che si tenesse dall’assalire il Castello assiepato di Tedeschi, rispose: Lasciate fare, le palle non ci toccano: portiamo in fronte il nome di Pio IX.

Il capitano Manara Luciano prese ed incendiò la Porta Tosa, difesa da sei pezzi di cannone.

Meschia Giovanni, lattivendolo di Porta Ticinese, va distinto tra i più valorosi combattenti delle barricate durante i cinque giorni. Egli tormentò il nemico ora in Viarenna, ora al bastione, uccidendo alcuni cannonieri sull’atto che stavano per dare il fuoco al loro micidiale istrumento. Apportatosi dietro un camino sul tetto, davanti al campanile di S. Eustorgio, uccise con dieci colpi altrettanti soldati che s’erano impadroniti di quella torre, e da dove moschettavano sopra i cittadini. Il suo ritratto viene egregiamente descritto nella seguente sestina tolta da una poesia fatta in suo onore:

Si chiama questo tal Meschia Giovanni, E vende il latte a Porta Ticinese, È grande di persona ed ha trent’anni, Se non sbaglio però di qualche mese, È snello, pronto, ardito molto e destro, E nel tirar a segno un ver maestro.

Montanara N., capo della forza di Finanza, è da commendare per esser venuto il primo tra il popolo, e recato la sera di martedì al ponte Beatrice per impedire a’ Croati di congiungersi alle truppe stanziate al Comando Militare. La qual cosa egregiamente riescitagli, sollecitamente accorse a Porta Vercellina a fine di tentare un assalto alla caserma di S. Francesco; indi alla chiesa di S. Vittore, per disperdere un corpo di Cacciatori e Croati disseminati per quelle ortaglie. Negatogli l’accesso alla chiesa da quei preti custodi, salì per violenza sul campanile, ove facendo suonare a martello, dall’alto della torre e dalli spiragli sostenne una lunga fucilata, nella quale il nemico lasciò molti morti. Poi di là, sempre guidando i suoi, inseguì la truppa e l’artiglieria, che costretta a ritirarsi, si mosse verso Porta Ticinese; passando internamente di casa in casa, le tenne dietro sino al Borgo di Viarenna, ove s’appostò nell’edifizio della Dogana, dalle cui finestre maltrattò siffattamente la fanteria e cavalleria che combattevano dai bastioni, che le costrinse a fuggire più presso all’Arco Ticinese. Le inseguì colà tuttavia, perchè pareva mirassero impossessarsi del Mulino delle Armi, ove erano magazzini di vettovaglia, e quivi da un cittadino generoso avuto un cannone, lo appuntò sulla barricata della via della Vettabia, onde tenere lontane e snidar quelle che già s’erano sparse pei campi. In questo fatto si distinse pure la guardia Borroni che fu de’ primi a salire il bastione affrontando le palle tedesche. Chiesto ajuto, la sera del mercoledì, da quelli di Porta Comasina, il Montanara s’affrettò al luogo detto la Foppa, ove per due ore sostenne un doppio fuoco contro i soldati stanziati sul bastione e quelli ch’erano a guardia del magazzino di S. Teresa. Fu il Montanara che gridando ad alta voce: Vittoria! giunse a tempo di troncare il fuoco impegnato per equivoco tra i nostri e quelli accorsi dal di fuori in nostro soccorso. Non credo di dover finire senza un ricordo di gratitudine all’infelice e valorosa guardia Capra, la quale, alla presa della caserma de’ Croati a Sant’Apollinare entrata in battello per darle l’assalto, si espose sì coraggiosamente ai colpi degli assaliti, che vi perde la vita, ferita da due palle nel capo.—Una nota posta a queste notizie ci fa sapere come il signor capo Montanara non trovò ostacolo alcuno da parte dei preti della Basilica prepositurale di San Vittore al Corpo, giacchè, fin dal fatale mattino, appena sentito il suono a martello della vicina Basilica Ambrosiana (già evasa dai nemici la Caserma attigua di s. Vittore), i sottoscritti due fratelli in persona salirono immediatamente sul campanile di quest’ultima chiesa, e con non poca fatica e grave pericolo della vita, ivi suonando più forte e sollecitamente più che poterono per maggior dispetto all’accanito nemico, e più coraggio ai nostri valorosi, pel continuo suono furono fatti bersaglio dei cannoni postati sul bastione della prossima Porta Vercellina, ed una palla fra le altre fu sì ben diretta a noi soli, che dessa ci passò framezzo, fatti consapevoli di tal graziosa e gentil visita dal polverìo in cui ci trovammo avvolti pei mattoni percossi, dal traversotto spostato, e dalla palla istessa di cannone che rinvenimmo a’ nostri piedi. Da quel momento in poi non si cessò un istante e dagli inservienti della chiesa istessa, e da altri ancora accorsi, dal suonare con energia e di giorno e di notte.

Il cittadino prete Belli Vincenzo, coadiutore in detta Basilica di San Vittore.

Il cittadino Belli Angelo, promotore de’ LL. PP. Elemosinieri ed Uniti di Milano.

Nova Giuseppe. Il primo che entrò nelle sale del palazzo di Governo, il primo che espose ai membri della radunata congregazione Centrale i troppo giusti lagni dei Milanesi, il primo a dichiarare che un ulteriore indugio a riconoscere i loro diritti sarebbe stato il segnale della rivolta, lo abbiamo nel signor Nova. Egli diede l’esempio del massimo eroismo e della massima moderazione quando coll’ardire della persona, e colla forza della parola arrivò a far piantar il vessillo tricolore in quel medesimo palazzo dove la tirannide straniera si celava e raccoglieva a Consiglio, ed accorse a salvare il sig. Kolbs, in allora segretario della presidenza, da un colpo di pistola che gli veniva diretto. Lo stesso Nova va distinto tra i più coraggiosi nell’assalto di S. Apollinare, ed al suo valore ed al suo senno si deve principalmente la buona riuscita di quest’impresa. La presa di questo magazzino militare, presidiato da una quarantina di uomini fu difficilissima per la sua costruzione quasi forte castello, ed il combattimento durò tre giorni, nel quale noi ebbimo a piangere un solo morto e tre feriti. A provare quanto fossero barbari i Croati, e crudeli con loro stessi vi basti questo fatto: Il martedì sera quando i nostri s’erano già in parte impossessati del locale, uno di essi conoscendo la lingua slava stava interrogando un Croato ferito (che veniva portato in corte implorando la vita) per sapere quanti di loro vi fossero a presidio, e per farlo parlare gli prometteva che lo avrebbe fatto trasportare allo spedale e medicare. Egli stava appunto confessando il tutto, quando due o tre moschettate gli furono scaricate da’ suoi compagni, che lo stesero morto.

Omoboni Tito. Questo personaggio godeva già fama fra noi per i suoi viaggi in Affrica e nelle Indie, e per aver combattuto nelle guerre della Spagna e del Portogallo. Allo scoppio della Rivoluzione intraprese a costruire delle barricate a difesa della contrada del Durino, e quindi diresse il piano d’attacco di Porta Tosa, nella quale impresa fu mirabilmente secondato dal conte Luigi Belgiojoso e dai suoi figli Cesare ed Alberto. L’Omboni passò poi tra le prime file dei Volontarii, ai quali potrà giovare colla spada e col consiglio.

Pirovano Paolo, d’anni 17, di professione falegname, fu il primo a superare la barriera di Porta Tosa. Egli consegnò una quantità di munizioni da guerra, e specialmente palle di mitraglia da lui raccolte sotto il fuoco dei cannoni. Domandatogli qual ricompensa si sarebbe potuto proporre al Governo in premio del suo coraggio, rispose non ambire altro che l’onore d’esser ammesso alla Guardia Civica. Egli fu inoltre il primo a portar fuori di Milano la bandiera italiana tricolore.

Simonetta Antonio, ora capitano della Milizia nazionale del rione di S. Eufemia, che seppe aggiungere al nostro partito il Corpo dei Finanzieri, i quali dalla domenica a tutti gli altri giorni della Rivoluzione si distinsero per zelo e per coraggio dispersi per la città. Avrei avuto a narrare qualch’altro fatto che onora il distinto cittadino Simonetta, se la somma modestia dello stesso non me ne avesse imposto silenzio intorno ai medesimi.

Sottocorno Pasquale, che pel primo incendiò le porte del palazzo del Genio, e diede altre prove di valore, ottenne dal Governo Provvisorio il seguente attestato che fu affisso su tutti gli angoli della città.

CITTADINI!

Onore al popolano Pasquale Sottocorno, che nel palazzo del Genio appiccò primo il fuoco alla porta e irruppe a disarmare e far prigionieri 160 soldati. Quest’oggi ei rinnovò la prova di valore straordinario, assaltando la pia casa di ricovero e disarmando i soldati che vi stavano a guardia. Il nome del Sottocorno suoni glorioso sulle bocche di tutti i prodi, e resti esempio ed eccitamento alle generazioni venture.

Milano, 22 marzo 1848.

( Seguono le firme del Governo. )

Suzzara Gaetano. «È debito di riconoscenza l’annoverare fra i prodi Milanesi questo nostro concittadino, che sprezzando ogni pericolo, con tanta solerzia difese la cara nostra patria. Fu il terzo che prese d’assalto il locale del Genio, portando in trionfo fra le acclamazioni del popolo le spoglie di un iniquo croato. Da questa impresa rapidamente passò ad altra nel giorno susseguente, presentandosi all’attacco della Caserma di S. Eustorgio. L’approssimarsi a questo locale fu assai malagevole: i dintorni erano troppo scoperti, e quindi assai pericolosi. La casa Bolognini allora gli aprì il varco, e due muratori perforando le pareti delle abitazioni gliene procurarono l’accesso di casa in casa passando per giardini, per case maestose e per umili tuguri, finchè giunse ad appostarsi di contro a quel formidabile baluardo.»

«Ma l’ingegnere Suzzara, non meno prode nei fasti militari quanto solerte ed instancabile per guarentire la cosa pubblica, entrò fra i primi nel Castello, in quel nido di sevizie e di nefandità, e vi scoperse in luogo appartato, 24 casse di polvere, una cassa di palle da obizzi, una cassa di racchette (razzi alla Congrève). Per tale importante scoperta e per la consegna da lui fatta di questo geloso materiale, venne incaricato dal Comitato Borromeo di praticare ovunque ricerche per rinvenire arme e munizioni. Adempiuta con ogni diligenza possibile una tale missione, il Comitato di guerra lo autorizzò a ritirare e custodire tutti gli arredi d’abbigliamento che si trovavano in Castello. È inutile il dirlo, conviene aver veduto quel luogo siccome noi che ne fummo testimonj poco dopo la fuga di quelle orde di barbari, perchè si possa immaginarne o descriverne l’orrido aspetto. Tutto era disperso per le corti, spezzati i bauli, infrante le casse ed il contenuto in balía del popolo, che, ancor furente, in grandi masse rovistava, per disprezzo e scherno, quei miseri avanzi, il cui succidume infettava l’aere, e respingeva perfino i più caldi investigatori dal penetrare in quelle stanze, ove tutto era confusione e disordine. Ma il Suzzara fece tosto espurgare da ogni immondizia più di 400 locali; fece praticare suffumigi in ognuno di essi, e poscia incominciò a separare gli oggetti varj: or tu vedi magazzini di monture, di ferramenta, di giberne, di coperte di lana, di piumaccini, di pelli, ecc., tutti disposti in bell’ordine, e quindi questo locale, mercè la sua indefessa attività e diligenza si può visitare, come lo visitammo jeri con gentili signore, senza alcun ribrezzo, tanto egli seppe renderlo accessibile anche alle persone più schive.»

«La patria per così magnanime azioni gli sarà riconoscente.» Destrani.—(Dai Racconti di 200 e più testimoni oculari ).

Terzi Giovanni Federico, studente di legge d’anni 19, si distinse combattendo al Genio, ai portoni di Porta Nuova, dove uccise un austriaco, ed in ispecie a Porta Tosa, dove trovata una famiglia in mano de’ Croati, trasse loro di mano un ragazzo di circa sei anni, che sugli omeri portò al Comitato di pubblica Sicurezza non senza pericolo della vita, giacchè una palla nemica portavagli via il cappello.

Villa Maria. Circa alle ore 11 antimeridiane del giorno 22 una banda di soldati composta di Croati entrarono, dopo d’averne spaccata la porta con scuri, nella casa numero 2203, ma se ne partirono dopo d’avere spogliate alcune stanze, intanto che tutti gl’inquilini si erano nascosti chi nei tombini, e chi frammezzo gli ordigni delle mollazze che ivi si trovano. Il padrone di casa, sig. Franzini, fu quegli che avvisò la propria famiglia e gli inquilini che gl’invasori erano partiti, onde potevano uscir sicuri dai loro nascondigli. Dopo un’ora circa ecco una nuova banda di Croati che corre verso quella porta; al rumore tutti cercano guadagnare i primieri posti di scampo, calandosi nei tombini, e tra i 15 o 16 circa ch’erano ivi discesi, trovavasi certa Villa Maria, moglie di Garolini Agostino, con un figlio unico lattante, di 12 mesi, il quale per l’oscurità del luogo si mise a piangere, e nulla valsero della madre e del padre le cure onde farlo tacere. Allora la generosa donna deliberò d’uscire dal luogo di sicurezza onde non mettere a repentaglio la vita di tutti. Esce dal buco del tombino, il marito gli porge il figlio, ed abbandonandosi alla Provvidenza attraversa la corte e si reca in una stanza dove si trovavano altre otto o dieci desolate madri, che tutte seco avevano innocenti e teneri pargoletti. Non appena ivi giunta ecco arrivarvi la masnada dei suddetti barbari soldati, che minacciano la vita a tutti questi, e specialmente ad un povero vecchio malaticcio che ivi trovavasi. Tutto misero in opera quelle infelici onde impetrare la vita, non risparmiando persino le carezze, ma i crudeli non volevano arrendersi, e continuavano colle minacce di morte, dicendo: venga ora Pio IX a liberarvi; dov’è Pio IX, e volendo ad ogni costo estirpare il figlio dal seno della Villa, già s’erano apparecchiati a infilzarlo sulle bajonette per rappresentare con esso il ritratto di Pio IX. Figurisi ognuno le angoscie ed i timori della madre, la quale tenendoselo stretto al seno, tanto resistette e tanto pregò, in un colle compagne, che finalmente s’arresero. Ciò fatto chiesero la sicurezza della vita, ed essi risposero che solo in Castello potevano essere sicure; ed intanto che gli altri mettevano a soqquadro la casa, dove erano anche due Ungaresi in un filatojo di seta, alcuni scortavano, circa alle ore 2 pomeridiane, le misere a quella volta, i quali incontratisi per la via con alcuni loro compagni, sogghignavano tra loro alla vista della fatta preda. Giunti alla porta del Castello verso il Sempione, venne lor proibito d’entrare da un poliziotto che eravi di guardia, così che per ben due ore dovettero rimanersi colà spaventate dai tanti orrori che allo sguardo loro dovunque lo rivolgessero si presentavano; quand’ecco alle ore 4 circa esce una carrozza; era Radetzky preceduto da un grosso corpo di Raisingher, e soffermatosi un momento il legno, la Villa fattosi coraggio si presentò alla portiera chiedendo carità. Ed egli non sapendo cosa volesse, distrattamente trasse il borsellino per offrirle una moneta, e la Villa disse, non carità di denaro chiedo, ma sibbene carità per questo mio innocente bambino: a queste parole rivoltò altrove lo sguardo, si mossero i cavalli, ed egli rimise la borsa nella scarsella e partì senza proferire parola.

Ciò avvenuto le misere si recano nel Castello, ed ecco nella prima corte ritrovano un nipote di una delle donne che componevano la piccola carovana, il quale era militare; figuratevi la sua sorpresa nel vedere la zia e le sue compagne. Narrano a quel fratello in breve l’accaduto, e cercano salvezza. L’Italiano disse loro di colà rimanere sino al suo ritorno. Portasi costui dal suo Comandante ad implorare per quelle sventurate, ed infatti ottenne di condurle tutte in una stanza al secondo piano, dove eranvi 6 o 7 pagliaricci, quindi le provvede di una secchia d’acqua, e raccomandando a loro un rigoroso silenzio, e specialmente alla Villa per riguardo al bambino lattante. Le persuase a non aver timore se sentissero lo sparo del cannone nella notte, mentre questo era il segno della loro andata, disse loro di serrarsi nella stanza e se ne partì. Donne che già avevano patito i disagi di 5 terribili giornate, pure nella loro stanza rinchiuse recitando il SS. Rosario a poco a poco andavano acquistando coraggio, e benchè in quel giorno non avessero potuto mangiare, pure la Villa continuò tutta la notte ad allattare ora ad una mammella ora all’altra il bambino, che non mise più un gemito, anzi la Provvidenza fu a lei e alle sue compagne tanto propizia che alla mattina quando i nostri fratelli Milanesi entrarono nel Castello e che fecero echeggiare quelle squallide mura di italiche grida, uscir poterono dalla stanza, e si portarono tosto a casa loro, dove la maggior parte, e specialmente la Villa non trovarono se non i loro mariti, senza avere onde adagiarsi e provvedersi del necessario alimento, non essendo loro restato che que’ pochi panni che avevano indosso.

Vimercati Ottaviano. «Fra i rifuggiti Lombardi che erano in Piemonte quando scoppiò la rivoluzione di Milano, si trovava il signor Ottavio Vimercati da Crema, quel valoroso giovane che s’era distinto nei moti anteriori di Milano, e che aveva inutilmente sfidato alcuni codardi ufficiali tedeschi instigatori delle stragi del gennajo. Egli a Torino s’era aggregato all’animoso ed intelligente drappello dei Lombardi che spingevano il Sovrano Piemontese al soccorso dei fratelli di Lombardia, ed appena udita la nuova dei moti di Milano volò sotto le di lei mura. Egli militò quattro anni ufficiale negli Spachi nell’esercito francese dell’Algeria; quindi per trarre miglior partito delle sue cognizioni militari pensò diriger le bande d’armati accorsi dai paesi e dalle città vicine sotto le mura di Milano per molestare i nemici esternamente, e, ponendoli fra due fuochi, tentare di aprire una via di corrispondenza fra i cittadini e i fratelli esterni. Nel 21 marzo raccolse una colonna di circa quattrocento dei meglio armati, fra cui erano molti Bergamaschi eccitati da un frate, tenente da una mano un crocifisso, dall’altra una spada, e disposti rapidamente in ordine di guerra tentò di abbruciare la porta Vigentina o di dare la scalata. Fece recar legne e scale sotto le mura colla massima precauzione, e parendogli più spedita la scalata, giacchè le mura erano esplorate e sguernite di truppa, la tentò ed egli salì il primo; ma il nemico avea spiato le mosse della sua colonna e l’attendeva in agguato con oltre un migliaio di soldati. Vimercati, scopertili ritirossi co’ suoi dopo alcune scariche, e s’appostò di dietro i muri delle case vicine ai bastioni, costretto a ritirarvisi dalla sortita di truppe dalle due Porte Romana e Vigentina che volevano toglierlo in mezzo. Ivi si impegnò un combattimento, in cui restarono feriti tre cittadini e morto uno, ma dei nemici furono uccisi undici, nè egli si ritirò più lontano sino a che venne fulminato dal cannone.»

Non vanno pure dimenticati i nomi dei valorosi Cusani, figlio del marchese Francesco, del conte Gianforte Secco Suardi, di Luigi Piccinini Rossari, di Luigi Ronchi, di Antonio Cristofori, maestro di musica, di un Rusca, di Giuseppe Pezza. Va distinto ancora il nome del dott. Carlo Osio (autore dell’opuscolo, Alcuni fatti delle cinque gloriose giornate ), che col fratello Enrico trovatosi a faccia il nemico in molti scontri sempre combattè con eroica prodezza. Egli pure nel citato opuscolo ha motivo di lode, fra i tanti valorosi che vanta Milano in queste cinque giornate, i seguenti: Monteggia Antonio, Balzaretti Giovanni, Scalfi N., Bononi N., Suini Sigismondo e Giuseppe, Ceresa N., Vicenzino Paolo, i fratelli Mangiagalli Alessandro e Battista, Rossi Giuseppe, Bertarini N., Quadri N., Torricelli Pietro, Scarafoni N., Furi Francesco, Appiani Giuseppe, Manzotti, Aluisetti Giuseppe, Caramelli Domenico, Tagioli Vittore, Lorini, fratelli Giacomo e Giovanni, Morini Serafino, Trabattoni Giuseppe, Vassalli Giacomo, Lorini Gaetano, Leoni Claudio da Cerano, ecc. ecc.

Vorrei poter conoscere tutti que’ prodi per registrarne a sussidio della storia gli onorandi nomi. Non dimenticherò tuttavia i fratelli Lazzati, Virginio Cozzi, i fratelli Luigi e Gaetano Strigelli, il dott. De Luigi, i fratelli De Cristoforis, i fratelli Paladini, Albino Parea, Giuseppe Osio, Vernay ed Emanuele Pironi prontissimo a combattere in que’ giorni di maggiore pericolo, ed ora ufficiale della Guardia Civica fra i più zelanti, e invigilava per la pubblica sicurezza. Nè tacerò i nomi di Enrico ed Emilio fratelli Dandolo, Attilio Mozzoni, e di Emilio Morosini, che coraggiosamente pugnarono in quelle giornate, e i più pugnano ancora tra i Volontarii con molti altri giovinetti loro compagni.—Non devo terminare questi cenni senza un tributo di lode anche per la Giuseppina Lazzaroni. Mentre la Sassi adoperava il suo coraggio in una parte della città, in altra Giuseppina Lazzaroni fatta maggiore di sè stessa s’invogliava anch’ella della gloria delle armi fra le dolcezze domestiche nel punto istesso che i cuori più virili e le volontà più ferme abbisognavano di conforto. Armatasi quest’avvenente giovane di moschetto, volle pugnare sempre accanto al fratello Giovanni Battista, e non poche furono le vittime del suo eroico coraggio. (Dal Mondo illustrato ).

Il Cantù nelle sue Relazioni e reminiscenze intorno gli ultimi cinque giorni degli Austriaci in Milano racconta altri fatti degni di esser riportati: «Una signora disarmò tre Poliziotti; un’altra uccise altrettanti Croati, nè fu la sola che in quel giorno facesse prodigi di tiro; un gruppo d’inermi ragazzi dagli otto ai dieci anni spogliarono delle bajonette alcuni soldati. Sul Carobbio un uomo combatteva a fucile colla sinistra mano, dopo perduta la destra; c’era chi gli caricava lo schioppo, egli se ne serviva. All’assalto della Corte imperiale un giovine fu colpito da quindici palle nell’istante che pel primo invadeva il palazzo gridando: Viva l’Italia! Cadde gridando: Viva l’Italia! Assistito dal sacerdote, spirò gridando: Viva l’Italia! Un morente scriveva col proprio sangue sulla parete: Coraggio, fratelli! Sangue e azioni da martiri, che Iddio avrà compensate nelle sue altissime regioni, mentre anche qui in terra le corona col trionfo del nostro paese».

XIII.

ALTRE ATROCITÀ COMMESSE DAGLI AUSTRIACI ESTRATTE DA DOCUMENTI OFFICIALI

Codardi coi pugnanti Fèr segno ai colpi lor I bamboli lattanti, Gl’inermi genitor.

Se sorpassar d’Uraja L’antica crudeltà, Son degni di mannaja, Non degni di pietà.

O. Tasca.

Amico lettore, tu ti farai la più alta maraviglia, dopo quanto hai letto ne’ miei cenni storici della gloriosa nostra rivoluzione, trovando un capitolo apposito per altre atrocità commesse dagli Austriaci nei funesti ultimi cinque giorni di lor dimora in questa bella città d’Italia.

In vero che hanno dell’incredibile, tanto che qualcuno potrebbe anche accusarmi di esagerazione. Ma pure vi assicuro che colla stessa verità con cui vi narrava gli eventi delle Cinque Giornate io ora vi narro questi nuovi fatti, alcuni dei quali tolti da Gazzette Officiali, e da me verificati sul luogo, altri a me raccontati da tali che furono dolorosi spettatori delle orrende scene che troverete descritte; di altri infine fui testimonio io stesso, e raccapriccio di orrore al solo risovvenirmi.

Vi furono uomini e donne barbaramente mutilati ed uccisi, fanciulli sbranati, case incendiate. I sobborghi ed i punti interni più vicini alle porte furono il principale teatro della più esecrabile barbarie, e conserveranno a lungo le tracce del ferro e del fuoco nemico.—L’interno del Castello, appena fu sgombro, presentò ai visitatori il più orribile spettacolo. La nostra Gazzetta Officiale riferisce che si trovarono numerosi corpi di cittadini trucidati e mutilati in mille guise, giacenti nel fossato interno del terzo cortile, nei sotterranei e negli angoli del cortile, ove furono od abbrustoliti od affogati o morti di bajonetta e di fucile. Tra questi vi erano pure alcuni cadaveri di donne che i barbari trucidarono e denudarono a fine di poter poi cogli abiti di queste travestirsi e occultare la loro fuga.—Il cittadino Carlo Viviani dal comandante Lissoni ebbe l’incarico d’esplorare i varj luoghi del Castello, trovò nella seconda corte a destra una diligenza con un calesse d’aggiunta, la prima svaligiata e il secondo abbruciato. In un orto ivi presso trovò sette cadaveri d’uomini, seminudi e barbaramente mutilati ed insultati; trovò due gambe di diversa dimensione, che non appartenevano a nessuno dei suddetti cadaveri, e che dalle forme apparivano chiaramente essere gambe femminili e di persone distinte dalla delicata lor carnagione. In un’acqua corrente attigua si trovarono molte membra di corpi umani, probabilmente appartenenti alle due donne. I cadaveri erano malconci per calce, le due gambe annunziavano una morte non più lontana di 24 ore[47].—I nostri cittadini caduti nelle mani degli Austriaci furono rinchiusi nelle più anguste e fredde carceri del Castello, e in sì gran numero per ogni camerotto, che tutti non potevano contemporaneamente sdrajarsi per riposare.

Privi d’ogni più meschino giaciglio posavano sul nudo terreno, e lasciati senza cibo a stento poterono per mezzo di danaro dividere il tozzo di pane nero colle sentinelle che li guardavano.—Di questi prigionieri quelli che non furono sacrificati ebbero a soffrire le più acerbe torture, e minacciati di morte vennero essi tolti dalle carceri, legati a due a due e condotti in giro pel Castello al suono del tamburo velato a lutto fra lo spettacolo dei cadaveri che d’ogni dove l’ingombravano, indi fatti inginocchiare ed appuntati i fucili al loro petto fu sospeso il comando di far fuoco allora soltanto che tutto ebbero assaporato lo spasimo di una lenta agonia. Questa scena fu ripetuta più volte finchè il nemico fu padrone del Castello, e quando sgombrò la città sedici di questi infelici furono da lui condotti in ostaggio legati innanzi le bocche dei cannoni con miccia accesa[48].

«Un Croato ferito fu recato all’Ospedale; in un piccolo involto che teneva presso di sè, gelosamente guardato, si trovarono (orribile tesoro) due gentili mani di donna coperte le dita di preziosi anelli.»

Nella casa a Porta Vercellina del negoziante e fabbricator di stoffe signor Fortis, un’orda di Croati invasero ogni piano, ogni camera, e non bastantemente paghi di aver uccisi molti inquilini e rapite grosse somme di danaro, devastarono i magazzini, fracassarono i telai, lacerarono ed insozzarono le stoffe, e misero ogni cosa a soqquadro e rovina. Un ben dettagliato quadro di questo eccesso di barbarie lo togliamo dal giornale il Lombardo del 28 Marzo, ove colle seguenti parole è espresso:

«Vicino a Porta Vercellina facendo angolo coi bastioni dello stesso nome, trovasi la grandiosa manifattura nazionale di stoffe di seta dei negozianti Fortis.

«Erano le ore una e un quarto passato il meriggio, quando un centinajo di Croati sfondata e gittata a terra una porta, che dai baluardi agli orti e quindi allo stabilimento conduce, entrarono per essa invadendo tutto il locale.

«Il primo loro saluto fu una fucilata, che sgraziatamente colpì ed uccise un miserello che là trovavasi. Continuando ad avanzarsi incontrarono il signor Ernesto Fortis, figlio del proprietario delle manifatture. Per salvare la vita questi subito presentò loro ed orologio, e spille, e tutto quanto si trovava avere indosso, poi cercò rifugio nella bottega di un fabbricatore di statuette di gesso attenente a quel locale. Rinvenuto colà da una parte degli invasori, che gli tenevano dietro, ed additato da un suo spaventato servitore, quale padrone, venne da quelli ripreso. Li conduceva allora il giovine Fortis alla cassa del danaro, ed essi lo accompagnavano tenendogli sempre appuntate al dorso e bajonette e schioppi, presti a far fuoco, gridando continuamente con voce gutturale gurr, gurr, gurr, moneta, moneta. Arrivati che furono alla stanza dello scrigno, quello trovando chiuso, e non avendo con sè il signor Fortis la chiave onde aprirlo, già stavano per ucciderlo, quando fortuna volle che quelle immani fiere intendessero il gesto che loro faceva il Fortis di rompere il forziere. Scassinata la serratura, nel mentre che stavano intenti a depredare le ivi rinchiuse ventidue mila lire dell’abborrito nome, tentava il Fortis di fuggire per una vicina scala seguito da quel servo che lo aveva già additato agli invasori qual padrone.

«Accortosi i Croati di tale fuga spararono dall’alto della scala varie fucilate, e colto da quelle l’uom di servizio cadde estinto. Allora il Fortis gettandosi in una stanza laterale, riparavasi sotto il letto del suo cuoco. Gli assassini venivano a lui ricercandolo, ed egli trepidante li sentiva avvicinarsi. Anzi due o tre di quei masnadieri postisi a sedere sul letto, sotto il quale egli stavasi nascoso, incominciarono colà a dividersi il depredato danaro.

«Quando piacque a Dio alla fine partirono, ed il Fortis potè allora discendere nella cantina, che per essere già stata invasa due volte, era allora la parte più sicura della casa. Infatti quietamente postosi colà dietro una botte potè per più e più ore aspettar senza pericolo il tardo allontanamento dei ladri.

«Intanto che accadevano le narrate cose, la maggior parte dei Croati che si era colà introdotta, saccheggiava e devastava tutto il grande fabbricato, commettendo mille nefandi delitti, ed inumanamente uccidendo operai, donne e fanciulli.

«Il padre del giovane Ernesto Fortis, che fino dal primo entrare degli assassini era stato spogliato di sue vesti, vedendo ognora aumentare la ferocia di quelli, si gettò boccone a terra fra morti, ove stette per ben quattro ore immobile. Così creduto morto da quelli, campò la vita.

«Una giovinetta di circa 13 anni venne scannata, e così pure qualch’altra donna che lavorava in quello stabilimento.

«Un infelicissimo padre si trascinava avanti ai barbari traendo per ciascuna mano un fanciulletto. L’ingannato genitore credeva che quella vista avrebbe ammansato la furibonda sete di sangue di quei vigliacchi masnadieri, e quindi sarebbero state risparmiate le loro vite. Fu colmo di raffinata barbarie in vero se quelli non l’uccisero, poichè tagliarono a pezzi sotto il di lui inorridito sguardo le due innocenti vittime.

«Dopo quattro ore e più di devastazione e saccheggio si ritirarono quei feroci cannibali seco traendo vistoso bottino di denaro, argenterie, merci, cavalli e carrozze; lasciando quindici cadaveri e sette persone malamente ferite.

«Per colmo di sventura condussero seco loro il dottor fisico Benigno Longhi ed il capo delle manifatture Enrico Turpini.—

«Fuori di Porta Tosa s’introdussero i Croati in una osteria, e veduto il padrone gli domandarono da mangiare, e siccome non ne aveva, lo legarono insieme con suo figlio, ed attaccatili ad un cannone li trascinarono qua e là per la strada, ed in tal modo dovettero bere a sorsi a sorsi la morte. Portatisi in altra casa e sentendo un tenero pargoletto che vagiva in culla, lo levarono da di là, presente la propria genitrice che era spaventata, ed appoggiate le mani del bambino contro il muro, ne lo inchiodarono come fosse un pipistrello od altra bestia, e poscia con un colpo di bajonetta contro il cuor della madre, la stesero morta a terra.—

»Nell’osteria dell’Angelo vicino alla strada ferrata di Treviglio, si trovarono otto cadaveri abbruciati, fra cui due ragazzi dai dieci ai dodici anni non più riconoscibili. In vicinanza della stazione della strada ferrata fu pure trovato il cadavere dell’inglese Klyn, lavorante di macchine, consunto anch’esso dalle fiamme. Venne incendiata la casa presso l’osteria del Leon d’Oro ed il caffè Gnocchi.—

«Spuntava l’alba del 22 marzo allorchè 200 Croati circa, prorompendo furibondi ed affamati da questa Porta, spaccavano con accette la porta del caffè Gnocchi, vi entravano forsennati da lì a pochi minuti.

«I padroni del luogo, Leopoldo e Luigia Gnocchi (notate che questa era incinta da circa quattro mesi) in ginocchione e colle braccia incrociate al petto pregavano da quei mostri la vita. I soldati nulla rispondevano, ma afferrando diverse bottiglie e succhiandone avidamente i liquori, ghignavano e ferocemente urlando cantarellavano. I due officiali che li capitanavano in cattivo ma pure chiaro italiano risposero; Sì, sì salvare la vita: ma dare robe. —E quelli ecco le chiavi— Venire voi per di sopra: dara tutto: noi Todisch stare Patroni Milan: noi Todisch an occi, o domani bruciare tutta Milano, porca Taliana.

