LONDRA: R. CLAY, FIGLI, E TAYLOR, STAMPATORI, BREAD STREET HILL.

In su' vespri giocondi, dolcemente
Sul lago tranquillissimo voghiamo,
Da delicate mani facilmente
Son mossi i remi, e alla ventura andiamo,
E pel timon che incerto fende l'onda
Va la barchetta errante e vagabonda.

Mentre oppresso dal sonno, in luminose
Visioni il mio pensiero vaneggiava,
Mi destaron tre voci armonïose
Chiedendomi un Racconto! Io non osava
Fare il broncio severo ed il ribelle
A tre bocche di rose,—a tre donzelle!

La Prima, con la voce di comando,
Fieramente m'impone "Cominciate!"
La Seconda mi dice "Io ti domando
Un racconto di silfidi e di fate."
La Terza (io non l'avrei giammai creduto),
M'interrompe una volta ogni minuto.

Eccole! ferme, attente, silenziose,
Seguire con l'accesa fantasia
La Fanciulla vagante in portentose
Regïoni di sogni e poesia,
Che con bestie ed uccelli ognor favella,
E con forma del Ver l'Errore abbella.

La Storia non toccava ancora il fine
E appariva di già confusa e incolta;
Allor pregai le care fanciulline
Di finir la novella un'altra volta,
Ma risposer più vispe e più raggianti,
"No,
questa
è la tua volta! Avanti, avanti!"

E così le Avventure raccontai
Ad una ad una alle fanciulle amate,
Ed or questa novella ne formai
Ch'è un tessuto di favole accozzate;—
Ma il Sol già volge al suo tramonto, andiamo!
Alla sponda! alla sponda, orsù, voghiamo!—

O Alice, accogli questa mia Novella,
E fra i sogni d'infanzia la riponi,
Deh! fanne d'essa una ghirlanda bella,
E sulla tua memoria la deponi,
Qual pellegrin che serba un arso fiore
Di suol lontano, e lo tien stretto al côre!—

INDICE.

CAP. PAGE.

I. GIÙ NELLA CONIGLIERA 1

II. LO STAGNO DI LAGRIME 15

III. CORSA ARRUFFATA, E RACCONTO CON LA CODA 29

IV. LA CASETTINA DEL CONIGLIO 41

V. CONSIGLI D'UN BRUCO 58

VI. PORCO E PEPE 74

VII. UN TÈ DI MATTI 93

VIII. IL CROQUET DELLA REGINA 110

IX. STORIA DELLA FALSA-TESTUGGINE 128

X. LA CONTRADDANZA DE' GAMBERI 145

XI. CHI HA RUBATO LE TORTE? 158

XII. TESTIMONIANZA D'ALICE 172

CAPITOLO I.

GIÙ NELLA CONIGLIERA.

Alice cominciava a sentirsi mortalmente stanca di sedere sul poggio, accanto a sua sorella, senza far nulla: una o due volte aveva gittato lo sguardo sul libro che leggeva sua sorella, ma non c'erano imagini nè dialoghi, "e a che serve un libro," pensò Alice, "senza imagini e dialoghi?"

E andava fantasticando col suo cervello (come meglio poteva, perchè lo stellone l'avea resa sonnacchiosa e grullina), se il piacere di fare una ghirlanda di margherite valesse la noja di levarsi su, e cogliere i fiori, quand'ecco un Coniglio bianco con gli occhi di rubino le passò da vicino.

Davvero non c'era troppo da meravigliarsi di ciò, nè Alice pensò che fosse cosa troppo stravagante di sentire parlare il Coniglio, il quale diceva fra sè "Oimè! Oimèi! ho fatto tardi!" (quando se lo rammentò in seguito s'accorse che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma allora le sembrò una cosa assai naturale): ma quando il Coniglio trasse un oriuolo dal taschino del panciotto, e vi affisò gli occhi, e scappò via, Alice saltò in piedi, perchè l'era venuto in mente ch'ella non avea mai veduto un Coniglio col panciotto e il suo rispettivo taschino, nè con un oriuolo da starvici dentro, e divorata dalla curiosità, traversò il campo correndogli appresso, e giunse proprio a tempo di vederlo slanciarsi in una spaziosa conigliera, di sotto alla siepe.

In un altro istante, giù Alice scivolò, correndogli appresso, senza punto riflettere come mai avrebbe fatto per riuscirne fuori.

La buca della conigliera sfilava diritto come una galleria di tunnel, e poi s'inabissava tanto rapidamente che Alice non ebbe un solo istante per considerare se avesse potuto fermarsi, poichè si sentiva cader giù rotoloni in qualche precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo.

Una delle due, o il pozzo era arci-profondo, o ella vi ruzzolava assai adagino, poichè ebbe tempo, mentre cadeva, di guardare tutto intorno, e stupiva pensando a ciò che le avverrebbe poi. Prima di tutto aguzzò la vista e cercò di vedere nel fondo per scoprire ciò che le accaderebbe, ma gli era bujo affatto e non ci si vedea punto: indi guardò alle pareti del pozzo ed osservò ch'erano ricoperte di credenze e di scaffali da libri; quà e là vide mappe e quadri che pendeano da' chiodi. Andando giù prese di volo un vasettino che aveva un cartello, lo lesse: "CONSERVA D'ARANCE," ma oimè! era vuoto e restò delusa: non volle lasciar cadere il vasettino per non ammazzare chi era in fondo, e andando sempre giù lo depose in un'altra credenza.

"Bene," pensò Alice, "dopo una caduta tale, mi parrà proprio un niente il ruzzolare per le scale! A casa poi, come mi crederanno coraggiosa! D'ora innanzi, ancorchè cadessi dal tetto, non ne farei caso!" (E probabilmente dicea la verità.)

E giù—e giù—e giù! Finirà mai quella caduta? "Chi sa quante miglia ho percorse a quest'ora?" sclamò. "Davvero io stò per toccare il centro della terra. Vediamo: suppongo che saranno quattrocento miglia di profondità—" (come vedete, Alice aveva imparate molte di tali cose nelle sue lezioni, ma non era quella la migliore occasione per fare sfoggio della sua erudizione, poichè non c'era niuno che l'ascoltasse, ciò non di meno era bene di ripassarle a mente)—"sì, la sarà questa la vera distanza, o press'a poco—ma vorrei sapere a quale grado di Latitudine o di Longitudine io sia giunta!" (Alice non sapea mica che fosse Longitudine o Latitudine, ma pensò ch'erano belle parolone a dire, e le disse!)

Passò qualche istante e poi rincominciò. "Che dovessi io traversare la terra? Sarebbe bella s'io uscissi fra le genti che camminano col capo in giù! Credo che si chiamino le Antipatie—" (questa volta fu contenta che non ci fosse niuno che l'ascoltasse, perchè quel nome non le suonava giusto all'orecchio) "—ma domanderò loro che nome abbia quel paese. Di grazia, Signora, è questa la Nuova Zelanda? o l'Australia?" (e cercò di fare una riverenza mentre parlava—figuratevi, far riverenza mentre si casca giù a precipizio! Dite, potreste farla voi?) "Ma se farò una tale domanda mi crederanno una sciocca. No, non la farò: forse troverò scritto il nome in qualche parte colaggiù."

E giù—e giù—e giù! Non avendo nulla da fare, Alice rincominciò a cinguettare. "Dina mi cercherà stanotte!" (Dina era il nome della gatta). "Spero che si rammenteranno di darle il suo piattino di latte quando prenderanno il tè. Cara Dina mia! Vorrei che tu fossi meco quaggiù! Non vi son sorci nell'aria, ma sai, tu potresti afferrare una nottola ch'è simile al sorcio. Ma che! i gatti mangiano le nottole?" E quì Alice cominciò a sonniferare, e fra il sonno e la veglia continuò a ruminare fra' denti, "I gatti mangiano le nottole? I gatti mangiano le nottole?" E talvolta, "Le nottole mangiano i gatti?" perchè, vedete, non potendo rispondere a nessuna delle due quistioni, non le importava se invertiva il senso di esse. Sonnecchiava di già, e proprio allora cominciava a sognare che se ne andava a braccetto con Dina e che le diceva con faccia austera: "Dina, dìmmi la verità: hai tu mai mangiata una nottola?" quando, tonfete! cascò d'un subito sopra un mucchio di ramicelli e di foglie secche, e la caduta finì.

Alice non si fece male e saltò in piedi lesta e pronta: guardò in alto, era bujo affatto: davanti a lei sfilava un lungo corridoio percorso dal Coniglio bianco ch'era sempre in vista. Non c'era tempo da perdere: Alice, come se avesse le ali, gli corse appresso, e sentì che sclamava, mentre svoltava a una cantonata,—"Giurammio! gli è tardi davvero!" Stava lì lì per raggiungerlo, ma appena passò la cantonata il Coniglio non si vide più; ed ella si trovò in una sala lunga e bassa, illuminata da una fila di lampade che pendevano dalla volta.

V'erano porte tutt'intorno alla sala, ma erano tutte serrate, e dopo che Alice andò su e giù provando tutti gli usci per vedere se fosse possibile d'aprirne qualcheduno ma sempre inutilmente, si mise a camminar mestamente nel mezzo della sala, pensando come mai avrebbe potuto riuscirne fuori.

Tutt'a un tratto capitò vicina a un piccolo tavolino di cristallo solido e sorretto da tre piedi: non c'era altro su d'esso che una chiavettina d'oro: or la prima idea ch'ebbe Alice fu che quella potesse aprire uno degli usci della sala; e provò—ma oimè! o le toppe erano troppo grandi, o la chiavettina era troppo piccola; ma comunque fosse, non potette aprirne alcuno. Ciò non di meno, avendo fatto un secondo giro nella sala, capitò davanti a una cortina bassa che non aveva osservata prima, e dietro ad essa v'era un piccolo uscio, alto quindici pollici o giù di lì: provò la chiavettina d'oro se andasse alla toppa, e con molta allegrezza vide che c'entrava per l'appuntino!

Alice aprì l'uscio e vide che dava a un piccolo corridoio, largo quanto una buca da topi: s'inginocchiò, e vide al di là del corridoio il più bel giardino del mondo. Oh! quanto desiderò d'uscir fuori da quella sala buja per correre su que' prati di fiori risplendenti, e lungo le chiare e fresche acque delle fontane, ma non l'era dato neppure di cacciare il capo fuori della buca; "e ancorchè il mio capo potesse passarvi," pensò la povera Alice, "mi servirebbe poco senza farci passare anche le spalle. Oh quanto bramerei riserrarmi come un telescopio! Credo che potrei farlo, se sapessi soltanto come cominciare." Poichè essendo ultimamente accadute tante cose straordinarie, Alice avea cominciato a persuadersi che poche fossero le cose veramente impossibili.

Era proprio tempo perso star lì piantata davanti all'usciolino, perciò Alice ritornò verso la tavola con una mezza speranza di potervi trovare sopra un'altra chiave, o almeno un libro il quale insegnasse alla gente a riserrarsi come un cannocchiale: questa volta vi trovò un'ampolla, ("e certo non c'era prima," disse Alice,) e aveva attaccato al collo un cartello sul quale a lettere di scatola era magnificamente scritta questa parola "BEVI."

Và benissimo il dire "Bevi," ma Alice ch'era una ragazzina prudente, lì per lì non volle bere. "Nò, voglio prima vedere se c'è scritto ' veleno;'" poichè ella aveva letto molte belle novellette sopra ragazzi ch'erano stati abbruciati, e mangiati vivi da bestie feroci, e cose simiglianti, e tutto ciò perchè non vollero ricordarsi della prudenza ch'era stata loro insegnata in casi simili; come per esempio, non maneggiare le molle infocate perchè scottano; se col coltello ti fai sul dito un taglio molto profondo, certo n'uscirà sangue; ed ella non avea dimenticato quell'altro avvertimento, se tu bevi smodatamente d'una bottiglia che ha l'iscrizione "veleno," presto o tardi ti farà male.

Ciò non di meno quell'ampolla non aveva l'iscrizione "veleno," perciò Alice si avventurò di assaggiarne il contenuto, e trovandolo delizioso (di fatto aveva un sapore misto di torta di ciliegie, di crema, d'ananasso, di tacchino arrosto, di torrone, e di crostini burrati), lo vuotò tutto d'un fiato.

"Che curiosa sensazione!" disse Alice: "mi vo ristringendo come un cannocchiale!"

Ed era proprio così: non aveva più che dieci pollici d'altezza, e il suo bel visino s'illuminò di gioja pensando che finalmente era giunta alla giusta statura per traversare l'usciolino, ed entrare nel bel giardino. Prima aspettò qualche minuto per vedere se rimpicciolisse di più; è vero che provò una certa ansietà su quel mutamento; "perchè, sapete, potrei rimpicciolirmi tanto da sparire affatto come una candela," disse Alice. "A chi assomiglierei allora?" E cercò di farsi un'idea dell'apparenza della fiamma d'una candela smorzata, poichè non potea nemmeno ricordarsi se mai avesse veduta una cosa simile!

E scorsero alcuni momenti, e veggendo che nulla di nuovo le accadeva, si accinse ad entrare nel giardino; ma—povera Alice!—quando fu all'uscio, si accorse che avea dimenticata la chiavettina d'oro, e quando si rivolse verso la tavola dove l'avea lasciata, vide che non potea più arrivarla: essa la vedea chiaramente a traverso del cristallo, e fece ogni sforzo possibile per arrampicarsi ad uno de' piedi della tavola e montar su, ma gli era troppo sdrucciolevole; e dopo essersi affaticata invano per vincere quella difficoltà, la poverina si sedette e pianse.

"Via! che vale abbandonarsi al pianto!" disse Alice a sè stessa; "io ti consiglio invece, o Signorina, di smetter subito quel piagnucolare!" Generalmente ella dava a sè stessa dei buoni consigli (benchè raramente poi li seguisse), e talvolta si rimproverava tanto severamente che le lagrime le scorrevano per le gote; e si rammentò che una volta stava lì lì per schiaffeggiarsi perchè s'era truffata in una partita di croquet che giuocava contro a sè medesima, che questa straordinaria bimba trovava piacere a fingersi di essere due persone. "Ma ora è inutile voler credermi due persone," pensò la povera Alice, "me ne resta appena tanto per comporne una!".

Ed ecco, le cadde sott'occhio una cassettina di cristallo che giaceva sotto la tavola: l'aprì, e vi trovò dentro un piccolo pasticcino, sul quale, con uva di Corinto, era scritto in belli caratteri "MANGIA." "Bene! lo mangerò," disse Alice, "e se mi farà crescere di molto, giungerò ad afferrare la chiavettina, e se mi farà rimpicciolire mi striscerò sotto l'uscio: così in un modo o in un altro entrerò nel giardino, e poi, sarà quel che sarà!"

Ne mangiò un bocconcino, e mettendosi la mano sul capo, sclamò ansiosamente: "In qual modo? In qual modo?" per vedere in qual modo si mutava, ma restò molto sorpresa nel vedersi della stessa statura: certo, così accade a tutti coloro che mangiano pasticci, ma Alice s'era tanto abituata a veder cose straordinarie, che le sembrava una cosa stupida e sciocca quella di crescere, come si cresce generalmente.

E tornò alla bisogna, e in pochi istanti ingoiò tutto il pasticcio.

CAPITOLO II.

LO STAGNO DI LAGRIME.

"Curiosissimo e sempre più curiosissimo!" gridò Alice (era tanta la sua sorpresa che non sapeva più parlar correttamente la sua lingua); "mi stò allungando come un cannocchiale, e il più lungo che mai vi sia stato! Addio piedi!" (perchè appena guardò giù a' suoi piedi le sembrò che li avesse quasi perduti di vista, tanto erano lontani). "Oh i miei poveri piedini! chi mai in terra v'infilerà le calze, e vi metterà le scarpettine? Davvero io non potrò farlo più! Oramai sarò tanto lungi da voi, che certo io non mi prenderò più briga di voi altri: bisogna che vi accomodiate alla meglio;—eppure bisognerebbe ch'io li trattassi bene," pensò Alice, "se nò, non vorranno andare per la via ch'io vorrei battere! Vediamo un po': ogni anno a Natale darò loro un bel pajo di stivaletti."

E andava mulinando col cervello come farebbe. "Glieli manderò col procaccino," pensò la bimba; "ma gli è davvero strano il mandar regali a' proprii piedi! E quanto sarà curioso l'indirizzo!

Al Signor Piedestro d'Alice,
Tappeto,
Presso il parafuoco,
(
coi saluti d'Alice
).

Meschina! quante sciocchezze vo dicendo!"

Giusto allora il suo capo urtò contro la volta della sala: aveva più di nove piedi d'altezza! Subito adunghiò la chiavettina d'oro, e via, verso l'uscio del giardino.

Povera Alice! Tutto quello che potea fare consisteva nel giacere, appoggiando il fianco per guardare il giardino con la coda d'un occhio; ma il penetrarvi dentro era diventato più difficile che mai: sedette dunque, e si rimise a piangere.

"Ti dovresti vergognare," disse Alice, "figurati, una gran ragazzona come te" (e davvero lo poteva dire allora) "fare la piagnolosa! Smetti subito ti dico!" Ma pure continuò, versando lagrime a secchie, sinchè formò uno stagno intorno a lei di quasi quattro pollici d'altezza, e che giungeva a metà della sala.

Qualche istante dopo sentì in lontananza come uno scalpiccío; subito si forbì gli occhi per vedere chi fosse. Era il Coniglio bianco che ritornava, splendidamente vestito, con un pajo di guanti bianchi in una mano, e un gran ventaglio nell'altra: veniva trottando frettolosamente, e mormorando fra sè stesso, "Oh! la Duchessa, la Duchessa! Se n'andrà sulle furie perchè l'ho fatta aspettare!" Alice era tanto fuori di sè che avrebbe chiesto soccorso a chiunque le fosse capitato: così quando il Coniglio le fu vicino, gli disse con voce tremula e sommessa, "Di grazia, Signore——." Il Coniglio trasaltò, gli caddero a terra i guanti e il ventaglio, e in mezzo a quella tenebrìa si mise a correre di traverso come se avesse le ali alle zampe.

Alice raccattò il ventaglio e i guanti, e perchè la sala pareva una stufaiuola si rinfrescò sventolandosi e parlando fra sè: "Meschina me! Come ogni cosa è strana quest'oggi! Eppure ieri le cose andavano secondo il solito. Non mi sorprenderebbe se stanotte fossi stata scambiata! Vediamo: non ero io, io stessa che mi levai questa mattina? Mi pare di rammentarmi ch'io mi trovai un poco diversa. Ma se non sono la stessa dovrò rivolgermi questa domanda: Chi mai dunque son io? Ah! quì stà l'imbroglio!" E ripensò a tutte le ragazze che conosceva, e che erano dell'età sua, per vedere se per caso fosse stata trasformata in una di quelle.

"Certo io non sono Ada," disse, "perchè i suoi capelli sono inanellati, e i miei non lo sono punto; certo non sono Isabella, poichè io so tante belle cose, e quella poverina sa tanto poco! Eppoi Isabella è Isabella, ed io sono io. Meschina! che imbroglio è questo! Proviamo se io mi rammento tutte le cose che sapeva una volta: quattro volte cinque fanno dodici, e quattro volte sei fanno tredici, e quattro volte sette fanno—oimè! Se vado di questo passo non giungerò mai a venti! Del resto la Tavola Aritmetica non significa nulla: proviamo la Geografia: Londra è la capitale di Parigi, e Parigi è la capitale di Roma, e Roma——, nò, ho sbagliato tutto! Davvero devo essere stata trasformata in Isabella! Proverò a ripetere ' Rondinella pellegrina;'" e si mise le mani conserte al petto come se stesse per ripetere le lezioni, e cominciò a recitare quella Romanza, ma la sua voce suonava rauca e strana, e le parole non le uscivano dalle labbra come una volta:—

"'
Rondinella porporina
Che ti posi sul loggione
Raccattando ogni mattina
La zanzara ed il moscone,
Li vuoi friggere in padella
Porporina Rondinella?
'"

"Scommetto che le vere parole della Romanza non son queste," disse la povera Alice, e le ritornarono i lucciconi agli occhi. "In somma," continuò a dire,-"io devo essere Isabella, e dovrò andare a vivere in quella casuccia, e non aver quasi più giuocattoli, e tante lezioni da imparare! Ma se sono Isabella, caschi pure il mondo, io resterò quì! Inutilmente, signori miei, caccerete la testa dal soffitto per dirmi 'Carina, vieni su!' Io alzerò soltanto gli occhi, e dirò loro, 'Chi son io? Ditemelo prima, e se sarò quella che voi cercate, verrò su; se no resterò quì inchiodata sino a che sarò qualchedun'altra'—ma, oimè!" sclamò Alice, versando un fiume di lagrime. "Vorrei che mettessero fuori la testa! Son tanto stanca d'esser quì, sola!"

E si guardò le mani, e si meravigliò vedendo che mentre parlava fra sè stessa aveva infilato uno de' guanti bianchi che il Coniglio avea lasciati cadere. "Come mai ho potuto far ciò?" disse. "Forse sono ridiventata piccina."

Si levò ed avvicinossi alla tavola per misurarsi con quella,—osservò che, per quanto le pareva, era ridotta a circa due piedi d'altezza e che andava impiccolendosi rapidamente: indovinò che la causa di questa nuova trasformazione era il ventaglio che aveva in mano, e subito lo buttò a terra,—e fu proprio a tempo, altrimenti assottigliava tanto da sparire totalmente.

"L'ho scampata bella!" disse Alice tutta impaurita da quel subitaneo mutamento, ma lieta, però perchè esisteva ancora; "ed ora andiamo al giardino!" e rivolse sollecitamente i passi verso l'usciolino; ma ahi! l'usciolino era chiuso, e la chiavettina d'oro era sulla tavola come prima; "le cose vanno proprio alla peggio" pensò la derelitta fanciulla, "non sono stata mai tanto piccina! E protesto che tutto ciò è un brutto affare, ma brutto assai!"

Mentre diceva queste parole, sdrucciolò, e zaffete! cascò sino al mento nell'acqua salsa. Imprima credette esser caduta nel mare, "e in tal caso potrò tornare a casa per la ferrovia," disse fra sè. (Alice era stata una volta sola ai bagni di mare, d'allora in poi s'imaginò che dovunque si va, verso la spiaggia, trovansi casotti da bagni lungo il mare, ragazzi che zappano l'arena con le vanghe di legno, poi una fila di case mobiliate, e dietro ad esse una stazione di strada ferrata). Ma subito si accorse ch'era caduta nello stagno delle lagrime che avea versate quando aveva nove piedi d'altezza.

"Peccato ch'io abbia pianto tanto!" disse Alice, nuotando, e cercando d'afferrar la riva.

"Ora sì che sarò punita, affogando nelle mie proprie lagrime! La sarà proprio una cosa strana! Ma tutto è strano oggi."

E sentì qualche cosa che sguazzava nello stagno, si rivolse e credette vedere un elefante di mare o un ippopotamo, ma si rammentò ch'era assai piccina allora, e scoprì ch'altro non era che un sorcio, cascato come lei nello stagno.

Pensò Alice, "Forse farei bene di parlare a questo sorcio. Ogni cosa è talmente straordinaria quaggiù che non mi stupirei se egli potesse parlare: ad ogni modo, proviamo." E cominciò: "O Sorcio, sai tu la via per uscire da questo stagno? O Sorcio, io mi sento veramente stanca di nuotare quì!" (Alice pensò che quello era il vero modo di parlare ad un sorcio: non aveva mai fatto una cosa simile prima, ma si rammentò d'aver letto nella Grammatica Latina di suo fratello, "Un Sorcio—di un Sorcio—a un Sorcio—un Sorcio—O Sorcio!") Il Sorcio la guardò fissamente, la squadrò ben bene co' suoi piccoli occhietti, ma non rispose niente.

"Forse non intende la mia lingua," disse Alice; "scommetto ch'è un Sorcio Francese, venuto quì con Napoleone." (Eh già! con tutte le sue cognizioni storiche, Alice non sapea al giusto le date che citava.) E rincominciò " Où est ma chatte? " era questa la prima frase ch'avea trovata nel suo libriccino di Lingua Francese. Il Sorcio fece un salto nell'acqua, e tremò a verghe. "Le domando perdono!" soggiunse subito Alice, avvedendosi d'avere scossi i nervi delicati della bestiolina. "Avea dimenticato che lei non ama i gatti."

"Amare i gatti, io!" sclamò con voce acuta e rabbiosa. "Amerebbe lei i gatti, se fosse me?"

"Forse no," rispose Alice con voce carezzevole, "ma non si adiri, sa! Eppure io vorrei farle vedere Dina, la gatta nostra; se la vedesse ne sarebbe innamorato pazzo. La è una bestiolina tanto carina e quietina," e nuotando svogliatamente e parlando talvolta a sè stessa, continuava Alice, "e fa le fusa per benino quando giace accoccolata presso al focolare, leccandosi le zampine e nettandosi la faccia—e l'è tanto soffice e soave alle carezze—e l'è proprio un paladino nell'afferrare i sorci—oh mi perdoni!" sclamò di nuovo Alice perchè questa volta il Sorcio aveva il pelo tutto arruffato, e sembrava offeso immensamente, "Noi non ne parleremo più se ciò le incresce."

"No, davvero!" gridò il Sorcio che avea la tremarella sino alla punta della coda. "Come se io volessi parlare dei gatti! La nostra famiglia odiò sempre i gatti; bestiaccie schifose, volgari e basse! Non mi faccia sentir più il nome loro!"

"No, davvero!" rispose sollecitamente Alice, e mutando argomento, soggiunse. "Dica, le piacciono forse—le piacciono—i—i cani?" Il Sorcio non rispose, e Alice seguitò così. "Vicino a casa nostra, c'è un bellissimo cagnolino, se lo vedesse! È un canbassetto con certi belli occhi luccicanti, e col pelo cenerino, arricciato e lungo! Ei busca, benissimo le cose che gli si gittano, e siede sulle zampine di dietro per pitoccare il suo desinaruccio, e fa tante altre belle cosettine—non potrei neppure rammentarne la metà—appartiene a un fattore, ed egli dice che la bestiolina vale proprio un Perù, perchè gli è utile di molto, e uccide tutt'i topi, e—oimè!" gridò Alice tutta sconsolata. "Temo d'averla offesa di nuovo!" E davvero l'aveva offeso perchè il Sorcio si allontanò nuotando furiosamente ed agitando le acque dello stagno.

Alice lo richiamò con un soave tuono di voce, "Sorcio caro, ritorni pure, ed io le prometto che non parlerò più di gatti nè di cani!" A queste parole, il Sorcio si rivoltò indietro, nuotando lentamente verso di lei: la sua faccia era pallida (di rabbia, pensò Alice), e disse con voce sommessa e tremante, "Approdiamo alla spiaggia, e le racconterò la mia storia, allora lei capirà perchè io detesti tanto i gatti e i cani."

Era proprio tempo d'uscir fuori, perchè lo stagno si stava riempendo di uccelli e d'altri animali che v'eran caduti dentro: un'Anitra, un Dronte, un Lori, un Aquilotto, ed altre curiose bestioline. Alice aprì la via, e tutti, nuotando, la seguirono alla spiaggia.

CAPITOLO III.

CORSA ARRUFFATA, E RACCONTO CON LA CODA.

L'assemblea che si riunì alla spiaggia era oltremodo bizzarra—figuratevi, gli uccelli avevano le piume fradice, e gli altri animali avevano il pelo incollato a' loro corpicciuoli; e tutti erano inzuppati, grondanti acqua, tristi e malcontenti.

Naturalmente la prima quistione che fu posta fu quella di sapere come si sarebbero asciugati: si consultarono insieme su questo argomento, e pochi minuti dopo Alice si mise a parlare familiarmente con loro, come se li avesse conosciuti da un secolo. Ebbe una lunga discussione col Lori, ma bentosto quest'ultimo le fece un viso arcigno, e disse perentoriamente, "Son più vecchio di lei, perciò devo saper più di lei;" ma Alice non volle convenirne se prima non le avesse detto quanti anni aveva. Il Lori non volle dirlo, e la loro conversazione cessò.

Finalmente il Sorcio, che sembrava essere persona d'una certa autorità fra loro, gridò, "Si seggano signori, e mi ascoltino! Io seccherò tutti in pochi momenti!" Tutti sedettero, in circolo, col Sorcio in mezzo. Alice gli affisò ansiosamente gli occhi in faccia, perchè era sicura che se non si fosse presto rasciugata avrebbe guadagnata una infreddatura solenne.

"Hem!" disse il Sorcio con aria autorevole, "sono tutti all'ordine? Questa domanda è bastantemente secca, mi pare! Silenzio tutti, di grazia! 'Il Generale Oudinot che venne a restaurare il governo papale, fu presto secondato dal Re di Napoli, e dalle truppe della Regina di Spagna——'"

"Uff!" fece il Lori, con un brivido.

"Scusi!" disse il Sorcio tutto accigliato, ma con molta civiltà: "Diceva qualche cosa?"

"Le pare!" rispose frettolosamente il Lori.

"Mi era parso di sì," soggiunse il Sorcio.—"Continuo dunque. 'Il Re di Napoli e la Regina di Spagna, con Oudinot, sposarono la causa del Papa, ed anche il Granduca di Toscana trovò la cosa——'"

"Trovò che cosa?" disse l'Anitra.

"Trovò la cosa," replicò vivamente il Sorcio: "ella sa che significa 'la cosa.'"

"Sò bene che significa ' la cosa ' quando io trovo qualche cosa," rispose l'Anitra: "generalmente trovo un ranocchio o un verme. Or la quistione stà 'nella cosa,' che cosa ha trovato il Granduca?"

Il Sorcio non gli badò punto e si affrettò d'andare innanzi, "—trovò la cosa ben fatta cioè di unirsi ad Oudinot, al Re di Napoli ed alla Regina di Spagna, per assistere il Papa e rimetterlo sul trono. Nel principio il Papa usò moderazione ma la violenza dei suoi consiglieri——' Ebbene, carina, come si sente ora?" disse, rivolgendosi ad Alice.

"Bagnata come un pulcino," rispose Alice mestamente, "non mi pare che la sua storiella mi secchi abbastanza."

"Allora," disse il Dronte con voce solenne, e levandosi in piedi, "propongo che il parlamento si aggiorni, acciochè sieno adottati rimedii più energici——"

"Ma parli italiano!" sclamò l'Aquilotto. "Non capisco la metà delle sue parolone, e forse lei stesso non ne intende cica!" E l'Aquilotto abbassò la testa per nascondere un sorriso, ma alcuni degli uccelli sghignazzarono apertamente.

"Volevo dire," continuò il Dronte, facendo il broncio, "che il miglior modo di seccarsi sarebbe quello di fare una Corsa arruffata."

"Che è la Corsa arruffata?" domandò Alice; non le premeva molto di saperlo, ma il Dronte taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre niuno sembrava disposto ad aprire becco o bocca.

"Ecco," disse il Dronte, "il miglior modo di spiegarla è quello di eseguirla." (E siccome vi potrebbe venire la voglia di provare questa Corsa in qualche giorno d'inverno, vi dirò come il Dronte la diresse.)

Imprima tracciò la linea dello steccato, una specie di circolo ("già, non importa che sia ben tracciata," disse), e poi tutta la comitiva entrò nello steccato mettendosi chi quà, chi là. Non si udì "Uno, due, tre,—via!" ma cominciarono a correre a piacere, e si fermarono quando n'ebbero voglia, di tal che non si seppe quando la Corsa fosse terminata. Ad ogni modo, dopo che ebbero corso una mezz'ora o quasi, e si sentirono tutti ben seccati, il Dronte sclamò tutt'a un tratto, "La corsa è finita!" e tutti l'intorniarono anelanti, e sclamando, "Ma chi ha vinto?"

Questa domanda impensierì immensamente il Dronte, perciò sedette e restò lungo tempo con un dito appoggiato alla fronte (tale e quale come è rappresentato Dante), mentre gli altri zittivano. Finalmente il Dronte disse, " Tuttiquanti hanno vinto, e tutti debbon'essere premiati."

"Ma chi distribuirà i premii?" replicò un coro di voci.

" Essa, s'intende," disse il Dronte, indicando Alice con un dito; e tutti si affollarono intorno a lei, gridando confusamente, "I premii! I premii!"

Alice non sapea che fare, e nella disperazione cacciò la mano in tasca, e ne cavò una scatola di confetti (per buona sorte l'acqua non v'era entrata dentro), e ne distribuì tutt'intorno. Ce ne erano appunto uno per uno.

"Ma essa dovrebbe avere un premio," disse il Sorcio.

"S'intende," soggiunse il Dronte assai gravemente. "Che altro ha in saccoccia?" disse, rivolgendosi ad Alice.

"Soltanto un ditale," rispose mestamente la fanciulla.

"Dia quì," replicò il Dronte.

E tutti l'accerchiarono di nuovo, mentre il Dronte con molta gravità le offrì il ditale, e disse, "La preghiamo di accettare quest'elegante ditale;" e appena finito questo breve discorso, tutti applaudirono.

Alice giudicò tutto quest'affare come una cosa sovranamente stupida, ma avevano tutti un contegno talmente grave ch'ella non osò ridere, pure non seppe che cosa rispondere, ma semplicemente s'inchinò e prese il ditale assumendo la migliore serietà del mondo.

Rimaneva ora il mangiare i confetti; ciò produsse un po' di rumore e di confusione, poichè gli uccelli grandi si lagnavano che non avean potuto assaporarne il gusto, e gli uccelli piccoli avendoli inghiottiti ne rimasero pressochè strozzati e si dovette loro picchiar la schiena. Ma anche ciò ebbe un termine e sedettero in circolo, pregando il Sorcio di dir loro qualcosuccia di più.

"Si rammenti che mi ha promesso di raccontarmi la sua storia," disse Alice, "e la ragione per cui odia i 'G' e i 'C'" soggiunse sommessamente, e un poco con paura che di nuovo si offendesse.

"La mia è una storia lunga e trista, e con la coda!" rispose il Sorcio, rivolgendosi con un sospiro ad Alice.

"Certo è una lunga coda," disse Alice, guardando con meraviglia alla coda del Sorcio; "ma perchè la chiama trista?" E continuò a pensarvi sopra imbarazzata mentre il Sorcio parlava; e così l'idea che si fece di quella storia con la coda fu presso a poco questa:

Furietta disse
al Sorcio,
che in casa
avea
trovato:
Andiamo
al Tribunale,
ti voglio
processare.
Non chiedo
le tue scuse,
o Sorcio
indiavolato,
Quest'oggi
non ho nulla
a casa mia
da fare.—
Disse a
Furietta
il Sorcio:
Ma come
andremo
in Corte?
Senza giurì
nè giudici?
Sarebbe
una vendetta!
Sarò giurì
e giudice,
rispose
allor
Furietta,
E passerò
latrando,
La tua
sentenza
a morte.

"Ella non presta attenzione!" disse il Sorcio ad Alice con tuono severo. "A che cosa sta pensando?"

"Le domando scusa," rispose umilmente Alice: "ella è giunta alla quinta curvatura della coda, non è vero?"

" No, doh! " riprese il Sorcio con voce acerba ed irata.

"Che! c'è un nodo?" sclamò Alice sempre pronta e servizievole, e guardandosi attorno. "Mi conceda il favore di disfarlo!"

"Niente affatto," rispose il Sorcio, levandosi e in atto di partire. "Lei m'insulta dicendomi tali scempiaggini!"

"No, davvero!" disse Alice con sottomissione. "Ma lei s'offende tanto facilmente!"

Per tutta riposta il Sorcio si mise a borbottare.

"Di grazia, ritorni, e finisca il suo racconto!" Alice dunque lo richiamò; e tutti gli altri sclamarono in coro, "Via, finisca il racconto!" ma il Sorcio crollò il capo con un moto d'impazienza, ed affrettò il passo.

"Peccato che non sia restato!" disse sospirando il Lori, appena che il Sorcio si perdè di vista; e un vecchio granchio colse quella opportunità per dire alla sua figlia, "Amore mio, ciò ti serva di lezione, e bada a non andar mai in collera!"

"Sta zitto, Babbo," rispose la piccina con un fare sdegnosetto. "Tu provocheresti anche la pazienza d'un'ostrica!"

"Ah se Dina fosse quì!" disse Alice, parlando ad alta voce, ma senza rivolgersi a chi che sia. "Lo porterebbe indietro in un momento!"

"Perdoni la curiosità, chi è Dina?" domandò il Lori.

Alice rispose sollecitamente, perchè la era sempre pronta a parlare della sua prediletta: "Dina è la nostra gatta. È un vero paladino quando va a caccia di sorci! E se la vedeste correr dietro agli uccelli! Visti e presi!"

Questo discorso produsse un impressione vivissima nell'assemblea. Alcuni uccelli volarono via di botto: una gazza vecchia si avviluppò ben bene dicendo, "È ormai tempo di tornare a casa; l'aria della notte mi fa male alla gola!" e un canarino chiamò con voce tremula tutt'i suoi piccini, "Venite, venite carini! Gli è tempo di andare a letto!" E così chi con un pretesto chi con un altro, tutti andarono via, ed Alice rimase sola.

"Ho fatto male di nominare Dina!" disse fra sè assai mestamente. "Ei pare che niuno l'ami quaggiù, eppure la è la miglior gatta del mondo! Oh Dina mia cara! Chi sa, se ti rivedrò mai più!" E la povera Alice rincominciò a piangere perchè si sentiva tutta soletta e sconsolata. Ma alcuni momenti dopo, sentì di nuovo uno scalpiccío in lontananza, e guardò fissamente, nella speranza che il Sorcio avesse mutato pensiero, e tornasse per finire il suo racconto.

CAPITOLO IV.

LA CASETTINA DEL CONIGLIO.

Era il Coniglio bianco che ritornava bel bello indietro, guardando ansiosamente quà e là, come che avesse smarrito qualche cosa, e mormorando fra sè stesso: "Oh la Duchessa! la Duchessa! Oh zampine mie! pelle e baffi miei state freschi ora! Ella mi farà impiccare, e ne son tanto sicuro come son certo che le donnole sono donnole! Ma dove mai mi son caduti?" Alice indovinò subito ch'egli andava ricercando il ventaglio e il paio di guanti bianchi, e buona e servizievole com'era, si dette attorno per ritrovarli, ma fu inutile, non si trovarono più—ogni cosa sembrava mutata dal momento ch'era cascata nello stagno; e la gran sala, e il tavolino di cristallo, e l'usciolino erano svaniti totalmente.

Bentosto il Coniglio si accorse di Alice, mentr'ella si affannava alla ricerca, e gridò con voce irata, "Marianna che cosa stai facendo quì? Via corri a casa, e portami un paio di guanti ed un ventaglio! Subito, ti dico!" Alice fu tanto spaventata da quella voce che senza perder tempo corse velocemente verso il luogo indicato, senza dir nulla sullo sbaglio che il Coniglio faceva.

"Mi ha presa per la cameriera," disse fra sè mentre continuava a correre. "Ei sarà molto sorpreso quando scoprirà chi io sia! Ma è meglio recargli il ventaglio e i guanti, cioè, purchè io li possa trovare." E giunse innanzi a una bella casettina, e sull'uscio v'era un cartello inciso sopra una rilucente lamina di ottone, con questo nome "CONIGLIO B." Entrò, senza picchiare all'uscio, e frettolosamente divorò tutta la scala temendo d'incontrare la vera Marianna, ed esser da lei cacciata via dalla casa prima di trovare il ventaglio e i guanti.

"Gli è proprio curioso," pensò Alice, "d'esser mandata da un Coniglio a far servizi! Mi aspetto che Dina vorrà poi mandarmi a far servizi per lei!" E cominciò a fantasticare ciò che in tal caso avverrebbe: "'Siora Alice! Venga quì subito, e si prepari a trottare!' 'Eccomi quì, tata! Ma dovrei far la guardia a questo buco sinchè Dina venga, acciocchè il sorcio non ne scappi.' Però non crederei," continuò Alice, "che permetterebbero a Dina di restare in casa se essa cominciasse a comandare la gente a questo modo!"