«Dopo che gli sventurati sposi speravano (coll’aver dato tutto che possedevano) aver sfogata la cruda fame di quelle belve, eccoti che gli ufficiali staccano a forza la moglie dalle braccia dello sposo, la violentano, la fanno inginocchiare, le appuntano le bajonette alla gola e le dicono: Tacete voi; tua marita, come tutti uomina Taliana dovere essere mazzata; tutta Milano cenere domani.

«E dopo tali parole colla spada trafiggono il marito avanti gli occhi della moglie, lo calpestano e il fanno a brani, poscia appiccarono il fuoco all’edificio.

«Dopo tali atrocità incredibili al secolo nostro, ed appena credibili fra feroci cannibali, cacciano via la misera Luigia più morta che viva, la quale, errando attraverso prati e varcando fossati riuscì di giungere alla strada ferrata presso la cascina Ortighe, dove fu accolta benignamente in vagoni di prima classe, fatta adagiare e consolata durante il cammino dallo scrittore del presente racconto, Bissoni Pietro da Cremona, il quale udì dalla bocca istessa della Luigia il miserando scempio del marito.»

Fu allora che egli (sebbene ignarissimo dell’arte di maneggiare armi) fattosi dare uno spiedo e scultevi le lettere V. M. vincere o morire, giurò, o di entrare il domani in Milano o di morire sotto i suoi bastioni, martire della causa santissima dell’italiana indipendenza.—

«In una casa al mercato Vecchio in Porta Comasina la barbarie della soldatesca giunse al colmo, perocchè quivi dopo avere spaventati gl’inquilini con tre cannonate, le cui palle caddero tutte nelle stanze, vi entrarono essi pure improvvisamente, e poichè tutti, uomini, donne, vecchi, fanciulli ed infermi eransi ridotti in un sol locale a piano terreno, ne atterrarono la porta, e (cosa orribile a narrare!) con una scarica di molti fucili fatta sulla massa di quegli infelici, ne uccisero di un sol colpo diciassette, ne ferirono otto, e ne trassero dodici prigionieri al Castello; e, quasi non ancor sazj di quella carnificina, nel breve tragitto al vicino Castello, ne infilzarono due altri sulle bajonette».—

Nella Domenica, giorno 19, essendosi portate molte persone ad udire la santa Messa in S. Simpliciano, circa le ore 9 e mezza, nel mentre che il Sacerdote celebrava, si cominciò a tirar moschettate contro le persone che entravano e uscivano di chiesa; quel buon prevosto Carlo Ferrario, procurava ogni modo a persuadere la gente a fermarsi in chiesa per non arrischiare la vita. Quand’ecco un certo Luigi Bocciolini vedovo, padre di 4 teneri figli, essendo uscito per recarsi a casa ed unirsi ai medesimi, appena arrivato al portone venne colpito da una palla nel braccio destro. Ritorna in chiesa. In essa si trovavano 131 persone, tra le quali il sacerdote ex parroco Lorenzo Denna, ed il sacerdote Ambrogio Decio. Il Denna accoglie[49] il Bocciolini, e coll’ajuto di altri lo sveste, rincorandolo, e siccome dalla ferita veniva una quantità di sangue ed il misero non poteva reggere al dolore, essendo il braccio rotto, si procurarono subito delle bende e de’ panni, e lavando la ferita si procurò di medicarla alla meglio. Il sig. Prevosto apprestò tutto l’occorrente per allestire un letto sul quale si fece coricare, aspettando che si aprissero i passi per farlo trasportare allo Spedale. Si pensò infatti di parlare da una finestra della chiesa al casermiere, che mandò un chirurgo con un ufficiale; sfasciò il braccio, e ponendo sulla ferita alcune filacce, partirono dicendo, che appena fosse stato possibile l’avrebbero tradotto all’Ospitale, ciò che non venne eseguito se non verso le ore 4 pomeridiane.

Partiti il chirurgo e l’ufficiale, indi a poco s’udirono varj colpi di fucile contro la chiesa e lo scoppio di due bombe, pel quale andarono a un tratto in pezzi i vetri dei finestroni. Tutti rimasero istupiditi credendosi perduti, ma dopo alcun tempo data calma al timore, s’incominciò a proporre il modo di alimentare quelle persone mentre erano la maggior parte digiune. Il sig. Prevosto, il Denna ed il Decio deliberarono di chiamare da una finestra della casa parrocchiale verso i giardini, gli abitanti della vicina casa, i quali uditi dal vicino fornajo cominciarono a fornire di pane, che venne distribuito a quegli infelici schierati in mezzo alla chiesa, ed in tal modo si continuò fino alle ore 4 pomeridiane, nel qual tempo essendosi spiegato un momento propizio, tutti sen corsero alle loro case a consolare i proprj parenti.

Ancor più barbaro è il caso successo alle ore 6 pomeridiane del giorno 19 nella casa posta al N. 2047, che vado a narrare. Entrati i soldati in quella casa, e dopo di aver saccheggiato e rovinato tutto nelle abitazioni dei diversi inquilini che si erano salvati colla fuga, passarono al piano superiore, ove sgraziatamente si trovavano ancora in casa un certo Giovanni Roncari, accenditor di lampade del Comune, uomo onestissimo, colla moglie Giuseppa Zamparini, una figlia, ed un loro conoscente per nome Paolo Morari, lavoratore in seta, ancora nubile. Essi si raccolsero nello stretto fra il letto ed il muro, ma tosto che furono sorpresi dai soldati, i due uomini caddero a terra trucidati da alcuni colpi di accetta, e la moglie e la figlia non ebbero che alcune busse. Svaligiarono quindi la camera di quei pochi risparmi della famiglia, di alcuni arredi preziosi della moglie e di tutta la lingeria, e se ne partirono.—La moglie disperata sulle agonizzanti spoglie del marito si dava ogni cura per adagiarlo su di alcuni cuscini onde meno tormentosi gli riescissero gli ultimi momenti della vita; ma rientrati alcuni soldati nella camera martoriarono di nuovo il semimorto Roncari, e con inaudita barbarie afferrando la mano della moglie, fuori di sè per la disperazione, la costrinsero di strappare le cervella al marito, che per le fattegli ferite le cadevano sul volto.—

Verso le ore 12 e mezza dei giorno 20, parimenti a Porta Comasina, nel momento, come ho raccontato in quel giorno, che un Maggiore Ungarese verso il Ponte Vetro andava gridando pace e persuadeva gli abitanti a cessare dalle ostilità, due studenti di legge venendo dalla Foppa furono sorpresi ed inseguiti da alcuni soldati che li minacciavano della vita perchè avevano la coccarda al cappello. Ad uno di essi riescì di fuggire. L’altro, che si conobbe poi per certo Pirinoli Giuseppe nativo di Cunardo, comune di Luino, onde evitare il pericolo che gli sovrastava entrò in una bottega di prestinajo che si trovava socchiusa, e salite le prime scale che gli si affacciarono giunse al piano superiore, e dal solajo salendo sul tetto discese nella vicina casa N. 2189. Avvertiti i soldati andarono a spaccare la porta, e dopo di aver perquisita tutta la casa trovatolo nascosto sotto un letto nell’abitazione di Giovanni Larghi, gli scaricarono adosso alcune fucilate, e quindi lo trascinarono fuori e lo presentarono ai vicini dalla finestra, e dopo di avergli preso tutto il denaro lo gittarono in corte, gridando, va a trovar Pio Nono.—

«Nel vicolo del Sambuco, ove è l’antichissima osteria detta della Palazzetta, recossi una mano di assassini. Chiesto ed ottenuto da mangiare e da bere, legarono l’oste colla moglie e la figlia. Fattone un fascio, buttaronli vivi sul camino, ove furono arsi. Prima di partire lasciarono sfuggire dalle botti tutto il vino che era in cantina.—

«Guidati da certo Hansek, già loro commilitone, altri soldati penetrarono dal borgo di Viarenna nella stretta Calusca, e dopo di aver saccheggiato e commesso ogni sorta di orrori in quelle case, trucidarono tre infelici, che furono: Giuseppe Gambaroni d’anni 58 circa, ammogliato, venditore delle così dette robbiole da fuoco; Antonio Piatti d’anni 28, fabbro, e Giuseppe Belloni, cuojajo. Presi e condottili nel vicino orto, e come se fosser ad una festa da ballo ghignazzando e cantando, se li gettavano contro urtandoli e ricevendoli a colpi di bajonetta, e mentre gli infelici in questo modo crudele venivano straziati, parte degli assassini, per godere più a lungo di quella scena orribile, andarono in traccia di paglia e di legna, e gittatele addosso a quei moribondi vi appiccarono il fuoco. Ed allorquando i pazienti per l’ardor delle fiamme tentavano agonizzanti d’allontanarsi, quei feroci assassini li respingevano nelle fiamme colle punte delle bajonette, così seguitando fra le acclamazioni di allegria sino a che furono persuasi di averli spenti; e dopo d’aver obbligati i superstiti parenti ad esser testimonj di una scena così straziante, abbandonarono quel luogo.—

«In una stanza, fra le molte di cui si compone la caserma di sant’Eustorgio, si vedeva una panca, sotto la quale eranvi delle scarpe che apparivano chiaramente essere appartenenti ad un cittadino. Su questa panca eravi del sangue raggrumato. Di questo sangue si trovò pure intrisa una penna. Probabilmente sarà stato un prode Austriaco che avrà dissetato la sua sevizie scrivendo note di sangue con sangue italiano.—»

XIV.

RIVOLUZIONE DELLE PROVINCIE

( Dalla Gazzetta Officiale il 22 Marzo ).

Non sappiamo se nella meravigliosa rivoluzione della Lombardia sia stato maggiore il coraggio o la concordia universale. Come gli individui qui in Milano, così le diverse provincie si levarono ad un tratto risolute, formidabili, con un solo proposito. «Liberiamoci, dissero esse, liberiamoci prima dai presidii che ci tengono soggette, facciamolo presto per accorrere subito dopo in soccorso di Milano: vinta quella città la causa è vinta». E così fecero, e per tal modo mostrarono come le provincie, stringendosi intorno al centro comune, volevano innanzi tutto l’unità politica, e come era loro intento di compiere quell’opera di concordia e d’amore che da più mesi avevano incominciata con tanta spontanea virtù. Quell’antica peste degli odj, delle diffidenze municipali non è più, e, poichè disparve, ecco adempirsi la liberazione di Italia. Forza, intelligenza, che sempre ci hanno distinti, disgregate ci condussero alla ruina, appena unite fecero la nostra gloria. Fummo già perduti per un eccesso di vigoria, giacchè, sentendo la nostra forza, volevamo esser soli per quanto fossimo pochi; ora invece siamo tutti, ed assieme, ed abbiamo vinto.

Nella profusione di atti di sacrificio e di valore sarebbe difficile il distinguere una piuttosto che un’altra provincia. Milano è riconoscente a tutte, invia a tutte il bacio della fratellanza e della gratitudine, perchè tutte s’adoperarono a giovare Milano e con essa la causa comune, e, ciò che è più singolare, hanno quasi tutte un titolo diverso alla nostra gratitudine.

Bergamo che, fin da quattro mesi or sono, ebbe l’onorevole e pericoloso ardire di stendere e presentare alla già Congregazione Centrale una energica protesta della sua Congregazione Provinciale contro le vessazioni dell’Austria e la sua nessuna fedeltà alle date promesse, appena seppe che Milano stava combattendo, insorse tosto, ordinò la guardia civica, inviò trecento armati a Milano, ed assediò la caserma di sant’Agostino, dove erano 800 Croati. L’arciduca Sigismondo, che ivi comandava, diede la sua parola che non sarebbe partito; ma la violò e fuggì abbandonando vilmente le truppe. Intanto a Bergamo si continua ad ordinare la guardia civica nelle città e nelle vallate, e si preparano le difese ai monti, onde intercettare agli Austriaci la via del Tonale. Molti volontarj sono partiti per Crema, altri si dispongono a formar parte dell’esercito mobile: la linea che si distende fino a Chiari, Soncino ed Antignate è sorvegliata da molti che spiano i moti delle orde nemiche. Maggior previdenza, maggior sollecitudine non poteva usarsi, poichè, mentre Milano appena liberata stava in forse dei moti dell’esercito nemico, ecco Bergamo che volontario difensore vegliava già alla nostra sicurezza. Noi, tre mesi fa, avevamo fatto feste ai Bergamaschi, destinando loro il ritratto d’uno dei più grandi loro scienziati e cittadini, il Mascheroni, ed essi ora hanno voluto farci risovvenire che non sanno trattare le sole arti della pace, e e che si conservano pur sempre degni discendenti del Colleoni. Ma se nel cinquecento Bergamo fu valida difesa dello Stato a cui era unito, or si unisce a noi con ben altra eguaglianza di diritti, e perciò con ben più spontaneo accorrere d’armi e d’armati.

A Lecco, gli abitanti insorsero, disarmarono 200 Austriaci, e senza alcun indugio accorsero essi pure a Milano. Giunti a Monza, inoltratisi fino alla Piazza del Seminario, trovaronsi a fronte un battaglione del reggimento Geppert, italiano, che erasi formato in quadrato: chiesero di parlamentare, non ebber risposta, e scambiarono vivamente il fuoco per ben tre volte. Ma la truppa era scontenta di trovarsi incontro a’ suoi fratelli; ed il Maggiore che la comandava, essendosene accorto, credette miglior consiglio ritirarsi nel Seminario. Allora gli Italiani deposero le armi, ed i nostri, munitisi di esse, raccolti con loro molti Brianzoli, accorsero a Milano, e qui forzarono la Porta Comasina, dopo una lunga lotta, e si sparsero per la città a combattere l’ultima resistenza del nemico. Il Comitato eretto in Bergamo non si stancava intanto di mandare staffette a Como ed altrove, esploratori, eccitatori all’insurrezione, talchè l’attività di quel Comitato ed il valore dei combattenti di Lecco valse a noi più che una armata all’inimico. Il contado di Varese insorse pure ben presto, e potè riunire una bella colonna d’armati fra abitanti di Varese e volontari della riviera di Piemonte, i quali sono tutti occupati dalla nostra amministrazione di guerra. L’impeto, la risolutezza distinsero quei di Lecco e di Varese, come la previdenza, l’ordine e la celerità distinsero i Bergamaschi.

A Como invece fu, si può dire, un assedio regolare alle Caserme, condotto quasi colla più esperimentata scienza militare; dopo la vittoria fu un subito ordinarsi come d’antichi soldati e non d’uomini nuovi alla guerra. Il giorno 18 stesso, appena si seppe l’insurrezione di Milano, i Comaschi andarono in armi al Municipio, chiesero la Guardia civica, l’ottennero e la notificarono ai soldati. Il colonnello comandante al presidio dichiarò che non vi avrebbe posto alcun ostacolo, finchè non si fosse fatto violenza a’ suoi. La guardia si ordinò, prese la polveriera, e nella domenica durò quell’accordo, leale da parte de’ cittadini, slealissimo da parte de’ capi militari, i quali, quando le notizie di Milano fossero state loro favorevoli, si disponevano ad incrudelire con atroce vendetta, come ne facevan fede le violenti minacce. Ma, visto come Milano teneva fermo, visto che molti civici partivano a dar soccorso all’assediata capitale, incominciarono al lunedì a far fuoco dalla maggior caserma esterna detta di san Francesco, ed uscirono contemporaneamente dalla caserma interna detta Erba. Respinti dall’uno e dall’altro posto dalle fucilate de’ nostri, si ritirarono nelle caserme e furono tosto assediati. Sorsero per ogni dove le barricate; quelle che stringevano la caserma Erba erano formidabili per varj cannoncini tolti alle ville del lago da tutti i cittadini accorsi a Como al suono delle campane a stormo. Varj carabinieri Svizzeri volontarj avevano pure valicato il confine, ed erano appostati alla caserma Erba, che, visto quelli apparecchi e quelli uomini, dovette capitolare. Così si arrese questa Caserma, e dopo lunga resistenza furono pure costretti a cedere e deporre le armi e a darsi prigionieri quei della caserma san Francesco, battuti di fronte dai cannoncini e dalle fucilate delle mura, circondati dalla colonna che, prima avviatasi a Milano, era pure retrocessa, e minacciati dal fuoco appiccato ad arte in una vicina chiesa. Per tal modo si fecero 1200 prigionieri, si tolsero loro altrettante armi e ventiquattro cavalli, si ebbe una ricca preda di munizioni e di polvere. Il giovedì fu davvero consolante come con quelle armi in poco più di 6 ore si ordinasse un bel reggimento di mila e duecento volontari che, capitanati dal generale Arcioni, e provvisti di munizioni da guerra e da due cannoni, si incamminarono a Milano in ordine compatto con tutte le cautele dell’arte, coll’ardore e colla gioja, sicuri della vittoria ed anelanti a gloria maggiore. Chi asserisce che noi siamo capaci di coraggio individuale ma non di risoluzioni concertate, osservi quella colonna che s’avanza incontro al nemico, e si persuada che quell’ordine è possibile anche in esercito più numeroso; poichè l’Italiano è riluttante alla disciplina che ammorza lo spirito non a quella che lo asseconda. Intanto il Municipio, interprete del voto popolare, si unisce anch’esso al Governo di Milano, e dimanda a tutte le provincie lombarde in compenso dei suoi sacrificj non altro che libertà e vittoria.

A Brescia pure fuvvi prima l’accordo col generale Schwarzenberg che acconsentì la Guardia Civica fino dalla domenica, poi il martedì cedette egli stesso 800 fucili perchè la guardia fosse armata, e più tardi tentò la lotta; ma scoraggiato ben presto venne a patti, e il mercoledì sgombrò Brescia, la quale aderì al governo centrale spontaneamente colle parole più calde d’ammirazione e di gratitudine per la nostra vittoria.

A Cremona i patti, pur stipulati cogli ufficiali Austriaci, non furono violati. Quel presidio, composto quasi tutto d’Italiani, si affratellò ben presto coi cittadini, ed il generale Schönhals dovette ritirarsi cogli altri. Si avvicinava a quella che il generale Radetzky chiama così facetamente base delle sue operazioni militari, quando non lungi da Orsinovi, inseguito dagli insorti dovette arrendersi e darsi prigioniero, egli, i suoi ufficiali ed i suoi soldati.

A Lodi l’occupazione austriaca durò maggior tempo, perchè ivi erasi riparato il generale Radetzky. Ora però la città è sgombra, e concorre anch’essa all’unione lombarda.

Più varie, più sanguinose sono le vicende di Crema, dove al Comitato provvisorio succedette una seconda occupazione austriaca e il passaggio delle truppe fuggiasche. Anche i Cremaschi ebbero e vittime e prigionieri, e la crudele dimora degli Austriaci durò più giorni. Ora però si sono ritirati, sfiniti d’ogni forza, incapaci quasi a servire, e costretti a fermarsi ogni tratto sulla strada, piuttosto invalidi che soldati.

A Pavia gli Austriaci si ritirarono spontaneamente, e un Governo provvisorio sta pure per consolidarsi in quella città.

All’insorta e libera Valtellina si ordina in ogni paese la Guardia Civica: molti vegliano al passo dello Stelvio, dove fu tagliata la strada: molti altri montanari si avviano al piano in difesa dei luoghi più infestati dal nemico.

Il nostro trionfo è dunque generale, la rapida concentrazione di tutti i municipj ci fa sperare che lo spirito di isolamento, rattenuto finora in ogni parte con tanta saggezza, non vorrà rinnovarsi mai più, e che s’intenderanno i beneficj dell’unione, alla quale dal nostro lato noi vogliamo concorrere con ogni mezzo, coll’abnegazione di noi stessi, se vi fosse bisogno. Queste, che noi facciamo, non sono vaghe promesse, nè parole architettate ad arte: il Governo Provvisorio ha già disposto perchè tutte le provincie siano rappresentate nella cosa pubblica, anche prima che il voto comune dia un libero campo a tutte le città di far valere i propri diritti e di vegliare ai loro interessi. Oh! questo nome di fratelli non sia una parola ripetuta per abitudine, un desiderio onesto ma impotente! chi vuole ottenere una cosa ottima non deve lasciarsela sfuggire, mentre lo può. Tutto in quest’unico momento è disposto onde ottenere la sospirata fratellanza; e noi l’avremo; ce l’assicura la bella condotta di tutte le nostre provincie.

XV.

IL TE DEUM PER LA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI

( Dalla Gazzetta officiale Il 22 Marzo.)

Sublime e commovente spettacolo presentava questa mattina la nostra cattedrale. La città intera recavasi per invito del Governo provvisorio a ringraziare Iddio della miracolosa liberazione ottenuta, e l’Inno Ambrosiano echeggiava armonioso sotto le vôlte del tempio, ripetuto con fremito di allegrezza da tutti i cuori. Era questa la prima volta, in cui il canto di grazie, non più prezzolato nè ipocrita, saliva al cielo colle più ardenti aspirazioni dell’anima, verace interprete dei voti e della fede di tutto un popolo. L’altare, addobato a festa colle insegne nazionali, annunziava il santo connubio della Religione e della patria, già iniziatore dell’italiana redenzione e promessa di futura grandezza all’Italia. Un senso profondo di venerazione, di amore e di dolcezza partiva da quello e diffondevasi nella moltitudine, commossa ancora e ammirata del recente prodigio. I cuori si gonfiavano e palpitavano; gli occhi si bagnavano di lagrime: in tutti era un tripudio, un entusiasmo, che aveva quasi del delirio. Dopo tre secoli e mezzo di servitù, Milano si sentiva finalmente libera e grande, e poteva pregar Dio colla coscienza della propria dignità. Qual potenza d’affetti doveva essere in quella preghiera!

La cerimonia ebbe luogo alle undici del mattino. I membri del Governo provvisorio e dei diversi Comitati partirono dal Palazzo del Marino, sfilando accompagnati dalle Guardie civiche. Modesti nel tripudio, come forti nella lotta, niun segno d’insolito apparato ne distingueva il corteo: una sciarpa tricolore indicava in loro colla gioja il sentimento tutto italiano. E la festa non era municipale, era italiana, come italiana fu la pugna che abbiamo combattuto. Un fascio di bandiere tricolori li precedeva, e il saluto, e gli evviva e le grida di tutta la popolazione accorsa sul cammino li accompagnarono fino all’ingresso del Duomo. Qui l’allegrezza si trasfuse in un senso universale d’adorazione; la moltitudine stipata ascoltò con religioso raccoglimento la messa solenne celebrata dall’Arcivescovo, e accompagnò col cuore i concenti, che dall’altare salivano tripudianti al Dio datore d’ogni libertà. Nuovo e maraviglioso spettacolo quel vincolo misterioso che in quel punto confondeva quasi il cielo colla terra, e rinverginava in tutti la fede coll’aspetto d’una provvidenza redentrice delle nazioni.

Terminato l’inno, e benedetto il popolo dall’Arcivescovo, il corteo sfilò di bel nuovo uscendo preceduto dalle bandiere, e, dopo aver fatto il giro della piazza, s’avviò al Palazzo Marino. Fu allora che la gioja, non più compressa dalla venerazione, scoppiò in gridi entusiastici, in applausi, in lagrime, in abbracciamenti. Era un susulto, un fremito indescrivibile. L’aspetto della Guardia civica, militarmente schierata, che sfilava sotto i balconi del palazzo, accrebbe ancor più la comune esultanza. Quella gioventù bellicosa, che marciava sotto l’armi in bell’ordinanza, a guise di truppe già esperte, quel contegno animoso e tripudiante, quelle bandiere sventolanti, quell’insolito suono di tamburi, eccitavano, esaltavano la moltitudine. Gli eroi delle barricate eransi già trasformati in esercito di soldati, forte di parecchie migliaia, e il popolo salutava in loro i prodi suoi difensori. Il grido di «viva l’Italia!» suonava su tutte le bocche; la concordia e l’amore erano in tutti i cuori. Non mai festa nazionale fu più bella e più grande di questa.

E alla festa, comechè compiuta nel giubilo, non mancò la pietà. Il cittadino Angelo Grassi-Marliani aprì sulla piazza del Duomo, appena terminata la cerimonia, una colletta pei feriti. In pochi minuti egli raccolse dagli astanti parecchie centinaia di lire, che andranno a sollievo dei martiri della nostra rivoluzione. Così Milano, anche nei suoi giorni più lieti, mostra sempre accoppiato il vanto della carità a quello dell’eroismo, alleanza di virtù, che le assicurano la futura grandezza.

Sulla maggior porta del Tempio leggevasi l’iscrizione seguente:

A DIO SIGNORE CHE NE’ GIORNI DELLE SUE GIUSTIZIE SUSCITA I DEBOLI OPPRESSI I VIOLENTI CONFONDE E DISPERDE IL POPOLO MILANESE ESCITO NEL BRACCIO DI LUI VITTORIOSO DALLA MIRACOLOSA PUGNA DE’ GIORNI XVIII XIX XX XXI XXII MARZO TERMINE ALLA SUA LUNGA SERVITU’ PRELUDIO ALL’AFFRANCAMENTO DI TUTTA ITALIA INTUONA CO’ SUOI MAGISTRATI IL CANTICO DELLE GRAZIE

Intanto che nel Duomo cantavasi il Te Deum in rendimento di grazie a Dio per la cacciata degli Austriaci da Milano, gli Israeliti radunati nel loro Oratorio cantavano nell’istess’ora l’Inno di grazie, susseguito da un apposito discorso di circostanza.

XVI.

LE POMPE FUNEBRI PEI MARTIRI DELLA PATRIA.

( Dalla stessa Gazzetta Officiale il 22 Marzo ).

L’augusta e pietosa solennità del giorno 6 aprile, in cui abbiamo chiamato la Religione a propiziare il Dio delle misericordie per le vittime della nostra redenzione politica, lascerà per molto tempo un’impressione profonda. Quel rito funebre era comandato dalla patria pei figli della patria, ed ogni cittadino vi era associato come a domestico lutto. Una voluttà amara invogliava al pianto; ma quel pianto era insieme tributo di pietà, di amore e di riconoscenza. Ciascuno ripensava seco stesso e i forti che erano caduti per romperci le catene, e i superstiti alle generose vittime quivi presenti, nei quali la gioja della patria salvata veniva così dolorosamente in contrasto colle memorie domestiche, coi cari effetti di parentela e di amicizia, e la Religione finalmente, suprema consolatrice degli uomini, che santifica il dolore deposto a’ piè de’ suoi altari.

Secondo il programma, antecedentemente pubblicato per cura del Governo[50], alle dieci antimer. movevano alla Cattedrale i molti e varj capi rappresentanti della milanese cittadinanza, preceduti ciascuno dalla bandiera tricolore velata in gramaglia. Il Governo provvisorio, seguito dai consoli e dagli inviati esteri, prese posto nel presbiterio, e quindi lungo la navata maggiore tutti gli altri ordini in ragione della loro importanza. Monsignor Arcivescovo pontificò il rito funebre, e, finita la Messa, versò le acque lustrali intorno al feretro. Il signor Merini, prevosto di San Francesco da Paola, disse dal pulpito la commemorazione pei cari defunti, a cui era consacrata l’espiatoria cerimonia. La vasta Cattedrale parata a luto con parca, ma appropriata magnificenza, sfolgoreggiava di lumi, di bandiere, di iscrizioni recanti i nomi degli estinti: numero non grave se pensiamo alla grandezza del trionfo ottenuto, gravissimo se ci ricordiamo che ci erano fratelli, ancor più caramente diletti adesso che per loro mercede riposiamo tranquilli sui nostri redenti focolari. La piazza del Duomo rispondeva all’apparato interno del tempio; tutta quanta ornata nei veroni e nelle finestre di sandali e di emblemi di lutto, recante nel suo mezzo il trofeo funebre innalzato alla memoria dei prodi estinti, stipata, gremita, al par delle vie adiacenti, da una folla innumerevole di cittadini, sui volti de’ quali potevi leggere meraviglia insieme e commozione. Reduce dalla solenne pompa, il Governo rientrò nella sua sede al Marino, e dal maggior balcone fu testimonio della concorde riverenza, onde i concittadini di lui circondano quel suo mandato penoso, ma al tempo stesso santissimo, ch’egli si è tolto di condurre a nobile meta i destini della patria. Numerosi applausi scoppiarono dalla affollata moltitudine, fatta ancor più lieta dalla voce del presidente Casati, che con poche e solenni parole si lodò del nostro contegno, affermando come da esso principalmente il Governo Provvisorio pigli sempre maggior lena in sobbarcarsi al grave incarico della cosa pubblica.

E nella Gazzetta di Milano del signor Lambertini, che prima inviava all’estero la descrizione di questa commoventissima festa, così si legge intorno all’apparato esterno:

Erano le ore 10 antimeridiane che già stretta di folla ogni contrada che alla Cattedrale conduce, obbligava i sopravvenienti a rallentar il passo ed a far forza per riescire alla meta. Alzando gli occhi al Cielo vedeasi a lato della Vergine che s’erge al sommo della guglia del nostro Duomo sventolare il vessillo tricolore, piantatovi fin dal 20 marzo, e vedeasi lasciar pendere un lembo di velo bruno che indicava la tristezza dell’animo cittadino pei martiri delle famose cinque giornate, e l’atto di espiazione che al Sacro Tempio tutti volgevano ad implorare da uno stesso amor nazionale desiosamente sospinti. Così per quelle principali vie tutt’addobbati i balconi e quasi ogni pertugio, di gramaglia, o di neri tappeti a frangia argentea arricchiti, e padiglioni, e appositi detti, e segnali corrispondenti alla suntuosa lugubre funzione vedeansi profusi. Tutt’intorno alla piazza del Duomo era simile e ricco l’apparato, e in mezzo, piantata sopra ampio piedestallo, sorgeva un’altissima lancia lombarda colla tricolore bandiera, pur essa di lutto insignita, sorretta quella lancia come da un rialzo, cui ai quattro angoli stavano corrispondenti statuette e sopra di esse vasi portanti arbusti di funereo cipresso. Alle quattro facciate di così tal, direbbesi, improvvisato obelisco leggevansi le seguenti inscrizioni:

PIO SOLENNE VOTO DI ETERNA RICORDANZA AI PRODI TRAPASSATI COMMILITONI CHE A LIBERAZIONE DELLA SCHERNITA ED OPPRESSA ITALIA SORRIDEVANO BOCCHEGGIANTI SOVRA SANGUINOSE MACERIE AL CARO PENSIERO DELLA RISCATTATA PATRIA. QUI ALL’ALBERO GLORIOSO DELLA FRATELLANZA E DELLA PACE VERSIAMO TUTTI COLLA LACRIMA DEL LUTTO LARGHE OBLAZIONI A DEVOTO SUFFRAGIO DE’ NOSTRI CONCITTADINI CHE NEL TERRIBILE CONFLITTO ITALICO MORENDO IMPRESSERO COL PROPRIO SANGUE LO STEMMA DELLA PORTENTOSA MILANESE VITTORIA MDCCCXLVIII.

OH IL CARO SPETTACOLO DI UNA SANTA COMMOZIONE! TREGUA AL PIANTO VEDOVATE SPOSE E DESOLATE MADRI CHE A GRAMAGLIA VESTITE ASSISTETE AL SACRO RITO FUNEBRE IDDIO VOLLE CON SÈ GLORIOSI QUE’ CARI VOSTRI CHE SPENTI PEL SOCIALE COMUNE PROSPERAMENTO DELLA RIGENERATA ITALIA VIVRANNO IMMORTALI NELLE VENTURE GENERAZIONI.

OGNUNO SI TACCIA E DALLE TENEBROSE TOMBE DEI TRUCIDATI NOSTRI FRATELLI ODA IL CELESTE COMANDO DEL RELIGIOSO SOVVENIMENTO AD ESSI DOVUTO CHE VITTIME DI GUERRA INTESTINA VOLLERO NOI SALVI DALL’OPPRESSIONE DELLO STRANIERO ABBOMINATO DOMINIO.

Larga corona intorno a quel rialzo vi faceva la Guardia Civica in bellissimo aspetto, ed in mirabilissimo ordine, come mirabile oltre ogni dire era l’ordine mantenuto dalla calca del popolo. Volgendo lo sguardo al Duomo, tutto gremito vedeasi ad ogni marmoreo parapetto di affollata gente, spettacolo nuovo senza dubbio per noi; ed abbassando l’occhio sulla Porta del Sacro Tempio leggevasi su gran cartello sovraornato da un’urna coperta da strato tricolore e negro velo:

☧ AI MARTIRI DELLA PATRIA CHE NELLE V GIORNATE DI MARZO L’ITALICO RISCATTO SUGGELLARONO COL SANGUE SEME FECONDO DI FAMIGLIE NOVELLE DEVOTE A TUTTI I GRANDI PENSIERI A TUTTE L’OPERE GENEROSE IL POPOLO MILANESE PREGA LA REQUIE ETERNA ED OFFRENDO AL SIGNORE L’IMMACOLATA LORO GLORIA IMPLORA CHE IL MAGNANIMO SACRIFICIO SALVI ITALIA TUTTA.