E così ciarlando entrò in una cameretta assai pulitina, con una tavola presso al terrazzino, e sopra di essa v'erano (come Alice avea di già sperato) un ventaglio e due o tre paja di guanti bianchi e nitidi; ella prese il ventaglio ed un pajo di guanti, e stava per uscire, quando le cadde sott'occhio un'ampolla che stava vicino allo specchio. Non avea nessun cartello attaccato, con la parola "BEVI," eppure essa la sturò e se l'avvicinò alle labbra. "Certo qualche cosa di meraviglioso mi accade ogni qual volta bevo o mangio," disse fra sè; "vediamo dunque che cosa produrrà questo liquore. Spero che mi farà crescere di nuovo, perchè sono proprio stanca di vedermi così piccina!"

E così accadde, e molto più presto di quello che si aspettasse: pria che avesse bevuto la metà dell'ampolla sentì che il suo capo premeva contro la volta, e dovette smetter subito, perchè rischiava di rompersi la nuca. Immediatamente depose l'ampolla, dicendo, "Basta per ora—spero che non crescerò di più—ma così come sono non potrò uscire più dall'uscio—ah! magari, avessi bevuto meno!"

Oimè! era tardi il pentirsi! Andò crescendo, crescendo, e dovette inginocchiarsi, perchè non poteva più stare in piedi; e dopo un altro minuto, dovette sdraiarsi appoggiando un gomito all'uscio, e mettendo un braccio intorno al capo. E cresceva ancora; disperata, cacciò una mano fuori della finestra, ficcò un piede nel caminetto, e disse a sè medesima, "Checchè accada, non posso far di più. Che sarà di me?"

Buono per Alice che la virtù dell'ampolla magica era giunta al suo apice, e perciò non crebbe di più: ciò non di meno si sentiva molto male in quello stato, e come che non c'era verso d'uscire da quella gabbia, se ne attristò di molto.

"Stava molto meglio a casa mia," pensò la povera Alice, "colà non passava il mio tempo a crescere ed a impiccolire, e ad esser la serva de' sorci e de' conigli. Quasi quasi mi pento d'esser discesa nella Conigliera—eppure—eppure—l'è curiosetto questo genere di vita! Ma, che cosa mai son'io addiventata? Quando io leggeva le novelle delle fate, credeva che quella sorta di stranezze non potesse mai accadere, ed ora eccomi nel bel mezzo di una di quelle. Si dovrebbe scrivere un libro su queste mie avventure, si dovrebbe, certo! Quando sarò grande ne scriverò uno—ma sono di già grande," soggiunse con mestizia, "e non c'è spazio per crescere di più quì."

"Ma che," pensò Alice, "non crescerò più negli anni? Da una parte sarebbe un bene—non diventare mai vecchia,—ma quell'imparar sempre le lezioni m'annoierebbe! Oh non mi piacerebbe ciò!"

"Ah pazzerella che sei!" rispose Alice a sè stessa. "Come potresti imparare le lezioni, quì? C'è appena spazio per te, come c'entrerebbero i libri?"

E così passava il tempo, ora parlando, ora rispondendo a sè stessa, e facendo una vera conversazione fra Alice ed Alice; ma dopo qualche istante sentì una voce di fuori, e si mise ad ascoltare.

"Marianna! Marianna!" vociava quel tale di fuori; "portami subito i guanti!" E si sentì un calpestìo frettoloso per la scala. Alice pensò che fosse il Coniglio che veniva a sollecitarla a far presto, e tremò tanto da scuoter la casa dalle fondamenta, scordandosi ch'oramai era diventata mille volte più grande del Coniglio, e che non c'era motivo da spiritar di paura.

Il Coniglio giunse all'uscio, e cercò di aprirlo, ma gli era inutile spingere la porta, perchè il gomito d'Alice era puntellato contro. Alice udì che il Coniglio diceva fra sè, "Andrò dietro la casa ed entrerò per la finestra."

"Non ci entrerai!" pensò Alice, ed attese sino a che le parve che il Coniglio fosse sotto la finestra; allora aprì d'un subito la mano come se volesse acchiappare qualche cosa nell'aria. Non afferrò nulla, ma sentì uno strillo e il rumore d'una caduta, poi un fracasso di vetri rotti, e capì che il poverino era probabilmente cascato in qualche vetrina da cetrioli o cosa simile.

Poi s'udì una voce rabbiosa—quella del Coniglio:—"Gianni! Gianni! Dove sei?" E rispose una voce ch'ella non avea mai sentita, "Eccomi qua! Stava scavando patate, illustrissimo!"

"Scavando patate!" tuonò furiosamente il Coniglio. "Vieni qua! Aiutami per uscire da questo!..." (Cricch! si sentì scricchiare il vetro).

"Dimmi Gianni, che mostruosità c'è lassù, alla finestra?"

"Poffare! gli è un braccio, lustrissimo!"

"Un braccio! va via paperone! Chi ne ha mai veduti di quella grossezza? Diamine, riempie tutta la finestra!"

"Gli è proprio così, lustrissimo: ma è un braccio bell'e buono."

"Bene, ma ei non ha niente da fare con la mia finestra; va, portalo via!"

Successe un lungo silenzio, poi Alice sentì un bisbiglio sommesso; e parole come queste, "Davvero, non potrei, lustrissimo; nò, davvero!" "Fa come ti dico, vigliaccone!" allora Alice di nuovo fendette l'aria con la mano minacciando d'acchiappare. Questa volta si udirono due strilli acuti, e cri, cri, scricchiò di nuovo il vetro. "Quante vetrine da cetrioli vi debbon essere colaggiù!" pensò Alice. "Chi sa che faranno dopo! Quanto al cacciarmi fuori dalla finestra, vorrei che potessero farlo! Certo, io non ho mica voglia di rimaner più quì!"

Aspettò un poco, ma non si sentiva nulla; ecco finalmente avvicinarsi un cigolìo di certe ruote di carri, e molti che vociavano e parlavano insieme: e sentì che dicevano: "Dov'è l'altra scala?—Ma, io non ne dovea portare che una; Tonio ha l'altra—Dì, Tonio, portala quì, bambino mio!—Là, appoggiatela a quel cantone—No, no, legatele insieme prima—non vedete che non arrivano!—Oh! vi arriveranno, non sarà tanto difficile!—Quà, Tonio, afferra questa fune—Ma reggerà il tetto?—Bada a quella tegola che vacilla!—Ohè, casca giù!—Bada! bada!" (Patatrac!)—"Chi ha fatto ciò?—Gli è Tonio, credo—Chi scenderà pella gola del caminetto?— Io no!—Vuoi tu?—No, neppur io!—Tonio dovrà scendervi—Ohè, Tonio, il padrone dice che devi scendere pella gola del caminetto!"

"Bellino!" disse Alice fra sè, "così questo Tonio verrà dal caminetto? Pare che quei signori abbian posto ogni carico sulle spalle del povero Tonio! Non vorrei esser mica ne' suoi panni: questo camino è molto angusto, non v'è dubbio; ma potrò tirarvi qualche calcio, credo!"

E ritirò il piede quanto più potè dal caminetto, ed aspettò sino a che sentì un animaluccio (senza che potesse indovinare a che razza appartenesse) che raschiava e scendeva adagino lunghesso il camino: "Gli è Tonio," disse, e tirò un bel calcio, poi attese ciò che seguirebbe dopo.

La prima cosa che sentì fu un coro di voci che diceva, "Ecco Tonio che vola!" e poi la voce sola del Coniglio che gridava—"Pigliatelo, voi altri che siete vicino alla siepe!" e poi silenzio, e poi una gran confusione di voci—"Sostenetegli il capo—Quà l'acquavite—Non lo soffocate—Come andò compare? Che cosa ti avvenne? Sù narraci tutto!"

Finalmente s'udì una vocina debole e sibilante ("È Tonio," pensò Alice), "Non saprei che dirvi—Non più, grazie; stò meglio—ma mi sento troppo agitato per raccontarvelo—tutto quel che mi rammento gli è qualche cosa che mi sbalestrò in aria, ed io schizzai via come un razzo!"

"Schizzasti via davvero poveretto!" dissero gli altri.

"Incendiamo la casa!" sclamò il Coniglio, ma Alice gridò subito con quanta voce aveva in gola, "Se fate ciò, vi farò acchiappar tutti da Dina!"

Si fece subito un gran silenzio, e Alice disse fra sè, "Vediamo, cosa faranno ora! Se avesser cervello, scoperchierebbero il tetto." Qualche istante dopo cominciarono a muoversi di nuovo e sentì il Coniglio che diceva, "Basterà, una carrettata per cominciare."

"Una carrettata di che?" disse Alice; ma non restò molto in dubbio, perchè subito una grandine di sassolini cominciò a scoppiettare nella finestra, ed alcuni la colpirono in faccia. "Bisogna finirla," pensò Alice, e gridò, "Fareste bene di non provarvici un'altra volta!" Queste parole produssero un altro silenzio sepolcrale.

Alice osservò con un pò di stupore che i sassolini si convertivano in pasticcini appena toccavano il pavimento, e subito un idea le sfolgorò in mente. "Proviamo a mangiare uno di questi pasticcini," disse, "certo essi produrranno qualche mutamento nella mia statura; e siccome non potranno farmi più grossa di quel che sono, m'impiccoliranno forse."

E mangiò un pasticcino, e si rallegrò di vedersi subito impiccolire. Appena che si sentì piccola abbastanza per uscire dalla porta, scappò dalla casa, e incontrò una folla di animalucci e d'uccelli che aspettavano fuori. La povera Lucertola (era Tonio) stava nel mezzo, sostenuta da due porcellini d'India, che le davano qualche ristoro da una bottiglia. Appena comparve Alice tutti le si avventarono addosso; ma la bimba si mise a correre sino a che si ritrovò sana e salva in una foresta.

"La prima cosa che dovrò fare," pensò Alice, vagando nella foresta, "la è quella di ricrescere e giungere alla mia statura naturale; e la seconda poi sarà di cercare il modo d'entrare in quell'ameno giardino. È questo, mi pare, il miglior piano."

E davvero sembrava un piano eccellente, e imaginato assai per benino; ma la difficoltà stava in ciò ch'ella non sapea da dove rifarsi per metterlo ad effetto; e mentre aguzzava l'occhio fra gli alberi della foresta, un piccolo latrato acuto al di sopra di lei la fece guardare in su presto presto.

Un enorme cucciolo la squadrava con occhi dilatati e rotondi, e allungando una zampa cercava di toccarla. "Poverino!" disse Alice con voce carezzevole, e per allettarlo si provò a dirgli "te', te'!" ma tremava a verghe temendo che fosse affamato, nel qual caso l'avrebbe probabilmente divorata a dispetto di tutte le sue carezze.

Non sapendo che farsi, prese un ramuscello e lo presentò al cagnolino; questo saltò in aria come un razzo, dando fuori un urlo di gioja, e s'avventò al ramuscello come se lo volesse sbranare; allora Alice si mise cautamente dietro ad un cardo altissimo per non esser da lui rovesciata; quando si affacciò all'altro lato, vide che il cagnolino s'era avventato nuovamente al ramuscello, ed aveva fatto un capitombolo nella furia d'afferrarlo; ma siccome ad Alice sembrava che era come scherzare con un cavallo di vetturale, così per evitare d'esser calpestata dalle zampe della bestia, fuggì di nuovo dietro al cardo: allora il cagnolino cominciò una serie di cariche verso il ramuscello, correndo ogni volta al di là del segno, e correndo indietro più di quel che gli conveniva, e sempre abbaiando raucamente sino a che s'accoccolò a una breve distanza, anelante, con la lingua penzoloni, e con gli occhioni semichiusi.

Alice colse quell'occasione propizia per scappar via, e fuggì, e corse tanto da perderne affatto il fiato, e sino a che il latrare del cagnolino si perdè nella lontananza.

"Eppure che caro cucciolo era quello!" disse Alice, appoggiandosi a un ranuncolo e facendosi vento con una delle sue foglie: "Oh quanto avrei desiderato d'insegnargli dei giuocolini se—se fossi stata d'una statura adeguata! Oimè! avevo quasi dimenticato che mi convien crescere ancora! Vediamo—come potrei fare? Suppongo che dovrei mangiare o bere qualche cosa; ma quale cosa? quì sta il punto!"

Davvero la gran quistione si aggirava su quale cosa? Alice guardò tutt'intorno, i fiori, l'erba, ma non trovò niente che le paresse adatto a mangiare o bere per quell'occorrenza. C'era però un grosso fungo vicino a lei, press'a poco alto quanto lei, e dopo che l'ebbe osservato di sotto, ai lati, e di dietro, le parve cosa naturale di vedere ciò che v'era di sopra.

Si alzò sulla punta de' piedi, e affacciossi all'orlo del fungo, ed ecco gli occhi suoi s'incontrarono con quelli di un grosso Bruco turchino che se ne stava seduto nel mezzo con le braccia conserte, fumando tranquillamente una lunga pipa turca, non facendo la minima attenzione a lei, nè ad alcun'altra cosa.

CAPITOLO V.

CONSIGLI D'UN BRUCO.

Il Bruco ed Alice si guardarono in faccia per qualche istante senza far motto; finalmente il Bruco staccò la pipa di bocca, e le parlò con voce languida e sonnacchiosa.

"Chi siete voi?" disse il Bruco.

Questa domanda non invitava troppo a una conversazione. Alice rispose con un pò di timidezza, "Davvero io—io non saprei dirlo ora—so almeno chi ero quando mi levai questa mattina, ma d'allora in poi temo essere stata scambiata più volte."

"Che cosa mi andate contando?" disse il Bruco con voce austera. "Spiegatevi meglio!"

"Temo non potere spiegarmi," disse Alice, "perchè non sono più me stessa, com'ella vede."

"Io non vedo," rispose il Bruco.

"Temo che non mi sarà dato di spiegarmi più chiaramente," soggiunse Alice con modo assai gentile, "perchè io non so capirla neppur io dopo essere stata mutata di statura tante volte in un giorno, ciò confonde davvero."

"Non è vero," disse il Bruco.

"Bene, forse non se n'è ancora accorto," disse Alice, "ma quando ella sarà mutata in crisalide—e ciò le accadrà un giorno,—e poi diverrà farfalla, ciò le sembrerà un pò strano, non è vero?"

"Niente affatto," rispose il Bruco.

"Eh! forse i suoi sentimenti saranno diversi da' miei," replicò Alice; "ma quanto a me mi parrebbe molto strano."

"A voi!" disse il Bruco con disprezzo. "Chi siete voi?"

E ciò li ricondusse da capo al principio della conversazione. Alice si sentiva irritata alquanto veggendo che il Bruco le rispondeva secco secco, e s'impettorì come una matrona romana, e dissegli gravemente, "Perchè non comincia lei, a dirmi chi è?"

"Perchè?" disse il Bruco.

Era quella una domanda imbarazzante; e perchè Alice non sapeva trovare una buona ragione, e il Bruco pareva di cattivo umore, si voltò per andarsene.

"Venite quì!" la richiamò il Bruco. "Ho alcun che d'importante a dirvi."

Quelle parole promettevano qualche cosa: ed Alice ritornò indietro.

"Non andate in collera," disse il Bruco.

"E questo è tutto?" rispose Alice, inghiottendo il suo dispetto.

"Nò," disse il Bruco.

Alice pensò che poteva aspettare, perchè non aveva altro di meglio a fare, e perchè forse il Bruco avrebbe potuto comunicarle alcun che d'importante. Per qualche istante il Bruco pipò senza dir nulla, finalmente spiegò le braccia, staccò la pipa di bocca, e disse, "E così voi credete di essere stata tramutata?"

"Signor mio, ho paura di sì," rispose Alice; "Non posso più rammentarmi bene le cose come una volta—e non posso conservare per dieci minuti la stessa statura!"

" Quali cose non potete rammentare?" domandò il Bruco.

"Ecco, cercai una volta di ripetere 'Rondinella pellegrina' e m'uscì dalle labbra tutto diverso!" soggiunse Alice assai mestamente.

"Ripetetemi ' Guglielmo, tu sei vecchio,'" disse il Bruco.

Alice incrociò le mani sul petto, e cominciò: —

"Guglielmo! tu sei vecchio,"—gli disse il giovanetto,
"Son bianchi i tuoi capelli—e meriti rispetto;
Eppur col capo in terra—ti veggo camminare—
Ma credi che convenga—a un vecchio un tale andare?"

"Quand'ero giovanetto"—rispose il Vecchierello,
"Credea che questo giuoco—sbalzasse il mio cervello;
Ma ormai che son persuaso—che in zucca non ho nulla,
Col capo in giù men vado—quando il cervel mi frulla."

"Guglielmo! tu sei vecchio,"—soggiunse il suo figliuolo,
"Sei grosso e grasso e tondo—che sembri un cedrïuolo,
Eppur fai salti a ruota!—oh dimmi a quale scuola
S'insegna a sfondar l'uscio—con una caprïola?"

Rispose il buon Vecchino—"Nella mia giovinezza
Studiai di conservare—al corpo la sveltezza;
Virtù di quest'unguento—un franco per vasetto,
Ne vuoi comprare un pajo—garbato giovanetto?"

"Guglielmo! tu sei vecchio,—e fiacche hai le mascelle,
Ed ingollar potresti—brodose minestrelle,
Ed hai mangiato un'oca—con l'ossa, e il becco intero?
O Babbo, com'hai fatto?—oh spiegami il mistero!"

"Un dì studiai le leggi"—il Babbo allor gli disse,
"Ed ebbi con mia moglie—sempre querele e risse,
Ciò dètte alle ganasce—tal forza muscolare
Che ormai potrei con l'oca—la moglie divorare."

"Guglielmo! tu sei vecchio"—riprese il giovanetto,
"La vista non ti regge—e sai, ti fa difetto;
E porti in equilibrio—sul naso quell'anguilla!
Oh quì la tua destrezza—davver si mostra e brilla!"

"Risposi a tre domande—e ormai ti può bastare;
Non rompermi le scatole,—non voglio più parlare;
Oh credi che mi piacciano—le sciocche tue questioni?
Via, smetti, o per la scala—ti mando ruzzoloni!"

"Non l'avete recitata bene," disse il Bruco.

"Temo di no," rispose timidamente Alice, "certo alcune parole sono scambiate."

"Male dal principio alla fine," disse il Bruco con accento risoluto, e successe un silenzio per qualche minuto.

Il Bruco fu il primo a parlare.

"Di che statura vorreste essere?" domandò.

"Oh non vado tanto pel sottile in quanto alla statura," rispose in fretta Alice; "soltanto non mi piace di mutar tanto spesso, sa."

"Non so niente," disse il Bruco.

Alice non fiatò: giammai la poverina era stata tante volte contraddetta, e stava lì lì per scoppiare.

"Siete contenta ora?" domandò il Bruco.

"Nò, davvero, vorrei essere un pocolino più grande, se non le dispiacesse," rispose Alice: "si figuri, ho una ben meschina statura, appena tre pollici!"

"L'è una buona statura, cotesta!" disse il Bruco con voce dispettosa, rizzandosi come un fuso mentre parlava (egli era alto tre pollici per l'appuntino).

"Ma io non ci sono abituata!" soggiunse Alice con voce carezzevole e mesta. E poi pensò fra sè: "Vorrei che coteste creaturine non s'offendessero così per nulla!"

"Vi abituerete col tempo," disse il Bruco, e rimettendosi la pipa in bocca, rincominciò a pipare.

Questa volta Alice aspettò pazientemente che egli stesso riappiccicasse il discorso. Passati due o tre minuti, il Bruco levò la pipa di bocca, sbadigliò un poco, e si scosse tutto. Poi discese dal fungo, e andò strisciando nell'erba, dicendo soltanto queste parole "Un lato vi farà crescere di più, e l'altro vi farà diminuire."