Entrando nel tempio, aperte le ampie cortine di nero drappo frangiato d’argento con sovrapposto velo, era di tristezza, d’amore, di riconoscenza, di voti sinceri innalzati a Dio per quelle anime benedette e generose ogni cuore commosso, perchè con affetto insolito mirava quelle imponenti colonne, a neri tappeti e argento addobbate, portar ciascuna uno stemma a guisa di scudo, chiuso da corona d’alloro e attraversato da negro velo, con impressi i nomi, parte a parte distribuiti, de’ valorosi che caddero per la gloria del paese, per la vittoria nazionale alla quale ardentemente agognavano. Le faci risplendevano perchè legger si potessero, e rimaner potessero nell’animo nostro scolpiti.

Fra gl’intercolunnii pendevano le tricolori bandiere attraversate esse pure da un velo, e l’occhio guidato lungo quell’ampio accesso al funereo monumento, che s’ergeva prossimo all’altar maggiore, restava meraviglioso e attonito di quella grandiosità che le parole nostre non saprebbero esprimere.

Quel funebre catafalco che s’alzava a piramide tutto a lutto coperto, ornato di alti fusti orditi a cipresso sui quattro angoli e con elmi, emblemi, e scudi, e allori, e bandiere intrecciate da bruno velo, portava alle quattro facce le seguenti epigrafi:

Nella faccia verso la porta della Metropolitana.

SALVETE O MARTIRI GLORIOSI DELL’ITALICO RISORGIMENTO CADUTI NELL’EROICA PUGNA O SGOZZATI A TRADIMENTO DAL BARBARO NELL’IRA DELLA FUGA SALVETE IN NOME DI QUESTA CITTA’ PER VOI SCAMPATA ALL’ESTREMO ECCIDIO IN NOME D’ITALIA PER VOI SUSCITATA ALL’ENERGIA DELL’OPERE IN NOME DI TUTTO IL MONDO CIVILE CHE VI BENEDICE E V’AMMIRA.

Nella faccia verso l’Altar Maggiore.

DIO GIUSTO E CLEMENTE ACCOGLI NELL’ETERNA TUA LUCE L’ANIME DI QUESTI NOSTRI FRATELLI CHE O INERMI CADDERO ALLA CIECA PERCOSSA DE’ BARBARI O SOLDATI NELLA GRAN BATTAGLIA DEL DIRITTO CONTRO LA FORZA MORIRONO COMBATTENDO: TU FA CHE IL LORO SANGUE ESPIATORE LAVI LE COLPE ANTICHE: TU FA CHE LE ANTICHE GENTI STRINGANSI INTORNO AL TUO VICARIO IN AMPLESSO D’AMORE INDISSOLUBILE.

Al lato destro.

ANIMOSE DONNE NEL VOSTRO CUORE DI MADRI NELL’ESEMPIO DELLE VOSTRE SORELLE CHE POSERO PER LA PATRIA LA VITA VOI TROVERETE IL CORAGGIO DELLE FORTI VIRTU’ CITTADINE: EMULATRICI DELLE SICILIANE VOI CANCELLERETE TRE SECOLI DI CODARDA MOLLEZZA E RITEMPRATE A SEVERI DOLORI A GIOJE SEVERE VI FARETE DEGNE COMPAGNE D’UOMINI LIBERI.

Al lato sinistro.

MARTIRI PRECOCI DI QUELLA CAUSA INDEFETTIBILE CHE AL PIÈ DEI PATIBOLI E NELLE CUPE SEGRETE RIFORNI’ PER SI’ GRAN TEMPO LA COMPIANTA SCHIERA DE’ SUOI SEGUACI NOBILI VITTIME DI SPILBERGA E DI COSENZA VOI NON AVETE SPERATO INDARNO NON AVETE INDARNO PATITO IL TRIONFO DI QUESTI LOMBARDI ASSOLVE LA SUBLIME VOSTRA FOLLIA LA PATRIA LORO È PUR VOSTRA.

Sulla Bandiera a destra:

IGNOTI DEL NOME NON DEL CUORE NEGATI ALLE PIETOSE CURE DEL MEMORE AFFETTO DAI FEROCI OLTRAGGI DE’ BARBARI I PIU’ DI VOI L’INSEGNARONO QUANTA È VIRTU’ IN QUELLA TURBA INNOMINATA CHE PORTA PIU’ GRAVE IL FASCIO DI TUTTE LE UMANE CORRUTTELE E MISERIE.

Sulla bandiera a sinistra:

PARGOLETTI INNOCENTI MARTIRI DELLA PATRIA IGNARI ANCORA DEL SUO NOME DOLCISSIMO IL VOSTRO SANGUE LAVACRO ALLA NOSTRA VITTORIA È PEI BARBARI MACCHIA NON CANCELLABILE.

MORTI

nelle cinque gloriose giornate per la liberazione di Milano

noti fino al 4 d’Aprile; oltre questi vi sono altre cento vittime finora sconosciute, tra cui donne e bambini.

Alberti Giuseppe. Anfossi Augusto. Annovazzi Felice. Arosio Giuseppe. Baj Maria. Bandirali Giuseppe. Bardelli Desolina. Bari Francesco. Barioli Rosa. Barzanò Tomaso. Battioli Giuseppe. Beltrami Giovanni. Benzi Bernardo. Beretta Alessandro. Bernacco Gennaro. Bernasconi, falegname, Bernasconi Innocente. Bertoglio Giuseppe. Bertoglio Giosuè. Bertolio Giacomo. Bertolotti Luigi. Besesti Giuseppe. Besozzi Francesco. Bianchi Angelo. Bianciardi Alessandro. Bolotti Giuseppa. Bombaglio Carlo. Bona Angelo. Bonella Felice. Bontempelli Gaetano. Borella Giuseppe. Boselli Antonio. Bosisio Domenico. Brenzia N. Broggi Giuseppe. Brunetti Roberto. Buontempelli Gio. Batt. Bussolari Geminiano. Caccia Giacomo. Cagnoni Francesco. Cagnoni Teresa. Caimi Giuseppe. Calderara Gabriele. Calini Amanzio. Campati. Candiani Maria. Cantaluppi Maria. Capella. Carati PaoJo. Cardani Giuseppe. Carones Carlo. Casati Apollonia. Casati Michele. Castelli Angelo. Castelli Ferdinando. Castiglioni Dionigi. Cattaneo Camilla. Cazzamini Andrea. Chiambranni Giuseppe. Chiambranni Rosa. Chiapponi Luigi. Colombo Clelia. Colombo Paolo. Comi, speziale in Saronno. Comolli Francesco. Confalonieri Carlo. Confalonieri Giuseppe. Consonni Giovanni. Corbella Francesco. Crenna Andrea. Crespi Antonio. De Ceppi Carlo. De Giovanni Giuseppe. Delmati Gaetano. De Martini Benedetto. Dubini Cesare. Fasanotti Giuseppe. Felicetti. Ferrari Leonardo. Ferrario Leopoldo. Filghera Giuseppe. Filippini Giuseppe. Folcia Mauro. Fossati Carolina. Fossati Giuseppe. Fossati Giuseppe, stalliere. Francisco Camillo. Franzetti Giuseppe. Frontini Angelo. Galleani Giovanni. Gaj Camillo. Gaj Gaetano. Gaj Giuseppe. Galimberti Felice. Galli. Galloni Teresa. Gatti Francesco. Gianotti Francesco. Gilardi Giuseppe. Grandi Francesco. Grugni Teresa. Kling Giovanni. Lambruschini Filippo. Larghesi Apollonia. Lattuada Carlo. Lazzarini Antonio, sacerd. Locarna Gio. Batt. Lomazzi Luigi. Locatelli Luigia. Locatelli Stefano. Longoni Pietro. Magni Carlo. Magni Giovanni. Magnini Giuseppe. Magnoni Cesare. Malnati Domenico. Manfredi Angelo. Marchesi Camillo. Mari Giuseppe. Martignoni Francesco. Martignoni Pasquale. Mascagni, dottore in med. Mauri Gio. Batt. Mazzi Giuseppe. Mazzola Andrea. Mercantini Domenico. Minetti Gaetano. Migliavacca Francesco. Migliavacca Isidoro. Miglio Enrico. Misdaris Celestino. Mognoni N. sarto. Mognoni Cesare. Moll Maria. Mollini Amadeo. Monti Claudio. Monti Luigi. Moraja Paolo. Motta Angelo. Motti Maria. Mussatti Angelo. Muselli Giuseppe. Nardi Luigi. Nicolini Camillo. Orlandi Defendente. Orio Marietta. Orrigoni Angelo. Ottolini Cesare. Paganetti Girolamo. Pajarino Giovanni. Pariani Marianna. Parigini Rosa. Pasquè Pasquale. Pecoroni Antonia. Pedotti Giuseppe. Perelli Giacomo. Perelli Rocco Giacomo. Perinolli Pietro. Perotti Angelo. Perotti Gio. Antonio. Piccaluga Pietro. Picozzi Alessandro. Picozzi Giuseppe. Pilati Girolamo. Pirazzi Giuseppe. Polletti Carlo. Pomè Antonio. Poretti Gio. Antonio. Porro Luigi. Prada Maurizio. Pozzi Giovanni. Radice Natale. Rainoldi Gaetano. Rainoldi Pietro. Ratti Apollonia. Rebolini Ferdinando. Ricotti Antonio. Rigamonti Annibale. Rigo N. Rocco Giacomo. Romanino N. Roncalli Francesco. Ronzoni Giovanni. Ronzoni Giuseppe. Ronzoni Maria. Rovelli Giuseppe. Rovida Pietro. Sacchi Antonio. Sala Caterina. Saldarini N. Sanvitori Giuseppe. Saronico Gilardo o Gerardo Scotti Marianna o Maria. Segale Carlo. Serimolli Pietro, studente. Silvestri Luigi. Stelzi Luigi. Tamborini Luigi. Tarditti Filippo. Tavazzani N. Tenca Gio. Batt. Tornaghi Enea. Trivaldi Carlo. Usman Caterina. Valentini Alessandro. Valtolina Gio. Battista. Vanotti Francesco. Velati Pietro. Venegoni Giuditta. Verga Francesco. Vigo Agnese. Villa Giacomo. Vismara Felice. Volontieri Giovanni. Zabadini Giulio. Zanaboni Ettore. Zavatteri N. Zopis Maria.

In tutto N. 218.

Ignoti notificati dall’Ospitale Maggiore, 47 maschi e 5 femmine.

Ignoti notificati dall’Ufficio Sanitario, 19 maschi.

3 abbruciati all’Ufficio del Dazio di Porta Comasina.

2 maschi ritrovati in un giardino presso l’Ospedale di Sant’Ambrogio.

CENNI NECROLOGICI

DI ALCUNI

MARTIRI DELLA PATRIA.

Anfossi Augusto[51].

Nacque in Nizza nel 1812; ne andò esule nel 1831, reo dell’amare immensamente, sinceramente la patria, il popolo, la libertà: passò in Francia, e di colà, dove allora era un gran ciarlare ed un far pochissimo, impaziente dell’ozio e di quel vano arrabattarsi che è peggio dell’ozio, si trasmutò in Egitto, ove di quei giorni poco si parlava e si faceva molto; militò negli eserciti di Ibraim Bascià, e ne uscì colonnello. Ridottosi alle Smirne, vi aprì una casa di commercio, che in pochi anni crebbe a maravigliosa prosperità; ed ivi, lieto del clima dolcissimo e delle memorie omeriche, avrebbe forse chiuso i suoi giorni, se nol venivano a suscitare i recenti casi d’Italia. Perspicace dell’ingegno, quanto era forte del braccio, s’accorse subito che un moto italiano, benedetto, anzi iniziato dal Pontefice, non poteva venir meno, e quindi si diede a secondarlo coll’energia del pensiero e del cuore. Tornato in Italia, alla grand’opera dell’italico riscatto offrì la persona e le sostanze, dichiarandosi disposto ad assoldar volontarj a proprie spese; e si mise in comunicazione con tutti quei generosi che nel Piemonte, nella Liguria e nella Lombardia aspettavano il momento d’insorgere. In questa città nostra capitò pochi dì prima del cominciamento del nostro gran dramma, e subito ebbe a sè i cuori di tutti ed in particolare de’ giovani pel suo piglio franco e militarmente severo, per la sua energica parola, e pel calore dell’anima. Come appena fu deciso che noi dovevamo conquistar coll’armi la nostra libertà, egli offrì i suoi servigi che vennero con riconoscenza accettati. Destinato ad organizzare la guardia civica, e quindi a comandar tutte le forze attive della nostra rivoluzione, diè tali saggi di capacità, di coraggio, di nobile dignità, che lo fecero conoscer tosto e riverire da tutti. Nessuno nei giorni dell’eroica nostra lotta mostrò maggiore attività di lui; egli era da per tutto a consigliare, ad operare, ad erigere barricate, a confortar cittadini, a preparar mezzi di difesa, a studiar posizioni, ora capitano ed ora soldato, ora meccanico, ora strategico, sempre esempio chiarissimo del più fervente patriottismo. E da lui s’inspirava, ed a vicenda eragli inspiratore Giuseppe Torelli, datogli ad ajutante; anime degne d’intendersi, intelletti degni d’associarsi alla difesa di questa carissima patria. Altri narreranno i fatti particolari di lui: qui ci basta riferire come dagli altri di Porta Nuova, monumento della sconfitta del Barbarossa, respingesse un drappello di granatieri ed un cannone, e vi piantasse, baciandola, la bandiera tricolore, e come nell’assalto del locale del Genio, appuntato un cannoncino alla porta principale di esso, nell’atto che la sfondava, fosse colpito in fronte da una palla di moschetto. Morì come Epaminonda, lieto della vittoria de’ suoi: morì invocando Dio e la patria.

Borgazzi Girolamo.

Il giorno 7 dello scorso aprile nella chiesa parrocchiale della Fontana fuori di Porta Comasina mi trovai presente alle pompe funebri che si celebravano in suffragio di questo martire della Rivoluzione, passai quindi coll’eletta compagnia delle guardie civiche de’ CC. SS., delle guardie civiche a cavallo condotte da Antonio Litta, con alcuni rappresentanti della Strada ferrata Lombardo-Veneta con due numerose bande e con innumerevole popolo al cimitero, furono tumulate le onorate spoglie del Borgazzi, ivi assistetti alle seguenti commoventissime parole lette dal sig. Direttore Grassi.

«Dirò brevi parole per onorare la memoria del valoroso Borgazzi, che con pietoso consiglio meco qui accompagnaste alla terra dell’eterno riposo. Severo e nobile però sia il nostro dolore per questa vittima della tirannide, e anzichè a lagrime imbelli, esso ci commova a magnanimo esaltamento, rammentando in lui un generoso immolatosi alla salvezza della cara patria. Fu egli che oltre a prodezze molte e svariate fra i primissimi tolse le porte della città al nemico, e l’eletta schiera condusse de’ fratelli di Lecco e della Comasina per dare l’ultimo crollo alla pertinace prepotenza del barbaro duce, che da noi già vinto anelava pure a vendette maggiori, e se possibile più nefande!

«Mi è di conforto pertanto, nella piena del dolore che m’invade nel perduto amico, di avervi qui raccolti, e che mi concediate di parlarvi di lui, dolce essendo la rimembranza dei cittadini eroici, che devoti fin dalla prima età al culto di una grande idea, quella della patria indipendenza, ne procacciarono col loro sangue il trionfo. E l’interesse della patria comune richiede che di un sospiro e di una lagrima venga onorato il loro sagrificio! una lagrima adunque ed un sospiro per la eroica salma del Borgazzi!

«Dai lievissimi cenni che vengo a toccarvi della sua ahi! troppo breve vita, vedrete essere egli stato sempre fra i non pochi che luminosamente concorsero alle grandi gesta che segnarono l’epoca del terzo e del più glorioso risorgimento d’Italia.

«Borgazzi nacque in Milano nel 1808 da nobile ed onorata famiglia. Le prime idee alle quali informossi l’animo suo furono che la distinzione suprema dell’uomo consiste nella moralità e nella intelligenza. L’educazione sua fu liberale, e inspiratrice di nobili sentimenti. Terminati gli studj di ginnasio e liceo, e trovatosi compresso ed infelice sotto un governo pel quale i sentimenti generosi e la rettitudine di carattere erano sì spesso insormontabili ostacoli all’avanzamento dell’italiana gioventù in qualunque pubblica carriera, si determinò nel 1829 di recarsi in Francia. Ma ivi soffrì dopo la rivoluzione del luglio crudeli disinganni. Le nobili speranze concette pel risorgimento delle nazionalità europee e specialmente dell’italiana e della polacca gli vennero annientate, non già dalla nazione francese, ma da quel governo.

«Accortosi il Borgazzi che non era a sperarvi nessun appoggio, e tentata invano con altri pochi valorosi la spedizione di Savoja nel 1833, stette alcun tempo in Francia in ansiosa aspettativa di tempi migliori, a ciò lusingato dalla conservatasi riunione degli emigrati italiani, che per ordine del ministero dovevano organizzarsi in legione a Mont-Brison. Si aggregò diffatti al primo battaglione di essa, e sospirava al momento di entrare in Italia, come a quelli illustri giovani si lasciava credere. Ma Luigi Filippo voleva ben diversamente diretti quei prodi a Tolone, ed imbarcati con ordini suggellati, quando giunsero in alto mare, traditi tutti nelle loro più care speranze, videro volgersi all’Algeria le prore delle navi! L’amico di Metternich rapiva quelle anime generose all’Italia; e traditore ed egoista se ne giovava per sè sulle ardenti sabbie dell’Africa.

«Per tre anni dal 1833 al 1836 servì dunque il Borgazzi con distinto onore nella legione straniera, e fra le continue zuffe ed i più ardui disagi a quella malaugurata legione riservati ottenne avanzamento, ed arrivò al grado di sergente-maggiore.

«Poi fu mandato colla sua legione in Ispagna in soccorso della regina Isabella II. Ivi nella più fortunosa guerra acquistò col suo valore e con due gravi ferite nuovi gradi onorevoli, prima di sotto-tenente e poi di tenente, infine venne insignito delle due decorazioni di Isabella II e della Civica.

«Per non prender parte all’anarchia che invadeva il governo e l’armata dell’infelice Spagna, si disciolse nel 1843 dal servizio, abbandonando la propria legione presso che distrutta dall’aspro e lungo combattere, e venne a risalutare il sacro suolo d’Italia, dopo avere condotto in moglie una spagnuola fornita d’ogni virtù, e capace quindi di comprendere la rara nobiltà del di lui animo.

«Ma alla gioventù distinta per sentimenti di patriottismo e di progresso, trovavasi sempre precluso dal governo Austriaco ogni adito a qualunque impiego. Pieno però di vita e di energia, il Borgazzi non volendo rimanersi inoperoso, accettò il modesto impiego di Ispettore alla strada ferrata. E quivi per la sua rara attività, svegliata intelligenza, e urbanità amorevole di maniere, procacciossi la stima e l’affezione della Direzione, mantenne la disciplina la più severa negli impiegati, acquistossi tanti amici e ammiratori quanti ebbero a trattare con lui.

«S’avvicinavano intanto le gloriose giornate del Marzo, ed il cuore ardente del Borgazzi già presagivagli essere egli destinato ad operare grandi cose per la sua patria.

«Prima sua impresa fu di affrontare impavido la pena di morte minacciata dal Radeztky a qualunque impiegato delle strade ferrate che avesse mosso un convoglio, avendo egli ardito di condurre una mano di coraggiosi a Sesto, ove raccolse una schiera di ben quattromila volontarj con cui si diresse alla Porta Comasina.

«Altro fatto di grande coraggio fu il tentato violamento della polveriera di Lambrate, che ben riuscito dapprima, dovette essere abbandonato per soccorso di nuove truppe.

«Mentre le mura stavano guardate da innumerevoli soldati, chi le scalava ben sei volte per comunicare col Governo provvisorio? Era il Borgazzi, era un padre di famiglia, che tra i figli proprj comprendeva tutti gli assediati cittadini, bisognosi di comunicazioni esterne.

«Quando vinte le soldatesche, e disprezzati i cannoni della porta Comasina entrava in Milano coi fratelli dei borghi e della campagna; quando, infelice! lo scopo degli eroici suoi desiderj stava per essere raggiunto, e l’ora di compiuto trionfo era suonata, egli cadde mortalmente ferito nel petto! e nelle poche ore che sopravvisse, in un breve istante di animo presente a sè stesso, chiedeva: Come vanno le cose della patria? Rispotogli, la patria vinse: Muojo contento, soggiungeva quel magnanimo, e spirava! Ah, preghiam tutti insieme la requie eterna all’anima di Borgazzi! La terra che gettiamo nella fossa che lo racchiude accompagniamola col grido che egli alzava nel fervore della pugna, e che sempre troverà un eco sui nostri labbri e nei nostri cuori.—Viva l’indipendenza d’Italia! Viva l’unione Italiana!—Prima di partire da questa tomba gridiamo:—Vivano nei nostri cuori gli eroi vindici della cara patria! Vivano!

«I tuoi figli, o Borgazzi, ai quali non potesti legare che la ricchezza di una grande gloria domestica, troveranno nella patria che se gli adottò, quella predilezione d’amore e quell’ajuto di nazionale educazione che varranno a renderli un giorno emuli delle tue virtù.

«L’Italia è pia, è generosa, è magnanima, ed il modo con cui tutelerà il sacro deposito lasciatole da coloro che versarono il proprio sangue per la sua redenzione, mostrerà quanta sia la differenza che passa fra la riconoscenza dei despoti, e quella dei grandi popoli.

«Vi ringrazio, amici e fratelli, per la riconoscente pietà con cui voleste onorevolmente accompagnare la salma dell’immortale Borgazzi a questa funerea campagna. Ora ritorniamo ad occuparci con maggior lena delle cose della patria nostra: Viva la patria!—Viva questo vessillo tricolore riconquistato a prezzo di sì nobile sangue!»

Boselli Antonio.

Nato in Milano nel 1803 da onesta famiglia popolana, lasciati appena i banchi della scuola si diede alla pratica del ragioniere, ed all’insegnamento privato elementare e ginnasiale, prima nella scuola di Giovanni Racheli, poi in una sua propria, che in breve divise con quella i primi onori tra le moltissime della nostra città. Più tardi alla scuola unì un collegio convitto ordinato a nuova disciplina, ed in servigio di esso acquistò e rifabbricò il convento di S. Salvatore sopra Erba. Costretto dalla pedanteria de’ regolamenti austriaci a chiudere il collegio vi sostituì una pensione domestica. Studiò privatamente le leggi, e fu dottorato.

Il 18 marzo accorse alla difesa del Palazzo Civico. In mezzo al trambusto di quegli istanti che precedettero l’assalto de’ Croati, fu udito gridare: Alle finestre, alle finestre! fu veduto farsi col moschetto alla finestra, e tirarvi di molti colpi sul nemico. Ma non volle aspettarlo colà: esci coraggioso sulla via e fu subito ferito d’un colpo di bajonetta presso all’inguine: cercò riparo dietro una barricata, e poco stante due colpi di moschetto gli aprirono altre ferite. Pure ebbe animo e lena. Dilungatisi i barbari, procurò di strascinarsi alla sua casa: vi dolorò sino alla mattina di lunedì, e spirò con accanto la moglie e le sue due bambine, consolato dalla speranza del riscatto d’Italia. Dall’elogio di Achille Mauri, inserito nella Gazzetta Officiale di Milano del giorno 22 aprile.

Broggi.

Vedi quanto si è detto alla pag. 104 in nota.

Guy Giuseppe.

Fu uno dei primi martiri dell’indipendenza Lombarda, caduto combattendo sotto le mura di Milano, il secondo giorno della rivoluzione. In compagnia di suo fratello e di due suoi nipoti studenti di Pavia si mise alla testa di alcuni suoi terrazzani e di altri valorosi che si diedero a bersagliare il nemico appostato sugli spalti e ad assalirlo nelle sue frequenti sortite. Spintosi troppo innanzi l’inimico fu colto da un colpo di carabina, direttogli da un ussaro, ed immantinenti spirò nel quarantesimo anno di sua età.

Il giorno 2 di aprile nella terra di Filighera, a un miglio circa da Belgiojoso si celebrò la funebre pompa, che a renderla più solenne accorreva una folla di popolo e numerosi drappelli delle guardie dei comuni circonvicini. Suo cugino, Carlo Reale, pronunciò poche ma veritiere parole in lode del valoroso estinto, e conchiudeva: Fratelli, il nome e l’immagine di questo uomo generoso duri indelebile nella vostra memoria, e dall’esempio di lui apprendete quanto amore si debba alla causa santissima della nazione.

Stelzi Luigi.

Fra le vittime della rivoluzione dobbiamo annoverare anche Luigi Stelzi pel quale si celebravano le esequie nella chiesa di S. Carlo la mattina del giorno 28 marzo. Basta a sua lode l’epigrafe commoventissima che si leggeva alla porta del tempio:

FUNEBRE POMPA PER L’INGEGNERE LUIGI DI GIOACHIMO STELZI CHE SOLERTE NELLO STUDIO, PRODE NELLE ARMI VITTIMA AHI! TROPPO IMMATURA DI PATRIO AFFETTO MORIVA NEL CONFORTO DI RELIGIONE NEL COMPIANTO DI TUTTI SALUTATO DAL GRIDO ESULTANTE DELLA PATRIA RIVENDICATA NE’ VIOLATI DIRITTI FIGLI REDENTI D’ITALIA IL NOME DI LUI CHE A PREZZO DI SANGUE VI MATURAVA A PIU’ GLORIOSI DESTINI BENEDETTO PER SEMPRE VI RISIEDA NEL CUORE PER OTTENERVI UNA PREGHIERA UN VOTO CHE ACCELERI A LUI IL GAUDIO DEGLI ELETTI.

XVII.

INNI DIVERSI.[52]

CANTICO

Cantiam lieti Osanna! Osanna! Al Signor della vittoria. Non s’aspetta a noi la gloria, Solo al tuo nome, o Signor.

Che i portenti rinnovasti Operati in Israele, Noi, retaggio tuo fedele, Visitando nel dolor.

Quella fede in un evento Sospirato e in Ciel maturo, Quello sdegno ardente e puro Custodito in ogni cor;

La baldanza spensierata Del coraggio nel periglio, La sapienza nel consiglio, La possanza nell’amor.

Tutto, tutto fu tuo dono: A fanciulli trepidanti Prodigasti dei giganti L’ardimento ed il vigor.

Il superbo condottiere Forte d’armi e siti e squadre Truculenti, sozze e ladre Vaneggiò nel suo furor.

Sterminarci avea giurato: Dalle ignite instanti rocche Fulminavan mille bocche Sullo stretto abitator.

Per le piazze, per le vie Tuonan rei bronzi omicidi, Cui risponde in lieti gridi Dai serragli il difensor

Lungo il vallo una masnada Imbriaca, e d’ira pazza. Tetti e colti arde, e gavazza Tra i singulti di chi mor.

Nella notte il ciel divampa D’alte fiamme scellerate, Crollan, piombano sfasciate Case e torri ad or ad or.

Ma tra i gridi e le ruine, Tra il rimbombo de’ tormenti, Un rintocco assiduo senti Pio, solenne, animator.

A quel suon, quasi a banchetto Sulle barbare coorti, Irrompeano i pochi forti, E tu, Iddio, fosti con lor.

Il tuo soffio li trasporta Esultanti alla battaglia, Il tuo soffio apre e sbaraglia Il barbarico furor.

Mille e mille armati e istrutti, Qual minuta arena al vento, Van dispersi in un momento; Tutto è fuga, ansia e terror.

E tu pur fremente, a queste Mura audaci il tergo hai volto, Condottier superbo e stolto, Invilito nel dolor.

Fuggi: e come avrai dell’Alpi Guadagnata alfin l’altura, Volgi un guardo alla pianura Che hai coperta di squallor.

Sarà l’ultimo che manda Dalla sacra aerea cresta Sull’Italia che si desta Lo straniero usurpator.

Cantiam lieti Osanna! Osanna! Al Signor della vittoria, Non s’aspetta a noi la gloria, Solo al tuo nome, o Signor.

TOMMASO GROSSI.

INNO NAZIONALE

Fratelli d’Italia L’Italia s’è desta, Dell’elmo di Scipio S’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria?... Le porga la chioma, Chè schiava di Roma Iddio la creò:

Stringiamoci a coorte Siam pronti alla morte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò.

Noi siam da secoli Calpesti, derisi, Perchè non siam popolo, Perchè siam divisi. Raccolgaci un’unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme Già l’ora suonò.

Stringiamoci, ecc.

Uniamoci, uniamoci, L’unione e l’amore Rivelano ai popoli Le vie del Signore: Giuriamo far libero Il suolo natio: Uniti per Dio Chi vincer ci può?

Stringiamoci, ecc.

Dall’Alpe a Sicilia Dovunque è Legnano, Ogni uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano, I bimbi d’Italia Si chiaman Balilla, Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò.

Stringiamci, ecc.

Son giunchi che piegano Le spade vendute: Già l’Aquila d’Austria Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, Il sangue Polacco, Bevè col cosacco, Ma il sen le bruciò.

Stringiamci, ecc.

Evviva l’Italia dal sonno s’è desta Dell’elmo di Scipio S’è cinta la testa. Dov’è la vittoria? Le porga la chioma, Chè schiava di Roma Iddio la creò.

Stringiamci, ecc.

GOFFREDO MAMELI.

CANTO DI GUERRA

I.

Via da noi, Tedesco infido.

Non più patti, non accordi: Guerra! Guerra! Ogn’altro grido È d’infamia e servitù.

Su que’ rei, di sangue lordi,

Il furor si fa virtù.

Ogni spada divien santa Che nei barbari si pianta; È d’Italia indegno figlio Chi all’acciar non dà di piglio E un nemico non atterra:

Guerra! Guerra!

II.

Tentò indarno un crudo bando,

Ribadirci le catene; La catena volta in brando Ne sta in pugno, e morte dà.

Guerra! Guerra! Non s’ottiene

Senza sangue libertà.

Alla legge inesorata Fa risposta la Crociata; Fan risposta al truce editto Fermo core, braccio invitto, Ed acciaro che non erra:

Guerra! Guerra!

III.

Non ci attristi più lo sguardo

L’abborrito giallo e nero; Sorga l’Italo stendardo E sgomenti gli oppressor.

Sorga, sorga e splenda altero

Il vessillo tricolor.

Lieta insegna, insegna nostra, Sventolante a noi ti mostra; Il cammino tu ci addita, Noi daremo sangue e vita Per francar la patria terra:

Guerra! Guerra!

IV.

È la guerra il nostro scampo,

Da lei gloria avremo e regno: Della spada il fiero lampo Desti in noi l’antico ardir.

E d’Italia figlio indegno

Chi non sa per lei morir.

Chi tra l’Alpi e il Faro è nato L’arme impugni e sia soldato; Varchi il mare, passi il monte, Più non levi al Ciel la fronte Chi un acciaro non afferra:

Guerra! Guerra!

V.

Dal palagio al tetto umile

Tutto, tutto il bel paese Guerra eccheggi, e morte al vile Che tant’anni ci calcò.

Guerra suonino le chiese

Che il ribaldo profanò.

Vecchi, infermi, donne imbelli, Dei belligeri fratelli Secondate il caldo affetto: Guerra! Guerra! In ogni petto Che di vita un’aura serra,

Guerra! Guerra!

I CARRER.

CANTO DEL POPOLO PER I MORTI DELLA PATRIA

I.

Per la Patria il sangue han dato

Esclamando: ITALIA e PIO! L’alme pure han reso a Dio, Benedetti nel morir: Hanno vinto, e consumato Il santissimo martir.

Di que’ forti—per noi morti

Sacro è il grido, e non morrà.

II.

Noi per essi alfin redenti

Salutiamo i dì novelli: Sovra il sangue de’ fratelli Noi giuriamo libertà! E sul capo de’ potenti L’alto giuro tuonerà.

Di que’ forti—per noi morti

Sacro è il grido, e non morrà.

III.

Uno cadde, e sorser cento

Alla voce degli eroi: Or si pugna alfin per noi, Fugge insano l’oppressor; E lo agghiaccia di spavento La bandiera tricolor.

Di que’ forti—per noi morti

Sacro è il grido, e non morrà.

IV.

O Signor! sul patrio altare

Noi t’offrimmo i nostri figli: Scrivi in Ciel, ne’ tuoi consigli Dopo secoli, il gran dì! Or dall’Alpi insino al mare Tutta Italia un giuro unì!

GIULIO CARCANO.

DOCUMENTI CITATI NELL’OPERA

N. o I.

TRATTATO DI PACE

SEGNATO A LUNEVILLE

Milano, li 3 Pratile, anno 9 della Repubblica Francese.

PETIET Consigliere di Stato, Ministro Straordinario del Governo Francese nella Cisalpina.

AL COMITATO DI GOVERNO DELLA REPUBBLICA CISALPINA.

Dirigo al Comitato, giusta l’autorizzazione che ne ho ricevuta dal Governo Francese, una copia autentica del Trattato di Pace conchiuso in Luneville il dì venti Piovoso anno 9 tra l’Imperatore e la Repubblica Francese, e le ratifiche del quale sono state ricambiate.

Vi prego d’avere la compiacenza di rendere pubblico questo Trattato in tutti i dipartimenti, acciocchè il Popolo Cisalpino non abbia più ver un dubbio sulla sua Indipendenza, e sulla sua Sovranità.

Salute e considerazione Segnat. PETIET.

Per copia conforme

Il Segretario Generale Clavena.

BONAPARTE, primo console, in nome del popolo francese; I Consoli della Repubblica avendo veduto ed esaminato il Trattato conchiuso, stabilito e firmato a Luneville il giorno venti Piovoso anno nono della Repubblica Francese (nove febbrajo mille ottocento uno) dal Cittadino Giuseppe Bonaparte, Consigliere di Stato, in forza di pieni poteri, che gli erano stati conferiti per tale effetto, col Sig. Luigi, Conte del S. R. I., di Cobenzl, Ministro Plenipotenziario di S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, egualmente munito di pieni poteri; del qual Trattato segue il tenore:

Milano, 3 Pratile Anno 9 Repubblicano.

IL COMITATO DI GOVERNO AL POPOLO CISALPINO PROCLAMA

Sospirato dall’universale impazienza, rivocato in dubbio da pochi affatto nuovi ne’ politici arcani, o increduli per malizia, ecco finalmente in solenne forma comunicato dal Governo Francese il TRATTATO DI PACE conchiuso in Luneville, ratificato dalle due Potenze Contraenti. Questo Palladio della Indipendenza, della Sovranità, de’ destini futuri del Popolo Cisalpino, è stato rimesso al Comitato di Governo dal Cittadino Petiet, consigliere di Stato, Ministro Straordinario del Governo Francese, in conseguenza dell’autorizzazione, che ne ha ricevuta, e accompagnato con Lettera di questo giorno, che vien pubblicata colle stampe nelle due Lingue in fronte al Trattato.

Si levi il Popolo Cisalpino ad accogliere fra gli evviva festosi questo Monumento della lealtà della GRANDE NAZIONE. Il Governo non frappone ritardo ad ordinare, che sia proclamato ne’ luoghi più popolosi, e frequentati di tutti i Dipartimenti della Repubblica. A tutti i Cittadini debbe esser noto, tutti debbono conoscere, tutti custodire nella memoria un Trattato, che rinnovando la troppo disputata, ed ora più che mai inconcussa Convenzione di Campo-Formio, ripone la Repubblica Cisalpina nel novero delle Potenze d’Europa. Per esso la Repubblica rispettata al di fuori, potrà nell’interno fiorire ben ordinata e felice. Per esso saprà in breve adottare una Costituzione conforme alle sue relazioni politiche, alle sue fisiche circostanze, al carattere morale de’ suoi Cittadini, e sopra queste, come su Pietra fondamentale, elevare l’Edifizio di sagge Leggi, che le sue forze sviluppino, che rinvigoriscano i legami della concordia civile e de’ rapporti sociali, che migliorino i costumi, e così provvedano alla sicurezza, alla prosperità, alla gloria Nazionale.

Il Comitato di Governo

SOMMARIVA.—VISCONTI.—RUGA.

Clavena Segretario Generale.

TRATTATO DI PACE TRA L’IMPERATORE, RE D’UNGHERIA E DI BOEMIA E LA REPUBBLICA FRANCESE

Conchiuso in Luneville il dì venti Piovoso anno nono ( nove febbraio mille ottocento uno ) e le ratifiche del quale sono state ricambiate a Parigi il venticinque Ventoso anno nono.

Sua Maestà l’imperatore Re d’Ungheria e di Boemia, ed il primo Console della Repubblica Francese in nome del Popolo francese, avendo egualmente a cuore di far cessare le disgrazie della guerra, hanno risoluto di procedere alla conclusione d’un trattato definitivo di pace ed amicizia.

La detta S. M. I. e R. non desiderando meno vivamente di far partecipe l’Impero Germanico dei beneficj della pace, e non lasciando le presenti congiunture il tempo necessario affine che l’Impero sia consultato, e possa intervenire co’ suoi Deputati nella negoziazione; la detta M. S. avendo altronde riguardo a quanto si è consentito dalla Deputazione dell’Impero nel precedente Congresso di Rastadt, secondo l’esempio di quanto ha avuto luogo in simili circostanze, ha risolto di stipulare esso in nome del Corpo Germanico.

In conseguenza di che, le Parti contraenti hanno nominato per li Plenipotenziarj i seguenti, cioè:

S. M. I. R., il Sig. Luigi di Cobenzl, conte del S. R. I., cavaliere del Toson d’Oro, Gran Croce dell’Ordine Reale di S. Stefano, e dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, Ciambellano, Consigliere intimo attuale della detta M. S. I. R., suo Ministro di conferenze, e Vice-cancelliere di Corte e di Stato;

E il primo Console della Repubblica Francese a nome del Popolo Francese il Cittadino Giuseppe Bonaparte, Consigliere di Stato. I quali dopo aver cangiati i loro pienipoteri hanno decretato i seguenti articoli:

Art. 1. Vi sarà in avvenire, e per sempre pace, amicizia e buona intelligenza fra S. M. l’Imperatore e re di Ungheria e di Boemia, stipulante tanto in suo nome, quanto a nome dell’Impero Germanico e la Repubblica Francese, obbligandosi la detta M. S. a far dare dal detto Impero la sua ratifica in buona e dovuta forma al presente trattato. Sarà usata la più grande attenzione dall’una parte e dall’altra al mantenimento d’una perfetta armonia, per prevenire ogni sorta di ostilità per terra e per mare, sotto qualunque causa e qualunque pretesto che ciò possa essere, attaccandosi con premura a mantenere l’unione felicemente ristabilita. Non sarà dato alcun soccorso e protezione sia direttamente, sia indirettamente a quelli che volessero portar pregiudizio all’una o all’altra delle parti contraenti.

Art. 2. La cessione delle inaddietro Provincie Belgiche alla Repubblica Francese, stipulata nell’articolo 3 del trattato di Campo Formio, è qui rinnovata nella maniera la più formale, in modo che S. M. I. e Re per sè e per i suoi successori, tanto in suo nome, quanto in nome dell’Impero Germanico, rinuncia a tutti i suoi diritti e titoli alle dette Provincie, le quali saranno possedute in perpetuo, in tutta sovranità, e proprietà dalla Repubblica Francese con tutti i beni territoriali che ne dipendono.

Sono egualmente cedute alla Repubblica Francese da S. M. I. e R. e col consenso formale dell’Impero: 1. o il contado di Falckenstein colle sue dipendenze; 2. o il Fricktal, e tutto ciò che appartiene alla casa d’Austria sulla riva sinistra del Reno, fra Zurzach e Basilea; riservandosi la Repubblica Francese a cedere quest’ultimo paese alla Repubblica Elvetica.

Art. 3. Egualmente in rinnovamento e conferma dell’articolo sesto del trattato di Campo-Formio, S. M. l’Imperatore e Re possederà in tutta sovranità e proprietà i paesi qui sotto segnati, cioè: l’Istria, la Dalmazia e le Isole in addietro Venete dell’Adriatico e dipendenze, le bocche del Cattaro, la Città di Venezia, le Lagune, e i paesi compresi fra gli Stati ereditarj di S. M. l’Imperatore e Re, il Mare Adriatico, e l’Adige dalla sua uscita dal Tirolo fino alla sua imboccatura nel detto mare, servendo di linea di confine il Thalweg dell’Adige; e siccome con questa linea le Città di Verona e di Porto-Legnago si troveranno divise, saranno stabiliti nel mezzo dei ponti delle dette Città dei ponti levatoj che marcheranno la separazione.

Art. 4. L’articolo 18 del trattato di Campo-Formio è egualmente rinnovato, in quanto che S. M. l’Imperatore e Re si obbliga a cedere al Duca di Modena in indennizzazione dei paesi che questo principe, e i suoi eredi avevano in Italia, il Brisgaw, che egli possederà colle stesse condizioni, con cui possedeva il Modenese.

Art. 5. Si è inoltre convenuto che S. A. R. il Gran Duca di Toscana rinuncia per sè e suoi successori, e aventi causa al Gran Ducato di Toscana, ed alla parte dell’Isola d’Elba che ne dipende, come pure a tutti i diritti e titoli risultanti dai detti Stati, i quali saranno posseduti in avvenire in piena sovranità e proprietà da S. A. l’Infante duca di Parma. Il Gran Duca otterrà in Alemagna una indennità piena ed intiera de’ suoi Stati d’Italia.

Il Gran Duca disporrà a suo piacere dei beni e delle proprietà che egli possiede particolarmente in Toscana, provenienti sia da acquisto personale, sia per eredità da acquisti personali del fu S. M. l’Imperatore Leopoldo II, suo padre, o del fu S.M. l’Imperatore Francesco I suo avo. Si è altresì convenuto che i crediti, stabilimenti ed altre proprietà del Gran Ducato, come pure i debiti debitamente ipotecati su questo paese, passeranno al nuovo Gran Duca.

Art. 6. S. M. l’Imperatore e Re tanto in suo nome come in quello dell’Impero Germanico consente che la Repubblica Francese posseda d’ora in avanti in tutta sovranità e proprietà i paesi e dominj situati sulla riva sinistra del Reno, e che facevano parte dell’Impero Germanico; di modo che in conformità di quanto si era espressamente convenuto al congresso di Rastad dalla Deputazione dell’Impero, e si era approvalo dall’Imperadore, il Thalweg del Reno sarà d’ora in avanti il confine tra la Repubblica Francese e l’Impero Germanico, cioè dal distretto in cui il Reno lascia il Territorio Elvetico, fino a quello in cui egli entra nel Territorio Batavo.

In conseguenza di che la Repubblica Francese rinuncia formalmente ad ogni possesso qualunque sulla riva dritta del Reno, ed acconsente a restituire a chi appartiene le piazze di Dusseldorf, Ehrenbreitstein, Philisburg, il forte di Cassel, e altre fortificazioni in faccia a Magonza sulla riva dritta, il forte di Khel, Brisacco Vecchio, sotto l’espressa condizione, che queste piazze e questi forti continueranno a restare nello stato in cui si troveranno al tempo dell’evacuazione.

Art. 7. E siccome in conseguenza della cessione che fa l’Imperatore alla Repubblica Francese molti Principi e Stati dell’Impero si trovano privi in tutto o in parte de’ loro possessi, mentre deve l’Impero Germanico collettivamente sopportare le perdite risultanti dalle stipulazioni del presente trattato; si è convenuto fra S. M. l’Imperatore e Re tanto in suo nome, come a nome dell’Impero Germanico e la Repubblica Francese, che in conformità dei principj formalmente stabiliti al congresso di Rastad, l’Impero sarà tenuto a dare ai Principi ereditarj, che si troveranno privati di possesso sulla riva sinistra del Reno, una indennizzazione, che sarà presa nel seno del detto Impero secondo gli accomodamenti, che saranno ulteriormente determinati su queste basi.

Art. 8. In tutti i paesi ceduti, acquistati o cambiati nel presente trattato, si è convenuto, come si era fatto cogli articoli quarto e decimo del trattato di Campo-Formio, che quelli ai quali essi apparterranno, si caricheranno dei debiti ipotecati sul suolo dei detti paesi: ma attese le difficoltà che sono insorte a questo riguardo sopra l’interpretazione dei detti articoli del trattato di Campo-Formio, si è espressamente dichiarato, che la Repubblica Francese non prende a suo carico che i debiti risultanti da imprestito formalmente acconsentito dagli Stati dei detti paesi, o dalle spese fatte per l’amministrazione effettiva dei detti paesi.

Art. 9. Subito dopo il cambio delle ratifiche del presente trattato, sarà accordata in tutti i paesi ceduti, acquistati o cambiati col detto trattato, a tutti gli abitanti o proprietarj qualunque la liberazione dei sequestri posti sui loro beni, effetti, ed entrate a motivo della guerra che ha avuto luogo. Le parti contraenti si obbligano a compire quanto essi possono aver di debito per fondi loro prestati dai detti particolari o dagli stabilimenti pubblici dei detti paesi, ed a pagare o rimborsare ogni rendita stabilita a loro profitto sopra ciascuna di esse. In conseguenza di che si è espressamente riconosciuto che i proprietarj delle azioni del banco di Vienna divenuti francesi continueranno a godere del benefizio delle loro azioni, e avranno gl’interessi scaduti o da scadere, non ostante ogni sequestro ed ogni deroga, che saranno riguardati come non accaduti, specialmente la deroga risultante da ciò che i proprietarj divenuti francesi non hanno potuto fornire li 30 e li 100 per 100 domandati agli azionisti del banco di Vienna da S. M. l’Imperatore e Re.

Art. 10. Le parti contraenti faranno egualmente levare tutt’i sequestri che fossero stati messi a motivo di guerra sui beni, diritti ed entrate di S. M. l’Imperatore o dell’Impero nel territorio della Repubblica Francese, e dei cittadini francesi negli Stati della detta M. S. o dell’Impero.

Art. 11. Il presente trattato di pace, e specialmente gli articoli 8, 9, 10 e 15 seguente, è dichiarato comune alle repubbliche Batava, Elvetica, Cisalpina e Ligure.

Le parti contraenti garantiscono vicendevolmente l’indipendenza delle dette Repubbliche, e la facoltà ai popoli che le abitano di adottare quella forma di governo che i detti popoli giudicheranno convenevole.

Art. 12. S. M. I. E R. RINUNCIA PER SÈ, E PER I SUOI SUCCESSORI IN FAVORE DELLA REPUBBLICA CISALPINA A TUTTI I DIRITTI E TITOLI PROVENIENTI DA QUESTI DIRITTI, CHE S. M. POTREBBE PRETENDERE SUI PAESI CHE POSSEDEVA AVANTI LA GUERRA, E CHE AL PRESENTE GIUSTA L’ARTICOLO VIII DEL TRATTATO DI CAMPO-FORMIO FANNO PARTE DELLA REPUBBLICA CISALPINA, LA QUALE POSSEDERA’ I DETTI PAESI IN TUTTA SOVRANITA’ E PROPRIETA’ CON TUTTI I BENI TERRITORIALI CHE NE DIPENDONO.

Art. 13. S. M. I. e R. tanto in suo nome come a nome dell’Impero Germanico conferma l’adesione già data col trattato di Campo-Formio alla riunione degli inaddietro feudi imperiali alla Repubblica Ligure, e rinuncia a tutti i diritti e titoli provenienti da questi diritti sui detti feudi.

Art. 14. Conformemente all’articolo 11 del trattato di Campo-Formio, la navigazione dell’Adige, il quale serve di confine tra S. M. I. e R. e la Repubblica Cisalpina, sarà libera, senza che l’una parte e l’altra non possano stabilirvi alcun pedaggio, nè tenervi alcun bastimento armato in guerra.

Art. 15. Tutti i prigionieri di guerra fatti dall’una parte e dall’altra, come pure gli ostaggi levati o dati durante la guerra, che non saranno ancora stati restituiti, lo saranno in 40 giorni, cominciando da quello della segnatura del presente trattato.

Art. 16. I beni stabili e personali non alienati di S. A. R. l’Arciduca Carlo, e degli eredi della fu S. A. R. Sig. Arciduchessa Cristina, che sono situati nei paesi ceduti alla Repubblica Francese, saranno loro restituiti a condizione di venderli nello spazio di 3 anni.

Lo stesso sarà dei beni stabili e personali delle LL. AA. RR. l’Arciduca Ferdinando e Madama l’Arciduchessa Beatrice sua sposa nel territorio della Repubblica Cisalpina.

Art. 17. Gli articoli 12, 13, 15, 16, 17 e 23 del trattato di Campo-Formio sono particolarmente richiamati per essere eseguiti secondo la loro forma e tenore come se fossero inseriti parola per parola nel presente trattato.

Art. 18. Le contribuzioni, consegne, forniture e prestazioni qualunque di guerra cesseranno d’aver luogo dal giorno del cambio delle ratifiche date al presente trattato da una parte da S. M. l’Imperatore e dall’Impero Germanico, e dall’altra parte dalla Repubblica Francese.

Art. 19. Il presente trattato sarà ratificato da S. M. l’Imperatore e Re, dall’Impero Germanico e dalla Repubblica Francese nello spazio di 30 giorni o più presto se si può; e si è convenuto che le armate delle due Potenze resteranno nelle posizioni in cui esse si trovano tanto in Germania come in Italia, finattantochè le dette ratifiche dell’Imperatore e Re, dell’Impero, e della Repubblica Francese, siano state simultaneamente cambiate a Luneville tra i rispettivi Plenipotenziarj.

Si è altresì convenuto, che dieci giorni dopo il cambio delle dette ratifiche, le armate di S. M. I. e Re saranno rientrate sui suoi possessi ereditarj, i quali saranno evacuati nel medesimo spazio delle armate francesi, e che 30 giorni dopo il detto cambio, le armate francesi avranno evacuato la totalità del territorio del detto impero.

Fatto e segnato a Luneville li venti Piovoso, anno nono della Repubblica Francese (nove Febbrajo mille ottocento uno.)

Segnato LUIGI CONTE DI COBENZL

GIUSEPPE BONAPARTE.

Approva il Trattato qui sopra, in tutti ed ognuno degli Articoli che vi sono contenuti; dichiara ch’egli è accettato, ratificato e confermato, e promette che lo stesso sarà inviolabilmente osservato.

In fede di che si sono date le presenti segnate, contrassegnate, e sigillate col gran sigillo della Repubblica.

Parigi, li venti Ventoso anno nono della Repubblica (undici marzo mille ottocento uno.)

Segnato BONAPARTE.

Il Ministro delle relazioni estere Segnat. CH. MAU. TALLEYRAND.

Per il Primo Console Il Segretario di Stato Segnat. HUGUES B. MARET.

Sigillato col gran sigillo di cera rossa sopra lacci di seta turchina, intrecciata d’oro e d’argento; il sigillo rinchiuso in una scatola d’argento indorato, nel di sopra della quale è impressa e scolpita la figura emblematica della Repubblica.

Certificato conforme: Il Ministro Straordinario del Governo Francese in Milano li 3 Pratile, anno 9. PETIET.

ARTICOLI

DEL TRATTATO DI CAMPO-FORMIO

CITATI E CONFERMATI

DAL SUDDETTO TRATTATO DI LUNEVILLE.

Nell’articolo 2 del Trattato di Luneville.

3. Sua Maestà l’Imperatore, Re d’Ungheria, e di Boemia rinunzia per sè, e suoi Successori in favore della Repubblica Francese a tutti i suoi diritti e titoli su le già Provincie Belgiche conosciute sotto il nome di Paesi Bassi Austriaci.

La Repubblica Francese possederà questi Paesi a perpetuità in tutta sovranità e proprietà, e con tutti i beni territoriali che ne dipendono.

Nell’articolo 3.

6. La Repubblica Francese acconsente, che Sua Maestà l’Imperatore e Re possegga in tutta sovranità e proprietà i Paesi designati qui appresso, cioè, l’Istria, la Dalmazia, le Isole ex-Venete dell’Adriatico, le Bocche di Cattaro, la Città di Venezia, le Lagune e i Paesi compresi fra gli Stati Ereditarj di S. M. l’Imperatore e Re, il Mare Adriatico, e una linea che partirà dal Tirolo, seguirà il Torrente davanti alla Gardola, attraverserà il lago di Garda sino a Larise; di là una linea militare sino a San Giacomo, offrendo un vantaggio eguale alle due Parti, la quale sarà designata da Ufficiali del Genio nominati da una parte e dall’altra prima del cambio delle ratifiche del presente Trattato. La linea di confine passerà in seguito tra l’Adige a San Giacomo, seguirà la riva sinistra di questo fiume sino all’imboccatura del Canal-bianco, compresavi la parte di Porto Legnago, che trovasi sulla riva destra dell’Adige, col circondario d’un raggio di tre mila tese. La linea si continuerà per la riva sinistra del Canal-bianco, per la riva sinistra del Tartaro, per la riva sinistra del canale detto la Polesella, sino alla sua imboccatura nel Pò, e per la riva sinistra del gran Pò sino al mare.

Nell’articolo 4.

18. Sua Maestà l’Imperatore, re d’Ungheria e di Boemia s’obbliga di cedere al Duca di Modena, per indennità de’ Paesi, che questo Principe e i suoi Eredi aveano in Italia, la Brisgovia, ch’egli possiederà alle medesime condizioni di quelle in virtù delle quali egli possedeva il Modenese.

Nell’articolo 8.

4. Tutti i debiti ipotecati prima della guerra nel suolo de’ Paesi enunciati negli articoli precedenti, e i contratti de’ quali saranno rivestiti delle formalità usitate, saranno a carico della Repubblica Francese. I Plenipotenziarj di S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, ne rimetteranno la nota il più presto possibile al Plenipotenziario della Repubblica Francese, e prima del cambio delle ratifiche, affinchè al tempo del cambio, i Plenipotenziarj delle due Potenze possano convenire di tutti gli articoli spiegativi, o addizionali al presente articolo, e firmarli.

10. I Paesi ceduti, acquistati, o permutati nel presente Trattato, porteranno a quelli cui resteranno, i debiti ipotecati sul loro suolo.

Nell’articolo 12.

8. Sua Maestà l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, riconosce la REPUBBLICA CISALPINA COME POTENZA INDIPENDENTE.

Questa Repubblica comprende l’ex-Lombardia Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la Città e Fortezza di Mantova, il Mantovano, Peschiera, la parte degli Stati ex-Veneti all’Ovest e al Sud della linea indicata nell’articolo 6 per la frontiera degli Stati di S. M. l’Imperatore in Italia: il Modenese, il Principato di Massa e Carrara, e le tre Legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna.

Nell’articolo 14.

11. La navigazione della parte de’ fiumi e canali, che servono di confine tra i possessi di S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, e quelli della Repubblica Cisalpina, sarà libera, senza che nè l’una nè l’altra Potenza possa stabilirvi alcun pedaggio, nè tenervi alcun bastimento armato in guerra; ciò che non esclude le cautele necessarie alla sicurezza della Fortezza di Porto Legnago.

Nell’articolo 17.

12. Tutte le vendite o alienazioni fatte, tutti gli impegni contratti sia dalle Città o dal Governo, o dalle Autorità Civili, ed Amministrative de’ Paesi ex Veneti pel mantenimento delle Armate Tedesche e Francesi, sino alla data della segnatura del presente Trattato, saranno confermati, o riguardati per validi.

13. I titoli demaniali ed archivj de’ diversi paesi ceduti, o permutati col presente Trattato, saranno rimessi nello spazio di tre mesi dalla data del cambio delle ratifiche alle Potenze che ne avranno acquistata la proprietà. I piani e carte delle Fortezze, Città e Paesi, che le Potenze contraenti acquistano col presente Trattato, saranno loro rimesse fedelmente.

15. Sarà conchiuso senza ritardo un Trattato di Commercio stabilito su basi eque, e tali che assicurino a S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, e alla Repubblica Francese, vantaggi uguali a quelli, di cui godono negli Stati rispettivi le Nazioni più favorite.

Intanto, tutte le comunicazioni e relazioni commerciali saranno ristabilite nello stato in cui erano prima della guerra.

16. Nessun abitante di tutti i Paesi occupati dalle Armate Austriache e Francesi, non potrà essere perseguitato, nè ricercato, sia nella sua Persona, sia nelle sue Proprietà, a motivo delle sue opinioni politiche, o azioni civili, militari e commerciali, durante la guerra, che ha avuto luogo tra le due Potenze.

17. S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia non potrà, secondo i principj di neutralità, ricevere in ciascun de’ suoi Porti, durante il corso della guerra presente, più di sei Bastimenti armati in guerra appartenenti a ciascuna delle Potenze belligeranti.

23. S. M. l’Imperatore, Re d’Ungheria e di Boemia, e la Repubblica Francese conserveranno tra loro lo stesso cerimoniale, quanto al rango e alle altre etichette, quale è stato costantemente osservato prima della guerra.

La detta Maestà Sua e la Repubblica Cisalpina avranno fra loro lo stesso cerimoniale d’etichetta che era in uso fra la detta Maestà Sua e la Repubblica di Venezia.

N. o II

PROCLAMA.

Noi Enrico conte di Bellegarde,

Ciambellano e Consigliere intimo di Stato di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica, Commendatore dell’Ordine Militare di Maria Teresa, Gran Croce di Leopoldo, Colonnello proprietario di un Reggimento di Cavalleggieri, Maresciallo, Presidente del Consiglio Aulico di Guerra e Comandante in Capo dell’Armata d’Italia.

La Pace segnata a Parigi il 30 maggio p. p. ha fissato su basi solide e sicure la tranquillità ed il destino d’Europa.

La sorte di questi paesi fu del pari determinata.

Popoli della Lombardia, del Mantovano, Bresciano, Bergamasco e Cremasco, un felice destino vi attende; le vostre Provincie sono definitivamente aggregate all’Impero dell’Austria.

Voi resterete tutti uniti ed egualmente protetti sotto lo scettro dell’Augustissimo Imperatore e Re FRANCESCO I, Padre adorato de’ suoi sudditi, Sovrano desideratissimo di quegli Stati che hanno la bella sorte di essergli soggetti.

Dopo di avere colle sue armi gloriose compiuta la più grande impresa, Egli si restituisce fra le benedizioni de’ Popoli alla sua Capitale, dove le prime e particolari sue cure e sollecitudini saranno dirette a dare alle vostre Provincie una forma soddisfacente e costante, ed una organizzazione che verrà ad assicurare la vostra futura felicità.

Ci affrettiamo di rendere noti ai popoli delle dette provincie questi graziosi sentimenti della Maestà Sua, e restiamo persuasi che il vostro spirito esulterà per un’epoca sì fausta e memorabile, e la vostra gratitudine trasmetterà ai più tardi nepoti una indelebile riprova di devozione e di fedeltà.

Milano, il 12 giugno 1814.

BELLEGARDE

N. o III.

AL POPOLO

Molti domandano perchè dobbiamo astenerci dal fumar tabacco e dal giuocare al lotto? È spiegato in due parole. I Tedeschi oltre i tanti milioni che portano via agli aggravj messi per forza sulle campagne, sulle case e sulle mercanzie, ci portano via di più quasi 8 milioni ogni anno, che noi non paghiamo per forza ma volontariamente. Questi 8 milioni sono l’imposta sui nostri vizj e sulla nostra ignoranza. Difatto chi ci obbliga a comperare a sì caro prezzo un po’ di fumo, a pagare il tabacco il quadruplo di quello che vale? Chi ci obbliga a giuocare al lotto? E non capite voi che questo è un giuoco in cui l’impresa è sicura di vincere, una vera ladreria, che se qualcuno volesse metterla su per suo conto anderebbe in prigione come truffatore? E poi sapete quel che possono dire di noi? Possono dire che siamo un popolo di oziosi, che consumiamo ogni anno 7 od 8 milioni in tabacco e dopo ci lamentiamo che manca il pane ed il lavoro; possono dire che siamo un popolo di minchioni, che ogni anno gettiamo in un giuoco d’azzardo 8 o 9 milioni, e che per la gola di guadagnare senza fatica togliamo tutte le settimane il pane di bocca ai nostri figliuoli e torniamo sempre alla stessa trappola. E sono 30 anni che la trappola lavora, e avrà ingojato a quest’ora forse più di 150 milioni. Guarda, o popolo, che bel patrimonio hai gettato via senz’accorgerti per un po’ di fumo, un po’ di puzza ed un po’ di speranza che somiglia all’amo con cui si prendono i pesciolini!

Non è dunque nè per capriccio nè per una prepotenza che chi ha occhi in testa consiglia di non fumare e di non giuocare al lotto, ma è pel nostro meglio. Così si vedrebbe che non siamo minchioni, e che sappiamo calcolare il nostro interesse e andar d’accordo tra di noi alla barba delle spie e dei poliziotti che predicano la discordia e l’ignoranza, e vorrebbero vedere che noi stessi ajutassimo colle nostre mani a cavarci la pelle.

N. o IV.

Eccellenza!

Ogni qualvolta lamentevoli circostanze percuotono la popolazione, crede il Collegio Municipale debito suo farne soggetto di rimostranza all’autorità che ci regge, onde vengavi posto riparo. Nè crederebbe servire al proprio mandato che tiene e dalla cittadinanza e dal sovrano, se mancasse in ciò di quella solerte vigilanza, di quell’affetto al buon ordine, di quel desiderio ridotto in atto, che tutto collima alla tranquillità, alla pace. Egli è perciò che la rispettosa Congregazione Municipale non dubita far presente all’E. V. quale funesto effetto generi negli animi dei cittadini tutti il nessun rispetto che vien adoperato verso la personale sicurezza col sistema ormai adottato delle improvvise deportazioni. Poichè qual legge mette in diffida il suddito di tal genere di pena? a qual delitto vien essa applicata? Nessun atto della Sovrana Maestà è o fu giammai promulgato che determini gli estremi di tale procedura, sicchè possa il cittadino imputare a sè medesimo se di tale penalità venga afflitto. Se nei cittadini havvi delitto o mancamento alcuno, perchè non si consegnano ai tribunali per il regolare processo? È forse pietà l’attribuire una pena che si direbbe minore a quella dal Codice comminata per le loro colpe? Chi ne sarà persuaso senza procedimenti? Si proceda dunque, si sentenzii se delitto esiste, e se dappoi la Clemenza Sovrana in luogo di un carcere rigoroso infliggerà una deportazione, sarà tale atto benedetto qual grazia, mentre attualmente è imprecato come arbitrario abuso di autorità. L’E. V. è testimonio quale favorevole effetto avesse prodotto il proclama vicereale del 9 gennajo: come se si fosse in quelle vie progredito, a poco a poco poteva sperarsi un rallentamento nello spirito pubblico, una remissione dal sentimento di alienazione d’animo. Ma tutto si distrusse col proclama imperiale del giorno 17, col pubblicare articoli offensivi al carattere e situazione del paese, col sistema delle deportazioni E perchè esacerbare una piaga che doveva essere medicata? Eccellenza, la congregazione comunale si rivolge alla conosciuta probità che la distingue, perchè voglia farsi organo dei giusti lamenti di una cittadinanza che fu sempre obbediente, sottomessa all’autorità, nè si eresse giammai a contrapporre la minima resistenza.

Qualunque dimostrazione possa essere stata messa in campo, lo fu ad esprimere voti di migliorata situazione, della quale veniva data al pubblico solenne fondata speranza. Sia tutelata adunque la pubblica e privata sicurezza, nè gli individui abbiano a temere di vedersi rapiti alle loro famiglie per essere deportati in lontane ed estranee regioni senza conoscerne il perchè. I padri, le madri, le mogli, i figli non abbiano ad ogni romore che rompe il silenzio della notte, ad immaginarsi gli agenti di polizia invadere il santo asilo di famiglia onesta, sturbata la domestica pace, vedersi rapire gli oggetti più cari al loro cuore, ad onta che nessuna taccia di colpa venga loro rinfacciata. L’Eccellenza Vostra può ben comprendere che non sono tali atti che ponno rannodar fra loro in iscambievole amicizia i popoli che obbediscono ad un medesimo scettro, nè questi con coloro che esercitano in nome di principe clementissimo un’autorità che ci limiteremo a chiamare rigorosa.

Confida novellamente la Congregazione della R. Città di Milano che non abbia ad esser vana questa rispettosa rimostranza, e che l’E. V. saprà appoggiarla con tutta l’energia di un degno magistrato che fu sempre difensore della giustizia, protettore dell’innocenza, propugnatore dell’equità.

Sott. il Podestà e tutti gli Assessori.

N. o V.

I. R. DIREZIONE GENERALE DELLA POLIZIA

AVVISO

Gente inquieta e facinorosa, sparsa in numero considerevole nei punti principali e più frequentati di questa Città, osava jeri d’ingiuriare in pubblico tranquilli abitanti per impedir loro l’uso innocente di fumar tabacco, ed ardiva farlo anche attruppandosi e violentando i passaggeri colti a fumare.

A reprimere un tanto eccesso e per dissipare gli attruppamenti, furono attivate pattuglie di forza armata; e perchè non si rinnovino questi colpevoli tentativi, si avverte il Pubblico, che saranno tosto arrestati coloro che vi si abbandonassero; che la Forza pubblica di Polizia procederà, completamente armata, per rintuzzare con vigore ogni criminosa resistenza, e che, a tenore dell’Avviso pubblicato il giorno 10 Settembre pross. o sc. o si userà di tutto il rigore per dissipare ogni attruppamento.

Dovranno quindi imputare a sè stessi la qualunque dannosa conseguenza che derivasse da queste necessarie disposizioni anche coloro che si confondessero, sebbene inoperosi, coi turbolenti; e ne dovranno egualmente accagionare sè stessi quei genitori, quei tutori, quei padroni di botteghe che non sapessero vegliare sui loro figli, tutelati e garzoni per impedirli dal prender parte anche di sola curiosità nei ripetuti attruppamenti, non potendosi in simili casi distinguere gli innocenti dai colpevoli.

Essendo pure da qualche tempo invalso ed esteso l’abuso riprovevole d’imbrattare all’esterno le muraglie delle Chiese, dei Pubblici edificj e delle Case private con maligne iscrizioni, con cartelli ingiuriosi, e con segni figurativi indecenti, s’ingiunge a tutti il divieto di praticarlo, sotto comminatoria dell’immediato arresto, salvo quant’altro fosse di legge.

Eguale misura del personale arresto, e colla stessa riserva di quant’altro fosse di legge, sarà adoperata a far cessare i canti, le grida e gli schiamazzi smodati che si frequentano di notte, e che sono per sè stessi contrarii alla quiete generale degli abitanti. E perchè nelle predette iscrizioni e canti si ardisce di far abuso talvolta del nome Venerabile e Sacro del Sommo Pontefice, si ricorda come Esso nell’allocuzione detta nel Concistoro tenuto il giorno 4 Ottobre p. p. siasi in proposito espresso come segue:

«Gravissimamente ci duole non per tanto che in varii luoghi vi abbino alcuni i quali temerariamente del Nostro Nome abusino con gravissimo oltraggio alla Nostra Persona ed alla Suprema Nostra Dignità. La qual cosa (conchiude l’altefatta Santità Sua) certamente Noi grandemente abborriamo qual contraria alle nostre intenzioni, come appare dalle nostre Encicliche a tutti i nostri Venerabili Fratelli, i Vescovi, indirizzate il 9 di Novembre scorso.»