"Un lato di che cosa? L'altro lato di che cosa?" pensò Alice fra sè.

"Del fungo," disse il Bruco, come se Alice l'avesse interrogato ad alta voce; e subito disparve.

Alice rimase pensierosa riguardando al fungo e cercando di scoprire quali fossero i due lati di esso; e perchè era tondo come l'O di Giotto, non sapea trovarli. Ciò non di meno allungò quanto potea le braccia per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzettini all'orlo con ciascuna delle sue mani.

"Ed ora, quale è l'uno e quale è l'altro?" disse fra sè, e si mise a morsecchiare il pezzettino che aveva alla destra, così per provarne l'effetto, quando si sentì in un attimo un colpo violento sotto il mento; aveva battuto sul piede!

Quel mutamento subitaneo la spaventò moltissimo, ma non c'era tempo a perdere, perchè spariva rapidamente; così si mise subito a morsecchiare l'altro pezzettino. Il suo mento era talmente stretto al piede che a mala pena potette aprir la bocca; finalmente riuscì a inghiottire un bocconcello del pezzettino della mano sinistra.

"Ah! respiro finalmente, la mia testa è libera!" sclamò Alice con gioja, ma tosto la sua allegrezza si mutò in terrore quando si accorse che non potea più trovare le spalle: guardando in giù non potè vedere che un collo lungo, lungo che s'elevava come uno stelo d'in mezzo a un campo di foglie verdeggianti che stavano lungi, sotto a lei.

"Che cosa è mai quel campo verde?" disse Alice. "E dove sono andate le mie spalle? Oh tapina me! come va che non vi veggo più, o mie povere mani?" E andava movendole mentre parlava, ma non sembrava che ne seguisse altro che un piccolo movimento fra le verdi foglie in lontananza.

Non sembrando possibile di portar le mani al capo, cercò di piegare il capo verso le mani, e fu contenta di vedere che il suo collo potea piegarsi e dirigersi dovunque, come un serpente. Era riuscita a curvarlo in giù in forma d'un grazioso zigzag, e stava lì lì per tuffarsi fra le foglie, quando si accorse che erano le cime degli alberi sotto i quali s'era smarrita. E sentì un gemito acuto per cui si ritirò indietro in fretta: un grosso colombo era volato verso di lei, e le sbatteva le ali contro la faccia in modo furioso.

"Serpente!" gridò il Colombo.

" Non sono un serpente, io!" disse Alice, adirata. "Va via!"

"Serpente, dico!" ripetè il Colombo, ma con voce più dimessa, e soggiunse singhiozzando, "Ho cercato tutt'i rimedii, ma nulla m'è giovato!"

"Io non so di che cosa mai tu parli," disse Alice.

"Ho provato le radici degli alberi, ho provato i poggetti, ho provato le siepi," continuò il Colombo senza badare a lei; "ma i serpenti! Oh non c'è modo di contentarli!"

Alice era sempre più meravigliata e confusa, ma pensò ch'era inutile parlare sino a che il Colombo avesse finito.

"Come che fosse poca pena covar le uova," disse il Colombo, "mi abbisogna vegliare a causa dei serpenti, e giorno e notte! Son tre settimane che non ho chiuso un occhio!"

"Mi dispiace di vederti così angosciato!" disse Alice, la quale cominciava a capire il Colombo.

"E giusto quando avevo scelto l'albero più elevato della foresta," continuò il Colombo con un grido disperato, "e mi credea liberato finalmente da loro, ecco che mi piovono giù dal cielo! Ih! Serpentaccio!"

"Ma io non sono un serpente, ripeto!" rispose Alice. "Io sono una—— Io sono una——"

"Bene, chi sei tu?" disse il Colombo. "Vedo bene che tu cerchi dei raggiri per ingannarmi!"

"Io—Io sono una ragazzina," rispose Alice, ma quasi dubitando di sè stessa, poichè si rammentava l'innumerevole serie di trasformazioni che avea passate in quel giorno.

"Bella storiella!" disse il Colombo con voce di profondo disprezzo. "Ho veduto molte ragazzine in mia vita, ma niuna con un collo simile. No, no! Tu sei un serpente; e non serve negarlo. Scommetto che mi dirai che non hai mai gustato un uovo!"

"Ma sì che ho gustato delle uova," soggiunse Alice, la quale era una bambina assai veridica; "sai pure che le ragazzine mangiano quanto i serpenti!"

"Non ci credo," disse il Colombo; "ma se pure è così, esse sono una razza di serpenti, ecco quello che potrei dire."

Questa idea era così nuova per Alice, che restò muta qualche minuto; il Colombo ne profittò per soggiungere, "Tu vai occhiando le uova, lo comprendo; oh che importa a me che tu sia una fanciulla o un serpente?"

"Ma importa moltissimo a me," rispose subito Alice; "pure ora non vado cercando uova; e quando anche ne cercassi non vorrei delle tue; crude non mi piacciono."

"Via dunque da me!" disse brontolando il Colombo, e si accovacciò nel nido. Alice s'appiattò il meglio che potea fra gli alberi, perchè il suo collo s'intralciava fra i rami, e spesso dovea fermarsi per sbrogliarsene. Dopo qualche istante si rammentò che avea tuttavia nelle mani i due pezzettini di fungo, e si mise all'opera con molta avvedutezza morsecchiando or l'uno or l'altro, e così ora cresceva ed or diminuiva, sinchè riuscì a riavere la sua statura naturale.

Era tanto tempo che non avea più avuto la sua statura naturale, che da prima le parve strano, ma vi si abituò in pochi minuti, e rincominciò a parlare fra sè secondo il solito. "Ecco, sono a metà del mio piano! Sono pure strane tutte queste trasformazioni! Non son mai certa di che addiventerò da un minuto all'altro! Ad ogni modo sono tornata alla mia giusta statura: ora bisognerebbe pensare al modo di penetrare nell'ameno giardino—come potrò farlo, pagherei saperlo!" E così dicendo, giunse senza avvedersene a una piazza che avea nel mezzo una casettina alta quattro piedi circa. "Chiunque sia che vi abiti," pensò Alice, "non converrebbe mai con questa mia statura andare a visitarli così all'improvviso; farei loro una paura terribile!" E rincominciò a morsecchiare il pezzettino che aveva alla man destra, e non osò di avvicinarsi alla casa, se non quando si rimpiccolì tanto che avea nove pollici di altezza.

CAPITOLO VI.

PORCO E PEPE.

Per qualche istante si mise a guardar la casa, e non sapea che fare, quando ecco un servo in livrea venne frettolosamente dalla foresta—(lo prese per un servitore perchè era in livrea, altrimenti al viso l'avrebbe creduto un pesce),—e picchiò furiosamente all'uscio colle nocche. La porta fu spalancata da un altro servitore in livrea, con una faccia rotonda, e occhi grossi come un ranocchio; ed Alice osservò che entrambi aveano in testa parrucche incipriate ed inanellate. Tutto questo le eccitò la curiosità, e uscì un poco dalla foresta e si mise ad origliare.

Il Pesce-Servo cavò di sotto il braccio un letterone, grande quasi quanto lui, e lo presentò all'altro, dicendo con voce solenne, "Per la Duchessa. Un invito della Regina per giuocare una partita di croquet." Il Ranocchio-Servo rispose con lo stesso tuono di voce, ma invertendo l'ordine delle parole, "Da parte della Regina. Un invito alla Duchessa per giuocare una partita di croquet."

Ed entrambi s'inchinarono sino a terra, e le ciocche de' loro capelli s'imbrogliarono insieme.

Alice proruppe in una grossa risata, e dovette internarsi nella foresta per paura di esser sentita; e quando poi tornò ad occhiare, il Pesce-Servo era andato via, e l'altro sedeva a terra press'all'uscio, stralunando stupidamente gli occhi verso il cielo.

Alice si avvicinò timidamente alla porta e picchiò.

"Non giova punto picchiare," disse il Servo, "e ciò per due ragioni. La prima perchè io stò allo stesso lato dell'uscio dov'ella sta; la seconda perchè di dentro stanno facendo un tale strepito che niuno potrebbe sentirla." E davvero si sentiva un gran rumore nel di dentro—un guaire e uno starnutire non mai interrotti, e di tempo in tempo un gran fracasso, come se un piatto o una caldaia andasse a pezzi.

"Di grazia," domandò Alice, "che dovrei fare per entrare?"

"Il suo picchiare riuscirebbe a qualche effetto," continuò il Servo senza badare a lei, "se la porta fosse fra noi due. Per esempio se lei fosse dentro, potrebbe picchiare, ed io la farei uscire, capisce." E continuava a guardare il cielo mentre parlava; e ciò pareva proprio scortese ad Alice. "Ma forse non può farne a meno," disse fra sè; "ha gli occhi incastrati sul cranio! Potrebbe però rispondere a qualche domanda—Come potrei fare per entrar dentro?" disse Alice a voce alta.

"Io siederò quì," osservò il Servo, "sino a domani——"

In quell'istante l'uscio della casa si aprì, e un gran piatto volò verso la testa del Servo, e gli sfiorò il naso, poi andò a sfracellarsi contro a un albero ch'era dietro a lui.

"—— o sino a dopo domani, forse," continuò il Servo con la stessa imperturbabilità, come se nulla fosse accaduto.

"Come potrei fare per entrar dentro?" gridò di nuovo Alice, ma con voce più forte.

"Dovrà ella entrare?" rispose il Servo. "La è questa la quistione principale."

E avea ragione; soltanto Alice non volea che le fosse fatta quella domanda. "È orribile," mormorò fra sè, "il modo con cui arguiscono coteste bestie. Mi farebbero impazzare!"

Il Servo colse quella propizia opportunità per ripetere l'osservazione con qualche variante: "Io siederò quì, su per giù, per giorni e giorni."

"Ma che cosa debbo io fare?" domandò Alice.

"Quel che vuole," rispose il Servo, e si mise a zufolare.

"È inutile di parlar con lui," disse Alice, tutta disperata: "è un idiota spaccato!" E aprì l'uscio ed entrò.

Quell'uscio menava diritto a una cucina spaziosa, da un capo all'altro tutta ripiena di fumo: la Duchessa sedeva nel mezzo sopra uno sgabello a tre piedi, e ninnava un bambino; la cuoca era in faccia al fornello, mestando un calderone che parea pieno di minestra.

"Certo c'è troppo pepe in quella minestra!" disse Alice a sè stessa, non potendo rattenere gli starnuti.

Ma davvero c'era troppo pepe nell'aria. Anche la Duchessa starnutiva qualche volta; e quanto al bimbo non faceva altro che starnutire e strillava a vicenda senza posa. I soli due esseri che non starnutivano nella cucina, erano la Cuoca, e un grosso gatto che stava accoccolato presso il focolare e ghignando con la bocca, da un orecchio all'altro.

"Mi dica, di grazia," domandò Alice, un po' timidamente, perchè non era certa se fosse buona creanza di cominciare a parlare, "perchè il suo gatto ghigna così?"

"È un Ghignagatto," rispose la Duchessa, "ecco il perchè. Porco!"

Ella pronunziò l'ultima parola con una tale furia che Alice trasalì; ma subito s'accorse che quel titolo era dato al bambino e non già a lei, così si rianimò, e continuò a dire:

"Non sapea che i gatti ghignassero a quel modo: anzi non sapea neppure che i gatti potessero ghignare."

"Tutti lo possono," rispose la Duchessa; "e la maggior parte ghignano."

"Non ne conosco alcuno che faccia il ghigno," replicò Alice con molto rispetto, e contenta ch'era entrata in conversazione.

"Voi non sapete molto," disse la Duchessa; "e questo è quanto!"

Non piacque punto ad Alice quella risposta secca, e pensò di mutar discorso. Mentre cercava un argomento, la cuoca tolse il calderone della minestra dal fuoco, e tosto si mise a gittar tutto ciò che le stava vicino contro alla Duchessa ed al bambino—pria volarono le molle e la paletta; poi un nembo di casseruole, di piatti e di tondi. La Duchessa non se ne dette per intesa nemmeno quando era colpita; e il bimbo guaiva di già tanto forte che non si poteva sapere se i colpi gli facessero male o no.

"Ma faccia attenzione a quel che fa!" gridò Alice, saltando quà e là tutta spaventata. "Addio naso!" continuò a dire, mentre una grossa casseruola volò vicino al naso del mimmo, e poco mancò che non glielo portasse via.

"Se ognuno badasse alle proprie faccende," sclamò la Duchessa con voce rauca, "il mondo girerebbe più presto di quello che nol fa ora."

"Ciò non sarebbe un bene," disse Alice, lieta di poter far pompa della sua erudizione. "Pensi che confusione farebbe del giorno e della notte! Ella sa che la terra impiega ventiquattro ore per girare intorno al suo asse——"

"A proposito di asce!" gridò la Duchessa, "tagliatele il capo!"

Alice guardò con ansietà la cuoca per vedere se ella ubbidisse al cenno; ma la cuoca era occupata a dimenare la minestra, e non parea che avesse ascoltato, perciò andò innanzi dicendo: "Ventiquattr'ore, credo; o dodici? Io——"

"Oh non mi seccate," disse la Duchessa; "Non ho mai potuto sopportare le cifre!" E rincominciò a cullare il bimbo, cantando una certa Ninna-Nanna, e dandogli una violenta scossa alla fine d'ogni strofa:—

"
Parla duro al tuo bambino,
Dàgli bòtte se starnuta;
Ei guaisce il malandrino
Perchè il pepe mio rifiuta!
Ei ci annoia co' suoi lai!
"

(Coro al quale si uniscono la Cuoca e il bimbo):—

"
Guai! Guai! Guai! Guai!
"

Mentre la Duchessa cantava la seconda strofa, faceva saltare il bimbo su e giù con molta violenza, e il poverino guaiva tanto che Alice appena potette udire le parole della poesia:—

"
Parlo duro al mio bambino,
Lo sculaccio se starnuta,
Perchè il pepe, il malandrino,
Quando ei vuol, non lo rifiuta.
Ei ci annoia co' suoi lai!
"

Coro.

"
Guai! Guai! Guai! Guai!
"

"Tenete! voi ve lo potrete ninnare un poco se v'aggrada!" disse la Duchessa ad Alice, buttandole il bimbo in braccio. "Bisogna ch'io vada a prepararmi per giuocare una partita a croquet con la Regina," e scappò via. La cuoca le scaraventò addosso una padella, e per poco non la colse.

Alice afferrò il bimbo ma con qualche difficoltà, perchè la era una creaturina molto strana; e le sue mani e i suoi piedi guizzavano verso tutt'i lati, "proprio come quell'animaletto marino che si chiama stella," pensò Alice. Il poverino, quando Alice lo prese, stronfiava come una macchina a vapore, e continuava a contorcersi e a stiracchiarsi, di tal che ella ebbe la maggior pena del mondo per tenerlo.

Quando la fanciulla trovò la maniera di ninnarlo a modo (e ciò consisteva nell'averlo aggruppato bene come un nodo, e afferrato all'orecchio destro e al piede sinistro, per non permettergli di sciogliersi) lo portò all'aria aperta. "Se non porto via questo bambino meco," osservò Alice, "è certo che qualche giorno l'ammazzeranno; non sarei colpevole d'un assassinio se lo abbandonassi?" Ella pronunziò le ultime parole a voce alta, e il poverino si mise a grugnire per risponderle (non starnutiva più allora). "Non grugnire," disse Alice, "non sta bene esprimersi a quel modo."

Il bimbo grugnì di nuovo, e Alice lo guardò con molta ansietà per vedere che avesse. Aveva un naso che s'arricciava troppo, e non c'era dubbio che rassomigliava più a un grugno che a un naso naturale; e poi gli occhi s'impiccolivano tanto che non pareano occhi di bambino: tutto insieme quell'aspetto non piaceva ad Alice punto, punto. "Forse singhiozzava," pensò ella, e riguardò di nuovo a' suoi occhi per vedere se vi fossero lagrime.

Ma non ce n'erano. "Carino mio, se tu ti trasformi in porcellino," disse Alice seriamente, "non voglio aver più nulla a fare con te. Bada a te dunque!" Il poverino si rimise a singhiozzare (forse grugniva, ma era difficile il distinguere), e andarono innanzi silenziosamente per qualche tempo.

Alice aveva appena cominciato a riflettere, "Che cosa ho da fare di questa creatura quando la porterò a casa?" allorchè grugnì di nuovo, e tanto forte, che tutta spaventata si mise a riguardarla in faccia. Questa volta non c'era più dubbio; era un porcellino bell'e buono, ed essa fu persuasa che non c'era più ragione di portarlo oltre.

Così depose quella creaturina a terra, e si sentì sollevata quando la vide trottare via quietamente verso la foresta. "Se fosse cresciuto," disse fra sè, "sarebbe stato un bruttissimo ragazzo; ma diventerà, un bellissimo porco, credo." E riandò con la memoria a certi fanciulli che conosceva, i quali potrebbero essere buonissimi porcellini, e stava per dire, "se uno conoscesse il vero modo di mutarli—" quando trasaltò un poco di paura veggendo il Ghignagatto, accoccolato sopra un ramo d'albero, a pochi metri di distanza.

Il Gatto fece soltanto un ghigno quando vide Alice. Sembra di buon umore, pensò; ciò non di meno ha le unghie troppo lunghe, ed ha troppi denti, perciò bisognerà trattarlo con molta deferenza.

"Ghignamicio," cominciò a dire con un poco di timidità, perchè non sapeva se gli piacesse quel titolo; ciò non di meno egli non fece altro che ghignare più apertamente. "Via, ci ha piacere," pensò Alice, e continuò, "Vorresti dirmi, quale via dovrei infilare da quì?"

"Ciò dipende molto dal luogo dove vorresti andare," rispose il Gatto.

"Poco importa dove——" disse Alice.

"Allora poco importa di sapere quale via dovresti prendere," soggiunse il Gatto.

"—— purchè giunga a qualche luogo," riprese Alice, come se volesse spiegarsi meglio.

"Oh certo, vi giungerai!" disse il Gatto, "sai il proverbio italiano, 'tanto cammina sino che arriva.' "

Alice sentì che quel proverbio non poteva essere contraddetto, e tentò un altra domanda. "Che razza di gente abita in questi dintorni?"

"Di," rispose il Gatto, girando la zampa destra, "abita un Cappellaio; e di quà," indicando con l'altra zampa, "abita una Lepre-marzolina. Visita chi vuoi de' due: sono entrambi matti."

"Ma non mi piace d'andare dai matti," osservò Alice.

"Oh, non c'è modo d'uscirne," disse il Gatto: "quì siam tutti matti. Io son matto. Tu sei matta."

"Come sai ch'io sono matta?" domandò Alice.

"Tu devi esserla," disse il Gatto, "altrimenti non saresti venuta quì."

Non parve una ragione sufficiente ad Alice, ma pure continuò: "oh come sai che tu sei matto?"

"Per cominciare," disse il Gatto, "un cane non è matto. Ne convieni?"

"Lo suppongo," rispose Alice.

"Bene," continuò il Gatto, "un cane brontola quando è arrabbiato, ed agita la coda quando è contento. Ora io brontolo quando son contento, ed agito la coda quando sono arrabbiato. Dunque son matto."

"Io direi far le fusa, e non già brontolare," disse Alice.

"Dì come vuoi," riprese il Gatto. "Vai tu quest'oggi dalla Regina, a giuocare a croquet?"

"Lo desidererei tanto," rispose Alice, "ma non sono stata ancora invitata."

"Mi vedrai da lei," disse il Gatto, e sparì.

Alice non fu sorpresa da tutto questo: si era di già abituata a veder cose strane. Mentre guardava ancora al ramo dov'era stato il Gatto, eccotelo ricomparire di nuovo.

"A proposito, che n'è del bimbo?" disse il Gatto. "Avea dimenticato di domandartene."

"Si mutò in porcellino," rispose Alice senza scomporsi, come che il Gatto fosse riapparito in modo naturale.

"Me l'ero immaginato," disse il Gatto, e sparì di nuovo.