Si ricorda da ultimo ai sudditi il divieto di portare coccarde od altri emblemi stranieri, ed a tutti poi qualsiasi altro distintivo politico, simbolo o segno di ricognizione, sotto comminatoria dell’arresto, salvo quant’altro fosse di legge.

Milano, dall’I. R. Direzione Generale della Polizia, nelle Provincie Lombarde, il 3 Gennajo 1848.

L’I. R. Consigl. Aulico Attuale Dirett. Gener. della Polizia

Barone DE TORRESANI-LANZENFELD.

L’I. R. Segretario Wagner

N. o VI.

I. R. DIREZIONE GENERALE DELLA POLIZIA

AVVISO.

Colla mira di evitare disgrazie, si trova di avvertire nuovamente il Pubblico a tenersi lontano da qualunque attruppamento od unione di popolo, giacchè la Forza pubblica, chiamata all’esercizio de’ proprii doveri, trovandosi nell’impossibilità di distinguere i colpevoli dai semplici spettatori curiosi, questi incauti si espongono al pericolo di essere confusi coi perturbatori.

Milano, dall’I. R. Direzione Generale di Polizia, il 4 Gennajo 1848.

L’I. R. Consigl. Aulico Attuale Dirett. Gener. della Polizia

Barone DE TORRESANI-LANZENFELD.

L’I. R. Segretario Wagner.

N. o VII.

LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA REGIA CITTA’ DI MILANO

CITTADINI!

Non ha guari la vostra Magistratura dirigeva a voi parole di esultanza; ora è coll’accento dell’afflizione che fa sentire la propria voce. Dolorose scene funestarono le nostre contrade; lo spavento invadeva la cittadinanza inerme; parecchie famiglie sono nel lutto.

I vostri rappresentanti non si ristettero dall’accorrere, per quanto era in loro potere, ad arrestare il braccio del rigore. Ma gli sforzi della loro buona volontà non avrebbero il bramato effetto senza la vostra cooperazione al santo scopo della pace e della tranquillità. Taluni imaginarono erigersi in censori perchè venisse eseguita una legge ora caduta per consuetudine in disuso che vieta fumare per le strade. Questo fatto dovette richiamare l’attenzione di chi è costituito a tutelare le leggi, nè potea imporre a coloro che non vi si credeano astretti.

Cittadini! Il rispetto alle leggi, ed al libero esercizio degli individuali diritti dalle leggi non limitati costituiscono la guarentigia della civile società. Questi santi principj siano da voi rispettati, e nessuno si permetta disconoscere l’autorità, nè impedire a ciascuno l’esercizio de’ proprj diritti.

Se la vostra Magistratura ha sull’animo vostro, come si lusinga, quell’impero che solo dà la fiducia che avete posto in lei, mostratelo coll’accogliere quest’invito. Quelli che vi parlano sono cittadini tolti di mezzo a voi, che con voi dividono ogni interesse. Ascoltateli e date con ciò la migliore caparra della vostra benevolenza verso di loro; locchè servirà a sempre più mantenere viva quella fiamma d’amore del bene che li guida e li conduce a tutto adoperarsi per tutti.

Li 4 gennajo 1848.

CASATI, Podestà. Assessori Bellotti, V. Crivelli, Mauri, Beretta, Greppi, Belgiojoso,

Silva, Segretario.

N. o VIII.

IL VICERÈ

DEL REGNO LOMBARDO-VENETO

AGLI ABITANTI

della Regia Città di Milano.

I troppo deplorabili avvenimenti verificatisi in questi ultimi giorni in Milano hanno recato all’animo Mio un grave dispiacere, hanno portato una profonda ferita al mio Cuore.

Dopo tante prove indubbie di attaccamento alla persona di Sua Maestà ed al Suo Governo per parte degli abitanti di queste Provincie, anche in epoche difficili, fu per Me ben inaspettato il vedere come una parte di questa popolazione, tanto pacifica e rispettosa verso le Autorità, abbia in questi giorni potuto lasciarsi strascinare fuori del consueto suo contegno per l’impulso di pochi malevoli che, avversi per indole ad ogni sorte d’Autorità e di ordine, si compiacciono di spargere il malcontento e di promuoverne le malaugurate conseguenze.

L’andamento regolare di qualunque Amministrazione può sempre abbisognare di progressivi miglioramenti. Manifestazioni turbolente non potrebbero che rallentarne la decisione Suprema e renderebbero deluse le Mie più fondate speranze, non potendo in allora innalzare al trono di Sua Maestà i voti, che non avrebbero in loro favore l’appoggio della tanto desiderata moderazione.

Mentre frattanto è Mia sollecita cura di sopravvegliare alla sicurezza personale di tutti gli abitanti di questa Città, è d’altronde del Mio stretto dovere di non permettere che l’unione di volontà private presuma di ledere la libertà individuale assicurata come è dalle Nostre savie leggi.

Diletti Milanesi! Io ebbi già delle prove del Vostro attaccamento anche alla Mia persona, ed ora confido nella conosciuta Vostra prudenza e moderazione. Siate dunque tranquilli, fidate in Chi è preposto alla direzione ed al savio ordinamento de’ Vostri bisogni, e non tarderete a conoscere come la Sovrana benignità sappia provvedere al pubblico bene.

Milano, il 5 gennajo 1848.

RANIERI.

N. o IX.

Ecco il famoso proclama di Radetzky:

Sua Maestà l’imperatore, determinato a difendere il regno Lombardo-Veneto, come ciascun’altra parte de’ suoi Stati contro qualsiasi attacco del nemico, venga dal di fuori o dal di dentro, secondo i suoi diritti ed il suo dovere, mi ha permesso, per mezzo del maresciallo di Corte a ciò incaricato, di render noto a tutte le truppe dell’armata che stanno in Italia, questa sua determinazione, persuaso che questa sua volontà troverà validissimo appoggio nel valore e nella fedeltà dell’armata:—Soldati! voi avete udito le parole dell’Imperatore: io sono altero di farvele note: contro la vostra fedeltà e valore si romperanno gli sforzi del fanatismo e dello spirito infedele d’innovazione, come fragile vetro contro una roccia.

Salda freme ancora la spada che ho impugnato con onore per sessantacinque anni in tante battaglie, saprò adoperarla per difendere la tranquillità d’un paese poco tempo fa felicissimo, e che ora una fazione frenetica minaccia di precipitare nella miseria.—Soldati! il vostro Imperatore conta sopra di voi; il vostro vecchio capitano si affida in voi, e tanto basti! Che non ci sforzino a spiegare la bandiera dell’aquila a due teste! La forza de’ suoi artigli non è ancora fiaccata. Sia nostra divisa difesa e tranquillità ai cittadini amici e fedeli, e distruzione al nemico che osa con mano traditrice attentare alla pace, al ben essere de’ popoli.

Milano, 18 gennajo 1848.

N. o X.

IL VICERÈ

DEL REGNO LOMBARDO-VENETO

AGLI ABITANTI

della Regia Città di Milano.

Le ultime Mie parole a Voi dirette hanno trovato, ne sono certo, la via della Vostra mente, non che quella del Vostro cuore, giacchè dal Mio uscivano.

Vuolsi però essere ancora i Vostri pensieri conturbati, le Vostre famiglie angustiate. Ritorno dunque come padre a Voi tutti, e come Capo Supremo del governo dal Sovrano alle Mie cure fidato a ripetervi l’assicuranza che, se per un momento di conflitto, suscitato da circostanze tanto strane che non poterono essere riparate, perchè non da prevedersi, fu la Vostra Città messa in allarme, tengo però più strettamente unite nelle Mie mani tutte le redini del potere che Vi deve tutelare. Siccome nessuno di Voi può dubitare che è la mia volontà di farne l’uso conveniente affinchè sia l’ordine pubblico ristabilito, ed ognuno mantenuto nella sfera delle sue attribuzioni, come nei limiti del suo dovere, deponete ogni inquietudine, diletti Milanesi, e venite col Vostro contegno in ajuto delle Autorità che hanno carico di sopravvegliare alla sicurezza personale di tutti.

Vi rinnovo in quest’occasione l’espressione delle Mie fondate speranze di vedere ponderati dalla Sovrana saviezza ed accolti dalla grazia di Sua Maestà i voti espressimi in via legale, che di già sono o stanno per essere innalzati al Trono.

Frattanto diffidatevi delle moltiplici menzognere novità insidiosamente sparse per mantenere l’inquietudine ed il fermento degli spiriti. I rapporti delle Provincie del Regno intiero concorrono in dare la prova come l’ordine pubblico non vi sia stato in nessuna parte turbato.

Una confidenza reciproca sarà sempre mai la sorgente la più feconda d’ogni bene: confidate dunque in Me come confido in Voi.

Milano, il 9 gennajo 1848.

RANIERI

Stava correggendo queste pagine quando la Gazzetta di Milano del giorno 3 maggio pubblicò la seguente lettera scritta dall’ex Vicerè all’ex Governatore della Lombardia, la quale ci dà alcuni schiarimenti sul suo modo di pensare e di agire intorno ai fatti del 3 gennaio. Credo di fare cosa non ingrata a’ miei lettori riportandola in questo luogo. Siano tutti gli Italiani istrutti dell’ipocrisia con cui si servì per così lunga serie d’anni quest’austriaco principe onde corrispondere alla sincera affezione dei Lombardi e Veneti.

N. o 19-Seg.

Ho udito che il club des Lions si chiude bensì, secondo le regole, ad un’ora, che pure la maggior parte dei membri sì ritirano a mezzanotte, ma però che alcuni di essi rimangono in una camera secondaria fino alle sei del mattino col loro segretario Chiodi, probabilmente onde trattare dei loro piani rivoluzionari e stabilirli.

Mi si disse pure che i clubisti mandano in giro la loro servitù, e che aizzano altra gente a disordini e schiamazzi notturni. Così pure che essi ebbero influenza sulla circolare sparsa da pochi dì nel pubblico, con cui si animava a non fumare. La prego quindi di incaricare immantinente la Polizia che cerchi, con ogni qualsiasi mezzo che ha a sua disposizione, di accertarsi della verità delle accuse suddette, e specialmente della prima, ponendo confidenti in vicinanza del locale del club, e nel caso che fosse vera, di notare il nome di quelli che rimangono di notte, al loro escire dal locale del club, onde scoprire forse per tal modo i capi dei disordini.

Nel caso che il rapporto fosse verace che da alcuni membri del club vi rimangono fino al mattino, allora deve la Polizia circondare immediatamente il club medesimo, e procedere secondo le circostanze.

Così pure mi fu riferito come cosa certa che nella abitazione del segretario Chiodi si trovi una quantità di scritti, che ponno dar luce sulle macchinazioni del club; quindi sarebbe bene il perquisire inaspettatamente la sua casa.

Riguardo poi alla proibizione del fumare, onde coglier sul fatto quei perturbatori che si permettono, contro chi fuma, invettive ed atti inurbani, il miglior mezzo sarebbe forse questo, di mandar in giro travestite alcune guardie di Polizia e gendarmi col cigarro in bocca, e farli poi seguire a qualche distanza da altre guardie travestite onde arrestare i perturbatori.

Siccome poi questi movimenti popolari, che cominciano a darsi a conoscere (planmässig) ben organizzati, senza dubbio vengono diretti da un Comitato segreto, così è di somma importanza il conoscere i membri di esso; e siccome l’esperienza insegna che in questo paese col danaro si possono conoscere le cose più segrete, e d’altra parte vengo assicurato da persone degne di fede che il sig. Direttore Generale di Polizia adopera questo metodo molto economicamente, così ella avrà a significargli a mio nome di usare di questo mezzo più largamente, essendochè, nel caso contrario, egli dovrebbe rispondere personalmente.

Che poi il disordine di jeri fosse promosso da persone ben vestite, appostate a tal uopo, col mezzo di parole e di denaro, ciò si rileva dall’acchiuso rapporto d’un ben intenzionato impiegato, che si trovava in mezzo alla turba clamorosa, e quindi fu testimonio oculare dell’incitamento.

Milano, 3 gennajo 1848.

Ranieri, m. p.

Al Governatore della Lombardia Conte Spaur.

Milano.

N. o XI.

NOI FERDINANDO I. o,

per la grazia di Dio

IMPERATORE D’AUSTRIA

Re d’Ungheria e Boemia, quinto di questo nome; Re di Lombardia e Venezia, di Galizia, Lodomiria ed Illiria; Arciduca d’Austria, ecc., ecc.

Venuti in cognizione degli spiacevoli avvenimenti verificatisi di recente in varie parti del Nostro Regno Lombardo-Veneto, ed onde non lasciare quella popolazione in dubbio sui Nostri sentimenti a tale proposito, vogliamo che sia senza indugio notificato alla medesima quanto Ci rincresca tale stato di agitazione prodotto dagl’intrighi di una fazione che tende incessantemente alla distruzione del vigente ordine di cose.

Sappiano gli abitanti del Nostro Regno Lombardo-Veneto essere stato ognora scopo primario della Nostra vita il bene delle Nostre Provincie Lombardo-Venete, come di tutte le parti del Nostro Impero, e che a tale Nostro assunto Noi non verremo mai meno. Noi risguardiamo qual Nostro sacro dovere di tutelare con tutti i mezzi dalla Divina Provvidenza riposti nelle Nostre mani, e di energicamente difendere le Provincie Lombardo-Venete contro tutti gli attacchi, da qualunque parte essi vengano. A tal uopo Noi calcoliamo sul retto sentire e sulla fedeltà della gran maggioranza degli amati Nostri sudditi nel Regno Lombardo-Veneto, il ben essere de’ quali e la sicurezza nel godimento de’ loro diritti sono stati mai sempre notori tanto nello Stato quanto all’Estero. Calcoliamo pure sul valore e sul fedele attaccamento delle Nostre truppe, di cui è sempre stata e sempre sarà la maggior gloria il mostrarsi valido appoggio del Nostro Trono e qual baluardo contro le calamità che la ribellione e l’anarchia riverserebbero sulle persone e sulle proprietà dei tranquilli cittadini.

Vienna, il 9 gennajo 1848.

FERDINANDO.

N. o XII.

N. 4831-548.

IMP. REGIO GOVERNO DELLA LOMBARDIA

AVVISO.

Sua Maestà l’Imperatore essendosi degnato di espressamente dichiarare che è determinato di non tollerare alcuna dimostrazione popolare con mire antipolitiche, ed avendo inoltre la Maestà Sua col Sovrano Rescritto 9 prossimo passato gennajo imposto a tutte le Autorità il dovere di procedere d’Ufficio a norma delle attribuzioni assegnate a ciascheduna di esse, e di adoperarsi con ogni energia per ovviare a qualunque perturbazione della pubblica tranquillità, essendo in fine volere della Maestà Sua che non vengano permesse delle feste straordinarie, e che abbiano ad essere rigorosamente impedite le insolite adunanze popolari, massime di notte tempo, il Governo si tiene in dovere di portare tali Sovrane dichiarazioni a cognizione del Pubblico nella più ferma fiducia che tutti gli abitanti della Lombardia saranno per confermarvisi pienamente, giacchè in caso diverso coloro che, male consigliati, osassero contravvenire ai premessi Ordini Sovrani, saranno irremissibilmente puniti a tenore delle veglianti Leggi.

Milano, il 12 febbrajo 1848.

IL CONTE DI SPAUR, Governatore.

Il Conte O’Donell, Vicepresidente.

Conte Pachta, Consigl. di Governo.

N. o XIII

I. R. DIREZIONE GENERALE DELLA POLIZIA

AVVISO.

Da qualche tempo si è adottato da taluno l’uso di portar Cappelli detti alla Calabrese, alla Puritana, all’ Ernani.

Non potendosi tollerare l’uso stesso, lo si proibisce assolutamente sotto la comminatoria agli inobbedienti dell’immediato arresto.

Si ricorda che questo divieto è già portato dall’altro Avviso di questa I. R. Direzione Generale 5 gennajo p. p. che proibisce di portare qualsiasi distintivo politico, simbolo o segno di ricognizione, sotto comminatoria dell’arresto, salvo quant’altro fosse di legge.

Tutte le Autorità di Polizia, così Regie come Comunali, e la Forza pubblica, sono incaricate di curare rigorosamente la piena osservanza delle premesse ingiunzioni.

Milano, dall’I. R. Direzione Generale della Polizia nelle Provincie Lombarde, 15 febbrajo 1848.

L’I. R. Consigl. Aulico Attuale Direttore Generale della Polizia

Barone DE TORRESANI-LANZENFELD.

L’I. R. Segretario Wagner.

N. o XIV.

N. o 5904-500

IMPERIALE REGIO GOVERNO DI MILANO

NOTIFICAZIONE.

Nel Proclama 9 gennajo p. o p. o Sua Maestà si è degnata di manifestare la dolorosa sensazione in Lei prodotta dall’agitazione in cui trovasi il suo Regno Lombardo-Veneto per opera d’irrequieti individui, che, istigati dall’estero e mossi da mire interessate tentano sconvolgere il presente ordine legale delle cose, dichiarando in pari tempo, essere Sua ferma volontà di tutelare la sicurezza e quiete interna ed esterna del detto Suo Regno con tutti quei mezzi che la Provvidenza Le ha dato, memore de’ Suoi doveri di Sovrano, fra i quali è primo il vegliare al bene dello Stato e alla tutela dei fedeli Suoi Sudditi. Or rendendosi necessario che tanto il potere giudiziario, quanto le Autorità di Polizia siano munite di quella maggior forza, che i bisogni del momento, e l’importanza dell’ufficio loro richieggono, Sua Maestà ha ordinato, che per tutte quelle azioni che turbano la pubblica tranquillità, e sono punite dalle vigenti Leggi, abbia luogo una procedura sommaria secondo le norme che si pubblicano contemporaneamente alla presente coll’altra Notificazione in data d’oggi, n. o 5901-499.

Oltre alle azioni contrarie all’ordine e alla tranquillità, che sono contemplate dalla parte I e II del Codice penale, altre pur v’hanno, che, per sè stesse innocue, possono assumere un carattere pericoloso in tempi di politica agitazione, come il presente. In tal caso è, e fu sempre dovere della Polizia d’intervenire, o prevenendo simili azioni, o reprimendole.

Per porgerle i mezzi necessarj all’adempimento di questo suo ufficio, e guarentirla dalla taccia di atti arbitrarj, si notificano a sensi della Sovrana Risoluzione 13 febbrajo 1848 le seguenti disposizioni:

Ogni qual volta un’azione per sè stessa innocua, a cagione d’esempio, il portare certi colori, o il metterli in vista, il portare certi distintivi o segnali, il cantare o declamare certe canzoni o poesie, l’applaudire o il fischiare certi passi di un’azione drammatica o mimica, l’affluire ad un dato luogo di convegno, il dissuadere dal trattare con certe persone, il far collette o il raccogliere sottoscrizioni, e così via, assume il carattere di una dimostrazione politica, contraria al vigente ordine legale, l’Autorità politica della Provincia ne pronuncia il divieto.

Ciò ha pur luogo per quelle riunioni in luoghi pubblici o privati, nelle quali si rende manifesta una tendenza ostile al detto ordine, per ciò, che per massima notoria vi si ammettono soltanto persone conosciute come addette ad un dato partito, o altre se ne escludono del partito contrario.

Lo stesso vale se taluno con intenzioni sovversive dell’ordine tenta di limitare l’altrui libertà individuale con minacce, scherni, rampogne od ingiurie.

Il divieto di tali azioni può ordinarsi dalle Autorità di Polizia secondo le occorrenze, o

a ) mediante ingiunzione da farsi al solo incolpato; ovvero

b ) pubblicando il divieto per tutto un luogo, Distretto o Provincia, come obbligatorio per tutti.

In ambedue i casi si aggiunge al divieto una comminatoria.

Nel primo caso a ) la pena comminata consiste:

1. o in una multa che può giungere fino alle diecimila lire austriache a vantaggio della Casa di ricovero o d’altra Causa pia del luogo;

2. o nell’allontanamento dal luogo dove si commise la contravvenzione, senza alcuna limitazione intorno a quello dell’ulteriore dimora;

3. o nel confinare chi si è reso colpevole della contravvenzione in un dato luogo del Regno Lombardo-Veneto o fuori di esso, sotto sorveglianza della Polizia;

4. o nell’arresto, nella misura stabilita dal § 89 della II parte del Codice penale;

5. o trattandosi di persone che non hanno la sudditanza Austriaca, senza riguardo al tempo di loro dimora negli Stati Austriaci, nello sfratto da tutte le Provincie della Monarchia.

Quale di queste pene debba applicarsi nei singoli casi, dipende dalle circostanze e dall’essere più o meno pericoloso il contravventore, per lo che senza voler istabilire una progressione, se ne rimette la decisione alle Autorità di Polizia.

Nel secondo caso b ) la sanzione del divieto generale ha luogo col riferirsi alla misura penale contenuta nel § 89 della II parte del Codice penale; tuttavia le Autorità di Polizia sono autorizzate a sostituire in casi speciali alle pene portate del citato paragrafo quelle di cui si è detto agli articoli 1. o, 2. o e 3. o

Il divieto comincia ad avere effetto per la sanzione penale, riguardo ai divieti indicati nella lettera a ), immediatamente dopo firmato il processo verbale d’intimazione, da assumersi di volta in volta sopra tali divieti, e da conservarsi poi presso l’Autorità provinciale di Polizia, e, riguardo ai divieti indicati alla lettera b), ventiquattro ore dopo che il divieto sarà stato pubblicamente affisso nei luoghi a ciò destinati.

La procedura penale ha luogo come nelle contravvenzioni di Polizia che non sono comprese fra le gravi trasgressioni politiche. L’Autorità provinciale di Polizia pronuncia la decisione, contro cui si può produrre riclamo alla Presidenza del Governo, non più tardi però delle ventiquattro ore dall’intimazione della medesima.

Il riclamo non toglie che, prima che non sia evaso, l’Autorità provinciale di Polizia non possa dare quelle disposizioni che troverà opportune, affinchè nè il condannato possa di nuovo incorrere nella stessa contravvenzione, nè sottrarsi all’esecuzione della pena.

Ordinando la pubblicazione delle presenti misure di rigore, rese necessarie dall’urgenza delle circostanze, Sua Maestà confida che i tranquilli abitanti del Regno Lombardo-Veneto non vi ravviseranno che un nuovo atto di paterno provvedimento per la repressione di uno spirito di vertigine insinuatosi dall’estero e fomentato da alcuni turbolenti, o imprudenti, o protervi, il quale minaccia da vicino la tranquillità morale e il materiale ben essere del Regno Lombardo-Veneto. Nè esse hanno a far dubitare dei paterni sensi di Sua Maestà verso i Suoi Sudditi del Regno Lombardo-Veneto, poichè la loro severità può colpire soltanto coloro che dopo la pubblicazione della presente non dimetteranno i colpevoli loro raggiri contro l’ordine sociale e lo Stato, invece di riporre la loro fiducia nel paterno cuore di Sua Maestà sempre disposto di provvedere al bene de’ Suoi Sudditi.

Tanto si porta a pubblica notizia pei corrispondenti effetti.

Milano, il 22 febbrajo 1848.

IL CONTE DI SPAUR, Governatore.

Il Conte O’Donell, Vicepresidente.

Klobus, Consigliere di Governo.

N. o XV.

N. o 5901-499

IMPERIALE REGIO GOVERNO DI MILANO.

NOTIFICAZIONE

Sua Maestà I. R. A. in considerazione dello stato in cui trovasi il Regno Lombardo-Veneto, e nella mira di assicurare la dovuta obbedienza alle leggi, ha trovato con Sovrano Rescritto 13 corrente di ordinare la promulgazione per tutto il Regno Lombardo-Veneto della norma di procedura abbreviata, come è stata sancita dalla Sovrana Risoluzione 24 novembre 1847 qui unita pei casi di alto tradimento e per altri casi di perturbata tranquillità pubblica.

Le preaccennate Sovrane Disposizioni si recano a pubblica notizia pei corrispondenti effetti.

Milano, il 22 febbrajo 1848.

IL CONTE DI SPAUR, Governatore.

Il Conte O’Donell, Vicepresidente.

Klobus, Consigliere di Governo.

SOVRANA RISOLUZIONE.

All’oggetto di mantenere nel Regno Lombardo-Veneto la pubblica tranquillità Mi sono determinato ad ordinare, che nei casi qui appresso accennati dei delitti di alto tradimento, di perturbazione della pubblica tranquillità, di sollevazione e di ribellione, e per la grave trasgressione di polizia del tumulto, sia attivato un giudizio statario giusta le norme seguenti.

§ 1.

Ha luogo il giudizio statario

a ) Contro chi, dopo la pubblicazione della presente legge nel Regno Lombardo-Veneto, provoca, istiga, o tenta di sedurre altri, benchè senza effetto, al delitto di alto tradimento contemplato dal § 52 lett. b della Parte I. del Codice penale, ovvero al delitto di sollevazione o a quello di ribellione (§ 61 e 66 della Parte I. del Codice penale), quando vi sia congiunta l’intenzione di alto tradimento.

b ) Contro chi colla stessa intenzione, ovvero durante una sollevazione o ribellione scoppiata per qualunque motivo, si oppone con vie di fatto alla forza armata, o commette violenze contro funzionarj pubblici, contro persone rappresentanti qualche magistratura, o contro una guardia.

c ) Contro chi si associa con mano armata ad una sommossa popolare od ammutinamento, e richiamato dall’autorità o dalla forza armata a staccarsene, non presta pronta ubbidienza, e viene arrestato durante la sollevazione o ribellione con armi o altri stromenti atti ad uccidere.

d ) Contro chi suscita una sommossa popolare sia con pubblici discorsi atti ad ispirare avversione contro la forma di Governo, l’amministrazione dello stato o la costituzione del paese, sia con altri mezzi a ciò diretti (§ 57 della Parte I. del Codice penale), o prende parte attiva ad una sommossa popolare suscitata con tali mezzi.

e ) Contro chi si fa reo della grave trasgressione di polizia del tumulto.

§ 2.

In tutti questi casi il giudizio statario si terrà dal Tribunale Criminale ordinario del luogo, in cui fu commesso il reato, e dovrà istruirsi dal medesimo tostochè avrà avuto notizia dell’avvenuto, senza attendere un ordine dell’autorità superiore o senza che sia d’uopo d’una preventiva pubblicazione.

Per deliberare se si abbia a far luogo al giudizio statario, si richiede, oltre a chi presiede, il concorso di non meno di quattro giudici. La scelta dei giudici è rimessa al Presidente del Tribunale, o a chi ne fa le veci.

§ 3.

Dinanzi questo giudizio saranno tradotti, senza riguardo al loro foro personale od al luogo in cui fossero stati arrestati, tutti coloro che vengano colti sul fatto, o contro i quali emergano indizj legali così stringenti, da poter ripromettersi con fondamento di raggiungere senza ritardo la prova legale della loro reità.

§ 4.

Il Tribunale Criminale è autorizzato ad istruire il processo statario anche contro persone militari, o soggette alla giurisdizione militare, qualora vengano arrestate dall’autorità civile. Incombe tuttavia al tribunale di darne tosto parte al prossimo Comando militare, indicando il nome, il luogo di nascita, ed il rango militare dell’incolpato. Il Tribunale è altresì autorizzato a citare direttamente testimoni soggetti alla giurisdizione militare; dovrà però anche di ciò rendere informato il prossimo Comando militare.

§ 5.

Tutto il processo, dal principio sino alla fine, sarà tenuto dinanzi il giudizio formato come sopra (§ 2) e possibilmente senza interruzione.

§ 6.

L’inquisizione dovrà di regola limitarsi al fatto, per cui fu istruito il giudizio statario, e perciò non si avrà riguardo a circostanze accessorie, che non fossero di essenziale influenza sulla determinazione della pena, nè ad altri delitti, che emergessero a carico dell’imputato. Solo nel caso, che all’imputato sovrastasse per un altro delitto una pena maggiore, che per quello, per cui fu tradotto dinanzi al giudizio statario, e che questi delitti stessero fra di loro in connessione, il processo statario abbraccia e l’uno e l’altro delitto; non concorrendo questi estremi, il processo relativo al secondo delitto si condurrà al suo fine dinanzi lo stesso Tribunale Criminale nella via ordinaria.

§ 7.

Non si trascurerà anche lo scoprimento dei correi, ma per questa cagione non dovrà ritardarsi la prolazione e l’esecuzione della sentenza, se non in quanto si abbia fondata speranza di scoprire circostanze importanti riguardo ai disegni ed all’estensione dell’impresa o di esplorare e convincere l’autore principale.

§ 8.

Il termine entro al quale nel giudizio statario deve essere ultimata l’inquisizione e prolata la sentenza, è fissato a quattordici giorni, a datare da quello in cui si diede principio all’inquisizione. Non potendosi constatare entro questo termine la reità dell’inquisito mediante giudizio statario, l’inquisizione si continua dallo stesso Tribunale Criminale nella via ordinaria.

§ 9.

Contro le persone riconosciute ree di uno dei delitti enunciati nel § 1 sollo le lett. a, b, c, ha luogo la pena di morte, semprechè concorrono le condizioni dei §§ 430 e 431 della Parte I del Codice penale. La sentenza di morte viene di regola (§ 11) pronunciata, pubblicata ed eseguita nel modo prescritto per il giudizio statario.

§ 10.

Contro una tale sentenza di morte non ha luogo nè ricorso, nè supplica di grazia.

§ 11.

Solo nel caso, che il Tribunale Criminale creda per importanti circostanze mitiganti d’implorare la Sovrana grazia per la condonazione della pena di morte, o che per essere già stata eseguita la pena di morte contro uno o più dei principali colpevoli, si sia già dato un esempio di salutare terrore bastante a ristabilire la tranquillità, la sentenza viene sottoposta alla superiore e suprema autorità, che procede secondo le norme generali.

§ 12.

Contro gli altri individui, la di cui colpabilità venne constatata dall’inquisizione d’un delitto praticata in via di giudizio statario, ma ai quali non è applicabile il § 9, si procede per la determinazione della pena secondo le norme generali del Codice penale, relative al delitto per cui ebbe luogo l’inquisizione. Riguardo alla notificazione e all’esecuzione della sentenza restano ferme anche in questi casi le disposizioni dei precedenti §§ 9 e 10.

§ 13.

Contro le persone sottoposte al giudizio statario per la grave trasgressione di polizia del tumulto, si pronuncierà la sentenza secondo le norme del Codice penale per le gravi trasgressioni di polizia, e questa sarà tosto eseguita. Non si fa luogo contro tale decisione nè al ricorso, nè alla domanda di grazia.

§ 14.

Degli atti del giudizio statario si tiene il protocollo a norma del § 513 della Parte I del Codice penale, e per riguardo a quelle inquisizioni, ove la sentenza sarà stata eseguita senza averla prima sottoposta all’autorità superiore, si trasmetterà il protocollo al Tribunale Criminale superiore al più tardi entro tre giorni dopo chiuso il giudizio statario.

§ 15.

Contro quegl’incolpati, che non sono aggravati da indizj così stringenti da poter incamminare contro di loro il giudizio statario, procede nelle forme ordinarie lo stesso Tribunale Criminale che avrà aperto il giudizio statario, ma senza alcun riguardo al foro personale dei medesimi, nè al luogo in cui seguì il loro arresto.

§ 16.

La presente legge sarà operativa dopo giorni quattordici da quello della prima sua inserzione nella gazzetta della città, in cui risiede il Governo.

Vienna, li 24 novembre 1847.

FERDINANDO.

N. o XVI

I. R. DIREZIONE GENERALE DELLA POLIZIA

AVVISO

Si deduce a pubblica notizia:

Nel corrente Carnovale resta vietato l’uso delle Maschere nelle strade, e così pure quello invalso in alcune Città di queste Provincie Lombarde di gettare coriandoli per le vie.

Chiunque pertanto sarà trovato per istrada colla maschera al volto, tanto nei luoghi abitati quanto fuori dei medesimi, sarà considerato come sospetto e come tale arrestato.

La stessa misura incorrerà chiunque si permetterà di gettare coriandoli per le vie.

In quanto ai Balli, saranno da osservarsi le prescrizioni e restrizioni portate dalla Governativa Notificazione 15 giugno 1827, e nel resto, dove vige il Rito Ambrosiano, non si intende di portare innovazioni col presente avviso alle vecchie consuetudini relativamente all’ultimo Sabato di Carnovale.

Milano, il 22 febbrajo 1848.

L’I. R. Consigl. Aulico Attuale Direttore Generale della Polizia

Barone DE TORRESANI-LANZENFELD.

L’I. R. Segretario Wagner.

N. o XVII.

Consta allo scrivente Municipio (come d’altronde è noto a tutto il pubblico milanese, che ne è testimonio) qualmente per parte del militare si stanno da alcuni giorni eseguendo al Castello di Milano varie opere di escavazione di fabbrica esterne con conseguente occupazione dell’attiguo suolo.