Alice aspettò un poco, mezzo persuasa che riapparisse nuovamente, ma non ricomparve, e pochi istanti dopo si diresse alla via dove abitava la Lepre-marzolina, "Di cappellai ne ho veduti tanti," disse fra sè: "sarà più interessante per me la Lepre-marzolina, e come siamo a Maggio non sarà poi tanto matta da legare—almeno meno matta di quel che l'era nel Marzo." Mentre diceva queste parole, riguardò in alto, ed eccoti di nuovo il Gatto, accoccolato sul ramo d'un albero.

"Dicesti porcellino o porcellana?" domandò il Gatto.

"Dissi porcellino," rispose Alice; "ma ti prego di non apparire e disparire come un lampo: mi fai girare il capo!"

"Sta bene," disse il Gatto; e questa volta sparì lentamente; cominciò con la punta della coda, e finì col suo ghigno, e questo restò come una visione sul ramo dopo che tutto era sparito.

"Oh bella! Ho veduto spesso un gatto senza ghigno," osservò Alice, "ma un ghigno senza gatto! È la cosa più curiosa ch'io abbia mai veduta in tutta la mia vita!"

Non si era dilungata di molto quando si trovò in faccia alla dimora della Lepre-marzolina: pensò che quella fosse proprio la casa, perchè le gole dei camini aveano la forma di orecchie, e il tetto era coperto di pelo. La casa era tanto grande che ella non osò di avvicinarvisi se non dopo aver morsecchiato un poco del fungo che avea nella mano sinistra, e crebbe quasi due piedi di altezza: ciò non la liberò dall'ansietà, e mentre si avvicinava timidamente alla porta, diceva fra sè, "E se poi fosse matto furioso! Quasi quasi vorrei essere andata a trovare il Cappellaio!"

CAPITOLO VII.

UN TÈ DI MATTI.

Sotto un albero in faccia alla casa c'era una tavola apparecchiata, e vi prendevano il tè la Lepre-marzolina e il Cappellaio: un Ghiro che dormiva profondamente stava fra loro, ed essi se ne servivano come se fosse un guanciale, appoggiando i gomiti su lui e discorrendo sopra il suo capo. "Che disturbo pel Ghiro," pensò Alice, "ma siccome dorme, m'immagino che non ci farà attenzione."

La tavola era spaziosa, pure i tre stavano aggruppati insieme a un angolo: "Non c'è posto! Non c'è posto!" gridarono, quando videro che Alice si avvicinava. "C'è molto posto!" disse Alice, sdegnosa, e si mise a sedere in un comodissimo seggiolone che stava ad una delle estremità della tavola.

"Vuole del vino?" disse la Lepre-marzolina con modo attraente.

Alice guardò sulla tavola, e vide che non c'era altro che tè. "Non vedo vino," osservò essa.

"Non ce n'è punto," replicò la Lepre-marzolina.

"Ma allora non è cortese, invitandomi a bere quel che non ha," disse Alice sdegnosamente.

"Come non fu punto civile da parte sua di sedersi quì senz'essere invitata," osservò la Lepre-marzolina.

"Non sapea che la tavola appartenesse a lei " rispose Alice, "è apparecchiata per più di tre."

"Dovrebbe farsi tagliare i capelli," disse il Cappellaio. Egli aveva osservato Alice per qualche istante, e con molta curiosità, e furon quelle le prime parole che profferì.

"Ella non dovrebbe fare osservazioni che sanno di personalità," disse Alice un po' severa: "ciò è molto sconvenevole."

Il Cappellaio spalancò enormemente gli occhi udendo quelle parole; ma disse soltanto, "Perchè un corvo è simile a un coccodrillo?"

"Via! Ora sì che ci divertiremo!" pensò Alice. "Sono contenta che hanno cominciato a proporre degl'indovinelli—credo di potere indovinarlo," soggiunse ad alta voce.

"Intende dire che potrà trovare la risposta?" domandò la Lepre-marzolina.

"Sicuramente," rispose Alice.

"Ebbene dica quel che intende," disse la Lepre-marzolina.

"Ecco," riprese Alice, in fretta; "almeno—almeno intendo quel che dico—e ciò vale lo stesso, capite."

"Niente affatto lo stesso!" disse il Cappellaio. Sarebbe come dire, "'Veggo quel che mangio' è lo stesso di 'Mangio quel che veggo?'"

"Sarebbe come dire," soggiunse la Lepre-marzolina. "'Mi piace ciò che prendo,' è lo stesso che 'Prendo quel che mi piace?'"

"Sarebbe come dire," aggiunse il Ghiro che parea parlasse nel sonno, "'respiro quando dormo' è lo stesso che 'dormo quando respiro?'"

"E lo stesso per voi," disse il Cappellaio, e quì la conversazione cadde, e tutti sedettero muti per poco tempo, mentre Alice cercò di ricordarsi tutto quel che sapea su' corvi e su' coccodrilli, ma non era molto.

Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. "Che giorno del mese abbiamo?" disse, volgendosi ad Alice, mentre prendeva l'oriuolo dal taschino, e lo guardava con un certo turbamento, scuotendolo di tempo in tempo, e appoggiandolo all'orecchio.

Alice pensò un poco, e rispose, "Li quattro del mese."

"Ritarda di due giorni!" osservò sospirando il Cappellaio. "Te lo dissi che il burro non avrebbe giovato al movimento!" soggiunse, guardando rabbiosamente la Lepre-marzolina.

"Era del miglior burro," rispose sommessamente la Lepre-marzolina.

"Sì, ma devono esserci entrate anche delle miche di pane," borbottò il Cappellaio: "non dovevi metterlo dentro col coltello del pane."

La Lepre-marzolina prese l'oriuolo e lo guardò mestamente: poi lo tuffò nella sua tazza di tè e lo guardò di nuovo: ma non potette far altro che ripetere l'osservazione fatta pur dianzi: "Era del miglior burro che si potesse avere, sapete."

Alice intanto lo guardava, con un poco di curiosità, di sopra le spalle, e disse, "Che curioso oriuolo! Indica i giorni del mese, e non già le ore del giorno!"

"Perchè no?" sclamò il Cappellaio. "Che forse il suo oriuolo le dice in che anno viviamo?"

"No davvero," si affrettò a rispondere Alice, "perchè l'oriuolo segna lo stesso anno per molto tempo."

"Ciò che appunto accade al mio," rispose il Cappellaio.

Alice provò un momento di grave imbarazzo. Le parea che l'osservazione del Cappellaio non avesse senso di sorta, eppure parlava correttamente. "Non la comprendo bene," disse con molta delicatezza.

"Il Ghiro è tornato a dormire," disse il Cappellaio, e gli versò un poco di tè scottante sul naso.

Il Ghiro scosse il capo con un moto d'impazienza, e senza aprir gli occhi, disse, "Già! Già! Appunto quello che stavo per dire."

"Ha ancora indovinato l'indovinello?" disse il Cappellaio, rivolgendosi ad Alice.

"Mi dò per vinta," rispose Alice: "Quale è la risposta?"

"Non ne ho la minima idea," rispose il Cappellaio.

"Neppure io," disse la Lepre-marzolina.

Alice sospirò dalla noia e disse: "Ma credo che sarebbe bene di passar meglio il tempo, che perderne, proponendo indovinelli che non hanno senso."

"Se lei conoscesse il Tempo come lo conosco io," rispose il Cappellaio, "non direbbe che noi ne perdiamo. Non si tratta di me, ma di lui."

"Non so che ella si dica," osservò Alice.

"Sicuro, nol sa!" disse il Cappellaio, scuotendo il capo con un'aria di disprezzo. "Scommetto che lei non ha mai parlato col tempo!"

"Forse no," rispose prudentemente Alice; "ma so che debbo battere il tempo quando imparo la musica."

"Ah! e questo spiega tutto," disse il Cappellaio. "Ei non vuol essere battuto. Se lei non si bisticciasse con lui, egli farebbe dell'oriuolo ciò che ella vuole. Per esempio, supponga che sieno le nove della mattina, ch'è l'ora per le lezioni: basterebbe ch'ella bisbigliasse una parolina al Tempo, e subito girerebbe la lancetta! Il tocco e mezzo, l'ora del desinare!"

("Vorrei che fosse," bisbigliò la Lepre-marzolina.)

"Sarebbe magnifica, davvero," disse Alice, pensierosa: "ma non avrei fame a quell'ora, capisce."

"Da principio forse, nò," riprese il Cappellaio: "ma lei potrebbe fermarlo sul tocco e mezzo, quando vorrebbe."

"Ed ella fa così?" domandò Alice.

Il Cappellaio scosse la testa mestamente e rispose. "Io no! Ci siamo bisticciati nello scorso marzo—— proprio quando egli divenne matto——" (ed indicò col cucchiaino la Lepre-marzolina), "——già, fu al gran concerto dato dalla Regina di Cuori:—ivi dovetti cantare:

'
Tu che al ciel spiegasti l'ale
O mia testa Soppressata!
'"

"Conosce lei quest'aria?"

"Ho sentito qualche cosa che le rassomiglia," rispose Alice.

"La va di questo verso," continuò il Cappellaio:—

"'
Ti rivolgi a me, fettata,
Teco il pane aggiungerò!
'"

Giunto quì, il Ghiro si dette una scossetta, e cominciò a cantare in mezzo al sonno " Teco il pane; teco il pane aggiungerò—— " e via, via andò innanzi, sino a che gli si dovettero dare de' pizzicotti per farlo tacere.

"Ebbene, aveva appena finito di cantare la prima quartina," disse il Cappellaio, "che la Regina proruppe furiosa, 'Egli sta assassinando il tempo! Tagliategli il capo!'"

"Terribilmente feroce!" sclamò Alice.

"D'allora in poi," continuò mestamente il Cappellaio, "non ha voluto più far quel che io gli chiedo! Segna sempre le sei."

Un'idea luminosa colpì Alice, e domandò: "È questa forse la ragione per cui vi sono tante tazze apparecchiate?"

"Proprio così," rispose il Cappellaio, con un sospiro: "è sempre l'ora del tè, e non abbiamo mai tempo di risciaquare le tazze."

"E così, andate girando sempre intorno, nei frattempi?" disse Alice.

"Proprio così," replicò il Cappellaio: "a misura che le tazze hanno servito."

"Ma come fate quando venite a ricominciare da capo?" Alice ardì domandare.

"Se mutassimo il discorso," disse, sbadigliando, la Lepre-marzolina. "Cotesto costì mi secca mortalmente. Vorrei che la Signorina ci raccontasse una storiella."

"Temo di non saper contarne alcuna," rispose Alice un poco intimorita.

"Allora il Ghiro ce ne dirà una!" gridarono entrambi. "Risvegliati, Ghiro!" E lo punzecchiarono da' due lati.

Il Ghiro aprì lentamente gli occhi, e disse con voce debole e rauca, "Non dormiva, io! Non m'è scappata neppure una parola di quello che dicevate."

"Raccontaci una novella!" disse la Lepre-marzolina.

"Di grazia, ce ne dica una!" supplicò Alice.

"E fa' presto," soggiunse il Cappellaio, "se no ti raddormenterai prima di finirla."

"C'erano una volta tre sorelle," cominciò in gran fretta il Ghiro, "e si chiamavano Elce, Clelia e Tilla; e dimoravano nel fondo d'un pozzo——"

"Che cosa mangiavano?" domandò Alice, la quale prendeva sempre un vivo interesse nelle quistioni di mangiare e bere.

"Mangiavano melazzo," rispose il Ghiro, dopo d'averci pensato su qualche istante.

"Ma non lo potevano," osservò Alice, con garbo; "sarebbero cadute ammalate."

"Lo erano, di fatto," rispose il Ghiro, " molto ammalate."

Alice cercò di figurarsi quella strana maniera di vivere, ma ne restò confusa, e continuò: "Ma perchè vivevano nel fondo d'un pozzo?"

"Prenda un po' più di tè," disse la Lepre-marzolina, con molta premura.

"Non ho preso ancora nulla," rispose Alice, tutta offesa, "così non posso prenderne di più."

"Vuoi dire che non ne può prender meno," disse il Cappellaio: "è molto più facile prendere più che nulla."

"Niuno ha domandato il suo parere," soggiunse Alice.

"Chi è che fa ora delle questioni personali?" domandò il Cappellaio con aria di trionfo.

Alice non seppe bene che rispondere, ma preso una tazza di tè con pane e burro, e rivolgendosi al Ghiro, gli domandò di nuovo: "Perchè vivevano nel fondo del pozzo?"

Il Ghiro si mise a riflettere un poco, e rispose, "Era un pozzo di melazzo."

"Ma non s'è udito mai una cosa simile!" interruppe Alice con voce sdegnosa; ma la Lepre-marzolina e il Cappellaio vociarono "St! st!" e il Ghiro continuò con voce burbera, "Se non ha creanza, finisca la novelletta da sè."

"Nò, la prego di continuare!" disse Alice molto umilmente: "Non la interromperò più. Forse ce ne sarà uno di quei pozzi."

"Uno, eh via!" rispose il Ghiro sdegnosamente. Ciò non di meno, pregato, continuò: "E quelle tre sorelle—imparavano a trarne——"

"Che cosa traevano?" domandò Alice, dimenticando che avea promesso di zittire.

"Del melazzo," rispose il Ghiro, senza riflettere punto questa volta.

"Ho bisogno d'una tazza pulita," interruppe il Cappellaio; "avanziamo tutti d'un posto avanti!"

E mentre parlava, si mosse, e il Ghiro lo seguì: la Lepre-marzolina occupò il posto del Ghiro, e Alice prese, contro voglia, il posto della Lepre-marzolina. Il solo Cappellaio profittò di quel mutamento: e Alice si trovò peggio di prima, perchè la Lepre-marzolina avea rovesciato il bricco del latte nel suo tondo.

Alice non voleva offender di nuovo il Ghiro, e disse con molta delicatezza: "Non capisco bene. Da dove traevano il melazzo?"

"Ella sa trarre l'acqua dal pozzo d'acqua, non è vero?" disse il Cappellaio; "ebbene si può così trarre melazzo da un pozzo di melazzo—eh! stupidina!"

Questa risposta accrebbe talmente la confusione d'Alice, che ella permise al Ghiro di continuare, senza interromperlo più.

"Imparavano a trarre," continuò il Ghiro, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, perchè moriva di sonno; "e traevano cose d'ogni genere—— tutto quel che comincia con una T——"

"Perchè con una T?" domandò Alice.

"Perchè no?" gridò la Lepre-marzolina.

Alice zittì.

Il Ghiro intanto avea chiusi gli occhi, e cominciava un sonnellino; ma punzecchiato dal Cappellaio, si risvegliò con un gemito, e continuò: "——che comincia con una T, come una Trappola, un Topo, una Topaja, un Troppo—già, ella dice 'il troppo stroppia '—oh, non ha mai veduto il ritratto d'un 'troppo stroppia'?"

"Veramente, ora che lei mi domanda," disse Alice, molto confusa, "non so——"

"Allora non parli," disse il Cappellaio.

Questa sgarbatezza urtò la sensibilità di Alice: si alzò assai sdegnata e uscì fuori; il Ghiro si addormentò in un attimo e niuno degli altri due notò che Alice era uscita, benchè ella si fosse rivoltata indietro una o due volte, con una mezza speranza che la richiamassero: però l'ultima volta vide che le due birbe cercavano di tuffare il Ghiro nel vaso da tè.

"Mai più ci tornerò," disse Alice internandosi nella foresta. "È la più stupida società in mezzo a cui io mi sia trovata!"

Mentre parlava così, osservò che un albero aveva un uscio pel quale s'entrava proprio dentro. "Oh ciò è molto curioso!" pensò Alice. "Ma ogni cosa oggi è curiosa. Credo che farò bene ad entrare." Ed entrò.

Si trovò di nuovo nel lungo salone, e presso al tavolino di cristallo. "Questa volta farò meglio," disse fra sè, e prese la chiavettina d'oro ed aprì l'uscio che conduceva al giardino. Poi si mise a morsecchiare il fungo (ne avea conservato un pezzettino nella tasca), sino a che ebbe un piede d'altezza o giù di lì: traversò il piccolo andito: e poi —si ritrovò finalmente nell'ameno giardino in mezzo ad aiuole lussureggianti di fiori, ed a fontane fresche.

CAPITOLO VIII.

IL CROQUET DELLA REGINA.

Un magnifico rosajo stava vicino all'ingresso del giardino: le sue rose erano bianche, ma tre giardinieri che gli stavano d'intorno erano occupati a colorirle di rosso. Davvero, è curioso! pensò Alice, e si avvicinò per osservarli, e quando vi fu presso sentì che uno di loro diceva, "Fa attenzione, Cinque! Non mi schizzare con le tue pennellate!"

"Non ho potuto farne di meno," rispose Cinque, con tuono burbero; "Sette mi ha urtato il gomito."

Sette lo guardò e disse, "Ma bene! Cinque incolpa sempre gli altri!"

" Tu faresti meglio di zittire!" disse Cinque. "Non più tardi di ieri, sentii che la Regina diceva che tu meriteresti d'essere decollato!"

"Perchè?" domandò il primo che avea parlato.

"Ciò non preme a te, Due!" ripose Sette.

" Gli preme, certo!" disse Cinque, "e gliel dirò io—perchè portasti al cuoco bulbi di tulipano invece di cipolle."

Sette scaraventò lontano il suo pennello e stava lì lì per dire, "In mezzo a tutte le cose le più ingiuste——" quando s'accorse d'Alice che li osservava, e divorò il resto della frase: gli altri la guardarono del pari e le fecero tutti una profonda riverenza.

"Mi direste," domandò Alice, ma timidamente, "perchè state colorendo quelle rose?"

Cinque e Sette non risposero, ma guardarono Due. Due disse allora con voce bassa, "Gli è perchè, codesto costì doveva essere un rosajo di rose rosse, e noi per isbaglio ne abbiam piantato uno che dà rose bianche; or se la Regina se ne avvedesse, a tutti le teste sarebbero tagliate. Così, Signorina, facciamo il meglio per riparare pria che venga a——" In quell'istante, Cinque che guardava attorno con ansietà, gridò "La Regina! La Regina!" e i tre giardinieri si misero subito con la faccia per terra. Si sentì un grande scalpiccío, e Alice si mise a guardare per veder la Regina.

Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano conformati come i tre giardinieri, bislunghi e piatti, con le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti sfolgoranti di diamanti; andavano a due a due, come i soldati. Venivano poi i principini reali; erano dieci, divisi a coppie e tenendosi per la mano,—andavano innanzi quegli amorini saltando come matti: erano ornati di cuori. Poi sfilavano gl'invitati, la maggior parte Re e Regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio bianco; discorreva con una fretta nervosa, facendo bocca da ridere a chiunque gli parlava, e passò oltre senza punto badare ad Alice. Seguiva il Fante di Cuori, portando la Corona Reale sopra un cuscino di velluto rosso; e finalmente venivano IL RE E LA REGINA DI CUORI.

Alice non sapea se dovesse cadere a faccia per terra come i tre giardinieri, ma non potè ricordarsi che ci fosse un tal cerimoniale nelle processioni regie; "e poi, a che servirebbero coteste processioni," riflette fra sè, "se tutti dovessero stare a faccia per terra, e niuno potesse vederle?" Così restò dov'era, ed aspettò.

Allorchè la processione giunse vicina ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina gridò con cipiglio severo, "Chi è costei?" e si rivolse al Fante di Cuori, il quale rispose con un risolino e una riverenza.

"Imbecille!" disse la Regina, e impaziente, scosse il capo; indi rivolgendosi ad Alice, continuò a dire, "Come ti chiami fanciulla?"

"Maestà, mi chiamo Alice," rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse a sè stessa, "Non è che un mazzo di carte soltanto. Non c'è da aver paura di costoro!"

"E chi sono cotestoro?" domandò la Regina, indicando i tre giardinieri che baciavano la polvere intorno al rosajo; perchè, capite, siccome giacevano sulle lor faccie, e il disegno del loro di dietro rassomigliava a quello del resto del mazzo, non sapea discernere se fossero giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre de' suoi proprii figli.

"Come volete ch' io lo sappia," rispose Alice, che si meravigliava del suo proprio coraggio. "Ciò non mi spetta."

La Regina diventò di fiamma per la rabbia, dopo d'averla fissata ferocemente come una bestia selvaggia, gridò, "Tagliatele il capo! subito——"

"Eh, via!" rispose Alice a voce alta e con fermezza, e la Regina si tacque.

Il Re appoggiò la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente, "Cara mia, riflettici bene su: la è una bambina!"

La Regina gli voltò le spalle con viso irato, e disse al Fante, "Rivoltateli!"

Il Fante ubbidì, e con un piede li rivoltò cautamente.

"Levatevi!" urlò la Regina, e i tre giardinieri si alzarono immediatamente, e s'inchinarono davanti al Re, alla Regina, ai figli reali, e a tutti gli altri.

"Basta!" sclamò la Regina. "Mi fate girare il capo." E guardando al rosajo, continuò, "Che cosa avete fatto al rosajo?"

"Con la buona grazia della Maestà vostra," rispose Due, con voce umile, e piegando il ginocchio a terra, "noi volevamo——"

"Lo vedo!" disse la Regina, che avea già osservate le rose. "Tagliate loro il capo!" e la processione reale si mosse, lasciando indietro tre soldati per mozzare il capo agli sventurati giardinieri, che corsero ad Alice per esser da lei protetti.

"Non vi decapiteranno!" disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori che stava vicino a lei. I tre soldati vagarono quà e là per qualche istante, in cerca di loro, e poi quietamente seguirono la processione reale.

"Avete loro recisa la testa?" gridò la Regina.

"Maestà, le loro teste non sono più!" risposero i soldati.

"Bene!" gridò la Regina. "Sapete giuocare a croquet?"

I soldati zittirono, e guardarono Alice, credendo che la domanda fosse rivolta a lei.

"Sì!" gridò Alice.

"Avvicinatevi dunque!" urlò la Regina, ed Alice raggiunse la processione, curiosa di sapere ciò che avverrebbe in seguito.

"Fa—fa bel tempo!" disse una timida vocettina presso a lei. Vide che ella camminava a canto del Coniglio bianco, che la stava occhiando, affissandola in faccia con un certo fare inquieto e timoroso.

"Bellissimo," rispose Alice: "dov'è la Duchessa?"

"St! st!" disse il Coniglio a voce bassa, e parlando in fretta. Riguardò ansiosamente intorno a lui, ed alzandosi sulla punta de' piedi, bisbigliò all'orecchio della fanciulla, " È sotto sentenza di morte."

"Per quale peccato?" domandò Alice.

"Avete detto 'Che peccato!'?" disse il Coniglio.

"Ma no," rispose Alice: "Non credo punto che sia peccato. Dissi ' Per quale peccato?'"

"Ha schiaffeggiata la Regina——" cominciò il Coniglio. Alice scoppiò in una grossa risata. "St!" bisbigliò il Coniglio tutto tremante, "La Regina vi potrebbe sentire! Vedete, essa è venuta un pò tardi, e la Regina ha detto——"

"Ai vostri posti!" gridò la Regina con voce tuonante, e gl'invitati cominciarono a correre verso tutte le direzioni, rovesciandosi gli uni sugli altri: finalmente poterono mettersi in un certo ordine, e poi cominciò il giuoco.

Alice osservò che mai in sua vita non avea veduto un terreno più curioso per giuocare il Croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicònteri viventi, e gli archi erano soldati viventi, curvati e reggentisi sulle mani e su' piedi.

La prima difficoltà stava in ciò che Alice non sapea come maneggiare il suo fenicòntero; riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni, ma quando gli allungava il collo, e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicòntero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione tanto stupefatta che ella non poteva far di meno di scoppiare dalle risa: e quando gli abbassava di nuovo il collo, e si accingeva a ricominciare, ecco il riccio si era sricciato, e andava via: oltre a ciò e era sempre una zolla o un solco là dove voleva sbalzare il riccio, e siccome i soldati si alzavano sempre e vagavano quà e là, Alice si persuase che quello era un giuoco disperatamente difficile.

I giuocatori giuocavano tutti insieme senza aspettare la loro volta, litigando sempre e picchiandosi a causa de' ricci; di tal che la Regina ne diventò furiosa, e andava quà e là battendo il piede e vociando ad ogni istante, "Mozzategli il capo!" oppure "Mozzatele il capo!"

Alice cominciò a sentire un pò d'ansietà: è vero che non avea contrastata con la Regina, ma ciò poteva accadere ad ogni momento, e pensò "che cosa ne sarà di me? Quì hanno un gusto matto a mozzar teste; è una meraviglia se ve ne sia alcuno che abbia ancora il capo sul collo!"

E studiava il modo di scappar via, senza esser veduta, quando osservò un'apparizione curiosa nell'aria; prima ne restò sorpresa, ma dopo averla riguardata un poco, vide un ghigno, e disse fra sè, "È Ghignagatto: ora avrò qualcheduno con cui discorrere."

"Come va il giuoco?" disse il Gatto, appena ch'ebbe tanta bocca per cominciare a parlare.

Alice aspettò che gli occhi apparissero, e poi gli fè cenno col capo. "È inutile parlargli," pensò fra sè, "aspettiamo che almeno gli orecchi appariscano, almeno uno." Immediatamente apparve tutta la testa, e Alice depose il suo fenicòntero, e cominciò a raccontare come andava il giuoco, lieta che uno le prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver fatto mostra della sua testa, pensò bene a non mostrare il resto del suo corpo.

"Non credo che giuochino lealmente," disse Alice, lagnandosi, "contrastano fra loro furiosamente e non si può sentire neppure la propria voce—non hanno ordine nel giuoco; e se ve n'è, niuno lo segue—e non potete credere che confusione c'è, perchè quì tutto è vivente: per esempio, ecco l'arco ch'io dovrei traversare, ma mi scappa via all'altra estremità del terreno,—e avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma m'è fuggito via appena vide il mio!"

"Come vi piace la Regina?" domandò il Gatto a voce bassa.

"Punto, punto!" rispose Alice: "la è tanto——" Ma s'accorse che la Regina le stava vicino, origliando, e continuò, "—abile nel giuocare e vincere, ch'è inutile di finire la partita."

La Regina sorrise, e andò altrove.

"Con chi parlate voi?" domandò il Re, che s'era avvicinato ad Alice, ed osservava la testa del Gatto con molta curiosità.

"È un amico mio—un Ghignagatto," disse Alice, "vorrei presentarlo a Vostra Maestà."

"Non mi piace punto il ceffo che ha," rispose il Re; "ma può baciarmi la mano, se vuole. "

"Non ne ho punto voglia," osservò il Gatto.

"Non siate impertinente," disse il Re, "e non mi guardate a quel modo." E mentre parlava si nascondeva dietro ad Alice.

"Un gatto può guardare un Re," osservò Alice, "l'ho letto in qualche libro, ma non ricordo quale."

"Bene, ma bisogna cacciarlo via," disse il Re con voce autorevole, e chiamò la Regina che passava colà in quel momento, "Cara mia! Vorrei che quel gatto fosse cacciato via!"

La Regina conosceva una sola maniera per appianare tutte le difficoltà, grandi o piccole che fossero, e perciò senza neppure guardare intorno, gridò, "Mozzategli il capo!"

"Andrò io stesso a cercare il boja," disse il Re, e andò via frettolosamente.

Alice pensò che sarebbe bene d'andare a vedere come il giuoco progrediva, tanto più che sentì da lontano la voce della Regina che urlava con ira. Ella avea di già sentito che avea condannato nel capo tre giuocatori che avevano mancato alla loro volta; tutto ciò non le piaceva, perchè il giuoco era caduto in tale confusione che ella non sapea più se la sua volta fosse venuta o no. Andò dunque in cerca del suo riccio.

Il riccio stava allora battagliando contro un altro riccio, ciò sembrò ad Alice una occasione propizia, per battere a croquet l'uno con l'altro di loro: ma v'era una difficoltà, il suo fenicòntero era andato all'altro lato del giardino, e Alice lo vide che si sforzava inutilmente di volare sopra un albero.

Quando le riuscì di afferrare il fenicòntero e lo ricondusse sul terreno, il combattimento era finito, e i due ricci s'erano allontanati: "importa poco," pensò Alice, "poichè tutti gli archi se ne sono iti all'altro lato del terreno." E se lo acconciò per benino sotto l'ascella, acciocchè non scappasse più, e ritornò al micio per riappiccicar con lui il discorso.

Ma con sua sorpresa trovò una folla immensa intorno al Ghignagatto: il Re, la Regina, e il boja vociavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.

Appena Alice apparve, i tre si appellarono a lei per risolvere la quistione, e le ripeterono i loro argomenti, parlando tutti a una volta, così che era difficile per lei d'intendere che volessero dire.

L'argomento del boja era che: non poteva tagliare una testa se non ci fosse un corpo da cui mozzarla; che non avea mai avuto a fare una cosa simile innanzi, e che non voleva cominciare a farne a quell'età.

L'argomento del Re era che: ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e il boja non dovea dir sciocchezze.

L'argomento della Regina era che: se non si faceva presto avrebbe ordinato che tutti quelli che la circondavano fossero decapitati. (Era questa l'osservazione che avea dato a tutti quell'aria grave e piena d'ansietà.)

Alice non seppe trovar altro a dire che, "Il gatto appartiene alla Duchessa: fareste bene di consultar lei su di ciò."

"Ella è in prigione," disse la Regina al boja: "Conducetela quì." E il boja andò via come una saetta.

Appena il boja sparì, la testa del Gatto andò dileguandosi, e quando ritornò con la Duchessa, era sparita totalmente: il Re e il boja corsero quà e là all'impazzata per ritrovarla, mentre gl'invitati ritornarono a giuocare.

CAPITOLO IX.

STORIA DELLA FALSA-TESTUGGINE.

"Non potete credere quanto son lieta di ritrovarvi, bambina mia!" disse la Duchessa, mettendo amichevolmente il suo braccio in quello di Alice, e camminando insieme.

Alice era lieta di rivederla in tale buon umore, e pensò che forse era il pepe che l'avea resa tanto irritabile quando la vide in cucina. "Allorchè sarò Duchessa," disse fra sè (ma senza troppo sperarlo), "non voglio aver punto pepe nella mia cucina. La minestra è buona anche senza. Chi sa che non sia il pepe che rende la gente cotanto piccosa?" continuò tutta lieta d'aver scoperta una specie di nuova teoria, "è l'aceto che la rende aspra—è la camomilla che la rende amara—e sono i confetti e cose simili che addolciscono il carattere de' bambini. Vorrei che si conoscesse ciò; le persone non sarebbero tanto tirchie a darcene——"

E così discorrendo avea quasi dimenticata la Duchessa, e trasaltò quando si udì dire all'orecchio. "Cara mia, voi avete la testa ad altro, e dimenticate di parlare con me. Non potrei dirvene ora la morale, ma me ne ricorderò fra breve."

"Forse non ne ha," osservò cautamente Alice.

"Che, che, bimba!" disse la Duchessa. "Ogni cosa ha la sua morale, purchè voi la possiate trovare." E si strinse più presso ad Alice mentre parlava.

Ad Alice non piacque l'esser così stretta con lei, primo perchè la Duchessa era bruttissima, secondo, perchè per la sua altezza ella appoggiava il mento sulla spalla d'Alice, ora quel mento era spiacevolmente acuto! Ma pure non volle essere scortese, e sopportò quella noja come meglio potè.

"Il giuoco va meglio ora," disse così per alimentare la conversazione.

"Eh sì," rispose la Duchessa: "e questa n'è la morale:—

"
È amore—è amore—è il pazzeron d'amore
Che fa girare il mondo,—ed il mio cuore!
"

"Ma qualcheduno ha detto invece," bisbigliò Alice, "se ognuno badasse alle proprie faccende il mondo girerebbe meglio."

"Bene! L'una vale l'altra," disse la Duchessa, e mentre conficcava il suo mento acuto nelle spalle d'Alice, continuò, "e la morale di ciò la è questa—'Guardate al franco; gli spiccioli si guarderanno da sè.'"

"Come si diletta a trovar la morale in ogni cosa!" pensò Alice.

"Scommetto che siete sorpresa perchè non vi cingo la vita col mio braccio," disse la Duchessa dopo qualche istante, "ma gli è perchè non so che razza d'umore abbia il vostro fenicòntero. Facciamo la prova?"

"Potrebbe mordervi," rispose Alice, che non ne voleva di quelli esperimenti.

"È vero," disse la Duchessa: "i fenicònteri e la senape pizzicano entrambi, e la morale è questa—'Chi si rassembra s'assembra.'"

"Ma la senape non è un uccello," osservò Alice.

"Bene, come sempre," disse la Duchessa: "voi dite ogni cosa assai benino!"

"È un minerale, credo," disse Alice.

"Certo," rispose la Duchessa, che pareva desiderasse d'acconsentire a tutte le cose che diceva Alice; "quì vicino c'è una grande miniera di senape. E la morale di ciò è questa—'La miniera è la maniera Di gabbar la gente intiera.'"

"Oh lo so!" sclamò Alice, che non aveva badato alle parole della Duchessa, "è un vegetale. Non ne ha l'apparenza, ma lo è."

"Proprio così," disse la Duchessa, "e la morale di ciò è questa—'Siate quello che volete parere'—o se volete che ve lo dica più semplicemente—'Non vi crediate mai d'essere altra se non quella che apparite ad altri d'essere o d'essere stata o che possiate essere, e l'esser non è altro che l'essere di quell'essere ch'è l'essere dell'essere, e non altrimenti.'"

"Credo che l'intenderei meglio," disse Alice con molta garbatezza, "se me la scriveste, ma non posso seguirvi con la mente quando la dite."

"Questo è nulla rimpetto a quel che potrei dire, se ne avessi voglia," soggiunse la Duchessa, contenta come una pasqua.

"Non v'incomodate a dirne di più lunghe di quella che avete recitata or ora," disse Alice.

"Che incomodo!" rispose la Duchessa. "Vi fo un regalo di tutto ciò che ho detto sino ad ora."

"È un regalo che costa niente," pensò Alice. "Buono che non fanno di que' regali ne' giorni natalizii!" Ma non osò dir questo a voce alta.

"Sempre meditabonda?" domandò la Duchessa, mentre affondava quel suo mento acuminato sull'omero della bambina.

"Ho ben di che!" rispose vivamente Alice, perchè cominciava a sentirsi annoiata.

E la Duchessa, "Come i porci ne hanno di volare: e la mo——"

Quì, con gran sorpresa d'Alice, la voce della Duchessa andò morendo e si spense in mezzo alla parola 'morale' che tanto gradiva; il braccio ch'era nel suo cominciò a tremare. Alice alzò gli occhi, e vide che la Regina stava davanti ad esse, le braccia conserte, accigliata e spaventevole come un uragano.

"Maestà, che bella giornata!" balbettò la Duchessa con voce debole e fioca.

"Vi dò a tempo un avvertimento," tuonò la Regina, battendo fieramente il terreno col piede; "o voi o la vostra testa dovranno abbandonare il giardino, e ciò subito! Scegliete!"

La Duchessa scelse, e fuggì via in un attimo.

"Ritorniamo al giuoco," disse la Regina ad Alice, ma Alice era troppo spaventata, non osò rispondere, e la seguì lentamente sul terreno.

Gl'invitati intanto, profittando dell'assenza della Regina, si riposavano all'ombra: però appena la videro ricomparire, ritornarono ai posti loro; la Regina fece soltanto capir loro che se avessero ritardato un momento avrebbero perduta la vita.

Mentre giuocavano, la Regina continuava a querelarsi con altri giuocatori, gridando sempre "Mozzategli il capo!" oppure "Mozzatele il capo!" Coloro ch'erano sentenziati a morte, erano guardati da soldati che doveano cessare di servire d'archi al giuoco, e così in meno di mezz'ora, non c'erano più archi, e tutt'i giuocatori, eccettuati il Re la Regina ed Alice, erano guardati e condannati nel capo.

Finalmente la Regina lasciò il giuoco, tutta sbuffante ed anelante, e disse ad Alice, "Hai veduto la Falsa-Testuggine?"

"Nò," disse Alice. "Non so neppure che sia la Falsa-Testuggine."

"È quella con cui si fa la minestra, di falsa Testuggine," disse la Regina.

"Non ne ho mai veduto, nè udito parlare," soggiunse Alice.

"Vieni dunque," disse la Regina, "ed essa ti racconterà la sua storia."

Mentre andavano insieme, Alice sentì che il Re diceva a voce bassa a tutt'i condannati, "Fo grazia a tutti." "Oh, ne son lieta!" disse fra sè Alice, perchè sapete, la nostra fanciulla era mestissima vedendo tanta gente condannata a morte dalla Regina.

Tosto giunsero vicino a un Grifone, accoccolato e dormente al sole. (Se voi non sapete che è il Grifone, guardate la vignetta.) "Su, su, pigro!" disse la Regina, "conducete questa fanciulla a vedere la Falsa-Testuggine che le farà il racconto della sua vita. Quanto a me debbo tornare indietro per fare eseguire alcune sentenze di morte;" e andò via, lasciando Alice sola col Grifone. Non piacque ad Alice l'aspetto della bestia, ma poi riflettendo che il rimaner col Grifone non era tanto pericoloso per lei quanto il rimanere con quella selvaggia Regina, stette lì, ed aspettò.

Il Grifone si levò, si stropicciò gli occhi, aspettò che la Regina sparisse totalmente e poi si mise a sghignazzare. "Che commedia!" disse il Grifone, parlando un po' a sè stesso, un po' ad Alice.

"Qual' è la commedia?" domandò Alice.

" È lei stessa," soggiunse il Grifone. "È un ruzzo che ha in testa: ma le teste non son mai mozzate per ciò. Venite!"

"Quì ognuno comanda 'Venite!'" osservò Alice, mentre lo seguiva lentamente. "Non sono stata mai così comandata in tutta la mia vita!"

Non si erano di molto inoltrati quando videro a una certa distanza la Falsa-Testuggine, che sedeva mesta e soletta sull'orlo d'una rupe, ed essendosi avvicinati un poco più, Alice sentì che sospirava come se le si spezzasse il cuore. Ella n'ebbe compassione. "Perchè si duole?" domandò al Grifone, e il Grifone rispose un po' su un po' giù come dianzi, "È un ruzzo che ha in testa, non ha dolore di sorta. Venite!"

E andarono verso la Falsa-Testuggine, che li riguardò con certi occhioni ripieni di lagrime, ma senza far motto.

"Questa fanciulla," disse il Grifone, "vorrebbe sentire la vostra storia, vorrebbe."

"Gliela racconterò," rispose la Falsa-Testuggine con voce profonda e sepolcrale. "Sedete, e non dite una parola sin che io abbia terminato."

E sedettero, e per qualche minuto, niuno fiatò. Intanto Alice osservò fra sè, "Non so come mai terminerà, se non comincia mai." Ma aspettò pazientemente.

"Una volta," disse finalmente la Falsa-Testuggine con un gran sospirone "io era una vera Testuggine."

Quelle parole furono seguite da un altro lunghissimo silenzio, interrotto soltanto da qualche "Hjckrrh!" dal Grifone e da' singhiozzi continui della Falsa-Testuggine. Alice stava per levarsi e dirle, "Grazie della vostra storia interessante," quando riflettè che essa doveva dire qualche cosa di più, e sedette tranquillamente, senza far motto.

"Quando eravamo piccini," continuò la Falsa-Testuggine, un poco più quieta, ma sempre singhiozzando, "andavamo a scuola, al mare. La maestra era una vecchia Testuggine—e noi la chiamavamo Tartaruga——"

"Perchè la chiamavate Tartaruga se non era tale?" domandò Alice.

"La chiamavamo Tartaruga perchè c'insegnava a tartagliare," disse la Falsa-Testuggine con dispetto: "Avete poco comprendonio!"