L’I. R. Comando non si è curato di darne avviso d’uffizio allo Scrivente, sebbene ciò saria stato suo debito trattandosi di metter mano ad una civica proprietà, poichè è benissimo noto al medesimo Comando che la piazza del Castello e tutte quelle adjacenze ora destinate al pubblico passeggio con dispendiose piantaggioni spettano alla città per cessione fatale dal cessato governo italico, per modo che anche allorquando si riconobbe il bisogno di disporre la cavallerizza ad uso militare il lodato I. R. Comando richiese l’assenso municipale, e si divenne ad amichevole analogo concerto.

Il Municipio non intende di elevare opposizione a quanto dal militare si eseguisce, nè si permetterà sindacare le dette opere nè la causale di esse, tuttochè riuscir possano in danno di questa popolazione, lo che solo fornir potrebbe titolo per formulare giusti ed attendibili rilievi. Per altro, o si consideri la cosa sotto quest’aspetto, ovvero sotto l’altro più semplice ed incontrastabile del titolo della sua proprietà, il Municipio stesso denunzia il fatto a codesta magistratura, affinchè nella sua saggezza promova quelle pratiche ed ottenga per parte del militare quelle dichiarazioni che valgano a salvaguardia de’ civici diritti, di cui in massima non puossi ammettere la usurpazione.

Non tralascia per altro di far osservare come inutile per lo meno risguardar si possono le opere dalla parte della città, giacchè nulla havvi a temere da una popolazione quieta e tranquilla, alla quale vorrebbesi incutere timore, nè vuolsi supporre che simili fortificazioni possano servire nel caso pressochè impossibile di difesa contro un nemico esterno e tanto più che fu sempre ab immemorabili, anche allorquando il Castello era fortificato, osservata la convenzione di non oppugnarlo giammai dalla parte della città, convenzione rispettata anche da chi si sarebbe creduto meno tenace dei trattati. Posto però il fatto al quale la Congregazione non può opporre che l’espressione del suo dispiacere, ec., ec.

N. o XVIII.

AVVISO.

La Presidenza dell’Imperiale Regio Governo si fa un dovere di portare a pubblica notizia il contenuto di un dispaccio telegrafico in data di Vienna 15 corrente, giunto a Zilli lo stesso giorno ed arrivato a Milano jeri sera.

« Sua Maestà I. R. l’Imperatore ha determinato di abolire la Censura e di far pubblicare sollecitamente una legge sulla stampa, non che di convocare gli Stati dei Regni Tedeschi e Slavi, e le Congregazioni Centrali del Regno Lombardo-Veneto. L’adunanza avrà luogo al più tardi il 3 del prossimo venturo mese di luglio.»

M. Hartl, I. R. Ispettore al Telegrafo.

Milano, il 18 marzo 1848.

Il Vicepresidente, CONTE O’DONELL.

N. o XIX.

Caro Ernesto!

Verona, 19 marzo 1848.

Ho ricevuto il danaro. A Leopoldo ho appunto scritto, quindi egli sa già ciò che in questi luoghi accadde. Qui siamo in un grande ospedale di pazzi. Le notizie di Vienna, che sanno assai dell’imperatrice madre e Sofia, le quali non vogliono che si arrechi ai loro Viennesi il minimo danno, ebbero anche in questi luoghi le loro naturali conseguenze. Cosa sia accaduto in Bergamo io non lo so bene, ma tu sei più vicino alla sorgente di me. Un’ora fa arrivò Colletti della Cancelleria, che disse aver trovate in Brescia barricate, e che si deve aver fatto fuoco. Certo è che nella notte in cui dormimmo in quella città, nel Collegio de’ Gesuiti si sparò un petardo per atterrire i rispettivi abitanti. Se non cadesse nel tempo presente questo sarebbe veramente un pensiero classico. I Gesuiti devono già essere fuggiti a Chiari. Qui accaddero e accadono ancora delle pazzie; jersera, dopo che al nostro arrivo si era raunata tutta la popolazione, e che tutti, tanto quelli colla barba che senza, ci aveano salutati assai cortesemente, doveva essere illuminato quel quartiere della città dove abitiamo. In quella circostanza si dovevano fare degli evviva alla Costituzione e simili, ma per fortuna piovve. Verso le 8 ore però si raunò una immensa moltitudine innanzi al nostro albergo gridando: Viva il Vicerè, viva l’Italia, la Costituzione; fuori il Vicerè, abbasso i Gesuiti! ecc., ecc.; e siccome non fruttarono nulla le parole del Podestà e del Delegato, e quella gente dichiarava di voler andarsene tranquilla a casa appena avesse veduto il Vicerè, comparve questi al balcone, e fu ricevuto con immenso applauso. Le grida continuarono quando egli si era già ritirato, e i capi della sommossa si portarono dal Delegato, e dichiararono che papà dovesse pubblicare anche qui le concessioni arrivate da Vienna e già pubblicate da Pallfy a Venezia. Ma siccome non era arrivato nulla, si mandarono in pace, ed essi gridarono partendo: Domani alle dieci, ed alcuni aggiunsero: armati. Allora ognuno perdette la testa: tutti si credevano già messi allo spiedo, arrostiti, ecc., ecc.; si decise di andare a Mantova, ed anzi di partire alle 2 ore della notte. Era già dato l’ordine di fare i bagagli, quando la signora madre che per evitare ogni conflitto col militare, e per le altre cagioni che tu conosci, pendeva assai per questo espediente, mi chiamò e mi domandò cosa io ne pensassi. Certo non mi aspettava una tale domanda, pure dissi liberamente la mia opinione: essere questo un errore molto grossolano, mostrando con ciò al popolo d’aver timore, e di fuggire in una fortezza, ove la conseguenza sarebbe stata una simile, e forse peggiore dimostrazione, ed ove v’è una guarnigione di appena tre battaglioni, mentre qui ve ne sono di più con varj generali per condurli. Mi guardò con maraviglia, e mi domandò se vedessi volontieri che la truppa avesse ad agire, e che si spargesse sangue. Non potei a ciò rispondere che sì, ma soggiunsi che, seguendo il mio consiglio, non si sarebbe sparso sangue, ma fui deriso. Fummo mandati a casa che erano già le 9-1/2, e si doveva partire alle 2 del mattino. Non erano cinque minuti che era arrivato a casa, che papa mi mandò a chiamare per dirmi che non si partiva, ciò essendogli stato dichiarato per imprudente da tutti i generali; ciò che fece ammutolire la signora madre. Pella città circolarono quindi numerose pattuglie militari; ma tutto era tranquillo. Questo stato durò sino ad oggi alle 10, quando tutto il mondo affluì alla Piazza dei Signori. Presso di noi vi è una mezza compagnia del tuo reggimento a guardia; ed un’altra mezza compagnia di Brodiani con otto cavalleggieri come riserva. Innanzi alla casa sfilarono un’altra compagnia di Brodiani, e due altre alla Piazza de’ Signori. Frattanto era stato comunicato nell’avviso qui incluso un estratto della Gazzetta di Vienna, di modo che quei signori non sapevano bene cosa fare. Finalmente si scelse una deputazione di cinque individui che doveva pregar nostro padre che ritirasse la truppa, e concedesse una Guardia Civica, che avrebbe certamente mantenuto l’ordine.

Le truppe dovettero ritornare nelle caserme, eccettuati quelle che sono qui nella casa, e una mezza compagnia avanti alla Delegazione; e siccome in Vienna erasi accordato l’armamento degli studenti, papà permise la formazione di 400 uomini, che scelti fra facoltosi cittadini, dovessero seguire non armati le pattuglie militari, curare l’ordine, ed evitare i conflitti tra i militari e borghesi. Tutto ciò non è che provvisorio, perchè deve essere approvato dall’Imperatore, ma pure ora s’incominciò e dove finiremo? Sino a quanto si aumenterà il numero quando otterranno anche l’armamento? Cosa ne dirà il militare? Vorrei sentire S. M. Appena era stata fatta questa concessione, si radunò una immensa moltitudine innanzi alla abitazione di nostro padre, e lo chiamò fuori. Da questo momento furono tutti pazzi. I ricchi distribuivano danaro e coccarde tre colori; i più poveri le prendono e si ubbriacano, e così tutti girano tumultuando colle coccarde tre colori pella città gridando: Viva l’Italia!

Oggi alle 3 tutti quelli che vogliono prender parte alla Guardia Civica devono farsi inscrivere nell’Arena; naturalmente se ne presenteranno assai più di 400, e pretenderanno l’accettazione, e allora incomincerà il guazzabuglio. Peccato che s’abbia dato principio a Vienna, e s’abbia esteso a tutte le provincie, cosicchè non si può qui negare ciò che fu concesso a tutti, dal che nascerà vero malcontento ed insurrezione; noi ne abbiamo bastanti esempi. Me ne duole per l’armata; ora abbiamo la Guardia Civica in Verona, e naturalmente sarà introdotta in tutto il regno, e per Venezia sono già stati accordati 200 uomini alle medesime condizioni. Dicesi si sia fatto fuoco sulla piazza di San Marco, e perciò morti cinque uomini (nessun danno). In Vicenza si voleva prendere la Delegazione d’assalto, e piantarvi la bandiera tre colori, ma non riuscì. Da Padova non si sa ancora nulla. La posta da Milano che solitamente arriva alle 8 ore del mattino, non è ancora giunta alle 4. Se là fosse accaduto qualche cosa, auguro ai Milanesi che ne sieno restati per lo meno 500 sul luogo. Ecco la conseguenza degli avvenimenti di Vienna. La truppa deve esser stata mal condotta, o, ciò che è il più verosimile, e che ho detto sino da principio, deve esser stato proibito dall’alto (donne) di far fuoco; altrimenti i Viennesi avrebbero ottenuto altre concessioni. Si sollevano i capelli sulla fronte in pensando cosa si pretenderà già in Ungheria, a Vienna, in Boemia, in Gallizia. Se non succede un miracolo possiamo tutti quanti fare il nostro bagaglio. La casa di Metternich alla Landstrasse, dicesi distrutta interamente. E questi sono i fedeli Viennesi!

I capi sono completamente impazziti.

La maggior parte di loro sono ubbriachi, e girano per la città gridando: Viva l’Italia! Essi abbracciano i soldati del confine come fratelli, e lo stesso fanno cogli ufficiali del caffè al Prà, che sono assai titubanti. Essi presero un uffiziale degli Usseri sulle spalle, e lo portarono intorno gridando: Vivano i fratelli Ungaresi! Per questa sera m’aspetto qualche altro gran guazzabuglio; e se accade qualche cosa domani scriverò.

Il tuo reggimento e il battaglione di Brodiani hanno una bellissima presenza; anche Windischgrätz è bello, e gli uomini che io vidi hanno buonissime cavalcature. Sento in questo punto che fra un’ora incomincia l’inscrizione della Guardia Civica, dove vi saranno certamente delle liti per la preminenza; alcuni dicono che in questa circostanza si benediranno le bandiere, naturalmente tricolori, al che assisterà anche il Vicerè! E ciò accade in una città di provincia austriaca!

Ranieri.

Caro Ernesto!

Verona, 20 marzo 1848.

Ti sovviene degli scritti che ti spedii già a Lodi e delle descrizioni che contenevano dell’esercitarsi che facevano le persone, della introduzione delle armi, ecc.; ora finalmente crederà la Polizia che queste deposizioni lasciate completamente inconsiderate erano vere, ma troppo tardi. Ora tutto è finito, e noi dobbiamo la conservazione della città di Milano per la monarchia solo all’avvedutezza del F. M.[53] ed al valore delle truppe. Il capitano Huyn passò da questa città andando come corriere a Vienna. Era stato in Castello, aveva uditi i rapporti, ed alla sua partenza (alle undici della sera del 18) aveva veduto tutto il disordine fatto nella città. Al Broletto i cannoni da 12 avranno fatto dei magnifici buchi. Egli però non conosceva l’esito dell’affare, perchè F. M. lo spedì mentre, certo della vittoria, faceva bivaccare i soldati sulle piazze. Huyn, disse essere morti circa 40 soldati e molti feriti, anche un ufficiale superiore. Si dovevano fucilare tutti i prigionieri, non esclusi Casati e duca Litta, che si dicano pure del numero. La Legge marziale è già stata spedita jeri a Milano per mezzo di un uffiziale con due bersaglieri Brodiani; ed oggi alle due può già essere pubblicata e messa in attività. Questo è l’unico mezzo. Bisogna dire che i Milanesi debbono attribuire tutto ciò a sè medesimi, giacchè F. M. ha avuto bastantemente pazienza. Ne fosse almeno rimasto morto un bel numero, che ciò infonderà loro un poco di rispetto per la truppa. I soldati avranno mostrato poca moderazione nell’assalto: va benissimo. Casati è pure un vero baron fottuto[54]. La posta non arrivò nè jeri nè oggi da Milano, nè si vide alcun corriere. In Venezia tutto tornò tranquillo; qui si grida assai, e Gerhardi temeva qualche cosa in causa degli avvenimenti di Milano, essendosi qui sparsa la nuova essere F. M. con tutta la guarnigione prigioniero nel castello, ed i Milanesi vincitori; ma sono già le due ore, e sembra che non voglia accadere nulla. F. M. ha scritto perchè si spedisca a Milano sotto buona scorta la munizione consumata[55] in cannoni ed obizzi per il rispettivo completamento. Almeno conoscono i Milanesi a quest’ora la musica dei cannoni da 12. Il general Woyna e Prelot erano ancora nel palazzo di Corte; avranno sofferto un bel spavento. Il battaglione di granatieri italiani deve aver commesso degli eccessi in Brescia; non deve avere nessuna disciplina. Quelli del reggimento Haugwitz dicesi vadano sempre abbracciati cogli abitanti, e fraternizzano con essi, cosicchè non si possa aspettar nulla da quel reggimento. Qui si dice che abbiano rifiutato di far fuoco, ma sino ad ora non si venne a questo passo; può però succedere. Ora vorrei assumermi di pettinare ben bene la città di Milano. Anche in Parma devono esservi disordini. I Piemontesi dovevano nel medesimo giorno occupare Pavia, ma non lo fecero. Secondo tutte le notizie che sino a questo punto ci arrivarono, non devono esser penetrati contadini nella città; del resto F. M. avrebbe spacciati anche questi. A Vienna non deve esservi ancora quiete, perchè sembra che la Corte voglia partire ed abbandonare la città al militare. Certo ciò sarebbe l’unico mezzo per acquietarla, ma credo che si voglia piuttosto far concessioni che usar rigore.

Ora abbiamo una Costituzione, per cui non possiamo più servire nel civile, ed il militare perde il suo rango. Io domando cosa dobbiamo fare? Solo oggi papà mi disse in segreto, e non lo disse nè a mamma, nè ad Enrico, che appena vi sarà un po’ di quiete, egli deporrà la sua carica, e si ritirerà alla campagna, pretestando la sua avanzata età, per non restare sotto la Costituzione. Ma io che debbo fare? Nulla, non voglio, e se non è più possibile nel civile, andrò anch’io nel militare, per farmi uccidere alla prima occasione, perchè allora non avrò più a pensare al resto. Ciò noi lo dobbiamo al nostro governo donnesco; un idiota per imperatore, una tignuola per successore presuntivo, e un ragazzo prepotente per suo principe ereditario; e in coda a questi...... l’imperatrice madre, Sofia, Tabarro e tutti....[56] appartenente ad ognuna di esse.

In questo modo, e per questa gente precipiterà la Monarchia che era tanto forte. Metternich è fuggito; Kollovrat e zio Luigi, e probabilmente anche gli altri ministri si ritireranno; nè se ne troveranno altri senza ulteriori concessioni, e così cadremo nel precipizio che tutti ci ingojerà. Pensando a un tale andamento delle cose si rizzano, come dico, i capelli sulla fronte. Non manca altro fuorchè la Russia ci nieghi il denaro promesso e ci dichiari la guerra, che allora possiamo dire: adieux all’imperatore, e farci inscrivere come citoyens nella Guardia Civica. Domani arriva il reggimento Fürstenwäter, e il tuo marcerà verso Brescia; arriverà qui un battaglione del Banato, e i Brodiani alla loro volta marceranno verso il Po. La Civica fa già pattuglie co’ suoi schizzetti tutti rossi dalla ruggine. Due signori, fra i quali Giusti, che avevano abbandonato il servizio riservandosi la qualifica, lo abbandonarono ora interamente per poter entrare in essa. Essi fanno diligentemente la ronda di giorno, quando non piovve. Tutto il giorno non s’ode altro che gridar: Viva l’Italia e Libertà, e cantar canzoni liberali. In casa noi abbiamo sempre due guardie di loro. Oggi pretendevano già di mettere un posto di guardia ad ogni Porta e ad ogni Castello, e dicesi che invece di 400 ne siano già armati 1500, i quali alla prima occasione agiranno contro la truppa. Dovresti vedere come il tenente maresciallo Gerhardi è indispettito da tutto questo. F. M. avrà una bella compiacenza nella Guardia Civica. In questo momento arrivano notizie di nuovi subbugli a Venezia, Trento e Roveredo, ma non si sa cosa sia accaduto. Addio. Finisco, perchè devo andare a passeggio; manda le mie lettere, questa e quella di jeri a Sigismondo, perchè non ho il tempo di scrivergli in particolare.

Ranieri.

N. o XX.

AVVISO

DEL GOVERNO PROVVISORIO.

Allorchè ne’ primi giorni della nostra liberazione dalla tirannide dello straniero i nostri cuori si sollevarono a Dio che benedisse la causa della giustizia, sentimmo desiderio amarissimo de’ perduti fratelli; e la memoria presente de’ prodi che per i primi fecero getto della vita per la Patria, o furono immolati dalla barbarie dell’oppressore, scemava la pienezza della letizia cittadina.

Molte e molte famiglie piangevano; a non poche era tuttora ignota la sorte dei loro cari: la Città non sapeva ancora tutta l’opera crudele del nemico.

Alcune delle nostre nobili e belle contrade sono tuttavia pronte al sagrificio, per la santa causa che noi vincemmo.

Paghiamo frattanto il tributo della riconoscenza e del dolore a quelli che morirono per la Patria: finita la santa guerra, conosceremo tutto quello che ci costava il riacquisto de’ nostri diritti.

Giusta l’invito già fatto a’ Cittadini con altro Avviso del Governo Provvisorio, giovedì 6 corrente aprile saranno celebrate nella Metropolitana le solenni esequie dei morti ne’ cinque giorni della battaglia.

Affinchè cotesta pietosa e patria funzione proceda con quell’ordine severo che la solenne circostanza richiede, le diverse Magistrature e Rappresentanze si raccoglieranno in tre diversi luoghi, cioè nel Palazzo Marino, nel Palazzo Municipale al Broletto e nella Residenza della Società d’incoraggiamento delle arti e mestieri alla Piazza de’ Mercanti, alle ore 10 della mattina precise, per recarsi in ordinate schiere alla Metropolitana, ove si disporranno ne’ posti a ciascuna di esse prefissi. Dal Palazzo Marino, ove siede il Governo Provvisorio, partiranno alla detta ora:

Il Ministero della Guerra e i quattro Comitati di Finanza, Sicurezza, Sanità e Sussistenza;

I Consoli delle Potenze estere sedenti in Milano;

Il comandante e lo Stato Maggiore della Guardia Civica;

Il Presidente e il Vicepresidente del Consiglio di Stato, e l’Intendente generale delle Finanze;

Il Dirigente della Giunta del Censimento;

I Presidenti dei Tribunali d’Appello di III. a e II. a Istanza ed i Presidenti di I. a Istanza Civile, Criminale e di Commercio;

Il Presidente e i Membri effettivi dell’Istituto, i due Bibliotecarj di Brera e dell’Ambrosiana e il Direttore del Gabinetto Numismatico;

Il Presidente e i Consiglieri dell’Accademia di belle Arti;

Il Prefetto del Monte;

Il Direttore delle Poste nazionali;

La Congregazione Provinciale;

L’Intendente Provinciale delle Finanze;

I due Capi delle sezioni della Contabilità;

Il Direttore del Censo;

I Direttori dei due Licei;

La Direzione dei Ginnasj:

Il Direttore della Scuola Tecnica;

Il Direttore e il Censore del Conservatorio di musica;

L’Ispettorato delle Scuole Elementari;

L’Amministrazione e il Direttore dello Spedale;

L’Amministrazione e la Direzione de’ Luoghi pii elemosinieri;

Il Direttore delle Pie Case d’industria;

La Commissione straordinaria di beneficenza;

Una Deputazione de’ Patrioti degli altri Stati Italiani;

L’Ispettore della Stamperia Nazionale.

Dal Palazzo Municipale al Broletto, procederanno i diversi Uffici e le Rappresentanze che seguono:

Il Corpo Municipale;

Una Rappresentanza delle Cittadine che si prestarono alla visita dei feriti nella difesa della patria, e di quelle che lavorano per l’armamento;

Una Deputazione de’ volontarj Liguri, Piemontesi e Svizzeri; Una Rappresentanza dei Parrochi, de’ Sacerdoti dell’Ospedale e delle Ambulanze, de’ Padri Fatebenefratelli e delle Suore di Carità dette Fatebenesorelle;

La Presidenza degli Asili di Carità per l’infanzia e quella del Patronato de’ liberati dal carcere;

Una Rappresentanza della Società Patriotica, del Teatro Patriotico, degli Artisti, dell’Unione, del Commercio, de’ Nobili e del Giardino.

Una Deputazione de’ Notaj, degli Avvocati e degl’Ingegneri;

La Presidenza del Pio Istituto de’ Medici e Chirurghi, e quella dell’Accademia fisio-medico-statistica;

Una Deputazione de’ Giornalisti;

Una Rappresentanza degli orfani maschi e femmine, ed un’altra de’ ricoverati nel Pio Luogo Trivulzio;

Una Deputazione de’ Farmacisti;

Dalla residenza della Società d’incoraggiamento alla Piazza de’ Mercanti dovranno partire:

La Rappresentanza della Società stessa;

Una Deputazione de’ Commercianti;

Una Rappresentanza delle Arti e Mestieri del popolo.

L’ordine col quale si succederanno le Rappresentanze e Deputazioni verrà determinato per estrazione a sorte.

In questa funzione patriotica e popolare le diverse Deputazioni della cittadinanza saranno precedute da una bandiera con un segnale di lutto. Nel Tempio poi, all’ingiro del feretro, formerà una guardia d’onore una schiera della milizia civica, alla quale si associerà, per onorevole distinzione, uno scelto drappello della Compagnia della morte, comandata da F. Anfossi, fratello dell’Augusto Anfossi che divenne uno degli eroi della Patria nostra.

La funerea solennità sarà altresì resa più augusta dalla presenza delle famiglie cittadine di coloro che fecero sacrificio di sè stessi per la liberazione del nostro paese: esse già n’ebbero pubblico invito, e non mancheranno di rendere anche questa testimonianza alla Patria, della quale formano oggimai la parte più cara.

Cittadini! L’educazione del dolor forte e sincero, e la parola della Religione che suscita l’eroismo patrio vi daranno conforto e rassegnazione in questo giorno del comune cordoglio. È un sacro dovere quello che noi adempiamo, un dovere che legheremo ai nostri figli, come sacra e preziosa eredità.

Il canto funebre che prega la requie de’ valorosi insegna ed impone le virtù cittadine, ed è più sublime e più santo dell’Inno della Vittoria.

Milano, il 5 aprile 1848.

Ai Lettori.

Scorrendo il mio lavoro vi sarete fatti persuasi della scarsità de’ miei talenti alla quale ho voluto supplire con altrettanta buona voglia di accontentarvi tutti con un libro che racchiudesse quanto giovi ad illustrare i vostri gloriosi fasti, decantati non solo dalle storie Lombarde, ma da tutto il mondo, e ultimamente per la falsa e tenebrosa via dal tirannico Governo Austriaco prescritta per gli studi storici nelle scuole della Lombardia oramai dimenticati. Oh! gloriose gesta de’ nostri avi, come mai abbiamo potuto per sì lungo tempo mettervi in oblìo? Come mai non abbiamo saputo mantenerci quella santa libertà da essi conquistata sui campi di Legnano, ove a migliaja caddero sotto il ferro dello straniero, anzichè sopportarne il giogo? Ma ora vi siamo tornati a quella bell’epoca, ed i fatti dei Cinque Giorni di marzo ne rendono eterna testimonianza. Ma leggendo il mio libro avrete trovato ancora come le civili discordie furono mai sempre la nostra ruina, e come poco dopo alla stessa battaglia di Legnano ci siamo da noi stessi dati nelle braccia di nuovi padroni, e da questi ora ceduti, ora venduti ad altri; e dopo simili esempi vi sarà ancora chi ardisca d’innalzare altro grido fuori di quello che c’invita alla guerra? unione e guerra! La prima per l’Italia, la seconda al Tedesco che ancora preme le nostre belle contrade, e che tuttora è riscaldato dai coccenti raggi del nostro sole. Guerra e sterminio al sacrilego assassino di Castelnuovo. Oh se le ombre di tante vittime di quella barbara ferocia sorgessero dai loro sepolcri, allora sentireste qual grido: vendetta, vendetta. Non basta scacciare il Tedesco dall’Italia, fuggarlo fino a Vienna, fare trattati, accettar mediatori: bisogna disfarne la razza, disperderla. Ed anche questo l’avrete trovato nel mio libro leggendo della pace di Campoformio firmata da Francesco I, la quale non doveva servire se non a mettere l’Imperatore in istato di ritornare le sue truppe centuplicate sul campo.

Ho procurato in secondo luogo di unire in diverse note alcuni fatti del settembre 1847 ed altri del gennaio sino al giorno della Rivoluzione, non per ricordarvi tristi avvenimenti, de’ quali foste pur troppo testimonii oculari, ma perchè abbiano a conoscere tutti gli altri Italiani e stranieri fino a qual punto si abusarono della nostra sofferenza ed il Gabinetto di Vienna e l’infame Polizia de’ suoi fieri ordini più fiera interprete ed esecutrice.

Ma già mi par di sentirmi dire: E le biografie di Metternich, Radetzky e Bolza, che non si leggono nel libro, dove sono? Si ricordi, signor Autore, che promissio boni viri est obligatio. Anche in questo avete ragione, ma dopo quanto di spregevole fu pubblicato ad infamare questi tre personaggi, io non saprei che aggiungere. Del resto tutti li conoscete meglio di me; Metternich è un uomo che figura nel Gabinetto di Vienna fino dai primi trattati con Napoleone, dunque vecchio, vecchia anche la sua politica, e non più adatta ai nostri tempi. Egli ora si trova a Londra insieme con Luigi Filippo e Guizot, altre buone lane, che hanno dovuto abbandonar la Francia. Di Radetzky ci è grato affermare che non appartiene alla generosa nazione Polacca. Bolza poi era un povero uomo, privo di mezzi di fortuna, privo di talenti e di un’educazione che lo elevasse a sostenere decorosamente la carica affidatagli, quindi era divenuto una macchina, nelle mani del dispotismo, che si moveva a forza d’oro o a forza di minacce. Costretto a trovarsi troppo sovente al cospetto di persone, alle quali era grave delitto giustificare la propria coscienza, era diventato il terribile Bolza, che se una sua visita era annunciata a qualche signore, gli produceva l’effetto dell’etere.

Sebbene poi io abbia fatto di tutto per raccogliere quanto avvenne d’interessante nelle Cinque Giornate, posso nondimeno aver dimenticato qualche cosa, come i nomi dei più valorosi, alcune atrocità de’ Tedeschi e simili; onde mi saranno carissime e riceverò per un sommo favore quelle indicazioni che mi venissero comunicate in appresso dai consapevoli, che io farò di pubblica ragione colle stampe. Intanto chi è vago di saperne più di quanto ho scritto, può rivolgersi agli stessi libri dei quali mi sono servito, oltre alle notizie inedite da me raccolte[57].

Devo in ultimo avvertirvi, come l’arcivescovo Romilli, arrivasse al Palazzo di Governo prima del Podestà, e non dopo come fu da me scritto, e che il cammino tenuto da quest’ultimo uscendo dal Broletto in compagnia degli assessori Greppi e Beretta, fu quello della contrada degli Orefici anzichè della Piazza Mercanti, donde attraversata la Piazza del Duomo, presero, sempre uniti, la via dietro il Coperto de’ Figini, e seguendo il Corso giunsero al palazzo di Governo. Arrivata la comitiva sull’angolo de’ Fustagnari si divise in due colonne, una seguì il Podestà, e l’altra attraversò dalla Piazza Mercanti, ove alla gran Guardia trovavansi tutti i soldati col fucile abbassato, pronti a scaricare le loro armi, ma non fecero fuoco, incerti forse e confusi alla vista de’ fazzoletti bianchi, che in segno di esultanza e di pace la folla veniva agitando.

[282][283]

INDICE

Dedica Pag. 3

Prima rivoluzione di Milano ” 7

Giuramento di Pontida ” 11

Battaglia di Legnano ” 16

Girolamo Olgiati ” 26

Spagnuoli, Francesi e Tedeschi, o il giro di tre secoli ” 31

Gli ultimi 34 anni della dominazione Austriaca ” 46

Nota intorno alla censura del cessato dominio Austriaco ” 49

”   dei fatti successi in Settembre 1847 ” 52

”   dei fatti successi in gennaio, ed altri che precedono la rivoluzione ” 55

Le Cinque gloriose giornate, coi fatti successi durante i medesimi, la corrispondenza tra il maresciallo Radetzky e i Consoli esteri, Lettere segrete dell’ex Polizia, ecc. ecc. ” 66

La vittoria ” 158

Nota intorno alcuni distinti individui ” 176

Altre atrocità commesse dagli Austriaci ” 190

Rivoluzione delle Provincie ” 202

Il Te Deum per la scacciata degli Austriaci ” 208

Le pompe funebri pei martiri della patria ” 211

Cenni necrologici di alcuni martiri della patria ” 222

Inni diversi ” 231

Documenti citati nell’opera ” 237

Ai Lettori ” 277

NOTE:

[1] Bianchini, Cose rimarchevoli della città di Novara, p. 36.

[2] Quest’avvenimento non fu veramente nè di gloria all’Imperatore, nè di biasimo a Milano. Con un’armata immensa, atta a conquistare un regno, doveva certamente prendersi una città abbandonata e sola in mezzo a tanti e sì potenti aggressori. Nè l’Imperatore scortato da tanti e sì poderosi mezzi, allora mostrò quel vigore militare che caratterizza un gran generale.

Verri, Cap. vii.

[3] Govean, Il Giuramento di Pontida.

[4] Verri, Muratori, Govean ed altri.

[5] Verri, Cap. viii.

[6] Felice Govean, L’Assedio di Alessandria.

[7] Costò ben caro a Federico II l’aver ritentato contro di noi la sorte del Barbarossa, suo avolo, non avendo guadagnato alla fine che di rendere celebre e rinomata anche la Coorte degli Incoronati condotta da Enrico da Monza, e la compagnia di eletta gioventù dei dintorni di Trezzo diretta da Ottobello Mairano o Mariano, dal quale si riportò strepitosa vittoria nelle vicinanze di Cassino Scanasio.

[8] Govean, la Battaglia di Legnano, pag. 8 e seg. Torino, tipografia Baricco ed Arnaldi, 1848.

[9] Stando però alla storia troviamo che Federico non rimase fra gli estinti sul campo di Legnano, ma che cinque giorni dopo mentre si facevano accurate ricerche della sua salma e l’imperatrice sua moglie vestiva a lutto, comparve quasi per incanto nella città di Pavia vivo e sano tutto baldanzoso ed involto nel suo manto imperiale. Da questa terribile sconfitta conobbe però Federico il bisogno di riconciliarsi col Capo della Chiesa, e più tardi colla pace di Costanza lasciò alle città della Confederazione Lombarda il possesso della libertà e dei diritti che da gran tempo avevano, riservando a sè l’alto dominio con alcune appellazioni.

L’autore.

[10] Ai 14 agosto del 1339 fu riconosciuto Signore di Milano, dopo che erasi distinto in molte guerresche imprese viventi i fratelli ed i nepoti. Dapprima ebbe compagno nel potere Giovanni suo fratello, che vi rinunziò spontaneamente per essersi dato allo stato ecclesiastico. La durezza del governo di Luchino forma un mirabile contrasto con quello di Azzone, e fu perciò causa nel 1340 di una congiura ordita da due Aliprandi e da Francesco Pusterla, con intenzione di porre in luogo di lui i suoi nipoti, figli del suo fratello Stefano. La trama fu scoperta: i due Aliprandi vennero lasciati morire di fame, ed il Pusterla perì sul patibolo colla moglie e due figli adolescenti. Da indi in poi Luchino divenne vie più crudele, e da quel momento la camera ove dormiva fu sempre custodita da due enormi cani. Egli morì di veleno procuratogli dalla moglie Isabella dal Fiesco, donna sfrenata ne’ suoi amori.

[11] Barnabò, al dire degli scrittori contemporanei, fu crudele perchè avaro, superstizioso perchè immerso nei delitti.

[12] Milano osservato in tutte le sue vicende dall’epoca della sua fondazione, fino all’istallamento del nuovo governo della repubblica Italiana, di G. D.

[13] Morto nell’anno 1447 il duca Filippo Maria Visconti, la famiglia sovrana di questo nome si spense, e la città di Milano si trovò divisa in vari partiti. Vi era chi voleva darsi al Re di Napoli, che Filippo Maria aveva dichiarato nel suo testamento successore al ducato; chi allo Sforza, perchè era marito di Bianca Maria (figlia naturale del duca), e perchè questo guerriero poteva liberare la città dal nemico con lo strano suo indomabile valore; ed altri partiti tendevano invece a proclamare loro signore il Duca di Savoja, fratello della vedova Duchessa, amata e venerata da tutti per le sue virtù. Ma i partigiani del re Alfonso in sulle prime emersero sugli allri, a cagione che alcune squadre di Aragonesi state spedite in ajuto del Duca sotto il comando di Raimondo Boysì, entrarono nel castello e nella rocchetta, ed i capitani ducali Guido Antonio Manfredi da Faenza, Carlo Gonzaga, Lodovico dal Verme, Guido Torelli ed i fratelli Sanseverino, giurarono concordemente ad Alfonso devozione e fedeltà. Compiutisi frattanto i tumultuosi funerali del duca Filippo Maria, gli affari politici presero un ben diverso aspetto. Antonio Trivulzio, Teodoro Bosso, Giorgio Lampugnano e Francesco Cotta, personaggi tutti che avevano molta autorità nella patria, conosciuto il vero stato delle cose rivolsero ogni cura al debito provvedimento e convocati tosto i cittadini delle sei porte e dei quartieri della città, li persuasero a non sottomettersi ad alcuno, poichè uomo non v’era che arrogar si potesse su di loro validi diritti. Elessero quindi per ciascheduna porta quattro deputati, col cui voto formarono un supremo consiglio ed un governo repubblicano. I deputati che ascendevano al numero di ventiquattro, dovevano esser rinnovati ogni due mesi, ad esempio della repubblica di Firenze, e denominarsi capitani e difensori della libertà. In appresso i Milanesi sentirono il bisogno dell’elezione di un capitano generale, che con valore positivo in prima, e poi colla fama di fatti celebri incutesse spavento ai vicini nemici, e precipuamente ai Veneziani, che più degli altri li tormentavano. La scelta non poteva cadere che sopra il conte Francesco Sforza, uomo nel quale concorrevano tutte le qualità e prerogative personali per richiamare sovra di sè lo sguardo di una potenza qual’era lo Stato di Milano. Oltre che Francesco era in grido del miglior capitano del suo secolo, era capo di un esercito, le cui bandiere venivano ognor salutate dalla vittoria.

[14] Vedi in fine documento I.

[15] Vedi documento n. II.

[16] A proposito di libertà di stampa è necessario, sebbene fuori del mio assunto, il far conoscere quanto piccola ed insofferente fosse divenuta la nostra Censura sotto la direzione del signor Ragazzi Questo zelante interprete delle disposizioni del cessato dominio Austriaco, già commesso di Polizia a Pavia, ove dovette battere una vergognosa ritirata per salvare la vita minacciatagli dagli studenti, ebbe pochi giorni prima della Rivoluzione la conferma di capo della Censura ed il titolo di consigliere imperiale, con l’aumento di qualche centinaja di fiorini, premio delle sue ribalderie. Egli si vantava che avrebbe messo l’ordine alle stamperie di Milano, che il numero era esorbitante, e che dovevasi ridurle ad un terzo; che le opere erano perniciose; e n’aveva ben ragione parlando di quelle che si stampavano a Milano, perchè ad eccezione di pochi articoli di giornali, il resto non era che qualche traduzione ed altro di nessuna importanza. Ma non voglio narrare che un fatto mio, mentre pel corso di nove anni ebbi sgraziatamente a dipendere da quest’ufficio, e se dovessi pubblicare tutti i commenti, annotazioni, osservazioni, ec., avrei da far ridere per qualche ora gli amici. Nel novembre 1846 presentai un mio articolo a quest’ufficio per essere licenziato: ma dopo lungo esame mi fu rimandato coll’ a tergo: L’Imperiale Regia Censura non è autorizzata a permettere la pubblicazione del presente articolo. Non sapeva a chi rivolgermi. M’informai da un impiegato della stessa Censura, il quale mi disse: può rivolgersi all’Eccelso I. R. Governo, o meglio all’Ufficio Generale di Vienna. Accettai questo secondo partito, ed approfittandomi d’un amico che si portava a quella capitale gli consegnai lo scritto e glielo raccomandai caldamente. Egli l’affidò ad uno di quegli agenti aulici, il quale mi promise, dietro un pattuito premio, che mi avrebbe servito statim. Passarono alcuni mesi e nessuna risposta. Finalmente venne spedito colla massima segretezza al Governo di Milano, il quale lo mandò alla Polizia, e quindi alla Censura per le informazioni. La Censura di Vienna domandava la ragione perchè non si dovesse permettere quell’articolo: la Censura di Milano intese la domanda? il lettore lo giudichi dalla risposta. Il signor Tettoni è persona comperata dal sig. N., parla pubblicamente in teatro ed in caffè che si è fissato di farla dire a quest’I. R. Censura. Questo è quanto si ha l’onore di partecipare, ec. Quant’analogia alla domanda! Questa risposta fatta colla massima cautela venne letta, copiata e trasmessami dal mio incaricato di Vienna. La suprema Censura credette bene di non restituirmi più l’originale, nè di parteciparmi le disposizioni in proposito.

In altra occasione però anteriore a questa, essendo stato favorito dalla stessa suprema Censura, feci le mie meraviglie coll’ex marchese Ragazzi, e questi mi rispose esser avvenuto perchè i Viennesi non intendevano l’italiano.

Era giunto a tale il rigore della Censura, che oltre alle ristrettezze per quanto si stampava nel paese, restava assolutamente proibita l’introduzione dei fogli politici stampati all’estero, e segnatamente quei di Piemonte, di Toscana e dello Stato Pontificio, dopo l’esaltazione del Sommo Pio al Soglio di Pietro; le grandi opere di Gioberti, le tragedie di Nicolini, gli scritti di Balbo, Azeglio, Mazzini e Petiti; le poesie del Giusti e di Berchet, e di tant’altri che per ogni dove sorgevano a predicare l’indipendenza e l’unione Italiana, portava a chi li possedeva una condanna criminale se cittadino, lo sfratto di tutti gli Stati se forestiero.

[17] Il giorno 8 di settembre è consacrato dai Milanesi alla festa della Natività di M. V. titolare della loro cattedrale. A solennizzarla con maggior lustro ed anche in onore del nuovo Arcivescovo, si volle rinnovar quell’istessa illuminazione della piazza del Duomo e della piazza Fontana colla quale aveva tre giorni prima condecorato il di lui solenne ingresso in questa Metropolitana. Quando verso le ore dieci e mezzo parecchi cittadini venendo dalla porta Ticinese accompagnati da gran folla di popolo procederono fino alla piazza del Duomo, cantando l’inno di Pio Nono. Fermatisi avanti il Caffè Reale, ora caffè Pio IX, rinnovarono quel cantico.—Quivi le guardie di Polizia, istigate dal conte Bolza, si fecero avanti per impedire che si proseguisse di cantare. Si venne alle mani, ed a’ nostri riescì di far fuggire i poliziotti. Di poi tranquilli s’avviarono alla piazza Fontana, e dopo di aver gridato viva Pio Nono, viva l’arcivescovo Romilli, ricominciò nuovamente il lieto canto. Allora si mosse la truppa a cavallo e collo squadrone sfoderato tentò dissipare il popolo che affollatissimo si traeva sotto le finestre dell’Arcivescovo per applaudire.—Non trovando possibile il farsi strada nella calca i soldati diedero di sperone al cavallo, e minacciando e ferendo giunsero a farsi largo fra le disperate grida delle donne, dei fanciulli, degli uomini tutti inabili alla difesa, mentre non erano provvisti nè anche di un bastone. A tanto spettacolo atterrito Monsignor Arcivescovo dovette discendere sulla piazza accompagnato da altro sacerdote, e procurò con acconce parole di manifestare il suo contento all’amato gregge per quelle dimostrazioni, pregandolo a volersi contenere e ritornare alla propria abitazione. Da un lato parole consolanti, dall’altra minacce e sfogo di rabbia; fino a tanto che Monsignor Arcivescovo fu costretto di far entrare la truppa nel cortile del suo palazzo. Più di trenta rimasero feriti e tutta gente che fuggiva, siccome fece provato l’esser feriti o nelle spalle o nella schiena. Altrettanti furono malconci dall’urto della folla, il negoziante Ezechiele Abate restò morto non d’asfissia, come asserì la Gazzetta di Milano, ma da una percossa datagli nel petto da un agente di Polizia, ed a una donna fu tagliato un’orecchia.

Un articolo pubblicato nella Gazzetta di Milano del giorno 9 di questo mese, invertendo la cosa a suo modo, fece di questa scena il più scellerato quadro in nostro svantaggio. Speriamo ora che l’Italia è fatta libera, sarà pur libera la Gazzetta del signor Lambertini, e non costretta a pubblicare articoli infamanti la sua nazione ed i suoi concittadini, siccome usò in questi ultimi mesi.

Per alcune sere la Polizia di Milano raddoppiò le sue pattuglie. Armati a cavallo, armati a piedi, tutti dovevano minacciare, ferire, ed i vili non ardivano di attaccare la gioventù attruppata sugli angoli della città ad aspettarli. Inveivano contro i fuggitivi e contro quelli che soli e tranquilli si portavano alle loro case. Valga questo fatto per mille ch’io potrei narrare. Certo signor Olgiati, persona proba e benevisa da tutti i suoi conoscenti, la sera del giorno 11 ritornando dal Teatro alla Scala alla sua abitazione in contrada di S. Romano, attraversando il corso s’incontrò in una pattuglia che correva dietro ad una famiglia fuggente. Soffermatasi all’arrivo dell’Olgiati, lo minaccia: egli tenta fuggire, ma essi con un colpo di moschetto lo atterrano e quindi gli danno tre puntate di bajonetta che fortunatamente poco più gli faceano che scalfirgli la pelle, difeso da un fascio di carta che aveva nella tasca dell’abito dinanzi al petto. Riavutosi dallo spavento si portò a casa, ed il giorno dopo avendo dirette le sue querele ed alla Polizia ed al Governatore, non gli fu dato ascolto, e poco mancò che non lo trattassero da mascalzone e da malvivente.

[18] Il malcontento per la tracotante superchieria del governo e della Polizia austriaca andava di giorno in giorno serpendo negli animi degli abitanti del regno Lombardo-Veneto. I Giornali italiani ed esteri procuravano di farci comprendere il bisogno di stringerci, di unirci insieme, di distruggere quelle gare municipali che pur troppo furono causa di tanti danni, per poi scacciare il comune nemico. I primi a darne l’esempio furono i Piemontesi. Il Re Carlo Alberto, il solo principe italiano, vide il suo Stato in via di progresso stabile e costante, e seguendo i moti del suo cuore, uniformi ai principi politici dell’immortale Pio IX, volle con le più ampie concessioni riformarlo e metterlo a livello delle più incivilite nazioni d’Europa. Ed allora le città, i borghi ed i villaggi della monarchia Sabauda, dimenticandosi i torti sofferti a’ tempi delle fazioni, che le mantennero in continuo odio fra esse fino a questi giorni, si scambiarono le bandiere, si perdonarono le offese, tra le più esultanti feste di gioja giurarono stretta unione e vera fratellanza, avendo compreso la gran massima che nell’unione sta la forza.

Allora gli amici della buona causa italiana vollero vedere se anche nelle provincie Lombardo-Venete si sarebbe compreso il bisogno d’unirsi. Era necessaria una dimostrazione manifesta, e si deliberò l’abbandono dell’uso di fumare. Un gran sacrificio doveva costare agli abitanti, poichè troppo invalsa era fra loro questa sconcia consuetudine che fruttava cinque milioni annui all’austriaco erario. Pur nondimeno tosto che questa deliberazione venne detta fra amici, essi la propagarono e dalla capitale passò nelle provincie, e quindi nei piccoli paesi e villaggi sino nel Tirolo Italiano, per modo che tutta la popolazione giurò in secreto che l’ultimo giorno di dicembre 1847 sarebbe stato l’ultimo per l’uso della pipa. Per facilitare la diffusione del gran patto si fece litografare l’avvertimento popolare che riporto tra i documenti il n. o III.

La Polizia di Milano che consumava parecchie centinaja di migliaja fiorini in ispionaggi, resa consapevole di questo accordo, stette in aspettativa che si avverasse il fatto e come giunse il 1. o gennajo fu convinta della realtà. La politica di quest’officio inquisitorio inappellabile fu sempre quella di voler ridurre la popolazione con mezzi turpi e violenti a schiavitù. Ora ecco l’argine ch’essa credette opporre al torrente: il giorno due, a mezzodì fece aprire le prigioni ad una turba di malviventi e di gente perduta, ingiungendo loro di andare in frotte fumando e provocando con ogni pretesto tumulti e collisioni fra la tranquilla popolazione, ed a meglio ottenere l’intento li fece regalare quattro zigari e tre lire austriache per ciascheduno. A questi ribaldi si aggiunsero le pattuglie, destinate a proteggere l’ordine e la vita del cittadino, cui si dava novello incarico di commettere turbolenze e prepotenti arresti. Pattuglie a piedi, a cavallo di tutte le nazioni soggette all’Austria e poliziotti, percorrono le vie più popolose, insultando, minacciando, percuotendo ed arrestando persone d’ogni qualità e d’ogni sesso. Fra gli arrestati vi fu pure il nostro podestà Gabrio Casati, mentre arringava al popolo consigliandolo a quiete e prudenza. La nuova di questo arresto fece ricapricciare i cittadini che giurarono in un momento di vendicarne l’affronto.

Questo illustre cittadino sostenendo la primaria carica municipale con varie prove di virtù seppe acquistarsi l’affetto di tutti i Milanesi, che in lui salutano un padre, un amico, ed un degno rappresentante e sostenitore dei diritti municipali, ed ultimamente il primo motore della liberazione della patria. Sia bastante prova del suo zelo, del suo amor patriottico la protesta con cui il 9 febbrajo reclamò dal Governatore della Lombardia contro l’iniquo abuso di potere verso alcuni cittadini. Vedi documento n. o IV.

Il podestà Casati, cui s’erano aggiunti gli assessori Crivelli, Beretta e Bellotti, personaggi franchi ed energici, trovatisi davanti al Direttore di Polizia, esposero con parole di calda verità e di libero sfogo la misera condizione del paese, gli insulti, le vezzazioni e le persecuzioni di che i cittadini erano fatti scopo; e l’assessor Beretta aggiunse francamente esser opinione generale che la provocazione di tal trambusto partisse dalla Polizia; proposizione questa che mise il Direttore su tutte le furie; ma non si ebbe altra soddisfazione. In tutta la notte si continuavano le provocazioni e gli arresti, per modo che al mattino le prigioni erano talmente stipate di gente d’ogni età e d’ogni condizione, che gli stessi commissari esaminatori ne facevano le più alte meraviglie ( Ultimi fatti di Milano ne’ giorni 2, 3 e 4 gennajo. Losanna, 1848), e così terminò quell’infausto giorno. Il mattino seguente si pubblicò sugli angoli più frequentati della città l’avviso della Polizia che riporto tra i documenti al n. o V, il quale destò ne’ cittadini la più alta indignazione.

Fino al mezzodì di questo giorno non si lasciava presagire sinistri incontri. Se non che all’apparire delle pattuglie il popolo si affollò e l’agitazione cominciò più fervente del giorno prima. Dal castello alla Polizia correvano alquanti messaggi, e tra Radetzky e Torresani si va tramando l’esterminio della città. L’istessa paga e lo stesso regalo che si diede il giorno precedente si rinnovò pure in oggi non solo agli scarcerati, ma ben anco ai soldati di linea del grande impero, che frammischiali ai ladri ed ai borsajuoli vanno a scorribandare per la Corsia de’ Servi. «Verso le cinque ore Milano (scrive l’autore degli Ultimi fatti di Milano ) fu invasa da parecchie centinaja di soldati, quali per una via, quali per un’altra accorrenti al Corso maggiore: cavalieri e fanti col zigaro in bocca, colla sciabola snudata, irrompano sulla quasi muta moltitudine, e menando colpi alla cieca, offendono qui un braccio, là un cranio, più in là un tergo; e siccome l’ubbriaco s’infervora nella ferocia, mano mano che essi ferivano, più le ferite divenivano profonde, più i colpi lesti e vigorosi. L’inerme popolo così repentinamente assalito grida: non pensa alla resistenza perchè non sa se invece di cento non siano mille, dieci mila. I fanciulli strillano, le donne svengono, i vecchi cadono; e sui fanciulli, sulle donne, sui vecchi, la tedesca ebrietà si disfoga. La carneficina è fatta generale: nè v’è salvezza per alcuno, imperocchè in tutta la folla non v’ha nè una spada, nè uno de’ tanti stili che la fantasia de’ sciocchi romanzatori impresta sempre agli Italiani. Questo nefando assassinio si commetteva in faccia alle tranquille pattuglie sulla Corsia de’ Servi. La moltitudine guatava intorno trasognata ma non fuggiva. Dappertutto i devastatori incontravano un muro vivo di gente, la quale comecchè inerme, li sfidava. Uno di que’, che non osiamo ormai chiamare soldati, inviperito dal nessuno spavento prodotto, acciuffa un fanciulletto di undici anni, spazzacammino seminudo, lo atterra ginocchione, e lo vuole costringere a fumare, il fanciullo ricusa d’obbedire; l’altro insiste, e il generoso undecenne rimane fiero e rincaponito rimpetto alle minacce; e qui la penna a ritroso scrive che quel fanciullo ebbe spaccato il cranio da ripetuti fendenti di sciabola, ed orridamente mutilato le membra. Poco oltre verso la Galleria De-Cristoforis passava un Manganini, consigliere, frequente convitato a’ pranzi di Torresani, aulico inquisitore in una delle tetre commissioni austriache contro i carbonari; lo stesso Salvotti non che il Manganini avrebbe ricapricciato assistendo ai fatti che insanguinavano le vie di Milano; perciocchè l’ottuagenario consigliere fremendo alla vista di quelle barbarie della soldatesca, parlò come parla il cuore nei momenti che l’interesse ed il calcolo lo lasciano parlare. Di repente, il vegliardo viene agguantato da un militare, che percuotendolo gli ingiunge di tacersene, da quel povero vecchio ch’era. Ma il povero vecchio che forse in quell’istante ricevette da Dio la redenzione alle antiche viltà commesse, ripetè tremante per la collera che egli, il soldato che l’aveva ingriffato e tutti i suoi compagni erano altrettanti assassini: e tanto bastò perchè due terribili colpi di sciabola gli partissero il capo in due, e stramazzone piombasse a terra. Al caldo cadavere tosto intorno s’agglomerano sinistre persone, una delle quali fu vista, da due testimonj che noi potremmo citare, introdurre nella scarsella sinistra dell’abito del giacente uno stilo; il quale stilo doveva poi figurare con pompa nei rapporti della Polizia, ed autorizzare le sfacciate menzogne dell’ Allgemeine Zeitung

«Gli ubbriachi andavan menando colpi a dritta e mancina contro le persone, e tanta era la rabbia del ferire, che le lame urtavano perfino ne’ muri, nelle porte, nel selciato. Nella bottega di un noto librajo, rimpelto alla Galleria De-Cristoforis (Carlo Turati), gli assassini entrarono, ferirono qual poterono aggiungere, e poi furono visti, da un giovine che si rannicchiò sotto al tavolo dell’officina, trinciare colpi disperati contro le scanzie, contro fogli di carta disposti di fila in fila, contro libri quasi consapevoli che la stampa dev’essere la ruina di chi protegge consimile soldatesca.»

«Il dì andava imbrunendo. Nelle altre vie della città radi ma forse ancora più brutali, alcuni soldati s’erano sparpagliati a diffondere parte di quel terrore che sulla corsia dominava. Due o tre di essi, nel mentre che il resto dell’orda ferendo e percuotendo batteva il corso di Porta Comasina, entrarono in una bottega di povero rivenditor di vino, tagliarono una mano al padrone che l’aveva sposta fuor dell’imposta; abbrancò l’uno la moglie, l’altro la figlia, e d’inenarrabili insulti ricoprirono ambedue; ed un terzo scese nella cantina, bevvè quanto e più che voleva, e risalì barcolando, lasciando tutte le botti sbarrate, e così tutta la sostanza del poveretto sperduta. Nell’ampia via dell’Orso la masnada pareva più ebbra che altrove: due perseguono un onesto cittadino: questi fugge entro una casa, oltrepassa la dimora della portinaja, e sale la prima scala che gli si offre: i due persecutori nella loro furia non veggono quasi che fra loro ed il fuggente v’ha un cancello di ferro: entrano nell’uscio a manca e vogliono inoltrarsi: la portinaja s’oppone all’invasione, ed ha chiuso il secondo uscio che mette al cortile: Aprite Italiana! gridano quei feroci dando color d’insulto a sì nobile parola: ma quella si tien salda. Di repente essi si arrestano a guardarla con disonesto sogghigno. Duro caso fu ch’ella fosse una bella giovinetta di circa 18 anni. I malandrini vollero bruttarle la faccia con baci puzzanti di fumo ed acquavite, ma perciocchè ella opponeva loro viva difesa, la arrestarono e via trascinarono incatenata come ribellata alla legge. Sappiamo per certo che non se n’è più potuto aver novella: la disperata madre è corsa dal padrone di casa, il padrone dal parroco, il parroco alla Polizia; tentennamenti di spalle, ed un che vuole? sono tutte le soddisfazioni che una madre ha potuto avere».

«Nell’osteria detta della Foppa si contaminò, e poscia si ferì una donna: la stessa padrona ricevette colpi di fendente; un fanciullo che strillava troppo forte ebbe tagliato un braccio; un’infelice ch’erasi ricoverato nella cantina fu ucciso con più di dodici colpi: e per giunta il poco denaro che si trovava nel piccolo forziere del tavolo della cucina fu involato; diciamo in fra parentesi che questo sintomo di ladroneccio si manifestò quasi generalmente. L’ortolano de’ Fate-bene-fratelli ebbe rotta una gamba da un colpo di fucile per aver dimostrato orrore di simile strage.»

«La strada Sant’Angelo fu teatro di tremenda tragedia. Gli operai del fabbricator di carrozze Sala, compiuto il lavoro se ne ritornavano tranquilli alle rispettive loro abitazioni; forse essi non sapevano pure la strage che correva le vie di Milano. Giunti presso la caserma di fanteria, già pria chiostro di Sant’Angelo, si vedono repentinamente impigliati fra due schiere di soldati armati di fucile con bajonette, ed odono parola che ordina d’investirli senza misericordia. Spaventati si sbandano disordinatamente, ed ogni fuggente s’ode alle terga un feroce branco d’inseguenti. Uno de’ miseri venne confitto contro un albero, e già esanime, la bajonetta andò passando e ripassando il corpo suo; un altro venne massacrato sotto una panca di bottega nella quale aveva cercato rifugio: nove altri furono feriti alle spalle; di diciotto che erano, sette soli riescirono a scamparsela».

«Se l’orrore non fosse già abbastanza efficace noi potremmo venir qui narrando altri molti fatti, di donne vilipese, di mercanti svaligiati, e poi appesi col capo all’ingiù nella loro stessa bottega, di mutilazioni nefande, d’atti insomma soprannaturali di ferocia: ma noi non registriamo che fatti di cui abbiamo fondata certezza: e davvero sono fatti che ammettano più incredulità che se fossero inventati».

«Singolare destino è che fra i morti la maggior parte fosse di tal qualità, qual certo non l’avrebbe voluto la Polizia: il vecchio Manganini a lei devoto; il cuoco di Ficquelmont; un operaio del Sala, padre di sei figli; un fanciullo, una donna, e va dicendo. Ricordiamo pure qui con orrore due circostanze: l’ordine preventivo (!!!) mandato allo spedale di tener pronti tutti i dottori pei feriti che colà si porterebbero..... e l’avviso dato alla Somailoff di non lasciar sortire di casa le persone di servizio dopo le tre».

Tanti nefandi assassinj destarono negli animi dei Milanesi i sentimenti della più alta vendetta. Si giurò in secreto l’esterminio degli Austriaci; non vi dovevano essere più accordi fra noi e loro. Non vi ebbe che un voto: gli Austriaci dovranno abbandonare non solo la Lombardia ma tutta intera l’Italia. I nostri fratelli, di questa bella nazione prediletta dal sole, si commossero alle nostre sciagure, e ci promisero ajuto. Al Piemonte, fatto segno della accanita politica austriaca, si attribuiva l’origine delle tante dimostrazioni che ad ogni giorno ad ogni ora si andavano facendo. Il teatro alla Scala, unico sito di convegno della più alta Società di Milano, fu abbandonato, non vi fu un divertimento straordinario, non una festa da ballo, non una soirée, non un segno di carnevale.

Ed intanto che si fa, che si spera? petulanti avvisi della Polizia si leggono affissi ed accomunati coi sinceri proclami del Municipio, e colle menzognere parole dell’ex Vicerè. Vedi il citato documento n. V, ed i numeri VI, VII e VIII. Si voleva una soddisfazione: invano la dimandano il nostro Podestà e gli Assessori municipali. L’insulto alla popolazione fu pubblico, pubblica ne doveva essere l’ammenda: ma no, le ricompense tutte furono per gli assassini, per noi le carceri, gli esili e tutti gli avvilimenti. L’ex Vicerè, Torresani e Radetzky si scambiarono vicendevolmente le loro congratulazioni, gli agenti della Polizia ebbero larghe rimunerazioni, ed il Feld-Maresciallo esponeva a’ suoi soldati, coll’Ordine del giorno del 18 gennajo, la persuasione del suo Principe di conservarsi il regno Lombardo-Veneto fidando nella sua spada e nel valore delle truppe, di cui avevano già date belle prove in settembre e nei primi di gennajo. V. documento n. o IX.

Il Corso Francesco sì perchè ricordava i tristi avvenimenti del gennajo e sì per il nome che portava divenne odioso a tutti i buoni cittadini, i quali si rivolsero a Porta Romana, e quivi incominciarono un nuovo corso che denominarono Corso Pio IX. L’universale scontentezza obbligò la Congregazione Municipale di Milano, sulla proposta fatta dal signor Nazari, Deputato alla Centrale, a stendere una supplica a Ferdinando I, nella quale si mostravano i difetti della pubblica amministrazione ed il modo di correggerli. Fu spedita al trono coll’organo vicereale, ed in pendenza delle risoluzioni sovrane il fermento nel popolo andava crescendo. Un giorno si stabiliva un’adunanza per assistere secretamente a’ divini uffici che si facevano celebrare per le vittime della rabbia tedesca. Un altro giorno un gran concorso alla Scala per festeggiare la Costituzione che gli altri principi italiani davano a’ loro sudditi, e via discorrendo.—Il Vicerè con un secondo proclama invita alla quiete assicurando che egli teneva le redini del governo, e che avendo inoltrato nelle vie legali una dimostranza all’imperatore si lusingava di veder esauditi i voti dei Milanesi. Vedi documento n. o X. Ma questo secondo proclama acquistò minor credenza del primo, e non andò molto che ci persuademmo del vero. Dopo alcuni giorni un proclama di Ferdinando I, spedito da Vienna, ci avvertiva che l’imperatore aveva sempre trattato il regno Lombardo-Veneto come tutti gli altri Stati della Monarchia, e conchiudeva che in ogni caso egli confidava nel valore e nella fedeltà delle sue truppe, saldo baluardo del trono, e nella maggioranza della nazione. Vedi documento XI, al quale tien dietro il n. o XII dell’ex imperiale regio governo.

Frattanto la notizia giunta in Milano della vittoria riportata dai Palermitani sulle truppe del re recò grande consolazione a noi. Erano Italiani depressi e conculcati quanto noi, che si erano levato il giogo dal collo. A dimostrare la nostra gioja si cominciò col recarsi alla cattedrale per ivi recitare in nostro cuore il Te Deum. Più di 16 mila furono, a detta dei più, gli accorrenti, e ben più di 150 carrozze furono da me contate, che colle spalle voltate verso il palazzo di Corte erano fatte segno di un commesso di Polizia, il quale colla matita ed un pezzo di carta andava enumerandoli; ed io facendo mostra di arricciarmi i mustacchi potei girargli intorno e leggere su quella carta i marchesi B.... e V.... il primo con tre carrozze, ed il secondo con due. E sull’interno della cattedrale, che assiepata di gente non lascia luogo a far un passo, che si fa? La Polizia che ne era stata avvertita, fece vestire da Lions duecento sgherri ed armatigli di stili ingiunse loro di cacciarsi nella folla, di eccitar tumulto con grida sediziose, e nello scompiglio di ferire a destra ed a sinistra. Il colpo tuttavia andò fallito; ma per questa mascherata spese la Polizia la somma di 7000 lire austriache.—In appresso per maggiormente manifestare la nostra contentezza si adottò un cappello alla foggia de’ Calabresi, e la Polizia sempre più insospettita contro di noi, sollecitamente pubblica un avviso con cui si proibisce assolutamente l’uso di tal sorta di cappelli, come qualunque altro distintivo (V. documento n. o XIII), e fatti domandare tutti i cappellaj li volle obbligare a ritirarli sotto severe pene. Ai cappelli colla piuma si sostituì l’antica forma, mettendovi però una piccola fibbia d’acciajo sul davanti, e da alcuni si faceva inoltre una piuma collo stesso pelo del cappello. Non andò guari che due proclami ci pervengono da Vienna. L’uno guarentisce la Polizia contro qualunque diceria del popolo, e le affida un assoluto potere, l’altro istituisce il giudizio statario pei delitti politici, la cui procedura sommaria non doveva oltrepassare quattordici giorni a contare da quello in cui l’imputato si presentava all’esame, e portava la pena di morte da eseguirsi colla forca. (V. documenti n. o XIV e XV.)

Non la sola Lombardia si scosse ad una sì vandalica legge, ma l’intera penisola, la Francia, l’Inghilterra. Quest’ultima nazione col mezzo del suo ministro Lord Palmerston dirigeva verso la fine di febbrajo ai primi di marzo una nota all’ambasciatore inglese a Vienna, con cui gl’imponeva di far valere tutta la sua eloquenza e buon giudizio, onde indurre il Gabinetto di Vienna a cambiar sistema nell’Austria, onde conciliarsi tutti li diversi Stati della Monarchia e non aspettare che una rivoluzione sorgesse in danno della Monarchia stessa. L’Austria tuttavia fece la sorda, sempre confidente nelle sue truppe, nei mezzi che la provvidenza gli somministrava aspettava di piè fermo che la nostra pazienza si stancasse. Non erano però di questo parere l’ex Vicerè ed il Feld-Maresciallo. Il ministro Ficquelmont li aveva avvertiti che noi si armavamo, che la nostra pazienza aveva toccata la meta. E come non accorgersene? La nobiltà aveva abbandonata la Corte. Il teatro alla Scala, come abbiamo veduto, abbandonato dai nostri cittadini e frequentato solo dagli uffiziali del presidio austriaco si chiamava Caserma alla Scala; l’allontanamento da qualunque dimostrazione che desse il più piccolo indizio di contento o di attaccamento alla Corte era generale. Il Carnevale (per essere state proibite le feste, maschere, ecc., come dal documento n. o XVI) si terminò col martedì in luogo della domenica a significare così l’osservanza del rito romano, nonchè dall’ambrosiano, e una maggiore osservanza a Pio IX, e via via dicendo che non la si finirebbe più.

Il Vicerè intanto apparecchiasi ad una partenza colla sicurezza che non avrà più ritorno. Egli fa incassare tutto quello che può e suo e non suo, sopra diverse carra che lo precedono verso Verona. Radetzky pensa di chiudersi in castello, e ad onta delle proteste del Municipio (V. documento n. o XVII) fa erigere alcuni fortini intorno ad esso. Graziosa fu la satira o piuttosto profezia che riporto, esposta dai Milanesi sopra alcuni angoli della città e del castello in occasione di questa fabbrica:

Porchi de Todisch! El savì che si mal vist: Vorri fabbricaa Che si minga vi alter i padron de caa: Cosa serva che tribulee, Che prima de Pasqua avii de fa S. Michee.

Molti altri accidenti, che precedono la rivoluzione avrei a raccontare, i quali a danno della verità vennero svisati dalla nostra Gazzetta privilegiata: ma se dovessi entrare a fatti particolari sarei infinito; mentre ben pochi sono quelli di un ceto distinto che non ebbero a soffrire perquisizioni della cessata Polizia austriaca. Tra questi sarebbero i due fatti successi il 12 e il 14 febbrajo, narrati falsamente dalla suddetta Gazzetta, l’esclusione degli Studenti all’intervento dei funerali del professore di filosofia dottor Carlo Ravizza, come pure molto vi sarebbe a dire delle stragi commesse a Pavia ed a Padova, ma sarebbe un correre oltre il segno, avendo io promesso di parlare solamente degli avvenimenti di Milano.

[19] Vedi documento n. o XVIII.

[20] Fra i primi che accorrevano al ex palazzo Governativo alla testa di una distinta squadriglia, fuvvi il doltor fisico Paolo Rossignoli. Egli colle armi che gli somministrava l’amico Ercole Durini toglieva la vita e le armi ai soldati ivi di guardia. Quindi impossessatosi della carrozza dell’Arcivescovo, faceva la prima barricata dal lato di S. Maria della Passione. Si portò poscia alla bottega dell’armajuolo Colombo, ove potè armare la sua squadriglia. Indi, facendo barricate, si avanzò sul piazzale delle Galline, ed ivi trinceratosi con quattro barricate fatte colle vetture del Marzari ed innalzato il vessillo tricolore nel mezzo della piazzetta, obbligò di poi il prete della chiesa di S. Protaso a far suonare campana a martello.