"Vi dovreste vergognare di far questioni tanto semplici," aggiunse il Grifone; e poi zittirono, ed entrambi fissarono gli occhi sulla povera Alice che le pareva sprofondarsi sotterra. Finalmente il Grifone disse alla Falsa-Testuggine, "Va innanzi, comare! Ma non andar per le lunghe, sai!" E così continuò:

"Andavamo a scuola al mare, benchè voi non lo crediate——"

"Non ho mai detto ciò!" interruppe Alice.

"Ma sì," tuonò la Falsa-Testuggine.

"Zitta!" soggiunse il Grifone pria che Alice avesse potuto rispondere. La Falsa-Testuggine continuò:

"Noi fummo educate benissimo—in fatti andavamo a scuola ogni giorno——"

" Anch'io andava a scuola ogni giorno," disse Alice; "non bisogna vantarsi per così poco."

"E avevate degli extra?" domandò la Falsa-Testuggine con qualche ansietà.

"Sì," rispose Alice, "imparavamo il Francese e la musica."

"E il bucato?" disse la Falsa-Testuggine.

"No, davvero!" disse Alice tutta corrucciata.

"Ah! La vostra dunque non era una buona scuola," disse la Falsa-Testuggine, come se si sentisse sollevata. "Nella nostra, c'era alla fine del programma: ' Extra: Francese, musica, e bucato.'"

"Ma non ne avevate bisogno," disse Alice; "voi vivevate nel fondo del mare."

"Non ho avuto mai mezzi per impararlo," soggiunse sospirando la Falsa-Testuggine. "Così seguii soltanto i corsi ordinarii."

"Cioè?" domandò Alice.

"A Reggere e Stridere prima di tutto," rispose la Falsa-Testuggine: "e poi le diverse operazioni dell'Aritmetica—Ambizione, Distrazione, Bruttificazione, e Derisione."

"Non ho mai sentito parlare di ' Bruttificazione,'" disse Alice. "Ch'è mai?'"

Il Grifone levò le due zampe all'aria in segno di sorpresa e sclamò: "Mai sentito parlare di bruttificazione! Ma sapete che significa bellificazione, eh?"

"Sì," rispose Alice, ma un pò dubbiosa: "significa—rendere—qualche cosa—più bella."

"Ebbene," continuò il Grifone, "se non sapete che significa bruttificare voi siete una sciocca."

Alice non si vedeva incoraggiata a fare altre domande, così si rivolse alla Falsa-Testuggine, e disse, "Che altro dovevate imparare?"

"Ecco, c'era la Stoia," rispose la Falsa-Testuggine, contando i soggetti ad uno ad uno sulle natatoie—"la Stoia antica e moderna con la Girografia: poi il Disdegno—il Maestro di Disdegno era un vecchio grongo, e veniva una volta la settimana: c'insegnava il Disdegno, il Passaggio, e la Frittura ad Occhio."

" E questa a che rassomigliava ella?" disse Alice.

"Non ve la potrei mostrare," rispose la Falsa-Testuggine, "perchè vedete, son tutto d'un pezzo. E il Grifone non l'ha mai imparata."

"Non ebbi tempo," rispose il Grifone: "ma studiai le lingue classiche, e bene. Ebbi per maestro un vecchio granchio, sapete."

"Non andai mai da lui," disse la Falsa-Testuggine con un sospiro: "mi dissero che insegnava Catino, e Gretto."

"Proprio così," disse il Grifone, sospirando anche lui, ed entrambe le bestie nascosero la faccia fra le zampe.

"Quante ore di lezione avevate al giorno?" disse Alice prontamente, per mutare argomento.

"Dieci ore il primo giorno," rispose la Falsa-Testuggine: "nove il secondo, e così discorrendo."

"Che metodo curioso!" sclamò Alice.

"Ma è questa la ragione perchè si chiamano lezioni," osservò il Grifone: "perchè soffrono lesioni ogni giorno."

Era nuova quell'idea per Alice, e ci pensò su un poco prima di fare quest'altra osservazione. "Allora avevate vacanza l'undecimo giorno?"

"S'intende," disse la Falsa-Testuggine.

"E come facevate nel duodecimo?" domandò vivamente Alice.

Ma il Grifone l'interruppe, e disse con voce risoluta, "Basta in quanto alle lezioni: dìlle ora qualche cosa dei giuochi."

CAPITOLO X.

LA CONTRADDANZA DE' GAMBERI.

La Falsa-Testuggine diè fuori un gran sospiro e passò il rovescio d'una natatoia sugli occhi. Riguardò ad Alice e cercò di parlare, ma per qualche istante i singhiozzi glielo impedirono. "Ei pare ch'abbia un osso a traverso della gola," disse il Grifone, e si accinse a scuoterla e a batterle la schiena. Finalmente la Falsa-Testuggine ricoverò la voce, e con le lagrime che gli colavano sulle guancie, riprese il discorso:—

"Forse voi non siete vissuta lungo tempo nel fondo del mare"—("Nò, certo," disse Alice)—"e forse non siete stata mai presentata a un Gambero"—(Alice stava per dire "Una volta gustai——" ma inghiottì la frase, e disse, "Nò mai")—"così voi non potete farvi una idea della bellezza d'una contraddanza de' Gamberi!"

"Nò, davvero," rispose Alice. "Ma ch'è mai la contraddanza de' Gamberi?"

"Ecco," disse il Grifone, "prima di tutto si forma una linea lunghesso la spiaggia——"

"Due linee!" gridò la Falsa-Testuggine. "Foche, testuggini di mare, salmoni e simili: poi quando avete tolti via della spiaggia i polipi viscosi——"

"E ciò fa perdere molto tempo," interruppe il Grifone.

"—— voi fate un avant-deux."

"Ognuno avendo un Gambero per cavaliere," gridò il Grifone.

"Eh, già!" disse la Falsa-Testuggine: "voi fate un avant-deux, poi un balancé ——"

"—— scambiate i Gamberi, e ritornate en place," continuò il Grifone.

"E poi, capite?" continuò la Falsa-Testuggine, "voi scaraventate i——"

"I Gamberi!" urlò il Grifone, saltando come un matto.

"—— nel mare con tutta la vostra forza——"

"Indi nuotate dietro a loro!" strillò il Grifone.

"Fate una capriola nel mare!" gridò la Falsa-Testuggine, saltellando mattamente quà e là.

"Scambiate di nuovo i Gamberi!" vociò il Grifone a squarciagola.

"Ritornate a terra di nuovo, e—e questa è la prima figura," disse la Falsa-Testuggine, abbassando la voce tutt'a un tratto, e le due bestie che pur dianzi saltavano follemente, si sdraiarono meste, silenziose, e guardarono Alice.

"Debb'essere una gran bella contraddanza, cotesta," disse timidamente Alice.

"Ne vorreste avere un saggio?" domandò la Falsa-Testuggine.

"Mi piacerebbe di molto," disse Alice.

"Animo dunque, facciamo la prima figura!" disse la Falsa-Testuggine al Grifone. "Possiamo farla senza Gamberi, sapete. Chi canterà?"

"Cantate voi," disse il Grifone. "Io ho dimenticate le parole."

E cominciarono a ballare gravemente intorno ad Alice, pestandole i piedi quando le si avvicinavano troppo, e battendo il tempo con le zampe, davanti, mentre la Falsa-Testuggine cantava adagio adagio, e mestamente:

Nasel disse, a Lumaca—"Cammina un pò più lesta,
Chè un Porcellin di mare—la coda mi calpesta!—
Già Gamberi e Testùdi—sen vengono a fidanza,
E aspettano il segnale—per cominciar la danza.
Volete voi, volete,—volete voi ballare?
Volete voi, volete,—co' Gamberi danzare?

"Che gioja! che delizia!—Innanzi e indietro andremo;
Nel mar scaraventati—co' Gamberi saremo!"
Rispose la Lumaca:—"Oimè! gli è un pò lontano!
A me non piace un ballo—cotanto ardito e strano!"
Volete voi, volete,—volete voi ballare?
Volete voi, volete,—co' Gamberi danzare?

"Che male!" gli rispose—il candido Nasello,
"Di là c'è un'altra sponda—c'è un suolo assai più bello;
Dall'Adria alla Dalmazia—faremo un salto audace,
Oh non temer, carina,—sta quieta e vivi in pace!
Volete voi, volete,—volete voi ballare?
Volete voi, volete,—co' Gamberi danzare?"

"Grazie tante! è una bella contraddanza," disse Alice, lieta che fosse finita; "e poi quel canto curioso del Nasello mi piace tanto!"

"A proposito dei Naselli," disse la Falsa-Testuggine, "essi sono—voi ne avete veduti, non è vero?"

"Sì," rispose Alice, "li ho veduti spesso a tavo——" e inghiottì il resto della parola.

"Non so dove sia Tavo," disse la Falsa-Testuggine, "ma se voi li avete veduti spesso, sapete che cosa sono."

"Lo credo," rispose Alice, raccorgendosi. "Hanno la coda in bocca, e son tutti coperti di pan grattato."

"V'ingannate in quanto al pan grattato," soggiunse la Falsa-Testuggine: "le miche di pane sparirebbero nel mare. Ma essi hanno però la coda in bocca; e la ragione è questa——" e quì la Falsa-Tartaruga sbadigliò, e chiuse gli occhi.—"Ditegliela voi la ragione," chiese al Grifone.

"La ragione è la seguente," disse il Grifone, "essi vollero andare al ballo co' Gamberi; e così furono buttati nel mare; e così fecero il capitombolo molto al di là; e così si attaccarono la coda in bocca; e così non potettero distaccarsela più; e questo è quanto."

"Grazie," disse Alice, "davvero è interessante. Non ne seppi mai tanto intorno a' naselli."

"Presto, fateci un racconto delle vostre avventure," disse il Grifone.

"Ve ne potrei raccontare cominciando da stamane," disse Alice assai timidamente; "ma è inutile raccontarvi quelle di ieri, perchè—ieri io era tutt'altra persona."

"Oh! spiegateci ciò," disse la Falsa-Testuggine.

"No, no! prima le avventure," sclamò il Grifone, impaziente: "le spiegazioni sono lungaggini nojose."

Così Alice cominciò a raccontar loro i casi suoi sin dal momento che incontrò il Coniglio bianco: ma bentosto cominciò a sentire un poco di paura che le due bestie le si erano appiccicate ai fianchi, slargando gli occhi e spalancando le bocche, però in pochi istanti la piccina si riebbe dal timore. I suoi uditori si mantennero quieti sino a che ella giunse alla ripetizione del " Guglielmo, tu sei vecchio " da lei fatta al Bruco, e siccome le parole le uscivano tutte diverse dal vero originale, la Falsa-Testuggine diè fuori uno de' suoi sospironi, e disse, "È curioso davvero!"

"È curioso come la curiosità," sclamò il Grifone.

"È uscito fuori tutto diverso!" soggiunse la Falsa-Testuggine dopo averci riflettuto sopra. "Vorrei che ella ci recitasse qualche cosa ora. Dìlle che cominci." E guardò il Grifone pensando ch'egli avesse autorità sopra Alice.

"Levatevi," disse il Grifone, "e ripeteteci la canzona piemontese ' Trenta quaranta—— '"

"Oh come queste bestie comandano! e fanno recitar le lezioni!" pensò Alice. "Sarebbe lo stesso per me che fossi a scuola." Ciò non di meno si levò, e cominciò a ripeter quel Canto; ma la sua testolina era tanto piena di Gamberi e di Contraddanze, che non sapea che si dicesse, e i versi usciron fuori assai male:—

"Son trenta e son quaranta"—il Gambero già canta
"M'han troppo abbrustolito—mi voglio inciprïare,
In faccia a questo specchio—mi voglio spazzolare,
E voglio rivoltare—e piedi e naso in su!"

"Ma cotesto costì gli è diverso da quello ch' io recitava quando era bimbo," disse il Grifone.

"Non l'ho mai sentito prima," osservò la Falsa-Testuggine; "ma gli è sciocco oltremisura."

Alice non rispose; ma sedette con la faccia nascosta fra le mani, pensando se mai le cose tornassero una volta al loro corso naturale.

"Vorrei che me lo spiegaste," domandò la Falsa-Testuggine.

"Non sa spiegarlo," disse il Grifone: "Cominciate la seconda strofa."

"A proposito di piedi," continuò la Falsa-Testuggine. "Come poteva egli rivoltarli, e col naso per giunta?"

"È la prima posizione nel ballo," disse Alice; ma era talmente imbarazzata con quell'argomento, che non vedeva il momento di mutar soggetto.

"Continuate la seconda strofa," replicò il Grifone con impazienza; "comincia ' Bianca la sera.'"

Alice non osava disubbidire, benchè fosse sicura che la reciterebbe tutt'al rovescio, e disse con voce tremante:—

"Bianca la sera appare—nel lor giardino, in fretta,
Mangiavano un pasticcio—l'ostrica e la civetta—"

"Perchè recitarci tutte coteste sciocchezze?" interruppe la Falsa-Testuggine, "se non ce le spiegate? È una vera Babelle di confusione!"

"Sì, fareste meglio di smettere," disse il Grifone, e Alice fu lieta di terminare quella filastrocca.

"Vogliamo provare un'altra figura della contraddanza de' Gamberi?" continuò il Grifone. "O preferireste invece una canzona dalla Falsa-Testuggine?"

"Oh sì, una canzona, se la Falsa-Testuggine vorrà cantarcela," rispose Alice, ma con tanta premura che il Grifone gridò con una voce di bestia offesa. "Ah! Chi può spiegare i gusti altrui? Compare, cantaci la canzona della Zuppa di Testuggine."

La Falsa-Testuggine sospirò profondamente, e con voce talvolta soffocata da singhiozzi, cantò così:—

"Astro di sera! O verdeggiante e ricca
Zuppa che fumi in concava zuppiera!
In te rapito il cucchiaion si ficca,
E ne riempie una scodella intiera!
Astro di sera! deliziosa Zuppa!
In te il mio pan s'inzuppa!
E di te canto—o Zup—pa!—
Canto all'Astro di sera;
Canto la tua bontà, civile Zuppa!

"Astro di sera! E chi sarà lo sciocco
Che a te preferirà sia pesce o caccia,
S'ei di te può comprarne anche un baiocco
Per lavarsi lo stomaco e la faccia?
Astro di sera! deliziosa Zuppa!
In te il mio pan s'inzuppa!
E di te, canto—o Zup—pa!
Canto all'Astro di sera;
Canto la tua bonTA CI—VILE ZUPPA!"

" Bis il Coro!" gridò il Grifone, e la Falsa-Testuggine si preparava a ripeterlo, quando s'udì una voce in distanza: "Comincia il processo!"

"Vieni, vieni!" gridò il Grifone, e prendendo Alice per mano, fuggì con lei, senza aspettar la fine del coro.

"Che processo?" domandò Alice, tutta affannata mentre fuggiva, ma il Grifone rispose soltanto "Vieni!" e scappava più lesto, mentre il vento portava sempre più debolmente alle loro orecchie l'eco fuggevole delle parole soavi e malinconiche:—

"Canto all'Astro di sera;
Canto la tua bon—ta ci—vile—Zuppa!"

CAPITOLO XI.

CHI HA RUBATO LE TORTE?

E giunsero; e videro che il Re e la Regina di Cuori erano seduti in trono, circondati da una gran folla composta di uccellini, di bestioline e da tutto il mazzo di carte: il Fante stava davanti, incatenato, con un soldato a destra e un altro a sinistra: presso al Re stava il Coniglio bianco con la tromba in una mano, e un ruotolo di pergamene nell'altra. Nel mezzo della corte c'era una tavola, con un gran piatto di torte le quali sembravano tanto buone che risvegliarono l'appetito ad Alice—"Vorrei che finissero presto il processo," pensò Alice, "e che ci servissero quelle buone torte!" Ma siccome non ce n'era neppure la speranza allora, ella cominciò a guardare tutt'intorno per uccidere il tempo.

Alice non era stata mai in un tribunale, ma ne avea letto alcunchè ne' libri, e fu lieta di poter chiamare per nome tutti coloro che vedea. "Quegli è il giudice," disse fra sè, "perchè porta quel gran parruccone."

E il giudice non era altro che il Re, e siccome portava la corona sopra la parrucca (guardate il frontespizio per averne un'idea), era un poco imbarazzato; certo non gli andava bene.

"E quello è il seggio de' giurati," osservò Alice, "e quelle dodici creature," (disse "creature," capite, perchè alcune erano bestie, ed altre uccelli), "credo che sieno i giurati." E ripetè queste parole un pajo di volte, fiera del suo sapere, poichè pensò, e ne avea ben d'onde, che pochissime ragazze dell'età sua sapessero ciò.

I dodici giurati erano occupatissimi a scrivere sulle lavagne. "Che cosa fanno?" bisbigliò Alice all'orecchio del Grifone. "Non possono aver nulla da scrivere, perchè il processo non è ancora cominciato."

"Scrivono i loro nomi," bisbigliò in risposta il Grifone: "temono di scordarsene pria che il processo sarà finito."

"Sciocchi!" gridò Alice con voce disdegnosa, ma si fermò subito perchè il Coniglio bianco, sclamò, "Silenzio nel Tribunale!" e il Re inforcò gli occhiali e si mise a riguardare ansiosamente in ogni parte per vedere chi parlasse.

Alice vedeva così bene come se fosse stata dietro le loro spalle, che scrivevano "sciocchi," sulle loro lavagne: osservò altresì che uno di loro non sapeva sillabare "sciocchi," e domandava al suo vicino come dovea compitarlo. "Che ammasso di scarabocchi faranno sulle lavagne pria che il processo sia terminato!" pensò Alice.

Uno de' giurati aveva una matita che scricchiolava. Alice non la poteva soffrire, e perciò girò intorno al Tribunale, giunse alle spalle di lui e colse tosto il destro per strappargliela. Ciò fece con tale lestezza che il piccolo giurato (era Tonio, la Lucertola) non seppe che fosse della sua matita; girò quà e là per ritrovarla, ma invano, perciò dovette rassegnarsi a scrivere col dito in tutto il resto della giornata. Ciò valse poco, perchè il dito non lasciava traccia alcuna sulla lavagna.

"Usciere, leggete l'atto d'accusa!" disse il Re.

Allora il Coniglio diè tre squilli di tromba, poi aprì il ruotolo delle pergamene, e lesse così:—

"La Regina di Cuori
Fè delle torte in un bel dì d'està:
L'empio Fante di Cuori
Rubò le torte; e certo, a morte andrà!"

"Ponderate il vostro verdetto," disse il Re a' giurati.

"Non tanta fretta!" interruppe vivamente il Coniglio. "Vi son molte cose da fare prima!"

"Chiamate il primo testimonio," disse il Re; e il Coniglio bianco diè tre squilli di tromba, e gridò: "Il primo testimonio!"

Ora il primo testimonio era il Cappellaio. Venne con una tazza di tè in una mano, una fetta di pane col burro nell'altra. "Domando perdono alla Maestà Vostra," disse, "se vengo così impacciato; ma il fatto sta ch'io non avea finito ancora di prendere il tè quando fui chiamato."

"Avreste dovuto finirlo," rispose il Re. "Quando avete cominciato a prenderlo?"

Il Cappellaio guardò la Lepre-marzolina che l'avea seguito al Tribunale andando a braccetto col Ghiro. " Credo, al quattordici di Marzo," disse il Cappellaio.

"Al quindici," sclamò la Lepre-marzolina.

"Al sedici," soggiunse il Ghiro.

"Notate queste cose," disse il Re ai giurati, e questi si misero a scrivere con molta premura le tre date, sopra le lavagne, e poi le sommarono riducendole a lire e centesimi.

"Cavatevi il cappello," disse il Re al Cappellaio.

"Non è mio," rispose il Cappellaio.

" È rubato! " sclamò il Re, rivolto a' giurati, i quali subito presero nota del delitto.

"Ne tengo per venderli," soggiunse il Cappellaio per spiegare il fatto: "Non ne ho di mio. Sono un cappellaio."

Quì la Regina inforcò gli occhiali, guardò fieramente il Cappellaio che allibbì di paura.