Alla presa del palazzo di Polizia gli venne ferito al fianco il pittore Tenconi, che medicò in casa Mangili e fece quindi trasportare all’Ospedale. Proseguendo a far eseguire le barricate sino a S. Marcellino, fu ferito, sull’angolo del Lauro, da una palla che gli sfiorò l’ultima costola al fianco destro, da molti Croati appostati sul ponte Vetro nella sera della prima gloriosa e più difficile giornata.

La scelta compagnia del dottor Paolo Rossignoli era composta oltre a’ suoi due cugini Franceseo e Giuseppe Rossignoli, dei conti Guido ed Emmanuele Borromeo, di Oreste Zaffanelli, di Carati Enrico, Valentino Rossi, Ermenegildo Fumagalli, Quiroli Bartolomeo, Luigi Zanner, Pellegata Giuseppe, Santino Sando, Angelo Corsi e Fiando fratelli.

Il primo che dal Broletto portasse al Palazzo di Governo la bandiera tricolore fu il signor Gio. Battista Grondona, impiegato alla Giunta del Censo. Egli schivò fortunatamente un colpo di fucile direttogli da una delle guardie, stesa, poi morta a terra da un nobile cittadino.

Merita speciale ricordanza anche l’avvocato Antonio Negri, che munito di semplice bastone, fu tra i primi a disarmare il corpo di guardia del Palazzo di Governo, e tra quelli che fecero prigioniero O’Donell. In appresso munito di arme da fuoco, a Porta Romana respinse quasi solo una forte mano di Croati; all’Arco di Porta Nuova tra un nembo di palle coraggiosamente avanzando incuorò gli altri; finalmente, benchè ferito in una gamba, salito con alcuni altri sul terrazzino di detto Arco, col molestare continuamente l’inimico contribuì non poco a farlo sloggiare di quel punto importantissimo.

Parimente non v’ha dimenticato il coraggioso cittadino Carlo Peroli, che pure con un colpo di pistola al Governo uccise uno dei soldati di guardia; e di là in compagnia del conte Durini, passando alla contrada di S. Paolo fece eseguire la prima barricata in capo a quella contrada, incoraggiando ed obbligando una turba di cittadini a quel lavoro. Trovatosi quindi con alcuni suoi compagni al negozio dell’armajolo Colombo e vedendo che costui cercava di temporeggiare, egli con una leva di ferro sforzò la bottega, ed armatosi potè in compagnia del suo amico Cavalieri perseguitare la truppa che passava per la contrada del Rebecchino. Incaricato del signor Barbò ad andare ai Monforti per liberare uno zio del medesimo, unitosi ad una squadra de’ nostri, volò a levare dall’assedio un vecchio rispettabile. Indi scavalcando colle scale a mano la casa Cicogna, entrò nelle ortaglie, ov’era accampato un corpo di Croati, contro cui combattè. In questo scontro restò ferito il cittadino Mariani. Racconti di 200 e più testimonj oculari.

[21] Il signor Giuseppe Nova fece prigioniero il vicepresidente O’Donell, che consegnò al conte Alessandro Greppi. Più avanti avrò occasione di parlare del coraggioso giovine signor Nova.

[22] Gli ultimi cinque giorni degli Austriaci in Milano, relazioni e reminiscenze. Milano, tipogr. Borroni e Scotti, pag. 13. Come uno dei primi pubblicati, questo libro manca di qualche fatto, ma non va senza lode per le notizie esatte ed importanti che racchiude.

[23] Narra l’autore dei Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate di Milano, «che uscendo tre carrozze, due a due cavalli, ed una ad un cavallo solo, ed attraversando la piazza dalla parte della contrada Cusani per recarsi al dazio di Porta Tenaglia, staccasi un drappello di cavalleria ussera e si presenta alla portiera scaricandovi diversi colpi di carabina. Nè contento di questo, adopera lo squadrone per finire di sacrificare le vittime che in esse si contenevano. Una delle carrozze a due cavalli prese la fuga dirigendosi verso la casa Dal Verme, e da’ militari stessi venne condotta in castello, attraversando la linea delle piantaggioni; l’altra con un solo cavallo, portatasi a carriera verso la strada che percorreva, tutto ad un tratto soffermossi, e per quanto facesse il vetturale o qualche cittadino accorso in ajuto, non fu possibile di rimuovere dal suo posto il cavallo; la terza soffermossi dirimpetto alla porta del castello, e vi stette per un’ora e mezzo circa, sotto ad una dirotta pioggia, custodita da due usseri, uno per parte della portiera, venne poi tradotta in castello, e verso sera si vide a ritornare il medesimo legno. Asseriscono poi che alla mattina susseguente si trovarono due cavalli morti da colpi di squadrone sulla piazza del castello, e furono riconosciuti i medesimi attaccati al legno fuggitivo. Un cocchiere si vide cadere nel momento che fu assalito; nulla seppesi di coloro che erano nei legni, sendo che i colpi di cannone e della fanteria e cavalleria che trovavasi sulla piazza fecero ritirare tutti gli astanti.

Il Lombardo in proposito ai fatti della prima giornata ci reca la seguente importante notizia: «Veniamo assicurati che al primo sorgere della nostra rivoluzione, la mattina del sabbato 18 corr., que’ buoni galantuomini di Radetzky, Torresani e De Betta avevano formato il seguente piano: ottomila uomini divisi in cento sessanta compagnie di cinquanta uomini ciascuna, dovevano invadere la città e portarsi a saccheggiare duecento case dei più distinti signori di Milano, che sarebbero state indicate dal Torresani, nel mentre stesso che altri sei o sette mila uomini avrebbero tenuto a freno il popolo, impadronendosi delle principali contrade e mitragliando, e fucilando senza misericordia tutti coloro che avessero opposta qualche resistenza.—Se questo piano iniquo ed orribile non fu condotto ad esecuzione, lo dobbiamo all’opposizione energica fattagli dal generale Wallmoden, che protestò non avrebbe mai preso parte a tal azione che infamasse per sempre il suo nome e l’armi ch’ei comandava.—Anche il generale Woyna protestò nel senso medesimo.—Il 20 si trattava di sottoporre il generale Wallmoden ad un giudizio di guerra.»

«Furono intercettate due lettere famigliari che reciprocamente si dirigevano i due figli maggiori del ex vicerè del cessato Regno Lombardo-Veneto.—In queste i due Principini ed Arciduchini d’Austria si mostravano più che persuasi, e spiegavano il più vivo desiderio che Radetzky cannoneggiasse la loro diletta Milano con pezzi da ventiquattro, e che domata la rivoluzione facesse piantare due forche, che incominciassero il lungo loro esercizio dall’appiccare quel baron fottuto del podestà Casati».

[24] Narra il citato autore dei Racconti di 200 e più testimoni, che alla testa della gendarmeria precedesse a cavallo il commesso dell’ex polizia Zamarra.

[25] Onde non tralasciare i fatti principali e più interessanti che mi guidano sul corso di questi cinque giorni, devo tratto tratto servirmi anche di notizie già pubblicate da altri, molte delle quali erano trasmesse anche a me nello stesso tempo che venivano spedite al raccoglitore Ronchi, e ad estensori di giornali. Fra queste crediamo degna di riportare la seguente narrazione dell’avvocato Michele Cavalleri, abitante nella contrada di S. Pietro alla Vigna, n. o 2812. «Alle ore 5 circa del giorno 18 marzo, sentii di repente numerosi colpi di fucile in istrada, quindi due palle che ruppero i vetri della mia stanza e fischiarono poche dita da me discosto.»

«Alla novità del fatto, mi avvicinai alla finestra e mi corse agli occhi una numerosa schiera di granatieri ungheresi, difilati lungo la parete opposta della contrada e collo schioppo approntato alla guancia verso tutti i piani della casa. Repentissimi, violenti colpi di scure alla porta, grida feroci lungo la strada, un alto lamento nell’interno della casa mi annunziavano la presenza di una ferale disgrazia.»

«Venni nell’attigua stanza e quivi un’altra fucilata: al repentino evento tosto pensai, che in tal guisa si desse principio ad una sistematica distruzione di casa in casa, vedendone gli abitatori innocui, disarmati e ravvolti fra un diluvio di donne e di figli correnti, lagrimanti, stridenti.»

«Il servitore mi avvisò, che le scuri avevano già fessa la porta, e che a momenti i soldati irrompevano; non esservi altro scampo che il fuggire attraverso i tetti. Grazie alla generosa opera del cittadino Meresalli, impiegato all’ex-governo, affittuario al terzo piano della casa Piazza, Torre de’ Meriggi, congiuntamente a 16 altre persone, padri e madri di famiglia, avemmo, per una finestra laterale al tetto, ingresso nella sua abitazione, e da questa facemmo passaggio a quella dei conjugi Perelli, abitanti al quarto piano di detta casa, dove ospitalmente ricevuto questo profugo stuolo, ebbe per tutta notte asilo e conforto di cibo: che anzi lo scrivente congiuntamente alla sua famiglia, e ad altro, tutti depaurati dal saccheggio e tutti sotto la legge di morte, per molti giorni ancora fruirono di tale asilo che una benemerente carità aveva con proprio pericolo aperto.»

«Appena chiusa la finestra d’ingresso, appena chiuso l’uscio della casa di nostra dimora, i granatieri salirono sul tetto dietro le nostre pedate, collo schioppo alla faccia, determinati ad inseguirci e a far fuoco contro gli usci e le finestre chiuse; quando una voce dei loro diede ordine di fermarsi, non presentando il generale silenzio un sospetto alcuno di nostra vicinissima presenza.»

«Fu in questo stadio, che per la seconda volta il certo pericolo di morte ancora più acerbamente portava angoscia all’anima, perocchè noi avremmo inviluppato nella nostra disgrazia i benefattori che ci avevano raccolti.»

«Non rinvenuta la preda nella parte più alta della casa, corsero i soldati ungheresi alla più bassa, nelle cantine, dove infatti giacevano occultate donne e numerosi fanciulli d’ogni età.»

«Ma essi volevano e cercavano gli uomini, s’avvennero in un figlio del portinajo da tempo infermo, che ferocemente maltrattarono, perchè inabile a sorreggersi. Corsero ai piani di abitazione, gettate a terra le porte, ogni cosa misero a soqquadro, con bajonetta o spada forarono i ritratti, sfracellarono quanto eravi di friabile, gettarono contro terra e con ogni studio di rovina ciò tutto che non poteva levarsi; a colpi di sciabola e scure sforarono i mobili, sfondarono armadj, cassettoni, tavoli; distrussero in una parola quanto loro si presentava davanti, ponendo mano a danaro, orologi, argenterie e lasciando dietro di sè quasi dappertutto un caos di rovine, conducendo però seco loro il portinaio col figlio, il mercante di mobili e due giovinotti.»

«Ma qual fu l’origine di tante angoscie e di tanti disastri! L’essere caduta in istrada una griglia dal secondo piano, senza offesa di persona, pochi passi distante da due o tre granatieri. Essi chiamarono a stormo dalla vicina casa del generale in capo Radetzky, e dalla vicina caserma di san Francesco, in modo che quasi 100 uomini di ogni arma e specialmente circa 60 granatieri, vennero a compiere con frenesia ferina tanto ingloriosa impresa.»

«Meritano quivi una particolare ricordanza i fatti di due donne di servizio Marianna De-Giuli e Giuseppa Rimondi, che tutti i giorni dalla domenica in poi, attraverso i colpi di fucile che piovevano lungo la linea della mia contrada d’abitazione, incaricavansi di far provvigione per le 32 persone quasi tutte donne e fanciulle che a lei commettevansi per la mancante provvista del vivere: e della cittadina Alessio Giuseppina, maestra di scuola, che nel momento del personale pericolo, non dimenticò l’importanza del suo magisterio, ricevendo di piede fermo l’uffiziale ed i soldati, cui disse, che essendo donna ed educatrice, per propria inoffensività e per incolumità delle proprie educande, aspettavasi esente da ogni militare violenza. L’uffiziale dei granatieri ungheresi, fatta visita al domicilio, rispose congedandosi, che egli non aveva sete che di vite maschili, e dappoi ebbe a dire che era per esso un gran piacere l’uccidere 50 o 60 italiani.»

[26] Baracchi, Le gloriose cinque giornate dei Milanesi. Opuscoletto interessante e scritto con molta verità.

[27] Vedi atrocità commesse dagli Austriaci durante la rivoluzione di Milano, estratte da documenti officiali.

[28] Il 22 Marzo, giornale ufficiale, n. I.

[29] Ad alcuno sembrerà fuori di posto questa risoluzione del Re Sardo, che a noi non pervenne che il giorno 24, ma quando si avrà riguardo esser ciò successo in seguito alla rivoluzione del primo giorno cesserà ogni censura.

[30] Circa alle ore due e mezzo pomeridiane del giorno 22 marzo, una grossa palla di spingarda, distrusse in parte una torretta di camino nella casa dello stesso Signor Uboldo in Pantano.

[31] Intorno alle dette maravigliose barricate mobili abbiamo anche i seguenti particolari nella Gazzetta Officiale del 22 marzo. «Antonio Carnevali, già professore di matematica e strategia alla scuola militare di Pavia sotto il cessato regno italiano, nominato in questi cinque giorni alla direzione delle fortificazioni campali, fu egli che immaginò il piano di quell’operazione. A quest’uopo concepì l’idea di alcune barricate mobili che servissero a proteggere i nostri bersaglieri contro i colpi dell’inimico nell’atto che si avanzavano verso la Porta. Mentre scriviamo ci sta sott’occhio un ordine sottoscritto da lui, perchè si formassero delle grosse fascine cilindriche del diametro di once 60 e lunghe once 40, e quest’ordine è accompagnato da un piccolo disegno illustrativo. L’incarico di ridurre ad esecuzione questo pensiero delle barricate mobili, se lo assunse il pittore Gaetano Borgocarati, giovine oltre ogni credere coraggioso, che in tutto il tempo dell’assedio prestò utilissimi servigi alla causa comune, combattendo valorosamente e sprezzando qualsiasi pericolo. Questi si ridusse sulla piazzetta di S. Pietro in Gessate, ed ivi raccolto intorno a sè buon numero di operatori, ebbe ben presto costrutto tre di quelle barricate mobili, quindi due altre ne condusse a termini nel vicino Orfanotrofio dei maschi. Visitate dal Carnevali queste enorme fascine, e approvatane la costruzione, egli stesso insegnava il modo di farle rotolare maestrevolmente ad opportuna distanza una dall’altra e a scala onde potessero negli intervalli di esse uscire i nostri combattenti e offendere il nemico. All’atto pratico furono trovate di grandissimi vantaggi.

[32] L’arresto di un corriere da Verona mise in nostro possesso due lettere scritte in tedesco da uno dei figli dell’ex Vicerè al suo fratello Ernesto. Ne diamo la traduzione nel documento n. XIX, stata pubblicata già nel giornale Il 22 marzo.

[33] V. Gazzetta di Milano del giorno 19 aprile.

[34] La presa di Porta Tosa, così detta Porta Vittoria, narrazione di G. B.

[35] Cosa rincrescevole veramente è per uno storico sincero e imparziale il non potere, per difetto di notizie autentiche, registrare i nomi di tutti coloro che in questi gloriosi avvenimenti sia con la mano sia col senno ben meritarono della patria. D’altra parte il merito vero, sempre modesto, ripugna da qualunque ostentazione, e solo fa premio a sè delle opere sue, intantochè colui forse che solo per mostra impugnò l’armi, o stette nascosto nei momenti del maggiore pericolo, viene dopo la vittoria ad assordar la città de’ suoi vanti, e a trarre in inganno la credulità dei più che non potendo o non osando smentirlo, consacra, divulgando come fatti veri le loro vanterie, sì che il cronista, indotto dalla voce pubblica, si rende complice involontario della menzogna, e così come già disse il cantor di Gerusalemme liberata:

I premj usurpa del valor la frode.

Se non che il tempo vien poi a riparar le più volte questi torti dalla fama, ed a rendere a ciascuno il suo.

[36] Alle ore tre e mezzo pomeridiane il Console generale Francese inviava a lutti gli altri Consoli esteri residenti in Milano le seguenti lettere coll’unita protesta al maresciallo Radetsky che riportiamo dal Giornale L’Amico del Popolo.

Signore e caro Collega!

Si teme d’un bombardamento, e si desidera, nell’interesse dell’umanità, che il corpo consolare residente in Milano protesti contro un atto così selvaggio, se è vero tal cosa.

Io ed il Console generale, abbiamo promesso ai membri della Municipalità, riuniti in casa del signor conte C. Taverna di unirsi a voi per redigere e firmare se ha luogo questa protesta. Vi prego dunque di venire da me e tutti i vostri colleghi, per discorrere ciò che si può fare in interesse dell’umanità e dei nostri nazionali. La riunione avrà luogo alle cinque pomeridiane.

Aggradite, ecc.

Il Console Generale

Ferd. Denois.

Milano, 19 marzo.

Al Console di....

Sig. Maresciallo.

Ci venne detto che l’autorità militare ha minacciato la città di un bombardamento, se, il che non possiamo credere, dovesse essere adottata una tal misura estrema in una città di 160,000 anime, in una città ove risiede un sì gran numero de’nostri compatriotti, noi saremo obbligati, signor Maresciallo, di protestare presso V. E. in nome dei Governi, contro un atto di tal sorta.

In ogni caso, facciamo conto abbastanza sulla vostra giustizia ed umanità, per sperare che V. E. ci farebbe avvertiti e ci accorderebbe il tempo necessario di poter mettere i nostri nazionali e le loro proprietà al sicuro dei danni a cui potrebbero trovarsi esposti, come si farebbe certamente in simile caso verso i sudditi austriaci nei nostri rispettivi paesi.

Aggradite, ecc.

Milano, 19 marzo 1848.

Ferd. Denois, Console generale di Francia.—Cav. Gaetti Deangeli, Console generale di Sardegna.—De Simoni, Console generale dello Stato Pontificio.—Raymond, Console Generale della Svizzera.—Cambel, Vice-Console Inglese.—Valerio, Console del Belgio.

A Sua Ecc. il Maresciallo Radetzky.

[37] Ma non ebbe tempo di appieno effettuare il suo disegno, chè dopo conquistato dai nostri quell’infame covo di scellerati e di scelleragini, ne furono trasportati ben cinque gran sacchi di carte, fra le quali molte importantissime e segrete che recano manifesti gl’iniqui e nefandi misterj della metternichiana Polizia. Di queste carte noi produciamo il seguente motu proprio dell’ex Direttore, donde appunto si vede come già da due mesi quel provvidissimo Magistrato avesse preparato l’esilio de’ migliori nostri cittadini e il lutto di tante famiglie. L’originale di questo documento conservasi presso il benemerito Comitato di Sicurezza Pubblica, che ci permise di pubblicarlo come allegato autentico nel nostro sunto storico.

Urgent.

Milano 28, 1848.

Agli I. R. Sig. Comis. i Superiori dirigenti la Polizia nelle Provincie Lombarde. (eccetto Milano.) ( riservato alla sola persona )

La invito Sig. Commis. o Sup. e a voler compilare e trasmettermi colla maggiore possibile Sollecitudine un Elenco delle persone domiciliate in codesta provincia, contro le quali a seconda della maggiore o minore loro pericolosità converrebbe, onde renderle inocue negli atuali momenti di perturbazioni adottare al caso la misura dell’internamento nelle provincie tedesche della Monarchia Austriaca, sia in via forzosa, o sia mediante passaporto da rilasciarsi ai medesimi; non che di quelle, alle quali Ella riputasse per ora sufficiente di fare una conveniente avvertenza colla comminatoria d’un formale precetto politico oppur anche della loro deportazione.

Nell’accompagnare un tale Elenco Ella vorrà esporre succintamente i motivi dai quali fosse consigliata l’una o l’altra delle misure succennate.

Le faccio obbligo di serbare sul tenore di questo riservatissimo incarico il più scrupoloso segreto verso Chichesia.

Torresani Mp.

[38] Nel nostro tempio di S. Carlo si celebrarono le sue pompe funebri il giorno 15 di aprile, e dalla Gazzetta di Milano, prendiamo le seguenti notizie in proposito:

Ammirabile e commovente funzione funebre celebravasi oggi nel maestoso tempio di S. Carlo a suffragio dell’anima generosa e forte di Giuseppe Broggi, che con tanto valore difese nelle prime due delle rinomate cinque giornate i punti più accanitamente attaccati dall’artiglieria austriaca a Porta Nuova, a Porta Orientale, ed a S. Babila.

Quel prode che già militando per la Francia erasi battuto e distinto sulle spiagge d’Africa, munito di quell’armi medesime, d’onde non usciva colpo in fallo, distruggeva il nemico in modo da incuterli spavento: ma una palla da cannone di rimbalzo lo stese sfracellato con un colpo a terra, in mezzo a suoi fidi amici Rusca e Biffi che erangli compagni alla vittoria. Così pure del suo eletto drappello erano di conserva alla pugna Emilio Morosini, De Cristoforis, fratelli Biffi, Attilio Mozzoni, Enrico Dandolo, Angelo Fava, Re, Carlo Mancini, Croff, Negri ed altri.

Sulla porta del Tempio leggevasi questa bella iscrizione:

Α ———————— ☧ ———————— Ω GRAN DIO DELLE CLEMENZE SIA TU PROPIZIO ALL’ANIMA DI CARLO GIUSEPPE BROGGI GIA’ MILITE NELLE GALLICHE LEGIONI DELL’ALGERIA COSTUMATO ARDITO FIORE D’ITALI PRODI COLPITO IN MILANO DA BELLICO FERALE TORMENTO MENTRE CROCESIGNATO DI PIO IL MAGNANIMO DIFENDEVA IMPAVIDO IL PONTE DELLA CONCORDIA SPEZZAVA DELLO INORGOGLITO NEMICO IL TEVTONICO GIOGO CON BRAMOSÌA DI RINTVZZARLO TRA I GHIACCI DEL NORTE VINDICE DELLA VILIPESA RAGIONE DE’ TRATTATI DELLA RELIGIONE DELLA VMANITA’ MORÌ VITTIMA DELL’INDIPENDENZA ASSOLVTA D’ITALIA IL XIX. MARZO M.DCCC.XLVIII DI ANNI XXXIII, TRA IL COMPIANTO DE’ SVOI CONCITTADINI CON ISMISVRATO PERPETVO DESIDERIO DEI BRAVI COMMILITONI

In mezzo al tempio, tutt’addobbato a gramaglia e ricco di fiammeggianti cerei, sorgeva la mole funebre, delineata a foggia militare, ideata magnificamente dal pittore Firmini. Il piedestallo sorgente dalle gradinate era tutt’intorno fregiato di uniti fucili, come n’era la sommità del catafalco, nel di cui mezzo stava piantato il gran vessillo tricolore, donato per tale scopo alla Chiesa. Armi e trofei congiunti e ben distribuiti, d’invenzione del Frattini, e bandiere e vasi e fiaccole ardenti lo corredavano con verdi cipressi ai lati, di tal mirabile effetto che tutta l’anima n’era commossa. Scelta musica del maestro Raj era da numerosi artisti eseguita, e tutto il Clero, e per quanto riguarda la Chiesa gratuitamente prestatosi, avea secondato il desiderio de’ molti amici del defunto che sostennero varie altre spese.

Una Deputazione del Governo provvisorio intervenne alla funzione, ed il Comando militare con altri Dicasterj. Tutta la Guardia civica d’infanteria e cavalleria vi si è recata ad onorar la memoria del prode estinto; e numeroso stuolo di signore vestite a bruno vi concorsero pur esse in mezzo a folla straordinaria per spargere una lagrima su quel feretro.

Alla tomba fu letto un breve e interessante discorso che incominciava colle seguenti parole:

«Fratelli!

«A forte e sentito dolore mal risponde la parola, e più eloquente d’ogni parola sono i nostri volti composti a solenne mestizia. Fra le nere gramaglie e i funebri riti, nel raccoglimento religioso della preghiera siamo convenuti intorno una bara per rendere pietosa testimonianza di affetto; e il cuor nostro palpita ancora delle più vive emozioni. Noi pregammo la pace del Signore all’anima benedetta di un martire delle cinque giornate, e qui ci accogliemmo a spargere sul suo sepolcro un fiore, e una lagrima di memoria e di riconoscenza.—Cittadini! questa terra che calchiamo è terra di valorosi; quella tomba che pur ora baciammo nell’espansione dell’anima racchiude una salma preziosa, la salma di Giuseppe Broggi abbracciata strettamente in amplesso fraterno a quelle de’ prodi, che combattendo da leoni morirono da eroi nelle nostre mille barricate, e inaugurarono coi martiri di Palermo l’evo glorioso dell’italiano riscatto».

E finiva dicendo:

«Salve o salve, anima grande; tu volasti all’amplesso di Dio colla fede più viva, che il tuo sacrifizio avrebbe fruttato la nostra vittoria, la tua morte la nostra redenzione. Quivi ove rotti furono violentemente i ceppi del terreno tuo carcere, scorgerà fra breve una pietra, su cui leggeremo scolpito il tuo nome. Il tempo logorerà la pietra ed il nome; ma esso surviverà perenne nelle nostre gloriose tradizioni, nelle prime due pagine della storia delle cinque giornate, nel nostro e nel cuore conoscente del popolo italiano».

[39] A chiunque non ha assistito alla nostra gloriosa rivoluzione non sembreranno inutili certi casi così strani, che molte volte nei momenti del massimo furore ci spingeva contro nostra voglia a ridere.

[40] Gazzetta di Milano del giorno 8 aprile.

[41] Vedi Racconti di 200 e più testimoni oculari.—L’autore delle lettere Infamie e crudeltà degli Austriaci, narra questo fatto più in disteso e con qualche diversità. Ciò rimetto al giudizio di chi legge e più di chi ne fu testimonio.

[42]

COMITATO DI VIGILANZA ALLA SICUREZZA PERSONALE Casa Taverna; Contrada de’ Bigli Presidente, Dott. Angelo Fava.

Membri, Dott. Andrea Lissoni.—Avv. Agostino Sopransi.—Avv. Pier Ambrogio Curti.—francesco Carcano.—Segretario Ancona Luigi.—Aggiunto, Cesare Viviani.— Capitano della Guardia del Comitato, Manzoni Luigi.

COMITATO DI FINANZA Casa Taverna Membri, Alessandro Litta Modignani.—Gaetano Taccioli.—Cesare Clerici.

COMITATO DI GUERRA C. Cattaneo.—Cernuschi.—Terzaghi.—Clerici.

COMITATO DI DIFESA Casa Vidiserti, Contrada del Monte; 1263 C.

Direttore in Capo, Riccardo Ceroni. Comandante, Organizzat. della Guardia Civ., Antonio Lissoni. Comandante di tutte le forze attive, A. Anfossi. Direttore di tutti i punti di difesa, A. Carnevali. Direttore delle ronde, delle pattuglie e dei Corpi di Guardia, Luigi Torelli. Segretarj, G. Alessandro Biaggi.—Luigi Narducci.

COMITATO DELLA SUSSISTENZA Casa Pezzoli, Corsia del Giardino. Negri Luigi.—Ferranti Eugenio.—Lugo Ferdinando.—Lampato Francesco.—Besevi Emilio.—Besozzi Antonio.—Molossi Pietro.

[43] Fra le case incendiate in città fu quella del Caffè della Campagna, situato di contro al dazio, dove restarono morti varj Croati ed un ussaro col suo cavallo, ivi appiattati mentre aprivasi una via di salvezza al numeroso vicinato da cui era sgraziatamente abitata; la nuova casa dell’ Osteria della Stella, situata a capo del borgo di questo nome; ed altre fuori della porta, tra le quali si annoverano il Caffè Gnocchi, del quale incendio narrerò la storia genuina, l’ Osteria dell’Asse, il nuovo caseggiato dell’ Osteria dell’Angelo, la casa vicina all’ Osteria del Leone, ed altri fabbricati alla stazione della strada ferrata.

[44] Venni assicurato che ai primi colpi dei nostri piccoli cannoni, una staffetta ne recasse precipitosamente la notizia al vecchio condottiero d’armate che se ne stava ritirato in castello, il quale sbalordito esclamò: I birbanti hanno anche i cannoni!! Siamo perduti!!!

[45] Vedi il nome di alcuni dei più distinti descritti nella nota a pag. 176.

[46] Essendosi poi questo vessillo rivolto sulla corona della Madonna e lacerato dal vento, Dunant ne fece sostituire un altro di minore dimensione, fissato sopra cordaggio uso marina, come vedesi tutt’oggi.

[47] Il 22 Marzo, Gazzetta Officiale N. 1.

[48] I nomi di quegli infelici che furono condotti in ostaggio dagli Austriaci nella loro fuga sono:

De Herra, figlio del consigliere, direttore del Liceo.— Brambilla Agostino, d’Inzago.— Peloso, dottore.— Obicino Enrico, possidente.— Fortis Guglielmo, negoziante.— Belgiojoso conte Giuseppe, assessore municipale.— Manzoni Filippo, figlio del poeta Alessandro.— Porro marchese Giberto e fratello Giulio, figli del marchese Luigi.— Porro nobile Carlo, figlio del presidente della Congregazione Centrale.— Crespi Carlo, ragioniere.— Mascazzini, dottore.— De Capitani.— Manzoli nobile Giulio, impiegato municipale.— Durini conte Ercole.— Appiani, ingegnere.— Bellati, delegato provinciale.— Giani, impiegato municipale.

[49] Questo degno Sacerdote è meritevole di miglior sorte per il suo zelo e santo amor di patria: stato perciò non troppo beneviso dal cessato governo Austriaco.

[50] Vedi documento n. o XX.

[51] Dalla Gazzetta Officiale il 22 Marzo, pag. 15.

[52] Dovevano per titolo di merito istorico ristamparsi in questa Cronaca, come anteriori agl’inni seguenti, i Cantici del Riscatto Lombardo del Prof. Dott. Samuele Biava, che primi diventarono popolari per mezzo di musica corale: ma essendo parecchi si pubblicheranno tra poco in una appendice a questo volume. L’editore.

[53] Feld-Maresciallo.

[54] Il testo tedesco diceva Hundsfott.

[55] Traduzione letterale.

[56] Qui segue una parola inintelligibile.

[57] Cantù Ignazio. Gli ultimi Cinque Giorni degli Austriaci in Milano.

Osio Carlo, Alcuni fatti delle gloriose cinque giornate.

Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate.

Narrazioni dei maravigliosi successi accaduti durante la memorabile lotta sostenuta dai Lombardi nei cinque giorni di marzo 1848.

G. B. La presa di Porta Tosa, così detta Porta Vittoria, e le vicende della casa detta della Birreria sul bastione, o le prodezze dei Lombardi nelle cinque memorabili giornate del marzo 1848.

Ceruti Domenico. I cinque giorni di marzo, Lettera al suo amico e concittadino Angelo Guangiroli.

G. L. B. Infamie e crudeltà Austriache; valore e generosità dei Lombardi nel marzo 1848 (si sono pubblicate 4 lettere).

Bollettino Storico della rivoluzione di Milano di marzo 1848, compilato giornalmente da un cittadino abitante sul Corso di Porta Romana.

Due Parole di Osservazione sul Bollettino storico della rivoluzione di Milano di marzo 1848 ecc., scritte da un altro cittadino pure di Porta Romana.

Baracchi Francesco. Le gloriose cinque giornate dei Milanesi.

Bianconi Antonio. Origine, progresso e fine della rivoluzione di Milano.

Relazione epistolare delle cose memorande avvenute in Milano nei giorni 18, 19, 20, 21, 22 e 23 del mese di marzo l’anno 1848.

Coppi. Della dominazione Austriaca in Milano dal 1814 a tutta la rivoluzione dei Milanesi incominciata col giorno 18 marzo 1848 e terminata nel 23 dello stesso mese ed anno.

Veridica descrizione delle più lacrimevoli turpitudini, scelleratezze ed assassinj infamemente e vilmente commesse dalle brutali e barbare orde Austriache nella città e dintorni di Milano nei giorni della rivoluzione del corrente marzo; desunte ed autenticate da fonti testimoniali e personali (fino ad ora si è pubblicato un solo foglio di 12 pagine).

Le cinque gloriose giornate della rivoluzione Milanese, descritte da un Medico, che vi fu testimonio e parte, con un’Appendice relativa ai giorni 23 e 24 marzo; ed infine il Canto di Guerra degl’Italiani.

Bertolotti F. Relazione storica del dominio de’ Tedeschi in Milano dal 1814 sino alla rivoluzione di Marzo 1848, operata dai Milanesi, e sfratto delle truppe Austriache dalla Lombardia. Poema in quattro canti. Milano, 1848.

Labadini. Poche parole scritte e declamate nel giorno 6 aprile 1848 nella Piazza del Duomo di Milano sul feretro dei prodi fratelli Lombardi morti per la patria nelle cinque gloriose giornate del marzo 1848.

Bonatti Gaetano. Le barricate di Milano.—Quest’importante lavoro artistico che ci ricorda i mezzi di nostra salvezza nelle gloriose cinque giornate, viene pubblicato a fascicoli di quattro tavole ciascuno, con brevi descrizioni. Il merito dell’incisore Gaetano Bonatti è bastantemente conosciuto per ogni dove perchè io abbia a parlarne in questo luogo. Assistito da valenti artisti il Bonatti si è assunto a questa bell’impresa, l’unica nel suo genere, che perciò la raccomando caldamente a tutti, onde ciascuno possa conservare pei nipoti una prova del nostro ingegno, non disgiunto dal valore in questo memorabile avvenimento.