"Rendete la vostra testimonianza," disse il Re; "e non siate spaventato, altrimenti vi farò subito mozzare il capo."

Queste parole non incoraggirono punto il testimone: ei non si reggeva più in gambe; guardava ansiosamente la Regina, e confuso, morsicò un bel pezzo del labbro della tazza, invece del pane col burro.

Giusto allora Alice provò una sensazione curiosissima, che la riempì di sorpresa, sino a che potette rendersene ragione: ella cresceva di nuovo; pensò che sarebbe stato bene per lei di lasciare il Tribunale, ma poi riflettendoci su, volle restare, almeno sino a che vi fosse spazio per lei.

"Vorrei che non pigiaste tanto," disse il Ghiro che le sedeva vicino. "Posso appena respirare."

"Non posso fare a meno," rispose soavemente Alice: "Vedete, stò crescendo."

"Voi non avete nessun dritto di crescere quì," urlò il Ghiro.

"Non dite delle sciocchezze," gridò Alice, "sapete che anche voi crescete."

"Sì, ma non tanto," soggiunse il Ghiro: " io non cresco a quel modo ridicolo." E borbottando fra sè, si alzò, e andò a mettersi all'altro lato del Tribunale.

Intanto la Regina non avea mai sviato il suo sguardo feroce dal Cappellaio, e mentre il Ghiro traversava la sala del tribunale, disse ad un usciere, "Recatemi la lista de' cantanti nell'ultimo concerto!" A queste parole il Cappellaio tremò a verghe, così che le scarpe gli scappavano da' piedi.

"Rendete la vostra testimonianza," ripetè fieramente il Re, "o vi farò mozzare il capo, poco importa che tremiate o no."

"Maestà, sono un povero sventurato," cominciò il Cappellaio con voce tremante, "ed ho appena cominciato a prendere il tè—non è ancora una settimana—e in quanto al pane col burro che si assottiglia—e alla testa soppressata."

"Che soppressata?" sclamò il Re.

"La testa soppressata cominciò col tè," rispose il Cappellaio.

"Sicuro che 'testa' comincia con un T!" disse vivamente il Re. "M'avete voi preso per un gonzo? Andate via!"

"Sono un povero sventurato," continuò il Cappellaio, "e dopo il tè, tentennavano tutti,—solo la Lepre-marzolina disse——

"Non dissi niente!" interruppe con impeto la Lepre-marzolina.

"Lo diceste!" disse il Cappellaio.

"Lo nego!" replicò la Lepre-marzolina.

"Lo nega," disse il Re: "ebbene lasciate andare."

"Bene, ad ogni modo il Ghiro disse——" e il Cappellaio lo guardò per vedere s'egli pure volesse dargli una mentita: ma il Ghiro non negava, dormiva profondamente.

"Dopo ciò," continuò il Cappellaio, "mi preparai un'altra fetta di pane col burro——"

"Ma che cosa disse il Ghiro?" domandò un giurato.

"Non me lo posso ricordare," disse il Cappellaio.

"Voi dovreste ricordarlo," osservò il Re, "se no vi farò mozzare il capo."

Il misero Cappellaio si lasciò cadere la tazza, il pane col burro, e le ginocchia a terra, e sclamò: "Maestà, sono un povero mortale!"

"Siete un povero oratore," disse il Re.

Qui un porcellino d'India diè un applauso, ma subito fu soppresso dagli uscieri del Tribunale. (Ed ecco come fecero: presero un sacco di canavaccio con de' legacci all'orlo; vi gittaron giù capovolto il porcellino d'India, e poi vi si sedettero sopra.)

"Son contenta d'aver veduto ciò," pensò Alice. "Ho letto tante volte ne' giornali, alla fine de' processi, 'Vi fu un tentativo d'approvazione che fu subito soppresso dagli uscieri del Tribunale,' ma sino ad ora non potetti mai comprendere che volesse dire."

"Se è questo tutto quel che sapete, voi potete ritirarvi," continuò il Re.

Quì un altro porcellino d'India diè un applauso, ma fu soppresso.

"Addio, porcellini d'India! non vi vedrò più!" disse Alice. "Ora le cose andranno meglio."

"Vorrei piuttosto finire il mio tè," disse il Cappellaio, riguardando con ansietà la Regina, la quale leggeva la lista de' cantanti.

"Potete andare," disse il Re, e il Cappellaio fuggì dal Tribunale, senza nemmeno rimettersi le scarpe.

"—— e mozzategli il capo fuori," soggiunse la Regina indirizzandosi ad un ufficiale; ma il Cappellaio era sparito dalla vista, pria che l'ufficiale giungesse alla porta.

"Chiamate l'altro testimonio!" gridò il Re.

Era la cuoca della Duchessa. Aveva la pepaiola in mano, e Alice indovinò chi fosse, anche prima che entrasse nel Tribunale, perchè tutti coloro ch'erano vicini all'uscio cominciarono a starnutire.

"Rendete la vostra testimonianza," disse il Re.

"No," rispose la cuoca.

Il Re guardò con ansietà il Coniglio bianco che mormorò a voce bassa, "Maestà, esaminate da voi stesso questo testimone."

"Bene, se debbo farlo, mi converrà farlo," disse il Re con una ciera malinconica, e dopo aver poste le braccia conserte al petto, e fatto gli occhiacci alla cuoca, disse con voce profonda, "Di che sono composte le torte?"

"Di pepe, per la maggior parte," rispose la cuoca.

"Di melazzo," soggiunse una voce sonnolenta dietro ad essa.

"Afferrate quel Ghiro!" gridò la Regina. "Tagliategli il capo! Fuori quel Ghiro! Sopprimetelo! Pizzicatelo! Strappategli i baffi!"

Durante qualche istante il Tribunale fu una vera confusione, mentre il Ghiro era preso; e quando si ristabiliva l'ordine, la cuoca era sparita.

"Non importa!" disse il Re con un'aria di sollievo. "Chiamate l'altro testimone." E bisbigliò all'orecchio della Regina: "Cara mia dovreste esaminar voi l'altro testimone."

Alice stava osservando il Coniglio che ripassava la lista, curiosa di vedere chi mai sarebbe l'altro testimone—"perchè sin' ad ora non hanno affatto prove," diceva fra sè. Figuratevi la sua sorpresa, quando il Coniglio bianco chiamò con la sua voce stridula "Alice!"

CAPITOLO XII.

TESTIMONIANZA D'ALICE.

"Eccomi!" rispose Alice, e dimenticando che in quegli ultimi momenti era cresciuta smisuratamente, saltò su molto lesta, rovesciando col suo gonnellino il palchetto de' giurati, di tal che questi capitombolarono con la testa in giù sulla folla ch'era di sotto, e restarono con le gambe all'aria. Ciò le rammentò il rovescione che la settimana avanti aveva casualmente dato a un globo di cristallo che conteneva de' pesciolini dorati.

"Oh, vi prego d'avermi per iscusata!" sclamò con voce d'angoscia, e cominciò a raccattarli con molta sollecitudine, perchè piena dell'idea de' pesciolini dorati caduti dal globo, pensava che dovea prontamente raccoglierli e rimetterli nel palchetto de' giurati, se no sarebbero morti.

"Il processo," disse il Re con voce autorevole e grave, "non potrà andare innanzi, se non quando tutt'i giurati saranno rimessi ne' loro proprii posti,—dico tutti " soggiunse con molta enfasi, riguardando fieramente Alice.

Alice guardò il palchetto de' giurati, e vide che nella fretta, avea rimessa la Lucertola col capo in giù, per cui la povera bestiolina agitava la coda al di sopra ma in modo da eccitare la compassione, perchè non poteva muoversi. Subito la estrasse, e la rimise convenientemente; "non già perchè importi assai," disse fra sè, "poichè nè la sua coda nè la sua testa recheranno vantaggio al processo."

Appena che i giurati si rimisero dal colpo che li avea rovesciati, e che furono ritrovate le lavagne e le matite, e consegnate loro, si misero a scarabocchiare con molta premura la storia del loro ruzzolone, salvo la Lucertola che non s'era riavuta e sedeva con la bocca spalancata, e guardando la volta.

"Che cosa sapete di quest'affare?" domandò il Re ad Alice.

"Niente," rispose Alice.

"Niente affatto?" replicò il Re.

"Niente affatto," soggiunse Alice.

"Ciò è molto importante," disse il Re, rivolgendosi a' giurati. Essi si accingevano a scriverlo sulle lavagne, quando il Coniglio bianco li interruppe: " Non -importante, è questo il senso delle parole di Vostra Maestà," disse con voce rispettosa, ma saettandolo col guardo e facendogli il visaccio mentre parlava.

" Non -importante, già è quel che volea dire," soggiunse in fretta il Re; e poi si mise a recitar fra' denti "importante—non-importante—non-importante—importante," come che volesse provare quale delle due parole suonasse meglio all'orecchio.

Alcuni de' giurati scrissero "importante," altri "non-importante." Alice potette osservarlo, poichè era vicina a loro e potea sbirciare sulle lavagne; "ma non importa niente," pensò fra sè.

Allora il Re, che era stato occupatissimo a scrivere sul suo taccuino, gridò "Silenzio!" e lesse dal suo libriccino "Regola quarantaduesima. Ogni persona, la cui altezza supera il miglio, deve uscire dal Tribunale. "

Ognuno riguardò Alice.

"Io non sono alta un miglio," disse Alice,

"Sì che lo siete," rispose il Re.

"Quasi due miglia d'altezza," soggiunse la Regina.

"Ebbene, poco mi cale, ma non andrò via," disse Alice, "oltre a ciò quella non è una regola regolare; l'avete inventata ora."

"Che! è la più vecchia regola nel libro," rispose il Re.

"Allora dovrebbe essere la regola prima," disse Alice.

Il Re impallidì, e chiuse il taccuino in fretta. "Ponderate il vostro verdetto," disse, rivolgendosi a' giurati, ma con voce sommessa e tremolante.

"Maestà vi sono altre testimonianze," disse il Coniglio bianco, sbalzando in piedi. "Giusto adesso abbiam trovato questo foglio."

"Che c'è dentro?" domandò la Regina.

"Non l'ho aperto ancora," disse il Coniglio bianco, "ma sembra una lettera, scritta dal prigioniere a—a qualcheduno."

"Dev'essere così," disse il Re, "salvo che sia stata scritta a nessuno, ciò che non si fa generalmente."

"A chi è indirizzata?" domandò uno de' giurati.

"Non ha indirizzo di sorta," disse il Coniglio bianco: "di fatti non c'è scritto nulla al di fuori." E spiegò il foglio mentre parlava, e soggiunse, "Somma tutto non è punto una lettera; è un accozzaglia di versi."

"Son dessi scritti dalla mano del prigioniere?" domandò un giurato.

"Nò, non lo sono," rispose il Coniglio bianco, "ed è questa la più strana di tutte le cose." (I giurati si riguardarono confusi).

"Forse egli ha imitata la scrittura di qualcheduno," disse il Re. (Quì i giurati si rasserenarono).

"Maestà," disse il Fante, "non li ho scritti, e niuno potrebbe provarmi l'opposto. E poi non c'è nessuna firma alla fine."

"Il non averlo firmato," rispose il Re, "prova doppiamente il vostro delitto. Voi dovevate avere l'intenzione d'offendere, se no, da galantuomo avreste firmato il foglio."

Tutti applaudirono, e con ragione, perchè era quello il primo detto spiritoso che il Re avesse detto in quel giorno.

"Ciò prova il suo delitto," sclamò la Regina.

"Ciò non prova niente affatto!" disse Alice. "Ma se non sapete neppure ciò che contiene il foglio!"

"Leggetelo," disse il Re.

Il Coniglio bianco inforcò gli occhiali, e domandò: "Maestà, dove debbo incominciare?"

"Cominciate dal principio," disse il Re con tuono solenne, "e continuate sino alla fine: poi fermatevi."

Or questi erano i versi letti dal Coniglio bianco: —

"Ella vi fece un grazïoso invito,
Ed a lui mi voleste rammentar,
E quindi ella mi dètte il ben servito,
Ma mi disse: Non sai mica nuotar.

Ch'io non la visitai, disse pur dianzi,
(E questo è il vero, e ognun di noi lo sa),
Ma se lei spingerà la cosa innanzi,
Oh dite, allor di voi che ne avverrà?

Una a lei dètti, ed essi due le diêro,
E voi men deste tre col sopra più;
Tutte a voi ritornarono—oh mistero!
Eppure erano mie, or nol son più.

Se dessa od io per caso inopinato
Involti in quest'affare ci vedrem,
Confido in voi che ognun fia liberato;
Come prima fra noi li rivedrem.

Spiegarmi alfine mi sarà concesso;
(Già, sapete, un attacco ella, sentì),
Ma voi foste per lui, per noi, per esso
L'ostacolo fatal che la colpì.

Non gli dite giammai che preferisca
Costoro,—ciò debb'essere un mister,
Un secreto che altrui non apparisca,
Un secreto nascosto nel pensier."

"È questo il più importante documento contro l'accusato," disse il Re, stropicciandosi le mani; "or dunque i giurati——"

"Se uno di loro potesse spiegarmelo," disse Alice (la quale era talmente cresciuta in quegli ultimi istanti che non avea più paura d'interrompere il Re), "gli darei cinquanta centesimi. Io non credo che vi sia in esso neppure un briciolo di senso comune."

I giurati scrissero tutti sulle lavagne, " Ella non crede che vi sia in esso neppure un briciolo di senso comune," ma niuno cercò di spiegare il senso di quel foglio.

"Se non c'è senso comune," disse il Re, "ciò ci toglie da un mondo d'imbarazzi, e noi certo non ci affanneremo per trovarvene uno. Eppure non saprei," continuò spiegando il foglio sul ginocchio, e sbirciando la poesia; "ma mi pare di vedere un senso occulto in essi— 'disse—Non sai mica nuotar' —voi non potete nuotare, non è vero?" continuò, rivolgendosi al Fante.

Il Fante scosse mestamente il capo, e disse, "Ne ho io l'apparenza?" (E certamente, no, perchè era fatto tutto di cartone).

"Bene per ora," disse il Re, e continuò fra sè stesso a borbottare su' versi: " 'E questo è il vero, e ognun di noi lo sa' —ciò si riferisce a' giurati, non c'è dubbio— 'Una a lei dètti, ed essi due gli diêro' —ciò spiega l'uso ch'egli fece delle torte, intendete—"

"Ma," disse Alice, "continua con le parole 'Tutte a voi ritornarono.' "

"Già, esse sono là," disse il Re con un'aria di trionfo, indicando le torte ch'erano sulla tavola. "Niente di più chiaro di ciò. Continua— 'Già, sapete, un attacco ella sentì' —voi non aveste mai degli attacchi nervosi, cara mia, non è vero?" soggiunse, rivolgendosi alla Regina.

"Non mai!" tuonò furiosamente la Regina, e in quell'istante scagliò un calamajo al capo della Lucertola. (Il povero Tonietto avea abbandonato l'uso di scrivere col dito sulla lavagna, perchè s'era accorto che non vi lasciava traccia alcuna; ma ora si rimise sollecitamente all'opera, usando l'inchiostro che gli gocciolava sulla faccia, e l'usò sinchè n'ebbe).

"Dunque queste parole non si attaccano, a voi," disse il Re, guardando con la bocca sorridente tutt'intorno al Tribunale. E vi fu gran silenzio.

"È un bisticcio!" soggiunse il Re, con voce irata, e tutti allora risero. "Che i giurati ponderino il loro verdetto," ripetè il Re, forse per la ventesima volta in quel giorno.

"No, no!" disse la Regina. "Prima la sentenza—poi il verdetto."

"Ma che sciocchezze!" sclamò Alice ad alta voce. "Che idea d'aver prima la sentenza!"

"Tacete!" gridò la Regina, tutta infiammata in viso.

"No certo!" disse Alice.

"Decapitatela!" urlò la Regina con tutta la voce che aveva in gola. Ma niuno si mosse.

"Chi vi stima? chi vi teme?" disse Alice, (allora era cresciuta di tanto che giungeva alla sua statura naturale). "Voi non siete altro che un mazzo di carte!"

Appena disse queste parole tutto il mazzo si sollevò in aria furiosamente, e poi si rovesciò sopra la fanciulla: essa dette un piccolo strillo, un po' commossa dalla paura, un po' dall'ira, e cercò di respingerle da sè, ma si ritrovò sul poggio, col capo appoggiato sulle ginocchia di sua sorella la quale le toglieva con molta delicatezza alcune foglie appassite ch'erano cadute sulla sua faccia.

"Risvegliati, Alice cara!" le disse la sorella; "che buona dormitona hai fatto, eh!"

"Oh! ho avuto un sogno tanto curioso!" disse Alice, e raccontò alla sorella, il meglio che per lei si potesse tutte le strane Avventure che avete lette sino ad ora; e quando finì, sua sorella la baciò, e le disse, "È stato davvero un sogno curioso, cara mia: ma ora, va' subito a prendere il tè; è già tardi." E così Alice si levò, e, andò via, pensando mentre correva, al sogno straordinario che aveva avuto.

Ma sua sorella rimase colà, e col capo appoggiato alla mano, tutta intenta a riguardare il sol cadente, e riflettendo sulla piccola Alice e sulle sue Avventure meravigliose, cadde in una specie d'assopimento, e sognò talcosa simile a questo:—

Prima di tutto sognò la piccola Alice:—con le sue manine delicate e congiunte sulle ginocchia di lei, e co' suoi grandi occhi lucenti fissi in lei. Poteva sentire il vero suono della sua voce, e vedere quello strano agitarsi della sua testolina per rigettare indietro i capelli che voleano per forza velarle il viso:—e mentre era tutta intenta ad ascoltare, o sembrava che fosse così, tutto il luogo che la circondava si animò, popolandosi di quelle creature vedute nel sogno dalla sua sorellina.

L'erba rigogliosa stormiva sotto di lei, mentre il Coniglio bianco scappava via—il Sorcio spaventato s'apriva, sguazzando, una via in mezzo dello stagno vicino—poteva sentire il rumore delle tazze, mentre la Lepre-marzolina e gli amici suoi partecipavano a quel loro perenne pasto—udiva la voce strillante della Regina che mandava i suoi invitati al patibolo—anche una volta il bimbo porcellino starnutiva sulle ginocchia della Duchessa, mentre i tondi e i piatti volavano d'ogni intorno—anche una volta l'urlo del Grifone, lo scricchiolìo della matita della Lucertola, la soppressione de' porcellini d'India riempivano l'aria, sposati al singhiozzar lontano della miserabile Falsa-Testuggine.

E sedette, con gli occhi a metà chiusi, e quasi si credette davvero nel paese delle Meraviglie; benchè sapesse che, aprendo gli occhi, tutto sarebbe mutato in realtà desolante—avrebbe sentito l'erba stormire all'agitar del vento—avrebbe veduto lo stagno increspato a causa delle canne—il rumore delle tazze si sarebbe mutato nel tintinnìo dei campanelli delle pecore, e la voce stridente della Regina nella voce del pastorello—e gli starnuti del bimbo, l'urlo del Grifone, e tutti gli altri strepiti curiosi, si sarebbero mutati (e lei n'era persuasa) nel rumore confuso d'una fattoria, e il muggito lontano degli armenti avrebbe surrogato i profondi singhiozzi della Falsa-Testuggine.

Finalmente, volle figurarsi la sua sorellina già cresciuta e diventata donna,—conservare ne' suoi anni maturi il cuore affettuoso e semplice della sua fanciullezza—raccogliere intorno a sè altre fanciulle, e far loro brillare gli occhi beandoli con istorielle curiose e strane, e forse anche col sogno delle Avventure nel Paese delle Meraviglie; e con quanta simpatica tenerezza avrebbe ella stessa partecipato alle loro innocenti angosce, e con quanta letizia alle loro gioje, riandando i beati giorni della fanciullezza, e le gioconde giornate dell'estate.

FINE.

LONDRA: R. CLAY, FIGLI, E TAYLOR, STAMPATORI, BREAD STREET HILL.